Anatomia dell'Irrequietezza di Jailer (/viewuser.php?uid=123329)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 6. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
La storia è già conclusa, sarebbe una one shot, ma la dividerò
in dieci capitoli perché è una storia di più di undicimila
parole, ed
è più piacevole la suddivisione.. Essi saranno pubblicati a
blocchi
tematici, per renderla continuativa.
La storia parte dal tema del
pregiudizio: Manigoldo e Sisifo sono due personaggi perseguitati da
questo, ma che possono anche perseguitare allo stesso modo.
Cancer per il suo temperamento (immagino
che difficilmente al Santuario se ne possa parlare bene) e Sagittarius
per i
motivi esposti nel Gaiden (motivi spiegati velocemente anche qui, per
cui la
mancata lettura dell’extra non preclude la quella della ff).
Il titolo è quello di una raccolta di scritti di Bruce Chatwin.
L’irrequietezza è il tratto dominante di
Sisifo a parer mio, ma è qualcosa di molto forte anche in Manigoldo,
seppur
meglio celato.
Altre cose verranno spiegate durante
lo svolgimento.
Mi farebbe piacere qualche parere, di
qualsiasi tipo, se vorrete concedermene anche solo uno.
Grazie in anticipo e buona lettura
(spero).
ANATOMIA
DELL’IRREQUIETEZZA
1
Dalla
Quarta Casa, Manigoldo alzò
indolentemente lo sguardo verso l’alto.
Il sole abbacinante di giugno allagava
il Santuario con violenza; non c’era una nuvola in cielo, come se ormai
l’estate non avesse più dubbi ad arrivare, a dispetto della primavera
stentata
che avevano avuto.
Dalla
Nona Casa un bagliore dorato –
Sisifo era di guardia e il sole lo benediceva.
Manigoldo strinse le palpebre per
indovinarne meglio la figura: le ali erano distese e Sagittarius
guardava verso
il basso. Il mantello sulle sue spalle era immobile come un sudario
scolpito
nel marmo.
Manigoldo immaginò un’aquila di pietra. Potrebbero
impagliarlo, pensò,
incattivito dalla noia; sbadigliò.
Sisifo non gli era mai andato a genio,
aveva troppe certezze, per i suoi gusti. Troppa fierezza e serietà
addosso.
La
vita è un’onda, il Cancro lo sa
perché è un segno che viene dal mare.
La vita è acqua che si schianta, acqua
che può distruggere e tornare al mare o rimanere sulla roccia ed
evaporare via.
Un fluido che sale e scende, senza certezze e senza requie.
Come può saperlo il Fuoco, che brucia
come se non ci fosse un domani, per poi spegnersi senza rumore?
Sisifo
non vede le anime,
pensò; se le vedesse, scapperebbe. Non è lui il migliore
di noi.
È
solo il più fedele – e rimarrà fregato.
Manigoldo
guardò allora il mare e chiuse
gli occhi, il suo mantello oscillava lieve ad una brezza leggera e
intristita.
Che lui lo avesse voluto o no, la vita
lo aveva condotto fin lassù.
Davvero
è un’onda, pensò.
Quando
il caldo fu insopportabile,
Sisifo decise di rientrare nel tempio.
Guardò un’ultima volta verso Atene, come
se in quell’istante fosse potuto succedere qualcosa di terribile, ma
vide solo
un banco di nubi farsi vivo sull’orizzonte.
Si sentì irrequieto, d’improvviso avrebbe
voluto piangere perché tutta la sua vita era stata una nuvola
all’orizzonte.
Pregò che un vento lontano, là sul mare,
le portasse via.
***
Fu
una convocazione inaspettata con un
esito altrettanto inusuale.
l Gran Sacerdote aveva camminato
nervosamente davanti a loro durante la spiegazione della missione.
“Occhi
che guardino lontano, più in alto
di tutti – Sage guardò Sisifo per poi rivolgersi al suo allievo - e
qualcuno
che sia tutto proiettato nel presente. Non è ammesso idealismo, come
non lo è
nessuna forma di eroismo.
Siamo alle soglie di una guerra,
signori, ricordatelo. Non si scherza.”
Nell’ultima
frase Sisifo aveva scorto
una punta di provocazione; il Gran Sacerdote aveva pungolato Manigoldo
con lo
sguardo, ma non era potuta mancare una punta di affetto nostalgico.
Sagittarius
percepì una piccola invidia corroderlo da dentro, silenziosa e
inspiegabile.
Sage e Manigoldo erano ancora maestro e
allievo, si conoscevano bene, erano l’uno fiero dell’altro – complici,
il gatto
e la volpe, pensò il biondo; Cancer sorrise birbante e si piegò
nell’inchino
rituale.
Sisifo
seguì il compagno uscendo dalla
grande sala, le spalle di Manigoldo erano più larghe delle sue,
malgrado la
minore altezza; il suo incedere era quello di chi non si fa troppe
domande e
resiste bene alla nostalgia.
Sisifo pensò a Sasha – no, Athena – e ad
Ilias, il grande assente.
All’orizzonte nessun vento era giunto a
spostare le nuvole, c’era solo una brezza che scompigliava i capelli di
Manigoldo, come un campo di grano nero.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 2 ***
2
Non
erano mai andati in missione
insieme, avevano parlato poche volte e brevemente, di argomenti
impersonali,
cenni sulla guerra.
Si resero conto di essere poco più che
spettri l’uno per l’altro.
Non si conoscevano e, tuttavia, ciascuno
aveva già espresso il proprio verdetto.
“Irresponsabile
inaffidabile” e
“esibizionista
tronfio”.
Non si stimavano, non erano compagni, ma
due generali in competizione – Achille ed Ettore riuniti sotto la
stessa
bandiera.
Parlare
non fu facile, sebbene Cancer
fosse piuttosto chiacchierone: ogni sua frase sembrava una sfida
lanciata, un
provocazione mal celata.
“In missione sempre con El Cid tu, eh?”
Sisifo scoprì che intorno a Manigoldo
regnava sempre un’elettricità inquieta, pregnante e carica; era come
trovarsi
innanzi ad un cavallo immenso e giovane, sempre in bilico tra il gioco
e la
minaccia. Il suo sorriso era eterno, ma nascondeva migliaia di
sfumature – tra
di esse, non vi era mai quella della gioia sincera, mentre dominava
un’amarezza
sarcastica, una presa in giro verso la vita.
“Spesso.”
Sagittarius rispondeva freddamente, lo
sguardo rabbuiato. Egli guardava lontano, un punto imprecisato
all’orizzonte,
nella direzione in cui la costa era scomparsa.
“Da brividi quel tizio.”
“Parla poco, ma è assolutamente
affidabile.” il custode della Nona Casa aveva sottolineato aspramente
l’ultimo
aggettivo.
La
barca che li portava a destinazione
dondolava pigra, Manigoldo si appoggiò scompostamente al parapetto e
inclinò la
testa verso Sisifo. Le labbra si tesero in un sorriso gelido, mentre
gli occhi
brillavano di una scintilla curiosa e divertita.
“Leggo una velata critica nei miei
confronti.”
“Non ho affermato nulla di tutto ciò,
io.” le labbra del Sagittario erano una linea pallida e rigida, la
mandibola serrata.
“Oh no, questo no.
Be’, allora vorrà dire che ho la coda di
paglia!”
Manigoldo rise reclinando il capo verso
il cielo, una risata breve e leggera, piacevole. Sisifo non poté
evitare di
piegarsi ad un sorriso complice.
“Ridi?”,
chiese come se non fosse ovvio.
Fu solo per sentire che risposta l’altro avrebbe dato.
“Mica posso piangere come quelli che si prendono sul serio.
Finché si ride si possono cambiare le
sorti, e, chissà, magari potrei anche diventare affidabile.
Ma dimmi: si dice così male di me al
Santuario?”
Sisifo ricordò quanto si diceva di lui
un tempo - solo l’ombra del fratello – e
si sentì colpevole per aver ascoltato e prestato fede a pettegolezzi su
altri.
Non rispose.
Manigoldo
era rilassato, però. Era
leggero come la nave, che già puntava verso il porto dell’isoletta.
Non gliene importava davvero, dondolava
i piedi al di là del parapetto, come un bambino.
“Siamo arrivati...”, interruppe Sisifo,
indicò la piccola baia con un gesto lieve, e si preparò a caricare in
spalla lo
scrigno della Cloth.
Manigoldo lo seguì poco dopo.
Scendendo
a terra, il biondo sentì che
Cancer gli era diventato un poco fratello, un poco proiezione di quella
leggerezza cercata e mai davvero raggiunta, la leggerezza della brezza
che
porta via le nuvole incombenti.
Manigoldo, specchio e proiezione.
E mille altre sfumature indefinibili –
quante quelle del suo sorriso.
***
Lo
sguardo sospeso perennemente verso un
orizzonte più distante e l’umore del cielo d’Irlanda - Sisifo era
un’altalena
tra la serenità dell’uomo forte e un dolore lacerante e profondissimo.
Come
chi ha sempre qualcosa da nascondere, anche a se stesso, pensò
Manigoldo, chissà cosa, alzò le
spalle e spostò l’attenzione verso un grosso e brutto edificio poco
fuori della
cittadina portuale.
Era
costruito su tre piani, un
parallelepipedo ingombrante e dall’intonaco grigio e scrostato dalla
salsedine.
Le finestre avevano però una certa eleganza, anche se ormai decadente;
agli
ultimi piani si vedevano pesanti tende rosse. Una grande cancellata
proteggeva
il giardino e impediva di vedere l’entrata al piano terra.
Manigoldo
fischiò sfacciatamente e
sibilò: “Certo che è notevole per una cittadina così piccola, hai
capito i
pescatori…”
“Una casa di piacere…” meditò Sisifo.
“Così la chiamano i ben pensanti e gli amanti delle perifrasi. Sì, è un
bordello.”
“Una casa di piacere.”, ripeté
indispettito e accigliato Sisifo: esigeva rispetto per le armature che
avevano
addosso.
Manigoldo capì al volo – conosceva
l’antifona, giacché anche Sage aveva la stessa fisima del “parlar
bene e comportarsi adeguatamente con le Cloth addosso – e
sarebbe bene farlo anche senza”, gli sembrò di sentire la voce del
suo
maestro che lo rimbrottava.
“Casa di piacere, aggiudicato.”
Sisifo
corrugò la fronte con aria grave,
“Che sia la risposta a ciò che stiamo cercando?”
Continuò tra sé e sé: “Sparizioni di
donne e ragazzini; Surplici di Specters distrutte che tornano come
nuove. Tutti
coloro che hanno indossato le armature restaurate avevano qualche
legame con
questa cittadina.
Ma qui non c’è niente, eccetto questo posto.
Manigoldo, una Surplice esige
necessariamente il sangue del suo legittimo proprietario per tornare
alla vita,
dopo essere stata distrutta?”
Cancer meditò un istante: “Una Surplice
in realtà non ha propriamente un legittimo
proprietario. Nel caso degli Specters è la Cloth a dominare e ad
annichilire la personalità del guerriero*. Si nutre dei sentimenti
negativi, ma
non importa chi tu sia, lei ti annullerà in ogni caso. Quindi…”
“Quindi non conta di chi sia il
sangue... è solo sangue per sangue. Basterebbe che il donatore sia
dominato
dalla negatività.”
“Non ho mai visto prostitute
sinceramente allegre. Se poi si tratta di donne e ragazzetti rapiti e
rinchiusi
qui dentro...”
“L’agnello sacrificale perfetto.”
“È il posto che stavamo cercando.”
chiuse Manigoldo. Rivolse uno sguardo affilato e trepidante
all’edificio.
*
Gli Specter hanno tutti la stessa faccia da una guerra all’altra perché
sono
spiriti ridestati e le Surplici plagiano il loro possessore.
***
“Bene,
controlliamo ancora in giro per
toglierci ogni dubbio, poi torniamo sta notte.”
“Non pensavo che si sarebbe mai visto il
grande Sagittario in un simile postaccio!”, lo provocò Cancer.
“Parli come se te ne intendessi.” il
Sagittario lo pungolò, a ciò Manigoldo
rispose con un sorriso enigmatico.
“E poi ho alternative?”, continuò indispettito
Sisifo.
Manigoldo si atteggiò in una posa
profondamente saggia e pensierosa, parlò con voce bassa e suadente e rivolse uno sguardo penetrante al suo
interlocutore: “C’è sempre
un’alternativa”.
Egli rimase per un istante come stordito
– la mente di Sagittarius era stata per un attimo preda dall’ansia per
tutti i
suoi rammarichi.
Sembrava che quelle parole e il loro
tono lo avessero davvero colpito, rimase cupo.
Rivolse uno sguardo nostalgico al cielo,
Manigoldo sorrideva da solo, in preda ad un ricordo divertente.
Un’arietta
leggera si era sollevata sul
far della sera e muoveva leggermente le fronde degli alberi, il suono
del
ridere di Manigoldo vi si mischiava naturalmente come l’acqua di un
ruscello ad
un fiume.
Sisifo avrebbe voluto divenire fibra di
quella corale di leggerezza e voglia di vivere; si morse le labbra per
la
frustrazione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 3 ***
3
Manigoldo intonò una canzone fischiettando e,
volgendosi
verso la città, iniziò a camminare in direzione della piazzetta
centrale.
“Vuoi aspettare qui che cali il buio? Guarda che poi
ingaggiano anche te.”
La leggerezza di un'altalena, la sfrontatezza di un gatto non
toccato da nulla della scena che gli si consuma davanti – erano
irritanti tanto
quanto capaci di esercitare un sortilegio a cui era impossibile
sottrarsi.
Manigoldo non era un superbo, e per questo era tollerabile ed
enigmatico. La sua sicurezza derivava da una sorta di noncuranza
balorda – e
tuttavia gli importava, perché, da quando aveva la Cloth, non aveva mai
fallito, e non poteva essere stata fortuna.
Una calma sibillina e provocatrice – che cosa nascondeva?
Niente, Manigoldo non nasconde niente, e questo è vero
– ed è ciò che fa paura. Una sincerità candida e crudele come quella
dei
bambini.
Fa un caldo tremendo,
pensò Sisifo con le labbra impastate dall'afa, infiacchito dal caldo e
dalla
salsedine che gli era addosso dal viaggio.
"Ti offro da bere”, lo anticipò il compagno, indicando una
piccola osteria a pochi passi dal molo in cui la nave con cui erano
arrivati
era ormeggiata.
Sisifo esitò un'istante, tentato al pensiero della birra. Se
la sentiva già giù per la gola, un fiume dorato e frizzantino capace di
ristorargli il corpo e l'umore cupo di quei giorni.
“Non bevo mai in missione.”
“Suvvia, Sisifo”, innanzi al suo nome pronunciato con tale
persuasività, Sagittarius rabbrividì “una birra. Nemmeno la senti, e
poi di qui
a quando cala il buio ti passa.”
L'uomo dalle crine paglierine
assottigliò le labbra un
singolo istante, Manigoldo aveva uno sguardo profondo e indescrivibile,
sembrava già ebbro.
“Una sola.”
Sisifo se ne pentì immediatamente.
"Una, dai, per la nostra prima missione”, Cancer
guardò verso
il mare quieto con nostalgia e pensò alla vita, di qui aggiunse: “Vuoi
rischiare di morire senza aver bevuto un'ultima birra?”
Dalla una finestrella della locanda si
vedeva il sole
declinare lentamente.
Il posto si chiamava la Bella Bionda, “perché qui non se ne
vede mai nessuna”, disse il gestore, un uomo robusto e perennemente
scocciato
ma loquace.
“Quest'osteria è sempre piena, perché qui non c'è nulla da
fare”, aggiunse. “Confidiamo nell'accidia della gente.”
“Doppio malto per me e una chiara per lui” annunciò
Manigoldo, lasciando roteare sul banco un paio di monete di basso
valore.
Manigoldo indicò un tavolo in un angolo;
Sisifo apprezzò: per
quanto riparato, teneva d'occhio tutti gli altri, “Ottima scelta”,
disse.
“Mi piace un po' forte, la birra.”
“Il tavolo, dico”, e Sisifo indicò la sala, ma sapeva che Cancer aveva
capito
benissimo fin dall'inizio. “Potrebbero esserci alcuni di loro...”
“Oh, sì, anche.” Lo interruppe Manigoldo assottigliando gli
occhi con un sorriso sornione e, per contrario, scrollando le spalle
come se
non gli importasse.
Il moro lo guardava intensamente, come se fosse un oggetto
del tutto nuovo.
“Adesso facciamo un gioco!”
Cancer batté il pugno sul tavolo, Sisifo sussultò come se
quel colpo lo avesse davvero sorpreso e lo guardò stranito.
Chissà perché tutti se la fanno nelle braghe quando
esordisco così davanti ad una birra, si chiese Manigoldo, con un
lieve e
sadico compiacimento verso se stesso.
“E adesso dimmi: se questa fosse
l'ultima birra della tua
vita e tu andassi a morire subito dopo, a cosa brinderesti?”
Il Sagittario guardò meglio l'uomo che aveva davanti: delle
mille sfumature del suo sorriso, sembrava sopravvissuta solo quella
della
debolezza. E Manigoldo sembrò invecchiare di colpo, come se solo la
curiosità
che gli bruciava negli occhi fosse l'unica cosa capace di tenerlo
appeso alla
vita.
Non era un gioco: egli voleva davvero sapere a cosa – a
chi - sarebbe stato rivolto il suo ultimo augurio.
“Non è una domanda qualsiasi, sai”
Sisifo in risposta guardò il fondo
del bicchiere, corrugando
la fronte e pensandoci intensamente.
“Saprei di andare a morire?”, chiese Sisifo. Il colore della
birra era uguale alle crine di Ilias e Regulus e al colore di un buon
miele che
era solito mangiare da bambino.
“Nella vita lo sai che vai a morire?”, rispose Manigoldo,
guardando le sfumature corpose della bevanda.
“So che morirò, sempre e con certezza, ma non lo so mai con
precisione”, Manigoldo sorrise, apprezzando quella risposta. Sisifo
chiuse gli
occhi per un lungo istante, poi riprese a parlare:
“Domanda difficile... Fammi un esempio”
“Se te lo faccio cade il senso ultimo del gioco.”
Il biondo si morse le labbra, rispondere
significava
svelarsi. La birra tremolava invitante nel bicchiere, egli ardeva
all'idea di
bere.
“Bene... Allora
brinderei... Brinderei alla morte che cancella tutto fuorché l'onore,
alla
morte che mette tutte le malelingue a tacere.”
Sisifo si rovesciò fra le labbra un lungo sorso, come a cancellare
quanto
detto. Manigoldo sorrise annuendo, con la faccia di uno che la sa lunga.
“Faccio questa domanda per capire
chi ho davanti.
Rasgado mi disse che avrebbe brindato alla buona sorte di
quelli che lo uccideranno, perché è triste la morte dei nostri
assassini, se
questi sono degni di ucciderci, e se abbattono il Toro lo sono, ha
detto – non
è stupido, quello lì.
Kardia brinda all'Inferno, che sia un bel posto, almeno
quello. E ha più ragione di tutti.”
Risero assieme e poi tacquero, Sisifo assaporò un'altra
sorsata, le bollicine gli solleticavano piacevolmente la gola. Ora si
sentiva
allegro, leggermente alticcio – non era abituato a bere ed era arrivato
stanco
alla locanda.
Egli si incurvò sulle spalle e poggiò
pesantemente i gomiti
sul tavolo. Non badava più alla gente nella sala e fissò Manigoldo: “E
tu? Tu a
cosa bevi?”
Il moro allargò le labbra nel suo sorriso birbone: “Alla salute, la
mia, visto
che nessuno di noi pensa mai a se stesso”
“Prima di morire brinderesti alla tua
salute.”
“Se non prima di morire, quando?”
“Quando la salute ti serve di più”
“Brindare è un augurio, mica una
preghiera. È soprattutto
prima di morire che me la auguro, perché io mica lo so che vado a
morire,
diversamente da voi tutti, che sembra abbiate la sfera magica.
Io morirei con la volontà di vivere un giorno di più.
Cin cin!”
Sisifo rise e fecero tintinnare i boccali, sebbene già mezzi
vuoti, l'uno contro l'altro, e anche Manigoldo accostò le labbra al
vetro e
chiuse gli occhi.
Il fuoco si spegne piano, e lo sa che
va a morire, per
questo vive e muore triste. L'onda mica lo sa quando urterà troppo
forte contro
lo scoglio e perderà tutta la sua forza, sa solo che un giorno accadrà
– ma
gioca gagliarda comunque tutta la vita, e soprattutto nell'ultimo dei
suoi
atti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 4. ***
4
Quando uscirono dalla locanda il sole era già
tramontato, ma
la luce non era cessata. C'era un'atmosfera quieta e sospesa
tutt'intorno.
Poche persone e il brontolio del mare presso il molo, il
dondolare pigro dei pescherecci ormeggiati, l'aria umida e fresca
tipica delle
sere sul mare.
Era una pace estranea ad Atene, come se si fosse a migliaia
di chilometri da essa, e non a poche miglia di nave. Sul far della sera
la
capitale greca era una groviglio di persone e vicoli, il Pireo diveniva
un
formicaio, era una fiera senza fine e senza festa, la sagra del male di
vivere.
Sisifo pensò che, forse, se fosse
nato qui e non ad Atene
sarebbe potuto cambiare qualcosa del suo spirito, o forse no, perché
l'animo
inquieto non conosce porto sereno, e la serenità, come quella della
piccola
città, non può che generargli nuova irrequietezza, nuovi rammarichi.
Gli irrequieti non percorrono strade, ma dondolano nei
labirinti dei se e dei ma.
Sisifo amava per questo Atene: vi si specchiava, era la sua
parallela.
Restarono lungo tempo in silenzio
ad attendere che il buio
calasse; lentamente, le figure delle case e delle navi si fecero pure
sagome, e
anche i lineamenti di Sisifo e Manigoldo sembrarono quasi scomporsi in
quell'oscurità. L'unica fonte di luce erano i pochi e baluginanti
lampioni
disseminati avaramente per la città e il ruotare nervoso e indifferente
del
faro, il cui fascio quasi opalescente, quando giungeva, urtava gli
occhi con la
violenza di un'apparizione divina.
L'atmosfera era lievemente inquietante, le uniche tracce di
vita risalivano al vociare ovattato proveniente dalla Bella Bionda.
Fu quando Sisifo ruotò il capo per
guardare proprio in
direzione della locanda che scorse una donna con una mantella gialla*
che
riconobbe subito.
Costei era appoggiata con le spalle contro le mura di
un'abitazione, illuminata poco poco dalla luce di un lampione.
Indossava una
lunga gonna rosa e i capelli biondissimi e sciupati le ricadevano oltre
spalle
fino ad incorniciarle il seno. La distanza e il buio non permettevano
di dire
se fosse bella o no.
Intorno a lei regnava una languida desolazione, che pareva
corporea, sembrava colarle addosso come la luce del lampione, un
liquame
metafisico e densissimo.
Il Sagittario richiamò con uno schiocco di dita l'attenzione
di Manigoldo che, da tempo, era perso nella contemplazione dei deboli
flutti
che battevano contro il molo.
Quando egli la vide, le rivolse
uno sguardo grave che Sisifo
non gli aveva mai visto fare. Allora il custode del Cancro si caricò in
spalla
lo scrigno della Cloth, e disse: “Abbiamo il nostro passpartout. Lasci
parlare
me, sì?”
Sisifo non si oppose, tuttavia una saetta sdegnata gli
attraversò lo sguardo: “Sembri molto pratico di
queste cose.”
“Ho la faccia di uno pratico?” Manigoldo rigirò contro Sisifo
la stessa malizia irosa.
Per la prima volta sembrarono pesargli addosso i pensieri
altrui: “Sono pratico meno di quanto pensiate tutti...
Ma visto che, almeno esternamente, io sono esattamente chi
gli altri pensano che io sia, per la
signorina lì presente io sarò un cliente da manuale.”
“Non ha senso quello che stai dicendo, te ne rendi conto?”
“Nemmeno la tua espressione sdegnata aveva un senso, visto
che siamo sulla stessa barca.
Stiamo andando a puttane insieme, Sisifo. E questo è solo
l'inizio, visto che finiremo nel solito bagno di sangue.
Tieniti per te le tue sentenze da quattro soldi, perché la
faccia, oggi, ce la metti anche tu.
Anche il perfetto Sagittario, capo dei cavalieri, varcherà le
soglie di un bordello, e in compagnia del pratico sottoscritto.
Sissignore.”
Sisifo ammutolì, mortificato e offeso al
medesimo tempo.
Manigoldo si calmò immediatamente, e sorrise diplomatico: “E ora,
Sisifo –
calcò volontariamente e con disprezzo sul nome – reggimi il gioco. Si
aprono le
danze.”
Non è vero che chi è stato
ferito cesserà di ferire. Sarà,
anzi, il più feroce.
Sisifo si era ripromesso di rendere quella sentenza solo una
fandonia. Aveva giurato di non giudicare mai più nessuno, di attribuire
solo
secondo i meriti o le colpe verificati da lui medesimo in prima persona.
Se non vedo non credo**, né al
bene né al male – ecco la
sua massima di vita.
Una vita e non hai imparato nulla: è per la tua scarsa
capacità di gestire te stesso che condannerai tutti.
Non sei fedele nemmeno a te stesso, si disse.
*La mantella con la quale si identificavano,
soprattutto nel medioevo, ma anche successivamente, le prostitute
**S. Tommaso apostolo
***
Manigoldo si avvicinò lentamente
alla giovane prostituta
guardandola negli occhi. La giovane si richiuse nelle spalle, come una
tartaruga; aveva occhi vuoti e delle manine magre magre che stringevano
nervosamente la gonna.
Doveva essere una delle donne rapite, non aveva più di
diciassette anni.
Manigoldo sulle labbra sfoggiava
il suo sorriso più
rassicurante e tremendo, mentre lo sguardo da predatore faceva gelare
il sangue
nelle vene. C'era una malizia autentica e bestiale nella sua posa.
Egli percepiva la paura della donna e sembrava piacergli
farvi leva,vederla annaspare.
Introdusse Sisifo, il quale era rimasto leggermente in
disparte a guardare per aria, indicandolo come: “il mio amico qui
presente” e
trattò velocemente.
“Però vorremmo un luogo, come dire:
più... intimo e riparato”
disse con voce strascicata, sfumando il suono della parole. Nel buio
del porto
sembrava tutto più losco.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo: “Allora non è con me
che dovete parlare, andate alla casa, lì troverete il posto
che
cercate.”
Mentre la giovane donna parlava, Sisifo
aveva visto
affacciarsi sul viso di Manigoldo un sorriso smaliziato e cattivo.
Ecco, una delle sue trovate. Il
Sagittario ebbe un moto di stizza, perché voleva concludere in
fretta e provava pena per quella giovane. Non approvava il modo di fare
di
Manigoldo, uguale a quello del gatto che ammazza il topo ma si limita a
giocarvi crudelmente, senza mangiarlo.
“E se non mi andasse bene?” In un
attimo Manigoldo balzò in
avanti e strinse la ragazza tra sé e il muro, puntellandosi sulle
braccia. Il
viso della prostituta divenne la maschera del Terrore, spalancò i
grandi occhi
scuri e le narici si dilatarono come quelle di un animaletto. Si era
portata le
mani al petto, la sinistra era salita al proprio collo a stringere un
piccolo
crocifisso dorato.
Sisifo tirò, dall'altra parte, Manigoldo
per il tessuto della
camicia: “Dacci un taglio!”, sibilò con rabbia.
“Oh, insomma!”, liberò la giovane con delicatezza: “stavo
solo scherzando, signorina, ovviamente.”
Lei li guardò spaesata.
Sisifo aveva già cominciato ad
allontanarsi, Manigoldo si
voltò un ultima volta verso la prostituta e le lanciò una moneta di
alto
valore.
“Statemi bene, signorina. Da questa notte andrà meglio,
parola di Manigoldo.” Cancer finse di togliersi un cappello immaginario
per il
saluto e fece un piccolo inchino galante.
“Mi spieghi perché devi sempre perderti in queste cose?!”
Sagittarius era sinceramente arrabbiato, decisamente furibondo, pensò
il
moro. Quando Sisifo era arrabbiato, scoprì Manigoldo, non alzava il
tono di
voce, come le persone normali, no: sibilava.
Assottigliava gli occhi e le labbra.
Pareva proprio un serpente, e più che di semplice ira,
sembrava gonfiarsi di un rancore profondo e velenoso.
Siamo vendicativi, qui, lo canzonò nella mente il
compagno.
“Oh, suvvia, non essere lagnoso. Ci ho
solo giocato un po',
non abbiamo nemmeno perso tempo.”
“Spiegami perché.”
Manigoldo ridacchiò e accelerò un poco, abbastanza da
trovarsi di un paio di passi avanti a Sisifo, il quale ne vedeva ora
solo la
spalla e le crine nerissime nella notte.
“Ho visto un sacco di cose a questo
mondo, e anche
nell'altro, a dir la verità – Manigoldo indicò verso il basso – ma
ancora non
ho trovato nulla di così sorprendente come la reazione del terrore. È
sempre
diversa, non te ne stufi mai. È un rivelatore anche migliore di “A che
cosa
brinderesti?”.”
Sisifo trovava invero la questione estremamente interessante,
ma non poteva concederglielo: “Non è questo il punto. Qui, ora.”
“Perché un'altra volta ho fatto una cosa
del genere con
un'altra prostituta e quella aveva tentato di infilzarmi con un
coltello che
teneva nel reggiseno.” Manigoldo rise e continuò: “Tu non hai idea di
che
sberla di lama tenesse in mezzo alle te...”
Sisifo lo zittì, muovendo una mano in aria: “Siamo arrivati.”
Cancer lo guardò contrariato, era uno dei suoi aneddoti
preferiti, sbuffò.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 6. ***
6
Sisifo capì che lui era sempre stato lì, dal primo
istante.
Gli erano passati davanti quando erano entrati nella stanza,
ed era stato lì anche quando si erano voltati a guardare la maman
uscire dalla sala, aveva visto
Manigoldo piegarsi sulla donna, e Sisifo mentre la contemplava svuotato
da
tutti i pensieri.
Sisifo non avrebbe saputo dire da che
cosa lo aveva capito,
ma l'espressione dell'uomo in fondo alla stanza glielo confermava.
Li guardava con un riso sardonico e occhi iniettati di
sangue, che parevano tagliare l'oscurità, occhi di brace, vivi come
quelli
della faina che conficca le zanne nella preda e ne assapora il sangue
che ben
presto la inebria, mentre la linfa rossa le inzuppa l'intero muso.
“Ci hai messo tanto a notarmi, Gold
Saint. La punta di
diamante dell'armata di Athena non sa nemmeno scovare un nemico
nascosto dietro
la porta?”
Aveva una voce metallica e bassissima. Appena la ragazza la
udì cominciò a piangere più disperatamente: “perdono, perdono”, diceva.
Lo Specter si incamminò verso il
centro della sala, i suoi
passi erano inudibili. Sembrava levitare, si frusciava solo il suo
pesante
mantello, ma sarebbe potuta benissimo essere una delle tende lievemente
scossa
da un alito di brezza.
La superficie lucidissima della
Surplice rifletteva una luce
tremolante, e sembrava prendere consistenza sottraendola alle tenebre.
Era
un'armatura superba, con un immenso busto e gambali solidissimi che
proteggevano l'intera gamba.
Non aveva ali, ma non era meno imponente dell'armatura di
Minosse.
Sulle braccia e sulla vita vi erano degli intagli in oro,
componevano la figura di un serpente, e
sembrava che esso si muovesse insieme al suo possessore.
“Ofiuco”, sussurrò senza forza
Sisifo, comprendendo a chi si
riferisse la decorazione.
“Ofiuco, della saggezza celeste*.” confermò l'uomo per poi
piegarsi in un profondo inchino, “E sono qui per uccidervi”.
Manigoldo imitò il gesto con ironia sprezzante: “Guarda un
po’ i casi della vita.”.
“Le nostre strade condividono la
medesima meta, e questo è
buono. Purtroppo è un fine che non ci concede un percorso in amicizia.”
concluse il nemico.
Quando si fece più vicino mostrò un volto fastidiosamente
giovane, che strideva con la gravità della sua voce e la profondità
indecifrabile dei suoi occhi – rossi, proprio come quelli di un demonio.
“E non solo la meta ci impedisce quanto detto. Siete voi a
costringermi a questo lavoro infame.
Voi distruggete le Surplici, io devo ripararle.
Hades vuole questo e lo comanda.
Io obbedisco, ma – capite – la mia vocazione mi spingerebbe
alla ricerca del sapere.
E tuttavia proprio questa mia sapienza mi impedisce di
dedicarmi alla sapienza stessa.”
Parlava come se ogni sua frase fosse la premessa di un
sillogismo, scandiva ogni affermazione con un pausa pesante.
Aveva una strana fretta però, una
frenesia furiosa che non
tardò a manifestarsi.
“Perché in tutto l'esercito di Hades non c'è un
maledettissimo competente! E io devo stare qui a sbudellare troie e
rigenerare
infime Surplici per dei mentecatti che si fanno sbranare da degli
idioti che
non notano nemmeno il nemico quando sta fermo dietro di loro!” ululò
con tale
rabbia da sbilanciarsi in avanti.
“È un po' frustrato dalla
situazione”, osservò Manigoldo
provocatoriamente.
Sisifo tirò per un braccio il Cancro: “Taci, maledizione”, il
moro lo guardò offeso e confuso: “Taci”, ripeté in un ringhio il
compagno
Manigoldo si liberò bruscamente dalla sua stretta.
“Avanti, diglielo!, diglielo, Sisifo,
capo dei Saints, di' a
quello sprovveduto chi avete davanti, digli chi è Ofiuco!” urlò lo
Specter,
allargando le braccia e mostrandosi.
Il serpente d'oro sembrò dimenarsi sul suo corpo.
Sembrò che Sisifo dovesse prendere fiato
per rispondere. Poi
parlò con tono grave, guardando dritto innanzi a sé la figura del
nemico che
sorgeva dalle tenebre, più diretto a lui che a Manigoldo.
“Un semidio. Ofiuco, conosciuto anche come Asclepio, dio
guaritore, figlio di Apollo.”
C'era però fierezza negli occhi del Sagittario, perché un
nemico invincibile è sempre un meraviglioso fregio per un grande
guerriero.
Manigoldo si sentì rinvigorito
alla notizia e fece un sorriso
ferino: “So benissimo chi è Ofiuco. Allora dopo che ti avremo ucciso
intoneremo
un peana**.”
Ofiuco avanzò ancora di qualche passo verso la luce,
guardando la donna con fastidio, e così concentrato nel suo disprezzo
verso di
lei da non ribattere alla provocazione dell'avversario.
*POSTILLA DEGNA DI NOTA:
Tra le stelle celesti degli
specters, in LC quella della
saggezza non è incarnata da nessuno e quindi ho pensato che per Ofiuco
andasse
bene.
Troppo tardi mi sono ricordata
che Ofiuco fosse la costellazione di
Shaina.
Tra l’altro Ofiuco, identificato con Asclepio, è figlio di
Apollo, e si trova tra le 88 moderne costellazioni, non potrebbe essere
tra le
108 stelle malefiche.
D’altra parte, sebbene ci fosse già Shaina, mi pare di aver
letto che nel Next Dimension si accenni ad un tredicesimo cavaliere
d’oro,
risalente ai tempi del mito, Ofiuco, che fu maledetto.
Fingiamo che per qualche motivo nel XVIII secolo fosse passato
dalla parte di Hades. Ok? Ok.
Anche se non fosse così, vi chiedo di aver pazienza: Ofiuco
mi piaceva davvero tanto come antagonista per questo contesto, e molti
problemi
sono emersi solo dopo che la storia era stata completamente avviata e
quindi non
potevo, né volevo, sconvolgere tutto.
Prendetela come mera Fan Fiction.
Lo dico per “onestà intellettuale” (parola troppo grande per
una cagata del genere): se non avessi scritto nulla a proposito, forse
molti
non ci avrebbero nemmeno fatto caso. Ma amo Saint Seiya
vergognosamente,
ritengo di doverlo rispettare completamente.
**Canto di vittoria che si dedicava al dio
Apollo
***
“Un pessimo sangue...”, borbottò.
Lo Specter tendeva a
tenersi lontano dalla fonte luminosa principale, guardava la luce con
diffidenza. Aveva occhi piccoli, ed erano rossi per davvero.
Le mani erano curatissime e sottili, da medico, ed era
evidente che non si avvaleva della forza bruta; anche il resto del
corpo
sembrava piuttosto esile. Sulle spalle portava lo scrigno nero di una
Surplice.
Egli si portò nell'ala sinistra della sala, superò Sisifo che
lo seguì con sguardo diffidente, e, da un punto in ombra, sibilò
qualcosa
chiamando a sé la ragazza.
Lei si alzò come un burattino e cadde mollemente tra le sue
braccia.
“L'ho chiamata Elena,
è una
personalità immobile come colei che condannò Troia. Colpevole e
immobile.
Solo che è stata una
delusione: un nome troppo elevato per qualcosa di così infimo e
attaccato alla
vita.
Volevo chiamarla Lucrezia*,
per fortuna che ho risparmiato tale offesa a quella mirabile donna.”
Ofiuco prese
delicatamente il mento della donna tra le dita, scrutandone
intensamente gli
occhi – la guardava e ne parlava come un allevatore parla di un cavallo
di
razza: “Questa non riuscirebbe ad ammazzarsi nemmeno davanti alla
promessa di
un'eternità di dolore, resta attaccata alla sua miserabile vita a
qualsiasi
costo.
A qual pro, poi, proprio non
lo so.”
*La
matrona romana che, violentata sa Sesto Tarquinio,
nipote del re,
si suicidò per non dover convivere con un tale
disonore.
Personalità agli antipodi della bella Elena di Troia,
che, per quanto abbia potuto soffrire della sua condizione,
rimane sempre attaccata alla vita.
***
La
donna si specchiava nello
sguardo dello Specter con occhi sgranati, sotto le dita di Ofiuco a sua
pelle
sembrava ardere. E bruciava veramente, la pelle del viso poco a poco
cominciò a
piagarsi.
Ella piangeva con le labbra
serrate e in un miserevole silenzio. Chiuse gli occhi innanzi alla sua
sorte.
Fu allora che Ofiuco sembrò soddisfatto
e la lasciò ricadere ai suoi piedi come un bambola rotta.
L’uomo
armato di nero levò il
capo e lo sguardo nella direzione dei Santi. Aveva una chioma scura e
leonina,
la scosse con forza, chiudendo gli occhi come in preda ad un piacere
carnale intensissimo.
“Ma come tutte le prede
insulse, serve a qualcosa – chissà perché i grandi, proprio in virtù
della loro
magnificenza, cadono sempre nell’infamia, mentre gli insetti se la
cavano
puntualmente.
Buffo che solo un sangue tanto
sporco possa nutrire una delle armature più grandiose dell’esercito di
Hades, e
di questo me ne dispiaccio.
Ma mi consolerò: anche il
vostro sangue parteciperà alla libagione per Radamanthys*.”
*Mi
piaceva l’idea che Radamanthys fosse l’assassino
di Ilias
e, l’armatura danneggiata in quello scontro, tornasse
davanti a Sisifo.
***
Il
bel viso di Sisifo era teso
in una smorfia sdegnata, le labbra immobili e pallide, gli occhi così
concentrati sul figuro davanti a sé da sembrare vuoti.
Manigoldo tenne il fiato, come
se quel gesto avesse potuto fermare anche il tempo.
Si
erano già trattenuti troppo in inutili chiacchiere.
Fu
un momento: centinaia di
fuochi cilestrini apparvero nella sala, illuminando tutto di una luce
spettrale. L’istante dopo convergevano tutti su Ofiuco.
“Hai sbagliato persona”, disse
quello, prima di sparire nella successiva esplosione con il sorriso.
Manigoldo aveva annerito le
pareti e bruciato le tende con il suo attacco. La luce lunare inondò
allora la
sala, tutto ciò che era nella stanza assunse contorni marmorei, i
volti, già
pallidi, divennero cadaverici, le espressioni plastiche. Le candele
erano state
spente dallo spostamento d’aria.
Ofiuco
sembrava sparito
assieme ad Elena; tuttavia il suo cosmo doveva bruciare nella tenebra
di
qualche recanto, perché quello della donna era ancora lì, flebile come
la sua
tristezza.
Sisifo estrasse il suo arco,
aveva l’espressione tesa mentre cercava nel buio, un’inquietudine
rabbiosa
dentro gli occhi. Manigoldo lo guardò per un istante e pensò al fuoco
vivo che
sta per divenire incendio, e mangia piano, segretamente ingordo, il
combustibile – latitante.
Ofiuco
sorse d’improvviso
dalla tenebra al fianco di Sisifo. Egli levitava, gli appoggiò il mento
sullo
spallaccio destro dell’armatura e passò l’unghia dell’indice sinistro
sulla
giugulare, gesto che il Sagittario accolse con un’espressione
raggelata, rimase
immobile con gli occhi sbarrati, stringendo l’arco – non riusciva a
compiere
altri movimenti.
“Fattura
meravigliosa,
armatura degna di un Giudice Infernale, se avesse avuto la fortuna di
essere
Surplice…” Ofiuco parlava con voce strascicata, reggeva sull’altro
braccio il
corpo immobile di Elena, la quale aveva la testa reclinata tanto
all’indietro
che i capelli sfioravano il pavimento.
“Ma non è una Surplice, e
finirà oggi”
L’uomo
carezzò le decorazioni
sulla schiena di Sisifo, fino a che Manigoldo non tentò di afferrarlo
per il
collo. Quando questo avvenne, il Riparatore si dissolse in una nube
nera.
Parve una seppia, e sarebbe
stato divertente da guardare, se il Sagittario non fosse rimasto
immobilizzato
da quel breve contatto.
Come
quel mattino al Santuario,
Sisifo sembrò nuovamente un’aquila di marmo. Manigoldo incontrò quella
visione
con un nuovo terrore, un gelo indefinibile che gli tolse il fiato.
Guardò con occhi vuoti il fumo
nero tra le sue dita e le ali della Cloth del compagno.
La
voce del nemico rimbombò
allora tra le pareti: “Un racconto dice che Athena mi donò il sangue
della
Gorgone, e, da quel dì, il sangue del mio fianco sinistro è velenoso.
Io non so se la premessa sia
vera, tuttavia dispongo di tale potere.
Adesso tocca a te, Cancer. E
poi guarderemo tutti insieme la resurrezione della Viverna, alla quale
verserete anche voi il vostro contributo.”
Di nuovo la cadenza da
sillogismo, la cantilena della razionalità perfetta.
Manigoldo chiuse gli occhi per
sentire da dove provenisse, quei toni non gli erano mai piaciuti.
Cancer
scagliò i fuochi fatui
nella direzione della fonte sonora e circondò di altri se stesso e il
Sagittario. Appoggiò le spalle a quelle di Sisifo per essere certo di
avere
almeno un lato coperto.
Urtandosi, le Cloth generarono
un tintinnio argentino e acuto, piacevole, per quanto sbagliato nel
contesto
della battaglia.
Si
verificò un’altra piccola
esplosione nell’angolo vicino alla porta, e la nube nera sorse di nuovo
–
Manigoldo lo aveva quasi colpito.
Avrebbe
voluto poter vedere
Sisifo cosa fare in quel momento, perché proprio non ci capiva nulla:
Elena era
sacrificabile? Certo che no, avrebbe detto Sagittario – e avrebbe detto
Sage, e
avrebbero detto tranne lui che non ne era così sicuro, perché nella sua
testa
il valore della vita umana a volte ancora vacillava.
E
come fare, comunque, ad
essere certi di non averla uccisa?
Bisognava colpire solo Ofiuco,
che l’aveva in braccio.
E Ofiuco?
Manigoldo imprecò.
“Immagino
che lo
Yomotsu Hirasaka* non sia
contemplato, eh, Sisifo?”
Percepì le spalle di Sisifo irrigidirsi ulteriormente e
comprese: “Roger”, disse.
*L’anticamera
del mondo dei morti,
l’allegro parco
giochi, in cui il cavaliere di Cancer ha l’abitudine di
spedire i suoi
nemici.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 5. ***
5
La casa troneggiava nel buio, era così imponente che sembrava
pesare terribilmente sul terreno; quasi tutte le luci erano accese, un
vociare
lieve proveniva dall'interno. Se non avessero saputo della sua reale
funzione,
avrebbero pensato di essere capitati nella residenza di un nobile che
aveva
organizzato un qualche ballo.
Dopo essersi allontanati dalla giovane donna, avevano
indossato le armature e si erano coperti con dei vestiti larghi perché
non si
vedessero*. Erano molto imponenti o molto buffi abbigliati così.
Sisifo continuava a ticchettare il dito sul suo petto, per
sentire l'armatura sotto il tessuto e calmarsi.
“Allora entriamo” affermò Manigoldo, già dimentico del
discorso precedente.
Sisifo lo seguì lentamente, a due passi di distanza.
Sagittario sembrava camminare sulle uova, aveva le labbra
secche, un'inspiegabile ansia addosso. Si voltò indietro a controllare
che
nessuno li vedesse.
Ti pesa ancora il giudizio altrui, sibilò una voce
nella sua testa. Fratello di Ilias, disse.
Schiavo del tuo sangue.
Per il Santuario, pensò. Nessuna
vergogna.
Si guardò indietro un'ultima volta.
*Vi ricordate quando Sage incontra Manigoldo
la prima volta? Le
armature erano coperte su per giù alla stessa maniera.
***
Le pareti erano ricoperte di
moquette rossa, così come i
pavimenti. Le lampade erano dei complicatissimi candelieri appesi al
soffitto,
centinaia di fiammelle grondavano luce e cera. A prima vista sembrava
di
entrare in una dimora di lusso, ma basta un'occhiata in più per
scorgere il
tessuto tarlato e le macchie di cenere ovunque, qualche pulce
saltellava sui
cuscini di un divano nell'angolo.
Manigoldo si sentì con una certa
soddisfazione nel Satyricon*.
Sisifo non pensava a niente, sentiva solo l'ansia crescergli
in petto, come se una colonnina d'acqua gli risalisse attraverso la
trachea.
Non sapeva come spiegarselo, sapeva di
avere avuto la
medesima sensazione la prima volta in cui aveva per sbaglio scorto due
giovani
imboscati nel mezzo di un coito.
I tamburi nella testa, un vago senso di colpevolezza per sé e
di disgusto verso gli altri, la voglia di scappare e, invece,
l'immagine del
sedere di uno dei due, che si alza e si abbassa, fissa come un chiodo
nel
cervello.
L'atmosfera era pesante e l'aria
opprimente non aiutavano: le
candele profumate servivano a coprire un lezzo indescrivibile di cui le
pareti
erano impregnate, un misto di umori umani e pareti marcite per
l'umidità;
tuttavia esse non solo riuscivano male nel loro intento, ma scaldavano
terribilmente.
Dei mormorii giungevano da una sala adiacente, davanti
all'entrata della quale vi era solo uno spesso tendaggio; da lì
provenivano
odore di sigari e risatine femminili e sommesse, sopraffatte da altre
risa
maschili e sguaiate.
Sisifo si sentì ancora peggio
quando vide Manigoldo
appoggiarsi al bancone per parlare con la maman,
una donna grassa e severa. Nel mentre vide brillare l'armatura del
Cancro
vicino al colletto della camicia di Manigoldo.
Sisifo pregò che fosse voluto, ma, ad ogni modo, inveì contro
il pessimo tempismo del suo collega. Se l'attacco fosse stato
immediato, lui
non avrebbe avuto la forza di reagire.
La maman li squadrò
diffidente, ma non sembrò aver colto nulla dietro a quel breve bagliore.
La donna li guardo torva: “Siete
insieme?”
Sisifo rispose impallidendo ulteriormente, Manigoldo annuì
fiero.
La donna li condusse in una piccola stanza al secondo piano,
salendo le scale si sentivano gemiti salire e scendere dagli altri
piani,
un'atmosfera da girone infernale.
Manigoldo sulla scala aveva preso
a braccetto Sisifo, per
prenderlo da parte. Cercava di sussurrare, ma riuscì solo ad urlare
sottovoce.
Fortuna volle che quella sembrasse la discussione di un amico che cerca
di
coinvolgere un compagno benpensante in qualche impresa.
“Si può sapere cosa ti prende?”
“Eh?”
Sisifo era semplicemente stordito da tutto, consumato e
ottenebrato da quell'angoscia che lo macerava da dentro.
“Vedi? Sembri demente, dov'è il tuo
solito smalto?!”
L'uomo biondo lo guardò in modo isterico, non aveva la forza
di mentire, si sentiva nuovamente ubriaco: ”Dov'è? Fuori dalla porta
è...
“Ma che diamine...”
“Vuoi sapere che c'è?! Questo posto, tutto, voglio farla
finita con questa storia”, solo quello scatto d'ira riuscì a scuotere
Sisifo.
Manigoldo scrollò le spalle, poi
gli sorrise saccente e
soddisfatto: ”Allora sei un essere umano
anche tu, eh.”
*La brillantissima opera di Petronio, I sec.
a.C.,
nella quale l’autore mostra la pacchianeria di un liberto arricchito,
Trimalchione.
***
La donna li condusse senza parlare
ad una grande stanza in
fondo al piano, chiusa dietro una pesante porta. All'interno vi era un
enorme
salone, dai soffitti altissimi, completamente vuoto, eccezione fatta
per un
pesante letto a baldacchino sul fondo, rialzato da una pedana in legno.
Dalle
finestre penetrava solo qualche debole spiraglio di luce lunare, quando
lo
permetteva qualche fessura tra le tende. Solo sul fondo, intorno al
baldacchino, erano accese delle candele, dei mozziconi già consumati
per metà.
L'atmosfera era molto pittoresca, i passi rimbombavano tra le
pareti bianchissime e spoglie.
Una figura esile e dai lunghi capelli era seduta sul bordo
del letto, guardava dritta innanzi a sé il tremolare della fiamma, come
se non
avesse notato la loro presenza.
La maman scomparve
presto e in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle. Sbattendo, le
porte
sembrarono produrre uno strano suono metallico, inadatto al legno di
cui erano
fatte.
Sisifo si guardò per un istante indietro, ma il passaggio
dalla luce al buio gli aveva momentaneamente indebolito la vista; pensò
che in
quel momento la donna fosse sembrata un monaco che usciva rispettoso da
una
chiesa.
L'ansia del Sagittario era stata
sostituita dalla nuova
curiosità per quella figurina.
Lui e Manigoldo si guardarono per un istante, suggerendosi
senza parlare di stare in guardia.
Camminarono lentamente verso il
baldacchino; ogni passo
risuonava forte, unico rumore, e sembrava una condanna a morte, come
quando il
boia sale sulla forca e nessuno parla, e tutti ascoltano solo lui che
cammina.
La ragazza restava immobile
davanti alla candela, le spalle
esili e ingobbite, i capelli d'oro sciolti lungo una spalla eburnea.
Stava
recitando un rosario, le labbra rosee di muovevano senza pronunciare
nulla, tra
le dita sgranava una coroncina.
Ella era immobile come una statua, ma le ombre che danzavano
intorno per il baluginare della fiamma, rendevano difficile definirne i
lineamenti e la posa. Ora bisognava farla parlare.
Costei non si mosse nemmeno quando
Sisifo le fu davanti ad un
lato del letto e Manigoldo si posizionò dall'altro lato alle sue spalle.
E nemmeno quando il cavaliere moro, audace, posò un ginocchio
sul materasso e avvicinò il viso al suo collo. Parlò con voce
bassissima, quasi
un sospiro, con una dolcezza sensuale e pericolosa: “Niente da
dichiarare?”
La giovane, che Sisifo giudicò
bellissima, per quanto di una
bellezza abbacchiata e tendenzialmente invisibile, reagì solo quando il
Saint
del Cancro le passò una mano tra i capelli.
Era quello che voleva Manigoldo: una reazione.
La videro irrigidirsi e
d'improvviso la sua schiena fu scossa
da un singhiozzo. Pensarono entrambi che fosse scoppiata a piangere: si
era
ripiegata tutta su se stessa, portandosi le ginocchia al petto e
posando la
testa su di esse.
La veste bianca le era scivolata lungo le cosce, scoprendo un
paio di gambe magre e troppo bianche per indossare con grazia quel
colore; il
pallore non era smorzato dalla luce calda della candela, sembrava
opalescente.
Nulla c'era nulla in quella donna che
potesse far pensare ad
una prostituta.
Manigoldo e Sisifo si trovarono innanzi ad un agnello
sacrificale – all'innocenza immolata e insultata.
La donna, piegata su se stessa, non
piangeva ma parlava
fittamente tra sé, con il passare del tempo il tono di voce salì e
alcune
parole di scusa divennero comprensibili.
“Io mi scuso... voi... No, voi con me...!”
Ella sollevò la testa all'indietro: “No! No!
Dio si scusi con noi!...” sussurrò sibilando: “Maledetti
tutti!”
Fu solamente allora che la donna
cominciò davvero a piangere.
Singhiozzava forte e stringeva la stoffa del vestito con rabbia.
Manigoldo pensò con stizza ad un maiale che sta venendo
portato all'ammazzatoio.
Piangeva con lamenti lunghi, come un cervo in autunno,
rimbombavano contro le pareti dell'ampia sala, il buio sembrava
dilatare lo
spazio e amplificare i suoni.
Il Sagittario pensò alla litania
delle Troiane catturate
dagli Achei, a Cassandra e alla sua eternità di frustrazione e dolore;
la
punizione di Apollo abbattutasi su di lei prima, la tragedia della
storia dopo
Per un istante Sisifo si rivolse verso la porta, come a
cercare di vedere dove andassero a finire quei lamenti.
Fu allora che lo vide.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 7. ***
7
Ofiuco
si era di nuovo manifestato innanzi a loro; gli
sembrarono sufficientemente immobili da poter mettere a terra Elena.
Egli guardò
Manigoldo con aria di superiorità compiaciuta.
“Hai intenzione di sferrare lo stesso attacco per l’ennesima
volta?
Non puoi fare nulla, Cancer. Puoi solo ritardare con colpi
insulsi una fine già annunciata, ma non si cambia il destino.
Volete salvare capra e cavoli, ma non salverete nulla, non
Elena, e neppure voi stessi.”
Manigoldo
fu solo capace di rivolgergli un’occhiata
rancorosa. I fuochi fatui baluginavano innanzi a loro, proiettavano le
loro
ombre opache su tutte le pareti.
“E adesso taci e osserva come rinasce una Surplice.
È un grande onore per due che stanno per morire come topi.”
Ofiuco
posò lo scrigno di Wivern a terra, in un punto in cui
fosse visibile a Sisifo, immobile, e che costringesse Manigoldo a
voltarsi in
direzione opposta rispetto alla quale era.
Sopra di esso, il nemico poggiò la schiena dell’esanime Elena
che prese una posa scomposta da burattino, il collo tutto all’indietro
e le
gambe in una posa spastica.
L’unghia
dell’uomo divenne un lungo artiglio, Ofiuco la
avvicinò pericolosamente al collo della donna. Manigoldo scagliò un
nuovo colpo
per allontanare il nemico, il quale, nuovamente scomparve nella sua
nube nera e
si manifestò alle sue spalle.
L’artiglio era stato preparato per Cancer, non per Elena, e
Manigoldo si sentì stupido. Ofiuco colpì lo stesso identico punto di
Sisifo.
Il Gold Saint fu percorso da una scossa improvvisa e
violentissima: gli sembrò che il corpo dovesse implodere, per un attimo
i suoi
nervi ebbero una percezione totale del mondo circostante, come se la
sua
coscienza si fosse espansa a tutto l’ambiente, per poi richiudersi
nuovamente
all’interno del suo corpo, ormai bloccato.
Come respirare tutta la forza della vita per un istante, per
poi trovarsela negata.
Fu bellissimo e straziante, durò un solo momento, prima di
essere costretto all’immobilità.
Riusciva a muovere solo gli occhi, la sua espressione doveva
essere bloccata nello spasmo di sorpresa di un attimo prima.
Ofiuco
ricomparve innanzi a loro dalla sua nube nera, accanto
alla donna.
La osservò con occhi vivaci e percorse con la punta dell’indice
la linea che avrebbe percorso con il pugnale che sfilò da una guaina
della
cintura.
La lama e l’elsa dell’arma, incrociandosi, formavano una
croce.
Sotto
questo segno vincerai*, pensò
Ofiuco,
carezzando l’intersezione delle parti.
*La
frase che un angelo
dice in sogno a Costantino, prima della battaglia di Ponte Milvio.
Si riferisce
alla croce.
***
Lo
scrigno si aprì da solo svelando la Viverna – nera, feroce
e fredda. Già essa sola trafiggeva Elena, gettata sulle sue punte.
Quando l’uomo si piegò in avanti e affondò la lama nella
gola, Sisifo provò freddo.
La donna emise un gemito gorgogliante e affogò nel suo stesso
sangue – solo allora, finalmente, morì.
Il
plasma eruppe elegante e crudele, grondando abbondante su
tutto il corpo e scivolando sul metallo. E scorreva come un fiume sulla
pelle,
ma, appena toccava la superficie della Surplice, esso scompariva – la
Viverna
se ne nutriva ingorda, goccia a goccia, e riacquisiva lucentezza.
Immobili,
i due Gold osservarono la sconfitta stillare rossa
da un collo da agnello, saziare il nemico, rinvigorirlo.
E non dissero nulla, perché non potevano.
E non pensarono nulla, perché si vergognarono di loro stessi.
“Dalla
gola si stilla il sangue della vita, che nutre
l’armatura, ma è dal petto e dal ventre che scorre l’elisir della
forza. Lì si
annida il dolore.”
Ofiuco spiegava continuando a fissare la sua vittima. Spostò
la lama nel centro del petto e tagliò la veste, svelando il seno della
donna.
Incise una grossa croce passando sui capezzoli, il sangue li nascose.
La veste divenne un
immenso sudario rosso e sfilacciato.
Infine
l’uomo scese al ventre, ma prima di sezionare
nuovamente guardò verso l’ombelico di Elena con sguardo carico di
pietà:
“Quanto hai rimpianto di essere donna? Quanto?
Per un uomo non posso immaginare un fato così tanto infelice
e miserevole.”
Si protese in avanti , verso il viso di Elena e la diede un bacio sulla
fronte,
mentre lasciò cadere la lama sul basso ventre, trafiggendola incurante.
***
Ofiuco
gettò un ultimo sguardo al sangue che grondava sulla
Viverna e si voltò nuovamente verso Sisifo e Manigoldo.
Il viso del nemico era una maschera di cera marezzata di
sangue, gli occhi erano alienati, l’espressione indecifrabile. Scrutò
prima
Sisifo e poi Manigoldo, borbottando qualcosa tra sé.
E
finiva tutto così? Sconfitti e linfa per il nemico?
In un bordello?, si chiese Manigoldo, qui si schianta la mia
onda? Una vita sorta nello squallore, deve morire nella stessa miseria?
Guardò
l’anima di Elena sollevarsi dal corpo e attorcigliarsi
su se stessa, piccola, desolata e cilestrina. Assomigliava all’Uroboro*
– il
simbolo dell’eterno ritorno dell’uguale -, era così dunque?
Se
avesse potuto, avrebbe riso.
Manigoldo rideva sempre in questi momenti, perché il riso
spiazza il nemico e perché si era giurato si non piangere mai, né di
rabbia, né
di tristezza, né di gioia – quindi non poteva fare altro che ridere.
*L’Uroboro
è un
simbolo che rappresenta un serpente che si morde la coda:
molto antico,
indica l’eterno ritorno dell’Identico, la ciclicità, l’unione del
tutto.
Avrebbe
voluto vedere l’espressione di Sisifo, perché, quando
era posseduto dai sentimenti più negativi, acquisiva una piacevole
umanità,
rivelava un’espressività inaspettata e feroce, diveniva mortale e forte
e a Manigoldo
piaceva.
Manigoldo si caricava.
Passarono
alcuni minuti in silenzio, Ofiuco guardava
compiaciuto il sangue colare sull’armatura, Manigoldo era un fiume di
pensieri
sconnessi – buffo, come diventasse riflessivo nei momenti meno
opportuni.
Sisifo aveva un piano ed era riuscito a riottenere una minima
padronanza delle palpebre, quanto bastasse per chiuderle.
Glielo
aveva spiegato Asmita – l’unica volta in cui avevano
conversato di qualcosa. Sentì la sua voce che snocciolava parole come
una preghiera:
ad occhi chiusi, dimentico del mondo,
fatti vicino al tuo cosmo – parlagli e ascoltalo.
Un
senso mutilo accresce la forza degli
altri: negati per un istante la vista, in realtà zavorra per un
Cavaliere, in
favore del Settimo Senso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** 8. ***
8
Sagittarius
cercò di dimenticare tutto: negò l’ira verso
Ofiuco e la pietà per Elena, cancellò la stima e l’invidia nuove verso
Manigoldo, più lontano ancora celò l’amore per Athena, la rabbia verso
la
Viverna che gli aveva strappato un fratello già lontano.
Fu
difficile ritrovare l’isolamento, tornare alla dimensione
di totale autocoscienza, quasi solipsistica, necessaria per sfruttare
il
Settimo Senso, dopo tutto quel trambusto. Persino il ricordo della
birra, per
un istante, lo aveva trattenuto in contatto con il mondo esterno.
l suono delle gocce non doveva essere sangue che scorreva,
ma vita che sgorgava dalla volta celeste alla terra; vita che lo aveva
benedetto ed eletto, che gli aveva concesso la più fiera delle armature.
Quando
ritrovò il governo delle sue stelle, cercò il contatto
con il cosmo di Manigoldo.
Gli venne da sorridere, perché, quando si trattava di Cancer,
persino il cosmo era confusionario. Bruciava in modo irregolare, come
colore
che fuoriesce dalla sagoma di un disegno, come acqua non arginabile.
Entrarvi
in contatto non fu facile, Manigoldo era in quel
momento tutto proiettato sull’esterno, il suo Settimo Senso era in quel
momento
completamente frastornato.
Manigoldo…
Manigoldo…
Molte
volte lo dovette chiamare; la concentrazione di Manigoldo
era persa sulla scia del sangue di Elena.
Sagitter
percepì fortissima l’amarezza del compagno, il suo
cosmo ne era intriso – ma era un dolore legato a qualcosa di molto
vecchio, era
radicato, irradiava da tutte le stelle del Cancro, come se ne fosse il
vero
nucleo.
Manigoldo…
Il
moro rispose con un sommesso gemito alle spalle di Sisifo.
Sentiva, ma non riusciva a gestire il cosmo per rispondere. Egli capì e
andò
avanti.
Riprendi
la padronanza del tuo cosmo,
quanto basta per poter evocare gli spiriti con il Sekishiki Kisouen e disporli ad arco,
ad esso
incoccheremo una freccia che creerò con il mio cosmo. Comanda all’arma
di
tendersi e scoccare al mio segnale.
La
nube di Ofiuco altro non è che un varco
spazio-temporale in cui si rifugia al momento dell’esplosione dei tuoi
fuochi,
la mia freccia lo seguirà all’interno e all’esterno.
Quando lui esce dalla dimensione rallenta
sempre per un istante, sarà possibile colpirlo allora.
Abbiamo ancora un po’ di tempo, prima di
versare il nostro sangue dovrà attendere che l’armatura abbia sorbito
tutto
quello di Elena.
Sisifo
si sentì
ancora peggio a quel pensiero, ma continuò.
Chiudi gli occhi e concentrati; è un’azione troppo
complessa per poter avere un secondo tentativo. I nostri cosmi devono
incrociarsi e collaborare, potrebbe non essere piacevole.
Il
cosmo era infatti
una dimensione così intima per un individuo che difficilmente e
fastidiosamente
poteva essere sfruttato per tecniche collettive.
Tanto più perché gli
unici che avrebbero potuto effettuare azioni congiunte del genere erano
i Gold
Saints, gruppo di guerrieri di forte personalità e grandi capacità, ma
che, per
questo, costituivano gruppo poco coeso, caratterizzato da una grande
tensione
agonale.
***
Ofiuco
era
ipnotizzato dalla ragnatela di sangue che sgorgava dal ventre della
donna. Ad
un certo punto aveva emesso un sospiro, Manigoldò percepì la tensione
erotica
che pervadeva il nemico in quel momento.
Il cosmo dello
Specter era come distorto, bruciava male. Era perverso – offuscato,
brutto.
Cancer
si concentrò
sulle sue stelle, era come se, quel giorno, avesse perso quella parte
di sé in
qualche posto.
Dovette cercare se
stesso come se si fosse trattato di un’altra persona.
Quando riuscì a
sentirlo scorrere in sé, vitale, fu piacevole - un balsamo che allevia
il
dolore alla gola.
Manigoldo si
sentiva, le sue stelle bruciavano vivaci come un falò – le stelle
di Cancer
lo amavano e lo acclamavano a loro signore. Un conquistatore.
La costellazione di
Cancer cedeva la sua forza agli uomini.
Il suo corpo era
ancora bloccato, ma non importava. Manigoldo poteva fare qualunque
cosa, ora,
perché era benedetto e prescelto.
Egli evocò i suoi
fuochi, emersero silenziosamente dal pavimento e in sordina si
disposero a
comporre un enorme arco sopra le teste dei Santi.
L’arma era azzurrina
ed eterea, per quanto imponente - il cuore di un bambino nel corpo di
un
guerriero.
Manigoldo ne fu
fiero.
La
freccia di Sisifo
era già pronta, il suo cosmo era di un oro purissimo, brillava con
violenza.
Fu ciò a ridestare Ofiuco
dallo stato catalettico in cui era caduto.
Inizialmente osservò
la cosa con occhi vuoti – guardava senza vedere nulla, quando torno in
sé li
sgranò ed emise un’imprecazione simile ad un ruggito.
Non
vi badare, procediamo. Veloce!, esortò
Sisifo.
Fecero
avvicinare le
loro creazioni.
Quando la freccia
sfiorò i fuochi fatui, Sisifo sussultò.
Diversamente
da
Manigoldo che usava i fuochi come mezzo per i suoi colpi, Sagittarius
metteva
una parte della sua vita nella forma della freccia, vi riponeva la sua
forza
nella più pura delle forme.
Quando
riuscirono ad
incoccare la freccia e a tendere l’arco, furono percorsi da una scossa.
Fu allora che si
conobbero davvero.
Non
fu una
sensazione descrivibile: come passare davanti allo specchio e guardarsi
di
sfuggita, capire sono proprio io quello, quel buffo individuo
allampanato sono io.
E, davanti a quello
specchio, chiudere gli occhi per cercare di guardarsi riaprirli.
Fu come quando ci si
siede davanti alla tomba del proprio padre e si capisce che il giorno
della sua
morte è già accaduto – ed è anche passato. E sei già dall’altra parte
della
vita.
Fu
comprendersi,
intuirsi, arrivare alla più profonda consapevolezza l’uno dell’altro.
Sei
tu.
E
il cosmo di Sisifo
era come un fenice, nella sua vicenda eterna di morte e vita – Sisifo e
il suo
dolore, la morte; Sisifo e le sue virtù, il costante rialzarsi, la vita.
Come
può sapere il fuoco che la vita è un’onda?
Il fuoco lo sa perché si nutre di ossigeno così
come l’acqua per schiantarsi cerca la terra.
Perché il vento è capriccioso e può togliergli
il fiato da un momento all’altro, salvo poi farlo risorgere e divampare
in un
istante.
Perché la fiamma stillerà anche l’ultima
scintilla in cerca della vita, non si quieterà in pace. Mai si spegnerà
con
lentezza, sarà un’eterna silenziosa lotta.
Superbo il fuoco, benedetta l’acqua, doni di
Dio agli uomini; indomabili, inafferrabili, loro è un’eterna
irrequietezza; e
il fuoco scivola dalla terra all’aria, come l’acqua dall’aria alla
terra.
E scivolano da una parte all’altra della vita,
senza morire mai.
Manigoldo
sorrise.
Mon
semblable – mon frère!*, aveva
detto un poeta.
*Baudelaire,
Au Lecteur
(anacronisticamente citato)
***
Ofiuco era rimasto
immobile ad osservare la freccia rivolta contro di lui. Guardava con
occhi
affamati i cosmi brillare e incatenarsi, e con sguardo clinico i visi
dei suoi
nemici, contratti nella concentrazione.
Quando l’arma fu
pronta, egli toccò con l’indice la Surplice, la quale si richiuse nel
suo
scrigno, lasciando cadere a terra il cadavere di Elena.
Ofiuco si portò
davanti all’armatura in modo da coprirla con le sue spalle. Sorrideva
tutto
denti, gli occhi spalancati, in estasi.
Si fermò lì, a gambe
divaricate, ben piantato sul terreno. Allargò le braccia in un gesto
sorpreso.
Né
Manigoldo né
Sisifo capirono, ma non potevano più trattenere il colpo.
Adesso,
pensarono
contemporaneamente.
La
freccia partì, e
la spinta che le era stata impressa dall’arco fu tale che i fuochi
esplosero.
Nel buio fu un
meraviglioso spettacolo: la freccia parve una cometa, correva contro
Ofiuco ed
egli non si mosse, l’esplosione si verificò nella stanza stessa – il
nemico non
aveva usato il passaggio dimensionale.
I
Saints temettero
di aver fallito.
Non un urlo, non un
movimento da parte di Ofiuco.
Ma il suo cosmo era
sparito; la Viverna era lì, al centro della stanza, ed accanto anche la
Surplice dell’Ofiuco si era ricomposta, prendendo la forma di un fiero
serpente
nero e oro.
Non
dovettero
passare più di pochi secondi che le due armature scomparirono.
Erano tornate
nell’Ade presso i loro vecchi possessori l'una, in attesa di un nuovo
signore l'altra.
Nella stanza restava
solo il corpo di una donna riverso nel suo sangue e i due Santi di
Athena,
immobili.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** 9. ***
9
L’effetto
del veleno
svanì nel giro di una quindicina di minuti. I loro arti ripresero
sensibilità e
mobilità progressivamente, a partire dalle estremità.
In quel tempo non
poterono fare altro che guardare in silenzio la devastazione innanzi a
loro, e
il sole sorgere e illuminare il tutto. Sembrava un modo per accusarli,
per
rimarcare quanto della missione fosse stato un fallimento.
Il
soffitto era nero
per le esplosioni e le pareti rosse di sangue. Non c’era nulla che
ricordasse
la stanza in cui poche ore prima erano entrati.
Così
è la guerra, pensò
Sisifo, ma era ancora pronto a combattere.
Sagittarius
fu il
primo a riuscire nuovamente a muoversi.
Quando riuscì a
camminare si diresse subito verso Elena, senza voltarsi a guardare
Manigoldo.
Con fatica si tolse il mantello dalle spalle e ve la avvolse.
La seta divenne
immediatamente un sudario rosso.
Sisifo si
inginocchiò davanti al corpo della donna e chinò la testa.
Cominciò a recitare
una preghiera.
Pochi
minuti dopo
anche Manigoldo poté avvicinarsi.
Attraversò la stanza
fino in fondo, dove prima c’era stato il letto a baldacchino, del quale
non
restavano che le macerie bruciacchiate.
Dovette spostare
alcune tavole e alcuni lenzuoli per trovare quanto cercava.
Allora
si accostò ad
Elena, di fronte a Sisifo, il quale alzò il capo per osservare. Ma
Cancer eluse
il suo sguardo.Posò il rosario che
apparteneva alla donna sul suo petto insanguinato; ella lo aveva
stretto e vi
aveva pianto con tanto dolore all’inizio di quella notte.
Si alzò subito in
piedi, e guardò solo di sfuggita e con freddezza quel
corpo martoriato.
Allora sì, scoccò
un’occhiata a Sisifo cercando il suo beneplacito. Egli comprese e
assentì con
un cenno del capo.
Il
corpo della donna
si sollevò a mezz’aria, i due Gold si allontanarono di un paio di passi.
Manigoldo schioccò
le dita e il corpo arse in una fiamma blu che divampò violenta; poi si
concentrò sulle finestre e le aprì.
Entrò un’aria
frizzante, un venticello che scompigliò i capelli, che li rese
finalmente
consapevoli dell’aria pesante all’interno della stanza.
Quando la pira
avesse finito di bruciare, sarebbe stato compito del vento portare via
le
ceneri e concedere l’ultima – inutile – libertà ad un corpo che
probabilmente
non l’aveva conosciuta mai.
Manigoldo
uscì prima
dalla stanza, senza attendere ulteriormente.
Non gli interessava
assistere al funerale di una donna che non conosceva nemmeno, pensò
aspramente.
Non gli
interessavano i funerali. Bisognava guardare avanti, stringere la vita
e
festeggiarla.
Sisifo
lo seguì
immediatamente, ma egli fino all’ultimo si guardò indietro.
E vide in quel fuoco un cadavere
uguale identico a quelli di tutti coloro ai quali era sopravvissuto.
Un giorno anche il
suo corpo sarebbe stato avvolto dalle fiamme senza provare dolore –
pensò a ciò
senza tristezza.
Senza
dolore – un giorno.
***
Quando
scesero le
scale dell’edificio, tutto taceva e le candele erano spente.
All’uscita li
attendeva solamente la maman; di giorno sembrava più brutta ma
meno
cattiva che di notte.
Il suo sguardo
lasciava intendere che sapeva. Non disse nulla, ma si chinò in un
inchino di
dolorosa gratitudine.
In
un angolo del
giardino, proprio sotto le finestre della grande sala all’ultimo piano,
era già
stata eretta una piccola croce di legno, già vi era posato un giglio
bianco.
Manigoldo
sorrise al simbolo della purezza posto alle soglie
di un bordello.
Così
è la morte,
pensò. Non le si nega nulla, ricongiunge tutti gli
opposti.
***
“Ofiuco…” disse Sage, assorto. Tra le labbra sembrò
assaporare ogni lettera di quel nome.
Poi il suo viso si illuminò di una improvvisa giovinezza,
perché giovane doveva essere stato il ricordo che gli era sovvenuto.
“Sì… Conoscevo bene quella Surplice: nella passata guerra
santa l’aveva indossata un uomo dalla grande saggezza.
Era stata la punta di diamante dell’esercito di Hades, ci ha
fatto piangere lacrime amare”, disse. Ma dalla sua espressione sembrò
solo un
uomo che rimpiange i bei tempi passati.
Sage era ancora il giovane e irruento guerriero di quei
giorni, malgrado gli anni.
“Non
ha fatto nulla per schivare o difendersi dal colpo,
dunque?”
Sisifo e Manigoldo negarono in silenzio.
Sage sorrise tra sé e sé, vecchia
volpe, pensò.
“Pensate
che lo abbia fatto in funzione di un piano più
grande?”, chiese Sisifo preoccupato.
Il Gran Sacerdote aveva un’espressione furba, nei suoi occhi
guizzavano la vita e la curiosità.
“Oh no, Sisifo. Se l’ho conosciuto abbastanza bene – e così è
stato -, l’Ofiuco è un guerriero egoista.
È figlio di Apollo, non combatte realmente per Hades. Fa ciò
che fa per se stesso, per la conoscenza.”
Nella sala entrava una brezza salmastra. Le pesanti tende che
incorniciavano la sala della Tredicesima Casa, quella del Gran
Sacerdote, erano
aperte e si vedeva brillare il mare sulla distanza.
“Gli
avete mostrato un mirabile spettacolo, sapete. Un
attacco coordinato con cosmi allo stato puro non è qualcosa che si vede
tutti i
giorni.
In favore della conoscenza avrà voluto vedere cosa accadeva a
ricevere tale colpo.”
Manigoldo ridacchiò: “Sono dei grandi empiristi, i guerrieri
dell’Ofiuco.”
Sage
assentì con un sorriso, “ottimo lavoro”, disse infine, e
poi voltò le spalle, tornando alle sue stanze, sparendo dietro al
pesante
tendaggio bianco.
Sembrò un attore che esce di scena in teatro.
Sisifo e Manigoldo si congedarono con un inchino.
Finita,
pensarono tutti e tre con sollievo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** 10. ***
10
Erano
sui gradini della Tredicesima Casa, il sole brillava
intenso come il giorno in cui erano partiti.
Sotto di loro si stendeva tutto il Santuario, a partire dalla
superba scalinata delle Dodici Case.
“E adesso?”, chiese Manigoldo, guardando annoiato verso la sua
Casa, “si torna alla vita di tutti i giorni?”
Sisifo sorrise: “Prima ti offro una birra.”
Cancer fece un sorriso tutto denti, il suo viso era
abbronzato e i capelli ondeggiavano superbi al vento, “Ecco, questo mi
piace di
più!”.
“Se
va sempre a finire così, chiedo di andare più spesso in
missione con te!”, continuò, mettendo una mano sulla spalla di Sisifo.
L’altro gli passò un braccio sulle spalle e lo guardò con
occhi complici.
“Se non ci sono più
prostitute di mezzo, se ne può parlare”, e finalmente Sisifo rise forte
– una
risata forte come il fuoco, da vita che divampa.
“Ma rispondi a questa domanda, Sisifo: a che cosa
brinderesti, ora, se questo fosse
l’ultima pinta della tua vita?”
Sisifo guardò il fondo
del bicchiere e sorrise al doppio malto, senza pensare a nulla. Era
troppo
stanco.
“Alla vita, Manigoldo. Che mi concedesse un’altra birra di
queste.”
“Risposta esatta.”
“Ho imparato dal migliore.”
I boccali cozzarono, più leggeri dell’ultima volta.
***
Al
momento del concedo si strinsero in un abbraccio da
camerata. Così si usava.
Una stretta brusca, qualche pacca sulla spalla, qualche
complimento.
Puzzavano di alcool e sudore, e malgrado tutto era qualcosa
di piacevole, perché sapeva di vita vera.
Manigoldo trattenne Sisifo stretto a sé per un tempo un poco
più lungo del normale: “La prossima volta probabilmente la guerra sarà
scoppiata
e saremo già sul campo di battaglia”.
“Ne
usciremo vivi”, rispose, senza convinzione.
“Oppure non ne usciremo, ma va bene uguale. Tanto nessuno
esce vivo dalla vita!” sdrammatizzò il moro. I ciuffi paglierini di
Sisifo gli
solleticavano le guance e lo facevano sentire stupido.
Sisifo sciolse l’abbraccio in fretta e si volse subito verso
le Dodici Case.
“Ci vediamo in guerra, Manigoldo.”
“Ci vediamo all’inferno, mi sa.”
Sagittarius si girò nuovamente verso Manigoldo:
“All’inferno.”, ripeté.
Esitò per un istante, fissando intensamente il suo
interlocutore.
“Allora devo darti questo”, sussurrò. Manigoldo lo udì
appena.
Letteralmente, Sisifo gli diede una testata.
Con il senno di dopo, Cancer pensò che fosse stato per
tramortirlo e renderlo meno cosciente.
Tempo
non ce n’era.
Le
labbra di Sisifo si poggiarono su quelle del compagno
d’improvviso, quasi con violenza e disperazione.
Erano
alle soglie di una guerra.
Manigoldo
non attese ulteriormente ad aprire la bocca e
cercare la lingua della controparte.
Ci
vediamo all’inferno.
Sisifo, mentre baciava, era completamente diverso dalla
rigidezza che mostrava in altre occasioni: sapeva assecondare e
prendere
l’iniziativa al contempo. A Manigoldo piaceva da impazzire.
E
mi sa anche prima.
Quando
si allontanarono l’uno dall’altro si guardarono
intensamente, prima che Sisifo si incamminasse verso la Nona Casa.
“Grazie di tutto”, sussurrò.
Manigoldò annuì lentamente con un bel sorriso sul viso.
***
Quando fu presso il proprio tempio, Sisifo guardò nuovamente
verso il mare.
Il banco di nubi all’orizzonte si era fatto cupo, tirava aria
di tempesta. Lo guardò con apprensione per un istante, poi si costrinse
a
stornare lo sguardo.
Più sotto, la Quarta Casa restava ancora vuota: Manigoldo aveva
voglia di vagabondare e se n’era andato al Pireo.
“Tu
fuggi dalle tue ansie”, gli aveva detto Sisifo.
“Semplicemente non sto a guardare una guerra che ci viene
incontro con le mani in mano.
Le vado incontro anche io.”, la piega della bocca di Cancer
era una smorfia tesa, ma lui aveva ancora voglia di scherzare.
Quando era nervoso, aveva sempre voglia di scherzare.
“Conosci il mito di Sisifo, Sisifo? Lui ha fregato la morte:
l’ha fatta ubriacare e l’ha incatenata.
Si è incazzato tutto l’Olimpo, scacco matto al Gran Re!”
“Poi
gli hanno messo un masso sulla schiena a fare su e giù
per l’eternità, sai anche questo, Manigoldo? Non sfidare gli dei.”,
rispose
grave il Sagittario.
“Oh, io a quello non penso. E poi sono sicuro che il nostro
eroe trascini il suo masso con gran piacere al gran pensiero delle sue
gesta.”
Un
pesante silenzio grave cadde tra loro.
“Cosa hai intenzione di fare?”, l’armatura non gli era mai
sembrata così pesante.
“Vivere, Sisifo. Vivere anche in guerra.
Non
mi convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di
carne umana che ci offrono*.”
Manigoldo
gli aveva sorriso e stretto la mano debolmente.
Guardava un punto lontano per evitare gli occhi di Sisifo.
Sagittarius
non disse nulla. Chiuse gli occhi e imparò a
vivere.
Nessun
futuro, solo il presente.
La guerra non è nemmeno domani, pensò,
e
anche
domani
è ancora lontano.
Domani
sarebbe
scoppiata la guerra.
Sisifo sarebbe stato schiavo dei suoi demoni e Manigoldo
avrebbe sigillato Thanatos.
Ironia
della sorte, avrebbe
pensato Manigoldo.
*Hugo
Ball,
dadaista, sulla Prima Guerra Mondiale
---
Siamo
alla
fine della mia prima long (completa).
E, per me, è
stata un’avventura meravigliosa, che mi ha costretto a riflettere e
conoscere
questi due personaggi – e, aggiungo, me stessa.
Ringrazio in
particolare mughetto nella neve, la
mia salvezza, e LOL_chan con le loro
bellissime e gentilissime recensioni.
Ora, mi
permetto di chiedere, a storia finita, delle recensioni, anche brevi
per dirmi
il vostro sincero parere e capire cosa migliorare e cosa va bene.
Perché, detta
sinceramente, a me questa storia piace davvero molto, è un piccolo
motivo di
orgoglio, ma mi sembra che non sia stata ricevuta con entusiasmo,
eccezione
fatta per quello, graditissimo, di questi due fantastici recensori.
Non dico ciò
come captatio benevolentiae, vorrei
davvero capire.
Un po’ come
Ofiuco, che si butta allo sbaraglio per amore di scienza.
Ad ogni modo
vi ringrazio anche solo per la lettura. Vedo che le visualizzazioni
rimangono
costanti nel corso dei capitoli, e mi fa piacere di non perdere lettori
(anche
se questi magari arrivassero alla fine solo per lo schifo, mi piace
pensarla
differentemente).
Grazie di
tutto.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3244853
|