Il Primo Cittadino condizionato

di ikonovel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Julius ***
Capitolo 2: *** Kolbe ***
Capitolo 3: *** Caccia al Vopos ***
Capitolo 4: *** Nuvama, il Tempio della Partecipazione di Gaia ***



Capitolo 1
*** Julius ***


JULIUS


Come gli fosse venuta in testa un’idea del genere non riusciva proprio a spiegarselo. 
Perché il Primo Cittadino dell’Unione, il potente e temuto Mulo, doveva salire su un trabiccolo terra-aria per provare le attrazioni nei safari su Kalgan, la sua illustre capitale, non riusciva proprio a immaginarselo. Cosa lo attraeva nei Vopos, i grandi lucertoloni viola con i loro denti affollati come portaspilli, la pelle dura come la selce e quell’enorme coda muscolosa, pronta a spazzarti via dalla foresta pluviale. 
Lui lo amava.
Amava un mostro.
Un mutante dall’aspetto clouwnesco, magro come uno stecco, con una faccia lunga, il mento proteso, due occhi da far paura e un naso, oh! che naso smisurato, una proboscide si sarebbe potuto dire. 
Un mutante dai poteri mentali, lo aveva condizionato per instillare nel suo cervello l’amore fraterno più puro, quasi da madre, per poterlo servire in tutti i suoi bisogni. 
Ma Julius era felice. Dopotutto, era sempre un maggiordomo.
 
Aveva imparato il mestiere nella grande magione del Governatore Imperiale di Kossira 5, il pianeta centrale del sistema della Grande Gigante rossa della regione di Longrain. 
Al servizio del Conte Polver,  una orrenda palla di lardo, egocentrica fino alla psicosi più profonda.
Lo aveva fatto frustare, una volta, per aver messo troppa poca panna sulle fragole di Kutris, giunte apposta con una cargo interstellare.
 
Tre anni dopo era finito in quel carcere a cielo aperto di Fustis, come maggiordomo di Futur, il pupillo del governatore Grandis. Che tipo quello! Aveva la mania delle donne e manteneva un harem di fanciulle sempre vestire con sete trasparenti che si aggiravano furtive per gli immensi corridoi, alla ricerca di qualche modo per fuggire a bordo della prima astronave di passaggio e di un pilota con abbastanza fegato da entrare nell’iperspazio dalla superficie del pianeta, una follia. 
 
Il Mulo lo aveva trovato nella Sala del Trono, seduto in un angolo scuro, sotto un grande arazzo ai fullereni, nero come la notte. Julius si alzò in piedi, indicando sul trono il corpo senza testa di Grandis. Si era sparato un colpo di fulminatore prima che entrasse lui, il Mulo. Non poteva sopportare l’onta di venire condizionato. Così aveva detto prima di spararsi. 
- Signore, - disse Julius tremando - il Governatore Grandis non poteva sopportare di diventare come me, un uomo al servizio di un altro uomo -
Davanti a lui c’era un uomo enorme, con una corazza nera, dall’apparenza impenetrabile e orrida, forse in carbonio. Un elmo nero e gigantesco con tre feritoie squadrate si volse verso di lui. Sentì una presenza dura, inflessibile dietro quell’elmo così elaborato. Lo guardò a lungo mentre i suoi uomini perquisivano la sala del trono cercando ordigni esplosivi, assassini nell’ombra e trabocchetti elettronici. Ma non c'era niente di tutto ciò, solo Julius, che continuava a rivedere nella sua mente la scena finale della tormentata sconfitta di Grandis: un fulminatore in una mano e il vapore ardente che si sprigionava dalla testa dopo il bagliore più accecante che avesse mai visto. Non uscì neppure un rivolo di sangue dal collo reciso, solo un fumo acre e denso, di carne bruciata e peli vaporizzati. I suoi organi ricettivi nasali ne erano così scioccati che doveva respirare dalla bocca per non sentire più quell’odore orrendo. 
Poi sentì la voce di quell’uomo grandissimo. 
- E voi, come vi sentite al servizio di un altro uomo? -
Rimbombava tra le colonne di granito di Giza, rimbalzava sugli arazzi ai fullereni, si spandeva su per la grande cupola come crema sotto il coltello. 
Julius rabbrividì.
Era solo un maggiordomo, dopo tutto. 
Spontaneamente si inginocchiò, chinando la testa. Lo sentì avvicinare. Una mano umana gli accarezzò i lunghi capelli. 
- Da oggi sarete al mio servizio -
Ma quella voce era cambiata. Nasale, tremendamente nasale, grottesca, quasi priva di toni alti, eppure sibilante di troppi denti e poca aria. 
Quando alzò lo sguardo non poté fare a meno di amare con tutto il cuore l’essere infimo che vedeva. Un amore pieno di infantile stupore: quell’uomo, potente e grandissimo si era trasformato in qualcosa di simile ad un pupazzo da avanspettacolo. Ringraziò tutti gli Dei della Galassia per avergli concesso l’onore supremo di servire con amore un Signore così grande, temuto e potente, uno dei più grandi assassini compulsivi di tutta la storia, eppure così amabile e tenero. E bisognoso di qualsiasi affettuosa attenzione. 
Capì per questo, in un attimo, di essere stato condizionato: nessuno poteva nutrire simili sentimenti per quell'assassino travestito. 
- Oh, bè, non prendetevela troppo - disse la voce nasale - ci sono molti milioni di miliardi di uomini là fuori che sono condizionati dalle peggiori streghe dell’universo, sol perché sono le loro mogli. Voi sarete molto più fortunato di loro -
E Julius sorrise.
Si poteva sorridere mentre ancora sentiva l’odore della carne bruciata di Grandis, lì sul trono? Si poteva sorridere mentre sentiva che fuori dalla Sala del Trono le astronavi stavano ancora bombardando le ultime sacche di resistenza nella città? Si poteva ancora ridere pensando che Futur sarebbe stato giustiziato all’alba di domani?
Si, si poteva anora sorridere quando si aveva un così grande Signore cui dedicarsi. E che spirito, poi!
- Signore, e la vostra armatura? -
- Oh, un semplice giochino che mi hanno realizzato sulla Fondazione. Eccolo qui -
Mostrò a Julius un braccialetto nero che terminava con un bottone sul palmo della mano. 
- Basta schiacciare il pulsante ed ecco fatto -
In un lampo la completa armatura lo avvolse e mentre parlava la sua voce cambiò facendosi possente, come prima.
- Come vi chiamate? - chiese, rimbombando nella Sala.
- Julius -
- Bene Julius. La prima regola è che questo braccialetto non deve mai lasciare il mio polso. Per nessun motivo, qualunque cosa accada. La seconda è che dovrete chiamarmi Primo Cittadino. La terza è che, nonostante il mio aspetto, ho quasi sempre fame. Adesso dobbiamo andare -
Si avviò con passo deciso ma corto verso la grande porta in fondo alla Sala. Il lungo corridoio successivo sfociava sul terrazzo delle Ovazioni di Grandis: una balconata sormontata da grandi tendaggi in velluto rosso carminio bordati di giallo oro. Sotto di loro si stendeva l’immensa Fustis, oscurata dalle nuvole di fumo dei grandi palazzi che bruciavano. 
Il Mulo appoggiò i grandi guanti in carbonio sulla balaustra di granito e si concentrò sulla scena, volgendo lo sguardo a destra e a sinistra. Lontani bagliori misuravano la potenza delle sue armate. Le strade deserte, i grandi viadotti urbani divelti, gli abissi d’acciaio liquefatti dai cannoni Laser. La desolazione era al culmine. 
Piccoli Zanzi sfrecciavano a migliaia attorno ai palazzi ancora in piedi, con il loro carico di morte, a caccia degli ultimi resistenti. Pochi, per la verità. 
Era ora di chiudere la partita.
Julius vide il Mulo schiacciare un pulsante sul petto e parlare distintamente:
- Generale Kant, potete ritirare le vostre truppe d’attacco, il vostro compito qui è terminato -
Il Mulo si volse. Dietro di lui era comparso Wopo, il tenente di collegamento. Si inchinò e disse:
- Primo Cittadino, l’astronave attende -
Dieci minuti dopo Julius era a bordo della navetta spaziale, al di fuori dell’atmosfera di Fustis. Virò sulla destra, perdendo gravità e dirigendosi verso Kalganarian, la più grande astronave ammiraglia mai prodotta nei cantieri della Fondazione. 
Era un unico plinto nero, gigantesco, capace di oscurare in parte la luce del grande sole rosso del sistema di Fustis. Le forze d’invasione dell'’Armata del primo Cittadino si riversavaverso attraverso le enormi aperture che si aprivano sul fianco della Kalganarian; milioni di Zanzi ritornavano alla regina Madre.
Il Mulo si volse a Julius.
- Trovate il vostro alloggio. Troverete lì le istruzioni lasciate da Kobe, il vostro predecessore. Mi ha lasciato da meno di una settimana -
- Cosa gli è accaduto? -
- Era molto anziano. Mi ha servito bene fino all’ultimo, lo stesso farete voi -
Sul fianco in ombra della Kalganarian si aprì un varco sottile come un capello che s’ingrandì velocemente fino ad accogliere la navetta del Mulo. Il Bagliore di un sole si sprigionò dietro di loro, mentre  l’hangar si chiudeva: tutta l’Arma sapeva ora che il Mulo era tornato sulla sua nave ammiraglia. 
Fischietti risuonarono lungo il corridoio, salutando il Mulo. Il generale Kant lo attendeva davanti alla porta degli appartamenti privati del Mulo. Si scambiarono poche parole. Poi il Mulo disse a Julius di ritirarsi e di presentarsi tre ore dopo, per il pranzo. Gli mise in mano un uovo di marmo traslucido, dicendogli di non perderlo mai. 
- Non abbiate timore, imparerete tutto molto presto. il mio stile di vita è molto semplice - aggiunse.
La sua voce fece vibrare le pareti d’acciaio della Kalganarian, e Julius si avviò. 
Vide lungo la parete d’ingresso una piccola scritta luminosa che riportava il suo nome. Si diresse verso di lei e quella si mosse lungo la parete, precedendolo. 
La seguì.
Trovò la porta del suo alloggio e la spinse con la mano aperta. 

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Capitolo 2
*** Kolbe ***


Le istruzioni di Kobe erano sul tavolo, stampate su un foglio grigio.

Sembrava esserci solo quel foglio, sul piccolo tavolo in alluminio, nella penombra della cabina.

La prima riga gli dava il benvenuto.

Kolbe aveva vissuto una vita piena e soddisfacente al servizio del più grande conquistatore della storia della Galassia da ottocento anni. 

Le sue necessità erano poche. 

Julius non avrebbe dovuto preoccuparsi dell’igiene personale e del guardaroba del Mulo. Provvedeva a se stesso, pretendendo di essere lasciato in pace quando faceva il bagno. Indossava sempre un dolcevita grigio e un paio di pantaloni di pelle sottilissima. Per il resto, sempre e comunque, aveva la sua armatura. 

Non c’erano donne in giro, tutti sapevano che il Mulo era appunto un mulo, e non era interessato alla compagnia femminile, che in genere gli dava ai nervi.

Raramente, molto raramente aveva ospiti. E con loro Julius poteva comportarsi come meglio credeva.

Se chiamato, doveva raggiungere immediatamente il Primo Cittadino e offrirgli ogni sorta di manicaretto dolce o salato ad ogni ora del giorno. Non doveva proporglieli, doveva portarglieli sotto l’enorme naso affinché ne fosse stuzzicato. Doveva collaborare con i tre chef che lo seguivano sempre, rinnovando il menu, assicurandosi che fosse sempre tutto a temperatura perfetta, ovunque fosse, per qualsiasi motivo.

Oltre al cibo, le grandi passioni del Mulo erano, nell’ordine: la caccia al Vopos e le storie lette ad alta voce. Kobe scriveva che era stato scelto per l’inflessione della sua voce, una sfumatura del suo timbro aveva interessato il Mulo. Non doveva stupirsi di ciò, lui stesso aveva scoperto che l’unica ragione che ne aveva fatto un maggiordomo per tutta la vita non era la bravura nell’occuparsi dei bisogni più intimi del signore di turno, ma nella qualità della sua voce, una qualità tanto evidente da passare del tutto inosservata. 

Il Mulo prediligeva le letture serali e pomeridiane, accompagnate da qualche dolcetto o bevanda particolare. Doveva leggere preferibilmente in piedi, muovendosi, cercando di partecipare alla storia con tutto il suo essere. Non importava che fosse bravo o no nel recitare, doveva solo leggere con buona attenzione. Col tempo avrebbe imparato a migliorarsi.Tutto qui. 

Quasi tutto il suo tempo doveva dedicarlo alla ricerca gastronomica e letteraria. Kobe aveva lasciato nel Klem un file con i suoi piatti e le letture preferite, doveva studiarle con attenzione. C'era anche un programma dettagliato che aiutava a rinnovare sempre il menù, ricorrendo anche a pietanze che avessero riscontrato il maggiore apprezzamento.

Aveva appena finito di leggere che Convers, il primo Chef, lo chiamò sullo schermo alla parete. Non aveva mai visto uno schermo del genere, non c'erano tasti, nè comandi. Pensò che bastasse parlare, e lui avrebbe compreso. Aveva ragione.

  • Buongiorno, mi hanno informato che siete il nuovo Kolbe, come vi chiamate? -
  • Julius - 
  • Bene Julius, io sono Convers, primo Chef del Primo Cittadino. Vi ho inviato sul Klem la lista dei piatti pronti per oggi, con l’orario di preparazione e l’agenda annessa. Ognuno di essi ha una scheda con la ricetta e la sua storia, oltre alle informazioni sugli ingredienti. Studiatela -
  • Grazie -
  • Dovrete offrire la colazione fra quindici minuti. Vi aspetto tra dodici -
  • Dove devo andare? -
  • Il vostro uovo di marmo ha già memorizzato l’agenda. Troverete le indicazioni sul corridoio -

Dieci minuti dopo Julius teneva ben alto sulla spalla il vassoio con la colazione per il Mulo:

  • uova ammantate della scogliera di Bloccus;
  • burro di latte di Klan
  • marmellata di Glofus allo zenzero
  • pane integrale caldo
  • l’immancabile prosciutto di lingua di Vopos, ucciso dal primo Cittadino il 26 ottavo 45876 intergalattico. 

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Capitolo 3
*** Caccia al Vopos ***


Il Primo Cittadino dell’Unione Galattica sfiorò il braccialetto di neurano prima di salire sullo Zanzi. Intorno a lui si alzavano i muri verdi della foresta pluviale di Kalgan, disboscati nel raggio di trecento metri. L’armatura che lo avvolgeva scomparve e saltò agilmente nel piccolo abitacolo, irto di strumenti di rilevazione animale. 

Il Mulo avviò il motore e tirò la cloche per decollare. Mentre si alzava dritto nell’aria, avvolto dal fischio del potente motore a reazione, accese il rilevatore a raggi infrarossi a largo raggio e la camera termica di settore. 

Il suo attendente lo aveva informato che erano stati avvistati un gruppo di Vopos tre giorni prima, molto lontano da lì, nel settore 3A -999H, distante più di duecentocinquantatre chilometri. Lo Zanzi poteva esserci in mezz’ora. 

Nella sua mente si rincorsero le facce di coloro che aveva affrontato due giorni prima: il governatore di Polko, il suo Primo Ministro e il Capo Ingegnere Astronavale della Fondazione, Worjo.

Li avrebbe voluti far soffrire, si sarebbe voluto liberare. Ma non era possibile. La cura delle faccende del suo Impero era diventata una prigione.

Il Mulo inserì le coordinate e lasciò che il pilota automatico impostasse la rotta. Prese il rilevamento sulla bussola giroscopica e disinserì l’automatico passando in manuale. Sapeva che non c’era niente di meglio di un volo radente sulla foresta di Klanarie per alzare l’adrenalina ed entrare nel vivo della caccia. 

Si concentrò progressivamente, scendendo sempre più in basso, lo sguardo avanti, fisso sulla rotta; obbligava lo Zanzi a cacciarsi in veri e propri budelli verdi, irti di spine lunghe come corni vegetali, nascoste dalle larghe foglie verde smeraldo delle Klanarie.

Volò sempre più basso a sfiorare rami e spine per un quarto d’ora, mentre il battito del cuore accelerava e il sudore inumidiva il casco sulla fronte e il palmo dei guanti in pelle.

Sapeva che non poteva esagerare. Quel volo radente sarebbe stato sentito molto lontano. 

Guardò lo specchietto retrovisore.

Dietro di lui seminava la tempesta di fuoco dei postbruciatori lanciati a oltre la velocità del suono. Troppo rumore per iniziare una caccia fatta di astuzia e primitivi istinti.

Di scatto tirò la cloche e lo Zanzi si proiettò verso le nuvole rosa e viola dell’ora prima dell’alba su Kalgan, la capitale del suo Impero. 

I suoi sensi adesso erano accesi fino allo spasimo, la tensione alle stelle. Finalmente si sentiva vivo, l’adrenalina scorreva copiosa nelle vene fino al cervello, nessuna conquista di un grande regno poteva eguagliare quell’emozione così rapida e intensa.

Se l’avesse saputo, molti anni fa, avrebbe scelto di fare il pilota di Zanzi per i turisti, è partecipare alle gare nei tunnel. Era magro abbastanza.

Salì fino a 8000 metri e iniziò l’analisi dei dati. 

C’era un gran movimento quel giorno nella foresta.

Vide molte tracce rosse sul rilevatore termico, disposte intorno ad un punto preciso della foresta. Potevano essere Horni, i grossi uccellacci che si cibavano di carne morta, ripulendo tutta la foresta. Loro giungevano subito, appena un animale si accasciava al suolo. Poi venivano i Vopos a finire l’opera. 

Fece un largo giro intorno, allontanandosi a spirale, fino a dieci chilometri dal pasto degli Horni. Ed eccoli lì. I Vopos comparvero sullo schermo. Erano in tre. Due più piccoli dietro e il più grosso davanti. Dietro di loro altri cinque, più distanti. Si dirigevano lentamente verso gli Horni.

Se qualcosa era morto nella foresta doveva essere grande, molto grande. E produrre un gran fetore.

Spinse alla sua destra il pulsante di navigazione silenziosa e scrutó la foresta intorno a lui, tenendo d'occhio lo schermo del localizzatore: voleva scendere a metá strada tra i Vopos e gli Horni.

Quando si sentí sicuro, tiró la leva di espulsione. Lo zanzi si bloccó in aria, emettendo un leggero sibilo. Sotto l'abitacolo si aprí la botola e il campo di forza lo fece scendere verso la foresta, come se fosse su un ascensore dalle pareti blu traslucide e brillanti. Quando il fondo del sedile raggiunse terra il campo svaní e lui restó solo, seduto nel bel mezzo della foresta, nella penombra, ascoltando il sibilo dello Zanzi che si allontanava senza di lui.

Scese dal sedile e aprì il cassetto. Conteneva il suo fucile Wellstern MU1, a pallettoni e polvere esplosiva, e una daga d'acciaio nel suo fodero d'argento.

Odiava andare a caccia con le pistole atomiche. Non davano nessuna chance all'avversario. Non c'era alcun piacere nel puntare a casaccio una pistola che sparava mirando da sola. Non solo la bestia non aveva nessun'arma paragonabile, ma non aveva nessuna chance di sfuggire, visto che la pistola analizzava la scena e individuava la vittima, fulminandola all'istante. Non era sportivo. Non era leale. 

Per questo si era fatto costruire un fucile a pallettoni, riprendendo la tecnologia vista su Sayshell in un museo.

Certo, la Fondazione aveva insistito per introdurre vari sistemi sofisticati di puntamento, ma lui aveva ordinato che fossero eliminati dal suo personale Wellstern. Dovettero fare un modello apposito, il MU1. Alla fine vendettero piú MU1 di tutti gli altri sedici modelli con tutte i possibili e diabolici sistemi di difesa e offesa. La pubblicità diceva che il MU1 era il modello posseduto dal Mulo e che usandolo piú di centocinquanta cacciatori erano stati sbranati dai Vopos. Era una cosa che affascinava tutti gli appassionati.

Adesso, finalmente, c'erano solo lui e i Vopos. 

La creatura con il cervello più primitivo di tutta la Galassia, l’unica mente (ammesso che potesse chiamarsi cosí) che lui non riuscisse ad individuare a distanza nonostante i suoi poteri mentali da mutante. Per sentirla, doveva arrivarci vicino, a non meno di dieci metri. A quella distanza d'improvviso avvertiva l’emozione primitiva, infernale e obnubilante di un cervello ammantato di uno spesso strato di tenace determinazione: far scorrere il sangue e accoppiarsi. 

Una lucertola di cinque metri, con due poderose zampe posteriori e una coda grossa e muscolosa. Un muso lungo e affilato come una spada si apriva mostrando una fila di denti aguzzi come coltelli davanti e poderosi come macine dietro. Impossibile sfuggire. Poteva tranciarti in due con un solo morso, qualunque fosse la corazza indossata. 

Dalle narici non sentiva niente, ma il Mulo era in grado di percepire nella mente dei Vopos le emozioni intermittenti scaturite dalla lunga lingua biforcuta che ne usciva a scatti, scandagliando l'aria alla ricerca del suo unico obiettivo: litri di sangue. Preferibilmente fresco. 

La sua tattica d'attacco era molto semplice. Cercava di ferire la sua preda con i denti anteriori, lacerandone le carni. A quel punto la vittima perdeva copiosamente sangue e tentava di fuggire. Il Vopos poteva raggiungere i sessanta chilometri orari durante la corsa, ma preferiva seguire lentamente la sua preda, leccando accuratamente il sangue da terra, aspettando il boccone piú grosso. 

Alla fine la vittima, spossata, si accasciava a terra. Il Vopos si avvicinava e mordeva ancora. Poi poggiava la bocca sulle ferite e con una poderosa contrazione delle costole succhiava tutto il sangue che poteva, ingoiando grandi sorsate. Di solito si appisolava per riprendere il pasto dopo, con comodo. A meno che, nel frattempo, non fossero giunti altri Vopos, per partecipare alla festa.

E poi c’era la caratteristica più importante di tutte, quella che gli appassionati chiamano “l’esplosione”. 

Era una faccenda curiosa.

Il Vopos è in cima alla catena alimentare delle foreste di Kalgan. Non ha nulla da temere da altri animali, tranne quelli della sua stessa specie. Ma se un gruppo di Vopos si mette in testa di fare fuori un proprio simile c’è veramente poco che possa fare la vittima prescelta. L’evoluzione quindi ha escogitato un deterrente: lo stesso poderoso meccanismo di suzione viene utilizzato al contrario. Il Vopos, prima di morire, esplode. E nel farlo spara tutt’intorno un migliaio di piccoli aghi cornei gialli, nascosti sotto le squame del dorso, tanto duri e veloci da penetrare nella pelle dei Vopos intorno e farli sanguinare copiosamente. Nessuno di avvicina ad un Vopos morente, e ogni cacciatore se ne guarda bene.

Il Mulo sentiva le menti degli Horni poco distanti, tutti molto eccitati dal pasto della carogna e dalla difesa del proprio spazio alimentare. Doveva esserci un bella baruffa lì intorno.

Attivò il sistema di visione a infrarossi e subito riuscì a distinguere le calde lingue di tre Vopos che camminavano spediti verso la sua posizione. Si concentrò sulle loro menti, ma non ne sentiva l’aura, non ancora.

Da dove soffiava il vento? I Vopos l’avevano già individuato?

Certamente. 

Nella sua posizione tra gli Horni al pasto e i Vopos era sopravvento agli ultimi, e sentivano il suo odore, di sicuro.

Improvvisamente riuscì a percepire la mente del primo. 

Era impegnata a discernere i tre odori che sentiva: sangue di Calle, il grande erbivoro della foresta, Horni e … e … un altro, non sapeva cosa. La mente era concentrata sull’odore del sangue di Calle.

Dietro strisciavano due Vopos, più piccoli. Seguivano quello grosso, ma a distanza.

Qualcosa infastidiva il primo. Il terzo odore. Il suo.

Il Vopos grugnì, per stanare l’intruso.

Era il momento di farsi vedere.

Saltò fuori dal cespuglio. Non lo vedeva ancora, ma il fogliame si muoveva a scatti, frustato dalla coda. 

Adesso era in grado di vedere la sua mente.

Una densa crema rossa, un muro elastico di semplice determinazione animale. Non c’erano spazi apparenti, nessun sentimento, nessuna ragione. Solo crema rossa. Era sempre una sensazione affascinante per il Mulo. Un mente monocromatica. Straordinario. 

Ci aveva messo mesi a capire come penetrare in quella mente, rischiando tre volte la pelle. Poi aveva notato che c’erano due sfumature diverse, create dai due emisferi del cervello; una cremisi, l’altra più rossa. In mezzo c’era un’area sottilissima, gli unici pochi neuroni capaci di un qualche comportamento oltre la forza bruta più semplice. Entrando dalla fessura trovò solo due monoliti assoluti, vivi e pulsanti: il desiderio di sangue e di accoppiamento. In mezzo, l’istinto di conservazione, e un briciolo di paura per l’esplosione di altri Vopos. Nient’altro.

Una mente così semplice è impossibile da condizionare. I Vopos erano quasi le uniche creature dotate di cervello che il Mulo non potesse dominare: niente sentimenti, nessun “forse”, nemmeno un “chissà”, niente storie da raccontare, nessuna bugia.

Non poteva neanche fermarli. Ci riusciva in parte con altri animali, ma la sua formidabile arma mentale, quella che gli aveva fatto conquistare la Galassia, era inutile con i Vopos: nessuna emozione, nessuna paura, niente controllo.

Ma c’era di più. L’assoluta impermeabilità dei monoliti era affascinante, lo emozionava fin nell’intimo. Era straordinaria, non aveva mai provato una sensazione simile. E per di più era pericolosa.

Gli riusciva così facile ridurre un uomo ad un vegetale dolorante, con la sola forza della mente. Bastava un tocco qui e là e il poveretto finiva in ginocchio biascicando pietà.

Il Vopos no.

Se aveva deciso di attaccarlo per succhiarne il sangue, passava al galoppo e lo puntava, e non c’era niente che lui potesse fare.

Adesso il Vopos più grosso lo guardava, apertamente. Forse non aveva mai visto un essere umano. Forse uno o due neuroni si stavano chiedendo che razza di cosa fosse e perché facesse quell’odore così strano. Ma alla fine avrebbe sentito il sangue. 

Vide la sua lingua muoversi come se avesse una vita propria. Analizzava. Cercava il sangue. Lo avrebbe trovato. 

Anche quel Vopos aveva due monoliti nella mente. Grandi come palazzi. Quello dell’accoppiamento era gigantesco, forse aveva davanti un maschio Alfa. 

Attenzione!

Gli altri due!

Adesso li aveva alle spalle. Erano più vicini. Avevano molta più paura del Vopos maschio che di quella figura strana che avevano davanti. E avevano l’occasione di fare un pasto veloce, prima che il maschio Alfa decidesse di attaccare. 

Uno dei due si lanciò.

Il Mulo si voltò e prese la mira, appena sotto il muso che sobbalzava nella corsa. Attese che la mente del Vopos fosse ormai spenta nella foga e sparò. Il Vopos fece ancora due passi e poi cominciò a gonfiarsi, nell’ultimo terribile respiro. Fece appena in tempo a buttarsi a terra mettendo il fucile sopra la testa che gli aghi gli sibilarono sopra la schiena, veloci come frecce. 

Il secondo piccolo Vopos ne fu preso in pieno. Il Mulo alzò la testa e lo vide gonfiarsi a stento e poi scoppiare.

Il Vopos grosso era stato colpito anche lui, ma non gravemente. E adesso, per terra, c’era tanto sangue. Persino il Mulo ne era ricoperto. 

Guardò affascinato il grosso Vopos avvicinarsi al corpo di quello più piccolo e succhiarne il sangue. Vedeva la sua mente semplice illuminarsi di piacere, un piacere intenso. Si mise in ginocchio, indifferente al sangue che gocciolava dai suoi vestiti e si concentrò su quella mente. Girava e girava attorno a quel monolite senza potersene staccare, affascinato dalla potentissima intensità di quell’emozione ancestrale: il godimento del cibo. La sua mente godeva del sangue, con una potenza irraggiungibile da qualsiasi essere più evoluto. Un’universo totalizzante di piacere.

Quando il Vopos passò alla carcassa del secondo, nella mente del Mulo il monolite cremisi divenne enorme, si alzò verso il cielo, come una gigante rossa che esplode avvolgendo il suo sistema solare. Il Mulo non aveva mai vissuto un’esperienza simile, la sua mente si era fusa con quella del Vopos per trarne il più grande godimento che avesse mai vissuto.

C’era del dolore, ma l’odore del sangue era più forte, dolore e godimento si acuivano a vicenda. 

Nessun essere umano poteva godere così tanto. 

Lo odiò.

Odiò l’immenso piacere che invadeva quella mente primitiva mentre beveva a grandi sorsi il sangue nei resti esplosi del piccolo Vopos, odiò il dolore che accompagnava il godimento, odiò persino il sangue che scorreva lento dalle ferite su suo dorso. E quell’odio che montava nel suo cervello si avvolse intorno ai monoliti cremisi della mente dell’animale. Il Vopos si volse a guardarlo e fece danzare la lingua verso di lui. Anche lì c’era sangue. Adesso lo sentiva. 

Il grosso Vopos lasciò la sua preda e si volse verso di lui. La sua mente era ottenebrata dal piacere, e tuttavia ancora vigile, per averne di più.

Il Mulo non poteva sopportarlo, il suo odio, la sua frustrazione crebbe a dismisura. Intollerabile. 

Alzò il fucile e mirò alla coda. Voleva che soffrisse, nessuno poteva godere così tanto nella sua Galassia. Sparò uno, due colpi. Il Vopos si rigirò due volte, poi il Mulo sentì la rabbia devastare la sua mente e il Vopos attaccò.

In un attimo sentì che il monolite cremisi stava entrando nel suo cervello, provocandogli un dolore atroce e dietro di esso il piacere, l’immenso godimento di un pasto enorme e la certezza del prossimo accoppiamento.

Il Mulo barcollò. In tutta la sua vita non aveva mai nemmeno immaginato che simili emozioni potessero esistere.

Il Vopos adesso era al galoppo e la lingua sibilava. Pericolo. La mente del Mulo si scosse, un barlume di paura si fece largo nell’immenso godimento che la invadeva. Dovette fare uno sforzo sovrumano per tornare in sé.

Prese la mira sul muso e sparò due colpi in rapida successione, a sei metri dalla preda. Vide i denti spezzarsi e la bocca esplodere per i colpi del suo fucile, e dietro di essa aprirsi un varco grande quanto un pungo. Doveva averlo colpito al cuore. Il Vopos si accasciò ma continuò ad avanzare per inerzia. Poi cominciò a gonfiarsi. 

Il Mulo non aveva altro scampo. Col Vopos a due metri che si gonfiava, aveva un’unica possibilità di salvezza, buttarsi sotto di lui. 

Il Vopos esplose e il Mulo fu ricoperto da una cascata di sangue caldo che puzzava di carogna, il sangue di tre Vopos, tutti morti.

Stordito, sgusciò dalla carcassa del Vopos e ne guardò i resti, la mente ancora piena dell’immenso godimento.  Si inginocchiò e morse la carne morta bevendone il sangue a fiotti. 

Bevve e bevve, fino a non poterne più. I monoliti cremisi ronzavano ancora nel suo cervello, roteavano, lanciando lampi di piacere intensi, in mezzo a voragini di dolore, orgasmi primitivi di esseri viventi primordiali. Si stese sull’erba fra gli alberi, in mezzo alle carcasse dei Vopos, continuando a godere e a gemere.

Un dolore lancinante lo scosse.

Sulla gamba, sulla gamba.

Un Horni aveva cominciato a mangiarlo.

La sua mente esplose in un urlo di dolore e lanciò un’emozione di paura mortale sul volatile che si immobilizzò terrorizzato fino a morire. 

Il Mulo si mise in ginocchio e cominciò a vomitare tutto il sangue che aveva bevuto, a pezzi grossi come uova, e mentre la nausea cresceva continuava a vomitare finchè lo stomaco non fu di nuovo vuoto, stretto nella morsa dei suoi muscoli addominali. 

Il sangue della ferita aperta dall’Horni si mischiava al sangue di cui era intrisa la foresta. E tuttavia la sua mente non riusciva a liberarsi dei monoliti. Continuavano a occupargli la mente, avvolgendola nella crema rossa in cui affondavano, turbinando come in un maelstrom.

Rischiava di morire per semplice risonanza.

Con un supremosforzo di volontà premette il pulsante di richiamo sul braccio sinistro e in trenta secondi lo Zanzi fu sopra di lui. Il tubo antigravità lo avvolse e si trovò seduto nello Zanzi, a trecento metri d’altezza, appena sopra le chiome della foresta. 

Aprì il tettuccio dello Zanzi per respirare l’aria pura in quota, prese la cloche e la tirò, lasciando che il vento portasse via quel puzzo immondo di sangue putrido.

Adesso la mente era più lucida, fra poco la risonanza mentale con quella bestia sarebbe svanita, sarebbe diventata solo un ricordo, il ricordo più sconvolgente della sua vita. E si sarebbe trasformato in desiderio.

Tornare a cacciare i Vopos.

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Capitolo 4
*** Nuvama, il Tempio della Partecipazione di Gaia ***


Lo aveva detto mentre friggeva due uova al tegamino dopo averle cosparse con le dita di un pizzico di Curry. L’aveva buttata lì, come se stesse parlando del tempo uggioso che dominava il frutteto fuori dalla finestra, impallidendo i colori, inumidendo le foglie. 
Ianov Pelorat aveva detto semplicemente:
- Vorrei provare anch’io, una volta -
Bliss si fermò, con la forchetta in mano. 
Si concentrò sulla mente di Ianov, con delicatezza. Era dominata dalla curiosità e dal desiderio. Tutto qui.
- Ma si, Bliss, ogni volta mi dici che ci vorrà tempo, che devo fare esercizio, che ci vuole allenamento, che per una persona anziana come me è molto difficile, e io lo capisco. Però vorrei provare anch’io, una volta -

Bliss restò assorta. Sapeva che si poteva fare. Lo sapeva ormai da mesi. La sua mente poteva traghettare quella di Ianov fino a fargli intuire e vivere per qualche istante la Consapevolezza di Gaia, il sentirsi parte del pianeta vivente, di condividere ciò che per tutti, su Gaia, era semplicemente Gaia. Ma ci voleva tutta Gaia per farlo davvero entrare anche solo sulla soglia della vera Partecipazione. 
E di Ianov ci si poteva fidare. Non solo perchè era sinceramente e teneramente innamorato di lei, pur sapendo perfettamente che aveva davanti qualcuno che era molto più di un semplice essere umano (come e perchè non gli interessava minimamente). Ma anche perchè Ianov, nonostante la sua cittadinanza della Fondazione, nonostante fosse in tutto e per tutto un cittadino di quella cultura, era uno storico dalla mente molto equilibrata. Pacificata, si sarebbe potuto dire.  E quell’ultimo anno su Gaia aveva perfezionato un percorso lungo anni. 

Le uova finirono nei piatti sfrigolando di burro e l’insalata di mango e cetriolini mostrava già tutti i colorati profumi di stagione sul bianco del vetro.
- E poi sai, Gaia certamente ha nei suoi ricordi qualcosa che interessa tutti. -
- Per esempio? La Terra? -
- Oh no,  credo che quella storia debba essere abbandonata per un pò, ci vorranno secoli per venirne a capo. No. Pensavo alla storia stessa di Gaia. E’ certamente un percorso evolutivo interessante. E se lo scopo di tutto ciò è trasformare la Galassia in una Gaia Galattica, ebbene, occorre narrarne la storia, mettere in luce gli aspetti critici, le difficoltà superate, i passi successivi dell’evoluzione delle coscienze. La scuola, il lavoro. Insomma, non è certo il Paradiso, e quindi occorre capirlo, scoprirlo. Si può fare solo con le storie. Costruendo un mito. Non ti pare? -
- Che vuoi dire? -
- E’ abbastanza semplice. Immagina che domani arriviamo sulla Fondazione per diffondere la notizia che Gaia esiste ed è un Pianeta Vivente, dominato da un nuovo livello di Partecipazione collettiva. Nessuno capirebbe nulla. Occorre trovare il modo di spiegarlo. E questo si può fare solo con le storie, le storie di Gaia e dei suoi abitanti, viventi e non. Trasformandolo in un Mito. Una storia leggendaria. No, non penso ad una religione, Dio ci scampi. Ma gli uomini si nutrono di storie, altrimenti non capiscono -

Bliss pensò che Ianov aveva ragione. Gaia avrebbe ascoltato.

La caldera più grande che Ianov avesse mai visto. Le colline intorno, distanti più di trenta chilometri, non erano altro che i bordi di un cratere, perfettamente circolari, erosi dal tempo. La sconfinata pianura al centro sembrava sottile come un tappeto erboso. Gli animali pascolavano nella pace della brezza da ovest. Da qualche parte, molto lontano, c’era il mare, oltre le colline.
L’aria tersa era tuttavia densa di attesa. C’era una tensione verso il centro della pianura. Ma Ianov non vedeva null’altro che un leggero bagliore, troppo lontano per essere distinto con chiarezza. 
L’auto a idrogeno scendeva piano sul declivio della collina, lievemente sobbalzando sul sentiero battuto. I pellegrini a piedi erano tutti giovani, solitariamente concentrati sul viaggio verso Nuvama, oppure nel ritorno, svolazzanti nelle lunghe tuniche bianche. Tenevano tutti la mano destra sollevata con l’indice e il pollice a formare un cerchio. E con questo simbolo alzavano la mano al passaggio dell’auto. 
Sul sedile anteriore due anziani coniugi, Tran e Gri, tornavano a Nuvama per Rinnovare la Partecipazione. Ianov era l’unico a sfoggiare una tunica gialla. Era stata l’unica condizione posta da Gaia per quella esperienza. Tutti lo guardavano incuriositi per un istante. Poi sorridevano: Gaia aveva dato loro il messaggio.
Lasciarono l’auto a più di due chilometri e si avviarono a piedi, in silenzio. 
Sopra di loro le nuvole sparse da un vento occidentale lasciavano libero il sole di raggiungere la pianura di Nuvama,  baluginando sull’acqua dei ruscelli che scendevano dalle pendici delle lontane colline. Ianov poteva distinguerne cinque, con i loro dolci fossati arruffati di verde selvatico, dirigersi verso il Tempio al centro della pianura.
Nuvama era stato costruito secoli fa. Si vedeva da lontano,  come un puntolino bianco indistinto nella forte luce che accoglieva. Il silenzio era la sua prima voce.
Era un grande cerchio di marmo bianco striato di grigio, con un  diametro di cinquanta metri, sottostante al livello del terreno. Un basso colonnato cingeva il bordo esterno.
I dieci ruscelli scorrevano allegramente in piccole bocche aperte nel marmo e si disperdevano sul grande basamento bianco levigato dall’acqua, verso il centro, dove si ergeva liscio e bianco il simbolo di Nuvama, un grande ovoide innervato di sottili strisce di pietra grigia. 
Si tolsero i sandali ed entrarono nel sottile strato di acqua corrente. Subito Ianov fu preso da un’emozione intima e potente. La mente gli si schiarì e respirò profondamente. Bliss gli prese la mano. 
- L’acqua è il sangue di Gaia - disse.
Le tuniche si intrisero d’acqua che gorgogliava leggera intorno alle caviglie, diventando pesanti e bagnandoli fino alle ginocchia. 
Si diressero al centro. 
Ianov sentiva adesso una presenza forte intorno alla sua mente. Sentiva anche la voce di Bliss, lontana, che lo confortava. 
D’improvviso scese il silenzio. Persino l’acqua si mise in ascolto. 
- Chi sei tu - chiese Gaia.
- Un pellegrino - Ianov pensò che fosse la risposta giusta.
- Cosa cerchi? -
- La verità -
- Sei tu a dirla, se vuoi - disse la voce, sembrava sorridesse - Noi siamo solo un Pianeta -
Ianov fu preso da un sottile sorriso.
- Mi pare abbastanza - disse
- Se lo vuoi - disse la voce.
Ianov si sentì attrarre dal grande ovoide bianco. Salì sul gradino e lentamente, molto lentamente, vi appoggiò entrambe le mani aperte.
Allora accadde.
Sentì milioni di menti ronzare in tutto il pianeta, sentì il pianeta pulsare come un cuore, sentì il nocciolo di ferroso magma al centro roteare plastico, sentì la radiazione solare e il suo vento avvolgere tutto, sentì il belato delle pecore, lontano duemila miglia, avvisare il pastore della fame del gregge, sentì il dolore della fine della vita e la sua rinascita, sentì la storia farsi, per sempre. Sentì la sua anima avvicinarsi a questo grande vortice e fluttuare ai confini dell’aria rarefatta. Dietro le spalle sentiva il vecchio Ianov, rimasto in piedi nel tempio, come un simulacro di una vecchia vita.
- C’è più di questo? - chiese Ian
- Oh si, molto di più. Ma sarebbe troppo per te, la tua mente non è pronta -
- Lo capisco - rispose - ma ti ringrazio, Gaia -
- Anche noi ti ringraziamo. Sei il primo pellegrino da molti secoli, la Galassia viene a noi, e tu sarai sempre ricordato come il primo della nuova Era -
Ritornò in sè e tolse le mani dal contatto con Nuvama, arretrando di un passo. 
Si diede tempo. 
Restò a contemplare il marmo bianco per qualche minuto, assorto nel ricordo di ciò che aveva vissuto. Nessuna tecnologia della Fondazione poteva minimamente paragonarsi ad una simile esperienza. 
Rimpianse.
Rimpianse di non essere nato su Gaia. Rimpianse tanti anni passati a cercare pianeti dimenticati e a raccogliere storie mitiche di tempi ormai inceneriti. 
Rimpianse di non aver conosciuto Bliss prima, quando era ancora giovane.
Bliss sentì quell’ondata dolorosa di profondo rimpianto e lo abbracciò con forza, accarezzandogli la nuca. La sua voce giunse nella mente di Ianov attarverso Gaia:
- No Ianov, non rimpiangere. E’ stato giusto così. Sei prezioso per Noi così come sei, adesso, quanto Noi lo siamo per te -
- Anche per te? -
- Soprattutto per me -
Ianov sorrise mentre il dolore si affievoliva.
Si volse per uscire dal tempio ma prima che potesse metterne un piede fuori, Bliss lo chiamò:
- Voltati e guarda -
Sopra Nuvama adesso c’era l’immagine olografica di Ianov, a grandezza naturale, che girava lo sguardo su tutto il monumento, sotto gli occhi degli altri pellegrini che lo osservavano in silenzio.
Un messaggio giunse da Gaia e anche Ianov lo ascoltò: 
- Quest’uomo ha adesso un nuovo nome: Ianuvamagalassifondassenobianovote.
- Detto Ian - disse Bliss a voce alta, che rimbombò per tutto il tempio. 

A Ian girava la testa. Si guardava intorno, sembrava stesse vivendo in sogno. Nuvama risplendeva più che mai. Si chiese se fosse effetto della recente esperienza. 
Credette di non reggere alla potenza di quella esperienza, la mente si stava esaurendo per pura fatica. Bliss se ne accorse e la avvolse di un abbraccio leggero ma potente. Prese Ian per il braccio e lo accompagnò fuori dal cerchio di Nuvama. 
Appena i suoi piedi furono fuori dall’acqua, sul bordo del tempio, si sentì meglio. 
Ora la sua visione era più chiara. Rivedeva la caldera, più ricca, e il sorriso dei pellegrini, più intenso. La sua mente poteva reggere tutto questo. 
Camminare gli faceva bene. La terra che si depositava sui sandali bagnati gli appesantiva il passo, ma era fresca e dolce, si poteva voler bene a quella sabbia antica. 
Quando risalirono in macchina si sedette affranto e si addormentò di colpo. 
Uscirono dalla Caldera di Nuvama che era già pomeriggio e raggiunsero Thorendal che il sole compiva il suo arco finale. Ian dormiva ancora quando Bliss aprì lo sportello. Gli carezzò un braccio e lui si scosse, aprendo gli occhi. 
- Ho sognato - disse
- Che cosa? -
- Ho sognato il Mulo che fuggiva da Gaia. Ehi Bliss, come ha fatto Gaia a lasciare andare il Mulo? -

Bliss lo guardò affascinata. Ian aveva delle capacità intuitive straordinarie.  
Ma per rispondere a quella domanda occorreva fare un bagno nel mare dell’umiltà, molto più grande dell’acqua del Nuvama. Forse nemmeno Gaia era pronta per questo. 



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