And pray for the thunder and the rain To quietly pass me by

di balboa
(/viewuser.php?uid=735597)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oh won't you please take me home? ***
Capitolo 2: *** About William Bruce Rose Sr. ***
Capitolo 3: *** It's getting dark, too dark to see. ***
Capitolo 4: *** It's so easy to lie. ***
Capitolo 5: *** You got mud on yo' face. ***
Capitolo 6: *** Mocking sneer. ***
Capitolo 7: *** Hey what about you? ***
Capitolo 8: *** Even cold november rain ***



Capitolo 1
*** Oh won't you please take me home? ***


-positivo.- sussurrò con voce strozzata la quasi sedicenne fissando incredula le due lineette sul diplay.
-porca puttana e adesso?- si portò una mano alla bocca mentre le lacrime cominciavano a rigarle le guance e le bagnavano il mento. Era seduta sulla vasca in pigiama, per terra c'era vomito, un po' di sangue e fazzoletti e asciugamani sporchi. Aveva quindici anni e 7 mesi, non aveva ancora capito niente di come funzionava il mondo e in mano teneva un test di gravidanza che le stava dicendo che era incinta. -cazzo!!!- urlò alzandosi di scatto e buttando lo stick per terra. Si porto le mani alla testa alzando tutti i suoi riccioli rossi per aria. Cominciò a camminare avanti e indietro nel bagno. Imprecò miliardi di volte, tremando da capo a piedi, le mani erano impazzite.  Poi si sedette sulla tazza del water coperta e cominciò a piangere a dirotto, facendo dei suoni strani con la bocca a tratti. Restò così per un bel po' piegata in due, con la fronte poggiata sulle ginocchia e la faccia immersa nei capelli.
Cosa doveva fare? Non aveva neanche sedici anni, non aveva il diploma, non aveva un lavoro. Avrebbe voluto avere un bambino, sì, ma non in quel momento, e non con quel ragazzo che conosceva da qualche mese. Voleva divertirsi, voleva ancora ubriacarsi, andare in discoteca a ballare, voleva finire il liceo. E invece c'era qualcosa dentro di lei che si stava già muovendo, era difficile da concepire. La sua temperatura corporea era salita alle stelle. Il sudore si appiccicava alla maglietta.
Ma il padre del bambino, lui era il problema maggiore. William non era affidabile, com'è che era stata al gioco quella sera? C'era stata una festa, lei era sbronza, aveva bevuto come una spugna della roba super alcolica, roba che avevano rubato dal mobiletto degli alcolici. Poi Johnny, che aveva dato la festa, aveva portato fuori anche un po' di vino dalla preziosa collezione del padre. Sharon aveva conosciuto meglio William, lo conosceva da poco più di un mese, l'aveva invitata lui al party. Aveva quattro anni più di lei, anche il ragazzo era bevuto, era quasi K.O. Si erano rinchiusi nello sgabuzzino delle scope stretti in un metro per uno, non ci era voluto molto. Come diavolo le era venuto in mente? E poi lui ci sarebbe stato per il bambino eh? Che padre sarebbe stato? Avrebbe messo la testa a posto? Da quel che sapeva di lui era sconclusionato, aveva dei problemi con la legge, aveva problemi con le persone, sembrava essere contro il mondo intero. E se non avesse riconosciuto suo figlio? E se fosse andato via? Sapeva che ogni tanto spariva per giorni e poi tornava come se nulla fosse e i suoi genitori probabilmente non sapevano dove stava.
Avevano stretto un qualche legame, si erano visti anche dopo la festa, l'aveva cercata lui. Aveva parcheggiato fuori dalla sua scuola, su una macchina rossa sgangherata, e lei era subito andata in tilt, sentendo le farfalle nella pancia, ancora non sapeva di essere incinta.
A Sharon un po' piaceva, innegabilmente. C'era qualcosa che le piaceva da morire in lui però non capiva cosa.
Si rese conto della gravidanza dopo poco più di una settimana dalla festa. Aveva avuto un ritardo, ma questo le succedeva sempre e aveva attribuito la nausea e i dolori allo stress che le causava lo studio. Era maggio, aveva passato giorno e notte sui libri. Quindi aveva comprato un test ed era risultato positivo.
Si specchiò cercando di respirare normalmente. Aveva occhi gonfi come gommoni e tutti rossi sia nella cornea che fuori, li aveva strofinati molte volte cercando di darsi una calmata ma scoppiava di nuovo in lacrime e i capelli erano sporchi di lacrime e vomito, la maglietta anche. Le veniva in mente un'altra storia, una storia che conosceva troppo bene. Sua madre l'aveva avuta quasi allo stesso modo e i suoi genitori l'avevano buttata in strada con una valigia. Faceva due lavori quando era incinta, pur di non sentirsi costretta a darla in adozione. E se lei avrebbe dovuto invece? Non voleva che il bambino avesse una vita di merda e allo stesso tempo voleva tenerlo lei. Il suo, di padre, non l'aveva mai conosciuto. Era certa che sua madre si sarebbe arrabbiata da morire, la storia si stava ripetendo.
E poi perché aveva questo gelante presentimento che William l'avrebbe abbandonata? Sua madre glielo aveva detto di stare lontana da quelli come lui ma lei non le aveva dato ascolto ed era restata abbindolata dal fascino maledetto di quello lì.
''va bene Sharon'' pensò appoggiandosi al lavandino di fronte allo specchio ''ora bisogna dirlo a William''. Sembrava l'unica soluzione logica, inseme avrebbero deciso come fare. Si sciacquò il viso, diede una sistemata in bagno, si cambiò vestiti e montò in bici. Corse per quasi due chilometri poi si fermò di fronte a una casa giallina circondata da erba alta e secca. C'erano mozziconi ovunque. La cassetta delle lettere era quasi completamente distrutta, accartocciata come fosse un foglio, la scritta rossa Rose era quasi del tutto sbiadita. C'era odore di bruciato, di plastica bruciata. Fece un bel respiro, tossendo un po'. Passò in mezzo all'erba e anche alle colonie di zecche che sicuramente popolavano felicemente tutto il cortile. Bussò alla porta. Le tavole di legno della veranda scricchiolavano sotto di lei. Aprì un uomo sulla quarantina, i capelli unti, lo sguardo incazzato, la barba non fatta. Indossava una canottiera macchiata e una camicia azzurra aperta sopra con i peli riccioli del petto che spuntavano fuori. Indossava dei calzini bucati.
-e tu chi sei?- fece quello indirizzandole sopra il fumo della sigaretta.
-ehm io sono Sharon, molto piacere- porse la mano a disagio. Era agitata per tutta quella situazione. L'uomo la strinse, sempre guardandola storta.
-cerco William abita qui no?-.
-si abita qui purtroppo- borbottò scorbutico poi si giro verso delle scale che portavano a una cantina probabilmente.       
-William!!!!!!- urlò -muovi il culo ti cercano!!-. Si sentì una porta sbattere e il ragazzo apparì dalle scale a petto nudo con solamente dei jeans addosso.
-chi cazzo è- borbottò poi vide Sharon e si affrettò a uscire. Di nuovo sbattè la porta.
-perchè sei venuta qui?? cazzo- disse accendendo una sigaretta. -non devi venire mai qui. Non venire mai più qui-. La ragazza rimase molto sorpresa ma annuì lievemente senza fare domande.
-sss-scusa non volevo metterti a disagio- si torceva le mani, massaggiandosi un po' la pancia.
-senti dobbiamo parlare di una cosa possiamo andare da un' altra parte?- disse con la voce che tremava un po'.
-ok mi vesto aspetta qui- entrò e di nuovo una serie di porte sbattute. Riuscì subito con una maglia infilata nei lunghi e larghi jeans a zampa.
Camminarono in quello stesso isolato. Erano le sei passate.
-dai dimmi spicciati- disse accendendo un'altra sigaretta. -ho molte cose da fare-
-William io- deglutì -io... io...-. Cos'è che doveva dire? Stava andando nel panico.
-tu? Vai avantì Gesù- disse quello.
-sono incinta-. William si fermò di botto, guardando il vuoto, con i bangs rossi che gli offuscavano la vista.
-stai scherzando vero!?!?!- sbraitò con i denti consumati dal fumo in bella vista. -o cazzo no non ci credo- disse cominciando a camminare da una parte all'altra e fermandosi di colpo con le mani tra i capelli. La sigaretta se la stava fumando il vento. -no no NO CAZZO NON è POSSIBILE- urlò alzando la testa verso l'alto e strizzando gli occhi. Fece un verso strano, un verso di rabbia e cominciò a prendere a calci una cassetta della posta. Sharon aveva le lacrime agli occhi.
-fermati William ti prego fermati- singhiozzò.
-lo sapevo che eri tu Rose!- urlò il vecchio proprietario della cassetta. -vado a prendere il fucile non la passerai liscia!!!-. Il ragazzo si fermò e si guardò intorno respirando affannosamente.
-vieni con me- disse a Sharon senza voltarsi. Finirono in un parco con l'erba incolta e dei bambini che giocavano sulle altalene. William la portò in un posto appartato, dietro ad alcuni cespugli. C'era una panchina. La ragazza si sedette.
-la pillola non ha funzionato-. Disse Sharon e scoppiò a piangere. William si accese un'altra sigaretta, quasi per nulla toccato dalle sue lacrime.
-dimmi la verità cazzo- disse poi. -funzionano sempre, non è possibile che tu abbia preso la pillola e che mo tu abbia comunque un moccioso dentro di te-
-c'è solo il 95% di probabilità che funzioni- singhiozzò Sharon.
William non era per nulla convinto.
-non mi prendere per il culo Sharon NON MI PRENDERE PER IL CULO CAZZO- urlò tirando un pugno sulla panchina.
-ma vaffanculo tu sei matto- urlò lei con le lacrime che le riempivano gli occhi.
-non finisce qui Sharon- disse buttando la sigaretta e andandosene.
Anche Sharon se ne andò, non appena fu capace di controllare le lacrime. Aveva lasciato la bici da William. Doveva tornare a piedi. Quando aprì la porta di casa sentì un intenso odore di carne e aglio.
-Sharon dov'eri finita??- urlò sua madre dalla cucina. -è quasi buio mi stavo preoccupando! Sai che mi devi almeno lasciare un biglietto per Dio-
-si scusa ero da Marika- disse la prima cosa che le venne in mente. Doveva tenere il segreto ora, anche se le stava scoppiando la testa. Poi salì nella sua camera, si tolse la maglia e si mise di profilo di fronte allo specchio con solo il reggiseno addosso e cominciò a guardarsi la pancia, ancora piatta

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** About William Bruce Rose Sr. ***


Sharon sentì una macchina che parcheggiava nel viale di casa. Scostò immediatamente le tende del salotto e vide William che sbatteva la portiera della sua Ford rosso fiamma. Corse a tenere la porta, non avrebbe mai funzionato ma ci avrebbe provato con tutta sé stessa.
William infilò la chiave e girò il pomello spingendo leggermente da fuori e la porta rimase ferma.
-ma che..- borbottò poi fece due più due -sharon non mi far incazzare- disse spingendo più forte. -SHARON PORCA PUTTANA- urlò spingendo molto più forte, la porta si aprì e Sharon quasi cadde a terra.
-ma si può sapere che cavolo fai??? E che cazzo- esclamò entrando.
-WILLIAM SANTO CIELO- urlò Sharon -TI AVEVO DETTO DI NON VENIRE PIÙ QUI-
-non m'importa delle cose che dici- disse lui quasi per niente turbato guardandosi intorno.
-dov'é Bill?-
-non c'é vai via-. Il ragazzo cominciò a gironzolare, con le braccia sui fianchi.
-Bill? Bill vieni da papà-
-te ne vuoi andare???- disse Sharon seguendolo -cosa vuoi dal bambino?-
William non rispose e salì al piano di sopra. Trovo il bimbo sul tappeto che giocava concentrato sulle costruzioni in camera di Sharon, dove dormiva anche lui. Lì accanto cerano anche dei cubi e il camioncino dei pompieri.
-ciao Bill- il bambino alzò il capo.
-ciao papà-
Sharon li guardava dall'uscio, pronta ad agire in caso qualcosa non andasse.
-andiamo vieni con me- disse prendendolo in braccio. Il bambino cominciò a divincolarsi come un matto piagnucolando.
-voglio giocare!! Voglio giocare papà! !- William lo teneva saldamente tra le sue braccia, mentre quello sbatteva i suoi pugni minuscoli sul suo petto.
-dove credi di andare?- disse Sharon bloccandogli il passaggio.
-levati da mezzo ai coglioni sono già incazzato-
-lascia qui il bambino-
-Sharon levati o le prendi-
-dammi il bambino-
-oh cazzo- William poggiò malamente Bill a terra.
Poi prese Sharon per un braccio spingendola contro il muro fuori dalla porta. Le stringeva entrambi i polsi, tenendola attaccata al muro.
-te lo dico per l'ultima volta- disse ghignando con i suoi denti marci e il naso a due centimetri dal suo. -piantala di metterti in mezzo o me la paghi-. Il suo alito sapeva di fumo e alcol.
-il bambino piangeva le ultime volte che lo hai riportato. Che cosa gli hai fatto?-
-non gli ho fatto nulla- disse lui. -piangeva perché é un frignone, proprio come te-.
-non ti permetto di fargli male- disse Sharon ignorando il dolore ai polsi. -chiamerò la polizia, la pagherai per tutto questo-
-azzardati- sibilò William -azzardati e ti faccio male- poi la mollò e riprese il bambino che piangeva accovacciato per terra chiamando sua mamma.
-e piantala di frignare cazzo!- disse tenendogli ferme le braccia con una mano.
-tu sei completamente fuori- disse Sharon tra le lacrime mentre guardava William portare via il bambino. Lo seguì fino all'ingresso e lo guardò salire in macchina col bambino senza che lui la degnasse di un solo sguardo.
-non venire a rompere chiaro?- disse William affacciandosi dal finestrino. -non venire e basta-. Poi partì sgommando lasciandosi dietro una scia nera di fumo e olio che la macchina stava perdendo. Si diresse verso casa veloce, guidava uscendo continuamente dalla sua corsia e non rispettava i segnali stradali, non aveva mai preso la patente. Fumava e guidava freneticamente, a un certo punto sterzò a destra parcheggiando davanti alla casa di suo padre. Prese Bill in braccio e cominciò a bussare forte.
-papà apri sono io, William!!- gridò a squarciagola e buttò la sigaretta per terra in veranda. Un uomo in mutande aprì qualche secondo dopo. William entrò col bambino in braccio che ancora si lamentava.
-dove cazzo eri eh?- gridò l'uomo furioso e sbattè la porta. -hai fatto quello che ti ho detto?-. Il ragazzo si prese una birra dal frigo quasi vuoto e maleodorante e non rispose.
-mi hai sentito?? che cazzo sei sordo forse??-. William era poggiato al banco della cucina, vicino a lui una pila di piatti sporchi.
-lo hai fatto o no?- chiese afferrandogli il colletto della camicia. William ghignò.
-no non ho concluso nulla- rispose -e leva questa mano lurida cazzo- aggiunse spostandogli il braccio.
-CHE CAZZO VUOL DIRE???- urlò l'uomo disperato dando in escandescenze. -LO SAI CHE MI DEVE DEI SOLDI LO SAI- urlò portandosi le mani alla testa in parte pelata. -COME CAZZO CAMPIAMO ORA??- urlò ancora e gli tirò uno schiaffo.
-È SCAPPATO IN MACCHINA CHE CAZZO DOVEVO FARE??- urlò il ragazzo infervorato spingendolo via. Una donna col rossetto sbavato e una gonna corta fino al sedere entrò in cucina.
-cosa è successo tesoro?- disse avvicinandosi all'uomo e accarezzandogli il viso.
-vattene non ho soldi per pagarti- tagliò corto l'uomo senza guardarla in faccia. La ragazza cambiò espressione.
-stai scherzando vero?? hai detto che mi davi il doppio se cominciavamo subito!!!- gridò arrabbiata.
-adesso basta- si intromise William. -vattene puttana, hai sentito non abbiamo soldi-.
-VAFFANCULO STRONZI- urlò uscendo di casa e sbattendo la porta, continuò a imprecare anche fuori. Il bambino seduto sul divano in salotto piangeva a dirotto. L'uomo tirò un calciò al tavolo, già traballante.
-E POI SI PUÒ SAPERE PERCHè CAZZO HAI PORTATO QUI IL MARMOCCHIO???-
-VATTENE VIA- urlò con il viso rosso di rabbia -O TORNI CON I SOLDI O NON TORNARE PROPRIO-. Il ragazzo sputò per terra e se ne andò imprecando. Rapinò un piccolo supermercato fuori città, con una pistola finta. Tornò da suo padre, che guardava la televisione coricato sul divano.
-ce li hai??- urlò saltando in piedi.
-si ecco i tuoi cazzo di soldi- disse buttando una mazzetta da 200 dollari sul divano. Poi entrò nella sua camera, col bambino che dormiva tra le sue braccia, e uscì soltanto il mattino dopo.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** It's getting dark, too dark to see. ***


Luglio 1964 - Lafayette, Indiana

-pronto mamma?-.

-sharon? Sei tu? Da dove chiami?-.

-sì sono io... sono alla stazione. Vienimi a prendere-.

-c'è William con te?-. Le lacrime le scivolavano lungo le guance rosse, silenziosamente e lei continuava a guardarsi intorno agitata, con gli occhi gonfi e un livido gigantesco sul collo, solo uno fra i tanti. La voce non era rotta o spezzata, riusciva a mantenere un briciolo di autocontrollo dopo aver passato gli ultimi 45 minuti a piangere e a litigare, gli faceva male la gola da quando aveva gridato.

-no... c'è solo il bambino. Fai presto-. Il piccolo giocherellava accanto a lei con le perline cucite sui suoi jeans. Ne era stregato, totalmente. Le accarezzava, toccandole e talvolta cercava invano di strapparle via.

-arrivo-. Sharon riagganciò la cornetta della cabina telefonica, non salutò né niente. Prese il bambino in braccio stringendolo dolcemente a sé, come se fosse di cristallo. Le sarebbe piaciuto fumare una sigaretta, giusto per alleviare un po' l'ansia.

''sì, come no'' fece una smorfia ''alleviare l'ansia''. Decise di chiedere a un controllore in piedi all'ingresso di un treno appena arrivato. Si asciugò le lacrime con la manica della giacca, sapendo che tutto era appena all'inizio.

-scusi.. ha una sigaretta?-.

-certo signorina-. Sfilò un pacchetto di Marlboro rosse dalla giacca di servizio e dei fiammiferi.

-grazie mille, davvero-. Fumò in fretta, a pressione, poi entrò nei bagni della stazione a darsi una sistemata. Quel posto era rivoltante, ma ignorò completamente la cosa. Si guardò allo specchio, aveva enormi occhiaie nere, gli occhi sconvolti e gonfi come gommoni, sospirò e si sciolse capelli per non attirare l'attenzione della gente sul suo viso poi uscì in strada col bimbo in braccio.

-mamma!!! mamma!!! guarda il cielo!!! com'è immenso!!!- gridò il bambino levando una manina in aria, sbilanciandosi un po' a destra.

-si si... meraviglioso- rispose seccamente la ragazza. -ma sta' fermo-. Aspirò il fumo, guardando le macchine che passavano.

-mamma ma non è sbagliato fumare?- chiese il bambino confuso.

-certo Bill-.

-allora sei una persona cattiva?-.

-Bill per favore. Non è questo il momento per fare domande... tu sei un bravo bambino?-.

-certo!!! ci puoi scommettere!!!-.

-e allora niente domande-. Sharon buttò il mozzicone a terra e lo pestò piuttosto rabbiosamente con un piede. Stringeva ancora il bambino a sé, cercando un po' di calma.

Poco dopo Anne, la nonna del piccolo, accostò lì vicino con la sua Ford Galaxie 500. La ragazza salì tenendo il bambino davanti con lei.

-stavi fumando??- chiese Anne a bruciapelo, con un tono che prometteva solo altri guai.

''bene. Anzi. Benissimo.'' pensò Sharon.

-no. Ma ti pare?- mentì. Doveva dirgli quello che era successo? Doveva davvero? Certo che doveva, le stava per scoppiare la testa.

-Bill, tesoro, la mamma stava fumando?-..

-sì nonna-. Sharon fece una smorfia infastidita.

-ma ti ha dato di volta il cervello?! non mi dire stronzate Sharon- tuonò inviperita.

-non parlare così davanti al bambino- disse la ragazza digrignando i denti.

-ah io parlo come mi pare e piace!!! Che mi nascondi altro?? magari sei di nuovo incinta, io che ne so-. La giovane sbuffò.

-ma secondo te?? e poi se voglio fumare posso, ho quasi 19 anni-.

-ah sì?? e quindi ora cosa? Ti senti grande? Ma fammi il piacere Sharon!!!-. Gridava come una matta e fremeva e zampilli di fuoco schizzavano dai suoi occhi. Era davvero furiosa, e ne aveva tutte le ragioni. Ma Sharon era quasi in un altro mondo in quel momento, era estremamente debole, doveva parlare di quell'altra cosa. Il bambino era accoccolato sul suo grembo, che guardava fuori dal finestrino, per nulla interessato alla conversazione. Be' in fondo non poteva capire granché, aveva sì e no due anni e mezzo.

-è così che vuoi vivere la tua vita adesso?! E poi cosa?! Comincerai a drogarti forse? A fare la puttana, forse?- . La ragazza fece l'ennesima smorfia di fastidio.

''io? A battere in tangenziale? Piantiamola''.

-e anche se fosse?-. Era una pura e semplice provocazione.

-mi prendi in giro forse?! Sono questi i piani che hai per la tua vita?! E il bambino?? pensi di riuscire a trovare un posto nella tua agenda per lui?? o sei occupata ogni giorno dietro ai tuoi guai??-. Una mano era fissa sul volante e una gesticolava, come se avesse vita propria. Continuava a sorpassare gli altri automobilisti anche se teoricamente non poteva. Quelli suonavano il clacson e imprecavano, incazzati. Mai quanto Anne, che se fosse scesa dalla macchina li avrebbe ridotti in cenere solo perché stavano respirando. Ecco, ora aveva cominciato a piovere.

-possiamo parlare di altro ora?-.

-no, no!!! mi piaceva così tanto quest'argomento!!! parlami ancora di come intendi mandare a puttane la tua vita!!!-. Sharon perse le staffe.

-William se n'è andato- esplose, quasi facendo cadere il piccolo dal sedile.

-ha preso il bambino... lui lo ha... lo ha...-.

-lo ha cosa?? cosa gli ha fatto?? PARLA, PER DIO-.

-LO HA VIOLENTATO-.

Anne perse il controllo del volante, sbandando a sinistra. Fu davvero per poco che non morirono tutti e tre andando sopra a un furgone di biscotti Little Debbie.

La giovane scoppiò a piangere.

Anne non riuscì a dire nulla. Le parole le morirono in gola. La bocca restò asciutta. Anche il bambino cominciò a piangere, vedendo sua mamma così triste. Non sapeva che c'entrava pure lui.

-dov'è adesso?? quel bastardo... se lo trovo lo ammazzo-.

-non lo so... ma non tornerà... Bill, non piangere tesoro.. non è nulla...-. Gli accarezzò dolcemente la guancia, e i suoi capelli rossi. Morbidi come seta. Piano piano quello si acquietò.

-come sai che non tornerà?-.

-se la polizia lo vede ancora a Lafayette lo sbatte in carcere, rischia una condanna all'ergastolo. Io ho cercato di fermarlo... mi ha minacciato che mi avrebbe ucciso se non la finivo di mettermi in mezzo... poi lo ha preso in braccio ed è scomparso per un giorno intero...-.

-lo dobbiamo denunciare-.

-se torna mi fa fuori- disse terrorizzata.

Anne guardava con la coda dell'occhio la piccola creatura sul grembo della ragazza. Quella piccola creatura innocente era stata violata dal suo stesso padre, dalla persona che gli aveva dato la vita. Le vennero i conati di vomito solamente a pensarci. Che vita avrebbe vissuto il bambino adesso? Perchè tutto questo? Perchè a un bimbo indifeso?


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** It's so easy to lie. ***


6 febbraio 1967
-happy birthday to you, happy birthday to you, happy birthday to William, happy birthday to you-. Fischi e applausi. Il bambino prese un bel po' di aria nei polmoni e soffiò, soffiò come se volesse spegnere un incendio. Ci fu un altro fragoroso applauso e di nuovo fischi e risate. Commenti come ''accidenti 5 anni'' e ''wooow come sei grande ora'' riempivano la stanza. La tavola era stata imbandita di ogni genere di delizia, sotto cocciuta insistenza della nonna. La madre avrebbe voluto una cosa più semplice. Menomale che ci sono le nonne, sempre lì a viziare e a strafogarti di cibo. C'era la tovaglia buona, quella per le occasioni speciali. La torta era ricoperta di panna e le candeline erano bianche e azzurre. Ora fumavano. Il bambino le aveva spente al primo tentativo. Al centro della torta vi era impilato un numero cinque di plastica. Venne tagliata a fette e il bambino venne delegato a offrire il dolce agli ospiti. La madre aveva fatto diverse foto, immortalando il momento con una polaroid. Accanto a lei vi era un uomo. Si chiamava Stephen Bailey. Aveva capelli biondi e occhiali. Gli occhi erano tipo due fessure però il colore era di un celeste piuttosto intrigante. Aveva un viso ovale, era leggermente rosso sulle guance e sul naso.
-papà tieni la tua fetta di torta!- disse il bambino esuberante porgendogli il piattino col dolce.
-grazie William-. Il bambino aveva i capelli biondo rossicci, a forma di fungo. Anche i suoi occhi erano piccoli piccoli e l'iride era verde. L'uomo e il bambino non si somigliavano per niente. Ogni persona in quella stanza sapeva che quello non era il padre del bambino. Tranne il bambino stesso. Il segreto sarebbe stato mantenuto ancora per molto tempo.






11:59 pm .1978.
15 anni dopo quel 6 febbraio '62. Quasi 16... Ok, 16.

-soffia cazzone- disse Jeff aspettando con ansia.
-shhhhhhh. Non tediarmi. Non la volevo neanche una torta io-.
-zitto e soffia. O sveglierai i tuoi genitori-.
-da quando mi dai ordini?-. Jeff fece una smorfia scocciato. Quando ci si metteva riusciva a essere davvero fastidioso.
-lo vuoi il regalo o no?-.
''un regalo? un regalo ma sul serio?''. I suoi non gli facevano regali da quando aveva si e no quando aveva dieci anni. L'unico che pensava di ricevere era il portafoto fatto con la pasta dai suoi fratelli. Era impossibile non notare la colla su alcuni oggetti. Telecomando, maniglie, braccioli della poltrona erano le malcapitate vittime. E poi trovava della pasta persino tra i cuscini del divano. Dettagli. Ancora sorpreso soffiò le candeline. La torta era una torta paradiso, una di quelle soffici soffici, che puoi metterci quello che ti pare sopra e in mezzo. Quella aveva la crema pasticcera. Qualcosa gli diceva che il sapore lasciava desiderare. Jeff si alzò e prese una busta da terra. Era scoccata la mezzanotte da un minuto.
-TADAAAAAAAAAAAAN- esortò allegro. -non interferire- aggiunse vedendo l'espressione del rosso. Quello stava per replicare ma si limitò solo a scuotere la testa, rassegnato. Afferrò la busta e ne estrasse un pacco. Aveva già capito cos'era. Scartò tutto l'involucro, strappando con violenza ogni centimetro della carta.
Eccolo lì. Era il vinile dei Thin Lizzy, Black Rose: a rock legend. Voleva urlare ma non poteva. Voleva piangere, e così accadde.
-il vinile dei Thin Lizzy. Cazzo. Cazzo-. Piangeva silenziosamente, fissando incredulo il 33 giri. Occhi e bocca erano spalancati. Era felice. Jeff lo osservava, zitto, soddisfatto di aver fatto centro.
-ti odio lo sai? Non avresti dovuto... spendere quei soldi per me... sei proprio deviato- spiccicò dopo secoli di trance.
-però.. grazie-. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Tagliarono la torta, con il coltello a serramanico di Bill. Mangiarono. Era un po' uno schifo.
-dillo pure, avanti-.
-è buona!!! sì, davvero ottima!- mentì spudoratamente il rosso.
-forse hai solo sbagliato qualche passaggio, tutto qua-.
“già, magari mettendo il sale al posto delllo zucchero” pensò ironicamente. La torta era ricoperta di glassa nera e nel centro troneggiava il numero 16. Sarebbe stata molto metal, se non per le candeline rosa.
-ora si festeggia-. Jeff si alzò in piedi e aprì la finestra. Il vento che entrava fece rabbrividire entrambi.
-metti la giacca. Voliamo nella notte-. Bill sorrise spontaneamente. Eccome se era deviato. Ma lo era anche lui, e andava bene così. Aveva sempre odiato il suo compleanno, tranne da bambino. “non c'è niente di bello a invecchiare”. Certe volte i suoi genitori non se n'erano neanche ricordati. Diceva che non gli importava, con un po' di amaro in bocca. I suoi fratelli non se lo dimenticavano mai. Gli facevano dei regali fatti in casa, c'era colla dappertutto naturalmente, e le mani erano appiccicose ogni volta.
Jeff riusciva sempre a sorprenderlo. Non capiva perché gli andasse dietro, in quella vita da matti. Prese i guanti con i fori per le dita, si infilò la giacca e legò le All Stars nere. Scavalcarono e furono fuori. Le luci delle case erano spente. Solo alcuni lampioni illuminavano la via. Alcuni stavano lì, ad accendersi e a spegnersi, a vivere e a morire, mezzi fulminati.
-posso sapere dove andiamo?-.
-cazzo- disse Jeff -sei una paranoia-.
-andiamo al parco vero?-.
-forse-. Percorsero per intero la Elmwood Ave street e svoltarono a destra. Jeff sapeva dove andare e di tanto in tanto fiutava l'aria, profondamente, con il naso all'insù. Ricordava uno di quei cani della dogana che fiutano la presenza di droghe nelle valigie all'aeroporto. Arrivarono al parco che di notte era inquietante e raccapricciante. Altri lampioni si accendevano e si spegnevano. Il Columbian era circondato da una staccionata e l'erba era bagnata infatti prima aveva diluviato. C'era un piccolo laghetto ricoperto quasi del tutto dalle foglie e un mini ponte lo attraversava. Quello era uno dei posti preferiti di Bill, in quella città troppo stretta per le sue idee. Era tranquillo, senza rotture di coglioni. Poteva andare a quel ponte quando gli andava e fare quello che gli andava.
In una di quelle casette lì vicino con tutti i giardini curati e l'erba potata e con le torte messe a raffreddare sul davanzale la domenica mattina ci abitava sua nonna. Nel parco, accanto a una fontana che non era mai stata messa in funzione, vi era una lapide commemorativa. Sopra ci erano incisi tutti i nomi delle persone di Lafayette che tempo addietro avevano combattuto nella guerra civile. Tra quelli c'era un suo lontano parente.
Il cigolio di un' altalena e gli zampilli di luce di certi lampioni formavano un quadretto piuttosto lugubre. Senza contare che era quasi completamente buio.
-mi vuoi per caso far fuori il giorno del mio compleanno?- .
-se non la pianti credo di sì-. Bill sbuffò spazientito. Aveva le mani ficcate nella tasche dei jeans e i capelli un po' smossi dal vento. Alcuni ciuffi gli ricadevano continuamente sugli occhi. Raggiunsero una panchina ricoperta di scritte e disegni volgari.
-ricordi quando abbiamo fatto questo?- disse Bill indicando il gli enormi seni che occupavano che occupavano ¾ dello schienale della panchina. Erano stati fatti con una minuziosa precisione, avevano preso quel lavoro piuttosto sul serio.
-come dimenticarlo- ridacchiò l'amico. Si chinò sulle radici di un albero a qualche metro dalla panchina. Era sicuramente secolare. Lui e il compare erano saliti milioni di volte per marinare la scuola o per scampare alla furia dei vicini lì intorno, vittime di tremendi scherzi made in Jeff&Bill Production. Era davvero una cosa pazzesca quell'albero, ci potevi salire senza fatica. Avrà avuto un diametro di due o tre metri e i suoi rami erano grossi e resistenti. Era un albero di noce. Si mise a scavare tra le foglie e da un buco alle basi dell'albero estrasse una dozzina di bottiglie di birra. Bill strabuzzò gli occhi.
-sei un grande-. Qualche scoiattolo ci sarà rimasto male, pensò Bill, visto che gli hanno fottuto la casa.



2:33 am
-sei un grandiiiiiiiissimo stronzo!!!- urlò stridulamente Jeff.
-iooooooo?! Ma vuoi scherzare?!- disse l'altro sorseggiando la sua sesta birra. Sbrodolò quasi tutto sulla giacca.
-no... non scherzo... tu ce l'hai proprio, la faccia da stronzo-.
-ma sai una cosa? Mia nonna- ruttò improvvisamente, facendo scoppiare a ridere l'amico -dicevo... mia nonna fa questa torta di mele... divina... ti prometto che te la faccio assaggiare, va bene?-. Jeff si fece serio di punto in bianco.
-ma io come ci torno a casa??- disse, quasi strillando. Avevano passato tutta la sera a strillare e a ridere sguaiatamente sotto l'albero di noce.
-non ti preoccupare.... dormi a casa mia-. Poco dopo una volante della polizia accostò vicino alla staccionata. Due poliziotti scesero dalla vettura e si avvicinarono ai ragazzi.
-oh merda- esortò Bill. Non aveva esattamente un buon rapporto con i piedipiatti.
-ancora tu??-. Sospirò uno dei due riferendosi al rosso.
-abbiamo ricevuto una chiamata per schiamazzi e urla moleste. Voi ne sapete qualcosa?-.
-la Brown- borbottò Bill. Mrs. Brown era una vecchia tizia che abitava lì vicino. Il ragazzo e Mrs. Brown si odiavano. Sicuramente l'aveva fatta lei la fatidica chiamata. Bill decise di fare lo gnorri, ovviamente invano. Il suo aspetto, la sua voce e le bottiglie vuote di birra sparse a terra parlavano chiaro.
-ma chi agente? Noi? Noi siamo bravi ragazzi-. Uno dei due poliziotti ridacchiò.
-non attacca Bailey. Salite in macchina. Per stavolta vi riportiamo a casa-.
-NOOOOO!!! Io a casa non ci torno!!!- strillò Jeff cominciando a correre e cadendo rovinosamente a terra pochi secondi dopo.
-in macchina. Muovetevi-.


2:45 am
-ciao pa'- salutò Bill, con un sorrisino da stronzetto e facendo un debole cenno con la mano. Stephen alzò gli occhi al cielo. Ancora casini. Cercò di mantenere la calma.
-suo figlio era al Columbian Park, signor Bailey. Ubriaco fradicio. Abbiamo deciso di portarlo qui per questa volta-. Ormai era una routine quella. L'intero complesso di poliziotti conosceva la peste Bailey e la sua famiglia.
-grazie agenti. Ve ne sono grato. Chi c'era con lui?-.
-Jeffrey Dean Isbell, signore. Lui l'abbiamo già scaricato a casa-. Stephen non ne fu sorpreso per niente.
-nessuna denuncia per urla e schiamazzi molesti, per stavolta. Ma cerchi di tenere a bada suo figlio-.
-certo certo-. Quando se ne furono andati Stephen prese il ragazzo per un orecchio e lo trascinò dentro casa. Chiuse violentemente la porta e cominciò a urlare.
-ti rendi conto che sono le tre di mattina?!-. Gli tirò uno schiaffo. Bill perse l'equilibrio e cadde a terra. Un labbro si era spaccato e fuoriusciva sangue. Ne sentì il sapore in bocca e fece una smorfia di schifo. Odiava il sapore del sangue. Stephen continuava a urlare. “Probabilmente di quanto sono completamente impazzito” pensava Bill, che non lo ascoltava per niente. Badava fissare un piccolo ragno che tesseva una ragnatela sul mobile della TV. Dal corridoio arrivò sua madre con un'orrenda cuffia rosa da notte. Era avvolta in un accappatoio. La sua pelle era pallida e traslucida e i suoi riccioli rossi ricadevano dalle spalle. Era incredibile quanto Bill le assomigliasse.
-cosa succede? William? Cosa hai fatto??-. Si stropicciò gli occhi.
-TUO figlio si è ubriacato di nuovo! È uscito in piena notte, di nuovo! Ma guardalo, il bastardo!-. Lo chiamava spesso bastardo quando si incavolava con lui. E si incavolava spesso. Il ragazzo ancora a terra ora si massaggiava la mascella, borbottando qualcosa a proposito del sangue. Stephen lo prese per un braccio e lo sollevò in piedi. Le gambe gli cedevano e barcollava qua e là. Lo fece coricare sul divano a fiori.
-va' a prendergli un bicchiere d'acqua- disse la donna. Stephen sparì in cucina. La madre si avvicinò al ragazzo. Si stava addormentando. Si era raggomitolato come un riccio, con una mano sotto la guancia. Gli accarezzò il viso, tracciando un percorso dalla fronte al naso e infine alle guance. Erano fredde. Ce le aveva sempre avute fredde. Ora erano un po' rosa, per via di tutto l'alcol che si era ingollato. L'uomo tornò con un bicchiere colmo di acqua.
-lascia stare. Portalo a letto. Domani gli darai una lezione-.
-oh, puoi scommetterci che gliela do una lezione, a questo farabutto-. Prese in braccio il ragazzo, poggiandoselo su una spalla. Pesava una cinquantina di chili, o forse nemmeno. Era tutto ossa, tutto smilzo. Le guance erano scavate, gli zigomi pronunciati. Gli occhi erano verdi, di un verde bizzarro, come smeraldo. Erano cupi, quasi grigi. La cosa che sicuramente faceva più tenerezza erano i polsi. Magri magri e snelli. Stephen lo portò nella sua stanza. Com'era dolce, quella creatura. Penzolava a destra e sinistra, insieme a tutti i suoi capelli.



Angolo della pazza :D.
Allora, buon pomeriggio. Vi devo dire una o due cosette. Prima di tutto l'album dei Thin Lizzy è uscito nel '79 ma non ho resistito a mettercelo. Axl amava i Thin Lizzy e penso che li ami ancora. Si fece un tatuaggo che simboleggiava il suo cambiamento da Bill a Axl che era appunto una rosa, però blu. Voleva mostrarla al cantante Phil Lynott (mi pare fosse il cantante boh) ma questo morì prima. Non so, avrei potuto metterne uno dei Queen che coincideva con la data ma non sarebbe stata la stessa cosa. Poi la Elmwood Ave street non ho idea se sia vicino al Columbian o no, ne ho scelta una a caso. Capitemi, non sono mai stata a Lafayette e entrare su Google earth dal mio computer equivale a crisi isteriche. Poi, l'ultima cosa. Ringrazio GirlFromTheNorthCountry da cui ho preso la mania di dire e scrivere ''deviato'' ogni due secondi e qui penso ci stia molto bene. Ok è tutto. Spero vi piaccia e passate a lasciare una recensione, anche per dirmi cosa ne pensate del flashback all'inizio della storia. Sono piuttosto dubbiosa su quello.
Al prossimo capitolo,
hacja.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** You got mud on yo' face. ***


Dicembre 1970.

-non ci credo che hanno chiamato- disse l'uomo, agitato e isterico.
-sapevamo benissimo che sarebbe successa una cosa del genere- rispose la donna al suo fianco.
-non ti hanno detto perché?-. L'uomo picchiettava incessantemente le dita sul volante. Il furgoncino della chiesa, sebbene fosse un rottame, riusciva ad andare fino a cento all'ora. Lui poteva utilizzarlo per usi personali, bastava che la mercoledì sera accompagnasse le vecchiette della parrocchia a giocare a bridge. Al momento la lancetta della velocità segnava cento anche se lì il limite era 65. Non c'era tempo da perdere.
-no... hanno solo detto che era grave-.
-ti pareva che non era grave-.
-cerca di essere comprensivo... e poi guarda che i casini stanno appena cominciando-.
-non mi dire di essere comprensivo, non me lo dire!!! li crea tutti lui i problemi-. Lasciarono la macchina nel parcheggio dei visitatori nel piazzale della scuola. Oltrepassarono il cancello e si diressero verso gli uffici della segreteria.

Entrarono in una specie di sala d'attesa lunga e stretta con delle sedie attaccate ai muri e tre o quattro porte arancioni. Nell'angolo in fondo c'era una scrivania con delle pile lunghissime di fogli e cartelle. In mezzo a quelle pile si poteva scorgere una vecchietta esile e bassa seduta di fronte al tavolo. I suoi piedi non toccavano neanche terra. Portava degli occhialini fini senza la montatura e con delle lenti come fondi di bottiglia che le ingigantivano gli occhi di parecchio. Sulla scrivania oltre alle pile di fogli incredibilmente alte c'erano anche numerose statuette di Gesù e della Madonna e alcune cornici con le foto dei suoi figli. Nel cassetto teneva delle boccette d'acqua santa e le immaginette dei santi; probabilmente c'era anche qualche rosario. Era estremamente religiosa e anche sorda all' orecchio destro, infatti aveva un apperecchio acustico. In quel momento era talmente indaffarata a spostare e compilare fogli che non si era accorta di Stephen e Sharon.
-salve- disse l'uomo aumentando di qualche tono la sua voce. La donna alzò gli occhi. Le lenti li ingrandivano un sacco; erano così buffi.
-buon pomeriggio. Voi siete i signori Bailey non è vero?-.
-sì siamo noi-.
-seconda porta alla vostra sinistra. entrate pure, vi aspettano-. Sulla porta c'era attaccata una targhetta in ottone con su scritto ''Principal Room'' (=stanza del preside).
-bene, sono contento che abbiate fatto presto- sorrise l'uomo, vedendo entare Stephen e Sharon. Aveva denti storti e gialli. Forse troppe sigarette. Lì invito a sedersi davanti a lui, che stava dietro una scrivania in legno di mogano. Anche qui c'era una specie di targhetta. ''Sandy Williams'' diceva. Sui muri c'erano appesi diversi certificati e onorificenze tra le quali saltava subito agli occhi una che non c'entrava un tubo con la scuola e gli studi. ''Miglior giocatore di touch football 1940 – Indianapolis – primo classificato''.
L'uomo era robusto e tozzo, con enormi spalle e braccia. Avrà avuto quarant'anni o giù di lì. Sedeva su una sedia girevole in pelle marrone. Accanto a Stephen e Sharon c'era un bambino di otto anni. Aveva il muso e teneva le braccia conserte.
-che bella famigliola eh?-. Nessuno rispose. Stephen fece solo un sorriso forzato.
-William ci vuoi raccontare cos'è successo?-. Il bambino non alzò neanche gli occhi. Passarono una manciata di secondi e nessuno disse niente.
-bene, lo dirò io. William ha picchiato un suo compagno di classe quando la maestra non era presente. Stando a quello che ho capito erano in cortile. Kevin lo ha preso in giro per i suoi vestiti e William ha risposto dandogli un pugno alla pancia e mordendogli il braccio-.
-ha cominciato lui!!!- strillò il bambino d'improvviso. -è una testa di cavolo-. Non sapeva che cosa voleva dire esattamente. Lo aveva sentito dire ai bambini di quinta.
-William non usare mai più quel linguaggio!- sbottò Stephen. Il bambino non lo ascoltò. Scattò in piedi e continuò a strillare.
-è un bullo!!! Vuole sempre la mia merenda e gli ho dato una lezione! Se lo merita-.
-o santo cielo- sospirò Sharon.
-William siediti per favore. Avanti-.
-ubbidisci- ringhiò Stephen. Il bambino si abbandonò alla scomoda sedia, che non era girevole e questo lo intristiva un po'. Incrociò di nuovo le braccia e rimise il broncio.
-quindi è vero che lo hai picchiato?-.
-si ma..-.
-e credi che sia giusto?-.
-si perchè se lo meritava-. Stephen si portò una mano alla fronte.
-come sta l'altro bambino?- chiese Sharon.
-o be'.. qualche livido e i segni del morso-.
-Gesù Cristo-.
-Gesù Cristo proprio- disse suo padre.
-la madre di Kevin vuole che chieda scusa- disse il preside. -lo farai William?-. Il bambino non ebbe tempo di rispondere.
-certo che chiederà scusa- intervenne Stephen.
-ma..-.
-niente 'ma' William-. Al bambino veniva da piangere. Era sempre colpa sua. Nessuno si preoccupava di quante volte quello lo avesse preso in giro o gli avesse rubato la merenda.
-bene. Ora che abbiamo risolto questa faccenda vorrei farvi parlare con la signorina Bucket, la sua insegnante di inglese-. Il bambino venne fatto uscire in sala ed entrò una donna. Sembrava una ragazzina. Doveva essere appena entrata nel mondo del lavoro. Restò in piedi accanto al preside. Indossava abiti succinti e super stretti, che le aderivano a puntino su tutto il corpo magro. Per poco Stephen non cominciò a sbavare. A Sharon questò dettaglio non sfuggì e infatti strinse i denti con violenza.
-salve signori Bailey. Da un po' desideravo parlare con voi. Ho chiesto a William di passarvi l'avviso ma evidentemente non vuole che questa chiaccherata abbia luogo-.
-lo immaginavo- disse il preside.
-ho notato che il bambino ha un andamento caratteriale piuttosto bizzarro. Passa da creare caos e ridere a stare buttato sul banco con le braccia conserte e la testa infilata dentro per ore di fila. Gli ho chiesto parecchie volte cosa avesse. Non rispondeva o se rispondeva mugolava solo ''niente'' guardando altrove. Tende inoltre a essere molto nervoso, per lui fare un esercizio alla lavagna sembra una tortura cinese a volte, altre volte rimane tranquillo. Mi chiedo solo perchè. Non capisco come faccia, davvero, ad avere questi sbalzi-. Durante tutto il discorso Stephen aveva continuato a contorcersi le mani e a sfregarsi le nocche. Era arrabbiato. Gli dava fastidio come quella si stava impicciando negli affari loro. Anche se alla fine voleva solo aiutare il bimbo.
-bene- disse. -provvederò io a fargli chiedere scusa, così come provvederò io a limitare la quantità e l'entità dei suoi scatti nevrotici, che non sono altro che capricci-.
-posso suggerire l'intervento di un personale specializzato? Come ad esempio uno psicologo scolastico? Credo che aiuterebbe molto sia me che voi a capire le cause della sua instabilità-.
-no grazie. Niente strizzacervelli e gente del genere. Servono solo a spillare i soldi e ridurre le persone all'osso. Sono lieto che si sia preoccupata, davvero. Arrivederci-. Si alzò in piedi e uscì.
-in realtà usufruire dello psicologo scolastico non comporta alcuna spesa...-. L'uomo ormai era già uscito.
-arrivederci- disse Sharon e seguì il marito fuori. La signorina restò molto sorpresa e stupita. Non si aspettava certo esperienze del genere dopo appena quattro mesi che aveva cominciato a insegnare.

Appena rientrati a casa William si beccò una bella sgridata per ciò che aveva fatto a quel bambino. Finì a letto senza cena. Si dovette coricare sulla pancia perchè il fondo schiena gli faceva troppo male dopo le botte che gli aveva dato Stephen. Si addormentò con le lacrime agli occhi e arrabbiato con i suoi genitori. Ce l'aveva con sua madre, che quando aveva visto suo padre slacciarsi la cinta non aveva detto o fatto niente. Nessuno lo aveva difeso. Nessuno sembrava essere lì per lui. Sua madre gli aveva dato il bacio della buonanotte, dicendogli di fare il bravo bambino. Tutto qui. Poi aveva spento la luce ed era uscita.
Sharon era leggermente scossa dai fremiti. Aveva diversi lividi, sparsi per il corpo. Tutti a causa di Stephen. Non gli era andato giù che gli imponesse delle regole. Se voleva guardare una donna lui lo faceva, e basta. Le sue parole erano state dure e dolorose per lei.
-chi cazzo saresti tu per dirmi che non posso guardare un'altra donna? Eh?-. Colpo. -non sei nessuno per mettermi dei limiti Sharon-. Altro colpo. Non era la prima volta che una discussione degenerava in questo modo e aveva questa strana sensazione che non sarebbe stata neanche l'ultima. Se l'indomani mattina fosse andata dal fruttivendolo avrebbe dovuto mentire a proposito del livido che aveva sulla guancia che certo non passava inosservato, oppure avrebbe indossato degli stupidi occhiali da sole.
Bill era dovuto restare barricato in camera come se fosse stato in galera. Suo padre aveva nascosto i suoi giochi a chiave in un cassetto. Aveva detto che doveva meditare su ciò che aveva fatto. Il bambino aveva dato un calcio al piede del letto e si era gettato malamente sul materasso. Sua madre non lo difendeva, il preside neppure, il padre non se ne parli. Cominciava a farsi strada nella sua testa l'idea che in quel mondo doveva pararsi il culo da solo, con le unghie e con i denti.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Mocking sneer. ***


Dicembre 1976, Lafayette
''quello lì ha il quoziente intellettivo di un acino d'uva. Non ho intenzione di starlo a sentire'' pensava il ragazzo. Odiava suo padre. Aveva cominciato a tartassarlo per la lunghezza dei suoi capelli. Adesso arrivavano più o meno a metà collo e ogni ciocca era per cavoli suoi. Che c'era di male? A lui piacevano.
Stava tornando a casa dopo le lezioni di piano, a piedi, al freddo, con le dita gelate.
''mi stanno andando in cancrena porca miseria''. E poi c'era la neve. A Lafayette nevica pochissime volte l'anno ma quando succede è davvero impossibile stare all'aperto senza trasformarsi in un polaretto gigante. Aveva il naso un po' arrossato e gli occhi gli lacrimavano, il che gli faceva saltare i nervi. Il muso lo teneva coperto dalla giacca. Guardava il marciapiede coperto da strati di neve e gli scarponi che ci affondavano dentro. Guardava con invidia le famigliole felici nelle macchine che gli passavano accanto. Con rabbia strinse i pugni nelle tasche. Perché non poteva avere una famiglia come quelle? Sembravano come preconfezionate, tutti quanti sorridevano tra di loro e non facevano che aiutarsi o sostenersi. Erano perfette, ridevano e scherzavano felici come quelle delle pubblicità dei ceriali.
Suo padre era andato a prenderlo dalle lezioni di piano e poi invece di tornare a casa aveva accostato davanti allo studio di un barbiere.
-o ti tagli i capelli o torni a casa a piedi- gli aveva detto senza neanche guardarlo in faccia. Bill non aveva battuto ciglio ed era sceso dall'auto. Poi si era allontanato senza voltarsi indietro. Ora era al freddo, con la neve che il vento gli sparava in faccia. Erano le sei e trentacinque. Entrò in un edicola per comprarsi un giornalino. In tasca aveva qualche soldo.
-ciao-.
-ciao ti posso aiutare?- chiese il commesso alzando gli occhi da una rivista.
-no- rispose il ragazzo -faccio da solo-. Quasi subito trovò il nuovo numero del fumetto di Topolino e decise che sarebbe uscito con quello. La cassa traboccava di ogni genere di schifezze da far cadere i denti di botto e da arricchire il portafoglio dei dentisti. Liquirizie, gomme (quelle adatte per fare le bolle), bastoncini di zucchero, altre gomme dure come il cemento, mini distributori di caramelle colorate gigantesche, ancora gomme tutti i gusti, cioccolati al latte, fondente o bianco, con le nocciole, caramelle da succhiare al limone, fragola, anguria e via di questo passo. E poi c'era anche la macchina per fare i frullati, dietro il bancone. Quando uscì da quel posto aveva le tasche gonfie di dolci, il fumetto sotto braccio e un frullato alla ciliegia in mano. Suo padre non gliele aveva mai comprate le caramelle da bambino, neanche quando faceva scenate al negozio per avere almeno un lecca-lecca.
Nevicava ancora. Doveva strizzare gli occhi per vedere davanti a sé, i fiocchi cadevano così fitti che faticava a vedere a un palmo dal suo naso. Non gli passava neanche per l'anticamera del cervello di tornare a casa. Sapeva che suo padre l'avrebbe pestato.
''sei un effeminato, guardati. Con quei capelli lunghi sembri una puttana''. Oppure lo chiamava feccia, checca. A volte giusto per stuzzicarlo e guai se rispondeva. Bill ovviamente, per come era fatto, tra orgoglio e testardaggine, si difendeva sempre e si beccava qualche sberla. E poi, in ogni caso, una ragione per pestarlo c'era sempre. Decise che sarebbe stato giusto prendersi i pugni e le cinghiate sul culo per un motivo che non fosse invisibile. Invece di andare dritto verso casa sua andò a destra, verso casa di Jeff.
Le mani erano ancora fredde e bianche. Gli facevano un po' male. Era sembra stato così fin da bambino, quando pensava di poter ghiacciare il sole con un mignolo. Ormai chi ci faceva caso al dolore.
Agilmente sfilava una striscia di liquirizia dopo l'altra dalla tasca. Doveva strapparle coi denti, come si fa con il bacon, perché erano durissime.
Arrivò davanti a casa di Jeff. Lo conosceva da alcuni mesi. Sembrava un tipo apposto, con la sua stessa mentalità e i suoi stessi interessi.
Suonò il citofono e poco dopo dalla finestra del condominio vide affacciarsi l'amico. Jeff gli disse di salire. L'appartamento era al quinto piano e Bill ci arrivò stremato dopo rampe e rampe di scale infinite. Bussò e Jeff aprì poco dopo con uno di quei maglioni con le renne rossi, blu e bianchi e sopra ricamate le iniziali del suo nome. Bill scoppiò a ridere.
-zitto, per favore. È stata quella mia nonna che abita in Florida a farmelo e se non lo metto si offende-. Jeff abitava con sua nonna paterna, una signora che da giovane faceva una vita spericolata e all'insegna del ''chissene frega''. Suonava pure in una band jazz e aveva regalato a Jeff una batteria, anni addietro. Ora aveva i capelli bianchi e tante storie da raccontare. L'altra nonna, quella materna, viveva in Florida e la sua vita era ora incentrata sull'uncinetto e sulle serie televisive spagnole.
-ci vieni a fare un giro?-.
-come no- disse e poi si girò verso il salotto. -no' io esco-. La nonna accorse all'ingresso.
-con questo freddo? Ti ammalerai e tua madre non vuole questo-. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Sua madre era a miglia di distanza che faceva carriera, gli mandava le cartoline eccetera. Non c'era mai a casa e forse non si ricordava neanche il suo nome però non voleva che si ammalasse.
-perché non restate qui a casa? William se vuole potrà rimanere a cena. Stasera spaghetti all'italiana-. Poi si voltò verso Bill.
-santo cielo William sei bianco come un lenzuolo!- esclamò osservando il ragazzo. -ti va qualcosa di caldo, come un tè o una cioccolata?-. Il ragazzo accettò e si tolse la giacca. Poi Jeff lo guidò nella sua camera. Bill non era mai stato lì. In quella stanza sembrava ci fosse passato un uragano, visto tutti i vestiti sparsi in giro. L'armadio aveva le ante spalancate e si vedeva che era quasi vuoto.
Misero la musica a tutto volume.
-ti va una sigaretta?-. Bill non aveva mai fumato. Accettò. Non gli sembrava una cosa così brutta.
-tua nonna non ti dice niente riguardo al fumo?-.
-be' non se ne accorge. Ma nutre qualche sospetto-. Passarono un bel po' di tempo ascoltando vecchi vinili di sua nonna. Jeff stava seduto sul davanzale della finestra e Bill buttato sul letto con la testa che ciondolava su una testata laterale del letto e capelli che sfioravano la moquette. Mangiarono il resto delle caramelle di cui il comodino era ricoperto.
Molte di quelle band che stavano ascoltando Bill non le conosceva. Altro che E.L.O. Quella era roba tosta sul serio. Furono chiamati per cena giusto quando partivano le note di una canzone di Elvis Presley.

-sicuro che non vuoi altro William? Non ti far pregare, è un piacere per me!-.
-no, grazie signora. Sono pieno-. Il bottone dei jeans stava per schizzare in aria. Aveva mangiato di tutto.
S'incamminò verso casa che era ormai buio. La neve era meno fitta ora. Prima di aprire la porta di casa sua fece un bel respiro.
''dai avanti, non potrà mica strozzarmi. O forse sì?'' pensava ironicamente.
-sono a casa- gridò verso il salotto, poi corse in camera a nascondere il fumetto prima che suo padre ne facesse coriandoli. Lui, appunto, lo chiamò poco dopo.
-guarda- disse quando gli fu davanti. Aveva allungato un braccio verso di lui. -leggi che ore sono-. Aveva un orologio dorato al polso sinistro.
-sono le 9-.
-le 9, sì. E le lezioni di piano sono finite alle sei e mezza-. Non si alzò dalla poltrona su cui era seduto. Sul divano lì vicino stava sua moglie, con la testa chinata verso il basso. Sicuramente avrebbe avuto un torci collo allucinante il giorno dopo. Dormiva grazie all'ausilio di anti depressivi. Alcuni indicati dal medico, altri no. Vicino a lei stava Amy. Inginocchiato sul tappeto davanti al tavolo basso c'era Stuart. Giocava felice con i suoi tanti soldatini, che un tempo erano stati di Bill, cercando di riprodurre con la bocca gli spari e le esplosioni.
-dove diavolo eri finito eh? Eravamo tutti in pensiero-.
-a casa di un amico-.
-ah si? Chi?-.
-Jeff-.
-ancora quello? È un miscredente! Ti ho detto che gli devi stare alla larga!-.
-a me sta simpatico-.
-non mi frega un accidenti di quello che pensi tu. Ti ho detto che non devi frequentare quello lì. È solo un drogato di strada-.
-pa' la devi finire di farti certe seghe mentali. Non è un drogato-. Uno schiaffo gli arrivò in piena faccia. Adesso Stephen era ritto in piedi con il viso rosso. Bill invece aveva l'impronta della sua mano stampata sulla guancia.
-come osi parlarmi in questo modo? Chi diavolo ti credi di essere? Si parla come persone civili qui!- sbraitò e poi aggiunse -avanti, ripeti quello che hai detto se ne hai il coraggio-. Il ragazzo strinse i denti.
-cosa? Ti dà fastidio la parola sega?-. Era il limite. Un altro ceffone gli arrivò sulla guancia, più forte stavolta. Il ragazzo provava una sorta di divertimento nel farlo incazzare. Era buffo quando perdeva la testa e faceva espressioni da scompisciare.
E poi lui faceva quello che gli pareva, se voleva uscire con Jeff ci usciva, se voleva dire sega lo diceva. Non gli importava poi granché della reazione del padre ma era sempre divertente mettergli il pepe in culo e vederlo strillare.
-te la stai cercando William, te la stai cercando! Un' altra parola così e, quant'è vero Iddio, ti giuro che non ti potrai sedere per i prossimi cinque anni!-.
-...-.
-e quei capelli Cristo... sembri proprio una sgualdrina, una poco di buono!-. Il ragazzo lo stava guardando sprezzante, con gli occhi gelidi e un ghigno strafottente. Aspettava annoiato che quella messa in scena finisse. Sua sorella neanche se lo sognava di sfidare il padre. Aveva una fifa fottuta di lui, delle sue braccia, della sua voce. Ammirava Bill che, maledizione, stava riuscendo a tenersi un briciolo di dignità. Allo stesso tempo però sentiva come un gusto amaro alla faccenda. Sapeva che le avrebbe prese, e questo la faceva stare male. Desiderava che la piantasse di avere quest'atteggiamento da sborone, da invincibile, perché non lo era. Non era di acciaio. Tutti questi pensieri le vorticavano confusamente in testa mentre lo osservava. Indossava vestiti vecchi e larghi, una camicia a quadri sformata e dei jeans blu scuro che gli cadevano sulle Asics bianche un po' rotte e usurate. I pantaloni erano consumati all'orlo e sfilacciati, visto che spesso strisciavano a terra. Le mani naturalmente le teneva nelle tasche, come sempre. La schiena era un po' curva ed era cresciuto in altezza in pochissimo tempo. I lineamenti erano fini e un po' femminili. E poi c'erano quei capelli un po' mossi, assolutamente troppo lunghi per gli standard del padre. Assolutamente troppo trasgressivi e fuori dagli schemi. Quei capelli così dannatamente lunghi erano peccato, così come la musica che ascoltava ultimamente. Amy l'aveva sentito, una notte, mettere dei vinili nel giradischi in salotto, al buio, a volume bassissimo. Se il padre avesse scoperto che ora ascoltava anche il rock n' roll avrebbe dato di matto. Quella notte Amy gli si era avvicinata piano e si era seduta a terra accanto a lui. Bill aveva sussultato, pensando inizialmente che quei passi fossero del padre.
-cosa ci fai in piedi? Mi farai scoprire. Torna a letto-.
-no voglio restare qui. Ti giuro che non farò alcun rumore-.
-porca troia Amy! Se mi scopre papà mi finisce la faccia a forza di cazzotti. Vattene via-.
-ti prego Bill, non ho sonno. Che gruppo è questo che ascolti?-. Il ragazzo insistette un altro po' ma visto che Amy non si schiodava si arrese, sospirando.
-si chiamano Led Zeppelin. È un vinile che mi hanno prestato. Se ci scoprono sono cazzi amari per entrambi, ti avverto-. In tutta la conversazione avevano sussurrato. Poi entrambi si erano appoggiati al muro, accovacciati per terra, ed erano stati zitti per un bel po'.
Ora suo padre continuava a sgridare Bill e lui continuava a rispondere a tono, prendendosi qualche altra sberla.
-va' a mangiare ora. Il tuo piatto è in tavola-. Il ragazzo si allontanò, con quell'aria sminchionata. Stephen era fermamente convinto che l'unico modo per guarire il ragazzo fossero le cinghiate. Così colse l'occasione e al primo passo falso che il ragazzo fece lo pestò. William si era portato il piatto con i piselli, la carne e altri cibi che detestava sul divano e aveva poggiato i piedi sul bracciolo della poltrona che aveva davanti. Sapeva che suo padre non voleva ma lo fece ugualmente. Così come le altre cento volte prima di quella Stephen lo strattonò fino al bagno e gli diede la dose di quel che secondo lui meritava, raddrizzandolo a forza di cinghiate sul fondoschiena. Bill fu costretto a ripetere dieci Ave Maria e cinque Padre nostro.
Di nuovo, come quasi ogni notte della sua vita che ricordava, andò a dormire incazzato. Restò sveglio fino a tardi, a fissare il soffitto, con le braccia piegate sotto la testa. Stuart nel letto sotto di lui dormiva beato circondato da un esercito di pupazzi.
Si rigirò nel letto diverse volte, sbuffando, imprecando silenziosamente, cercando di dormire. Provò una miriade di posizioni diverse, senza successo. Si arrese e rimase disteso sulla pancia tentando con la sua ultima spiaggia, una cosa che faceva da piccolo quando non riusciva a riaddormentarsi dopo aver fatto un incubo. Si mise a contare le pecorelle.





Ciao a tutti, ho qualcosa da dirvi. La batteria di Izzy in realtà non fu un regalo della nonna paterna ma dei suoi genitori. E poi niente, c'era solo questo da precisare.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Hey what about you? ***


3 Aprile, 1978 – Lafayette, Indiana (USA).
Ore 01:10.

Si sentiva uno sfigato con quella bici. Siamo realisti, la bici non era mica roba da duri come insisteva sua madre. Ci aveva provato per settimane a convincere i suoi genitori a lasciargli quelle cazzo di chiavi della macchina ma non ne volevano sapere.
-finirai contro un albero- diceva suo padre. -non abbiamo soldi per una bara William- e via così con altre battutine che gli giravano solo le scatole. Era deciso a fregarsi quelle chiavi, un giorno o l'altro, e fare un bel giro fuori da quella città.
-i miei amici hanno la macchina loro e voi neanche mi prestate la vostra? Ho la patente cavolo, la patente!-. Gli aveva sventolato sotto agli occhi la tessera plastificata e i suoi genitori lo avevano ignorato, continuando ad apparecchiare la tavola per cena. Bill poi se ne era andato sbattendo la porta con un diavolo per capello, come tutte le altre volte prima di quella.
Così continuò a pedalare nella notte, sulla via di casa, in piedi sulla bici. La sua bici da sfigatello. Quella di sua sorella era più grande e nuova e l'avrebbe volentieri usata. Ma era rosa diamine, rosa. E poi il manubrio aveva tutti quei nastrini fucsia. Mancavano solo gli unicorni e compagnia bella. La sua nera aveva degli adesivi raffiguranti fiammate arancioni e rosse. Era mezza sfasciata e spesso la catena si bloccava o si staccava. Una volta era rimasto un intero pomeriggio fuori in giardino e l'aveva sistemata come meglio poteva. L'aveva lavata, verniciata, aveva gonfiato bene le gomme e aveva messo l'olio alla catena. Non era riuscito a coprire i graffi ma dall'aspetto non si capiva che aveva circa quattro anni.
Quella sera la strada era deserta e le ruote sfrecciavano veloci sull'asfalto. Era una bella sensazione sentire il vento infilarsi tra i capelli e sfiorargli le orecchie. Imboccò il viale di casa e frenò sull'erba. Mise la catena col lucchetto alla ruota della bici e la lasciò vicino al garage. Era un venerdì sfigato di aprile e c'era un caldo folle.
Indossava una maglietta nera aderente. Stava cercando di mettere in evidenza i suoi pettorali, che ahimè non esistevano. Le maniche erano stracciate. Voleva sembrare un duro ma le lunghe e sottili braccia che cadevano sui fianchi gli rovinavano un po' tutto il progetto. Cercava di sembrare possente, grande e grosso, ma aveva la forza di un moscerino. A malapena si vedevano i muscoli degli bicipiti, risultato di miliardi di partite a braccio di ferro. Sua sorella l'aveva vinta milioni di volte; un po' più complicato era vincere i ragazzini del vicinato. Soprattutto Larry. Quello era tutto muscoli. E poi stava accumulando forza facendo a pugni a scuola. Era fiducioso che avrebbe avuto delle braccia super forti come quelle King Kong in quel film degli anni '30.
Aveva i jeans un po' strappati e sporchi di terra e erba sui ginocchi sbucciati. Si era fatto qualche bel volo dalla bici o dallo skate board.
Aprì la porta. L'atrio era buio e il salotto anche. Si diresse verso le scale, piano piano, attento a non far alcun tipo di rumore. Non c'era nessuno sveglio, o almeno così gli sembrava.
-William vieni qui-. Il ragazzo sobbalzò.
-merda- sussurrò portandosi una mano al cuore e controllando che funzionasse.
-cosa c'è?-.
-vieni qui ho detto-. Era suo padre, dalla cucina. Lo raggiunse.
-non dovevi aspettarmi in p...-.
-zitto-. Suo padre sorseggiò il suo whiskey con ghiaccio. Era appoggiato al bancone della cucina e non lo guardava. Osservava gli atomi dei cubetti di ghiaccio dentro al bicchiere, agitandolo leggermente.
-hai violato di nuovo il coprifuoco-. Bill non rispose e cominciò a guardarsi le scarpe, dondolandosi un po' sulle punte.
-hai qualcosa da dire per giustificarti?-. Bingo. Ecco la trappola. Cercava qualcosa per incastrarlo e dargliele di santa ragione.
-no in realtà-.
-due ore di ritardo. Si può sapere dove cazzo eri eh?-.
-ero al parco. Posso andare a dormire?-.
-no chiacchieriamo un po'-.
-sai- bevve un sorso del suo whiskey e lo inghiottì agitando piano il bicchiere -cominci proprio a darmi il voltastomaco con quei capelli. Tagliateli-.
-no-.
-non era una domanda. Ho detto che te li tagli, fine della discussione-.
-e io invece ti ho detto che non li taglio- rispose il ragazzo a muso duro. Il padre poggiò bruscamente il bicchiere di vetro al tavolo e i cubetti di ghiaccio sbatterono tra loro creando uno strano dolce suono. Si avvicinò pericolosamente al ragazzo, che come suo solito lo guardava storto e gelido. Gli si piantò davanti e gli afferrò la mascella tra i polpastrelli rossi. La strinse forte, guardandolo dall'alto in basso.
-sentimi bene stronzetto- sibilò col suo alito di whiskey nausante; non era esattamente lucido. Il suo viso era a pochi centimetri da quelli di Bill e sembrava che i suoi bulbi oculari fossero lì per lì per schizzare fuori. -qui decido io chiaro? Non mi interessa un fico secco di cosa vuoi tu. Sei figlio di un reverendo di una chiesa pentecostale e che ti piaccia o no le regole le faccio io. In gioco c'è la mia immagine e non te la lascerò buttare nel cesso come tu fai con la tua vita-. Ghignò. -io sono il re, tu sei l'alfiere e questa è una scacchiera. Qualcosa non ti è chiaro?-.
-lasciami, lasciami!- disse Bill un po' a fatica, cercando di spostare il suo braccio. Stephen gli assestò una ginocchiata allo stomaco e il ragazzo non si potè trattenere dal piegarsi in due per tenersi apposto le budella con le braccia. Ce la mise tutta per non emettere anche gemiti di dolore. Non voleva sembrare debole.
-chiaro?-. Il ragazzo annuì e l'uomo uscì dalla cucina. Bill alzò il dito medio nella sua direzione con lo stomaco ancora capovolto. Di nuovo con la storia dei capelli. Che strazio.
Prese un toast dal mobile pensando che dopo quel colpo il diaframma gli doveva essere schizzato alla gola. Tirò fuori il burro d' arachidi e si fece dei panini. Non era esattamente una cena quella ma chissene. Andò nella sua camera e si buttò sul letto. Se li mangiò lì con la finestra aperta. Le tende erano dannatamente ferme e si moriva di caldo.
Guardò suo fratello che dormiva beato, probabilmente neanche un cannone l'avrebbe scosso. C'era maledettamente caldo lì dentro. L'aria era immobile. Tutto lo era. Solo lui in quella casa non stava fermo, come se avesse avuto le puntine sul materasso. Si tirò su in piedi, annoiato e perfettamente lucido. Cosa poteva fare? Guardare la TV? No impossibile, suo padre aveva imboscato il telecomando in uno dei suoi nascondigli mega segreti e probabilmente a fare la guardia c'era un cane a tre teste. E poi i programmi terminavano all'una, quindi erano già finiti da venti minuti.
Decise di uscire a fumare. Prese l'accendino a il pacchetto di Lucky Strike ma poi si ricordò che suo padre gli aveva tolto la sua copia di chiavi poco prima. Sbuffò, innervosito, e fece svolazzare una ciocca di capelli che gli stava sempre in faccia. Di solito usciva fuori in veranda, di soppiatto, e si sedeva sugli scalini. Oppure si sedeva sul dondolo arrugginito e con i cuscini coperti dai peli del gatto dei vicini. Quel dondolo faceva dei rumori fastidiosissimi e inquietanti, perfetti per un film tipo Deep red. Una volta lo aveva guardato in videocassetta con i suoi amici.
Isterico se ne andò in bagno. Accese la luce e aprì la piccola finestra. Si sedette sul bordo della vasca, accese la sigaretta e diede un tiro. Poi stese un fazzoletto lì accanto su uno sgabello per usarlo come posacenere.
Poco dopo la porta poi si aprì e apparve Amy in pigiama.
-ma che diavolo...-. Si stropicciò gli occhi e cerco di abituare la vista alla luce. Aveva i capelli sciolti e una specie di camicia da notte leggera bianca con un sacco di pizzo e fronzoli e anche fiocchetti qua e là.
-puoi uscire se non ti secca?-. Bill scosse il capo.
-aspetti che finisca- disse e diede una tirata alla Lucky. Amy si appoggiò al muro affianco al lavandino. Restarono in silenzio per un po'.
-non riesci a dormire?-.
-no-.
-mi lasci fare un tiro?-. Bill la guardò storto e ridacchiò.
-ma se non sai manco come si fa piantala-. Amy sbuffò.
-sei uno scemo. C'è sempre una prima volta-.
-come vuoi- allungò il braccio e le passò la sigaretta. -vedi un po' se ti puoi ammazzare. Io non ti salvo sappilo-. Amy fece una lunga tirata aspirando il fumo. Subito dopo cominciò a tossire e si piegò in due.
-che ti dicevo-. Si alzò e le riempì un bicchiere d'acqua dal lavandino.
-bevi-. Amy buttò giù l'acqua in un sorso. Il ragazzo appoggiò l'orecchio alla porta.
-per poco non hai svegliato papà genio-. Finì la sigaretta e fece per uscire.
-non ci devo più andare in bagno comunque- disse Amy, sperando di convincerlo a farle compagnia.
-interessante- disse sarcastico. Quanto adorava essere sarcastico. Era tipo un hobby per lui.
-resta qui- disse. -non ho sonno e se torno a letto mi annoio-.
-sembra divertente-. Era sarcastico. -neanche morto-. Uscì e tornò nella sua camera. Così fece anche Amy. Si buttò sul materasso col copriletto a righe rosse e arancioni e le lenzuola sparpagliate e fissò il soffitto nella penombra. Suo fratello entrò senza bussare un quarto d'ora dopo. In mano teneva un mazzo di carte.
-non ce la faccio proprio a dormire-. Amy si tirò a sedere felice.
-giochiamo a scopa- propose Amy. Aveva incrociato le gambe e si era appoggiata al muro. Bill stava nel lato opposto che mischiava le carte.
-scordatelo. Giochiamo a briscola-.
-non so giocare- si lamentò Amy.
-piantala di frignare. Impari come hai imparato a camminare-. Pochi minuti dopo stavano già litigando.
-hai barato ammettilo!-.
-no ti dico! Io non baro cazzo lo giuro!-.
-e invece si non mentire!- Bill sbuffò innervosito al massimo. Non sopportava che gli dessero del bugiardo quando non diceva bugie.
-merda! non è vero io non baro!-.
-si-.
-no Cristo-. Restarono così a bisticciare per chi avesse ragione per i seguenti mille anni entrambi assolutamente sicuri di non avere torto e probabilmente dopo un po' si dimenticarono perché avevano cominciato a litigare.
-sei un bugiardo-.
-seh certo. Contenta tu contenti tutti-. Erano piuttosto buffi perché per non svegliare il resto degli Stati Uniti dovevano sussurrare.



Ciao a tutti. Mi volevo scusare per eventuali errori grammaticali, comunque mi sto impegnando a non farli. Grazie a tutti quelli che recensiscono e anche quelli che leggono in silenzio.
Inoltre ho fatto qualche ricerca in internet per sapere che giochi di carte fanno negli Stati Uniti oltre al poker ma non ho trovato quasi nulla. Non che mi sia spercata molto nella ricerca, a essere sinceri. Alla fine ho finito per metterci scopa e briscola (che sono tipicamente europei) e pace.
Ciao e al prossimo capitolo, che non dovrei tardare tanto a pubblicare.
hacja.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Even cold november rain ***


Novembre 1978

Schiudo gli occhi, vedo i piedi dell'armadio e la polvere accumulata sotto. Sono disteso lungo in terra, con la guancia sulla moquette. Dopo qualche secondo comincio a sentire il classico dolore alla schiena e quel sapore di sangue sulla lingua. Faccio una smorfia, mi fa davvero male cazzo. Per cinque minuti rimango lì fermo senza la forza di alzarmi. Devo essere svenuto, come un bambino, chissà da quanto. Mio padre ci è andato giù pesante. Mi trascino seduto e poi mi tiro su. Il dolore mi dà alla testa ma non piango nemmeno più. Sono svuotato, mi sembra di non provare niente, mi sento un fantoccio. Forse preferisco stare così, alienato, stupido, per affrontare questo schifo di realtà ci vogliono le palle. Forse è che mi sono abituato e per me va bene così, forse è così che dev'essere. Vado al bagno, apro il rubinetto cigolante della vasca. Butto i vestiti sporchi in terra e per sbaglio mi guardo nello specchio annerito. Eccola lì la realtà, eccomi che mi fissò nello specchio. Anzi lo specchio mi fissa, come a dire guardami, mi devi guardare. Eccolo il fantoccio. Quello lì è troppo magro, le costole che sporgono leggermente, il sopracciglio tagliato col sangue che si è incrostato sulla tempia. Non me n'ero nemmeno accorto. Il gomito appuntito e la faccia arrossita, gli occhi pesanti. Odio guardarmi allo specchio nudo, perché preferisco non vedere la mia pelle e il mio corpo di neanche 50 chili e quanto sono debole. D'improvviso mi incazzo e sento la rabbia che non volevo sentire, mi monta dentro come un mostro che stava dormendo poco prima. Di solito la spingo in fondo dentro di me, molto in fondo, perché quando mi arrabbio sto male. Ma è peggio, poi finisco per esplodere. Ogni volta che reprimo la rabbia questa cresce ancora di più, non volendo la sto solo alimentando. D'improvviso mi arrabbio con tutti, con mia madre, con mio padre, con i miei fratelli, sento di odiare tutto il mondo. Cerco di respirare piano ma sto solo accumulando la pressione, sento che sto per tirare un pugno nel muro, nello specchio li a me stesso. Come se questo servisse effettivamente a levare quel dolore. Non lo faccio, stringo i pugni, cerco di pensare a qualche motivo per non farlo ma non ne ho neanche uno. Dovrei trovarlo io? Vorrei solo cancellare quella immagine lì, odio anche quella. Mi sento così impotente, non funzionante, mi sento guasto. Mi appoggio al lavandino continuando a guardare il tipo che mi fissa lì, ma cosa vuole da me? È messo così male, la sua faccia mi fa paura. Vorrei non essere come lui, solo, abbandonato. Vorrei dire che siamo due persone diverse, che non ho niente a che fare con lui. Magari. Mi fa così rabbia vederlo, perché so che quel riflesso sono io.
Entro nella vasca, l'acqua ormai è tiepida. Rimango lì a pensare finché le mani non raggrinziscono. Ma l'unica cosa che posso pensare è che odio tutto e tutti e voglio restare in questa vasca per sempre. Forse però più di tutti odio me stesso, perché non non so come uscire da questa merda, e non credo di avere le palle per farlo. Mi ripeto solo che niente dura per sempre, neanche la merda, neanche il dolore. Quando l'acqua è fredda e la schiuma è scomparsa esco dalla vasca, non ho alcuna voglia di asciugarmi i capelli, mi vesto solo e scendo in soggiorno. Tra poco torneranno mia madre e mio padre, e probabilmente mio padre si incazzerà perché non ho fatto i compiti o comunque troverà un pretesto eccetera. Forse è la mia ultima mezz'ora di libertà. Guardo il pianoforte, lì sul soppalco. Non suono da un paio di giorni ormai, perché il mio maestro è a casa malato. Mi siedo lì a sfogliare gli spartiti, l'ultimo brano che ho suonato era la nona sonata di Beethoven. È veramente una bella melodia. Rimetto gli spartiti apposto, non ho voglia di suonare di nuovo Beethoven, o Mozart. Mi piacciono altri generi ora, altri stili musicali, come quello dei Queen. Dopo le lezioni, quando il maestro se ne va, voglio sperimentare e stare da solo col pianoforte, suonando la mia musica, ispirata alla Elton John. Da qualche mese mi frullano in testa delle note sparse, che nella mia testa hanno perfettamente senso, ma non ho mai provato a suonarle. Forse perché ho paura che poi non mi piaccia il risultato, forse perché ho paura del giudizio dei miei. Mi decido a provare. Le dita scivolano sui tasti, io mimo con la voce le prime note sperimentali. Provo e riprovo la mia bozza, concentrato. Ecco si ha un senso, mano a mano comincio ad annotare su un foglio le note, pregne del mio dolore, sviscerato e rivoltato, mentre piano piano mi abbandona. Lo prendo, lo tiro fuori, lo intrappolo nella musica, in quel foglio. Lo sento meno forte dentro di me. Mi dimentico della mia vita, siamo solo io e la musica, lontani da tutto. Quello che ne esce è una musica grezza, appena 10 secondi, ma che so che ha il germe di qualcosa di piuttosto buono, se faccio qualche aggiustatina qui e là. Guardo fiero il foglio, pasticciato e pieno di cancellature e e freccette. Fuori piove, piove da tutto il giorno. Ma novembre sta finendo, e prima o poi smetterà anche di piovere.

Ciao a tutti, avevo un po' di nostalgia di questa storia lasciata incompiuta. Non l'ho riletta per molto tempo, perché penso non sia un granché. Però poi mi è venuta voglia di continuarla ed eccomi qui. Vorrei tanto sapere cosa ne pensate, anche se non so se c'è qualcuno che ha ancora piacere di leggerla o si ricorda di quando l'ho pubblicata ormai una vita fa ahah
Chissà quando ci rivedremo, forse a breve forse mai più ahah ma il vostro feedback mi potrebbe aiutare. A presto (forse)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3255019