Dietro ad un sorriso

di Porsche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Me, Myself & I ***
Capitolo 2: *** State of Shock ***
Capitolo 3: *** Friends will be friends ***
Capitolo 4: *** Lonely People 1/3 ***
Capitolo 5: *** Lonely People 2/3 ***
Capitolo 6: *** Lonely People 3/3 ***
Capitolo 7: *** Between mother and daughter ***
Capitolo 8: *** Life's a Choice ***



Capitolo 1
*** Me, Myself & I ***


Dietro ad un sorriso

Capitolo 1 – Me, Myself & I

 

 

* Flashback*

1989

Non mi avevano mai spaventate le strade di notte. Certo, erano buie, ma io non avevo mai avuto paura del buio. Mia madre diceva sempre che ero una ragazza forte, che non si abbatteva mai e cercava sempre una soluzione ai suoi problemi. Non era la prima volta che uscivo la sera da sola, mi era già capitato più volte ed era sempre andato tutto liscio.
Questa volta, però, c'era qualcosa che mi faceva venire i brividi. Non sapevo cosa, forse l'aria gelida, oppure la strada vicina alla periferia, sapevo solo che non vedevo l'ora di tornare a casa.
Mi stavo spostando una ciocca di capelli finita sul viso, quando sentii un rumore improvviso alla mia destra.
Mi girai all'istante per controllare e vidi un gattino che saltava giù da un secchio dell'immondizia. Sospirai di sollievo e ripresi a camminare.
Guardavo dritta davanti a me, ascoltando solo il rumore dei miei passi.
Camminai e camminai, fino a quando sentii altri due piedi seguire i miei.
Quando me ne accorsi, decisi di far finta di niente, anche se dentro avevo un turbinio di emozioni che mi scuotevano.
Camminavo a passo svelto finché una mano ruvida prese il mio polso e mi spinse contro il muro alla mia sinistra.
L'uomo davanti a me, aveva un viso rude, inquietante, ma quello che più mi colpì fu la cattiveria che emanavano i suoi occhi.
   << Ehi, bellezza, dove ce ne andiamo in giro tutte sole solette, eh? >>.
Non sapevo se fosse per la paura o per il suo alito che puzzava di alcool, ma per un attimo, credetti di svenire.
   << Lasciami, non mi toccare! >>.
   << Come siamo nervosette! Adesso vieni con me e vedi di fare la brava bambina >>.
Cercai di opporre resistenza con tutte le mie forze, ma fu tutto inutile, di lì a poco, avrei subito quello che mi avrebbe cambiato la vita per sempre.


*Fine Flashback*

Ricordare faceva sempre male, soprattutto quando l'unica cosa che volevo era quella di dimenticare tutto, anche il più insignificante dettaglio. Ma, come se i miei ricordi quotidiani non bastassero, la notte ci si mettevano anche gli incubi a tormentarmi, dandomi il loro pessimo buongiorno la mattina.
Da quel fatidico giorno erano passati ben 4 anni, ora ero una venticinquenne, ero cresciuta, avevo un lavoro, la mia vita, ma una parte di me era sempre con la mente rivolta a quell'episodio che mi aveva stravolto l’esistenza.
Inutile dire che in quei 4 anni non avevo mai conosciuto l'amore, non sapevo cosa fosse, cosa si provasse ad amare, ad avere una persona al tuo fianco. Forse ero destinata a non scoprirlo mai, perché l'amore ha bisogno di fiducia e io l'avevo persa da molto tempo ormai. 
Sbadigliai, mentre con una rapida occhiata controllavo l'orario sull'orologio appeso alla mia destra: le 8:00 precise.
Quel giorno era domenica, quindi niente lavoro, ma avevo comunque un mucchio di cose da fare, come incartare i regali di Natale per i bambini dell'orfanotrofio nel quale ogni tanto facevo visita.
Come in ogni Natale, anche quest'anno avevo comprato dei giocattoli da regalare a quei bambini, a cui ormai ero affezionata. Mi piaceva andare a trovarli perché li trovavo speciali, non avevano nessuno eppure riuscivano sempre a regalare un sorriso a chiunque. Avevano una forza spettacolare che mi sorprendeva e mi travolgeva, non capivo mai dove la prendessero, ma desideravo di poterne avere anche un quarto, di sicuro mi sarebbe bastata.
Andai in cucina, ascoltando le richieste del mio povero stomaco, e addentai un biscotto al cioccolato, mentre mi sistemavo su una delle sedie che davano sul terrazzino di casa. Per mia fortuna al di fuori avevo un panorama splendido, e siccome la colazione era il momento della giornata che più preferivo, oltre al tramonto, ogni mattina godevo di quei pochi attimi facendo scorrere gli occhi sulle distese di alberi che si trovavano intorno casa.
Era un momento talmente rilassante che delle volte dimenticavo addirittura chi io fossi, e che cosa avessi passato.

Come oggi, ero così immersa nella pace che non mi accorsi subito di un suono acuto e totalmente fuori luogo dallo stato di serenità che stavo vivendo. Quando realizzai che il telefono stesse squillando, cominciai a correre come una pazza per tutto il corridoio, cercando di schivare, con scarsi risultati, i vasi e i mobili che incontravo durante il mio tragitto.
Arrivata in camera, controllai il numero sul display: era mia madre.
   << Pronto, mamma? >>.
   << Isabella, come stai? >>.
Mia madre, Elizabeth, era una delle persone più dolci e sognatrici che io avessi mai conosciuto. Era bello parlare con lei, perché sapeva ascoltarti senza mai farti domande o giudicarti. Ogni qual volta avevo un problema o semplicemente sentivo il bisogno di sfogarmi, andavo da lei e lei c'era sempre.
   << Io sto bene, mamma. Tu? >>.
   << Benissimo. Senti, perché non passi da me, così ti aiuto ad incartare i regali per i bambini >>.
   << Va bene, arrivo tra una mezz'ora. Ciao >>.
Mi salutò e riattaccò il telefono.
Girandomi, mi trovai davanti allo specchio e solo in quel momento mi ricordai di essere ancora con il mio adorato pigiama invernale con i pupazzetti rosa stampati addosso. Pertanto decisi di andare a farmi una bella doccia rinfrescante, per poi vestirmi comoda e andare da mia madre.
Come avevo detto, circa una mezz'oretta dopo ero arrivata a destinazione e come sempre lei era davanti al portone ad aspettarmi. Che mamma apprensiva!
   << Ciao mamma! >>.
   << Ciao, aspetta che ti aiuto a portare dentro i regali >>.
Entrate, disponemmo i regali per terra.
   << Cavolo! Avremo un bel po’ da fare. Allora, succo al mirtillo come sempre? >>.
   << Come sempre >>.
La vidi scomparire verso la cucina, mentre io mi sedevo sul divano del salotto.
Quel giorno ero contentissima. Non vedevo l'ora di rincontrare quei bambini sfortunati, ai quali ormai mi ero troppo affezionata.
Dopo qualche minuto, ritornò con un bicchiere pieno di succo.
   << Tieni. Allora, io inizio subito, così siamo avvantaggiate. Metto un po’ di musica per non annoiarci a morte >>.
Andò verso lo stereo e la vidi trafficare con la sua raccolta immensa di CD. Qualche secondo dopo una musica inconfondibile invase la stanza.
Guardai mia madre di traverso. Sapeva che non lo sopportavo, che lo odiavo, eppure ogni volta lei si ostinava a mettere un suo CD in mia presenza.
   << Mamma, per favore, puoi levare questa roba? >>.
   << Questa roba? Ehi, questa è la musica del King of Pop, un po’ di rispetto! >>.
Mi rispose con il suo solito sorriso scherzoso sulle labbra. La guardai fisso, gli occhi diventati due fessure.
   << No, questa è la musica di un pedofilo >>.
Vidi il suo sorriso spegnersi a poco a poco e i suoi occhi farsi tristi.
   << Isabella, sai che non è vero, lo dici solo perché ti ricorda ... >>.
   << No, non è vero! Non centra niente quell'episodio! Mamma, come puoi venerare una persona del genere? Ha molestato dei bambini, lo dicono tutti i giornali >>.
   << E tu ci credi? Credi a degli stupidi pezzi di carta? >>.
   << No, credo solamente a quello che vedo >>.
   << Allora cerca di vedere i suoi occhi ma non fermarti al superficiale, va più in là, cerca di leggerli, di esplorarli e poi dimmi cosa ci vedi >>.
Rimasi a fissarla, muta, con la bocca leggermente aperta, cercando di trovare qualcosa da dire. Non erano tanto le sue parole ad avermi colpito, ma il suo sguardo, quegli occhi lucidi e commossi. Perché lei credeva nella sua innocenza? Cosa vedevano lei e tutti i suoi fan nei suoi occhi? Perché tanta lealtà e fiducia?
Cercai di ricompormi e di riacquistare un tono di voce sufficientemente sicuro.
   << Queste sono senza dubbio belle parole mamma, parole di chi sogna, ma con i sogni non si va da nessuna parte, non si raggiunge la verità >>.
Scosse leggermente la testa, lo sguardo dispiaciuto ma allo stesso tempo determinato.
   << No, Isa, non si tratta di sognare, si tratta di entrare nel mondo di una persona per poterla poi giudicare, conoscere i suoi pensieri, il suo cuore, insomma si tratta semplicemente di conoscere, quello che tu non hai mai fatto in questi 4 anni, arrivando a chiuderti in te stessa >>.
In un primo momento avvertii un moto di rabbia incontrollabile, perché nessuno poteva sapere che inferno avessi passato in quegli anni, e nessuno poteva permettersi di giudicare le mie scelte e i miei timori, nemmeno mia madre.
Ma … alla fine rimasi paralizzata, per la seconda volta non sapevo cosa rispondere perché in fondo, sapevo perfettamente che aveva ragione.
Già, era così, con le mie paure, il mio giudicare, i miei ricordi, ero arrivata all'età di 25 anni senza aver mai conosciuto il mondo. Mi ero costruita una barriera, nella quale nessuno era mai riuscito ad entrare. I miei sentimenti, le mie emozioni erano sempre rimaste sopite in un angolo del mio cuore, impedendomi di vivere e soprattutto di amare. Cosa ero diventata? Una persona cinica, priva di sentimenti, una persona che giudica senza prima conoscere. Era questo che volevo dalla mia vita?

Il resto della mattinata, la passammo ad incartare i regali in assoluto silenzio. Avevo troppe domande che mi passavano per la testa e che mi distolsero dalla realtà.
L'appuntamento all'orfanotrofio era per le 16:00 del pomeriggio.
Dopo aver pranzato e fatto un piccolo sonnellino, il tempo di partire arrivò, per la mia felicità. Non vedevo l'ora di distrarmi da quei pensieri e di riabbracciare i bambini.
Prendemmo la mia macchina e in 10 minuti arrivammo al parcheggio privato dell'orfanotrofio. Notai che c'erano molte macchine di lusso, tra cui una limousine nera.
Guardai interrogativa mia madre che per tutta risposta alzò le spalle facendo un sorriso che non mi convinse per nulla.
Dopo aver parcheggiato, prendemmo ognuna un sacco con dentro i regali e ci incamminammo verso l'entrata.
La direttrice dell'orfanotrofio era una delle migliori amiche fin dall'infanzia di mia madre, per cui mi conosceva da quando ero nata.
Era una persona molto espansiva e solare, per questo, appena mi vide, corse ad abbracciarmi.
   << Isabella! Sono contenta che anche quest'anno tu sia venuta! >>.
   << Ehm, Claire, anch'io sono contenta. Però, se continui a stringermi così, non credo che sopravvivrò abbastanza per poter consegnare questi regali! >>.
Staccò subito la presa e mi guardò dispiaciuta.
   << Scusa, mi faccio sempre prendere dall'emozione >>.
   << Non preoccuparti, ormai ti conosco. Comunque anch’io sono felice di essere qua. E tra poco è Natale, non posso mancare a questo appuntamento con i bambini >>.
Claire mi sorrise, evidentemente soddisfatta e commossa.
Presi anche il sacco di mia madre, che nel frattempo veniva anche lei strangolata dalla felicità della sua migliore amica, e mi trascinai con i due sacchi nella sala dove si trovavano tutti i bambini.

Più mi avvicinavo e più qualcosa non mi quadrava. Innanzitutto ad un lato della porta c’era un omone gigantesco tutto vestito di nero. Aveva un’aria molto professionale ma non riuscii a capire quale fosse il suo ruolo in quel posto. Inoltre, ogni volta che entravo nell’orfanotrofio c’era una caciara assurda. Chi correva a destra e a sinistra, chi faceva scherzi agli altri, chi cantava e ballava … ma oggi il silenzio assoluto. Solo una voce riuscivo ad udire e man mano che raggiungevo il grande portone dell’aula magna, si faceva sempre più alta. Era una voce da uomo, ma con qualche nota dolce e una cadenza quasi musicale.
Quando infine arrivai davanti alla porta, l’omone fece un passo in laterale, ostruendomi il passaggio.
   << Mi scusi, cosa sta facendo? >>, chiesi, il più carinamente possibile, visto che già mi stavo scaldando.
   << Lei chi è? Cosa c’è in quei sacchi? >>, mi rispose, deviando la mia domanda.
Cos’aveva quest’uomo che non andava? Se pensava di intimorirmi solo perché era il doppio di me, si sbagliava di grosso.
   << Mi chiamo Isabella, sono un’abituale visitatrice dell’orfanotrofio e considerando che tra un po’ è Natale non so cos’altro possa esserci in questi sacchi se non dei regali! – risposi, un po’ stizzita – Di certo non sono una serial killer! >>.
L’omone abbozzò un sorriso divertito e con uno scatto liberò il passaggio, facendomi segno di entrare.
   << Di questi tempi non si può mai sapere, signorina >>, disse, sempre sorridendo.
Alzai le sopracciglia, confusa e interrogativa. Ma poi scossi la testa e lo salutai con un cenno del capo.

Stavo ancora chiedendomi il motivo di tutta quella segretezza quando un’occhiata veloce all’interno del salone mi fece bloccare di colpo.
Seduto per terra vicino all'albero di natale, con attorno tutti i bambini che lo guardavano incantati, c'era Michael Jackson, che, con un libro in mano, raccontava una storia.

 

 

*Spazio autrice:

 
Oh My God! Dopo anni mi ritrovo a scrivere una fan fiction. Deve essere appena avvenuto un miracolo, non c’è altra spiegazione.
Sul serio, non succedeva da tempo immemore, ma devo dire che questa storia ce l’avevo in mente da tanto tempo, avevo anche già pronto il primo capitolo solo che, dopo, credo di averla buttata nel dimenticatoio. Ahimé.
L’ho ripescata qualche settimana fa e mi è tornata la voglia di scriverla e vedere un po’ dove porta … perché la verità è che non lo so nemmeno io XD
È la mia prima vera fan fiction su Michael, per cui immagino che l’emozione che sento sia legittima.
Spero davvero che possa piacervi tanto quanto piace a me, perché nello scriverla mi sono affezionata alla protagonista, a quell’animo rinchiuso da troppe paure e, oltre a lei, ci sarà anche Michael … ma questo credo lo abbiate già intuito.
Insomma, ringrazio chi è arrivato a questo punto perché vuol dire che ha letto il primo capitolo e aspetto qualsiasi vostra opinione. Ci tengo ;)
Un bacio a tutti e sempre love Michael <3
Porsche.

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Capitolo 2
*** State of Shock ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 2 – State of Shock

 

 
 

Non so quanto tempo passò prima che mi riscossi dallo stato di shock in cui sembravo essere caduta. Per quel che ne sapevo potevano essere passati minuti interi, o anche ore.
Comunque, fu come essersi risvegliati da una trance, ciò che era successo nel frattempo rimaneva per me ignoto.
Michael Jackson era lì a qualche metro di distanza, cappello nero in testa e camicia rossa, e l’unica cosa che volevo fare era andarmene via il più lontano possibile. Ma avevo promesso ai bambini che sarei andata a trovarli, come facevo ogni anno prima di Natale, e poi non vedevo l’ora di riabbracciarli.
Feci un sospiro silenzioso e subito dopo un altro, non volevo farmi notare, quindi spostai piano i regali vicino la porta e a passo lento mi andai a sedere su una sedia in un angolo della stanza. Salutai distrattamente con la mano alcuni volontari che si trovavano seduti, anche loro intenti ad ascoltare il Re del Pop. Ormai non c’era più nessun dubbio, quella che si prospettava essere una bella giornata era appena diventata un incubo, un inferno, e quel che era peggio, non c’era via di fuga.

Nel mentre erano entrate anche mia madre e Claire.
Mi concentrai su di loro, assicurandomi di avere in viso l’espressione più terrificante di cui fossi capace. Con il sangue che mi ribolliva nelle vene non fu per nulla difficile. Difatti, a confermarmelo fu la faccia che fece Claire non appena si girò verso di me. La vidi deglutire e sorridere, allo stesso tempo preoccupata e imbarazzata. “Bene bene”, sorrisi interiormente, almeno una piccola soddisfazione l’avevo avuta.
Mia madre invece … Ah! Mia madre prima o poi mi avrebbe fatto esasperare! Era talmente concentrata su Jackson che non mi degnò di uno sguardo. Forse credeva di avere davanti a sé una delle sette meraviglie o di trovarsi in un sogno da tempo desiderato, non ne avevo idea, ma in viso aveva un’espressione totalmente adorante.

Per la terza volta da quando ero entrata in quella stanza, sospirai.
Stavolta però, dovetti averlo fatto in modo più rumoroso, perché d’un tratto il signor Jackson smise di parlare e per la prima volta ci guardammo reciprocamente.
Non mi aspettavo di ritrovarmi puntati addosso gli occhi più grandi che avessi mai visto. Nel mio inconscio sapevo che erano anche i più belli. Ma fu un pensiero che non trovò l’attenzione necessaria per emergere. Rimase sopito in un angolo della mia mente, ero troppo occupata a contemplare l’uomo che avevo dinanzi.
Ci furono pochi secondi di silenzio e, quando anche i bambini si accorsero di me, si udì il mio nome pronunciato in coro. Ben presto venni circondata da una marea di baci e abbracci. Ricambiai come potevo, divertita da quell’ entusiasmo e anche commossa, soprattutto commossa. Salutai tutti, ma fu un momento che passò velocemente perché sapevo che dall’altra parte c’era ancora il Signor Jackson e, nonostante di lui non me ne importasse nulla, l’avevo interrotto maleducatamente. 
   << Forza, su! Tornate dal Signor Jackson, non volete sapere il continuo della storia? >>.
Come se si fossero appena ricordati di una cosa estremamente importante, tornarono tutti ai loro posti. Sorrisi guardando la loro reazione, quel giorno erano davvero incontenibili.
Scoprii Jackson lanciarmi un’occhiata divertita prima di ricominciare a leggere il libro.
Mi concentrai a tappare la bocca e tenere da parte qualsiasi sospiro o gesto che potesse di nuovo creare disturbo.

Lo ascoltai.
Aveva una bella voce, questo era indubbio.
Parlava piano, quasi in un modo delicato, e alternava ad una lettura veloce momenti di brevi silenzi, riuscendo a creare molta suspense al suo piccolo pubblico.
A guardarlo, dava l’impressione di avere due personalità. Anche non conoscendo la sua fama si sarebbe detto di lui che avesse qualcosa di straordinario, qualche talento sconosciuto e che non fosse una persona come tutte le altre. Eppure, vederlo in quella situazione di completa normalità, seduto sulle mattonelle fredde del pavimento, con le spalle rilassate, come un uomo qualsiasi, mi fece chiedere quale delle due impressioni fosse la più veritiera. Era più personaggio o più persona? Non mi diedi risposta.
Sembrava assorto e totalmente concentrato sul libro, ma aveva anche un’aria serena. Ogni tanto alzava gli occhi per guardare i bambini, lanciava un breve sorriso e tornava a riporre l’attenzione al suo racconto.
Era bravo ad interpretare ciò che leggeva. Non usava sempre lo stesso tono di voce e questo gli permetteva di esprimere al meglio il significato nascosto dietro ogni parola che enunciava e, allo stesso tempo, si assicurava di non annoiare chi lo stava a sentire.
Doveva essere piacevole ascoltarlo per chi lo amava.
Per me, invece, era solamente irritante.

Quando cominciai a non poterne davvero più, finalmente finì di leggere. Sospirai, sollevata.
Nello stesso momento in cui chiuse il libro, i bambini iniziarono a lamentarsi. Volevano sentire altre storie ma Jackson si limitò a ridere e a dire che il bello sarebbe avvenuto in quel momento perché avrebbero scartato i regali. In verità, non sapevo di quali regali stesse parlando visto che in quella stanza c’erano solamente quelli portati da me, però bastò a far entusiasmare i bambini, che adesso sembravano impazienti.
Compresi subito dopo che stesse parlando dei miei regali, perché velocemente alzò gli occhi su di me, mi sorrise e fece cenno di avvicinarmi.
Non mi mossi subito. Lo guardai alcuni secondi, incapace di muovere un muscolo. 
Dovevo avere una faccia davvero buffa perché rise con quella sua risata che tanto avevo imparato ad odiare e che per questo mi riscosse dallo stato di blackout in cui per l’ennesima volta mi ero imbattuta.
Tornò ad intimarmi di raggiungerlo e così feci.
In pochi passi raggiunsi i bambini che adesso guardavano me, felici. Sorrisi a mia volta.
   << Isa, guarda chi è venuto! Michael Jackson! Guarda, guarda! >>.
   << Ehi Ricky, ma lo sai che anch’io ho due occhietti? Lo vedo chi è >>, risposi ridendo.
Alla mia destra una bambina con i capelli biondi e il viso più dolce che potesse esistere, mi si aggrappò alla maglietta cercando di attirare la mia attenzione.
   << Mi sei mancata … >>. Non era solo il viso ad essere dolce.
Si chiamava Katy, aveva quasi quattro anni e da quando l’avevo conosciuta occupava un posto speciale nel mio cuore. La prima volta che la vidi era una neonata di sole tre settimane, abbandonata a sé stessa vicino all’entrata dell’orfanotrofio. Fui io la prima a trovarla e la prima a darle un biberon pieno di latte mentre veniva cullata dalle mie braccia.
Mi abbassai al suo livello e le posai le mani sulle guance paffute.
   << Anche tu mi sei mancata Katy >>, dissi in un soffio, felice.
   << Vieni, voglio presentarti una persona >>. Mi prese la mano e mi accompagnò davanti al Re del Pop, che nel frattempo si era alzato. Katy acciuffò anche la mano di Jackson e portò entrambe ad avvicinarsi, fino a stringersi.
   << Piacere, sono Michael >>, annuì leggermente e sorrise. Aveva la mano grande e fredda.
   << Isabella Hayden, piacere >>, risposi, in tono un po’ distaccato.
Nonostante questo aveva ancora il sorriso stampato in viso.
Ero tesa come una corda di violino ed io odiavo dare quell’impressione alle persone.
Avevo lavorato a lungo sul mio carattere. L’avevo rafforzato, fortificato.
 E indurito.
Non avrei più permesso di farmi vedere debole.
Eppure … eppure, avevo scoperto che il dolore è un ottimo maestro di vita, ti aiuta a crescere, ma una volta che si è presentato, si insinua in te e viene fuori quando meno te lo aspetti sotto forma di paure e incertezze.
Anche il carattere più forte avrà sempre momenti in cui sarà considerato debole.
   << Vedo che i bambini ti adorano, prima appena ti hanno vista sono corsi da te >>.
   << Sì, beh, vengo qui spesso. Sono tanti anni ormai che frequento questo posto >>, dissi, in maniera più rilassata possibile.
   << Complimenti, è un bel gesto >>.
   << Grazie, anche se non è molto, faccio quel che posso >>.
   << Credo sia il contrario invece. Non serve tanto per rendere migliore la vita di qualcuno, delle volte basta anche solo regalare dei sorrisi, e i bambini sono felici quando stanno in tua compagnia, quindi secondo me fai molto per loro >>, disse, e dal tono che utilizzò parve fermamente convinto del suo pensiero.
Sorrisi leggermente, avevo apprezzato il complimento.
Ad un tratto sentii tirare la mano che mi aveva preso in precedenza Katy.
   << Isa, possiamo aprire i regali? >>.
   << Certo! Venite >>.
Andai vicino alla porta, dove erano rimasti i sacchi pieni di regali. Per un attimo incrociai lo sguardo di mia madre, aveva uno strano luccichio mentre mi guardava. Non mi soffermai nel chiedermi cosa stesse pensando, anche se dentro di me qualcosa avevo intuito.
Una volta aperto il grande sacco, cominciai a distribuire ad ognuno il suo regalo. Era fantastico vederli sorridere emozionati mentre ricevevano il pacco incartato. In quel momento trasmettevano una felicità tale che riuscivano a contagiarti e a farti vivere quegli istanti come se fossi uno di loro, tanto che dopo pochi secondi mi ritrovai a sorridere come un’idiota, neanche fossi anch’io una bambina che doveva scartare il suo regalo. Mi rendeva orgogliosa vederli felici grazie a me, mi sentivo come se fossi parte del mondo, come se fossi viva e non rinchiusa nel mio solito guscio. Dimenticai per un attimo l’irritazione che avevo provato solo pochi minuti fa e mi abbandonai a quel clima di festa.
Ma mi sentivo osservata.
Cercai di non badarci, avevo una strana sensazione a riguardo, ma la curiosità ebbe poi la meglio, così mi girai e le mie supposizioni trovarono conferma.
Michael Jackson mi stava guardando.
Quando lo colsi sul fatto arrossì vistosamente e girò lo sguardo verso i bambini.
Io invece rimasi con un sottile senso di disagio che mi attraversò da capo a piedi.
A quel punto non sapevo chi fosse più rosso in viso, se io o lui.

Pochi minuti dopo ogni regalo era giunto al suo rispettivo proprietario e io stavo aiutando le assistenti dell’orfanotrofio a raccogliere la carta sparsa per tutto il pavimento. Con la coda dell’occhio notai mia madre vicina al signor Jackson. Avrei giurato che mentre gli parlava avesse i cuoricini al posto degli occhi. Anche se può sembrare impossibile, mia madre era capace di cose del tutto fuori dal comune. Quando prima dicevo che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe fatto esasperare, intendevo proprio questo.
Quando fu tutto sistemato mi avvicinai a Claire, la quale era andata ad assicurarsi che i bambini si stessero divertendo.
   << Allora ragazzi, vi sono piaciuti i regali di zia Isabella e di zia Elizabeth? >>.
   << Siii! >>, urlarono insieme.
   << Sono contenta >>. Batté le mani, in un gesto di contentezza, e si girò nella mia direzione. << Ah, Isa, non so se tua madre te ne ha già parlato, ma stasera avrei pensato di fare anche una festa di Natale. Lo so che è in anticipo ma credo che sia il momento giusto visto che i bambini sono emozionati per la presenza di Michael. E a proposito, ci sarà anche lui stasera, è fantastico! >>.

Cosa?!
Mi morsi la lingua, reprimendo un grido.
Avrei voluto dirle che, no, non era per nulla fantastico, ma era troppo entusiasta ed io non volevo rovinarle il momento, quindi tenni il pensiero per me.
   << Beh, in effetti non ne sapevo nulla, ma non mi stupisco, dato che, a quanto pare, non è stata l’unica cosa di cui sono stata tenuta all’oscuro >>, risposi leggermente piccata, notando con piacere che aveva colto il significato della battuta, visto il sorrisetto imbarazzato.
   << Eh eh! Ora vado dal signor Michael, questo è un giorno speciale >> riprese, con il suo tono entusiasmante di sempre.
Speciale, eh?
Come no, a me pareva più un incubo, quelli che non vorresti più vivere perché riaprono vecchie ferite che in realtà, non sono mai state chiuse.
Averlo lì, davanti ai miei occhi, che adesso rideva e scherzava con i bambini, mi infastidiva terribilmente.

Mentre erano tutti indaffarati a circondare il Re del Pop, io me ne stavo in disparte a guardare la scena, chiedendomi il motivo di tanto entusiasmo. Potevo capire i bambini che si trovavano di fronte una Star e non sapevano nulla delle voci che circolavano sul suo conto, ma gli adulti andavano oltre la mia comprensione.
Con le mani cominciai a giocare con la zip della mia borsa, cercando di passare il tempo e di distrarmi dai miei pensieri. Anche mia madre era rimasta vicina al suo cantante preferito e sinceramente la cosa non mi dispiaceva affatto. Quel giorno me l’aveva fatta troppo grossa ed io ero ancora arrabbiata per poterle stare vicino senza dirle qualcosa che di certo avrebbe messo in imbarazzo me e lei. 
Mi sentivo un po’ sola, a dir la verità, e tradita, quindi decisi di alzarmi e andare a prendere una boccata d’aria fuori. Il movimento dovette aver catturato l’attenzione di mia madre perché smise di parlare con Jackson ed entrambi mi guardarono. Fecero cenno di avvicinarmi ma declinai l’invito scuotendo la testa e facendo un sorriso rassicurante, per non destare sospetti. Ebbi giusto il tempo di notare i loro visi perplessi prima di girare lo sguardo.
Mi affrettai ad arrivare all’uscita e quando finalmente mi trovai di fronte i meravigliosi paesaggi californiani tirai un enorme sospiro di sollievo. Davvero, dovevo aver trattenuto un’immensa quantità d’aria perché sentii i polmoni alleggerirsi e le spalle rilassarsi. Mi ero quasi sentita claustrofobica a stare in quella stanza.
Sorrisi, adesso più serena, potevo finalmente starmene in santa pace.

 

 

*Spazio autrice:

Benvenuti al secondo capitolo.
Prima di tutto grazie a GiulyJ, Diana_mj e RaffaellaMj per aver recensito il primo capitolo. Mi avete reso felice.
Punto secondo … piaciuta la sorpresa??? Volevo farvi vedere come mi ero sempre immaginata Isabella nella mia testa.
Adoro Vittoria Puccini (*__*), credo che sia un esempio lampante di donna bella, elegante ed intelligente al tempo stesso. 
E per questa storia non potevo non scegliere lei.
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate, sono ben accette critiche e complimenti (<---
 soprattutto questi ultimi ahahah XD).
Al prossimo capitolo, ciao!

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Capitolo 3
*** Friends will be friends ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 3 – Friends will be friends

 

 

 

E invece, quando pensavo di potermi rilassare solo in compagnia di me stessa, ecco che …
   << Buuuh! >>.
   << Aaaah! >>. Lanciai un urlo che di femminile aveva ben poco, ma non mi importava, avevo già capito chi era l’autore dello scherzo.
   << Ahahah! Isabella mi fai morire, ahahah! >>. 
Ovviamente no che non potevo stare tranquilla, figurarsi se si poteva stare tranquilli in presenza di questo esemplare!
   << James! Quante volte dovrò ancora dirti che odio essere spaventata? E poi sono scherzi cretini, oltre che ridicoli >>, gli dissi, assumendo la mia posa fintamente arrabbiata, ovvero mani sui fianchi e sopracciglio alzato.
   << Per me puoi anche ripeterlo all’infinito, tanto non ti ascolterei lo stesso >>, sorrise a trentadue denti.
Per quanto mi riguarda scossi la testa, ormai rassegnata dai comportamenti di quest’uomo, e in verità, divertita e contenta del nostro rapporto.

Da che avessi memoria, io e James eravamo da sempre stati amici.
Questo perché Jay, come preferivo chiamarlo io, era il figlio di Claire e le nostre madri ci avevano praticamente cresciuto insieme. Quasi in simbiosi.
Il primo compagno di giochi è stato lui; il primo confidente al quale abbia mai rivelato un segreto è stato lui; e il primo amico con cui abbia insieme riso a crepapelle o sulla cui spalla abbia versato mille lacrime, è stato lui.
Aveva un carattere sincero ed espansivo, era socievole ma non invadente, sapeva mettere chiunque a proprio agio senza nemmeno rendersene conto. Non penso ci fosse qualcuno che lo considerasse antipatico. Aveva il dono di farsi amare da chiunque, volente o nolente.
Eravamo entrambi figli unici ma ci consideravamo fratello e sorella.
Per me era un rapporto meraviglioso, che avrei custodito e protetto ad ogni costo.

Lasciai per un attimo vagare gli occhi su quel viso, un tempo dai tratti infantili e ormai divenuto adulto. Del bambino con la quale ero cresciuta insieme non era rimasto molto: i capelli, una volta scuri, avevano finito per schiarirsi in un castano quasi dorato; le guance non erano più piene come quando da piccola andavo a pizzicarle solo per sentirne la morbidezza; le mani che mi accompagnavano quando dovevo attraversare la strada, adesso erano più magre e affusolate. C'era un uomo ora di fronte a me, alto e maturo, eppure mi bastava guardarlo negli occhi marroni per riconoscere quella scintilla infantile di una volta.
   
<< Che fai qui fuori? Dì un po’, sei di nuovo arrivato in ritardo, non è così? >>, dissi, furba. Sapevo dove colpirlo nei suoi punti deboli.
   << Con quell’aria saccente che ti ritrovi dovresti già avere la risposta >>, rispose, fintamente offeso.
Scossi la testa. Per quanto lo si potesse rimproverare quel ragazzo non sarebbe mai, e ripeto mai, arrivato puntuale ad un appuntamento. Non ci riusciva nemmeno se l’appuntamento era con una ragazza di cui era interessato, figurarsi quindi quando si trattava di altri impegni.
   << Tu invece? Non dovresti essere dentro a strapparti i capelli e ad urlare al mondo come una psicopatica isterica il tuo amore incondizionato per Michael Jackson? >>.
Lo guardai di traverso. Se voleva morire bastava solamente chiederlo, non mi sarei tirata indietro.
   << Sei serio o sarcastico? >>, chiesi, nemmeno tanto ironica.
   << Aspetta che ci devo pensare >>. Mise una mano sotto al mento e alzò gli occhi al cielo, assumendo un’espressione pensierosa degna del miglior premio Oscar. Infine scoppiò a ridere da solo.
   << E a proposito di questo … >>. Gli tirai un pugno all’altezza dello stomaco.
   << Ahi! E adesso che ti prende? >>, esclamò, sbalordito.
Oh, faceva anche il finto tonto!
   << Si dà il caso che io sia stata vittima di un complotto organizzato alle mie spalle, di cui TU, a quanto vedo, facevi parte. Quindi, ben ti sta >>.
Alzò le mani, in segno di resa.
   << E va bene, va bene, chiedo scusa >>, disse con un tono che di scuse aveva ben poco.

   << Ho taciuto perché sapevo quale sarebbe stata la tua reazione. Come minimo, saresti entrata nel pallone e soprattutto non saresti mai venuta. Per cui, ho avuto una valida ragione per entrare a far parte del complotto >> sorrise, compiaciuto da sé stesso.
 << Però, sul serio, tu devi avere qualche rotella fuori posto. Lascia stare lui come persona, non lo conosciamo e non possiamo esprimere opinioni di alcun genere - aprii bocca, pronta a controbattere, ma Jay alzò una mano per farmi tacere – No, so cosa stai per dire. Non dirla. Non si giudica una persona se non la si conosce. Questo vale per tutti. Però, musicalmente parlando, devi riconoscere che quell’uomo è un genio, un fottuto genio davvero! >>.
Incrociai le braccia. Quel giorno non ne potevo più di ascoltare gli stessi discorsi. Prima mia madre e adesso anche Jay.
   << Non sapevo fossi un suo fan >>.
   << Beh, fan non direi, sai che il mio cuore appartiene solo e soltanto ai Beatles - mise una mano sul petto, in fare drammatico - Ma credimi Bee, la musica non è più stata la stessa da quando Michael Jackson ha fatto vedere al mondo come si cammina sulla luna. Non hai idea di quanto sia acclamato quell'uomo a livello artistico. Se a qualcuno va riconosciuto del vero talento, quel qualcuno è proprio lui >>.
Ponderai le sue parole con cura e mi trovai tutto sommato d’accordo. Non conoscevo bene la sua musica, ma ricordavo di aver sentito una volta, mentre ero ancora adolescente, la famosa Billie Jean, e di aver pensato che avesse un ritmo fuori dal comune. L’ascoltavo e pensai che non potevo starmene a sentirla immobile seduta sul divano; quella canzone ti induceva a ballarla sulle sue note.
   << Visto e considerato che ti piace tanto, che ci fai qui fuori a parlare con me? Va dentro ad esprimergli tutta la tua ammirazione >>.
   << Stai scherzando? Sono entrato un attimo prima e l’ho trovato completamente circondato. Non mi stupisco tanto dei bambini, ma gli adulti potrebbero almeno farlo respirare un minuto. Non so come faccia a resistere, io impazzirei >>.
Sospirai. Sapevo di cosa stava parlando, si dava il caso che in quel gruppo ci fosse anche mia madre e la cosa era terribilmente imbarazzante.
   << E adesso perché sei diventata tutta rossa? Non è che in verità ti piace e non vuoi dirmelo? Eh? Eh? >>, disse, con un sorriso poco raccomandabile, mentre mi dava colpetti con il gomito su uno dei miei fianchi.
Tossii e la cosa non andò a mio favore perché diventai ancora più rossa.
   << Ma che dici?! Hai completamente frainteso! >>, sbraitai, infine.
Rise di gusto, me l’aveva fatta un’altra volta.
   << Sei impossibile, davvero >>. Risi anch’io, ormai rassegnata.
   << Comunque dovresti andare dentro, tua madre sarà anche abituata ai tuoi ritardi, ma sarà lo stesso preoccupata >>.
Alzò il polso per controllare l’orario sull’orologio e sgranò gli occhi.
   << Stavolta però, ho anche battuto tutti i record, ho un’ora di ritardo >>, disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
   << Mio Dio, vuoi farle venire un infarto? Sbrigati! >>.
Cercai di spingerlo verso l’entrata ma con scarsi risultati.
   << Vieni anche tu? >>, mi chiese.
   << No, torno a casa a riposarmi, è stata una giornata stressante >>.
   << Ma stasera però ci sarai alla festa >>, disse e non capii se fosse una domanda o un’affermazione.

Sinceramente non avevo nessuna voglia di andarci e il motivo non era per nulla difficile da indovinare. Già quel pomeriggio mi era bastato per distruggermi la giornata e rovinarmi l’umore. Almeno la sera volevo starmene un po’ per conto mio, in totale relax. Ma sussisteva un problema: non ero mai mancata ad una festa dell’orfanotrofio e si dava il caso, che proprio la festa di quella sera, quella di Natale, fosse la più importante. Mi sentivo divisa da due forze che tiravano verso due estremità opposte.
Alla fine trovai una ragione che mi portò ad una decisione definitiva, e il motivo era mia madre.
Forse può sembrare un motivo banale, ma vi assicuro che se non mi fossi presentata alla festa quella donna mi avrebbe tartassata per tutta la serata di telefonate e se alla fine non avessi ceduto, sarebbe venuta direttamente lei a prendermi di peso e portarmi in spalla fino all’orfanotrofio.
Non sapevo come avrebbe fatto, considerando la sua piccola statura, ma sapevo che ce l’avrebbe fatta. Di questo ne ero certa.

   << Si, ci sarò >>, dissi, infine, non senza un leggero tono di fastidio.
Jay parve non averci fatto caso, e anche se fosse stato il contrario, non disse nulla.
   << Mettiti un vestito >>, disse, sorridendo come un beota.
   << E perché? >>, risposi, attonita.
   << Perché non li metti mai ed è un peccato, quindi stasera mettilo >>.
Non replicai subito. Non so il perché.
   << Non è vero. Li ho sempre messi, ma solo quando la situazione lo richiedeva >>.
Non mentivo, non avevo nessun problema nell’indossare un vestito. Piuttosto, non capivo perché me lo stesse chiedendo.
   << Beh, stasera c’è la festa di Natale e sarà presente un vip. Questo è un evento che richiede un vestito >>, s’impose, con le mani appoggiate sui fianchi.
Era tutto inutile, e non avevo nemmeno più voglia di starlo a sentire.
   << Ti va bene se ti dico che ci penserò? >>.
   << No che non va bene >>. Girò i tacchi e si incamminò verso l’entrata dell’orfanotrofio. Appena poco prima di varcare la soglia, tornò a guardarmi. << Dico sul serio Bee, mettiti un vestito >>, usò di nuovo il soprannome che mi aveva dato la prima volta quando ancora eravamo piccoli e sparì oltre la porta.

Tornai a casa in preda alla confusione e all’indecisione più assoluta. 
Dopo vari ripensamenti, monologhi destinati soltanto a me stessa, camminate avanti ed indietro per tutta la stanza e sbuffi da far invidia ai tori della Corrida, presi la decisione di indossare un vestito. In realtà, sapevo bene che era stupido farsi tanti problemi per una questione del genere, era solo uno vestito in fondo. Il fatto è che facevo fatica ad indossare qualcosa che fosse femminile e che, quindi attirasse l’attenzione. Avevo la tendenza a far di tutto pur di sparire alla vista altrui, preoccupata di non so che cosa. Se mi fosse stata data la possibilità di avere un super potere, avrei scelto l’invisibilità, senza ombra di dubbio.
Eppure, che mi crediate o no, la maggior parte delle volte ero io stessa a crearmi le situazioni ideali per mettermi al centro dell’attenzione. Una contraddizione, certo, ma non potevo farci nulla. Avevo due brutti difetti, di cui però segretamente andavo fiera: ero testarda fino ai limiti del possibile e, quello peggiore dei due, non sapevo tenere la bocca a freno, se qualcosa non mi piaceva, dovevo dirlo. Se mi mettevo nei guai era quasi sempre per quest’ultimo motivo. Si poteva considerare una questione di vita o di morte.
Forse rasentavo la maleducazione, ma questi due difetti mi ricordavano l’adolescente forte e ribelle che ero una volta e che, in piccola parte, ancora avevo dentro, nascosta nell’ombra. Immagino che certe cose siano destinate a non cambiare mai, qualsiasi cosa succeda.

Il vestito che avevo scelto aveva sfumature rosa ed era ricamato interamente in pizzo con un meraviglioso tema floreale.
L’avevo indossato una sola volta, ma ne ero innamorata.
Arrivava esattamente all’altezza delle ginocchia ed aveva le maniche lunghe. Considerata la stagione fredda, faceva al caso mio.
La festa avrebbe avuto inizio alle 19:00. Ci sarebbe stato un piccolo buffet, al quale io partecipavo con la mia famosa torta di mele e cocco. I bambini avrebbero formato un piccolo coro e avrebbero intonato le canzoni natalizie più famose. Invece, come ogni anno sarebbe toccato a James l’arduo compito di travestirsi da Babbo Natale e, sempre come ogni anno, sarebbe arrivato il momento in cui uno dei bambini avrebbe scoperto chi, in realtà, si celasse sotto quelle pesanti vesti rosse e tutti lo avremmo preso in giro.

Scossi la testa, divertita. Stranamente, mi era tornato il buonumore.
Io amavo la festa di Natale più di qualsiasi altra festa. C’era magia pura in quelle ore di divertimento e spensieratezza, e c’era un’atmosfera di fratellanza, di affinità e di amore puro che non vedevo l’ora di rivivere.
Niente mi avrebbe buttato giù di morale, nemmeno una certa presenza …

Quando finii di fare questi pensieri ero già pronta. Mi guardai allo specchio e sorrisi, compiaciuta. Avevo sistemato i capelli lasciandoli sciolti sulle spalle e facendo in modo che avessero un movimento ondulato. Gli occhi verdi, dopo tanto tempo, erano tornati ad essere incorniciati da un filo sottile di matita e da lunghe ciglia nere. Non mi truccavo quasi mai, un po’ per pigrizia, un po’ perché non ne capivo il senso, tanto facevo allontanare chiunque provasse ad avvicinarmi.
La mia era una corazza bella spessa, era stata costruita con cura e dedizione sopra fondamenta che difficilmente avrebbero ceduto. E più passava il tempo più sembrava diventare indistruttibile, una vera arma di difesa contro i peggiori attacchi. Non che ne andassi orgogliosa, ma al momento non avevo trovato nessuna forza capace di far anche solo tremare quel muro.

Forse è tutto nella mia testa … la forza è nella mia testa”.

Scacciai via quei pensieri, mi ero promessa di passare una bella serata e così avrei fatto. Presi il cappotto nero dall’armadio e la borsetta da sera, recuperai le chiavi della macchina e fui pronta per partire.

 

 

*Spazio autrice:

 
Lo so, capitolo di passaggio ma necessario per presentarvi un personaggio fondamentale all’interno della storia.
Che ne pensate di James, o meglio Jay? Non metterò la foto di come me lo immagino perché, essendo un personaggio di sostegno e supporto, il migliore amico che tutti vorrebbero avere, vorrei che ognuno di voi lo immaginasse come meglio crede.
È stata e sarà la spalla di Isabella, ma non crediate che non creerà anche un po’ di scompiglio ... chissà ;)
Un bacio <3
Martina

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Capitolo 4
*** Lonely People 1/3 ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 4 – Lonely People

Part 1/3

 

 

 

Guidare era da sempre stato per me sia fonte di divertimento sia motivo di pericolo.
Tutto nasceva dal fatto che ero curiosa per natura, mi capitava quindi di distrarmi molte volte durante i miei viaggi.
E la bellezza della California non mi aiutava di certo. Ovunque si girasse lo sguardo c’era qualcosa capace di attirare l’attenzione di chiunque. Potevano essere le magnifiche case che abitavano su quel suolo ma la vera meraviglia risiedeva nella natura: gli alberi erano maestosi e il cielo sembrava limpido anche d’inverno.
In quelle immagini mi ci perdevo anche quando non avrei dovuto farlo, per questo avevo preso l’abitudine di guidare piano, c’erano troppe distrazioni in giro.
Tuttavia, riuscivo sempre ad arrivare puntuale.
Tranne questa volta.
Infatti, quando finalmente intrapresi la via dove risiedeva l’orfanotrofio, da lontano riuscii a scorgere una macchia informe e multicolore posta esattamente dove si trovava il cancello principale.
Sbattei le palpebre, perplessa.
Non avevo la più pallida idea di cosa fosse e di cosa stesse succedendo, ma più mi avvicinavo, più realizzavo che quella macchia era costituita da persone urlanti ed armate di cartelloni e striscioni.
Era disarmante trovarsi quel mare di persone, davvero, tanto che sentivo crescere l’ansia.

Cercai di regolarizzare il respiro.
Purtroppo, avevo già sperimentato che cosa si provasse ad avere un attacco di panico.
La cosa peggiore che si possa fare è abbandonarsi alla paura. La vista comincia ad annebbiarsi, il cuore prende un ritmo martellante e nella testa il vuoto più totale sembra scontrarsi con mille pensieri …
In poche parole, l’attacco di panico è un momento di instabilità allo stato puro.
Come trovarsi a camminare sopra una corda tesa ad un’altezza considerevole da terra. L’unico punto di contatto con la realtà sono i tuoi piedi, ma il vero strumento che non ti permetterà di cadere è la mente. Finché sarà lei ad essere concentrata, i tuoi piedi cammineranno sicuri e decisi anche se si trovassero sui fuochi ardenti.
Eppure, le prime volte cadrai e ti farai male. Ma è inevitabile.
Succederà fino a quando, come avviene con un esercizio di matematica, la tua mente saprà come svolgere tutti i passaggi e finire il compito con il massimo dei voti.
Per arrivare a questo, al controllo di me stessa, mi ero fatta aiutare da esperti, affinché sapessi come affrontare la situazione, nel caso fosse ricapitata.
Ed era ricapitata, in effetti. Più volte.
All’inizio vinceva lei, ma ultimamente ero io ad avere la meglio.
Ma c’è da dire una cosa. Per quanto ci si abitui, ogni volta basta un piccolo cedimento, una debolezza improvvisa, e l’instabilità torna senza darti il minimo scampo.

Accostai ad un lato della strada. Feci dei respiri profondi ed analizzai la situazione.
Innanzitutto non era difficile immaginare il “perché” di quella massa di persone. Piuttosto c’era da capire “chi” avesse spifferato ai quattro venti la presenza di Michael quella sera. E, cosa ancora più importante, come avrei fatto ad entrare?
Aspettai qualche minuto per vedere se si sarebbe un po’ sfollato, ma non successe nulla. Alla fine, chiamai mia madre e grazie all’aiuto della security di Jackson, mi fecero passare per l’entrata secondaria senza particolari problemi.
Quando scesi dalla macchina, dovevo avere una faccia piuttosto pallida, perché mia madre si avvicinò, visibilmente preoccupata.
   << Isabella, tutto bene? >>.
   << Si, tranquilla, sto bene. Ma si può sapere che diavolo è successo? Oggi pomeriggio queste persone non c’erano >>.
   << Non c’erano perché eravamo riusciti a mantenere segreta la visita di Michael. Lo aveva chiesto espressamente lui al telefono, quando prese accordi la prima volta con Claire sul giorno e l’orario della visita, ma qualcuno oggi pomeriggio deve essersi lasciato sfuggire qualcosa. Come vedi basta poco per diffondere una notizia in poco tempo >>.
Era pazzesco che tutto fosse avvenuto in poche ore.
   << Il Signor Jackson si è arrabbiato per questo? >>.
   << Oh no! Anzi, è stato molto comprensivo. Claire era mortificata per l’accaduto ma Michael le ha detto che non c’era bisogno di esserlo. Non ci crederai, ma è stato lui  a scusarsi per aver creato confusione intorno all’orfanotrofio >>.
In effetti, ero parecchio incredula. Primo perché mia madre lo aveva chiamato già due volte Michael, come se fossero amici da una vita; e secondo, se davvero così fosse stato, avrebbe avuto un comportamento davvero umile e comprensivo. Molto più di quello che ci si potrebbe aspettare da una Star.
Presi a camminare in direzione della porta secondaria ma mia madre mi fermò, prendendomi per un braccio.
   << Isabella, riguardo Michael, comportati bene, ti prego >>.
La serietà con la quale lo disse non fermò l’improvvisa fiamma che sentii nello stomaco.
   << Perché diavolo me lo dici? Solo perché non mi piace, non vuol dire che mi metterò a fare l’antipatica come se fossi una ragazzina. Se vedrò cose non di mio gradimento ne farò parola, se sarà il contrario, non ci sarà nulla di cui preoccuparsi >>, risposi, a denti stretti.
   << Lo dico perché ho avuto modo di parlare con lui questo pomeriggio e anche poco fa. Ci ha ringraziato innumerevoli volte per averlo invitato, visto che dopo le accuse mosse a suo discapito, molte persone gli hanno voltato le spalle. Credo che questo sia il primo incontro di solidarietà a cui partecipa dopo esser stato accusato. Per lui è un segno di riconoscenza, un gesto significativo volto ad esprimere che in questa battaglia non è solo. E sinceramente, Isabella, spero che riesca a capire fino in fondo che milioni di persone sono ancora con lui, perché a guardarlo bene, a me sembra essere l’uomo più solo della terra >>.
Non risposi, ci guardammo per pochi secondi negli occhi, sfidandoci l’un l’altra.
Volevo avere la meglio, ma le ultime parole mi ronzavano in testa, incessantemente.
Decisi di dargliela vinta e mi liberai dalla sua presa, rimasta stretta per tutto quel tempo.

Lasciai mia madre fuori e mi incamminai all’interno della struttura.
Mi guardai un attimo intorno notando per la prima volta lo splendido lavoro che avevano fatto Claire e tutti i suoi collaboratori.
C’era rosso ovunque. Festoni rossi che addobbavano l’intero soffitto; striscioni fatti dai bambini con la scritta “Buon Natale”, in rosso; l’albero, posto al centro della stanza era completamente coperto di palline rosse ed oro, ed aveva appesi i biglietti di ogni bambino, scritti accuratamente dai legittimi proprietari affinché anche quell’anno venissero esauditi i loro desideri.
Purtroppo, non succedeva quasi mai.
Se sei un bambino e vivi in un orfanotrofio, l’unica cosa che vuoi è avere una famiglia e la famiglia è un regalo che difficilmente trovi sotto l’albero.
Mi avvicinai ad esso. Le palline riflettevano la luce artificiale della stanza rendendole ancora più lucide, quasi accecanti, ma la mia reale attenzione era concentrata sulle lettere appese ai rami dell’albero. Ne toccai una e pensai che quella di Katy ero stata io stessa a scriverla, riportando esattamente quello che lei mi aveva dettato.
Sorrisi malinconica al ricordo. Quel giorno le chiesi che cosa volesse da Babbo Natale; mi rispose che le sarebbe piaciuto ricevere una mamma, un papà e, se fosse stata abbastanza buona durante l’anno da meritarlo, anche un cane.
Scrissi per filo e per segno le sue parole e pregai per lei che quel regalo le venisse fatto davvero.

Presi a camminare intorno all’albero, facendo scorrere lo sguardo su ogni cosa attirasse la mia attenzione, ma qualcun altro dovette aver avuto la mia stessa idea perché mi ritrovai a sbattere contro qualcosa, o per meglio dire, “qualcuno”.
   << Oddio, scusami! >>, si affrettò ad esclamare una voce sottile ed acuta.
Alzai gli occhi e rimasi di sasso quando vidi chi avevo di fronte.

Lassù qualcuno deve davvero volermi male, pensai, mentre scrutavo il viso del Signor Jackson.
   << Non fa niente. Non è successo nulla >>.
Aspettò la mia risposta con aria preoccupata, come se avesse commesso il peggiore dei crimini.
   << Meno male >>, rispose, sollevato. Parve scrutarmi e per un attimo il suo sguardo vagò sulla mia figura. Tossicchiò e riprese a parlarmi. << Stavo ammirando l’albero di Natale. È bellissimo. Chi l’ha addobbato? >>.
   << I volontari si saranno sicuramente offerti di preparare tutti gli addobbi di questa stanza >>.
   << É tutto molto festoso e ben decorato. I bambini sentiranno sicuramente lo spirito di fratellanza e gioia che questa festa comporta >>. Si guardò un po’ intorno, lasciando vagare lentamente gli occhi su ogni particolare della stanza prima di riposarli sui miei. << Mi piace questo orfanotrofio, si vede che a voi tutti sta a cuore il benessere di questi bambini >>.
Lo guardai un attimo, elaborando l’ennesimo complimento che ricevevo quel giorno da parte sua. In verità io non facevo molto, del vero lavoro sporco se ne occupavano altri, ma davo il mio sostegno nel far svagare i bambini, passavo del tempo con loro e inventavo mille giochi pur di farli divertire. Riempivo le loro giornate e le mie.
   << Grazie Signor Jackson. Mi creda, qui tutti si danno un gran da fare, spendono gratuitamente il loro tempo senza chiedere nulla in cambio ed è bello che venga riconosciuto. Per noi è motivo di orgoglio >>, dissi, sincera.
Abbassò un momento gli occhi, poi tornò a guardarmi e sorrise. Era una cosa che faceva spesso, notai. Deviava gli occhi, di solito sempre in basso, per poi rialzarli e seguirli da un sorriso. Chissà perché. Risultava quasi timido.
   << Michael >>.
   << Come? >>, chiesi e, inconsciamente, mi sporsi un po’ in avanti per ascoltarlo meglio.
   << Chiamami Michael e dammi pure del tu. Spero di non dover essere considerato così vecchio da venire chiamato d’ora in poi Signor Jackson >>, disse, ridendo subito dopo.
Inarcai un sopracciglio, stupita. La sua richiesta mi aveva completamente colta impreparata. Non avrei mai immaginato che potesse risultare così amichevole e confidenziale dal chiedere di essere chiamato per nome da qualcuno che conosceva a malapena. Per lui, noi, non eravamo nessuno. Solo altre facce che ben presto avrebbe rimosso dalla mente.
Stava ancora aspettando una mia risposta, tanto che, alla mia espressione sorpresa, si aggiunse la sua.
   << Ehm, io … va bene, Michael. Come desideri >>.
Sorrise, di nuovo sereno, sollevato da qualcosa che non riuscii ad afferrare.

In verità, non volevo assolutamente chiamarlo per nome.
Stavo quasi per dirglielo, in quell’attimo iniziale di incertezza, ed ero sicura che avesse anche intuito le mie reali intenzioni.
Ma decisi di assecondarlo per due ovvie ragioni.
Innanzitutto era l’ospite d’onore di quella giornata ed andava trattato come tale. Claire era già dispiaciuta per non essere riuscita a mantenere gli accordi presi con Jackson, ed io non volevo causarle ulteriori motivi di disagio. In fondo, anche io ero una volontaria, e in quel momento rappresentavo il buon nome dell’orfanotrofio. Non potevo comportarmi se non in modo educato e cordiale.
La seconda ragione era più evidente. Si trattava di Michael Jackson, dopo quella serata, chi l’avrebbe mai più rivisto? Anche se abitavamo nella stessa città sarebbe stato del tutto impossibile rincontrarlo. Era l’artista più conosciuto al mondo, super impegnato, e di certo non lo si poteva incontrare al supermercato come un qualsiasi essere umano. Dovevo solo fare buon viso a cattivo gioco e in poco tempo sarei tornata a casa, alla mia vita.

Con quella improvvisa consapevolezza mi sentii subito più rilassata. Ero di nuovo al sicuro.
   << Ti piace il Natale, Isabella? >>, chiese, improvvisamente emozionato.
Mi sembrò una domanda strana, in fondo, a chi non piaceva il Natale? Non c’era bambino o adulto che non aspettasse quel periodo dell’anno per stare insieme ai propri familiari.
   << Mi piace molto, è la festa che preferisco in assoluto. Il giorno di Natale io e mia madre ci riuniamo sempre a casa dell’una o dell’altra e cuciniamo insieme tutto il tempo >>, sorrisi nel pensare che non erano tanto i regali a piacermi di questa festa, ma la possibilità di spendere tempo con mia madre, fare cose stupide e ridere insieme a lei.
Michael mi guardò visibilmente interessato, forse troppo, come se stessi raccontando qualcosa di incomprensibile alle sue orecchie.
Non mi sembrava di aver detto nulla di strano ma a guardarlo bene negli occhi, notai una nota malinconica in quelle iridi castane.
Tanto che ne fui incuriosita.
   << A te piace il Natale? >>, azzardai nel chiedergli.
Sorrise apertamente e capii che gli piacesse molto, ma nello stesso momento allontanò gli occhi dai miei, e stavolta non sembrò per timidezza. Piuttosto mi diede l’impressione che volesse nascondere qualcosa.
   << È una bellissima festa, la più significativa tra tutte le feste. Ognuno di noi dovrebbe avere l’opportunità di festeggiarla con i propri cari >>. 
Era vero. L’essenza del Natale era quella, trascorrere del tempo con chi si ama. Tuttavia quella risposta mi lasciò con l’amaro in bocca. Più che una semplice affermazione, ebbi la sensazione che stesse esprimendo un desiderio che gli era stato negato.
Non sapevo che rispondere e mi stupii nel pensare che avrei voluto sapere di più, capire perché lui, l’uomo più famoso del mondo, avesse un’espressione così malinconica.
Durò poco, però, forse si rese egli stesso conto di essersi esposto troppo.
   << E tuo padre? >>.
   << Scusami? >>, mi ero incantata e non avevo sentito nemmeno una parola. Era una persona molto sfuggente, quasi quanto la sottoscritta, ed aveva fatto nascere in me una certa curiosità.
   << Prima hai detto che a Natale tu e tua madre vi riunite per stare insieme, mi chiedevo dove fosse tuo padre >>. 
Oh, era questa la domanda.
Stavolta fui io ad allontanare gli occhi, presa da quella nuvola tenera e malinconica che sono i ricordi.
   << Non avrei dovuto, perdonami >>.
Tornai a guardarlo una volta ridivenuta serena.
   << Tranquillo, è una domanda legittima. Comunque, lui non è più qui, un male incurabile l’ha portato via >>.
Lo dissi senza problemi, come una voce registrata su nastro e più volte ripetuta.
   << Mi dispiace, credimi >>. Gli credevo, lo si vedeva dal cipiglio preoccupato che il suo viso aveva assunto.
   << Ti ringrazio, ma non preoccuparti, è successo tanti anni fa. Con il tempo ho imparato ad accettare la sua scomparsa >>.
Era una bugia bella e buona, ovviamente. Se ami una persona non la dimentichi nemmeno dopo 100 anni. E io amavo mio padre, amavo lui e i suoi abbracci calorosi.
Non avevo permesso che nessun segno lasciasse il dubbio che dietro le mie parole si nascondesse ancora una bambina bisognosa di suo padre, ma lo sguardo di Michael, in quel momento, fu il più intenso della serata. Mi sentivo indagata nel profondo, messa su di un piedistallo e scrutata attentamente come si fa con un oggetto all’asta. Ero sempre stata brava a nascondere certi sentimenti, avevo oramai raggiunto un certo livello di esperienza in questo, eppure stavolta non ero stata creduta.

Annuì leggermente, senza interrompere quell’interrogatorio silenzioso, mentre io, presa da un senso di frustrazione, nascosi lo sguardo girandomi verso i bambini, che solo in quel momento, mi accorsi si stavano preparando per la consueta scena natalizia. 
Notai Claire dare le ultime direttive necessarie affinché lo spettacolo potesse iniziare al più presto.
Katy mi guardò per pochi secondi e mi salutò con la manina. Sapevo che era emozionata. Quell’anno, per la prima volta, avrebbe avuto un ruolo di prim’ordine nello spettacolo.
Mia madre, invece, stava sistemando il tavolo del buffet. La vedevo mentre posava un vassoio in una determinata maniera, poi faceva un passo indietro per vedere se la posizione fosse di suo gradimento e, dato che almeno una cosa in comune ce l’avevamo, ovvero la precisione, puntualmente tornava a spostare il vassoio per poi ripetere ogni azione da capo. La trovai addirittura bacchettare con la mano uno dei bodyguard di Jackson. Si era avvicinato tranquillo per prendere un sandwich ma lei, con un gesto secco, non glielo aveva permesso. La faccia che fece, lui un gigante di quasi due metri davanti ad una donna di nemmeno un metro e sessantacinque, fu la cosa più buffa che mi capitò di vedere quel giorno. 
Era stato esilarante, tanto che mi ritrovai a ridere e insieme a me, anche Michael. Aveva lo sguardo puntato dove si era appena conclusa la scena e rideva con una mano posata sulla bocca. Ogni tanto mi scrutava e cercava un modo per smettere di ridere. Forse gli sembrò di essere maleducato ma era talmente divertito che non riusciva a tornare serio.

Durante tutta la serata che seguì mi domandai perché non mi fossi bloccata, inorridita dal clima di confidenza che si era venuto in poco tempo a creare.
Perché in quel momento non avevo avvertito il senso di irritazione che sentivo da quando lo avevo visto la prima volta quel pomeriggio.
E perché invece di freddarmi come ero solita fare, mi ritrovai invece a ridere insieme a lui, imbarazzata per mia madre e divertita da quella risata spensierata e delicata, un po’ contagiosa e un po’ fanciullesca.

 

 

 

*Spazio autrice:

Salve a tutte ^^
Ebbene, la festa di Natale sarà divisa in tre parti come avrete visto dal titolo, questo perché credo che il primo approccio sia fondamentale per lo scorrere della storia e soprattutto per il cambiamento di Isabella.
Non mi piacciono le cose che avvengono di fretta, né tantomeno voglio lasciare nulla al caso, e spero davvero di riuscirci.
Il primo passo da affrontare, penso, è proprio questo, l’evoluzione non dei sentimenti ma dell’opinione di Isa.
Sarà piuttosto graduale, all’inizio si porrà molte domande, ma è inevitabile, credo.
Poi, chi volesse vedere la foto di lei e del vestito, eccolo accontentato ^^


Grazie a chi segue questa storia e un bacio a tutte voi :*
Martina.

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Capitolo 5
*** Lonely People 2/3 ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 5 – Lonely People

Part 2/3

 

 

 

Lo spettacolo di quell’anno prevedeva come tema principale la celebrazione dell’infanzia, in quanto età fondamentale per la crescita e lo sviluppo di qualsiasi essere umano.
Claire aveva come principio supremo nella vita e nel lavoro all’orfanotrofio, quello di rendere la permanenza e la condizione già di per sé difficile dei bambini, il quanto più possibile vicina a quella che possa considerarsi una vita normale. E per fare ciò, c’era solo una cosa che richiedeva a tutti i volontari che ogni giorno solcavano i pavimenti di quel posto: sorridere, sempre. Lasciare qualsiasi cosa ci turbasse al di fuori di quelle mura e smettere di pensare a sé stessi, per dedicarsi esclusivamente a chi, in un certo periodo della propria esistenza, era stato considerato un peso o una disgrazia o un oggetto inutile di cui disfarsi.
Per questo non si poteva considerare un “lavoro” per tutti. Qualsiasi cosa succedeva, non si poteva crollare di fronte a occhi così innocenti e così abbandonati.
La difficoltà è ai massimi livelli e le prime volte ti ritroverai in gola un groppo talmente pesante che ti farà chiedere se il pavimento sia abbastanza forte da reggere tutto quel peso o se invece finirai per sprofondare.

Davvero, è una prova dura da affrontare. Per quanto riguardava me, la seconda prova più dura che avessi mai affrontato.
E, mentre lo spettacolo iniziava, sorrisi nel pensare che anche quell’anno ce l’avevamo fatta nel far sì che nel cuore di quei bambini non ci fosse stato un giorno, un solo giorno in cui la solitudine e quel leggero senso di rifiuto, che era presente ma non ancora sviluppato, avessero superato la gioia di vivere.
Era una sensazione così forte che faccio fatica a trovare le parole esatte per descriverla, rischiando di non darle la giusta importanza.

Per la scelta della storia da raccontare durante la recita c’era stato un lungo dibattito. Volevamo qualcosa nella quale tutti i bambini potessero partecipare avendo ognuno una parte di una certa importanza e che rappresentasse in pieno lo stato di spensieratezza, innocenza e purezza che si trova solamente in una certa età della nostra vita. Alla fine, la scelta è ricaduta unanime sulla storia di Peter Pan.
A David, un bambino dal carattere vivace tanto da poter essere considerato irrequieto, ma dalle straordinarie capacità artistiche e creative, era stata affidata la parte di Peter.
Wendy sarebbe stata interpretata da Sarah, perfetta in quell’abito azzurro e le trecce more che ricadevano morbide sulle spalle, tenute legate da fiocchi di seta, anch’essi azzurri.
Per la parte di Trilli, invece, non ci furono dubbi a farci perdere tempo. Quando per la prima volta posammo le ali da fatina sulle spalle di Katy, sembrò che qualche magia fosse già avvenuta perché aveva un’espressione in viso talmente felice da creare un’aura di gioia e solarità tutto intorno alla sua figura.
In quel preciso momento, se ne stava sul palco ad agitare le braccia facendo finta di volare, la bacchetta in mano, pronta a spargere la sua polvere di fata e far volare tutti i bambini che ne venivano ricoperti. Era una magia impossibile, ovviamente, ma lei ci metteva tutta la serietà che una bambina di 4 anni poteva avere, quasi avesse fatto incantesimi da tutta la vita. Ci credeva talmente tanto in quello che faceva che riusciva a convincere anche chi la guardava.
Con la coda dell’occhio notai anche gli altri spettatori, anch’essi presi dalla rappresentazione che stava avendo luogo sul palco.
A Jackson era stato riservato il posto migliore, in prima fila al centro della scena. Dalla mia postazione non riuscivo a vedere la sua espressione ma doveva piacergli ciò che stava vedendo perché ogni tanto batteva le mani, in quello che sembrava essere l’inizio di un applauso.

Mentre osservavo quell’uomo inconsueto dai capelli ricci, lo spostamento della sedia alla mia destra catturò la mia attenzione. 
Sobbalzai, presa alla sprovvista.
Jay aveva in viso il solito sorriso beffardo, compiaciuto dai suoi stessi scherzi, quelli che lui chiamava “trovate geniali”. Gli avevo detto più volte che le sue “trovate geniali” poteva pure tenersele per sé, ma dire una cosa a quell’uomo e avere addirittura la presunzione che tale cosa arrivasse al suo cervello per essere anche solo presa in considerazione, era un fatto talmente eccezionale da poterlo catalogare come miracolo.
E non scherzavo, almeno io.
   << Che fine hai fatto? Lo spettacolo è iniziato da 10 minuti >>, dissi in tono basso, per non disturbare.
   << Scherzi? Hai visto che inferno c’è lì fuori? Se non ci fosse stata quella mandria indemoniata, sarei sì arrivato in ritardo, ma non così tanto >>, rispose, facendomi l’occhiolino.
Non avevo nemmeno più la forza di scuotere la testa, mi limitai solo a sospirare e tornare a guardare lo spettacolo.
Jay, però, non fece altrettanto. Sentivo che aveva ancora la testa girata dalla mia parte.
   
<< Che hai da guardare? >>, chiesi, interrogativa.
Sorrise e si soffermò a contemplare il vestito.
   << Mi hai dato retta >>.
Alzai le spalle, cercando di fare l’indifferente.
   << Beh, mi son detta, perché no? Era da tanto che non mettevo un vestito, questa mi sembrava l’occasione giusta >>.
Aspettai di sentire la sua risposta ma questa non arrivava. Continuò a guardarmi, il sorriso di prima adesso era appena accennato. Passarono pochi secondi riempiti da uno strano silenzio.
   << Sono contento che tu abbia preso questa decisione >>, disse, infine, e per la prima volta si girò ad osservare lo spettacolo.

Appena si concluse l'ultima scena l’applauso che riecheggiò all’interno della stanza era super meritato. Non c’era stato un solo sbaglio o una sola incertezza che avesse spezzato la magia di ciò che poco prima stava avvenendo sopra il palco. L’impegno concesso aveva dato luogo ad una rappresentazione perfetta e il risultato finale non poteva che essere magnifico. 
Jackson si alzò per primo, seguito da tutti noi presenti, per rendere onore ai piccoli attori che, a quella vista, persero tutta la loro compostezza, iniziando a saltellare e ridere eccitati.
Jay vicino a me urlava scatenato, facendomi ridere. In fondo aveva una reputazione da mantenere, visto che all’orfanotrofio era conosciuto come il buffone di turno.
Claire si precipitò sul palco, felice di tanto successo. Dopo essersi complimentata personalmente con i bambini, richiamò su di sé l’attenzione.
   << Allora che dite, vi è piaciuto lo spettacolo? >>.
Un’altra ondata di urla colpì le mura.
   << Sono davvero felice di questo e, soprattutto, che abbiate apprezzato l’impegno mostrato dai nostri ragazzi e da tutti coloro che hanno ideato e fatto sì che questo spettacolo potesse avere luogo. Sono orgogliosa di poter dire di avere tra le mie fila i volontari con il cuore e anche la pazienza più grandi che potessi trovare. Ma non voglio dilungarmi oltre, questa per tutti noi è una giornata speciale. Sono lieta di annunciare un’importante collaborazione con la Heal The World Foundation che da oggi si occuperà della manutenzione e del benessere di questa struttura. Colgo quindi l’occasione per chiamare qui sul palco il nostro ospite d’onore e ringraziarlo della sua presenza. Prego Signor Jackson >>.
Michael si alzò appena udito il suo nome, incamminandosi in direzione di Claire.
Alle sue spalle, tutti i presenti battevano le mani, eccitati quanto e forse più dei bambini.
Dapprima abbracciò Claire, sussurrandole qualcosa all’orecchio, poi si premurò di fare una carezza ai bambini rimasti sul palco dalla fine dello spettacolo. Infine, si girò a guardare noi del pubblico, prendendosi del tempo prima di iniziare il suo discorso.

A quella distanza potevo vedere tutta la sua figura ergersi al centro della scena e, mentre cercava le parole esatte da pronunciare, ne approfittai per studiarlo. Si era cambiato d’abito dal pomeriggio, ora indossava un completo nero. La giacca, di stampo militare, era aperta, lasciando intravedere al di sotto una semplice maglietta bianca. In vita, faceva sfoggio una cintura borchiata dal grande stemma color argento. Mocassini ai piedi e cappello in testa. Sembrava un soldato dall’anima rock, giunto a compiere la sua missione. Mi piaceva.

Si schiarì la voce, concentrato a guardare la platea di fronte a sé. Infine prese parola.

   << Buonasera amici, e grazie per avermi dato l’opportunità di essere qui stasera con voi ad assistere a questa meravigliosa rappresentazione. Mi congratulo con gli ideatori e i piccoli attori che hanno dato vita allo spettacolo, rendendo un degno omaggio alla magica storia di Peter Pan. Forse, non molti di voi sapranno che proprio questa storia, quella di Peter Pan, è la mia preferita. Molte volte ho chiuso gli occhi, immaginandomi di essere un ragazzino capace di volare, libero di essere sé stesso in un mondo nel quale l’unico vero potere a dettare regime fosse l’innocenza. Mio malgrado, è un mondo che scompare non appena riacquisto la vista. Ma c’è una cosa che ho imparato e in cui credo fortemente, l’isola che non c’è non è un luogo così lontano da noi, non la si trova seguendo la seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, per quanto l’idea sia molto affascinante … >>, ridacchiò piano, divertito dal suo stesso pensiero, e tornò a parlare.

   << Credo che ognuno di noi abbia una piccola isola che non c’è dentro sé stesso, è tanto grande quanto il ricordo della nostra infanzia e della voglia di conservare quella gioia, quella purezza, quella vivacità che da piccoli sembrano le sole cose a ruotare intorno al mondo. Ebbene, il ricordo della mia infanzia non è tanto grande quanto vorrei, semplicemente perché non ne ho avuta una, ma custodisco quella leggerezza di spirito con molta gelosia e nonostante, mai come in questo periodo, il mio modo di fare è stato vittima di speculazione e false accuse, io continuo a lottare per mantenere intatto, anche da adulto, il diritto di meravigliarsi, il diritto di giocare, il diritto di sognare e di non lasciare che alcuno calpesti questi sogni >>.

Non aveva più l’aria serena di prima, c’era tensione fra i tratti scolpiti del viso e anche una certa determinazione. Si girò verso i bambini e parlò a loro.

   << Vorrei dire a voi bambini di proteggere questa vostra isola che non c’è, di farla vivere, darle nutrimento finché sarà talmente grande che non dovrete preoccuparvi di diventare adulti e dimenticarvi di chi eravate, perché avrete vissuto al meglio questo straordinario periodo della vostra vita, tanto da renderlo indelebile >>. Tornò a guardare il pubblico, serio come non lo avevo mai visto ma più rilassato. 

   << Devo dire che l’orfanotrofio nel quale stasera mi trovo fa un ottimo lavoro affinché ciò venga preservato. Ho visto con i miei occhi quanto questi bambini vengano amati ed accuditi nel migliore dei modi e di questo ringrazio tutti coloro che spendono tempo della loro vita per dedicarlo a quella di qualcun altro. Non c’è nulla di meglio che dare, cari amici. Per questo stasera, è mia intenzione fare una donazione all’orfanotrofio di Santa Barbara di centomila dollari >>.
Schiusi di poco la bocca nell’attimo esatto in cui i battiti delle mani e le urla festose dei presenti invasero le mie orecchie.

Centomila dollari?

   << Vi prego, signori, non è nulla di che. Cerco di dare a chi lo merita ciò che mi è possibile e questo luogo, protettore di sogni, lo merita più di chiunque altro. Ringrazio di nuovo la direttrice Claire per avermi ospitato e auguro a tutti voi una splendida festa di Natale. Dio vi benedica >>. Annuì, quasi volesse inchinarsi per ringraziare e scese dal piccolo palco con semplicità.

Io, invece, non ci stavo capendo nulla. Ero rimasta indietro, ai centomila dollari.
Non potevo crederci, erano tantissimi, molto più di quello che realmente ci servisse per rendere l’orfanotrofio un posto più vivibile.
Claire faceva un ottimo lavoro per non far mancare nulla ai bambini. Aveva molti amici, ricchi e benestanti, presenti anche quella sera, che l’aiutavano nei momenti di bisogno e credetemi, quando si gestisce un luogo come un orfanotrofio, i momenti di bisogno sono più assidui di quello che si pensa.
Purtroppo, proprio un anno fa, c’eravamo trovati ad affrontare la nostra difficoltà più grande, quando un uragano colpì tutta la California. Fortunatamente non rimase ferito nessuno ma i danni alla struttura furono notevoli.
In particolare la parte dell’infermeria e della sala giochi cedette e Claire si ritrovò costretta a prendere una decisione. I fondi non erano abbastanza per coprire le spese di entrambe le stanze, così scelse per grado di importanza. L’infermeria venne ricostruita da cima a fondo mentre della sala giochi non rimaneva che polvere.
Ora finalmente, con quei soldi avremmo potuto ridare ai bambini uno spazio dedicato solo a loro.

Michael scese i pochi scalini che lo dividevano dal resto dei presenti ed io lo seguii con lo sguardo, dominata da uno strano senso di meraviglia e incredulità, la bocca non ancora chiusa. Ero felice. Felice ed emozionata.
Al mio fianco Jay sorrideva eccitato.
   << Bee, non che ci siano mosche qui dentro, ma ti conviene lo stesso chiudere la bocca. È poco igienico, e poco femminile >>, disse, divertito.
   << Eh? Si, hai ragione >>, risposi, come un'automa.
Mi guardò stupito. Di solito rispondevo sempre in un modo o in un altro alle sue battute, stavolta invece avevo lasciato scorrere.
   << Sembri sorpresa >>.
   << Lo sono. Centomila dollari, Jay! Ti rendi conto? Possiamo iniziare i lavori che avevamo lasciato in sospeso e fare anche di più! E in futuro, dovesse succedere qualcosa, con quei soldi siamo largamente coperti. È magnifico >>, esclamai, realizzando finalmente quello che stava succedendo.
   << È vero, di sicuro è un uomo molto generoso >>.
   << Si, questo non posso negarlo >>, dissi, mentre entrambi lo osservavamo.

Sopraffatta dalle emozioni andai a congratularmi con i bambini. Abbracciai ognuno di loro, rendendomi conto di quanto ogni anno diventassero sempre più grandi, sempre più padroni di sé stessi, ma sempre bisognosi di ricevere una carezza.
Trovai Katy silenziosa in un angolo, intenta a giocare con le sue ali di fata. 
   << Ehi, sei stata la fatina più bella di tutto il mondo. Bravissima! >>.
Mi avvicinai e passai una mano tra quei capelli biondi.
   << Zia Isabella? >>, sussurrò, mantenendo lo sguardo in basso.
   << Che c’è Katy? Qualcosa non va? >>, chiesi, preoccupata. Non era da lei quel tono sommesso.
   << Pensi che adesso potremmo avere una stanza con tutti i giochi? Mi manca giocare insieme agli altri in un posto tutto nostro >>.
Per la prima volta si girò a guardarmi. Le brillavano gli occhi, di eccitazione e di speranza.
   << Ma certo. Con i soldi donati da Michael possiamo ricostruire la stanza e comprare tanti giochi nuovi. Promesso >>, le sorrisi, rassicurandola.
   << Voglio ringraziarlo! Però puoi dirglielo tu? Io mi vergogno >>.
   << Ma come? Dov’è finita la bambina coraggiosa che conosco? >>, chiesi sorpresa.
   << Ti prego. Ha fatto una cosa importante per noi bambini ed io non so come ringraziarlo, fallo tu al posto mio. Ti prego! >>.
Mi prese la mano, stringendola con tutte le sue forze.
Si vedeva che si trattava di una questione importante per lei, in fondo, quell’anno era stato duro per tutti i bambini. Non avere uno spazio dove sfogarsi giocando, dove sentirsi liberi di esprimere sé stessi, doveva essere stato difficile da sopportare. Nonostante l’amore che si potesse loro dare, erano anche persone individuali e con un alto grado di creatività. Trovarsi in un luogo che non garantiva spazio sufficiente per esprimere questo lato intimo non era per nulla l’ideale.
   << E va bene, lo farò io, ma tu mi accompagnerai, d’accordo? >>.
Annuì vigorosamente, lasciandomi intravedere tutta la sua gratitudine.

Mano nella mano, ci incamminammo verso il Re del Pop.
Se ne stava vicino al tavolo del buffet, probabilmente indeciso su quale pietanza buttarsi, sorvegliato dalla sua personale guardia del corpo e avvicinato da qualche amico di Claire.
A pochi passi da lui feci un sorriso di cortesia al bodyguard che non appena mi vide, prese a squadrarmi attentamente.
Ma non gli avevo già detto di non essere una serial killer?
Tossii, per attirare l’attenzione, e Michael si girò all’istante, alternando gli occhi da me a Katy, la quale si era nascosta dietro la mia gamba destra, per la prima volta timorosa di non so cosa.
   << Michael, una bambina molto timida mi ha chiesto di ringraziarti per la generosa donazione a favore dell’orfanotrofio. Ora molte cose potranno essere messe apposto. Sono sicura tu l’abbia resa la bambina più felice del mondo in questo momento >>.
Sembrò aver capito la situazione perché ci sorridemmo, complici.
   << Oh, davvero? Mi piacerebbe conoscere questa bambina, sai dove posso trovarla? >>.
Assunsi un’espressione dispiaciuta, attenendomi al gioco.
   << Come ho già detto, è molto timida, preferisce non farsi vedere. Ma ti ringrazio io da parte sua >>.
Mossi un piede, facendo finta di volermi allontanare, quando sentii una leggera forza premere sulle gambe, intimandomi di riporle attenzione. Mi abbassai trovandomi il viso arrossito e di Katy. Le sorrisi per incoraggiarla e finalmente uscì allo scoperto. Si pose davanti a Michael, inizialmente indecisa sul da farsi, poi lo abbracciò, circondandogli le gambe. 

Fu strano assistere a quella scena.
Mentre Michael si abbassava per fare una carezza sul capo di Katy e lasciarle un bacino sulla guancia, aspettavo il momento in cui avrei sentito montarmi la rabbia e il ribrezzo che avrei dovuto provare.
Quell’uomo accusato di pedofilia stava abbracciando impacciato la bambina più importante della mia vita.
E invece, mi sorpresi nel guardare quegli occhi, ogni tanto oscurati da qualche ciocca ribelle, riempirsi di uno strato sottile di lacrime non versate.
Lo guardavo meravigliata e confusa.
Ma chi era realmente?
Come riusciva a commuoversi per il semplice ringraziamento di una bambina?
E perché oltre quel guizzo di felicità sembrava nascondersi sempre una nota di tristezza?
Ad un certo punto, mi sentii costretta a distogliere lo sguardo, non riuscivo più a guardarlo, a scontrarmi con quel muro fatto di solitudine e fragilità.
Perché era quello che mi era sembrato, per un attimo, ebbi il dubbio di essermi guardata allo specchio e di aver visto riflessa la mia immagine, le mie stesse paure, il mio stesso dolore.
Il solo pensiero mi fece tremare le gambe.
Non sapevo come spiegarmelo, ma aveva ragione mia madre, quell’uomo sembrava terribilmente solo.

 

 

*Spazio autrice:

Stavolta sarò breve XD
Grazie come sempre a chi legge la mia storia e, dato che non aggiornerò prima della settimana prossima, vi auguro buon ferragosto =)
Un bacio,
Martina.

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Capitolo 6
*** Lonely People 3/3 ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 4 – Lonely People

Part 3/3

 

 

 

È strano come il cervello umano riesca a formulare mille pensieri e progettare altrettante congetture in quello che potrebbe essere considerato davvero un piccolissimo spazio di tempo, come un millesimo di secondo.
L’abbraccio tra Michael e Katy si era sciolto nell’arco di qualche battito di ciglia, eppure io ero caduta in un vortice di emozioni e strane sensazioni difficili sia da decifrare per la loro complessità sia da elencare tutte senza rischiare di tralasciarne qualcuna.
La dolcezza di quell’immagine aveva avuto la stessa forza di uno schiaffo, ne portavo ancora i segni sul viso.
Ero addirittura riuscita ad andare indietro nel tempo, quando a 4 anni ero io ad essere stretta in quel modo da un uomo con gli stessi occhi scuri e grandi, che io chiamavo “papà”.
Non so perché mi venne in mente proprio quella scena, forse ci avevo trovato lo stesso livello di amore o forse la mia mente mi giocava brutti scherzi.
Ormai non sapevo più cosa pensare. Cominciavo a pentirmi di essere andata a quella benedetta festa.
Ancora con gli occhi distolti, sentii distrattamente la voce di Michael suggerire a Katy quanto fosse stata brava ad interpretare il suo personaggio nello spettacolo.
Cercai di riportare l’attenzione sulla scena che avevo di fronte.
La timidezza di Katy sembrava essersi dissolta nel nulla, era tornata ad essere la bambina testarda e coraggiosa che avevo imparato a conoscere e ad amare.
Sorrisi nel vederla finalmente ridere.
   << Tutto bene signorina? >>.
Mi girai in direzione di quel suono, non senza fare un piccolo saltello dalla sorpresa.
Il bodyguard di Michael si trovava al mio fianco, occhi puntati dritti nei miei, il capo leggermente piegato.
Da dove era saltato fuori? Sembrava avesse agito furtivamente perché non mi ero proprio accorta di nulla, ma la colpa doveva essere soltanto mia. In fondo, ero tornata in me solo qualche secondo prima.
   << Si, tutto bene. Perché? >>, chiesi, sulla difensiva.
   << Sembrava sovrappensiero ed anche turbata. Credevo stesse male >>.
Riflettei un attimo su quelle parole prima di rispondere. Non ci vedevo nulla di male in quell’interessamento, per cui tornai ad essere serena.
   << In effetti ero sovrappensiero. E parecchio direi. Ma sto bene, non si preoccupi >>, sorrisi del tutto sincera.
   << Oh bene. Comunque, mi scusi per non essermi presentato prima. Sono Bill >>.
Allungò la mano aspettando la mia. Gliela strinsi, cordiale ma anche rilassata, non scorgevo nessuna mal intenzione in quell’omone. Sembrava uno di quei personaggi che si vedono nei film, quelli che sono costretti a fare la parte dei duri esclusivamente a causa della loro stazza, ma che in verità è un ruolo che non ricoprono nella vita reale.
   << Salve Bill, io sono Isabella >>.
   << Lo so >>, disse ridendo.
   << Lo sa? E come? >>, chiesi, stupita.
   << Sua madre oggi non ha smesso di parlare di lei a Michael, ed io, standogli vicino visto che sono la sua guardia del corpo, ho sentito tutto >>, concluse a trentadue denti.
Oh, ma certo. Mia madre.

Giuro che se ha detto qualcosa che …

   << Non faccia quell’espressione >>, disse divertito. << Mi creda, non ha detto nulla di cui si debba preoccupare, anzi >>.
E invece no. Quando c’era di mezzo mia madre, c’era sempre qualcosa di cui mi dovevo preoccupare. Volente o nolente, quella donna era capace di catastrofi a livello globale. Non a caso il suo livello di pericolosità era inversamente proporzionato alla sua statura.  Ci trovavamo di fronte ad un’arma letale.
   << Non saprei, la conosco troppo bene per starmene tranquilla >>, dissi, visibilmente preoccupata.
   << Chi è che conosci troppo bene? >>.

Parli del diavolo …

La testa di mia madre fece capolino al di sopra della mia spalla, raggiante come solo lei poteva essere. Mi guardava come se sapesse già ogni cosa, come se lei avesse la risposta per ogni dilemma e il suo chiedere fosse solo un tentativo per rompere il ghiaccio.
Alternai gli occhi da lei a Bill, alla ricerca di una qualche fonte di ispirazione per architettare una bugia plausibile all’ultimo momento.
L’aiuto arrivò inaspettato, ma non per questo meno apprezzato.
   << Beth! >>, esordì una voce sottile.
   << Michael! Lascia che ti faccia i miei complimenti per il bellissimo discorso di poco fa. Come sempre sei di grande ispirazione sia per i grandi che per i piccoli, e grazie di cuore per la donazione. È il gesto più importante e significativo che questo orfanotrofio abbia mai ricevuto da un’unica persona. Grazie davvero >>.
Una volta finito di parlare si avvicinò a Jackson e lo abbracciò forte, non solo come fosse una fan, cosa che effettivamente era, ma soprattutto per esprimergli semplicemente tutta la sua gratitudine.
Mi ritrovai a sorridere nel guardarla abbracciare quello che poteva considerarsi il suo più grande idolo. Ero quasi certa che se fosse stata più giovane avrebbe cercato di sedurlo, tanto era perfetto ai suoi occhi.

Oddio, Michael Jackson come patrigno …

Sgranai gli occhi e risi apertamente, coprendomi subito dopo la bocca con una mano. Mi scusai imbarazzata con i presenti, intenti a guardarmi stranamente e riposi da parte qualsiasi pensiero surreale.
Sciolto l’abbraccio, Michael si girò verso noi ed altre persone che nel frattempo ci avevano raggiunto.
   << Per quanto strano possa sembrare, sono io che vi ringrazio di cuore. Stasera il più bel regalo l’ho ricevuto io stesso. Questo è il primo Natale che festeggio >>, disse piano, come imbarazzato, ma sorridendo di un’emozione che sembrava pronta per esplodere, tanto era potente.
Non parlò nessuno in quel momento, o almeno così parve alle mie orecchie.
In quell’istante capii parte di quella nota malinconica che avevo scorto qualche ora prima, e perché mentre parlavo della mia giornata di Natale i suoi occhi erano talmente interessati.
Per lui si trattava solo di un’idea, un’immaginazione, niente che realmente avesse vissuto.
Quando arrivai alla conclusione di quel pensiero, mi resi conto che il silenzio era da tempo stato spezzato da coloro che ora circondavano Michael propinandogli quante più domande riuscissero a formulargli.
Gli occhi di tutti, compresi i miei, erano puntati su di lui, che in quel momento sembrava essere diventato un essere a due teste, lontano da ogni comprensione umana, giudicato nella sua diversità.
Mi diedero fastidio quegli occhi indagatori, mi sembravano troppo giudiziosi e insistenti. E le domande martellanti non facevano che aumentare la tensione in quel viso delineato, accentuando il guizzo malinconico di cui si nutrivano le iridi castane.
Frustrata, mi decisi a zittire tutti.
   << Mamma mia, io sto morendo di fame, e voi? >>, quasi urlai.
Scatenai qualche risolino divertito e ci fu un’approvazione generale, in men che non si dica la maggior parte della folla si disperse davanti il lungo tavolo da buffet, portandosi dietro l’imbarazzo dal viso di Michael.
Sospirai come se io stessa mi fossi tolta un peso e accolsi il ringraziamento subliminale che lo sguardo di Michael mi rivolse, prima di essere trascinato via da Katy e altri bambini. Era riconoscente e sollevato.
Anche se nemmeno io sapevo bene perché lo avessi fatto, mi sentii allo stesso modo più serena. Non ero mai stata in confidenza con l’attenzione in generale, soprattutto quando non era per nulla desiderata né richiesta. E poi mi sembrava di stare ad indagare troppo a fondo nella vita privata di qualcun altro, avevo avuto l’impressione che gli stessimo facendo del male, noi e i nostri occhi.

Il resto della serata che seguì fu un susseguirsi di eventi tradizionali che venivano riproposti anno dopo anno. Presi parte come meglio potevo alle varie usanze, cercai di rimanere neutrale e concentrata, di impegnare la mente aiutando dove c’era bisogno, o semplicemente fermandomi a parlare di cose frivole con gli invitati, ma mi sembrava tutto inutile. Non facevo che ripercorrere i vari momenti di quella giornata, allo stesso modo di come si vedeva un film. Schiacciavo pausa quando ero arrivata ad una scena particolarmente intensa, e il cervello si fermava a riflettere, non volendone sapere di far scorrere le immagini.

Decisi fosse arrivato il momento di prendere una boccata d’aria, se non altro per raccogliere i pezzi di quella giornata e trovare un modo per non lasciarli ulteriormente ronzarmi in testa. 
Uscii dalla porta secondaria per non correre il rischio di trovarmi di fronte quell’orda schiamazzante di fan. Non avevo però fatto i conti con l’aria gelida di una notte d’inverno, il cui vento, seppur leggero, aveva la capacità di pungere la pelle come una moltitudine di aghi.
Chiusi bene il cappotto, avvolgendomi la parte alta intorno al collo, premurosa di non lasciarmi ammalare, visto che la maggior parte delle volte mi riusciva piuttosto bene. Trovai un angolo appartato dove appoggiare la schiena, abbastanza al riparo dallo sferzare del vento e rimasi lì, immobile, cercando di scovare una stella, una di quelle che d’inverno coraggiose sfidano il cielo terso e la loro luce si impone al buio della notte.
Seppure il buio non fosse più mio amico da molto tempo, amavo ancora la notte perché portava con sé le luci migliori.
C’erano molte stelle quella sera, per mia fortuna. Alla sola vista riuscii a rilassarmi, resettare la mente e bearmi di ciò che quel palcoscenico illuminato aveva da offrire.
Ad essere sincera era un mero tentativo di impegnare la mente, uno dei più banali anche, ma stava avendo i suoi frutti.
Se non che …

Prima ancora che me ne rendessi conto, il mio inconscio aveva alzato le barriere, allarmato, provocando l’incedere martellante dei battiti del cuore.
Nello stesso attimo in cui sentii quei colpi nel petto, avvertii il rumore cadenzato di passi lenti calpestare l’erba bagnata.
Trattenni il fiato, pregando di ritrovarmi davanti un viso familiare.
E, stranamente, così lo reputai.
Michael aveva un’espressione furbesca, di chi era appena diventato l’artefice di qualche marachella e una volta fuggito poteva finalmente godersi l’audacia delle sue gesta.
Ma cambiò non appena mi vide in viso, sgranando impercettibilmente gli occhi e schiudendo la bocca, prima tesa a formare un ghigno.
   << Isabella, tutto bene? >>, chiese forte e deciso.
Deglutii e presi un bel respiro. Dal di fuori dovevo essere sembrata parecchio agitata.
   << Si >>. La voce uscì roca, avvolta dalla paura che prima aveva saputo come prendere il controllo delle mie emozioni, ancora una volta.
   << Scusami, non volevo spaventarti >>.
Scossi la testa, se non altro per non aprire di nuovo bocca, ma quando vidi tornare a far capolino l’espressione birichina di poco prima, mi sentii costretta a muovere le labbra.
   << Che ci fai qui fuori? >>.
Si avvicinò di qualche passo, e solo allora mi accorsi di un pacchetto incartato in quello che sembrava essere un modo sbrigativo, tenuto insieme dalle sue mani.
   << Pensavo di farti compagnia. Ero andato in bagno, quando da quella finestra – alzò una mano per indicare la suddetta – ti ho vista qui da sola. Sono corso in sala, ho preso due pezzi di torta e me la sono svignata di nascosto >>, concluse, trionfante.
   << Sicuro che nessuno ti abbia visto? Nemmeno Bill? >>.
   << Bill sa fare molto bene il suo lavoro, ma io col tempo ho affinato la mia tecnica di fuggitivo >>, rise, ed io con lui.
Srotolò la carta che teneva tra le mani e mise in bella vista tutta la refurtiva che aveva portato con sé.
   << Tieni. Devi provare questa torta, è divina! Non avevo mai assaggiato l’accostamento mele e cocco, non sapevo nemmeno che potessero coesistere nella stessa torta, e invece mi sono dovuto ricredere. Ne ho già mangiati due pezzi >>.
Mi porse davanti agli occhi la protagonista di tanto clamore, quella che sembrava essere, da come ne aveva parlato, la torta più buona del mondo.
La mia.
Mi piegai in due, liberando la risata che era nata in me.
La situazione aveva un ché di surreale, mi sembrava di essere stata vittima di una candid camera e che da qualche parte qualcuno stesse ridendo del suo stesso scherzo. E invece era tutto reale, Michael aveva portato proprio la mia torta ed ora mi guardava con un sopracciglio alzato, confuso ma divertito.
Presi una fetta di torta e lo invitai a fare altrettanto con l’altra.
   << Sei molto gentile, riferirò alla cuoca i tuoi complimenti >>, dissi, prima di addentare un pezzo.
   << Aspetta … - rimase a guardarmi, mentre io me la ridevo sotto i baffi – l’hai fatta tu, non è vero? La torta è tua >>.
Sorrisi e annuii brevemente. Mise una mano davanti agli occhi e girò il viso da tutt’altra parte.
   << Non posso crederci, che figura! >>.
Ridemmo entrambi di quel momento buffo, mi servì per spezzare la tensione, non ancora sciolta dai muscoli del corpo.
   << Un giorno dovrai darmi la ricetta >>.
Aveva le sembianze di una promessa, non di una frase buttata lì da una Star.
   << È una ricetta segreta, mi spiace. Me l’ha tramandata mio padre ed io la tramanderò solo ai miei figli >>.
Non se la prese, anzi sorrise, con gli occhi e la bocca, guardandomi pensieroso dall’alto di quei pochi centimetri d’altezza che ci separavano.
Mangiammo in silenzio, in piedi una di fianco all’altro, infreddoliti e con il vento gelido che non aveva smesso un solo istante di soffiare, sempre più avido e arrabbiato nel colpire tutti i corpi animati e non, che ostacolavano il suo passaggio.
Michael aveva tenuto la testa alzata tutto il tempo, contemplando il fascino del cielo o forse immerso nei suoi stessi pensieri. Io invece lo guardavo di sottecchi, come presa da un’improvvisa esigenza di comprendere l’uomo al mio fianco e il suo strano modo d’essere, così fuori dal comune, così delicato.
Io e la delicatezza facevamo a pugni il più delle volte. Faticavo a trovarne anche un solo briciolo nelle persone, e quando poi me la ritrovavo davanti fuggivo via, disabituata a parole o gesti delicati. In verità, la paura era quella di essere “letta”, poiché solo chi possiede un animo sensibile è capace di vedere oltre, ma io mi nascondevo dietro il falso pensiero che scontrarsi contro la cruda realtà, contro l’arroganza di tutti i giorni era molto più facile per chi ogni giorno era costretto ad indossare una maschera come me.
La brutalità è un atteggiamento che ti permette di attaccare a tua volta, la sensibilità invece ti costringe ad abbassare la testa e a buttare le armi.

   << Quando è morto tuo padre? >>, chiese all’improvviso, senza dare un minimo di preavviso o lasciare un piccolo indizio.
Abbassai il capo, chiedendomi se valesse o meno la pena rispondere.
Non era un argomento che volevo affrontare, si scontrava troppo con ciò che ero diventata da qualche anno. Parlare di mio padre era causa di un’angoscia istantanea, di una consapevolezza che si presentava quando mi accorgevo per l’ennesima volta che non l’avrei più rivisto, che c’era stato ma che non c’era più e più ci sarebbe stato.
Avevo uno strano modo di affrontare il dolore, io. Quando me lo ritrovavo di fronte, invece di osservarlo, analizzarlo e lasciarlo confluire in me per comprenderlo e trovare un modo per andare avanti, gli voltavo le spalle testarda, risoluta nel non voler condividere il mio mondo con cose più grandi di me, come la morte di una persona cara.
Ancora adesso, parlarne mi costava caro. Preferivo pensare che non fosse mai successo, e che in fondo, non importasse poi tanto. Lasciare questi pensieri nella mia testa mi aiutava a non guardare negli occhi il dolore, perché dar loro voce significava parlare con il dolore stesso, dargli modo di esprimersi e di infiltrarsi in me, sbattendomi in faccia la realtà.
Ero quindi pronta a sviare quel discorso, a comportarmi dalla codarda che ero, ma le parole che uscirono sembrarono avere vita propria.
   << È successo il 13 aprile di diciotto anni fa. Io avevo all’incirca 7 anni >>.
Avevo sputato fuori quelle parole il più velocemente possibile, in modo da non lasciare il tempo al cervello di cambiare intenzione e tornare in modalità difesa. Sorprendentemente il tono era calmo e sereno, come il sole di inizio primavera, timido e un po’ fuori forma dopo essere stato tanto tempo in letargo.
   << Mio Dio, eri piccolissima >>, commentò aggrottando le sopracciglia.
   << Vero, ero solo una bambina >>.
   << Di cosa è morto? >>.
   << Oh, il termine scientifico sembra essere Leucemia mieloide acuta … ma questo l’ho imparato solo da qualche anno. Non mi è mai importato realmente di dare un nome alla malattia. Sapevo solo che qualcosa di cattivo stava facendo del male a mio padre e che quel qualcosa gli stava togliendo tutta la sua dignità – respirai, prima di continuare, bloccata da un improvviso macigno al petto - L’ho odiato! Avrei voluto affrontarlo faccia a faccia, intimargli di lasciar stare mio padre, ma combattere senza avere un avversario di fronte non ti farà mai vincere la partita. Per tanto tempo ho tirato pugni a vuoto, e alla fine, ho perso l’incontro >>.
Chiusi qualche attimo gli occhi, concentrandomi per rimanere controllata.
Dicono che basta poco per crollare, ma di solito a me bastava un niente.
   << Non c’era nulla che tu potessi fare realmente Isabella. Ma hai combattuto per lui, sei stata tenace per lui, e questo deve avergli dato molta forza fino all’ultimo istante della sua vita >>.
Era un pensiero quello che aveva lo stesso effetto di un balsamo lenitivo. 
   << Sono addolorato per la tua perdita. Eri troppo piccola. In tutto questo periodo deve esserti mancato molto >>.
   << Ci si abitua a tutto, Michael. Il tempo sa essere paziente con chi ha bisogno di guarire, alla fine lenisce qualsiasi dolore >>, risposi, atona.
   << Hai ragione – tornò a guardare davanti a sé, la voce divenuta flebile - è così che funziona. Purtroppo però, tu non sembri né abituata né guarita >>.
Strinsi i pugni, all’improvviso timorosa di uscire allo scoperto. Perché me lo diceva? Perché ciò che provavo doveva essere così tangibile solo a lui? Forse aveva qualche strano potere nascosto, forse riusciva ad intravedere al di là della facciata superficiale di chiunque, a scorgere ciò che si trovava nel profondo. O forse ero io che stavo abbassando le difese, che permettevo di far vedere oltre, di mettere a nudo qualsiasi cicatrice, stanca di quella serata troppo impegnativa a livello emotivo. 
Sentii l’impulso di coprirmi gli occhi con le mani, vergognosa di quello che mostravo, ma mi trattenni.
   << Lo ammetto, è vero, dentro di me sento ancora che avrei potuto fare di più, che sarebbe potuta andare diversamente. E che mi manca, molto … - dissi a fatica – Ma sono anche consapevole che se mi ci fermo a pensare torno ad essere la bambina di 7 anni che piangeva in ospedale, ed io non posso permettermelo, Michael, non adesso che ho altro su cui concentrarmi >>.

Altri dolori da nascondere.

Lo sentii annuire lentamente, come chi rimane sovrappensiero e non è più in pieno contatto con la realtà, ma con ciò che gli circola in testa.
Di sicuro, quella volta non avevo nascosto nulla, nulla che potesse trovarsi al riparo dentro la mia corazza. Alcune parti erano state lasciate libere apposta, alla mercé di un uomo che insisteva nel voler abbattere qualsiasi muro gli si ponesse sulla strada.
   << Concentrarsi su altro fa bene, lo so perché è una tecnica che uso anch’io - disse, qualche istante dopo – Vedi, a volte è l’unica cosa da fare, la più facile se vogliamo dirla tutta. Per quanto triste possa sembrare, ognuno ha i suoi problemi nel mondo, sono pochi quelli che li affrontano, molti preferiscono nascondersi >>.
Non gli dissi quanto avesse ragione dato che io per prima facevo parte dell'ultima categoria.
   << Tu dove ti nascondi? >>, chiese dopo un po’.
Aveva un tono che mi costrinse a girarmi. Non c'era accusa nei suoi occhi, anzi, era per la prima volta dopo quel lungo discorso, emozionato e curioso di scoprire qualcosa di nuovo e di importante, a giudicare dall'intensità dello sguardo.
Sorrisi inavvertitamente, posando l'attenzione sulle luci del cielo.
   << Dietro la lettura di un buon libro. Credo che le parole siano l’arte più preziosa e i libri lo strumento capace di rievocare e a volte addirittura creare immagini ed emozioni dal solo utilizzo di una parola o una frase ben formulata. Sono una via di fuga, un universo parallelo al nostro, inviolabile perché segreto ed intimo. È la solitudine di una compagna silenziosa che cura l’anima >>.
Mi rigirai verso di lui e lo trovai a guardarmi con il suo perenne sorriso sul volto. L’ombra di una qualche forma di emozione, forse l’empatia, a posarsi sul viso.

Chissà se anche lui è uno di quelli che si nascondono.

   << E tu ... tu anche ti nascondi? >>, azzardai, sentendomi subito dopo una stupida.
Lo guardai attentamente per osservare ogni sua reazione.
Mi sembrò di vederlo vacillare un attimo prima che la sua solita aria serena tornasse a far capolino sul suo viso.
Tuttavia non riuscii a scrollarmi di dosso la sensazione di aver oltrepassato un confine che doveva rimanere invalicato.
Mi sentii molto invadente, nonostante fosse stato lui il primo ad introdurre quell'argomento, spingendo il discorso in ambiti personali.
Come previsto non rispose, si limitò a sorridermi, forse indeciso se, per una volta, lasciare andare se stesso.

In preda alla più grande impazienza che avessi mai sperimentato, aspettavo di vederlo aprire bocca, di sentire quelle poche parole che, avevo come l’impressione, sarebbero state un tassello importante per spiegare il complesso puzzle che era quell’uomo.
E nel momento in cui stavo perdendo le speranze vidi schiudergli le labbra, lo sguardo più sereno, come avesse combattuto una grande battaglia e ne fosse uscito vincitore.
   << D… >>.
   << Michael! Eccoti, ti ho cercato dappertutto! >>.
Bill ci raggiunse con la stessa ferocia che la sua imponente mole era in grado di mostrare.
Michael si alzò all’istante. Avrei voluto vedere la sua espressione ma ciò non mi fu concesso perché mi diede le spalle ed io mi ritrovai a pensare che forse quel puzzle non sarei mai riuscita a completarlo. Non mi chiesi perché ne sentii il bisogno, preferii non farlo.
Tornammo insieme alla sala principale dove Jay era pronto ad intrattenere i bambini con il suo costume da Babbo Natale.

Michael era tornato a sorridere come se nulla fosse successo e la cosa mi infastidì parecchio.
Avevo rivelato molto di me stessa, più di quanto avessi mai fatto con estranei, e l’ultimo discorso era rimasto in un angolo piuttosto attivo della mia mente, esposto fin troppo da non lasciare spazio ad altri pensieri di intrufolarsi e permettermi di distrarmi.
Fu così per quasi tutta la serata, fino a quando, finito ogni spettacolo, incrociammo gli occhi e i suoi sembravano volessero rivelarmi qualcosa di segreto che non riuscii a comprendere, né trovai un qualche indizio nel sorriso che mi rivolse.
Tuttavia, il nero di quello sguardo mi parve più scuro del solito, e il sorriso, solitamente aperto a distendergli in pieno le labbra, adesso soltanto accennato, fermato da qualche forza invisibile che lo rendeva spento e in costante conflitto con se stesso.

 


*Spazio autrice:

Ci ho messo una vita a finire questo capitolo, ne sono a corrente.
E purtroppo devo dire che sarà così anche per i prossimi capitoli, non credo che riuscirò ad aggiornare con una certa regolarità a causa di impegni lavorativi che mi tolgono quel poco tempo libero che ho.
Mi sembrava giusto informarvi di ciò.
Per il resto, buona lettura e un bacio a tutti.
Martina <3

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Capitolo 7
*** Between mother and daughter ***





Dietro ad un sorriso

Capitolo 5 – Between mother and  daughter

 

 

 

Fu tra i timidi raggi del sole invernale, filtrati dolcemente dalla finestra chiusa, che mi risvegliai il giorno di Natale.
Stiracchiandomi per sciogliere la tensione dei muscoli e rilassata grazie a un sonno ristoratore, mi sentii quasi in pace con me stessa.
Ero pronta a scendere di sotto e preparare il pranzo - perché si sa, quello di Natale si inizia rigorosamente di mattina - ma le mattine d’inverno sono fatte apposta per godere di quel torpore riscaldante, ed io faticavo a lasciarlo andare.
Mi trovavo nella mia vecchia stanza a casa di mia madre, sdraiata sul mio minuscolo letto da una piazza a guardare il color pesca del soffitto. Erano ormai parecchi anni che non vivevo in quella casa, la vita al college l’avevo trascorsa in un dormitorio universitario e, successivamente, avevo preso in affitto la mia attuale residenza.
Tuttavia, tutto ciò che arredava la mia vecchia cameretta era lì intorno a me, completamente intatto, e nostalgico come un tuffo al cuore. Avevo sempre considerato strano e piuttosto contraddittorio il fatto che, nonostante fossi rimasta così attaccata al passato, avessi infine deciso di andare a vivere da sola.
In fondo, non era nel mio carattere.
Avevo la mania di conservare tutto quello che per me aveva avuto un rilevante significato nella mia vita, che facesse parte di un bello o di un cattivo ricordo. Di sicuro non sfioravo nemmeno il livello patologico ma avevo sempre avvertito una certa angoscia nel buttare le cose. Era il gesto a sconcertarmi, aveva la stessa potente brutalità dell’abbandono.
Quindi, quando mi trasferii nella mia nuova casa, mi ci volle del tempo per capire che il passato avrebbe vissuto per sempre nei ricordi della mia memoria, prima ancora che attraverso una foto cartacea o un oggetto materiale. A quel punto fu come ritrovare me stessa, dopo avermi creduta persa, e cominciai a costruire nuovi ricordi nella mia nuova vita.
Ma la vigilia di Natale tornavo sempre a dormire da mia madre, trascorrendo insieme quella serata speciale davanti al camino scoppiettante della sala, sedute sul divano a guardare un bel film con in mano un bicchiere di vino rosso e la nostra reciproca compagnia.
Erano momenti che, ripetuti nel tempo, assumevano la stessa esplosiva emozione che si prova nell’attesa impaziente di un evento segnato sul calendario; sai che arriverà ma conti i giorni e poi le ore, e ti sembrerà sempre troppo lontano.
Allo stesso modo aspettai l’arrivo dolce alle mie narici del profumo di pancakes alla vaniglia e l’odore amaro, ma così rassicurante, del caffè. Per me era l’odore di casa.
Sorrisi quando ne avvertii i primi sentori.

Mi alzai svogliatamente, cercando invano di reprimere i numerosi brividi che avevano invaso la pelle.
L’immagine di mia madre seduta a sorseggiare il suo caffè con in mano il quotidiano locale, mi riempì all’istante il cuore di familiarità, e quando incrociammo gli occhi ci salutammo, complici, silenziosamente.
Trovai tutto apparecchiato per fare colazione, come succedeva quando ancora abitavo con lei.
   << Pronta a cucinare, Isa? >>.
   << Lo sai che non mi tiro mai indietro davanti ai fornelli >>, risposi, prendendo un pezzo di pancake e assaporandone il gusto.
   << Oh lo so bene, è così più o meno da quando eri piccolissima. Solo che allora quello che cucinavi andava a finire nel secchio dell’immondizia, mentre adesso sei una cuoca formidabile >>.
   << Per caso stai cercando di comprarmi per far cucinare tutto a me? >>, domandai, assottigliando gli occhi.
   << Certo che no, stavo solamente constatando l’evidenza. Ti manca soltanto trovare marito >>, rise, spudoratamente.
Roteai gli occhi, certe allusioni me le propinava da una vita oramai. Per lei doveva apparire tutto facile, evidentemente. Da come parlava di certi argomenti sembrava che non ci fossero ostacoli di alcuna sorta per la realizzazione di quello che diceva. Ero solita risponderle che la felicità non si conquista così facilmente con lo schiocco delle dita, ma da tempo ormai mi limitavo a lasciarla parlare liberamente, aspettando con pazienza il momento in cui avrebbe capito che anche quella volta non gliela avrei data vinta.
Finii di bere il mio caffè con una punta di soddisfazione nel sentire il caldo della bevanda contrastare il freddo della mattina.
Ero pronta a mettermi a lavoro, e stavo per farlo, se non che gli occhi di mia madre fissi su di me mi immobilizzarono sulla sedia.
   << Che c’è? >>.
   << Pensavo che mi avresti rimproverata, che mi avresti urlato contro per averti costretta ad incontrare qualcuno di cui non hai mai voluto nemmeno nominare il nome. E invece niente, da quando ci siamo viste non ne hai mai fatto parola >>.
   << Non avevo molto da dire >>.
Spostò per poco gli occhi al soffitto, liberando una piccola risata sarcastica.
   << Oh andiamo Isabella, sono tua madre. La cosa potrà darti fastidio, in fondo sei sempre stata una ribelle, ma la verità è che ti conosco abbastanza da capire che qualcosa è cambiato, seppur in minima parte. Scommetto che non era quello che ti aspettavi, non era poi quel mostro che avevi sempre immaginato fosse >>.
Cominciava ad andarmi scomoda quella conversazione, soprattutto perché fino ad allora non aveva sbagliato di una virgola. Ma ammetterlo proprio a colei alla quale avevo sempre dichiarato il contrario mi suonava quasi come una sconfitta; l’orgoglio era pronto a difendersi a qualsiasi costo e con qualsiasi scusa.
   << È vero, ma ci sono persone che sanno fingere molto bene la loro parte e - >>.
   << Come te in questo momento >>, mi interruppe all’istante ed io rinunciai a finire la frase.
Mi limitai a guardarla, mettendo leggermente il broncio.
Era inutile combattere contro chi di te conosceva ogni singolo aspetto. Sarebbe stata una battaglia persa in partenza.
   << Mi arrendo – abbassai il tono di voce, non avevo più nulla da dimostrare – Michael è stato molto gentile quella sera. Ammetto che ci sono state cose sul suo conto che mi hanno stupito ed incuriosito, come il discorso sull’infanzia e sul fatto che lui non ne abbia mai posseduta una. Non ho nemmeno trovato tratti della Star schiva e pazzoide che i giornali hanno sempre dipinto sui loro articoli. Ma sono dell’opinione che poche ore non bastino per conoscere a fondo una persona. Nonostante l’idea che ho avuto su di lui durante la festa di Natale, strida con l’immagine del pedofilo con la quale l’ho sempre rappresentato, è pur vero che molte cose possono essere state forzate ed inventate >>.
Le ultime parole gracchiavano persino alle mie orecchie, ma non erano poi tanto sbagliate. Si trovavano maschere ed apparenza costantemente in giro, nelle persone comuni, quindi perché mai una persona dello spettacolo non avrebbe dovuto fingere un ruolo che non gli apparteneva?
   << Di tutta quella serata, è questa la tua conclusione? >>, domandò e dal tono che usò mi costrinse a riporle tutta la mia attenzione.
   << Si, perché? >>. Alzai un sopracciglio in fare interrogativo e confuso.
   << Niente … è una conclusione fredda, mi lascia spiazzata >>.
Sperai di aver sentito male.
   << Ma davvero? E cosa pensavi, che da un momento all’altro avrei cambiato completamente opinione su di lui? Non sono così sciocc - >>, non mi lasciò finire.
   << L’hai visto negli occhi? Hai fatto ciò che ti dissi, hai provato a guardare oltre? >>, il tono alto di voce era più implorante che adirato.
Mi zittii e lasciai che le sue parole facessero emergere il ricordo di un viso divenuto familiare.
Esplose senza preavviso nella mia mente e ne subii inerme gli effetti.
Sapevo cosa esprimevano quegli occhi, era talmente evidente che neppure io ero riuscita a negarne il tormento che affliggeva la loro vista. Non ero cieca e nemmeno così cinica da denigrare una tale condizione di solitudine e di esasperazione. No, non avrei mai potuto affermare il contrario dopo che quella tristezza un po’ mi era stata raccontata.
Mia madre aveva ancora lo sguardo fisso su di me, e non capivo se fosse di rimprovero o per delusione. Mi infastidiva in entrambi i casi.
   << Credi che non l’abbia fatto? Mi ci sono imbattuta in quegli occhi più del dovuto – stavo quasi per annegarci dentro – e ho visto che ci sono sofferenze più profonde di quelle che avrei immaginato, radicate nel passato e non più removibili. Non credere che io non abbia forza e volontà necessari che guardare oltre, molte volte certi pensieri me li tengo solo per me e risulto fredda, ma la realtà è ben diversa >>. Il tono calmo e neutro con cui le risposi, stupì anche me.
   << Oh tesoro >>, spostò la mano in direzione della mia, stringendola dolcemente, un gesto così caloroso che mi rasserenò all’istante. << Lo so bene questo. Vorrei solamente che ti sforzassi di parlare di più, il nostro rapporto è molto cambiato negli ultimi anni. So che tante cose non torneranno come prima ma certe volte mi manca quella ragazza solare e avventurosa che mi faceva preoccupare, e mi mancano le lunghe chiacchierate tra noi due sole. Certe volte mi manca mia figlia >>.
Strinsi le labbra per contenere le emozioni.
Adesso capii che lo sguardo di prima era di delusione.
Voleva sua figlia indietro ed io glielo negavo in continuazione.
Anche io ero delusa da me stessa.
   << Scusami, io ci sto provando, davvero. Ci proverò ancora di più a lasciarmi andare, ok? >>, risposi con forza alla sua stretta di mano, volevo infonderle un po’ di speranza, ma le mie dita sembrava stessero per tremare, e forse non riuscii a sembrare così fiduciosa come volevo essere.
Tuttavia mia madre sorrise sincera e soddisfatta di quelle poche parole. Aveva completa fiducia in me, l’aveva sempre avuta, ed anche se così non fosse stato avrebbe cercato di infonderla in me, perché mai mi avrebbe abbandonata.
Questa era una delle poche certezze della mia vita.
   << Tu sei innamorata di quell’uomo, non è vero? >>, le chiesi per spezzare la tensione ed anche desiderosa di togliermi una curiosità da tempo avuta.
La sentii ridere di gusto, per nulla imbarazzata, solo realmente divertita.
   << Ebbene si, lo ammetto! Ma non nel senso che intendi tu. Io sono innamorata degli uomini che hanno quella speciale sensibilità d’animo. Sono talmente rari! Per me sono gli Uomini con la U maiuscola. Hanno un modo diverso di vedere il mondo, più umile e più rispettoso. So che la società di oggi misura la forza di un uomo dal suo livello economico e di potere ma i soldi ti proteggono solo dalla fame e non dalla solitudine. Un uomo vero non avrà molto da offrirti ma ti saprà rispettare perché è abituato a rispettare il mondo in cui abita. Capisci cosa intendo? >>, finì con voce sicura.
Annuii ancora prima di parlare, intenta ad ammirare il viso emozionato di mia madre e la fermezza della sue parole.
   << Ho capito, mamma >>, le sorrisi, lasciandole andare la mano per accomodarmi meglio sulla sedia.
Rimanemmo per poco tempo in silenzio, continuando a consumare la nostra colazione.
   << Comunque non ho nulla di cui rimproverarti, a parte il fatto che tu abbia parlato di me a Michael. Non voglio nemmeno immaginare che cosa gli hai detto, non avresti dovuto farlo, non ce n’era motivo >>.
Si sporse un poco in avanti ed io appresso a lei.
   << Tesoro non gli ho detto nulla di così personale, se è questo quello che ti preoccupa. E comunque è stato lui a chiedermi di te >>.
   << Cosa?! >>, esclamai esterrefatta. Mi suonava talmente assurdo ed incomprensibile, mi aveva lasciata spiazzata ed immobile sul posto.
Annuì vigorosamente con la testa, poggiando i gomiti sul tavolo.
   << Si, mi ha chiesto di te dopo che ti eri rifiutata di avvicinarti a noi sotto nostro invito. Devi averlo stupito. Se ci pensi è stato circondato tutta la serata da persone che gli facevano domande improponibili, sguardi che lo seguivano ovunque. La gente faceva a gara per avvicinarsi il più possibile e parlare con lui; tu invece ti sei addirittura allontanata di tua spontanea volontà, rifiutando il suo invito. Devi essere stata l’unica a non avergli chiesto l’autografo a fine serata. Non è una cosa da poco >>.
Ascoltandola mi resi conto che le sue parole avevano un certo senso. Era chiaro che dovevo aver scatenato qualche sospetto e una buona dose di curiosità. Alla fine il mio piano di passare del tutto inosservata, lontana dall’origine della mia irritazione, mi si era addirittura rivoltato contro e la cosa non mi stupiva nemmeno. Sembrava che me le cercassi, ogni volta. Stavo cominciando ad abituarmi.
   << Sorpresa? >>, sentii chiederle.
Feci di no con la testa, assorbita dai miei pensieri.
   << Cosa ti ha chiesto di preciso? >>.
   << All’inizio si è premurato di sapere se avesse detto o fatto qualcosa che avesse potuto darti fastidio. Ma dopo averlo rasserenato asserendo che lui non c’entrava nulla, mi ha chiesto la causa di quell’aria triste in un giorno di festa. Tranquilla, non gli ho rivelato nulla di sconveniente, ma non deve essere rimasto molto convinto visto che, a quanto pare, si è interessato molto a te >>.
Finì con un ultimo sorso la sua tazza di caffè e si alzò dal tavolo.
   << Ma perché proprio a me? Ero la persona meno indicata con cui parlare quella sera. Volevo soltanto starmene da sola e di certo non l’ho nascosto, quindi perché avrebbe dovuto disturbare proprio me? >>.
   << Non credo che disturbare sia il verbo adatto. Ad ogni modo, di solito si “disturba” chi sentiamo più affini al nostro essere. Chi ci ricorda parti preponderanti o nascoste del nostro vero io. Deve aver visto un po’ di se stesso in quei tuoi occhi verdi >>.
Spostai lo sguardo accigliato sulla sedia rimasta vuota, davanti a me.
Il pensiero di avere lati in comune, aspetti non del tutto felici che tormentavano sia me che lui, mi era già piombato addosso quella sera all’orfanotrofio. L’avevo visto fragile come una foglia appena staccata dal ramo, ancora in volo, ignara di come sarà l’atterraggio. Ma la prospettiva che fosse invece lui a vedere la mia fragilità era stato solo un pensiero fugace, a cui non avevo dato molto peso. Io osservavo molto, ma quella sera non avevo osservato abbastanza. Forse aveva fatto di me il suo oggetto di studio come io l’avevo studiato per tutto il tempo che era trascorso. Ed era riuscito a scoprire qualcosa, furbescamente. Doveva essere un maestro in questo, molto più di me che mi vantavo di sapere come chiudere al di fuori qualsiasi emozione e qualsiasi cedimento.
   << Isabella? >>.
A fatica tornai a riporre l’attenzione su mia madre.
   << Che c’è? >>.
   << Vorrei che adesso mi aiutassi a preparare il pranzo, prima che arrivino gli ospiti. E vorrei che non ti preoccupassi molto di ciò che è successo alla festa – si girò a guardarmi, seria come non l’avevo mai vista - In fondo Isa, è Michael Jackson, non lo rivedremo mai più >>.
L’avevo già detto anch’io una volta, dopo averlo incontrato. La prima volta fu una consapevolezza che riuscì a rasserenarmi; questa volta si tramutò in qualcosa di pesante, perché quando mi alzai per aiutare mia madre, mi sentii schiacciata dal solo pensiero.

 

***

 

Quel Natale passò più velocemente del previsto, tra chiacchiere e strani pensieri che sbucavano fuori nei momenti meno opportuni.
Era stata una settimana piuttosto bizzarra, piena di eventi, come non mi capitava da una vita; ero stata costretta ad assumerne il ritmo frenetico e alla fine, mentre parcheggiavo nel vialetto di casa mia, tutto lo stress accumulato sembrò ricadermi sulle spalle, inavvertitamente.
Chiusi la macchina e mi incamminai piano, non avevo fretta di lasciarmi il freddo dietro, anzi era piacevole avvertirlo sotto il pesante giubbotto, mi aiutava a tenere lucida la mente.
Fu solo per semplice abitudine che controllai la cassetta della posta. Non ricevevo molte lettere di entità affettiva, per lo più si trattava delle immancabili bollette da pagare, di quelle che si trovavano a bizzeffe ormai.
Anche stavolta me ne ritrovai una in mano, ma fu l’unica, perché le altre due non avevano nulla a che vedere con la prima.
Una di esse mi era stata inviata dall’ UCLA, l’università di Los Angeles.

Strano, pensai. Non avevo più rapporti con loro da circa un anno, quando finii un corso di specializzazione nel campo in cui avevo studiato ed ora lavoravo: medicina veterinaria.
Tuttavia, non mi soffermai a prestarle la giusta considerazione, un pacco confezionato con un fiocco rosso di seta e la carta lucida color oro, aveva attirato il mio interesse.
Aveva l’aspetto di un regalo e certamente doveva essere così, considerando il periodo natalizio. Non avevo mai ricevuto un regalo via posta, stavo morendo dalla voglia di scoprire cosa ci fosse dentro e chi lo avesse spedito.
Dimenticai il freddo alle spalle e raggiunsi in fretta l’interno dell’abitazione.
Buttai incurante le altre lettere sul tavolino dinanzi al divano ed osservai il regalo.
Non c’era nessun biglietto, nessun nome scritto sulla carta elegante che avvolgeva l’oggetto misterioso.
Dentro di me scalpitavo per sapere di cosa si trattasse, eppure lo scartai piano e con cura, attenta a non rovinare qualsiasi cosa ci fosse all’interno.
L’oggetto si rivelò essere un libro dal titolo tanto semplice quanto accattivante.
Recitava: “La meccanica del cuore” di Mathias Malzieu.
Non ne avevo mai sentito parlare.
Mi presi pochi attimi per ammirare la copertina deliziosamente disegnata e poi lo aprii.
Quando vidi delle frasi scritte a penna capii che la risposta si trovava in quelle poche righe.
Lessi:

 
Mi sono immerso in questo libro
E ne ho letto la magia.
Della meccanica del cuore
Sono solo un novello anch’io
Ma la storia che leggerai
Ti stringerà forte proprio nel petto
E spero che tra le frasi di queste pagine
Troverai un po’ di te stessa
E di ciò che vorresti essere.

 Buon Natale Isabella,
Ti voglio bene.

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Lessi ancora, e ancora, e ancora. E dopo l’ennesima volta mi convinsi di ciò che avevo tra le mani, di essere sveglia nel salotto di casa, di non stare a sognare.
Di lì fino al momento in cui mi addormentai, non pensai ad altro.


 

*Spazio autrice:

Ho un appunto importantissimo da fare.
Se non avete mai letto questo libro … LEGGETELO!
È stupendo, segue uno stile di scrittura fantasioso, sembra di immergersi nelle atmosfere tenebrose di un film di Tim Burton. Lo consiglio vivamente.
Detto questo non ho altro da aggiungere, se non grazie, come sempre, della lettura.
Un abbraccio,
Martina.

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Capitolo 8
*** Life's a Choice ***


DAUS cap 6




Dietro ad un sorriso

Capitolo 6 – Life’s a Choice

 

 


 

Uno, due, tre minuti – o forse anche dieci – chi sapeva quanto tempo era passato, quanti secondi avevano scandito il ritmo del duello che stava avendo luogo in quel momento. Non era certo un combattimento all’ultimo sangue, ma entrambi i contendenti potevano giudicarsi testardi, risoluti e fermi sulla loro posizione.
L’incontro vedeva alle due estremità: me stessa, seduta placidamente sulla poltrona del salotto – Vs. – libro di Michael, posato sul tavolino di fronte, esposto alla vista della sottoscritta.
Non l’avevo più aperto dopo aver letto la dedica, e non perché non morissi dalla curiosità di farlo, piuttosto quelle parole, quel pensiero, risuonavano nella mia testa come un grande e irrisolto “perché?”. Era un punto di domanda che non riuscivo ad ignorare, seppure avessi cercato di farlo. Non mi capacitavo di un tale gesto, di avermi fatto un regalo per Natale, di essere stata nei suoi pensieri.

Di fianco al libro, invece, c’era la lettera dell’Università, ed anche lì un grande punto interrogativo mi affliggeva. Ero stata invitata a prendere parte ad un corso di specializzazione sugli animali esotici. Ai tempi in cui mi laureai ero riuscita a classificarmi tra le più brave della mia facoltà e ricevevo spesso quei tipi di inviti. Il più delle volte erano corsi di approfondimento che in realtà non aggiungevano nulla di nuovo al percorso di studio già intrapreso. Questa volta però si trattava di studiare un campo di cui ero da sempre rimasta affascinata, ed era un’occasione d’oro per approcciarsi ad una realtà non sempre accolta dai veterinari comuni, lo studio di altre specie di animali. Certo anche io amavo cani e gatti, ma non volevo fermarmi solo a quello.
Tuttavia il corso si teneva in Florida, dall’altra parte degli Stati Uniti, in un centro specializzato nella cura di animali non considerati domestici, e si sarebbe concluso in cinque mesi, verso la fine della primavera.
L’idea di lasciare Los Angeles, gli affetti e la sicurezza della mia casa per tutto quel tempo, mi faceva desistere dall’accettare.
Non sapevo proprio che decisione prendere e l’essere indecisa per natura non mi aiutava per niente.

- Din Don –

   << Arrivo! >>.
Spalancai la porta accogliendo il sorriso sornione di Jay. Portava un cappellino di lana che ricopriva i riccioli dorati di cui era provvisto e un giubbotto di piumino per ripararsi dal freddo. Non era mai stato molto attento a quella che si definiva “moda” ma non era un punto che andava a suo sfavore, anzi. Molte ragazze mi avevano confidato di trovarlo bello e affascinante, nonché capace di far divertire in qualsiasi momento con la sua naturale allegria. Io le ascoltavo e sorridevo, perché cercavo di aiutarlo a trovare la sua anima gemella, di renderlo felice, ma lui rifiutava ogni avance sempre con risoluta determinazione. Allora mi rabbuiavo, incapace di capirlo, chiedendogli il motivo di tanta riluttanza, lui che non aveva problemi a socializzare e che avrebbe potuto avere qualsiasi donna ai suoi piedi.
Solo una volta mi diede una sottospecie di risposta; una sera, seduti soli sul dondolo davanti casa, ne approfittai per iniziare il discorso. Mi disse solo: “sto aspettando una persona”, ed io non indagai oltre.
   << Ehi, buon Natale, Santa Claus! >>, lo presi in giro.
Storse il naso, non molto divertito.
   << A proposito di questo, come mai quest’anno non sei venuta a sederti sulle mie gambe ad esprimere il tuo desiderio? Anzi non mi hai proprio degnato di uno sguardo. Non si fa così, cara Bee >>.
Mosse il dito facendo segno negativo, tenendo l’altra mano nascosta dietro la schiena.
   << Oh avanti, sembra quasi che tu sia geloso >>, misi le braccia conserte e provai a stuzzicarlo.
   << Forse lo sono >>.
Rimasi a guardarlo cercando qualche indizio che mi facesse capire che stesse scherzando.
Non ne trovai.
   << Andiamo Jay, sai già quanto fossi scossa quel giorno. Magari avevo la testa da tutt’altra parte, non farne un caso drammatico. E poi, geloso di cosa? >>.
Attesi la risposta. Alla fine scosse la testa.
   << Di nulla. Buon Natale, Bee >>.
Mi porse un cofanetto di forma rettangolare, formato da un tessuto vellutato color rubino. Aveva l’aspetto formale ed elegante, già pregustavo quale magnifico oggetto avessi ricevuto in regalo.
   << Che cos’è? >>, chiesi mentre lo studiavo con gli occhi.
   << Dai aprilo >>. Mi apparse impaziente, come mai lo avevo visto.
Spostava continuamente il peso del corpo da un piede all’altro in una danza scomposta e disordinata.
   << E va bene, va bene! Dammi un attimo >>.
Tolsi il fiocco di seta che avvolgeva il velluto, e lo aprii.
   << Che te ne pare? >>, mi chiese, non appena posai gli occhi sull’oggetto contenuto.
Mi presi del tempo prima di rispondere. La sorpresa di ritrovarmi quel bellissimo regalo tra le mani mi lasciò senza fiato.
Era un bracciale, probabilmente d’oro, formato da una maglia fine come una catenina, nella quale era appeso un charm: una piccola ape con le ali spiegate, e il nero e il giallo del dorso ben in vista.
   << È bellissimo Jay! È stupendo, grazie >>.
Lo abbracciai d’istinto, senza remore o incertezze, con lui era un gesto che mi veniva spontaneo come respirare.
   << Beh, quale altro modo per onorare il tuo soprannome se non regalandoti il significato di esso? Non sei d’accordo, piccola Bee*? >>.
Gli diedi un buffetto sulla spalla, cercando di sdrammatizzare per non lasciarmi coinvolgere dall’emozione del momento. Mi piaceva il mio soprannome e mi piaceva il fatto che solo lui mi chiamasse così.
   << Come potrei non esserlo? Vieni dentro, forza, fuori fa freddo >>.
Riposi il cofanetto su uno scaffale della libreria e presi il regalo per Jay, rimasto tutto solo sotto l’albero.
   << E questo è per te >>, glielo porsi con molta soddisfazione. Adoravo fare regali, la felicità causata ad altri e nata da un proprio gesto è un’emozione incommensurabile, inebriante.
   << Vediamo un po’, deve essere un altro dei tuoi regali sui Beatles >>.
Il luccichio negli occhi era di riso e di un bonario rimprovero.
Non provai a contraddirlo perché si rivelò essere esattamente quello che aveva predetto. Mi ringraziò con un bacio sulla guancia e il momento dei regali si concluse con quel gesto.
   << Mi dispiace per non essere passato prima a farti gli auguri, ho avuto alcuni impegni da sbrigare, e poi mia madre mi ha sballottato a destra e a manca per andare a trovare parenti di cui nemmeno conoscevo l’esistenza. Insomma il solito inferno natalizio >>.
   << Beh, sei un uomo adulto, sei capace di dire di no? >>.
   << No – cioè sì – certo che ne sono capace, ma si da' il caso che ci siano due persone alle quali io non riesca a dire di no >>, rispose con un sorriso beffardo.
Lo imitai, lusingata, anche se incredula. Non credevo di avere un tale potere su di lui, difatti non capii se fosse uno scherzo o meno.
   << La vuoi una tazza di tè? Ne ho uno buonissimo dal sapore agrumato >>.
   << Accetto l’offerta >>.
Feci accomodare Jay sul divano e mi spostai in cucina a preparare la teiera.
Sentii accendere la televisione e passare da canale in canale, fino a fermarsi in quello che doveva essere un programma musicale. Sapevo già quanto fosse speranzoso di trovare una canzone dei Beatles ma le sue speranze furono vane perché dal rumore assordante che riuscivo a percepire quella musica doveva essere tutt’altro che del gruppo di Liverpool.
Aspettai quei pochi minuti necessari per la preparazione del tè e fui pronta per raggiungere Jay.
   << Il tè è pronto, vedrai quanto è buon- che fai? >>.
Mi fermai sotto l’arco che divideva cucina e salotto e osservai Jay tenere con una mano il libro regalatomi da Michael e con l’altra mano riposare velocemente in tasca quello che sembrava essere un piccolo biglietto.
   << Niente >>, fu la risposta repentina.
Non mi mossi, perché avevo lo strano presentimento che non fosse la verità.
   << Cos’era quel bigliettino? >>.
   << Questo? – cacciò fuori il pezzetto di carta e lo ripose immediatamente dopo – Non è niente, solo la lista della spesa che mi ha scritto mia madre >>.
Annuii, lenta.
Che stupida, non sapevo che cosa mi fosse preso. Mi ero lasciata ingannare dalla faccia sorpresa di Jay e dalla rapidità del movimento, sembrava lo avessi colto in flagrante quando in verità dovevo solo averlo spaventato.
   << Scusami, qualunque cosa sia non sono affari miei >>.
Mi avvicinai al tavolino e posai il vassoio con le due tazze .
   << Non dire così, sai che non è vero. Comunque, mi hai spaventato. Stavo leggendo la trama di questo libro, sembra interessante >>.
Guardai vagamente il disegno che ricopriva l’intera copertina. Lo conoscevo in ogni minuscolo dettaglio come una foto ricordo stampata direttamente all’interno della mia memoria.
   << Non saprei, ancora non ho iniziato a leggerlo, l’ho ricevuto in regalo solo ieri. >>.

Non mi chiedere da chi …
Non mi chiedere da chi …
Non mi chiedere da chi …

   << Da chi? >>.
Perché mi sentissi a disagio nel rispondere a quella domanda non avrei saputo davvero dirlo. 
   << Non mi crederesti mai >>.
   << Provami >>, rispose, con la solita faccia da schiaffi, ormai appurata negli anni e divenuta suo marchio di fabbrica.
Mi accomodai sulla poltrona vicino al divano, lo feci con una lentezza che doveva per forza di cose risultare esasperante per il mio interlocutore, ma mi serviva per tenere sotto controllo il nervosismo che quella rivelazione avrebbe provocato.
Misi lo zucchero nelle tazze – un cucchiaino per Jay e due per me, che amavo assaporare la dolcezza di ogni bevanda calda – mescolai con cura e quando gli porsi la sua tazza, Jay era già pronto ad accoglierla, lo sguardo fisso e attento su di me.
   << Me l’ha regalato Michael >>, mi spostai una ciocca di capelli, tesa.
Jay non fece una piega. << Cioè, intendo Michael Jackson >>, aggiunsi infine, per togliere ogni dubbio e aspettando paziente le mille domande che di lì in poi mi sarebbero piombate addosso.
Così non avvenne. La sua espressione non mutò se non di uno stupore che sembrava ostentato più che spontaneo, come quel “wow” che gli sentii pronunciare qualche secondo dopo. Era solo un’esclamazione fine a se stessa.
Per qualche strano motivo facevo fatica a respirare, avevo la sensazione che non ci fosse abbastanza ossigeno in quella stanza.
Blaterai giusto un fievole “già” e poi calò il silenzio.
Bevemmo solitari il nostro tè, ascoltando per nulla interessati la voce della televisione che divulgava l’ennesima notizia sulla politica.
   << Cavolo, è fantastico, eh? Michael Jackson che ti manda un regalo >>.
Avrei detto incredibile più che fantastico ma non era il caso di puntualizzare.
Esordii con un altro dei miei “già”, attirando l’attenzione di Jay.
   << C’è qualcosa che dovrei sapere? >>, chiese in tono neutro.
   << Certo che no, nulla di importante. Abbiamo solo parlato per un po’ di tempo, nient’altro >>.
L’avrei definita una mezza verità, non completamente sincera ma neanche il contrario.
   << E comunque è solo un regalo Jay, per cui tranquillo, so che sei entrato in modalità “fratello protettivo”. Pensa che l’ho trovato imbucato nella cassetta della posta, con una semplice dedica all’interno e basta, né un indizio né un numero di telefono per ringraziarlo. È un gesto carino, ma finisce qua >>.
Rise freddamente girandosi a guardare la televisione, scuotendo la testa.
   << Come sei ingenua >>.
Aspettai di sentire altro che spiegasse quella frase improvvisa e rimasi per poco tempo a guardargli il profilo adulto, la fronte coperta da pochi ciuffi dorati e il naso pronunciato a seguire una linea dritta. Non parlò più ed io mi sentii offesa, perché tra tutte le verità che avrebbe potuto dire quella aveva un suono sarcastico.
Mi ero innervosita, non capivo metà dei suoi comportamenti quella sera.
Presi le nostre due tazze e le posai sul vassoio per andare a posarle in cucina ed uscire da quella stanza.
   << Aspetta >>, la voce di Jay mi fermò, così come la sua mano che ora indicava un punto preciso dinanzi a sé.
Seguii la sua direzione trovando le immagini televisive di una bellissima casa vista dall’alto di un elicottero, circondata da un grandissimo prato verde.
Si vedeva in lontananza un parco giochi e lunghi sentieri contornati da fiori di ogni colore.
L’avevo già vista altre volte su foto di giornali e in televisione, ma non ricordavo in quale occasione.
Il luogo di per sé trasmetteva calma e serenità ma la notizia che seguì mi gelò sul posto.

   “Sembrerebbe essere questo il declino di una Star nata sotto i riflettori e che ci incollava ai teleschermi per ballare con la sua orda di zombie ballerini. Un decennio dopo, il King of Pop, Michael Jackson, si ritrova con una recente accusa di pedofilia enunciata dal padre del piccolo Jordan Chandler, ma non solo. Dallo staff manageriale del signor Jackson ci arrivano notizie che la Star avrebbe da poco lasciato la sua abitazione di Neverland, nella contea di Santa Barbara, per alloggiare fino a tempo indefinito in un centro di riabilitazione per la disintossicazione da farmaci antidolorifici. Un’altra battaglia attende ora il King of Pop, ma ci chiediamo se alla fine ne verrà fuori un po’ di luce o se questo non sia altro che l’inizio della fine per Jacko.”

L’ultima immagine era il fotogramma di un sorriso limpido e dalle labbra distese che ricordavo molto bene. Anche gli occhi erano gli stessi, non guardavano nella telecamera, non l’avevano mai fatto durante l’intero servizio, nei vari stralci presi dalla sua vita quotidiana.
Pensai che doveva essere uno scherzo o una bufala inventata dalla rete televisiva, il che era assurdo, considerando che fino a qualche giorno fa non avrei mai obiettato sulle cose dette sul suo conto, anzi avrei rincarato la dose.
Però stavolta lo feci, perché sperai soprattutto che non stesse così male. La foglia tremolante sembrava pronta per atterrare e non nel migliore dei modi. E se non ce l’avesse fatta a proteggersi a dovere? Avrebbe rischiato di veder rompere i suoi filamenti e divenire secca, dimenticata e abbandonata.
Ma era possibile per uno come lui? 

   << Alla fine le fragilità vengono sempre a galla, ci si deve fare i conti prima o poi >>.
Spostai gli occhi su Jay rimasto a guardare immobile come una statua lo scorrere delle immagini che ora raccontavano un’altra notizia. 
   << Il Re sta per abdicare >>, concluse.
Se prima avevo un peso, adesso sentivo un macigno.
La crudeltà di quelle parole mi scosse, ne avvertii l’amara veridicità ma per qualche ragione mi imposi di non creder loro.
Mi era impossibile pensare a quell’uomo e vederlo schiacciato dai suoi stessi incubi, anche se centinaia di possibilità mi balenavano in testa senza che io potessi fermarle: alcune avevano un lieto fine e possedevano la capacità di farmi respirare; altre scivolavano come veleno e io ne sentivo gli effetti paralizzanti lungo tutto il corpo, avevo paura e non per me.
Eppure riuscii a spezzare l’evoluzione di quei pensieri, non era la fine, anzi era l’inizio di una salita.
Michael ne stava percorrendo i primi passi, e la fragilità non aveva scampo contro l’altra parte della sua personalità.
Sperai con tutta me stessa che mettesse in campo la determinazione e la tenacia che in qualche angolo si intravedeva nella sua natura; e che quel luogo segreto dietro il quale si nascondeva e che stava quasi per essermi svelato, riuscisse a proteggerlo a dovere per renderlo più forte.
Lo sperai così tanto che alla fine divenne una certezza.
Ce l’avrebbe fatta, ne ero sicura. Era un atto di coraggio il suo, non un gesto arrendevole.
Jay me lo lesse negli occhi ancora prima che io aprissi bocca.
   << Ti sbagli. Non sta abdicando, sta lottando per rimanere sul trono >>.

 

***

 

Presi finalmente una decisione quando una sera, dopo aver ascoltato l’ennesima notizia sul suo presunto declino artistico ed umano, spensi il televisore con assoluta calma ed andai in camera a preparare le valigie.
Avevo vissuto in quella settimana preda di un subbuglio emozionale che mi prendeva all’altezza dello stomaco, un malessere che andava poi ad espandersi sul resto del corpo.
Eppure mentre cercavo le cose che mi sarebbero servite per abitare in Florida, ero quieta e leggera, privata di qualsiasi timore. Un po’ ansiosa, quello sì, ma anche stranamente eccitata.
Era bello dopo tanto tempo darsi una possibilità. Avrei dovuto farlo più spesso, anche io ero in grado di scacciare i miei incubi, lo sapevo e ci credevo.
Le uniche persone che salutai furono le mie colleghe nello studio privato nel quale lavoravamo come veterinarie.
A mia madre una telefonata, breve ma intrisa di mille sentimenti, di un augurio speranzoso offerto con un tono guidato dall’orgoglio.
Aspettai prima di chiamare Jay, dopo quella sera non ci eravamo visti né sentiti, e telefonargli avrebbe fatto tremare un po’ della mia determinazione, che mai si era separata dalla sua presenza.
Partii che era pomeriggio inoltrato, due valigie e una borsa in spalla.
La prima decisione della mia vita, il primo faticoso passo a scalare la montagna.
Non mi sentivo altro se non felice, mentre in aeroporto annunciavano la partenza del mio volo.
Mi alzai sicura verso la mia meta, accompagnata dalla voglia di farcela, da un’ape d’oro pronta a spiccare in alto e da un libro che aveva osato sfidarmi.

 

 

* Spazio autrice:

Dico subito una cosa … dal prossimo capitolo torna Michael, promesso! XD
Per quanto riguarda il soprannome di Isabella invece, già lo saprete ma - onde evitare confusione - Bee è anche una parola inglese che significa “ape”. Da qui ecco fornita la spiegazione al regalo di Jay.
Inoltre vorrei ringraziare chi ha aggiunto questa storia tra le preferite e le seguite, mi sono accorta di non averlo mai fatto, quindi cerco di rimediare ora.
Mi riempite davvero di gioia.
Un abbraccio di cuore,
Martina.

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