The Ballad of the Immortal

di TimeKeeper
(/viewuser.php?uid=880202)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Strophe the First ***
Capitolo 2: *** Strophe the Second ***
Capitolo 3: *** Strophe the Third ***
Capitolo 4: *** Refrain ***



Capitolo 1
*** Strophe the First ***


Strophe the First

Odio e amo.
Forse ti chiederai come io faccia.
Non so, ma sento che accade
E mi tormento.
 
Era un pomeriggio più caldo della gelida, media estiva inglese. Il sole era sorto ormai da qualche ora, e restava ad osservarci sfacciato, mentre scendevamo dal calesse che ci aveva accompagnato fino alla casa indicata dal Signor M. Era una magnifica palazzina bianca in Fenchurch Street, che spiccava violentemente tra gli alti e degradati edifici dell’East End, avvolta da un’aura di silenzio e mistero.
Angel osservò un istante la mia espressione preoccupata e posò entrambe le mani sulle mie, che tenevo nascoste in grembo: «Lui non c’è, stai tranquilla», mi sussurrò, abbozzando un lieve sorriso.
Avrei voluto chiederle come faceva a saperlo, ma tacqui; le rivolsi solo un sorriso affettuoso in risposta e scesi dal calesse, aiutata dalla mano gentile del cocchiere di casa Mayfair.
«Credi che possieda davvero informazioni utili per il Portale?» chiesi alla mia amica, sistemandomi una ciocca bionda che era sfuggita dall’elegante pettinatura.
«Temo proprio di sì – mi rispose guardando davanti a sé, tradendo una preoccupazione profonda – Il problema è: cosa vorrà in cambio»
Il lieve fruscio dei nostri abiti ci accompagnò fino alla porta principale, dove la mia amica bussò con leggero fastidio. Non le dava pace il fatto che quell’uomo avesse qualcosa con cui ricattarci, informazioni di cui avevamo assolutamente bisogno. E naturalmente la capivo, anche se io non avevo il suo stesso timore: il mio potere era grande sì, ma ancora inutilizzabile o effimero per chiunque non fosse il legittimo Custode, a differenza di quello della mia Angel; lei aveva secoli di storia da proteggere, segreti che affondavano le loro radici in tempi prima del tempo, poteri che neppure io potevo immaginare.
L’enorme porta di legno rinforzato, si aprì con esasperata lentezza; si affacciò per metà un signore sulla cinquantina, avvolto in una vestaglia da casa: «Le signore desiderano?» chiese, arricciando le sopracciglia per lo stupore.
«Abbiamo un appuntamento con il Signor M.» dissi, cercando di portare l’attenzione su di me; finché non fosse stato necessario, dovevo fingere di essere io l’invitata, in modo da non esporre Angel a rischi inutili.
«Ne dubito: il Signor M. non è in casa da settimane, ormai»
«E dove sarebbe?» intervenne Angel, incapace di trattenersi. Le scoccai un’occhiata di rimprovero, ma ritornai immediatamente al nostro interlocutore.
«Non sono autorizzato a dirvi nulla – disse l’uomo cominciando a chiudere il portone - Con permesso…»
La mia amica fu più veloce di lui: con la mano destra bloccò la chiusura della porta. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa ed entrammo con la forza: «Permesso negato» dissi, con un’ironia che non mi apparteneva.
Il maggiordomo indietreggiò impaurito, balbettando frasi sconnesse: «Io… questo è un oltraggio… come osate… POLIZIA!»
Angel si voltò di scatto verso di lui e con un rapidissimo movimento della mano lo zittì; vidi il poveruomo toccarsi la bocca con le mani, ma le sue mascelle erano irrimediabilmente serrate da un potere superiore. Mi sfuggì una risata: «Angel, Angel… ma quando imparerai le buone maniere? La scusi tanto signor maggiordomo antipatico, è fatta così»
«Hai ragione Iris – mi rispose lei, con un sorriso malizioso – facciamo così, se lei sarà buono con noi, noi saremo buone con lei…» e liberò l’uomo dal suo incantesimo.
Quello indietreggiò cercando con gli occhi una via di fuga: «Streghe! Cosa volete… andatevene…»
«No, no, questo non mi sembra essere buoni… - dissi rivolta ad Angel, ma mentre guardavo nella sua direzione vidi nell’androne un bellissimo pianoforte a coda laccato di bianco – ah, guarda che meraviglia! Le dispiace se…»
Il maggiordomo, coperto da un velo di terrore sudaticcio, riuscì ad aggrapparsi ad un mobile e ad adagiarsi al muro: «NO, quello è del padrone…»
Angel lo colpì a distanza con una velocità impressionante e lo inchiodò al muro: «Si dice: “prego, signorina, faccia pure”»
La ringraziai con un sorriso ed andai a sedermi al pianoforte, dando il via ad un concerto romantico. Era la mia cara amica l’addetta agli interrogatori serrati, io non potevo fare altro che aspettare ed esporre ogni tanto i miei punti di vista, più che altro per ricordare ad entrambi la mia presenza. Le note si propagarono per tutto l’androne e le scale, ma nessuno venne a controllare; sicuramente la casa era deserta, data l’assenza del padrone. Salii lentamente la scala di note fino a raggiungere il massimo e quando cominciai la melodia alzai la testa verso le due figure nell’entrata: Angel ora stava a pochi passi dal poveruomo che rimaneva inerte, bloccato contro la parete, a balbettare parole sconnesse.
«Bene, ora proviamo a ricominciare: dov’è il Signor M.?»
«In… Mongolia»
«Mongolia?» domandai sorpresa, senza smettere di suonare.
«Come mai in quel posto dimenticato da Dio? Aveva detto che sarebbe stato qui per festeggiare il successo del suo piano» chiese Angel, più rivolta a se stessa che al povero maggiordomo, mentre le mie note continuavano a riempire l’aria.
«Il padrone ha una fabbrica, un enorme castello. Ma non so perché non è ancora tornato… non abbiamo più loro notizie da giorni ormai»
«L’ultima comunicazione, cosa diceva?»
L’uomo gemette, tentando di muoversi, ma ogni muscolo era stato sottratto al suo controllo; adoravo quel tipo di potere, l’aveva usato anche contro Dorian la sera della nostra vendetta.
«Cosa diceva? - ripeté la mia amica – Non vorrà farmi perdere la pazienza…»
Gli occhi del maggiordomo furono attraversati da una scintilla di terrore: «Che sarebbe presto tornato con il signor Gray…»
Dorian Gray…
Le mie mani si bloccarono di colpo, cadendo sui tasti d’avorio con rumori sordi e stonati. Alzai lentamente la testa verso l’uomo e la mia amica, chiudendo la ribalta con decisione. Ne strinsi forte il legno dipinto di bianco, nel tentativo di controllare i miei sentimenti. Angel non si voltò verso di me, ma sentii perfettamente la sua voce nella mia testa… Stai tranquilla, Irye.
Lasciai la presa sulla ribalta, cercando di controllare i miei sentimenti; sì, Angy aveva ragione, non c’era bisogno di agitarsi. Respirai profondamente e tornai a guardare la scena bizzarra che si presentava davanti a me: una giovane donna, elegantemente vestita, davanti ad un uomo in vestaglia, che stava appeso al muro da chiodi invisibili a circa un metro da terra.
Quando Angel sentì che stavo bene, continuò il suo interrogatorio: «Perché loro due soli?».
«Non lo so… sono solo un maggiordomo! Io apro la porta, porto il caffè…»
«PERCHE’ solo loro due?» chiese ancora la mia amica, facendosi più minacciosa.
«Gray e il mio padrone avevano un accordo… qualcosa di cui la Lega non era a conoscenza. Parlavano spesso di armi…»
«Un accordo di che tipo?» chiesi, alzandomi dalla seggiola di fronte al piano e recandomi presso la mia amica.
«Non lo so, lo giuro!» piagnucolò l’uomo.
«E chi sono i componenti di questa Lega?» infierì la mia amica.
«Signore… ve lo posso giurare… sulla mia pelle»
«Bugiardo» continuò Angel stringendo il pugno destro nel vuoto, in una morsa letale. Vidi il maggiordomo allargare la bocca in un tentativo disperato di prendere fiato, gli occhi gli si ingrandivano per la mancanza d’aria: lo stava soffocando.
«Angy… - le dissi, posandole una mano sulla spalla – è solo un servo. Non può saperlo»
Lei mi guardò per un lunghissimo istante; annuì e il poveruomo cadde a terra stremato, il respiro veloce e spezzato dalla paura. L’uomo si portò entrambe le mani alla gola: l’incantesimo era rotto.
«So dove possiamo trovare queste informazioni… - sussurrai – vai pure Angel, ti raggiungo in calesse»
La mia amica non obbiettò; lanciò un’occhiata obliqua all’uomo sdraiato davanti a lei e annuì silenziosamente. La osservai uscire dal grande portone e mi diressi verso la scalinata principale che portava al piano superiore; il Signor M. aveva sicuramente raccolto degli indizi sui componenti della Lega e doveva averli conservati nel suo studio. Vagai nei lunghi corridoi e dopo qualche minuto trovai quello che cercavo: una piccola stanza ben arredata, con una grande libreria in legno di noce e una scrivania dello stesso materiale, finemente lavorata; la poltrona che stava dietro a quella era degna di un palazzo reale, completamente rivestita di ermellino. Frugai nei cassetti finché non trovai un enorme dossier ocra, chiuso da un pezzo di spago; lo aprii e gli diedi una sfogliata; sì, era proprio quello che stavo cercando. Alzai la testa sulla grande libreria… chissà che tra quei volumi ci fossero le informazioni di cui M. ci aveva parlato, a proposito del Portale?
Irye, non abbiamo tempo…
La voce di Angel mi rimbombò in testa; presi il dossier, percorsi il lungo corridoio, le scale e mi ritrovai di nuovo nell’entrata. Il maggiordomo era ancora a terra e quando mi vide ebbe un sussulto terrorizzato.
«Le auguro una buona giornata, signore» dissi, uscendo dal portone.
La luce del sole mi colpì a tradimento, obbligandomi a stringere gli occhi. Percorsi il vialetto davanti alla casa e salii sul calesse, sempre aiutata dal vetturino.
«Allora?» mi chiese Angel, ordinando al cocchiere di partire, con un colpo all’intelaiatura.
«Non era proprio quello per cui eravamo venute… ma ecco il dossier con i nomi di quelli della Lega»
Lo aprii come avevo fatto nello studio di M. e cominciai a sfogliare le pagine, mentre il nostro veicolo imboccava Cannon Street verso il West End: «Dunque, abbiamo Allan Quatermain»
«Sì: cacciatore, avventuriero… - commentò Angel - ha perso il figlio nell’ultima missione per la corona e si è ritirato in Kenya. Mi chiedo come abbia fatto a convincerlo»
«Capitano Nemo… diavolo, ma esiste davvero?»
Angel sorrise della mia sorpresa «Ed è anche molto utile: il suo Nautilus raggiunge velocità fantascientifiche e il suo equipaggio è numerosissimo»
«Rodney Skinner» continuai, elencando i membri.
«Questo non mi dice nulla. Ci sono informazioni?»
«Sì – dissi voltando un’altra pagina, mentre Cannon Street cambiava nome in Fleet Street – qui dice che è un ladro professionista e che ha rubato la formula dell’invisibilità allo scienziato che l’aveva creata»
Angel si fece sfuggire una risata: «Bene, un membro invisibile…»
Diedi un piccolo colpo di tosse per attirare di nuovo su di me la sua attenzione e prepararla ad un’altra sorpresa: «Ahem… Dottor Jekyll, o sarebbe meglio dire Mister Hyde»
Angy guardò la scheda incuriosita: «Sì, in effetti credo che sia più utile il secondo, per loro»
«Ma tu non sei stupita? – chiesi incredula, vedendo che la sua reazione a quel nome era stata pressoché nulla – questa gente sta nei libri!»
«Anche tu stai nei libri… Custode» mi disse con tono sarcastico. In effetti aveva ragione.
Le sorrisi e voltai pagina, mentre sulla sinistra iniziava a scorgersi l’ampia facciata di St. Clement Danes e sulla destra la Corte di Giustizia: «Wilhelmina Murray Harker - lessi, e visto che la mia compagna non faceva commenti, continuai – Vedova dello scienziato Johnatan Harker e scienziata lei stessa, ha intrapreso un lungo viaggio in Transilvania dove, insieme al professor Van Helsing, ha sconfitto il leggendario Dracula… non mi sembra che abbia qualche caratteristica particolare»
«E’ una vampira…» m’interruppe Angel.
«Una vampira? – abbassai la voce lanciando un’occhiata obliqua al vetturino - Vuoi dire che succhia il sangue alle persone?»
Sospirò nel veder riassunta in una frase, l’intera e complessa natura dei vampiri: «Diciamo che in linea di massima… sì»
«E tu come lo sai?»
Qualche secondo di silenzio mi bastò per intuire che ciò che avrebbe detto non sarebbe stato vero: «Me l’ha detto M. quando mi ha proposto di entrare nella Lega. Mi aveva parlato di un vampiro… ho solo tratto le mie conclusioni»
Non risposi; la sua esitazione era stata decisiva, poi il modo in cui aveva parlato, senza guardarmi negli occhi, osservando apparentemente interessata la fila di alberi che scorrevano accanto a noi, non era da lei.
«Angel… non mentire» le sussurrai, stringendo con la mano sinistra lo sportellino del calesse.
La mia amica si voltò lentamente verso di me, non so se maggiormente spaventata dal mio tono di voce o dal vortice che stava nascendo nei miei pensieri: «Ne ho avuto abbastanza di menzogne, guarda a cosa mi hanno portato». Sapeva perfettamente a cosa mi stavo riferendo.
Attraversammo silenziosamente Trafalgar Square: splendide carrozze transitavano in ogni direzione, accompagnate dal rumore degli zoccoli dei cavalli e dallo sferragliare delle ruote sulle strade d’acciottolato. Angel non accennava a parlare, restava immobile ad osservare la gente sui marciapiedi e io non avevo intenzione di minacciarla; se avesse voluto, mi avrebbe parlato. Lanciai uno sguardo di saluto alla National Gallery, che regnava imponente sulla cima delle scalinate; l’unico luogo dove riuscivo ancora a trovare la pace.
Percorremmo circa tre quarti di Piccadilly, prima che Angel si decidesse a parlare. Prese un respiro profondo e cominciò: «Nei due anni in cui pedinavo Dorian, lo seguivo proprio dappertutto. Segnavo i suoi orari, i posti che frequentava, le persone con cui si vedeva… ecco, Mina era una di quelle. Si sono conosciuti ad un incontro sulle leggende dell’Europa dell’est e hanno continuato a vedersi per un lungo periodo, poi Mina è dovuta partire. La loro era una… relazione basata sul sangue»
Mi morsi il labbro inferiore, un po’ per la rabbia, un po’ perché era diventato un vizio: «Tipico di Dorian – dissi, incapace di trattenermi – doveva provare com’era il morso di un vampiro. Quanto è durata?»
«Un paio di mesi. Essendo immortale non poteva morire a causa dei morsi di Mina…»
«Ovvio. E dopo un po’ era quasi una dipendenza; come l’oppio»
«Sì, esattamente come l’oppio – confermò Angy a mezza voce, mentre il calesse svoltava in Park Lane – Irye, - continuò poi, dopo una lunga pausa – io non voglio che tu soffra, per questo non volevo dirti della Harker. Non era per mentirti…»
«Lo so, Angel – la interruppi io e dopo averla guardata un istante in viso, continuai – Non ti devi preoccupare tanto per me, sono solo… un po’ gelosa»
La carrozza si fermò davanti ad Hyde Park all’altezza del cancello che accedeva al giardino privato di casa Mayfair, con un nitrito sordo di cavalli. Io ed Angel ci guardammo per quella che sembrò un’eternità, poi la mia amica scoppiò in una fragorosa risata: «Un po’?» mi chiese, cercando di placare le risa.
«Beh… - ammisi arrossendo – forse un po’ più di un po’»
«Io dico che se la trovassi la polverizzeresti!»
La sua risata mi contagiò; scendemmo dal calesse e ci dirigemmo verso casa sua ridendo come matte. Ero contenta che il discorso fosse stato sdrammatizzato, ma più di tutto ero felice di avere un’amica del genere al mio fianco.
 
Appena entrammo in casa, trovammo il pranzo pronto; ci sedemmo comodamente davanti alla tavola apparecchiata e attendemmo che venisse servita la prima pietanza.
«Eppure…» dissi soprappensiero.
«Eppure cosa, polverizzatrice di vampiri? - mi chiese Angel, con tono ancora ironico – Oh, grazie Marie, siete sempre pronti a riceverci agli orari più impensati» disse poi, rivolta alla donna che stava portando i calici da vino rosso per entrambe.
«E’ vero che l’una e mezza di pomeriggio non è ora per il pranzo – disse quella, con uno spiccato accento francese – ma non è questa una scusa per venire meno ai nostri doveri!»
«Grazie – dissi a Marie, poi mi rivolsi a Angy troncando il suo buonumore – Eppure il maggiordomo di M. ha parlato di un accordo con Gray, al di fuori della Lega. E in effetti, Dorian non era tra i nomi dei componenti»
Il sorriso sparì dal suo bel volto latteo: «Ricapitoliamo: M. ci manda un telegramma in cui annuncia la perfetta riuscita del suo piano e c’invita a festeggiarla a casa sua dove potremo discutere con calma degli eventuali scambi d’informazioni in suo possesso. Noi ci rechiamo da lui, ma scopriamo che la casa è vuota, che M. è in Mongolia con Gray e hanno annunciato il loro ritorno, con toni vittoriosi. Veniamo a sapere che M. e Gray hanno un accordo ai danni della Lega, infatti sia nel telegramma sia nelle comunicazioni arrivate al maggiordomo di M. non viene riferita la riuscita degli intenti della Lega, ma il termine positivo del “piano”»
«Ma è una contraddizione – intervenni, mentre un cameriere mi stava versando un abbondante bicchiere di Château de Bourgogne del ’39 – se è stato M. a riunire la Lega per la salvezza dell’Impero Britannico, come può organizzare lui stesso un attacco alla Lega?»
Angel prese il calice e fece andar giù un lungo sorso di quel rosso delizioso, cercando di pensare alla soluzione di quel mistero.
«E se la Lega non fosse stata riunita sotto ordine della Regina?» ipotizzai, dopo aver fatto altrettanto con il mio bicchiere.
Angel fece cenno di no con la testa: «Hai visto i nomi su quel dossier? A parte Skinner e Harker, sono tutti patrioti… non potrei mai immaginare Quatermain che complotta contro la Regina»
«No, no. Non dicevo consapevolmente: M. recluta la squadra e si finge un devoto figlio dell’Impero che vuole scongiurare l’avvento di un primo grande conflitto mondiale…»
«L’attacco in Germania, a Londra la settimana prima»
«Esatto – dissi annuendo alle prove pratiche che Angy stava portando in sostegno della mia teoria – ma in realtà usa la Lega per alimentare il conflitto stesso»
«Il maggiordomo ha detto che parlavano di armi. Quindi, M. voleva aggirare i membri della squadra per poter usufruire dei loro poteri nella corsa agli armamenti che si sarebbe creata dopo lo scoppio della Grande Guerra» continuò Angy, dando lentamente forma al piano di M.
«Prova a pensarci: un esercito di Hyde, spie invisibili, vampiri assassini, milioni di Nautilus in grado di attaccare dalle profondità marine – un brivido mi corse lungo la schiena e mi obbligò ad appoggiare il calice di vino che ancora tenevo nella mano sinistra – Ma Quatermain?»
«Era un cacciatore, l’unico che non avrebbe fallito nel catturare Hyde» mi sentii rispondere dalla voce rassegnata di Angel. La perfezione di quel piano era diabolica.
Il pasticcio di carne che ci avevano servito era rimasto nel piatto intatto. Fumava ancora leggermente, mentre lo stesso cameriere di qualche momento prima tornava a riempirci i bicchieri di cristallo. Guardai il calice pieno a metà, come voleva l’etichetta, senza in realtà vederlo e quando mi sentii di poter reggere la risposta posi la domanda che mi tormentava: «E il ruolo di Gray era quello di introdursi nella Lega, ingannarli tutti e rubare i loro segreti?»
Angel mi guardò negli occhi, cercando di trattenere ogni reazione: «Sì - sussurrò semplicemente - era questo l’accordo che aveva con M. e se hanno annunciato la sua riuscita, vuol dire che hanno tutto ciò che serve per avviare il Primo conflitto Mondiale…»
«La scienza di Nemo, il sangue di Mina, la pozione di Jekyll, la formula di Skinner» elencai tristemente, prendendo la forchetta, tormentando malvolentieri il mio pasticcio.
«Pensi che dovremmo fare qualcosa?» chiesi poi, rompendo il silenzio. Il via vai dei servitori era terminato, lasciandoci alle nostre discussioni.
«Non lo so. Non siamo mai state leali figlie dell’Impero e anche se lo fossimo, non credo che saremmo in grado di bloccare la reazione a catena che M. ha innescato attaccando Londra. Senza contare il fatto che non mi va di metterti di nuovo davanti a quel bastardo…»
Alzai gli occhi dal piatto guardando Angel, stupita. Non le capitava spesso di cadere nel volgare, ma ora, nei suoi occhi leggevo un odio puro, incondizionato.
«… sono anni che ti tormenta – continuò, guardando fisso il suo bicchiere – Prima con la sua presenza, poi con la sua assenza. Credi che non sappia che la notte non dormi? Che suoni il piano perché lui lo suonava per te? Io non ce la faccio più a vederti soffrire!»
Durante quell’ultima ammissione, il bicchiere che Angy stava guardando tanto intensamente, esplose spargendo vino e frammenti di vetro per tutta la tavola. Stava evidentemente perdendo il controllo.
Marie si precipitò dalla stanza accanto con uno straccio e balbettando qualche parola di scusa, si chinò a raccogliere i pezzi di vetro e a pulire nel miglior modo possibile la tovaglia bianca. Mi alzai dal mio posto, senza neanche riavvicinare la sedia al tavolo, e la raggiunsi Angel. Ci guardammo negli occhi per un lungo istante e sentii la sua voce dentro di me…
Scusami…
L’abbracciai forte, stringendo la sua testa al mio petto. Non parlai, pensai solo e pregai che lei potesse sentirmi.
Non scusarti Angelo Mio. Mi dispiace di darti questa sofferenza; non serve disperarti. Non c’è niente che tu possa fare per me o per la salvezza della mia anima. Voglimi bene per quello che sono… per la mia piccola anima dannata.
Il suo abbraccio divenne più forte, poi ci lasciammo. Entrambe avevamo gli occhi lucidi. Forse non gliel’avrei mai detto, ma l’amavo; l’amavo in una maniera differente di quella in cui amavo Dorian, ma con la stessa intensità. Forse neanche lei me l’avrebbe detto mai.
«Sai cosa ci vuole per noi due?» dissi, piegandomi sulle ginocchia per arrivare più o meno all’altezza della mia amica, seduta.
«Cosa?» chiese lei con un sorriso malizioso.
«Un’avventura! Salvare il mondo alzerebbe un po’ la media della giornata, che ne dici?»
Ridemmo di gusto per qualche secondo, poi Angel parlò: «Facciamo così: raggiungiamo M. in Mongolia. Lì possiamo ottenere le informazioni minacciandolo di rivelare il suo piano. Intanto avvertiremo le autorità locali dell’ubicazione della fortezza. Avremo le informazioni e anche la cattura di M.»
«Perfetto – sentenziai entusiasta – non avrei mai potuto sopportare un’onorificenza dalla Regina per aver salvato il suo Impero dalla distruzione. Così agiamo in bene e in male, ma soprattutto nelle tenebre. Ma come faremo a trovare la fortezza di M.? La Mongolia non è grande come l’isola di Malta»
«Seguiremo i gas inquinanti, ne hanno parlato molto in questo periodo sui giornali – disse, ringraziando con un cenno Marie che le aveva portato un altro calice per il vino - C’era il nome della città in questione sul Times: l’hai letto?» continuò, rivolta a me.
«No» sussurrai, lievemente imbarazzata. Sapeva perfettamente perché non leggevo i giornali… a lui non era mai piaciuto farlo. La mia amica mi sorrise, un sorriso comprensivo; era bello sapere che potesse capirmi senza bisogno di parole.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Strophe the Second ***


Strophe the Second

E come sei venuto fin qui?
Suvvia, dimmi come e perché.
[…] il luogo, se consideri chi tu sei,
può valer per te la morte.

 
Il piccolo aereo che avevamo noleggiato sorvolava tutt’altro che silenziosamente la capitale della Mongolia offrendoci un panorama spettacolare; il fiume Angara, quasi completamente ghiacciato a causa del clima troppo rigido di quella parte del mondo, sembrava una venatura chiara all’interno del paesaggio di marmo della pianura. Angel non aveva mai viaggiato su un mezzo di trasporto simile, ed osservava incuriosita ogni cambio di quota, ogni lieve modifica della rotta prevista; in effetti non potevo darle torto. Era quasi impossibile scorgere queste nuove macchine ad eliche e motore a propulsione solcare il cielo, nell’era in cui i cavalli trainavano ancora lussuose carrozze e le biciclette avevano una ruota sola: ci si limitava ad alianti o ai palloni aerostatici, comunque ancora considerati inaffidabili; ma per chi sapeva dove cercare – e aveva il portafoglio gonfio – la tecnologia era già pronta e sorridente, a disposizione. Nascosti negli hangar prefabbricati, di legno e lamiera, nelle aperte e sconfinate campagne inglesi, i contrabbandieri di alcolici e tabacco avevano costruito da anni il loro esercito di macchine volanti, guardandosi bene dal rendere pubblica la scoperta. Come avevo annunciato alla mia amica nel momento in cui prendemmo la decisione di partire, bastava solo avere le amicizie giuste.
«Iris!» chiamò il pilota, un uomo di colore di circa trent’anni, che non aveva il minimo rispetto sia per le leggi giuridiche sia per quelle dettate dall’etichetta dell’epoca, oltre che un inglese pessimo. Forse era per questo che mi piaceva tanto.
Il rumore delle eliche era assordante, così che dovetti urlare per farmi sentire: «Dimmi tutto, Boujii» risposi avvicinandomi alla minuscola cabina di pilotaggio, di poco più grande della stiva, dove eravamo state sistemate io e Angel con l’equipaggiamento.
«Stiamo sorvolare laghi ghiacciati, non potere andare oltre»
Alzai la mano destra, mostrando il pollice in segno affermativo, per non sprecare fiato e andai da Angy: «Boujii dice che stiamo sorvolando i Laghi Ghiacciati e che non può andare oltre»
«Guarda laggiù» mi rispose semplicemente lei, indicando il finestrino. Oltre un’enorme distesa di ghiaccio, giaceva un villaggio di capanne di legno; a giudicare della quantità di neve che le ricopriva, erano state abbandonate da mesi. Frugai con gli occhi tutta la distesa intorno, in cerca di ciò cha la mia amica mi aveva indicato. Una piccola esplosione alzò una nuvola di fumo nero, tra le montagne retrostanti al villaggio; i miei occhi si allargarono per lo stupore quando vidi ciò che si nascondeva tra le distese innevate di quel posto: un enorme castello, dalle cui torri spuntavano intere nuvole di fumo denso e nerastro.
«Ha fatto le cose in grande» sussurrai senza riuscire a distogliere lo sguardo dal finestrino.
La fortezza si estendeva per gran parte del fianco della montagna, arrampicandosi come un parassita alla sua roccia chiara; ricordava nella forma gli edifici e le chiese che avevo visto a Mosca da bambina. Era disposta su più piani e da alcune delle innumerevoli torrette fuoriuscivano lingue di fuoco.
Ordinai a Boujii di atterrare in un luogo nascosto tra le montagne ghiacciate, abbastanza vicino alla fortezza da poterla raggiunger a piedi; mi accontentò immediatamente, con un atterraggio non proprio da manuale. C’informammo sui tempi della partenza per il ritorno a casa; naturalmente non saremmo potute rimanere a terra più di un paio d’ore, altrimenti l’aereo, a causa della neve accumulata sulle ali e del raffreddamento delle eliche, non sarebbe più potuto partire. Fissammo l’ora del ritrovo e c’incamminammo verso la dimora di M.
Il freddo era pungente, nonostante ci fossimo attrezzate con i migliori cappotti di visone in circolazione. Il sacco che tenevo sulle spalle era talmente pesante da tagliarmi i muscoli della schiena e spesso stringevo con entrambe le mani i bordi orlati di pelliccia del tabarro, nella speranza di trovare un sollievo a quel vento insopportabile; l’unica mia consolazione erano i guanti di montone che tenevano le mani al caldo e all’asciutto.
«Sai cosa mi ci vorrebbe?» chiesi ad Angel che camminava davanti a me, con il cappuccio rialzato in un vano tentativo di salvare le orecchie dal congelamento.
«Cosa?» mi sentii rispondere, come da molto lontano.
«Un bicchiere di Whiskey… sai come mi scalderebbe?»
Angel si fermò e si voltò verso di me con un’espressione inappagabile. Aveva raccolto i lunghi capelli scuri in una treccia, ma alcune ciocche erano sfuggite dalla pettinatura ed ora erano coperte di finissimi fiocchi di neve, come il resto del cappotto; gli occhi castani, profondi ed espressivi, erano socchiusi a causa del vento freddo e il collo latteo era coperto da una sciarpa pesante.
«Vedremo cosa si può fare – mi rispose, soffocando una risata – Ora andiamo… polverizzatrice di vampiri»
 
Raggiungemmo la fortezza dopo circa mezzora di cammino. La sua imponenza aumentava man mano che ci avvicinavamo e l’aria si faceva densa ed irrespirabile: un androne dell’inferno allestito tra le nuvole ghiacciate del paradiso. Il perimetro era completamente sgombro di guardie: o M. era così convinto di essere invulnerabile da risparmiare sulla difesa o qualcuno aveva fatto piazza pulita.
«Oh mio Dio» disse Angel fermandosi di colpo a pochi metri da una piccola porta di ferro rinforzato.
La raggiunsi affettando il passo e mi sporsi oltre la sua spalla per vedere cosa l’aveva turbata; un uomo giaceva a terra supino, coperto di sangue, con evidenti segni di percosse. L’elmetto era stato scaraventato lontano, probabilmente di conseguenza ad un forte colpo, e accanto a lui c’era uno strano fucile, anch’esso sprofondato nella neve in seguito all’urto.
«Qualsiasi cosa l’abbia colpito, era enorme - continuò Angel, azzardando un passo verso il cadavere – ha la schiena spezzata… e guarda la porta»
Alzai la testa, allontanandola da quello spettacolo orripilante; l’acciaio della porta era stato piegato verso l’interno, probabilmente da un colpo infertole nel tentativo di aprirla. Ma quale uomo avrebbe potuto possedere una forza tale da sfondare una porta di quel tipo? Conoscevo già la risposta prima di formulare la domanda.
«Hyde» sussurrai raggiungendo l’entrata sfondata e invitando la mia amica a seguirmi.
La neve scricchiolò sotto i suoi piedi, mentre mi raggiungeva: «La Lega è qui? Come è possibile?»
«Credo che la vendetta sia più forte della morte» sussurrai, mentre insieme spingevamo la porta fracassata ed entravamo nel castello.
Appena fummo all’interno, una ventata d’aria calda ci raggiunse a tradimento, obbligandoci ad aprire i lunghi cappotti di visone. La brezza era densa e diaccia, carica di un odore insopportabile; polvere da sparo frammista a sostanze chimiche indubbiamente letali. Percorremmo velocemente il lungo corridoio mal illuminato che si addentrava nell’interno della fortezza, scansando i corpi delle guardie che trovavamo sul nostro cammino. Il corridoio divenne una scala a chiocciola; salimmo i gradini con un innaturale silenzio come compagno e ben presto ci ritrovammo in quello che una volta sicuramente era il salone dei balli.
«Se la Lega è qui, sicuramente sta cercando di fermare il piano di M. – sussurrò Angel, osservandomi mentre sfilavo dalle spalle il mio sacco e lo poggiavo a terra in tutta fretta – Se lo prenderanno, non lo lasceranno vivo e noi non possiamo permetterlo. Dobbiamo avere le informazioni di cui ci ha parlato, quindi… Iris, mi stai ascoltando?»
«Prendere M. vivo» riassunsi mentre poggiavo la schiena alla colonna dietro la quale eravamo nascosti e mi lasciavo scivolare a terra, fino alla posizione più comoda per poter trafficare nel mio zaino.
«Si può sapere cosa stai facendo?»
Non risposi. Tirai fuori dal sacco un revolver nove millimetri semiautomatico e glielo misi nelle mani, ritornando poi a cercare le altre armi e le munizioni.
«E questa?» chiese Angy, piegandosi accanto a me e allargando esageratamente gli occhi per lo stupore.
«E’ una pistola»
«Grazie, l’avevo capito che era una pistola; ma tu che ci fai con tutte queste armi?»
«Cosa credi che contrabbandi Boujii? Diciamo che ho solo chiesto un incentivo – le dissi, facendo scattare il cilindro, per controllare i colpi di uno degli altri due revolver che avevo tirato fuori – Li hai visti quelli là? – continuai poi, indicando con la testa le scale da cui eravamo salite - Avevano fucili automatici. Quelli sparano centoventi colpi al minuto. Non so dove li abbiano presi o chi glieli abbia costruiti…»
Una scarica di spari si accese in lontananza, e poi un’altra e un’altra ancora. Entrambe drizzammo la schiena istintivamente; dopo un ascolto attento, capimmo che venivano del piano inferiore.
Infilai le due pistole nelle fondine che avevo preparato, montate su delle cintole di cuoio e incrociate sulla schiena. Sfilai il cappotto, sotto lo sguardo stupito di Angel e m’infilai quelle specie di cinghie; erano state costruite in modo che le pistole rimanessero all’altezza delle costole, ma sul fianco della persona che doveva indossarle. Fissai il cinturino sotto il seno e presi una terza pistola carica, facendo scattare il cane ed entrare in canna il primo colpo. Un’altra scarica di proiettili si accese, più vicina.
Guardai il viso incredulo della mia amica e soffocai una risata: «Questi sono i miei poteri, miss Mayfair. Non avrà creduto che sarei venuta qui mettendomi semplicemente nelle mani di Dio?»
Angel mi sorrise, facendo scattare il suo revolver e mettendo il colpo in canna; sfilò anche lei il lungo cappotto ingombrante e si preparò per partire alla ricerca di M.: «Chi ti ha insegnato a sparare?» mi chiese poi, prima di abbandonare la colonna che avevamo usato come nascondiglio.
«…Dorian» sussurrai, stringendo più forte il calcio della mia pistola.
Angel sembrò non sentirmi, si alzò e attraversò correndo il salone nella direzione opposta da dove eravamo venute; laggiù ci aspettava un’altra scala. Sicuramente M. sarebbe stato nelle zone più alte del castello, dove erano state allestite le camere per la permanenza del padrone e dei suoi ospiti.
O per soci nei suoi loschi scopi.
Dorian…
 
“Allora, vediamo se hai imparato” disse lui, mentre mi metteva tra le mani un fucile a canna corta.
“Calcio contro la spalla destra” sussurrai eseguendo i miei stessi ordini “mano sinistra sotto la canna per sostenere il peso, mano destra sul grilletto, testa che segue la linea del mirino”
“E gli occhi?” mi chiese lui, sostando a meno di un metro da me.
“Tutti e due aperti”
“Bravissima… ora colpisci il bersaglio”
Rilassai i muscoli della schiena per poter entrare in sintonia con il colpo, irrigidii il bicipite sinistro con cui reggevo il fucile e fissai il fantoccio che era stato allestito a bersaglio. Ero pronta. Respirai profondamente, stringendo lentamente l’indice sul grilletto, ma proprio in quel momento lui mi abbracciò da dietro aderendo con tutto il suo corpo alla mia schiena e soffiando lievemente nel mio orecchio.
Premetti il grilletto e mancai il bersaglio.
“Sei terribile, è colpa tua se ho sbagliato!”
Lui rise sommessamente senza accennare a liberarmi dalla sua stretta: “Allora dovrò farmi perdonare”
Un bacio lungo, silenzioso…
Dorian…
 
«Muoviti Iris» l’imperativo comando della mia amica, mi giunse smorzato, liberandomi da quel limbo in cui mi avevano trascinato i ricordi.
Mi alzai e la seguii, abbandonando lo zaino e i due cappotti. Mentre correvo, osservai di sfuggita me stessa, riflessa nell’enorme specchio incorniciato d’oro che giaceva al centro della parete alla mia sinistra; ma io non ero l’unica figura che era riflessa su quella superficie. Un’altra forma, pressoché un’ombra stava scomparendo all’interno di una porta secondaria che portava verso il piano inferiore; mi bloccai voltandomi in quella direzione e impugnando la pistola con entrambe le mani, ma l’uomo che avevo visto – se di un uomo si era trattato – era già sparito oltre la soglia.
«Irye!» chiamò ancora, Angel.
L’ignorai, lanciando ancora uno sguardo in direzione di ciò che avevo visto; poi pensai ad M., alle informazioni che dovevamo ottenere. Un colpo violento, il rumore dello sgretolarsi della roccia sotto l’effetto di una scossa sotterranea; il castello prese a tremare. Non c’era tempo da perdere.
Corsi verso la mia amica che mi attendeva sul primo gradino; corremmo a perdifiato su per le scale fino al piano superiore. Dopo una specie di androne, le scale si dividevano portando nelle due ali del castello; con uno sguardo d’intesa ci dividemmo: io presi la sinistra, Angel la destra.
La sua voce mi risuonò nella testa.
Fai attenzione…
«Ci troviamo all’aereo – le urlai in risposta, affrontando il nuovo, ampio scalone, in cui il marmo aveva preso il posto della nuda roccia – O almeno spero…» sussurrai poi tra me e me.
La poca luce che riusciva a filtrare dalle folte nubi, si riversava sui gradini attraversando le inferriate delle minuscole finestre e creava delle pozze quadrate, dalle quali entravo ed uscivo ad una velocità impressionante. I muri bianchi dello scalone, privi di qualsiasi ornamento, un po’ m’intimorivano; e mi obbligavano ad accelerare ancora di più la scalata.
Giunsi al piano superiore, con il fiato rotto dalla corsa, e mi accostai subito alla parete, pronta a ricevere chiunque si fosse messo sulla mia strada. Attesi in silenzio per qualche istante: non c’era nessun rumore, oltre a quello lontanissimo e continuo dei fucili automatici.
Mi trovavo in un ampio corridoio dalle pareti rovinate del tempo e segnate in alcuni punti dall’umidità; il soffitto a volta, dal quale l’età aveva staccato lo splendido intonaco dorato, si estendeva per un lungo tratto, per terminare in una specie di anticamera e poi riprendere il suo corso. Percorsi il corridoio fino all’anticamera, con la pistola puntata nel vuoto. Dal soffitto a cupola, scendeva un vecchio lampadario a dodici bracci e sotto di esso giaceva un tavolino rotondo di legno scuro; alla mia sinistra, la stanza si allargava a dismisura fino a perdersi in un salone trascurato, spezzato da miriadi di colonne di pietra; alla mia destra, invece, all’interno di una piccola nicchia della parete e separata dall’anticamera da tre gradini, stava una porta di legno rinforzato con chiavistelli di ferro, dipinto di blu. La raggiunsi, appoggiando la schiena all’interno della nicchia finemente lavorata e l’aprii con un calcio.
Entrai come una furia, scendendo con un salto i tre gradini che mi dividevano dalla stanza; la pistola restava all’altezza delle spalle e le braccia erano rigide e pronte a qualsiasi attacco. Ma l’attacco non venne: la stanza era vuota. Diedi un’occhiata fugace alla splendida tappezzeria e ai quadri nelle loro lussuose cornici, poi tornai sui miei passi riprendendo il lungo corridoio nella direzione opposta a quella da cui ero arrivata. Dovevo trovare M. e dovevo farlo in fretta.
Percorrevo il corridoio quasi correndo, mentre gli spari dei fucili automatici si spegnevano in lontananza lasciando spazio al silenzio muto ed inesorabile; potevo udire solo i miei passi e il rumore flebile del mio respiro ansante. Mi fermai accanto ad una delle finestre che si aprivano sul paesaggio innevato. Avevo raggiunto le torri più alte e, a farmi compagnia, non c’era altro che il vento gelido che soffiava con forza contro i vetri. Mi feci coraggio e continuai la mia ricerca, presto il corridoio sarebbe terminato, o si sarebbe immesso in un’altra ala del castello.
Ecco, ne scorgevo già la fine.
Sulla sinistra, proprio alla fine di quel lungo passaggio, vidi una piccola porta, in tutto simile a quella che avevo sfondato pochi minuti prima. Mi avvicinai cautamente, presi un respiro profondo e ci andai contro con la spalla; stranamente, quella scivolò sui cardini come se fosse stata aperta e mi ritrovai nella stanza senza alcuno sforzo. Era una stanza bellissima, con le pareti tendenti al lilla, adornate da splendidi segni beige. Alzai di nuovo la pistola, controllando a sinistra, accanto ad uno splendido letto a baldacchino, anch’esso tendente ai toni di viola, e poi a destra.
Soffocai a stento un urlo.
Letteralmente inchiodato al muro da uno stiletto conficcato nel ventre, stava un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Dove la pelle non si era ritirata, mostrando le ossa ingiallite del cranio, aveva assunto un colorito verdastro, decisamente innaturale; gran parte della mascella era staccata dalla scatola cranica e alcune ossa s’erano completamente sbriciolate. Ma la cosa più insolita era che i suoi vestiti erano completamente intatti. L’uomo indossava un completo gessato grigio, con minuscole righe verticali color ghiaccio; gli sbuffi della camicia di seta bianca, uscivano dal panciotto grigio-azzurro finemente ricamato. Le scarpe di vernice erano ancora lucide.
Abbassai la pistola, indietreggiando, disgustata da quella visione. Come era possibile che il cadavere fosse così martoriato e i vestiti non avessero subito alcun danno? Osservai a lungo ciò che era rimasto di quell’uomo – il completo, lo stiletto – continuando a pensare che mi ricordava qualcosa, una cosa che avevo già visto. Intenta nella mia osservazione, non mi ero accorta della cornice che giaceva ai suoi piedi, abbandonata con la tela verso il basso, come lapide di quell’uomo morto in chissà quale circostanza. La raccolsi e la voltai per poter veder il dipinto che conteneva.
Il gelo mi percorse la spina dorsale conquistando ogni muscolo; uno stimolo violento di odio, rabbia, dolore, nacque nel mio stomaco come un uragano. Mi sentii mancare mentre un urlo nasceva nella gola, un urlo che non ero più in grado di trattenere.
 
«NO!»
Angel s’immobilizzò all’istante in un corridoio che mostrava le tracce di un inseguimento accanito: cartucce di proiettili sparse sul pavimento di pietra, tappeti discostati dai loro posti e sangue, sulle pareti e sugli oggetti. Non sapeva se quell’urlo che aveva sentito aveva echeggiato davvero nelle enormi sale del castello o se la sua mente le aveva fatto un brutto scherzo, tuttavia rimase allerta, in attesa di qualche altro segno. Chiuse gli occhi e cercò di estendere il suo potere, ogni stilla del suo essere, alla ricerca di un eventuale richiamo.
Un pianto violento, una sofferenza atroce…
Qualcuno stava piangendo, aveva bisogno d’aiuto. Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne. Dove? Chi?
Una donna inginocchiata che piange, urla… una lacrima scende sul pavimento chiaro; è nata da degli occhi che conosce, degli occhi… azzurri.
Iris.
Angel si voltò senza esitazione e cominciò a correre verso l’androne nel quale, prima, io e lei ci eravamo divise; al diavolo M. e tutto il resto, la sua Iris era in pericolo e niente poteva essere più importante. Maledisse il momento in cui ci eravamo divise, addossandosi ogni responsabilità: se mi fosse successo qualcosa di male, non se lo sarebbe mai perdonato. Teneva la pistola vicino al petto, con le braccia piegate e pronte a distendersi. Non che quell’arma le servisse, ma gliel’avevo data io, e lei avrebbe fatto di tutto per non farmi preoccupare.
Raggiunse la sala in cui ci eravamo separate, mentre scorrevano accanto a lei i ritratti di uomini sconosciuti, indignati della sua corsa folle; imboccò la scalinata che io avevo percorso e pregò di non incontrare bivi. Si avviò per il lungo corridoio a volta, oltrepassò l’anticamera con il lampadario e il tavolino e continuò verso la stanza in cui ero.
Sapeva perfettamente dove mi trovavo, riusciva a percepire la mia presenza.
Entrò come un uragano dalla porta che avevo lasciato aperta e si fermò a contemplarmi dall’alto; le gambe mi avevano ceduto ed ero rimasta immobile a terra, con la tela nella sinistra e nell’altra la pistola.
«Stai bene, sei ferita?» mi chiese subito Angel, precipitandosi in ginocchio accanto a me.
Alzai lentamente la testa, la bocca semiaperta in un urlo silenzioso, gli occhi rossi e le guance segnate dalle lacrime: «E’… Dorian» le dissi reprimendo a forza un gemito, mentre un’altra lacrima scorreva senza controllo sul mio viso.
Angel inizialmente non capì, poi guardò la tela e lo scheletro alla parete, che entrando non aveva visto.
«Il ritratto… si è spezzato» sussurrai poi, incapace di parlare.
Il mio Dorian, il mio principe era…
«Irye, adesso calmati, ti prego» disse la mia amica, togliendomi il dipinto dalla mano in cui ancora lo stringevo. Non riuscivo più a ragionare, a pensare, anche a muovermi, e allo stesso tempo continuavo a ripetermi che non era possibile, che lui era immortale, che non poteva… morire.
Alzai la pistola senza rendermene conto e la osservai, attirata dalla sua lucentezza: «E’… morto - dissi, dimenticandomi completamente della mia amica e cercando più che altro di convincere me stessa – è morto».
Angel mi prese la pistola dalle mani, sapendo che, appena mi sarei realmente resa conto di ciò che era successo, probabilmente l’avrei usata contro me stessa. Io la guardai come un automa: non c’erano sentimenti in me, niente, tutto era sparito, affondato in un abisso sconosciuto. Probabilmente Angel era contenta che quel cadavere putrefatto fosse Dorian, era felice che la causa delle mie sofferenze fosse stata definitivamente eliminata…
«Non dire scempiaggini» mi rispose. Evidentemente mi aveva letto nel pensiero.
Allargò le braccia e mi accolse sul suo petto; il silenzio era totale, sentivo il mio cuore battere accanto al suo cuore, sentivo i nostri respiri, un orologio ticchettare nella stanza accanto, e allora, tra le braccia della persona che più mi amava al mondo, mi lasciai andare ad un pianto disperato, stringendo forte gli orli della sua camicia.
Il mio Dorian, il mio principe era morto e avrei dato tutto ciò che avevo per riportarlo indietro, anche se il male che mi aveva fatto poteva essere equivalso solo dall’amore che provavo per lui.
Un’esplosione catastrofica ruppe il silenzio che ci circondava. Il pavimento prese a tremare paurosamente, mentre l’onda d’urto di quello scoppio si propagava per tutta la fortezza frantumando vetri e soprammobili. Un’altra detonazione scosse la stanza, poi un’altra ancora.
«Forza Iris, dobbiamo andarcene» mi urlò Angel al di sopra del fracasso delle bombe.
Mi sembrava di non sentirla, nel limbo infuocato in cui ero caduta. Continuavo a guardare quel cadavere e a ripetermi che Dorian era morto; immagini sfocate di noi due ai giardini di Kensigton, al poligono di tiro, nel grande parco di caccia…
La mia amica mi alzò di pesò: «Iris… ci sta crollando tutto addosso!»
Io volevo solo che fosse ancora vivo…
«Hanno messo delle bombe nelle fornaci. Sta esplodendo tutto dall’interno!»
Avrei fatto qualsiasi cosa, per tornare indietro nel tempo…
Qualsiasi cosa…

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Strophe the Third ***


Strophe the Third


Voglio restarmene qui con te

E non mai più partirmene

Da questo palazzo della tetra notte […]

Io prenderò qui il mio riposo eterno,

e scoterò dal giogo delle stelle funeste

questa carne stanca del mondo.


 

Qualsiasi cosa…

Il pavimento smise di tremare, come se un enorme gigante avesse stretto tra le sue braccia quel castello dimenticato da dio, impedendogli qualsiasi movimento; le detonazioni erano cessate di colpo, senza spiegazione. Un silenzio innaturale aleggiava nella stanza.

«Ma che diavolo…» sussurrò Angel, stringendomi più forte a sé. Aveva circondato le sue spalle con il mio braccio sinistro, in modo da sorreggermi ed aiutarmi a camminare. Il suo volto era imperscrutabile, ma i suoi occhi tradivano una preoccupazione profonda; sapeva sempre spiegare ogni fenomeno, fosse esso stato chimico, fisco o soprannaturale, e quando non lo sapeva fare significava che i guai stavano bussando alla nostra porta.

Sentii le forze ritornarmi di colpo direttamente dal cuore con una silenziosa esplosione all’interno del mio corpo. Angy fu scaraventata contro una libreria dall’onda d’urto di quell’enorme potere che si era liberato dentro di me. Mi sentii leggera, serena… potente. Potevo percepire ogni fibra dei miei muscoli pulsare e lavorare ad un ritmo forsennato, vedevo anche la più piccola particella di materia, gli atomi all’interno di una goccia di sudore; vedevo la vita in ogni cosa: in ogni fiore che nasceva, in ogni tazza di tè, in ogni vita tolta.

La stanza sparì lentamente, inghiottita da una luce dorata, e una melodia di campane a vento mi avviluppò e mi cullò dolcemente; una voce cantava, diceva qualcosa, ma non capii. Sentivo solo l’enorme potere che mi circondava, mi conquistava, fuori e dentro di me. Percepii un dolore intenso, lacerante, proprio al centro del mio petto…


 

«Tutto comincia e poi finisce…»

Sentii una voce di uomo, profonda e sofferente: “Non ti sei mai chiesta perché loro non si sono sottratti alla morte? Loro ti hanno salvato perché continuassi a vegliare sul portale e sul tempo stesso… E’ per questo che sei viva: tu sei la custode del tempo”

«Inizia, cresce e poi perisce…»

Ci fu una lunga pausa, un pianto soffocato ed ancora quella voce “Tu sei nata e cresciuta per badare che nessuno cambi i piani del tempo. Esisti per far sì che l’ordine venga mantenuto”

«Mai quest’ordine è stato violato…»

Vidi dei volti, tanti volti… uomini e donne segnati dallo stesso destino. Poi Angel, la mia Angel “Sei appena entrata nelle ombre, devi abituartici. E’ il nostro destino, possiamo solo accettarlo” “Credi… credi che io possa riuscirci?” “Certo. Anche se ti costerà un dolore che nemmeno puoi immaginare.” “

«E’ perché il guardiano ha sempre vegliato…»

Vidi mia madre, che mi accarezzava il viso e mi abbandonava “Io non voglio che tu vada via” “Anch’io vorrei non dovermene andare, piccola mia. Ma non posso restare, un giorno capirai…”


 

Mi sentii di nuovo mancare. La luce scompariva lentamente, lasciando i contorni della stanza liberi di mostrarsi; quella melodia bellissima sfumava fino a tornare silenzio. Un silenzio totale, completo, addirittura l’orologio aveva smesso di battere. I fiocchi di neve fuori dalla finestra, restavano immobili nel vuoto, senza cadere, e il vento non smuoveva le nuvole o gli strati superficiali del ghiacciaio. Sentii l’abbraccio caldo di Angel avvilupparmi, mentre cedevo inesorabilmente alla forza di gravità; lentamente cominciai a riacquistare l’equilibrio.

«Angel – sussurrai, cercando alzare la testa e guardarla negli occhi – cosa… cosa è successo?»

«Non lo so» ammise, candidamente, mentre mi reggeva al suo petto cercando di farmi rimanere in piedi.

La stanza sembrava ritornata normale, eppure mi rendevo conto di vederla in un modo nuovo, più preciso e completo. I miei sensi si erano acuiti in una maniera impressionante; percepivo distintamente la presenza di un piccolo insetto immobile a mezz’aria accanto alla finestra della camera accanto, l’odore dei colori ad olio che emanava la tela di Dorian, ogni singola cellula della pelle di Angel.

Era tutto così stupendo, affascinante.

Sentii un’altra fitta dolorosa al petto; gemetti portandomi una mano al punto dove la pelle mi doleva come se fosse stata a contatto con il fuoco vivo: anche la percezione del dolore era aumentata.

«Sei ferita? – mi chiese Angel preoccupata – Fammi vedere» ordinò poi, aprendomi la camicia poco sopra il seno. Il movimento del tessuto sulla mia pelle era una sensazione completamente nuova.

Lì, proprio accanto al medaglione d’oro che portavo sempre con me, era comparso un tatuaggio; un marchio a fuoco con un serpente che si mordeva la coda ed al centro una carabina ed una spada incrociate.

«Il tatuaggio…» sussurrò lei, scostando il medaglione, per vederlo meglio.

Abbassai la testa e osservai il disegno; era proprio identico a quello del mio amuleto: «Posso… avere qualche informazione in proposito, miss Mayfair» intervenni, con il mio proverbiale sarcasmo.

Angel mi scoccò un’occhiata di rimprovero; le sembrava incredibile che potessi scherzare anche in una situazione del genere: «Questo era il motivo per cui non riuscivamo a utilizzare il tuo potere - mi spiegò la mia amica – era il pezzo mancante del nostro enigma…»

Sentii un vuoto improvviso e poi il pavimento riprese a tremare scaraventandoci entrambe a terra. Quel limbo silenzioso e senza tempo che si era creato pochi istanti prima, scomparve all’istante riportandoci nella situazione di partenza: una nuova esplosione aveva frantumato una delle colonne portanti delle fondamenta e la nostra torre stava pericolando rischiosamente verso il crollo. Quell’attimo di stasi era terminato; i miei sensi erano tornati quelli di sempre, come se quella che si era appena conclusa fosse stata una specie di cerimonia per la consegna di un nuovo potere: prego, la messa è terminata, andate in pace. Eravamo di nuovo in quella stanza, lottando per la sopravvivenza in un castello che lentamente stava andando in frantumi.

«Andiamocene» urlò Angel trascinandomi via.

«NO! – le gridai in risposta, piantando i piedi – mi hanno dato il potere perché salvassi Dorian!»

«Che cosa?» rispose voltandosi e cercando di non perdere l’equilibrio sul pavimento instabile.

«Ho chiesto di avere il potere di salvare Dorian e me l’hanno dato… io non me ne vado di qui senza di lui»

«Iris è una pazzia! Anche se ora hai il tatuaggio, non sai se funzionerà – rispose Angel scansando con un movimento improvviso una semicolonna che era precipitata per la scossa - Non puoi pensare di venire a capo di un potere in due minuti. Non puoi farcela!»

«Da sola no… ma con te sì»

Il pavimento sembrò stabilizzarsi, evidentemente l’effetto dell’ultima esplosione era concluso. Il fuoco provocato dalle detonazioni e propagato all’interno dei laboratori, stava iniziando a farsi largo sui tappeti del corridoio; il suo calore cominciava ad infestare l’aria e a renderla densa. Angel mi strinse forte la mani tra le sue, guardandomi in volto, preoccupata. Pregai perché capisse che non potevo andarmene, che non avrei mai potuto farlo.

Tu l’avresti fatto per me…

La sua espressione divenne decisa e risoluta: «E va bene… hai in mente qualcosa?» disse annuendo con un unico cenno del capo.

«Dobbiamo tornare indietro nel tempo e distruggere chiunque ci fosse in questa stanza prima che uccida Dorian»

Angel inumidì le labbra con la punta della lingua, unendole poi in un gesto nervoso: «Nei libri che ho trovato si parla solo di viaggi tra secoli, non di spostamenti momentanei»

«Questo non mi aiuta» le dissi, stringendo le sue mani ancora più forte.

«Va bene, va bene… pensa Angel» disse rivolta a se stessa, alzando gli occhi al cielo in cerca di una risposta.

Le lasciai le mani ed andai alla porta per controllare quanto tempo ci restava prima che il fuoco invadesse la stanza; cercai di non guardare il cadavere di Dorian ancora appeso alla parete dal suo stesso stiletto e cacciai la testa fuori dall’uscio. Il fuoco stava divorando il tavolino circolare dell’anticamera, circa a metà del corridoio.

«Angel… ti consiglio di trovare una soluzione»

«Sì, sì, sto pensando» mi rispose lei, portandosi le mani alle tempie.

«Allora pensa più in fretta. Vorrei ricordarti che io non ho la protezione degli spiriti»

Chiusi la porta, sperando che servisse a qualcosa e tornai di nuovo davanti alla mia amica. Il caldo si stava facendo insopportabile; una goccia di sudore scivolò lentamente dalla mia fronte morendo tra le ciglia, come un collirio fastidioso.

Angel sembrò illuminarsi: «Esatto!» disse, allargando gli occhi dalla felicità.

Arricciai le ciglia in un’espressione di domanda: «Esatto… che?»

«Per quello non trovavo il modo, non c’è un modo!»

«Benissimo…» la interruppi, preoccupata.

«No, no, non hai capito. Non vuol dire che non possiamo fare nulla, ma che non c’è nessuno che può dirci come farlo! Vedi, per invocare uno spirito c’è una specie di procedura da seguire e anche per convincerlo a fare ciò che vuoi che faccia ci vanno parole specifiche, azioni, un certo comportamento… a te questo non serve: il Tempo non è uno spirito capriccioso che bisogna ingraziarsi»

«Mi stai dicendo che io devo solo desiderare di tornare indietro nel tempo e… accadrà?» chiesi, stupita di tanta semplicità.

«Con la dovuta concentrazione e volontà d’animo…»

«Ma il talismano, la filastrocca e tutta quella storia degli specchi?»

Angel alzò gli occhi al cielo, come se la risposta fosse ovvia: «Quelle sono procedure per utilizzare un Varco Temporale che è una specie di rottura nella linea spazio-tempo; qui parliamo di uno spostamento di pochi minuti…»

«Un po’ come portare indietro le lancette di un orologio» intervenni, cercando di semplificare la sua spiegazione.

«Esattamente! Il talismano e il tatuaggio sono come il permesso di poter utilizzare questo potere»

«Quindi devo solo imporre al tempo di tornare indietro… come bere un bicchiere di Whiskey» ironizzai.

Il fuoco stava cominciando a divorare la porta della stanza; le sue assi scricchiolavano come calpestate da un piede invisibile. Mi asciugai la fronte con la mano e respirai a fondo un paio di volte. Guardai fuori dalla finestra la neve scendere implacabile e silenziosa; era uno spettacolo magnifico quella distesa bianca ed intatta. Per un istante pensai che sarebbe stato un bel posto per morire, quella stasi completa, una tomba d’acqua solida, poi mi ricordai di Angel, di Dorian, di mia madre e di tutti quelli che mi amavano o lo avevano fatto in passato; non potevo deluderli, dovevo essere forte e dimostrare che ero una degna erede della famiglia Kingson-Cheaney… la nuova Custode del Tempo. Ce l’avrei fatta.

«Sono pronta» sussurrai con voce decisa.

Il fuoco aveva ormai quasi completamente carbonizzato la porta e stava prendendo possesso dei tappeti persiani e delle tende; presto sarebbe arrivato al triclino e poi al letto.

«Penso io al fuoco – mi disse Angel, portandosi a qualche passo da me – tu concentrati e focalizza il momento al quale vuoi ritornare»

«Ma non sappiamo quanto tempo prima l’abbia ucciso» affermai preoccupata, ma Angel già non mi ascoltava più. Aveva chiuso gli occhi e stava davanti a me, immobile, con la schiena rigida e le mani chiuse vicino al petto. All’improvviso, una specie di cerchio appena visibile, prese a vorticare attorno a noi; si allargava e si stringeva molto velocemente, come se cercasse di trovare la grandezza giusta, poi si bloccò circondandoci entrambe, all’altezza delle spalle. Da quel cerchio cominciarono a crearsi due semisfere che si unirono sopra e sotto di noi, creando una barriera leggermente luminescente. Il fuoco continuava a conquistare ogni parte combustibile della stanza, ma non riusciva a penetrare nella sfera che Angel aveva creato.

Concentrati! M’intimò senza abbandonare la sua posa statica, usando il pensiero.

Inspirai una grande quantità d’aria e la rilasciai chiudendo gli occhi. Pensai intensamente a cosa facevo, ma soprattutto per chi lo stavo facendo; il pensiero del cadavere di Dorian inchiodato al muro, della sua pelle ridotta a brandelli s’insinuò violento nella mia mente e una lacrima mi scivolò sulla guancia.

Non sei concentrata… mi ripeté Angel, introducendosi brutalmente nei miei pensieri. Affronta le tue paure: non pensare di poterlo fare, convincitene.

Strinsi di più le palpebre, sentivo tutti i miei muscoli tesi; desiderai di tornare indietro, forse sussurrai anche un comando, ma non accadde nulla. D’un tratto la voce di Dorian si accese nella mia testa…


 

Allora, vediamo se hai imparato”

Calcio contro la spalla destra, mano sinistra sotto la canna per sostenere il peso, mano destra sul grilletto, testa che segue la linea del mirino”

E gli occhi?”


 

Sorrisi al vuoto sussurrando la risposta: «Tutti e due aperti»


 

Bravissima… ora colpisci il bersaglio”


 

«Grazie Dorian…»

Aprii lentamente gli occhi, rilassai i muscoli della schiena e distesi ogni nervo per entrare in sintonia con il mio potere.

Indietro! Ordinai muovendo leggermente le labbra.

Il fuoco attorno a noi smise di muoversi; le fiamme rosseggianti che lambivano i pavimenti, le tende di broccato e i mobili, non si ritirarono né si mossero a ritroso, spinte da una forza invisibile, ma semplicemente si bloccarono, come ritratte da uno strano pittore. Percepii con violenza il ritorno dei miei sensi affinati; l’odore di ogni singolo filo dell’intrico prezioso che formava i tappeti, la magnificenza dell’insieme confuso di atomi che componevano le fiamme, la complessità dei cunicoli che una tarma aveva scavato nel legno della libreria accanto a me.

Angel aprì gli occhi e liberò dall’impegno lo spirito che ci stava proteggendo; prima che la sfera brillante sparisse, vidi il suo minuscolo centro di materia.

«Perché è fermo?» mi chiese Angy, avanzando verso di me.

«Sta aspettando…» risposi con voce lenta e soffusa, come se quello stato di stasi fosse la mia pace, il mio karma.

«Cosa sta aspettando?»

Solo ora vedevo tutto chiaro, ora che ero nel limbo senza tempo dove i miei poteri potevano scatenarsi: «Di sapere quanto andare indietro».

Angel rimase con la bocca socchiusa, in un’espressione sorpresa e preoccupata allo stesso tempo. Le sue sopracciglia erano leggermente sollevate e le pupille all’interno delle iridi castane, si erano ristrette come in reazione ad una luce violenta. Evidentemente la mia sicurezza l’aveva in qualche modo turbata.

Le posai una mano sulla spalla, sentendo sotto i polpastrelli l’intricato intreccio delle fibre di lana: «Stai tranquilla» le sussurrai.

Lei riunì le labbra carnose, rilassando il viso, e annuì lentamente. Le ciocche che le erano sfuggite dalla lunga treccia si erano fatte più folte e ora cadevano più decise sul viso e sul collo; ne scostò un paio portandole dietro le orecchie ed indietreggio di un passo per lasciarmi spazio e concentrazione. Il rumore del pavimento sotto il suo peso era bellissimo perché completamente nuovo.

Chiusi gli occhi, scorrendo nella mente qualsiasi possibile indizio sul momento in cui l’assassino di Dorian aveva lasciato quella stanza: dal cadavere non si potevano avere constatazioni, nello stato in cui era; tracce di sangue in cui contare gli isotopi radioattivi rimanenti non ce n’erano o, se ce ne fossero state, il fuoco le aveva cancellate. Pensai alle esplosioni: se erano cominciate solo molto dopo che avevo raggiunto quella stanza, significava che la Lega non era entrata da molto ed era stato sicuramente un componente della Lega stessa a compiere quella vendetta. In effetti, avevamo cominciato ad udire gli spari solo quando avevamo raggiunto il salone dove avevamo caricato le armi… la mia mente si fermò di colpo sull’immagine del grande salone: la corsa di Angel, la mia esitazione… quell’ombra riflessa nello specchio. Chi altri poteva aver utilizzato quel passaggio se non una persona che proveniva dalle torri?

«Touché» mormorai, aprendo gli occhi.

L’uccisore di Dorian aveva lasciato la torre poco prima che noi salissimo la seconda scala a chiocciola; questo significava che sarebbe bastato tornare indietro fino all’entrata nel castello ed evitare ogni tappa, ogni esitazione, per raggiungere la stanza in tempo.

Vidi Angel sorridere; evidentemente aveva seguito tutto il mio ragionamento.

«Bene, ora ritorneremo a prima che vedessimo il corpo senza vita della guardia, fuori dalla porta sfondata; allora non avremo che pochi minuti per raggiungere questa stanza. Questo significa niente soste e niente incertezze…»

«E niente armi per te» concluse lei, evidentemente preoccupata.

«Non ti preoccupare per me, me la caverò… ora rilassati e ricordati: qualsiasi cosa succeda, appena ti renderai conto di essere là fuori, corri»

«Va bene» disse lei, allentando i muscoli del torace, tentando di rilassarsi.

Respirai a fondo cercando di percepire l’aura di potere che mi circondava, la sentii scorrere in onde fluide sulla mia schiena, sul torace. Alzai la testa con decisione per imporre la mia volontà una seconda volta.

Indietro!


 

Quella volta non mossi neppure le labbra. Tutto intorno a me divenne buio: mi sentii risucchiare da un vortice invisibile e caddi in un baratro senza fine; poi una luce apparve in lontananza, sempre più forte, più violenta. La pelle prese a scottare nel punto in cui era apparso il tatuaggio, sembrava prendere fuoco. Poi tutto svanì: un freddo pungente ferì la mia pelle, il vento gelido soffiava sul mio viso, non ero più sospesa nel vuoto, ma sentivo i piedi poggiare su un terreno morbido.

«Iris!» mi chiamò forte una voce familiare.

Aprii gli occhi e mi trovai in mezzo ad una distesa gelata. Davanti a me Angel mi scuoteva, avvolta nel cappotto di visone grigio; il cappuccio le era scivolato dalla testa per i violenti scossoni che mi stava dando. Realizzai dove mi trovavo e una morsa mi strinse lo stomaco.

«Muoviamoci» le dissi, terrorizzata all’idea di non arrivare in tempo.

Lasciai cadere lo zaino con le armi e le munizioni mentre cominciavamo a correre verso la porta sfondata; sarei stata sicuramente più veloce senza quel peso. Angel mi precedeva di qualche metro; aggirammo il corpo della guardia ed entrammo. L’aria diaccia ci colpì per la seconda volta, come uno schiaffo incorporeo. Slacciammo i lunghi cappotti e li abbandonammo strada, correndo a perdifiato verso la scala a chiocciola. Non credo di aver mai corso così veloce in tutta la mia vita.

«Forza, forza» continuavo a sussurrare, con il fiato rotto dallo sforzo.

Salimmo i gradini della prima scala e ci precipitammo nel grande salone; i colpi di mitraglia non s’erano ancora accesi. Buon segno.

Percorremmo anche la seconda scala a chiocciola in silenzio, accompagnate solo dai nostri passi e dal rumore sommesso dei nostri respiri ansanti. I miei sensi erano tornati normali per una seconda volta, evidentemente si acuivano soltanto quando utilizzavo i miei poteri.

Al bivio prendemmo la scala di sinistra.

«Qualsiasi cosa ci sia lì dentro, lascia che sia io ad occuparmene – mi disse Angel, saltando due gradini ed arrivando al termine della scala – tu libera Dorian e inizia ad andartene»

«Io non ti lascio da sola» protestai col fiato che mi rimaneva.

«Non è il momento per essere testardi»

Superammo l’anticamera che conduceva alla prima stanza del corridoio; ormai si scorgeva la fine e ancora gli spari non erano cominciati. Raggiungemmo la piccola porta che conduceva alla stanza: una voce di donna proveniva dall’interno: «Avevi detto che volevi affrontare il tuo demone…»

La voce di Angel esplose nella mia testa: Ora!


 

Appena sfondammo la porta Angel scatenò un’onda di potere che scaraventò la persona che era in piedi davanti a noi, direttamente contro la parete di fronte. Tutti i mobili della stanza furono colpiti dallo spostamento d’aria che la mia amica aveva creato; i più leggeri andarono in mille pezzi, i più pesanti si limitarono a spostarsi di qualche metro. Mi fermai sulla soglia a contemplare quello spettacolo di potenza inaudita; i vetri si erano frantumati all’istante lasciando entrare il vento gelido e qualche fiocco di neve. E lì a terra, in mezzo ai resti di un siparietto di legno scuro, giaceva quello che sarebbe stato l’assassino di Dorian.

Era una bella donna, giovane ed affascinante; i suoi lunghi capelli castani, tendenti al rosso, erano legati da una mezza coda e ricadevano morbidi sulle spalle. Teneva i grandi occhi azzurri fissi su Angel, pronta a sferrare un attacco mortale. La riconobbi solo dopo aver visto i canini affilati spuntare dalla bocca aperta in un urlo muto.

Mina Harker.

Pensa a Dorian… mi ricordò la mia amica, preparandosi a colpire ancora la vampira.

Entrai nella stanza, timorosa di vedere ancora una volta il cadavere putrefatto, con la paura che fossimo arrivate tardi, ma quando mi voltai verso la sinistra, lo vidi lì… vivo.

«Iris…» sussurrò alzando le sopracciglia scure e perfette.

Quando udii la sua voce chiamare il mio nome, ebbi un sussulto. Era lì, il mio principe oscuro era vivo e mi stava parlando, ancora una volta. Una vampata di gioia pura mi nacque nel petto e riscaldò tutto il mio corpo.

«Ma come avete…»

«Shh - gli intimai quando cercò di chiedere spiegazioni; sarebbe venuto il momento, avevamo tutto il tempo del mondo – ora dobbiamo andarcene da qui»

Presi con entrambe le mani lo stiletto che lo teneva bloccato al muro e con uno strattone lo estrassi dal suo corpo; Dorian gemette appena, mentre un rumore sordo mi avvertiva che Angel aveva inchiodato Mina al muro con il suo incantesimo. Mi voltai e vidi la mia amica stringere il pugno in una morsa letale, proprio come aveva fatto con il maggiordomo, ma con molta più violenza, furia. Vidi Mina sospesa a mezz’aria che si contorceva, incapace addirittura di urlare, ma le sue mani non erano sul collo o la bocca, come avevo già visto con l’uomo che Angel aveva minacciato, ma stringevano un punto vicino allo sterno, in un tentativo disperato di penetrare nella cassa toracica; allora realizzai che Angel stava stringendo nel pugno il suo cuore.

Abbandonai Dorian, lasciando cadere lo stiletto e mi piazzai tra Angel e il corpo di Mina, che stava lentamente perdendo le forze.

«Basta così» le dissi, guardandola dritta negli occhi. Non c’era minaccia nella mia voce, solo una semplice richiesta.

Angel mi guardò incredula: «Lei ha ucciso Dorian» obbiettò tenendo stretta la morsa intorno al cuore di Mina. Dietro di me, la sentivo soffrire in silenzio.

«Dorian è vivo, abbiamo fatto quello per cui siamo venute. Uccidere un componente della Lega ci metterà nei guai»

Angel continuava a guardarmi, senza allentare il pugno.

«Abbiamo sovvertito abbastanza le leggi del mondo per oggi - aggiunsi, poggiandole una mano sulla spalla, come avevo fatto prima di tornare indietro nel tempo – non può nuocerci in questo stato»

Molto lentamente, Angel abbassò la mano rilasciando la presa sull’organo vitale della vampira. Dietro di me il suo corpo cadde con un tonfo, in uno stato d’incoscienza. Dorian allentò la tensione sui nervi e raccolse il suo stiletto.

«Tu sei troppo… buona» mi sussurrò Angel cominciando ad avviarsi verso la porta. Dorian ci guardò entrambe: i suoi occhi erano pieni di domande, aveva lo sguardo di chi accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. I suoi lunghi capelli neri erano impeccabili come sempre; l’unica nota stonata nel suo aspetto ero lo stiletto, privo della sua solita custodia che lo avrebbe fatto assomigliare in tutto e per tutto ad un bastone da passeggio. Entrambi mi guardarono in attesa che li raggiungessi: le due persone che amavo erano salve. Il vento gelido che entrava dalla finestra rotta mi accarezzava dolcemente e qualche fiocco di neve cadde ai miei piedi. Mi sentii felice ed appagata, piena di una contentezza calda ed acquietante.

Il viso di Angel divenne di colpo una maschera di terrore, sentii un respiro dietro di me; non feci in tempo a muovermi che un paio di mani mi bloccarono le braccia dietro schiena, immobilizzandomi completamente.

«La pietà non ti porterà da nessuna parte» mi sussurrò una voce di donna a pochi centimetri dall’orecchio sinistro. Mina si era finta svenuta per sferrare quell’ultimo attacco.

Dorian fece immediatamente un passo verso di me, ma Angel lo bloccò con una mano; sapeva che quella donna non aspettava altro che una scusa per affondare i suoi denti nel mio collo.

Non fare mosse avventate… mi disse Angel, entrando nei miei pensieri.

«E’ arrivata la cavalleria, vero tesoro? - disse Mina, puntando le sue iridi azzurrine su Dorian – Hai promesso a tutte e due amore eterno affinché ti salvassero?»

Dorian alzò lo stiletto all’altezza del viso, ma non parlò; si voltò verso Angel, che chiaramente gli aveva intimato il silenzio, e tornò a guardare Mina.

«Hai amato anche loro per qualche ora come hai fatto con me?» chiese di nuovo, evidentemente nel tentativo di farlo reagire e poter finalmente mettere fine alla sua vita.

«Lui non ti ha mai amato… - sussurrai, senza un barlume di lucidità – non l’ha mai fatto»

Sentii la stretta di Mina farsi più serrata e i suoi denti penetrare violentemente nella carne del mio collo; il sangue mi scorreva via, succhiato dalla sua bocca famelica. Il mio cuore batteva fortissimo, poi sempre più lentamente, mentre mi veniva sottratto ogni liquido vitale.

Un’onda d’urto violentissima ci sbatté contro la parete e il colpo allontanò Mina dal mio corpo. Caddi a terra, mentre il sangue continuava a scorrere dal mio collo sul petto e il cuore si sforzava di pompare ancora, inutilmente. Le immagini cominciarono a sfocarsi a tratti: sentii le delle urla di dolore e qualcuno mi sollevò da terra e mi adagiò in un altro punto, issando la mia schiena con entrambe le braccia in un tentativo di tenermi sveglia. Lentamente misi a fuoco il volto latteo di Dorian, i suoi occhi scuri preoccupati.

«Iris, forza…» mi sussurro scotendomi appena.

Sapevo di avere un corpo, ma non riuscivo a comandarlo. Cercai di distendere un braccio per accarezzare i suoi capelli neri, ma non ci riuscii.

«Iris devi stare sveglia… sei una maledetta testarda… perché gliel’hai detto?»

Volevo rispondergli che l’avevo fatto perché era vero, che non ci avevo pensato, che non doveva preoccuparsi: sarebbe andato tutto bene, avremmo sistemato tutto… ma dov’era Angel? La mia Angel?

Produssi un debole suono, molto lontano da qualsiasi cosa fosse conosciuta con il nome di parola.

«Chérie… mi senti? Non puoi andartene perché devo raccontarti di Venezia… ci sono stato, sai? E’ davvero come la immaginavamo…»

Tentai di sorridere, ma nessun muscolo mi rispondeva più. Il volto di Dorian stava perdendo velocemente nitidezza e si stava trasformando in un buio senza fine; credetti di aver chiuso gli occhi e tentai di riaprirli, ma mi accorsi che in realtà semplicemente non vedevo più nulla. Anche i suoni si stavano spegnendo. Percepivo solo eco lontane…

«Non respira!»

Un rumore di vetri infranti. Il calore improvviso di un corpo contro il mio, due braccia che mi circondavano e poi una voce nella mia testa, chiara e decisa.

Vivi! M’impose.

Uno scoppio improvviso all’interno del mio corpo mi riportò alla vita; la luce tornò violenta a ferirmi gli occhi. Mi resi conto di essere sdraiata a terra, la testa appoggiata al petto di Dorian che stava cercando di sollevarmi. Poi di nuovo il buio, un calore terribile tutto intorno a me e un dolore accecante in un punto indefinito vicino alla spalla sinistra. Qualcuno mi stava sollevando e portando via; sentivo il mio cuore battere molto lentamente, troppo adagio. Raccolsi tutte le mie forze ed aprii gli occhi: vidi un alto soffitto a cassettoni e i capitelli di alcune colonne, poi ancora il buio. Un rumore sordo e continuo, come le eliche di un aereo. Ma non avevo appena visto un salone? Mi adagiarono su una superficie soffice e mi coprirono. Sentii una voce…

«Non ti preoccupare… è finita»

Allora mi addormentai.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Refrain ***


Refrain
 
Paradiso.
Non è una bellissima parola?
Fantastica, pensavo quella notte
Mentre, distesa tra le braccia del mio amore,
Respiravo silenziosa.
Mi fa stare bene ripeterla…
Paradiso.
Paradiso.

 
Un tiepido vento pettinava le chiome verdi degli enormi alberi che crescevano rigogliosi nel giardino della dimora estiva di Lord John Ghrosnow; il sole era appena sorto, e stazionava immobile poco sopra l’orizzonte, osservando uomini e donne, elegantemente vestiti, che passeggiavano nel parco. Io e Dorian avevamo cavalcato fino al recinto che era stato allestito a poligono di tiro, poco lontano dal confine delle terre del nostro ospite, e avevamo affidato i nostri cavalli ad un ragazzetto vestito di stracci che li aveva subito legati e rinfrescati.
“Allora, vediamo se hai imparato” disse lui, sfilandosi il fucile a canna corta che teneva a tracolla e porgendomelo.
Gli sorrisi, voltandogli poi le spalle per posizionarmi correttamente nella direzione del bersaglio: “Calcio contro la spalla destra” sussurrai eseguendo i miei stessi ordini “mano sinistra sotto la canna per sostenere il peso, mano destra sul grilletto, testa che segue la linea del mirino”
“E gli occhi?” mi chiese lui, sostando a meno di un metro da me. Riuscivo a sentire il calore del suo corpo a poca distanza dal mio, e il vento mi portava il suo profumo d’acqua di colonia.
“Tutti e due aperti” risposi cercando di concentrarmi sul tiro.
“Bravissima… ora colpisci il bersaglio”
Cancellai ogni distrazione convogliando ogni mio pensiero sulla pallottola che stava per partire al mio comando; il vento non rappresentava un problema e la distanza del bersaglio era minima. Rilassai i muscoli della schiena per poter entrare in sintonia con il colpo, irrigidii il bicipite sinistro con cui reggevo il fucile e fissai il fantoccio che era stato allestito a bersaglio. Ero pronta. Respirai profondamente, stringendo lentamente l’indice sul grilletto, ma proprio in quel momento lui mi abbracciò, aderendo con tutto il suo corpo alla mia schiena e soffiando lievemente nel mio orecchio.
Il proiettile partì fischiando e sparì nel vuoto, qualche metro a destra del bersaglio stabilito. Abbassai adirata il fucile e tentai di voltarmi: “Sei terribile, è colpa tua se ho sbagliato!”
Lui rise sommessamente, senza accennare a liberarmi dalla sua stretta: “Allora dovrò farmi perdonare”.
Il mio orgoglio ferito si rimarginò immediatamente alla vista del suo sorriso; mi liberai con uno strattone e puntai il fucile scarico contro il suo petto; il vento sbarazzino gli sollevò i capelli neri e li fece ricadere sul panciotto ocra: “Signor Dorian Gray, lei verrà giustiziato per quanto ha fatto”
Lui afferrò la canna del fucile e la sollevò tirandola a sé. Mi ritrovai tra le sue braccia, sotto gli sguardi scandalizzati di qualche dama seduta su poltrone di vimini. Mi persi nei suoi occhi mentre eravamo vicini, sempre più vicini: “Lieto di morire per mano tua” mi sussurrò sulla bocca, prima di chiuderla in un lungo bacio.
Scivolò poi lentamente verso il collo; passò le labbra sulla pelle chiara e poi, con una mossa decisa e violenta, mi morse, penetrando con i denti affilati nella carne. Sentivo il suo odore di colonia dissolversi per far posto a quello del sangue che stava sgorgando a fiotti dalla ferita sul mio collo. Tentai di liberarmi dalla sua stretta serrata, ma non c’era niente da fare; in un attimo di lucidità improvvisa aprii gli occhi sul mio assassino: non c’era più Dorian chino su di me, ma una donna dai lunghi capelli castani con dei bellissimi riflessi ramati. Si staccò dal mio collo quando ebbe bevuto abbastanza e mi guardò negli occhi. Le sue irridi erano azzurre, ma circondate da vene pulsanti di sangue rosso; alcune gocce le cadevano dal mento sporco e dalle labbra. “Lui non ti ha mai amato” mi disse, lasciando cadere a terra il mio corpo pressoché senza vita “Non l’ha mai fatto..”
 
Mi svegliai di colpo, senza muovermi, semplicemente aprendo gli occhi.
Sopra di me c’erano le sete turchine di un baldacchino, dove la tiepida luce serale si rifletteva creando fantastici giochi. Il sogno che avevo fatto svanì troppo velocemente, portando dentro di me una sensazione d’impotenza infinita, e pochi secondi dopo il mio brusco risveglio non ne ricordavo che piccole brecce sfocate ed imprecise. Io e Dorian nella tenuta di Lord Ghrosnow, il bersaglio mancato, il suo bacio improvviso che si era trasformato nel morso famelico di una donna, una donna vampiro. Portai istintivamente una mano al punto in cui quella donna dagli occhi azzurri mi aveva morso, ma non vi trovai traccia di ferite, eppure…
Eppure conoscevo quel viso, mi era stranamente familiare; e quel dolore intenso mi era sembrato di provarlo davvero, di averlo già testato sulla mia stessa pelle. Quegli occhi azzurri, i canini rossi di sangue, la bocca spalancata in un urlo muto. Sì, sapevo perfettamente di chi si trattava: Mina Harker.
Lentamente ricostruii nella mia mente ciò che era successo: il viaggio fino in Mongolia, la scoperta del cadavere di Dorian, l’acquisizione dei miei poteri, quella corsa inesorabile contro il tempo per poterlo salvare e lei; la sua ingrata e crudele vendetta contro chi l’aveva risparmiata da una fine orribile. Sì, mi ricordavo tutto perfettamente. Poi il morso letale, Dorian che cercava di tenermi sveglia, il suo viso che scompariva nelle tenebre, i tentativi di Angel di riportarmi tra i vivi. Rumori, ombre, ricordi sfocati. La meschina realtà si fece spazio avidamente nella mia testa ancora intorpidita dal sonno, portando una sensazione ancora più inquietante di quella muta debolezza: dove mi trovavo?
Mi alzai a sedere sul morbido materasso, abbandonando il dolce abbraccio che i guanciali di piuma esercitavano sulla mia testa e sulle spalle, e osservai attentamente la stanza intorno a me. Una bellissima poltrona di legno ed elaborate stoffe, sostava proprio accanto al letto, sulla destra, in muta attesa di un ospite invisibile. Poco più in là, davanti ad una piccola libreria, uno scrittoio di legno scuro era cosparso di spartiti e penne d’oca, e qualche boccetta d’inchiostro vuota rimaneva in bilico sul limitare del baratro. La finestra che si apriva sulla città nella parete dietro di me, rifletteva la sua fioca luce sul grande specchio accanto alla porta ed andava ad illuminare debolmente il tavolino da toeletta. Le pareti ed ogni mobile, tendevano ad un azzurro chiaro che mi ricordava tanto il colore dell’oceano. Una sensazione bellissima mi conquistò e mi avviluppò lentamente: mi sentivo a casa.
Ero a casa.
Scostai con uno strattone le coperte che limitavano quella mia euforia improvvisa, posai i piedi sul pavimento freddo e mi alzai dal letto, in preda ad una felicità delirante. Sentii la testa diventare di colpo pesante e la forza di gravità avere la meglio sulle mie gambe inferme: per un istante vidi tutto nero e dovetti tornare a sedermi, poi lentamente, insinuandosi in quel velo nero come piccole nuvole multicolore, la vista cominciò a ricomparirmi.
Sentii la porta aprirsi lentamente e due piedi incerti fermarsi sulla porta: «Signorina Iris, è sveglia!» urlò entusiasta una voce di donna dallo spiccato accento francese.
Voltai la testa nella direzione della voce e riconobbi Marie. Portava nella mano sinistra un vassoio d’argento con un contenitore pieno d’acqua e ghiaccio e un asciugamano.
«Sia ringraziato il cielo - disse avvicinandosi a me e posando sullo scrittoio il plateau – sono giorni che dorme! Temevamo che non si sarebbe più ripresa… vado subito a chiamare la signorina Angel»
«No! – le ordinai prendendola per una mano – vorrei farle una sorpresa ed andare io da lei» le dissi, troppo felice di essere di nuovo a casa per fare caso al dolore persistente che stazionava nella mia testa ancora debole.
Marie posò una mano sulla mia fronte per controllare la febbre: «Se mi è permesso, non dovrebbe affaticarsi, signorina, si è appena ripresa»
«Non le è permesso - dissi ridendo – Su, Marie! Solo questa volta…»
La governante mi guardò a lungo, portando entrambe le mani sul grembiule bianco che teneva legato in vita: «E va bene… lasci solo che le porti una vestaglia da mettere sopra la camicia da notte. E l’accompagnerò io giù per le scale, d’accordo?»
«D’accordo» dissi, imitando con assoluta precisione un tono da bambina ubbidiente. Ero euforica: tra pochi secondi avrei rivisto la mia Angel. L’orologio a pendolo batté sei rintocchi.
«Forza, si regga al mio braccio - disse Marie, porgendomi gentilmente l’aiuto per alzarmi dal letto – Ecco qua. E ora infili questa» continuò avvicinando alla mia schiena una lunga vestaglia di seta rossa, legata in vita da una sottile cintura dello stesso materiale.
Misi in silenzio l’abito, rifiutando però qualsiasi tipo di calzatura: la sensazione del pavimento gelido sotto i piedi mi faceva sentire, in un certo senso, viva. La fioca luce che filtrava dalla finestra chiusa, giocava a creare fantastici riflessi cremisi sulla stoffa pregiata del mio soprabito; Marie mi avvicinò lo specchio come faceva sempre dopo avermi aiutato a vestirmi.
Mi osservai a lungo riflessa in quel pozzo argenteo: la lunga veste di seta raggiungeva il pavimento e lo accarezzava con un lungo tratto; si apriva appena sulle lunghe gambe, coperte a malapena dalle trasparenze della camicia da notte bianca. La cintura chiusa con un nodo semplice segnava la vita sottile e i fianchi pronunciati. Dalla scollatura uscivano i nastri della camicia e si confondevano con gli orli della veste, il cui colletto si fermava a metà della gola lattea. I miei lunghi capelli biondi erano sciolti e disordinati sulle spalle e sulla schiena. In quell’inusuale visione, però, c’era qualcosa di strano: ricordavo di essere stata ferita da Mina nello scontro, lo ricordavo perfettamente; i suoi denti nella carne del mio collo erano stati terribilmente dolorosi e violenti. Eppure, di quel morso non era rimasto nulla. La mia pelle era bianca e perfettamente rigenerata.
«Vogliamo andare, signorina?» mi chiese gentilmente Marie, porgendomi il braccio destro, come da etichetta.
Lo presi, adagiandoci sopra parte del peso del mio corpo ancora instabile. Non dovevo preoccuparmi: le mie domande avrebbero presto avuto risposta.
Scendemmo con calma i due piani di scale che ci separavano dalla libreria del piano terra e quando arrivammo nell’anticamera pregai Marie di non annunciarmi e di lasciarmi sola con la mia amica; la donna acconsentì, spingendo con delicatezza la grande porta che conduceva nella libreria per prepararmi il passaggio e scomparendo poi verso le cucine. Entrai con passo incerto, in parte per la paura di rovinare la sorpresa, in parte per l’instabilità che ancora possedevo a causa dei lunghi giorni di riposo. Angel non si era accorta della mia presenza; restava in silenzio, seduta su un divanetto in una posa che poco aveva di ligio all’etichetta. Le lunghe gambe erano raggruppate accanto a lei e il busto piegato poggiava tutto il suo peso sul bracciolo del sofà, attutendo il fastidio del legno contro il fianco con qualche grosso cuscino di piuma. Tra le mani che teneva sospese davanti al viso, c’era un libro dalla copertina consunta e rovinata dal tempo, in cui il titolo – Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde – aveva perso ormai gran parte della sua iniziale magnificenza. La lunga veste blu pavone appena stretta sotto il seno, le era scivolata delicatamente lasciando libere le gambe. I capelli corvini dai lucenti riflessi ramati le spiovevano sul viso concentrato nella lettura, incorniciandone il bel volto.
«Ti lascio sola qualche tempo e cominci subito a leggere oscenità…» dissi per annunciare la mia presenza e mi godetti in silenzio la sua reazione.
«Iris!» urlò lei, chiudendo di scatto il libro ed abbandonandolo sul divanetto dov’era seduta. Si alzò e corse verso di me, gettandomi le braccia al collo.
«Come stai? Quando ti sei svegliata?» cominciò a chiedermi, mentre mi stringeva in un tenero abbraccio.
«Piano, piano – la interruppi – mi stai soffocando!»
«Scusa, è che… sono così felice»
Angel mi sciolse dalla sua stretta e mi porse il braccio destro per accompagnarmi alla mia poltrona preferita, proprio quella accanto al divanetto dove lei era seduta. Ci sorridemmo entrambe, euforiche per quel nuovo incontro. Quanto mi era mancata…
«Come ti senti?» mi chiese dopo avermi aiutato a sedere ed essersi accomodata lei stessa.
«Bene, davvero. La testa pesa un po’, ma credo sia solo colpa della mia enorme intelligenza»
«Se il tuo cervello sta aumentando in grandezza, speriamo solo che poi non subisca un feedback negativo»
Una risata fragorosa confermò alla mia amica il mio stato di salute; era bello tornare a scherzare con lei. Avevo, però, delle incognite che avevano bisogno di essere chiarite, solo allora avrei potuto affermare di essere completamente guarita.
«Ho delle domande da farti…» le dissi, dopo che l’euforia si era spenta.
Angel mi guardò un attimo in silenzio, poi si mise comoda sul divanetto, consapevole che sarebbe stato un lungo racconto. Allungò le gambe sui guanciali e posò il mento sulla mano aperta: «Avanti» mi disse, allargando leggermente gli occhi.
«Come faccio ad essere viva? Insomma, mi ricordo di Mina, del morso… - dissi portando inconsapevolmente una mano al collo - Credevo che una volta che un vampiro ti ha succhiato il sangue sei morto. Non c’è cura»
«In linea di massima sarebbe così, ma si da’ il caso che tu sia… immortale»
Rimasi in silenzio, cercando di concepire ciò che avevo sentito. Io immortale?
«Sì lo so che sembra assurdo, ma è una conseguenza dei tuoi nuovi poteri. In effetti sarebbe illogico se il Custode del Tempo stesso ne subisse lo scorrere inesorabile» continuò Angel abbandonando la sua posa statica e cominciando a muovere la mano destra nel vuoto in una danza frenetica.
In effetti aveva ragione, non mi sembrava poi così assurdo il fatto di essere immortale; in un certo senso era come se l’avessi già saputo: «Ma se sono immortale perché sono rimasta addormentata per tutti questi giorni… a proposito, quanti sono?»
«Cinque con oggi» rispose Angel, stringendo gli occhi per contarli nella mente.
In quel momento qualcuno bussò dolcemente sulla porta che avevo lasciato aperta; entrambe alzammo la testa e riconoscemmo Marie, immobile sull’uscio.
«Volevo solo chiedere se le signorine desiderano qualcosa da bere» intervenne, abbassando la testa in segno di perdono per la brusca interruzione.
«Per me niente, grazie – disse la mia amica, sorridendo benevola alla governante, che sospettava avesse contribuito nella piacevolissima sorpresa che le avevo fatto pochi istanti prima – Iris, tu vuoi qualcosa?» mi chiese poi, portando la sua attenzione sulla mia figura esile, elegantemente seduta sulla poltrona accanto a lei.
«Un bicchiere di Whisky» esordii entusiasta, ma la mia amica mi fulminò con lo sguardo. In effetti ero ancora convalescente: «Un bicchiere d’acqua, grazie, Marie» mi corressi, sotto l’ammonizione silenziosa di Angel.
La governante uscì a piccoli passi nervosi verso le cucine, senza chiudere la porta.
«Dove eravamo rimaste?» mi chiese Angel.
«La mia immortalità»
«Ah, giusto. Dunque… la tua è un’immortalità diversa rispetto a quella di Dorian, ad esempio – disse, senza notare il mio stupore nel fatto che lei avesse pronunciato il nome del mio principe oscuro senza una nota di rimprovero nei suoi confronti – Le sue ferite si rimarginano all’istante perché vengono semplicemente passate ad un altro soggetto: per te è diverso. Tu devi guarire e ricostruire i tessuti persi, e questo richiede tempo. Mina ti ha succhiato quasi totalmente il sangue e il tuo corpo ha dovuto ricrearlo completamente»
Il silenzio colpì di nuovo la stanza, mentre Marie tornava con il bicchiere d’acqua su un vassoio d’argento. Me lo porse abbassando il plateau all’altezza del mio braccio e se ne andò soddisfatta, tornando verso le cucine. Stavo cercando d’immaginare il mio corpo mentre rigenerava il sangue che Mina mi aveva sottratto. Era strano pensare di poter guarire da qualsiasi ferita.
«Ora posso farti io una domanda?» mi chiese gentilmente la mia amica mentre sorseggiavo il mio misero bicchiere d’acqua. Io annuii, poggiando delusa il bicchiere sul tavolino davanti a me. Avrei preferito di gran lunga un bicchiere di Whisky.
«Cosa è successo quando ti è apparso il tatuaggio? Insomma, io ho sentito un’enorme onda d’urto che mi ha sbattuto a terra e una musica, della luce dorata…»
«Sì, c’era una musica… - sussurrai riportando alla mente quegli attimi – La stanza è sparita. Si è fermata. La neve non cadeva più e l’orologio aveva smesso di ticchettare, poi una voce di uomo, non conosco quella voce, mi ha detto che ero nata per far rispettare i piani del tempo, che esistevo per quello e per nient’altro. Ma non sembrava che lo dicesse a me, parlava con una donna che piangeva»
«Era una proiezione del passato?»
«E’ probabile… poi ho sentito te. La stessa frase che hai detto quando tornavi dal tuo ultimo appostamento a Dorian, sul fatto che ero appena entrata nelle tenebre. Alla fine ho sentito la voce di mia madre quando mi ha detto che sarebbe dovuta partire, che un giorno avrei capito. Poi non so cos’è successo: mi è bruciato il petto in una maniera insensata e sono caduta tra le tue braccia. Tutti i miei sensi erano più forti…»
«Più forti?» chiese Angel incuriosita.
«Sì, sentivo il rumore della vibrazione delle molecole e vedevo ogni singola fibra del tessuto della tua camicia»
«Stupefacente…» sussurrò Angel, affascinata come sempre da ogni fenomeno soprannaturale.
Le lasciai il tempo di memorizzare ciò che avevo detto e di analizzarlo attentamente; il suo cervello era sempre stato una specie d’elaborata banca dati per quel genere d’avvenimenti: apparizioni, manifestazioni psichiche di strani poteri. Esattamente come il mio lo era stato per la scienza e la tecnologia. Per questo forse stavamo così bene insieme: ci completavamo.
«E come hai fatto a tornare indietro? – chiese ancora impaziente, avida di sapere – Cosa è successo?»
«E’ stato Dorian» sussurrai sentendo il rossore scaldarmi le guance.
«Dorian?» chiese Angel, stupita.
«Sì, ho sentito la sua voce nella mia testa. Mi ha detto di tenere gli occhi aperti… e ci sono riuscita» presi di nuovo il bicchiere che avevo abbandonato sul tavolino e bevvi un lungo sorso, fino quasi a svuotarlo. Eravamo arrivate al punto dolente, all’argomento che mi premeva di più e di cui avevo più paura allo stesso tempo: Dorian.
«Lui… come sta? - chiesi abbassando gli occhi, consapevole che la mia amica avesse capito perfettamente di chi stavo parlando – Sì, lo so che non ho il diritto di chiedertelo – continuai, sentendo che non mi giungeva risposta – Lo so che tutta questa storia è nata solo per causa sua… ma è colpa mia, non sua… sono stata io a volerlo salvare a tutti i costi. Lo so che in passato non è stato quello che si può definire un uomo onesto, che ha cercato di uccidermi, che per colpa sua stava quasi per avere inizio un grande conflitto mondiale e che non è un leale figlio dell’Impero; ma noi lo siamo mai state?» dissi respirando a fondo ed alzando finalmente la testa.
«Lo siamo state?» ripetei, cercando gli occhi scuri di Angel e provando a sostenere il suo sguardo.
Lentamente la sua maschera di serietà cominciò a cedere facendo spazio ad un sorriso divertito; le labbra si arricciarono in un piccolo ghigno e le sopracciglia fini si abbassarono lentamente.
«Cosa c’è da ridere?» le chiesi, un po’ irritata, posando il bicchiere dal quale avevo bevuto.
Marie si affacciò nuovamente sulla stanza bussando sulla porta in cerca d’attenzione: «Mi dispiace disturbare le signorine, ma il signor Dorian Gray attende nell’ingresso»
Un brivido caldo mi percorse tutta la schiena e mi obbligò a rizzare la testa in direzione della porta. Strinsi istintivamente le mani sui braccioli della poltrona: «Dorian è qui?» chiesi, incapace di trattenere la mia euforia.
«Di’ al signor Gray di raggiungerci qui in libreria e per favore… non dirgli di Iris: dev’essere una sorpresa» intervenne Angel, lasciando la governante libera di lasciarci di nuovo.
Marie si allontanò borbottando qualcosa sulle sorprese e io mi voltai immediatamente verso la mia amica domandandole silenziosamente una spiegazione; lei si alzò sistemandosi il lungo vestito in vista dell’arrivo dell’ospite e rimettendo a posto il libro che aveva abbandonato qualche istante prima.
«Diciamo che la difficile situazione del signor Gray è stata attentamente rivalutata – mi disse poi, ritornando di fronte a me, nel fascio di luce che proveniva dalla finestra – In fondo è stato anche grazie a lui se siamo usciti vivi da quell’inferno»
«Lo dici perché ti senti in debito con lui? Lo odiavi: l’ultima volta che abbiamo parlato di lui, gli hai dato del bastardo» mormorai, preoccupata che una tale amnistia fosse solo momentanea.
«E lo penso ancora – disse scandendo ogni parola – Ma molte cose sono cambiate e il fatto che sia rimasto più tempo di me a vegliare sul tuo letto, mi ha fatto riflettere» un lungo silenzio avviluppò la stanza ed Angel cominciò a dirigersi verso la porta. Il rumore dolce dei suoi passi sul pavimento scuro si allontanò lentamente. Con un movimento aggraziato, si fermò sulla porta e si voltò verso di me facendo svolazzare la lunga gonna blu: «Se il diavolo potesse amare, il sentimento che proverebbe sarebbe molto simile a ciò che lui prova per te» disse, sorridendomi appena, poi uscì, dirigendosi verso la sala da pranzo.
Per un lungo istante rimasi sola, in silenziosa compagnia dei numerosi volumi attorno a me. Pensai ad Angel e la ringraziai con tutto il cuore per tutto quello che aveva fatto per me. Cercai di mettermi nella sua situazione: cosa avrei fatto io se un uomo si fosse messo tra me e lei portandola alla sofferenza e alla rovina?
Non ebbi tempo di rispondermi che una voce profonda interruppe il silenzio: «Notizie di Iris?» chiese un uomo dall’anticamera, senza attendere di essere entrato. Il suo passo deciso oltrepassò la porta della libreria.
«Marie non mi ha voluto dire…»
Dorian si fermò sull’uscio, le parole bloccate in gola da quella visione inaspettata. Era vestito impeccabilmente, come al solito: la lunga giacca nera era chiusa con un solo bottone, il più alto, e sotto di essa si vedevano la camicia bianca, il panciotto nero e la piccola cravatta rossa. Teneva la bombetta, dello stesso colore della giacca, stretta nella mano sinistra, distesa lungo il fianco, mentre nella destra stava il suo inseparabile bastone da passeggio. I lunghi capelli neri ricadevano morbidi sulle spalle e i suoi splendidi occhi scuri erano fissi su di me, increduli, immobili. Mi alzai lentamente dalla poltrona e restai in piedi accanto ad essa in un’attesa snervante.
«Iris!» disse Dorian decidendosi in fine a muoversi e dirigendosi spedito verso di me. Mi abbracciò forte, stringendomi al suo petto in una morsa dolce ed energica allo stesso tempo. Da quanto tempo non sentivo il calore del suo corpo contro di me, il disegno del suo torace impresso sui miei seni, le sue braccia muscolose circondarmi le spalle? Non lo ricordavo. Ma non m’importava; in quel momento ero lì, tra le sue braccia e non avrei potuto immaginare posto più bello in cui essere. Appoggiai la testa sulla sua spalla senza dire una parola e sentii il suo profumo avvolgermi; lo ricordavo perfettamente. Ricordavo tutto: il tocco lascivo delle sua mani sulla schiena, lo sfregarsi deciso della pelle del suo collo contro il mio viso; lo strinsi forte in preda ad un impeto improvviso di paura. E se fosse stato solo un sogno? E se fosse potuto sparire come vento inconsistente dalle mie braccia? Non so quanto durò il nostro abbraccio, ma lentamente ci lasciammo andare, senza però eliminare quel contatto necessario tra i nostri corpi.
«Come ti senti?» mi chiese con la sua voce profonda e languida, posando la bombetta sul tavolino e accarezzandomi i lunghi capelli biondi.
«Ora meglio - sussurrai, perdendomi nei suoi occhi scuri; poi afferrai la sua piccola cravatta rossa – Da quando porti la cravatta?»
«Da quando devo fare bella figura con la tua sorellina strega»
Una lieve risata sfuggì al mio controllo: «Bella figura?»
«Sì, altrimenti non mi avrebbe più permesso di fare questo» disse, portando la mano libera al mio viso ed accompagnandolo lentamente verso il suo.
Chiuse le mie labbra con un lungo bacio, accarezzando lievemente la mia lingua con la sua in un morso dolce e delicato. Quando si staccò, mi baciò la fronte.
«Ora è meglio che andiamo a cena o ci daranno per dispersi - mi dissi mentre dopo quel secondo bacio, il suo viso si allontanava inesorabilmente dal mio - Abbiamo tempo per noi, tutto il tempo che vogliamo».
Dorian mi prese la mano, accompagnandomi verso la sala da pranzo dove Angel ci stava aspettando. Forse non mi avrebbe mai ringraziato per quel salvataggio o chiesto scusa per avermi abbandonato al mio destino, o ancora, detto che provava qualcosa di profondo per me; ma non m’importava. Il fatto che fosse lì, con me ed Angel, che avesse accettato un compromesso con la sua anima nera per poter tornare da me ed abbracciarmi di nuovo, mi riempiva di una gioia mai provata prima.
Sorrisi al vuoto e strinsi forte la sua mano nella mia: «Allora, com’era Venezia?»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3252917