Darkrai & Alicia: il preludio all'Ascesa di DarkLatias2000 (/viewuser.php?uid=884983)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Atto I ***
Capitolo 3: *** Atto II ***
Capitolo 4: *** Atto III ***
Capitolo 5: *** Atto IV ***
Capitolo 6: *** Atto V ***
Capitolo 7: *** Atto VI ***
Capitolo 8: *** Atto VII ***
Capitolo 9: *** Atto VIII ***
Capitolo 10: *** Atto IX ***
Capitolo 11: *** Atto X ***
Capitolo 12: *** Atto XI ***
Capitolo 13: *** Atto XII ***
Capitolo 14: *** Atto XIII ***
Capitolo 15: *** Atto XIV ***
Capitolo 16: *** Atto XV ***
Capitolo 17: *** Atto XVI ***
Capitolo 18: *** Atto XVII ***
Capitolo 19: *** Atto XVIII ***
Capitolo 20: *** Atto XIX ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Dodici. Era la dodicesima volta che gli arrivava una richiesta di intervento: sempre lo stesso testo, sempre dalla stessa persona. Non ne voleva proprio sapere di mollare, quel rompiscatole. Eppure quelli che quel rognoso mandante insisteva nel voler far risolvere da lui erano problemi che lo riguardavano neanche un po': lui non intendeva immischiarsi e soprattutto non aveva alcuna voglia di perdere tempo con simili sciocchezze. Molte volte gli avevano dato un motivo estremamente infantile per iniziare un incarico: desiderio di aumentare la reputazione, collezionismo sfrenato, consapevolezza della rarità della merce, o anche semplice, abnorme superbia. Ma superstizione… faceva fatica a credere che qualcuno si ostinasse tanto a infastidirlo per una sciocchezza del genere. Eppure la paga era parecchio buona per essere un semplice capriccio da superstiziosi. Tutto sommato a lui non interessava più di tanto il motivo, dato il premio che c'era in palio non avrebbe dovuto aver problemi ad accettare... ma l'obiettivo in questione lo preoccupava. Sempre se una bestia simile a quella descritta fosse esistita davvero, in effetti in condizioni normali non era poi così strano che i residenti di quella zona volessero liberarsene: ma non era un lavoro di cui lui potesse occuparsi con piacere. Era un compito snervante, che non sarebbe riuscito a completare affatto velocemente. La cosa lo faceva spazientire... però, una richiesta inviata per la dodicesima volta…
Mah, in fondo che aveva da perdere? E lui aveva bisogno di soldi, il mercato e gli scambi non andavano avanti da soli. Forse una missione di quel tipo avrebbe anche potuto contribuire a fargli dimenticare una oramai fin troppo consueta noia.
“Scommetto che è il solito insistente, vero?”
“Credo che tu non abbia bisogno di spiegazioni.” Fu la risposta della sua diligente, anche se alquanto appiccicosa, assistente Leara:
“Come assistente, ti posso solo ricordare che dodici richieste hanno superato da molto tempo la linea di record. Allora… che vogliamo fare?”
Lui fu di nuovo preso da un senso di fastidio estremamente poco piacevole: era veramente necessario sprecare il suo armamentario per verificare una superstizione? D'altra parte però c'era anche la certezza che se fosse partita la tredicesima richiesta i dubbi sul suo conto avrebbero iniziato a circolare e avrebbe potuto dire addio al lavoro nel mercato nero: come se non fosse stato già abbastanza instabile di per sé. Si alzò dal tavolo e appallottolò in fretta e furia la lettera in una tasca casuale:
“E va bene, d'accordo: andiamo a dare un'occhiata a questa strana bestiolina.”
“Allora, Mott? Che vuoi fare?”
“Secondo te che dovrei fare? Dov’è l’X201?”
“E me lo chiedi? Fuori, dove lo hai parcheggiato proprio ieri.”
“Sì, sì. Per quanto riguarda le restrizioni su cosa fare con la nostra preda una volta conclusa la caccia, quel tipo può anche andare a farsi friggere. Volente o nolente, la pelle come minimo me la prendo io. Hai idea di a quale prezzo potrebbe essere rivenduta?”
“Certo, ma ho anche idea del perché la taglia che gli hanno assegnato stia diventando sempre più alta,” Gli aveva rimbeccato quella donna puntigliosa che era Leara fissandolo con quella sua sua tipica occhiata da consigliera: “Senti, lo sai che puoi tappare la bocca senza problemi, a quel riccone insistente che non fa dormire da un mese neanche me: ho già sentito parlare della bestia di cui parla, non è solo una superstizione. E ti assicuro che non è niente con cui scherzare o da trattare alla leggera. Dammi retta, Mott, lascialo perdere: fidati, con questa missione rischi il fallimento. Evitiamo di mandare in giro a ruota libera la prima critica negativa sul nostro servizio? Sei già quasi finito sui giornali per bracconaggio, l'ultima volta, ormai camminiamo tutti sul filo del rasoio!”
Mott l'aveva completamente ignorata mentre usciva e inseriva la chiave nel suo amato cattivone a motore a cui purtroppo si era dimenticato di dare una ripulita dopo l'ultimo incarico:
“Al diavolo, se arriva la tredicesima la tua 'critica negativa' partirebbe comunque, e un silenzio forzato al riguardo sarebbe comunque sconveniente.” Al rumore secco di Leara che batteva il tacco a terra con evidente irritazione per non essere stata minimamente considerata, lui le aveva risposto con uno sguardo borioso e un tono provocatorio allo scopo di farle chiudere la bocca: “Cos'è, mi prendi in giro? Scusami, tesoro, mi hai mai visto tornare a mani vuote?”
“Per ora no, va bene, ma pensa a quanto potrebbe essere pericoloso quel…”
“E allora non rompere e vai a sistemare le tue patetiche formalità, che è l'unica cosa in cui non hai rivali di bravura.” Aveva infine borbottato lui tra una manovra e l’altra, prima di salire, accendere il motore e partire a tutta velocità verso il nuovo incarico sotto lo sguardo offeso e irritato della sua assistente. |
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Capitolo 2 *** Atto I ***
“Lo sai che ore sono, Al?”
Siamo alle solite.
Due occhi che la fissavano, trasudando una luce formata da un composto di irritazione, severità, preoccupazione e rassegnazione, incorniciati da un volto impegnato in una lunga battaglia con le rughe, completo di barba e capelli bianchi, che tuttavia si ostinavano ancora ad opporre una dura resistenza alla calvizie. Lo sguardo di un familiare preoccupato, come al solito, per le sue uscite dalla durata priva di regole, dettate solo e unicamente dal suo piacere di vivere nella sua vera e unica madre: la natura, in tutte le sue forme, con tutte le sue meraviglie, libera dalle imposizioni e dalla negatività della gente, unica in grado di farle ritrovare la libertà del proprio spirito.
“Così mi fai sembrare un maschio.”
“Non cambiare discorso.”
A occhio e croce, dovevano essere circa le 8:40 della sera, non serviva un orologio per intuirlo: bastava guardare il blu profondo, che andava via via tinteggiandosi di una tonalità sempre più scura, del cielo sopra le loro teste. E, come al solito, tornava a ripetersi la solita storia: si era superata un’altra volta, per l’ennesima volta, con il limite di tempo impostole per restare fuori. Era circa la quinta occasione, quella settimana, tutto, tranne che una novità. Da anni frequentava quel posto, non aveva smesso un solo giorno di visitarlo, ormai era entrato in simbiosi con lei: fronde dalle grandi ombre, foglie che arrivavano a raggiungere le dimensioni di un melone e di migliaia di diverse sfumature di verde, una sfilata di bacche di ogni forma e colore ad ogni angolo, trecce e ghirlande delle più svariate forme, rampicanti tutti attorcigliati in deliziose decorazioni vegetali intorno ai rari segni del passaggio dell’uomo in quel cuore di natura pura. Il fatto era che lei stessa si rifiutava di contare il tempo mentre si trovava in quel concentrato di bellezza della flora della sua città natale, lontana dalla civiltà che le stava stretta, in compagnia invece del rumore dell’acqua che scorre, della brezza birichina che le faceva dimenticare ogni pensiero appiccicoso e che si divertiva a ricoprirle il viso di foglie fragili quando lei si limitava a riposare il fisico sulla distesa di fili d’erba, della lunghezza di almeno due dita. Ritrovava la libertà in compagnia del pulsare irresistibile della vita al suo stato più puro, della fauna multicolore in continuo movimento, della magia frizzante e onnipresente che risiedeva in gran parte di essa: i Pokemon. Al loro stato più naturale e libero, splendide creature dalle centinaia di varietà multiformi, che seguivano l’equilibrio di un ecosistema superiore, la rendevano partecipe di un miracolo continuo che la maggior parte della gente neanche si rendeva conto di avere: i giardini di Alamos. In confronto a tutto questo, non le importava del buio o di quel ridicolo limite di tempo: lo zio avrebbe dovuto saperlo bene, la conosceva come ben pochi altri. Ma lui, come al solito, si sforzava di ignorare tutto questo e di recitare la parte del tutore severo e rispettoso delle regole nella maniera più assoluta.
“Senti, piccola, il coprifuoco inizia alle nove, vedi di non scherzarci troppo. Se ti fai beccare dopo quell’ora…”
E, ancora una volta, continuava a considerarla troppo estranea a quella natura per considerarla al sicuro da essa: come se non fosse cambiato niente, fingendo di non aver mai conosciuto le ragioni che lei aveva per rimanere indipendente da uno vincolo come quello. Era proprio vero, il lupo perde il pelo, ma non il vizio:
“Non ho mai fatto, né mai lo farò, qualcosa di così pericoloso, laggiù, lo sai. Ti prego, non chiamarmi più così spesso ‘piccola’. Ho tredici anni, ormai.”
Il suo anziano tutore cambiò espressione, abbandonando il classicismo tipico dell’aria del genitore preoccupato per la lunga assenza dei figli, assumendo più quella sincera di coloro che conoscono bene il rischio a cui ciò a cui tengono è più vicino: “Non è il coprifuoco in sé che mi preoccupa, è il perché lo hanno imposto la cosa che dovrebbe importarti!”
Il perché. Lo conosceva come le sue tasche da anni, il perché. Ed era l’unica per la verità a conoscerne la vera causa, ma questo era un segreto fra loro due: e questa causa era sempre rimasta una cosa che lui, dopotutto, non sarebbe mai riuscito a capire, o almeno involontariamente, anche con tutte le informazioni del mondo. Quindi era inutile tentare di rispiegargli da capo quella situazione. D’altro canto, lui non lo faceva certo con cattiveria: era solo affetto, come ogni familiare che si rispetti, da una genuina iper-protettività. E a una parte di lei tutto sommato questo atteggiamento affettivo non dispiaceva. Tuttavia continuava a sembrarle innaturale tutta quella prudenza, probabilmente era una questione di abitudine. Non era da molto tempo che lei e l’intera popolazione della città avevano dovuto cominciare a sottostare a quel coprifuoco ferreo, totalmente privo di eccezioni, costretti a rientrare prima delle nove e a barricarsi in casa per tutta la notte. Il motivo era chiaro: nascondersi, proteggersi da ciò che viveva là fuori. Apparentemente, quel qualcosa che lei conosceva meglio di chiunque altro era attivo solo durante la notte, qualcuno avrebbe potuto pensare che si trattasse di uno spirito di quelli presenti nelle leggende popolari. Si trattava di un qualcosa di troppo evasivo, scaltro e antico da poter essere contrastato con convenzionali armi umane. Lei ne era a conoscenza da tempo, e non molto tardi se ne erano dovuti rendere conto anche tutti gli altri: non erano stati pochi i cacciatori che erano partiti per farlo fuori, e tutti avevano finito per accorgersi ben presto che, davanti a quell’essere, il più grande predatore del mondo poteva trasformarsi nella preda più inerme. La rinuncia era stata immediata. E a questa soluzione erano potuti unicamente, semplicemente giungere: trascorrere in questo modo tutte le sere e tutte le notti, al fine di garantire la sicurezza massima mentre si pensava a un modo definitivo per liberarsi di una creatura del genere. Così trascorrevano i giorni, ad Alamos, tutti chiusi nelle loro tane, decisi a non mettere piede in un posto che non conoscevano, in cui risiedeva il loro terrore perpetuo.
Tutti, tranne lei. Era nata per respirare l’aria aperta, lasciarsi pettinare i riccioli color oro dal vento, rimanere al chiuso non era nella sua natura: e, soprattutto, fin da bambina aveva trovato, in quelle meravigliose foreste che costituivano quasi interamente quei giardini lussureggianti, un posto che leniva e soprattutto arricchiva enormemente la sua vita, che faceva molta fatica ad abbandonare ogni giorno. Come potevano chiederle di rimanere a guardare un simile spettacolo della natura, che aveva il potere di farla rinascere, dietro un vetro ostile che non le permetteva di addentrarvisi? Non era ribelle, non più del necessario, almeno, ma tutto il suo essere si rifiutava di sottoporsi a un impedimento del genere. Per questo lo zio altre volte era andato terribilmente vicino ad arrabbiarsi come una furia, ma non poterlo biasimare non significava che avesse il dovere di obbedire a una regola, nel suo caso, tanto assurda.
“Lo so bene. Se posso osare, anche meglio di te.”
Nell’incrociare di nuovo i suoi occhi fece del suo meglio per trasmettergli tutto ciò che voleva che lui ricordasse: anche lui conosceva benissimo le ragioni di quella situazione, del suo atteggiamento incomprensibile per la maggior parte dei cittadini, e sforzarsi di ignorarle certo non le avrebbe cancellate. E lei, in ogni caso, non voleva che fossero cancellate. Lo zio sembrò finalmente rassegnarsi a quelle consapevolezze reali, che avevano il potere di vanificare ogni suo zelo nei confronti della nipote, e la luce della preoccupazione nel suo sguardo dovette sparire con la coda fra le gambe di fronte a quella realtà innegabile di cui era a conoscenza da tempo: “E va bene, lasciamo stare. Ma regolati, la prossima volta, non voglio che ti succeda nulla di male. Mi fido di te, lo sai, ma quello è una storia ben diversa, credo ti sia ben chiaro il concetto.”
“Lo so molto bene, non preoccuparti per me.” Era una frase così sincera che neanche lui riuscì a mantenere una minima ombra di broncio, e in breve tempo il loro solito rapporto ottimista tornò quello di tutti i giorni: “Vieni, avanti, mangiamo qualcosa per cena.”
“Sì, zio Godey.” Quella risposta ebbe l’ennesimo effetto di fargli battere la mano sulla fronte rugosa con una rassegnazione divertente: “Insomma, Alicia, quante volte devo ripeterti che io, comunque, non sono tuo zio? Si può sapere perché…”
Lei si limitò a liberare un sorriso birichino sul suo viso dai lineamenti delicati, ancora con i tratti innocenti di una bambina: “Non lo so neanche io. Probabilmente perché mi ricordi quello che avrei avuto in condizioni normali.”
Godey si limitò a borbottare qualcosa tra sé, come di consueto, un’altra delle sue abitudini che le faceva venire da ridere: le espressioni che assumeva in quei momenti, nell'istante in cui si rendeva conto di essere totalmente impotente di fronte alle idee e abitudini di un altro, erano di una comicità adorabile: “Per la centesima volta: ammetto che ho accettato di prendermi cura di te quando… è stato necessario. Però questo non significa che abbiamo un legame di sangue, dovresti ricordarti che hai ancora delle origini e una famiglia.”
Neanche in quella frase c’era una minima traccia di cattiveria, tuttavia bastarono quelle poche parole a permettere all'improvviso a un ricordo marcio e cattivo di penetrare nella testa di Alicia senza essere invitato, strappandole di bocca una frase che non avrebbe mai voluto realmente pronunciare:
“’Una’ mi sembra un po' un parolone. A questo punto la chiamerei mezza famiglia.”
Seguì almeno mezzo minuto di silenzio carico di una consapevolezza malinconica e senza speranze. Purtroppo era stato più forte di lei. Sebbene valesse una certa dolorosità pensare a quell’argomento, non riusciva a sopportare il sentirgli dire cose sulla famiglia che non sapeva. Cattiveria o meno, non aveva diritto di dare sentenze su ciò che era successo, come non poteva negare che quella non era una vera famiglia, anche se lo faceva a fin di bene. Fu con estrema serietà che Godey riprese per primo la parola, anche se lei era abbastanza intelligente da capire da sola che non si poteva lontanamente pensare di scherzare su un discorso simile: “Non credere che non dispiaccia anche a me, piccola. Tuo padre ancora non vuole proprio tornare, e lo capisco. Per quanto riguarda…”
“Ti chiedo scusa. Tempo fa avevamo deciso di non parlare mai di quello che è successo. Sbaglio, forse?”
Era stata abbastanza rapida da impedire che quella conversazione prendesse una piega veramente spiacevole: “Hai ragione, Al. Dai, vieni e non pensiamoci più.”
Il litigio almeno era riuscito a non degenerare. Alicia aveva fatto del suo meglio per mantenere la voce ferma durante quella complicata conversazione, ma anche per Godey era difficile gestire quel discorso. Volle comunque mantenere il broncio per qualche minuto, giusto per ricordargli che mettere in ballo un argomento del genere non era tra i primi posti della sua lista dei desideri, mentre si limitava a venirgli dietro verso casa: “Che preferenze abbiamo stasera per cena?” “Fa un po’ freddo negli ultimi tempi, ci stiamo beccando proprio un bel vento di tramontana. Spero ti piaccia qualcosa di caldo.” “Concordo pienamente.” Non che il clima avesse mai comportato particolari problemi ad Alamos, almeno per quanto riguardava l’ambiente naturale: anche i Pokemon sapevano badare perfettamente a se stessi, c’era sempre una quantità di cibo più o meno sufficiente, e i più sfortunati al massimo si arrangiavano con qualcosa di diverso dalla loro dieta. Persino con quel predatore in giro la situazione, di giorno, sembrava fra le più comuni e normali. Era il buio a produrre l’effetto devastante di rendere il centro abitato una città congelata, abitata unicamente da un silenzio tombale. Ed era allora che lui si decideva a venire allo scoperto. Le tornò in mente la preoccupazione eccessiva di Godey, il che bastò a farle venire quasi da sorridere: a dir la verità, fatta eccezione per lui, che era a conoscenza di tutto da anni, in effetti chiunque avrebbe pensato che lei fosse quella che più, fra tutti, avrebbe dovuto rispettare il coprifuoco. Giovane, sempre disarmata, per di più anche di sesso femminile, l’ultima persona che potesse azzardarsi a violarlo. Invece non aveva alcuna ragione di temere quella situazione tanto scomoda, il motivo di tanta prudenza non le dava alcun timore: dopotutto, lei sapeva perfettamente che quell’essere non l’avrebbe sfiorata con un dito. Per lei era tutto, tranne che un pericolo; semmai la proteggeva, persino. Ma da tempo aveva capito fin troppo bene che la gente aveva le sue idee, e non si poteva fare nulla per cambiarle, almeno non senza una forma di guerra: così si limitava ad obbedire, senza ragioni apparenti, quando il suo unico intento era quello di non creare ulteriori problemi a chi le era rimasto intorno.
Fece appena in tempo a entrare in casa che lo Starly di cui si stava prendendo cura era sfrecciato dritto contro la sua faccia, cominciando come al solito a mostrare il suo vizio affettuoso di beccarle e tirarle ossessivamente i capelli: probabilmente gli ricordavano il nido che da tempo quella bestiola non vedeva, da quando si era beccato di striscio quella pallottola sull’ala che lo aveva fatto cascar giù dal suo adorato ramo come una pera cotta, facendogli dimenticare per un po’ la capacità di volo. Del quale, alla fine, aveva deciso di occuparsi lei, d’altronde il paffuto storno grigio era sempre riuscito a piacerle: “Pulcino, così mi strappi tutti i capelli. Non preoccuparti, ce l’ho, un pettine.”
Fece appena in tempo ad afferrare di peso quel corpicino piumato e a toglierselo dalla fronte che un tuono decisamente poco accogliente fece tremare i timpani di tutti allo stesso modo con cui si usa l’ariete per buttare giù una porta. Starly era inevitabilmente andato nel panico, andandosi a nascondere dritto fra i suoi riccioli in fretta e furia.
E ora chi lo tira più fuori…
“Volevo ben dire. Il tempo peggiora di giorno in giorno,” Borbottò Godey, iniziando a occuparsi della cucina: “Se quel pulcino è così reattivo probabilmente è colpa mia: mica potevo farlo uscire, sarebbe equivalso a un omicidio.” “Me ne occupo io,” Fu la risposta veloce della ragazza, mentre cercava di convincere in tutti i modi la bestiola a staccarsi dal nascondiglio dei suoi capelli: non era la prima volta che si portava dietro un selvatico dai giardini per una provvidenziale cura veterinaria, era un po’ la sua passione segreta, aveva scoperto gradualmente in se stessa una particolare predisposizione alla medicina da quando era piccola. E così, appena le capitava l’occasione, metteva in pratica le sue abilità ogni volta che trovava un qualche animaletto di cui prendersi cura. Godey, come tutti i tutori, inizialmente era rimasto piuttosto infastidito da questa sua mania, ma riconosceva anche che quella ragazza aveva talento, e aveva finito per lasciarglielo fare.
“Dopotutto è quello che mi sono ripromessa di fare, almeno finché non sarà in grado di volare in maniera perfetta.”
“Bene, perché non mi ha dato retta un secondo, ascolta solo te. Come tutti gli altri, del resto. Vedi un po’ se riesci a farlo stare calmo ancora per un altro giorno, è da questo pomeriggio che svolazza come un matto.”
Non saresti così agitato se non ci aspettasse ancora un lungo periodo di maltempo... non è così?
Alla fine, in un modo o nell’altro, riuscì a toglierselo dalla chioma, cominciando a coccolarlo e avvicinandolo al proprio diaframma, la percezione di un respiro calmo sui cuccioli era contagiosa: “Quante volte ancora dovrò ripeterti di dimenticarti dei miei capelli, palletta di piume? Guarda che a volte fa male, sai?” Un’arruffatina di penne ed ecco che lo Starly, sebbene ancora con qualche nervo a fior di pelle, tornava a fare il cucciolo ubbidiente. Eppure continuava ad essere agitato in maniera innaturale: la sua tensione non riguardava solamente un temporale imminente, altrimenti si sarebbe calmato di più: qualcosa era in arrivo. Qualcosa che aveva a che fare col suo mondo, col suo equilibrio. Una minaccia. Il pensiero che le venne fu automatico.
Lui…
Già il pulcino aveva ricominciato a innervosirsi. Alicia però era già abbastanza stanca per la giornata trascorsa, non voleva mettersi pure a pensare a una cosa simile: si limitò a sperare che fosse qualcosa di non immediato, non era certo il momento migliore per preoccuparsi anche di questo. Licenziò il piccolo Pokemon senza pensarci troppo: “Va’ a nanna, pulcino, ci penseremo domani. Vedrai che non è niente, pensa a rimetterti. Vai, su!” Il piccolo uccello si era ostinato a continuare a fissarla con apprensione, ma si era costretto ad ubbidire e a tornare nel suo nido improvvisato.
Ci mancava solo questa. Proprio ora…
Non vedeva l’ora di affogare quelle idee cariche di tensione nel piatto della cena: tornò da Godey appena in tempo per vederlo sistemare la pentola di zuppa sul tavolo per la cena: “Allora? La piccola peste Volante è andata a dormire?” “Sì, zio, tutto a posto, era solo un po’ nervoso per il tempo.” “Quante volte ancora dovrò ripeterti che… ah, lasciamo perdere. Beh, forza, in tavola, piccola.”
Ecco, ci risiamo.
Un sorrisetto carico di serena rassegnazione le piegò i lati della bocca verso l’alto: non sarebbe mai riuscita a farsi considerare da lui come una persona adulta, l’aspetto troppo grazioso e innocuo che le aveva conferito la natura non glielo avrebbe mai permesso. Beh, nessuno è perfetto, e la vita fin troppo spesso non è mai come la si vuole, solo gli stupidi si rifiutano di accettarlo.
Aveva appena fatto in tempo a sedersi e a scostarsi i ricci ribelli dal viso che un bussare esasperato alla porta d’ingresso, che riusciva a distinguersi perfettamente dal temporale ormai cominciato, aveva interrotto tutti i progetti di una tranquilla serata in ‘famiglia’.
Godey era sempre stato un tipo piuttosto prudente, per quanto ricordava, e automaticamente si irrigidì, intimandole di fare silenzio e non muoversi. La ragazzina si limitò a fissare la porta chiusa con tanto di lucchetto e catena, aspettando con pazienza e prudenza che lo zio analizzasse la situazione. Di nuovo il bussare riprese con ancora più forza, e stavolta accompagnato da una voce maschile e potente, al contempo però stanca e disperata per motivi ben intuibili: “Per favore, aprite! Chiunque voi siate, aiutatemi, sono stato sorpreso dall’imminente tempesta di vento, e non ho un posto dove andare! Non possiedo alcuna arma, vi prego, fatemi entrare!”
Godey osservò sospettoso il visitatore dalla piccola fessura della porta, come era consueto fare. Dopo qualche minuto, tirò un sospiro di sollievo.
“Al, vieni a darmi una mano con il catenaccio, lo sai che è troppo pesante anche per me.”
Alicia si limitò a roteare le pupille, non tanto per la scomodità del compito in sé, ma perché le risultava piuttosto fastidiosa l’idea di dover interrompere una serata tranquilla come quella a causa di un perfetto sconosciuto scampato alla furia degli elementi naturali, però si costrinse ad alzarsi a malincuore e ad andare ad aiutare il suo vecchio a sganciare la catena. Infine, Godey aprì anche lucchetto e uscio, rivelando il visitatore: “Prego, entri, si muova, il vento stanotte è davvero di potenza inaudita.” Alicia rimase a fissare l’uomo con aria sorpresa e incuriosita: un tipo che non aveva mai visto in vita sua, le dava una sensazione strana: dal fisico e la statura poteva avere una trentina d’anni, però i capelli avevano una inusuale sfumatura grigiastra, innaturale per la sua età. Il gilet blu scuro che indossava era gonfio d’acqua, doveva essersi perso proprio nel pieno della tempesta di pioggia, era totalmente fradicio.
“La rin… ringrazio. Porca miseria, là fuori si gela fin dentro le ossa. Tu guarda la fortuna, ho beccato il temporale proprio nel bel mezzo del viaggio. La prego, non ho un posto dove potermi riparare, posso chiederle di ospitarmi in casa sua per questa notte?” Godey dapprima aveva continuato a fissarlo con aria ancora sospettosa, ma dopo essersi assicurato del fatto che non avesse armi pericolose a sua disposizione (escluse due-tre costose sfere a chiusura manuale, che dovevano contenere i suoi Pokemon, ma non erano più di tanto un problema) scelse di accettare senza lamentarsi: “Certo, si accomodi. La casa non è molto grande, ma abbiamo un piccolo magazzino nel retro, potrà dormire lì stanotte. È d’accordo?”
“Non chiedo di meglio.”
“Perfetto. La prego, non voglio essere particolarmente sospettoso, ma vorrei tenere io le sue sfere. Non si preoccupi, qui trattiamo tutti i Pokemon con la massima cura.” Quello fu l’unico dettaglio che lo sconosciuto tollerò di malavoglia, in quanto fu costretto a consegnargliele tutte e tre, ma, se non l’avesse fatto, lo avevano capito tutti, Godey avrebbe preso provvedimenti. Dopo aver notato quel particolare, Alicia decise che sarebbe stato comunque molto meglio non inimicarsi quel tizio, e scelse di mostrare il suo lato più gentile e amichevole per rompere il ghiaccio: “Venga, deve asciugarsi, non può restare a congelare così. Gradiremmo molto se cenasse insieme a noi.” Lo straniero aveva sul momento alzato un sopracciglio nella sua direzione, evidentemente non gli andava troppo di farsi scortare da una ragazzina, ma cercò di mostrarsi comunque benevolo: “Oh, che ragazzina dolce e carina, è sua nipote, per caso?” Godey scosse la testa: “In realtà no, anche se sembra a tutti così. L’ho presa in custodia per via di suo padre, è sempre in giro per il mondo per lavoro, non la vede da anni, ormai. Persino lei stessa ha cominciato a considerarmi come suo zio.” “Esatto,” Aveva risposto lei con un sorriso per nascondere il fastidio che già provava per quel tipo sospetto che si era presentato all’improvviso a casa loro senza essere invitato: “Zio Godey è un grande. La accompagno io, ho ciò che fa al caso suo.” La sua risposta trasudava una simulata gentilezza: “Certo, piccola, con piacere.” Alicia continuò a mandare avanti il gioco, assumendo l’aria più innocente che avesse. Certo non si era offerta di accompagnarlo per simpatia, anzi: ma anche se Godey lo aveva privato delle sue potenzialmente pericolose sfere, lei non si fidava minimamente di uno come quello, e l’ultima cosa che desiderava era farsi cogliere di sorpresa da un tiro mancino da parte di uno sgradevole sconosciuto. Per cui erano necessarie due cose: tenerlo d'occhio e guadagnarsi la sua fiducia.
Alicia guidò lo sconosciuto verso il piccolo guardaroba di cui erano in possesso, tirando fuori il primo capo di abbigliamento per il freddo da uomo che le capitò sotto mano: “Prego, si servi pure. Non so se sono della sua taglia, ma sempre meglio di niente, non crede?” Li aveva accettati in maniera neutra, totalmente indifferente: “Ti ringrazio… aspetta, come ti chiami, piccola?”
E siamo a due.
Non fu facile trattenersi dallo sbuffare infastidita: zio Godey era un conto, e lei non era mai stata il massimo dell’altezza, ma farsi chiamare ‘piccolo’ da uno sconosciuto è assai più irritante.
“Alicia. Mi chiami pure Al, qui mi chiamano tutti così.” La risatina ipocrita e forzata che ne seguì non poté fare a meno di solleticarle i nervi ancora di più, non vedeva l’ora di toglierselo dai piedi: “Perché, con un nome così carino, ti fai dare un soprannome maschile?” “Questione di abitudine. Beh, si cambi, su, mica vorrà rimanere a congelare…”
Che domande ovvie e forzate stava facendo quello: chissà che cavolo pensava di fare con quella sceneggiata, se non aveva voglia di fare conversazione poteva mantenere un sacrosanto silenzio e basta, la cosa infastidiva entrambi. La ragazza rimase incollata alla porta della stanza nella quale si stava cambiando per tutto il tempo: quel tipo non le stava semplicemente antipatico, e non solo perché si ostinava a recitare una parte: sentiva che non era arrivato lì per caso, aveva una brutta sensazione al riguardo, e raramente le era capitato di sbagliarsi. Lo tenne d’occhio come un cane da guardia anche dopo che uscì e si unì a loro per la cena, mentre Godey versava una bollente zuppa vegetale nei piatti per tutti: “Dalla pentola al piatto, ecco a voi. Roba di qualità, l’ha scelta personalmente la mia ‘nipotina’: le assicuro che nonostante la giovane età è una vera intenditrice, non rimarrà deluso. Si servi pure.”
Appena il tempo di mettergliela davanti, dopo brevissimi attimi di educazione, e lo straniero si gettò sulla pietanza come se non avesse mangiato da due settimane. Godey era rimasto così allibito, e con una faccia così divertente che per poco Alicia non scoppiò a ridere, da rischiare un tic all’occhio destro:
“Cielo… mi scusi, ma lei da quanto tempo non mangia decentemente?” Fu come se si fosse risvegliato da un’ipnosi, lo sconosciuto sembrò rendersi conto solo in quel momento dello spettacolo che stava dando, e si affrettò a recuperare un po’ di contegno: “Eh? Oh… oh, cavolo, mi dispiace, mi scusi tanto. No, davvero, mi perdoni, sono ospite in casa sua e non ho nemmeno il contegno di comportarmi come si deve: sa, sono in viaggio da molto tempo, mi sono perso più volte, e ho finito in breve tutte le mie provviste. Mi sono dovuto adattare con quello che ho trovato in giro, e devo ammettere che la sua zuppa è davvero ottima!” “Capisco…”
Godey mantenne una dignitosa freddezza: certo non gli era passato inosservato il fatto che la ‘nipote’ fosse così sospettosa nei confronti dello sconosciuto, e scelse di non immischiarla nella conversazione; si limitò a pensare alla propria porzione e a raccogliere qualche informazione sul conto del pellegrino, mentre Alicia si conteneva dal ficcare la faccia nel piatto per evitare di guardarlo in faccia:
“Il suo nome?”
“Mott, vengo da Memoride. Credo abbia già capito che sono un viaggiatore. Meno male che sono riuscito a trovare la strada, e se non fosse stato per la sua ospitalità a quest’ora chissà che ne sarebbe stato di me!”
“Vedo che è Allenatore, ha delle sfere con sé. La sua famiglia deve essere piuttosto facoltosa se può permettersi certi lussi. Ha detto di essere un viaggiatore, ma anche di aver ‘trovato la strada’. È diretto da qualche parte in particolare?”
Mott annuì immediatamente: “Sono in missione. Mi hanno offerto un nuovo tipo di incarico, qui, ad Alamos. In realtà, quelle sfere mi sono state lasciate in eredità, le assicuro che sono tutt’altro che ricco, anzi, le confesso che sono un po’ in crisi con il denaro, per sbarcare il lunario ho bisogno di soldi. Per cui ho preferito arrischiare un viaggio così lungo, sa, mi hanno promesso un buon stipendio. Purtroppo… non potevo immaginare che sarei incappato proprio in una simile burrasca.”
E non potevi rimanerci, nella burrasca, invece di portarla in casa nostra?
Alicia mandò giù un boccone per resistere all’impulso di parlare.
“E lei?”
“Mi chiamo Godey. Sono… architetto. Ex architetto, lo ammetto, al momento non sono nel pieno della mia fase inventiva, così mi sono preso una pausa, per ora trascorro il mio tempo qui, con la mia cara Alicia, vicino ai giardini della città. Diciamo che sono ‘in vacanza’.” Il viaggiatore si era come illuminato, cercando subito di focalizzare il tutto su quell’argomento: “Ah! I giardini di Alamos! Come non conoscerli? Hanno una fama che supera i confini del mondo! Suppongo che il turismo qui vada a gonfie vele! Potrò visitarli anche io durante la mia permanenza in questa città?”
Alicia strinse i denti di nascosto. Di bene in meglio, non solo quel tizio le stava simpatico quanto una zanzara tigre, ma cercava anche di andare a parare su qualcosa che, quelli come lui, non avrebbero mai dovuto conoscere.
Oh, cavolo… accidenti a lui.
Era interessato ai giardini di Alamos. Quella sua pericolosa curiosità aveva già cominciato a confermare i suoi sospetti: c’era qualcosa, in quelle foreste cariche di magia dei Pokemon, che aveva a che fare con lui. E aveva paura di ammettere quale, perché in cuor suo lei ne sapeva qualcosa. Mandò una veloce occhiata d’intesa allo zio.
Non deve avvicinarsi ai giardini di Alamos.
Godey sembrò capire qualcosa dalla sua espressione. Si rabbuiò immediatamente, interrompendo la conversazione, ma ciò non fece altro che interessare maggiormente il perplesso straniero: “Mi perdoni… ho detto qualcosa di sbagliato?” Godey cambiò tono come messaggio per Alicia, cominciando a pensare rapidamente a cosa mettere in ballo per tenerlo lontano da qualunque cosa avesse intenzione di fare, una volta che quell'uomo fosse venuto in possesso di informazioni troppo delicate: “Sa… questo non è un buon periodo per il turismo. Per la sua sicurezza, appena si sarà riposato, torni a casa sua il prima possibile. È una brutta stagione.” La curiosità del viaggiatore diventava sempre più molesta:
“Per il maltempo?”
“Già, ma non solo: brutti giorni, questi. C’è un pericolo pubblico in zona, notturno.”
“Sì? Di che tipo?”
“Non è una bella storia, non so se mi spiego. Però, dato che lei è qui… è giusto e bene che lo sappia, per la sua sicurezza.”
“La ascolto.”
Fagli paura. Spaventalo abbastanza da farlo scappare, deve andarsene lontano da quel posto.
Alicia tese le orecchie come un pastore tedesco per cogliere ogni minima parola: si era ripromessa di non intervenire, ma avrebbe fatto di tutto per allontanare quell’uomo.
“Ogni volta, in questo periodo dell’anno, è assolutamente vietato a tutti gli abitanti della città di uscire e di andare in giro dopo le 9:00 di sera. È per questo che la nostra porta è dotata di sbarra, lucchetto e catenaccio, e le serrande sono tutte sigillate a dovere. E non si deve assolutamente uscire prima delle sette del mattino. Sapessi… ogni volta Al mi fa disperare, per poco non viola il coprifuoco ogni sera, è nata per stare all’aria aperta, resta sempre nei giardini. Ma… è proprio quel luogo… che dobbiamo assolutamente evitare… assolutamente… di notte.”
“Di notte?” Chiese ancora il pellegrino, sempre più interessato: “La prego, non resisto, mi dica il motivo per cui hanno inserito un coprifuoco così rigido! Cosa c’è… là fuori?”
La vuoi piantare?
Pettinarsi i capelli chiari dietro le spalle per scaricare la tensione non le servì assolutamente a nulla: c’era un’insaziabile curiosità sotto le iridi di quell’uomo, ed era la cosa che più temeva di lui, sperava con tutta se stessa che quelle sue fauci non avessero nulla di ciò che bramavano.
“Vive nei giardini. Lui... lui che ne ha fatto il suo regno e non permette a nessuno di entrarci e uscirne illeso.”
“Lui… chi?”
“Una bestia di potere oscuro.” Fu l’ultima, tetra, risposta secca di Godey, per interrompere lo spiacevole scambio di informazioni. Mott era rabbrividito per un attimo, cominciando persino a sudare freddo. Era sufficiente? Era abbastanza spaventato da non curiosare ulteriormente?
Alicia sperò di sì con tutta se stessa, ma scelse comunque di tentare di rassicurarlo per conquistarsi la sua fiducia: “Non deve preoccuparsi, glielo abbiamo detto, il coprifuoco è molto rigido, finora tutti quelli che lo hanno rispettato continuano a vivere una vita normalissima. Può stare tranquillo, qui è al sicuro. Domani, però, davvero, le consiglio vivamente di ripartire per casa sua, o rischierebbe di incontrarlo. Di notte, nel cuore delle tenebre, si aggira per i giardini di Alamos col silenzio di un serpente velenoso, colpisce e svanisce prima ancora che lo si senta arrivare. Chiunque si trovi nel suo territorio quando lui c’è… gli intrusi… insomma, non hanno più fatto ritorno.”
Mott cercò di controllare la punta di panico mandando giù l’ultima cucchiaiata di zuppa, eppure sembrava non avere alcuna intenzione di fermarsi.
Ma perché non ti decidi a farla finita?
“Bestia di potere oscuro… il nome dice tutto. È così che si chiama… questa specie di mostro?”
Mostro.
Quella parola provocò in Alicia una reazione inaspettata, che fino a quel momento lei aveva creduto di poter bellamente ignorare, perché tutti credevano fosse solo una stupidaggine: eppure bastava così poco ed ecco che sentiva quella parola insulsa e odiosa saltar fuori con violenza dalla bocca di qualcuno. Ultimamente l’aveva sentita così spesso da non riuscire quasi più a tollerarla, nonostante cercasse di lasciar correre il tutto senza farsi problemi. Probabilmente perché, ormai, lui era diventato qualcosa che faceva parte di lei.
Lui… lui è…
“Mostro? Le creature non umane non sono mostri, sono solo diverse da noi!” Solo quando vide che Mott era rimasto di sasso la ragazza si accorse di come fosse saltata in aria: non era riuscita a sopportare l'arroganza di quel tipo. Ma lei avrebbe dovuto contenersi, in quella maniera rischiava di rovinare tutto e di insospettire ulteriormente lo sgradito sconosciuto: “Mi scusi. Solo che… insomma, io credo che i ‘mostri’ non esistano. Nessun animale o Pokemon può essere così marcio e corrotto da arrivare ad essere definito tale, non sono come noi, è una questione di principio. Mi perdoni, non posso fare a meno di dirci qualcosa sopra. Però…”
Fissò Godey con un occhio carico di panico:
Dammi una mano!
“Questo non significa che quella creatura non sia assolutamente pericolosa,” Intervenne subito l'ex-architetto in suo soccorso con serietà e controllo, intimandole con lo sguardo di restare calma: “Se non avessimo instaurato il coprifuoco… ancora adesso abbiamo il timore di non riuscire a proteggere tutto. In questi giorni i nostri animali negli allevamenti vengono decimati, non molto tempo fa ne abbiamo trovato uno non troppo lontano dai giardini sbranato. In fondo Al ha ragione, non si tratta di una specie di mostro: quella creatura è semplicemente affamata, e, considerato che non si azzarda a toccare i Pokemon dei giardini, presumo capacissimi di nascondersi e difendersi, penso proprio che la fame la spinga a recarsi nella nostra zona. Per fortuna negli ultimi tempi abbiamo preso più precauzioni, e siamo riusciti ad azzerare le vittime. Questo significa anche… che ormai la fame spingerebbe quella bestia a fare qualunque cosa. Finché non se ne andrà, dobbiamo assolutamente stare lontani da quel posto. Per nostra fortuna, rimane solo in questa stagione dell'anno. E piuttosto che rovinare un ecosistema, la nostra città è ben disposta a instaurare un coprifuoco e a sopportare per qualche mese.” L’atmosfera si era fatta paradossale: Mott, nonostante tutte quelle rivelazioni più simili a un racconto dell’orrore che altro, con sommo sgomento di Alicia, si era tranquillizzato, e non riusciva più a simulare spavento in maniera davvero convincente: “La bestia notturna… non ne ho mai sentito parlare. Non avevo la minima idea che esistesse una creatura così pericolosa e letale da portare un nome del genere.”
“Oh,” Rispose Alicia, finendo la minestra e pregando disperatamente di sistemare quella faccenda:
“Lui ha…”
Fu la tromba d’allarme a salvarla. Alamos si stava adattando alla modernizzazione, ma gli abitanti amavano ancora certi tocchi tradizionali, e avevano deciso di usare un suono di tromba in caso di emergenza. Godey rabbrividì, e batté il pugno sul tavolo con aria decisamente scocciata:
“Questa è sfortuna! Ma insomma, si sa che il parlarne porta sciagure, ma anche al solo…”
La tromba suonò di nuovo. Godey sospirò con malavoglia, abbandonò tavola e conversazione e corse a infilarsi un pesante cappotto, con somma sorpresa dell’ospite, per poi portarne un altro per lui e uno più piccolo anche per Alicia. Infine, si decise a dare qualche spiegazione di base anche per il nuovo arrivato, che non sapeva più dove sbattere la testa: “Mi ascolti bene, Mott, siamo alle solite; mi segua e faccia assolutamente tutto quello che le dirò, per garantire la sua incolumità. Stavo per spiegarglielo teoricamente, ma a quanto pare dovrà adattarsi subito alla pratica.”
“Eh? Aspetti, ma… pratica?” Aveva ribattuto lui, fissando sbalordito e confuso il cappotto che Godey gli aveva messo in mano senza accettare obiezioni.
Mi tocca, eh... beh, lasciarlo qui certo non possiamo.
Alicia si limitò a infilarsi scocciata i capelli sotto il cappotto e a calarsi il cappuccio sugli occhi, rassegnandosi ad esporre la rognosa situazione: “Glielo spiego io durante il tragitto, signore. Dia retta allo zio, è una questione di vitale importanza. Faccia tutto quello che facciamo noi, perché temo che sarà una bella complicazione.”
Mott fu costretto a infilarsi il cappotto a sua volta, senza ancora essere riuscito a capire minimamente quale fosse il problema, e uscì con loro dopo averli aiutati con sbarra e catenaccio. Fuori il vento per fortuna sembrava essersi calmato, ma la pioggia continuava a cadere impetuosa, per niente stanca di bombardare il terreno.
Mentre correvano come pazzi verso un pascolo sulla collina erbosa, poco distante dai giardini, si imbatterono in poco tempo in un gruppo di allevatori letteralmente nel panico, ma che appena li videro riuscirono a tranquillizzarsi in pochi secondi.
Neanche avessero visto la fata della luna...
“Oh, finalmente, e grazie al cielo! Godey, Alicia, meno male che siete qui! Il gregge di Alan proprio qui sotto è impazzito, serve l'aiuto di qualcuno che ci sappia fare con i Pokemon.” “Dove si trovano i vostri colleghi?” Aveva chiesto l’architetto: “Poco più avanti, stanno cercando di portare le bestie in un posto più sicuro, ma di sicuro prima o poi l’affare che ha scatenato questo caos tornerà all’attacco. Alicia, possiamo contare su di te? Almeno a te danno retta!”
Lei cercò di sorridere per indurlo a calmarsi, ma la cosa non la entusiasmava neanche un po’, soprattutto dopo quella pessima serata: “A vostra disposizione. Dove è necessaria la mia collaborazione?”
In un attimo si erano ritrovati a correre tutti verso la meta: tutto troppo in fretta era accaduto, e Mott non stava capendo più nulla di niente, a malapena aveva compreso come era finito in quella situazione assurda: “Ehi, scusa ma… si può sapere che succede?” Domandò in corsa.
Avanti. Prima te ne liberi meglio è.
Alicia aveva promesso di spiegarglielo, e dovette farlo in tutta fretta domando l’antipatia che provava nei suoi confronti:
“È lui. La bestia di cui le abbiamo parlato, evidentemente ha attaccato il gregge qui sotto. Le difese che hanno instaurato a quanto pare lo hanno eluso, ma dobbiamo portare gli animali in un posto più protetto.”
“Che dobbiamo fare?” Chiese ancora il viaggiatore. Alicia sospirò: come pensava, era necessario fargli il discorso completo, bella seccatura:
“I Pokemon dei giardini mi conoscono, e così anche quelli del gregge. Non per vantarmi, ma mi ascoltano, posso guidarli. Io non corro pericoli.”
“Sei sicura? Quel ‘coso’, la bestia, è un pericolo mortale o sbaglio?” Ribatté Mott, fingendosi preoccupato: sì, figuriamoci se gli importava qualcosa di una piccola estranea come lei, anzi, dal tono che simulava ogni volta che le era vicino sarebbe stato molto probabilmente anche contento di vederla levarsi dalla circolazione. Alicia continuò a correre ignorandolo:“Sì, è vero, glielo abbiamo già raccontato. Ma non si preoccupi, andrà tutto bene, ci siamo già passati. Faccia come le diciamo e non le succederà niente.”
“E se quell’affare attacca?”
“Non lo farà: non gli conviene.”
“Cribbio, se è davvero pericoloso come mi avete detto… se una bestiaccia del genere se la prendesse con noi…”
“Non lo farà, stia tranquillo.”
“Ma… si può sapere che ti prende?!” Fece Mott all’improvviso, nel panico per la propria sicurezza e per il fatto di non capire più nulla: “Poco fa dicevate che è mortale, che attacca e massacra chiunque si addentri nel suo territorio, e adesso dici che non succederà niente? Non lo chiamavi ‘la bestia di potere oscuro’?”
“Oh, sì,” Rispose lei, cercando di controllare la tensione e di impressionarlo al punto giusto, senza esagerare, sperando di essere ancora in tempo per spaventarlo abbastanza da spingerlo ad andarsene entro la mattina seguente: “Lui ha un sacco di nomi. 'Bestia' è la cosa più semplice. In generale è conosciuto come signore della notte, primordiale creatura dal cuore nero…”
Si voltò a fissarlo un’ultima volta prima di aumentare il passo:
“Ormai nessuno osa pronunciare quella parola, c'è la paura che la possa sentire. Ma il suo vero nome…” Parlò con calma, cercando di simulare giusto una punta di timore per impressionarlo:
“Noi lo chiamiamo… Darkrai, l’Oscuro.”
Continua...
Nota dell'autrice: sì, ho riscritto il capitolo. Era venuto male, beh, direi che era la cosa più saggia e utile da fare, e non parliamo di quanto la cosa, purtroppo, mi abbia fatta penare, l’ultima settimana per me è stata una specie di delirio… spero che ci siano notevoli miglioramenti, vi invito a parlarne nelle recensioni, se volete. Beh, arrivederci, miei carissimi lettori ;-)
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Capitolo 3 *** Atto II ***
Una bella faticaccia fu quella notte: per fortuna con l’ausilio dei cani e dei Pokemon da guardia erano riusciti a portare le pecore e i Mareep lontano dai giardini. Brutta rogna, non c’era altro altro da aggiungere, Alicia era esausta, non era un’attività sostenibile per una ragazzina. Godey, al contrario, era rimasto piuttosto soddisfatto, e appena poté la raggiunse subito, lontano dagli occhi indiscreti di Mott, che stava ancora aiutando gli allevatori a portare via il resto dei loro animali:“Sei stata molto brava, Al. Sono certo che è tutto merito delle ore che trascorri ai tuoi amati giardini. Però…” Che sguardo apprensivo, quello di Godey, la ragazza fu davvero tentata di dargli retta:“Ora torniamo a casa. Sul serio.”
Alicia era veramente distrutta, e il pensiero di potersi finalmente abbandonare sul suo letto a riposare la tentava, ma per lei non era ancora il momento di tornare indietro: sia la presenza di Mott che di civili agitati la costringevano a dover fare una cosa che doveva eseguire senza essere vista da nessuno, a parte lui. E Godey lo sapeva, era solo legittimamente preoccupato. Non le era mai successo niente in quel posto florido pieno di natura, ma era naturalmente incapace di ignorare la paura che provava ogni volta all'idea di lasciarla sola con quella creatura. Alicia gli indicò Mott in un momento in cui l'uomo le dava le spalle:“Zio Godey, quel tipo non mi piace affatto. Ha maniere educate, ma ho capito che è un ipocrita. Non è qui per lavoro o in viaggio, era diretto proprio ai giardini, ne sono certa. Credo… che la cosa riguardi… proprio lui."
La fronte dell'anziano architetto si corrugò leggermente, il suo sguardo parlava da solo. Alicia non sopportava quell'espressione, aveva tutta l'aria di volerle impedire di andare dove non si sarebbe rifiutata di dirigersi: "Lo trattano come un animale rabbioso, e continueranno a farlo sempre, ma…” Gli lanciò uno sguardo supplichevole: “Ma in questo momento… sento che è lui che necessita più protezione. Quel tizio… ho paura che sappia molto più di quanto cerchi di far credere. Ti chiedo di trattenerlo, farò il più in fretta possibile. Non fargli capire dove sono andata, non deve sapere assolutamente nulla, se ho cercato di spaventare al meglio quello lì è perché si tenga alla larga e non gli metta le mani addosso. Reggimi il gioco. Ci rivediamo a casa.”
Godey la guardò allontanarsi in silenzio, fu dura trattenersi dal fermare la sua corsa: una ragazzina così giovane, in circostanze normali non le avrebbe mai permesso di fare di testa sua, non doveva fare tutto da sola e caricarsi tutto sulle sue esili spalle, ma sapeva che la sua pseudo nipote aveva ragione. Si erano ripromessi entrambi il dovere di tenere lontano quel luogo sacro alla natura e ciò che esso conteneva dall’avidità e l’egoismo di gente come quella, interessata solo al denaro e poco altro, capace di violare i più sacri confini per il proprio profitto. Solo Alicia poteva salvare quella magia naturale, lo sapeva anche lui. Quella ragazzina possedeva qualcosa di misterioso e intoccabile, qualcosa che era stato capace di aprire un cuore serrato e oscuro, solo una come lei poteva proteggere questi confini tanto fragili. In un certo senso, rappresentava lei stessa l’inviolabilità assoluta della purezza dell’equilibrio naturale. Dopo tutti quegli anni in cui avevano vissuto insieme, Godey ancora non riusciva a capire tutto ciò che le passava per la testa, da dove le venisse tutta quella voglia di vivere nonostante i drammatici avvenimenti che aveva affrontato, quella saggia forza d'animo tanto profonda e innaturale per una bambina. Ma l’architetto lasciò rapidamente perdere quelle riflessioni e raggiunse Mott, cercando di condurlo il più lontano possibile.
Alicia continuava a correre, ed entrò senza fermarsi nel cuore della foresta all’interno dei giardini, lasciando che le minuscole goccioline le imperlassero il viso e i capelli, ormai crespi e selvaggi come un cespuglio amazzonico per via dell’umidità. Il suono delle fronde mosse leggermente dalla brezza e il rumore rassicurante della pioggia sulle foglie la fece sentire meglio. Era qualcosa di familiare, le sembrava di essere a casa. Tuttavia, c’era solo quel suono, il resto era come nascosto, impaurito, non emetteva un solo rumore. Situazione piuttosto inquietante, ma del tutto usuale, quando si trattava di quella creatura.
Mosse un passo, e immediatamente le foglie fradice si piegarono e i rami bagnati si spezzarono al suo passaggio. Non le serviva fingere di essere silenziosa: non correva pericoli, mai, in sua presenza. Vegliava su di lei, lo avrebbe sempre fatto e avrebbe continuato a farlo, era suo dovere restituire il favore. Lo chiamò a bassa voce, un sussurro appena percettibile, nulla in confronto ai richiami che lanciava con la sua mente.
Sono qui. Dove sei?
Non udì nulla. Sarebbe sembrato strano, ma era naturale, il silenzio era il suo alleato migliore. Aspettò con pazienza.
Era diffidente. In lei aveva fiducia, ma certo non negli altri. Doveva assicurarsi che fosse proprio lei. Era il caso di usare la sua piccola prova d’identità.
Si guardò intorno esaminando le piante, sarebbe stato saggio portarsene una dietro da casa, ma nella foga non aveva avuto il tempo di pensarci, e si affrettò a cercarne una nuova. Il materiale a disposizione non era il massimo, ma doveva accontentarsi, e scelse una foglia ovale allungata, piuttosto sottile per i suoi standard, ma sarebbe stata sufficiente per un uso breve. La pioggia non le aveva facilitato la situazione, e cercò di asciugarla come meglio poteva per produrre un suono pulito, in quel momento doveva arrangiarsi. In silenzio, se la portò alla bocca e appiattì la superficie sottile contro il profilo delle labbra, muovendo le dita affusolate sulle minuscole venature, per poi far partire un soffio sommesso. Il suono si spanse intorno a lei, tanto delicato e melodico quanto potente, surclassando dirompente quel silenzio innaturale, seguito da un altro più acuto, poi uno basso, più alto, una sequenza magica e perfetta. Le dita erano le sue direttrici d’orchestra, moderavano perfette l’altezza di quella che diventava via via una musica dolce ed implacabile, che raccoglieva in sé la rabbia e il dolore per poi lasciarle libere come calma e serenità. Sebbene avesse a disposizione pochi secondi, ogni volta lei stessa aveva come l’impressione che il tempo, per un attimo, si fermasse. La foglia resse per poco meno di un minuto, tempo che le bastò perfettamente, e affievolì l’ultima nota fino a spegnerla. Finita l’esecuzione, si ritrovò delusa: il suono non era venuto particolarmente pulito e puro come al solito, probabilmente per via della superficie bagnata e troppo sottile del suo strumento musicale. Poco male, si disse, non doveva esibirsi a teatro, d’altronde.
Aspettò alcuni minuti. Le venne da sorridere: non era stata la sua esibizione migliore, ma una melodica del genere era solo sua, unica, le sue emozioni e i suoi ricordi espressi in note, come una se stessa su uno spartito. Lui non l’avrebbe mai confusa con qualcos’altro.
Ti conosco da anni, e ancora mi meraviglio di quanto tu sappia essere testardo e capriccioso.
Che faceva, voleva giocare a uno-due-tre-stella? Oppure era qualcosa di serio e non poteva risponderle. Stava quasi cominciando ad avere qualche dubbio quando finalmente la vide. Una luce azzurra e brillante, penetrante, piccola e accecante, in tutto quel buio. Ecco la sua risposta, un formicolio la percorse dalla testa ai piedi:
“Ho passato ogni giorno a ricordare ogni singola nota di quella melodia ultraterrena, e ogni volta è come se la sentissi per la prima volta.”
Finalmente riuscì a vederlo, in quel buio appena rischiarato dalla flebile luce argentea della luna. Impossibile non riconoscerlo: quel fisico dall’aspetto stracciato e fragile, ma che nascondeva un apparato muscolare di forza e tenacia da non sottovalutare, era così nero da apparire come fatto di tenebra esso stesso, con quelle ali di pece che sembravano coperte di piume fatte d’ombra e la lunga cresta bianca e vaporosa che non aveva niente di meglio da fare che muoversi come se avesse coscienza propria. E quell’occhio azzurro e brillante, che luccicava nel buio come una seconda luna, mentre una sottile pupilla nera e affilata da serpente la fissava penetrante, come se fosse capace di osservare l'anima nella sua interezza.
Alicia non tardò a vedere anche quei segni, la cicatrice di una ferita di una lama sulla spalla sinistra, i segni su un braccio e sul fianco destro, tutti tagli di striscio. Roba vecchia, dei tempi antecedenti al suo arrivo, e di cui preferiva non conoscere l’origine.
E come non dimenticare quel proiettile di cui ancora portava il ricordo addosso, quello che lo aveva quasi portato alla morte, grazie al quale però aveva potuto conoscerlo? E quello che per poco non lo aveva beccato dritta alla testa? Ogni volta, ne trovava una diversa. Questa volta, la nuova era una ferita sotto il braccio: incredibile, dopo anni, sembrava averne ricevuta una a distanza ravvicinata, e il segno di una pallottola che lo aveva preso di striscio nella zona superiore; perdeva ancora qualche goccia di sangue. Alicia non riuscì a respingere immediatamente un viscido ricordo che le si era subito insinuato in testa: sangue scuro e bollente, lo aveva sentito sulla propria pelle al primo incontro. Il giorno dopo, la febbriciattola che aveva preso poco prima era solo un brutto ricordo. Sangue raro, quello, sangue di un Pokemon leggendario. La panacea più proibita che esistesse sulla Terra.
Bambina, ti fai ancora impressionare da certe cose?
L'idea di non voler essere considerata ancora così facilmente impressionabile riuscì a ricacciare indietro quelle sensazioni di ribrezzo e paura. E tirò fuori dalla tasca del cappotto le solite cose, alcune erbe e le ultime bacche che aveva. Non servivano le parole, a nessuno dei due.
Lo ammetto, non è stata la mia esibizione migliore.
“Nel mio animo rimane sempre l’opera di un angelo in Terra.”
Da quando sei diventato così sdolcinato? Eri troppo capriccioso e pigro per prenderti la briga di chiedermelo in prestito e mi hai rubato da casa ‘Romeo e Giulietta’?
“Solo a sentirlo mi vien voglia di dare di stomaco.”
Simulò una divertita rassegnazione:
Non riuscirò mai a capirti davvero, temo.
“Non penso che avrò mai desiderio di lasciartelo fare.”
È successo ancora, vedo.
“Un salutino appena accennato sarebbe gradito.”
Avrebbe dovuto aspettarselo. Era l’unico che poteva considerare la sua testa un libro aperto. E, sebbene lui sicuramente conoscesse bene i motivi della sua breve reazione di ribrezzo, invece di esternare spiacevoli reazioni, come chiunque altro si sarebbe aspettato, le aveva risposto col suo tipico sarcasmo per aiutarla a cacciar via quel ricordo intruso.
“Mi perdoni, sua eccellenza,” Rispose la ragazza aprendo finalmente bocca con una risatina leggera:“Come lo preferisce? ‘Salute a lei, oh potente signore ombra’ oppure gradisce un semplice ‘Mi inchino davanti al suo cospetto, oh grande…’”
“Quattro lettere. Quattro. Non è troppo difficile.”
“Ai suoi ordini, eccellenza,”
Alicia allargò maggiormente il sorriso di fronte alla sua ironia da Oscuro quale era.
“Ciao.”
La figura nera emerse dalle foglie con un’eleganza inaspettata, e l'azzurro luminoso attraversato dalla sottile riga nera come il carbone, prese la forma di un occhio a mezzaluna coperto parzialmente da una morbida frangia bianca:
“Ciao, Alicia.” Rispose Darkrai.
Continua... |
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Capitolo 4 *** Atto III ***
L’Oscuro non era un tipo loquace. Lei non lo biasimava: gli avrebbe dato solo fastidio se si fosse costretta a parlargli, di sicuro lui preferiva che fosse così. Il silenzio era accolto benevolmente da entrambi, quindi perché cercare di romperlo? Alicia si limitò a lanciargli quell’unica Radicenergia, il vegetale dalle doti cicatrizzanti più stupefacenti conosciuto, mantenendo un'aria semplice e disinvolta:
“Il solito che cerca di spararti?”
Lui si limitò a tagliuzzare con gli artigli la radice con aria distratta e annoiata:
“Sì, magari. È da parecchio che se ne stavano buoni buoni nelle loro case, per una volta potevano anche regalarmi un po’ di pace. Ovviamente, lo hanno fatto, secondo te?”
“Domanda retorica.” Fu la ovvia risposta della ragazza bionda:
“Esattamente.”
Alicia si costrinse a guardare il taglio slabbrato sulla pelle nera proprio oltre l’avambraccio:
“Però mi sembra piuttosto strano che siano riusciti a beccarti proprio lì. Che è successo?”
La radice era già sparita. Darkrai si affilò le unghie con disinvoltura e calma, a malapeva si riusciva a intravedere la sua irritazione:
“Quel geniale vostro proprietario di bestiame di turno si è preso il disturbo di venire a darmi personalmente altri problemi con quell’inutile cannetta da fuoco.”
La ragazzina diede mostra di un’espressione piuttosto perplessa:
“Eppure non ho sentito nessuno sparo, Dark.”
L’Oscuro si limitò a scostarsi la frangia dagli occhi con un movimento della testa, insofferente e provocatorio:
“Probabilmente vi eravate già allontanati quando quel tipo ha cominciato a fare fuoco. Qualche ladruncolo gli avrà rubato qualcosa di particolarmente pregiato, inutile dire che in testa alla fila dei sospettati c’è sempre il sottoscritto. Saranno mesi che non tocco i vostri agnellini lanosi, dovreste aumentare la sorveglianza dall’interno. Dato che a nessuno degli altri che vivono qui andava di farsi svegliare a notte fonda dalle fucilate di quel vostro simile c’è stata una specie di protesta pubblica, qui dentro.”
Come al solito. D’altronde, l’Oscuro era un perfezionista nell’arte della caccia e dei furti, non si sarebbe mai fatto scoprire tanto velocemente. Altro che attacco, c’era solo un’altra spiegazione plausibile: un ladro era entrato per rubare un animale e i cani e i Pokemon da guardia si erano infervorati come leoni per l’intrusione, terrorizzando a morte le bestie. Mentre alcuni dei proprietari correvano a chiamarli per avere un aiuto, qualcuno degli altri aveva fatto di testa sua come un bambino, forse per fare l’eroe, aveva recuperato il fucile ed era partito da solo con l’utopia di liberarsi di lui per conto proprio, causando un ulteriore pandemonio dei giardini che non aveva certo migliorato la situazione, in cui ci avevano rimesso anche i Pokemon e gli animali selvatici. Ridicolo, l’unico aggettivo che Alicia riusciva a trovare per definire quell’atto stupido e insensato: chissà che sperava di fare, quello scemo, contro l’Oscuro, il cacciatore notturno per eccellenza che, tuttavia, continuava a rispettare il loro patto di non violare alcun loro confine. Eppure ciò non era bastato nemmeno questa volta a non scatenare un disastro del genere: per quanto lui riuscisse ad ignorarla, quella gente avrebbe sempre avuto l’ossessione di epurarlo, sempre e comunque. La ragazza non finiva mai di sorprendersi di quanta infantilità potesse trasudare dalla sua città natale, e se ne vergognava, soprattutto di fronte a lui:
“Immagino il caos. Quindi?”
"Quindi, il grande cervello di quel tizio si è applicato ed è arrivato alla sbagliata conclusione che la causa del pasticcio di questa notte causato dal suo inquinamento acustico è sempre da ricondurre al suo 'mostro notturno'. Risultato: notte in bianco per tutti, oggi.”
“Non riesco ancora credere che sia successo tutto questo pasticcio per una scemenza del genere. Hai visto in faccia quel tizio?”
"Capelli corti e zazzera."
“Capito. Mi sentirà, quell’emerito idiota.”
“Non inguaiarti. Lo sai che non ne vale la pena, principessa.”
Alicia lo fissò dritto in quegli occhi serpentini simulando offesa. Perché mai? Si trattava del suo posto preferito, del paradiso in cui la natura cresceva in tutto il suo splendore, del luogo in cui c’erano i suoi amici non umani, e soprattutto lui.
Oscuro o no, si trattava del suo migliore amico, probabilmente l’unico che avesse mai davvero avuto. Un ricordo le si affacciò prepotente e doloroso nella testa, lo ricacciò indietro con violenza sperando che lui non lo avesse percepito.
All’improvviso, la giovane lo vide rigirarsi fra le unghie qualcosa di luccicante, il cui profilo si intravedeva appena sotto la luce tenue della luna: “Le prove? Eccoti servita, ce ne saranno almeno una decina qui intorno.”
Alicia afferrò al volo il proiettile di metallo che le lanciò, duro e sporco, non sapeva se di fango o di sangue:
“Non m’interessa chi è o che altro, questa rimane una riserva naturale, quel tipo deve darsi una calmata. Nessuno deve permettersi di rovinare questo posto.”
“Mi farebbe piacere sentirtelo dire, se solo tu potessi fare qualcosa senza esserne coinvolta seriamente.” Rispose il Pokemon leggendario. Quegli occhi simili a fari perpetui, in quel buio appena rischiarato dalla luce lunare, le leggevano la testa con la facilità con cui si legge un libro illustrato per bambini:
"Non ho intenzione di nascondertelo. Quello tra poco ammazzava qualcuno sul serio. Un paio di Roselia si erano completamente persi in quella confusione. Odio fare l’angelo della bontà... ma ho dovuto occuparmene. Il loro sangue ha un odore peggiore di quello delle cimici che ti fanno dannare in estate. E per recuperare quelle due rompiscatole erbose e tirarle via… finisco per un secondo sotto tiro ed ecco qua.”
Alicia lanciò un’occhiata distratta al segno che gli aveva lasciato il proiettile di striscio sul collo:
“Bella roba. E come ti sei fatto quella ferita sotto il braccio?”
Darkrai ci strofinò sopra impassibile un paio foglie di erba medicinale:
"La madre di quei due esserini a forma di rosa che mi hanno fatto trascinare in quel pandemonio. Tutto sommato non posso biasimarla, ma quella Roserade era talmente fuori di sé per essersi fatta salvare i piccoletti dalla sua peggiore paura al punto da imbestialirsi come una furia. Non crederai davvero che un essere umano possa farmi una cosa del genere o che si arrischi ad azzardare un combattimento ravvicinato.”
“No, certo che no.”
“Almeno c’è ancora un essere umano dotato di cuore e cervello.” Fece lui secco in conclusione, come d'altronde era suo solito. Non ce l’aveva con lei, questo era certo, ma Alicia non riusciva a immaginare quanto fosse dura la vita di quella creatura costretta a vivere costantemente tormentata dalla fame, dai cacciatori e dalla solitudine. Non sarebbe mai riuscita a capirlo davvero, non era in grado di immedesimarsi in una situazione tanto estrema, e si vergognava anche di questo. Sicuramente l’aveva capito anche lui, da parecchio, eppure l'Oscuro sembrava non tenere all'idea che qualcuno potesse condividere e capire la sua situazione: forse non ne avrebbe ricevuto comunque alcuna consolazione. Probabilmente neanche la desiderava, orgoglioso e testardo com'era...
A quel punto Alicia si sentì incredibilmente vecchia: stava pensando proprio come un'anziana pessimista, non era da lei quell'atteggiamento teso al solo negativo del mondo. In fondo se si recava in quei luoghi e frequentava l'Oscuro lo faceva soprattutto per prendersi una pausa e tornare a casa più serena di come l'aveva lasciata.
“Mi piacerebbe che mi facessi un piccolo favore: potresti portarmi un momento sull’albero? Vorrei dare un’occhiatina veloce al cielo, prima di andare. Ne ho viste davvero troppe, oggi.”
“Tutto qui?”
Eccola, l’occhiata penetrante che le lanciava ogni volta che intuiva ogni intenzione che le si formava in testa. Si limitò ad un sorriso appena accennato:
“Mi aiuta a rilassarmi e a ritrovare la mia calma interiore. A te non capita mai?”
Alzò le spalle simulando indifferenza, come avrebbe fatto un qualunque essere umano:
“Mai. In ogni caso, finché non si calmano le acque, non ho nulla di meglio da fare.”
La tempesta si era calmata parecchio, a dire il vero, e il rumore della pioggia leggera era diventato un ticchettio appena percettibile. L’Oscuro la prese fra le braccia come se fosse stata un esile rametto di betulla, quale d’altronde era, in confronto a lui; un rapido salto, senza nemmeno dover aprire le ali, e in un attimo erano tutti e due su un robusto ramo di un albero, coperti dalle foglie ma con perfetta visuale alla volta celeste, di un blu uniforme molto vicino al nero:
“Che barba, però, con questo tempo stanotte non ci sono nemmeno le stelle.”
“Non se ne sono mai andate. Semplicemente non possiamo vederle.”
“Giusto.”
Silenzio. Alicia non se ne fece certo un problema: era questo che voleva, il rumore della pioggia che inondava i giardini, il silenzio, e la sensazione di essere in alto, lontana, almeno per qualche secondo, da quella terra piena di problemi. Le bastava poco per sentirsi felice, e i giardini erano la cosa che più aveva amato in vita. Tra l’altro, se Darkrai era riuscito a diventare il suo migliore amico in tempo tanto breve, era soprattutto perché le portava rispetto: poteva leggere ogni pensiero, ma di norma non lo faceva neanche capire, lei se ne accorgeva solo perché era l’unica a poter dire di conoscerlo meglio di chiunque altro, e lui rispettava i suoi desideri. Anche se le percepiva sicuramente molto prima che lei le dicesse, accettava comunque di rispondere alle sue domande, tanto ovvie per uno come lui:
“Stiamo peggio, là fuori. Tutti quanti.”
“Ma davvero, non mi dire? Non credevo che i vostri giorni in mia presenza fossero così allegri, o sbaglio?”
“Non esagerare col tuo sarcasmo, parlavo per ben altro. E comunque, da oggi in casa abbiamo un ospite.”
“Che tu già non riesci a sopportare, giusto?”
Era l'ennesima conferma, l'Oscuro leggeva con estrema facilità ogni connessione del suo cervello in maniera del tutto integrale.
“Esatto. Ma non perché è un estraneo ipocrita e falso,”
Fissò quegli occhi brillanti nell’oscurità, cercando un consiglio, un'affermazione utile da parte di una creatura molto più antica ed esperta di lei:
“Credo che sia qui per un motivo ben preciso. Che ha a che fare con te.”
Lui si limitò a girare la testa di lato, ombroso e insofferente come si mostrava da qualche anno a questa parte: "Sai che novità. Ormai non riesco neanche più a contarli, quelli che cercano di appendere la mia pelle sulla loro porta d’ingresso, eppure ho un quoziente intellettivo piuttosto alto rispetto ai vostri.”
“Però non ho nemmeno davvero la certezza che sia qui per uccidere te.”
“Già mi sta simpatico.”
“Scemo che non sei altro,” Rispose con un sorriso divertito lei, accennandogli una gomitata: “Eppure ti conosco bene. Più ci si avvicina al pericolo e più tu fai il sarcastico, sei fatto così.”
“Mi meraviglio di te, principessa, ancora non mi conosci?”
“Beh... considerami sempre come un essere umano.”
“Per mia fortuna sei sempre la solita. Piuttosto, continua con la storia dell'ospite sospetto.”
“Esagererò pure, ma quando lo guardo mi viene in mente…”
Lui le lesse nella testa ancor prima che potesse aprir bocca:
“Un cacciatore.”
“Di taglie.”
“Perfetto...”
Alicia, all’improvviso si sentì la manica della giacca umida, e alla tenue luce argentea della luna, che aveva cominciato a trasparire da sotto le nubi, la vide coperta da un patina scura:
“Mi sa che non è bastato quello che ci hai messo sopra.”
“L’avevo capito, sai, principessa? Ma la cosa non merita la tua preoccupazione, domani resterà solo una cicatrice fra tante.”
“E se s’infetta?”
“Figurati, conosci meglio di chiunque le proprietà di ciò che mi scorre nelle vene. Piuttosto, principessa, ti senti bene, hai beccato una spina, un cane ti ha morso?”
L’ironia trasudava da quella frase come sudore dalla pelle della ragazza in un giorno afoso, ma Alicia non sopportava sentirne parlare:
“Dark, non voglio più farne uso, neanche toccarlo, se potessi, per tutta la mia vita, lo sai.”
“Quanto spreco. Potrebbe esserti utile per qualunque cosa.”
“La smetti di scherzarci sopra? È già una fortuna che non lo abbia scoperto nessuno, con tutti i proiettili che ti becchi al giorno.”
“La principessa qui presente ha ancora la mia fiducia, con sé.”
Esprimeva spesso un pensiero così, eppure ogni volta lei si sentiva onorata di sentirglielo dire, seppure col suo tipico sarcasmo nero:
“Ti ringrazio. Sul serio, però, per me è una cosa problematica. Dovrei passare al fiume prima che si coaguli, se quel tipo mi vede arrivare così non sarà facile tenerlo fuori da questa storia.”
“Capito. Ti faccio scendere.”
La riportò a terra con un semplice balzo, per poi girare sui tacchi freddo e rapido, con poche parole. Se quelle si potevano definire parole, erano comunicazioni telepatiche, poteva chiamarle davvero parole?
“Occhio alle spalle, principessa.”
Questo dovrei dirlo io a te.
“Non potrei mai dimenticarlo. Vai ora, prima che riprenda qualche sparatoria.”
“Dopo tutto il casino di stanotte? Sul serio?”
“Tu vai e basta, non muoio dalla voglia di vederti in una pozza di sangue con una pallottola nel polmone sinistro.”
“Oh, mi piaci quando fai la carina.”
Alla tredicenne scappò una risatina: “Eri e rimani un caso perso, Dark...”
Tornò sui suoi passi quasi di corsa, lui probabilmente si era già congedato.
Ti saluto, amico mio.
Lungo la strada del ritorno, Alicia si precipitò al ruscello più vicino e cercò di lavare il sangue dalla manica in fretta e furia: un po’ in effetti quasi le dispiaceva sprecarlo davvero, considerato che era l’unica a conoscere certe proprietà, ma si era imposta di fare di tutto per non farlo mai più, senza contare che preferiva questo alla caccia spietata al suo migliore amico che ne sarebbe venuta fuori se qualcuno l’avesse notato. Si tolse comunque il cappotto per evitare sospetti e nascose la manica bagnata sotto tutto il resto della giacca. Quindi riprese a correre verso casa.
Quando Godey spalancò la porta Alicia capì subito che qualcosa non andava. Ciro non era nei paraggi. Una cosa era certa: quel tizio non si era bevuto niente, qualunque scusa avesse inventato l’architetto.
Godey aveva la faccia scura e preoccupata:
“Zio Godey… che succede?”
Lui si limitò a scuotere la testa:
“Zio Godey!”
L’uomo si limitò a indicare la cassa dentro la quale aveva cercato di nascondere le sfere dell’ospite: era completamente vuota, la serratura era rotta, scassinata di sicuro. Alicia sbiancò:
“Dove… che fine hanno fatto le sfere dello straniero?!”
“Ho una mezza idea,” Replicò Godey: “Ma non è questa la cosa più preoccupante. Ha fatto tutto da solo, io non me ne sono neanche accorto. Perché mai avrebbe dovuto prenderle di nascosto, me lo spieghi? E perché mai la ragione doveva essere così importante da fargli scassinare la serratura?”
Alicia sentì il cuore fermarsi. Come aveva sospettato. Doveva essere così. E allora perché non aveva fatto nulla?
Aveva avuto paura, semplice. Paura di sbagliare e di peggiorare le cose. Non aveva voluto commettere errori. E invece, non dando retta ai suoi sospetti, aveva combinato un guaio ancora peggiore.
All’improvviso Godey tirò fuori con aria ancora preoccupata un fogliaccio appallottolato e umido, ma ancora leggibile:
“Hai fatto bene a nascondere i suoi vestiti in un posto dove non si sarebbe mai sognato di andarli a recuperare. Guarda cosa c’era nella tasca della giacca di quel bugiardo.”
Alicia afferrò il foglio e lo aprì con le dita sottili. Ed ecco cosa lesse esattamente su quella carta spiegazzata:
Mittente: Deon Jamelle
Destinatario: Ciro Naroyd
Sono il barone Deon, le mando questa richiesta direttamente dalla città di Alamos. Recenti ricerche e dicerie mi hanno confermato che la sua bravura supera di gran lunga quelle di molti cacciatori di taglie di tutta la regione di Sinnoh: inoltre mi risulta che, secondo le ultime informazioni, attualmente è alla ricerca di qualcosa di speciale, che superi di gran lunga le sue aspettative. Posso assicurarle che qui troverà quello che cerca, qualcosa che, a quanto sembra, necessita un’artiglieria pesante. C’è una specie di coprifuoco, in città, da qualche anno a questa parte, che impone di barricarsi in casa tutte le sere fino al sorgere del sole. Sembra che una misteriosa creatura notturna, dotata di potere estremamente pericoloso che arriva a terrorizzare ogni singolo abitante, si aggiri sul confine, mettendo in grave pericolo l’incolumità e la vita dei cittadini. Qui sembra che l’unico modo per eluderla sia passare questi giorni rintanati nelle case chiusi a chiave, una necessità che trovo ridicola e che personalmente uno del mio rango non vuole continuare a sopportare. Questa specie di superstizione è bastata a mettere in ginocchio la nostra città, situazione assolutamente patetica e inconcepibile, per cui ho deciso di rivolgermi a lei: sappiamo che sono necessarie attrezzature adeguate e una grande abilità per riuscire a riavere un po’ di pace e poter neutralizzare una creatura potente e pericolosa come quella che sto cercando di descriverle, una sua conferma che si tratti solo di una usanza stupida basata su qualcosa di attualmente inesistente sarebbe ugualmente qualcosa di decisivo. Le chiedo ufficialmente di prestare i suoi servigi alla cittadinanza per liberarla da questo presunto e continuo pericolo a causa di questa creatura sanguinaria. Non deve preoccuparsi per le complicazioni legali, può star certo che non le sarà torto un capello. Posso assicurarle che il compenso sarà adeguato, ma se insiste le manderò un’idea della cifra che potrebbe soddisfarla e un piccolo anticipo. Mi mandi una risposta il prima possibile, in caso di conferma porti con sé la richiesta, in modo che possa identificarla a lavoro finito.
Alicia era così spaventata e sconvolta che non riuscì a leggere oltre e lasciò cadere la cartaccia sporca a terra:
“Non è possibile… e noi… io… ci sono cascata in pieno!”
“Lo so, Alicia.”
“Perché non ho voluto dare ascolto ai miei sospetti?! Uno così non poteva che essere un cacciatore di taglie o un bracconiere! Avevo capito che c’era qualcosa sotto, e non ho fatto nulla, nulla!”
Godey cercò di calmarla il più velocemente possibile:
“Al, stammi a sentire, non è solo colpa tua, anche io non ho fatto una figura migliore. In ogni caso, ora come ora è inutile piangere sul latte versato, dobbiamo fare qualcosa immediatamente. Se quel tipo arriva ai giardini e riesce a mettere le mani sui Pokemon selvatici è la…”
Alicia riafferrò il pezzo di carta e gli diede una riletta veloce:
“Creatura notturna, potente, pericolosa… sanguinaria…”
Si sentì una stretta al cuore. Altro che spari. Quella sarebbe stata una notte di fuoco:
“Maledizione, no!”
Si precipitò alla porta con così tanta foga da sembrare un piccolo tornado umano. Godey riuscì a bloccarla prima che potesse farsi male e la obbligò almeno a rimettersi la giacca, la notte era fredda e la pioggia di nuovo in aumento preannunciava un altro temporale:
“Al, aspetta un attimo! Non andrai da nessuna parte con questa fretta! Dobbiamo avvertire gli altri, dobbiamo proteggere i giardini!”
“Non verrà nessuno!” Ribatté lei, con l'esasperazione dipinta negli occhi: “È stato Deon a inviare quella richiesta, loro vogliono che Ciro faccia piazza pulita di tutti i giardini! Quel riccone senza un minimo di cervello, non pensa ad altri che a se stesso, domani se solo lo incontro per strada... oh, andiamo, zio, adesso!”
Godey sapeva che aveva ragione. Nessuno sarebbe venuto ad aiutarli. Perché a quanto diceva la lettera Ciro doveva aver messo gli occhi su qualcosa molto più raro e prezioso di un Pokemon normale, quello che allo stesso tempo era anche l’incubo che da settimane terrorizzava gli abitanti di Alamos.
Alicia diceva la verità, loro non aspettavano altro, la gente voleva che si sbarazzasse di lui. Potevano contare solo sulle proprie forze. La ragazzina però non si sarebbe fermata, doveva almeno cercare di proteggerla da una qualunque pazzia avesse intenzione di fare. E in un attimo si ritrovarono tutti e due di nuovo a correre sotto la pioggia. Stava diminuendo, ma il vento si era alzato parecchio:
“Forza, dobbiamo correre!” Continuava a ripetere Alicia per cercare di farlo stare al passo: “Se riesce a mettergli le mani addosso… non voglio pensare a come potrebbe finire!”
Continua...
Nota dell'autrice: E arriviamo a 4 capitoli... sto apportando molte più modifiche di quanto pensassi, eppure rileggo questa storia da anni, non è mai abbastanza per i miei standard. Spero che vi stia interessando, anche se ancora non ho ricevuto alcuna opinione da parte vostra, spero che arrivino presto, positive o negative che siano, le seconde saranno comunque utili per apportare ulteriori miglioramenti. Arrivederci al prossimo atto ;-)
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Capitolo 5 *** Atto IV ***
Percezione del movimento dell'obiettivo.
Muoversi nel silenzio più assoluto.
Mira.
Grilletto.
Sparo.
Mott ripeteva questa sequenza di mosse nella propria mente come una cantilena quasi da ore. Ce ne erano davvero poche di bestie come quella, di solito le più astute e rognose non andavano oltre il decimo sparo. Ma lui aveva dovuto effettuarne quasi il doppio, e ancora non lo beccava. Eppure lo sentiva muoversi da quelle parti, la mira era giusta, ma il bastardello aveva una velocità superiore, abbastanza da permettergli di schivare i proiettili e i dardi con facilità innaturale.
Mott non era teso per il problema delle conseguenti complicazioni legali: i patti erano chiari, se il mittente avesse provato a cambiare idea, decidendo di non potergli permettere di fare il suo lavoro in pace, niente risultati né preda; il problema vero era che presto o tardi sarebbe venuta mattina, e se non acciuffava quella stramaledettissima bestia entro sei ore tanti saluti alla parcella. Il mittente non aveva esagerato sulla difficoltà dell’incarico: qualunque fosse la preda del giorno, Mott era ormai sicurissimo che avesse un’intelligenza umana, persino superiore. Forse era stata avvertita da qualcuno, ma non capiva proprio chi potesse essere stato, dal mandato ricevuto era evidente che i cittadini di Alamos non vedevano tanto di buon occhio quella sottospecie di predatore notturno. Sicuramente però c’era qualcosa che quella ragazza bionda che aveva conosciuto gli aveva tenuto nascosto: per quanto si fosse sforzata, non era riuscita a mentire in modo altrettanto convincente come suo ‘zio’. In fondo, era solo una ragazzina, a quell’età era facile farsi sfuggire i dettagli.
Tutti i sospetti erano concentrati sulla tredicenne, e di sicuro quell’architetto doveva averle retto il gioco, ma il cacciatore non capiva per quale motivo avesse mai voluto proteggere quella creatura: era solo una seccatura per quelli di Alamos. Certo, se si fosse trattenuto ancora un po' avrebbe avuto la possibilità di prendere in ostaggio la piccola seccatrice e farsi dare tutte le informazioni… ma non voleva certo andare a invischiarsi in affari legali troppo seri, il mittente era abbastanza importante da permettergli di non avere testimoni sgradevoli, ma non poteva salvarlo da qualunque cosa: quel Godey sembrava abbastanza preparato, e contro le forze dell’ordine, se si fosse fatto sfuggire qualunque cosa che per loro potesse costituire una prova, non aveva alcuna possibilità di cavarsela. Molto meglio lasciare in pace quei due ed evitare complicazioni.
Un leggerissimo fruscio, appena percettibile con le sue allenate capacità uditive, attirò la sua attenzione. L’animale si era mosso di nuovo. L’unica soluzione era coglierlo di sorpresa spostando leggermente la direzione della canna. Lui se la cavava bene con quell’affare, all’ultimo secondo lo avrebbe puntato. Doveva spostare la mira di poco, la creatura era intelligente, non si sarebbe di certo mai fatta abbindolare da una mira troppo diversa. Fece una finta cercando di capire la direzione del rumore, puntò. Un secondo dimezzato di movimento, e il ventunesimo sparo partì.
Subito dopo percepì fruscii indistinti di qualcosa che si muove.
Mott imprecò: mancato di nuovo. La bestia stava giocando con lui, era rimasta lì intorno, senza scappare, per sfida, lo provocava. Non si era mai fatto prendere in giro da un animale, per questo doveva atterrarlo con il prossimo dardo. Caricò di nuovo il fucile:
“Ora mi hai fatto davvero arrabbiare. Avanti, bestiaccia, vediamo che sai fare!”
Quello stupido gesto di audacia non migliorò affatto la situazione, anche se le cose cambiarono. I fruscii vennero sostituiti da un rumore di vento che si alza, e a Mott parve di udire un suono tra le fronde, anche se, pensò allo stesso momento, forse era qualcosa che udiva solo nella sua testa. Qualcosa di sommesso, ma che diventava sempre più forte.
Quando si rese conto di che cos’era, andò su tutte le furie.
Una risata. Di scherno. A sentirla bene non era davvero un suono, ma una sensazione, qualcosa di cui aveva solo l’idea fissa nella mente: l’immagine di qualcuno che si prendeva gioco di lui:
“Tu! Non osare prendermi per i fondelli, dannato!”
Non conosceva il motivo per cui associò quella sensazione di presa in giro proprio all'animale a cui lo avevano incaricato di dare la caccia, era qualcosa di totalmente illogico: tuttavia continuava ad aumentare, quella sensazione di essere deriso; diventava sempre più dirompente, insopportabile, lo faceva andare in bestia. Rideva, rideva e si prendeva gioco di lui, la bestia maledetta, lo faceva sentire un verme.
Mai, mai si era sentito tanto umiliato, preso in giro da un animale, un essere completamente inferiore al genere umano, lui. Una bestia se la rideva alle sue spalle, la selvaggina aveva la bella faccia tosta di ridere di scherno davanti a lui, il cacciatore.
“Come osi… questo è troppo!”
Totalmente fuori di sé, Mott frugò in fretta e furia nelle tasche e tirò fuori le sue tre sfere a chiusura manuale:
“Ah, te la stai spassando, non è così?! Hai superato il limite! Vuoi il gioco pesante? Ti accontento subito!”
In realtà quella era la manovra di ‘emergenza’: non era la prima volta che l’adoperava, ma solo con i bestioni di grossa taglia, che si difendevano in branco o, come in questo caso, di abilità davvero troppo superiore. Il massimo della tecnologia era nelle sue mani, tre grandi sfere metalliche che racchiudevano creature addestrate alla lotta estrema e di una spietatezza magistrale, secondo il suo volere. Le aprì una dopo l’altra e lasciò che le bestie respirassero finalmente l’aria aperta: un Manectric robusto e veloce, addestrato fin da piccolo a seguire ogni traccia, era capace di trasmettere anche scariche da 5000 volt, quando sceglieva la preda non smetteva di inseguirlo fino alla morte. Accanto a lui, il maestro dei tagli, uno Scizor color del fuoco, era capace di saettare come un lampo su qualunque campo d’azione, addestrato a non fermarsi fino a che il bersaglio non fosse stato totalmente sottomesso dalle sue chele. Infine, il signore della forza muscolare, quel Poliwrath, più a scopo di garanzia che altro, a dire il vero, per spegnere i conseguenti possibili incendi causati dai mortali lampi del Manectric, ma altrettanto, se non di più, forte e inarrestabile.
Lo sguardo feroce di quelle tre creature da combattimento, inculcato a forza nei loro cuori a suon di dure bastonate, avrebbe dovuto dare una certa impressione.
Invece la risata di scherno che Mott sentiva rimbombare nella propria mente divenne ancora più odiosa e potente, quasi a dire che trovava quelle macchine da caccia viventi ancora più ridicole e patetiche di quanto non fosse il loro padrone. Insopportabile, la rabbia ribolliva sotto la pelle del bracconiere:
“Ridi, continua a ridere, perché sarà l’ultima volta che avrai l’occasione di farlo, bestia! E ora vediamo come te la cavi con una scarica a 5000 volt!”
Un fischio e un’occhiata furibonda, e il Manectric cominciò a caricarsi al massimo delle sue possibilità, fino a quanto la corrente elettrica divenne quasi visibile sul suo pelo dai colori vivaci. Di nuovo i fruscii quasi impercettibili, sebbene la ‘risata’ continuasse a essere presente nella testa di Mott: l’essere aveva deciso di mettersi in guardia, per controllare con che diavolo di avversari stesse avendo a che fare. Il cane-lupo, pieno di elettricità fin quasi a scoppiare, la scaricò ringhiante in un colpo solo, nella direzione in cui aveva percepito il movimento, in un accecante bagliore, insopportabile per l’occhio nudo: per fortuna il cacciatore, sebbene furioso, riuscì a ricordarsi appena in tempo di abbassare e coprirsi gli occhi. L’odore di bruciato si spanse dappertutto, il Poliwrath subito si fece avanti e inondò la zona di acqua.
Il silenzio che ne seguì fu assoluto. La risata di scherno completamente sparita.
Mott non si era mai sentito così realizzato in vita sua, quella creatura ora aveva ben poco da ridere. Ben gli stava, nessuno doveva permettersi di prendersi gioco di lui. Il mittente non aveva specificato le condizioni sul suo metodo di lavoro, quindi si sentiva libero di poter scuoiare viva quella creatura maledetta, non appena avesse incassato i quattrini:
“Preso!”
L’eccitazione per averlo finalmente beccato gli aveva fatto salire l’umore alle stelle. Ora doveva solo assicurarsi di averlo fatto fuori, sistemarlo per bene sul veicolo e oltre ai soldi avrebbe potuto anche esibire la sua pelle come trofeo. Non sarebbe stato per niente male, considerato quanto ci aveva messo per prenderlo. Riprese il fucile e caricò i proiettili:
“Sei mio.”
All’improvviso, però, la sua eccitazione si trasformò in sgomento.
Di nuovo, eccola, tornava ancora più potente ed inquietante di prima, quella sensazione mentale.
La risata inquietante. La creatura continuava a ridere di lui. Ciro non riusciva a crederci, non era possibile in alcun modo che quella bestia fosse riuscita a sopravvivere ad un attacco di raggio tanto ampio, il Tuono del suo Manectric cancellava ogni forma di vita nel raggio di venti metri.
“Cosa diavolo…”
Non lo vide neppure colpire, un secondo dopo il canide spara-fulmini era lì, per terra, davanti a lui, uggiolante per il dolore e incapace di muoversi. Dalla posizione innaturale degli arti, doveva avere le ossa delle zampe spezzate.
“Ma che razza di…”
Il prossimo fu lo Scizor. Neanche un minuto dopo, ancor prima che potesse fare qualcosa per il suo canide ferito, trovò il grande insetto rosso faccia a terra che si agitava in mezzo alla polvere, sembrava dormire fra sogni agitati.
Il cacciatore fece appena in tempo ad alzare lo sguardo che vide il Poliwrath essere scagliato come un gigantesco bolide azzurro dritto contro uno degli alberi, arrivando quasi a farlo spezzare col suo peso. Ciro fissava il tutto con occhi sgranati per la paura e l’incredulità: quel Poliwrath era un peso massimo, che razza di creatura poteva avere tanta forza da scagliarlo via così come un pezzo di polistirolo? Oppure l’essere in questione aveva a disposizione un potere telecinetico?
Domande che quella notte non trovarono mai una risposta.
Mott non fece in tempo a pronunciare neanche una vocale. Un fruscio tanto rapido che sulle prime credette di averlo immaginato, quando le sfere gli caddero per terra e il fucile gli venne strappato di mano con tale forza e rapidità che lo vide svolazzare in aria per un paio di secondi. Gli sembrò di essere diventato cieco, perché all’improvviso vide tutto nero.
In un istante si ritrovò inchiodato per terra, braccia e gambe bloccate in una morsa ferrea, sicuramente non umana, probabilmente mentale. Quindi era vero, come sospettava, la pericolosa creatura con cui aveva a che fare aveva a disposizione anche forza psichica.
Il bracconiere si era sempre basato sull’udito, finora, per cacciare la sua preda, ma ora tutti i suoi sensi erano come paralizzati, inutilizzabili per il terrore, esclusa la vista. Una cosa sola riusciva a distinguere, in tutto quel nero, che lo paralizzava dalla paura: un grande faro azzurro, accecante nel buio, un occhio dalla pupilla acuminata che da sola sembrava capace di tagliuzzarlo come un coltello.
Tuttavia un coltello vero ce l’aveva, sì, puntato alla gola. Una lama arcuata ad artiglio che gli spingeva giù la gola abbastanza da impedirgli di fare qualunque mossa. La punta lo punzecchiava in maniera provocante, esattamente sopra il punto in cui si trovava la giugulare, e ogni volta il terrore che affondasse lo faceva morire di paura. Un solo pensiero ossessionava la sua mente:
No. Non posso morire. Non voglio morire qui. Non mi uccidere, non voglio morire!
Il faro azzurro brillò come una fiamma inestinguibile, la creatura sembrava essersi decisa a finirlo, quando si udirono dei passi affannati.
La bestia si irrigidì, gli artigli si ritirarono immediatamente senza tuttavia mollare la presa, deciso a renderlo innocuo.
I sospetti di Mott si avverarono: la creatura non aveva paura di ciò che stava arrivando, ma lo rispettava. Il che significava che poteva trattarsi solo di qualcuno:
“Fermo! Lascialo andare!”
Era la piccola rompiscatole. I suoi capelli chiari, ormai crespi e intricati a causa della pioggia e del vento, le sventolavano intorno come una chioma di un albero scosso da una bufera:
“Darkrai, ascoltami! Risparmialo, lascialo andare!”
Quindi era proprio lui. La creatura nera che gli stava addosso era effettivamente la bestia di cui doveva sbarazzarsi. L’affilato occhio azzurro lo fissò penetrante e carico di odio.
La ragazzina era esasperata:
“Non sei tu a doverlo punire adesso per ciò che fa, Darkrai. So che ne sei consapevole.”
Lentamente, gli artigli si allontanarono dalla sua gola. Dunque, era come aveva sospettato: la ragazzina cercava di proteggere la creatura, anche se non ne comprendeva il motivo. Ma meglio ancora, la bestia dava retta solo a lei. Conclusione: prendi la ragazzina, prendi anche quel Darkrai. Ora il cacciatore conosceva il punto cieco dell’obiettivo.
L’essere era troppo sospettoso per lasciarlo libero senza precauzioni, e si assicurò che fosse ben lontano dalle armi da caccia prima di lasciarlo andare.
Appena il bracconiere fu libero, la bestia sfrecciò immediatamente tra le fronde più rapida di un battito di ciglia.
Quando fu sicuro di essere tutto intero, Mott si rialzò per cominciare a recitare la solita parte che teneva per i momenti come quello:
“Dio mio… non so come ringraziarvi. Quell’affare… è completamente fuori di testa.”
“Senti un po’, razza di perfetto idiota, vogliamo farci il favore di smetterla di recitare?” Fece Godey. Il tono e gli insulti che usava facevano ben notare quanto fosse furioso: “Sappiamo tutto sul tuo conto, che ti sia ben chiaro: un passo falso e le forze dell’ordine saranno qui in meno di dieci secondi. Quindi resterai qui buono buono e non ti azzarderai minimamente a tagliare la corda, tutto chiaro?”
Mott strinse le spalle:
“Io non ho mentito quasi su niente. Sono qui per lavoro, come potete vedere. Un piccolo lavoretto che mi è stato offerto con un compenso piuttosto alto.”
“Certo, in cambio della pelle di quel Darkrai!” Ribatté la ragazzina furiosa:
“Che credevi di fare?! Questi giardini sono un’area protetta, la caccia qui è più illegale di qualunque altro posto! Che ti è saltato in testa, si può sapere?!”
“Tieni a freno la lingua, biondina, i miei dardi se la cavano benissimo anche con le persone.” Rispose lui con aria di sfida. La ragazzina non era che una gattina appena nata, però aveva fegato; non male, se l’avesse fatta arrabbiare avrebbe avuto più possibilità di separarla da Godey, gli adolescenti agiscono senza pensare, e avrebbe potuto usarla come esca:
“Sbarcare il lunario, eh? Quelle sfere non possono esserti arrivate come eredità, sono troppo recenti. Il costo che hanno non dà molte possibilità ai meno ricchi di permettersele. Ma che pensavi di fare? Volevi farti uccidere?!”
Godey era piuttosto tagliente, ma la rabbia di quei due li rendeva meno prudenti. Il cacciatore si muoveva impercettibilmente, distraendoli con le chiacchiere, ancora qualche passo e avrebbe raggiunto il fucile:
“Statemi a sentire, è stato il vostro amico Deon a inviarmi quella richiesta. Quella bestiaccia è un problema per tutti voi, perché cavolo dovreste proteggerla? Fatemi fare il mio lavoro, lasciatemi in pace e ve ne tornerete a casa tutti ancora in grado di respirare.”
“Ehi, ehi, vedi di regolare il tono!” Godey lo fissò penetrante: “Alicia ti ha appena salvato la pelle, se non fosse stato per lei a quest’ora di te non resterebbe neanche il ricordo! La polizia arriverà fra poco, quindi non azzardarti a tagliare la corda!”
“Non dovete preoccuparvi, non ho in programma di lasciarvi andare.”
Rapido. Rapido come una lucertola, doveva essere.
Si gettò di lato, afferrò il fucile e sparò. Terrorizzata dallo sparo, Alicia si buttò di lato per istinto.
Mott non aveva puntato nessuno dei due. Aveva sparato sul terreno di fronte a loro per spaventarli; e ora che erano separati poteva occuparsi della ragazzina. Velocissimo le fu addosso, la tirò su con violenza e la trascinò indietro bloccandola con un braccio. Lei cominciò a immediatamente a dibattersi:
“Lasciami, razza di scimmione ipocrita! Giù le mani, mollami!”
Godey fece per aiutarla, ma Mott le puntò subito la canna addosso:
“Eh no, tu, tu è meglio che resti dove sei, amico. Spiacente, ma te la devo prendere in prestito solo per un po’.”
“Non ti azzardare a toccare mia nipote, verme che non sei altro!” Ringhiò fra i denti, furioso, l’architetto.
Alicia si sentì almeno un po’ rincuorata, sebbene non riuscisse a liberarsi: finalmente, anche se in una situazione disperata, la stava trattando come una della sua famiglia. E non stava né in cielo né in terra che un tizio del genere minacciasse la sua famiglia: “Toglimi le mani…!”
Mott le tappò la bocca con le dita:
“Questo dipende dalla signorina tutto pepe, vecchio. Ora sta’ buona, tu, non mi costringere a usare metodi meno amorevoli, bastardella!”
Lei cercò di liberarsi la bocca a morsi, ma non riuscì a costringerlo a lasciarla libera, quella mano piena di calli era abituata ad avere a che fare con zanne e artigli, in quel modo non sarebbe mai riuscita a opporsi a uno come quello:
“E in quanto a te,” Aggiunse il bracconiere fissando l’architetto, continuando a puntare il fucile sulla ragazza:
“Volevo farti rimanere lì, ma adesso andrai a prendermi e mi riporterai la mia roba per liberarmi di quell’altro mostriciattolo. Forza, muoviti!”
Godey fu costretto a ubbidire, riprese le sfere e le munizioni e fu costretto a consegnarglieli, mentre quello teneva sempre l’arma puntata su Alicia:
“Ora allontanati.”
Godey lo fece senza discutere:
“Bene, signori, la vostra piccola missione di salvataggio finisce qui. Ora detto io le regole.”
Guardò la ragazzina dritta negli occhi:
“Chiamalo. A te darà ascolto. Non so e non m’interessa come, ma ordinagli di farsi vedere immediatamente. Non dovrà opporre resistenza, non gli conviene.”
Mise le dita sul grilletto:
“Una vita è più che sufficiente, non ti pare? Forza, fai come ti dico, avanti!”
Le lasciò libera la bocca, ma lei non proferì parola, nonostante le minacce:
“Non te lo ripeterò una terza volta: fallo uscire!”
Inaspettatamente, la ragazzina era riuscita a recuperare la calma, ora che lui non puntava più Godey. Bizzarro, non si sarebbe fatto scrupoli nei suoi confronti, se necessario, eppure lei aveva tutta l’impressione di volerlo guardare persino dall’alto in basso, nella sua situazione da ostaggio.
“Allora, mocciosa?”
Inconcepibile. Nelle sue condizioni, la piccoletta aveva avuto persino la faccia di sbuffargli davanti con aria insofferente; ora era lei a prendersi gioco di lui. Prima si faceva prendere in giro da una bestia che per lui era solo fonte di guadagno, adesso era una stupida mocciosa a ridergli in faccia?
“Non puoi… non puoi comandarlo,” Ribatté lei cercando di mantenere un tono neutro, sebbene, effettivamente, non riuscisse a nascondere di tenere alla propria vita:“Decide lui… se venire o no. Non gli importa nulla della mia esistenza, sparandomi o meno non cambierai nulla. Lui non è così stupido, né arriverebbe a tanto per una come me.” “Menti,” La costrinse lui: “Fallo un’altra volta e il mio ultimo dardo finirà dritto nel tuo stomaco. Muoviti, piccola idiota!”
Passò a darle un ceffone dritto sul viso, ma la mocciosa era una roccia, e si rifiutava di obbedire: “Te l’ho già detto: lui è libero, non verrà mai. Non ho la bacchetta magica.” “Non mettere alla prova la mia pazienza, pulce rognosa che non sei altro.”
Silenzio. Mott iniziò a perdere la pazienza: “Non basta, a quanto vedo. Vuoi farmi arrabbiare, scema?!”
Alicia alle volte era in grado di dimostrarsi particolarmente testarda, Godey lo sapeva. Invece di spaventarsi, era stata sopraffatta dalla rabbia, e gli ribatté in faccia quasi urlando: “Sei un illuso, un ridicolo illuso, ti ammazzerai da solo!”
Mott, non riuscendo più a sopportare di farsi trattare in quel modo prima da un animale, poi da una lattante, la prese per la collottola e si preparò a dare il colpo: “Se non vuoi dirmelo tu non ho problemi, ragazzina, me la caverò da solo, volevo solo avere qualche comodità. Ora puoi anche…”
Un rumore sordo. Di nuovo, tutto si svolse a velocità quasi inconcepibile, per una mente umana, era come se fosse tutto un sogno nella loro immaginazione. Mott non riuscì a terminare la frase che una scarica nera di chissà quale forma di energia gli si riversò addosso come una cascata, una specie di lampo nero sfrecciò su di loro e si sentì il rumore di qualcosa che si strappa e si lacera, seguito dall’urlo di dolore del bracconiere, che lasciò andare la ragazzina. Alicia si affrettò a correre fuori dalla sua portata, ma sentiva che le gambe le si erano fatte molli per il primo spavento che aveva preso, e finì immancabilmente per inciampare e cadere faccia a terra.
Mott era ancora traumatizzato dall’improvviso attacco, Godey si stava giusto riprendendo dalla sorpresa, quella confusione era piombata su di loro istantaneamente, senza preavviso, un vero e proprio fulmine.
In quella situazione di impotenza, Alicia sentì di nuovo la paura, che era riuscita a trattenere fino a quel momento, avvinghiarla in una morsa, tanto da impedirle di muoversi velocemente come avrebbe dovuto. Non avrebbe fatto in tempo, Mott l’avrebbe raggiunta subito e l’avrebbe di nuovo strappata dallo zio tenendola costantemente sotto tiro.
Stava giusto per raggiungere il panico, quando percepì un movimento rapido alle sue spalle. In un istante sentì qualcosa di caldo e vigoroso avvolgerla e all’improvviso si ritrovò fra le braccia dell’Oscuro:
“Tu… che stai facendo, Dark?!”
“Chiedo umilmente il suo perdono, principessa, ma devo salvarle la vita.”
Il Pokemon leggendario spezzò rapidamente il fucile del bracconiere con un’artigliata e sparì fra gli alberi con la ragazzina fra le braccia.
Godey lanciò subito un goffo S.O.S in direzione della città, mentre Mott cercava di recuperare le sue cose. Il bracconiere non si era mai sentito tanto deriso ed impotente, la rabbia continuava ad animare ogni fibra del suo corpo, eppure non poteva fare nulla per sfuggire a quella situazione.
Si fissò il la mano insanguinata attraversata dal profondo taglio slabbrato da cui riusciva a intravedere un bianco frammento osseo, in mezzo alla carne viva:
“Dannato bastardo…”
Troppo tardi. Spariti. Sia la cimice bionda che quella sottospecie di scherzo della natura nero erano scomparsi come se non fossero mai esistiti.
Continua...
Nota dell'autrice: le scene dinamiche sono effettivamente il mio lavoro migliore, colpa mia e del mio gusto esagerato per il cruento... non ci sono bambini a leggere questa roba, vero? XD
Aspetto con ansia i vostri pareri ;-) |
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Capitolo 6 *** Atto V ***
Le domande dei poliziotti entravano da un orecchio e uscivano dall’altro, all’ex-architetto sembrava di udire sempre le stesse, identiche cose: cosa c'era di tanto difficile da capire? Aveva spiegato loro l’accaduto qualche centinaio di volte, e quegli agenti non facevano che domandare ogni volta tutto da capo, erano forse sordi?
“A quanto pare è successo tutto troppo in fretta. Non siete proprio riuscito a capire in che direzione andava?”
Godey aveva cominciato a spazientirsi: lo prendevano per i fondelli o erano semplicemente scemi? Gli facevano sempre le stesse domande e fingevano di non capire, soltanto per mascherare pateticamente il fatto di non riuscire a trovare alcuna soluzione:
“Ve l’ho già detto parecchie volte, mi pare, continuare inutilmente a chiedermelo ogni secondo non vi aiuterà a ritrovare mia nipote!”
Il suo interlocutore sospirò:
“D’accordo, d’accordo, basta così. Allora, ricapitoliamo un’ultima volta… questo tizio, Mott o come si chiama, è stato sorpreso da lei e sua nipote a cacciare di frodo nei giardini di Alamos. Non ha fatto in tempo a chiedere aiuto che ha preso in ostaggio la vostra Alicia con le armi… poi che è successo esattamente?”
“Piantatela!” Godey era davvero ai limiti della sopportazione:
“Invece di stare qui a girarvi i pollici con queste stupide domande a cui avrò risposto una ventina di volte, mettetevi subito all’opera e cominciate a cercarli!”
“Si calmi! Per l’ultima volta: è importante, la prego di collaborare!”
Ipocriti incapaci. L’unico aiuto che credeva di poter ricevere gli sembrava di un’inutilità imbarazzante. Non potendo fare altro, l’ex-architetto riprese il resoconto più irritato che mai:
“L’ha minacciata con un fucile. Le intimava di attirare D... dalla foresta, la bestia che si aggira nei giardini durante la notte. Non ci è riuscita, ovviamente, cosa si aspettava, che richiamasse i Pokemon come il pifferaio magico?!” Mott, ammanettato lì accanto, borbottava e protestava, irato, in continuazione: “Avete mentito… avete mentito praticamente su tutto! La sua pupilla e quell’essere sono in rapporti molto stretti, mi pare! Sono sicuro che lei ne sa qualcosa!” Godey non riusciva più a sopportarlo, di starsene zitto una buona volta neanche per sogno. “Non ricominciare a vaneggiare, sporco… ipocrita!” Si trattenne appena in tempo da imprecazioni volgari contro quel viscido individuo di fronte alla polizia: “All’improvviso, questo verme stava proprio per spararle quando… è venuta fuori quella cosa. È accaduto così velocemente che… sulle prime… ho come pensato di essermelo immaginato. Ha attaccato questo bracconiere in un millesimo di secondo, un vero e proprio lampo, a malapena sono riuscito a capirci qualcosa: Alicia è scappata, purtroppo però è caduta e… in un istante…” Godey ne aveva davvero abbastanza di ripeterlo, non solo perché non faceva che dire sempre le stesse cose, ma era tutto troppo sconvolgente da ricordare: “Alicia… Alicia non c’era più. Sparita. Lei e… e quell’altro.”
“Va bene. Basta così, è chiaro che vostra nipote è stata rapita da questa creatura notturna.”
Il poliziotto consegnò gli appunti raccolti al collega: “Chiederemo informazioni ulteriori nei dintorni, ogni indizio potrebbe essere decisivo per trovare la ragazzina. Grazie per la sua collaborazione, Godey, può tornare a casa sua. Le manderemo ogni notizia utile, in caso ci fossero novità, sarà di certo la prima persona a saperlo.”
Godey lanciò un’ultima occhiataccia carica di rabbia al bracconiere, che ancora non voleva smettere di continuare a sparare accuse una dopo l’altra: “E con lui come la mettiamo?”
“Secondo la legge è in stato di fermo per caccia di frodo e minaccia ai civili con uso di armi da fuoco: in ogni caso sarà necessario un interrogatorio più approfondito.”
Udita la frase, Mott ricominciò ad agitarsi come un indemoniato:
“Volete ascoltarmi, maledizione?! Sì, cacciavo, non ha senso nasconderlo, ma mi è stato inviato un mandato, per questo, da uno dei vostri concittadini! Da quello che mi è stato riferito quella bestia maledetta non è che un pericolo pubblico, per voi, perché dovrei essere arrestato quando stavo semplicemente facendo il mio lavoro per il vostro interesse?! E potete starne certi, quella mocciosa è una specie di complice, vuole proteggere quella creatura per un motivo che non conosco e che sinceramente nemmeno voglio comprendere! L’ho vista, prima che accadesse tutto questo casino, dopo che abbiamo sistemato i problemi col bestiame è entrata da sola in quel maledetto bosco di corsa, e il suo presunto tutore qui presente non ha neanche minimamente tentato di fermarla!”
L’architetto fece di tutto per nascondere il suo irrigidirsi immediato di fronte alle accuse fondate del bracconiere:
“Questo tizio sa molto più cose di quanto crediate, è lui che dovreste interrogare su questa storia, non io!”
Godey lo maledisse con la mente: dunque il verme aveva visto tutto, non gli era sfuggito proprio niente, nella sua situazione attuale era riuscito a metterlo con le spalle al muro, la polizia non aveva tardato ad insospettirsi:
“Non sei tu, questa volta, ad avere il coltello dalla parte del manico, io non sono certo stato sorpreso a cacciare di frodo in un’area protetta!”
“Nel caso le fosse un pochino passato di mente, è lei ad avere il problema più grave, in questo momento, è un membro della sua famiglia ad essere stato rapito da quella sottospecie di avvoltoio amorfo!”
Per la prima volta, l’architetto dovette riconoscere che il bracconiere ipocrita aveva ragione: non sarebbero mai arrivati a nulla con le scarse informazioni che avevano attualmente a disposizione, se voleva ottenere più aiuto possibile e qualche risultato, ciò che sapeva e che si era ripromesso di tenere nascosto doveva assolutamente venire alla luce, o Alicia non sarebbe mai più tornata. Il segreto che condivideva con la ragazzina era probabilmente il più inviolabile che conoscesse, ma c’era in ballo la vita di quella che, nonostante si fosse sempre rifiutato di ammetterlo, era diventata parte della sua famiglia. Il prezzo da pagare era adeguato.
Gli agenti posarono di nuovo lo sguardo sull’architetto ormai braccato dalle accuse.
“È la verità?”
Godey si limitò a sospirare rassegnato:
“E va bene. Sì, penso di potervi dare qualche altra informazione.”
Mott sbuffò irritato.
“Complimenti, vecchio, guarda in che casino ci hai…”
“Qualcuno ha la compiacenza di farlo stare zitto?!” Esplose l’architetto, ormai fuori di sé per le sue continue lamentele ed interruzioni: per sua fortuna non era l’unico ad esserne infastidito e per una volta fu accontentato, così il bracconiere fu costretto a limitarsi ad osservarlo, con sguardo acido e sprezzante.
La polizia tornò a concentrarsi sull’argomento in questione:
“Quindi lei conferma che c’è dell’altro che possa aiutarci a risolvere questa cosa?”
“Diciamo di sì,” Rispose freddamente Godey, nonostante tutto non era ancora del tutto sicuro che rivelarlo fosse la cosa migliore: “Anche se non so se riuscirà davvero a costituire del materiale prezioso per il vostro lavoro. Voglio solo che troviate Alicia.”
“Faremo tutto ciò che è in nostro potere, ma ora dipende da lei aiutare queste indagini. Se può fornirci informazioni utili per salvare vostra nipote, le prometto che non ci fermeremo fino a quando non l’avremo trovata: ma deve parlare, signore.”
Niente da fare, Godey in cuor suo sapeva di non avere possibilità di scelta, se fosse servito a ritrovarla era disposto a raccontare anche ogni minimo dettaglio:
“Va bene, vi dirò tutto ciò che conosco se questo servirà a trovarla e a sbattere al fresco quest’individuo.
È necessario, però, che chiarisca un punto: di qualunque cosa veniate a conoscenza, è mio desiderio che usiate queste informazioni esclusivamente per rintracciare mia nipote, sono stato chiaro? In questa storia non c’entra nessun altro.”
Come previsto, il sospetto si insinuò nelle menti di tutti: gli agenti si consultarono rapidamente fra loro, conoscendoli era improbabile che avrebbero mantenuto la parola, ma era giusto che lo sapessero: non c’era nessun altro a cui potersi rivolgere per avere un supporto di qualche tipo.
Alla fine, il gruppo sembrò aver preso una decisione e accettò le condizioni:
“La ascoltiamo. Parli pure.”
Godey sospirò una seconda volta, lanciò un ultimo sguardo d’avvertimento a Mott e si sforzò di schiarirsi la voce e cominciare a confessare, mentre continuava a pensare insistentemente alla povera nipote finita chissà dove in compagnia di quella creatura.
Che strano… Alicia era riuscita quasi a fargli accettare quella convivenza forzata con le sue idee così idealiste e generose, tipiche dei giovani adolescenti audaci ed esuberanti, ma ancora non riusciva a non provare disprezzo per quella creatura tanto spregevole ed egoista da portargli via la sua cara nipote. Non poteva non essergli grato per averla salvata, ma quella bestia non doveva permettersi di strapparla dalla sua vita e dai suoi familiari per farne solo lui sapeva cosa.
No, basta così, Godey era stato tollerante per rispettare il desiderio della giovane ragazzina che gli era stata affidata, ma questa, all’Oscuro, non sarebbe mai riuscito a perdonargliela.
“Bene. Cominciamo.”
Quella
bambina dai capelli biondi come il sole, di aspetto piccolo e fragile,
con quegli occhi enormi, di un azzurro chiaro, pieni di sogni e
speranze, che
vedeva arrancare quasi ogni giorno in abiti spesso anche troppo grandi
per lei,
rispetto alla sua corporatura minuta, portava il nome di Alicia.
Prima che l’affidassero a lui, Godey si era limitato ad
osservarla da
lontano, nonostante fosse un caro amico dei suoi genitori, riteneva di
non
doversi immischiare con gli affari familiari altrui, ma la situazione
di quella
ragazzina lo aveva interessato fin dal giorno in cui l’aveva
intravista per la
prima volta, per puro caso, nell’unica occasione in cui
l’aveva vista
passeggiare con entrambi i suoi genitori, diretti ad ascoltare un
piccolo
concerto di una nuova promessa musicale, a cui si stava recando guarda
caso
anche lui.
L’attività
lavorativa di Godey era costellata di alti e bassi: ciò di
cui
era capace era conosciuto in tutta la regione, ed era stimato anche
dalle
autorità per le sue abilità architettoniche
veramente uniche, tuttavia i suoi
periodi di crisi per scarsa inventiva erano altrettanto famosi: era
capace di
non riuscire a buttar giù uno schizzo di progetto anche per
anni, tanto che non
erano rare le occasioni in cui si spargeva la voce che avesse
abbandonato la
carriera. Questo perché Godey si basava esclusivamente
sull’osservazione e
l’esperienza diretta delle cose per i suoi lavori, si
rifiutava di ideare un
qualunque tipo di costruzione che non avesse un preciso significato
morale, e
non accettava alcun tipo di incarico su commissione. Nonostante si
fosse da
tempo lasciato alle spalle la sua giovinezza, un individuo come
quell’architetto tanto singolare, alla sua età,
sembrava ancora uno spirito
libero e indipendente, deciso a fare tutto di testa propria senza
essere
pressato da alcun tipo di obbligo che potesse compromettere i suoi
capolavori.
Non era quindi
affatto strano che fosse nel pieno di una delle sue lunghe
pause lavorative quando conobbe per la prima volta quella ragazzina:
tale e
quale a sua madre, una donna eccezionale, di generosità
quasi inverosimile e
tuttavia capace di mostrare un atteggiamento estremamente fermo e forte
nel
momento del bisogno. Persone così nascevano una volta ogni
mille anni, riteneva
l’architetto, e per questo, purtroppo, per quanto potessero
essere amabili, non
avevano mai un passato sociale tutto rose e fiori.
Alicia era fra
queste: prima di tutto, c’era il fatto che suo padre fosse
sempre lontano da casa per lavoro, a malapena lo si poteva considerare
parte
della sua famiglia, Godey temeva che quella piccola angioletta bionda
potesse
persino dimenticarsi il suo viso, e per questo era la madre, ormai, ad
occuparsi
esclusivamente della crescita della figlia. Seconda cosa: la sua
istruzione, il
tipo di educazione e norme di comportamento ricevute. Inizialmente fu
naturale,
per tutti, pensare che, con una madre tanto meravigliosa, una bambina
come
Alicia fosse destinata ad una vita spensierata e piena di gioia, senza
alcun
tipo di problema: mai ci furono altre opinioni tanto sbagliate.
Come
c’era da aspettarsi, ai tempi dell’infanzia la
ragazzina era un
piccolo angelo della bontà, dolce, sincera, amante della
natura e sempre
disposta ad aiutare chiunque potesse aver bisogno di lei, come la
madre, ma
proprio per questo non riuscì mai a trovarsi a suo agio con
i suoi coetanei:
fin dall’inizio riscontrò subito problemi sociali,
veniva spesso derisa per il
suo atteggiamento considerato tanto stranamente generoso e gentile e la
sua
maturità, reputata innaturale, per una bambina
così piccola. Non riuscì mai a
farsi davvero degli amici, era troppo differente dai bambini della sua
età, la
guardavano tutti come una diversa e la trattavano come tale:
ciò che davvero
colpì più l’architetto dello spirito di
quella straordinaria ragazzina fu il
fatto che lei non solo non se ne curava, ma, più veniva
scansata e presa in
giro dai coetanei, più si sforzava di essere gentile con
ognuno di loro,
nonostante continuassero tutti ad evitarla nel modo peggiore. Fin da
piccola
aveva sviluppato una passione particolare per la musica, cantava spesso
con la
sua voce bianca e cristallina, ma la cosa più sorprendente
fu che, oltre ad
imparare tutto ciò che era necessario per suonare e comporre
melodie ad una
velocità impressionante, aveva ideato una tecnica di
esecuzione musicale tutta
sua: si era creata dei propri strumenti, semplici e comuni, non flauti,
non strumenti elaborati dal l'uomo, ma naturali e creati dalla
natura
stessa: foglie, semplici ed essenziali.
Che fosse
possibile produrre dei suoni con le foglie era ben noto, ma
quello di cui era capace quella bambina andava ben oltre ogni
aspettativa, le
melodie che era capace di produrre con quei piccoli strumenti naturali
erano qualcosa di celestiale, quasi ultraterreno, mai nessuno
aveva
prodotto brani tanto unici e melodiosi. Nonostante questo suo
talento
straordinario, però, continuava a rimanere senza molti
amici, e raramente
giocava con i suoi coetanei; per loro quella capacità non
era altro che fonte
di stranezza ed innaturalezza, non a caso qualcuno cominciò
a prenderla in giro
dicendo che 'parlava con gli animali' e sciocchezze infantili simili.
La madre non
poteva non essere preoccupata per la sua situazione, faceva di
tutto per cercare di migliorarle quelle condizioni assurde, ma lei
stessa si
sentiva impotente, Alicia non riusciva ad ambientarsi in nessun posto,
ovunque
si ripeteva sempre la stessa storia.
L’infanzia
purtroppo termina molto più in fretta di quanto si possa
credere, e quel periodo di innocente spensieratezza della ragazzina la
abbandonò per lasciare il posto a delle più che
legittime conseguenze emotive
dei suoi problemi sociali, dall’inizio per tutto il periodo
dell’adolescenza:
era come se si fosse rassegnata ad accettare il fatto che, per quanto
fosse
capace di impegnarsi, non sarebbe mai riuscita a trovare un posto in
quella
realtà tanto odiosa ed opprimente, e il suo carattere
divenne più ombroso e
solitario, la luce innocente e pura che aveva negli occhi di quando era
bambina
era difficile ormai da distinguere nelle sue iridi chiare. Si impegnava
in
tutti i modi nello studio, ma rimaneva costantemente separata dagli
altri, che,
più passava il tempo, più si allontanavano da
lei. Di conseguenza la sua
situazione non migliorò affatto, specialmente dopo quella
tragedia che spezzò
in due la sua famiglia e per la quale fu affidata
all’architetto, quando non
aveva neanche nove anni, e continuò a rimanere una ragazza
diversa e separata
da quelli della sua età tutta la vita, per il suo
atteggiamento tanto
innaturale.
Ovviamente,
come avrebbe reagito ogni bambino davanti ad una soluzione
tanto estrema e ad una situazione sconosciuta, Alicia sulle prime
mostrò tutta
la sua riluttanza per essere stata costretta a vivere, da quel giorno
tanto
drammatico, con l’architetto di Alamos. Ovviamente Godey, pur
deciso a rispettare
la privacy familiare altrui, era pur sempre rimasto, fin dalla prima
volta che
li aveva incontrati, un conoscente stretto dei suoi genitori, ed era il
primo,
probabilmente anche l’unico, a cui ci si potesse rivolgere
per affidargli
quella piccola peste. L’uomo viveva tuttora da solo,
considerato quanto tempo
libero si permetteva di prendere dal lavoro non avrebbe avuto problemi
a
occuparsi di quella ragazzina, e non aveva avuto alcun motivo per
rifiutare.
Alicia,
nonostante la diffidenza iniziale tipica di chi è costretto
a
separarsi dai familiari contro la sua volontà,
finì per affezionarsi presto a
Godey: quel tipo, tanto creativo ed originale quanto buffo e svagato,
riuscì in
poco tempo a conquistarla con le sue uscite spesso involontariamente
comiche e il
suo comportamento benevolo e disponibile nei confronti di
un’adolescente tutto
pepe come lei, tanto che quest’ultima finì per
cominciare a chiamarlo ‘zio’
nonostante non avessero alcun tipo di legame di sangue.
Tuttavia,
anche prima che la affidassero a lui, Godey aveva cominciato ad
osservare e a percepire, in lei, qualcosa di strano, in contrasto con
la sua
indole che, nonostante tutto, riusciva a conservare ancora lo spirito
sincero
ed innocente di una bambina: dopo quello che era successo alla sua
famiglia
aveva messo da parte per un po’ i suoi sospetti, ma quando
cominciarono a
calmarsi le acque ed iniziarono a vivere sotto lo stesso tetto,
l’architetto
individuò un comportamento inusuale in Alicia, un qualcosa
che le impediva di
essere del tutto sincera con lui, un pensiero fisso che teneva in
silenzio
dentro di sé e che lui non riusciva ad identificare. Seppe solo molto
tempo
dopo che quel qualcosa era un essere primordiale, né umano
né animale, forse
neanche del tutto Pokemon, che era come diventato parte di lei: colui
che
chiamavano l’Oscuro, il leggendario Darkrai.
Continua...
Nota dell'autrice: mi scuso profondamente per questo cambio di programma, ma, dopo una lunga riflessione, ho deciso di riscrivere un intero pezzo della storia, in quanto mi sto rendendo conto di quante modifiche sto apportando; pertanto il nuovo capitolo non arriverà tanto presto come quelli che ho pubblicato finora.
Grazie per la comprensione e buon proseguimento ;-) |
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Capitolo 7 *** Atto VI ***
La
prima volta che Alicia vide Darkrai aveva sei anni
o poco meno. Era al suo primo anno alle elementari, e aveva subito
riscontrato
problemi sociali: cresciuta in un ambiente troppo ristretto, con
problemi
familiari a causa del lavoro ed idee totalmente diverse da quelle
locali, si
era sentita fuori posto non appena aveva messo piede per la prima volta
in
quella enorme stanza piena di banchi. Le insegnanti non erano nemmeno
il
massimo della competenza, a parte, forse, quella di musica, che aveva
subito visto,
in lei, un talento innato per quella difficile attività, e
si era proposta di
insegnarle anche privatamente tutto ciò che sapeva. Non le dispiaceva neanche
quella di storia,
con la sua indole tenera e generosa tipica di chi è madre da
poco, ma anche con
la giusta disciplina che serve per governare una classe di piccole
furie
scatenate.
Alicia, per tutti, sia insegnanti che coetanei, era una bambina
problematica,
spesso assente e disinteressata e tuttavia non particolarmente ribelle, continuava a fantasticare su cose che
solo lei
conosceva, riusciva a concentrarsi per neanche dieci minuti; se
riusciva ad
ottenere voti decenti era perché riusciva a studiare insieme a sua madre, così brava a spiegare anche attraverso il
divertimento. Gli insegnanti
erano preoccupati, non tanto per i suoi risultati quanto per la sua
situazione
psicologica.
Lo aveva sentito da sua madre, lei era al centro
dell’attenzione di ogni
tutore, perché non riusciva a farsi degli amici fra i
compagni di scuola,
spesso preferiva andare a riflettere e a cantare nuovi pezzi musicali
in
solitario: nessuno degli altri bambini riusciva né voleva accettarla, parlavano
anche alle sue spalle, dicevano che era strana.
Alicia non riusciva a classificare al meglio quella parola, le sembrava
innaturale, facendole storcere il naso.
Strana. In base a cosa una bambina era strana?
Perché non faceva
quello che fanno tutti gli altri? Doveva sforzarsi di simulare i
comportamenti
dei suoi compagni, per non essere strana?
Però l’idea non le piaceva
neanche un po’, voleva solo poter essere se stessa,
divertirsi come voleva lei,
stare a forza in un gruppo che non la voleva e che a lei non piaceva
nemmeno
era una perdita di tempo che umiliava e dava problemi a entrambi,
cercava di
rispettare sempre le esigenze dei suoi coetanei, correndo da loro
quando
chiedevano un aiuto, dando loro un consiglio sincero ogni che credeva
di poter
dare loro una mano…
Eppure continuavano a tenerla a distanza, nei giochi di squadra, se
veniva
scelta, era sempre ultima, e la sua costituzione delicata e non
particolarmente
atletica non le permetteva nemmeno di fare bella figura alle sessioni
di
ginnastica.
Generalmente i sessi non andavano particolarmente d’accordo,
i maschi erano
sempre solo concentrati sullo sport e detestavano apparentemente le
femmine,
sempre attaccate solo a bamboline inutili e cose frivole, fissando i
ragazzi
come se fossero un branco di cinghiali.
Alicia non riusciva proprio a capire quale fosse il suo posto.
Si ricordava solo un giorno in particolare, che le permise di conoscere
davvero
dove era finita. L’insegnante di storia, durante una seconda
ora causata
dall’assenza di un’altra collega, che aveva scelto
di sostituire per i bambini,
aveva approfondito il tema che a lei piaceva di più in
assoluto, l’unico su cui
riuscisse a concentrarsi davvero: i miti dei Pokemon leggendari.
L’insegnante
aprì il discorso con i tre grandi uccelli delle isole
Orange, Moltres, titano
del fuoco, Zapdos, titano del fulmine, e Articuno, titano del ghiaccio.
Erano stupendi, tre enormi rapaci dai colori accesi e poteri sugli elementi
tutti diversi,
che Alicia immaginava continuamente, mentre eseguivano leggiadre
acrobazie nel
cielo con le loro grandi ali variopinte. La maestra, in un eccesso di
generosità, distribuì i disegni a tutti, e
addirittura prestò un grosso volume
illustrato su di loro al gruppo delle ragazze. Nonostante non amasse
stare con
quel gruppetto troppo lontano da lei, Alicia aveva deciso di unirsi a
loro per vedere il libro.
Le bambine avevano guardato ininterrottamente Mew almeno per una
quarantina di
minuti spesi in commenti (per cui lei faceva del suo meglio per provare entusiasmo, ma che finivano, per sua sfortuna, solo per stufarla) del tipo ‘troppo carino!’,
‘è il più bello di tutti’,
‘è il migliore, il mio preferito’ e
‘sarà il mio primo Pokemon di sicuro!’
Dopo
una serie di piccoli litigi perché ognuna di loro continuava
a ribattere che
l’avrebbe catturato prima delle altre, avevano cominciato ad
allenarsi a
disegnarlo a turno, e, non bastando il libro per tutte, avevano
ottenuto
disegni da ricopiare direttamente dalla maestra per ognuna di loro.
Così, Alicia aveva avuto tutto il tempo per dedicarsi in
privato al libro.
Aveva sfogliato velocemente tutta Kanto, Johto e Hoenn in fretta e
furia,
fermandosi sui capitoli di Sinnoh, la sua regione: aveva guardato con
attenzione i Guardiani dei Laghi, i due grandi titani Dialga e Palkia
simbolo
della sua patria, persino letto qualcosa su Heatran, abitante dei
vulcani, e il
gigantesco capo dei golem, Regigigas, la cui storia l’aveva
particolarmente
interessata: si divertiva un mondo a immaginare continuamente nella
testa un
colosso come quello che legava una per una isole e continenti con tante
funi e
le trascinava in giro per il mondo camminando sull’acqua,
nonostante la sua
mole dotata di peso incalcolabile, con quei piedi enormi.
L’immagine riusciva
sempre a divertirla da matti.
Poi era arrivata al capitolo dedicato al duo lunare.
Le prime pagine raffiguravano e descrivevano Cresselia, il Pokemon
Falcato, in
tutte le sue apparizioni e in tutte le forme dei suoi poteri. Era di
una
bellezza sconvolgente, se l’avessero vista le altre sarebbero
impazzite: la
protettrice dei bei sogni, il quarto di luna splendente che vegliava su
uomini,
donne e bambini, niente di oscuro avrebbe potuto toccarli
finché ci sarebbe
stata lei a proteggerli come un amuleto sacro.
Alicia svoltò pagina: la prossima immagine era quasi
praticamente opposta alla
precedente: raffigurava una enorme creature nera dall’aspetto
stranissimo,
quasi stracciato, come se portasse addosso un mantello a brandelli,
dalle
lunghe braccia munite di lunghi artigli e
che
possedeva una cresta bianca tendente verso l’alto
dall’aspetto morbido e
vaporoso, per non parlare di quelle due enormi, nerissime ali, coperte
di piume
nere come petrolio, che sembravano essere sul punto di spiegarsi prima
di
assaltare una preda. Non aveva mai visto un Pokemon
dall’aspetto tanto ostile
ed oscuro, e tuttavia dallo sguardo fiero, stranamente non riusciva a
provare
alcun tipo di disprezzo per quell’essere tanto bizzarro, al
contrario di quello
che provava, per esempio, per un cattivo delle storie che le leggeva la
mamma
quando era ancora più piccola.
In fondo, secondo il libro, faceva parte dei Pokemon leggendari, le
avevano
sempre detto che nessun leggendario era cattivo, ognuno di loro era
necessario
per mantenere l’equilibrio del mondo, per quanto
l’aspetto fosse tutt’altro che
tenero o rassicurante. Quando però
cercò di leggere qualcosa sul suo conto si accorse che il
testo della
descrizione era macchiato: probabilmente era caffè o simili,
e, alla sua età,
per lei, era impossibile leggere in quelle condizioni.
Decise di posare il testo e di chiedere aiuto alle compagne, che, tutto
sommato, sembravano abbastanza informate:
“Kamy, senti, mi leggi questo?”
“Eh?” La sua compagna dai capelli neri le si era
avvicinata con aria poco
interessata:
“Che c’è?”
“Non riesco a leggerlo. Che Pokemon è
questo?”
Kamy, muovendosi vanitosamente il caschetto perfettamente pettinato,
aveva dato
un’occhiata veloce alla pagina del libro e aveva riso quasi
immediatamente:
“Non dirmi che non sai chi è questo! Vivi qui a
Sinnoh con noi da tutto il
tempo e non sai chi è questo?”
“A casa non mi leggono spesso cose sui Pokemon
leggendari,” Aveva ribattuto lei
per giustificarsi:
“Che Pokemon è?”
“Tu non sai proprio niente!” Aveva risposto Kamy
puntando il ditino dritto sul
grande occhio del Pokemon raffigurato sulla pagina:
“Questo è Darkrai, leggendario di attributo
Buio!”
Alicia fissò ancora il disegno con curiosità,
interessatissima alle
informazioni della compagna:
“Non credevo esistesse un leggendario di attributo
Buio.”
“Infatti è l’unico. È il
più cattivo di tutti.”
Alicia l’aveva guardata con stupore:
“Eh?”
Kamy, piena di sé come al solito, aveva rivolto al disegno una serie di
smorfie
frivole, come se davvero un pezzo di carta potesse vederla:
“Darkrai è il nemico di Cresselia. Viene di notte
per riempirci di incubi pieni
di demoni e fantasmi e rapire i bambini per far soffrire la loro
famiglia. Però
ogni volta arriva Cresselia che lo caccia via dalla nostra
città e lo fa
rintanare nel suo covo per tutto l’anno. Cresselia ci
protegge sempre dai suoi
incubi, vince sempre contro di lui.”
“Io però non li ho mai visti combattere.”
“Certo che no! Cresselia caccia via Darkrai mentre dormiamo
per non svegliarci
e darci i sogni belli!”
“Va… bene…”
Alicia riprese in mano le pagine macchiate e osservò ancora
il Pokemon nero:
“Ma perché è cattivo?
Cioè… insomma, chi lo ha fatto diventare
cattivo?”
“Non c’è nessun chi!” Aveva
ribattuto la compagna spazientita: “È
così e basta!
Darkrai è sempre stato cattivo e sempre lo sarà,
vive nutrendosi degli incubi
che provoca alle persone, odia tutti noi e basta.”
Alicia aveva esagerato e si era infervorata nella discussione:
“Ma ci deve essere una ragione per forza! Non esistono
Pokemon leggendari
malvagi!”
“Beh, lui sì! E se non fai attenzione potrebbe
riuscire a prendere anche te!”
Kamy, nella sua superbia infantile, non era capace di spaventarla
neanche un
po’:
“Ma no, dai, finora non ci è mai
riuscito!”
“Perché c’è Cresselia che ci
protegge, no?”
“Ma non può essere così
cattivo!”
Kamy aveva cominciato ad arrabbiarsi sul serio per quella sua
testardaggine:
“E chi te l’ha detto? La tua mamma?”
Alicia si sentì offesa da quel commento, ed esitò
un attimo:
“Perché…
perché…”
Non aveva tutti i torti, era stata la mamma a dirle per prima che non
esistevano leggendari cattivi, doveva inventarsi qualcosa per avere la
meglio e
non fare brutta figura con la compagna, non poteva passare di fronte a lei
come la
cocca di turno. Guardò il disegno cercando disperatamente un
indizio che
potesse aiutarla: quella grande creatura nera dagli artigli simili a
lame che
la guardava ostile, con quel faro azzurro luminoso a mezzaluna che
doveva
essere il suo… ecco!
“Ha… ha gli occhi azzurri.”
“Eh?” La compagna, alzando un sopracciglio,
l’aveva guardata critica e
perplessa:
“Ha gli occhi azzurri. Molto luminosi.”
“E allora? Che c’entra?”
“I cattivi non hanno mai occhi azzurri tanto
luminosi.”
“Che?” La faccia della bambina divenne ancora
più incredula, dopo quella
risposta tanto strampalata:
“I Pokemon, intendo, i Pokemon cattivi non hanno mai occhi
così. Lui ce li ha.”
La ragazzina bionda fissò di nuovo
l’illustrazione: “Sono belli. Non possono
essere quelli di un leggendario cattivo.”
Kamy era scoppiata a ridere e le aveva sbattuto il libro in mano:
“Quanto sei stupida, Alicia!”
E l’aveva lasciata per tornarsene con le compagne.
Alicia
aveva ripensato a quell’oretta del libro per
tutta la giornata.
Al suono familiare e attesissimo della campanella, mentre tutti gli
altri si
erano precipitati fuori, aveva deciso di chiedere direttamente alla
maestra di
storia: lei non sbagliava mai, di sicuro non l’avrebbe
delusa, e si diresse da
lei a passi timidi: “Maestra…”
“Alicia? Perché non vai con gli altri?”
La bambina si era limitata a porgerle il libro, cercando di non far
notare la
tensione:
“Volevo restituirle questo, anche se mi sarebbe piaciuto
finire di leggerlo.”
La maestra le aveva dato una amorevole carezza con aria compassionevole:
“C’è qualcosa che non va?”
Alicia guardava la copertina variopinta malinconica:
“Volevo chiederle una cosa: esistono Pokemon leggendari
cattivi?”
L’insegnante rimase piuttosto perplessa:
“Perché me lo chiedi?”
“Niente… è che oggi ho guardato una
pagina…” Riprese il libro in mano e
tornò
al capitolo sul duo lunare in cerca della pagina macchiata:
“Eccolo! Questo
qui!”
Mostrò l’immagine alla maestra incuriosita:
“Oggi ho letto questa pagina. Kamy mi ha detto che questo
Pokemon si chiama
Darkrai, è che è un leggendario Buio.”
“Sì…”
“Ha detto anche che è un Pokemon
leggendario cattivo. Lei sa se è vero,
maestra?”
Lei aveva sorriso a quella domanda inaspettata, d’altronde
Alicia, la bambina
‘particolare’, diversa da ogni suo compagno, non
parlava tanto spesso di queste
cose:
“Lo dice anche il libro?”
“Non sono riuscita a leggerlo. La pagina è tutta
macchiata.”
La maestra fissò la parte scritta ormai illeggibile,
cominciando a borbottare
infastidita:
“Oh, accidenti a Henry! Gli ho detto migliaia di volte di non
toccare i libri e
come al solito continua a rovinarli, da quanto li ha salutati, i
timpani? Mi
spiace, piccola, temo di non poter fare nulla, è la mia
unica copia.”
Lei l’aveva guardata malinconica:
“Non è davvero cattivo, vero maestra? Non esistono
leggendari cattivi. Me lo ha
detto mia mamma.” L’aveva guardata fissa negli
occhi, quelle due enormi sfere
azzurre e chiarissime, lucide e piene di speranza ed aspettative:
“Darkrai non è un leggendario cattivo, vero
maestra?”
Non avendo risposte secche pronte da dire sul momento,
l’insegnante si era
limitata a sfogliare qualche pagina del libro:
“Questo non lo sapremo mai con certezza, io meno di tutti. I
Pokemon
leggendari, Alicia, sono il più grande mistero che sia mai
esistito al mondo.
Sono potentissime creature primordiali che non si mostrano mai davvero
agli
occhi umani, a parte rarissimi, anzi unici, prescelti. Questo
è tutto ciò che
ci è stato tramandato su di loro, e solo a questo possiamo
riferirci. Ma la
reale verità è ancora invisibile, e li accompagna
secolo dopo secolo.”
“Quindi… non si sa? Non si sa se è
davvero cattivo?”
“No, Alicia. Non si sa.”
La bambina era rimasta molto sollevata, per poi mostrare un grande
sorriso su
quel visino dall’aria angelica: “Grazie. Grazie,
maestra!”
Così poco era bastato, quella ragazzina tanto speciale aveva
già recuperato il
buonumore:
“Mi spiace che però tu non riesca a leggerci
nulla…”
“No, no, non fa niente,” Aveva risposto subito lei
fissandola di nuovo con quei
grandi occhioni da bambina pieni di spensieratezza: “Anzi, sa
cosa le dico?
Meglio così! Non m’interessa sapere cosa dice il
libro, quando sarà il momento
voglio scoprirlo da sola! Voglio scoprire il mistero di questo Pokemon
leggendario tutto per conto mio, maestra!”
Ed ora fissava il soffitto con aria sognatrice, il piccolo miracolo
umano della
musica, per poi tornare ad aprire il libro sulla pagina col disegno
tanto
amato:
“Chissà che Pokemon è
veramente… uffa, come vorrei vederlo dal vivo, ha
un’aria
così fiera… sembra che niente possa fargli paura,
nemmeno due bestioni come
Dialga e Palkia!”
Alla maestra scappò una risatina, l’eccitazione e
l’allegria di quella bambina
erano contagiose:
“Sei davvero speciale, Alicia.”
La ragazzina la fissò di nuovo con il libro aperto fra le
mani:
“Perché, maestra?”
La donna le si avvicinò per sfiorare il disegno con le dita:
“Non ho mai sentito dire queste cose da nessuno, prima
d’ora, tantomeno su un
Pokemon leggendario come questo.”
“Eh? Perché?”
“A tutte le bambine della tua età lui fa davvero
molta paura,” Continuò
accarezzandole i riccioli biondi. L’espressione stupita
rimase scolpita nei
grandi occhi innocenti di Alicia:
“La maggior parte di loro chiude il libro non appena lo vede.
A te, invece, sembra piacere molto.”
La bambina guardò di nuovo il disegno: in effetti non sapeva
dirne esattamente
il perché, in quanto ad estetica quel Pokemon era ultimo in
classifica,
l’ultimo aggettivo da poter attribuire a quella sottospecie
di uccello nero
umanoide era ‘carino’ o
‘tenero’, ma quell’aria decisa e
penetrante aveva un
fascino tutto suo: lo sguardo di un guerriero che non si sarebbe mai
piegato di
fronte a nulla, che rimaneva vincente anche nelle situazioni
più drammatiche,
di un azzurro acceso.
“Ha gli occhi molto belli… tutti blu, con quella
piccola riga nera dentro. Mi
piacciono molto, sono anche simili a quelli della mamma, solo che non
hanno la
pupilla tonda, ma piccola e triangolare.”
Fece per restituire finalmente il libro, eppure, inaspettatamente,
l’insegnante
glielo spinse fra le braccia sorridendo:
“Tienilo pure, quel libro, a me non serve più di
tanto, e sono sicura che lo
tratterai molto meglio di Henry. In caso ci serva di nuovo lo
riporterai a
scuola, va bene?”
“Va bene. Grazie maestra!”
Ora con l’umore alle stelle, Alicia si era precipitata fuori
dall’aula con la
cartella ballonzolante sulle spalle e il libro stretto fra le braccia.
Per un
attimo, alla maestra sembrò di sentir cantare la sua voce
oltre le mura della
scuola.
Un buio impenetrabile si presentò agli occhi di Alicia non appena riuscì a schiudere le palpebre appesantite. Non doveva aver perso i sensi per molto tempo, quell’oscurità poteva solo voler dire che la notte non era ancora trascorsa.
Cercò per prima cosa di fare mente locale su ciò che riusciva a ricordare: Ciro che le puntava addosso il fucile. Godey che cercava inutilmente di fermarlo.
Poi era tutto accaduto ad una velocità a malapena descrivibile: Ciro che urlava e la mollava, lei inciampava nel tentativo di scappare, poi quel ringhio e la sensazione di calore di un corpo ravvicinato. E all’improvviso…
Darkrai!
Questo pensiero le esplose nella testa come un palloncino che viene fatto scoppiare da un ago: doveva essere crollata subito dopo. Ricordava i suoi occhi, quel grande faro azzurro che vegliava su di lei come una piccola luna custode, e quella frase sarcastica che le si era insinuata nella testa subito prima di perdere conoscenza per un po’:
“Chiedo umilmente il suo perdono, principessa, ma devo salvarle la vita.”
Forse c’entrava lui col suo breve svenimento, se non voleva che guardasse una cosa, metterla a nanna, per l’Oscuro, era un gioco da ragazzi. Le aveva salvato la vita e l’aveva portata via, sì. Ma dov’era finito? Non lo vedeva là intorno, era scappato di nuovo? L’aveva lasciata sola, e per andare dove?
Dopo averli sbattuti più volte, finalmente gli occhi si abituarono all’oscurità. Era ancora nei giardini, circondata da alberi cavi e non, stesa sull’erba umida.
L’impulso di alzarsi e andarsene per cercare di ritrovare la strada di casa era davvero quasi insopportabile, ma ci ripensò immediatamente.
No, se Darkrai se ne era andato doveva avere una valida ragione, non l’avrebbe mai lasciata lì da sola in balia di qualunque pericolo. Forse era ancora lì intorno, forse si era allontanato per poco tempo e sarebbe tornato presto, oppure l’aveva riportata in un luogo dove sarebbe stata rintracciabile dalle altre persone, dove avrebbero potuto ritrovarla facilmente; in ogni caso, doveva rimanere lì, non poteva prendere e andarsene, non avrebbe giovato a nessuno dei due. Decise di fidarsi e aspettare. Il cielo non ne voleva proprio sapere, di cominciare a schiarirsi, e dopo la pioggia i suoi vestiti erano ancora tutti umidi. Il vento che le soffiava addosso la stava facendo congelare: dov’era quel testardo di un Pokemon? Perché se n’era andato? Cercò almeno di alzarsi, ma un forte dolore alla caviglia le impedì una qualunque mossa azzardata: nel peggiore dei casi poteva essersi rotta qualcosa, ma era già passata sotto fratture, e il dolore sembrava quello di una comune slogatura.
In ogni caso sarebbe morta di freddo se non trovava un posto in cui ripararsi dal vento, fradicia com’era. Cominciò a cercare con gli occhi un qualunque posto utile a farle da rifugio, ma non ne vide, gran bella fortuna: solo alberi ovunque, e qualche tana di Pokemon decisamente troppo piccola per lei.
La corrente d’aria peggiorava, e cominciava davvero a temere di essere spacciata, fece per prendere coraggio e alzarsi, quando percepì quel familiare movimento accanto a lei:
“Ferma. Così peggiori le cose e basta.”
Credeva di essersi abituata al buio, ma non lo vedeva in giro, era nascosto da qualche parte, pur sentendolo incredibilmente vicino:
“Dove sei?”
“Qui.”
Sentì il suo respiro profondo e vide i tre lunghi artigli passare come un’ombra veloce sulla sua spalla. Era esattamente dietro di lei, ecco perché riusciva a vederlo:
“Dov’eri finito?”
“Non me ne sono mai andato.”
“Mi hai fatto prendere un colpo, accidenti a te!”
“Lo so. Aspettavo solo che recuperassi la lucidità.” Ringhiò basso, mentre sentiva le foglie sbattute e agitate furiosamente dal vento impetuoso:
“Tempo di andare, principessa. Con la tua fragilità umana rischi grosso con questa maledetta bufera.”
Sì, con una caviglia slogata e tutta irrigidita per il freddo, una lumaca sarebbe stata più veloce, non poteva mica tralasciarlo:
“E dove pensi di andare, di grazia, si può sapere?”
Il Pokemon leggendario si limitò a scostarsi la frangia bianca dagli occhi con aria superba come era solito fare:
“Conosco un posto. So dove andare.”
“Perfetto…”
Lei cercò di muoversi un’altra volta ma venne fermata senza avere la possibilità di muovere un singolo muscolo:
“Faccio io. Non vai da nessuna parte con quella caviglia.”
La mise dritta con un braccio e la sollevò da sotto con l’altro come una bambolina di pezza. Umiliante, ma camminare da sola per tutto il tragitto, qualunque esso fosse, le avrebbe solo peggiorato le condizioni:
“Cerca di reggerti. Devo essere veloce, potresti anche saltarmi via dalle braccia, con questo vento maledetto.”
In pratica, l’aspettava una specie di salto temporale da un luogo all’altro, con inclusa una violentissima corrente di vento dritta in faccia che faceva arrivare a credere di sentirsi staccare la carne dalle ossa: ovvero ciò che l’Oscuro poteva definire come sua ‘corsa’ o volo:
“Ricevuto.”
Strinse forte le dita, per quanto intorpidite fossero, sulle punte aguzze della cresta rossa intorno al suo collo, e si preparò all’esplosione ventosa che avrebbe ricevuto in pieno viso. |
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Capitolo 8 *** Atto VII ***
La seconda volta che lo vide fu
un’esperienza che non avrebbe mai dimenticato. Aveva sette
anni e mezzo, era inverno. A lei non dispiaceva l’inverno:
era la stagione della neve, dei caminetti e dell'esibizione annuale di pattinaggio sul ghiaccio, a cui la mamma, nonostante la malattia che purtroppo si era presa,
continuava ad assistere insieme a lei. Avrebbe capito molto tempo dopo che quel sacrificio aveva il solo scopo di non farle sentire troppo la mancanza di un padre lontano da più di un anno. Quel giorno era andata per
‘giocare’ sulla neve con le compagne di classe.
Faceva freddo, ma non era dei peggiori. La neve era più
soffice della più morbida ovatta, e si divertì a
fare l’angelo in mezzo a quella nuvola solida per almeno sei
volte.
In realtà non era andata per giocare con quei bambini, a lei
non piacevano più di tanto, ma si divertiva a tirare le
palle di neve, soprattutto alle più smorfiose delle sue
coetanee, e così passavano ore a bombardarsi a vicenda di
neve, che era l’unica cosa che facevano insieme, per i
pupazzi erano tutti discriminatori, e volevano farseli solo con gli
amichetti del cuore. Alicia non ne aveva. O meglio, ne conosceva
abbastanza, ma nessuno che potesse considerare ‘amico del
cuore’. Soprattutto dopo quel giorno.
Alcune fra le ragazzine, guidate da un maschietto particolarmente
audace, avevano cominciato ad inerpicarsi lungo un pendio che dava sui
giardini di Alamos, un luogo straordinario e tutto
particolare, sbocciato, con la più rilucente bellezza della
natura, tutto da solo, nessuno era mai riuscito a capire come, ma certi
Pokemon facevano miracoli.
La neve indurita e il ghiaccio rendevano tutto molto più
scivoloso e pericoloso, ed Alicia era l’unica che tentasse di
fermare quella pericolosa arrampicata chiedendo ogni secondo ai bambini
di fermarsi, tornare indietro, stare attenti e ripensarci. Non le
diedero retta neanche una volta, e, essendosi allontanati anche troppo,
non ricordando più la strada del ritorno e con la paura di
rimanere sola, Alicia si era costretta a continuare a venir loro
dietro. Il bambino a capo della spedizione, di cui non si ricordava
già più il nome, si era messo in testa di
raggiungere la cima del pendio e fare il più bel pupazzo che
si fosse mai visto da lasciare lì, come bandiera, che
avrebbe testimoniato il compimento della loro impresa: inutile era
stato dirgli che il pupazzo si sarebbe sciolto in meno di un giorno non
appena sarebbe tornato il vento caldo, ma non bastò questa
consapevolezza per farlo demordere. La piccola ragazzina bionda era
sempre più preoccupata per la complicata situazione,
cacciarsi nei guai non era il suo passatempo preferito, i genitori
sanno essere piuttosto severi e in caso di qualche guaio, se avessero
saputo che aveva preso parte a quella specie di brigata
l’avrebbero conciata per le feste. Poteva solo sperare che il
ghiaccio con loro fosse clemente:
“Torniamo indietro, ora? I nostri genitori ci staranno
aspettando.”
“Perché, Al, hai paura?” Aveva ribattuto
il maschietto sorridendo infantile:
“Sì, ha paura, ha paura! Al è sempre
stata una pappamolle.” Gli aveva fatto eco una delle ochette:
“E se scivoliamo sul ghiaccio e ci rompiamo un braccio?
Passiamo tutti dei bei guai, non solo io!” Aveva cercato di
difendersi lei:
“E allora tu vedi di non scivolare!”
Niente da fare, non le davano retta. Continuava ad arrancare dietro di
loro stringendosi nella sciarpa lanosa, decisamente troppo grande per
lei, che l’avvolgeva come un enorme sacco floscio,
era stata la mamma a sistemargliela. Era scomodissimo portarsela dietro
in quel modo, ma l’alternativa era congelare. Per fortuna
persino quell’audace gruppetto aveva un limite di resistenza:
“Sono stanco. Fermiamoci qua.” Esplose
all’improvviso il capogruppo, ottenendo consenso unanime. Si
riposarono in una specie di conca sul pendio abbastanza grande da
ospitarli tutti, tanto piena di neve da arrivargli quasi alla vita
(nessuno di loro a sette anni era particolarmente alto, Alicia era
anche bassa per costituzione). Si divertirono a fare disegni nella neve
e a raccontarsi storielle poco credibili per un po’, quando
all’improvviso il ragazzino capogruppo, attratto da una
macchia di alberi lì vicina a causa di necessità
di un bagno immediato, si accorse che il sole stava ormai per calare.
Tornato indietro, infreddolito e impaurito, comunicò con
imbarazzo la notizia:
“Ora… ora torniamo indietro…
capito?”
Alicia tirò un sospiro di sollievo: finalmente quella
tortura aveva fine. Le altre due bambine si lamentarono, ma davanti al
tramonto imminente non potevano fare altro che concordare in ogni caso.
Si alzarono tutti ripulendosi via la neve dai vestiti e fecero per
avviarsi verso casa, quando all’improvviso una delle due
ragazzine, scivolando, come era prevedibile, sul ghiaccio duro,
finì per trascinarsi dietro la bambina bionda fino al limite
del pendio ghiacciato. La prima riuscì ad ancorarsi con le
piccole mani alla prima sporgenza rocciosa che riuscì a
trovare, ma il giovane talento musicale di Alamos non fu
così fortunato: Alicia si ritrovò con viso e
busto sporgere fuori dal limite del pendio, verso dieci e
più metri di distanza dagli abeti sottostanti. La vista del
vuoto e il fatto di essere sul punto di cadere di sotto ebbero un
effetto devastante:
“Aiutami! Tirami su, tirami su!” Chiese
disperatamente lei, ma i bambini, troppo sorpresi e spaventati dalla
situazione, non reagirono affatto sull’immediato, e la
ragazzina inciampata, goffamente, quando cercò di
avvicinarsi a lei, finì per urtarla, segnando il suo
destino. Il ghiaccio non ebbe alcuna pietà e la
trascinò giù, lungo il costone roccioso coperto
di neve, facendo cadere la ragazzina bionda dritta di sotto.
Sete.
Fu la prima cosa che percepì al risveglio. Tanta sete. E
dolore. Subito dopo anche freddo. Niente di piacevole, sicuramente, ma
queste sensazioni fisiche… potevano voler dire solo una
cosa: era ancora viva.
La meraviglia per essere sopravvissuta ad una caduta simile
riuscì, per un attimo, ad allietare l’animo della
piccola Alicia, permettendole di recuperare un po’ di calma.
Era tutto buio, non vedeva nulla. Forse era notte. Oppure…
essere del tutto integra era qualcosa di decisamente troppo bello per
essere vero ed era diventata cieca?
Il solo pensare di potersi muovere la faceva stare male: aveva freddo e
dolore in tutto il corpo, troppo intorpidito per poterle rispondere, e
sentiva un particolare e continuo bruciore nella zona sinistra
superiore. Doveva avere una ferita, in quel punto.
Un’emicrania pulsante decise di aggiungersi al tutto come
ciliegina sulla torta: era viva, sì, ma completamente
paralizzata dal freddo, dalla fiacchezza e dal dolore, di certo non lo
sarebbe rimasta per molto in quelle condizioni. Era circondata dalla
neve e avvolta ancora, chissà come, dall’enorme
sciarpa che si era portata dietro per tutto il giorno, entrambe
dovevano averla salvata dalla tremenda caduta. Forse, però,
aveva delle ossa rotte, oppure era rimasta lì, immobile, in
balia del freddo, abbastanza a lungo perché le si congelasse
qualcosa… e, considerati i brividi continui che sentiva
nonostante fosse ancora avviluppata negli abiti invernali, sicuramente
qualche linea di febbre l’aveva.
Fece comunque un tentativo e provò a muovere un qualunque
arto, ma la rinuncia fu immediata: era troppo indebolita e dolorante, a
malapena riusciva a comandare le dita.
Dopo una serie di riflessioni cominciò a giungere
l’ombra del panico: se era notte, nessuno l’aveva
soccorsa, i bambini che erano prima con lei non avevano chiamato aiuto?
L’avevano lasciata lì, a morire, da sola, per il
freddo, le condizioni assai più tragiche in cui avrebbe
potuto trovarsi dopo un volo nel vuoto simile, o per la fame degli
animali selvatici che forse si stavano aggirando proprio lì
intorno? Qualcuno sarebbe mai venuto a cercarla? I giardini di Alamos
erano conosciuti, certo, ma decisamente immensi, sarebbero mai arrivati
in tempo per soccorrerla? Troppi dubbi e nessuna risposta, Alicia non
sapeva come fare per levarsi da quella situazione quando persino il suo
corpo si era sottratto al suo controllo.
Ho paura. Ho paura. Non voglio
morire.
Cercò
almeno qualche stella nel cielo, sperando che fosse effettivamente
notte e non uno scherzo della sua vista, e quantomeno intravide la
luna, sottile spicchio arcuato bianco e splendente in quel nero
notturno. Questo bastò a farla stare un po’
meglio, almeno aveva una luce a cui fare riferimento e la conferma di
avere la vista perfettamente funzionante. Tuttavia, la luna da sola non
sarebbe mai bastata a riportarla a casa, al sicuro, da sua madre, e a
guarire le sue condizioni fisiche. Non riusciva a muovere un muscolo,
non poteva alzarsi, figuriamoci mettersi a camminare da sola verso casa
quando non ricordava neanche la strada. Di nuovo, la disperazione
trovò una facile via per prendere il controllo della sua
mente.
No. No. Non voglio morire. Ho
paura, no, non voglio morire, non voglio morire qui da sola!
Chiamava,
chiamava e continuava a chiamare nella testa un qualsiasi aiuto, da
chiunque, avrebbe dato tutto per vedere almeno un altro essere vivente
lì intorno, non le importava chi. Una corrente fredda le si
riversò addosso, facendola sentire ancora peggio di quanto
non lo fosse prima:
Non voglio morire, non qui, non da
sola. Non voglio lasciarli, voglio tornare a casa…!
Non
riuscendo più a trattenerla, una minuscola lacrima di
disperazione cominciò a scivolarle giù dagli
occhi: si era sempre detta di non piangere mai, di mostrarsi sempre
forte e a sangue freddo, ma nessuno sarebbe più venuto ad
aiutarla, era totalmente sola, quindi non aveva senso continuare a
reprimere il panico. Stava per scoppiare definitivamente, quando
cominciò a sentire quei fruscii.
Alicia riuscì per un attimo a dimenticare la punta di panico
e cercò nel buio con gli occhi, ma
l’oscurità della notte non le faceva distinguere
proprio nulla, non riusciva a capire la sorgente di quei rumori. Dopo
il primo, arrivò il secondo, a distanza di mezzo minuto, poi
un terzo, e un quarto, la frequenza aumentava gradualmente.
Brevi, regolari, un fruscio appena percettibile sul ghiaccio e la neve,
qualcosa che si avvicina con cautela e leggerezza, aggirando quella
superficie traditrice che scricchiolava sotto i piedi.
Alicia cominciò ad avere di nuovo paura: non sarebbe morta
di freddo, ma sbranata viva da un qualche animale o Pokemon selvatico
affamato, che ora le si avvicinava con un andamento maestrale, da
predatore, sul ghiaccio, aggirando il campo scricchiolante,
percettibile solo grazie al silenzio assoluto e alla breve distanza.
Sì, comprese la bambina con terrore, l’animale era
vicino, davvero troppo vicino. Una come lei, piccola e indifesa, se la
sarebbe divorata anche senza masticare. Per
lo meno avrebbe avuto solo ossa e poco altro, lei non era mai stata
particolarmente in carne, non era poi un gran bocconcino: ma se fosse
stato affamato quel predatore poteva tranquillamente evitare di fare
lo schizzinoso e mangiarsela in ogni caso.
Eccolo, ancora pochi centimetri e avrebbe potuto sentire il suo fiato
addosso. Alicia, sebbene cercasse disperatamente di mantenere la calma
e di non mostrarsi una preda inerme agli occhi di quella creatura, non
riuscì a controllare quel tremore di paura folle che
continuava a percuotere dall'interno il suo piccolo corpo.
Vattene…
vattene… vattene!
Nel
buio non distingueva nulla, ma da quei fruscii e scricchiolii tanto
vicini l’animale doveva esserle arrivato praticamente sopra:
ne percepiva il calore corporeo e il respiro, regolare e calmo.
Regolare e calmo?
All’improvviso
le venne in mente una cosa: quello non le sembrava il respiro di un
animale. Generalmente, anche quando non ha paura o fretta di correre
dietro una preda, un animale, o un Pokemon, respira comunque
più velocemente dell’essere umano: lo aveva capito
quando aveva cominciato a frequentare una piccola clinica per Pokemon
per conoscere meglio questi ultimi, dato che, come tutti i bambini
fanno, a quell’età sognava di poter fare da grande una serie
di lavori diversi, e la veterinaria rientrava nella lista.
Quel respiro… così calmo e regolare…
sembrava umano, non di una qualche bestia. Eppure, dalle dimensioni che
le sembrava di scorgere, nel buio, di quella creatura,
l’essere non era certo una persona umana.
Vedendoselo ormai quasi addosso, la bambina ricominciò ad
essere sopraffatta dal terrore di essere divorata da quella enorme cosa
nera, quando, all’improvviso, in tutto quel buio, intravide
una luce. Accecante, nelle tenebre, una specie di mezzaluna in
miniatura, proprio di fronte a lei, grande.
Incuriosita sufficientemente per mettere da parte un momento la paura,
Alicia cercò di capire cosa fosse: quando riuscì a
riabituarsi a quella luce improvvisa, la vide di un bel colore azzurro
acceso, splendente, una piccola luna blu che le indicava la via nelle
tenebre. Eppure, in quella luce, c’era qualcosa di strano:
era come imperfetta, distorta, c’era qualcosa che le impediva
di splendere come una luna vera. Dominando disperatamente il terrore
per qualche altro secondo, la bambina intravide, nella mezzaluna
brillante, la causa di quella stranezza: un sottile triangolo nero,
arcuato, che attraversava la mezzaluna come un fiume velenoso, talmente
in contrasto con quell’azzurro brillante da sembrare quasi
una sua fonte di contaminazione.
All’improvviso, Alicia capì cos’era, e
il terrore si ingigantì a tal punto da non poter
più essere controllato: quella cosa non era affatto una
mezzaluna di luce, era…
Un occhio.
Molto
più grande dei suoi, di una brillantezza quasi sfrontata, in
contrasto con la pupilla nera e triangolare, da serpente, coperta
appena da qualcosa che riusciva a malapena a distinguere nel buio,
grazie alla luce dell’iride, una specie di frangia. Un occhio
che la fissava con freddezza glaciale, l’occhio della
creatura che ora, con tutta probabilità, se la sarebbe
pappata per cena.
L’impulso di muoversi era irresistibile, ma, tralasciando il
fatto che era completamente intorpidita, non aveva comunque via di
scampo, Alicia era in balia del predatore. Fissava
quell’occhio da serpente con i suoi pieni di paura, incapace
di fare qualunque mossa.
No. Lasciami stare. Lasciami stare,
lasciami vivere!
Nonostante
non avesse pronunciato una sola parola, si sentì
inaspettatamente ascoltata. La creatura non si mosse,
continuò a fissarla per un po’, e in quella luce
gelida e spietata che aveva negli occhi Alicia vide cambiare qualcosa;
si immaginò persino che quella sottile pupilla di pece
tremolasse per un attimo.
La tensione era ormai agli estremi quando sentì il rumore di
qualcosa che si lacera: Alicia per un attimo credette di essere stata
morsa o graffiata, ma non cambiò niente in lei, rimasero gli
stessi dolori muscolari e quel bruciore dalla spalla alla parte
sinistra del petto. Ne rimase piuttosto perplessa per un attimo: se la
creatura non l’aveva toccata poteva aver graffiato o morso
solo se stessa, ma quale ragione avrebbe mai potuto avere per ferirsi
da sola proprio in quel momento? Non si era immaginata quel suono, ma
era stato un gesto totalmente irrazionale, perché mai
avrebbe dovuto farlo? Non aveva alcun senso.
Fece appena in tempo a finire queste considerazioni che
percepì il contatto, per essere seguito poi da quel bruciore
insopportabile, molto peggio di quello che sentiva alla spalla.
L’essere le aveva scostato la sciarpa di dosso e
l’aveva toccata proprio lì, nel punto che le
bruciava, dove probabilmente si era fatta una qualche ferita, e ci
stava passando sopra, verso il basso, con calma glaciale, una
zampa…? O mano? Cos’era quell’affare?
Riuscì solo a capire che doveva avere delle unghie piuttosto
lunghe, ne percepiva appena la punta sulla pelle. A giudicare dalla
sensazione tattile che sentiva, le stava passando sulla ferita qualcosa
di denso e caldo, che, sulla piaga, bruciava come ferro liquido incandescente. Quel bruciore insopportabile surclassò
completamente quello causato poco prima dalla ferita, era come se la
stesse marchiando a fuoco, e la ragazzina cominciò a
lamentarsi.
Smettila, basta, vattene via!
L’occhio
tornò di nuovo a fissarla: era lo stesso di prima, ma era come
cambiato completamente: la freddezza spietata si era rintanata
chissà dove, e, cosa che non avrebbe mai creduto di poter
vedere, Alicia distinse qualcosa che, sebbene incredibile,
pensò di poter classificare come una sola cosa: compassione.
Bastò quell’unica occhiata a farla smettere di
lamentarsi e a calmarla, impedendole una qualunque reazione
spropositata anche quando l’essere le sollevò un
poco il piccolo mento con un artiglio… o qualunque cosa
fosse quella punta… e le versò in bocca lo stesso
fluido denso e bollente che le aveva passato addosso. Inizialmente
Alicia percepì solo la sensazione di bere del fuoco liquido,
e a malapena riuscì a trattenersi dal tossire, cercando di
mandare giù come poteva. Si accorse, però, che i
dolori muscolari si erano notevolmente alleviati, l’emicrania
era quasi scomparsa del tutto, e la sensibilità stava
tornando nelle dita. Non sapeva cosa le avesse fatto bere
quell’essere, ma, in qualche modo, quella strana panacea
rovente le stava facendo sicuramente un gran bene. Fissò
l’occhio azzurro della creatura ringraziandola con lo
sguardo: nell’iride brillante le sembrò di
scorgere una punta di sollievo amorevole, quando,
all’improvviso, Alicia si accorse sconvolta del sapore
ferroso che aveva in bocca.
Questo è…
Quando
comprese inorridita che roba era quella, la creatura si
irrigidì all’improvviso e si allontanò
di colpo.
Sangue.
L’occhio
a mezzaluna per un brevissimo attimo divenne sgranato e
all’improvviso l’essere sfrecciò via
più rapido di un lampo, impedendole di pronunciare persino
una qualunque vocale.
No!
Alicia
fu presa dalla frenesia, ricordandosi appena in tempo di riavvolgersi nella
sciarpa, riuscì a rimettersi in piedi e cominciò
a correre nella direzione in cui le era sembrato fosse sparito:
“Ehi! Aspetta!”
Cercò di aprirsi un varco fra alberi e piante come poteva,
doveva ritrovare quell’essere, capire cosa diavolo le aveva
fatto e cos’era esattamente, voleva le risposte,
lì e in quel momento. Le sembrò di sentire
qualche altro fruscio, più avanti, e continuò
disperatamente a seguirlo:
“Aspetta un attimo, torna qui!”
Quella corsa disperata continuò per un tempo che non
riuscì mai a calcolare, le sembrava sempre di essere ad un
passo di distanza, senza però mai riuscire a raggiungere la
creatura. L’inseguimento ebbe fine solo quando la bambina si
accorse di essere ormai finalmente uscita dagli immensi giardini,
più simili ad una interminabile foresta, e riuscì
a malapena a sentire l’essere che saettava via ad una
velocità impressionante fra le piante, senza avere alcuna
intenzione di voltarsi indietro:
“Aspetta un momento! Chi sei?!”
Non ricevette mai la risposta. Rassegnandosi al fatto che non avrebbe
più visto quel misterioso animale, si limitò a
fissare le luci delle case della città poco più
avanti con aria malinconica, mentre il cielo albeggiava: probabilmente
quella bestia, che non era riuscita a distinguere nel buio, avrebbe
potuto benissimo seminarla quando voleva, doveva averla aspettata per
farle strada fino all’uscita del bosco, verso casa sua.
Piuttosto premuroso, per avere un’aria tanto spaventosa,
nelle tenebre, e Alicia se ne rallegrò: da sempre il suo motto
preferito era ‘le apparenze ingannano’. Si rese
improvvisamente conto con estrema sorpresa che si sentiva molto meno
debole e fiacca, aveva recuperato il calore corporeo e la
sensibilità: come aveva potuto non accorgersene durante
quella corsa che, fino a pochi minuti prima, le era sembrata un
suicidio, nelle sue precedenti condizioni? Che fosse stato…
no, non era possibile, nessuna creatura avrebbe mai potuto farle una
cosa simile, era del tutto insensato…
Sai benissimo che non è
così. È stato il sangue. Ora cerchi anche di
ingannarti da sola?
Sangue.
Lo sentiva ancora bruciare sulla pelle come ferro arroventato,
infiammarle la bocca e la gola, ricordava fin troppo bene quel sapore
metallico sulla lingua. Non poteva essere altrimenti,
quell’essere si era ferito da solo per somministrarle il suo
sangue e salvarla da una morte quasi certa, nello stato in cui si era
ritrovata dopo essere precipitata giù dal costone innevato.
Sangue era, quello, ne era certa, ma quale sangue avrebbe mai potuto
avere simili proprietà? E perché mai soprattutto
quell’essere sarebbe dovuto arrivare a tanto per guarirla,
aveva un minimo senso? Non lo conosceva neanche, era un animale, una
creatura bestiale, per lui non era altro che cibo, perché
avrebbe dovuto addirittura ferirsi per lei?
Tuttavia… quella luce di tenerezza che le era sembrato di
intravedere in quel grande occhio a mezzaluna continuava a rimanerle
impresso nella testa, e ogni volta continuava a rivedersela davanti.
No, quella luna azzurra attraversata da quel sottile triangolo di
tenebra non era l’occhio di un animale, allo stesso tempo non
era però neanche umano, e lei mai aveva visto Pokemon con
uno sguardo simile: uno sguardo freddo di chi
non ha nulla da perdere, col ghiaccio nell'anima… e in cui,
nonostante tutto, pur per un breve momento, aveva visto chiaramente
quella luce di compassione. Proprio in un occhio simile,
l’ultimo fra gli ultimi in cui avrebbe potuto farlo, lei
aveva visto tenerezza e compassione. Era stata lei? Lei aveva fatto
apparire quella luce nella glaciale iride azzurra? Non capiva proprio
come avesse potuto farlo, aveva semplicemente avuto paura e aveva chiesto
aiuto, proprio niente di speciale, anzi, ora come ora si vergognava di
quegli attimi di debolezza che l’avevano sopraffatta.
Di nuovo, l’immagine dello sguardo di quella creatura,
indistinguibile nelle tenebre, tornò a catalizzare i suoi
pensieri: un grande occhio a mezzaluna, limpido e azzurro come il
cielo, attraversato da quella pupilla sottile e triangolare, oscura e
serpentina, che sembrava contaminare quell’iride tanto
luminosa.
Aspetta un momento…
Un
déjà-vu. Una sensazione familiare avvolse quel dirompente ricordo come
un velo sottile.
Io ho già
visto quell’occhio…
Fu proprio come l’aveva immaginato Alicia: un vero e proprio salto temporale da un luogo all’altro nel giro di pochi secondi che si interrompe all’improvviso. L’esplosione ventosa che ricevette fu così violenta che per un attimo ebbe il timore che le fossero stati strappati tutti i capelli dalla testa, come cavolo facesse l’Oscuro a ignorarla durante i suoi consueti sfrecciare per i boschi per lei era un mistero.
Darkrai la mise a terra accanto ad un albero per un attimo per smascherare la forma di mimetismo che aveva usato sul suo particolare rifugio, realizzata con la pura forza della mente in modo tanto impeccabile da sembrare quasi a regola d’arte, e Alicia riuscì a distinguere esattamente di che si trattava solo dopo che lui ebbe completamente rimosso quella specie di ‘incartamento’ che rendeva quel posto praticamente invisibile: una grande apertura ad arco che sulle prime sarebbe potuta passare anche per una specie di grotta rocciosa, in realtà era costituita interamente da tronchi e rami, piegati e assemblati con una maestria tanto perfetta da sembrare quasi assurda, senz’altro opera sua, al signore di tenebra bastava uno sguardo per, se avesse voluto, spezzare un masso in due:
“Principessa, la vostra villa.”
“Penso che metterò delle tende,” Aveva ridacchiato scherzosamente lei per tutta risposta e prendere un po’ in giro il suo angelo custode: “E magari, non so, un vaso di fiori, un appendiabiti…”
“E si ricordi che rimane ospite.” Interruppe lui la sua frase con l’evidente intento di non farla continuare: “Sebbene la sua presenza sia sicuramente gradita.”
“Ma naturalmente, venerabile Oscuro,” Sorrise la giovane Alicia: “Sarei onorata di esserlo.”
La ragazza si aggrappò con le dita e le unghie alla corteccia dell’albero per tirarsi in piedi, ci riuscì solo dopo un tempo piuttosto notevole, senza nemmeno riuscire ad equilibrare il peso sulle gambe: non credeva che una caviglia slogata potesse essere tanto dolorosa, fastidiosa e imbarazzante allo stesso tempo, e non poté fare a meno di vergognarsi della propria debolezza, a malapena si teneva in piedi per un problema stupido come quello, neanche fosse una vera e propria frattura, e se ne vergognava: una ragazzina debole ed inutile, detestava quel suo essere tanto fragile, un peso morto che finora era riuscito solo a creare problemi al suo migliore amico, la sua Ombra, che non le aveva mai voltato le spalle in alcuna situazione. Si sentiva una ragazzina debole e gracile, buona solo a farsi prendere in ostaggio, cos’altro era in grado di fare?
“Voi adolescenti sapete essere davvero rognosi e deprimenti, riconosci almeno questo, principessa.”
Alicia si limitò a incrociare le grandi iridi azzurre dell’Oscuro, che si limitavano a fissarla con la sua consueta freddezza ed impassibilità glaciale, istintivamente cercò di nascondere il suo imbarazzo, ricordandosi immediatamente dopo che era perfettamente inutile: le aveva già letto tutta la testa, carpito e ascoltato ogni suo tipo di emozione, era inutile cercare di nascondere di sentirsi un essere inutile:
“Dannazione…”
“Dubito seriamente che un essere umano sia capace di fare capriole a sei metri da terra con una caviglia slogata o peggio,” La precedette lui senza scomporsi minimamente: “Non hai alcun motivo di vergognarti, Alicia.”
La ragazzina forzò un malinconico sorriso:
“Ti sei scelto proprio la bambolina più inutile fra tutte, Dark. Finora l’unica cosa rilevante a cui ho dato il via è stata la caccia spietata da parte di tutta la città sulle tue tracce. Ancora un po’ e ti avrei fatto anche fucilare.”
Sono proprio un peso morto.
Vide con la coda dell’occhio l’Oscuro, dalle sue fattezze tanto apparentemente stracciate, che avanzava nella sua direzione con movenze leggere ed eleganti, aggirando le insidie rumorose del terreno con un silenzio perfetto, da cacciatore professionista.
Brutto scemo sadico che non sei altro.
Si sentiva un peso morto ed incapace, ed ecco che lui rigirava il coltello nella piaga mostrando con superbia le sue elevate capacità da predatore superiore.
Tutto sommato non posso darti torto. Bell’amica che sono, non faccio altro che tirarti nel mirino di qualche bracconiere, mi chiedo ancora come tu faccia a desiderare di proteggere una scema come me.
All’improvviso venne scossa da qualcosa, una specie di scarica elettrica metaforica le attraversò la mente, e di colpo, non riuscì mai a capire come, vide i suoi occhi, fiamme azzurre ardenti di rabbia, esattamente di fronte ai suoi:
“Devo metterti a nanna di nuovo per avere un po’ di pace o ce la fai, a smettere di ripetere queste scemenze?”
Alicia deglutì in silenzio.
Avrei dovuto proteggerti come da sempre tu fai con me, e invece non faccio altro che farti rischiare la pelle ogni volta per le mie sciocchezze. Che razza di amica…
Il brillare furioso degli occhi dell’Oscuro, di fronte a lei, divenne ancora più acceso fino a intimorirla:
“Adesso stammi a sentire: tu non sei mai stata inutile per nessuno, per me meno di tutti. Non ho mai pensato che fossi un peso e mai lo farò, senza di te a quest’ora non sarei che un cadavere divorato dai vermi, vedi di non dimenticarlo, quello sarebbe un peso morto. Se davvero per me tu non fossi che un fastidio o un rischio, pensi che mi sarei preso la briga di portarti via da quell’inferno di poco fa?
Odio gli umani.”
Quell’ultima frase fu una vera e propria pugnalata, dura e sprezzante. Alicia non poté fare a meno di esserne ferita, sebbene non fosse certo una novità per lei.
Darkrai odiava gli esseri umani. Disprezzava ognuno di loro nel peggiore dei modi, lei lo sapeva meglio di chiunque altro, per la ragazzina tutto ciò che gli passava per la testa rimaneva ancora un mistero, ma di questo era assolutamente certa. Reprimeva il rancore e la rabbia nei confronti della sua razza ogni giorno, per evitare che lei ne venisse coinvolta, e non poteva che ammirare questa sua scelta, ma nemmeno ignorare quel peso amaro che sentiva ogni volta che percepiva quell’odio profondo che l’Oscuro talvolta non riusciva a nascondere.
Darkrai ricacciò indietro quei pensieri con ferocia, nascondendoli dalla sua mente per non farglieli percepire, e tornò a concentrarsi su di lei:
“Se è vero che anche tu devi attraversare il periodo critico che affrontano tutti gli umani nella loro crescita, questa non è una buona scusa per sottometterti alla depressione. E proprio tu, Alicia. Non lo sopporto.”
Alicia non riuscì a spiccicar parola, si limitò a fissare quelle iridi di fuoco azzurro, non sapeva se quello che stava sentendo fosse commozione, semplice sorpresa o tutte e due insieme: come al solito, di fronte alle sue debolezze, lui, che avrebbe avuto più ragioni fra tutti per disprezzarla, non faceva che spingerla a guardare avanti e a superare i propri limiti, ignorando la paura. Si vergognò per aver pensato anche solo minimamente, per un brevissimo istante, che volesse prendersi gioco delle sue debolezze:
“Adesso sono io che ti odio, sai?”
La pupilla sottile e triangolare roteò simulando ironicamente esasperazione:
“Grazie mille, lo apprezzo davvero molto, principessa.”
“Ti odio perché mi costringi ogni dannatissima volta a ripetere a me stessa che sei un Pokemon straordinario e che rimani sempre il miglior amico che potessi desiderare.”
Da tanto tempo Alicia non vedeva quella luce brillare nei luminosi occhi dell’Oscuro: quella luce così unica e indefinibile, attraverso la quale tuttavia lei riusciva a intravedere quella punta di amorevole tenerezza che, sapeva, si nascondeva dietro quello sguardo glaciale e spietato del signore di tenebra, suo ormai inseparabile angelo custode:
“Ricordati questo, sempre: io sosterrò e concederò sempre le mie capacità a chi mi ha strappato dalla morte a cui ogni altra creatura mi avrebbe lasciato, per chi ha dato valore a questa esistenza detestabile. Di questo non potrai mai dubitare.”
Alicia cercò di distogliere lo sguardo da quegli occhi accesi ed ipnotici abbassando gli occhi chiari:
“Io non sono che una mocciosa, debole nel corpo e nel temperamento, non possiedo nessun potere speciale, non posso volare e nemmeno evitare i guai come tutte le persone normali. Ma a te va bene così?”
“Non mi sono mai pentito della mia scelta, io sono esattamente dove voglio essere.”
Alicia credeva che quegli occhi avessero ormai raggiunto l’apice della luminosità, ma si rese conto di essersi sbagliata ancora una volta:
“È a te, Alicia, che offro la mia forza, il mio potere, la mia esperienza, e persino i miei segreti. A te, così come sei, non ho mai desiderato nessuno di diverso.
Non rimpiango nulla di quello che ho fatto e a cui tu mi hai portato, e sono disposto a fare cose peggiori; perché sono ormai legato a te.”
La ragazza non poteva trovare né tantomeno dare alcuna risposta a quella confessione di fedeltà assoluta ed incondizionata dell’Oscuro: sinceramente, lo aveva sempre considerato come suo migliore amico, ma crederlo capace di cose del genere andava oltre i suoi limiti. Darkrai era comunque estremamente diverso da lei, dopotutto appartenevano a due razze differenti: esseri umani e Pokemon non sarebbero mai riusciti a capirsi e ad amarsi davvero come fratelli, sempre ci sarebbe stata la legge del più forte a controllare il mondo. Gli Allenatori aumentavano giorno dopo giorno, e questi ultimi forse non sottomettevano, comunque, almeno parzialmente, i Pokemon che tenevano? Gli davano ordini, li tenevano chiusi in capsule. Molti di loro erano sicuramente brave persone, Alicia era certa che gran parte di loro li amasse e li curasse con grande attenzione: non aveva nulla contro di loro, tenere e prendersi cura di un semplice animale era quasi la stessa cosa. Tuttavia, i Pokemon erano assai diversi dalle bestie comuni, nati in grado di comprendere il linguaggio umano: non ci sarebbe comunque mai stato un vero rapporto profondo tra loro e gli uomini, e questo non gli avrebbe mai permesso di essere davvero uniti.
Eppure, in quella realtà così evidente, Alicia credeva che, nel profondo, tra lei, il 'caso particolare' del suo popolo, e l’Oscuro, il più diverso e disprezzato fra i Pokemon leggendari, fosse finalmente nato quel tipo di rapporto in cui entrambi credevano l’uno nell’altro, paritario, che li aveva resi uniti come per lei avrebbe dovuto essere davvero nel legame ideale che avrebbe potuto permettere agli uomini di convivere, aiutare e farsi aiutare dalla razza dei Pokemon. Non ci aveva mai pensato davvero, ma ora come ora le sembrava che fosse veramente così.
Lo sguardo penetrante di Darkrai riuscì a risvegliarla da quelle riflessioni interiori che l’avevano totalmente assorbita: sembrava piuttosto concentrato, questo significava la solita storia:
“Proprio non puoi evitare di leggere ogni singolo pensiero nella mia testa, non è vero, Dark?”
“Lo farei molto volentieri, se solo tu non avessi sempre queste idee tanto invadenti e penetranti nel cervello: sei l’unica, finora, ad essere mai riuscita a procurarmi un’emicrania, meriti quasi un riconoscimento.”
La risata che esplose dalla bocca di Alicia in automatico riuscì a farle dimenticare ogni problema psicologico e fisico, per un attimo riuscì a lasciarsi alle spalle ogni cosa, a sentirsi davvero allegra e senza pensieri.
Hanno pensato bene di chiamare Oscuro il più romantico fra i Pokemon, eh…
“Dark, sei un vero tenerone.”
L’occhiataccia che ricevette dopo quella frase non fece altro che rendere quella situazione ancora più comica:
“Prego?”
“Hai sentito, scemo che non sei altro.”
E ridacchiò ancora sotto i baffi. Lui si limitò a sbuffare e rifilarle sdegnoso qualche appellativo riguardante i suoi vizi da femminuccia:
“Ce la facciamo a entrare lì dentro entro la fine del prossimo secolo?”
Alicia usò l’albero per trovare l’equilibrio giusto per camminare, ma, ancora una volta, dovette affidarsi completamente alla sua fidata ombra vivente anche per una cosa tanto semplice:
“La principessa mi permette?”
“Beh, non ho una caviglia messa troppo bene…”
In un attimo aveva già le sue braccia dietro la schiena e sotto le gambe, a mezzo metro da terra:
“Sei pesante quanto un ramoscello.”
“Sarebbero 40 chili…”
“Bazzecole.”
Quella lunga chiacchierata con il leggendario tornò presto a importunare i pensieri di Alicia, mai aveva sentito cose simili dal suo angelo custode, il signore dell’incubo:
“Sai, Dark, se mai ci sarà un…”
Si ricordò appena in tempo di che razza di frase stava pronunciando e riuscì a chiudersi la bocca, ma fu totalmente inutile, dato che quel pensiero birichino riuscì a formarsi completamente nella sua testa.
Se mai ci sarà un Allenatore che riuscirà ad avere la tua fiducia, quell’Allenatore sarà il più fortunato del mondo.
Troppo tardi. Un irrigidimento quasi impercettibile, tuttavia presente, nel corpo dell’Oscuro, e per un attimo sotto i suoi occhi la fiamma della rabbia sembrò agitarsi.
Alicia si pentì subito di ciò che le era passato per la testa, che razza di pensiero aveva avuto?
“Scusami, io… mi dispiace, è stato involontario, io non…”
“Lascia perdere.” Ringhiò basso lui, e lei lo sentì di nuovo reprimere in se stesso con ferocia l’odio ardente che provava, lo sentiva agitarsi, ribelle, in lui, come una cosa viva.
Cretina, che cavolo ti è saltato in mente?
L’Oscuro non disse più una parola, si limitò a portarla dentro con forzata indifferenza. Per quanto alle orecchie umane quella frase apparisse innocua, per Darkrai era probabilmente la più indelicata e offensiva che avrebbe potuto dire. |
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Capitolo 9 *** Atto VIII ***
Gli umani da sempre erano
in contatto con i Pokemon. Mai nessuno, neanche fra i più
saggi, riuscì a
capire come e quando i loro mondi si fusero in un’unica
realtà di convivenza
fra queste due razze supreme, tantomeno il perché.
C’è solo una cosa di cui si
può essere certi: gli esseri umani erano instabili,
complicati, imprevedibili.
All’inizio
sembrò che il
loro arrivo nel mondo della razza Pokemon fosse un augurio per un
futuro
positivo, creature forti e intelligenti, nate per comandare,
pianificare,
governare i popoli nel modo migliore. Il rapporto simbiotico quasi
istintivo che
si creò in breve tempo fra queste due razze tanto diverse
sembrava avere solo
del positivo, aiutandosi a vicenda avrebbero reso la terra il luogo
migliore
che fosse mai esistito.
Ma gli esseri umani erano
tanto potenti e intelligenti quanto instabili, fragili, complicati.
Poteva
bastare un unico, piccolo errore, una minuscola tentazione, appena una
breve
sopravvalutazione, per distruggere il loro popolo e quello che accanto
a loro
viveva.
Insieme alla loro forza,
alla loro conoscenza, alle loro uniche e preziose caratteristiche,
arrivarono,
nascondendosi fra la massa, l’avidità,
l’invidia, la superbia, la rabbia,
l’irrazionalità più pericolosa.
Attesero fra loro con pazienza, venendo a galla
al loro massimo momento di fragilità: bastò poco,
un piccolo eccesso di
superbia nei confronti di un unico Pokemon, ed ecco che gli esseri
umani
vollero diventare superiori, comandare e sottomettere quella razza,
appropriarsi dei loro poteri.
I Pokemon per natura
erano esseri amichevoli, non vollero opporsi, pensarono che forse era
giusto
così, che dei sacrifici erano necessari per migliorare il
loro mondo, che forse
gli umani avevano i giusti requisiti per renderlo il posto
più bello, ed erano
disposti anche ad essere ai loro ordini.
Poi arrivò
l’avidità: gli
esseri umani volevano più potere, comandarono loro di
appropriarsi di più terre
possibili, volevano avere ognuno la propria parte di ricchezze, terra,
risorse.
I Pokemon vollero credere che così facendo avrebbero potuto
semplicemente
gestire le cose come ognuno meglio credeva senza infastidire gli altri,
avendo
ciascuno la propria parte, e scelsero di obbedire.
L’invidia sorse per
terza: a seconda della loro forza e di quella dei Pokemon di cui erano
in
possesso, le dimensioni e la preziosità degli averi degli
umani variavano da
individuo a individuo, e in breve tempo quelli meno astuti e potenti
cominciarono a desiderare di impossessarsi della ricchezza degli altri.
Fra i popoli in un attimo
scoppiò il conflitto, nessuno voleva più cedere
nulla a nessuno, l’aiuto
reciproco dei tempi d’oro fra le due razze non era ormai che
un ricordo, sia i
Pokemon che gli umani cominciarono ad andare gli uni contro
gli altri, e subentrò
la forza più devastante e terribile: la rabbia.
La goccia che fece
traboccare il vaso fu il dono che i grandi Pokemon leggendari maggiori
vollero
fare agli umani in segno di pace, una richiesta di lasciar perdere
l’idea di
una sanguinosa e insensata guerra imminente, di non farsi trascinare
dal male
che albergava inevitabilmente in loro: jirachi, tanto piccolo quanto
potente,
un Pokemon leggendario dal potere sconfinato, unico in grado di
realizzare i
desideri.
Invece di essere
un’offerta per la pace, fu la causa della prima, grande
guerra fra le due razze
supreme: tutti volevano avere per sé Jirachi, ogni essere
umano bramava
realizzare tutti i propri desideri, e ne chiedevano sempre di
più:
incontentabili, insaziabili creature all’eterna ricerca di un
potere sempre più
grande, sempre più grande, in un attimo cominciarono a
combattere fra loro, a
distruggere se stessi e la razza pacifica dei Pokemon, obbligandoli a
sviluppare
una natura aggressiva e bellica al punto da farli trasformare ed
evolvere in
creature da combattimento, dotati di poteri ben più
pericolosi di quelli di cui
si servivano, un tempo lontano, per curare la terra e collaborare fra
loro:
Poteri a cui avrebbero dovuto attingere solo per difendersi in caso di
necessità, che ora venivano usati per combattere tra loro,
che insanguinavano
la loro stessa patria. Il letargo obbligatorio che i maggiori infusero
in
Jirachi, permettendogli di risvegliarsi e di esaudire i desideri solo
una volta
ogni mille anni, per salvare gli uomini dalla loro stessa
avidità, non fece che
peggiorare ulteriormente le cose: tutti combattevano gli uni contro gli
altri
per avere le ricchezze altrui, una guerra violenta e insensata, come
mai si
erano viste sulla terra.
Tutto questo accadde a
causa degli umani, portatori instabili e pericolosi di aiuto, o
assoluta
distruzione, fragili e imprevedibili. La guerra e il male che loro
stessi
avevano provocato danneggiò la loro stessa razza, la
disperazione li prese,
arrivarono a implorare ai loro antichi fratelli, ai Pokemon che da
sempre li
avevano appoggiati in ogni cosa, che li avevano sostenuti anche in un
periodo
tanto folle e violento, di salvarli dai loro stessi peccati, che presto
avrebbero
distrutto entrambi i popoli.
I Pokemon leggendari,
signori della magica razza, sapevano che non meritavano il loro aiuto:
non si
erano accontentati di autodistruggersi, cercavano di fare lo stesso
anche con
il loro popolo, avevano il pieno diritto di lasciarli in balia del loro
male.
Ma sapevano anche che solo loro avrebbero potuto salvare ciò
che restava del
loro mondo, un tempo tanto meraviglioso, da quella follia di morte e
distruzione
totale: non erano come gli umani, non li avrebbero lasciati nel dolore
e nella
pazzia, non sarebbero stati insofferenti alle loro preghiere.
Il leggendario supremo
ascoltò le loro suppliche e scelse di salvarli insieme alla
loro razza,
conosceva il modo di fermare quella guerra assurda: tuttavia, il male
era
penetrato nel mondo a causa loro, gli umani avevano dato il via a
quell’orribile conflitto, se desideravano davvero la salvezza
avrebbero dovuto
pagarne il prezzo.
I leggendari scelsero uno
di loro, un unico essere umano avrebbe dovuto pagare il prezzo per
tutti, un figlio
del popolo colpevole, e lo trasformarono: lo impregnarono
delle
loro stesse tenebre, del dolore, della disperazione, trasfigurandolo
orribilmente, al punto da non avere più niente di umano: il
suo stesso corpo
divenne la prova dei peccati che la sua razza aveva commesso e che
doveva
pagare, fu deformato e trasformato fino ad assumere l’aspetto
più oscuro e
stracciato mai visto, e a lui trasfusero la verità
dell’essenza dei mali degli
esseri umani, a lui trasmisero l’incubo del male portato
dalle persone e la
capacità di trasmetterlo a quella razza di peccatori
invasori, di far loro
aprire gli occhi alla verità. a lui fu dato il primo, vero,
unico potere
punitivo che nella razza Pokemon fosse mai esistito. Divenne uno di
loro, i
maggiori lo strapparono completamente da quel popolo immondo, gli
diedero il
compito di punire gli umani e fermare la loro follia.
Il nuovo essere
leggendario, trasformato e impregnato di tenebra, che non aveva
più nulla a che
fare con quel popolo portatore di guerra, nato per opera dei leggendari
maggiori, infuse nella mente degli esseri umani i loro stessi orrori:
la verità
sui loro abomini, i loro peccati, le loro gesta imperdonabili che
avevano
commesso contro se stessi e i Pokemon, rischiando di distruggere
entrambe le razze.
Infuse nei loro cuori l’incubo del loro male, che avevano
fatto diventare
realtà loro stessi, per le loro brame e la loro follia.
L’incubo dei loro
sbagli
e dei loro peccati terrorizzò il popolo umano e lo
infestò fino a quando non
capì di dover terminare quella guerra insensata, e
finalmente gli spargimenti
di sangue e il dolore finirono.
I leggendari, ancora una
volta, in nome del loro popolo, dimostrarono comunque le loro
intenzioni di
tornare a vivere pacificamente con la razza umana, donando loro anche
la
custode dei loro sogni, cresselia, che avrebbe avuto il compito di
proteggere i
loro desideri più puri e saggi e custodire il ricordo della
pace nei loro
sogni.
All’oscuro, creato
per
punire gli umani e salvare i popoli dal conflitto, sarebbe spettato il
compito
di ripetere il proprio intervento per fermare, ormai era chiaro, le
imminenti
follie che inevitabilmente la razza umana avrebbe commesso. fu
incaricato di
essere il loro guardiano, lui che fu trasformato in origine da uno di
quei
peccatori, cambiato fino a diventare una creatura totalmente diversa:
impregnato della tenebra dei mali indelebili, che la gente aveva infuso
nella
terra, il cui aspetto tenebroso e stracciato, che ricordava quello che
il mondo
aveva in quei tempi di buio e sangue, era la prova che le loro gesta
imperdonabili non avrebbero mai potuto essere cancellate. esso era
destinato a
pagare anche le colpe degli esseri umani: non avrebbe mai potuto
aspirare ad
una vera vita, per sempre sarebbe stato disprezzato ed odiato per quel
potere
maledetto di cui si era fatto carico per salvare gli esseri umani e la
razza a
cui ormai apparteneva.
Il suo nome era Darkrai,
il guardiano oscuro.
(Pokemon:
la genesi –
capitolo 32 - sezione degli anni di tenebra)
P. S. Una versione
più sintetica e meno realistica del fatto era presente nel
libro di Alicia, che non avrà
mai l’occasione di leggere per via della pagina macchiata.
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Capitolo 10 *** Atto IX ***
Umani.
Una
razza corrotta, infame e difficilmente qualificabile.
Odio,
questo tutto ciò che riusciva a provare nei confronti di
quelle creature instabili e
imprevedibili.
Non
aveva fatto altro, per anni, secoli, millenni, che osservare le
conseguenze
delle loro azioni effimere, impregnate di discordia e debolezza,
vedendo la
loro storia continuare a mutare, deformarsi, sgretolarsi. Se anche ci
fosse
stato uno tra loro diverso e giusto, tutti gli altri lo avrebbero
contaminato come
loro oppure distrutto. Rovinavano il loro mondo continuamente, ogni
volta che
germogliava fra loro una guerra non riusciva mai a capire
se ci
fosse un fondo all’orrore di ciò che erano capaci
di compiere. Quella che loro
chiamavano ‘pace’ non era che una tregua di pochi
secondi in confronto al
resto, una brevissima tregua in cui non facevano che continuare a
tramare di
nascosto gli uni contro gli altri: per poi ricominciare da capo, prima
con
azioni sparse, individuali, e poi
aizzando
intere masse, eserciti, gli uni contro gli altri. Non
riusciva a trovare una sola
cosa che non riuscisse a disprezzare, in quel popolo: l'uomo era incontentabile,
violento, privo di rispetto per se stesso, folle, incapace
di non farsi sopraffare dalle sue stesse tentazioni.
Umani. Non riusciva a fare a meno di detestarli: esseri che vivevano consumando
se stessi e chi
avevano intorno.
Non
si accontentavano mai, trascinavano anche la sua patria nella loro
follia:
cacciavano, schiavizzavano, cacciavano il suo popolo, la
razza a
cui ormai apparteneva, per divertimento, rabbia e
ricchezze.
Tipico, per i loro standard.
Sì,
provava unicamente odio per quelle creature, un odio
profondo,
antico, bruciante, così potente da sembrare quasi qualcosa
di vivo, che
albergava in lui permanentemente; ed era reciproco.
Umani.
La
sorgente del male, che proprio a lui avevano affidato, una razza infernale. Il
suo peccato, la sua maledizione. E non l'unica.
Il
suo popolo. Faticava davvero a dichiararlo come sua razza:
d’altronde, non
aveva scelto lui di diventare uno di loro, e in cuor suo, lo sapeva
molto bene,
non lo era mai stato. Era diverso, da tutti loro, era a metà.
Gli
altri di quella razza lo temevano, lo disprezzavano per tutto
ciò che era, da
sempre: il suo sguardo, il suo potere, erano inorriditi unicamente dal
suo
aspetto stracciato e lacero, che puzzava di peccato umano. Un provvedimento
allo scopo di
difendersi dal popolo umano, che non aveva scelto lui.
La
sua stessa dannata pellaccia, che si era ritrovata cucita addosso
contro la sua volontà, lo disgustava. Un aspetto orrendo che ripugnava lui stesso, al punto da
farsi schifo da solo.
Non
osavano neanche avvicinarsi, per paura e ribrezzo, che si
riflettevano chiari come il sole nei loro occhi intimoriti. In lui non
vedevano che un essere maledetto e pericoloso, nato
dalle colpe degli esseri
umani: era più vicino a quelle creature portatrici di rovina
che a quelli che avrebbe dovuto considerare membri della sua specie,
che lo detestavano quanto l'uomo: la sua situazione era una voragine da cui non si usciva.
Vattene.
Non
ti vogliamo.
Demonio amorfo.
Non
fai parte della nostra razza.
Un
incubo, un disastro vagante che per loro forse non aveva
neanche
diritto di vivere. Un portatore di decadimento, istigava odio
con il solo alzare lo sguardo. Questo tutto ciò che erano
capaci di pensare e
dire su di lui, un destino che gli era
stato imposto come
prezzo dei peccati della razza umana, un inferno che non
aveva
scelto di sopportare di propria volontà.
Vattene.
Vattene!
Mostro.
Sei
come loro.
Non
sei come noi, non sei mai stato uno di noi!
Già.
Non era mai stato uno di loro, non avrebbe mai fatto parte del popolo,
non
avrebbe mai fatto parte di nulla: era il prezzo da pagare per il potere che gli era stato
conferito, un prezzo troppo alto, che, ormai lo sapeva bene, in cuor
suo, non
sarebbe mai riuscito a pagare. D’altronde, lui era il figlio
del peccato, anche se gli era stato strappato via tutto dalla memoria
sapeva bene
di non essere uno di loro: era nato dal popolo colpevole, dai peccati
degli
esseri umani, che costituivano un peso di cui non avrebbe mai potuto
liberarsi.
Tu
non sei uno di noi. Non lo sarai mai!
Sei
nato dal popolo colpevole, fai parte di quella feccia.
Mostro.
Quasi
si meravigliava lui stesso della propria infrangibile
inflessibilità, un qualunque altro essere in quelle
condizioni
non sarebbe mai sopravvissuto. Dopotutto, che loro lo volessero o no,
ormai
possedeva sangue leggendario nelle vene, non aveva più
niente di neanche
lontanamente umano, né nel proprio corpo, né
nella propria mente, e nemmeno nel
suo cuore secco e oscuro come un pezzo di carbone.
Eppure…
Mostro.
Ci fai
schifo.
Porti
gli orrori di quel popolo maledetto con te.
Gli
occhi ripugnati che lo fissavano, gli sguardi terrorizzati che si
ritraevano al
solo vederlo, correndo a nascondersi. Ci aveva fatto l’abitudine, non
avrebbe dovuto più
neanche farci caso, e tuttavia il solo pensiero insisteva a non volerlo
lasciare in pace, continuava a sentire ripetere quelle cose in ogni
posto, ad
ogni passo, ogni giorno, cominciava a sospettare che fossero parte di
lui. A
volte si ritrovava a chiedere a se stesso che la
smettessero, che facessero
silenzio, che voleva essere lasciato in pace.
Demonio
del decadimento.
Sarebbe
stato molto meglio se non fossi mai nato!
Ogni
volta che anche solo si avvicinava, si ripeteva sempre la stessa
storia: un
rifiuto assoluto, e il suo eterno riprendere a vagare da esiliato quale
ormai
era diventato: un
passo, ed ecco che immediatamente vedeva interi branchi di
animali, o Pokemon che fossero, allontanarsi in fretta e furia
rintanandosi
nelle loro tane, o fuggire alla cieca, sopraffatti dal terrore. Quando
era
costretto inevitabilmente a passare attraverso un branco, per una
necessità o
per l’altra, si prendevano il disturbo di aprirgli un largo
corridoio accalcandosi
tutti ai lati, e, anche chiudendo gli occhi, sentiva la loro rabbia e
la loro
paura avvolgere la stessa aria che respirava, un’aura
impalpabile che lo
circondava come una nebbia oscura e che lo penetrava fin dentro le ossa.
Sapeva
molto bene che la cosa migliore, per ogni essere vivente, è
adattarsi a ciò che
si è e si ha, seguire le proprie capacità, senza
cercare di inseguire un sogno
effimero ed inutile, senza tentare di andare contro natura.
Lui causava ribrezzo e terrore.
L’unico
modo per non continuare a sopportare quella situazione così
dannatamente
disumana era forse goderne?
Nonostante
quella solitudine eterna che ormai faceva parte di lui e il disprezzo
che
trasudava dalla sua razza nei suoi confronti, continuava a reputare
inaccettabile
il solo pensarlo.
Non
era uno di loro, ma non era neanche umano,
nonostante
quegli sguardi pieni d’odio che sentiva su di sé
da parte di
entrambe le razze; non aveva niente da perdere, nessun luogo a cui
tornare. Una
cruda, reale, verità.
Sei
maledetto.
Non
sei come noi.
Sei bastardo.
Non
sei né un essere umano né un animale, e non sei
neppure un Pokemon!
Mostro!
Né
essere umano, né Pokemon!
Né
umano, né Pokemon.
Non
sapeva neanche lui che razza di creatura fosse. Non aveva
nient’altro che una sola accompagnatrice che portava il nome di solitudine.
Questo
il buio, dannato, triste destino di un Darkrai.
Umani.
Difficile
riuscire a mantenere la propria anima quando si aveva a che fare con
gli umani.
Non
potevano proprio fare a meno di andare gli uni contro gli altri, e di
mezzo
c’era sempre un qualche profitto personale, erano fatti
così. Chiunque, a prescindere se fosse uomo, donna, bambino, di qualunque età e qualunque condizione, se non poteva essere sfruttato per guadagnare qualcosa, era da eliminare. Sempre e comunque.
Umani.
Quando non potevano trarre profitto da qualcosa, lo eliminavano.
Funzionava così, tra loro: chi non potevano sfruttare veniva ucciso. Aggredivano i loro stessi simili, sempre, quando li consideravano un ostacolo o qualcosa di semplicemente inutile. Chi non serviva per il proprio guadagno, veniva ucciso.
Che si trattasse di parenti, famiglie rivali, amici, mariti, mogli, amanti...
Quando diventavano un ostacolo, quando non potevano più essere sfruttati per trarne profitto... li uccidevano.
Così funzionava.
Non avevano rispetto per niente e nessuno, non potevano proprio fare a meno di bramare continuamente di imporsi su tutti gli altri, per il proprio piacere personale, un'ossessione vorace che non faceva che roderli per tutta la vita: controllare, imporre, influenzare, continuamente. Creature cieche, non facevano che distorcere se stessi, con le loro idee così spesso contorte e senza logica, ma che scambiavano altrettanto spesso per leggi di vita. Ciechi.
Stupide, fragili, dannate creature cieche.
Bastava anche un piccolo errore, un'unica esagerazione, e tra loro scoppiava un implacabile incendio divoratore, che non era che la manifestazione della loro vera natura. Ma loro non capivano nulla, non si rendevano conto di nulla: tutto si ripeteva continuamente, in un ciclo di auto-degradazione e deterioramento, più si ripeteva e più peggioravano. Così continuavano a cadere sempre più in basso, non c'era davvero alcun fondo a ciò di cui erano capaci.
Il loro stesso essere umani li rendeva inqualificabili.
Umani.
Chi non seminava
discordia, era chiuso nei propri spazi per la paura, e cercava solo di
vivere
la propria vita senza curarsi minimamente del resto, pensando solo a
se stesso.
Non
si accontentavano mai, consumavano e sprecavano in un tempo a malapena
descrivibile le proprie risorse per le loro follie, per poi continuare ad
autodistruggersi da soli.
E
così, dopo aver roso fino all’osso ogni loro bene,
andavano a rubare i loro, a
strapparli a forza dalla loro patria.
Deturpavano,
i boschi e le foreste per avere legno, rovinavano la loro
casa
senza ritegno.
Imputridivano
tutto con gli scarti di ciò che avevano consumato, uno
schifo che avevano
prodotto loro stessi, e pretendevano che fosse la sua razza a pagare
per loro,
facendo di tutto per rendere le acque, i cieli, la terra, torbidi,
sudici e
putridi come l’anima del demonio che covavano nei loro corpi
corrotti.
Cacciavano,
li uccidevano per avere, nutrirsi dei loro
tesori e
delle loro stesse carni, o anche solo per avere la soddisfazione di
comandare
sulle altre razze. Massacravano tutto senza neanche avere
più la scusa
di farlo per mangiare, per la propria sopravvivenza, ma solo per
stroncare sul
colpo tutto ciò che poteva essere anche solo
considerato pericoloso
per la loro egemonia.
Non
avevano fatto nulla, nessuno della sua razza aveva fatto mai nulla
contro di
loro.
E
quei sudici esseri continuavano a riempire i fiumi, che loro stessi
prosciugavano in un attimo, con litri e litri di sangue, il proprio e
quello di
Pokemon, animali, ogni popolo, come se avesse potuto sostituire
l’acqua che avevano
consumato.
Marci e imperdonabili.
Umani.
In quanto a lui, lo
odiavano, quasi quanto lui odiava loro. E gli davano la caccia, una
caccia
continua e senza regole, in una sete della sua morte che non si
sarebbe
mai placata. Si dannavano per estirparlo dalla terra,
questo era il
loro unico pensiero: il loro Incubo, la sorgente del loro vero terrore,
un
terrore che non avevano mai dimenticato dopo la guerra con cui avevano
quasi
distrutto le due razze. E la causa di questo insopportabile ricordo e questa consapevolezza era la sua nascita come Pokemon leggendario e implacabile punitore. Anche per loro... no, soprattutto per loro, era il
demonio
dell’incubo, portatore di decadimento e sciagura, e questo
bastava e avanzava per
tenerlo in testa alla loro lista di ciò che andava eliminato.
Sparito
lui non avrebbero più avuto paura, niente più
timore della sua presenza
raccapricciante sempre in agguato alle loro spalle, niente
più paura
dei suoi incubi, l'unico messo per mantenere viva in loro la memoria dei loro peggiori errori: ma la loro natura, col passare dei secoli, li aveva portati inevitabilmente a credere che fosse lui la
sorgente delle loro
crisi e del loro dolore nell'essere ammoniti e puniti per i loro peccati.
E
soprattutto, senza di lui, senza più qualcosa che tenesse
vivo il
ricordo dei loro orrori, non ci sarebbe stato più niente in
grado di trattenerli
dal cadere preda della bestialità di cui erano succubi: erano sempre terribilmente
vicini al
ritorno alla rovina che avevano procurato alla Terra in origine, senza
di lui
non ci sarebbe stato più niente a impedirgli di distruggersi
a vicenda, trascinando
nella loro folle e sanguinosa pazzia anche tutte le altre razze,
compresa la
sua.
Così,
ogni giorno, c’era la caccia senza freni sulle sue tracce:
lui, la peste nera
che riempiva le loro menti di incubi, che ricordava loro
incessantemente
l’indelebile cicatrice che avevano inferto al
pianeta, doveva morire.
Un
pericolo mortale, doveva morire.
La
bestia nera maledetta. Il suo peccato: la sua stessa esistenza.
Doveva
morire.
Un
leggendario corrotto, un demonenvenuto dal buio, doveva morire.
Era
un Darkrai, e doveva morire.
Peccato
per loro che non avrebbe mai concesso a una simile razza la
soddisfazione di avere il suo cadavere, mai avrebbe accettato di
consegnare la
propria vita a una feccia inqualificabile quale erano.
Perché lo
disgustavano. In ogni loro aspetto, in ogni loro azione.
Non c'era niente che odiasse più di quelle creature,
creature che lo avevano condannato a quel fato e che cercavano di epurarlo con ogni mezzo, senza
regole, per poi passare alla razza a cui era costretto ad appartenere. La sua, ormai, era una lotta
feroce per la sopravvivenza.
Non
si fermavano davanti a niente, vendevano la propria anima per cose
effimere, si trasformavano intenzionalmente in veri e propri mostri
anche per ciò che aveva il minor valore sulla Terra.
Nient'altro che una razza putrida di mostri che avevano venduto
la propria anima.
Mostri.
Gli stessi mostri dal quale era stato strappato e trasfigurato
al punto da non avere più niente nel proprio aspetto di
neanche lontanamente umano. La sua origine dannata, un marchio che bruciava eterno dalla sua mente al suo stesso corpo, e che non sarebbe mai stato capace
di debellare. Una origine oscura e mai tollerata, la più vergognosa che fosse mai esistita, la
sua.
Umani.
Massa dannata. Gli facevano schifo.
L'odio che provava per quella razza era impresso su quello stesso aspetto miserabile e stracciato che portava
eternamente addosso, per colpa loro.
Feccia.
Putrida feccia.
Questo
aveva sempre, incessantemente pensato di loro.
O
almeno, prima di incontrare quella ragazzina.
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Capitolo 11 *** Atto X ***
Quella,
a dir la verità, non era stata la prima volta in vita sua
che l’aveva vista, ma
tutti gli eventi avvenuti in passato perdevano ogni rilevanza in
confronto a
quel giorno.
Fu
quando gli spararono.
Tutto
a causa di quello sparo. Uno sparo che fu abbastanza stupido da
beccarsi in
circostanze in cui sarebbe stato ridicolmente facile evitarlo, niente
di cui
andare troppo fieri. Era cascato nella loro trappola come un cagnolino
ingenuo,
tutto perché non aveva avuto abbastanza cervello e
autocontrollo per trattenersi.
Aveva
fame.
Erano
giorni e giorni che non mangiava decentemente, nelle sue condizioni
già la
caccia non era mai stata particolarmente fruttuosa, si doveva
accontentare
anche dei resti peggiori; gli altri della sua razza vedevano bene di
non
lasciare nulla in giro che potesse tenerlo nei paraggi: ma se prima le prede
erano
scarse, in quel periodo erano praticamente sparite, probabilmente a
causa di
quella razza di uomini insaziabili: era sicuro che fosse il loro ennesimo
tentativo di
stanarlo per farlo fuori, e saperlo non cambiava le cose.
Esseri
repellenti.
Fu
quel rodere intenso nel suo stomaco di una fame insostenibile a
costringerlo a
tentare un’altra sortita nel territorio urbano degli uomini, piuttosto
pericolosa per
chiunque, ma non per lui: era nato per essere un vero predatore,
un
inafferrabile cacciatore quale era non avrebbe
dovuto avere
problemi ad ottenere ciò di cui aveva bisogno.
Dio,
se aveva fame.
Anche
potendo, fino ad allora si era sempre rifiutato di arrivare a
considerare anche
solo minimamente i viveri degli esseri umani per sopravvivere, il solo
pensiero
di toccare ciò che producevano lo
disgustava. Si
sorprendeva lui stesso del fatto che quella fosse già la
decima volta o più che
si costringeva ad entrare nel loro
territorio per rubare da loro: ma era
al limite. Doveva avere della carne, subito, se non voleva che la fame
divorasse il suo stesso corpo.
Si
era così infiltrato di nuovo in uno dei loro
allevamenti, in cui
non facevano che crescere animali di una tale stupidità da
renderli buoni solo
a farsi portare al macello, per ucciderne e
prendersene uno.
Gli
umani ne avevano sterminati a migliaia, di quelli della razza a cui
ormai
apparteneva, per riempirsi la pancia e peggio, e bramavano la sua morte
ogni
giorno, in modo malsano, ossessivo; aveva tutto il diritto di rubare
una delle
loro bestie per sopravvivere. Quello che alla fine aveva deciso di fare
non poteva
essere criticato in alcun modo, perché nessuno poteva
trovare un motivo valido
per impedirgli di recare un danno, neanche a parlare di quanto fosse
minimo, nei confronti di
una razza di creature come gli esseri umani, che
avevano infettato sia la terra che il suo stesso corpo.
Pagherò
il vostro prezzo in eterno. E per questo non smetterò di odiarvi.
Gli
bastava passare appena gli occhi su quella pelle color carbone e quei
rasoi che
costituivano le sue unghie per odiarli con tutta l'anima: non si poteva neanche definire corpo, quello straccio di carne e
pelle nera
che aveva cucita addosso. Era solo parte della sua maledizione, del
prezzo da
pagare al posto loro. E ora doveva sopportare per loro anche quella sopravvivenza miserabile da schiavo: il dio dell’Incubo che aveva il potere
di un controllo assoluto su
ogni tipo di mente schiavo della fame e soprattutto delle loro azioni inqualificabili, a cui
doveva il
solo esistere.
Uomini.
Se
solo quella sensazione dell’acido che lo corrodeva
dall’interno in mancanza di
cibo non fosse stata tanto insopportabile. Non aveva altra scelta che
nutrirsi
di ciò che producevano, repellente ma necessario: doveva
rubare un’altra
bestia.
L’insopportabile
desiderio di avere un equino consumava ogni molecola del suo corpo
insieme alla
fame, carne rossa e nutriente e col sapore che giudicava migliore, fra
i loro
animali da macello, ma date le
circostanze non avrebbe mai potuto portarselo via o divorarlo in tempo
senza
che gli spedissero orde di cacciatori armati alle costole;
anche un
agnello sarebbe stata un’ottima scelta, ma erano protetti
persino meglio, stavano nel
cuore di interi greggi; un rischio decisamente troppo alto. Sapeva che
avrebbe
dovuto accontentarsi ancora una volta di un misero pennuto. Carne
bianca e
insipida praticamente senza valore nutritivo, non calmava il graffiare
furioso degli
artigli nel suo stomaco neanche un po’, ma era ai limiti
della sopportazione: troppo
tempo senza mangiare, lo avevano
privato di tutta la selvaggina che gli spettava. Ecco che tornava immancabilmente a ripetersi che quello non era
che il
loro solito trucco sleale: volevano spingerlo a entrare nel loro
territorio per
ucciderlo giocando in casa, o comunque per farlo morire di fame; la difficoltà però non lo spaventava più di tanto, è risaputo che i
fuoriclasse non si scelgono il campo. E aveva un disperato bisogno di
carne.
Fu
facile entrare, in maniera impeccabile e impercettibile, fondendosi con
l’ombra
e diventando tenebra pura, una sensazione che adorava; come fu
ridicolmente
facile tirare il collo a un volatile e trascinarlo via dal recinto, con tutte le
intenzioni di farne la cena che si meritava da giorni.
Peccato
che la sua debolezza e incapacità di autocontrollo fecero
andare tutto a
rotoli. Il madornale e imperdonabile errore che per poco non lo fece
ammazzare.
Per
quanto disgustosa potesse essere, la tentazione di ficcarsi in bocca
subito,
finalmente, della carne, era qualcosa a cui non voleva resistere, e
finì per
scegliere di mangiare la bestia sul posto il più rapidamente
possibile: si
scelse un luogo appartato poco oltre quello stupido allevamento,
avrebbe
pensato a sbarazzarsi dei resti a fine pasto.
Strappata
qualche penna in fretta e furia aveva cominciato fin da subito a
sbrindellare e
a divorare voracemente il penoso bottino ottenuto il più
rapidamente possibile,
senza nemmeno preoccuparsi troppo di ripulirlo come si deve, mandando
giù
quanta più carne riuscisse a ingoiare. Non avrebbe avuto
comunque il tempo di
fare lo schizzinoso e scegliersi le parti con cura, senza contare che
nel suo
stato attuale non poteva permettersi di lasciare un solo pezzo ai
mangiatori di
carogne. Così continuava a scavare furiosamente
nella carne cruda,
viscida di sangue, dell’animale, strappando brandelli con
unghie e denti con la
furia disperata di una belva, ripugnante da
guardare sia
per un umano che per uno del suo popolo. Mangiava senza sentire alcun
sapore, al
solo scopo di finire il prima possibile.
Bestia
che non sei altro.
Immerse
ancora una volta la bocca, a intervalli sconnessi e in modo tuttavia
ironicamente meccanico, nell’ammasso di tessuti e muscoli
viscidi dell'animale crudo,
strappando via tutto e ingollando in fretta e furia.
E che
cosa avrebbe dovuto importargliene? Che cos’era, quello
spettacolo penoso di
una creatura privata di ogni forma di dignità, in confronto a ciò che facevano gli
esseri umani ogni
giorno?
Bestia.
In fondo era
quasi un complimento. Sarebbe stata un’identità
assai migliore in confronto a
quella di un umano, esseri che con la loro follia lo avevano condannato
a
quella vita come prezzo del potere che gli era stato impresso allo scopo di punirli.
Eppure…
faticava, faticava davvero a ingoiare quei brandelli
sanguinolenti,
e il dorso di quelle zampe da demone a tre dita non poteva proprio fare
a meno
di continuare a cercare con disperazione di scostargli e pulirgli via
di dosso
quel denso sangue appiccicoso che continuava automaticamente a
imbrattarlo. Non
era il disgusto per il sapore di quella roba insipida, non
lo
percepiva nemmeno: era la vergogna per se stesso che,
morso dopo morso, gli
rendeva
sempre più faticoso ingoiare quei pezzi crudi, un sentimento che covava del tutto
involontariamente nel
suo spirito lacerato.
La
consapevolezza di non poter essere criticato da nessuno per quello a cui si era abbassato, non certo per la prima volta, non bastava
minimamente
a reprimere quella sensazione di disgusto e rabbia che sentiva
contorcersi dentro come
un cobra che lo accompagnava e gli avvelenava l'anima giorno dopo giorno.
Che mostro.
Non cercare di negarlo, sai benissimo che è questo che sei.
Inutile
cercare di ignorarla, poteva solo combattere come una belva disperata
contro
quella puntuale lotta intestina che lo veniva a trovare ogni volta che spingeva
un
pezzo di carne cruda nella propria gola.
Ma
non era arrivato neanche alle viscere che il latrato furioso dei cani
squarciò
violento il silenzio, che credeva di essere stato abbastanza astuto da
riuscire
a mantenere senza problemi durante il suo odiato pasto da animale.
A
occhio e croce, sembravano più o meno una decina, e
naturalmente non erano
soli. Di una puntualità insopportabile.
Dannazione.
Andate al diavolo.
Come
aveva sospettato, sapevano che presto si sarebbe mosso per rubargli una
bestia
un’altra volta: dovevano averlo attirato di proposito,
prendendolo per fame, per braccarlo senza doversi disperare per stanarlo inutilmente nel
suo
territorio, da cui non avrebbero avuto una sola
possibilità di uscire sani.
E
pensare che, a dirla tutta, al contrario di ciò che
pensavano loro, lui non
aveva alcun tipo di dimora: i suoi simili lo
odiavano, erano
capaci di arrivare quasi allo stesso livello di ferocia del popolo
umano per
tenerlo lontano dalle loro tane, non gli avrebbero mai permesso di
stabilirsi
da nessuna parte, almeno senza che l’intero branco venisse a
muovere guerra
contro di lui con zanne e artigli. Dunque era un nomade indomito, e pieno di
odio per
gli umani, che viveva nascondendosi nel buio o a fuggendo continuamente da qualche parte.
Ridicolo.
Che
situazione patetica: davvero, lo era, chiunque lo avrebbe pensato. Col potere che gli avevano imposto avrebbe potuto tranquillamente stroncare tutti coloro che
lo
infastidivano. Un unico gesto, e chi lo costringeva a quella sopravvivenza forzata, che non
poteva
neanche essere chiamata vita, non si sarebbe mai più
svegliato. Bastava davvero,
uno sguardo.
Ma
a che scopo? Sarebbe stato un gesto da umano. Da lurido essere umano. E
non
avrebbe fatto altro che insanguinarsi l’esistenza
più di quanto non fosse
attualmente, rendendosela solo ancora più insopportabile, a
cominciare dal
mostruoso intensificarsi della caccia sulle sue tracce che ne sarebbe
seguito,
come se quella che gli stavano dando in quel periodo non fosse
già abbastanza.
Erano
preparati, lo aspettavano, erano lì per farla finita.
Continuassero pure a
sognarlo, una volta che li avrebbe resi incapaci di uscire dalle loro
stesse
menti sarebbero stati liberi di farlo per tutto il tempo che volevano.
Dall’aura
che avevano addosso dovevano essersi ricoperti di Alalunari in maniera
decisamente
esagerata: erano intere valanghe di piume di Cresselia, riuscivano quasi a coprire persino
il loro
insopportabile odore di pelle umana. Preferì non immaginare in che maniera se ne fossero procurati una simile quantità. E con questo, tanti saluti al suo cavallo di battaglia: senza le capacità che lo rendevano famoso vrebbe dovuto sistemarli alla vecchia maniera,
letteralmente con
le unghie e coi denti. Non avrebbe potuto mai ricorrere ad attacchi e
manipolazioni mentali nel sonno con la presenza di tutte quelle dannatissime piume: tutto sommato le nuove
generazioni non
erano così stupide come pensava, a livello di precauzione stavano migliorando.
Si
liberò immediatamente della carcassa, almeno per
provare a depistare
i cani in arrivo, per poi cominciare a correre... o
meglio… sfrecciare
lontano, più fulmineo di un falco in picchiata, per mettere
un po’ di distanza
fra lui e i cacciatori.
Buffo,
neanche loro sapevano che i ruoli in realtà erano da sempre
invertiti: gli piaceva credere che solo il
suo disgusto nei loro confronti impedisse loro di trasformarsi totalmente
in
prede servitegli su piatti d'oro zecchino.
Quando
si gareggiava con lui in rapidità non c’era la
minima competizione, ma se erano
preparati al suo assalto, come dimostrava la quantità
abnorme delle Alalunari
che si portavano addosso, probabilmente avevano previsto anche una
situazione simile.
Se
avete proprio deciso di rovinarmi la cena, almeno vedete di non
annoiarmi.
Nonostante
i crampi, decisamente insoddisfatti per quel pasto senza sapore e
incompleto che
continuavano a mangiucchiargli lo stomaco come soda
caustica, non fu difficile lasciarsi alle spalle i loro edifici e
tornare sui
suoi passi, almeno per allontanarsi da loro territorio.
Il
problema venne quando, inaspettatamente, dopo essersi accertato di
avere a una
bella distanza dalle proprie spalle il loro centro abitato, quelli
iniziarono
a recuperare terreno: nessun tipo di macchina finora costruita era
ancora in grado
di reggere il confronto con la sua velocità, e a giudicare
dal rumore di
zoccoli in corsa e dallo sfrigolio del terreno al contatto con essi
dovevano
essere a dorso di Rapidash. Una buona scelta, doveva ammetterlo, se
c’era una
specie di Pokemon abbastanza rapida da tenergli testa nella corsa
questa era
quella dei superbi stalloni nati direttamente dal sole, dotati di
un’accelerazione a malapena descrivibile, unici in grado di
raggiungere i 240
chilometri orari in pochi secondi. Senza contare che, da come
riuscivano a stargli
dietro nonostante la propria capacità di aumentare la
velocità di movimento in
maniera esponenziale, dovevano averli appositamente addestrati per
superare i
loro limiti, forse ai 300 chilometri erano pure in grado di arrivarci.
E bravi, bella mossa. Peccato che la vittoria
non abbia
mai fatto parte della vostra natura perdente.
Da
come spronavano e aizzavano le bestie, e dalle grida che lanciavano,
dovevano
avere tutte le intenzioni di impedirgli di raggiungere il bosco
più vicino:
erano sufficientemente intuitivi per capire che una volta lì
dentro, nel suo
regno, il buio causato dalle fronde più fitte che coprivano
i raggi solari,
dove avrebbe potuto far perdere le proprie tracce e lasciarli imbarazzantemente a bocca asciutta,
non sarebbero più riusciti a prenderlo. Peggio ancora, nel buio avrebbe avuto qualche possibilità di togliergli di dosso le Alalunari, e in quel caso
sarebbero finiti
alla sua completa mercé: dritti nella tana (se ne avesse mai
avuta una) e nelle
fauci del lupo. Se proprio credevano di avere qualche
possibilità di prenderlo,
di certo avrebbero fatto di tutto per tenerlo fuori
dall’ombra, alla luce del
sole, dove avrebbero potuto vederlo, impedirgli di nascondersi e
colpirli alle
spalle.
“Non
farlo arrivare alla foresta, o prova di nuovo a usare i suoi trucchetti!"
"E corri, maledizione, qui finisce che ci semina di nuovo!”
“Tagliategli
la strada, se entra
siamo fregati!”
Sapete
davvero essere così patetici?
D’altra
parte, non che ci volesse tutta questa genialità per capire
che dovevano
impedirgli di raggiungere l’ombra, se volevano esibire la sua pelle come trofeo di caccia,
dopo
migliaia di tentativi andati a vuoto. Ed erano ancora abbastanza ingenui
da non
pensare neanche minimamente che lui intendesse la loro lingua
forse
anche meglio di loro stessi. E comunque, in ogni caso, era
perfettamente preparato
ad un’eventualità del genere: una tattica simile
sarebbe stata la prima cosa
che avrebbero cercato di mettere in atto.
Cielo, che
scontati.
Aveva
una certa voglia di divertirsi un po’ con loro: aveva
cominciato a stancarsi di
prenderli sempre con la stessa rete, se proprio doveva giocare con quei
bipedi tanto odiosi tanto valeva farlo come si deve: d’altronde il carico
di Alalunari che
si tiravano dietro rendeva il tutto di una certa complicatezza.
Divertiamoci, miei vecchi giocattoli.
La
partita fra lui e quei cacciatori sembrava aver assunto i caratteri di
una gara
di astuzia e velocità, avrebbe fatto uso della
rapidità e della sua esperienza
sul campo: conosceva molto bene il terreno sul
quale stavano
giocando al gatto e il topo, a loro completa insaputa.
Per
prima cosa avrebbe ridicolizzato quella patetica strategia per tentare
di
fermarlo, usando lo stesso gruppo che si era separato dagli altri per
cercare
di tagliargli la strada. Avrebbe aggiunto una beffa al danno,
umiliandoli come gli
ingenui che erano: che credevano di fare con quella mossa scontata?
Rallentando
appena l’accelerazione per far recuperare un po’ di
terreno agli inseguitori
alle sue spalle, intravide presto di fronte ai suoi occhi i loro
compari, a
bloccare l’accesso alla foresta, pronti ad accogliere il suo arrivo.
Inizia il gioco.
Due
metri di apertura alare si distesero dalle sue spalle,
ansiosi di
abbracciare il vento, abbandonò ogni appiglio al suolo e
sfrecciò rasoterra
dritto contro gli altri membri del gruppo di caccia, leggendo nei loro
occhi la
vita di ognuno, scavando nelle loro menti, carpendone ogni
dettaglio.
Una
tensione terribile aveva preso possesso dei loro cuori: giovani che cercavano
di mettersi in mostra, riuscendoci peraltro pessimamente: avevano una paura del
diavolo. La
loro era una storia come un’altra, niente di nuovo o
interessante,
sempre la solita manciata di citrulli che speravano di guadagnarci
qualcosa; entrarono
nella sua testa una dozzina di nomi totalmente irrilevanti, fu come non
averli
neanche sentiti, e quando la distanza sempre più piccola fra
lui e quello
schieramento da due soldi cominciò a diventare preoccupante, in quelle
menti umane
sopraggiunse una considerevole dose di ansia e terrore: certo tipi
così non si
aspettavano che il loro temibile obiettivo venisse direttamente loro
incontro
per affrontarli a viso aperto come si deve, mostrando quei due
pezzi di
ghiaccio azzurro, i suoi occhi da serpente, dritti contro le loro
iridi, in
un’espressione beffarda tipica da Oscuro. I cavalli
ardenti cominciarono ad
agitarsi, uno, al solo vederlo, rischiò seriamente di
imbizzarrirsi.
Uh,
allora ti faccio paura?
Rimasero
così sorpresi e paralizzati nel vederselo arrivare
letteralmente addosso che
quando lui li superò semplicemente scavalcandoli in volo,
innalzandosi in
maniera agile e perfetta sulle loro teste, non si resero neanche conto
di
essere andati a sbattere direttamente col gruppo che gli stava alle
costole;
con ogni probabilità cozzò qualche testa, con
somma soddisfazione dell’Oscuro.
Tuttavia,
quelli in coda, con una non trascurabile dose di fortuna, abbastanza da
non
farsi destabilizzare come gli altri, furono i primi a riprendere il
controllo
delle cavalcature e a ripartire al suo inseguimento, decisi a non
cadere più
nelle sue trappole, pur non avendo certo le capacità
necessarie per evitarle. E
spronavano gli stalloni come pazzi per non perderlo di vista. Era
divertente
sapere che i loro peggiori sforzi non gli sarebbero stati di alcuna
utilità:
perché se a terra era un ghepardo in cielo, nel vento, era
un lampo, e dire
che gli inseguitori erano il tuono era persino una sopravvalutazione, rispetto alla
sua
velocità.
Stavano
costeggiando il bosco, senza però accennare nemmeno l'intenzione di addentrarvisi. Piuttosto strano, credevano probabilmente gli esseri umani, se lui
fosse
entrato, e avesse recuperato il vantaggio del buio, per loro il gioco si sarebbe subito concluso: eppure lui continuava a volare avanti, nemmeno troppo in alto, aveva
tutte le
intenzioni di attirarli da qualche parte. In realtà, giocare
con loro e le loro
ridicole tattiche per abbatterlo non era niente di estremamente
stimolante, ma
se c’era una cosa che riusciva a fargli dimenticare per un
po’ quel tremendo,
assolutamente tremendo, senso di fame, questa era la soddisfazione nel
ridicolizzarli.
Decise
di cambiare direzione, e puntò verso la base del costone
roccioso che dava
sugli alberi della foresta, per continuare la partita su un campo
diverso. Non
si fermarono neanche per un istante, gli corsero dietro senza neanche
pensare,
e in un attimo ecco che sfrecciava fra le pareti rocciose inseguito da
circa
cinque o sei di loro.
Avrete
anche imparato a fare qualche scattino, ma che ne dite delle lunghe
distanze?
Se
ponderava bene le energie avrebbe potuto sfiancare i cavalli di fiamme,
e in
quel caso volgere la situazione direttamente a proprio favore:
però erano
ancora decisamente un po’ troppi per i suoi gusti. Se li
avesse presi uno per
volta, con calma e ragionata imprevedibilità, non avrebbero mai potuto
difendersi. Anche con una manovra pericolosa come quella.
Vediamo
di spedirne a casa qualcuno.
Adocchiò
per primo quello che sembrava il più giovane e lento, si
sarebbe tenuto i migliori
per dopo. Trattenne il respiro e poi, senza preavviso, nel pieno dell’inseguimento,
all’improvviso sparì
dalla loro vista, inabissandosi invisibilmente nel terreno.
“Ma
che diavolo…?”
“E
ora dov’è andato? Giuro che questa volta lo
ammazzo davvero!”
Riderei,
certo, se solo ne fossi capace…
Fu
più problematico del previsto evitare gli zoccoli
incandescenti dei cavalli
mentre era fuso con le loro ombre, questo però non gli
impedì in ogni caso di
rispuntare dal terreno alle spalle dei cacciatori e di buttare
giù di sella
l’ultimo della fila, con un unico colpo secco e preciso. Il
Rapidash si
imbizzarrì e perse il controllo per lo spavento, fuggendo
via dal resto del
gruppo come indemoniato, che il poveretto ringraziasse il fatto di
essersi
salvato da quei letali zoccoli roventi. Il resto del gruppo certo non
aveva
i riflessi sufficientemente pronti per rendersi conto
dell’assalto al
momento opportuno.
Fuori
uno.
“Ma
che..! Norm! Norm!”
“Lasciate
perdere Norm! E occhio alle spalle, voi altri, sta facendo come quella
volta!”
Era
un peccato aver perso l’effetto sorpresa, ma non era certo la
prima volta che
adottava quella tattica per seminarli: eppure, nonostante
ciò, continuava in
ogni occasione a fregarli in quel modo. Puntò a quello
più avanti, fece
esattamente come prima: un fulmineo slalom tra le zampe in pieno
galoppo degli
stalloni per poi assaltare alle spalle il cavaliere, con cui
bastò un’unica
spinta all’indietro per tirarlo giù di groppa.
Fuori
due.
“Cribbio…
non ci provare, dannata bestiaccia!”
“Occhio,
Ed, il prossimo sei tu, è sotto di te!”
Uh,
quindi sei terribilmente miope, ma cieco ancora no.
A
quanto pareva, per gli esseri umani la terza era davvero la volta
buona, perché
il cacciatore in questione ebbe abbastanza cervello da obbligare il
Rapidash a
espandere le fiamme intorno a sé prima che lui potesse
disarcionarlo come gli
altri due, costringendolo a togliersi subito dalla zona di corsa dei
cavalli
ardenti e a tornare
visibile
ai loro occhi, riprendendo così l’inseguimento
tradizionale.
Un
paio in meno tutto sommato erano sufficienti, e non era il caso di trattenere il respiro a lungo per sfruttare quella abilità, lo avrebbe fatto stancare troppo: ora sarebbe bastato
seguire la
strategia originale. Nonostante i muscoli avessero cominciato a dare
qualche
lamentela, cominciava finalmente a trovare quella piccola gara
entusiasmante:
non voleva smettere di fendere l’aria, voleva accelerare
sempre di più, sentire
quei tre rompiscatole in preda all’esasperazione per non
poter reggere il
confronto con lui.
Naturalmente,
però, tutte le cose hanno una fine, e dopo qualche tempo
iniziò a intravedere
la fine della pista sotto il costone roccioso che avevano percorso
finora:
vicolo cieco.
Perfetto.
Come
si aspettava, chi gli stava dietro riprese ad esultare appena ebbe
capito che
l’odioso percorso si degnava di finire:
“Beccato!”
“L’abbiamo
preso, Ed!”
“Corsa
finita, mostriciattolo, sei fregato!”
Senti
un po’ chi parla.
Gli
artigli scattarono fuori in tutta la loro lunghezza, le ali piumate si
tesero
per l’ultima volta, fino a quando la parete rocciosa non gli
si ritrovò di fronte.
La partita si chiude in bellezza.
Un
battito abbastanza potente da sollevare una corrente d’aria
carica di polvere, e
le unghie si agganciarono come rampini acuminati alla superficie
rocciosa,
mentre gli inseguitori, finalmente arrivati a destinazione,
costringevano i
cavalli sfiancati ad una brusca frenata, non avendo la minima idea di
ciò che
il loro obiettivo stesse cercando di fare. In un attimo, appena il
tempo di
alzare la testa, e incrociarono le sue gelidi iridi blu, che li
sovrastavano
dall’alto come due spietati inquisitori, che bastarono a
paralizzarli con
un’unica, penetrante occhiata:
“Cosa…”
Erano
in tre. Proprio come aveva sospettato. Tutti abbastanza giovani, il che
certo
non li aiutava e non li aveva mai aiutati finora, era necessaria come minimo un'esperienza abnorme per poter realmente sperare di confrontarsi alla pari con lui.
L’Oscuro
penetrò in quegli occhi umani color cioccolato come un virus
corrodente,
facendosi strada nelle loro menti: trasse da esse ogni pensiero
con la
stessa facilità con cui un prestigiatore estrae un coniglio
dal cilindro, per
poi infondere in essi un’emozione disturbante e avvolgente, non ebbe pietà. Erano
agitati, e la loro paura continuava ad aumentare esponenzialmente, esseri
umani del
genere non sarebbero mai stati in grado di tenere testa al suo
sguardo.
Uno
cominciò a far indietreggiare la cavalcatura, incapace di
reggere il confronto
con quella pupilla da serpente,
mentre
l’agitazione degli altri continuava a crescere gradualmente:
quando quella
penetrante mezzaluna azzurra scintillò minacciosamente
contro i loro volti, il ragazzo che si era
fatto indietro
non resistette più e tornò indietro di corsa
senza nemmeno la necessità di
guidare indietro il cavallo ardente, riuscendo a malapena a soffocare
delle
grida. Piuttosto imbarazzante.
Ti
faccio paura?
A
malapena gli altri due si accorsero della fuga del terzo, tanto erano
paralizzati da quella mezzaluna di un blu acceso, con quel
sottile e
arcuato triangolo nero al suo interno, che li fissava trapanando
psicologicamente i loro occhi.
Allora,
ti faccio paura?
La
situazione diventava più ridicola a millisecondo che
passava, in effetti gli sembrava di vedere quasi il tempo scorrere al
rallentatore: non solo non
riuscivano a guardarlo negli occhi senza riuscire a muovere un solo
muscolo, nonostante
per loro fosse il momento perfetto per puntarlo con una canna, ma non
erano
neanche in grado di distogliere lo sguardo: quegli scuri occhi umani
sembravano
potersi sciogliere per il terrore da un momento
all’altro, senza che fosse
neanche necessario stringerli in una morsa psichica.
Ti
faccio paura, non è vero?
Con
una tale confusione emotiva nelle loro teste, scatenare
un’ipnosi su di loro
sarebbe stato di una facilità imbarazzante... naturalmente se
non avessero avuto
addosso un’intera scorta di piume anti-sonno come garanzia
totale. Un
impedimento rognoso e ridicolmente insormontabile, una piumetta che,
per legge
della natura, da sola, lo rendeva praticamente impotente.
Ma se
loro potevano aessersi protetti nel modo migliore, che dire
delle loro
cavalcature?
Gli
stalloni coperti di fiamme, tenute lontane da chi li montava grazie
alla loro
volontà e alle selle ignifughe, avevano cominciato ad
agitarsi, a scalpitare
leggermente: la loro paura era paragonabile a quella dei loro
cavalieri, ma a
quanto pareva quella del frustino era ancora più grande.
Così
mi offendi, schiavo.
Un
Rapidash, per natura splendido e superbo, reso uno schiavo totale da un
essere
umano. Pur non essendo stata certo una sua scelta, aveva più
paura di un
frustino o degli speroni che dello sguardo superiore,
ipnotico e
spietato del guardiano Oscuro, un essere che era in grado di spezzargli tutti e quattro i
garretti
semplicemente fissandolo.
Mi
offendi davvero, lo sai?
Gli
umani si erano pure potuti ricordare di impedirgli in tutti i modi di
usare i
boschi a proprio vantaggio e di infarcirsi gli abiti di Alalunari, ma
non era
passato loro neanche per la testa di prendere qualche minima misura di
sicurezza per quanto riguardava le cavalcature.
Idioti davvero.
Nelle
sue iridi ora pulsava una luce così accesa da renderle
più simili a fiammeggianti torce azzurre,
l’affilata pupilla di petrolio puntò
il Rapidash di sinistra.
Ti
faccio paura?
Il
cavallo si agitò ulteriormente, i suoi occhi commisero il
grave errore di
incrociare i suoi, rendendolo totalmente incapace di fuggire.
Allora,
ti faccio paura?
L’agitazione
dell’equino incandescente continuava ad aumentare, il fatto
che il suo padrone
non se ne fosse ancora neanche accorto aveva un aspetto esilarante.
Trema.
L’agitazione
del Rapidash aumentò a tal punto che anche il proprietario
si accorse del
problema, riuscendo finalmente a tornare lucido, ma non comprese la
situazione,
preferì dare la colpa a un semplice nervosismo, causato
dalla fiacchezza della
bestia, e forzò la mano per tenerlo fermo, mentre tornava a
cercare
l’impugnatura del fucile:
“Sta’
fermo, piantala di agitarti! Adesso ti
sistemo io, bestia
amorfa…”
Oh,
ma per favore.
Speravano
di poter battere la sua influenza mentale semplicemente forzando il
cavallo?
Una superbia sciocca di cui potevano essere capaci
solo gli esseri
umani.
Fissò
dritta la bestia in quegli occhi colmi di panico.
Agitati.
Subito
il Rapidash cominciò a ribellarsi alle briglie, scuotendo la
testa da ogni
parte con disperazione, avrebbe dato di tutto per togliersele di dosso
e
scappare via da quell’Incubo onnipotente che lo stava
soggiogando fino a farlo
impazzire.
Agitati
di più.
Il
suo scalpitio divenne esasperato, le fiamme che emanava rischiavano di
perdere
il controllo da un momento all’altro, finalmente il padrone
cominciò a
preoccuparsi e cercò di trovare un modo per domarlo:
“Fermo,
sta’ fermo, dannata bestia! Così mi scotti,
stupido!” Lo stallone però aveva
già iniziato a scalciare, nitrire, tentando disperatamente
di sfuggire al
controllo del cavaliere.
Agitati,
ancora di più, corri a casa. Obbedisci.
L’uomo
stava andando in esasperazione, sembrava essersi persino dimenticato di
lui,
cercava solo di tenere ferma la propria cavalcatura, ormai fuori di
sé, che si
dimenava come posseduta, tirando le briglie con disperazione.
Agitati,
esplodi. Obbedisci!
Il
compagno del cacciatore, ancora col cavallo sotto controllo, finalmente
sembrò
rendersi conto di ciò che era tutto intorno a loro, un
potere che li soggiogava
e surclassava le loro capacità come una morsa lenta e senza
scampo. E quando i
suoi occhi ricordarono l’immagine di quelli glaciali della
creatura che ormai
li aveva in pugno…
“Ed…”
Correte.
Impazzite. Non potete sottrarvi.
“Ed…
Ed! Levati subito da lì, è in grado di
ipnotizzare il tuo Pokemon!”
Era
decisamente un po’ troppo tardi per accorgersene.
In
quel momento anche il secondo Rapidash perse il controllo, le loro
fiamme
esplosero in tutta la loro potenza e i due cavalli, totalmente
imbizzarriti, si
impennarono con furia scagliandoli per terra. Prima ancora che i due
uomini
riuscissero anche solo a pensare di fare qualcosa, l’Oscuro
era già saltato
sopra di loro con una velocità impressionante sovrastandoli
con quelle enormi
ali di tenebra, non poterono fare altro
che
abbassare la testa e cercare di proteggersi dall’assalto.
Lui
non perse certo tempo con loro, si era divertito abbastanza: si
limitò ad
abbattere i cavalli con due colpi precisi e a superarli con un balzo,
riprendendo la strada per tornare indietro.
Uomini del genere non potrebbero farmi più pena di così.
Li
sentiva ancora lamentarsi, imprecare e agitarsi, mentre cercavano di
riprendere
il controllo delle bestie, indirizzandogli ogni tipo di maledizione e
insulto
della Terra.
“Tu,
dannato…!”
“Maledetto,
questa me la paghi, bastardo!”
Lo
prendo come un complimento.
L’accelerazione
fu automatica e le ali tornarono a fendere l’aria: il gioco
è bello quando dura poco, ed era stato decentemente
divertente, abbastanza da
fargli dimenticare per un po’ la sensazione di fame, il che
era già qualcosa.
Anche se la distanza fra loro era già non indifferente,
continuava a percepire
la loro dirompente frustrazione, rabbia, esasperazione, esilarante.
“Maledizione…
inseguilo, inseguilo!”
“E
dove vuoi che vada, quest’affare non vuole stare
fermo!”
“Gente,
mi ricevete? Sta tornando indietro, bloccategli la via di fuga, con la
velocità
che si ritrova rischiamo di lasciarcelo scappare di
nuovo!”
Aveva
appena abbandonato la lettura di quelle menti umane quando
incrociò il resto
del gruppo che era venuto loro dietro, di quei primi ritardatari che
erano
andati a sbattere gli uni contro gli altri come dei polli, tutti dotati
di
canna e proiettili.
Se non vi foste meritati tutto il mio odio fareste quasi tenerezza.
I
primi della fila, in preda al panico per quell’apparizione
velocissima e
improvvisa, riuscirono a malapena a puntare il fucile e a premere il
grilletto. Peccato che il Pokemon nero fosse in grado
di precedere
qualunque cosa, e un proiettile per lui non
costituiva certo un problema: appena il tempo di fissare la pallottola
che
andava a vuoto che i cacciatori se lo ritrovarono sopra la testa:
“Oddio…!”
“Tutti,
presto, state giù!”
Bravo,
stai giù, non puoi neanche permetterti di guardarmi in
faccia.
Un
altro balzo di precisione perfetta, un brevissimo volo sopra
quelle
teste coperte in maniera patetica, una rapida artigliata alle ultime
cavalcature e l’Oscuro atterrò alle loro spalle
con leggerezza maestrale,
riprendendo a correre con un’eccitazione superba.
Forza,
perché non correte? Avanti, ridicolizzatevi ancora.
“Ma
che…”
“Di
nuovo? È scappato di nuovo?”
“Non
state lì impalati, andategli dietro!”
Sì, provateci, crollate pure nel tentativo.
Sfoderò la sua massima accelerazione,
inutilmente gli zoccoli dei
Rapidash tornarono a pestare e bruciare con violenza il terreno alle
sue spalle
sempre più forte, incapaci di stargli dietro, figuriamoci di
recuperare
terreno.
Avanti, correte pure, che credete di ottenere ammazzando i
vostri
schiavi di fatica?
Il
suo udito superiore percepiva gli stalloni in fiamme sfiancarsi sempre
di più,
la loro andatura aumentare gradualmente di lentezza e pesantezza,
l’intensità e
il volume del loro rumore andava scemando, e inutile era
l’uso spietato del
frustino da parte dei loro padroni, non avrebbero mai raggiunto la sua
velocità. Il loro era un ennesimo tentativo, patetico ed
inutile come tutti gli
altri. No, non lo avrebbero mai preso, troppo superbi, superficiali,
ingenui e
stupidi, una razza come quella non sarebbe mai riuscita a sfiorarlo con un dito.
Correte,
correte, sognate pure di riuscirci, non
riuscirete mai a
raggiungermi.
Artigliava
la polvere e i sassi e si lanciava in avanti a intervalli brevissimi,
con una padronanza magistrale, sempre
più fulmineo, una
freccia nera che sembrava non conoscere limiti di rapidità,
chiunque avrebbe
avuto il dubbio che prima o poi arrivasse a diventare invisibile a
occhio nudo.
Ne era sicuro, gli inseguitori non avevano più forza
né fisica né psicologica
per continuare ulteriormente la caccia, di certo avevano abbandonato
l’impresa,
il solo vederlo correre bastava a spiazzarli completamente. Per un
popolo
inferiore come il loro il solo pensare di poter riuscire in un
obiettivo simile
era pura follia.
La
vostra velocità non è neanche minimamente
paragonabile alla mia. Restate
indietro, rimanete lì, non potete neanche
permettervi di osare
il confronto con me.
Raggiunta
la base della zona rocciosa, decise di procedere verso
l’alto, percorrendo il
costone: tornando direttamente dalla strada da cui era venuto sarebbe
stato fin
troppo probabile incontrare altri seccatori, scelse di gettarsi nel
vuoto,
verso gli alberi, dall’alto della roccia, una volta raggiunto
il punto più
vicino alla grande foresta che si estendeva sotto per metri e metri. Le
unghie
artigliarono la terra in curva in maniera perfetta, uno slancio
fulmineo e in
un attimo tornò a divorare metri e metri di terra, diretto
verso la cima.
Sì.
Più forte.
I
muscoli che si tendevano con regolarità in un movimento
rapido e perpetuo,
sfidando ogni limite fisico, eccitati, il calore corporeo ardente,
feroce, esaltante,
si ritrovò a pensare di sentirsi molto più simile
a quei Rapidash di quanto non
fosse mai stato.
Ancora.
Più forte!
Non
poteva fare a meno di amare quella sensazione, dinamica e avvolgente,
lo faceva
sentire più potente e vivo che mai.
Uno
di quei pochi, rarissimi, preziosi momenti in cui davvero riusciva a
dimenticare
chi era.
Non
provate a fermarmi. Nessuno può farlo.
In
un attimo, la fine della corsa era lì, proprio davanti a
lui, il pendio dava
proprio sugli alberi.
Le
ali si spiegarono sovrane dalle spalle, enormi, superbe e potenti come
sempre,
un unico battito, e poco meno di un metro lo separò dalla
terra.
Io
sono il capo, nessuno può ostacolarmi.
Le
unghie si ancorarono al terreno con forza e precisione assoluta, le
braccia
furono rapide a piegarsi per dare il potente slancio che lo separava
dall’abbracciare il cielo, in tutta la sua
immensità, e il vento furioso, per
poi abbandonarsi a una vorticosa picchiata verso il verde scuro che si
stendeva
sotto; un attimo e sarebbe stato di nuovo nel suo regno, padrone delle
fronde.
Adesso!
Proprio
in quel momento sentì quel rumore. Improvviso, sordo, breve.
Per
un attimo squarciò l’aria, gli percosse i timpani
per neanche mezzo secondo.
Una consapevolezza paralizzante ebbe il potere di frenare il volo, non
riuscì a
pensare a nient’altro.
E
la sensazione di un trapano incandescente di dolore insostenibile gli
lacerò
senza pietà le carni sotto la costola sinistra.
Nota dell'autrice:
Ciccini belli, non pagate per scrivere un piccolo parere, lo sapevate, vero? O c'è stata una specie di epidemia di mutismo negli ultimi tempi? XD
Sono settimane che non mi faccio viva, ma ho avuto una brutta crisi di scrittura negli ultimi tempi, e, non so perché, per quanto io potessi riscriverlo da capo, questo capitolo non veniva mai come volevo, mi ha messa a dura prova.
Beh,alla fine ce l'ho fatta, tra un impegno e l'altro. Avendo ricominciato a riscrivere da capo la trama da quache capitolo a questa parte, vi ricordo di nuovo che la frequenza con cui usciranno altri capitoli sarà piuttosto irregolare e con intervalli anche molto lunghi, vi prego di avere pazienza.
Un saluto veloce dalla sottoscritta ;-) |
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Capitolo 12 *** Atto XI ***
La pioggia non voleva saperne, di dare una tregua. Subito dopo quella breve pausa, una tempesta di tutto rispetto aveva ricominciato a infuriare fuori. Ad Alicia la pioggia normalmente non dispiaceva, ma quando essa stringeva un’alleanza col vento diventava insopportabile. Da tempo aveva smesso di avere paura dei temporali, non era più certo una bambina, ma non nascondeva di avere il timore che una furia degli elementi simile potesse strappar via e lanciare in aria l’intero rifugio con la facilità con cui lei staccava una delle sue foglie dagli alberi.
A fare la fantasiosa, le sembrava quasi una metafora della loro situazione, una tempesta da affrontare ogni giorno, nel mondo della gente, a cui ogni tanto dubitava di poter riuscire sempre a sopravvivere.
Tuttavia, la sola vista dell’Oscuro, di una calma fredda e perfetta, in mezzo a quell’inferno di vento e acqua, bastava a terrorizzare ogni suo dubbio, facendolo rintanare nel profondo della sua mente: immobile e impassibile come una statua, stava a braccia incrociate lì accanto, con le palpebre nere abbassate, sembrava veramente congelato, l’unico segno di vita che dava era l’usuale movimento lento e regolare della bianca cresta vaporosa verso l’alto. Alicia non poté fare altro che chiedersi per l’ennesima volta a che diavolo quel mistero ambulante stesse pensando, avrebbe dato qualunque cosa per ereditare sul momento la sua capacità telepatica e frugare nella sua testa allo stesso modo con cui lui si permetteva di fare con la sua, peccato che questa disposizione non servisse a niente: Darkrai, come tutti i Pokemon leggendari, era un mistero vivente, anzi, lui lo era ancora più degli altri. Sebbene ormai lei credesse di conoscerlo, ancora non capiva a fondo in cosa consistesse il suo ruolo nell’equilibrio, il suo scopo di vita.
Darkrai era diverso dagli altri Pokemon, era diverso anche dai signori leggendari: troppo amorfo, troppo oscuro rispetto agli altri della sua razza. Troppo… umano.
Non ne esisteva nessuno di neanche vagamente simile a lui. Era una particolarità che l’aveva sempre affascinata, che sicuramente aveva fatto la sua parte nel consolidarsi quasi involontario del loro legame, ma che, allo stesso tempo, lei lo sapeva bene, era stata anche la causa di tutto ciò che aveva passato: non aveva mai visto nessun Pokemon leggendario perseguitato tanto ferocemente dalle persone, era una caccia troppo spietata e continua.
Che i Pokemon leggendari valessero una fortuna non era certo una scoperta, Pokemon unici al mondo di cui esisteva un solo esemplare, e dotati soprattutto di un potere superiore, da cui per di più dipendeva quasi interamente l’equilibrio del loro mondo. Ecco perché un individuo intelligente sapeva bene che era molto meglio lasciarli in pace, per il bene di tutti, anche se il mondo, effettivamente, stava cambiando. La gente stava cambiando. La caccia ai Pokemon si era effettivamente intensificata, il bracconaggio stava aumentando, con l’introduzione della carriera degli Allenatori, poi… era diventata una vera e propria moda.
Ma Darkrai… bastava guardarlo: il suo corpo era coperto di cicatrici, sia fisiche che psicologiche, e, sebbene le sue capacità di guarigione, come ogni Pokemon leggendario, fossero assai superiori rispetto a quelle di tutti gli altri, non ne era mai stato privo, anzi, innumerevoli resti di piaghe non smettevano un momento di attraversare la sua pelle scura: Alicia sapeva fin troppo bene che la guerra che stava combattendo non aveva origini recenti.
Si portava addosso vecchie ferite assai peggiori di quelle visibili, la caccia nei suoi confronti dell’umanità e l’odio che l’Oscuro provava per essa era qualcosa di troppo antico e, probabilmente, troppo forte perché lei potesse osare immaginarla nei dettagli. Le bastava guardare quella vecchia ferita sul petto, l’unica a non essere mai sparita del tutto, dopo tutti quegli anni, che aveva segnato il suo… il loro destino.
Rimase a fissarlo per un po’, ancora riusciva a conservare il fascino che provava per quel Pokemon leggendario da quando era bambina, fin dal giorno in cui lo aveva visto per la prima volta, in un’illustrazione del suo libro di scuola. Sebbene fosse diverso da come lo aveva immaginato da piccola, da quando lo conosceva non era cambiato affatto, sempre lì, nella sua fortezza di ghiaccio, che però non tardava ad aprire, con tutte le sue meraviglie nascoste, immediatamente, ogni volta che lei bussava. Un privilegio che le era stato concesso non indifferente, una delle rare cose che la faceva sentire più speciale e che riusciva a sollevarle sempre il morale.
Alicia, l’unica mai riuscita nella storia a legarsi ad un Darkrai. Se solo la cosa non fosse stata assolutamente proibita, avrebbero potuto scriverci un capitolo di storia. Il pensiero l’avrebbe fatta sorridere… se solo non ci fosse stato l’Oscuro lì con lei, con quell’espressione gelida, che le dava un’amarezza che non aveva mai creduto di poter provare.
Ce l’ha ancora con te.
I sensi di colpa ripresero a ronzarle nella testa come mosche persistenti, oscurandole i pensieri: come cavolo le era saltato in mente di augurarsi che la sua ombra custode venisse rinchiuso e costretto a passare gran parte del suo tempo in una sfera agli ordini di un individuo facente parte di una razza che lo ripugnava? Non avrebbe potuto dirgli niente di peggiore. Forse stava cambiando anche lei, forse la negatività di quel mondo, di quella vita tanto difficile, la stava contagiando e cambiando.
Non voglio cambiare.
Si meravigliò, per la prima volta, di quel pensiero: in tutte le difficili situazioni che aveva passato nella vita, non aveva desiderato altro che essere come tutti gli altri, voleva solo far parte della sua gente. Invece loro prima l’avevano derisa per buona parte della sua vita, poi avevano preso a cacciarla e a tenerla a distanza, parlando male di lei alle sue spalle. Era sempre andata così, il suo popolo arrivava a considerarla una creatura non umana, aveva persino paura di lei, solo perché aveva idee diverse e perché sapeva suonare una foglia, riuscendoci peraltro anche bene. E loro dicevano che parlava con la foresta e gli animali, trattandola nel peggiore dei modi. Si era sempre ripromessa di non farsi mai convincere dalle apparenze, ma non poteva certo fare a meno di cominciare a detestare anche lei la propria gente.
Tutto ciò che aveva passato aveva finito per farle desiderare solo di diventare come loro, di essere una di loro. E invece ora si ritrovava a pensare di non voler cambiare, di continuare ad essere diversa, diversa da quel popolo superficiale e opportunista. In cuor suo, conosceva il perché.
È stato lui.
Era stato solo dopo aver incontrato l’Oscuro che aveva cominciato ad essere fiera di se stessa, a desiderare di restare diversa dal resto di quel popolo, ad essere felice di ciò che era. A lui lei piaceva così com’era, apprezzava ciò che lei considerava difetti, l’unico che avesse mai potuto considerare vero amico, che le era sempre stato fedele, non l’aveva mai tradita come tutti gli altri, che avevano sfruttato le sue debolezze non appena si era presentata l’occasione: era sempre rimasto dalla sua parte, c’era sempre, quando aveva bisogno di un sostegno, di un amico vero, di lui. No, lei non voleva più essere come quella gente corrotta e opportunista, era fiera di essere l’Alicia che l’Oscuro conosceva e proteggeva incondizionatamente.
Eppure… in quel momento, la sua presenza, invece di rassicurarla come sempre, la faceva sentire afflitta, ricordava fin troppo bene quell’irrigidimento nel suo corpo e quella rabbia mista a odio che per qualche secondo non era riuscito a reprimere. Alicia non sapeva leggere nel pensiero, era vero, ma le emozioni sapeva carpirle; e conosceva il signore di tenebra come nessun altro.
Sei arrabbiato con me?
Non aveva più detto una parola da quando erano entrati. Uno stupido, dannato pensiero come quello che lei aveva avuto per qualche secondo aveva scavato nel suo cuore, apparentemente duro e gelido, ma che lei, sapeva, o almeno credeva, sanguinava, silenziosamente, incessantemente, dall’interno, una nuova piaga. Aveva desiderato davvero, per un attimo, che lui, il suo angelo custode che combatteva incessantemente una lotta per la sopravvivenza e per la propria libertà, finisse sotto proprietà di un Allenatore, un essere umano, una razza che odiava, e soprattutto un umano che domava i Pokemon.
Scusami, se puoi.
E stava lì, freddo e immobile, come se lei non esistesse più, anzi, come se lui non volesse vederla più, altrimenti non avrebbe nascosto le sue accese iridi blu sotto le palpebre nerissime. Alicia, a dir la verità, faticò ad aprire bocca:
“Ti sei offeso?”
Finalmente una reazione. La palpebra nera si schiuse con lentezza, un bocciolo oscuro che rifiuta il sole e si apre alla luce lunare, mostrando il proprio interno, una grande sfera azzurra e luminosa, attraversata da una sottile pupilla penetrante, serpentina, a cui seguì uno scuotimento di testa fluido e senza fretta.
“Non dici nulla da parecchio.”
“Non ho niente da dire.”
“Mi dispiace...”
“Non c’era una sola traccia di cattiveria nella tua intenzione. Mettiamoci una pietra sopra.”
“Perdonami.”
“Ti ho detto che non importa.”
Aveva passato tutto il tempo ad armeggiare con la slogatura, ma con quella bufera Alicia aveva visto sfumare ogni sua occasione di cercare un qualche vegetale che potesse esserle utile da aggiungere a un impacco freddo. In realtà, lo aveva fatto soprattutto per distrarsi ed evitare di alzare gli occhi verso la figura immobile e tenebrosa dell’Oscuro, che continuava a procurarle una serie di emozioni contrastanti al solo vederlo, senza contare che, nonostante tutto, non poteva proprio ancora fare a meno di sentirsi almeno parzialmente una palla al piede nei suoi confronti.
Accidenti… ma perché?
L’Oscuro la stava fissando. Percepiva il sui occhi gelidi anche senza guardarlo, e cercò di evitare il suo sguardo in tutti i modi. Non voleva osare sostenere il confronto visivo con lui, non in quella situazione patetica, l’ennesima volta in cui non solo non era stata capace di essergli d’aiuto, ma gli aveva anche fatto rischiare grosso.
Vorrei saper combattere. Voglio difendermi da sola.
Vorrei essere un…
Non fece in tempo neanche a pensarlo che la sua visuale venne oscurata dalla mole nera del Pokemon leggendario, proprio di fronte a lei. Non l’aveva neanche sentito arrivare, sembrava apparso dal nulla, un fantasma di tenebra dai fulgidi occhi blu.
“Stendi la gamba.”
Non era una pessima idea, di sicuro era meglio che continuare ad armeggiarci inutilmente solo per evitare la conversazione, il problema era ciò che aveva intenzione di fare lui. L’idea di provare di nuovo quella sensazione non le piaceva neanche un po’, non tanto per l’idea in sé, ma per il fatto che sarebbe stato lui a pagarne le conseguenze.
“Dark, ascoltami…”
L’Oscuro la ignorò bellamente, sguainò gli artigli e li avvicinò al braccio sinistro.
No.
“Guai a te se ci provi, Dark!”
L’azione venne interrotta immediatamente, e gli occhi da serpente del Pokemon leggendario furono rapidi a intrappolare i suoi in una morsa di ghiaccio.
“Perché mi fermi? Così guarirà subito.”
Per fortuna, a furia di incontrarli, Alicia aveva imparato a districarsi in fretta da quella ipnotica iride blu e quella riga affilata, capaci di soggiogare ogni qualunque altro occhio umano:
“Non m’interessa, non devi ferirti!”
L’Oscuro cambiò sguardo, con aria appena vagamente sorpresa, e si tirò indietro senza discutere.
“Come vuoi. Anche se non ti capisco.”
“Te l’ho già detto, non voglio più farne uso, lo sai benissimo. Mi rimetterò in piedi da sola, anche se dovessi metterci un sacco di tempo, è solo una stupida slogatura, farò da me. Non pensarci neanche, sei già pieno di ferite, vuoi tagliarti ancora di più?”
L’Oscuro, dopo pochi secondi passati a guardarla con quell’aria appena sorpresa, sembrò serenamente rassegnato, e si ritirò in silenzio, allontanandosi da lei e tornando al suo posto col calma, senza far trapelare una sola emozione.
Farò tutto da sola. Ne ho abbastanza di tutto questo.
“Il tuo è un sangue prezioso. Non sprecarlo per me.”
“Oh, Alicia, tu sei molto più preziosa del mio sangue.”
“Posso cavarmela benissimo da sola. Non voglio dipendere da nessuno, ti ho già fatto passare anche troppo, io voglio poterti aiutare, non fare questo per me.”
Darkrai, semplicemente, abbassò di nuovo le palpebre, inflessibile come al solito:
“Non posso che rispettare e accettare la tua scelta.”
Ecco che si ricominciava da capo. Lui che ergeva quel muro invisibile tra loro, sfidandola a romperlo senza opporsi, aspettando silenzioso fra i suoi pensieri. Il suo silenzio non aveva mai infastidito Alicia, normalmente non c’era bisogno di parole, fra loro, ma in quel momento quello stesso silenzio le sembrava un impedimento, qualcosa che la ostacolava, che le impediva di raggiungerlo. Si decise a romperlo, quasi irritata per quella situazione.
“Dark…”
Gli accesi occhi azzurri apparvero di nuovo:
“Dimmi.”
“Quando sono arrivata ai giardini…”
“Sì.”
“Quell’idiota ipocrita… Ciro…”
“Vorrei poterlo non ricordare.”
“Sono arrivata in tempo per notare le conseguenze della sua stupidità… e per vederti minacciare con gli artigli la sua vita… sbaglio?”
Nonostante non avesse emesso un solo rumore, nella testa della ragazza passò velocemente la sensazione di un sospiro da parte del Pokemon leggendario.
Un punto dolente, eh…
“No. È corretto.”
“Tagliamo corto. Lo avresti fatto?”
Le iridi dell’Oscuro, da glaciali, passarono, per un attimo, a brillare come fiamme. Sì, quello era veramente un punto dolente, una minuscola parte di Alicia la rimproverò per aver osato una cosa simile, ma lei la represse con furiosa determinazione. Ovvio che lui sapesse perfettamente di cosa stesse parlando, evidentemente darle una risposta non era nelle sue intenzioni.
“Rispondimi, per favore. Se non fossi arrivata… gli avresti tagliato la gola?”
Silenzio. Gli occhi del Pokemon leggendario non si scomposero minimamente, non cambiarono neanche espressione, era tornato la statua di prima, aveva semplicemente gli occhi aperti, adesso.
Rispondi.
Zero. Non un segno, un sussurro, neanche un minimo accenno. Solo quello sguardo che sapeva essere penetrante, freddo e ardente allo stesso tempo, bucava i suoi occhi e scavava dentro, cacciava e ghermiva ogni suo pensiero per farlo suo. Non sarebbe stata al suo gioco, questa volta li affrontò senza rimpianti, ferma nella sua domanda e nel suo desiderio di sapere quella risposta determinante.
Niente.
Sei un vero mulo.
“Allora? Sì o no?”
Le lunghe braccia si sciolsero e tornarono giù meccanicamente e senza fretta.
“Perché ti importa sapere qualcosa che non è accaduto nel passato?”
Tipico dell’Oscuro. Alicia ne era irritata, e al contempo affascinata, con lui non si riusciva mai ad avere ragione, e proprio per questo era l’unico a cui potesse rivolgersi sinceramente. Giudice spietato e imparziale, un vero signore di tenebra, come doveva essere. Ma voleva una risposta, in quel momento:
“Mi importa sapere se il mio migliore amico possa pensare di macchiarsi del sangue di uno che, dopotutto, per quanto io possa odiarlo, fa sempre parte del mio popolo.”
Una luce sembrò pulsare per breve tempo sotto quella superficie azzurra, qualcosa sembrò cambiare nel signore della notte. La ragazzina non credeva che quello sguardo potesse diventare persino più serio e attento di quanto non fosse stato fino a poco prima: dunque, importava anche a lui, in caso contrario non avrebbe mai fatto lo sciopero della parola in modo così testardo.
Ho fatto centro.
Darkrai non era mai stato un eroe, anzi, piuttosto il contrario: non aveva mai desiderato combattere per nessuno, ma esclusivamente per se stesso e per la propria libertà, ambiguo come nessun altro, certo non desiderava risparmiare un tizio come quello, uno dei peggiori in tutta la razza umana, dalla quale tra l’altro lui era disgustato. Alicia aveva cominciato ad avere paura di sentire la risposta, e, nonostante non potesse fare a meno di vergognarsi nel rendersi conto di non avere fiducia nel proprio migliore amico, aveva timore di conoscere la verità.
“Darkrai…”
L’Oscuro si mosse di nuovo e tornò ad avvicinarsi, e, notò lei con sollievo, non era più una statua di ghiaccio vivente, sebbene lui cercasse ancora di apparirlo.
“Io non sono un personaggio eroico e altruista come un amato protagonista di un vostro racconto. È vero che ho sempre lottato solo per me stesso, da sempre. Non potrebbe esserlo di più.”
Darkrai...
“Forse non sarò un eroe. Ma di certo non sono un assassino.”
Quella risposta avrebbe dovuto calmare i suoi dubbi. Invece a quella frase nella mente della ragazzina si insinuò un pensiero velenoso, che tuttavia non riuscì a cacciare via sul momento.
Per ora…
Non fece in tempo a mandarlo via che, di nuovo, nell’Oscuro cambiò qualcosa. Simile a ciò che lei aveva sentito quando aveva pensato per un attimo a quella storia dell’Allenatore, ma, se possibile, anche peggiore: mentre, quella volta, in lui, per un attimo, si era agitata una bestia repressa, rabbia e odio feroci e ringhianti come un leone affamato, che lui continuava a domare perennemente ogni giorno con la propria forza di volontà, questa volta era come se fosse stato avvelenato dall’interno, da quell’unica parola, quel dubbio ripugnante che per un attimo le era passato per la testa: in lui ora era come se si fosse fatta strada una consapevolezza spiazzante, poteva paragonarla a quella di un malato incurabile o un ferito grave che ha appena saputo di essere destinato presto a morire.
No…
Ma era vero. Sebbene avesse provato a rifiutarlo, in lei si era già insinuato quel dubbio acido e tagliente, una sfiducia incontrastabile, il dubbio che ci fosse la possibilità che il suo angelo custode si trasformasse nel demonio che tutti vedevano e temevano in lui, nel suo aspetto, nei suoi poteri.
Razza di scema! Perché?
L’Oscuro non disse nulla, come prima. In silenzio, invece, si coricò lì accanto a pancia in sotto, coi polsi accavallati, assumendo la caratteristica posa delle pantere nere che si riposano da una lunga giornata di caccia, senza tuttavia abbassare la guardia, che osservano vigili tutti i movimenti intorno a loro.
“Fatti una dormita. Non so tra quanto avrai di nuovo occasione di fartene una.”
Alicia decise di sospendere e ritirare tutte le sue riflessioni, tanto ormai quel che era fatto era fatto, ubbidiente.
“E nel caso qualcuno…?”
“Io resto sveglio. Lascia fare a me.”
“Va bene. Grazie, Dark.”
Si sarebbe riposata anche molto volentieri, a dire il vero, peccato che quel posto, sebbene ben riparato, fosse pur sempre privo di porta, e, mentre la capacità di regolare e mantenere il calore corporeo dell’Oscuro gli permetteva di ignorare bellamente la furia degli elementi naturali, Alicia faticava a tenere sotto controllo i tremori.
Non sarà il massimo del comfort, ma… ah, ignoralo, tutto sommato me lo merito, dopo tutte le scemenze di oggi…
Non fece neanche in tempo a pensarlo che, intravedendo a malapena quel movimento fulmineo, si ritrovò l’ala destra dell’Oscuro aperta e avvolta dietro la schiena.
“Così va meglio?”
Pensarlo, soprattutto quando solo quest’azione equivaleva a dirlo nei minimi dettagli al Pokemon leggendario, era piuttosto imbarazzante, ma quella, per Alicia, equivaleva al piumino più soffice e caldo che avesse mai avuto l’opportunità di provare, dopotutto da sola costituiva una perfetta meraviglia aerodinamica di ossa, muscoli e piume, viva e caldissima.
“Molto. Grazie, Dark.”
Un ennesimo, vago cambiamento. Forse, se ne fosse stato capace, l’Oscuro avrebbe mostrato un rassegnato sorriso appena accennato.
“A nanna, principessina.”
“Piantala, non sei mica mia madre.”
“In quanto tuo sequestratore, è mio dovere assicurare l’incolumità e la comodità dell’ostaggio.”
“Dark…”
“Guarda che ti addormento a forza. Se vuoi, per me nessun problema.”
“Ho capito, piano, tu, con quel braccio! Ci vado, ci vado, ma tu smettila, scemo che non sei altro!”
Sei un vero amico.
Era tutta la sera e la notte che gliene diceva di tutti i colori, involontariamente, certo, ma cose che sarebbero bastate e fin troppo avanzate per permettere a un amico normale di voltarle le spalle per sempre.
Invece lui no. Probabilmente non lo avevano lasciato indifferente tutti quei pensieri infami e spregiativi che le erano passati per la testa nei suoi confronti, ma cercava di non curarsene, anzi: si preoccupava più per lei. Teneva più al fatto che quelle idee non la facessero star male piuttosto che farlo con se stesso. E allora faceva il burlone sarcastico, con l’unico essere umano col quale probabilmente l’aveva mai fatto in tutta la sua vita totalmente libera dagli effetti del tempo. Non avrebbe mai potuto desiderare un amico migliore.
Odio doverlo confessare, ma ti voglio un gran bene.
Prima ancora che potesse domandarsi come stare più comoda su quella terra tanto ostile, metà dell’enorme ala si infilò subito sotto a farle da materasso.
Ehi, che comodità…
Non cambi mai, amico mio.
Ora non le restava che raggomitolarsi in quel morbido ammasso di piume, e lo fece senza discutere, mentre l’Oscuro si limitava ad avvolgerle l’ala addosso e a fissare fuori con aria paziente, poggiando testa e petto sui polsi.
Le aveva esplicitamente ordinato di mettersi a dormire, certo però non poteva impedirle di pensare un po’ prima di lasciare la Terra.
A cosa stai pensando?
Darkrai rispose con velocità inflessibile, senza neanche voltarsi, immobile e reattivo come un felino.
“Al passato.”
Perché?
“Non mi pare di avere troppo da fare.”
Una vibrazione nei muscoli dell’ala le fece intuire che la voleva trovare nel mondo dei sogni il prima possibile, Alicia sospirò con un sorriso vago.
Passato… proprio lui che è fissato con ‘quello che è stato è stato’.
Il passato, eh…
Decise però di non provocarlo ulteriormente e aspettò con pazienza che arrivasse l’aereo diretto alla città dei dormienti.
Continua...
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Capitolo 13 *** Atto XII ***
Fu
una pessima caduta. Sì, decisamente molto dolorosa.
Fece
appena in tempo a percepire quel dolore terribile, un bruciore
insostenibile
che gli bucava quella zona del petto, verso la costola sinistra, che si
ritrovò
a crollare a peso morto giù dal promontorio.
Il
dolore era potente, abbastanza da prosciugargli
l’energia che
necessitava per volare, o anche solo planare, faceva fatica persino a
respirare.
Era
accaduto, alla fine. Tutto a causa della sua stupida superbia e di
un’ingenuità
a malapena descrivibile di cui non si era mai creduto capace. Non
avrebbe mai
pensato di vederlo succedere, ma lo avevano preso.
E
ora cadi.
Fu
tremendo.
Gli
sembrava di essersi tramutato in una pallina del flipper con
cui si
dilettavano gli esseri umani: andò a sbattere
innumerevoli volte
contro altrettante innumerevoli sporgenze e rocce, aguzze e non; non
aveva più
la possibilità di virare, non ne
aveva la forza. Si
era schiantato su tante di quelle pietre, in quella folle e passiva
caduta
libera, da aver ormai perso la sensibilità; si meravigliava
di essere ancora in
grado di pensare, se non fosse stato per quel dolore insopportabile
avrebbe
creduto di aver ormai salutato il resto del corpo, partito per la tomba
senza
di lui.
Quando
la terra dura e polverosa lo accolse di colpo,
alla fine
di quella picchiata, in un miscuglio di dolore ed ematomi,
gli
sembrò di essere caduto su un prato. Era finita. Finalmente
soli, lui e il
dolore di fuoco. La discesa folle che gli aveva distrutto le
ossa era
finalmente giunta al termine.
“Vai!
Beccato!”
“Gran
bella prova, Eric!”
“Sì,
bel botto, così si fa, grande! Stasera offro io!”
Dolore.
Tanto dolore. Sembrava aver mandato l’udito fuori uso, i
suoni erano sempre più
ovattati, fino a quando non riuscì a sentire più
niente. O forse,
semplicemente, il gruppo di caccia si stava allontanando?
“Bella
mira, amico, lo hai preso in pieno!”
“Che
facciamo, recuperiamo la carcassa?”
“No, non ne vale la pena. E poi toccarlo mi fa piuttosto senso, non
so se
mi spiego.”
“Tu
che dici, secondo te è sopravvissuto?”
“Non
è mai morto tanto facilmente…”
“Guarda,
se sopravvive a quello allora è il diavolo in
persona!”
“Sì,
dammi retta, se anche fosse ancora vivo di sicuro lo sarà
ancora per poco.
Starà esalando i suoi ultimi respiri.”
“Sì,
forza, andiamo, non ha certo bisogno di compagnia per agonizzare. Se lo
riprenderà quella terra fetida che lo ha
partorito. Il compenso che valeva mi attira molto di più in questo momento.”
Il
solo respirare era di una dolorosità insostenibile, tutte le
membra erano molli
e paralizzate, non era che prigioniero di un dolorante corpo di pezza
nera.
Razza
di idiota.
Come
aveva potuto tralasciare l’idea che il resto di loro fosse
rimasto sotto? Era
così ovvio. Mentre alcuni, dopo la sua fuga verso il monte,
gli avevano subito
sguinzagliato i fiammanti cavalli da corsa alle costole, gli altri si
erano
appostati alle pendici del costone roccioso, aspettando il suo arrivo:
avevano seguito
dalla base la direzione della sua corsa sui tornanti, pronti a colpire
non
appena si fosse ritrovato sulla cima rocciosa, totalmente scoperto.
Aveva preferito non
credere a un’eventualità
del genere, li aveva ritenuti troppo ingenui e superficiali per pensare
ad una
cosa simile. E ora la sua arroganza veniva a riscuotere, dopo averlo
fatto
finire sotto tiro con una facilità umiliante e avergli
fatto prendere
quello sparo in pieno petto.
Non
aveva fatto altro che scavarsi la fossa da solo.
Solamente
il pensiero di finire in quel modo riusciva a sopraffare la sofferenza
infernale, facendolo implodere d’ira. Non poteva finire
così, impotente, in quelle condizioni una viscida
lumaca
sarebbe stata più pericolosa di lui.
Maledizione…
E
nel pieno di quell'agonia impotente
percepiva la loro
firma, quel veleno rovente, farsi
strada inarrestabile nel
suo corpo; quel piccolo killer di metallo, tanto piccolo quanto letale,
che gli
rodeva le carni come un lento parassita, scavando senza
tregua
dentro di lui; divorava voracemente muscoli e tessuti senza preferenze, alla
ricerca del
cuore.
Maledizione…
maledizione…
Per
quanti ordini tentasse di imporre alle membra, non riusciva a fare
altro che
dimenarsi appena, debole e disperato: si sentiva un verme morente che si agitava in un letto di fango viscido
creato dalla polvere che si abbeverava del suo sangue.
Non finirà così. Non voglio.
Il
malefico parassita di metallo, lo sfidava, metteva a dura prova il suo
corpo e
la sua volontà. Il dolore era tale da impedirgli di contorcersi, che altro era
in
grado di fare in quelle condizioni?
No.
Mi rifiuto…
Mi
rifiuto!
Più
rabbia, più frustrazione, più disperazione si
accavallarono sulla sensazione di
dolore.
Mi
rifiuto di morire in questo modo!
L’ira
era la sua possibilità di salvezza, l’unica cosa
di cui potesse servirsi per
obbligare il fisico a rifiutarsi di finire succube di
quell’infernale, piccolo
divoratore d’acciaio. Non gli restava che alimentarla, nella speranza di surclassare quegli spasimi incontenibili,
fino a
controllarli.
Alzati!
Le
unghie artigliarono il fango di polvere mista a sangue con
disperazione,
cercando un vigore che non possedevano, mentre la forza di
volontà che gli era
rimasta veniva spinta agli estremi per domare quel dolore atroce.
Alzati,
ho detto!
I muscoli gridavano straziati, e a
malapena riuscì a controllare le fitte che seguirono al
tendere le braccia,
dopo uno sforzo che non avrebbe mai creduto di poter provare.
Alzati.
Adesso!
Dopo
una fatica disumana
riuscì
miracolosamente a tornare in piedi. Il braccio corse quasi
immediatamente a
cercare un sostegno, per impedirgli di crollare di nuovo, e lo
trovò nella
sporgenza più vicina.
Non
voglio morire. Non ora.
L’istinto
di sopravvivenza, unito a una dirompente frustrazione, era capace di
permettere
tutto: una fonte di energia disperata, ma che era riuscita a
permettergli di
rialzare quella zavorra di carne, un tempo
ricettacolo di un temuto potere, che lo teneva prigionierio. I nervi, così tesi da essere sul punto di strapparsi, domarono i muscoli
sfiancati
e le ossa appesantite, solo la forza di volontà
dell’Oscuro era capace di sopportare una ferita del genere.
Un
po’ un parolone, non ti pare?
Sì,
decisamente. Stava in piedi, sì, e obbligava, in qualche
modo, le articolazioni
ad agire. Poteva muoversi… naturalmente tutto questo a costo
di uno sforzo
atroce e un’emorragia sempre più grave, come
provava quel buco sul petto.
Ignoralo.
Vai avanti. Continua ad andare avanti. Se andrai avanti…
Cosa?
Il fatto che avesse superato ogni limite fisico per rialzarsi, se ne
era
finalmente reso conto, non sarebbe servito assolutamente a nulla:
andare
avanti, andare avanti… per dove? Aveva mai avuto un posto
dove andare? Chi
voleva prendere in giro. Non aveva mai potuto
contare
su nessuno, sarebbero stati tutti sicuramente al settimo cielo una
volta saputo
della sua morte dopo una sparatoria.
Va’
avanti. Non devi fermarti.
Eppure,
nonostante tutto, decise di dare retta a quell’inutile
pensiero utopico:
dopotutto non aveva niente da perdere, doveva solo andare avanti, gli
bastava
resistere per… quanto? A cosa
mirava?
Vai
avanti. Non morire.
No,
non doveva morire. Si rifiutava di crepare in quel modo, strisciando da solo
in mezzo alla polvere e aspettando che i vermi necrofagi
accorressero per
ottenere gli avanzi della sua carcassa. Stroncato in
quel modo da un umano a causa della sua arroganza e
superficialità boriosa: i suoi carnefici non l'avrebbero avuta vinta.
Muoviti.
Adesso.
Impose
la propria volontà su quelle membra più morte che
vive, costringendole al movimento: la carne e i muscoli risposero con delle fitte immediate.
State
zitti.
Non
cadere. Se cadi, sarà per sempre.
Strinse
i denti e continuò l’avanzata, tentando
pateticamente di frenare la perdita di
sangue stringendo le unghie sulla ferita.
Resisti
fino ad allora.
Sì,
allora quando? Si stava trascinando in avanti senza neanche sapere cosa
stesse
cercando, con la forza della disperazione. Tuttavia continuava a forzare quel corpo al limite al movimento, mentre il
parassita di
metallo lo rodeva e continuava a girovagare
fra i suoi organi vitali. La velocità, unica fonte del suo
orgoglio sconsiderato
che lo aveva quasi fatto uccidere, lo aveva completamente abbandonato,
il che
bastava a farlo sentire un perdente: avanzava lento, con andatura
irregolare,
artigliando a tentoni qualunque appiglio che gli permettesse di non
crollare
un’altra volta. Non osò immaginare il tempo che
impiegò per lasciarsi alle
spalle il promontorio e raggiungere i boschi, dove almeno nessuno
avrebbe
potuto seguirlo.
I
fruscii, rumori di creature che si allontanavano in fretta e furia non
esitarono ad accogliere il suo arrivo: era qui che voleva arrivare, in
uno dei
tanti posti dove
fuggivano al
solo parlare di lui?
Ignorali. Lo hai fatto per tutta una vita.
Sì,
in fondo che importanza aveva? Non aveva mai avuto un briciolo di onore da difendere, non perdeva nulla a mostrarsi in
quelle condizioni. E
avrebbe scelto da solo il luogo in cui morire. Sfidando ulteriormente
la
fiacchezza e la sofferenza tentò di ritrovare
l’equilibrio, fino a rinunciare agli
appigli e a reggersi da solo.
I
fruscii e i rumori erano tornati: dopo il primo momento di panico
istintivo, le
creature viventi che si erano affrettate ad allontanarsi dalla sua
presenza,
ora che erano in grado di vedere effettivamente in che stato si trovava
il suo
fisico, non ci avevano messo molto a dimenticare la paura. Sempre più
numerosi, eccitati, ringhianti e sibilanti, si aggiravano tutto intorno
a lui,
osservando con attenzione, aspettando il momento giusto per dargli il
colpo di
grazia.
Vedo
che non perdete tempo.
Non
potevano sperare in un’occasione più ghiotta: sapeva di non avere una carne esattamente gustosa, il motivo era che con lui sarebbe
definitivamente
morta anche la paura che instillava in entrambe le razze
Mancava
veramente poco. Percepiva chiaramente, vicini, i sibili, ringhi
sommessi,
l’odore e l’aura ostile. Tutti Pokemon selvatici. Certo,
che lo avevano preso di
mira.
Una
bella fortuna, la mia.
E
continuavano ad aumentare. La maggior parte, però, sembrava
preferire rimanere
ad osservare, forse aveva sottovalutato il timore che percepiva
nettamente
nelle loro teste, ma alcuni erano in prima fila, proprio lì
intorno, ed erano
pronti a saltargli addosso.
Dannazione…
Per sua fortuna lui non aveva smesso un solo attimo di
sottrarre il controllo degli arti e tutto il resto al dolore che glielo
aveva
rubato: tutto sommato, se necessario, qualche colpo o incantesimo non particolarmente complesso
era
in grado di manifestarlo. E necessario lo sarebbe diventato entro
pochi
secondi.
3…
Non
tardò a vedere le foglie del cespuglio più vicino
cominciare a muoversi, agli
ordini di una volontà invisibile, staccarsi una dopo
l’altra, un numero via via
sempre più alto.
2…
Sempre
di più, si raggruppavano come piccoli, ovali, appuntiti e
taglienti soldatini
verdi, affilandosi reciprocamente fra di loro, fino a trasformarsi in
veri e
propri coltelli vegetali.
1…
In
meno di mezzo secondo erano lì, tutte in fila, in un ordine
decisamente
innaturale, le punte taglienti puntate dritte contro il suo corpo
sanguinante.
Zero.
Invano
le lame vegetali si scagliarono con la furia di una tempesta su di lui, il vento nero che incontrarono lungo il tragitto le disperse nell'aria come pulviscolo.
L’Oscuro,
con disappunto e frustrazione, fu costretto a trattenere il lamento che gli costò quella semplice azione resa
indescrivibilmente faticosa
dal parassita metallico che aveva in corpo, ma riuscì comunque ad abbassare il braccio
destro
con un controllo ferreo.
“Metti
un Fogliamagica, contro il Funestovento? Non c’è
storia, piccola rosa.”
La
Roserade in questione si decise a mostrarsi, ormai scoperta,
nascondendo sotto
la sua aria aggressiva il timore che assorbiva
La sua mente. Era lì, in difesa dei suoi cuccioli e del
suo branco, e, a
quanto pareva, aveva tutte le intenzioni di prendersi gli onori di
seppellirlo.
“Non
ho niente da dirti. Levati di mezzo.”
La
dama vegetale dai bouquet di rose variopinte, tanto belli quanto
letali, fu
rapida a rispondere: i boccioli così delicati si schiusero
immediatamente,
rivelando due fulminee fruste scure di rovi acuminati che lo
assaltarono come
serpenti.
Però, diplomatica.
Riuscì ad
scansare la prima, ma per la seconda non fu abbastanza
rapido: gli si avvolse intorno al polso e strinse violenta, ficcandogli le
spine nella carne.
Non
ho voglia di perdere tempo con te, femmina.
Si affrettò a tagliare la frusta con la zampa libera, costringendola a mollare la presa prima che cominciasse a tirarlo verso di sé. La
Roserade
ritirò subito il rovo e si affrettò a cambiare
tattica, sfoderando dai boccioli
la sua riserva interna di aculei velenosi.
Le
stai provando tutte…
Anche
in questo caso, una risposta del Funestovento bastò ad disperdere
gli aghi tossici. Peccato che le condizioni in cui
si trovava avessero
notevolmente abbassato la potenza del suo incantesimo spettrale: di nuovo dopo quel piccolo sforzo il proiettile si trasformò in una palla di piombo e cercò
di trascinarlo giù come un'incudine, arrivando quasi a farlo piegare in due.
Miseriaccia…
Quella
fitta violenta, per l’avversaria, era capitata a fagiolo, e
subito la dama
floreale recuperò la motivazione necessaria per un altro
tentativo.
Il
proiettile lo aveva reso lento, troppo lento, e assai meno preparato
per la
pioggia di spine velenose che gli si riversò sopra una
seconda volta.
Agì
senza pensare, con in mente unicamente la propria sopravvivenza, e si
gettò
fuori dalla traiettoria d’istinto, quasi di peso, con
l’unico risultato di
crollare per terra un’altra volta.
Maledizione…
Rialzarsi
richiese nuovamente la forza della disperazione, appena in tempo per
accorgersi
di cinque o sei aghi tossici che spuntavano dalla spalla sinistra.
Accidenti
a te.
Il veleno dei Roselia entrava in circolo rapidamente, non poté fare altro che
strapparseli di dosso tutti insieme: l’unico vantaggio di
avere una pallottola
fra le costole stava nel fatto che, al confronto, il fastidio provocato
dagli
aghi era ben poca cosa. Sentì la Roserade
tentare
un attacco a sorpresa alle spalle, ma non si era curata abbastanza delle sue
capacità
di percezione ancora funzionanti.
Imprudente.
Fu
rapido a pensare: appena percepì le fruste di rovi che
tornavano alla carica,
ignorò la fatica e le spine e ne intercettò una. Un
contatto diretto era l’ideale.
E
troppo agitata per i miei gusti.
Si fece bastare la prima cosa che gli venne in mente:
partì dalla sua mente, attraversò
il suo corpo, raggiunse le unghie strette intorno alla liana spinosa e
si
introdusse al suo interno, fino a infettare la proprietaria. La
Pokemon di attributo Erba fece appena in tempo a fissare i suoi occhi
da
serpente che la frusta si afflosciò, e la dama floreale si
accasciò per terra
come morta.
L’incantesimo
del sonno. Una forma unica e primordiale di magia del Buio,
appartenente a lui,
e lui soltanto. Non si trattava di una formula magica come
potevano
intendere le persone, era parte essenziale del suo essere, innata e
naturale,
di una precisione pericolosa. Gli uomini avevano cominciato a chiamarla Vuototetro,
probabilmente per via dell’aspetto nero e senza fondo e della
consistenza
impalpabile che assumeva quando la usava per colpire a distanza.
L’Oscuro non
possedeva semplicemente quel potere, lo era lui stesso: era tutto
ciò che
costituiva il suo essere, certo non avevano preso a chiamarlo
l’Incubo a caso:
gli bastava pensare, senza impegno, né sforzo, e le tenebre
di un sonno senza
fondo che covava nell’anima venivano trasferite ad ogni
creatura vivente che
fosse intorno a lui. E, si sa, più qualcosa è
potente, più è difficile da
controllare. Per lo meno in questo senso la debolezza aveva giocato a
suo
favore, non si erano verificati effetti collaterali
dell’ambiente circostante: normalmente erano causati perlopiù dalla potenza eccessiva.
Me
ne sono liberato.
Peccato
che quello scontro avesse portato ovvi peggioramenti del suo stato
attuale:
l’emorragia che gli sembrava di aver almeno in parte
rallentato tornava a correre
veloce, troppo veloce.
Così
non va, non c’è più tempo.
Ma
sapeva bene di non aver certo finito. Quello era solo
l’inizio. Inutile fu
cercare di allontanarsi il prima possibile da quella specie di
imboscata, un
Luxray sembrava non essere decisamente d’accordo col suo
tentativo di fuga, e
lo precedette rapido, affrettandosi
a
tagliargli la strada.
Numero
due.
Questa
volta doveva assolutamente lasciar perdere: con la Roserade era stato fattibile
perché lei
non conosceva il modo di eludere le sue difese, ma, dopo il primo scontro non solo aveva
perso
gran parte delle energie, ma il nuovo nemico lo aveva osservato
all’opera per
tutto il tempo e sicuramente sapeva come affrontarlo. Inoltre era fresco e riposato, lo
testimoniavano
le scintille scoppiettanti sul suo pelo e la splendida forma corporea.
Maledizione.
La
grossa pantera aveva tutte le intenzioni di non farselo sfuggire,
danzavano
piccoli lampi persino tra le sue zanne scoperte: a giudicare dalla potente
muscolatura
contratta, pronta a scattare, e la folta criniera, sembrava essere un
esemplare
di sesso maschile: peggio ancora, erano molto più grossi e
potenti delle
femmine. No, non avrebbe mai potuto battersi con lui in quelle
condizioni,
poteva solo sperare di seminarlo.
Bella
impresa, velocista mancato.
Doveva
trovare il modo di superarlo sul piano mentale, fisicamente non ci
sarebbe
stato alcun confronto. Gli sarebbe bastato veramente poco, un minimo,
bastava
che fosse qualcosa di immediato, il felino era pronto al balzo. Mentre
ostruiva
frettolosamente la perdita di sangue con l’avambraccio
destro, raccolse il poco
di vigore che gli era rimasto e si decise a provocare rischiosamente il selvatico, invitandolo a colpire immediatamente. Non era certo
di
riuscire a fargli abbassare sufficientemente la guardia per fregarlo e
superarlo, ma da perdere aveva meno di niente.
“Te ne approfitti ora che sono ridotto a uno straccio, quando in condizioni
normali non avresti neanche il coraggio di guardarmi negli occhi?
Hai parecchio da imparare, principiante.”
Per
una volta la fortuna si decise a prendere le sue difese: la grossa
pantera, irritata da quella provocazione, aveva ruggito con una tale rabbia da scaricare parte
della
corrente accumulata in corpo tutto intorno a lei, per poi saltargli
addosso
senza controllo.
Fregato.
Il
salto che costrinse il fisico a fare andò ben oltre i suoi
limiti, questa volta
non riuscì a soffocare un sibilo sofferente: la
presa che cercò di
fare sulla schiena pelosa dell’animale per scavalcarlo fu
malferma,
l’atterraggio decisamente poco elegante, ma il maschio di
Luxray almeno ci era
cascato. Fu costretto a farsi bastare i pochi secondi che aveva a
disposizione
per allontanarsi immediatamente dall’assalitore, ma lo scatto
che obbligò il
corpo a eseguire un attimo dopo lo rispedì dritto per terra,
a trascinarsi come
un misero serpente.
Cribbio,
alzati! Alzati subito!
Il
ringhiare furioso e frustrato del Luxray alle sue spalle gli
confermò che era
riuscito a riprendersi dalla sorpresa, se non trovava il modo di
levarsi dalla
sua traiettoria sarebbe stato alla sua completa mercé.
Muoviti. Muoviti, presto!
Era forse una forma di panico, quella sensazione nuova e
incontrastabile,
confusionale, che avvolgeva ogni cosa e gli ordinava di fuggire,
correre, in
fretta e furia, non importava dove?
Non
gli era mai capitato di provare davvero una paura del genere: alla
caccia umana
si faceva l’abitudine in fretta, ma essere inseguiti in quel
modo da coloro
che, purtroppo, erano diventati suoi fratelli di razza…
credeva di essersi
abituato anche a questo, e invece ora provava un’agitazione
strana.
Voleva
semplicemente scegliersi da solo il luogo in cui esalare
l’ultimo respiro… o
almeno, così credeva. Quella convinzione inizialmente tanto
radicata si era
fatta sempre più debole, sostituita da una
disperazione nuova e diversa
che riusciva ad animare il
suo
corpo al limite e a costringerlo a muoversi in fretta.
Molto
probabilmente…
Hai
paura di morire.
Assurdo.
In tutto quel tempo non aveva ancora neanche capito cosa aveva cercato
di
raggiungere, fino a quel momento, trascinandosi in quella maniera per
la
foresta. Sapeva di non avere possibilità, fuggire, cercare
di eludere quegli
assalti sarebbe servito a ben poco, aveva comunque la fine della
propria vita ad aspettarlo a
un palmo di distanza.
Ammettilo.
Tu vuoi vivere.
Quella
sottospecie di panico fu il motore di emergenza che
riuscì a fargli
fare quell’ultimo spasmo verso una possibile salvezza. Si
gettò letteralmente
nella vera e propria boscaglia, acquattandosi
rasoterra fra le foglie,
per quanto la sofferenza gli permetteva, sperando di evitare la carica
del
felino rimasto indietro.
Vuoi
continuare a vivere.
Era
inutile tentare di negarlo, sapeva che era la verità: non
gli importava sapere
di essere l’ultimo che qualcuno potesse desiderare di
salvare, avrebbe fatto di
tutto per poter continuare a vivere. Anche in un mondo come quello.
D’altronde,
era nato per questo, doveva continuare a vegliare sul genere umano, non
gli era
ancora concesso di morire.
Sentì
il Luxray raggiungere il punto in cui si trovava prima, confuso:
evidentemente
non era arrivato in tempo per vederlo nascondersi, e ora era spiazzato,
senza
sapere dove sbattere la testa. Cominciò a ringhiare, a
sibilare, rodendosi le unghie
nel terreno, in preda alla frustrazione per non riuscire neanche a
fiutare la
minima traccia: un Darkrai, essere nato e fuso con la Tenebra, certo
non possedeva
alcuna traccia olfattiva; inutile dire che ciò costituiva un
enorme vantaggio
contro i gruppi di caccia che si ritrovava alle calcagna quasi ogni
giorno.
La
pantera, sempre più satura di impazienza ed
elettricità, alla fine si rassegnò
ad andare oltre, sperando di intercettarlo più avanti,
superandolo senza
neanche voltarsi. In qualche modo, era riuscito ad aggirarla senza
combattere
un’altra volta.
Bene.
E ora andiamo.
Ma
il proiettile non sembrava d’accordo: non appena
provò a tirarsi su, di nuovo la fitta fu tale da farlo piegare nuovamente fin quasi
a terra.
Non un attimo di respiro...
Come
avevano potuto, gli umani, creare una cosa tanto piccola e tanto
letale? Non sapevano pensare
ad
altro? Usavano le conoscenze di cui erano in possesso per creare armi
di
distruzione, per farsi la guerra fra loro, ignorando bellamente il
fatto che avrebbero potuto, dovuto, usarle per il bene di se stessi e
degli
altri, o almeno per migliorare il mondo in cui vivevano.
Questo pensiero non gli produsse altro che un'ulteriore, profonda rabbia
nei loro
confronti.
Non ve la darò vinta. Non in questo modo.
Strinse
più forte le unghie sulla carne,
imponendosi di vincere la sfida contro il parassita di metallo. Doveva abbandonare la foresta, tornare alla luce, anche se
il sole
lo infastidiva e lo rendeva vulnerabile, anche se questo avrebbe
significato
trasformarsi in una facile preda per le persone. Rimanere
lì, però, avrebbe
solo continuato a farlo finire sotto gli assalti dei selvatici, se
c’era una
possibilità, non si trovava in quel posto. Ordinò
nuovamente alle articolazioni
di superare i loro limiti, si rialzò e si rimise in marcia nella direzione
che portava fuori: gli altri non lo seguirono, forse si erano
spaventati, forse
avevano intenzione di lasciare che fossero altri più forti a finirlo, fatto
sta che, sul momento, nessuno sembrò fare nulla.
Al
limite delle sue forze, alla fine intravide l’uscita,
imboccandola senza
neanche pensarci, per trovarsi fuori, di nuovo nel territorio degli
esseri
umani: l’erba era più bassa, gli alberi sparsi, e,
soprattutto, poco più avanti,
era tutto coperto da segni del loro evidente passaggio. Erano quelli
che loro
potevano chiamare veri e propri ‘giardini’,
tempestati delle loro creazioni:
muretti, arcate decorate dai rampicanti, colonne dalla cima cava che
contenevano
grandi quantità floreali; fontane e laghetti, corsi
d’acqua che scorrevano
liberi, piante collocate e lasciate crescere a regola d’arte,
per non parlare
della lunghissima successione di cespugli potati e colorati da ogni
tipo di
fiore che delimitavano i larghi sentieri che attraversavano quella
parte di
flora lussureggiante. Il tutto sistemato e collocato secondo un piano
artistico
preciso, in una vegetazione florida, un punto
di vita
splendente, che sembrava essere sbocciato solo grazie
all’intervento della
gente.
Ho
trovato una cosa, in tutto questo, piacevole da vedere.
Era
la prima volta che gli capitava di trovare bello qualcosa prodotto
dagli esseri
umani: non si era mai spinto tanto in là, mai arrivato in
quella zona, non aveva
mai visto un posto del genere. Era strano, però, vederlo
così per la prima
volta, forse era stato completato di recente.
Ci
pensarono il ricordo di trovarsi scoperto e vulnerabile nel loro
territorio e
il proiettile sotto la costola a fargli
dimenticare quei pensieri assurdi: non doveva importargli nulla di
ciò che
creavano loro, erano comunque le creature peggiori della Terra, che
sotto tutta quell’apparente bellezza innumerevoli
armi di morte, come
quella che aveva quasi finito di consumarlo.
La
luce del sole lo infastidiva, non gli era mai piaciuta: durante
la
caccia degli umani riusciva a ignorarla grazie al movimento e
all’adrenalina,
ma la sua natura, in condizioni normali, gli impediva totalmente di sopportarla. Si affrettò a cercare con gli occhi una zona di
ombra più coperta, quando nuovi
fruscii in
avvicinamento lo bloccarono sul posto. Qualche selvatico alla fine doveva essergli venuto dietro: l'emblema dell'incorreggibilità.
Basta,
andatevene!
Il quel momento non ne
poteva
più di quello gioco di guerra senza fine
contro il suo stesso
popolo. La rabbia e, di nuovo, disperazione e paura per la
propria vita,
presero il sopravvento: appena il tempo di sentirsi l'inseguitore alle spalle che
reagì d’istinto
puro e senza controllo: il braccio scattò
all’indietro in automatico, il colpo
partì, spietato, immediatamente.
“Sparisci!”
Pochi
secondi, ed ecco il rumore di un corpicino che cade a terra. Il
Vuototetro era
scattato subito spontaneamento
contro il nemico alle sue spalle, non c'era stato neanche bisogno di indirizzarlo. L’Oscuro si
voltò in tempo per capire che si
trattava di un piccolo Kirlia, di inferiore attributo Psico, ormai
abbattuto a
sua volta dall’oscuro potere che lui aveva su ogni
tipo di mente.
Non si poteva neanche considerare nemico, più che altro, una
vittima: era
piuttosto giovane, e con una forza fin troppo inferiore alla sua.
Aveva
agito
senza pensare, sopraffatto dall’istinto di sopravvivenza.
Semplicemente, questa volta quella dannata caccia gli aveva fatto superare i limiti di sopportazione.
Basta…
basta…
Si
lasciò alle spalle il piccolo Pokemon sfortunato,
concentrandosi sul trovare un qualunque albero che potesse dargli ombra
e una
minima protezione: era ormai urgente trovare un posto più
sicuro per riposarsi,
non mancava molto, ancora poco e avrebbe smesso di reggersi in piedi.
Scelse il
primo che riuscì a individuare: una quercia, a occhio e
croce, sembrava schermare
decentemente quella fastidiosa luce pomeridiana, le energie che gli
rimanevano
sarebbero state sufficienti per raggiungerla. Attraversò
rapidamente il
sentiero per arrivarci, quando un soffiare seguito da un ringhio fin
troppo
familiare fece a pezzi ogni sua intenzione. Il Luxray col quale aveva
evitato
di chiudere i conti alla fine lo aveva rintracciato, e guadagnava
terreno nella
sua direzione rapidamente.
Due secondi. Due secondi, dannazione, mi sarebbero bastati e avanzati!
Non
poteva trovarsi in situazione peggiore, non solo era in territorio
umano, ma
quel Pokemon infuriato aveva tutte le intenzioni di finirlo
lì. L’Oscuro,
ormai al limite, sfruttò il tempo che gli rimaneva per
abbandonare il sentiero
e raggiungere la quercia, almeno per sottrarsi ai feroci raggi del sole
attratti dalla sua pelle nera; il felino, in pochi balzi, lo
raggiunse e gli
arrivò di fronte furibondo. Decisamente non gli era andato a
genio il fatto di
essere stato preso per il naso e superato a quella maniera, non si sarebbe
mai
fatto ingannare un’altra volta. I canini scoperti e i furiosi
occhi gialli sfolgoranti di lampi potevano voler dire solo una cosa.
L’Oscuro
sapeva bene di essere giunto al capolinea, da quello scontro non
c’era via d’uscita.
Ma non per questo si sarebbe piegato volentieri sotto le sue zanne.
“Non
voglio combattere con te. E neanche ti servirà, basta guardarmi.”
Ma
la pantera aveva il suo orgoglio ferito da difendere: si limitò a sguainare
i lunghi artigli e
a scattare con le zanne scoperte. Il Pokemon leggendario non aveva
energie, e con la presenza del proiettile in aggiunta non riuscì a
contrattaccare: neanche il tempo di pensare che felino gli serrò le mascelle intorno alla spalla e lo lanciò con violenza contro l'albero come un bastoncino. Batté di schiena, l'ultima parte del corpo che ancora riusciva a reggerlo, e piombò per terra per l'ultima volta.
Non ne hai bisogno, stupido gatto, lo vedi che sono comunque spacciato!
Il
Luxray si era assicurato di non mancarlo un'altra volta:
prese la giusta
distanza, e, come testimoniava la luce intensa che andava via via
condensandosi
tra le sue fauci, iniziò a preparare il colpo finale.
Che bisogno hai di farlo? Non ti serve spararmi addosso pure quello!
Tempo
di mezzo secondo, e l’Iper Raggio partì,
prendendolo dritto alla spalla
sinistra. Un bruciore infernale penetrò nel muscolo e nelle
ossa, si aggiunse
ai dolori che già lo martoriavano, generando in lui una
furia oltre ogni controllo: quel Pokemon non aveva alcun motivo di sfoggiare tutta quella potenza, non serve quando si ha davanti un moribondo. E quello sfoggio di prepotenza generava in lui ira, perché era un atteggiamento che sperava di vedere soltanto fra i membri dell'altra razza con cui aveva a che fare.
Se ti comporti come loro... allora sarai punito come loro!
Consumò così le ultime forze: pensieri
oscuri impregnarono la sua testa e scesero lungo il
braccio
come veleno fino alle unghie, fin dentro quell’impalpabile
sfera nera che si addensò fra le sue dita per poi sfrecciare verso l'avversario di attributo
Elettro. Il Luxray aveva appena estinto il raggio che
la palla nera lo inghiottì,
obbligò le sue terminazioni
nervose ad abbandonare il corpo, costrinse le sue palpebre a
chiudersi e
ingabbiò il suo cervello in una morsa senza uscita. Due
secondi. E la pantera
si accasciò al suolo come gli altri prima di lui,
segnando la fine di quel duello inutile. Non era riuscito a emettere neanche un sospiro.
Finita. È finita. Ora avrò il mio silenzio.
I
muscoli cedettero definitivamente. I sensi cominciarono a scivolare via
con
lentezza, a partire dall’udito, poi il tatto, fino ad
arrivare alla vista, che
cominciò a offuscarsi lievemente.
Basta… voglio solo silenzio.
Inutile fu tentare
di
continuare a rimanere in piedi. Dopo un paio di sbandamenti appena
accennati riuscì a
malapena a
trascinarsi verso la quercia e a lasciarsi cadere alle sue radici, che
lo
accolsero come una tomba del tutto impassibile.
Basta…
Voglio riposare.
Aveva
tenuto duro il più a lungo possibile. Era arrivato fin
lì, aveva respinto gli
assalti dei suoi fratelli, un miracoli per quello stato. Aveva trattenuto
con
tutto se stesso ogni respiro vitale… che ora però
necessitava di uscire, costretto troppo a lungo in quella gabbia corporea.
Non fate rumore. Voglio riposare.
Stanco…
Dio, com’era stanco. Gran parte di lui si poteva considerare
già morta, perché non rispondeva più, e respirare diventava sempre più
faticoso. Il
proiettile, alla
fine, aveva vinto. I sensi
continuavano
a indebolirsi, la sofferenza fisica che aveva patito fino ad allora
cominciava
a passare in secondo piano,
il tutto avvolto da una stanchezza opprimenti che preludeva un sonno di morte
che attende i defunti al varco.
... no, non ancora!
Un
pensiero improvviso e pungente, una puntura di vespa, in qualche
modo
riuscì a riscuoterlo e a impedirgli all’ultimo di
arrendersi: gli diceva…
cercava di dirgli che non era ancora finita.
Resta vivo... vivo!
Perché? Per quale motivo
neanche il
guardiano degli esseri umani poteva
semplicemente addormentarsi a sua volta?
No,
resta vivo…
Respira,
resta vivo!
Perché?
Cosa poteva ormai impedirgli di trattenere il proprio spirito in
quell’ormai
inutile e immobile fisico ridotto a pezzi? Un
pensiero che si rivelò troppo debole, di nuovo
la stanchezza prese il
sopravvento e tornò ad attrarlo verso
l’oblio, sempre più vicino e
attraente...
Quando
percepì quell’aura.
Un’aura
strana… nuova… speciale.
E
un odore che non aveva mai sentito prima.
Cos’è…
Fra
tutti i sensi, percezione e olfatto, in qualche modo, erano riusciti a
resistere fino all’ultimo. Trattenendo in sé
disperatamente la vita, tentò di
decifrare, identificare quello spirito nuovo: era una creatura
viva, e mortale.
Eppure emanava un candore immacolato, che
non apparteneva alle creature che conosceva.
Cos’è
questo?
Non poteva essere… eppure l’istinto e la mente parlavano chiaro.
Era
l’aura di un essere umano.
No…
questo non è…
Ma
quell’odore… non c'era la minima traccia di puzza di pelle umana, né una minuscola parte di quella del loro sudiciume morale... non era affatto l'odore di una persona umana, anzi... sulle prime arrivò a
credere che appartenesse a un Pokemon, paragonabile a uno come
Celebi… sapeva di bosco, di
fiori, d’erba umida e fresca… gli fece venire in
mente persino ruscelli
trasparenti, sebbene
l’acqua fosse un
elemento totalmente inodore.
No,
un odore e un’aura così non potevano appartenere a
un essere umano. Ma quella
creatura che percepiva, e che sentiva, gradualmente, sempre
più vicina, non
aveva neanche addosso il tipico odore selvatico dei Pokemon.
E,
ora che la distanza fra loro era diminuita, poteva dirlo con chiarezza:
era
proprio un essere umano. Ma quale essere umano? Come poteva un essere
umano
essere così… pulito?
Cosa…
sei?
Quelle
sensazioni nuove ebbero il potere di allontanare
temporaneamente
l’ombra della morte. L’Oscuro
lottò con tutta l’anima per
resistere ancora, respinse la debolezza fino ad aprire
gli
occhi e a schiarire l’immagine offuscata che aveva dinanzi,
animato da una
curiosità e una sorpresa che
non aveva mai
provato in vita sua. La vista faticò a tornare, ma alla fine
l'Oscuro riuscì finalmente a distinguere la visione che gli
si presentò davanti.
Cosa…?
Non
si era sbagliato. Era davanti a lui.
Minuta,
fragile e graziosa…
emanava pietà e compassione da ogni parte del corpo.
Una… una…
Una
bambina?
Continua... |
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Capitolo 14 *** Atto XIII ***
Alicia
non seppe mai cosa la guidò dall’Oscuro, quel
giorno.
Il tempo, l’atmosfera, l’istinto…?
Niente sembrava essere la causa giusta. Il
caso? Nemmeno. Un qualcosa di predestinato? Forse… oppure no?
Non lo capì mai. E non perse mai tempo a cercare la
risposta, perché sapeva bene che non l’avrebbe mai
trovata. Era accaduto, punto
e basta. E aveva completamente sconvolto e trasformato la sua intera
vita. Quel
giorno, tra l’altro, non aveva neanche motivi particolari per
rimanere nei
giardini fino a tardi, anzi.
Dopo un primo periodo di malattia apparentemente passato
come temporaneo, agli occhi dei medici, le condizioni di salute di sua
madre
erano letteralmente precipitate; non all’improvviso, certo,
ma comunque con una
velocità inspiegabile, che l’aveva in pochissimo
tempo privata di ogni
possibilità di movimento, costringendola a riposo continuo e
all’assistenza
permanente della figlia, che non aveva smesso un attimo di prendersi
cura di
lei in ogni modo possibile: sebbene ancora piccola, a poco meno di nove
anni,
era già una curatrice junior intelligente e capace, merito
del suo piccolo
tirocinio supplementare alle nuove cliniche per Pokemon, dove
però aveva
appreso qualcosa anche sulla medicina tradizionale: sempre attiva, e
senza
lamentarsi neanche una volta, faceva di tutto per far stare meglio la
madre, e
al contempo, con una forza di spirito di cui nessuno avrebbe mai
creduto capace
una ragazzina così giovane, riusciva a mandare avanti lo
studio e a concedersi,
quando poteva, di passare per i suoi adorati giardini di Alamos, per
trovare e
raccogliere nuovi ingredienti dotati di proprietà
medicinali, usando questo
tempo anche per stare a contatto con i Pokemon che tanto adorava.
Questa sorta
di fortissima attrazione per la natura era venuta su insieme a lei con
la
crescita, spontaneamente, e si era manifestata quasi subito: aveva
iniziato ad
osservare e a prendersi cura di quelle creature fin da bambina,
decisamente le
preferiva alle persone che aveva intorno, ma con l’apertura e
il completamento
definitivo dei giardini di Alamos questa passione che albergava in lei
era
sbocciata, insieme a tutto l’ambiente, in maniera quasi
esplosiva; cominciò a
visitarli quasi ogni giorno, a passarci gran parte del suo tempo,
tant’è vero
che a malapena riusciva a ricordarsi di tornare a casa in orari
ragionevoli.
Era come se fosse entrata in simbiosi con essi, portava una parte di
quel
paradiso sempre con sé, avevano cominciato a notarlo tutti.
Forse
quest’abitudine quasi ossessiva sarebbe potuta arrivare a far
preoccupare un
genitore qualunque, anche perché il luogo era pieno zeppo di
Pokemon selvatici,
pure potenzialmente pericolosi, e per questo una considerevole parte
della
gente preferiva starne alla larga; ma, da quando aveva iniziato a
frequentare
quel posto, Alicia sembrava essere rinata, almeno parzialmente: era
molto più
serena e allegra del solito, e anche se aveva appena passato un brutto
quarto
d’ora, o un’intera giornata nera, le bastava fare
un salto ai giardini e
tornava a scoppiare di vitalità. Anche la sua salute ne
trasse grandi
miglioramenti, ed era entrata in sintonia con i selvatici con una
naturalezza a
malapena credibile, per cui non si poteva che essere felici nel vederla
divertirsi così spesso coi Pokemon. Suonava spesso le sue
ormai inseparabili
foglie, con le quali diventava sempre più brava, quasi al
pari un musicista
professionista, nonostante la sua giovane età. Ultimamente
eseguiva una melodia
più frequentemente rispetto alle altre, la suonava tutte le
volte che decideva
di mostrare il suo talento musicale, ed era quella che sembrava
riuscirle
meglio: tra l’altro, cosa ancora più sorprendente,
sembrava costituire il suo
metodo infallibile per eccellenza per domare gli esemplari di Pokemon
più
aggressivi, ecco come riusciva a stare tanto a proprio agio con loro;
ma
persino le persone che l’avevano ascoltata confermavano che
si trattasse di una
panacea psicologica assolutamente celestiale: era capace di stendere
tutti i
nervi anche nel peggiore dei momenti, di far tornare la
lucidità nella furia
più accesa, di sollevare gli animi da tristezza e
depressione. Tutto ciò,
purtroppo, sembrò suscitare però anche una sorta
di timore in chi la conosceva,
tra i coetanei, naturalmente, ma anche qualche adulto, che non riusciva
assolutamente a spiegarsi il motivo di tanta bravura e
particolarità, aveva
cominciato a guardarla con sospetto. Nonostante tutto, lei sembrava
ignorarli
bellamente, le bastava poter stare nella natura, fra i Pokemon, e
quella per
lei era vita.
Non aveva detto nulla a nessuno, a proposito, dopo
l’incidente
avvenuto l’anno prima nel periodo invernale: chiaramente
aveva dovuto spiegare
esattamente come si erano svolti i fatti con gli altri bambini, la
caduta e
tutto, ma si era sentita in obbligo di tenere per sé il
seguito, ciò che era
accaduto nei boschi. Non credeva che fosse un bene parlare di una
creatura
totalmente sconosciuta che, come se non bastasse, le aveva salvato la
vita probabilmente
somministrandole il proprio sangue, certo la cosa avrebbe sollevato
come minimo
un bel polverone; non credeva che essa costituisse un pericolo per lei,
e
l’importante era che fosse riuscita a tornare a casa tutta
intera. Non sapeva
esattamente il motivo, però… probabilmente
quell’essere desiderava essere
lasciato in pace. C’era qualcosa, nel suo sguardo, che le
faceva pensare che
desiderasse che lei dimenticasse ciò che era accaduto. Non
ci riusciva,
nonostante non mancassero certo motivi e occasioni per farlo.
Negli ultimi tempi, più la salute della ragazzina sembrava
migliorare, più quella di sua madre peggiorava: Alicia le
aveva provate davvero
tutte da quando le sue condizioni si erano aggravate in quel modo, ma,
pur con
tutta la sua abilità, lei rimaneva pur sempre inferiore a un
medico di
professione, e quando ormai le cose arrivarono a un livello di
gravità
insostenibile il trasferimento della donna in un posto più
consono alle cure
che necessitava fu d’obbligo. Fu l’unica cosa che
riuscì ad attirare almeno una
parziale attenzione da parte di suo padre: non fu abbastanza per farlo
venire,
come sempre, ma abbastanza da spingerlo a inviare qualcuno che potesse
gestire
la situazione di una bambina ormai priva di un qualunque tipo di tutore.
Un paio di giorni dopo, Alicia fece finalmente conoscenza
con Godey, l’amico di famiglia che aveva visto spesso
incontrato dai suoi, ma
che non aveva mai avuto l’opportunità di conoscere
veramente: quel tipo gli era
sempre stato abbastanza indifferente, era sicura che fosse una brava
persona se
frequentava i suoi, naturalmente, ma non lo aveva mai visto come parte
della
propria famiglia. E in quel momento si ritrovò, di punto in
bianco, a dover
vivere sotto la sua tutela. Suo padre, a quanto pareva, gli aveva
inviato
semplicemente una richiesta di prendersi cura di lei finché
la madre non si
fosse rimessa, la figlia non era certo abbastanza grande per cavarsela
da sola,
anche se lei l’avrebbe voluto più di ogni altra
cosa. Il singolare architetto
sembrava aver accettato senza fare una sola obiezione, e
così, all’improvviso,
Alicia si era vista costretta a fare i bagagli e a cambiare tetto: in
un
attimo, si era vista trascinare fuori di casa ed accompagnare a
forza da
un conoscente del suo presunto padre, che non aveva mai visto in vita
sua,
davanti alla porta di quell’uomo.
Non appena aveva visto gli occhi bonari e pieni di vita
dell’anziano architetto, però, in lei si era fatta
spazio una birichina
convinzione che non fosse poi un tipo tanto male, e che vivere con lui
per un
po’ sarebbe stato perfettamente fattibile. Si erano limitati
a fissarsi l’un
l’altro con curiosità, e l’unico suono
che avevano udito era stata la voce del
suo accompagnatore, deciso a tagliare subito corto con loro:
“Questa è Alicia. Da oggi verrà
affidata a lei per volere di
suo padre come avete confermato. Il resto lo sapete, da ora in poi
vivrà con
lei. Buona giornata.”
E se n’era andato con una rapidità quasi non
umana, che
l’aveva lasciata letteralmente sbigottita. E così
si era ritrovata di nuovo
sovrastata dalla statura magistrale (almeno per lei) e dagli
scintillanti occhi
di quell’uomo, che si era limitato a sorridere senza fare una
piega: “Beh, pare
proprio che da oggi io e te dovremo vivere sotto lo stesso tetto.
Allora,
Alicia…” Lei aveva subito pensato che, come tanti
altri, avrebbe iniziato a
recitare immediatamente per uno stupido gioco della ‘famiglia
felice’
inesistente, invece, come se avesse già intuito
ciò che aveva in mente, le
aveva allisciato i riccioli biondi con una mano e aveva aggiunto con
serena
semplicità: “Non posso certo chiederti di farmi
entrare a far parte della tua
famiglia, ma… che ne dici se, da questo momento, io e te
diventassimo amici?”
Nonostante tutto, quel tipo ispirava fiducia. Avrebbe potuto, voluto,
dire
subito di sì, ma… non voleva che pensasse che
fosse facile cercare di farla
franca con lei, dopotutto non lo aveva mai conosciuto, poteva essere
bravo a
recitare la parte, e così gli aveva rivolto
un’occhiata neutra e sincera
insieme a una semplice alzata di spalle. Per tutta risposta, un sorriso
ancora
più grande: “Mi hanno raccontato molte cose su di
te. Spero proprio che andremo
d’accordo.”
E così, era iniziata una nuova routine, in un nuovo posto,
con un nuovo tutore: e che tutore… Godey non
tardò a vincere la sfida della diffidenza,
perché con la sua geniale, divertente e sincera
imbranataggine e simpatia
riuscì a conquistarla in un tempo davvero breve. Un uomo
strampalato, con
abitudini e maniere originali, che non si faceva assolutamente
condizionare
dalla massa, e in questo in un certo senso le era simile: era un
architetto
singolare, di carattere complicato per chi decideva di assumerlo. Tempo
addietro aveva ottenuto il suo permesso di dare un’occhiata a
qualche sua
bozza, e ne era rimasta senza parole: era un tipo di architettura
impossibile
da descrivere, assolutamente non comune, e che, in qualche modo,
riusciva
sempre a cogliere i dettagli giusti per definire un perfetto composto
di
armonia, bellezza estetica e stabilità. Per lei, invece, era
un pezzo di pane
simpaticissimo, ragionevole e comprensivo, che costituiva un tipo di
familiare
che non aveva mai avuto che aveva sempre voluto conoscere: un giorno,
un po’
per gioco, un po’ per abitudine, un po’ per tanti
fattori, iniziò a chiamarlo
persino ‘zio’, cosa che poi divenne
un’abitudine incancellabile. Forse perché
il giorno prima Godey era riuscito a guadagnarsi il punto affettivo
vincente:
quella mattina era andato a sua volta (ed era ora, per Alicia),
finalmente, in
visita ai giardini di Alamos, per rilassarsi e riflettere su nuove idee
architettoniche, e aveva avuto la sfortunata idea di scegliersi un
posto in un
territorio di proprietà di alcuni Staravia piuttosto gelosi
e suscettibili,
che, non avendolo mai visto in vita loro, erano subito scattati sulla
difensiva,
pensando bene di dargli un incantevole benvenuto a colpi di becco e
ali. Tra
l’altro, il trambusto che ne scaturì
provocò una bella confusione anche in aree
più estese dell’ambiente, per fortuna la giovane
Alicia, che si trovava lì come
di consueto, visibilmente preoccupata dal grande affanno dei suoi
affezionati
amici non umani, si era affrettata a recuperare un’affusolata
foglia carnosa e,
raggiunto il posto, aveva pensato bene di esibirsi nel suo
più grande talento.
L’attenzione degli Staravia e di tutte le altre bestie
agitate venne totalmente
assorbita, fino a quando la loro anima si svuotò di ogni
putrescente sentimento
negativo, e in meno di un attimo avevano costituito un enorme pubblico
silenzioso che le era rimasto intorno ad ascoltare fino alla fine della
canzone. Non avevano tardato a perdonare Godey per
l’intrusione e a dargli il
permesso di passare, ed erano tornati a svolgere le loro regolari
attività più
serenamente di prima.
Da quel momento, lei e Godey avevano cominciato davvero a
trattarsi a vicenda come cari familiari, sebbene lui facesse di tutto
per
negarlo. Alicia aveva cominciato a sentirsi meglio, anche quando, alla
fine,
lentamente, sua madre sembrò iniziare a riprendersi: questo
riuscì a calmare
gran parte delle sue ansie e a convincerla che sarebbe sicuramente
guarita. Sia
i medici che sua madre stessa le avevano quindi consigliato di non
darsi tanta
pena per le sue condizioni, e di riprendere a godersi pienamente la
vita, senza
rinunciare al prezioso tempo che passava ai giardini di Alamos: Alicia
ne era
stata felice, ma non smetteva comunque di passarla a trovare e
verificare le
sue condizioni tutte le volte che poteva. I giardini stessi sembravano
cercare
di animarla e tenerla allegra ogni giorno, i Pokemon erano sempre
presenti per
tenerle compagnia e giocare con lei, e in poco tempo la ragazzina
tornò a
vivere serena.
In ogni caso, data la situazione, nel giorno di
quell’incontro non aveva motivi particolari che la
trattenessero nel suo posto
preferito per l’intera giornata, nonostante
l’ambiente splendido e la piacevole
compagnia: eppure, quello fu il giorno in cui rimase più a
lungo. Per la pura
volontà del destino. Per salvare ciò che non
avrebbe mai creduto di poter
salvare.
Forse, si ritrovò a credere poco tempo dopo, questo
costituì
il più grande errore della sua vita.
Era iniziato con una visita come le altre, a partire dalla
festosa accoglienza dei cuccioli, poi la raccolta obbligatoria di
vegetali, i
vari giochi con quelle adorabili bestiole, fino ad arrivare
all’agognata pausa
musicale che tutte le creatura viventi che la conoscevano aspettavano:
l’esecuzione del suo brano preferito, con le foglie del
giardino.
L’aveva composto lei, quel brano, spontaneamente, a memoria,
non si ricordava neanche il come o il quando, e si ritrovava
inevitabilmente a
suonarlo ogni volta che si portava una foglia alle labbra: forse era il
caso di
assegnargli un nome, peccato che non le fosse ancora venuto in
mente…
Quelle belle creature mistiche sembravano adorare quella
musica: neanche pochi secondi dopo aver iniziato, si ritrovava davanti
ogni
volta una quantità di Pokemon immensa, mansueti come
cagnolini, tutti seduti,
appollaiati o coricati intorno a lei, che la ascoltavano estasiati
senza
emettere un solo rumore che potesse rovinare il bel suono che li
avvolgeva.
Erano fra i momenti più belli della sua vita, non credeva
che la sua musica
fosse così speciale. Non pensava nemmeno alle note precise,
quando la faceva
risuonare per l’intero ambiente: a dirla tutta, quando
passava e premeva le dita
sottili su quella fragile superficie verde secondo una precisa
sequenza, le
venivano in mente delle immagini. Immagini di bellezza, di vita, di
pace, che
variavano di volta in volta: potevano essere i giardini stessi, o il
cielo
all’alba, o anche qualcosa di inspiegabile e indefinibile,
come per esempio le
emozioni. A questo pensava, quando suonava e cantava quel brano.
Una giornata, un periodo di tempo splendido passato nella
natura, come altre volte… che in un attimo,
inaspettatamente, aveva assunto un’importanza
indescrivibile.
Aveva appena finito di suonare il consueto brano, Pokemon e
animali che l’avevano ascoltata si erano risvegliati da
quella specie di
incantesimo musicale, in una pace e serenità che solo lei
riusciva a dare…
quando, di punto in bianco, aveva percepito qualcosa. Una cosa strana,
una
sottospecie di onda, non sapeva come definirlo. Una forma…
un tentativo di
comunicazione? Forse era opera di qualche Pokemon di tipo Psico che
cercava di
comunicarle qualcosa. La domanda era: quale? Sapeva della presenza di
alcuni
Kirlia e Natu, all’interno dei boschi, ma era una sensazione
mentale netta.
Abbastanza forte, e, dato che non erano nei paraggi, non li credeva
capaci di
emettere un tipo di onda così potente a grandi distanze.
Cos’è?
Non aveva mai visto Gardevoir o Xatu nei giardini, per cui
sentì di escludere l’ipotesi che si trattasse di
un esemplare adulto: ma allora
dove proveniva? Troppo inusuale…
Si voltò a guardare i Pokemon intorno a lei in cerca di una
conferma: ma dalle occhiate sorprese e perplesse che ricevette
sembravano
capire meno di lei.
“Non sentite nulla, voi?”
Uno dei più grandi, un giovane Luxio, si era limitato a
chinare la testa di lato con aria interrogativa, gli esemplari Volanti
appollaiati in alto si guardavano l’un l’altro
perplessi, i rimanenti sdraiati
e seduti sull’erba continuavano a fissarla stupiti.
Ma che cosa…
Appena cominciò a considerare l’ipotesi di essersi
immaginata il tutto, tornò a percepire quella cosa:
l’‘onda’ in questione
sembrava avere tutte le intenzioni di convincerla che si trattasse di
qualcosa
di reale. E anche piuttosto urgente, a quanto pareva, o non sarebbe
stata tanto
insistente.
Ma perché solo a me?
Mistero.
Troppa curiosità, troppo interesse, troppa preoccupazione:
doveva andare a controllare.
Appena fece per alzarsi e andare, subito ricevette gli
aspettati guaiti e lamenti dei Pokemon che la pregavano di rimanere.
Loro,
mistero anche questo, sembravano non sentire proprio nulla, e certo non
gli
faceva troppo piacere vederla andare subito via: “Torno, non
vi preoccupate,
mica sparisco nel nulla! Ma per oggi è tutto, bellissimi.
Devo andare, devo
controllare subito una cosa.” Una carezza ai più
piccoli fu necessaria, perché
qualcuno aveva iniziato persino a trattenerla mordicchiandole e
becchettandole
le caviglie: “Guardate che domani torno, promesso! Fate i
bravi, su, siate
pazienti, domani io ci sono.” Qualcosa non andava.
Decisamente non andava.
Forse non percepivano come lei quella strana sensazione, ma per essere
così
protettivi ci doveva essere qualcosa che li preoccupava: forse
separarsi da
loro non era l’idea più saggia, ma più
passava il tempo, più sentiva la
necessità di andare a controllare la causa di quella strana
onda comunicativa.
Così, alla fine, era riuscita ad allontanarsi e a cominciare
a perlustrare la
zona, a caccia della fonte di quella strana sensazione: più
si muoveva, più
l’ansia aumentava, e, poco dopo, si era ritrovata a correre,
in maniera del
tutto spontanea, seguendo i sentieri, nuovamente intralciata da quel
dannato
vestito sempre troppo grande. Non vide nessun Pokemon di attributo
Psico lungo
la strada di quella ricerca senza meta precisa, il che non fece che
moltiplicare i suoi dubbi, ma questo non bastò ad arrestare
la sua corsa. Aveva
appena deciso di abbandonare temporaneamente i sentieri e di inoltrarsi
nei
boschi veri e propri, che quella strana onda mentale si era indebolita
all’improvviso,
fin quasi a sparire.
Di bene in meglio. Non
ci capisco più niente.
Era un abbassamento di intensità apparentemente casuale,
senza motivo… o forse la sorgente iniziava ad avere dei
problemi? In quel caso,
il tempo stringeva.
Oh, andiamo, ma si può
sapere che…
All’improvviso rischiò di inciampare su qualcosa,
il che la
fece balzare subito un passo indietro. E si ritrovò davanti
un minuscolo Budew,
grande quanto il suo palmo, che la guardava coi piccolissimi occhi lucidi,
con aria
decisamente afflitta. Pensò immediatamente di avergli
pestato qualcosa per
sbaglio nella corsa, così si limitò a chinarsi
verso di lui e a sfiorargli il
grosso bocciolo sulla testa con un dito per rassicurarlo, ma il
cucciolo non
sembrava avercela con lei: piuttosto, appena incrociò i suoi
grandi occhi
cristallini, fece un dietrofront istantaneo e la invitò
saltellando a venirgli
dietro, piuttosto impaziente. Forse c’era qualcosa che non
andava nei suoi
fratelli o nei suoi genitori, qualcuno doveva essersi fatto male:
“Arrivo,
arrivo, aspetta…” In meno di un minuto la piccola
guida si fermò, lasciandola
allibita: l’aveva portata al capezzale di un esemplare di
Roserade adulto,
attorno al quale si affaccendavano i suoi piccoli, in maniera quasi
esasperata:
“Che è successo alla tua mamma,
piccolo?” Non fu una mossa molto utile
chiederglielo, loro capivano il linguaggio umano, certo, ma non erano
in grado
di usarlo per esprimersi, soprattutto nel caso di un Pokemon come
Budew, che
ancora non aveva neanche sviluppato gli arti: ma da come si agitava e
saltellava certo era qualcosa di grave. Eppure la Roserade non
presentava
particolari ferite fisiche, giusto qualcosa di superficiale, ma nulla
di serio
di cui lei potesse occuparsi con le tecniche di cui era in possesso.
L’esemplare di tipo Erba, comunque, si agitava per terra come
in preda alla
febbre, e ogni tanto si lamentava, facendo preoccupare tutti i
cuccioli. C’era
solo una spiegazione plausibile tra quelle che si affollarono nella
testa della
ragazzina.
Ha gli incubi.
Se il problema era riuscire a svegliarla, in quel caso poteva
fare qualcosa: per fortuna aveva ancora dei pezzi di Baccastagna nelle
tasche, un
frutto secco con effetti simili alla caffeina, che però
poteva anche essere
somministrato durante il sonno, poiché, se bagnato, si
scioglieva automaticamente
in gola, e dato che non lo utilizzava spesso ne risparmiava sempre
qualche
pezzo. Così si affrettò a tirarli fuori, ma non
fece in tempo a
somministrarglieli che un gemito soffocato attirò la sua
attenzione: qualcosa
era in atto. E non sembrava una comune lotta fra selvatici per il
territorio,
il cibo, il corteggiamento o per semplice esercitazione fisica tra
rivali.
No, no… più grosso.
E aveva la sensazione di dover intervenire. Mise in bocca in
fretta e furia un pezzo della bacca alla Roserade, lasciandone qualcuno
anche
ai Budew con il consiglio di somministrarglieli ulteriormente, per
uscire dalla
zona boscosa e tornare sui sentieri, dove riprese a correre quasi
immediatamente. Forse si era trattato di un combattimento fra
capibranco per la
supremazia, ma quel gemito sembrava appartenere a un Pokemon piuttosto
giovane,
dubitava di questa possibilità. Nei giardini veri e propri,
però, incappò ben
presto nella vittima del recente scontro: un Kirlia ancora giovane,
isolatosi
dal branco, nelle stesse, identiche condizioni della Roserade.
Con questo fanno due.
Beh, almeno ora sapeva che entrambi i Pokemon avevano
incrociato la stessa cosa: dunque, un qualche Pokemon, probabilmente un
predatore, proveniente dal bosco, aveva atterrato sia quella Roserade
che il
Kirlia con la stessa tecnica, e a quanto pareva anche con estrema
facilità,
dato che nessuno dei due presentava ferite fisiche evidenti. Ma il
fatto strano
era un altro: i tipi Psico sapevano usare l’Ipnosi per
provocare il sonno, di
questo era certa, ma quelli sembravano più gli effetti di
una tecnica simile a
Incubo, che solo i tipi Spettro sapevano usare. E non c’erano
Spettri
all’interno dei giardini, non era il loro ambiente.
Qui la cosa si
complica… troppi fatti discordanti.
Doveva indagare oltre, proseguire, se voleva risolvere
quella storia. Inoltre, cosa a cui prima non aveva fatto caso, sul
sentiero
individuò, all’improvviso, tracce di sangue scuro:
sparse, irregolari, e, come
le confermò la macchia che le lasciarono sulle dita, ancora
fresche. Strano,
finora nessuna delle ‘vittime’ che aveva soccorso
presentavano piaghe evidenti,
il caso diventava ancora più complicato… ma non
aveva tempo per pensarci, ora
più che mai doveva sbrigarsi, se c’era un Pokemon
in condizioni gravi nei
paraggi era necessario un intervento urgente. Fece però
appena in tempo a
oltrepassare il Kirlia che un ruggito rabbioso le sfondò i
timpani
all’improvviso: “Ma che…”
Questo lo conosceva bene: apparteneva senz’altro alla forma
adulta del suo Luxio, Luxray. C’era, effettivamente, un
grosso capobranco, in
zona. Fece per avvicinarsi, ma dovette subito ripensarci e fermarsi
dov’era,
perché la grossa pantera nera dotata di folta criniera
spuntò all’improvviso da
dietro l’angolo del sentiero, e, senza aspettare un solo
secondo, con un
movimento fulmineo scattò in posizione e sparò un
potente raggio contro
qualcosa che Alicia non riusciva a vedere, era dietro la larga colonna
che
delimitava la curva della strada. Un Iper Raggio, fra le tecniche
più potenti
conosciute, tant’è vero che aveva anche effetti
collaterali di rallentamento.
Se quel Luxray aveva deciso di usarlo, certo l’avversario con
cui aveva a che
fare era tutt’altro che cosa da poco, il che bastò
a preoccuparla. Dal bagliore
e il rumore che ne seguì il colpo sembrava essere andato a
segno… ma il fu
seguito a lasciarla senza parole: un attimo dopo, una strana palla
nera, dalla
consistenza apparentemente a metà tra fluida e gassosa,
scattò dritta in
risposta contro il felino, inglobandolo istantaneamente, uno spettacolo
stravolgente: certo non era una Palla Ombra, troppo piccola, e comunque
quell’effetto di ingrandimento istantaneo non era certo
quello di una Palla
Ombra.
Ma che razza di
Pokemon c’è là dietro?
La sfera scomparve un attimo dopo, lasciandosi dietro un
Luxray profondamente addormentato che crollò sulle sue
stesse zampe,
accasciandosi per terra: “Ma che… ehi!
Luxray!” Alicia si affrettò a
raggiungerlo per controllare le sue condizioni, ignorando bellamente la
rabbia
da cui era stato preso fino a un attimo prima, solo per constatare che
si
trattava degli stessi effetti. Come per Roserade e Kirlia, lo snello
felino
nero aveva cominciato ad agitarsi nel sonno quasi immediatamente,
ringhiando
basso e affondando le unghie nel terreno.
Incubo… sempre in un
incubo…
Non percepì nemmeno il suo contatto, ignorò
bellamente le
carezze che gli diede sull’ispido pelo scuro, ancora
abbastanza carico di
corrente, che le procurò una piccola scossa alle dita:
dormiva e si agitava,
ringhiando e soffiando, con la testa totalmente in un altro luogo.
Posando lo
sguardo a terra, subito la ragazzina intravide altre tracce di sangue:
più
larghe, più ravvicinate, e in quantità
decisamente maggiore. La causa di tutto
questo… era sicuramente poco più avanti. E a
quanto pareva, si trattava di un
essere ridotto piuttosto male, non poteva aver attaccato battaglia
volontariamente con quel Luxray in quelle condizioni, quella strana
tecnica di
addormentamento era una forma di difesa.
L’ho trovato. È
proprio…
Fece appena in tempo a svoltare l’angolo, seguendo con gli
occhi la traccia scura, che la sua mente si arrestò del
tutto, e il suo corpo si
irrigidì al pari di una statua di cera, di fronte a
ciò che le si presentò
davanti.
Una sensazione familiare, ma molto più potente di un
déjà-vu.
Istantanea e inaspettata, e che tuttavia le sembrava di conoscere, un
ricordo
indefinibile che, per un attimo, le creò nel corpo un
effetto spiazzante.
Oh… mio…
Era proprio di fronte a lei, sotto la quercia dietro
l’angolo. Non lo aveva mai visto così bene da
vicino in vita sua, ma lo
riconobbe immediatamente: in quell’attimo, in cui il tempo
sembrò fermarsi, nella
sua testa si affollarono una serie di immagini, accompagnate da un
desiderio
infantile che credeva di aver sepolto nel profondo del suo subconscio,
nei tre
anni passati, a cui seguì, infine, un misto istintivo e
immediato di pietà e
compassione, di fronte alle condizioni in cui si trovava.
Quello… quello…
Riconobbe la forma magra e stracciata, di fattezze quasi
sproporzionate. Riconobbe quella testa nascosta sotto la morbida
frangia
candida sovrastata da una lunga cresta in lento movimento. E riconobbe
istantaneamente
quelle ali afflosciate intorno al suo corpo, che lo rendevano
terribilmente
simile a un corvo di fattezze umane.
Un’altra qualunque ragazza, un'altra qualunque persona,
probabilmente si sarebbe fatta prendere dalla paura, e non avrebbe
esitato a
tornare sui suoi passi di corsa, come minimo. Invece, Alicia, pur
rimanendo
bloccata da un’inondazione emotiva di sentimenti diversi, che
le si riversarono
addosso tutti insieme, come se non avessero mai avuto il permesso di
uscire,
l’unica cosa che non percepì, fu proprio la paura.
Invece, gradualmente, quella
confusione di sentimenti venne soppressa da una pietà
spiazzante,
incontrastabile, che ordinò loro di tornare tutti in riga
come una madre di
tutte le emozioni. Lo aveva riconosciuto non appena l’aveva
visto, ciò che
costituiva uno dei più grandi sogni che aveva avuto fin da
piccola.
Lo riconobbe appena in tempo per vederlo sbandare lievemente
da una parte all’altra, privato di forza e
volontà, e accasciarsi ai piedi del
grosso albero senza emettere neanche un rumore.
Quell’afflosciarsi in maniera
tanto debole e malata ebbe finalmente il potere di farla muovere, e,
con la
compassione che domava quel miscuglio di emozioni confusionali, Alicia
iniziò a
pensare a come aiutarlo, fino a quando non le cadde lo sguardo sulla
pozza
scura che cominciava ad allargarsi a partire da quel corpo senza
energia.
Mio Dio. Un’emorragia.
E anche piuttosto grave, a quanto pareva, non la sorprendeva
il fatto che quella povera creatura avesse iniziato a perdere coscienza
e
lucidità.
No… aspettami, arrivo!
Senza preoccuparsi del rumore si affrettò a raggiungerlo di
corsa, frugando nel contempo, alla cieca, nelle sacche interne del
vestito che
costituivano le sue tasche, non sapendo esattamente nemmeno come
comportarsi o
cosa utilizzare. Solo una piaga tremenda poteva comportare una perdita
di
sangue tanto grave, e, con le conoscenze e il materiale limitato di cui
era in
possesso, la scarsa razionalità che era rimasta in lei non
tardò a ricordarle
che aveva ben poche possibilità di fare qualcosa.
Però…
Non m’interessa. Io
vado!
Non fermò la sua avanzata neanche per un istante. Come si
aspettava, con sé non aveva nulla di realmente utile:
d’altronde, non poteva
sperare di fare una vera operazione medica per una ferita del genere in
un
ambiente come quello. Ma ignorò il tutto bellamente. Lo
sentiva dentro di sé,
prima ancora che una cura fisica, l’essere che aveva di
fronte aveva bisogno,
cercava disperatamente, aggrappandosi alla vita che gli rimaneva, il
calore di
un cuore. Ecco cosa l’aveva spinta a non indietreggiare, a
stroncare una paura
naturale prima ancora della sua nascita: ancor più dei
ricordi che aveva, ciò
che l’aveva fatta avanzare era la visione di una creatura
sola, dotata di
volontà e di un’anima come la sua, e senza
speranza, consumata dall’odio, in
preda ad un dolore atroce, che aveva disperatamente bisogno del suo
aiuto. Il
resto non aveva alcuna importanza.
E non fa niente. Non
me ne importa nulla di ciò che sei.
Ora che era vicina, poteva dirlo senza esitazioni: era
proprio lui. Non c’erano dubbi, era lo stesso che aveva visto
raffigurato in
quel libro più di tre anni prima, e, tuttavia, completamente
diverso: quello
che aveva visto tempo prima era un guerriero oscuro e fiero, che
respingeva la
paura, le rideva in faccia. Questo, nonostante fosse, ne era
sicurissima, lo
stesso essere, era invece al limite di tutto, col corpo ridotto quasi a
pezzi,
infradiciato del suo stesso sangue, e posseduto da un misto di rabbia,
disperazione… e paura, una paura ora folle e senza uscita,
di perdere la vita,
di ciò che aveva intorno… di se stesso. Di nuovo,
la marea della pietà e
compassione si alzò istantaneamente, di fronte a
quell’essere disperato e senza
amore.
Tu… tu sei…
così…
Fece appena in tempo a muovere l’ultimo passo, che il ferito
percepì la sua vicinanza e spalancò di scatto gli
occhi: grandi, luminosi,
ricolmi di panico, dolore e timore. Alicia lo riconobbe immediatamente;
riconobbe subito quell’unico occhio a lei visibile, il
sinistro, non coperto
dalla candida frangia che gli scendeva fin sopra le palpebre.
Quello…
Brillantissimo, di un azzurro acceso, dalla forma a
mezzaluna, attraversato da un sottile fiume velenoso, nero come il
petrolio, di
forma triangolare, serpentino.
Quell’occhio…
Il ricordo dell’incidente sulla neve sbaragliò
tutti gli
altri, e lo rivide: il grande occhio a mezzaluna, fonte di una luce
quasi
accecante, in tutto quel buio, l’occhio da serpente
dell’essere che le aveva
salvato la vita: e tuttavia una luce diversa, prima fredda e sicura,
che poi
aveva accolto in sé una minuscola scintilla di
pietà, simile a quella che
provava ora.
I ruoli… si sono
invertiti.
A quel segnale le immagini si sovrapposero, si fusero in
automatico, unendosi in un’unica, brillante, ipnotica iride,
i cui tratti
coincidevano in maniera assolutamente precisa e perfetta. La stessa
pupilla. Lo
stesso, luminoso celeste. Una sollevata, commossa e assolutamente
inaspettata
gioia si diffuse per tutto il corpo della giovane ragazzina, che per un
attimo
tentò di farle passare in secondo piano la
gravità della situazione.
Sei tu… sei tu…
Scese in ginocchio davanti a lui senza neanche pensare,
accolse quegli occhi disperati e sconvolti nei propri, donandogli una
cura che
permettesse loro di smettere di soffrire tanto intensamente e di
ritrovare pace
e sollievo, si accorse solo dopo del sorriso appena accennato che le
aveva
piegato le labbra verso l’alto senza quasi accorgersene. Lui
tremava. Stava
male, soffriva, aveva paura. Quel lungo braccio color carbone e quelle
unghie
insanguinate che si alzarono verso il suo viso con vacillante,
disperato
timore, non fecero che aumentare ulteriormente quella commossa, intensa
pietà
che la stava animando.
No… no, non ti farò
male. Dai a me questo dolore… starai meglio, te lo prometto.
La stava chiamando, voleva calore; celata da una diffidenza
istintiva che occultava una rabbia antica, e da un terrore folle della
morte, si
nascondeva una sua disperata richiesta di aiuto. Dunque, i ruoli si
invertivano. Dopotutto, era da tanto tempo che doveva restituire il
favore.
Sì… sei proprio
tu…
Un calore bruciante si propagò da quel corpo bollente nella
sua mano, quando Alicia, ignorando con un sorriso gli artigli tesi
verso di
lei, arrivò finalmente a toccarlo nel piccolo, sottile
spazio tra il viso
occupato dai grandi occhi e dalla frangia e la dura cresta appuntita,
di un
rosso sanguigno, che circondava e proteggeva una vulnerabile gola.
Sei tu… sei tu!
Dopo un brivido sorpreso che fece indietreggiare le unghie
contratte, uno sguardo scosso e sbalordito che aveva creduto
impossibile da
decifrare, in quegli occhi che le erano sembrati, in passato,
così glaciali,
ora travolti dalle emozioni, lui rimase prima a guardarla dritta negli
occhi,
senza fare un solo rumore; il braccio si abbassò
gradualmente, senza fretta, e
lei aspettò con pazienza che si abituasse al contatto e che
i suoi nervi tesi
tornassero a sciogliersi per ritrovare la calma, fino a quando la sua
espressione non sembrò tornare ad avvicinarsi a quella che
aveva già incrociato
anni prima, che non aveva mai smesso di ricordare un momento.
Ti ho ritrovato.
“Sei tu…” Scandì per la prima
volta la sua voce cristallina:
“Sei tu, Darkrai.”
Continua... |
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Capitolo 15 *** Atto XIV ***
Cosa
sei?
Era
piccola, di corporatura esile, un aspetto grazioso e fragile; era una
cosa più
o meno nuova, per lui, aveva avuto a che fare in modo diretto solo con
cacciatori esperti. Raramente aveva intravisto le umane di sesso
femminile, e
per caso, erano di natura più sedentaria rispetto agli
uomini.
Ma
lei era diversa. Non era neanche ancora del tutto sicuro che fosse
veramente
umana: aveva un’aura e un profumo addosso che non aveva mai
sentito prima,
certo non umani.
Gli
uomini normalmente emanavano un odore piuttosto forte: un misto di
sudore,
cuoio, ferro e polvere da sparo. Le poche donne che aveva incrociato
invece
erano più delicate, sapevano generalmente di lavanda o
vegetali, qualcuna fra
le loro dispensatrici di piacere sessuale a pagamento emanava un odore
caldo e
carnale, che a quanto pareva comportava effetti anche piuttosto
eccitanti.
Lei
non sembrava appartenere a nessuna categoria. Il suo profumo era di una
delicatezza tale da essere quasi impercettibile, dolce, occultato da un
potente
odore di foresta. Sì, se era davvero umana, certo era una
femmina: lo
testimoniavano anche quei capelli più lunghi, tipici delle
donne, pieni di
ricci e boccoli di un biondo chiaro e splendente, se fosse stata sotto
il sole,
ne aveva la certezza, ne sarebbe rimasto accecato. La pelle era
più chiara
rispetto agli uomini, e gli occhi…
Cosa
sei… chi sei?
Lo
guardava con interesse, non aveva nulla dell’istinto omicida
che pervadeva le
anime di chi gli dava la caccia tutti i giorni. Lei…
Lei
sorrideva?
Perché?
Impossibile.
No, a questo certo non poteva credere, non esisteva un solo umano che
non fosse
pieno di odio e paura per causa sua. Eppure quella ragazzina…
Sta
fingendo.
Certo,
che stava recitando! Doveva avere un autocontrollo di ferro, voleva
fargli
abbassare tutte le difese. Ma per quale motivo
un’umana così giovane
avrebbe dovuto…?
Stupido
idiota, come fai a non capirlo?! È qui per darti il colpo di
grazia!
Certo,
in quelle condizioni per lui qualunque cosa poteva costituire un
pericolo
mortale, e ora che non poteva più neanche muoversi per una
piccola umana come
quella bloccargli gli ultimi respiri sarebbe stato problematico quanto
bere un
sorso d’acqua in un fiume. Non c’erano altri umani
nei paraggi, era lì per quel
motivo. E si sarebbe portata via la sua anima.
Almeno, prenditene
cura…
Cosa?
Ma
che diamine di pensieri stava avendo? Avrebbe segnato la sua fine, probabilmente
nascondeva
sotto quel visino innocente un’arma letale, come tutti i suoi simili… anche
se sapeva essere
terribilmente convincente. Era diversa… non sembrava avere
una sola macchia,
non percepiva odio, né rabbia, né paura.
Solo…
Sta
fingendo. Fa parte della loro razza, quindi tutto ciò che vuole è finirti.
No,
non ci sarebbe cascato. Gli esseri umani erano tutti uguali, uomini,
donne,
pensavano tutti la stessa cosa, avevano le stesse tentazioni. Sapeva
mascherare
bene i suoi pensieri, ma prima o poi…
No…
No,
ferma!
E
ora cominciava a tendere il braccio, un esile, magro braccio femminile,
sempre
con quel sorriso dall’ingannevole espressione tanto
sincera, senza fretta.
No…
vai via…
Ferma…
vattene via…
Con
ogni probabilità aveva nascosto qualcosa sotto la manica. E
lui non poteva
proteggersi, né tantomeno fuggire. Innocuo.
Smettila…
allontanati!
Gli
umani erano tutti uguali. Una piaga, la sua condanna. E lei non faceva
eccezione,
nonostante quelle apparenze tanto diverse.
Anche
se quel sorriso avrebbe potuto intenerire anche i sassi. E quella
piccola mano
continuava ad avvicinarsi.
No…
vattene…
Ed
ecco che gli occhi scintillavano, con un’espressività carica di un’innocenza che non aveva mai visto, mentre
diventava sempre più vicina.
Non
toccarmi.
E
invece sembrava averne tutte le intenzioni. Il panico fece un altro
tentativo
di possederlo: non doveva toccarlo.
Nascondeva
qualcosa, non doveva farsi toccare. Non da un’umana, non da
una di quel popolo contraddittorio e pericolosissimo.
Anche
se lei non sembrava avere nulla dei suoi simili…
sì, puntava alla sua gola, era
la conferma.
Non
mi toccare!
Ma
chi sperava di prendere in giro, in quelle condizioni non poteva fare
nulla per
impedirglielo. Era questione di secondi.
Come
aveva potuto pensare di trovare la salvezza in un posto controllato
dagli uomini?
Vattene…
vattene… vattene!
Il
panico continuava a premere sulla mente, l’idea di farsi
finire da una
ragazzina umana era così insopportabile da farlo
tremare… o era paura, quella?
Vattene…
non toccarmi!
No,
doveva essere febbre. Non riusciva più a controllare la
temperatura corporea,
la brezza leggera che avvolgeva come di consueto quella zona gli
sembrava un
vento invernale, ed era scosso dai brividi. Come se non fosse bastato,
anche la
vista aveva ripreso a offuscarsi, gli occhi erano tornati ad affondare
in un
vapore nebbioso, rendendo tutto confuso e indistinto.
Reagisci…
non farti toccare!
Con
la forza del panico e della disperazione costrinse le unghie ad
abbandonare la
ferita viscida di sangue e fece di tutto per indirizzarle contro la
giovane,
pulita e dolce umana. Il suo braccio e le sue dita si muovevano a
scatti
deboli, al pari una macchina vecchia e con un circuito fuso: una
visione di se
stesso umiliante. Ma ogni umano lo temeva
più di ogni altra
creatura, c’erano alte probabilità che fosse comunque
sufficiente per farle
abbastanza paura da allontanarla.
Che
cosa…?
E
invece non solo non mostrava la minima intenzione di andarsene, in lei
ora si
agitava un interesse e una compassione ancora più profondi,
non si sarebbe mai
più mossa da lì.
Perché
tu…
No,
aspetta!
Fu
veloce, la piccola, molto più veloce e scaltra di quanto si
aspettasse.
Attraversò quella patetica difesa senza fare una piega,
arrivando subito
nell’unico punto vitale integro scoperto, la gola, che ardeva
in risposta alla
febbre.
Aveva
avuto una paura del diavolo. In un momento di sangue freddo, questo
fatto gli
avrebbe procurato una vergogna insostenibile, aveva sempre creduto di
aver
imparato a domare una paura del genere con controllo assoluto, e invece
non era
riuscito minimamente a bloccarla nel momento in cui si era ritrovato
faccia a
faccia con un essere umano che lo aveva in suo potere. Se fosse stato
in un
momento normale, avrebbe sganciato una serie di maledizioni contro il
proprio
orgoglio borioso. Mai aveva sentito tanto terrore in una volta sola: si
era
aspettato un lancinante e brevissimo dolore di un colpo fulmineo, quel poco che mancava per permettere al suo fisico martoriato
di
slegare l’anima e mandarla agli Inferi.
Invece,
ciò che aveva sentito, era stato un tocco piacevole e
fresco, un portatore di
cura e sollievo, una carezza delicata e sincera, che procurò
al suo corpo una
reazione inaspettata.
Questa
cos’è?
Non
c’era stato alcun colpo di grazia. La ragazzina non
nascondeva alcuna arma. Lo
aveva semplicemente toccato, tutto qui, una carezza fresca e innocua,
senza
nascondere alcun secondo fine. E continuava a fissarlo, piena di un
interesse
assolutamente assurdo, non umano: nessun essere umano si sarebbe
azzardato a
fare una cosa simile, non ne avevano il coraggio, e non riservavano
pietà per le vite che non consideravano utili.
Perché quella ragazzina…
Chi
sei… cosa sei…
Non
diceva nulla. Continuava a fissarlo, e sorrideva… o almeno
così gli sembrava,
in mezzo alla nebbia che aveva preso possesso dei suoi occhi. Ora,
iniziavano a
mescolarsi vibranti emozioni a lui sconosciute alla pietà che agitava l’anima di quell’umana, li
percepiva in maniera potente, fluida, avvolgente…
Possibile
che lei…
Chi
sei tu, bambina?
Stava riversando in lui tutti quei sentimenti sconosciuti. Sgorgavano dal suo sguardo, dal suo contatto,
eludevano ogni difesa psicologica fino a raggiungere il cuore, facendo dimenticare le piaghe dell'anima. Come… cosa
diavolo stava facendo? Come poteva un’umana riuscire a fare
una cosa simile
semplicemente con una carezza? Eppure era senz’altro una di
loro…
Aveva
evitato di colpirlo fisicamente, insinuandosi dentro di lui
in un modo quasi
soprannaturale, servendosi di un gesto così piccolo.
Spiazzati
da quel potere inaspettato, il braccio e le unghie si
ritrassero
gradualmente con timore, non avrebbero mai potuto rovinare
quell’offuscata immagine femminile. E più passava il tempo,
più faceva fatica a
tentare di distogliere gli occhi da quella figura indistinta. Man mano
che
passavano i secondi, la sua influenza si faceva più potente,
riempiendolo a tal
punto da vincere ogni difesa mentale. Il dolore fisico sembrava essere
stato
sospeso, sparito all’interno di quelle sensazioni nuove e
senza uscita, all’interno
di un battito cardiaco furioso e travolto da un’emozione mai
provata, che lo
stava trasformando poco a poco.
Cosa
mi stai facendo?
Chi
sei tu?
“Sei
proprio tu…”
Era
la prima volta che la sentiva parlare. Non sapeva se fosse un bene o un
male,
in questo modo, con gli occhi annebbiati dalla febbre, almeno conosceva
la sua
posizione... ma non poteva arrischiare a comunicare con lei. Era
pericoloso.
Tu
sei pericolosa.
Umana.
“Sì…”
Continuò, mostrando una bella serie di denti bianchi e
curati fra le labbra
rosate, già piegate in un sorriso: “Sei
tu… sei tu, Darkrai!”
Pericoloso.
Molto
pericoloso.
Non
doveva assolutamente rispondere alla tentazione, non doveva comunicare.
Si
sarebbe potuta approfittare di qualunque cosa, dopotutto era una di
loro. E in
caso contrario, rivolgendole la parola non se la sarebbe mai
più tolta di
torno.
Vuoi
che se ne vada?
Quell’auto-domanda
istintiva lo colse di sorpresa: voleva veramente vederla andare via? Un
attimo
prima era sicuro di avere la risposta, ma…
Ti
ha toccato.
E
non si riferiva a quella piccola carezza fisica, ma a
quell’assurdo e
improvviso sconvolgimento che lo aveva fatto vacillare internamente
come una
torre di vetro sul punto di crollare; aveva visto cosa
c’era nei suoi
occhi. In cuor suo aveva riconosciuto quella luce,
quell’espressione
nell’iride: l’aveva riconosciuta molto bene.
Questo
era riuscito a penetrare nell’anima dell’Oscuro, e
a far sciogliere
dall’interno come burro il suo spirito congelato, a renderlo
confuso e
assurdamente, terribilmente…
Sollevato.
Poteva
continuare a rifiutarsi quanto voleva di ammetterlo, ma dopo una rabbia
mista a
una tremenda paura, imbarazzante e istintiva, nei suoi
confronti… l’immagine
indistinta di quella ragazzina… i suoi offuscati, tremendi,
bellissimi occhi…
quella carezza atrocemente gentile…
Gli
piaceva da impazzire.
Un’umana…
“Non
ti ricordi di me?”
Vedeva
a malapena la sua bocca muoversi: “Sono sicura che sei
tu… sì, sei tu, non
ricordi?”
Sentiva,
ma non ascoltava. Era perso, si era perso, in lui si era rotto qualcosa
di
importante.
Risana… non uccide.
Non
possiede tentazioni, si fa carico del dolore altrui.
Si è
presa il mio dolore. Si è presa ciò che mi
è rimasto.
“Mi
riconosci?”Sentiva addosso il suo interesse, percepiva il suo
sguardo e la sua
preoccupazione, anche con la vista annebbiata: “Sono Alicia,
sono io! Ti
ricordi? Un anno fa circa…”
I
tratti erano indistinti. Aveva un’idea di lei, ma era la
prima volta che
credeva d’incontrarla.
Chi
sei?
Un’altra
spietata, inaspettata e piacevole onda di amorevole ansia lo
investì con la
potenza di un carro armato; le emozioni di quella ragazzina avevano una
forza
superiore rispetto agli altri della sua specie. Lei
non necessitava neanche una capacità telepatica come la sua:
al contrario,
erano i suoi stessi sentimenti ad andargli incontro, e con una potenza
inaudita, lo travolgevano come un fiume in piena. Quell’umana
si era insidiata dentro di lui
come una
dolce malattia che l’aveva completamente spiazzato, e
annullava il dolore.
Esisti
davvero?
Cominciò
a credere che fosse tutta un’allucinazione causata da febbre
e debolezza. Forse
era solo un incubo, come quelli che lui plasmava tutti i giorni. Un meraviglioso… effimero, sogno.
Non
importa.
Non
svegliarmi.
Dopotutto,
era comunque prossimo alla morte, ed esalare l’ultimo respiro
in quella maniera era una fine più che piacevole, anzi,
immeritata, per lui.
Non
mi voglio svegliare. Non ancora.
Stava
terribilmente bene. Era la prima volta che si sentiva così
bene.
Forse
quella ragazzina era venuta davvero a dargli il colpo di grazia, ad
accompagnarlo attraverso la fine migliore che potesse desiderare.
Vuoi
portarmi nel paradiso?
Vuoi
portare un demonio… nel paradiso?
No…
mi vuoi salvare?
Che
quella ragazzina stesse invece cercando di salvargli la vita? Ma che
senso
aveva? Cosa ne poteva ricavare lei? Non capiva.
Ma,
a dirla tutta, non gli importava nemmeno più…
“Davvero…
non ti ricordi di me?” La messa a fuoco degli occhi aveva
preso ad andare a
intermittenza, ma riuscì a distinguere il visino e i
lineamenti graziosi, e le
due enormi sfere cristalline che costituivano i suoi occhi, accesi di
preoccupazione, ma con l’ombra di una vaga delusione:
“No… non fa niente. L’importante è che tu sia qui.
Mi permetti… di aiutarti?”
Non
parlarle.
“Non
ti farò male, te lo prometto.”
Non
devi parlarle.
La
diffidenza aveva la pellaccia dura, e tornò a oscurare quel
piacevole miscuglio
di emozioni a cui lo induceva quell’angelica ragazzina. Lei
se ne accorse
subito; quindi anche lei era in grado di leggere le menti? O era
qualcosa di
diverso?
“Te
lo giuro, non ho niente, non ti faccio male.” Di fronte al
suo silenzio, per
dimostrarlo, cominciò a togliersi di dosso e a gettare da
parte tutti gli
strati di vestiti inutili ed eccessivi, fino a mostrare, sotto il
resto, un
fisico ancora più piccolo e magro di quanto gli abiti
facessero sembrare: “Hai
visto? Non ho nulla. E poi quest’abito così
voluminoso non piace neanche a me.”
Brivido.
Il suo corpo bollente di febbre tremò per un attimo come una
foglia, sotto
quelle dita fresche che avevano ripreso a toccarlo: un contatto che
domava la
malattia che lo aveva preso, calmando poco a poco anche i tremori. Non credeva che un essere
umano
potesse essere capace di carezze tanto gentili.
Ma
lei è veramente umana?
Se
fosse rimasto quello di una volta, se quella ragazzina non avesse
prodotto quel
cambiamento irreversibile in lui, si sarebbe vergognato come non mai a
farsi
coccolare come un cucciolo in maniera tanto imbarazzante da un essere
umano. Cosa
ancora più stupefacente, lei lo toccava con
un’attenzione sbalorditiva, al pari
di qualcosa di fragile e molto prezioso, come se fosse stato un suo fratello. L’ultima cosa che avrebbe creduto
di veder fare a
un essere umano.
“Ti
dà fastidio? Ti faccio male?”
Non
risponderle.
“Allora
continuo… chi tace, normalmente,
accosente…”
Aveva
ancora troppo sospetto per osare comunicare con lei. Non poteva sapere
ciò che
avrebbe potuto seguirne, lei non era una ragazzina normale. Le sue mani
erano
una panacea. Non esistevano umani così, e per questo non
poteva fare a meno di
continuare a chiedersi se lei, effettivamente, fosse una di loro. Ma
comunque…
Non
smettere.
Non
poteva leggere nel pensiero, eppure arrivava quasi a farlo credere.
Come
promesso, le carezze continuarono con la stessa
gentilezza.
Davano persino un senso di assuefazione.
Ancora.
Chi
era davvero quella ragazzina? Non era umana, e nemmeno un Pokemon.
Come te.
Che fosse
una principessa venuta da un altro mondo? Un mondo libero dalle guerre e dal peccato umano di sicuro. Una giovane dai modi stupendi come
lei doveva
essere di nobile stirpe.
Dunque da
dove vieni, principessa?
La
ragazzina sorrideva, forse era sul punto di dire qualcosa, quando
all’improvviso sul suo volto comparve una smorfia allibita:
solo in quel
momento l’Oscuro si rese conto di quanto si fosse allargato
il laghetto di
sangue sotto il suo corpo, arrivando a macchiarle gli abiti e le
membra. Fu
come se quella specie di sogno fosse diventato instabile, e il dolore
che per
un attimo era sembrato essersene andato tornò con più
forza di prima. La giovane
prima osservò con occhi sgranati, ricolmi d’ansia,
la sua mano imbrattata di rosso
scuro per poi
fissarlo
dritto negli occhi: “Mio Dio… è molto
più grave di quanto pensassi… devo
bloccartela subito, o morirai dissanguato!”
Per
un attimo si era illuso di essersene dimenticato, e ora la
sofferenza atroce
causata da quel dannato proiettile tornava con furia, sfrigolando in silenzio fra le costole. Avvolgeva
tutto e
piegava la mente, gli fece dimenticare tutte le belle sensazioni che
aveva
provato poco prima. Senza contare che la febbre onnipresente aveva
cancellato
ogni flebile resistenza residua e gli aveva inibito tutti i senti. Faceva fatica a
distinguere gli occhi preoccupati dell’umana.
“Devi
farmela vedere. Non posso fare nulla se non mi permetti di capirne la
natura.
Fammi vedere, non ti farò male…”
Pericoloso.
Mostrare
una ferita aperta, il punto più debole, a un essere umano?
Niente di più
stupido. Si trattava di una razza approfittatrice che
cercava
solo di liberarsi di lui.
Però…
Lei
non è umana. Non come loro.
Per
questo il suo corpo si mosse spontaneamente,
e allontanò ubbidiente il braccio insanguinato dalla ferita
orrenda che lo
straziava.
Bene.
Ora puoi anche fare di me ciò che
vuoi.
Gli
occhi cristallini che lo fissavano si diressero di filato al punto
scoperto che
aveva celato fino ad allora: “Fammi dare uno sguardo. Non ti
toccherò, te lo
prometto…”
Non
aveva paura, in realtà, non più. E questo in
parte lo preoccupava. Ma quella
principessa…
La
affido a te. La mia vita.
Mostrò
tutta la piaga volontariamente: in cuor suo lui desiderava
affidarsi a lei, che gli prometteva di vedere una nuova alba. Voleva
salvarlo
dall’odio degli uomini, se esisteva un qualcuno a cui potesse affidarsi
questa era lei.
“Aspetta…
oh… cielo…”
Non
la distingueva quasi più, confusa nel vapore nei suoi occhi
malati: “Questa… poteva
essere mortale, è un miracolo che non
abbia preso il cuore!” Vide appena la sua testa cambiare
bruscamente direzione:
“Sono stati degli uomini… questa è una
ferita da pallottola, sono stati loro a
farti questo…”
Nebbia,
nebbia, troppa nebbia, freddo, fiacchezza. Quell’esile figura
si era
completamente persa dalla sua vista, non la distingueva più.
No, voleva vederla
di nuovo, non voleva perderla e restare solo… ma una parte
di lui forse se ne
stava già andando, cominciava a non percepire più
l’ambiente esterno.
“Ehi…
ehi, che hai?” Anche la sua voce giungeva ovattata:
“Ehi… che cosa…”
Non
ci vedo. Non ci vedo.
Tutto,
ma cieco no. Stava scivolando nel baratro da cui non c’era
ritorno, e quella
densa cecità era il biglietto gratuito di andata. Avrebbe
voluto muoversi,
toccare, aggrapparsi alla realtà e tenere la vita ancorata a
sé.
Fa... male...
Voleva
vivere, voleva vedere la principessa. Dov’era…
dov’era? Battiti convulsi di un
cuore ricolmo di panico nel suo petto lo facevano vagare in quella
nebbia
disperati, e invano, perché l’aveva persa.
Torna. Ho paura!
“Ehi…
guardami!” La lucidità torno improvvisa,
facendo parzialmente diradare il bianco negli occhi, e
percepì un contatto
fresco e vibrante di vita:
“No, guardami! Non morire,
hai capito?!”
La
nebbia si allontanò di corsa, e il viso dell’umana
occupò gran parte della sua
visuale: “Ce la farai, resta vivo! Io non voglio che tu
muoia!”
Non vuole.
Quegli
occhi lucidi e chiari erano in grado di essere molto più
penetranti di ogni
altro sguardo, persino del suo; occhi che lo fissavano disperati, che
tenevano
alla sua vita. Certo che non voleva più morire, non ora che
aveva trovato
quella principessa, qualcuno per cui la sua vita era importante.
“Non
ti lascio morire. Di qualunque piaga si tratti, farò di
tutto per salvarti la
vita! Non permetterò che sia la mia razza a
ucciderti!”Cominciò a frugare nei
vestiti e a buttare fuori di tutto, da bacche, radici e foglie a pezzi
di
tessuto… e niente certo era in grado di curare una ferita
così grave.
Non
m’importa… mi basta questo.
La
ragazzina era quasi nel panico, continuava ad raccogliere ed analizzare
ogni
cosa con disperazione, ma sapeva benissimo anche lei di avere le mani
legate.
Lasciò perdere tutto e tornò a guardarlo, con gli
occhi innocenti colmi di
timore e frustrazione. Lui adorava quegli occhi.
Resta.
“Con
quello che ho, io… ah, perché?! Non ce la posso
fare con così poco!” Il suo
viso si voltò nella direzione opposta, fissando
l’unica possibilità che le era
rimasta. Un tremore di panico lo attraversò come una scossa
repentina.
Non voltarti.
Se
ne sarebbe andata. Se ne sarebbe andata e probabilmente non
l’avrebbe rivista
mai più. Non voleva.
Resta
con me.
“Devo
andare a cercare aiuto,” Ammise alla fine lei, ficcandosi le
piccole dita nei
capelli biondi con disperazione: “Ora come ora non posso fare
nulla… ma vivrai, te lo prometto!”
Non
andartene.
Non
poteva trattenerla, il vuoto stava di nuovo tentando di
trascinarlo
via, non aveva la forza di fare assolutamente niente. Se ne sarebbe
andata. E
la cosa gli procurava un disperato e fin troppo umano desiderio di
vivere.
Rimani.
“Vado
a cercare un aiuto… andrà bene qualunque cosa.”
Non
lo fare.
Fece
per alzarsi, lo sguardo dritto verso ciò che aveva odiato di
più in tutta la
vita: la città degli esseri umani.
“Non
andartene.”
La
ragazzina si bloccò al pari di una statua di marmo,
rimanendo immobile quanto
gli alberi intorno a lei, gli occhi sgranati. Si voltò
stupefatta a fissarlo
con l’aria di chi ha appena visto il fantasma di un parente:
“Tu…!”
“Lo
sai che non servirà. Ma almeno ti prego di
concendermi…”
Una
sorta di attacco di
tosse lo sconquassò da capo a piedi, facendogli bruciare le
carni intaccate dal
proiettile. Respirava malissimo, forse il killer di metallo aveva
toccato
l’apparato respiratorio. La giovane era rimasta letteralmente
paralizzata, e
con fatica riuscì a ritrovare la forza di volontà
per reagire: “Tu… hai
appena…”
“Rimani…
te ne prego.” Che razza di tono,
era da cucciolo
bastonato, faceva disgusto. Questo avrebbe pensato il
vecchio
lui. Ma ora quell’imbarazzo veniva dalla sensazione di stare
implorando in
maniera indegna ed estremamente egoistica la compagnia di quella
principessa,
troppo pura per poter essere contaminata da una creatura come lui.
“Se
non lo fai tu, lo farà il mostro che mi sta
divorando… ciò che ho in corpo
continuerà a bruciarmi le carni, fino
a…” La giovane bionda
riuscì a liberarsi dalla
paralisi, tornando indietro di corsa senza perdere un attimo. In lei la
sorpresa era stata soppressa dalla comprensione, che la animava da capo
a piedi:
“Ti fa paura, vero? Il pensiero di
morire…”
Sì. Ora sì. Per colpa tua, sì.
“La
vedo.” I suoi occhi erano pieni di un’espressione
di compassione profonda, la
pietà di chi sa bene di cosa sta parlando: “La
vedo bene, la sofferenza.”
Tu
vedi?
“La conosco, questa sofferenza…”
L’ultima carezza che gli diede fu la
più atroce di tutte. Era un addio totale, quello. Allo
stesso tempo era
l’unica cosa che poteva permettergli di aspettare la fine con
la calma di cui aveva bisogno,
sapendo di essere vissuto abbastanza per conoscere quella principessa,
l’unica
che avrebbe fatto di tutto per salvargli la vita: “Non hai di
che preoccuparti…
finirà. Prima o poi finirà, tutte le cose hanno una fine. Io posso farla
smettere, se vuoi…”
Chi
sei, principessa?
“Dici la verità?”
“Certo. Cosa vuoi che faccia?”
Sì, cosa
vuoi?
Stava
pensando come qualcuno che avrebbe vissuto ancora… la
speranza era proprio
l’ultima a morire.
“Vivere.”
I
suoi occhi sembravano ancora più lucidi di quanto non
fossero prima.
Vivere davvero.
“Voglio
vivere. E rivederti di nuovo.”
Il
sorriso innocente che ne seguì aveva davvero una purezza non
umana: “Ti basta
questo?”
Non ti avrei risposto, altrimenti.
La
ragazzina aveva aspettato la risposta che già conosceva, per
poi iniziare ad
allontanarsi un’altra volta: “Farò in
modo che questo posto rimanga sempre
aperto per te, come lo è per me. Non appartiene a
nessuno, e hai il
diritto di tornarci e rimanerci quanto me. Questa è una
promessa: ci rivedremo
ancora.”
All’improvviso quell’espressione aveva assunto
un tono birichino, pieno di innocenza infantile: “E sappi che
mantengo sempre
le promesse che faccio!”
L’Oscuro
l’aveva guardata allontanarsi fino alla fine. Non sapeva
neanche lui cosa gli
fosse saltato in testa. Aveva detto delle cose assurde, insensate, da
umano… le
aveva persino rivolto la parola.
Di
che stavi parlando?
Non
ne aveva idea. Eppure gli sembrava di aver ritrovato qualcosa di
importante, e
che tuttavia andava oltre la sua comprensione.
Quella
ragazza…
Fu
solo quando la sua testa color oro scomparve dietro le fronde
dell’angolo che,
privato di ogni volontà, crollò di lato a terra
come un peso morto.
Nota dell'autrice:
Oplà, rieccomi qui! Mi avete data per dispersa? Beh, ci siete andati vicini... è incredibile come gli impegni sociali colpiscano tutti insieme sempre nel momento meno opportuno... mettiamoci anche il fatto che questa storia è stata soggetto di continue modifiche, correzioni e ora riscrittura e meno di un millennio dall'ultima pubblicazione non poteva passare XD
Piccolo post scriptum speciale prima di lasciarvi: ricordiamoci che Darkrai, per quanto umano e in crisi d'identità (che ci posso fare, ho una riserva di sadismo illimitata anche per il mio Pokemon preferito, son fatta così...) fa pur sempre parte dei Pokemon, e possiamo definirlo comunque almeno parzialmente estraneo a certe attività umane... motivo per il quale comunque ogni tanto assume un linguaggio fin troppo pulito e dai toni, se posso osare, direi quasi infantili... per cui non penso proprio che lo vedrete mai pronunciare esplicitamente una parola come 'prostituta' XD |
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Capitolo 16 *** Atto XV ***
Mio Dio.
Un Darkrai.
Era un Darkrai...
No, non lo accetto.
In circostanze normali Alicia molto probabilmente si sarebbe
già ritrovata stesa per terra lungo la strada per la fatica,
a furia di correre
senza sosta da una parte all’altra come un gatto
terrorizzato, ma le gambe
continuavano a strillarle di rallentare del tutto inutilmente: il
volume della
loro lagna era ridotto praticamente a zero, in confronto a quello del
suo
pensare frenetico mentre ripercorreva gli eventi degli ultimi minuti.
Veloce. Muoviti,
veloce, veloce!
Era arrivata quasi al limite verso cui iniziavano i crampi
quando riuscì a lasciarsi alle spalle foresta e giardini e a
rientrare nei
confini della civiltà, cominciando freneticamente una
ricerca che ignorava
qualunque edificio che non avesse il tetto rosso.
Centro, centro… dove
cavolo sei?
Non c’era. Non lo vedeva da nessuna parte. E la cosa era
male.
Ci avrebbe messo troppo tempo a raggiungere casa sua per
prendere qualcosa che le potesse servire, e in ogni caso, nelle
condizioni in
cui era quel povero diavolo, c’era bisogno di un intervento
urgente da parte di
un vero esperto. Inutile era continuare a correre per ogni strada, la
clinica
sembrava scomparsa nel nulla più totale.
Vuoi deciderti a
spuntare fuori? C’è chi rischia di morire
dissanguato!
Senza contare che non poteva neanche permettersi di chiedere
informazioni a destra e a manca, sarebbe stato tutto tranne che utile:
la gente
era curiosa, troppo curiosa, a volte maliziosa. Nello stato in cui lei
si
trovava, avrebbero cominciato a farle una valanga di domande pressanti
infinita, e a cui lei non doveva permettersi di dare una sola risposta.
Ma non
poteva neanche permettersi di rimanere lì a fare il palo in
attesa di farsi
venire un’idea migliore, con una questione vitale come
quella. Tanto valeva
continuare a correre, nella speranza di trovarlo. Ignorando gli sguardi
fugaci
di persone che, intorno a lei, non potevano fare a meno di chiedersi il
perché
di tanta fretta in una ragazzina così giovane, aveva quindi
continuato la
frenetica ricerca.
Che cos’è, uno
scherzo? Deve pur essercene uno!
Fu solo quando arrivò quasi al punto di invocare un
qualsiasi aiuto, da qualsiasi entità, da qualsiasi luogo,
che intravide fra i
tetti una parte del simbolo che contrassegnava l’ingresso
principale del Centro
della città. Aveva quasi dovuto rifare il giro completo per
trovarlo, roba da
non credersi.
A quanto pare non sono
troppo simpatica neanche alla fortuna…
Per un momento le passò nella testa l’idea che il
Centro
stesso non volesse avere niente a che fare con quella storia: era come
se
stesse cercando di stare alla larga da lei, che portava una cura per il
leggendario a cui il suo popolo aveva sparato in pieno petto. Tutte
fantasie,
ne era convinta: eppure per un momento le era sembrato davvero che
quel edificio stesse cercando di dirle di andarsene, di
allontanare le sue
intenzioni e le macchie di sangue che le avevano imbrattato
parzialmente i
vestiti, provenienti da un essere primordiale temuto più di
ogni altra cosa al
mondo.
Basta con queste
sciocchezze, trova un aiuto!
Alicia piombò oltre l’ingresso con una furia a
malapena
contenuta nel suo piccolo corpo di bambina, e prima ancora di mettersi
a cercare
i responsabili del Centro per i corridoi tinti di bianco e color crema
aveva
già iniziato a richiamare l’attenzione alzando al
massimo il volume della voce:
“Signora Joy! Signora Joy, risponda! Mi serve il suo aiuto, e
in fretta,
abbiamo pochissimo tempo!”
Non era da molto tempo che la costruzione dei Centri clinici
era cominciata in tutte le città, e ognuna non ne possedeva
ancora più di un
paio: per sua fortuna avevano scelto di piazzare quella struttura non
molto
lontano dai giardini di Alamos, in fondo era in quel posto che si
concentrava
il numero maggiore di Pokemon, e quindi possibili pazienti. Una
caratteristica
di quelle cliniche era il tipo di infermiera, esclusivamente di sesso
femminile, che dirigeva o si occupava anche personalmente di tutte le
operazioni mediche: il suo era un mestiere vitale per tutta la
cittadinanza a
cui dedicava l’intera vita, qualcosa per cui il loro servizio
era sempre
richiesto, e per questo tutte le responsabili dei Centri vestivano alla
stessa
maniera, con gli stessi colori e la stessa acconciatura, tanto simili
fra loro
da sembrare un enorme gruppo di gemelle identiche sparse per il mondo.
A dire
il vero effettivamente costituivano tutte una grande famiglia,
perché quel
mestiere veniva passato ad ogni singolo membro femminile
dell’albero
genealogico, diverso da regione a regione, che aveva incorporato quella
professione così importante: quelle donne erano di fatto
tutte imparentate fra
loro e portavano tutte lo stesso nome di famiglia, che stava diventando
quasi
una sorta di pseudonimo. In qualunque luogo si andasse, c’era
sempre una Joy
pronta alla medicazione dai malori più svariati.
Anche l’emorragia più
grave?
La speranza era l’ultima a morire.
Dopo aver ottenuto nient’altro che silenzio, Alicia aveva
quindi iniziato a girare per i corridoi e le stanze con tutte le
intenzioni di
arrivare a scatenare anche un putiferio se questo fosse servito ad
ottenere una
reazione: “Joy! Mi aiuti! Venga subito, è una
questione di vita o di morte!”
Forse si era recata all’esterno per qualche tipo di
intervento. Non poteva andare peggio: senza un’esperta e gli
adeguati
provvedimenti tutta quella corsa folle sarebbe stata vana.
Ma non andrà così.
Le venne in mente l’unica altra soluzione possibile: certo
non sarebbe stato qualcosa di accurato e ricco d’esperienza
come l’infermiera
capo del Centro, ma non aveva altra scelta.
Non credendo che valesse più la pena di chiamare in quel
modo un aiuto che probabilmente non sarebbe arrivato, la ragazzina
cambiò
direzione, e si diresse verso il deposito che conteneva le preziose
sfere contenenti
i caratteristici Pokemon addestrati all’interno delle
cliniche all’uso della
medicina: erano noti col nome di Chansey, e aveva già fatto
la loro conoscenza
più di una volta in passato, quando aveva iniziato a
imparare le basi della
medicina e aveva cominciato a portare lì le sue bestiole da
medicare
direttamente dai giardini. Erano una specie protetta di Pokemon
particolarmente
rara, con l’abitudine naturale di prendersi cura delle altre
specie, il cui addomesticamento
era permesso quasi esclusivamente alle donne che lavoravano nei Centri
clinici:
per questo i Chansey avevano cominciato a diventare una specie di
simbolo
vivente di buona fortuna. Non molti avevano la fortuna di riuscire a
prenderne
uno, e in questi rari casi venivano tutti utilizzati come assistenti o
medici
Pokemon veri e propri: avevano un talento naturale che li portava a
riconoscere
ogni tipo di sostanza, e la loro indole amorevole li rendeva perfetti
per quel
tipo di lavoro; erano dotati perfino di una sacca naturale, posizionata
sul
grosso ventre rosato, in cui tenere e aiutare a schiudersi le uova dei
propri
simili.
Non ce ne erano ancora molti nelle cliniche, e per questo
erano considerati estremamente preziosi: Alicia sapeva bene che avrebbe
dovuto
affrontare tutte le conseguenze necessarie se avesse deciso di far
andare in
porto quello che aveva in mente, ma poco le importava: certo non era
lei quella
che rischiava di smettere di respirare da un momento
all’altro.
Spero che siano tutti
ammaestrati a dovere.
La stanza che fungeva da deposito per gli esemplari in
effetti era piccola, e le sfere utilizzabili erano poco più
di cinque
accumulate su uno scaffale di metallo lucido, tutte perfettamente
identiche:
solo la fortuna avrebbe potuto aiutarla nella scelta.
Mi serve il più
esperto fra voi. Qui non di tratta di me, è un tuo compagno
a essere in
pericolo.
Prese quella meno esposta alla vista, aveva bisogno di
tempo, e non l’avrebbe aiutata la scoperta immediata del suo
piccolo furto temporaneo:
la ficcò in fretta e furia nelle tasche nascoste della
sottoveste che le era
rimasta addosso e fece per precipitarsi fuori, quando finalmente la Joy
che
lavorava al Centro clinico di Alamos le comparve davanti
all’improvviso.
“Alicia! Eri tu a chiamare in quel modo poco fa?”
“Sì! Signora Joy, è un caso gravissimo,
ho bisogno del suo
aiuto ora più che mai!”
“Calmati, dimmi che è successo.”
“Non abbiamo tempo, c’è bisogno di un
intervento urgente!
Hanno sparato a un Pokemon, rischia di morire per emorragia!”
Non poteva dire nient’altro, non in quel momento, e nemmeno
con Joy, la curatrice di Pokemon per eccellenza. In cuor suo sapeva
già che se
lei avesse capito di che vittima si stesse parlando l’avrebbe
lasciata a
gestire tutto da sola, anzi, avrebbe fatto di tutto per trascinarla via
da
quella azione a lei del tutto incomprensibile. Forse se fosse arrivata
laggiù
completamente spiazzata ma ormai lontana dalla sua clinica si sarebbe
rassegnata comunque a salvargli la vita.
“Aspetta solo un attimo, prendo tutto e ti seguo!”
Alicia le venne dietro quasi immediatamente in silenzio, e
si mise a osservare ogni sua azione, memorizzando tutto ciò che poteva, anche se si trattava perlopiù di un rifornimento di unguenti per
alleviare il dolore e
una enorme quantità di bende. In fondo, quello era solo un
primo soccorso,
l’operazione vera e propria aveva bisogno di una struttura
chiusa e attrezzata.
Non sarà una
passeggiata.
Ma di questo era già al corrente.
Si caricò a sua volta di tutte le bende possibili, con
grande
ammirazione dell’infermiera, che aveva sempre saputo quanto
il giovane prodigio
musicale si desse da fare per aiutare le bestie che tanto le piacevano.
“Sei una brava ragazza. Andiamo allora, fammi
strada.”
Alicia corse subito via, a stento seguita dalla Joy di
Alamos, e si diresse a tutta velocità fuori da lì
per tornare ai giardini a cui
aveva affidato l’incarico di proteggere il moribondo.
Sei un leggendario.
Non morirai tanto facilmente.
Dopo una corsa per le strade che cominciò a procurarle segni
di stanchezza evidenti la accolsero alberi e cespugli scossi dal vento,
che si
muovevano come fossero inquieti e tremanti. Joy, dietro di lei,
deglutì
impressionata. Alicia continuò la corsa per i sentieri,
cercando disperatamente
chi aveva lasciato da solo a farsi sorvegliare dalle piante ombrose e
amorevoli
di quel luogo incantevole.
“Alicia, ma… quanto è
lontano…”
Fu allora che vide la quercia.
“Ci siamo! È lì, venga con
me!”
La visione che si presentò davanti agli occhi della giovane
Alicia la lasciò più disperata di prima.
La macchia di sangue non aveva fatto che allargarsi
ulteriormente, infradiciando tutte le radici, e il corpo del Pokemon
leggendario era riverso per terra in una posizione innaturale nel mezzo
di
quella pozza scura completamente privo di qualunque segno di vita.
Resisti, misericordia,
perché fai di tutto per farmi venire meno alla promessa che
ti ho fatto?
“Mi aiuti. Signora Joy, aiuti lui!”
Ma appena si girò a guardarla la donna le apparve immobile e
inorridita di fronte a quello spettacolo, e non fece un passo di
più. Alicia la
vide fissarla negli occhi come se stesse guardando un omicida che ha
appena
commesso un delitto di fronte ai suoi occhi. Le ultime speranze che
aveva le
crollarono addosso come una frana.
“La prego. In cambio sarò disposta a darle tutto
ciò che
desidera se ne sarò in grado. La prego, lo aiuti!”
Si mise in ginocchio in mezzo al sangue, incurante del
destino degli abiti che indossava, e accarezzò quella pelle
nera insanguinata
sperando che fosse ancora in grado di reagire a un tocco umano, del
tutto
inutilmente.
“Perché sta lì e non muove un dito? La
supplico, mi aiuti!”
“Questa è pura follia…”
Joy non aveva voluto credere alle maldicenze sul conto di
quella giovane: fino a un attimo prima credeva che Alicia
rappresentasse tutto,
tranne che qualcosa di cattivo; lei era innocenza, gentilezza e
generosità allo
stato puro contenute nel corpo di una bambina.
E invece avevano ragione. Capirlo in quell’attimo fu
disturbante, quasi traumatico: Alicia era diversa, Alicia era davvero
diversa,
e forse anche pericolosa. Alicia si era disperata, adoperata, implorava
per
salvare la creatura più pericolosa e diabolica che fosse mai
apparsa sulla
superficie della Terra.
Voleva salvare un Darkrai.
“Non mi avevi detto che si trattava di questo.”
Alicia sgranò gli occhi allibita. Perfino Joy,
l’unica da
cui aveva creduto di poter ricevere un aiuto, ora le voltava le spalle.
Girava
i tacchi e chiudeva gli occhi di fronte a uno spargimento di sangue a
opera del
suo stesso popolo, e ignorava del tutto la scena di qualcuno che era
sul punto
di morirle davanti agli occhi.
Tu… voi tutti…
Come potete odiarlo a tal punto?
“Era necessario? Perché? Che ha lui di diverso
rispetto agli
altri Pokemon?”
“Che ha lui di diverso? Che ha lui di diverso?!”
Joy la fissò con un disappunto furioso e una delusione che
Alicia non aveva mai creduto potessero esistere in una donna del
genere: “Sei
tu quella che ha bisogno di cure, Alicia, i tuoi occhi non sono
più capaci di
vedere la realtà!”
“Perché lo sta dicendo? Che vi ha fatto lui di
male?”
“Alicia, questa bestia è un Darkrai!”
Fissò quel corpo più morto che vivo come se fosse
un
cadavere già in decomposizione: “Non ti rendi
conto di quello che vuoi fare! Volevi
forse costringermi a far restare in vita questa creatura?!”
In Alicia, dopo lo shock e la delusione iniziale, ora era
montata una rabbia che aveva tentato di reprimere per anni rifiutandosi
di
caderne vittima.
“Lui fa parte dei Pokemon come tutti gli altri, come gli
Staravia che abitano qui, come i tuoi Chansey! Ha diritto di
vivere!”
“Ed è qui che ti sbagli di grosso,
Alicia!”
Indicò la ferita evidente che lo stava trascinando
inevitabilmente verso la morte: “La vedi quella? È
un colpo di arma da fuoco
mortale, ed è ciò che lo attendeva da sempre sul
suo destino.”
“Siamo ancora in tempo! I Pokemon leggendari sono molto
più forti
degli altri, c'è ancora…”
“Io non farò una cosa del genere, Alicia. Non ho
diritto di
curare un demonio che non merita di vivere.”
“Perché?! Che cosa vi ha fatto? Vuole solo vivere,
come
tutti voi!”
“Tu non sai chi è quello, Alicia, e ti assicuro
che
preferiresti non saperlo. Sei troppo piccola, ancora non sei in grado
di capire
quali sono le cose migliori da fare. Non hai la minima idea di cosa sia
quella
bestiaccia. È giusto che finisca così.”
Per un attimo agli occhi di Alicia apparve l’immagine di
fugace di una donna da cui aveva ereditato i capelli e le iridi, malata
e
debole, che avevano separato e allontanato da lei da mesi,
nonostante tutti
gli sforzi che aveva fatto per aiutarla.
“Non lo è affatto! Mai, in nessun caso, ignorare
qualcuno
che muore davanti ai tuoi occhi rappresenta un atto di
giustizia!”
L’infermiera fece per girare i tacchi, ignorando bellamente
le sue parole come se fossero stati dei capricci infantili:
“Sei una bambina
che non sa niente del mondo. Non capisci quale sia la vera
realtà della vita.
Nella tua innocenza ingenua, credi che abbiano il diritto di essere
salvati
tutti, anche un mostro come questo.”
Mostro.
Quella parola le diede un’idea atroce che non fece che
aizzarle in testa ancora più furore. Mostro?
Cos’era un mostro? Cosa poteva
essere tanto orribile da essere definito ‘mostro’?
Il solo pensare a quella povera creatura, lì, esanime in
mezzo a quel sangue, con un nome del genere… la frase di Joy
l’aveva lasciata
inorridita non appena l’aveva sentita uscire dalla sua bocca.
Perché in cuor
suo sapeva già perfettamente che non era in Darkrai la
sorgente di quella
parola che aveva iniziato a odiare fin da subito. Per un attimo pensò
di
controbattere, quando una sensazione spiazzante di verità e
necessità spazzò
via le sue intenzioni con foga. La rabbia si calmò e si
rifugiò lontano nella
sua testa, lasciando lo spazio a una rassegnazione disperata e senza
uscita.
Ha senso combattere
ora contro un membro del tuo stesso popolo… quando devi
salvare una vita?
“La prego.”
Di fronte a una Joy esterrefatta e senza parole, Alicia si
accoccolò stretta a quella creatura esanime in mezzo al
sangue e la coprì col
suo fisico di aspetto fragile come se fosse stata la cosa
più preziosa che fosse
mai esistita. Abbracciava quella bestia nera e raccapricciante come un
caro
amico, un parente stretto, un genitore in punto di morte.
“Lo salvi.”
L’ira che per un momento l’aveva assalita era stata
surclassata da una disperazione dirompente. Alicia capiva che non
c’era tempo
per le discussioni, l’unica cosa su cui doveva concentrarsi
era mantenere la
promessa che aveva fatto di far vivere il Pokemon leggendario che
già per primo
l’aveva soccorsa in modo del tutto spontaneo. Non avrebbe
lasciato come
ringraziamento l’indifferenza più totale alla sua
sofferenza.
“La supplico. Lo salvi.”
La sorpresa negli occhi della donna di fronte a quella
disperazione tanto forte era palese. Alicia non fece che sperare che
essa si
trasformasse in compassione, che l’avrebbe convinta a tornare
in suo appoggio,
come era sempre stata. In fondo, erano tutti esseri umani. Facevano
parte dello
stesso popolo, avevano il dovere di aiutarsi a vicenda.
Facciamo parte della
stessa razza.
Ma Joy evidentemente non se ne rendeva conto, o forse
nemmeno voleva accettarlo. Dopo quella sorpresa tanto evidente, Alicia
la vide
imporre un rifiuto ferreo su se stessa, e non si avvicinò
assolutamente.
Piuttosto, la vide voltare lo sguardo e andarsene per la sua strada,
lasciandosela alle spalle con la più totale indifferenza.
“Mi dispiace. Non lo farò. Non per questa
creatura.”
Alicia fu sul punto di trattenerla e richiamarla, ma si
fermò ancor prima di pronunciare una sola parola. Non
avrebbe avuto comunque
l’aiuto di cui aveva bisogno. E, a pensarci, non voleva
più neanche
averlo. Poteva forse accettare un
aiuto da chi si rifiutava di salvare una vita solo perché si
trattava di
qualcuno che nessuno di loro aveva mai nemmeno provato a conoscere?
Come
potevano pretendere di odiarlo per non aver avuto armonia totale con
lui, se la
prima cosa che avevano fatto era stato sparargli addosso?
Alicia osservò Joy allontanarsi con passo deciso. Non era
tornata indietro, non seguendo il tragitto da cui erano venute, ma
aveva
continuato in avanti. Forse aveva un appuntamento medico in
un’altra zona.
Questo significava… che il Centro clinico era sgombro da
esseri umani. C’erano solo i Pokemon messi alla guardia a
controllare possibili
arrivi di ladri in assenza della loro padrona.
Alicia strinse fra le dita la sfera a chiusura manuale che
aveva portato con sé fuori dal Centro, nascosta nella tasca
della sottoveste.
Non deve preoccuparsi,
glielo restituirò appena potrò, anche se non se
lo merita.
Forse non aveva speranze: in fondo un Pokemon addestrato non
aveva comunque l’esperienza e la bravura di una infermiera
vera e propria; ma
di sicuro l’aveva vista all’opera e
l’aveva assistita in tutte le operazioni
che riguardavano una ferita da arma da fuoco, certo non sarebbe stato
inutile.
Se non vuole aiutarlo
lei…
Tirò fuori il costoso oggetto e aprì il
meccanismo in
maniera quasi meccanica. Il Chansey che aspettava spuntò
fuori con un paio di
secondi di ritardo, assumendo le sue reali dimensioni solo quando fu
proprio di
fronte a lei. Era un esemplare tondo e ben pasciuto, in ottima salute,
e fissò
la ragazzina che già conosceva con due lucidi occhi neri
traboccanti di bontà,
mentre la salutava dolcemente con la piccola zampa rosea.
… lo salverò io da
sola.
“Aiutami.”
Il rosato Pokemon infermiere per un momento si era limitato
a fissarla perplesso, poi i suoi occhi erano caduti sulla figura
insanguinata
accanto a lei. La sua espressione si riempì di timore allo
stato puro, e
cominciò a tremare e indietreggiare. Alicia nel frattempo
aveva preso tutte le
bende che era riuscita a portare via, e aveva iniziato ad applicare con
pazienza strati su strati di bendaggio lungo il corpo nero del Pokemon
leggendario cercando di bloccare la perdita di sangue in ogni modo
possibile;
capendo cosa aveva intenzione di fare, il Chansey iniziò a
scuotere la testa
più volte sempre più impaurito.
“Lui non è diverso da te! Hai il dovere di
salvarlo!”
Il grassottello medico Pokemon aveva fissato prima lei e poi
lui, disperato e indeciso su cosa dover fare.
“Non fate forse tutti parte di uno stesso popolo? Non
è
forse lui uno dei Pokemon leggendari, di quelli che devono proteggere
il mondo
di tutti noi?”
Il Chansey aveva abbassato il capo con un’aria
incredibilmente contrita, ma senza decidersi a muovere un passo.
“Aiutami. Morirà se non mi aiuti, lo sai
benissimo.”
Non ottenendo alcun tipo di reazione immediata, Alicia si
rassegnò definitivamente. Completò la fasciatura
più rapidamente possibile, pur
sapendo che non sarebbe durata a lungo per bloccare
quell’emorragia.
Fu solo quando si mise un lungo braccio nero dietro il collo
e cercò di tirarlo su come poteva che vide il Chansey
avvicinarsi finalmente
con paura e aiutarla a trasportarlo sollevandolo da sotto, mentre
tentava di
limitare ulteriormente la perdita di sangue premendo in punti
strategici con le
piccole zampine. Un sorriso finalmente le apparve sulle labbra sottili.
“Grazie.”
Il pasciuto infermiere Pokemon alla fine si fece contagiare
dal suo giovane sorriso, e, pur pieno di paura, glielo
restituì
volontariamente.
“Non posso farcela da sola. Tu forse ne sei in grado, lavori
con Joy. Aiutami a curarlo… a salvargli la vita.”
Il Chansey rabbrividì a quella richiesta; ma di fronte agli
occhi che brillavano lucidi e all’espressione supplichevole
di quella
ragazzina, il prodigio musicale che già altre volte aveva
scaldato il cuore a
innumerevoli esseri viventi con la sua melodia indefinibile, cedette
definitivamente e la accompagnò con pazienza fino alla
clinica.
Ci sei riuscita.
Manterrai la promessa,
non importa come.
“Ora dipende tutto da noi. Il tuo aiuto sarà
vitale. Aiutami
a salvarlo. Aiutami a salvare… questo Darkrai.”
Continua...
Nota dell'autrice:
"I'm Awake, I'm Alive,
Now I know what I have to write on the site,
Now, it's my time,
I'll do what I want, 'cause this is my life!"
(by Skillet)
Si sa, una citazione rock/metal fa sempre effetto figo...
Un capitoletto relativamente breve, vero? Quando si ha poco tempo e ispirazione capitano piccole fortune di questo tipo...
Ebbene sì, sono viva e respiro. Semplicemente, l'estate per me è un pessimo momento per continuare a scrivere, priva di stimoli che possano spingermi a continuare questo romanzetto iniziato decadi e decadi fa. E il bello è che... non abbiamo ancora finito! Quest'anno sarò piena di impegni e problemi fino al collo, e dubito seriamente che da adesso in poi la regolarità di pubblicazione tornerà ad assumere un ritmo soddisfacente per i miei lettori. Beh, intanto ci sto provando, la cosa di per sé dovrebbe già essere degna di nota! XD
Detto questo, la sottoscritta vi saluta, alla prossima recensione ;-) |
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Capitolo 17 *** Atto XVI ***
Buio.
Vuoto,
infinito buio.
Un
buco nero senza fondo in cui regnava il nulla assoluto.
Era
questo che accadeva dopo la morte?
L’Oscuro
non aveva mai neanche lontanamente pensato a cosa significasse essere
morti.
Forse perché, grazie a tutti i mali di cui la sua pelle era
imbevuta, da secoli
gli appariva come una cosa del tutto scontata. La gente nasceva, la
gente
viveva, la gente moriva; la gente violava e dava inizio a guerre
colmate di
pura violenza per interessi del tutto effimeri; e per essi la gente
lottava. La
gente si combatteva, la gente uccideva. La gente moriva ogni giorno.
Che
c’era di strano nel morire?
Semplicemente,
a lui non era mai capitato.
Era
il più vicino alla morte fra tutti loro, per questo da
sempre gli era sembrato
facile ingannarla. Neanche lui però aveva mai visto,
tantomeno compreso, la sua
vera natura.
All’improvviso
non sentiva più una sola traccia di attaccamento alla vita,
non provava più alcuna
disperazione; in realtà… non provava proprio
niente. Non c’era più alcuna
emozione, derivante da una primordiale natura umana ormai dimenticata,
a
dimenarsi nelle sue carni. Non aveva più niente da provare.
L’unica cosa
presente era il silenzio.
Non
era in grado di descrivere quella situazione... probabilmente non era
più neanche
in grado di pensare. Riposante, forse. Così l'avrebbe descritta. Un eterno presente nero nel
nulla più
totale.
Forse…
poteva paragonarla a una dolce, eterna animazione sospesa.
Animazione…
sospesa?
All’improvviso
si rese conto di essere ancora in grado di pensare. Non era possibile.
Non
all’altro mondo. I morti perdono tutto; i morti non
possiedono più le capacità
di ragionamento che hanno sfruttato in vita.
Tu
sei morto…
I
morti non pensavano. I morti non erano niente, niente al di fuori di
una
carcassa abbandonata sulla Terra come cibo per permettere ad altre vite
di
proseguire. E lui era morto.
Tu
sei morto… non sei… morto…?
I
suoi stessi pensieri erano una prova contraria inequivocabile. No, non
poteva
essere morto. Non poteva che essere ancora in vita. In qualche modo,
gli esseri
umani probabilmente lo avrebbero definito
‘miracolo’, era sopravvissuto. Non
sapeva che cosa provare, non aveva mai saputo provare quella che loro
chiamavano ‘gioia’, o
‘serenità’. Solo una grande sorpresa.
Vivo.
Sei ancora vivo.
I
vivi potevano provare sensazioni fisiche. Lentamente, come per
confermarlo, il
suo corpo iniziò a percepire un piacevole fresco che lo
richiamava alla vita.
Che cos’era?
Ricorda…
cosa ricordi?
La
tortura del proiettile che lo devastava dall’interno era
completamente sparita.
Percepiva del dolore, comunque; ma era uno di quei dolori buoni, che
seguono al
togliersi una spina acuminata dal fianco o al passare di una qualche
sostanza
benefica su una ferita aperta. Una di quelle sofferenze che si
sopportano
serenamente per un tempo limitato, un prezzo che ogni creatura vivente
è felice
di pagare in cambio del preservamento della propria vita, altrettanto
limitata.
Un limite che veniva compensato solo da un senso che rendesse preziosa
quella
stessa vita.
Peccato
che non abbia un senso, la tua vita.
Dunque,
perché poteva ancora pensare? Perché era ancora
in grado di respirare?
Ricordare… ricordare tutto…
Cosa
era successo?
Mi
spararono.
Sì,
ricordava bene quella caccia frenetica e quell’inseguimento
pazzo, fra le
rocce. Così come ricordava benissimo quel dolore lacerante
nel petto,
quell’agonia di vagabondaggio fra gli alberi e le piante, e
il suo
combattimento disperato e delirante contro i membri della sua specie
del tutto
sua nemica.
Poi…
Per
un momento era stato davvero sul punto di perdere la sfida: logorato
dal
parassita sparato da quell’arma infernale, aveva rischiato di
lasciar vincere
su di lui gli umani, a cui aveva giurato di non consegnare mai la sua
testa.
Per un attimo era stato davvero sull’orlo
dell’abisso della morte… che ora si
allontanava lentamente da lui, cacciata da un qualcosa che, nonostante
le
apparenze fisiche, non aveva niente a che fare con i carnefici che,
ancora una
volta, non erano riusciti a ucciderlo.
Inesatto.
Qualcuno che non aveva nulla a che
fare con i carnefici che ancora una volta non erano riusciti a
ucciderlo.
Gli
tornò alla mente l’immagine di una chioma
biondissima, un visino delicato e due
grandi occhi cristallini che non avrebbero potuto essere più
puri. E la
sensazione di un tocco pieno di vita capace di respingere la sofferenza
più
atroce. Ricordò quel profumo dolce e
quell’odore di bosco.
Una
ragazza… governava sulla foresta…
Quella
era una nobile…
Fu
a quel ricordo che si riscosse del tutto.
Principessa!
Fu
come una scossa di migliaia di volt.
Di
colpo il buio fu squarciato con violenza da una luce brutale, che
occupò tutto
il suo campo visivo.
D’improvviso
tornò a percepire interamente il proprio corpo, dai nervi
sottocutanei alle
articolazioni e ai muscoli sfiancati. La vista, un tempo appannata e
malata, lo
raggiunse subito dopo, perfettamente chiara.
La
prima cosa di cui si accorse fu la sorgente della luce. Una luce
disturbante e
fredda, certo non naturale: era una sorgente artificiale che si trovava
proprio
sopra di lui, illuminando un ambiente di colore chiaro. Questo poteva
voler
dire soltanto una cosa.
Umani.
Decisamente
assurdo: non avrebbe mai potuto essere vivo in un luogo in cui vivevano
esseri
umani. Eppure lo era. Ma un solo pensiero aveva preso possesso
completamente
della sua testa.
Dov’è?
Lei, dov’è?
Fece
scattare la testa di lato con frenesia, guardandosi attorno con foga e
smarrimento: non vedeva nemmeno un essere umano. Ancora più
paradossale: si
trovava in una struttura di loro proprietà, eppure non
vedeva nessuno. Ma la
cosa passò subito in secondo piano, e in lui si fece largo
una classica
rassegnazione.
Hai
solo sognato.
Sì,
molto probabilmente era stato un sogno, illusorio e ingannevole: non
esistevano
umani capaci di guardarlo in quella maniera, tantomeno di toccarlo,
come aveva
fatto la principessa. Si irritò al pensiero di essere ancora
così simile agli
esseri umani, tanto da arrivare a illudersi come loro: era stato solo
il sogno
febbrile di un delirio, che andava al di là del suo
controllo, nient’altro.
Basta.
Questo posto è pericoloso, cerca l’uscita.
Non
aveva tempo per continuare a fare mente locale: il tempo era poco, e la
sua
sopravvivenza tutt’altro che garantita, man mano che
passavano i secondi: fece
per alzarsi in fretta e furia alla ricerca di una via di fuga, quando
un paio
di dita sottili gli avvolsero la spalla fresche, facendolo rabbrividire.
Mi
hanno preso!
I
nervi, pieni di vita, si tesero come corde, le ali si spalancarono
minacciose, le
unghie scattarono fuori pronte a uccidere e lui si volse a fissare
ringhiante
la sorgente di quel contatto con gli occhi inferociti.
Non
azzardarti a toccarmi, feccia!
Fece
appena in tempo a voltarsi che i nervi si afflosciarono, le ali si
ripiegarono
sul corpo, il ringhio si spense in un attimo. Stava fissando due grandi
occhi
chiari che gli restituivano lo sguardo carichi di preoccupazione. Non
gli ci
volle neanche un secondo per riconoscerli.
“Va
tutto bene… siamo solo io e te.”
La
ragazzina da capelli biondi, l’umana che l’aveva
avvicinato. Era la principessa.
Non si era affatto illuso: la sua figura, i suoi occhi, il suo
profumo… era
reale; lei esisteva davvero.
E
gli aveva salvato la vita.
“Come
ti senti?”
È
stata lei…?
Dopo
quel delirio era diventato così debole da perdere
completamente la capacità di
muoversi. Quindi era stata lei, da sola, a trascinarlo fino a
lì?
Tu
non sei umana.
La
piccola umana piegò la testa di lato per guardarlo da tutti
i lati, mettendogli
addosso un tentante impulso di allontanarsi sul momento: odiava essere
guardato. Ogni nervo fremeva d’irritazione e fastidio quando
lo guardavano. Gli
umani, poi… lo fissavano sempre con uno sguardo vorace, che
nascondeva una
follia radicata senza pari.
…
a parte lei.
Non
puoi essere umana.
Per
combattere quella tentazione conficcò con violenza le unghie
nella
morbida superficie che lo sosteneva: solo allora si rese conto di
trovarsi su
uno di quei materassi che solo una volta aveva visto usare dagli umani
per
curare un suo simile. Accanto a lui, di sfuggita, intravide una serie
di strumenti
metallici di ogni forma e dimensione, alcuni dei quali sporchi di
sangue.
Quindi…
Questa
è una delle loro famose cliniche… per quelli come
noi.
Gli
occhi sgranati della giovane umana davanti alla sua reazione lo
riportarono
rapidamente al presente: “Ma… ti fa ancora
così male?”
Subito
l’Oscuro, più per istinto che altro,
andò a cercarsi sul torace il buco che la
pallottola gli aveva scavato in petto, mancando per chissà
quale volere gli
organi vitali: al suo posto trovò una lunga benda bianca avvolta
stretta tutta
intorno al corpo, sotto la quale solo vagamente riusciva a sentire i
bordi
della piaga semi-aperta.
Perché?
“No,
non toccarla,” Lo raggiunse la voce amorevole della
principessa, mentre le sue
piccole mani tentavano di allontanargli delicatamente il braccio dalla
ferita:
“Non guarirà se si riapre.”
Perché?
Di
sfuggita l’Oscuro vide, nascosto a tremare in un angolo della
stanza della
clinica, un Pokemon di media grandezza dai piccoli occhi pieni di
terrore,
caratterizzato da una grande pancia rotonda e una sacca ovale sul
ventre, di
colore rosa. Non ne aveva mai visto uno da vicino, era fra gli ultimi
dei suoi
simili a osare avvicinarsi a lui, ma ne conosceva bene la rara specie:
erano i
più benvoluti fra i branchi dei selvatici.
Un
Chansey.
Allora
sto ancora sognando.
Sogno
o non sogno, evidentemente la principessa non aveva fatto proprio tutto
da
sola: una cosa del tutto naturale, una bimba umana non era in grado di
estrarre
da sola un proiettile come quello che per poco non lo aveva trascinato
nell’oltretomba. La domanda però non era
come… ma perché
aveva scelto di salvargli la vita.
Perché?
“Se
ti fa male posso ancora fare qualcosa, ma in fretta, ti
prego…”
Voglio
una risposta.
Prima
di riuscire a decidere se osare comunicare una seconda volta con lei,
al suo udito
finissimo arrivarono suoni allarmanti a cui i nervi si rizzarono
immediatamente: passi regolari, tranquilli e inarrestabili che si
alternavano
l’uno all’altro; creature bipedi, poco ma sicuro.
Mi
hanno trovato.
La
principessa percepì i
passi subito dopo di lui: allarmata, corse a spalancare
l’unica, grande
finestra che si trovava nella stanza, tornando poi a fissarlo con uno
sguardo
ansioso: “Non c’è più tempo:
se non ti esporrai dovrebbe guarire in un mese
circa. Io ho fatto quello che potevo. Ora vai!”
I
passi aumentavano di frequenza, il tempo che aveva a disposizione
sempre più
breve. Questione di secondi, poi lo avrebbero preso, e definitivamente.
Le sue
condizioni non gli permettevano nemmeno di difendersi:
l’unica scelta possibile
era la fuga. Rimanere un minuto di più avrebbe significato
vanificare del tutto
il lavoro della principessa. Eppure, per la prima volta in vita sua,
l’Oscuro
si trovò diviso in due.
Fuggi.
Adesso.
E
la principessa? L’avrebbe rivista ancora?
Lei
è umana. Non la toccheranno.
Lo
era solo in parte, o comunque non del tutto. E lo aveva toccato, gli
aveva
salvato la vita. E se avessero preso lei al posto suo? Ne erano
perfettamente
capaci: se avessero scoperto l’accaduto avrebbero scaricato
su di lei tutte le
conseguenze della sua sopravvivenza. Nel peggiore dei casi…
Il
proiettile ti ha forse intaccato anche il cervello?
Che
idiota, non era una scelta da porsi: se l’avessero scoperta
insieme a lui
avrebbero avuto un motivo in più per prendersela con lei.
Certo che doveva
fuggire.
“Corri,”
Lo implorò la principessa con gli occhi ricolmi di panico:
“Presto, raggiungi i
giardini, lì sarai protetto. Vai, vattene da qui!”
Il
leggendario Oscuro le rivolse un’occhiata fugace e intensa,
imprimendo nella
sua mente quegli occhi di bambina; poi sfrecciò fuori dalla
finestra in
silenzio come un fantasma fulmineo.
Solo
dopo che anche l’ultima piuma delle sue ali nerissime
fu scomparsa dalla sua vista Alicia osò tirare un sospiro di
sollievo e permise
alla gioia di invaderla dalla testa ai piedi: aveva vinto. Ce
l’avevano fatta:
era riuscita a impedire che la Terra si macchiasse del sangue di un
Pokemon
leggendario, un suo protettore; il Chansey aveva costituito un aiuto
fondamentale,
era stato solo grazie a lui se erano riusciti a estrargli dal corpo
quella
pallottola infernale: l’addestramento dei pasciuti medici
Pokemon, sebbene
recente, era proprio una preparazione di prima qualità. E
Darkrai era
sopravvissuto: era vivo, e stava bene. Era una vittoria piena per tutti.
Alicia però capì di non avere tempo per prendere
fiato, né
di risistemare l’attrezzatura che era stata costretta a usare
dove l’avevano
presa: il Centro si stava rapidamente ripopolando, anche lei avrebbe
dovuto
seguire l’esempio del Pokemon leggendario e fuggire
immediatamente se voleva
evitare di farsi cogliere in flagrante direttamente sul posto. Alle
conseguenze
avrebbe pensato una volta a casa: avrebbe raccontato la storia ai
Pokemon che
le erano affezionati, avrebbe sparso la voce nei giardini di
salvaguardare,
almeno temporaneamente, l’esistenza dell’indebolito
leggendario: quel Chansey
alla fine aveva scelto di aiutarla, era certa che loro non sarebbero
stati da
meno. E Godey era diverso dalle altre persone, Godey era il suo
anziano,
simpatico e comprensivo tutore: di lui ci si poteva fidare, lui
l’avrebbe
capita. Con il suo aiuto tutto sarebbe filato liscio.
Afferrò di corsa il meccanismo sferico che aveva racchiuso
quel Chansey che l’aveva notevolmente sostenuta fino a poche
ore prima,
preparandosi a ritirarlo e a riportarlo da dove veniva.
“Senza di te non ce l’avrei mai fatta, grazie per
il tuo
coraggio; ma acqua in bocca su quanto è successo, nessuno
deve sapere niente.”
Il Chansey ancora tremante ebbe appena il tempo di rivolgerle un timido
saluto
che la ragazzina riaprì e attivò il meccanismo
della sfera metallica: il tondo
infermiere rosato venne risucchiato in qualche secondo
all’interno del
contenitore e serrato dentro in fretta e furia. Alicia
riuscì a tornare nel
magazzino da cui l’aveva preso e a riportarlo dagli altri
suoi simili senza
essere vista quasi per miracolo, e quando finalmente riuscì
a tornare indietro
e a lasciarsi alle spalle l’edificio medico si tolse dal
cuore un peso così
opprimente che le sembrò di essere diventata leggera come un
soffione.
Finito. È tutto
finito.
Hai vinto. Hai vinto
tu.
E ora... le conseguenze. Pochi minuti e nella clinica
avrebbero trovato tracce evidenti della sua operazione, e ne sarebbe
scaturito
un bel caos. L’idea di fare un salto ai giardini per
informare dell’accaduto i
suoi amici non umani fu scartata, non ne aveva il tempo: doveva parlare
con
Godey, immediatamente. Lungo la strada di ritorno incappò
numerose volte in
persone esterrefatte e sospettose nel vederla correre come un gatto
impazzito
senza alcuna ragione apparente: più di una volta fu
costretta a cambiare
bruscamente direzione per seminare qualcuno che tentava di chiederle
spiegazioni. Non si fidava di quella gente, potevano avere in mente
qualsiasi
cosa: e anche se fossero stati in buona fede, non le avrebbero mai dato
retta.
Ma non era un grosso problema, non era la prima volta che si ritrovava
a doversela
cavare da sola: pochi giorni e l’avrebbero dimenticata del
tutto. Così continuò a correre senza sosta e senza curarsi degli sguardi che la analizzavano incuriositi, con l'unico pensiero di tornare a casa, trovare l'architetto che da un paio di anni l'aveva presa sotto la sua tutela e chiedere aiuto.
La vista di casa non le aveva mai procurato tanto sollievo
in vita sua: a essa aveva affidato praticamente ogni sua speranza. Se
Godey non
l’avesse aiutata non aveva idea di ciò che lei
avrebbe dovuto pagare in futuro.
In fondo, agli occhi degli uomini, aveva appena commesso una follia
oscura, se
non un peccato capitale.
Ma Godey non era come loro: se non l’avesse capita lui
allora lei avrebbe avuto la prova che il mondo era completamente
impazzito.
Alicia bussò violentemente alla porta per pura educazione e
subito
si fiondò all’interno in preda ad un fiatone che
non aveva mai avuto: “Zio
Godey! Zio Godey! Dove sei, zio Godey?”
Non aveva mai ricevuto quel silenzio tutte le volte che
aveva chiamato il suo nome, neanche una, nemmeno quando aveva
sviluppato il
piccolo vizio di chiamarlo con quell’appellativo familiare:
qualcosa non
andava. Ed era male, molto male. Cominciò a sudare freddo
ancor prima di
rendersene conto: corse a cercarlo fra le stanze in preda a un pessimo
presentimento: “Zio Godey! Zio Godey, ti
devo…”
Fu quando arrivò alla porta della cucina che si
bloccò come
un pezzo di marmo.
Godey era seduto al tavolo, completamente immobile, in una posizione
che lei non aveva mai pensato di potergli attribuire: le rughe che gli solcavano il volto erano molto più accentuate del solito, e lo sguardo che
aveva assunto
dietro i suoi piccoli occhiali era carico di preoccupazione, stupore,
ira e
quella che Alicia aveva imparato ad identificare come delusione.
Quell’espressione
era di una serietà così grave che avrebbe potuto
schiacciarla anche solo
guardandolo. Le sembrò che il tempo si fosse fermato quando
intravide una delle
bende che l’infermiera Joy aveva portato con sé,
quando l’aveva seguita nei
giardini, dimenticata su una delle sedie nella cucina.
Quella donna non era andata a compiere un qualche intervento
fuori dalla clinica. Era andata ad informare il suo tutore di
ciò che aveva
fatto nei giardini di Alamos.
“Entra.” Fu l’ordine secco
dell’anziano architetto.
Continua...
Nota dell'autrice: che posso dire, non è stato facile: per mia fortuna non ho mai dovuto assistere dal vivo a un'operazione chirurgica, il che mi ha reso difficile un lavoro di descrizione di una clinica che io stessa ho visto raramente nel lungometraggio originale o nell'anime di Sinnoh. Per cui, se l'ambientazione o altro sono poco chiari, fatemelo sapere, sarò lieta di migliorare la struttura del capitolo. Stanno diventando sempre più brevi, è vero, ma ho in mente di separarli in punti ben precisi, tutto calcolato.
Ora, anche se non c'entra un accidente con la storia, c'è una cosa importante che devo far sapere ai lettori interessati: riguarda 'Annales Lucis et Tenebrae'. Tra non molto i capitoli verranno personalmente cancellati dalla sottoscritta: il motivo? Nonostante la mia buona volontà, la storia in questione è partita incredibilmente male: non in senso grammaticale, ma soprattutto per quanto riguarda i personaggi; c'è qualcosa di sbagliato alla radice che ha fatto marcire tutto. Avevo già alcuni sospetti, ma ho dovuto avere una conferma da alcuni 'critici' esterni alla rete per esserne davvero certa, poiché qui le voci del pubblico di EFP evidentemente ancora non arrivano (vi assicuro che le critiche sono molto più preziose di un complimento). Con l'arrivo del prossimo capitolo del 'preludio all'Ascesa', 'Annales Lucis et Tenebrae' leverà le tende dalla sezione fanfiction Pokemon: ho deciso che ricomincerò da capo la storia originale che avevo ideato, puramente di mia creazione, senza Pokemon, in una sezione fantasy a parte. Mi spiace per coloro che avevano cominciato a leggerla, ma, parola di autrice, prometto che ne verrà fuori sicuramente un lavoro migliore.
La Latias oscura per ora si ritira e vi saluta, aspettando pazientemente nell'ombra le vostre opinioni ;-)
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Capitolo 18 *** Atto XVII ***
Lo
sguardo di Godey era una frusta, dura come ciottoli:
Alicia se la sentiva picchiare addosso a ogni parola. Non poteva fare
niente
per fermarla, e sopportava in silenzio con rassegnazione. E soprattutto
con una
traumatica delusione.
Non è vero.
“Alicia.”
Non può… non
può
essere vero.
“Alicia!”
Tu non sei come loro…
“Parla, Alicia!”
Gli ordini del vecchio architetto sembravano non sortire
alcun effetto sulla ragazzina, ormai più simile a una statua
di cera che a un
essere umano: l’unica cosa che ottenne da lei fu
un’espressione di puro
sconcerto che per un momento lo aveva quasi spaventato, seguita a ruota
da uno
sguardo carico di una tristezza che aveva visto ben poche volte in vita
sua. E
Alicia stessa si rendeva conto di non aver mai provato una tale
emozione paralizzante
nella sua breve vita: quel trauma la segnò profondamente da
allora, facendola
diventare ciò che sarebbe diventata 5 anni dopo.
Godey non le credeva. Allora Godey era proprio come tutti
gli altri? Come quelli che avevano sparato a Darkrai? La ragazzina
faceva uno
sforzo sovrumano per riuscire a credere a una cosa del genere: eppure
Godey era
lì, di fronte a lei, furioso; furioso con lei
perché aveva seguito la pietà che
l’aveva spinta a salvare la vita a un leggendario che la
gente, per un motivo
che non sarebbe mai stata capace di comprendere, odiava come il diavolo.
“Alicia, dì qualcosa!”
Dovette scuoterla per le spalle per farla reagire, reagire
in una maniera che non lo aiutò di certo a ritrovare la
calma. La sofferta
risposta che ottenne da lei fu: “Cosa…
desideri… sentire da me?”
Eri diverso… eri
diverso, zio Godey.
“Una spiegazione, perdiana!” Fu la reazione
esasperata
dell’architetto: “Perché diavolo hai
fatto una cosa del genere?! Rispondi!” La
piccola ragazzina che gli era stata affidata non rispose affatto: al
contrario,
abbassò le palpebre e si ritrasse dalla sua vicinanza. Il
che non fece che
mandarlo ulteriormente in bestia: “Sto perdendo la pazienza,
Alicia, e sappi
che questo non è mai successo in vita mia! Spiegami! E non
si tratta di un
invito!”
Dove sei, zio Godey?
Quello non era Godey: Godey non parlava così. Quello non era
il comprensivo e amichevole zio Godey con cui credeva di aver
finalmente
trovato il modo di costruirsi una vita completa: il cuore della piccola
Alicia
vedeva un estraneo che si divertiva a travestirsi da lui. Eppure, in
onore di
ciò che l’anziano architetto le aveva offerto dopo
che l’individuo che si
faceva identificare come suo padre l’aveva scaricata sotto
quel tetto per poi
sparire nel nulla, il giovanissimo talento musicale biondo rispose con
la
candida sincerità di una bambina:
“Perché…”
“Perché?!”
“Perché io… io so… io sono
sicura… quella era la scelta
giusta.”
“La scelta… giusta?!”
L’atteggiamento di Godey non subì
cambiamenti di alcun tipo: “Hai il coraggio di rispondermi
che quella, secondo
te, era la scelta giusta?!”
Alicia non aveva messo alcun coraggio in quello che aveva
detto: era pura e semplice sincerità, nient’altro.
Verità, pura verità. La sua giovane
mente non capiva il senso delle parole del suo tutore.
“Io… io lo sentivo…”
“Sentivi? Cosa sentivi?!”
“Male…” Godey continuava a mantenere un
perfetto ed
esterrefatto volto dell’incomprensione più totale:
“Faceva male. L’idea di
abbandonarlo laggiù… mi faceva male, tanto
male.”
Perché tu non ci sei
più, zio Godey?
“Ma sei completamente impazzita?!” Era esploso lui
in
definitiva: “Lo sai cos’era
quell’affare?!”
Uno…
che soffriva molto più… di quanto tu
possa
immaginare.
“… sì.” “Non
prendermi in giro!” Lei non lo aveva mai fatto
in vita sua: “Tra tutti i Pokemon che vivono in quei
luoghi… come ti è saltato
in testa di avvicinare proprio quella bestia?!”
“Lui non è… lui non è
diverso da loro.”
“Non è diverso…? Ma si può
sapere cosa stai dicendo?!”
Non voglio parlare con
te. Io devo parlare con lo zio Godey.
Cosa rispondergli? Non conosceva alcun rimedio o medicinale fra
quelli di cui era in possesso in grado di fargli aprire gli occhi alla
verità.
Fra lei e il vecchio architetto si era alzata una muraglia che non
sapeva come
abbattere, e di cui non aveva mai sospettato la presenza fino ad allora.
“Esattamente… ciò che ho
detto.”
“Alicia, si può sapere che ti è
preso?!” Con una punta di
sollievo Alicia si rese conto che Godey non sapeva proprio
più cosa dirle:
ancora un po’ e non avrebbe potuto fare altro che rassegnarsi
a un impotente
silenzio: “Quella creatura ti poteva ammazzare! È
un predatore a cui stanno
dando una caccia disperata da decine di anni a questa parte, ti sei
almeno
chiesta il perché di quella ferita da arma da fuoco?! O
credi che sia l’intera
città a sbagliare mentre tu sei l’unica a
comprenderne la vera natura?! La
sicurezza ha sputato sangue per riuscire a prenderlo… e tu
ti metti a
soccorrere quel Darkrai?! Nel migliore dei casi il suo solo contatto
fisico
avrebbe potuto farti cadere in coma, lo capisci questo?!”
Non lo capisco. Non lo
capirò.
“Lui… era debolissimo. A malapena riusciva a
muovere un braccio…
come avrebbe potuto farmi del male? Stava per morire.”
“Sì, è quello che sarebbe dovuto
accadere!” Godey batté
esasperato il pugno sulla superficie del tavolo senza curarsi
minimamente del
dolore: “Quel Pokemon è un pericolo pubblico per
tutti noi, e tu non fai
eccezione! I suoi sono poteri oscuri estremamente pericolosi che non
possono
essere controllati da niente e nessuno. L’ultima volta ha
causato a un
vigilante quasi 10 mesi di coma! E tu a cosa pensi? Salvargli la
vita?!”
Ma sono stati loro a
sparargli.
“Allora… ciò vuol dire che non
l’ha ucciso… quell'uomo
ora sta bene?” Godey non le rispose nemmeno. Alicia lo
interpretò fiduciosa come
una conferma: “Lo sapevo… sapevo che era vero. Lui
allora ha davvero… paura
degli uomini.” “Paura quello?!”
Il
suo anziano tutore non si era ancora arreso: “Siamo noi ora a
tremare di paura
per la sua sola presenza, altro che il contrario! Guarda in che stato
è capace
di ridurre un’intera città un demonio come quello!
Che diavolo hai visto tu di
così prezioso in quel mostro?! Spiegamelo!”
Mostro.
Era la seconda volta che Alicia sentiva quella parola
incomprensibile e insopportabile rimbombare nelle sue orecchie: non
sapeva
esattamente a cosa attribuirla, ma la sentiva brutta, marcia, cattiva.
E la
odiava, la odiava ai limiti del possibile, al punto da riempirla di
rabbia. E
lei raramente permetteva alla rabbia di prendere il sopravvento su di
lei:
aveva imparato fin da piccola che la rabbia è uno dei nemici
peggiori dell’essere
umano. Anche sua madre glielo ripeteva da sempre, anche quando era
stata
costretta all’immobilità per malattia, prima di
essere trasferita in clinica:
mai permettere alla rabbia di prendere il sopravvento. Rendeva una
persona capace
di tutto.
Ma quella parola così sporca non le permetteva proprio di
trattenersi.
“Non è un mostro, Godey!”
Di fronte a quell’esplosione emotiva improvvisa da parte
della sua protetta, dopo tutti i tentativi che aveva fatto per tirarle
fuori
spiegazioni con le pinze, Godey non aveva potuto fare a meno di tacere
per la sorpresa.
Alicia all’improvviso sembrava sul punto di mettersi a
urlare, e la sua voce
infantile di solito dolce e cristallina ora appariva stridula e
disperata. Il
suo sguardo tradiva qualcosa di effettivamente riconducibile alla
disperazione:
“Sono coloro che gli hanno sparato a sangue freddo ad essere dei
mostri, non Darkrai!
Voi… come potete pensare che sia giusto uccidere un Pokemon
leggendario, uno
dei guardiani naturali della Terra? Loro hanno il dovere di
proteggerci, non di
farci del male! È contro la legge della natura cacciare un
Pokemon leggendario,
un Pokemon che tra l’altro loro… tu… tu
non conosci!” Godey fu sul
punto di ribattere qualcosa, ma Alicia non gli permise di fermarla, e
lo
anticipò abbastanza in fretta da impedirgli di protestare:
“In lui non c’era
una sola traccia di cattiveria quando l’ho visto, quando
l’ho toccato! Cercava
solo di continuare a vivere, come avrei fatto
anch’io… come avresti fatto anche
tu al posto suo, come avrebbe fatto un qualunque essere umano! In
quelle condizioni
disperate lui non pensava a maledire il genere umano che lo aveva quasi
assassinato, pensava solo a chiedere disperatamente aiuto!”
Nella mente della ragazzina tornò il ricordo di quelle
strane e persistenti sensazioni mentali, quelle onde psichiche che
aveva capito
essere un tentativo di comunicazione mentale, che aveva percepito
quando si
trovava nei giardini a suonare le sue foglie ai Pokemon che amava. Era
certamente stato lui, ora ne aveva la conferma.
“Lui ha chiamato me,
ha chiamato me per essere aiutato!
Faccio
parte di un popolo che lo odia, eppure ha chiamato me!
E quando due inverni fa sono finita giù da quel dirupo
coperto
di ghiaccio lui è stato l’unico a venire in mio
soccorso!”
Da quanto tempo si era cucita la bocca su quello che era
successo quell’inverno: era stata una delle uniche cose che
nessuno aveva mai
conosciuto di lei. Godey era rimasto paralizzato dalla sorpresa:
“Mi stai dicendo
che quando hai avuto quell’incidente..”
“Lui mi ha salvato la vita!” Ormai la
disperazione nel tono di Alicia era palese: “Quando nessuno
aveva mosso un dito
nemmeno per mandare qualcuno a cercarmi! E se tu lo avessi visto, in
quel
momento… non penseresti nemmeno di parlare così.
I suoi occhi… erano
terrorizzati. Aveva paura! Quelli che ho visto non erano gli occhi di
un
mostro, un demone o un assassino… quelli erano gli occhi di
un bambino che
piangeva!”
Non era riuscita a trattenere quei pensieri decisamente
personali: d’altro canto Alicia aveva capito che Godey non si
sarebbe mai fatto
convincere se non avesse confessato anche quelli. E lei non aveva
più
intenzione di nascondergli l’unica cosa che avrebbe potuto
abbattere il muro che lui aveva eretto fra loro due: “Quegli
occhi… i miei occhi…” Lo
stupore stampato sulla faccia di Godey le confermò che stava
riuscendo nel suo
intento, anche se pagando il prezzo di umiliarsi in quella maniera
davanti a
lui.
“Vuoi sapere… vuoi sapere cosa ho visto in
lui?”
L’architetto stavolta non fece alcuna obiezione e la
lasciò rispondere in
silenzio.
“Io ho visto me stessa… ho visto me stessa in quel
leggendario morente.”
Godey non obiettò. Rimase a fissarla esterrefatto nel
più completo
silenzio per almeno tutti i dieci minuti successivi. Alicia, dal canto
suo,
aveva sputato fuori di bocca così tante cose e con una tale
esasperazione da
non riuscire ad aggiungere altro, cadendo nel totale mutismo.
Quando finalmente era riuscito a riprendersi da quella
rivelazione inaspettata, Godey era tornato a sedersi al tavolo
piazzandosi una
mano sulla fronte rugosa, gesto tipico che indicava i momenti in cui
cercava di
riordinare i suoi pensieri in disordine e che Alicia gli aveva visto
fare
parecchie volte quando tentava di buttare giù qualche nuovo
schizzo
architettonico. Aveva quindi preso fiato e cercato di dire
qualcosa…
Quando alla porta aveva bussato qualcuno.
Qualcuno che, a giudicare dal suo modo di battere la
maniglia, doveva essere parecchio impaziente e preso dalla fretta.
Alicia aveva sussultato a quel rumore: era almeno un anno
che non ricevevano visite. E, a quanto lei ne sapeva, Godey non
prendeva
appuntamenti con qualcuno per lavoro da quando l’aveva
accolta in casa sua;
fatto che fu confermato dall’espressione del tutto sorpresa
dell’anziano
architetto: “A quest’ora? Ma che
diavolo…” La maniglia batté di nuovo
con più
violenza.
Questo andava contro tutte le previsioni possibili, ed
entrambi erano completamente impreparati a un imprevisto come quello.
Godey
tuttavia fu più rapido a reagire: lasciò perdere
il discorso, si riscosse in
fretta ed andò ad aprire sospettoso. Alicia sulle prime lo
aveva accompagnato
solo con lo sguardo, poi aveva subito appiccicato l’orecchio
alla parete della
cucina per ascoltare la conversazione.
“Buonasera, Godey.”
“Ah, è lei… buonasera… mi
scusi, non avevo in programma
alcuna visita per oggi, tantomeno a quest’ora.
Perché non mi ha fatto sapere
prima che sarebbe passato?”
“Non è stato qualcosa di programmabile, mi sono
precipitato
da lei appena possibile… ha colto impreparati tutti, in
realtà.”
“Impreparati...? Ma di cosa sta…”
“Pareva andare tutto bene… per questo non sono
riusciti a
fare nulla. Nessuno si aspettava che le cose potessero mettersi
così male.”
Godey aveva capito subito qual era l’argomento in ballo, e
per questo aveva abbassato rapidamente la voce: “…
si può sapere cosa è
successo?”
Ad Alicia ora certo non bastava più origliare semplicemente
quella conversazione a tono ancora più basso: quella visita inattesa
aveva già steso su
di lei l’ombra di un sospetto soffocante di cui non riusciva
a comprendere la
natura, e che tuttavia l’aveva riempita di nervosismo e
preoccupazione.
Cosa è successo?
Forse lo sconosciuto aveva intuito il motivo di quel cambio
di volume improvviso, perché lei non riuscì a
udire la risposta che il
visitatore diede a Godey, doveva avergliela riferita a voce veramente
troppo bassa.
E, come comprese subito dopo, per volere dell’architetto. Del
tutto
inutilmente, in realtà.
All’improvviso la voce di Godey esplose come un vulcano
senza controllo: “… cosa? Sta
scherzando?!”
“Vorrei tanto poterlo dire.”
Anche una talpa avrebbe capito che la cosa in realtà non gli
faceva né caldo né freddo. Ciò non
fece che peggiorare lo stato d’animo di
Alicia.
“Ma… come è potuto succedere? E
così, all’improvviso?”
“Gliel’ho detto, siamo stati tutti colti
impreparati. Non è
un fatto a cui hanno potuto rimediare… è andato
tutto contro ogni previsione.”
“Quando è successo?”
“Proprio questo pomeriggio… non abbiamo idea di
come sia
potuto accadere. C’è ancora il caos lì
dentro, ancora nessuno riesce a
spiegarselo.”
“Lo credo bene! Mi dica lei come io possa credere a una cosa
simile su due piedi! E suo padre? Che fine ha fatto? Perché
non è venuto di
persona, si può sapere?!”
“Purtroppo non sono a conoscenza dei motivi
dell’assenza del
signor…”
Alicia non era riuscita più a sopportare quella tensione, ed
era irrotta nell’ingresso prima ancora che il visitatore
potesse inventare
scuse di alcun tipo sull’assenza dell’uomo di cui
ormai aveva capito benissimo
l’identità. Il visitatore in questione, lo
riconobbe immediatamente, era lo
stesso tipo che l’aveva accompagnata a casa di Godey la prima
volta per
affidarla ufficialmente a lui, per poi volatilizzarsi e sparire per un
anno. L’architetto
cercò inutilmente di rimandarla dentro, ma lei, in preda a
sospetti che non avrebbe mai voluto provare, lo aveva respinto con
violenza.
“Cosa è successo?”
Godey la fissò allarmato. Alicia conosceva quella reazione:
seguiva a quelle rivelazioni che Godey considerava troppo traumatiche
per farle
conoscere anche a lei. Ma c’era di mezzo suo padre: neanche
uno come Godey
aveva il diritto di tenerle nascosto qualcosa che aveva a che fare con
la sua
famiglia.
“Cos’è successo? Cosa c’entra
mio padre?”
“Lui sta bene,” Le aveva risposto subito il
visitatore senza
farsi problemi: “Anche il lavoro va bene. È tutto
ciò di cui sono al corrente.”
“Tutto ciò di cui è al
corrente?!” Godey era visibilmente irritato: “Mi
faccia
il favore! Come può passare quell’uomo un periodo
così favorevole se non si
degna di tornare neanche per una cosa del genere?!”
Alicia aveva sgranato gli occhi, riuscendo a malapena a
contenersi.
Ditemi la verità!
“Cosa è successo?!”
Godey cercò inutilmente di evitare di darle la risposta, ma
l’estraneo si fece decisamente meno scrupoli. Così
Alicia ricevette la cruda
risposta che le fece cadere il mondo addosso.
“Tua madre è morta, Alicia.”
Continua...
Nota dell'autrice: sappiate che l'autrice di questa storia è una fanatica incallita di Kyashan e altre cose strazianti simili, per cui abituatevi a finali di questo tipo, che la sottoscritta è terribilmente, incorreggibilmente sadica.
E credo che tutti i lettori intelligenti di questa storia avessero capito molto bene già da tempo che sarebbe andata a finire così... e dai, vi ho dato indizi in praticamente tutti i capitoli...
Oh, certo, so perfettamente cosa state pensando. O meglio, cosa state contando. So anche io quanti decadi sono passati dall'ultima volta che ho scritto qualcosa...
Ma pretendo un minimo di comprensione, sfido chiunque a scrivere regolarmente a pochi mesi dal suo diploma! XD Quindi giù quei forconi!
Intanto, come promesso, Annales è stata cancellata definitivamente. Ma prometto un'alba decisamente migliore per quella tetralogia... magari in un'altra lontana epoca...
(... ehi, scherzavo! XD)
Vedrò di portare altri capitoli... magari quando avrò finito di sorbirmi il Paradise Lost di Milton!
Nel frattempo, auguro bellissimi incubi a tutti voi ;-)
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Capitolo 19 *** Atto XVIII ***
Dopo 4 giorni passati nel remoto cuore dei giardini di Alamos, Alicia aveva ricominciato inevitabilmente a pensare agli uomini.
Aveva trascorso quei giorni di pausa con una serenità che non sentiva da molto tempo: le sue ore si erano alternate tra corse e giochi sull’erba come nell’acqua dei laghi lì presenti, fra condivisioni dei pasti quasi fraterne fra lei e i Pokemon selvatici, fra esibizioni musicali che erano alla base del suo rapporto speciale con quelle bestie mistiche. Per la prima volta Alicia era rimasta nel luogo che amava di più per interi giorni e notti, e l’aria di quel cuore di flora pulsante mai come allora era permeato tanto dentro di lei. In così poco tempo era diventata più simile a un Pokemon che a un essere umano: aveva smesso quasi del tutto di parlare la lingua degli uomini, al punto che aveva cominciato a temere di dimenticarla, poiché le magiche creature dei giardini non avevano bisogno di parole per capirla e divertirsi insieme a lei, e le si radunavano intorno spontaneamente per ascoltare la sua musica.
Quanto a Darkrai… a lui bastava che lei pensasse. E capiva. Capiva tutto, e con una facilità che la metteva spesso in imbarazzo, ma che nel caso dell’Oscuro era disposta sempre a tollerare serenamente.
Sì, era stata veramente bene in quei 4 giorni. Anche troppo bene. Non sapeva se fosse un bene o un male. Perché ciò era dovuto all’assenza di altri esseri umani.
Solo allora Alicia ricominciò a pensare al suo popolo, allo sgradevole mondo degli uomini che la attendeva fuori da quel paradiso naturale. Pensò a Godey, e all’egoismo che aveva lei inevitabilmente dimostrato nel non avergli fatto avere sue notizie. Lei non era affatto una principessa senza peccato come l’Oscuro si ostinava a vederla: faceva parte degli uomini, e come loro inevitabilmente cedeva alle debolezze dell’animo. Fra queste c’era il suo desiderio di abbandonare quel mondo ostile e diventare un Pokemon in tutto e per tutto, anche per impedire che il pericoloso legame fra lei e il Pokemon leggendario creasse altre piccole guerre fra il popolo umano e quello delle magiche creature a lei fedeli. Se fosse diventata parte del loro mondo non solo sarebbe stata capace di difendersi molto più efficacemente, ma non sarebbe più appartenuta alla pericolosa razza umana e dunque non avrebbe potuto indirizzarla, pur involontariamente, contro il suo protettore nero. Tuttavia ciò non era possibile: lei era nata umana, e al popolo degli uomini apparteneva. Sarebbe fuggita e avrebbe rinnegato le proprie origini e responsabilità decidendo di rimanere per sempre in quel luogo ameno e sconosciuto e abbandonare Godey e ciò che di buono forse era rimasto fra le persone alle ostilità umane. Lei era una di loro, e presto sarebbe venuto il momento di tornare da dove era venuta. Ma come poteva essere felice di tornare in un mondo in cui non aveva mai trovato un vero senso di appartenenza?
Sì, si sentiva molto più simile a un Pokemon che a un essere umano: essi non mentivano, si aiutavano fra loro disinteressatamente, e soprattutto uccidevano solo per mangiare o non essere mangiati. Come la legge della natura comanda per tutti gli animali. Invece Mott e in generale tutti gli uomini uccidevano per tre ragioni: divertimento, rabbia e ricchezze.
Pensare agli uomini che fra un giorno al massimo avrebbe dovuto raggiungere finì per farle tornare in mente inevitabilmente il bracconiere che aveva causato quella situazione: non li aveva seguiti dopo la loro fuga, questo era certo. Darkrai aveva controllato la zona in maniera molto accurata il giorno successivo a quell’episodio, non c’era traccia neanche del suo odore. Tuttavia quell’uomo poteva essere scappato ed essersi nascosto da qualche parte ad Alamos. La furia che Alicia gli aveva visto negli occhi quando l’aveva minacciata col suo fucile era la prova di quanto fosse determinato a prendersi la vita dell’Oscuro. Forse c’era lo zampino di Godey: Alicia aveva recuperato piena fiducia in lui negli ultimi 5 anni, non aveva dubbi che il vecchio architetto avesse fatto di tutto per rendere quell’uomo inoffensivo. Tuttavia le forze dell’ordine meritavano la stessa fiducia? Aveva dei sinceri dubbi sulla loro competenza.
Darkrai non tardò di certo ad accorgersi dei suoi timori. Sapeva molto bene anche lui che il posto della sua protetta non era con lui, Oscuro che con la sua vicinanza contaminava il suo spirito, ma fra quelli della sua stirpe: entro il giorno successivo sarebbe dovuta tornare da dove proveniva. E ciò, purtroppo, lo faceva inevitabilmente soffrire in silenzio, almeno un poco. Perché comunicare le sue emozioni ad Alicia di certo avrebbe contribuito a trattenerla, e ciò era male. Era una ragazza che si avviava ad essere una donna, doveva stare con quelli come lei. Anche se lei, in effetti, non era come loro. Ma da loro era nata, e quindi da loro doveva tornare. Per questo l’Oscuro badava bene di non tradire mai i sentimenti ancora troppo umani di affetto che lo legavano a quella giovane; se li teneva dentro con ostinazione, impedendo loro di influenzarla nelle sue scelte. Ormai, era costretto ad ammetterlo, il loro rapporto era diventato stretto, molto, troppo, pericolosamente stretto: d'altra parte, a lei ci si era legato, non poteva essere altrimenti. Lo sapeva da un pezzo, in cuor suo, ma il suo attaccamento ormai troppo radicato a quell'umana che suonava e cantava la natura stessa gli aveva impedito a lungo di prendere delle contromisure.
La stava influenzando troppo: bastava osservarla un solo giorno per rendersene conto. Più il tempo passava, più Alicia diventava simile a lui: alla sua razza lei appariva ogni giorno più aliena, era come se stesse perdendo gradualmente umanità e in sé acquistasse invece sempre più natura, soprattutto la natura oscura e selvaggia che apparteneva alla sua indole e alla sua essenza di leggendario. Se fosse diventata ancora più simile a lui di quanto non lo fosse già, presto o tardi si sarebbe forse trovata a condividere il suo stesso fato? Di questo passo avrebbero cominciato a inseguire anche lei armati di fucili e pistole? Alicia non meritava di vivere la sua stessa condanna come prezzo del bene che gli voleva. Eppure c'era una cosa che lo preoccupava anche di più: se Alicia stava diventando sempre più vicina a lui, l'Oscuro cominciava inquietantemente a riconoscersi sempre più umano. Più Alicia diventava estraniata, ombrosa, solitaria e selvaggia più lui si scopriva irrequieto, fragile, instabile e soprattutto sempre più innaturalmente desideroso di qualcosa che lei probabilmente avrebbe chiamato 'amore'. Se lo avesse conosciuto meglio, l'Oscuro non l'avrebbe considerata la definizione giusta: l'amore che intendevano quelli del suo popolo aveva connotazione prettamente sessuale, implicava un desiderio fisico che lui non possedeva e che era alla base di una procreazione che a lui, come a tutti i leggendari, era stata preclusa. Appartenevano a due specie differenti, e per natura l''amore' che intendevano gli umani non faceva intrecciare due specie diverse: era un 'amore' che tra loro non esisteva. Ma di una cosa l'Oscuro era assolutamente certo: tutte le volte che gli capitava di pensare alla dubbia identità di chi aveva partorito quella fanciulla dalle carni intoccabili, non poteva fare a meno di essere attraversato da una fastidiosa sensazione, sensazione che la sua creatura dai capelli biondi, se avesse osato chiederglielo, avrebbe definito 'invidia'.
Quella mattina Alicia si era subito immersa nelle acque del laghetto più vicino per cercare di distrarsi almeno parzialmente dalle sue preoccupazioni, ma il ricordo di Mott e Godey rimaneva un avvertimento fisso nella sua mente.
Tornerai a casa. Tornerai domani.
E cosa sarebbe successo a Darkrai? Se Mott fosse stato ancora nei paraggi… e non solo lui, ma tutti gli uomini costituivano per l’Oscuro un nemico.
Il Pokemon leggendario, che in quel momento si limitava a fissare la sua testolina bionda che ogni tanto faceva capolino dall’acqua, percepì queste preoccupazioni come fossero sue. E come suo amico, bizzarro e minaccioso, ma altrettanto fedele e affidabile, sentì il bisogno di rassicurarla: “So che quei ricordi ti turbano. Ma quell’uomo non ti sfiorerà neanche con un dito finché io continuerò a respirare.”
La risposta di lei non aveva tardato a tornare indietro come un duro boomerang.
E tu? Chi gli impedirà di sfiorare te con un dito?
L’Oscuro a quella domanda non poté fare altro che tacere.
Alicia capì più cose in quel silenzio di quante lui potesse arrivare a comunicarle telepaticamente.
Sei tu quello in bilico, Darkrai, lo sai. Se cercano qualcuno, questo sei tu, non una comune ragazzina.
L’Oscuro decise di raggiungerla. Sentiva la necessità di godere della sua vicinanza nelle ultime ore prima di doversi separare da lei. Aprì le ali e volò rapido fino alla sponda erbosa, dove si mise ad aspettarla con pazienza.
“Tu sei probabilmente l’ultima a poter essere definita ‘comune’.”
Alicia riconobbe la sua figura e lo fissò con uno sguardo rassegnato in cui si scorgeva quasi una supplica: “Non ha alcun interesse a far del male a me. L’unica utilità che potrei fornirgli è quella di un ostaggio da usare come esca per attirarti nella sua trappola. A danneggiare me ci rimette solo legalmente, non reputo un uomo così stolto da fare una cosa del genere.”
A quella affermazione l’Oscuro si esibì nel suo tipico gesto insofferente di scostarsi la frangia bianca dagli occhi con un secco movimento della testa.
“Le ultime parole famose…”
In effetti, pensò Alicia mentre si immergeva di nuovo, di gente sciocca e testarda ne esisteva molta nel mondo: ma dopo l’ultimo assalto del leggendario probabilmente anche Mott ci avrebbe pensato due volte prima di riprendere la sua caccia.
Ma ne hai davvero la certezza?
Ottima domanda.
Alicia infine riemerse mandando energicamente i capelli all’indietro, che la riempirono di schizzi: erano i capelli di una principessa, di quelle molto belle di cui si parla nei racconti fantastici. Non stavano bene su una come lei, fragile e magra come un giunco, e soprattutto senza nessuno che potesse apprezzarli, vista la sua reputazione fra gli altri esseri umani. Non si sentiva affatto pronta a tornare nel loro mondo.
Ma lo farai. Perché quello è il tuo posto. Non importa quanto tu possa essere ‘né carne né pesce’.
A quella scelta espressa nella mente della giovane Alicia l’Oscuro le mandò una ulteriore sensazione di conforto per rafforzare le sue decisioni: “Non è peccato essere a metà. Anche io lo sono.”
“C’è una differenza: tu hai un motivo preciso per essere così.” Ribatté lei, più per reazione all’infelicità che provava all’idea di doversi di nuovo separare dal suo unico amico che per contestarlo sinceramente.
“Sai che non è stata una mia scelta,” Le aveva risposto lui senza il minimo turbamento: “È un prezzo da pagare per espiare una indelebile colpa umana nei confronti della mia stirpe, affinché tragedie come quella antica guerra fra i Pokemon e gli uomini non si ripetano. Io sono la testimonianza di una colpa: finché vivrò, gli uomini ricorderanno, e ciò manterrà il nostro mondo al sicuro. Non ho scelto io di essere un Pokemon creato a partire da un essere umano. Tu invece potrai scegliere chi essere: sei una creatura fortunata, perché sei libera. Non accettare una condanna come la mia. Puoi scegliere di essere diversa… di essere migliore di me.”
Quanta ragione aveva quel leggendario condannato a essere Pokemon solo per metà. Era proprio vero che le sofferenze rendevano saggi.
Alicia trattenne una leggera commozione al ricordo delle condizioni esistenziali del suo angelo custode, che nonostante tutto non provava alcun rancore nei confronti della sua situazione: grazie a lui aveva compreso quanto lei dovesse essere riconoscente a ciò che la natura le aveva donato di bello, e non guardare solo alle difficoltà.
E ora come puoi chiedermi di separarmi da te?
“Per favore, Dark, girati. Vorrei uscire dall’acqua,” Gli chiese con imbarazzata cortesia: “E poi, in onore del nostro ultimo giorno da trascorrere insieme… mi piacerebbe che tu mi dessi l’onore di ascoltare il racconto di uno dei tuoi viaggi in solitario nel mondo… per ‘diffondere la testimonianza della colpa’.”
“Io proprio non ti capisco,” Borbottò lui a quel punto con occhio critico: “Sai perfettamente che il sottoscritto non possiede un apparato riproduttivo, senza contare che non faccio neanche parte della tua specie. E poi ho come la sensazione che qui tu sia l’unica ad andare in giro vestita, sai? Dov’è la ragione di tutta questa vergogna?”
“Darkrai. Per favore, voltati.” Ripeté lei la richiesta decisamente più seccata. Dopo un minuto la sensazione di un sospiro rassegnato le attraversò la mente come un soffio di vento: “Va bene, va bene, ho capito…” E l’Oscuro si era girato pazientemente dall’altra parte, voltandole le spalle mentre lei tornava a riva e si rimetteva addosso gli indumenti. Quando gli permise di guardarla di nuovo lo sentì di sfuggita sibilare un rassegnato ‘donne…’ prima di vederlo sistemarsi vicino a lei per raccontarle, come regalo di addio, uno dei suoi viaggi nelle regioni che aveva visitato prima di giungere ad Alamos.
“Sono rimasto stabilmente qui a Sinnoh da almeno un paio di centinaia di anni,” Incominciò con tranquillità: “Non che nelle altre regioni non ci fosse bisogno di terrorizzare gli uomini nel sonno. Ma gli altri leggendari, per quanto legati alla natura e alla sua preservazione, sono piuttosto gelosi del loro territorio. Secoli fa mi fu concesso di rimanere a Johto per un tempo limitato per svolgere il mio compito. Ho visto Hoenn una sola volta. Non portai mai i miei incubi a Kanto.”
Fu dunque di Johto che le parlò: le raccontò che era stato inviato laggiù dai leggendari superiori a lui perché era in corso una violenta rivolta contro la loro stirpe. La cosa, a parer suo, era alquanto paradossale: da poco fra gli uomini era disceso Ho-oh, l’imperatore alato del sole dalle ali dai 7 colori. Il magnifico pavone volante mitico era sempre stato considerato un simbolo di fortuna e prosperità, e veniva venerato come un dio dagli uomini. Era sceso sulla terra in un’occasione del tutto eccezionale, anche se non esattamente felice: da poco, nel centro abitato più grande e antico della regione, Amarantopoli, era stata bruciata la Torre di Ottone. La gente era convinta che fosse bruciata in seguito a un fulmine, ma l’Oscuro sospettava della responsabilità che avevano avuto gli uomini in quell’evento drammatico. Il fuoco e il fumo avevano invaso l’intero edificio, rischiando di uccidere ogni uomo e ogni Pokemon al suo interno. Ma tre Pokemon coraggiosi profondamente legati agli uomini erano entranti nella torre e avevano salvato chi era rimasto all’interno, braccato dalle fiamme. Gli uomini e i Pokemon si salvarono, ma il fumo aveva indebolito le tre coraggiose bestie, che non erano riuscite a impedire all’incendio di prendersi la loro vita. Dopo che il grande Lugia, a cui la Torre era stata dedicata come un tempio, ebbe evocato una pioggia abbastanza forte e lunga da spegnere le fiamme, gli uomini piansero commossi per l’eroico sacrificio compiuto dai tre Pokemon in onore delle due razze. Avevano implorato i leggendari di fare qualcosa per i loro salvatori, e le loro preghiere avevano infine commosso Ho-oh, il magnifico uccello simbolo del sole e dell’arcobaleno. Il potente leggendario era dunque sceso in terra, e aveva proposto agli uomini un patto: avrebbe riportato in vita per loro i tre Pokemon eroici, a condizione che venissero consacrati a lui e diventassero suoi servitori. Gli uomini sembrarono accettare le sue condizioni. Allora Ho-oh era volato sui resti della Torre Bruciata e l’aveva inondata con la luce delle sue ali, infondendo nuova vita nelle ceneri dei tre coraggiosi Pokemon. Ed esse si erano sollevate e avevano preso nuova forma, il potere di Ho-oh le permeò a tal punto da trasformarle completamente. I tre Pokemon tornarono in vita dalle loro ceneri come fenici, con nuova carne, nuovi poteri e nuova vita: era la nascita dei tre potenti servitori di Ho-oh, i leggendari conosciuti col nome di Entei del vulcano, Raikou del lampo e Suicune del vento del nord. Le tre bestie quadrupedi erano state completamente trasfigurate, apparivano splendide e potenti, rinate come leggendari. Fu allora che accadde il dramma.
Gli uomini, che in apparenza amavano quei Pokemon che si erano sacrificati per loro, e che avevano accettato le condizioni di Ho-oh, all’improvviso ne ebbero paura. Videro la loro nuova forma e la loro nuova indomabile forza, e ne rimasero terrorizzati. In loro nacque la consapevolezza di non poter controllare quelle creature così potenti, e la paura di non poter contrastare il loro potere tirò fuori quanto più di marcio c’era dentro di loro. Così presero pietre, tizzoni e bastoni, e si rivoltarono contro i leggendari: lanciarono fuoco e sassi sui tre nuovi servitori di Ho-oh, li insultarono e rinnegarono i loro salvatori. Ho-oh, furioso e indignato, volò via da loro carico di rancore. I tre nuovi leggendari, affranti e addolorati per quel trattamento ingiusto e irriconoscente, fuggirono via di corsa a loro volta, e non tornarono più.
Fu allora che il leggendario supremo e quelli più vicini a lui richiamarono a loro l’Oscuro: “Vai,” Era stato il loro ordine: “E punisci gli uomini che hanno sputato sui nostri doni ad Amarantopoli col potere che ti è stato dato: mostra loro tutta la mostruosità presente nelle loro anime.” E Darkrai era dunque partito da Sinnoh, sua terra natale, per raggiungere e punire con i suoi incubi infetti la gente di Johto che si era rivoltata contro la loro stirpe.
“… cosa hai mostrato loro in sogno?” Chiese a quel punto Alicia. Le sembrò che l’Oscuro per un momento avesse trasalito a quella domanda: “È bene che tu non lo sappia. Ti farei un grave torto se te lo dicessi. Non meriti di conoscere l’inferno che ristagna in me e che è mio compito mostrare alle menti dei peccatori.”
Alicia chinò subito la testa in segno di scusa e sottomissione: non avrebbe dovuto fargli una domanda del genere. Il leggendario per tutta risposta fece scorrere lo sguardo sul suo corpo minuto di donna non ancora adulta: nel suo sguardo c’era una inconfondibile nota di nostalgia e invidia, unica di chi si è visto privare di un corpo umano da migliaia di anni per una colpa non sua. Poi aveva concluso il racconto senza fare una piega: “Sappi solo che ho obbedito come è mio dovere. E ho infestato le loro notti abbastanza a lungo e abbastanza spietatamente da spingerli, infine, a inginocchiarsi davanti alla Torre Bruciata e a implorare il perdono della nostra razza. Non ottennero alcuna risposta: non la meritavano per ciò che avevano fatto.
Tuttavia, anche se loro ancora non lo sanno… Ho-oh e i suoi tre servitori torneranno. Un giorno torneranno per dare loro una seconda possibilità.”
Concluso il racconto, i suoi brillanti occhi celesti dalla pupilla sottile e affilata tornarono a fissare le iridi di Alicia: “Questo è tutto. Fu la mia unica visita a Johto. Ti ho soddisfatta, principessa?” Lei aveva mostrato un sorriso riconoscente: “Certamente. Grazie, Dark.” Tuttavia il leggendario lesse molto chiaramente ancora una certa curiosità nella mente della sua piccola umana, che infatti subito dopo chiese ancora: “E per quanto riguarda Hoenn?” “Oggi non ti accontenti mai, principessa,” Aveva sospirato lui senza scocciatura alcuna: “Tuttavia soddisfare la tua curiosità è per me fonte di un raro piacere. In quel tempo, a Hoenn qualcuno aveva violato le sacre dimore segrete che gli uomini avevano costruito in onore dei tre golem che regnano sul sottosuolo: Regice del ghiaccio, Registeel del metallo e Regirock della pietra.”
“Ti prego, raccontami.”
Continua...
Nota dell'autrice: sarà perché sono ancora in piena lettura dei Miserabili di Hugo, ma parlando del rapporto fra i protagonisti di questa storia in questo capitolo non ho potuto fare a meno di pensare al rapporto che c'è fra Cosette e Jean Valjean... pazzesco quanto possano influire i libri che si leggono.
Può sembrare un capitolo inutile, ma ho sentito il bisogno di fare una pausa nel mezzo del mega flashback che ho cominciato dall'Atto VI, non volevo far perdere troppo voi che avete scelto di seguire la storia.
In ogni caso... è completamente inutile, in estate bisogna prendersi un relax totale, senza scrivere o altro... specialmente questa, l'ultima che ho potuto fare felice e spensierata a liceo finito...
Ma ormai voi vi siete abituate/i tutte/i alle mie assenze millenarie, vero? Vero? :-)
Ci rileggiamo fra un paio di decadi, miei malcapitate/i e carissime/i lettrici e lettori ;-) |
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Capitolo 20 *** Atto XIX ***
1
“Hai
sentito?”
“Cosa?”
“Pare
che Alicia abbia avuto un contatto con un Darkrai.”
“Cosa?!
Davvero?!”
“Sì,
è successo qualche giorno fa. Ne parlano tutti, qui a
scuola!”
“Beh,
in effetti quella lì è sempre stata un
po’ strana…”
“L’unica
a cui poteva capitare era lei. Sempre a parlare con
i Pokemon…”
“Sì,
è vero, sta sempre a parlare coi boschi con quelle sue
foglie… sembra quasi figlia loro, non fa che
difenderli…”
“Infatti,
sta sempre dalla loro parte! Ti ho raccontato di
cosa mi è successo due settimane fa?”
“No,
cosa?”
“Stavamo
giocando a palla in quattro nel cortile, e a un
certo punto è sbucato dal nulla uno Shinx che si
è messo in mezzo al campo a
cercare chissà cosa miagolando. Siccome
l’intervallo finisce sempre presto gli
ho dato un calcio per mandarlo via, ma invece di scappare mi ha
soffiato
contro. Allora ci siamo messi tutti a tentare di cacciarlo. E allora
quell’animale impertinente mi è saltato addosso,
mi ha graffiato e mi ha morso!”
“Ahia…
il mio gatto quando fa così è
tremendo…”
“Fortuna
che non si è infettato niente, con tutte le schifezze
che toccano le sue zampe. Quando poi sono uscito
dall’infermeria della scuola
ho incrociato per caso quella lì che tornava dai suoi
giardini. Lei ha visto la
fasciatura e mi ha chiesto che era successo; tu sai che non mi piace
rispondere
male alle ragazze, anche se quella è un caso
strano… così le ho detto che era
stato quello Shinx a ridurmi in quello stato. E lei sai che mi ha
risposto?”
“Cosa?”
“
‘E tu cosa gli avevi fatto?’ ”
“Wow…
solo lei poteva dare una risposta così…”
“Ma
infatti! Sta sempre dalla parte dei Pokemon, e scommetto
che continuerebbe a farlo anche se le ammazzassero la madre! Comincio a
pensare
che sia più vicina a loro che a noi…”
“Anche
tu? Io lo penso da quando la conosco… Al non è
proprio
umana. Ogni volta che la vedo mi sembra più simile a un
Pokemon che a un essere
umano.”
“Dopo
questa storia ormai non capisco più nemmeno io che
cosa sia quella là… non è una di noi,
e non viene neanche dalla natura. Se ha
avuto davvero un contatto con quel Darkrai…”
“È
stata maledetta.”
Dio mio, basta!
No, non era
per via delle dicerie sul suo conto che andavano
via via spargendosi sempre più velocemente per tutta la
città. Alicia non ci
faceva il minimo caso, era come se i pettegolezzi fossero stati
divulgati in
una lingua a lei del tutto incomprensibile. O forse non li udiva
proprio. Era
diventata come sorda.
Quando un
essere umano ancora impreparato ad affrontarlo è
sottoposto a un dolore ancora troppo grande per lui, sul momento
diventa
incapace persino di piangere. Così era stato per Alicia: la
notizia tanto
improvvisa che chi l’aveva messa al mondo aveva appena
cessato di vivere,
proprio quando tutti i suoi cari avevano ricominciato a sperare, aveva
abbattuto le sue emozioni in maniera così inaspettata che
non era riuscita
neanche a versare una lacrima. Dopo che il visitatore che aveva causato
quella
situazione aveva levato finalmente il disturbo, la piccola suonatrice
era
diventata sull’attimo completamente apatica: ed era rimasta a
fissare il nulla di
fronte alla porta come una bambola per più di
mezz’ora, finché un abbattuto e
compassionevole Godey non aveva deciso di prenderla per un polso per
trascinarla via da lì. A quel punto Alicia si era
apparentemente ricordata
dell’esistenza del suo tutore, e in lei per un attimo la vita
era sembrata
tornare parzialmente: poi però aveva fissato
l’architetto con due occhi così disumanamente
persi da farlo rabbrividire. E se ne era andata da sola nella sua
stanza senza
dire niente. Nessuno, neanche Godey, seppe mai cosa avesse fatto
davvero in
quella stanza durante quella sera e quella notte: per un momento
all’architetto
sembrò di sentire un paio di suoni senza armonia provenire
da quella camera,
che però furono di così breve durata che
pensò di esserseli immaginati.
La storia di
Darkrai non fu più menzionata. Il giorno
seguente fu poi pubblicato l’atteso articolo di giornale che
annunciava il
sofferto abbattimento dell’odiato Pokemon leggendario da
parte della pattuglia
che era riuscita a sparargli: a quanto pareva la città era
stata convinta che
la temuta bestia portatrice di incubi che la terrorizzava fosse
diventata
finalmente un semplice e spiacevole ricordo. Ciò
salvò sia Alicia che l’essere
che aveva avuto contatto con lei.
Il
coinvolgimento di quella ragazzina nella faccenda era
stato divulgato facilmente nella zona in cui vivevano lei e il suo
tutore
tramite pettegolezzi scaturiti, forse involontariamente, forse no,
dalla bocca
di Joy. Tuttavia, a quanto pareva, l’opinione pubblica aveva
evitato, per qualche
contorto miracolo, di prenderlo in seria considerazione: probabilmente
nessuno
sospettava che una bambina così piccola, da sola, fosse
stata in grado di
salvare la vita di un Pokemon leggendario in punto di morte, per di
più
rimanendo miracolosamente illesa dopo un contatto con una bestia come
quella.
Così avevano preferito credere direttamente alle
testimonianze dei cacciatori.
E se nessuno evidentemente si era fatto molte domande sulle tracce
della
disperata operazione che il Chansey della clinica e quella ragazzina
incomprensibile avevano lasciato nel Centro, forse dai colleghi di Joy
era
stato dato per scontato che quelli non fossero altro che i resti di
un’altra
operazione ufficiale avvenuta da poco. E avevano ripulito prima che
qualcuno
cominciasse a insospettirsi. Per fortuna quell’esperto e
prudente Chansey, che
Alicia aveva assistito solo in minima parte, aveva usato solo lo
stretto
indispensabile per estrarre quel proiettile: avrebbe passato un brutto
momento
anche quella rara creatura dalle conoscenze umane se i suoi padroni
avessero
scoperto che aveva disobbedito agli ordini e compiuto una pazzia come
quella.
In ogni caso,
grazie al cielo, tralasciando i pettegolezzi
sparsi della bassa borghesia, la situazione sociale si era mantenuta
miracolosamente
tranquilla. Ciò permise a Godey di tirare un sospiro di
sollievo: la peggiore
cosa che poteva capitare a quella bambina in un momento come quello era
l’assedio dei media.
In quei
giorni, l’architetto fece forza su se stesso e
lasciò in pace la sua protetta: Alicia doveva trovare da
sola la maniera di
andare avanti. Era una bambina forte abbastanza per superare quel
trauma, Godey
non aveva motivo di avere dubbi al riguardo. In ogni caso lui sapeva di
non
poter fare nulla di sua iniziativa che potesse aiutarla:
l’avrebbe solo
caricata ulteriormente di preoccupazioni immeritate. Nel tempo
trascorso
insieme aveva imparato che Alicia aveva il vizio di preoccuparsi per
gli altri
anche quando era lei ad essere messa peggio di loro; se lui avesse
adottato atteggiamenti
che avrebbero potuto farle pensare che le sue condizioni attuali
rendevano
triste e preoccupato anche lui, ostacolando quindi anche il suo lavoro,
Godey avrebbe
solo peggiorato il suo stato emotivo. Lo scatto per reagire Alicia lo
doveva
ritrovare da sola in se stessa, ed era sicuro che lo sapesse anche lei.
Lui
doveva solo avere pazienza: ci sarebbe stato se lei avesse chiesto il
suo
sostegno, ma per il resto doveva solo attendere. E aveva fiducia che
Alicia non
avrebbe reso poi così lunga quell’attesa.
Forse
però ne avrebbe avuta un po’ meno se avesse
controllato attentamente le sue condizioni. Dopo quel fatto, Alicia era
come
appassita: viveva, si muoveva, agiva, ma sembrava che il suo spirito si
fosse
rinsecchito. Il giorno dopo aveva già ripreso a muoversi e a
svolgere i suoi
compiti di tutti i giorni come aveva sempre fatto, il che sulle prime
avrebbe
fatto pensare che non mancasse molto al suo recupero: ma era diventata
ancora
più pallida del normale e appariva persino più
scheletrica, ed era diventata praticamente
incapace di comunicare. L’unica cosa che si poteva arrivare a
ottenere da lei
in quelle ore erano sguardi persi o pieni di senso di colpa. Per questo
anche
lei faceva del suo meglio per evitare contatti umani: era consapevole
che
probabilmente, se l’avesse vista in quelle condizioni, a un
individuo sensibile
sarebbero sbiancati i capelli. Per sua fortuna era nel bel mezzo di una
settimana di ferie quando accadde quel fatto, e ciò le
permise di non perdere
lezioni.
Soltanto lei
conosceva ciò che in quei giorni stava
accadendo nella sua mente crepata: fra tutti i sentimenti che aveva
iniziato a
provare dopo quel terremoto emotivo prevaleva un senso di sconfitta
totale.
Tu non hai vinto
niente. Hai perso. Tutto, hai perso.
L’unica
sfida che aveva sperato davvero di vincere l’aveva
persa su tutte le linee al momento di ottenere il punto finale. Era
uscita dal
Centro con una consapevolezza fittizia e fasulla, di cui solo i
perdenti
potevano godere. Aveva salvato un Pokemon leggendario maledetto, e
aveva pagato
quel gesto con tutti i centesimi. Aveva provato pietà per
lui perché l’aveva
trovato simile a lei, e si era illusa ingenuamente che lo fosse
davvero: un
errore imperdonabile che solo una bambina così ingenua e
sciocca poteva fare. Da
questa sua presa di coscienza era nato un pensiero odioso e virulento
che aveva
cominciato a infettarle la mente, e che lei, nonostante sapesse bene
quanto
fosse marcio, non era stata capace di respingere.
È
stata colpa sua.
No, non era
vero. Come poteva essere stata colpa sua? Lui
non aveva avuto alcuna parte in quello che le era capitato: lo aveva
trovato in
una condizione pietosa, inerme e più morto che vivo. Era
questione di logica,
anche volendo quella creatura non avrebbe mai potuto farle una cosa
simile in
quelle condizioni e in così poco tempo. E soprattutto, lei
non gli aveva dato
alcun motivo per farsi odiare da lui, quella creatura non aveva motivo
di farle
un torto così grande: al contrario, lei gli aveva fatto un
favore. E nessun
essere vivente pugnala alle spalle il proprio salvatore quando non ha
motivo di
odiarlo.
Eppure…
È
stato lui. È colpa
sua!
Gli hai salvato la
vita. E nello stesso giorno tua madre è morta.
Ti ha maledetta, e tu
lo sai!
Godey aveva ragione,
tutti avevano ragione. Non avresti dovuto salvarlo!
Lui ti ha fatto
questo, perché è con te che è venuto a
contatto!
È tutta colpa sua. Hai
salvato il demone d’Incubo, lui ti ha maledetta.
È stato quel Darkrai a
farti pagare per quello che hai fatto, sciocca!
E a ognuno di
quei pensieri ignobili era scossa dai brividi.
La matita che usava per scrivere e studiare per poco non le cadeva di
mano, ed
era costretta subito a interrompere il suo ripasso giornaliero
così sofferto.
Non è
vero.
Lui non è questo, non
è colpa sua.
Come avrebbe potuto?
In quelle condizioni!
Lui non ha fatto
niente, non ha colpa in tutto questo!
Falsità odiose…
andatevene, subito!
E sotto quello
scontro feroce tra le sue convinzioni e il
parere pubblico la sua testa andava inevitabilmente in crisi. Una
piccola parte
di lei rimasta lucida le ripeteva saggiamente che non importava
più, che quello
che era stato era stato e non serviva rimuginarci sopra, che doveva
pensare ad
andare avanti e non perdere tempo a tormentarsi in quella maniera. Come
tutti
sanno, però, dire e fare sono due cose molto distanti fra
loro, e nelle
condizioni emotive di Alicia lo erano ancora di più.
Mia madre non
avrebbe
mai voluto che pensassi questo di qualcuno.
Sei un essere
spregevole, basta con queste idee ripugnanti!
Lei stessa
faceva fatica a capire in che modo poi lei
ritornasse capace di studiare. Poi capì che lo faceva
perché quella era l’unica
cosa che le permetteva di concentrarsi su altro. Per disperazione.
Le venne paura
di dormire: una serie di orrendi incubi
notturni la aspettava, essi attendevano solo che il suo fisico venisse
meno. La
notte precedente era stata uno strazio, ne conservava ancora tutti i
ricordi, e
per questo non osava cedere al sonno. La notte successiva
riuscì a superarla in
bianco, ma la ragazzina era troppo fragile per sopportarne due di
seguito, e
quella dopo la prese e la trascinò di nuovo nei suoi sogni
distorti e pieni di
crepe, a metà fra sonno e veglia.
Che ho fatto per
meritarmi questo?
… e che ti importa?
Lei te lo ha detto
quando era viva: ciò che non ci uccide ci rende
più forti.
Tu sei forse morta?
E allora reagisci.
Doveva reagire
da sola, ne era perfettamente consapevole:
solo in lei era nascosta la chiave per riaggiustarsi da sola e andare
avanti.
Doveva solo cercare più a fondo, quella chiave era
sicuramente nascosta in ciò
che le era rimasto.
…
ma quanto tempo mi
resta ancora per trovarla?
Adesso
ricordo!
Ecco
dove l’aveva vista la prima volta: era stato
l’inverno precedente, nella
foresta collegata direttamente ai giardini di Alamos in cui un tempo
lui
cacciava abitualmente, poiché vi si concentravano la maggior
parte delle tane
delle sue prede. Certo, tutto questo prima che gli uomini gli
tendessero quella
trappola in cui l’avevano tirato dentro per fame e quasi
ammazzato.
Era
lei!
Aveva
trovato quella bambina mezza congelata sulla neve ai piedi di un
costone
dell’altezza di almeno dieci metri: fortuna che, prima di
piombare giù su una
neve fresca salvavita, l’urto mortale che quella bimba
avrebbe potuto fare era
stato neutralizzato da un paio di rami innevati che il suo fragile
corpicino aveva
incontrato durante la caduta. Meglio ferita che morta, dopotutto.
Imbarazzante
dirlo, ma anche allora sulle prime non si era neanche accorto che fosse
umana.
In effetti, il motivo per cui era andato a prenderla era di per
sé piuttosto
complicato e difficile da spiegare.
Ancora
non riesco a credere che sia una di loro.
Era
accaduto durante una delle sue cacce notturne per procurarsi
abitualmente
qualcosa da mangiare: allora riusciva ancora a permettersi di nutrirsi
con la
selvaggina fresca dei boschi non lontani dai giardini di Alamos, niente
a che
vedere con l’insipido pollame allevato dalla razza umana.
Quella notte aveva
quasi preso un tasso, di quelli molto grassi e appaganti, mancava poco
per
tirarlo fuori dal suo buco. Prima di riuscire ad avventarsi
sull’animale, però,
aveva avvertito una sensazione sgradevole, che era riuscita persino a
fargli
passare la fame in secondo piano. Si trattava di un presentimento
istintivo di
cui era stato dotato per eseguire al meglio il suo scopo di vita: solo
se ciò
avveniva a distanza sufficientemente breve, era in grado di percepire
se un membro
della sua razza, o qualsiasi altro elemento della natura che non doveva
essere
toccato, stava soffrendo a causa di un comportamento dannoso da parte
degli
uomini, in modo da permettergli di rintracciare subito i colpevoli e
punirli
con l’incantesimo del sonno. Quel tipo di sensazione, con sua
spiacevole
rassegnazione, purtroppo aveva la priorità sul riempirsi lo
stomaco: e aveva malvolentieri
risparmiato la succulenta preda per andare a controllare di cosa quella
volta
si fosse trattato, augurandosi con una certa irritazione che fosse
qualcosa di
veramente grave per il quale valesse la pena saltare la cena. Conoscendo
molto
bene se stesso e l’impressione non esattamente piacevole che
il solo vederlo
faceva alle creature senzienti, aveva rintracciato e si era avvicinato
alla
vittima con la stessa andatura furtiva che usava per cacciare,
socchiudendo gli
occhi al limite del possibile per evitare che la loro luce penetrante,
che gli
permetteva tra le altre cose di vedere al buio, la spaventasse. Quando
però si
era trovato di fronte alla malcapitata creatura per frugare nella sua
mente e
capire chi era responsabile del suo stato, la sorpresa era stata
così grande
che non aveva potuto fare a meno di spalancarli: non si trattava di un
Pokemon,
ma di una bambina umana. Come ci fosse finita là sotto era
intuibile, ma il
motivo di ciò non altrettanto: perché gli uomini
avrebbero dovuto gettare una
di loro giù da un dirupo? Poi se ne era ricordato
rapidamente: tutti gli uomini
erano fatti così, lui lo sapeva meglio di chiunque altro.
Evidentemente ai loro
occhi quella cucciola d’uomo aveva costituito un peso che
loro non avevano voglia
di mantenere. Malformazione? Malattia mentale? L’aveva
osservata con
attenzione, ma non aveva trovato niente di tutto questo: anche allora
appariva
estremamente piccola e delicata, questo sì, ma a parte la
ferita sul lato
destro del corpo e qualche linea di febbre non gli era sembrata affatto
malaticcia. E la sua mente era sana e ben sviluppata, non aveva alcun
tipo di problema
cerebrale. Ciò sull’attimo l’aveva
lasciato piuttosto perplesso e indeciso su
come comportarsi: chi doveva essere punito in un caso del genere?
Inoltre
l’errore di spalancare gli occhi di fronte a lei lo aveva
fatto identificare, e
c’era un’alta probabilità che se fosse
sopravvissuta quella piccola umana
avrebbe sparso la voce della sua presenza in quella zona, rendendogli
la
sopravvivenza impossibile. Era stato persino sfiorato dalla tentazione
di
terminarla.
E
poi, ricordò l’Oscuro con interesse, aveva
incrociato i suoi occhi: lì dentro
aveva visto scorrere una vita incompresa e quasi malinconica, ma
sorprendentemente sana e spumeggiante. Sotto la coltre di spavento che
copriva
quelle iridi aveva intravisto una sofferta solitudine, che
però era
assurdamente affiancata da un ardente desiderio di continuare a vivere.
Lui
aveva riconosciuto immediatamente quel tipo di vita, e per un momento
ai suoi
occhi quella bambina così diversa da lui era diventata uno
specchio che
rifletteva la sua immagine in miniatura.
Allora
aveva fatto il colpo di testa più grosso della sua vita: si
era piantato
l’unghia acuminata nel palmo e aveva usato il fluido di
porpora che ne era
fuoriuscito sul quel corpo umano. E la piccola umana aveva ripreso
colore in
nemmeno un minuto di tempo.
Quella
era praticamente l’unica regola che l’intera stirpe
dei leggendari aveva il
dovere di rispettare: mai, mai permettere che il loro sangue sacro
toccasse gli
uomini. Ciò che scorreva nelle arterie dei leggendari
conteneva il segreto
delle loro famose capacità di guarigione superiori che li
distinguevano dai
Pokemon comuni. A loro permetteva di guarire più velocemente
dalle ferite, ma
sulla specie umana aveva effetti ancora più stupefacenti. Inutile dire
che se gli uomini
avessero scoperto una simile proprietà non avrebbero esitato
a muovergli contro
un’altra guerra, forse anche peggiore della prima. E far bere
a un essere umano
il proprio sangue equivaleva a far entrare nel suo corpo una parte di
sé.
Aveva
compreso la reale gravità di quella sua pazzia nello stesso
momento in cui se
ne era accorta anche l’umana. Allora era stato sommerso dalla
paura e dalla
vergogna.
Ed
era scappato. Le aveva mostrato rapidamente la via del ritorno, e poi
era
scappato.
Devi
essere completamente impazzito.
La
benda che si era dovuto tenere addosso per due giorni non aveva fatto
altro che
dargli un fastidio madornale: non era abituato a stare tanto a lungo a
contatto
con cose artificiali, inoltre quella roba aliena gli limitava i
movimenti. E
anche se la ferita che aveva ospitato la pallottola non aveva ancora
finito di
cicatrizzarsi, non aveva potuto fare a meno di strapparsi tutto di
dosso prima
del tempo, esponendo all’esterno quell’odioso buco
residuo ancora incrostato di
sangue secco.
Mi
spiace, ma no, non sono affatto impazzito.
Fissando
quella antipatica cicatrice malformata, capì che, se quel
giorno non avesse
infranto quella regola, non molto tempo dopo di lei sarebbe passato
all’altro
mondo anche lui. Forse era per questo che non aveva ricevuto ancora
alcun
castigo dai leggendari Maggiori per quella sua pazzia. Tuttavia quei
pensieri
catturarono la sua attenzione solo per un attimo: per tutto quel tempo
la mente
dell’Oscuro era stata presa da una serie di dubbi e domande
continue che
riguardavano una sola persona.
…
che starà facendo lei adesso?
Insieme
a quello provocato da quella stoffa aliena, in quei due giorni
l’Oscuro era
stato perseguitato da un fastidio ossessivo provocato da ricordi e
domande che
non avevano che un soggetto: la ragazzina dai capelli biondi e gli
occhi chiari
che dominava sulla foresta.
A
cosa stai pensando, principessa?
Prima
di allora non aveva mai sperimentato la curiosità, per cui
non sapeva definire
da che cosa fossero provocate tutte quelle domande che non lo
lasciavano in
pace nemmeno per un minuto, né nel sonno né da
sveglio.
Discende
da uomini o dalla nostra razza?
Vive
con loro o è figlia dei boschi?
E
se fosse anche lei un essere a metà?
Se
è così, a che scopo vive?
E
perché ha fatto questo a me, che sono il brutto e odiato
castigatore dei suoi
padri?
In
che modo riesce a farsi obbedire dalla nostra natura?
A
che pensa? Che sta facendo? Dove si trova adesso?
Dio,
che fastidio, non era mai stato tanto inquieto. Aveva tentato di dare
la colpa
alla tensione che provava all’idea che una creaturina innocua
come quella gli avesse
messo a nudo l’anima come se niente fosse, in un momento di
fragilità che aveva
fatto riemergere i resti della sua umanità perduta. Per di
più tutto questo era
successo a causa del suo imbarazzante errore di calcolo che lo aveva
fatto
mettere sotto tiro, e ciò gli risultava insopportabile.
Perché ora si sentiva
scoperto e vulnerabile: un’umana adesso conosceva i suoi
segreti, e il suo
popolo poteva usarli come arma contro di lui. Perché gli
uomini erano così: se
si apriva il cuore a uno di loro, questi ci entravano con un coltello.
Perché
ciò avrebbe potuto tornare loro utile.
E
allora perché non ti ha finito? O non ti ha lasciato
lì fino alla fine della
tua agonia?
Non
può mica aver deciso di salvarti la pelle per poi
strappartela subito dopo!
Però
gli uomini erano creature di spirito fragile e di scarso autocontrollo,
e
cambiavano idea in maniera orribilmente facile. Ecco perché
non meritavano la
fiducia della sua razza. Ed ecco perché era stato creato,
brutto esteriormente
e dentro marcio di incubi.
Ma
la vuoi smettere di tralasciare che lei è umana solo in
parte?
Ecco
ciò che lo tormentava davvero: non era capace di spiegarsi
l’esistenza di
quella bambina. Per quante ragioni cercasse di trovare, non capiva
proprio come
potesse essere avvenuto quell’incontro, né come
avesse trovato quella creatura
così piccola e innocente assurdamente simile a lui. E
ciò lo frustrava ai limiti
del possibile.
E
quello era un ennesimo segno che la sua parte umana riusciva ancora ad
avere il
sopravvento su di lui: è tipico degli uomini tormentarsi per
ciò che non
riescono a comprendere e dedicare tutto il tempo della loro vita alla
ricerca
di spiegazioni a tutto.
Confessalo
e basta. La vuoi rivedere, glielo hai detto tu stesso.
Pensava
a questo mentre se ne stava nascosto nei meandri di quei giardini
ameni,
aspettando che la ferita guarisse e gli permettesse di tornare a
sorvegliare il
popolo umano in maniera adeguata. E purtroppo dovette ammettere che
sì, non
c’era nient’altro in grado di calmare la sua
inquietudine. C’era solo un
piccolo problema: mettersi a cercarla sarebbe stata una follia grossa
quanto
quella che aveva fatto quando aveva avuto la pazza idea di donarle il
proprio
sangue.
Se
tutto era andato liscio, l’intera città lo credeva
morto. Sarebbe stato già
difficile continuare a mandare i suoi sogni oscuri alle menti umane
senza
smentire le convinzioni della gente, ma cominciare una ricerca come
quella
sarebbe stato quasi impossibile. E aveva imparato anche troppo
dall’errore che
gli era quasi costato la vita, non sarebbe mai più stato
tanto imprudente.
Ma
voglio capire. Io voglio, voglio sapere.
Chi
sei? Cosa mi hai fatto?
Come
volevasi dimostrare, la sua parte umana ebbe di nuovo il sopravvento,
facendogli preferire i desideri alla saggezza. E decise contro ogni
logica che
l’avrebbe cercata.
Quella
notte stessa sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio
improvvisato e si diresse
fuori dai giardini, verso la patria delle persone. Non aveva indizi su
come
trovarla, ma la telepatia che gli era stata concessa era una garanzia
più che
sufficiente. Una volta entro i confini di quel centro abitato
così odiato,
ammantatosi d'ombra, incominciò
a seguire e a frugare nelle menti di ogni essere umano che incrociava,
sperando
di trovare un ricordo che avesse a che fare con la sua principessa.
All’inizio
non ebbe molta fortuna, e a questo era preparato. Tuttavia gli indizi
che
cercava valsero la sua pazienza e gli arrivarono in tempo per
impedirgli di
addentrarsi rischiosamente nel cuore della città: nella
testa di una giovane
donna, che tornava allora a casa da un incontro con le sue simili,
trovò un
ricordo interessante. L’umana aveva visto, due giorni prima,
una bambina dai
riccioli biondi di piccola statura correre lungo la via come se la
stesse
inseguendo un pazzo assassino, tanto da farla preoccupare e pensare di
chiamare
qualcuno. Poi però quella bimba minuta era scappata via ed
era scomparsa così
velocemente che il suo proposito era sfumato del tutto.
L’Oscuro penetrò in
quella mente più in profondità fino a capire in
che direzione l’aveva vista
fuggire: non era andata, con sua somma
soddisfazione, nel pericoloso
centro della città, ma verso una zona al confine proprio con
i suoi giardini.
Inconsapevolmente, quella ragazzina lo aveva salvato di nuovo,
impedendogli di
addentrarsi troppo nella tana del lupo.
In
effetti, man mano che lui si avvicinava alla zona del borgo in cui
aveva motivo
di credere vivesse la sua piccola driade, le fonti delle sue
informazioni
aumentavano: molti l’avevano vista fare regolarmente avanti e
indietro fra i
giardini e la sua casa, e da loro riuscì ad avere il luogo
esatto in cui si
trovava. Ci si diresse a tutta velocità.
Tuttavia
non poté fare a meno di notare che, più si
avvicinava alla dimora della
principessa, più i ricordi della gente a suo riguardo
diventavano sgradevoli:
ciò lo lasciò del tutto confuso. Una donna
pensava a lei con un misto di pietà
e timore, in un’altra casa un ragazzino la ricordava con
fastidio, e in
un’altra ancora addirittura una bambina riservava alla sua
immagine
esclusivamente appellativi offensivi. La sua confusione dopo qualche
minuto si
era trasformata in sgomento.
Tutto
questo non ha senso. Come può quella principessa essersi
guadagnata tutto
questo disprezzo?
Alla
fine, riuscì a trovarla: la sua dimora rispetto alle altre
era davvero molto
vicina ai giardini in cui era stato soccorso da lei, anche se
probabilmente per
un essere umano ci sarebbe voluta una buona mezz’ora per
raggiungerli da lì
usando le proprie gambe. Il posto in cui viveva era sorprendentemente
semplice:
era una casa piccola di appena due piani, di aspetto ordinario e poco
appariscente, costruita di certo per poche persone. L’Oscuro
si sarebbe
aspettato di tutto tranne che una ragazzina di nobile stirpe come lei
doveva
essere vivesse in un edificio così modesto.
Di
certo ora starà dormendo.
Se
solo ci fosse un modo per conoscere i suoi sogni senza
rovinarli…
La
curiosità lo aveva vinto da tempo, non aveva senso tirarsi
indietro proprio
allora. Così raggiunse quelle mura povere e modeste e
cominciò a girarci furtivamente
intorno, alla ricerca di una qualche apertura che potesse permettergli
di
vedere dentro quell’edificio senza pretese. Ma ogni porta gli
si presentò
davanti più che serrata, e tutti i vetri rettangolari
presenti su quelle mura,
quelli che gli uomini usavano per far entrare la luce
all’interno delle loro
case, erano oscurati e chiusi dall’interno.
L’Oscuro non fece alcuno sforzo per
trattenere l’esasperazione.
E
andiamo, non puoi chiudermi fuori dopo che ho fatto tutta questa strada!
Tuttavia,
quando passò a controllare il piano superiore,
riuscì a individuare un unico vetro,
chiuso, ma ancora trasparente, attraverso il quale avrebbe potuto
concedersi di
spiare almeno un frammento di vita della sua giovane salvatrice. Sulle
prime la
cosa gli trasmise una certa eccitazione: ma non appena si fu avvicinato
di più,
essa si spense sul colpo.
Da
quel vetro sentiva provenire delle onde emotive sgradevoli e fredde,
che
pungevano la sua mente e gli infiacchivano persino i muscoli delle ali.
Dalla
stanza su cui dava quel rettangolo trasparente sentiva trasudare
un’aura di
malinconia e solitudine che gli faceva provare la stessa sensazione che
avrebbe
provato sotto una battente pioggia invernale: era come se stesse
percependo
l’odore di un fiore che un tempo doveva essere stato molto
bello e profumato,
ma che ora era sul punto di marcire. Da lì proveniva una
tale emozione di
smarrimento totale da far sentire perso anche lui.
Non
può essere oltre quello strato. Non può essere
suo questo odore malato.
Questa
non può essere lei!
Ma
qualcosa gli diceva che invece dietro quel vetro c’era
proprio l’umana che
stava cercando. Ne rimase sconvolto: quella non poteva essere la
principessa
che conosceva. Lei aveva un profumo dolce e sapeva di bosco, poteva
sentire
ancora il suo spirito vitale percorrergli le vene. Non poteva essere
sua quell’aura
carica di tristezza e malattia.
Dimmi
che non sei tu, questa.
Solo
a fatica riuscì a vincere la tensione che l’aveva
preso a quella spiacevole
percezione: appiccicò le iridi blu al vetro e
guardò dentro.
Era
una stanza semplice quanto l’impressione che
l’edificio dava all’esterno,
ordinata e pulita. Solo poco oltre il vetro individuò una
serie di foglie
ammucchiate alla rinfusa una sull’altra, di cui non capiva
minimamente
l’utilità. Per sua sfortuna, individuò
l’oggetto della sua ricerca anche troppo
presto.
La
piccola umana che lo ossessionava da due giorni era rannicchiata nel
buio in
quello che doveva essere il posto in cui dormiva:
dall’esterno ne intravedeva
la forma esile del corpo. La vide chiusa su se stessa come un
porcospino
gracile e infreddolito, e tremava. Non era possibile definire se stesse
rabbrividendo per il freddo o per la profonda piaga psicologica che
l’Oscuro
percepì come se fosse sua.
Sì,
confermò lui con orrore e profondo sconvolgimento,
quell’aura di incurabile
smarrimento era proprio della principessa. Era abbandonata sul suo
letto a soffrire
come un cane, e la sua mente straziata da un sonno cattivo e spietato
gli aveva
dato la sensazione di avere la testa piena di spine. Il suo silenzio
gli
irrigidiva le ossa: quella esile creatura non emetteva né
singhiozzi né
lamenti. Stava lì, tutta raccolta su se stessa, e soffriva
intensamente in un
silenzio assoluto. E ciò era la caratteristica peggiore.
Non
è possibile. Colei che mi ha ridato la vita appassisce.
Cominciò
a sentirsi anche lui mezzo rinsecchito: la tempesta di emozioni
negative che
proveniva da quella fragile figura lo investiva con la stessa potenza
con cui
lo aveva abbattuto la dolcezza che lei gli aveva mostrato quando lo
aveva trovato
ai giardini mezzo morto. Non doveva andare così, lei non
doveva avere il sonno
tanto inquieto.
Chi
ti sta facendo questo, principessa?
Dimmelo.
Gli darò io quello che si merita, pagherà per
questo oltraggio.
Ma
non c’era nessuno da accusare per il grande dolore con cui la
ragazzina lo
stava avvolgendo: non trovò nomi colpevoli nei suoi
pensieri, così confusi,
trafitti e smarriti da non riuscire a capirne il significato. E
soprattutto,
comprese lui con una frustrazione dolorosa, in ogni caso i suoi poteri non
l’avrebbero aiutata. Se anche ci fosse stato un responsabile per quelle sue condizioni,
punirlo non sarebbe stato di alcun aiuto per guarirla. Non si era mai sentito più
impotente di allora.
E
se lei invece stesse così male proprio per colpa tua? Ci hai
pensato?
Era
una possibilità che faceva fatica a prendere in
considerazione, ma la verità
era che ciò era effettivamente probabile. Lui stesso in
passato aveva riscontrato
difficoltà di controllo sugli incantesimi del sonno, e per
legge della natura chiunque
gli dormisse così vicino soffriva di incubi. Era un motivo
addizionale per cui
nemmeno la sua razza aveva motivo di sopportarlo.
E
certo, idiota, se le stai così vicino è ovvio che
stia avendo gli incubi! Ma ti
rendi conto almeno di che creatura sei?!
Per
un momento se ne convinse, e pensò di tornare sui suoi
passi, sperando che i
suoi sospetti si realizzassero e che la sua lontananza bastasse a far
smettere
a quei sogni cattivi di importunare quella creatura indifesa. Purtroppo
però la
ragazzina smentì subito anche quei dubbi.
Un
attimo prima di allontanarsi dal vetro, due unici pensieri, chiari e
distinti,
partirono dalla principessa e squarciarono la mente
dell’Oscuro in maniera così
improvvisa da farlo trasalire: erano due accuse, violente e opposte,
che si
contrastavano fra loro dentro la giovane umana. E la
cosa più
sorprendente era che il soggetto di quei pensieri accusatori non era
altri che
lui stesso: una delle due convinzioni che si scontravano nel cuore di
quella
triste bambina attribuiva a lui una colpa che non riusciva a definire,
ma che
sembrava essere piuttosto grave; eppure un altro pensiero, altrettanto
tenace,
si opponeva con ferocia a quella accusa e si ostinava a difenderlo. Il
risultato
di quello scontro acceso fra idee era il caos psicologico che regnava
nella
mente della principessa e che le rendeva il sonno insopportabile.
…
ma di che cosa mi accusi, bambina?
Di
certo lo avrebbe capito se fosse penetrato più a fondo nei
pensieri frammentati
della ragazzina. Eppure, per la prima volta, l’idea di
abusare della telepatia
per soddisfare la propria curiosità gli risultò a
dir poco sgradevole.
Tanto
per cominciare, per una lettura più accurata e profonda di
quella mente umana sarebbe
dovuto avvicinarsi di più, e quindi entrare pericolosamente
dentro l’edificio,
per di più infilandosi sotto quel vetro in maniera che non
avrebbe potuto
essere più scomoda. Il secondo problema era che si trattava
di una mente molto
provata e nel caos emotivo più totale, che era necessario
trattare con estrema
attenzione per non peggiorarne la delicatissima situazione. La terza
complicazione era costituita dal fatto che, nel caso di
quell’unica umana, si
sentì davvero un ospite indesiderato che stava ficcando il
naso in fatti intimi
che aveva il dovere di lasciar stare. Il quarto motivo era forse il
più
importante: se avesse deciso di penetrare tanto a fondo in quella mente
umana,
quel gesto sarebbe equivalso a far entrare in lei un frammento di
sé, che avrebbe
potuto marchiarla permanentemente. E se avesse deciso di affondare
completamente nei suoi pensieri fragili e privati si sarebbe esposto al
rischio
che la piccola umana si accorgesse che qualcosa stava effettivamente
frugando
nella sua testa. E quello sarebbe stato il primo passo per farle
raggiungere la
pazzia. Dannata mente umana, non esisteva al mondo niente di
più complicato.
Come
se la tua fosse tanto diversa.
Aver
paura di questi rischi significherebbe che non sei
all’altezza di quello che
sei. Che hai fatto finora? Non è forse tuo scopo di vita
entrare nelle menti
umane?
E
poi dov’è il motivo di queste preoccupazioni
ridicole? Hai già fatto entrare in
lei un frammento di te: la tua linfa vitale di sicuro è
ancora presente nel suo
corpo.
È
dopo esserti inguaiato da solo che ti fai prendere da tutto questo
zelo?
Sei
davvero il miglior campione della contraddizione.
…
ma sì, in fondo avrebbe dato solo una sbirciata, non sarebbe
rimasto a lungo a
frugare in quella mente ferita. E uno come lui non avrebbe dovuto avere
tanta
paura dei rischi di ripercussioni psichiche sul cervello delle sue
vittime:
averla avrebbe significato dichiararsi incapace di controllare i suoi
stessi poteri.
Non entrava e corrodeva le menti della gente da tutta la sua lunga
vita, dopotutto?
… darò
solo un’occhiata. Una sola, velocissima.
Farò
in modo di non danneggiarla minimamente.
La
tentazione lo vinse.
Ispirò
a fondo, si appiccicò alla parete e trasformò la
propria carne e le proprie
ossa in un’ombra amorfa e impalpabile. E affrontò
lo sgradevole ingresso; trattenendo
il fiato si infilò a fatica nella fessura che separava vetro
e muro, attraverso
la quale solo un’ombra sarebbe potuta passare. E nemmeno in
quella forma
risultava particolarmente comodo superare quell’odioso
ostacolo: nonostante il
suo spessore fosse ridotto al minimo, rimaneva sempre una creatura
vivente
separata dalla materia. In quella maniera il suo corpo si appiattiva e
si
adattava semplicemente agli oggetti che lo circondavano. Ciò
significava provare
dolore se veniva ad esempio colpito o calpestato. Certo però
questi erano
difetti ben trascurabili in confronto ai vantaggi che questa
abilità conferiva.
Quando
finalmente riuscì a far passare oltre quello strettissimo
pertugio anche le ali,
l’Oscuro poté finalmente recuperare la propria
forma originale. Una volta
all’interno non aveva potuto fare a meno di guardarsi intorno
con curiosità
ancora maggiore: non aveva mai visto tutti gli oggetti presenti in
quella
piccola camera, per lui era un piccolo mondo tutto nuovo. Inutile dire
che non
gli era mai passato neanche per la testa di infiltrarsi in una casa
umana prima
di allora. Tuttavia si ricordò rapidamente del motivo che lo
aveva spinto a
compiere quella pericolosissima entrata: e i suoi occhi tornarono a
posarsi sulla
figura raccolta della principessa, che continuava a dormire proprio
accanto al
vetro.
Spero
per te che ne sia valsa la pena, specie di suicida mancato.
Represse
una tensione che rischiava di farlo scoprire, e in silenzio si
avvicinò piano
al giaciglio di quell’esile e misteriosa creatura. Non
poté fare a meno di
concedersi un minuto per osservarla con interesse.
… è
proprio lei.
Ora
che se la trovava proprio davanti non gli fu difficile confermare che
si
trattava di una ragazzina minuta e davvero magrissima, per non dire
quasi
scheletrica. La pelle aveva assunto un pallore che, non fosse stato per
i suoi
tremori, l’avrebbe fatta passare tranquillamente per un
cadavere. E i capelli
biondi alla luce lunare apparivano spenti e rinsecchiti, proprio come i
petali
di un bucaneve appassito. A quella visione a un uomo molto sensibile
probabilmente si sarebbe stretto il cuore; l’Oscuro per
fortuna aveva visto
cose ben peggiori. Tuttavia non nascose a se stesso che nel vedere
quella
piccola driade ammalata un brivido interiore l’aveva
attraversato, forse di
paura, forse no.
Come
è piccola…
Non
ho mai visto creatura vivente con aspetto più fragile di
questo.
Come
ha fatto a non spezzarsi per tutto questo tempo?
Forse
si stava spezzando proprio in quel momento. L’idea gli
suscitò una tale
indignazione da provocargli il desiderio a malapena contenuto di
mettersi a ringhiare
come una bestia.
Vuoi
scherzare?! È rimasta intatta fino ad ora e adesso comincia
a rompersi?!
Guarda
che non ho fatto tutta questa strada per vederla spegnersi!
Si
avvicinò solo un altro poco a quel ramoscello di forma
umana: subito la
tempesta di smarrimento e dolore che imperversava nella testa di quella
bambina
tornò a picchiargli contro come una bora. Peggio di quanto
avesse immaginato.
Non
le avrai fatto bere col tuo sangue anche la tua autostima, vero?
Fallo.
E muoviti, prima che qualcuno colga la possibilità di
smentire la tua morte.
Quando
finalmente riuscì a distogliere l’attenzione da
quella figurina rannicchiata, affrontò
con cautela quella bufera di pensieri frammentati e distorti che
vorticavano
pericolosamente intorno alla principessa. La cosa non
risultò impossibile, ma
di certo neanche facile: raramente gli era capitato in vita di dover
dare fondo
a tutta la sua esperienza e abilità per leggere una mente
umana, e questo era
uno di quei casi. Con un minimo sbaglio, un ipnotizzatore normale avrebbe potuto creare in quei
pensieri
fragili una frattura che, per quanto piccola, avrebbe potuto avere
conseguenze
psichiche permanenti sul soggetto: ma lui non era un ipnotizzatore normale.
L’ingresso
in quella mente provata lo fece sudare non poco, ma l’Oscuro
riuscì a superare
quell’ostacolo di incubi e ricordi caotici senza intaccarne
nemmeno uno: la
principessa non si accorse di lui. Il castigatore di uomini
però non si fermò
certo lì, e si immerse con prudenza ancora più a
fondo, dove credeva di trovare
le risposte allo strazio emotivo che imperversava in quella testa che
aveva
osato violare. E le trovò.
Subito
dopo schizzò fuori da quella mente in crisi appena in tempo
per evitare che la
sua presenza non invitata iniziasse a corroderla. Quando
rientrò in se stesso
gli girava persino un po’ la testa.
Sacrissima
Terra, quante me ne fai passare…
Mentre
recuperava il controllo di sé la osservò per
assicurarsi di non aver sfiorato la
sua già fragile lucidità mentale: la principessa
continuava a dormire, non era
cambiato niente in lei, né la sua posizione, né
il suo sonno inquieto. Era
rimasta intatta, la sua mente non lo aveva percepito frugare tra i suoi
ricordi
come un ladro. Tutto era andato liscio. Eppure l’Oscuro non
provava alcun
sollievo; al contrario, dopo aver carpito ciò che aveva
trovato nella testa della
ragazzina si era ritrovato quasi più smarrito di lei.
‘Mia
madre non esiste e non esisterà più’.
Che
significa? Chi te l’ha uccisa? Chi ha osato infliggerti una
simile piaga?
L’Oscuro
per tutta la vita non aveva fatto altro che seguire, punire e ammonire
colpevoli di qualcosa: non era in grado di capire che alcune disgrazie
accadevano anche senza che qualcuno le provocasse. D’altra
parte tutte le
sofferenze che aveva osservato e vissuto erano sempre state causate
dagli
uomini. C’erano sempre loro dietro a
tutto, vincevano sempre, e ormai invecchiavano così
lentamente che quasi tutta
la sua razza, lui compreso, aveva dimenticato che potessero morire
anche senza
ammazzarsi fra loro. Quindi l’Oscuro non comprendeva il
significato dei pensieri
di quella creaturina martoriata.
‘È
scomparsa per sempre. Subito dopo averlo toccato. Ma non è
colpa sua. Lui non
può averlo fatto in così breve… no,
sì… sì, oppure no… no,
cioè sì… cioè no! Mi
ha maledetta lui? O no? Perché mi hai fatto questo,
Darkrai?’
Non
è stata colpa mia!
Più
cercava di capire quegli acuminati pensieri rubati più essi
gli risultavano
incomprensibili, e al contempo lo facevano sentire tirato in causa.
Non
sono stato io a farti questo!
Io ti
giuro sulle mie ali che non ho mai pensato di infliggerti questo
dolore! Perché
avrei dovuto? Che colpa avevi, tu, per meritartelo?
Tu,
creatura innocente, che sei stata l’unica ad avermi mostrato
pietà?
Ti
aiuterei, se solo potessi!
Ma
il fatto era che lui non era stato creato per aiutare, ma per rovinare.
Conteneva il male facendo del male, la sua esistenza era una
contraddizione,
come quella degli uomini. E non c’era male da fermare col
male dei suoi incubi
in quel caso, non c’era alcun colpevole da punire. Avrebbe
maledetto i suoi
creatori, se ciò gli fosse stato permesso.
Le
è stato inferto un dolore immeritato.
Il
mondo le ha dato un castigo che non merita.
Non
dovrebbe sopportare questi incubi, perché non li merita.
Perché
è lei che soffre? Perché lei che non ha fatto
niente?
Non merita questa punizione, non è giusto!
E
a lui, punitore di uomini per eccellenza, la cosa risultava
così inconcepibile
da farlo impazzire: quella situazione non rientrava nelle leggi
naturali. Per
tutta la sua vita era stato convinto che a ogni azione dannosa dovesse
corrispondere
un castigo, castigo che nella maggior parte dei casi doveva infliggere
lui di persona. Mai in vita sua si era confrontato col caso di un danno
inflitto a una
creatura innocente del tutto arbitrariamente e per di più
assurdamente senza
colpevoli. Era innaturale, sbagliato, non era in grado di capirlo e
tantomeno
di spiegarlo, e ciò lo faceva diventare pazzo.
Fatemela
aiutare, solo lei, sono in debito con lei!
E
se non merito questo onore, fatelo voi per me: voi leggendari dai
poteri
superiori potete farlo!
…
no, non potevano. Non stava agli altri leggendari agire sugli uomini,
non era
area di loro competenza. Non sarebbero state di alcuna
utilità né le tempeste
del sommo Lugia, né il dominio dei cieli del grande
Rayquaza, né l’energia dei
lampi di Zapdos e Raikou. Era lui il guardiano degli uomini, nessun
altro
poteva intervenire su quel popolo complesso e imprevedibile. E
Cresselia…
Cresselia non era in grado di far smettere le sofferenze che gli uomini
provavano
spontaneamente. Non sarebbero bastate le sue piume lucenti, che dalla
natura
avevano ricevuto il potere di bloccare i suoi pericolosi poteri, a far
sparire
il dolore della principessa.
Certo,
sarebbe comodo lasciare alla figlia del quarto di luna tutto il peso di
questa
responsabilità.
Ma
se sei tu che vuoi agire, dal momento che nessuno te lo ha chiesto, da
solo
devi farlo.
Per
soddisfare il suo desiderio non poteva chiedere aiuto a nessuno;
d’altra parte,
non c’era nessuno a cui potesse rivolgersi un essere aborrito
come lui. E anche se gli altri leggendari non
sarebbero mai
intervenuti per un esserino tanto insignificante, nessuno di loro aveva
il
diritto di condannarlo se lui avesse deciso di agire di testa sua sulla
sorte
della sua salvatrice.
Quella
ragazzina stava subendo senza motivo un castigo che lei non meritava:
ciò
andava contro l’ordine naturale delle cose. Non avrebbe
infranto alcuna legge
della natura né mancato di rispetto a nessuno dei suoi
signori se avesse deciso
di lenirle le ferite.
O
almeno di provarci.
Certo,
genio, perché esattamente come pensi di fare?
Il
suo tempo stava per scadere, non poteva rimanere lì dentro
ancora per molto.
Rifletté: lui non aveva il potere di farle dimenticare i
dolori né tantomeno di
farli sparire. Però c’era una cosa che
l’Oscuro meglio di chiunque altro
conosceva: se c’era una cosa in grado almeno di anestetizzare
gli affanni del
corpo e dell’animo, questo era…
Il
sonno.
E
chi più di lui ne era esperto?
Ecco,
questo lui poteva fare: se non poteva farle dimenticare la perdita che
aveva
subito, poteva almeno dare ordini, lui che ne era il padrone, a quegli
incubi che
rendevano insopportabile a quella bambina distrutta un sonno che
avrebbe dovuto
essere ristoratore. Vista così sembrava una gran bella idea,
peccato che…
Tuo
compito è diffondere incubi, non cancellarli.
Non
può far smettere un incubo ciò che ne
è la stessa fonte.
…
però lui aveva il potere di decidere quali incubi mandare.
Non poteva cancellarli,
ma poteva distorcerli, cambiarli, intrecciarli fra loro. Su questo non
aveva
limiti: poteva modellarli secondo il suo volere, avrebbe fatto in modo
che la
principessa sognasse quello che meritava.
E
lei merita… merita…
… cosa merita?
…
no, un limite enorme c’era, purtroppo. C’era un
altro motivo molto chiaro per
cui l’Oscuro non era mai stato capace di dare gioia o
soddisfazione al sonno
degli uomini. Come poteva qualcuno trasmettere qualcosa come speranza e
serenità ad altri se lui stesso non sapeva cosa
significassero? Darkrai non
conosceva quelle parole: sapeva che si riferivano a qualcosa di
astratto che
gli uomini gradivano, ma l’idea di
‘speranza’ e ‘gioia’ per lui
era
inesistente, quelle parole gli risuonavano vuote, in testa. Non le
comprendeva,
tantomeno era capace di trasmetterle. Perciò si incaponiva
come un matto su
cosa far vedere in sogno a quella bambina di abbastanza potente da
farle
passare almeno una notte tollerabile.
…
una cosa che piace agli uomini.
Ah,
geniale: e cosa piaceva agli uomini?
…
no, non va. Tu non sai cosa piace a loro… cosa piace a lei.
Non
era possibile plasmare in testa a qualcun altro immagini che lui stesso
non
aveva mai visto. Le uniche cose che poteva mostrare in sogno agli altri erano cose necessariamente viste e conosciute di
persona.
…
ma non lo conosco! Io non conosco ciò che lei desidera.
Ma
si era così intestardito sul portare a termine quella sua
missione personale
che decise comunque di passare velocemente in rassegna le sue
discutibili
esperienze personali, sperando scioccamente che tra loro ci fosse un
qualche
indizio su cosa la principessa avrebbe considerato
‘bello’, e che lei avrebbe
voluto sognare.
Ovviamente
la sua rassegna generale si rivelò piuttosto deludente:
l’Oscuro degli uomini non aveva visto che il marcio,
perché
era ciò di cui si doveva occupare e di cui doveva far
sognare. E tra lui e il
popolo degli uomini non c’era che odio reciproco. Quando mai
in vita sua aveva
visto e giudicato ‘bello’ qualcosa che apparteneva
al mondo degli uomini? Un’unica
volta il suo odio antico per l’umanità era stato
sospeso: era stata proprio la
principessa a cacciarlo via, quando lo aveva guardato con quegli occhi
lucidi
di compassione e lo aveva toccato con le sue dita piene di vita. Lei
era tutto
il suo ‘bello’, lei era tutto ciò che di
piacevole conosceva.
Non
ho che te, solamente te…
… certo!
E
allora ebbe finalmente il colpo di genio di cui aveva bisogno.
Ho
capito! So cosa farti vedere.
Gli
incubi che quella notte stavano perseguitando la giovane umana erano
creati
dalla sua consapevolezza di aver perso per sempre ciò a cui
lei teneva di più.
La principessa stava male perché, come lui, era rimasta
sola, e pensava, senza
darsi pace, a ciò che aveva perduto.
E
non si rendeva conto di ciò che le era rimasto.
L’Oscuro
si chinò piano sopra di lei: tremava ancora, non aveva
smesso un secondo di
agitarsi sotto quei sogni persecutori. Fissò con ammirazione
quel corpicino
così apparentemente fragile che, nonostante tutto, non si
era mai spezzato
sotto i pesi che aveva dovuto sopportare.
Sono sicuro che sei capacissima di
guarirti anche da sola.
Non ho motivo di dubitarne, dal momento che
sei arrivata fino a questo punto.
Hai
salvato me, perché non dovresti essere capace di salvare
anche te stessa?
…
ma non offenderò la tua dignità se ti do solo un
piccolo aiuto, no?
Stese
il lungo braccio nero sopra il suo capo abbandonato, e
pensò. Dalla pericolosa
zampa a tre dita si staccò lentamente
un’impalpabile e piccola sfera nera, che
scese piano sopra di lei fino a toccarle la fronte candida. Per un
momento il
fisico della principessa fu avvolto da una grande camera sferica del
colore
della notte profonda. E quando essa si dissolse, l’Oscuro
osservò con un piacere
che non aveva mai provato che l’espressione tesa che aveva
sul volto aveva
cominciato lentamente a distendersi. Sull’attimo una vibrante
emozione
sconosciuta lo aveva scosso, e per un momento era stato attraversato
dalla
inspiegabile tentazione di mettersi sbattere le ali con la frenesia di
un
colibrì; per sua fortuna, prima di abbandonarsi a gesti
decisamente indecenti
per un leggendario, un rumore sospetto proveniente
dall’esterno della stanza gli
aveva fatto allarmare tutti i nervi.
Va
bene, grande eroe, inchini e congratulazioni.
Ma
ora fila via!
Il
suo tempo era scaduto da un pezzo. Si inabissò in fretta e
furia nel pavimento,
corse a infilarsi sotto il vetro da cui era entrato e
sfrecciò via da
quell’edificio con un tale fuoco in corpo da fargli credere
di poter combattere
ad armi pari con Giratina in persona.
Per
la prima volta in vita sua, aveva reso felice qualcuno.
Nei
sogni non si comprende mai di star sognando. Si perdono
anche i ricordi del proprio passato immediato, a volte ci si dimentica
perfino
di chi si è. Vale per i sogni, come per gli incubi. E nei
suoi sogni
frammentati e avvelenati Alicia ricordava solamente due cose della sua
realtà:
che aveva freddo ed era sola. Nel sonno non decifrava più
nitidamente la
consapevolezza di aver fatto un gesto folle e illegale per il nemico
giurato
degli uomini o che subito dopo sua madre aveva smesso di respirare: gli
incubi
che la straziavano da tutta la notte erano confusi, traduzioni
imprecise dei
suoi sentimenti, da cui riusciva solamente a capire di star soffrendo.
Nei sogni il tempo non esiste, per cui è impossibile
definire quanto tempo passa da uno all’altro. Alicia non
seppe mai in quale
momento e perché, all’improvviso, il carattere di
quei sogni cattivi avesse
cominciato a mutare. Semplicemente, dopo un ultimo incubo di cui
ricordava
solamente di essere inspiegabilmente morta senza accorgersene,
all’improvviso
le era calato sugli occhi come un sipario nero e pesante, che aveva
cancellato
tutto ciò che le stava infestando la testa sottoforma di
sogni insensati.
E la sua coscienza era stata misteriosamente trasportata
senza preavviso in un luogo buio e vuoto, in cui non c’era
che lei sola, non
altre creature viventi, non altri oggetti inanimati, non un minimo
rumore. Di
norma un bambino della sua età avrebbe probabilmente provato
paura nel trovarsi
all’improvviso da solo in un luogo tanto silenzioso: eppure
in quella
indefinibile, immisurabile camera nera c’era un tepore vivo e
accogliente, che
l’aveva fatta inspiegabilmente smettere di rabbrividire,
portandola persino a
credere assurdamente che quel luogo senza fondo né contorno
fosse casa sua.
Istintivamente aveva cominciato a camminarci dentro per un
po’, ammirando quel nero
senza fondo che sembrava una creatura viva dotata di volontà
propria.
Poi in quel nero aveva fatto all’improvviso la sua comparsa
un dettaglio: aveva una forma riconducibile a quella ovale, e per
qualche
motivo assurdo, nonostante non ci fosse alcuna luce a interrompere quel
vuoto
oscuro, pareva brillare. Ci si era avvicinata, come la sua
curiosità di bambina
la invitava a fare, e aveva osservato quello strano oggetto senza
capire.
Appariva piatto e liscio, e sembrava essere vuoto anch’esso:
solo che il suo
interno le ricordava per qualche motivo una superficie acquatica, e
rifletteva
assurdamente una luce tenue, luce che però in quel buio non
era presente.
Pareva quasi un lago in miniatura messo in verticale di fronte a lei,
attraverso il quale tuttavia si rifletteva un sole o una luna che non
esistevano. Non aveva resistito all’impulso di toccarlo:
allora la superficie
si era rapidamente increspata, e ciò che era riflesso dentro
di essa aveva
cominciato rapidamente a modificarsi. Quando finalmente le increspature
erano
svanite, Alicia era rimasta a bocca aperta.
All’interno della nuova superficie era apparsa, senza
dettagli né sfondi particolari, una figura diafana e
aggraziata, che emanava
uno splendore degno di un’aurora boreale. Sembrava provenire
da un altro mondo:
la sua luce era talmente celestiale che Alicia ne rimase incantata, e
ci mise
parecchio a capire che si trattava di una figura umana.
Era una creatura bellissima. Il suo corpo, dai capelli
lucenti e sani alla punta delle esili dita femminili, era di una
semplicità perfetta
e splendente, la quintessenza della vita: Alicia pensò
subito che fosse stata
partorita dal paradiso. La sua luce era talmente abbagliante da far
dimenticare
completamente a chi la guardava anche quelli che qualcuno avrebbe
potuto
giudicare difetti corporei. La magrezza di quella figura, avvolta in
quello
splendore non terreno, appariva graziosa e delicata, come il gambo di
un bel
bucaneve appena uscito eroicamente dal ghiaccio che si innalza sotto il
sole
dell’alba per gridare a tutti che la primavera è
vicina. Quella pelle tanto
chiara sembrava essere stata plasmata da neve fresca, fragile e che si
scioglie
facilmente, ma con la purezza e la sofficità delle nuvole. E
quei suoi due
occhi cristallini erano talmente accesi, luminosi ed espressivi che
avrebbero
potuto addomesticare un Gyarados inferocito solo guardandolo.
Alicia ne era rimasta così rapita da dimenticarsi di
respirare: per sua fortuna nei sogni niente avviene secondo le leggi
della
fisica. L’unica cosa che era riuscita a fare di fronte a
quella meravigliosa
creatura era stato sorridere: era un istinto naturale, una reazione del
tutto
spontanea e automatica davanti a quella creatura, che doveva essere
senz’altro
di rara e nobile stirpe. E la splendida principessa le aveva restituito
un
sorriso che aveva raddoppiato la sua bellezza. Alicia sentì
il dovere di
inchinarsi di fronte a quella regina così gentile, e lo fece
nella maniera più
educata ed elegante che conosceva, sperando che ciò la
compiacesse almeno un
poco. Con suo sommo piacere lei sembrò gradirlo molto, tanto
da restituirle
subito un grazioso e rispettoso inchino che l’aveva fatta
sentire molto
gratificata: era il suo modo di dirle che erano sullo stesso livello,
che erano
amiche da sempre. Non avevano nemmeno bisogno di parlarsi, non era
necessario
per capirsi a vicenda. Essere l’amica del cuore di una
così pura creatura era
tutto ciò che Alicia potesse desiderare.
Sentendosi molto più in confidenza con lei, le aveva dunque
teso la mano per suggellare definitivamente la loro amicizia. La
principessa le
aveva dato subito la mano a sua volta, senza smettere di mantenere il
sorriso su
quel suo volto diafano incorniciato da capelli che sembravano fatti di
raggi di
sole intrecciati. Il fatto che lei avesse i capelli biondi non fece che
farla
sentire ancora più vicina a lei: erano capelli proprio come
i suoi.
… proprio come…?
Solo allora Alicia fu raggiunta da un bizzarro sospetto.
Alzò il braccio sinistro a fare un gesto di saluto: la
principessa subito glielo restituì.
Piegò la testa di lato: anche l’altra fece la
stessa cosa.
Sbatté le palpebre: la regina luminosa fece lo stesso.
Ma…
Infine si portò la mano al petto e indicò se
stessa: la
creatura che, ormai lo capiva, era riflessa in quello specchio, si
indicò a sua
volta.
… sono io, questa?!
Allora aprì gli occhi con violenza e si ritrovò
nella sua
camera inondata dalla luce del mattino.
Continua...
Nota dell’autrice:
la stesura dell’ultimo
capitolo è stata veramente infernale. Mi sento di dare la
colpa all’università,
da quando ci sto dentro non riesco più a scrivere come prima.
Qualcuno
avrà capito che la
sottoscritta ha un carattere leggerissimamente pendolare: a volte la
mia radice
sadica mi riempie dell’irresistibile desiderio di sangue che
mi porta a
scrivere a raffica di scannamenti degni dell’Aliens di
Cameron, altre volte ho
un bisogno irrefrenabile di anestetizzarmi e farmi quaranta pagine di
linguaggio dell’interiorità. Beh, ora lo sapete XD
E anche se fra le note
c’è scritto ‘introspettivo’,
il che dovrebbe preparare a sufficienza la pazza gente che decide di
leggere,
mi sono spaccata l’anima per ridurre il superfluo che
potrebbe rendere la
lettura troppo lenta e noiosa. E sinceramente non credo di esserci
riuscita.
Ma anche se sto
passando un
periodaccio decisamente indesiderabile, tra esami da rifiutare, hard
disk
resettato (con tutti i file irripetibili che ci stavano dentro), uno
studio che
farebbe impallidire Leopardi e un canale squartato da un qualche aborto
umano
che non aveva niente di meglio da fare che segnalarmi e farmi rimuovere
15
video a caso… non sentitevi in colpa a darmi il colpo di
grazia (tanto non
credo che attualmente le cose mi potrebbero andare peggio XD), se lo
ritenete
necessario. Tutti noi autori emergenti abbiamo bisogno delle vostre
critiche,
non c’è niente di offensivo nel farle, al
contrario: tutti sono capaci di fare
un complimento, la critica invece richiede sincerità e
cervello. Io l’ho capito
soprattutto dopo l’uscita di settima generazione (sempre se
quella si possa
chiamare generazione…). E se, invece, questa storia vi
è piaciuta e vi piace
ancora adesso, lo devo anche e soprattutto a un ferocissimo utente che
venne
anni fa su uno sperimentale e malfatto primo capitolo (è la
sindrome da prima
pagina, sta dappertutto, non solo su EFP XD) e non si fece problemi a
sbattermi
in faccia tutto ciò che c’era da aggiustare (anche
se invece di aggiustare io
ho proprio ricominciato da zero).
Detto questo, per il
momento mi
ritiro nel mio letargo di studio matto e disperatissimo a tempo
indeterminato;
ma non preoccupatevi, il tempo per osservare di nascosto i vostri
movimenti più
sospetti lo trovo, sempre e comunque ;-)
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