Dietro ad un sorriso di Porsche (/viewuser.php?uid=72066)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Me, Myself & I ***
Capitolo 2: *** State of Shock ***
Capitolo 3: *** Friends will be friends ***
Capitolo 4: *** Lonely People 1/3 ***
Capitolo 5: *** Lonely People 2/3 ***
Capitolo 6: *** Lonely People 3/3 ***
Capitolo 7: *** Between mother and daughter ***
Capitolo 8: *** Life's a Choice ***
Capitolo 1 *** Me, Myself & I ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
1 – Me, Myself & I
*
Flashback*
1989
Non mi avevano mai spaventate le strade di notte. Certo, erano
buie, ma io non avevo mai avuto paura del buio. Mia madre diceva sempre
che ero una ragazza forte, che non si abbatteva mai e cercava sempre
una soluzione ai suoi problemi. Non era la prima volta che uscivo la
sera da sola, mi era già capitato più volte ed
era sempre andato tutto liscio.
Questa volta, però, c'era qualcosa che mi faceva venire i
brividi. Non sapevo cosa, forse l'aria gelida, oppure la strada vicina
alla periferia, sapevo solo che non vedevo l'ora di tornare a casa.
Mi stavo spostando una ciocca di capelli finita sul viso, quando sentii
un rumore improvviso alla mia destra.
Mi girai all'istante per controllare e vidi un gattino che saltava
giù da un secchio dell'immondizia. Sospirai di sollievo e
ripresi a camminare.
Guardavo dritta davanti a me, ascoltando solo il rumore dei miei passi.
Camminai e camminai, fino a quando sentii altri due piedi seguire i
miei.
Quando me ne accorsi, decisi di far finta di niente, anche se dentro
avevo un turbinio di emozioni che mi scuotevano.
Camminavo a passo svelto finché una mano ruvida prese il mio
polso e mi spinse contro il muro alla mia sinistra.
L'uomo davanti a me, aveva un viso rude, inquietante, ma quello che
più mi colpì fu la cattiveria che emanavano i
suoi occhi.
<< Ehi, bellezza, dove ce ne andiamo
in giro tutte sole solette, eh? >>.
Non sapevo se fosse per la paura o per il suo alito che puzzava di
alcool, ma per un attimo, credetti di svenire.
<< Lasciami, non mi toccare!
>>.
<< Come siamo nervosette! Adesso
vieni con me e vedi di fare la brava bambina >>.
Cercai di opporre resistenza con tutte le mie forze, ma fu tutto
inutile, di lì a poco, avrei subito quello che mi avrebbe
cambiato la vita per sempre.
*Fine
Flashback*
Ricordare faceva sempre male, soprattutto quando l'unica cosa che
volevo era quella di dimenticare tutto, anche il più
insignificante dettaglio. Ma, come se i miei ricordi quotidiani non
bastassero, la notte ci si mettevano anche gli incubi a tormentarmi,
dandomi il loro pessimo buongiorno la mattina.
Da quel fatidico giorno erano passati ben 4 anni, ora ero una
venticinquenne, ero cresciuta, avevo un lavoro, la mia vita, ma una
parte di me era sempre con la mente rivolta a quell'episodio che mi
aveva stravolto l’esistenza.
Inutile dire che in quei 4 anni non avevo mai conosciuto l'amore, non
sapevo cosa fosse, cosa si provasse ad amare, ad avere una persona al
tuo fianco. Forse ero destinata a non scoprirlo mai, perché
l'amore ha bisogno di fiducia e io l'avevo persa da molto tempo ormai.
Sbadigliai, mentre con una rapida occhiata controllavo l'orario
sull'orologio appeso alla mia destra: le 8:00 precise.
Quel giorno era domenica, quindi niente lavoro, ma avevo comunque un
mucchio di cose da fare, come incartare i regali di Natale per i
bambini dell'orfanotrofio nel quale ogni tanto facevo visita.
Come in ogni Natale, anche quest'anno avevo comprato dei giocattoli da
regalare a quei bambini, a cui ormai ero affezionata. Mi piaceva andare
a trovarli perché li trovavo speciali, non avevano nessuno
eppure riuscivano sempre a regalare un sorriso a chiunque. Avevano una
forza spettacolare che mi sorprendeva e mi travolgeva, non capivo mai
dove la prendessero, ma desideravo di poterne avere anche un quarto, di
sicuro mi sarebbe bastata.
Andai in cucina, ascoltando le richieste del mio povero stomaco, e
addentai un biscotto al cioccolato, mentre mi sistemavo su una delle
sedie che davano sul terrazzino di casa. Per mia fortuna al di fuori
avevo un panorama splendido, e siccome la colazione era il momento
della giornata che più preferivo, oltre al tramonto, ogni
mattina godevo di quei pochi attimi facendo scorrere gli occhi sulle
distese di alberi che si trovavano intorno casa.
Era un momento talmente rilassante che delle volte dimenticavo
addirittura chi io fossi, e che cosa avessi passato.
Come
oggi, ero così immersa nella pace che non mi accorsi subito
di un suono acuto e totalmente fuori luogo dallo stato di
serenità che stavo vivendo. Quando realizzai che il telefono
stesse squillando, cominciai a correre come una pazza per tutto il
corridoio, cercando di schivare, con scarsi risultati, i vasi e i
mobili che incontravo durante il mio tragitto.
Arrivata in camera, controllai il numero sul display: era mia madre.
<< Pronto, mamma? >>.
<< Isabella, come stai?
>>.
Mia madre, Elizabeth, era una delle persone più dolci e
sognatrici che io avessi mai conosciuto. Era bello parlare con lei,
perché sapeva ascoltarti senza mai farti domande o
giudicarti. Ogni qual volta avevo un problema o semplicemente sentivo
il bisogno di sfogarmi, andavo da lei e lei c'era sempre.
<< Io sto bene, mamma. Tu?
>>.
<< Benissimo. Senti,
perché non passi da me, così ti aiuto ad
incartare i regali per i bambini >>.
<< Va bene, arrivo tra una mezz'ora.
Ciao >>.
Mi salutò e riattaccò il telefono.
Girandomi, mi trovai davanti allo specchio e solo in quel momento mi
ricordai di essere ancora con il mio adorato pigiama invernale con i
pupazzetti rosa stampati addosso. Pertanto decisi di andare a farmi una
bella doccia rinfrescante, per poi vestirmi comoda e andare da mia
madre.
Come avevo detto, circa una mezz'oretta dopo ero arrivata a
destinazione e come sempre lei era davanti al portone ad aspettarmi.
Che mamma apprensiva!
<< Ciao mamma! >>.
<< Ciao, aspetta che ti aiuto a
portare dentro i regali >>.
Entrate, disponemmo i regali per terra.
<< Cavolo! Avremo un bel
po’ da fare. Allora, succo al mirtillo come sempre?
>>.
<< Come sempre >>.
La vidi scomparire verso la cucina, mentre io mi sedevo sul divano del
salotto.
Quel giorno ero contentissima. Non vedevo l'ora di rincontrare quei
bambini sfortunati, ai quali ormai mi ero troppo affezionata.
Dopo qualche minuto, ritornò con un bicchiere pieno di succo.
<< Tieni. Allora, io inizio subito,
così siamo avvantaggiate. Metto un po’ di musica
per non annoiarci a morte >>.
Andò verso lo stereo e la vidi trafficare con la sua
raccolta immensa di CD. Qualche secondo dopo una musica inconfondibile
invase la stanza.
Guardai mia madre di traverso. Sapeva che non lo sopportavo, che lo
odiavo, eppure ogni volta lei si ostinava a mettere un suo CD in mia
presenza.
<< Mamma, per favore, puoi levare
questa roba? >>.
<< Questa roba? Ehi, questa
è la musica del King of Pop, un po’ di rispetto!
>>.
Mi rispose con il suo solito sorriso scherzoso sulle labbra. La guardai
fisso, gli occhi diventati due fessure.
<< No, questa è la musica
di un pedofilo >>.
Vidi il suo sorriso spegnersi a poco a poco e i suoi occhi farsi tristi.
<< Isabella, sai che non
è vero, lo dici solo perché ti ricorda ...
>>.
<< No, non è vero! Non
centra niente quell'episodio! Mamma, come puoi venerare una persona del
genere? Ha molestato dei bambini, lo dicono tutti i giornali
>>.
<< E tu ci credi? Credi a degli
stupidi pezzi di carta? >>.
<< No, credo solamente a quello che
vedo >>.
<< Allora cerca di vedere i suoi
occhi ma non fermarti al superficiale, va più in
là, cerca di leggerli, di esplorarli e poi dimmi cosa ci
vedi >>.
Rimasi a fissarla, muta, con la bocca leggermente aperta, cercando di
trovare qualcosa da dire. Non erano tanto le sue parole ad avermi
colpito, ma il suo sguardo, quegli occhi lucidi e commossi.
Perché lei credeva nella sua innocenza? Cosa vedevano lei e
tutti i suoi fan nei suoi occhi? Perché tanta
lealtà e fiducia?
Cercai di ricompormi e di riacquistare un tono di voce sufficientemente
sicuro.
<< Queste sono senza dubbio belle
parole mamma, parole di chi sogna, ma con i sogni non si va da nessuna
parte, non si raggiunge la verità >>.
Scosse leggermente la testa, lo sguardo dispiaciuto ma allo stesso
tempo determinato.
<< No, Isa, non si tratta di
sognare, si tratta di entrare nel mondo di una persona per poterla poi
giudicare, conoscere i suoi pensieri, il suo cuore, insomma si tratta
semplicemente di conoscere, quello che tu non hai mai fatto in questi 4
anni, arrivando a chiuderti in te stessa >>.
In un primo momento avvertii un moto di rabbia incontrollabile,
perché nessuno poteva sapere che inferno avessi passato in
quegli anni, e nessuno poteva permettersi di giudicare le mie scelte e
i miei timori, nemmeno mia madre.
Ma … alla fine rimasi paralizzata, per la seconda volta non
sapevo cosa rispondere perché in fondo, sapevo perfettamente
che aveva ragione.
Già, era così, con le mie paure, il mio
giudicare, i miei ricordi, ero arrivata all'età di 25 anni
senza aver mai conosciuto il mondo. Mi ero costruita una barriera,
nella quale nessuno era mai riuscito ad entrare. I miei sentimenti, le
mie emozioni erano sempre rimaste sopite in un angolo del mio cuore,
impedendomi di vivere e soprattutto di amare. Cosa ero diventata? Una
persona cinica, priva di sentimenti, una persona che giudica senza
prima conoscere. Era questo che volevo dalla mia vita?
Il resto della mattinata, la passammo ad incartare i regali in assoluto
silenzio. Avevo troppe domande che mi passavano per la testa e che mi
distolsero dalla realtà.
L'appuntamento all'orfanotrofio era per le 16:00 del pomeriggio.
Dopo aver pranzato e fatto un piccolo sonnellino, il tempo di partire
arrivò, per la mia felicità. Non vedevo l'ora di
distrarmi da quei pensieri e di riabbracciare i bambini.
Prendemmo la mia macchina e in 10 minuti arrivammo al parcheggio
privato dell'orfanotrofio. Notai che c'erano molte macchine di lusso,
tra cui una limousine nera.
Guardai interrogativa mia madre che per tutta risposta alzò
le spalle facendo un sorriso che non mi convinse per nulla.
Dopo aver parcheggiato, prendemmo ognuna un sacco con dentro i regali e
ci incamminammo verso l'entrata.
La direttrice dell'orfanotrofio era una delle migliori amiche fin
dall'infanzia di mia madre, per cui mi conosceva da quando ero nata.
Era una persona molto espansiva e solare, per questo, appena mi vide,
corse ad abbracciarmi.
<< Isabella! Sono contenta che anche
quest'anno tu sia venuta! >>.
<< Ehm, Claire, anch'io sono
contenta. Però, se continui a stringermi così,
non credo che sopravvivrò abbastanza per poter consegnare
questi regali! >>.
Staccò subito la presa e mi guardò dispiaciuta.
<< Scusa, mi faccio sempre prendere
dall'emozione >>.
<< Non preoccuparti, ormai ti
conosco. Comunque anch’io sono felice di essere qua. E tra
poco è Natale, non posso mancare a questo appuntamento con i
bambini >>.
Claire mi sorrise, evidentemente soddisfatta e commossa.
Presi anche il sacco di mia madre, che nel frattempo veniva anche lei
strangolata dalla felicità della sua migliore amica, e mi
trascinai con i due sacchi nella sala dove si trovavano tutti i bambini.
Più
mi avvicinavo e più qualcosa non mi quadrava. Innanzitutto
ad un lato della porta c’era un omone gigantesco tutto
vestito di nero. Aveva un’aria molto professionale ma non
riuscii a capire quale fosse il suo ruolo in quel posto. Inoltre, ogni
volta che entravo nell’orfanotrofio c’era una
caciara assurda. Chi correva a destra e a sinistra, chi faceva scherzi
agli altri, chi cantava e ballava … ma oggi il silenzio
assoluto. Solo una voce riuscivo ad udire e man mano che raggiungevo il
grande portone dell’aula magna, si faceva sempre
più alta. Era una voce da uomo, ma con qualche nota dolce e
una cadenza quasi musicale.
Quando infine arrivai davanti alla porta, l’omone fece un
passo in laterale, ostruendomi il passaggio.
<<
Mi scusi, cosa sta facendo? >>, chiesi, il più
carinamente possibile, visto che già mi stavo scaldando.
<<
Lei chi è? Cosa c’è in quei sacchi?
>>, mi rispose, deviando la mia domanda.
Cos’aveva quest’uomo che non andava? Se pensava di
intimorirmi solo perché era il doppio di me, si sbagliava di
grosso.
<<
Mi chiamo Isabella, sono un’abituale visitatrice
dell’orfanotrofio e considerando che tra un po’
è Natale non so cos’altro possa esserci in questi
sacchi se non dei regali! – risposi, un po’
stizzita – Di certo non sono una serial killer!
>>.
L’omone abbozzò un sorriso divertito e con uno
scatto liberò il passaggio, facendomi segno di entrare.
<<
Di questi tempi non si può mai sapere, signorina >>,
disse, sempre sorridendo.
Alzai le sopracciglia, confusa e interrogativa. Ma poi scossi la testa
e lo salutai con un cenno del capo.
Stavo
ancora chiedendomi il motivo di tutta quella segretezza quando
un’occhiata veloce all’interno del salone mi fece
bloccare di colpo.
Seduto per terra vicino all'albero di natale, con attorno tutti i
bambini che lo guardavano incantati, c'era Michael Jackson, che, con un
libro in mano, raccontava una storia.
*Spazio autrice:
Oh My God! Dopo
anni mi ritrovo a scrivere una fan fiction. Deve essere appena avvenuto
un miracolo, non c’è altra spiegazione.
Sul serio, non succedeva da tempo immemore, ma devo dire che questa
storia ce l’avevo in mente da tanto tempo, avevo anche
già pronto il primo capitolo solo che, dopo, credo di averla
buttata nel dimenticatoio. Ahimé.
L’ho ripescata qualche settimana fa e mi è tornata
la voglia di scriverla e vedere un po’ dove porta
… perché la verità è che
non lo so nemmeno io XD
È la mia prima vera fan fiction su Michael, per cui immagino
che l’emozione che sento sia legittima.
Spero davvero che possa piacervi tanto quanto piace a me,
perché nello scriverla mi sono affezionata alla protagonista,
a quell’animo rinchiuso da troppe paure e, oltre a lei, ci
sarà anche Michael … ma questo credo lo abbiate
già intuito.
Insomma, ringrazio chi è arrivato a questo punto
perché vuol dire che ha letto il primo capitolo e aspetto
qualsiasi vostra opinione. Ci tengo ;)
Un bacio a tutti e sempre love
Michael <3
Porsche.
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Capitolo 2 *** State of Shock ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
2 – State of Shock
Non
so quanto tempo passò prima che mi riscossi dallo stato di
shock in cui sembravo essere caduta. Per quel che ne sapevo potevano
essere passati minuti interi, o anche ore.
Comunque, fu come essersi risvegliati da una trance, ciò che
era successo nel frattempo rimaneva per me ignoto.
Michael Jackson era lì a qualche metro di distanza, cappello
nero in testa e camicia rossa, e l’unica cosa che volevo fare
era andarmene via il più lontano possibile. Ma avevo
promesso ai bambini che sarei andata a trovarli, come facevo ogni anno
prima di Natale, e poi non vedevo l’ora di riabbracciarli.
Feci un sospiro silenzioso e subito dopo un altro, non volevo farmi
notare, quindi spostai piano i regali vicino la porta e a passo lento
mi andai a sedere su una sedia in un angolo della stanza. Salutai
distrattamente con la mano alcuni volontari che si trovavano seduti,
anche loro intenti ad ascoltare il Re del Pop. Ormai non
c’era più nessun dubbio, quella che si prospettava
essere una bella giornata era appena diventata un incubo, un inferno, e
quel che era peggio, non c’era via di fuga.
Nel
mentre erano entrate anche mia madre e Claire.
Mi concentrai su di
loro, assicurandomi di avere in viso l’espressione
più terrificante di cui fossi capace. Con il sangue che mi
ribolliva nelle vene non fu per nulla difficile. Difatti, a
confermarmelo fu la faccia che fece Claire non appena si
girò verso di me. La vidi deglutire e sorridere, allo stesso
tempo preoccupata e imbarazzata. “Bene bene”,
sorrisi interiormente, almeno una piccola soddisfazione
l’avevo avuta.
Mia madre invece … Ah! Mia madre prima o poi mi avrebbe
fatto esasperare! Era talmente concentrata su Jackson che non mi
degnò di uno sguardo. Forse credeva di avere davanti a
sé una delle sette meraviglie o di trovarsi in un sogno da
tempo desiderato, non ne avevo idea, ma in viso aveva
un’espressione totalmente adorante.
Per
la terza volta da quando ero entrata in quella stanza, sospirai.
Stavolta però, dovetti averlo fatto in modo più
rumoroso, perché d’un tratto il signor Jackson
smise di parlare e per la prima volta ci guardammo
reciprocamente.
Non mi aspettavo di ritrovarmi puntati addosso gli occhi più
grandi che avessi mai visto. Nel mio inconscio sapevo che erano anche i
più belli. Ma fu un pensiero che non trovò
l’attenzione necessaria per emergere. Rimase sopito in un
angolo della mia mente, ero troppo occupata a contemplare
l’uomo che avevo dinanzi.
Ci furono pochi secondi di silenzio e, quando anche i bambini si
accorsero di me, si udì il mio nome pronunciato in coro. Ben
presto venni circondata da una marea di baci e abbracci. Ricambiai come
potevo, divertita da quell’ entusiasmo e anche commossa,
soprattutto commossa. Salutai tutti, ma fu un momento
che passò velocemente perché sapevo che
dall’altra parte c’era ancora il Signor Jackson e,
nonostante di lui non me ne importasse nulla, l’avevo
interrotto maleducatamente.
<<
Forza, su! Tornate dal Signor Jackson, non volete sapere il continuo
della storia? >>.
Come se si fossero appena ricordati di una cosa estremamente
importante, tornarono tutti ai loro posti. Sorrisi guardando la loro
reazione, quel giorno erano davvero incontenibili.
Scoprii Jackson lanciarmi
un’occhiata divertita prima di ricominciare a leggere il
libro.
Mi concentrai a tappare la bocca e tenere da parte qualsiasi sospiro o
gesto che potesse di nuovo creare disturbo.
Lo
ascoltai.
Aveva una bella voce, questo era indubbio.
Parlava piano, quasi in un
modo delicato, e alternava ad una lettura veloce momenti di brevi
silenzi, riuscendo a creare molta suspense al suo piccolo pubblico.
A
guardarlo, dava l’impressione di avere due
personalità. Anche non conoscendo la sua fama si sarebbe
detto di lui che avesse qualcosa di straordinario, qualche talento
sconosciuto e che non fosse una persona come tutte le
altre. Eppure, vederlo in quella situazione di completa
normalità, seduto sulle mattonelle fredde del pavimento, con
le spalle rilassate, come un uomo qualsiasi, mi fece chiedere quale
delle due impressioni fosse la più veritiera. Era
più personaggio o più persona? Non mi diedi
risposta.
Sembrava assorto e totalmente concentrato sul libro, ma aveva anche
un’aria serena. Ogni tanto alzava gli occhi per guardare i
bambini, lanciava un breve sorriso e tornava a riporre
l’attenzione al suo racconto.
Era bravo ad interpretare ciò che leggeva. Non usava sempre
lo stesso tono di voce e questo gli permetteva di esprimere al meglio
il significato nascosto dietro ogni parola che enunciava e, allo stesso
tempo, si assicurava di non annoiare chi lo stava a sentire.
Doveva essere piacevole ascoltarlo per chi lo amava.
Per me, invece, era solamente irritante.
Quando
cominciai a non poterne davvero più, finalmente
finì di leggere. Sospirai, sollevata.
Nello stesso momento in cui chiuse il libro, i bambini iniziarono a
lamentarsi. Volevano sentire altre storie ma Jackson si
limitò a ridere e a dire che il bello sarebbe avvenuto in
quel momento perché avrebbero scartato i regali. In
verità, non sapevo di quali regali stesse parlando visto che
in quella stanza c’erano solamente quelli portati da me,
però bastò a far entusiasmare i bambini, che
adesso sembravano impazienti.
Compresi subito dopo che stesse parlando dei miei regali,
perché velocemente alzò gli occhi su di me, mi
sorrise e fece cenno di avvicinarmi.
Non mi mossi subito. Lo guardai alcuni secondi, incapace di muovere un
muscolo.
Dovevo avere una faccia davvero buffa perché rise con quella
sua risata che tanto avevo imparato ad odiare e che per questo mi
riscosse dallo stato di blackout in cui per l’ennesima volta
mi ero imbattuta.
Tornò ad intimarmi di raggiungerlo e così feci.
In pochi passi raggiunsi i bambini che adesso guardavano me, felici.
Sorrisi a mia volta.
<<
Isa, guarda chi è venuto! Michael Jackson! Guarda, guarda!
>>.
<<
Ehi Ricky, ma lo sai che anch’io ho due occhietti? Lo vedo
chi è >>, risposi ridendo.
Alla mia destra una bambina con i capelli biondi e il viso
più dolce che potesse esistere, mi si aggrappò
alla maglietta cercando di attirare la mia attenzione.
<<
Mi sei mancata … >>. Non era solo il viso ad
essere dolce.
Si chiamava Katy, aveva quasi quattro anni e da quando
l’avevo conosciuta occupava un posto speciale nel mio cuore.
La prima volta che la vidi era una neonata di sole tre settimane,
abbandonata a sé stessa vicino all’entrata
dell’orfanotrofio. Fui io la prima a trovarla e la prima a
darle un biberon pieno di latte mentre veniva cullata dalle mie braccia.
Mi abbassai al suo livello e le posai le mani sulle guance paffute.
<<
Anche tu mi sei mancata Katy >>, dissi in un soffio,
felice.
<<
Vieni, voglio presentarti una persona >>. Mi prese la
mano e mi accompagnò davanti al Re del Pop, che nel
frattempo si era alzato. Katy acciuffò anche la mano di
Jackson e portò entrambe ad avvicinarsi, fino a stringersi.
<<
Piacere, sono Michael >>, annuì leggermente e
sorrise. Aveva la mano grande e fredda.
<<
Isabella Hayden, piacere >>, risposi, in tono un
po’ distaccato.
Nonostante questo aveva ancora il sorriso stampato in viso.
Ero tesa come una corda di violino ed io odiavo dare
quell’impressione alle persone.
Avevo lavorato a lungo sul mio carattere. L’avevo rafforzato,
fortificato. E
indurito.
Non avrei più permesso di farmi vedere debole.
Eppure … eppure, avevo
scoperto che il dolore è un ottimo maestro di vita, ti aiuta
a crescere, ma una volta che si è presentato, si insinua in
te e viene fuori quando meno te lo aspetti sotto forma di paure e
incertezze.
Anche il carattere più forte avrà sempre momenti
in cui sarà considerato debole.
<<
Vedo che i bambini ti adorano, prima appena ti hanno vista sono corsi
da te >>.
<<
Sì, beh, vengo qui spesso. Sono tanti anni ormai che frequento questo
posto >>, dissi, in maniera più rilassata
possibile.
<<
Complimenti, è un bel gesto >>.
<<
Grazie, anche se non è molto, faccio quel che posso
>>.
<<
Credo sia il contrario invece. Non serve tanto per rendere migliore la
vita di qualcuno, delle volte basta anche solo regalare dei sorrisi, e
i bambini sono felici quando stanno in tua compagnia, quindi secondo me
fai molto per loro >>, disse, e dal tono che
utilizzò parve fermamente convinto del suo pensiero.
Sorrisi leggermente, avevo apprezzato il complimento.
Ad un tratto sentii tirare la mano che mi aveva preso in precedenza
Katy.
<<
Isa, possiamo aprire i regali? >>.
<<
Certo! Venite >>.
Andai vicino alla porta, dove erano rimasti i sacchi pieni di regali.
Per un attimo incrociai lo sguardo di mia madre, aveva uno strano
luccichio mentre mi guardava. Non mi soffermai nel chiedermi cosa
stesse pensando, anche se dentro di me qualcosa avevo intuito.
Una volta aperto il grande sacco, cominciai a distribuire ad ognuno il
suo regalo. Era fantastico vederli sorridere emozionati mentre
ricevevano il pacco incartato. In quel momento trasmettevano una
felicità tale che riuscivano a contagiarti e a farti vivere
quegli istanti come se fossi uno di loro, tanto che dopo pochi secondi
mi ritrovai a sorridere come un’idiota, neanche fossi
anch’io una bambina che doveva scartare il suo regalo. Mi
rendeva orgogliosa vederli felici grazie a me, mi sentivo come se fossi
parte del mondo, come se fossi viva e non rinchiusa nel mio solito
guscio. Dimenticai per un attimo l’irritazione che avevo
provato solo pochi minuti fa e mi abbandonai a quel clima di festa.
Ma mi sentivo osservata.
Cercai di non badarci, avevo una strana sensazione a riguardo, ma la
curiosità ebbe poi la meglio, così mi girai e le
mie supposizioni trovarono conferma.
Michael Jackson mi stava guardando.
Quando lo colsi sul fatto arrossì vistosamente e
girò lo sguardo verso i bambini.
Io invece rimasi con un sottile senso di disagio che mi
attraversò da capo a piedi.
A quel punto non sapevo chi fosse più rosso in viso, se io o
lui.
Pochi
minuti dopo ogni regalo era giunto al suo rispettivo proprietario e io
stavo aiutando le assistenti dell’orfanotrofio a raccogliere
la carta sparsa per tutto il pavimento. Con la coda
dell’occhio notai mia madre vicina al signor Jackson. Avrei
giurato che mentre gli parlava avesse i cuoricini al posto degli occhi.
Anche se può sembrare impossibile, mia madre era capace di
cose del tutto fuori dal comune. Quando prima dicevo che sarebbe
arrivato il momento in cui mi avrebbe fatto esasperare, intendevo
proprio questo.
Quando fu tutto sistemato mi avvicinai a Claire, la quale era andata ad
assicurarsi che i bambini si stessero divertendo.
<<
Allora ragazzi, vi sono piaciuti i regali di zia Isabella e di zia
Elizabeth? >>.
<<
Siii! >>, urlarono insieme.
<<
Sono contenta >>. Batté le mani, in un gesto
di contentezza, e si girò nella mia direzione.
<< Ah, Isa, non so se tua madre te ne ha già
parlato, ma stasera avrei pensato di fare anche una festa di Natale. Lo
so che è in anticipo ma credo che sia il momento giusto
visto che i bambini sono emozionati per la presenza di Michael. E a
proposito, ci sarà anche lui stasera, è
fantastico! >>.
Cosa?!
Mi morsi la lingua, reprimendo un grido.
Avrei voluto dirle che, no, non era per nulla fantastico, ma era troppo
entusiasta ed io non volevo rovinarle il momento, quindi tenni il
pensiero per me.
<<
Beh, in effetti non ne sapevo nulla, ma non mi stupisco, dato che, a
quanto pare, non è stata l’unica cosa di cui sono
stata tenuta all’oscuro >>, risposi leggermente
piccata, notando con piacere che aveva colto il significato della
battuta, visto il sorrisetto imbarazzato.
<<
Eh eh! Ora vado dal signor Michael, questo è un giorno
speciale >> riprese, con il suo tono entusiasmante di
sempre.
Speciale, eh?
Come no, a me pareva più un incubo, quelli che non vorresti
più vivere perché riaprono vecchie ferite che in
realtà, non sono mai state chiuse.
Averlo lì, davanti ai miei occhi, che adesso rideva e
scherzava con i bambini, mi infastidiva terribilmente.
Mentre
erano tutti indaffarati a circondare il Re del Pop, io me ne stavo in
disparte a guardare la scena, chiedendomi il motivo di tanto
entusiasmo. Potevo capire i bambini che si trovavano di fronte una Star
e non sapevano nulla delle voci che circolavano sul suo conto, ma gli
adulti andavano oltre la mia comprensione.
Con le mani cominciai a giocare con la zip della mia borsa, cercando di
passare il tempo e di distrarmi dai miei pensieri. Anche mia madre era
rimasta vicina al suo cantante preferito e sinceramente la cosa non mi
dispiaceva affatto. Quel giorno me l’aveva fatta troppo
grossa ed io ero ancora arrabbiata per poterle stare vicino senza dirle
qualcosa che di certo avrebbe messo in imbarazzo me e lei.
Mi sentivo un po’ sola, a dir la verità, e tradita, quindi
decisi di alzarmi e andare a prendere una boccata d’aria
fuori. Il movimento dovette aver catturato l’attenzione di
mia madre perché smise di parlare con Jackson ed entrambi mi
guardarono. Fecero cenno di avvicinarmi ma declinai l’invito
scuotendo la testa e facendo un sorriso rassicurante, per non destare
sospetti. Ebbi giusto il tempo di notare i loro visi perplessi prima di
girare lo sguardo.
Mi affrettai ad arrivare all’uscita e quando finalmente mi
trovai di fronte i meravigliosi paesaggi californiani tirai un enorme
sospiro di sollievo. Davvero, dovevo aver trattenuto
un’immensa quantità d’aria
perché sentii i polmoni alleggerirsi e le spalle rilassarsi.
Mi ero quasi sentita claustrofobica a stare in quella stanza.
Sorrisi, adesso più serena, potevo finalmente starmene in
santa pace.
*Spazio
autrice:
Benvenuti
al secondo capitolo.
Prima di tutto grazie a GiulyJ, Diana_mj e RaffaellaMj per aver
recensito il primo capitolo. Mi avete reso felice.
Punto secondo … piaciuta la sorpresa??? Volevo farvi vedere
come mi ero sempre immaginata Isabella nella mia testa.
Adoro Vittoria Puccini (*__*), credo che sia un esempio lampante di
donna bella, elegante ed intelligente al tempo stesso.
E per questa storia non potevo non scegliere lei.
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate, sono ben accette critiche e
complimenti (<--- soprattutto
questi ultimi ahahah XD).
Al prossimo capitolo, ciao!
|
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Capitolo 3 *** Friends will be friends ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
3 – Friends will be friends
E
invece, quando pensavo di potermi rilassare solo in compagnia di me
stessa, ecco che …
<<
Buuuh! >>.
<<
Aaaah! >>. Lanciai un urlo che di femminile aveva ben
poco, ma non mi importava, avevo già capito chi era
l’autore dello scherzo.
<<
Ahahah! Isabella mi fai morire, ahahah! >>.
Ovviamente no che non potevo stare tranquilla, figurarsi se si poteva
stare tranquilli in presenza di questo esemplare!
<<
James! Quante volte dovrò ancora dirti che odio essere
spaventata? E poi sono scherzi cretini, oltre che ridicoli
>>, gli dissi, assumendo la mia posa fintamente
arrabbiata, ovvero mani sui fianchi e sopracciglio alzato.
<<
Per me puoi anche ripeterlo all’infinito, tanto non ti
ascolterei lo stesso >>, sorrise a trentadue denti.
Per quanto mi riguarda scossi la testa, ormai rassegnata dai
comportamenti di quest’uomo, e in verità,
divertita e contenta del nostro rapporto.
Da
che avessi memoria, io e James eravamo da sempre stati amici.
Questo perché Jay, come preferivo chiamarlo io, era il
figlio di Claire e le nostre madri ci avevano praticamente cresciuto
insieme. Quasi in simbiosi.
Il primo compagno di giochi è stato lui; il primo confidente
al quale abbia mai rivelato un segreto è stato lui; e il
primo amico con cui abbia insieme riso a crepapelle o sulla cui spalla
abbia versato mille lacrime, è stato lui.
Aveva un carattere sincero ed espansivo, era socievole ma non
invadente, sapeva mettere chiunque a proprio agio senza nemmeno
rendersene conto. Non penso ci fosse qualcuno che lo considerasse
antipatico. Aveva il dono di farsi amare da chiunque, volente o nolente.
Eravamo entrambi figli unici ma ci consideravamo fratello e sorella.
Per me era un rapporto meraviglioso, che avrei custodito e protetto ad
ogni costo.
Lasciai
per un attimo vagare gli occhi su quel viso, un tempo dai tratti
infantili e ormai divenuto adulto. Del bambino con la quale ero
cresciuta insieme non era rimasto molto: i capelli, una volta scuri,
avevano finito per schiarirsi in un castano quasi dorato; le guance non
erano più piene come quando da piccola andavo a pizzicarle
solo per sentirne la morbidezza; le mani che mi accompagnavano quando
dovevo attraversare la strada, adesso erano più magre e
affusolate. C'era un uomo ora di fronte a me, alto e maturo, eppure mi
bastava guardarlo negli occhi marroni per riconoscere quella scintilla
infantile di una volta.
<<
Che fai qui fuori? Dì un po’, sei di nuovo
arrivato in ritardo, non è così?
>>, dissi, furba. Sapevo dove colpirlo nei suoi punti
deboli.
<<
Con quell’aria saccente che ti ritrovi dovresti
già avere la risposta >>, rispose, fintamente
offeso.
Scossi la testa. Per quanto lo si potesse rimproverare quel ragazzo non
sarebbe mai, e ripeto mai, arrivato puntuale ad un appuntamento. Non ci
riusciva nemmeno se l’appuntamento era con una ragazza di cui
era interessato, figurarsi quindi quando si trattava di altri impegni.
<<
Tu invece? Non dovresti essere dentro a strapparti i capelli e ad
urlare al mondo come una psicopatica isterica il tuo amore
incondizionato per Michael Jackson? >>.
Lo guardai di traverso. Se voleva morire bastava solamente chiederlo,
non mi sarei tirata indietro.
<<
Sei serio o sarcastico? >>, chiesi, nemmeno tanto ironica.
<<
Aspetta che ci devo pensare >>. Mise una mano sotto al
mento e alzò gli occhi al cielo, assumendo
un’espressione pensierosa degna del miglior premio Oscar.
Infine scoppiò a ridere da solo.
<<
E a proposito di questo … >>. Gli tirai un
pugno all’altezza dello stomaco.
<< Ahi! E adesso che ti prende?
>>, esclamò, sbalordito.
Oh, faceva anche il finto tonto!
<< Si dà il caso che io
sia stata vittima di un complotto organizzato alle mie spalle, di cui
TU, a quanto vedo, facevi parte. Quindi, ben ti sta >>.
Alzò le mani, in segno di resa.
<< E va bene, va bene, chiedo scusa
>>, disse con un tono che di scuse aveva ben poco.
<< Ho taciuto perché
sapevo quale sarebbe stata la tua reazione. Come minimo, saresti
entrata nel pallone e soprattutto non saresti mai venuta. Per cui, ho
avuto una valida ragione per entrare a far parte del complotto
>> sorrise, compiaciuto da sé stesso. <<
Però, sul serio, tu devi avere qualche rotella fuori posto.
Lascia stare lui come persona, non lo conosciamo e non possiamo
esprimere opinioni di alcun genere - aprii bocca, pronta a
controbattere, ma Jay alzò una mano per farmi tacere
– No, so cosa stai per dire. Non dirla. Non si giudica una
persona se non la si conosce. Questo vale per tutti. Però,
musicalmente parlando, devi riconoscere che quell’uomo
è un genio, un fottuto genio davvero! >>.
Incrociai le braccia. Quel giorno non ne potevo più di
ascoltare gli stessi discorsi. Prima mia madre e adesso anche Jay.
<<
Non sapevo fossi un suo fan >>.
<<
Beh, fan non direi, sai che il mio cuore appartiene solo e soltanto ai
Beatles - mise una mano sul petto, in fare drammatico - Ma credimi Bee,
la musica non è più stata la stessa da quando
Michael Jackson ha fatto vedere al mondo come si cammina sulla luna.
Non hai idea di quanto sia acclamato quell'uomo a livello artistico. Se a
qualcuno va riconosciuto del vero talento, quel qualcuno è
proprio lui >>.
Ponderai le sue parole con cura e mi trovai tutto sommato
d’accordo. Non conoscevo bene la sua musica, ma ricordavo di
aver sentito una volta, mentre ero ancora adolescente, la famosa Billie
Jean, e di aver pensato che avesse un ritmo fuori dal comune.
L’ascoltavo e pensai che non potevo starmene a sentirla
immobile seduta sul divano; quella canzone ti induceva a
ballarla sulle sue note.
<<
Visto e considerato che ti piace tanto, che ci fai qui fuori a parlare
con me? Va dentro ad esprimergli tutta la tua ammirazione
>>.
<<
Stai scherzando? Sono entrato un attimo prima e l’ho trovato
completamente circondato. Non mi stupisco tanto dei bambini, ma gli
adulti potrebbero almeno farlo respirare un minuto. Non so come faccia
a resistere, io impazzirei >>.
Sospirai. Sapevo di cosa stava parlando, si dava il caso che in quel
gruppo ci fosse anche mia madre e la cosa era terribilmente
imbarazzante.
<<
E adesso perché sei diventata tutta rossa? Non è
che in verità ti piace e non vuoi dirmelo? Eh? Eh?
>>, disse, con un sorriso poco raccomandabile, mentre mi
dava colpetti con il gomito su uno dei miei fianchi.
Tossii e la cosa non andò a mio favore perché
diventai ancora più rossa.
<<
Ma che dici?! Hai completamente frainteso! >>, sbraitai,
infine.
Rise di gusto, me l’aveva fatta un’altra volta.
<<
Sei impossibile, davvero >>. Risi anch’io,
ormai rassegnata.
<<
Comunque dovresti andare dentro, tua madre sarà anche
abituata ai tuoi ritardi, ma sarà lo stesso preoccupata
>>.
Alzò il polso per controllare l’orario
sull’orologio e sgranò gli occhi.
<<
Stavolta però, ho anche battuto tutti i record, ho
un’ora di ritardo >>, disse, come se fosse la
cosa più naturale del mondo.
<<
Mio Dio, vuoi farle venire un infarto? Sbrigati! >>.
Cercai di spingerlo verso l’entrata ma con scarsi risultati.
<<
Vieni anche tu? >>, mi chiese.
<<
No, torno a casa a riposarmi, è stata una giornata
stressante >>.
<<
Ma stasera però ci sarai alla festa >>, disse
e non capii se fosse una domanda o un’affermazione.
Sinceramente
non avevo nessuna voglia di andarci e il motivo non era per nulla
difficile da indovinare. Già quel pomeriggio mi era bastato
per distruggermi la giornata e rovinarmi l’umore. Almeno la
sera volevo starmene un po’ per conto mio, in totale relax.
Ma sussisteva un problema: non ero mai mancata ad una festa
dell’orfanotrofio e si dava il caso, che proprio la festa di
quella sera, quella di Natale, fosse la più importante. Mi
sentivo divisa da due forze che tiravano verso due estremità
opposte.
Alla fine trovai una ragione che mi portò ad una decisione
definitiva, e il motivo era mia madre.
Forse può sembrare un motivo banale, ma vi assicuro che se
non mi fossi presentata alla festa quella donna mi avrebbe tartassata
per tutta la serata di telefonate e se alla fine non avessi ceduto,
sarebbe venuta direttamente lei a prendermi di peso e portarmi in
spalla fino all’orfanotrofio.
Non sapevo come avrebbe
fatto, considerando la sua piccola statura, ma sapevo che ce
l’avrebbe fatta. Di questo ne ero certa.
<<
Si, ci sarò >>, dissi, infine, non senza un
leggero tono di fastidio.
Jay parve non averci fatto caso, e anche se fosse stato il contrario,
non disse nulla.
<<
Mettiti un vestito >>, disse, sorridendo come un beota.
<<
E perché? >>, risposi, attonita.
<<
Perché non li metti mai ed è un peccato, quindi
stasera mettilo >>.
Non replicai subito. Non so il perché.
<<
Non è vero. Li ho sempre messi, ma solo quando la situazione
lo richiedeva >>.
Non mentivo, non avevo nessun problema nell’indossare un
vestito. Piuttosto, non capivo perché me lo stesse chiedendo.
<<
Beh, stasera c’è la festa di Natale e
sarà presente un vip. Questo è un evento che
richiede un vestito >>, s’impose, con le mani
appoggiate sui fianchi.
Era tutto inutile, e non avevo nemmeno più voglia di starlo
a sentire.
<<
Ti va bene se ti dico che ci penserò? >>.
<<
No che non va bene >>. Girò i tacchi e si
incamminò verso l’entrata
dell’orfanotrofio. Appena poco prima di varcare la soglia,
tornò a guardarmi. << Dico sul serio Bee,
mettiti un vestito >>, usò di nuovo il
soprannome che mi aveva dato la prima volta quando ancora eravamo
piccoli e sparì oltre la porta.
Tornai
a casa in preda alla confusione e all’indecisione
più assoluta.
Dopo vari ripensamenti, monologhi destinati soltanto a me stessa,
camminate avanti ed indietro per tutta la stanza e sbuffi da far
invidia ai tori della Corrida, presi la decisione di indossare un
vestito. In realtà, sapevo bene che era stupido farsi tanti
problemi per una questione del genere, era solo uno vestito in fondo.
Il fatto è che facevo fatica ad indossare qualcosa che fosse
femminile e che, quindi attirasse l’attenzione. Avevo la
tendenza a far di tutto pur di sparire alla vista altrui, preoccupata
di non so che cosa. Se mi fosse stata data la possibilità di
avere un super potere, avrei scelto
l’invisibilità, senza ombra di dubbio.
Eppure, che mi crediate o no, la maggior parte delle volte ero io
stessa a crearmi le situazioni ideali per mettermi al centro
dell’attenzione. Una contraddizione, certo, ma non potevo
farci nulla. Avevo due brutti difetti, di cui però
segretamente andavo fiera: ero testarda fino ai limiti del possibile e,
quello peggiore dei due, non sapevo tenere la bocca a freno, se
qualcosa non mi piaceva, dovevo dirlo.
Se mi mettevo nei guai era quasi sempre per quest’ultimo
motivo. Si poteva considerare una questione di vita o di morte.
Forse rasentavo la maleducazione, ma questi due difetti mi ricordavano
l’adolescente forte e ribelle che ero una volta e che, in
piccola parte, ancora avevo dentro, nascosta nell’ombra.
Immagino che certe cose siano destinate a non cambiare mai, qualsiasi
cosa succeda.
Il
vestito che avevo scelto aveva sfumature rosa ed era ricamato
interamente in pizzo con un meraviglioso tema floreale.
L’avevo indossato una sola volta, ma ne ero innamorata.
Arrivava esattamente all’altezza delle ginocchia ed aveva le
maniche lunghe. Considerata la stagione fredda, faceva al caso mio.
La festa avrebbe avuto inizio alle 19:00. Ci sarebbe stato un piccolo
buffet, al quale io partecipavo con la mia famosa torta di mele e
cocco. I bambini avrebbero formato un piccolo coro e avrebbero intonato
le canzoni natalizie più famose. Invece, come ogni anno
sarebbe toccato a James l’arduo compito di travestirsi da
Babbo Natale e, sempre come ogni anno, sarebbe arrivato il momento in
cui uno dei bambini avrebbe scoperto chi, in realtà, si
celasse sotto quelle pesanti vesti rosse e tutti lo avremmo preso in
giro.
Scossi
la testa, divertita. Stranamente, mi era tornato il buonumore.
Io amavo la festa di Natale più di qualsiasi altra festa.
C’era magia pura in quelle ore di divertimento e
spensieratezza, e c’era un’atmosfera di
fratellanza, di affinità e di amore puro che non vedevo
l’ora di rivivere.
Niente mi avrebbe buttato giù
di morale, nemmeno una certa presenza …
Quando
finii di fare questi pensieri ero già pronta. Mi guardai
allo specchio e sorrisi, compiaciuta. Avevo sistemato i capelli
lasciandoli sciolti sulle spalle e facendo in modo che avessero un
movimento ondulato. Gli occhi verdi, dopo tanto tempo, erano tornati ad
essere incorniciati da un filo sottile di matita e da lunghe ciglia
nere. Non mi truccavo quasi mai, un po’ per pigrizia, un
po’ perché non ne capivo il senso, tanto facevo
allontanare chiunque provasse ad avvicinarmi.
La mia era una corazza bella spessa, era stata costruita con cura e
dedizione sopra fondamenta che difficilmente avrebbero ceduto. E
più passava il tempo più sembrava diventare
indistruttibile, una vera arma di difesa contro i peggiori attacchi.
Non che ne andassi orgogliosa, ma al momento non avevo trovato nessuna
forza capace di far anche solo tremare quel muro.
“Forse
è tutto nella mia testa … la forza è
nella mia testa”.
Scacciai
via quei pensieri, mi ero promessa di passare una bella serata e
così avrei fatto. Presi il cappotto nero
dall’armadio e la borsetta da sera, recuperai le chiavi della
macchina e fui pronta per partire.
*Spazio
autrice:
Lo so, capitolo di passaggio ma necessario per presentarvi un
personaggio fondamentale all’interno della storia.
Che ne pensate di James, o meglio Jay? Non metterò la foto
di come me lo immagino perché, essendo un personaggio di
sostegno e supporto, il migliore amico che tutti vorrebbero avere,
vorrei che ognuno di voi lo immaginasse come meglio crede.
È stata e sarà la spalla di Isabella, ma non
crediate che non creerà anche un po’ di scompiglio
... chissà ;)
Un bacio <3
Martina
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Capitolo 4 *** Lonely People 1/3 ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
4 – Lonely People
Part
1/3
Guidare
era da sempre stato per me sia fonte di divertimento sia motivo di
pericolo.
Tutto nasceva dal fatto che ero curiosa per natura, mi capitava quindi
di distrarmi molte volte durante i miei viaggi.
E la bellezza della California non mi aiutava di certo. Ovunque si
girasse lo sguardo c’era qualcosa capace di attirare
l’attenzione di chiunque. Potevano essere le magnifiche case
che abitavano su quel suolo ma la vera meraviglia risiedeva nella
natura: gli alberi erano maestosi e il cielo sembrava limpido anche
d’inverno.
In quelle immagini mi ci perdevo anche quando non avrei dovuto farlo,
per questo avevo preso l’abitudine di guidare piano,
c’erano troppe distrazioni in giro.
Tuttavia, riuscivo sempre ad arrivare puntuale.
Tranne questa volta.
Infatti, quando finalmente intrapresi la via dove risiedeva
l’orfanotrofio, da lontano riuscii a scorgere una macchia
informe e multicolore posta esattamente dove si trovava il cancello
principale.
Sbattei le palpebre, perplessa.
Non avevo la più pallida idea di cosa fosse e di cosa stesse
succedendo, ma più mi avvicinavo, più realizzavo
che quella macchia era costituita da persone urlanti ed armate di
cartelloni e striscioni.
Era disarmante trovarsi quel mare di persone, davvero, tanto che
sentivo crescere l’ansia.
Cercai
di regolarizzare il respiro.
Purtroppo, avevo già sperimentato che cosa si provasse ad
avere un attacco di panico.
La cosa peggiore che si possa fare è abbandonarsi alla
paura. La vista comincia ad annebbiarsi, il cuore prende un ritmo
martellante e nella testa il vuoto più totale sembra
scontrarsi con mille pensieri …
In poche parole, l’attacco di panico è un momento
di instabilità allo stato puro.
Come trovarsi a camminare sopra una corda tesa ad un’altezza
considerevole da terra. L’unico punto di contatto con la
realtà sono i tuoi piedi, ma il vero strumento che non ti
permetterà di cadere è la mente.
Finché sarà lei ad essere concentrata, i tuoi
piedi cammineranno sicuri e decisi anche se si trovassero sui fuochi
ardenti.
Eppure, le prime volte cadrai e ti farai male. Ma è
inevitabile.
Succederà fino a quando, come avviene con un esercizio di
matematica, la tua mente saprà come svolgere tutti i
passaggi e finire il compito con il massimo dei voti.
Per arrivare a questo, al controllo di me stessa, mi ero fatta aiutare
da esperti, affinché sapessi come affrontare la situazione,
nel caso fosse ricapitata.
Ed era ricapitata, in effetti. Più volte.
All’inizio vinceva lei, ma ultimamente ero io ad avere la
meglio.
Ma c’è da dire una cosa. Per quanto ci si abitui,
ogni volta basta un piccolo cedimento, una debolezza improvvisa, e
l’instabilità torna senza darti il minimo scampo.
Accostai
ad un lato della strada. Feci dei respiri profondi ed analizzai la
situazione.
Innanzitutto non era difficile immaginare il
“perché” di quella massa di persone.
Piuttosto c’era da capire “chi” avesse
spifferato ai quattro venti la presenza di Michael quella sera. E, cosa
ancora più importante, come avrei fatto ad entrare?
Aspettai qualche minuto per vedere se si sarebbe un po’
sfollato, ma non successe nulla. Alla fine, chiamai mia madre e grazie
all’aiuto della security di Jackson, mi fecero passare per
l’entrata secondaria senza particolari problemi.
Quando scesi dalla macchina, dovevo avere una faccia piuttosto pallida,
perché mia madre si avvicinò, visibilmente
preoccupata.
<<
Isabella, tutto bene? >>.
<<
Si, tranquilla, sto bene. Ma si può sapere che diavolo
è successo? Oggi pomeriggio queste persone non
c’erano >>.
<<
Non c’erano perché eravamo riusciti a mantenere
segreta la visita di Michael. Lo aveva chiesto espressamente lui al
telefono, quando prese accordi la prima volta con Claire sul giorno e
l’orario della visita, ma qualcuno oggi pomeriggio deve
essersi lasciato sfuggire qualcosa. Come vedi basta poco per diffondere
una notizia in poco tempo >>.
Era pazzesco che tutto fosse avvenuto in poche ore.
<<
Il Signor Jackson si è arrabbiato per questo?
>>.
<<
Oh no! Anzi, è stato molto comprensivo. Claire era
mortificata per l’accaduto ma Michael le ha detto che non
c’era bisogno di esserlo. Non ci crederai, ma è
stato lui a
scusarsi per aver creato confusione intorno all’orfanotrofio
>>.
In effetti, ero parecchio incredula. Primo perché mia madre
lo aveva chiamato già due volte Michael, come se fossero
amici da una vita; e secondo, se davvero così fosse stato,
avrebbe avuto un comportamento davvero umile e comprensivo. Molto
più di quello che ci si potrebbe aspettare da una Star.
Presi a camminare in direzione della porta secondaria ma mia madre mi
fermò, prendendomi per un braccio.
<<
Isabella, riguardo Michael, comportati bene, ti prego >>.
La serietà con la quale lo disse non fermò
l’improvvisa fiamma che sentii nello stomaco.
<<
Perché diavolo me lo dici? Solo perché non mi
piace, non vuol dire che mi metterò a fare
l’antipatica come se fossi una ragazzina. Se vedrò
cose non di mio gradimento ne farò parola, se
sarà il contrario, non ci sarà nulla di cui
preoccuparsi >>, risposi, a denti stretti.
<<
Lo dico perché ho avuto modo di parlare con lui questo
pomeriggio e anche poco fa. Ci ha ringraziato innumerevoli volte per
averlo invitato, visto che dopo le accuse mosse a suo discapito, molte
persone gli hanno voltato le spalle. Credo che questo sia il primo
incontro di solidarietà a cui partecipa dopo esser stato
accusato. Per lui è un segno di riconoscenza, un gesto
significativo volto ad esprimere che in questa battaglia non
è solo. E sinceramente, Isabella, spero che riesca a capire
fino in fondo che milioni di persone sono ancora con lui,
perché a guardarlo bene, a me sembra essere l’uomo
più solo della terra >>.
Non risposi, ci guardammo per pochi secondi negli occhi, sfidandoci
l’un l’altra.
Volevo avere la meglio, ma le ultime parole mi ronzavano in testa,
incessantemente.
Decisi di dargliela vinta e mi liberai dalla sua presa, rimasta stretta
per tutto quel tempo.
Lasciai
mia madre fuori e mi incamminai all’interno della struttura.
Mi guardai un attimo intorno notando per la prima volta lo splendido
lavoro che avevano fatto Claire e tutti i suoi collaboratori.
C’era rosso ovunque. Festoni rossi che addobbavano
l’intero soffitto; striscioni fatti dai bambini con la
scritta “Buon Natale”, in rosso;
l’albero, posto al centro della stanza era completamente
coperto di palline rosse ed oro, ed aveva appesi i biglietti di ogni
bambino, scritti accuratamente dai legittimi proprietari
affinché anche quell’anno venissero esauditi i
loro desideri.
Purtroppo, non succedeva quasi mai.
Se sei un bambino e vivi in un orfanotrofio, l’unica cosa che
vuoi è avere una famiglia e la famiglia è un
regalo che difficilmente trovi sotto l’albero.
Mi avvicinai ad esso. Le palline riflettevano la luce artificiale della
stanza rendendole ancora più lucide, quasi accecanti, ma la
mia reale attenzione era concentrata sulle lettere appese ai rami
dell’albero. Ne toccai una e pensai che quella di Katy ero
stata io stessa a scriverla, riportando esattamente quello che lei mi
aveva dettato.
Sorrisi malinconica al ricordo. Quel giorno le chiesi che cosa volesse
da Babbo Natale; mi rispose che le sarebbe piaciuto ricevere una mamma,
un papà e, se fosse stata abbastanza buona durante
l’anno da meritarlo, anche un cane.
Scrissi per filo e per segno le sue parole e pregai per lei che quel
regalo le venisse fatto davvero.
Presi
a camminare intorno all’albero, facendo scorrere lo sguardo
su ogni cosa attirasse la mia attenzione, ma qualcun altro dovette aver
avuto la mia stessa idea perché mi ritrovai a sbattere
contro qualcosa, o per meglio dire, “qualcuno”.
<<
Oddio, scusami! >>, si affrettò ad esclamare
una voce sottile ed acuta.
Alzai gli occhi e rimasi di sasso quando vidi chi avevo di fronte.
Lassù
qualcuno deve davvero volermi male,
pensai, mentre scrutavo il viso del Signor Jackson.
<<
Non fa niente. Non è successo nulla >>.
Aspettò la mia risposta con aria preoccupata, come se avesse
commesso il peggiore dei crimini.
<<
Meno male >>, rispose, sollevato. Parve scrutarmi e per
un attimo il suo sguardo vagò sulla mia figura.
Tossicchiò e riprese a parlarmi. << Stavo
ammirando l’albero di Natale. È bellissimo. Chi
l’ha addobbato? >>.
<<
I volontari si saranno sicuramente offerti di preparare tutti gli
addobbi di questa stanza >>.
<< É tutto
molto festoso e ben decorato. I bambini sentiranno sicuramente lo
spirito di fratellanza e gioia che questa festa comporta
>>. Si guardò un po’ intorno,
lasciando vagare lentamente gli occhi su ogni particolare della stanza
prima di riposarli sui miei. << Mi piace questo
orfanotrofio, si vede che a voi tutti sta a cuore il benessere di
questi bambini >>.
Lo guardai un attimo, elaborando l’ennesimo complimento che
ricevevo quel giorno da parte sua. In verità io non facevo
molto, del vero lavoro sporco se ne occupavano altri, ma davo il mio
sostegno nel far svagare i bambini, passavo del tempo con loro e
inventavo mille giochi pur di farli divertire. Riempivo le loro
giornate e le mie.
<<
Grazie Signor Jackson. Mi creda, qui tutti si danno un gran da fare,
spendono gratuitamente il loro tempo senza chiedere nulla in cambio ed
è bello che venga riconosciuto. Per noi è motivo
di orgoglio >>, dissi, sincera.
Abbassò un momento gli occhi, poi tornò a
guardarmi e sorrise. Era una cosa che faceva spesso, notai. Deviava gli
occhi, di solito sempre in basso, per poi rialzarli e seguirli da un
sorriso. Chissà perché. Risultava quasi timido.
<<
Michael >>.
<<
Come? >>, chiesi e, inconsciamente, mi sporsi un
po’ in avanti per ascoltarlo meglio.
<<
Chiamami Michael e dammi pure del tu. Spero di non dover essere
considerato così vecchio da venire chiamato d’ora
in poi Signor Jackson >>, disse, ridendo subito dopo.
Inarcai un sopracciglio, stupita. La sua richiesta mi aveva
completamente colta impreparata. Non avrei mai immaginato che potesse
risultare così amichevole e confidenziale dal chiedere di
essere chiamato per nome da qualcuno che conosceva a malapena. Per lui,
noi, non eravamo nessuno. Solo altre facce che ben presto avrebbe
rimosso dalla mente.
Stava ancora aspettando una mia risposta, tanto che, alla mia
espressione sorpresa, si aggiunse la sua.
<<
Ehm, io … va bene, Michael. Come desideri >>.
Sorrise, di nuovo sereno, sollevato da qualcosa che non riuscii ad
afferrare.
In
verità, non volevo assolutamente chiamarlo per nome.
Stavo quasi per dirglielo, in quell’attimo iniziale di
incertezza, ed ero sicura che avesse anche intuito le mie reali
intenzioni.
Ma decisi di assecondarlo per due ovvie ragioni.
Innanzitutto era l’ospite d’onore di quella
giornata ed andava trattato come tale. Claire era già
dispiaciuta per non essere riuscita a mantenere gli accordi presi con
Jackson, ed io non volevo causarle ulteriori motivi di disagio. In
fondo, anche io ero una volontaria, e in quel momento rappresentavo il
buon nome dell’orfanotrofio. Non potevo comportarmi se non in
modo educato e cordiale.
La seconda ragione era più evidente. Si trattava di Michael
Jackson, dopo quella serata, chi l’avrebbe mai più
rivisto? Anche se abitavamo nella stessa città sarebbe stato
del tutto impossibile rincontrarlo. Era l’artista
più conosciuto al mondo, super impegnato, e di certo non lo
si poteva incontrare al supermercato come un qualsiasi essere umano.
Dovevo solo fare buon viso a cattivo gioco e in poco tempo sarei
tornata a casa, alla mia vita.
Con
quella improvvisa consapevolezza mi sentii subito più
rilassata. Ero di nuovo al sicuro.
<<
Ti piace il Natale, Isabella? >>, chiese, improvvisamente
emozionato.
Mi sembrò una domanda strana, in fondo, a chi non piaceva il
Natale? Non c’era bambino o adulto che non aspettasse quel
periodo dell’anno per stare insieme ai propri familiari.
<<
Mi piace molto, è la festa che preferisco in assoluto. Il
giorno di Natale io e mia madre ci riuniamo sempre a casa
dell’una o dell’altra e cuciniamo insieme tutto il
tempo >>, sorrisi nel pensare che non erano tanto i
regali a piacermi di questa festa, ma la possibilità di
spendere tempo con mia madre, fare cose stupide e ridere insieme a lei.
Michael mi guardò visibilmente interessato, forse troppo,
come se stessi raccontando qualcosa di incomprensibile alle sue
orecchie.
Non mi sembrava di aver detto nulla di strano ma a guardarlo bene negli
occhi, notai una nota malinconica in quelle iridi castane.
Tanto che ne fui incuriosita.
<<
A te piace il Natale? >>, azzardai nel chiedergli.
Sorrise apertamente e capii che gli piacesse molto, ma nello stesso
momento allontanò gli occhi dai miei, e stavolta non
sembrò per timidezza. Piuttosto mi diede
l’impressione che volesse nascondere qualcosa.
<< È una
bellissima festa, la più significativa tra tutte le feste.
Ognuno di noi dovrebbe avere l’opportunità di
festeggiarla con i propri cari >>.
Era vero. L’essenza del Natale era quella, trascorrere del
tempo con chi si ama. Tuttavia quella risposta mi lasciò con
l’amaro in bocca. Più che una semplice
affermazione, ebbi la sensazione che stesse esprimendo un desiderio che
gli era stato negato.
Non sapevo che rispondere e mi stupii nel pensare che avrei voluto
sapere di più, capire perché lui,
l’uomo più famoso del mondo, avesse
un’espressione così malinconica.
Durò poco, però, forse si rese egli stesso conto
di essersi esposto troppo.
<<
E tuo padre? >>.
<<
Scusami? >>, mi ero incantata e non avevo sentito nemmeno
una parola. Era una persona molto sfuggente, quasi quanto la
sottoscritta, ed aveva fatto nascere in me una certa
curiosità.
<<
Prima hai detto che a Natale tu e tua madre vi riunite per stare
insieme, mi chiedevo dove fosse tuo padre >>.
Oh, era questa la domanda.
Stavolta fui io ad allontanare gli occhi, presa da quella nuvola tenera
e malinconica che sono i ricordi.
<<
Non avrei dovuto, perdonami >>.
Tornai a guardarlo una volta ridivenuta serena.
<<
Tranquillo, è una domanda legittima. Comunque, lui non
è più qui, un male incurabile l’ha
portato via >>.
Lo dissi senza problemi, come una voce registrata su nastro e
più volte ripetuta.
<<
Mi dispiace, credimi >>. Gli credevo, lo si vedeva dal
cipiglio preoccupato che il suo viso aveva assunto.
<<
Ti ringrazio, ma non preoccuparti, è successo tanti anni fa.
Con il tempo ho imparato ad accettare la sua scomparsa >>.
Era una bugia bella e buona, ovviamente. Se ami una persona non la
dimentichi nemmeno dopo 100 anni. E io amavo mio padre, amavo lui e i
suoi abbracci calorosi.
Non avevo permesso che nessun segno lasciasse il dubbio che dietro le
mie parole si nascondesse ancora una bambina bisognosa di suo padre, ma
lo sguardo di Michael, in quel momento, fu il più intenso
della serata. Mi sentivo indagata nel profondo, messa su di un
piedistallo e scrutata attentamente come si fa con un oggetto
all’asta. Ero sempre stata brava a nascondere certi
sentimenti, avevo oramai raggiunto un certo livello di esperienza in
questo, eppure stavolta non ero stata creduta.
Annuì
leggermente, senza interrompere quell’interrogatorio
silenzioso, mentre io, presa da un senso di frustrazione, nascosi lo
sguardo girandomi verso i bambini, che solo in quel momento, mi accorsi
si stavano preparando per la consueta scena natalizia.
Notai Claire dare le ultime direttive necessarie
affinché lo spettacolo potesse iniziare al più
presto.
Katy mi guardò per pochi secondi e mi salutò con
la manina. Sapevo che era emozionata. Quell’anno, per la
prima volta, avrebbe avuto un ruolo di prim’ordine nello
spettacolo.
Mia madre, invece, stava sistemando il tavolo del buffet. La vedevo
mentre posava un vassoio in una determinata maniera, poi faceva un
passo indietro per vedere se la posizione fosse di suo gradimento e,
dato che almeno una cosa in comune ce l’avevamo, ovvero la
precisione, puntualmente tornava a spostare il vassoio per poi ripetere
ogni azione da capo. La trovai addirittura bacchettare con la mano uno
dei bodyguard di Jackson. Si era avvicinato tranquillo per prendere un
sandwich ma lei, con un gesto secco, non glielo aveva permesso. La
faccia che fece, lui un gigante di quasi due metri davanti ad una donna
di nemmeno un metro e sessantacinque, fu la cosa più buffa
che mi capitò di vedere quel giorno.
Era stato esilarante, tanto che mi ritrovai a ridere e insieme a me,
anche Michael. Aveva lo sguardo puntato dove si era appena conclusa la
scena e rideva con una mano posata sulla bocca. Ogni tanto mi scrutava
e cercava un modo per smettere di ridere. Forse gli sembrò
di essere maleducato ma era talmente divertito che non riusciva a
tornare serio.
Durante
tutta la serata che seguì mi domandai perché non
mi fossi bloccata, inorridita dal clima di confidenza che si era venuto
in poco tempo a creare.
Perché in quel momento non avevo avvertito il senso di
irritazione che sentivo da quando lo avevo visto la prima volta quel
pomeriggio.
E perché invece di freddarmi come ero solita fare, mi
ritrovai invece a ridere insieme a lui, imbarazzata per mia madre e
divertita da quella risata spensierata e delicata, un po’
contagiosa e un po’ fanciullesca.
*Spazio
autrice:
Salve
a tutte ^^
Ebbene, la festa di Natale sarà divisa in tre parti come
avrete visto dal titolo, questo perché credo che il primo
approccio sia fondamentale per lo scorrere della storia e soprattutto
per il cambiamento di Isabella.
Non mi piacciono le cose che avvengono di fretta, né
tantomeno voglio lasciare nulla al caso, e spero davvero di riuscirci.
Il primo passo da affrontare, penso, è proprio questo,
l’evoluzione non dei sentimenti ma dell’opinione di
Isa.
Sarà piuttosto graduale, all’inizio si
porrà molte domande, ma è inevitabile, credo.
Poi, chi volesse vedere la foto di lei e del vestito, eccolo
accontentato ^^
Grazie a chi segue questa storia e un bacio a tutte voi :*
Martina.
|
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Capitolo 5 *** Lonely People 2/3 ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
5 – Lonely People
Part
2/3
Lo
spettacolo di quell’anno prevedeva come tema principale la
celebrazione dell’infanzia, in quanto età
fondamentale per la crescita e lo sviluppo di qualsiasi essere umano.
Claire aveva come principio supremo nella vita e nel lavoro
all’orfanotrofio, quello di rendere la permanenza e la
condizione già di per sé difficile dei bambini,
il quanto più possibile vicina a quella che possa
considerarsi una vita normale. E per fare ciò,
c’era solo una cosa che richiedeva a tutti i volontari che
ogni giorno solcavano i pavimenti di quel posto: sorridere, sempre.
Lasciare qualsiasi cosa ci turbasse al di fuori di quelle mura e
smettere di pensare a sé stessi, per dedicarsi
esclusivamente a chi, in un certo periodo della propria esistenza, era
stato considerato un peso o una disgrazia o un oggetto inutile di cui
disfarsi.
Per questo non si poteva considerare un “lavoro”
per tutti. Qualsiasi cosa succedeva, non si poteva crollare di fronte a
occhi così innocenti e così abbandonati.
La difficoltà è ai massimi livelli e le prime
volte ti ritroverai in gola un groppo talmente pesante che ti
farà chiedere se il pavimento sia abbastanza forte da
reggere tutto quel peso o se invece finirai per sprofondare.
Davvero,
è una prova dura da affrontare. Per quanto riguardava me, la
seconda prova più dura che avessi mai affrontato.
E, mentre lo spettacolo iniziava, sorrisi nel pensare che anche
quell’anno ce l’avevamo fatta nel far sì
che nel cuore di quei bambini non ci fosse stato un giorno, un solo
giorno in cui la solitudine e quel leggero senso di rifiuto, che era
presente ma non ancora sviluppato, avessero superato la gioia di vivere.
Era una sensazione così forte che faccio fatica a trovare le
parole esatte per descriverla, rischiando di non darle la giusta
importanza.
Per
la scelta della storia da raccontare durante la recita c’era
stato un lungo dibattito. Volevamo qualcosa nella quale tutti i bambini
potessero partecipare avendo ognuno una parte di una certa importanza e
che rappresentasse in pieno lo stato di spensieratezza, innocenza e
purezza che si trova solamente in una certa età della nostra
vita. Alla fine, la scelta è ricaduta unanime sulla storia
di Peter Pan.
A David, un bambino dal carattere vivace tanto da poter essere
considerato irrequieto, ma dalle straordinarie capacità
artistiche e creative, era stata affidata la parte di Peter.
Wendy sarebbe stata interpretata da Sarah, perfetta in
quell’abito azzurro e le trecce more che ricadevano morbide
sulle spalle, tenute legate da fiocchi di seta, anch’essi
azzurri.
Per la parte di Trilli, invece, non ci furono dubbi a farci perdere
tempo. Quando per la prima volta posammo le ali da fatina sulle spalle
di Katy, sembrò che qualche magia fosse già
avvenuta perché aveva un’espressione in viso
talmente felice da creare un’aura di gioia e
solarità tutto intorno alla sua figura.
In quel preciso momento, se ne stava sul palco ad agitare le braccia
facendo finta di volare, la bacchetta in mano, pronta a spargere la sua
polvere di fata e far volare tutti i bambini che ne venivano ricoperti.
Era una magia impossibile, ovviamente, ma lei ci metteva tutta la
serietà che una bambina di 4 anni poteva avere, quasi avesse
fatto incantesimi da tutta la vita. Ci credeva talmente tanto in quello
che faceva che riusciva a convincere anche chi la guardava.
Con la coda dell’occhio notai anche gli altri spettatori,
anch’essi presi dalla rappresentazione che stava avendo luogo
sul palco.
A Jackson era stato riservato il posto migliore, in prima fila al
centro della scena. Dalla mia postazione non riuscivo a vedere la sua
espressione ma doveva piacergli ciò che stava vedendo
perché ogni tanto batteva le mani, in quello che sembrava
essere l’inizio di un applauso.
Mentre
osservavo quell’uomo inconsueto dai capelli ricci, lo
spostamento della sedia alla mia destra catturò la mia
attenzione.
Sobbalzai, presa alla sprovvista.
Jay aveva in viso il solito sorriso beffardo, compiaciuto dai suoi
stessi scherzi, quelli che lui chiamava “trovate
geniali”. Gli avevo detto più volte che le sue
“trovate geniali” poteva pure tenersele per
sé, ma dire una cosa a quell’uomo e avere
addirittura la presunzione che tale cosa arrivasse al suo cervello per
essere anche solo presa in considerazione, era un fatto talmente
eccezionale da poterlo catalogare come miracolo.
E non scherzavo, almeno io.
<<
Che fine hai fatto? Lo spettacolo è iniziato da 10 minuti
>>, dissi in tono basso, per non disturbare.
<<
Scherzi? Hai visto che inferno c’è lì
fuori? Se non ci fosse stata quella mandria indemoniata, sarei
sì arrivato in ritardo, ma non così tanto
>>, rispose, facendomi l’occhiolino.
Non avevo nemmeno più la forza di scuotere la testa, mi
limitai solo a sospirare e tornare a guardare lo spettacolo.
Jay, però, non fece altrettanto. Sentivo che aveva ancora la
testa girata dalla mia parte.
<<
Che hai da guardare? >>, chiesi, interrogativa.
Sorrise e si soffermò a contemplare il vestito.
<<
Mi hai dato retta >>.
Alzai le spalle, cercando di fare l’indifferente.
<<
Beh, mi son detta, perché no? Era da tanto che non mettevo
un vestito, questa mi sembrava l’occasione giusta
>>.
Aspettai di sentire la sua risposta ma questa non arrivava.
Continuò a guardarmi, il sorriso di prima adesso era appena
accennato. Passarono pochi secondi riempiti da uno strano silenzio.
<<
Sono contento che tu abbia preso questa decisione >>,
disse, infine, e per la prima volta si girò ad osservare lo
spettacolo.
Appena
si concluse l'ultima scena l’applauso che
riecheggiò all’interno della stanza era super
meritato. Non c’era stato un solo sbaglio o una sola
incertezza che avesse spezzato la magia di ciò che poco
prima stava avvenendo sopra il palco. L’impegno concesso
aveva dato luogo ad una rappresentazione perfetta e il risultato finale
non poteva che essere magnifico.
Jackson si alzò per primo, seguito da tutti noi presenti,
per rendere onore ai piccoli attori che, a quella vista, persero tutta
la loro compostezza, iniziando a saltellare e ridere eccitati.
Jay vicino a me urlava scatenato, facendomi ridere. In fondo aveva una
reputazione da mantenere, visto che all’orfanotrofio era
conosciuto come il buffone di turno.
Claire si precipitò sul palco, felice di tanto successo.
Dopo essersi complimentata personalmente con i bambini,
richiamò su di sé l’attenzione.
<<
Allora che dite, vi è piaciuto lo spettacolo?
>>.
Un’altra ondata di urla colpì le mura.
<<
Sono davvero felice di questo e, soprattutto, che abbiate apprezzato
l’impegno mostrato dai nostri ragazzi e da tutti coloro che
hanno ideato e fatto sì che questo spettacolo potesse avere
luogo. Sono orgogliosa di poter dire di avere tra le mie fila i
volontari con il cuore e anche la pazienza più grandi che
potessi trovare. Ma non voglio dilungarmi oltre, questa per tutti noi
è una giornata speciale. Sono lieta di annunciare
un’importante collaborazione con la Heal The World Foundation
che da oggi si occuperà della manutenzione e del benessere
di questa struttura. Colgo quindi l’occasione per chiamare
qui sul palco il nostro ospite d’onore e ringraziarlo della
sua presenza. Prego Signor Jackson >>.
Michael si alzò appena udito il suo nome, incamminandosi in
direzione di Claire.
Alle sue spalle, tutti i presenti battevano le mani, eccitati quanto e
forse più dei bambini.
Dapprima abbracciò Claire, sussurrandole qualcosa
all’orecchio, poi si premurò di fare una carezza
ai bambini rimasti sul palco dalla fine dello spettacolo. Infine, si
girò a guardare noi del pubblico, prendendosi del tempo
prima di iniziare il suo discorso.
A
quella distanza potevo vedere tutta la sua figura ergersi al centro
della scena e, mentre cercava le parole esatte da pronunciare, ne
approfittai per studiarlo. Si era cambiato d’abito dal
pomeriggio, ora indossava un completo nero. La giacca, di stampo
militare, era aperta, lasciando intravedere al di sotto una semplice
maglietta bianca. In vita, faceva sfoggio una cintura borchiata dal
grande stemma color argento. Mocassini ai piedi e cappello in testa.
Sembrava un soldato dall’anima rock, giunto a compiere la sua
missione. Mi piaceva.
Si
schiarì la voce, concentrato a guardare la platea di fronte
a sé. Infine prese parola.
<<
Buonasera amici, e grazie per avermi dato
l’opportunità di essere qui stasera con voi ad
assistere a questa meravigliosa rappresentazione. Mi congratulo con gli
ideatori e i piccoli attori che hanno dato vita allo spettacolo,
rendendo un degno omaggio alla magica storia di Peter Pan. Forse, non
molti di voi sapranno che proprio questa storia, quella di Peter Pan,
è la mia preferita. Molte volte ho chiuso gli occhi,
immaginandomi di essere un ragazzino capace di volare, libero di essere
sé stesso in un mondo nel quale l’unico vero
potere a dettare regime fosse l’innocenza. Mio malgrado,
è un mondo che scompare non appena riacquisto la vista. Ma
c’è una cosa che ho imparato e in cui credo
fortemente, l’isola che non c’è non
è un luogo così lontano da noi, non la si trova
seguendo la seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, per
quanto l’idea sia molto affascinante …
>>, ridacchiò piano, divertito dal suo stesso
pensiero, e tornò a parlare.
<< Credo che ognuno di noi abbia una piccola
isola che non c’è dentro sé stesso,
è tanto grande quanto il ricordo della nostra infanzia e
della voglia di conservare quella gioia, quella purezza, quella
vivacità che da piccoli sembrano le sole cose a ruotare
intorno al mondo. Ebbene, il ricordo della mia infanzia non
è tanto grande quanto vorrei, semplicemente
perché non ne ho avuta una, ma custodisco quella leggerezza
di spirito con molta gelosia e nonostante, mai come in questo periodo,
il mio modo di fare è stato vittima di speculazione e false
accuse, io continuo a lottare per mantenere intatto, anche da adulto,
il diritto di meravigliarsi, il diritto di giocare, il diritto di
sognare e di non lasciare che alcuno calpesti questi sogni
>>.
Non
aveva più l’aria serena di prima, c’era
tensione fra i tratti scolpiti del viso e anche una certa
determinazione. Si girò verso i bambini e parlò a
loro.
<< Vorrei dire a voi bambini di proteggere
questa vostra isola che non c’è, di farla vivere,
darle nutrimento finché sarà talmente grande che
non dovrete preoccuparvi di diventare adulti e dimenticarvi di chi
eravate, perché avrete vissuto al meglio questo
straordinario periodo della vostra vita, tanto da renderlo indelebile
>>. Tornò a guardare il pubblico, serio come
non lo avevo mai visto ma più rilassato.
<< Devo dire che l’orfanotrofio nel
quale stasera mi trovo fa un ottimo lavoro affinché
ciò venga preservato. Ho visto con i miei occhi quanto
questi bambini vengano amati ed accuditi nel migliore dei modi e di
questo ringrazio tutti coloro che spendono tempo della loro vita per
dedicarlo a quella di qualcun altro. Non c’è nulla
di meglio che dare, cari amici. Per questo stasera, è mia
intenzione fare una donazione all’orfanotrofio di Santa
Barbara di centomila dollari >>.
Schiusi di poco la bocca nell’attimo esatto in cui i battiti
delle mani e le urla festose dei presenti invasero le mie orecchie.
Centomila
dollari?
<<
Vi prego, signori, non è nulla di che. Cerco di dare a chi
lo merita ciò che mi è possibile e questo luogo,
protettore di sogni, lo merita più di chiunque altro.
Ringrazio di nuovo la direttrice Claire per avermi ospitato e auguro a
tutti voi una splendida festa di Natale. Dio vi benedica
>>. Annuì, quasi volesse inchinarsi per
ringraziare e scese dal piccolo palco con semplicità.
Io,
invece, non ci stavo capendo nulla. Ero rimasta indietro, ai centomila
dollari.
Non potevo crederci, erano tantissimi, molto più di quello
che realmente ci servisse per rendere l’orfanotrofio un posto
più vivibile.
Claire faceva un ottimo lavoro per non far mancare nulla ai bambini.
Aveva molti amici, ricchi e benestanti, presenti anche quella sera, che
l’aiutavano nei momenti di bisogno e credetemi, quando si
gestisce un luogo come un orfanotrofio, i momenti di bisogno sono
più assidui di quello che si pensa.
Purtroppo, proprio un anno fa, c’eravamo trovati ad
affrontare la nostra difficoltà più grande,
quando un uragano colpì tutta la California. Fortunatamente
non rimase ferito nessuno ma i danni alla struttura furono notevoli.
In particolare la parte dell’infermeria e della sala giochi
cedette e Claire si ritrovò costretta a prendere una
decisione. I fondi non erano abbastanza per coprire le spese di
entrambe le stanze, così scelse per grado di importanza.
L’infermeria venne ricostruita da cima a fondo mentre della
sala giochi non rimaneva che polvere.
Ora finalmente, con quei soldi avremmo potuto ridare ai bambini uno
spazio dedicato solo a loro.
Michael
scese i pochi scalini che lo dividevano dal resto dei presenti ed io lo
seguii con lo sguardo, dominata da uno strano senso di meraviglia e
incredulità, la bocca non ancora chiusa. Ero felice. Felice
ed emozionata.
Al mio fianco Jay sorrideva eccitato.
<<
Bee, non che ci siano mosche qui dentro, ma ti conviene lo stesso
chiudere la bocca. È poco igienico, e poco femminile
>>, disse, divertito.
<<
Eh? Si, hai ragione >>, risposi, come un'automa.
Mi guardò stupito. Di solito rispondevo sempre in un modo o
in un altro alle sue battute, stavolta invece avevo lasciato scorrere.
<<
Sembri sorpresa >>.
<<
Lo sono. Centomila dollari, Jay! Ti rendi conto? Possiamo iniziare i
lavori che avevamo lasciato in sospeso e fare anche di più!
E in futuro, dovesse succedere qualcosa, con quei soldi siamo
largamente coperti. È magnifico >>, esclamai,
realizzando finalmente quello che stava succedendo.
<<
È vero, di sicuro è un uomo molto generoso
>>.
<<
Si, questo non posso negarlo >>, dissi, mentre entrambi
lo osservavamo.
Sopraffatta
dalle emozioni andai a congratularmi con i bambini. Abbracciai ognuno
di loro, rendendomi conto di quanto ogni anno diventassero sempre
più grandi, sempre più padroni di sé
stessi, ma sempre bisognosi di ricevere una carezza.
Trovai Katy silenziosa in un angolo, intenta a giocare con le sue ali
di fata.
<<
Ehi, sei stata la fatina più bella di tutto il mondo.
Bravissima! >>.
Mi avvicinai e passai una mano tra quei capelli biondi.
<<
Zia Isabella? >>, sussurrò, mantenendo lo
sguardo in basso.
<<
Che c’è Katy? Qualcosa non va? >>,
chiesi, preoccupata. Non era da lei quel tono sommesso.
<<
Pensi che adesso potremmo avere una stanza con tutti i giochi? Mi manca
giocare insieme agli altri in un posto tutto nostro >>.
Per la prima volta si girò a guardarmi. Le brillavano gli
occhi, di eccitazione e di speranza.
<<
Ma certo. Con i soldi donati da Michael possiamo ricostruire la stanza
e comprare tanti giochi nuovi. Promesso >>, le sorrisi,
rassicurandola.
<<
Voglio ringraziarlo! Però puoi dirglielo tu? Io mi vergogno
>>.
<<
Ma come? Dov’è finita la bambina coraggiosa che
conosco? >>, chiesi sorpresa.
<<
Ti prego. Ha fatto una cosa importante per noi bambini ed io non so
come ringraziarlo, fallo tu al posto mio. Ti prego! >>.
Mi prese la mano, stringendola con tutte le sue forze.
Si vedeva che si trattava di una questione importante per lei, in
fondo, quell’anno era stato duro per tutti i bambini. Non
avere uno spazio dove sfogarsi giocando, dove sentirsi liberi di
esprimere sé stessi, doveva essere stato difficile da
sopportare. Nonostante l’amore che si potesse loro dare,
erano anche persone individuali e con un alto grado di
creatività. Trovarsi in un luogo che non garantiva spazio
sufficiente per esprimere questo lato intimo non era per nulla
l’ideale.
<<
E va bene, lo farò io, ma tu mi accompagnerai,
d’accordo? >>.
Annuì vigorosamente, lasciandomi intravedere tutta la sua
gratitudine.
Mano
nella mano, ci incamminammo verso il Re del Pop.
Se ne stava vicino al tavolo del buffet, probabilmente indeciso su
quale pietanza buttarsi, sorvegliato dalla sua personale guardia del
corpo e avvicinato da qualche amico di Claire.
A pochi passi da lui feci un sorriso di cortesia al bodyguard che non
appena mi vide, prese a squadrarmi attentamente.
Ma non gli avevo già detto di non essere una serial killer?
Tossii, per attirare l’attenzione, e Michael si
girò all’istante, alternando gli occhi da me a
Katy, la quale si era nascosta dietro la mia gamba destra, per la prima
volta timorosa di non so cosa.
<<
Michael, una bambina molto timida mi ha chiesto di ringraziarti per la
generosa donazione a favore dell’orfanotrofio. Ora molte cose
potranno essere messe apposto. Sono sicura tu l’abbia resa la
bambina più felice del mondo in questo momento
>>.
Sembrò aver capito la situazione perché ci
sorridemmo, complici.
<<
Oh, davvero? Mi piacerebbe conoscere questa bambina, sai dove posso
trovarla? >>.
Assunsi un’espressione dispiaciuta, attenendomi al gioco.
<<
Come ho già detto, è molto timida, preferisce non
farsi vedere. Ma ti ringrazio io da parte sua >>.
Mossi un piede, facendo finta di volermi allontanare, quando sentii una
leggera forza premere sulle gambe, intimandomi di riporle attenzione.
Mi abbassai trovandomi il viso arrossito e di Katy. Le sorrisi per
incoraggiarla e finalmente uscì allo scoperto. Si pose
davanti a Michael, inizialmente indecisa sul da farsi, poi lo
abbracciò, circondandogli le gambe.
Fu
strano assistere a quella scena.
Mentre Michael si abbassava per fare una carezza sul capo di Katy e
lasciarle un bacino sulla guancia, aspettavo il momento in cui avrei
sentito montarmi la rabbia e il ribrezzo che avrei dovuto provare.
Quell’uomo accusato di pedofilia stava abbracciando
impacciato la bambina più importante della mia vita.
E invece, mi sorpresi nel guardare quegli occhi, ogni tanto oscurati da
qualche ciocca ribelle, riempirsi di uno strato sottile di lacrime non
versate.
Lo guardavo meravigliata e confusa.
Ma chi era realmente?
Come riusciva a commuoversi per il semplice ringraziamento di una
bambina?
E perché oltre quel guizzo di felicità sembrava
nascondersi sempre una nota di tristezza?
Ad un certo punto, mi sentii costretta a distogliere lo sguardo, non
riuscivo più a guardarlo, a scontrarmi con quel muro fatto
di solitudine e fragilità.
Perché era quello che mi era sembrato, per un attimo, ebbi
il dubbio di essermi guardata allo specchio e di aver visto riflessa la
mia immagine, le mie stesse paure, il mio stesso dolore.
Il solo pensiero mi fece tremare le gambe.
Non sapevo come spiegarmelo, ma aveva ragione mia madre,
quell’uomo sembrava terribilmente solo.
*Spazio
autrice:
Stavolta
sarò breve XD
Grazie come sempre a chi legge la mia storia e, dato che non
aggiornerò prima della settimana prossima, vi auguro buon
ferragosto =)
Un bacio,
Martina.
|
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Capitolo 6 *** Lonely People 3/3 ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
4 – Lonely People
Part
3/3
È
strano come il cervello umano riesca a formulare mille pensieri e
progettare altrettante congetture in quello che potrebbe essere
considerato davvero un piccolissimo spazio di tempo, come un millesimo
di secondo.
L’abbraccio tra Michael e Katy si era sciolto
nell’arco di qualche battito di ciglia, eppure io ero caduta
in un vortice di emozioni e strane sensazioni difficili sia da
decifrare per la loro complessità sia da elencare tutte
senza rischiare di tralasciarne qualcuna.
La dolcezza di quell’immagine aveva avuto la stessa forza di
uno schiaffo, ne portavo ancora i segni sul viso.
Ero addirittura riuscita ad andare indietro nel tempo, quando a 4 anni
ero io ad essere stretta in quel modo da un uomo con gli stessi occhi
scuri e grandi, che io chiamavo “papà”.
Non so perché mi venne in mente proprio quella scena, forse
ci avevo trovato lo stesso livello di amore o forse la mia mente mi
giocava brutti scherzi.
Ormai non sapevo più cosa pensare. Cominciavo a pentirmi di
essere andata a quella benedetta festa.
Ancora con gli occhi distolti, sentii distrattamente la voce di Michael
suggerire a Katy quanto fosse stata brava ad interpretare il suo
personaggio nello spettacolo.
Cercai di riportare l’attenzione sulla scena che avevo di
fronte.
La timidezza di Katy sembrava essersi dissolta nel nulla, era tornata
ad essere la bambina testarda e coraggiosa che avevo imparato a
conoscere e ad amare.
Sorrisi nel vederla finalmente ridere.
<<
Tutto bene signorina? >>.
Mi girai in direzione di quel suono, non senza fare un piccolo saltello
dalla sorpresa.
Il bodyguard di Michael si trovava al mio fianco, occhi puntati dritti
nei miei, il capo leggermente piegato.
Da dove era saltato fuori? Sembrava avesse agito furtivamente
perché non mi ero proprio accorta di nulla, ma la colpa
doveva essere soltanto mia. In fondo, ero tornata in me solo qualche
secondo prima.
<<
Si, tutto bene. Perché? >>, chiesi, sulla
difensiva.
<<
Sembrava sovrappensiero ed anche turbata. Credevo stesse male
>>.
Riflettei un attimo su quelle parole prima di rispondere. Non ci vedevo
nulla di male in quell’interessamento, per cui tornai ad
essere serena.
<<
In effetti ero sovrappensiero. E parecchio direi. Ma sto bene, non si
preoccupi >>, sorrisi del tutto sincera.
<<
Oh bene. Comunque, mi scusi per non essermi presentato prima. Sono Bill
>>.
Allungò la mano aspettando la mia. Gliela strinsi, cordiale
ma anche rilassata, non scorgevo nessuna mal intenzione in
quell’omone. Sembrava uno di quei personaggi che si vedono
nei film, quelli che sono costretti a fare la parte dei duri
esclusivamente a causa della loro stazza, ma che in verità
è un ruolo che non ricoprono nella vita reale.
<<
Salve Bill, io sono Isabella >>.
<<
Lo so >>, disse ridendo.
<<
Lo sa? E come? >>, chiesi, stupita.
<<
Sua madre oggi non ha smesso di parlare di lei a Michael, ed io,
standogli vicino visto che sono la sua guardia del corpo, ho sentito
tutto >>, concluse a trentadue denti.
Oh, ma certo. Mia madre.
Giuro
che se ha detto qualcosa che …
<<
Non faccia quell’espressione >>, disse
divertito. << Mi creda, non ha detto nulla di cui si
debba preoccupare, anzi >>.
E invece no. Quando c’era di mezzo mia madre, c’era
sempre qualcosa di cui mi dovevo preoccupare. Volente o nolente, quella
donna era capace di catastrofi a livello globale. Non a caso il suo
livello di pericolosità era inversamente proporzionato alla
sua statura. Ci
trovavamo di fronte ad un’arma letale.
<<
Non saprei, la conosco troppo bene per starmene tranquilla
>>, dissi, visibilmente preoccupata.
<<
Chi è che conosci troppo bene? >>.
Parli
del diavolo …
La
testa di mia madre fece capolino al di sopra della mia spalla,
raggiante come solo lei poteva essere. Mi guardava come se sapesse
già ogni cosa, come se lei avesse la risposta per ogni
dilemma e il suo chiedere fosse solo un tentativo per rompere il
ghiaccio.
Alternai gli occhi da lei a Bill, alla ricerca di una qualche fonte di
ispirazione per architettare una bugia plausibile all’ultimo
momento.
L’aiuto arrivò inaspettato, ma non per questo meno
apprezzato.
<<
Beth! >>, esordì una voce sottile.
<<
Michael! Lascia che ti faccia i miei complimenti per il bellissimo
discorso di poco fa. Come sempre sei di grande ispirazione sia per i
grandi che per i piccoli, e grazie di cuore per la donazione.
È il gesto più importante e significativo che
questo orfanotrofio abbia mai ricevuto da un’unica persona.
Grazie davvero >>.
Una volta finito di parlare si avvicinò a Jackson e lo
abbracciò forte, non solo come fosse una fan, cosa che
effettivamente era, ma soprattutto per esprimergli semplicemente tutta
la sua gratitudine.
Mi ritrovai a sorridere nel guardarla abbracciare quello che poteva
considerarsi il suo più grande idolo. Ero quasi certa che se
fosse stata più giovane avrebbe cercato di sedurlo, tanto
era perfetto ai suoi occhi.
Oddio,
Michael Jackson come patrigno …
Sgranai
gli occhi e risi apertamente, coprendomi subito dopo la bocca con una
mano. Mi scusai imbarazzata con i presenti, intenti a guardarmi
stranamente e riposi da parte qualsiasi pensiero surreale.
Sciolto l’abbraccio, Michael si girò verso noi ed
altre persone che nel frattempo ci avevano raggiunto.
<<
Per quanto strano possa sembrare, sono io che vi ringrazio di cuore.
Stasera il più bel regalo l’ho ricevuto io stesso.
Questo è il primo Natale che festeggio >>,
disse piano, come imbarazzato, ma sorridendo di un’emozione
che sembrava pronta per esplodere, tanto era potente.
Non parlò nessuno in quel momento, o almeno così
parve alle mie orecchie.
In quell’istante capii parte di quella nota malinconica che
avevo scorto qualche ora prima, e perché mentre parlavo
della mia giornata di Natale i suoi occhi erano talmente interessati.
Per lui si trattava solo di un’idea,
un’immaginazione, niente che realmente avesse vissuto.
Quando arrivai alla conclusione di quel pensiero, mi resi conto che il
silenzio era da tempo stato spezzato da coloro che ora circondavano
Michael propinandogli quante più domande riuscissero a
formulargli.
Gli occhi di tutti, compresi i miei, erano puntati su di lui, che in
quel momento sembrava essere diventato un essere a due teste, lontano
da ogni comprensione umana, giudicato nella sua diversità.
Mi diedero fastidio quegli occhi indagatori, mi sembravano troppo
giudiziosi e insistenti. E le domande martellanti non facevano che
aumentare la tensione in quel viso delineato, accentuando il guizzo
malinconico di cui si nutrivano le iridi castane.
Frustrata, mi decisi a zittire tutti.
<<
Mamma mia, io sto morendo di fame, e voi? >>, quasi urlai.
Scatenai qualche risolino divertito e ci fu un’approvazione
generale, in men che non si dica la maggior parte della folla si
disperse davanti il lungo tavolo da buffet, portandosi dietro
l’imbarazzo dal viso di Michael.
Sospirai come se io stessa mi fossi tolta un peso e accolsi il
ringraziamento subliminale che lo sguardo di Michael mi rivolse, prima
di essere trascinato via da Katy e altri bambini. Era riconoscente e
sollevato.
Anche se nemmeno io sapevo bene perché lo avessi fatto, mi
sentii allo stesso modo più serena. Non ero mai stata in
confidenza con l’attenzione in generale, soprattutto quando
non era per nulla desiderata né richiesta. E poi mi sembrava
di stare ad indagare troppo a fondo nella vita privata di qualcun
altro, avevo avuto l’impressione che gli stessimo facendo del
male, noi e i nostri occhi.
Il
resto della serata che seguì fu un susseguirsi di eventi
tradizionali che venivano riproposti anno dopo anno. Presi parte come
meglio potevo alle varie usanze, cercai di rimanere neutrale e
concentrata, di impegnare la mente aiutando dove c’era
bisogno, o semplicemente fermandomi a parlare di cose frivole con gli
invitati, ma mi sembrava tutto inutile. Non facevo che ripercorrere i
vari momenti di quella giornata, allo stesso modo di come si vedeva un
film. Schiacciavo pausa quando ero arrivata ad una scena
particolarmente intensa, e il cervello si fermava a riflettere, non
volendone sapere di far scorrere le immagini.
Decisi
fosse arrivato il momento di prendere una boccata d’aria, se
non altro per raccogliere i pezzi di quella giornata e trovare un modo
per non lasciarli ulteriormente ronzarmi in testa.
Uscii dalla porta secondaria per non correre il rischio di trovarmi di
fronte quell’orda schiamazzante di fan. Non avevo
però fatto i conti con l’aria gelida di una notte
d’inverno, il cui vento, seppur leggero, aveva la
capacità di pungere la pelle come una moltitudine di aghi.
Chiusi bene il cappotto, avvolgendomi la parte alta intorno al collo,
premurosa di non lasciarmi ammalare, visto che la maggior parte delle
volte mi riusciva piuttosto bene. Trovai un angolo appartato dove
appoggiare la schiena, abbastanza al riparo dallo sferzare del vento e
rimasi lì, immobile, cercando di scovare una stella, una di
quelle che d’inverno coraggiose sfidano il cielo terso e la
loro luce si impone al buio della notte.
Seppure il buio non fosse più mio amico da molto tempo,
amavo ancora la notte perché portava con sé le
luci migliori.
C’erano molte stelle quella sera, per mia fortuna. Alla sola
vista riuscii a rilassarmi, resettare la mente e bearmi di
ciò che quel palcoscenico illuminato aveva da offrire.
Ad essere sincera era un mero tentativo di impegnare la mente, uno dei
più banali anche, ma stava avendo i suoi frutti.
Se non che …
Prima
ancora che me ne rendessi conto, il mio inconscio aveva alzato le
barriere, allarmato, provocando l’incedere martellante dei
battiti del cuore.
Nello stesso attimo in cui sentii quei colpi nel petto, avvertii il
rumore cadenzato di passi lenti calpestare l’erba bagnata.
Trattenni il fiato, pregando di ritrovarmi davanti un viso familiare.
E, stranamente, così lo reputai.
Michael aveva un’espressione furbesca, di chi era appena
diventato l’artefice di qualche marachella e una volta
fuggito poteva finalmente godersi l’audacia delle sue gesta.
Ma cambiò non appena mi vide in viso, sgranando
impercettibilmente gli occhi e schiudendo la bocca, prima tesa a
formare un ghigno.
<<
Isabella, tutto bene? >>, chiese forte e deciso.
Deglutii e presi un bel respiro. Dal di fuori dovevo essere sembrata
parecchio agitata.
<<
Si >>. La voce uscì roca, avvolta dalla paura
che prima aveva saputo come prendere il controllo delle mie emozioni,
ancora una volta.
<<
Scusami, non volevo spaventarti >>.
Scossi la testa, se non altro per non aprire di nuovo bocca, ma quando
vidi tornare a far capolino l’espressione birichina di poco
prima, mi sentii costretta a muovere le labbra.
<<
Che ci fai qui fuori? >>.
Si avvicinò di qualche passo, e solo allora mi accorsi di un
pacchetto incartato in quello che sembrava essere un modo sbrigativo,
tenuto insieme dalle sue mani.
<<
Pensavo di farti compagnia. Ero andato in bagno, quando da quella
finestra – alzò una mano per indicare la suddetta
– ti ho vista qui da sola. Sono corso in sala, ho preso due
pezzi di torta e me la sono svignata di nascosto >>,
concluse, trionfante.
<<
Sicuro che nessuno ti abbia visto? Nemmeno Bill? >>.
<<
Bill sa fare molto bene il suo lavoro, ma io col tempo ho affinato la
mia tecnica di fuggitivo >>, rise, ed io con lui.
Srotolò la carta che teneva tra le mani e mise in bella
vista tutta la refurtiva che aveva portato con sé.
<<
Tieni. Devi provare questa torta, è divina! Non avevo mai
assaggiato l’accostamento mele e cocco, non sapevo nemmeno
che potessero coesistere nella stessa torta, e invece mi sono dovuto
ricredere. Ne ho già mangiati due pezzi >>.
Mi porse davanti agli occhi la protagonista di tanto clamore, quella
che sembrava essere, da come ne aveva parlato, la torta più
buona del mondo.
La mia.
Mi piegai in due, liberando la risata che era nata in me.
La situazione aveva un ché di surreale, mi sembrava di
essere stata vittima di una candid camera e che da qualche parte
qualcuno stesse ridendo del suo stesso scherzo. E invece era tutto
reale, Michael aveva portato proprio la mia torta ed ora mi guardava
con un sopracciglio alzato, confuso ma divertito.
Presi una fetta di torta e lo invitai a fare altrettanto con
l’altra.
<<
Sei molto gentile, riferirò alla cuoca i tuoi complimenti
>>, dissi, prima di addentare un pezzo.
<<
Aspetta … - rimase a guardarmi, mentre io me la ridevo sotto
i baffi – l’hai fatta tu, non è vero? La
torta è tua >>.
Sorrisi e annuii brevemente. Mise una mano davanti agli occhi e
girò il viso da tutt’altra parte.
<<
Non posso crederci, che figura! >>.
Ridemmo entrambi di quel momento buffo, mi servì per
spezzare la tensione, non ancora sciolta dai muscoli del corpo.
<<
Un giorno dovrai darmi la ricetta >>.
Aveva le sembianze di una promessa, non di una frase buttata
lì da una Star.
<<
È una ricetta segreta, mi spiace. Me l’ha
tramandata mio padre ed io la tramanderò solo ai miei figli
>>.
Non se la prese, anzi sorrise, con gli occhi e la bocca, guardandomi
pensieroso dall’alto di quei pochi centimetri
d’altezza che ci separavano.
Mangiammo in silenzio, in piedi una di fianco all’altro,
infreddoliti e con il vento gelido che non aveva smesso un solo istante
di soffiare, sempre più avido e arrabbiato nel colpire tutti
i corpi animati e non, che ostacolavano il suo passaggio.
Michael aveva tenuto la testa alzata tutto il tempo, contemplando il
fascino del cielo o forse immerso nei suoi stessi pensieri. Io invece
lo guardavo di sottecchi, come presa da un’improvvisa
esigenza di comprendere l’uomo al mio fianco e il suo strano
modo d’essere, così fuori dal comune,
così delicato.
Io e la delicatezza facevamo a pugni il più delle volte.
Faticavo a trovarne anche un solo briciolo nelle persone, e quando poi
me la ritrovavo davanti fuggivo via, disabituata a parole o gesti
delicati. In verità, la paura era quella di essere
“letta”, poiché solo chi possiede un
animo sensibile è capace di vedere oltre, ma io mi
nascondevo dietro il falso pensiero che scontrarsi contro la cruda
realtà, contro l’arroganza di tutti i giorni era
molto più facile per chi ogni giorno era costretto ad
indossare una maschera come me.
La brutalità è un atteggiamento che ti permette
di attaccare a tua volta, la sensibilità invece ti costringe
ad abbassare la testa e a buttare le armi.
<<
Quando è morto tuo padre? >>, chiese
all’improvviso, senza dare un minimo di preavviso o lasciare
un piccolo indizio.
Abbassai il capo, chiedendomi se valesse o meno la pena rispondere.
Non era un argomento che volevo affrontare, si scontrava troppo con
ciò che ero diventata da qualche anno. Parlare di mio padre
era causa di un’angoscia istantanea, di una consapevolezza
che si presentava quando mi accorgevo per l’ennesima volta
che non l’avrei più rivisto, che c’era
stato ma che non c’era più e più ci
sarebbe stato.
Avevo uno strano modo di affrontare il dolore, io. Quando me lo
ritrovavo di fronte, invece di osservarlo, analizzarlo e lasciarlo
confluire in me per comprenderlo e trovare un modo per andare avanti,
gli voltavo le spalle testarda, risoluta nel non voler condividere il
mio mondo con cose più grandi di me, come la morte di una
persona cara.
Ancora adesso, parlarne mi costava caro. Preferivo pensare che non
fosse mai successo, e che in fondo, non importasse poi tanto. Lasciare
questi pensieri nella mia testa mi aiutava a non guardare negli occhi
il dolore, perché dar loro voce significava parlare con il
dolore stesso, dargli modo di esprimersi e di infiltrarsi in me,
sbattendomi in faccia la realtà.
Ero quindi pronta a sviare quel discorso, a comportarmi dalla codarda
che ero, ma le parole che uscirono sembrarono avere vita propria.
<<
È successo il 13 aprile di diciotto anni fa. Io avevo
all’incirca 7 anni >>.
Avevo sputato fuori quelle parole il più velocemente
possibile, in modo da non lasciare il tempo al cervello di cambiare
intenzione e tornare in modalità difesa. Sorprendentemente
il tono era calmo e sereno, come il sole di inizio primavera, timido e
un po’ fuori forma dopo essere stato tanto tempo in letargo.
<<
Mio Dio, eri piccolissima >>, commentò
aggrottando le sopracciglia.
<<
Vero, ero solo una bambina >>.
<<
Di cosa è morto? >>.
<<
Oh, il termine scientifico sembra essere Leucemia
mieloide acuta … ma
questo l’ho imparato solo da qualche anno. Non mi
è mai importato realmente di dare un nome alla malattia.
Sapevo solo che qualcosa di cattivo stava facendo del male a mio padre
e che quel qualcosa gli stava togliendo tutta la sua dignità
– respirai, prima di continuare, bloccata da un improvviso
macigno al petto - L’ho odiato! Avrei voluto affrontarlo
faccia a faccia, intimargli di lasciar stare mio padre, ma combattere
senza avere un avversario di fronte non ti farà mai vincere
la partita. Per tanto tempo ho tirato pugni a vuoto, e alla fine, ho
perso l’incontro >>.
Chiusi qualche attimo gli occhi, concentrandomi per rimanere
controllata.
Dicono che basta poco per crollare, ma di solito a me bastava un niente.
<<
Non c’era nulla che tu potessi fare realmente Isabella. Ma
hai combattuto per lui, sei stata tenace per lui, e questo deve avergli
dato molta forza fino all’ultimo istante della sua vita
>>.
Era un pensiero quello che aveva lo stesso effetto di un balsamo
lenitivo.
<<
Sono addolorato per la tua perdita. Eri troppo piccola. In tutto questo
periodo deve esserti mancato molto >>.
<<
Ci si abitua a tutto, Michael. Il tempo sa essere paziente con chi ha
bisogno di guarire, alla fine lenisce qualsiasi dolore
>>, risposi, atona.
<<
Hai ragione – tornò a guardare davanti a
sé, la voce divenuta flebile - è così
che funziona. Purtroppo però, tu non sembri né
abituata né guarita >>.
Strinsi i pugni, all’improvviso timorosa di uscire allo
scoperto. Perché me lo diceva? Perché
ciò che provavo doveva essere così tangibile solo
a lui? Forse aveva qualche strano potere nascosto, forse riusciva ad
intravedere al di là della facciata superficiale di
chiunque, a scorgere ciò che si trovava nel profondo. O
forse ero io che stavo abbassando le difese, che permettevo di far
vedere oltre, di mettere a nudo qualsiasi cicatrice, stanca di quella
serata troppo impegnativa a livello emotivo.
Sentii l’impulso di coprirmi gli occhi con le mani,
vergognosa di quello che mostravo, ma mi trattenni.
<<
Lo ammetto, è vero, dentro di me sento ancora che avrei
potuto fare di più, che sarebbe potuta andare diversamente.
E che mi manca, molto … - dissi a fatica – Ma sono
anche consapevole che se mi ci fermo a pensare torno ad essere la
bambina di 7 anni che piangeva in ospedale, ed io non posso
permettermelo, Michael, non adesso che ho altro su cui concentrarmi
>>.
Altri
dolori da nascondere.
Lo
sentii annuire lentamente, come chi rimane sovrappensiero e non
è più in pieno contatto con la realtà,
ma con ciò che gli circola in testa.
Di sicuro, quella volta non avevo nascosto nulla, nulla che potesse
trovarsi al riparo dentro la mia corazza. Alcune parti erano state
lasciate libere apposta, alla mercé di un uomo che insisteva
nel voler abbattere qualsiasi muro gli si ponesse sulla strada.
<<
Concentrarsi su altro fa bene, lo so perché è una
tecnica che uso anch’io - disse, qualche istante dopo
– Vedi, a volte è l’unica cosa da fare,
la più facile se vogliamo dirla tutta. Per quanto triste
possa sembrare, ognuno ha i suoi problemi nel mondo, sono pochi quelli
che li affrontano, molti preferiscono nascondersi >>.
Non gli dissi quanto avesse ragione dato che io per prima facevo parte
dell'ultima categoria.
<< Tu dove ti nascondi?
>>, chiese dopo un po’.
Aveva un tono che mi costrinse a girarmi. Non c'era accusa nei suoi
occhi, anzi, era per la prima volta dopo quel lungo discorso,
emozionato e curioso di scoprire qualcosa di nuovo e di importante, a
giudicare dall'intensità dello sguardo.
Sorrisi inavvertitamente, posando l'attenzione sulle luci del cielo.
<< Dietro la lettura di un buon
libro. Credo che le parole siano l’arte più
preziosa e i libri lo strumento capace di rievocare e a volte
addirittura creare immagini ed emozioni dal solo utilizzo di una parola
o una frase ben formulata. Sono una via di fuga, un universo parallelo
al nostro, inviolabile perché segreto ed intimo.
È la solitudine di una compagna silenziosa che cura
l’anima >>.
Mi rigirai verso di lui e lo trovai a guardarmi con il suo perenne
sorriso sul volto. L’ombra di una qualche forma di emozione,
forse l’empatia, a posarsi sul viso.
Chissà se anche
lui è uno di quelli che si nascondono.
<<
E tu ... tu anche ti nascondi? >>, azzardai, sentendomi
subito dopo una stupida.
Lo guardai attentamente per osservare ogni sua reazione.
Mi sembrò di vederlo vacillare un attimo prima che la sua
solita aria serena tornasse a far capolino sul suo viso.
Tuttavia non riuscii a scrollarmi di dosso la sensazione di aver
oltrepassato un confine che doveva rimanere invalicato.
Mi sentii molto invadente, nonostante fosse stato lui il primo ad
introdurre quell'argomento, spingendo il discorso in ambiti personali.
Come previsto non rispose, si limitò a sorridermi, forse
indeciso se, per una volta, lasciare andare se stesso.
In preda alla più grande impazienza che avessi mai
sperimentato, aspettavo di vederlo aprire bocca, di sentire quelle
poche parole che, avevo come l’impressione, sarebbero state
un tassello importante per spiegare il complesso puzzle che era
quell’uomo.
E nel momento in cui stavo perdendo le speranze vidi schiudergli le
labbra, lo sguardo più sereno, come avesse combattuto una
grande battaglia e ne fosse uscito vincitore.
<<
D… >>.
<<
Michael! Eccoti, ti ho cercato dappertutto! >>.
Bill ci raggiunse con la stessa ferocia che la sua imponente mole era
in grado di mostrare.
Michael si alzò all’istante. Avrei voluto vedere
la sua espressione ma ciò non mi fu concesso
perché mi diede le spalle ed io mi ritrovai a pensare che
forse quel puzzle non sarei mai riuscita a completarlo. Non mi chiesi
perché ne sentii il bisogno, preferii non farlo.
Tornammo insieme alla sala principale dove Jay era pronto ad
intrattenere i bambini con il suo costume da Babbo Natale.
Michael
era tornato a sorridere come se nulla fosse successo e la cosa mi
infastidì parecchio.
Avevo rivelato molto di me stessa, più di quanto avessi mai
fatto con estranei, e l’ultimo discorso era rimasto in un
angolo piuttosto attivo della mia mente, esposto fin troppo da non
lasciare spazio ad altri pensieri di intrufolarsi e permettermi di
distrarmi.
Fu così per quasi tutta la serata, fino a quando, finito
ogni spettacolo, incrociammo gli occhi e i suoi sembravano volessero
rivelarmi qualcosa di segreto che non riuscii a comprendere,
né trovai un qualche indizio nel sorriso che mi rivolse.
Tuttavia, il nero di quello sguardo mi parve più scuro del
solito, e il sorriso, solitamente aperto a distendergli in pieno le
labbra, adesso soltanto accennato, fermato da qualche forza invisibile
che lo rendeva spento e in costante conflitto con se stesso.
*Spazio
autrice:
Ci
ho messo una vita a finire questo capitolo, ne sono a corrente.
E purtroppo devo dire che sarà così anche per i
prossimi capitoli, non credo che riuscirò ad aggiornare con
una certa regolarità a causa di impegni lavorativi che mi
tolgono quel poco tempo libero che ho.
Mi sembrava giusto informarvi di ciò.
Per il resto, buona lettura e un bacio a tutti.
Martina <3
|
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Capitolo 7 *** Between mother and daughter ***
Dietro
ad un sorriso
Capitolo 5 – Between mother and
daughter
Fu
tra i timidi raggi del sole invernale, filtrati dolcemente dalla
finestra chiusa, che mi risvegliai il giorno di Natale.
Stiracchiandomi per sciogliere la tensione dei muscoli e rilassata
grazie a un sonno ristoratore, mi sentii quasi in pace con me stessa.
Ero pronta a scendere di sotto e preparare il pranzo -
perché si sa, quello di Natale si inizia rigorosamente di
mattina - ma le mattine d’inverno sono fatte apposta per
godere di quel torpore riscaldante, ed io faticavo a lasciarlo andare.
Mi trovavo nella mia vecchia stanza a casa di mia madre, sdraiata sul
mio minuscolo letto da una piazza a guardare il color pesca del
soffitto. Erano ormai parecchi anni che non vivevo in quella casa, la
vita al college l’avevo trascorsa in un dormitorio
universitario e, successivamente, avevo preso in affitto la mia attuale
residenza.
Tuttavia, tutto ciò che arredava la mia vecchia cameretta
era lì intorno a me, completamente intatto, e nostalgico
come un tuffo al cuore. Avevo sempre considerato strano e piuttosto
contraddittorio il fatto che, nonostante fossi rimasta così
attaccata al passato, avessi infine deciso di andare a vivere da sola.
In fondo, non era nel mio carattere.
Avevo la mania di conservare tutto quello che per me aveva avuto un
rilevante significato nella mia vita, che facesse parte di un bello o
di un cattivo ricordo. Di sicuro non sfioravo nemmeno il livello
patologico ma avevo sempre avvertito una certa angoscia nel buttare le
cose. Era il gesto a sconcertarmi, aveva la stessa potente
brutalità dell’abbandono.
Quindi, quando mi trasferii nella mia nuova casa, mi ci volle del tempo
per capire che il passato avrebbe vissuto per sempre nei ricordi della
mia memoria, prima ancora che attraverso una foto cartacea o un oggetto
materiale. A quel punto fu come ritrovare me stessa, dopo avermi
creduta persa, e cominciai a costruire nuovi ricordi nella mia nuova
vita.
Ma la vigilia di Natale tornavo sempre a dormire da mia madre,
trascorrendo insieme quella serata speciale davanti al camino
scoppiettante della sala, sedute sul divano a guardare un bel film con
in mano un bicchiere di vino rosso e la nostra reciproca compagnia.
Erano momenti che, ripetuti nel tempo, assumevano la stessa esplosiva
emozione che si prova nell’attesa impaziente di un evento
segnato sul calendario; sai che arriverà ma conti i giorni e
poi le ore, e ti sembrerà sempre troppo lontano.
Allo stesso modo aspettai l’arrivo dolce alle mie narici del
profumo di pancakes alla vaniglia e l’odore amaro, ma
così rassicurante, del caffè. Per me era
l’odore di casa.
Sorrisi quando ne avvertii i primi sentori.
Mi
alzai svogliatamente, cercando invano di reprimere i numerosi brividi
che avevano invaso la pelle.
L’immagine di mia madre seduta a sorseggiare il
suo caffè con in mano il quotidiano locale, mi
riempì all’istante il cuore di
familiarità, e quando incrociammo gli occhi ci salutammo,
complici, silenziosamente.
Trovai tutto apparecchiato per fare colazione, come succedeva quando
ancora abitavo con lei.
<<
Pronta a cucinare, Isa? >>.
<<
Lo sai che non mi tiro mai indietro davanti ai fornelli
>>, risposi, prendendo un pezzo di pancake e
assaporandone il gusto.
<<
Oh lo so bene, è così più o meno da
quando eri piccolissima. Solo che allora quello che cucinavi andava a
finire nel secchio dell’immondizia, mentre adesso sei una
cuoca formidabile >>.
<<
Per caso stai cercando di comprarmi per far cucinare tutto a me?
>>, domandai, assottigliando gli occhi.
<<
Certo che no, stavo solamente constatando l’evidenza. Ti
manca soltanto trovare marito >>, rise, spudoratamente.
Roteai gli occhi, certe allusioni me le propinava da una vita oramai.
Per lei doveva apparire tutto facile, evidentemente. Da come parlava di
certi argomenti sembrava che non ci fossero ostacoli di alcuna sorta
per la realizzazione di quello che diceva. Ero solita risponderle che
la felicità non si conquista così facilmente con
lo schiocco delle dita, ma da tempo ormai mi limitavo a lasciarla
parlare liberamente, aspettando con pazienza il momento in cui avrebbe
capito che anche quella volta non gliela avrei data vinta.
Finii di bere il mio caffè con una punta di soddisfazione
nel sentire il caldo della bevanda contrastare il freddo della mattina.
Ero pronta a mettermi a lavoro, e stavo per farlo, se non che gli occhi
di mia madre fissi su di me mi immobilizzarono sulla sedia.
<<
Che c’è? >>.
<<
Pensavo che mi avresti rimproverata, che mi avresti urlato contro per
averti costretta ad incontrare qualcuno di cui non hai mai voluto
nemmeno nominare il nome. E invece niente, da quando ci siamo viste non
ne hai mai fatto parola >>.
<<
Non avevo molto da dire >>.
Spostò per poco gli occhi al soffitto, liberando una piccola
risata sarcastica.
<<
Oh andiamo Isabella, sono tua madre. La cosa potrà darti
fastidio, in fondo sei sempre stata una ribelle, ma la
verità è che ti conosco abbastanza da capire che
qualcosa è cambiato, seppur in minima parte. Scommetto che
non era quello che ti aspettavi, non era poi quel mostro che avevi
sempre immaginato fosse >>.
Cominciava ad andarmi scomoda quella conversazione, soprattutto
perché fino ad allora non aveva sbagliato di una virgola. Ma
ammetterlo proprio a colei alla quale avevo sempre dichiarato il
contrario mi suonava quasi come una sconfitta; l’orgoglio era
pronto a difendersi a qualsiasi costo e con qualsiasi scusa.
<<
È vero, ma ci sono persone che sanno fingere molto bene la
loro parte e - >>.
<<
Come te in questo momento >>, mi interruppe
all’istante ed io rinunciai a finire la frase.
Mi limitai a guardarla, mettendo leggermente il broncio.
Era inutile combattere contro chi di te conosceva ogni singolo aspetto.
Sarebbe stata una battaglia persa in partenza.
<<
Mi arrendo – abbassai il tono di voce, non avevo
più nulla da dimostrare – Michael è
stato molto gentile quella sera. Ammetto che ci sono state cose sul suo
conto che mi hanno stupito ed incuriosito, come il discorso
sull’infanzia e sul fatto che lui non ne abbia mai posseduta
una. Non ho nemmeno trovato tratti della Star schiva e pazzoide che i
giornali hanno sempre dipinto sui loro articoli. Ma sono
dell’opinione che poche ore non bastino per conoscere a fondo
una persona. Nonostante l’idea che ho avuto su di lui durante
la festa di Natale, strida con l’immagine del pedofilo con la
quale l’ho sempre rappresentato, è pur vero che
molte cose possono essere state forzate ed inventate >>.
Le ultime parole gracchiavano persino alle mie orecchie, ma non erano
poi tanto sbagliate. Si trovavano maschere ed apparenza costantemente
in giro, nelle persone comuni, quindi perché mai una persona
dello spettacolo non avrebbe dovuto fingere un ruolo che non gli
apparteneva?
<<
Di tutta quella serata, è questa la tua conclusione?
>>, domandò e dal tono che usò mi
costrinse a riporle tutta la mia attenzione.
<<
Si, perché? >>. Alzai un sopracciglio in fare
interrogativo e confuso.
<<
Niente … è una conclusione fredda, mi lascia
spiazzata >>.
Sperai di aver sentito male.
<<
Ma davvero? E cosa pensavi, che da un momento all’altro avrei
cambiato completamente opinione su di lui? Non sono così
sciocc - >>, non mi lasciò finire.
<<
L’hai visto negli occhi? Hai fatto ciò che ti
dissi, hai provato a guardare oltre? >>, il tono alto di
voce era più implorante che adirato.
Mi zittii e lasciai che le sue parole facessero emergere il ricordo di
un viso divenuto familiare.
Esplose senza preavviso nella mia mente e ne subii inerme gli effetti.
Sapevo cosa esprimevano quegli occhi, era talmente evidente che neppure
io ero riuscita a negarne il tormento che affliggeva la loro vista. Non
ero cieca e nemmeno così cinica da denigrare una tale
condizione di solitudine e di esasperazione. No, non avrei mai potuto
affermare il contrario dopo che quella tristezza un po’ mi
era stata raccontata.
Mia madre aveva ancora lo sguardo fisso su di me, e non capivo se fosse
di rimprovero o per delusione. Mi infastidiva in entrambi i casi.
<<
Credi che non l’abbia fatto? Mi ci sono imbattuta in quegli
occhi più del dovuto – stavo
quasi per annegarci dentro –
e ho visto che ci
sono sofferenze più profonde di quelle che avrei immaginato,
radicate nel passato e non più removibili. Non credere che
io non abbia forza e volontà necessari che guardare oltre,
molte volte certi pensieri me li tengo solo per me e risulto fredda, ma
la realtà è ben diversa >>. Il tono
calmo e neutro con cui le risposi, stupì anche me.
<<
Oh tesoro >>, spostò la mano in direzione
della mia, stringendola dolcemente, un gesto così caloroso
che mi rasserenò all’istante. << Lo
so bene questo. Vorrei solamente che ti sforzassi di parlare di
più, il nostro rapporto è molto cambiato negli
ultimi anni. So che tante cose non torneranno come prima ma certe volte
mi manca quella ragazza solare e avventurosa che mi faceva preoccupare,
e mi mancano le lunghe chiacchierate tra noi due sole. Certe volte mi
manca mia figlia >>.
Strinsi le labbra per contenere le emozioni.
Adesso capii che lo sguardo di prima era di delusione.
Voleva sua figlia indietro ed io glielo negavo in continuazione.
Anche io ero delusa da me stessa.
<<
Scusami, io ci sto provando, davvero. Ci proverò ancora di
più a lasciarmi andare, ok? >>, risposi con
forza alla sua stretta di mano, volevo infonderle un po’ di
speranza, ma le mie dita sembrava stessero per tremare, e forse non
riuscii a sembrare così fiduciosa come volevo essere.
Tuttavia mia madre sorrise sincera e soddisfatta di quelle poche
parole. Aveva completa fiducia in me, l’aveva sempre avuta,
ed anche se così non fosse stato avrebbe cercato di
infonderla in me, perché mai mi avrebbe abbandonata.
Questa era una delle poche certezze della mia vita.
<<
Tu sei innamorata di quell’uomo, non è vero?
>>, le chiesi per spezzare la tensione ed anche
desiderosa di togliermi una curiosità da tempo avuta.
La sentii ridere di gusto, per nulla imbarazzata, solo realmente
divertita.
<<
Ebbene si, lo ammetto! Ma non nel senso che intendi tu. Io sono
innamorata degli uomini che hanno quella speciale
sensibilità d’animo. Sono talmente rari! Per me
sono gli Uomini con la U maiuscola. Hanno un modo diverso di vedere il
mondo, più umile e più rispettoso. So che la
società di oggi misura la forza di un uomo dal suo livello
economico e di potere ma i soldi ti proteggono solo dalla fame e non
dalla solitudine. Un uomo vero non avrà molto da offrirti ma
ti saprà rispettare perché è abituato
a rispettare il mondo in cui abita. Capisci cosa intendo?
>>, finì con voce sicura.
Annuii ancora prima di parlare, intenta ad ammirare il viso emozionato
di mia madre e la fermezza della sue parole.
<<
Ho capito, mamma >>, le sorrisi, lasciandole andare la
mano per accomodarmi meglio sulla sedia.
Rimanemmo per poco tempo in silenzio, continuando a consumare la nostra
colazione.
<<
Comunque non ho nulla di cui rimproverarti, a parte il fatto che tu
abbia parlato di me a Michael. Non voglio nemmeno immaginare che cosa
gli hai detto, non avresti dovuto farlo, non ce n’era motivo
>>.
Si sporse un poco in avanti ed io appresso a lei.
<<
Tesoro non gli ho detto nulla di così personale, se
è questo quello che ti preoccupa. E comunque è
stato lui a chiedermi di te >>.
<<
Cosa?! >>, esclamai esterrefatta. Mi suonava talmente
assurdo ed incomprensibile, mi aveva lasciata spiazzata ed immobile sul
posto.
Annuì vigorosamente con la testa, poggiando i gomiti sul
tavolo.
<<
Si, mi ha chiesto di te dopo che ti eri rifiutata di avvicinarti a noi
sotto nostro invito. Devi averlo stupito. Se ci pensi è
stato circondato tutta la serata da persone che gli facevano domande
improponibili, sguardi che lo seguivano ovunque. La gente faceva a gara
per avvicinarsi il più possibile e parlare con lui; tu
invece ti sei addirittura allontanata di tua spontanea
volontà, rifiutando il suo invito. Devi essere stata
l’unica a non avergli chiesto l’autografo a fine
serata. Non è una cosa da poco >>.
Ascoltandola mi resi conto che le sue parole avevano un certo senso.
Era chiaro che dovevo aver scatenato qualche sospetto e una buona dose
di curiosità. Alla fine il mio piano di passare del tutto
inosservata, lontana dall’origine della mia irritazione, mi
si era addirittura rivoltato contro e la cosa non mi stupiva nemmeno.
Sembrava che me le cercassi, ogni volta. Stavo cominciando ad abituarmi.
<<
Sorpresa? >>, sentii chiederle.
Feci di no con la testa, assorbita dai miei pensieri.
<<
Cosa ti ha chiesto di preciso? >>.
<<
All’inizio si è premurato di sapere se avesse
detto o fatto qualcosa che avesse potuto darti fastidio. Ma dopo averlo
rasserenato asserendo che lui non c’entrava nulla, mi ha
chiesto la causa di quell’aria triste in un giorno di festa.
Tranquilla, non gli ho rivelato nulla di sconveniente, ma non deve
essere rimasto molto convinto visto che, a quanto pare, si è
interessato molto a te >>.
Finì con un ultimo sorso la sua tazza di caffè e
si alzò dal tavolo.
<<
Ma perché proprio a me? Ero la persona meno indicata con cui
parlare quella sera. Volevo soltanto starmene da sola e di certo non
l’ho nascosto, quindi perché avrebbe dovuto
disturbare proprio me? >>.
<<
Non credo che disturbare sia il verbo adatto. Ad ogni modo, di solito
si “disturba” chi sentiamo più affini al
nostro essere. Chi ci ricorda parti preponderanti o nascoste del nostro
vero io. Deve aver visto un po’ di se stesso in quei tuoi
occhi verdi >>.
Spostai lo sguardo accigliato sulla sedia rimasta vuota, davanti a me.
Il pensiero di avere lati in comune, aspetti non del tutto felici che
tormentavano sia me che lui, mi era già piombato addosso
quella sera all’orfanotrofio. L’avevo visto fragile
come una foglia appena staccata dal ramo, ancora in volo, ignara di
come sarà l’atterraggio. Ma la prospettiva che
fosse invece lui a vedere la mia fragilità era stato solo un
pensiero fugace, a cui non avevo dato molto peso. Io osservavo molto,
ma quella sera non avevo osservato abbastanza. Forse aveva fatto di me
il suo oggetto di studio come io l’avevo studiato per tutto
il tempo che era trascorso. Ed era riuscito a scoprire qualcosa,
furbescamente. Doveva essere un maestro in questo, molto più
di me che mi vantavo di sapere come chiudere al di fuori qualsiasi
emozione e qualsiasi cedimento.
<<
Isabella? >>.
A fatica tornai a riporre l’attenzione su mia madre.
<<
Che c’è? >>.
<<
Vorrei che adesso mi aiutassi a preparare il pranzo, prima che arrivino
gli ospiti. E vorrei che non ti preoccupassi molto di ciò
che è successo alla festa – si girò a
guardarmi, seria come non l’avevo mai vista - In fondo Isa,
è Michael Jackson, non lo rivedremo mai più
>>.
L’avevo già detto anch’io una volta,
dopo averlo incontrato. La prima volta fu una consapevolezza che
riuscì a rasserenarmi; questa volta si tramutò in
qualcosa di pesante, perché quando mi alzai per aiutare mia
madre, mi sentii schiacciata dal solo pensiero.
***
Quel
Natale passò più velocemente del previsto, tra
chiacchiere e strani pensieri che sbucavano fuori nei momenti meno
opportuni.
Era stata una settimana piuttosto bizzarra, piena di eventi, come non
mi capitava da una vita; ero stata costretta ad assumerne il ritmo
frenetico e alla fine, mentre parcheggiavo nel vialetto di casa mia,
tutto lo stress accumulato sembrò ricadermi sulle spalle,
inavvertitamente.
Chiusi la macchina e mi incamminai piano, non avevo fretta di lasciarmi
il freddo dietro, anzi era piacevole avvertirlo sotto il pesante
giubbotto, mi aiutava a tenere lucida la mente.
Fu solo per semplice abitudine che controllai la cassetta della posta.
Non ricevevo molte lettere di entità affettiva, per lo
più si trattava delle immancabili bollette da pagare, di
quelle che si trovavano a bizzeffe ormai.
Anche stavolta me ne ritrovai una in mano, ma fu l’unica,
perché le altre due non avevano nulla a che vedere con la
prima.
Una di esse mi era stata inviata dall’ UCLA,
l’università di Los Angeles.
Strano,
pensai. Non avevo più rapporti con loro da circa un anno,
quando finii un corso di specializzazione nel campo in cui avevo
studiato ed ora lavoravo: medicina veterinaria.
Tuttavia, non mi soffermai a prestarle la giusta considerazione, un
pacco confezionato con un fiocco rosso di seta e la carta lucida color
oro, aveva attirato il mio interesse.
Aveva l’aspetto di un regalo e certamente doveva essere
così, considerando il periodo natalizio. Non avevo mai
ricevuto un regalo via posta, stavo morendo dalla voglia di scoprire
cosa ci fosse dentro e chi lo avesse spedito.
Dimenticai il freddo alle spalle e raggiunsi in fretta
l’interno dell’abitazione.
Buttai incurante le altre lettere sul tavolino dinanzi al divano ed
osservai il regalo.
Non c’era nessun biglietto, nessun nome scritto sulla carta
elegante che avvolgeva l’oggetto misterioso.
Dentro di me scalpitavo per sapere di cosa si trattasse, eppure lo
scartai piano e con cura, attenta a non rovinare qualsiasi cosa ci
fosse all’interno.
L’oggetto si rivelò essere un libro dal titolo
tanto semplice quanto accattivante.
Recitava: “La meccanica del cuore” di Mathias
Malzieu.
Non ne avevo mai sentito parlare.
Mi presi pochi attimi per ammirare la copertina deliziosamente
disegnata e poi lo aprii.
Quando vidi delle frasi scritte a penna capii che la risposta si
trovava in quelle poche righe.
Lessi:
Mi
sono immerso in questo libro
E ne ho letto la magia.
Della meccanica del cuore
Sono solo un novello anch’io
Ma la storia che leggerai
Ti stringerà forte proprio nel petto
E spero che tra le frasi di queste pagine
Troverai un po’ di te stessa
E di ciò che vorresti essere.
Buon
Natale Isabella,
Ti voglio bene.
Lessi
ancora, e ancora, e ancora. E dopo l’ennesima volta mi
convinsi di ciò che avevo tra le mani, di essere sveglia nel
salotto di casa, di non stare a sognare.
Di lì fino al momento in cui mi addormentai, non pensai ad
altro.
*Spazio
autrice:
Ho
un appunto importantissimo da fare.
Se non avete mai letto questo libro … LEGGETELO!
È stupendo, segue uno stile di scrittura fantasioso, sembra
di immergersi nelle atmosfere tenebrose di un film di Tim Burton. Lo
consiglio vivamente.
Detto questo non ho altro da aggiungere, se non grazie, come sempre,
della lettura.
Un abbraccio,
Martina.
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Capitolo 8 *** Life's a Choice ***
DAUS cap 6
Dietro
ad un sorriso
Capitolo
6 – Life’s a Choice
Uno,
due, tre minuti – o forse anche dieci – chi sapeva
quanto tempo era passato, quanti secondi avevano scandito il ritmo del
duello che stava avendo luogo in quel momento. Non era certo un
combattimento all’ultimo sangue, ma entrambi i contendenti
potevano giudicarsi testardi, risoluti e fermi sulla loro posizione.
L’incontro vedeva alle due estremità: me stessa,
seduta placidamente sulla poltrona del salotto – Vs.
– libro di Michael, posato sul tavolino di fronte, esposto
alla vista della sottoscritta.
Non l’avevo più aperto dopo aver letto la dedica,
e non perché non morissi dalla curiosità di
farlo, piuttosto quelle parole, quel pensiero, risuonavano nella mia
testa come un grande e irrisolto
“perché?”. Era un punto di domanda che
non riuscivo ad ignorare, seppure avessi cercato di farlo. Non mi
capacitavo di un tale gesto, di avermi fatto un regalo per Natale, di
essere stata nei suoi pensieri.
Di
fianco al libro, invece, c’era la lettera
dell’Università, ed anche lì un grande
punto interrogativo mi affliggeva. Ero stata invitata a prendere parte
ad un corso di specializzazione sugli animali esotici. Ai tempi in cui
mi laureai ero riuscita a classificarmi tra le più brave
della mia facoltà e ricevevo spesso quei tipi di inviti. Il
più delle volte erano corsi di approfondimento che in
realtà non aggiungevano nulla di nuovo al percorso di studio
già intrapreso. Questa volta però si trattava di
studiare un campo di cui ero da sempre rimasta affascinata, ed era
un’occasione d’oro per approcciarsi ad una
realtà non sempre accolta dai veterinari comuni, lo studio
di altre specie di animali. Certo anche io amavo cani e gatti, ma non
volevo fermarmi solo a quello.
Tuttavia il corso si teneva in Florida, dall’altra parte
degli Stati Uniti, in un centro specializzato nella cura di animali non
considerati domestici, e si sarebbe concluso in cinque mesi, verso la
fine della primavera.
L’idea di lasciare Los Angeles, gli affetti e la sicurezza
della mia casa per tutto quel tempo, mi faceva desistere
dall’accettare.
Non sapevo proprio che decisione prendere e l’essere indecisa
per natura non mi aiutava per niente.
-
Din Don –
<<
Arrivo! >>.
Spalancai la porta accogliendo il sorriso sornione di Jay. Portava un
cappellino di lana che ricopriva i riccioli dorati di cui era provvisto
e un giubbotto di piumino per ripararsi dal freddo. Non era mai stato
molto attento a quella che si definiva “moda” ma
non era un punto che andava a suo sfavore, anzi. Molte ragazze mi
avevano confidato di trovarlo bello e affascinante, nonché
capace di far divertire in qualsiasi momento con la sua naturale
allegria. Io le ascoltavo e sorridevo, perché cercavo di
aiutarlo a trovare la sua anima gemella, di renderlo felice, ma lui
rifiutava ogni avance sempre con risoluta determinazione. Allora mi
rabbuiavo, incapace di capirlo, chiedendogli il motivo di tanta
riluttanza, lui che non aveva problemi a socializzare e che avrebbe
potuto avere qualsiasi donna ai suoi piedi.
Solo una volta mi diede una sottospecie di risposta; una sera, seduti
soli sul dondolo davanti casa, ne approfittai per iniziare il discorso.
Mi disse solo: “sto aspettando una persona”, ed io
non indagai oltre.
<<
Ehi, buon Natale, Santa Claus! >>, lo presi in giro.
Storse il naso, non molto divertito.
<<
A proposito di questo, come mai quest’anno non sei venuta a
sederti sulle mie gambe ad esprimere il tuo desiderio? Anzi non mi hai
proprio degnato di uno sguardo. Non si fa così, cara Bee
>>.
Mosse il dito facendo segno negativo, tenendo l’altra mano
nascosta dietro la schiena.
<<
Oh avanti, sembra quasi che tu sia geloso >>, misi le
braccia conserte e provai a stuzzicarlo.
<<
Forse lo sono >>.
Rimasi a guardarlo cercando qualche indizio che mi facesse capire che
stesse scherzando.
Non ne trovai.
<<
Andiamo Jay, sai già quanto fossi scossa quel giorno. Magari
avevo la testa da tutt’altra parte, non farne un caso
drammatico. E poi, geloso di cosa? >>.
Attesi la risposta. Alla fine scosse la testa.
<<
Di nulla. Buon Natale, Bee >>.
Mi porse un cofanetto di forma rettangolare, formato da un tessuto
vellutato color rubino. Aveva l’aspetto formale ed elegante,
già pregustavo quale magnifico oggetto avessi ricevuto in
regalo.
<<
Che cos’è? >>, chiesi mentre lo
studiavo con gli occhi.
<<
Dai aprilo >>. Mi apparse impaziente, come mai lo avevo
visto.
Spostava continuamente il peso del corpo da un piede
all’altro in una danza scomposta e disordinata.
<<
E va bene, va bene! Dammi un attimo >>.
Tolsi il fiocco di seta che avvolgeva il velluto, e lo aprii.
<<
Che te ne pare? >>, mi chiese, non appena posai gli occhi
sull’oggetto contenuto.
Mi presi del tempo prima di rispondere. La sorpresa di ritrovarmi quel
bellissimo regalo tra le mani mi lasciò senza fiato.
Era un bracciale, probabilmente d’oro, formato da una maglia
fine come una catenina, nella quale era appeso un charm: una piccola
ape con le ali spiegate, e il nero e il giallo del dorso ben in vista.
<<
È bellissimo Jay! È stupendo, grazie
>>.
Lo abbracciai d’istinto, senza remore o incertezze, con lui
era un gesto che mi veniva spontaneo come respirare.
<<
Beh, quale altro modo per onorare il tuo soprannome se non regalandoti
il significato di esso? Non sei d’accordo, piccola Bee*?
>>.
Gli diedi un buffetto sulla spalla, cercando di sdrammatizzare per non
lasciarmi coinvolgere dall’emozione del momento. Mi piaceva
il mio soprannome e mi piaceva il fatto che solo lui mi chiamasse
così.
<<
Come potrei non esserlo? Vieni dentro, forza, fuori fa freddo
>>.
Riposi il cofanetto su uno scaffale della libreria e presi il regalo
per Jay, rimasto tutto solo sotto l’albero.
<<
E questo è per te >>, glielo porsi con molta
soddisfazione. Adoravo fare regali, la felicità causata ad
altri e nata da un proprio gesto è un’emozione
incommensurabile, inebriante.
<<
Vediamo un po’, deve essere un altro dei tuoi regali sui
Beatles >>.
Il luccichio negli occhi era di riso e di un bonario rimprovero.
Non provai a contraddirlo perché si rivelò essere
esattamente quello che aveva predetto. Mi ringraziò con un bacio sulla guancia e il momento dei regali si concluse con quel
gesto.
<<
Mi dispiace per non essere passato prima a farti gli auguri, ho avuto
alcuni impegni da sbrigare, e poi mia madre mi ha sballottato a destra
e a manca per andare a trovare parenti di cui nemmeno conoscevo
l’esistenza. Insomma il solito inferno natalizio
>>.
<<
Beh, sei un uomo adulto, sei capace di dire di no? >>.
<< No –
cioè sì – certo che ne sono capace, ma si
da' il caso che ci siano due persone alle quali io non riesca
a dire di no >>, rispose con un sorriso beffardo.
Lo imitai, lusingata, anche se incredula. Non credevo di avere un tale
potere su di lui, difatti non capii se fosse uno scherzo o meno.
<<
La vuoi una tazza di tè? Ne ho uno buonissimo dal sapore
agrumato >>.
<<
Accetto l’offerta >>.
Feci accomodare Jay sul divano e mi spostai in cucina a preparare la
teiera.
Sentii accendere la televisione e passare da canale in canale, fino a
fermarsi in quello che doveva essere un programma musicale. Sapevo
già quanto fosse speranzoso di trovare una canzone dei
Beatles ma le sue speranze furono vane perché dal rumore
assordante che riuscivo a percepire quella musica doveva essere
tutt’altro che del gruppo di Liverpool.
Aspettai quei pochi minuti necessari per la preparazione del
tè e fui pronta per raggiungere Jay.
<<
Il tè è pronto, vedrai quanto è buon-
che fai? >>.
Mi fermai sotto l’arco che divideva cucina e salotto e
osservai Jay tenere con una mano il libro regalatomi da Michael e con
l’altra mano riposare velocemente in tasca quello che
sembrava essere un piccolo biglietto.
<<
Niente >>, fu la risposta repentina.
Non mi mossi, perché avevo lo strano presentimento che non
fosse la verità.
<<
Cos’era quel bigliettino? >>.
<<
Questo? – cacciò fuori il pezzetto di carta e lo
ripose immediatamente dopo – Non è niente, solo la
lista della spesa che mi ha scritto mia madre >>.
Annuii, lenta.
Che stupida, non sapevo che cosa mi fosse preso. Mi ero lasciata
ingannare dalla faccia sorpresa di Jay e dalla rapidità del
movimento, sembrava lo avessi colto in flagrante quando in
verità dovevo solo averlo spaventato.
<<
Scusami, qualunque cosa sia non sono affari miei >>.
Mi avvicinai al tavolino e posai il vassoio con le due tazze .
<<
Non dire così, sai che non è vero. Comunque, mi
hai spaventato. Stavo leggendo la trama di questo libro, sembra
interessante >>.
Guardai vagamente il disegno che ricopriva l’intera
copertina. Lo conoscevo in ogni minuscolo dettaglio come una foto
ricordo stampata direttamente all’interno della mia memoria.
<<
Non saprei, ancora non ho iniziato a leggerlo, l’ho ricevuto
in regalo solo ieri. >>.
Non
mi chiedere da chi …
Non mi chiedere da chi …
Non mi chiedere da chi …
<<
Da chi? >>.
Perché mi sentissi a disagio nel rispondere a quella domanda
non avrei saputo davvero dirlo.
<<
Non mi crederesti mai >>.
<<
Provami >>, rispose, con la solita faccia da schiaffi,
ormai appurata negli anni e divenuta suo marchio di fabbrica.
Mi accomodai sulla poltrona vicino al divano, lo feci con una lentezza
che doveva per forza di cose risultare esasperante per il mio
interlocutore, ma mi serviva per tenere sotto controllo il nervosismo
che quella rivelazione avrebbe provocato.
Misi lo zucchero nelle tazze – un cucchiaino per Jay e due
per me, che amavo assaporare la dolcezza di ogni bevanda calda
– mescolai con cura e quando gli porsi la sua tazza, Jay era
già pronto ad accoglierla, lo sguardo fisso e attento su di
me.
<<
Me l’ha regalato Michael >>, mi spostai una
ciocca di capelli, tesa.
Jay non fece una piega. << Cioè, intendo
Michael Jackson >>, aggiunsi infine, per togliere ogni
dubbio e aspettando paziente le mille domande che di lì in
poi mi sarebbero piombate addosso.
Così non avvenne. La sua espressione non mutò se
non di uno stupore che sembrava ostentato più che spontaneo,
come quel “wow” che gli sentii pronunciare qualche
secondo dopo. Era solo un’esclamazione fine a se stessa.
Per qualche strano motivo facevo fatica a respirare, avevo la
sensazione che non ci fosse abbastanza ossigeno in quella stanza.
Blaterai giusto un fievole “già” e poi
calò il silenzio.
Bevemmo solitari il nostro tè, ascoltando per nulla
interessati la voce della televisione che divulgava
l’ennesima notizia sulla politica.
<<
Cavolo, è fantastico, eh? Michael Jackson che ti manda un
regalo >>.
Avrei detto incredibile più che fantastico ma non era il
caso di puntualizzare.
Esordii con un altro dei miei “già”,
attirando l’attenzione di Jay.
<<
C’è qualcosa che dovrei sapere? >>,
chiese in tono neutro.
<<
Certo che no, nulla di importante. Abbiamo solo parlato per un
po’ di tempo, nient’altro >>.
L’avrei definita una mezza verità, non
completamente sincera ma neanche il contrario.
<<
E comunque è solo un regalo Jay, per cui tranquillo, so che
sei entrato in modalità “fratello
protettivo”. Pensa che l’ho trovato imbucato nella
cassetta della posta, con una semplice dedica all’interno e
basta, né un indizio né un numero di telefono per
ringraziarlo. È un gesto carino, ma finisce qua
>>.
Rise freddamente girandosi a guardare la televisione, scuotendo la
testa.
<<
Come sei ingenua >>.
Aspettai di sentire altro che spiegasse quella frase improvvisa e
rimasi per poco tempo a guardargli il profilo adulto, la fronte coperta
da pochi ciuffi dorati e il naso pronunciato a seguire una linea
dritta. Non parlò più ed io mi sentii offesa,
perché tra tutte le verità che avrebbe potuto
dire quella aveva un suono sarcastico.
Mi ero innervosita, non capivo metà dei suoi comportamenti
quella sera.
Presi le nostre due tazze e le posai sul vassoio per andare a posarle
in cucina ed uscire da quella stanza.
<<
Aspetta >>, la voce di Jay mi fermò,
così come la sua mano che ora indicava un punto preciso
dinanzi a sé.
Seguii la sua direzione trovando le immagini televisive di una
bellissima casa vista dall’alto di un elicottero, circondata
da un grandissimo prato verde.
Si vedeva in lontananza un parco giochi e lunghi sentieri contornati da
fiori di ogni colore.
L’avevo già vista altre volte su foto di giornali
e in televisione, ma non ricordavo in quale occasione.
Il luogo di per sé trasmetteva calma e serenità
ma la notizia che seguì mi gelò sul posto.
“Sembrerebbe
essere questo il declino di una Star nata sotto i riflettori e che ci
incollava ai teleschermi per ballare con la sua orda di zombie
ballerini. Un decennio dopo, il King of Pop, Michael Jackson, si
ritrova con una recente accusa di pedofilia enunciata dal padre del
piccolo Jordan Chandler, ma non solo. Dallo staff manageriale del
signor Jackson ci arrivano notizie che la Star avrebbe da poco lasciato
la sua abitazione di Neverland, nella contea di Santa Barbara, per
alloggiare fino a tempo indefinito in un centro di riabilitazione per
la disintossicazione da farmaci antidolorifici. Un’altra
battaglia attende ora il King of Pop, ma ci chiediamo se alla fine ne
verrà fuori un po’ di luce o se questo non sia
altro che l’inizio della fine per Jacko.”
L’ultima
immagine era il fotogramma di un sorriso limpido e dalle labbra distese
che ricordavo molto bene. Anche gli occhi erano gli stessi, non
guardavano nella telecamera, non l’avevano mai fatto durante
l’intero servizio, nei vari stralci presi dalla sua vita
quotidiana.
Pensai che doveva essere uno scherzo o una bufala inventata dalla rete
televisiva, il che era assurdo, considerando che fino a qualche giorno
fa non avrei mai obiettato sulle cose dette sul suo conto, anzi avrei
rincarato la dose.
Però stavolta lo feci, perché sperai soprattutto
che non stesse così male. La foglia tremolante sembrava
pronta per atterrare e non nel migliore dei modi. E se non ce
l’avesse fatta a proteggersi a dovere? Avrebbe rischiato di
veder rompere i suoi filamenti e divenire secca, dimenticata e
abbandonata.
Ma era possibile per uno come lui?
<<
Alla fine le fragilità vengono sempre a galla, ci si deve
fare i conti prima o poi >>.
Spostai gli occhi su Jay rimasto a guardare immobile come una statua lo
scorrere delle immagini che ora raccontavano un’altra notizia.
<<
Il Re sta per abdicare >>, concluse.
Se prima avevo un peso, adesso sentivo un macigno.
La crudeltà di quelle parole mi scosse, ne avvertii
l’amara veridicità ma per qualche ragione mi
imposi di non creder loro.
Mi era impossibile pensare a quell’uomo e vederlo schiacciato
dai suoi stessi incubi, anche se centinaia di possibilità mi
balenavano in testa senza che io potessi fermarle: alcune avevano un
lieto fine e possedevano la capacità di farmi respirare;
altre scivolavano come veleno e io ne sentivo gli effetti paralizzanti
lungo tutto il corpo, avevo paura e non per me.
Eppure riuscii a spezzare l’evoluzione di quei pensieri, non
era la fine, anzi era l’inizio di una salita.
Michael ne stava percorrendo i primi passi, e la fragilità
non aveva scampo contro l’altra parte della sua
personalità.
Sperai con tutta me stessa che mettesse in campo la determinazione e la
tenacia che in qualche angolo si intravedeva nella sua natura; e che
quel luogo segreto dietro il quale si nascondeva e che stava quasi per
essermi svelato, riuscisse a proteggerlo a dovere per renderlo
più forte.
Lo sperai così tanto che alla fine divenne una certezza.
Ce l’avrebbe fatta, ne ero sicura. Era un atto di coraggio il
suo, non un gesto arrendevole.
Jay me lo lesse negli occhi ancora prima che io aprissi bocca.
<<
Ti sbagli. Non sta abdicando, sta lottando per rimanere sul trono
>>.
***
Presi
finalmente una decisione quando una sera, dopo aver ascoltato
l’ennesima notizia sul suo presunto declino artistico ed
umano, spensi il televisore con assoluta calma ed andai in camera a
preparare le valigie.
Avevo vissuto in quella settimana preda di un subbuglio emozionale che
mi prendeva all’altezza dello stomaco, un malessere che
andava poi ad espandersi sul resto del corpo.
Eppure mentre cercavo le cose che mi sarebbero servite per abitare in
Florida, ero quieta e leggera, privata di qualsiasi timore. Un
po’ ansiosa, quello sì, ma anche stranamente
eccitata.
Era bello dopo tanto tempo darsi una possibilità. Avrei
dovuto farlo più spesso, anche io ero in grado di scacciare
i miei incubi, lo sapevo e ci credevo.
Le uniche persone che salutai furono le mie colleghe nello studio
privato nel quale lavoravamo come veterinarie.
A mia madre una telefonata, breve ma intrisa di mille sentimenti, di un
augurio speranzoso offerto con un tono guidato dall’orgoglio.
Aspettai prima di chiamare Jay, dopo quella sera non ci eravamo visti
né sentiti, e telefonargli avrebbe fatto tremare un
po’ della mia determinazione, che mai si era separata dalla
sua presenza.
Partii che era pomeriggio inoltrato, due valigie e una borsa in spalla.
La prima decisione della mia vita, il primo faticoso passo a scalare la
montagna.
Non mi sentivo altro se non felice, mentre in aeroporto annunciavano la
partenza del mio volo.
Mi alzai sicura verso la mia meta, accompagnata dalla voglia di
farcela, da un’ape d’oro pronta a spiccare in alto
e da un libro che aveva osato sfidarmi.
*
Spazio autrice:
Dico
subito una cosa … dal prossimo capitolo torna Michael,
promesso! XD
Per quanto riguarda il soprannome di Isabella invece, già lo
saprete ma - onde evitare confusione - Bee è anche una
parola inglese che significa “ape”. Da qui ecco
fornita la spiegazione al regalo di Jay.
Inoltre vorrei ringraziare chi ha aggiunto questa storia tra le
preferite e le seguite, mi sono accorta di non averlo mai fatto, quindi
cerco di rimediare ora.
Mi riempite davvero di gioia.
Un abbraccio di cuore,
Martina.
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