Né carne né pesce

di 1984
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jenny ***
Capitolo 2: *** Insopportabile ***
Capitolo 3: *** Jamina e altri disastri ***
Capitolo 4: *** Incidenti di percorso ***
Capitolo 5: *** Viva le tre sorelline! ***



Capitolo 1
*** Jenny ***


                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      I Capitolo 
 
Jenny

  Okay… okay… devo stare calma.
Jennifer, l’hai voluto fare? Bene ora mantieni la calma.
Oddio, sembro mia madre.
– Allora, signorina, che cosa desidera? – domanda l’uomo di dietro il banco appena chiudo la porta.
Suppongo che ora dovrei rispondere, ma non sono più tanto sicura di quello che sto per fare.
– Ehm… – dico con una voce da topolino – vorrei farmi bucare l’orecchio sinistro, grazie.
– Beh, intanto che riflette vado a preparare gli arnesi.
Odio quell’espressione, mi manda in panico. Potrei seriamente prendere in considerazione l’ipotesi di mettermi a parlare da sola, per tranquillizzarmi.
Per evitare inutili scene da pazza psicopatica (cosa che potrei benissimo essere) mi costringo a rimanere in piedi e a respirare come se nulla stesse accadendo.
“Pensa ai tatuaggi. Alle persone che si fanno un tatuaggio. Il tuo dolore sarà minimo in confronto al loro”.
Mi sembra di svenire. Le mie mani incominciano a sudare e mi sento impallidire.
Mi accorgo che ha finito di preparare tutto, solo quando esclama, avvicinandosi con una specie di spillatrice:
– Dove vuole che glielo faccia?
– Qui – e indico con il dito sudaticcio il punto prestabilito.
–  Non sentirà nulla – ridacchia quello.
Bella battuta.  
– Si sieda pure qui – dice spostando una sedia di legno triste e malconcia.
Mi siedo e inizio ad aggrapparmi strettamente alla mia borsa. Faccio un bel respiro mentre sento lo “spara orecchini” posizionarsi sul mio lobo e poi… zac. Un bruciore invade il mio povero orecchio che diventa subito caldissimo.
– AHIA! – urlo, perdendo tutto lo pseudo contegno che avevo cercato, invano, di assumere.
– Così va bene, signorina?
– Si, grazie – dico e cerco di ricompormi, anche perché c’è una ragazza che sta ridendo sotto i baffi. Bé, vorrei vedere se ci fosse al mio posto.
Poi noto  che ha un tatuaggio al polso.
– Lì c’è uno specchio, se vuoi vederti – dice l’orefice.
Ignoro la ragazza, mi alzo e mi chino davanti a un misero specchietto grande quanto una mano.  
È venuto un bel lavoro.
Mi guardo stupita l’orecchino incastonato nella mia pelle che è reso bello da una minuscola pietruzza verde che mal si addice ai cerchi che mi sono messa per scendere.
– Allora, quanto le devo? – chiedo con voce ferma e meccanica, appena mi tiro su.
– Oh, nulla cara! E salutami tua madre, Jenny! – esclama.
Che? Quello conosce mia madre. E sa anche il mio nome?
– Certo, grazie mille e arrivederci – dico mentre chiudo la
porta del negozio.
 
 
 
– Mamma! Non è giusto! Le hai fatto fare il buco?! – domanda incredula mia sorella Susy, non appena le passo davanti per dirigermi verso lo specchio del bagno.
Mi volto e le rispondo con una linguaccia. Così, giusto per essere educata.
Non capisco come il destino possa aver reso due persone così diverse sorelle. Lei è l’opposto di me. E non sto scherzando Susy è più piccola di me di sei anni, eppure non uso il nomignolo “sorellina” per chiamarla. (Anche perché è lei che di solito che mi fa sentire insignificante davanti alle altre persone).
È una bella e brava bambina di otto anni. Così quello che credono tutti. Non quello che credo io, ma quello che credevo io importa poco alla mia famiglia.
Susy è totalmente diversa da me.
Fisicamente posso accennare al fatto che: io a malapena tiro avanti con i miei noiosi capelli neri e lisci, mentre lei possiede stupendi capelli ramati e splendidamente ondulati da poterseli adattare a tutte le esigenze.
Una cosa che la guasta è il suo carattere viziato e presuntuoso. Tipo da cheerleader-smorfiosetta americana. Decisamente un brutto carattere.
 
Mia madre mi guarda con un’occhiataccia assassina.
Ho vinto io.
Ce l’ho fatta.  
Lei sostiene che, se vado avanti di questo passo, arriverò a riempirmi la faccia di piercing – il che dimostra che non mi conosce affatto. Piuttosto che farmi bucare al naso da uno stupido orecchino mi farei amputare una mano.
In modo metaforico, s’intende.
– Sei contenta, ora? – mi squadra quando le passo affianco per appendere la giacca.
– Abbastanza… ma mi dà un po’ fastidio…
– Mi sembra logico. Ti sei appena fatta bucare l’orecchio – sento l’alzata di tono della sua voce mentre inizia a brontolare – Spero che tu abbia chiesto se gli orecchini non contengano nickel – aggiunge, sprezzantemente.
Nella mia mente contorta parte un campanello d’allarme.
– Ehm…
– Come “ehm”!? – mia madre abbassa il suo libretto degli appunti sui medicinali ordinati dai clienti e mi guada.
Non ci vuole certo un genio per capirlo.
– E va bene, vieni.
Sospira e mi trascina in bagno. A volte penso che, con una figlia come me, la vita di madre non sia molto entusiasmante. Sono distratta, confusionaria, disordinata e imbranata. Almeno secondo quanto pensa lei, anche se non me lo dice mai direttamente.
Intanto, in bagno, mamma si è già lavata le mani e aperto il cassetto delle medicine.
Se noi fossimo una famiglia come tutte le altre terremmo le medicine in un unico cassettino, possibilmente minuscolo. Ma si vede che noi non lo siamo; mamma ha la fissa per le malattie, allergie e tutto ciò che riguarda la salute o le cose mediche. Il che non sarebbe un gran problema per solo due particolari: questa sua passione l’ha spinta a laurearsi in medicina e a lavorare nella farmacia sotto casa e, in seguito alla sua laurea, ha incominciato a riempire il bagno di medicine che ormai etichetta come un topolino e che ammucchia in tre cassetti distinti: il cassetto delle pomate, il cassetto degli sciroppi e il cassetto del pronto soccorso.
Ecco perché odio la medicina.
– Ecco fatto. Applica questa pomata al foro dell’orecchio  e dammi l’orecchino – dice mettendomi tra le mani una pomata dal nome impronunciabile e dirigendosi in camera sua.
Ah, bella. ‘Dammi l’orecchino’. E, per darle l’orecchino dovrei svitarlo…?
Mi guardo l’orecchio rosso e l’orecchino che, se prima consideravo bellissimo, ora considero un mostro. Appoggio le mie dita intorno alla vite e tiro.
Ahia, ahia, ahia
Tic!
Mi ritrovo con in mano l’orecchino insanguinato e la vite bagnata. Bleah.
Mia madre ricompare all’improvviso con uno strano sorriso stampato in volto. 
– Guarda un po’ cosa ho scovato? – gracchia sventolando uno stano orecchino che, a occhio e croce, sembrerebbe avere circa cinquant’anni.
– Wow.
– Pensa che era di mia nonna! – dice socchiudendo gli occhi e ammirandolo come se fosse importante quanto un reperto archeologico.
Fantastico. Potrei mettermi anche a saltare da quanto sono contenta.
Abbassa lo sguardo e mi osserva – Allora, ti sei messa la pomata!?
– Stavo cercando di metterla…
– Ferma! – dice bloccandomi la mano da cui sto per spremerci la pomata.
– Lo devi fare con il batuffolo di cotone, ma prima disinfetta l’orecchino...
E, mentre parla, svolge tutto quello che dice.
Forse mia madre è leggermente stressata.
Quando mi porge l’orecchino sterilizzato e ripulito, mi ricredo un po’; è d’oro giallo con incastonata una pietra di un denso colore blu. Che, guarda caso, s’intona con il colore dei miei occhi.
Me lo infilo. Chiudo gli occhi con fare teatrale e poi li apro di fronte allo specchio del bagno.
– Allora? Cosa ne pensi? – mi chiede.
Ci rifletto un attimo. In effetti non è tanto male. Possibile che nonna avesse un certo gusto nella scelta degli orecchini. Ma, non mi sta tanto mal…
– Fammi vedere, fammi vedere! – strilla Susy spalancando all’improvviso la porta del bagno.
– Ecco, contenta?
Alzo una ciocca di capelli.
Lei mi guarda un po’ perplessa.
– Mamma, domani mi porti a mettere l’orecchino uguale uguale a Jenny? – conclude con quella sua vocina acuta sgranando gli occhioni.
Perfetto. Ora è uno di quei momenti perfetti per svignarsela.
– Bene, io vado a finire i compiti – annuncio.
Sento mamma sbuffare e io mi metto al sicuro in camera mia.
Mi lego i capelli con gesti automatici, impugno il libro di algebra, faccio una smorfia e mi siedo davanti al PC.
 
Ho tredici anni. A dirla tutta tredici e mezzo, ma mica puoi andare davanti alla gente e urlarglielo in faccia.
A tredici anni sei naturalmente costretta a frequentare l’ultimo anno dell’orrenda scuola media e, l’anno successivo, a dover andare alle scuole superiori. È inutile dire che io odio dover andare a scuola. Ho dei grossi problemi con le figuracce che mi porto dietro, e poi il cibo della mensa è paurosamente strano. E sì, beh, odio la matematica.
Se questo può consolarmi, non ho ancora affrontato il primo anno di liceo. Se questo può consolarmi, perché non mi consola affatto.

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Capitolo 2
*** Insopportabile ***



Insopportabile

Sapete cosa odio di più della matematica? Le formule, la monotonia e la nostra professoressa, dolce quanto un limone immerso nell’aceto.
Dovete sapere che ho sempre avuto un rapporto conflittuale con la matematica. E lo ammetto, IO SONO UN’ ESSERE INADATTO ALLA MATEMATICA.
 
Lo so. E’ così e basta.
Quindi ci sarebbe poco da fare.
L’unica ragione che mi spinge a ascolto a quella rintronata della mia sveglia che mi tartassa le orecchie tutte le mattine per avvisarmi che devo andare a scuola è il poter stare Sofia, la mia migliore amica.
Lei sì che l’ho conosciuta ai tempi felici delle elementari.
Bei tempi quelli.
E fortunata lei, poi, che ha già quattordici anni.
Ha anche un fratello di sedici anni, una madre insegnate e un padre pittore, il che rende molto più futuristica la sua vita messa a confronto con la mia.
Fisicamente è un po’ più bassa di me, ma non ci fa mai caso, ed ha stupendi occhi color caffè che s’incorniciano splendidamente alla folta chioma di capelli biondi di cui madre natura l’ha fortunatamente dotata.
 
E poi lei ha le tette.
 
Non è piatta quanto me. Io sono una tavola da sourf.
Quelle tavole lisce e incerate che portano i ragazzi australiani sempre sotto braccio.
Sofia no.
Sofia è la fidanzata di uno di quei ragazzi.
Pamela Anderson in miniatura.
Già, perchè LEI SENZA RAGAZZI MUORE. Sono il suo miglior argomento da sfoggiare con me e con gli altri.
Il suo hobby.
I suoi Musi ispiratori.
 
Ora, il mio prof di italiano mi avrebbe già ammazzato per ciò che ho detto, il che però è vero.
Come Omero veniva ispirato dalle Muse nel comporre poemi, Sofia è ispirata dai Musi per creare i suoi meravigliosi disegni.
E poi, sì ci sentiamo praticamente ogni giorno, perché io, nel bene e nel male le voglio un mondo di bene.
 
Solo che adesso non è il momento buono per chiamare.
– Guarda che se interrompi i compiti per almeno dieci minuti non muore nessuno! – esclama appena le dico chiaro e tondo che sono occupata a fare algebra (il che equivale a scriversi sulla fronte ‘lasciatemi stare’) e che non m’importa nulla di Simone.
Ve l’avevo detto che ha un debole per i ragazzi, no?
Sono due giorni che Sofia ha preso una sbandata per un certo S-i-m-o-n-e, classe 1996, alto, atletico, capelli castani e occhi verdi.
Un normale ragazzo, e sinceramente non vorrei mai essere nella sua situazione.
E poi io cosa c’entro con lui?
Ok, sono la sua migliore amica, ma adesso sta diventando piuttosto morbosa nei confronti del povero belloccio di turno.
E per di più si trova con sua madre, suo padre e suo fratello in automobile dritti dritti al funerale della sua prozia morta.
E lei parla di ragazzi.
Tanto so che con Sofia c’è poco da fare. Non mi tocca che ascoltare, quindi. Chiudo il quadernone di matematica e avvicino la cornetta all’orecchio.
– Dopo che sei andata a casa, mi sono diretta verso il solito bar…
– City Bar?
– Si, proprio quello, allora, mi sono messa in coda…
– Vuoi raccontarmi cosa hai mangiato a pranzo?
– Ma la finisci! È una cosa importante! Quindi, mi sono presa un panino – alzo gli occhi al cielo – e chi mi serve al bar?!
– E chi mi serve al bar? – chiedo sarcastica.
– S-i-m-o-n-e!
– E così, lavora in un bar? Ma è una cosa legale o ci sono sotto dei traffici commerciali loschi…? Insomma, è minorenne!
– Guarda che non sono mica scema! Ovviamente il bar è di
suo zio. Questo lo sapevo già. – da brava stalker – Comunque: l’ho salutato!, mi ha salutato e abbiamo chiacchierato… Cioè, ti rendi conto! Mi ha rivolto la parola!
– E cosa ha detto di preciso?
– “Desideri altro?”
– Dopo il panino…
– E con una voce così mielosa… – voce mielosa?! Cos’è, vomita miele?!
– Melodiosa, semmai.
– Ah-ah-ah – contrabbatte –  e come va la tua quota di ‘acchiappo ragazzi’?
Se fosse qui presente, adesso le avrei già tirato un cuscino in faccia.
E semplicemente perché a me non interessano i ragazzi, gli sguardi fugaci, quelli imbarazzati e le farfalline nello stomaco.
 
Niente di tutto ciò.  
  
Ho una specie di velo trasparente che mi avvolgeva e mi fa passare inosservati agli occhi dei i ragazzi e loro ai miei. E mi va bene così. Ma la mia migliore amica sfotte lo stesso.  
– Ehi, ci sei ancora? Oppure sei morta per colpa dello shock
anafilattico a causa degli esercizi terrificanti di algebra? 
– No, sono ancora viva, anche se ho avuto una reazione allergica al nickel circa un’oretta fa.
– Noooo… hai fatto il buco? – tra i suoi quattro piercing possiamo ammirare il fantastico buco al naso.
– Sì, e avevo la tremarella…
– Sei una fifona Jenny.
– E tu una rompiscatole, Sofy. A proposito, come va il viaggio?
– Meglio che non te lo dica. Mia madre si è addormentata e Nico è intento a comporre strane note su un fazzoletto.
– E’ un pentagramma Sofia – le urla suo fratello. Lei lo ignora.
– E dai, vedi tua nonna solo due volte all’anno!
– Due volte possono anche bastare. Ma, sfortunatamente sono diventate tre. Doveva proprio morire il parente alla lontana di nonna?
– Funerali. Beh, penso che siano più allegri di un’intera mattinata chiusa in camera a studiare algebra.
– Che noiosa! E meno male che ero io l’insopportabile.
– Sai cosa ti dico…?
– Mi si sta scaricando il cellulare!
– Veramente volevo dirti che… – e la linea s’interrompe. Tempismo perfetto. Quindi, Sofia, diretta verso il paesino sconosciuto di sua nonna nel cuore della Puglia, sembra spassarsela meglio di me, anche se questo vuol dire avere un fratello logorroico e compositore di pezzi musicali che poi suona con la sua band di amici nello scantinato.
Mentre io sono rinchiusa nella mia triste camera e sto realmente compiangendo i giorni che ho allegramente saltato i compiti di algebra per uscire con Sofia.
 
Va bene, ora mi rimbocco le maniche e, con me, l’algebra non l’avrà vinta. Almeno, non questa volta.
                                     
 
Dopo ben due ore terrificanti e stressanti, ho finito. Chiuso. The end.
Ho terminato algebra. Che fantasticheria sarebbe aprire la finestra e urlarlo ai vicini che, proprio in quel momento, stanno tagliando le siepi del giardino allegramente.
Ma io non abito in una villetta, bensì in un grattacielo. E soffro di vertigini. Quindi non converrebbe sporsi troppo dalla finestra della mia camera per urlarlo a quella rintontita della mia vecchia vicina che ha un terrazzo rigoglioso quanto il deserto del Sahara.
Così mi dirigo in cucina per prendere un bicchiere d’acqua e intanto metto le cuffiette e faccio partire la musica.
Io adoro la musica.
Solo che non riesco nemmeno a suonare il flauto scolastico.
Apro il frigo: è pieno di scatolette con il cibo precotto, il che significa che oggi non è passata nonna.
Eh già, io amo la cucina di mia nonna.
Nonna Santa è la mamma di mia madre. Nonché il suo esatto contrario.
È sempre stata una specie di hippie. Deve avere fumato anche un bel po’ di sostanza illegali quando era giovane, dai racconti che mi ha rivelato.
Prendo un bicchiere di vetro trasparente.
Nonna è rimasta vedova a trent’anni, incinta a un anno dal matrimonio con mio nonno. Non si è mai più innamorata, mi dice sempre, di un altro uomo dopo di lui.

Ah no! Non ricominciamo con i fidanzati.
Sto diventando logorroica?
 

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Capitolo 3
*** Jamina e altri disastri ***


Jamina e altri disastri

 
A dimostrazione che la mia vita è un puzzle alquanto macabro, mi trovo davanti alla casa di mio padre bagnata fradicia di neve fino alle ginocchia. Susy si sta lamentando silenziosamente ora che Jamina l’ha presa sotto la sua ala e le ha dato morbidi pantaloni da indossare.
E tutto questo perché mio padre non abita più con noi.
Ora ha una bella villetta a due piani che condivide con quella che un tempo fu la sua segretaria.
Ha divorziato da mamma appena lei è venuta a sapere del tradimento da parte di mio padre, avvenuto quando Susy era nata da pochi mesi.
Butto la giacca sul letto. È talmente bagnata che andrebbe bene come straccio. Mi guardo intorno.
La mia camera è dannatamente rosa. E io odio il rosa. Odio quelle statiche tende rosa e quel grande specchio al centro della camera. Odio questo stupido letto a baldacchino, nemmeno fossi nella camera di Barbie.
Ho appena finito di cambiarmi che bussano alla porta. Sbuffo. Sarà quella svitata di Jamina.
Jamina.
Che nome stupido poi, cos’è, un cane?
 
Apro la porta.
E mi trovo di fronte a qualcuno che è in grado di essere peggio del cibo precotto, del gelato alla fragola e del rosa, il tutto in una volta sola.
Il figlio di Jamina.
Ed ecco a voi il barboncino viziato: Gabriel!
Gabriel tecnicamente è il mio fratellastro acquisito. Praticamente è un quindicenne incapace ad allacciarsi le scarpe da solo.
– Cosa vuoi? - domando. Non sono mai stata troppo gentile con lui. E la cosa non mi crea nessun problema.
– Mia madre vuole che mi scusi con te per il fatto del libro.
Ah, già.
‘Il fatto del libro’, eh?
Ma sì, dai non è così importante, d’altronde il tuo cane ha solo masticato una ventina di pagine del libro Hunger Games: la ragazza di fuoco.
Assumo una faccia indifferente, ma sento montare dentro una rabbia omicida.
– Jenny! Jenny! – urla mia sorella dal fondo della scala a chiocciola.
Lei è strafelice di venire a stare in questa casa asettica, anche perché Jamina le permette di fare praticamente di tutto.
– Senti, io a quel libro ci tenevo, okay? Non voglio accusare il tuo cane – dico. Fra parentesi odio il cane tanto quanto lui odia me – solo, cerca di non farlo avvicinare alla mia stanza, dato che mi ha già fatto fuori un bel po’ di scarpe.
Ha lo sguardo attonito.
– M-m-ia madre lo ha ricomprato, comunque – dice, e mi porge una nuova copia del libro che giace sventrato a casa mia e che sto supplicando da una settimana mia madre di ricomprare.
Ah-ah, ecco l’ennesima prova dalla quale si nota il fatto che mio padre non si interessa nemmeno più a me. Lo fa solo Jamina, per interessi non affettivi, ovviamente.
– Jenny! – Sarah mi ha raggiunto e mi sta tirando per una manica.
Afferro il libro dalle mani di burro di Gabriel, lo ringrazio con un grazie sbiascicato e seguo mia sorella verso il suo covo di fatine magiche: la sua stanza.
Si avvicina alla scrivania e mi porge un oggetto che sembra di alluminio.
– Come funziona questo?
Oddio.
Appena lo prendo tra le mani mi accorgo che si tratta di una sigaretta elettronica.
– Sarah, dove diavolo l’hai presa?
– In camera di Gabriel.
Okay, dovrebbe essere una cosa del tutto normale per un quindicenne, no?
No, almeno non per me. Alcune mie compagne di classe fumano. Ognuno è libero di fare ciò che vuole per carità.
E loro hanno 13-14 anni.
Ma… una sigaretta elettronica? E poi dove diavolo l’ha comprata?
– Okay, allora vai in camera sua e rimettila dove l’hai presa.
– Ma è così carina…
– Susy, non è tua. Vai ora.
Giuro che mia sorella non smetterà mai di stupirmi.
E’ domenica mattina.
Sono le nove e quaranta.
Ho bisogno di dormire.
 
La mia camera al buio non è poi così inquietante.
Le stelle appiccicate al soffitto luccicano e in camera non entra nemmeno uno squarcio della fioca luce solare. Una delle cose sicuramente migliori che questa casa ha è il doppio delle stanze di casa mia. Così io e mia sorella abbiamo le camere da letto separate. Il che significa che posso rintanarmi qui quando voglio.
Da vera asociale ho chiuso finestre, luci, suoni molesti da parte del mio cellulare e mi sono rintanata sotto le coperte.
E’ un’oretta che mi riposo. Sono una persona molto pigra e monotona. Non così originale, né così ambiziosa, come sostiene invece Jamina. 
Ecco la dimostrazione che ogni tanto dovrebbe proprio starsene zitta.

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Capitolo 4
*** Incidenti di percorso ***


Incidenti di percorso

A me i capelli di Jamina fanno ribrezzo.
Prima di tutto sono tinti di nero corvino, il che li fa sembrare fin troppo simili ai miei, e poi li tiene spesso legati in una treccia, cosicché non riesco mai a prenderla davvero sul serio.
Se fisso per troppo tempo quella treccia nella mia mente malata si vengono a formare ben tre diverse figure femminili, con un carattere migliore di Jamina e la prima della lista è Pippi Calzelunghe.
Ecco. E ora quella orribile treccia è l'unica cosa che riesco ancora a fissare di Jamina perché non mi fa pensare né a lei né a quello che ha organizzato per me e mia sorella.
Okay, la situazione è questa: è domenica, il sole splende, la neve si è quasi del tutto sciolta, mi sto impantanando a ogni passo che faccio e ho due baffi disegnati sulla faccia, un cerchietto con le orecchie da gatto, una gonna nera e bianca incredibilmente corta e due stivali che ho supplicato mio padre di prendere dato che è impossibile camminare con le ballerine laccate che mi ha regalato Jamina. Ma perché mai poi dovrei essere conciata come una bambina di undici anni (o qualche pazza malata, esempio a caso: Jamina) che si veste da gatto per partecipare a una festa in maschera a me non-è-tenuto-saperlo.
Diossanto.
E se solo si azzardano a portarmi a qualche ritiro buddhista a favore delle sette vite dei gatti, giuro che chiedo al giudice di togliere l'affidamento a mio padre. Causa: si traveste d'alieno in casa e ci vuole convertire alla sua nuova religione. Saprò inventarmi qualcosa.
- Non capisco questo tuo abbattimento, Jenny, dovresti sorridere, i gatti non sono i tuoi animali preferiti? - domanda sarcasticamente Jamina. Grrr.
Appena la macchina di mio padre si ferma di fronte alla villa giallo limone, Jamina lancia un urletto di contentezza.
- Ragazze, - dice rivolgendosi a me a mia sorella che è vestita da fatina, tutta tulle e boccoli - so di essere stata alcune volte davvero insopportabile, specie all'inizio, quando ancora voi eravate piccole piccole. Susy era appena nata e oh, ma guardatevi adesso: due piccole donne pronte a spiccare il volo! Questa giornata è interamente dedicata a noi tre, a noi tre sorelline acquisite, sorelline acquisite da dieci anni! E' stata un'idea di vostro padre, questa giornata dedicata al nostro primo incontro. E, lasciatemi dire una cosa, vi voglio bene.
Non ho voglia di ascoltarla, non ho voglia di sforzarmi di essere felice per questa pagliacciata che, ovviamente, ha ideato lei grazie a quel suo cervellino malato, così le fisso la treccia, senza dire nulla.
Ci pensa mia sorella a dire qualcosa, e devo ammettere di volerle molto bene in casi come questi: - Voglio andare a casa.
Jamina sorride, visibilmente a disagio.
Guardo mio padre: porta la cravatta, la barba curata, le scarpe lucidate. Ma lui non guarda me, guarda mia sorella e poi Jamina. - Susy, Jamina ha fatto tutto questo per voi, una bella festicciola. Non puoi semplicemente sorridere senza fare tante storie? Guarda tua sorella. Almeno lei è giudiziosa.
Dovrei controbattere, ma non ho voglia di litigare per l'ennesima volta per i comportamenti di Jamina e mio padre. Annuisco e mi sento in colpa per mia sorella, così le stringo la mano mentre entriamo nella villa giallo limone, che più triste non si può.
La villa è della famiglia Jamina, ed è davvero orrenda.
Lo è persino per mia sorella a cui va bene praticamente tutto.
E' gialla.

E con ''gialla'' intendo dire che le pareti di tutte le stanze della casa sono gialle, incluse quelle esterne. Il giallo cambia ovviamente in base a dove ci troviamo: in cucina è un giallo mattonato, in bagno un giallo tendente al grigio. E tutto è davvero orribile per chi, come Susy, adora i colori tenui, soffici, regali. E credo che per animali disturbati come il cane di Gabriel tutto quel giallo non faccia granché bene.
Appena arrivata in ingresso il cane rabbioso mi accoglie, appunto, con una strana bava alla bocca e gli occhi assatanati e se non fosse per l'intervento tempestivo del padre di Jamina, a quest'ora avrei già perso mezza gamba.
Il bello del padre di Jamina è che non parla quasi mai, quindi io e mia sorella lo salutiamo con un cenno, mentre ovviamente Jamina lancia urletti di felicità a tutto spiano.
- Avevo invitato anche vostra madre, ma non è potuta venire. Credo che fosse dispiaciuta, molto più di quanto lo sembrasse.
Ah, sicuro.
Mi vado a sedere in un angolino della casa su una triste sedia di legno e mia sorella mi raggiunge poco dopo; ed ecci qui, mute come non mai e intente a fissare la gente che si trova nel salotto. Inizio a notare più gente di quanto mi sembrasse quando sono entrata.
C'è una signora alta, i capelli neri e fulvi che stringe tra le mani una coppa di champagne accompagnata da quello che dovrebbe essere suo figlio. La donna è vestita da ghepardo, o almeno sembra, mentre il probabile figlio è in jeans e camicia, il che mi fa sorridere, pensando a che lotte deve aver fatto con la madre per evitare di vestirsi da animale della giungla o da eroe dei fumetti.
- Terenzia non mi mollava più, uffa - si lamenta mia sorella. All'ingresso deve averle strapazzato le guance a più non posso Terenzia, la madre di Jamina, perché lei e adooora mia sorella.
- Li conosci quei tipi? - le domando, alludendo alla coppia madre-figlio e ad altre sei persone, tra cui una vestita da struzzo.
- Mai visti.
Annuisco.
- Ho fame - mugugna.
- Il cibo è là, su quei grossi cabarets. Se vuoi mangiare, vattelo a prendere.
- Mamma non vorrebbe che mi trattassi così.
- Mamma non è qui, oggi.
Mia sorella si alza e se ne va, indispettita.
Un po' mi dispiace di litigare per l'ennesima volta con lei, ma odio dover avvicinarmi a Jamina, anche se il prezzo equivale a non mangiare.
Vorrei essere stata più furba ed essermi ricordata di portare con me qualche libro di scuola o semplicemente Hunger Games. Mi alzo furtivamente e noto che effettivamente c'è una specie di alta libreria vicino alla poltrona giallo limone da cui potrei attingere qualche libro di nascosto. E così faccio, o almeno credo perchè Jamina mi raggiunge pochi minuti dopo.
- Oh, Jenny, ecco qualcuno con cui potresti parlare, invece di sprecare la tua giovinezza in mezzo ai libri.
Spinge di fronte a me quel ragazzino in jeans che avevo già notato prima.
Sono istanti come questi che mi fanno salire la furia omicida verso Jamina. Così sorrido al ragazzo, il quale mi guarda impassibile, prendo il libro che avevo adocchiato sotto braccio e mi allontano sbattendo la porta.

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Capitolo 5
*** Viva le tre sorelline! ***


Viva le tre sorelline! 

A casa di Jamina io e mia sorella abbiamo stanza separate, entrambe candidamente pitturate di un giallo tendente al rosa. La mia è volutamente austera, visto che mi sono sempre rifiutata di portare qualcosa di mia a marcare un territorio che disprezzo. Il letto è di quercia e per mia grande sfortuna  era appartenuto alla svitata aka matrigna della situazione, mentre al posto del pavimento duro e freddo c’è una moquette soffice e bianca, l’unica cosa positiva dell’intera casa, oltre alla libreria enorme. Mi siedo per terra e d’un tratto mi rabbuio pensando che se fingessi di essere diventata improvvisamente allergica alla moquette, magari mi lascerebbero andare a casa. Ma probabilmente Jamina mi porterebbe in ospedale, e allora la mia copertura salterebbe. Perché la mia vita è un tale disastro? Mi dirigo in bagno, tolgo il cerchietto con ele orecchie da gatto e sciolgo i capelli dal rigido chignon. Sbuffo e mi strucco la faccia, ma i baffi rimangono ancora un po’ visibili anche se mi sono quasi scorticata la pelle a forza di strofinare.
Mi cambio il ridicolo abbigliamento carnevalesco con un paio di jeans che mi vanno un po’ stretti e un maglione arancione che ho trovato dentro l’armadio, poi mi stendo sul letto, aprendo le pagine di uno dei miei libri preferiti, una copia di Orgoglio e Pregiudizio un po’ datata, che avevo adocchiato nella libreria di sotto. Adoro Elizabeth e penso mi assomigli parecchio, e anche se non ho ancora trovato un mr. Darcy, pronto ad amarmi. Mi addormento nel modo meno elegante di sempre: a faccia in giù, appoggiata al libro vecchio e polveroso.
- Jenny! Jenny, perché stai sbavando su un libro? Jenny, devi proprio alzarti!Vengo strappata al sogno in cui ero Elizabeth che ballava con mr. Darcy discutendo argutamente e mi accorgo che mia sorella ha ragione, ho la bocca semiaperta e la bava sta cadendo sul libro aperto sotto la guancia. Mi tiro su e guardo la stanza, scorgendo la tenue luce lunare provenire dalla finestra.
- Susy, perché è ancora notte?
- Perché sì!  C’è la torta, Jenny e Jamina mi ha chiesto dove ti eri cacciata… così sono venuta a cercarti! Stanno tutti aspettando te!È un incubo, lo so.
Su, non è possibile che Jamnina abbia anche comprato una torta! Non è mica il compleanno di qualcuno… mi sento rincretinita e all’improvviso le parole della psicopatica mi tornano in mente come uno schiaffo “ Questa giornata è interamente dedicata a noi tre, a noi tre sorelline acquisite, sorelline acquisite da dieci anni! E' stata un'idea di vostro padre, questa giornata dedicata al nostro primo incontro”. Mi tiro giù dal letto e per poco non travolgo mia sorella.
- Susy, aiutami a raccogliere i vestiti da gatto! – urlo a mia sorella.Non ho voglia di far scoppiare l’ennesimo litigio, non oggi, dopo che ha organizzato tutto questo, anche se è una buffonata pazzesca…
Susy recupera la gonna e io mi infilo la maglietta. La vedo come a rallentatore mentre la trova nel bagno e la tira con forza perché c’è qualcosa che fa pressione. La guardo con gli occhi spalancati mentre, tirando, la strappa nettamente in due, una delle due estremità impigliate a un gancetto di ferro. Scoppio a ridere istericamente e mi arrendo, calmo Susy e per l’ennesima volta mi preparo a presentarmi come la figlia con problemi adolescenziali che nessuno in grado di comprendere.
In questo caso il mio problema è Jamina.
Scendo per le scale con mia sorella che mi tira per la manica della maglia nera, e posso vedere, quasi con soddisfazione, la faccia di Jamina cambiare espressione appena vede il mio abbigliamento. Poi improvvisamente sorride e sussurra qualcosa alla donna vestita da ghepardo. La vedo spingere suo figlio verso di me e lo presenta: - Lui è Raimond ed è un piccolo ribelle proprio come te, che ne dite di fare la foto mentre vi tenete per mano?
Noto con orrore sempre crescente che la gente travestita si è raggruppata davanti a una macchina fotografica, accanto alla torta più brutta che abbia mai visto: tre piani tutti gialli, ogni piano ha davanti una statuina raffigurante me, Susy e Jamina travestite esattamente come siamo oggi – tranne me, ovviamente. Jamina mi sorride e so già che quel sorriso rimarrà impresso nei miei sogni, mentre stringo la mano appiccicaticcia di Raimond.
- Dite tutti viva le tre sorelline! – urla Jamina, prima che scatti la macchina fotografica e immortali la mia faccia disperata per sempre.
Click.
Mi accorgo di non aver sorriso.   

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