Evernight | Larry Stylinson

di AriaAuditore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La freccia infuocata si infilò nella parete con un rumore sordo.

Fuoco. Il legno vecchio e secco della sala delle assemblee si infiammò in un istante. L'aria si saturò di fumo scuro, oleoso, che mi irritò i polmoni e mi costrinse a tossire. Tutt'intorno,  i miei  nuovi amici gridarono sorpresi, poi afferrarono le armi, pronti a combattere per la propria vita.

È tutta colpa mia.

Una dopo l'altra, le frecce fendettero l'aria e andarono ad alimentare le fiamme  sempre  più alte. Nella coltre di fuliggine, cercavo disperatamente gli occhi di Harry. Sapevo che mi avrebbe protetto a ogni costo ma anche lui era in pericolo. Se gli fosse successo qualcosa mentre cercava di salvarmi, non me lo sarei mai perdonato.

Mentre tossivo per via dell'aria densa, strinsi la mano di Harry e scattai con lui verso la porta. Ma ci aspettavano.

Una fila di sagome scure e torve si stagliava in controluce davanti alle fiamme, appena  oltre la soglia della sala delle assemblee. 

Nessuno di loro brandiva armi; non ce n'era bisogno, le loro intenzioni erano chiare anche senza.

Erano venuti a prendere me. Erano venuti a punire Harry per aver infranto le loro regole. Erano venuti per uccidere.

Tutto questo sta succedendo a causa mia. Se Harry muore, sarà mia la colpa.

Impossibile fuggire o trovare un rifugio. Non potevamo restare là, tra le fiamme urlanti che ci circondavano, già così calde da scottarmi la pelle. Presto il soffitto sarebbe crollato e ci avrebbe schiacciati tutti.

Fuori, i vampiri aspettavano.

*****
Spazio autrice 
Ecco il prologo della storia, ho già pronti alcuni capitoli, ma aggiornerò solo se la storia avrà abbastanza visite. 
Dedico questa storia a Venere DG, mia fedele compagna di letture, e vi auguro buona lettura :)

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


 
 
Era il primo giorno di scuola, cioè la mia ultima occasione di fuga.

Non avevo un equipaggiamento da sopravvivenza a riempirmi lo zaino né un portafogli gonfio di banconote con cui comprare un biglietto aereo a caso, né un amico che mi aspettava dietro l'angolo al volante di un'auto rubata, pronto a scappare. In due parole, non avevo quello che la gente sana di mente chiamerebbe "un piano".

Ma non mi importava. Per nulla al mondo sarei rimasto all'Accademia di Evernight.

La luce smunta del primo mattino screziava appena il cielo, mentre indossavo i jeans e afferravo un maglione nero pesante: a quell'ora sulle colline persino a settembre si gelava. Sistemai i capelli in un ciuffo improvvisato e infilai gli scarponcini da trekking. Mi sembrava importante muovermi in silenzio, sebbene non dovessi preoccuparmi granché di svegliare i miei genitori. Dire che non fossero mattinieri è riduttivo. Avrebbero dormito come ghiri fino  al segnale della radiosveglia, al quale mancava un altro paio d'ore.

Quanto bastava ad assicurarmi un buon vantaggio.

Fuori dalla finestra della mia camera, il gargoyle di pietra mi guardava fisso, la bocca aperta in un ghigno incorniciato dalle zanne. 

Afferrai il giubbotto di jeans e gli feci una linguaccia.

—  Forse a te piace bazzicare la Fortezza dei Dannati  —mormorai. — È tutta tua.

Prima di uscire rifeci il letto. Di solito occorrevano un sacco di rimproveri per convincermi, ma stavolta lo feci volentieri.

Quel giorno i miei sarebbero usciti di testa, e riordinare le coperte mi sembrava potesse rendere più accettabile ciò che stavo per fare. 

Di certo loro l'avrebbero pensata diversamente ma questo non bastò a dissuadermi. Mentre sprimacciavo i cuscini, ebbi la strana visione di qualcosa che avevo sognato la notte prima, vivido e presente come se fossi ancora immerso nel sonno. 

Un fiore color del sangue.

Il vento ululava fra gli alberi che mi circondavano, frustava i rami scompigliandoli. Il cielo sopra di me ribolliva di nuvolette inquiete. Mi scostai dal viso le ciocche di capelli mosse dal vento. Desideravo soltanto guardare quel fiore.

Ogni petalo imperlato di pioggia era scarlatto, slanciato, simile a una  lama,  come  certe  orchidee  tropicali.  Eppure  il  fiore  era  anche rigoglioso e pieno, avviticchiato al ramo come una rosa. Era la cosa più esotica e seducente che avessi mai visto. Doveva essere mio.

Perché quel ricordo mi faceva rabbrividire? Era soltanto un sogno. 

Respirai a fondo cercando di metterlo a fuoco. Ma era ora di andare.

Lo zainetto era pronto, lo avevo riempito la sera prima.

Soltanto poche cose: un libro, occhiali da sole e qualche soldo nel caso dovessi scendere  fino a Riverton, la cosa più simile a un insediamento umano in tutta la zona. Così avrei avuto da fare per la giornata.

La verità era che non stavo scappando. Non sul serio, come quando la fai finita, assumi una nuova identità e, non so, ti unisci al primo circo che passa o qualcosa del genere. No, la mia era piuttosto una presa di posizione. Da quando i miei genitori avevano prospettato il trasferimento all'Accademia di Evernight  -  loro come professori, io da studente  -  mi ero opposto. Avevo sempre vissuto nella stessa cittadina, frequentavo la stessa scuola e la stessa gente da quando avevo cinque anni. E mi andava benissimo. A molti piace mescolarsi agli sconosciuti, attaccare bottone e fare amicizia in fretta, ma io non sono mai stato così. Tutt'altro.

La cosa divertente è che quando la gente ti definisce  "timido" di solito sorride. Come se fosse una cosa carina, un'abitudine buffa che perderai crescendo, come i buchi nel sorriso quando ti cadono i denti da latte. Se sapessero come ci si sente  -  a essere  timidi, non soltanto  insicuri  -  non sorriderebbero. No, se sapessero cosa vuol dire avere un nodo allo stomaco o le mani sudate, oppure perdere la capacità di dire qualcosa di sensato. Non è affatto carino.  

I miei genitori non sorridevano mai, quando lo dicevano. Non erano così sciocchi e pensavo mi capissero, almeno finché non decisero che sedici anni fosse l'età giusta per andare oltre, in un modo o nell'altro. E per iniziare, cosa c'era di meglio di un bel collegio, a maggior ragione se c'erano anche loro ad accompagnarmi?

Pensavo di aver intuito quale fosse il loro scopo. Ma era soltanto teoria. Nell'esatto istante in cui eravamo sbucati sul viale dell'Accademia di Evernight e avevo visto quella mostruosità gotica di pietra, enorme e ingombrante, avevo capito che non sarei mai riuscito ad ambientarmi in una scuola del genere. Mamma e papà non avevano voluto ascoltarmi. Ecco perché mi ritrovavo costretto a obbligarli a farlo.

In punta di piedi mi feci strada nel piccolo appartamento, di quelli riservati al corpo insegnante, che la mia famiglia occupava da un mese. Dietro la porta chiusa della stanza dei miei sentivo il leggero russare di mamma.

Misi lo zainetto in spalla, girai lentamente la chiave nel la porta e scesi le scale. Vivevamo proprio in cima a una delle torri di Evernight, e detta così la cosa può avere un certo fascino. In realtà per me significava solo essere costretto a scendere gradini scavati nella pietra più di due secoli prima, che il tempo aveva reso logori e irregolari. La lunga scala a chiocciola aveva poche finestre e le luci spente rendevano il tragitto buio e difficile.

Mentre mi allungavo a cogliere il fiore, la siepe ebbe un fremito. 

Il vento, pensai, ma mi sbagliavo. No, la siepe si espandeva così velocemente da vederla crescere ad occhio nudo. Tralci e rovi spuntavano tra le foglie in un groviglio confuso Prima che potessi scappare, la siepe mi aveva quasi circondato, murato fra i rami, foglie e spine.

L'ultima cosa che desideravo era rievocare i miei incubi. Respirai a fondo e continuai a scendere finché non raggiunsi l'aula magna, al piano terra. Era uno spazio maestoso, progettato per ispirare o perlomeno  stupire:  pavimenti  di  marmo,  soffitto  a  volta  e  finestre istoriate che si innalzavano fino alle travi, ognuna con il suo disegno caleidoscopico - esclusa una, proprio al centro, di vetro trasparente. I preparativi per gli eventi della giornata dovevano essere terminati la sera prima, perché il podio dal quale la preside avrebbe salutato gli studenti era già pronto. Nessun altro sembrava essersi svegliato, perciò nessuno poteva fermarmi. Con una spallata decisa aprii il portone pesante e intarsiato, ed eccomi libero.

La nebbia del primo mattino avvolgeva il mondo in una luce grigio-azzurra mentre attraversavo i cortili della scuola. Quando l'Accademia di Evernight fu costruita, nel Diciottesimo secolo, il territorio circostante era selvaggio. Sebbene adesso qualche piccola cittadina punteggiasse la campagna in lontananza, nessuna era troppo vicina a Evernight; e nonostante il panorama sulle colline e le foreste fitte, nessuno aveva mai costruito una casa da quelle parti. Tutto sommato, come dar torto a chi non voleva saperne di avvicinarsi? Lanciai un'occhiata alle mie spalle, verso le due alte torri della scuola coronate dalle sagome deformi dei gargoyle, e rabbrividii. Pochi passi, e iniziarono a svanire nella nebbia. 

Evernight incombeva dietro di me con le pareti di pietra dei torrioni, unica barriera che i rovi non potessero abbattere. Avrei dovuto rifugiarmi dentro la scuola, ma non lo feci. 

Evernight era più pericolosa dei rovi e oltretutto non volevo abbandonare il fiore.

L'incubo iniziava a sembrarmi più reale della realtà.

Incerto, mi allontanai dalla scuola e iniziai a correre per fuggire dal cortile e confondermi nella foresta. 

Presto sarà tutto finito, mi dissi mentre mi affannavo nel sottobosco e i rami  caduti dei pini si spezzavano sotto i miei passi. Ero a poche centinaia di metri dall'ingresso ma la distanza mi sembrava enorme, come se la nebbia fitta mi avesse già isolato nel cuore del bosco. Mamma e papà si sveglieranno e si accorgeranno che non ci sono.

Finalmente capiranno che non posso farcela, che non possono obbligarmi. Verranno a cercarmi e okay, si arrabbieranno per lo spavento, ma saranno comprensivi. Lo sono sempre, no! E poi ce ne andremo. Andremo via dall'Accademia di Evernight e non tornemo mai più, mai più. 

Il mio cuore batteva con ritmo accelerato. Passo dopo passo, allontanarmi  da  Evernight  aumentava  la  paura  anziché  smorzarla. Poco prima, quando avevo architettato il piano, mi era sembrata un'idea perfetta. A prova di errore. Ora che  stavo davvero correndo da solo nella foresta, attraverso un territorio selvaggio e sconosciuto, non ne ero più così sicuro. Forse ogni fuga era inutile. Forse mi avrebbero trascinato indietro comunque. 

Il tuono brontolò. I battiti del cuore accelerarono. Per l'ultima volta distolsi lo sguardo da Evernight e tornai a osservare il fiore che tremava sul ramo. Il vento ne soffiò via un petalo. Infilai le mani nei rovi, sentii i graffi sulla pelle ma non mi fermai, deciso.

Quando la punta del mio dito carezzò il fiore, quello si adombrò all'improvviso, appassì e si seccò mentre tutti i petali annerivano.

Mi diressi verso est, cercando di  allontanarmi il più possibile da Evernight. L'incubo mi perseguitava: era quel posto, mi aveva stregato, impaurito e svuotato. Se mi fossi allontanata abbastanza sarei stata meglio. Con il fiato corto, mi guardai alle spalle per controllare la distanza percorsa...

E lo vidi. Un uomo nel bosco, nascosto dalla nebbia,  a una cinquantina di metri da me, con un cappotto lungo e scuro. Nell'istante in cui posai lo sguardo su di lui, iniziò a rincorrermi. Solo in quel momento capii davvero cos'era la paura. La sorpresa mi attraversò come una scossa, fredda come acqua ghiacciata, e scoprii quanto veloce sapessi correre. Non urlai perché sarebbe stato inutile. Mi ero infilato nel cuore del bosco, il posto più isolato che conoscessi, proprio per nascondermi. Era la cosa più stupida che avessi  mai  fatto  e,  a quanto pareva, anche l'ultima. Non avevo neanche portato il cellulare, tanto lassù non c'era segnale. Nessuno mi avrebbe soccorso. Dovevo correre, correre fino all'ultimo filo di fiato.

Sentivo i suoi passi strappare i rami e sbriciolare le foglie. Si avvicinava. Oh, era veloce. Com'era possibile che qualcuno corresse tanto veloce?

Ti hanno insegnato a difenderti, pensai. Dovresti sapere cosa fare in una situazione come questa! Non ricordavo. Non riuscivo a pensare. I rami laceravano le maniche del giubbotto e tiravano i laccetti sporgenti dello zaino. Inciampai in un sasso, affondai i denti nella lingua, ma continuai a correre. Lui era ancora più vicino, troppo vicino. Dovevo accelerare. Ma più di così non potevo.

—  Uh!  —  gemetti quando lui mi piombò addosso in un balzo e cadde insieme a me. Sentii il colpo secco del terreno contro la schiena, il peso di lui a tenermi giù, le sue gambe intrecciate alle mie. 

Con una mano mi chiuse la bocca e riuscii a liberare un solo braccio. 

Alla mia vecchia scuola, durante i seminari di autodifesa, ci dicevano sempre di puntare agli occhi, di strappare letteralmente gli occhi all'aggressore. Avevo sempre pensato che ci sarei riuscito, se avessi dovuto salvare me stesso o qualcun altro. Ma adesso ero così spaventato che dubitavo di potercela fare. Curvai le dita, cercando di farmi coraggio.

In quel momento, l'uomo sussurrò:  —  Hai visto chi ti stava inseguendo?

Rimasi a guardarlo per qualche secondo. Sollevò la mano dalla mia bocca per lasciarmi parlare. Il suo corpo mi pesava addosso ed ebbi qualcosa di simile a un capogiro. Alla fine riuscii a rispondere:

— Cioè, escluso te?

—  Io?  —  Non sapeva di cosa stessi parlando. Lanciò uno sguardo furtivo dietro di noi, sulla difensiva.  —  Stavi scappando da qualcuno o no?

—  Stavo correndo. Non c'era nessuno a inseguirmi, eccetto te.—Cioè, pensavi.. — il ragazzo si scostò in quell'istante, liberandomi dal suo  peso.  —  Oh, diamine. Scusa. Non volevo.. Devo averti spaventato a morte.

—  Avevi intenzione di aiutarmi?  —  Lo dissi ancora prima di poterci credere.

Annuì svelto. Il suo viso era ancora vicino al mio, troppo vicino, copriva il resto del mondo. Niente sembrava esistere eccetto noi e la nebbia che ci avvolgeva.

— Devo averti terrorizzato, mi dispiace. Pensavo davvero… 

Parole  inutili:  aumentavano  le vertigini  anziché calmarle.  Avevo bisogno d'aria, di silenzio, cosa impensabile finché lui mi restava così vicino. Gli puntai un dito contro e dissi qualcosa che non avevo mai detto a nessuno in vita mia, tantomeno a uno sconosciuto. E di sicuro non allo sconosciuto incontrato nel modo più spavento so che potessi immaginare. — Chiudi il becco.

E lui lo chiuse.

Sospirai e lasciai cadere la testa all'indietro. Mi stropicciai gli occhi così forte da vedere rosso. Sentivo il sapore denso del sangue in bocca e il cuore mi batteva ancora così forte da farmi quasi tremare le costole. Rischiavo di farmi anche la pipì addosso, il che avrebbe reso, se possibile, la scena ancora più umiliante. Invece continuai a fare respiri profondi, uno dopo l'altro, fino a sentirmi in forze quanto bastava per sedermi.

Il tizio mi era accanto. Riuscii a chiedere:  —  Perché mi hai placcato?

—  Pensavo dovessimo ripararci. Nasconderci da chi ti stava inseguendo, cioè, in pratica — sembrava imbarazzato — da nessuno.

Chinò il capo e finalmente riuscii a guardarlo bene. Non c'era stato il tempo di  notare i particolari; quando la prima opinione che ti fai di qualcuno è "maniaco assassino" non ti soffermi  certo sui dettagli. In quel momento, però, realizzai che non era un adulto come avevo presunto. Era alto, più di me, con le spalle larghe, ma giovane, forse mio coetaneo. Aveva capelli ricci, castano scuro che, gli coprivano la fronte, arruffati dall'inseguimento. I lineamenti del viso erano decisi e spigolosi, il corpo muscoloso e.. aveva straordinari occhi verdi.

Ma il particolare più interessante era l'abbigliamento, sotto il cappotto lungo e scuro: scarponi neri rovinati, pantaloni di lana neri e un maglione con lo scollo a v, rosso scuro, decorato con uno stemma: due corvi ricamati su entrambe facce di una spada d'argento. Lo stemma di Evernight.

— Sei uno studente — esclamai. — Frequenti l'Accademia.

—  Be', quasi.  —  Parlava piano, come se temesse di spaventarmi ancora. — E tu? 

Annuii,  mentre mi passavo una mano nei capelli spettinati cercado di sistemarli in qualche modo.  —  Sono al primo anno. I miei genitori sono venuti a insegnare qui, perciò... mi tocca.

Forse la trovava una stranezza, perché si rabbuiò e il suo sguardo si fece curioso e incerto. Gli bastò un istante, però, per riprendersi e porgermi la mano. — Harry Styles.

—  Oh, già.  —  Mi sembrava assurdo presentarmi a qualcuno che fino a pochi minuti prima avevo creduto un assassino. La sua mano grande e fresca strinse la mia con forza.

— Mi chiamo Louis Tomlinson.

—  Il  tuo  cuore  galoppa  —  mormorò Harry. Studiò la mia espressione, assorto, e mi riassalì l'agitazione, sebbene in forma molto più piacevole.  —  Se non stavi sfuggendo a un aggressore, perché correvi così? Non sembrava per niente una passeggiata mattutina.

Avrei mentito, se avessi trovato una qualsiasi scusa plausibile, ma non ci riuscii. — Mi sono alzato presto per… ecco, volevo scappare.

— I tuoi genitori ti trattano male? Ti picchiano?

—  No! Nemmeno per idea.  —  Mi sentivo offeso, ma considerai che tutto sommato la deduzione di Harry era plausibile. Perché mai una persona sana di mente dovrebbe correre per i boschi all'alba come se fosse in pericolo di vita? Ci eravamo appena conosciuti, perciò forse avevo ancora una chance per non essere etichettato come pazzo furioso. Decisi di non raccontargli dei flashback dell'incubo, per evitare che la bilancia cominciasse a pendere dalla parte della follia.  —  È che non voglio frequentare questa scuola. Mi piaceva dove stavamo prima, e poi l'Accademia di Evernight è così.. così...

— Terrificante.

— Ecco.

—  E dove avevi intenzione di andare? Hai un lavoro che ti aspetta, qualcosa del genere?

Avevo le guance in fiamme, non soltanto per la corsa. 

—  Ehm, no. Non stavo davvero scappando. Era solo una presa di posizione, più o meno. Così i miei genitori avrebbero finalmente capito quanto io detesti questo posto e magari ce ne saremmo andati.

Harry spalancò gli occhi per un istante, poi scoppiò a ridere.

Il suo sorriso influenzò la strana energia che trattenevo dentro e la trasformò da paura in curiosità, persino in entusiasmo.

— Come me con la mia fionda.

— Che?

—  Quando avevo cinque anni, convinto che mia madre mi trattasse male, decisi di scappare. Portai con me la fionda, perché ero un uomo grande e forte, in grado di badare a se stesso. Se non ricordo male, presi anche una torcia elettrica e un pacchetto di biscotti.

Malgrado l'imbarazzo, non riuscii a trattenere un sorriso.

— Meglio della mia scorta, direi.

—  Sgattaiolai fuori dalla casa in cui vivevamo e mi allontanai fino.. all'altro capo del giardino, sul retro. A prendere la mia posizione. Restai là tutto il giorno, finché non iniziò a piovere. Non avevo pensato di portare anche un ombrello.

— Non si può prevedere tutto — sospirai.

—  Lo so. Che tragedia. Tornai in casa, tutto bagnato e con il mal di stomaco per aver mangiato una ventina di biscotti. Mia madre, che è una signora saggia anche se mi fa ammattire, be', fece come se niente fosse  —  Harry scrollò le spalle.  —  E così faranno anche i tuoi genitori. Lo sai, vero?

—  Adesso sì. —  L'irritazione mi chiuse la gola. La verità la sapevo da sempre. Il fatto era che dovevo fare qualcosa, più per sfogare la frustrazione che per scuotere i miei.

Poi Harry fece una domanda che mi stupì:

— Vuoi davvero andartene?

— Nel senso di... scappare? Scappare davvero? 

Harry annuì, sembrava serio.

Non lo era, però. Non poteva esserlo. L'aveva chiesto per riportarmi con i piedi per terra, di sicuro. Confessai: — No.Tornerò. Mi preparerò per la scuola, da bravo ragazzo.

Riecco quel sorriso.  —  Nessuno parlava di comportarsi da bravo ragazzo.

Il modo in cui lo disse mi fece sciogliere. — È solo che…l'Accademia di Evernight.. non credo che mi sentirò mai a casa.

—  Fossi in te non me ne preoccuperei. Potrebbe essere positivo non sentirsi a casa, qui.  —  Mi guardò serio e concentrato, come se vedesse chiaramente che il mio posto era altrove. O piacevo davvero a quel ragazzo, o me lo stavo immaginando perché volevo piacergli. Ero troppo inesperto per indovinare la risposta giusta.

Mi rialzai di scatto. Mentre anche Harry si rimetteva in piedi, domandai: — E tu, che combinavi da queste parti?

—  Come ho detto,  pensavo fossi nei guai. Gira brutta gente qui intorno. Non tutti sono capaci di autocontrollo  —  si spazzò via dal maglione qualche ago di pino.  —  Non avrei dovuto trarre conclusioni affrettate. L'istinto ha avuto la meglio. Scusami.

—  È tutto okay, davvero. Hai cercato di aiutarmi. Ma io intendevo, prima del salvataggio. Manca ancora qualche ora all'inizio dell'assemblea. È davvero presto. Hanno detto agli studenti di arrivare per le dieci, stamattina.

— Non sono mai stato bravo a seguire le regole.

Interessante. —  Quindi.. sei un tipo mattiniero, ti piace anticipare i tempi?

—  Per niente. Non sono ancora andato a dormire.  —  Aveva un sorriso fantastico ed era evidente che sapesse come usarlo.

Non mi importava.  —  E comunque, mamma non poteva accompagnarmi. È via per affari, diciamo così. Ho preso il treno notturno e pensavo di arrivare per primo, a piedi. Tanto per dare un'occhiata in giro. O salvare un ragazzo in difficoltà. 

Ripensai alla velocità con cui mi aveva rincorso. Ora sapevo che l'aveva fatto nel  tentativo di salvarmi la vita e il ricordo di ciò che era avvenuto cambiò. La paura era sparita, adesso mi faceva sorridere.

—  Perché proprio Evernight? Io sono stato costretto dai miei genitori, ma tu probabilmente avresti potuto scegliere un altro posto migliore. Cioè, qualunque altro posto al mondo.

Harry sembrava sinceramente incapace di rispondere.

Allontanava i rami mentre camminavamo nella foresta, per impedire che mi graffiassero il viso. Nessuno mi aveva mai aperto un sentiero prima. — È una lunga storia.

—  Non ho fretta di tornare. E poi, abbiamo parecchio tempo da ammazzare prima dell'orientamento.

Chinò la testa, senza staccare lo sguardo da me. C'era qualcosa di sexy in quel gesto, ma non ero sicura che fosse intenzionale. I suoi occhi erano quasi dello stesso colore dell'edera che cresceva sulle torri di Evernight. — È anche una specie di segreto.

—  So mantenere un segreto. Cioè, tu manterrai il segreto su quello che è appena successo, vero? La corsa e il panico..

—  Non lo dirò a nessuno.  —  Dopo un paio di secondi di riflessione, Harry finalmente confessò:  —  Un mio antenato cercò di frequentare questa scuola,  quasi centocinquanta  anni fa. Ma venne espulso, diciamo così —  Harry rise e a me parve di vedere la luce del sole sbucare fra gli alberi.  —  Perciò tocca a me riabilitare l'onore della famiglia.

—  Non è giusto. Non dovresti decidere in base a ciò che qualcun altro ha o non ha fatto.

—  Non è sempre così. E comunque mi lasciano scegliere le calze. —  Sorrisi mentre alzava l'orlo del pantalone  per mostrare un lembo di calzino a rombi che spuntava dall'anfibio nero.

— E come mai il tuo proproqualcosa fu espulso?

Harry scosse la testa, afflitto:  —  Lo sfidarono a duello, la prima settimana di lezioni. 

—  Un duello? Qualcuno aveva offeso il suo onore?  —  Cercai di ricordare quello che sapevo dei duelli grazie ai romanzi e ai film. 

L'unica certezza era che la storia di Harry fosse senza dubbio molto più interessante della mia.

— Oppure c'entrava una ragazza?

—  Avrebbe dovuto darsi da fare, per conoscere  già una ragazza i primi giorni  —  Harry fece una pausa, come se avesse realizzato che era il  primo giorno di scuola e aveva  già conosciuto me, anche se non ero una ragazza. Sentii una spinta, come se una forza invisibile mi guidasse verso di lui.. ma Harry si voltò a osservare le torri  di Evernight, appena visibili oltre i rami di pino. Sembrava che l'edificio stesso lo offendesse.  — Potrebbe essere stata qualsiasi cosa. All'epoca bastava un niente per scatenare un duello. Secondo le leggende di famiglia, fu il suo avversario a provocarlo. L'importante è che sopravvisse, ma non senza aver prima sfondato una delle finestre istoriate dell'aula magna.

— Ma certo! Ce n'è una trasparente e non ne capivo il motivo.

—  Ora lo sai. Da quel giorno la mia famiglia è stata bandita da Evernight.

— Fino a oggi.

—  Fino a oggi  —  confermò.  —  Ma la cosa non mi interessa. 

Penso di poter imparare molto, qui, ma ciò non significa che di questo posto debba piacermi tutto.

—  Io penso che non mi piaccia proprio niente  —  confessai. A parte  te, aggiunse la voce nella mia testa, che all'improvviso si era fatta audace.

E fu come se Harry riuscisse a sentirla. C'era un che di scaltro nell'occhiata che mi lanciò. Con quei lineamenti ben cesellati e la divisa della scuola, avrebbe dovuto somigliare al perfetto ragazzo americano, ma non era così.

Durante la fuga, e nei momenti in cui aveva temuto che la nostra vita fosse in pericolo, avevo intuito qualcosa di selvaggio che scalpitava sotto la superficie. Replicò:
 —  Mi piacciono i gargoyle, le montagne e l'aria fresca. Per ora è tutto. 

— Ti piacciono i gargoyle?

— Mi piace quando i mostri sono più piccoli di me.

— Non ci avevo mai pensato.

Eravamo giunti al confine del cortile della scuola. Il sole brillava, sentivo che l'istituto si stava svegliando e preparando a ricevere gli studenti, a ingoiarli nella volta di pietra dell'ingresso.

— Mi fa paura — sospirai.

—  Non è troppo tardi per scappare, Louis  —  rispose lui spensierato.

— Non voglio scappare. Ma non sopporto di essere circondato da estranei. Fra gente che non conosco non riesco mai a parlare o a comportarmi da persona normale, a essere me stesso... perché ridi?

— A quanto pare, con me ci riesci benissimo.

Sbattei le palpebre, stupito di me stesso. Aveva ragione. Com'era possibile? Balbettai:  —  Con te...  ecco...  forse  mi hai spaventato così tanto da spazzare via in un colpo ogni paura.

— Ehi, se funziona...

— Sì. — Avevo già la sensazione che ci fosse dell'altro.

Gli estranei mi terrorizzavano ancora, ma lui non era un estraneo. 

Non lo era più da quando avevo capito che voleva salvarmi la vita. 

Mi sembrava di conoscere Harry da sempre, come se in un certo senso aspettassi il suo arrivo da anni.  —  È meglio che io rientri, prima che i miei genitori scoprano la mia assenza.

— Non lasciarti tormentare da loro.

— Non lo faranno.

Harry non ne sembrava così sicuro ma annuì allontanandosi, per rientrare nell'ombra, mentre io andavo verso la luce.  —  Ci vediamo in giro, allora.

Lo salutai con un cenno della mano, ma era già scomparso. 

Sparito nella foresta in un istante.

*****

Spazio autrice 
Ciao a tutti, ecco a voi il primo capitolo della storia, buona lettura :) 
-A.

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


Ancora scosso dall'adrenalina, risalii l'interminabile scala a chiocciola fino all'appartamento in cima alla torre. Stavolta non mi curai di essere silenzioso. Sfilai lo zainetto dalla spalla e mi lasciai cadere sul divano. Fra i capelli avevo ancora qualche foglia, che levai subito.
 
— Louis? — Mia madre emerse dalla camera da letto, le mani ad annodare la cintura della vestaglia. Mi sorrise, ancora mezza addormentata.  —  Ti sei alzato presto per fare una passeggiata, tesoro?
 
—  Sì.  —  Feci un sospiro. Non aveva più molto senso cercare di buttarla sul drammatico.

Poi arrivò papà alle spalle di mamma, e la abbracciò.  —  Non riesco a credere che il nostro ragazzo sia già all'Accademia di Evernight.

—  È successo così in fretta —  sospirò lei.  —  E più si invecchia, più il tempo scorre veloce.

Lui scosse la testa. — Lo so.

Brontolai. Ripetevano di continuo discorsi del genere, ormai lo facevano apposta per stuzzicarmi. Il sorriso di mamma e papà si 
allargò.
“Sembrano troppo giovani per essere i tuoi genitori" dicevano tutti nella mia cittadina. In realtà intendevano "troppo belli". 

Entrambe le cose erano vere.

I capelli di mia madre erano color caramello; quelli di mio padre di un rosso così scuro da sembrare quasi nero. Lui era di altezza media, ma muscoloso e torte; lei minuta in tutti i sensi. Il viso di mamma era regolare e ovale come un cammeo antico, papà aveva la mascella prominente e un naso che sembrava reduce da qualche scazzottata giovanile, ma che sul suo volto stava bene.

Io? Io avevo capelli castani che sembravano soltanto castani e una pelle così candida da farmi sembrare, più che diafano, smunto. Nel dubbio, il mio DNA aveva sempre fatto le scelte sbagliate. Secondo i miei genitori, crescendo sarei diventato più carino, ma è quello che dicono sempre tutti i genitori.

—  Provvediamo alla tua colazione  —  esclamò mamma, diretta in cucina. — O hai già mangiato qualcosa?

—  No, non ancora.  — Non sarebbe stata una cattiva idea mangiare prima della grande fuga, in effetti: il mio stomaco già ruggiva. Se Harry non mi avesse fermato, in quel momento mi sarei ritrovato a vagare per i boschi  con una fame da lupo e una lunga camminata verso Riverton davanti a me. I miei grandi piani di fuga.

II ricordo di Harry che mi placcava, di noi due che rotolavamo fra l'erba e le foglie, irruppe nella mia mente. In quell'istante mi aveva terrorizzato, e ripensarci mi metteva i brividi, ma ormai era una sensazione completamente diversa.

—  Louis  —  la voce di mio padre sembrava severa, perciò alzai uno sguardo  colpevole. Era riuscito, chissà come, a indovinare i miei pensieri? Mi resi subito conto di essere paranoico, ma la sua serietà, quando mi si sedette accanto, era incontestabile.  —  So che non morivi dalla voglia di venirci, ma Evernight è importante per te.

Ecco, lo stesso genere di discorso che mi faceva quando da piccolo doveva convincermi a prendere lo sciroppo per la tosse.  —  Non voglio dover ripetere questa conversazione, davvero.

— Daniel, lasciala stare. — Mamma mi porse un bicchiere e tornò in cucina, da dove giunse il rumore di qualcosa che sfrigolava in padella.  —  Se non ci sbrighiamo, saremo in ritardo per la riunione preorientamento del corpo insegnante.

Guardò l'orologio e brontolò qualcosa.

— Perché le programmano così presto? Non siamo mica tutti mattinieri, a questo mondo.

—  Lo  so  — mormorò lei. Per loro qualsiasi orario prima di mezzogiorno era troppo presto. E da quando ero nata io, lavoravano come insegnanti, sempre in guerra contro le otto del mattino. 

Mentre facevo colazione si prepararono, azzardarono qualche battuta che avrebbe dovuto tirarmi su il morale, e mi lasciarono solo a tavola. Mi andava più che bene Parecchio tempo dopo che furono scesi, e con le lancette sempre più vicine all'ora d'inizio dell'assemblea di orientamento, ero ancora seduto lì. Forse nel mio immaginario bastava prolungare la colazione per evitare di affrontare tutti quegli sconosciuti.

Il fatto che ci fosse anche Harry, un volto amico, bé, aiutava un pò. Ma non molto.

Infine, quando rimandare oltre fu impossibile, tornai nella mia stanza e indossai la divisa di Evernight. La odiavo - non ero mai stato obbligato a indossarne una - ma la cosa peggiore fu che ritrovarmi in quella stanza rievocò lo strano incubo della notte precedente.

Camicia bianca inamidata.

Spine  che mi graffiano la pelle, mi frustano, mi dicono di tornare indietro.

Pantaloni lunghi e neri.

Petali che avvizziscono e diventano neri come bruciassero nel cuore di un incendio.

Maglione grigio con lo stemma di Evernight.

Bene, qual è il momento migliore per smetterla con i pensieri inutili e morbosi? Più o meno ora.

Deciso a comportarmi da adolescente normale perlomeno il primo giorno dell'anno scolastico, mi guardai riflesso allo specchio. 
La divisa non mi stava poi malissimo, ma neanche così bene. Sistemai i capelli in un ciuffo disordinato, catturai un minuscolo rametto che mi era sfuggito e decisi che avrei dovuto accontentarmi di quell'aspetto.

Il gargoyle mi guardava ancora, pareva chiedersi com'era possibile che qualcuno sembrasse così sfigato. O forse si prendeva gioco del fallimento totale del mio piano di fuga. Se non altro, non ero più obbligato a guardare la sua brutta faccia di pietra. Drizzai le spalle e uscii dalla stanza per l'ultima volta, davvero. Da quel momento non mi apparteneva più. 

Per tutto il mese precedente avevo vissuto nel campus con i miei genitori, e ciò era stata un'opportunità per esplorare praticamente tutta la scuola: l'aula magna, le sale di lettura al primo piano e le due torri enormi che da lì si innalzavano. Le ragazze vivevano nella torre settentrionale, insieme a una parte del corpo insegnante e a un paio di archivi polverosi, probabilmente il posto in cui andavano a morire i registri. I ragazzi stavano invece nella torre meridionale con il resto degli appartamenti dei professori, inclusa la mia famiglia. I piani superiori dell'edificio centrale, sopra l'atrio, ospitavano le aule e la biblioteca. Evernight aveva subito espansioni e aggiunte nel tempo, perciò certe sezioni erano decisamente diverse, nello stile e nelle dimensioni, dal resto dell'edificio.
C'erano corridoi tortuosi e serpeggianti che talvolta non portavano da nessuna parte. Dalla mia stanza sulla torre vedevo il tetto, un mosaico di archi, tegole e architetture diverse. Così avevo imparato a orientarmi, era l'unico modo per sentirmi pronto a ciò che mi aspettava.

Affrontai di nuovo la scala. Ero già sceso chissà quante volte, eppure temevo sempre di poter inciampare e rotolare giù da quei gradini grezzi e irregolari. Stupido, dissi a me stesso, che ti preoccupi di fiori che muoiono o dì cadere dalle scale. Qualcosa di molto più spaventoso mi stava aspettando.

Dall'androne delle scale sbucai nell'aula magna. Di prima mattina l'avevo trovata silenziosa, simile a una cattedrale. Adesso era strapiena di gente e di voci squillanti.
Malgrado il frastuono, sembrava che i miei passi echeggiassero nel salone: dozzine di volti si girarono di scatto a guardarmi. Tutti i presenti sembravano impegnati a osservare l'intruso. Tanto valeva appendermi al collo un'insegna al neon con la scritta NUOVO ARRIVATO.

Gli altri studenti erano raggruppati in capannelli troppo fitti per ammettere uno sconosciuto e lanciavano occhiate svelte e torve verso di me. Sembrava quasi che riuscissero a percepire i battiti del mio cuore accelerati dal panico. Loro mi apparivano tutti uguali, non nel senso più banale, ma perché condividevano la stessa perfezione. Le ragazze avevano capelli lucenti, che fossero sciolti a cascata sulle spalle o raccolti in una crocchia ordinata ed elegante. I ragazzi sembravano sicuri di sé e forti, con sorrisi simili a maschere. Erano in divisa, con i maglioni, le gonne, le giacche e i pantaloni in ogni variante possibile: grigio, rosso, a scacchi, nero. Lo stemma dei corvi li marcava e tutti lo sfoggiavano come se ne fossero i proprietari. Irradiavano sicurezza, superiorità e sdegno. Mi sentivo accaldato mentre me ne stavo ai margini della sala, spostando il peso da un piede all'altro.

Nessuno mi salutò.

In un istante il mormorio tornò a invadere l'aula. A quanto pareva, i goffi nuovi arrivati meritavano qualche momento di interesse e niente più. Sentivo le guance rosse per l'imbarazzo, perché ero certo di aver già fatto qualcosa di sbagliato, anche se non potevo intuire cosa.Oppure avevano già capito che quella, in fin dei conti, non sarebbe mai stata casa mia?

Dov'è Harry? Allungai il collo per cercarlo nella ressa. Sentivo che forse con lui al mio fianco sarei riuscito a sopportare quella situazione. Era una follia, lo conoscevo appena, ma non mi interessava. Harry doveva esserci e invece non lo trovavo. In mezzo a quella folla, mi sentivo completamente solo.

Mentre mi dirigevo verso l'angolo più lontano dell'aula, mi accorsi di qualche altro studente nella mia stessa situazione, un nuovo arrivato come me.

Un ragazzo con i capelli rossicci e un'abbronzatura da spiaggia, così stropicciata che sembrava avesse dormito con la divisa addosso, anche se da quelle parti un look del genere non gli faceva guadagnare neanche un punto.Indossava una camicia hawaiana aperta, sopra il maglione ma sotto la giacca, la cui allegria sgargiante cozzava quasi disperata contro l'atmosfera lugubre di Evernight. Una ragazza dai capelli così corti da sembrare un maschio, ma con un taglio per nulla sbarazzino; sembrava piuttosto che avesse armeggiato con un rasoio. La divisa le andava larghissima, di almeno due taglie. La gente sembrava evitarla, come trattenuta da una forza misteriosa. Tanto valeva essere invisibile: ancora prima dell'inizio dei corsi, era stata marchiata come "insignificante".

Come facevo a esserne così sicuro? Perché era appena successo a me. Ero intrappolato ai margini della folla, intimidito dal fracasso, minuscola nel salone di pietra e completamente perso.

— Signori, per favore!

La voce squillò, sbriciolando immediatamente il rumore in silenzio. Ci voltammo tutti verso il capo dell'aula dove la signora Bethany, la preside, era salita sul podio.

Era una donna alta dai capelli neri e folti, che portava raccolti sulla testa in una sorta di acconciatura vittoriana. Non riuscivo a darle un'età precisa. Il collo della camicetta orlata di pizzo era chiuso da una spilla dorata. Ammesso che qualcuno di così austero si possa considerare bello, era bella. L'avevo conosciuta  quando i miei genitori e io avevamo traslocato negli appartamenti dei professori. All'inizio mi aveva spaventato, ma mi ero detta che in fondo l'avevo appena conosciuta.

Ora però mi sembrava ancora più imponente. Nel momento in cui la vidi dominare, all'istante e senza sforzo, il salone pieno di gente - la stessa gente che mi aveva emarginato con un comune e silenzioso accordo prima ancora che potessi pensare a cosa dire - capii per la prima volta che la signora Bethany  possedeva il potere. 
Non soltanto quello della sua posizione di preside, ma potere vero, che nasce da dentro

— Benvenuti a Evernight. — Alzò le mani. Le unghie erano lunghe e laccate di smalto trasparente. — Alcuni tra voi sono già stati nostri ospiti. Altri avranno certamente sentito parlare da anni, forse dai propri familiari, dell'Accademia di Evernight, e magari si chiedevano se mai sarebbero riusciti a iscriversi. Quest'anno abbiamo altri nuovi studenti, conseguenza di un cambiamento nel la politica delle iscrizioni. Reputiamo che sia giunta l'ora che i nostri allievi incontrino una varietà più ampia di persone, di diverse provenienze sociali, affinché possano prepararsi meglio ad affrontare il mondo fuori dalla scuola. Ognuno di voi avrà molto da imparare dai compagni, e sono certa che tutti vi tratterete con mutuo rispetto.

Tanto valeva scrivere con lo spray, a lettere rosse giganti: ALCUNI DI VOI SONO PROPRIO FUORI POSTO. La politica delle "nuove  iscrizioni" quindi spiegava la presenza del surfista e della ragazza con i capelli corti: in realtà non erano veri studenti di Evernight. Servivano solo a rappresentare un'occasione di apprendimento per chi contava davvero.

Io non ero contemplato dalla nuova politica. Non fosse stato per i miei genitori, non mi sarei trovatolà. In altre parole, non contavo neanche come emarginato

— A Evernight non trattiamo gli studenti come bambini. — La signora Bethany non fissava nessuno di noi in particolare, piuttosto, sembrava guardare oltre la folla, uno sguardo distante eppure capace di includere ogni cosa nel suo campo visivo.  —  Siete giunti fin qui per imparare a vivere da  adulti del Ventunesimo secolo, e come tali ci aspettiamo che vi comporterete. Ciò non significa che Evernight non abbia delle regole. L'isolamento della zona in cui ci troviamo ci obbliga a mantenere la disciplina più severa. Ci aspettiamo molto da voi.

Non disse quali sarebbero state le misure contro i trasgressori, ma immaginavo che essere messi in punizione fosse il minimo.

Avevo  le  mani  sudate.  Le  mie  guance  iniziarono a bruciare, probabilmente ero visibile come un fuoco di segnalazione. Promisi a me stessodi essere forte e di non lasciarmi opprimere dalla folla, ma erano semplici promesse. Il soffitto alto e le pareti dell'aula magna sembravano chiudersi attorno a me. Mi sentivo ancora mozzare il fiato.

Non so come, ma mia madre attirò la mia attenzione senza gesticolare né chiamarmi, come sanno fare solo le  mamme. Vidi lei e papà a un capo della fila di professori, in attesa di essere presentati, ed entrambi mi rivolsero piccoli sorrisi speranzosi. Volevano che mi godessi il momento. 

Fu la loro speranza a darmi alla testa. Dover affrontare le mie paure era già abbastanza difficile, ci mancava soltanto il timore di deluderli.

La  signora  Bethany  concluse:  —  Le  lezioni  cominciano  domani. Per oggi, ambientatevi nelle vostre stanze. Fate conoscenza con i nuovi compagni. Imparate a orientarvi. Ci aspettiamo di trovarvi pronti. Siamo lieti di avervi qui e speriamo che sfruttiate al meglio la vostra permanenza a Evernight.

Gli applausi riempirono la sala e la signora Bethany li ricevette abbozzando un sorriso e chiudendo gli occhi con un movimento pigro e compiaciuto, come una gatta ben pasciuta.
Poi ripresero le conversazioni, ancora più chiassose di prima.
C'era una sola persona con cui volevo parlare e, d'altra parte, forse c'era una sola persona alla quale interessava parlare con me.

Attraversai l'aula badando di restare ai margini, con le spalle al muro. Lanciavo sguardi ansiosi, cercando tra la  folla i capelli color ebano di Harry, le sue spalle larghe, quegli occhi verde scuro. Se stavo cercando lui e lui cercava me, presto ci saremmo trovati. Malgrado la mia paura dei gruppi numerosi e la tendenza a sovrastimarli, sapevo che gli studenti erano soltanto duecento circa.

Lo  noterò, dicevo a me stesso. Non è come questi altri, freddi, snob e arroganti. Ma capii subito che non era vero.
Harry non era snob, ma aveva gli stessi bei tratti cesellati, lo stesso corpo tonico e la stessa, come dire, perfezione degli altri. Non poteva spiccare in quella folla di bei ragazzi, perché ne faceva naturalmente parte.

Al contrario di me.

Lentamente la calca diminuì, mentre gli insegnanti se ne andavano e gli studenti si disperdevano. Io restai nei paraggi finché non fui l'ultimo a rimanere nel grande salone. Di sicuro Harry sarebbe venuto a cercarmi. Sapeva quanto fossi impaurito e si sentiva responsabile di avermi spaventato ancora di più. Proprio non gli andava di dirmi ciao? 

Evidentemente no. Alla fine fui costretto a rassegnarmi al fatto che non lo avrei visto. Perciò non mi restava che conoscere il mio compagno di stanza.

Salii i gradini di pietra lentamente, con le scarpe nuove dalla suola dura che facevano un clic ciac eccessivo. Avrei voluto salire fino in cima e tornare dritta all'appartamento dei miei. Sapevo che mi avrebbero rispedito  giù  all'istante. Dopo cena avrei  avuto tempo di raccogliere le mie cose e traslocare una volta per tutte. Per il momento, la priorità era "ambientarmi".

Cercai di vedere il lato positivo della situazione. Forse il mio compagno di stanza era terrorizzato dalla scuola quanto me. Ripensai al ragazzo con la camicia hawaiana e sperai che potesse essere lui. Se avessi convissuto con un altro emarginato, le cose probabilmente sarebbero state più facili. Vivere con un estraneo - la presenza continua, anche di notte, di qualcuno che non conoscevo  -  rischiava di essere una tortura, ma speravo che prima o poi quella brutta sensazione svanisse. Non osavo invece sperare in un amico.

Patrick Deveraux, c'era scritto sul modulo. Cercai di sovrapporre il nome al ragazzo che ricordavo, ma non gli si addiceva affatto. Eppure, tutto era possibile.

Aprii la porta e mi resi conto, con un tuffo al cuore, che iI nome del mio compagno di stanza gli si addiceva invece alla perfezione. 
Non era affatto un altro emarginato. Anzi, era la personificazione del tipo Evernight.

La pelle di Patrick era del colore di un fiume all'alba, una tonalità scura ma delicata, e i suoi capelli ricci erano ora tirati indietro da un cerchietto che metteva in risalto i suoi tratti quasi femminili e il collo slanciato. Era seduto allo specchio, intento a comporre file ordinate di flaconi di creme per il viso, quando mi notò.

— Ah, tu sei Louis  —  esclamò. Nessuna stretta di mano, nessun abbraccio, soltanto il ticchettio delle boccette crema sul tavolino. — Non sei come mi aspettavo. 

Grazie mille. — Neanche tu. 

Patrick inclinò la testa per osservarmi e mi chiesi se già ci odiassimo. Alzò la mano curata e perfetta e iniziò a dettare le regole: 
—  Puoi prendere in prestito il mio profumo ma non le scarpe né i vestiti. — Non menzionò ciò che lui poteva chiedere a me, ma era fin troppo evidente che non gli servisse nulla. — Ho in programma di studiare più che altro in biblioteca, ma se vuoi lavorare qui dimmelo e andrò altrove a parlare con i miei amici. Aiutami nelle materie in cui sei bravo e io farò lo stesso con te. Sono certo che impareremo molto l'uno dall'altro. Mi pare corretto, no?

— Assolutamente.

— Bene. Andremo d'accordo.

Se si fosse comportato subito da falso amico, forse sarei rimasto ancora  più  sconvolto. Tutto sommato, quasi mi rassicurava che Patrick fosse così pratico. — Mi fa piacere che lo pensi — aggiunsi. — So che siamo... diversi.

Lui non obiettò.

— I tuoi genitori insegnano qui, vero?

— Sì. Immagino che le voci girino in fretta.

— Te la caverai. Si prenderanno cura di te.

Cercai di sorriderle e sperai che fosse vero. — Sei già stato a Evernight?

— No. Prima volta  — Patrick lo disse come se per lui cambiare del tutto le abitudini di vita fosse facile come infilarsi un nuovo paio di scarpe firmate. — È bellissimo, non credi?

Lasciai da parte il mio parere sull'architettura.  — Però hai detto di avere degli amici, qui.

— Be', certo. —  Il suo sorriso era delicato come ogni altro dettaglio, dal profumo ai flaconi di prodotti per la pulizia del viso, ben ordinati davanti allo specchio. —  Courtney e io ci siamo conosciuti in Svizzera lo scorso inverno. Vidette era mia amica quando abitavo a Parigi. E con Genevieve ho passato un'estate sul Mar dei Caraibi...  a St Thomas? No, forse era in Giamaica. Faccio sempre confusione. 

La mia minuscola cittadina d'origine mi sembrò più insulsa che mai. — In pratica, frequentate gli stessi giri.

— Più o meno.  —  In leggero ritardo, sembrava che Patrick si stesse accorgendo del mio imbarazzo.  —  Prima o poi diventeranno anche i tuoi.

— Mi piacerebbe esserne altrettanto sicuro.

— Ah, vedrai. —  Viveva in un mondo dove le estati senza fine ai tropici erano appannaggio di chiunque. Io non riuscivo nemmeno a immaginare di farne parte. — Conosci qualcun altro qui? A parte i tuoi genitori, dico.

— Solo persone che ho incontrato stamattina  —  cioè lui e Harry, per un totale netto di due.

— Tempo per fare amicizia ce ne sarà.  —  Patrick parlava spedito mentre iniziava a mettere in ordine il resto delle sue cose: sciarpe di seta color avorio, calze e camicie color grigio-bruno o tortora. Dove pensava di indossare accessori così eleganti? Forse per lui era inimmaginabile viaggiare senza.  —  Ho sentito dire che Evernight è un posto meraviglioso per conoscere uomini.

— Uomini? — Avevo capito bene? Ora mi spiegavo la sua passione per le creme per il viso.

— Hai già qualcuno?

Avrei voluto dirgli di Harry, ma non ci riuscii. Qualunque cosa fosse successo fra me e lui nella foresta, intuivo che era importante, ma le mie sensazioni erano troppo fresche per condividerle. Mi limitai a rispondere:

— Non ho lasciato il mio fidanzato ad aspettarmi a casa.

— Conoscevo tutti i ragazzi della mia vecchia scuola da quand'ero piccolo e ricordavo di quando giocavano con le costruzioni o mi impiastricciavano i capelli di plastilina. Ciò rendeva più o meno impossibile sentirmi attratto da qualcuno di loro.

— Fidanzato.  — Abbozzò un sorriso, come sorpreso da una parola infantile. Patrick non rideva di me, però. Ero semplicemente troppo giovane e inesperto perché mi prendesse sul serio.

— Patrick? Sono Courtney.  —  La ragazza entrò bussando alla porta mentre la apriva, ovviamente sicura di meritare il benvenuto. 
Era persino più bella di Patrice, aveva capelli biondi che le arrivavano quasi alla vita e il genere di labbra carnose che avevo visto sfoggiare soltanto alle divette della TV, che potevano permettersi silicone e trattamenti del genere. Lo stesso kilt, che pendeva goffo sulle ginocchia di alcune ragazze che avevo osservato poco prima, faceva sembrare le sue  gambe lunghe mille miglia.  —  Ehi, la tua stanza è molto più bella della mia. La adoro!

Le stanze, in realtà, erano più o meno tutte uguali: camere doppie con due letti bianchi in ferro battuto e una cassettiera ciascuno con tavolino e specchio. La finestra dava su uno degli alberi che crescevano più vicini all'edificio, ma non riuscivo a trovarci niente di così speciale.

Poi mi resi conto che una cosa c'era. — Noi siamo vicini ai bagni.

Courtney e Patrick mi guardarono come se avessi detto un'oscenità. Erano troppo raffinati per ammettere che avessimo bisogno del bagno?

Imbarazzato,  aggiunsi:  —  Non mi è mai, ehm, capitato di condividere un bagno. Cioè, con i miei genitori sì, ma non con... quanti sono, uno ogni dodici ragazzi? La mattina ci sarà da impazzire.

A quel segnale avrebbero dovuto dichiararsi d'accordo e iniziare a lamentarsi. Invece, Courtney continuava a studiarmi, incuriosita. Immaginavo che la sua curiosità fosse giustificata, ma desideravo che dicesse  qualcosa. Quasi mai, nemmeno davanti a uno sconosciuto, mi ero sentito minacciato da uno sguardo come il suo, prolungato e torvo.

— Stanotte si esce in cortile  —  annunciò a Patrick ma non a me. — A mangiare. Un picnic, diciamo.

La cena, a Evernight, andava consumata in stanza. All'apparenza era la "tradizione", un'usanza che risaliva a prima che qualcuno inventasse la mensa. I genitori spedivano beni di sostentamento per integrare i rifornimenti spartani che venivano consegnati ogni settimana. Ciò significava che avrei dovuto imparare a cucinare con il piccolo microonde che mi avevano comprato i miei. Patrick, ovviamente, non era preoccupato da questi problemi terreni. 

— Mi pare divertente. Non trovi, Louis?

Courtney lo inchiodò con uno sguardo: a quanto pare gli inviti non erano aperti.

— Mi dispiace. — replicai. — Stasera dovrei cenare con i miei. Grazie per la proposta, comunque.

Le labbra prosperose di Courtney assunsero un aspetto quasi demoniaco quando si piegarono in un ghigno. — Hai ancora bisogno di mamma e papà? Cos'è, ti danno da mangiare con il biberon?

—  Courtney — la rimproverò Patrick, ma non c'era dubbio che sembrasse divertito.

— Devi vedere la stanza di Gwen — Courtney iniziò a tirare Patrick per portarlo fuori.  —  Buia e inquietante. Lei è convinta che fosse una prigione, addirittura.

Uscirono insieme e la sorta di fragilissimo legame che si era creato fra me e Patrick svanì in un istante. Le loro risate riempirono il pianerottolo. Con le guance in fiamme, fuggii dalla mia nuova stanza e dal piano del dormitorio per correre a rifugiarmi di sopra, nell'appartamento dei miei.

Con mia grande sorpresa, mi lasciarono entrare senza battere ciglio. Non domandarono nemmeno perché fossi arrivato così presto. Mamma mi abbracciò e papà disse:

 —  Ricordati di prendere tutto, okay? Ti resta qualcosa da fare, ma al bagaglio abbiamo iniziato a pensare noi.

Gli ero così grato che sarei scoppiato a piangere. Invece tornai nella mia stanza, impaziente di trovare pace e silenzio in un posto sicuro.

Soltanto pochi indumenti invernali restavano appesi nell'armadio. Gli altri erano ammassati dentro il vecchio baule in pelle di papà. Un controllo veloce della borsa da viaggio confermò che bagnoschiuma, lacca, shampoo e il resto erano in ordine. La maggior parte dei libri sarebbe rimasta lì, ne avevo troppi per le poche mensole della stanza in dormitorio. Però i miei preferiti erano pronti per il trasloco: Jane Eyre, Cime tempestose e i volumi di astronomia. Il letto era fatto e su un cuscino c'erano alcune cose da appendere alle pareti, cartoline di amici che con servavo da anni e una mappa dello spazio che tenevo attaccata al muro quando abitavamo nella vecchia casa. Ma i miei genitori qui avevano appeso qualcosa di nuovo, per dimostrarmi che anche quella era casa mia: una piccola riproduzione incorniciata del Bacio di Klimt. L'avevo ammirato in un negozio, mesi prima, e a quanto pareva era il loro regalo a sorpresa per il primo giorno di scuola.

Sulle prime provai semplice gratitudine. Poi non riuscii più a smettere di osservare il quadro, né a togliermi dalla testa l'idea che in realtà non lo avessi mai guardato sul serio.

Il bacio era una delle mie passioni. Da quando mia madre aveva iniziato a mostrarmi i suoi libri d'arte, adoravo Klimt. Ero impressionato dal modo in cui decorava d'oro ogni linea e riquadro, e mi piaceva l'avvenenza dei volti che sbucavano dalle immagini caleidoscopiche che creava. In quel momento, tuttavia, l'immagine mi appariva diversa. Non avevo mai prestato troppa attenzione alla posa dei due soggetti, l'uomo che si china dall'alto come attratto verso la donna da una forza misteriosa e inesorabile. La testa della donna cade all'indietro come in estasi, preda della forza di gravità. 
Le labbra scure di lei risaltano accanto al pallore della pelle e al rossore delle gote. E la cosa più bella di tutte era che lo sfondo luccicante del quadro non sembrava più separato dall'uomo e dalla donna. Mi appariva come una nebbia densa e calda, il loro amore reso visibile, che trasformava in oro il mondo circostante.

I capelli dell'uomo erano più scuri di quelli di Harry, eppure cercavo di immaginare lui al suo posto. Avevo le guance in fiamme: ero arrossito di nuovo, di un rossore diverso.

Ripiombai nel presente e fu quasi come se mi fossi addormentato e avessi iniziato a sognare. Mi sistemai in fretta i capelli e mi concessi un paio di sospiri profondi. Dallo stereo arrivavano le note di String of Pearis di Glenn Miller. Quando ascoltava quella musica, papà era di buonumore. Non riuscii a non sorridere. Almeno uno fra noi apprezzava l'Accademia di Evernight.

Quando finalmente terminai di fare le valigie, era quasi ora di cena. Mi spostai in salotto e trovai mamma e papa che ballavano insieme e facevano gli sciocchi: papà gonfiava le labbra fingendo di essere sexy e mamma teneva in mano un orlo della gonna nera.

Mamma fece una giravolta fra le braccia di papà, che la piegò all'indietro in un casqué. Lei, sorridente, chinò la testa fino quasi a sfiorare il pavimento e mi vide.  —  Amore, eccoti.  —  Parlò mentre era ancora capovolta, ma in quel momento papà la raddrizzò.  — Hai fatto le valigie?

—  Sì. Grazie per avermi dato una mano. E grazie per il quadro, è bellissimo. — Si scambiarono un sorriso, contenti di avermi reso, almeno un poco, felice.

— Stasera si banchetta — con un cenno papà indicò il tavolo.  — Tua madre ha superato se stessa. —  Di solito mamma non esagerava in cucina, la serata era senza dubbio un'occasione speciale. Aveva preparato tutti i miei piatti preferiti, più di quanti potessi mangiarne. Stavo morendo di fame perché avevo saltato il pranzo e per la prima parte della cena lasciai che fossero i miei a conversare. Io mi concentrai sul cibo.

— La signora Bethany ci ha informati che finalmente la ristrutturazione dei laboratori è terminata  —  raccontò papà mentre sorseggiava dal bicchiere. — Spero di poterli visitare prima degli studenti. Potrebbero esserci macchinari talmente moderni che nemmeno io saprei usarli.

— Ecco perché insegno storia — replicò mamma. — Il passato non cambia. Diventa solo più lungo.

— Sarete i miei insegnanti? — domandai a bocca piena.

— Lo scoprirai domani, come tutti gli altri.

— Okay. — Non era da lui tagliar corto, mi colse quasi alla sprovvista.

— Non possiamo prendere l'abitudine di darti troppe informazioni riservate — aggiunse mamma in tono più gentile.  — Devi integrarti il più possibile con gli altri studenti, capisci?

Lo disse con leggerezza, ma per me fu un colpo basso. — E con chi di loro potrei avere qualcosa in comune? Con gli studenti le cui famiglie frequentano la scuola da secoli? O con gli emarginati che fanno ancora più fatica di me ad ambientarsi? A quale gruppo dovrei somigliare?

Papà  sospirò. — Louis, sii ragionevole. È inutile che ne discutiamo un'altra volta.

Era davvero il caso di lasciar perdere, ma non ci riuscii.  — D'accordo, lo so. Siamo venuti qui "per il mio bene". Quanto bene può farmi abbandonare la mia casa e tutti i miei amici? Rispiegamelo, perché forse non ho ancora capito.

Mamma posò una mano sulla mia. — È per il tuo bene perché non hai quasi mai lasciato Arrowwood. Perché ti allontanavi raramente persino dal nostro quartiere, se non ti costringevamo noi. E perché non potevi fare affidamento eterno sulla manciata di amici che avevi.

Il discorso era sensato e lo sapevo.

Papà posò il bicchiere. — Devi essere capace di adattarti alle circostanze che cambiano e diventare più indipendente. Questo è ciò che io e tua madre possiamo insegnarti. Per forte che sia il desiderio di vederti come il nostro bambino, sappiamo che non potrai esserlo per sempre. Per noi questo è il modo migliore di prepararti a ciò che diventerai.

— Smettila di fingere che sia una questione di maturità — obiettai. — Non lo è, e lo sai. Il  problema è che voi volete scegliere per me e siete decisi a fare a modo vostro, che mi piaccia o no.

Mi alzai e abbandonai la tavola. Anziché sgattaiolare in camera a cercare la felpa, afferrai il maglione di papà dall'attaccapanni e lo indossai sopra i vestiti. Era solo l'inizio dell'autunno, ma dopo il calar del sole nei dintorni della scuola si gelava.

Mamma e papà non mi richiamarono. Era una vecchia regola di casa: chiunque fosse sull'orlo di una crisi di nervi doveva uscire a fare una passeggiata, prendersi una pausa dalla discussione e poi tornare a spiegarsi. Non importava quanto infuriati fossimo, la passeggiata serviva sempre. 

A dirla tutta, ero stata io a creare la regola.  L'avevo inventata a nove anni perciò non pensavo che il problema vero fosse la mia maturità.

La mia insicurezza nel mondo, la certezza totale e inattaccabile di non potermici incasellare, non era un problema dell'adolescenza. Faceva parte di me, da sempre. Per sempre, forse.

Passeggiavo in cortile guardandomi intorno, con la tenue speranza di rivedere Harry nella foresta. Era un'idea stupida  - perché mai avrebbe dovuto passare tutto il suo tempo all'aperto? - ma mi sentivo solo, perciò andai a controllare. Non c'era. Dietro di me si stagliava l'Accademia di Evernight, più simile a un castello che a un collegio. Si potevano immaginare principesse chiuse nelle torri, principi che combattevano contro draghi negli angoli più bui e streghe cattive che proteggevano le porte con i loro incantesimi. Non sapevo che farmene delle favole, tantomeno in quel momento.

Il vento cambiò direzione e portò con sé un rumore fugace: risate provenienti dal chiosco del cortile occidentale. Erano senza dubbio le ragazze alle prese con il loro picnic. Mi strinsi più che potevo nel maglione e mi addentrai nel bosco. Non verso est dove correva la strada, la direzione che avevo preso quel mattino, ma verso il laghetto situato più a nord.

Era troppo tardi e troppo buio per vedere granché, ma mi piaceva sentire il vento frusciare fra i rami, il profumo fresco dei pini e il bubolare del gufo non troppo lontano.
Concentrato sul mio respiro, smisi di pensare al picnic, a Evernight e a qualsiasi altra cosa. Cercai soltanto di immergermi nel presente.

Poi il rumore di passi mi fece trasalire - Harry, pensai invece era papà che passeggiava con le mani in tasca lungo lo stesso sentiero battuto da me. Ovvio che sapesse come trovarmi.  — Quel gufo è vicino. Strano che non si sia spaventato.

—  Probabilmente sente odore di cibo. Non se ne andrà, se pensa che ci sia un pasto in arrivo. 

Come per darmi ragione, un veloce sbattere d'ali scosse i rami sopra la mia testa e la sagoma scura del gufo sfrecciò a terra. Un tremendo squittio rivelò che un topolino o uno scoiattolo era appena diventato la sua cena. Il gufo era sceso in picchiata, troppo veloce perché riuscissimo a vederlo. Io e papà restammo a guardare. 
In teoria avrei dovuto ammirare la perizia di cacciato re del gufo, ma non potevo fare a meno di essere dispiaciuto per il topo.

Papà disse:  —  Scusa se sono stato troppo brusco. Sei un ragazzo maturo e non avrei mai voluto insinuare il contrario.

— Va tutto bene. Ho perso le staffe. So che ormai è inutile litigare sul perché siamo venuti qui.

Papà mi sorrise. — Louis, sai bene che tua madre e io non pensavamo neanche di poterti avere.

— Sì. — Ti prego, pensai, non tirare fuori il solito discorso della nascita miracolosa.

—  Quando sei entrato nelle nostre vite, ci siamo dedicati a te con tutti noi stessi. Forse troppo. E questa è colpa nostra, non tua.

— Papà, no. — Mi andava benissimo quando al mondo c'eravamo soltanto noi tre, la nostra famiglia unita. — Non parlarne come fosse qualcosa di sbagliato.

— Certo che no. — Sembrava triste e per la prima volta mi domandai se davvero fosse entusiasta della situazione. — Ma tutto cambia, tesoro. Prima te ne farai una ragione, meglio sarà.

— Lo so. Mi dispiace di non riuscire sempre a controllarmi. — Il mio stomaco ruggì, arricciai il naso e chiesi, speranzoso: — Posso riscaldare la cena?

— Ho il vago sospetto che ci abbia già pensato tua madre.

Aveva indovinato. Il resto della serata trascorse nel buonumore. Fintanto che potevo, valeva la pena di divertirmi. Tommy Dorsey rimpiazzò Glenn Miller e fu a sua volta sostituito da Ella Fitzgerald. Parlammo e scherzammo di argomenti stupidi, soprattutto cinema e televisione, cose di cui i miei genitori non si sarebbero mai occupati, non fosse stato per me. Un paio di frasi sulla scuola, però, le azzardarono. 

— Conoscerai persone incredibili — mi garantì mia madre.

Scossi la testa ripensando a Courtney. Era una delle persone meno incredibili che avessi mai conosciuto. — Non puoi saperlo.

— Posso e lo so.

— Ah, adesso prevedi anche il futuro? — la stuzzicai.

—  Amore, non me l'hai mai detto. Cos'altro prevede l'indovina? — domandò papà mentre si alzava per cambiare lato al disco. Si ostinava a collezionare dischi in vinile. — Voglio proprio saperlo.

Mamma stette al gioco, premendosi i polpastrelli sulle tempie come una chiromante zingara. — Penso che Louis conoscerà molti... ragazzi.

Il viso di Harry spuntò fra i miei pensieri e il ritmo cardiaco accelerò all'istante. Mamma e papà si scambiarono uno sguardo. Sentivano i battiti del mio cuore riecheggiare nella stanza? Forse sì.

Cercai di buttarla sul ridere. — Spero che siano carini.

— Non troppo — commentò papà, e ridemmo tutti. Loro la trovarono una battuta davvero divertente; io volevo solo nascondere la sensazione di farfalle nello stomaco.

Che stranezza, non parlare di Harry con loro. Ai miei avevo sempre raccontato quasi tutto della mia vita. Ma Harrry era diverso. Parlare di lui avrebbe infranto l'incantesimo. Volevo che restasse un segreto ancora per qualche tempo. Così lo avrei custodito gelosamente.

Già desideravo che Harry appartenesse soltanto a me.

*****
Spazio autrice
Buonasera a tutti, ecco a voi il secondo capitolo di questa storia, spero che vi stia piacendo :)
Ho deciso che fino all'inizio della scuola pubblicerò quasi ogni giorno un capitolo, però mi piacerebbe ricevere qualche vostro commento per sapere se la storia vi sta piacendo e se volete che continui a postare i capitoli.
Detto questo vi auguro buona lettura e arrivederci al prossimo capitolo lol
-A. 


 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


*NOTA DELL'AUTRICE A FINE CAPITOLO*
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— Non hai mandato la divisa dal sarto, vero? — Patrick si aggiustava la camicia mentre ci preparavamo al primo giorno di lezioni.

Perché non me ne ero accorto? Ovviamente i veri tipi da Evernight avevano mandato le divise in sartoria, a far ritoccare la giacca qui e la gonna là per renderle chic e provocanti anziché squadrate e asessuate. Come la mia.

— No, non ci ho pensato.

— Devi assolutamente ricordarti di farlo — mi suggerì Patrick. — Un taglio su misura fa un mondo di differenza. Nessuna uomo o donna dovrebbe ignorarlo. —Iniziavo a capire che gli piaceva dare consigli e vantarsi di quanto fosse navigato e mondano. Il che mi avrebbe irritato ulteriormente, se non avesse avuto ragione. Con un sospiro mi rimisi al lavoro, cercando di mantenere i capelli in ordine sotto il cerchietto. Avrei di sicuro visto Harry nel corso della giornata, perciò volevo mostrarmi al meglio di me, per quanto me lo consentisse la stupida divisa.

Formammo un'enorme fila in aula magna per ritirare l'orario giornaliero, una striscia di carta come si usava un secolo prima. La folla di studenti era meno chiassosa rispetto alla mia vecchia scuola. Sembrava che tutti si fossero già adattati alla routine.

Forse il silenzio era soltanto un'illusione. La mia inquietudine sembrava ingoiare i suoni e attutirli, arrivai addirittura a pensare che se avessi urlato forse nessuno mi avrebbe sentito.

All'inizio Patrick mi rimase accanto, ma soltanto perché la prima ora seguivamo la stessa materia, storia americana, insegnata da mia madre. Dei miei genitori avevo soltanto lei come professoressa: al posto delle lezioni di biologia di papà, avrei seguito quelle di chimica con un certo professor Iwerebon. Mi sentivo in imbarazzo camminando a fianco a Patrick senza nulla da dire, ma non avevo alternative, almeno finché non vidi Harry sotto la luce dei vetri smerigliati del corridoio, che dava una sfumatura bronzea ai suoi capelli castani. Sulle prime pensai che si fosse accorto di noi, ma continuò a camminare senza rallentare il passo.

Accennai un sorriso. — Ci vediamo dopo, okay? — dissi a Patrick mentre mi allontanavo svelta. Lui fece spallucce, già alla ricerca di altre amiche con cui parlare. — Harry? — chiamai.

Ancora non sembrava sentirmi. Non volevo strillare, perciò feci qualche passo di corsa per raggiungerlo. Andava nella direzione opposta alla mia - non alla lezione di mamma, così sembrava - ma ero ben disposto a correre il rischio di fare tardi. A voce più alta, esclamai: — Harry!

Lui voltò la testa quanto bastava per accorgersi di me, poi si guardò attorno, come fosse preoccupato di non farsi sentire dagli studenti nei paraggi. — Ehilà.

Dov'era il salvatore che avevo incontrato nella foresta? Il ragazzo che mi stava davanti non aveva l'aria di volermi salvare, quasi fingeva di non conoscermi. Invece ci conoscevamo, no? Avevamo parlato nel bosco, quando aveva tentato di proteggermi e io lo avevo ripagato ordinandogli di chiudere il becco. Il fatto che io lo considerassi come l'inizio di qualcosa non significava che lui fosse della stessa idea.

Anzi, a quanto pareva non lo era affatto. Harry mi rivolse un saluto veloce e un cenno del capo, come si fa con i conoscenti. Dopodiché continuò a camminare finché non svanì tra la folla.

Eccolo arrivato: il rifiuto. Mi chiesi se gli uomini fossero ancora più incomprensibili di quanto pensassi.

Il bagno dei ragazzi era lì vicino, perciò riuscii a chiudermici dentro e a ricompormi anziché scoppiare in lacrime. Dove avevo sbagliato? Malgrado la stranezza del nostro primo incontro, fra me e Harry era nata una conversazione intima, degna di quelle con i miei migliori amici. Non sapevo granché di reazioni, forse, ma avevo avuto la certezza che fra noi fosse nato un legame speciale. Mi ero sbagliato. Ero di nuovo solo a Evernight e mi sentivo persino peggio di prima.

Alla fine, ripreso il controllo, corsi in classe da mamma, evitando per un pelo di arrivare in ritardo. Lei mi lanciò un'occhiataccia, io mi strinsi nelle spalle e occupai un posto nell'ultima fila. Mamma uscì all'istante dalla modalità "madre" per passare a quella di "insegnante".

Bene, chi sa dirmi qualcosa della Rivoluzione Americana? — Giunse le mani e lanciò un'occhiata impaziente in giro per l'aula. Io sprofondai nella sedia, pur sapendo che non mi avrebbe interpellato per prima. Volevo soltanto essere certa di farle capire come mi sentivo. Un ragazzo seduto vicino a me alzò la mano e ci salvò tutti.
Mamma accennò un sorriso. — Lei è il signor…

— More. Balthazar More.

La prima cosa da chiarire su di lui è che aveva davvero l'aria di un ragazzo in grado di portare il nome "Balthazar" senza essere preso in giro dalla mattina alla sera. Gli si addiceva. Sembrava affrontare con serenità il confronto con mia madre, comunque andasse, ma non nella maniera irritante di quasi tutti i presenti. Era soltanto sereno.

— Bene, signor More, se dovesse farmi un riassunto delle cause della Rivoluzione Americana, come la metterebbe?

— Il peso delle tasse imposte dal parlamento inglese fu l'ultima goccia. — Parlava con naturalezza, quasi con pigrizia. Balthazar era grosso, con le spalle larghe, tanto che faticava a occupare il banco di legno vecchio stile. La sua postura trasformava la difficoltà in grazia, sembrava preferisse di gran lunga restare quasi disteso anziché seduto composto. — Certo, la gente era preoccupata  anche per le proprie libertà religiose e politiche.

Mamma alzò un sopracciglio. — Perciò, Dio e la politica sono potenti, ma come sempre sono i soldi a far girare il mondo. — Un accenno di risate riecheggiò in aula.

— Cinquant'anni fa, nessun professore di liceo avrebbe parlato di tasse. Cento anni fa, forse l'intera conversazione avrebbe riguardato la religione. Centocinquant'anni fa, la risposta sarebbe cambiata a seconda del luogo. Nel Nord avrebbero parlato di libertà politica.
Nel Sud di libertà economica, che ovviamente sarebbe stata impossibile senza la schiavitù. — Patrick mugugnò qualcosa. — E in Gran Bretagna qualcuno avrebbe descritto gli Stati Uniti d'America come un bizzarro esperimento intellettuale destinato a fallire in fretta.

Altre risate, e capii che mamma si era conquistata l'intera classe. Persino Balthazar accennò un sorriso che quasi mi fece dimenticare Harry. Be', non proprio. Però era bello da vedere, con quel ghigno pigro.

— È questo, più di ogni altra cosa, che vorrei che capiste della storia — mamma si arrotolò le maniche del cardigan per scrivere alla lavagna EVOLUZIONE DELLE INTERPRETAZIONI. — Le opinioni sul passato variano come varia il presente. La scena nello specchietto retrovisore cambia di secondo in secondo. Per capire la  storia non basta ricordare i nomi, le date e i luoghi: molti di voi li conoscono già tutti, ne sono sicura. Ciò che dovete capire sono le diverse interpretazioni degli eventi storici prodotte nel corso dei secoli; questa è l'unica maniera di avere una prospettiva che resista alla prova del tempo. E su questo concentreremo molte delle nostre energie, durante l'anno scolastico.

Tutti si chinarono sui banchi e aprirono i quaderni senza staccare lo sguardo da mamma, totalmente rapiti. A quel punto capii che forse anch'io dovevo iniziare a prendere qualche appunto. Ero il preferito di mamma, certo, ma anche il suo allievo a maggior rischio di bocciatura.

L'ora volò via fra le domande dei ragazzi, impegnati a mettere mamma alla prova e felici di quello che scoprivano su di lei. Le loro penne scarabocchiavano appunti più velocemente di quanto potessi immaginare, e più di una volta sentii quasi i crampi alle dita. Non mi ero reso conto di quanta competizione potesse esserci fra studenti.

No, non esattamente: la competizione in fatto di vestiti, proprietà e interessi sentimentali era palese. Quella voracità vibrava proprio nell'aria. Ma non mi ero reso conto di quanto fossero competitivi anche in campo scolastico.

Poco importava in cosa, a quanto pareva a Evernight tutti volevano essere i migliori in ciò che facevano.

Quindi, chiaro, nessuna pressione particolare da queste parti.

— Tua madre è fantastica — esclamò Patrick mentre attraversavamo il corridoio dopo la lezione. — Le interessa il quadro generale, capisci? Non soltanto la sua finestrella sul mondo. È un pregio di pochi.

— Sì. Cioè... vorrei diventare come lei. Un giorno.

In quel momento Courtney sbucò da dietro l'angolo.

Teneva i capelli biondi raccolti in una coda stretta che metteva in bella evidenza l'arco delle sopracciglia e ne rendeva l'espressione persino più sdegnosa. Patrick si irrigidì: a quanto pareva, la nuova considerazione che aveva di me ancora non bastava a difendermi davanti all'amica.

Mi preparai a essere investito dall'ennesimo commento maligno di Courtney, che invece mi rivolse quasi un sorriso. Capii che si voleva mostrare più gentile di quanto meritassi. — Festa questo weekend —annunciò. — Sabato. Sul lago. Un'ora dopo il coprifuoco.

— Certo — Patrick annuì con un cenno della spalla, come se non le potesse importare di meno di essere invitato a quello che si annunciava come il party più cool di Evernight, almeno fino al Ballo d'Autunno. Oppure un ballo, in quanto evento ufficiale, non era affatto cool? A sentire mamma e papà, sembrava l'evento più importante dell'anno, ma a quel punto le loro idee su Evernight mi sembravano già poco attendibili.

Perso nel dilemma su quanto fosse o non fosse fico il ballo, tardai a rispondere. Courtney mi inchiodò con lo sguardo, ovviamente seccata che non l'avessi sommersa di ringraziamenti e smancerie.
— Be'?

Avessi avuto un po' più di fegato, le avrei risposto che era una snob, una noia, e che avevo molto di meglio da fare che andare alla sua festa. Invece riuscii soltanto a dire: — Ehm, sì. Fantastico. Gran cosa, davvero.

Patrick mi diede di gomito mentre Courtney se ne andava a passo lento, con la coda bionda che le dondolava sulle spalle. — Visto? Te l'avevo detto. Vedrai che tutti ti accetteranno, perché... be', perché sei figlio loro.

Quanto male bisogna essere ridotte per misurare la propria popolarità in base ai genitori? Eppure non potevo permettermi di disprezzare nessuna apertura, qualunque fosse la ragione.

— Che genere di festa sarà? Cioè, nei cortili? Di notte?

— Sei stato a una festa prima d'ora, vero? — A volte Patrick non sembrava affatto più gentile di Courtney.

— Certo che sì. — Includevo le feste di compleanno di quand'ero bambino, ma non era il caso di farlo sapere a Patrick. — Mi stavo solo chiedendo se... non è che si beve, vero?

Patrick rise come se avessi detto una cosa divertente.

— Oh, Louis, cresci.

Si diresse verso la biblioteca ed ebbi l'impressione di non essere invitato a seguirlo. Così tornai da solo nella nostra stanza.

In un certo senso i miei genitori sono gente giusta, pensai. Sarà ereditario o salta una generazione?

I miei avevano detto che in breve tempo avrei preso il mio ritmo, e a quel punto Evernight mi sarebbe piaciuta di più. Be', dopo una settimana ero sicuro che solo la prima delle loro supposizioni fosse giusta.

Le lezioni erano okay, più o meno. Una volta mamma accennò al fatto che fossi suo figlio, e aggiunse: — In futuro sia io che Louis ci asterremo dal farvelo notare. Siete invitati a fare altrettanto. — Tutti risero: pendevano dalle sue labbra. Come faceva? E perché non l'aveva insegnato anche a me?

Mi occorse un po' di tempo per abituarmi agli altri insegnanti e mi mancava il clima informale e amichevole della mia vecchia scuola. A Evernight i professori erano carismatici e potenti, ed era impensabile non soddisfarne le alte aspettative. Una vita trascorsa a nascondermi dal mondo in biblioteca mi aveva preparato alla missione, e dedicai allo studio più tempo che mai. L'unico corso a preoccuparmi era quello di letteratura inglese, perché a tenerlo era la signora Bethany in persona. C'era qualcosa nella sua postura, nel modo in cui inclinava la testa mentre aspettava che qualcuno rispondesse a una domanda, che mi intimidiva.

Tuttavia, la vita scolastica non sembrava un problema.

Questo l'avevo già capito. La mia vita sociale, invece, era tutta un'altra storia.

Courtney e gli altri tipi da Evernight avevano deciso che non meritavo il loro disprezzo: la popolarità dei miei genitori mi era valsa il diritto a un anonimato indolore, ma questo era tutto. Allo stesso tempo, le "nuove iscrizioni" mi guardavano con sospetto. Condividevo la stanza con Patrick e all'apparenza tanto bastava a dare per scontato che non mi sarei mai messo contro di lui e i suoi amici. I gruppi si erano formati nel giro di un giorno e io mi ero ritrovato esattamente nel mezzo.

L'unica altra "emarginata" con la quale fossi riuscito a comunicare era Raquel Vargas, la ragazza dai capelli corti. Un mattino ci eravamo lamentati insieme della mole dei compiti di trigonometria che ci toccavano, ma quello fu l'unico contatto fra noi. A prima vista, Raquel non pareva un tipo tanto socievole: oltre che solitaria, sembrava chiusa in se stessa. Non molto diversa da me, in effetti, ma in un certo senso persino più triste.

A garantire che lo fosse, ci pensavano gli altri studenti.

— Solito maglione nero, soliti pantaloni neri — canticchiò Courtney un giorno mentre con il suo passo sinuoso sfilava davanti a Raquel. — E anche il solito stupido braccialetto. Scommetto che li rivedremo anche domani.

Raquel replicò secca: — Non tutti possono permettersi di comprare ogni versione della divisa, sai com'è.

— Immagino di no — rispose Erich, un ragazzo che era spesso con Courtney. Aveva i capelli neri e il viso asciutto e appuntito. — Solo le persone che hanno il diritto di stare qui, possono.

Courtney e le sue amiche risero. Le guance di Raquel avvamparono, ma lei si limitò a dileguarsi in fretta fra risate sempre più fragorose. Quando mi passò davanti, incrociai il suo sguardo. Cercai di dimostrarle, senza parole, che mi dispiaceva per lei ma finii soltanto per accrescere la sua rabbia. A quanto pareva, Raquel non sapeva che farsene della compassione.

Mi venne il sospetto che, se ci fossimo conosciuti in un altro posto, io e Raquel avremmo scoperto di avere parecchio in comune. Ma nonostante la pena che provavo per lei, non ero sicuro di voler passare del tempo in compagnia di una più depresso di me.

Non sarei stato affatto depresso, malgrado tutto, se fossi riuscito a capire cosa fosse successo fra me e Harry.

Frequentavamo entrambi le lezioni di chimica del professor Iwerebon, ma i nostri posti in classe erano agli antipodi. Quando non ero impegnato a cercare di interpretare il pesante accento nigeriano dell'insegnante, lanciavo sguardi furtivi a Harry. Non incrociava mai i  miei occhi, né prima né dopo la lezione, e non mi parlava mai. La cosa più assurda era che Harry non mostrava la minima timidezza nel dirne quattro a chiunque. Zittiva in un baleno chi era troppo pretenzioso, snob o cattivo, in poche parole ogni tipo Evernight, in qualsiasi momento.

Per esempio, un giorno in cortile due ragazzi scoppiarono a ridere quando a una ragazza, un tipo per niente Evernight, sfuggì lo zaino e lei quasi cadde inciampandoci sopra. Harry, che passeggiava proprio alle loro spalle, commentò: — Che ironia.

— Cosa? — Erich era uno dei ragazzi che ridevano. — Che questa scuola abbia cominciato ad ammettere degli sfigati totali? — La ragazza che aveva perso lo zaino arrossì, mortificata.

— Anche se fosse vero, non sarebbe ironia — precisò Harry. — L'ironia è il contrasto fra ciò che viene detto e ciò che succede.

Erich era perplesso. — In che senso?

— Hai riso di lei perché è inciampata, e un secondo dopo sei finito a terra anche tu.

Non riuscii a vedere come Harry avesse fatto lo sgambetto a Erich, ma capii che ci era riuscito ancor prima che Erich finisse gambe all'aria sull'erba. Qualcuno rise, ma quasi tutti gli amici di Courtney guardarono Harry in cagnesco, come se difendendo quella ragazza avesse fatto la mossa sbagliata.

— Visto, questa è ironia — concluse Harry senza smettere di camminare.

Se ne avessi avuta la  possibilità, gli avrei detto che secondo me aveva fatto la cosa giusta e che nemmeno io mi sarei curato dell'opinione di Erich, di Courtney e di tutti gli altri. La possibilità, purtroppo, non arrivò. Harry mi passò davanti come se fossi diventato invisibile.

Erich odiava Harry. Courtney odiava Harry. Patrick odiava Harry.
Per quanto ne sapevo, praticamente tutti all'Accademia di Evernight odiavano Harry, eccetto il surfista goffo che avevo notato il primo giorno... e me. Okay, Harry era una specie di attaccabrighe, ma a me sembrava coraggioso e sincero, qualità che molti altri studenti sembravano non tollerare.

A quanto pareva, però, dovevo accontentarmi di ammirarlo da lontano. Per il momento ero ancora solo.

—  Non sei ancora pronto?  —  Patrick si rannicchiò sul davanzale della finestra. La notte delineava la sagoma del suo corpo slanciato, aggraziato persino, finché si preparava a spiccare un salto sul ramo più vicino. — I supervisori passeranno tra poco.

Ogni notte i supervisori tenevano d'occhio le camerate di Evernight. I miei genitori erano gli unici professori che non avessi ancora visto nascondersi nei corridoi in attesa di cogliere sul fatto chiunque infrangesse le regole. Questa era una buona ragione per uscire il più presto possibile, ma io non avevo ancora smesso di sistemarmi davanti allo specchio.

"Sistemare" era la parola d'ordine. Patrick era naturalmente chic, con i pantaloni a sigaretta e una felpa azzurro pallido che ne faceva risaltare la pelle luminosa. E poi c'ero io, che cercavo di rendermi presentabile con una maglietta nera e un paio di jeans. Senza grande successo, direi.

— Louis, sbrigati — Patrick aveva esaurito la pazienza. — Me ne vado. Vieni adesso o mai più.

— Arrivo. — Cosa mi importava del mio aspetto, dopotutto?
Stavo andando alla festa soltanto perché non avevo avuto il fegato di rifiutare.

Patrick balzò sul ramo dell'albero, poi sul prato, dove atterrò con la posa controllata di un atletta che scende dalle parallele. Cercai di seguirlo, mentre la corteccia mi sbucciava le mani. Il terrore di essere scoperto mi rese profondamente consapevole dei rumori attorno a noi: le risate provenienti dalla stanza di qualcuno, il crepitare delle prime foglie d'autunno sul terreno, il verso di un altro gufo a caccia.

L'aria notturna era tanto fredda da mettermi i brividi mentre attraversavamo di corsa il cortile e ci dirigevamo verso i boschi. Patrick riusciva a muoversi fra gli arbusti senza fare rumore, talento che gli invidiavo. Forse un giorno sarei stata coordinato come lui, ma era difficile da immaginare.

Finalmente scorgemmo la luce del fuoco. Avevano acceso un falò sulla riva del lago, piccolo quanto bastava a non attirare l'attenzione, ma grande a sufficienza  per scaldare e gettare una luce tremolante e spettrale. Gli studenti erano rannicchiati uno accanto all'altro e si chinavano per sussurrarsi qualche parola o ridere. Chissà se erano le stesse risate che avevo sentito la sera del picnic. A prima vista somigliava a un gruppo di normali adolescenti che se la spassavano  -ma nell'aria c'era un'energia che sollecitava i miei sensi, aggiungeva tensione a ogni movimento e crudeltà a quasi tutti i sorrisi. Ricordai ciò che avevo pensato dopo il primo, spaventoso incontro con Harry nei boschi: a volte, quando guardi certe persone, cogli qualcosa di vagamente selvaggio sotto la superficie. La stessa sensazione che avevo in quel momento.

Dalla radio di qualcuno usciva una musica ipnotica e rilassante. Non riconobbi chi cantava, le parole non erano in inglese. Patrick sembrò scomparire in un capannello di amiche in lontananza e mi lasciò solo a chiedermi che fare con le mani. In tasca! No, così sembri una stupido. Sui fianchi! E perché, sono arrabbiato per qualcosa! No. Okay, anche solo pensarci è da idioti.

— Ehilà — mi chiamò Balthazar. Non lo avevo visto spuntare alle mie spalle. Indossava un blazer di velluto nero e stringeva in mano una bottiglia. La luce del fuoco dipingeva il suo volto a tinte calde: aveva i capelli lisci, la mascella quadrata e sopracciglia folte. Sembrava un tipo tosto, un attaccabrighe, qualcuno più disposto a tirare un pugno che a fare una battuta. Ma i suoi occhi lo rendevano gradevole e persino sexy, perché vi si leggevano intelligenza e senso dell'umorismo. Non c'era crudeltà nel suo sorriso.

— Vuoi una birra? Ne è avanzata un po'.

— Sono a posto, grazie. — Forse mi aveva visto arrossire, malgrado il buio. — Io, ehm, sono ancora minorenne.

Minorenne! Come se la cosa importasse a qualcuno.

Tanto valeva tatuarmi la parola SFIGATO sulla fronte e non far perdere tempo a nessuno.

Balthazar sorrise, ma non sembrava ridesse di me. — Sai, una volta genitori e figli bevevano vino alla stessa tavola. E i dottori consigliavano alle donne i cui bambini non
poppavano bene di somministrare loro una piccola dose di birra.

— Ma quelli erano altri tempi.

— Giusto. — Non insistette e mi resi conto che non era affatto ubriaco. Cominciai a rilassarmi. Balthazar aveva il dono di mettere le persone a proprio agio, malgrado la sua stazza e la sua palese forza.

— Ho cercato di attaccare bottone con te dal primo giorno.

— Davvero? — Sperai di non aver squittito.

— Ti avverto, le mie intenzioni non sono buone.

Balthazar doveva aver osservato per bene l'espressione sul mio viso, perché scoppiò in una risata profonda, roboante.

— Tua madre ha detto che le è già capitato di averti come alunno, perciò volevo qualche dritta su come interpretarla. Devo conoscere i segreti della mia professoressa, no?

Decisi che a mamma non avrebbe dato fastidio. — Devi stare attento quando si dondola sui talloni.

— Dondola?

—  Sì. Di solito significa che  è entusiasta di qualcosa, interessata, hai presente? E se è interessata lei, pensa che dovresti esserlo anche tu.

— Il che significa che poi sarà argomento d'esame.

— Indovinato.

Scoppiò in un'altra risata. La fossetta sul mento gli dava un'aria quasi allegra. Mi sentivo un po' sleale nei confronti di Harry, nell'accorgermi di quanto fosse bello Balthazar, ma ignorarlo era impossibile. Visto come Harry aveva ignorato me nell'ultima settimana, non ero tanto sicuro che meritasse fedeltà. E poi era una bella sensazione, attirare l'attenzione di un ragazzo carino.

Balthazar mi si avvicinò. — Sarò felice di averti conosciuto. Già lo so.

Gli restituii un sorriso e per tre secondi interi sembrò che la festa potesse essere divertente. In quel momento spuntò Courtney.
Indossava una gonna nera davvero corta e una camicetta bianca piuttosto sbottonata. Non aveva molte curve da mostrare ma rimediava facendo a meno del reggiseno, particolare parecchio evidente.

— Balthazar, che bello incontrarsi di nuovo.

— O scontrarsi — Balthazar sembrava persino meno entusiasta di me nel rivederla. Lei non capì, o fece finta di nulla.

— Sembrano secoli dall'ultima volta. Troppo tempo. Dov'eravamo, a Londra, vero?

— San Pietroburgo — la corresse lui. Scandì il nome della città con la stessa disinvoltura con cui avrebbe buttato via un bicchiere di plastica. Sembrava coraggioso e mondano quanto bastava ad attraversare gli oceani senza la minima indecisione.

Courtney si aggiustò la camicetta con le mani e il movimento delle dita ne evidenziò il fisico snello. In quel momento la invidiai: non per l'aspetto da diva né per i viaggi intercontinentali, ma per il coraggio. Se ne avessi avuto anche solo la metà con Harry nei boschi, se fossi riuscito a toccarlo o a sfruttare i suoi commenti a base di "bravo ragazzo" per civettare, forse dopo non si sarebbe comportato come se fossi uno sconosciuto. La voce di Courtney si fece largo fra le mie fantasie.

— Non stavi facendo niente di particolare qui, vero, Balthazar?

— Parlavo con Louis.

Courtney mi lanciò un'occhiata di sbieco. Portava i capelli sciolti, le arrivavano ai fianchi e formarono piccole onde quando si voltò per parlarmi. — Hai qualche storia interessante da condividere, Louis?

— Io... — Cosa dovevo rispondere? Qualsiasi cosa sarebbe andata meglio di ciò che scelsi, cioè: — Ehm, no.

— Perciò non ti dispiace lasciarci soli per qualche minuto, vero? — Iniziò a spingere via Balthazar senza nemmeno aspettare la risposta. Lui mi trafisse con lo sguardo e capii che mi sarebbe bastato aprire bocca per fermarlo. Invece rimasi lì, inerme, a guardarli mentre si allontanavano.

Un paio di persone ridacchiarono. Notai Erich, malgrado le ombre fugaci gettate dal falò, ed ero piuttosto sicuro che mi stesse indicando.

Mi allontanai dal fuoco con l'unico obiettivo di starmene da sola finché non avessi incrociato Patrick o qualcun altro che potessi considerare amico. Ma ogni passo che mi separava dagli altri aumentava la mia serenità e, senza nemmeno accorgermene, mi ritrovai a fuggire.

Se non fossimo scappate dopo il coprifuoco, avrei potuto imboccare svelto l'entrata e correre in camera. Per fortuna ricordai in tempo che stavo infrangendo le regole  e mi fermai. Decisi quindi di puntare verso il gazebo al centro del cortile, per progettare il rientro.

Mentre salivo gli scalini, scorsi qualcuno. Sulle prime non lo riconobbi, aveva il volto coperto da un binocolo. Quando la luce della luna ne evidenziò i capelli color ebano, capii.

— Harry?

—  Ehilà, Louis. — Gli ci volle qualche secondo per abbassare il binocolo e sorridermi. — Bella nottata per una festa.

Osservai il binocolo. — Che stai facendo?

— Tu che ne dici? Spio la festa. — Fu brusco quasi quanto lo era stato in corridoio, almeno finché non mi guardò dritto in faccia.
Dovevo avere l'aria triste, perché domandò, più gentile:

— Tutto okay?

— Sto bene. Sono uno sfigato, ma sto bene.

Harry rise. — Ti ho vista andartene in fretta. Qualcuno ti infastidiva?

— No. Non esattamente. È una questione di atmosfera... minacciosa, direi. Sai come mi sento, fra gli sconosciuti.

— Meglio per te. Non è il tuo ambiente.

— Poco ma sicuro. — Guardai di nuovo il binocolo. Soltanto qualcuno dotato di un'eccellente visione notturna poteva usarlo per scorgere qualcosa, ma immaginai che la luce del falò fosse d'aiuto. —Perché spii la festa?

— Controllo se qualcuno si ubriaca, combina stupidaggini o si allontana da solo.

— Cosa sei, il braccio destro della Bethany, adesso?

— Neanche per idea — Harry abbassò il binocolo. Era vestito come per confondersi nell'ombra: pantaloni neri e maglietta a maniche lunghe che ne evidenziava i muscoli delle braccia e del petto. Era più asciutto di Balthazar, ma anche più scolpito. C'era qualcosa di quasi aggressivo in lui.

— Mi chiedevo soltanto come diavolo si svagasse certa gente quando non è impegnata a intimidire gli altri, a pavoneggiarsi o a leccare piedi. Sembra che non abbiano tempo di fare nient'altro. — Mi squadrò con un'occhiata. — E a quanto pare, a te piacciono.

— Cosa?

Scrollò le spalle. — Ti vedo spesso in giro con loro.

— Ti sbagli! Patrick è il mio compagno di stanza, perciò sono obbligato a passare del tempo con lui, le sue amiche vengono a trovarlo di continuo e io non riesco a evitarle. Voglio dire, un paio sono anche sopportabili, ma la maggior parte mi fa morire di paura.

— Nessuna di loro è sopportabile. Te lo dico io.

Pensai di continuare a discutere prendendo le difese di Balthazar, ma ancora non volevo parlare di lui. Mi resi anche conto che Harry mi aveva messo sulla difensiva, cosa che non aveva il diritto di fare.

—  Aspetta, per questo sei così freddo con me? E fai finta di non conoscermi?

— Se quella banda avesse stretto le proprie grinfie su di te, su un ragazzo dolce come te, non sarei rimasto a guardare. Non se avessi potuto risolvere la cosa. — La serietà profonda della sua voce mi sorprese. Ci separavano alcuni metri di distanza ma sentivo che nessun altro mi era mai stato così vicino. — Quando ti ho visto scappare dalla festa, invece, ho capito che avevi ancora una possibilità.

— Credimi, non faccio parte di quella cerchia — ribadii. — Penso che mi abbiano invitato alla festa soltanto per ridere di me. E io ci sono andato soltanto perché...  be', perché devo conoscere qualcuno, qui. Tu eri il mio unico amico e pensavo di averti perso.

Harry afferrò con le mani le volute che decoravano il gazebo, e io feci lo stesso, così da trovarmi al suo fianco.

Entrambi eravamo aggrappati alle volute di ferro battuto, come l'edera. — Ti ho offeso, vero?

A mezza voce, confessai: — Credo di sì. Voglio dire, so che abbiamo parlato una volta sola...

— Ma per te è stato importante. — I nostri sguardi si incrociarono per un solo attimo. — Anche per me lo è stato. Solo che non mi sono reso conto...  Be', pensavo che fosse una sensazione solo mia.

Harry non si era reso conto di piacermi? Che cosa difficile, impossibile, capire gli uomini. A volte non riuscivo a capire neanche me stesso. —  Sono venuto a parlare con te, il primo giorno di lezione.

— Sì, e poco prima ti avevo visto con Patrick Deveraux, che è una delle favorite in questo posto. La sua razza e la mia, diciamolo chiaro e tondo, non si mescolano.

— Per un istante la sua espressione mi sembrò turbata.

— Mi avevi detto che non ti piace parlare con gli sconosciuti, perciò ho dato per scontato che foste già piuttosto amiche.

— È il mio compagno di stanza. Sai com'è, devo riuscire a comunicare con lui per sopravvivere.

— Okay, ho frainteso. Scusami.

Avevo la sensazione che ci fosse dell'altro. Ma Harry sembrava davvero sincero, e  tanto mi bastò. Il mio salvatore mi aveva sempre tenuto d'occhio, anche se non lo sapevo. Quella certezza mi confortò, come se qualcuno mi avesse gettato un cappotto sulle spalle per tenermi comodo e al caldo.

Il silenzio fra noi proseguì, ma non era imbarazzato.

A volte incontri persone con cui non ti senti in dovere di parlare, di riempire il silenzio con chiacchiere insensate. Mi era capitato soltanto con un paio di amici, a casa, e ci erano voluti anni. Harry e io eravamo già a quel livello di intimità.

Ricordai la sfrontatezza di Courtney e decisi che potevo sfoggiare almeno la metà del suo coraggio. Non ero mai stato bravo a fare conversazione, ma ci provai. — Tu non vai d'accordo con il tuo compagno di stanza?

— Vic? — Harry abbozzò un sorriso. — Come coinquilino va benissimo. Svampito. Goffo... un tipo okay, insomma.

La parola "goffo" mi suggerì che forse lo conoscevo. — Vic è il ragazzo che ogni tanto porta la camicia hawaiana sotto la giacca, vero?

— Proprio lui.

— Non ci ho mai parlato, ma mi sembra uno divertente.

— Lo è. Magari te lo presento.

Con il cuore al galoppo, osai: — Sarebbe carino, ma... preferirei passare del tempo con te. — I nostri sguardi si incrociarono e sentii di aver oltrepassato un confine. Era un fatto positivo o negativo?

— Potremmo, ma... — Perché Harry esitava? — Louis, spero che saremo amici. Tu mi piaci. Ma non sarebbe saggio da parte tua passare troppo tempo con me. Hai visto che non sono esattamente il ragazzo più amato della scuola. Non sono qui per fare amicizia.

—  Sei qui per farti nuovi nemici? A giudicare da come litighi con Erich, si direbbe di sì.

— Preferiresti che fossi suo amico?

Erich era un'idiota di serie A, lo sapevamo entrambi. — No, certo che no. Tu sei una specie di, ecco, provocatore. Cioè, davvero odi così tanto questa gente? A me non piace, ma tu... sembri non sopportarne nemmeno la vista.

— Mi fido dell'istinto.

Non potevo controbattere. — Quella è gente contro cui è meglio non mettersi, se si può.

— Louis, se tu e io... se noi...

Se noi cosa? Trovai  un sacco di risposte alla domanda, quasi tutte piacevoli. I nostri sguardi si incrociarono, si agganciarono uno all'altro, come fosse impossibile distoglierli. L'intensità di Harry era quasi irresistibile di per sé, e sentirmela puntata addosso in quel momento, mentre studiava ogni tratto del mio viso e pensava le parole prima di pronunciarle, mi tolse il fiato.

Alla fine aggiunse: — Non potrei stare a guardare, se ti prendessero di mira. E prima o poi lo farebbero.

Mi voleva proteggere? Prospettiva affascinante, se non fosse stata folle. — Sai, non penso che danneggeresti una rilevanza sociale che non credo di avere.

— Non esserne così certo.

— Non essere così testardo.

Per un po’ restammo entrambi in silenzio. La luce della luna filtrava fra le foglie d'edera e Harry mi era vicino quanto bastava a captarne il profumo: qualcosa che mi ricordava il cedro e il pino, come i boschi da cui eravamo circondati, come se in qualche modo facesse parte di quel luogo oscuro.

— Ho combinato un pasticcio, vero? — Harry sembrava quasi timido quanto me. — Non ci sono abituato.

Lo guardai torvo. — A parlare con i ragazzi? — Bello com'era, ne dubitavo proprio.

Tuttavia, la sua sincerità fu palese quando annuì. La scintilla di cattiveria era svanita dai suoi occhi. — Ho vissuto parecchi anni in viaggio. Traslocando da un posto all'altro. E tutte le persone a cui mi affezionavo... era come se sparissero troppo presto. Forse ho imparato a mantenere le distanze.

— Mi hai fatto sentire uno stupido perché mi ero fidato di te

— Non e così. È un problema mio. Non voglio che diventi anche tuo.

Avevo trascorso tutta la vita in una cittadina ed ero convinto da sempre che ciò fosse un ostacolo nel fare nuove conoscenze. Ma dopo la confidenza di Harry, capii che un'esistenza itinerante poteva avere lo stesso effetto: isolarti, dirigere i pensieri all'interno di te stesso e rendere il contatto con gli altri la cosa più difficile del mondo.

Perciò, forse, la sua rabbia somigliava molto alla mia timidezza. Era il segno della solitudine che ci accomunava. Forse non era il caso che rimanessimo soli ancora per molto.

A bassa voce, dissi: — Non sei stufo di scappare e nasconderti? Io sì, di certo.

— Non scappo e non mi nascondo — ribatté Harry. Poi tacque e ci pensò per un secondo. — Be', maledizione.

— Magari mi sbaglio.

— No. — Harry mi guardò per qualche altro istante, e proprio quando iniziavo ad avere il sospetto di essermi aperto troppo, aggiunse:

— Non dovrei fare certe cose.

— Cosa? — Il mio cuore iniziò a galoppare un po' più veloce. Harry scosse la testa e sorrise. Riecco lo sguardo diabolico.

— Un giorno, quando inizieranno le complicazioni, non dire che non ti avevo avvertito.

— Forse sono io quello complicato.

Allargò il sorriso. — A quanto vedo, ci vorrà un po' di tempo per trovare un accordo. — Adoravo quando mi sorrideva così e speravo di poter passare ore e ore sotto il gazebo con lui. Ma in quel momento, Harry chinò la testa. — Hai sentito?

— Cosa? — Poi me ne accorsi: il rumore lontano del portone della scuola che girava sui cardini e quello di passi sul vialetto all'ingresso. — Stanno uscendo a fare una retata!

— Non vorrei essere nei panni di Courtney — commentò Harry. — E noi abbiamo un'occasione per rientrare.

Attraversammo il cortile, con un orecchio ai rumori della festa che veniva interrotta, ci scambiammo grandi sorrisi e quando varcammo il portone fummo al sicuro.

— Ci vediamo presto — sussurrò Harry lasciandomi il braccio e andando verso il suo corridoio. Mentre correvo in camera mia, verso il mio letto, la parola continuò a vibrarmi nell'orecchio: presto.

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Eccomi di nuovo qui dopo mesi di assenza, chiedo scusa per non aver più pubblicato i capitoli, ma tra la scuola e altri problemi non avevo mai tempo di trascriverli e sistemarli; per farmi perdonare oggi pubblicherò più capitoli possibili, tre o quattro, dopende da quanto tempo ho libero. Ora che è finita la scuola sarò più presente e pubblicherò più spesso lo prometto, detto questo vi lascio alla storia, buona lettura!
-A.

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro ***





Raggiunsi la mia stanza appena in tempo per infilarmi sotto le coperte, prima che Patrick entrasse accompagnato dalla signora Bethany. La luce debole dal corridoio disegnava la sagoma della preside e tutto ciò che riuscivo a distinguere era il suo profilo.

— Sai che qui abbiamo regole precise, Patrick. — La sua voce era tranquilla ma anche molto seria, non c'era dubbio. Mi suonava minacciosa, nonostante non stesse rimproverando me. — Devi capire che tali regole vanno rispettate. Non possiamo scorrazzare in aperta campagna di notte. La gente inizierebbe a parlare. Gli studenti  perderebbero la calma. E il risultato potrebbe essere una tragedia. Chiaro?

Patrick annuì e la porta si chiuse. Mi sedetti sul letto e sussurrai: —È stato terribile?

— No, soltanto una gran seccatura — brontolò Patrick mentre iniziava a svestirsi. Ci cambiavamo nella stessa stanza da una settimana, ormai, ma io mi sentivo ancora in imbarazzo. Lui no. Persino mentre si sfilava la maglietta, mi guardava.

— Sei ancora vestito! — esclamò.

— Ehm, sì.

— Pensavo che te ne fossi andato presto.

—  Già. Però, ecco... non sono riuscito a tornare subito dentro. Stavano di guardia. Poi hanno capito dov'eravate e sono partiti. Io sono riuscito a rientrare appena tre minuti prima di te.

Patrick fece spallucce mentre cercava il suo pigiama. Io feci del mio meglio per cambiarmi senza abbandonare il mio angolino. La conversazione era finita e per la prima volta ero riuscito a mentire con successo al mio compagno di stanza.

Forse avrei dovuto spiegargli il motivo del mio ritardo. Probabilmente sarebbe stato più normale fremere al desiderio di raccontare a tutti della persona incantevole che avevo appena agganciato. Ma il segreto mi piaceva.

Il fatto che solo io ne fossi al corrente rendeva tutto più speciale, in un certo senso. Piaccio a Harry e lui piace a me. Penso che forse, presto, saremo assieme.

Mentre mi infilavo di nuovo sotto le coperte pensai che la conclusione probabilmente fosse un po' azzardata. Ma al tempo stesso non riuscivo a trattenermi. La mia mente correva troppo veloce per concedermi di dormire e sorrisi, stretto al cuscino.
È mio.



—  Ho sentito che c'è stata una bella festa stanotte  —  commentò papà mentre sistemava un hamburger con patatine davanti a me, sul tavolo di famiglia.

—  Mmmmmm  —  risposi, con la bocca piena di patatine. Poi mi ricomposi e mormorai: — Cioè, sì, anch'io l'ho sentito.

Mamma e papà si scambiarono uno sguardo ed ebbi l'impressione che fossero più divertiti che arrabbiati. Che sollievo.

Quella fu la prima di una lunga serie di cene domenicali fra noi. Ogni secondo che riuscivo a passare con i miei genitori nel loro appartamento, anziché circondato dagli studenti di Evernight, mi faceva bene. Malgrado cercassero di minimizzare, intuivo che i miei sentissero la mia mancanza tanto quanto io sentivo la loro. Sullo stereo c'era Duke Ellington e, malgrado il breve interrogatorio, ogni cosa sembrava tornata al suo posto.

— La situazione non è sfuggita di mano, vero? — A quanto pareva, mamma aveva deciso di fingere di non avermi sentito dire che non c'ero stato.  —  Corre voce che si sia trattato soltanto di birra e musica.

— Che io sappia, no. — Non fu esattamente una smentita: tutto sommato, avevo frequentato la festa per soli quindici minuti.

Papà scosse la testa e disse a mamma: — Non importa se c'era soltanto birra. Le regole vanno rispettate, Johanna. Non sono preoccupato per Louis, ma per certi altri...

—  Io non sono contro le regole. Ma è naturale che  gli studenti più anziani si ribellino, di tanto in tanto. Meglio qualche infrazione sporadica che un incidente disastroso — mamma si rivolse a me. — Qual è il tuo corso preferito, per il momento?

— Il tuo, ovviamente. — La guardai come per chiederle se davvero mi credesse così sciocco da rispondere altrimenti, e lei rise.

—  A parte il mio, intendo. —  Mamma posò il mento sulla mano, ignorando la regola dei gomiti sul tavolo.  —  Letteratura, magari? È sempre stata la tua materia preferita.

— Non con la signora Bethany.

Questo non mi fece guadagnare neanche un briciolo di approvazione. — Ascoltala. — Papà, severo, posò il bicchiere sul vecchio tavolo di quercia con un colpo troppo energico e rumoroso. — Faresti bene a prendere molto sul serio una come lei.

Pensai: Stupido, è il loro capo. Cosa succederebbe se girasse la voce che il loro bambino parla male della preside? Tanto per cominciare, non pensare sempre e solo a te stesso.

— Mi impegnerò — promisi.

— Ne sono certa — mamma posò la mano sulla mia.

Quel lunedì andai a lezione di letteratura deciso a ricominciare da zero. Avevamo appena iniziato a trattare la mitologia e il folklore, due argomenti che mi erano sempre piaciuti. Senza dubbio, se c'era un settore in cui potevo dimostrare le mie capacità alla Bethany, era quello.

Be', in realtà non fu per niente l'occasione giusta per dimostrare le mie capacità.

—  Immagino che relativamente pochi fra i presenti conoscano già il nostro prossimo argomento di studio  —  disse, mentre una pila di tascabili girava per l'aula. La Bethany aveva sempre un leggero odore di lavanda, femminile e inconfondibile. — Tuttavia, immagino anche che più o meno tutti ne abbiate sentito parlare.

I tascabili raggiunsero il mio banco e prelevai una copia di Dracula, di Bram Stoker. Dalla fila più vicina sentii Raquel brontolare: — Vampiri?

Un istante dopo, una strana elettricità sembrò crepitare nell'aula. La signora Bethany si scagliò contro di lei. — Trova che sia un problema, signorina Vargas?

I suoi occhi scintillavano mentre fissava lo sguardo da falco su Raquel, che pareva si stesse mordendo la lingua per evitare di fare altri commenti. Il maglione della sua unica divisa aveva già iniziato a rovinarsi e a sfilacciarsi all'altezza dei gomiti. — No, signora.

—  A me sembrava di sì. La prego, signorina Vargas, ci illumini. — La Bethany incrociò le braccia, con l'aria di chi sta per scagliare una battuta pungente. — Se la sua attenzione è così rapita dalle saghe nordiche che parlano di mostri enormi, perché non dovrebbe esserlo dai romanzi sui vampiri?

Qualunque risposta avesse dato Raquel, sarebbe stata sbagliata. La Bethany l'avrebbe zittita e così sarebbe trascorsa tutta l'ora. Durante quasi ogni lezione precedente, la signora Bethany si era divertita in quel modo, prendendo di mira qualcuno, di solito con gran divertimento dei suoi studenti preferiti, ovviamente gli eredi delle famiglie più potenti. Se avessi fatto la scelta più intelligente, sarei rimasto zitto e avrei lasciato che Raquel diventasse il capro espiatorio quotidiano. Ma non ci riuscii.

Alzai la mano, timido. La Bethany mi guardò con la coda dell'occhio. — Sì, signor Tomlinson?
Dracula non è granché come libro. — Tutti mi osservarono, sorpresi che qualcuno potesse contraddire l'insegnante. — La lingua è troppo barocca e poi ci sono tutte quelle lettere dentro altre lettere.

— Vedo che qualcuno critica la forma epistolare, che così tanti autori di rango seppero utilizzare durante il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo.  —  Il clic ciac delle sue scarpe sul pavimento di legno  sembrava innaturalmente rumoroso mentre si avvicinava a me, dimentica di Raquel. L'odore di lavanda si fece più intenso.  — Lo
trova antiquato? Fuori moda?

Perché mai ho alzato la mano?

— Lo trovo soltanto un libro un po' lento. Tutto qui.

—  Ah, certo, la  velocità è il parametro con cui giudicare tutta la letteratura, altroché. — Qualcuno rise sotto i baffi, mentre mi sentivo morire di vergogna.  —  Forse desidera che i suoi compagni si chiedano perché mai un libro del genere vada tenuto in considerazione?

— Stiamo studiando il folklore — commentò Courtney.

Non per salvarmi ma per mettersi in mostra. Chissà se per umiliarmi o per costringere Balthazar a guardarla.

Da giorni non faceva che sistemarsi la gonna in modo da esporre le gambe ogni volta che si sedeva, ma Balthazar non faceva una piega.  —  E un elemento presente nel folklore di tutto il mondo è il vampiro.

La Bethany rispose con un semplice cenno.  —  Nella  cultura occidentale moderna non esiste mito vampiresco più famoso di quello di Dracula. Quale punto di partenza migliore?

Sorpresi tutti, incluso me stesso, rispondendo: — Il giro di vite.

— Come ha detto? — La Bethany alzò le sopracciglia.

Nessuno dei presenti sembrava capire dove volessi arrivare, escluso Balthazar, che si mordeva le labbra per non scoppiare a ridere.

Il giro di vite. Il racconto di Henry James che parla di fantasmi, cioè, che forse parla di fantasmi. — Non avevo intenzione di scatenare il vecchio dibattito sulla pazzia vera o presunta della protagonista. Da sempre trovavo i fantasmi  davvero paurosi, ma era più facile affrontare quelli nella finzione, rispetto alla Bethany in carne e ossa.  —  I fantasmi sono più presenti dei vampiri nel folklore mondiale. E Henry James scrive meglio di Bram Stoker.

—  Quando  sarà  lei  a  programmare le lezioni, signor Tomlinson, sarà libera di iniziare dai fantasmi — la voce della mia insegnante era affilata come una lama. Dovetti soffocare un brivido mentre la vedevo incombere, l'espressione dura e immobile come quella di un gargoyle di pietra. — Qui, inizieremo con lo studio dei vampiri. Scopriremo come varia la percezione del vampiro nelle varie culture ed epoche, dal passato remoto a oggi. Se lo trova noioso, si faccia coraggio. Vedrà che fra non molto arriveremo anche ai fantasmi, sia paziente.

E a quel punto capii che non era il caso di ribattere.

In corridoio, dopo la lezione, sfinito dai postumi dell'umiliazione, camminavo lento fra i capannelli di studenti. Sembrava che chiunque, tranne me, ridesse con qualche amico. Raquel e io avremmo potuto consolarci a vicenda, ma lei se l'era già battuta.

Poi sentii una voce: — Un altro lettore di Henry James.

Mi voltai e vidi Balthazar che si affiancava a me. Forse era venuto a offrirmi supporto, forse cercava soltanto di evitare Courtney. Comunque ero lieto di vedere un volto amico. — Be', ho letto II giro di vite e Daisy Miller, tutto qui.

— Quando hai tempo, prova Ritratto di signora. Secondo me potrebbe piacerti.

— Davvero? Perché? —  Mi aspettavo che Balthazar parlasse delle qualità del libro, ma mi sorprese:  —  Parla di una donna che vuole definire se stessa, anziché lasciarsi definire dagli altri.  —  Procedeva agile tra la folla senza mai togliermi gli occhi di dosso. L'unico altro ragazzo ad avermi guardato con quell'intensità era Harry.

— Ho il sospetto che la cosa possa riguardarti.

— Forse hai ragione  —  risposi.  —  Andrò a cercarlo in biblioteca. E...  grazie. Per il consiglio  — e anche, pensai, per l'opinione che hai di me.

— Prego  —  Balthazar sorrise e sul suo mento rispuntò la fossetta, ma in quell'istante entrambi sentimmo la risata di Courtney, poco lontano. Lui mi rivolse un finto sguardo spaventato che mi fece ridere. — Devo scappare.

—  Svelto!  —  sussurrai, mentre imboccava il corridoio più vicino. Malgrado l'incoraggiamento di Balthazar mi avesse rincuorato, mi sentivo ancora scosso dall'interrogatorio della Bethany. Decisi di fare una passeggiata veloce per i cortili, a godermi un po' d'aria fresca e di silenzio prima di mangiare. Magari restando solo per qualche minuto prezioso.

Purtroppo l'idea non era venuta soltanto a me, anzi.

Parecchi studenti passeggiavano all'aperto, ascoltavano musica e chiacchieravano. Notai un gruppo di ragazze sedute all'ombra, nessuna delle quali sembrava intenzionata a tornare in camera per pranzo. Probabilmente sono a dieta in vista del Ballo d'Autunno, pensai mentre le osservavo bisbigliare sotto uno dei vecchi olmi.

In cortile c'era soltanto una persona che mi andava di vedere.

— Vic? — chiamai.

Lui mi sorrise. — Ehi!

Sembrava un incontro fra vecchi amici, anziché la nostra prima conversazione. I capelli flosci, rossicci, gli saltavano fuori dal cappellino dei Phillies e la skin del suo iPod era un turbine di arancione e verde. Mentre mi si avvicinava a passi lunghi e si levava gli auricolari, dissi:

— Ciao. Hai visto Harry?

—  Quel tipo è pazzo! — Nel mondo di Vic, la parola "pazzo" suonava come un complimento.  —  È scappato dall'aula studio, io gli faccio: «Ehi, che combini?», e lui risponde: «Tu coprimi, okay?» E finora l'ho coperto, ma tu non farai la spia. Tu sei un tipo giusto.

Vic e io non avevamo mai parlato: come faceva a considerarmi un tipo giusto? Poi mi chiesi se non fosse stato Harry a dirglielo e il pensiero mi fece sorridere. — Sai dov'è?

—  Se me lo chiede un professore, no. Ma siccome sei tu, penso che c'entri qualcosa la stazione di posta.

La stazione di posta si trovava nella zona settentrionale, accanto al lago. Era il luogo in cui ai vecchi tempi si custodivano cavalli e carrozze. Fresca di ristrutturazione, ora ospitava gli uffici amministrativi di Evernight e la residenza della Bethany. Che ci faceva Harry laggiù?

—  Farò due passi da quella parte. Così, tanto per camminare. Senza un motivo preciso.

—  Aaah, giuuustoooo  —  commentò Vic, e annuì, come se avessi davvero detto qualcosa di arguto. — Hai capito.

Non è certo un mostro di furbizia, conclusi mentre passeggiavo distratto in direzione della stazione di posta. Però aveva l'aria di un bravo ragazzo. Niente a che vedere con il tipo Evernight, per fortuna. Nessuno si accorse di me mentre mi allontanavo dagli altri studenti. Forse era l'unico aspetto positivo del mio anonimato: potevo farla franca molto più spesso degli altri.

Non c'era nessuna foresta a farmi da scudo ma soltanto prati regolari e soffici, fitti di trifoglio, e pochi alberi piantati a intervalli regolari, probabilmente per gettare un po' d'ombra. Fra gli arbusti vidi uno scoiattolino morto, anzi, i resti martoriati di ciò che era stato. Il vento ne scuoteva la coda. Arricciai il naso e cercai di ignorarlo, per concentrarmi sulla mia ricerca. Il mio passo si fece più lento e silenzioso, nella speranza di captare la presenza di Harry.

La stazione di posta era lunga e aveva un piano solo. Inutile aggiungerne un secondo se ci abitano dei cavalli, no? Era circondata da altri alberi imponenti che gettavano un'ombra quasi notturna e soltanto poche chiazze ondeggianti di luce sfioravano il terreno. In punta di piedi, mi diressi verso il retro, mi nascosi dietro l'angolo e vidi Harry balzare fuori dalla finestra della Bethany. Atterrò agile e chiuse con cura la finestra dietro di sé.

Poi si voltò e mi vide. Per un secondo infinito restammo semplicemente a guardarci. Sembrava che fosse stato lui a sorprendermi con le mani nel sacco, non il contrario.

— Ciao — blaterai.

Anziché giustificarsi, Harry sorrise. — Ciao. Perché non sei a pranzo?

Mentre mi raggiungeva con passo tranquillo, capii che voleva fingere che non ci fosse niente di strano, che non avessi visto nulla di straordinario. Oppure avevo iniziato io, salutandolo anziché chiedergli cosa stesse architettando? — Non ho molta fame.

— Non è da te cambiare argomento.

— L'argomento è il pranzo?

— Più che altro pensavo, come mai non mi chiedi perché mi sono intrufolato nell'ufficio della Bethany?

Sospirai di sollievo ed entrambi scoppiammo a ridere.

— Okay, se sei disposto a dirmelo non dev'essere niente di grave.

—  Mia madre dice che firmerà il permesso ufficiale per lasciarmi andare a Riverton nelle domeniche libere soltanto se a metà quadrimestre avrò il massimo dei voti in tutte le materie. Ma avevo il sospetto che avesse già firmato e non sono tanto sicuro del mio andamento in chimica, perciò ho deciso di controllare. Di vedere se nel mio fascicolo c'era il modulo. Come ti ho già detto, rispettare le regole non è il mio forte.

— Certo. — Anche se era sbagliato, non era troppo sbagliato, no? Fidarmi di Harry mi veniva spontaneo. — E lo hai trovato?

—  Sì.  — L'aria compiaciuta con cui reagì era volontariamente esagerata, voleva farmi ridere e ci riuscì.  —  Anche con una semplice sufficienza, sono coperto.

—  Che c'è di tanto importante nei fine settimana liberi? Ho passato un po' di tempo in città quest'estate, prima che arrivaste voi. Credimi, non c'è granché da vedere.

Camminavamo all'ombra, tracciando il nostro percorso verso Evernight seguendo vie laterali, così da poterci mescolare agli altri studenti senza dare nell'occhio. Eravamo entrambi molto bravi a non farci notare.  —  Pensavo che sarebbe un bel posto in cui passare un po' di tempo insieme. Lontano da Evernight. Che ne dici?

Dopo la conversazione nel gazebo, non avrei dovuto sentirmi così sorpreso o sconvolto. Invece sì, e fu allo stesso tempo spaventoso e meraviglioso.

— Sì. Cioè, mi piacerebbe.

— Anche a me.

Per un po' né io né lui aprimmo bocca. Desideravo che mi prendesse per mano ma non ero poi così coraggioso da agire per primo. Pensai febbrilmente a qualcosa di divertente da fare a Riverton, cittadina più grande di Arrowwood ma, se possibile, ancora più noiosa. C'era un cinema, se non altro, che proiettava pellicole classiche prima dell'ultimo spettacolo, ogni tanto.  —  Ti piacciono i vecchi film? — azzardai.

Lo sguardo di Harry si accese. — Adoro i film, vecchi o nuovi, non importa. Da John Ford a Quentin Tarantino, mi piacciono tutti.

Sollevato, risposi con un sorriso. Forse tutto sarebbe andato per il meglio, dopotutto.

Alla fine di quella settimana il clima mutò all'improvviso. Fu il freddo a svegliarmi la mattina, lo sentivo fin dentro alle ossa. Mi avvolsi ancor di più nelle lenzuola ma non servì a molto. L'autunno aveva ricamato  le finestre di brina. Più tardi avrei dovuto tirar giù il piumone dal ripiano più alto dell'armadio: stare al caldo si annunciava un'impresa difficile.

La luce tenue e rosa era ancora quella dell'alba. Sbadigliai, mi sedetti e mi rassegnai al risveglio. Avrei potuto recuperare il piumone e cercare di strappare qualche altra ora di sonno, ma avevo bisogno di lavorare alla mia relazione su Dracula per evitare l'ira della Bethany. Perciò infilai la felpa e scivolai in punta di piedi davanti a Patrick, che dormiva beato come se il freddo non riuscisse a penetrare il lenzuolo sottile che lo copriva.

I bagni di Evernight erano stati costruiti in un'epoca lontana, nella quale probabilmente gli studenti erano stati così felici di avere toilette al coperto da non fare troppo i pignoli sulla qualità delle strutture. Troppo pochi i separé, nessun comfort come prese elettriche o specchi e, nei minuscoli lavandini, rubinetti separati per l'acqua fredda e quella calda: li avevo odiati sin dal primo giorno. Almeno avevo imparato a riempirmi le mani d'acqua gelata prima di aggiungere quella bollente. In quel modo riuscivo a lavarmi la faccia senza ustionarmi. Le piastrelle erano talmente gelide al contatto con i piedi nudi che ricordai a me stesso di indossare le calze a letto, almeno fino a primavera.

Quando chiusi i rubinetti sentii un rumore: un pianto, soffocato e tenue. Mi asciugai il viso tamponandolo con l'asciugamano e mi avvicinai al rumore. — Ehi? C'è qualcuno?

I singhiozzi si interruppero. Proprio mentre temevo di aver curiosato troppo, da uno dei separé sbucò il viso di Raquel. Indossava un pigiama e il braccialetto intrecciato di cuoio da cui sembrava inseparabile. Aveva gli occhi rossi. — Louis? — sussurrò.

— Sì. Tutto okay?

Scosse la testa e si asciugò le guance.  —  Sto impazzendo. Non riesco a dormire.

—  È questo freddo, tutto di colpo, vero?  —  Mi sentivo uno stupido. Sapevo bene quanto lei che Raquel non stava piangendo nei bagni all'alba perché c'era il ghiaccio sulle finestre.

—  Devo dirti una cosa  —  la mano di Raquel mi strinse il polso, con una presa più energica di quanto potessi immaginare. Il viso era pallido, il naso arrossato dal pianto.
— Ho bisogno che tu mi dica se sto diventando matta.

Domanda assurda, poco importa chi la faccia, quando, dove o come. Con cautela, le chiesi: — Senti che stai impazzendo, davvero?

— Forse? — la risata faticosa di Raquel mi rassicurò. Se riusciva a cogliere l'aspetto divertente del problema, in fondo stava bene.

Lanciai un'occhiata alle nostre spalle, ma il bagno era vuoto. A quell'ora potevamo contare di avere il locale tutto per noi, almeno per un po'. — Stai facendo brutti sogni o cose del genere?

—  Vampiri. Mantelli neri, canini e tutto il resto.  —  Cercò di ridere.  —  Diresti che avere ancora paura dei vampiri è roba da bambini, ma nei miei sogni... Louis, sono terribili.

—  La notte prima che cominciassero le lezioni, ho sognato un fiore che moriva  —  risposi. Volevo distrarla dai suoi incubi: forse condividere i miei ci sarebbe stato utile, anche se mi sentivo un po' stupido a parlarne ad alta voce.  —  Un'orchidea, o qualcosa del genere, che avvizziva nel cuore di un temporale. Mi ha spaventato così tanto che ci ho messo un giorno intero per levarmelo dalla testa.

— Io non riesco a togliermeli dalla mente. Queste mani morte che mi afferrano...

—  È solo colpa di quel compito su Dracula —  insistetti.  —  Vedrai che nel giro di una settimana ci sbarazziamo di Bram Stoker.

—  Lo so, non sono stupida. Ma gli incubi si trasformeranno in qualcos'altro. Non mi sento mai al sicuro. Come se ci fosse questa persona...  questa  presenza...  qualcuno, qualcosa che si avvicina troppo. Qualcosa di terribile  —  Raquel mi si avvicinò per sussurrare: —  Non ti viene mai il sospetto che in questa scuola ci sia qualcosa di... maligno?

— Courtney? — Cercai di buttarla sul ridere.

—  Non quel genere di malignità. Quella vera.  —  Le tremava la voce. — Tu credi che il male esista?

Nessuno me l'aveva mai chiesto, ma conoscevo la risposta.

— Sì, ci credo.

Raquel deglutì così forte che riuscii a sentirla  e per qualche istante rimanemmo a fissarci senza sapere cosa aggiungere. Avrei dovuto continuare a consolarla, ma l'intensità della sua paura mi costrinse ad ascoltare.

— Mi sento sempre osservata — raccontò. — Sempre. Persino quando sono da sola. So di sembrare pazza, ma è vero. A volte ho la sensazione che gli incubi continuino anche dopo che mi sono svegliata. A notte fonda sento tonfi, cose che strisciano sul tetto. Quando guardo fuori dalla finestra, te lo giuro, a volte vedo un'ombra che corre nella foresta. E gli scoiattoli...  li hai visti, vero? Hai visto quanti ne muoiono?

—  Un paio.  —  Forse era il freddo autunnale nel vecchio bagno pieno di spifferi a farmi rabbrividire, o forse la paura di Raquel.

— Ti senti mai davvero al sicuro? Davvero?

Balbettai:  —  Non mi sento al sicuro, ma non penso sia niente di assurdo. —  Ma, di nuovo, "assurdo" poteva significare cose diverse a seconda della persona.  —  È questa scuola. Questo posto. I gargoyle, la pietra, il freddo... e l'atteggiamento di certa gente...  mi  fanno sentire fuori luogo. Solo. E impaurito.

—  Evernight ti succhia la vita —  Raquel fece una debole risata. — Ma sentimi. Succhiavita. Di nuovo i vampiri.

—  Hai bisogno di riposo  —  esclamai con un tono deciso che mi fece somigliare un po’ troppo a mia madre.  —  Un po' di riposo e letture diverse.

—  Il riposo è una buona idea. Secondo te in infermeria avranno qualche sonnifero da darmi?

—  Non sono certa che ci sia un'infermeria, qui.  —  Quando Raquel arricciò il naso, costernato, proposi:  —  Magari puoi comprare qualcosa in farmacia quando andremo a Riverton.

—  Magari. Comunque è una buona idea. —  Fece una pausa e mi rivolse un sorriso sbiadito.  —  Grazie per avermi ascoltata. So che sembro sconvolta.

Scossi la testa. —  Niente affatto. Te l'ho detto, è Evernight che dà alla testa.

— La farmacia — ripetè Raquel a bassa voce mentre raccoglieva le sue cose prima di tornare nella sua stanza. — Prenderò del sonnifero. Così ci dormirò sopra.

— Sopra cosa?

—  I rumori sul tetto.  —  La sua espressione si fece solenne, come avesse più anni di quanti ne dimostrava.  —  Perché di notte c'è qualcuno là sopra. Lo sento. Quella parte non è un incubo, Louis. È reale.

Per parecchio tempo dopo che Raquel era tornata a letto, restai solo nel bagno, in preda ai brividi.


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Ecco un altro capitolo per farmi perdonare delal mia assenza ahahha
Spero che la storia vi stia piacendo, se così fatemi sapere cosa ne pensate con una piccola recensione, al prossimo capitolo!
-A.



 

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque ***





A rigor di logica, il ragazzo che sta per andare al primo appuntamento della sua vita dovrebbe avere la priorità sullo specchio. Ma quando giunse la vigilia del viaggio a Riverton, Patrick era così impegnato ad ammirarsi che avrei  anche potuto vestirmi al buio. Non smetteva di studiare il proprio viso e il proprio corpo, incapace di trovare ciò che cercava, chissà se imperfezioni o bellezza. —  Sei carino —  gli dissi.  —  Mangia qualcosa, no? Sei praticamente invisibile.

—  Manca meno di un mese al Ballo d'Autunno. Voglio essere al top.

—  Che senso ha andare al Ballo d'Autunno se non puoi godertelo?

— Me lo godrò ancora di più, così — Patrick mi sorrise. Riusciva a essere condiscendente e allo stesso tempo sincero.  —  Un giorno capirai.

Non mi piaceva quando mi parlava così, ma stava dalla mia parte. Per l'appuntamento, mi aveva prestato un maglione leggero, color avorio, con l'aria di chi concedeva il favore più grande della storia. Forse aveva ragione.

Con addosso quel maglione, la mia linea... be', si vedeva che avevo un corpo, cosa  che i pantaloni e i blazer fuori moda di Evernight non mostravano mai.

—  Voi non venite?  —  domandai mentre cercavo di sistemare i capelli in qualche modo. Non c'era bisogno di spiegare chi fossero "voi".

— Erich dà un'altra festa sul lago. — Patrick alzò le spalle.

Indossava ancora il pigiama di seta blu notte e copriva i capelli con un berretto di lana. Probabilmente la festa non sarebbe iniziata prima di mezzanotte, visto che ancora non aveva cominciato  a prepararsi.  —  La maggior parte dei  professori sarà in città a tenervi d'occhio. Il che rende la prossima una notte unica.

—  Mi rifiuto di credere che l'Accademia di Evernight tolleri notti del genere.

—  Non siamo mica in gabbia, Louis. E comunque, quella pettinatura non ti sta bene.

Feci un sospiro. — Lo so. Lo vedo da me.

—  Stai fermo —  Patrick si avvicinò alle mie spalle, spettinò la sorta di scodella che avevo fatto con i miei capelli, e che mi era costata tanto tempo e fatica, e armeggiò con le dita fra le ciocche. Poi mi pettinò i capelli in modo da creare un ciuffo alto, che riuscì a tenere i miei capelli sistemati. Qualche ciuffo ribelle mi cadeva sulla fronte: disordinato ma bello, proprio lo stile che avevo sempre desiderato. Mentre ammiravo la trasformazione allo specchio, pensai che somigliava a una sorta di incantesimo.

— Come hai fatto?

— Col tempo si impara. — Sorrise, orgoglioso più del suo operato che di me. —  Il colore dei tuoi capelli è meraviglioso, sai. Quando li accosterai all'avorio del maglione risalteranno ancora di più. Vedi?

Da quando il castano era diventato un "colore meraviglioso" per i capelli? Sorrisi alla mia immagine riflessa e pensai che se davvero io e Harry stavamo per uscire assieme, ogni miracolo era possibile.

— Bellissimo — commentò Patrick e stavolta, non so perché, capii che non scherzava. Restava un complimento impersonale, visto che a importargli davvero era l'idea di bellezza, non io. Ma non avrebbe mai detto che ero bello se non lo avesse pensato.

Timido e felice, osservai per qualche altro istante la mia immagine allo specchio. Se Patrick vedeva qualcosa di bello in me, forse anche Harry l'avrebbe colto.




— Stai benissimo! — esclamò Harry.

Io annuii, cercando di non perdere di vista i suoi occhi mentre, come lui, spingevo tra la calca di studenti che tentavano di imbottigliarsi nell'autobus che ci avrebbe portato in città. All'Accademia di Evernight non c'era posto per un normale scuolabus giallo: questo era un minibus di lusso, come quelli degli alberghi più eleganti, probabilmente noleggiato per l'occasione. Io ero riuscito a infilarmi subito dentro ma Harry stava ancora lottando per avvicinarsi al portellone. Se non altro, dal finestrino riuscivo a vederlo sorridere.

— Lussuoso — rise Vic, mentre si lasciava cadere sul sedile accanto al mio. Indossava un cappello di feltro che sembrava uscito dagli anni Quaranta e gli stava piuttosto bene.

Ma non era lui che volevo come compagno di viaggio. Dovevo sembrare davvero affranto, perché mi diede di gomito e disse:

— Non preoccuparti. Sto soltanto scaldando il posto a Harry.

— Grazie.

Non fosse stato per  Vic, non sarei affatto riuscito a sedermi vicino a Harry. La gente faceva a gara per salire sull'autobus e sembrava che almeno due dozzine di studenti  -  in pratica, quasi tutti coloro che non corrispondevano al tipo Evernight  -  avessero deciso di visitare Riverton. Considerato quanto fosse noiosa la cittadina, probabilmente non vedevano l'ora di allontanarsi da scuola, poco importava quale fosse la meta. Sapevo come si sentivano.

Da bravo gentiluomo, Vic cedette il posto quando finalmente Harry riuscì a raggiungermi, ma non fu quello l'inizio del nostro appuntamento. Eravamo circondati da altri studenti, tutti presi a ridere, parlare e strillare, lieti di trovarsi finalmente fuori dal claustrofobico edificio della scuola.

Raquel era a poche file di distanza e parlava animatamente con la sua coinquilina: forse, almeno per il momento, avevo messo a tacere le sue paure. Qualcuno gettava verso di me sguardi curiosi, non esattamente amichevoli. Forse sospettavano ancora che facessi parte del gruppo degli snob, idea tanto sbagliata da sembrarmi divertente. Vic si alzò sulle ginocchia per parlarci dal sedile davanti al nostro, deciso a raccontarci dell'amplificatore che voleva comprare in un negozio di musica che rimaneva aperto fino a tardi.

—  E che ci  fai con un amplificatore?  —  strillai nel chiasso mentre sobbalzando viaggiavamo verso la città.  —  Non ti lasceranno mai suonare la chitarra elettrica in camera.

Vic fece spallucce, il ghigno non se ne andava dalle sue labbra.  — Mi basta soltanto guardarlo, caro! Sapere che ho un aggeggio così eccellente. Roba da svegliarsi tutti i giorni col sorriso.

— Non smetti mai di sorridere. Ridi anche nel sonno.

—  Malgrado il tono canzonatorio di Harry, capii che Vic gli piaceva.

— E' l'unico modo di sopravvivere, sai?

Vic era l'esatto contrario del tipo Evernight e decisi che piaceva anche a me. — Che farai mentre noi andiamo al cinema?

—  Andrò in  esplorazione. A zonzo. Per sentirmi  la terra sotto i piedi — Vic mi rivolse uno sguardo malizioso — E magari conoscerò qualche bellezza, in città.

—  Meglio  che  aspetti  a  comprare  l'amplificatore, allora  — commentò Harry.  —  Sarà un bel  fastidio averlo fra i piedi, se devi portartelo in giro tutto il tempo.  —  Vic  annuì serio, e io mi coprii il sorriso con una mano.

Così io e Harry restammo davvero soli soltanto quando ci ritrovammo a passeggiare per la strada principale di Riverton, a un isolato dal cinema. Entrambi esultammo quando vedemmo il manifesto del film in programma.

Il sospetto —  esclamò lui.  —  Regia di Alfred Hitchcock. Che genio.

— Con Cary Grant. — All'occhiata di Harry risposi: —  Ognuno ha le sue priorità.

Molti altri studenti affollavano la hall. Probabilmente, più che un improvviso ritorno di fiamma del pubblico per Cary Grant, il motivo era che Riverton non offriva grandi divertimenti. Noi, però, non stavamo davvero nella pelle all'idea di vederlo, almeno finché non scoprimmo chi erano gli insegnanti a cui era stato affidato il compito di sorvegliare il cinema.

—  Credimi  —  si scusò mamma  —  siamo sbalorditi quanto te.— Eravamo sicuri che saresti andato a mangiare qualcosa. —  Papà le cingeva le spalle con un braccio, come se fossero loro, non noi, quelli al primo appuntamento. Eravamo fermi davanti al manifesto nella hall e Joan Fontaine ci osservava, allarmata, come se affrontasse il mio dilemma anziché il proprio.  —  Perciò abbiamo deciso di sistemarci qui. A badare alla cena c'è qualcun altro.

In segno di incoraggiamento, mamma aggiunse:  —  Non è troppo tardi per i pancake. Non ci offendiamo.

—  Non preoccuparti. —  Invece sì che era preoccupante passare il mio primo appuntamento in compagnia di mamma e papà, ma cosa dovevo rispondere?  —  A quanto pare Harry adora i vecchi film, perciò.. va bene così, d'accordo?

—  D'accordo  —  rispose lui. A vederlo, non sembrava che gli andasse bene così. Sembrava decisamente più a disagio di me.—  A meno che tu non preferisca i pancake.

—  No. Cioè, mi piacciono anche i pancake, ma i vecchi film di più.  —  Alzò il mento e fu quasi come se sfidasse i miei genitori a intimidirlo. — Restiamo.

I miei, anziché intimidirlo, sorrisero.

Li avevo avvisati già dalla domenica precedente che sarei andato a Riverton con Harry. Non mi ero lasciato scappare altro, per paura che il panico li paralizzasse, tuttavia capirono al volo. Con mia grande sorpresa e sollievo, non subii un interrogatorio: anzi, si scambiarono uno sguardo per valutare le proprie reazioni. Probabilmente era strano scoprire che il loro "figlio miracoloso" era grande abbastanza per uscire con qualcuno. Papà disse che Harry aveva l'aria di un bravo ragazzo, poi mi chiese se mi andava un altro po' di pasta al formaggio.

Per farla breve, nessuna delle reazioni folli e iperprotettive che Harry si aspettava si abbatté su di me. Mamma aggiunse soltanto:  — A titolo informativo, noi siamo diretti in balconata, perché quasi tutti i ragazzi andranno lassù.

Papà annuì.  —  Le balconate sono tentazioni irresistibili che esercitano una forte attrazione gravitazionale sulle bibite nelle mani degli adolescenti. L'ho visto con i miei occhi.

Imperturbabile, Harry replicò:  —  Mi sembra di averlo studiato in qualche lezione di scienze, alle medie.

I miei scoppiarono a ridere. Io mi godevo la calda ondata di sollievo. Apprezzavano Harry, forse prima o poi l'avrebbero invitato a cena da noi, la domenica. Lo vedevo già sempre al mio fianco, in tutti i luoghi della mia vita nei quali c'era posto per lui.

Harry non sembrava altrettanto sollevato mentre mi guidava per la hall del cinema con sguardo circospetto, ma immaginavo fosse la tipica reazione ai genitori.

Scegliemmo due posti sotto la balconata, dove era impossibile che mamma e papà ci vedessero. Harry e io eravamo vicini, quasi incollati, spalla contro spalla e ginocchio contro ginocchio.

— Mai successo prima — commentò.

—  Di frequentare un cinema retro?  —  Diedi un'occhiata di approvazione ai ricami dorati che decoravano le pareti e la balconata, e al sipario di velluto scuro. — Davvero bellissimo.

—  Non è ciò che intendevo.  —  Malgrado l'aggressività, a volte Harry sembrava quasi timido: ma succedeva solo quando parlava con me.  —  Non mi è mai capitato di.. ecco, uscire con un ragazzo, prima d'ora.

— Anche per te è il primo appuntamento?

—  Appuntamento... si dice ancora così?  —  Mi sarei sentito in imbarazzo, se non mi avesse dato subito di gomito per scherzo.  — Voglio dire, non mi è mai capitato. Passare del tempo insieme senza pressioni e senza la consapevolezza di dover traslocare nel giro di una o due settimane.

—  Detto così sembra che tu non ti sia mai sentito a casa, da nessuna parte.

— Non fino a ora.

Gli lanciai uno sguardo scettico.  —  A Evernight ti senti a casa! Ma per piacere.

Il sorriso di Harry si allargò piano. — Non pensavo a Evernight.

In quel momento si abbassarono le luci, per fortuna, altrimenti avrei detto qualcosa di stupido, anziché godermi appieno il momento.

Il sospetto era uno dei film di Cary Grant che non avevo ancora visto. C'è una donna, Joan Fontaine, che sposa Cary malgrado lui sia una specie di tipo spericolato e spendaccione.

Lei lo fa perché, santo cielo, è Cary Grant! Il che lo rende degno di perderci qualche dollaro. Harry non era convinto dal mio ragionamento.  —  Non pensi sia strano che lui faccia esperimenti col veleno?  —  sussurrò.  —  Chi sperimenta con i veleni per hobby? Devi ammettere che è un passatempo assurdo.

— Un uomo così bello non può essere un assassino — insistetti.

— Nessuno ti ha mai fatto notare che forse ti fidi delle persone un po' troppo in fretta?

—  Taci  —  gli diedi una gomitata nel fianco, rovesciando qualche popcorn dal sacchetto.

Il film mi era piaciuto, ma ancora di più stare vicino a Harry. Era straordinario come riuscissimo a comunicare senza dire nulla, con uno sguardo divertito, di sbieco, o la maniera spontanea con cui le nostre mani si sfioravano e lui intrecciava le dita con le mie. Con il pollice aveva tracciato piccoli cerchi sul mio palmo, ed era bastato a farmi galoppare il cuore.

Chissà com'era farsi abbracciare da lui.

Fui io ad averla vinta, comunque. Alla fine Cary sperimentava i veleni nel tentativo di suicidarsi e salvare la povera Joan Fontaine da una marea di debiti. Lei insisteva nel dire che ce l'avrebbero fatta e che sarebbero fuggiti via insieme. Harry scosse la testa mentre l'ultima inquadratura svaniva.  —  Quel finale è posticcio, sai. Nelle intenzioni di Hitchcock, lui era colpevole. È stata la produzione a costringerlo a far redimere Cary Grant per accontentare il pubblico.

—  Il finale non è posticcio se è il finale  —  insistetti io. Le luci si accesero durante il breve intervallo prima dell'ultimo spettacolo.  — Andiamo da qualche parte? Manca parecchio prima di riprendere l'autobus.

Harry guardò verso l'alto e capii che non lo avrebbe infastidito allontanarsi dai genitori-supervisori. — Volentieri.

Procedemmo lungo il piccolo viale principale di Riverton, dove ogni negozio o ristorante aperto sembrava invaso dai profughi dell'Accademia di Evernight. Io e Harry ci passavamo davanti in silenzio, in cerca della destinazione più ambita: un posto in cui stare soli. L'idea che Harry desiderasse un po' di privacy mi faceva sentire sia elettrizzato che intimorito. La notte era fresca e le foglie d'autunno crepitavano sotto i nostri passi, mentre passeggiavamo chiacchierando e lanciandoci sguardi.

Finalmente, oltrepassata la stazione degli autobus che segnava il termine della via principale, dietro  l'angolo trovammo una vecchia pizzeria che aveva l'aria di non essere stata più ristrutturata dal 1961. Anziché ordinare una pizza intera, ci accontentammo di qualche trancio al formaggio e due bibite e sgattaiolammo dietro un separé. Eravamo seduti uno di fronte all'altra, a un tavolino con la tovaglia a scacchi bianchi e rossi e una bottiglia di Chianti sepolta sotto la cera delle candele. Nell'angolo, un jukebox suonava un pezzo di Elton John uscito prima che noi nascessimo.

— Mi piacciono i posti come questo — commentò Harry.

—  Li trovo autentici. Di sicuro non sono progettati dall'ufficio marketing di chissà quale multinazionale.

—  Sono d'accordo.  —  Pur di essere d'accordo con lui, sarei arrivato a dire che mi piaceva mangiare melanzane sulla luna.

Per il momento, però, stavo dicendo la verità.  —  Qui ti puoi rilassare, essere quello che sei.

— Essere quello che sono. — Il sorriso di Harry sembrava lontano, come ridesse di una battuta che non conoscevo.  —  Dovrebbe essere più facile di quanto lo sia davvero.

Sapevo cosa intendeva.

Eravamo soli nella pizzeria: all'unico altro tavolo occupato sedevano quattro tizi che sembravano reduci da un cantiere.

Indossavano magliette sporche di vernice e un paio di caraffe vuote davanti a loro segnalavano tutta la birra  che avevano appena bevuto. Ridevano sguaiati delle proprie battute, ma li ignorai. Era una buona scusa per sporgermi sul tavolo e stare un po' più vicino a Harry.

—  Perciò, Cary Grant  —  continuò lui, mentre spargeva del pepe sul suo trancio — a quanto pare è l'uomo dei tuoi sogni, eh?— Più o meno è il re degli uomini dei sogni, non trovi?

Sono pazzo di lui da quando vidi Incantesimo, a cinque o sei anni.

C'era da aspettarsi che Harry il fanatico di cinema fosse d'accordo, invece no:  —  La maggior parte dei ragazzi, di solito, è pazzo di stelle del cinema che, ecco, girano film adesso. O di qualcuno della TV.

Addentai la pizza e per qualche secondo mi ritrovai impelagato in una difficile lotta contro il formaggio filante. Dopo essere riuscito a ingoiare il  boccone, mormorai:  —  Mi piacciono un sacco di attori, ma chi non amerebbe Cary Grant più di tutti?

—  Malgrado  sia  totalmente  d'accordo  nel  considerarlo  un  fatto tragico, prendiamone atto: un sacco di gente della nostra età non ha mai sentito nemmeno parlare di Cary Grant.

—  Criminali.  —  Cercai di immaginare l'espressione della Bethany se le avessi suggerito un corso facoltativo di storia del cinema.  —  I miei genitori hanno sempre cercato di farmi conoscere i libri e i film che piacevano a loro, di prima che io nascessi.

—  Cary è stato un mito degli anni Quaranta, Louis. Girava film settantanni fa.

—  E da allora i suoi film vengono trasmessi in TV. È facile imbattersi nelle vecchie pellicole, basta provarci.

Harry restò in silenzio e io mi sentii punzecchiare dalla paura, dal bisogno urgente e immediato di cambiare argomento e parlare d'altro, di qualsiasi altra cosa. Arrivai con un secondo di ritardo, perché Harry aggiunse:  —  Hai  detto  che  i  tuoi  genitori  ti  hanno portato a Evernight per conoscere altre persone e avere una visione più ampia del mondo. Ma a me sembra che abbiano speso un sacco di tempo a controllare che il tuo mondo fosse il più piccolo possibile.

— Scusa?

—  Come non detto  —  fece un sospiro mentre buttava nel piatto la crosta della pizza. — Non avrei dovuto parlarne. Siamo qui per divertirci.

Probabilmente avrei dovuto lasciar perdere. Il mio ultimo desiderio, al primo appuntamento con Harry, era di litigare.

Ma non riuscii a trattenermi.  —  No, voglio capire. Che ne sai tu dei miei genitori?

—  So che ti hanno trascinato a Evernight, che in due parole è l'unico posto al  mondo in cui il Ventunesimo secolo non è ancora arrivato. Niente cellulari, niente wireless, Internet soltanto nel laboratorio di informatica in cui ci sono, mi pare, quattro computer; niente televisori, quasi nessun contatto con il mondo esterno...

— È un collegio! È normale che sia isolato dal resto del mondo!

— Vogliono che tu rimanga isolato dal resto del mondo.Perciò ti hanno insegnato ad apprezzare ciò che piace a loro, non ciò che dovrebbe piacere ai ragazzi della tua età.

—  Decido io cosa mi piace e cosa no. —  Sentii le guance ardere e accendersi di rabbia. Di solito, quando mi infuriavo così tanto, finivo per scoppiare in lacrime, ma ero deciso a non farlo. — E poi, il fan di Hitchcock sei tu. Anche a te piacciono i vecchi film. Questo significa che sono i tuoi genitori a organizzarti la vita?

Si chinò sul tavolo e i suoi occhi magnetici verde scuro mi catturarono. Per tutta la serata avevo desiderato che mi guardasse così, ma non erano quelle le circostanze ideali.  —  Hai già cercato una volta di fuggire dalla tua famiglia. E a sentire te, è stato uno stupido colpo di testa, tanto per fare.

— Proprio così.

—  Secondo me non avevi torto. Secondo me la tua inquietudine riguardo Evernight era sensata. E secondo me dovresti ascoltare la voce che senti dentro e smettere di badare così tanto ai tuoi genitori.

Non poteva aver detto una cosa del genere. Se i miei lo avessero sentito parlare così... No, non riuscivo nemmeno a pensarci.

—  Il fatto che Evernight sia un postaccio, non implica che i miei siano cattivi genitori, e tu hai un bel coraggio a criticarli senza nemmeno conoscerli. Non sai niente della mia famiglia e non capisco perché t'importi.

—  Perché..  —  si interruppe, quasi meravigliato dalle proprie parole. Lentamente, quasi incredulo, disse:  —  Mi importa perché mi importa di te.
Oh, perché doveva dirlo proprio adesso! Così! Scossi la testa.  — Non ha senso.

—  Ehi!  —  Uno degli operai aveva appena fatto partire un pezzo metalkitsch anni Ottanta sul jukebox. Ora ciondolava verso di noi, in equilibrio precario. — Stai dando fastidio al ragazzo?

—  Tutto a posto  —  intervenni, svelto. Non era il frangente migliore per scoprire che la cavalleria non era morta.  —  Sul serio, è tutto okay.

Harry reagì come se non mi avesse sentito. Lanciò un'occhiataccia al tipo e sbottò: — Non sono affari tuoi.

Fu come buttare un fiammifero dentro una pozza di benzina. L'operaio barcollò ancora più vicino e i suoi amici si alzarono.  — Sono affari miei sì, bello, se tratti  il tuo ragazzo così in un luogo pubblico.

—  Non mi stava dando fastidio!  —  Malgrado fossi ancora arrabbiato con Harry, sentivo che la situazione rischiava di sfuggirci di mano. —  È grandioso che voi ragazzi, ehm, prendiate le difese dei ragazzi, dico sul serio, ma non c'è nessun problema.

—  Tu non impicciarti  —  mi zittì Harry, a bassa voce, in un tono che non avevo mai sentito, con intensità quasi innaturale.

Sentii un brivido lungo la schiena. — Lasciatelo in pace.

— Pensi che sia di tua proprietà o cosa? Così lo puoi trattare come ti pare? Somigli al maiale che ha sposato mia sorella, sai?  — L'operaio sembrava arrabbiatissimo.  —  Se pensi che non ti concerò come ho conciato lui, stai sognando, ragazzino.

Disperato, mi guardai intorno in cerca di un cameriere o del proprietario. Dei miei genitori. Di Raquel. In pratica speravo che qualcuno, chiunque, potesse mettere fine a quella scenata prima che gli operai ubriachi riducessero Harry in poltiglia: erano enormi, erano in quattro e ormai era chiaro che morivano dalla voglia di azzuffarsi.

Non avrei immaginato che fosse Harry il primo a colpire.

Era così veloce da sembrare invisibile. Un movimento impercettibile e l'operaio si ritrovò disteso a faccia in giù fra i suoi amici. Il braccio  di Harry era teso, il pugno stretto, e mi occorse un momento per capire: Oh mio Dio, ha appena colpito qualcuno.

—  Che diavolo...?  —  Un altro operaio si avventò contro Harry, che lo evitò con uno scatto veloce: prima era là, poi non c'era più. Si era infilato in un angolo, da cui riuscì a dare all'avversario una spinta così forte da farlo quasi cadere a terra.

—  Ehi!  —  Un uomo sulla quarantina, con il grembiule sporco di sugo, si avvicinò ai tavoli. Poco importava che fosse il proprietario, il cuoco o il Padrino: non ero mai stato così felice di vedere qualcuno in vita mia. — Che succede?

—  Tutto a posto!  —  Okay, stavo mentendo, ma non importava.

Sgusciai fuori dal separé e iniziai ad arretrare verso la porta. — Ce ne andiamo. È finita.

Gli operai e Harry continuarono a lanciarsi occhiate, come se non desiderassero altro che tornare a darsele, ma grazie al cielo Harry mi seguì. Mentre la porta si chiudeva dietro di noi, sentii il proprietario borbottare qualcosa sui "ragazzi di quella maledetta scuola".

Usciti in strada, Harry si rivolse a me: — Tutto okay?

— Non grazie a te! — Accelerai il passo verso la via principale. — Che ti è preso? Hai iniziato a litigare con quel tizio senza motivo!

— Ha cominciato lui!

— No, lui ha cominciato a discutere. Tu hai iniziato la rissa.

— Per proteggere te.

— La stessa cosa che pensava lui. Sarà stato ubriaco e maleducato, ma non aveva cattive intenzioni.

— Non ti rendi conto di quanto sia pericoloso il mondo, Louis.

In un altro frangente, sentire Harry parlare così, come fosse molto più grande di me e volesse consigliarmi e proteggermi, mi avrebbe rincuorato e riempito di felicità. Ora aumentava soltanto la mia rabbia. — Hai sempre quell'aria da saggio e poi ti comporti come un idiota e ti metti ad attaccar briga con quattro uomini! Ho visto anche come ti muovi. Scommetto che non è la prima volta.

Harry camminava al mio fianco ma rallentò il passo, come sbalordito. Capii che a sorprenderlo era stata la mia consapevolezza. Avevo ragione. Harry aveva già preso parte, più di una volta, a risse come quella.

— Louis..

—  Lascia perdere.  —  Alzai una mano e camminammo in silenzio fino all'autobus della scuola, già attorniato da studenti al pascolo, quasi tutti con le borse dello shopping o una bibita in mano. Harry si infilò sul sedile accanto al  mio, forse nella speranza di parlare con me, ma io incrociai le braccia senza staccare lo sguardo dal finestrino. Vic saltò sul sedile davanti a noi ed esultò:  —  Ehi, ragazzi, come va?  —  Poi osservò per bene le nostre facce.  —  Ah, sembra proprio il momento più adatto per raccontarvi uno dei miei aneddoti interminabili e incasinati che non conducono da nessuna parte.

— Grande idea — rispose secco Harry.

Fedele alla sua parola, Vic blaterò senza sosta di tavole da surf, gruppi rock e sogni assurdi che aveva fatto chissà quando, e non smise di parlare finché non raggiungemmo la scuola. Così mi risparmiò il compito di dover parlare con Harry, il quale, del resto, non aprì bocca.


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Ecco l'ultimo capitolo per oggi, in questi giorni ne metterò altri sicuramente; vi invito di nuovo a lasciarmi qualche recensione e vi auguro buona lettura :)
-A.



 

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