Before

di Elizabeth_Keats
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Over the mirror ***
Capitolo 2: *** Words in the moonlight ***
Capitolo 3: *** Wasted memories ***
Capitolo 4: *** Breathing the outside ***
Capitolo 5: *** What isn't allowed to other people ***
Capitolo 6: *** As blood runs ***
Capitolo 7: *** Newborn ***
Capitolo 8: *** Tell me angel ***
Capitolo 9: *** Wandering ***
Capitolo 10: *** Return to the origins ***



Capitolo 1
*** Over the mirror ***


Capitolo 1°

Over the mirror

 

Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato. Secondi, minuti, ore… non sono niente in confronto all’eterna oscurità a cui sto andando in contro, a quella voragine senza fondo a cui mi sto avvicinando pian piano, passo per passo. È il 1918, anche se non so di preciso che giorno di quale mese: ormai ho smesso di tenere il conto da un po’. Però deve essere estate, credo, anche se ora tutto, perfino il sole ardente che mi batte sul volto, mi sembra freddo: anche alla febbre alta ho fatto l’abitudine. Mio padre, Edward Senior, è un avvocato di successo e io, fino a qualche settimana fa, un ragazzo allegro e solare, seppur un po’ timido e incredibilmente sensibile, nel pieno dei suoi anni e a cui piaceva fantasticare a più non posso sul suo futuro, una lunga strada aperta davanti a sé. Quelli erano gli anni della guerra, ma io non provavo dolore e tristezza come gli altri, anzi nella distruzione generale vedevo la mia prima possibilità. La possibilità di farmi notare, di far vedere quanto valevo e, da quando avevano abbassato l’età di arruolamento a diciotto anni, contavo i giorni che mi separavano dalla mia partenza per il fronte. Mia madre, a buon ragione, aveva paura per me, ma non mi importava più di tanto, non mi importava che stessi per prendere parte a uno dei banchetti più cruenti della storia: ero solo un ragazzo e, come tale, volevo sognare. Ero ingenuo e, benché fossi considerato quasi un adulto, non avevo idea di cosa fossero davvero il male e la sofferenza. Poi tutto, dai miei progetti alla mia spensieratezza, è cambiato. Mi sono ammalato gravemente di spagnola, come i miei genitori, e sono finito in un letto d’ospedale. Dove mi trovo tutt’ora. Per consolarmi cerco di parlare al passato, come se fossi già morto, visto che so benissimo che questa sarà la mia sorte. Lo leggo sui volti delle infermiere che vanno e vengono tra le corsie con sguardo basso, me ne sono conferma i colpi di tosse dei miei compagni di sventura. E poi… lo so. Dicono che in punto di morte, quando l’anima inizia a staccarsi dalle sue spoglie terrene, si capiscono molte cose. Io ho capito quale sarebbe stata la mia fine appena ho visto mio padre spirare nel letto a fianco al mio. Non ricordo neanche se ho pianto; a causa della febbre alta ormai sono perennemente calato in uno stato di semi-coscienza. Quando ho preso atto di questa cosa, del fatto che di lì a breve sarei morto, però non ho avuto paura. Sarebbe stata come una dose di morfina soltanto un po’ più forte, che avrebbe messo a tacere per sempre i dolori del corpo e dell’anima, regalandomi finalmente un sonno tranquillo lontano dal fuoco della febbre e dai continui spasimi. Mi rendevo conto che non ero più il bel ragazzo medio borghese, istruito e dalle maniere raffinate, a volte un po’ superficiale, che dava molte cose per scontate; ora ero un qualunque malato terminale, come ce n’erano a centinaia in quegli anni di epidemia. Pian piano avevo iniziato a cancellare i miei progetti futuri e i miei sogni, avevo iniziato a parlare di me stesso al passato, come se fossi già morto: era il mio modo di accettare la cosa. Era stato facile dopotutto, rinunciare alla vita e a tutto il resto; un po’ come prendere la propria agenda e cancellare tutti i programmi del weekend e quelli delle settimane a venire: i miei impegni arrivavano solo fino a venerdì, di lì in poi il nulla. E ora non facevo altro che aspettare il fatidico momento nel quale avrei smesso di bruciare.

Ma se io avevo perso la speranza e mi avviavo con la pacatezza di un condannato verso quell’epilogo triste ed irreversibile, c’era, invece, chi cercava ancora qualcosa a cui aggrapparsi goffamente continuando a lottare invano. Puro istinto di sopravvivenza, forse. Sentii una mano sfiorarmi delicatamente la guancia e socchiusi gli occhi quel tanto che mi permetteva il mio fisico debilitato. Avrei potuto riconoscere quel tocco tra milioni, anche perché era una delle poche cose che potevo considerare se non calde almeno tiepide. Il volto di mia madre si abbassò sul mio per deporre un bacio leggero sulla mia fronte imperlata di sudore e i suoi capelli bronzei, delle stesso colore dei miei, mi coprirono la visuale come un’ala protettrice. Ne inspirai il profumo zuccherato per l’ennesima volta e quello costituiva uno dei miei ultimi ponti con la vita. Il suo respiro era caldo sul mio volto e chiunque avrebbe potuto notare in quel volto pallido ed emaciato i segni indelebili della malattia che la stava rosicchiando inesorabilmente. Ma nonostante lei stesse male come me, si era sempre rifiutata di starsene con le mani in mano e fare la malata. Nonostante la febbre che le annebbiava la vista e la tosse che scuoteva il suo corpicino fragile che diventava ogni giorno più magro, s’ostinava a fare la spola tra me e mio padre. Quando conservavo ancora un barlume di forza e lucidità mi ero arrabbiato con lei e l’avevo rimproverata, ma non c’era stato nulla da fare e anche le preghiere dei medici non erano valse a nulla. Non sapevo come aveva preso la morte di papà, non avevo nemmeno avuto il coraggio o la forza di chiederglielo, ma sapevo benissimo che soffriva molto più di quello che dava a vedere. Aveva amato molto mio padre, ma di certo al momento provava molto più dolore nel vedere il suo unico figlio costretto in un letto senza possibilità di uscirne. Per questo mi stava costantemente vicina, peggiorando così ancora di più la sua già fragile salute, e forse anche perché era convinta che ce l’avrei fatta. Ma io ero più realistico: a volte mi veniva quasi voglia di saltare in piedi e mettermi a urlare che ormai era finita, che non valeva la pena di affaccendarsi attorno a me, sarei morto in poco tempo. Però avevo l’energia necessaria sì e no per mettere insieme due pensieri di senso compiuto e anche quello a volte mi riusciva difficile e poi, di sicuro, non sarei mai stato capace di infrangere così brutalmente le deboli speranze di Elizabeth Masen.

Osservo con occhi socchiusi il sopraggiungere della notte: i colori dorati del sole abbandonano pian piano la finestra di fianco al mio letto per tingersi di mille tonalità vermiglie e violacee prima di far approdare l’oscurità. Per una volta tanto il silenzio era arrivato nella camerata: niente colpi di tosse, gemiti, pianti, urla, ansiti, preghiere recitate tra i denti. E mentre fisso l’ultimo raggio di luce scomparire oltre il davanzale mi viene quasi da sorridere, ma questa volta si tratta di un sorriso amaro. Buffo. In quel momento mi sentivo proprio come quell’ultimo raggio di sole che si spegneva dolcemente e senza far rumore per lasciare posto a qualcos’altro. Me ne volevo andare così, con quel briciolo di serenità che mi era concesso. Sentivo la vita evaporare dalle mie membra desolate come il calore del sole aveva abbandonato quella giornata: l’ennesima. Per lasciare posto alla frescura della notte e al silenzio: magari anche quello che mi attendeva era così. Rimasi a lungo ad osservare quella finestra: dopotutto non avevo molto altro da fare, no? Quando si è malati di solito o ci si lamenta o si dorme per recuperare le forze. Io non mi ero mai lamentato e non avevo la benché minima intenzione di farlo: non avrei fatto altro che aggravare la salute e il dolore di mia madre nel palesare quanto soffrivo. Quindi bocca cucita ed espressione neutra. Non volevo neanche dormire. Ormai approfittavo di ogni singolo momento di tregua che mi dava la febbre, ogni secondo di lucidità a qualsiasi ora per osservare il mondo, per assaporare ogni minima particella di vita, per riassumere in qualche giorno quello che avrei potuto, dovuto provare in anni. È vero che cercavo di distaccarmi dalla vita per alleviare la sofferenza che avrei sperimentato una volta che me fossi dovuto separare a forza, ma questo di certo non mi impediva di osservarla, di respirarla per decodificare frettolosamente tutto ciò che aveva da dirmi. Non ne ero più dipendente, ma volevo solo capirla, analizzarla.

Si è ormai fatto buio del tutto e nel cielo notturno iniziano ad apparire le prime stelle. Ciò significa che ci sarà luce e bellezza anche nel “dopo”? Inizio a tracciare linee immaginarie che uniscono i singoli granelli d’oro che trapuntano il cielo, creando forme bizzarre. E per un momento la mia mente torna serena, si distende, non pensa più al presente, al dolore, a ciò che l’attende. No, è proprio come un tempo quando, sdraiato nel mio letto confortevole (ben diverso da questo bianco, anonimo, sterilizzato) osservavo la volta celeste, fantasticando su un domani assolato e radioso prima di addormentarmi. All’improvviso sento un briciolo di forza invadermi braccia e gambe, la nebbia si dirada un po’ dalla mia vista e per la prima volta mi rendo conto del velo di sudore che mi ricopre da capo a piedi, soffocandomi come una pellicola di plastica. Trovo perfino la forza di mettermi a sedere e mi meraviglio: che mia madre non avesse sperato invano? Ma poi sento ancora il peso che mi grava sulla testa e che mi rende gli arti pesanti, i brividi che mi scuotono ogni tanto e il fuoco che mi brucia i polmoni. Trattengo a stento un colpo di tosse per non svegliare mia madre che dorme nel letto di fianco, che prima occupava mio padre. L’hanno portato via qualche giorno fa, all’obitorio, mentre la mamma piangeva e posata un’ultima carezza piena d’amore sulla sua guancia pallida e ormai fredda. E io non sono riuscito nemmeno a salutarlo, non sono stato capace di bagnare le sue mani livide con le mie lacrime: stavo troppo male, non mi rendevo conto che quella era l’ultima volta che lo vedevo. Forse a volte la febbre è una benedizione…

Con gesti lenti e misurati getto le gambe giù dal letto e il tocco del pavimento è come ghiaccio per me. Distolgo lo sguardo dalla figura magra e pallida, dal respiro irregolare e la fronte imperlata di sudore al mio fianco: non voglio calcolare quanto tempo le resta ancora. Il mio sguardo vaga per la stanza: altri letti con altre figure tutte uguali. Alla fine la mia attenzione è attirata da un oggetto riflettente sul comodino: un piccolo specchio. Senza esitare allungo il braccio e lo prendo; non so come sia arrivato fin qui, ma non m’importa. Il mio fiato bollente ne appanna per un attimo la superficie e poi, alla tenue luce della luna appena spuntata, vedo… me. O almeno quello che dovrei essere io; stento a riconoscermi. Quella che mi fissa con un’espressione tirata e rassegnata è una faccia nuova, un fantasma spuntato da uno dei miei tanto incubi infantili. Il colorito è pallidissimo, quasi cereo, e smorto come una pianta cresciuta al buio. I lineamenti sembrano essersi affilati, induriti dal dolore; perfino le labbra sembrano più sottili e formano quasi una linea dritta e brutale sotto il naso diritto, ormai dimentiche di qualsiasi tipo di sorriso. Profonde occhiaie incorniciano un paio di occhi verdi in cui, però, si può cogliere ancora uno scintillio, seppur debole, di vita. Infine i capelli bronzei, una volta ben pettinati e brillanti al sole, ora sono scompigliati e incollati alla fronte madida di sudore. Sembro un vampiro. Con un calcolo veloce, tenendo conto del mio aspetto e della stanchezza che opprime il mio corpo, calcolo di avere sì e no un paio di giorni di vita. Tre, per essere ottimisti. Guardo ancora una volta il mio riflesso da film dell’orrore. E, ancora una volta, mi viene da sorridere. Sapevano tutti che la signorina Chamberlain, figlia di un famoso notaio, mi moriva dietro e i suoi sospiri e allusioni alla mia bellezza “divina” mi riempivano le orecchie all’infinito ogni volta che lei e la sua famiglia erano invitati a casa nostra per cena (di certo mio padre sperava per me un matrimonio degno del mio livello sociale). Ma la signorina Chamberlain non mi era mai interessata e di sicuro la mia bellezza era l’unica fonte del suo arrossire quando io entravo nella stanza: mi sarebbe piaciuto vedere se fossi riuscito a suscitare in lei la stessa emozione anche in questo stato.

Un rumore secco, proveniente dall’altra parte della camerata, mi fa sussultare e alzare repentinamente gli occhi dallo specchio con il cuore in gola. Una figura in camice bianco, sicuramente uno dei medici di turno, è in piedi sulla soglia e controlla che tutto sia a posto. Poi il suo sguardo cade su di me, seduto sul letto, e prima che io possa realizzarlo è al mio fianco.

Dico fin dall'inizio che questa sarà una ff di pochi capitoli, in primis perchè non ho voglia di impegnarmi con una cosa lunga e poi perchè l'argomento trattato si svolge nell'arco di qualche giorno (quindi le fasi immediatamente prima e immediatamente dopo la trasformazione di Edward, anche se sto pensando di inserire qualche flash-back sulla vita umana di Ed). Inoltre non assicuro di riuscire ad aggiornare con una certa regolarità, visto che ho altre ff in cantiere senza contare poi gli onerosi impegni scolastici. Be', non faccio anticipazioni di nessun tipo e non dico nient'altro: voglio sapere cosa ne pensate a freddo. A presto!

Recensite in tanti mi raccomando!!!!

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Capitolo 2
*** Words in the moonlight ***


Capitolo 2°

Words in the moonlight

 

Smisi all’istante di respirare, sia per la sorpresa di essere stato scoperto fuori dai ranghi che per ciò che mi trovavo di fronte. Non avevo mai visto nulla di simile e il primo pensiero che mi passò per la testa quasi istintivamente fu: “non è umano”. Ma subito lo scacciai come una mosca fastidiosa, vergognandomi un poco dell’insensatezza di tale affermazione.

«È tardi. Cosa ci fai ancora in piedi?».

La sua voce mi giunse lieve e delicata come una dolce brezza estiva e insieme melodiosa e sonora come il rintocco di campane dorate. Se prima ero rimasto sbalordito, ora lo ero ancora di più con quella voce meravigliosa che mi rapì subito, come il suono del flauto di un incantatore con un cobra.

«Io… io…» balbettai.

Ero troppo confuso e frastornato per dare una risposta sensata, come per trovare le parole adatte per descrivere la persona che avevo di fronte. Già il solo definirla “persona” a chiunque sarebbe parso svilente; non era un uomo qualsiasi, nel suo aspetto doveva esserci per forza qualcosa di surreale, quasi divino. Nemmeno l’essere più bello del mondo sarebbe mai stato degno di sedere sotto la sua ombra. Il colorito era pallidissimo, candido quasi come il camice che portava. Tra i lineamenti scolpiti, che sembravano essere stati studiati accuratamente da un maestro rinascimentale, spiccavano come due fuochi un paio di occhi color topazio di una profondità impensabile. I capelli biondissimi gli incorniciavano con dolcezza il viso, facendolo assomigliare a uno di quegli angioletti raffigurati in un affresco di qualche chiesa antica.

Quasi d’istinto pensai di essere morto e che, magari, un angelo bellissimo come quello fosse appena venuto a prendermi: ciò significava che ero finalmente libero dalla malattia. Poi sentii ancora quel familiare bruciore nei polmoni e capii che, visto che ero ancora nel mondo reale, quella doveva essere un’allucinazione causata dalla febbre oppure… la realtà. Dovevo essere rimasto lì imbambolato a fissarlo per parecchio tempo, visto che mi sorrise divertito e quel semplice gesto sembrò spargere nella penombra della camerata una luce radiosa

«Fa’ lo stesso. Non mi interessa sapere cosa stavi facendo. Ma adesso è meglio che tu ti metta a dormire sul serio, che ne dici?».

Mi si avvicinò ancora di più e un alito di vento proveniente dalla finestra mi portò il suo profumo: fresco e speziato, come di pini e frizzante aria di montagna, che mi fece subito revocare i bei giorni di libertà e le corse a perdifiato attraverso sconfinati prati verdi. Nel notare ancora una volta il mio sconcerto, lo strano individuo sorrise un’altra volta e, così facendo, potei notare, tra la sua chiostra di denti bianchissimi e perfetti, che i canini sembravano leggermente appuntiti. Sbattei le palpebre: doveva essere stata un’illusione dovuta alla scarsa luce. Con movimenti fluidi, senza fare il benché minimo rumore e usando la stessa delicatezza che avrebbe usato mia madre, mi sprimacciò il cuscino e mise a posto le coperte, in attesa che tornassi a fare il malato. Obbedii in silenzio senza però staccare mai lo sguardo da lui. Ero più che sicuro che quei due occhi dorati sarebbero riapparsi più di una volta nei miei sogni.

«Non ti ho mai visto qui…» sussurrai e la mia voce, uscendo in un rantolo dalla mia gola riarsa, mi parve rauca e goffa in confronto alla sua.

Prima di rispondere mi squadrò intensamente, quasi mettendomi in soggezione, e subito capii che dietro quel bel volto si nascondeva qualcosa di molto di più rispetto a quello che dava a intendere all’apparenza.

«Be’, sì, in effetti è da poco che lavoro qui. Il mio nome è Carlisle Cullen, ho 23 anni e mi sono trasferito da poco qui a Chicago da Londra. Mi sono laureato di recente in medicina all’università di Oxford e adesso sono qui a curare la gente dall’epidemia. Ti basta?».

Rimasi senza parole per qualche istante, colpito da quella presentazione così dettagliata, quasi che, nel parlarmi, avesse sbirciato sulla sua carta d’identità. Londra… mmm, sì, in effetti avevo notato uno strano accento che, di certo, non poteva essere americano.

«E come mai hai deciso di trasferirti qui in America… Carlisle? Dopotutto, dicono che Londra è una bella città».

Fece una smorfia. «Sì, forse un po’ troppo chiassosa e inquinata, però».

«Be’, non che Chicago sia una valle verde…». Cercai di sorridere, ma mi riuscì soltanto un ghigno scomposto simile al suo.

Lui sospirò e io mi maledissi: probabilmente avevo toccato qualche tasto dolente. «Hai ragione. Comunque diciamo che… avevo voglia di cambiare aria, forse anche perché pure io ero… cambiato ultimamente. Quell’ambiente mi stava ormai troppo stretto e sentivo che i miei orizzonti erano più ampi. Così eccomi qui…».

Quella risposta sgangherata non soddisfaceva di certo la mia ardente curiosità verso il nuovo arrivato, con il quale, nonostante la mia spiccata timidezza, avevo iniziato a conversare come se lo conoscessi ormai da tempo immemorabile. Però decisi che era meglio non indagare oltre, quindi lasciai cadere l’argomento. Chiusi per un attimo gli occhi, sentendo ancora una volta tutta la stanchezza crollarmi addosso. Si era ormai fatto tardi e il mio corpo sfibrato ribadiva la gran voce la sua necessità di riposarsi, ma io non avevo ancora voglia di abbandonarmi all’oblio del sonno, come avevo già fatto innumerevoli volte per non dovermi soffermare sulla mia disperata condizione. Volevo stare ancora a parlare con quell’individuo così strano, con quel Carlisle. Raccogliendo tutte le ultime energie che mi erano rimaste mi riscossi da quel torpore e tornai a fissarlo: senza che me ne accorgessi si era seduto sul bordo del mio letto e il chiarore della luna dava al suo incarnato pallido una sfumatura azzurrognola.

«E tu come ti chiami?» domandò e per la prima volta notai un certo disagio nel suo tono.

Cercai di tirarmi su con i gomiti per guardarlo meglio in faccia, ma un improvviso giramento di testa mi disse che era meglio rimanere dov’ero.

«Edward Masen» risposi.

Fece uno strano movimento con la testa che non riuscii ad interpretare ed ispirò a fondo. «Ah, sì, ho sentito parlare molto di te dagli altri medici. E anche di tu madre, Elizabeth, giusto?».

Con tutta la determinazione che possedevo e mordendomi forte il labbro inferiore, mi costrinsi a fissare il soffitto, per evitare che, dopo quell’allusione a mia madre, il mio sguardo vagasse sul letto di fianco al mio. Come avrebbe potuto la storia di una povera madre che, nonostante la sua salute già precaria, si ostinava a prendersi cura del figlio anch’esso malato non circolare tra i medici e le infermiere di turno, accompagnato magari da qualche testa scossa, da qualche sospiro triste, da qualche sguardo abbassato e da qualche espressione di compassione?

«Sì». Ora la mia voce era più decisa, come la morsa dei miei denti contro il labbro. Non mi andava di parlare di mia madre, negli ultimi tempi aveva sempre costituito un punto di sofferenza per me, che mi faceva stare ancora di male di quanto già non stessi. Era quel pensiero brutto che mi prendeva quando la febbre raggiungeva picchi particolarmente alti, quando mi sentivo mancare l’aria, quando mi sentivo morire e pregavo che tutto si spegnesse attorno a me. Era la lama affilata che andava a colpire senza pietà il mio tallone d’Achille.

Dal mio tono coinciso Carlisle dovette capire che, come per lui in precedenza, quello non era uno dei miei argomenti preferiti, visto che si affrettò subito a dire: «Scusa, mi dispiace».

«Non ti preoccupare», tanto il dolore ormai è mio amico: frase di circostanza.

Per qualche minuto, mentre io costringevo i miei pensieri a concentrarsi su una crepa nel soffitto, calò il silenzio tra di noi e la stanza era riempita soltanto dai respiri rantolanti degli altri malati. Il mio respiro, che prima si era fatto affannato, pian piano ritrovò il suo ritmo normale e, quando mi pareva che fosse ormai passata un’eternità e alzai lo sguardo per vedere se se n’era andato, lo ritrovai ancora lì al mio fianco, in rispettoso silenzio. La sua era un’espressione compassionevole di come ne avevo già viste tante da quando ero lì, ma in un certo qual modo diversa. Era come se… be’, come se, anche se ci conoscevamo da sì e no una decina di minuti, riuscisse a capire tutte le mie sofferenze, senza però darlo a intendere. Forse anche lui aveva sofferto come me e riusciva a mettersi nei miei panni ma… non voleva elevarsi a colui che conosce la soluzione di tutti i problemi. Per la prima volta da quando avevo fatto di quel letto d’ospedale da mia dimora estrema, mi sentivo vicino qualcuno che non era prodigo di pietà come gli altri medici, bensì i suoi sentimenti erano più che sinceri. Nessuno mi aveva mai guardato in quel modo. Non sapevo come descriverlo; non era pietà, non era voglia di ascoltarmi o di aiutarmi concretamente, non era semplice carità o affetto. Era qualcosa di più, che mi fece dire: “siamo sulla stessa barca”.

«Come ti senti?».

Altra frase di circostanza: ridicola. Come credeva che stessi? È forse il genere di domande che si fa a un moribondo?  Risi sguaiatamente, ma, come il sorriso di prima, ne venne fuori soltanto qualcosa di turpe e cacofonico.

«Come vuoi mi senta? Sto per morire!». E risi ancora.

Lui abbassò lo sguardo e, come prima, mi sembrò che tutta la compassione che aveva rinchiusa nel cuore sgorgasse ora a fiotti da quelle iridi dorate. Ma io volevo infierire: non mi interessavano gli intercalari pietosi di nessuno… anche se sapevo benissimo che quella che mi stava dimostrano quel giovane dottore era una forma più elevata di misericordia, che però non volevo né riuscivo a decifrare.

«Sono malato. La malattia mi logora ogni giorno, ogni minuto, ogni mezzo istante. Sono stanco. Stanco di tossire, di sentirmi debole, di delirare per la febbre troppo alta. Stanco di soffrire, di vedere gli altri soffrire. Ancora qualche giorno e, forse, finalmente avrò finito con questo tormento! La gente qui muore, capito? Non esce da qui, non ne esce viva e in salute. Muore, proprio come mio padre, come tanti altri che ho visto. Forse lei, dottore, ha sbagliato reparto se credeva di riuscire a guarire qualcuno. Ci portano qui e aspettiamo… non facciamo nient’altro».

«Quindi tu hai già gettato la spugna? Tutto qui? Ti arrendi e basta?».

«Tic tac, tic tac. Non sono io che decido, è il tempo, il poco tempo che mi rimane che mi fa pensare questo. Non Dio, non una medicina: non servono a nulla quando senti dentro di te i minuti che si accorciano».

«Non Dio?».

«No. Se dipendesse da lui di certo non sarei qui, no? Dio è amore, dicono, e qui non c’è amore: solo l’ultimo capitolo di un libro più o meno lungo».

Tacque ancora una volta: forse l’avevo messo in difficoltà. E mentre parlavo quasi ansimante sentivo tutto il dolore accumulato che mi si riversava addosso come una doccia fredda. E io lasciavo che quell’acqua sporca corresse, non mi affannavo a frenarla. C’era, dopotutto, e non riuscivo a trovare alcuna scusa abbastanza valida per negarne l’esistenza. Tutti i miei pensieri affannati, tutte le angosce che mi avevano stretto la gola e preso allo stomaco, tutte le lacrime calde che mi avevano irritato le guance, tutte le preghiere farfugliate, tutti gli insulti rivolti a nessuno, a un’ingiustizia astratta ma presente, tutta la stanchezza che mi aveva atterrato più di una volta. Tutto mi crollò addosso, con un suono indistinto e metallico, come un chiacchiericcio assordante e confuso.

«Però c’è ancora qualcuno che spera per te…» sussurrò Carlisle. Non sembrava voler difendere la sua posizione né tentare di farmi cambiare idea: un altro punto che non riuscivo a capire. «C’è ancora tua madre. Da quando sono qua vi ho osservato a lungo: non è insensato, tragicamente romantico o drammatico quello che sta facendo. Lei ha ancora la forza di lottare, tu no».

Strinsi i pungi e quell’ultima frase mi cadde addosso come l’ultimo masso della valanga, il più pesante.

«Ognuno ha il diritto di credere in quello che ritiene più giusto e di spendere il tempo che gli è concesso come meglio crede».

«Non dovresti denigrare così tua madre, giudicando così superficialmente il suo amore per te. Si vede che sei ancora molto giovane…» fu il suo commento sussurrato tra i denti.

«Non molto più giovane di qualcun altro» replicai squadrandolo da capo a piedi.

Questa affermazione lo punse sul vivo, facendogli aggrottare le sopracciglia e socchiudere le labbra come per rispondere a tono. Ma poi sembrò ripensarci e, lasciandomi lì stupito e frastornato, si alzò dal bordo del letto con un altro dei suoi movimenti fluidi e si allontanò come un fantasma silenzioso, senza aggiungere altro.

Ma io sapevo con certezza che l’avrei rivisto. Prima della fine.

Capitolo particolarmente difficile: spero di aver reso bene l'idea. Il personaggio di Carlisle non è ancora ben definito e lui è stato il punto più difficile di tutta la situazione. Comunque avrò occasione di rivederlo meglio nei prossimi capitolo. Va bene, non aggiungo altro: sta a voi commentare. Ringrazio:

dora92:  grazie mille per i complimenti! Ok, è noto che io con gli aggiornamenti frequenti non vado molto d'accordo (soprattutto a causa dell'ispirazione e della pigrizia). Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo!

Wind: grazie anche a te! Mi fa sempre piacere sentirmi dire che so identificarmi bene con un personaggio!

Faby hale: sì, ho deciso che andrò anche un po' oltre la trasformazione, ma non troppo, sennò diventerebbe la storia della famiglia Cullen, quando io invece voglio sioffermarmi solo su Edward e tutti gli annessi e connessi alla sua trasformazione

Mi aspetto mooooooooooooooolte recensioni, eh? See you soon guys! <3

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Capitolo 3
*** Wasted memories ***


Capitolo 3°

Wasted memories

 

Voci nell’oscurità, strani rumori scricchiolanti e fruscii. Continuavo a correre senza sapere dove stessi andando, inseguendo o scappando da qualcosa che non conoscevo. Non una luce guidava i miei passi, solo quelle voci che mi rimbombavano attorno e non facevano altro che confondermi ancora di più. Non riuscivo a distinguere cosa dicevano, ma tutte sembravano implorarmi di fare qualcosa. Alcune erano agghiaccianti urla di dolore, altre lamenti quasi impercettibili e soffocati dalle lacrime. E io continuavo a correre.

Poi all’improvviso i miei occhi riuscirono a scorgere qualcosa sull’orizzonte. Una debole luce, un piccola stella che bucava l’oscurità che mi avvolgeva come una coperta pesante. Pian piano quel bagliore misterioso si fece sempre più grande e luminoso, finché, non so come, mi ritrovai in una stanza che non avevo mai visto. A dispetto di quello che mi aveva fatto credere la luce di prima, era in penombra, anzi nell’ambiente sembrava aleggiare un leggero bagliore color sangue, simile a nebbia densa. Sbattei le palpebre un paio di volte e mi accorsi che davanti a me c’era un letto, del tutto uguale a quelli dell’ospedale, a me molto familiari. Ma le coperte erano disfatte e il cuscino buttato rudemente a terra. Due figure erano il fulcro della scena. Rimasi quasi senza fiato, immobilizzato dalla paura. Di nessuna delle due riuscivo a scorgere il volto. Una, probabilmente una donna a giudicare dai capelli lunghi sparpagliati tra le lenzuola, era rannicchiata e, coprendosi il volto con le mani ma rimanendo del tutto impotente, gemeva piano. L’altra, un uomo alto e robusto, era invece di fianco al letto, chinato sulla donna, e le stringeva la testa con forza, come a costringerla a guardare verso di lui. Ma poi notai che il volto dell’uomo non era di fronte a quello della donna, bensì un po’ più giù, all’incirca all’altezza del collo.

Ero paralizzato dalla paura, indeciso se scappare o buttarmi a capofitto contro quell’uomo in aiuto della povera donna. Non riuscivo bene a capire la situazione, ma sapevo che era qualcosa di sbagliato dal pianto di lei, che a un certo punto s’interruppe di botto. Le mani che fino a un momento prima aveva tenuto premute contro il viso si rilassarono, come se si fosse addormentata. Sentii le mie gambe cedere e mi ritrovai in ginocchio davanti a quella scena. Il  tonfo provocato dal mio movimento involontario attirò l’attenzione dell’uomo, che lasciò perdere la sua preda e si voltò.

Lo guardai in faccia e lo riconobbi.

Il sangue gli imbrattava le labbra e parte del volto, per poi colare giù lungo il collo e andare a imbrattargli la camicia immacolata, che, come la sua pelle diafana, risaltava notevolmente contro quel rosso brutale. Altro sangue gli riempiva le mani, dividendosi in tanti piccoli rivoletti, che sembravano ricalcare le vene sotto pelle, prima di gocciolare con un suono sinistro sul pavimento. Tutto ciò mi fece intendere all’istante cosa avesse appena fatto a quella povera creatura.

Era un volto completamente diverso da quello che avevo conosciuto.

Cercai di balbettare qualcosa, mentre il terrore cresceva viepiù e ogni singola tessera del puzzle ritrovava il suo posto. Intanto lui avanzava verso di me, che ero ancora lì in ginocchio, ora con un’espressione di assoluta crudeltà, come una bestia selvaggia e affamata. I suoi occhi si fissarono nei miei, duri e impenetrabili, dalle iridi nere con una lieve sfumatura rossastra, quasi che il sangue che aveva addosso gli fosse colato fin nell’anima.

«Carlisle…».

 

Mi svegliai di botto, gli occhi spalancati come quelli di un pazzo, percorso da un tremore irrefrenabile e più sudato del solito. Mi ci volle qualche minuto per riprendere il controllo dei battiti accelerati del mio cuore e del respiro affannoso, come se avessi appena corso per chilometri. Ma alla fine, con un sollievo che non avevo creduto fosse mai possibile, mi dissi che era stato soltanto un incubo. Mi guardai attorno e sospirai. Era appena cominciato un nuovo giorno.

 

A giudicare dalla gente che arrivò quel pomeriggio doveva essere venerdì: il giorno delle visite. Avevo sempre pensato, e pensavo tutt’ora, che fosse in assoluto il giorno più inutile della settimana. Anche perché, accidenti, tutti si lamentavano dell’ampia diffusione del virus che continuava a fare morti a frotte e, nonostante tutto, si permetteva ancora che la gente comune, sana, venisse a far visita ai propri cari sofferenti. Contribuendo così al piano diabolico di qualche forza superiore e giudice. Ma ormai non importava più a nessuno che sani e malati venissero a contatto; tanto il morbo si sarebbe diffuso comunque. Tanto valeva permettere ad amici e parenti di vedere la persona che avevano amato per un’ultima volta: un mucchietto di pelle e ossa rannicchiato su un letto bianco come lui, con lo sguardo che vagava nel vuoto e le labbra che modulavano mute frasi sconnesse. Quella sarebbe stata l’ultima foto, l’immagine principale che quelle persone avrebbero riportato nei loro ricordi tra gli anni, che avrebbero associato per prima a quel nome. Raramente vedevo entrare da quella porta, a volte portando un mazzo di fiori, chiedendo in giro del tale o della tale, le stesse persone: la malattia fulminante, in genere, dava ai così detti “cari” l’onore di una sola visita, prima di portare alla sua amica morte un nuovo compagno. Io ero tra i residenti di vecchia data ormai. Con il passare del tempo e la diffusione della malattia, però, avevo notato che sempre meno gente trovava il coraggio di mettere piede in quel lazzaretto; giusto qualche congiunto, figlio o amico stretto. Io non avevo mai ricevuto visite, visto che la mia famiglia era tutta lì, e, a dir la verità, non ne avevo mai sentito la mancanza. Una rabbia bruciante mi prendeva alla gola ogni volta che vedevo sfilare lungo la corsia di letti qualche persona dal colorito acceso, gli occhi pieni di vita e con la salute che sprizzava da tutti i pori, mentre si copriva il volto con una mano, forse per non respirare la nostra stessa aria oppure in un teatrale gesto di pietà e sconcerto. Le prime volte mi sorgeva quasi spontaneo slanciarmi verso la persona in questione, brandirla e succhiarle via tutta la buona salute di cui godeva. Ma poi avevo capito che quelle persone venivano lì come carne al macello: qualche giorno ancora e pure loro avrebbero iniziato a tossire e a bruciare e, chissà, forse ci saremmo anche ritrovati vicini di letto.

 Mi tirai su usufruendo di tutta la poca forza che avevo per osservare meglio la sfilata di gente su e giù per la stanza. Per un momento cercai di non pensare alla nausea che mi salì immediatamente alla bocca dello stomaco e mi sforzai di tenere gli occhi aperti contro il riverbero del sole. Stavo più male, il che era perfettamente normale: proprio come avevo previsto. Mia madre dormiva ancora nel letto di fianco. Si era svegliata un paio di volte quella notte, chiamando convulsamente l’infermiera e me: la febbre stava salendo vertiginosamente, così tanto che sembrava che quel povero corpicino avesse iniziato a sudare fin l’anima. Ma dopo un paio d’ore di lamenti e di preghiere si era calmata ed era piombata in quel sonno ambiguamente quieto. Sapevo benissimo che le sue condizioni andavano peggiorando sempre più velocemente delle mie. Ma, nonostante tutto, combattevo non per risolvere quel problema o per darmi pace in qualche modo, bensì per tenere sempre più lontana quell’immagine, in attesa di un coraggio che forse non sarebbe mai arrivato.

Poi la mia attenzione fu fulmineamente attratta da una donna e una bambina che passavano con passo greve davanti al mio letto. Entrambe mi lanciarono uno sguardo compassionevole, uguale a molti altri che mi si appoggiavano addosso di continuo. La bambina, che non staccava lo sguardo da me tenendo la mano della mamma, avevo un visetto d’angelo con grandi occhi celesti e boccoli biondo cenere. Era una tenera creatura ancora ignara dei drammi del mondo, primo fra tutti quello che si stava consumando in quella stanza. Si guardava attorno con gli occhi spalancati e confusi, chiedendosi come mai tutta quella gente fosse così triste e se ne stesse a letto in silenzio. Perché non si alzavano? Perché non giocavano e ridevano? Perché non sonnecchiavano sereni? Gli avevano forse tolto il loro giocattolo preferito? Era per questo che erano così tristi?

I miei occhi incontrarono i suoi e sospirai: avrei voluto dirle la verità, spiegarle quello che cercava di comprendere, ma probabilmente avrei sbagliato. Il momento della sua disillusione sarebbe arrivato a tempo debito. Cara bambina, dimentica le favole che ti hanno raccontato; non c’è posto qui per loro.

«Oggi c’è più gente del solito, non trovi?».

Senza che neanche mi fossi accorto della sua presenza, mi ritrovai di fianco Carlisle. Sobbalzai leggermente quando, tutto d’un tratto, mi ritornarono alla mente le orribili immagini dell’incubo di quella notte. Ma ora il suo camice era lindo e non c’erano pieghe crudeli tra i suoi lineamenti: era l’esatto opposto del mostro sanguinario che mi era apparso. E quel sorriso rassicurante riuscì a calmarmi e a rallentare i battiti del mio cuore. Anche la discussione della sera precedente sembrava lontana anni luce.

«No» risposi. «Il solito».

Intanto avevo perso di vista la bambina.

«Volevo scusarmi per quello che ho detto ieri sera… Forse sono stato troppo duro e ho espresso dei giudizi affrettati…».

Mi voltai di scatto, con una velocità sorprendente per la media consentita dalla mie forze, per constatare che fosse stato proprio lui a parlare. Non mi sarei mai aspettato una cosa simile, anche perché a pensarci bene non mi sentivo per niente offeso.

«Scuse accettare. Anche se non vedo per quale motivo».

Lui non replicò, anche se sul suo volto era apparso un certo sollievo dovuto alla mia risposta, mentre recuperava una sedia per sedersi di fianco a me, come la sera prima. Non sapevo esattamente perché, ma non mi sentivo a mio agio con lui così vicino, forse anche perché non riuscivo a togliermi da davanti gli occhi quella nebbiolina color sangue che aveva caratterizzato il mio incubo. Perciò rimasi in silenzio, in attesa che se ne andasse o che iniziasse a parlare per primo.

«Be’, con ancora tutta questa gente in giro, credo che dovrò rimandare le ultime visite a dopo…  Non ti dispiace se ti faccio un po’ di compagnia, vero?».

«No… affatto». Lo sbirciai con la coda dell’occhio e notai che se ne stava in penombra, ben lontano dal riverbero del sole che proveniva dalla finestra. Ma non indagai oltre, non mi importava granché.

«Conosci quella bambina per caso?» domandò ancora, cercando di mettere in piedi una conversazione.

«Che bambina?».

«Quella che stavi guardando prima».

«Ah… no».

«Strano… La fissavi con una tale intensità…».

«No, è che… mi ricordava… be’, è una lunga storia».

«Siamo io e te» disse facendo un ampio gesto, «e nessuno dei due credo abbia molto da fare».

Sospirai: ecco, mi ero appena fatto incastrare un’altra volta. Non avevo voglia di parlare con lui di quello che mi passava per la mente, visto che quell’uomo aveva la straordinaria capacità di far affiorare gli aspetti più profondi della mia personalità, per poi mescolarli con le mia convinzioni e trarne fuori uno strano impasto che mi lasciava riflettere. E pensare era l’ultima cosa che avevo intenzione di fare. Ma in quel momento non avevo altre vie di fuga.

«Quando ero piccolo avevamo una casa in campagna dove passavamo l’estate. Nella casa a fianco abitava una bambina, molto simile a quella di prima, che pian piano era diventata la mia migliore amica…».

 

«Edward!».

Una bambina di circa sei anni dai boccoli biondi, gli occhi azzurri e la carnagione chiara, in tutto e per tutto simile a un grazioso angioletto, correva a perdifiato attraverso un ampio prato verde inondato dal sole, chiamando con tutta la voce che aveva in corpo. Faceva caldo, doveva essere estate, e una distesa di fiori variopinti macchiava qua e là l’erba. In lontananza si potevano scorgere i tetti rossicci di alcune case, contornate da una staccionata bianca. La sua corsa sfrenata la portò vicina a una fila di cespugli di gelsomino, il cui odore intenso e soave riempiva l’aria a ondate. Sì fermò con un sorrisetto: probabilmente aveva trovato quello che stava cercando.

«Trovato!» esclamò, toccando la spalla del bambino che, ormai invano, cercava di nascondersi dietro il cespuglio. «Così impari a farmi questi scherzi!».

Il bambino a quel punto si arrese ad uscire dal suo nascondiglio, con un’espressione corrucciata e le braccia incrociate sul petto. I suoi capelli color bronzo spettinati erano pieni dei petali bianchi del gelsomino, mentre un paio di occhi verde intenso scrutava attentamente la bambina trionfante.

«Uffa però!» borbottò poi lui, Edward. «Non si può mai scherzare con te, Anne!».

«No» rispose lei, «soprattutto quando te la svigni quando decido di giocare a prendere il tè con le mie bambole. Giochiamo sempre a quello che vuoi tu!».

«Non è vero! È solo che io sono un maschio e non posso giocare con le bambole!».

Anne si stirò con le manine il suo bel vestitino color grigio perla con un gran fiocco bianco all’altezza della vita, segno che, Edward lo sapeva bene, l’aveva fatta arrabbiare molto.

«Benissimo! Vuol dire che io non ci gioco più con te!». Girò i tacci e fece per andarsene.

Ma Edward fu più veloce e l’afferrò per un braccio: era ormai abituato ai frequenti sbalzi d’umore di Anne, che facevano parte del suo carattere come la sua infinita dolcezza e simpatia.

«No, ti prego, non lasciarmi solo!» disse, implorandola.

Evidentemente quelle erano le parole che Anne voleva sentirsi dire, visto che uno strano scintillio balenò nei suoi occhi e la sua espressione corrucciata si distese. Sembrò pensarci su un attimo.

«Mmm… va bene, ti perdono. Però adesso almeno per una volta decido io a cosa giocare».

Edward alzò gli occhi al cielo: cosa non si faceva per le donne…

«Ok» rispose alla fine, «ma niente bambole!».

Senza aggiungere una parola di più Anne, che sapeva perfettamente come fargliela pagare, si voltò di scatto e iniziò a correre, lasciando lì Edward sbigottito.

«L’ultimo che arriva alla quercia è un coniglio fifone!».

«Ehi, aspetta! Non voglio essere un coniglio fifone!». Ad Edward non rimase altro da fare se non rincorrere la sua amica.

Lì vicino si stendeva un vasto campo di grano dorato, in mezzo al quale sbucava, solitaria, una vecchia quercia, sotto la quale i due bambini si ritiravano spesso a giocare lontano dal controllo degli adulti. Era un po’ il loro rifugio segreto.

«Prima!» strillò Anne, che, ovviamente, era arrivata per prima, toccando la corteccia rugosa.

Qualche istante dopo arrivò anche Edward tutto trafelato, che, costatando la sua palese sconfitta, si lasciò cadere a terra con un grugnito insoddisfatto. Anche Anne lo imitò e sedettero insieme sotto l’ombra del grande albero, al riparo dalla calura estiva. Escluso il frinito di una cicala lì vicino e i respiri affannati dei due bambini, nessun altro rumore rompeva quella quiete quasi innaturale. Sia Edward che Anne avevano le ginocchia leggermente sbucciate e gli abiti impolverati, cosa che le loro madri avrebbero di certo notato non appena fossero tornati a casa, ma a  loro non importava granché.

«Hai intenzione di farti mettere i piedi in testa da una femmina ancora per molto, Ed?» lo stuzzicò lei con una risatina.

«Ridi pure, ma appena sarò grande ti farò vedere io».

«Ah sì? E come? Che hai intenzione di fare da grande?». Anne sembrava sempre più divertita.

Edward soppesò per un attimo la riposta. «Be’, ovviamente diventerò un eroe leggendario come quelli dei racconti e tutti dovranno temere la mia spada! Combatterò i cattivi fino all’ultimo e salverò tante belle principesse!».

«Oh, ma quante belle cose» ribatté Anne, «Ma se salverai tante belle principesse vuol dire che non mi vorrai più bene?».

«Certo che no! Tu sarai sempre la preferita… Dopotutto sei mia amica, no?».

Lei non rispose subito e gli si avvicinò un po’ di più. «Sicuro. Anche io ti voglio bene».

Rimasero in silenzio per qualche istante, mentre il profumo del grano maturo e dei papaveri rossi giungeva a loro. Poi Anne, che dimostrava una maturità che andava ben oltre la sua tenera età, si voltò verso il bambino e, guardandolo intensamente negli occhi, riprese a parlare.

«Ed, mi prometti una cosa?».

«Cosa?».

«Saremo sempre amici, vero?».

«Perché me lo chiedi?».

«Rispondi».

«Sì, certo».

«E…». A questo punto Anne sembrava incerta. «Se diventerai un grande eroe mi prometti anche che mi proteggerai… sempre?».

«E se non diventassi un eroe? Se rimanessi un coniglio fifone?».

Anne rise, una risata limpida che si propagò nell’aria come cerchi concentrici nell’acqua.

«Ma che stai dicendo!? Tu non potrai mai essere un coniglio fifone! Tu diventerai il principe migliore che il mondo abbia mai visto e scriveranno libri e canzoni su di te. Io ci credo… e devi crederci anche tu».

A quel punto Edward sembrò ritrovare un minimo di autostima. Si alzò in piedi scuotendosi via di dosso l’erba e, inchinandosi con un gesto teatrale di fronte alla sua amica, si mise una mano sul cuore e, assumendo un fare solenne, disse: «Prometto… prometto sui biscotti al cioccolato della mamma di Anne, i migliori al mondo, che diventerò un grande eroe, sconfiggerò i cattivi per te e ti proteggerò a costo della vita. Per sempre. Lo prometto!».

Poi un’altra risata cristallina si levò dai due bambini e la vecchia quercia, il campo di grano e tutto l’ambiente circostante non avevano mai udito suono più puro.

 

«…quel giorno feci una promessa che non riuscii e non riuscirò mai a mantenere. Infatti l’anno successivo Anne e la sua famiglia si trasferirono nel sud della California… e non l’ho più rivista».

All’improvviso sentii qualcosa di caldo e umido, che però non era sudore, colarmi lungo le guance e, con immensa sorpresa, mi scoprii a piangere. Non ricordavo l’ultima volta che avevo versato lacrime e soprattutto in pubblico. Ero sempre stato una persona molto riservata, che di rado esternava in modo così palese come con il pianto i suoi sentimenti. Erano troppi i ricordi, troppe le emozioni che avevo sepolto in quel passato non molto lontano e che in quel momento riaffioravano come un getto d’acqua bollente, sollevando una gran confusione. Rievocando soltanto quella semplice immagine di Anne, mi era ritornato in mente tutto di lei, tutte le volte che mi scherniva e che poi mi consolava, spronandomi ad avere più fiducia in me stesso per poi ripetermi quanto mi voleva bene. Non potevo dire di aver avuto una cotta per lei, dopotutto eravamo appena bambini, però non potevo neanche negare di averle voluto bene come la più cara delle amiche. Mentre adesso stavo tentando di cancellare tutto, stavo tentando di sopprimere quei ricordi pieni di colori e suoni, che vibravano di emozioni e vita, per avviarmi taciturno e rassegnato verso un ponte rotto. E la cosa peggiore era che avevo accettato questo omicidio, anzi l’avevo voluto. Avevo sputato su Anne e su tutto quello che lei aveva rappresentato per me. Avevo infranto brutalmente la mia promessa, trasformandomi da promesso eroe a promesso fallito. Avevo finito per rinunciare a lottare contro i cattivi. Ed ero diventato un coniglio fifone.

Le lacrime continuavano a scorrere sempre più copiose, andando a bagnare le lenzuola e appannandomi la vista. Anche se ero malato, anche se ero ormai terminale, ciò non voleva dire che dovevo insultare e ripudiare tutte le cose belle che avevo incontrato. Ma era difficile, perché solo in quel modo potevo accettare l’idea di morire. Anne invece, ovunque fosse, sarebbe vissuta ancora per molti anni e ci avrebbe pensato lei a tenere viva la memoria di quei dolci giorni. E magari avrebbe continuato a illudersi che fossi diventato veramente il paladino dei buoni. Ero in bilico tra due idee. Mi voltai verso Carlisle, che mi osservava piangere in silenzio, come al solito impassibile e con quell’aurea di compassione che traspariva dalle sue iridi dorate. In quel momento capii il vero significato delle sue parole della sera prima. Io da parte mia cercavo di trattenere i singhiozzi per non svegliare mia madre e attirare l’attenzione degli altri più del dovuto. Alla fine riuscii a dischiudere le labbra impastate e, con voce roca e profonda che pareva invecchiata di anni in un secondo, balbettai: «Che cosa sto facendo, Carlisle? Che cosa sto buttando via?».

Lui non disse niente, ma allungò una mano per asciugarmi le lacrime e deporre una lieve carezza sulla guancia.

Le sue dita erano fredde come ghiaccio.

Ed ecco qui che nasce la tendenza di Edward, che ho notato leggendo Twilight, di rispondere a una domanda con un'altra domanda XD Vabbè a parte questo, è stato un altro capitolo molto impegnativo (anzi, questa ff in sè è molto impegnativa). Comunque ecco che riappare qualche flash della vita passata di Ed, che ho deciso di approfondire, visto che zia Stephenie ci racconta solo della sua malattia. Non so quando aggiornerò ancora, poichè gli impegni sono tanti e l'ispirazione poca. Sperando che il chap sia di vostro gradimento, ringrazio:

Wind: felice che ti piaccia il mio modo di scrivere. Sì, il rapporto Edward/Carlisle è una delle cose più difficili in questa ff (tra tante altre) e spero di renderlo al meglio anche negli altri chap

Princesseelisil: ecco il proseguimento, anche se in ritardo come al solito. Intriga molto anche me analizzare i pensieri e la personalità di Edward e scoprire le mille sfaccettature che lo compongono. Infatti adoro questo personaggio non solo per il suo fascino, come quelle maree di ragazzine occhette, ma soprattuto per la sua complessità e le sue contraddizioni.

Su, su, ragazzi! Voglio vedere tante tante tante tante recensioni ok? Mi raccomando! Tanto scrivere due righe non vi costa niente!

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Capitolo 4
*** Breathing the outside ***


Capitolo 4°

Breathing the outside

 

Mi scostai di scatto, colpito dal freddo di quella mano, in netto contrasto con il fuoco che mi bruciava dentro. Rimasi senza fiato per alcuni secondi, fissando Carlisle, che, accortosi del mio movimento repentino, si affrettò a ritirare la mano, come se avesse paura di qualcosa. Potevo scorgere qualcosa di strano sul suo volto, forse sconcerto o forse quella sensazione che si prova quando ci si accorge di aver fatto qualcosa che ci si era ripromessi di non fare mai e di essere stati scoperti. Ma come spesso mi capitava, non riuscivo a capire.

Lui si guardò attorno, forse per cercare una via di fuga dalle domande che sarebbero potute derivare da quella situazione. Ma non ne trovò e io, da parte mia, non avevo la benché minima intenzione di porre quesiti. Avevo già notato che in quell’uomo c’era qualcosa di strano, ma, sinceramente, non era l’unico da quelle parti ad avere qualcosa che non quadrasse. E di certo una mano fredda non mi aveva sollevato più dubbi del solito: dovevo tener contro della mia febbre, a causa della quale tutto era freddo per me. Ma i dubbi erano duri da cancellare…

Intanto le lacrime avevano smesso di scendermi lungo le guance e iniziavano a evaporare dalla mia pelle, lasciando dietro di sé il sale che mi prudeva sulle gote. Carlisle si stava ancora guardando attorno, anche se ora la sua espressione appariva più rilassata.

«Non stai buttando via niente» disse all’improvviso, sempre senza guardarmi in faccia. Forse aveva paura di leggere qualcosa di strano nei miei occhi. «Come hai appena dimostrato, i ricordi non se ne vanno… rimangono sempre lì, sotto lo strato di polvere. Sta poi a noi ascoltarli o meno. Tu ti stai semplicemente tappando le orecchie».

Sulle prime rimasi spiazzato da quel discorso così diretto, che sembrava aver abbandonato per un attimo la pacatezza per ritrovare la sua parte più seria e ruvida.

«Sì, certo, certi ricordi sono indelebili ed è impossibile cancellarli, siano essi belli o brutti. Ma ora? Carlisle… io… sono qui e basta. Non faccio nient’altro. Ti sembra vita? La malattia mi ha preso la salute… ma io ho rinunciato a vivere molto prima. Da quando ho visto in mio padre quale sarebbe stata la mia fine… ho voluto che fosse fine già dall’inizio. Me ne sto qui a guardare un muro… e sto sprecando i miei ultimi minuti. Adesso me ne rendo conto, ma non riesco a trovare un modo d’agire diverso da questo».

Mentre parlavo avevo sperato che lui si voltasse verso di me, che mi guardasse dritto negli occhi, così da potergli comunicare quello che non riuscivo a dire con le parole. Ma lui continuava a guardare le persone che sfilavano lungo la corsia, facendo tappa ai diversi letti.

Fece un profondo respiro prima di rispondere. «Respiri?».

Questa domanda mi lasciò di sasso, totalmente stupito e sconcertato. Io… cosa?

«Il tuo cuore batte? Senti la stanchezza che opprime il tuo corpo? La fame? La sete?».

A quel punto si era voltato. Avevo davanti un volto completamente diverso da quello del Carlisle compassionevole. Sembrava stanco e vecchio di centinaia d’anni. La sua bellezza ultraterrena pareva messa in ombra, come se tutti i dolori di una lunga vita gli fossero appena crollati addosso. I suoi occhi color topazio continuavano a brillare, ma la fronte era corrugata e le sopracciglia formavano una strana curva contorta. Le labbra erano diventate più sottili e tirate e, anche se forse era un effetto dovuto alla luce, una paio di occhiaie che non avevo mai notato gli incorniciavano gli occhi come bruciature. Aveva un che di afflitto e stravolto, che per un nanosecondo mi ricordò il mostro sanguinario del mio incubo.

«Sì» bisbigliai, impaurito.

«Allora vuol dire che sei vivo. Ogni respiro, ogni battito del cuore… valgono più di ogni altra cosa, ricordatelo. Voi spesso dimenticate l’importanza di queste piccole cose. Vi lamentate che la vita è crudele, ma non considerate il bene che possedete naturalmente, il più prezioso: il fatto stesso di vivere».

Riflettei un secondo su quelle parole, che lui mi aveva appena gettato addosso quasi con rabbia, come se se le fosse tenute dentro da tempo, senza avere modo di esternarle. E analizzandole trovai una nota stridente.

«Aspetta un secondo… voi?».

Mentre parlava si era riavvicinato sempre di più a me e il suo tono era stato un continuo crescendo, finché non l’avevo interrotto con la mia quasi banale domanda. Non so, forse era solo una mia sensazione, ma il modo di parlare di Carlisle sembrava sottintendere il fatto che lui non fosse uguale a me, che non appartenesse al genere umano, ma che lo giudicasse dall’esterno con occhio freddo e vigile. Evidentemente l’avevo punto sul vivo una seconda volta, visto che s’irrigidì di nuovo, mentre tratteneva ancora il respiro e sembrava sul punto di mordersi le labbra. Lo stavo mettendo in difficoltà.

E ancora una volta la mia attenzione fu attirata dal suo sguardo magnetico, che sembrava volermi comunicare qualcosa di profondo e importante, qualcosa che aveva represso da tempo e tenuta nascosta, cercando di non pensarci. Ma io continuavo a non capire; era come se stessimo parlando due lingue completamente diverse. Si sporse ancora di più verso di me, finché il suo volto fu a pochi centimetri dal mio, così che potevo sentire il suo respiro fresco sulla mia pelle.

«Tu…» disse, e il suo tono profondo mi fece rabbrividire, «…sei vivo. Per un giorno, per due o trecentomila, come vuoi, ma per ora sei vivo. E questa è la base per avere tutto. Ascolta il tuo respiro, il battito del tuo cuore e renditi conto del loro splendore. Già questo è vivere: capire la bellezza della vita e non darla mai per scontata. Non cercare grandi cose, perché rimarrai deluso. Poi, sì, hai ragione, per troppo tempo ti sei cullato nel nulla, sprecando tempo prezioso. Ma il tempo è l’unica cosa che non ci sarà mai restituita e in questo io non posso aiutarti. Devi decidere tu cosa è meglio per te… scegliere il modo migliore per finirla, questa vita. Tutto quello che posso dirti è di dare la giusta priorità alle cose…».

Ero rimasto incantato dall’oro fuso delle sue iridi e le sue parole mi erano rimbombate nella testa come un tuono divino. Ero sicuro che, se mai fossi arrivato ad udire il suono del giudizio universale, l’avrei trovato tremendamente simile a quella voce.

«Non capisco. Non so cosa devo fare». In quella frase si sintetizzava tutto il mio smarrimento.

Lui sospirò, si morse le labbra e si allontanò da me. Assomigliava a uno degli antichi dei classici, che guardano i poveri umani sofferenti dall’alto dei loro troni di onniscienza e onnipotenza, provando pietà per la loro ignoranza e scuotendo il capo. Poi, senza aggiungere una sola parola, ma facendo un gesto vago con la mano verso di me, si allontanò lungo la corsia, per poi sparire attraverso la porta in fondo alla camerata. Prima ancora che mi chiedessi il perché di quel comportamento così strano, era già di ritorno. Stringeva qualcosa in mano, che, però, non riuscii a distinguere finché non me lo mise tra le mani. Corrugai la fronte e con una certa sorpresa mi accorsi che si trattava di un piccolo libricino rilegato in pelle, dall’aria abbastanza antica. Lo sfogliai per capirne qualcosa di più, ma le pagine erano tutte bianche, di pergamena color ocra. Alla fine, quando Carlisle mise sul comodino di fianco al letto una boccetta d’inchiostro e un pennino, capii che sarebbe stato mio compito riempire quelle pagine: un diario.

Il giovane dottore posò una mano sulla copertina di pelle color vino, stando bene attendo a non sfiorare le mie dita con le sue, e disse: «Annota tutto: i tuoi pensieri, quello che vedi, quello che senti. E vedrai che ogni cosa ritroverà il suo posto sulla scalinata e nulla verrà sprecato o lasciato al caso».

Poi una voce femminile risuonò nella stanza, chiamando il nome del mio amico, del quale avevo completamente dimenticato le mansioni. Così lui si dileguò con la sua solita leggerezza, quasi come nebbia, lasciandomi lì ancora più confuso di prima. Io con quel diario tra le mani, su cui non sapevo che cosa scrivere né da che parte iniziare. Probabilmente non mi sarebbe bastato l’inchiostro.

 

31/7/1918

Caro diario,

sono molte le cose che vorrei scrivere, ma alle quali, però, non riesco a dare un senso preciso o anche solo metterle in ordine. Queste idee sono tutte qui, che premono dietro i miei occhi e la mia lingua per essere liberate e urlare cose strane al mondo. Ripeto: non so da dove partire. Forse è la febbre che mi impedisce di ragionare, anche se ce la metto tutta, oppure semplicemente tutta la confusione che mi ha impresso questa situazione così fuori dal normale. Non riesco a interpretare quello che vuole farmi capire Carlisle, anche se so per certo che dietro alle sue parole di conforto e a volte  pure un po’ brusche c’è molto di più. Una volta che riuscirò a rivoltare l’animo di quell’uomo come un calzino sono sicuro che vi scoprirò qualcosa di molto più grandioso o terribile di quanto mi fossi mai aspettato o immaginato. Forse se facessi un elenco dei punti degni di nota riuscirei a fare un po’ di ordine tra i miei pensieri accavallati gli uni sugli altri, anche se poi dubito che riuscirò mai ad arrivare a una conclusione definitiva.

Ho trovato, non so come, la forza di alzarmi da letto e ora scrivo appoggiato al davanzale della mia cara finestra, unico ponte tra me e il fuori. Ho aperto la finestra: è una bella giornata e non mi dispiacerebbe essere laggiù in mezzo a tutta quella gente a camminare sul marciapiede, con il volto battuto dal sole e nelle orecchie il ronzio della folla. Vicino all’ospedale c’è un piccolo parco, di cui si può scorgere un pezzo di prato verde tra le fitte fronde degli alberi. C’è tanta gente là sotto; bambini che giocano e si divertono a spaventare le papere di un piccolo laghetto, signore eleganti che vanno a passeggio riparandosi dal sole con i loro ombrellini pieni di pizzi e signori indaffarati dall’aria burbera che proseguono a passo veloce verso la loro meta senza guardarsi attorno. C’è tanto di quel movimento laggiù. Se non mi ritrovassi in queste condizioni, in questo luogo cupo e immobile, sarei anch’io insieme a tutta quella gente. Sarei un qualsiasi ragazzo di diciassette anni intento a studiare con i libri in mano o a scambiarsi battute stupide con gli amici sdraiati su un prato come quello, magari ripensando al gesto sdolcinato di qualche ragazza illusa di attirare l’attenzione. Sarei a casa, con le dita premute sui tasti del mio pianoforte, eseguendo la mia melodia preferita o cimentandomi con qualche brano complesso di Beethoven, cercando il pelo nell’uovo e faticando per migliorare ancora. Di sicuro se in quest’istante fossi là fuori starei pensando alla composizione di un nuovo brano, ancora indeciso se optare per qualcosa di lento e dolce o per un pezzo un po’ più vivace, aggiungendo la e si bemolli qui e là sullo spartito. E poi, una volta soddisfatto del lavoro appena compiuto, avrei chiamato mia madre dall’altra stanza, per farla partecipe del mio nuovo successo e allietare le mie orecchie con le sue lodi. Poi sarei uscito di casa, dicendomi che per quel giorno non avrei studiato, nonostante gli avvertimenti di mio padre su quanto di sarebbe arrabbiato il professor Phillip. Ma sarei rimasto fermo nella mia decisione e ora sarei stato lì, sì, proprio lì sotto questa finestra. Magari avrei lanciato una breve occhiata all’ospedale, pensando a tutta la povera gente sofferente rinchiusa lì dentro. Avrei provato un attimo di pietà per loro, ma poi mi sarei girato dall’altra parte e avrei proseguito per la mia strada, pensando a quello che avrei fatto il giorno dopo. Ma di certo non avrei mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato dall’altra parte, a guardare da questa finestra.

Mi chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura, perché di certo sta andando avanti. Con o senza di me, là fuori…

 

«E-Edward…».

Un lamento strascicato, appena udibile, mi raggiunse all’improvviso, facendomi sobbalzare e facendomi rovesciare un po’ di inchiostro sul foglio. Imprecai per un istante, cercando di ripulire e facendo bene attenzione a non macchiare le lenzuola. Avevo lasciato la frase a metà e stavo per riprendere il filo e continuare a scrivere, quando un altro gemito soffocato attirò la mia attenzione. Mi voltai e notai che mia madre si era svegliata e che ora si rigirava nel letto lamentandosi. Le sue labbra screpolate continuavano a modulare il mio nome, come per chiedere aiuto, mentre gli occhi si aprivano e chiudevano spasmodicamente, seguendo il movimento convulso delle mani, che stringevano con forza le lenzuola stropicciate. Stava più male del solito: subito un terrore indescrivibile mi prese alla gola con artigli uncinati.

Sbattei via il diario e mi fiondai giù dal letto con un impeto improvviso, senza badare alla boccetta dell’inchiostrò, che si rovesciò sul cuscino. Ma avevo fatto male i calcoli. Infatti, nonostante in quei giorni avessi ritrovato la lucidità mentale che bramavo da tempo, la malattia non era di certo regredita e le mie forze erano quelle di sempre. A metà di quello slancio istintivo mi accorsi di non avere la forza sufficiente per reggermi in piedi e crollai per terra come un burattino, andando a sbattere contro il bordo del letto di mia madre e strusciando le ginocchia contro il pavimento duro. L’impatto mi lasciò per un attimo intontito e senza fiato, mentre un altro eccesso di tosse mi colpì, costringendomi ad accasciarmi a terra. Intanto sentivo la voce di mia madre che continuava a chiamarmi, ma io non riuscivo a tirarmi su né a rispondere. Di certo stava delirando: ormai la febbre era troppo alta. Subito una parola venne a galla tra tutta quella confusione, ma la cacciai via terrorizzato come si fa con i ricordi di vecchi incubi a cui non si vuole più pensare. Costringendo ogni singola fibra del mio corpo a contrarsi, mi alzai in ginocchio e cercai di ignorare il bruciore che proveniva dalle ginocchia sbucciate. Anche se sentivo il sudore colarmi tra le dita e rendere le mie mani umide e scivolose, afferrai con forza la mano di mia madre, come per cercare di porre un freno a quel tremito incontrollabile.

«Mamma… Mamma! Sono qui… Non preoccuparti, va tutto bene… Ci sono io…».

Balbettavo senza senso, forse più per far coraggio a me stesso che alla malata. E in quell’istante notai che anche io avevo iniziato a tramare, però non seppi se per la paura o per la stessa ragione che aveva logorato quella donna. Sentii il fuoco divampare dentro di me, ma mi sforzai di tenerlo a bada. Intanto mia madre continuava a dimenarsi e a balbettare, ora urlando ora sillabando semplicemente le parole, frasi senza senso e scoordinate. Scottava come braci ardenti e per un attimo fui quasi sicuro che la sua pelle stesse per prendere fuoco. Era pallida come un lenzuolo, mentre un paio di occhiaia violacee e marchiate le contornavano gli occhi: quel volto era di certo ben lontano dalla faccia sorridente e vivace che avevo conosciuto un tempo.

Non sapevo cosa fare, come aiutarla, ma solo di una cosa ero quasi sicuro: potevo sentire la vita scorrere via dalle sue membra, evaporando insieme al sudore, l’anima scivolare furtiva fuori da quella dimora in fiamme. E io volevo ricacciarla indietro, pregando e pregando ancora qualsiasi dio o forza superiore fosse mai esistita, implorando a quell’anima pallida e nebulosa di ritornare al suo posto, perché era ancora troppo presto, non era pronta per andarsene. Non era pronta per lasciarmi, proprio come aveva fatto papà, in silenzio. O forse non ero pronto io ad arrendermi all’evidenza. Per un attimo ricordai le parole di Carlisle e sentii forte come un tamburo il battito del mio cuore rimbombare contro le costole. Avrei dato qualunque cosa per poter cavare quella piccola cosa pulsante dal mio petto e darla a lei, l’unica donna al mondo che avessi mai amato e l’unica che ora mi faceva soffrire così atrocemente. Ancora un giorno, mezzo, ancora un minuto soltanto.

«Aiuto!».

Mi misi a urlare con tutta la voce che avevo in corpo, attirando l’attenzione di tutta la camerata, pazienti, infermiere e medici, che, d’altronde, erano ormai avvezzi a scene del genere. Subito un manipolo di gente in camice bianco si fiondò sul letto di mia madre, correndo da una parte all’altra, prendendo cose. Credo che qualcuno mi abbia sollevato da terra e disteso di nuovo sul letto, anche se non posso dirlo con certezza. Subito le immagini attorno a me si fecero sfocate, finché una fitta nebbia non mi avvolse completamente e non vidi né sentii più nulla.

Rieccomi qui prima del previsto: sono stata veloce questa volta eh? Ed ecco che stiamo per entrare nel vivo della storia. Avevo pensato di inserire un breve dialogo tra Edward e sua madre (una specie di "testamento", diciamo così), ma il ritmo della storia è troppo incalzante e non potevo dilungarmi ancora per molto. Sì, in effetti un altro aspetto complicato di questa ff è che bisogna concentrare in poco tempo (i pochi giorni necessari alla malattia per fare il suo corso) un sacco di cose molto importanti, come tutta la psicologia di Ed (su cui si potrebbe scrivere un libro intero), il suo rapporto con Carlisle (altro libro) e la malattia e sua madre. Quindi sono stata costretta a tagliare qualcosa, anche se mi sarebbe piaciuto molto approfondire la figura di Elizabeth Masen (non disperate però, magari riesco ad aggiungere qualcosa negli altri chap), che, però, nel confronto con due mastodonti di complessità come Carlisle ed Edward, non poteva certo avere la meglio. Ok, finisco di cianciare e passo ai ringraziamenti:

pinkgirl: grazie mille! In effetti il mio obiettivo è proprio questo, sia in questa ff come in tutte le altre cose che scrivo: andare oltre la banalità del semplice racconto dei fatti e far sì che al lettore rimanga qualcosa di più dal punto di vista morale. Mettiamola così, unisco l'ultile al dilettevole

keska: sì, Edward da bambino doveva essere stato un vero amore (il figlio che ogni madre sogna di avere). Per quanto riguarda la velocità... no, mi dispiace, ma quella la acquisisce solo una volta diventato vampiro

Wind: grazie anche a te per i magnifici complimenti! Mi fa sempre piacere sentirmi dire di essere riuscita a immedesimarmi con un personaggio, sopratutto quando si tratta del nostro Ed :)

Faby hale: eccoti qui! Non ti nascondo che la tua STUPENDA recensione mi ha davvero sorpreso e affascinato. E, a dire la verità, è stata proprio questa a spronarmi a scrivere il nuovo capitolo, quindi è soprattutto merito tuo se ho aggiornato così presto. Non immagini neanche lontanamente il piacere che mi ha procurato leggerla e il sorriso a trentadue denti che mi ha causato. Davvero grazie grazie grazie e grazia ancora! Ci dovrebbe essere più gente che recensisca come te! Grazie per l'originalità, le lodi al mio modo di scrivere (che è il mio punto debole: quando mi sento dire che scrivo bene mi sciolgo XD) e alla grammatica (mooooolto importante e spesso moooolto trascurata). Poi, ok che me la cavo benino, ma addirittura il paragone con la Meyer (=come mettermi ko); invidio a morte quella donna e spero un giorno di raggiungere i suoi stessi traguardi (sogno nel cassetto). Spero che anche per questo chap mi lascerai una recensione fenomenale!

See you soon guys!

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Capitolo 5
*** What isn't allowed to other people ***


Capitolo 5°

What isn’t allowed to other people

 

«Ah, dottor Cullen! Eccola! Finalmente è arrivato!».

Mi voltai e mi ritrovai davanti Bidget, una delle nostre infermiere, una donna di mezza età, in carne e sul cui viso di solito riuscivo a scorgere una compassione in grado di gareggiare con la mia. Senza dubbio in quel triste luogo era una delle persone più premurose nel prendersi cura dei malati.

«Qualcosa non va?». Avevo sentito una strana sfumatura nel suo tono.

«Sì». La sua espressione si fece se possibile ancora più grave. «Si tratta dei Masen…».

Smisi di respirare per qualche secondo, come se qualcuno mi avesse appena colto di sorpresa assestandomi un forte pugno tra le costole. E, senza neanche rendermene conto, fui subito preso da una strana paura, ma cercai comunque di mantenere un certo contegno.

«Cos’è successo?». Nonostante i miei sforzi potevo sentire un certo tremore nella mia voce.

L’infermiera si stropicciò leggermente le mani e io iniziai a temere il peggio.

«La signora… ha avuto una specie di attacco ieri pomeriggio… poco dopo che lei aveva finito il suo turno. Delirava per la febbre altissima e da allora non si è più svegliata. Le sue condizioni sono più gravi del previsto: pensiamo che ormai non le rimanga ancora molto».

Il mio respiro si fece corto e se il mio cuore fosse stato ancora vivo senza dubbio avrebbe iniziato a battere all’impazzata. Presi atto della nuova notizia con calma, prendendola con le pinze e deponendola in un cantuccio, per lasciare la sua analisi a un momento più tranquillo.

«E Ed.... il figlio? Come sta?».

«Sembrava stabile, anche se, ovviamente, vedendo la madre in quello stato deve essersi spaventato non poco, povero piccolo. E di certo questo shock non ha giovato alle sue condizioni: è perfino svenuto, mentre cercava di aiutare la madre. Si svegliava di continuo, chiedendo di lei. Adesso dorme… pare. Ma, sinceramente, non sono per nulla tranquilla».

Senza aspettare che Bridget finisse di parlare mi precipitai lungo la corsia, seguito a ruota dall’infermiera e indossando in fretta e furia il camice bianco. Bridget sapeva quanto nell’ultimo periodo mi fossi affezionato a quelle due persone e, più volte, mi aveva messo in guardia sul riporre sentimenti e speranze in quel genere di malati: diceva che mi preoccupavo più dei problemi dell’anima che di quelli del corpo. Per questo, appena ero arrivato per il mio turno di notte, si era fiondata su di me per informarmi della situazione. Fin dal primo istante in cui avevo posato gli occhi su quelle due fragili figure, avevo avuto ben chiaro che quel momento sarebbe arrivato: ma non avevo immaginato che ciò potesse accadere così presto. Intanto che percorrevo la corsia a passo spedito e i miei occhi si soffermavano frettolosamente su ogni ammalato, mi maledissi mentalmente, desiderando ardentemente di essere stato lì ad aiutare quando era accaduto il misfatto. Però, forse per giustificarmi, mi dissi che, in ogni caso, non avrei potuto fare niente, che ormai il loro destino era segnato da tempo. Proprio come aveva detto Edward.

Alla fine giunsi alla meta, con Bridget alle calcagna con il fiato corto, e vi trovai lo spettacolo che avevo sempre sperato di non dover mai vedere. Prima ancora di arrivare a vederli con gli occhi, avevo sentito il battito dei loro cuori, ormai lento e logorato, come di un orologio che, procedendo sempre più lentamente e con fatica, arrivi fino al punto di fermarsi. Socchiusi un attimo gli occhi e feci un profondo respiro per farmi forza. Sembravano due maschere, due bambole di cera riposte accuratamente nelle loro scatole candide. Ma si poteva vedere lontano un miglio che la più grave era Elizabeth. Il suo colorito, dall’ultima volta che l’avevo vista, era diventato da pallido a cinereo. Profonde occhiaia violacee le circondavano gli occhi socchiusi, che sembravano venir fuori da quel volto magro e incavato. I lineamenti sembravano erosi e stravolti, mentre il resto del corpo non aveva ormai più valore di un ramoscello rachitico. Potevo contarle ogni singolo osso e ogni singola vena o arteria attraverso la pelle quasi trasparente. Quell’orribile immagine mi si impresse così indelebilmente sul fondo degli occhi che, ne ero certo, non l’avrei dimenticata neanche dopo qualche migliaio di anni. Anche Edward, anche se sembrava in condizioni leggermente migliori rispetto alla madre, da quando l’avevo visto il giorno prima, assomigliava a un’altra persona. Anzi, non pareva più nemmeno qualcosa che si potesse definire umano. Era un semplice corpo abbandonato su un letto, in attesa che il tempo modificasse del tutto le sue fattezze. Sentii qualcosa di duro e appuntito trapassarmi il petto e solo in quel momento, dopo qualche centinaio di anni, riuscii a capire veramente il dolore a cui erano sottoposti quei fragili esseri umani, che avevo a lungo disprezzato a causa delle loro debolezze.

«Dottore…» sussurrò Bridget, notando che le mie mani avevano preso a tremare. «Sa bene come la penso al riguardo. Abbiamo già fatto tutto il possibile».

«Cosa le avete dato?».

«Un po’ di sedativi, giusto per farla stare tranquilla in attesa che… be’…».

«La febbre? Cosa le avete dato per la febbre?».

«Niente, dottore. Ormai è troppo alta. Ho provato con degli impacchi, ma non sono serviti a niente. L’hanno già visitata altri tre medici ed erano tutti dello stesso parere».

«No!» gridai, sopraffatto dall’emozione e infuriato per le parole rassegnate dell’infermiera. «Deve pur esserci qualcosa! Non abbiamo fatto abbastanza. Vai a prendere…».

«Dottore, si calmi!» esclamò quella, mettendomi una mano sulla spalla e fissandomi attentamente. «Come le ho già detto, abbiamo già fatto tutto il possibile. Se ne deve fare una ragione…».

Mi placai un secondo, rendendomi conto delle insensatezze che stavo dicendo: nella mia lunga vita ben di rado mi era capitato di lasciarmi possedere così sconsideratamente dai miei sentimenti. Potevo sentire la mano calda e viva dell’infermiera sulla mia spalla, anche se i miei occhi continuavano a stare attaccati spasmodicamente a quei due fantasmi.

«Lo so che è difficile» riprese Bridget, «lei è ancora molto giovane e forse si fa prendere ancora un po’ troppo dalle situazioni…».

Mi venne quasi da sorridere a quest’affermazione, ma mi trattenni: di certo avevo più anni ed esperienza di quelle tre persone messe insieme e moltiplicate per dieci.

«A meno che non si abbia un cuore di pietra, chiunque qua dentro non può fare a meno di affezionarsi alla gente che cura. Ci facciamo partecipi delle loro sofferenze, alcuni arriviamo perfino a considerarli come nostri figli…».

Il mio sguardo si soffermò su Edward: ancora così giovane…

«Però, alla fine, arriva il momento in cui dobbiamo lasciarli andare al loro destino: il nostro compito è semplicemente quello di accompagnarli e di alleviare le loro sofferenze nel loro ultimo viaggio. Ho visto tanta gente morire, qui e in altri ospedali, e ormai ho capito che è una cosa naturale, che è giusto anche quando noi non vogliamo. Le pare giusto continuare a mantenere in vita queste due povere anime in questo stato? Ci pensi».

No, volevo solo che tornassero come erano prima, a vivere una vita normale e assolata: quella vita che mi era stata tolta bruscamente e senza chiedere il mio consenso.

«Stia accanto a loro quanto vuole, ma si ricordi che qui ci sono decine di altre persone nelle loro stesse condizioni. È suo dovere curarle, non lacerarsi l’anima per loro».

Detto questo si allontanò in silenzio, lasciandomi lì da solo in balia delle mie angosce. Così era questo che dovevo fare: starmene lì immobile in silenzio in attesa che quelle due deboli fiammelle si spegnessero?

Recuperai una sedia e mi sedetti tra i due letti, ascoltando i respiri rantolanti dei malati. Me ne stavo lì muto e inerme, ma il mio animo era in subbuglio. Una parte della mia coscienza, quella più razionale, continuava a ripetermi le parole di Bridget e professava con insistenza il loro buonsenso, mentre l’altra, che rappresentava il mio cuore lacerato, urlava come invasata. E quel piccolo pezzo d’anima continuava a dibattersi e a strepitare, additando quell’ingiustizia, cioè che io, un mostro, potessi godere del calore del sole e quelle due povere creature no. Il senso di colpa mi assillava: chi ero io per meritare più di loro di vivere? Un vampiro, soltanto un maledetto vampiro! Ecco, l’avevo detto, anzi pensato, dopo anni che tenevo ben sottochiave quella parola immonda. Sarei dovuto morire in quello scantinato, più di due secoli fa, per mano di quell’essere orribile che stavo cercando di eliminare. Invece no, ero ancora lì. E sarei vissuto al posto di due innocenti, io che ero un essere progettato per uccidere e sguazzare nel sangue ancora caldo. Mi nascosi il viso tra le mani per la vergogna. Quella donna, quella madre, e quel ragazzo, suo figlio… Non ricordavo abbastanza nitidamente mia madre, ma, in un certo qual modo, potevo comprendere le sofferenze di entrambi di fronte all’imminente rottura del loro rapporto. Di fronte a quella duplice ingiustizia, mi battei un pugno sul ginocchio, producendo un tonfo sonoro: marmo contro marmo. Non sarei riuscito a distruggermi nemmeno se l’avessi voluto con tutte le mie forze. Ero così forte, indistruttibile e… eterno a differenza di quelle due esili figure: di sicuro un soffio di vento un po’ più forte sarebbe bastato a portarle vie. Mi sembravano fragili foglie accartocciate che avevano appena abbandonato il loro rifugio sicuro sul ramo per cadere inavvertitamente a terra. Tutti gli umani erano così, esseri precari che danzavano su un filo di nulla in attesa di abbandonare il loro albero. E la cosa più drammatica era che non bastava niente per farle cadere: delle intemperie improvvise, il passare delle stagioni o una mano che le strappasse via senza pietà. Una mano come la mia.

All’improvviso un rantolo mi distolse dai miei pensieri e, voltandomi verso la fonte di quel rumore, vidi che Elizabeth aveva aperto gli occhi e, lottando contro la febbre che aveva ormai raggiunto picchi vertiginosi, cercava di dirmi qualcosa. Scattai in piedi e mi avvicinai.

«Salvalo!». Un sottile filo di voce roca le uscì dalla gola riarsa, portando con sé gran parte del fiato che le era rimasto. Ma, nonostante ciò, quella parola mi rimbombò nelle orecchie come se l’avesse urlata.

«Farò il possibile» risposi, ben sapendo che non sarei mai riuscito a mantenere la mia promessa. Avevo voglia di aiutarla in qualunque modo, ma davanti a me vedevo solo strade sbarrate e impraticabili. Le strinsi spasmodicamente la mano tremante, tanto la febbre era talmente alta che non si sarebbe resa conto del gelo proveniente dalle mie dita. Misi tanta forza in quella stretta che per un attimo ebbi paura di farle male, ma subito la presa fu ricambiata dalla malata in modo così vigoroso che non avrei creduto che un essere in quelle condizioni potesse avere ancora così tanta forza a disposizione.

«Devi» continuò. Per un attimo mi persi in quegli occhi verde smeraldo, identici a quelli di Edward, e vi vidi il riflesso di una lontana vitalità e bellezza, che per un nanosecondo ebbe la sua occasione di rivincita contro la malattia. Mi sembrava quasi lucida mentre mi implorava a quel modo.

«Devi fare tutto ciò che puoi. Ciò che agli altri non è consentito, ecco cosa devi fare per il mio Edward».

Per la seconda volta da quando ero arrivato lì, il mio respiro fu mozzato. Mi sentii messo a nudo e inerme di fronte a quelle due iridi profonde come una foresta impenetrabile, che probabilmente avevano scoperto il mio segreto. Subito la paura mi prese al cuore e mi resi conto di essere braccato: come aveva fatto a scoprire cosa ero veramente? Ciò che agli altri non è consentito… Anche la mia mano, come la sua che stringevo ancora, iniziò a tremare e mi guardai intorno per assicurami che non ci fosse nessuno nei paraggi. Il primo istinto fu quello di scappare, ma fui trattenuto quando vidi gli occhi di Elizabeth, fino a quel momento così vivi, spegnersi e rivoltarsi all’indietro, mentre il suo corpo di accasciava privo di forze sul letto. Di sicuro stava delirando, mi dissi, però non riuscii lo stesso a scacciare dalla mente l’enorme serietà e sicurezza con cui aveva pronunciato quelle parole. Lasciai la sua mano, che continuava a tremare percorsa dai brividi: la febbre era salita ancora. A quel punto mi resi conto che non potevo fare veramente altro che aspettare. Passai un’ora lì al suo capezzale, mentre la malattia bruciava via gli ultimi resti di vita. Vedevo Elizabeth ardere lì davanti a me come un cadavere sulla pira… prima del tempo. Precisamente un ora e tre minuti dopo che mi aveva vincolato con quella promessa irrealizzabile, spirò. Se ne andò in silenzio, senza altri strepiti e frasi senza senso gettate al vento. Mi accorsi che era passata a miglior vita quando non vidi più il suo petto alzarsi e abbassarsi con fatica e sentii il suo cuore battere l’ultimo colpo quasi timidamente. E così mi ero lasciato sfuggire un’altra anima. Avrei voluto piangere per lei finché non avessi avuto più lacrime per niente e nessuno, ma un pensiero più importante brillava in quell’abisso di dolore e morte: cosa potevo fare per Edward?

Uno strano rumore mi salì lungo la gola, qualcosa a metà tra un singhiozzo e il lamento di un animale in agonia. Non sapevo che fare e il problema maggiore era che dovevo agire in fretta, visto che anche ad Edward non rimaneva ormai molto tempo. Avrei dovuto chiamare Bridget o qualche altra infermiera per informarla del decesso di Elizabeth… della signora Masen, anzi. E poi? Avrei dovuto prendere le distanze da quella situazione già molto tempo prima, già da quella notte in cui avevo parlato con Edward per la prima volta. Sembravano passati secoli, quando invece pochi giorni mi avevano fatto amare quel ragazzo come se lo conoscessi ormai da tempo immemorabile. Come se fosse mio figlio. Sì, avevo aderito in modo sorprendente a quella realtà, mi ero scavato un posticino riparato tra quelle due persone, forse per ovviare alla mancanza del padre o forse solo perché quello di cui avevo veramente bisogno era di sentirmi un po’ umano. Avevo inventato scuse su scuse, ma alla fine la verità era proprio quella: mi ero legato a quelle persone per uno scopo puramente egoistico; non per dare amore e conforto a loro, bensì a me stesso. Ero quindi un essere così terribile, che usa la gente anche nei loro ultimi secondi di vita? In ogni caso, mi dissi alla fine, per qualunque motivo avessi fatto aderire la mia non-anima alla loro, di anima, al momento non importava più di tanto, infatti ora la mia priorità assoluta era decidere. Ero veramente sicuro che quello che aveva detto Elizabeth corrispondesse a quello che stavo pensando? Quindi dovevo veramente prendere in considerazione l’ipotesi di… fare di Edward un essere ignobile come me? Un… No, la sola idea mi disgustava. Vagliai in pochi secondi decine di altre possibilità, ma tutte, invariabilmente, mi conducevano allo stesso vicolo cieco; se mai avessi voluto tentare di salvare quel ragazzo da morte certa quello era l’unico modo. Forse sarebbe stato meglio lasciarlo al suo destino e liberare la sua anima da quelle spoglie ormai decadute, senza intervenire e lasciare che la natura facesse il suo corso: di sicuro il luogo che avrebbe presto raggiunto sarebbe stato migliore di quello dove si trovava al momento. Avrebbe rivisto suo padre, sua madre, che nemmeno sapeva che fosse morta, e non avrebbe più sofferto le pene della malattia: sarebbe stato libero. Però chi mi assicurava che dopo che il suo respiro rantolante si fosse arrestato avrebbe davvero raggiunto un paradiso simile? E poi io ormai lo amavo come un figlio, come potevo desiderare la sua morte? Ed ecco ancora il mio egoismo venire a galla. In un lampo improvviso mi ritornò in mente tutta la mia agonia, il sangue e il fuoco ardente che avevano accompagnato la mia rinascita a immortale, la mia trasformazione in… vampiro. Avevo sofferto, sì, ma probabilmente in quello stesso istante Edward stava soffrendo allo stesso modo, quindi il dolore non sarebbe stato un grande problema. E poi era tanto che desideravo un compagno con cui condividere la mia natura e i miei segreti, senza dover mentire in continuazione e senza riuscire a trovare un minimo di felicità e rapporto umano. Ero sempre stato solo e ora mi si offriva su un piatto d’argento l’opportunità di rompere quel confino. Inoltre avevo promesso a Elizabeth di salvarlo… Ma trasformarlo in vampiro sarebbe stato salvarlo? O, anzi, avrei aggravato il suo stato, tramutandolo in un essere abietto e assetato di sangue? Potevo sopportare di vedere così distrutta un’altra vita, accettare che qualcun altro portasse il mio stesso fardello? Ma dall’altra parte c’era la morte, quindi quale dei due mali scegliere? Non riuscivo a distinguere quale fosse il minore. Poi una vocina debole e velata, come quella della donna che era appena spirata al mio fianco, mi sussurrò qualcosa all’orecchio in mezzo a tutto quel trambusto di pensieri discordanti: non era detto che diventasse un essere abominevole e sanguinario, magari sarebbe diventato come me. Gli avrei insegnato a disprezzare il sangue umano e a nutrirsi solo di quello animale, come facevo io, avrei soffocato in lui la sete di uccidere. Ma anche se fosse stato possibile, rimaneva pur sempre un problema: la trasformazione. Non sapevo se avrei avuto la forza necessaria per compiere un simile gesto o se la mia natura avrebbe avuto la meglio, ritrovando finalmente uno sbocco dopo essere stata incatenata e sottomessa per decenni. E se ciò fosse accaduto non me lo sarei mai perdonato, sarebbe stato anzi più grave, perché avrei condotto io stesso alla morte l’unico essere che era riuscito a riscaldare il mio cuore dopo una lunga era glaciale.

Mi alzai in piedi e iniziai a camminare avanti e indietro con la fronte aggrottata e i lineamenti irrigiditi dall’ansia e dall’indecisione. Mi passai una mano tra i capelli e mi appoggiai per qualche secondo al davanzale della finestra, respirando l’aria pulita e calda proveniente dall’esterno: facevo di tutto pur di non soffermarmi a osservare il ragazzo, infatti ciò mi avrebbe impedito più di ogni altra cosa di decidere razionalmente. La mia mente continuava a pensare, a fare una lunga lista di pro e di contro, ma in capo dieci minuti ero ancora al punto di partenza, mentre il corpo morto di Elizabeth, che nessuno aveva notato, si raffreddava pian piano lì accanto. Le sue ultime parole continuavano a rimbombarmi nelle orecchie. Mi voltai di scatto, per riprendere il mio su e giù in quel piccolo angolo, e così facendo, senza che me accorgessi, feci cadere qualcosa dal comodino. Un fruscio di fogli e un piccolo tonfo mi fecero voltare repentinamente. Raccolsi l’oggetto caduto da terra e in quello vi riconobbi il diario che avevo regalato il giorno prima ad Edward. Lo sfogliai rapidamente e notai che, nonostante il poco tempo, aveva già scritto parecchia roba. Le pagine erano ricoperte dalla sua scrittura piccola e sinuosa, delicata nei trattini delle t e nelle gambe delle p e delle b. Mi soffermai a leggere l’ultima pagina, che riportava la data di quel giorno, probabilmente l’ultima cosa che aveva scritto prima di cadere in quello stato.

 

2/8/1918 ore 3 a.m.

Caro diario,

è ormai tardi, ma anche se sono stanco non ho voglia di dormire. Sento che qualcosa di terribile sta per succedere, qualcosa che probabilmente cambierà tutto, quindi non posso fare a meno di starmene qui a scrivere. La mamma sta sempre più male. Non si è più risvegliata da oggi pomeriggio, quando ha avuto quella terribile crisi, e credo che il brutto presentimento che non mi ha abbandonato un attimo da quel momento non sia del tutto infondato. Ogni volta che la guardo è una pugnalata al cuore sempre più forte: non posso sopportare di vederla in questo stato, io che me la ricordo ancora sorridente e vitale. È un po’ come vedere un tenero uccellino appena affacciatosi alla vita, piccolo ed indifeso, che cade inesorabilmente dal nido: dicono che sono i casi della vita, che ognuno ha il suo destino. Ma che vita è mai questa mi chiedo… Molto meglio la morte se si deve vivere sperimentando tante cose belle che, però, prima o poi ci vengono tolte, per poi soffrire enormemente non per non averle mai conosciute quelle cose, ma per esserne stati privati brutalmente. Non offrire mai il latte al gatto se sai che non gliene potrai più dare altro: molto meglio che si convinca che certe cose belle non esistono, no? O altrimenti porre fine al suo dolore con man forte. Ci dicono che dobbiamo accettare i dolori e gli ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che scopo? Basta, non sono un filosofo e in questo stato riflettere sul significato dell’esistenza o sull’ingiustizia di un essere superiore mi sembra insensato se non ridicolo. Sono paziente e aspetterò con calma che tutto finisca. Ma quanto ci vorrà ancora? Ormai sono pronto a partire, sono curioso di sapere cosa vedrò una volta scostata la cortina di pioggia e aver abituato i miei occhi alla luce abbagliante… E finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa c’è oltre l’orizzonte.

Però penso a Carlisle e mi sento un po’ in colpa a lasciarlo qui senza una parola. Anche se ci conosciamo da poco, le poche parole che mi ha rivolto hanno significato molto per me, mi hanno aiutato in questi ultimi attimi difficili a fare pace con il mio passato e con la vita in generale. Mi ha riconciliato con ciò che sono e mi ha rassicurato su ciò che sarò e per questo non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza. Mi rattrista doverlo lasciare senza poterlo salutare adeguatamente e soprattutto so che soffrirà la mia mancanza. Mi sono affezionato molto a lui e credo che questo affetto sia reciproco, perciò ho paura di procurargli un grande dolore. Non ho ancora capito cosa nasconda sotto quel velo d’apparenza, ma non m’importa. Potrà essere qualsiasi cosa ma per me lui rimarrà per sempre l’uomo che ha saputo farmi vedere la luce alla fine del tunnel.

Un’altra cosa che rimpiango è di non aver mai conosciuto il vero Amore. Non mi riferisco all’amore in generale, di cui mi hanno dato spesso prova i miei genitori e i miei amici, bensì quel tipo d’amore che sa farti felice e allo stesso tempo ti fa piangere, che ti fa arrossire e sentire leggero come una piuma, incapace di pensare e di agire razionalmente. Mi manca l’essermi legato a filo doppio con qualcuno e rendere quella persona il centro esatto del mio universo. Non ho mai incontrato nessuna ragazza che corrispondesse alle mie aspettative o che mi facesse venire voglia di dire “ti amo” e ormai non ho più tempo per queste cose. Non mi manca l’essere stato amato, bensì l’amare, il dare la propria vita per l’unica persona che la merita. Se potessi vivere per altri cento anni… ma che dico, anche per un giorno soltanto… Ho ricevuto, ma non sono riuscito a dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma sono sicuro che se mai avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata la mia aria, la mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore. Avrei attraversato mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E questi ultimi pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono certo che un giorno o l’altro il mondo conoscerà qualcuno come te, ma io purtroppo non sarò lì a stringerti la mano e a sussurrarti dolci parole all’orecchio. Ma non importa, perché almeno sarò sicuro che qualcun altro potrà godere della tua luce.

Di certo la più bella e luminosa di questo universo.

Per sempre tuo,

Edward

 

Alzai gli occhi da quella pagina scritta fitta fitta e sentii un nuovo sentimento sorgere in me, una nuova luce brillare nei miei occhi. Quella pagina di diario mi era arrivata direttamente al cuore come ben poche cose nella mia lunga esistenza. E pian piano che i miei occhi scorrevano sulle righe e nuotavano sulla scrittura morbida di Edward, una decisione si delineava tra i miei altri mille pensieri, soverchiandoli e prendendo il pieno potere. Alla fine potei dire di essere arrivato a una conclusione: non potevo ignorare quella bruciante voglia di vivere.

Era ora di mantenere la mia promessa e fare ciò che agli altri non è consentito.

Non ho voglia di commentare e perciò lascio a voi quest'onere verso questo nuovo chap narrato dal punto di vista di Carlisle, intenso e... bo, non mi convince granchè. Ringrazio:

Wind: ecco un nuovo aggiornamento :) oddio davvero ti ho fatto piangere? be' tieniti forte allora per i prossimi chap! E se ami tanto il diario di Ed mi sa che sarai felice nel sapere che lo ritroveremo ancora. Grazie mille!

Red Robin: grazie mille anche a te per i complimenti *blush*

Faby hale: non uno ma ben due commenti accidenti! Mi sa tanto che leggere la mia roba ti fa male sìsì. Innazitutto grazie per l'inifità di complimenti come sempre e poi ho molte cose a cui rispondere. Primo: grazie per gli altri ringraziamenti riguardo alle mie opere indegne. Secondo: Midnight Sun... mmm, sì... a dir la verità ho sempre snobbato un po' la cosa perchè ho visto che molta gente si cimenta con questo genere e alla fine le varianti risultano sempre uguali... Poi bisognerebbe essere molto fedeli al testo e a me serve un po' più di libertà, senza contare che non voglio impegnarmi con lavori così lunghi (mi stanco presto).... Però, bo, non so magari con l'estate quando avrò più tempo potrei pensare di scrivere un mini Midnight Sun.... vedremo! Terzo:  no, Daddy Eddy non  l'ho abbandonata, è solo che il tempo per scrivere è praticamente nullo (l'ultimo chap di quella ff l'avevo postato prima correre via in fretta a una festa).... comunque tranquilla che pian piano ritornerò ad aggiornare anche quella (anche se devo dire che Before mi sta prendendo di più). A presto!

Eddai ragazzi recensite! Sennò poi Edward si offende! XD

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Capitolo 6
*** As blood runs ***


Capitolo 6°

As blood runs


Carlisle

Quelle erano state le ultime parole famose prima della pura e semplice azione. Avevo in testa una tabella di marcia precisa che mi ero imposto di seguire senza dar voce agli altri innumerevoli dubbi che, malgrado fossero ora più deboli e meno numerosi, continuavano a riecheggiare nella mia mente cercando di sviarmi. Ormai avevo preso la mia decisione e non dovevo in nessun modo tentennare se volevo che tutto andasse per il meglio, quindi concentrai l’attenzione sulle mie mani e sulle mie gambe. Con fredda professionalità comunicai al capo reparto il decesso della signora Masen con tanto di orario preciso e causa, mettendo la parola fine sulla sua cartella clinica. E, anche se con un lieve tremito nei pensieri che sperai non si fosse propagato alle mani, aggiunsi sulla lista dei deceduti anche Edward, scrivendo accanto al suo nome l’ora fasulla della morte: esattamente cinque minuti dopo la madre. Agli occhi degli altri i due non sarebbero stati separati che per un’infinitesimale frazione di tempo, ma io sapevo che non era così: ebbi una breve esitazione. Quello che stavo facendo era certamente illegale, ma, mi dissi, dopotutto la legge non prevedeva norme riguardanti i vampiri attuali come quelli futuri, no? Quando tornai dalla morta e dal moribondo, trovai il letto di Elizabeth vuoto: le infermiere erano state più che previdenti nello far sparire dalla vista il cadavere, di cui rimaneva soltanto una lieve impronta sul materasso e sul cuscino. Non avevo nemmeno avuto il tempo di salutarla come si deve… Senza pensare una parola di più, mi affrettai a portare Edward all’obitorio, prima che qualcun altro, facendolo al mio posto, s’accorgesse dell’inganno. Nel tragitto, procedendo spedito per i corridoi, cercai di non incontrare nessuno sguardo, per paura che potesse trapelare qualcosa attraverso esso. L’odore di chiuso misto a disinfettante dell’obitorio mi travolse in pieno insieme alla luce chiara che si rifletteva sui muri intonacati di bianco e la proverbiale atmosfera gelida e distaccata. Bastò quello e il fatto che non ci fosse nessuno nei paraggi a farmi decidere di abbandonare subito quel luogo nefando, preoccupato che potesse succhiare via le ultime tracce di vita di Edward. Lo avvolsi in una coperta e lo presi in braccio e in breve mi ritrovai  per le strade di Chicago. Ringraziai il cielo che fosse abbastanza buio da permettermi di svignarmela attraverso i vicoli, evitando i lampioni senza essere notato. Le poche persone di passaggio erano solo un gruppo di ubriachi e un paio di individui dalla faccia losca che di certo non si sarebbero interessati ai miei traffici poco cristallini.

Quella che chiamavo casa era un piccolo monolocale in un imponente palazzo in mattoni a faccia vista di recente costruzione, situato alla periferia della metropoli. Non mi ero mai preoccupato molto della mia abitazione e in molti si chiedevano come mai un dottore stimato s’accontentasse di vivere in quella specie di casermone, costruito principalmente per ospitare famiglie della classe operaia e in generale individui con basso reddito. Ma per me era un buon posto principalmente per due motivi. Innanzitutto c’era un gran via vai di gente, anche poco raccomandabile, e tra quella comitiva ben assortita in pochi avrebbero potuto notare eventuali stranezze che sarebbero potute sfuggire al mio controllo. Poi, a dir la verità, per me quella “casa” era soltanto una parte della mia facciata di normalità costruita, un pezzo del puzzle della menzogna, visto che, non avendo oltretutto bisogno di dormire, non vi trascorrevo molto tempo. Nei primi tempi, però, tra i condomini circolavano parecchie dicerie sul bel dottore di Londra. C’era chi diceva che non potevo permettermi l’affitto di qualche bell’appartamento del centro, che di certo più si addiceva a un medico, perché avevo perso tutti i miei beni nel gioco o sul fondo di una bottiglia. Alcuni sostenevano che ero venuto in America per far fortuna dopo essere uscito da una violenta faida per faccende di eredità, mentre altri ribattevano che c’era di mezzo qualche donna, magari una bella ballerina di uno dei più celebri locali di Chicago, per la quale avrei venduto l’anima al diavolo. Ma, in fin dei conti, tutti concordavano sul fatto che oltre alla mia faccia cordiale ci fosse molto di più di quanto dessi a vedere… e non a torto. Ma con il tempo l’interesse per la mia figura era andato scemando, favorito anche dalle mie prolungate assenze.

Salii le scale di corsa, sperando di non incontrare nessuno, e quando giunsi al terzo piano mi fiondai oltre la porta del mio appartamento come un ladro in fuga. Una volta dentro lasciai correre lo sguardo sull’unica stanza cercando di calmarmi. L’arredamento era semplice ed essenziale, sebbene estremamente curato ed ordinato; i colori scuri e un po’ smorti s’intonavano con le pareti color mattone e il cielo al di fuori della finestra annerito dai fumi delle industrie. Un grande ed antico crocefisso di legno appeso al muro, unico ornamento in quell’ambiente spartano, mi ricordava la mia vita passata, quando ero umano nella mia Londra seicentesca, e in particolare mio padre. Il rumore del mio respiro accelerato vibrava forte nell’aria, unico rumore oltre il ronzio ovattato del traffico proveniente dalla strada e il pianto di un neonato due piano più giù. Stasi. Senza accorgermene subito e senza staccare lo sguardo dal crocefisso, mi ritrovai a balbettare muovendo convulsamente le labbra qualcosa che sulle prime non riuscii a classificare. Solo quando riconobbi la cadenza latina mi riscoprii, dopo secoli, a pregare. Non sapevo perché, ma era come se riuscissi a scorgere attraverso la croce il pulpito e le navate in penombra della chiesa, nella quale s’innalzavano lamentevoli i canti dei salmi dei fedeli. Probabilmente stavo pregando Dio di darmi la forza di fare quello a cui mi accingevo… o semplicemente per chiedergli di donare la pace a quella sottile anima che reggevo tra le dita come brandelli di un vestito una volta stupendo. Finii di recitare tra i denti un altro paio di formule e mi decisi. Sdraiai Edward su un logoro divano, che un tempo, prima dell’avvento delle trame, doveva rappresentare un appetibile pezzo d’antiquariato, al centro della stanza. Gli sistemai il cuscino sotto la testa e la coperta attorno al corpo smagrito. Profonde occhiaia gli cerchiavano gli occhi, quasi l’avessero pestato brutalmente. Quegli  occhi, pensai, un tempo così brillanti e vivi, verde speranza proprio come quelli di Elizabeth.

«Ma che speranza ti rimane ormai?» sussurrai, ben consapevole che non poteva sentirmi.

Gli passai una mano tra i capelli color bronzo, sulla fronte madida di sudore e sulle guance incavate. Ed eccomi lì ad indugiare un’altra volta! Proprio non ci riuscivo, mi era del tutto inconcepibile sfiorare quel ragazzo se non con una carezza paterna.

«Devo farlo» dissi continuando il mio monologo senza senso. Altrimenti sarei stato costretto a riportarlo all’obitorio per lasciarcelo una volta per tutte; e sapevo che quello sarebbe stato mille volte più difficile. Ma da dove cominciare?

Socchiusi gli occhi e, attraverso la polvere che turbinava nell’aria, rividi per un attimo quel breve passaggio che portava alle fogne della città, poi la quiete apparente fu subito rotta da un tumulto improvviso, con fuoco, falci e forconi mescolati a un inseguimento sfrenato. E poi quel fuoco. Prima oscurità interrotta da grandi fuochi d’artificio e poi il falò che bruciava tranquillo ma costante, che mi mangiava ed abbrustoliva dal basso verso l’alto, dentro e fuori. La voglia di urlare, ma la frustrazione di non poterlo fare, la ricerca disperata di un qualche sollievo nel paese del dolore. E alla fine, quando anche le ultime braci avevano smesso di ardere sotto lo strato di cenere e pelle… il risveglio. E la consapevolezza. E il disgusto. Ma quelli erano venuti dopo; cosa c’era stato prima? La risposta brillava chiara nella mia mente: sangue. Dovevo graffiare e mordere, far colare quella preziosa linfa vermiglia ed inquinarla con il mio veleno. Il tutto gli avrebbe provocato dolore… Ma quanto ne avrebbe provocato a me? Sarebbe stato un po’ come offrire un superalcolico a un alcolizzato incallito riuscito miracolosamente a rimanere sobrio per molti anni. L’avrei ucciso? Mi sarei lasciato prendere dalla frenesia del sangue e l’avrei ucciso? Era un rischio che dovevo correre. Edward corrugò la fronte ed emise un flebile grugnito nel sonno e per un attimo fui sicuro che quel suono indistinto fosse una specie di incoraggiamento a farmi avanti. Mi avvicinai a lui, accostando il mio viso al suo, e sentii lontanissimo il battito del suo cuore accompagnato da ondate di calore, che mi investirono come un’inondazione. Fu lì che lo sentii. Il continuo scorrere nelle vene e nelle arterie col suo ritmo regolare, accompagnato da quel profumo invitante, di certo il più raffinato e ricercato mai esistito, che avevo evitato per troppo tempo. Un brivido di libidine mi percorse la schiena. Accostai le labbra al suo orecchio e mormorai appassionato: «Perdonami».

Di lì il passo al suo collo, all’incavo sulla clavicola dove il sangue pulsava appena sotto pelle, fu breve. Un piccolo squarcio bastò ad appannarmi la vista e far sì che non vedessi altro che il rosso scuro del sangue venoso mischiato a quello più brillante di quello arterioso. Rosso sangue sulla pelle candida di Edward e sulla coperta. Rosso sul mio camice immacolato. Rosso ad ampie chiazze sul divano. Rosso che gocciolava sul pavimento in profonde pozze vermiglie, nelle quali si riflettevano moltiplicati i miei occhi scintillanti e selvaggi. Poi l’urlo acuto e lacerante di Edward, strappato violentemente dal suo stato comatoso, che mi trafisse i timpani e minacciò di mandare in frantumi i vetri delle finestre, mentre cercavo con tutte le mie forze di trattenere i suoi arti che si dimenavano furiosamente. Ma quello non era stato che un breve interludio. Altro sangue rosso schizzò sui muri. Rosso sui mobili. Rosso sul tappeto. Rosso sul tavolino lì vicino. Una goccia rossa perfino sulle braccia del crocefisso. Altro sangue mi colava addosso come una cascata, mentre graffiavo e i miei denti laceravano ogni singolo brano di pelle che mi capitasse a tiro. Quell’aroma invitante ormai mi circondava pienamente, ma il disgusto era troppo perché riuscissi a concedermi anche solo una piccola degustazione. Rosso che tingeva il mio animo e i miei pensieri. Rosso che mi colava negli occhi e sulle labbra.

Rosso che mi imbrattava le mani giunte.

 

Edward

Dicono che quando si muore si rivede tutta la propria vita, o almeno i momenti più significativi, come in un album fotografico o in un film. E lì uno può giudicare se è stato buono o meno, se ha fatto qualcosa di utile e così via. È un po’ come lo scrittore che, una volta terminato il suo lavoro, ne rilegge la bozza.. O quando finisce un amore profondo o un’amicizia importante, quando si fa il resoconto delle esperienze belle e brutte passate insieme. Ma in quel momento scoprii che non ci si deve affidare a ciò che dice la gente. Io più che un’ordinata storyboard l’avrei paragonato alle visioni disordinate dovute ai fumi dell’alcol o all’oppio. Brevi sprazzi senza senso buttati qua e là, uniti magari a qualche scena estrapolata da un contesto del tutto differente se non pescate dal subconscio e dalla fantasia. L’ultima cosa precisa e razionale che ricordavo era l’aggravamento repentino di mia madre, il mio insensato tentativo di soccorso e quelle ultime pagine, quella specie di testamento scritto di getto prima di addormentarmi. Non sono sicuro, però, di essermi solamente addormentato; magari ero anche svenuto o caduto in coma. L’unica cosa certa era che mi sentivo così stanco come non l’ero mai stato in vita mia. E questo era stato un lungo periodo di galleggiamento in qualcosa di insolito, forse nella stessa materia di cui sono fatti i pensieri e i sogni. Navigavo in questo nulla felice e beato perché non sentivo più il dolore, né la preoccupazione, né il tempo che passava. Ero sicuro che avrei potuto rimanere in quello stato per l’eternità e oltre. Ma poi mi ero sentito strattonare, spingere e schiaffeggiare con in sottofondo una voce neutra che chiamava il mio nome attraverso la parete trasparente della bolla in cui mi trovavo. Non avevo avuto nemmeno il tempo di ribattere a quelle sollecitazioni che avevo già incontrato due nuovi amici che mi avrebbero accompagnato per molto tempo. Si chiamavano Dolore e Bruciore e senza alcuna esitazione mi strinsero in un forte abbraccio, accompagnati da una strana sensazione, come di due aghi acuminati che mi perforassero quasi furtivamente la pelle del collo. La quarantena nebulosa si era dissolta in un attimo per lasciar spazio a ferro e fiamme. Era come se mi trovassi nel bel mezzo dell’eruzione di un potente vulcano; vedevo fiamme e resti carbonizzati di cose ormai irriconoscibili ovunque volgessi lo sguardo. Potevo perfino sentire la lava ustionante scorrermi nelle vene, mentre le ossa erano diventate rocce incandescenti che minacciavano di liquefarsi da un momento all’altro. Mi misi ad urlare, ma per quanto ci provassi, per quanto dessi fiato ai miei polmoni in fiamme, non riuscivo ad udire la mia voce, quasi che qualcuno avesse cancellato il suono e non facevo altro che alimentare il fuoco che mi avvolgeva. Non riuscivo più a sentirmi le braccia e le gambe o anche solo il busto con la contraddizione che, però, il male lo avvertivo fin troppo bene. Insieme a quella terribile sensazione di prurito e fastidio dei due uncini perennemente piantati nel collo. Mi contorsi per un’eternità in quella specie di letto infuocato in attesa che le fiamme si smorzassero, visto che non ero abbastanza ottimista da sperare che si estinguessero del tutto. Il passaggio dallo stato di stasi a quello così… vivo, troppo vivo, era stato come sbattere bruscamente il muso contro il muro durante un bel sogno. Ero stato un ingenuo e mi ero illuso che le mie sofferenze fossero finalmente finite, che magari in quel paradiso di nulla avrei perfino rincontrato mia madre. Ed ecco, puff, tutto si dissolveva in un botto per mostrarmi la realtà oltre il sipario. Il tutto senza sapere, poi, se ero morto o ancora vivo. Però, a dir la verità, il sogno e l’equilibrio apparente non mi avevano mai abbandonato, ammesso che potessi definire quella cosa solamente un sogno da tanto che mi era sembrato reale.

Mi trovavo in una radura che non potrei descrivere con altro termine se non bellissima. Il prato era di quel verde tenero dell’erba appena spuntata e assumeva una sfumatura più scura ai margini della radura, là dove s’addensavano le ombre degli alberi fitti. Al centro, invece, dove ero io, batteva il sole così forte da accecarmi. Ero sdraiato a terra e gli steli delle margherite, delle campanule blu e di un’altra infinità di coloratissimi fiori di campo mi ondeggiavano davanti agli occhi sospinti dal vento. L’aria era fresca e pulita e, inspirandola a pieni polmoni, potei quasi dimenticare il bruciore proveniente ora dal petto. Ma, alzando leggermente gli occhi, mi accorsi di non essere solo. Un paio di occhi castani profondi e teneri come quelli di un cerbiatto indifeso mi fissavano attentamente da sopra un dolce sorriso divertito. Notai i lunghi capelli color cioccolato che le accarezzavano la guancia e l’incavo del collo e capii che si trattava di una ragazza. Il problema era che ero più che certo di non averla mai vista né tantomeno immaginata. Però, nonostante tutto, non provai quel senso di diffidenza ed allerta che si ha di solito davanti a uno sconosciuto. Anzi mi sentivo quasi attratto da lei, come se sapessi per certo che di lei potevo fidarmi ciecamente e che, al contrario, conoscesse tutto di me. Senza dubbio era la ragazza più bella che avessi mai visto; avrei perfino osato dire che l’amavo. Dischiusi le labbra per chiederle chi fosse, da dove venisse, quale luogo fosse mai quello e cosa ci facessimo noi, ma fui interrotto da un suon gesto improvviso. Allungò una mano candida e morbida alla sola vista e prese la mia lasciandomi senza fiato, non solo per avermi colto di sorpresa ma anche perché avvertii che in quel semplice gesto c’era qualcosa di insolito. Le sue dita intrecciate erano, in confronto alle mie, tremendamente calde, quasi che un po’ del rogo che ardeva in me fosse fluito in lei. La mia mano, invece, era come un pezzo di ghiaccio, che già iniziava a sciogliersi sotto quella stretta bollente, tanto che per poco non la ritrassi atterrito. Inoltre potei notare anche un’altra stranezza: era come se la mia pelle fosse cosparsa di tanti piccoli diamanti che rilucevano là dove batteva la luce del sole, dividendone il fascio nei colori dell’arcobaleno. Non riuscivo proprio a spiegarmelo… Ma un istante dopo mi accorsi di avere ben altro di cui preoccuparmi che quello strano gioco di luci, che probabilmente aveva ingannato l’occhio. La ragazza sconosciuta si era avvicinata paurosamente a me, tanto che per un attimo temetti che fosse sul punto… sì, di baciarmi. Invece avvicinò le labbra vellutate e rosse come i petali di una rosa al mio orecchio ed iniziò a cantilenare una strana melodia. Come tutto quello che mi circondava neanche quella specie di ninnananna riuscivo a ricollegarla a una qualsiasi cosa avessi mai incontrato nella mia breve vita. Di certo era la primissima volta che la udivo, ma bi bastò sentirla fino alla ripresa seguente per capirne il ritmo e trovarla meravigliosa: il genere di composizione di cui sarei stato più che fiero di attribuirmi la paternità. Era dolce e lenta e in breve mi fece dimenticare tutti i miei affanni, tanto che per un nanosecondo fui certo di trovarmi ancora in quel paradiso fluttuante. E poi la sua voce… oh, era a dir poco divina! Ormai ero in suo pieno potere… Ripeté quell’amabile ninnananna per una seconda volta, per poi alzarsi in piedi con movimenti lenti e misurati e senza lasciare la mia mano. Così facendo mi tirò su e mi ritrovai in piedi davanti a lei, che riprese quella melodia ormai a me nota, ora quasi trattenendo una risata davanti al mio stupore. Poi, però, riuscì a sorprendermi ancora quando, come quando mi aveva preso la mano tra le sue, si voltò di scatto ed iniziò a correre, mentre io rimanevo lì imbambolato e spiazzato a guardarla danzare leggiadra come una fatina sui fiori; sembrava quasi che si librasse sulla docile brezza senza aver bisogno di sfiorare il terreno con al punta dei piedi scalzi. E intanto la sua risata riecheggiava squillante ed argentina, finché si abbassò lentamente di volume, fino a spegnersi del tutto quando si fermò ai margini della radura. Si voltò e mi fissò ancora una volta con quei profondi occhi da cerbiatto di una tenerezza impensabile, facendomi un cenno con la mano di raggiungerla. Io obbedii neanche fossi stato sotto l’influsso di un potente incantesimo, ma non riuscii a percorrere più di qualche metro che le gambe iniziarono a dolermi violentemente, come a ricordarmi del fuoco che avevo dimenticato, fino a che ne persi del tutto la sensibilità e caddi a terra in ginocchio. Lei rise ancora e continuava a chiamarmi, mentre io provavo invano a rialzarmi. Un forte formicolio nacque in un punto impreciso sotto il ginocchio, per risalire tutte le gambe e la schiena e raggiungere le mani. Abbassai lo sguardo e notai che le dita avevano preso a tremarmi convulsamente e il terrore che ne seguì fu cancellato subito da una fitta al petto. Era come se mi avessero trapassato da parte a parte con un pugnale di ghiaccio e rimasi lì immobile quasi contorcendomi, mentre potevo chiaramente percepire il pulsare della pelle contro la lama e perfino il mio cuore agonizzante, centrato in pieno da quell’arma mortifera. Caddi a terra faccia in avanti come un soldato colpito in battaglia e per un attimo sentii tutto girarmi attorno, il cielo sostituirsi alla terra e gli alberi capovolgersi. Ora tutto il fuoco si era concentrato lì dove aveva colpito la spada, pulsando orrendamente come se dovesse esplodere da un momento all’altro. Invece, a dispetto delle mie aspettative, quell’unico focolare iniziò pian piano a ridursi fino a diventare semplicemente una docile fiammella. Ciò mi permise di alzare gli occhi sulla ragazza, che si trovava ancora ai margini della radura, anche se la sua espressione era mutata del tutto: il riso aveva abbandonato il suo volto, ora corrugato e coperto da un velo di sofferenza, che riuscivo a scorgere a stento oltre le mani che le coprivano il viso. Era la personificazione del dolore. Poi, però, guardando meglio, notai che non si trattava più della ragazza di prima; era un po’ come se si fosse appena trasformata in un angelo bellissimo e dolente. Un’aurea di luce bianca l’avvolgeva come una tunica e per un attimo credei quasi di scorgere un paio di ali piumate fissate sulle sue spalle. Aveva ancora le mani premute contro il volto, come se stesse piangendo per me, e dalla sua bocca socchiusa uscivano singhiozzi misti a lamenti. La luce bianca dava, infine, una sfumatura dorata ai suoi capelli biondi. Capelli biondi… Ma la ragazza di prima era bruna e i suoi capelli erano molto più lunghi… Eppure, a differenza di tutto il resto che compariva in quel sogno, avevo già visto quei capelli di quel colore unicamente dorato. E anche quella volta avevo creduto di avere davanti un angelo dall’espressione pietosa e triste. L’ultimo fuocherello rimasto al posto del cuore, ormai unico punto in cui potevo avvertire un dolore atroce, avvampò un’altra volta.

«…et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo».

Ora udii chiaramente la voce dell’angelo e riconobbi tra i suoi balbettii e singhiozzi la famosa preghiera del Padre Nostro: quella creatura divina stava pregando per me. Forse per la mia salvezza… Ma perché piangeva? Gli angeli sono belli e portatori di felicità, non era giusto che anche il mio angelo piangesse… per me. Poi un pensiero mi fece venire le vertigini: conoscevo quella voce…

L’ultimo rogo sopravvissuto ormai non era ridotto che a una semplice fiammella di fiammifero. Udii il mio cuore battere un colpo, sonoro e potente come quello di un tamburo, per poi tacere per sempre e lasciare nel mio petto un vuoto e un silenzio che avrei odiato per l’eternità. Se il mio cuore si era fermato… ero dunque morto?

All’improvviso la radura scomparve nel nulla così come era apparsa e mi ritrovai a precipitare in un abisso più nero della notte e senza fondo. Tuttavia l’angelo rimase, era sempre lì accanto a me, raggomitolato su se stesso e piangente, che continuava a ripetere meccanicamente quella sua preghiera in latino. Caddi. Ci fu un tonfo. La luce del mio idolo illuminò lo spazio circostante, bucando quella tela nera e pian piano mi accorsi che attorno a me c’erano cose e colori, anche se la sfumatura che sembrava prevalere era il rosso. Sbattei le palpebre un paio di volte e mi resi conto di essere sdraiato su qualcosa di morbido, probabilmente un divano, e di essere ricoperto da capo a piedi di una sostanza liquida, collosa e calda che non riconobbi. Mi sentivo tremendamente strano e più tardi scoprii che quella non era soltanto una sensazione. La prima cosa fuori dalla norma che notai era che il mio petto si alzava ed abbassava regolarmente come dovrebbe essere in un qualunque essere che respira (e questa era una buona cosa), ciò nonostante non trovavo il battito rassicurante del mio cuore sul lato sinistro del petto (e questa era una brutta cosa). Quindi ero un essere che respirava ma a cui non batteva il cuore; il dubbio rimaneva: ero vivo o morto? E questa era soltanto una delle prime stranezze che poi avrei avuto occasione di scoprire: al momento la mia attenzione era attratta da qualcos’altro.

Avevo creduto che, insieme alla radura e all’oscurità, sarebbe scomparso anche l’angelo piangente… Mi sbagliavo. Accanto a me seduto sul divano stava lo stesso angelo di prima, di cui riconobbi la singolare capigliatura dorata, anche se la luce bianca e le ali erano sparite. Aveva la stessa espressione di quello del sogno o qualunque cosa fosse, come le mani che gli coprivano il volto e la fronte corrugata. Da lui provenivano gli stessi identici gemiti che avevo udito prima. Tuttavia notai una discordanza: l’angelo del sogno non aveva i vestiti e le mani sporche di sangue… Cercai di alzarmi tirandomi su con un gomito e quel movimento lo avvisò del mio risveglio, facendolo scattare come una molla. Si tolse le mani dal viso e lo riconobbi una volta per tutte. Aveva le labbra sporche dello stesso sangue che aveva sulle mani e un po’ gli colorava anche le guance in strisce tirate bruscamente, che assomigliavano al trucco degli indiani ma che probabilmente si era procurato graffiandosi lui stesso le gote. Aveva la fronte aggrottata, la bocca formava una riga ricurva verso il basso e i lineamenti erano duri come granito: anche lui, pensai, era la personificazione del dolore e del rimorso come l’angelo del sogno. Aveva gli occhi lucidi e fui sicuro che sarebbe scoppiato in lacrime da un momento; ma io ancora non capivo, anche se pian piano iniziò a delinearsi nella mia mente, come un polveroso volume tirato fuori da una soffitta dimenticata, il mostro spietato dell’incubo. Era lo stesso. Stessa persona, stessa situazione molto sanguinosa (finalmente capii cosa fosse il liquido colloso che avevo addosso). La paura nacque spontanea nel mio animo e trattenni a stento un grido. Eppure la sua espressione non era impregnata di odio e voglia di uccidere come nel mio vecchio incubo, bensì sembrava che la compassione che lo caratterizzava fosse fuoriuscita tutta d’un botto, insieme al rimorso per qualcosa che aveva appena fatto, alla pietà, al rammarico e alla sofferenza allo stato puro.

«Carlisle…» mormorai, riconoscendo in quel relitto il mio amico dottore. «Dove sono?».

Lui non rispose, al contrario si morse le dita e socchiuse gli occhi, emettendo una specie di guaito.

«Che mi è successo?».

Quando trovò il coraggio si tornare a guardarmi negli occhi, trovai qualcosa di strano e discordante nelle sue iridi. Non erano più del colore dell’oro liquido come quando mi avevano incantato la prima volta, bensì ora, seppur sottile e quasi invisibile, erano sporche di una sfumatura più scura e rossa. Come…

Sì, proprio come il sangue.

Ta-daaaaaan! Ed ecco a voi finalmente il momento cruciale di tutta questa ff: la trasformazione del nostro caro Edward. Be', spero di averla descritta al meglio, visto che ho deciso di allontanarmi dalla versione della trasformazione di Bella della Meyer e fare qualcosa di più.... originale. Comunque non preoccupatevi, anche se il nostro Eddy è già un vampiro continuerò ancora un po' con le sue avventure.... che andranno abbastanza lontano. Sperando che questo capitolo sia all'altezza degli altri nonchè di vostro gradimento, passo ai ringraziamenti:

GilGalahad: la tua attesa è finita finalmente! grazie mille per i complimenti, anche se credo di non meritarmeli tutti... continua a leggere, mi raccomando!

pinkgirl: anche in questo chap c'è il pov di Carlisle, anche se credo che d'ora in avanti lo userò più raramente, ritornando a fissarmi di più su Edward e sugli altri personaggi che verranno... Per quanto riguarda Daddy Eddy la sto aggiornando alternativamente con questa, ritagliando il poco tempo che ho a disposizione, quindi, avendo due ff per le mani, gli aggiornamenti saranno più sporadici... ma ci saranno eh! XD

Faby hale: Oh, riecco la mia ammiratrice numero uno! I tuoi complimenti sono il mio toccasana, visto anche che ultimamente sono un po' con l'umore sotto i tacchi (il che influisce sull'ispirazione purtroppo). Mi dispiace di averti fatto piangere, anche se in un certo senso è un buon segno per me, perchè vuol dire che riesco ad arrivare al cuore delle persone, che è poi il mio obiettivo. E, no, i personaggi non li ho suggeriti io alla Meyer (sennò le chiederi i diritti), diciamo solo che sono partita da una linea generale presa dal libro per poi svilupparli secondo la mia fantasia, visto che io adoro sezionare i caratteri umani ("Nulla di ciò che è umano mi è estraneo" Terenzio docet XD). Be', per questo capitolo centrale mi aspetto una recensione bomba!!!! A presto e Grazie tante come sempre!!



Inutile che vi dica RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEE!

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Capitolo 7
*** Newborn ***


Capitolo 7°

Newborn


«Carlisle… io… tu… cosa…?».

Avevo iniziato a balbettare e, anche se non ne ero del tutto sicuro, le probabilità che al balbettio si fosse unito anche un certo tremore delle membra erano alte. Mi sentivo inerme, frastornato e spaventato. Mi trovavo davanti a una situazione senza senso o, se mai ne aveva uno, non riuscivo in alcun modo a coglierlo. La testa iniziò a girarmi e per un attimo desiderai di svenire ancora e ripiombare nel buio indefinito di prima. Senza pensarci, allungai una mano dalle dita tremanti e sporche di sangue rappreso verso il mio amico, per poi posarla sulla sua spalla in un disperato gesto di smuoverlo e attirarne l’attenzione.

Ma appena la punta delle mie dita sfiorò la stoffa della camicia stropicciata che indossava lui scattò come una molla, tanto da far sobbalzare anche me per la sorpresa. Senza nemmeno capire come ci fosse arrivato o anche solo credendo impossibile una tale velocità di movimento, un secondo dopo lo ritrovai in piedi accanto al bracciolo del divano, a debita distanza da me. Il suo petto si alzava ed abbassava velocemente sotto il respiro affannato, le pupille erano dilatate e a chiunque sarebbe parso di avere davanti un pazzo. E ancora una volta provai una paura tremenda, temendo che se avessi fatto anche solo un gesto innocuo avrei potuto scatenare la sua ira. Passammo in silenzio quella che mi parve un’infinità di tempo, entrambi immobili come statue, e ogni secondo che passava più la mia confusione e il mio sconcerto aumentavano. E intanto il mostro dell’incubo iniziava sempre di più ad uscire dal suo nascondiglio tra i miei pensieri annebbiati.

«Hai paura del buio?».

La sua voce mi giunse alle orecchie all’improvviso come i cardini arrugginiti di una vecchia porta, stridendo fin quasi a farmi venire la pelle d’oca. Sobbalzai per l’ennesima volta nel sentirlo rompere quel silenzio di tomba senza alcun preavviso. Alzai lo sguardo su di lui e notai che non si era mosso di un millimetro, il che mi fece perfino dubitare che fosse stato lui a parlare.

«Ti ho chiesto… Hai paura del buio?».

Questa volta, vedendo le sue labbra articolare con precisione ogni singola parola, senza però guardarmi in faccia, bensì tenendo gli occhi fissamente attaccati al pavimento, ne ebbi la certezza. Ma che razza di domanda era mai quella? Mi trovavo in un luogo sconosciuto, coperto di sangue, in compagnia di una persona che credevo amica ma che al momento sembrava aver perso completamente il senno e perlopiù senza sapere cosa mi fosse mai capitato… e lui cosa mi veniva a chiedere?

«Io… cosa?». Avevo paura di rispondere.

«Rispondi».

«No. Io… non ho paura del buio». Almeno così era sempre stato, anche se in quel momento perfino l’aria che respiravo mi faceva rabbrividire. Quel luogo trasudava qualcosa di strano ed oscuro. Sbagliato.

«Bene. Andiamo…».

Mi voltò le spalle e si diresse con passo spedito ma rigido verso la porta in fondo alla stanza, che prima non avevo notato.

«Ehi, aspetta! Andiamo dove?» esclamai istintivamente.

Carlisle si fermò di botto, quasi fosse stato colpito alle spalle o congelato all’istante, e sempre con lo stesso stridio si voltò a guardarmi. La luce del lampadario lo colpì in pieno viso e ora più che mai potei notare il riflesso rossastro delle sue iridi, come due rubini incastonati in quel viso di marmo pieno di angoli e abbozzato rozzamente. Un tremito mi percorse da capo a piedi. In quel volto stravolto da non sapevo bene cosa non riuscivo a riconoscere niente che richiamasse la figura angelica che avevo conosciuto all’ospedale.

«A fare due passi». In un nanosecondo, come se fosse dotato della velocità del fulmine, fu accanto a me e mi strinse il polso in una morsa di ferro, tanto che mi sorpresi di non sentire le ossa scricchiolare sotto la sua stretta. Quindi, quasi fossi un bambino cocciuto che non vuole ubbidire, mi trascinò di peso verso la porta, capendo che lo stupore dovuto alla situazione aveva rallentato parecchio i miei movimenti.

«Non temere, ti spiegherò tutto» mi sussurrò all’orecchio mentre varcavamo la soglia. «Tranquillo».

Un sorriso sbilenco si contorse sul mio viso. In quel momento avrei potuto fare di tutto tranne che stare tranquillo, pensai mentre Carlisle mi trascinava nelle tenebre che avvolgevano il pianerottolo.

 

Appena la porta che dava sulla strada si aprì silenziosa mi ricredetti subito su quello che avevo affermato poco prima. Sì, avevo paura del buio, anzi più precisamente di ciò che vi avrei potuto trovare dentro. Delle risposte che vi avrei potuto trovare dentro. Eppure… mmm… non so, c’era qualcosa di strano in quel tipo di buio. Era di certo una delle nottate più scure che avessi mai visto, data la mancanza della luna e delle stelle coperte da uno sottile strato di nubi bigie. Però, nonostante tutto, riuscivo a scorgere fiammelle di luce in quel pozzo nero senza fondo. Più in là il palloncino aranciato di un lampione bagnava della sua luce artificiale un pezzo di marciapiede e un paio di cespugli di un’aiuola lì vicino. Mi stupii di riuscire a scorgere anche da quella distanza ogni singola foglia di ognuno dei cespugli, su cui scintillava una fresca e cristallina rugiada, che rifletteva la luce del lampione come tanti piccoli cristalli colorati. Attorno alla capocchia del lampione, che pareva prendere fuoco, danzavano tantissimi insetti, zanzare e falene, disegnando complesse trame nell’aria. E potevo distinguere i disegni neri in campo marrone sulle ali delle farfalle notturne, che ogni tanto parevano scomparire nel nulla appena si posavano ad esempio sul fusto del lampione. Ma io riuscivo comunque a scorgerle. Rimasi esterrefatto da una tale presa di coscienza, sicuro che doveva esserci per forza qualcosa che non andava: infatti in una situazione normale i miei occhi sarebbero stati ciechi davanti a quell’oscurità. Figurarsi intuire così tanti particolari di un oggetto che si trovava almeno a cento metri da noi! Mi doveva essere successo qualcosa di strano in quella stanza, questo era indubbio. Senza accorgermene ero rimasto fermo immobile appena fuori la porta del palazzo, imbambolato a guardarmi attorno usufruendo della mia nuova e potente vista. Abbassai lo sguardo sul selciato e notai una solitaria formica che si trascinava stancamente lungo il bordo del marciapiede, camminando parallela a un sottile rigagnolo d’acqua che moriva in un tombino. Inspirai a fondo e colsi l’odore caldo dell’asfalto sotto i miei piedi; potei perfino sentire il calore che aveva accumulato durante un’afosa giornata d’agosto esalare dalla terra in quelle ore più fresche. L’odore dell’acqua sporca e carica di polvere accompagnata dal gocciolio ritmico sul fondo del tombino: plic, plic. Un botto mi colse alle spalle facendomi sobbalzare, prima di capire che si trattava semplicemente dello sbattere di alcune imposte nel palazzo di fianco. Alte e rauche risa provenivano, invece, da un gruppo di ubriachi in fondo alla strada: un rantolo di vento me ne portò perfino l’aspro e stridente odore di alcol. Di fronte a me, dall’altro lato della strada, intercettai il ticchettio delle zampette unghiate di un ratto che sguazzava in un cumulo d’immondizia. Il suo musetto nero e ispido dai piccoli occhi scintillanti come stelle sopra una chiostra di dentini appuntiti e affamati faceva ogni tanto capolino tra i rifiuti, che costituivano un’ampissima gamma di odori e particolari su cui, però, preferii non indagare. Mi voltai dall’altra parte arricciando il naso e mi ritrovai a faccia a faccia con Carlisle.

«Vogliamo andare?» domandò leggermente scocciato e alzando un sopracciglio.

«Sì… scusa».

E senza aggiungere altro lo seguii come un cagnolino ubbidiente. Mentre camminavamo nessuno dei due osò parlare, Carlisle perché era troppo concentrato sulla strada da seguire, mentre io perché ero troppo meravigliato da tutto ciò che si proponeva ai miei nuovi sensi. Era come se fino a quel momento avessi vissuto bendato, anzi era come se non avessi vissuto affatto. Ora mi si presentava un mondo completamente nuovo e a ogni passo mi rammaricavo di quanto fossi stato miope nella mia vita precedente. Sicuramente nessun umano si sarebbe mai accorto del complesso intreccio dell’erba a stretto contatto con il terreno… Ma quindi cos’ero diventato? E come lo ero diventato? Perché di certo non ero più l’Edward che un paio di giorni prima (quanto tempo era passato?) stava inevitabilmente morendo in un letto d’ospedale. Preoccupato di lasciare una traccia del suo passaggio sul mondo… mah! Quell’Edward non sapeva neanche che cosa fosse davvero il mondo!

Anche Carlisle, analizzato con la mia nuova vista e il mio nuovo olfatto, sembrava diverso e per un attimo dubitai che fosse perfino la stessa persona che avevo conosciuto. I suoi capelli non erano semplicemente biondi, ma avevano una sfumatura più chiara che tendeva al platino e su cui la luce s’infrangeva, così che sembrava che la sua testa fosse coronata di stelle. La sua pelle era seta pura, senza la benché minima imperfezione, mentre le sopracciglia disegnavano un arco geometricamente perfetto sopra ogni occhio. Potevo distinguere la polvere attaccata a ogni singola ciglia, da cui si alzava ogni volta che sbatteva le palpebre. La sua pelle emanava un profumo indescrivibile, una fragranza che probabilmente era l’essenza della bellezza stessa, anche se in quel momento leggermente intaccata dall’odore ferroso del sangue rappreso sui suoi indumenti.

In breve (a dire la verità non avevo prestato molta attenzione ai miei passi o alla strada, limitandomi a seguire Carlisle) arrivammo di fronte a un grande cancello in ferro battuto, decorato con ghirigori e foglie d’acanto. Conoscevo quel luogo…  I miei passi avevano calcato quel selciato decine di volte, il mio sguardo si era soffermato a osservare le frasche degli alberi che spuntavano da sopra la cancellata decine di volte, i miei pensieri erano volati sopra quelle linee verdi e flessuose decine di volte in giornate assolate dove il caos della città era vinto dalla calma di quel parco. Dopo scuola, nelle tiepide giornate di aprile e maggio, ci passavo spesso e magari ci sostavo per un paio d’ore sdraiato sull’erba con in mano un buon libro. A volte in compagnia, molto più frequentemente da solo. Era un momento in cui potevo staccare la mente dal mondo reale e lasciarmi cullare dalle mie riflessioni fantasiose e a volte strampalate. Ricordai l’ultima volta a cui avevo pensato a quel posto paradisiaco: era stato quando ero ancora in ospedale. Certo, ricordavo: dalla finestra dell’ospedale si poteva godere di un’ottima vista del parco. Per questo non era un caso che Carlisle mi avesse condotto proprio lì… ma a quale scopo?

Per la seconda volta mi ero perso nei miei vagheggiamenti e quando il mio compagno riuscì finalmente a richiamare la mia attenzione lo vidi che mi chiamava dall’altra parte del cancello.

«Edward!» esclamò e ora pareva aver riacquistato un po’ di fredda razionalità. «Vieni!».

«Ma… come?» balbettai. Non l’avevo nemmeno visto scavalcare il cancello o passare attraverso qualche passaggio nascosto… E se a quell’ora di notte il parco era chiuso c’erano delle buone ragioni; era già tanto che non ci fossero guardie in giro, pensai.

«Non potremmo entrare! Non si può! È chiuso! Poi che cosa vorresti mai fare?» insistei.

Carlisle sbuffò. «Muoviti e lo capirai».

«Ma come faccio a…?». In effetti il cancello era troppo alto per scavalcarlo con facilità.

«Salta».

«Salta? Ma… ma ti sei bevuto il cervello per caso? È assolutamente impossibile!».

«Come fai a dire che è impossibile se non ci hai neanche provato?».

Inspirai a fondo e sondai il cancello per cercare qualche possibile appiglio, ma niente: era una fortezza.

«Fidati: salta e vedrai».

E se le mie nuove doti che avevo appena sperimentato fossero state estese anche a… be’, altro? Chiusi gli occhi e feci per spiccare un salto in direzione del cancello, già pronto a sentire il freddo metallo delle sbarre stamparsi contro la mia faccia con un tonfo metallico. Invece, con mia immensa sorpresa, mi ritrovai dall’altra parte, del tutto incolume nonché in piedi di fianco a Carlisle, che ora mi sorrideva. Era come se mi fossi teletrasportato dall’altra parte senza fare il benché minimo movimento, anche se lo spostamento d’aria che avevo sentito scostarmi i capelli dalla fronte era stato straordinariamente forte e breve. Ciò significava che ero diventato una specie di supereroe incredibilmente veloce e forte? Cercai gli occhi del mio amico in cerca di rispose, ma come al solito non ne trovai, visto che lui si stava già dirigendo a passo spedito verso la parte più buia del giardino. Scossi la testa e lo seguii: ero curioso di sapere dove mi avrebbe condotto quella strana avventura.

Mi sembrava così strano camminare ancora una volta in quel luogo, cosa che non credevo sarebbe mai stato possibile. L’aria della notte era tiepida e le cicale frinivano tra le erbe. In fondo al parco, in mezzo a folti cespugli, baluginava qua e là la luce intermittente di qualche lucciola. Non ero mai venuto in quel posto di notte, ma di certo, mi dissi, forse anche grazie ai miei nuovi sensi sviluppati, era il luogo più bello che avessi mai visto. E pensare che a due passi da lì avevo vissuto la più grande tragedia della mia vita. Chissà se la mamma era ancora là? Mi venne un’idea: magari sarei potuto andare a trovarla, per farle vedere che ora stavo bene e che non doveva più preoccuparsi per me, che l’avrei curata io d’ora in poi. M’avvicinai a Carlisle per comunicargli la mia idea, sicuro che avrebbe accettato visto che sapevo quanto anche lui avesse a cuore la salute della mamma. Però, appena feci per aprire bocca, lui mi zittì con un cenno e svoltò nel primo vialetto a destra. Anche se era buio pesto potevo scorgere la sua espressione concentrata, su cui però affiorava una forte dose d’ansia. Dopo che avemmo camminato per altri cinque minuti tra i vialetti bui del parco, illuminati qua è là da qualche sporadico lampione, la cui luce aranciata si univa al verde inteso degli alberi, iniziai a spazientirmi. Stavo per chiedergli dove accidenti fossimo diretti, quando lui mi zittì di nuovo. Alla fine arrivammo a un altro cancello, più piccolo del precedente, che però non ricordavo di aver mai visto. Fui sicuro di poterlo scavalcare facilmente, ma Carlisle invece si mise a trafficare con le catene che lo chiudevano e in breve le sciolse, sempre con mio grande stupore. Quando il piccolo cancello a un solo battente, che si mimetizzava benissimo tra due piccoli cipressi ingialliti dalla siccità, s’aprii con un rumore vellutato sui cardini ben oliati, lo riconobbi. Non avevo mai avuto occasione di varcarlo, per fortuna. Infatti, come già detto, l’ospedale dava sul parco e proprio in quell’angolo confinante con il giardino era situata la piccola cappella annessa all’obitorio, dove venivano allestite le camere ardenti. Negli ultimi anni, da quando l’epidemia si era diffusa in città e i cimiteri, come gli ospedali, trasbordavano di povera gente, si era deciso di adibire un pezzo del terreno della cappella a campo santo. Ma che c’entrava quel luogo con me?

«Mi dispiace dover essere così drastico con te. Davvero, mi sto odiando per quello che sto per fare… be’, e per quello che ho fatto. Ma credo che il modo migliore per prenderne atto sia vederlo con i tuoi stessi occhi. Perdonami se puoi» sussurrò Carlisle abbassando il capo, così che non potei scorgere il suo volto, mentre passavamo davanti all’entrata della cappella. Ma per me quelle parole non avevano nessunissimo senso. O forse l’avrebbero avuto da lì a breve. Non ci spingemmo più in là: giusto quanto bastava per incontrare le prime lapidi di quel piccolo cimitero improvvisato. Potevo percepire le irregolarità del terreno sotto i miei piedi e uno viscido odore di putrefazione che aleggiava nell’aria. Mi voltai verso il mio amico medico con sguardo interrogativo.

«Seconda fila terza da destra» mi rispose semplicemente. «Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui».

Detto ciò si sedette rannicchiandosi sui gradi della cappella, chiuse gli occhi ed intrecciò le mani sotto al mento: fui più che sicuro che aveva ricominciato a pregare. Ma non feci troppo caso a quelle stranezze (che erano troppe per essere prese in considerazione tutte in una notte), e mi avviai verso la lapide che mi aveva indicato, incuriosito. Di chi mai doveva essere? Perché doveva interessarmi? Perché Carlisle aveva preferito rimanere in disparte? La luce era pochissima, le lapidi semplici di pietra grigia senza nemmeno un fiore tutte uguali e fredde. Era proprio come all’ospedale: tante persone tutte accumunate dalla stessa terribile sorte. Il nome di ognuno era scolpito con magistrale attenzione e si potevano riconoscere senza difficoltà le tombe più recenti. E la fila che mi aveva indicato era molto recente: la terra era ancora smossa e le sepolture dovevano risalire a non più di qualche giorno addietro. Finalmente arrivai alla meta e lessi con viva curiosità.

ELIZABETH MASEN
? – 2-8-1918

«No…».

Rimasi senza fiato e sbattei le palpebre. Rilessi frettolosamente un paio di volte, certo di aver interpretato male la scritta. No, dovevo ricredermi, avevo letto benissimo. Dunque era morta? La notizia mi colpì in pieno con la potenza di un meteorite, devastandomi e facendomi tremare le ginocchia, che non ressero a lungo quel peso e mi abbandonarono ben presto a terra. Affondai le dita nella terra ancora umida e per un attimo mi passò per la testa il pensiero di mettermi a scavare e di ritrovarla ancora lì, sotto quella coltre di terriccio, ancora sorridente e pronta ad abbracciarmi ancora una volta. Ero sicuro che mi sarei messo a piangere, invece, malgrado mi sforzassi in tutti i modi, non riuscii a cavarne una lacrima da quei nuovi occhi. E pensare che solo poco prima, prima di varcare quella maledetta soglia, avevo immaginato quanto le avrebbe fatto piacere rivedermi. Già, rivedermi. Non l’avrei mai più rivista. Dovevo morire io, io, IO! Al suo posto… Perché a lei avevano permesso di andarsene così e a me no, e a me avevano assegnato quel destino, che non sapevo ancora bene in cosa consistesse. Ora che anche la mamma mi aveva abbandonato su che pilastro avrei poggiato la mia esistenza? Avevo solo diciassette anni: dove potevo andare? Cosa potevo fare? Gemetti e gemetti ancora come un cane in agonia, ma di piangere non se ne parlava neanche, non ci riuscivo. E così era questa la cosa che Carlisle non sapeva come dirmi, la cosa che con i miei occhi avrei potuto capire meglio: che mia madre era… No, non potevo dire quella parola, sarebbe stato come accettare che non c’erano altre possibilità, che quella era l’unica realtà e io non volevo in alcun modo crederci. Ero solo e smarrito e in quel frangente desiderai ardentemente di ritornare agonizzante in quel letto, per poi raggiungere mia madre in quel piccolo cimitero. Come tutti gli altri. Come era stato mio destino fin dall’inizio. E rimanere con lei per sempre. Via da questa vita immonda.

Un paio di mani forti m’afferrarono da sotto le ascelle e mi tirarono su di penso. Io non mi opposi e barcollai un poco prima di riuscire a reggermi in piedi. Avrei tanto voluto potermi sdraiare lì e rimanerci in eterno… Carlisle mi passo un braccio attorno alle spalle per farmi coraggio, ma non ci badai molto perché mi girava la testa e mi sentivo totalmente intontito dal dolore. Credo che mi avesse anche sussurrato qualcosa all’orecchio, che però non compresi. Ero improvvisamente ripiombato nel paradiso fluttuante di prima, che però non era più un paradiso ma solo una massa di ricordi appuntiti che galleggiavano attorno a me ferendomi ad uno ad uno. E tutto girava attorno a me come una giostra. Ma all’improvviso la giostra si fermò e qualcosa mi fece ripiombare bruscamente nella realtà.

Uno strano odore mi giunse alle narici, risvegliando in me qualcosa di nuovo e terribile. Era difficile da descrivere, anche perché non l’avevo mai sentito in vita mia, ma ai miei nuovi sensi suonò come qualcosa di gustoso e magnifico. Latte e miele. Questa fu la prima associazione abbastanza adatta che mi venne in mente. Quel profumo così invitante mi entrò nel naso, scese nella gola e mi riempì i polmoni, cullandomi e allo stesso tempo frastornandomi come una potente droga. Per un attimo, anche se sentivo Carlisle chiamarmi, non capii più nemmeno dove mi trovavo. Poi ripresi coscienza bruscamente e con uno sguardo febbrile ricercai la fonte di quel profumo paradisiaco. Un paio di uomini erano appena usciti dalla cappella, trasportando una pesante bara, che ora stava adagiando nella fossa a essa destinata. Sentivo i loro respiri affannati perdersi nell’aria, i loro muscoli contrarsi sotto il peso della cassa, il sudore colare sulle loro fronti e le vene ingrossarsi per il caldo. Le vene… Era da lì, mi resi conto con un brivido di piacere che mi stupì, che proveniva quel sapore che avevo iniziato a bramare così tanto. Era il loro sangue che chiamava la mia gola riarsa e che ormai pareva carta vetrata da tanto era assetata. In un’altra occasione oppure nella mia precedente vita sarei rimasto disgustato davanti alla prospettiva di bere sangue umano. Ora, invece, l’idea non mi ripugnava affatto, anzi agognavo a quel liquido rosso come alla fonte primaria di vita. Senza pensare, ormai dimentico del dolore e della tomba di mia madre e completamente impazzito da quell’odore, feci per fiondarmi sui due uomini, che non avevano per niente notato la nostra presenza.

«Edward, no!». Una voce m’ammonì alle spalle, ma non le diedi ascolto. Poi qualcosa mi afferrò bruscamente per un braccio, facendomi cadere a terra e sbattere la testa contro una lapide. Rimasi a terra inebetito per qualche secondo, che bastò all’aggressore alle mie spalle, che senza dubbio doveva essere Carlisle, per raccogliermi e portarmi via di voltata.

Lontano da quella tentazione.

Scusate tanto: avevo intenzione di aggiornare qualche giorno fa, ma purtroppo sono stata malata e non ne ho avuta l'occasione. Comunque... Ho deciso di dividere la presa di coscienza di Ed della sua nuova natura in due parti: una più legata alle sensazioni (questo chap) e un'altra in cui ci sarà una spiegazione più razionale (il prossimo chap). Come il precedente, anche questo è stato un capitolo abbastanza difficile da scrivere: come ci si sente a essere un vampiro? Eh, bella domanda... Be', spero che anche questo episodio sia stato di vostro gradimento! Ringrazio:

tess89: grazie mille per i complimenti, sono sempre ben graditi! ^^ Per quanto riguarda la domanda, mi dispiace ma non posso risponderti subito. Lo vedrai continuando a leggere! Quindi seguimi e recensisci!

Ale78: Kipling hai detto? Mmmm, fin ora non ho mai avuto occasione di leggere niente di lui, ma ti assicuro che appeno posso vedrò se riesco a reggere il paragone! Grazie anche a te!

Jadis96: nono, figurati! Anche se la frequenza degli aggiornamenti non è proprio il massimo la continuerò fino alla fine. Grazie e a presto!

Wind: un rigraziamento grande grande anche a te! Sono sempre contenta di sentirmi dire che mi so immedesimare bene nei miei personaggi, visto che per me è fondamentale!

Faby hale: addirittura il capitolo più bello? Ooooh ma così mi fai arrossire Xd Be' come al solito non mi lasci molto da commentare visto che hai già detto tutto tu. Anche questa volta sei riuscita a cogliere il significato di base dell'opera: brava! Non so se te l'ho già detto (probabilmente sì) ma credo che potresti essere un'ottima critica letteraria! Inoltre mi piace che tu abbia usato la parola visione, visto che quando scrivo mi capita proprio così: sono visioni, immagini di un film che "vomito" sulla carta... Un ultima cosa: ho deciso di inserire un'analessi di Bella e la radura anche per distaccarmi dalla versione della trasformazione data dalla Meyer. Grazie 1000 per i tuoi fantastici (come al solito) complimenti!

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Capitolo 8
*** Tell me angel ***


Capitolo 8°

Tell me angel

 

Il respiro mi usciva rantolante e rumoroso dalla bocca e dal naso, mentre l’adrenalina si scioglieva pian piano e si diluiva nelle membra per poi scomparire. Mi sentivo come se avessi appena percorso cento miglia di corsa in meno di un paio d’ore. O come se fossi precipitato da un altissimo crepaccio. Stordito, sbalordito, senza fiato… e affamato. Sì, perché l’odore che mi aveva attirato così bruscamente nel cimitero non mi aveva ancora abbandonato, bensì continuava ad aleggiarmi sotto al naso impertinente e punzecchiante. E intanto la bocca della stomaco mi si chiudeva e mi si seccavano le labbra. Non riuscivo a darmi pace: dovevo avere assolutamente qualcosa da mangiare. O meglio, da bere. Alzai uno sguardo ardente su Carlisle, seduto immobile sulla panchina di fianco a me. Sembrava una sfinge e non pareva minimamente turbato dall’accaduto. Voglio dire, avevo appena tentato di uccidere un uomo (il pensiero mi lasciava tutt’ora sconvolto) e ne bramavo ancora il sangue… e lui se ne stava lì seduto tranquillo ad aspettare che mi riprendessi dalla shock. Be’, non che sembrasse poi molto tranquillo, mi dissi appoggiando la testa al tronco dell’albero che mi sosteneva; continuava ad essere teso come le corde di un violino, con tutti i sensi allerta in attesa di cogliere anche solo un minimo rumore, come un felino a caccia. Non so di preciso come abbia fatto a trascinarmi fin lì contro la mia volontà: infatti, mentre correvamo via a perdifiato dal cimitero, sentivo che avrei potuto rivoltarmi contro di lui ed avere facilmente la meglio, visto che mi sentivo forte e devastante come un torrente in piena. Ma non l’avevo fatto. Forse perché erano successe troppe cose insieme e non ero riuscito ad incanalare le mie nuove forze nella giusta direzione, quella del sangue pulsante che mi chiamava insistentemente. O forse perché… non riuscivo a spiegarmelo: non riuscivo a spiegarmi perché fossi così attratto da quella nuova e strana fonte di sostentamento, non sapevo perché ero diventato improvvisamente così forte, veloce, dotato di sensi così fini, non capivo perché Carlisle si comportasse in maniera così strana, non potevo comprendere perché non fossi stato capace di versare lacrime per mia madre e onorarla del cordoglio che meritava. Era un ginepraio che non potevo più sopportare. E c’era sempre quell’odore, quel sapore quasi afrodisiaco che mi seguiva come una scia e che mi imponeva di tornare al cimitero e fare piazza pulita. Ma mi trovavo come in mezzo a due poli magnetici apposti: quello del sangue rosso e caldo e quello di Carlisle, che al momento mi pareva perfino più invitante. Sì, infatti lui possedeva le risposte.

Tentennai per un attimo e alla fine mi alzai dal tronco per andarmi a sedere sulla panchina di fianco al mio compagno. Ci trovavamo ancora nel parco, anche se dalla parte opposta con tutta probabilità, in un angolo appartato nascosto ai vialetti di solito più frequentati durante il giorno da grandi cespugli di biancospino, che in quel periodo erano fioriti ed emanavano a ondate un profumo dolciastro e delicato. Se non altro con quei fiori tutto attorno era più difficile pensare alla mia nuova tentazione… Mi appollaiai sul bordo della panchina di pietra e continuai a fissare Carlisle con lo stesso sguardo di fuoco di prima.

«Carlisle… Mi devi delle spiegazioni, parecchie spiegazioni». Quasi mi sorpresi del mio tono sicuro e coinciso con il quale ero andato direttamente al sodo senza i miei soliti tentennamenti.

Lui non si voltò neanche a guardarmi, come avevo notato che faceva sempre da quando mi ero risvegliato, anche se uno strano sorriso amaro gli sorse sulle labbra.

«Sapevo che l’avresti detto» sussurrò.

«Mi sembra il minimo dopo… dopo tutto». Non sapevo nemmeno come definirlo, quel cambiamento. Erano avvenute così tante cose tutte insieme.

Carlisle sospirò scuotendo il capo e lasciandosi perfino andare ad una risatina leggera e decisamente fuori luogo. Mi stava prendendo in giro? Senza neanche pensarci e preso all’improvviso da un impulso folle e animalesco, scattai in piedi e, camminando avanti e indietro davanti alla panchina spazzando con i piedi il terreno dalle foglie morte, mi misi quasi ad urlare.

«No, non mi devi delle spiegazioni, le pretendo! Cosa credevi, eh? Di potermi trascinare da una parte all’altra della città, fare il bello e il cattivo tempo senza dirmi niente? Niente?!?».

Ma lui continuava a fissarmi in silenzio, anche se avevo notato uno strano movimento delle sue labbra: era come se stessero tremando, indecise sulle parole da rivolgermi e quale segreto rivelarmi.

«Voglio sapere perché sono qui e non all’ospedale. Voglio sapere perché non sto morendo e non solo sembro in buona salute ma ho acquisito perfino delle strane capacità. Voglio sapere perché mia madre è morta e io sono ancora qui. Voglio sapere cosa sono diventato e cosa devo fare. Voglio sapere perché continui a tacere. E soprattutto voglio sapere perché… perché voglio bere sangue umano».

Dissi queste parole con tono appassionato e voce rotta, mentre fermavo il mio avanti e indietro. Carlisle si umettò velocemente le labbra con la lingua e mi fece segno di sedermi accanto a lui. Ora sembrava più disteso, anzi no, forse semplicemente consapevole di quello che doveva fare e come lo doveva fare. Potevo quasi osare affermare che avesse riacquistato un po’ della sua antica cera da dottore. Mi sedetti senza protestare.

«Dunque… da dove potrei cominciare?» esordì passandosi una mano sul mento con fare pensieroso.

«Dall’inizio?» suggerii timidamente.

«Be’, se dovessimo partire dall’inizio dovremmo tornare al 1600, anzi no, agli albori dell’umanità e sarebbe una storia abbastanza lunga».

«Non stiamo andando da nessuna parte e di tempo ne abbiamo quanto ne vogliamo, no?».

«Sì, hai ragione. Non sai quanto hai ragione».

Appoggiai i gomiti sulle ginocchia, bevendo ogni singola parola che fuoriusciva dalla bocca di Carlisle. Un brivido mi percorse la schiena: sentivo che sarebbe stata una storia interessante. Intanto il cinguettio di un usignolo ci provenne dall’oscurità dei cespugli di biancospino come un breve interludio musicale.

«Per prima cosa potresti dirmi cosa siam… sono» sussurrai.

«Cosa siamo, sì, hai detto bene. Be’, di sicuro anche tu avrai notato che non siamo creature totalmente umane: non ci vuole un genio per capirlo. Per quanto riguarda il resto… Da piccolo ti raccontavano mai le favole, Edward?».

Nel sentire pronunciare il mio nome un pizzicorino mi percorse il collo. Era per caso un'altra delle sue domande trabocchetto come quella sul buio? Una cosa era certa: quell’uomo riusciva sempre a cogliermi di sorpresa. Be’, uomo o qualunque cosa fosse.

«Sì, certo» risposi come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«Anche quelle che facevano paura?».

Esitai un attimo. A dir la verità le storie spaventose non erano mai state le mie preferite, anche perché, devo ammetterlo, ero sempre stato un bambino piuttosto fifone. Però ricordo qualche rara occasione in cui ne avevo origliata qualcuna, come durante le feste di Halloween. Mi rivedevo ancora, come se ne avessi davanti una fotografia, insieme ad alcuni miei amici in qualche stanza buia al lume baluginante di una sola candela nella nottata più spaventosa dell’anno a raccontarci storie dell’orrore a vicenda, sgranocchiando caramelle e altri dolciumi. E io, ovviamente, ero sempre quello rintanato nell’angolo più in disparte.

«…sì». La mia risposta arrivò un po’ in ritardo.

«E ti ricordi qualche personaggio in particolare?».

Mi spremetti le meningi cercando di ritornare alla diapositiva di prima, in quel tempo che sembrava appartenere a un’altra vita. Streghe, zombie, fantasmi… tutto ciò cosa c’entrava mai con me? Non credevo certo di portare un buffo cappello a punta e di volare su una scopa lanciando malefici oppure di infestare qualche antico castello spaventando a morte la gente nei loro letti.

«Ti ricordi se c’era qualcuno che… beveva sangue?».

Bastò quella parola, sangue, perché la risposta mi piombasse addosso come un ciclone. Ricordavo un Halloween in particolare quando Benjamin Hayley, il figlio dei nostri vicini di casa, aveva rubato a sua madre un vasetto di marmellata di fragole, dicendo che era indispensabile per rendere perfetto il suo travestimento. Ricordavo quando tra le risate mi aveva confessato che l’avrebbe utilizzato come sangue finto per il suo costume da…

«Edward».

La voce di Carlisle mi giunse come lontana anni luce e disturbata mentre iniziavo a tremare. Dunque ero… ero diventato…? No, non poteva assolutamente essere, senza dubbio doveva trattarsi di uno scherzo! Ma chi volevano prendere in giro? Quella roba era pura fantasia!

«Ci sei arrivato allora?».

«Credo… forse… Non ne sono sicuro».

«Magari se mi dici quello che stai pensando ne possiamo discutere».

Scossi la testa e abbassai lo sguardo in imbarazzo. «No, è solo una fantasia assurda».

«Be’, presto scoprirai che certe fantasie in realtà non sono poi così assurde. Dillo».

Chiusi gli occhi per un momento, tentando di mantenere la calma ed inspirando a fondo fino a riempirmi completamente i polmoni. Nel caso seppur remoto che quella fosse stata la verità e non una totale presa in giro, pensai, sarebbe stata la rivelazione più sconvolgente della mia vita. Senza contare che avrebbe spiegato molte cose.

«Su, coraggio» m’incitò ancora Carlisle.

Presi un altro profondo respiro per poi buttare fuori tutto, aria e parole, senza pensarci troppo.

«V... Vampiro».

Ecco l’avevo detto e ora? Aspettai con ansia una risata di scherno da parte di Carlisle davanti a quella mia teoria così avventata, ma nessun rumore provenne dal mio fianco. O magari l’avevo talmente sorpreso con la mia immaginazione così fervida da lasciarlo senza parole; si trattava giusto di qualche secondo e avrebbe lanciato un’esclamazione di sorpresa. Invece non udii altro che uno strano suono che non riuscii a classificare, forse si trattava di un grugnito, subito seguito da un borbottio sommesso.

«Bravo, Edward. Sei riuscito a sorprendermi, davvero. Non ti facevo così perspicace».

Sempre più impaurito e turbato osai lanciare un’occhiata nella sua direzione. Stava con le mani intrecciate dietro la testa comodamente appoggiato contro lo schienale della panchina, con i capelli biondi e fini che sfioravano il bordo di quest’ultimo, sul quale il capo era adagiato nell’immagine stessa della calma. Visti da quella prospettiva i suoi lineamenti sembravano ancora più affilati e perfetti, mentre la luce fredda di alcune stelle che facevano capolino tra le fronde alte degli alberi si rifletteva nei suoi occhi profondi come due pozzi senza fondo.

«Quindi non è uno scherzo?» dissi ma tacqui subito nel cogliere un tremore di paura nelle mia voce.

Solo allora Carlisle si decise a lasciar librare nell’aria qualche nota di una risatina rauca, quindi si tirò su dalla sua posizione semisdraiata per guardarmi dritto in faccia.

«Ti sembra che stia scherzando?».

Scossi immediatamente il capo visto che la risposta era sottointesa, dovevo ammetterlo. Anche se lo conoscevo da poco, non credevo che Carlisle fosse capace di scherzi di così pessimo gusto. O anche semplicemente di scherzi in generale, credo. Dunque era tutto vero: mi sembrava impossibile, incredibile. Era come camminare in un sogno dove qualunque cosa ti dicano, anche la più improbabile e fantasiosa come quella, era invece la verità e tu dovevi crederci incondizionatamente che ti piacesse o meno. Così cadeva anche quella debole consolazione a cui mi ero sempre aggrappato da bambino, in particolare quando mi scontravo con quelle storie di paura, secondo cui almeno nel mondo reale e razionale di tutti i giorni non dovevo temere creature demoniache del genere. E ora ero io stesso una di quelle creature demoniache: così avrei potuto mettermi paura da solo, pensai ironicamente. Eppure, a parte il fatto di aver bramato del sangue umano, non mi sentivo molto diverso da prima. Voglio dire, per certi aspetti ero ancora l’Edward Masen di una volta, con il suo carattere mite ed insicuro, le sue innumerevoli domande e paure. Non mi sentivo del tutto trasfigurato in uno di quei mostri di cui avevo tanto sentito parlare. Non mi sentivo il cattivo della situazione… e credevo che nemmeno Carlisle lo fosse. Ma probabilmente era solo questione di tempo prima che vedessi riflessa nello specchio la mia vera immagine, dovevo solo abituarmi alla mia nuova identità. E cosa sarei diventato? Cosa sarebbe stato della mia vita precedente, anzi della vita normale? Come potevo conciliare il leggendario e il quotidiano? È inutile dire che tutte queste nuove domande che iniziavano a germogliare nella mia mente più che incuriosirmi non facevano altro che spaventarmi ancora di più, mettermi addosso un’ansia terribile, tanto che mi venne il fiato corto e mi sentii soffocare. Ma tutto questo ruotava attorno a un’unica domanda fondamentale: cos’avrei fatto ora?

Intanto Carlisle era uscito dal suo guscio di silenzio e riservatezza per instaurare un lungo e complicato discorso, che il mio cervello seguì soltanto a metà talmente era occupato a tentare di mettere un po’ di ordine tra tutte quelle idee. Lo sentii che diceva che sapeva benissimo come mi sentivo, frastornato ed impaurito, perché c’era passato anche lui ormai qualche secolo fa. Così mi raccontò con calma la sua lunga storia. Era nato a Londra negli anni Quaranta del diciassettesimo secolo, figlio di un pastore anglicano accanito sostenitore della caccia alle streghe, sua madre era morta di parto, mentre lui era stato destinato a continuare la carriera del padre nella persecuzione dei cattolici, dei seguaci delle altre religioni e soprattutto delle incarnazioni del male. Questo finché il “Male” non era venuto a bussare alla sua porta. Aveva ventitre anni, l’età che effettivamente dimostrava ancora, notai con un certo sconcerto, quando in una di queste cacce s’imbatté in un covo di veri vampiri, ben diversi da tutti gli altri poveri innocenti ingiustamente accusati di avere a che fare con il maligno. Nella colluttazione che ne seguì cadde vittima di uno di loro e, morso, si rifugiò in una cantina dove attese. Attese tre giorni e quando ne uscì non era più quello di prima, disse. Viaggiò molto in Europa, passò la Manica ed arrivò in Francia e in Italia, per approdare alla fine lì in America. Fin dal primo istante era rimasto disgustato e turbato dalla sua nuova natura, proprio come stava accadendo a me, e soprattutto non sopportava di dover nutrirsi di sangue umano e quindi uccidere per il proprio sostentamento. Voleva rendersi utile: studiò giorno e notte e diventò medico, così almeno avrebbe potuto dare un senso a quella sua nuova esistenza immortale e sovrannaturale. E così aveva incontrato me. Era perfino riuscito a non dipendere più dagli omicidi per la sua sussistenza, nutrendosi invece di sangue di animale. Ovviamente non era la stessa cosa e nei primi tempi era stato difficile abituarsi a quella nuova dieta “vegetariana”, come la chiamava lui. Però, con gli anni aveva perfezionato la tecnica e ora era quasi del tutto immune da quella tentazione. Anch’io con il tempo avrei potuto raggiungere un livello di autocontrollo pari al suo e convivere bene con la mia nuova identità, senza avere la coscienza sporca di crimini intollerabili e riuscendo a convincermi di non essere un mostro terribile. Comprendeva i miei sentimenti in quel frangente, continuò, più di quanto credessi e disse anche che non dovevo preoccuparmi per il futuro perché avrebbe pensato lui a me. Avremmo lasciato al più presto quella città, che ormai non significava più niente né per lui né per me. Ormai, mi ricordai con una certa amarezza, non avevo più nessuno ad aspettarmi a casa, senza contare che gli ultimi rimasti che mi conoscevano probabilmente mi davano per morto. Una vita intera sfumata in poche notti. Saremmo andati lontano e avremmo iniziato una nuova vita, perché forse era meglio che dimenticassi tutto e, anzi, mi rendessi conto di quanto fossi fortunato ad essere ancora “vivo”. Saremmo stati una famiglia, dovevo solo fidarmi di lui; avrei abbandonato il mio vecchio cognome di Masen per prendere quello di Cullen e mi sarei presentato come il fratello minore di Carlisle. Ma come potevo accettare tutto ciò così su due piedi? Fino a un paio di giorni prima ero un umano qualsiasi e ora mi ritrovavo Edward Cullen il Vampiro. Carlisle continuava a tracciare a grandi linee il nostro futuro con notevole entusiasmo; diceva che era felice di avere finalmente un compagno con il quale condividere i suoi segreti dopo così tanti anni, anzi secoli, di solitudine. Ma io pensavo ad altro.

«Perché mi hai trasformato?» sbottai all’improvviso interrompendolo.

Lui si zittì e tutto l’entusiasmo che aveva accumulato fluì via in un secondo, mentre si soffermava a guardarmi a bocca aperta. Di certo non si sarebbe mai aspettato una domanda del genere.

«Perché non mi hai lasciato al mio destino?». Come doveva essere. Perché?

Era letteralmente rimasto a bocca aperta, con lo sguardo smarrito perso nel vuoto: forse era la prima volta che lo coglievo impreparato. Intrecciò le dita sotto al mento ed esitò un momento prima di rispondere.

«Nella mia lunga esistenza ho incontrato tante persone, tanti malati come te. Però… a essere sincero non so darti una risposta precisa. Forse è stato egoismo o forse qualcosa di più. Fatto sta che appena ho incontrato te e tua madre ho subito capito che avevate qualcosa di diverso dagli altri. Come ti ho già detto, è tanto tempo che cerco un compagno, ma non ho mai avuto il coraggio di fare a qualcun altro quello che hanno fatto a me. Lo trovavo sbagliato».

«Allora perché con me…?».

«Te l’ho già detto. Non mi sono mai affezionato così profondamente e in così poco tempo ad una persona. E non potevo sopportare di vederti morire… lì, ancora così giovane ed innocente. Forse perché ti amavo troppo: ormai eri diventato come un figlio per me; un figlio di cui non potevo fare a meno di prendermi cura. Non potevo lasciarti andare, Edward, anche se ciò voleva dire addossarti il peso che anch’io porto».

«Ma perché solo io?!?» esclamai. «Perché io sì e lei no?».

Gli occhi di Carlisle si fecero se possibile ancora più profondi, inghiottendo le mie parole con pacata razionalità. «Non hai idea del tormento, dell’indecisione… Da una parte mi dicevo che non era giusto assistere così indifferente alla morte di due innocenti, ma dall’altra consideravo anche che non era meno sbagliato rubare le vostre vite senza permesso. Ma poi tua madre mi ha convinto che anche quella, la scelta di trasformarti, era di certo meglio al nulla a cui stavate andando incontro. Ma purtroppo per lei era già giunto il momento… Mi rimanevi solo tu e non potevo assolutamente venire meno alla promessa che le avevo fatto di salvarti».

All’improvviso sentii bruciarmi gli angoli degli occhi come se vi si fosse insinuato del sale o della sabbia. Sentii le lacrime premere invano contro le palpebre per uscire e sforzarsi per appannarmi anche solo un poco la vista. Indubbiamente le intenzioni di Carlisle erano state buone e generose nei miei confronti, ma io ancora stentavo a credere che quella fosse la mia strada. Dopotutto quando ero malato avevo passato la maggior parte del mio tempo a convincermi che quella sarebbe stata la mia fine, tanto che quest’idea mi si era profondamente radicata sotto la pelle ed ora era difficile se non impossibile estirparla. Quella era una deviazione che non avevo previsto e a cui mi sarei dovuto abituare, anche se non era il tipo di esistenza a cui aspiravo. Sarebbe già stato difficile abituarsi all’idea di appartenere ancora al mondo di qua, figurarsi digerire quella di essere un mostro, un vampiro bevitore di sangue e creatura della notte. Però Carlisle aveva ragione, avrei potuto imparare ad essere come lui e ad apparire normale e quasi umano.

«E tu credi che diventare un mostro sia preferibile alla morte?» domandai e quella forse era uno dei quesiti che mi premevano di più.

Il mio amico non rispose subito, bensì mi si fece un po’ più vicino e mi passò un braccio attorno alle spalle con fare paterno e riprese a parlare solo dopo essersi avvicinato al mio orecchio tanto che potevo udire il suo respiro leggero.

«Sarò sincero con te, Edward, giusto perché ormai ti considero come un figlio. Non lo so. Non so cosa sia la morte non avendola mai provata e quindi non posso fare un paragone oggettivo. Però so che a noi è stata data un’alternativa, quella di essere vampiri. C’è la vita, la morte e l’essere vampiri. Per moltissimo tempo mi sono odiato per la mia natura, perché credevo di essere un abominio della natura: mi chiedevo quale bene potesse mai costituire una creatura che beve sangue. Apparentemente nessuno, mi ero più volte risposto. Ma poi sono diventato medico, ho scoperto uno nuovo stile di vita eticamente corretto e sono giunto alla conclusione che, se anche i vampiri sono gli esseri malvagi per antonomasia, questo non è corretto in tutti i casi. Tu sei ancora molto giovane, Edward, ma con il tempo capirai che non sempre quello che a prima vista sembra sbagliato lo sia davvero; spesso si tratta solo di apparenza e pregiudizi».

«Sì» risposi. «Ma non hai ancora risposto alla mia domanda».

«Be’, per forza! Ho già detto che non posso rispondere. Comunque nel tuo caso ho deciso per questa via, anche se è stata una decisione terribilmente sofferta di cui ancora adesso sono incerto, perché ritenevo che tu meritassi di più di un cimitero. Non mi piace al gente che teme la morte e fa di tutto pur di rinviarla e non credo di essere di quella schiatta, ma penso di saper riconoscere quando è giunto il momento di un’anima. E in ospedale ho capito che non era il tuo momento. Non chiedermi perché, lo sapevo e basta».

«Be’, se in ospedale non era ancora giunto il mio momento, quando lo sarà? Hai detto che siamo eternamente giovani ed immortali, no? Ciò significa che non sarà mai più il mio momento, che sarò intrappolato qui per l’eternità nel corpo di un diciassettenne. Questo vuol dire che non rivedrò mai più le persone che ho amato in paradiso… che sarò per sempre separato da loro». Ora la mia voce aveva acquistato una sfumatura di rabbia e di amarezza mentre l’immagine sorridente di mia madre mi baluginava davanti agli occhi come un fantasma fatto di vapore proveniente direttamente dall’aldilà.

«Solo perché viviamo a lungo non vuol dire che non possiamo morire… essere uccisi» sussurrò ancora Carlisle al mio orecchio, ma quasi non lo udii.

«Anche se fosse credi che ci sarebbe mai un posto in paradiso per noi, Carlisle?».

Lui non rispose e per l’ennesima volta cadde il silenzio, in cui però aleggiava una mezza risposta.

«Te lo dico io: no. Cosa credi? Guardami, guardaci! Siamo vampiri e anche se possiamo decidere per un'altra strada rimaniamo pur sempre progettati per uccidere e per bere sangue! Tuo padre era un pastore, ti ho sentito pregare… quindi credo che tu sappia meglio di me in cosa consista un peccato capitale». Ero affannato, mi era venuto il fiatone come se avessi corso per chilometri e in uno scatto repentino mi staccai dal mio amico, alzandomi in piedi ed allontanandomi dalla panchina.

«Ma lassù ci giudicano per quello che facciamo, non per chi siamo» rispose lui con il capo chino

Sospirai. «Se fossi stato ancora Edward Masen non avrei mai desiderato sangue umano».

 

La casa era silenziosa e vuota. Le luci esterne proiettavano sulle pareti sbiadite strane forme in un divertente gioco di ombre cinesi. Ormai era quasi l’alba: potevo scorgere il cielo colorarsi di rosa al sopraggiungere dell’aurora attraverso le fessure delle persiane del salotto. Carlisle era tornato in ospedale per dare le dimissioni e sarebbe tornato di lì a poco, magari con qualche animale che avrebbe potuto placare il mio appetito lacerante. Perciò mi trovavo da solo in casa, in quello stesso salotto dove pochi giorni prima avevo abbandonato le mie spoglie mortali; si potevano scorgere ancora parecchie tracce di sangue rappreso, il mio, sul divano e sul pavimento, ma non avevo il coraggio di mettermi a pulire nell’attesa. Presto saremmo partiti per un’altra città e una nuova casa mi avrebbe fatto dimenticare quelle poche stanza buie. Mi alzai dalla mia posizione rannicchiata nel vano della finestra ed iniziai a vagabondare per la stanza: ero curioso di fare una prova. Volevo proprio vedere se certe dicerie erano vere oppure solo leggende. In fondo alla stanza, subito dietro la porta, c’era uno specchio grande quanto me, con un’antica cornice in legno di ciliegio decorato a volute. Mi ci piazzai davanti a occhi chiusi. Pian piano ne aprii uno e costatai che c’era qualcosa riflesso nello specchio: dunque voleva dire che la leggenda secondo cui vampiri e streghe non possono specchiarsi non era altro che una baggianata. Soddisfatto della scoperta schiusi anche l’altro occhio e quando, tranquillizzato, feci per tornare al mio angolo, fui colto invece di sorpresa. Chi era mai l’individuo riflesso su quella superficie? Non mi assomigliava affatto. Tornai a fissare quella che doveva essere la mia immagine letteralmente a bocca aperta. L’unica cosa che riconobbi erano le occhiaia che ormai mi accompagnavano da tempo, da quando la malattia mi aveva accolto tra le sue braccia. La carnagione, però, pur nel suo candore, non aveva più quella sfumatura grigiastra e malaticcia, bensì aveva acquistato la lucentezza della perla e la pelle al tatto era più morbida del velluto più pregiato. I capelli ramati e scompigliati avevano molte più sfumature di rosso di quante parevano esistere in natura. I lineamenti parevano raddrizzati e limati e il mio nuovo volto geometricamente perfetto assomigliava a una di quelle antiche statue greche. Anche il fisico aveva subito parecchi cambiamenti: ero più magro, leggermente più alto e dinoccolato ed atletico. Potevo sentire i muscoli delle braccia e del petto guizzare appena sotto pelle. Sarei potuto rimanere lì a rimirare la mia immagine per ore: il contorno delle labbra, del mento, i denti bianchissimi e affilati. Se non fosse che un particolare mi ricordò il perché di quel cambiamento. I miei occhi avevano ormai del tutto abbandonato il verde giada che li aveva caratterizzati nella mia vita precedente e davanti al quale ogni ragazza non poteva fare a meno di sospirare: ora erano rossi.  Non color ambra come quelli di Carlisle, ma rossi come braci ardenti: gli occhi di un demone. Mi allontanai spaventato dallo specchio con un salto e tornai nell’angolo vicino alla finestra, ansante. Un vampiro, mio Dio, ero un maledetto vampiro succhiasangue! Mi coprii quegli occhi immondi con le mani, rannicchiandomi con le ginocchia pigiate contro il petto, quasi sperassi si sparire per sempre. Poi, unico rumore proveniente dalla strada sopra il ronzio delle prime macchine che iniziavano a circolare e allo sbattere di qualche imposta, mi giunse una voce stonata e roca. Sicuramente si trattava di un ubriaco, pensai. Sì, un ubriaco che non ancora stanco della sua notte di bevute aveva scelto proprio quell’angolo di strada per cantare la sua serenata stonata e cacofonica. Era la musica peggiore che avessi mai udito, ma le parole, probabilmente inventate sul momento, mi arrivarono al cuore come un dardo.

Tell me angel, tell me why

Why I can’t recognize this world, this town

This awful hands beyond my eyes

Forse perché nemmeno io riuscivo a riconoscermi.

Ok aggiorno di corsaaaaa! Capitolo piuttosto lungo anche perchè le cose da dire erano milioni e mi scuso per il solito ritardo ma questa volta è stata anche colpa dell'ispirazione che faceva le bizze. Spero di aver reso bene la scena, di non aver saltato parti importanti che magari potevo approfondire e di non essere stata troppo noiosa. Il prossimo chap si baserà sui diari di Edward, per ora non dico altro: sopresa! Ho notato che siete stati scarsini con le recensioni questa volta eh? Be' almeno questo recensitelo per bene! Ringrazio: Wind e Jadis96 (mi dispiace non poter stare qui a discutere di più sulla tua domanda ma davvero vado di corsa; comunque all'inizio del chap c'è la risposta: spero sia abbastanza esauriente! scusa!).

Al prossimo!

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Capitolo 9
*** Wandering ***


Capitolo 9°

Wandering

 

 

Ashland, Wisconsin

12/9/1918

Caro diario,

è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ti ho scritto. Ma non solo l’acqua che scorre sotto i ponti è cambiata; abbandonando Chicago credo di essermi lasciato la mia intera esistenza umana alle spalle. Il problema è che non penso di aver lasciato in quella città solo il vecchio nome e l’identità sbiadita di Edward Masen: insieme al suo battito ormai perduto il mio cuore ha abbandonato in quel luogo, probabilmente sulla tomba di mia madre, anche un suo frammento. Cerco di tenere occupata la mente e di non pensare a ciò che ero poco più di un mese fa: non mi sono ancora misurato con i miei nuovi demoni, ma credo che prima o poi dovrò farlo. Per il momento mi limito a far scorrere il tempo e gli eventi sul mio nuovo corpo che mai cambierà. Sarà difficile accettare la mia nuova natura, lo so e Carlisle stesso me l’ha confermato, e ho paura di dover affrontare questo passo, perché significherebbe smettere definitivamente di giocare all’umano, come sto facendo tutt’ora.

Mi piace la nuova casa che ha preso Carlisle e nella quale ci siamo stabiliti ormai da un paio di settimane. È una piccola villetta a schiera, circondata da tante altre di chiari e piacevoli colori pastello, e dalla piccola finestrella della mansarda si possono perfino scorgere, al di là di una miriade di tetti e di giardinetti ordinati con le siepi ben curate, le placide acque del vicino Lago Superiore. Il mio amico ha già cominciato a lavorare nel piccolo ospedale locale, mentre io divido il mio tempo tra la nostra nuova dimora e le piccole stradine moderatamente affollate della città. E penso. Credo di non aver fatto altro da quella fatidica notte nel parco. È buffo perché cerco con tutte le forze di non affondare la lama in quelle ben note ferite che non accennano a rimarginarsi, eppure non posso fare a meno di rievocare tutte le diapositive possibili dell’ultimo periodo. Sul fronte “bere sangue” le cose procedono meglio di quanto pensassi. Ora mi nutro principalmente del sangue dei piccoli animali che riesco a scovare nella campagna appena fuori la cittadina e, in caso di emergenza, di alcune scorte che Carlisle riesce a procurarmi tramite l’ospedale. La tentazione del sangue umano è ancora molto forte e nei primi giorni mi ero adirato non poco con il mio nuovo compagno per il fatto di aver scelto una casa così vicino ad altri esseri umani. Secondo i miei criteri sarebbe stato più adatto un vecchio castello smarrito nel selvaggio e lontano mille miglia da ogni centro abitato. Ancora adesso, anche quando li incrocio per strada, non riesco a stare vicino a un essere umano per più di qualche secondo senza che mi sorprenda l’impulso di prenderlo alla gola. Per questo passo molto tempo rinchiuso in casa; ma Carlisle crede in me e dice che tra non molto riuscirò a controllare meglio i miei istinti. Una delle cose che più mi rammarica di aver lasciato a Chicago è il mio vecchio diario; per questo ne ho iniziato uno nuovo. Chissà se è ancora là in ospedale di fianco al mio letto? O magari qualcuno l’ha buttato al macero insieme a tutti i miei pochi e poveri averi che ho lasciato là. Ma forse, mi dico per consolarmi, è meglio così. Quelle erano soltanto le righe di un ingenuo umano ormai rassegnato ad addormentarsi per sempre nelle braccia della morte, senza sapere cosa sarebbe accaduto di lì a poco, senza sospettare quale deviazione avrebbe preso la sua vita, senza riuscire a scorgere le molte realtà oscure che in breve l’avrebbero travolto. Il cambiamento di tono sarebbe stato troppo stridente.

Oggi è una delle ultime giornate di sole dell’estate e già l’aria frizzante dell’autunno inizia a farsi sentire. Non c’è una nuvola in cielo e il blu del cielo rispecchia fedelmente quello della superficie leggermente increspata dello sconfinato lago… e io non posso assolutamente uscire. Infatti ho presto scoperto che noI vampiri alla luce del sole non ci sciogliamo come dicono le leggende, bensì risplendiamo come le sfaccettature di un diamante: per questo dareI troppo nell’occhio aggirandomi tra la gente. Non so per quanto tempo ci fermeremo qui, anche se dai programmi di Carlisle posso facilmente dedurre che non andremo molto lontano per almeno tutto l’inverno. E la cosa non mi preoccupa affatto, anche perché Ashland inizia a piacermi davvero. Sarà forse anche per il nome (“terra di cenere”), ma mi pare che sia un buon posto dove rinascere. Rinascerò dalle mie ceneri come l’araba fenice, trovando un nuovo senso alla mia esistenza, proprio come Carlisle. Magari potrei rimettermi a studiare per ottenere una laurea che mi permetta di rendermi utile alla comunità e sentirmi meno diverso. Sì, qui rimetterò insieme le mie ceneri mortali per lanciarle negli occhi del mostro che si nasconde nei meandri del mio cuore. E sconfiggerlo.

 

Ashland, Wisconsin

8/3/1921

Caro diario,

non so più che cosa pensare. Le paure, le ansie e i sospetti che avevano minacciato di adombrare la mia nuova vita, che iniziava già a prospettarsi se non serena e ridente almeno vivibile e tranquilla, si fanno via via più concrete con i giorni che passano. Alla fine Carlisle si è deciso a portare la sua nuova amica a casa nostra, ovviamente senza tenere assolutamente conto della mia opinione e dei miei avvertimenti un poco preoccupati. Esme è in assoluto la persona più dolce e benevola che abbia mai incontrato e il suo sorriso ha portato una nuova ventata d’aria fresca e gioia di vivere tra le pareti spoglie della nostra casa. Ma nonostante dimostri ogni secondo la sua gratitudine e il suo profondo anche se recente amore per Carlisle, apparentemente non preoccupata di essersi trasformata in un essere tenebroso, un vampiro, come lo ero io, non riesco ancora ad accettare la sua presenza. Mi sento diffidente… come un cane di fronte a un nuovo arrivato. Fiuto l’aria in cerca di qualche cosa fuori dalla norma che però non riesco a trovare. Forse perché in questi pochi anni (oddio, siamo già passati a contare il tempo in anni?) mi ero troppo abituato a considerare la sicurezza e la tranquillità sotto l’unico nome congiunto di me e Carlisle. Senza nessun altro. Carlisle dice che Esme saprà essere una buona madre per me e che entrambi avremmo finalmente ritrovato quello che la crudeltà del mondo ci aveva portato via. Lei avrebbe ritrovato in me il figlio morto prematuramente che l’aveva portata a decidere per l’estremo gesto di buttarsi da una scogliera (che poi le avrebbe fatto incontrare Carlisle all’ospedale). E io finalmente avrei avuto una figura materna come punto di riferimento. In effetti per molti versi Esme mi ricorda mia madre, nonostante eviti categoricamente di fare paragoni. Magari è proprio per questo che faccio fatica ad accettare la nostra nuova convivenza a tre: nel sorriso di Esme rivedo quello di mia madre, lo stesso sorriso che dopo tanto tempo ero riuscito a relegare nella parte più remota della mente per non esserne più ferito. Quindi mi ritrovo combattuto tra due fronti: quello di oppormi categoricamente a quel cambiamento e quello di lasciare che il finto fratello del signor Cullen si rallegri per il suo prossimo matrimonio. Ed è proprio questo il punto che, oltre al suo animo dolce come il miele, non mi permette di odiare Esme. Vedo il volto di Carlisle, che da quando lo conosco è sempre stato oppresso da mille pensieri e preoccupazioni, distendersi, i suoi occhi accendersi della luce del paradiso e socchiudersi ogni volta la delicata voce di lei pronuncia il suo nome. Che diritto ho io di privarlo di questa felicità dopo secoli di solitudine? Che mostro sarei a spezzare quest’incantesimo che mi lascia stupefatto? Non mi ero forse ripromesso di ricercare la bontà per allontanarmi dalle tenebre? Non posso in alcun modo rimproverare a Carlisle di averla salvata come aveva fatto con me.

Esme è la torcia della speranza che entrambi aspettavamo ormai da tempo.

 

Concord, New Hampshire

19/10/1927

“Why should we be in such desperate haste to succeed and in such desperate enterprises? If a man does not keep pace with his companions, perhaps it is because he hears a different drummer. Let him step to the music which he hears, however measured or far away”

 

Scappare. Devo assolutamente andarmene. Questa esistenza mi sta ormai stretta. Forse altrove troverò quel che cerco. Addio.

 

Newark, New Jersey

23/11/1929

Caro diario,

é tempo di guardarsi alle spalle e tirare le somme. Undici anni da vampiro e ormai due lontano da casa. E la Domanda mi sorge spontanea: ho trovato quello che stavo cercando? Anzi, cosa stavo cercando? No, scusa, non stavo piuttosto scappando? Non lo so. Probabilmente sì. In questi due anni in cui non ho più sentito Carlisle ed Esme ho scritto ben poco. Mi piacerebbe sapere come stanno, ma, come spesso mi capita, sono combattuto tra due idee. Infondo sono stato io ad andarmene, no? Che figura ci farei a ripresentarmi non aspettato con la coda tra le gambe dopo tutto quello che ho detto? Non ho voglia di recitare la parte del caro figliol prodigo che ritorna a casa. E poi… casa? Io non ho più una casa. La mia dimora è la strada; un letto sempre diverso ogni notte e una tavola con cibo diverso quasi ogni settimana. No, non posso assolutamente tornare, mi costringo a pensare con fermezza. È stata una scelta mia, proprio come quando Carlisle ha scelto di non cibarsi di sangue umano o di trasformarmi in vampiro. Ormai dopo quasi dieci anni di astinenza non potevo più sopportare quella fame lacerante, il desiderio sempre represso che non riusciva mai a trovare una minima valvola di sfogo. Avevo sempre saputo di non essere tagliato per la vita monacale fatta di rinunce e alla fine il vampiro desideroso di sangue umano è saltato alla ribalta. Mi sento una specie di Oliver Twist o Jack London alla ricerca dell’oro a vagare per i sobborghi bui e spesso sporchi di tante città diverse. Non sto mai fermo in un luogo per più di qualche giorno, una settimana al massimo, e il fuoco e l’ardore che mi spingono a muovermi sempre più spesso mi fanno assomigliare ad un irrequieto adolescente scappato da casa per sfuggire alle regole opprimenti e alle menzogne della società. Infondo è proprio quello che sono: un adolescente che mai crescerà, ma rimarrà per sempre imprigionato in questo corpo da diciassettenne.

Non riesco a sentirmi veramente in colpa per le mie innumerevoli e recenti vittime, anche se forse un giorno lo sarò. Ma ho trovato un metodo infallibile per mantenere candida la mia coscienza: con la mia unica capacità di leggere nel pensiero, che ho saputo affinare soprattutto in quest’ultimo periodo, posso distinguere la gente onesta e innocente da quella con l’anima ben più sporca della mia. Quindi, diciamo così, nonostante continui a basare la mia sopravvivenza sugli omicidi, ho trovato comunque il modo di rendermi utile alla comunità. Ripulisco i sobborghi da tutta quella gente malvagia, ladri, assassini, stupratori, che potrebbero minare la felicità di qualcun altro: almeno così sarò sicuro che qualcun altro potrà apprezzare quella gioia che invece è stata negata a me. E mi aggiro tra stradine buie in cerca della vittima giusta, magari sorprendendola proprio in flagranza di reato, come un terribile ma bellissimo angelo della morte.

Così continuo a trascinare su questa terra il mio cuore pieno di tormento, chiedendomi se sarà così per sempre. Non riesco a provare nostalgia per la mia vita con Carlisle ed Esme in una bella casetta pulita e luminosa, forse perché ora posso esprimere la mia vera natura, pur terribile che sia. E, come disse qualche saggio vecchio, esprimere la nostra natura non ci porta al compimento del nostro compito terreno? Alla realizzazione del nostro Io? Bene, il mio Io allora sarà un’ombra sfuggente e silenziosa, che si aggira tra la fitta nebbia di novembre macchiata di sangue.

 

Cleveland, Tennessee

15/7/1935

Caro diario,

la famiglia Cullen pare stia diventando sempre più numerosa: ora siamo in cinque e il piccolo appartamento i piedi delle montagne sta iniziando a risultare un po’ troppo stretto. Cosa c’è di meglio di un altro vampiro assetato di sangue da tenere a bada? Giusto per mantenerci un po’ sul chi vive… Se non altro Rosalie sembra felice e da quando il nuovo arrivato si è finalmente svegliato lei non può fare a meno di stargli attaccata ogni singolo secondo. Il ragazzo, che non dimostra più di vent’anni, ha detto di chiamarsi Emmett e di essere stato attaccato da un orso mentre era a caccia nei boschi, come tutti abbiamo potuto notare vedendo il terribile stato in cui Rose l’ha riportato a casa dopo una battuta di caccia. Come la mia nuova sorella acquisita, anche questo Emmett sembra non riuscire a staccare gli occhi dalla sua salvatrice: ci ha raccontato di averla vista scendere su di lui come uno splendido angelo. Esme è entusiasta di avere un altro figlio di cui occuparsi, mentre invece Carlisle si è fatto un po’ cupo e pensieroso, arrovellandosi sul modo migliore per mettere a conoscenza il nuovo arrivato di cosa sia diventato dopo la trasformazione. Infatti se Rosalie non l’avesse portato subito da lui, pregandolo in ginocchio di fare qualcosa, anche trasformarlo in vampiro, pur di salvarlo, di certo il povero Emmett sarebbe già rigido come uno stoccafisso a causa della gravità delle ferite riportate. Appena l’ho visto, uscendo dal silenzio della mia camera e dai miei libri di medicina, mi ha fatto subito pensare a un grande orso. In senso positivo, ovviamente. Probabilmente il genere di fratello maggiore che mi sarebbe piaciuto avere e che magari sarebbe riuscito a farmi togliere il naso dai miei testi universitari per ritrovare la leggera ebbrezza dell’adolescenza. Quella vera. Sì, perché, da quando sono tornato, ogni giorno che passa mi rendo viepiù conto del madornale errore che avevo fatto nell’abbandonare Carlisle ed Esme. Alla fine, dopo ben quattro anni di solitudine, mi ero reso conto che quello che andavo cercando non solo non l’avrei mai trovato ma nemmeno esisteva, non sapevo neanche cosa fosse. E così il grande focolare che mi aveva fatto muovere continuamente per mezz’America si era gradualmente spento e avevo realizzato che non ero il vendicatore invisibile, bensì che appartenevo ai Cullen, a Carlisle, ad Esme e a tutti quelli che sarebbero venuti in seguito. E con l’arrivo di Rosalie due anni fa la mia tesi non poteva fare a meno di rafforzarsi: quello era l’unico posto che potevo chiamare casa e quelle le uniche persone che mi avrebbero amato incondizionatamente.

Dopo Carlisle ed Esme, penso appoggiato allo stipite della porta del salotto osservandoli di nascosto, anche Rosalie ha trovato finalmente la sua ragione di vita. Dopo essere stata picchiata, stuprata e abbandonata in mezzo a una delle tante anonime strade di Rochester, New York, dall’unica persona che amava alla follia e che credeva l’amasse altrettanto appassionatamente, di certo Rose si merita più di ogni altro di ritrovare la felicità. Possibilmente con qualcuno di sincero, come Emmett si è mostrato fin dal primo istante. Con quella persona speciale che di certo non potevo essere io, come avevano creduto in principio i miei finti genitori adottivi. Forse per impedirmi di scappare un’altra volta o per non vedermi sempre rimuginare su cosa sono o non sono, Carlisle ha sempre cercato di trovarmi una compagna. Ma Rosalie, con il suo carattere fiero e la sua vanità quasi ossessiva, non era certo il mio tipo ed ora sono quasi felice che si sia orientata verso qualcun altro. E questo ora può vederlo anche lui, Carlisle, penso lanciando uno sguardo carico di significato al mio primo vero amico.

Quindi adesso siamo due coppie e uno scapolo: bene. A volte mi chiedo… No, sono solo pensieri insulsi… Però, mi chiedo: arriverà mai nessuna che possa essere quello che Esme è stata per Carlisle ed Emmett per Rosalie? Ripenso alla misteriosa ragazza del sogno o quello che era: sembrava così reale… Ci ho pensato spesso in tutti questi lunghi anni e la sua immagine brillante non è mai stata offuscata dal passare del tempo. Ma il problema rimane che quella ragazza sicuramente non esiste e non posso innamorarmi di un sogno che non tornerà mai più. In queste occasioni non posso fare a meno di sospirare con un certo rammarico, ma poi, per risollevarmi, mi dico che sto bene così, da solo. Sono troppi i pensieri che mi frullano per la testa e non credo che una sola persona riuscirebbe a reggerli tutti. E così cammino da solo, la mia ombra circondata da altre quattro che si stringono per mano, i loro volti vicini, i capelli che si sfiorano. Ma non c’è nessuna ombra a tenere la mano della mia.

 

Great Falls, Montana

11/4/1950

Caro diario,

ma dico, come si permette???? Quel… quel piccolo mostriciattolo! Sorvolando sul fatto che mi ha fatto prendere uno dei più grandi spaventi della mia vita quando è spuntata all’improvviso tra gli alberi insieme al suo amico, compagno o quel cavolo che è  mentre io ed Emmett eravamo a caccia, non posso assolutamente tollerare la leggerezza con cui mi ha spodestato. Voglio dire, quella era la mia camera! La MIA, ok? E dentro c’era tutta la roba del sottoscritto Edward Cullen, che ora, invece, è stata brutalmente relegata in garage. Mentre quella sottospecie di folletto demoniaco salta sul MIO divano, riempie con la sua roba la MIA scrivania e i MIEI scaffali, sbatte in un angolo il MIO tappeto preferito e fa spallucce quando le chiedo che fine abbia mai fatto tutta la MIA roba. E chi cavolo le ha dato il permesso di installarsi in casa MIA?!? No, non posso tollerarlo! Questo l’ho urlato anche a Carlisle, supplicandolo, o meglio obbligandolo con espressioni colorite, di sbattere quei due fuori di lì. Ma lui, come al solito, non mi ha dato ascolto e, invece, sempre più incuriosito, ha insistito per avere maggiori informazioni da quei due, da dove venivano, chi erano, come ci avevano trovati. E anche io non posso fare a meno di guardare con una certa deferenza e curiosità quella strana coppia di vampiri. La piccoletta che mi ha appena occupato la camera si chiama Alice e l’altro, invece, dall’aria più pacata e lo sguardo attento, Jasper. Non posso in alcun modo levarmi dalla testa il nostro primo incontro nella foresta, quando senza tanti preamboli mi aveva salutato e chiamato per nome. Ovviamente ero rimasto di sasso: come faceva a sapere come mi chiamavo? E subito dopo, arrivati a casa, aveva chiesto ad Esme di indicarle la sua stanza, come se vivesse lì da sempre e fosse appena tornata dopo essersi assentata per qualche ora per fare compere… Conosceva tutti i nostri nomi, le nostre storie, la nostra casa e il suo compagno, ricoperto da cicatrici e ferite di battaglia, mi incuteva lo stesso timore. Non ho ancora avuto occasione di sentire la loro storia, ma sono certo che sarà interessante. Spero proprio che non si trattengano a lungo, perché altrimenti dovrei dividere la camera con Rosalie ed Emmett… e non è la prospettiva della mia vita. Però ho i miei dubbi al riguardo: se fosse solo una breve visita non avrebbe preso la mia stanza, giusto? La prospettiva che quei due si uniscano alla nostra famiglia mi fa rabbrividire. Voglio dire, il tipo, Jasper, sembra a posto, anche se forse un po’ troppo taciturno. Ma lei… È qui da neanche mezza giornata e già non la sopporto più. La sua parlantina irrefrenabile mi fa venire il mal di testa e vederla aggirarsi per casa rimbalzando come una pallida da tennis impazzita non aiuta di certo. Assomiglia terribilmente a uno di quei mostruosi giochi a molla che spaventano tanto i bambini: non credo che la nostra sarà una convivenza pacifica. Non sopporto che quel folletto mi ronzi intorno tutto il giorno, prevedendo ogni mia mossa, ogni mio pensiero o parola e riuscendo sempre ad avere la meglio. Anche Rose sembra pensarla come me, mentre Emmett si diverte come un matto a prenderla in giro per la sua statura minuta: contento lui… Carlisle ed Esme come sempre, invece, non fanno una piega e si dimostrano disponibili ed ospitali, ma sospetto che lo sarebbero anche se si presentasse alla porta un barbone ubriaco marcio che non si lava da mesi. Oddio, per quanto durerà questa tortura?

 

Virginia Beach, Virginia

5/12/1982

Caro diario,

la spiaggia è deserta e finalmente con un po’ di pace e solitudine riesco a scriverti con calma. Non ho mai avuto molte occasioni di osservare così il mare come da quando ci siamo stabiliti qui qualche mese fa. La striscia di sabbia disegna una linea perfetta e sinuosa, lambita dalle deboli onde del mare color cobalto. Un leggero vento salmastro ne accarezza la superficie, incoronando le onde di una cresta di spuma bianca, che s’infrange come un debole schiaffo contro la sabbia. Lo sciabordio del mare quasi m’intorpidisce e non credo ci sia posto migliore dove rimanere da soli di fronte ai propri pensieri. Il mondo si distacca dalla pelle e viene arrotolato come una vecchia cartina in un angolo. Sta lì per un po’, il caos frenetico avviluppato lì e messo a tacere, e qui non rimane altro che un profondo silenzio senza tempo. E per un attimo ricordo le rare gite al mare fatte da piccolo, i castelli di sabbia che venivano subito distrutti dalle onde e il caldo che bruciava la nuca e le spalle. Ora, invece, fa freddo e non ci sono bagnanti a farmi compagnia su questa deserta spiaggia di inizio dicembre. Tanto meglio. È passato tantissimo tempo da… be’, da quel Giorno. Non sono più tornato a Chicago, non ho più voluto sapere che fine avesse fatto Edward Masen né ho più avuto il coraggio di ritornare sulla tomba di mia madre. In tutti questi anni (quanti sono? tanti) mi sono in un certo senso rifatto una vita ripartendo quasi da zero e cercando di non pensare più a quello che era stato prima, così che i ricordi sbiaditi di quell’epoca di accavallano disordinati gli uni sugli altri. Ora sono un Cullen, ho la mia famiglia: Carlisle, Esme, Rosalie, Emmett, Jasper ed Alice (a discapito dell’incipit della nostra convivenza, non credo che esista al mondo una persona in grado di capirmi meglio di lei). E probabilmente continueremo così all’infinito, fin quando le nostre vite immortali dureranno. Dovrei essere felice per questo, soprattutto rammentandomi dell’ansia e della paura iniziali non appena avevo scoperto cos’ero. Avevo paura di non avere un posto dove andare, di non avere persone fidate su cui contare e di vivere in eterno senza uno scopo: nulla di tutto ciò è capitato. Ancora stento a credere di essere stato così fortunato. Però… Sì, c’è sempre un però. E nel mio confessionale naturale il “però” principale non può fare a meno di venire a galla. Ho una famiglia e al tempo stesso degli amici… ma non qualcuno che stia strettamente accanto a me. Una ragazza, una fidanzata, intendo. Ma dopotutto ha così tanta importanza? Devo avere per forza una compagna per essere felice? No. Ma la ragazza del sogno continua a chiamarmi attraverso gli anni e io non posso fare a meno di rimanere incantato dal suo dolce canto di sirena. E mi viene spontaneo chiedermi: sono davvero felice o faccio solo finta di esserlo?

 

Forks, Washington

24/8/2003

Caro diario,

è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che siamo stati da queste parti. Non me la ricordavo così piovosa ed umida Forks. Esme con il suo ben noto senso pratico ha già iscritto me, Rosalie, Emmett, Alice e Jasper al liceo locale, la Forks High School, che, da bravi bambini, inizieremo a frequentare tra non molto. Come se, con le mie due lauree in medicina, avessi ancora bisogno di imparare qualcosa… Prevedo già che sarà una gran noia, anche se Esme ha ribadito che è necessario per la nostra finzione di “felice famiglia umana con figli adolescenti”. Sarà, ma a me sembra una gran fregatura ripetere il liceo all’infinito. In più dubito che sarà un’esperienza utile per farsi nuovi amici, visto che di solito gli umani, guidati più dall’istinto che dalla ragione, tendono a girare al largo da noi.

Vabbè, staremo a vedere se qualcosa riuscirà a scuotere questa piccola cittadina dalla noia mortale che l’avvolge. Ho come la sensazione che passeremo qui più tempo del previsto…

Penultimo capitolo! Ebbene sì, ormai anche questa storia è agli sgoccioli. Mi auguro che questo chap sia all'altezza degli altri: non è stato affatto facile concentrare qausi un secolo di vita di Edward in pochi stralci di diario. Diciamo che ho deciso di rendere il tutto con una specie di raccolta di one-shot dei momenti principali della sua esistenza tra la trasformazione e l'arrivo di Bella, focalizzandomi ovviamente sui momenti fondamentali. Spero anche di aver reso bene il pensiero di Edward e che questa non sia una mera sequenza di eventi. Per l'ultimo chap spero di riuscire ad aggiornare presto, intanto ringrazio:

Elfa sognatrice: mi fa piacere che la mia storia ti abbia così colpito! In effetti volevo ottenere proprio quel risultato, anche se mi dispiace un po' far piangere la gente XD ma quella di Edward non è certo stata una storia facile nè felice... Se mi dici che sono riuscita ad arrivare bene al cuore del lettore, be', allora credo di aver svolto bene il mio compito! Grazie!

ephirith: innanzitutto bel nick, davvero! Per il resto vale quello che ho detto qui sopra: credo che il compito di ogni scrittore (non che io mi ritenga tale) sia di raccontare in modo tale da far "vivere", diciamo così, quello che scrive, quindi renderlo reale e capace di arrivare al cuore del lettore e colpirlo. Non ho aggiornato presto (come al solito) ma spero che tu recensisca anche questo chap!

Jadis96: ed eccoti il nuovo chap! Sicuramente un'attenta lettrice come te troverà qualche pecca. Ma d'altronde la storia di Edward dopo la trasformazione è piuttosto vaga e in certe parti ho deciso di prendermi un po' di licenza poetica, mentre in altre ho cercato di rimanere il più fedele possibile alla storia. Quindi mi perdonerai qualche incongruenza, soprattutto con le date. A presto!

Nirva: Uuuhhhhh ma quanti nuovo lettori! Anche a me ha sempre affascinato il rapporto maestro-allievo per così dire, oltre a quello padre-figlio, tra Edward e Carlisle, che assomiglia molto a quello che appare in molte altre storie; un esempio, Harry Potter e Silente. In particolare mi è piaicuto scrivere del tormento di Carlisle per la decisione di trasformare Edward. E l'immagine dell'angelo, oh sì, è una delle mie preferite! Diciamo che racchiude una triade: Bella, l'angelo (che potrebbe simboleggiare la rinascita a vampiro) e Carlisle: tre cose importanti nella vita di Edward. Oppure i suoi due angeli: Carlisle che l'ha salvato quando era umano e Bella che ha salvato il suo cuore.

fields: grazie per il commento, pur semplice che sia! Continua a leggere

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Capitolo 10
*** Return to the origins ***


Capitolo 10°

Return to the origins

 

«Sicuro di volerci andare?».

«Sì, sicurissimo. Te l’ho già detto».

Il silenzio ricadde pesante nell’abitacolo dell’auto e l’unico rumore era il sonnolento ronzio del motore e lo sfrecciare delle altre macchine accanto alla nostra. Dopo l’ennesima svolta della caotica statale a quattro corsie che stavamo percorrendo, ecco finalmente stagliarsi sull’orizzonte il profilo di Chicago. I numerosi grattacieli, che facevano a gara per raggiungere il cielo tinto di porpora del tramonto, assomigliavano agli alberi scuri di navi con vele invisibili. Non me la ricordavo così la città, anche se dall’ultima volta che c’ero stato era ovvio che fossero cambiate parecchie cose. Ora la Chicago del ventunesimo secolo mi salutava con le sue luci colorate e i moderni edifici di vetro e acciaio.

«Anche perché dopo quasi un secolo di latitanza è ormai ora che il colpevole ritorni sulla scena del delitto, no?».

Bella mi gettò un breve sorriso scuotendo la testa, per poi tornare a fissare la strada davanti a sé ed ingranare la quarta. Anch’io sorrisi, tirando un breve sospiro e tornando a guardare fuori dal finestrino. E improvvisamente, guardando quella città che un tempo era stata la mia casa ma che ora mi appariva così strana, un cumulo di ricordi mi sommerse quasi con furore. Non l’avevo mai detto a Bella, ma dopo quasi cento anni ero contento di scoprire che quello che avevo sempre classificato come un sogno in realtà non fosse tale. Inevitabilmente il mio sguardo tornò a lei, alla sua fluente cascata di capelli color cioccolato, il volto a forma di cuore e la carnagione diafana. I raggi del tramonto si riflettevano nelle iridi color ocra e per un attimo ricordai il loro colore scuro e vellutato di quando era ancora umana, così simile a quello degli occhi della ragazza del sogno. Ma che stavo a dire? Bella era la ragazza del sogno, che dopo un secolo di vagabondaggio avevo finalmente ritrovato nell’uggiosa cittadina di Froks. Non è da tutti i giorni che una dolce ed innocente umana s’innamori di un vampiro e, soprattutto, di un vampiro tormentato come me. Ma, nonostante tutti i pericoli e le difficoltà, i dolori e le ansie attraverso cui eravamo dovuti passare, la nostra storia d’amore non poteva che avere un lieto fine. Ora che anche lei era un vampiro, avrei avuto tutta l’eternità per godermi tutta quella felicità prevista da un sogno e già assaggiata dagli altri componenti della mia famiglia. Il tutto sarebbe stato assolutamente perfetto se non per un piccolo dettaglio. Come si dice, il passato prima o poi torna a bussare alla porta, no? Ed era proprio per quel motivo che ero tornato a Chicago con la mia compagna: per regolare i conti con il mio passato.

«Mi starai vicina, vero?» sussurrai con lo sguardo basso e quasi in imbarazzo.

La risatina squillante di Bella mi giunse alle orecchie.

«Ma certo! Cosa credi che sia venuta a fare? Io ti starò sempre vicina, Edward».

Mi resi conto dell’insensatezza della mia domanda. «Grazie per avermi accompagnato. Ti amo».

Una ciocca di capelli scuri le ricadde davanti al volto e, se fosse stata ancora umana, l’avrei sicuramente vista arrossire.

«Ti amo anch’io» mormorò.

 

Arrivammo al centro della città proprio all’orario di punta, la sera quando dopo il lavoro la gente tornava a casa o i ragazzi s’affollavano per le strade in attesa di imbucarsi in qualche locale alla moda. Così che Chicago mi riaccolse non solo con la sua modernità ma anche con la sua gente. Ragazzi e ragazze che ridevano a scherzavano in gruppo davanti a qualche bar, famiglie che uscivano dai grandi supermercati cariche di un’abbondante spesa, negozi nei quali s’attardavano gli ultimi clienti prima dell’ora di chiusura, alcune donne anziane tranquillamente sedute a chiacchierare su una panchina magari in compagnia di qualche tenero cagnolino e distinti signori e signore in doppio petto che uscivano di corsa dagli uffici dei grattacieli con un’aria ancora tutta indaffarata. E i rumori: i clacson, le urla, il chiacchiericcio confuso, il tubare di qualche piccione sul cornicione di un vecchio palazzo subito interrotto dall’abbaiare di un cane, il rombo delle macchine e lo sfilare degli autobus, il ronzio sotterraneo della metropolitana… Erano decisamente cambiate parecchie cose, mi dissi mentre ci fermavamo davanti al semaforo rosso di un incrocio. Nulla di ciò che vedevo mi apparteneva: sarebbe stato come mettere un antico Romano nella Roma moderna. Però il mio cuore mi diceva che in mezzo a tutta quella novità qualcosa di vecchio come me era rimasto. Ed era proprio quello che stavo cercando. Non sapevo con esattezza perché dopo tanti anni, dopo che mi ero creato una nuova vita altrove e dopo che avevo perso del tutto i legami con quel luogo, avessi deciso di ritornarvi. Be’, forse… forse perché dopo essermi finalmente riappacificato con la mia identità, per completare del tutto e al meglio questo processo avevo sentito il bisogno di ritornare là dove tutto era iniziato. Dovevo dimostrare di non stare più fuggendo dal mio passato e forse una volta che avessi accettato anche quella fetta della mia vita avrei potuto finalmente mettere i miei tormenti a tacere. E poi c’era una cosa che desideravo fare da tempo.

Fortunatamente trovammo un comodo parcheggio nelle vicinanze. Bella scese rapida dalla macchina, tutta eccitata da quella nuova “avventura”. Per me invece… be’, ci volle un po’ più di tempo. Mi sembrava ancora incredibile di ritrovarmi lì e di sicuro negli anni passati non avevo mai immaginato che prima o poi vi sarei ritornato. Presi un profondo respiro cercando di calmarmi, mentre le gambe iniziavano a tremarmi, tradendo l’emozione. Mi sforzai di darmi un tono, giusto per non preoccupare Bella, e quasi con gesti meccanici presi una singola rosa rossa appoggiata delicatamente sui sedili posteriori della Volvo. L’esaminai con cura e con un certo sollievo notai che era ancora fresca e il suo profumo delicato e soave era pressoché intatto. A quel punto non c’erano più ragioni per indugiare. Raggiunsi Bella, che con uno sguardo affettuoso e compassionevole che mi ricordò immediatamente Carlisle mi strinse delicatamente la mano, e insieme c’incamminammo sul marciapiede. Mentre camminavamo vicini io non potevo fare a meno di guardarmi attorno come un bambino curioso. Tutti quei ricordi ammonticchiati e disordinati che non avevo mai voluto prendermi al briga di rivedere, stavano pian piano ritornando al loro posto a ogni singolo respiro.

«Da che parte è?». La domanda di Bella mi ricosse da quella contemplazione.

Non risposi subito, ma mi limitai a guardarmi attorno con sguardo perso. Lessi il nome della via, ma non mi diceva niente. Poi guardai in fondo alla strada e scorsi qualcosa che mi fece sobbalzare: un’alta cancellata di ferro dalla quale spuntavano le fronde verdi di alcuni platani. Quel parco… Ero più che sicuro che se avessi avuto ancora un cuore vivo, questo si sarebbe messo a battere all’impazzata. E come un sogno ad occhi aperti rivedevo le tenebre inghiottire due figure pallide e sottili come ombre che si aggiravano davanti all’entrata. La prima che saltava senza alcuna difficoltà oltre il cancello e la seconda che la guardava allibita e in difficoltà.

«Edward? Tutto bene…?».

La stretta di Bella si fece più forte sulla mia mano, mentre lei alzava su di me uno sguardo preoccupato. Il fremito che poco prima mi aveva colto impreparato, ricomparve, estendendosi a tutto il resto del corpo fino alle mani.

«Edward! Ecco, lo sapevo, avremmo fatto bene a non venire. Io…». Il tono di Bella sembrava allarmato.

Senza dire una parola, le posi due dita sulle labbra per zittirla e con uno sguardo eloquente le assicurai che avevo la situazione sotto controllo. Il suo sguardo interrogativo incontrò il mio ancora perso nel vuoto, ma non le lasciai il tempo di proferire una singola parola. Le tessere del puzzle stavano pian piano tornando al loro posto.

«Da questa parte» sussurrai e senza tanti complimenti la trascinai lungo la strada.

Percorremmo a passo spedito, ma non troppo veloce per non dare nell’occhio, i vialetti del parco, a quell’ora ancora affollati di gente. Se non altro, notai con sollievo, almeno quel parco non era cambiato affatto dall’ultima volta che c’ero venuto. Girai per un po’ in lungo e in largo, cercando di orientarmi. Anche se quel parco era pressoché identico a come l’avevo conosciuto, c’era una bella differenza a girarlo alla luce del giorno e con la mente lucida. Dopo che avemmo ripercorso lo stesso vialetto per la terza volta, scorsi da lontano due grossi cespugli di biancospino in fiore, che assomigliavano a un paio di giganteschi pupazzi di neve, e una panchina che faceva timidamente capolino. Mi si formò un nodo alla gola nel rivedere quella famosa scena di tanto tempo prima, l’ora della rivelazione, ed accelerai il passo. Bella continuava a seguirmi in silenzio, anche se la sua espressione era sempre più perplessa.

«Si può sapere cosa diavolo stiamo cercando?» sbottò alla fine incorniciando le braccia sul petto.

«Un cancello… con dei cipressi… O qualcosa che ci somigli» risposi ancora sovrappensiero.

Lei sbuffò ancora e seguì i miei passi, anche se ora stavo andando quasi di corsa. Ero eccitato, preso da una frenesia inarrestabile, un dolore quasi fisico, come un cane che ha fiutato la sua preda ma non riesce ancora a scorgerla. Il tutto mi procurava una terribile frustrazione.

«Dev’essere qui… Sì, qui, ne sono certo…» borbottai più a me stesso che alla mia compagna. «Magari…».

Mi fermai di botto e lasciai la frase a metà, mentre tutto il fiato che avevo nei polmoni mi abbandonava in un colpo. Il piccolo cancello attraverso il quale ero passato quella notte non esisteva più, infatti era stato sostituito da un imponente arco di granito pieno di targhe commemorative dall’aria solenne; ma riconobbi ugualmente da una parte i due cipressi. Allora erano rinsecchiti e morenti, ma adesso, invece, parevano rinvigoriti nonché accresciuti: sfioravano quasi la cima dell’arco, abbracciandolo da una parte con le fronde verde cupo. Dovevo essermi come pietrificato, perché quando sentii la mano di Bella posarsi sulla mia spalla sobbalzai.

«Qui» annunciai con fermezza. «Sono sicuro che sia qui».

Lasciai vagare lo sguardo oltre la soglia dell’arco, evitando di incrociare l’espressione probabilmente afflitta di Bella: il poco coraggio che ero riuscito a racimolare bastava a stento e non potevo permettermi di farmi vincere maggiormente dall’emozione. Intanto la mano di lei aveva preso ad accarezzarmi la schiena, quasi come per incoraggiarmi.

«Allora vai» sentii sussurrarmi all’orecchio. «Lei ti aspetta».

Mi voltai di scatto verso di lei, allarmato dalle sue parole.

«Tu non vieni?» chiesi con un tono sgomento. «Bella, ma… Ma mi avevi promesso…».

Bella scosse la testa ed abbassò gli occhi. «Sì, ti avevo promesso che ti sarei stata vicina. Ma devi andare da lei da solo, io sarei di troppo. Avrete sicuramente un sacco di cose da dirvi e… ce la devi fare da solo. Io ti aspetterò qui».

Rimasi senza parole per un minuto buono, mentre tra quella matassa disordinata di ricordi venivano a galla le parole di Carlisle: “Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui”. Un altro abbandono, un altro taglio così drastico…

«Io… non credo di riuscirci. È passato così tanto tempo…».

Bella mi prese il mento con forza e mi costrinse a guardarla dritto negli occhi. «Ce la farai, lo so».

E detto ciò mi sfiorò le labbra con un baciò sfuggente e mi circondò le spalle con le braccia, per poi spingermi delicatamente verso la mia frontiera. Rimase lì immobile, mentre io mi avviavo con passo traballante ed insicuro. Ma alla fine mi decisi a raccogliere tutte le mie forze e, con la rosa rossa talmente stretta tra le mani che per poco le spine non mi avrebbero trafitto la pelle, raddrizzai le spalle e accelerai.

Non ci misi molto a trovarla, come l’altra volta del resto: i miei piedi sapevano benissimo dove condurmi. Seconda fila terza da destra… Tutt’attorno a me potevo scorgere monumenti e lapidi commemorative adorne con fiori e ghirlande che ricordavano tutte le vittime della spaventosa epidemia di spagnola che aveva colpito la città all’inizio del Novecento. E facevano sembrare quella cosa ancora più lontana nel tempo, tanto che mi sembrò incredibile che io, che avevo vissuto direttamente quello sterminio, non solo fossi ancora lì ma non fossi cambiato di una virgola. Come le tombe, del resto. Attorno il cimitero era stato reso monumentale e solenne, un vero gioiello, ma quelle tombe rimanevano le stesse povere, spoglie e fredde lastre di pietra che avevo visto nel 1918. Tutte uguali e allineate, quasi spettrali alla debole luce del crepuscolo, senza neanche un fiore: ma d’altronde chi era rimasto che vi potesse portare dei fiori? Solo io. Con la coda dell’occhio scorsi sulla sinistra una piccola cappella chiara dall’aria triste e spoglia e per un nanosecondo mi sembrò di scorgere accucciata sugli scalini dell’entrata una sagoma scura, con le mani incrociate e gli occhi chiusi raccolta in preghiera. Peccato che Carlisle non fosse lì ancora una volta a sostenermi, pensai. Ma alla fine, dopo numerosi tentennamenti, arrivai alla meta.

«E così rieccoci qua. Proprio come ai vecchi tempi, pare». Mi guardai attorno: non c’era nessuno.

Quindi tornai a rivolgermi alla piccola tomba davanti a me: non me la ricordavo così piccola, mi venne da pensare istintivamente. Gli ultimi raggi del sole giungevano obliqui, disegnando piccole ombre allungate davanti a ogni lapide. E quelle poche lettere che tanto tempo prima mi avevano così tanto spaventato e sconvolto erano ancora lì, anonime e disadorne.

 

ELIZABETH MASEN   

                ? – 2-8-1918

 

Avevano perfino dimenticato di mettere la data di nascita della mamma… Ma d’altronde in quel periodo i morti erano così tanti e frequenti che era già tanto che le avessero dato una sepoltura almeno decorosa. E dopotutto a chi importava chi era, cosa aveva fatto, chi aveva amato? Era soltanto un’altra delle vittime dell’influenza. L’ennesima. La mia rosa, che appoggiai con gesti calcolati alla superficie liscia della lapide, era un piccolo punto color sangue, quasi abbagliante, in mezzo a quell’abisso fatto di sfumature di grigi smorti. Strinsi i pugni fino a farmi affondare le unghie nelle palme delle mani; avrei voluto strappare quella lapide così anonima, buttare all’aria quella terra dura e senza un filo d’erba e costruire al loro posto un mausoleo bellissimo. Ma tutta questa rabbia per quella noncuranza e pressapochismo svanì all’istante quando, sforzandomi di ricordare, scoprii che nemmeno io ricordavo più la data di nascita di mia madre. Ne fui disgustato. Ero dunque giunto a quel punto? Avevo represso la mia prima vita fino ad iniziare a dimenticarla? Le unghie affondarono ancora di più nella carne. E per la seconda volta in cento anni provai l’impulso di piangere ma, per la seconda volta, non ci riuscii: le lacrime s’attardavano sempre lì sotto le palpebre, ma era come se una barriera invisibile impedisse loro di scorrere sul mio volto. Per l’ennesima volta nei fui frustrato.

«Scusa» mormorai alla tomba. «Io… mi dispiace».

Alzai gli occhi al cielo, con un groppo alla gola che frenava i singhiozzi e le lacrime che mi appannavano la vista ma si rifiutavano ancora di scendere. Il cielo verso ovest si era fatto roseo, segno che ormai il sole era tramontato quasi del tutto e dalla parte opposta, dove già avanzavano le tenebre della notte, erano spuntate le prime timide stelle, la cui debole luce bianca riluceva contro quelle sfumature infuocate di arancioni. Socchiusi gli occhi fino a non vedere altro che uno strano miscuglio di colori caldi.

«Mi dispiace di essere stato via così tanto tempo» continuai a bassa voce. «Mi dispiace di non essere tornato prima. Mi dispiace di essere stato così vile. Mi dispiace di aver cercato di dimenticare. Ma… vedi… no, non posso affatto essere scusato per questo… però, credo di non aver avuto il coraggio di affrontare tutto quello che mi è capitato. È accaduto tutto così velocemente… Be’, almeno adesso sai che Carlisle ha mantenuto la promessa che ti aveva fatto: è un amico fedele e si è sempre preso cura di me, proprio come avresti fatto tu».

Feci una breve pausa e le miei parole furono interrotte da quel piccolo singulto che finalmente aveva avuto il coraggio di risalire la gola.

«Io… sono ancora qui. E vorrei che anche tu lo fossi. Io, te e il papà. Mi mancate tanto. In tutti questi anni mi ero convinto di non sentire la mancanza di quello che c’era stato prima. Prima della trasformazione e tutto il resto. Ma mi sbagliavo. Come mi sono sbagliato riguardo a molte cose, d’altronde. Ma anche se è passato ormai quasi un secolo e mi sono dovuto ricredere su molte cose… be’, puoi vedermi anche te: sono rimasto sempre il tuo bambino, il ragazzo di diciassette anni che hai amato. Però credo di essere cambiato almeno un po’: abbiamo viaggiato tanto, sai, io e Carlisle; e non solo noi due. Adesso abbiamo una grande famiglia: ci sono Esme, Rosalie, Emmett, Alice, Jasper… e Bella. È proprio lei che mi ha accompagnato qui e, anche se tu rimarrai per sempre unica nel tuo genere, credo di aver finalmente trovato qualcuno che mi ama come mi hai amato tu. Non saprei davvero come fare senza Bella: è la luce che aspettavo di vedere da un secolo».

Quasi senza accorgermene, come se la mia volontà fosse staccata dal mio corpo, mi ritrovai seduto per terra, sulla terra dura del tumulo. Era strano stare lì a parlare con una lastra di pietra e mi sembrava ancora più strano che sotto ai miei piedi ci fossero le ossa della prima donna della mia vita. Però non mi importava di essere in un cimitero a parlare con il vuoto; per me era come essere a casa e, anche se lei non mi poteva rispondere, ero certo che mia madre stesse ascoltando le mie parole malferme e sussurrate. E magari stava pure sorridendo e piangendo di gioia nel vedere da lassù, dove brillavano le stelle e bruciava la luce del sole, che suo figlio era finalmente ritornato da lei. Improvvisamente mi avvolse un soporifero senso di pace, anche se sentivo che mancava qualcosa; ebbi nostalgia del suo abbraccio caldo, della musica della sua voce, del profumo dei suoi capelli. Ma non potevo riavere tutte queste cose, perché un secolo ci separava: potevo ritrovarle solo nei miei ricordi, che dovevo salvaguardare con estrema cura.

«Ti prometto che non ti dimenticherò mai. Ti prometto che tornerò sempre, sempre qui. Lo giuro».

L’ultimo raggio di sole baluginò oltre gli alberi e il rosso cupo della rosa si accese per un attimo come una fiammata.

«Anch’io ti voglio bene, mamma».

 

L’orologio segnava ormai le dieci e mezza di sera quando ritornammo alla macchina. Il caldo torrido che ci aveva accompagnato in una di quelle prime giornate d’agosto a quell’ora si era finalmente attenuato e la fresca rugiada della sera mi accarezzava la pelle insieme alla brezza frizzante. Mi sentivo leggero e decisamente sollevato, felice nonostante il fondo di malinconia che quei luoghi avevano rievocato tra i miei ricordi. Ero certo che ormai nel mio cuore erano del tutto sparite quelle cupe zone oscure che avevo sempre cercato di evitare. Però, a guardare bene, mi accorsi che c’era ancora un piccolo neo. Stavo per aprire la portiera dell’auto quando mi bloccai: mi ero appena ricordato di una cosa piccola ma importante. Chissà se forse… no, era passato troppo tempo e di certo non l’avrei più ritrovato. Però…

«Bella» dissi attirando l’attenzione della mia compagna. «Non è che potremmo fermarci da una parte prima di tornare a casa?».

Lei mi guardò inarcando un sopracciglio. «Che cosa hai in mente?».

Io non risposi, bensì mi limitai a rivolgerle un sorriso sghembo dei miei, cercando di apparire il più convincente possibile.

«E va bene» s’arrese lei alla fine ed alzò gli occhi al cielo. «Sali in macchina».

«Oh, no, è qui vicino, possiamo benissimo arrivarci a piedi».

Il Northwestern Memorial Hospital era un’imponente struttura di vetro e acciaio, chiara e luminosa anche di notte perché rifletteva le luci dell’intera città. Di certo uno degli edifici più moderni e sofisticati di Chicago, nonostante tutto si poteva classificare come ospedale senza molte difficoltà. Il tipo di ospedale ben diverso da quello che avevo conosciuto io però, pensai. E se quel grande palazzo a dieci o più piani era il manifesto delle più avanzate tecnologie mediche, quello che vi stava dietro era, invece, la testimonianza di una terribile realtà passata. Aggirando il Northwestern Memorial Hospital si potevano scorgere le rovine di un palazzo ben più vecchio, quasi cadente e dai colori sbiaditi, che dava proprio sul parco dove eravamo appena stati. Di certo non ci entrava più nessuno da anni… E la polvere accumulata negli angoli delle numerose stanze vuote, il ticchettio delle zampette dei topi e i viluppi di ragnatele non facevano altro che avvalorare questa tesi. I letti e tutto il resto del mobilio erano spariti, se non si teneva conto di qualche tavolo ormai del tutto rosicchiato dai tarli e un paio di armadi pieni zeppi di vecchi incartamenti, di cui molti fogli giacevano ora sparpagliati e ingialliti sul pavimento. Non sembrava essere rimasto più alcun segno della frenesia, dell’ansia, dei pianti, delle urla e delle preghiere di cui un tempo erano stati testimoni quei muri.

«Questo è…?» disse Bella. Mi gettò una veloce occhiata e si chinò a raccogliere alcuni fogli stropicciati.

«Sì, il mio vecchio ospedale». Lo dissi con una naturalezza quasi sorprendente, come se stessi parlando della casa dove ero nato. Ma dopotutto era vero: era lì che avevo incontrato Carlisle, lì dove ero rinato.

«Oh». Il suo bisbiglio mezzo dispiaciuto e mezzo imbarazzato mi giunse da lontano. E io, invece, come prima, continuavo a guardarmi attorno come un bambino curioso, in cerca di qualcosa che stuzzicasse la mia memoria.

«Doveva essere un posto molto triste».

Una smorfia mi sorse alle labbra e risposi: «Non immagini quanto. Vedere ogni giorno gente morire di fianco a te… intere famiglie distrutte… e tu non potevi farci niente. Potevi solo stare a guardare».

Non mi ero quasi accorto del tono basso e quasi lamentevole che aveva acquisito la mia voce, mentre Bella mi cingeva da dietro e posava un leggero bacio vicino al mio orecchio sinistro. Il suo respiro regolare mi sfiorò la guancia, calmandomi come una tisana.

«Tanti giorni tutti uguali, passati aspettando qualcosa che nessuno sapeva bene cosa fosse. E la paura… e l’ansia… e la disperazione…».

Chiusi gli occhi e mi morsi violentemente il labbro inferiore, cercando di contenere quella valanga di emozioni. La stretta di Bella di fece più forte; sentivo il suo petto premuto contro la mia schiena, il suo mento delicatamente appoggiato contro l’incavo del mio collo. E intanto potevo sentire, come dal fondo di un tunnel, le eco dei pianti e delle preghiere sussurrate dai malati, il bianco ingrigito dei letti che rifletteva la luce di un sole pallido, una lunga corsia lungo la quale d’affaccendavano medici e infermiere. Scossi la testa nel tentativo di allontanare quelle sgradevoli diapositive.

«Ma tu hai conosciuto Carlisle. Sei passato attraverso tutto questo». Il sussurro di Bella mi ghermì come un’ancora di salvezza. «E ora sei qui».

«Sì, sono qui» ripetei meccanicamente.

Presi un profondo respiro e mi staccai dal suo abbraccio. Ero lì… per fare qualcosa. Con fare ora più determinato e un cipiglio risoluto, mi misi a frugare tra tutte quelle carte in disordine: ordini di medicinali, cartelle cliniche, elenco dei nuovi pazienti e di quelli deceduti. Ero sicuro che in quest’ultimo avrei trovato il mio nome e quello dei miei genitori, ma preferii non controllare. Comunque lì non c’era niente che potesse interessarmi, solo vecchie cartacce. Con l’aiuto di Bella scandagliai quasi tutto l’edificio, ma trovai solo polvere e calcinacci. Ma alla fine, quando ormai stavamo per gettare la spugna, giungemmo nell’ala est e una vecchia porta a due battenti fece scattare qualcosa nella mia mente. Si apriva su un’ampia e lunga sala del tutto vuota e in decadenza, anonima, ma appena la vidi il respiro mi si fece corto e un tremito s’impossessò delle mie mani, mentre correvo verso la penultima finestra.

Mi ci affacciai (ormai i vetri e le imposte erano spariti) e l’aria della sera mi portò alle narici l’odore dell’erba appena tagliata e della rugiada proveniente dal parco. Era lì. Una strana eccitazione s’impossessò delle mie membra, quasi fossi sotto l’effetto di qualche oppiaceo. Mi guardai attorno con occhi che dovevano apparire come spiritati e senza calcolare Bella. Ecco, lì, sì, proprio lì di fianco doveva esserci il mio letto! E il comodino! Si poteva ancora distinguere la sagoma più chiara sull’intonaco pieno di crepe. Dall’altra parte, a meno di un metro, doveva esserci, invece, il letto della mamma. Quindi anche il mio diario doveva essere lì… Ma non vedevo niente. Magari l’avevo messo in uno dei cassetti del comodino ed era andato al macero insieme a quello. Emisi un sospiro di sconforto e mi passai una mano sulla fronte. Ovvio, Edward, che ti aspettavi dopo cento anni, eh? Bella si era appartata in un angolo per non intralciare la mia ricerca e mi scrutava dalla penombra. Tornai ad appoggiarmi al davanzale, strizzando gli occhi contro il bagliore lunare, con molto sconforto e disillusione nel cuore. Che speranza vana, pensai prima di urtare qualcosa col gomito. Scattai indietro colto alla sprovvista e con il cuore in gola per la sorpresa. Lì, in un angolo del davanzale, stava quello che un tempo lo si sarebbe potuto chiamare libro. La copertina di pelle era strappata e come corrosa, le pagine ingiallite dal tempo ed avvizzite dalle ultime piogge. Di certo appena l’avessi toccato si sarebbe sbriciolato, pensai. Ma sfogliandolo scoprii che non era affatto un banale libro, bensì quel che cercavo: il mio vecchio diario. Che dopo un secolo era ancora lì ad aspettarmi. Un sorriso m’illuminò il viso: era come se avessi appena ritrovato una parte di me.

«Trovato?» mi domandò Bella da lontano.

Io ebbi a malapena il tempo di annuire distrattamente che già ero immerso nella lettura di quelle poche pagine coperte da una scrittura sottile e lineare, il cui inchiostro un po’ sbavato le faceva assomigliare ad un prezioso documento antico. Uno strano calore mi invase mentre il mio sguardo scorreva sulle parole, assaporandone il suono e il significato. E ogni lettera, ogni virgola, ogni spazio faceva fiorire nella mia mente immagini su immagini, ricordi su ricordi, emozioni su emozioni in un complesso caleidoscopio. I suoni e le parole udite mi rimbombavano nelle orecchie, fondendosi in un unico chiacchiericcio confuso e quasi fastidioso. Era come aprire una finestra su un altro mondo. Stavo rivivendo il tutto come in un lungo flashback mandato avanti veloce e ne rimasi quasi frastornato, come sorpreso da una ventata di aria gelida che aveva minacciato di spazzarmi via.

Mi chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura, perché di certo sta andando avanti.… Una volta che riuscirò a rivoltare l’animo di quell’uomo come un calzino sono sicuro che vi scoprirò qualcosa di molto più grandioso o terribile di quanto mi fossi mai aspettato o immaginato… Ma di certo non avrei mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato dall’altra parte, a guardare da questa finestra… La mamma sta sempre più male… Ci dicono che dobbiamo accettare i dolori e gli ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che scopo?... E finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa c’è oltre l’orizzonte… Mi ha riconciliato con ciò che sono e mi ha rassicurato su ciò che sarò e per questo non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza…

… Un’altra cosa che rimpiango è di non aver mai conosciuto il vero Amore…

Non seppi con precisione quanto tempo passai in contemplazione di quel prezioso manoscritto, poteva essere un’ora come soltanto cinque minuti. E mentre le mie mani frementi sfogliavano le pagine scritte come quelle in bianco per carpire ogni singolo dettaglio, assetato di un passato che avevo scordato per troppo tempo, un tremito mi aveva rapito il cuore, facendomi venire la pelle d’oca e il fiato corto. In particolare quell’ultima frase mi aveva colpito come il rintocco assordante di decine di campane. Quasi non riuscivo a credere di essere la stessa persona che tempo addietro aveva scritto quelle parole, che aveva riversato il suo cuore e quelli che credeva sarebbero stati i suoi ultimi pensieri in quel diario. Com’era diverso l’Edward Masen umano dall’Edward Cullen vampiro… Il primo così fragile e sensibile, apparentemente disilluso ma in fondo ancora il ragazzino ingenuo a cui piace sognare ad occhi aperti, che crede di conoscere i mali del mondo ma si sbaglia. Il secondo ben più duro e grezzo, levigato dagli anni, dai pensieri e dalle esperienze, ben più realista e attaccato all’oggettività della vita, disilluso sul serio, decisamente meno ingenuo e sognatore, ma forse anche più pessimista. Si poteva facilmente notare quanto l’apparente tono severo di quelle parole nascondesse, invece, ancora tutta la freschezza della giovane età, quella stessa freschezza che mancava alle pagine più recenti del mio nuovo diario. Però quella frase, quella speranza poteva costituire un punto d’incontro tra il prima e il dopo. Speranza che alla fine, anche se dopo parecchio tempo, si era finalmente concretizzata nella ragazza che avevo davanti: quelle parole non potevano che riferirsi a Bella. Pian piano, ancora tutto preso da quei pensieri, la raggiunsi con il diario aperto tra le mani.

«Ascolta» le dissi sedendomi accanto a lei sul pavimento polveroso e prendendole una mano. «”Non mi manca l’essere stato amato, bensì l’amare, il dare la propria vita per l’unica persona che la merita. Se potessi vivere per altri cento anni… ma che dico, anche per un giorno soltanto… Ho ricevuto, ma non sono riuscito a dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma sono sicuro che se mai avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata la mia aria, la mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore. Avrei attraversato mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E questi ultimi pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono certo che un giorno o l’altro il mondo conoscerà qualcuno come te, ma io purtroppo non sarò lì a stringerti la mano e a sussurrarti dolci parole all’orecchio. Ma non importa, perché almeno sarò sicuro che qualcun altro potrà godere della tua luce. Di certo la più bella e luminosa di questo universo.”  Che ne pensi?».

Lei rimase un attimo in silenzio, corrugando la fronte. «Sono delle belle parole…» disse alla fine.

«E…?».

«Le parole che non  credo tu saresti capace di dire».

«Come mai? Le ho scritte io».

«Sì, hai ragione». I suoi occhi brillarono come stelle. «Però le ha scritte l’Edward umano del 1918: c’è una bella differenza».

«Ah! Sembra che tu stia parlando di un’altra persona! L’Edward del 1918 è anche l’Edward che hai davanti, l’hai forse dimenticato? Ma dico, sono venuto fin qui per “riconciliarmi con il mio passato”, per così dire, e tu cosa mi vieni a dire? Sostieni forse la teoria separatista?».

Così dicendo riuscii a far spuntare un piccolo sorriso sul suo volto a forma di cuore, il cui calore si diffuse anche alle iridi color topazio. «No, Edward. Intendevo “ le parole che tu non saresti capace di dire in questo momento”. Tu non hai rimpianti, non devi sognare qualcosa che non hai e pensare a come sarebbe stato se ce l’avessi avuta. Io sono qui: lo vedi anche tu… Sempre ammesso che io possa vantarmi di essere… com’era?... ah, sì, “la stella più bella e luminosa dell’universo”». E rise ancora, questa volta come per schernirsi.

Senza pensarci l’abbracciai con slanciò e con una risata feci per morderle una guancia, prima che lei si discostasse dandomi un leggero schiaffo sulla guancia e continuando a ridere come una matta.

«Ma certo che si riferivano a te quelle parole. E a chi altri sennò?». Le posai un baciò sull’incavo del collo.

«Wow. Allora mi aspettavi con largo anticipo!».

Assunsi un’espressione più seria ed alzai su di lei uno sguardo pieno di significato, sussurrando la mia riposta a un centimetro dalle sue labbra. «Certo. Ti ho sempre aspettata, ho sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivata qualcuna come te. È come se avessi vissuto un secolo intero in attesa di te… e ci sono pure varie testimonianze. Oddio, non posso prevedere il futuro come Alice, quindi magari non pensavo a te come persona in carne ed ossa, ma diciamo pure a un tuo prototipo».

Lei non disse niente ma si limitò a baciarmi con dolcezza, mentre io aspiravo a pieni polmoni il suo profumo vellutato. Alla fine si staccò da me di qualche centimetro per guardarmi dritto negli occhi e disse: «Il signor Edward Masen classe 1901 poteva scrivere quelle parole con una certa rassegnazione, mentre tu non hai ragione di rimpiangere un amore mai trovato. Però questo non vuol dire che siate due identità completamente distinte. Sei cambiato molto è vero, ma chi non cambierebbe in un secolo? Cambiamo tutti i giorni, tutti. Ma nonostante tutto posso rivedere in Edward Cullen molti aspetti di Edward Masen».

«Del tipo?» sussurrai mettendole a posto una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«La stessa incredibile e disarmante sensibilità, l’amore tenace per le persone che ami, i pensieri sempre proiettati verso il futuro e magari intrappolati un po’ troppo nell’ansia che accada qualcosa di brutto. Sei lo stesso ragazzo che ha toccato il cuore di Carlisle, Edward, e ora il mio. Non hai niente con cui riconciliarti: hai già tutto qui dentro».

E così dicendo il suo palmo niveo sfiorò il mio petto sul lato sinistro, dove doveva esserci il cuore, che un tempo batteva sonoro ma ormai era stato zittito da forze superiori.

«Lo credi davvero?».

«Sì. Avevi paura che l’essere diventato un vampiro avesse cambiato non solo la tua natura ma la tua intera personalità. E avevi paura di tornare qui o di rivangare vecchi ricordi per renderti conto del terribile cambiamento che credevi fosse avvenuto. Ma ami ancora tua madre come un tempo, ti ritrovi in questi luoghi e riporvi le stesse emozioni di allora: non è mai cambiato niente e venendo qui l’hai potuto costatare di persona».

«Hai ragione» convenni alla fine. «Non Masen nè Cullen, non umano né vampiro. Sono semplicemente l’Edward che per tanto tempo ha aspettato la sua Bella».

La baciai di nuovo, ma questa volta con più trasporto, affondando le mani nei suoi capelli folti e assaporando a pieno lo zucchero delle sue labbra, magari sperando che il tempo si fermasse per rimanere in eterno così. Quanto avevo sognato, vagheggiato, desiderato quel momento.

«E alla fine sembra proprio che l’abbia trovata la sua Bella»

Non c’era nient’altro da aggiungere.

Eh, sì, con questo abbiamo proprio finito *sigh* Probabilmente avrete notato che quest'ultimo capitolo è più lungo degli altri, un po' perchè c'erano molte cose da dire e volevo che la cosa non avesse un ritmo troppo veloce per permettere a Edward di "riscoprirsi" (sperando di non risultare troppo noiosa), un po' perchè continuavo a dirmi che mancava qualcosa e un po' perchè almeno vi consolerete visto che con questo capitolo la storia finisce. Ho voluto che fosse Bella ad accompagnare Edward invece che Carlisle per due motivi: lei rappresenta il "dopo" là dove Carlisle era stato il "prima" (before) e poi, diciamocelo, come poteva mancare lei? Per il resto come sempre mi auguro che anche quest'ultima puntata sia stata di vostro gradimento e che non vi abbia fatto piangere troppo :) Inoltre se avete domande o considerazioni da fare eventualmente vi risponderò sulla mia altra ff su Twilight, ovvero Daddy Eddy (poi magari mi recensite pure quella ^^). E prima di salutarvi un'ultima cosa: anche se è l'ultimo capitolo non siete esonerati dal recensire!!!!!
Quindi ringrazio, oltre a tutti quelli che hanno seguito questo ff e l'hanno messa tra i loro preferiti:

Elfa sognatrice: grazie dello splendido ed originale paragone! Per me è anche molto importante sapere di non risultare troppo noiosa nelle mie numerose divagazioni. Grazie ancora!

Jadis96: eccomi alla fine con l'ultimo chap, perchè, come hai detto anche tu, prima o poi tutte le ff finiscono e prolungarla oltre al dovuto non mi sembrava affatto il caso. Dopotutto anche io devo finire di godermi le vacanze e dedicarmi ad altri progetti! XDXDXD Comunque sono felice di essere arrivata a questo punto. Grazie anche a te!

fields: a dir la verità all'inizio per la parte dei "cento anni di diari" avevo pensato a due chap, perchè credevo che in un solo chap non riuscissi a rinchiudere tutto quello che volevo metterci senza creare confusione: invece alla fine ci sono riuscita ed è meglio così. Anche perchè questa ff, anche per rispondere alla tua domanda, è basata sulla trasformazione di Edward e non tanto sulla sua vita prima di incontrare Bella e dopo averla incontrata. Quel chap mi serviva per coprire la notevole distanza di tempo dalla presa coscienza di essere un vampiro a quando lo accetterà del tutto e ritroverà se stesso (diciamo che ho voluto spiegare anche come mai Ed non parla mai della sua vita da umano in Twilight). Per il resto, be', Bella c'è e mi aspetto un'altra tua bella recensione! Grazie per il sostegno!

Nirva: sì, diciamo che Alice rompe un po' il clima serio e a volte un po' triste che sono stata costretta ad assumere in questa ff... Mi sarebbe davvero piaciuto vedere la faccia di Edward quando aveva scoperto l'intrusione. Grazie e goditi questo ultimo chap!

E per finire un grazie grandissimo a tutti voi, che avete permesso la nascita e lo sviluppo di questa ff! GRAZIE!

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