Against the Gods

di ILParide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue Pr0.1: Tell the Truth ***
Capitolo 2: *** Pr1: End of the Chrysalis ***
Capitolo 3: *** Pr2: A Tale of Ordinary Madness ***
Capitolo 4: *** Pr3: You've Got a Problem Now ***



Capitolo 1
*** Prologue Pr0.1: Tell the Truth ***


Prologue 0.1: Tell the Truth

Un uomo entrò nella stanza appoggiandosi a un bastone. Benché fosse abbastanza giovane, il viso scarno, gli occhi spenti, la carnagione pallida, pallida perfino per il grigiore caratteristico di un demone, e i capelli e la barba lunghi e non curati lo facevano sembrare quasi vecchio. Inoltre, a fare da contorno alla sua misera figura, gli mancava la gamba destra, da metà polpaccio in giù, sostituita da una protesi, che non gli impediva però di zoppicare. Portava un maglione blu scuro di una misura più grande, pantaloni e una scarpa neri. Ad una seconda occhiata, il bastone a cui si reggeva si rivelava essere una spada, quasi sicuramente una katana, nel suo fodero. Il suo interlocutore, giornalista, un uomo distinto, sulla quarantina, in giacca e cravatta, aveva già preso posto al tavolo. L’uomo senza una gamba si sedette di fronte al giornalista.

Giornalista: “Spero che lei sappia perché è venuto qui, signor Rock …”
Rock: “Perché altrimenti mi avreste drogato, portato qui con la forza e mi avreste fatto dire cose che ho già ripetuto un sacco di volte ad altrettanti giornalisti diversi. Ah, già, anche ad un paio di poliziotti, e a quelli dell’istituto psichiatrico. Se è questo che le serve, si faccia dare una copia di un verbale, ce ne usciamo da qui e ce ne andiamo a prendere un caffè da amici, le va?”
Giornalista: “Faccia poco lo spiritoso, ok? Ho letto quei verbali. Farneticazioni sull’avere ucciso Dio. Sulla fine del mondo, anzi, dell’universo. E poi, sugli OOPArts.”

L’uomo con una gamba sola trattenne a stento una risatina, ma il giornalista continuò a parlare, imperterrito.

Giornalista: “È per questo che la faccio venire qui. Lei ha detto di sapere cosa sono, e inoltre è riuscito a indovinare da quanto tempo non ne cadessero più, oltre ad aver fatto questa fantomatica predizione sul fatto che quel cubo sarebbe stato l’ultimo. La gene vuole saperne di più, signor Rock, e pare che lei sia l’unica fonte passabile … ammesso e non concesso che quello che dice sia vero.”

L’uomo senza una gamba sbuffò rumorosamente, guardando il giornalista con l’aria di qualcuno che ripeteva per l’ennesima volta qualcosa a qualcuno che non gli desse ascolto.

Rock: “Come tutto il resto, è tutto vero. Riassumendo: io ho ucciso il Dio di quest’universo. Dopodiché, ho passato tre mesi dentro quel cubo blu. Ai primi di giugno, l’universo verrà distrutto, dopo l’apparizione di un ultimo OOPArt. Spero sia l’ultima volta che mi tocca ripeterlo.”

Il giornalista era visibilmente a disagio. Il suo interlocutore, Ciel Rock, non era assolutamente come si aspettava. Un pazzo farneticante, gli era stato descritto da altri che, prima di lui, avevano avuto a che fare con quest’uomo. Eppure lui vedeva, negli occhi di quell’enigma vivente di fronte a lui, una determinazione, un’ostinazione, quando sosteneva i propri argomenti, tale da rendere anche solo possibile la veridicità di quelle affermazioni. D’altro canto, che motivo avrebbe avuto Ciel per mentire? Quella era la più pura e semplice verità, la verità incontrovertibile che da nove mesi lo perseguitava tanto quanto la frustrazione di non essere creduto.

Ciel: “Senta, lei: se le dico cosa sono gli OOPArts, lei mi crederà anche sul resto?”
Giornalista: “Se lo riterrò opportuno, sì.”
Ciel: “Dunque lei crede nell’effetto negando l’esistenza della causa? È un bel soggetto, sa?”
Giornalista: “Non ho neanche detto che le crederò a prescindere sugli OOPArts. Dunque, vuole cominciare, sì o no?”
Ciel: “È mai stato ad East City? Nei quartieri poveri? Lo sa che lì, la gente, vive con la spazzatura dei ricchi?”
Giornalista: “Beh, no, ma … E questo cosa c’entra?”
Ciel: “Lo sa che una volta ci trovarono centomila Del in banconote da cinquecento, in quella spazzatura lì? Ora, lei provi a pensare a questo posto come alla pattumiera di Dio. Ci si potrebbero trovare un bel po’ di cose interessanti, non crede anche lei?”

Ciel era visibilmente compiaciuto. Sentiva di avere l’interlocutore tra le sue mani, lo sentiva pendere dalle proprie labbra, come un cagnolino ubbidiente. Si lasciò sfuggire una risata soffocata.

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Capitolo 2
*** Pr1: End of the Chrysalis ***


1: End of the Chrysalis

West City era una delle cinque grandi città dello stato confederato di Eon, nel continente di Flurensia, nonché capitale dello stato di West. Come le altre tre città cardinali, vale a dire East City, Northern e South Lane, anche una parte della città dell’ovest si affacciava in buona misura sul deserto Center dove, pare, si erigeva anticamente l’omonima città. Tornando a West City, si può dire che fosse una città storica. Nata da un insediamento di profughi umani cacciati dal sud quando ancora lo stato era sotto il regime dittatoriale di alcuni demoni particolarmente conservatori e il West non apparteneva a Eon, esprimeva quanto di più affascinante ci potesse essere nell’architettura umana. Fino a quattro o cinquecento anni fa, prima dell’annessione alla confederazione, ogni due o tre mesi sorgeva una nuova torre, tanto nel centro quanto in periferia, a difesa delle ricchezze di una delle innumerevoli famiglie protagoniste di scaramucce diplomatiche, politiche o di discendenza. In seguito, le torri vennero quasi tutte abbattute per fare spazio a nuovi palazzi e all’espansione urbanistica, al tempo tanto precipitosa da esigere l’utilizzo di materiali di antichi edifici per la costruzione di nuovi. Più tardi, con l’avvento dei grattacieli, lo skyline della città si era modificato ulteriormente: enormi torri di vetro e acciaio da cento e più piani si alternavano alle ben più basse e antiche di mattoni di cotto, le poche rimaste. Benché ormai le guerre tra umani e demoni fossero finite da vari secoli, questi ultimi erano comunque piuttosto rari da trovare, se non quelli di seconda o terza generazione o i pochi emigranti per lavoro. Non essendo una città dotata di grandi attrattive turistiche - ci sarebbe stato, sì, il centro storico, se nel tempo non fosse diventato un unico cumulo di spazzatura -, è abbastanza ovvio come la città, nel periodo estivo e invernale, si svuotasse fino a raggiungere circa un ottavo della sua popolazione originale di circa quattrocentomila abitanti.

Quell’estate, precisamente il nove di giugno, alle ore sei e cinquantatré del pomeriggio, mentre l’Agenzia di Recupero Sieghart & Sieghart, Via della Pace tre, West City, stava chiudendo i battenti, il telefono squillò finalmente dopo due mesi di totale silenzio. Dei due unici presenti, un uomo e una donna, quest’ultima si avventò sulla cornetta e rispose, tutto d’un fiato.

Donna: “Agenzia di Recupero Sieghart & Sieghart, sono Rena, come posso servirla? Le anticipo che non abbiamo servizi di recupero crediti e non offriamo lezioni di recupero per anni scolastici persi, quindi se chiama per una di queste ragioni la preghiamo di riattaccare. Posso esserle utile?”
Voce al telefono: “Mi passi Elsword.”

La voce era palesemente e pesantemente contraffatta. Suonava elettronica, distorta e molto profonda. Non era possibile capire se chi chiamasse fosse un uomo o una donna, o magari un sintetizzatore vocale. Rena lanciò la cornetta ad Elsword, l’uomo che era con lei. Era lui che gestiva le cose, in agenzia.

Elsword: “Eccomi. Posso aiutare?”
Voce: “Le interessa un milione di Del?”
Elsword: “… chi devo uccidere?”
Voce: “Mi trovi. Ha due settimane.”

La voce smise di parlare, ed Elsword riattaccò, scocciato: ogni tanto saltava fuori qualche esaltato che giocava a fare il misterioso. Non potevano semplicemente dire “sono Tizio, devi fare questo, ti pago un tot”? E questo aveva addirittura avuto la premura di non voler essere riconosciuto. Come se in agenzia non avessero avuto un apparecchio per le triangolazioni, proprio per evitare di perdere tempo con questi.



Rena: “Dunque, l’emittente è un telefono fisso che chiama dalla sede della Haan Electronics, Via Alta 105/b, West City. Nientepopodimeno che il telefono del presidente.”
Elsword: “Oltre che un esibizionista, questo qui è pure uno stùpido. Avrei capito se avesse chiamato da una cabina telefonica, magari in periferia, o roba del genere … ma chiamare dal posto di lavoro, con il telefono personale …”

I due erano usciti dopo aver localizzato la chiamata, e stavano cercando un pub dove festeggiare con un aperitivo la prima, seppur assurda, richiesta di lavoro in due mesi. Elsword era un uomo di ventitré anni, non molto alto, con capelli e occhi color rosso scuro, e la carnagione piuttosto chiara. Al momento portava una giacca di pelle nera aperta su una maglia a maniche corte bianca con alcune scritte verdi, un paio di jeans blu scuro retti da una cintura di cuoio e un paio di scarpe da ginnastica bianche. Ciò che colpiva di più di lui era che, alla cintura, portasse un fodero contenente un wakizashi, una spada corta orientale, come se niente fosse. Rena, che dimostrava una trentina scarsa d’anni, era, superando Elsword di una testa abbondante, una donna abbastanza alta, con lunghi capelli biondi e occhi verdi, e dalla carnagione anche lei piuttosto chiara. Indossava una canottiera bianca e nera con una scollatura piuttosto profonda sul seno prosperoso, un paio di shorts blu che lasciavano decisamente poco all’immaginazione e un paio di stivaletti neri. Si vedeva che le piaceva farsi ammirare. Aveva le orecchie a punta, ma non solo in maniera accennata, come i demoni: le spuntavano letteralmente da sotto i capelli, attirando ancora più occhiate. Non che lei ne facesse un dramma.
Una volta trovato un posto, ordinarono da bere e brindarono a quei due mesi di forzato riposo.

Elsword: “Parlando di cose attuali, secondo te quanto ci metteranno ad accorgersi della loro cavolata?”
Rena: “Mah. Direi due o tre giorni, se sono proprio stùpidi.”
Elsword: “Perfetto. Abbiamo un paio di giorni per prepararci, allora. Domani mi accompagni a comprare dei materassi?”

Rimasero a bere fino a tardi, e Rena dovette caricarsi Elsword, addormentato, sulle spalle per portarlo in camera sua. Se non reggeva l’alcol al punto da conciarsi così dopo il secondo bicchiere, perché continuava a provarci?



Era bastato un niente. Gli aveva solo messo le mani sulla testa e lui non aveva capito più niente. Aveva sentito un suono, come un insieme di voci incomprensibili che gridavano mille cose diverse. Poi si era allontanato. Lo guardava in faccia, e lui lo guardava, in risposta. Non avrebbe mai scordato quel viso. Quell’espressione soddisfatta. Poi era caduto a terra. Pioveva. Era stato svegliato dal suono lontano di un’ambulanza. C’era qualcuno, lì. Non lo vide, era ancora tutto annebbiato, ma lo vide correre via senza girarsi indietro. Di nuovo quel rumore assordante. E poi, un gran dolore al petto e allo stomaco.

Elsword: “N- no … No … NOOOOOOOO!”

Ricordava il nome. Il solo pensarlo lo faceva tremare dalla paura. Voleva urlare quel nome, e maledirne il possessore e tutti coloro che gli stavano attorno. Voleva che tutti sapessero chi gli aveva fatto quello. Voleva che tutti sapessero chi era …

Elsword: “… Ralph Foster!”

Nulla di fatto. Non era il nome. Perché non ci riusciva? Cosa gli impediva di pronunciare quel nome? Gli tornò in mente il sorrisetto del suo sicario. Urlò, ancora una volta.
Elsword si svegliò del tutto. Si trovò seduto sul letto, sudato fradicio e con gli occhi sbarrati. Stava stritolando e mordendo il cuscino. L’inquilino del piano di sotto gridava “la smettiamo di urlare?”. Si guardò attorno e cercò di fare mente locale. Il solito incubo. Da due mesi, aveva ricominciato a sognarlo quasi ogni notte, per chissà quale ragione. Si alzò, si cambiò e, scavalcando l’enorme mole di materassi acquistati il giorno prima, si diresse in cucina, dove Rena, assonnata, era intenta a preparare il caffè. Anche oggi avrebbe bevuto sciacquatura di piatti … 

Rena: “Allora? Dormito bene?”
Elsword: “Mi prendi in giro?”
Rena: “Ovvio. Penso che ti abbiano sentito urlare fino a East. Sicuro di non voler vedere uno psicanalista, per questi incubi? Ne conosco un paio …”
Elsword: “… non sei per niente divertente.”

Elsword era stato visitato dagli psicoterapeuti di mezzo continente, riguardo a quell’incubo. Senza alcun risultato, se non uno spreco di decine di migliaia di Del.
Rena guardò esasperata i materassi, che coprivano anche buona parte del pavimento della cucina.

Rena: “Rispiegami il perché di questi materassi, e dimmi che oggi ce ne liberiamo. Non si riesce più neanche a camminare, in questa casa.”
Elsword: “Ho in mente un … progetto, direi. Per tornare al lavoro in grande stile. Mettiti gli abiti da lavoro e poi seguimi in garage. Ah, e porta un materasso o due.”

I cosiddetti “abiti da lavoro” di Rena non erano altro che i vestiti che avrebbe indossato normalmente, più un paio di scarpe ginniche e un cappellino nero con il logo dell’agenzia sulla visiera. Non capiva perché Elsword si ostinasse a chiamarli così.
Si diresse verso il garage portando, non senza fatica, un materasso matrimoniale in equilibrio sulla testa. Anche Elsword aveva i suoi “abiti da lavoro”, ossia i soliti vestiti, il cappellino, e una cinta nera con la fibbia a forma di esse da cui pendeva tutto il suo armamentario: al fianco destro un wakizashi, al sinistro un altro e una katana, sempre una spada orientale, stavolta lunga.

Quando ebbero caricato tutti i materassi sul camion dell’agenzia, si diressero verso il palazzo della Haan Electronics. Era nel quartiere commerciale della città, un grattacielo disperso in mezzo a tanti altri. Mentre guidava, sul volto di Elsword si allargava sempre di più un sorrisetto diabolico. Si fermò parecchio prima della destinazione, e intimò a Rena di andare verso la loro meta e di tappezzare l’ufficio del direttore con i materassi. Lui “aveva da fare”. Benché preoccupata, Rena si limitò ad obbedire. Era terribilmente curiosa, inoltre, ogni tanto i “piani grandiosi” di Elsword erano l’ennesima occasione per lei di prendersi gioco di lui.

primo capitolo di Agaist the gods: Prometheus. Il prologo (primo di una lunga serie) non verrà per ora spiegato. Se la mia storia fin'ora ti piace, o anche solo ti intriga, ti invito a lasciarmi una recensione, anche negativa!

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Capitolo 3
*** Pr2: A Tale of Ordinary Madness ***


2: A Tale of Ordinary Madness

Benché avesse solo ventotto anni, era già il presidente generale della Haan Electronics. Aveva cominciato a lavorare per quella che era ormai la sua compagnia dal secondo anno di università. Dopo aver conseguito una laurea magistrale in biotecnologie applicate alla prestigiosa università di Northern con il massimo dei voti in soli tre anni, iniziò una rapidissima scalata al potere di un’anonima casa produttrice di software di seconda categoria, quella che, al tempo, si chiamava ancora col pomposo nome di Majestic. Ora l’azienda aveva cambiato totalmente faccia: per le sue innovazioni in ambito di biotecnologia e meccanica, era diventata una importante casa di sviluppo di protesi meccaniche ad alta tecnologia ed efficienza. All’età di ventiquattro anni si era sposato, e una volta raggiunto il posto di direttore, prima di rilanciare l’azienda con i nuovi prodotti, ne aveva cambiato il nome in onore della moglie, Ara Haan, della quale aveva preso il cognome, secondo l’usanza dei demoni.
Add Haan, quel giorno, se ne stava tranquillo nel suo studio al trentasettesimo piano del suo grattacielo in centro a West City, a “svolgere alcune pratiche”, o più precisamente a leggere fumetti stravaccato sulla sedia da ufficio, facendo soltanto qualche telefonata ogni tanto a chissà chi, come da più di un mese aveva cominciato a fare, tutti i giorni. Fino a poco tempo prima, l’ufficio del direttore accoglieva a qualsiasi ora del giorno e, spesso, della notte, turbe di collaboratori che discutevano, disegnavano circuiti, proponevano questo o quel materiale, questo o quel comando da usare piuttosto di un altro, apponevano migliorie ai prodotti esistenti e ne ipotizzavano di nuovi. Un mese e mezzo prima, l’élite dei tecnici della società, guidata da Add in persona, stava per attivare quello che lui definiva “il suo progetto definitivo”. Per più di un anno, Add e la sua équipe di tecnici avevano scritto e riscritto programmi, elaborato algoritmi, effettuato prove, avanzato e verificato ipotesi. Sembrava che tutto avrebbe funzionato. Il giorno della messa in moto, invece, niente. Nessun risultato. Add si era chiuso nel suo studio per una settimana, dopodiché aveva cominciato la sua strana routine lavorativa di fumetti e telefonate.
La posizione scomposta non si addiceva per niente all’abito che indossava quel giorno, giacca, cravatta, pantaloni e scarpe neri su una camicia bianca, né alla scintilla instancabile nei suoi occhi rossi da albino, contornati da una pelle e una capigliatura bianchi come il latte. Era talmente assorto dalla lettura che non aveva sentito bussare alla porta, così che il suo segretario era dovuto entrare lo stesso per scuoterlo.

Segretario: “Direttore? Direttore!”

Add aveva come l’espressione come di un bambino preso con le mani nella marmellata.

Segretario: “Direttore, è arrivata una donna che dice di avere un pacco per lei. La faccio entrare?”
Add: “Eh? Oh, sì, sì.”

Aspettava, da un giorno all’altro, la fornitura mensile di crema solare per l’eliofobia, quindi non fece molto caso alla visita. Evidentemente, non si aspettava ciò che sarebbe successo. Con aria scocciata, entrò Rena reggendo un materasso.

Rena: “Il signor Haan?”
Add: “A cosa … a cosa devo l’onore?”
Rena: “Le porto dei materassi, signor Haan. Sono, ehm, in regalo dalla nostra ditta.”
Add: “Ma perché- ?”
Rena: “Mi dà una mano? Sa, ho una tabella di marcia da rispettare, io.”
Add: “Una tabella di marcia? Anzi, no, piuttosto, mi scusi, ma penso che qui ci sia un errore. Non ho bisogno di materassi, io.”

Rena si era intanto liberata del suo peso e, lasciato il primo materasso sul pavimento, stava avviandosi alla porta per prenderne un altro. Add fece appena in tempo a fermare l’ascensore, bloccato che era dalla confusione, per raggiungerla e protestare. Ed era talmente preso dalle sue proteste da non accorgersi di star effettivamente aiutando la donna ad infilare nell’ascensore un ingombrante materasso a due piazze. Parve rendersene conto solo al secondo viaggio in discesa dell’ascensore.

Add: “Aspetti un momento… ma cosa mi sta facendo fare, lei?!”
Rena: “Mi sta dando una mano, no? Non vedo cosa ci sia di male.”
Add: “Ma mi sta riempiendo l’ufficio di materassi!”
Rena: “Sempre meglio che di qualcos’altro, no? E poi, le ho detto che sono un regalo! Lei rifiuterebbe un regalo?”
Add: “Ma proprio in ufficio me li dovete piazzare? Insomma, non sarebbe meglio a casa, o cose del genere?”
Rena: “No, mi dispiace. Ho il preciso ordine di tappezzarle il pavimento di materassi, e se mi chiede il perché, beh, non ne ho la più pallida idea.”

Add era sempre più confuso. Se era davvero una campagna pubblicitaria, l’avrebbe definita sicuramente il peggior fiasco nella storia. Convincendosi che prima sarebbe finita quella surreale situazione, prima avrebbe potuto tornare a “concentrarsi”, si rimboccò le maniche per aiutare Rena.
Più o meno verso mezzogiorno, i due finirono di sistemare anche l’ultimo materasso. I mobili erano stati addossati all’unico muro non composto da pannelli di vetro o portati fuori dall’ufficio, dietro la cui porta si era radunata una folla di curiosi.

Add: “Bene, e ora cosa dovrei farci?”

Rena si lanciò sul pavimento morbido e si sdraiò.

Rena: “Che ne dice di quattro salti?”
Add: “C-cosa?”
Rena: “Ahahahahah! Scherzo, lo so che è sposato. Peccato, però.”

Ma in che razza di situazione era finito? Chi diavolo era quella donna? E perché, soprattutto, non sembrava avere la minima intenzione di andarsene?
Proprio mentre stava pensando di chiamare la polizia, all’intrusa squillò il cellulare.

Rena: “Olà! Abbiamo finito proprio adesso … sì, sì, come hai detto tu … come? Via dal muro di destra? Ok … senti, ma mi spieghi che … eh? Ha riattaccato! Comunque, lei, si sposti dal muro a destra, ha sentito, no?”

Add, titubante, si spostò verso il centro della stanza, e fu raggiunto da Rena. Ci capiva sempre meno.

Add: “Senta, io già non mi spiego questa sua intrusione, ma vuole anche accamparsi qui, o cosa?”
Rena: “Ah, vallo a capire. Succedono cose di questo tipo, quando il tuo datore di lavoro è in perfetto idiòta.”
Add: “Sì, ma io che c’entro?”


UUUOOOOOOOOOOOOH!

Nessuno dei due capì cosa aveva sentito: qualcuno fuori stava forse urlando? No, i curiosi dietro la porta erano tutti tornati alle loro regolari occupazioni. Veniva dalla strada? Poco probabile, erano al trentasettesimo piano, non avrebbero potuto sentire un rumore del genere.
Un rumore che, tra l’altro, pareva avvicinarsi.
Guardarono entrambi verso la parete di destra, ricordandosi dell’avvertimento telefonico. Niente.


CRASH!

Uno dei grandi pannelli di cristallo che formavano il muro adiacente a quello che Add e Rena stavano guardando si distrusse in migliaia di schegge di vetro che volarono ovunque. Da ciò che rimaneva del vetro uscì, precipitando verso di loro, un uomo dai capelli rossi e con due spade corte in mano. Atterrò sui materassi e rotolò un paio di volte prima di fermarsi, per non farsi male. Dopodiché, si rialzò, dolorante, rinfoderò le spade e si congelò in una improbabile posa da locandina di film. Sembrava terribilmente soddisfatto della sua entrata, malgrado le braccia e le gambe piene di tagli. Add era totalmente incredulo e spaventato, Rena solo rossa di vergogna.

Add: “U-un terrorista?! Sicurezza! Aiuto!”
Rena: “… no, è solo un idiòta. Un idiòta che stasera le prende.”
Add: “Signorina, lei conosce questo squilibrato?”
Rena: “Peggio, molto peggio. Costui è quell’idiòta del mio capo, niente meno che Elsword Sieghart, il “recuperatore” che ha chiamato qualche giorno fa. Io sono Rena, ci siamo parlati prima che glielo passassi.”

Elsword si era intanto iniziato a bendare le braccia con delle garze prese da una cassetta di primo soccorso uscita da chissà dove. Rena si rialzò da accovacciata che era, e si diresse verso il collaboratore.

Rena: “Ti sei fatto male?”
Elsword: “Eh? Certo che no. Sono d’acciaio, io.”
Rena: “Perfetto. Almeno non mi sentirò in colpa.”

La donna gli sferrò un poderoso calcio … proprio dove faceva più male, ed Elsword si piegò in due per il dolore. Perfino a Add parve di sentirlo, quel calcio, e provò quasi pena per l’uomo che gli aveva appena distrutto un pannello di vetro affumicato da quasi diecimila Del, e che gliene sarebbe presto costati un altro milione.

Rena: “Stùpido! Avresti potuto ammazzarci!”
Elsword: “Beh, però non vi siete fatti niente.”
Add: “Non certo per merito tuo.”

Elsword notò che i detriti erano riusciti ad arrivare solo fino ad un certo punto, a circa un metro da dove prima erano Add e Rena. Era come se fossero stati tutti accatastati addosso ad un muro invisibile. Dagli angoli della stanza si riunirono attorno all’uomo dai capelli bianchi sei piccoli droni neri dall’aspetto di rombi schiacciati. Volavano silenziosamente ed erano sprovvisti di eliche, al contrario di qualsiasi altro tipo di drone, e di telecomando.

Elsword: “Forte, questa roba della barriera. Me la fai provare?”
Add: “Scordatelo.”



Add li fece accomodare in un altro studio, dal momento che il suo era inagibile. I tre si sedettero attorno ad una scrivania.

Add: “Vi dice nulla il termine “nasod”?”
Elsword: “L’organod per sentire gli odorid?”

Rena tirò un violento cazzotto sulla testa del suo capo.

Rena: “Scherzi a parte, no, niente.”
Add: “Bene … beh, in realtà devo dire che mi sorprenderebbe se ne aveste già sentito parlare. In poche parole, dovrebbero essere un gruppo di forme di vita artificiali molto antiche, ormai estinte da tempo, che pare abbiano abitato questa zona del continente fino a un certo periodo, per poi scomparire, all’improvviso e senza un motivo valido.”
Elsword: “Forme di vita artificiali? Tipo dei robot?”
Add: “Qualcosa del genere, tuttavia, pare che fossero incredibilmente più intelligenti di qualsiasi intelligenza artificiale costruibile dall’uomo. Si pensa che fossero addirittura capaci di provare sentimenti e pensare!”
Rena: “E a lei cosa servirebbe un robot pensante?”
Add: “Beh, è una storia piuttosto lunga. Diciamo che voglio divertirmici un po’ a studiarlo.”
Elsword: “Quindi in sostanza noi ti troviamo il tuo bel giocattolino e sei contento, poi ci dai il milione e noi siamo contenti. Ho capito bene?”
Add: “… per sommi capi, sì. Comunque, vorrei che me ne trovaste uno in particolare. Pare che ve ne fosse uno, tra i vari, con un’intelligenza quasi perfetta, quasi come quella di un umano o di un demone. Trovate quello, e avrete il vostro milione.”
Rena: “Mi sembra piuttosto vago … che ne dici, Elsword?”
Elsword: “Prepara il contratto, Rena. Oggi ricominciamo a lavorare.”

Dubbiosa, Rena prese un foglio bianco e si mise a scrivere qualcosa. Una volta finito, lo passò a Add perché lo firmasse: era il contratto di assunzione. Il committente lo lesse attentamente, mentre gli altri due si scambiavano occhiate complici.

Add: “Cosa? Perché dovrei accollarmi le spese di trasporto e l’assicurazione sulla vita? E la riparazione delle spade? E qui c’è scritto che me la devo portare a letto! Ma che diavolo di contratto è?”
Elsword: “L’ultima parte la puoi saltare, se vuoi.”

Esasperato, Add firmò finalmente il foglio, dopodiché accompagnò gli altri all’uscita. Una volta solo, tornò con lo sguardo sul contratto, sulla cui ultima clausola aveva fatto innumerevoli scarabocchi.

Add: “Avrò fatto davvero bene a fidarmi di due così?”

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Capitolo 4
*** Pr3: You've Got a Problem Now ***


3: You’ve Got a Problem Now

Elsword: “Basta! Basta! Non ne posso più!”

Urlando, Elsword scaraventò per terra la pila di libri che aveva di fronte a lui. Solo un pugno di Rena nello stomaco gli ricordò di essere in una biblioteca. I due avevano praticamente vissuto le due settimane seguenti il loro ingaggio facendo la spola tra il loro appartamento e la biblioteca di West City e sfogliando con attenzione quasi maniacale ogni singolo libro o trattato di storia, geografia e perfino di leggende metropolitane capitasse a tiro, e ora erano arrivati ai manuali di informatica. Se tutto il resto era sopportabile, Elsword trovava assolutamente impossibile da digerire il linguaggio informatico: benché possedessero un computer, infatti, dei due era Rena che se ne occupava la maggior parte delle volte. Elsword aveva solo le conoscenze di base per scrivere testi e, di tanto in tanto, navigare in rete.
L’uomo si alzò e si diresse fuori dalla sala di lettura. Anche Rena decise che sarebbe stato meglio fare una pausa: quel lavoro di ricerca era di gran lunga molto più faticoso – e noioso – di ciò che la loro professione richiedesse generalmente. In genere veniva loro commissionato di cercare persone scomparse o ladri con oggetti rubati. Per la maggior parte gli obbiettivi erano criminali, anche se qualche volta veniva loro chiesto di trovare qualche persona scomparsa che si rivelava semplicemente un coniuge infedele o un ragazzino ribelle. La regola non scritta dell’agenzia era “non si fanno domande”, né sul mittente, né sul bersaglio, né sulle conseguenze, che fossero un divorzio o l’incarcerazione di un boss della criminalità organizzata di South Lane. Per gli oggetti dispersi, erano più selettivi: non si sarebbero certo mai abbassati al cercare chiavi di casa o telefoni cellulari, e inoltre il mittente doveva essere comunque qualcuno di abbastanza importante. Ma questa era la prima volta che veniva chiesto loro, prima di trovare un oggetto, di trovare prove della sua esistenza. Rena non si capacitava di come il suo capo avesse accettato un incarico tale. Magari lo aveva visto come una sfida personale.
Elsword tornò una ventina di minuti dopo essere uscito, mentre Rena sfogliava il libro che lui aveva lasciato a metà. Sembrava molto soddisfatto.

Elsword: “Ok, Rena, possiamo anche andarcene per oggi.”
Rena: “Ma sono appena le due! Ti arrendi già?”
Elsword: “No, no, ma ho trovato un modo più semplice di trovare informazioni. Sono andato nella sala con i computer, e un tizio che stava lì mi ha insegnato a mettere un annuncio in rete, in una cosa chiamata “forum”. Ho chiesto se qualcuno avesse informazioni su questi fantomatici nasod. Il tipo dice che adesso dobbiamo aspettare un po’ ed aspettare le risposte di altri.”
Rena: “Cosa?”
Elsword: “Beh, ho pensato che magari avremmo potuto alleggerirci il lavoro facendone fare un po’ anche a qualcun altro. Mi sembra abbastanza sensato, no?”
Rena: “No che non mi sembra sensato! Insomma, non puoi sbandierare ai quattro venti una cosa del genere. A quanto ho capito, un nasod potrebbe fruttare fior di soldi. E se qualcuno, grazie alle informazioni che daranno a te, ma che possono vedere tutti, trova il nasod prima di noi, mi spieghi come facciamo?”
Elsword: “Perché, possono vederle tutti le risposte?”
Rena: “Certo! Ma tu lo sai come funziona un forum online?”
Elsword: “… non esattamente.”
Rena: “Lo immaginavo … beh, non fa niente, andiamo a togliere quell’inserzione.”

I due raggiunsero la sala con le postazioni informatiche e si affrettarono a tornare sul sito internet visitato in precedenza da Elsword. Sconcertati, si accorsero che qualcuno aveva già risposto. Una semplice riga, “ne ho uno. Chiamami al 673 XXXXXXX”. Dopodiché, l’annuncio di Elsword era stato bloccato perché nessun altro potesse rispondere.

Elsword: “Allora? Sei ancora convinta che abbia fatto male?”
Rena: “… anche se un po’ meno, sì. Insomma, è una situazione del tutto surreale! Quanto sarai stato via? Due minuti, forse tre. E costui risponde subito, ti da un numero di telefono e poi chiude il topic? Scusa, ma questo è abbastanza sospetto.”
Elsword: “Quindi che cosa facciamo?”
Rena: “Mah. Segnati il numero e andiamo a casa. Neanche io ho troppa voglia di lavorare, oggi. E poi ho una fame terribile, stamattina non abbiamo neanche fatto colazione.”



Rena: “Allora? Che si fa adesso?”

Dopo aver pranzato, i due si erano trovati a girovagare nei pressi di casa loro, senza né una meta precisa né la voglia di tornare a casa. Erano entrambi stanchi mentalmente e scoraggiati dalla mancanza di idee.

Elsword: “Io lo chiamerei, il tipo che ha detto di avere un nasod. Cosa ci costa?”
Rena: “Ma sì … al massimo, se è il solito esaltato, lo mandiamo a quel paese.”

Rena prese il suo cellulare e si fece dettare il numero. Dopodiché, attivò il vivavoce, così che potesse sentire anche Elsword. Rimasero in attesa per circa un minuto aspettando che dall’altro lato rispondessero, solo per sentirsi chiudere la telefonata.

Elsword: “Il solito esaltato, come hai detto tu. Lasciamo perdere, dai. Domani torniamo in biblioteca e …”

Non fece in tempo a finire la frase che il telefono di Rena squillò. Il numero era quello che avevano appena chiamato. Risposero.

Elsword: “Pronto? Chi …?”
Voce al telefono: “Elsword Sieghart … raggiungimi a Northern … poi trovami …”
Elsword: “Ma chi è? Chi parla?”
Voce al telefono: “Elsword Sieghart … raggiungimi a Northern …”

La voce, oltre che pesantemente camuffata, era addirittura registrata. Sembrava inoltre che fossero più persone a parlare all’unisono. Un’altra telefonata stramba … perché arrivavano solo a loro?
La telefonata, tuttavia, incuriosì parecchio i due: com’era possibile che dall’altra parte del telefono conoscessero l’interlocutore? Elsword si era curato di porre la domanda in maniera anonima, almeno. Inoltre, poteva benissimo essere uno scherzo di cattivo gusto di qualche conoscente che li aveva visti impegnati nelle loro ricerche.
Comunque sia, era già qualcosa di più concreto del nulla totale trovato sui libri.

Rena: “Tu che ne dici?”
Elsword: “Dico che è un buon pretesto per tornare a casa. Entro una settimana leviamo le tende e torniamo a lavorare a Northern.”

La casa di Elsword, dove lui era nato e vissuto fino a due mesi prima, si trovava a Northern, così come la sede principale della Sieghart & Sieghart. Per “farsi conoscere anche fuori dal giro”, diceva lui, aveva aperto una filiale a West City dove si era trasferito con la sua unica collaboratrice, con esiti poco incoraggianti.
Una settimana dopo la bizzarra chiamata, Rena ed Elsword ripartirono verso casa seguendo la statale N2. La rete stradale di Eon era qualcosa di piuttosto insolito: benché passando per il deserto di Center il passaggio tra le città cardinali sarebbe stato molto più rapido e semplice, non vi era nessuna strada passante per il deserto, per quanto sarebbe stato abbastanza facile costruirne. Così, le città principali erano collegate da quattro grandi arterie: la statale A1 da East City a Northern, la N2 da Northern a West City, la H3 da West City a South Lane e infine la T4 da South Lane a East City. Lungo le vie principali sorgevano innumerevoli città minori, inoltre da ogni città cardinale si diramava uno dei quattro Grandi Assi, che collegavano lo stato a quelli attigui.
Mentre Elsword guidava il camion della ditta, contenente i pochi mobili da ufficio che avevano portato da Northern, Rena portava la seconda vettura, un pick-up, a poca distanza. I due si tenevano in contatto tramite cellulare. Erano partiti verso le tre del pomeriggio, e la strada era quasi deserta. Verso le sei, cominciò il traffico, ma non divenne mai un ingorgo. Verso le sette e mezza, i due imboccarono una strada secondaria e sterrata che costeggiava il deserto, e che li avrebbe portati più rapidamente verso la loro casa, senza dover passare per il centro di Northern e rischiare di rimanere invischiati nel traffico. A parte loro non c’era nessuno.

Rena: “Finalmente, ancora una mezz’oretta e arriviamo … non vedo l’ora di sgranchirmi le gambe.”
Elsword: “Non mi dirai di essere già stanca! Sono solo quattro ore e mezza che viaggiamo. Io potrei continuare per altrettante.”
Rena: “Perché io non sono una caffeinomane come te. Quanti te ne sarai bevuti lungo il viaggio? Quattro o cinque di sicuro.”
Elsword: “Almeno non erano come i tuoi … oh, ma che ca-”

Come un fulmine a ciel sereno, qualcosa cadde dal cielo davanti al camion. Elsword fece appena in tempo a frenare bruscamente, facendo testacoda. Rena fermò l’auto dietro all’altra vettura, ed entrambi scesero ad osservare l’oggetto che si era parato davanti a loro. Era una grossa ascia bipenne di metallo nero inastata su un bastone bianco lungo quanto una persona. Sempre dal cielo, qualche secondo dopo, cadde … una persona.
L’impatto sollevò un enorme polverone attorno al nuovo arrivato, nascondendone la figura.

???: “Tsk. Avrei voluto centrare il camion. Almeno sarebbe stato uno in meno. Comunque sia, il risultato non cambia. La vostra corsa finisce qui, signori Sieghart. Oggi voi morirete.”

Estrasse l’ascia dal suolo e cominciò a rotearla a vuoto come fosse una lancia. Intanto, la polvere aveva cominciato a diradarsi, così Rena ed Elsword poterono rendersi conto di chi avevano di fronte. Si trattava di una donna abbastanza alta e magra, con lunghi capelli blu ed occhi azzurri. I suoi occhi, come la sua carnagione, erano spenti, come se avesse una qualche malattia o fosse stata per troppo tempo al chiuso. Portava un vestito blu scuro lungo fino alle caviglie stretto in vita da un cinturone, grossi stivali marroni e un mantello bianco. La parte inferiore dell’abito e del mantello erano pieni di buchi e strappati, e al vestito mancava la manica destra.
La donna si appoggiò la lunga ascia su una spalla e cominciò a soppesare Elsword.

Donna: “Tutto qui il famoso Elsword Sieghart? Sul serio? Ti immaginavo più bello.”

Senza pensarci due volte, Rena si lanciò verso la sconosciuta e provò a colpirla con un calcio. Avrebbe dovuto raggiungere il mento, ma lei lo parò distrattamente con l’asta. Rena riprovò più volte a colpirla, al viso, allo stomaco, alle gambe, ma l’intrusa si limitava a bloccare i suoi calci con il bastone, continuando a parlare.

Donna: “La vostra ricerca non vi porterà da nessuna parte. Io, Vanessa dei cavalieri di Luto, vi fermerò prima che possiate fare altro.”

Dopo aver gettato di lato Rena, con uno scatto impressionante Vanessa fece un lungo affondo in direzione di Elsword, il quale si trovò costretto a schivare uno dopo l’altro i colpi della donna. Questa vibrava ampi fendenti ed affondi a destra e a manca in rapida successione, a volte ruotando su sé stessa, ma sempre senza lasciare un punto cieco o un’opportunità per essere colpita. Tanto più che Elsword era disarmato, avendo lasciato le tre spade sul sedile del passeggero. Tuttavia, sembrava quasi essersi scordata di Rena. Cercando di non farsi vedere, si avvicinò il più possibile al camion per recuperare almeno uno dei wakizashi.
Mentre stava aprendo la portiera, un rumore dietro di lei la fermò. Si girò, e vide la lunga ascia di Vanessa a poca distanza da lei. Dopodiché, con un pugno sul naso questa su liberò di Elsword e scattò verso Rena, che stava affrettandosi a cercare una spada. Quando finalmente arrivò, Rena era riuscita ad afferrare un manico, e si ritrovò alle spalle al muro, con un’arma puntata alla gola.

Vanessa: “Game over, carina. Pensavi che non ti avessi visto?”
Elsword: “E tu pensavi di esserti liberata di me?”

Elsword era apparso alle sue spalle dal nulla, gli sanguinava il naso, probabilmente era rotto, ma non presentava altri danni. Con un pugno alla testa stordì Vanessa, dopodiché la spinse via, facendola sbattere contro la fiancata del camion. Aiutò Rena ad uscire ed afferrò la spada che lei era riuscita a recuperare. Era la katana. Ora poteva difendersi e, con un po’ di fortuna contrattaccare.
La cavaliera non si perse d’animo, e si lanciò a testa bassa contro Elsword. Questi parò il suo fendente tenendo la spada con entrambe le mani e, mentre erano bloccati, cercò di calciare l’avversaria. Vanessa lo schivò facendo un piccolo balzo indietro.
Stavolta fu Elsword ad attaccare. Portava fendenti orizzontali con entrambe le mani, ed allontanava subito la spada se questa si scontrava con l’ascia del nemico. Vanessa parava come se fosse la cosa più naturale al mondo, senza scomporsi. Tuttavia, al contrario dei calci di Rena, quei fendenti riuscivano a farla arretrare, e a darle un’espressione concentrata. Si vedeva che lo spadaccino riusciva a tenerla impegnata.

Vanessa: “Ti muovi bene per essere un giovanotto. Ma la tua guardia è scarsa.”

La cavaliera scostò appena il colpo in arrivo e, ruotando di scatto l’arma, colpì il mento di Elsword con il fondo del manico. Dopodiché, gli colpì rapidamente la testa, lo sterno e il retro del ginocchio destro. L’uomo si trovò in ginocchio, sorreggendosi con le mani e annaspando. Vanessa gli puntò contro l’ascia.

Vanessa: “Qualche ultima parola prima di morire? Qualche ultima volontà?”

Elsword si guardò intorno nervosamente. La katana era troppo distante per gettarsi e prenderla. Se solo avesse avuto due spade … se …

Elsword: “Vorrei alzare la mano!”

Nell’aria volarono due proiettili, uno diretto verso Elsword, e uno verso Vanessa. Mentre questa schivò quello diretto a lei, lo spadaccino afferrò con la mano alzata il suo, che si rivelò essere uno dei suoi wakizashi. Lo impugnò e si rialzò approfittando della distrazione della cavaliera. Dopodiché, cominciò a correre in direzione del secondo, atterrato poco distante.

Rena: “Ti ricordo che siamo in due, “carina”!”

Rovente di rabbia, Vanessa scagliò la sua ascia verso Rena, mirando alle gambe. Questa, in tutta risposta, la fermò sotto un piede quando gli fu vicina, mentre l’altra si avvicinava seguendo la propria arma.

Rena: “Chi è in vantaggio ora?”

La cavaliera si fermò. Davanti a lei, la donna aveva cominciato a roteare la sua stessa arma contro di lei. Dietro, Elsword si avvicinava con in mano le due wakizashi. Era in trappola.
Frugò sotto il mantello e ne estrasse un oggetto cilindrico, nero e lucido, con un anello che pendeva da un’estremità. Una granata. Aveva intenzione di farsi esplodere, e di trascinare gli altri con lei. La sollevò.

Vanessa: “Fermi tutti! Fermi tutti, o mi farete compagnia all’inferno! Gettate le armi! Tu, avvicinami la mia. Bene, così.”

Elsword appoggiò le spade a terra. Rena gettò ai piedi della cavaliera la sua arma, e questa, sempre con la granata in mano, si avvicinò circospetta per riprenderla. Si chinò e, quando si rialzò, vide lo spadaccino al fianco dell’altra donna.

Vanessa: “Ma allora vuoi morire?! Aspetta, dove …?”
Elsword: “Cerchi questa?”

Elsword faceva saltare di mano in mano la granata. Aveva ripreso entrambi i wakizashi, e in più aveva la katana appesa alla cinta. Come cavolo aveva potuto essere così veloce? Perché aveva lui la granata? E perché le spade corte erano sporche di sangue?
Hypersonic Slash!
Improvvisamente, il corpo di Vanessa si riempì di ferite, abbastanza lievi da non ucciderla ma abbastanza dolorose da farla contorcere al suolo. Elsword ripose le spade al fianco e si precipitò insieme a Rena dalla cavaliera ferita.

Rena: “Sei fortunata, noi non uccidiamo la gente a caso. Ora ti portiamo all’ospedale. Ci racconterai tutto, per filo e per segno.”

La donna si irrigidì, e guardò l’altra con occhi carichi di odio.

Vanessa: “Siete ipocriti al punto di mostrare compassione per gli sconfitti? E credete che vi ringrazierò? VOI NON AVETE CAPITO UN BEL NIENTE! Continuate pure il vostro bel viaggetto. Vedrete cosa vi aspetta!”

Con le ultime forze rimaste, prese un wakizashi dalla cintura di Elsword e se lo piantò in gola. Esalò i propri ultimi respiri gorgogliando.
Una volta morta, parve diventare trasparente, quasi una statua di ghiaccio, e andò in mille pezzi, che si dissolsero nell’aria.

Rena: “Ma cosa … che è successo?”
Elsword: “Non lo so, ma sbrighiamoci e andiamo all’ospedale. Mi sa che ho il naso rotto.”


Terzo capitolo aggiunto! Un po' più lungo dei primi, ma non tendo ad avere una lunghezza fissa. Mi raccomando, recensioni e critiche!

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