The light I wanna save

di vivis_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Prologo + Capitolo I ***


The light I wanna save

 
Avete presente quando, in qualsiasi tipo di film o libro in cui ci sia il minimo accenno ad una storia amorosa, arriva la classica frase del tipo: “la soluzione migliore è smettere di usare il cervello e seguire il tuo cuore”. In genere questa particolare tipologia di frase suscita tre tipi di reazioni.
La prima: le copiose lacrime di commozione seguite da gridolini striduli di tredicenni in preda ad una crisi ormonale, illuse che da qualche parte del globo esita un principe alto biondo e con gli occhi azzurri e che questi, un giorno, si presenterà davanti a casa loro in sella al loro bianco destriero, o ancora meglio una Porsche nera scintillante.
La seconda: ragazze che si girano con lo sguardo semi indignato verso i rispettivi fidanzati, trascinati in sala con la forza e che fissano disperati le uscite di sicurezza nella speranza che quel film lagnoso finisca al più presto, assestando loro un sonoro schiaffo sulla spalla sfoderando il classico: “ma tu queste cose non me le dici mai!”
E poi c’è la terza: quella tipica delle ciniche persone dedite alla razionalità come me; una risatina amara con il conseguente commento mentale “tesoro, se il tuo cervello smettesse davvero di funzionare non saresti nemmeno in gradi di pronunciare quelle insulse parole”
Eppure mi trovai a sorprendere me stessa ammettendo l’esistenza di quei momenti.
 
Capitolo I
VIRGINIA
Le mie dita erano convulsamente strette intorno al cellulare mentre sentivo le prime, violente gocce di pioggia grigia schiantarsi contro le enormi vetrate del London Gatwick Airport.
Pioveva.
“Beh, fantastico, me ne andavo da una città piovosa e nebbiosa per andare dove? In una città ancora più piovosa e nebbiosa, ovviamente.” pensai storcendo il naso.
Sentivo la crisi di panico da ritiro bagagli arrivare inesorabile e il fatto che la maggior parte delle persone in quella zona stesse sbraitando inserendo ‘fuck’ e ‘shit’ come intercalare tra le frasi, di certo non mi faceva sentire meglio.
Le valige iniziarono a scorrere lente adagiate sul quel nastro trasportatore che terrorizzava qualsiasi viaggiatore del globo. Nera… gialla… rossa… azzurra!
Ringraziai il cielo di non dovermi far venire un esaurimento nervoso all’ufficio oggetti smarriti.
L’aria iniziava ad essere irrespirabile e le luci grigiastre dei neon fastidiose. Mi diressi verso l’uscita il più velocemente possibile non curandomi troppo dei piedi che stavo barbaramente pestando, mentre attraversavo il terminal con la delicatezza di un pachiderma.
Quando la porta automatica di vetro sì aprì, una ventata di aria fredda iniziò a graffiarmi il viso. Eccomi arrivata nella capitale inglese: Londra. Eccola: grigia, fredda, fantastica come me la ricordavo. Erano passati circa dieci anni dall’ultima volta che ero stata lì, la città natale di mia madre. La mia seconda casa, forse la mia preferita.
Avevo sedici anni l’ultima volta che ci avevo passato le vacanze estive, dopo di che avevamo optato per mete più… estive. Avrei voluto rivisitarla tutta, ogni suo singolo angolo, tutto quello stesso giorno ma la mia visita non era di piacere. Non che non fossi felice di essere lì, tutt’altro, ma il vero motivo della visita non era di certo quello di farmi una passeggiatina rilassante sulle rive del Tamigi.
Sprofondai più che potevo all’interno della mia soffice sciarpa bianca mentre rovistavo nella borsa in cerca dei guanti. Una volta trovati i guanti, li infilai e mi fiondai all’interno del primo taxi disponibile.
«Ha bisogno?» chiese cortesemente l’autista, indicando la grossa valigia che mi portavo appresso. Annuii imbarazzata «grazie» farfugliai.
Il taxista rientrò pesantemente nella vettura più bagnato di un pulcino.
«Dove la porto signorina?» chiese sospirando.
«Numero 9 di Old Pye Street, per favore.» risposi mentre lanciavo un’occhiata disperata ai miei capelli completamente fradici. Il tassista mise in moto ed io portai i miei pensieri altrove, iniziai ad osservare le goccioline di pioggia che sfrecciavano sul finestrino. Feci come quando ero piccola: immaginai che stessero gareggiando.
gocciolina 1 viene superata da gocciolina 2, ma ecco la mia rimonta di gocciolina 1…
 
«Eccoci arrivati, le serve una mano con i bagagli?» la voce rauca dell’autista interruppe la mia avvincente telecronaca mentale.
«Si figuri, faccio da sola» risposi con un finto sorriso, nascondendo la delusione per non essere riuscita a godermi tutta la gara.
Pagai la corsa, presi la mia valigia ed il borsone e mi diressi verso l’esile nero cancello che circondava l’edificio: era un palazzo di cinque piani realizzato con mattoni a vista decorato da qualche piantina temeraria che, nonostante il freddo, penzolava dai vasi sui davanzali. Affilai lo sguardo e feci scorrere l’indice di fianco ai cartellini dei citofoni fino a che non trovai il cognome che mi interessava, suonai.
Sì, da quel giorno averi avuto una coinquilina. Sapevo ben poco di lei, anzi, in realtà quasi nulla, ma considerando la natura temporanea del mio soggiorno e il poco tempo a disposizione per organizzarlo, non avevo avuto il tempo materiale per farmi tanti scrupoli.  L’unica cosa di cui ero a conoscenza erano il suo indirizzo, il suo cognome, ovvero Percy, e il fatto che la sua precedente coinquilina fosse olandese. Pregai tutti i santi del paradiso che non si trattasse di una trentacinquenne disadattata che lasciava mozziconi di sigaretta in giro o chissà che altro.
«Chi è?» chiese una voce squillante anche se leggermente stralunata.
Beh, poteva andare peggio.
«Ehm, sono Virginia, Virginia Sacchi » aspettai qualche secondo «la tua nuova coinquilina.» aggiunsi infine, dopo la prolungata assenza di segnali di vita dall’altro capo del citofono.
«Oh sì, certo cara sali!» la comunicazione venne interrotta dal rumore di qualcosa che cadeva. Ricominciai a pregare.
 
Aprii la porta con cautela tenendo gli occhi semi chiusi, impaurita da quello che avrei potuto trovare.
Li riaprii lentamente, poco per volta ed iniziai ad analizzare il soggiorno: niente mozziconi in giro, un buon inizio, niente bottiglie di Gin vuote, nessuna apparente attività illegale in corso...
Li riaprii e mi resi conto che, contrariamente a qualsiasi mia aspettativa, il soggiorno risplendeva come un cristallo. La moquette non presentava nemmeno la minima traccia di una briciola.
Non male, non male davvero.
Diedi una veloce occhiata al salotto e mi scappò un sorrisetto soddisfatto nel vedere come lo stile minimal e moderno che caratterizzava la stanza mi piacesse. Al centro vi era una tavolo ovale con quattro sedie, decorate con dei cuscinetti bianchi, mentre alla mia immediata sinistra si trovava un piccolo divano ad angolo dello stesso colore.  La tentazione di lanciarmici sopra senza alcun rispetto per la mia femminilità fu davvero difficile da ignorare, ma decisi che sarebbe stato il caso almeno di presentarsi di persona, prima di iniziare a marcare il territorio.
«Ehi, ben arrivata!» una voce vivace interruppe il mio flirt con il divano.
Quando mi voltai , mi trovai davanti una ragazza di corporatura minuta, più bassa di me di diversi centimetri e con una folta chioma di ricci color biondo cenere, tenuta insieme da un frettoloso chignon. Indossava una canottiera blu celeste che le metteva in risalto la pelle di porcellana. Non potei fare a meno di chiedermi il perché di un abbigliamento così misero date le polari temperature esterne, ma il solo fatto che sulla canottiera non ci fosse alcun riferimento a qualche strana realtà occultista riuscì a tranquillizzarmi e fu sufficiente a dissuadermi dal porre ulteriori domande.
«Grazie mille, è un piacere conoscerti di persona, finalmente!» ringraziai allungandole la mano “ed è anche un piacere notare come tu non abbia apparenti dipendenze da strane sostanze illegali” aggiunsi mentalmente.
«Il piacere è tutto mio. Io sono Victoria ma chiamami Vickie, ti prego, evitiamo di dare adito alle manie megalomani di mia madre, nonché alla sua ossessione per la famiglia reale.»
«Il festival del cliché british.» commentai con una leggera risata, una volta constatata la presenza di un buon senso dell’umorismo.
«Non me ne parlare» rispose alzando gli occhi al cielo mentre anche sulle sue labbra faceva capolino un sorriso divertito.
«Comunque io sono Virginia, ma chiamami Vivi. Nemmeno in casa mi chiamano più Virginia.» sorrisi lasciandole la mano.
«Vieni, ti mostro la tua stanza.» disse invitandomi a seguirla con un ampio gesto del braccio.
Afferrai il pesante trolley ed iniziai a trascinarlo nel piccolo corridoio che portava alla zona notte. L’ingombrante bagaglio, unito alla mia totale incapacità di fare qualsiasi cosa senza sembrare un goffo ippopotamo, mi portò a urtare qualsiasi oggetto fosse appoggiato sul pavimento. Uno di questi era una cesta di vimini che conteneva una pila di giornali, in cima alla quale vi era una rivista che catturò la mia attenzione, in quanto si interessava della mia area di competenza.
«Leggi riviste di cronaca nera?» chiesi sinceramente incuriosita.
«Oh no, almeno non di solito» rise tra sé, evidentemente non doveva proprio essere il suo argomento di conversazione preferito. «ma dato il tuo imminente arrivo, ho pensato di non farmi cogliere completamente impreparata.» aggiunse infine con un sorriso gentile.
«Wow, che pensiero carino.» dissi, colta totalmente impreparata, mentre una punta di senso di colpa si istillò nella mia mente.
Io avevo scelto di stare a contatto con gli orrori del genere umano.  Avevo scelto di addentrarmi nei bui meandri della mente criminale. Avevo scelto di fare la criminologa, e lo avevo fatto per una buona causa. Certo, avevo scelto di fare ciò per un’ottima causa: volevo salvare le vite degli innocenti, volevo rendere il futuro il meno pericoloso possibile per quella parte di genere umano, quella buona,quella che voleva solo vivere. Eppure il solo pensiero che qualcuno si fosse affacciato a quell’oscuro mondo non di sua spontanea volontà ma per farmi, in qualche modo, un favore mi lasciò in gola l’amaro sapore di un disagio difficile da spiegare.
«Comunque tranquilla» la rassicurai «non ti illustrerò i miei casi.» sorrisi senza troppo entusiasmo.
Mi chinai a raccogliere la rivista, dando una veloce letta ai titoli in copertina, questione di deformazione professionale.
«Ah, c’è anche un articolo su di te.»
«Su di me?!» chiesi incredula puntando l’indice verso di me.






Ciao People! 
Innanzi tutto voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno incoraggiato a pubblicare questa storia (per cui se non vi piace potete tranquillamente perndervela con loro!), ringrazio James Blunt, i Muse e i Beatles che con le loro canzoni mi accompagnano nella stesura e mi trascinano sull'onda dell'ispirazione, ma sopratutto voglio ringraziare in anticipo chi deciderà di tuffarsi con me in questa nuova avventura. 
Ma formalità a parte, spero davvero che questa mia... cosuccia possa piacervi, sarò pronta ad accogliere qualsiasi critica costruttiva (siate clementi vi prego, ahah). 
Ora ho davvero finito di blaterare, buona lettura a tutti.
Un mega bacio,
la vostra S

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II
BEN

 
«Più di un secolo dopo l’ultimo omicidio di Jack lo squartatore, un nuovo serial killer torna a terrorizzare il quartiere di Whitechapel. Il Modus Operandi…» la voce seria e misurata della giornalista riempiva l’ampio salotto in cui stavo camminando distrattamente, senza prestare alcuna attenzione al notiziario.
Pigiai il tastino rosso in cima al telecomando e il maxi schermo da troppi pollici diventò nero di colpo. Trascinai annoiato i piedi fino alla grossa finestra e la aprii leggermente. Mi appoggia con gli avambracci al davanzale e inspirai profondamente, non curandomi del vento gelido che, affilato come la lama di una sciabola, mi tagliava le guance.
Aveva un profumo particolare, la foschia londinese. Odorava di pioggia, di gente, di vita, ma soprattutto sapeva di casa.
“Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita” diceva il buon Samuel Johnson e quanta ragione aveva. Certo, ogni singolo giorno ringraziavo Dio per avermi permesso di fare un lavoro che mi permettesse di visitare il mondo, ma ogni giorno lo ringraziavo anche per avermi dato, ogni volta, l’opportunità di tornare a casa.
Affilai lo sguardo riconoscendo la sagoma della cupola della Cattedrale di St. Paul, resa sfocata dalla pioggia che instancabile cadeva, lei, ormai così affezionata ai tetti della capitale.
«Capisco che il freddo mantenga giovani, e capisco anche che tu da buon One Man Show, sia affezionato alla tua immagine. Però tra poco inizieranno a uscire stormi di pinguini dalla credenza se non chiudi quella finestra.» una vivace voce interruppe il flusso dei miei pensieri.
«Mio caro giovane fratellino, dubito che i pinguini si misurino in stormi.» risposi senza distogliere lo sguardo, mentre a stento trattenevo una risata. «Al massimo in colonie.» conclusi voltandomi.
«Ma i pinguini non sono uccelli?» obbiettò Jack alzando un sopracciglio.
«Sì, ma sono quasi sicuro che National Geographic abbia detto “una colonia di pinguini” l’ultima volta che l’ho guardato.» risposi soddisfatto, pregustando quella che credevo sarebbe stata la mia imminente vittoria in quel dibattito.
«Mio Dio Benjamin, non so se sia  più preoccupante il fatto che tu guardi National Geographic o il fatto che stiamo sul serio avendo questo genere conversazione.»
Entrambi ci fissammo negli occhi per qualche secondo per poi scoppiare all’unisono in una sonora risata.
 «Ti ricordi? Da piccolo mi chiamavi Benjamin solo quando mi dovevi chiedere dei favori» ricordai mentre le risa iniziavano a disperdersi per i corridoi dell’appartamento.
«Oh, beh… in effetti quello sarebbe il mio scopo…»
«E cosa dovresti chiedermi?» sospirai incrociando le braccia.
«Di chiudere quella dannata finestra prima che ci raggiunga anche un colonia di lupi artici!» esclamo puntando il dito minaccioso verso di me.
«Branco.» lo corressi con l’indice puntato verso l’alto con un’espressione soddisfatta.
Mi voltai dando un ultima veloce occhiata al grigio skyline. Accolsi nei miei polmoni un’ultima boccata di aria gelida e profumata e chiusi la finestra facendo scattare rumorosamente la serratura, a mo’ di protesta.
Egli sospirò. «Ti odio.»
«Nah, io non credo.»
«Hai ragione» constatò.
Non ebbi nemmeno il tempo di sbattere le ciglia, in un nano secondo Jack  si lanciò verso di me saltandomi al collo, ricordandomi quando, da bambini, giocavamo a fare la lotta con la differenza che, a quel tempo, ero io quello che le dava.
«Mi sei mancato Benlywood!» ammise mentre sfregava il suo pugno tra i miei capelli dopo che, ovviamente, il suo dolce fare aveva trasformato il suo tentativo di abbraccio fraterno in una rovinosa caduta.
Ebbene sì, mi era mancato anche lui, in realtà mi era mancata casa mia. Trasferirmi negli Stati uniti era stata indubbiamente la scelta più logica e sensata, in quanto mi permetteva di seguire la mia carriera da più vicino, ma avrei mentito se avessi detto che amavo alla follia quel posto. Infatti, ero solito tornare a casa dopo aver girato un film, mi aiutava a ricaricare le batterie dopo essere stato completamente assorbito da quel tour de force che erano le riprese. E così era stato anche quella volta.
Non protestai nemmeno per l’assurdo soprannome che mi aveva appioppato fin troppe volte, e sempre contro la mia volontà. Se lo inventò dopo lo straordinario successo di “Le cronache di Narnia: il Principe Caspian” e doveva essere la somma del mio nome e della parola “Hollywood”, un’idea assurdamente pessima che, oltre ad essere totalmente ridicola, aveva anche un suono decisamente atroce e innaturale.
«Beh quindi dopo questa dichiarazione d’amore, come minimo il mio famoso fratellone mi dovrà offrire una birra, cosa dici?» disse una volta tiratosi in piedi.
Sospirai alzando gli occhi al cielo. Non si sceglie la famiglia, giusto?
«Va bene, dai. Vado a prendere il cappotto» acconsentii.
Mi diressi verso il guardaroba, mentre con la coda dell’occhio vedevo Jack saltellare felice e soddisfatto come un bambino che aveva appena convinto il papà a portarlo fuori a prendere un gelato. Non riuscii a non farmi scappare un sorriso.
«Ah, Jack?»
«Dimmi.»
«Mi sei mancato.» ammisi.
 
Nel piccolo pub, incastrato in una viuzzola poco lontano da Piccadilly Circus, volteggiavano le note di un pezzo di Phil Collins. Tamburellai le dita sul bicchiere umido di condensa, seguendo il ritmo dell’assolo di batteria. Adoravo quel genere di atmosfera: così semplice da sembrare quasi famigliare, mi aiutava a mantenere una specie di stato di equilibro, disintossicandomi  dal lusso che faceva da padrone nel mio ambiente lavorativo.
Passai la lingua sul labbro superiore ripulendolo dalla schiuma della birra e alzai il viso incontrando lo sguardo perplesso di mio fratello, che in quel momento mi stava fissando come se stessi bevendo col naso.
«Che hai?» chiesi sollevando un sopracciglio.
«Allora» esordì unendo le mani portandole sotto il mento. «Hai girato un film in cui il tuo personaggio si innamorava e sposava un’americana, poi decidi di interpretare uno dei fautori della rivoluzione americana e, dulcis in fundo, usciamo a bere una e tu ordini una Guinness… com’è che non ho ancora trovato un ordine di esilio firmato da nonna Elizabeth nella casella della posta?» mi chiese con aria seria affilando lo sguardo.
«Tu sei un cretino.» scandii dopo un inutile tentativo di trattenere le risate che, ormai, erano diventate una constante dello stare in sua compagnia.
«Dico solo che se ci tieni tanto a rinnegare la tua nazionalità potresti farlo in maniera un po’ più discreta. Ma, a proposito di nonna Eli…» Jack allungò il braccio per afferrare una copia del The Times abbandonata sul tavolino affianco al nostro. « chissà cosa ne pensa del fatto che Scotland Yard non sappia prendere da sola i criminali propri criminali.» disse mostrandomi la prima pagina del giornale macchiata da un cerchio umido nell’angolo destro, probabilmente dovuto a qualche lettore distratto che vi aveva appoggiato sopra il proprio bicchiere. Mi sporsi in avanti mettendo a fuoco le parole stampate.
Ero atterrato da circa 36 ore, per cui ben poco sapevo di ciò che stava accadendo nel Regno Unito e meno ancora di quel serial killer che, a quanto diceva l’articolo, aveva mietuto la sua terza vittima nel giro di un mese.
«Un consulente esterno? Deve essere davvero un rompicapo come caso.» commentai sbattendo le palpebre, sinceramente impressionato. Era quel genere di notizia-paradosso di cui si chiacchiera a tavola con lo stesso tono con cui si parlerebbe di una partita di tennis, come se quei fatti raccapriccianti stessero accadendo dall’altra parte del mondo. Quel genere di notizia troppo grande per essere considerata un pericolo imminente, perché troppo lontana dalla realtà di tutti i giorni.
Tornai ad appoggiarmi allo schienale della sedia liquidando il più in fretta possibile quella sgradevole sensazione che si faceva strada da un remoto angolo della mia coscienza. 





Buondì belle persone,
Eccomi qui, non ho voluto far trascorrere troppo tempo tra il primo e il secondo capitolo perchè volevo che aveste una presentazione, un pilot, come si dice nel gergo delle serie TV, di entrambi i personaggi principali. Spero non vi deluda la mia "preliminare" versione di Ben. 
Ringrazio tantissimo SusanTheGentle (che ha vinto il fantastico premio "Primo Recensore Award 2015", macchestodicendo?!), skyler9, piccolo_uragano_ (la mi sforna-citazioni preferita) e Joy Barnes per le recensioni dello scorso capitolo, siete meravigliosi. 
Dopo tutta questa sviolinata, vi saluto sperando che il capitolo vi sia piaciuto.
Un mega bacio, a presto.
S.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


 
Capitolo III
 VIRGINIA
 
«Un articolo… su di te?» chiese mentre riconoscevo una certa incredulità sul suo volto, nonostante l’immagine sgranata sullo schermo del PC.
«Te lo giuro! Non pensavo che il mio lavoro avesse così un’eco mondiale» risposi tentando si nascondere un sorrisetto soddisfatto.
«Ehi, ehi, detective Conan abbassa la cresta.» mi ammonì lanciando uno sguardo di rimprovero verso la webcam «E potresti gentilmente metterti almeno seduta? Vorrei guardarti negli occhi non nelle narici» disse protestando contro la mia posizione semisdraiata.
Mi trattenni del farle una linguaccia come fossi una bambina a cui avevano appena rubato un lecca-lecca.
«Mmh, sento una voce. Non sarà mica qualche parente che riesce a rompere le scatole anche con un intero continente di mezzo?» sospirai esasperata. Mi misi seduta e mi appoggia i il computer portatile sulle ginocchia.
A differenza mia, lei la linguaccia non la trattenne.
Era sempre stato così, io e mia sorella avevamo due caratteri pressoché identici: stessa propensione al cinismo, al sarcasmo e all’autoironia ed entrambe con una lingua parecchio affilata. Un tipo di atteggiamento unicamente nostro, inedito nella nostra famiglia. Talmente singolare che spesso, dopo qualche nostro battibecco all’insegna di brillanti ma avvelenate frecciatine verbali, i nostri genitori vi scherzavano sopra dicendo: “a volte ho la quasi certezza che entrambe siate state scambiate in ospedale”.
Eppure qualcosa avevamo ereditato dai nostri genitori: le nostre differenze. Infatti lei, mia sorella Diana, era più impulsiva quando si trattava di prendere delle decisioni, una caratteristica tipica di mia madre. Io invece avevo ereditato l’iper-razionalità di mio padre, dovevo pensare prima di agire, considerare ogni variante e ogni conseguenza prima di compiere qualsiasi azione. 
 
«Comunque senti qui!» attirai la sua attenzione mentre sfogliavo, per l’ennesima volta quella sera, quelle pagine patinate fino a riconoscere il fatidico trafiletto incorniciato da un bordino giallo, posto accanto a un report giornalistico che riguardava proprio il caso di cui mi sarei occupata durante quel periodo a Londra.
Iniziai a leggere.
«Virginia Sacchi, giovane criminologa appena 26enne, nata a Milano il 28 febbraio, atterrerà nella capitale nei prossimi giorni per intraprendere una collaborazione con Scotland Yard. Diplomatasi a soli 15 anni, la allora giovane studentessa, aveva già mostrato di avere tutti i requisiti per essere quello che si definisce “un piccolo genio”. Dopo aver conseguito in tempo record un laurea in scienze della sicurezza sociale e frequentato un master in criminologia, Virginia ha intrapreso un iter che l’ha portata a vincere il concorso pubblico di funzionario di polizia dello stato a soli 22 anni. La sua breve ma intensa carriera ebbe…» una risatina interruppe la mia lettura che, mi costrinsi ad ammettere, stavo condendo con una modesta dose di teatralità.
«Ma cosa ridi?!» mi lamentai, lasciandomi comunque contagiare dalla sua risata. Dovevo ammetterlo, per quanto mi rendesse orgogliosa essere finita su un giornale con non fosse una rivista medica che parlasse del mio “caso clinico prodigioso”, i complimenti che stavo leggendo suonavano esagerati anche alle mie orecchie.   
«Ti prego, questo è vero e proprio lecchinaggio, nemmeno alla regina avrebbero riservato questo trattamento.»
«Per forza, sono la migliore.» gonfiai il petto alzando lo sguardo verso un punto appena sopra la webcam.
«Ops, credo che la tua modestia mi abbia appena bucato lo schermo.» rispose sarcastica.
Lanciai un’occhiata inteneritrice dritta nella webcam e proseguii nella lettura.
«la sua breve ma intensa carriera ebbe un’impennata esponenziale 3 anni dopo quando, dopo un consistente numero di casi di omicidi risolti grazie alla sua presenza diretta o alle sue perizie (17, un numero impressionate se si considera la sua poca esperienza sul campo e la giovane età), lei accettò il posto offertole all’Interpol di Lione. Virginia diventò una dei più giovani ufficiali di collegamento che la polizia internazionale abbia visto. Sarà sufficiente il talento e la memoria eidetica della giovane anglo italiana per porre un stop definitivo alla serie di omicidi che sta terrorizzando Whitechaple come non capitava dal 1888? Sarà… no, okay ti do ragione, mi sta davvero venendo il diabete, potrei andare seriamente incontro ad uno shock glicemico se leggo un altro elogio nei miei confronti.» commentai richiudendo la rivista e poggiandola sul tappetino al lato del letto. Non avevo mai disdegnato i complimenti di nessuno, anzi. Razionalmente parlando, trovavo che non vi fosse nulla di male nell’alzarmi di venti centimetri quando qualcuno riconosceva i meriti che mi spettavano, ma nonostante ciò esiste un limite a tutto.
Diana trattenne una risata.
«Sei agitata per domani?» chiese tornando seria, riferendosi al fatto che l’indomani sarebbe stato i mio primo giorno di lavoro a Scotland Yard.
Una domanda a cui avrei tranquillamente fatto a meno di rispondere.
Sì, ero in ansia, stranamente in ansia. Era la terza volta che collaboravo con le forze di polizia estere ma quell’incarico mi angosciava particolarmente. Quando ricevetti la chiamata dagli alti ranghi, mi spiegarono che il motivo per cui la scelta era caduta su di me era il fatto che il caso del serial killer di Londra assomigliasse in maniera notevole a un caso al quale avevo lavorato in Italia. Da quel giorno cercai di dare a vedere solo il mio entusiasmo per il fatto di poter lavorare con un organo di polizia così importante come quello di Scotland Yard, cacciando in fondo a un remoto cassetto del mio cervello lo schiacciante senso soffocamento che mi provocava la responsabilità di cui ero appena stata investita. Era stato un mio caso, a rigor di logica avrei dovuto cavarmela in poco tempo ed era su questa mia presunta tempestività che tutti puntavano per togliere dalla circolazione un assassino nel minor tempo possibile.
«Il giusto» risposi vaga.
«Sicura? Non mi sembri troppo convinta»
La stanchezza del viaggio e il suo “conoscermi come le sue all-stars” dovevano aver ridotto ai minimi termini la mia capacità di dissimulazione, quella sera non avrei di certo ricevuto un Oscar.
«No, sono solo stanca» mentii senza però allontanarmi troppo dalla verità.
«Hai ragione Vivi, sarà anche il caso che ti lasci dormire. Domani è il gran giorno, vai a spaccare i culi di qualche assassino sociopatico» disse alzando il pugno al cielo.
Scossi la testa sorridendo, mi sarebbe mancata, come sempre.
La salutai e spensi il portatile riponendolo sulla piccola scrivania di fianco alla finestra. Mi appoggia ad essa con entrambe le mani ed inspirai profondamente, iniziai a fissarmi le punte dei piedi sperando che dal pavimento potesse materializzarsi Morfeo per avvolgermi nel suo caldo abbraccio fino alla mattina successiva, anche se, a dirla tutta, mi sarei accontentata anche di una pastiglia di melatonina.
Dovevo riuscire a dormire. Dovevo e basta. Non potevo permettermi di presentarmi al mio primo giorno di lavoro con un aspetto tale da far credere a tutto il personale di Scotland Yard di essere stato catapultato in una puntata di The Walking Dead.
Sciolsi la coda di cavallo lasciando che i mie capelli ridessero lisci sulle spalle in una dolce cascata di seta color ebano e mi infilai sotto le coperte. Il contatto con le gelide lenzuola accentuarono la rigidità dei miei muscoli dovuta a quell’ansia che, razionalmente parlando, non aveva alcun senso. Era un presentimento, molti lo chiamerebbero istinto, a suggerirmi che quella volta la strada verso la risoluzione del caso sarebbe stata più tortuosa del solito, nonostante le premesse avrebbero fatto pensare il contrario.
La mia coscienza fu scossa da uno spasmo d’orgoglio. Schiacciai il viso contro il cuscino stizzita.
Qualcuno mi spieghi l’intricato paradosso per cui io riesco ad inquadrare la personalità di un completo sconosciuto nel giro di 2 minuti e 15 secondi – ebbene sì, una volta mi avevano cronometrato – quando non riesco nemmeno a capire cosa frulla tra i miei neuroni iperattivi?
Mi rannicchiai di lato aggrappandomi ad un lembo del lenzuolo azzurro e lentamente mi abbandonai ad un sonno statico, freddo e senza sogni.





Ciao peoplez, come va?
Io ho appena ricominciato l'università, motivo per cui posterò con meno frequenza, probabilmente. Ahimè son già triste. 
Ma lasciamo  la tristezza da parte, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ringrazio davvero moltissimo piccolo_uragano_ e skyler9 per le recensioni dell'ultimo capitolo e Joy Barnes, SusanTheGentle e ancora la mia sister in anzzzia piccolo_uragano_ per avermi messo tra le seguite. 
Tons and tons di abbraccia, siete spettacolari.
Vostra,
S.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV
VIRGINIA
 
Le mie lunghe ciglia nere si scomponevano dalla loro ordinata formazione, sballottate come banderuole dal vento che, quella mattina, soffiava quasi aggressivo sulle strade di Londra. Nonostante il mio campo visivo fosse disturbato a fasi brevi e alternate, come quando una frequenza radio si intrufola fastidiosamente nella stazione che in quel momento sta facendo passare il nuovo singolo del tuo cantante preferito, riuscivo chiaramente a distinguere il poliedro spigoloso che riportava, su ogni sua facciata, l’insegna identificativa dell’edificio:
NEW SCOTLAND YARD.
Le lettere in acciaio scintillante parevano gridare il peso sociale e mediatico dell’organo che stava rappresentando. Tale autorevolezza trapelava anche, e soprattutto, dal mastodontico palazzo che si ergeva di fronte a me. La struttura in vetro e metallo si stagliava imponente verso l’alto fino a
perdersi, quasi sfumando, tra la perenne coltre di nubi color acciaio.
Il calore che proveniva dal bicchiere di Starbucks si era diradato quasi del tutto, il che mi ricordò che ormai avevo smesso di contare i minuti in cui ero stata impietrita davanti a quella porta indecisa sul da farsi.
“Oh per Dio, cosa sto aspettando? Che venga la porta da me?!” Imprecai contro me stessa.
Gettai il bicchiere di cartone ancora mezzo pieno di tè, ormai ghiacciato, e, dato che il mio nome non era ancora Maometto, decisi di darmi una mossa e varcare la soglia della sede della Polizia Metropolitana di Londra.
 
 
Il silenzioso ascensore impiegò quelle che mi parvero ere per giungere al piano dell’unità anticrimine. Le porte automatiche si aprirono su un lunghissimo e luminoso corridoio, al termine del quale, una pesante porta a vetro rappresentava l’unico e ultimo ostacolo all’inizio della mia nuova avventura.
“Inspira, espira, sorridi, sono qui il caso di Whitechaple…” continuavo a ripetere nella mia testa a mo’ di filastrocca, quasi avessi paura che l’ansia potesse farmi dimenticare ciò che avrei dovuto dire.
“Oh idiota, hai una memoria eidetica,anche volendo  non puoi dimenticarti cosa dire” protestò una vocina dall’interno del mio cervello che decisi bellamente di ignorare.
Spinsi la porta e ripresi la mia tiritera.
Inspira, espira, sorridi…
«Signorina, le serve qualcosa?» chiese una giovane donna dalla pelle olivastra e dai tratti mediorientali, sfoggiando una cortesia misurata, quasi studiata.
«Salve, sono qui per il caso di Whitechaple» risposi esibendomi in un goffo e tirato un sorriso.
«Ehm, deve testimoniare?» chiese perplessa osservandomi da sotto gli occhiali dotati di spessa montatura a farfalla.
Se avessi potuto mi sarei data una pacca sulla fronte, come potevo pensare che la gente sapesse chi fossi senza che io mi presentassi?
«Oh no, no…» farfugliai impacciata «sono l’agente speciale Virginia Sacchi»
«Ma certo lei è la consulente dell’INTERPOL! » mi interruppe spalancando gli occhi. «Lei è davvero… alta! La televisione la abbassa decisamente.» commento percorrendo con lo sguardo la lunghezza delle mi gambe.
Che occhio, commentai sarcastica nella mia mente.
Ero alta, non esageratamente ma, comunque, sopra alla media. Il fatto che chiunque mi facesse notare quasi fosse una colpa, era una persecuzione che mi veniva afflitta senza alcuna pietà dai tempi dell’asilo. La gente lo faceva perché pensava mi facesse piacere quando, in realtà non faceva altro che farmi sentire a disagio e fuori luogo.
Ergo, quella donna doveva sparire dalla mia vista entro due minuti se voleva evitare che il mio sguardo inceneritore la trapassasse da capo a piedi.
«Dai Jasmine, lascia stare la nostra nuova collega, o avremmo un gran problema se scappasse spaventata.» intervenne una voce femminile alle mie spalle.
Ti è andata bene, nuova collega.
Mi voltai trovandomi di fronte una donna sui trentacinque anni alta più o meno un metro e settanta dai capelli rossicci che mi tendeva la mano smaltata di rosa traslucido. La cinsi in una stretta ferma e sicura alla quale lei seppe rispondere con una certa naturalezza.
«Io sono Paula, piacere.» si presentò.
«Responsabile delle comunicazioni, immagino.» dedussi ad alta voce.
Spalancò gli occhi per un nano secondo prima di ricomporsi e tentare di insabbiare il suo stupore sotto un sorriso appena accennato.
«Esatto, mi avevano detto che eri brava.» commentò. «Ora però sono curiosa di sapere come hai fatto, sempre se non violo qualche tuo segreto del mestiere.» chiese incrociando le braccia sulla difensiva, senza però mostrare alcun segno di ostilità.
«Oh, no nessun segreto. Sono le basi della lettura del linguaggio del corpo uniti a una buona capacità deduttiva: hai risposto senza esitazione ad una stretta di mano che si presentava come dominante. È tipico degli intermediari, denota la loro abitudine a trattare con gente esterna e il più delle volta mai incontrata prima.» spiegai senza nemmeno prendere fiato, indicando le sue mani ancora saldamente aggrappate ai suoi avambracci. Lei le nascose istintivamente. « E poi non porti la pistola, la tua cintura non ha il passante per la fondina.» conclusi rallentando.
«Wow, e tutto questo in meno di due minuti che ci conosciamo, chissà cosa potrai dire di me tra un mese.» commentò visibilmente a disagio.
Stupida, stupida, stupida!
Mi sarei letteralmente presa a pugni se ciò non mi avesse fatto sembrare una completa schizzata. Mi ero ripromessa più e più volte, lungo il tragitto per raggiungere la centrale, che non mi sarei messa fare il profilo ai miei colleghi.
Prima missione: fallita miseramente.
«Beh immagino che tu debba parlare con il piccolo capo.» disse cambiando argomento.
«Piccolo capo?» inarcai un sopracciglio perplessa.
«Oh sì, il capo dell’unità. Lo chiamiamo così per distinguerlo dal direttore di Scotland Yard che è, invece, il grande capo.» rispose.
«Oh, capisco... Comunque sì, dovrei parlare con il capitano Shawn, o per lo meno avvertirlo del mio arrivo.»
«Da quella parte, su per le scale. Entra dalla seconda porta, non sappiamo perché ma la prima la chiude sempre a chiave.» mi indicò sollevando l’indice verso una specie di grande soppalco alla mia destra.
«Ok, grazie mille davvero.» feci per dirigermi verso lo studio di quello che sarebbe stato il mio nuovo capo.
«Ah!» la voce di Paula attirò di nuovo la mia attenzione. «Non dirgli che lo chiamiamo Piccolo Capo.»
Mi limitai a sorridere senza rispondere, abbassai la testa ed inizia a districarmi tra il labirinto di scrivanie disseminate per tutta la stanza.
 
 
L’ufficio del mio superiore era di dimensioni modeste, in una maniera quasi deludente.
La potente luce argentata proveniente dall’esterno era ridotta a sottili fili luminosi a causa delle veneziane quasi completamente abbassate. La lieve penombra, innaturale per quell’ora del giorno, rendeva quel luogo ancora più angusto e soffocante.
Le dita corte e umide, terribilmente ornate da unghie smangiucchiate, tamburellavano svogliatamente al fianco di una targhetta metallica che riportava la scritta “Detective Christopher Shawn” lasciando piccole impronte circolari sulla superficie in noce.
Schiarii la voce dopo la prolungata assenza di segnali di vita dell’uomo sulla cinquantina seduto dall’altro lato della scrivania.
«Salve, sono l’agente speciale Virginia Sacchi la…»
«Sì, sì la fata turchina in tailleur inviata dall’INTERPOL per salvarci tutti dal cattivo serial killer con la magia del profiling e della sua bacchetta magica.» mi interruppe bruscamente lanciandomi una scarica di proiettili fatti di un sarcasmo che rasentava il disprezzo.
Serrai la mascella, impietrita, e incapace di proferir parola.
Estrasse una penna a sfera da una tazza di Harrods, utilizzata come porta-biro, e la fece scattare.
«L’INTERPOL ti permette di utilizzare la loro pistola o dobbiamo fornirtela noi?» chiese gelido.
«No, posso usare la mia.» mi limitai a rispondere indicando la valigetta nera squadrata all’interno della mia borsa, che conteneva la mia arma d’ordinanza. “E non hai un’idea di quanto in questo momento vorrei puntarla contro la tua fronte alta e stempiata.” Inspirai profondamente.
Sei fortunato che l’omicidio non è proprio inserito nel ‘Manuale del buon agente di collegamento’.”
«Ti serve una macchina?» mi chiese di nuovo, dopo aver scarabocchiato qualcosa su un foglio che riportava il logo della polizia metropolitana nell’angolo sinistro.
«No, preferisco camminare.» risposi consapevole del fatto che non si sarebbe minimamente curato del motivo della mia scelta.
«Bene, quello è il tuo badge, la tua scrivania è quella di fianco a quella dell’agente Russell. Lì ci sono già tutti i documenti e i fascicoli del caso.» spiegò indicando velocemente prima la tessera  magnetica alla mia destra e poi un punto indefinito fuori dalla finestra. «Ah, tu cominci domani.» concluse senza degnarmi nemmeno di uno sguardo.
Lanciai di nuovo un’occhiata allo spigolo della valigetta porta-armi che faceva capolino dalla mia borsa.
No, Vivi! Il capicidio è reato anche nel Regno Unito.
Infilai le mani sotto le cosce, cercando di scongiurare la possibilità di cedere a qualsivoglia tentazione di natura criminosa.
«Con il dovuto rispetto, Signore, c’è un serial killer che ha già mietuto tre vittime. Non pensa che sia il caso  di mettermi al lavoro subito?» Chiesi sfoggiando un sorriso finto e cercando di mantenere un comportamento e un’espressione neutra.
«Senti tesoro, se fosse stato per me tu non saresti nemmeno qui. È stato il direttore a volerti perché, a quanto pare, crede che delle congetture da chiromante e un po’ di psicologia spicciola possano essere più utili a risolvere un caso rispetto all’esperienza di chi lavora qui da anni.» fece una pausa per aggiungere un po’ di teatralità a ciò che diceva. «Per cui no, non metterò in discussione le mie decisioni con una che puzza ancora di accademia.»
Sfilai le meni da sotto le gambe, serrando i pugni fino a sentire le unghie che lasciavano i segni nei miei palmi. Tramutai il dolore nell’ennesimo finto sorriso.
Diplomazia, Vivi, diplomazia.
«Posso capire il suo scetticismo, Capitano, ma dovrebbe provare a lasciare da parte le sue insicurezze e…»
«Oh no, ragazzina, non provaci. Non tentare di psicanalizzare anche me, non ho nessun trauma pregresso e nemmeno qualche strana anomali nel rapporto con mia mamma. Visto che quelle sono le conclusioni più quotate nelle vostre… perizie.» imitò il segno delle virgolette con le dita, quasi volesse incorniciare l’ultima parola.
Ragazzina.
Eccolo: il mio punto di rottura. Un punto di non-ritorno. L’unica cosa che riusciva a darmi perdere il controllo: il pregiudizio legato alla mia giovane età. Precipitai improvvisamente in uno stato di trans in cui ogni filtro presente tra la mia bocca si  annientò completamente.
Iniziai a pensare ai migliori modi per fare ammenda visto che stavo per infrangere la promessa fatta a me stessa per la seconda volta nel giro di un quarto d’ora.
«Oh no, lei andava d’accordissimo con sua madre, ha il centrino che le ha fatto in bella vista, addirittura ci ha poggiato sopra la targhetta con il suo nome, quasi volesse ringraziarla, darle una parte di merito per quello che lei è ora: capitano dell’unità anti-crimine di Scotland Yard.» dissi indicando il lavorato fatto ad uncinetto. « Probabilmente era lei che lo consolava quando tornava a casa in lacrime. A che età hanno iniziato a prenderla in giro per la sua statura? Alle medie?»
Egli spalancò gli occhi fino ai limiti imposti dall’anatomia umana, i quali nel giro di un secondo iniziarono a scattare spaesati da una a parte all’altra della stanza.
«Ma come…»
«Come lo so? Sono brava a fare il mio lavoro.» risposi semplicemente. «Ha le foto dei suoi cani sulla scrivania. Uno è un bracco tedesco, è di razza si vede. L’altro è chiaramente un meticcio,  e oggettivamente meno bello ed elegante rispetto all’altro. Eppure è la foto di quest’ultimo che lei ha messo in bella mostra, perché è chiaramente lui il suo preferito. Perché simpatizza con coloro i quali sono considerati meno belli e per questo meno simpatici, affidabili, efficienti…»
Afferrai il mio badge e mi diressi verso la porta dell’ufficio. Nella stanza l’aria era diventata così densa che mi costò quasi fatica alzarmi dalla sedia.
«In ogni caso penso che lei, signor capitano, debba arrendersi all’idea che a volte chiedere aiuto sia necessario, invece che stare a crogiolarsi nel suo orgoglio visto fino ad ora non le ha impedito a quell’assassino di mietere un’altra vittima. Nemmeno insieme ai suoi numerosi anni di esperienza qui» citai le sue parole scoccando l’ultima velenosa frecciatina sotto lo sguardo completamente disorientato del Detective Shawn, che se ne stavo ammutolito ed infossato nella sedia.
Spinsi la maniglia della porta, ma senza che quest’ultima si aprisse.
La prima la chiude sempre a chiave.
Sentii la credibilità della mia scenetta da wonder-woman sgretolarsi inesorabilmente. Con molta nonchalance sfilai davanti all’espressione ancora imbambolata di Christopher mi diressi verso la porta in fondo all’ufficio.
 
 
«Ragazze, beh ragazza» mi corressi notando l’assenza di Jasmine. «Pare che ci vedremo domani. Il piccolo capo vuole che faccia i compiti a casa prima di prima di cominciare.» annunciai con una punta di amarezza.
Sollevai i pesanti fascicoli dalla mia scrivania con ancora il mio cappotto rosso sotto il braccio. Li raccolsi senza alcuna fretta, sperando che i movimenti lenti e misurati potessero aiutarmi a lenire quella rabbia che quasi mi annebbiava la vista.
Nulla da fare.
Sentivo l’adrenalina scorrermi ancora in tutte le appendici del corpo fino a farmi pulsare la punta delle dita, il che non mi permise di pensare lucidamente a come incastrare i vari dossier in maniera sensata nella mia borsa già strapiena. Optai quindi per portarli a mano misurandomi in un numero di equilibrismo non indifferente per riuscire a bilanciare il peso di una borsa, che avrebbe tranquillamente fatto invidia a quella di Mary Poppins, e quello della copiosa mole di documentazione cartacea.
Sono questi i momenti in cui dovrei iniziare imparare ad usare uno stramaledetto tablet.
Avevo sempre definito il mio rapporto con la tecnologia come di “pacifica tolleranza”: ci conosciamo il minimo indispensabile e nessuno dei due invade lo spazio dell’altro. Per cui trattavo qualsiasi aggeggio si nascondesse dietro ad un freddo schermo con una certa diffidenza, neanche lontanamente paragonabili allo scarabocchiare di appunti un foglio bianco, cercando di riempire ogni angolo libero con parole scritte talmente storte che, a tratti, sembrava che quasi si muovessero come le spire di un nero serpente su una spiaggia caraibica.
«Che peccato, non hai nemmeno conosciuto gli altri due membri della ciurma» rispose Paula.
L’insistente tamburellare delle sue unghie laccate era l’unico residuo del disagio del nostro primo incontro. Di riflesso sentii un lieve senso di colpa solleticarmi la coscienza. Mi grattai leggermente la tempia per cercare spazzare via quel pensiero, come fosse un insetto fastidioso che si era posato sul mio viso.
«Comunque» alzò la testa dalla scrivania « sei stata grande con Shawn.» mi disse strizzando l’occhio.
Sentii avvampare le guance non appena realizzai che Paula aveva origliato tutta la riunione.
«Bisogna imparare a farsi valere quando sei eternamente considerata troppo giovane»
«Gli hai dato un motivo per darti filo da torcere. Ne sei consapevole?» disse facendosi seria.
«Sono stata una matricola di sedici anni in una delle università più grandi d’Italia, dove le figlie di famosi avvocati non accettavano di buon grado di essere scavalcate da una “ragazzina”» mimai le virgolette con la mano che avevo libera. «perciò ho una certa esperienza in questo genere di situazioni.» sentii una pizzico di risentimento trapelare dalla mia voce per poi disperdersi in  un sorriso amaro.  
«ce la farai, lo so che ce la farai. Ne sono convinta da quando il direttore ti ha scelta e, là dentro, non hai fatto altro che confermarmelo.» fece un’impercettibile pausa puntandomi addosso i suoi grandi occhi grigi. «Ci servi, Virginia.»
Sentii i battiti del mio cuore aumentare sotto il peso di quell’ansia che da qualche settimana mi stava tormentando.
«Grazie Paula, lo apprezzo davvero. Sono qui per dare il meglio di me ed è quello che farò.»
 
 
Incontrai finalmente lo spigoloso e freddo metallo delle chiavi all’interno del lieve tepore delle tasche del cappotto. Le infilai nella serratura ma, con mia grande sorpresa, trovai la porta aperta. Feci sfilare l’orologio da sotto la manica del cappotto. Erano le 11:27.
Quella mattina avevo incrociato Victoria in cucina mentre uscivo per dirigermi a Scotland Yard. Mentre era intenta a versarsi dei cereali in una tazza stracolma di latte, mi aveva informata del fatto che sarebbe stata fuori casa per sbrigare alcune commissioni e che non sarebbe rientrata prima di mezzogiorno e mezzo, giusto il tempo di mangiare qualcosa per poi fiondarsi al lavoro.
Avrà finito prima, pensa.
Lanciai un’ultima occhiata perplessa al soggiorno vuoto e varcai la porta di casa.
«Vicky, sono a casa» mi annunciai appoggiando finalmente i pesanti fascicoli sul tavolo della cucina.
Attesi qualche secondo la risposta della mia coinquilina senza però riceverla.
Un rumore proveniente dall’anticamera mi fece alzare la testa di scatto, attivando quelli che io chiamavo “sensi di poliziotta”. Nel silenzio che lo seguì, tentai di analizzare il suono che avevo appena udito: sembravano delle suole di gomma, come quelle delle scarpe da ginnastica che strusciavano contro una superficie liscia, come poteva esserlo quella delle piastrelle del bagno.
I passi ripresero per un breve tratto.
Sentii il mio cuore battere veloce come le ali di un colibrì rimbombando a ritmo frenetico all’interno del mio petto.
«Vicky, sei tu?»
Passi. Di nuovo.
Sfilai gli stivali, che con i loro tacchi, seppur non troppo alti, avrebbero potuto segnalare la mia presenza. Tolsi il cappotto, guidata anche dalla temperatura che sembrava aumentare ogni secondo che passava. Lo tolsi soprattutto perché, quando si impugna una pistola, maggiore è la libertà di movimento, migliore è la precisione.
Con un movimento fluido feci scattare la serratura della valigetta porta-armi ed estrassi la mia Beretta FS 92. Inserii il caricatore completo di tutti e diciannove i colpi.
Passi. Ne ero sicura stavolta: provenivano dal bagno.
Mi diressi verso la fonte del rumore contando ogni respiro, come mi avevano insegnato in accademia, serviva a regolarizzare il battito e a concentrarsi su qualcosa che non fosse il fatto di poter essere coinvolta in uno scontro a fuoco nell’immediato futuro.
Un respiro.
Con passo felpato mi accostai alla porta del bagno. I passi si erano fermati ma potevo chiaramente sentire il getto d’acqua infrangersi sulla superficie in ceramica del lavandino. Tornai a contare i respiri.
Due respiri.
Puntai la pistola verso il pavimento, disinserii la sicura e feci scattare il carrello per affinché il proiettile passasse dal caricatore alla canna.
Tre respiri.
Mi appoggiai con la schiena contro lo stipite della porta e attesi qualche secondo.
Quattro respiri.
Allungai la mano verso la maniglia e la abbassai facendo pressione con l’indice e il medio.
Cinque…
Con una spallata spalancai la porta alzando la pistola fino a far entrare il mirino nel mio campo visivo.
«Non ti muovere!» sibilai gelida alla figura maschile che mi si parò davanti agli occhi.
Il ragazzo sulla trentina alzò immediatamente le mani in aria.
«No, ti prego non spararmi!» mi supplicò serrando le lunghissime ciglia nere. «Non chi tu sia, ma possiamo risolvere la questione senza farci del male. Nella tasca posteriore dei pantaloni ho il portafoglio e il cellulare, prendili!» aggiunse con la voce tremante.
Senza abbassare l’arma sollevai lo sguardo per un nanosecondo, confusa dalle sue parole.
«Sono un’agente speciale dell’INTERPOL, non un ladro e la tu stai compiendo un’effrazione di domicilio in casa mia! La domanda è chi diavolo sei tu!» risposi tornando la prendere la mira.
«No, no ferma, c’è stato uno sbaglio!» disse agitando le mani incontrollatamente.
«Sì, certo, dite tutti così… e tieni le mani ferme e dove le posso vedere.» ordinai.
Il ragazzo dai capelli corvini si fermò lì dov’era. «Giuro che c’è stato un equivoco, sono il cugino di Victoria. L’ho incrociata mentre usciva e mi ha detto di aspettarla finché non fosse tornata a casa, te lo giuro signora… signorina… agente!» vidi le sue guance perdere gradualmente colore. «Mi chiamo Ben, Ben Barnes ho il passaporto e la patente nel portafoglio e controlli pure.» aggiunse sull’orlo di una crisi di nervi.
Il suo nome solleticò in qualche modo la mia memoria, ma sul momento non riuscii a capirne il motivo. Alzai di nuovo lo sguardo cogliendo la sfumatura di sincerità sotto quella coltre di terrore. Con un movimento fluido inserii di nuovo la sicura e abbassai la pistola. 






Hello beautiful people, 
eccomi qui dopo un'assenza secolare. Chiedo umilmente perdono, ma come potete immaginare ho ricominciato l'università e il campionato.
Potete solo immaginare il delirio del primo mese e delle prime partite. volevo ringraziarvi tutti per l'appoggio che mi avete dato, siete spettacolari!
Spero che sia valsa la pena aspettare.
Un mega bacio,
S.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***



Capitolo V
BEN
 




«Ma sei matto?! Avrei potuto spararti!» inveì infilando la pistola nei jeans.
«Scusa» farfugliai mentre ancora mi sentivo in iperventilazione. «Aspetta, io non mi devo scusare, non ero io quello che rischiava di avere un proiettile in fronte.» aggiunsi una volta razionalizzato la situazione.
«Dio, ho scampato una tempesta mediatica per un pelo.» mormorò tra sé sollevata, ignorandomi completamente.
«Ma cosa…»
«So chi sei, ho una memoria eidetica e ti ho visto nel film su Dorian Gray.» spiegò distrattamente mentre infilava la pistola nei jeans lasciando fuoriuscire solo il manico.
Deglutii rumorosamente al vedere con quale leggerezza e nonchalance stesse maneggiando una pistola carica. Ma il fatto che questa non fosse più puntata contro di me mi convinse a cominciare a rilassare qualche muscolo.
«A proposito, io ti odio.» aggiunse di punto in bianco per poi dirigersi verso l’anticamera.
Ma che razza di problema ha con me questa?
«Scusa, punti una pistola addosso a tutti quelli che odi? Non dovrebbe esistere l’abuso di potere o qualcosa del genere nel vostro codice etico.» chiesi mentre sentivo i miei battiti che iniziavano a stabilizzarsi.
«Il codice etico impone un sacco di cose inutili purtroppo…» mormorò sconsolata. Vidi il suo sguardo assentarsi per un impercettibile momento, come se stesse rivivendo un ricordo fastidioso. A giudicare dalla sua espressione quel fantomatico codice doveva averle impedito di togliersi qualche soddisfazione. Il mio stomaco ebbe uno spasmo al pensiero che si potesse trattare del mio mancato omicidio. Iniziai a considerare l’idea di allertare mia Vicky del fatto che, probabilmente, stava condividendo un appartamento con una psicopatica armata.
«Comunque no» riprese «ti ho puntato addosso una pistola perché eri nel mio bagno e, per quanto ne sapevo, avresti potuto essere un ladro.» rispose spazientita, come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo.
«Scusa. Volevo solo lavarmi le mani, in fondo è anche il bagno di mia cugina.» risposi chinando la testa. Non capivo quale strano sortilegio stesse compiendo ai danni della mia mente quella giovane donna, ma riusciva continuamente ed inspiegabilmente a farmi sentire dalla parte del torto quando in realtà non era così.
«E comunque, ti odio perché da quando ho visto il tuo dannato film non riesco più ad immaginarmi un Dorian Gray biondo quando rileggo il libro!» esclamò con le braccia in aria mentre usciva dal bagno.
La seguii senza nemmeno rendermene conto.
Probabilmente, quello di lusingarmi,  era l’ultimo dei suoi intenti, eppure lo face. L’angolo destro delle mie labbra si tese in un sorrisetto soddisfatto. In parte era dovuto al fatto di averle fatto, anche se involontariamente, un dispetto e in parte perché una tale influenza poteva essere dovuta solo ad un’interpretazione ottimale del personaggio.
Il silenzio calò per qualche minuto in tutto l’appartamento, mentre nella piccola cucina entrambi intenti a fissare il pavimento, forse per cercare il miglior punto in cui scavare un tunnel sotterraneo per poter scappare da quella situazione quantomeno imbarazzante.
Alzai gli occhi, incontrando la parete del salotto decorata da una stampa in bianco e nero che raffigurava un malinconico Tower Bridge immerso nella nebbia. Doveva averla comprata di recente, pensai.
Era quasi un anno ormai che non mettevo piede in casa di Victoria e, a parte il nuovo quadro appeso, poco era cambiato. Faticavo  a capire come mai mia cugina si ostinasse a trasformare il suo appartamento in una specie di bed and breakfast dove gente pressoché sconosciuta andava e veniva in un flusso frenetico ma regolare, come quello di uno sciame di api che entrano ed escono da un alveare. Aveva incominciato a condividere l’appartamento ai tempi dell’università per poter alleggerire i costi, ma anche ora che aveva un lavoro stabile e uno stipendio che le permettesse di viverci tranquillamente da sola non aveva mai smesso di accettare nuovi coinquilini da tutto il mondo. Che fosse per una settimana o tre mesi, non poteva fare a meno di avere qualcuno di nuovo con cui fare due chiacchiere prima di andare a letto, da cui imparare qualche parola di qualche nuova lingua o che le cucinasse qualche nuovo piatto dal nome impronunciabile.
Per quante volete le avessi chiesto spiegazioni, le sue risposte non mi avevamo mai soddisfatto a pieno. Probabilmente il motivo non era completamente chiaro nemmeno a lei, ma Vicky era così. Quella ragazza aveva sposato Londra, ormai viveva in simbiosi con lei. Non riusciva a separarsene eppure pareva aver deciso che, se non fosse riuscita a vedere il mondo, avrebbe portato il mondo a Londra.
«Vuoi qualcosa?» esordì facendo esplodere la bolla insonorizzata nel quale avevo trovato un confortevole nascondiglio.
«No, tranquilla.» risposi voltandomi verso la ragazza dai capelli scuri.
«Credo che i miei geni italiani mi impongano di offrirti qualcosa per forza, anche contro la tua volontà.» rispose allungando il braccio sottile per aprire la credenza. «E non ti conviene sfidare la nipote di una nonna capace di organizzare pranzi natalizi da 12 ore. Quindi, collabora.» riconobbi un cambio radicale nel suo tono rispetto a quando eravamo nel bagno. Se avesse rivolto il viso verso di me probabilmente avrei sorto il principio di un sorriso sulle sue labbra.
«Okay, ehm… del tè va benissimo.» risposi allora.
La osservai esplorare gli scaffali della credenza per qualche secondo, giusto il tempo per rendermi conto del fatto che la stavo guardando davvero per la prima volta dal nostro burrascoso incontro. Un lembo delle camicetta in raso bianco fuoriusciva ribelle dalla vita alta dei jeans neri che, aderenti al punto giusto, mettevano in risalto le gambe kilometriche.
«Oh cavolo!» scosse la testa facendo ondeggiare i lunghi capelli lisci. «A quanto pare tua cugina non condivide la tua passione per l’Earl Grey, abbiamo solo del tè nero… spero non sia un problema.» mi informò con una punta di delusione, senza distogliere lo sguardo dalla credenza. Strabuzzai gli occhi incredulo.
Okay, come diavolo faceva a saperlo? Come?!
Sbattei le palpebre velocemente per cercare di riprendermi dallo stupore iniziale, cercando una spiegazione che non fosse riconducibile alla lettura del pensiero. Dopo qualche istante di smarrimento totale, mi ricordai della sua memoria eidetica, per cui non le sarebbe stato difficile ricordare un’eventuale domanda sui miei gusti personali, pubblicata su una qualsiasi rivista. «Wow, impressionante. E dimmi, dato che la mia memoria non è così straordinaria, in quale intervista l’ho detta? Perché, davvero, non me lo ricordo.» le lanciai velatamente una sfida.
«Oh no, non c’entra la memoria…» disse trattenendo una risatina, dovuto probabilmente alla mia espressione delusa per essere arrivato, come spesso mi capitava in quel periodo, alla conclusione sbagliata. «Ti sei sporcato con il tè che hai preso da Costa mentre venivi qui. Hai il polsino del maglione macchiato.» spiegò poi con un’inquietante tranquillità, indicando il mio polso sinistro. Istintivamente seguii il suo indice constatando la presenza di una macchiolina circolare  vicino alla cucitura della manica.
«E prima che tu mi chieda per quindicesima volta come lo so, ti dico subito che ho il bicchiere di carta di Costa, era caduto dal cestino appena qui fuori. Ah, a proposito, hai una mira pessima.» fece una piccola pausa per poggiare le tazze sulla superficie lucida del bancone. « In più dalla macchia si vede che il te era mischiato con il latte… e se la mia mamma inglese mi ha insegnato qualcosa, è che, se esiste un tè da bere con il latte, quello è l’earl grey.» concluse nonchalance prevedendo e stroncando qualsiasi mia richiesta di spiegazioni.
Rimasi paralizzato a fissare il vuoto con la bocca aperta, cercando un modo per dare un suono ai miei pensieri, ma il rumore metallico della maniglia della porta che scattava non me ne diede il tempo.
«Ben, sono tornata!» annunciò una voce cristallina.
«Ciao Vicky!» salutammo in coro. D’istinto mi voltai verso di lei incontrando i suoi occhi neri, colti alla sprovvista quanto me da quella nostra breve intesa.
«Beh vedo che vi siete già conosciuti, ragazzi» disse mia cugina inarcando un angolo delle labbra. «Sì, la tua nuova coinquilina mi ha quasi sparato.» la informai. Mi sorpresi a riconoscere nella mia voce la stessa tonalità che hanno i bambini quando devono riferire alla mamma che il fratello maggiore gli aveva appena rubato i lego.
«Che diavolo hai combinato Ben?» mi chiese con aria di rimprovero.
La mia espressione cambiò drasticamente, passando da un sorriso convinto della propria ragione a una smorfia di incredulità.
«Ma come cosa ho fatto io?!» protestai.
«Non gli ho quasi sparato. Ho semplicemente puntato un arma a difesa della mia persona, è legittima difesa.» intervenne l’agente dell’INTERPOL, prima che potessi cercare di giustificami. «Era nel bagno e non ha risposto quando ho chiesto se ci fosse qualcuno in casa, al che sono giunta alla ragionevole conclusione che si potesse trattare di un ladro.» concluse sorseggiando l’ultimo goccio di tè.
«Beh, sì, effettivamente è una conclusione sensata.» la assecondò Vicky.
Alzai le mani in segno di resa, già era difficile stare dietro ad una donna presa da sola, pensare di poterne affrontare due contemporaneamente sarebbe stato come gettarsi in pasto agli squali.
«Bene, visto che Vicky è tornata, cedo a lei i doveri di padrona di casa e vado a mettermi in tenuta casalinga.» annunciò la giovane donna dagli occhi neri, mentre varcava la porta del corridoio con la valigetta porta-armi sotto il braccio e un paio di stivaletti dal tacco spesso a penzoloni sull’indice e il medio.
Corrugai leggermente la fronte una volta colta la rarità di quel contrasto: un simbolo di pura aggressività a pochi centimetri dall’emblema dell’eleganza femminile.
«La consumerai a furia di fissarla.» la voce cristallina di mia cugina irruppe nella mia riflessione.
«Cosa?» inarcai un sopracciglio autoconvincendomi di non aver capito a chi si stesse riferendo.
«Sai benissimo che sto parlando di Virginia, con me non funzionano le tue tecniche d’attore.»
Sentii le il sangue affluire rapidamente ed inspiegabilmente alle mie guance, tingendo di imbarazzo la pallida pelle del mio viso.
«Se ti piace dovresti smettere di fare lo scorbutico e provare a conoscerla meglio.» continuò Victoria.
«Potresti evitare di fare il cupido tutte le volte che vengo a trovarti? Sei peggio di mia madre!» mi lamentai, sulla difensiva. Mi voltai verso di lei e subito notai come le sue labbra sottili si stessero inarcando in un sorrisetto malizioso. «Stavo solo pensando a quante mie colleghe vorrebbero avere lo stesso aspetto che ha Virginia alla sua età.» mi giustificai, notando come i miei respiri si facevano sempre più ravvicinati uno all’altro come se stessi annaspando in un fiume la cui corrente tentava di portarmi a fondo.
La risata di mia cugina risuonò per tutto l’appartamento cogliendomi alla sprovvista.
«Perché? Quanti anni credi che abbia?» mi chiese portandosi una mano alla bocca, come se cercasse di arginare le sue risa.
«Beh, nonostante ne dimostri almeno cinque in meno, deve aver passato i trenta. Non sono un esperto, ma so che l’iter per raggiungere l’INTERPOL è parecchio lungo.» risposi cercando di camuffare il mio disagio per quella sua reazione.
Per tutta risposta la bionda scoppiò di nuovo a ridere, ancora più intensamente di prima, tanto che dovette reggersi al bancone della cucina per non accasciarsi a terra.
«Che c’è?» chiesi inarcando un sopracciglio, non capendo il motivo di tale, esagerata, reazione.
«Virginia a ventisei anni.» rispose passandosi una mano sulla gota destra, per asciugarsi una lacrima sgorgata dai suoi occhi grigi durate quelle incontrollate risate.
«Quanti?!» esclamai.
«Ventisei.»
«Potreste almeno fingere di non comportarvi come se io non fossi a tre metri da voi?» disse una terza voce.
La vidi sbucare dalla penombra del corridoio. Indossava una felpa blu, al centro della quale spiccava la sagoma stilizzata di un planisfero trafitto da una spada con alle spalle una bilancia, e un paio di pantaloni della tuta grigi con i polsini alle caviglie. Dentro a quegli abiti semplici sembrava quasi una ragazza della sua età.
Mi beai di quella metamorfosi forse per un attimo di troppo e la sua innata capacità di osservazione mi colse in flagrante, ancora prima che io potessi rendermene conto io stesso.
«Che c’è?» mi chiese mentre si portava di lato la lunghissima coda di cavallo, che prima si appoggiava disordinata sul cappuccio scuro. «Non ho una pistola nascosta nella tasca della felpa, tranquillo.» mi rassicurò in maniera palesemente sarcastica. 

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BUONSALVE GENTE!
Lo so, lo so, sono una pessima persona. Il mio silenzio è stato imperdonabile, lo so. In mia difesa posso dire di aver attraversato un periodo di crisi totale, in cui non mi piaceva nemmno una virgola di quello che scrivevo (oltre che ad una sessione d'esami interminabile).
Chiedo umilmente perdono a tutti, spero di non deludervi.
Buona lettura, x.
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Buona sera a tutti. 
Di solito non mi piace fare premesse prima di un capitolo, ma sento, questa volta,di dovervi delle scuse. Sono stata davvero molto assente in questo ultimo periodo.
I motivi sono stati tanti: lo stress da preparazione dell'Erasmus, gli esami, la mancaza di ispirazione... ma non voglio dilungarmi in giustificazioni, mi limito solo a chiedere scusa per questa prolungata assenza di segnali di vita. In più mi sono sentita di dover cambiare il rating della storia da 'giallo' ad 'arancione' perchè, studiando criminologia, potrei avere un sensibilità diversa riguardo a certe tematiche e non voglio che qualcuno possa invece sentirsi più colpito.
Spero che mi possiate perdonare e che, nonostante tutto, possiate ancora diretirvi, o comunque passare del tempo piacevole, in compagnia dei miei personaggi. 
Grazie mille, a chiunque voglia ributtarsi in questa avventura insieme a me. 
Buona lettura, spero che l'attesa ne sia valsa la pena.
xx 
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Capitolo VI
VIRGINIA

 

«Beh, ragazzi io ho un certo languorino.» la voce squillante di Victoria fece irruzione prima che l’attore potesse rispondere. «Ben pranzi con noi?» chiese infine.

«Volentieri, Vicky» rispose l’attore.

Grazie per aver chiesto la mia opinione, pensai sarcastica. Buttai lo sguardo verso i fascicoli che avevo abbandonato sul tavolo del salotto-cucina (controllare), ero tornata lì per prenderli e portarli in camera mia, dove avrei potuto dare loro un’occhiata, lontana da inaspettate riunioni famigliari. Mi vidi costretta ad accantonare l’idea, dato che le convenzioni sociali imponevano di intrattenere l’ospite, facendolo sentire come a “casa sua”.

Avevo sempre detestato quel genere di leggi non scritte, persino da piccola mia madre dovette corrompermi con del budino al cioccolato per far sì che sorridessi amichevolmente ai clienti del loro piccolo bar, nonostante non capissi perché dovessi sembrare contenta di vedere anche gente che non conoscevo.

Una volta mio padre si sedette accanto a me sulla piccola panchina in vimini che avevamo in giardino e, porgendomi un dente di leone, mi disse con voce paziente: «La maestra mi ha detto che parli poco con i tuoi compagni.»

«Non abbiamo niente da dirci, papi» risposi tranquilla mentre lasciavo che i sottili petali gialli mi solleticassero il nasino dritto. «loro parlano sempre di cose che non mi interessano.»

«Perché non provi a chiedergli tu qualcosa? Tipo come stanno o cosa hanno fatto il giorno prima.» continuò allora avvicinandosi a me.

«Perché io non voglio saperlo davvero.» risposi di nuovo candidamente, mettendomi il dente di leone dietro all’orecchio con un sorrisetto compiaciuto. Davvero faticavo a comprendere perché dovessi chiedere a qualcuno come stesse anche se, in realtà, lo stato di salute del soggetto in questione non destasse in me il benché minimo interesse. Mio padre si schiarì la voce per mascherare una risata.

«Capisco tesoro, ma bisogna essere gentili con le persone se vogliamo che loro siano gentili con noi.»

«Oh, okay papà.» avevo alzato le spalle non ancora completamente convinta. «Ma devo farlo solo con i bambini o devo farlo anche con i grandi?»

«Oh tesoro, devi farlo soprattutto con i grandi.» dopo aver risposto aveva allungato le mani che profumavano di pane appena sfornato e aveva appoggiato la punta del dito al centro della mia fronte, per poi farla scorrere fino allo zigomo seguendo la linea dell’attaccatura dei capelli.

«Ma i grandi dicono le bugie quando gli chiedi come stanno.» rannicchiai le ginocchia spigolose al petto e vi ci appoggiai sopra la guancia.

«Cosa intendi, piccola?»

«Beh, quando tu chiedi agli altri grandi come stanno, ti rispondono sempre che stanno bene. Anche quando hanno gli occhi rossi, come quando si piange o anche quando hanno la voce da arrabbiati.» risposi avvolgendo le braccia intorno alle gambe sottili.

«A volte vorrei che tu non fossi così sveglia.» sussurrò arruffandomi i capelli.

 

«Pizza o cinese?» la domanda di Vicky mi riportò nel presente.

«Beh, visto le origini dell’Agente, io direi pizza!» suggerì l’attore alzando l’indice verso l’alto, come se avesse avuto l’intuizione del secolo.

E il vincitore del “cadiamo-a-fagiolo-nei-cliché-italiani award” di quest’anno è…

«Per l’amor del cielo no! Peggio della pizza, qui in Inghilterra avete solo il caffè.» Alzai le mani in segno di protesta. «Datemi del pollo alle mandorle e sarò felice.»

«Un giorno verificherò se questa vostra diffidenza per il cibo straniero ha qualche fondamento.» disse Benjamin, appoggiandosi con i gomiti al bancone della cucina.

I suoi tentativi, intenzionali o involontari che fossero, di farmi perdere la pazienza iniziavano ad avere successo. Mi voltai verso l’attore, indecisa se rispondere o meno alla sua provocazione.

La vibrazione proveniente dalla mia felpa, giunse prontamente a ricordarmi l’importanza del non sprecare fiato per assecondare uscite di una tale banalità.

Grazie al cielo, pensai tra me mentre estraevo il mio smartphone dalla tasca, non sono mai stata tanto felice di dover interrompere una conversazione per rispondere ad una chiamata.

Aggottai le sopracciglia nel leggere la scritta ‘numero privato’ nella parte superiore dello schermo, ma il desiderio di scappare da quell’indesiderata riunione di famiglia fu un incentivo sufficiente a far scorrere il dito sullo schermo e rispondere senza pormi troppe domande. «Pronto?» alzai la mano, scusandomi con le altre due persone nella stanza.

«Virginia, sono Paula Jones. Ci siamo conosciute poche ore fa.» rispose la voce misurata della mia collega dall’altro capo del telefono.

«Oh certo, Paula. Dimmi tutto.» risposi sentendo su di me gli sguardi interrogativi di Vickie e Benjamin.

«Senti, dovresti venire in centrale.»

Inarcai le sopracciglia, perplessa.

«Certo, nessun problema? Quando?» chiesi pensando che la richiesta fosse dovuta a qualche faccenda di tipo strettamente burocratico, vista la tassatività con cui si era espresso il capitano della squadra.

«Il prima possibile.» disse con tono gelido, tanto gelido da allarmarmi.

«Okay, certamente… ma cosa è successo?» chiesi preoccupata, mentre mi dirigevo verso camera mia per rimettermi in abiti formali sotto gli sguardi interrogatori di Benjamin e Vicky.

«Abbiamo un’altra vittima.»

 

§

 

Tirai un lembo del guanto in lattice per assicurarmi che aderisse perfettamente alla mia pelle, per poi lasciarlo andare andare, producendo un suono simile ad un schiocco. Avevo sempre considerato i guanti in lattice un male necessario: per quanto odiassi non poter avere un contatto diretto con la scena del crimine, odiavo decisamente più l'idea di dover rilasciare un criminale a causa di un reperto inquinato. Attraversai lo stretto corridoio schivando gli agenti della divisione scientifica intenti a passarsi il materiale necessario per la raccolta delle prove. Trovai la porta della camera da letto socchiusa, al suo interno riuscivo a vedere le ombre di almeno tre persone che si muovevano nervose seguendo una traiettoria a semicerchio. Spinsi la leggermente la porta con il gomito per riuscire ad aprirla.

Sostai qualche secondo sulla soglia prima di confermare a me stessa quello che avevo iniziato a sospettare mentre sfogliavo i fascicoli sul sedile della macchina della polizia, nella quale ero stata letteralmente infilata non appena avevo messo piede fuori dalla stazione di St. James's Park: quelle non erano scene del crimine simili a quelle del caso Maffei, erano praticamente identiche.

La stanza non era particolarmente grande, di dimensione standard per un appartamento in quella zona, le pareti color sabbia erano ancora immerse nella penombra. Un solitario filo di luce trapelava dalle tende coprenti, accarezzando la liscia superficie di un vetro dietro al quale era stato sistemato, per poi essere orgogliosamente appeso, un attestato di laurea in fisioterapia.

Rivolsi lo sguardo verso le tre persone che, nel frattempo, avevano smesso di muoversi per la camera da letto e che, in quel momento,stavano in piedi davanti all'armadio aperto. Vicino alla finestra, riconobbi la figura del capitano Shawn che, con il mento stretto tra il pollice e l'indice farfugliava tra sé congetture che non mi sforzai nemmeno di provare a comprendere. Accanto a lui, la figura slanciata e ben proporzionata di un giovane uomo dalla pelle color ebano mi dava le spalle. anch'egli assorto nei suoi pensieri, rigirava nervosamente gli anelli della catena delle manette, che portava agganciare ad uno dei passanti dei jeans scuri, tra le lunghe dita da pianista. Il terzo, un uomo di mezza età dai capelli brizzolati, si stava passando le dita tra i capelli rivolgendo lo sguardo interrogativo verso il capitano. Non potei far a meno di notare l'alone bianco sull'anulare sinistro, il che indicava due possibilità: recentemente divorziato o traditore sbadato. Inclinai la testa, mettendo a fuoco le pieghe sulla camicia azzurra, segno evidente di una stiratura approssimativa. Decisamente divorziato.

Sbattei velocemente le palpebre, maledicendomi per lo scarso controllo che avevo del mio cervello e cercando di eliminare dalla mia mente qualsiasi ragionamento non fosse utile ad analizzare la scena del crimine.

Mossi un passo all'interno della stanza ed iniziai ad osservare ogni elemento di quel raccapricciante scenario per cogliere anche la minima differenza che potesse indicare che quell'omicidio e tre omicidi commessi sul novarese due anni prima non fossero stati commessi dalla stessa efferata mano.

La vittima, Charlotte Patrykson, giaceva sul suo letto, distesa su un fianco. Le lenzuola erano accartocciate attorno al corpo inerme formando un'irregolare cornice blu che metteva in risalto il pallore della pelle senza vita. Mi avvicinai alla vittima, percorrendo lentamente il lato lungo del letto e lasciano che i miei occhi scattassero delle istantanee che da quel giorno in poi sarebbero rimaste indelebili nella mia mente.

Era a questo che si era condannati quando si possedeva una memoria come la mia, a non poter dimenticare nulla. Tutto veniva fotografato dagli occhi e archiviato nel cervello in maniera tanto precisa e vivida che, se mi fossi applicata di più durante le lezioni di educazione artistica, se mi avessero dato un pezzo di carta e una matita sarei stata in grado si ridisegnare ogni viso su cui avevo posato lo sguardo oppure riscrivere tutto il romanzo che avevo appena finito di leggere rispettando ogni singola parola.

Mi piegai sulle ginocchia ed iniziai ad osservare da vicino le mani strette a pugno. La mia attenzione fu subito catturata da un minuscolo angolo di tessuto blu che faceva capolino dal pugno sinistro. Tentai di districare le dita della ragazza, ma il rigor mortis aveva già irrigidito tutte le articolazioni, fossilizzandole in quella posizione per le successive ventiquattro ore (controllare). Presi allora il piccolo lembo tra due polpastrelli e lo sfilati delicatamente, lo avvicinai al viso e iniziai ad analizzarlo più da vicino.

«Hai lottato Charlotte, vero?» sussurrai, passando il dito sui lividi da difesa che imbrattavano la pelle candida con il loro colore rosso-bluastro.

Affilai lo sguardo e con esso percorsi il profilo delle braccia sottili e pallide come rami di betulla fino ad arrivare prima alle spalle e poi al viso.

I capelli lunghi capelli biondi erano sparsi sul cuscino in maniera caotica, formando una macchia dorata che contrastava col tessuto della federa, resa ancora più scura dall'enorme chiazza di sangue che si estendeva su quasi tutta la sua superficie. Una ciocca solitaria le ricadeva sul viso, seguendo il profilo rotondo della guancia disegnando una linea guida che portava dritta alla ferita mortale alla gola. Un inquietante sorriso scarlatto che attraversava il lungo collo da cigno da parte a parte.

«Coltello... da caccia probabilmente.» mi avvicinai per osservare con più attenzione i due lembi della ferita. «Lama non seghettata.»

Tornai ad osservare il viso della ragazza ancora contorto in un'espressione terrorizzata, come se davanti a quegli occhi ormai vitrei ci fosse ancora il viso di chi l'aveva uccisa. Chiusi gli occhi per un secondo e subito le immagini delle vittime italiane iniziarono a sfilare, nitide, dietro le mie palpebre: la stanza bianca di Beatrice Spina, le lenzuola di raso nero di Anna Verdini, i segni delle unghie sulla testiera del letto di Anastasia Nigori... i loro volti presero forma nella mia mente, con i loro lineamenti contorti, la mascella rigida e gli occhi chiusi.

Tornai bruscamente al presente aggrottando le sopracciglia, perplessa. «Perchè non ti ha chiuso gli occhi?» le chiesi sottovoce.

«Parli spesso con i cadaveri?» chiese una voce alle mie spalle, quasi divertita, facendo la esplodere la mia bolla di concentrazione.

Feci roteare gli occhi. «Sì» risposi senza voltarmi. «Danno più risposte di quanto ci possa aspettare e non interrompono i ragionamenti.» conclusi assicurandomi che la frecciata arrivasse al destinatario, per poi tornare ad esaminare il pezzo di tessuto che avevo appena trovato tra le meno della vittima. Lo accostai al lenzuolo e subito fu evidente il fatto che le due stoffe combaciassero perfettamente, non restava altro da fare se non cercare lo strappo che avrebbe confermato il tutto.

«E questi ragionamenti possono essere condivisi anche con noi, agente?» chiese di nuovo la voce maschile.

Inspirai infastidita da quella seconda interruzione. Feci leva sulle ginocchia e mi rimisi in posizione eretta, decisa, questa volta, a voltarmi per scoprire l'identità del mio interlocutore.

Davanti a me si parò un viso allungato e dalla pelle scura. Le labbra carnose del giovane uomo erano tirate, lasciando scoperta una fila di denti perfetti.

«Lo avrei fatto, non appena fossi riuscita a concluderne uno.» risposi secca, mentre mi sfilavo i guanti.

Lui alzò le mani, mostrandomi i palmi, senza riuscire a togliersi dalla faccia quella sua espressione vagamente divertita da ancora non mi era chiaro cosa. Quel gesto, mi ricordò improvvisamente come stessi ignorando qualsia tipo di regola del buon socializzare tra colleghi. Era una situazione che si presentava spesso, o per lo meno più spesso del solito, quando mi trovavo a lavorare sul campo. La mia concentrazione, quando lavoravo ad un caso, era tale che ogni tipo di convenevole non necessario, scivolava all'ultimo posto della classifica delle mie priorità.

«Immagino che il numero sia lì.» dissi indicando gli altri due uomini ancora impalati nella stessa posizione di poco prima.

«Nell'armadio.» mi confermò, facendomi strada con un gesto teatrale del braccio.

Ma che diamine di selezione fanno a Scotland Yard? Pensai sorpassandolo.

«Oh, è arrivata l'Agente Speciale» annunciò Christopher Shawn, preoccupandosi di non nascondere la punta di disprezzo che gli incrinava la voce.

«Dieci minuti fa, gentile da parte sua essersene accorto.» lo scansai senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

L'armadio in legno chiaro era già stato svuotato dalla polizia scientifica. Mi sporsi in avanti per avvicinarmi al numero disegnato col sangue sul fondo. Il numero 14.

Riosservai mentalmente i fascicoli dei casi precedenti, che aveva sfogliato lungo il tragitto, cercando di visualizzare i numeri sulle scene del crimine. Sulla prima scena era stato trovato il numero quattro, poi l'otto ed infine l'uno.

Mi strinsi il mento tra due dita, confermando finalmente quello che era stato il mio sospetto fin dall'inizio. Sentivo gli sguardi dei tre agenti alle mie spalle trafiggermi la nuca. Se fossi voltata in quel momento avrei probabilmente li avrei visti tutti e tre a braccia conserte e i visi corrucciati.

«Non è lo stesso uomo.» sentenziai con tono deciso, rispondendo alle silenziose domande dei miei colleghi.

«Mi fa piacere vedere che non hai nemmeno il minimo dubbio.» commentò pungente il capitano.

strinsi i pugli lungo i fianchi, esasperata.

«La scena del crimine è simile, non posso negarlo. Ma Carlo Maffei era spinto ad uccidere da da un desiderio completamente irrazionale, che andava al di la del proprio autocontrollo, semplicemente non riusciva a farne a meno. Per questo chiudeva gli occhi alle proprie vittime, è un segno di rimorso. Ma qui, il killer ha lasciato gli occhi aperti alla ragazza, l'uomo che ha commesso i crimini in Italia non avrebbe mai tralasciato questo passaggio.» dissi indicando la vittima ancora stesa sul proprio letto. «Poi abbiamo la firma: i numeri sul muro. In Italia vi era una numerazione precisa, dalla prima alla terza. Questo perchè Maffei, nel suo delirio, incolpava la polizia di non essere riuscita a fermarlo in tempo, e quello era un modo per ricordarci quante vite non eravamo stati in grado di salvare. Questi numeri sono sparsi, e penso che anche la più incompetente delle reclute sappia che un serial killer non cambia mai la propria firma.» conclusi poi, ricordandomi a malapena di respirare tra una frase e l'altra.

Alle mie spalle calò un silenzio tombale che mi indusse a girami, giusto per assicurarmi di non essere rimasta sola nella stanza e di non star parlando solo con un armadio vuoto. Davanti a me si pararono le espressioni basite dei miei colleghi. Lessi, compiaciuta, negli occhi del capitano il suo disperato tentativo di trovare un motivo per contraddirmi.

«E questa da dove l'abbiamo tirata fuori? Da un romanzo di Conan Doyle?» commentò l'uomo brizzolato, che ancora faticava a serrare la mascella, rivolgendosi verso i colleghi alla sua sinistra.

«O dall'accademia degli X-men» lo assecondò il terzo uomo, inarcando un sopracciglio.

«Signori, possiamo tornare al caso?» li richiamai stringendomi l'attaccatura del naso tra il pollice e l'indice.

Perchè tutti continuano a parlare di me come se io non fossi presente? Pensai infastidita. 

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