Il catalogo dei Bambini

di mrdancedance
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Bambina Puzzle ***
Capitolo 2: *** Il bambino fatto di sale ***
Capitolo 3: *** Il Bambino Lucertola (versione realistica) ***
Capitolo 4: *** Il bambino fatto di stelle ***
Capitolo 5: *** Il Bambino Lucertola (versione utopistica) ***
Capitolo 6: *** Il bambino fatto di melma ***



Capitolo 1
*** La Bambina Puzzle ***


La Bambina Puzzle



Alla Bambina Puzzle mancavano dei pezzi. Tre, a essere precisi.

Le mancava un pezzo dietro l’orecchio destro.
L’aveva perduto quando il Signor BOOM, insieme al Signor BANG e a Mister SPRANG avevano smantellato Città Dincastro in un sol colpo. Era successo tutto così all’improvviso e talmente in fretta, da essersi accorta dell’assenza solo quando la polvere si era già depositata sulle macerie. E le macerie erano tante. E la polvere molta di più.

Le mancava poi un pezzo sotto l’ombelico.
Questo non lo aveva perso, le era stato tolto. Portato via. A prenderglielo era stato suo Zio Domino.
Un giorno d’estate, Zio Domino aveva visto Bambina Puzzle prendere il sole. I disegni che coloravano i pezzi che la componevano erano davvero belli, ma quel pezzo sotto l’ombelico lo era di più. Splendeva più degli altri e, circondato dai suoi pezzi fratelli, risaltava in maniera abbagliante. Allora Zio Domino aveva fatto finta di cadere addosso a Bambina Puzzle e, nel rialzarsi, le aveva rubato un pezzo, nascondendolo dietro un finto gemito di dolore.

Il terzo pezzo che le mancava le aveva lasciato un vuoto all’altezza del cuore.
Quel pezzo le era caduto in mare.
Stava cercando di salvare Mamma Puzzle, che era scivolata fuori bordo. Ma il mare era più forte della bambina, e tirava con più convinzione.
Nell’acqua c’erano finiti in due: la mamma e il pezzo di puzzle.

Bambina Puzzle aveva sempre vissuto bene, senza quei tre pezzi. Non le erano mai pesati quei vuoti. Anzi, a volte cercava di sbirciarci dentro e le sembrava quasi di vedere un cielo notturno puntinato di stelle.
Da quando però era giunta nel paese di Bora, tutto era cambiato. Ogni volta che andava a scuola e vedeva i Bambini di Vento giocare a rincorrersi in cortile, un forte gelo le entrava dentro. Soffiava tra i suo buchi e le si intrufolava tra gli incastri, tentando di mandarli in frantumi.
Non riusciva più nemmeno a muoversi.
“Perché non vieni a giocare con noi?” Le chiese un giorno un Bambino di Vento.
“Perché ho tanto freddo.”
“Alle braccia?”
“No.”
“Alle gambe?”
“No.”
“A cosa, allora?”
“Ho freddo dentro.”
“Io non ho mai avuto freddo dentro.”
“È perché tu non hai i buchi che ho io.” rispose Bambina Puzzle indicando i tre pezzi mancanti.
Allora il Bambino di Vento corse via e ritornò poco dopo con un quaderno, delle forbici e del nastro adesivo. Esaminò attentamente i tre buchi e prese a ritagliare forme bizzarre dalle pagine piene di frasi e numeri. Poi, con lo scotch andò ad attaccarle suoi vuoti, coprendo così gli accessi al cielo stellato di Bambina Puzzle.
Erano bizzarri, quei ritagli, da vedere posati sul suo corpo. Ma Bambina Puzzle si sentì subito meglio.
“Oh! Ora non sento più freddo!” esclamò felice.
“Bene, allora puoi venire a giocare.” La guardò un po’, e poi aggiunse: “Ma non dire alla maestra che ho tagliuzzato il quaderno degli appunti.”
Lei rise e, prendendo il Bambino di Vento per mano, corse a giocare.
Una lezione di geografia le copriva il cuore, una di storia sorreggeva l’ombelico e un complicato calcolo di matematica le decorava la nuca. Si sentì parte di una cosa nuova, e ne era felice.

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Capitolo 2
*** Il bambino fatto di sale ***


Il bambino fatto di sale



Il bambino fatto di sale è un bambino brillante. Non nel senso che è particolarmente intelligente (sebbene in matematica e scienze abbia voti più alti dei mei), ma proprio perché brilla alla luce del sole. Sì! Come uno specchio. O come uno di quei lampadari che hanno le nonne, fatto di tante gocce di vetro! I cristalli bianchi che lo compongono riflettono infatti i raggi luminosi, facendolo assomigliare a una stella incandescente.
Da marzo a settembre, gli insegnanti devono sempre entrare in classe con gli occhiali da sole se vogliono interrogarlo senza rimanere abbagliati.

Il bambino fatto di sale è l’amico ideale se si vuole giocare alla lotta, perché non può farsi male. Al massimo qualche cristallo cade a terra, ma lo si può sempre riattaccare. Uno sputo e via! Una gran comodità che un po’ gli invidio. Io infatti me la sono rotta una gamba, e non è stato affatto piacevole.

È bello avere il bambino fatto di sale seduto vicino a sé quando si va a pranzo dalla mamma di Manuel, che si dimentica sempre di mettere il sale nella pasta. Basta farsi prestare un dito da lui e soffiarci sopra con forza. La pasta ne risulterà sicuramente migliorata!

È divertente andarci al mare assieme, perché là nessuno lo conosce, e allora possiamo organizzare fantastici scherzi. Come quella volta che… anzi no! Come quell’altra volta che, con l’aiuto del nostro amico Desiderio, abbiamo inscenato uno spettacolino d’illusionismo. Li avevo fatti accomodare entrambi in una cassa col doppio fondo e io avevo indossato un mantello nero. Quanti applausi ho ricevuto facendo finta di trasformare Desiderio in una creatura di sale!

Ma non è sempre facile essere amici di un bambino fatto di sale.

Il giorno del tuo compleanno, infatti, potrebbe volerti abbracciare. Niente di male, penserete voi, ma avete mai provato a strofinare del sale sulle ferite che vi siete fatti cadendo dalla bicicletta? No? Bè, fa molto male! La carne viva brucia come se vi foste scottati e vi scenderà di sicuro una lacrimuccia.

Se dovete giocare un’importante partita di calcio, poi, ma piove, allora siete fritti! Perché il bambino fatto di sale è l’attaccante migliore della squadra, ma con l’acqua si scioglie. E no, non fa nemmeno in tempo a coprire metà campo.

Per non parlare del mare! Ci possiamo fare grandi risate imbrogliando gli altri ospiti, ma una nuotata con lui non è proprio possibile. Già mettere a mollo i piedi potrebbe essere la fine.

E quando d’inverno scende la neve, e si potrebbe finalmente andare con lo slittino, bè… se c’è in giro il tuo amico fatto di sale viene tutto rovinato. Camminando tra i candidi fiocchi, infatti, i suoi cristalli trasformano la neve in acqua e così lo slittino non scivola più, e sebbene tu ci abbia messo due ore per vestirti a dovere devi rientrare in casa sconsolato.

Col bambino fatto di sale a volte non ci parlo. Non lo faccio perché a guardarlo mi fanno male gli occhi. E sento quasi bruciarmi la bocca. E poi voglio giocare a calcio. Oppure passeggiare nella neve.

Altre volte ci parlo, e allora ridiamo a crepapelle. Solo che poi torna l’inverno e…

La mamma mi dice che sono proprio maleducato a fare così. Ma lei non ha mai avuto un amico fatto di sale. E non ha mai nemmeno giocato a calcio, a essere sinceri.
La mamma mi dice anche che, forse, pure io sono un intralcio per il bambino fatto di sale. Per esempio non posso fare la gara a chi brilla di più, perché io non brillo affatto. Oppure, quando giochiamo a fare la lotta, lui deve trattenersi perché se mi da un calcio troppo forte mi manda all’ospedale e non c’è sputo che tenga.

La mamma mi dice anche che, forse, potremmo trovare una soluzione. In caso di neve potremmo mettergli dei lunghi stivaloni e se piove potremmo prestargli una tuta impermeabile.
“A volte le soluzioni sono più semplici dei problemi.” dice spesso la mamma, ma lei mica ha dovuto fare le verifiche con la mia maestra di matematica!

Però la mamma forse ha ragione.
Allora posso riparlarci col bambino fatto di sale. Anche perché domani c’è il compito di storia, e se c’è il sole lui può distrarre il maestro mentre io copio.

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Capitolo 3
*** Il Bambino Lucertola (versione realistica) ***


Il Bambino Lucertola
(versione realistica)


 

Il Bambino Lucertola era nato che sembrava fatto d’argento. Era uscito dalla pancia tonda della mamma come un raggio esce dalla Luna. Brillava, sotto le luci della sala parto. Luccicava.
I dottori pensarono si trattasse di un effetto ottico, ma poi lo pulirono per bene e scoprirono le squame. Erano piccole forme geometriche che contornavano gli occhi, rivestivano le braccia e disegnavano le gambe. Non erano brutte, erano semplicemente strane. Sembravano piccoli specchi, ma non ti ci potevi riflettere dentro.
A volte capitava che un bambino nascesse diverso. Non si sapeva perché. Quello, però, era un po’ più diverso degli altri.
Il bambino era sano e forte ma, appena lo vide, la mamma pianse. Per non piangere di nuovo, non lo volle vedere mai più. E anche il nome che voleva uscire dalle sue labbra per coccolare il bambino si tirò indietro, all’ultimo, finendo nel buio.

Il Bambino Lucertola visse in un orfanotrofio.

Siccome era molto freddoloso, come tutte le lucertole, passava gli inverni disteso sotto una grande lampada, e l’estate sdraiato su un masso scuro che raccoglieva tutto il calore del sole. Così si sentiva coccolato e al sicuro e vivo.

La scuola non fu affatto una bella esperienza, per il Bambino Lucertola.
La prima volta che entrò in classe, il maestro gli chiese cosa si fosse disegnato in faccia.
“Niente, maestro.”
“Bugiardo!”
“Ma, maestro…”
“Vai subito in bagno e lavati la faccia.”
Lui ubbidì, perché sapeva che agli insegnanti bisognava dar retta. Andò in bagno e si sciacquò per bene gli occhi, ma quando tornò in classe il maestro non fu affatto contento. Lo prese per un orecchio e lo riaccompagnò al lavandino. Prese poca acqua e tanto sapone. Sfregò, sfregò e sfregò finché la pelle si fece rossa e le squame si fecero d’oro.
Il Bambino Lucertola pianse per il dolore.
Il maestro lo risciacquò e vide che i disegni c’erano ancora.
Tirò un grido: “Che cosa sei? Un mostro?”
Il Bambino Lucertola smise di piangere e scappò in classe, perché dei mostri lui aveva molta paura.

I suoi compagni non volevano che giocasse con loro a pallone. D’inverno era troppo lento per via del sangue freddo. D’estate brillava troppo e accecava gli altri.
Le sue compagne non volevano che giocasse con loro all’allegra famiglia. Non c’era niente di allegro, dicevano, ad avere un marito brutto e con le squame. E nemmeno ad avere un bambino brutto e con le squame. Per essere una famiglia felice bisognava essere belli e senza squame e con la pasta Barilla.

Il Bambino Lucertola, testardo, tentò in tutti i modi di farsi ben volere dagli altri.
Quando il pallone finì sul tetto della scuola, per esempio, lui si arrampicò sul muro, proprio come una lucertola. Arrivato in cima lanciò il pallone ai bambini, ma loro non vollero toccarlo. Era infetto, dicevano. Di cosa non si sa.
Quando le verifiche di matematica, per un colpo di vento, finirono sui rami di un albero, lui si arrampicò, come una lucertola. Li prese tutti meno uno. I suoi compagni non lo ringraziarono, il bambino senza compito fece finta di nulla e la maestra gli diede un tre, perché era inverno e lui non aveva scritto quasi niente.

Poi, un giorno che era iniziato male finì anche peggio.
Erano in classe quando presero a squillare le sirene antincendio. Tutti scapparono fuori dalle aule, corsero nei corridoi e gridarono: “Spostati, brutta lucertola!”
Una volta in giardino, si accorsero che Marianna, la più bella del paese, era rimasta nel laboratorio di informatica, all’ultimo piano.
Nessuno sapeva cosa fare, perché entrando di nuovo ci si sarebbe abbrustoliti tutti come castagne.
Il Bambino Lucertola, però, poteva arrampicarsi sui muri. Così si tolse le scarpe, i calzini bucati e salì fin da Marianna. Lui allungò una mano per prenderla. Lei si guardò intorno e decise che, tra i due mali, era meglio quello che l’avrebbe lasciata vivere. Abbracciò il Bambino Lucertola e con lui scese a terra.

Fecero una grande festa.

La fecero a Marianna.

Il preside gridò al miracolo e disse anche che il Bambino Lucertola, il cui nome nessuno si ricordava, era stato un eroe e che doveva essere trattato con onore. Poi prese la medaglia e, al momento di mettergliela al collo, decise che era meglio lasciare il compito a Marianna. Lei l’aveva già toccato, quel mostriciattolo.
Il Bambino Lucertola fu molto felice di ricevere la medaglia. Se la mise al collo e non la tolse più, così quando c’era il sole brillava meglio di prima.
Ora, tutti lo trattavano con onore. Quando lo incontravano, infatti, abbassavano gli occhi, in segno di rispetto, e gli lasciavano spazio. In classe nessun maestro gli puliva più la faccia. Nemmeno lo chiamavano alla lavagna, in segno di rispetto.
I compagni non lo fecero mai giocare con loro, ma ora sapeva che era in segno di rispetto.
In segno di rispetto, i genitori di Marianna gli spedirono per posta dei cioccolatini. Li portò con se al masso scuro, ma si sciolsero tutti per il calore.
Il Bambino Lucertola non venne mai adottato, ma non era triste. Era per rispetto, se lui rimaneva da solo, all’orfanotrofio. E poi aveva la sua bella medaglia a fargli compagnia.

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Capitolo 4
*** Il bambino fatto di stelle ***


Il bambino fatto di stelle



Il bambino fatto di stelle brillava ogni notte ed era un ribelle.
Di sera correva lungo le vie più scure e gridava alle finestre illuminate nomi carichi di fantasia: Antares, Vega, Mintaka! Polaris, Alcione, Taygeta!
Quando passava sotto un lampione questi, invidioso di quella vivida lucentezza, si spegneva di colpo per non riaccendersi più. E quando passava davanti a uno specchio, il bambino fatto di stelle si concentrava per brillare più forte e la lastra riflettente si anneriva imbarazzata.
Non c’era cosa che potesse impaurire il bambino fatto di stelle. Non c’era adulto, bambino, maestro o mostro che potesse indebolire la sua luce.
Non c’era nessuno di cui il bambino fatto di stelle avesse davvero bisogno. Né mamma, né papà, né amici, né fantasmi. Ma tutti avevano bisogno di lui, tutti lo volevano. Perché era bello, luminoso, simpatico e veloce.
Tutti volevano stare vicini al bambino fatti di stelle, perché era fatto di stelle.

 
Il bambino fatto di stelle brillava ogni notte ed era un ribelle.
Il bambino fatto di stelle era un sogno. Il sogno del bambino fatto di buio.

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Capitolo 5
*** Il Bambino Lucertola (versione utopistica) ***


Il Bambino Lucertola (versione utopistica)



1

Il Bambino Lucertola nacque che sembrava fatto d'argento.
Uscì dalla pancia tonda della mamma come un raggio esce dalla Luna. Brillava, sotto le luci della sala parto. Luccicava. Sembrava un piccolo gioiello.
Subito, i dottori pensarono si trattasse di un effetto ottico causato dalla forte illuminazione. Poi, però, lo pulirono per bene e scoprirono le squame. Erano piccole forme geometriche che contornavano gli occhi. Esagoni minuscoli che rivestivano le braccia e decoravano le gambe. Avevano un leggerissima tonalità verde chiaro e riflessi argentati. Non erano brutte, erano semplicemente strane. Sembravano piccoli specchi, ma non ci si poteva riflettere dentro.
A volte capitava che un bambino nascesse diverso. Non si sapeva perché. Quello, però, era un po’ più diverso degli altri.

Il bambino era sano e forte. Muoveva allegramente le gambe cicciotte e sembrava sorridere. Con gli occhi ancora opachi osservò la stanza e sembrò approvare.
L’infermiera lo portò allora alla sua mamma che però, appena lo vide, si mise a piange. Era troppo diverso da tutti i bambini che aveva visto prima. Non era normale. Non aveva le pelle rosa e liscia ma cangiante e simile a quella di un serpentello. Le faceva quasi paura.
Per non piangere di nuovo, non lo volle vedere mai più.
Si dimenticò perfino di dargli un nome e le infermiere che si presero cura di lui lo battezzarono Bambino Lucertola.

Il Bambino Lucertola venne affidato a un orfanotrofio.
Era una casa grande, con le stanze dai soffitti altissimi e finestre strette e sporche. C’erano pochi giochi e poco cibo, ma c’erano degli adulti che si prendevano cura dei bambini senza mamma e papà.
C’erano anche altri bimbi, assieme a lui, ma gli rivolgevano la parola di rado. Gli parlavano solo per rimproverarlo quando ci metteva troppo a fare la doccia. Oppure quando stava troppo tempo davanti all’unico specchio del bagno, perso ad ammirare il luccicare della sua pelle.
A lui, però, non pesavano queste situazioni.

Siccome era molto freddoloso, come tutte le lucertole, in inverno passava quasi tutto il tempo disteso sotto una grande lampada. D’estate, invece, andava a sdraiarsi su un masso scuro che si trovava nel grande cortile sul retro, e che raccoglieva tutto il calore del sole. In questo modo si sentiva coccolato e al sicuro e vivo.

 

2

Quando compì sei anni, il Bambino Lucertola venne mandato a scuola. Per arrivarci doveva percorrere una lunga strada a piedi. Non importava se pioveva, se nevicava o se c’era il sole; doveva camminare e camminare e camminare.
Affrontò la nuova avventura pieno di curiosità. Aveva tanta voglia di imparare cose nuove e forse sarebbe riuscito a farsi degli amici.
Entrò nella sua nuova classe con un grande sorriso stampato sulla faccia e osservò attento i suoi nuovi compagni. Alzò la mano destra per salutarli, ma non appena gli altri videro le sue lunghe dita e la pelle argentata si voltarono dall’altra parte.
Non fu affatto una bella giornata.

Quando suonò la campanella corse a prendere posto in prima fila. Subito dopo entrò un maestro alto alto e magro magro. Portava dei grossi occhiali arancioni e i capelli gli disegnavano un ciuffo a forma di cuore giusto sopra la fronte.
Il bambino lucertola pensò fosse un buon segno, ma si sbagliava.
Il maestro incominciò a fare l’appello e appena arrivato alla lettera B di Bambino Lucertola si fermò. Guardò attentamente l’alunno che gli si trovava davanti e gli chiese cosa si fosse disegnato in faccia.
"Niente, maestro." rispose il Bambino Lucertola.
"Bugiardo!" sentenziò il maestro.
"Ma, maestro..."
"Vai subito in bagno e lavarti!" gridò arrabbiatissimo.
Lui ubbidì, perché sapeva che agli insegnanti bisognava dar retta.
Andò in bagno e si sciacquò per bene gli occhi, le guance, il mento, la bocca e la fronte. Si bagnò perfino i capelli argentati che gli coprivano la testa, ma sapeva che era tutto inutile. Lui era fatto così, e non si potevano cambiare i fatti.
Una volta tornato in classe, il maestro non fu affatto contento. Lo prese per un orecchio e lo riaccompagnò al lavandino. Prese poca acqua e tanto sapone, tantissimo sapone! Sfregò, sfregò e sfregò. Uscì dalla toilette e chiamò a gran voce una bidella. Questa accorse con una spugna per lavare i piatti che venne subito usata sul volto del bambino. Sfregò di nuovo, e ancora e ancora, finché la pelle si fece rossa e le squame si fecero d'oro. Brillavano come non mai nella luce accecante dei neon.
Il Bambino Lucertola pianse per il dolore. Si ripromise, la prossima volta che gli sarebbe toccato di lavare i piatti, di essere più delicato con le ceramiche.
Il maestro lo risciacquò e vide che i disegni c'erano ancora. Anzi, erano perfino più evidenti.
Tirò un grido: "Che cosa sei? Un mostro?"
Il Bambino Lucertola smise di piangere e scappò in classe, perché dei mostri lui aveva molta paura e non voleva incontrarli.

A ogni nuovo maestro che entrava la storia si ripeteva. Tutti spalancavano la bocca e strabuzzavano gli occhi e non credevano a quello che avevano davanti.
Quando la voce si sparse giunsero perfino gli insegnanti di altre classi a curiosare. Volevano vedere il piccolo mostro che splendeva alla luce del sole.
Il Bambino Lucertola si sentiva strano e umiliato. Quando un adulto arrivava abbassava la testa e faceva finta di leggere la pagina vuota del suo quaderno. Avrebbe tanto voluto essere già capace di scrivere, così avrebbe davvero potuto leggere qualcosa.
Fu così che si mise a studiare come un matto per imparare quanto prima a leggere e a far di conto. Così avrebbe saputo come passare il tempo mentre tutti gli altri lo ignoravano.

 

3

I suoi compagni non volevano giocare con lui.
I maschi non volevano che partecipasse alle partite di calcio. D'inverno era infatti troppo lento, perché aveva il sangue freddo dei rettili che gli intorpidiva i movimenti. Anche fare il portiere era impossibile, perché i palloni arrivavano troppo veloci.
In primavera e in estate, invece, brillava troppo. Il sole luminoso e pieno delle belle giornate lo faceva risplendere mentre correva, ma così facendo finiva con l’accecare gli altri. E se non si vedeva il pallone non era divertente! Quindi lo lasciarono in panchina sempre.

Le femmine, dal canto loro, non volevano che giocasse all'allegra famiglia.
Non c'era niente di allegro, dicevano, ad avere un marito brutto e con le squame. E nemmeno ad avere un bambino brutto e con le squame.
Per essere una famiglia felice bisognava essere belli e senza squame.
Se proprio proprio voleva poteva fare il mostro cattivo che spaventava i bambini più piccoli quando non volevano obbedire. Il Bambino Lucertola acconsentì per un paio di volte, ma non gli piaceva sentire urlare ogni volta che si avvicinava a qualcuno, e quindi smise in fretta.

Il Bambino Lucertola non si arrese e tentò in tutti i modi di farsi ben volere dagli altri. Stare da soli era infatti molto triste e noioso.
Così, quella volta che il pallone finì sul tetto della scuola perché Paolo aveva calciato troppo forte, lui si arrampicò sul muro. Proprio come una lucertola saltò sulla parete e si arrampicò con agilità e destrezza fino in cima. Balzò sul tetto, afferrò il pallone bianco e nero che si era conficcato tra due camini e lo ributtò ai compagni. Loro, però, non vollero prenderlo. Dicevano che era infetto. Dicevano che se l’avessero toccato sarebbero diventati delle lucertole pure loro.

Un altro giorno, il maestro Primo Conti scese dalla macchina con i compiti di matematica corretti. Un colpo di vento lo colse di sorpresa e gli strappò di mano tutti i fogli, i quali presero a volteggiare nell’aria.
Si riuscivano a scorgere i cerchi rossi degli errori fin da terra.
Svolazzarono per un po’ nel cielo azzurro e finirono col fermarsi sui rami più alti della grande quercia che si trovava in cortile.
Il Bambino Lucertola si arrampicò anche questa volta e in meno di un minuto aveva recuperato tutti i compiti eccetto uno.
I suoi compagni non lo ringraziarono. I voti di praticamente tutti erano piuttosto bassi e quindi non furono felici di trovarseli sul registro. Roberto, il bambino il cui compito era andato perduto, dovette invece rifare la verifica. I problemi erano più complicati dei precedenti, o così diceva lui, e prese un voto bruttissimo.

All’orfanotrofio le cose non andavano di certo meglio.
Di tanto in tanto venivano dei genitori in visita. Volevano trovare un bel bambino da portare a casa per dargli una stanza, del cibo buono e una famiglia.
La direttrice faceva mettere tutti i bambini in fila e li mostrava alle coppie.
Gli aspiranti mamme e papà sorridevano compiaciuti ai potenziali pargoli, ma poi arrivavano a lui. Il sorriso si spegneva di colpo e gli adulti si scambiavano sguardi imbarazzati.
“Bene, direi che possiamo andare.” dicevano infine.
Stanchi di questa faccenda, la direttrice e gli inservienti decisero di truccare il Bambino Lucertola. Quando doveva venire qualcuno in visita si presentavano in camera armati di quintali di fondotinta e si mettevano a truccare il Bambino Lucertola per nascondere le scaglie lucenti. Ci mettevano circa tre ore, ogni volta, e il risultato era tutt’altro che meraviglioso. Sembrava un pagliaccio del circo e quando un’aspirante madre lo vide così conciato svenne.
Il risultato fu che mentre gli altri bambini venivano pian piano adottati, lui rimaneva lì a scaldarsi su un sasso o sotto una lampada. E un inverno che fu particolarmente freddo e l’elettricità venne a mancare, non ci fu nemmeno la lampada a dargli conforto.
Fu un inverno di lacrime.
Poi, all’improvviso, le cose cambiarono.

 

4

La primavera era arrivata da poco. La neve si era sciolta e i primi fiori avevano iniziato a spuntare.
Erano in classe durante una lezione di italiano quando presero a squillare le sirene antincendio.
I bambini si agitarono tutti e si misero a gridare.
“Al fuoco, al fuoco!”
“Una bomba!”
“Il terremoto!”
“Un aereo sta precipitando su di noi!”
“Gli alieni! Gli alieni!”
“Calma bambini!” gridò il maestro di Italiano, Leopardo Leopardi. “Sarà semplicemente un’esercitazione antincendio. Quindi tornate ai banchi, finite di copiare la frase che ho scritto alla lavagna e poi mettetevi in fila per due.”
I bambini obbedirono e fecero finta di non vedere il fumo nero che scendeva dal tetto e oscurava la finestra.
Finirono di copiare la frase in fretta e furia e, obbedienti, si misero in fila per due. Solo che nessuno voleva dare la mano al Bambino Lucertola.
“Bambini! Qualcuno deve dargli la mano!” disse stridulo l’insegnante.
“Io no, fallo tu Giacomo.” rispose Marco.
“Perché io? Fallo tu, Lucrezia!”
“Io? Ma non lo sai che alle femmine certe cose non si chiedono?”
“E perché? Cos’hanno le femmine di diverso dai maschi?”
“Le gonne e la gentilezza!”
“Se sei gentile allora dagli la mano!”
“Non si può essere gentile coi mostri!”
“E va bene,” s’intromise il maestro “Lucreazia dai la mano a me, tu invece…” disse rivolgendosi al Bambino Lucertola “Tu stai in fondo alla fila e seguici.”

Leopardo Leopardi aprì la porta e si ritrovarono sommersi da un fumo fortissimo.
“Forse non si tratta di un’esercitazione.” suggerì il maestro. “Mettetevi un fazzoletto davanti alla bocca e usciamo.”
Così fecero e si misero in moto.
Camminarono in mezzo a una nebbia scura che sapeva un odore strano. Non c’era il caldo che ci si sarebbe aspettati da un incendio, ma a dire il vero di fiamme non se ne vedevano.
Una volta in giardino il maestro si girò verso di loro.
“State tutti bene?”
Gli alunni annuirono e il maestro tirò un sospiro di sollievo.
Il Bambino Lucertola, però, che aveva imparato in fretta a far di conto, si accorse che c’era qualcosa che non andava. In classe erano in diciotto. Otto maschi, nove femmine e lui. Lì in giardino, però, lui riusciva a contare solo otto maschi, otto femmine e una lucertola: lui.
Ricontò più volte, ma il risultato era sempre diciassette.
“Maestro?” chiese piano. Da quando gli avevano lavato con forza la faccia non aveva più rivolto la parola ai grandi.
Leopardo fece finta di non sentirlo.
“Maestro?” fece un po’ più forte.
Ancora niente.
“Maestro Leopardi!” ’stavolta quasi gridò.
“Cosa c’è?” rispose l’altro, spazientito.
“Manca qualcuno.”
“Ma cosa dici?”
“Manca una ragazza.”
“Ma non dire sciocchezze, ci siamo tutti, guarda tu stesso.”
Allora il Bambino Lucertola ricontò, ma il risultato fu ancora diciassette.
“Continua a mancare una ragazza, maestro.”
Il maestro parve spazientito, ma a quel punto s’intromise Camilla.
“Maestro, Lucertola ha ragione, manca Martina!”
“Come?” Il maestro sbiancò.
I bambini si agitarono e iniziarono a gridare il nome della compagna scomparsa.
“Martina!”
“Martina dove sei?”
Anche le altre classi si accorsero del trambusto e tutti insieme si misero a cercarla.
“Aspettate!” Il Bambino Lucertola aveva l’udito più sviluppato degli altri e sentiva un rumore strano. “Sento qualcosa!”
“Che cosa?”
“Come un battere sui vetri.”
Alzarono tutti lo sguardo e, infatti, Martina era dietro le finestre dell’aula di informatica. Stava battendo le mani sui vetri delle finestre. Sembrava stesse piangendo disperata.
“Oh mio Dio!” gridò il maestro Leopardi, che svenne subito.
“Cosa facciamo?”
“Dobbiamo aspettare i pompieri!” disse uno.
“No, meglio la polizia.” disse un altro.
“La guardia nazionale!” rispose un terzo.
“Perché non la nazionale di calcio?”
Tutti stavano a cincischiare su chi dovessero aspettare per salvarla, ma se non si faceva qualcosa subito Martina si sarebbe abbrustolita come una castagna.
Il Bambino Lucertola si tolse in fretta le scarpe e anche i calzini bucati. Corse fino al muro esterno dell’edificio e posò mani e piedi sulla parete. Il cemento era caldo sotto i palmi e lui si sentiva particolarmente bene.
Iniziò la scalata e in breve tempo arrivò fino all’ultimo piano, dove c’era la classe di Informatica.
Martina continuava a battere sui vetri. Lui tentò di forzare la finestra ma non si apriva. Evidentemente il caldo l’aveva fatta allargare.
Allora continuò la salita, arrivò al tetto e aprì una delle botole che davano sui corridoi. Saltò giù e corse, in mezzo al fumo, fin da Martina. Una volta raggiunta le tese la mano e lei nemmeno si accorse delle scaglie che gli ricoprivano le dita. Lì, tra il fumo e il fuoco che si stava avvicinando, il Bambino Lucertola pareva un eroe.
Arrivati sotto la botola, il Bambino Lucertola le disse di abbracciarlo forte. Lei non se lo fece ripetere due volte. Lui saltò sul tetto, si spostò verso il muro e incominciò a scendere.
Martina gli stava appesa sulla schiena come uno zaino un po’ pesante, ma aveva smesso di piangere
Quando toccarono terra, lei scivolò giù e si mise a piangere di contentezza. Non aveva mai pensato di poter finire arrosto e nell’aula di informatica aveva avuto davvero paura.
Per fortuna il Bambino Lucertola non si era messo a chiacchierare ed era venuto a salvarla. E per fortuna che il Bambino Lucertola era fatto proprio così, come una lucertola, perché se fosse stato un bambino normale lei sarebbe rimasta intrappolata.
Gli disse grazie quasi sussurrando e gli fece un piccolo sorriso.
Lui la prese in braccio e la portò dagli altri compagni.
Il maestro Leopardi rinvenne giusto per vedere Martina sorridere e, per la gioia, svenne di nuovo.

 

5

Fecero una grande festa.
La fecero a Marianna. Perché era viva, per fortuna.
E la fecero anche al Bambino Lucertola, che per fortuna era il Bambino Lucertola.
Ci fu musica, tanto cibo e perfino lunghi discorsi.
Il Preside gridò al miracolo e disse che il Bambino Lucertola era un angelo e che doveva essere trattato da eroe.
Arrivò perfino il Sindaco che gli diede una bella medaglia al valore. Era dorata e luccicava quasi quanto lui.
Poi fu il turno dei genitori di Martina. Lo abbracciarono forte e lo bagnarono con un mare di lacrime. Gli avevano preso un po’ di giochi per ringraziarlo, ma il regalo più bello glielo portò Martina stessa.
Arrivò sul palco vestita di un abitino bianco e leggero come una nuvola. Gli saltellò vicino e gli diede un bacio sulla guancia.
“Sei stato il mio eroe.” disse.
Lui rimase zitto, perché non sapeva bene come si risponde a un bacio.
In fondo, pensava, aveva solo scalato un muro. Lui era bravo a scalare i muri.
“Senza di te, probabilmente sarei rimasta in quell’aula.”
Continuò a rimanere in silenzio.
“Per questo ho pensato a un regalo per te.”
“Che tipo di regalo?” Era la prima volta che il Bambino Lucertola le parlava. A lui piacevano molto i regali perché nessuno, fino a quel giorno, gliene aveva mai fatti.
“Un nome.”
“Un nome?”
“Sì, un bel nome nuovo, così sapremo come chiamarti quando ti chiederemo di giocare con noi.”
Il Bambino Lucertola rimase di nuovo in silenzio. Non sapeva se essere più felice per il nome nuovo o per il fatto che lo avrebbero fatto giocare. Non sapeva davvero cosa dire!
“Non vuoi sapere di che nome si tratta?”
Il Bambino Lucertola annuì.
“Clark.”
“Clark.” Ripeté il bambino.
“Sì, come Clark Kent. Superman! Ti meriti un nome da supereroe!”
Wow, si chiamava come Superman!
A quel punto la folla di bambini e genitori presenti si misero ad esultare.
“Evviva Clark, evviva Clark!”

Quella note, Clark non riuscì a dormire.
Tutto sembra troppo bello per essere vero e aveva paura si trattasse solo di un sogno.

 

6

Il giorno dopo andò a scuola e appena entrò in classe tutti si misero a salutarlo.
“Ciao Clark.” disse Claudo.
“Ciao Clark” ripeté Jenny.
“Hai studiato per la verifica di storia?” gli chiese curioso Roberto. “Perché io non tanto.”
“Io… sì, ho studiato.”
“Bene, allora suggeriscimi qualche risposta, per favore.” E gli sorrise.

Da quel giorno in poi tutto cambiò. Si sentiva finalmente felice.
A ricreazione giocava a calcio come arbitro, così non importava se era troppo lento o troppo luminoso. Oppure faceva il supereroe che salvava i gattini immaginari delle bambine, perché nessun’altro era bravo quanto lui ad arrampicarsi sugli alberi.
Di pomeriggio andava a studiare a casa di Martina o di Roberto, che erano diventati i suoi migliori amici. Giocavano a tanti giochi che non aveva mai visto e mangiava merende golosissime.

Arrivò Natale.
A Babbo Natale non aveva chiesto nulla, perché era felice così, ma un regalo arrivò lo stesso.
Si trattava di una coppia di giovani sposi che volevano un bambino. Avevano scelto lui tra tutti quelli che vivevano all’orfanotrofio.
Si sentiva estremamente felice.
“Come mai avete scelto proprio me?” chiese un giorno al suo nuovo papà.
“Perché sei tu.”
Clark non capì molto bene.
“Cosa?” chiese.
“Perché sei tu. Sei sempre rimasto te stesso.”
Clark continuava a non capire, allora s’intromise la nuova mamma.
“Ti abbiamo scelto perché non sei come gli altri.”
“Sono un mostro, infatti.”
“No, sei speciale. E lo hai dimostrato. Sei sempre rimasto te stesso e hai agito come pensavi fosse meglio agire. E sei diventato un eroe.”
Allora il Bambino Lucertola, che ora si chiamava Clark, capì che essere diverso era bello, perché ogni bambino è diverso dagli altri. Ognuno ha una caratteristica speciale che lo rende inconfondibile. E lui fu felice di avere squame d’argento, nuovi amici e una bella famiglia.

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Capitolo 6
*** Il bambino fatto di melma ***


IL BAMBINO FATTO DI MELMA
 
 

Il bambino fatto di melma sporcava sempre dappertutto, e questo era un gran problema! Non per i suoi amici, certo, quanto piuttosto per le bidelle.
Non si sapeva bene da dove fosse uscito, questo ragazzino marrone e gocciolante. Fin dal suo primo giorno di scuola, però, fu chiaro a tutti che gli stracci in dispensa non sarebbero bastati per renderlo pulito, o per rendere puliti i corridoi dove passava. Oh! Le bidelle tentarono di tutto per tenere linda la struttura, e infatti un così nevrotico lavorio non lo si era mai visto in una scuola. Solo che non si faceva in tempo a levare la fanghiglia da un corridoio, che subito ricompariva il ragazzino e bisogna ricominciare da capo.

I suoi compagni lo trovavano divertente. In aula aleggiava perpetuo un profumo di bosco in autunno e fuori potevano saltare sulle pozzanghere che il bambino fatto di melma si lasciava dietro. Era poi divertentissimo vedere quel compagno bizzarro alla lavagna, impegnato a risolvere un calcolo. Oh, lui era intelligentissimo, ma la sua mano gorgogliante faceva molta fatica a tenere il gesso e quando si agitava, il bambino fatto di melma si metteva involontariamente a spruzzare acqua putrida a destra e a manca. Il registro e il tailleur panna della maestra Bianca ne sanno qualcosa.

Era un bambino difficile da gestire, ecco. O, almeno, questo si sussurravano docenti e genitori. I bidelli avevano rinunciato già da qualche settimana a tentare di risolvere la situazione e la scuola era diventata una sorta di palude.
I bambini non erano mai stati così contenti di andare a imparare. Sarebbero rimasti in quell’edificio umido e gocciolante tutto il giorno, se solo avessero potuto.

Il bambino fatto di melma non era contento come i suoi amici, però. Perché il non riuscire a tenere bene il gesso non lo faceva davvero divertire. Non la decima volta che succedeva. E anche perché la mamma, ogni volta che lo abbracciava, si sporcava tutta. Lei non diceva niente e anzi sorrideva, ma lui vedeva quell’alone marrone sulla tuta, o sulla giacca, o sulle guance, e allora gli veniva da piangere. Solo che nessuno lo capiva che stava piangendo. L’acqua delle lacrime si confondeva con l’acqua e la terra del viso.

Per ovviare alla sua situazione, il bambino fatto di melma aveva tentato di incartarsi nel cellophane. Aveva preso un rotolo nuovo, di quelli da cinquanta metri, e aveva tentato di srotolarselo addosso. C’aveva messo quasi una giornata intera, ma alla fine i risultati furono deludenti.
Aveva pure provato con una sorta di tuta di plastica, di quelle usate in laboratori contenenti sostanze pericolose, ma niente. Si sentiva soffocare, o ribollire, o tutte e due le cose.

Poi, un bel giorno si svegliò pensando di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Mamma, papà e bidelli vari avevano sempre cercato di fare delle spugnature per togliere quel sudiciume, sempre senza successo. Ma se invece di qualche spugna o un paio di stracci si fosse fatto una bella doccia? Come mai tutti erano stati così sciocchi da non proporgliela?
Il bambino fatto di melma era contentissimo, sicuro di aver trovato la giusta via. Corse allora fuori in giardino, agguantò il tubo che usava suo papà per annaffiare il giardino e aprì il rubinetto dell’acqua alla massima potenza, puntandoselo addosso.

Dopo pochi minuti la melma non c’era più. E nemmeno il bambino.

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