Before di Elizabeth_Keats (/viewuser.php?uid=53142)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Over the mirror ***
Capitolo 2: *** Words in the moonlight ***
Capitolo 3: *** Wasted memories ***
Capitolo 4: *** Breathing the outside ***
Capitolo 5: *** What isn't allowed to other people ***
Capitolo 6: *** As blood runs ***
Capitolo 7: *** Newborn ***
Capitolo 8: *** Tell me angel ***
Capitolo 9: *** Wandering ***
Capitolo 10: *** Return to the origins ***
Capitolo 1 *** Over the mirror ***
Capitolo
1°
Over
the mirror
Mi
presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e
vivo a Chicago. O,
per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa
parte mi
sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a
farci l’abitudine, a
quest’idea. Ormai per me il tempo non significa
più nulla: è troppo breve il
tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato.
Secondi,
minuti, ore… non sono niente in confronto
all’eterna oscurità a cui sto andando
in contro, a quella voragine senza fondo a cui mi sto avvicinando pian
piano,
passo per passo. È il 1918, anche se non so di preciso che
giorno di quale
mese: ormai ho smesso di tenere il conto da un po’.
Però deve essere estate,
credo, anche se ora tutto, perfino il sole ardente che mi batte sul
volto, mi
sembra freddo: anche alla febbre alta ho fatto l’abitudine.
Mio padre, Edward
Senior, è un avvocato di successo e io, fino a qualche
settimana fa, un ragazzo
allegro e solare, seppur un po’ timido e incredibilmente
sensibile, nel pieno
dei suoi anni e a cui piaceva fantasticare a più non posso
sul suo futuro, una
lunga strada aperta davanti a sé. Quelli erano gli anni
della guerra, ma io non
provavo dolore e tristezza come gli altri, anzi nella distruzione
generale
vedevo la mia prima possibilità. La possibilità
di farmi notare, di far vedere
quanto valevo e, da quando avevano abbassato l’età
di arruolamento a diciotto
anni, contavo i giorni che mi separavano dalla mia partenza per il
fronte. Mia
madre, a buon ragione, aveva paura per me, ma non mi importava
più di tanto,
non mi importava che stessi per prendere parte a uno dei banchetti
più cruenti
della storia: ero solo un ragazzo e, come tale, volevo sognare. Ero
ingenuo e,
benché fossi considerato quasi un adulto, non avevo idea di
cosa fossero
davvero il male e la sofferenza. Poi tutto, dai miei progetti alla mia
spensieratezza, è cambiato. Mi sono ammalato gravemente di
spagnola, come i
miei genitori, e sono finito in un letto d’ospedale. Dove mi
trovo tutt’ora.
Per consolarmi cerco di parlare al passato, come se fossi
già morto, visto che
so benissimo che questa sarà la mia sorte. Lo leggo sui
volti delle infermiere
che vanno e vengono tra le corsie con sguardo basso, me ne sono
conferma i
colpi di tosse dei miei compagni di sventura. E poi… lo so. Dicono che in punto di morte,
quando l’anima inizia a
staccarsi dalle sue spoglie terrene, si capiscono molte cose. Io ho
capito
quale sarebbe stata la mia fine appena ho visto mio padre spirare nel
letto a
fianco al mio. Non ricordo neanche se ho pianto; a causa della febbre
alta
ormai sono perennemente calato in uno stato di semi-coscienza. Quando
ho preso
atto di questa cosa, del fatto che di lì a breve sarei
morto, però non ho avuto
paura. Sarebbe stata come una dose di morfina soltanto un po’
più forte, che
avrebbe messo a tacere per sempre i dolori del corpo e
dell’anima, regalandomi
finalmente un sonno tranquillo lontano dal fuoco della febbre e dai
continui
spasimi. Mi rendevo conto che non ero più il bel ragazzo
medio borghese, istruito
e dalle maniere raffinate, a volte un po’ superficiale, che
dava molte cose per
scontate; ora ero un qualunque malato terminale, come ce
n’erano a centinaia in
quegli anni di epidemia. Pian piano avevo iniziato a cancellare i miei
progetti
futuri e i miei sogni, avevo iniziato a parlare di me stesso al
passato, come
se fossi già morto: era il mio modo di accettare la cosa.
Era stato facile
dopotutto, rinunciare alla vita e a tutto il resto; un po’
come prendere la
propria agenda e cancellare tutti i programmi del weekend e quelli
delle
settimane a venire: i miei impegni arrivavano solo fino a
venerdì, di lì in poi
il nulla. E ora non facevo altro che aspettare il fatidico momento nel
quale
avrei smesso di bruciare.
Ma
se io avevo perso la speranza e mi avviavo con la pacatezza di un
condannato
verso quell’epilogo triste ed irreversibile, c’era,
invece, chi cercava ancora
qualcosa a cui aggrapparsi goffamente continuando a lottare invano.
Puro
istinto di sopravvivenza, forse. Sentii una mano sfiorarmi
delicatamente la
guancia e socchiusi gli occhi quel tanto che mi permetteva il mio
fisico
debilitato. Avrei potuto riconoscere quel tocco tra milioni, anche
perché era
una delle poche cose che potevo considerare se non calde almeno
tiepide. Il
volto di mia madre si abbassò sul mio per deporre un bacio
leggero sulla mia
fronte imperlata di sudore e i suoi capelli bronzei, delle stesso
colore dei
miei, mi coprirono la visuale come un’ala protettrice. Ne
inspirai il profumo
zuccherato per l’ennesima volta e quello costituiva uno dei
miei ultimi ponti
con la vita. Il suo respiro era caldo sul mio volto e chiunque avrebbe
potuto
notare in quel volto pallido ed emaciato i segni indelebili della
malattia che
la stava rosicchiando inesorabilmente. Ma nonostante lei stesse male
come me,
si era sempre rifiutata di starsene con le mani in mano e fare la
malata.
Nonostante la febbre che le annebbiava la vista e la tosse che scuoteva
il suo
corpicino fragile che diventava ogni giorno più magro,
s’ostinava a fare la
spola tra me e mio padre. Quando conservavo ancora un barlume di forza
e
lucidità mi ero arrabbiato con lei e l’avevo
rimproverata, ma non c’era stato
nulla da fare e anche le preghiere dei medici non erano valse a nulla.
Non
sapevo come aveva preso la morte di papà, non avevo nemmeno
avuto il coraggio o
la forza di chiederglielo, ma sapevo benissimo che soffriva molto
più di quello
che dava a vedere. Aveva amato molto mio padre, ma di certo al momento
provava molto
più dolore nel vedere il suo unico figlio costretto in un
letto senza
possibilità di uscirne. Per questo mi stava costantemente
vicina, peggiorando
così ancora di più la sua già fragile
salute, e forse anche perché era convinta
che ce l’avrei fatta. Ma io ero più realistico: a
volte mi veniva quasi voglia
di saltare in piedi e mettermi a urlare che ormai era finita, che non
valeva la
pena di affaccendarsi attorno a me, sarei morto in poco tempo.
Però avevo
l’energia necessaria sì e no per mettere insieme
due pensieri di senso compiuto
e anche quello a volte mi riusciva difficile e poi, di sicuro, non
sarei mai
stato capace di infrangere così brutalmente le deboli
speranze di Elizabeth
Masen.
Osservo
con occhi socchiusi il sopraggiungere della notte: i colori dorati del
sole
abbandonano pian piano la finestra di fianco al mio letto per tingersi
di mille
tonalità vermiglie e violacee prima di far approdare
l’oscurità. Per una volta
tanto il silenzio era arrivato nella camerata: niente colpi di tosse,
gemiti,
pianti, urla, ansiti, preghiere recitate tra i denti. E mentre fisso
l’ultimo
raggio di luce scomparire oltre il davanzale mi viene quasi da
sorridere, ma
questa volta si tratta di un sorriso amaro. Buffo. In quel momento mi
sentivo
proprio come quell’ultimo raggio di sole che si spegneva
dolcemente e senza far
rumore per lasciare posto a qualcos’altro. Me ne volevo
andare così, con quel
briciolo di serenità che mi era concesso. Sentivo la vita
evaporare dalle mie
membra desolate come il calore del sole aveva abbandonato quella
giornata: l’ennesima.
Per lasciare posto alla frescura della notte e al silenzio: magari
anche quello
che mi attendeva era così. Rimasi a lungo ad osservare
quella finestra:
dopotutto non avevo molto altro da fare, no? Quando si è
malati di solito o ci
si lamenta o si dorme per recuperare le forze. Io non mi ero mai
lamentato e
non avevo la benché minima intenzione di farlo: non avrei
fatto altro che
aggravare la salute e il dolore di mia madre nel palesare quanto
soffrivo. Quindi
bocca cucita ed espressione neutra. Non volevo neanche dormire. Ormai
approfittavo
di ogni singolo momento di tregua che mi dava la febbre, ogni secondo
di
lucidità a qualsiasi ora per osservare il mondo, per
assaporare ogni minima
particella di vita, per riassumere in qualche giorno quello che avrei
potuto,
dovuto provare in anni. È vero che cercavo di distaccarmi
dalla vita per
alleviare la sofferenza che avrei sperimentato una volta che me fossi
dovuto
separare a forza, ma questo di certo non mi impediva di osservarla, di
respirarla per decodificare frettolosamente tutto ciò che
aveva da dirmi. Non ne
ero più dipendente, ma volevo solo capirla, analizzarla.
Si
è ormai fatto buio del tutto e nel cielo notturno iniziano
ad apparire le prime
stelle. Ciò significa che ci sarà luce e bellezza
anche nel “dopo”? Inizio a
tracciare linee immaginarie che uniscono i singoli granelli
d’oro che
trapuntano il cielo, creando forme bizzarre. E per un momento la mia
mente
torna serena, si distende, non pensa più al presente, al
dolore, a ciò che l’attende.
No, è proprio come un tempo quando, sdraiato nel mio letto
confortevole (ben
diverso da questo bianco, anonimo, sterilizzato) osservavo la volta
celeste,
fantasticando su un domani assolato e radioso prima di addormentarmi.
All’improvviso
sento un briciolo di forza invadermi braccia e gambe, la nebbia si
dirada un po’
dalla mia vista e per la prima volta mi rendo conto del velo di sudore
che mi
ricopre da capo a piedi, soffocandomi come una pellicola di plastica.
Trovo perfino
la forza di mettermi a sedere e mi meraviglio: che mia madre non avesse
sperato
invano? Ma poi sento ancora il peso che mi grava sulla testa e che mi
rende gli
arti pesanti, i brividi che mi scuotono ogni tanto e il fuoco che mi
brucia i
polmoni. Trattengo a stento un colpo di tosse per non svegliare mia
madre che
dorme nel letto di fianco, che prima occupava mio padre.
L’hanno portato via qualche
giorno fa, all’obitorio, mentre la mamma piangeva e posata
un’ultima carezza
piena d’amore sulla sua guancia pallida e ormai fredda. E io
non sono riuscito
nemmeno a salutarlo, non sono stato capace di bagnare le sue mani
livide con le
mie lacrime: stavo troppo male, non mi rendevo conto che quella era
l’ultima
volta che lo vedevo. Forse a volte la febbre è una
benedizione…
Con
gesti lenti e misurati getto le gambe giù dal letto e il
tocco del pavimento è
come ghiaccio per me. Distolgo lo sguardo dalla figura magra e pallida,
dal
respiro irregolare e la fronte imperlata di sudore al mio fianco: non
voglio
calcolare quanto tempo le resta ancora. Il mio sguardo vaga per la
stanza:
altri letti con altre figure tutte uguali. Alla fine la mia attenzione
è
attirata da un oggetto riflettente sul comodino: un piccolo specchio.
Senza esitare
allungo il braccio e lo prendo; non so come sia arrivato fin qui, ma
non m’importa.
Il mio fiato bollente ne appanna per un attimo la superficie e poi,
alla tenue
luce della luna appena spuntata, vedo… me.
O almeno quello che dovrei essere io; stento a riconoscermi. Quella che
mi
fissa con un’espressione tirata e rassegnata è una
faccia nuova, un fantasma
spuntato da uno dei miei tanto incubi infantili. Il colorito
è pallidissimo,
quasi cereo, e smorto come una pianta cresciuta al buio. I lineamenti
sembrano
essersi affilati, induriti dal dolore; perfino le labbra sembrano
più sottili e
formano quasi una linea dritta e brutale sotto il naso diritto, ormai
dimentiche di qualsiasi tipo di sorriso. Profonde occhiaie incorniciano
un paio
di occhi verdi in cui, però, si può cogliere
ancora uno scintillio, seppur
debole, di vita. Infine i capelli bronzei, una volta ben pettinati e
brillanti
al sole, ora sono scompigliati e incollati alla fronte madida di
sudore. Sembro
un vampiro. Con un calcolo veloce, tenendo conto del mio aspetto e
della
stanchezza che opprime il mio corpo, calcolo di avere sì e
no un paio di giorni
di vita. Tre, per essere ottimisti. Guardo ancora una volta il mio
riflesso da
film dell’orrore. E, ancora una volta, mi viene da sorridere.
Sapevano tutti
che la signorina Chamberlain, figlia di un famoso notaio, mi moriva
dietro e i
suoi sospiri e allusioni alla mia bellezza “divina”
mi riempivano le orecchie
all’infinito ogni volta che lei e la sua famiglia erano
invitati a casa nostra
per cena (di certo mio padre sperava per me un matrimonio degno del mio
livello
sociale). Ma la signorina Chamberlain non mi era mai interessata e di
sicuro la
mia bellezza era l’unica fonte del suo arrossire quando io
entravo nella stanza:
mi sarebbe piaciuto vedere se fossi riuscito a suscitare in lei la
stessa
emozione anche in questo stato.
Un
rumore secco, proveniente dall’altra parte della camerata, mi
fa sussultare e
alzare repentinamente gli occhi dallo specchio con il cuore in gola.
Una figura
in camice bianco, sicuramente uno dei medici di turno, è in
piedi sulla soglia
e controlla che tutto sia a posto. Poi il suo sguardo cade su di me,
seduto sul
letto, e prima che io possa realizzarlo è al mio fianco.
Dico
fin dall'inizio che questa sarà una ff di pochi capitoli, in
primis perchè non ho voglia di impegnarmi con una cosa lunga
e poi perchè l'argomento trattato si svolge nell'arco di
qualche giorno (quindi le fasi immediatamente prima e immediatamente
dopo la trasformazione di Edward, anche se sto pensando di inserire
qualche flash-back sulla vita umana di Ed). Inoltre non assicuro di
riuscire ad aggiornare con una certa regolarità, visto che
ho altre ff in cantiere senza contare poi gli onerosi impegni
scolastici. Be', non faccio anticipazioni di nessun tipo e non dico
nient'altro: voglio sapere cosa ne pensate a freddo. A presto!
Recensite
in tanti mi raccomando!!!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Words in the moonlight ***
Capitolo 2°
Words in the
moonlight
Smisi
all’istante di respirare, sia per la sorpresa di essere stato
scoperto fuori
dai ranghi che per ciò che mi trovavo di fronte. Non avevo
mai visto nulla di
simile e il primo pensiero che mi passò per la testa quasi
istintivamente fu:
“non è umano”. Ma subito lo scacciai
come una mosca fastidiosa, vergognandomi
un poco dell’insensatezza di tale affermazione.
«È
tardi. Cosa ci fai ancora in piedi?».
La
sua voce mi giunse lieve e delicata come una dolce brezza estiva e
insieme
melodiosa e sonora come il rintocco di campane dorate. Se prima ero
rimasto
sbalordito, ora lo ero ancora di più con quella voce
meravigliosa che mi rapì
subito, come il suono del flauto di un incantatore con un cobra.
«Io…
io…» balbettai.
Ero
troppo confuso e frastornato per dare una risposta sensata, come per
trovare le
parole adatte per descrivere la persona che avevo di fronte.
Già il solo
definirla “persona” a chiunque sarebbe parso
svilente; non era un uomo qualsiasi,
nel suo aspetto doveva esserci per forza qualcosa di surreale, quasi
divino.
Nemmeno l’essere più bello del mondo sarebbe mai
stato degno di sedere sotto la
sua ombra. Il colorito era pallidissimo, candido quasi come il camice
che
portava. Tra i lineamenti scolpiti, che sembravano essere stati
studiati
accuratamente da un maestro rinascimentale, spiccavano come due fuochi
un paio
di occhi color topazio di una profondità impensabile. I
capelli biondissimi gli
incorniciavano con dolcezza il viso, facendolo assomigliare a uno di
quegli
angioletti raffigurati in un affresco di qualche chiesa antica.
Quasi
d’istinto pensai di essere morto e che, magari, un angelo
bellissimo come
quello fosse appena venuto a prendermi: ciò significava che
ero finalmente
libero dalla malattia. Poi sentii ancora quel familiare bruciore nei
polmoni e
capii che, visto che ero ancora nel mondo reale, quella doveva essere
un’allucinazione causata dalla febbre oppure… la
realtà. Dovevo essere rimasto
lì imbambolato a fissarlo per parecchio tempo, visto che mi
sorrise divertito e
quel semplice gesto sembrò spargere nella penombra della
camerata una luce
radiosa
«Fa’
lo stesso. Non mi interessa sapere cosa stavi facendo. Ma adesso
è meglio che
tu ti metta a dormire sul serio, che ne dici?».
Mi
si avvicinò ancora di più e un alito di vento
proveniente dalla finestra mi
portò il suo profumo: fresco e speziato, come di pini e
frizzante aria di
montagna, che mi fece subito revocare i bei giorni di
libertà e le corse a
perdifiato attraverso sconfinati prati verdi. Nel notare ancora una
volta il
mio sconcerto, lo strano individuo sorrise un’altra volta e,
così facendo,
potei notare, tra la sua chiostra di denti bianchissimi e perfetti, che
i
canini sembravano leggermente appuntiti. Sbattei le palpebre: doveva
essere
stata un’illusione dovuta alla scarsa luce. Con movimenti
fluidi, senza fare il
benché minimo rumore e usando la stessa delicatezza che
avrebbe usato mia
madre, mi sprimacciò il cuscino e mise a posto le coperte,
in attesa che
tornassi a fare il malato. Obbedii in silenzio senza però
staccare mai lo
sguardo da lui. Ero più che sicuro che quei due occhi dorati
sarebbero
riapparsi più di una volta nei miei sogni.
«Non
ti ho mai visto qui…» sussurrai e la mia voce,
uscendo in un rantolo dalla mia gola
riarsa, mi parve rauca e goffa in confronto alla sua.
Prima
di rispondere mi squadrò intensamente, quasi mettendomi in
soggezione, e subito
capii che dietro quel bel volto si nascondeva qualcosa di molto di
più rispetto
a quello che dava a intendere all’apparenza.
«Be’,
sì, in effetti è da poco che lavoro qui. Il mio
nome è Carlisle Cullen, ho 23
anni e mi sono trasferito da poco qui a Chicago da Londra. Mi sono
laureato di
recente in medicina all’università di Oxford e
adesso sono qui a curare la
gente dall’epidemia. Ti basta?».
Rimasi
senza parole per qualche istante, colpito da quella presentazione
così
dettagliata, quasi che, nel parlarmi, avesse sbirciato sulla sua carta
d’identità.
Londra… mmm, sì, in effetti avevo notato uno
strano accento che, di certo, non
poteva essere americano.
«E
come mai hai deciso di trasferirti qui in America… Carlisle?
Dopotutto, dicono
che Londra è una bella città».
Fece
una smorfia. «Sì, forse un po’ troppo
chiassosa e inquinata, però».
«Be’,
non che Chicago sia una valle verde…». Cercai di
sorridere, ma mi riuscì
soltanto un ghigno scomposto simile al suo.
Lui
sospirò e io mi maledissi: probabilmente avevo toccato
qualche tasto dolente.
«Hai ragione. Comunque diciamo che… avevo voglia
di cambiare aria, forse anche perché
pure io ero… cambiato
ultimamente. Quell’ambiente
mi stava ormai troppo stretto e sentivo che i miei orizzonti erano
più ampi. Così
eccomi qui…».
Quella
risposta sgangherata non soddisfaceva di certo la mia ardente
curiosità verso
il nuovo arrivato, con il quale, nonostante la mia spiccata timidezza,
avevo
iniziato a conversare come se lo conoscessi ormai da tempo
immemorabile. Però decisi
che era meglio non indagare oltre, quindi lasciai cadere
l’argomento. Chiusi per
un attimo gli occhi, sentendo ancora una volta tutta la stanchezza
crollarmi addosso.
Si era ormai fatto tardi e il mio corpo sfibrato ribadiva la gran voce
la sua
necessità di riposarsi, ma io non avevo ancora voglia di
abbandonarmi all’oblio
del sonno, come avevo già fatto innumerevoli volte per non
dovermi soffermare
sulla mia disperata condizione. Volevo stare ancora a parlare con
quell’individuo
così strano, con quel Carlisle. Raccogliendo tutte le ultime
energie che mi
erano rimaste mi riscossi da quel torpore e tornai a fissarlo: senza
che me ne
accorgessi si era seduto sul bordo del mio letto e il chiarore della
luna dava
al suo incarnato pallido una sfumatura azzurrognola.
«E
tu come ti chiami?» domandò e per la prima volta
notai un certo disagio nel suo
tono.
Cercai
di tirarmi su con i gomiti per guardarlo meglio in faccia, ma un
improvviso
giramento di testa mi disse che era meglio rimanere dov’ero.
«Edward
Masen» risposi.
Fece
uno strano movimento con la testa che non riuscii ad interpretare ed
ispirò a
fondo. «Ah, sì, ho sentito parlare molto di te
dagli altri medici. E anche di
tu madre, Elizabeth, giusto?».
Con
tutta la determinazione che possedevo e mordendomi forte il labbro
inferiore,
mi costrinsi a fissare il soffitto, per evitare che, dopo
quell’allusione a mia
madre, il mio sguardo vagasse sul letto di fianco al mio. Come avrebbe
potuto
la storia di una povera madre che, nonostante la sua salute
già precaria, si
ostinava a prendersi cura del figlio anch’esso malato non
circolare tra i
medici e le infermiere di turno, accompagnato magari da qualche testa
scossa,
da qualche sospiro triste, da qualche sguardo abbassato e da qualche
espressione di compassione?
«Sì».
Ora la mia voce era più decisa, come la morsa dei miei denti
contro il labbro. Non
mi andava di parlare di mia madre, negli ultimi tempi aveva sempre
costituito
un punto di sofferenza per me, che mi faceva stare ancora di male di
quanto già
non stessi. Era quel pensiero brutto che mi prendeva quando la febbre
raggiungeva picchi particolarmente alti, quando mi sentivo mancare
l’aria,
quando mi sentivo morire e pregavo che tutto si spegnesse attorno a me.
Era la
lama affilata che andava a colpire senza pietà il mio
tallone d’Achille.
Dal
mio tono coinciso Carlisle dovette capire che, come per lui in
precedenza,
quello non era uno dei miei argomenti preferiti, visto che si
affrettò subito a
dire: «Scusa, mi dispiace».
«Non
ti preoccupare», tanto il dolore ormai è mio
amico: frase di circostanza.
Per
qualche minuto, mentre io costringevo i miei pensieri a concentrarsi su
una
crepa nel soffitto, calò il silenzio tra di noi e la stanza
era riempita
soltanto dai respiri rantolanti degli altri malati. Il mio respiro, che
prima
si era fatto affannato, pian piano ritrovò il suo ritmo
normale e, quando mi
pareva che fosse ormai passata un’eternità e alzai
lo sguardo per vedere se se
n’era andato, lo ritrovai ancora lì al mio fianco,
in rispettoso silenzio. La sua
era un’espressione compassionevole di come ne avevo
già viste tante da quando
ero lì, ma in un certo qual modo diversa. Era come
se… be’, come se, anche se
ci conoscevamo da sì e no una decina di minuti, riuscisse a
capire tutte le mie
sofferenze, senza però darlo a intendere. Forse anche lui
aveva sofferto come
me e riusciva a mettersi nei miei panni ma… non voleva
elevarsi a colui che
conosce la soluzione di tutti i problemi. Per la prima volta da quando
avevo
fatto di quel letto d’ospedale da mia dimora estrema, mi
sentivo vicino
qualcuno che non era prodigo di pietà come gli altri medici,
bensì i suoi
sentimenti erano più che sinceri. Nessuno mi aveva mai
guardato in quel modo. Non
sapevo come descriverlo; non era pietà, non era voglia di
ascoltarmi o di
aiutarmi concretamente, non era semplice carità o affetto.
Era qualcosa di più,
che mi fece dire: “siamo sulla stessa barca”.
«Come
ti senti?».
Altra
frase di circostanza: ridicola. Come credeva che stessi? È
forse il genere di
domande che si fa a un moribondo?
Risi sguaiatamente,
ma, come il sorriso di prima, ne venne fuori soltanto qualcosa di turpe
e
cacofonico.
«Come
vuoi mi senta? Sto per morire!». E risi ancora.
Lui
abbassò lo sguardo e, come prima, mi sembrò che
tutta la compassione che aveva
rinchiusa nel cuore sgorgasse ora a fiotti da quelle iridi dorate. Ma
io volevo
infierire: non mi interessavano gli intercalari pietosi di
nessuno… anche se
sapevo benissimo che quella che mi stava dimostrano quel giovane
dottore era
una forma più elevata di misericordia, che però
non volevo né riuscivo a
decifrare.
«Sono
malato. La malattia mi logora ogni giorno, ogni minuto, ogni mezzo
istante. Sono
stanco. Stanco di tossire, di sentirmi debole, di delirare per la
febbre troppo
alta. Stanco di soffrire, di vedere gli altri soffrire. Ancora qualche
giorno e,
forse, finalmente avrò finito con questo tormento! La gente
qui muore, capito? Non
esce da qui, non ne esce viva e in salute. Muore, proprio come mio
padre, come
tanti altri che ho visto. Forse lei, dottore, ha sbagliato reparto se
credeva
di riuscire a guarire qualcuno. Ci portano qui e aspettiamo…
non facciamo nient’altro».
«Quindi
tu hai già gettato la spugna? Tutto qui? Ti arrendi e
basta?».
«Tic
tac, tic tac. Non sono io che decido, è il tempo, il poco
tempo che mi rimane
che mi fa pensare questo. Non Dio, non una medicina: non servono a
nulla quando
senti dentro di te i minuti che si accorciano».
«Non
Dio?».
«No.
Se dipendesse da lui di certo non sarei qui, no? Dio è
amore, dicono, e qui non
c’è amore: solo l’ultimo capitolo di un
libro più o meno lungo».
Tacque
ancora una volta: forse l’avevo messo in
difficoltà. E mentre parlavo quasi
ansimante sentivo tutto il dolore accumulato che mi si riversava
addosso come
una doccia fredda. E io lasciavo che quell’acqua sporca
corresse, non mi
affannavo a frenarla. C’era, dopotutto, e non riuscivo a
trovare alcuna scusa
abbastanza valida per negarne l’esistenza. Tutti i miei
pensieri affannati,
tutte le angosce che mi avevano stretto la gola e preso allo stomaco,
tutte le
lacrime calde che mi avevano irritato le guance, tutte le preghiere
farfugliate, tutti gli insulti rivolti a nessuno, a
un’ingiustizia astratta ma
presente, tutta la stanchezza che mi aveva atterrato più di
una volta. Tutto mi
crollò addosso, con un suono indistinto e metallico, come un
chiacchiericcio
assordante e confuso.
«Però
c’è ancora qualcuno che spera per
te…» sussurrò Carlisle. Non sembrava
voler
difendere la sua posizione né tentare di farmi cambiare
idea: un altro punto
che non riuscivo a capire. «C’è ancora
tua madre. Da quando sono qua vi ho
osservato a lungo: non è insensato, tragicamente romantico o
drammatico quello
che sta facendo. Lei ha ancora la forza di lottare, tu no».
Strinsi
i pungi e quell’ultima frase mi cadde addosso come
l’ultimo masso della
valanga, il più pesante.
«Ognuno
ha il diritto di credere in quello che ritiene più giusto e
di spendere il
tempo che gli è concesso come meglio crede».
«Non
dovresti denigrare così tua madre, giudicando
così superficialmente il suo
amore per te. Si vede che sei ancora molto
giovane…» fu il suo commento
sussurrato tra i denti.
«Non
molto più giovane di qualcun altro» replicai
squadrandolo da capo a piedi.
Questa
affermazione lo punse sul vivo, facendogli aggrottare le sopracciglia e
socchiudere le labbra come per rispondere a tono. Ma poi
sembrò ripensarci e,
lasciandomi lì stupito e frastornato, si alzò dal
bordo del letto con un altro
dei suoi movimenti fluidi e si allontanò come un fantasma
silenzioso, senza
aggiungere altro.
Ma
io sapevo con certezza che l’avrei rivisto. Prima della fine.
Capitolo
particolarmente difficile: spero di aver reso bene l'idea. Il
personaggio di Carlisle non è ancora ben definito e lui
è stato il punto più difficile di tutta la
situazione. Comunque avrò occasione di rivederlo meglio nei
prossimi capitolo. Va bene, non aggiungo altro: sta a voi commentare.
Ringrazio:
dora92:
grazie mille per i complimenti! Ok, è noto che io
con gli aggiornamenti frequenti non vado molto d'accordo (soprattutto a
causa dell'ispirazione e della pigrizia). Spero di essermi fatta
perdonare con questo capitolo!
Wind: grazie anche a
te! Mi fa sempre piacere sentirmi dire che so identificarmi bene con un
personaggio!
Faby hale:
sì, ho deciso che andrò anche un po' oltre la
trasformazione, ma non troppo, sennò diventerebbe la storia
della famiglia Cullen, quando io invece voglio sioffermarmi solo su
Edward e tutti gli annessi e connessi alla sua trasformazione
Mi
aspetto mooooooooooooooolte recensioni, eh? See you soon guys! <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Wasted memories ***
Capitolo
3°
Wasted
memories
Voci
nell’oscurità, strani rumori scricchiolanti e
fruscii. Continuavo a correre
senza sapere dove stessi andando, inseguendo o scappando da qualcosa
che non
conoscevo. Non una luce guidava i miei passi, solo quelle voci che mi
rimbombavano attorno e non facevano altro che confondermi ancora di
più. Non
riuscivo a distinguere cosa dicevano, ma tutte sembravano implorarmi di
fare
qualcosa. Alcune erano agghiaccianti urla di dolore, altre lamenti
quasi
impercettibili e soffocati dalle lacrime. E io continuavo a correre.
Poi
all’improvviso i miei occhi riuscirono a scorgere qualcosa
sull’orizzonte. Una
debole luce, un piccola stella che bucava
l’oscurità che mi avvolgeva come una
coperta pesante. Pian piano quel bagliore misterioso si fece sempre
più grande
e luminoso, finché, non so come, mi ritrovai in una stanza
che non avevo mai
visto. A dispetto di quello che mi aveva fatto credere la luce di
prima, era in
penombra, anzi nell’ambiente sembrava aleggiare un leggero
bagliore color
sangue, simile a nebbia densa. Sbattei le palpebre un paio di volte e
mi
accorsi che davanti a me c’era un letto, del tutto uguale a
quelli
dell’ospedale, a me molto familiari. Ma le coperte erano
disfatte e il cuscino
buttato rudemente a terra. Due figure erano il fulcro della scena.
Rimasi quasi
senza fiato, immobilizzato dalla paura. Di nessuna delle due riuscivo a
scorgere il volto. Una, probabilmente una donna a giudicare dai capelli
lunghi
sparpagliati tra le lenzuola, era rannicchiata e, coprendosi il volto
con le
mani ma rimanendo del tutto impotente, gemeva piano. L’altra,
un uomo alto e
robusto, era invece di fianco al letto, chinato sulla donna, e le
stringeva la
testa con forza, come a costringerla a guardare verso di lui. Ma poi
notai che
il volto dell’uomo non era di fronte a quello della donna,
bensì un po’ più
giù, all’incirca all’altezza del collo.
Ero
paralizzato dalla paura, indeciso se scappare o buttarmi a capofitto
contro
quell’uomo in aiuto della povera donna. Non riuscivo bene a
capire la
situazione, ma sapevo che era qualcosa di sbagliato dal pianto di lei,
che a un
certo punto s’interruppe di botto. Le mani che fino a un
momento prima aveva tenuto
premute contro il viso si rilassarono, come se si fosse addormentata.
Sentii le
mie gambe cedere e mi ritrovai in ginocchio davanti a quella scena. Il tonfo provocato dal mio
movimento
involontario attirò l’attenzione
dell’uomo, che lasciò perdere la sua preda e
si voltò.
Lo
guardai in faccia e lo riconobbi.
Il
sangue gli imbrattava le labbra e parte del volto, per poi colare
giù lungo il
collo e andare a imbrattargli la camicia immacolata, che, come la sua
pelle
diafana, risaltava notevolmente contro quel rosso brutale. Altro sangue
gli
riempiva le mani, dividendosi in tanti piccoli rivoletti, che
sembravano
ricalcare le vene sotto pelle, prima di gocciolare con un suono
sinistro sul
pavimento. Tutto ciò mi fece intendere all’istante
cosa avesse appena fatto a
quella povera creatura.
Era
un volto completamente diverso da quello che avevo conosciuto.
Cercai
di balbettare qualcosa, mentre il terrore cresceva viepiù e
ogni singola
tessera del puzzle ritrovava il suo posto. Intanto lui avanzava verso
di me,
che ero ancora lì in ginocchio, ora con
un’espressione di assoluta crudeltà,
come una bestia selvaggia e affamata. I suoi occhi si fissarono nei
miei, duri
e impenetrabili, dalle iridi nere con una lieve sfumatura rossastra,
quasi che
il sangue che aveva addosso gli fosse colato fin nell’anima.
«Carlisle…».
Mi
svegliai di botto, gli occhi spalancati come quelli di un pazzo,
percorso da un
tremore irrefrenabile e più sudato del solito. Mi ci volle
qualche minuto per
riprendere il controllo dei battiti accelerati del mio cuore e del
respiro
affannoso, come se avessi appena corso per chilometri. Ma alla fine,
con un
sollievo che non avevo creduto fosse mai possibile, mi dissi che era
stato
soltanto un incubo. Mi guardai attorno e sospirai. Era appena
cominciato un
nuovo giorno.
A
giudicare dalla gente che arrivò quel pomeriggio doveva
essere venerdì: il
giorno delle visite. Avevo sempre pensato, e pensavo
tutt’ora, che fosse in
assoluto il giorno più inutile della settimana. Anche
perché, accidenti, tutti
si lamentavano dell’ampia diffusione del virus che continuava
a fare morti a
frotte e, nonostante tutto, si permetteva ancora che la gente comune,
sana,
venisse a far visita ai propri cari sofferenti. Contribuendo
così al piano
diabolico di qualche forza superiore e giudice. Ma ormai non importava
più a
nessuno che sani e malati venissero a contatto; tanto il morbo si
sarebbe
diffuso comunque. Tanto valeva permettere ad amici e parenti di vedere
la
persona che avevano amato per un’ultima volta: un mucchietto
di pelle e ossa
rannicchiato su un letto bianco come lui, con lo sguardo che vagava nel
vuoto e
le labbra che modulavano mute frasi sconnesse. Quella sarebbe stata
l’ultima
foto, l’immagine principale che quelle persone avrebbero
riportato nei loro
ricordi tra gli anni, che avrebbero associato per prima a quel nome.
Raramente
vedevo entrare da quella porta, a volte portando un mazzo di fiori,
chiedendo
in giro del tale o della tale, le stesse persone: la malattia
fulminante, in
genere, dava ai così detti “cari”
l’onore di una sola visita, prima di portare
alla sua amica morte un nuovo compagno. Io ero tra i residenti di
vecchia data
ormai. Con il passare del tempo e la diffusione della malattia,
però, avevo
notato che sempre meno gente trovava il coraggio di mettere piede in
quel
lazzaretto; giusto qualche congiunto, figlio o amico stretto. Io non
avevo mai
ricevuto visite, visto che la mia famiglia era tutta lì, e,
a dir la verità,
non ne avevo mai sentito la mancanza. Una rabbia bruciante mi prendeva
alla
gola ogni volta che vedevo sfilare lungo la corsia di letti qualche
persona dal
colorito acceso, gli occhi pieni di vita e con la salute che sprizzava
da tutti
i pori, mentre si copriva il volto con una mano, forse per non
respirare la
nostra stessa aria oppure in un teatrale gesto di pietà e
sconcerto. Le prime
volte mi sorgeva quasi spontaneo slanciarmi verso la persona in
questione,
brandirla e succhiarle via tutta la buona salute di cui godeva. Ma poi
avevo
capito che quelle persone venivano lì come carne al macello:
qualche giorno
ancora e pure loro avrebbero iniziato a tossire e a bruciare e,
chissà, forse
ci saremmo anche ritrovati vicini di letto.
Mi tirai su usufruendo di
tutta la poca forza
che avevo per osservare meglio la sfilata di gente su e giù
per la stanza. Per
un momento cercai di non pensare alla nausea che mi salì
immediatamente alla
bocca dello stomaco e mi sforzai di tenere gli occhi aperti contro il
riverbero
del sole. Stavo più male, il che era perfettamente normale:
proprio come avevo
previsto. Mia madre dormiva ancora nel letto di fianco. Si era
svegliata un
paio di volte quella notte, chiamando convulsamente
l’infermiera e me: la
febbre stava salendo vertiginosamente, così tanto che
sembrava che quel povero
corpicino avesse iniziato a sudare fin l’anima. Ma dopo un
paio d’ore di
lamenti e di preghiere si era calmata ed era piombata in quel sonno
ambiguamente quieto. Sapevo benissimo che le sue condizioni andavano
peggiorando sempre più velocemente delle mie. Ma, nonostante
tutto, combattevo
non per risolvere quel problema o per darmi pace in qualche modo,
bensì per
tenere sempre più lontana quell’immagine, in
attesa di un coraggio che forse
non sarebbe mai arrivato.
Poi
la mia attenzione fu fulmineamente attratta da una donna e una bambina
che
passavano con passo greve davanti al mio letto. Entrambe mi lanciarono
uno
sguardo compassionevole, uguale a molti altri che mi si appoggiavano
addosso di
continuo. La bambina, che non staccava lo sguardo da me tenendo la mano
della
mamma, avevo un visetto d’angelo con grandi occhi celesti e
boccoli biondo
cenere. Era una tenera creatura ancora ignara dei drammi del mondo,
primo fra
tutti quello che si stava consumando in quella stanza. Si guardava
attorno con
gli occhi spalancati e confusi, chiedendosi come mai tutta quella gente
fosse così
triste e se ne stesse a letto in silenzio. Perché non si
alzavano? Perché non
giocavano e ridevano? Perché non sonnecchiavano sereni? Gli
avevano forse tolto
il loro giocattolo preferito? Era per questo che erano così
tristi?
I
miei occhi incontrarono i suoi e sospirai: avrei voluto dirle la
verità,
spiegarle quello che cercava di comprendere, ma probabilmente avrei
sbagliato.
Il momento della sua disillusione sarebbe arrivato a tempo debito. Cara
bambina, dimentica le favole che ti hanno raccontato; non
c’è posto qui per
loro.
«Oggi
c’è più gente del solito, non
trovi?».
Senza
che neanche mi fossi accorto della sua presenza, mi ritrovai di fianco
Carlisle. Sobbalzai leggermente quando, tutto d’un tratto, mi
ritornarono alla
mente le orribili immagini dell’incubo di quella notte. Ma
ora il suo camice
era lindo e non c’erano pieghe crudeli tra i suoi lineamenti:
era l’esatto
opposto del mostro sanguinario che mi era apparso. E quel sorriso
rassicurante
riuscì a calmarmi e a rallentare i battiti del mio cuore.
Anche la discussione
della sera precedente sembrava lontana anni luce.
«No»
risposi. «Il solito».
Intanto
avevo perso di vista la bambina.
«Volevo
scusarmi per quello che ho detto ieri sera… Forse sono stato
troppo duro e ho
espresso dei giudizi affrettati…».
Mi
voltai di scatto, con una velocità sorprendente per la media
consentita dalla
mie forze, per constatare che fosse stato proprio lui a parlare. Non mi
sarei
mai aspettato una cosa simile, anche perché a pensarci bene
non mi sentivo per
niente offeso.
«Scuse
accettare. Anche se non vedo per quale motivo».
Lui
non replicò, anche se sul suo volto era apparso un certo
sollievo dovuto alla
mia risposta, mentre recuperava una sedia per sedersi di fianco a me,
come la
sera prima. Non sapevo esattamente perché, ma non mi sentivo
a mio agio con lui
così vicino, forse anche perché non riuscivo a
togliermi da davanti gli occhi
quella nebbiolina color sangue che aveva caratterizzato il mio incubo.
Perciò rimasi
in silenzio, in attesa che se ne andasse o che iniziasse a parlare per
primo.
«Be’,
con ancora tutta questa gente in giro, credo che dovrò
rimandare le ultime
visite a dopo… Non
ti dispiace se ti
faccio un po’ di compagnia, vero?».
«No…
affatto». Lo sbirciai con la coda dell’occhio e
notai che se ne stava in
penombra, ben lontano dal riverbero del sole che proveniva dalla
finestra. Ma non
indagai oltre, non mi importava granché.
«Conosci
quella bambina per caso?» domandò ancora, cercando
di mettere in piedi una
conversazione.
«Che
bambina?».
«Quella
che stavi guardando prima».
«Ah…
no».
«Strano…
La fissavi con una tale intensità…».
«No,
è che… mi ricordava… be’,
è una lunga storia».
«Siamo
io e te» disse facendo un ampio gesto, «e nessuno
dei due credo abbia molto da
fare».
Sospirai:
ecco, mi ero appena fatto incastrare un’altra volta. Non
avevo voglia di
parlare con lui di quello che mi passava per la mente, visto che
quell’uomo
aveva la straordinaria capacità di far affiorare gli aspetti
più profondi della
mia personalità, per poi mescolarli con le mia convinzioni e
trarne fuori uno
strano impasto che mi lasciava riflettere. E pensare era
l’ultima cosa che
avevo intenzione di fare. Ma in quel momento non avevo altre vie di
fuga.
«Quando
ero piccolo avevamo una casa in campagna dove passavamo
l’estate. Nella casa a
fianco abitava una bambina, molto simile a quella di prima, che pian
piano era
diventata la mia migliore amica…».
«Edward!».
Una
bambina di circa sei anni dai boccoli biondi, gli occhi azzurri e la
carnagione
chiara, in tutto e per tutto simile a un grazioso angioletto, correva a
perdifiato attraverso un ampio prato verde inondato dal sole, chiamando
con
tutta la voce che aveva in corpo. Faceva caldo, doveva essere estate, e
una
distesa di fiori variopinti macchiava qua e là
l’erba. In lontananza si
potevano scorgere i tetti rossicci di alcune case, contornate da una
staccionata bianca. La sua corsa sfrenata la portò vicina a
una fila di
cespugli di gelsomino, il cui odore intenso e soave riempiva
l’aria a ondate. Sì
fermò con un sorrisetto: probabilmente aveva trovato quello
che stava cercando.
«Trovato!»
esclamò, toccando la spalla del bambino che, ormai invano,
cercava di
nascondersi dietro il cespuglio. «Così impari a
farmi questi scherzi!».
Il
bambino a quel punto si arrese ad uscire dal suo nascondiglio, con
un’espressione
corrucciata e le braccia incrociate sul petto. I suoi capelli color
bronzo
spettinati erano pieni dei petali bianchi del gelsomino, mentre un paio
di
occhi verde intenso scrutava attentamente la bambina trionfante.
«Uffa
però!» borbottò poi lui, Edward.
«Non si può mai scherzare con te, Anne!».
«No»
rispose lei, «soprattutto quando te la svigni quando decido
di giocare a
prendere il tè con le mie bambole. Giochiamo sempre a quello
che vuoi tu!».
«Non
è vero! È solo che io sono un maschio e non posso
giocare con le bambole!».
Anne
si stirò con le manine il suo bel vestitino color grigio
perla con un gran
fiocco bianco all’altezza della vita, segno che, Edward lo
sapeva bene, l’aveva
fatta arrabbiare molto.
«Benissimo!
Vuol dire che io non ci gioco più con te!».
Girò i tacci e fece per andarsene.
Ma
Edward fu più veloce e l’afferrò per un
braccio: era ormai abituato ai
frequenti sbalzi d’umore di Anne, che facevano parte del suo
carattere come la
sua infinita dolcezza e simpatia.
«No,
ti prego, non lasciarmi solo!» disse, implorandola.
Evidentemente
quelle erano le parole che Anne voleva sentirsi dire, visto che uno
strano
scintillio balenò nei suoi occhi e la sua espressione
corrucciata si distese. Sembrò
pensarci su un attimo.
«Mmm…
va bene, ti perdono. Però adesso almeno per una volta decido
io a cosa
giocare».
Edward
alzò gli occhi al cielo: cosa non si faceva per le
donne…
«Ok»
rispose alla fine, «ma niente bambole!».
Senza
aggiungere una parola di più Anne, che sapeva perfettamente
come fargliela
pagare, si voltò di scatto e iniziò a correre,
lasciando lì Edward sbigottito.
«L’ultimo
che arriva alla quercia è un coniglio fifone!».
«Ehi,
aspetta! Non voglio essere un coniglio fifone!». Ad Edward
non rimase altro da
fare se non rincorrere la sua amica.
Lì
vicino si stendeva un vasto campo di grano dorato, in mezzo al quale
sbucava,
solitaria, una vecchia quercia, sotto la quale i due bambini si
ritiravano
spesso a giocare lontano dal controllo degli adulti. Era un
po’ il loro rifugio
segreto.
«Prima!»
strillò Anne, che, ovviamente, era arrivata per prima,
toccando la corteccia
rugosa.
Qualche
istante dopo arrivò anche Edward tutto trafelato, che,
costatando la sua palese
sconfitta, si lasciò cadere a terra con un grugnito
insoddisfatto. Anche Anne
lo imitò e sedettero insieme sotto l’ombra del
grande albero, al riparo dalla
calura estiva. Escluso il frinito di una cicala lì vicino e
i respiri affannati
dei due bambini, nessun altro rumore rompeva quella quiete quasi
innaturale. Sia
Edward che Anne avevano le ginocchia leggermente sbucciate e gli abiti
impolverati, cosa che le loro madri avrebbero di certo notato non
appena
fossero tornati a casa, ma a loro
non
importava granché.
«Hai
intenzione di farti mettere i piedi in testa da una femmina ancora per
molto,
Ed?» lo stuzzicò lei con una risatina.
«Ridi
pure, ma appena sarò grande ti farò vedere
io».
«Ah
sì? E come? Che hai intenzione di fare da
grande?». Anne sembrava sempre più
divertita.
Edward
soppesò per un attimo la riposta. «Be’,
ovviamente diventerò un eroe leggendario
come quelli dei racconti e tutti dovranno temere la mia spada!
Combatterò i
cattivi fino all’ultimo e salverò tante belle
principesse!».
«Oh,
ma quante belle cose» ribatté Anne, «Ma
se salverai tante belle principesse
vuol dire che non mi vorrai più bene?».
«Certo
che no! Tu sarai sempre la preferita… Dopotutto sei mia
amica, no?».
Lei
non rispose subito e gli si avvicinò un po’ di
più. «Sicuro. Anche io ti voglio
bene».
Rimasero
in silenzio per qualche istante, mentre il profumo del grano maturo e
dei
papaveri rossi giungeva a loro. Poi Anne, che dimostrava una
maturità che
andava ben oltre la sua tenera età, si voltò
verso il bambino e, guardandolo
intensamente negli occhi, riprese a parlare.
«Ed,
mi prometti una cosa?».
«Cosa?».
«Saremo
sempre amici, vero?».
«Perché
me lo chiedi?».
«Rispondi».
«Sì,
certo».
«E…».
A questo punto Anne sembrava incerta. «Se diventerai un
grande eroe mi prometti
anche che mi proteggerai… sempre?».
«E
se non diventassi un eroe? Se rimanessi un coniglio fifone?».
Anne
rise, una risata limpida che si propagò nell’aria
come cerchi concentrici nell’acqua.
«Ma
che stai dicendo!? Tu non potrai mai essere un coniglio fifone! Tu
diventerai
il principe migliore che il mondo abbia mai visto e scriveranno libri e
canzoni
su di te. Io ci credo… e devi crederci anche tu».
A
quel punto Edward sembrò ritrovare un minimo di autostima.
Si alzò in piedi
scuotendosi via di dosso l’erba e, inchinandosi con un gesto
teatrale di fronte
alla sua amica, si mise una mano sul cuore e, assumendo un fare
solenne, disse:
«Prometto… prometto sui biscotti al cioccolato
della mamma di Anne, i migliori
al mondo, che diventerò un grande eroe,
sconfiggerò i cattivi per te e ti
proteggerò a costo della vita. Per sempre. Lo
prometto!».
Poi
un’altra risata cristallina si levò dai due
bambini e la vecchia quercia, il
campo di grano e tutto l’ambiente circostante non avevano mai
udito suono più
puro.
«…quel
giorno feci una promessa che non riuscii e non riuscirò mai
a mantenere. Infatti
l’anno successivo Anne e la sua famiglia si trasferirono nel
sud della
California… e non l’ho più
rivista».
All’improvviso
sentii qualcosa di caldo e umido, che però non era sudore,
colarmi lungo le
guance e, con immensa sorpresa, mi scoprii a piangere. Non ricordavo
l’ultima
volta che avevo versato lacrime e soprattutto in pubblico. Ero sempre
stato una
persona molto riservata, che di rado esternava in modo così
palese come con il
pianto i suoi sentimenti. Erano troppi i ricordi, troppe le emozioni
che avevo
sepolto in quel passato non molto lontano e che in quel momento
riaffioravano
come un getto d’acqua bollente, sollevando una gran
confusione. Rievocando soltanto
quella semplice immagine di Anne, mi era ritornato in mente tutto di
lei, tutte
le volte che mi scherniva e che poi mi consolava, spronandomi ad avere
più
fiducia in me stesso per poi ripetermi quanto mi voleva bene. Non
potevo dire
di aver avuto una cotta per lei, dopotutto eravamo appena bambini,
però non
potevo neanche negare di averle voluto bene come la più cara
delle amiche. Mentre
adesso stavo tentando di cancellare tutto, stavo tentando di sopprimere
quei
ricordi pieni di colori e suoni, che vibravano di emozioni e vita, per
avviarmi
taciturno e rassegnato verso un ponte rotto. E la cosa peggiore era che
avevo
accettato questo omicidio, anzi l’avevo voluto. Avevo sputato
su Anne e su
tutto quello che lei aveva rappresentato per me. Avevo infranto
brutalmente la
mia promessa, trasformandomi da promesso eroe a promesso fallito. Avevo
finito
per rinunciare a lottare contro i cattivi. Ed ero diventato un coniglio
fifone.
Le
lacrime continuavano a scorrere sempre più copiose, andando
a bagnare le
lenzuola e appannandomi la vista. Anche se ero malato, anche se ero
ormai
terminale, ciò non voleva dire che dovevo insultare e
ripudiare tutte le cose
belle che avevo incontrato. Ma era difficile, perché solo in
quel modo potevo
accettare l’idea di morire. Anne invece, ovunque fosse,
sarebbe vissuta ancora
per molti anni e ci avrebbe pensato lei a tenere viva la memoria di
quei dolci
giorni. E magari avrebbe continuato a illudersi che fossi diventato
veramente
il paladino dei buoni. Ero in bilico tra due idee. Mi voltai verso
Carlisle,
che mi osservava piangere in silenzio, come al solito impassibile e con
quell’aurea
di compassione che traspariva dalle sue iridi dorate. In quel momento
capii il
vero significato delle sue parole della sera prima. Io da parte mia
cercavo di
trattenere i singhiozzi per non svegliare mia madre e attirare
l’attenzione
degli altri più del dovuto. Alla fine riuscii a dischiudere
le labbra impastate
e, con voce roca e profonda che pareva invecchiata di anni in un
secondo,
balbettai: «Che cosa sto facendo, Carlisle? Che cosa sto
buttando via?».
Lui
non disse niente, ma allungò una mano per asciugarmi le
lacrime e deporre una
lieve carezza sulla guancia.
Le
sue dita erano fredde come ghiaccio.
Ed
ecco qui che nasce la tendenza di Edward, che ho notato leggendo
Twilight, di rispondere a una domanda con un'altra domanda XD
Vabbè a parte questo, è stato un altro capitolo
molto impegnativo (anzi, questa ff in sè è molto
impegnativa). Comunque ecco che riappare qualche flash della vita
passata di Ed, che ho deciso di approfondire, visto che zia Stephenie
ci racconta solo della sua malattia. Non so quando
aggiornerò ancora, poichè gli impegni sono tanti
e l'ispirazione poca. Sperando che il chap sia di vostro gradimento,
ringrazio:
Wind: felice che ti
piaccia il mio modo di scrivere. Sì, il rapporto
Edward/Carlisle è una delle cose più difficili in
questa ff (tra tante altre) e spero di renderlo al meglio anche negli
altri chap
Princesseelisil:
ecco il proseguimento, anche se in ritardo come al solito. Intriga
molto anche me analizzare i pensieri e la personalità di
Edward e scoprire le mille sfaccettature che lo compongono. Infatti
adoro questo personaggio non solo per il suo fascino, come quelle maree
di ragazzine occhette, ma soprattuto per la sua complessità
e le sue contraddizioni.
Su,
su, ragazzi! Voglio vedere tante tante tante tante recensioni ok? Mi
raccomando! Tanto scrivere due righe non vi costa niente!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Breathing the outside ***
Capitolo
4°
Breathing
the outside
Mi
scostai di scatto, colpito dal freddo di quella mano, in netto
contrasto con il
fuoco che mi bruciava dentro. Rimasi senza fiato per alcuni secondi,
fissando
Carlisle, che, accortosi del mio movimento repentino, si
affrettò a ritirare la
mano, come se avesse paura di qualcosa. Potevo scorgere qualcosa di
strano sul
suo volto, forse sconcerto o forse quella sensazione che si prova
quando ci si
accorge di aver fatto qualcosa che ci si era ripromessi di non fare mai
e di
essere stati scoperti. Ma come spesso mi capitava, non riuscivo a
capire.
Lui
si guardò attorno, forse per cercare una via di fuga dalle
domande che
sarebbero potute derivare da quella situazione. Ma non ne
trovò e io, da parte
mia, non avevo la benché minima intenzione di porre quesiti.
Avevo già notato
che in quell’uomo c’era qualcosa di strano, ma,
sinceramente, non era l’unico
da quelle parti ad avere qualcosa che non quadrasse. E di certo una
mano fredda
non mi aveva sollevato più dubbi del solito: dovevo tener
contro della mia
febbre, a causa della quale tutto era freddo per me. Ma i dubbi erano
duri da
cancellare…
Intanto
le lacrime avevano smesso di scendermi lungo le guance e iniziavano a
evaporare
dalla mia pelle, lasciando dietro di sé il sale che mi
prudeva sulle gote.
Carlisle si stava ancora guardando attorno, anche se ora la sua
espressione
appariva più rilassata.
«Non
stai buttando via niente» disse all’improvviso,
sempre senza guardarmi in
faccia. Forse aveva paura di leggere qualcosa di strano nei miei occhi.
«Come
hai appena dimostrato, i ricordi non se ne vanno… rimangono
sempre lì, sotto lo
strato di polvere. Sta poi a noi ascoltarli o meno. Tu ti stai
semplicemente
tappando le orecchie».
Sulle
prime rimasi spiazzato da quel discorso così diretto, che
sembrava aver
abbandonato per un attimo la pacatezza per ritrovare la sua parte
più seria e
ruvida.
«Sì,
certo, certi ricordi sono indelebili ed è impossibile
cancellarli, siano essi
belli o brutti. Ma ora? Carlisle… io… sono qui e
basta. Non faccio nient’altro.
Ti sembra vita? La malattia mi ha preso la salute… ma io ho
rinunciato a vivere
molto prima. Da quando ho visto in mio padre quale sarebbe stata la mia
fine…
ho voluto che fosse fine già dall’inizio. Me ne
sto qui a guardare un muro… e
sto sprecando i miei ultimi minuti. Adesso me ne rendo conto, ma non
riesco a
trovare un modo d’agire diverso da questo».
Mentre
parlavo avevo sperato che lui si voltasse verso di me, che mi guardasse
dritto
negli occhi, così da potergli comunicare quello che non
riuscivo a dire con le
parole. Ma lui continuava a guardare le persone che sfilavano lungo la
corsia, facendo
tappa ai diversi letti.
Fece
un profondo respiro prima di rispondere. «Respiri?».
Questa
domanda mi lasciò di sasso, totalmente stupito e
sconcertato. Io… cosa?
«Il
tuo cuore batte? Senti la stanchezza che opprime il tuo corpo? La fame?
La
sete?».
A
quel punto si era voltato. Avevo davanti un volto completamente diverso
da
quello del Carlisle compassionevole. Sembrava stanco e vecchio di
centinaia
d’anni. La sua bellezza ultraterrena pareva messa in ombra,
come se tutti i
dolori di una lunga vita gli fossero appena crollati addosso. I suoi
occhi
color topazio continuavano a brillare, ma la fronte era corrugata e le
sopracciglia formavano una strana curva contorta. Le labbra erano
diventate più
sottili e tirate e, anche se forse era un effetto dovuto alla luce, una
paio di
occhiaie che non avevo mai notato gli incorniciavano gli occhi come
bruciature.
Aveva un che di afflitto e stravolto, che per un nanosecondo mi
ricordò il
mostro sanguinario del mio incubo.
«Sì»
bisbigliai, impaurito.
«Allora
vuol dire che sei vivo. Ogni respiro, ogni battito del
cuore… valgono più di
ogni altra cosa, ricordatelo. Voi spesso dimenticate
l’importanza di queste
piccole cose. Vi lamentate che la vita è crudele, ma non
considerate il bene
che possedete naturalmente, il più prezioso: il fatto stesso
di vivere».
Riflettei
un secondo su quelle parole, che lui mi aveva appena gettato addosso
quasi con
rabbia, come se se le fosse tenute dentro da tempo, senza avere modo di
esternarle. E analizzandole trovai una nota stridente.
«Aspetta
un secondo… voi?».
Mentre
parlava si era riavvicinato sempre di più a me e il suo tono
era stato un
continuo crescendo, finché non l’avevo interrotto
con la mia quasi banale
domanda. Non so, forse era solo una mia sensazione, ma il modo di
parlare di
Carlisle sembrava sottintendere il fatto che lui non fosse uguale a me,
che non
appartenesse al genere umano, ma che lo giudicasse
dall’esterno con occhio
freddo e vigile. Evidentemente l’avevo punto sul vivo una
seconda volta, visto
che s’irrigidì di nuovo, mentre tratteneva ancora
il respiro e sembrava sul
punto di mordersi le labbra. Lo stavo mettendo in difficoltà.
E
ancora una volta la mia attenzione fu attirata dal suo sguardo
magnetico, che
sembrava volermi comunicare qualcosa di profondo e importante, qualcosa
che
aveva represso da tempo e tenuta nascosta, cercando di non pensarci. Ma
io
continuavo a non capire; era come se stessimo parlando due lingue
completamente
diverse. Si sporse ancora di più verso di me,
finché il suo volto fu a pochi
centimetri dal mio, così che potevo sentire il suo respiro
fresco sulla mia
pelle.
«Tu…»
disse, e il suo tono profondo mi fece rabbrividire,
«…sei vivo.
Per un giorno, per due o trecentomila, come vuoi, ma per ora
sei vivo. E questa è la base per avere tutto. Ascolta il tuo
respiro, il
battito del tuo cuore e renditi conto del loro splendore.
Già questo è vivere:
capire la bellezza della vita e non darla mai per scontata. Non cercare
grandi
cose, perché rimarrai deluso. Poi, sì, hai
ragione, per troppo tempo ti sei
cullato nel nulla, sprecando tempo prezioso. Ma il tempo è
l’unica cosa che non
ci sarà mai restituita e in questo io non posso aiutarti.
Devi decidere tu cosa
è meglio per te… scegliere il modo migliore per
finirla, questa vita. Tutto quello
che posso dirti è di dare la giusta priorità alle
cose…».
Ero
rimasto incantato dall’oro fuso delle sue iridi e le sue
parole mi erano rimbombate
nella testa come un tuono divino. Ero sicuro che, se mai fossi arrivato
ad
udire il suono del giudizio universale, l’avrei trovato
tremendamente simile a
quella voce.
«Non
capisco. Non so cosa devo fare». In quella frase si
sintetizzava tutto il mio
smarrimento.
Lui
sospirò, si morse le labbra e si allontanò da me.
Assomigliava a uno degli
antichi dei classici, che guardano i poveri umani sofferenti
dall’alto dei loro
troni di onniscienza e onnipotenza, provando pietà per la
loro ignoranza e
scuotendo il capo. Poi, senza aggiungere una sola parola, ma facendo un
gesto vago
con la mano verso di me, si allontanò lungo la corsia, per
poi sparire
attraverso la porta in fondo alla camerata. Prima ancora che mi
chiedessi il
perché di quel comportamento così strano, era
già di ritorno. Stringeva
qualcosa in mano, che, però, non riuscii a distinguere
finché non me lo mise
tra le mani. Corrugai la fronte e con una certa sorpresa mi accorsi che
si
trattava di un piccolo libricino rilegato in pelle, dall’aria
abbastanza
antica. Lo sfogliai per capirne qualcosa di più, ma le
pagine erano tutte
bianche, di pergamena color ocra. Alla fine, quando Carlisle mise sul
comodino
di fianco al letto una boccetta d’inchiostro e un pennino,
capii che sarebbe
stato mio compito riempire quelle pagine: un diario.
Il
giovane dottore posò una mano sulla copertina di pelle color
vino, stando bene
attendo a non sfiorare le mie dita con le sue, e disse:
«Annota tutto: i tuoi
pensieri, quello che vedi, quello che senti. E vedrai che ogni cosa
ritroverà
il suo posto sulla scalinata e nulla verrà sprecato o
lasciato al caso».
Poi
una voce femminile risuonò nella stanza, chiamando il nome
del mio amico, del
quale avevo completamente dimenticato le mansioni. Così lui
si dileguò con la
sua solita leggerezza, quasi come nebbia, lasciandomi lì
ancora più confuso di
prima. Io con quel diario tra le mani, su cui non sapevo che cosa
scrivere né da
che parte iniziare. Probabilmente non mi sarebbe bastato
l’inchiostro.
31/7/1918
Caro
diario,
sono
molte le cose che vorrei scrivere, ma alle quali, però, non
riesco a dare un
senso preciso o anche solo metterle in ordine. Queste idee sono tutte
qui, che
premono dietro i miei occhi e la mia lingua per essere liberate e
urlare cose
strane al mondo. Ripeto: non so da dove partire. Forse è la
febbre che mi
impedisce di ragionare, anche se ce la metto tutta, oppure
semplicemente tutta
la confusione che mi ha impresso questa situazione così
fuori dal normale. Non
riesco a interpretare quello che vuole farmi capire Carlisle, anche se
so per
certo che dietro alle sue parole di conforto e a volte
pure un po’ brusche c’è
molto di più. Una
volta che riuscirò a rivoltare l’animo di
quell’uomo come un calzino sono
sicuro che vi scoprirò qualcosa di molto più
grandioso o terribile di quanto mi
fossi mai aspettato o immaginato. Forse se facessi un elenco dei punti
degni di
nota riuscirei a fare un po’ di ordine tra i miei pensieri
accavallati gli uni
sugli altri, anche se poi dubito che riuscirò mai ad
arrivare a una conclusione
definitiva.
Ho
trovato, non so come, la forza di alzarmi da letto e ora scrivo
appoggiato al
davanzale della mia cara finestra, unico ponte tra me e il fuori. Ho
aperto la
finestra: è una bella giornata e non mi dispiacerebbe essere
laggiù in mezzo a
tutta quella gente a camminare sul marciapiede, con il volto battuto
dal sole e
nelle orecchie il ronzio della folla. Vicino all’ospedale
c’è un piccolo parco,
di cui si può scorgere un pezzo di prato verde tra le fitte
fronde degli
alberi. C’è tanta gente là sotto;
bambini che giocano e si divertono a
spaventare le papere di un piccolo laghetto, signore eleganti che vanno
a
passeggio riparandosi dal sole con i loro ombrellini pieni di pizzi e
signori
indaffarati dall’aria burbera che proseguono a passo veloce
verso la loro meta
senza guardarsi attorno. C’è tanto di quel
movimento laggiù. Se non mi
ritrovassi in queste condizioni, in questo luogo cupo e immobile, sarei
anch’io
insieme a tutta quella gente. Sarei un qualsiasi ragazzo di diciassette
anni
intento a studiare con i libri in mano o a scambiarsi battute stupide
con gli
amici sdraiati su un prato come quello, magari ripensando al gesto
sdolcinato
di qualche ragazza illusa di attirare l’attenzione. Sarei a
casa, con le dita
premute sui tasti del mio pianoforte, eseguendo la mia melodia
preferita o
cimentandomi con qualche brano complesso di Beethoven, cercando il pelo
nell’uovo e faticando per migliorare ancora. Di sicuro se in
quest’istante
fossi là fuori starei pensando alla composizione di un nuovo
brano, ancora
indeciso se optare per qualcosa di lento e dolce o per un pezzo un
po’ più
vivace, aggiungendo la e si bemolli qui e là sullo spartito.
E poi, una volta
soddisfatto del lavoro appena compiuto, avrei chiamato mia madre
dall’altra
stanza, per farla partecipe del mio nuovo successo e allietare le mie
orecchie
con le sue lodi. Poi sarei uscito di casa, dicendomi che per quel
giorno non
avrei studiato, nonostante gli avvertimenti di mio padre su quanto di
sarebbe
arrabbiato il professor Phillip. Ma sarei rimasto fermo nella mia
decisione e
ora sarei stato lì, sì, proprio lì
sotto questa finestra. Magari avrei lanciato
una breve occhiata all’ospedale, pensando a tutta la povera
gente sofferente
rinchiusa lì dentro. Avrei provato un attimo di
pietà per loro, ma poi mi sarei
girato dall’altra parte e avrei proseguito per la mia strada,
pensando a quello
che avrei fatto il giorno dopo. Ma di certo non avrei mai pensato che
un giorno
mi sarei ritrovato dall’altra parte, a guardare da questa
finestra.
Mi
chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura,
perché di certo
sta andando avanti. Con o senza di me, là fuori…
«E-Edward…».
Un
lamento strascicato, appena udibile, mi raggiunse
all’improvviso, facendomi
sobbalzare e facendomi rovesciare un po’ di inchiostro sul
foglio. Imprecai per
un istante, cercando di ripulire e facendo bene attenzione a non
macchiare le
lenzuola. Avevo lasciato la frase a metà e stavo per
riprendere il filo e
continuare a scrivere, quando un altro gemito soffocato
attirò la mia
attenzione. Mi voltai e notai che mia madre si era svegliata e che ora
si
rigirava nel letto lamentandosi. Le sue labbra screpolate continuavano
a
modulare il mio nome, come per chiedere aiuto, mentre gli occhi si
aprivano e
chiudevano spasmodicamente, seguendo il movimento convulso delle mani,
che
stringevano con forza le lenzuola stropicciate. Stava più
male del solito:
subito un terrore indescrivibile mi prese alla gola con artigli
uncinati.
Sbattei
via il diario e mi fiondai giù dal letto con un impeto
improvviso, senza badare
alla boccetta dell’inchiostrò, che si
rovesciò sul cuscino. Ma avevo fatto male
i calcoli. Infatti, nonostante in quei giorni avessi ritrovato la
lucidità
mentale che bramavo da tempo, la malattia non era di certo regredita e
le mie
forze erano quelle di sempre. A metà di quello slancio
istintivo mi accorsi di
non avere la forza sufficiente per reggermi in piedi e crollai per
terra come
un burattino, andando a sbattere contro il bordo del letto di mia madre
e
strusciando le ginocchia contro il pavimento duro. L’impatto
mi lasciò per un
attimo intontito e senza fiato, mentre un altro eccesso di tosse mi
colpì,
costringendomi ad accasciarmi a terra. Intanto sentivo la voce di mia
madre che
continuava a chiamarmi, ma io non riuscivo a tirarmi su né a
rispondere. Di
certo stava delirando: ormai la febbre era troppo alta. Subito una
parola venne
a galla tra tutta quella confusione, ma la cacciai via terrorizzato
come si fa
con i ricordi di vecchi incubi a cui non si vuole più
pensare. Costringendo
ogni singola fibra del mio corpo a contrarsi, mi alzai in ginocchio e
cercai di
ignorare il bruciore che proveniva dalle ginocchia sbucciate. Anche se
sentivo
il sudore colarmi tra le dita e rendere le mie mani umide e scivolose,
afferrai
con forza la mano di mia madre, come per cercare di porre un freno a
quel
tremito incontrollabile.
«Mamma…
Mamma! Sono qui… Non preoccuparti, va tutto bene…
Ci sono io…».
Balbettavo
senza senso, forse più per far coraggio a me stesso che alla
malata. E in
quell’istante notai che anche io avevo iniziato a tramare,
però non seppi se
per la paura o per la stessa ragione che aveva logorato quella donna.
Sentii il
fuoco divampare dentro di me, ma mi sforzai di tenerlo a bada. Intanto
mia
madre continuava a dimenarsi e a balbettare, ora urlando ora sillabando
semplicemente le parole, frasi senza senso e scoordinate. Scottava come
braci
ardenti e per un attimo fui quasi sicuro che la sua pelle stesse per
prendere
fuoco. Era pallida come un lenzuolo, mentre un paio di occhiaia
violacee e
marchiate le contornavano gli occhi: quel volto era di certo ben
lontano dalla
faccia sorridente e vivace che avevo conosciuto un tempo.
Non
sapevo cosa fare, come aiutarla, ma solo di una cosa ero quasi sicuro:
potevo
sentire la vita scorrere via dalle sue membra, evaporando insieme al
sudore,
l’anima scivolare furtiva fuori da quella dimora in fiamme. E
io volevo
ricacciarla indietro, pregando e pregando ancora qualsiasi dio o forza
superiore fosse mai esistita, implorando a quell’anima
pallida e nebulosa di
ritornare al suo posto, perché era ancora troppo presto, non
era pronta per
andarsene. Non era pronta per lasciarmi, proprio come aveva fatto
papà, in
silenzio. O forse non ero pronto io ad arrendermi
all’evidenza. Per un attimo
ricordai le parole di Carlisle e sentii forte come un tamburo il
battito del mio
cuore rimbombare contro le costole. Avrei dato qualunque cosa per poter
cavare
quella piccola cosa pulsante dal mio petto e darla a lei,
l’unica donna al
mondo che avessi mai amato e l’unica che ora mi faceva
soffrire così
atrocemente. Ancora un giorno, mezzo, ancora un minuto soltanto.
«Aiuto!».
Mi
misi a urlare con tutta la voce che avevo in corpo, attirando
l’attenzione di
tutta la camerata, pazienti, infermiere e medici, che,
d’altronde, erano ormai
avvezzi a scene del genere. Subito un manipolo di gente in camice
bianco si
fiondò sul letto di mia madre, correndo da una parte
all’altra, prendendo cose.
Credo che qualcuno mi abbia sollevato da terra e disteso di nuovo sul
letto, anche
se non posso dirlo con certezza. Subito le immagini attorno a me si
fecero
sfocate, finché una fitta nebbia non mi avvolse
completamente e non vidi né
sentii più nulla.
Rieccomi
qui prima del previsto: sono stata veloce questa volta eh? Ed ecco che
stiamo per entrare nel vivo della storia. Avevo pensato di inserire un
breve dialogo tra Edward e sua madre (una specie di "testamento",
diciamo così), ma il ritmo della storia è troppo
incalzante e non potevo dilungarmi ancora per molto. Sì, in
effetti un altro aspetto complicato di questa ff è che
bisogna concentrare in poco tempo (i pochi giorni necessari alla
malattia per fare il suo corso) un sacco di cose molto importanti, come
tutta la psicologia di Ed (su cui si potrebbe scrivere un libro
intero), il suo rapporto con Carlisle (altro libro) e la malattia e sua
madre. Quindi sono stata costretta a tagliare qualcosa, anche se mi
sarebbe piaciuto molto approfondire la figura di Elizabeth Masen (non
disperate però, magari riesco ad aggiungere qualcosa negli
altri chap), che, però, nel confronto con due mastodonti di
complessità come Carlisle ed Edward, non poteva certo avere
la meglio. Ok, finisco di cianciare e passo ai ringraziamenti:
pinkgirl: grazie
mille! In effetti il mio obiettivo è proprio questo, sia in
questa ff come in tutte le altre cose che scrivo: andare oltre la
banalità del semplice racconto dei fatti e far sì
che al lettore rimanga qualcosa di più dal punto di vista
morale. Mettiamola così, unisco l'ultile al dilettevole
keska:
sì, Edward da bambino doveva essere stato un vero amore (il
figlio che ogni madre sogna di avere). Per quanto riguarda la
velocità... no, mi dispiace, ma quella la acquisisce solo
una volta diventato vampiro
Wind: grazie anche a
te per i magnifici complimenti! Mi fa sempre piacere sentirmi dire di
essere riuscita a immedesimarmi con un personaggio, sopratutto quando
si tratta del nostro Ed :)
Faby hale: eccoti
qui! Non ti nascondo che la tua STUPENDA recensione mi ha davvero
sorpreso e affascinato. E, a dire la verità, è
stata proprio questa a spronarmi a scrivere il nuovo capitolo, quindi
è soprattutto merito tuo se ho aggiornato così
presto. Non immagini neanche lontanamente il piacere che mi ha
procurato leggerla e il sorriso a trentadue denti che mi ha
causato. Davvero grazie grazie grazie e grazia ancora! Ci dovrebbe
essere più gente che recensisca come te! Grazie per
l'originalità, le lodi al mio modo di scrivere (che
è il mio punto debole: quando mi sento dire che scrivo bene
mi sciolgo XD) e alla grammatica (mooooolto importante e spesso
moooolto trascurata). Poi, ok che me la cavo benino, ma addirittura il
paragone con la Meyer (=come mettermi ko); invidio a morte quella donna
e spero un giorno di raggiungere i suoi stessi traguardi (sogno nel
cassetto). Spero che anche per questo chap mi lascerai una recensione
fenomenale!
See
you soon guys!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** What isn't allowed to other people ***
Capitolo 5°
What isn’t allowed
to other people
«Ah, dottor Cullen! Eccola!
Finalmente è arrivato!».
Mi
voltai e mi ritrovai davanti Bidget, una delle nostre infermiere, una
donna di
mezza età, in carne e sul cui viso di solito riuscivo a
scorgere una
compassione in grado di gareggiare con la mia. Senza dubbio in quel
triste
luogo era una delle persone più premurose nel prendersi cura
dei malati.
«Qualcosa
non va?». Avevo sentito una strana sfumatura nel suo tono.
«Sì».
La sua espressione si fece se possibile ancora più grave.
«Si tratta dei
Masen…».
Smisi
di respirare per qualche secondo, come se qualcuno mi avesse appena
colto di
sorpresa assestandomi un forte pugno tra le costole. E, senza neanche
rendermene conto, fui subito preso da una strana paura, ma cercai
comunque di
mantenere un certo contegno.
«Cos’è
successo?». Nonostante i miei sforzi potevo sentire un certo
tremore nella mia
voce.
L’infermiera
si stropicciò leggermente le mani e io iniziai a temere il
peggio.
«La
signora… ha avuto una specie di attacco ieri
pomeriggio… poco dopo che lei
aveva finito il suo turno. Delirava per la febbre altissima e da allora
non si
è più svegliata. Le sue condizioni sono
più gravi del previsto: pensiamo che
ormai non le rimanga ancora molto».
Il
mio respiro si fece corto e se il mio cuore fosse stato ancora vivo
senza
dubbio avrebbe iniziato a battere all’impazzata. Presi atto
della nuova notizia
con calma, prendendola con le pinze e deponendola in un cantuccio, per
lasciare
la sua analisi a un momento più tranquillo.
«E
Ed.... il figlio? Come sta?».
«Sembrava
stabile, anche se, ovviamente, vedendo la madre in quello stato deve
essersi
spaventato non poco, povero piccolo. E di certo questo shock non ha
giovato
alle sue condizioni: è perfino svenuto, mentre cercava di
aiutare la madre. Si
svegliava di continuo, chiedendo di lei. Adesso dorme… pare.
Ma, sinceramente,
non sono per nulla tranquilla».
Senza
aspettare che Bridget finisse di parlare mi precipitai lungo la corsia,
seguito
a ruota dall’infermiera e indossando in fretta e furia il
camice bianco.
Bridget sapeva quanto nell’ultimo periodo mi fossi
affezionato a quelle due
persone e, più volte, mi aveva messo in guardia sul riporre
sentimenti e
speranze in quel genere di malati: diceva che mi preoccupavo
più dei problemi
dell’anima che di quelli del corpo. Per questo, appena ero
arrivato per il mio
turno di notte, si era fiondata su di me per informarmi della
situazione. Fin
dal primo istante in cui avevo posato gli occhi su quelle due fragili
figure,
avevo avuto ben chiaro che quel momento sarebbe arrivato: ma non avevo
immaginato che ciò potesse accadere così presto.
Intanto che percorrevo la
corsia a passo spedito e i miei occhi si soffermavano frettolosamente
su ogni
ammalato, mi maledissi mentalmente, desiderando ardentemente di essere
stato lì
ad aiutare quando era accaduto il misfatto. Però, forse per
giustificarmi, mi
dissi che, in ogni caso, non avrei potuto fare niente, che ormai il
loro
destino era segnato da tempo. Proprio come aveva detto Edward.
Alla
fine giunsi alla meta, con Bridget alle calcagna con il fiato corto, e
vi
trovai lo spettacolo che avevo sempre sperato di non dover mai vedere.
Prima
ancora di arrivare a vederli con gli occhi, avevo sentito il battito
dei loro
cuori, ormai lento e logorato, come di un orologio che, procedendo
sempre più
lentamente e con fatica, arrivi fino al punto di fermarsi. Socchiusi un
attimo
gli occhi e feci un profondo respiro per farmi forza. Sembravano due
maschere,
due bambole di cera riposte accuratamente nelle loro scatole candide.
Ma si
poteva vedere lontano un miglio che la più grave era
Elizabeth. Il suo
colorito, dall’ultima volta che l’avevo vista, era
diventato da pallido a
cinereo. Profonde occhiaia violacee le circondavano gli occhi
socchiusi, che
sembravano venir fuori da quel volto magro e incavato. I lineamenti
sembravano
erosi e stravolti, mentre il resto del corpo non aveva ormai
più valore di un
ramoscello rachitico. Potevo contarle ogni singolo osso e ogni singola
vena o
arteria attraverso la pelle quasi trasparente. Quell’orribile
immagine mi si
impresse così indelebilmente sul fondo degli occhi che, ne
ero certo, non
l’avrei dimenticata neanche dopo qualche migliaio di anni.
Anche Edward, anche
se sembrava in condizioni leggermente migliori rispetto alla madre, da
quando
l’avevo visto il giorno prima, assomigliava a
un’altra persona. Anzi, non pareva
più nemmeno qualcosa che si potesse definire umano. Era un
semplice corpo
abbandonato su un letto, in attesa che il tempo modificasse del tutto
le sue
fattezze. Sentii qualcosa di duro e appuntito trapassarmi il petto e
solo in
quel momento, dopo qualche centinaio di anni, riuscii a capire
veramente il
dolore a cui erano sottoposti quei fragili esseri umani, che avevo a
lungo
disprezzato a causa delle loro debolezze.
«Dottore…»
sussurrò Bridget, notando che le mie mani avevano preso a
tremare. «Sa bene
come la penso al riguardo. Abbiamo già fatto tutto il
possibile».
«Cosa
le avete dato?».
«Un
po’ di sedativi, giusto per farla stare tranquilla in attesa
che… be’…».
«La
febbre? Cosa le avete dato per la febbre?».
«Niente,
dottore. Ormai è troppo alta. Ho provato con degli impacchi,
ma non sono
serviti a niente. L’hanno già visitata altri tre
medici ed erano tutti dello
stesso parere».
«No!» gridai, sopraffatto
dall’emozione e
infuriato per le parole rassegnate dell’infermiera.
«Deve pur esserci qualcosa!
Non abbiamo fatto abbastanza. Vai a prendere…».
«Dottore,
si calmi!» esclamò quella, mettendomi una mano
sulla spalla e fissandomi
attentamente. «Come le ho già detto, abbiamo
già fatto tutto il possibile. Se
ne deve fare una ragione…».
Mi
placai un secondo, rendendomi conto delle insensatezze che stavo
dicendo: nella
mia lunga vita ben di rado mi era capitato di lasciarmi possedere
così
sconsideratamente dai miei sentimenti. Potevo sentire la mano calda e
viva
dell’infermiera sulla mia spalla, anche se i miei occhi
continuavano a stare
attaccati spasmodicamente a quei due fantasmi.
«Lo
so che è difficile» riprese Bridget,
«lei è ancora molto giovane e forse si fa
prendere ancora un po’ troppo dalle
situazioni…».
Mi
venne quasi da sorridere a quest’affermazione, ma mi
trattenni: di certo avevo
più anni ed esperienza di quelle tre persone messe insieme e
moltiplicate per
dieci.
«A
meno che non si abbia un cuore di pietra, chiunque qua dentro non
può fare a
meno di affezionarsi alla gente che cura. Ci facciamo partecipi delle
loro
sofferenze, alcuni arriviamo perfino a considerarli come nostri
figli…».
Il
mio sguardo si soffermò su Edward: ancora così
giovane…
«Però,
alla fine, arriva il momento in cui dobbiamo lasciarli andare al loro
destino:
il nostro compito è semplicemente quello di accompagnarli e
di alleviare le
loro sofferenze nel loro ultimo viaggio. Ho visto tanta gente morire,
qui e in
altri ospedali, e ormai ho capito che è una cosa naturale,
che è giusto anche
quando noi non vogliamo. Le pare giusto continuare a mantenere in vita
queste
due povere anime in questo stato? Ci pensi».
No,
volevo solo che tornassero come erano prima, a vivere una vita normale
e
assolata: quella vita che mi era stata tolta bruscamente e senza
chiedere il
mio consenso.
«Stia
accanto a loro quanto vuole, ma si ricordi che qui ci sono decine di
altre
persone nelle loro stesse condizioni. È suo dovere curarle,
non lacerarsi
l’anima per loro».
Detto
questo si allontanò in silenzio, lasciandomi lì
da solo in balia delle mie
angosce. Così era questo che dovevo fare: starmene
lì immobile in silenzio in
attesa che quelle due deboli fiammelle si spegnessero?
Recuperai
una sedia e mi sedetti tra i due letti, ascoltando i respiri rantolanti
dei
malati. Me ne stavo lì muto e inerme, ma il mio animo era in
subbuglio. Una
parte della mia coscienza, quella più razionale, continuava
a ripetermi le
parole di Bridget e professava con insistenza il loro buonsenso, mentre
l’altra, che rappresentava il mio cuore lacerato, urlava come
invasata. E quel
piccolo pezzo d’anima continuava a dibattersi e a strepitare,
additando
quell’ingiustizia, cioè che io, un mostro, potessi
godere del calore del sole e
quelle due povere creature no. Il senso di colpa mi assillava: chi ero
io per
meritare più di loro di vivere? Un vampiro,
soltanto un maledetto vampiro!
Ecco,
l’avevo detto, anzi pensato, dopo anni che tenevo ben
sottochiave quella parola
immonda. Sarei dovuto morire in quello scantinato, più di
due secoli fa, per
mano di quell’essere orribile che stavo cercando di
eliminare. Invece no, ero
ancora lì. E sarei vissuto al posto di due innocenti, io che
ero un essere
progettato per uccidere e sguazzare nel sangue ancora caldo. Mi nascosi
il viso
tra le mani per la vergogna. Quella donna, quella madre, e quel
ragazzo, suo
figlio… Non ricordavo abbastanza nitidamente mia madre, ma,
in un certo qual
modo, potevo comprendere le sofferenze di entrambi di fronte
all’imminente
rottura del loro rapporto. Di fronte a quella duplice ingiustizia, mi
battei un
pugno sul ginocchio, producendo un tonfo sonoro: marmo contro marmo.
Non sarei
riuscito a distruggermi nemmeno se l’avessi voluto con tutte
le mie forze. Ero
così forte, indistruttibile e… eterno a
differenza di quelle due esili figure:
di sicuro un soffio di vento un po’ più forte
sarebbe bastato a portarle vie.
Mi sembravano fragili foglie accartocciate che avevano appena
abbandonato il
loro rifugio sicuro sul ramo per cadere inavvertitamente a terra. Tutti
gli
umani erano così, esseri precari che danzavano su un filo di
nulla in attesa di
abbandonare il loro albero. E la cosa più drammatica era che
non bastava niente
per farle cadere: delle intemperie improvvise, il passare delle
stagioni o una
mano che le strappasse via senza pietà. Una mano come la mia.
All’improvviso
un rantolo mi distolse dai miei pensieri e, voltandomi verso la fonte
di quel
rumore, vidi che Elizabeth aveva aperto gli occhi e, lottando contro la
febbre
che aveva ormai raggiunto picchi vertiginosi, cercava di dirmi
qualcosa.
Scattai in piedi e mi avvicinai.
«Salvalo!».
Un sottile filo di voce roca le uscì dalla gola riarsa,
portando con sé gran
parte del fiato che le era rimasto. Ma, nonostante ciò,
quella parola mi
rimbombò nelle orecchie come se l’avesse urlata.
«Farò
il possibile» risposi, ben sapendo che non sarei mai riuscito
a mantenere la
mia promessa. Avevo voglia di aiutarla in qualunque modo, ma davanti a
me
vedevo solo strade sbarrate e impraticabili. Le strinsi spasmodicamente
la mano
tremante, tanto la febbre era talmente alta che non si sarebbe resa
conto del
gelo proveniente dalle mie dita. Misi tanta forza in quella stretta che
per un
attimo ebbi paura di farle male, ma subito la presa fu ricambiata dalla
malata
in modo così vigoroso che non avrei creduto che un essere in
quelle condizioni
potesse avere ancora così tanta forza a disposizione.
«Devi»
continuò. Per un attimo mi persi in quegli occhi verde
smeraldo, identici a
quelli di Edward, e vi vidi il riflesso di una lontana
vitalità e bellezza, che
per un nanosecondo ebbe la sua occasione di rivincita contro la
malattia. Mi
sembrava quasi lucida mentre mi implorava a quel modo.
«Devi
fare tutto ciò che puoi. Ciò che agli altri non
è consentito, ecco cosa devi
fare per il mio Edward».
Per
la seconda volta da quando ero arrivato lì, il mio respiro
fu mozzato. Mi
sentii messo a nudo e inerme di fronte a quelle due iridi profonde come
una
foresta impenetrabile, che probabilmente avevano scoperto il mio
segreto.
Subito la paura mi prese al cuore e mi resi conto di essere braccato:
come
aveva fatto a scoprire cosa ero veramente? Ciò
che agli altri non è consentito… Anche
la mia mano, come la sua che
stringevo ancora, iniziò a tremare e mi guardai intorno per
assicurami che non
ci fosse nessuno nei paraggi. Il primo istinto fu quello di scappare,
ma fui
trattenuto quando vidi gli occhi di Elizabeth, fino a quel momento
così vivi,
spegnersi e rivoltarsi all’indietro, mentre il suo corpo di
accasciava privo di
forze sul letto. Di sicuro stava delirando, mi dissi, però
non riuscii lo
stesso a scacciare dalla mente l’enorme serietà e
sicurezza con cui aveva
pronunciato quelle parole. Lasciai la sua mano, che continuava a
tremare
percorsa dai brividi: la febbre era salita ancora. A quel punto mi resi
conto
che non potevo fare veramente altro che aspettare. Passai
un’ora lì al suo
capezzale, mentre la malattia bruciava via gli ultimi resti di vita.
Vedevo
Elizabeth ardere lì davanti a me come un cadavere sulla
pira… prima del tempo.
Precisamente un ora e tre minuti dopo che mi aveva vincolato con quella
promessa
irrealizzabile, spirò. Se ne andò in silenzio,
senza altri strepiti e frasi senza
senso gettate al vento. Mi accorsi che era passata a miglior vita
quando non
vidi più il suo petto alzarsi e abbassarsi con fatica e
sentii il suo cuore
battere l’ultimo colpo quasi timidamente. E così
mi ero lasciato sfuggire
un’altra anima. Avrei voluto piangere per lei
finché non avessi avuto più
lacrime per niente e nessuno, ma un pensiero più importante
brillava in
quell’abisso di dolore e morte: cosa potevo fare per Edward?
Uno
strano rumore mi salì lungo la gola, qualcosa a
metà tra un singhiozzo e il
lamento di un animale in agonia. Non sapevo che fare e il problema
maggiore era
che dovevo agire in fretta, visto che anche ad Edward non rimaneva
ormai molto
tempo. Avrei dovuto chiamare Bridget o qualche altra infermiera per
informarla
del decesso di Elizabeth… della signora Masen, anzi. E poi?
Avrei dovuto
prendere le distanze da quella situazione già molto tempo
prima, già da quella
notte in cui avevo parlato con Edward per la prima volta. Sembravano
passati
secoli, quando invece pochi giorni mi avevano fatto amare quel ragazzo
come se
lo conoscessi ormai da tempo immemorabile. Come se fosse mio figlio.
Sì, avevo
aderito in modo sorprendente a quella realtà, mi ero scavato
un posticino
riparato tra quelle due persone, forse per ovviare alla mancanza del
padre o
forse solo perché quello di cui avevo veramente bisogno era
di sentirmi un po’
umano. Avevo inventato scuse su scuse, ma alla fine la
verità era proprio
quella: mi ero legato a quelle persone per uno scopo puramente
egoistico; non
per dare amore e conforto a loro, bensì a me stesso. Ero
quindi un essere così
terribile, che usa la gente anche nei loro ultimi secondi di vita? In
ogni
caso, mi dissi alla fine, per qualunque motivo avessi fatto aderire la
mia non-anima
alla loro, di anima, al momento non importava più di tanto,
infatti ora la mia
priorità assoluta era decidere. Ero veramente sicuro che
quello che aveva detto
Elizabeth corrispondesse a quello che stavo pensando? Quindi dovevo
veramente
prendere in considerazione l’ipotesi di… fare di
Edward un essere ignobile come
me? Un… No, la sola idea mi disgustava. Vagliai in pochi
secondi decine di
altre possibilità, ma tutte, invariabilmente, mi conducevano
allo stesso vicolo
cieco; se mai avessi voluto tentare di salvare quel ragazzo da morte
certa
quello era l’unico modo. Forse sarebbe stato meglio lasciarlo
al suo destino e
liberare la sua anima da quelle spoglie ormai decadute, senza
intervenire e
lasciare che la natura facesse il suo corso: di sicuro il luogo che
avrebbe
presto raggiunto sarebbe stato migliore di quello dove si trovava al
momento.
Avrebbe rivisto suo padre, sua madre, che nemmeno sapeva che fosse
morta, e non
avrebbe più sofferto le pene della malattia: sarebbe stato
libero. Però chi mi
assicurava che dopo che il suo respiro rantolante si fosse arrestato
avrebbe
davvero raggiunto un paradiso simile? E poi io ormai lo amavo come un
figlio,
come potevo desiderare la sua morte? Ed ecco ancora il mio egoismo
venire a
galla. In un lampo improvviso mi ritornò in mente tutta la
mia agonia, il
sangue e il fuoco ardente che avevano accompagnato la mia rinascita a
immortale, la mia trasformazione in… vampiro.
Avevo sofferto, sì, ma probabilmente in quello stesso
istante Edward stava
soffrendo allo stesso modo, quindi il dolore non sarebbe stato un
grande
problema. E poi era tanto che desideravo un compagno con cui
condividere la mia
natura e i miei segreti, senza dover mentire in continuazione e senza
riuscire
a trovare un minimo di felicità e rapporto umano. Ero sempre
stato solo e ora
mi si offriva su un piatto d’argento
l’opportunità di rompere quel confino.
Inoltre avevo promesso a Elizabeth di salvarlo… Ma
trasformarlo in vampiro
sarebbe stato salvarlo? O, anzi, avrei aggravato il suo stato,
tramutandolo in
un essere abietto e assetato di sangue? Potevo sopportare di vedere
così
distrutta un’altra vita, accettare che qualcun altro portasse
il mio stesso
fardello? Ma dall’altra parte c’era la morte,
quindi quale dei due mali
scegliere? Non riuscivo a distinguere quale fosse il minore. Poi una
vocina
debole e velata, come quella della donna che era appena spirata al mio
fianco,
mi sussurrò qualcosa all’orecchio in mezzo a tutto
quel trambusto di pensieri
discordanti: non era detto che diventasse un essere abominevole e
sanguinario,
magari sarebbe diventato come me. Gli avrei insegnato a disprezzare il
sangue
umano e a nutrirsi solo di quello animale, come facevo io, avrei
soffocato in
lui la sete di uccidere. Ma anche se fosse stato possibile, rimaneva
pur sempre
un problema: la trasformazione. Non sapevo se avrei avuto la forza
necessaria
per compiere un simile gesto o se la mia natura avrebbe avuto la
meglio,
ritrovando finalmente uno sbocco dopo essere stata incatenata e
sottomessa per
decenni. E se ciò fosse accaduto non me lo sarei mai
perdonato, sarebbe stato
anzi più grave, perché avrei condotto io stesso
alla morte l’unico essere che
era riuscito a riscaldare il mio cuore dopo una lunga era glaciale.
Mi
alzai in piedi e iniziai a camminare avanti e indietro con la fronte
aggrottata
e i lineamenti irrigiditi dall’ansia e
dall’indecisione. Mi passai una mano tra
i capelli e mi appoggiai per qualche secondo al davanzale della
finestra,
respirando l’aria pulita e calda proveniente
dall’esterno: facevo di tutto pur
di non soffermarmi a osservare il ragazzo, infatti ciò mi
avrebbe impedito più
di ogni altra cosa di decidere razionalmente. La mia mente continuava a
pensare,
a fare una lunga lista di pro e di contro, ma in capo dieci minuti ero
ancora
al punto di partenza, mentre il corpo morto di Elizabeth, che nessuno
aveva
notato, si raffreddava pian piano lì accanto. Le sue ultime
parole continuavano
a rimbombarmi nelle orecchie. Mi voltai di scatto, per riprendere il
mio su e
giù in quel piccolo angolo, e così facendo, senza
che me accorgessi, feci
cadere qualcosa dal comodino. Un fruscio di fogli e un piccolo tonfo mi
fecero
voltare repentinamente. Raccolsi l’oggetto caduto da terra e
in quello vi
riconobbi il diario che avevo regalato il giorno prima ad Edward. Lo
sfogliai
rapidamente e notai che, nonostante il poco tempo, aveva già
scritto parecchia
roba. Le pagine erano ricoperte dalla sua scrittura piccola e sinuosa,
delicata
nei trattini delle t e nelle gambe delle p e delle b. Mi soffermai a
leggere l’ultima
pagina, che riportava la data di quel giorno, probabilmente
l’ultima cosa che
aveva scritto prima di cadere in quello stato.
2/8/1918
ore 3 a.m.
Caro
diario,
è
ormai tardi, ma anche se sono stanco non ho voglia di dormire. Sento
che
qualcosa di terribile sta per succedere, qualcosa che probabilmente
cambierà
tutto, quindi non posso fare a meno di starmene qui a scrivere. La
mamma sta
sempre più male. Non si è più
risvegliata da oggi pomeriggio, quando ha avuto
quella terribile crisi, e credo che il brutto presentimento che non mi
ha
abbandonato un attimo da quel momento non sia del tutto infondato. Ogni
volta
che la guardo è una pugnalata al cuore sempre più
forte: non posso sopportare
di vederla in questo stato, io che me la ricordo ancora sorridente e
vitale. È
un po’ come vedere un tenero uccellino appena affacciatosi
alla vita, piccolo
ed indifeso, che cade inesorabilmente dal nido: dicono che sono i casi
della
vita, che ognuno ha il suo destino. Ma che vita è mai questa
mi chiedo… Molto
meglio la morte se si deve vivere sperimentando tante cose belle che,
però,
prima o poi ci vengono tolte, per poi soffrire enormemente non per non
averle
mai conosciute quelle cose, ma per esserne stati privati brutalmente.
Non offrire
mai il latte al gatto se sai che non gliene potrai più dare
altro: molto meglio
che si convinca che certe cose belle non esistono, no? O altrimenti
porre fine
al suo dolore con man forte. Ci dicono che dobbiamo accettare i dolori
e gli
ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che scopo? Basta, non
sono un
filosofo e in questo stato riflettere sul significato
dell’esistenza o sull’ingiustizia
di un essere superiore mi sembra insensato se non ridicolo. Sono
paziente e
aspetterò con calma che tutto finisca. Ma quanto ci
vorrà ancora? Ormai sono
pronto a partire, sono curioso di sapere cosa vedrò una
volta scostata la
cortina di pioggia e aver abituato i miei occhi alla luce
abbagliante… E
finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa
c’è oltre l’orizzonte.
Però
penso a Carlisle e mi sento un po’ in colpa a lasciarlo qui
senza una parola. Anche
se ci conosciamo da poco, le poche parole che mi ha rivolto hanno
significato
molto per me, mi hanno aiutato in questi ultimi attimi difficili a fare
pace
con il mio passato e con la vita in generale. Mi ha riconciliato con
ciò che
sono e mi ha rassicurato su ciò che sarò e per
questo non riuscirò mai a
ringraziarlo abbastanza. Mi rattrista doverlo lasciare senza poterlo
salutare
adeguatamente e soprattutto so che soffrirà la mia mancanza.
Mi sono
affezionato molto a lui e credo che questo affetto sia reciproco,
perciò ho
paura di procurargli un grande dolore. Non ho ancora capito cosa
nasconda sotto
quel velo d’apparenza, ma non m’importa.
Potrà essere qualsiasi cosa ma per me
lui rimarrà per sempre l’uomo che ha saputo farmi
vedere la luce alla fine del
tunnel.
Un’altra
cosa che rimpiango è di non aver mai conosciuto il vero
Amore. Non mi riferisco
all’amore in generale, di cui mi hanno dato spesso prova i
miei genitori e i
miei amici, bensì quel tipo d’amore che sa farti
felice e allo stesso tempo ti
fa piangere, che ti fa arrossire e sentire leggero come una piuma,
incapace di
pensare e di agire razionalmente. Mi manca l’essermi legato a
filo doppio con
qualcuno e rendere quella persona il centro esatto del mio universo.
Non ho mai
incontrato nessuna ragazza che corrispondesse alle mie aspettative o
che mi
facesse venire voglia di dire “ti amo” e ormai non
ho più tempo per queste
cose. Non mi manca l’essere stato amato, bensì
l’amare, il dare la propria vita
per l’unica persona che la merita. Se potessi vivere per
altri cento anni… ma
che dico, anche per un giorno soltanto… Ho ricevuto, ma non
sono riuscito a
dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma sono sicuro
che se mai
avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata la mia
aria, la
mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore. Avrei
attraversato
mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E questi
ultimi
pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono certo
che un
giorno o l’altro il mondo conoscerà qualcuno come
te, ma io purtroppo non sarò
lì a stringerti la mano e a sussurrarti dolci parole
all’orecchio. Ma non
importa, perché almeno sarò sicuro che qualcun
altro potrà godere della tua
luce.
Di
certo la più bella e luminosa di questo universo.
Per
sempre tuo,
Edward
Alzai
gli occhi da quella pagina scritta fitta fitta e sentii un nuovo
sentimento
sorgere in me, una nuova luce brillare nei miei occhi. Quella pagina di
diario
mi era arrivata direttamente al cuore come ben poche cose nella mia
lunga
esistenza. E pian piano che i miei occhi scorrevano sulle righe e
nuotavano
sulla scrittura morbida di Edward, una decisione si delineava tra i
miei altri
mille pensieri, soverchiandoli e prendendo il pieno potere. Alla fine
potei
dire di essere arrivato a una conclusione: non potevo ignorare quella
bruciante
voglia di vivere.
Era
ora di mantenere la mia promessa e fare ciò che agli altri
non è consentito.
Non ho
voglia di commentare e perciò lascio a voi quest'onere verso
questo nuovo chap narrato dal punto di vista di Carlisle, intenso e...
bo, non mi convince granchè. Ringrazio:
Wind: ecco un nuovo
aggiornamento :) oddio davvero ti ho fatto piangere? be' tieniti forte
allora per i prossimi chap! E se ami tanto il diario di Ed mi sa che
sarai felice nel sapere che lo ritroveremo ancora. Grazie mille!
Red Robin: grazie
mille anche a te per i complimenti *blush*
Faby hale: non uno
ma ben due commenti accidenti! Mi sa tanto che leggere la mia roba ti
fa male sìsì. Innazitutto grazie per
l'inifità di complimenti come sempre e poi ho molte cose a
cui rispondere. Primo: grazie per gli altri ringraziamenti riguardo
alle mie opere indegne. Secondo: Midnight Sun... mmm, sì...
a dir la verità ho sempre snobbato un po' la cosa
perchè ho visto che molta gente si cimenta con questo genere
e alla fine le varianti risultano sempre uguali... Poi bisognerebbe
essere molto fedeli al testo e a me serve un po' più di
libertà, senza contare che non voglio impegnarmi con lavori
così lunghi (mi stanco presto).... Però, bo, non
so magari con l'estate quando avrò più tempo
potrei pensare di scrivere un mini Midnight Sun.... vedremo!
Terzo: no, Daddy Eddy non l'ho abbandonata,
è solo che il tempo per scrivere è praticamente
nullo (l'ultimo chap di quella ff l'avevo postato prima correre via in
fretta a una festa).... comunque tranquilla che pian piano
ritornerò ad aggiornare anche quella (anche se devo dire che
Before mi sta prendendo di più). A presto!
Eddai
ragazzi recensite! Sennò poi Edward si offende! XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** As blood runs ***
Capitolo
6°
As
blood runs
Carlisle
Quelle
erano state le ultime parole famose prima della pura e semplice azione.
Avevo
in testa una tabella di marcia precisa che mi ero imposto di seguire
senza dar
voce agli altri innumerevoli dubbi che, malgrado fossero ora
più deboli e meno
numerosi, continuavano a riecheggiare nella mia mente cercando di
sviarmi.
Ormai avevo preso la mia decisione e non dovevo in nessun modo
tentennare se
volevo che tutto andasse per il meglio, quindi concentrai
l’attenzione sulle
mie mani e sulle mie gambe. Con fredda professionalità
comunicai al capo
reparto il decesso della signora Masen con tanto di orario preciso e
causa,
mettendo la parola fine sulla sua cartella clinica. E, anche se con un
lieve
tremito nei pensieri che sperai non si fosse propagato alle mani,
aggiunsi
sulla lista dei deceduti anche Edward, scrivendo accanto al suo nome
l’ora
fasulla della morte: esattamente cinque minuti dopo la madre. Agli
occhi degli
altri i due non sarebbero stati separati che per
un’infinitesimale frazione di
tempo, ma io sapevo che non era così: ebbi una breve
esitazione. Quello che
stavo facendo era certamente illegale, ma, mi dissi, dopotutto la legge
non
prevedeva norme riguardanti i vampiri attuali come quelli futuri, no?
Quando
tornai dalla morta e dal moribondo, trovai il letto di Elizabeth vuoto:
le
infermiere erano state più che previdenti nello far sparire
dalla vista il
cadavere, di cui rimaneva soltanto una lieve impronta sul materasso e
sul
cuscino. Non avevo nemmeno avuto il tempo di salutarla come si
deve… Senza
pensare una parola di più, mi affrettai a portare Edward
all’obitorio, prima
che qualcun altro, facendolo al mio posto, s’accorgesse
dell’inganno. Nel
tragitto, procedendo spedito per i corridoi, cercai di non incontrare
nessuno
sguardo, per paura che potesse trapelare qualcosa attraverso esso.
L’odore di
chiuso misto a disinfettante dell’obitorio mi travolse in
pieno insieme alla
luce chiara che si rifletteva sui muri intonacati di bianco e la
proverbiale
atmosfera gelida e distaccata. Bastò quello e il fatto che
non ci fosse nessuno
nei paraggi a farmi decidere di abbandonare subito quel luogo nefando,
preoccupato che potesse succhiare via le ultime tracce di vita di
Edward. Lo
avvolsi in una coperta e lo presi in braccio e in breve mi ritrovai per le strade di Chicago.
Ringraziai il cielo
che fosse abbastanza buio da permettermi di svignarmela attraverso i
vicoli,
evitando i lampioni senza essere notato. Le poche persone di passaggio
erano
solo un gruppo di ubriachi e un paio di individui dalla faccia losca
che di
certo non si sarebbero interessati ai miei traffici poco cristallini.
Quella
che chiamavo casa era un piccolo monolocale in un imponente palazzo in
mattoni
a faccia vista di recente costruzione, situato alla periferia della
metropoli.
Non mi ero mai preoccupato molto della mia abitazione e in molti si
chiedevano
come mai un dottore stimato s’accontentasse di vivere in
quella specie di
casermone, costruito principalmente per ospitare famiglie della classe
operaia
e in generale individui con basso reddito. Ma per me era un buon posto
principalmente per due motivi. Innanzitutto c’era un gran via
vai di gente,
anche poco raccomandabile, e tra quella comitiva ben assortita in pochi
avrebbero potuto notare eventuali stranezze che sarebbero potute
sfuggire al
mio controllo. Poi, a dir la verità, per me quella
“casa” era soltanto una
parte della mia facciata di normalità costruita, un pezzo
del puzzle della
menzogna, visto che, non avendo oltretutto bisogno di dormire, non vi
trascorrevo molto tempo. Nei primi tempi, però, tra i
condomini circolavano
parecchie dicerie sul bel dottore di Londra. C’era chi diceva
che non potevo
permettermi l’affitto di qualche bell’appartamento
del centro, che di certo più
si addiceva a un medico, perché avevo perso tutti i miei
beni nel gioco o sul
fondo di una bottiglia. Alcuni sostenevano che ero venuto in America
per far
fortuna dopo essere uscito da una violenta faida per faccende di
eredità,
mentre altri ribattevano che c’era di mezzo qualche donna,
magari una bella
ballerina di uno dei più celebri locali di Chicago, per la
quale avrei venduto
l’anima al diavolo. Ma, in fin dei conti, tutti concordavano
sul fatto che
oltre alla mia faccia cordiale ci fosse molto di più di
quanto dessi a vedere…
e non a torto. Ma con il tempo l’interesse per la mia figura
era andato
scemando, favorito anche dalle mie prolungate assenze.
Salii
le scale di corsa, sperando di non incontrare nessuno, e quando giunsi
al terzo
piano mi fiondai oltre la porta del mio appartamento come un ladro in
fuga. Una
volta dentro lasciai correre lo sguardo sull’unica stanza
cercando di calmarmi.
L’arredamento era semplice ed essenziale, sebbene
estremamente curato ed
ordinato; i colori scuri e un po’ smorti
s’intonavano con le pareti color
mattone e il cielo al di fuori della finestra annerito dai fumi delle
industrie. Un grande ed antico crocefisso di legno appeso al muro,
unico
ornamento in quell’ambiente spartano, mi ricordava la mia
vita passata, quando
ero umano nella mia Londra seicentesca, e in particolare mio padre. Il
rumore
del mio respiro accelerato vibrava forte nell’aria, unico
rumore oltre il
ronzio ovattato del traffico proveniente dalla strada e il pianto di un
neonato
due piano più giù. Stasi. Senza accorgermene
subito e senza staccare lo sguardo
dal crocefisso, mi ritrovai a balbettare muovendo convulsamente le
labbra
qualcosa che sulle prime non riuscii a classificare. Solo quando
riconobbi la
cadenza latina mi riscoprii, dopo secoli, a pregare. Non sapevo
perché, ma era
come se riuscissi a scorgere attraverso la croce il pulpito e le navate
in
penombra della chiesa, nella quale s’innalzavano lamentevoli
i canti dei salmi
dei fedeli. Probabilmente stavo pregando Dio di darmi la forza di fare
quello a
cui mi accingevo… o semplicemente per chiedergli di donare
la pace a quella
sottile anima che reggevo tra le dita come brandelli di un vestito una
volta
stupendo. Finii di recitare tra i denti un altro paio di formule e mi
decisi.
Sdraiai Edward su un logoro divano, che un tempo, prima
dell’avvento delle
trame, doveva rappresentare un appetibile pezzo
d’antiquariato, al centro della
stanza. Gli sistemai il cuscino sotto la testa e la coperta attorno al
corpo
smagrito. Profonde occhiaia gli cerchiavano gli occhi, quasi
l’avessero pestato
brutalmente. Quegli occhi,
pensai, un
tempo così brillanti e vivi, verde speranza proprio come
quelli di Elizabeth.
«Ma
che speranza ti rimane ormai?» sussurrai, ben consapevole che
non poteva
sentirmi.
Gli
passai una mano tra i capelli color bronzo, sulla fronte madida di
sudore e
sulle guance incavate. Ed eccomi lì ad indugiare
un’altra volta! Proprio non ci
riuscivo, mi era del tutto inconcepibile sfiorare quel ragazzo se non
con una
carezza paterna.
«Devo farlo» dissi continuando
il mio
monologo senza senso. Altrimenti sarei stato costretto a riportarlo
all’obitorio per lasciarcelo una volta per tutte; e sapevo
che quello sarebbe
stato mille volte più difficile. Ma da dove cominciare?
Socchiusi
gli occhi e, attraverso la polvere che turbinava nell’aria,
rividi per un
attimo quel breve passaggio che portava alle fogne della
città, poi la quiete
apparente fu subito rotta da un tumulto improvviso, con fuoco, falci e
forconi
mescolati a un inseguimento sfrenato. E poi quel
fuoco. Prima oscurità interrotta da grandi fuochi
d’artificio e poi il falò che
bruciava tranquillo ma costante, che mi mangiava ed abbrustoliva dal
basso
verso l’alto, dentro e fuori. La voglia di urlare, ma la
frustrazione di non
poterlo fare, la ricerca disperata di un qualche sollievo nel paese del
dolore.
E alla fine, quando anche le ultime braci avevano smesso di ardere
sotto lo
strato di cenere e pelle… il
risveglio.
E la consapevolezza. E il disgusto. Ma quelli erano venuti dopo; cosa
c’era
stato prima? La risposta brillava chiara nella mia mente: sangue.
Dovevo
graffiare e mordere, far colare quella preziosa linfa vermiglia ed
inquinarla
con il mio veleno. Il tutto gli avrebbe provocato dolore… Ma
quanto ne avrebbe
provocato a me? Sarebbe stato un po’ come offrire un
superalcolico a un alcolizzato
incallito riuscito miracolosamente a rimanere sobrio per molti anni.
L’avrei
ucciso? Mi sarei lasciato prendere dalla frenesia del sangue e
l’avrei ucciso?
Era un rischio che dovevo correre. Edward corrugò la fronte
ed emise un flebile
grugnito nel sonno e per un attimo fui sicuro che quel suono indistinto
fosse
una specie di incoraggiamento a farmi avanti. Mi avvicinai a lui,
accostando il
mio viso al suo, e sentii lontanissimo il battito del suo cuore
accompagnato da
ondate di calore, che mi investirono come un’inondazione. Fu
lì che lo sentii.
Il continuo scorrere nelle vene e nelle arterie col suo ritmo regolare,
accompagnato da quel profumo invitante, di certo il più
raffinato e ricercato
mai esistito, che avevo evitato per troppo tempo. Un brivido di
libidine mi
percorse la schiena. Accostai le labbra al suo orecchio e mormorai
appassionato: «Perdonami».
Di
lì il passo al suo collo, all’incavo sulla
clavicola dove il sangue pulsava
appena sotto pelle, fu breve. Un piccolo squarcio bastò ad
appannarmi la vista
e far sì che non vedessi altro che il rosso scuro del sangue
venoso mischiato a
quello più brillante di quello arterioso. Rosso sangue sulla
pelle candida di
Edward e sulla coperta. Rosso sul mio camice immacolato. Rosso ad ampie
chiazze
sul divano. Rosso che gocciolava sul pavimento in profonde pozze
vermiglie,
nelle quali si riflettevano moltiplicati i miei occhi scintillanti e
selvaggi.
Poi l’urlo acuto e lacerante di Edward, strappato
violentemente dal suo stato
comatoso, che mi trafisse i timpani e minacciò di mandare in
frantumi i vetri
delle finestre, mentre cercavo con tutte le mie forze di trattenere i
suoi arti
che si dimenavano furiosamente. Ma quello non era stato che un breve
interludio. Altro sangue rosso schizzò sui muri. Rosso sui
mobili. Rosso sul
tappeto. Rosso sul tavolino lì vicino. Una goccia rossa
perfino sulle braccia
del crocefisso. Altro sangue mi colava addosso come una cascata, mentre
graffiavo e i miei denti laceravano ogni singolo brano di pelle che mi
capitasse
a tiro. Quell’aroma invitante ormai mi circondava pienamente,
ma il disgusto
era troppo perché riuscissi a concedermi anche solo una
piccola degustazione.
Rosso che tingeva il mio animo e i miei pensieri. Rosso che mi colava
negli
occhi e sulle labbra.
Rosso
che mi imbrattava le mani giunte.
Edward
Dicono
che quando si muore si rivede tutta la propria vita, o almeno i momenti
più
significativi, come in un album fotografico o in un film. E
lì uno può
giudicare se è stato buono o meno, se ha fatto qualcosa di
utile e così via. È
un po’ come lo scrittore che, una volta terminato il suo
lavoro, ne rilegge la
bozza.. O quando finisce un amore profondo o un’amicizia
importante, quando si
fa il resoconto delle esperienze belle e brutte passate insieme. Ma in
quel
momento scoprii che non ci si deve affidare a ciò che dice
la gente. Io più che
un’ordinata storyboard l’avrei paragonato alle
visioni disordinate dovute ai
fumi dell’alcol o all’oppio. Brevi sprazzi senza
senso buttati qua e là, uniti
magari a qualche scena estrapolata da un contesto del tutto differente
se non
pescate dal subconscio e dalla fantasia. L’ultima cosa
precisa e razionale che
ricordavo era l’aggravamento repentino di mia madre, il mio
insensato tentativo
di soccorso e quelle ultime pagine, quella specie di testamento scritto
di
getto prima di addormentarmi. Non sono sicuro, però, di
essermi solamente
addormentato; magari ero anche svenuto o caduto in coma.
L’unica cosa certa era
che mi sentivo così stanco come non l’ero mai
stato in vita mia. E questo era
stato un lungo periodo di galleggiamento in qualcosa di insolito, forse
nella
stessa materia di cui sono fatti i pensieri e i sogni. Navigavo in
questo nulla
felice e beato perché non sentivo più il dolore,
né la preoccupazione, né il
tempo che passava. Ero sicuro che avrei potuto rimanere in quello stato
per
l’eternità e oltre. Ma poi mi ero sentito
strattonare, spingere e
schiaffeggiare con in sottofondo una voce neutra che chiamava il mio
nome
attraverso la parete trasparente della bolla in cui mi trovavo. Non
avevo avuto
nemmeno il tempo di ribattere a quelle sollecitazioni che avevo
già incontrato
due nuovi amici che mi avrebbero accompagnato per molto tempo. Si
chiamavano
Dolore e Bruciore e senza alcuna esitazione mi strinsero in un forte
abbraccio,
accompagnati da una strana sensazione, come di due aghi acuminati che
mi
perforassero quasi furtivamente la pelle del collo. La quarantena
nebulosa si
era dissolta in un attimo per lasciar spazio a ferro e fiamme. Era come
se mi
trovassi nel bel mezzo dell’eruzione di un potente vulcano;
vedevo fiamme e
resti carbonizzati di cose ormai irriconoscibili ovunque volgessi lo
sguardo.
Potevo perfino sentire la lava ustionante scorrermi nelle vene, mentre
le ossa
erano diventate rocce incandescenti che minacciavano di liquefarsi da
un
momento all’altro. Mi misi ad urlare, ma per quanto ci
provassi, per quanto
dessi fiato ai miei polmoni in fiamme, non riuscivo ad udire la mia
voce, quasi
che qualcuno avesse cancellato il suono e non facevo altro che
alimentare il
fuoco che mi avvolgeva. Non riuscivo più a sentirmi le
braccia e le gambe o
anche solo il busto con la contraddizione che, però, il male
lo avvertivo fin
troppo bene. Insieme a quella terribile sensazione di prurito e
fastidio dei
due uncini perennemente piantati nel collo. Mi contorsi per
un’eternità in
quella specie di letto infuocato in attesa che le fiamme si
smorzassero, visto
che non ero abbastanza ottimista da sperare che si estinguessero del
tutto. Il
passaggio dallo stato di stasi a quello così…
vivo, troppo vivo, era stato come
sbattere bruscamente il muso contro il muro durante un bel sogno. Ero
stato un
ingenuo e mi ero illuso che le mie sofferenze fossero finalmente
finite, che
magari in quel paradiso di nulla avrei perfino rincontrato mia madre.
Ed ecco, puff, tutto si dissolveva
in un botto
per mostrarmi la realtà oltre il sipario. Il tutto senza
sapere, poi, se ero
morto o ancora vivo. Però, a dir la verità, il
sogno e l’equilibrio apparente
non mi avevano mai abbandonato, ammesso che potessi definire quella
cosa
solamente un sogno da tanto che mi era sembrato reale.
Mi
trovavo in una radura che non potrei descrivere con altro termine se
non
bellissima. Il prato era di quel verde tenero dell’erba
appena spuntata e
assumeva una sfumatura più scura ai margini della radura,
là dove s’addensavano
le ombre degli alberi fitti. Al centro, invece, dove ero io, batteva il
sole
così forte da accecarmi. Ero sdraiato a terra e gli steli
delle margherite,
delle campanule blu e di un’altra infinità di
coloratissimi fiori di campo mi
ondeggiavano davanti agli occhi sospinti dal vento. L’aria
era fresca e pulita
e, inspirandola a pieni polmoni, potei quasi dimenticare il bruciore
proveniente ora dal petto. Ma, alzando leggermente gli occhi, mi
accorsi di non
essere solo. Un paio di occhi castani profondi e teneri come quelli di
un
cerbiatto indifeso mi fissavano attentamente da sopra un dolce sorriso
divertito. Notai i lunghi capelli color cioccolato che le accarezzavano
la
guancia e l’incavo del collo e capii che si trattava di una
ragazza. Il
problema era che ero più che certo di non averla mai vista
né tantomeno
immaginata. Però, nonostante tutto, non provai quel senso di
diffidenza ed
allerta che si ha di solito davanti a uno sconosciuto. Anzi mi sentivo
quasi
attratto da lei, come se sapessi per certo che di lei potevo fidarmi
ciecamente
e che, al contrario, conoscesse tutto di me. Senza dubbio era la
ragazza più
bella che avessi mai visto; avrei perfino osato dire che
l’amavo. Dischiusi le
labbra per chiederle chi fosse, da dove venisse, quale luogo fosse mai
quello e
cosa ci facessimo noi, ma fui interrotto da un suon gesto improvviso.
Allungò
una mano candida e morbida alla sola vista e prese la mia lasciandomi
senza
fiato, non solo per avermi colto di sorpresa ma anche perché
avvertii che in
quel semplice gesto c’era qualcosa di insolito. Le sue dita
intrecciate erano,
in confronto alle mie, tremendamente calde, quasi che un po’
del rogo che
ardeva in me fosse fluito in lei. La mia mano, invece, era come un
pezzo di
ghiaccio, che già iniziava a sciogliersi sotto quella
stretta bollente, tanto
che per poco non la ritrassi atterrito. Inoltre potei notare anche
un’altra
stranezza: era come se la mia pelle fosse cosparsa di tanti piccoli
diamanti che
rilucevano là dove batteva la luce del sole, dividendone il
fascio nei colori
dell’arcobaleno. Non riuscivo proprio a
spiegarmelo… Ma un istante dopo mi
accorsi di avere ben altro di cui preoccuparmi che quello strano gioco
di luci,
che probabilmente aveva ingannato l’occhio. La ragazza
sconosciuta si era
avvicinata paurosamente a me, tanto che per un attimo temetti che fosse
sul
punto… sì, di baciarmi. Invece
avvicinò le labbra vellutate e rosse come i
petali di una rosa al mio orecchio ed iniziò a cantilenare
una strana melodia. Come
tutto quello che mi circondava neanche quella specie di ninnananna
riuscivo a ricollegarla
a una qualsiasi cosa avessi mai incontrato nella mia breve vita. Di
certo era
la primissima volta che la udivo, ma bi bastò sentirla fino
alla ripresa
seguente per capirne il ritmo e trovarla meravigliosa: il genere di
composizione
di cui sarei stato più che fiero di attribuirmi la
paternità. Era dolce e lenta
e in breve mi fece dimenticare tutti i miei affanni, tanto che per un
nanosecondo fui certo di trovarmi ancora in quel paradiso fluttuante. E
poi la
sua voce… oh, era a dir poco divina! Ormai ero in suo pieno
potere… Ripeté
quell’amabile ninnananna per una seconda volta, per poi
alzarsi in piedi con
movimenti lenti e misurati e senza lasciare la mia mano.
Così facendo mi tirò
su e mi ritrovai in piedi davanti a lei, che riprese quella melodia
ormai a me
nota, ora quasi trattenendo una risata davanti al mio stupore. Poi,
però,
riuscì a sorprendermi ancora quando, come quando mi aveva
preso la mano tra le
sue, si voltò di scatto ed iniziò a correre,
mentre io rimanevo lì imbambolato e
spiazzato a guardarla danzare leggiadra come una fatina sui fiori;
sembrava
quasi che si librasse sulla docile brezza senza aver bisogno di
sfiorare il
terreno con al punta dei piedi scalzi. E intanto la sua risata
riecheggiava squillante
ed argentina, finché si abbassò lentamente di
volume, fino a spegnersi del
tutto quando si fermò ai margini della radura. Si
voltò e mi fissò ancora una
volta con quei profondi occhi da cerbiatto di una tenerezza
impensabile,
facendomi un cenno con la mano di raggiungerla. Io obbedii neanche
fossi stato sotto
l’influsso di un potente incantesimo, ma non riuscii a
percorrere più di
qualche metro che le gambe iniziarono a dolermi violentemente, come a
ricordarmi del fuoco che avevo dimenticato, fino a che ne persi del
tutto la
sensibilità e caddi a terra in ginocchio. Lei rise ancora e
continuava a
chiamarmi, mentre io provavo invano a rialzarmi. Un forte formicolio
nacque in
un punto impreciso sotto il ginocchio, per risalire tutte le gambe e la
schiena
e raggiungere le mani. Abbassai lo sguardo e notai che le dita avevano
preso a
tremarmi convulsamente e il terrore che ne seguì fu
cancellato subito da una
fitta al petto. Era come se mi avessero trapassato da parte a parte con
un
pugnale di ghiaccio e rimasi lì immobile quasi
contorcendomi, mentre potevo
chiaramente percepire il pulsare della pelle contro la lama e perfino
il mio
cuore agonizzante, centrato in pieno da quell’arma mortifera.
Caddi a terra
faccia in avanti come un soldato colpito in battaglia e per un attimo
sentii
tutto girarmi attorno, il cielo sostituirsi alla terra e gli alberi
capovolgersi. Ora tutto il fuoco si era concentrato lì dove
aveva colpito la
spada, pulsando orrendamente come se dovesse esplodere da un momento
all’altro.
Invece, a dispetto delle mie aspettative, quell’unico
focolare iniziò pian
piano a ridursi fino a diventare semplicemente una docile fiammella.
Ciò mi
permise di alzare gli occhi sulla ragazza, che si trovava ancora ai
margini
della radura, anche se la sua espressione era mutata del tutto: il riso
aveva
abbandonato il suo volto, ora corrugato e coperto da un velo di
sofferenza, che
riuscivo a scorgere a stento oltre le mani che le coprivano il viso.
Era la
personificazione del dolore. Poi, però, guardando meglio,
notai che non si
trattava più della ragazza di prima; era un po’
come se si fosse appena
trasformata in un angelo bellissimo e dolente. Un’aurea di
luce bianca l’avvolgeva
come una tunica e per un attimo credei quasi di scorgere un paio di ali
piumate
fissate sulle sue spalle. Aveva ancora le mani premute contro il volto,
come se
stesse piangendo per me, e dalla sua bocca socchiusa uscivano
singhiozzi misti
a lamenti. La luce bianca dava, infine, una sfumatura dorata ai suoi
capelli
biondi. Capelli biondi… Ma la ragazza di prima era bruna e i
suoi capelli erano
molto più lunghi… Eppure, a differenza di tutto
il resto che compariva in quel
sogno, avevo già visto quei capelli di quel colore
unicamente dorato. E anche
quella volta avevo creduto di avere davanti un angelo
dall’espressione pietosa
e triste. L’ultimo fuocherello rimasto al posto del cuore,
ormai unico punto in
cui potevo avvertire un dolore atroce, avvampò
un’altra volta.
«…et ne nos inducas in tentationem, sed libera
nos a malo».
Ora
udii chiaramente la voce dell’angelo e riconobbi tra i suoi
balbettii e
singhiozzi la famosa preghiera del Padre Nostro: quella creatura divina
stava
pregando per me. Forse per la mia salvezza… Ma
perché piangeva? Gli angeli sono
belli e portatori di felicità, non era giusto che anche il
mio angelo piangesse…
per me. Poi un pensiero mi fece venire le vertigini: conoscevo quella
voce…
L’ultimo
rogo sopravvissuto ormai non era ridotto che a una semplice fiammella
di
fiammifero. Udii il mio cuore battere un colpo, sonoro e potente come
quello di
un tamburo, per poi tacere per sempre e lasciare nel mio petto un vuoto
e un
silenzio che avrei odiato per l’eternità. Se il
mio cuore si era fermato… ero
dunque morto?
All’improvviso
la radura scomparve nel nulla così come era apparsa e mi
ritrovai a precipitare
in un abisso più nero della notte e senza fondo. Tuttavia
l’angelo rimase, era
sempre lì accanto a me, raggomitolato su se stesso e
piangente, che continuava
a ripetere meccanicamente quella sua preghiera in latino. Caddi. Ci fu
un
tonfo. La luce del mio idolo illuminò lo spazio circostante,
bucando quella
tela nera e pian piano mi accorsi che attorno a me c’erano
cose e colori, anche
se la sfumatura che sembrava prevalere era il rosso. Sbattei le
palpebre un
paio di volte e mi resi conto di essere sdraiato su qualcosa di
morbido,
probabilmente un divano, e di essere ricoperto da capo a piedi di una
sostanza
liquida, collosa e calda che non riconobbi. Mi sentivo tremendamente
strano e
più tardi scoprii che quella non era soltanto una
sensazione. La prima cosa
fuori dalla norma che notai era che il mio petto si alzava ed abbassava
regolarmente come dovrebbe essere in un qualunque essere che respira (e
questa
era una buona cosa), ciò nonostante non trovavo il battito
rassicurante del mio
cuore sul lato sinistro del petto (e questa era una brutta cosa).
Quindi ero un
essere che respirava ma a cui non batteva il cuore; il dubbio rimaneva:
ero
vivo o morto? E questa era soltanto una delle prime stranezze che poi
avrei
avuto occasione di scoprire: al momento la mia attenzione era attratta
da
qualcos’altro.
Avevo
creduto che, insieme alla radura e all’oscurità,
sarebbe scomparso anche l’angelo
piangente… Mi sbagliavo. Accanto a me seduto sul divano
stava lo stesso angelo
di prima, di cui riconobbi la singolare capigliatura dorata, anche se
la luce bianca
e le ali erano sparite. Aveva la stessa espressione di quello del sogno
o
qualunque cosa fosse, come le mani che gli coprivano il volto e la
fronte
corrugata. Da lui provenivano gli stessi identici gemiti che avevo
udito prima.
Tuttavia notai una discordanza: l’angelo del sogno non aveva
i vestiti e le
mani sporche di sangue… Cercai di alzarmi tirandomi su con
un gomito e quel
movimento lo avvisò del mio risveglio, facendolo scattare
come una molla. Si tolse
le mani dal viso e lo riconobbi una volta per tutte. Aveva le labbra
sporche
dello stesso sangue che aveva sulle mani e un po’ gli
colorava anche le guance
in strisce tirate bruscamente, che assomigliavano al trucco degli
indiani ma
che probabilmente si era procurato graffiandosi lui stesso le gote.
Aveva la
fronte aggrottata, la bocca formava una riga ricurva verso il basso e i
lineamenti erano duri come granito: anche lui, pensai, era la
personificazione del
dolore e del rimorso come l’angelo del sogno. Aveva gli occhi
lucidi e fui
sicuro che sarebbe scoppiato in lacrime da un momento; ma io ancora non
capivo,
anche se pian piano iniziò a delinearsi nella mia mente,
come un polveroso
volume tirato fuori da una soffitta dimenticata, il mostro spietato
dell’incubo.
Era lo stesso. Stessa persona, stessa situazione molto sanguinosa
(finalmente
capii cosa fosse il liquido colloso che avevo addosso). La paura nacque
spontanea nel mio animo e trattenni a stento un grido. Eppure la sua
espressione non era impregnata di odio e voglia di uccidere come nel
mio
vecchio incubo, bensì sembrava che la compassione che lo
caratterizzava fosse
fuoriuscita tutta d’un botto, insieme al rimorso per qualcosa
che aveva appena
fatto, alla pietà, al rammarico e alla sofferenza allo stato
puro.
«Carlisle…»
mormorai, riconoscendo in quel relitto il mio amico dottore.
«Dove sono?».
Lui
non rispose, al contrario si morse le dita e socchiuse gli occhi,
emettendo una
specie di guaito.
«Che
mi è successo?».
Quando
trovò il coraggio si tornare a guardarmi negli occhi, trovai
qualcosa di strano
e discordante nelle sue iridi. Non erano più del colore
dell’oro liquido come
quando mi avevano incantato la prima volta, bensì ora,
seppur sottile e quasi
invisibile, erano sporche di una sfumatura più scura e
rossa. Come…
Sì,
proprio come il sangue.
Ta-daaaaaan!
Ed ecco a voi finalmente il momento cruciale di tutta questa ff: la
trasformazione del nostro caro Edward. Be', spero di averla descritta
al meglio, visto che ho deciso di allontanarmi dalla versione della
trasformazione di Bella della Meyer e fare qualcosa di
più.... originale. Comunque non preoccupatevi, anche se il
nostro Eddy è già un vampiro
continuerò ancora un po' con le sue avventure.... che
andranno abbastanza lontano. Sperando che questo capitolo sia
all'altezza degli altri nonchè di vostro gradimento, passo
ai ringraziamenti:
GilGalahad: la tua
attesa è finita finalmente! grazie mille per i complimenti,
anche se credo di non meritarmeli tutti... continua a leggere, mi
raccomando!
pinkgirl: anche in
questo chap c'è il pov di Carlisle, anche se credo che d'ora
in avanti lo userò più raramente, ritornando a
fissarmi di più su Edward e sugli altri personaggi che
verranno... Per quanto riguarda Daddy Eddy la sto aggiornando
alternativamente con questa, ritagliando il poco tempo che ho a
disposizione, quindi, avendo due ff per le mani, gli aggiornamenti
saranno più sporadici... ma ci saranno eh! XD
Faby hale: Oh,
riecco la mia ammiratrice numero uno! I tuoi complimenti sono il mio
toccasana, visto anche che ultimamente sono un po' con l'umore sotto i
tacchi (il che influisce sull'ispirazione purtroppo). Mi dispiace di
averti fatto piangere, anche se in un certo senso è un buon
segno per me, perchè vuol dire che riesco ad arrivare al
cuore delle persone, che è poi il mio obiettivo. E, no, i
personaggi non li ho suggeriti io alla Meyer (sennò le
chiederi i diritti), diciamo solo che sono partita da una linea
generale presa dal libro per poi svilupparli secondo la mia fantasia,
visto che io adoro sezionare i caratteri umani ("Nulla di
ciò che è umano mi è estraneo"
Terenzio docet XD). Be', per questo capitolo centrale mi aspetto una
recensione bomba!!!! A presto e Grazie tante come sempre!!
Inutile che vi dica RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEE!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Newborn ***
Capitolo
7°
Newborn
«Carlisle…
io… tu… cosa…?».
Avevo
iniziato a balbettare e, anche se non ne ero del tutto sicuro, le
probabilità
che al balbettio si fosse unito anche un certo tremore delle membra
erano alte.
Mi sentivo inerme, frastornato e spaventato. Mi trovavo davanti a una
situazione senza senso o, se mai ne aveva uno, non riuscivo in alcun
modo a
coglierlo. La testa iniziò a girarmi e per un attimo
desiderai di svenire
ancora e ripiombare nel buio indefinito di prima. Senza pensarci,
allungai una
mano dalle dita tremanti e sporche di sangue rappreso verso il mio
amico, per
poi posarla sulla sua spalla in un disperato gesto di smuoverlo e
attirarne
l’attenzione.
Ma
appena la punta delle mie dita sfiorò la stoffa della
camicia stropicciata che
indossava lui scattò come una molla, tanto da far sobbalzare
anche me per la
sorpresa. Senza nemmeno capire come ci fosse arrivato o anche solo
credendo impossibile
una tale velocità di movimento, un secondo dopo lo ritrovai
in piedi accanto al
bracciolo del divano, a debita distanza da me. Il suo petto si alzava
ed
abbassava velocemente sotto il respiro affannato, le pupille erano
dilatate e a
chiunque sarebbe parso di avere davanti un pazzo. E ancora una volta
provai una
paura tremenda, temendo che se avessi fatto anche solo un gesto innocuo
avrei
potuto scatenare la sua ira. Passammo in silenzio quella che mi parve
un’infinità di tempo, entrambi immobili come
statue, e ogni secondo che passava
più la mia confusione e il mio sconcerto aumentavano. E
intanto il mostro
dell’incubo iniziava sempre di più ad uscire dal
suo nascondiglio tra i miei
pensieri annebbiati.
«Hai paura del buio?».
La
sua voce mi giunse alle orecchie all’improvviso come i
cardini arrugginiti di
una vecchia porta, stridendo fin quasi a farmi venire la pelle
d’oca. Sobbalzai
per l’ennesima volta nel sentirlo rompere quel silenzio di
tomba senza alcun
preavviso. Alzai lo sguardo su di lui e notai che non si era mosso di
un
millimetro, il che mi fece perfino dubitare che fosse stato lui a
parlare.
«Ti
ho chiesto… Hai paura del buio?».
Questa
volta, vedendo le sue labbra articolare con precisione ogni singola
parola,
senza però guardarmi in faccia, bensì tenendo gli
occhi fissamente attaccati al
pavimento, ne ebbi la certezza. Ma che razza di domanda era mai quella?
Mi
trovavo in un luogo sconosciuto, coperto di sangue, in compagnia di una
persona
che credevo amica ma che al momento sembrava aver perso completamente
il senno
e perlopiù senza sapere cosa mi fosse mai
capitato… e lui cosa mi veniva a
chiedere?
«Io…
cosa?». Avevo paura di rispondere.
«Rispondi».
«No.
Io… non ho paura del buio». Almeno così
era sempre stato, anche se in quel
momento perfino l’aria che respiravo mi faceva rabbrividire.
Quel luogo
trasudava qualcosa di strano ed oscuro. Sbagliato.
«Bene.
Andiamo…».
Mi
voltò le spalle e si diresse con passo spedito ma rigido
verso la porta in
fondo alla stanza, che prima non avevo notato.
«Ehi,
aspetta! Andiamo dove?» esclamai istintivamente.
Carlisle
si fermò di botto, quasi fosse stato colpito alle spalle o
congelato
all’istante, e sempre con lo stesso stridio si
voltò a guardarmi. La luce del
lampadario lo colpì in pieno viso e ora più che
mai potei notare il riflesso
rossastro delle sue iridi, come due rubini incastonati in quel viso di
marmo
pieno di angoli e abbozzato rozzamente. Un tremito mi percorse da capo
a piedi.
In quel volto stravolto da non sapevo bene cosa non riuscivo a
riconoscere
niente che richiamasse la figura angelica che avevo conosciuto
all’ospedale.
«A
fare due passi». In un nanosecondo, come se fosse dotato
della velocità del
fulmine, fu accanto a me e mi strinse il polso in una morsa di ferro,
tanto che
mi sorpresi di non sentire le ossa scricchiolare sotto la sua stretta.
Quindi,
quasi fossi un bambino cocciuto che non vuole ubbidire, mi
trascinò di peso
verso la porta, capendo che lo stupore dovuto alla situazione aveva
rallentato
parecchio i miei movimenti.
«Non
temere, ti spiegherò tutto» mi sussurrò
all’orecchio mentre varcavamo la
soglia. «Tranquillo».
Un
sorriso sbilenco si contorse sul mio viso. In quel momento avrei potuto
fare di
tutto tranne che stare tranquillo, pensai mentre Carlisle mi trascinava
nelle
tenebre che avvolgevano il pianerottolo.
Appena
la porta che dava sulla strada si aprì silenziosa mi
ricredetti subito su
quello che avevo affermato poco prima. Sì, avevo paura del
buio, anzi più
precisamente di ciò che vi avrei potuto trovare dentro.
Delle risposte che vi avrei potuto
trovare
dentro. Eppure… mmm… non so, c’era
qualcosa di strano in quel tipo di buio. Era
di certo una delle nottate più scure che avessi mai visto,
data la mancanza
della luna e delle stelle coperte da uno sottile strato di nubi bigie.
Però,
nonostante tutto, riuscivo a scorgere fiammelle di luce in quel pozzo
nero
senza fondo. Più in là il palloncino aranciato di
un lampione bagnava della sua
luce artificiale un pezzo di marciapiede e un paio di cespugli di
un’aiuola lì
vicino. Mi stupii di riuscire a scorgere anche da quella distanza ogni
singola
foglia di ognuno dei cespugli, su cui scintillava una fresca e
cristallina
rugiada, che rifletteva la luce del lampione come tanti piccoli
cristalli
colorati. Attorno alla capocchia del lampione, che pareva prendere
fuoco,
danzavano tantissimi insetti, zanzare e falene, disegnando complesse
trame
nell’aria. E potevo distinguere i disegni neri in campo
marrone sulle ali delle
farfalle notturne, che ogni tanto parevano scomparire nel nulla appena
si
posavano ad esempio sul fusto del lampione. Ma io riuscivo comunque a
scorgerle. Rimasi esterrefatto da una tale presa di coscienza, sicuro
che
doveva esserci per forza qualcosa che non andava: infatti in una
situazione
normale i miei occhi sarebbero stati ciechi davanti a
quell’oscurità. Figurarsi
intuire così tanti particolari di un oggetto che si trovava
almeno a cento
metri da noi! Mi doveva essere successo qualcosa di strano in quella
stanza,
questo era indubbio. Senza accorgermene ero rimasto fermo immobile
appena fuori
la porta del palazzo, imbambolato a guardarmi attorno usufruendo della
mia
nuova e potente vista. Abbassai lo sguardo sul selciato e notai una
solitaria
formica che si trascinava stancamente lungo il bordo del marciapiede,
camminando parallela a un sottile rigagnolo d’acqua che
moriva in un tombino.
Inspirai a fondo e colsi l’odore caldo dell’asfalto
sotto i miei piedi; potei
perfino sentire il calore che aveva accumulato durante
un’afosa giornata
d’agosto esalare dalla terra in quelle ore più
fresche. L’odore dell’acqua sporca
e carica di polvere accompagnata dal gocciolio ritmico sul fondo del
tombino: plic, plic. Un botto mi
colse alle
spalle facendomi sobbalzare, prima di capire che si trattava
semplicemente
dello sbattere di alcune imposte nel palazzo di fianco. Alte e rauche
risa
provenivano, invece, da un gruppo di ubriachi in fondo alla strada: un
rantolo
di vento me ne portò perfino l’aspro e stridente
odore di alcol. Di fronte a
me, dall’altro lato della strada, intercettai il ticchettio
delle zampette
unghiate di un ratto che sguazzava in un cumulo d’immondizia.
Il suo musetto
nero e ispido dai piccoli occhi scintillanti come stelle sopra una
chiostra di
dentini appuntiti e affamati faceva ogni tanto capolino tra i rifiuti,
che
costituivano un’ampissima gamma di odori e particolari su
cui, però, preferii
non indagare. Mi voltai dall’altra parte arricciando il naso
e mi ritrovai a
faccia a faccia con Carlisle.
«Vogliamo
andare?» domandò leggermente scocciato e alzando
un sopracciglio.
«Sì…
scusa».
E
senza aggiungere altro lo seguii come un cagnolino ubbidiente. Mentre
camminavamo nessuno dei due osò parlare, Carlisle
perché era troppo concentrato
sulla strada da seguire, mentre io perché ero troppo
meravigliato da tutto ciò
che si proponeva ai miei nuovi sensi. Era come se fino a quel momento
avessi
vissuto bendato, anzi era come se non avessi vissuto affatto. Ora mi si
presentava un mondo completamente nuovo e a ogni passo mi rammaricavo
di quanto
fossi stato miope nella mia vita precedente. Sicuramente nessun umano
si sarebbe
mai accorto del complesso intreccio dell’erba a stretto
contatto con il
terreno… Ma quindi cos’ero diventato? E come lo
ero diventato? Perché di certo
non ero più l’Edward che un paio di giorni prima
(quanto tempo era passato?)
stava inevitabilmente morendo in un letto d’ospedale.
Preoccupato di lasciare
una traccia del suo passaggio sul mondo… mah!
Quell’Edward non sapeva neanche
che cosa fosse davvero il mondo!
Anche
Carlisle, analizzato con la mia nuova vista e il mio nuovo olfatto,
sembrava
diverso e per un attimo dubitai che fosse perfino la stessa persona che
avevo
conosciuto. I suoi capelli non erano semplicemente biondi, ma avevano
una
sfumatura più chiara che tendeva al platino e su cui la luce
s’infrangeva, così
che sembrava che la sua testa fosse coronata di stelle. La sua pelle
era seta
pura, senza la benché minima imperfezione, mentre le
sopracciglia disegnavano
un arco geometricamente perfetto sopra ogni occhio. Potevo distinguere
la
polvere attaccata a ogni singola ciglia, da cui si alzava ogni volta
che
sbatteva le palpebre. La sua pelle emanava un profumo indescrivibile,
una
fragranza che probabilmente era l’essenza della bellezza
stessa, anche se in
quel momento leggermente intaccata dall’odore ferroso del
sangue rappreso sui
suoi indumenti.
In
breve (a dire la verità non avevo prestato molta attenzione
ai miei passi o
alla strada, limitandomi a seguire Carlisle) arrivammo di fronte a un
grande
cancello in ferro battuto, decorato con ghirigori e foglie
d’acanto. Conoscevo
quel luogo… I
miei passi avevano calcato
quel selciato decine di volte, il mio sguardo si era soffermato a
osservare le
frasche degli alberi che spuntavano da sopra la cancellata decine di
volte, i
miei pensieri erano volati sopra quelle linee verdi e flessuose decine
di volte
in giornate assolate dove il caos della città era vinto
dalla calma di quel
parco. Dopo scuola, nelle tiepide giornate di aprile e maggio, ci
passavo
spesso e magari ci sostavo per un paio d’ore sdraiato
sull’erba con in mano un
buon libro. A volte in compagnia, molto più frequentemente
da solo. Era un
momento in cui potevo staccare la mente dal mondo reale e lasciarmi
cullare
dalle mie riflessioni fantasiose e a volte strampalate. Ricordai
l’ultima volta
a cui avevo pensato a quel posto paradisiaco: era stato quando ero
ancora in
ospedale. Certo, ricordavo: dalla finestra dell’ospedale si
poteva godere di
un’ottima vista del parco. Per questo non era un caso che
Carlisle mi avesse
condotto proprio lì… ma a quale scopo?
Per
la seconda volta mi ero perso nei miei vagheggiamenti e quando il mio
compagno
riuscì finalmente a richiamare la mia attenzione lo vidi che
mi chiamava dall’altra
parte del cancello.
«Edward!»
esclamò e ora pareva aver riacquistato un po’ di
fredda razionalità. «Vieni!».
«Ma…
come?» balbettai. Non l’avevo nemmeno visto
scavalcare il cancello o passare
attraverso qualche passaggio nascosto… E se a
quell’ora di notte il parco era
chiuso c’erano delle buone ragioni; era già tanto
che non ci fossero guardie in
giro, pensai.
«Non
potremmo entrare! Non si può! È chiuso! Poi che
cosa vorresti mai fare?»
insistei.
Carlisle
sbuffò. «Muoviti e lo capirai».
«Ma
come faccio a…?». In effetti il cancello era
troppo alto per scavalcarlo con
facilità.
«Salta».
«Salta?
Ma… ma ti sei bevuto il cervello per caso? È
assolutamente impossibile!».
«Come
fai a dire che è impossibile se non ci hai neanche
provato?».
Inspirai
a fondo e sondai il cancello per cercare qualche possibile appiglio, ma
niente:
era una fortezza.
«Fidati:
salta e vedrai».
E
se le mie nuove doti che avevo appena sperimentato fossero state estese
anche
a… be’, altro? Chiusi gli occhi e feci per
spiccare un salto in direzione del
cancello, già pronto a sentire il freddo metallo delle
sbarre stamparsi contro
la mia faccia con un tonfo metallico. Invece, con mia immensa sorpresa,
mi
ritrovai dall’altra parte, del tutto incolume
nonché in piedi di fianco a
Carlisle, che ora mi sorrideva. Era come se mi fossi teletrasportato
dall’altra
parte senza fare il benché minimo movimento, anche se lo
spostamento d’aria che
avevo sentito scostarmi i capelli dalla fronte era stato
straordinariamente
forte e breve. Ciò significava che ero diventato una specie
di supereroe
incredibilmente veloce e forte? Cercai gli occhi del mio amico in cerca
di
rispose, ma come al solito non ne trovai, visto che lui si stava
già dirigendo
a passo spedito verso la parte più buia del giardino. Scossi
la testa e lo
seguii: ero curioso di sapere dove mi avrebbe condotto quella strana
avventura.
Mi
sembrava così strano camminare ancora una volta in quel
luogo, cosa che non
credevo sarebbe mai stato possibile. L’aria della notte era
tiepida e le cicale
frinivano tra le erbe. In fondo al parco, in mezzo a folti cespugli,
baluginava
qua e là la luce intermittente di qualche lucciola. Non ero
mai venuto in quel
posto di notte, ma di certo, mi dissi, forse anche grazie ai miei nuovi
sensi
sviluppati, era il luogo più bello che avessi mai visto. E
pensare che a due
passi da lì avevo vissuto la più grande tragedia
della mia vita. Chissà se la
mamma era ancora là? Mi venne un’idea: magari
sarei potuto andare a trovarla,
per farle vedere che ora stavo bene e che non doveva più
preoccuparsi per me,
che l’avrei curata io d’ora in poi.
M’avvicinai a Carlisle per comunicargli la
mia idea, sicuro che avrebbe accettato visto che sapevo quanto anche
lui avesse
a cuore la salute della mamma. Però, appena feci per aprire
bocca, lui mi zittì
con un cenno e svoltò nel primo vialetto a destra. Anche se
era buio pesto
potevo scorgere la sua espressione concentrata, su cui però
affiorava una forte
dose d’ansia. Dopo che avemmo camminato per altri cinque
minuti tra i vialetti
bui del parco, illuminati qua è là da qualche
sporadico lampione, la cui luce
aranciata si univa al verde inteso degli alberi, iniziai a
spazientirmi. Stavo
per chiedergli dove accidenti fossimo diretti, quando lui mi
zittì di nuovo.
Alla fine arrivammo a un altro cancello, più piccolo del
precedente, che però
non ricordavo di aver mai visto. Fui sicuro di poterlo scavalcare
facilmente,
ma Carlisle invece si mise a trafficare con le catene che lo chiudevano
e in
breve le sciolse, sempre con mio grande stupore. Quando il piccolo
cancello a
un solo battente, che si mimetizzava benissimo tra due piccoli cipressi
ingialliti dalla siccità, s’aprii con un rumore
vellutato sui cardini ben
oliati, lo riconobbi. Non avevo mai avuto occasione di varcarlo, per
fortuna.
Infatti, come già detto, l’ospedale dava sul parco
e proprio in quell’angolo
confinante con il giardino era situata la piccola cappella annessa
all’obitorio, dove venivano allestite le camere ardenti.
Negli ultimi anni, da
quando l’epidemia si era diffusa in città e i
cimiteri, come gli ospedali,
trasbordavano di povera gente, si era deciso di adibire un pezzo del
terreno
della cappella a campo santo. Ma che c’entrava quel luogo con
me?
«Mi
dispiace dover essere così drastico con te. Davvero, mi sto
odiando per quello
che sto per fare… be’, e per quello che ho fatto.
Ma credo che il modo migliore
per prenderne atto sia vederlo con i tuoi stessi occhi. Perdonami se
puoi»
sussurrò Carlisle abbassando il capo, così che
non potei scorgere il suo volto,
mentre passavamo davanti all’entrata della cappella. Ma per
me quelle parole
non avevano nessunissimo senso. O forse l’avrebbero avuto da
lì a breve. Non ci
spingemmo più in là: giusto quanto bastava per
incontrare le prime lapidi di
quel piccolo cimitero improvvisato. Potevo percepire le
irregolarità del
terreno sotto i miei piedi e uno viscido odore di putrefazione che
aleggiava
nell’aria. Mi voltai verso il mio amico medico con sguardo
interrogativo.
«Seconda
fila terza da destra» mi rispose semplicemente.
«Vai da solo. È meglio che ti
aspetti qui».
Detto
ciò si sedette rannicchiandosi sui gradi della cappella,
chiuse gli occhi ed
intrecciò le mani sotto al mento: fui più che
sicuro che aveva ricominciato a
pregare. Ma non feci troppo caso a quelle stranezze (che erano troppe
per
essere prese in considerazione tutte in una notte), e mi avviai verso
la lapide
che mi aveva indicato, incuriosito. Di chi mai doveva essere?
Perché doveva
interessarmi? Perché Carlisle aveva preferito rimanere in
disparte? La luce era
pochissima, le lapidi semplici di pietra grigia senza nemmeno un fiore
tutte
uguali e fredde. Era proprio come all’ospedale: tante persone
tutte accumunate
dalla stessa terribile sorte. Il nome di ognuno era scolpito con
magistrale
attenzione e si potevano riconoscere senza difficoltà le
tombe più recenti. E
la fila che mi aveva indicato era molto recente: la terra era ancora
smossa e
le sepolture dovevano risalire a non più di qualche giorno
addietro. Finalmente
arrivai alla meta e lessi con viva curiosità.
ELIZABETH
MASEN
?
– 2-8-1918
«No…».
Rimasi
senza fiato e sbattei le palpebre. Rilessi frettolosamente un paio di
volte,
certo di aver interpretato male la scritta. No, dovevo ricredermi,
avevo letto
benissimo. Dunque era morta? La notizia mi colpì in pieno
con la potenza di un
meteorite, devastandomi e facendomi tremare le ginocchia, che non
ressero a
lungo quel peso e mi abbandonarono ben presto a terra. Affondai le dita
nella
terra ancora umida e per un attimo mi passò per la testa il
pensiero di
mettermi a scavare e di ritrovarla ancora lì, sotto quella
coltre di terriccio,
ancora sorridente e pronta ad abbracciarmi ancora una volta. Ero sicuro
che mi
sarei messo a piangere, invece, malgrado mi sforzassi in tutti i modi,
non
riuscii a cavarne una lacrima da quei nuovi occhi. E pensare che solo
poco
prima, prima di varcare quella maledetta soglia, avevo immaginato
quanto le
avrebbe fatto piacere rivedermi. Già, rivedermi. Non
l’avrei mai più rivista.
Dovevo morire io, io, IO! Al suo posto… Perché a
lei avevano permesso di
andarsene così e a me no, e a me avevano assegnato quel
destino, che non sapevo
ancora bene in cosa consistesse. Ora che anche la mamma mi aveva
abbandonato su
che pilastro avrei poggiato la mia esistenza? Avevo solo diciassette
anni: dove
potevo andare? Cosa potevo fare? Gemetti e gemetti ancora come un cane
in
agonia, ma di piangere non se ne parlava neanche, non ci riuscivo. E
così era
questa la cosa che Carlisle non sapeva come dirmi, la cosa che con i
miei occhi
avrei potuto capire meglio: che mia madre era… No, non
potevo dire quella
parola, sarebbe stato come accettare che non c’erano altre
possibilità, che quella
era l’unica realtà e io non volevo in alcun modo
crederci. Ero solo e smarrito
e in quel frangente desiderai ardentemente di ritornare agonizzante in
quel
letto, per poi raggiungere mia madre in quel piccolo cimitero. Come
tutti gli
altri. Come era stato mio destino fin dall’inizio. E rimanere
con lei per
sempre. Via da questa vita immonda.
Un
paio di mani forti m’afferrarono da sotto le ascelle e mi
tirarono su di penso.
Io non mi opposi e barcollai un poco prima di riuscire a reggermi in
piedi.
Avrei tanto voluto potermi sdraiare lì e rimanerci in
eterno… Carlisle mi passo
un braccio attorno alle spalle per farmi coraggio, ma non ci badai
molto perché
mi girava la testa e mi sentivo totalmente intontito dal dolore. Credo
che mi
avesse anche sussurrato qualcosa all’orecchio, che
però non compresi. Ero
improvvisamente ripiombato nel paradiso fluttuante di prima, che
però non era
più un paradiso ma solo una massa di ricordi appuntiti che
galleggiavano
attorno a me ferendomi ad uno ad uno. E tutto girava attorno a me come
una
giostra. Ma all’improvviso la giostra si fermò e
qualcosa mi fece ripiombare
bruscamente nella realtà.
Uno
strano odore mi giunse alle narici, risvegliando in me qualcosa di
nuovo e
terribile. Era difficile da descrivere, anche perché non
l’avevo mai sentito in
vita mia, ma ai miei nuovi sensi suonò come qualcosa di
gustoso e magnifico. Latte
e miele. Questa fu la prima associazione abbastanza adatta che mi venne
in
mente. Quel profumo così invitante mi entrò nel
naso, scese nella gola e mi
riempì i polmoni, cullandomi e allo stesso tempo
frastornandomi come una
potente droga. Per un attimo, anche se sentivo Carlisle chiamarmi, non
capii
più nemmeno dove mi trovavo. Poi ripresi coscienza
bruscamente e con uno
sguardo febbrile ricercai la fonte di quel profumo paradisiaco. Un paio
di
uomini erano appena usciti dalla cappella, trasportando una pesante
bara, che
ora stava adagiando nella fossa a essa destinata. Sentivo i loro
respiri
affannati perdersi nell’aria, i loro muscoli contrarsi sotto
il peso della
cassa, il sudore colare sulle loro fronti e le vene ingrossarsi per il
caldo. Le
vene… Era da lì, mi resi conto con un brivido di
piacere che mi stupì, che
proveniva quel sapore che avevo iniziato a bramare così
tanto. Era il loro
sangue che chiamava la mia gola riarsa e che ormai pareva carta vetrata
da
tanto era assetata. In un’altra occasione oppure nella mia
precedente vita
sarei rimasto disgustato davanti alla prospettiva di bere sangue umano.
Ora,
invece, l’idea non mi ripugnava affatto, anzi agognavo a quel
liquido rosso
come alla fonte primaria di vita. Senza pensare, ormai dimentico del
dolore e
della tomba di mia madre e completamente impazzito da
quell’odore, feci per
fiondarmi sui due uomini, che non avevano per niente notato la nostra
presenza.
«Edward,
no!». Una voce
m’ammonì alle spalle,
ma non le diedi ascolto. Poi qualcosa mi afferrò bruscamente
per un braccio,
facendomi cadere a terra e sbattere la testa contro una lapide. Rimasi
a terra
inebetito per qualche secondo, che bastò
all’aggressore alle mie spalle, che
senza dubbio doveva essere Carlisle, per raccogliermi e portarmi via di
voltata.
Lontano
da quella tentazione.
Scusate
tanto: avevo intenzione di aggiornare qualche giorno fa, ma purtroppo
sono stata malata e non ne ho avuta l'occasione. Comunque... Ho deciso
di dividere la presa di coscienza di Ed della sua nuova natura in due
parti: una più legata alle sensazioni (questo chap) e
un'altra in cui ci sarà una spiegazione più
razionale (il prossimo chap). Come il precedente, anche questo
è stato un capitolo abbastanza difficile da scrivere: come
ci si sente a essere un vampiro? Eh, bella domanda... Be', spero che
anche questo episodio sia stato di vostro gradimento! Ringrazio:
tess89: grazie mille
per i complimenti, sono sempre ben graditi! ^^ Per quanto riguarda la
domanda, mi dispiace ma non posso risponderti subito. Lo vedrai
continuando a leggere! Quindi seguimi e recensisci!
Ale78: Kipling hai
detto? Mmmm, fin ora non ho mai avuto occasione di leggere niente di
lui, ma ti assicuro che appeno posso vedrò se riesco a
reggere il paragone! Grazie anche a te!
Jadis96: nono,
figurati! Anche se la frequenza degli aggiornamenti non è
proprio il massimo la continuerò fino alla fine. Grazie e a
presto!
Wind: un
rigraziamento grande grande anche a te! Sono sempre contenta di sentirmi
dire che mi so immedesimare bene nei miei personaggi, visto che per me
è fondamentale!
Faby hale:
addirittura il capitolo più bello? Ooooh ma così
mi fai arrossire Xd Be' come al solito non mi lasci molto da commentare
visto che hai già detto tutto tu. Anche questa volta sei
riuscita a cogliere il significato di base dell'opera: brava! Non so se
te l'ho già detto (probabilmente sì) ma credo che
potresti essere un'ottima critica letteraria! Inoltre mi piace che tu
abbia usato la parola visione, visto che quando scrivo mi capita
proprio così: sono visioni, immagini di un film che "vomito"
sulla carta... Un ultima cosa: ho deciso di inserire un'analessi di
Bella e la radura anche per distaccarmi dalla versione della
trasformazione data dalla Meyer. Grazie 1000 per i tuoi fantastici
(come al solito) complimenti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Tell me angel ***
Capitolo
8°
Tell
me angel
Il
respiro mi usciva rantolante e rumoroso dalla bocca e dal naso, mentre
l’adrenalina si scioglieva pian piano e si diluiva nelle
membra per poi
scomparire. Mi sentivo come se avessi appena percorso cento miglia di
corsa in
meno di un paio d’ore. O come se fossi precipitato da un
altissimo crepaccio.
Stordito, sbalordito, senza fiato… e affamato.
Sì, perché l’odore che mi aveva
attirato così bruscamente nel cimitero non mi aveva ancora
abbandonato, bensì
continuava ad aleggiarmi sotto al naso impertinente e punzecchiante. E
intanto
la bocca della stomaco mi si chiudeva e mi si seccavano le labbra. Non
riuscivo
a darmi pace: dovevo avere assolutamente qualcosa da mangiare. O
meglio, da bere. Alzai uno sguardo
ardente su
Carlisle, seduto immobile sulla panchina di fianco a me. Sembrava una
sfinge e
non pareva minimamente turbato dall’accaduto. Voglio dire,
avevo appena tentato
di uccidere un uomo (il pensiero mi lasciava tutt’ora
sconvolto) e ne bramavo
ancora il sangue… e lui se ne stava lì seduto
tranquillo ad aspettare che mi
riprendessi dalla shock. Be’, non che sembrasse poi molto
tranquillo, mi dissi appoggiando
la testa al tronco dell’albero che mi sosteneva; continuava
ad essere teso come
le corde di un violino, con tutti i sensi allerta in attesa di cogliere
anche solo
un minimo rumore, come un felino a caccia. Non so di preciso come abbia
fatto a
trascinarmi fin lì contro la mia volontà:
infatti, mentre correvamo via a
perdifiato dal cimitero, sentivo che avrei potuto rivoltarmi contro di
lui ed
avere facilmente la meglio, visto che mi sentivo forte e devastante
come un
torrente in piena. Ma non l’avevo fatto. Forse
perché erano successe troppe
cose insieme e non ero riuscito ad incanalare le mie nuove forze nella
giusta
direzione, quella del sangue pulsante che mi chiamava insistentemente.
O forse
perché… non riuscivo a spiegarmelo: non riuscivo
a spiegarmi perché fossi così
attratto da quella nuova e strana fonte di sostentamento, non sapevo
perché ero
diventato improvvisamente così forte, veloce, dotato di
sensi così fini, non
capivo perché Carlisle si comportasse in maniera
così strana, non potevo
comprendere perché non fossi stato capace di versare lacrime
per mia madre e
onorarla del cordoglio che meritava. Era un ginepraio che non potevo
più
sopportare. E c’era sempre quell’odore, quel sapore
quasi afrodisiaco che mi
seguiva come una scia e che mi imponeva di tornare al cimitero e fare
piazza
pulita. Ma mi trovavo come in mezzo a due poli magnetici apposti:
quello del
sangue rosso e caldo e quello di Carlisle, che al momento mi pareva
perfino più
invitante. Sì, infatti lui possedeva le risposte.
Tentennai
per un attimo e alla fine mi alzai dal tronco per andarmi a sedere
sulla
panchina di fianco al mio compagno. Ci trovavamo ancora nel parco,
anche se
dalla parte opposta con tutta probabilità, in un angolo
appartato nascosto ai
vialetti di solito più frequentati durante il giorno da
grandi cespugli di
biancospino, che in quel periodo erano fioriti ed emanavano a ondate un
profumo
dolciastro e delicato. Se non altro con quei fiori tutto attorno era
più
difficile pensare alla mia nuova tentazione… Mi appollaiai
sul bordo della
panchina di pietra e continuai a fissare Carlisle con lo stesso sguardo
di
fuoco di prima.
«Carlisle…
Mi devi delle spiegazioni, parecchie spiegazioni». Quasi mi
sorpresi del mio
tono sicuro e coinciso con il quale ero andato direttamente al sodo
senza i
miei soliti tentennamenti.
Lui
non si voltò neanche a guardarmi, come avevo notato che
faceva sempre da quando
mi ero risvegliato, anche se uno strano sorriso amaro gli sorse sulle
labbra.
«Sapevo
che l’avresti detto» sussurrò.
«Mi
sembra il minimo dopo… dopo tutto».
Non sapevo nemmeno come definirlo, quel cambiamento. Erano avvenute
così tante
cose tutte insieme.
Carlisle
sospirò scuotendo il capo e lasciandosi perfino andare ad
una risatina leggera
e decisamente fuori luogo. Mi stava prendendo in giro? Senza neanche
pensarci e
preso all’improvviso da un impulso folle e animalesco,
scattai in piedi e,
camminando avanti e indietro davanti alla panchina spazzando con i
piedi il
terreno dalle foglie morte, mi misi quasi ad urlare.
«No,
non mi devi delle spiegazioni, le pretendo! Cosa credevi, eh? Di potermi
trascinare da una parte all’altra della città,
fare il bello e il cattivo tempo
senza dirmi niente? Niente?!?».
Ma
lui continuava a fissarmi in silenzio, anche se avevo notato uno strano
movimento delle sue labbra: era come se stessero tremando, indecise
sulle
parole da rivolgermi e quale segreto rivelarmi.
«Voglio
sapere perché sono qui e non all’ospedale. Voglio
sapere perché non sto morendo
e non solo sembro in buona salute ma ho acquisito perfino delle strane
capacità. Voglio sapere perché mia madre
è morta e io sono ancora qui. Voglio
sapere cosa sono diventato e cosa devo fare. Voglio sapere
perché continui a
tacere. E soprattutto voglio sapere perché…
perché voglio bere sangue umano».
Dissi
queste parole con tono appassionato e voce rotta, mentre fermavo il mio
avanti
e indietro. Carlisle si umettò velocemente le labbra con la
lingua e mi fece segno
di sedermi accanto a lui. Ora sembrava più disteso, anzi no,
forse
semplicemente consapevole di quello che doveva fare e come lo doveva
fare.
Potevo quasi osare affermare che avesse riacquistato un po’
della sua antica cera
da dottore. Mi sedetti senza protestare.
«Dunque…
da dove potrei cominciare?» esordì passandosi una
mano sul mento con fare
pensieroso.
«Dall’inizio?»
suggerii timidamente.
«Be’,
se dovessimo partire dall’inizio dovremmo tornare al 1600,
anzi no, agli albori
dell’umanità e sarebbe una storia abbastanza
lunga».
«Non
stiamo andando da nessuna parte e di tempo ne abbiamo quanto ne
vogliamo, no?».
«Sì,
hai ragione. Non sai quanto hai ragione».
Appoggiai
i gomiti sulle ginocchia, bevendo ogni singola parola che fuoriusciva
dalla
bocca di Carlisle. Un brivido mi percorse la schiena: sentivo che
sarebbe stata
una storia interessante. Intanto il cinguettio di un usignolo ci
provenne
dall’oscurità dei cespugli di biancospino come un
breve interludio musicale.
«Per
prima cosa potresti dirmi cosa siam… sono»
sussurrai.
«Cosa
siamo, sì, hai detto
bene. Be’, di
sicuro anche tu avrai notato che non siamo creature totalmente umane:
non ci
vuole un genio per capirlo. Per quanto riguarda il resto… Da
piccolo ti
raccontavano mai le favole, Edward?».
Nel
sentire pronunciare il mio nome un pizzicorino mi percorse il collo.
Era per
caso un'altra delle sue domande trabocchetto come quella sul buio? Una
cosa era
certa: quell’uomo riusciva sempre a cogliermi di sorpresa.
Be’, uomo o
qualunque cosa fosse.
«Sì,
certo» risposi come se fosse la cosa più naturale
del mondo.
«Anche
quelle che facevano paura?».
Esitai
un attimo. A dir la verità le storie spaventose non erano
mai state le mie
preferite, anche perché, devo ammetterlo, ero sempre stato
un bambino piuttosto
fifone. Però ricordo qualche rara occasione in cui ne avevo
origliata qualcuna,
come durante le feste di Halloween. Mi rivedevo ancora, come se ne
avessi
davanti una fotografia, insieme ad alcuni miei amici in qualche stanza
buia al
lume baluginante di una sola candela nella nottata più
spaventosa dell’anno a
raccontarci storie dell’orrore a vicenda, sgranocchiando
caramelle e altri
dolciumi. E io, ovviamente, ero sempre quello rintanato
nell’angolo più in
disparte.
«…sì».
La mia risposta arrivò un po’ in ritardo.
«E
ti ricordi qualche personaggio in particolare?».
Mi
spremetti le meningi cercando di ritornare alla diapositiva di prima,
in quel
tempo che sembrava appartenere a un’altra vita. Streghe,
zombie, fantasmi…
tutto ciò cosa c’entrava mai con me? Non credevo
certo di portare un buffo
cappello a punta e di volare su una scopa lanciando malefici oppure di
infestare qualche antico castello spaventando a morte la gente nei loro
letti.
«Ti
ricordi se c’era qualcuno che… beveva
sangue?».
Bastò
quella parola, sangue,
perché la
risposta mi piombasse addosso come un ciclone. Ricordavo un Halloween
in
particolare quando Benjamin Hayley, il figlio dei nostri vicini di
casa, aveva
rubato a sua madre un vasetto di marmellata di fragole, dicendo che era
indispensabile per rendere perfetto il suo travestimento. Ricordavo
quando tra
le risate mi aveva confessato che l’avrebbe utilizzato come
sangue finto per il
suo costume da…
«Edward».
La
voce di Carlisle mi giunse come lontana anni luce e disturbata mentre
iniziavo
a tremare. Dunque ero… ero diventato…? No, non
poteva assolutamente essere,
senza dubbio doveva trattarsi di uno scherzo! Ma chi volevano prendere
in giro?
Quella roba era pura fantasia!
«Ci
sei arrivato allora?».
«Credo…
forse… Non ne sono sicuro».
«Magari
se mi dici quello che stai pensando ne possiamo discutere».
Scossi
la testa e abbassai lo sguardo in imbarazzo. «No,
è solo una fantasia assurda».
«Be’,
presto scoprirai che certe fantasie in realtà non sono poi
così assurde.
Dillo».
Chiusi
gli occhi per un momento, tentando di mantenere la calma ed inspirando
a fondo
fino a riempirmi completamente i polmoni. Nel caso seppur remoto che
quella
fosse stata la verità e non una totale presa in giro,
pensai, sarebbe stata la
rivelazione più sconvolgente della mia vita. Senza contare
che avrebbe spiegato
molte cose.
«Su,
coraggio» m’incitò ancora Carlisle.
Presi
un altro profondo respiro per poi buttare fuori tutto, aria e parole,
senza
pensarci troppo.
«V...
Vampiro».
Ecco
l’avevo detto e ora? Aspettai con ansia una risata di scherno
da parte di
Carlisle davanti a quella mia teoria così avventata, ma
nessun rumore provenne
dal mio fianco. O magari l’avevo talmente sorpreso con la mia
immaginazione
così fervida da lasciarlo senza parole; si trattava giusto
di qualche secondo e
avrebbe lanciato un’esclamazione di sorpresa. Invece non udii
altro che uno
strano suono che non riuscii a classificare, forse si trattava di un
grugnito,
subito seguito da un borbottio sommesso.
«Bravo,
Edward. Sei riuscito a sorprendermi, davvero. Non ti facevo
così perspicace».
Sempre
più impaurito e turbato osai lanciare un’occhiata
nella sua direzione. Stava
con le mani intrecciate dietro la testa comodamente appoggiato contro
lo
schienale della panchina, con i capelli biondi e fini che sfioravano il
bordo
di quest’ultimo, sul quale il capo era adagiato
nell’immagine stessa della
calma. Visti da quella prospettiva i suoi lineamenti sembravano ancora
più
affilati e perfetti, mentre la luce fredda di alcune stelle che
facevano
capolino tra le fronde alte degli alberi si rifletteva nei suoi occhi
profondi
come due pozzi senza fondo.
«Quindi
non è uno scherzo?» dissi ma tacqui subito nel
cogliere un tremore di paura
nelle mia voce.
Solo
allora Carlisle si decise a lasciar librare nell’aria qualche
nota di una
risatina rauca, quindi si tirò su dalla sua posizione
semisdraiata per
guardarmi dritto in faccia.
«Ti
sembra che stia scherzando?».
Scossi
immediatamente il capo visto che la risposta era sottointesa, dovevo
ammetterlo. Anche se lo conoscevo da poco, non credevo che Carlisle
fosse
capace di scherzi di così pessimo gusto. O anche
semplicemente di scherzi in
generale, credo. Dunque era tutto vero: mi sembrava impossibile,
incredibile.
Era come camminare in un sogno dove qualunque cosa ti dicano, anche la
più
improbabile e fantasiosa come quella, era invece la verità e
tu dovevi crederci
incondizionatamente che ti piacesse o meno. Così cadeva
anche quella debole
consolazione a cui mi ero sempre aggrappato da bambino, in particolare
quando mi
scontravo con quelle storie di paura, secondo cui almeno nel mondo
reale e
razionale di tutti i giorni non dovevo temere creature demoniache del
genere. E
ora ero io stesso una di quelle creature demoniache: così
avrei potuto mettermi
paura da solo, pensai ironicamente. Eppure, a parte il fatto di aver
bramato
del sangue umano, non mi sentivo molto diverso da prima. Voglio dire,
per certi
aspetti ero ancora l’Edward Masen di una volta, con il suo
carattere mite ed
insicuro, le sue innumerevoli domande e paure. Non mi sentivo del tutto
trasfigurato in uno di quei mostri di cui avevo tanto sentito parlare.
Non mi
sentivo il cattivo della situazione… e credevo che nemmeno
Carlisle lo fosse.
Ma probabilmente era solo questione di tempo prima che vedessi riflessa
nello
specchio la mia vera immagine, dovevo solo abituarmi alla mia nuova
identità. E
cosa sarei diventato? Cosa sarebbe stato della mia vita precedente,
anzi della
vita normale? Come potevo conciliare il leggendario e il quotidiano?
È inutile
dire che tutte queste nuove domande che iniziavano a germogliare nella
mia
mente più che incuriosirmi non facevano altro che
spaventarmi ancora di più,
mettermi addosso un’ansia terribile, tanto che mi venne il
fiato corto e mi
sentii soffocare. Ma tutto questo ruotava attorno a un’unica
domanda
fondamentale: cos’avrei fatto ora?
Intanto
Carlisle era uscito dal suo guscio di silenzio e riservatezza per
instaurare un
lungo e complicato discorso, che il mio cervello seguì
soltanto a metà talmente
era occupato a tentare di mettere un po’ di ordine tra tutte
quelle idee. Lo
sentii che diceva che sapeva benissimo come mi sentivo, frastornato ed
impaurito, perché c’era passato anche lui ormai
qualche secolo fa. Così mi
raccontò con calma la sua lunga storia. Era nato a Londra
negli anni Quaranta
del diciassettesimo secolo, figlio di un pastore anglicano accanito
sostenitore
della caccia alle streghe, sua madre era morta di parto, mentre lui era
stato destinato
a continuare la carriera del padre nella persecuzione dei cattolici,
dei
seguaci delle altre religioni e soprattutto delle incarnazioni del
male. Questo
finché il “Male” non era venuto a
bussare alla sua porta. Aveva ventitre anni,
l’età che effettivamente dimostrava ancora, notai
con un certo sconcerto,
quando in una di queste cacce s’imbatté in un covo
di veri vampiri, ben diversi
da tutti gli altri poveri innocenti ingiustamente accusati di avere a
che fare
con il maligno. Nella colluttazione che ne seguì cadde
vittima di uno di loro
e, morso, si rifugiò in una cantina dove attese. Attese tre
giorni e quando ne
uscì non era più quello di prima, disse.
Viaggiò molto in Europa, passò la
Manica ed arrivò in Francia e in Italia, per approdare alla
fine lì in America.
Fin dal primo istante era rimasto disgustato e turbato dalla sua nuova
natura,
proprio come stava accadendo a me, e soprattutto non sopportava di
dover
nutrirsi di sangue umano e quindi uccidere per il proprio
sostentamento. Voleva
rendersi utile: studiò giorno e notte e diventò
medico, così almeno avrebbe
potuto dare un senso a quella sua nuova esistenza immortale e
sovrannaturale. E
così aveva incontrato me. Era perfino riuscito a non
dipendere più dagli
omicidi per la sua sussistenza, nutrendosi invece di sangue di animale.
Ovviamente non era la stessa cosa e nei primi tempi era stato difficile
abituarsi a quella nuova dieta “vegetariana”, come
la chiamava lui. Però, con
gli anni aveva perfezionato la tecnica e ora era quasi del tutto immune
da
quella tentazione. Anch’io con il tempo avrei potuto
raggiungere un livello di
autocontrollo pari al suo e convivere bene con la mia nuova
identità, senza
avere la coscienza sporca di crimini intollerabili e riuscendo a
convincermi di
non essere un mostro terribile. Comprendeva i miei sentimenti in quel
frangente,
continuò, più di quanto credessi e disse anche
che non dovevo preoccuparmi per
il futuro perché avrebbe pensato lui a me. Avremmo lasciato
al più presto
quella città, che ormai non significava più
niente né per lui né per me. Ormai,
mi ricordai con una certa amarezza, non avevo più nessuno ad
aspettarmi a casa,
senza contare che gli ultimi rimasti che mi conoscevano probabilmente
mi davano
per morto. Una vita intera sfumata in poche notti. Saremmo andati
lontano e
avremmo iniziato una nuova vita, perché forse era meglio che
dimenticassi tutto
e, anzi, mi rendessi conto di quanto fossi fortunato ad essere ancora
“vivo”.
Saremmo stati una famiglia, dovevo solo fidarmi di lui; avrei
abbandonato il
mio vecchio cognome di Masen per prendere quello di Cullen e mi sarei
presentato
come il fratello minore di Carlisle. Ma come potevo accettare tutto
ciò così su
due piedi? Fino a un paio di giorni prima ero un umano qualsiasi e ora
mi
ritrovavo Edward Cullen il Vampiro. Carlisle continuava a tracciare a
grandi
linee il nostro futuro con notevole entusiasmo; diceva che era felice
di avere
finalmente un compagno con il quale condividere i suoi segreti dopo
così tanti
anni, anzi secoli, di solitudine. Ma io pensavo ad altro.
«Perché
mi hai trasformato?» sbottai all’improvviso
interrompendolo.
Lui
si zittì e tutto l’entusiasmo che aveva accumulato
fluì via in un secondo,
mentre si soffermava a guardarmi a bocca aperta. Di certo non si
sarebbe mai aspettato
una domanda del genere.
«Perché
non mi hai lasciato al mio destino?». Come doveva essere.
Perché?
Era
letteralmente rimasto a bocca aperta, con lo sguardo smarrito perso nel
vuoto:
forse era la prima volta che lo coglievo impreparato.
Intrecciò le dita sotto
al mento ed esitò un momento prima di rispondere.
«Nella
mia lunga esistenza ho incontrato tante persone, tanti malati come te.
Però… a
essere sincero non so darti una risposta precisa. Forse è
stato egoismo o forse
qualcosa di più. Fatto sta che appena ho incontrato te e tua
madre ho subito
capito che avevate qualcosa di diverso dagli altri. Come ti ho
già detto, è
tanto tempo che cerco un compagno, ma non ho mai avuto il coraggio di
fare a
qualcun altro quello che hanno fatto a me. Lo trovavo
sbagliato».
«Allora
perché con me…?».
«Te
l’ho già detto. Non mi sono mai affezionato
così profondamente e in così poco
tempo ad una persona. E non potevo sopportare di vederti
morire… lì, ancora
così giovane ed innocente. Forse perché ti amavo
troppo: ormai eri diventato
come un figlio per me; un figlio di cui non potevo fare a meno di
prendermi
cura. Non potevo lasciarti andare, Edward, anche se ciò
voleva dire addossarti
il peso che anch’io porto».
«Ma
perché solo io?!?» esclamai.
«Perché io sì e lei no?».
Gli
occhi di Carlisle si fecero se possibile ancora più
profondi, inghiottendo le
mie parole con pacata razionalità. «Non hai idea
del tormento,
dell’indecisione… Da una parte mi dicevo che non
era giusto assistere così
indifferente alla morte di due innocenti, ma dall’altra
consideravo anche che
non era meno sbagliato rubare le vostre vite senza permesso. Ma poi tua
madre
mi ha convinto che anche quella, la scelta di trasformarti, era di
certo meglio
al nulla a cui stavate andando incontro. Ma purtroppo per lei era
già giunto il
momento… Mi rimanevi solo tu e non potevo assolutamente
venire meno alla
promessa che le avevo fatto di salvarti».
All’improvviso
sentii bruciarmi gli angoli degli occhi come se vi si fosse insinuato
del sale
o della sabbia. Sentii le lacrime premere invano contro le palpebre per
uscire
e sforzarsi per appannarmi anche solo un poco la vista. Indubbiamente
le
intenzioni di Carlisle erano state buone e generose nei miei confronti,
ma io
ancora stentavo a credere che quella fosse la mia strada. Dopotutto
quando ero
malato avevo passato la maggior parte del mio tempo a convincermi che
quella
sarebbe stata la mia fine, tanto che quest’idea mi si era
profondamente
radicata sotto la pelle ed ora era difficile se non impossibile
estirparla.
Quella era una deviazione che non avevo previsto e a cui mi sarei
dovuto
abituare, anche se non era il tipo di esistenza a cui aspiravo. Sarebbe
già
stato difficile abituarsi all’idea di appartenere ancora al
mondo di qua,
figurarsi digerire quella di essere un mostro, un vampiro bevitore di
sangue e
creatura della notte. Però Carlisle aveva ragione, avrei
potuto imparare ad
essere come lui e ad apparire normale e quasi umano.
«E
tu credi che diventare un mostro sia preferibile alla morte?»
domandai e quella
forse era uno dei quesiti che mi premevano di più.
Il
mio amico non rispose subito, bensì mi si fece un
po’ più vicino e mi passò un
braccio attorno alle spalle con fare paterno e riprese a parlare solo
dopo
essersi avvicinato al mio orecchio tanto che potevo udire il suo
respiro
leggero.
«Sarò
sincero con te, Edward, giusto perché ormai ti considero
come un figlio. Non lo
so. Non so cosa sia la morte non avendola mai provata e quindi non
posso fare
un paragone oggettivo. Però so che a noi è stata
data un’alternativa, quella di
essere vampiri. C’è la vita, la morte e
l’essere vampiri. Per moltissimo tempo
mi sono odiato per la mia natura, perché credevo di essere
un abominio della
natura: mi chiedevo quale bene potesse mai costituire una creatura che
beve
sangue. Apparentemente nessuno, mi ero più volte risposto.
Ma poi sono
diventato medico, ho scoperto uno nuovo stile di vita eticamente
corretto e
sono giunto alla conclusione che, se anche i vampiri sono gli esseri
malvagi
per antonomasia, questo non è corretto in tutti i casi. Tu
sei ancora molto
giovane, Edward, ma con il tempo capirai che non sempre quello che a
prima
vista sembra sbagliato lo sia davvero; spesso si tratta solo di
apparenza e
pregiudizi».
«Sì»
risposi. «Ma non hai ancora risposto alla mia
domanda».
«Be’,
per forza! Ho già detto che non posso rispondere. Comunque
nel tuo caso ho deciso
per questa via, anche se è stata una decisione terribilmente
sofferta di cui
ancora adesso sono incerto, perché ritenevo che tu meritassi
di più di un
cimitero. Non mi piace al gente che teme la morte e fa di tutto pur di
rinviarla e non credo di essere di quella schiatta, ma penso di saper
riconoscere quando è giunto il momento di
un’anima. E in ospedale ho capito che
non era il tuo momento. Non chiedermi perché, lo sapevo e
basta».
«Be’,
se in ospedale non era ancora giunto il mio momento, quando lo
sarà? Hai detto
che siamo eternamente giovani ed immortali, no? Ciò
significa che non sarà mai
più il mio momento, che sarò intrappolato qui per
l’eternità nel corpo di un
diciassettenne. Questo vuol dire che non rivedrò mai
più le persone che ho
amato in paradiso… che sarò per sempre separato
da loro». Ora la mia voce aveva
acquistato una sfumatura di rabbia e di amarezza mentre
l’immagine sorridente
di mia madre mi baluginava davanti agli occhi come un fantasma fatto di
vapore
proveniente direttamente dall’aldilà.
«Solo
perché viviamo a lungo non vuol dire che non possiamo
morire… essere uccisi»
sussurrò ancora Carlisle al mio orecchio, ma quasi non lo
udii.
«Anche
se fosse credi che ci sarebbe mai un posto in paradiso per noi,
Carlisle?».
Lui
non rispose e per l’ennesima volta cadde il silenzio, in cui
però aleggiava una
mezza risposta.
«Te
lo dico io: no. Cosa credi?
Guardami,
guardaci! Siamo vampiri e anche se possiamo decidere per un'altra
strada
rimaniamo pur sempre progettati per uccidere e per bere sangue! Tuo
padre era
un pastore, ti ho sentito pregare… quindi credo che tu
sappia meglio di me in
cosa consista un peccato capitale». Ero affannato, mi era
venuto il fiatone
come se avessi corso per chilometri e in uno scatto repentino mi
staccai dal
mio amico, alzandomi in piedi ed allontanandomi dalla panchina.
«Ma
lassù ci giudicano per quello che facciamo, non per chi
siamo» rispose lui con
il capo chino
Sospirai.
«Se fossi stato ancora Edward Masen non avrei mai desiderato
sangue umano».
La
casa era silenziosa e vuota. Le luci esterne proiettavano sulle pareti
sbiadite
strane forme in un divertente gioco di ombre cinesi. Ormai era quasi
l’alba:
potevo scorgere il cielo colorarsi di rosa al sopraggiungere
dell’aurora
attraverso le fessure delle persiane del salotto. Carlisle era tornato
in
ospedale per dare le dimissioni e sarebbe tornato di lì a
poco, magari con
qualche animale che avrebbe potuto placare il mio appetito lacerante.
Perciò mi
trovavo da solo in casa, in quello stesso salotto dove pochi giorni
prima avevo
abbandonato le mie spoglie mortali; si potevano scorgere ancora
parecchie
tracce di sangue rappreso, il mio, sul divano e sul pavimento, ma non
avevo il
coraggio di mettermi a pulire nell’attesa. Presto saremmo
partiti per un’altra
città e una nuova casa mi avrebbe fatto dimenticare quelle
poche stanza buie. Mi
alzai dalla mia posizione rannicchiata nel vano della finestra ed
iniziai a
vagabondare per la stanza: ero curioso di fare una prova. Volevo
proprio vedere
se certe dicerie erano vere oppure solo leggende. In fondo alla stanza,
subito
dietro la porta, c’era uno specchio grande quanto me, con
un’antica cornice in
legno di ciliegio decorato a volute. Mi ci piazzai davanti a occhi
chiusi. Pian
piano ne aprii uno e costatai che c’era qualcosa riflesso
nello specchio:
dunque voleva dire che la leggenda secondo cui vampiri e streghe non
possono
specchiarsi non era altro che una baggianata. Soddisfatto della
scoperta
schiusi anche l’altro occhio e quando, tranquillizzato, feci
per tornare al mio
angolo, fui colto invece di sorpresa. Chi era mai l’individuo
riflesso su
quella superficie? Non mi assomigliava affatto. Tornai a fissare quella
che
doveva essere la mia immagine letteralmente a bocca aperta.
L’unica cosa che
riconobbi erano le occhiaia che ormai mi accompagnavano da tempo, da
quando la
malattia mi aveva accolto tra le sue braccia. La carnagione,
però, pur nel suo
candore, non aveva più quella sfumatura grigiastra e
malaticcia, bensì aveva
acquistato la lucentezza della perla e la pelle al tatto era
più morbida del
velluto più pregiato. I capelli ramati e scompigliati
avevano molte più
sfumature di rosso di quante parevano esistere in natura. I lineamenti
parevano
raddrizzati e limati e il mio nuovo volto geometricamente perfetto
assomigliava
a una di quelle antiche statue greche. Anche il fisico aveva subito
parecchi
cambiamenti: ero più magro, leggermente più alto
e dinoccolato ed atletico. Potevo
sentire i muscoli delle braccia e del petto guizzare appena sotto
pelle. Sarei potuto
rimanere lì a rimirare la mia immagine per ore: il contorno
delle labbra, del
mento, i denti bianchissimi e affilati. Se non fosse che un particolare
mi
ricordò il perché di quel cambiamento. I miei
occhi avevano ormai del tutto
abbandonato il verde giada che li aveva caratterizzati nella mia vita
precedente e davanti al quale ogni ragazza non poteva fare a meno di
sospirare:
ora erano rossi. Non
color ambra come quelli
di Carlisle, ma rossi come braci ardenti: gli occhi di un demone. Mi
allontanai
spaventato dallo specchio con un salto e tornai nell’angolo
vicino alla
finestra, ansante. Un vampiro, mio Dio, ero un maledetto vampiro
succhiasangue!
Mi coprii quegli occhi immondi con le mani, rannicchiandomi con le
ginocchia
pigiate contro il petto, quasi sperassi si sparire per sempre. Poi,
unico
rumore proveniente dalla strada sopra il ronzio delle prime macchine
che
iniziavano a circolare e allo sbattere di qualche imposta, mi giunse
una voce
stonata e roca. Sicuramente si trattava di un ubriaco, pensai.
Sì, un ubriaco
che non ancora stanco della sua notte di bevute aveva scelto proprio
quell’angolo
di strada per cantare la sua serenata stonata e cacofonica. Era la
musica
peggiore che avessi mai udito, ma le parole, probabilmente inventate
sul
momento, mi arrivarono al cuore come un dardo.
Tell me angel, tell me why
Why I can’t recognize this world,
this town
This awful hands beyond my eyes
Forse
perché nemmeno io riuscivo a riconoscermi.
Ok
aggiorno di corsaaaaa! Capitolo piuttosto lungo anche perchè
le cose da dire erano milioni e mi scuso per il solito ritardo ma
questa volta è stata anche colpa dell'ispirazione che faceva
le bizze. Spero di aver reso bene la scena, di non aver saltato parti
importanti che magari potevo approfondire e di non essere stata troppo
noiosa. Il prossimo chap si baserà sui diari di Edward, per
ora non dico altro: sopresa! Ho notato che siete stati scarsini con le
recensioni questa volta eh? Be' almeno questo recensitelo per bene!
Ringrazio: Wind e
Jadis96 (mi
dispiace non poter stare qui a discutere di più sulla tua
domanda ma davvero vado di corsa; comunque all'inizio del chap
c'è la risposta: spero sia abbastanza esauriente! scusa!).
Al
prossimo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Wandering ***
Capitolo
9°
Wandering
Ashland,
Wisconsin
12/9/1918
Caro
diario,
è
passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ti ho
scritto. Ma non solo
l’acqua che scorre sotto i ponti è cambiata;
abbandonando Chicago credo di
essermi lasciato la mia intera esistenza umana alle spalle. Il problema
è che
non penso di aver lasciato in quella città solo il vecchio
nome e l’identità
sbiadita di Edward Masen: insieme al suo battito ormai perduto il mio
cuore ha
abbandonato in quel luogo, probabilmente sulla tomba di mia madre,
anche un suo
frammento. Cerco di tenere occupata la mente e di non pensare a
ciò che ero
poco più di un mese fa: non mi sono ancora misurato con i
miei nuovi demoni, ma
credo che prima o poi dovrò farlo. Per il momento mi limito
a far scorrere il
tempo e gli eventi sul mio nuovo corpo che mai cambierà.
Sarà difficile
accettare la mia nuova natura, lo so e Carlisle stesso me
l’ha confermato, e ho
paura di dover affrontare questo passo, perché
significherebbe smettere
definitivamente di giocare all’umano, come sto facendo
tutt’ora.
Mi
piace la nuova casa che ha preso Carlisle e nella quale ci siamo
stabiliti
ormai da un paio di settimane. È una piccola villetta a
schiera, circondata da
tante altre di chiari e piacevoli colori pastello, e dalla piccola
finestrella
della mansarda si possono perfino scorgere, al di là di una
miriade di tetti e
di giardinetti ordinati con le siepi ben curate, le placide acque del
vicino
Lago Superiore. Il mio amico ha già cominciato a lavorare
nel piccolo ospedale
locale, mentre io divido il mio tempo tra la nostra nuova dimora e le
piccole
stradine moderatamente affollate della città. E penso. Credo
di non aver fatto
altro da quella fatidica notte nel parco. È buffo
perché cerco con tutte le
forze di non affondare la lama in quelle ben note ferite che non
accennano a
rimarginarsi, eppure non posso fare a meno di rievocare tutte le
diapositive
possibili dell’ultimo periodo. Sul fronte “bere
sangue” le cose procedono
meglio di quanto pensassi. Ora mi nutro principalmente del sangue dei
piccoli
animali che riesco a scovare nella campagna appena fuori la cittadina
e, in caso
di emergenza, di alcune scorte che Carlisle riesce a procurarmi tramite
l’ospedale. La tentazione del sangue umano è
ancora molto forte e nei primi
giorni mi ero adirato non poco con il mio nuovo compagno per il fatto
di aver
scelto una casa così vicino ad altri esseri umani. Secondo i
miei criteri
sarebbe stato più adatto un vecchio castello smarrito nel
selvaggio e lontano
mille miglia da ogni centro abitato. Ancora adesso, anche quando li
incrocio
per strada, non riesco a stare vicino a un essere umano per
più di qualche
secondo senza che mi sorprenda l’impulso di prenderlo alla
gola. Per questo
passo molto tempo rinchiuso in casa; ma Carlisle crede in me e dice che
tra non
molto riuscirò a controllare meglio i miei istinti. Una
delle cose che più mi
rammarica di aver lasciato a Chicago è il mio vecchio
diario; per questo ne ho
iniziato uno nuovo. Chissà se è ancora
là in ospedale di fianco al mio letto? O
magari qualcuno l’ha buttato al macero insieme a tutti i miei
pochi e poveri
averi che ho lasciato là. Ma forse, mi dico per consolarmi,
è meglio così.
Quelle erano soltanto le righe di un ingenuo umano ormai rassegnato ad
addormentarsi per sempre nelle braccia della morte, senza sapere cosa
sarebbe
accaduto di lì a poco, senza sospettare quale deviazione
avrebbe preso la sua
vita, senza riuscire a scorgere le molte realtà oscure che
in breve l’avrebbero
travolto. Il cambiamento di tono sarebbe stato troppo stridente.
Oggi
è una delle ultime giornate di sole dell’estate e
già l’aria frizzante dell’autunno
inizia a farsi sentire. Non c’è una nuvola in
cielo e il blu del cielo
rispecchia fedelmente quello della superficie leggermente increspata
dello
sconfinato lago… e io non posso assolutamente uscire.
Infatti ho presto
scoperto che noI vampiri alla luce del sole non ci sciogliamo come
dicono le
leggende, bensì risplendiamo come le sfaccettature di un
diamante: per questo
dareI troppo nell’occhio aggirandomi tra la gente. Non so per
quanto tempo ci
fermeremo qui, anche se dai programmi di Carlisle posso facilmente
dedurre che
non andremo molto lontano per almeno tutto l’inverno. E la
cosa non mi
preoccupa affatto, anche perché Ashland inizia a piacermi
davvero. Sarà forse
anche per il nome (“terra di cenere”), ma mi pare
che sia un buon posto dove
rinascere. Rinascerò dalle mie ceneri come l’araba
fenice, trovando un nuovo
senso alla mia esistenza, proprio come Carlisle. Magari potrei
rimettermi a
studiare per ottenere una laurea che mi permetta di rendermi utile alla
comunità e sentirmi meno diverso. Sì, qui
rimetterò insieme le mie ceneri
mortali per lanciarle negli occhi del mostro che si nasconde nei
meandri del
mio cuore. E sconfiggerlo.
Ashland,
Wisconsin
8/3/1921
Caro
diario,
non
so più che cosa pensare. Le paure, le ansie e i sospetti che
avevano minacciato
di adombrare la mia nuova vita, che iniziava già a
prospettarsi se non serena e
ridente almeno vivibile e tranquilla, si fanno via via più
concrete con i
giorni che passano. Alla fine Carlisle si è deciso a portare
la sua nuova amica
a casa nostra, ovviamente senza tenere assolutamente conto della mia
opinione e
dei miei avvertimenti un poco preoccupati. Esme è in
assoluto la persona più
dolce e benevola che abbia mai incontrato e il suo sorriso ha portato
una nuova
ventata d’aria fresca e gioia di vivere tra le pareti spoglie
della nostra
casa. Ma nonostante dimostri ogni secondo la sua gratitudine e il suo
profondo
anche se recente amore per Carlisle, apparentemente non preoccupata di
essersi
trasformata in un essere tenebroso, un vampiro, come lo ero io, non
riesco
ancora ad accettare la sua presenza. Mi sento diffidente…
come un cane di
fronte a un nuovo arrivato. Fiuto l’aria in cerca di qualche
cosa fuori dalla
norma che però non riesco a trovare. Forse perché
in questi pochi anni (oddio,
siamo già passati a contare il tempo in anni?) mi ero troppo
abituato a
considerare la sicurezza e la tranquillità sotto
l’unico nome congiunto di me e
Carlisle. Senza nessun altro. Carlisle dice che Esme saprà
essere una buona
madre per me e che entrambi avremmo finalmente ritrovato quello che la
crudeltà
del mondo ci aveva portato via. Lei avrebbe ritrovato in me il figlio
morto
prematuramente che l’aveva portata a decidere per
l’estremo gesto di buttarsi
da una scogliera (che poi le avrebbe fatto incontrare Carlisle
all’ospedale). E
io finalmente avrei avuto una figura materna come punto di riferimento.
In
effetti per molti versi Esme mi ricorda mia madre, nonostante eviti
categoricamente di fare paragoni. Magari è proprio per
questo che faccio fatica
ad accettare la nostra nuova convivenza a tre: nel sorriso di Esme
rivedo
quello di mia madre, lo stesso sorriso che dopo tanto tempo ero
riuscito a
relegare nella parte più remota della mente per non esserne
più ferito. Quindi
mi ritrovo combattuto tra due fronti: quello di oppormi categoricamente
a quel
cambiamento e quello di lasciare che il finto fratello del signor
Cullen si
rallegri per il suo prossimo matrimonio. Ed è proprio questo
il punto che,
oltre al suo animo dolce come il miele, non mi permette di odiare Esme.
Vedo il
volto di Carlisle, che da quando lo conosco è sempre stato
oppresso da mille
pensieri e preoccupazioni, distendersi, i suoi occhi accendersi della
luce del
paradiso e socchiudersi ogni volta la delicata voce di lei pronuncia il
suo nome.
Che diritto ho io di privarlo di questa felicità dopo secoli
di solitudine? Che
mostro sarei a spezzare quest’incantesimo che mi lascia
stupefatto? Non mi ero
forse ripromesso di ricercare la bontà per allontanarmi
dalle tenebre? Non
posso in alcun modo rimproverare a Carlisle di averla salvata come
aveva fatto
con me.
Esme
è la torcia della speranza che entrambi aspettavamo ormai da
tempo.
Concord, New Hampshire
19/10/1927
“Why should we be
in such desperate haste to succeed and in such desperate enterprises?
If a man
does not keep pace with his companions, perhaps it is because he hears
a
different drummer. Let him step to the music which he hears, however
measured
or far away”
Scappare.
Devo assolutamente andarmene. Questa
esistenza mi sta ormai stretta. Forse altrove troverò quel
che cerco. Addio.
Newark,
New
Jersey
23/11/1929
Caro
diario,
é
tempo di guardarsi alle spalle e tirare le somme. Undici anni da
vampiro e
ormai due lontano da casa. E la Domanda mi sorge spontanea: ho trovato
quello
che stavo cercando? Anzi, cosa stavo cercando? No, scusa, non stavo
piuttosto
scappando? Non lo so. Probabilmente sì. In questi due anni
in cui non ho più
sentito Carlisle ed Esme ho scritto ben poco. Mi piacerebbe sapere come
stanno,
ma, come spesso mi capita, sono combattuto tra due idee. Infondo sono
stato io
ad andarmene, no? Che figura ci farei a ripresentarmi non aspettato con
la coda
tra le gambe dopo tutto quello che ho detto? Non ho voglia di recitare
la parte
del caro figliol prodigo che ritorna a casa. E poi… casa? Io
non ho più una casa.
La mia dimora è la strada; un letto sempre diverso ogni
notte e una tavola con
cibo diverso quasi ogni settimana. No, non posso assolutamente tornare,
mi
costringo a pensare con fermezza. È stata una scelta mia,
proprio come quando
Carlisle ha scelto di non cibarsi di sangue umano o di trasformarmi in
vampiro.
Ormai dopo quasi dieci anni di astinenza non potevo più
sopportare quella fame
lacerante, il desiderio sempre represso che non riusciva mai a trovare
una
minima valvola di sfogo. Avevo sempre saputo di non essere tagliato per
la vita
monacale fatta di rinunce e alla fine il vampiro desideroso di sangue
umano è
saltato alla ribalta. Mi sento una specie di Oliver Twist o Jack London
alla
ricerca dell’oro a vagare per i sobborghi bui e spesso
sporchi di tante città
diverse. Non sto mai fermo in un luogo per più di qualche
giorno, una settimana
al massimo, e il fuoco e l’ardore che mi spingono a muovermi
sempre più spesso
mi fanno assomigliare ad un irrequieto adolescente scappato da casa per
sfuggire alle regole opprimenti e alle menzogne della
società. Infondo è
proprio quello che sono: un adolescente che mai crescerà, ma
rimarrà per sempre
imprigionato in questo corpo da diciassettenne.
Non
riesco a sentirmi veramente in colpa per le mie innumerevoli e recenti
vittime,
anche se forse un giorno lo sarò. Ma ho trovato un metodo
infallibile per
mantenere candida la mia coscienza: con la mia unica
capacità di leggere nel
pensiero, che ho saputo affinare soprattutto in quest’ultimo
periodo, posso
distinguere la gente onesta e innocente da quella con l’anima
ben più sporca
della mia. Quindi, diciamo così, nonostante continui a
basare la mia
sopravvivenza sugli omicidi, ho trovato comunque il modo di rendermi
utile alla
comunità. Ripulisco i sobborghi da tutta quella gente
malvagia, ladri,
assassini, stupratori, che potrebbero minare la felicità di
qualcun altro:
almeno così sarò sicuro che qualcun altro
potrà apprezzare quella gioia che
invece è stata negata a me. E mi aggiro tra stradine buie in
cerca della
vittima giusta, magari sorprendendola proprio in flagranza di reato,
come un
terribile ma bellissimo angelo della morte.
Così
continuo a trascinare su questa terra il mio cuore pieno di tormento,
chiedendomi se sarà così per sempre. Non riesco a
provare nostalgia per la mia
vita con Carlisle ed Esme in una bella casetta pulita e luminosa, forse
perché
ora posso esprimere la mia vera natura, pur terribile che sia. E, come
disse
qualche saggio vecchio, esprimere la nostra natura non ci porta al
compimento del
nostro compito terreno? Alla realizzazione del nostro Io? Bene, il mio
Io
allora sarà un’ombra sfuggente e silenziosa, che
si aggira tra la fitta nebbia
di novembre macchiata di sangue.
Cleveland,
Tennessee
15/7/1935
Caro
diario,
la
famiglia Cullen pare stia diventando sempre più numerosa:
ora siamo in cinque e
il piccolo appartamento i piedi delle montagne sta iniziando a
risultare un po’
troppo stretto. Cosa c’è di meglio di un altro
vampiro assetato di sangue da
tenere a bada? Giusto per mantenerci un po’ sul chi
vive… Se non altro Rosalie
sembra felice e da quando il nuovo arrivato si è finalmente
svegliato lei non
può fare a meno di stargli attaccata ogni singolo secondo.
Il ragazzo, che non
dimostra più di vent’anni, ha detto di chiamarsi
Emmett e di essere stato
attaccato da un orso mentre era a caccia nei boschi, come tutti abbiamo
potuto
notare vedendo il terribile stato in cui Rose l’ha riportato
a casa dopo una
battuta di caccia. Come la mia nuova sorella acquisita, anche questo
Emmett
sembra non riuscire a staccare gli occhi dalla sua salvatrice: ci ha
raccontato
di averla vista scendere su di lui come uno splendido angelo. Esme
è entusiasta
di avere un altro figlio di cui occuparsi, mentre invece Carlisle si
è fatto un
po’ cupo e pensieroso, arrovellandosi sul modo migliore per
mettere a conoscenza
il nuovo arrivato di cosa sia diventato dopo la trasformazione. Infatti
se
Rosalie non l’avesse portato subito da lui, pregandolo in
ginocchio di fare
qualcosa, anche trasformarlo in vampiro, pur di salvarlo, di certo il
povero
Emmett sarebbe già rigido come uno stoccafisso a causa della
gravità delle
ferite riportate. Appena l’ho visto, uscendo dal silenzio
della mia camera e
dai miei libri di medicina, mi ha fatto subito pensare a un grande
orso. In senso
positivo, ovviamente. Probabilmente il genere di fratello maggiore che
mi
sarebbe piaciuto avere e che magari sarebbe riuscito a farmi togliere
il naso
dai miei testi universitari per ritrovare la leggera ebbrezza
dell’adolescenza.
Quella vera. Sì, perché, da quando sono tornato,
ogni giorno che passa mi rendo
viepiù conto del madornale errore che avevo fatto
nell’abbandonare Carlisle ed
Esme. Alla fine, dopo ben quattro anni di solitudine, mi ero reso conto
che
quello che andavo cercando non solo non l’avrei mai trovato
ma nemmeno esisteva,
non sapevo neanche cosa fosse. E così il grande focolare che
mi aveva fatto
muovere continuamente per mezz’America si era gradualmente
spento e avevo
realizzato che non ero il vendicatore invisibile, bensì che
appartenevo ai
Cullen, a Carlisle, ad Esme e a tutti quelli che sarebbero venuti in
seguito. E
con l’arrivo di Rosalie due anni fa la mia tesi non poteva
fare a meno di
rafforzarsi: quello era l’unico posto che potevo chiamare
casa e quelle le
uniche persone che mi avrebbero amato incondizionatamente.
Dopo
Carlisle ed Esme, penso appoggiato allo stipite della porta del salotto
osservandoli di nascosto, anche Rosalie ha trovato finalmente la sua
ragione di
vita. Dopo essere stata picchiata, stuprata e abbandonata in mezzo a
una delle
tante anonime strade di Rochester, New York, dall’unica
persona che amava alla
follia e che credeva l’amasse altrettanto appassionatamente,
di certo Rose si
merita più di ogni altro di ritrovare la
felicità. Possibilmente con qualcuno
di sincero, come Emmett si è mostrato fin dal primo istante.
Con quella persona
speciale che di certo non potevo essere io, come avevano creduto in
principio i
miei finti genitori adottivi. Forse per impedirmi di scappare
un’altra volta o
per non vedermi sempre rimuginare su cosa sono o non sono, Carlisle ha
sempre
cercato di trovarmi una compagna. Ma Rosalie, con il suo carattere
fiero e la
sua vanità quasi ossessiva, non era certo il mio tipo ed ora
sono quasi felice
che si sia orientata verso qualcun altro. E questo ora può
vederlo anche lui,
Carlisle, penso lanciando uno sguardo carico di significato al mio
primo vero
amico.
Quindi
adesso siamo due coppie e uno scapolo: bene. A volte mi
chiedo… No, sono solo
pensieri insulsi… Però, mi chiedo:
arriverà mai nessuna che possa essere quello
che Esme è stata per Carlisle ed Emmett per Rosalie? Ripenso
alla misteriosa
ragazza del sogno o quello che era: sembrava così
reale… Ci ho pensato spesso
in tutti questi lunghi anni e la sua immagine brillante non
è mai stata
offuscata dal passare del tempo. Ma il problema rimane che quella
ragazza
sicuramente non esiste e non posso innamorarmi di un sogno che non
tornerà mai
più. In queste occasioni non posso fare a meno di sospirare
con un certo
rammarico, ma poi, per risollevarmi, mi dico che sto bene
così, da solo. Sono
troppi i pensieri che mi frullano per la testa e non credo che una sola
persona
riuscirebbe a reggerli tutti. E così cammino da solo, la mia
ombra circondata
da altre quattro che si stringono per mano, i loro volti vicini, i
capelli che
si sfiorano. Ma non c’è nessuna ombra a tenere la
mano della mia.
Great
Falls,
Montana
11/4/1950
Caro
diario,
ma
dico, come si permette???? Quel… quel piccolo
mostriciattolo! Sorvolando sul
fatto che mi ha fatto prendere uno dei più grandi spaventi
della mia vita
quando è spuntata all’improvviso tra gli alberi
insieme al suo amico, compagno
o quel cavolo che è mentre
io ed Emmett
eravamo a caccia, non posso assolutamente tollerare la leggerezza con
cui mi ha
spodestato. Voglio dire, quella era la mia camera! La MIA, ok? E dentro
c’era
tutta la roba del sottoscritto Edward Cullen, che ora, invece,
è stata
brutalmente relegata in garage. Mentre quella sottospecie di folletto
demoniaco
salta sul MIO divano, riempie con la sua roba la MIA scrivania e i MIEI
scaffali, sbatte in un angolo il MIO tappeto preferito e fa spallucce
quando le
chiedo che fine abbia mai fatto tutta la MIA roba. E chi cavolo le ha
dato il
permesso di installarsi in casa MIA?!? No, non posso tollerarlo! Questo
l’ho
urlato anche a Carlisle, supplicandolo, o meglio obbligandolo con
espressioni
colorite, di sbattere quei due fuori di lì. Ma lui, come al
solito, non mi ha
dato ascolto e, invece, sempre più incuriosito, ha insistito
per avere maggiori
informazioni da quei due, da dove venivano, chi erano, come ci avevano
trovati.
E anche io non posso fare a meno di guardare con una certa deferenza e
curiosità quella strana coppia di vampiri. La piccoletta che
mi ha appena
occupato la camera si chiama Alice e l’altro, invece,
dall’aria più pacata e lo
sguardo attento, Jasper. Non posso in alcun modo levarmi dalla testa il
nostro
primo incontro nella foresta, quando senza tanti preamboli mi aveva
salutato e
chiamato per nome. Ovviamente ero rimasto di sasso: come faceva a
sapere come
mi chiamavo? E subito dopo, arrivati a casa, aveva chiesto ad Esme di
indicarle
la sua stanza, come se vivesse lì da sempre e fosse appena
tornata dopo essersi
assentata per qualche ora per fare compere… Conosceva tutti
i nostri nomi, le
nostre storie, la nostra casa e il suo compagno, ricoperto da cicatrici
e
ferite di battaglia, mi incuteva lo stesso timore. Non ho ancora avuto
occasione di sentire la loro storia, ma sono certo che sarà
interessante. Spero
proprio che non si trattengano a lungo, perché altrimenti
dovrei dividere la
camera con Rosalie ed Emmett… e non è la
prospettiva della mia vita. Però ho i
miei dubbi al riguardo: se fosse solo una breve visita non avrebbe
preso la mia
stanza, giusto? La prospettiva che quei due si uniscano alla nostra
famiglia mi
fa rabbrividire. Voglio dire, il tipo, Jasper, sembra a posto, anche se
forse
un po’ troppo taciturno. Ma lei… È qui
da neanche mezza giornata e già non la
sopporto più. La sua parlantina irrefrenabile mi fa venire
il mal di testa e
vederla aggirarsi per casa rimbalzando come una pallida da tennis
impazzita non
aiuta di certo. Assomiglia terribilmente a uno di quei mostruosi giochi
a molla
che spaventano tanto i bambini: non credo che la nostra sarà
una convivenza
pacifica. Non sopporto che quel folletto mi ronzi intorno tutto il
giorno,
prevedendo ogni mia mossa, ogni mio pensiero o parola e riuscendo
sempre ad
avere la meglio. Anche Rose sembra pensarla come me, mentre Emmett si
diverte
come un matto a prenderla in giro per la sua statura minuta: contento
lui…
Carlisle ed Esme come sempre, invece, non fanno una piega e si
dimostrano
disponibili ed ospitali, ma sospetto che lo sarebbero anche se si
presentasse
alla porta un barbone ubriaco marcio che non si lava da mesi. Oddio,
per quanto
durerà questa tortura?
Virginia
Beach,
Virginia
5/12/1982
Caro
diario,
la
spiaggia è deserta e finalmente con un po’ di pace
e solitudine riesco a
scriverti con calma. Non ho mai avuto molte occasioni di osservare
così il mare
come da quando ci siamo stabiliti qui qualche mese fa. La striscia di
sabbia
disegna una linea perfetta e sinuosa, lambita dalle deboli onde del
mare color
cobalto. Un leggero vento salmastro ne accarezza la superficie,
incoronando le
onde di una cresta di spuma bianca, che s’infrange come un
debole schiaffo
contro la sabbia. Lo sciabordio del mare quasi m’intorpidisce
e non credo ci
sia posto migliore dove rimanere da soli di fronte ai propri pensieri.
Il mondo
si distacca dalla pelle e viene arrotolato come una vecchia cartina in
un
angolo. Sta lì per un po’, il caos frenetico
avviluppato lì e messo a tacere, e
qui non rimane altro che un profondo silenzio senza tempo. E per un
attimo
ricordo le rare gite al mare fatte da piccolo, i castelli di sabbia che
venivano subito distrutti dalle onde e il caldo che bruciava la nuca e
le
spalle. Ora, invece, fa freddo e non ci sono bagnanti a farmi compagnia
su
questa deserta spiaggia di inizio dicembre. Tanto meglio. È
passato tantissimo
tempo da… be’, da quel Giorno. Non sono
più tornato a Chicago, non ho più
voluto sapere che fine avesse fatto Edward Masen né ho
più avuto il coraggio di
ritornare sulla tomba di mia madre. In tutti questi anni (quanti sono?
tanti)
mi sono in un certo senso rifatto una vita ripartendo quasi da zero e
cercando
di non pensare più a quello che era stato prima,
così che i ricordi sbiaditi di
quell’epoca di accavallano disordinati gli uni sugli altri.
Ora sono un Cullen,
ho la mia famiglia: Carlisle, Esme, Rosalie, Emmett, Jasper ed Alice (a
discapito dell’incipit della nostra convivenza, non credo che
esista al mondo
una persona in grado di capirmi meglio di lei). E probabilmente
continueremo
così all’infinito, fin quando le nostre vite
immortali dureranno. Dovrei essere
felice per questo, soprattutto rammentandomi dell’ansia e
della paura iniziali
non appena avevo scoperto cos’ero. Avevo paura di non avere
un posto dove
andare, di non avere persone fidate su cui contare e di vivere in
eterno senza
uno scopo: nulla di tutto ciò è capitato. Ancora
stento a credere di essere
stato così fortunato. Però…
Sì, c’è sempre un però. E
nel mio confessionale
naturale il “però” principale non
può fare a meno di venire a galla. Ho una
famiglia e al tempo stesso degli amici… ma non qualcuno che
stia strettamente
accanto a me. Una ragazza, una fidanzata, intendo. Ma dopotutto ha
così tanta
importanza? Devo avere per forza una compagna per essere felice? No. Ma
la
ragazza del sogno continua a chiamarmi attraverso gli anni e io non
posso fare
a meno di rimanere incantato dal suo dolce canto di sirena. E mi viene
spontaneo chiedermi: sono davvero felice o faccio solo finta di esserlo?
Forks,
Washington
24/8/2003
Caro
diario,
è
passato un po’ di tempo dall’ultima volta che siamo
stati da queste parti. Non me
la ricordavo così piovosa ed umida Forks. Esme con il suo
ben noto senso
pratico ha già iscritto me, Rosalie, Emmett, Alice e Jasper
al liceo locale, la
Forks High School, che, da bravi bambini, inizieremo a frequentare tra
non
molto. Come se, con le mie due lauree in medicina, avessi ancora
bisogno di
imparare qualcosa… Prevedo già che
sarà una gran noia, anche se Esme ha
ribadito che è necessario per la nostra finzione di
“felice famiglia umana con
figli adolescenti”. Sarà, ma a me sembra una gran
fregatura ripetere il liceo
all’infinito. In più dubito che sarà
un’esperienza utile per farsi nuovi amici,
visto che di solito gli umani, guidati più
dall’istinto che dalla ragione,
tendono a girare al largo da noi.
Vabbè,
staremo a vedere se qualcosa riuscirà a scuotere questa
piccola cittadina dalla
noia mortale che l’avvolge. Ho come la sensazione che
passeremo qui più tempo
del previsto…
Penultimo
capitolo! Ebbene sì, ormai anche questa storia è
agli sgoccioli. Mi auguro che questo chap sia all'altezza degli altri:
non è stato affatto facile concentrare qausi un secolo di
vita di Edward in pochi stralci di diario. Diciamo che ho deciso di
rendere il tutto con una specie di raccolta di one-shot dei momenti
principali della sua esistenza tra la trasformazione e l'arrivo di
Bella, focalizzandomi ovviamente sui momenti fondamentali. Spero anche
di aver reso bene il pensiero di Edward e che questa non sia una mera
sequenza di eventi. Per l'ultimo chap spero di riuscire ad aggiornare
presto, intanto ringrazio:
Elfa sognatrice: mi
fa piacere che la mia storia ti abbia così colpito! In
effetti volevo ottenere proprio quel risultato, anche se mi dispiace un
po' far piangere la gente XD ma quella di Edward non è certo
stata una storia facile nè felice... Se mi dici che sono
riuscita ad arrivare bene al cuore del lettore, be', allora credo di
aver svolto bene il mio compito! Grazie!
ephirith:
innanzitutto bel nick, davvero! Per il resto vale quello che ho detto
qui sopra: credo che il compito di ogni scrittore (non che io mi
ritenga tale) sia di raccontare in modo tale da far "vivere", diciamo
così, quello che scrive, quindi renderlo reale e capace di
arrivare al cuore del lettore e colpirlo. Non ho aggiornato presto
(come al solito) ma spero che tu recensisca anche questo chap!
Jadis96: ed eccoti
il nuovo chap! Sicuramente un'attenta lettrice come te
troverà qualche pecca. Ma d'altronde la storia di Edward
dopo la trasformazione è piuttosto vaga e in certe parti ho
deciso di prendermi un po' di licenza poetica, mentre in altre ho
cercato di rimanere il più fedele possibile alla storia.
Quindi mi perdonerai qualche incongruenza, soprattutto con le date. A
presto!
Nirva: Uuuhhhhh ma
quanti nuovo lettori! Anche a me ha sempre affascinato il rapporto
maestro-allievo per così dire, oltre a quello padre-figlio,
tra Edward e Carlisle, che assomiglia molto a quello che appare in
molte altre storie; un esempio, Harry Potter e Silente. In particolare
mi è piaicuto scrivere del tormento di Carlisle per la
decisione di trasformare Edward. E l'immagine dell'angelo, oh
sì, è una delle mie preferite! Diciamo che
racchiude una triade: Bella, l'angelo (che potrebbe simboleggiare la
rinascita a vampiro) e Carlisle: tre cose importanti nella vita di
Edward. Oppure i suoi due angeli: Carlisle che l'ha salvato quando era
umano e Bella che ha salvato il suo cuore.
fields: grazie per
il commento, pur semplice che sia! Continua a leggere
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Return to the origins ***
Capitolo
10°
Return
to the origins
«Sicuro
di volerci andare?».
«Sì,
sicurissimo. Te l’ho già detto».
Il
silenzio ricadde pesante nell’abitacolo dell’auto e
l’unico rumore era il
sonnolento ronzio del motore e lo sfrecciare delle altre macchine
accanto alla
nostra. Dopo l’ennesima svolta della caotica statale a
quattro corsie che
stavamo percorrendo, ecco finalmente stagliarsi
sull’orizzonte il profilo di Chicago.
I numerosi grattacieli, che facevano a gara per raggiungere il cielo
tinto di
porpora del tramonto, assomigliavano agli alberi scuri di navi con vele
invisibili. Non me la ricordavo così la città,
anche se dall’ultima volta che
c’ero stato era ovvio che fossero cambiate parecchie cose.
Ora la Chicago del
ventunesimo secolo mi salutava con le sue luci colorate e i moderni
edifici di
vetro e acciaio.
«Anche
perché dopo quasi un secolo di latitanza è ormai
ora che il colpevole ritorni
sulla scena del delitto, no?».
Bella
mi gettò un breve sorriso scuotendo la testa, per poi
tornare a fissare la
strada davanti a sé ed ingranare la quarta.
Anch’io sorrisi, tirando un breve
sospiro e tornando a guardare fuori dal finestrino. E improvvisamente,
guardando quella città che un tempo era stata la mia casa ma
che ora mi
appariva così strana, un cumulo di ricordi mi sommerse quasi
con furore. Non
l’avevo mai detto a Bella, ma dopo quasi cento anni ero
contento di scoprire
che quello che avevo sempre classificato come un sogno in
realtà non fosse
tale. Inevitabilmente il mio sguardo tornò a lei, alla sua
fluente cascata di
capelli color cioccolato, il volto a forma di cuore e la carnagione
diafana. I
raggi del tramonto si riflettevano nelle iridi color ocra e per un
attimo
ricordai il loro colore scuro e vellutato di quando era ancora umana,
così
simile a quello degli occhi della ragazza del sogno. Ma che stavo a
dire? Bella
era la ragazza del sogno, che dopo
un
secolo di vagabondaggio avevo finalmente ritrovato
nell’uggiosa cittadina di
Froks. Non è da tutti i giorni che una dolce ed innocente
umana s’innamori di
un vampiro e, soprattutto, di un vampiro tormentato come me. Ma,
nonostante
tutti i pericoli e le difficoltà, i dolori e le ansie
attraverso cui eravamo
dovuti passare, la nostra storia d’amore non poteva che avere
un lieto fine.
Ora che anche lei era un vampiro, avrei avuto tutta
l’eternità per godermi
tutta quella felicità prevista da un sogno e già
assaggiata dagli altri
componenti della mia famiglia. Il tutto sarebbe stato assolutamente
perfetto se
non per un piccolo dettaglio. Come si dice, il passato prima o poi
torna a
bussare alla porta, no? Ed era proprio per quel motivo che ero tornato
a
Chicago con la mia compagna: per regolare i conti con il mio passato.
«Mi
starai vicina, vero?» sussurrai con lo sguardo basso e quasi
in imbarazzo.
La
risatina squillante di Bella mi giunse alle orecchie.
«Ma
certo! Cosa credi che sia venuta a fare? Io ti starò sempre vicina, Edward».
Mi
resi conto dell’insensatezza della mia domanda.
«Grazie per avermi
accompagnato. Ti amo».
Una
ciocca di capelli scuri le ricadde davanti al volto e, se fosse stata
ancora
umana, l’avrei sicuramente vista arrossire.
«Ti
amo anch’io» mormorò.
Arrivammo
al centro della città proprio all’orario di punta,
la sera quando dopo il
lavoro la gente tornava a casa o i ragazzi s’affollavano per
le strade in
attesa di imbucarsi in qualche locale alla moda. Così che
Chicago mi riaccolse
non solo con la sua modernità ma anche con la sua gente.
Ragazzi e ragazze che
ridevano a scherzavano in gruppo davanti a qualche bar, famiglie che
uscivano
dai grandi supermercati cariche di un’abbondante spesa,
negozi nei quali
s’attardavano gli ultimi clienti prima dell’ora di
chiusura, alcune donne
anziane tranquillamente sedute a chiacchierare su una panchina magari
in
compagnia di qualche tenero cagnolino e distinti signori e signore in
doppio
petto che uscivano di corsa dagli uffici dei grattacieli con
un’aria ancora tutta
indaffarata. E i rumori: i clacson, le urla, il chiacchiericcio
confuso, il
tubare di qualche piccione sul cornicione di un vecchio palazzo subito
interrotto dall’abbaiare di un cane, il rombo delle macchine
e lo sfilare degli
autobus, il ronzio sotterraneo della metropolitana… Erano
decisamente cambiate
parecchie cose, mi dissi mentre ci fermavamo davanti al semaforo rosso
di un
incrocio. Nulla di ciò che vedevo mi apparteneva: sarebbe
stato come mettere un
antico Romano nella Roma moderna. Però il mio cuore mi
diceva che in mezzo a
tutta quella novità qualcosa di vecchio come me era rimasto.
Ed era proprio
quello che stavo cercando. Non sapevo con esattezza perché
dopo tanti anni,
dopo che mi ero creato una nuova vita altrove e dopo che avevo perso
del tutto
i legami con quel luogo, avessi deciso di ritornarvi. Be’,
forse… forse perché
dopo essermi finalmente riappacificato con la mia identità,
per completare del
tutto e al meglio questo processo avevo sentito il bisogno di ritornare
là dove
tutto era iniziato. Dovevo dimostrare di non stare più
fuggendo dal mio passato
e forse una volta che avessi accettato anche quella fetta della mia
vita avrei
potuto finalmente mettere i miei tormenti a tacere. E poi
c’era una cosa che
desideravo fare da tempo.
Fortunatamente
trovammo un comodo parcheggio nelle vicinanze. Bella scese rapida dalla
macchina, tutta eccitata da quella nuova
“avventura”. Per me invece…
be’, ci
volle un po’ più di tempo. Mi sembrava ancora
incredibile di ritrovarmi lì e di
sicuro negli anni passati non avevo mai immaginato che prima o poi vi
sarei
ritornato. Presi un profondo respiro cercando di calmarmi, mentre le
gambe
iniziavano a tremarmi, tradendo l’emozione. Mi sforzai di
darmi un tono, giusto
per non preoccupare Bella, e quasi con gesti meccanici presi una
singola rosa
rossa appoggiata delicatamente sui sedili posteriori della Volvo.
L’esaminai
con cura e con un certo sollievo notai che era ancora fresca e il suo
profumo
delicato e soave era pressoché intatto. A quel punto non
c’erano più ragioni
per indugiare. Raggiunsi Bella, che con uno sguardo affettuoso e
compassionevole che mi ricordò immediatamente Carlisle mi
strinse delicatamente
la mano, e insieme c’incamminammo sul marciapiede. Mentre
camminavamo vicini io
non potevo fare a meno di guardarmi attorno come un bambino curioso.
Tutti quei
ricordi ammonticchiati e disordinati che non avevo mai voluto prendermi
al
briga di rivedere, stavano pian piano ritornando al loro posto a ogni
singolo
respiro.
«Da
che parte è?». La domanda di Bella mi ricosse da
quella contemplazione.
Non
risposi subito, ma mi limitai a guardarmi attorno con sguardo perso.
Lessi il
nome della via, ma non mi diceva niente. Poi guardai in fondo alla
strada e
scorsi qualcosa che mi fece sobbalzare: un’alta cancellata di
ferro dalla quale
spuntavano le fronde verdi di alcuni platani. Quel parco…
Ero più che sicuro
che se avessi avuto ancora un cuore vivo, questo si sarebbe messo a
battere
all’impazzata. E come un sogno ad occhi aperti rivedevo le
tenebre inghiottire
due figure pallide e sottili come ombre che si aggiravano davanti
all’entrata.
La prima che saltava senza alcuna difficoltà oltre il
cancello e la seconda che
la guardava allibita e in difficoltà.
«Edward?
Tutto bene…?».
La
stretta di Bella si fece più forte sulla mia mano, mentre
lei alzava su di me
uno sguardo preoccupato. Il fremito che poco prima mi aveva colto
impreparato,
ricomparve, estendendosi a tutto il resto del corpo fino alle mani.
«Edward!
Ecco, lo sapevo, avremmo fatto bene a non venire.
Io…». Il tono di Bella
sembrava allarmato.
Senza
dire una parola, le posi due dita sulle labbra per zittirla e con uno
sguardo
eloquente le assicurai che avevo la situazione sotto controllo. Il suo
sguardo
interrogativo incontrò il mio ancora perso nel vuoto, ma non
le lasciai il
tempo di proferire una singola parola. Le tessere del puzzle stavano
pian piano
tornando al loro posto.
«Da
questa parte» sussurrai e senza tanti complimenti la
trascinai lungo la strada.
Percorremmo
a passo spedito, ma non troppo veloce per non dare
nell’occhio, i vialetti del
parco, a quell’ora ancora affollati di gente. Se non altro,
notai con sollievo,
almeno quel parco non era cambiato affatto dall’ultima volta
che c’ero venuto.
Girai per un po’ in lungo e in largo, cercando di orientarmi.
Anche se quel
parco era pressoché identico a come l’avevo
conosciuto, c’era una bella
differenza a girarlo alla luce del giorno e con la mente lucida. Dopo
che
avemmo ripercorso lo stesso vialetto per la terza volta, scorsi da
lontano due
grossi cespugli di biancospino in fiore, che assomigliavano a un paio
di giganteschi
pupazzi di neve, e una panchina che faceva timidamente capolino. Mi si
formò un
nodo alla gola nel rivedere quella famosa scena di tanto tempo prima,
l’ora
della rivelazione, ed accelerai il passo. Bella continuava a seguirmi
in
silenzio, anche se la sua espressione era sempre più
perplessa.
«Si
può sapere cosa diavolo stiamo cercando?»
sbottò alla fine incorniciando le
braccia sul petto.
«Un
cancello… con dei cipressi… O qualcosa che ci
somigli» risposi ancora
sovrappensiero.
Lei
sbuffò ancora e seguì i miei passi, anche se ora
stavo andando quasi di corsa.
Ero eccitato, preso da una frenesia inarrestabile, un dolore quasi
fisico, come
un cane che ha fiutato la sua preda ma non riesce ancora a scorgerla.
Il tutto
mi procurava una terribile frustrazione.
«Dev’essere
qui… Sì, qui, ne sono
certo…» borbottai più a me stesso che
alla mia compagna. «Magari…».
Mi
fermai di botto e lasciai la frase a metà, mentre tutto il
fiato che avevo nei
polmoni mi abbandonava in un colpo. Il piccolo cancello attraverso il
quale ero
passato quella notte non esisteva più, infatti era stato
sostituito da un
imponente arco di granito pieno di targhe commemorative
dall’aria solenne; ma
riconobbi ugualmente da una parte i due cipressi. Allora erano
rinsecchiti e
morenti, ma adesso, invece, parevano rinvigoriti nonché
accresciuti: sfioravano
quasi la cima dell’arco, abbracciandolo da una parte con le
fronde verde cupo.
Dovevo essermi come pietrificato, perché quando sentii la
mano di Bella posarsi
sulla mia spalla sobbalzai.
«Qui»
annunciai con fermezza. «Sono sicuro che sia qui».
Lasciai
vagare lo sguardo oltre la soglia dell’arco, evitando di
incrociare
l’espressione probabilmente afflitta di Bella: il poco
coraggio che ero
riuscito a racimolare bastava a stento e non potevo permettermi di
farmi
vincere maggiormente dall’emozione. Intanto la mano di lei
aveva preso ad
accarezzarmi la schiena, quasi come per incoraggiarmi.
«Allora
vai» sentii sussurrarmi all’orecchio. «Lei
ti aspetta».
Mi
voltai di scatto verso di lei, allarmato dalle sue parole.
«Tu
non vieni?» chiesi con un tono sgomento. «Bella,
ma… Ma mi avevi promesso…».
Bella
scosse la testa ed abbassò gli occhi.
«Sì, ti avevo promesso che ti sarei stata
vicina. Ma devi andare da lei da
solo, io sarei di troppo. Avrete sicuramente un sacco di cose da dirvi
e… ce la
devi fare da solo. Io ti aspetterò qui».
Rimasi
senza parole per un minuto buono, mentre tra quella matassa disordinata
di
ricordi venivano a galla le parole di Carlisle: “Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui”.
Un altro abbandono, un
altro taglio così drastico…
«Io…
non credo di riuscirci. È passato così tanto
tempo…».
Bella
mi prese il mento con forza e mi costrinse a guardarla dritto negli
occhi. «Ce
la farai, lo so».
E
detto ciò mi sfiorò le labbra con un
baciò sfuggente e mi circondò le spalle
con le braccia, per poi spingermi delicatamente verso la mia frontiera.
Rimase
lì immobile, mentre io mi avviavo con passo traballante ed
insicuro. Ma alla
fine mi decisi a raccogliere tutte le mie forze e, con la rosa rossa
talmente
stretta tra le mani che per poco le spine non mi avrebbero trafitto la
pelle,
raddrizzai le spalle e accelerai.
Non
ci misi molto a trovarla, come l’altra volta del resto: i
miei piedi sapevano
benissimo dove condurmi. Seconda fila
terza da destra… Tutt’attorno a me
potevo scorgere monumenti e lapidi
commemorative adorne con fiori e ghirlande che ricordavano tutte le
vittime
della spaventosa epidemia di spagnola che aveva colpito la
città all’inizio del
Novecento. E facevano sembrare quella cosa ancora più
lontana nel tempo, tanto
che mi sembrò incredibile che io, che avevo vissuto
direttamente quello
sterminio, non solo fossi ancora lì ma non fossi cambiato di
una virgola. Come
le tombe, del resto. Attorno il cimitero era stato reso monumentale e
solenne,
un vero gioiello, ma quelle tombe rimanevano le stesse povere, spoglie
e fredde
lastre di pietra che avevo visto nel 1918. Tutte uguali e allineate,
quasi
spettrali alla debole luce del crepuscolo, senza neanche un fiore: ma
d’altronde chi era rimasto che vi potesse portare dei fiori?
Solo io. Con la
coda dell’occhio scorsi sulla sinistra una piccola cappella
chiara dall’aria
triste e spoglia e per un nanosecondo mi sembrò di scorgere
accucciata sugli
scalini dell’entrata una sagoma scura, con le mani incrociate
e gli occhi
chiusi raccolta in preghiera. Peccato che Carlisle non fosse
lì ancora una
volta a sostenermi, pensai. Ma alla fine, dopo numerosi tentennamenti,
arrivai
alla meta.
«E
così rieccoci qua. Proprio come ai vecchi tempi,
pare». Mi guardai attorno: non
c’era nessuno.
Quindi
tornai a rivolgermi alla piccola tomba davanti a me: non me la
ricordavo così
piccola, mi venne da pensare istintivamente. Gli ultimi raggi del sole
giungevano obliqui, disegnando piccole ombre allungate davanti a ogni
lapide. E
quelle poche lettere che tanto tempo prima mi avevano così
tanto spaventato e
sconvolto erano ancora lì, anonime e disadorne.
ELIZABETH
MASEN
? – 2-8-1918
Avevano
perfino dimenticato di mettere la data di nascita della
mamma… Ma d’altronde in
quel periodo i morti erano così tanti e frequenti che era
già tanto che le avessero
dato una sepoltura almeno decorosa. E dopotutto a chi importava chi
era, cosa
aveva fatto, chi aveva amato? Era soltanto un’altra delle
vittime
dell’influenza. L’ennesima. La mia rosa, che
appoggiai con gesti calcolati alla
superficie liscia della lapide, era un piccolo punto color sangue,
quasi
abbagliante, in mezzo a quell’abisso fatto di sfumature di
grigi smorti. Strinsi
i pugni fino a farmi affondare le unghie nelle palme delle mani; avrei
voluto
strappare quella lapide così anonima, buttare
all’aria quella terra dura e
senza un filo d’erba e costruire al loro posto un mausoleo
bellissimo. Ma tutta
questa rabbia per quella noncuranza e pressapochismo svanì
all’istante quando,
sforzandomi di ricordare, scoprii che nemmeno io ricordavo
più la data di
nascita di mia madre. Ne fui disgustato. Ero dunque giunto a quel
punto? Avevo
represso la mia prima vita fino ad iniziare a dimenticarla? Le unghie
affondarono ancora di più nella carne. E per la seconda
volta in cento anni
provai l’impulso di piangere ma, per la seconda volta, non ci
riuscii: le
lacrime s’attardavano sempre lì sotto le palpebre,
ma era come se una barriera
invisibile impedisse loro di scorrere sul mio volto. Per
l’ennesima volta nei
fui frustrato.
«Scusa»
mormorai alla tomba. «Io… mi dispiace».
Alzai
gli occhi al cielo, con un groppo alla gola che frenava i singhiozzi e
le
lacrime che mi appannavano la vista ma si rifiutavano ancora di
scendere. Il
cielo verso ovest si era fatto roseo, segno che ormai il sole era
tramontato
quasi del tutto e dalla parte opposta, dove già avanzavano
le tenebre della
notte, erano spuntate le prime timide stelle, la cui debole luce bianca
riluceva contro quelle sfumature infuocate di arancioni. Socchiusi gli
occhi
fino a non vedere altro che uno strano miscuglio di colori caldi.
«Mi
dispiace di essere stato via così tanto tempo»
continuai a bassa voce. «Mi
dispiace di non essere tornato prima. Mi dispiace di essere stato
così vile. Mi
dispiace di aver cercato di dimenticare. Ma…
vedi… no, non posso affatto essere
scusato per questo… però, credo di non aver avuto
il coraggio di affrontare tutto
quello che mi è capitato. È accaduto tutto
così velocemente… Be’, almeno adesso
sai che Carlisle ha mantenuto la promessa che ti aveva fatto:
è un amico fedele
e si è sempre preso cura di me, proprio come avresti fatto
tu».
Feci
una breve pausa e le miei parole furono interrotte da quel piccolo
singulto che
finalmente aveva avuto il coraggio di risalire la gola.
«Io…
sono ancora qui. E vorrei che anche tu lo fossi. Io, te e il
papà. Mi mancate
tanto. In tutti questi anni mi ero convinto di non sentire la mancanza
di
quello che c’era stato prima. Prima della trasformazione e
tutto il resto. Ma
mi sbagliavo. Come mi sono sbagliato riguardo a molte cose,
d’altronde. Ma
anche se è passato ormai quasi un secolo e mi sono dovuto
ricredere su molte
cose… be’, puoi vedermi anche te: sono rimasto
sempre il tuo bambino, il
ragazzo di diciassette anni che hai amato. Però credo di
essere cambiato almeno
un po’: abbiamo viaggiato tanto, sai, io e Carlisle; e non
solo noi due. Adesso
abbiamo una grande famiglia: ci sono Esme, Rosalie, Emmett, Alice,
Jasper… e
Bella. È proprio lei che mi ha accompagnato qui e, anche se
tu rimarrai per
sempre unica nel tuo genere, credo di aver finalmente trovato qualcuno
che mi
ama come mi hai amato tu. Non saprei davvero come fare senza Bella:
è la luce
che aspettavo di vedere da un secolo».
Quasi
senza accorgermene, come se la mia volontà fosse staccata
dal mio corpo, mi ritrovai
seduto per terra, sulla terra dura del tumulo. Era strano stare
lì a parlare
con una lastra di pietra e mi sembrava ancora più strano che
sotto ai miei
piedi ci fossero le ossa della prima donna della mia vita.
Però non mi
importava di essere in un cimitero a parlare con il vuoto; per me era
come
essere a casa e, anche se lei non mi poteva rispondere, ero certo che
mia madre
stesse ascoltando le mie parole malferme e sussurrate. E magari stava
pure
sorridendo e piangendo di gioia nel vedere da lassù, dove
brillavano le stelle
e bruciava la luce del sole, che suo figlio era finalmente ritornato da
lei.
Improvvisamente mi avvolse un soporifero senso di pace, anche se
sentivo che
mancava qualcosa; ebbi nostalgia del suo abbraccio caldo, della musica
della
sua voce, del profumo dei suoi capelli. Ma non potevo riavere tutte
queste
cose, perché un secolo ci separava: potevo ritrovarle solo
nei miei ricordi,
che dovevo salvaguardare con estrema cura.
«Ti
prometto che non ti dimenticherò mai. Ti prometto che
tornerò sempre, sempre
qui. Lo giuro».
L’ultimo
raggio di sole baluginò oltre gli alberi e il rosso cupo
della rosa si accese
per un attimo come una fiammata.
«Anch’io
ti voglio bene, mamma».
L’orologio
segnava ormai le dieci e mezza di sera quando ritornammo alla macchina.
Il
caldo torrido che ci aveva accompagnato in una di quelle prime giornate
d’agosto a quell’ora si era finalmente attenuato e
la fresca rugiada della sera
mi accarezzava la pelle insieme alla brezza frizzante. Mi sentivo
leggero e
decisamente sollevato, felice nonostante il fondo di malinconia che
quei luoghi
avevano rievocato tra i miei ricordi. Ero certo che ormai nel mio cuore
erano
del tutto sparite quelle cupe zone oscure che avevo sempre cercato di
evitare.
Però, a guardare bene, mi accorsi che c’era ancora
un piccolo neo. Stavo per
aprire la portiera dell’auto quando mi bloccai: mi ero appena
ricordato di una
cosa piccola ma importante. Chissà se forse… no,
era passato troppo tempo e di
certo non l’avrei più ritrovato.
Però…
«Bella»
dissi attirando l’attenzione della mia compagna.
«Non è che potremmo fermarci
da una parte prima di tornare a casa?».
Lei
mi guardò inarcando un sopracciglio. «Che cosa hai
in mente?».
Io
non risposi, bensì mi limitai a rivolgerle un sorriso
sghembo dei miei,
cercando di apparire il più convincente possibile.
«E
va bene» s’arrese lei alla fine ed alzò
gli occhi al cielo. «Sali in macchina».
«Oh,
no, è qui vicino, possiamo benissimo arrivarci a
piedi».
Il
Northwestern Memorial Hospital era un’imponente struttura di
vetro e acciaio,
chiara e luminosa anche di notte perché rifletteva le luci
dell’intera città.
Di certo uno degli edifici più moderni e sofisticati di
Chicago, nonostante
tutto si poteva classificare come ospedale senza molte
difficoltà. Il tipo di
ospedale ben diverso da quello che avevo conosciuto io però,
pensai. E se quel
grande palazzo a dieci o più piani era il manifesto delle
più avanzate
tecnologie mediche, quello che vi stava dietro era, invece, la
testimonianza di
una terribile realtà passata. Aggirando il Northwestern
Memorial Hospital si
potevano scorgere le rovine di un palazzo ben più vecchio,
quasi cadente e dai
colori sbiaditi, che dava proprio sul parco dove eravamo appena stati.
Di certo
non ci entrava più nessuno da anni… E la polvere
accumulata negli angoli delle
numerose stanze vuote, il ticchettio delle zampette dei topi e i
viluppi di
ragnatele non facevano altro che avvalorare questa tesi. I letti e
tutto il
resto del mobilio erano spariti, se non si teneva conto di qualche
tavolo ormai
del tutto rosicchiato dai tarli e un paio di armadi pieni zeppi di
vecchi
incartamenti, di cui molti fogli giacevano ora sparpagliati e
ingialliti sul
pavimento. Non sembrava essere rimasto più alcun segno della
frenesia, dell’ansia,
dei pianti, delle urla e delle preghiere di cui un tempo erano stati
testimoni
quei muri.
«Questo
è…?» disse Bella. Mi gettò
una veloce occhiata e si chinò a raccogliere alcuni
fogli stropicciati.
«Sì,
il mio vecchio ospedale». Lo dissi con una naturalezza quasi
sorprendente, come
se stessi parlando della casa dove ero nato. Ma dopotutto era vero: era
lì che
avevo incontrato Carlisle, lì dove ero rinato.
«Oh».
Il suo bisbiglio mezzo dispiaciuto e mezzo imbarazzato mi giunse da
lontano. E
io, invece, come prima, continuavo a guardarmi attorno come un bambino
curioso,
in cerca di qualcosa che stuzzicasse la mia memoria.
«Doveva
essere un posto molto triste».
Una
smorfia mi sorse alle labbra e risposi: «Non immagini quanto.
Vedere ogni
giorno gente morire di fianco a te… intere famiglie
distrutte… e tu non potevi
farci niente. Potevi solo stare a guardare».
Non
mi ero quasi accorto del tono basso e quasi lamentevole che aveva
acquisito la
mia voce, mentre Bella mi cingeva da dietro e posava un leggero bacio
vicino al
mio orecchio sinistro. Il suo respiro regolare mi sfiorò la
guancia, calmandomi
come una tisana.
«Tanti
giorni tutti uguali, passati aspettando qualcosa che nessuno sapeva
bene cosa
fosse. E la paura… e l’ansia… e la
disperazione…».
Chiusi
gli occhi e mi morsi violentemente il labbro inferiore, cercando di
contenere
quella valanga di emozioni. La stretta di Bella di fece più
forte; sentivo il
suo petto premuto contro la mia schiena, il suo mento delicatamente
appoggiato
contro l’incavo del mio collo. E intanto potevo sentire, come
dal fondo di un
tunnel, le eco dei pianti e delle preghiere sussurrate dai malati, il
bianco
ingrigito dei letti che rifletteva la luce di un sole pallido, una
lunga corsia
lungo la quale d’affaccendavano medici e infermiere. Scossi
la testa nel
tentativo di allontanare quelle sgradevoli diapositive.
«Ma
tu hai conosciuto Carlisle. Sei passato attraverso tutto
questo». Il sussurro
di Bella mi ghermì come un’ancora di salvezza.
«E ora sei qui».
«Sì,
sono qui» ripetei meccanicamente.
Presi
un profondo respiro e mi staccai dal suo abbraccio. Ero
lì… per fare qualcosa.
Con fare ora più determinato e un cipiglio risoluto, mi misi
a frugare tra
tutte quelle carte in disordine: ordini di medicinali, cartelle
cliniche, elenco
dei nuovi pazienti e di quelli deceduti. Ero sicuro che in
quest’ultimo avrei
trovato il mio nome e quello dei miei genitori, ma preferii non
controllare. Comunque
lì non c’era niente che potesse interessarmi, solo
vecchie cartacce. Con
l’aiuto di Bella scandagliai quasi tutto
l’edificio, ma trovai solo polvere e
calcinacci. Ma alla fine, quando ormai stavamo per gettare la spugna,
giungemmo
nell’ala est e una vecchia porta a due battenti fece scattare
qualcosa nella
mia mente. Si apriva su un’ampia e lunga sala del tutto vuota
e in decadenza,
anonima, ma appena la vidi il respiro mi si fece corto e un tremito
s’impossessò delle mie mani, mentre correvo verso
la penultima finestra.
Mi
ci affacciai (ormai i vetri e le imposte erano spariti) e
l’aria della sera mi
portò alle narici l’odore dell’erba
appena tagliata e della rugiada proveniente
dal parco. Era lì. Una strana eccitazione
s’impossessò delle mie membra, quasi
fossi sotto l’effetto di qualche oppiaceo. Mi guardai attorno
con occhi che
dovevano apparire come spiritati e senza calcolare Bella. Ecco,
lì, sì, proprio
lì di fianco doveva esserci il mio letto! E il comodino! Si
poteva ancora
distinguere la sagoma più chiara sull’intonaco
pieno di crepe. Dall’altra
parte, a meno di un metro, doveva esserci, invece, il letto della
mamma. Quindi
anche il mio diario doveva essere lì… Ma non
vedevo niente. Magari l’avevo
messo in uno dei cassetti del comodino ed era andato al macero insieme
a
quello. Emisi un sospiro di sconforto e mi passai una mano sulla
fronte. Ovvio,
Edward, che ti aspettavi dopo cento anni, eh? Bella si era appartata in
un
angolo per non intralciare la mia ricerca e mi scrutava dalla penombra.
Tornai
ad appoggiarmi al davanzale, strizzando gli occhi contro il bagliore
lunare,
con molto sconforto e disillusione nel cuore. Che speranza vana, pensai
prima
di urtare qualcosa col gomito. Scattai indietro colto alla sprovvista e
con il
cuore in gola per la sorpresa. Lì, in un angolo del
davanzale, stava quello che
un tempo lo si sarebbe potuto chiamare libro. La copertina di pelle era
strappata e come corrosa, le pagine ingiallite dal tempo ed avvizzite
dalle
ultime piogge. Di certo appena l’avessi toccato si sarebbe
sbriciolato, pensai.
Ma sfogliandolo scoprii che non era affatto un banale libro,
bensì quel che
cercavo: il mio vecchio diario. Che dopo un secolo era ancora
lì ad aspettarmi.
Un sorriso m’illuminò il viso: era come se avessi
appena ritrovato una parte di
me.
«Trovato?»
mi domandò Bella da lontano.
Io
ebbi a malapena il tempo di annuire distrattamente che già
ero immerso nella
lettura di quelle poche pagine coperte da una scrittura sottile e
lineare, il cui
inchiostro un po’ sbavato le faceva assomigliare ad un
prezioso documento
antico. Uno strano calore mi invase mentre il mio sguardo scorreva
sulle
parole, assaporandone il suono e il significato. E ogni lettera, ogni
virgola,
ogni spazio faceva fiorire nella mia mente immagini su immagini,
ricordi su
ricordi, emozioni su emozioni in un complesso caleidoscopio. I suoni e
le
parole udite mi rimbombavano nelle orecchie, fondendosi in un unico
chiacchiericcio confuso e quasi fastidioso. Era come aprire una
finestra su un
altro mondo. Stavo rivivendo il tutto come in un lungo flashback
mandato avanti
veloce e ne rimasi quasi frastornato, come sorpreso da una ventata di
aria
gelida che aveva minacciato di spazzarmi via.
Mi
chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura,
perché di certo
sta andando avanti.… Una volta che riuscirò a
rivoltare l’animo di quell’uomo
come un calzino sono sicuro che vi scoprirò qualcosa di
molto più grandioso o
terribile di quanto mi fossi mai aspettato o immaginato… Ma
di certo non avrei
mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato dall’altra
parte, a guardare da
questa finestra… La mamma sta sempre più
male… Ci dicono che dobbiamo accettare
i dolori e gli ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che
scopo?...
E finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa
c’è oltre l’orizzonte… Mi ha
riconciliato con ciò che sono e mi ha rassicurato su
ciò che sarò e per questo
non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza…
…
Un’altra cosa che rimpiango è di non aver mai
conosciuto il vero Amore…
Non
seppi con precisione quanto tempo passai in contemplazione di quel
prezioso
manoscritto, poteva essere un’ora come soltanto cinque
minuti. E mentre le mie
mani frementi sfogliavano le pagine scritte come quelle in bianco per
carpire
ogni singolo dettaglio, assetato di un passato che avevo scordato per
troppo
tempo, un tremito mi aveva rapito il cuore, facendomi venire la pelle
d’oca e
il fiato corto. In particolare quell’ultima frase mi aveva
colpito come il
rintocco assordante di decine di campane. Quasi non riuscivo a credere
di
essere la stessa persona che tempo addietro aveva scritto quelle
parole, che
aveva riversato il suo cuore e quelli che credeva sarebbero stati i
suoi ultimi
pensieri in quel diario. Com’era diverso l’Edward
Masen umano dall’Edward
Cullen vampiro… Il primo così fragile e
sensibile, apparentemente disilluso ma
in fondo ancora il ragazzino ingenuo a cui piace sognare ad occhi
aperti, che
crede di conoscere i mali del mondo ma si sbaglia. Il secondo ben
più duro e
grezzo, levigato dagli anni, dai pensieri e dalle esperienze, ben
più realista
e attaccato all’oggettività della vita, disilluso
sul serio, decisamente meno
ingenuo e sognatore, ma forse anche più pessimista. Si
poteva facilmente notare
quanto l’apparente tono severo di quelle parole nascondesse,
invece, ancora
tutta la freschezza della giovane età, quella stessa
freschezza che mancava
alle pagine più recenti del mio nuovo diario.
Però quella frase, quella
speranza poteva costituire un punto d’incontro tra il prima e
il dopo. Speranza
che alla fine, anche se dopo parecchio tempo, si era finalmente
concretizzata
nella ragazza che avevo davanti: quelle parole non potevano che
riferirsi a
Bella. Pian piano, ancora tutto preso da quei pensieri, la raggiunsi
con il
diario aperto tra le mani.
«Ascolta»
le dissi sedendomi accanto a lei sul pavimento polveroso e prendendole
una
mano. «”Non
mi manca l’essere stato amato, bensì
l’amare, il dare
la propria vita per l’unica persona che la merita. Se potessi
vivere per altri
cento anni… ma che dico, anche per un giorno
soltanto… Ho ricevuto, ma non sono
riuscito a dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma
sono sicuro
che se mai avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata
la mia
aria, la mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore.
Avrei
attraversato mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E
questi
ultimi pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono
certo
che un giorno o l’altro il mondo conoscerà
qualcuno come te, ma io purtroppo
non sarò lì a stringerti la mano e a sussurrarti
dolci parole all’orecchio. Ma
non importa, perché almeno sarò sicuro che
qualcun altro potrà godere della tua
luce.
Di
certo la più bella e luminosa di
questo universo.” Che
ne pensi?».
Lei
rimase un attimo in silenzio, corrugando la fronte. «Sono
delle belle parole…»
disse alla fine.
«E…?».
«Le
parole che non credo
tu saresti capace
di dire».
«Come
mai? Le ho scritte io».
«Sì,
hai ragione». I suoi occhi brillarono come stelle.
«Però le ha scritte l’Edward
umano del 1918: c’è una bella
differenza».
«Ah!
Sembra che tu stia parlando di un’altra persona!
L’Edward del 1918 è anche
l’Edward che hai davanti, l’hai forse dimenticato?
Ma dico, sono venuto fin qui
per “riconciliarmi con il mio passato”, per
così dire, e tu cosa mi vieni a
dire? Sostieni forse la teoria separatista?».
Così
dicendo riuscii a far spuntare un piccolo sorriso sul suo volto a forma
di
cuore, il cui calore si diffuse anche alle iridi color topazio.
«No, Edward.
Intendevo “ le parole che tu non saresti capace di dire in questo momento”. Tu non hai
rimpianti, non devi sognare qualcosa
che non hai e pensare a come sarebbe stato se ce l’avessi
avuta. Io sono qui:
lo vedi anche tu… Sempre ammesso che io possa vantarmi di
essere… com’era?...
ah, sì, “la stella più bella e luminosa
dell’universo”». E rise ancora, questa
volta come per schernirsi.
Senza
pensarci l’abbracciai con slanciò e con una risata
feci per morderle una
guancia, prima che lei si discostasse dandomi un leggero schiaffo sulla
guancia
e continuando a ridere come una matta.
«Ma
certo che si riferivano a te quelle parole. E a chi altri
sennò?». Le posai un
baciò sull’incavo del collo.
«Wow.
Allora mi aspettavi con largo anticipo!».
Assunsi
un’espressione più seria ed alzai su di lei uno
sguardo pieno di significato,
sussurrando la mia riposta a un centimetro dalle sue labbra.
«Certo. Ti ho
sempre aspettata, ho sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivata
qualcuna
come te. È come se avessi vissuto un secolo intero in attesa
di te… e ci sono
pure varie testimonianze. Oddio, non posso prevedere il futuro come
Alice,
quindi magari non pensavo a te come persona in carne ed ossa, ma
diciamo pure a
un tuo prototipo».
Lei
non disse niente ma si limitò a baciarmi con dolcezza,
mentre io aspiravo a
pieni polmoni il suo profumo vellutato. Alla fine si staccò
da me di qualche
centimetro per guardarmi dritto negli occhi e disse: «Il
signor Edward Masen
classe 1901 poteva scrivere quelle parole con una certa rassegnazione,
mentre
tu non hai ragione di rimpiangere un amore mai trovato. Però
questo non vuol
dire che siate due identità completamente distinte. Sei
cambiato molto è vero,
ma chi non cambierebbe in un secolo? Cambiamo tutti i giorni, tutti. Ma
nonostante tutto posso rivedere in Edward Cullen molti aspetti di
Edward
Masen».
«Del
tipo?» sussurrai mettendole a posto una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
«La
stessa incredibile e disarmante sensibilità,
l’amore tenace per le persone che
ami, i pensieri sempre proiettati verso il futuro e magari intrappolati
un po’
troppo nell’ansia che accada qualcosa di brutto. Sei lo
stesso ragazzo che ha
toccato il cuore di Carlisle, Edward, e ora il mio. Non hai niente con
cui
riconciliarti: hai già tutto qui dentro».
E
così dicendo il suo palmo niveo sfiorò il mio
petto sul lato sinistro, dove
doveva esserci il cuore, che un tempo batteva sonoro ma ormai era stato
zittito
da forze superiori.
«Lo
credi davvero?».
«Sì.
Avevi paura che l’essere diventato un vampiro avesse cambiato
non solo la tua
natura ma la tua intera personalità. E avevi paura di
tornare qui o di
rivangare vecchi ricordi per renderti conto del terribile cambiamento
che
credevi fosse avvenuto. Ma ami ancora tua madre come un tempo, ti
ritrovi in
questi luoghi e riporvi le stesse emozioni di allora: non è
mai cambiato niente
e venendo qui l’hai potuto costatare di persona».
«Hai
ragione» convenni alla fine. «Non Masen
nè Cullen, non umano né vampiro. Sono
semplicemente l’Edward che per tanto tempo ha aspettato la
sua Bella».
La
baciai di nuovo, ma questa volta con più trasporto,
affondando le mani nei suoi
capelli folti e assaporando a pieno lo zucchero delle sue labbra,
magari
sperando che il tempo si fermasse per rimanere in eterno
così. Quanto avevo
sognato, vagheggiato, desiderato quel momento.
«E
alla fine sembra proprio che l’abbia trovata la sua
Bella»
Non
c’era nient’altro da aggiungere.
Eh,
sì, con questo abbiamo proprio finito *sigh* Probabilmente
avrete notato che quest'ultimo capitolo è più
lungo degli altri, un po' perchè c'erano molte cose da dire
e volevo che la cosa non avesse un ritmo troppo veloce per permettere a
Edward di "riscoprirsi" (sperando di non risultare troppo noiosa), un
po' perchè continuavo a dirmi che mancava qualcosa e un po'
perchè almeno vi consolerete visto che con questo capitolo
la storia finisce. Ho voluto che fosse Bella ad accompagnare Edward
invece che Carlisle per due motivi: lei rappresenta il "dopo"
là dove Carlisle era stato il "prima" (before) e poi,
diciamocelo, come poteva mancare lei? Per il resto come sempre mi
auguro che anche quest'ultima puntata sia stata di vostro gradimento e
che non vi abbia fatto piangere troppo :) Inoltre se avete domande o
considerazioni da fare eventualmente vi risponderò sulla mia
altra ff su Twilight, ovvero Daddy Eddy (poi magari mi recensite pure
quella ^^). E prima di salutarvi un'ultima cosa: anche se è
l'ultimo capitolo non siete esonerati dal recensire!!!!!
Quindi ringrazio, oltre a tutti quelli che hanno seguito questo ff e
l'hanno messa tra i loro preferiti:
Elfa sognatrice:
grazie dello splendido ed originale paragone! Per me è anche
molto importante sapere di non risultare troppo noiosa nelle mie
numerose divagazioni. Grazie ancora!
Jadis96: eccomi alla
fine con l'ultimo chap, perchè, come hai detto anche tu,
prima o poi tutte le ff finiscono e prolungarla oltre al dovuto non mi
sembrava affatto il caso. Dopotutto anche io devo finire di godermi le
vacanze e dedicarmi ad altri progetti! XDXDXD Comunque sono felice di
essere arrivata a questo punto. Grazie anche a te!
fields: a dir la
verità all'inizio per la parte dei "cento anni di diari"
avevo pensato a due chap, perchè credevo che in un solo chap
non riuscissi a rinchiudere tutto quello che volevo metterci senza
creare confusione: invece alla fine ci sono riuscita ed è
meglio così. Anche perchè questa ff, anche per
rispondere alla tua domanda, è basata sulla trasformazione
di Edward e non tanto sulla sua vita prima di incontrare Bella e dopo
averla incontrata. Quel chap mi serviva per coprire la notevole
distanza di tempo dalla presa coscienza di essere un vampiro a quando
lo accetterà del tutto e ritroverà se stesso
(diciamo che ho voluto spiegare anche come mai Ed non parla mai della
sua vita da umano in Twilight). Per il resto, be', Bella c'è
e mi aspetto un'altra tua bella recensione! Grazie per il sostegno!
Nirva:
sì, diciamo che Alice rompe un po' il clima serio e a volte
un po' triste che sono stata costretta ad assumere in questa ff... Mi
sarebbe davvero piaciuto vedere la faccia di Edward quando aveva
scoperto l'intrusione. Grazie e goditi questo ultimo chap!
E per
finire un grazie grandissimo a tutti voi, che avete permesso la nascita
e lo sviluppo di questa ff! GRAZIE!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=325721
|