I hitched a ride with my soul.

di Part of the Masterplan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Where did it all go wrong? ***
Capitolo 2: *** You'll never forget my name. ***
Capitolo 3: *** We'll find a way of chasing the sun. ***



Capitolo 1
*** Where did it all go wrong? ***


“Vieni con me, ti faccio vedere dove puoi lasciarla.”
La giovane dottoressa dai capelli scuri che tiene tra le braccia un fagottino di coperte colorate obbedisce a testa bassa agli ordini di Meg e scompare dalla mia vista senza degnarmi di uno sguardo, mentre richiudo alle mie spalle la porta di casa sentendo scemare il rumore dei flash impazziti dei fotografi.
Fottetevi tutti, idioti.
Ho un gran mal di testa, come un cerchio che preme senza sosta sulle tempie e sugli occhi, eppure almeno per oggi non ho una sbronza alcolica da smaltire. Forse è stata la puzza di medicinali di quella clinica che, contando tutti i soldi che ci abbiamo lasciato, dovrebbe profumare di paradiso, non di disinfettante. Ti si infila nelle narici, come quell’insopportabile odore che c’era in quella stanza d’ospedale di Manchester, dove ho passato tante notti con una chitarra e gli occhi ossessivamente piantati su uno scricciolo di donna immobile a letto. Ricordavo che a volte fissavo lo sguardo sul suo petto per sincerarmi che stesse respirando, che non decidesse di farmi lo scherzo peggiore che avrebbe potuto fare: abbandonarmi e non tornare mai più.
Premo con decisione sulle palpebre chiuse e tutto diventa nero, una dimensione senza spazio e tempo che vorrei raggiungere fisicamente e in cui vorrei dormire per settimane. Mi hanno detto che tutto sarebbe cambiato, diventando padre, ma io per ora non vedo altro cambiamento che una cazzo di sconosciuta in giro per casa mia con in braccio mia figlia e troppo casino intorno. E’ troppo chiedere un po’ di fottuta pace?
“Arrivederci, signor Gallagher. E congratulazioni!” squittisce la voce della donna in camice bianco alle mie spalle che, recepito il mio grugnito, esce per sempre da casa mia e anche dalla mia vita, spero. Che non si aspetti di tornare qua a fare una visita guidata delle stanze, cazzo.
Sento il rumore dei tacchi di Meg procedere nella stanza sopra a questa, scendere le scale, dal fondo del corridoio avvicinarsi a me. Istintivamente muovo lo sguardo oltre la mia spalla destra, dove riesco a vedere l’arco che si apre sulla cucina, quell’angolo di muro da cui una mattina si sporse con i capelli arruffati e intercettai il suo viso curioso e preoccupato, prima che Meg e Melissa iniziassero a stuzzicarla con battutine e interrogatori a cui lei ha sempre risposto a modo.
Daddy, la piccola sta dormendo.”
Le sue mani stringono le mie spalle e le labbra baciano la mia guancia con forza. Daddy. Quante volte quella parola ha trillato in giro per le stanze e i locali, quando lei e Liam si incontravano, si correvano incontro abbracciandosi come se non si fossero mai visti prima, scambiandosi un tenero bacio sulle labbra. La prima volta che li vidi avrei voluto spaccare in faccia a Liam la sua chitarra acustica del cazzo. Lo presi per un braccio, stringendo il suo parka sopra il gomito e lo strattonai lontano dalla folla. “Che cazzo ti passa per la testa? Perché la baci?” la indicai in lontananza, mentre sorrideva e lasciava la traccia di rossetto scarlatto sull’orlo del bicchiere.
Calm down, knobhead.” mi rise strafottente in faccia, soffiando il fumo dalle labbra “E’ come se fosse mia sorella, non c’è niente che non vada.”
In effetti, riguardandoli con disprezzo dietro gli occhiali da sole, non c’era niente di passionale, sensuale o ambiguo in quel bacio. Era come una carezza, un gesto affettuoso tra due ottimi amici che ogni volta che si incontravano si chiamavano “daddy” e “auntie” dopo la nascita di Lennon. Che cazzo di nome, Lennon. Il baratro dell’ossessione non ha mai fine.
“Mi hai sentita?”
Annuisco distrattamente, rivedendomi davanti quegli abbracci sinceri, quelli che io non riuscivo più a darle, quelli in cui lei era capace di trovare conforto e casa perché io non c’ero più, lontano e perso. L’avevo lasciata da sola, a metà strada chissà dove, al buio. Volevo che quelle labbra fossero mie e non per farci sesso, ma per ritrovare in lei quello che io avevo lasciato indietro, perché per me lei era come quella cazzo di pensilina della fermata dell’autobus quando piove e cerchi riparo. Avrei voluto che quei gesti di affetto fossero per me, per sentirmi accettato e non solo spremuto dalla macchina che mi dà soldi a palate.
“E’ bellissima.” continua Meg prendendo posto vicino a me, affondando nel divano e mettendo una mano sulla mia gamba “Siamo genitori, ti sembra possibile?”
“Contando che ne parliamo da nove mesi, sì.”
Meg scuote appena la testa, un’espressione amara le si dipinge sul volto stanco, che oggi ha sopportato il travaglio, il parto e l’emozione di essere madre. Faccio per alzarmi, ma la sua mano fa pressione sui miei jeans. Cerco il suo sguardo e capisco che non si limiterà a quello, ma inizierà a rimproverarmi qualcosa. Ne approfitto, comunque, per alzarmi in piedi.
“La smetterai ora che c’è Anais, vero?”
“Di far cosa?” domando insofferente.
“Di stare nel tuo mondo, chissà dove. Di non riuscire neanche a stare seduto con me sul divano, di dover sempre scappare. Abbiamo una figlia, Noel.”
“Non rompermi i coglioni almeno oggi, Meg.”
Cammino spedito verso le scale e salgo al piano superiore, mentre il suo grave sospiro risuona nel salotto.
Pensavo fosse molto più facile. Insomma, con lei mi trovavo bene, ci divertivamo, era una di quelle con i contatti giusti e l’inclinazione alle feste folli, le ho dedicato Wonderwall. L’ho scritta pensando a lei? No, non credo, e mi sorprendo a sorridere tra me e me, rispondendo a questa domanda. No, non pensavo a lei. Però gliel’ho dedicata, perché in fondo quelle parole potevano essere il tentativo di dirle “Ehi, Meg, sono una testa di cazzo, ma non sono poi tanto male.” E poi è arrivato tutto di colpo. Una canzone, la convivenza, il matrimonio, la gravidanza, la nascita di Anais questa mattina. Quando sei sulla giostra e non puoi fermarti, perché sadicamente continua, ruota, su e giù, giù e su e come fai a scenderne se non arrendendoti. E con la casa anche i soldi, e con quelli tutta la droga che ci siamo fatti.
Supero la camera da letto degli ospiti, arrivo alla nostra e apro con cautela la porta. La maestosa culla troneggia ai piedi del matrimoniale, su cui mi siedo osservando rapito questa neonata che dorme pacificamente. Sono suo padre. Su questo letto ho rischiato l’overdose, in questo letto per l’ultima volta, si è aggrappata a me con la vana speranza che ne saremmo usciti indenni. Ne siamo usciti devastati, a pezzi, senza istruzioni per tornare ciò che eravamo. Mi ha rivoltato l’anima e, a pensarci bene, mi ha lasciato per sempre proprio stamattina.
Ripenso alla prima volta che la vidi con in braccio Lennon, a quanto fosse bella, all’espressione dolce con cui guardava quel bimbo e gli sussurrava cose buffe all’orecchio. Avrei voluto che quel bambino fosse Anais e che la madre fosse lei, perché solo così ci saremmo salvati da noi stessi, rimanendo uniti.
Il cerchio alla testa è sempre più insopportabile, vado in bagno e mi appoggio al lavandino guardando il mio volto riflesso nello specchio, stanco e nauseato come sono abituato a vederlo da un po’ di anni a questa parte. Quando dormiva in questa casa la mattina mi piaceva rimanere a letto, succube della sbronza, e con gli occhi socchiusi sentirla muoversi in bagno, aprire l’acqua, struccarsi, raggomitolarsi nell’asciugamano profumato e poi venire a sedersi a gambe incrociate sul letto accanto a me. Rimaneva a guardarmi e io la sentivo respirare silenziosamente.
Apro il rubinetto e lascio impetuosamente scorrere l’acqua sulla superficie di candida ceramica, mentre la fisso gorgogliare. Se n’è andata, trincerata dietro a quegli occhiali scuri, all’impassibile e fredda espressione che le deformava il volto ogni volta incontrasse il mio. Ha avuto paura di me, anche se per un solo secondo, ma ha avuto paura, quando le urlavo addosso e quando le affibbiavo colpe che avrei solo dovuto vomitare su uno specchio guardandomi. Non volevo che quegli occhi andassero via e invece ho ottenuto il contrario. Non è capace di aspettare e guarda indietro con rabbia, so che lo sta facendo.
Un leggero tocco sulla porta mi scuote. “Tutto bene, Noel?”
“Sì. Lasciami da solo.”
“Cosa c’è che non va?”
Sento che appoggia la mano alla maniglia, ma almeno ha il buon gusto di non aprirla.
“Non c’è un cazzo che non va. Fammi un gintonic.”
“A quest’ora?”
“Meg, chiudi quella cazzo di bocca e fammi un gintonic, per favore.”
Si allontana spedita, probabilmente indirizzandomi un insulto.
Se n’è andata per sempre, questa volta in maniera definitiva. Nella casa sua e della yankee è rimasto solo uno scatolone con dei vecchi giornali. Eppure ogni lavoro di grafica che ci riguardi, qualunque cosa non coinvolga direttamente la musica… Lei è lì, si percepisce l’energia che ci metteva, si sente che ha voluto davvero lasciare tutto in perfetto ordine prima di salire su quella macchina dai vetri oscurati.
L’acqua ghiacciata mi anestetizza i polpastrelli e mi passo le dita sul volto, sfregando gli occhi rossi.
Lei cercava quello che aveva perso – me – nelle altre persone, nell’affettuosità che tutti, dal primo all’ultimo, le mostravano, negli abbracci, nel riconoscimento del lavoro, nelle battute, in una lattina di birra quando i roadie smontavano gli strumenti e lei si accoccolava sul bordo del palco immerso nel buio a fissare la location ormai deserta. Quando, passando nel backstage, la vedevo rannicchiata là con il cappuccio sulla massa di onde bionde e le spalle strette, pensavo a quanto fosse bella e dannatamente malinconica e a quanto il tempo fosse passato: fino a dieci anni fa quei momenti li condividevamo insieme, spalla contro spalla. Fu la prima a salire sul palco di Maine Road, appena un passo dietro a me, a osservarmi in ogni movimento o smorfia. Tutto quello che non aveva con me, lo aveva frammentariamente dagli altri. Io, al contrario, tutto ciò che non avevo con lei lo trovavo nella mia chitarra e nella cocaina. Forse per questo lei ha retto meno di me, le mancava quella merda di polverina bianca a farle staccare il cervello.
Mi ha detto che mi amava, quella sera, e io cosa ho fatto? Ho finto di non aver sentito, autolesionista coglione.
“Il tuo gintonic è pronto.” Mi avvisa Meg, fredda.
Appoggio l’orecchio alla porta sentendola cullare Anais e uscire dalla stanza dopo poco e solo quando se ne va, rientro in camera da letto, prendendo tra le mani il bicchiere e sorseggiandone avidamente il contenuto.
Temevo i suoi occhi e contemporaneamente mi ci ritrovavo, perché solo lì le mie insicurezze venivano capite e placate, solo lì sentivo di poter andare a prendermi tutto, solo lì ero amato visceralmente in quella maniera che marchia con sangue e le lacrime. A lei ho dedicato canzoni e album interi, eppure non mi ha mai chiesto niente. Era naturale, quando prendevo in mano quella chitarra, che il nostro mondo fosse l’ispirazione, che la sua voce fosse quella che mi faceva capire che guardando indietro tutto aveva senso e che oltre al cinismo, devi avere le palle per amare.
Io, codardo, ammetto solo ora, seduto a fissare un disincantato pomeriggio grigio londinese con un gintonic in mano, che da cinico stronzo quale sono le palle non le ho avute.
E lei non è stata da meno.
Se è vero che siamo fatti della stessa cosa, siamo arrivati al punto in cui siamo solo nebbia e rancore. Mi sento improvvisamente vecchio e mi chiedo quanto era bello essere innocenti, poveri e scapestrati a Burnage, in quelle notti che ti tagliavano il viso dal freddo e la sua pelle calda e arrossata era peggio di una botta di LSD.
Il telefono in camera suona, allungo una mano sollevando la cornetta prima che Anais si svegli e sottovoce rispondo. “Chi è?”
“Noel, sono la mamma.”
Sospiro. “Ciao, mum.”
“Ciao, Noel. Scusa se ti chiamo solo adesso, ma ho appena terminato la chiamata con Lily, è andata all’aeroporto a salutare Sally, partiva per San Francisco.”
Allora la meta era davvero San Francisco. Tra tutte le città possibili, proprio quella, che ha significato così tanto, che è stata l’inizio di quel qualcosa che non riesco ancora a togliermi dalle spalle. Era così maledettamente forte, nonostante sembrasse vulnerabile e senza difese. Aveva difeso se stessa, me, gli Oasis.
“Noel,” continua mia mamma, ignara dei voli suicidi che la mia mente fa nei ricordi “come sta?”
“Chi?” domando. Il mio sguardo fissa un cubetto di ghiaccio che si scioglie pian piano, una goccia di condensa che scivola sulla superficie del bicchiere. Nel momento stesso in cui pongo la domanda, mi rendo conto di quanto sia tutto sbagliato.
“La piccola, Noel! Tua figlia! Anais! Cosa diavolo hai che non va?”
“Oh sì… Lei… Lei sta bene, è molto bella.”
“Verrò presto a trovarla.”
Continua a parlare, non la ascolto, come quando sniffavo la colla e stavo ore seduto immobile in soggiorno sul divano e mia mamma pensava fossi preoccupato per la scuola.
Se n’è andata per sempre, dall’altra parte del mondo. Mi ha lasciato qui, solo, senza i suoi capelli biondi, il suo accento mancuniano, i suoi rimproveri e l’odore di Benson così familiare.
 
I hope the tears don’t stain the world that waits outside,
Where did it all go wrong?

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Capitolo 2
*** You'll never forget my name. ***


“Puoi farla addormentare? Ho davvero bisogno di una doccia.” Meg distende le braccia verso di me porgendomi Anais, dolcemente avvolta in una copertina bianca, che mi fissa con gli occhioni azzurri spalancati. Annuisco, assecondandone il movimento e stringendola delicatamente a me, la sua pelle profuma di vaniglia e un risolino proviene dalle piccole labbra rosee socchiuse.
Meg mi passa una mano tra i capelli, appoggiando il viso sulla mia spalla “E’ sempre più bella.” Commenta in modo pacato.
“Già.” sorrido “Vai a riposarti, ci penso io ad Anais.”
Le bacio la fronte e, dopo essersi fermata ancora un attimo ad osservare nostra figlia, si allontana verso le scale. Fuori il sole di marzo, ancora debole e freddo, illumina di una luce verdognola il paesaggio e cullando la piccola tra le braccia, accendo la radio regolandone il volume. La stazione della BBC sta passando i Chaka Demon and Pliers, in un moto di stizza mi lascio scappare un insulto per il quale mi scuso con mia figlia con lo sguardo. Cammino, avanti e indietro per la cucina, canticchiando melodie casuali, senza nessun collegamento tra loro senza che siano canzoni mie, sono solo il libero ragionare ad alta voce di uno che ha la musica in testa ogni ora di ogni giorno della sua vita. Anais è silenziosa, mi osserva con gli occhi socchiusi, a volte temo che possa capire cosa mi corre nel cervello.
E’ uno dei primi giorni dall’uscita dell’album che riesco a stare a casa con la mia famiglia, ma tra poco ci saranno grandi novità, suoneremo a Wembley, inizierà un nuovo tour, ho già metà delle canzoni pronte per il prossimo lavoro, forse riempirsi la vita di cose da fare bulimicamente aiuta.
Avrei sempre voluto una sorella più piccola. Guardando i capelli biondi della mia bambina, non posso fare a meno di ricordare quando un pomeriggio di parecchi anni fa ricevemmo una telefonata a casa, avevo quattro anni. Mia mamma rispose in maniera ansiosa ma allegra, come quando attendi una notizia impazientemente e non riesci a trattenerti. “E’ nata una bimba, Noel, andiamo a trovarla!” mi disse prendendomi per mano e passandomi il giubbottino di jeans, l’aveva già preparato sulla sedia vicino alla porta. Ricordo il dettaglio di quella mano snella ma forte che lo afferrava e me lo porgeva. Fuori, quel giorno, faceva caldo, non c’era una nuvola. Avevo il mio Action Man con me, per far vedere anche a lui chi fosse arrivato, come fosse quella bambina. Si chiamava Ben.
“Può essere mia sorella, mamma? Io voglio una sorellina.”
Sorrise, camminando spedita “Se lo vuoi, sarà come tua sorella.”
“E come si chiama?”
“Si chiama Sally.”
Sally, Sally. Quel nome non accennava a togliersi dalla mia testa. Era un bel nome, aveva una musicalità, un senso, che anche se non riuscivo a spiegare – e se non ci riesco adesso, non ce l’avrei fatta sicuramente a quattro anni – mi era chiarissimo. Quel nome, come se fosse l’unico nome capace di dirmi qualcosa, era quello della nuova creatura che sarebbe potuta essere come mia sorella.
In quella casa, che negli anni seguenti ho imparato a conoscere tanto bene da dormirci e intrufolarmici di nascosto a qualsiasi ora del giorno e della notte, c’era ancora un fottuto coglione stravaccato sul divano a guardare in un misto di timore e attrazione Lily che aveva tra le braccia quella piccola bimba dalla carnagione di porcellana. Aveva un vestito verde acqua che arrivava al ginocchio e guardava quella piccola creatura con tutto l’amore che gli occhi di un bambino di quattro anni avrebbero potuto cogliere. Me la porse, rimasi a guardarla, totalmente rapito mentre quegli occhi scuri mi fissavano, mi guardavano come se potessi dirle qualcosa, svelarle un segreto, farla ridere. Quelle due perle scure si aspettavano qualcosa da me, chiedevano e pretendevano tutto.
Non hanno mai smesso di farlo.
Più o meno un anno dopo nacque Liam e io proprio non lo volevo intorno. Mentre lui frignava tutta la notte e mia mamma non chiudeva occhio, e così anche io e Paul, pensavo al biondo di quei capelli, a come ci si infilava la luce, tra quei boccoli ribelli. Più passavano gli anni, più la vedevo crescere, anche se sempre un po’ a distanza a causa di quei quattro anni di differenza che, entrato nell’adolescenza, si fecero sentire. I problemi a scuola, quelli con nostro padre, le prime sbronze e il fatto che lei fosse legatissima a Liam. Loro erano davvero come fratello e sorella e ciò che più mi faceva incazzare è che l’unica che sarebbe potuta essere la sorella che non avevo mai avuto, lo era in realtà di un fratello che non avevo mai chiesto. Ci perdemmo per qualche tempo, ma capitava che lei venisse a casa nostra nel pomeriggio per studiare con mio fratello e io tornassi dal lavoro trovandoli a scambiarsi effusioni che mal sopportavo. Ero geloso di qualcosa che sentivo come estremamente vicino a me, nonostante in realtà fosse tutto solo nella mia mente. Il nostro punto d’incontro divenne presto la musica. I cd, i vinili, le cassette, i concerti a Manchester. Le birre che compravo io anche per lei, gli spinelli che condividevamo spesso in silenzio, non avevamo molto da dirci. Quegli occhi chiedevano sempre di più e lei era sempre più vera, viva, davanti a me. Donna.
Il fatto di vederla crescere con le sue debolezze ma soprattutto con i suoi punti di forza e di ragionarci su, come se fosse un processo che mi coinvolgeva, perché con quegli occhi pieni di determinazione lei aveva guardato solo me. Era sempre così, come se da me volesse di più. A me non chiedeva di passarle l’acqua durante i pranzi insieme, non domandava una sigaretta o non rimaneva a ridere sul ciglio della strada. No. A me chiedeva perché avevano ucciso Lennon, mi rubava le Benson quando mi addormentavo e si faceva accompagnare a Sifter per comprare i cd con i soldi che risparmiava meticolosamente. Quel pezzo di strada fatto insieme era sempre un po’ imbarazzante, un imbarazzo insicuro che arrossisce, perché non capivo che diamine pretendesse da me. Non ero mio fratello, ma cosa si aspettava davvero?
Nonostante i quattro anni di differenza e il fatto che lei fosse più piccola, riusciva sempre a far sentire la gravità del suo sguardo su di me, quello che con il passare del tempo si caricò di sensualità, di rabbia, di determinazione, di fiero orgoglio. Da quella bambina che mi tirava l’orlo della maglia perché ordinassi a Liam di smetterla di darle i pizzicotti, ora c’è una bellissima donna dal carattere multiforme, volubile. Eppure quei cazzo di occhi non sono mai cambiati. Vogliono di più, vogliono tutto.
Anais si è addormentata, ma la tengo tra le braccia ancora un po’, è come se mi rassicurasse averla qui e sapere di potermene prendere cura.
Vicino alla finestra, una copia di Rolling Stone America, un nome nel reparto dei fotografi che sembra inciso con il fuoco su quella pagina. Sally. Rimbomba nella orecchie come la prima volta.
Spike ha preparato per lei uno scatolone in cui ha messo di tutto, copie di giornali per cui ho fatto interviste che neanche ricordavo. Liam era eccitatissimo, autografava tutto quello che gli capitava a tiro scrivendole frasi sempre diverse, mentre fumavo una sigaretta appoggiato al muro.
“Non firmi niente, Noel?”
E’ bastato uno sguardo per far capire a tutti che avrebbero dovuto lasciarmi stare. Non si è nemmeno degnata di salutarmi, prima di andarsene. Andarsene per sempre, con un taglio netto per recidere tutto, cosa mi sarei dovuto aspettare.
Mia figlia ha due meravigliosi occhi azzurri. Sono belli, sono attenti, sono sempre alla ricerca di qualcosa. Ha anche dei capelli biondi che sembrano di seta, e più la guardo, più mi chiedo come sarebbe stato. Se fosse andato tutto diversamente, se non ci fossimo mai separati o se non ci fossimo mai avvicinati.
Mi va stretto tutto questo. Devo tornare su quel palco, sbronzarmi un po’.
Il nuovo fotografo è un ciccione del cazzo che cammina avanti e indietro, mi fa venire il mal di testa. Bastava rannicchiarsi in quella posizione un po’ isolata, stringere le spalle e scattare. Perché a lei non ci voleva così tanto?
Do un bacio sulla fronte di Anais che sospira lentamente, sento il suo corpicino muoversi al ritmo del respiro attraverso la coperta che poggia sui miei avambracci.
Lei non ha mai avuto un padre che la stringesse e le dicesse che le voleva bene davvero e l’avrebbe meritato. Eppure con le nostre famiglie un po’ disastrate, che quasi non sembravano famiglie, siamo cresciuti con l’amore di chi ti è accanto e soffre come te e nasconde i soprusi dietro gli occhiali da sole e un gintonic di troppo.
“Come dorme la nostra piccola.” Meg è tornata dalla doccia, mi chiedo quanto tempo io sia stato qui in piedi vicino alla finestra.
“Era stanca.” sorrido.
Mia moglie la prende dalle mie braccia annunciandomi di portarla nella culla per farla riposare in pace in camera da letto. Mentre si allontana, raggiungo il giornale, lo sfoglio dal fondo alla prima pagina, avidamente e velocemente, con rabbia. Una pagina plastificata mi taglia il polpastrello infidamente e mi sfugge un improperio a mezza voce.
Mentre porto l’indice alle labbra, il sapore ferreo del sangue si mischia con la vista di quel nome.
Rimbomba e sibila.
Sally.

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Capitolo 3
*** We'll find a way of chasing the sun. ***


Sono le cinque di mattina, o giù di lì. Non ho molti riferimenti, se non indovinare dalla luce che è mattina presto, e solo qualche macchina passa lenta in strada.
Coricato su un fianco, la guardo rannicchiata nella medesima posizione, quella cascata di capelli biondi sulle spalle e sul cuscino. Mi sembra ancora la bimba che mi si addormentava accanto a me dopo essersi svegliata dagli incubi.
Non ho sonno, a dire il vero sto bene così. L’unica cosa che vorrei fare oggi è starmene qui a guardarla in silenzio, sorridendo per qualche smorfia che fa nel sonno, quando si avventura in quei sogni pazzi che poi mi racconta con gli occhi sgranati. La nostra mente è proprio strana, ripete ogni volta e ogni volta io ne rido. Mi è mancata, mi è mancata davvero. Tante volte mi sono chiesto come sarebbe stato averla di nuovo qui accanto a me, con una mano appoggiata sul mio fianco, fissando il suo corpo così piccolo e perfetto. “Non ho bisogno di altro che una chitarra e la mia immaginazione”, affermavo convinto da quel pagliaccio di Chris Evans, qualche anno fa. In un certo senso è ancora così, ma dopo tutto questo tempo – e tutto quello che ha portato con sé – ho finalmente capito che insieme alla musica, è lei che deve esserci per rendermi felice. Non sono ancora abbastanza maturo per confessarglielo, ma ho capito che ho bisogno di lei. Io, Noel Gallagher, ho bisogno di un altro essere umano per sentirmi completo. Incredibile. Trattengo una risata.
In solitudine ci sono sempre stato bene, perché ero obbligato, perché era l’unica via d’uscita o perché ne sentivo il bisogno. C’è chi la mia solitudine la ringrazia, perché se non mi fossi rotto quel piede e non fossi stato seduto sempre nello stesso posto guardando la pioggia di Manchester, chissà se avrei scritto Live Forever. La solitudine per me non è un problema, anche se dopo tutto quello che è successo negli ultimi anni, ritrovarmi a casa da solo senza casino, gente appesa sui lampadari e modelle che saltavano sul letto un po’ mi è sembrato strano. Strano forse no, ma… Non so, la solitudine ha assunto altri tratti. Come se fosse qualcosa di necessario per riflettere, per pensare, per guardare fuori dalla finestra e lasciare che la mia ispirazione mi parlasse di altro, della mia vita, dell’uomo che ero – o non ero – diventato.
Ho pensato a tutto ciò che ho fatto e al mio modo di rovinare tutto quello che di buono avevo conquistato. Ho rinnegato album e canzoni, ma soprattutto ho rinnegato persone. E non me lo sono perdonato.
Ma io avevo sempre un occhio su questa donna, cercavo sempre in qualche modo di sapere dove fosse e con chi, che fosse da Gem, o da Ourkid – che me lo diceva per poi insultarmi – o dalla yankee, che in tutto questo tempo ha risposto ai miei messaggi in modo diretto e conciso, senza però rivelare niente a Sally. Non le ho chiesto di stare zitta, ma lei l’ha fatto, come se sapesse che era il mio modo di accertarmi che blondie stesse bene. A volte, nelle sue risposte ai miei messaggi – tipicamente “Tutto ok?” – rispondeva con un piglio che sembrava dire “Certo che è tutto ok, idiota senza palle, cosa credi, che senza te non sopravviva?”
E’ che a sopravvivere siamo bravi tutti, ad amare davvero ci vuole forza abbastanza.
Ha addosso la maglietta del tour del 1996, il che mi fa sorridere di nuovo, perché eravamo sull’onda lunga del nostro successo ed eravamo folli, fuori di testa. Ma c’erano dei riti, che fossero fermarla quando lei e i ragazzi si rincorrevano sul tour bus, o prenderle le mano e dirle che volevo andare a casa con lei, o guardarla scattare e fare il suo lavoro con l’ammirazione che vedevo nei suoi occhi quando stavo lì a suonare. E’ una delle cose che ho sempre amato di lei, il suo essere indipendente e orgogliosa e una gran lavoratrice. Sempre con una macchina fotografica in mano, sempre pronta a catturare il suo punto di vista sulle cose. Insisteva molto su questo e spesso ne parlava con Bonehead. Lei era parte del team, ed era in un certo senso il collante in molte situazioni. Lo è ancora ora. Per questo il fatto che se ne sia andata ha portato un peggioramento, una specie di squilibrio: non c’era lei. La sua presenza era una rassicurazione per tutti noi, anche se di fatto non faceva niente di che. Se non essere se stessa. Di lei amo il fatto che ha sempre fatto di testa sua. E più sto qui a guardarla, più penso che tra i due, quella davvero forte, è sempre stata lei, non io. Averla dalla mia parte è una sicurezza, una di quelle che mi sono sentito scivolare via dalle dita quando la cercavo, inconsciamente, tra i corridoi e negli stadi. E lei non c’era. E ogni testa bionda che incrociavo con lo sguardo pensavo “E’ lei, questa volta è lei.” Invece no. Irremovibile. Lei non c’era.
Questa sera ho chiuso il mondo fuori dalla porta e sono tornato a essere invincibile, addirittura felice. Perché so che la amo, perché ho di nuovo i suoi capelli biondi accanto e quel sorriso che potrei rimanere ore a descrivere. Perché stare a guardare fuori dalla finestra è la cosa che amo fare di più al mondo, ma guardare lei lo è ancora di più.
Perché Sally ha sempre aspettato, ma a non guardare al passato con rabbia, io ho imparato da lei.

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