CULLEN'S LOVE ♥

di keska
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rottura ***
Capitolo 2: *** Torte ***
Capitolo 3: *** Nessuna speranza ***
Capitolo 4: *** L'accusa ***
Capitolo 5: *** Illusione (Parte I) ***
Capitolo 6: *** Illusione (Parte II) ***
Capitolo 7: *** Morire per amore ***
Capitolo 8: *** Perdonami ***
Capitolo 9: *** Sorprese ***
Capitolo 10: *** Belle Arti ***
Capitolo 11: *** Incubi ***
Capitolo 12: *** Rifugio felice ***
Capitolo 13: *** Alice ***
Capitolo 14: *** La cortigiana senza figli ***
Capitolo 15: *** Dipinto ***
Capitolo 16: *** Prove del matrimonio ***
Capitolo 17: *** Fuoco ***
Capitolo 18: *** Un principe azzurro ***
Capitolo 19: *** Matrimonio ***
Capitolo 20: *** Casetta Dorata ***
Capitolo 21: *** Luna di Miele ***
Capitolo 22: *** Buio ***
Capitolo 23: *** Rapimento ***
Capitolo 24: *** Forza ***
Capitolo 25: *** Traccia ***
Capitolo 26: *** Bambola di pezza ***
Capitolo 27: *** Sopravvivere ***
Capitolo 28: *** Mente e corpo ***
Capitolo 29: *** Dolore ***
Capitolo 30: *** Fra le sue braccia ***
Capitolo 31: *** Fiducia ***
Capitolo 32: *** Tanta paura ***
Capitolo 33: *** Evento ***
Capitolo 34: *** Caccia ***
Capitolo 35: *** Foglietto illustrativo ***
Capitolo 36: *** Unverso alternativo ***
Capitolo 37: *** Torniamo a casa ***
Capitolo 38: *** Gelosia ***
Capitolo 39: *** Toccami ***
Capitolo 40: *** Nomi? ***
Capitolo 41: *** Burrasca ***
Capitolo 42: *** Nadir ***
Capitolo 43: *** Ricordo di emozioni ***
Capitolo 44: *** Solo lacrime ***
Capitolo 45: *** Legate ***
Capitolo 46: *** Quel folle amore ***
Capitolo 47: *** Vecchi armadi ***
Capitolo 48: *** Halloween ***
Capitolo 49: *** Caterina Barbarigo ***
Capitolo 50: *** Inquietudine ***
Capitolo 51: *** Quasi incidente ***
Capitolo 52: *** Verità ***
Capitolo 53: *** Insieme ***
Capitolo 54: *** Piccola dea ***
Capitolo 55: *** Nervosa? ***
Capitolo 56: *** Il patto ***
Capitolo 57: *** Un accompagnatore ***
Capitolo 58: *** Famiglia ***
Capitolo 59: *** Orribile madre ***
Capitolo 60: *** Madri ***
Capitolo 61: *** Poteri ***
Capitolo 62: *** Livre du Sang-Mêlé ***
Capitolo 63: *** Sangue ***
Capitolo 64: *** Lacrime ***
Capitolo 65: *** Partenza ***
Capitolo 66: *** Incontro ***
Capitolo 67: *** Addii ***
Capitolo 68: *** Contatto ***
Capitolo 69: *** Per Sempre ***
Capitolo 70: *** Questioni irrisolte ***
Capitolo 71: *** Escamotage ***
Capitolo 72: *** Travaglio ***
Capitolo 73: *** Kate ***
Capitolo 74: *** Tutto bene ***
Capitolo 75: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Rottura ***


-Ciao, Charlie copertina


Capitolo riveduto e corretto.

 

«Ciao, Charlie!». Ero rimasta così scombussolata dagli ultimi eventi, che vedere mio padre mi dava un indicibile sollievo, di solito…  Volevo passare il maggior tempo possibile con lui e anche se la presenza di Edward era ormai decisamente insostituibile, quella l’avrei avuta per l’eternità, mentre mio padre, ahimé, l’avrei dovuto lasciare a breve.

La proposta di Edward, l’inaspettata reazione positiva (almeno migliore delle previsioni) dei miei genitori, l’improvvisa “schiavitù” a cui Alice piaceva sottopormi, erano eventi di una tale portata che mi avevano condotta alle soglie di uno stress non indifferente. Fortunatamente la felicità che provavo quasi ogni pomeriggio in compagnia di Edward poteva ben compensare, ricordandomi, di giorno in giorno, quanto ne valesse la pena. Tutto sarebbe andato perfettamente, se un filo scucito non stonasse sul ricamo che avevo tanto gelosamente confezionato.

«Bella» si limitò a dire per salutarmi. Il suo saluto risultò strano, spento, diverso da quelli che abitualmente, anche dopo essere venuto a conoscenza del mio progetto di matrimonio, mi rivolgeva.

«Tutto bene papà?» chiesi, intenta a tagliare le carote per la sua cena.

«Bells, siediti un attimo». Eh, no. Non mi piaceva, quel tono di voce non mi piaceva affatto. Seguii perplessa le sue parole, sedendomi di fronte a lui, sulla sedia che mi aveva indicato. Aveva un’espressione vacua e addolorata. La mia mente rincorreva velocemente la possibile causa del problema.

«Cos’è successo papà?» chiesi, cercando di restare calma, e nascondere il vile tremolio nella voce.

«Jacob» esordì, e quel nome fu una pugnalata al cuore «diciamo che non ha gradito molto l’invito» fece eloquentemente, come se dovessi essere a conoscenza di quello cui stesse parlando.

Lo fissai interrogativa, esprimendo in un’occhiata tutta la mia confusione. Di certo, non mi sarebbe mai saltato in mente di invitarlo alle mie nozze. Non dopo come ci eravamo lasciati, non dopo tutta la sofferenza che avevo causato a lui e a Edward. Non che non volessi ancora averlo vicino a me, come amico. Ma appunto, non potevo volere che fosse nulla più che quello, quando il mio cuore aveva avuto la certezza di non dover neppure scegliere quello che aveva sempre saputo e che solo alcune circostanze e una mente confusa avevano fatto sembrare in dubbio.

Emisi un breve fiato quando approdai ad una soluzione, l’unica possibile: Edward.

«Co-cosa ha fatto?» sussurrai in preda al terrore. Non avrei mai smesso, credevo, per tutta la vita, di sentirmi in colpa per quelle azioni sconsiderate. Quanto dolore ancora dovevo causare? E il pensiero che Edward l’avesse fatto per me, che avesse mandato quell’invito per rendermi felice e darmi un sorriso, mi faceva sentire ancora più pentita e egoista.

Mio padre dondolò da un lato all’altro della sedia, accarezzandosi i baffi. Aveva da sempre mostrato una propensione verso il mio amico della natura di lupo. «Si è infuriato, a cominciato a urlare, diceva brutte cose» fece una pausa voleva, sospirando «voleva… oh non l’ho mai sentito parlare così…» borbottò affranto e crucciato.

Oh Jacob. Un impetuoso moto di tristezza mi scosse da dentro, stordendomi. Speravo di aver per sempre detto addio a questi momenti, speravo che fosse per sempre finita quella vita in cui continuavo a causare dolore negli altri, ora che davvero un’era della mia vita si stava concludendo.  Sentii le lacrime lottare contro i miei occhi per riuscire a venire fuori.

Le bloccai. No, quell’era doveva veramente concludersi, finalmente. No, per amor di Edward, non avrei pianto. No.

Mi alzai come un automa, facendo grattare la sedia sul pavimento nel silenzio della stanza, e andai al tagliere a finire il mio lavoro. Avevo svuotato la mia mente, per evitare che qualsiasi pensiero mi tormentasse ancora, e che ancora, ancora, la mia mante mi conducesse a compiere i gesti più sbagliati.

«Bells, ma, cosa…?» biascicò Charlie, a dir poco sorpreso dal mio comportamento.

Continuai impassibile il mio lavoro. La lama del coltello scivolava veloce. Tac, tac, tac.

«Bells… Ascolta, forse dovresti chiamarlo, non so… Bella. Voltati quando ti parlo».

Ancora tagli, ancora silenzio.

«Bells…».

Tac, tac, tac.

«Bella!» esclamò esasperato, animandosi. «Non fai niente, non dici niente? Vuoi lasciarlo soffrire? Vuoi causargli altro dolore?».

La lama si bloccò, lasciandomi un taglio fra il pollice e l’indice. Mi voltai lentamente verso mio padre, tenendomi la mano sanguinante. Era diventato paonazzo.

«Papà, io amo Edward. Sto per sposarmi con Edward. Edward, non Jacob. Edward. Cosa credi che debba fare esattamente?» dissi senza particolari inflessioni nella voce, i miei occhi spenti che lo fissavano senza guardarlo.

Non rispose, si limitò a chiudere la bocca che era rimasta spalancata dopo l’urlo.

Cercando di fermare la piccola perdita di sangue, più per amor di Edward che per amor mio, andai in bagno. Mi sciacquai la ferita sotto l’acqua fredda e mi misi un cerotto.

Quella sera andai a letto senza cena, chiusa nel silenzio della stanza, lo stomaco ormai troppo chiuso nella nausea per poter anche solo pensare di mangiare. Charlie, qualunque cosa volesse fare, sarebbe sopravvissuto anche senza la mia insalata. Era un buon padre, lo sapevo. Si sforzava di esserlo almeno, dopo non esserlo stato per tanto tempo. E voleva che sua figlia facesse le scelte migliori, scelte di cui non doversi pentire. Di questa, non mi sarei pentita.

Di quelle passate, lo avevo già fatto.

La stanza silenziosa faceva viaggiare la mia mente contro scenari passati, che si stagliavano sul muro come le ombre prodotte dai rami. Eppure, pensavo, mi sentivo segretamente ferita dalla razione di Jacob. Forse perché una parte di me aveva sperato che potesse essere davvero semplicemente quel buon amico che non era stato e che, in quelle condizioni, non poteva essere.

Ma dovevo lasciarlo andare. Sì, lasciarlo andare per sempre. Era quella la mia scelta, l’avevo fatta, ne avevo sofferto. Ma tutto era concluso, ormai, quando il mio amore risplendeva solo per un’anima: Edward.

Sussultai, sentendo un suono smorzato di dubbia provenienza. Mi guardai velocemente attorno, in cerca della fonte. In altre circostanze avrei pensato immediatamente a Edward, ma ogni cosa mi faceva pensare che fosse ancora impegnato con la caccia. Ne seguì un altro, e questa volta mi volsi istintivamente in direzione della finestra, dove, con mio sommo sgomento, troneggiava la figura seminuda di Jacob.

Sul volto aveva un’espressione truce, furiosa, che gli sfigurava i lineamenti giovani trapassandolo da parte in parte.

Tremai, inconsapevolmente. «Jacob…» sussurrai appena. Non avevo intenzione di trovarmi in quella situazione. Non volevo in nessun modo riaprire una ferita chiusa e suturata da tempo, né causarne altre sul corpo del mio amico.

Le sue labbra tremarono, e con i pugni lungo i fianchi avanzò di un passo nella mia direzione. «Bella, ora tu verrai con me, che tu lo voglia o meno» mi intimò con voce cavernosa.

Sospirai, scuotendo debolmente il capo. E mi chiesi, stoicamente, quale diavolo potesse averlo condotto sul limbo dell’inferno a cui i suoi occhi si affacciavano. «No. Jacob, non puoi. Non farlo» supplicai, determinata in ogni modo a fermare quell’empietà.

«Non ti lascerò morire, Bells, basta. Non ti lascerò a lui. Perché…» inspirò profondamente «Non puoi buttare via la tua vita in questo modo, quando la tua mente è così offuscata. Non hai fatto la scelta giusta, non hai fatto la scelta migliore. E ti amo troppo per vederla buttare via così. E ci ho provato» mormorò con tormento «Ci ho provato, a lasciarti andare. Ma è impossibile, perché sento, dentro di me, che devi essere mia. Ora, vuoi venire con me?» tuonò cupo, la voce che a stento nascondeva quella di un ragazzino innamorato. Mi porse una sua gigantesca mano.

Mi ritrassi d’istinto, retrocedendo, guardando con i miei occhi il danno che avevo causato. Un danno che ormai mi appariva indelebile. Ma un danno che io avevo causato, spinta, stordita, ammaliata, da lui. Lo sapeva, per chi batteva il mio cuore. Lo sapeva, di chi era sempre stato. Ma la sua ossessione non si era placata alla luce di quella ragione.

Inspirai, presi fiato, calmai il mio corpo. Ero risoluta. «No, Jacob, non posso. Il mio posto è qui, il mio posto è accanto a lui. Accanto a Edward» affermai, con la mia voce più autoritaria.

Un lampo di puro dolore passò nei suoi occhi, ben presto coperto dalla follia. «Tu non capisci! Non capisci! Non si tratta più di scegliere, ciò che io ho scelto per te, ciò che io sono sicuro sia meglio per te. Vieni. Devi venire».

Sospirai ancora, scuotendo debolmente il capo.

Ringhiò, sollevando i pugni al cielo, disperato. «Allora ti prenderò con la forza». Fece un passo verso di me.

Automaticamente ne feci uno anch’io all’indietro, verso il muro. E in quel momento cominciai a tremare di paura, perché qualcosa, qualcosa di strano e alieno di era insinuato nei suoi occhi: follia.

«Lui verrà a salvarmi, lo sai» tentai debolmente di minacciarlo.

Si lasciò scappare un risata fragorosa. «Ah, sì e come lo saprà? La sua sorellina succhiasangue non può vedermi, ricordi?» esclamò beffardo, facendo cadere in una pozza fangosa le mie deboli intimidazioni. Perché, se anche Alice si fosse accorta del buco nero fra le sue visioni, sarebbe stato così difficile tornare in tempo dalla caccia!

Spaventata e spaurita, tentai di cambiare la mia tattica, mentre le parole mi uscivano confuse e poco chiare, intrappolate nella mia mente allarmata. «Jacob, ti prego… tu… sei mio amico. Possiamo rimanere amici, dovevamo rimanere amici. Tu mi ami, dici. Non lo so se è vero, ma se mi vuoi bene non puoi farmi questo».

S’infiammò, rabbioso. «E tu Bells? Eh? Tu vuoi bene a me? Però mi fai del male… Come vedi non funziona così. E come puoi» sputò con disgusto, un’espressione di ribrezzo sul viso «Minimizzare così i miei sentimenti, calpestandoli ancora? Chiamare “voler bene” quello che provo per te?! Io ti amo. E anche tu» dichiarò tombalmente, avanzando di un altro passo verso di me.

Lo spazio nella stanza si stava riducendo, causando un accelerare del palpitare del mio cuore e del sudore, veloce, che correva in goccioline sulle mie membra. Sentivo il pericolo vicino a me. Il mio amico, una persona a cui avevo voluto e volevo, ancora, bene. Sapevo, pensavo, che non mi avrebbe mai fatto del male. Ma portarmi via? Tremai. La sola idea di essere strappata alle braccia di Edward mi faceva star male. Ero coraggiosa, in fondo. L’avevo sempre fronteggiato. Ma qualcosa, qualcosa che insinuava la paura nel mio corpo, mi suggeriva che questa volta non potevo alzare la voce, o gridare. Non potevo semplicemente oppormi e affermare la mia volontà. Non in quel momento, almeno, in cui sembrava che niente di simile l’avrebbe fatto ragionare.

«Jacob… stai… stai facendo qualcosa che è contro la legge, è un sequestro di persona!» urlai, stridula, sperando che Charlie mi sentisse e che accorresse in qualche modo in mio aiuto.

«Charlie è uscito», ribatté intuendo le mie intenzioni.

Un pensiero agghiacciante m’immobilizzò. Aveva pianificato tutto, oppure erano d’accordo?

Un ghigno amaro pervase il suo volto. «Oh, Bells, non temere. Sarei disposto a fare ben di peggio, per affermare il mio amore. No, no. Non sarà la legge a fermarmi».

M’irrigidii, sgomenta e terrorizzata, sentendo le sue parole vibrare dentro di me.

Si aprì in un sorriso sardonico. «Oh, sì. Dopo che ti avrò portata via, ucciderò il tuo succhiasangue. Non voglio tormentarti, non voglio che tu pensi solo di poter esserti sbagliata. Così non dovrai più scegliere, visto che non avrai più alternative».

«Non stai dicendo sul serio. Jacob… Jake…» esalai senza fiato, stentando a riconoscere la persona che mi stava dinanzi. «Non stai dicendo sul serio» mormorai attonita.

Scosse il capo, rabbioso, desolato, devastato. Stava soffrendo atrocemente.

«Jake…» annaspai in pena.

«Zitta!» urlò, avanzando di un passo e afferrandomi saldamente e facilmente per le esili spalle.

«Jacob!» gridai, provando a divincolarmi dalla sua presa. «Smettila, smettila ti prego! Lasciami andare! Tu sai che non lo voglio, ti prego! Non puoi decidere per me!».

Ansimò, addolorato, a pochi centimetri dal mio viso. Era distrutto, distrutto dai suoi sentimenti e dal suo amore, alimentato da un animo giovane e dalla forza di un licantropo. «Ascolta» ansimò, fissandomi con serietà. Una serietà folle. «Ascolta, ti do un ultima possibilità. Cambia idea, vieni con me e non lo ucciderò. Io posso darti ciò che lui non potrà mai farti avere».

Annaspai, addolorata. «Jacob, ti prego. Abbiamo già passato tutto questo. Ne abbiamo già discusso. Conosco il mio cuore, so quello che voglio. E so che non potrei mai rinunciare a lui. Io lo amo» farfugliai, mentre sentivo lacrime amare di dolore e rabbia scendermi silenziose lungo il viso.

Sollevò una mano a mezz’aria, fermando le parole che lo stavano torturando nel profondo.

«Aspetta» ansimò, follemente determinato, nel disperato tentativo di tenermi ancora a sé. «Aspetta. Forse c’è qualcosa a cui non puoi rinunciare e che lui non ti può dare. Condividila con me, e decidi. Decidi, e questa volta, finalmente, potrai fare la scelta più giusta» disse, la voce carica di persuasione.

«C-cosa?» singhiozzai, smarrita e confusa, completamente disarmata.

La sua espressione si cristallizzò, divenendo se possibile ancora più seria. «Fai l’amore con me».

Il respiro mi si bloccò in gola. «Cosa…?» sussurrai, senza fiato, completamente spiazzata dalla sua richiesta inaspettata. «Come puoi anche solo pensare che…io…? Lui» biascicai, balbettando confusa «lui me lo può dare…».

Sorrise, quasi teneramente se il suo sorriso non fosse stato intriso s’amarezza. Sorrise, come se fosse ovvio che qualcosa mi stesse sfuggendo. «Lui non può darti questa esperienza umana. Io sì» rivelò pedante.

Gonfiai i polmoni, fremente di rabbia, rivoltandomi come un’anguilla fra le sue mani. «Primo» ansimai, l’ira che permeava le mie parole «questi non sono affari tuoi. E sì, Jacob, sì. Lui può farmi fare questa esperienza da umana!» sbottai, strattonandolo ancora.

Il suo volto fu trapassato dallo sgomento. Ma non rimase immobile a lungo, quando seguirono in rapida successione la cieca frustrazione e l’ira.

«Cosa?!» urlò sgomento. «Ti vuoi suicidare Bells? Sei pazza?» sbraitò, stringendomi più forte e causandomi un gemito di dolore. «Se prima avevo dubbi, ora non ce ne sono più. Non te lo lascerò fare. Tu, ora, verrai con me!».

«No!» gridai di rimando, facendomi piccola fra le sue mani e chiudendo gli occhi per la paura.

Sentii scuotermi da violenti tremori. Si stava trasformando. Mi strattonò verso la finestra.

E mentre la paura cieca e il terrore esplosero verso di me, feci l’unica cosa che mi venne in mente. «Ti odio!!!» urlai, con quanto fiato avevo in corpo.

In meno di un secondo mi sentii scaraventare e mi ritrovai con la schiena schiacciata contro il muro. Scivolai a terra, boccheggiante. Un dolore immenso imperversava lungo la mia spina dorsale impedendomi il respiro.

La figura di Jacob, ritornato celermente alla sua forma umana, si avvicinò rapidamente a me. Era spaventato, addolorato. Neppure un’ombra d’ira sul suo volto. «Bella…» mormorò, sorpreso dal suo stesso gesto, «Bella… scusa…perdonami…» mi supplicò angustiato.

Ansimai, faticando a riprendere fiato. Mi sentivo tramortita, e un formicolio doloroso si propagava lungo tutto il dorso. «Non mi toccare. Vattene» sibilai con la voce rotta dal dolore.

Mi accarezzò freneticamente il volto con le mani grandi e calde. Tremavano ancora. «Bella… Mi dispiace».

Provai a scostare il viso, non senza sentire nuove fitte attraversarmi il corpo. «Edward non mi avrebbe mai fatto del male» scandii, decisa, in ogni caso, a mandarlo via.

S’irrigidì sotto il peso delle mie parole. Il suo volto era una maschera fissa di dolore. Ero arrabbiata, infuriata. Ed ero addolorata, profondamente, perché avevo infine compreso che l’amicizia che volevo non sarebbe mai potuta sopravvivere fra di noi. Mi aveva fatto del male.

«Va’ via» ripetei, gemendo.

Si sollevò, lentamente, e prese ancora fiato, strizzando gli occhi. Poi si volse e scappò via attraverso la finestra, in un balzo.

Ansimai. Il dolore si era spostato, vibrante, in tutta la schiena, schiacciandomi con la sua forza pulsante. Faticavo a tenere il respiro regolare, come se qualcosa me lo impedisse.

Eppure, nel dolore, un pensiero scorreva lucido e chiaro nella mia mente: Edward non doveva sapere. Non volevo neppure immaginare quale sarebbe stata la sua reazione, ma qualunque fosse sapevo che prevedeva uno scontro con Jacob. E questo non doveva avvenire, pensai con paura. E non doveva avvenire, perché, nonostante tutto, volevo che gli ultimi minuti fossero cancellati per sempre dalla mia memoria. Edward non doveva soffrire ancora.

Alice mi avrebbe vista a breve. Non potevo rimanere lì, piegata contro il muro. Tremai. Mi pareva, speravo, che il dolore iniziasse a scemare. Cercai di muovere un braccio. Una serie di scosse mi attraversò la schiena e mi fece lanciare un grido di dolore, soffocato in un gemito. Respirai, provando a calmarmi, e stoicamente mossi anche l’altro, puntando un palmo a terra, stringendo i denti per soffocare un gemito. Mi misi carponi, dolorante, sentendo le lacrime scorrere lungo il viso, strisciando a terra per raggiungere il letto.

Mi sentivo ferita intimamente, pensandomi lì, nella stanza, abbandonata a me stessa. E pensando con dolore a quanto fossi causa del mio stesso male. Singhiozzai, lasciandomi scivolare sotto le coperte. Respirai piano, e provai a calmarmi, nella testa l’immagine del viso di Edward. Spazzai via le lacrime con i palmi delle mani, scacciando qualunque prova di quella notte.

Allungai una mano nel cassettino del comodino, misurando i movimenti per contenere il dolore. Afferrai l’oggetto della mia ricerca: il flaconcino di antidolorifici. Me l’aveva lasciato Edward, quel flaconcino, il giorno di un’altra disastrosa mia avventura. Ingoiai due compresse, e chiusi gli occhi, sperando che così la mia memoria e i miei pensieri si potessero cancellare.

Il giorno dopo sarebbe tutto passato, provai a confortarmi, tentando di ignorare l’acuto bruciore che mi pervadeva le membra e il respiro irregolare che mi usciva dalle labbra. Dopotutto, ero abituata a farmi male.

Quella sera, per la prima volta da quando lo conoscevo, sperai che Edward non venisse. Non avrei mai voluto capisse ciò che era successo. Quella era l’ultima parola, la parola fine del capitolo della mia vita intitolato Jacob.

I miei sogni furono agitati e confusi. Vidi strani boschi, luoghi che sentivo familiari ma che in realtà dovevano essere di fantasia: scorci senza tempo dei boschi di Forks. Comparve Edward, di spalle rispetto a me. Stava puntando qualcuno, ma non riuscivo a capire chi fosse. Mi mossi, più volte, per spostarmi, ma non riuscivo a muovermi. Capii tutto solo quando un grosso lupo rossiccio gli si scaraventò addosso, comparendo in un lampo nella mia visuale.

Mi svegliai.

Immediatamente la mia mente ci affaccendò per farmi comprende quanto di tutto quello fosse realtà o quanto solo sogno. Ma le sensazioni vivide sulla pelle e il calore della realtà mi suggerivano di aver appena sognato. Allora, anche il litigio con Jacob era stato tutto frutto della mia immaginazione?

Sbattei le palpebre, giusto il tempo di intravedere un bagliore ramato sparso sul cuscino. Edward. Il mio adone, dio greco personale, mi osserva sereno dall’alto della sua bellezza.

«Ben svegliata…» sussurrò con la sua morbida voce di velluto.

Sorrisi e feci per muovermi. Mossa sbagliata. Sentivo come se la schiena fosse appena stata percossa da una serie di legnate. Fu inevitabile la smorfia sul mio viso che cercai, comunque, di reprimere in fretta, spaventata. Non doveva essere stato tutto un sogno.

Edward mi osservò incredulo, non intuendo, fortunatamente, la natura della mia espressione. «Hai ancora sonno? Hai dormito 11 ore» borbottò. Poi mi sorrise dolcemente, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Dovrei pensare che stai diventando una dormigliona?» mi canzonò.

Mugolai, troppo inebetita per rispondere e troppo preoccupata per farlo. Mi avvicinai al suo petto strofinandomici un po’ su e sentendo il suo odore invadermi le narici. La causa del mio lungo sonno dovevano essere gli antidolorifici. Provavo un misto senso di paura al pensiero di fargli sapere di quello che era successo. Speravo che tenerglielo nascosto non si rivelasse un’impresa troppo ardua. Lo speravo, perché in nessun modo volevo ripetere nel mio animo le orrende sensazioni che erano passate solo poche ore prima. Rabbrividii. «Mi-mi sei mancato».

Mi sollevò il mento. Mi sporsi per farmi baciare. Baciarlo appena sveglia contribuiva, e non poco, a farmi creare strani universi paralleli misti di realtà e sogno. E la mia mente viaggiava, veloce, da uno all’altro. Il fiato si fece subito veloce, e per qualche istante ebbi difficoltà a continuare a respirare. Lo staccai velocemente da me, spaventata.

«Che c’è?» mi chiese confuso.

Dovevo controllare, al più presto, l’entità del danno. E sperare davvero che fosse possibile tenerne Edward all’oscuro.

«Ehi» mormorò, rompendo il mio silenzio. «Anche tu mi sei mancata, sai. Se vuoi non me ne vado più…». Aveva un’ espressione colpevole dipinta sul volto. «Alice mi ha detto, ecco…» iniziò, per poi fermarsi quando lesse il panico nei miei occhi. Sospirò, scuotendo il capo. «Non preoccuparti, anzi mi dispiace per aver mandato il biglietto d’invito. Cosa… Che cosa vi siete detti? Volevo lasciarvi parlare un po’ da soli. Le è preso il panico quando ha avuto un buco nella visione. Ma… Beh, diciamo che ho preferito bloccarla» sussurrò con triste entusiasmo.

Mi morsi un labbro, strofinandomi contro il suo petto.

«Allora? Cosa vi siete detti?» mi chiese, baciandomi la fronte. Mi mise una mano dietro la schiena e mi tirò un po’ più a sé.

M’irrigidii, colpita da un acuto bruciore fulminante, non riuscendo in alcun modo a soffocare un gemito.

Si bloccò di rimando. «Bella, ti sei fatta male?».

Ansimai, cercando rapidamente di riprendermi dal dolore, che scemando, aveva lasciato dietro di sé solo un pulsante indolenzimento. «P-perché?» farfugliai, conscia che mentire sarebbe stato molto più difficile del previsto.

Mi scrutò perplesso, con un senso d’ovvietà dipinto in viso. Mi portò la mano con cui avevo afferrato la sua di fronte alla faccia. Era quella col cerotto.

Lasciai andare il fiato in un impercettibile sospiro, solo in minima parte rassicurata.

«Stai bene? Ti vedo un po’ agitata stamattina…» alitò a pochi centimetri dalla mia faccia.

Annuii velocemente, arrossendo e sbiancando - in uno strano misto - in rapida successione. Mi allontanai velocemente, concedendomi una nuova lucidità di pensiero. Se dovevo mentire, mentire a un vampiro attento e premuroso, dovevo farlo bene. E in quel momento sarei fallita miseramente nella mia impresa.

Lo fissai di sottecchi. «V-vado un attimo in bagno, ne parliamo dopo va bene?» riuscii a dire. Avevo bisogno di tempo, di schiarirmi le idee e decidere cosa e come dirglielo.

Si mise a sedere sul letto, in tutta la sua armonia e grazia. «Certo, vai, ti aspetto qui».

Incerta mi tirai a sedere, e non appena mi assicurai di riuscire a rimanere ritta in piedi - non senza un notevole sforzo e dolore - agguantai il mio beauty-case e corsi a rifugiarmi in bagno, dove pregavo di avere un momento per compiere l’impossibile e dove, fiduciosa, speravo di non dover andare incontro al peggio.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Torte ***


Mi guardai allo specchio copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Osservai la mia immagine riflessa nello specchio, trovandoci un volto spento e pallido che mi fissava in trepida apprensione. Sentivo la gola stretta dall’ansia. Volevo ignorare quel dolore sordo e pulsante alla schiena, che però continuava a farsi presente, perturbando la mia mente.

Presi un respiro, e mi sembrò di non riuscire a respirare fino in fondo.

Non farti prendere dal panico, Bella. É tutto apposto.

Agitai le braccia, provando a quantificare l’entità del danno. Ci riuscivo facilmente. Leggermente risollevata tentai di muovere le gambe. Lievi fitte di dolore mi attraversarono il dorso e il petto, ma riuscii nella mia impresa.

Sospirai, e una fitta mi attraversò il petto. Strinsi gli occhi, portandomi una mano alla bocca e concentrandomi per mantenere un respiro regolare. Potevo farcela, pensai.

Mi osservai ancora, tristemente. Non potevo dirgli la verità. Per nessun motivo gli averi rivelato il vero motivo della visita di Jacob. Volevo… mi portai le mani fra i capelli… volevo che fosse come se non fosse mai successo. Non potevo permettermi altri errori, non ancora. Non potevo permettermi di farlo soffrire, ancora. Avrei stoicamente sopportato il dolore per un paio di settimane, evitando accuratamente di farmi scoprire. Questo si meritava Edward.

Questo, e la bugia che stavo per raccontargli.

E’ venuto per dirmi addio. Peccato che l’avesse già fatto, diverse settimane addietro, determinando la finale rottura del nostro rapporto.

E’ venuto per dirmi che mi dà il suo benestare. Avrebbe certamente funzionato, se non fosse stato che sforzarmi di dimostrare la felicità che in quel caso avrei dovuto avere sarebbe stato impossibile.

Mi morsi un labbro, angosciata. Avevo bisogno di dirgli qualcosa neutro, né triste, né felice. E che fosse credibile. E’ venuto per vedermi e basta, aveva nostalgia di me. Annuii a me stessa, poco soddisfatta della mia persona, ma convinta della necessità di mentirgli. Per il suo bene. Sperai solo di essere veramente capace di farlo.

Presi un debole fiato, non senza un certo sforzo, e portai una mano tremante all’orlo della maglietta. Pavida. Chiusi gli occhi e la sollevai lentamente. Non è niente Bella, non è niente, mi ripetei affannosamente. Vedrai, è una sciocchezza.

Ma quando aprii gli occhi ad attendermi c’era uno spettacolo mostruoso. Sulle costole si espandevano due grosse macchie viola, così scure, in due punti, che si avvicinavano al nero. Tremando violentemente mi volsi appena per scorgere uno spettacolo simile lungo la schiena. Annaspai, tenendomi con entrambe le mani al lavandino, la testa che mi girava.

Avevo paura. Temevo per me stessa e temevo per Edward, per paura di non poterglielo tenere nascosto. Il respiro si fece subito affannoso. E se fosse stato davvero così grave come sembrava? Gli occhi si inumidirono immediatamente. Avrei forse dovuto raccontargli tutto?

Sentii un suono, come un fruscio dietro la porta.

Mi portai immediatamente una mano alle labbra, sgranando gli occhi. No. Non potevo, e non dovevo, dirgli la verità. Non volevo continuare a sentire la preoccupazione nella voce, leggere la paura negli occhi. E sapere di essere stata io, solo io, a causargliela.

Un pensiero mi agghiacciò: Alice.

Sperai che mi stesse riservando la mia privacy.

Mi risollevai in fretta, schivando con un’occhiata il mio riflesso mostruoso. Mi affrettai a ricoprirmi, concentrata su ogni gesto. Una canottiera, viola. Non occasionalmente scelta. Una maglietta a maniche lunghe per nascondere il livido che Jacob mi aveva lasciato sul polso, strattonandomi.

Osservai ancora una volta la mia immagine. Era estate, e io ero un po’ troppo coperta per il periodo. Fremetti, sperando che lo spirito di osservazione di Edward fosse davvero molto, molto basso, quella mattina.

Mi aspettava, con un sereno e disteso sorriso celestiale, seduto sulla sedia a dondolo. La vista del suo volto sereno non fece altro che persuadermi, sempre più, a non dirgli una sola sillaba di verità.

Fui quasi presa dall’impulso di corrergli fra le braccia, salvo fermarmi, memore del fatto che non sarebbe stata affatto una buona idea. Mi avvicinai lentamente, misurando il fiato e ogni passo, finché non mi accoccolai, con cautela, fra le sue braccia. Il posto in cui avrei passato ogni istante.

Scostò una ciocca di capelli che mi era ricaduta sulla fronte e la portò dietro l’orecchio. Osservandomi, alzò un sopracciglio, perplesso. «Perché ti sei vestita così? Io non me ne intendo, ma fa piuttosto caldo…».

Arrossii, incapace di controllare le mie reazioni, e il ritmo del respiro aumentò impercettibilmente. Controlla le tue reazioni, ti prego! Scrollai le spalle, ostentando un’indifferenza che non avevo. «Avevo freddo» mentii, sperando di risultare convincente.

Continuò a fissarmi per un istante, poi annuì, facendo rilassare contemporaneamente tutti i muscoli del mio corpo. «Vuoi» cominciò, con tono vago «parlarmi dell’incontro di ieri?».

Sentii il cuore accelerare i battiti e veloce mi tesi per poggiare le mie labbra sulle sue, in un gesto che doveva apparire tenero, atto a rassicurare Edward circa la natura delle mie pulsazioni veloci. Rimase per un attimo interdetto prima di rispondere, dolcemente, al mio bacio.

Dopo pochi istanti si separò da me, fissandomi negli occhi. Mi accarezzò il viso, lasciandomi riprendere fiato. Fiato che sempre più e sempre più velocemente sfuggiva al mio controllo. «Allora?» chiese ancora, gli occhi corrosi dal bruciante desiderio di sapere. E come potevo biasimarlo?

Sospirai, ignorando ogni genere di dolore. Come un bambino che si prepara per la sua prima battuta alla recita scolastica, così feci io. «E’ venuto per vedermi e basta, aveva nostalgia di me». Peccato che, sin da bambina, durante le recite scolastiche ero sempre relegata al ruolo della pianta. Ferma e zitta sul palco. Abbassai gli occhi, incapace di sostenere i suoi.

Temporeggiò un istante prima di parlare. «Tutto bene?» mi chiese, apprensivo. Alzai il viso, per leggere la preoccupazione nel suo sguardo. Pensava stessi male per Jacob… Oh, Edward. Non sai quanto ti sbagli, questa volta. Non sai quanto.

Mi lasciai trasportare nel suo abbraccio. «Si… va tutto bene Edward» sussurrai contro il suo petto, chiudendo gli occhi e pregando. Che fosse per sempre tutto finito così.

«Bella?» mi chiamò perplesso Edward, leggermente preoccupato.

«Cosa?» ansimai, scattando seduta ritta sulle sue ginocchia.

Mi osservò in silenzio, concentrato. «Hai la tosse?».

Sollevai le sopracciglia. «La tosse?».

«Sì, la tosse. Hai appena tossito. E hai un respiro strano, corto. Ti sei raffreddata?» chiese, muovendo le mani per posarle sulla gola, in corrispondenza dei linfonodi.

Sgranai gli occhi, sollevandomi velocemente e allontanandomi di un passo, defilandomi dalla sua presa. «Ma no, Edward. Non ho niente. Mi si sarà bloccato un attimo il fiato, davvero».

Corrugò le sopracciglia, osservandomi. «Forse sarebbe meglio farti visitare da Carlisle…».

Gemetti a bassa voce. «E dai, Edward. Non essere paranoico» tentai di persuaderlo, «ti ho detto che non ho niente» ribadii, la paura che dilagava dentro di me, «fidati, per favore» dissi, con un tono che sembrava una supplica. Non osavo immaginare la sua reazione alla vista dei grossi lividi che portavo sul torace.

Sospirò, irrigidendo la mascella e annuendo seccamente. «Come vuoi. Ma, ti prego…».

«Sì» lo zittii, posandogli una mano sulle labbra, e sentendomi intanto morire dentro. «Te lo dirò».

 

Scendemmo giù in cucina, alla ricerca di qualcosa con cui potessi fare colazione. Prima che potessi muovermi, mi aveva bloccato il passaggio.

«Vuoi fare qualcosa, oggi?» mi chiese dolcemente, traendomi a sé.

Strofinai la guancia sul suo petto, scuotendo il capo. «Solo» feci, sollevando il capo per guardarlo negli occhi, «almeno oggi, ferma tua sorella. Non…» sospirai afflitta «oggi avevamo un’altra prova del vestito, ma proprio io…» mormorai tremante, rabbrividendo. Non poteva vedermi. Non poteva vedere quello che era del mio corpo.

Mi accarezzò una guancia. «Certo» disse subito, infilando una mano fra i miei capelli, «te l’ho detto, Bella. Non devi fare per forza come ti dice. Secondo me ti stai sacrificando anche troppo. A volte penso che tu non sia abbastanza felice, che tu non pensi affatto a te stessa» i suoi occhi si velarono di tristezza e ansia.

Posai entrambi i palmi sul suo petto. «Edward. Questo non è affatto un sacrificio. Non mi importa niente di ciò che tua sorella vuole fare, di quello che vuole organizzare. Io ho te. Anche se fossi la persona più sfortunata al mondo,-».

«Non lo escludo» fece, sarcastico.

«-sarei comunque felice perché ho te» continuai, ignorando le sue parole.

Sospirò, sfiorando il naso contro il mio. «Te l’ho già detto che ti amo?» mi sussurrò ad un orecchio.

«Si, ma ogni volta che lo dici è ben accetto» dissi con un filo di voce. Specialmente ora, pensai, che ho bisogno di una forza che non sono sicura di possedere.

«Ti amo» alitò, lasciando che le mie guance s’imporporassero di rosso. Rimasi ancor più istupidita e confusa, quando si aprì in un sorriso. «Respira».

E in quel momento suonò il telefono. Driin, driin.

Mi staccai da lui, allontanandomi di un passo per riprendere fiato. Mi voltai velocemente, sollevando la cornetta.

«Oh Bella! Non puoi farmi questo, accidenti! Voi due, non avete idea dello sforzo che sto impiegando in tutto questo! Come potete farmi una cosa del genere, boicottarmi in questo modo, avete solo la minima e recondita idea di quanto io ci stia mettendo…». Alice.

Lanciai un’occhiata implorante a Edward, ritto accanto a me.

«Non provare a farti aiutare da Edward!» mi minacciò dall’altro capo del telefono.

«Passamela» disse lui sorridendomi. Scossi il capo assente sentendo la voce irata di Alice. La lasciai inveire e sfogare, ma, visto che le sue visioni sul progetto del pomeriggio non mutavano, capì bene che non avevo intenzione di cambiare idea. Ero irremovibile.

Sospirò, e la sua voce cambiò di tono, diventando dolce e persuasiva. «Almeno vai da Esme a assaggiare le torte. Così, per colazione… Non ti chiedo un grande sforzo, ma il minimo dell’impegno. E su, Bella».

Non feci in tempo a prendere un respiro che la sua voce tornò a squillare nella cornetta, esultante. Dopo pochi secondi, un beep continuo. Sospirai, riagganciando la cornetta, notando disorientata che non ero riuscita neppure ad aprire bocca dorante tutta la conversazione.

Osservai Edward, fermo ad osservarmi lui stesso.

Intrecciò le sue dita alle mie, perplesso e dispiaciuto. «Non sei obbligata».

Sorrisi appena. «Non credo che Alice sia d’accordo con te» dichiarai sarcastica, «e comunque, credo che sopravvivrò ben bene ad una colazione con le torte di Esme!» esclamai, tentando di mostrare il mio entusiasmo. Nonostante un lieve senso di spossatezza e fiacchezza mi stesse scuotendo, restare ferma e seduta a mangiare mi sembrava una perfetta attività, in quel momento, per il mio corpo dolorante.

Edward si morse un labbro, come se stesse trattenendo una risata. «Non credo dirai la stessa cosa una volta arrivata a casa» mormorò sottovoce.

A casa Cullen trovai il salotto completamente ricoperto di torte a tre piani, le più piccole. Ce n’erano di così tanti tipi e colori che sembrava di stare in una pasticceria. Una pasticceria immensa. Mi ero preparata a qualcosa di simile, abituata alle manie di esagerazione dei Cullen. Esme poteva aver passato ore intere, notte compresa, a prepararle tutte.

L’odore delizioso ebbe un duplice effetto: stimolò il mio appetito, e m’inebriò, facendomi sentire un senso di vertigine. Respirai - un po’ difficoltosamente, mi resi conto, e non senza sentire un’ennesima fitta.

«Non sei obbligata a entrare in sala da pranzo» si scusò Edward, fraintendendo la natura della mia smorfia.

«Sorellina!» tuonò la voce possente di Emmett. In un attimo si era materializzato ai piedi delle scale. «Lo devo a te se ogni oncia della mia casa puzza terribilmente?!» mi accusò, sciabolando le sopracciglia.

«Scusa Emmett…» feci affranta, provando a immaginare che tortura dovesse essere per loro quell’odore che a me appariva sublime.

Lui rise. Io arrossii.

Esme entrò in salotto, prendendomi una mano e sorridendomi. «Bella, tesoro. Spero che tu non abbia fatto colazione stamattina» sussurrò, con quello che mi pareva un tono di scusa. «Alice mi ha detto dell’assaggio. Da quale vuoi cominciare?».

Le sorrisi di rimando, accomodandomi sulla sedia che mi aveva indicato, mentre Edward rimaneva accanto a me, una mano sulla mia spalla. Il mio corpo trovò subito un poco di sollievo. «Quella che preferisci».

«Va bene, cominciamo da questa». Prese una torta ricoperta da melassa gialla che stava poggiata su un tavolino accanto al divano. Ne mise una fetta su un piattino, offrendomela. Era al limone, ma aveva un giusto equilibrio fra vaniglia e delicatezza del pan di spagna.

Esme mi fissava, in trepidante attesa.

«Oh Esme, è deliziosa!» esclamai esaltata; ma, quando feci per prenderne un’altra forchettata, mi bloccò, sottraendomi il piattino dalle mani.

«Oh Bella, no. Non così. Devi assaggiarle tutte, se le mangi non riuscirai mai a finire».

Tutte? «Ma-» non feci in tempo a formulare una frase o esprimere il mio disappunto che già l’aveva rimpiazzato con un’altra torta, alle mele. Sospirai, arrendendomi e prendendone un morso. «Mmm squisita».

«Ti piace?» mi chiese, contenta.

Annuii, masticando un altro po’ di torta che ero riuscita a prendere con la forchetta prima che mi togliesse anche questa piattino dalle mani.

Mi fissò intensamente, piazzandosi dinanzi a me. «Ora, ti piace più questa o quella di prima?».

Inorridii, non riuscendo a nascondere la smorfia che comparve sul mio viso. Ecco dov’era la fregatura. Mi guardai, sconsolata, attorno, conscia del mio destino.

Quando incontrai il viso di Edward mi rivolse un’occhiata contrita. Sollevai gli occhi al cielo. Avrebbe potuto avvisarmi tempestivamente.

La mattinata fu impegnata solo da quello. Assaggiare torte. Quello che avevo creduto una svago e un motivo per passare il tempo ignorando i miei problemi, ignorando ogni dolore, si stava rivelando una lenta tortura. E, quando all’ennesima torta mi rifiutai di mangiare ancora, personalmente Alice venne ad imboccarmi, scatenando una lite con Edward.

Sconfitta e preoccupata mi arresi ancora, non incline in nessun modo a perturbare l’equilibrio della casa.

«Mangia!» ordinò, infilandomi direttamente una forchettata in bocca con un gesto fulmineo. Emmett se ne stava seduto sulle scale e rideva a crepapelle.

«Anlicie!» borbottai con la bocca piena.

«Mi dispiace, tesoro» si scusò Esme con tono contrito.

Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia. «Esme! Se mangio ancorna nom mi entferà più i vesfito!».

«Alice…» ringhiò Edward dietro di me.

Strinse i pugni lungo i fianchi, sollevandosi sulle punte dei piedi per fronteggiarlo. «No, Edward! La devi smettere di fare il bastian contrario, come se la stessi torturando, come se le stessi facendo del male! Non puoi sempre mettermi i bastoni fra le ruote! Ti ricordo che sto preparando il vostro matrimonio».

«Nessuno te l’ha chiesto» la fronteggiò lui di rimando.

Alice ringhiò forte.

Mi presi la testa fra le mani, posando i gomiti sul tavolo. La sentivo fluttuare, leggera, e il respiro mi risultava pesante e forzato.

«Ragazzi, adesso basta» li interruppe Esme, con un tono che non ammetteva repliche, «Alice, apprezziamo il tuo sforzo. E anche Edward e Bella, saranno entusiasti della cerimonia, malgrado tuo fratello non te lo dimostri spesso. Ma, non esagerare. Basta ora. Su», la rimbrottò, facendola scomparire, imbronciata, al piano di sopra. «Bella, tesoro, ti prendo qualcosa da bere» aggiunse poi con voce soffice, volendo via verso la cucina.

Edward posò entrambe le mani sulle mie spalle, continuando a tenere lo sguardo puntato in direzione delle scale, verso dove era scomparsa la sorella. «Vuoi uscire un po’?» mi chiese asciutto.

«E dai, Edward!» protestò Emmett, affrettandosi a venire al mio fianco, «lasciami un po’ con questo curioso animaletto! La vuoi monopolizzare?».

Un altro ringhio si levò dal petto di Edward. «Forse non vi è chiaro, a tutti quanti. Ma quello che la deve sposare sono io, qui» sbottò acido.

Sospirai, stanca. Il respiro mi si bloccò in gola e automaticamente tossii, portandomi entrambe le meni alla bocca. Delle fitte continue mi scossero il petto. Rabbrividii impercettibilmente, chiudendo gli occhi.

«Bella?» fece Edward, chinandosi al mio fianco.

Presi velocemente fiato, stordita, sollevando il viso. «Sto bene!» sbottai, tentando di controllare il lieve affanno.

I suoi occhi mi fissarono lungamente, apprensivi. Alzai i miei al cielo, ostentando una sicurezza che non mi sentivo di giustificare o possedere, in quel momento. «Non essere paranoico» lo ripresi, ansiosa e acida, mordendomi il labbro. L’agitazione che sentivo per me stessa si stava trasformando rapidamente in nervosismo, mentre prendevo atto delle mie condizioni, che di secondo in secondo mi parevano peggiorare.

«Ma-».

«Oh, Dio, sì! Mi sento male! Sto per morire!» esclamai sarcastica, stendendomi tragicamente lungo il tavolo e completando la mia pantomima.

«Bella?!» esclamò, un reale accenno di paura nella voce.

Non volevo, assolutamente, immaginare la sua reazione se davvero fosse venuto a conoscenza della realtà. «Edward!» esclamai con tono isterico.

Emmett se la rideva di gusto. Anche Esme, che nel frattempo era entrata nella stanza, sghignazzava, cercando di contenere una risata vera e propria.

«Stavo scherzando» dissi, mostrandogli l’ovvietà della cosa.

«Oh» mormorò, imbronciato. Si tirò in piedi, in un movimento fluido. «Ti sembrano scherzi da farsi, questi?» fece, con quella che, non potevo nasconderlo, ma pareva una voce offesa.

Sbuffai, passandomi una mano sulla fronte. «Guarda che non l’hai capito solo tu» dissi, indicando con un eloquente cenno del capo Esme e Emmett. «Ti prego. Non essere così… così» feci, con un gesto esasperato.

«Se è così, allora» si chinò sulle ginocchia, osservandomi. Sulle sue labbra era comparso un ghigno sfacciatamente burlesco.

Prima che me ne potessi rendere conto, mi caricò sulle spalle, sfrecciando via su per le scale.

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Capitolo 3
*** Nessuna speranza ***


Edward mi lasciò cadere sul letto della sua camera copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Edward mi lasciò cadere sul letto della sua camera. Non riuscii a reprimere lo strillo che l’impatto del materasso contro la schiena mi aveva causato. Chiusi gli occhi, intrappolando immediatamente le lacrime.

Edward, euforico per la corsa e divertito, rise, pensando che stessi scherzando. Si avvicinò a me, sovrastandomi senza pesarmi addosso, il fiato che galleggiava vicino al mio viso. «Allora» mormorò languidamente, prendendomi i polsi e stendendomi la braccia sulla testa, imprigionandomi nella sua morsa.

Riaprii gli occhi e deglutii, ignorando il dolore. Stare stesa sul letto lo leniva, in un certo modo, lasciandolo bruciare lento. Il suo viso era di fronte al mio, il suo respiro fruttato vicino, e le ciocche ramate ricadevano nella mia direzione, scomposte. Mi dimenai piano, - non un vero tentativo di sfuggirgli - e la sua presa si fece appena più forte.

Sorrise, birichino. «Non credi che un uomo abbia il diritto di difendere la propria vita?» soffiò sul mio volto.

Protestai debolmente con un mugolio, il respiro appena più pesante. «Sì…» ansimai, istupidita dal suo volto e da quella vicinanza.

«Lo biasimeresti? Lo considereresti paranoico se lo facesse?» chiese, mentre si abbassava sensualmente a baciarmi il collo, piano, e il suo corpo scendeva a sfiorare il mio - petto contro petto.

Scossi velocemente il capo, non provando neppure a sottrarmi. «No» sussurrai stravolta. Fui sorpresa dal tono basso e roco della mia voce. Sentivo già la testa leggera, confusa. Il mio corpo e la mia mente erano deboli, e lui ci aveva messo davvero poco a farli vacillare e cadere.

Con le labbra scese a baciarmi il petto, lì dove la mia maglietta con scollo a V lo permetteva. «Allora come fai a non comprendermi, se te l’ho detto mille volte che tu sei la mia vita» disse, battendo piano le ciglia e guardandomi negli occhi, con la voce più melodiosa che gli avessi mai sentito usare.

Salendo con il naso lungo il profilo del mio collo arrivò alle labbra e mi baciò. Ero totalmente alla sua mercè. Non chiusi gli occhi come facevo di solito; li lasciai aperti a godere la vista del suo volto. Era… completamente preso dal bacio. Non potevo descriverlo. Sembrava che stesse leccando panna, mentre mi assaporava dolcemente. Ma, come accadeva sempre, s’irrigidì e fece per allontanarsi.

Senza pensarci, pazza, folle e completamente persa, afferrai con una mano la sua camicia e avvicinai ancora le sua labbra alle mie.

Sgranò gli occhi, sorpreso, ma subito dopo rispose appassionatamente al bacio. «Allora, non sei più arrabbiata?» ansimò a due centimetri dalla bocca, divertito.

La mia mente confusa era troppo debole, in quel momento. Mi stava facendo letteralmente impazzire. «No» dichiarai decisa, puntando ancora alle sue labbra.

Rise della mia sfacciataggine, proprio lì, dove le nostre bocche si congiungevano. Poi le sue sopracciglia si aggrottarono, come se qualcosa l’avesse infastidito. Si allontanò un po’ e sbuffò. Sembrava irritato.

«Che c’è?» chiesi, accarezzandogli una guancia.

«Alice vuole che ti chieda se hai intenzione di andare con lei e Rosalie a scegliere i merletti per non so cosa…» iniziò scocciato, per poi far apparire un’espressione irritata «no Alice non intendo essere più convincente. E non provare ad entrare in camera se ci tieni ancora agli addobbi!» la minacciò innervosito.

Sorrisi per quel litigio a distanza. «No Alice, mi dispiace. Non se ne parla nemmeno» feci risoluta.

Edward rise di gusto. Si chinò a sfiorarmi il naso con il suo. «Si è arrabbiata. Temo che fra poco dovrai affrontare un’Alice con il broncio, e un Emmett molto arrabbiato» ridacchiò, gli occhi vispi che luccicavano «l’hanno obbligato ad andare con loro».

Leccai le labbra, umettandole, e puntando con gli occhi in una sola direzione: le sue. «Mmm, magari dopo…». Così dicendo mi avvinghiai a lui avventandomi sulle sue labbra. Sulle prime rimase interdetto, poi si sciolse e mi restituì il bacio. Avevo i battiti a mille.

Aprì le labbra, respirando il mio profumo a pieni polmoni. Ero totalmente persa nel bacio, la mente chiusa in una spirale velocissima.

Accadde tutto velocemente. Prima ancora che me ne accorgessi, mi ritrovai senza quasi più ossigeno, i respiri troppo corti e veloci per poter compensare.

Appena se ne accorse e si staccò immediatamente da me. Mi sorrise «Respira, Bella» fece divertito, pensando che fosse il solito affanno, quella strana tendenza che avevo di dimenticarmi anche delle cose più basilari in sua presenza.

Ma non potevo, perché il ritmo del respiro, affannoso e veloce, era diventato incontrollabile. Tremai, spaventata, e tentai di prendere un respiro più profondo.

Si accigliò, fissandomi perplesso.

Preoccupata e intontita mi sforzai di calmare ancora il fiato, che assurdamente sembrava sfuggire dal mio controllo, veloce, breve.

Edward si sollevò, rabbuiandosi. «Avanti Bella, non scherzare» disse, una voce estremamente seria, che solo in sottofondo nascondeva un ben distinguibile tremolio.

Ma l’ennesimo tentativo di prendere un respiro più profondo del precedente fallì miseramente. Portai una mano alla testa, terrorizzata, sentendola girare forte. Cosa mi stava succedendo? Cosa averi dovuto fare? Edward… Edward era lì…

«Oh Bella, smettila!» esclamò, una rabbia inconsistente che nascondeva una ben più profonda preoccupazione. Si alzò in piedi a si allontanò, in un istante, lontano da me.

Ansimai, portandomi un’altra mano al petto. E non pensai più tanto alle cose che non volevo fare, che non volevo dire. Perché la situazione era sfuggita al mio controllo e la mia mente scarseggiava di ossigeno. Dovevo dirglielo. «No… non sto… scherzando» farfugliai. Una lacrima mi rigò il volto.

In un attimo mi fu accanto. «Bella!» mi chiamò, prendendomi il volto fra le mani fredde e fissandomi in viso, ansioso. «Bella, cos’hai?».

Scossi il capo, singhiozzando, respirando ancora meno agevolmente. «Non respiro» ansimai, stringendo entrambe le mani alla sua camicia, terrorizzata.

«Shh, shh» sussurrò, cullandomi freneticamente, avanti e indietro. «Esme!» gridò, nonostante non ce ne fosse di certo alcun bisogno. «Chiama Carlisle, digli di venire. Subito!».

«Edward…» ansimai, stringendomi più forte al suo maglione, preda di un’ansia e una paura vorticanti e asfissianti.

Mi accarezzò i capelli, stendendomi sul copriletto. «Calma, stai calma» fece, ansioso, posando una mano appena sul diaframma. «Respira, ti prego» fece, accompagnando il ritmo che avrei dovuto seguire con la mano.

Gemetti, dolorante, piagandomi su me stessa. «No, no» singhiozzai, tentando disperatamente di prendere un respiro più profondo.

Sorpreso, mi scostò i capelli dal volto, frenetico. Mi prese fra le braccia, traendomi a sé. «Per favore, Bella. Ti devi calmare, altrimenti è peggio. Ti prego. Devi sforzarti di rimanere calma».

Scossi il capo, ansiosa, preoccupata. Perché lui non sapeva nulla, nulla di quello che avrebbe dovuto sapere. Ma io sì. Io lo sapevo, e se il mio corpo fremeva e tremava, preda dell’angoscia, non potevo in alcun modo biasimarlo.

Esme fu in camera, in un attimo. «Bella, tesoro, cos’ha?» chiese preoccupata, saettando con lo sguardo da me a lui.

Edward scosse il capo, fissandomi risoluto. «Non respira, non riesce a respirare», fece, provando ancora a farmi stendere sul copriletto.

Un dolore atroce si stava espandendo per le costole, sul petto. «No» singhiozzai, tenendomi più forte alle sue braccia, annaspando. La testa mi girava, impazzita.

«Falla girare su un fianco» gli suggerì Esme, accarezzandomi la fronte. «Su, tesoro, vedrai che ora passa».

«E-d…rd» ansimai, cercando il suo sguardo attraverso gli occhi appannati.

«Bella» mi chiamò risoluto, obbligandomi a stendermi nonostante le mie deboli proteste «devi calmarti» fece, prendendomi il viso con entrambe le mani «devi respirare, piano. Se ti agiti è solo peggio. Prova a calmarti e vediamo se passa. Avanti…».

«No, no» mi lamentai scuotendo il capo e singhiozzando, ansimando più forte. No, Edward, no. Non sai davvero quello che mi sta succedendo.

«Bella!» mi chiamò a gran voce, «ti prego!» esclamò, stringendo più forte le mani sulle mie guance «prova a calmarti. Respira. Respira come faccio io, piano. Per favore…» sussurrò supplichevole, vicino al mio viso, «per favore».

La prima cosa che riuscii a calmare furono i singhiozzi. Esme aiutò Edward a girarmi su un fianco, e lui mi prese la mano per rassicurarmi, guardandomi negli occhi. «Così, vedi che va molto meglio? Avanti, calmati… Shh…» mormorò, accarezzandomi una guancia.

Posai la mano libera contro il piumone, lottando per tenere le palpebre aperte.

«Brava, così, stai andando bene» fece, sforzandosi di regalarmi un sorriso disteso. «Vedrai, andrà tutto bene. Adesso verrà Carlisle e… Bella!».

Senza che lo potessi controllare il respiro aveva preso ancora ad accelerare. Chiusi gli occhi. Avrei dovuto dirgli la verità. L’avrebbe saputa comunque, in ogni caso. E, anche se fosse stata una cosa da niente… Bella. Riesci a malapena a respirare.

Repressi un singhiozzo e riaprii gli occhi, traboccanti di lacrime. Edward mi fissava, preoccupato e sconvolto, in preda alla paura. Era assurdo, ma le circostanze degli eventi avevano deciso per me. Non avevo nessuna possibilità di mentirgli.

«Ti prego…» sussurrò ancora, avvicinandosi alle mie labbra e soffiandoci un breve fiato.

Ansimai, sempre più piano, lasciando un sordo dolore al petto dove prima c’era stato un movimento irrequieto. Si arrese a prendermi fra le braccia, stringendomi al suo corpo. La sua vicinanza, il suo profumo, contribuirono non poco a farmi distendere e regolarizzare il respiro. Dopo pochi minuti era solo un sibilo lento, poco più affannoso del normale.

Mi baciò la fronte, scostandomi i capelli dal viso. Le guance erano striate di lacrime.

Mi strinsi più forte a lui, nascondendo il viso sul suo petto. Scusa, pensavo, scusa. E intanto lo tenevo stretto a me, per paura che presto sarebbe andato via, lontano. Presto, non appena avrebbe saputo la verità. Allora irrazionalmente stringevo la presa sul suo corpo, come se così avessi potuto tenerlo con me e impedirgli ogni allontanamento.

«Va tutto bene» sussurrò, carezzandomi dolcemente i capelli, soffiando sulla mia testa, «sta passando, è passato. Vedrai, andrà tutto bene».

Esme mi accarezzò il dorso della mano, cercando di confortarmi.

«Ho paura» confessai, reprimendo un ennesimo singhiozzo.

«No, Bella, no. Shh… non ti devi preoccupare. Ci sono io qui, vedrai…» mi rassicurò velocemente, tenendomi più stretta a sé.

Capii quando Carlisle fu arrivato, perché Edward s’irrigidì impercettibilmente, cacciando un breve  fiato smorzato.

«Bella» mi chiamò, avvicinandosi rapidamente. «Cos’è successo?» chiese, accarezzandomi una guancia.

Edward mi fece scivolare, mio malgrado, fuori dalle sue braccia, stendendomi sul letto. Fissava il padre senza parlare, una maschera di cera sul viso.

Fu Esme a rispondere, dando anche a me il beneficio di ascoltare. «Fatica a respirare. Prima era peggio».

Carlisle annuì, un cipiglio in volto. «Prendi la mia borsa, per favore» fece, osservandomi in viso. «Edward?» fece, posando una mano fredda sulla mia fronte e una sul polso.

«Ha cominciato a stare meglio quando si è calmata. Era… quasi in iperventilazione. No, no. Era diverso. Sicuramente aggravato dallo stato emotivo, sì». Le sue parole erano leggere, sussurrate, risposta diretta ai pensieri del padre.

Mi sorrise, rassicurante. «Bella?» fece, posando una mano leggera sul diaframma, misurando il lieve affanno nel mio respiro «mi dici cosa senti? Hai avuto altri sintomi?».

Sospirai, mentre la paura si stringeva nel petto. Ero così vicina a dover svelare la verità, ma le parole rimanevano bloccate nella gola. Strinsi più forte la mano congiunta a Edward, voltandomi nella sua direzione. «Mi… non riesco a respirare… respirare bene» farfugliai, agitata.

Esme tornò in quell’istante, con la borsa di Carlisle.

«Hai mai sofferto di asma o allergie?».

Scossi il capo, rannicchiandomi su me stessa. Mi girava la testa.

Edward mi accarezzò, comprendendo il mio smarrimento e il mio bisogno di averlo accanto. «Ha avuto diversi accessi di tosse nella mattinata» fece, sussurrando.

Carlisle lasciò passare il suo sguardo da Edward a me, facendosi passare la borsa da Esme. «La visito adesso, e se è il caso la portiamo in ospedale».

Ansimai, sbattendo le palpebre.

«Vedrai tesoro, andrà tutto bene» mi rassicurò Esme, sistemandosi dietro alla bassa testata del letto per accarezzarmi i capelli.

Avevo le vertigini. Feci per sollevare una mano, ma fallii miseramente nel tentativo. Sentivo la vista sfocare di secondo in secondo.

«Edward» fece Carlisle al figlio, intuendo il mio stato e facendosi passare un cuscino. Me lo sistemò sotto le ginocchia, sollevandomele. «Forza Bella, non mi lasciare» disse piano, accarezzandomi il viso. La sua voce era distesa, delicata.

Le palpebre, senza che le controllassi, si stavano abbassando. Ero spaventata e agitata.

«Amore» sussurrò Edward, a pochi millimetri dal mio orecchio. Si sollevò per fissare il padre. «Che sta succedendo?» chiese, non nascondendo più la preoccupazione nella sua voce.

Carlisle scosse il capo. «Non lo so, ma prima la visito meglio è».

«Vuoi auscultarle i polmoni?».

Carlisle annuì, affaccendandosi nella sua borsa.

Trattenni il fiato, quel poco che mi era rimasto, agitata. «Edward…» farfugliai. L’avevo detto così piano che difficilmente mi avrebbe sentito se non fosse stato un vampiro. «Edward…» lo chiamai ancora, tentando in ogni modo di stringere la presa sulla sua mano.

«Tesoro» sussurrò, chinandosi su di me per stringermi delicatamente fra le braccia. «Va tutto bene. Vedrai che adesso sistemiamo tutto» disse, parlando piano, misurando le parole con dolcezza.

Ansimai leggermente, non riuscendo ad impedire ad una lacrima di rotolare giù dai miei occhi. Che avrebbe visto la verità, di lì a pochi secondi, mi appariva ormai scontato. Mi sentivo così disperata che non potei non supplicarlo. «Non mi lasciare, ti prego. Rimani con me».

Un’espressione sorpresa e preoccupata attraversò il suo volto. «No, non ti lascio. Non ti lascio, Bella» cantilenò, scostandomi le ciocche scomposte di capelli dal viso. Sollevò lo sguardo su suo padre, che aspettava, in attesa che si allontanasse da me per potermi visitare.

Strinsi più forte la presa sulla sua mano. «Promettilo».

«Lo prometto» sussurrò, baciandomi appena le labbra e allontanandosi.

Edward mi aiutò a sollevarmi, per sfilare più facilmente la maglietta. Carlisle ne sollevò delicatamente l’orlo, fino a scoprire lo stomaco, e fece per infilare, discretamente, la sonda dello stetoscopio sotto gli indumenti.

Sentii un respiro smorzato, un risucchio. «Aspetta» farfugliò Edward, bloccando i movimenti del padre. Chiusi gli occhi, e lasciai scorrere le lacrime sulle guance, silenziose.

Avvicinando discretamente le dita, sollevò ancora l’orlo, scoprendo un’altra porzione di pelle. Questa volta i sussulti furono tre, finché non decise di sollevare definitivamente la maglietta, sfilandomela per la testa. Tutti smisero di respirare quando videro il livido, lasciando che un interminabile silenzio si espandesse per la stanza.

Aprii gli occhi, rossi, appannati, e fissai con insistenza il copriletto dorato, lasciandomi consumare dalla colpa. Strinsi i pugni sul lenzuolo. Il mio respiro accennato si diffondeva nella stanza e dentro il mio corpo, arrivandomi  distorto e pesante alle orecchie.

Carlisle fu il primo a rompere l’assordante silenzio. Si avvicinò, osservando con attenzione le chiazze violacee sul petto e sulla schiena. Sfiorò la mia pelle con le sue mani fredde. «Esme, puoi andare a preparare l’auto?» chiese, con calma misurata.

«Come» ansimò Edward, sconvolto «come te lo sei fatto?».

Sollevai lo sguardo sul suo, sentendo le labbra tremare. «Edward» ansimai.

Lo vedevo fissarmi confuso, sorpreso, agitato… arrabbiato. In una parola, tormentato. Scosse il capo, sollevandosi in piedi. Era incredulo.

Mi protesi nella sua direzione, ma mi bloccò Carlisle, che mi accompagnò facilmente sul copriletto, facendomi stendere su un fianco.

«Perché non me l’hai detto?» esalò sconvolto. «Bella… non mi hai detto niente».

Mi sentivo bruciare di dolore, dentro, nell’animo. Avevo tentato con tutta me stessa di evitare che soffrisse, eppure, ora, con le mia ennesima scelta sbagliata, leggevo il dolore nei suoi occhi.

«Edward, ti prego…» lo supplicai, il mio corpo teso verso di lui. Carlisle passò una mano, leggera, sulla mia schiena.

Chiuse gli occhi, scuotendo il capo, incredulo. Poi si fermò, e ansimò, aprendo gli occhi. «É stato lui» sbottò, iroso. «É stato lui, Bella, è così?».

Deglutii, cacciando un fremito fra i denti.

Strinse i denti, irrigidendo la mascella. «Perché diavolo non mi hai detto niente?» gridò, arrabbiato, addolorato, «non ti rendi conto, Bella, non ti rendi conto di quello che ti ha fatto?! Non ti rendi conto delle tue condizioni?! Volevi continuare a proteggerlo?».

Scoppiai in un pianto disperato, sentendo fitte di dolore scuotermi. Nascosi il volto fra le coperte.

«Edward, non ora. Potete discuterne dopo con calma per favore?». Carlisle esercitò una lieve pressione sulla schiena e non potei fare a meno di gemere, dolorante.

Edward strinse i pugni lungo i fianchi, frustrato. «Guarda che cosa ti ha fatto!» sibilò, i suoi occhi che si coloravano di nero. «E guardati, guardati! Per quale insano motivo hai pensato che tacere sarebbe stato meglio che dirmi la verità?!» esclamò, lasciando vibrare la sua voce, tesa, nell’aria.

Singhiozzai, gemetti, dolorante, ripiegandomi su me stessa. La mano di Carlisle tastava, decisa, i punti più doloranti.

La sua voce divenne bassa, tombale. «Non mi importa di niente, Bella. Questa è l’ultima volta. Questa volta non resterò a guardare».

Singhiozzai, tentando strenuamente di rimettermi in piedi, sottraendomi alle mani di Carlisle. «Ti prego, ti prego» lo implorai, faticando ad alzarmi. «Mi dispiace…» singhiozzai, cadendo miseramente al primo passo.

Istintivamente si allungò a prendermi prima che avessi un doloroso impatto col pavimento.

«Ti prego…» farfugliai, stringendo le braccia al suo corpo, sentendolo rigido e fermo.

«Edward, ora le servi qui. Le hai promesso che le saresti rimasto accanto» gli rammentò Carlisle, venuto presto accanto a noi.

S’irrigidì, spiazzato. Il mio respiro era diventato ancora una volta corto, irregolare. Faticavo a farlo passare dalla gola ai polmoni, e viceversa. Sospirò, tirandomi su e sistemandomi sulle coperte. Strinsi più forte le braccia al suo collo, tanto che non sarebbe riuscito a separarmi da lui senza farmi male. Vedevo delle piccole luci ai bordi del campo visivo, non riuscivo quasi più a prendere fiato, impossibilitata anche dal dolore.

«Calmati» borbottò, tentando ancora di separare le mie braccia dal suo corpo. «Calmati, Bella» ripeté.

Scossi il capo sul suo collo, ansimando. «Mi… d-spiac-e» ansai, singhiozzando.

«Calmati, avanti. Non…» sospirò «non è necessario tutto questo. Calmati. Non me ne vado».

Lo strinsi più forte, schiacciando la mia guancia contro la sua.

«Te l’ho promesso, no?» mormorò la sua voce amara. «Non ti lascio. Ora calmati, e lasciami andare».

Allentai la mia presa tremante sul suo corpo, e immediatamente si liberò delle mie braccia, facendomi stendere sul copriletto. La freddezza nei suoi occhi mi feriva, facendomi molto più male di quanto non doleva il mio petto martoriato.

Carlisle esercitò una pressione decisa su una costola. Un dolore acuto mi pervase, facendomi urlare. Edward posò una mano sulla mia, fissando il vuoto dinanzi a sé.

«Bella» mi chiamò Carlisle, fissandomi negli occhi «dimmi esattamente come te lo sei fatto».

«Non… non l’ha fatto apposta…» ansimai, disorientata «si è trasformato e… io ero lì… Mi-mi ha fatto sbattere contro il muro».

Edward ringhiò, fra i denti, distogliendo lo sguardo. Tremai, spaventata.

Carlisle parlò, richiamando la mia attenzione su di sé. I suoi occhi erano sicuri e attenti. «Sei sbattuta con la schiena?» continuò, ignorando il figlio.

Annuii, spostando velocemente lo sguardo su di lui. La rabbia aveva lasciato spazio a una tristezza e una malcelata frustrazione.

«L’auto è pronta» disse Esme, rientrando in camera.

«Sì, stiamo scendendo. La portiamo in ospedale e…»

Mi rannicchiai su me stessa, afflitta e dolorante. La testa mi pesava per le lacrime versate. Avevo sbagliato tutto, ancora una volta. Repressi le lacrime, che ancora una volta volevano sgorgare dagli occhi caldi. Chiusi gli occhi, e il fiato mi si intrappolò in gola. Tossii.

Quando allontanai la mano che mi ero portata alla bocca vidi tre piccole gocce di sangue. Non ci fu bisogno di parlare, neppure di fiatare, perché, sollevando gli occhi dalla mano, incontrai gli sguardi di tre vampiri preoccupati.

«Portiamola via» disse Carlisle, risoluto.

 

Edward mi teneva stretta al suo corpo, fra le sue braccia. Avvolta in una coperta calda me ne stavo con la testa poggiata contro la sua spalla. Ma era lontano, distante. Era… freddo, pensai, rabbrividendo.

«Carlisle, cosa credi che abbia?» chiese Esme, poco più che un sussurro della sua voce apprensiva.

«Un trauma toracico» rispose inflessibile, «di sicuro qualche costola incrinata. Una rotta. Forse di più».

Sua moglie scosse il capo, afflitta.

Edward rimase impassibile, lo sguardo perso nel vuoto. La distanza fra i nostri cuori mi sembrava enorme, abissale. Mi rendevo conto, solo allora, davanti alle conseguenze delle mie scelte, di quanto fossero state sciocche. Come se si potesse controllare ciò che è già sbagliato, come se avessi potuto cancellare ciò che non sarebbe dovuto esistere sin da principio.

Una speranza per Jacob.

E magari lui non avrebbe demorso, spavaldo, testardo, perseverando nelle sue azioni. Ma avrei evitato tutto questo dolore all’unica persona cui volevo più bene, l’unica che, nel mio cuore, volevo preservare da ogni male.

«Edward» sussurrai. La voce mi uscì incredibilmente debole.

Parve ridestarsi dai suoi pensieri. Mi osservò, in silenzio.

«Mi dispiace» farfugliai, senza aggiungere altro.

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Capitolo 4
*** L'accusa ***


Arrivati al pronto soccorso, Carlisle ci fece entrare in ambulatorio e Edward mi fece sedere su una barella copertina

Capitolo riveduto e corretto

 

Appena arrivammo al pronto soccorso Carlisle guidò Edward nell’accettazione, scomparendo velocemente dietro le porte scorrevoli e assicurandoci che sarebbe tornato fra un attimo.

Edward, lontano da me più di quanto si potesse intuire vedendo le sue braccia strette attorno al mio corpo, mi fece stendere su una barella marrone, rivestita di carta grigiastra e ruvida.

Ansimai, stringendo forte la sua mano con la mia, quando fece per allontanarsi. Ero terrorizzata.

Scosse il capo, fissandomi evasivamente negli occhi. «Non me ne vado…» mormorò impercettibilmente «almeno… finché non so cosa… ti ha fatto» sbottò, a bassa voce, ma così minaccioso che mi causò un brivido.

Era distante, freddo. Mi sembrava un’altra persona rispetto a quella che poche ore prima, baciandomi, aveva detto di amarmi. E di certo non potevo prendermela con lui.

«Ti prego, Edward» annaspai, provando a sollevarmi. Gemetti, dolorante, una fitta al petto.

Mi bloccò, obbligandomi a rimanere stesa. «Stai giù» protestò debolmente, afflitto.

Afferrai la sua mano, contro il mio petto, con la mia, e me la portai alla guancia. «Mi dispiace, Edward. Non sai quanto mi dispiace» gemetti, tentando di reprimere le lacrime.

Allontanò lo sguardo, ferito.

«Non l’ho fatto per lui. Non l’ho fatto per proteggerlo» feci, premendo più forte la sua mano contro il mio viso e bagnandola con le lacrime che non ero riuscita a trattenere. «L’ho fatto per te, e l’ho fatto perché volevo…» singhiozzai «perdonami, Edward».

Si voltò nella mia direzione, turbato.

«Perdonami» continuai, allungando le mani per circondare il suo volto, «non solo per oggi. Perdonami per ogni giorno in cui, pur amandoti, non ti ho dimostrato quanti ti ami».

Sospirò, lasciando che lo avvicinassi a me, fronte contro fronte. «Lo so, che mi ami» mormorò mestamente «ma tu… c’era anche lui… amavi anche lui…».

«No» lo interruppi, serrando la presa sulle sue tempie, «no, Edward. Lui non c’è mai stato, mai. Ci sei stato solo tu. Sempre, solo, tu. Mi ha ingannata, mi ha confusa, mi ha forzata. Ma sapevo sin da principio di aver scelto te, di volere solo te. Non l’ho mai amato. Mai. L’amore vero si regala solo ad una persona, nella vita. E quella persona per me sei tu, e basta. Ti voglio dare la mia esistenza».  

I suoi occhi si sciolsero, nel dolore e nell’amore. Si avvicinò, abbracciandomi, premendo il viso contro la mia guancia.

«Che cosa voleva?» mormorò contro il mio collo.

Presi fiato in un risucchio. Non avevo più molto da perdere, dicendogli la verità. «Voleva… portarmi via con sé. Non gli bastava più… voleva… ha detto… ha detto che…io… io gli ho detto che lo odiavo» rabbrividii «voleva… oh, Edward… era così assurdo…».

«Cosa voleva?» ripeté, staccandosi per guardarmi negli occhi.

Abbassai il viso, incapace di sostenere il suo sguardo. «Mi ha chiesto di… andare con lui. Di… fare… di fare l’amore con lui» annaspai, strappando con la mano un pezzo di carta ruvida in un pugno.

La sua espressione si fece ancora una volta di vetro. Ringhiò.

«Ti prego!» lo supplicai, gettandomi fra le sue braccia nonostante il dolore, «non andare da lui. Ti prego. Voleva… voleva ucciderti Edward… Oh, ho tanta paura… Per favore, per favore… è scappato via, non tornerà più. Non te ne andare!» singhiozzai, piangendo a pieni polmoni.

Strinse gli occhi, afflitto, angosciato. «Non posso credere che sia stato tanto vile». Sospirò, accarezzandomi i capelli con le mani, «non posso credere che ti abbia lasciata, ferita, e sia scappato via».

«Per questo ci sei tu, Edward» annaspai, stringendo la sua maglietta fra le mani «per questo ci sei tu. Non mi puoi lasciare sola. Ti ho dato la mia vita, ho solo te. Non mi puoi lasciare sola, ti prego».

Si chinò, baciandomi le palpebre pesanti. «Non ti agitare. Te l’ho detto, non ti lascio sola».

«Mai, ti prego» sussurrai, cercando di strappare un’ulteriore promessa, o di sentirlo in qualche modo più vicino a me.

Mi sorrise appena, un sorriso troppo debole per soddisfarmi. Sospirò, accarezzandomi una guancia. «Vedremo. Stai giù, per favore» fece, ricomponendosi in fretta.

In meno di due secondi la porta dell’ambulatorio si aprì. «Quali sono i sintomi?» chiese il dottore entrando nella stanza. Doveva essere lo specialista. Accanto a lui camminava Carlisle. A sua differenza aveva l’aria di un vero medico: quarant’anni, barba bianca, aspetto erudito, occhiali.

«Dispnea, shock, emottisi… lussazione e contusioni costali e trauma toracico» rispose attento Carlisle, riferendogli un quadro preciso.

Rabbrividii. Edward, al mio fianco, non parve stupito per la prole di suo padre; tuttavia, accorgendosi del mio sguardo spaventato su di lui, strinse più forte la mano con la mia.

Lo specialista annuì. «Com’è successo?» chiese, muovendosi per prendere dall’apposito contenitore un paio di guanti bianchi.

Fu Carlisle a rispondere prontamente, senza battere ciglio. «É caduta al ruscello, scivolata. Ha sbattuto sulle rocce».

Mi osservò attentamente. «Credi abbia un trauma cranico?».

Carlisle scosse il capo, seguendo gli stessi gesti del collega. «Lo escluderei, per ora. Ma sarebbe meglio aspettare i risultati della TAC».

L’uomo annuì, avvicinandosi nella mia direzione e tirando a sé un carrellino. «Sono il dottor Parks. Come ti chiami?» chiese, afferrando una lucina e puntandomela negli occhi. «Guarda il dito».

«Isabella… Bella, Bella Swan» mormorai disorientata, provando a seguire le sue istruzioni. Non era la prima volta che mi trovavo in quelle circostanze, sapevo come funzionava. Luce negli occhi, pressione, battito, esami… Ma questa volta non sembrava essere così facile.

Il dottor Parks contrasse il viso in una smorfia di disappunto. «Ah, senti il respiro?» fece, chiedendo a Carlisle, «com’è la saturazione?».

«Non abbiamo ancora verificato. Ho già un’idea di quello che potrebbe avere, ma vorrei che la visitassi tu, per conferma».

«Sì» scattò, allontanandosi per un attimo per accendere il neon sulla barella, «togli la maglietta» mi ordinò, prima di sollevare lo sguardo e notare, come se non l’avesse ancora visto, la presenza di Edward. «Dovresti uscire».

Sbiancai, sentendo il ritmo del respiro aumentare. Strinsi più forte la mano di Edward, voltandomi velocemente nella sua direzione.

Sospirò, allungando una mano per accarezzarmi il braccio.

Intervenne Carlisle a calmare la situazione. «Richard, la ragazza è scossa, non vogliamo che si agiti ancora. Credo che possa rimanere, si devono sposare ad Agosto».

Il dottore scosse la testa, in disappunto. «No, non vogliamo che si agiti» sospirò infine, fissandomi in attesa «la maglietta, per favore».

Rincuorata, a fatica, mi tirai a sedere. Furono le mani confortanti di Edward, discrete, ad aiutarmi a liberarmi della felpa che Esme mi aveva fatto indossare. Ogni contatto devoto della sua pelle contro la mia fu infinitamente rassicurante.

Mi stesi sul lettino, girandomi su un fianco, e il dottor Parks cominciò ad esaminare, attentamente, ogni lembo di pelle, tastandolo di tanto in tanto.

Gli occhi di Edward, color ambra per la caccia del giorno prima, mi fissavano attenti, dentro i miei. Averlo ancora accanto mi pareva un sogno. Non avrei dormito, non avrei mangiato, non avrei fatto nulla, se necessario, per potermi assicurare che rimanesse sempre accanto a me. Per fare in modo che mi sorridesse, che mi baciasse, che mi amasse.

Gemetti, ritirandomi istintivamente, quando la mano del dottore esercitò una maggiore pressione.

«Buona, buona» mi riprese con tono austero, muovendo la mano più in alto e premendo ancora.

Urlai, serrando gli occhi.

Edward sollevò una mano per accarezzarmi una guancia. «Shh, va tutto bene» mormorò piano, rassicurandomi.

Il dottore annuì. «Facciamola voltare».

Stesa, supina, continuò a tastare ogni lembo di pelle. Gemevo, dolorante, stringevo i denti, chiudevo gli occhi, quando le sue mani individuavano i punti più lesi. Carlisle partecipava all’attento esame. Edward, la cui mano non avevo mai lasciato, assisteva silenzioso.

Con le dita, tremanti, disegnai un cuore sul palmo della sua mano. Aprii appena gli occhi, cercando il suo sguardo. Ma era troppo distante per poterlo leggere davvero. Sospirai, angosciata.

Il dottor Parks si allontanò, gettando via i suoi guanti. Edward mi aiutò subito a rimettere la maglietta. «Facciamo subito gli esami, Carlisle. Ci sono costole fratturate e un emotorace. La ricoveriamo e decidiamo come intervenire» disse, premendo il testo rosso della chiamata.

«Sì, penso anch’io» fece Carlisle, d’accordo con le sue parole.

Rabbrividii, spaventata. Non avevo una precisa idea di quanto avevano detto ma… ricoverarmi… Cercai smarrita lo sguardo di Edward. Era statico, fermo. Avevo paura.

Arrivò un’infermiera, e i medici le diedero indicazioni sugli esami che avrei dovuto eseguire. La mia attenzione era catalizzata su Edward, al mio fianco. Non mi avrebbe mai perdonata davvero. L’ansia e l’angoscia mi stavano corrodendo.

La donna mi fece un cenno per farsi seguire. Stava prendendo una sedia a rotelle dal fondo della stanza.

«Edward» sussurrai, invitandolo a seguirmi. Implorandolo di seguirmi.

Sospirò, sollevando le braccia. «Bella…» mormorò a bassa voce.

Annaspai, morsi un labbro. Trattenni in ogni modo quelle lacrime infami che volevano traboccarmi dagli occhi. Non voleva venire. Forse, non era da Jacob che voleva andare. Forse, semplicemente, si era stancato di me.

Mi sollevai, tremante, dal lettino, puntellandomi sui gomiti. Sfuggii all’aiuto che le sue mani volevano darmi, mettendo i piedi a terra. Stare in posizione eretta acuiva il dolore alle costole.

Ma come mossi due passi, sentii le forze abbandonarmi. La testa girava, veloce, in preda alle vertigini. Caddi carponi, ansimando.

«Bella!» esclamò Edward, e le sua mani furono le prime che sentii sui fianchi.

Avevo paura che la forza che mi scorreva nelle braccia fosse troppo poca per sorreggermi. Tremavo, disorientata, confusa. Tremavo, e sentivo le voci dei due medici, i loro tocchi. Ma l’unico che percepivo con certezza era quello statico di Edward. Le sue mani salde.

Una goccia cadde dal mio viso. Una lacrima. Un’altra. Sangue.

Tossii, violentemente, e non sarei mai riuscita a reggermi ancora senza alcun sostegno. Tossii, e alla goccia di sangue che macchiava il pavimento se ne unì un’altra, e un’altra, e un’altra ancora.

«Bella!» mi chiamò ancora Edward, spaventato, sorreggendo tutto il peso del mio corpo. Stavo per perdere i sensi. Chiusi gli occhi, abbandonandomi. Mi prese fra le braccia, mi sollevò.

«Portala sul lettino» ordinò una voce risoluta. Carlisle. Sentivo delle mani sui polsi, dietro la nuca, sulla fronte. Alcuni deboli colpi sulle guance. Delle voci, confuse, agitate nella mia testa, che mi chiamavano.

«Bella» un sussurro, addolorato. Un sospiro. «Bella, amore, apri gli occhi. Va tutto bene, tranquilla. Va tutto bene. Adesso Carlisle, adesso… ci sono io, Bella. Ci sono io, qui per te» mormorò, agitato e afflitto. E, piano, sentii le sue dita. Sul palmo della mano. Un cuore.

Aprii piano gli occhi, muovendo il capo da una direzione all’altra, irrazionalmente. Ero debole, ero confusa.

«Sono qui, accanto a te» mi richiamò la sua voce. Aveva capito, prima… aveva capito.

Lo fissai, insistentemente, cercando qualsiasi cosa nel suo volto.

Mi sorrise. Debolmente.

Feci immediatamente le lastre e la TAC. Edward mi seguì, mi seguì senza che glielo chiedessi con le parole o con lo sguardo, e mi tenne la mano stretta con la sua ogni istante in cui poté farlo, garantendomi continuamente la sua presenza e il suo sostegno. Mi rassicurò quando i miei occhi si facevano più spaventati, e un accarezzò, e mi baciò, ogni volta che gemevo, dolorante, o che sentivo il fiato più corto o la testa più leggera.

Attento a non farmi male mi sollevò dal lettino, prendendomi fra le braccia e facendomi scivolare sulla sedia a rotelle. A dividerci solo il sottilissimo strato del camice che mi avevano fatto indossare.

«La stanza è la N14, secondo piano» ci informò l’infermiera. «Avete bisogno che vi accompagni?».

Edward posò entrambe le mani sulla spalliera della sedia. «No, grazie, faccio da solo», rispose educatamente, cominciando a spingere. Si muoveva piano, il passo cadenzato e lento.

Gemetti debolmente, appoggiandomi, con cautela, allo schienale nero. Il movimento ritmico mi rimbombava nel corpo e nella testa. Mi sentivo spossata, dolorante. Mi girava la testa, e mi sentivo debole a ogni movimento. Non avrei immaginato di trovarmi nelle condizioni in cui versavo. Non potevo di certo oppormi all’evidenza: mi sentivo male. Ma odiavo ogni singola cosa di quello che mi circondava, men che Edward.

«Come ti senti?» mi chiese discretamente, decelerando appena il passo.

Scossi debolmente il capo. «Ce la faccio» sussurrai, arrossendo.

«Hai dolore?» chiese ancora.

Deglutii, e strinsi le mani sui manici. «Non è…» mi morsi un labbro «non così tanto» mentii, orgogliosa, spaventata.

Si fermò, sospirando. «Bella».

Il cuore accelerò la sua corsa nel petto. I miei occhi rimasero bassi, puntati sulle ginocchia e sul camice azzurro.

Edward fece il giro della sedia, piazzandosi davanti a me e chinandosi sulle ginocchia. Sollevò le ciocche di capelli che gli impedivano la vista dei miei occhi. «Bella, credo di doverti chiedere scusa anch’io. Non è solo colpa tua» ammise, mesto «forse… forse, per una volta, avrei dovuto smettere di cercare di fare la cosa che pensavo essere la migliore per te, e fare semplicemente quello che desideravo. Avrei dovuto smettere di spingerti fra le sue braccia con una mano, e tenerti a me con l’altra. Vedi?» fece, pedante «vedi le cose che abbiamo sbagliato? Ma ora sono certo» continuò «di volerti per me, e di non volerti spartire con nessuno».

«Edward…» mormorai, posando una mano sulla sua, sulla mia guancia.

«Per questo non posso fare a meno di incontrare Jacob…».

Annaspai.

«…con te, per parlare e chiarire una volta per tutte. Appena starai bene».

«Oh, Edward…» sospirai, prendendolo fra le braccia.

Mi strinse al suo petto, accarezzandomi i capelli con una mano. «Va tutto bene, Bella. Va tutto bene. Non ti lascio, non ti lascio. Andrà tutto bene…».

Mi portò fin nella stanza. Era una piccola stanza d’ospedale, di quelle che avevo imparato ad odiare nel corso della mia vita. Non era di grandi dimensioni, ma aveva un solo posto letto, e mi avrebbe così consentito una maggiore privacy. A colpirmi immediatamente fu l’odore dei fiori e la vista di un meraviglioso mazzo sistemato sul comodino. Di certo, i Cullen non erano creature prevedibili.

Ad aspettarmi, sedute sul letto, Esme e Alice.

Sorrisi appena, sforzandomi di dimostrarmi più in salute di quanto non fossi.

«Bella!» esclamò la mia amica non appena mi vide. «Oh, Bella!» fece, gli occhi colmi di tristezza, precipitandosi ad abbracciarmi.

«Va tutto bene» sussurrai appena, accarezzandole piano la schiena, «va tutto bene, davvero».

Si staccò appena per fissarmi negli occhi. «Mi dispiace così tanto. Io… non so cosa succede» fece, le parole che volavano veloce fuori dalla sua bocca. «É tutta colpa mia, ti ho fatta stancare così tanto! Se solo avessi saputo…».

Sussultai, colpita. «Non è colpa tua» feci, a bassa voce, «non… non è colpa tua» ripetei a voce più alta deglutendo. «Alice, per favore» la supplicai, «non pensarci neppure. Non farlo».

Edward posò una mano sulla mia spalla, accarezzandomi con l’altra i capelli. «Alice» mormorò, scuotendo il capo, «va bene così. Basta».

Ma la piccola vampira stava tremando, preda dei sensi di colpa. «Avrei dovuto vederti, Bella. Non c’è ragione per cui non avrei dovuto farlo. Ma ero così presa dal matrimonio che non sono riuscita a farlo, a capire che stavi male. E ora è tutto confuso e indistinto» mormorò, mesta, fissando senza riuscire a reggerlo lo sguardo di Edward «non riesco a vederti chiaramente. Oh, e se fosse successo qualcosa di più grave? E se fosse…?» singhiozzò, portandosi entrambe le mani al viso.

«Alice, Alice. Smettila!» la chiamai, tendendomi nella sua direzione, «non è colpa tua se non mi hai vista. Tu stai organizzando il mio matrimonio. Per me. Tu non hai il dovere di vegliare su tutto ciò che mi accade» alzai gli occhi al cielo, stringendo i pugni sulle ginocchia. Respirai a fondo, recuperando il fiato che mi era stato sottratto per parlare. «Lo fa già Edward, senza che nessuno glielo chieda».

Si chinò, alle mie parole, al mio fianco, sussurrando a bassa voce: «a quanto pare non è abbastanza. Forse dovrei darmi più da fare, Bella?».

M’irrigidii e scossi il capo, storcendo le labbra.

«Ragazzi» intervenne Esme, abbracciando la figlia, «l’importante è che ora la situazione si risolva, va bene? Facciamo stendere un po’ Bella».

La sorrisi, riconoscente.

Fu Edward ad aiutarmi a sollevarmi dalla sedia, tenendomi per i fianchi. Quando fui in piedi, compresi quanto il senso di debolezza e spossatezza di stesse espandendo velocemente nel mio corpo. Mi strinsi alla sua camicia, tremando per mantenermi sulle gambe, nonostante sostenesse lui stesso gran parte del mio peso. Mi pulsava la testa, dolorosamente, cadendo di tanto in tanto preda della vertigini.

«Non… non mi sento tanto bene…» mormorai contro il suo petto.

Mi accarezzò i capelli, preoccupato, sostenendo meglio il mio peso. «Le costole? Esme, chiama Carlisle per favore…». Il un rapido movimento mi sollevò da terra, prendendomi fra le braccia per adagiarmi direttamente fra le coperte, sul letto. Posò una mano su una guancia, e mi baciò la fronte.

«Edward…» feci, prendendola fra le mie «non… non ti preoccupare eccessivamente, ti prego» protestai debolmente, nonostante il tono delle mie parole chiedesse il contrario.

Alice si avvicinò, osservandomi in silenzio, preoccupata. «Febbre?» chiese, voltandosi verso il fratello.

Annuì seccamente. «Non vedi altro?».

Sospirò, sconsolata. «No, purtroppo». 

Carlisle entrò in camera pochi minuti più tardi, immergendosi in un buio silenzio. Mi doleva la testa, le membra, e il clima di muta penombra alleviava solo leggermente il mio malessere.

«Carlisle» fece Edward, sussurrando, alzandosi per andare incontro al padre, «temo che abbia la febbre. Ha detto di non sentirsi bene».

Annuì, mi venne vicino, e posò una mano fredda sulla mia fronte. Rabbrividii. «Sì. Trentotto e tre, credo» fece inflessibile. D’altronde, anche se la mia mente fosse stata più lucida in quel momento, non avrei voluto aspettarmi nulla di meno da dei secoli passati in ospedale e sensi ipersviluppati.

Sbattei debolmente le palpebre, sentendo gli occhi caldi e gonfi.

Mi sorrise, rassicurante. «Resta a letto, riposati». Sollevò lo sguardo in cerca di suo figlio «assicurati che lo faccia. Vado a ritirare i risultati degli esami e sono da voi. Vediamo se posso darle qualcosa».

Alice mi aiutò a spogliarmi di quel camice che aveva definito “orrendo”, ed aiutarmi a infilare il pigiama che lei stessa mi aveva previdentemente portato. Ogni movimento mi procurava fitte acute dalla cintola in su. Mi sistemai sotto le coperte, stremata, e subito il tepore collaborò a farmi assopire. Chiusi gli occhi.

«Dormi…».

«Mi sono appena svegliata» borbottai, protestando debolmente. 

«Sei debole». Una mano fredda, con un gesto confortante, mi accarezzò la fronte e i capelli.

Sospirai di sollievo.

«Dormi Bella amore…».

 

«Bella! Cosa le è successo?».

Aprii gli occhi di scatto, allarmata. Ansimai. Avevo riconosciuto quella voce: mio padre.

«Papà» mormorai, tentando inutilmente di tirarmi a sedere «calmati…per favore…». Parlavo con voce fioca.

Mio padre, in piedi al centro della stanza, si avvicinò al mio letto a grandi passi, allungando le braccia nella mia direzione. «Bells! Come ti senti?» mi chiese, agitato, preoccupato «sei così pallida…».

«Così…» sussurrai, lasciandomi andare, senza forze, sul cuscino. Senza neppure la forza di far imporporare le guance.

«Stai giù, Bella, non ti sforzare» mi sussurrò Edward, al mio fianco, aiutandomi a sistemarmi fra le coperte.

Il volto di Charlie si fece velocemente paonazzo. «Edward Cullen. Mi devi una spiegazione» sbottò bruscamente.

Trattenni il fiato, preoccupata per la piega che stavano prendendo le cose. Era davvero assurdo il ribaltamento della verità che era avvenuto. La persona per cui patteggiava, tra le braccia di cui aveva cercato di spingermi, mi aveva fatto questo. E proprio Edward, che invece mi aveva aiutata e salvata, stava andando in contro al rimprovero di mio padre.

«Charlie. Si sieda, prego» gli rispose, offrendogli la sedia con la solita cortesia che lo contraddistingueva.

Mio padre lo squadrò, in silenzio, e Edward sostenne educatamente il suo sguardo. Ci si lasciò cadere. «Allora? Cos’è successo?» chiese ancora, esigendo una risposta.

Edward sospirò, parlando pacatamente e con convinzione. «Eravamo a fare un pic-nic in riva al fiume. Bella è scivolata sul limo».

Strinsi i pugni sul lenzuolo, agitata, ansando. «Papà, non è stata colpa di Edward…» sussurrai, ansiosa, senza forze.

Edward si voltò nella mia direzione, passandomi una mano sulla fronte per darmi sollievo. «Shh Bella, non fa niente» mi rassicurò con dolcezza.

Mio padre serrò i pugni lungo i fianchi. «Edward! Io ti avevo affidato mia figlia!» esclamò a gran voce, minacciandolo con un dito.

«Papà» ansimai, ansiosa, provando a sollevarmi. Ero così afflitta, che avrei voluto urlargli la verità in faccia.

«Ti ho dato la mia benedizione!» continuò, ignorandomi completamente «E tu non sei stato capace di prenderti cura di lei!».

Strinsi più forte le mani sul lenzuolo, tremando.

«Bella!».

Mi accorsi che il respiro mi si bloccava fra i denti.

Non riuscivo più a respirare.

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Capitolo 5
*** Illusione (Parte I) ***


Edward si mosse veloce premendo un tasto rosso sulla mia testa copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Edward si mosse veloce premendo un tasto rosso sulla mia testa.

Ansimai, e subito il dolore pulsante alle costole e alla schiena si trasformò in fitte acute. Il mondo si era fermato in quell’istante, condensato nel breve lasso di tempo che passava da un ansito all’altro, dilazionato spaventosamente dal terrore.

«Cosa le succede?» chiese mio padre, spaventato.

«Non respira!».

Non li vedevo, a malapena li sentivo. La camera tremava e girava su se stessa. Un’ansia, un’angoscia strisciante si erano impossessate di me. Tirai indietro la schiena, in un disperato quanto fallace tentativo di avere più fiato. Inutile. Solo doloroso.

«Cosa succede?» fu l’esclamazione, contenuta da un tono professionale di chi è abituato a certi tipi di emergenze, dell’infermiera di turno, subito accorsa.

La risposta di Edward su secca e concisa. «Crisi respiratoria». E subito posò una mano, leggera, sulla mia fronte. Le sue labbra si muovevano, segno che mi stava parlando, magari rassicurando. Forse chiedendo di rimanere tranquilla, mantenere la calma, proprio come aveva fatto quando ero in camera sua, fra le sue braccia.

«Edward… papà…» farfugliai fra gli ansiti e i respiri smorzati. Avrei probabilmente dovuto seguire il senso delle sue parole, ma avevo troppa paura. Tremavo.

I miei occhi, persi in uno strano vuoto, incontrarono il viso ansioso di mio padre. Aveva la bocca aperta, il fiato bloccato, come se fosse troppo sconvolto per farlo andare su o giù. Scosse il capo, incredulo. «Questo non sarebbe mai successo se avessi scelto Jacob».

Edward s’immobilizzò. Il suo sguardo si fece vitreo.

Non avevo creduto fosse possibile, ma il ritmo del respiro si fece più veloce. Era una conseguenza diretta della parole di mio padre, e degli effetti disastrosi delle mie scelte che ancora vedevo ricadere su Edward.

Avrei voluto sollevarmi. Avrei voluto stringere il suo viso fra le mani. Avrei voluto assicurarmi della sua consistenza, e del fatto che avrebbe tenuto fede alla promessa. Più di tutto, se avessi potuto, in quell’istante avrei voluto urlare. Semplicemente urlare di dolore. Non dovrebbe essere un diritto negabile a un moribondo, il più rudimentale modo di sfogare le proprie pene.

Una lacrima mi rotolò lungo la guancia, fredda, fastidiosa.

Il dottor Parks entrò nella stanza, seguito da un’equipe di infermieri. Si avvicinò immediatamente al letto. «Dovete uscire» disse, rivolgendosi ai miei visitatori.

Strinsi un pugno sul lenzuolo, tentando disperatamente di deglutire. Se Edward fosse andato via in quell’istante, senza che sapesse, senza che mi assicurassi della sua meta… Se fosse uscito con mio padre, e lui avesse continuato a ripetergli, mentalmente e non, quelle cose orrende…

«No, no, no» sussurrai fra i sibili, e i miei movimenti si fecero più veloci, convulsi, quasi incontrollati. A ogni spostamento corrispondeva una fitta, atroce, ma non per quello decidevo di fermarmi. La stanza era piena di suoni estranei, poco confortanti. Era piena di luci, e voci sconosciute.

Non c’era Edward.

Peggio di quando, da bambina, giravo su me stessa fino a cadere a terra. Peggio. La testa girava ancora più veloce.

«Edward!» gridai, sollevandomi a sedere sul letto. Dolorante, madida di sudore. Cercai disperatamente la sua figura nella stanza, sperando che potesse rimanere immobile per qualche instante per darmi la possibilità di farlo.

Ma una mano mi bloccò la spalla, facendomi ricadere fra i cuscini.

Non c’era. Edward non c’era.

«Sta’ ferma» ordinò perentoria la voce del medico «sta’ ferma, Bella».

Scossi la testa, mi dibattei. Il dolore dilagava nel mio corpo. Possibile che non capissero? «Ed… vo… voglio… Ed-Edward…» farfugliai, ansai, muovendomi sul letto come un pesce fuor d’acqua. Volevo l’unica cosa che potesse farmi stare bene. La certezza che Edward non sarebbe andato da nessuna parte, come mi aveva promesso.

Le mani che mi bloccavano sul materasso divennero due, su entrambe le spalle. «Bella, adesso ti aiutiamo noi. Calmati. Ferma».

«No! Ed…no…non…».

«Calma Bella, ferma» mi ordinò ancora, avvicinando una mascherina di plastica trasparente al mio viso.

«Lasciatemi!» urlai, divincolandomi dalla presa, scuotendo la testa. Era irrazionale. I medici mi avrebbero aiutata, avrei ricominciato a respirare normalmente, e avrei saputo di Edward, trenta secondi più tardi. Ma in quel momento volevo semplicemente accertarmi che non avesse lasciato le mura dell’ospedale. Tutto era diventato una macchia indistinta, sentivo voci, vedevo ombre che si muovevano.

«Bloccatela».

Della mani afferrarono prontamente braccia e gambe, inchiodandomi al letto. Continuavo ad agitarmi, ma non riuscivo a muovermi. La mascherina trasparente prese prepotente posto sul mio viso.

Le pupille erano dilatate per la paura. La carotide pulsava indisturbata contro il cuscino. Tossii. Provai a tossire, ma mi sentii soffocare.

«La saturazione dell’ossigeno sta scendendo. Settanta».

«Le stiamo facendo male».

«La stiamo perdendo».

Tirai più forte un braccio nella mia direzione e la presa di una mano s’intensificò. Non respiro, non respiro, non respiro, era il pensiero ossessivo di chi sta per soffocare. Il mio.

«Datele un tranquillante, ora. Così non riesco ad intervenire» sbottò il dottore.

Pensai che avevo perso, tanto valeva calmarsi. Pensai che a quel punto non ne valesse più la pena di agitarsi, perché fra qualche istante non sarei stata più cosciente di me. Ma entrambi i pensieri furono meteorici nella mia mente confusa, così non smisi di agitarmi, non smisi di soffocare, non smisi di vedere la stanza girare su se stessa.

Qualcuno mi afferrò un braccio, trapassandomi la pelle con un ago.

«Edward!» gorgogliai, fra quello strano tentativo di tossire e il soffocamento in atto. Mi dibattei per pochi istanti ancora, come un insetto appena schiacciato i cui arti continuano a muoversi per chissà quali riflessi involontari.

Qualcuno mi girò su un fianco, e per un attimo mi tolsero la mascherina. Vidi il buio delle mie palpebre, e vidi la luce della stanza. Un piccolo fiotto di sangue mi colò dalle labbra.

Buio, luce. Buio, luce, buio, luce, buio.

Buio.

 

La mia mente registrava a scansioni progressive orribili scenari. Se Edward fosse andato da Jacob sarebbe stata la fine. La sua minaccia poco velata aleggiava ancora nella mia mente. Ma evidentemente ogni volta che tentavo di mettere un freno, di bloccare le conseguenze delle mie scelte peggiori, il destino si faceva beffe di me, aggirando bellamente l’ostacolo, indisturbato.

Terrore, ansia, angoscia, erano termini riduttivi per esprimere il mio stato emotivo anche al solo pensiero di un possibile incontro fra i due.

Dovevo impedirlo, ad ogni costo.

C’era silenzio, non udivo alcun suono. Faceva caldo, tanto caldo. E c’era molta luce.

Aprii gli occhi. Ero nella stanza d’ospedale, ma intorno a me non c’era nessuno. Sul comodino il bel mazzo di fiori profumato era secco, appassito. Tutti i macchinari che avrebbero dovuto esserci, al loro posto, erano scomparsi. Aleggiava un innaturale silenzio.

Mi sollevai a sedermi, e scoprii con poco stupore che la schiena non faceva più male.

Dovevo scoprire cos’era successo. Al più presto.

Misi un piede fuori dalle coperte, sul pavimento. Ero scalza. Indossavo il camice che Alice aveva definito “orrendo”. Mi sollevai dal letto, e uscii dalla stanza. Ma i corridoi erano deserti.

Corrugai le sopracciglia.

Da lontano sentivo provenire un pianto strozzato, smorzato. Seguii automaticamente il suono, dirigendomi verso il luogo da cui proveniva. Mi ritrovai in una piccola stanzetta completamente spoglia, con solo una sedia al centro.

Sulla sedia, una donna. Era lei che piangeva, almeno, per quello che poteva.

No, non era come pensavo io. Non poteva essere così.

«Esme…» sussurrai.

Cessò immediatamente i suoi lamenti. Rimase voltata di spalle, col volto basso. «I loro cuori non sono stati abbastanza grandi da poter contenere entrambi l’amore per te», la sua voce era disperata, rabbiosa, angosciata, ma allo stesso tempo, spenta.

Cos’è successo? Cos’è successo, Esme?, non lo chiesi ad alta voce. Ma mi rispose.

«Sono morti. Tutti e due. Edward e Jacob».

Tutto si fece buio.

 

«No!» gridai, tirandomi a sedere. Tremavo, pervasa da brividi di freddo, ma la schiena e la fronte erano madidi di sudore. Dovetti ricadere immediatamente fra i cuscini, ma feci appena a tempo a osservarmi intorno per capire di trovarmi ancora nella stanza d’ospedale. Ma questa volta i fiori profumavano, i macchinari erano ai loro posti, e così anche i loro corrispettivi rumori.

«Bella, amore. Calmati, sono qui con te».

La mia mente era confusa, appena uscita da qualcosa che… sì. Doveva essere stato un sogno, se riuscivo ancora a sentire la voce di Edward, vedere il suo volto. Se mi sembravano così vividi e reali. Ma l’immaginazione, esperta beffatrice, mi stava ancora confondendo la mente pesante.

Scossi il capo, incredula. Un singhiozzo mi nacque dal petto, facendo espandere in tutto il mio corpo un’onda di nauseante dolore.

La sua espressione si fece crucciata, preoccupata. Mi accarezzò il volto, prendendolo con entrambe le mani. «Va tutto bene. Sono qui, sono qui con te. Va tutto bene».

Annaspai per un attimo, e subito sentii il peso di una mascherina trasparente sul viso. Mi carezzò i capelli, sostenendo l’oggetto con una mano, senza premerlo con forza.

«Rilassati, ecco. Così. Va tutto bene tesoro, non ti agitare» mormorò delicatamente, soffiando le parole sul mio viso. «É stato solo un brutto sogno».

Lo osservai ancora, immobile, gli occhi pesanti e lucidi. Battei le palpebre, e mossi una mano sulla mascherina, gemendo. «D-dove…» farfugliai «non… non lasciarmi più…» lo implorai, stringendo la mano che aveva posato sulla mia guancia.

Si chinò a baciarmi la fronte. «Non ti lascio, te l’ho promesso» disse, gli occhi che ardevano di sincerità, «non ti ho mai lasciato. Mai».

Le labbra mi tremarono e per un istante la testa mi girò. «Ma… come…» biascicai, la gola secca.

«Sono sempre stato qui con te» fece, sorridendomi dolcemente, «eri in un tale stato di agitazione e confusione che non riuscivo a rassicurarti. Era normale, in quelle condizioni».

Sospirai, gemendo debolmente. Il corpo era pesante, caldo, febbricitante. Mi sentivo debole e dolorante. Provai a tirarmi a sedere, per liberarmi, almeno in parte, di quelle coperte calde. Ma appena feci leva sulla braccia delle fitte dolorose mi assalirono. Feci una smorfia, strofinandomi le braccia. Sotto le maniche del pigiama una serie di lividi, ancora freschi.

Le mani di Edward si sostituirono alle mie. «Mi dispiace. Nessuno voleva farti del male, ma non riuscivano a tenerti ferma. Ti chiamavo, ti parlavo, ma non riuscivi a sentirmi. Avrei voluto che tutto questo non fosse stato necessario».

Sollevai il viso nel suo. Stare seduta acuiva il dolore alla schiena e alle costole. «Non è colpa tua, lo sai» mormorai, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace tantissimo per quello che ti ha detto mio padre. Io…» annaspai, «non è giusto che tu… che debba subire anche questo…».

«Ehi» mormorò, sollevandomi il mento. Mi sorrise. «Va bene così. Era ovvio, dopo quanto detto, che se la prendesse con me. Ma ora è tutto apposto. L’importante è che tu stia bene».

Mi tesi nella sua direzione, stringendo il suo corpo col mio e i suoi capelli far le dita. «Ho avuto così tanta paura, così tanta paura di perderti» confessai, gemendo, piano.

Allontanò il mio corpo dal suo con cautela, permettendomi di tornare ad una posizione che fosse meno dolorosa e scomoda per il mio busto ferito. Mi accarezzò una guancia, stringendomi i capelli con l’altra mano, e, piano, si avvicinò a me, alle mie labbra, toccandole e lambendole con le sue.

Strinsi più forte la mia presa sui suoi capelli, tentando di non lasciarlo andare e contemporaneamente regolarizzare il ritmo del respiro.

Edward si allontanò appena. «A quanto pare dovremmo andarci piano» mormorò contrariato, osservando il monitor dietro le mie spalle. Mi indicò la mascherina, ma scossi il capo, lasciando che il ritmo del respiro si normalizzasse autonomamente.

Arrossii quando la porta della stanza si aprì, lasciando passare Carlisle, seguito da Charlie e Esme.

«Bella» mi salutò il medico, «ti sei svegliata».

«Bells» farfugliò mio padre a disagio, «stai meglio, vedo…». Mi avvicinò al letto, e tremando posò le dita sulla mia fronte. Sapevo che quei gesti non erano naturali per lui, per di più se fatti in pubblico. «Mi dispiace» prese un respiro, «per prima…».

Misi una mano sulla sua, guardandolo negli occhi. «Va tutto bene» sussurrai appena, poco incline a continuare quel dialogo che causava tanto disagio a me quanto a lui.

Mi sorrise, allontanandosi di qualche passo.

Esme sistemò un nuovo mazzo di fiori sul mo comodino, aprendo appena la finestra per arieggiare la stanza. Carlisle controllò velocemente i miei parametri, scoccando un’occhiata al figlio quando lesse l’ultimo picco rivelato, risalendo velocemente alla causa dato il rossore sulle mie guance.

«Come ti senti?» mi chiese, osservandomi.

Annuii, senza parlare. Ma presto rimasi immobile, vinta da un’ondata di nausea. Non propriamente bene. Non ricordavo di essere stata così malridotta da tanto tempo.

«Rimani stesa, dovrebbe far meno male. Vuoi degli antidolorifici?».

Edward mi accompagnò nuovamente sul letto, fra le coperte. Scossi il capo, stringendo stoicamente i denti.

«Sei sicura?» mi chiese quest’ultimo, accarezzandomi il viso.

«Sì» sussurrai, chiudendo appena gli occhi. Avevo paura dei farmaci. Non volevo essere così poco lucida da non comprendere cosa mi stava attorno. Non volevo provare ancora la sensazione di terrore, di perdita, che avevo provato quando avevo creduto Edward lontano da me.

«Charlie» cominciò a spiegare pacatamente Carlisle, «Bella ha un trauma toracico. Ha diverse fratture alle costole, e delle lussazioni. Questo ha causato delle lesioni delle pleure e un conseguente emotorace».

«Quanto è grave?» chiese, preoccupato. Aprii gli occhi.

«Se interveniamo in tempo non c’è pericolo».

«Se intervenite?» sussurrai, lo smarrimento nella voce. Edward strinse più forte la mia mano, accarezzandomi i capelli.

Carlisle si voltò nella mia direzione. Il suo sguardo era pacato, atto a rassicurarmi. «La procedura è abbastanza invasiva, ma non troppo dolorosa. Potrebbe essere risolutiva, se non c’è troppo sangue. In caso contrario dovremmo intervenire con un intervento chirurgico».

Strinsi le labbra, fermando il loro fremito.

Si avvicinò di un passo, sedendosi sul bordo del letto. «Bisogna aspirare il sangue in eccesso per mezzo di una siringa. Farò piano».

Impallidii, sentendo lo stomaco stringersi in una morsa. Edward mi accarezzò i capelli. «Sarò sempre con te. Te l’ho promesso. Andrà tutto bene, vedrai».

Deglutii, risollevando debolmente lo sguardo su suo padre. «Q-quando…?» farfugliai a mezza voce.

Mi sorrise appena. «Sono le quattro» fece, guardando l’orologio, «fra un paio d’ore, credo. Meglio non aspettare oltre».

Annuii, abbassando le palpebre in un sospiro.

Non mi sentivo bene. E la situazione non fece che peggiorare al passare di ogni minuto, quando diventava sempre più difficile muovermi, parlare, tenere gli occhi aperti. Ero estremamente intontita e dolorante.

Mio padre restò ancora poco con me, poi tornò al lavoro, declinando l’offerta di Esme di cucinargli qualcosa. Lo conoscevo abbastanza per sapere che era tanto simile a me da odiare allo stesso modo gli ospedali. Non che non mi volesse bene, non che se non gliel’avessi chiesto non mi sarebbe rimasto affianco. Ma sapevo che in quel momento aveva bisogno di buttarsi nel lavoro, la sua centrale di polizia, un luogo sicuro, per dimenticare l’ansia che lo attanagliava.

Edward restò con me, ad accarezzarmi e baciarmi in ogni momento. Era bruciato dalla preoccupazione e, per quanto tentasse di non darlo a vedere, dalla rabbia. Mi aveva promesso un incontro pacifico, non appena mi fossi ripresa, tutti e tre insieme. Speravo solo di riuscire a sostenerne il peso, ma in cuor mio sapevo che non avrebbe potuto portare a nessuna conseguenza positiva.

Un’unica idea avevo in mente: seguire il mio cuore. Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno sbaglio, neppure il più piccolo. E se ciò avrebbe significato cancellare ogni sorta di amicizia con Jacob l’avrei fatto, non a cuor leggero, ma sicuramente molto più libero e sgombro che al solo pensiero di separarmi anche minimamente da Edward.

Non rimanemmo soli a lungo. Presto Alice tornò a farmi visita, portando con sé nuovi ricambi per quei giorni. Pigiami nuovi di zecca che non avevo mai visto in vita mia. Avrei voluto essere più di compagnia, avrei voluto risponderle e partecipare al dialogo sussurrato fra lei e il fratello. Ma non ne avevo la forza.

«Tesoro, come ti senti?» domandò, accarezzandomi i capelli e chinandosi su di me. «Gli altri vorrebbero venire, dopo, o magari domani, durante l’orario delle visite. Mi dispiace per… Jasper» la sua espressione si fece tenera e crucciata «lui non se la sente di venire qui, ma ti manda i suoi saluti».

Sorrisi, debolmente. «Certo, Alice. Grazie» sussurrai, prendendo un fiato più lungo del precedente. Il respiro era corto, affannoso.

«Vuoi ancora la mascherina?» mi chiese gentilmente Edward, accarezzandomi la nuca scoperta. Stavo girata su un lato, quello che mi pareva dolesse meno, per cercare di calmare tutti gli altri dolori, pulsanti come stelle in un cielo di luglio.

Scossi il capo, tentando di raggomitolarmi maggiormente su me stessa.

Poco tempo dopo chiamò mia madre, allarmata e preoccupata. Ci vollero Alice e le sue parole dolci, prima che fosse in uno stato tale da poter parlare con me, e che potessi risponderle.

«Mamma…». Ma la sua voce era troppo acuta e squillante per la mia testa martoriata, e le mie risposte sempre più brevi, deboli e rotte.

Feci una smorfia di dolore, stringendo le dita sul piccolo cellulare. Me lo sfilò dalle dita Alice, riprendendo a parlarle.

«Stai bene?» mi chiese Edward, facendo il giro del letto per venirmi vicino. Ansimai leggermente, stringendo il punto del torace da cui sentivo provenire maggiore dolore. Mi sfiorò il viso. «Vuoi girarti Bella?».

Annuii, serrando i denti e gli occhi. Mi sollevò delicatamente, attento a non causarmi più dolore di quanto non ne stessi sentendo. Mi prese una mano, accarezzandomi i capelli in attesa che scemasse. Ma, anziché calmarsi, aumentava di secondo in secondo, pulsando, inesorabile. Provammo con l’ossigeno, sperando che se fossi riuscita a respirare meglio anche il dolore si sarebbe assopito. Neppure quello funzionò.

«Chiamo l’infermiera, ti darà qualcosa» mormorò, rassicurandomi, premendo il tasto rosso sulla mia testa.

«Edward» mormorai, agitata, quando l’infermiera entrò nella mia stanza con una siringa di antidolorifici. La mia mente era frastornata e sconvolta, e non potevo fare a meno di pensare a quello che sarebbe successo di lì a poco, quando anche Carlisle sarebbe dovuto intervenire.

Mi sorrise, un sorriso che voleva essere sereno e rassicurante. «Tranquilla, non ti toccherà» mi rassicurò, chinandosi a sfiorarmi le labbra.

«Va tutto bene, piccola. Presto non sentirai più dolore» mi rassicurò l’infermiera, iniettando il medicinale direttamente nel tubicino trasparente collegato alla mia vena. «É un leggero antidolorifico. Il dottor Cullen ha detto che dopo dovranno intervenire e in quel caso le somministreranno un anestetico locale. Edward» lo salutò, uscendo dalla stanza.

Sbattei le palpebre, stringendo la presa sulle lenzuola. Non volevo che si preoccupasse ancora; mi rendevo conto di quanto la situazione fosse grave di per sé e mi sentivo profondamente in colpa per l’angoscia che gli stavo causando. Così volevo starmene zitta, nel letto, le labbra serrate, quasi pensando che sarebbe stato meglio - per lui, non certo per me - se non avesse assistito all’intervento che di lì a poco mi attendeva. Potevo essere tanto egoista da volerlo accanto, ad ogni costo?

Portai una mano al viso, nascondendolo. In poco tempo i polpastrelli si bagnarono delle lacrime che mi scorrevano dagli occhi.

«Ehi» mormorò Edward, preoccupato, scostandomi la mano dal viso.

«Fa male» singhiozzai, tentando di asciugarmi le guance.

Mi prese il volto fra le mani, baciando delicatamente la fronte, il naso, le labbra. «Va tutto bene» mormorò, sedendosi sul letto accanto a me. Con estrema delicatezza passò un braccio attorno alle mie spalle, sollevandomi per stringermi fra le sue braccia. «Adesso passa, vedrai. Aspetta che i farmaci facciano effetto» mi rassicurò, cullandomi a sé, baciandomi le palpebre chiuse e pesanti.

Non potevo immaginare una vita senza di lui. Rabbrividii, ricordando l’angoscia e il terrore che avevo provato, sognando di averlo perso per sempre, per causa mia. Perdere le sue labbra sul mio viso, quel meraviglioso contatto duro e freddo che mi faceva entusiasmare e rabbrividire.

«Va meglio?» mi chiese, sorridendomi, quando riaprii gli occhi.

Annuii, avvicinando il naso bagnato alla sua mascella, baciandolo piano. «Grazie» borbottai, stringendo il suo maglione con la mano.

Si chinò sul mio orecchio, sospirando piano. «Non dovresti ringraziarmi. Fra poco saremo sposati, e credo che questo rientri in uno dei cosiddetti “doveri coniugali”. Non essere così imbarazzata, Bella, ti prego» fece dolcemente, con un sorriso. E avrei ribattuto se non avessi saputo quanto ci sarebbe rimasto male, così serio come, in fondo, era. «Voglio che il mondo sappia quanto ti amo. Che sappia che sei mia».

Sarebbe stato un magico momento di distrazione se non: primo, il monitor non avesse iniziato a contare i miei battiti, impazzito; secondo, l’infermiera non si fosse precipitata in camera trovandoci così avvinghiati.

Spalancai gli occhi, arrossendo. Provai a separarmi dal suo corpo, ma lui mi trattenne, non dandomi via di fuga. Immaginavo che sarebbe stata davvero dura stare in ospedale quei giorni.

«Edward, Bella dovrebbe riposare» lo ammonì, le mani sui fianchi.

Il viso del mio fidanzato si aprì in un sorriso angelico. «É proprio quello che avevo in mente, Mrs Nupe. Bella non riusciva a calmarsi, aveva dolore» spiegò, mellifluo.

La donna arrossì, e borbottando uscì dalla stanza, senza replicare.

«Edward» biascicai indignata, ancora troppo rossa per dare al mio viso una parvenza di serietà. Sapevo che per lui non era un problema farci trovare vicini, o abbracciati. Ma io non ero come lui. Aveva ragione: ero terribilmente timida e imbarazzata.

Mi sorrise, un sorriso furbo, ma presto il suo viso si distese in un’espressione dolce. «Ho detto la verità» mormorò, baciandomi la fronte.

Mi lasciò andare fra le coperte, rimanendo seduto accanto a me, accarezzandomi e baciandomi.

 

La porta della stanza si aprì.

«Ci siamo Bella. Non ti preoccupare e andrà tutto bene».

«Certo» sussurrai. Sarebbe andato tutto bene con Edward accanto a me.

Almeno, lo speravo.

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Capitolo 6
*** Illusione (Parte II) ***


Poi, la porta della stanza si aprì copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Strinsi la presa sul braccio di Edward, cercando conforto nella sua vicinanza. Ma quando i miei occhi caddero dietro il dottor Parks, sul carrellino trasportato da due infermieri in blu, non potei fare a meno di sbiancare vistosamente.

Aghi. C’erano troppi aghi.

Annaspai, il respiro affannoso, voltandomi immediatamente verso Edward. Mi accarezzò il viso, sorridendo in modo da essere rassicurante. Sentivo lo stomaco contorcersi in una morsa di nausea al pensiero che quell’ago avrebbe dovuto trapassare la mia pelle… rabbrividii, deglutendo per allontanare il ronzio alle orecchie.

«Come ti senti?» mi chiese Carlisle, controllando velocemente i miei dati. «La febbre è scesa, fortunatamente».

Rispose Edward, non smettendo per un istante di accarezzarmi i capelli. «Prima aveva dolore, e l’infermiera le ha dato degli anti-dolorifici. Ha avuto sempre questo respiro affannoso».

Il dottor Parks si avvicinò al mio letto. «Ragazzo, dovresti uscire» fece, rivolgendosi a Edward, alle mie spalle. «Adesso dobbiamo intervenire».

Non dissi nulla. La mia mano era serrata su quella di Edward, tanto che sospettavo avrebbero dovuto tagliarla se avessero avuto intenzione di separarmi da lui. Le lacrime sorsero spontanee sui miei occhi. «Edward…» mormorai tremante.

Mi strinse la mano. «Dottor Parks, Bella è spaventata. Crede di poter fare qualcosa?» domandò con educazione, «non interferirò in alcun modo».

Il dottore sospirò scuotendo il capo. «Abbiamo fatto un’eccezione, già in due casi. Un’infermiera si prenderà cura di lei più che volentieri».

Ansimai, stringendomi al suo braccio. Portai velocemente una mano al corpo dolorante. Sentivo un tremito e un conato di nausea al pensiero di dover subire quell’intervento. Doverlo fare senza Edward mi faceva mancare il respiro.

Carlisle fece un passo avanti, frapponendosi. «Richard, sappiamo benissimo entrambi che per una toracentesi il paziente deve poter usufruire di tutta la calma del caso. Bella è molto ansiosa e agitata, e non credo che la presenza di Edward possa dare fastidio, quanto beneficio al buon fine dell’intervento».

Il suo collega lo squadrò di sottecchi. «Carlisle, la prassi…».

«Non credo sia la prima volta che ti capita una situazione simile».

«Ah…» sospirò, scuotendo il capo. «Sbrighiamoci, ho un altro intervento più tardi».

Tirai su col naso, voltandomi a guardare Edward. Mi sorrise, cancellandomi le lacrime sulle guance bagnate.

Carlisle mi spiegò con calma come sarebbe avvenuto l’intervento, e intanto mi prepararono, facendomi indossare il camice sterile. «Siediti al bordo del letto, e poggia le braccia sul tavolino» mi guidò, lasciando che Edward mi aiutasse a sollevarmi per fare come diceva. Un’infermiera mi fece posare la testa su un cuscino, sistemato sul tavolino. Avevo la schiena scoperta, esposta allo sguardo dei dottori, e mi sentivo piccola e vulnerabile. Volevo voltarmi e scappare via, posticipare continuamente il momento in cui l’ago avrebbe toccato la mia pelle…

Edward era davanti a me, appena dietro il tavolino.

Il dottor Parks aveva sistemato una mia radiografia su uno schermo luminoso. Si vedevano i polmoni. L’immagine era come quella nel libro di biologia, ma c’erano anche diverse macchie scure.

Le mani gentili di Carlisle, alle mie spalle, tastarono la pelle della mia schiena. Sussultai lievemente quando sentii dolore. «Ok, piano, va bene…» mi rassicurò, mettendo una mano sulla spalla per bloccare un altro mio eventuale movimento. Mi sentivo nervosa, agitata, pronta a scattare ad ogni istante. Prese un pennarello e tracciò delle linee sulla mia pelle.

Edward mi sorrise, un sorriso rassicurante, e non potei fare a meno di restituire un pallido sguardo affettuoso.

Man mano che passavano il disinfettante sulla schiena sentivo che il momento in cui l’ago si sarebbe fatto spazio fra le mie costole si stava avvicinando, e il mio viso diveniva sempre più pallido.

«Adesso il dottor Parks ti farà un’anestesia locale, con un piccolo ago. Sarà come una normale iniezione, pungerà solo un po’» m’informò la voce metodica di Carlisle.

Affondai il viso sul cuscino, stringendo le braccia contro il petto.

Il dottore posò una mano sulla schiena. «Dimmi quando sei pronta».

Mai. Non sarei mai stata pronta. Lo sapeva il mio cuore, che batteva contro il tavolino. Lo sapeva bene. «Lo faccia e basta» mormorai, tremando e tentando strenuamente di rimanere comunque ferma.

M’irrigidii, sgranando gli occhi, quando avvertii il contatto bruciante dell’ago. Strinsi i pugni contro il petto, trattenendo a stento le lacrime.

«Ferma, Bella» mi ammonì dolcemente Carlisle, accarezzandomi la pelle scoperta del collo per calmarmi. O forse per tenermi ferma sul cuscino ed evitare che mi muovessi.  

Morsi il cuscino con i denti, agitata. Il dolore pungente m’infiammava il petto. Una mano fredda prese la mia, dischiuse le dita serrate in un pugno e la strinse. Edward.

Quando, circa mezzo minuto dopo, mi sentii libera da quel tormento espirai riaprendo gli occhi.

«Brava, finora sei stata brava» mi rassicurò Carlisle, strofinando dolcemente la nuca. «Adesso interverremo con l’aspirazione. Potrà durare anche più di dieci minuti, e voglio che tu rimanga sempre calma e che ci dici se hai fastidio o se senti troppo dolore. Respira piano e rimani ferma».

Annuii, piano, sollevando disorientata gli occhi in cerca di quelli di Edward. Mi sorrise, dall’altro lato del tavolino, accarezzandomi una guancia. Strinsi più forte la sua mano, spaventata.

«Senti le mie dita?» chiese Carlisle, tastandomi la schiena nel punto in cui, poco prima, il dottor Parks aveva fatto l’anestesia.

«N-no» farfugliai, scavando con le dita sul cuscino. Tremavo così tanto da avere paura di mordermi la lingua con i denti.

«Calma Bella, va tutto bene» mi assicurò Edward, «non farà male…».

«Si» sussurrai velocemente, «si…». Sentivo la nausea pervadermi ad ondate al pensiero di quello che sarebbe successo. La testa mi girava, e il corpo era preda di un trattenuto spasmo convulso. Non avrebbe fatto male, non avrebbe fatto male, non avrebbe fatto male. Mi sentivo a disagio. Non potevo lasciarmi prendere dal panico. Strinsi con la mano quella di Edward.

Carlisle si sistemò alle mie spalle, posando una mano sulla scapola. «Sto per inserire l’ago…» m’informò.

Scattai. A quelle parole mi tirai su a sedere, divincolandomi dalla blanda presa di Edward sui miei capelli. «No…» singhiozzai agitata, «no» sussurrai, voltandomi tanto da guardare la siringa Carlisle aveva in mano.

Chiusi gli occhi, pervasa da un’ondata di nausea. Non volevo comportarmi come una bambina, mi vergognavo così tanto. Ma ero certa che se mi avesse anche solo toccata non sarei riuscita a resistere per dieci o quindici minuti. «Mi dispiace» mormorai mortificata, ritraendomi e distogliendo lo sguardo.

Il dottor Parks sospirò, facendomi venire le lacrime agli occhi.

«Sta tranquilla, Bella» mi rassicurò immediatamente Carlisle, riponendo per un attimo la siringa. Si sollevò, fino a fare il giro del tavolino. Posò una mano sulla mia. «Non è successo niente. Voglio che tu sia calma e tranquilla, va bene? Rilassati, respira piano».

Provai a seguire un ritmo più lento, ma i singhiozzi perturbavano il mio petto. Mi presi il capo fra le mani. «Mi viene da vomitare…» sussurrai, in ansia.

Mi fece mettere la testa fra le ginocchia, e mi aiutò a calmarmi, facendomi ritrovare il giusto ritmo del respiro. Era comprensivo e disponibile.

«Va bene, visto che ci riesci? Va meglio, vero?».

Annuii, piano.

«Carlisle» lo chiamò Edward. «La posso tenere io. La posso tenere io, se la fa stare meglio. Si può fare?».

Padre e figlio spostarono lo sguardo sul dottor Parks. Roteò gli occhi al cielo. «Sbrighiamoci».

Edward si sistemò davanti a me con una sedia, stringendomi al suo corpo. «Sono qui con te» sussurrò, facendomi posare la testa sulla sua spalla, stringandomi con una mano sulla nuca e con l’altra sui reni. Il mio petto aderiva al suo corpo. La sua presa era tale che, anche se avessi voluto, non avrei potuto muovermi. Ma non mi sentivo in trappola. Mi concentravo sulla nostra vicinanza.

«Stringiti al suo corpo, Bella, così. Perfetto, rimani ferma. Posso procedere?» chiese Carlisle, senza alcuna fretta nella voce.

Feci per annuire, ma mi bloccò.

«No, no, non ti muovere. Ricorda, parla o solleva la mano».

Nascosi il naso sul maglione di Edward, e il suo odore mi arrivò dolcemente alle narici. Mi baciò la fronte, scostandosi appena. «Non farà male» mi rassicurò ancora, sfiorandomi la tempia con la punta del naso, «sarò qui con te».

Deglutii, stringendo con entrambe le mani, chiuse in due pugni, la sua maglietta. E lasciai che Carlisle cominciasse.

Sentii chiaramente un piccolo contatto pungente. Poi, lentamente, qualcosa mi mozzò il respiro. L’ago scendeva sempre più in profondità. Strinsi più forte la mani sulla stoffa, sgranando gli occhi.

«Piano, piano» mormorò al mio orecchio Edward, facendomi calmare fra le sue braccia. «Vedi? Non è così impossibile. Lo so che sei una ragazza in gamba, devi solo credere un po’ di più in te stessa. Non preoccuparti, ci penserò io. É per questo che ti sposo» fece, un sorriso sulle labbra.

Arrossii, stringendo con più forza la sua maglietta. Sentivo gli occhi di tutti i presenti su di me, e i loro sorrisi alla mia faccia rossa. Non ero pronta ai loro sguardi alla notizia succulenta che sapevo offrirgli. «Mi-mi…» farfugliai, stringendo i denti quando sentii l’ago scendere più in profondità.

Edward mi accarezzò la nuca, mantenendo salda la sua presa. «Ti faccio imbarazzare, lo so» scherzò debolmente. Poi abbassò la voce, sussurrando al mio orecchio «ma devo pur fornire la notizia del giorno, no? Non voglio rischiare che sia quella della tua accidentale caduta».

Feci per sospirare, ma m’interruppi a metà, sentendo una fitta provenire da dove l’ago giaceva nel mio petto. «Mi dispiace» farfugliai, immediatamente memore del fatto che tutta quella situazione era stata causata per colpa mia. Ed Edward era sempre stato così buono con me, era sempre stato ciò che ogni ragazza sogna, ciò che non si illude di avere ma a cui infondo spera di arrivare. Un sogno. E non avevo avuto alcun diritto di sciuparlo.

«Ehi» mormorò preoccupato, asciugandomi le lacrime che erano rotolate lungo le guance «fa male?». Carlisle, alle mie spalle, si fermò.

«N-no» sussurrai, «no». Il fastidio dell’intrusione era notevole, e l’idea dell’ago mi stava facendo impazzire. Ma sapevo di poter tenere la situazione sottocontrollo, ancora un po’.

Edward strofinò la guancia contro la mia. «Calmati. Non parlerò del nostro matrimonio se non vuoi, non ti preoccupare».

Il mento mi tremò, contro la sua spalla. «N-no… non… non ti preoc-» presi fiato in un risucchio quando Carlisle cominciò ad aspirare.

Sollevai immediatamente la mano. Faceva male.

«Senti dolore?» mi chiese immediatamente, fermandosi. «Procediamo più lentamente, ecco. Fa ancora male?».

Edward mi accarezzò, silenzioso, negli istanti in cui aspettavo che il dolore scemasse e che il mio viso pallido, imperlato di sudore, riprendesse colore. Poi abbassai il braccio.

Rimasi così, attaccata al suo corpo, concentrandomi su quello anziché ciò che mi stavano facendo. Ogni secondo, ogni istante, mi accarezzava con le dita, sorreggendomi la testa, abbandonata sulla sua spalla, baciandomi le guance, la fronte, e non smettendo mai di canticchiare, al mio orecchio, una dolce melodia. Ero troppo preoccupata e presa dal parlottio dei dottori alle mie spalle per essere imbarazzata, nonostante la situazione, in un ambito diverso, mi avrebbe causato un notevole senso di disagio.

Invece in quel momento pensavo solo ai miei ormai decisi propositi per il futuro. Edward, solo Edward, ad ogni costo. Pentendomi, cullata dalla dolce melodia della sua voce, di ogni mia stupida ed errata scelta.

Sentii un fastidio crescere per il polmoni, e l’affanno aumentare lievemente, nel respiro.

Edward mi baciò la fronte, accarezzandomi i capelli. «Che succede?».

«M-mi viene da tossire» mormorai agitata. Un istante dopo successe. Sentii una dolorosa fitta espandersi per il torace. Gemetti, piegandomi convulsamente sul suo corpo.

Carlisle venne subito vicino. «Calma Bella, calma. Rilassati» fece, posando entrambe le mani sulla mia schiena.

Ansimai, spaventata, e presto tossii ancora. Un’altra ondata di dolore m’investì, bruciante. Gemetti, singhiozzando.

«Tienila ferma!» Esclamò il dottor Parks, «dobbiamo finire, ci vorrà poco».

«Aspetta, Richard…».

«Ahh!» gridai, sentendo altri accessi di tosse scuotermi, e il dolore continuare ad imperversare, indisturbato. «Fa male!» piansi.

«Ora tutto passa, davvero. Calmati, resisti ancora un po’» mi rassicurò velocemente Edward, ansioso.

Sollevai velocemente le braccia, provando a muovermi, allontanarmi. Mi sentivo soffocare, non riuscivo più a respirare. Rantolavo, senza parlare, mentre la vista si offuscava. Qualcuno provò a sistemarmi la mascherina sul viso. La tolsi, immediatamente, quando il senso di soffocamento aumentò esponenzialmente.

Strinsi entrambe le mani sul maglione di Edward, tirando indietro la testa. Tossii. E si sporcò di un fiotto rosso. Sangue. Sollevai lo sguardo sui suoi occhi neri, e lasciai che il buio m’inghiottisse.

 

*

 

«Ah, finalmente si è svegliata».

Aprii gli occhi, disorientata. Ero ancora sul letto. Ma nella stanza non c’erano i macchinari. Di nuovo.

Di fronte a me un uomo sulla carrozzella, che immediatamente identificai come Billy Balck.

«Cosa…? Dove sono?» chiesi, mettendomi a sedere, perplessa. La testa mi ronzava fastidiosamente, ma, a parte quello, non sentivo nessuno dei precedenti dolori.

Puntò i suoi occhi nei miei, freddi. «Che c’è Bella, non ricordi più?». Nella sua voce graffiata c’era rancore, odio e una ben leggibile nota di isteria.

Mi portai una mano alle tempie, sorpresa; pulsavano.

«Oh, la nostra povera Bella è disorientata, non sa, piccina. Cosa hai fatto? Hai fatto la cattiva bambina?».

Scossi il capo, frastornata per il suo comportamento. «Ma… Billy…» farfugliai.

Scoppiò in una risata raggelante. Aveva un ghigno terrificante stampato in faccia. Un orribile sospetto cominciò a impossessarsi di me.

«Dove… dove sono?» chiesi, fra le lacrime che subito avevano cominciato a scendere, copiose, dai miei occhi. La mia mente, frenetica, riusciva ad individuare un solo motivo per il suo comportamento.

«Sei all’ospedale, ma dovresti essere all’inferno» sentenziò con assoluta freddezza.

Annaspai, sgomenta, raggelando. Un dolore atroce mi squarciò il petto. Cacciai l’urlo più potente che mi potessi permettere.

 

*

 

«Ahhhh!». Improvvisamente, fui invasa da altre mille altre dolorosissime lame. Sentivo voci, voci confuse. Dolore diffuso su tutto il corpo. Vedevo sagome di persone che si muovevano veloci intorno a me. Erano macche indistinte.

La paura si aggomitolò ancora, rapidamente, nel mio petto. Edward non c’era, non c’era. Era morto. Morto.

«Edward» provai a dire, e subito individuai una delle fonti del dolore, la gola. Ma era nullo in confronto a quello che portavo dentro. «Edward!» provai a voce più forte. Ma anche questa volta, nonostante l’incredibile dolore, la parola non fu affatto comprensibile. Realizzai di avere un tubo in gola e che per quanto mi sforzassi non mi avrebbero mai capito.

Le voci che mi stava attorno erano agitate, terrorizzate, mischiate, lontanissime. Troppo, rispetto alla vivida paura che nutrivo in petto. Ero angosciata, disorientata. Nauseata dal rapido succedersi degli eventi.

Poi, d’un tratto, fu come se fossi stata bruscamente ribaltata nella realtà. Le voci si fecero troppo forti. Faceva male.

«La saturazione dell’ossigeno sta scendendo».

«Codice rosso».

«I battiti stanno calando».

«Preparate la sala operatoria».

Sgranai gli occhi, annaspando. Ogni sensazione sensoriale sul mio corpo più vivida e vicina. Ancora più dolorosa e fastidiosa.

«Amore, sono qui».

Ero su una barella, si stava muovendo veloce nel corridoio. La confusione nauseante, lo smarrimento, l’incertezza, presero rapidamente il posto della paura e dell’angoscia.

«Bella, sono accanto a te».

Mossi velocemente la testa, a destra e a sinistra, alla disperata ricerca del suo volto. Due mani decise mi bloccarono, senza darmi la possibilità di spostarmi.

Lo vidi. Vidi il suo volto angelico piegato da un’espressione terrificata. «Sta ferma, sono qui» m’implorò, preoccupato.

I neon si susseguivano rapidi e cadenzati sui miei occhi, ora aperti, ora chiusi. Ero circondata da persone che si muovevano rapidamente intorno a me, ma ancora troppo disorientata. Avevo paura di ingannarmi ancora, di confondere ancora il sogno con la realtà. Sentivo Edward, vivo, accanto a me. Come solo poco prima l’avevo certamente creduto morto.

«Edward» cercai di dire, ma una nuova ondata di dolore mi assalì la gola.

«Shh, non parlare. Shh…». Scese veloce a baciarmi la fronte.

La corsa si era fermata. «Edward, dobbiamo entrare» lo informò la voce metodica di Carlisle.

Edward deglutì, il volto attraversato dalla preoccupazione e dal dolore. Ero frastornata e confusa. Il corpo era attraversato da una miriade di piccoli dolori, che ad ondate pulsavano lungo tutte le mie membra. Sentivo di non averne il controllo, lo sapevo. Anche il respiro, nel petto, era così forzato da farmi venire la nausea.

Mi accarezzò le guance con le mani, frenetico. Non sentivo bene il contatto, solo un piccolo formicolio. «Bella, affronterò questa cosa con te. Ma adesso ti devo aspettare qui».

Un ansito venne risucchiato dal tubo che mi attraversava la gola. Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso.

La sua espressione si rattristò maggiormente, e il movimento delle sue mani sul mio viso si fece più veloce. Voleva farmi sentire il suo contatto sulla pelle, ma era delicato, come se temesse di farmi del male. «Entra lì dentro e resisti. Non lasciarmi, capito?» m’implorò, turbato.

Non risposi. Annaspai, e chiusi gli occhi. Sentivo che non ce l’avrei fatta senza di lui. Se il mio corpo era ferito, il mio animo era lacerato dalla paura e dal senso di colpa.

La voce frettolosa di Carlisle ci raggiunse. «Edward, dobbiamo andare».

Sospirò, soffiandomi sul viso. Le sue mani scesero a stringere le mie. «Fallo per me, ti prego», mi chiese, ansioso. Sul viso l’espressione più addolorata di sempre.

Tremai. Strinsi debolmente la sua mano. Chiusi e riaprii gli occhi, in assenso. Lo amavo troppo per non farlo. Per farlo soffrire ancora una volta.

Mi sorrise appena, troppo devastato perché il suo sorriso potesse apparirmi vero. «Ti amo» sussurrò, scendendo a baciarmi un angolo della bocca.

Speravo, almeno questa volta, di aver preso la scelta migliore. Di essere riuscita nel mio proposito altruista.

Immediatamente la barella entrò nella sala operatoria, mentre la sagoma addolorata di Edward si faceva sempre più piccola e lontana. Poi, quando delle luci al neon mi accecarono, tutto cominciò a sfocarsi, finché non sprofondai ancora nell’inconscio.

 

*

 

Ma la luce c’era ancora, ben presente. Potevo vederla attraverso le palpebre chiuse dei miei occhi. Li aprii istintivamente. Era così strano, mi trovavo stesa su un prato. Tutti i colori del paesaggio erano smorti, oscuri, ma contemporaneamente era illuminato da una luce innaturale, bianca. Come il mezzogiorno bianco delle giornate autunnali, quando tutto sembra avvolto dalla patina del medesimo colore, e le nubi assorbono la luce gialla lasciando solo quella bianca e accecante. Il cielo era bianco; sul prato vi erano posati crisantemi viola. Intorno a me non c’era in minimo movimento, nessuno spostamento d’aria, neppure l’ombra di un venticello. Un silenzio assoluto e anomalo mi circondava.

Mi alzai. Mi sentivo leggera, stranamente e troppo, rispetto all’aria uggiosa. Indossavo un vestitino giallo. Era un giallo strano. Né giallo limone, quello felicità, né giallo inteso, il colore della gelosia. Era giallo, un giallo smorto e finto che mi feriva gli occhi solo a guardarlo.

Dinanzi a me un cancello nero. Lì intorno nessuno oltre a me.

Dove mi trovavo?

«C’è nessuno?». Nel luogo deserto si spanse l’eco agghiacciante della mia voce.

Calpestando l’erba finta e inconsistente, leggera e incorporea, oltrepassai il cancello.

Il luogo in cui mi trovai era identico al precedente. Completamente coperto d’erba piatta.

«C’è nessuno?» ripetei. Niente, solo l’eco della mia voce a farmi, ancora una volta, compagnia.

Fu allora che, in fondo ad un sentiero comparso dal nulla, notai un grosso massi e sentii l’esigenza di avvicinarmici.

Sul masso era incisa un’iscrizione, celata dal verde muschio. Sentii l’immensa necessità di leggere cosa vi era scritto. Cominciai a scostare l’erba con la mano, ma non veniva via. Allora diventò un’ urgenza e cominciai a grattarlo, veloce, con le unghie, ricoprendomi le mani di sangue.

Finché non la vidi.

‘Qui giacciono Edward Cullen e Jacob Black, uccisi dal perfido amore di Isabella Marie Swan’

Urlai. Urlai, urlai sempre di più.

 

*

 

Ma quella volta, non mi risvegliai.

 

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Capitolo 7
*** Morire per amore ***


Le mie urla erano sorde, si perdevano nella vastità dell’aria e nell’assoluto silenzio che mi circondava copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Le mie urla erano sorde, si perdevano nella vastità dell’aria e nell’assoluto silenzio che mi circondava. E ogni urlo ne portava con sé un altro, un altro e un altro ancora, facendo passare minuti, ore, giorni…

‘Qui giacciono Edward Cullen e Jacob Black, uccisi dal perfido amore di Isabella Marie Swan’

Quelle parole erano marchiate a fuoco nella mia mente. Il dolore che provavo era a dir poco immenso. Usavo le mie urla, le mie grida di voce straziata, come valvola di sfogo, ma quando pensavo che il dolore mi stesse per sopraffare quel paesaggio smorto mi dava energia, incupendosi sempre di più della sua luce innaturale.

Niente mi teneva ancorata a quella che pensavo potesse essere la realtà, come pure niente mi teneva ancorata a ciò che poteva dimostrarsi sogno, perché nulla nel sogno era vero. Ero sospesa in un limbo. Un limbo fatto solo di dolore e senso di colpa.

Un vento imponente e turbinoso si era alzato nel prato e mi frustava il viso con l’aria gelida.

Dai miei occhi non cadevano lacrime, non riuscivo a piangere. Avrei voluto farmi del male, del male fisico perché solo quello poteva farmi sfogare adeguatamente da ciò che sembrava, ma non poteva, essere vero.

Sì. Solo quella era la possibile soluzione: farmi del male.

«Fallo Bella, torna da me…» Mi votai di scatto. Era la sua voce, la voce di Edward, proveniva dalla lapide.

L’assurdità del pensiero mi colpì in pieno volto. Non poteva. Non poteva volere che mi facessi del male. Nonostante avessi sbagliato, mille volte, con lui, nonostante l’avessi tradito e fatto soffrire - fui pervasa dal fantasma della nausea al solo pensiero - nonostante questo, aveva promesso di non abbandonarmi mai. Mai.

Perfido amore… perfido amore… uccisi…

Risucchiai l’aria attorno a me, sentendola mancare nei polmoni.

Sagome apparvero da nugoli di fumo oscuro, agghiacciante in contrasto alla luce chiara e bianca del luogo.

Il vento si placò all’istante. Rabbrividii.

Erano nove, incappucciati. Mi portai una mano tremante alle labbra, per trattenere altre eventuali urla che oramai non potevano più fare a meno di uscire dalla mia gola.

La prima figura a destra fece un passo in avanti. Si tolse il cappuccio. Jasper. «Bella» mi chiamò, neutro, inflessibile e implacabile. I suoi occhi sapevano. Mi guardava, e nelle sue pupille c’era la consapevolezza di condividere la verità con me. «Sentivo le tue emozioni. Perché hai sbagliato? Così? Sarebbe stato tutto più semplice, se non ti fossi fatta ingannare da te stessa» fece, lieve nell’aria lieve.

Deglutii, distogliendo appena lo sguardo.

Una seconda figura, subito accanto a lui, fece un passo in avanti e si tolse il cappuccio. La luce bianca rivelò uno scintillio di capelli dorati. Rosalie. «Tu, piccola, ingenua, Bella» mormorò con voce intrisa di debole amarezza. «Cosa credevi di ottenere?» le sue sopracciglia sottili si unirono in una maschera di rimprovero «Ho sempre detto che saresti solo stato un peso. Hai distrutto le persone che ti stavano accanto».

Mi portai le mani alla bocca.

E ancora, mia madre. Reneè. La sua voce nostalgica veleggiò verso di me nell’aria inconsistente. «Piccola Bella… lo amavi. L’ho visto, te l’ho detto. La vostra forza di gravità vi legava. Perché ti sei allontanata? Perché li hai feriti, entrambi?». Mi rivolse uno sguardo addolorato, incomprensivo.

Tremai, mentre sentivo il cerchio chiedersi attorno a me.

«Perché?». Carlisle. «Perché, Bella? Perché hai dovuto ferire Edward? Aveva trovato la luce. Aveva trovato finalmente la luce…». La sua voce era vuota, secca, arida. Scosse il capo.

Strinsi una mano sul petto, annaspai. Quelle parole mi ferivano più che le lame.

Poi ancora. Mio padre, Charlie. L’uomo da cui mi aspettavo conforto, l’uomo che mi aveva spinto fra le braccia di un altro uomo. L’uomo da cui volevo comprensione. Scosse il capo. No. Lo sapevo. Mi bastava guardarlo, puntare i sui occhi sulla sua figura così strana in quel campo di erba verde stinta, per sapere che neppure lui l’avrebbe fatto. «Pensavo che lo sapessi» fece, e si strofinò i baffi. Scrollò le spalle, e la sua occhiata delusa mi raggiunse. «Speravo che almeno tu sapessi cosa volevi. O uno, o l’altro. Non va bene, così…».

Feci per muovere un passo, ma mi sentii bloccata. Bloccata da una forza inconsistente, pesante come tutta l’aria che mi sovrastava inchiodandomi al terreno.

Emmett. Nei suoi occhi spenti non c’era più quella naturale propensione allo scherzo, alla burla, al gioco che lo aveva caratterizzato. Niente che non fosse un’innaturale serietà, un’innaturale tristezza sul suo volto da bambino giocoso. Non parlò: sollevò le mani, scosse il capo. Afflitto.

Ogni battito del cuore nel petto era affannoso, bruciante, doloroso. Il male mi stava corrodendo.

La più minuta sagoma fece un passo. Vibrava, scossa dai singhiozzi. «Bella… come hai potuto? Ti volevo bene» mormorò, le labbra bianche che tremavano. Avrei voluto correre, stringerla a me, farmi stringere. Chiedere perdono, trovare un modo per tornare indietro nel tempo perché tutto ciò non accadesse ancora. «Sorellina…» singhiozzò. Scosse il capo. «Sono morti…».

Le sue parole mi entrarono nel petto come coltellate. Non riuscivo quasi più a sostenermi. Feci per parlare, per chiamarla, ma non c’era alcun modo in cui avrei potuto essere padrona consapevole delle mie labbra.

Un’altra figura, un altro passo, un altro dolore. Billy. «Hai ucciso tu mio figlio» scandì lentamente, la stessa voce lenta e pedante che gli avevo sentito usare quando parlava della sua tribù. Quando parlava, con odio, del vampiro ucciso. «Dovevi tirarti indietro quando potevi, e non pretendere l’amicizia quando non eri disposta a concederti al suo amore».

Portai le mani alla testa, scossi il capo. La verità delle loro parole mi trapassava da parte a parte. Era la paura di uno sbaglio, coltivata e cresciuta, giorno dopo giorno, che espressa a voce da qualcun altro mi bruciava la pelle, come se me la stessero tirando via, per entrarmi dentro e ricominciare a bruciare. Diventava evidente verità.

Ero in balia del dolore, ero in balia del vento. Servì davvero poco per farmi crollare.

Degli occhi ambrati, tondi, sempre dolci, ma ora pieni di dolore, rabbia, agonia, mi fissarono morti. «Mio figlio… Bella» esalò senza fiato Esme, «hai ucciso mio figlio. Non ti bastava il suo amore…».

Annaspai, indietreggiando appena. Terrorizzata.

«Tu volevi anche il suo cuore» sibilò.

«E il suo» aggiunse Bill.

Mi guardai attorno, disorientata, colpita, senza fiato. Se avessi potuto, se solo avessi potuto cancellare anche solo una parte dei miei peccati, concedere tutta la mia anima e il mio corpo a Edward, liberare Jacob dall’essenza della mia presenza. Se solo… se solo avessi potuto.

Senza che lo potessi prevedere sulla mia mano apparve un oggetto. Bianco, duro, freddo. Scintillante alla luce del sole. Sull’altra mano un altro oggetto. Rosso, caldo, pulsante.

Immobili. Morti. Per colpa mia.

Cacciai un urlo, inorridita. Erano i loro cuori.

«E’stata tutta colpa tua» disse Esme.

«E’stata tutta colpa tua». Bill.

«E’stata tutta colpa tua!» esclamò contemporaneamente il coro dissonante di voci.

Colpa tua… colpa tua… tutta colpa tua…

Mi rimbombavano nella mente, ferendomi e lacerandomi, straziandomi con l’assurda verità che portavano con sé. E volevo scampare, in qualche modo, a tutto quel dolore. Farlo prima di impazzire, poiché già pensare mi sembrava impossibile.

Tutto prese a girare vorticosamente, le sagome nere inconsistenti, il prato sbiadito, le forme irreali. Il vento il alzò, le voci si fecero man mano sempre più lontane, la luce sempre più forte, quasi accecante.

Finché non venni abbagliata e caddi riversa sulle ginocchia. Svuotata. Schiacciata.

Aprii gli occhi, ansante, stanca, distrutta. Il macigno della colpa sul cuore e nella testa. Ero ancora nel mio incubo personale. Stessa scena, stesso monotono paesaggio, stessa lapide.

La mia testa scattò in alto, veloce, tanto veloce da farmi male, colpire con una fitta il cervello, il centro dei miei pensieri. «Bella, vieni da me… insieme…». Era la sua voce, era la voce di Edward.

Mi alzai di fatica sulle ginocchia, il fiato corto. «Edward?» chiamai spaesata, angosciata. Mi sorpresi di quanto la mia voce fosse bassa e roca. Una speranza, una speranza. Cercavo un barlume di speranza in quel dolore accecante.

«Sono qui, ma tu adesso devi tornare da me…».

Ancora, la mia testa si mosse veloce. Proveniva dalla lapide. Mi misi a correre, affannata, verso la fonte della sua angelica voce. Ma faticavo incredibilmente, per quanto mi muovessi, per quanto corressi, si allontanava sempre di più, non la raggiungevo mai. Cadevo, mi alzavo, rinciampavo. E ancora e ancora. Sempre più lontana, sempre più distante.

«Edward!» urlai, frustrata e distrutta, lacerata.

E improvvisamente lo spazio fra me e la lapide si accorciò paurosamente. Mi ritrovai all’istante bloccata, davanti al masso freddo e privo di vita. Ansai, ferma. Con mille domande, con mille tormenti, ma senza neppure una risposta.

«Bella, torna con me…».

Singhiozzai, affranta e stremata. Un singhiozzo asciutto e per questo ancor più doloroso. Sapevo di non meritarlo, sapevo di non avere nessun diritto di chiederlo ancora al mio fianco, di averlo con me. Eppure non potevo fare a meno di desiderare, strenuamente, riaverlo vicino, come sempre, per sempre. Desiderare risvegliarmi ed essere tornata indietro nel tempo.

«Come?» chiesi, piano. Troppo piano, forse, perché potesse sentire la mia voce tremante. Il sangue mi pulsò nelle vene.

Silenzio. Assoluto.

«Come?!» gridai, sentendo le forze esplodere fuori dal mio corpo e insieme venir meno.

Ancora, nulla. E in quel momento la disperazione soppresse ogni germe di speranza. La realtà e l’illusione si erano confuse, rendendo vero anche cosa non lo era. E ora ero persa e straziata, senza alcuna via di fuga, sospesa in un limbo di dolore e senso di colpa.

Immaginata. Dovevo aver immaginato la sua voce angelica. E la realtà, non esisteva. Edward… era morto. Jacob… questa era la realtà. Lui… anche lui. Certo. Come sarebbe stato possibile pensare il contrario? Erano entrambi morti.

I miei pensieri si aggrovigliarono e si contorsero, si strinsero, uno addosso all’altro, vorticando nella mia mente. Mi uccidevano, mi struggevano.

Tutta colpa tua! Quella, quella era la voce che riuscivo a sentire e distinguere nettamente, l’unica che riuscissi a pensare. Che le conseguenze fossero state portate allo stremo o no, che potessi ancora avere la possibilità di ricucire o meno, quello era vero, nella realtà o nell’illusione. Era completamente, tutta, colpa mia. Come dare torto a quella voce nella mia testa?! Come, se lo sentivo anche nel cuore affannato o nel dibattersi veloce nel mio petto?! Non c’era limite alla sofferenza che avevo causato.

Passai le mani sui bordi irregolari della lapide, graffiandomi i palmi. Osservavo il percorso che compivano con occhi spenti, stanchi, pesanti. Sentivo di non riuscire quasi più a respirare. Avevo raggiunto un livello di dolore così acuto da desiderare la morte come cessazione dei miei mali.

Volevo morire. Volevo uccidermi.

«Sì…Ricongiungiti a me…».

Annaspai, portandomi le mani alla gola. Era quello che voleva. Che mi suicidassi per ricongiungermi con lui. All’inferno. Abbassai il viso sulle mie mani, deglutii. Se questo fosse stato il mondo reale… Mi portai una mano alla guancia. Sembrava così vero…

Sussultai quando una sagoma mi apparve di fronte agli occhi. Alice. «Fallo. Ucciditi». Nella sua voce non c’era odio. Freddezza, gelo.

Scossi il capo, afflitta, incredula. No, lei non era reale, tutto quel mondo non era reale. «Vattene!» esclamai debolmente, spaventata, portandomi entrambe le mani alle orecchie e chiudendo gli occhi. Non volevo vedere, non volevo sentire. «Tu non sei reale!».

Una ristata, diabolica e agghiacciante si levò dal suo petto. «Ah, no? Non sono reale?».

Aprii gli occhi, la fissai, sofferente e angosciata. Dovevo negare, negare. Questa non poteva essere la vita reale. Non poteva. Era solo un terribile incubo. Malgrado lei sembrasse così maledettamente vera. «No!» urlai, sopraffatta, prendendomi la testa fra le mani.

Scosse il capo, per nulla ferita o turbata. La verità nella sua voce. «E qual è la realtà? E tu perché parli con me se non sono reale?» fece, un tono di pazzia nella voce, fissandomi negli occhi con un sorrisetto divertito.

Tremai, farfugliai. Retrocedetti di un passo. «No…non lo so…».

Sui suoi lineamenti calò una maschera di indifferenza. «Ucciditi» mi disse, e svanì.

L’illusoria voce soffocante e liberatoria di Edward tornò a farmi compagnia. «Amore…Dobbiamo stare insieme».

Non feci in tempo ad ansimare, a crollare, o a tentare di versare anche solo una lacrima. Sentii improvvisamente qualcosa di freddo e duro fra le mani. Abbassai il viso. Era un pugnale argentato.

«Stringi» m’incitò delicata la voce del mio amato.

«Ma…» feci per obbiettare, sussultando. L’istinto di conservazione mi legava a quel mondo orrendo e forse irreale, combattendo con l’amore e la dedizione che mi dicevano solo di lasciarmi andare, lasciare andare la mia vita e affidarmi a Edward.

«Avanti, torna da me…».

Le emozioni contrastanti, il dolore, la paura, il senso di colpa, perirono dinanzi a qualcosa che si scaldava e pulsava nel mio petto. Avevo sbagliato, certamente. Il mio comportamento era stato incredibilmente deleterio. Ma lo amavo. Lo amavo, e se amarlo avesse significato dargli la mia vita, se fosse stato quello il prezzo dei miei errori, l’avrei pagato.

Strinsi il pugnale fra le mie mani. Lo girai e lo puntai fra le costole.

Una sola, solitaria lacrima, mi rigò il viso.

«Ti amo, Edward».

Mi trapassai il petto. Fui avvolta da un immenso dolore. Poi, spirai.

 

Edward

 

La mia piccola umana. Le accarezzavo la fronte, e con l’altra mano tenevo la sua, piccola, calda, senza forze. Giaceva nel letto, con i capelli mori scompigliati sul cuscino. Alice le aveva messo una vestaglia di seta, chiara, color avorio, lo stesso colore della sua pelle... di solito. Non il colore pallido, quasi bianco, che c’era ora sulle sue guance.

Ma nonostante questo, nonostante il pallore della malattia, i numerosi tubicini e cavi che in qualche modo le agevolavano il compito di vivere, rimaneva sempre un angioletto.

Carlisle diceva che dovevamo aspettare ancora, che era rimasta senza ossigeno e sangue per un po’ di tempo e che solo il suo risveglio ci avrebbe portato informazioni. Comprensibile che il suo corpo stremato dovesse cercare riposo, dopo quattro ore di intervento d’urgenza.

Mi sentivo prosciugato, e arrabbiato. Era davvero strano che le emozioni più forti provate in tutta la mia esistenza si concentrassero negli ultimi anni. Assurdo. Eppure, non avevo mai provato questa furia, questa rabbia, questa gelosia… questo amore. Con il pollice disegnai il contorno delle sue piccole labbra, forzatamente da un lato. Un tubicino, passando dalla bocca alla trachea, le soffiava il respiro nei polmoni. Presto, Carlisle l’avrebbe rimosso, provando a farla respirare con la mascherina perché il risveglio non fosse doloroso e…

Sospirai. Come eravamo potuti arrivare a questo?

Mi ero sentito frustrato, amareggiato, ferito da quello che era accaduto negli ultimi mesi. Ero arrivato a pensare di averla persa per sempre. Ma poi, non potevo negare di leggere nei suoi occhi quella scintilla d’amore che mi teneva legato a lei. Non potevo negare l’adorazione assoluta che il suo corpo e la sua mente rivolgevano nei miei confronti. Perdendo Jacob Black poteva aver perso un amico, un fratello, forse un innamorato, una di quelle cotte liceali. Ma me lo diceva. Era me, me, che voleva. E il mio cuore fermo non si poteva rifiutare di crederle, troppo incline a farlo, egoisticamente, a tenerla stretta a me.

Sospirai, osservando attentamente la sua figura eterea. Aspettavo un tremolio, un battito di ciglia, un riflesso di un dito. Aspettavo.

Mi chiedevo cosa avrei fatto se fossi stato dalla parte di Black. Lo sapevo. Avrei, come lui, tentato in ogni modo di averla per me. Avrei provato a legarla al mio vincolo, a persuaderla. Ed ero un vampiro. E lei era umana. E io troppo attratto dal suo sangue.

Ma mai, mai, mai le avrei fatto del male. Perché prima, un istante prima, avrei fatto in modo di uccidermi piuttosto che ferirla.

Per questo, mai, avrei potuto perdonare il lupo. Lui non poteva amarla davvero. Perché altrimenti lei adesso non sarebbe stata su quel letto, le palpebre livide sul viso emaciato, soffrendo le pene del suo dolore per…

Strinsi con rabbia i pugni, fino a fare sbiancare le nocche. Mi allontanai di qualche centimetro da lei, attento a non farle del male. Avevo detto che avrei aspettato, e forse, forse, per amore di Bella sarei riuscito ad aspettare. Ma poi Jacob Black me l’avrebbe pagata cara.

Sospirai, provando a calmarmi, e mi chinai a baciarle la fronte. Le presi la mano fra le mie, attento a non staccarle l’ago della flebo. Me ne sarei accorto. Se si fosse mossa, me ne sarei accorto. Ma mi sembrava troppo che non lo faceva. «Fallo Bella, torna da me…» la implorai, piano, vicino all’orecchio, parlandole come sapevo che adorava. Ma non ottenni alcuna reazione.

«Edward». La presenza di Charlie, già preannunciata dal suo pesante passo umano, dal fiato pesante e dal susseguirsi dei suoi pensieri umani, si palesò quando comparve sulla porta «sono tre giorni che sei lì. Vai un po’ fuori o giù al bar, che ne dici?» mi chiese, provando, dopo 72 ore, ad essere gentile.

Non lo biasimavo. Pensavo che al suo posto, al pensiero di chi aveva ridotto così una creatura a così cara, sarei andato su tutte le furie. Quello che avevo fatto, dopotutto.

Anche Esme provò a farmi ragionare, sospingendomi coi pensieri. «Edward, dovresti farlo, anche solo mezz’ora. Non hai bisogno di riposo fisico, ma il riposo mentale potrebbe aiutarti, tesoro».

Anche Carlisle entrò nella stanzetta, posando la sua mano secolare sulla mia spalla. «Vai, figliolo, almeno per salvare le apparenze. Ti chiameremo appena avremo notizie».

Scossi il capo, per nulla persuasa ad allontanarmi. Era quello il mio posto, lo sentivo. Quello e nessun altro. «No. Ti ringrazio, ma preferisco rimanere qui…» feci, provando a restituire la stessa cortesia. Non mi sarei allontanato, e non l’avrei di certo fatto proprio nel momento della visita. Speravo che ci fossero cambiamenti.

Malgrado fosse una fitta costante nel costato, rimasi accanto a lei quando Carlisle la staccò dal ventilatore artificiale, aiutandola con la mascherina. Non sapevo quello che poteva percepire, e mi dannai per non poter leggere nei suoi pensieri. Ma in ogni caso, volevo esserci. Volevo che percepisse la mia presenza, che si sentisse rassicurata. Che immaginasse di avermi accanto anche in quello che speravo fosse un sogno. Perché, quando si sarebbe svegliata… sapevo quanto avrebbe patito in ospedale.

«Risponde bene allo svezzamento. In breve tempo potrà tornare a respirare autonomamente» informò gentilmente mio padre Esme e Charlie.

Al momento di cambiare la medicazione uscirono, lasciandoci soli con Bella. Con il suo corpo stanco. Non mi ero mai attardato, per rispetto della sua persona e del suo corpo, a osservare le sue nudità. Eppure avrei potuto, facilmente, in qualsiasi momento. In quell’istante, niente mi sconvolse come vedere il suo petto. E non erano sentimenti positivi.

Una lunga cicatrice rossa, pulsante, regolare, le divideva un lato del petto, uno squarcio sulla sua pelle pallida. Qualcosa che sarebbe rimasto lì. Per sempre.

Mi alzai di scatto, meno di un ottavo di secondo, irrigidendo i muscoli e gonfiando i polmoni, precludendomi quella vista straziante. Uccidere. Lo volevo uccidere, per quello che le aveva fatto.

«Edward» mi ammonì mio padre, «controllati».

Tentai di sciogliere i muscoli tremanti, pentendomi della mia reazione. Non avrei voluto che Bella mi vedesse così.

Carlisle mi raggiunse, prendendomi un braccio per farmi voltare. «Vai a cacciare, ne hai bisogno. Ci vorrà poco. Non puoi starle accanto in queste condizioni. Vai».

Sospirai, costretto ad ascoltarlo. Non era passato molto da che ero andato a caccia, ma lo stress a cui ero stato sottoposto psicologicamente e l’odore di fondo dell’ospedale avevano messo a dura prova il mio autocontrollo.

Annuii seccamente, avvicinandomi in un istante a Bella e posando un lieve bacio sulla sua fronte nivea. Sospirai, accarezzandole una guancia. Svegliati. Ti prego.

Lasciai la stanza, incontrando immediatamente Charlie nel corridoio.

«Sto uscendo, tornerò fra poco» mormorai piano, allontanandomi.

Annuì in silenzio. Era rimasto colpito dalla mia fedeltà e dalla mia devozione nei confronti di Bella. Niente. Niente in confronto a quello che avrei fatto davvero per lei.

Uscii in fretta dall’ospedale. Non mi fermai ad indugiare su nessun pensiero intorno a me. In pochi secondi, appena fui fuori dall’edificio, immerso nella fredda aria umida e condensata, mi ritrovai lanciato nella corsa fra la boscaglia di Forks. La caccia fu veloce e vicina, i miei pensieri rivolti a Bella. Un antilope risentì di tutta la mia furia accumulata e repressa. Deglutii, osservando il corpo martoriato e dolorante dell’animale, e, disgustato da me stesso, le spezzai il collo, finendo di dissetarmi.

Appena mi trovai ad una distanza apprezzabile dall’ospedale, distinsi i pensieri di mio padre. «Edward, la febbre è salita…».

Strinsi la mascella, correndo più veloce. Mi sentivo spezzare dagli eventi. E, secondo dopo secondo, accumulavo una rabbia cocente, spessa, che mi impediva quasi di muovermi o di parlare. Che mi totalizzava, spingendomi ad agire per istinti. Uccidendo. Uccidendo chi l’aveva ridotta così.

Bella, sul letto, aveva il viso imperlato di sudore. L’avevano sistemata fuori dalle coperte e le avevano messo delle borse di ghiaccio sui polsi e sulle caviglie. Si agitava, farfugliando parole senza senso.

Mi avvicinai a lei, il dolore a stringermi la gola. Le posai una mano sulla fronte, tentando di contribuire, in qualche modo, a darle sollievo.

Mio padre, in piedi all’altra parte del letto, le lasciò andare il polso. «Delira» m’informò cautamente, «la temperatura si aggira intorno ai 40-41 gradi».

Sospirai, tremante e angosciato, abbassando il viso alla sua altezza e sussurrando piano. «Bella, vieni da me. Dobbiamo stare insieme, te l’ho promesso» la implorai, mormorando piano.

Le guance erano arrossate per la febbre, il fiato caldo disegnava nuvolette sulla mascherina. Le sue piccole labbra, asciutte, tremolarono. «Edward…». La sua voce, poco più di un sussurrò, colpì le corde della mia anima. Da troppo non la sentivo, e quel tono mi straziava.

Mi sedetti accanto a lei. Presi una pezza dalla bacinella d’acqua sul comodino e le bagnai le labbra.

«Vado a prendere qualcosa di più forte per abbassare la febbre» pensò mio padre, concitato.

Annuii, concentrato sul volto della mia amata. «Sono qui, ma tu adesso devi tornare da me…» canticchiai piano al suo orecchio, stringendo più forte la sua mano. Torna Bella, ti prego, torna.

Non si muoveva coerentemente, ma le sue labbra tremolarono ancora, più decise. «Edward!» esclamò, la voce appena più alta, ancor più distrutta. Si agitava nel letto, accaldata. Il mio angelo ferito dalle ali strappate.

«Bella, torna con me» la implorai ancora, disperato, posandole le dita alla base del collo sudato.

Si agitava, si muoveva, farfugliava parole incomprensibili. Ma non rispondeva. Soffriva.

«Sì angioletto mio, sono qui. Ricongiungiti a me, ti sto aspettando».

Si mosse, si agitò ancora. Speravo che in quel limbo in cui stava bruciando avesse posto per le mie parole.

«Te l’ho promesso, dobbiamo stare insieme» la rassicurai con voce flebile, stringendomi sul suo petto, attento a non farle male. Le strinsi il polso abbandonato sul lenzuolo, misi un mio dito nella sua manina aperta.

«Stringi» la incitai, «avanti, torna con me».

Fu allora che sentii una lieve pressione. Una lacrima, confusa fra il pallore, il rossore, e le perle lucenti del suo dolore, le rigò il viso.

«Ti amo, Edward» una flebile e inconsistente promessa, tremolante da labbra tremolanti, dolorante da un corpo martoriato. Poi il respiro le si bloccò in gola.

Sentii puzza di cagnaccio.

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Capitolo 8
*** Perdonami ***


Anche nella morte, quel dolore non sembrava affatto affievolirsi copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Anche nella morte quel dolore non sembrava affatto affievolirsi. Ma se questo era il prezzo da pagare per essere stata la causa della fine del mio eterno amore e di quello che era stato il mio miglior amico, l’avrei pagato ben volentieri. Meritavo quella sofferenza, non me ne sarei sottratta. Meritavo quel dolore forte, che veniva dal petto.

Improvvisamente realizzai che avevo assunto una nuova prospettiva corporea. Non che prima non riuscissi a controllare il mio corpo, ma era come se lo dessi per scontato, come se non esistesse realmente. Ora invece sentivo bene il luogo di provenienza di quella tortura.

«Cosa ci fai tu qui?». Quella voce, adirata, ringhiava vicino a me. Molto più vicina di prima, come se adesso ci fosse davvero, come se fossimo nella stessa stanza. Era con me?

«Edward?» provai a chiamarlo. Ma adesso non era più facile come prima. Non era come essere sospesi in un vuoto rarefatto. Ora le mie labbra pesavano, come i pesi ghiacciati sui polsi e le caviglie. Il ghiaccio. Il ghiaccio c’era anche all’inferno.

«Tu… tu…» vibrò ancora la voce di Edward. Era spettralmente calma, così pungentemente e minacciosamente bassa, «dovrei ucciderti per quello che la hai fatto…».

Le sue parole, la sua voce, turbinarono nella mia testa pulsante di dolore, quasi quanto quello che mi trafiggeva il petto.

«Io… non volevo…». Quella. Quella era un’altra voce. Jacob.

Spalancai gli occhi. All’inizio dovetti richiuderli in fretta, perché la luce bianca al neon mi aveva accecata; ma poi, aprendoli con più cautela mi accorsi che mi trovavo in una stanza d’ospedale. C’erano tantissimi macchinari intorno a me e di certo non mancavano quei tubicini di flebo che tanto odiavo. Ero “incardinata” al letto da quattro borse di ghiaccio, sui polsi e sulle caviglie. Il dolore al petto e alla testa erano ancora tanto ben presenti, ma tutto stava riacquisendo spessore, tutto si stava capovolgendo in una giusta prospettiva, piano. Come quando ci si alza troppo in fretta, e si resta un momento con una mano a mezz’aria per riprendere l’equilibrio e ricominciare a vedere i colori. Stavo per riacquisire l’equilibrio, e quello che avrei visto non mi sarebbe piaciuto affatto.

Dinanzi a me Edward, in posizione di attacco. Davanti a lui Jacob, un’espressione contrita sul volto. Dalla gola di Edward si levò un ringhio minaccioso. Nessuno si era accorto del mio risveglio, troppo impegnati a squadrarsi a vicenda.

Ecco. In quell’istante ripresi il mio equilibrio, e in quell’istante realizzai che quello che fino a quel momento era stato un sogno si stava per avverare. Ma, almeno adesso, dovevo impedirlo. Almeno adesso, dovevo agire rettamente e schierarmi dalla parte di uno solo di loro, in modo di sostenere lui col mio amore e liberare l’altro con la mia decisione.

Cercai di parlare, ma mi accorsi che la gola era troppo secca per emettere qualsiasi suono.

«Dimmi, dimmi cane. Dopo averla ridotta così» sputò Edward con odio, «con quale coraggio vieni qui?!».

L’unica risposta fu un gemito di frustrazione. Impotente e disperato. Liberarlo, per sempre.

Edward scosse il capo, un’espressione disgustata sul viso. Strinse e chiuse i pugni, tremando, come provando a trattenersi. «Va’ via!» sibilò furioso.

«No».

«Via» ringhiò ancora, piegandosi sulle ginocchia.

Jacob arretrò di due passi, ma non demorse, non si spostò. «No».

Fu un momento, un attimo impercettibile per un umano, fuggevole per i miei occhi appannati e stanchi e la mia mente confusa. Edward balzò in avanti, sollevandolo da terra.

Il mio corpo fu invaso da un veloce formicolio, come una bruciante forza che cancellava il torpore. Dovevo fermarli, volevo agire, ma il massimo che riuscii a fare fu muovere il dito di una mano.

«Non vorresti patire quello che hai fatto soffrire a lei, credimi» soffiò a pochi centimetri dal suo viso. Poi lo sollevò e lo scaraventò contro il muro. Si udì solo un tonfo sordo.

Il mio animo angosciato condusse la forza vivificante in altre parti del mio corpo, come un fiato caldo sulla fiamma. Mossi le mani, determinata a fare di più.

Jacob, accasciato contro il muro, si rialzò, improvvisamente agguerrito.

Vedevo la schiena di Edward alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro ansante. «Una cosa» cominciò deciso «una cosa non sono ancora riuscito a spiegarmi. Perché sei andato da lei, che cosa volevi. Che cosa ti ha spinto a farle del male» mormorò tormentato.

«Lei non te lo vuole dire eh?!» sghignazzò Jacob, spavaldo, asciugandosi con il dorso della mano un rivolo di sangue che gli cadeva da un lato della bocca. «Forse… forse il fatto che tu sia tanto pazzo da prometterle qualcosa che non le puoi dare? Non senza ucciderla, almeno» sibilò fra i denti.

Edward emise un sibilo sconvolto, avventandosi su di lui e bloccandolo al muro con un avambraccio. «Questi… non sono affari tuoi» sibilò, minaccioso come mai era stato.

Il luccichio del suo sorriso colpì le mie pupille. «Sì, invece. Se me la faccio al tuo posto».

Edward ringhiò, in un atto di furia cieca. Afferrò quella che doveva essere un siringa e la conficcò fra le costole di Jacob, che reclinò il capo all’indietro, guaendo fra i denti. «Questo è quello che le hai fatto patire, essere immondo!» sbraitò, «ti ammazzerò prima che tu ti possa avvicinare ancora».

Ansimai appena, sconvolta, provando a muovere le braccia e la gambe. Non poteva succedere. Se avevo avuto una seconda possibilità, dovevo cambiare le cose. Non poteva succedere.

Jacob si mise a ridere gutturalmente. Era inquietante. «Provaci, sanguisuga». In un attimo si strappò l’ago dal petto e esplose, in avanti, verso Edward, trasformandosi. Si udì un altro tonfo, non abbastanza forte da attirare qualcuno in camera.

Riuscii a muovere completamente il corpo, ma fui colpita da un’ondata di dolore, proveniente dal petto e dalla testa.

Altri tonfi, altri scontri. Non riuscivo a vedere le dinamiche dei loro movimenti. La stanza era relativamente grande, ma non sarebbe riuscita a contenerli ancora.

Poi, un’immagine un lupo enorme  con le zanne a poca distanza dalla testa di Edward, che lo teneva per la gola.

«Nessuna ulteriore possibilità, nessuna sfida. Questa è una cosa che decideremo io e Bella, e tu non potrai farci niente» disse rabbioso Edward.

Ancora, provai a muovermi, cercai di sollevarmi, ignorando il dolore atroce del petto, ma le vertigini mi costrinsero a ricadere fra i cuscini. Provai a parlare, ma mi uscì solo un tono soffocato.

«Ha già scelto. Me. E tu non dovrai provare neppure ad avvicinarti a lei».

La scena si sbloccò, ancora movimenti, ancora turbinii, veloci. Ringhi, guaiti, lamenti, troppo deboli per essere uditi dall’esterno. Di nuovo, immobili. Edward schiacciava contro il muro un lupo mostruoso, che ringhiava, mostrando le sue zanne.

Non so cosa fu, forse una scarica di adrenalina. Mi rialzai. Ignorando tutto, dolore, vertigini, spossatezza. Le borse di ghiaccio ricaddero qua e là, due sui cuscini due per terra.

Vedevo quel precario equilibrio, che sapevo, comunque, sarebbe sfociato in dolore se non fossi intervenuta in tempo. Mi sollevai in piedi, reggendomi faticosamente al letto. Le gambe mi tremavano, doloranti. Faticavo a respirare, faticavo a vedere, a mantenermi dritta per via delle vertigini. Ma resistevo. Mi strappai la pinza che mi stringeva il dito e le flebo, le lacrime di dolore e paura che scorrevano dai miei occhi. Mi sentivo stanca, ferita, dolorante. Mi sentivo spossata e dilaniata dal dolore. Ma dentro di me echeggiava l’urlo di una donna che non poteva rimanere a guardare, che doveva correggere i propri sbagli. Una donna schiacciata dal senso di colpa.

I ringhi si fecero sempre più forti. Non si erano accorti di me. Nessuno si muoveva, tutti i muscoli dei loro corpi erano contratti.

Poi, tutto successe molto in fretta. I loro corpi scattarono, attaccandosi a vicenda. Brancolai in avanti, disperata, sentendo la cute del mio petto lacerarsi in una fitta di intenso dolore.

Edward si voltò, accorgendosi di me, fissandomi con gli occhi sgranati.

La porta della camera si spalancò.

I miei polmoni si gonfiarono nello sforzo di urlare, mentre i miei occhi si riempivano di bianco. «Edward!» urlai, non so con quale forza. Semplicemente amore, dolore. Lo stava attaccando. Lo stava attaccando al collo, approfittando del suo momento di distrazione.

Carlisle scattò immediatamente accanto al figlio, liberandolo dal peso del lupo, che sbattendo contro un tavolino si ritrasformò.

Ansimai, senza fiato, senza forze, con le lacrime ancora congelate e intrappolate nelle ciglia. Sentii le ginocchia cedermi e caddi, stremata.

«Bella!» mi chiamò una voce, mentre le sue braccia fredde mi sollevavano per stringermi al suo corpo. La sua voce rimbombava nella mia testa dolorante, ma non faceva male. Era come dormire su un braccio. Ci dà fastidio, ma lo facciamo per illuderci di un abbraccio.

Mi strinsi alla sua maglietta, faticando per aprire gli occhi e vedere Jacob. Il suo corpo era ricoperto da tagli e lividi violacei, e ne ero sicura, aveva più che una decine di fratture fra le costole e le braccia. Respirava a fatica e rivoli di sangue gli scendevano da bocca e naso.

Mi fissava, distrutto. Ma questo non poteva essere il tempo dell’indulgenza o delle esitazioni.

«Non dovresti essere qui» singhiozzai, stringendomi al corpo di Edward in cerca di conforto, nascondendo il viso nel suo petto per non vederlo, «non ti voglio vedere, non ti voglio vedere, va’ via. Va’ via» gemetti, dolorante e disperata.

«Bella…» mi chiamò la sua voce, supplicante.

«Vai via, cane. Prima che debba ucciderti» vibrò il petto di Edward, mentre le sue mani mi stringevano al suo corpo.

Mi voltai appena a guardarlo. Ogni parola che mi grattava la gola era la necessaria e dura verità. Valeva lo sforzo che mi costava. «Ho fatto la mia scelta, Jacob. É stato tutto un errore, sin dall’inizio. Non c’era amore in me, per te. Non c’è mai stato. Mi hai convinta di qualcosa che non esisteva, mi hai spinta a dichiararlo per non farti uccidere. Ma non è questo l’amore che voglio» biascicai appena, strofinando la guancia sulla spalla di Edward, «non sei tu. Non sei tu la persona per me, e non lo sei mai stata. Non avevo diritto di darti spazio, ma tu non lo avevi di ingannarmi, di pretendere ciò che non potevo o volevo darti. Vai via, perché non importa quello che fai o farai, io non ti amo, non ti ho mai amato, né ti amerò mai. Addio, Jacob. Noi non possiamo essere amici. Addio».

Strinse i pugni in una morsa d’acciaio e una ruga di disprezzo nacque sul suo volto ferito. «Tu mi ami. Tu ami me, presto lo capirai. Ti farò cambiare idea». Si girò di scatto e volò via dalla finestra, gemendo appena.

Ansimai, distrutta e sconvolta, sentendo gli occhi chiudersi, non abbastanza per impedire alle lacrime di scendere sulle guance fredde. Tremai, ma non era un tremolio nato dal freddo. Era un tremolio di debolezza, era un tremolio di sofferenza, un tremolio di dolore. Non per la scelta che avevo fatto, ma per il pentimento di non essere riuscita a farla prima.

«Bella, tesoro» mi chiamò Edward, facendo dolcemente scivolare le mani lungo il mio corpo, per stringermi e sollevarmi senza farmi del male. «Va tutto bene. Ti sei svegliata. Ti senti bene? Va tutto bene, te lo prometto» mormorò, vicino al mio orecchio, riponendomi sul letto e baciandomi la fronte. Calda. Perché le sue labbra erano troppo fredde.

Annuii appena, incapace di fare altrimenti. Mi sentivo debole. Mi sentivo troppo vile, e stanca, per parlare con Edward e guardarlo negli occhi, leggendovi magari il dolore che gli avevo causato.

Mi sentivo in colpa.

Mi prese la mano, stringendola fra le sue, strofinandola in un vano tentativo di darmi calore. Stavo bollendo. Non lo sentiva che stavo bollendo? «Sta tremando. Perché trema? Dovremmo coprirla?» chiese preoccupato a suo padre.

«Credo sia la febbre, Edward. E alcuni punti devono essere saltati. Fammi controllare, poi la potremmo coprire».

Chiusi e aprii gli occhi, incapace di tenerli aperti per un tempo troppo lungo. Mi sentivo debole, mi sentivo male. «Non voglio che torni» biascicai, spaventata, irrazionale. Mi sentivo irrazionale. «Non voglio che torni. Non deve tornare. Non voglio. Ho paura» ansimai, sbattendo velocemente le palpebre.

Le mani si Edward si richiusero sul mio viso, tenendolo fermo. Guardandomi, puntando i suoi occhi nei miei. Preoccupato. «Non tornerà. Non tornerà, te lo prometto. Farò di tutto perché non torni».

Annaspai, sentendo le lacrime ricominciare a scendere per le guance. Lo vedevo il dolore. Lo vedevo. «Io voglio te. Voglio te, Edward. Voglio solo te. Ho paura, non voglio che torni. Resta con me, ti prego. Resta con me».

Sorrise appena, nervoso, intenzionato in ogni modo a rassicurarmi. «Certo che resto con te. Ci dobbiamo sposare. Resto con te, Bella, per sempre. Te l’ho promesso».

Sussultai, stringendo con forza la sua mano e sgranando gli occhi, quando il dolore di un ago s’insinuò nel mio petto.

«Tranquilla Bella. Era solo l’anestesia. Ti devo rimettere alcuni punti. Tranquilla, ci metterò poco, promesso» mi rassicurò Carlisle, chinandosi a ricucirmi.

Deglutii, distogliendo lo sguardo dagli occhi di Edward. Non riuscivo a guardarlo. Non riuscivo a sostenerlo. Mi voltai nella sua direzione, allungando un braccio e chiudendo gli occhi. «Resta con me, per favore. Ho paura» lo supplicai con voce flebile.

«Shh… shh… calmati. Certo che resto con te» mi rassicurò, accarezzandomi il viso e le mani, canticchiando parole gentili al mio orecchio.

«Ho finito, Bella» disse a mezza voce Carlisle. Come se avesse paura che mi fossi addormentata. Avrei potuto, fra le mani di Edward.

Annuii appena, senza parlare.

Mi sentii sollevare una gamba e il bacino. Aprii appena gli occhi e provai a muovermi per aiutarlo. «Stai giù. Non ti preoccupare. Ci penso io, stai giù» mi rassicurò dolcemente Edward, sistemandomi sotto le coperte, la schiena fra i cuscini.

Carlisle mi accarezzò la fronte e i capelli. «Ti diamo qualcosa per la febbre, va bene Bella? Dovrebbe farti stare meglio». Mi prese il braccio, tastando piano l’incavo del mio gomito.

Sibilai fra i denti, scontenta. Non avrei sopportato a lungo tutto quello.

«Ti fa male?».

Mi schiarii la gola, secca. «Un po’».

«É per le flebo che abbiamo fatto in questi giorni. Se ti fa troppo male potrei prendere una centrale, ma preferirei evitare».

Deglutii ancora, aprendo appena gli occhi. Edward mi guardava. Strofinai le dita sul dorso della sua mano. «No… va bene».

Mi prese le dita nel palmo, invertendo le posizioni. Sospirai quando mi sentii pungere, e non potei fare a meno di sollevare lo sguardo su quello di Edward. Lo ignoravo, ignoravo il senso di colpa, perché volevo andare avanti e vivere con lui, perché era quello che desideravo e avevo fatto la mia scelta, e non riuscivo a rinunciarvi. Ma cresceva, cresceva come un grosso e fastidioso animale, troppo per averlo in casa e far finta di niente.

«Come ti senti?».

«Stanca, debole… Dolorante. Ho la gola secca» mi lamentai.

Mi aiutò a bere qualche sorso d’acqua, piccole gocce alla volta, sorreggendomi la testa per aiutarmi. Lo volevo, lo volevo il suo amore. Solo, volevo non avergli causato tanto dolore.

Carlisle uscì, lasciandoci soli.

«Vuoi che avvisi tuo padre che ti sei svegliata?» mi chiese cortesemente.

Un'altra fitta al cuore. Uno degli ultimi effetti delle mie scelte. La voce quasi si spezzò. «É qui?».

Annuì, piano, accarezzandomi i capelli e contemplando il mio viso. «Sì, è qui. É quasi sempre stato qui».

«D… davvero? Mi…mio padre?». Non si era mai mosso da casa. Anche quando ero stata ricoverata a Phoenix era stato con me il primo giorno e poi era ripartito. Odiava gli ospedali, come me.

«Sì, proprio tuo padre». Sorrise. «Vuoi che lo chiami?» chiese, facendo per allontanarsi.

Annaspai, osservandolo sconvolta e stringendo la mia mano nella sua. «No. No, rimani con me» feci debolmente, distogliendo immediatamente lo sguardo, colpevole.

Mi accarezzò le guance, tanto da farmi quasi addormentare. «Cos’hai?».

Allontanai il viso, mordendomi un labbro. Non riuscivo a parlare. Sentivo le lacrime spingere per uscire dai miei occhi. Eppure, egoisticamente, volevo essere confortata. Avevo bisogno che mi dicesse cha andava tutto bene.

«Bella» mi chiamò preoccupato.

Mi affrettai a cancellare la lacrime con il braccio libero, trattenendo i fremiti. «Mi dispiace, Edward, mi dispiace tanto. Mi… sento in colpa» confessai.

«Bella…».

«No, ascoltami» vibrai, voltandomi nella sua direzione, «ascoltami, per favore. Voglio che tu sappia qualcosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti. Voglio che tu lo sappia. Quella sera, quando… quando ho detto addio a… Jacob…».

Era afflitto. «Non c’è bisogno che tu mi dica niente-».

Strinsi più forte la presa sulla sua mano. «No, per favore. Ascoltami. M-mi fa male parlare, quindi ascoltami, ti prego. Sono… troppo stanca per essere sicura di riuscire a ripetermi» ansimai, certa di aver ottenuto il suo silenzio. «Edward. Quella sera, ogni lacrima in più che ho versato, ogni gemito strozzato, ogni volta che stavo male, male davvero, era per te. Non volevo più piangere per Jacob. Piangevo per quello che ti stavo facendo, e per quello che ti avevo fatto. Dovevi saperlo. Dovevi saperlo, perché può sembrare stupido, invece è importante» mormorai disperata, la voce flebile.

Mi osservò in silenzio, senza parlare. Sollevò la mia mano, e la baciò, rimanendo così, senza dire nulla, con gli occhi chiusi.

Osservavo la sua figura perfetta, i suoi lineamenti giovani, i suoi capelli rossicci. Lo osservavo, e pensavo che non sarei riuscita ad allontanarmi da quel miracolo. Lo osservavo, e pensavo che avrei dovuto lasciare l’animale a piede libero per casa, o munirmi presto di una revolver.

«Grazie» disse infine, riaprendo gli occhi nei miei. «Grazie per avermelo detto. Non sentirti in colpa».

Abbassai lo sguardo, silenziosa. «Lo farò, solo se farai una cosa. Lo farò, non mi sentirò più in colpa, solo se lo farai. Una cosa che non hai fatto. Una cosa che non hai detto».

Annuì, cauto.

«Perdonami. Perdonami Edward, ti prego, perdonami».

«Bella…» protestò appena, sconvolto.

«Sei un vampiro, sei un uomo, non sei un santo. Liberami Edward. Perdonami».

Si sollevò dalla sedia, allontanandosi di qualche passo da me. Le sue spalle non si alzavano e si abbassavano. Non stava respirando.

Vi voltò, e mi venne vicino. Sfiorò il naso con il mio, mi sfiorò le labbra con le sue. Sospirò, facendo passare ancora fiato nei polmoni.

«Ti perdono, angioletto».

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Capitolo 9
*** Sorprese ***


Pian piano mi stavo svegliando copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Pian piano mi stavo svegliando. Nell’aria c’era l’aroma di caffé, misto con uno strano odore di qualcosa di ben noto, ma che ora proprio non mi tornava alla mente. Sentivo su di me delle coperte ruvide e, oltre a quel fastidioso dolore al petto, avevo la schiena massacrata. Stavo per compiere un gesto abituale, che facevo ogni mattina: stiracchiarmi e girarmi stesa a pancia in giù prima di riaddormentarmi ancora un po’. ‘Stavo’ perché, non appena mi mossi, mi sentii bloccare da due macigni freddi.

Aprii gli occhi, infastidita.

Il viso di Edward mi fissò, un sorriso accennato «Buongiorno».

Sospirai, osservando le sue braccia che mi impedivano di muovermi. «Buongiorno» biascicai, la voce ancora impastata dal sonno.

Erano passati cinque giorni dall’intervento e mi trovavo ancora nella stanza d’ospedale. Passavo il tempo a dormire. Mangiavo poco e niente, perché a causa dei sedativi avevo una forte nausea; quindi mi avevano dovuto, con mi enorme rammarico, nutrire endovena. Per di più, non mi potevo muovere da quella posizione.

Feci una smorfia, stanca e dolorante.

Edward mi accarezzò gentilmente i capelli. «Vuoi che ti sistemi i cuscini?».

Annuii. «Sì, per favore…». In quei giorni era stato una presenza costante e indispensabile. Nonostante non potesse sopportare di vedermi stanca, ferita e dolorante, non perdeva mai occasione di pensare a me, di distrarmi, farmi svagare e non pensare alla mia triste condizione.

Quando si allontanò appena per sollevare la spalliera del letto, notai la presenza di mio padre in camera, intento a sorseggiare il suo caffé.

Edward fece scivolare una mano appena dietro la mia scapola, accompagnandomi gentilmente il busto verso l’alto. Mi strinsi al suo corpo, una piccola smorfia di dolore sul viso, aspettando che sistemasse i cuscini alle mie spalle.

Malgrado fosse sempre stato accanto a me, e mi avesse costantemente aiutata, avevo notato qualcosa di diverso in lui. Il tocco. Il tocco delle sue mani aveva perso qualcosa. Era sempre dolce, gentile, e delicato. Ma in quel tocco non c’era più il palpito e la scossa che ci attraversava ad ogni contatto.

Quando mi adagiò sul letto, sentii un po’ di sollievo. «Grazie…» mormorai, intontita e pensierosa.

Si sedette accanto a me, sorridendomi. Con lo sguardo mi osservava, cautamente, come se tenesse sottocontrollo ogni mio gesto.

Avrei voluto prendergli le mani e stringerle forte, tanto da farglielo sentire. Chiedergli “cos’hai?”. Perché qualcosa di strano l’aveva. Era per quello che gli avevo detto? Era per la mia ferita? Era per tutta la questione che si era venuta a creare?

Ma c’era mio padre in camera. Le mie sarebbero potute essere semplici speculazioni prive di fondamento. E avevo davvero troppa paura che la motivazione sarebbe potuta essere proprio una di quelle che immaginavo.

«Come ti senti Bells?» chiese mio padre, districandosi malamente fra il cappotto che teneva piegato sul braccio e il caffé.

Annuii appena, schiarendomi la gola. «Sto bene».

Mio padre mi osservò senza dire nulla che non fosse un «Bene» borbottato. Poi aggiunse «Alice si sta davvero impegnando per il matrimonio. Siete sicuri di riuscire a fare tutto in tempo? Non vorrei che quella ragazza si stancasse troppo, si può sempre posticipare…».

«Penso che mi sorella lo adori, signore» intervenne prontamente Edward «è stata una sua idea quella di organizzare tutto, e ne è entusiasta. Finché le condizioni di salute di Bella lo permetteranno, preferirei che la data del matrimonio non fosse spostata. Cosa ne pensi?» chiese poi, rivolgendosi a me.

Arrossii. In quei giorni non ero stata in grado di aiutare in alcun modo Alice, anzi. Avevo dovuto lasciare che fosse lei ad aiutare me, più di quanto non stesse facendo con il matrimonio. Nonostante tutto fosse una sua idea, mi sentivo in colpa al pensiero di non contribuire alla mia festa, ma stanca e dolorante com’ero avrei comunque potuto fare poco. «Certo, papà. Non c’è nessuno motivo per spostare… per spostarlo. Va bene. Aiuterò Alice appena potrò, mi impegnerò».

Edward mi accarezzò i capelli, facendo trasferire il mio sguardo sul suo viso. «Tesoro, non ce n’è bisogno, lo sai. Non ti devi stancare. Carlisle dice che devi stare a riposo, sarà tutto perfetto lo stesso, vedrai».

Mio padre strinse le labbra. «Perché ancora non avete spedito le partecipazioni?».

Sussultai, abbassando il viso. Colpa mia. Ancora troppo vergognosa all’idea del matrimonio, avevo chiesto a Edward di procrastinare il tutto fino a quando non fossi uscita dall’ospedale. Fino a quando non avessi avuto un posto in cui nascondermi. «Papà» protestai, addolorata del fatto che il suo unico pensiero sembrava quello di volerlo far andare a monte, il matrimonio. «Ti prego… me l’avevi promesso» cincischiai.

Sospirò, borbottando. «Certo, certo. Non ti agitare. Lo dicevo per voi ragazzi. Non ti agitare» ripeté, infilandosi il giaccone «io vado via. Torno stasera Bells. E… ciao».

«Ciao» lo salutai, lasciandomi sprofondare fra i cuscini. «Mi dispiace» dissi, non appena fu uscito dalla stanza.

Edward scosse il capo, sereno. «É solo preoccupato per te, vuole che tu sia sicura e che non commetta i suoi stessi errori. Va bene. Io ti amo, e tu mi ami. Non commetteremo gli stessi errori».

Lo fissai, rattristata. «Vorrei che si fidasse di te».

Mi sorrise, facendo passare la mano che mi stava accarezzando i capelli sulla nuca. «Non mi importa, va bene. Va tutto bene» mormorò dolcemente, cullandomi con le sue parole.

Stregata mi lasciai trasportare nella sua direzione, e chiusi gli occhi. Troppo, passò troppo tempo perché mi baciasse. Le sue labbra si incollarono alle mie. Fredde fattezze lambivano le mie piccole e rosee labbra. Calme, dolci, tenere. Senza passione, o amore. Quasi con paura.

Ansimai, e mi tesi nella sua direzione, avventurandomi con le dita fra le morbide ciocche dei suoi capelli. Volevo sentirlo più vicino, più mio, più passionale. Più coinvolto. Era tenero, dolce. Ma distante. Gemetti, e feci ancora per avvicinarmi, perché il suo corpo sembrava essere troppo lontano dal mio.

Mi lamentai, dolorante, ritraendomi di scatto.

«Ehi» fece Edward, accompagnandomi nuovamente sul cuscino, «stai giù, attenta».

Annuii velocemente, stringendogli una mano. «Sì, sì, certo» biasciai fra i denti, scontenta a frustrata. Un dolore acuto mi tagliava il petto all’altezza della ferita. Mi accarezzò la guancia, gentilmente, aspettando che riprendessi il controllo del mio corpo. Man mano il dolore andò scemando.

Me lo leggeva in faccia quanto fossi insofferente per quella situazione, e ogni volta inventava qualcosa per distrarmi. Ma ormai i giorni che avevo passato confinata in quel letto e fra quelle mura erano troppi, troppi per poterli sopportare.

Per l’ennesima volta mi fu accanto, se non passionalmente come lo desideravo, quantomeno con tenerezza.

«Tieni, è per te» disse, porgendomi un pacchetto di medie dimensioni, impaccato in carta gialla e lucida.

Arrossii, facendo per protestare. Lo sapeva quanto odiassi i regali, mi metteva a disagio che fosse proprio lui a farmene. «Edward…».

«Niente. Aprilo e basta, è una sciocchezza» m’incitò con un sorriso.

Riluttante, strappai malamente la carta lucidata, sapendo che sarebbe stato inutile e ancor più imbarazzante rifiutare il suo regalo. Fortunatamente, non era provvisto di fiocchi che si dovessero slacciare, sono una piccola coccarda su un lato.

«Liquirizia?» chiesi stupita. Ce ne erano di tutti i tipi, divisi da piccoli scompartimenti nella scatolina colorata. Sassolini neri, pezzetti di radice naturale, all’aroma di anice, lavanda, gommosa, trasparente…

«Liquirizia» ripeté, un sorriso sulle labbra.

Sollevai lo sguardo sul suo volto, sorpresa. «Posso mangiarla? Davvero?».

Annuì. «Certo che puoi. Spero che ti piaccia».

Arrossii, non potendo fare a meno di osservarla ancora. «Grazie» mormorai, imbarazzata «mi piace davvero molto».

«Assaggiala» m’incitò, avvicinandosi con la sedia al letto, ma senza sdraiarsi accanto a me, nonostante le mie proteste.

«É davvero buona» commentai, passandogli il pacchetto perché lo sistemasse sul comodino. Mi osservava mentre mangiavo, con un’espressione quasi beata sul viso. «Non ti dà fastidio? L’odore… non ti disturba?».

Scosse il capo. «No, a dire il vero. E’ l’unico alimento umano di cui mi piace l’odore: è dolce, aspro, saporito, salato, unico e non paragonabile a nulla. Inoltre, antichi popoli credevano avesse proprietà curative. É… potente. Irretisce quasi tutti i miei sensi».

Strinsi le labbra, assaporando il pezzetto che avevo messo in bocca. «Quindi non è stata una scelta casuale».

«No, non lo è stata».

Mi morsi un labbro, osservandolo attentamente. Dei pensieri stavano cominciando ad affollare la mia mente. Se aveva comprato la liquirizia, era andato via. Se era andato via… Deglutii, improvvisamente in ansia. Non potevo pretendere che stesse sempre con me, ma la paura mi sopraffaceva spesso appena pensavo alla minaccia malcelata nella parole di Jacob. Sarebbe tornato. E io non avrei mai più voluto farmi trovare sola, senza Edward.

«Va tutto bene?» mi chiese pensieroso, notando l’espressione sul mio viso.

Annuii, provando a dissimulare il mio stato.

Avvicinò una mano alla mia guancia, accarezzandomi. «Ehi… Cosa c’è che non va?».

Scossi il capo. «Non posso stare senza te, capisci? Non posso. Lui…» deglutii, «lui non deve tornare. Per favore. Non… non…» ansimai, stringendo affannosamente le sue mani.

Strinse i miei polsi con una mano, stringendomi il viso con l’altra. «Calma» mi ordinò, con voce pacata, «lui non ti farà del male. Te l’ho promesso. Non te ne farà».

Chiusi gli occhi, concentrandomi sul suono del suo respiro per far rallentare il mio. «Stenditi accanto a me».

«Bella-».

«Stenditi accanto a me, per favore» ripetei, implorandolo, gli occhi ancora chiusi.

Scivolò sul materasso, avvolgendomi con le braccia e facendomi adagiare per metà sul suo corpo. Mormorava piano qualcosa al mio orecchio, baciandomi la tempia di tanto in tanto. Non mi stava consolando per l’assenza di Jacob, come era avvenuto solo qualche settimana fa. Mi stava rassicurando sul fatto che non sarebbe più tornato, che gli avrebbe impedito di farmi del male. Io, ero stata io a chiedergli di lottare per me.

«Grazie» sussurrai, lasciando che i nostri corpi si rasserenassero assieme.

Non passò molto, che Carlisle entrò in camera con la mia cartella clinica per la consueta visita giornaliera. Temporeggiò per un secondo trovandoci abbracciati sul letto.

Arrossii, vergognosa, lasciando immediatamente cadere la presa sul corpo di Edward.

Lui non era imbarazzato, osservava il padre con uno di quegli sguardi carichi di serietà, che sapevo nascondevano qualcosa che non potevo capire, o sentire. Ad ogni modo si sollevò, ritornando dove voleva essere, sulla sedia accanto al mio letto.

«Come va stamattina, Bella?» mi chiese cortesemente Carlisle, avvicinandosi.

«Sto bene».

Mi sorrise, controllando i dati che le infermiere avevano aggiornato sulla mia cartella. «Va bene, cambiamo il bendaggio allora».

Edward si sollevò dalla sedia e mi baciò la fronte. «Vi lascio per un attimo insieme, torno subito».

Feci per protestare, scontenta. «Perché devi andare via?» chiesi preoccupata, tentando inutilmente di dissimulare la mia morbosa dipendenza da lui.

«Non ti preoccupare, torno presto» fece, anziché darmi una risposta esauriente, e scappò via in un attimo.

Sospirai, lasciandomi andare fra i cuscini e umettando inutilmente le labbra secche, gli occhi chiusi. Carlisle sistemò lo schienale in modo che fosse agevolato nel suo compito. Odiavo il fatto che Edward avesse deciso di andare via proprio adesso, mentre sapeva che detestavo più di tutti proprio quel momento della giornata. Non era da lui, questo. No, affatto.

«Ce la fai a sollevarti?».

Annuii, facendo leva sulle braccia con un po’ di sforzo e dolore. «Tu sai cos’ha Edward?» chiesi velocemente, preoccupata.

Carlisle rimase concentrato sul bendaggio, in modo da non farmi stancare troppo in quella posizione. «Perché, ha qualcosa?».

Strinsi le labbra, sentendomi stupida per la domanda appena fatta. «Niente, scusa» mormorai, stendendomi nuovamente non appena me ne diede la possibilità.

«Stai guarendo bene. Ti do degli altri antibiotici, non possiamo rischiare che la ferita s’infetti. Vorrei che questa febbre scomparisse definitivamente» disse, districandosi con il tubicino che avevo perennemente collegato a un vaso all’interno del gomito.

Rimasi ferma, silenziosa. Non sopportavo più niente di tutto ciò. Aghi, tubicini, bendaggi. Niente.

«Credo che se tutto andrà bene fra cinque giorni potremmo dimetterti. A condizione che tu prosegua con il riposo anche a casa».

«Cinque giorni?» chiesi, improvvisamente angosciata, aprendo gli occhi.

Un’espressione di scusa comparve sul suo volto. «Mi dispiace, vorrei che le fratture si stabilizzassero».

«Cinque giorni» esalai, depressa, scuotendo il capo.

Mi accarezzò gentilmente i capelli. «Appena starai meglio. Vedrai, passeranno in fretta, non te ne accorgerai neppure».

Mi imposi di non aprire bocca. Non sarebbero uscite parole carine dalle mie labbra. Quello che più mi frustrava era che non avevo proprio nessuno con cui prendermela, men che con me stessa.

Il rumore della porta che scorreva preannunciò l’entrata nella stanza di Edward. «Avete finito» constatò.

«Come se non lo sapessi» borbottai, esasperata.

Rivolse un fugace sguardo al padre prima di avvicinarsi il mio capezzale. Mi accarezzò i capelli, ma non disse nulla, perché sapeva che ero insofferente, e sapeva di non poter dire nulla per aiutarmi.

Carlisle recuperò la mia cartella e mi salutò cordialmente, lasciandomi nelle mani di suo figlio.

Provò a parlarmi, a scherzare, anche a leggere un libro. L’aveva fatto spesso in questi giorni, leggere finché non mi addormentavo, per paura - come già era successo - che io stessa, troppo stanca, non riuscissi a portare avanti la lettura. Ma ora non funzionava più. Ora ero stanca, oppressa, e insofferente, e inspiegabilmente preoccupata che qualcosa non andasse in lui.

«Hai visto? Puoi mangiare. Non sei contenta?» fece, scoperchiando il vassoio con il mio pranzo.

«É pastina» protestai, delusa. Pastina. Pastina. Non sapevo neppure se potesse essere classificata come cibo.

«Devi riabituarti a mangiare» provò a farmi ragionare, gentilmente, «e la pastina ti è sempre piaciuta. É buona».

«Perché non la mangi tu allora?» sbottai stizzita.

«Bella» sospirò pazientemente, «non la vuoi? Posso sempre mandarla indietro e chiedere qualche altra sorta di cremina, ma non credo tu possa ottenere un vero cibo solido» fece, alzandosi e prendendo fra le mani il vassoio con il mio cibo.

Lo trattenni, stringendo la sua camicia. «No, no, rimani qui» ansimai, angosciata che volesse lasciarmi sola. Deglutii, provando a nascondere il mio terrore «Dai, rimani qui. Dammi la mia pastina».

Sospirò, lasciando andare il mio vassoio. Provai uno o due cucchiai di quella mistura, ma ero nauseata e disgustata. Perlopiù ci giocavo con il cucchiaio, disinteressata.

Mi tolse il cucchiaio dalle mani, rimestando quella che avevo sparpagliato sul bordo e prendendone una cucchiaiata. L’accompagnò con la mano, per evitare di gocciolare sul mio pigiama. «Apri la bocca» m’incitò.

Sospirai, imbronciata, provando a riprendermi il cucchiaio.

Non me lo permise. «Apri la bocca» ripeté.

Mi umettai le labbra, lasciando che si avvicinasse con il cucchiaio alla mia bocca semi-aperta. Strinsi il lenzuolo fra le dita, prendendo i bocconi che mi offriva.

«Mi ricorda qualcosa. Quando mia madre lo faceva con me. É strano, vero? Ero un po’ grande, ma quell’estate mi ero ammalato, perché volevo sempre giocare fuori all’aperto. Così mia madre si sedeva accanto a me, sul letto, e m’imboccava».

Lo osservai, prendendo un altro boccone. Era forse quello il motivo della sua tristezza? Antichi ricordi che affioravano?

«Va tutto bene?» mi chiese con un sorriso, vedendomi mansueta e silenziosa.

Annuii. «Basta» protestai, tirandomi indietro con la schiena. «Non ne voglio più».

«E la frutta?» chiese speranzoso.

«No».

Dovetti addormentarmi presto, perché quando mi svegliai la luce che illuminava la stanza era più bassa e intensa del consueto. Mi stropicciai gli occhi.

«Ti sei svegliata» mormorò Edward, carezzandomi il viso.

Improvvisamente arrossii, colta da un impellente bisogno fisiologico. «Potresti… umh» mi schiarii la voce, imbarazzata «ho bisogno del bagno».

Rispose gentilmente, sollevandosi in piedi. «Certo. Ti chiamo un’infermiera, un attimo».

Annuii, silenziosa. Era strano che non fosse lui stesso a volermi aiutare, considerato che, anche quando ero stata ricoverata a Phoenix, l’aveva sempre fatto. Sicuramente, però, non gliel’avrei mai chiesto.

Quando rientrò in camera assieme a lui c’era anche Carlisle.

«Bella, cosa ne pensi di camminare un po’?» mi propose con un sorriso.

«Camminare?» chiesi, speranzosa, rianimandomi improvvisamente.

Edward parve entusiasmarsi della mia contentezza. «Esatto. Vuoi provare?».

Annuii, velocemente, cancellando ogni pensiero triste e problema. «Posso? Posso farlo adesso?».

«Certo» mi assicurò Carlisle, «vorrei solo che non stessi in piedi per più di mezz’ora. É importante, capisci? La posizione verticale e la forza di gravità sono contro le tue fratture, non vorrei doverti tenere qui per più tempo».

«Mezz’ora?» domandò Edward a mezza voce, preoccupato.

«Mezz’ora andrà bene» lo rassicurò il padre.

«Grazie» mormorai, gli occhi pieni di gratitudine e felicità. Anche se gli costava parecchia fatica farmi fare qualcosa che lui riteneva così pericoloso, era felice di vedermi felice.

Scostò le coperte e mi fece sedere sul bordo del letto. Mi infilò le pantofole e mi prese fra le braccia, per poi sistemarmi in posizione eretta di fronte a lui, sempre tenendomi ben ferma. Sentii i muscoli indolenziti delle gambe tendersi.

Mi strinsi al suo corpo, annusando il suo odore. Era fermo e estremamente delicato. Tanto che quasi gli sfuggii dalle braccia. «Puoi stringermi di più, non mi fai male» scherzai, stringendo fra i pugni la stoffa della sua camicia.

«Sì» mormorò appena, ma la presa s’intensificò di pochissimo, come se davvero avesse paura di farmi del male. «Ti fa male il petto?» chiese gentilmente, strofinando una mano sulla schiena.

«No, non tanto».

«Abituati a stare in piedi per un po’» intervenne Carlisle, «e poi prova a fare qualche passo. Torno stasera a controllarti, a dopo».

Lo salutai, borbottando sulla maglietta di Edward. «Possiamo provare?» chiesi speranzosa.

«Proviamo» acconsentì allentando la presa sul busto per rinsaldarla sugli avambracci. All’inizio mi sentii un po’ cedere, infatti la presa di Edward si fece più forte. Poi, ritrovai l’equilibrio. Feci, con lentezza, il primo passo. Riappoggiai il piede per terra e ritrovai una rinnovata stabilità. Edward mi sorrise, incoraggiante. Mossi l’alto piede e feci un altro passo. Non era come se stessi imparando a camminare. Era solo il dolore alle costole a frenarmi.

Sorrisi, e non poté fare a meno di farlo anche lui. «Possiamo uscire in corridoio?» lo supplicai «per favore».

Sospirò, incapace di dirmi di no. «Va bene. Per mezz’ora».

Prima di farmi uscire dalla mia camera mi fece mettere un giacchetta, coordinata al pigiama che mi aveva regalato Alice. Uno dei pigiami che mi aveva regalato Alice, e che ogni giorno passava a cambiarmi. Quest’ultimo era una vestaglia giallina di cotone fresco, con i bordini di merletto blu. Invece la giacchetta era di cotone, blu, con i fiocchetti gialli.

Mi guidò, tenendomi sempre stretta al sua fianco e accompagnandomi pian piano fino alla porta della camera.

Nel corridoio l’aria era piacevolmente fresca. Il mio reparto era quello di “malattie respiratorie” quindi in giro c’erano più che altro anziani e signori panciuti. Edward mi camminava accanto, a venti centimetri di distanza, sorreggendomi di passo in passo. Ero euforica per quella mia libertà e felice di vedere facce nuove, e - perché no - muri nuovi, invece che starmene chiusa in camera.

Rivolsi un sorriso a Edward, che mi rispose con lo stesso affetto.

«Andiamo un po’ alla finestra?» gli proposi.

«Certo». Fece scivolare un braccio intorno alla mia vita e mi condusse al balcone. L’aria fresca e ventosa mi avvolse con i suoi profumi. Era una giornata chiara, forse un po’ annuvolata, ma piacevole per gli standard di Forks.

Edward mi stringeva da dietro, lasciandomi libera di ammirare il paesaggio. Si scorgevano le colline verdi, le strade sterrate, e si poteva vedere anche la casa di Edward, che presto sarebbe stata anche mia.

Mi voltai ad osservarlo. Il panorama stupendo non poteva minimamente competere con lui. Il suo volto, ora sereno e rilassato, mi fissava con amore. I suoi lineamenti distesi, formavano sinuose linee continue, e i suoi capelli bronzei spettinati creavano un piacevole contrasto con la sua pelle pallida.

Gli sfiorai una guancia con il palmo della mia mano. Chiuse gli occhi, inebriato da quel contatto, e reclinò la testa di lato, per posarla sulla mia guancia.

Come potevo immaginare che qualcosa non andasse in un essere così perfetto come lui?

«Ti amo» sussurrò, portando con  quelle parole il suo profumo meraviglioso.

«Anch’io». Mi sporsi sulle punte dei piedi solo per baciarlo, aspettandomi che mi venisse incontro con le sue labbra.

Delle voci ben familiari ci interruppero prima che potessimo farlo.

«Bella!» mi chiamò Angela, correndomi incontro.

«Angela! Jessica! Mike!» esclamai sorpresa.

Mi abbracciò forte, facendomi gemere di dolore. La presa di Edward sul mio fianco s’intensificò.

Subito si ritirò, mortificata. «Oh, scusa».

Scossi il capo. «Non ti preoccupare» ansimai, riprendendo velocemente fiato.

«Abbiamo saputo la notizia, sulle prime pagine del Forks Time, potrai capire. “Isabella Swan, la figlia dello sceriffo, in ospedale. Ma che ti è capitato?» chiese velocemente Mike, saettando con lo sguardo da me a Edward. Fu lui a rispondere, bando la versione ufficiale dei fatti.

«Mi fa piacere vedervi» aggiunsi poi, sinceramente contenta.

Jessica ridacchiò, osservando Edward. «É stato lui a chiamarci, ringrazialo, no?» fece, maliziosa.

Mi voltai verso Edward, arrossendo e vergognandomi un po’ per il cattivo umore che avevo tenuto per tutto il giorno. Aveva sempre troppa pazienza con me, ed ero convinta che tutto, a partire dal permesso di camminare fino all’incontro con i miei amici, fossero una sua idea.

«Grazie» dissi commossa.

Mi baciò la punta del naso. Perfetto. Niente andava male. Era perfetto.

Ci fermammo a lungo a parlare, su una panchina nel corridoio. Discorremmo sul più e sul meno, sul futuro, sul passato e sulla vivacissima cittadina di Forks.

Scoprii che Jessica e Mike si erano rimessi insieme, e Angela mi disse che sarebbe voluto venire anche Ben, ma era a casa con la febbre. Avevano tutti trovato un’università dove andare. Mike e Jessica andavano a Seattle, Jessica aveva preso “Lettere Moderne” e Mike “Economia Finanziaria”. Invece Angela andava insieme a Ben a “Medicina”.

Io sapevo che il mio posto sarebbe stato in eterno accanto a Edward e… il matrimonio. E vedevo quel mio futuro il migliore che mi sarei mai potuta aspettare.

«Io e Edward ci sposiamo». Quell’affermazione, unita al tono determinato con cui lo dissi, stupì anche Edward. Si riprese in pochi istanti, restituendomi un sorriso. Non immaginava che riuscissi a dirglielo di persona, prima di quanto gli avessi chiesto.

D’altro canto i miei amici mi fissavano scioccati.

«Ci sposiamo ad Agosto, il 13. Ovviamente voi siete invitati» spiegò il mio fidanzato con naturalezza, stringendomi la vita e lasciando che le mie guance s’imporporassero.

La prima a riprendersi e congratularsi fu Angela. Anche Mike e Jessica, seppur spiazzati e disorientati, non mancarono di farci i loro complimenti.

Quando i suoi occhi si posarono sul mio ventre strinsi la mano a Edward, rivolgendogli un’occhiata. «Sono un po’ stanca» mormorai impacciata.

«Hai passato troppo tempo in piedi. Vieni, ti accompagno a letto» fece, aiutandomi a rialzarmi dalla panchina e traendomi al suo corpo. Sentivo tutti i muscoli del mio protestare all’unisono. «Scusateci, ha bisogno di riposo. Non è abituata a stare in piedi. Però ci farebbe molto piacere vedervi tornare domani» si congedò cordialmente, strappando una promessa dalla bocca dei miei amici.

Quando fui fra le coperte, Edward si chinò a baciarmi la fronte. Sapevo di aver fatto la scelta giusta, nessun futuro poteva essere paragonato all’eternità con lui.

«Grazie» ripetei, accarezzandogli il viso, immersa con lo sguardo nei suoi occhi.

Mi sorrise, sereno. Perfetto. «Dormi».

Eppure, non mi diede il bacio della buonanotte.

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Capitolo 10
*** Belle Arti ***


Mi affrettai a scendere le scale copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Cambiai canale ancora, e ancora, e ancora. Tic, tic, tic. Fare zapping era diventata la mia nuova attività giornaliera. Mi lasciai scivolare meglio sulla poltrona, incrociando le braccia sotto il petto, imbronciata. Non che, comunque, avessi qualcosa di meglio da fare. E non che, comunque, questa situazione non fosse colpa mia. Ma se solo fosse passato un altro secondo di questo genere, il telecomando si sarebbe potuto frantumare volentieri contro il muro…

Sussultai quando suonarono alla porta. Una serie di imprecazioni provenne dalla cucina, dove mio padre provava a cucinare. Sollevai gli occhi al cielo, approfittando della sua distrazione per alzarmi io stessa a andare ad aprire.

Ci vollero solo pochi attimi perché mi sollevassi dalla poltrona. Le costole mi dolevano ancora, essendo stata dimessa da poco dall’ospedale, ma non era niente di insopportabile. Camminare era un lusso che potevo concedermi non appena me lo lasciavano fare.

«Ehi» mormorai, facendomi da parte per far entrare Edward, sottraendolo alla pioggia perenne di Forks.

Mi sorrise appena, ravvivandosi i capelli con una mano. Negli ultimi giorni era stato una presenza indispensabile per lenire la mia paura riguardo al ritorno del mio ex miglior amico. Ma, contemporaneamente, era stato buio e pensieroso come non lo vedevo da tempo.

Feci per sporgermi a baciarlo ma si tirò indietro, scrollandosi la pioggia di dosso. «Sono bagnato» fece con un sorriso di scuse, «perché non ti vai a sedere? Sei stata un po’ stesa stamattina? Lo sai, stare a riposo ti aiuta a guarire prima».

Sospirai, cercando di misurare il respiro per non accentuare il dolore. «No, Edward. Non sono stata stesa, perché non sono più in ospedale e supermalata come prima, e perché non ce la faccio più, a stare stesa».

«Mmm» mormorò, chinandosi al mio orecchio «qualcuno è di cattivo umore, qui… Brutta mattinata?».

Lo ignorai, continuando a trascinarmi fino alla mia poltrona. Appena in tempo per vedere la faccia di ammonimento che mio padre fece al mio fidanzato. Sollevai gli occhi al cielo, tentando malamente di sedermi. Mi sentivo un caso umano, come se stessero trattando con una pazza.

Edward venne subito in mio aiuto, facendomi sollevare una gamba e sorreggendomi affinché mi poggiassi allo schienale. «Ti serve un’altra coperta o questa va bene?» domandò, sistemandomela addosso.

«Questa va più che bene. Ne farei volentieri a meno, anche. Grazie».

«Bella» mi rimproverò mio padre «avanti, non essere sgarbata».

Sollevai un sopracciglio. Da quando andavano d’accordo? Cos’era, una naturale coalizione maschile contro l’ingestibilità delle donne?

«Potrei avere dei calmanti?» domandai allora, le braccia incrociate al petto.

Edward si crucciò, osservandomi. «Hai dolore?».

«Ehi Bells, me lo devi dire se stai male» fece mio padre, subito agitato, carezzandomi una guancia. «Carlisle mi ha dato tutta una lista di farmaci che devo darti per ogni cosa diversa. Che cosa senti?».

«Solo un po’ male al petto» risposi, lasciandomi andare nei cuscini e chiudendo gli occhi. …e la voglia di drogarmi piuttosto che stare ancora ad ascoltarvi.

«Dolore, dolore. Fammi controllare, va bene?» borbottò, correndo in cucina.

«Sì, sì papà. Controlla» cincischiai, gli occhi ancora chiusi.

Passò poco che Edward mi prese la mano fra le sue, stringendola e portandosela alle labbra. Sospirai, lasciandomi andare, languida, al suo tocco, l’unico in grado di calmarmi veramente. «Cos’hai?».

«Te l’ho detto, è solo un po’ di indolenzimento…».

«No» m’interruppe, chinandosi a baciare le palpebre chiuse e costringendomi a riaprirle. «Cos’hai?» domandò ancora, guardandomi negli occhi.

Mi morsi un labbro. «Dimmelo tu».

Tornò mio padre, portando con sé la lista delle medicine. Mi fece mangiare quello che aveva cucinato prima di lasciarmele assumere, come prescritto. Peccato che, nonostante si fosse applicato molto per me, la vera medicina da ingoiare fu il suo cibo. Per questo Edward, con parole e gesti dolci nonostante il discorso che tenevamo ancora in sospeso, m’invitò a mangiare a casa sua, quella sera, e propose come se fosse un’idea di Esme quella di cucinarci qualcosa finché non mi fossi rimessa.

«Voglio andare a riposare» mormorai, facendo per alzarmi. In realtà volevo solo una scusa per andare di sopra e poter finire il mio discorso in sospeso con Edward.

«Ti accompagno» disse lui, intuendo forse le mie ragioni, o piuttosto per puro spirito di cavalleria, visto che ultimamente si sottraeva sempre più spesso alle mie domande.

Mio padre si schiarì la voce, osservandoci improvvisamente agitato. «Posso portarti io, Bells» borbottò, squadrandomi, forse per soppesare il mio peso.

Edward mi trasse a sé, sollevandomi fra le sue braccia. «Tornerò immediatamente di sotto, capo Swan. Per me non è un problema». Mi allacciai al suo collo, socchiudendo gli occhi.

Mio padre storse le labbra, combattuto. «Portala su. E falle un po’ compagnia» cincischiò, lasciandosi malamente cadere sul divano, il telecomando finalmente di nuovo suo. Era come se avesse perso una decina d’anni della sua vita, per assistermi. In fondo, essere padre non doveva essere così facile. «Compagnia casta, ragazzo» lo minacciò, mentre intanto Edward mi portava su per le scale.

«Papà!» esclamai, nascondendo il mio volto rosso sul suo petto.

 

Edward chiuse le tende della stanza, riducendola alla penombra e facendomi capire che no, non mi aveva accompagnata nella mia camera per parlare.

Strinsi il palmo contro il lenzuolo. «Edward…» lo chiamai, stanca di essere così scontrosa, desiderosa davvero di capire quale fosse il suo problema «rimani con me, per favore».

Mi sorrise appena, sfregandosi le mani. Sospirò, e si avvicinò al mio letto, dapprima temporeggiando accanto ad una sedia, e poi risolvendosi per sedersi accanto a me sul materasso.

Lo strinsi con le braccia, lasciando che facesse lo stesso con me. «Dormi. Riposarti ti aiuta…».

«A guarire, sì, lo so» completai la frase per lui, appena un sussurro nella stanza.

Sospirò e annuì.

Deglutii contro il suo petto, chiudendo gli occhi. Anche se avessi voluto non avrei potuto mettermi a dormire, perché la mia mente pensava troppo. E non a mille cose e mille problemi, ma uno solo, tuttavia enorme: Edward.

Che fosse per una ragione o per un’altra, non era più lui, e questo era certo. Non potevo negare di aver pensato, e spesso, che non fosse poi davvero riuscito a perdonarmi. E per questo, per quanto egoistico fosse, mi ero di gran lunga pentita di averlo spronato a riconoscere il mio errore.

«A cosa hai pensato?» mormorai, nel silenzio della stanza, contro il suo petto, «vorrei sapere che cosa hai pensato mentre ero lì, dentro quella sala operatoria, senza sapere se ne sarei uscita viva e come. Tu pensi tanto, quindi qualcosa devi averla pensata».

«Abbiamo qualcun altro che pensa tanto qui, sbaglio?» scherzò, il sorriso premuto contro i miei capelli.

Scrollai le spalle. «Tanto tempo a disposizione e niente da fare. Allora? Cosa hai pensato?».

Sospirò. «Una parte di me pensava fondamentalmente che dovevo stare calmo, o le poltroncine della sala d’aspetto non avrebbero più avuto i loro braccioli…».

«E dai!» lo rimproverai, pizzicandogli un fianco, «dimmelo e basta».

Mi sorrise, facendosi più serio. «Ho pensato che dovevo fidarmi di mio padre, perché lui era il migliore, e ti avrebbe salvata. Dapprima ho fatto su e giù per la sala d’aspetto, troppo irrequieto per stare fermo, pur con tutto l’appoggio di mia madre e di Rosalie. Volevo distrarmi, perché non volevo guardare nei pensieri di mio padre, di uno dei suoi assistenti o gli infermieri per vedere…» s’irrigidì, stringendo con le mani i piedi che stavo sfregando contro le sue gambe «per vederti lì, su quel tavolo operatorio. Ma poi, ho capito che non ci sarei riuscito. Mi sono lasciato andare, e ho visto, passo per passo, e sentito i loro pensieri. Così mi sono rilassato, e ho cominciato a pensare normalmente, come se fossi anche io lì con te. Ero arrabbiato».

Trattenni il fiato, osservandolo. «Mi dispiace».

Scosse il capo, un sorriso sulle labbra. «Non fa niente. Vuoi che ti dica lo stesso?».

Annuii, stringendolo più forte e chiudendo gli occhi. Qualsiasi cosa.

Prese a carezzarmi i capelli con la mano. «Ero arrabbiato con Jacob per quello che ti aveva fatto. Credimi, ero furioso. E lo ero perché ti aveva fatto del male, ma non era questo il motivo principale. Ero afflitto perché anch’io, per quanto il pensiero fosse assurdo, avrei potuto fartene, molto più di lui. Certo non ti avrei mai abbandonata in quello stato, ma…».

«Edward» sussurrai, riaprendo gli occhi «tu non mi farai del male. Perché dovresti? Non lo farai».

Sospirò, scuotendo il capo. Abbassò lo sguardo sulla coperta, non facendomi scorgere le iridi ambrate nascoste dalle sue lunghe ciglia. «Ero arrabbiato anche con te» mormorò, nel silenzio della stanza, «perché ci dobbiamo sposare, e pensavo di dover essere informato se qualcuno ti schiaccia con la schiena contro una parete».

«Edward» lo chiamai «mi dispiace, lo sai. Avevo solo paura… solo paura che saresti andato da lui, violato un patto che non ti avrebbe più permesso di stare qui con me o vi foste fatti del male…».

«Se gli avessi fatto male» fece, con dolore, risentimento, quasi… gelosia.

Provai a prendergli il volto fra le mani, per costringerlo a guardarmi. Inutilmente. «Te, Edward, te. Avevo paura per te. Tutto questo, quello che è successo, non è passato senza lasciare traccia. Me ne sono accorta. Mai, mai ho amato nessun altro che non fossi tu. Mai. Non metterlo in dubbio, ti prego».

Annuì, silenzioso. «Lo so. Me lo hai detto. Non è questo, il punto. Il punto è che, nonostante tutto, ti avevo dato la mia fiducia, e tu non me l’hai detto».

«Ma ora sto bene».

«Ma se fosse stato più grave?» mi rimbeccò, voltandosi a guardarmi negli occhi «se fosse stato più grave, o se fossimo arrivati qualche secondo più tardi? Ogni secondo, ogni secondo in cui mi guardavi e dicevi, con gli occhi “ti prego, aiutami”, perdevo mille anni della mia esistenza. Lo capisci questo?».

Stetti immobile a fissarlo senza dire nulla, finché mio padre, forse preoccupato che da casta la sua compagnia diventasse non casta, chiamò Edward al piano di sotto. Mi lasciò con la promessa che se avessi dormito, quando mi fossi risvegliata l’avrei ritrovato la mio fianco.

E così fu.

 

«Ti rimarrà la cicatrice» mormorò, continuando a passare le dita sul mio petto scoperto.

Aprii gli occhi, ancora assonnata. Lo fissai senza parlare.

Mi sorrise, sollevandosi dal materasso per prendere qualcosa che era posata sul comodino. Una busta bianca.

Mi umettai le labbra, stropicciandomi gli occhi per riprendermi dal sonno appena passato. Feci per mettermi seduta, ma proprio quel movimento fu più difficile del previsto.

«Aspetta» fece, venendo subito in mio aiuto.

«Grazie» cincischiai, la voce ancora impastata dal sonno. Afferrai la busta che mi porgeva dalle sue mani. Era spessa, patinata. Una carta di quelle che mi sarei aspettata contenere uno dei nostri inviti di matrimonio. «Cos’è?» domandai, voltandola su entrambi i lati «un invito di matrimonio?».

Sorrise. «No, no, per quello ci penserà Alice, stanne pur certa. Se questa sera sei invitata a casa mia non è solo per farti rimpinzare, credimi. Ad ogni modo, aprila e basta».

Feci come diceva, e mi trovai dinanzi ad un’intestazione strana e inquietante.

Accademia delle Belle Arti”

Fissai il foglio spesso cercando di dare un senso a quello che leggevo. Un lungo e approfondito corso estivo, preliminare solo a tutta una serie di scadenze e esami che permetteva di entrare nelle alte sfere artistiche dello stato di Washington e, con un po’ di talento, di tutti gli Stati Uniti.

Perché?

Mi accorsi delle lacrime sin dal primo istante, da quando sfiorarono le guance fin quando arrivarono sotto il mento.

«Bella…» mi chiamò Edward, disorientato e preoccupato.

«Ti-ti vuoi sbarazzare di me?» chiesi, piano, la voce che mi tremava.

Aggrottò le sopracciglia, stupefatto della mia domanda. «Cosa? No. Certo che no».

«E allora… cosa? Vuoi che sia migliore di così, che faccia per forza una stupida università o un… corso di belle arti?» singhiozzai, fissandolo incredula «come ti viene in mente? Se il tuo scopo non è quello di allontanarmi allora perché non stai con me quando sono sveglia, non mi abbracci, non mi baci mai? Cos’hai, Edward? Cosa…» scossi il capo, asciugandomi il viso con la manica del pigiama. Abbassai la testa, osservando ossessivamente il mio copriletto. «Ti ostini a dirmi che sono malata, e può darsi che sia vero. Ma non sono stupida».

«Non sei stupida».

«No» ripetei, sollevando il capo, gli occhi rossi. «Non lo sono».

Mi fissò con insistenza, ricambiando il mio sguardo senza abbassarlo. Infine sospirò, sfregandosi le tempie con le dita. Scosse il capo. «Non posso dirtelo. So come andrà a finire, è inutile che te lo dica».

«Fallo decidere a me» ribattei. Ma non parlò, nonostante aprisse e chiudesse la bocca, senza lasciar passare aria. Strinsi i pugni sui fianchi, decisa a pensare il peggio di quello che potevo. Le lacrime premettero per uscire dalle ciglia e le arginai strenuamente, chiudendo la gola in un magone. Aprii la bocca. «Non riesci a perdonarmi» sussurrai, soffocando ogni sillaba nel pianto.

«Ma no» fece subito, prendendomi per le braccia «no, no Bella, non è affatto questo. Non è per te, tu non c’entri».

Singhiozzai, provando inutilmente ad asciugarmi il viso con una mano.

Si sporse nella mia direzione, agitato, raddoppiando la presa sulle mie braccia.

Gemetti, mio malgrado.

Mi lasciò andare immediatamente, tirandosi indietro e scuotendo il capo. «Di questo, Bella. Ho paura di questo» sollevò il viso, osservando attentamente la parete contro cui, quella notte, il mio ex migliore amico Jacob Black mi aveva scagliata. «Da quando è successo tutto, non faccio altro che odiarlo - beh, più di prima. Ma quest’odio mi logora, perché sono consapevole che, in fondo, ha ragione. Perché posso farti del male» mormorò, spostando ancora lo sguardo su di me, triste, afflitto. «E perché, per quanto tu dica che non ne senti l’esigenza, ti sto privando della possibilità di avere un figlio».

Sospirai, facendo per sollevare una mano.

Scosse il capo, troncando le mie parole sul nascere. «No, Bella. Non è qualcosa che puoi negare, mettere da parte, mettere a tacere. Lo conosco il tuo punto di vista, so cosa pensi. Ma questa volta non basta un cerotto, per curare questa ferita. Perché continuerò a pensarci, e pensarci, e pensarci. E non riesco a farlo cambiare».

Non dissi più una parola, ma spostai le mani ad accarezzare i suoi capelli. Pensavo. Riflettevo sulle mie capacità, su quello che avrei potuto fare per farlo sentire meglio. Ma non trovavo niente, perché lui aveva ragione. Non bastava un cerotto. «Cosa vuoi fare?» mormorai allora, il cuore in gola «mi vuoi… non mi vuoi più sposare?».

Sibilò, irrigidendosi. «Certo, che voglio sposarti».

Annuii, intimamente più rincuorata. «Era per quello, allora? Era per quello il depliant delle Belle Arti? Per convincermi a continuare la mia vita da umana?» chiesi, provando a capire.

Scosse il capo. «No. Non è per quello» sorrise amaramente. «Ho pensato che ti potesse piacere coltivare un lato umano di te, prima della trasformazione. Mi piacciono i disegni che fai ovunque, quando sei nervosa, e Alice mi ha dato conferma del tuo talento dicendomi che quando eri a Phoenix disegnavi. Allora ho pensato che non volevi andare al college perché non avevi ancora trovato qualcosa che ti piacesse davvero, e così… eccomi qui».

Sorrisi, ascoltando il suo discorso imbarazzato. «Mi dispiace per aver reagito così. Non dovevo. Sono solo… solo un casino. E tu… tu eri così strano…».

Rise appena, chinandosi a baciarmi le labbra. «Lo so. Sei davvero un casino».

«Ehi» protestai debolmente, senza nascondere il divertimento nella mia voce. Mi feci più seria, osservandolo dal basso, stretta nelle mie braccia.

Anche lui mi guardò più intensamente, carezzandomi la schiena con un palmo aperto. «Dammi solo un po’ di tempo, va bene? Non ho cambiato idea su niente. Ti amo come prima. Ma dammi un po’ di tempo, ti prego».

Annuii, immergendo il capo nel suo petto. «Grazie. Grazie per non aver cambiato idea».

 

«Ce la fai? Stai attento, per favore» Edward aprì velocemente la porta di casa, lanciandomi una rapida occhiata, «non ti sta facendo male, vero?» domandò ansioso.

Emmett mi sbatacchiò in tutte le direzioni, ondeggiando verso l’ingresso. «Sta tranquillo, fratello. Non te la sciupo» dichiarò ilare, lasciandomi cadere sul divano.

«Se potessi camminare non mi sciuperei affatto» dichiarai risoluta, sospirando.

 «E brava Bella!» esclamò ilare la mia amica, comparendo in un attimo nella stanza. Si piegò china su di me. «Così devi parlare. Edward continua a dirmi che stai male, che sei in fase di guarigione, che sei stanca - Edward, non farle segni».

«Non ho fatto nessun segno!».

«Ti vedo, lo sai – dicevo. Non è vero, giusto?» mi domandò, un’espressione perfettamente innocente «vero che sei perfettamente guarita?».

Disorientata la osservai, passando velocemente da lei allo sguardo ansioso del mio fidanzato. «Beh… certo, sono…».

«Perfetto!» esclamò, sollevandosi e battendo le mani. «Ho una cosa da amiche da fare per ragazze in ottima salute!».

Edward abbassò il capo, scuotendolo.

Avevo il sentore di essermi cacciata nei pasticci. Deglutii. «Beh, magari non sono proprio in perfetta salute. Emmett ha dovuto scortarmi qui dentro… Vero Emmett?».

Sorrise, sornione. «Beh, a dire il vero ho dovuto convincerla, non voleva neppure farsi portare. Sempre ad opporsi, fare l’indipendente…».

«Vero, Emmett?» sibilai fra i denti.  

Sollevò gli occhi al cielo. «Vero, vero».

Ma Alice non demorse. Mi osservò, un sorriso sul viso. «Non ti preoccupare. E’ un’attività rilassante per persone in discreta salute. Sarà divertente, vedrai. E» aggiunse, quando vide che stavo per ribattere «il qui presente Edward, il tuo fidanzato nonché amore della tua vita, ti aiuterà» completò splendidamente, arpionandosi al suo braccio.

Storsi la bocca in una smorfia. Sì, mi ero cacciata proprio nei pasticci.

 

«Okay, questo fa male» mi lamentai, torcendomi le dita. La bella Alice se n’era andata, lasciandomi con un mucchio di inviti da firmare a mano. Il fatto che ci fosse Edward con me non mi aiutava affatto, poiché avrei preferito usare il nostro tempo insieme in maniera molto più produttiva.

Fargli capire che non ero una bambola di porcellana, ad esempio.

«Mi dispiace. Vedrai, presto sarà pronto da mangiare e potremo fare una pausa».

Sollevai gli occhi al cielo, sconsolata. «Potrò fare una pausa. È inutile che fai finta di andare piano per me. Lo so che ci metteresti solo un nanosecondo» mi lagnai, querula, mettendo il broncio.

Mi sorrise. «Dai, non fare così. Sorridi» mi ordinò, chinandosi a baciarmi. Baciarmi sul serio. Mi occorse un istante, dopo il tempo che era passato da un bacio del genere. Espirai, stringendo le mani ai suoi capelli e spremendo le labbra contro le sue.

Si staccò, osservandomi. «Ehi, respira» scherzò, toccandomi appena il petto nel punto in cui mi doleva.

Annuii, spostandomi accanto a lui sul divano. Lo fissai intensamente, finché il sorriso sulle sue labbra non divenne una linea retta.

«Che c’è?».

«Non aver paura» mormorai, sollevando una mano a carezzarmi una guancia, «non aver paura, andrà tutto bene. Se è troppo, per te, ci fermeremo, ci riproveremo. Puoi dirmelo. Posso perdere fare l’amore con te. Non posso perdere te».

Sospirò, colpito. Annuì, abbracciandomi. «Non perderai nulla. Te lo prometto».

«Mmm» mugolai, accoccolandomi contro il suo fianco. Posai il capo contro la sua spalla, lasciando che lo baciasse. «Ho pensato, sai».

Mi accarezzò i capelli. «Ah. Di solito una frase che inizia così non porta mai nulla di buono» scherzò, smorzando un po’ il tono serio che aleggiava ora fra di noi.

Gli tirai una pacca leggera. «Dai, smettila. Ho pensato davvero. Potrebbe… piacermi, il corso di cui mi hai parlato».

Si bloccò, chinandosi ad osservarmi. «Davvero?» chiese, entusiasta.

Annuii. «Davvero. Pensi sul serio che… possa farlo? Non è perché ti aspetti qualcosa di più da me?» chiesi, muovendomi a disagio fra le sue braccia.

«No, no» fece immediatamente, posando le mani su entrambi i miei fianchi. «Ascoltami, fallo solo se ti va e se ti piace. Non devi dimostrarmi nulla. È solo per un semestre, solo per divertirti e imparare qualcosa di nuovo, se vuoi. Decidi in piena libertà».

Sorrisi, timidamente. «Mi piacerebbe».

Mi restituì lo stesso sorriso radioso. «Bene, perfetto» dichiarò ilare, tornando a stringermi forte fra le sue braccia. E speravo che non smettesse mai di stringermi così forte.

«Edward?».

«Hmm?».

«Tu sai riprodurre perfettamente la mia calligrafia, vero?».

«Guarda che vi ho sentiti! Firma e basta, Bella!».

Sbuffai, schiacciandomi un cuscino sul viso.

 

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Capitolo 11
*** Incubi ***


Il cielo era chiaro, coperto di nuvole chiare copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Il cielo era chiaro, coperto di nuvole chiare. Percorrevo la navata con il mio vestito di pizzo bianco, Edward mi aspettava sotto l’arco con il suo sorriso raggiante. Mio padre Charlie mi camminava accanto, tutti mi guardavano, e io rispondevo ai loro sorrisi con imbarazzo. Era il giorno delle mie nozze, e tutto sembrava perfetto.

D’ un tratto, una sferzata d’aria fredda mi colpì il viso facendomi voltare verso la foresta. Il cielo divenne nero e cominciò a tuonare. Dagli alberi si sollevò un ululato mostruoso. Un lupo enorme fece il suo ingresso, ringhiando. Mi fissava con gli occhi rossi, l’aria inferocita. Era tornato.

«Edward!» strillai. Ma non feci in tempo a voltarmi, che con una zampata mi scagliò lontano, graffiandomi con le unghie e impedendomi la vista.

Caddi a terra, disorientata, il vestito imbrattato di fango e il bouquet di rose che tenevo in una mano che mi feriva, pungolandomi, con le sue spine. Provai ad aprire il pugno per lasciarlo cadere, ma la mia presa si faceva sempre più forte, ferendomi sempre di più, lasciando che il dolore si irradiasse dalla mano al corpo.

Agghiacciata dal dolore, terrorizzata da quello che non vedevo, sollevai lo sguardo appannato dalle lacrime. Un turbinio di movimenti si agitava davanti ai miei occhi. Sgomenta, terrorizzata, capii. Stavano lottando. Presi a correre, sollevandomi la gonna del vestito. Un vento fortissimo mi respingeva indietro, frustandomi il viso e gli occhi. Inciampai più e più volte, ferendomi le mani e imbrattandomi e stracciandomi il vestito. Sentivo i capelli, fino a poco prima acconciati, cadere scomposi sulle guance.

Divorata dallo sforzo e dal dolore correvo, lacerata nella ricerca del viso di Edward, con le caviglie spezzate dallo sforzo della corsa. Improvvisamente, d’un tratto, mi ritrovai, ansante, al centro di quel teatro di lotta.

Edward era riverso al suolo, senza vita. Crollai sulle ginocchia.

Il mio urlo di dolore riecheggiò in ogni direzione. «No!».

 

Mi svegliai in camera mia, seduta sul letto, la fronte madida di sudore. Avevo il respiro ansante, mi mancava l’aria.

Edward mi teneva stretta e sé, cullandomi frenetico. «Shh, amore, shh… Era solo un sogno, solo un brutto sogno» mi rassicurò, stringendomi al suo corpo «Respira piano, non ti preoccupare, ci sono io qui con te».

Sollevai una mano, stringendola contro la sua maglietta. «È tornato». Ero ancora troppo angosciata, per parlare. Troppo stupita che, ancora una volta, lo stesso sogno si fosse ripetuto.

Mi osservò, fissando i suoi occhi nei miei e prendendomi il viso fra le mani. «Non è tronato. Te lo assicuro. Sono qui, con te, e lui non è tornato».

Annaspai, disorientata, tremando. Lasciai scivolare il capo contro il suo petto, chiedendogli silenziosamente di stringermi a sé.

Sospirò, accarezzandomi i capelli. «Non devi avere paura. Non devi, va bene? Ci sono io qui. Non permetterò mai più che ti faccia del male» sussurrò, baciandomi i capelli. «Mai più».

Lo strinsi più forte, desiderosa di sentire il suo corpo sul mio, tanto forte da farmi quasi male. Le sue parole, insieme agli sforzi che l’intera famiglia Cullen faceva per me mi aiutavano, mi acquietavano. Ma poi, non potevano fermare il terrore che continuava a tornare nei momenti più disparati, o la paura inconscia che emergeva nei sogni. «E se tornasse il giorno del nostro matrimonio» sussurrai contro il suo petto, gli occhi chiusi «come faremo?».

Fremette, provando ad allontanarmi da sé. Desistette quando scossi il capo contro il suo corpo.

«Ci saranno anche quelli del clan di Denali. E ci organizzeremo, oltre che cercare un modo per fermarlo prima».

Tremai. Sollevai il viso nel suo, e posai una mano contro la sua guancia. «Ho paura».

Strinse gli occhi, osservandomi. Si chinò piano, respirando il mio odore col naso. Lo sentivo, pian piano si era riavvicinato a me. Non era facile superare i propri pensieri, ne ero la prova vivente. Ma Edward si era applicato, perché voleva donarmi esattamente l’amore che desideravo. Lambì dolcemente le mie labbra, con dolcezza. Spostò una mano sul mio fianco, accarezzandolo. «Nessuno ti farà male. Ci sono io, qui. Ci sono io, qui, per te, e non permetterò a niente di portarti via». Si sollevò, dischiudendo le palpebre e osservandomi. «Te lo giuro».

Lasciò che lo abbracciassi ancora, carezzandomi la schiena. «Oggi è un giorno pieno di impegni, lo sai, vero?».

«Edward…» provai a protestare.

«Niente Edward, si fa come dico. Andiamo a casa mia e ti fai togliere i punti, e poi ti porto subito a Port Angeles».

Provai a mascherare il mio tremore, storcendo la bocca in una smorfia. «Non voglio stare senza di te» borbottai contro la sua camicia, arrossendo.

Sorrise sulla mia guancia. «Vedrai, ti farà bene conoscere nuove persone, distrarti un po’. Te lo assicuro».

Strofinai il naso contro il suo petto, scuotendo il capo. «Le Belle Arti non fanno per me. Mi sentirò un’intrusa in mezzo a un mucchio di giovani talentuosi».

Mi fece l’occhiolino, sfiorandomi le labbra con le sue. «Ti sentirai una giovane talentuosa in mezzo a un mucchio di intrusi» scherzò.

«Non sono giovane, sono vecchia» brontolai, ancora di malumore.

Edward ammiccò. «Ma sei pur sempre talentuosa!».

Gli lanciai un cuscino.

 

Mi lasciai trascinare dentro casa Cullen. Quella casa era eterna. Non conosceva il passare del tempo, perché che fosse giorno, notte, mattina presto o pomeriggio, tutti erano solo e sempre occupati nelle più disparate faccende.

«‘Giorno» borbottai, stropicciandomi un po’ gli occhi. Troppo luminosa per i miei sensi stanchi.

«Oh, Bella!» mi chiamò Esme, correndo ad abbracciarmi. «È passato tanto tempo da quando una mia figlia non aveva il suo primo giorno di scuola, lo sai, vero? Sono così contenta!».

Sorrisi, facendomi appena contagiare dal suo entusiasmo. Qualche istante prima che Alice entrasse nella stanza. «Bella!» mi salutò, apparentemente cordiale «ovviamente hai preferito venire in jeans e t-shirt e non truccarti affatto così che avessi piena libertà su come vestirti» sottolineò eloquentemente.

Sgranai gli occhi. Osservandomi. Avevo messo qualcosa di confortevole, ma anche… beh carino. Sì, mi sembrava che fosse carino. «P-perché?» balbettai, cercando velocemente lo sguardo dei vampiri in sala «cosa c’è che non va? Sto male, Edward?» chiesi insicura.

Increspò le sopracciglia, scuotendo fermamente il capo. «Ma no, sei perfetta» mi assicurò.

«Se dovesse andare al supermercato qui a Forks» ribatté la sorella. «Non offenderti, Bella. Sei carina. Ma non hai gusto per la moda, l’ho sempre detto».

Spostai il peso da un piede all’altro, a disagio.

Esme mi diede un buffetto sulla guancia. «Sei carinissima, tesoro. Vuoi fare colazione?».

Scossi la testa. «Ho mangiato con mio padre. Glielo dovevo».

Annuì con un sorriso.

«Vieni, Bella?» mi chiamò Edward, portandomi nello studio di suo padre. Carlisle mi visitò, controllando i pochi punti che rimanevano da togliere. Rimasi stesa, stanca. Chiusi gli occhi. Ero nervosa per come era cominciata la giornata, e ora mi sentivo a disagio per il mio abbigliamento. Se già mi sentivo imbarazzata per il pensiero di non essere al livello degli altri alunni della scuola, questo non faceva che sommarsi alla mia tensione crescente. Non mi sentivo in grado, né all’altezza di quella scuola. Lì ci andavano tutte le persone con talento, era un’accademia di prestigio. Ovviamente Edward mi aveva imposto di pagarmi l’esorbitante retta. Era una delle clausole del “pacchetto trasformazione” come quella di cambiarmi il pick-up, qualora si fosse rotto, cosa che mai sarebbe potuta avvenire se Edward non me lo avesse fatto toccare ancora per un altro po’.

«Ho quasi finito Bella» mi assicurò Carlisle, tirando via un filo, «non ti faccio male, vero?».

«No» sospirai, «non mi fai male».

Il padre sollevò lo guardo da me, rivolgendo un’occhiata al figlio che ci osservava, poco lontano.

Edward scosse il capo. «Ucciderò Alice».

Mi morsi un labbro. «Lasciala stare, Edward. Non è colpa sua».

«Lo è, invece» ribatté piccato «se dice certe cose solo per poterti trattare come una bambola».

Comunque, alla fine, non fui abbastanza forte da rimanere indifferente ai suoi commenti. Fu quando passai davanti ad uno specchio, adocchiando la mia figura scialba, che decisi che sarebbe stato meglio farsi aiutare da lei piuttosto che rifugiarmi sotto un sacco di cartone per il resto della giornata. Edward non fu d’accordo, sostenendo che ero già bellissima. Ma quando mi vide così nervosa non osò controbattere oltre.

Quando scesi dalle scale, lasciando una soddisfatta Alice al primo piano, sentii Edward scambiare alcune parole con i suoi fratelli.

«Avete avuto sue notizie?».

«Nulla, nulla. Sembra scomparso nel nulla».

«Sì, ma c’è da considerare anche il fatto che il padre non vuole parlarci, e che di certo gli altri potrebbero mentirci».

«Avete provato con il ragazzo?».

«Oh, Edward. Piantiamola. Manda me a cercare Jacob e facciamola finita!».

«Emmett!» sibilò una voce.

«Jacob?» domandai, scendendo le scale. Passai velocemente lo sguardo sui loro volti. «P-perché state cercando Jacob?» chiesi spaventata.

Edward mi sorrise, venendomi vicino. Speravo che non fosse un così bravo attore. «Sei davvero bella» commentò, osservando la mia nuova mise, «ma lo eri anche prima, te lo assicuro».

Scossi il capo, deglutendo. Gli occhi erano ancora spalancati di paura. «Cosa c’entra Jacob? Edward, mi avevi promesso che nessuno correva rischi».

«Ed è così» mi rassicurò immediatamente «è così, fidati. Stiamo solo monitorando i suoi movimenti».

Emmett ghignò, sarcastico. «Nessuno corre rischi».

Agitata, osservai i volti degli altri due vampiri. «N-no. Io non vado. Non ci vado. Voglio rimanere con te, Edward. Non voglio allontanarmi con la paura che vi possa accadere qualcosa».

«Ma Bella!» protestò immediatamente «non ha senso. Nessuno si sta esponendo a fare nulla di sconsiderato».

«Perché non me l’hai detto, allora?» strillai isterica «vuoi mandarmi via in modo che tu possa andare a farti uccidere?!».

Gli altri vampiri entrarono velocemente nella stanza, attirati dal suono delle mie urla.

«Edward?» chiamò Jasper, non smettendo di fissarmi.

Pochi secondi dopo mi sentii intorpidire.

Mi portai una mano sulla testa, sfregandola. «Smettila» protestai fra i denti, retrocedendo, barcollante, di qualche passo. Mi sentivo afflitta per non essere stata messa al corrente di quanto stava accadendo. Ed ero spaventata per il rischio che sicuramente tutti loro stavano correndo.

Arrabbiata mi voltai, uscendo di corsa dall’uscio di casa Cullen. Sentendomi patetica e stanca mi lasciai scivolare contro il tronco di un albero. Dove sarei potuta andare, poi? Ricacciai via, con forza, le lacrime che mi stavano bagnando le guance. E al diavolo se il vestito si fosse sporcato di terra.

Ci furono delle urla, nella casa. Così strano, dato che i vampiri non alzavano mai la voce. Strinsi le ginocchia al petto con le braccia, poggiando il mento sugli avambracci uniti. Dopo poco tempo, quando le urla si furono acquietate, Edward venne a sedersi accanto a me.

«Non ti ho iscritta alla Belle Arti per questo».

«Sono arrabbiata» protestai fra i denti.

Sospirò. «Immagino. Ma ti ripeto: non è per tenerti lontana che ti ho iscritta alle Belle Arti».

«Ma mi hai mentito» ribattei.

«Per proteggerti».

«No!» sbottai, voltandomi nella sua direzione «no, non per proteggermi! Perché sapevi che altrimenti non sarei mai stata d’accordo!».

«Bella…».

«Niente “Bella”, Edward. Mi sento messa da parte. Mi sento fragile, e patetica. E sono dannatamente arrabbiata!» esclamai, sentendo lacrime di rabbia rigarmi il viso.

Sospirò, prendendolo fra le mani. «Non esserlo, per favore. Avevo bisogno di monitorare la sua posizione perché mi sembra troppo strano che non si sia ancora fatto avanti. Non volevo che ci cogliesse impreparati».

«E hai pensato bene di non dirmelo!».

«Bella» protestò, stringendo la presa «guarda quanto sei spaventata! Come potrei essere io la causa di un’ulteriore paura? Non voglio. Per favore, prova a credermi. Voglio che tu segua il corso perché penso che ti piacerebbe, e non perché voglio tenerti lontana».

Mi asciugai una lacrima con una mano. «Non è colpa mia se sono spaventata» piansi, tirando su con il naso.

Mi sorrise appena. «Lo so».

«E di a Jasper di smetterla con i suoi giochetti!».

«Lo farò».

«E… e… non mi interessa niente se il vestito si è sgualcito o sporcato. Non ho nessuna intenzione di cambiarmi».

«Shh… vieni qui» mi chiamò, passandomi un braccio intorno alle spalle. Mi aiutò a sollevarmi. «Vieni, andiamocene via. Io e te, andiamo a vedere com’è questa Accademia. E se non ci piace ce ne torniamo a casa, va bene?».

Annuii, stringendomi a lui.

Il viaggio in auto fu silenzioso. Continuavo a pensare a Jacob. Emmett e Jasper avevano detto di non aver trovato sue notizie, e questo significava che poteva trovarsi dappertutto. Anche dietro di noi, in quel momento. Rabbrividii.

Edward mi osservò con la coda dell’occhio, senza interrompere la sua guida fluida. «Tutto bene?».

Annuii silenziosamente. «Non» feci, cercando il coraggio per continuare «non l’avete trovato?».

Rimase in silenzio per qualche istante, stringendo con più forza il volante. «No» disse poi «no, non l’abbia trovato».

«E se l’aveste fatto?» domandai pacata.

«Magari avremmo potuto parlarci».

Scossi il capo, agitata. «No. Non voglio parlargli Edward, no» protestai.

«Va bene. Ma ci sarebbe d’aiuto sapere dov’è. Potrei parlargli e convincerlo a non avvicinarti più».

«No, no!» esclamai allarmata. «Non se ne parla Edward, non voglio. Per favore».

Sospirò. «Lo so, lo so che non vuoi. Potremmo usare dei mezzi umani, comunque. Denunciarlo per tentata aggressione, ottenere un ordine restrittivo» buttò lì con leggerezza.

«Cosa?» domandai stridula, sgranando gli occhi «dici sul serio?» feci, agitata.

«Beh sì» replicò, più bruscamente. Deglutì, come per calmarsi. «Ma se non vuoi, in nome delle vostra amicizia, ti capisco».

Scossi il capo. «Non è in nome di alcuna amicizia, che dico di no!» esclamai «È in nome del fatto che mio padre rimarrebbe esterrefatto e arrabbiato e ferito per la mia bugia, che la sua amicizia con Billy andrebbe in frantumi, che saremmo costretti a trasferirci lontano da Forks, che una stupida cella o un ordine restrittivo non lo fermerebbero mai e poi mai!».

Sospirò, distorcendo il volto in una smorfia. «Ma tutto il mondo saprebbe che non sono stato io, a farti del male».

Ansimai, colpita dalle sue parole. Il suo volto ferito, davanti ai miei occhi, mi diceva più di quanto non mi avesse mai detto. «Io… lo so io, Edward. Tu non mi hai fatto del male. Non me ne farai mai. Sei la creatura più buona che io abbia mai incontrato. E mi ami».

Le sue labbra si dispiegarono appena in un sorriso ironico. «Credo che tu ne abbia incontrate poche».

Sorrisi anch’io, debolmente, e presi una sua mano fra le mie, baciandone il dorso. «Può darsi. Ma fra quelle ho incontrato te. E non intendo cambiare questa compagnia per… l’eternità».

Quando arrivammo, mano per mano, osservammo il cancello dell’Accademia. L’ingresso consisteva in un cancello in ferro battuto nero, dietro al quale si stagliava un grande giardino, con una villa la centro. Il giardino era stupendo. Un trionfo di odori e colori, di tipi di fiori, di piante, di forme. Fontanelle rinfrescavano l’aria e la decoravano di tintinnii e armonie di suoni. Con le siepi avevano realizzato delle sculture e una aiuola recitava: “Accademia delle Belle Arti”. Non era poi così minaccioso quando pensavo, confrontandolo, al volto di Jacob.

Mi voltai verso Edward, sorridendo. «Ci sarai alla mia uscita?».

«Rimarrò qui ad aspettarti».

«Edward» protestai.

Scosse il capo. «Prendi questo cellulare» m’intimò, passandomelo fra le mani. Un modello nuovo e luccicante. «Usalo per ogni eventualità. Voglio essere sicuro che tu stia bene».

Mi morsi un labbro. «Dammi un bacio, per favore» lo supplicai, lasciando che le sue labbra si posassero sulle mie.

Mi salutò con un sorriso. «A dopo!» esclamò, lasciandomi incamminare verso l’Accademia.

Timorosamente, affrettai i miei passi sulla ghiaia. Entrata nel mastodontico edificio rimasi più meravigliata che per l’esterno. Tutto era decorato e ornato, nessun dettaglio delle pareti, dei tavoli, dei pavimenti era lasciato libero e semplice. Quel posto ostentava creatività, libertà e arte, da tutte le parti. Dentro c’era un gran movimento, non era come a Forks. Una gran quantità di giovani ragazzi camminava da una parte all’altra, in fretta, frenetica. Sembrava di stare in una metropolitana.

Mi feci piccola, piccola, e mi recai in quella che doveva essere la segreteria per perfezionare la mia iscrizione. Solo dopo, senza smettere di guardarmi intorno, mi recai nella mia aula. Presi posto in seconda fila accontentandomi di quel posto vacante.

Accanto a me stava una ragazza con i capelli ricci e biondi, pingue, con gli occhi azzurro cielo. La faccia sembrava quella di una bambola di porcellana, bianca di cipria e con le guance rosse di phard.

«Piacere, Amber» si presentò con un bel sorrisone. Strinsi la sua mano calda e sudata. Non ero più abituata a quel tipo di contatto.

«Bella…» le sorrisi di rimando. Dopo quel saluto cordiale, si voltò verso la cattedra e cominciò a farsi gli affari propri. Ero sicura che saremmo andate d’accordo.

Qualche minuto più tardi, arrivò il professore. Era panciuto, di mezza età e un po’ stempiato. Si perse in una lunga e noiosa introduzione su ciò che era e rappresentava questa scuola. Disse che anche seguendo assiduamente i corsi, solo pochi di noi sarebbero diventati degli artisti veri. E le solite formalità monotone.

Dopo tre ore di lezione ero affascinata da quello che avevo scelto, o meglio, da quello che Edward aveva scelto per me. Sentivo che, se il suo intento fosse stato davvero quello di distrarmi, allora aveva scelto bene come farlo.

Alla fine della giornata avevo la testa piena di idee, di disegni, di arti. Fortunatamente nessuno, oltre a Amber, si era presentato. Con mio sommo piacere, ero quasi invisibile. Lei mi aveva rivolto la parola ogni tanto, con cortesia. Sembrava una ragazza solare, da quello che avevo capito, abitava a Seattle ed era venuta in quella scuola solo per il suo prestigio. Suo padre faceva l’avvocato, mentre sua madre dipingeva su tela. Non era mai stata eccessiva nel dialogo, ma neppure timida. Mi piaceva davvero. Si era anche limitata a lanciare un’occhiata curiosa al mio anello di fidanzamento, senza chiedere spiegazioni. E io le avevo semplicemente detto che ero fidanzata.

Anche se mi ero divertita molto, quando uscii nella villa, mi sentii immediatamente disorientata. Il cielo era completamente coperto da nuvoloni neri e un vento forte e freddo tempestava l’aria. Improvvisamente, quella percezione m’immobilizzò: era come nel mio sogno.

Il mio respiro si fece sempre più veloce, corto, ansante. Lacrime calde cominciarono a scendere dai miei occhi. Prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino quasi a correre, mi precipitai fuori dal cortile, finché non sbattei contro qualcosa di freddo e duro.

Mi sentii stringere.

«Bella? Bella cos’hai?» era la voce preoccupata di Edward che mi chiamava.

«Ho paura Edward… Ho paura…» biascicai. Mi accorsi che il mio corpo era attraversato da tremiti.

Lo sentii irrigidirsi. Deglutì. «Non ti devi preoccupare, ora ci sono io con te. Nessuno potrà farti del male. Te lo prometto» mi sorrise, asciugandomi le lacrime.

 

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Capitolo 12
*** Rifugio felice ***


-Vieni, muoviti, non c’è nessuno- sussurrai a Edward mentre sbirciavo con fare circospetto fuori da casa copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Vieni, muoviti. Non c’è nessuno» sussurrai a Edward mentre sbirciavo con fare circospetto fuori da casa.

Lui sbuffò. «Ma guarda che se la tua vicina ti ha fatto gli auguri per il matrimonio non te li farà di nuovo» tentò di convincermi.

La mia vicina di casa mi aveva sorpresa - due giorni prima - mentre prendevo la posta, e mi aveva fatto gli auguri per il matrimonio, facendosi sentire da tutto il vicinato. Da quel giorno mi ero rinchiusa in casa. Uscivo solo per andare all’università o a casa di Edward, ed era proprio lì che stavamo andando adesso.

Lo guardai di sottecchi. «No che non me li rifarà, ma farà “Lo Sguardo”» dissi, decisa, arrossendo appena sulle guance. Lo sapevo che stava per prendermi in giro, ma non per questo avrei certamente cambiato idea.

Edward aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Lo Sguardo?».

Sollevai gli occhi al cielo, esasperata. «Sì, Lo Sguardo…» sostenni con decisione. «Prima ti guardano in faccia. Poi, lentamente, fanno scivolare lo sguardo sulla mia pancia, e poi, di nuovo, velocemente, ritornano su, per non farsi scoprire quelle pettegole!» dissi, simulando il tutto, «non posso neppure ingrassare, capisci?!» esclamai, lievemente isterica, provando a far valere le mie ragioni per sentirmi meno ridicola.

«Bella» fece Edward, afferrandomi per le spalle e inchiodandomi con lo sguardo «secondo me stai esagerando».

«Nient’affatto!» protestai, incrociando le braccia sul petto e arrossendo. «Te l’avevo detto che tutti avrebbero pensato che fossi incinta!». E, solo per ripararmi dal suo sguardo accusatore e sentirmi meno ridicola, mi volsi ancora verso la porta, sbirciando.

Gli inviti del matrimonio, firmati tutti, ad uno ad uno - finché Edward non aveva deciso di salvarmi - di mio pugno, erano stati spediti ai nostri amici, rendendo l’evento di pubblico dominio. Ma mentre i miei amici - pur pensandolo, forse - non mi avevano fatto capire che credessero fossi rimasta “incastrata”, lo stesso trattamento non mi era stato riservato dagli altri compaesani. A partire dai vicini e i colleghi di lavoro di mio padre. Mia madre, poi, sulla scorta della sua esperienza personale, mi aveva fatto tutta una cultura su Lo Sguardo. Per questo adoravo rintanarmi in università, dove nessuno mi conosceva e tutti si facevano gli affari propri, o a casa Cullen, dove tutti conoscevano la verità - pur con Emmett pronto a sfottermi e Alice a usarmi come modella personale.

«Ah!» urlacchiai richiudendomi la porta alle spalle.

«Cosa?» fece Edward, sollevando un sopracciglio.

«La vicina…» sussurrai con gli occhi sgranati. Era uscita per prendere il giornale.

Sbuffò.

Afferrai degli occhiali da sole che mi aveva regalato Jessica, ringraziai il suo gusto estroso per averli presi così grandi, e il suo lato sconsiderato per avermi regalato degli occhiali da sole in una città perennemente annuvolata, e mi nascosi nel mio trench, coprendomi per bene la pancia. Trattenni il respiro, poi presi Edward per una mano e lo trascinai, o meglio, si fece trascinare, a passo svelto per il vialetto. Oltrepassai il cortile, dribblai il taglia-erba e mi precipitai al pick-up. Mi infilai dentro e espirai, lasciandomi andare sul sedile.

Lui, al mio fianco mi guardava di sottecchi.

«Bella» disse a mo’ di rimprovero.

«Mi ha vista?» sussurrai.

«Ma cosa vuoi che ne sappia… Cosa importa quello che pensano gli altri?».

Gli lanciai uno sguardo eloquente. Che lui fosse un centenario abituato alle consuetudini del suo secolo, dove sposarsi così giovani era normale, gli altri non lo sapevano, e io, soprattutto, non appartenevo a quel mondo.

Sbuffò. «No, non ti ha vista, contenta?» esclamò esasperato.

Gli rivolsi un’occhiata. «Edward» cominciai, «ne abbiamo già parlato. Io… mi vergogno, va bene?».

«Ti vergogni del nostro matrimonio» balbettò, e seppi di averlo offeso.

Un po’ pentita per il mio comportamento presi una sua mano fra le mie. «Per favore. Lo sai che non è così. Ehi. Io ti voglio sposare perché ti amo, e, ora…» deglutii «alla luce di quello che è successo, lo voglio più di prima, perché niente ci separi. Ma… la vicina mi guarda la pancia!» esclamai, isterica.

Sorrise a mezza bocca, voltandosi a guardarmi. «Sarebbe così orribile essere incinta di me?».

Inebetita, rimasi ferma a fissarlo. Non mi aveva mai posto una questione simile.

Scosse il capo, sorridendo appena. «Andiamo, Bella. Andiamo e basta».

Silenziosa, obbedii al suo ordine, troppo sgomenta e in imbarazzo per parlare. Infilai la chiave nella toppa e girai. Il pick-up emise un suono strozzato che andò a scemare. Girai di nuovo la chiave. Stessa reazione, con l’aggiunta di uno scoppiettio e un singulto. Poi più nulla.

«Questo doveva essere il suo ultimo sospiro» constatò Edward, mascherando in un accesso di tosse una risata.

Sgranai gli occhi. «Cosa?!» esclamai stridula. Per una delle clausole del matrimonio il pick-up andato equivaleva a una macchina nuova. Tentai inutilmente di farlo ripartire, ma questa volta non dava nessun segno vitale. «E’ morto…» sospirai esterrefatta.

Il sorriso di Edward, finora composto e pacato, si era trasformato in un ampio ghigno.

«Non è ancora detta l’ultima parola, possiamo provare a rianimarlo» dissi speranzosa, tentando in tutti i modi di non andare incontro a quella sorte funesta: farmi  comprare una macchina nuova fiammante a millemila cavalli da lui.

Mi fissò con uno sguardo innocentemente triste. «Credo non ci sia più niente da fare».

«No, no, e no!» mi intestardii.

«Bella, perché ti ostini? E’ morto. Ora del decesso 10:47» disse guardandosi l’orologio con aria solenne.

Lo afferrai per le spalle, nonostante io fossi piccola e minuta e lui uno statuario vampiro. «Non è morto, ok? Ha solo avuto un infarto. Ora gli facciamo una respirazione bocca a bocca, un massaggio cardiaco e vedi che riparte!» esclamai, cercando di convincere più me stessa che lui.

Passammo un’ora buona a tentare di riparare il mezzo. O meglio Edward tentava di riparare, io mi limitavo a estrarre pezzi dal muso del mio vecchio amico pick-up chiedendo “guarda?”, “forse è questo?”, “oppure questo qui”, “questo cos’è?”. Edward mi accontentava sempre, spiegandomi - inutilmente s’intende - tutto il funzionamento dei vari pezzi, e nonostante avrebbe preferito andare immediatamente a comprare una macchina nuova fiammante, controllava ogni aggeggio che gli mostravo.

«Non lo so Bella… Per me è completamente andato. Credo sia il motore» sospirò infine.

«Questo qui?» chiesi indicando un pezzo centrale abbastanza grosso e sporco.

«Sì, “questo qui”» fece Edward, trattenendo un sorriso, pulendosi le mani su una pezza. Nonostante la sua del tutto sovrumana capacità di non sporcarsi, ero riuscita, indicando e porgendogli pezzi, ad imbrattare sia la mia che la sua camicia.

«Non si può riparare?» chiesi speranzosa, per nulla incline a demordere.

Mi fissò affranto. Tanto lo sapevo che dentro di se era contentissimo, si poteva risparmiare la pantomima.

«Per favore, Edward. Fai finta che ti importi qualcosa. Lo so che è un catorcio, ma ci sono affezionata. È un regalo di mio padre».

Alzò gli occhi al cielo. «E va bene, portiamolo da Rose».

Tre ore dopo ero nel garage di casa Cullen e Rose, con una bella tuta attillata da meccanico, smanettava nel muso del mio pick-up.

«Bella, non vuoi venire a mangiare qualcosa?» mi chiese Edward accarezzandomi una guancia.

«No…» sussurrai imbronciata.

Rose sospirò, pulendosi le mani su un’asciugamani. Anch’io ero ancora più imbrattata di prima, ma in quel momento non m’interessava, visto che ormai le condizioni del mio mezzo si erano rese evidenti. «E’ morto» diagnosticò infatti «condoglianze».

Un brivido mi fece fremere dalla testa ai piedi. Avevo appena pensato che, se Jacob fosse ancora mio amico, avrebbe certamente trovato un modo per riparare il mio amato pick-up. Rosalie era abituata alle macchine sportive, e quando un pezzo si rompeva di certo non lo riparava correndo il rischio che si rompesse di nuovo: semplicemente ne comprava un altro. Ero sicura che lui, invece, quello che era stato il mio meccanico personale, avesse più confidenza con quel tipo di mezzi.

Avevo dunque nostalgia di Jacob?

No. Con mia sorpresa, constatai di no. Avevo malinconia di quello che era stato il mio vecchio amico, ma non speravo certo nella presenza di quello che era ora: era diventato come un cancro, come delle mie stesse cellule che, impazzite, mi si stavano ritorcendo contro, minacciandomi.

«Ehi» mi chiamò Edward, vedendomi silenziosa e pensosa «è morto di vecchiaia dopo una vita lunga e felice» scherzò, provando a farmi sorridere.

Scossi il capo, ricacciando indietro le lacrime. Sorrisi appena. «Certo. Sei contento, vero? Non è necessario che fingi di non esserlo».

«Sono dispiaciuto che tu sia triste per il tuo pick-up. Ma, sì. Sono contento di poterti regalare finalmente qualcosa».

Feci una smorfia. «Non possiamo aspettare dopo il matrimonio?».

Sollevò un sopracciglio. «E fino ad allora ti farai scortare dalla volante di tuo padre?».

Emisi un gemito al solo pensiero. «No, certo che no» ovviai «mi porti tu».

«E quando sarò a caccia? O quando ci sarà troppo sole?».

Mi morsi un labbro. «Perché, hai intenzione di lasciarmi sola?» mormorai, provando a scherzare e nascondere la paura che celavano quelle parole.

Sospirò, carezzandomi una ciocca di capelli. «No, certo che no. Ma un’auto ti serve, Bella. Avevi promesso».

Sollevai gli occhi al cielo, portandomi le mani a coprirmi il viso. «E va bene, dannazione» concessi, seppur riluttante.

Fu quando spostai le mani per guardarlo che scoppiò a ridere.

«Cosa?» esclamai, sorpresa.

«La tua faccia» sorrise, provando a trattenersi.

Mi guardai i palmi della mani, e capii: erano completamente unte di grasso.

Afferrò i miei polsi, allontanando le mani dal mio e suo corpo perché non facessi altri danni. «Bella, io direi che converrebbe fare una doccia. Che ne dici?».

Mi morsi un labbro, sorridendo e avvicinandomi alla sua bocca. «Vuoi dire che vieni con me?».

«Ah» sospirò, un mezzo sorriso trattenuto. Si avvicinò alle mie labbra «non saprei. Non avevamo un patto?» alitò sul mio viso.

Annullai quella distanza, baciandolo. «Tu sei troppo fissato, con questi patti» ansimai quando si staccò da me. «E nessuno ha detto che li infrangeremmo…».

Mi sorrise. «Mi piacerebbe, ma mi sembra che io abbia una commissione da fare».

Sgranai gli occhi. «Di già?! Cioè, intendi… ora?».

Sorrise euforico. «Certo, ora. Vai a fare quella doccia. Quando tornerai, avrai la tua bellissima nuova auto».

«Ma…».

«I patti sono patti».

«Se lo dici ancora una volta ti uccido» lo minacciai.

Rise. «Vedrai, ti piacerà».

«Non ne dubito» brontolai sarcastica, saltando giù dal tavolo su cui mi ero seduta. «Ah, Edward» lo richiamai, prima che potesse scomparire in un attimo dalla mia vista. «Solo una cosa, per la mia auto».

Sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Dimmi».

«Finestrini oscurati. Se devo andare in giro con una macchina da Hollywood almeno che non possano chiedersi se che la guida è la provincialotta incinta!».

Mi fissò, con aria di sfida. «Ripeto: sarebbe così orribile essere incinta di me?».

Ma prima che potessi ribattere mi ero già strozzata con la mia stessa saliva, e Edward era corso via da me.

 

Bussai alla porta della stanza di Alice.

«Certo che puoi usare il mio bagno, ti ho già preparato dei vestiti puliti» disse rispondendo alla mia domanda non formulata e invitandomi ad entrare con un occhiolino.

Distogliendo velocemente lo sguardo dall’immane quantità di addobbi, pizzi, tovaglie, vestiti, merletti, fogli e inviti, mi feci uno spazietto nell’ingresso, chiudendomi la porta alle spalle. Adesso capivo Jasper quando mi diceva che l’avevo cacciato dalla sua camera. «Grazie Alice» balbettai, sforzandomi di sorpassare una montagna di tulle senza sporcarlo.

Mi sorrise. «Dovere. Ricorda che a pomeriggio dobbiamo provare il vestito, non puoi sporcarlo».

Sollevai gli occhi al cielo, facendo una smorfia a tutte quelle decorazioni. Il solo pensiero del mio matrimonio mi faceva venire la nausea. Lì non mi sarei affatto potuta nascondere da sguardi indiscreti.

«Senti, Alice…» cominciai, mordendomi un labbro, quando finalmente arrivai alla porta del bagno.

Scosse il capo, decisa. «No, Bella. Non posso dirti niente».

«Oh, ti prego. In nome della nostra amicizia. Cosa ti costa?».

Sollevò un sopracciglio. «Mi costa il fatto che, se ti do un qualsiasi dettaglio sull’auto, appena tornerà a casa mi farà a pezzi. E non lo dico in senso figurato. Avanti. Fai questa doccia e basta».

Sospirai, arrendendomi ai Cullen. Vampiri impossibili.

Il getto caldo della doccia sciolse per un attimo i nodi della mia tensione, facendoli venire a galla. Mi sentivo stressata, ma pensavo che fosse proprio di ogni sposa esserlo. Certo, non ogni sposa aveva la mia stessa avversione per il proprio matrimonio, né si sposava alla mia età, con la minaccia del suo ex amico licantropo a incombere su di lei.

E quelle parole di Edward, su un figlio…

Io ero troppo giovane per pensare di poter rimanere incinta. E forse, sì, non lo negavo, nella mia lunga esistenza - nonostante l’avversione che mia madre aveva provato a farmi crescere per quelle creaturine “tutta cacca e lamenti” - ne avrei desiderato uno. Ma con Edward. Solo con lui. E lui di certo non me lo poteva dare. Perché allora mi poneva una domanda che non aveva soluzione?

«Bella?» mi chiamò Alice da dietro la porta «hai finito?».

Sospirai, chiudendo il getto dell’acqua. «Sì, sì. Ho finito».

Mangiai nel soggiorno, mentre Alice prendeva le misure per il mio vestito. I giorni precedenti, Rose, un po’ in disparte, era rimasta a guardarci, sfogliando una rivista e dandoci ogni tanto il suo parere. Non che fossimo amiche, ma avevo apprezzato che non si dimostrasse più ostile nei miei confronti. Quel giorno invece Rosalie non c’era, e non mi era difficile immaginare dove fosse finita. Il mio umore nero, la prospettiva di una macchina nuova e la morte del pick-up rendevano tutto più pesante.

«Tesoro, sicura di non volerne più? Ti vedo sciupata» constatò Esme, osservando il piatto quasi integro di maccheroni al formaggio.

Scossi il capo. «Ho lo stomaco chiuso» borbottai.

«Bella» mi riprese Alice. «Esme ha ragione. Ho dovuto toglierti due centimetri dal bacino dall’ultima volta che abbiamo provato il vestito» fece, osservando il metro. «Per l’amor del cielo, mangia».

«Fammi mangiare in pace, allora» brontolai, liberandomi dalla sue mani e sedendomi al tavolo.

Sospirò. «Va bene, vado a sistemare l’abito. Appena hai finito sali su, noi due dobbiamo parlare» sottolineò eloquentemente.

Cincischiai nel mio piatto, mescolando la pasta. Non mi sarebbe piaciuto, ma forse era quello di cui avevo bisogno.

Esme mi sorrise, carezzandomi una guancia. «Sarai una sposa bellissima» sussurrò con affetto, provando così a tirarmi su di morale.

Arrossii, abbassando il capo. «Grazie».

Come preannunciato da Alice, appena tornai nella sua stanza volle parlare con me. Seduta su una sedia fra decorazioni, pizzi e merletti, me ne stavo a guardarmi i piedi, arrossendo.

«Bella?» chiamò la mia amica, provando a farmi parlare.

«Non so che dirti, Alice» borbottai, rifuggendo al suo sguardo.

Si abbassò sui talloni, pronta ad intercettarlo. «Sei stanca, stressata e nervosa. E un po’ lo capisco, perché ti stai per sposare e sono successe mille cose, in questi giorni. Ma, Bella. A me sembra che oggi tu sia più stressata del solito. E qualcosa mi dice che non riguarda la tua nuova auto. O meglio, non solo quella».

Scossi il capo, mordendomi un labbro. Gli occhi mi bruciavano.

«È così terribile?» chiese, prendendomi le mani fra le sue.

Scrollai le spalle. «È…» cominciai, la voce ridotta a un filo. «Edward ha detto…» balbettai, ma non seppi continuare. Come descrivere la fitta che mi aveva causato immaginare me e Edward con un bambino tutto nostro? Perché l’aveva detto? Forse, dopotutto, anche se io ero giovane, sciocca e traviata da mia madre, Edward aveva cent’anni, e proveniva da un’epoca in cui a far figli si cominciava molto prima. Lui… doveva averci pensato.

Alice mi sfregò le mani, passandomi un kleenex. «Non devi dirmelo per forza. Ma… se volessi io sono qui, ve bene?».

Annuii, sfregandomi gli occhi.

Mi sorrise. «Se vuoi il vestito lo possiamo provare un altro giorno».

Le regalai un sorriso bagnato, lanciandomi fra le sue braccia. «Oh, Alice» sospirai, piangendo.

Mi strinse fra le braccia. «Non ti preoccupare tesoro. Va tutto bene» mormorò, sfregandomi dolcemente la schiena.

Più tardi decidetti di provare, comunque, il mio abito. Volevo un modo qualsiasi per distrarmi da quello squarcio nel futuro che Edward mi aveva aperto.

«Rilassati, Bella» sussurrò Alice al mio orecchio, mentre mi faceva passare il bustino dalla testa, «pensa a un posto bellissimo, dove ti piacerebbe essere in questo momento. Non pensare a tutti i problemi che ci sono nella tua testa. C’è solo Edward. Tu, e Edward. Un posto bellissimo in cui ci siete solo vuoi due. Pensaci. Questo è il tuo rifugio felice».

Sorrisi, chiudendo gli occhi. Niente. Non mi serviva nient’altro che Edward, per essere felice. Una felicità immediata, forte, perfetta. E così sarebbe stato per noi, per l’eternità. Avremmo vissuto insieme la nostra incorruttibile felicità perfetta, che non bisognava di nulla che di noi due. Saremmo stati, entrambi, sempre contenti. Forse.

«Non dire niente a Edward, per favore» sussurrai ansiosa, riaprendo gli occhi.

Mi sorrise, complice. «Niente. Qualcosa in più da tenergli nascosto» disse, facendomi un occhiolino.

«Che cosa mi devi nascondere?» chiese Edward dall’altro lato della porta.

Sgranai gli occhi, terrorizzata.

«Edward, scompari! Stiamo provando il vestito!» ordinò velocemente Alice, aiutandomi a liberarmi di quell’abito ingombrante.

Mi aspettava ai piedi delle scale. Aveva cambiato la camicia, dopo che io gli avevo sporcato quella bianca e immacolata che portava la mattina. Ora ne aveva una beige con i pantaloni in tessuto, neri. Era raggiante.

Sollevai gli occhi al cielo. «Vediamo quest’auto nuova».

Sorrise, ghignando. «Potresti fingere entusiasmo».

«Non chiedere troppo, Edward».

Sospirò. «Lo sapevi che prima o poi il pick-up si sarebbe rotto».

«Sì, ma non potevo immaginare che lo facesse così in fretta!». Quando avevamo raggiunto il nostro zoppicate compromesso avrei potuto sospettare la carta di credito di platino, il nuovo televisore, gli abbonamenti alle riviste, il nuovo corredo, forse anche la nuova università, ma pensare che il mio pick-up desistesse tanto in fretta, mai e poi mai!

Mi condusse alle soglie del garage, un bel sorriso e gli occhi luccicanti. Qualcosa che mi faceva credere che il suo viso mi sarebbe bastato per darmi gioia per l’eternità. Mi lasciò all’ingresso e si infilò dentro con un “torno subito”. Infatti, sei secondi più tardi, le porte del garage si spalancano.

Al centro dell’enorme stanza troneggiava una macchina bellissima, sportiva, con la carrozzeria nera e tirata a lucido. I finestrini erano oscurati - almeno quello - e da quanto ne sapevo di macchine, leggendo il marchio doveva essere una Mercedes. Dava l’aria di essere piuttosto sicura. Tutti i vampiri le stavano intorno e la guardavano con aria di deferenza. Tutti, persino Esme, il che mi faceva pensare dovesse essere davvero un’auto fantastica.

«Ma è una Mercedes Guardian!».

«Guarda i cerchi in lega!».

«Quanti cavalli ha il motore?».

Edward, al mio fianco, mi osservava speranzoso.

Abbozzai un sorriso. «Emm…grazie…» balbettai arrossendo, incapace di dimostrare un migliore entusiasmo.

«Ti piace?» mi chiese, ansioso.

Mi affrettai ad annuire. «Mh… fantastica» feci, provando a scegliere l’aggettivo più adatto. «Cioè, ecco… io non me ne intendo di auto, ma credo che questa sia proprio… carina».

«Carina?» fece Emmett, sgranando gli occhi.

«Ha detto carina» lo rimbeccò Rosalie, ridendo sotto i baffi.

Emmett scoppiò a ridere. «Ti prego, dimmi che la tua fidanzata non ha appena definito una Guardian “carina”, o sarò costretto a sopprimerla».

Edward ghignò. «Credo che dovresti lasciare in pace la mia fidanzata ignorante di motori, oppure sarò io quello che dovrà sopprimere qualcuno. Carina va bene» fece, rivolgendosi a me con un occhiolino «era più di quanto mi aspettassi».

«Avevi aspettative molto basse, allora» scherzò Jasper, accarezzando la carrozzeria fiammante.

Arrossii, abbassando il viso. «Almeno adesso non mi guarderanno tutti» balbettai, sorridendo appena a Edward.

«Perché, tesoro? C’è qualcuno che ti infastidisce?» domandò Esme preoccupata, prendendo la mano a suo marito.

Alice mi lanciò un’occhiata, come a chiedermi se fosse quella la causa del mio malumore.

Scossi il capo, sentendomi terribilmente in imbarazzo.

«Non è niente» fece Edward «sono solo supposizioni di Bella».

«Beh, non sono solo mie supposizioni» sbuffai «tu leggi le loro menti, sai quello che pensano».

«Bella, credimi. Non ti interessa tutto quello che pensa la gente».

«Edward» lo riprese Carlisle «forse c’è qualcosa che la turba» fece, lanciando un’occhiata a Jasper. Questi sollevò un sopracciglio, osservandomi.

Mossi le mani davanti al viso. «No, no, davvero. Niente. Basta parlare di me. E… Edward ha ragione, sono solo mie supposizioni. Allora» feci, provando ad allontanare l’attenzione da me. «Ci posso fare un giro?».

Edward mi sorrise. «Certo».

«Prendi, sorellina» fece Emmett, lanciandomi oggettino piccolo e luccicante, che anziché atterrare fra le mie mani rimbalzò sulla mia fronte.

«Ahia!» protestai, sfregandomi il punto leso.

«Emmett» lo rimproverò Edward, sostituendo la sua mano alla mia «lo sai che non ha la coordinazione mano-occhio!».

«Ehi» mi lamentai, tirandogli una gomitata.

Mi fermò previdentemente. «Non ti vorrai fare male di nuovo» mi schernì con un mezzo sorriso.

«Te la farò pagare quando sarò una vampira» lo minacciai scherzosamente.

Rise. «Sì, ma nel frattempo pensa a rimanere in vita. Vieni, facciamo un giro» disse, trascinandomi verso l’auto.

In quel momento notai che in un angolo del garage c’era un telo che copriva una cosa che, a giudicare dalla forma, doveva essere un’auto.

«Cos’è?» chiesi, indicandola.

Edward sembrò dissimulare. «Nulla di che…» mormorò casualmente.

Sollevai un sopracciglio.

Mi fissò per qualche istante. Poi sospirò, riluttante. «Quella è l’altra tua macchina».

Aprii e chiusi la bocca, sgomenta. «Cosa? Cosa?!» strillai.

«Bella, calmati, non c’è motivo di agitarsi» fece, provando ad ammansirmi.

«Non c’è motivo di agitarsi? Non c’è motivo di agitarsi?! Mi hai comprato due auto! Due!».

Mi mise entrambe le mani sulle spalle. «Bella. Calmati. Respira mh?!».

Sospirai, incrociando le braccia al petto.

«Questa è l’auto del “prima”» disse, indicando la Mercedes nera «quella è l’auto del “dopo”, ma la riceverai solo quando avrò restituito questa, che è l’auto del prima, va bene? Quindi in sostanza la macchina è una».

«Prima e dopo cosa?» chiesi più calma.

Sul suo viso di allargò un sorriso. «Lo scoprirai».

 

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Capitolo 13
*** Alice ***


-Bella copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Bella? Bella?» mi chiamò insistentemente Alice.

Non risposi.

«Bella, per favore! Oh, benedetta ragazza. Dobbiamo finire di sistemare un mucchio di cose, non startene sempre per conto tuo».

Ignorai la sua voce, senza staccare gli occhi dal libro.

«Alice, lasciala stare» mormorò Edward, dietro di me. Mi carezzò il collo, posando una guancia contro la mia.

Scossi la testa, esasperata. «Come pensate che possa studiare se continuate a fare… così!» esclamai, indicandoli.

«Cosa?» fecero, sorpresi.

«Tu. Mi stai riempiendo la testa di problemi per il matrimonio di cui non dovevo essere neppure a conoscenza, dato che volevo sposarmi su una motocicletta a Las Vegas. E tu!» strillai, diventando completamente rossa e indicando Edward.

Sorrise, malizioso. «Io cosa?».

Mi coprii il viso. «Oh, Edward…».

Rise, per pochi secondi, prima di abbracciarmi e costringermi dolcemente a sedermi sul suo grembo. «Non ti do più fastidio, promesso».

«Come se potessi studiare così. Come se mi dessi davvero fastidio» mugugnai, terribilmente imbarazzata.

Rise ancora, sfacciatamente. Poi sollevò il viso verso Alice. «Lascia stare la mia fidanzata. È nervosa».

«Non sono nervosa!» mi difesi, scattando in alto con la testa «sono… sono solo… un po’ stressata, ecco».

Alice sollevò un sopracciglio. «La fiera dei sinonimi. Bella» incalzò poi «lo sai che non c’è alcun motivo per essere nervosi. O stressati».

Feci scoccare la lingua. «Certo» borbottai, sarcastica.

Edward sospirò, unendo le braccia intorno ai miei fianchi. «Emmett e Jasper lo stanno cercando a Nord e Sud. Ma non è semplice, perché non ci fanno accedere ai territori della riserva. Potrebbero tenerlo nascosto».

Fremetti, agitandomi sul suo grembo. «A Nord e Sud? Ma sono separati? Non si faranno male, vero?» domandai velocemente, preoccupata.

«No, no, Bella. No» dichiarò velocemente, posando entrambe le mani sulle mie spalle. «No, va bene? Sono uniti, e non corrono rischi. Anche se lo trovassero non lo affronterebbero. Vogliamo solo monitorare la sua posizione».

«Ma stiamo parlando di Emmett!» esclamai agitata.

Edward sospirò, prendendomi le mani fra le sue. «Potresti fidarti di me, per favore? Non farei nulla che possa mettere in pericolo i miei fratelli, né lo permetterei. E credi che Alice, qui, lascerebbe andare suo marito se non sapesse che è perfettamente al sicuro?» fece, indicandola.

Mi voltai verso di lei. Mi sorrise, apparentemente perfettamente serena. «Non succederà nulla, Bella. Sta’ tranquilla».

Sospirai, nascondendo il volto nella spalla di Edward. «Lo spero per te. Altrimenti mi arrabbierei. Moltissimo».

Rise appena. «Sono pronto ad affrontare la tua furia».

«Ehi!» lo rimbrottai, allontanandomi per tirargli una pacca sulla spalla.

Poco più tardi, approfittando della calura estiva del mese di Luglio, decidemmo di recarci al ruscello per un bagno. Sapevo che Edward aveva in mente di distrarmi, eppure lo lasciai fare, perché sapevo anch’io di averne bisogno.

«Credo che Alice apprezzerebbe una tua certa collaborazione ai preparativi per il matrimonio» mormorò sulle mie labbra.

Risi, avvicinando il mio corpo al suo, le gambe allacciate contro il suo bacino. «Ma lo sto facendo. Stiamo facendo le prove per il matrimonio, adesso» scherzai, strusciandomi maliziosamente contro di lui.

«Ah sì… Hai proprio ragione» sussurrò, avventandosi con le labbra contro le mie, succhiando e lambendo, lasciando che gli tirassi i capelli fra le dita.

«Prometti che farai l’amore con me?» ansimai sulla sua bocca, senza smettere di guardarlo negli occhi.

«L’ho già promesso» sussurrò, «non rimangio mai le mie promesse. Non, soprattutto, quando mi stai così avvinghiata».

Ridacchiai, rossa in viso. Posai una guancia contro la sua spalla. «Allora… non ci hai ripensato. Non hai paura».

Sospirò. «Bella, non smetterò mai di avere paura. Ma lo faremo. L’ho promesso e lo voglio. Lo faremo».

Sorrisi, allontanandomi per guardarlo negli occhi. «Grazie».

Mi sorrise di rimando, quel sorriso imperfetto che tanto amavo. «Prego» mormorò, sollevandomi insieme a lui per farci cedere insieme nell’acqua.

Risi.

 

Nel pomeriggio Edward dovette andare a caccia, così decisi di seguire Alice a Seattle per perfezionare alcuni preparativi per il matrimonio. A caccia dell’aria condizionata, aveva detto lei. Per farla contenta ed ingannare il tempo, avevo detto io.

«Tutto bene?» domandò, vedendomi intenta a fissare il paesaggio che scorreva attraverso il finestrino della sua Porche. Non prendevamo mai la mia auto. Erano passate due settimane da quando Edward me l’aveva regalata, ma l’avevo utilizzata solo una volta per andare all’università, ovviamente insieme a lui, e solo un’altra volta mi ero azzardata a guidarla in mezzo a Forks - spinta dagli occhi languidi di Edward - per poi pentirmene subito dopo. In compenso Charlie l’adorava, e l’aveva guidata molto più di me.

Mi voltai a sorriderle. Un sorriso stanco e accennato. «Sì, tutto bene» sussurrai, chiudendo fuori il magone che avevo ogni volta che non ero con Edward. Se mi era rimasto qualcosa dagli eventi dell’ultimo mese, questo era proprio la paura per il ritorno di Jacob e un morboso attaccamento a Edward. E non era solo perché sapevo che avrebbe potuto difendermi, stando con me, che lo volevo accanto. Era perché desideravo che non gli capitasse nulla di male, e per fargli capire, secondo dopo secondo, quanto l’amassi.

Alice annuì, spostando nuovamente lo sguardo sulla strada. «Bella, senti. Tu sei come una sorella per me» cominciò, tornando a guardarmi negli occhi «se tu credi che… Se tu credi che questo matrimonio non vada bene per te. Se hai dei… ripensamenti, sappi che io sarei comunque dalla tua parte, e tu sei liberissima di scegliere se piuttosto che mio fratello volessi quel cane. Non che mi piacerebbe essere imparentata con lui e non che non mi si spezzerebbe il cuore per mio fratello ma io comunque…».

Allargai la bocca, esterrefatta. Scossi il capo con decisione. «No, no, Alice. No» dichiarai con fermezza, arrestando il flusso delle sue parole. «No. Sei completamente fuori strada. Non è affatto questo, affatto».

Mi osservò, cercando la verità nelle mie parole.

«No» ribadii, sgomenta dal fatto che mettesse in dubbio le mie parole. «No. Io amo Edward, con tutta me stessa. Lo amo così tanto da voler passare l’eternità con lui, e lo voglio sposare. Tutto quello che è successo non mi ha fatto capire nient’altro che Jacob non è stato altro che il frutto del terrore che Edward non volesse più me. No, Alice. No. Io non l’ho mai amato. Mi ha sempre ingannata, mi ha fatto credere quello he non era vero. Io ho sempre e solo amato tuo fratello, e mai, mai, provato qualcosa in più di un’amicizia calcificata dal dolore per la lontananza di Edward, per Jacob. Mai».

Sorrise, e si voltò a guardare la strada. «Meglio così, allora. Se mi avessi detto il contrario avremmo dovuto latitare lontano da Edward. Mi avrebbe uccisa se avesse saputo che ti avevo spinta a cambiare idea» scherzò.

Risi appena. «Non avrei mai cambiato idea. Alice».

«Sì?».

«Grazie di essere mia amica. Mia sorella».

«Figurati. Ma ancora non mi hai detto cosa ti turba, vero?» domandò, sollevando un sopracciglio.

Raggelai, storcendo il viso in una smorfia.

«Non importa. Presto lo farai» dichiarò sicura, premendo più a fondo l’acceleratore.

Arrivammo a Seattle in un’ora e mezza, la metà di quello che mediamente avrei impiegato per arrivarci. Quantomeno sarei stata meno tempo lontana da casa, e meno tempo lontana da Edward.

Il primo posto in cui ci recammo fu il servizio di catering. Ma, con mio grande stupore, non lo facemmo per ordinare i piatti e gli assaggini, bensì per scegliere i camerieri. Da un catalogo. La signora dell’agenzia pareva conoscere molto bene Alice, segno che il profumo delle sue carte di credito era già stato sentito da quelle parti. Non avrei mai smesso di stupirmi.

Da lì passammo alla scelta dei merletti, dei fiori, dell’arco.

Più volte mi passò per la mente di chiamare Edward, ma Alice, vedendo le mie intenzioni, trovò sempre un nuovo modo per distrarmi o farmi riprendere interesse per quello che stavamo facendo.

«Che ne dici di prendere qualcosa da mangiare? Un bel gelato? E poi ti porto a fare un massaggio eccezionale. Ho sentito che qui hanno massaggiatrici bravissime» mi propose con un occhiolino.

«Vada per il gelato» dissi, incamminandomi verso la galleria dell’edificio. «Della massaggiatrice non sono molto convinta…» protestai, storcendo la bocca.

Mi sorrise. «Vedrai, sarà rilassante. Sediamoci qui» fece, indicando un tavolino. Con grazia sollevò una mano guantata per richiamare l’attenzione di un cameriere, da cui ordinò una grande coppa di gelato con i miei gusti preferiti.

«Alice» la chiamai, osservandola. Mi morsi un labbro, imbarazzata. «Ecco… vorrei chiederti se… ti andrebbe di comprare qualcosa con me».

Sollevò un sopracciglio, sorridendomi. «Certo».

Arrossii. «Beh, ecco… mi chiedevo se…» deglutii «potessimo comprare qualcosa di carino. Un… umh. Un completino, ecco» cincischiai, completamente in imbarazzo.

Portò una mano sulla mia, facendomi sollevare lo sguardo. «Ne compreremo uno stupendo. L’ho già visto» ammiccò, contenta.

Ridacchiai, provando a scacciare il mio imbarazzo. «Oh, bene. Grazie».

«E di cosa…».

Il gelato arrivò poco dopo. Stare con Alice era piacevole, non per nulla aveva chiaramente visto, sin dall’inizio, che saremmo diventate ottime amiche. Un motivo in più per trasformare la mia vita in un’eternità. Anche se avrei perso qualcosa. Anche se quelle strane parole di Edward tornavano sempre, nei momenti meno opportuni, a torturarmi la mente…

Alice sussultò, lo sguardo improvvisamente vitreo.

Ansimai, lievemente, avvolta dalla paura. Provai a ricordare cosa faceva Jasper quando sua moglie aveva una delle sue visioni. «A-Alice? Alice, mi senti?» la chiamai, posando una mano sulla sua, sul tavolo. Deglutii, non ricevendo nessuna risposta. Il cuore mi stava battendo forte nel petto. Che avesse visto qualcosa che doveva accadere a Edward? «Alice!» la richiamai con più forza, afferrando con decisione la sua mano.

Si riscosse, battendo le palpebre e mettendomi a fuoco.

«Cosa hai visto?» domandai ansiosa.

Scosse il capo, sollevandosi in piedi e prendendomi per mano.

«Alice! Dove mi stai portando?!» esclamai, mentre mi trascinava fra la folla.

«Vieni, Bella. Seguimi. Non ti preoccupare. Volevi quel massaggio, vero? Beh, credo sia arrivata l’ora».

Ansimai, agitata. «Ma, Alice! Non mi hai detto cosa hai visto! Che succede?».

Mi ficcò in un ascensore, aspettando che tutti uscissero in modo che potessimo starci da sole. Posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Voglio che tu sia calma e rilassata. Non accadrà nulla. Sto solo cercando di proteggerti, va bene? Rilassati» ordinò, voltandosi poi a premere il tasto più alto nell’ordine dei piani. Ma lì c’erano solo uffici! «Andrà tutto bene» mi assicurò puntando il suo sguardo magnetico nei miei occhi. Un secondo prima che le porte dell’ascensore cominciassero a chiudersi era sgattaiolata via.

«Alice!» gridai, chiusa da sola in ascensore. Ansimai, guardandomi attorno, spaventata. Un intero lato costituiva una vetrata, da cui, man mano che saliva, si poteva vedere un panorama sempre più vasto della città di Seattle. Le mani mi tremarono, e feci per premere altri tasti, per arrestare la salita dell’ascensore e uscire da quella trappola alla ricerca di Alice. Ma nei pochi secondi che mi servirono per pensare se fosse meglio seguire i suoi moniti o fare di testa mia, dopo un sibilo e un rumore sinistro, l’ascensore si era bloccato a mezz’aria.

Ansimai, terrorizzata. Premetti ripetutamente il pulsante d’allarme, con un dito, con un palmo, con un pugno, quasi fino a romperlo. «Alice! Alice!» urlai spaventata «Aprite! Aiuto!» gridai, la voce sempre più sottile e le lacrime agli occhi. Deglutii, terrorizzata, voltandomi a guardare alle mie spalle e sentendomi mancare il terreno sotto i piedi.

Mille scenari stavano vorticando nella mia testa, mille cose che Alice poteva aver visto, ma tutte avevano a che fare con una persona: Jacob. Presi la testa fra le mani, sentandola girare velocemente.

«Signorina?» mi sentii chiamare.

Mi ridestai immediatamente.

«S-sì… si è bloccato l’ascensore» biascicai, senza riuscire a dare un contegno alla voce.

«Lo sappiamo, ce ne dispiace. Fortunatamente è l’unica ad essere rimasta bloccata, sfortunatamente anche il sistema di sicurezza è andato. Ma in tre ore dovrebbero poterla tirare fuori».

«No» balbettai «no! No! Non posso rimanere qui tre ore, non posso, non posso!» esclamai, tremando, agitata. Sbattei le mani contro le portiere «fatemi uscire! Fatemi uscire di qui!» urlai, terrorizzata.

La voce, ovattata dalla distanza delle pareti, mi pareva maschile. «Signorina, sta bene?».

«No, no» singhiozzai, scoppiando a piangere, «no». Jacob che trovava Jasper e Emmett. Jacob che andava a cercare Edward mentre era solo, a caccia. Jacob che veniva a prendermi quando ero sola con Alice, e non potevo difendermi.

«C’è qualcuno lì dentro?».

«Si è bloccato l’ascensore?».

«Sta arrivando l’assistenza…». Sentii un vociare confuso. Un certo numero di gente si stava affollando lì intorno.

«Signorina? Come si chiama?» mi chiese la stessa voce di prima.

Ansimai, scuotendo la testa, terrorizzata.

«Signorina?».

«B…Bella…Bella Swan» singhiozzai fra gli ansiti.

«Bella. Vuole che contattiamo qualcuno, c’è qualcuno qui insieme a lei nell’edificio?».

Singhiozzai più forte, vedendo il pavimento inclinarsi. «Alice» sussurrai spaventata, terrorizzata da quello che le poteva accadere. Forse… aveva voluto bloccarmi in ascensore per proteggermi. «Alice, Alice Cullen!» esclamai, con più forza. Le lacrime si mischiarono alle vertigini, dandomi la nausea. «Chiamatela, per favore! Deve venire qui! Chiamatela!» gridai agitata.

«Va bene, va bene. Gliela chiamo, lei rimanga calma».

Agitata, incapace di rimanere in piedi, mi lasciai crollare contro la parete. Le lacrime mi scendevano sul volto e le mani mi tremavano. Avevo paura. Se mi avesse trovata cosa avrei fatto? Avrebbe avuto il coraggio di prendermi o di farmi del male in pubblico? E come sarebbe potuto arrivare a me? D’un tratto mi trovai ad essere grata, ad Alice, per avermi chiusa in quella che fino a quel momento avevo considerato una prigione.

Ma durò un secondo, perché subito il terrore mi schiacciò ancora, ad ondate. E se fosse arrivato a lei? La piccola e indifesa Alice? Cosa le avrebbe fatto? E se invece si fosse scontrato con Edward?

Singhiozzai, portandomi entrambe le mani al viso, agghiacciata. Cosa avrei fatto, se anche fossi sfuggita a lui ancora una volta? Avrei vissuto tutta la vita nel terrore che sarebbe potuto tornare? Edward aveva ragione, dovevo affrontarlo.

«Edward» singhiozzai, scuotendo il capo. Cominciai a singhiozzare più forte. I miei singulti si sentivano, forti e asciutti.

«Che ha, sta male?».

«Povera ragazza».

«La sua amica?».

«Non si trova».

Fremetti, non riuscendo quasi a respirare per il pianto.

«Quanto tempo ci vuole?» domandò una voce femminile, distinta.

«Almeno altre due ore. Siamo già all’opera».

«Senta, non c’è un modo per tirala fuori di lì il più velocemente possibile?» sentii chiedere dalla stessa donna di prima.

«Si potrebbe provare ad aprire le porte manualmente, ma l’ascensore è bloccato fra due piani, bisogna farla salire fin quassù, mi creda, sarebbe meglio aspettare, stiamo lavorando a ritmo sostenuto, un’oretta e mezza e sarà fuori di lì».

Boccheggiai in cerca d’aria. «Alice» biascicai senza fiato, vedendo dei puntini luminosi ai bordi del mio campo visivo.

«No, la tiri fuori, ora. Il prima possibile. La ragazza sta male».

«Va bene allora. Altri dieci minuti e ce la dovremmo fare».

«A-Alice…» biascicai, la voce ridotta ad un sussurro dagli ansiti.

«Bella!» mi sentii chiamare dalla sua voce. «Bella, Bella, tesoro, sono qui».

«Alice» chiamai più forte, singhiozzando. Mi sentivo senza forze. La testa mi girava e le mani mi tremavano. Il petto era scosso da singulti che mi impedivano di respirare.

«È lei l’amica?».

«Sì, sì, sono io. Alice Cullen».

«Crede che dovremmo chiamare un’ambulanza? Non sembra stare bene».

«No, no. Ci penso io. Niente ambulanza».

Al sollievo per la presenza di Alice seguii velocemente la paura. Era quella a paralizzarmi, schiacciata contro la parete. Non volevo allontanarmi, perché avevo un folle terrore che così mi avrebbe presa.

«Bella, calmati, per favore! Sono qui tesoro».

«Edward» singhiozzai, sentendo il viso impastarsi di lacrime e sudore.

«L’ho chiamato, l’ho chiamato. Sta bene, sta venendo qui. Calmati».

Tremai, sentendo la testa girare più forte. Senza forze, mi lasciai andare con la testa contro il vetro, e fui accecata e sorpresa dallo spazio infinito. Richiusi gli occhi, ma tutto questo non faceva altro che aumentare il senso di nausea, mentre la mia testa vagava in una dimensione psichedelica.

Mi lasciai cadere, completamente distrutta, verso avanti, sul pavimento. Posai un palmo contro il metallo freddo, mettendomi rannicchiata in posizione fetale. Tremavo.

«Bella! Bella, parlami, dimmi qualcosa» era Alice, preoccupata.

«A…Alice…» la mia voce fu poco più che un sussurro, ma ero convinta che lei l’avesse sentita.

«Continua a parlarmi, parlami!».

Boccheggiai ancora, in piena crisi di panico. Il mio fiato sollevava nuvolette di polvere dal pavimento. Le palpebre si fecero pesanti. Sentii un rumore stridulo, forzato, come i freni di un treno che sta andando ad alta velocità. Le portiere si aprirono, lasciando un’apertura di poco meno di un metro. Era a due metri d’altezza, per tutto l’altro tratto c’era una lamiera di ferro.

Vidi il viso di Alice, poi un signore con una divisa gialla da pompiere, entrambi inginocchiati sul pavimento. Il vociare si fece ancora più forte.

«Bella!» esclamò la mia amica, preoccupata.

«Signorina, ce la fa a venire qui vicino, così possiamo sollevarla?» mi chiese l’uomo.

Battei le palpebre. Non risposi. Strinsi i pugni, e scossi il capo. Non riuscivo a muovermi.

«La prego, faccia uno sforzo».

Non risposi, boccheggiai ancora in cerca d’aria.

«Bella, ti prego, vieni qui! È tutto apposto tesoro» mi chiamò Alice, disperata.

Piansi ancora. Sentivo le lacrime solcarmi il viso e bagnare il pavimento. La voce di Alice, del pompiere, della signora, erano confuse e mischiate nella mia testa come un minestrone girato col cucchiaio; e tutte insieme, fondendosi, formavano strani suoni e perdevano di significato. Sentii il cuore - che mi batteva forsennato nel petto - gli ansiti, la testa che sembrava oscillare impazzita. Ed io ero ferma, immobile, solo il mio petto era mosso dal ritmo incalzante dei miei respiri involontari. Sentii tutte le forze defluire da me, ma proprio quando le palpebre si stavano chiudendo per consegnarmi al buio sentii la sua voce.

«Alice! È qui?».

Spalancai immediatamente gli occhi.

«Bella!».

«Edward» sussurrai, con la voce arrochita dal pianto.

Mi fissava dall’alto, preoccupato. «Tesoro. Vieni qui, ce la fai?».

Singhiozzai ancora. Non potevo muovermi. Non potevo.

«Bella, tesoro, non c’è niente di cui aver paura» mormorò velocemente, scambiandosi un’occhiata con Alice. «Niente, te lo prometto. Vieni qui, vieni da me. Andrà tutto bene».

Tremai, ma non riuscii neppure ad aprire le mani, chiuse in due pugni. «Non riesco… non riesco a muovermi» singhiozzai, agitata.

«Shh, shh, va tutto bene. Ci riesci invece, ci riesci. Vieni qui Bella, avanti. Piano» mi tese una mano «muovi una mano, piano piano. Abbiamo tutto il tempo».

Con difficoltà, senza smettere di guardarlo, aprii e chiusi una mano. Portai il palmo sul pavimento, provando a fare leva per sollevarmi.

«Ecco, brava. Ce la fai. Vieni qui tesoro» mi chiamò, sbracciandosi ancora di più verso di me e ignorando il monito del pompiere al suo fianco.

Mi sollevai, mettendomi seduta. Mi girava la testa. Deglutii, non smettendo di guardare Edward. Sentivo tutti i muscoli contratti, refrattari ai miei movimenti.

«Solo due passi» fece, incoraggiandomi a mettermi in piedi «solo due. Ti predo io. Afferra le mie mani».

Mi sollevai, vacillando sui piedi. Velocemente, come un pezzo di metallo attirato dal magnete, gli andai incontro, tendendo le braccia. Un passo, poi un altro. Finalmente toccai la sua mano fredda, che si strinse alla mia. Mi sentii confortata e protetta. Feci lo stesso con l’altra mano, e mi sentii tirare velocemente su.

Mi strinse al suo petto, tastandomi il corpo, preoccupato. «Shh, shh» sussurrò, accarezzandomi.

Singhiozzai, tramando fra le sue braccia. «Ho avuto così tanta paura, Edward. Ti prego, non voglio più averne, ti prego».

«No, no, te lo prometto» sussurrò velocemente, non smettendo di cullarmi, «va tutto bene. Stiamo tutti bene, non è successo niente». Si allontanò appena per guardarmi negli occhi. Mi carezzò i capelli. «Stai bene, vero?».

Annuii, tirando su con il naso.

Sospirò, asciugandomi le lacrime dal viso e baciandomi la fronte.

«Bella» mi chiamò dolcemente Alice, prendendomi una mano fra le sue. «Scusami. Era l’unico modo» sussurrò piano.

Solo in quel momento, avvampando, notai che una molteplicità di occhi indiscreti ci fissavano senza alcun riserbo. Tremai, premendo il capo contro la spalla di Edward. Mi prese le mani fra le sue, massaggiandole per riattivare la circolazione.

«Volete spostarvi nel mio ufficio?» chiese gentilmente la donna che mi aveva parlato quando ero in ascensore.

«No, grazie» rifiutò educatamente Alice, carezzandomi i capelli, «credo che adesso la cosa migliore sia tornare a casa».

La donna annuì, invitando la folla degli spettatori ad allontanarsi. Sì scusò, mortificata, per il problema causato, mettendoci a disposizione, qualora ne avessimo bisogno, qualunque cosa. «Prego, prenda un bicchiere d’acqua» disse, porgendomi quello che le avevano appena portato.

«Grazie» sussurrai, le labbra troppo secche perché potesse udirsi davvero.

«Sono contenta che sia arrivato lei» fece, rivolgendosi a Edward «non saremmo mai riusciti a convincerla, altrimenti».

Annuì, contro il mio petto, continuando a stringermi. Intrecciò la sua mano con la mia.

Fu in quel momento che gli occhi della donna si posarono sul mio anello di fidanzamento. Bastarono pochi attimi perché il suo sguardo si spostasse dal mio viso alla mia pancia, sorpreso. Come se avesse finalmente più chiaro il motivo del mio malessere. «È sicura che non vuole che le chiami un’ambulanza?» balbettò, osservando Alice.

Ma prima che la mia amica, molto educatamente, potesse declinare, brontolai stizzita: «Non sono incinta».

La donna arrossì, imbarazzata, mormorando un: «Certo».

Edward rise appena sulla mia spalla, aiutandomi a tirarmi su. Ma quando fui in piedi un capogiro più forte m’investì. Mi prese fra le braccia, sollevandomi e portandomi verso un altro ascensore indicato dalla donna, sicuramente più sicuro. Chiusi gli occhi, nascondendo il viso sulla sua spalla. Non volevo vedere.

«È andato via?» chiese a mezza voce Edward quando fummo soli in ascensore.

«Non so neppure se sia mai venuto. Ho visto un grosso buco nero, non sapevo cosa fare».

Fremetti, provando a riaprire gli occhi. Inutilmente. Edward rafforzò la presa sul mio corpo.

«Mi dispiace per lei. Ma non sapevo che fare. Avevo paura di non poterla proteggere da sola».

«Jacob» mormorai fra le labbra, tremando.

«Shh, Bella. Va tutto bene» mi assicurò Edward, stringendomi il capo con una mano sulla sua spalla.

 

«Ehi, ti sei svegliata» mormorò Edward, vedendomi aprire gli occhi.

Li stropicciai con una mano, tirandomi a sedere. «Mi fa male la testa» mi lamentai con una smorfia, portandomi una mano al capo.

La porta della camera di Edward si aprì, facendo passare Alice con un vassoio. C’era un bicchiere d’acqua e una compressa di paracetamolo.

«Grazie» mormorai, prendendola fra le dita e mandandola giù insieme a un sorso d’acqua. «Che ore sono?» chiesi, osservandomi attorno. Era buio.

«Circa le undici e mezza di sera» mi rispose gentilmente.

Mi allarmai. «Ma… mi padre?» chiesi agitata, osservandoli.

Edward posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Tranquilla Bella, tranquilla. Alice l’ha chiamato e ha avvisato che dormirai qui, questa notte. È tutto apposto».

Sospirai, stanca. «Grazie. Stanno tutti bene?».

Annuì. «Fortunatamente era solo un falso allarme. Quel buco nero che ha avuto Alice nelle visioni potrebbe non voler dire nulla. Potrebbe essere dovuto agli altri licantropi o qualcosa che noi non conosciamo. Ad ogni modo nessuno si è fatto male. È questo l’importante».

Sospirai, posando ancora la testa sul cuscino.

«Hai fame? Vado a prenderti qualcosa da mangiare» si offrì, sollevandosi dal materasso.

«Sì, grazie».

«Torno subito» mormorò, chinandosi a baciarmi la fronte.

Alice prese il suo posto, sedendosi accanto a me. «Mi dispiace per il massaggio. Sarà per un’altra volta, promesso».

«Non ti preoccupare Alice. Grazie per tutto quello che fai per me. Ho avuto così tanta paura di perderti, oggi…» confessai con le lacrime agli occhi.

«Oh tesoro» sussurrò, abbracciandomi «non ho corso alcun rischio, davvero. Ho pensato che non sarebbe riuscito ad arrivare a te se ti avessi chiusa lì, con tutta quella gente intorno».

Mi tirai via, osservandola. «Spero che non ritorni mai più».

Mi sorrise, carezzandomi una guancia. «Sta tranquilla» mi rassicurò. Poi si chinò, con aria circospetta, a prendere qualcosa sotto il letto. Era una busta piccola e patinata. «Aprila» m’invitò.

Sorpresa, feci come diceva, scoprendoci dentro un meraviglioso completino coordinato, quasi impalpabile.

«Ti sarebbe piaciuto, l’ho visto».

«Oh, Alice!» esclamai emozionata, lanciandole le braccia al collo e facendola ridere.

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Capitolo 14
*** La cortigiana senza figli ***


-Ohmmm-


Capitolo riveduto e corretto.

 

Feci scorrere lo sguardo sullo scaffale che mi stava dinanzi. C’era ogni sorta di colore, una vastissima gamma assortita. Eppure non riuscivo a selezionare quelli che mi sarebbero serviti per uno dei miei primi dipinti.

Forse era colpa del fatto che fossi stata piuttosto occupata, mentalmente, nell’ultimo periodo, e nonostante i miei sforzi, non riuscissi a dedicarmi all’arte. Dopotutto non vedevo in me quel talento che invece spingeva Edward a incoraggiarmi: speravo solo che non lo dicesse per amor mio, perché in quel caso mi avrebbe distrutta.

«Trovato qualcosa?».

Sussultai violentemente, il cuore in gola, facendo cadere diversi colori dallo scaffale. «Oh cavolo!» esclamai, chinandomi subito a raccoglierli.

Edward seguì i miei movimenti, fissandomi con aria pensierosa. «Ti ho spaventata?» chiese, riponendo immediatamente tutto nel giusto ordine.

Misi al suo posto l’ultimo colore, non potendo evitare che la mano mi tremasse. «N-no» balbettai, affrettandomi a nasconderla. «Niente».

Mi studiò attentamente. Non avrebbe lasciato correre, lo sapevo. Ero solo stata così in allerta, dopo tutto quello che era successo con Jacob… Così spaventata

Distolsi immediatamente lo sguardo, affrettandomi per afferrare un deciso rosso cardinale. «Ecco, prenderò questo, andiamo» mormorai velocemente, affrettandomi verso la cassa. Almeno mi lasciò pagare la poca attrezzatura che avevo comprato. Anche se, a tutta ragione… la carta nera e dorata era praticamente sua.

Lo ringraziai del fatto che non avesse indagato oltre sul mio piccolo momento d’isteria, perché quando fummo entrambi in auto mi chiese semplicemente quale fosse il soggetto della mia tela.

Sospirai, posando il gomito sullo sportello e il mento sulla mano. Osservavo il paesaggio che correva fuori dal finestrino, bagnato da alcune gocce d’acqua. «Devo rappresentare un prato inglese del Settecento».

«Quindi?».

Sospirai stancamente, voltandomi piano verso di lui. «Non lo so, di solito ho un’idea prima di cominciare. Una storia o un’illuminazione. Non è tutto chiarissimo, ma qualcosa sì, e da quello procedo con cose che mi vengono in mente man mano…» m’interruppi, battendo le palpebre «cavolo devo sembrare una di quelle artiste che si credono vissute» mi biasimai, scuotendo il capo «sono un’idiota».

«Affatto» ribatté Edward tranquillamente, «ti stavo ascoltando. Ero molto interessato a quello che volevi dirmi. Racconta, avanti».

Mi morsi il labbro, imbarazzata. Trovarmi in auto non mi faceva sentire a mio agio. Continuavo a guardare all’esterno, preoccupata che prima o poi un grosso lupo dal pelo rossiccio ci seguisse a grandi balzi per attaccarci. Portai la mano su quella che aveva sul cambio. Si voltò nella mia direzione, sorpreso. «Potresti… solo andare a casa mia, per favore? Vorrei rimanere con te» mormorai a fior di labbra, il viso rosato dal sangue.

Si portò la mano alle labbra, poi annuì. «Ma certo».

 

Avere il suo corpo freddo sul mio mi scaldava il sangue nella vene. Mi faceva sentire come il vino intiepidito in una bocca che lo gusta, ed era come una coperta che mi scaldava davanti a un camino in pieno inverno. Mi sentivo protetta e confortata.

Mi baciò il collo, scendendo sempre più in basso verso il decolleté. Affondai le dita fra i suoi capelli, traendolo a me. Avrei voluto che non si fermasse mai. Che scendesse in basso, più in basso, più in basso… Come stava facendo la mia mano in quel momento, fino a incastrarsi nella tasca posteriore dei suoi jeans.

Sollevò il viso ad osservarmi, un sopracciglio alzato.

«Scusami» mormorai. Ma il mio mormorio era uscito davvero impertinente, con quel sorriso sulle labbra, e la mano non accennava a spostarsi da dove stava ben annidata.

Edward sollevò il viso, con un leggero ringhio giocoso. Si tuffò sulle mie labbra, concentrandosi in un bacio pieno di passione, fatto di labbra, lingue, e affondi.

Mi concentrai sul suo bacio, evitando di pensare a ogni cosa che fosse problemi, disagi, paure. Quando stavo con lui era tutto così meraviglioso, tutto così magico. Non vedevo l’ora di sposarlo, farlo e mettere da parte ogni problema. Convolare a nozze con il mio fascinoso vampiro che in quel momento si stava impudicamente sfregando col suo corpo di teenager al mio.

Eccitante, pensai, passando la lingua sull’arcata superiore dei suoi denti, quasi a volermi sincerare dell’assenza dei canini.

Sussultai subito dopo, lanciando un’imprecazione farfugliata.

«Bella?!» mi richiamò Edward, sgomento, tirandosi indietro per guardarmi negli occhi.

Mi portai entrambe le mani alla bocca, saltando subito in piedi. «Mi sono tagliata la lingua!» biascicai in maniera quasi incomprensibile, saltellando sul posto.

Mi raggiunse immediatamente, mettendomi le mani sulle spalle. «Ma come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere?».

Lo fissai supplicante e vergognosa, sentendo le lacrime nascere ai bordi degli occhi. «Brucia, brucia!» balbettai, insofferente, continuando ad agitarmi. Un dolore pungente si stava irradiando dalla lingua alla bocca al collo. Dannato veleno di vampiro.

«Vieni qui, avanti. Apri la bocca» mi ordinò immediatamente Edward, mettendomi una mano sotto al mento.

Il sapore metallico del sangue si stava diffondendo in bocca, facendomi quasi venire un contato. Resisti, pensai, imponendomi di respirare con il naso e riuscendo a trovare un minimo di stabilità. Edward esaminò la ferita con lo sguardo per alcuni secondi, e poi mi ordinò: «stai ferma» per chinarsi come se mi stesse per baciare. Fece roteare la sua lingua attorno alla mia, poi strinse le labbra, succhiando.

Spalancai gli occhi, persa nel suo volto attento e concentrato. Se non avessi saputo che lo stava facendo per riassorbire il veleno in circolo mi sarei già sciolta sotto il suo tocco. Anche così, osservando la sua espressione quasi sofferente…

Mi sostenne per le spalle, forse perché - nonostante il mio cervello faticasse a comprenderlo - non mi stavo più reggendo autonomamente in piedi, o magari perché non avevo alcuna intenzione di staccarmi da lui.

Mi fissò con serietà, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Meglio?».

La lingua mi formicolava, intorpidita, e quasi non riuscivo più a sentirla, figuriamoci sentire dolore. Stavo per annuire, inebetita, quando un altro tranquillo fiotto di sangue mi colò in bocca. Arricciai il viso in una smorfia. «Sto per vomitare» biascicai mortificata.

 

Mi aveva sistemata sul letto, con diversi cuscini sotto le gambe, quando avevo minacciato di dare di stomaco. Nonostante cercasse di mascherarlo non faceva che ridacchiare sotto i baffi. Mi sentivo così imbarazzata.

«Fai “a”» m’incitò, chinandosi sul mio viso.

Aprii piano le labbra imbronciate. «Aaaaahia, Edward» borbottai, sussultando, quando le sue dita tastarono la mia lingua.

Sorrise candidamente. «Stavo solo controllando. Ti rendi conto che è come se avessi passato la lingua su una lama, vero?» fece, ripetendo lui stesso il gesto con la sua lingua super resistente «a cosa stavi pensando?».

«Non stavo pensando!» brontolai offesa e sempre più umiliata «a cosa vuoi che pensi mentre ho la lingua nella tua bocca?».

Mi sorrise, ma questa volta sembrava quasi contento della risposta, come se fosse compiaciuto dell’effetto che mi causava. Mi carezzò dolcemente una guancia, baciandomi il lato della bocca. «Forse ti ci vorranno dei punti. Potremmo chiedere a Carlisle di…».

«Nemmeno in un’altra vita!» sbottai, tirandomi immediatamente a sedere col viso paonazzo.

«Perché no?» chiese Edward, sorpreso dalla mia reazione.

Sgranai gli occhi, saltando giù dal letto. «Come perché no? Non andrò mai a dire al padre del mio ragazzo che mi sono tagliata la lingua perché era troppo impegnata ad esplorare la bocca di suo figlio, mai!».

Scoppiò a ridere, tenendosi la pancia con le mani. «Non puoi dire sul serio» biascicò fra le risate.

Gli lanciai un occhiata torva. «Posso. Non giocare con la mia pazienza, Edward» borbottai, incrociando le braccia sul petto. «Devo anche cominciare il dipinto. Lo devo consegnare fra due giorni, e ancora non ho idea… di cosa fare» sospirai.

Venne accanto a me, mettendo da parte l’ilarità. «Qual è il problema?».

Scossi il capo. «Mancanza d’ispirazione. Forse dovrei documentarmi un po’ in giro sul soggetto e sperare che mi venga in mente qualcosa… non lo so».

Edward mi fisso attento. «Hai detto che si tratta di un prato inglese del Settecento?».

«Sì, del Settecento. Perché pensi che… oh. E chi?».

Mi sorrise, radioso. «Carlisle, ovviamente. Non c’è nessuno più informato di lui. Ci ha vissuto!».

«Non lo disturberemo?» provai ancora a trattenerlo, titubante.

Ma lui mi aveva già preso per mano, recuperando il suo giaccone e precipitandosi giù per le scale. «Sarà contentissimo, vedrai. Oggi ha la mattina libera. E poi ha detto che voleva parlarmi di qualcosa, non c’è momento migliore».

 

«Hai freddo?» mi chiese, osservandomi dal suo sedile.

Scossi il capo, ma mi strinsi più forte il giaccone addosso. Con il suo modo di guidare saremmo arrivati a casa sua in meno di tre minuti. Non vedevo l’ora.

Sospirò spostando nuovamente lo sguardo sulla strada. Imboccò il vialetto che portava a casa sua, quello che per la festa del diploma era stato decorato con mille lucine. «Bella, tesoro…» cominciò, e capii immediatamente che questa volta non avrebbe lasciato correre. Mi feci rigida sul sedile. «Lo sai che non c’è nulla da temere, vero?».

«No, nulla. Nulla» avevo sbottato prima che potesse finire di parlare, tenendomi con forza con una mano alla sportello.

Frenò bruscamente, e prima che potessi intuire che fossimo semplicemente arrivati avevo cacciato uno strillo acuto.

Girò la chiave nel cruscotto, osservandomi con un sopracciglio alzato. Mi prese la mano fra le sue. Un discorso serio era in arrivo, lo sentivo. «Carlisle ti ha detto che puoi prendere dei leggeri tranquillanti per un primo periodo».

Scossi violentemente il capo, eppure mi sollevai dal mio posto, andandomi a rannicchiare sul suo petto. Lo strinsi fra la braccia, invitandolo a fare lo stesso. «Non voglio drogarmi. Posso resistere, fino alla trasformazione».

Mi baciò il capo, accarezzandomi i capelli. «Non voglio che arrivi al matrimonio con i nervi a pezzi».

Mi scostai per guardarlo in faccia con un sorrisetto divertito. «Non è la missione di ogni sposa?».

Mi sorrise, toccandomi il naso con la punta del dito. «Sì, probabilmente. Sì».

 

Carlisle fu molto gentile con me e m’illustrò tutto quello che volevo sapere, dagli usi e costumi londinesi del secolo alla politica all’arte. I suoi occhi luccicavano mentre parlava dei tempi passati, e per un attimo mi sentii intimorita davanti a lui. Era facile scordarsi quanti anni avesse.

Passò ben presto ad illustrarmi le varie tipologie di abiti e accessori utilizzate sia dagli uomini che dalle donne. Sembrava davvero contento di essermi utile in quel senso. «E poi le dame indossavano un’intelaiatura sotto la gonna, la crinolina, che la rendeva più vaporosa, ed era formata da due drappi, così…» disse disegnandomi uno schizzo di vestito. I suoi bozzetti corrispondevano ai miei disegni originali: vivere in una casa di vampiri non faceva bene alla mia autostima.

Annuii, osservandolo. «Capisco…» mormorai fra le labbra, attenta.

Esme entrò nello studio di Carlisle, con un vassoio di biscotti al cioccolato in mano. Ovviamente, sapevo perfettamente a chi erano destinati, e con Esme in giro, soprattutto perché sapevo che li aveva fatti lei esclusivamente per me, non potevo rinunciare.

«Grazie» dissi, prendendone uno. Con un sorriso, andò a mettersi accanto a Carlisle, posandogli una mano sulla spalla.

«Allora, come sta andando? Hai ottenuto le informazioni che ti servivano?» mi chiese cortese.

«Oh, si… Ora però devo andare a casa a dipingere, sono un po’ indietro con il lavoro…» dissi mordendomi il labbro.

Edward mi prese una mano. «Ti accompagno».

«Edward» lo chiamò Carlisle, sollevandosi dal suo posto. «Potresti aspettare un attimo per quella cosa cui ti dovevo parlare?».

Edward fece scorrere lo sguardo fra me e lui, e subito Esme si drizzò, afferrando il vassoio di biscotti e venendomi accanto. «Bella, tesoro, vieni con me. Sono sicura di avere del succo ai mirtilli in frigo».

Mi lasciai trascinare con lei, riluttante. Speravo che dopo la discussione che avevamo avuto con Edward, se si fosse trattato di qualcosa che concerneva Jacob, mi avrebbe resa partecipe, dopo. Forse che prima ne parlassero fra loro era meglio, in modo che poi la notizia mi sarebbe arrivata filtrata e sarei stata in grado di filtrarla meglio.

«Hai pranzato tesoro?» mi chiese con gentilezza Esme, sistemando delle stoviglie sporche nella lavastoviglie.

Sollevai il capo, distolta dai miei pensieri. «No, non ancora. Aspettavo di tornare a casa e farmi venire un’illuminazione mentre mi cucinavo qualcosa».

I suoi occhi si illuminarono. «Vuoi che prepari un po’ di pasta? Un panino? Un risotto? Un’insalata?».

Sorrisi appena, e non ebbi il cuore di dirle di no. «Cosa vuoi tu, grazie».

Mi fece un sorriso radioso. «Non te ne pentirai» dichiarò mettendosi immediatamente all’opera. Sembrava fosse davvero fatta per essere una madre, a differenza della mia. Avrei voluto chiederle com’era stato avere un bambino, o se crescere cinque vampiri l’aveva soddisfatta abbastanza, ma non ne ebbi il coraggio. Mi limitai a stare in silenzio e mangiare il delizioso pranzo che mi offriva.

 Edward tornò da me dopo appena dieci minuti, e io avevo già servita un’insalata al pollo o noci condita con una deliziosa salsa di cipolla e yogurt.

«Dobbiamo andare via?» mormorai, sollevando il viso dal piatto e finendo di masticare ciò che avevo in bocca.

Scosse il capo, sorridendomi e sedendosi accanto a me. «Fa’ con comodo».

«Ehi, fratello!» ci raggiunse  la voce di Emmett «Devo andare a fare il pieno all’auto per la partenza, prendo la Volvo o la Mercedes?».

«Partenza?» domandai, gli occhi ampi dalla sorpresa.

Edward sibilò fra i denti, scontento. Mi rivolse un’espressione gentile. «Finisci di mangiare tesoro» m’invitò, prima di sollevarsi per guardare in cagnesco il fratello.

Ovviamente, non lo ascoltai. Lasciai andare la forchetta per voltarmi a fissarli in attesa di una spiegazione.

«Andiamo in Alaska, sorellina» fece Emmett, lanciandomi un occhiolino.

«Emmett» ringhiò Edward, troncando le sue parole.

Sollevai un sopracciglio, osservando il mio fidanzato. «Perché in Alaska?».

«Andiamo a trovare il clan di Denali» mi rispose senza tergiversare «Irina ha preso come un’offesa personale la morte di Laurent, e abbiamo paura che anche il resto del clan sia dalla sua parte. Andiamo a chiarire la situazione con loro».

«Ma…» biascicai «devi andarci ora? Non potete farlo dopo la mia trasformazione?».

Edward strinse le labbra, e scoccò un’occhiata di ammonimento al fratello che si era già preparato per parlare. Si avvicinò, riprendendo posto accanto a me e prendendomi le mani fra le sue. «Preferiamo che sia ora, perché quando sarai trasformata voglio occuparmi solo di te. E poi, sarebbe bene che… in misura precauzionale, siano presenti anche loro al matrimonio».

«Precauzionale per Jacob» farfugliai agitata.

Mi carezzò una guancia, sorridendomi per rassicurarmi. «Vogliamo essere tranquilli, va bene?».

Sospirai, annuendo, seppur riluttante. Non mi andava che partisse, lasciandomi sola, ma allo stesso tempo non volevo lasciar trapelare il mio morboso attaccamento nei suoi confronti. Sarei stata bene, Edward non avrebbe mai permesso che mi facessero del male. «Mi chiamerai?» chiesi, quando fui sicura che la mia voce non sarebbe stata stridula.

Mi prese fra le braccia. «Ogni ora. E starò via solo un giorno, te lo prometto. Inoltre non sarai sola. Faremo in modo che nessuno si avvicini a casa tua».

E sapevo che con quel nessuno indicava solo una persona.

Mi baciò appena le labbra. «Mangia, adesso» m’invitò, sollevandosi dal posto per tornare a parlare con Emmett.

Malvolentieri presi un altro paio di bocconi, cincischiando con quello che rimaneva.

«Perfetto, allora. Mercedes sia. Ci divertiremo un mondo lassù, fratellone» esclamò entusiasta Emmett, lanciando e riafferrando le chiavi. Prima di andare via si voltò a lasciarmi un gran sorrisone e dicendo qualcosa che ebbe il potere di riscuotermi rapidamente dia miei pensieri. «Ah, sorellina. Cosa hai fatto alla lingua?».

Tossii, affogandomi con il boccone, il viso improvvisamente rosso.

Se ne andò con una risata. «Hai capito il fratellino…».

Edward mi riaccompagnò a casa subito dopo che ebbi finito di mangiare. Mi spiegò che si sarebbero organizzati in turni per sorvegliare la casa e farmi stare al sicuro, e poi, dopo un lungo bacio d’addio, mi lasciò con la promessa che sarebbe presto tornato da me.

Per occupare il tempo senza nascondermi sotto le coperte in preda al terrore, decisi di mettermi all’opera con il dipinto. Avrei, comunque, dovuto terminarlo nel giro di due giorni. Presi la tela e la fissai sul cavalletto. Poi, ricuperai i colori dal cassetto nella scrivania e cominciai a prepararli. Mi misi all’opera, di fronte al quadro, dipingendo un tranquillo paesaggio verde, piuttosto anonimo. Speravo che intanto potessi avere una vera ispirazione.

Erano solo le cinque quando sentii la porta di casa aprirsi. Per un secondo il cuore prese a battermi all’impazzata, ma quando realizzai che Jacob non si sarebbe disturbato ad entrare dalla porta o che una delle mie guardie non gliel’avrebbe mai lasciato fare, mi diedi subito della stupida. Forse la proposta dei tranquillanti non era poi tanto assurda. Stavo diventando paranoica.

Quando andai a controllare, di fatti, era mio padre. «Cosa ci fai qui?» chiesi sorpresa dalla cima delle scale.

Torse il collo per guardarmi. «Oh, Bells, sei qui. Pensavo fossi da… lui, sai. Sono tornato prima per sistemare alcuni scatoloni che sono saltati fuori dal mio armadio. Non avevo più spazio».

Mio padre che non aveva più spazio nell’armadio, questa sì che era una notizia. A parte tre completi, una polo e un paio di pantaloni di velluto e le due divise non gli avevo visto indossare poi molto. Doveva esserci aria di cambiamento, in giro. «Hai bisogno d’aiuto?».

«No, no, non ti preoccupare. Ma… umh… lui non c’è?» chiese, una volta giunto sulla cima delle scale, guardandosi attorno.

Sollevai gli occhi al cielo. Si ostinava a non chiamarlo per nome. «No, papà. Edward non c’è. Tornerà domani. Preparo la cena alle sette, come al solito».

«Le sette, come al solito. Certo Bells, certo» borbottò, infilandosi in camera sua.

Tuttavia il pomeriggio fu poco produttivo. Non riuscii a far altro che completare lo sfondo, senza però avere niente di simile all’ispirazione che stavo cercando. Raccolsi la chiamata di Edward, che, come promesso, si stava facendo sentire ogni ora, e poi mi recai al piano di sotto per preparare la cena.

Mi sentivo triste, e avevo voglia di ciondolare per casa senza fare nulla. Non mi andava neppure tanto di mangiare. Era incredibile quanto Edward potesse mancarmi. Non vedevo l’ora di mettermi a dormire per far passare velocemente il tempo o poi ritrovarlo di nuovo, come sempre, accanto  ame.

Al contrario mio padre, affamato, apprezzò il mio risotto col pesce. «Allora Bells, come va con il dipinto?» mi chiese, continuando a rimpinzarsi.

Storsi le labbra. «Sono un po’ in ritardo. Temo che dovrò lavorare per tutta la notte».

Sollevò le sopracciglia, mormorando qualcosa e ciondolando sulla sedia. «Oh, beh, comunque. Volevo darti questo» disse, passandomi quello che aveva tutta l’aria di essere un album fotografico.

«Cos’è?».

«Sono… foto. Beh, credo che debba averlo tu, figliola. Specialmente adesso, ecco» borbottò, arrossendo vistosamente.

Sollevai le sopracciglia, prendendolo, ma non commentai per non metterlo ulteriormente in imbarazzo. Fu solo quando fui in camera, sola, che decisi di aprirlo per vedere di che foto si trattasse. Rimasi a bocca aperta quando vidi mio padre e mia madre in abiti da sposi. Charlie non sembrava nemmeno lui, con tutti quei capelli.

Sorrisi, voltando pagina. Dopo una decina di foto del matrimonio ne seguì una in una posa che non riuscii a comprendere immediatamente, ma che quando lo feci mi lasciò di stucco. Mio padre era chino sulla pancia di mia madre, sdraiata, e l’accarezzava amorevolmente. Le successive ritraevano mia madre con un pancione crescente e la gioia dipinta sul volto. Mi chiedevo cosa fosse andato storto, fra loro, vedendoli così felici. Realizzai di star piangendo solo quando vidi la foto che ritraeva Reneè e Charlie stretti in un abbraccio, con me, piccolissima, incuneata nelle braccia di mio padre.

Presi due respiri, lentamente. Le mani mi tremavano.

Il telefono squillò. Edward.

Mi asciugai le lacrime e mi sollevai di scatto. «Edward?» mormorai velocemente, ansiosa di sentire la sua voce.

«Tesoro. Siamo quasi arrivati. Tutto bene?».

«Mm-mm. Avevo voglia di sentire la tua voce» mormorai, senza riuscire a nascondere la malinconia.

«Oh, amore. Lo sai che tornerò presto, vero?». Lottai, e riuscii ad arginare le lacrime. Mi passai una mano attorno al busto. Stavo così bene quando pensavo a lui, non mi mancava nient’altro. Rimasi così, cullata dal suono della sua voce finché non mi fui calmata del tutto. «Ti amo» mi salutò.

«Anch’io. Ti amo» sospirai, chiudendo la cornetta. Fissai il vuoto nella mia stanza. Avevo una tela da finire.

Dipinsi per tutta la sera, fino a notte fonda. Avevo abbozzato due dame, una cortigiana con una vestito rosso e un ombrellino e una dama di compagnia, e intorno a loro tre bambini giocavano felici, correndo da una parte all’altra. Erano tutti e tre figli della dama di compagnia e la cortigiana li aveva adottati come suoi, perché non poteva averne. Sul suo volto avevo dipinto un’espressione di ammirazione e allo stesso tempo rammarico, per quella situazione.

Dovetti addormentarmi, perché sentii delle mani scuotermi poco delicatamente. Di certo così sudate e goffe non erano di Edward. «Bells! Credo che tu ti sia addormentata, piccola» mi chiamò mio padre.

Probabilmente avevo ancora addosso gli abiti del giorno prima. Dove mi ero stesa? E quando? Non riuscivo a ricordarlo. «Ho sonno…» mi lamentai, ricadendo sui cuscini. La luce del sole penetrava attraverso le mie palpebre. Era giorno? Quanto avevo dormito?

Sentii mio padre sbuffare. «Non hai una bella cera… Alzati e vestiti, io devo andare a lavoro, ti lascio un’aspirina sul ripiano della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a ritirare la bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato a quei teppistelli che…» le sue parole persero di consistenza e mi riaddormentai.

«Bells! Mi hai sentito?».

«Teppistelli. Aspirina. Afferrato» mormorai, riaprendo gli occhi a fatica. «Vai».

Sospirò. «Vado, vado…».

Mi alzai di malavoglia, strisciando i piedi. Controllai un attimo il cellulare e notai che c’erano due chiamate perse. Mi dovevo essere addormentata prima di dire a Edward che sarei andata a dormire, così per prima cosa lo chiamai. Fu un colloquio semplice e piuttosto monosillabico, da parte mia, ma almeno lo tranquillizzai.

Decisi di prendere un’aspirina e fare colazione prima di cambiarmi e rimettermi al lavoro. Così, ancora mezza addormentata, mi ritrovai in cucina. Presi l’aspirina in granuli che mio padre aveva lasciato sul tavolo della cucina e la sciolsi in un bicchiere dell’acqua che avevo trovato lì accanto, probabilmente lasciata da mio padre. Aveva un saporaccio, decisamente peggiore anche del solito. Quindi presi un altro bicchierone d’acqua per mandarlo via, tuttavia sembrò solo peggiorare.

Desistetti, e decisi di mettere qualcosa sotto i denti. Preparai i cereali, e il latte, e quando mi misi seduta, stranamente, già sentivo gli effetti del medicinale. Avvertivo la testa molto più leggera, quasi come se levitasse. Mangiai la colazione e mi resi conto che la vista era leggermente sfocata; probabilmente avrei presto avuto bisogno di occhiali, ma considerando che sarei diventata un vampiro quello non era un mio problema.  Salii le scale e andai a cambiarmi, ma quella sensazione di leggerezza non mi abbandonava, inoltre, ero inciampata più del solito sulle scale. Mi presi una mezz’ora per mettere apposto la casa. Sistemai la mia camera, misi i panni a lavare, rifeci il mio letto e quello di mio padre e scesi al piano di sotto a sistemare la cucina.

Misi il cartone del latte in frigo, le goccioline di condensa che si erano formate sullo sportello del freezer mi caddero sulla mano. Improvvisamente mi venne da ridere, forte. Trovavo la cosa estremamente divertente, per qualche strano motivo. Le cose peggiorarono quando chiusi lo sportello del frigo e notai che la luce che lo illuminava si spegneva. Aprii ancora lo sportello, per controllare il motivo per cui si fosse spenta e magicamente si riaccese. Restai un po’ sorpresa, ma poi, la richiusi, ed ecco che ancora una volta si spense. Poi, l’aprì ancora e si accese. Risi ancora, piegandomi a metà. Era una cosa assurda. Poi singhiozzai. Mi portai immediatamente una mano alla bocca e scoppiai di nuovo a ridere.

«Estremamente divertente» biascicai, sentendo la voce distorcersi malamente in alcuni punti. Scossi il capo, vedendo il pavimento ondeggiare stranamente. Dire che mi sentivo un po’ su di giri era un eufemismo. Afferrai il cartone dei cereali e presi uno sgabello per metterli al loro posto nella dispensa. Salii sullo sgabello e tesi il braccio per sistemare i cereali, ma un’ondata di vertigini improvvise mi assalì, facendomi sbilanciare all’indietro.

Mi ritrovai fra due braccia fredde e non spiaccicata sul pavimento come mi sarei aspettata. Scoppiai a ridere. «Oddio, non sei Edward!» esclamai fra le risate mal trattenute «ciao Jasper».

Mi fissò, con un sopracciglio alzato, facendomi scendere dalle sue braccia. «No, non lo sono». Mi mise in posizione eretta, ma le mie gambe cedettero.

«Ops!» dissi, cercando di contenere le risate, mentre lui mi afferrava.

«Bella? Ti senti bene? Sembri… euforica direi…» sembrava estremamente confuso.

«Oh, ma certo! Che male c’è ad essere contenti!?» esclamai, ridacchiando come una scolaretta.

«Niente, suppongo… Non ho capito perché Alice mi abbia detto di venire qui, ma deve avere a che fare con il tuo comportamento» disse scrutandomi.

«Meglio» dichiarai gioiosa. Mi strinsi al suo braccio. «Sai, mi sentivo molto sola» mormorai, la voce intinta nel miele.

La sua espressione si fece ancora più scettica. «Stai male?» domandò, posandomi una mano sulla fronte.

La bloccai lì dove l’aveva messa, schiacciando il mio petto al suo. «Mi sei mancato, Edward. Non lasciarmi più sola. Promettilo».

«Pensavo che avessimo chiarito il punto che non sono Edward».  Si sventolò una mano davanti al naso, facendo una smorfia, come se avesse sentito un pessimo odore. «Hai bevuto?».

Sgranai gli occhi, sorpresa dalla domanda. «Chi? Io? Umh… ho bevuto l’acqua. E il latte. Vuoi bere qualcosa insieme a me? Avanti, Edward, non farti pregare».

«Si, hai bevuto» constatò.

«Non ho bevuto niente con te. Quindi non conta. Vuoi bere un po’ da me?» domandai, chinando il collo per esporre la giugulare e dimenando le sopracciglia maliziosamente. La mia voce era così strana, eppure non riuscivo a curarmene.

«Adesso chiamiamo Alice…» disse Jasper, come se stessa parlando con una bambina.

«Oh» m’imbronciai. «Ma poi Alice vorrà fare tutte quelle prove per il matrimonio. Non ho tempo!» sbottai, allontanandomi da lui ma non riuscendo a fare neppure due passi in linea retta.

Jasper scosse il capo, caricandomi sulle spalle e trascinandomi fino al piano di sopra.

«Oddio, mi piace questo gioco! Gira tutto, è così strano» ridacchiai. Il pavimento era diventato il soffitto.

Mi lasciò cadere sul letto. «Aspetta qui» mi ordinò perentorio.

Annuii, chinando il capo a fissare le mie quattro mani, mentre sentivo Jasper parlare velocemente con qualcun altro dall’altro capo del telefono.

Sentii qualcosa del tipo “sì, ti dico che ha bevuto, e anche tanto…” e poi “no, Edward non sa niente”, “ho capito, allora non gli dirò nulla”, poi chiuse la chiamata e tornò a guardarmi.

«Edward, non sai niente?» domandai disorientata.

Sospirò. «Ok, adesso tu te ne stai qui buona buona e io trovo un modo per farti ritornare normale…».

Intanto ero sgattaiolata verso la finestra e l’avevo spalancata, avvistando la mia vicina. «Ehi, lei!» la chiamai, sporgendomi. La signora sobbalzò, sentendo la mia voce e mi rivolse un saluto timido con una mano.

«Vieni qui!» sibilò Jasper nel momento in cui un raggio di sole m’illuminò.

«Signora! Le volevo dire che non sono incita! Vede?!» dissi sollevandomi in maglione per mostrare la pancia «non c’è più bisogno di spiarmi io mi sposo perché amo il mio fidanzato!».

La signora mi fissava con gli occhi spalancati, sbigottita, mentre il sole fu coperto dalle nuvole e io mi sentii afferrare da dietro da due macigni ghiacciati.

«Vieni qui e non ti muovere, capito?»

«Ciao, Jasper!» lo salutai contenta «e tu cosa ci fai qui? Dov’è finito Edward?» domandai, improvvisamente triste.

Sollevò gli occhi al cielo.

Abbassai il viso, presa da una nostalgia immensa. Come poteva, nel giro di così pochi secondi? Mi portai una mano alla bocca, sentendo le lacrime salire agli occhi. Mi sentii improvvisamente stanca e fui sommersa da un senso di nausea. Scattai in bagno e mi ritrovai piegata sul gabinetto a vomitare. Tutta l’euforia provata si era trasformata d’un tratto in tristezza. Jasper mi aiutò a sciacquarmi la bocca, poi mi sedetti sul pavimento del bagno, fissando le  piastrelle davanti a me.

Jasper era guardingo al mio fianco.

«Edward non c’è…» constatai tristemente.

«Vuoi che vada a chiamarlo?» mi chiese con dolcezza.

Scossi il capo, depressa. «Voglio… voglio rimanere sola…» mormorai, tirando su con il naso. Abbassai il viso, premendomi una mano contro il ventre.

Mi sentii investire da un’ondata di calma, ma la tristezza faticava a scomparire.

Lasciai scivolare la guancia contro la sua spalla. Per un attimo sussultò, poi si adattò alla mia posizione. «Ieri mio padre mi ha dato delle foto. C’era mia madre, e lui. E lei era incinta. Avevano… un bambino. Beh, ero io. Sembravano davvero felici, Jasper… così felici… ed io ho dipinto un quadro su tutta questa storia, perché per un attimo ho pensato che avere un figlio sia davvero una delle più belle cose che possa accadere, e io… oh. Sono come la mia Cortigiana, non l’avrò mai…» singhiozzai, portandomi le mani al viso.

Jasper s’irrigidì, e poco dopo sentii invadermi da nuova calma. «Bella, sei sicura di quello che vuoi?» mi chiese preoccupato dopo un po’.

Nonostante il notevole annebbiamento mentale, capii la sua domanda. Battei le palpebre, sorpresa dalle parole che mi erano uscite dalla bocca. «Lui. Io voglio lui, tutto il resto non importa» dichiarai convinta, tuttavia sempre più assonnata. Era vero, nonostante forse lo volessi, nessun ipotetico figlio avrebbe potuto darmi la felicità di avere Edward al mio fianco. Mi pentii di essermi lasciata sfuggire una stupidata del genere con suo fratello.

Mi sentii sollevare per aria e mi ritrovai nel mio letto.

«Jasper… Non dire niente a Edward, per favore…» mormorai, macerata dal senso di colpa.

Sospirò. «Certo Bella. Ora dormi».

«Per favore, niente» ribadii, scivolando sempre più nel sonno.

«Niente, te lo prometto».

 

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Capitolo 15
*** Dipinto ***


-Bella

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Bella? Bella, tesoro?» mi chiamò la voce di Edward.

Sobbalzai, portandomi una mano alla testa e spalancando gli occhi. La stanza era in penombra, le tende tirate, lui era in piedi accanto al letto.

Mi fissava, al mio fianco, preoccupato. «Perché sei coricata? E perché vestita?».

Mi portai una mano alla testa dolorante confusa. «Sei tornato…» balbettai, sbattendo le palpebre.

Posò una mano sul mio viso, facendolo piegare nella sua direzione. «Jasper mi ha detto di venire, ma non mi ha spiegato il perché» fece, perplesso «cosa succede?».

Sibilai fra i denti, portandomi mani alle tempie. «Non urlare, per favore…».

Lo vidi fissarmi preoccupato, con un sopracciglio inarcato. «Bella? Ti senti male?» mi chiese confuso.

Dovevo avere un cantiere in costruzione nella testa, perché altrimenti non avrebbe dovuto farmi così male. «Oddio!» esclamai, ferendomi con la mia stessa voce. Nella testa avevo come una matassa di cotone, se il cotone potesse essere dotato di infiniti spuntoni che penetravano in ogni dove. Ogni pensiero era stanco e rallentato. Non capivo come potessi trovarmi lì, faticavo a ricordare il motivo, il luogo e il tempo in cui mi ero addormentata.

«Che ore sono?» sussurrai, fissandolo con gli occhi semi-chiusi. Cercavo di fare mente locale.

Sospirò, avviandosi ad aprire la tenda della mia stanza. «Sono le sei e mezza» dichiarò, spalancandola e facendo entrare la luce gialla del sole basso.

«Ah! Chiudila, per favore, ti prego!» esclamai. Gli occhi mi bruciavano come se fossi davvero un vampiro.

Malgrado fosse estremamente confuso fece come gli avevo chiesto, richiudendola immediatamente. Mi venne accanto, circondandomi il viso con le mani e costringendomi a riaprire gli occhi. «Temo di doverti chiedere cosa sta accadendo, Bella. Inizio a preoccuparmi seriamente» dichiarò, osservandomi con attenzione, come per uno studio medico.

«Ed io temo di doverti chiedere di parlare a bassa voce, se non vuoi che mi metta a urlare di dolore. Per favore».

Sfiorò una tempia con il pollice. «Non è così che avevo immaginato il mio ritorno» mormorò, adattandosi al mio volume di voce, «ti fa male la testa?».

Annuii, una smorfia sul viso. «Mi dispiace. Sono contenta che tu sia tornato» aggiunsi con un piccolo sorriso.

Lo ricambiò dolcemente. Si chinò, e mi lasciò un bacio sulle labbra. «Lo sono anch’io. Mi sei mancata. Ma adesso temo tu abbia bisogno di un’aspirina».

A quella parole battei le palpebre, scattando in piedi. Aspirina. Mi fiondai fuori dalla stanza e mi precipitai giù per le scale. Ogni mio passo mi rimbombava nella testa con una furia pazzesca. Entrai in cucina e afferrai dal mobiletto il pacchetto di medicinali, notando la scatola di cereali posta in bilico. I cereali. Jasper. Lo stato di ubriachezza. La farneticazioni. La vicina. La nausea. Le confessioni. Il sonno. Tutto ritornò bruscamente alla memoria, colpendomi all’improvviso.

Sbiancai, respirando a fatica, ansimando.

C’erano tre principali problemi di cui preoccuparmi.

1. Avevo praticamente urlato contro la vicina di non essere incinta.

2. Avevo confessato a Jasper il mio idiota, fulmineo, momentaneo, momento di smarrimento e voglia di essere madre.

3. Non conoscevo la causa perché tutto ciò potesse essere successo. Insomma, non mi ero mica ubriacata…

«Bella» mi richiamò Edward, confuso.

Sentivo il cuore in gola e le lacrime agli angoli degli occhi. Avrebbe letto la mente di Jasper? Lo aveva già fatto? Come potevo essere stata tanto stupida da dire o ancor prima pensare una cosa simile? Deglutii con forza, sentendo la bile salirmi fin sulla faringe.

Pensieroso si avvicinò di un passo.

Mi bloccai subito, voltandomi e prendendo dei lunghi respiri per stabilizzarmi. Non l’avrebbe mai saputo. Jasper avrebbe mantenuto la promessa, ci saremmo sposati, e niente più sarebbe cambiato. Questo era quello che volevo. Il resto era solo un delizioso contorno. Avevo avuto troppo dalla vita per desiderare seriamente di più.

«Ti spiacerebbe…» esordì Edward alle mie spalle.

Sollevai una mano per bloccare le sua parole. Lo sguardo mi scivolò su una bottiglia sul ripiano della cucina. Era una normale bottiglia d’acqua, quella da cui avevo bevuto quella mattina. La presi fra le mani e la osservai. Ne ispirai l’odore. Feci una smorfia. Decisamente pessimo.

La feci annusare a Edward, che rifece la mia stessa smorfia. «Alcol. Anche piuttosto concentrato, direi».

Sospirai, scuotendo il capo. Tutto mi era tornato alla mente. A cominciare dalle parole di mio padre: ti lascio un’aspirina sul ripiano della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a ritirare la bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato a quei teppistelli… Avevo preso l’aspirina, credendo che la bottiglia che mio padre ci aveva lasciato accanto fosse acqua, ma in realtà doveva essere l’alcol che aveva sequestrato a dei ragazzi. Ecco perché aveva quel saporaccio! Piuttosto concentrato aveva detto Edward. Mischiato con un medicinale doveva essere stato un mix letale per le mie povere meningi.

«Questo vorrebbe dire che ti sei data all’alcol?» domandò, fra lo scettico e l’ansioso. Altro che tranquillanti. Forse stava pensando di ricoverarmi in una clinica psichiatrica.

Feci una smorfia, osservandolo con un’espressione di scusa. «Non è come sembra».

«Spero davvero di no».

Sospirai, andandomi a sedere su una sedia. Posai la testa pesante su una mano. «Questa mattina mio padre mi ha lasciato un’aspirina per il mal di testa. Sono scesa in cucina e ho trovato accanto al medicinale una bottiglia. Pensavo fosse acqua, ma in realtà era quella» indicai la bottiglia di alcol che stava poggiata sul tavolo «il resto, lo puoi immaginare…» borbottai vergognosa.

Mi fissò confuso per un momento, poi, scoppiò a ridere. Mi sentii esplodere la testa, soppressa da mille suoni stridenti e contrastanti.

«Ahia!» esclamai, la testa fra le mani.

Mi prese velocemente fra le braccia, baciandomi la fronte. «Scusa, scusa, mi dispiace!» sussurrò, cercando di trattenere le risate.

«Questo non fa bene al mio ego» piagnucolai, querula. «Non che io abbia un orgoglio, dopo tutte le mie magre figure, ma ti pregherei di non ridere, se fosse possibile».

Le sue labbra s’incresparono. «Non volevo ferire il tuo ego, lo sai».

Sospirai, posando il capo contro il suo petto. I tiepidi raggi del sole illuminavano debolmente il suo viso, facendolo risplendere leggermente e i suoi capelli spettinati rifulgevano di riflessi bronzei. Misi fine alla mia tortura accorciando la distanza che rimaneva fra le nostre labbra. Le mie mani finirono fra i suoi capelli, morbidi, setosi, soffici, contorcendoglieli e attorcigliandoglieli intorno alle mie dita. «Lo so che non vuoi ferirlo. Tu tendi a gonfiare il mio ego, anche troppo. Vedi iscrivermi in una scuola per gente talentuosa senza neppure chiedermi il permesso».

Sorrise, baciandomi la fronte. «Come va il lavoro con il dipinto?».

Spalancai gli occhi, mordendomi ferocemente il labbro, e fui salvata solo dal suono del campanello.

«Ciao Bella, tuo padre deve aver lasciato qualcosa per me» disse l’agente di polizia, collega di mio padre, presentandosi alla porta. Feci una smorfia al volume della sua voce, sentendo la testa pulsare, dolorante, ma non ebbi il coraggio di chiedergli di non urlare: quale spiegazione avrei potuto dargli?

Annuii brevemente. Cincischiando un assenso fra le labbra andai a prendere quell’odiosa bottiglia di alcol di cui mi volevo sbarazzare il prima possibile.

Quando gliela porsi, salutandolo discretamente, notai alle sue spalle qualcuno di ben conosciuto. La mia vicina! Mi congedai frettolosamente dall’uomo, poi richiusi la porta alle mie spalle, lasciandomi scivolare seduta con le spalle contro il portone chiuso.

La donnina mi aveva lanciato un’occhiata spaventata.

Sollevai timorosa lo sguardo fino a incontrare quello di Edward, che si stava evidentemente trattenendo per non ridermi in faccia.

Nascosi il volto fra le mani, scuotendo il capo. «Cosa stava pensando?» sussurrai imbarazzata, allargando le dita della mano per guardarlo negli occhi.

«Beh, penso che non oserà mai più fissarti la pancia, sei contenta?» sghignazzò lui. Mi nascosi nuovamente con il volto fra le mani. «Che cosa mi sono perso Bella?» ghignò, sforzandosi di non scoppiare in una sonora risata.

«Credo di avere dei problemi legati alla tua assenza…».

Ridacchiò, risvegliando le ferite pulsanti alla testa.

Mi morsi un labbro, scuotendo la testa, rossa in viso, e rievocando ricordi ingombranti. «Temo che dovrò scusarmi anche con Jasper».

Rise più forte, un po’ sorpreso. «Jasper era qui? Devo correre immediatamente a casa a leggergli i pensieri! Torno subito!».

Sgranai gli occhi, improvvisamente terrorizzata. «No, Edward, no!».

Mi prese in giro, incurante del mio stato. «Ti prego Bella, qualcosa, qualche istante, un flash!» mi supplicò, continuando a ridere sotto i baffi.

Mi avvinghiai con le braccia attorno alle sue gambe, gli occhi ampi. «Non te ne andare» mormorai fra le labbra, deglutendo a più riprese tutta la mia paura.

«Ehi» mormorò serio, accorgendosi del mia stato. Sospirò, accovacciandosi al mio fianco e accarezzandomi la guancia. «Come ti senti ora?» mi chiese con un sorriso gentile.

Presi un respiro fra le labbra. Non volevo che si rendesse conto che c’era qualcosa che non andasse. Se solo avesse scoperto, o anche lontanamente immaginato quello che avevo detto a Jasper, ero certa che mi avrebbe lasciata immediatamente. Non potevo credere che quelle parole fossero proprio uscite dalla mia bocca, non avendo mai io provato uno spiccato desiderio di maternità. Era vero anche che, ripensandoci, non potevo non ammettere di essere stata sincera con me stessa. Avrei voluto un bambino. Ma, molto di più, volevo Edward.

Posai una mano sulla sua guancia. «Se continui a sussurrare e la smetti di ridere, per quanto io sia ridicola, posso ignorare il dolore alla testa» bisbigliai, «Mi sei mancato, e ora non posso stare con te come vorrei perché devo finire un dipinto per domani. Forse non sono tagliata per tutto questo. Mi vorrai sempre, anche se non mi avvicinerò neppure ad essere un’artista decente, o qualunque altra cosa?».

Scosse il capo, stringendo il mio fra le mani. «Certo che sì» dichiarò serio, probabilmente sorpreso dalle mie parole.

Mi strinsi a lui, posando il capo sul suo petto. «Non mi lasciare. Mai».

«Mai» ribadì, accarezzandomi la schiena. Rimanemmo così per qualche secondo, finché non decise di rompere il silenzio. «Vuoi vedere che riuscirai a finire la tua opera d’arte per domani?».

Sorrisi, staccandomi da lui. «Come?».

Lasciò un leggero buffetto sul mio naso. «Fidati di me».

Pochi minuti più tardi dipingevo la mia tela, con un grosso bicchiere d’acqua ed uno di caffè accanto a me. La presenza di Edward non mi dava fastidio, era discreta e riposante, e mi faceva mettere tutto nella giusta prospettiva. La paura, il senso di vuoto, erano completamente spariti, lasciando spazio ad un appagamento dato dalla sua vicinanza. Non avevo bisogno di nient’altro se lui era con me. Questo era quello che volevo.

Sentivo il rumore dei pennelli strisciare sulla tela ruvida, ma non era fastidioso, mi aiutava a concentrarmi. Cambiavo spesso pennello, la forma e la dimensione erano determinanti. Così anche il piacevole suono che ne fuoriusciva mutava, creando quasi una sinfonia. Rosso, verde, blu, bianco. Ogni colore prendeva posto e si accavallava, sposava, sovrapponeva, mischiava con l’altro, in un gioco d’intrecci.

Mi accorsi che ogni personaggio aveva preso il suo posto sul prato, solo quando mi ritrovai ad osservarlo, con Edward che mi cingeva i fianchi. La Cortigiana aveva accanto a sé un meraviglioso Lord, e sorrideva felice.

L’indomani Edward mi accompagnò all’Accademia. Il dipinto giaceva nel portabagagli, ben impacchettato per opera sua; io ero sfinita, appena dopo averlo terminato mi ero addormentata. Gli avevo espressamente chiesto, comunque, di non guardare il dipinto finito. Non sapevo se sarei riuscita a reggere il suo sguardo critico senza pensare che potesse immaginare la storia costruita dietro quelle immagini. Lui, da vero galantuomo qual era sempre stato acconsentì al mio volere.

Avevo gli occhi chiusi quando giungemmo a Port Angeles.

«Siamo arrivati» mi richiamò Edward, facendomi quasi sobbalzare.

Battei le palpebre, guardandomi attorno disorientata. «Sì, certo» mormorai, affannandomi a tastare con le mani la maniglia della portiera. I miei occhi scivolarono verso l’ambiente aperto dei giardini dell’accademia. Un brivido percorse per intero la mia spina dorsale. Mi voltai vero di lui, regalandogli una piccola occhiata timorosa. «D-devo solo consegnare il dipinto, m-mi… aspetti qui?».

Mi sorrise con comprensione. «Certo». Scese dall’auto con un movimento fluido, recuperando la mia opera dal bagagliaio. «Sicura che non vuoi che ti accompagni? È pesante?» fece, sistemandomelo con cautela fra le mani.

Non feci a tempo a rispondergli che la voce timida della mia amica Amber mi chiamò, a qualche decina di metri di distanza. Eppure non si avvicinò.

Salutai frettolosamente Edward con un bacio sulle labbra, desiderosa di allontanare quel dipinto incriminato da lui - seppur bisognosa della sua vicinanza.

Parlare con Amber fu tranquillo e distensivo. Era una delle poche persone con cui mi lasciavo andare rispetto all’arte. Con tutti i vampiri finivo per sentirmi fin troppo inibita, i miei genitori non avevano conoscenza alcuna in materia.

Stavo ancora discorrendo tranquillamente con lei quando il mio professore di disegno creativo mi chiamò: “Signorina Isabella Marie Swan”. Con mani tremanti sfilai il dipinto dal portaritratti e mi avviai verso la cattedra , lasciando che le sue mani rugose e sfilate avvolgessero la cornice del dipinto. Quel professore aveva la reputazione di essere molto severo, in pochi superavano il suo esame con un voto dignitoso. Si diceva che di tanto in tanto, quando le creazioni degli studenti non lo soddisfacevano, usasse distruggerli davanti ai loro occhi. Osservavo la mia cortigiana con un sentimento ambivalente: volevo che scomparisse per sempre, insieme ai miei pensieri assurdi, eppure non potevo che continuare a sentirmene legata.

Il professore se ne stava seduto comodamente su una poltrona dietro la cattedra, con i suoi occhialini tondi, posati sul naso aquilino, e i capelli e la barba bianchi, pizzuti, a incorniciargli il volto austero e caprino. Con aria svogliata, strappò malamente la carta da imballaggio marroncina, che tanto accuratamente Edward aveva usato. Mise il dipinto ben in vista di fronte ai suoi occhi, scrutandolo. Stavo attenta a notare ogni cambiamento di espressione, torturandomi il labbro inferiore. All’inizio le sue sopracciglia erano crucciate, aveva un’aria pensierosa. Osservava ogni dettaglio, abbassando di tanto in tanto gli occhiali, per vedere meglio.

La sua espressione si fece più concentrata, poi, sul suo viso, comparve un’espressione quasi… disgustata? Il cuore iniziò a battermi forte nel petto. Il mio pensiero volò a Edward. Distruggilo. Ti prego, distruggilo e cancella i miei pensieri.

Il professore annuì. «Lo vedo. Rimarrà per sempre qui» i suoi occhi azzurri, quasi cerulei, si tuffarono nei miei. Era come se mi stesse scrutando nell’anima. Un profondo turbamento mi avvolse completamente. Cosa aveva quell’uomo di così strano? Mi osservava come se mi stesse vedendo per la prima e ultima volta.

Scosse il capo con un movimento secco, distogliendo lo sguardo, come turbato intimamente. «È un trenta» borbottò.

Il mio petto fremeva di appagamento e ansia, mentre le sue dita artigliavano la penna stilografica. La strinse, si bloccò. Sollevò il capo di scatto, intimorendomi con la sua occhiata penetrante. «Me la vuole raccontare?» continuò, sollevando un sopracciglio in segno di sfida.

Deglutii, destabilizzata.

Lanciò un’occhiata alla mia tela. «La sua storia».

Boccheggiai, presa completamente in contropiede. Ci misi qualche istante a riprendere il controllo di me stessa. Edward. Mai. «No». La sua espressione si fece più interessata, la mia ancor più intimorita. Volevo andare via. I suoi occhi mi stavano scrutando, troppo, troppo a fondo. «No» balbettai ancora. Le mie mani si strinsero sulla mia borsa in un riflesso automatico. Scappa.

Annuì, e questa volta la sua penna non esitò.

30*  Trenta cum laude

Recitava in meravigliosa calligrafia.

«E adesso vada» mormorò, annuendo e chiudendo gli occhi, strofinando una mano sulle palpebre. Stanco.

Ero ancora scossa quando io, Edward e Amber ci ritrovammo in un caffè davanti all’Accademia. La mia amica era comprensibilmente caduta vittima del fascino del mio fidanzato, ma si era previdentemente ripresa, soprattutto in vista della visita prossima del suo amato ragazzo.

La mia amica aveva spiattellato con orgoglio il mio voto a Edward, sottolineando come il professor Danbaster - questo era il suo nome - non fosse affatto generoso nelle sue valutazioni. Per questo motivo Edward e Amber si erano decisi a festeggiare il mio successo.

Non senza una mia certa ritrosia, Edward aveva tanto insistito per vedere il dipinto completato, e io non avevo potuto che accettare, arrendevole. Ne era rimasto sinceramente strabiliato.

Io avevo trattenuto il fiato e pensato: come, poi avrebbe potuto scoprire la machiavellica storia che vi era dietro? Ma l’avrebbe comunque ricordata a me.

L’avrei odiato. E amato, insieme.

«Cosa c’è?» domandò Edward, carezzandomi la schiena attraverso il sottile strato della mia magliettina estiva.

Scrollai le spalle, continuando a guardare basso dove mettevo i piedi. Camminavano nel sole alto di un mezzogiorno d’estate verso l’auto.

«Va tutto bene? Non sei contenta del tuo risultato?» mi chiese pensieroso.

«Certo che lo sono» mormorai sottovoce, stringendomi al dolce refrigerio che mi offriva il suo corpo.

Si bloccò, voltandosi a osservarmi. Piegò il capo da un lato, tracciando un semicerchio con il pollice sulla mia guancia. «E allora?».

«Niente. Non lo so, ho una brutta sensazione» confessai, tremando appena. Addosso sentivo ancora l’ultimo sguardo che il professore mi aveva rivolto. Era uno sguardo di chi prometteva molto. Di chi giurava che ci saremmo rivisti.

Una ruga increspò la fronte perfetta del mio futuro marito. Mi baciò. «Va meglio?».

Gli sorrisi appena. «Baciami ancora e te lo dirò».

 

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Capitolo 16
*** Prove del matrimonio ***


-Qui ci saranno i fiori, e qui le sedie

Capitolo riveduto e corretto.

 

Gli spruzzi d’acqua fresca raggiunsero il mio viso, rinfrescandomi. Avevo la bocca amara e lo stomaco chiuso in una morsa.

Calma, Bella. Sta bene. È lì fuori da qualche parte senza che tu lo possa vedere, ma… sta bene.

Presi un grosso respiro, guardando ancora una volta l’immagine del mio viso che si rifletteva allo specchio. I rumori provenienti dall’esterno erano un sottofondo nella mia mente: chi trasportava i fiori, chi le panche, chi addobbava gli alberi con nastri e lucine.

Bussarono alla porta.

Trasalii appena, affrettandomi ad asciugare il viso ed uscire dalla stanza. Mi ero nascosta fin troppo a lungo. Alice mi rivolse un’occhiata piena di disappunto. Era così nervosa… come se quella a doversi sposare fra quattro giorni fosse lei, e non io. «Siamo in ritardo, lo sai? Fra venti minuti arriverà il pastore».

Annuii mestamente, costringendomi a darle corda, piuttosto che dover subire le sue isterie. Strinse il braccio al mio, guidandomi verso il cortile. «Vorrei almeno darti un’idea di quello che dovrai fare. Hai scritto la tua promessa?».

«Ci sto lavorando» borbottai, scuotendo il capo.

«Ci stai lavorando? Bella!» esclamò, piantandosi al centro del giardino «devi fare solo quello, che diamine stai aspettando?». Sbuffò con un gesto eccessivo per il suo piccolo corpicino, portandosi una mano sul fianco e sollevando gli occhi al cielo, prima di puntarli su di me. «Si può sapere che diavolo hai, oggi?».

Scrollai le spalle, spostando lo sguardo per celare i miei pensieri. «Niente».

«Bella» mi richiamò con funebre serietà. Posò entrambe le mani sulle mie spalle. «Che diavolo succede? È perché ho mandato via Edward? Lo sai che non può stare qui mentre provi il tuo vestito. E si sta rendendo utile, andando a noleggiare l’auto per il vostro matrimonio».

«Non potevamo usarne una delle nostre?» protestai, imbronciata.

«No! E comunque… oh, al diavolo!» imprecò, mandando ancora gli occhi in gloria.

Non feci in tempo a domandarmi perché che: «Bella!» mi richiamò la voce di Edward, facendomi voltare di scatto nella sua direzione con un sorriso di sollievo stampato sulle labbra. Peccato che il tragitto della mia testa al suo indirizzo fosse ostacolato dalla cassapanca che Carlisle e mio padre - ho motivo di ritenere che effettivamente la presenza di quest’ultimo sia stata la causa dell’incidente, altrimenti evitabile - stavano trasportando.

Barcollai all’indietro, portandomi immediatamente una mano al punto leso, una smorfia sul viso. Più voci contemporaneamente mi chiamarono, e insieme si avvicinarono a me. Attraverso l’unico occhio che mantenni aperto vidi Edward correre - ad una velocità umana, a beneficio di mio padre - nella mia direzione.

«Merda, che male» imprecai sottovoce, strofinando con le punte delle dita la parte lesa.

«Non riesci a stare cinque minuti senza farti male, eh?» mi prese in giro Emmett, beccandosi un’occhiataccia.

Edward si avvicinò con un cipiglio, scostando senza tante cerimonie la mia mano e osservando da vicino la mia fronte. Infine sospirò, scuotendo il capo e posando le sue labbra fresche sul punto dolente. «Non è niente».

«Niente? Niente? Che ci faccio con la tua faccia se per caso ti viene un bernoccolo?! Me lo dici?! La sposa col bernoccolo, in tutti i cinema dal 13 Agosto!» sbraitò Alice, nervosa. Ancora non aveva smesso di fissarmi, con la bocca spalancata.

«Non dovremmo lasciare che la controlli qualcuno di più esperto?» obbiettò mio padre, fissando in malo modo il mio fidanzato.

«Sto bene, papà» borbottai, rossa di vergogna. Edward premeva il suo palmo contro la mia fronte. Meglio del ghiaccio.

«Chi ce lo dice?» borbottò con serietà «l’ultima volta sei finita in ospedale».

Edward tentò di ammansirlo, con voce gentile. «Le assicuro, signore, che sua figlia sta bene. Sarà solo un po’ indolenzita».

Ovviamente il suo commento non ebbe che l’effetto contrario, facendo infervorare ancor di più mio padre, che si era preparato a ribattere, un pugno per aria.

«Possiamo controllare. Un minuto, non costerà nulla» intervenne prontamente Carlisle, un sorriso conciliatore. «Vieni, Bella. Ci impiegheremo solo un attimo, davvero».

Mio padre borbottò quello che sembrava un brontolio soddisfatto, mentre con un sospiro Edward accettò di guidarmi verso la panca a un lato del giardino. «Carlisle, davvero. Spero tu non voglia farlo sul serio» protestai quando mi si avvicinò. Eravamo abbastanza distanti e nascosti da mio padre perché non si accorgesse di nulla.

Mi sorrise, scuotendo il capo. «Fammi solo vedere un secondo» mormorò, posando le punte delle dita fresche sulla mia fronte, per meno di qualche secondo. «Un po’ di… ghiaccio andrà bene», continuò, lasciandomi un occhiolino e allontanandosi discretamente.

Sospirai, chinandomi verso Edward. Avvolse il capo con una mano, nascondendolo nell’incavo del suo collo e baciandomi la sommità della testa. Chiusi gli occhi, beata in quella posizione, e man mano sentii i muscoli del corpo riacquisire il giusto rilassamento, quello che per tutta la mattinata gli era stata negato, chiudendomi lo stomaco e impedendomi di fare colazione. Eppure… continuavo a sentire qualcosa che mi bloccava.

«Cosa c’è?» mormorò Edward, intuendo forse il mio stato.

Deglutii contro il suo petto. «Mi sei mancato».

Baciò ancora una volta i miei capelli. «Lo sai che non mi accadrà nulla. So badare a me stesso. E non si è più fatto vivo, lo sai».

Chiusi gli occhi, prendendo a respirare più superficialmente. Mi stava tornando la nausea - molto probabilmente avrei saltato anche il pranzo. «Lo so. È quello che mi sono ripetuta. Però…».

«Però?».

Mi morsi un labbro con forza. «Ho solo un cattivo presentimento. Un brutto, cattivo presentimento».

«Ehi» mormorò, separandosi dal mio corpo per guardarmi negli occhi «non ti accadrà nulla. Te lo prometto».

«E nemmeno a te» borbottai preoccupata.

Mi sorrise. «E nemmeno a me».

«E nemmeno a nessun altro».

Ridacchiò, avvicinandosi a sfiorare il naso col mio. «Mh-mh. A nessuno» soffiò sulle mie labbra prima di lambirle dolcemente con le sue. Un bacio dolce e amorevole che ben presto crebbe, sotto la spinta della mia frustrazione repressa. Meglio. Avremmo approfondito quelle che chiamavo “prove pre-matrimonio”.

Avevo le mani avvinghiate nei suoi capelli, e lui nei miei, quando il pastore Weber si schiarì la voce. «Non mi sembra di aver detto ancora “adesso può baciare la sposa”» scherzò, dall’altezza della sua posizione eretta.

Sollevai lo sguardo e avvampai. Mi affrettai a sollevarmi in piedi, dando un minimo di contegno alla mia aria strapazzata.

«Pastore Weber» lo salutò cordialmente Edward, impeccabile, porgendogli una mano e cingendomi con l’altro braccio, facendomi imbarazzare ancor di più.

«Buongiorno» cincischiai io, rossa come un pomodoro.

Ridacchiò, evidentemente per nulla toccato dalla nostra performance. «Buongiorno ragazzi. Allora, dov’è che mi devo mettere? Prima cominciamo e prima finiamo. Penso ci impiegheremo non più di un’oretta, poi io dovrei andare via…».

«Oh, pastore!» lo richiamò Alice, svolazzandogli intorno. Di sicuro lei non era dello stesso avviso. «Venga, le mostro dove ho intenzione di mettere l’arco. Lei che ne dice, quel posto lì infondo le piace? Oppure si poterebbe fare lì è lì. Di solito come sono disposte le sedie? Come le sistemano? C’è abbastanza spazio?».

«B…beh, signorina. Io sono abituato a celebrare anche in chiesa, per me non fa molta differenza…» balbettò il pastore, imbarazzato.

Sospirai, voltandomi verso Edward che scrollò le spalle, noncurante. Venti minuti dopo stavamo provando. Ero sull’ingresso, con mio padre (più imbarazzato di me) al mio fianco. Alice mi aveva messo un pezzo di tulle a mo’ di velo fra i capelli, e ora svolazzava al vento che contraddistingueva quella giornata. Il cielo era denso di nuvole di pioggia ancora non scesa.

Lei camminava davanti a me, con estrema grazia e leggiadria, sussurrandomi di tanto in tanto “attenta a dove metti i piedi”, “non inciampare”. Mi aveva costretto ad indossare i tacchi, come prova per il giorno del matrimonio. A nulla erano servite le mie proteste per cercare di ottenere un paio di ballerine. Non so come, riuscii ad arrivare accanto a Edward, che se ne stava impeccabile, sorridendo accanto al pastore. Ci spiegò tutto quello che dovevamo dire e come si doveva svolgere in teoria la funzione.

Così, cominciammo a provare. Cominciammo, e circa due ore e mezzo dopo eravamo ancora lì. Mio padre sbuffava a non finire, borbottando circa impegni improrogabili. A me dolevano incredibilmente i piedi, la nausea non accennava a passare, e la noia mi rendeva più difficile contenere il mio cattivo umore.

Il pastore Weber, spazientito come tutti gli umani privi di resistenza e pazienza illimitata, lanciava continue occhiate all’orologio al suo polso. «Signorina Alice, mi dispiace, ma devo proprio andare, mi sembra che gli sposi siano perfetti, non c’è nulla che non vada. Sono in ritardo per il mio appuntamento» disse, squagliandosela.

«Ma, pastore! Non si può intrattenere ancora altri cinque minuti! La prego!» provò a trattenerlo Alice.

Lui fece un cenno lontano con una mano, mentre apriva la portiera dell’auto e se ne andava.

«Mi dispiace Alice, ma devo andare anch’io» si accodò mio padre, cogliendo la palla al balzo «Ho proprio un… umh… impegno improrogabile» ciancicò prima di fuggire.

Sospirai, stringendomi a Edward. Libera da quella tortura.

Ma non per Alice. «Bella, noi continuiamo a provare. Jasper, tu fai la parte di Charlie. Emmett, tu quella del pastore».

Gemetti, sollevando gli occhi al cielo.

«Alice, smettila» la interruppe Edward prima che potessi farlo io «è tardi e siamo stanchi, e a me e Bella non importa che sia tutto perfetto. L’importante è sposarci. È ora di pranzo, ormai».

A quelle parole sentii un conato, represso prontamente. Non sarei stata in grado di inserire nulla nel mio stomaco in subbuglio. «Beh… forse… potremmo provare ancora un paio di volte» balbettai, provando a sembrare convincente. Non volevo rendere Edward parte del mio stato di agitazione.

Si voltò nella mia direzione con un’espressione perplessa. Questo, prima che una folata di vento improvvisa soffiasse nella nostra direzione, e tutti i vampiri si bloccassero, smettendo di respirare e voltandosi verso l’ingresso di casa Cullen. Tutti in posizione di difesa. Edward aveva il volto impregnato di un’espressione di puro odio. Ringhiava, fra i denti.

Il mio cuore aumentò esponenzialmente i battiti, mentre il respiro si mozzava in gola. Il mio presentimento. Il mio terribile presentimento.

«Cani…» sibilò Edward, contenendosi a stento.

Il mio cuore, che in quei pochi secondi aveva accelerato repentinamente, si bloccò. Si udì un tuono, e il suono di qualcosa che veniva spostato dentro casa. Era lì, a pochi metri da me. Era lì, e i miei ultimi peggiori incubi si stavano realizzando, letteralmente.

«Calma» intervenne Carlisle, cosicché tutti, lentamente, abbandonarono la loro posizione di difesa, mantenendo uno stato di tensione. Facilmente palpabile.

Edward si mosse rigidamente ponendo un braccio intorno alla mia vita, stringendomi a sé, in un istinto di protezione.

«E’ in casa» bisbigliò Jasper.

«Non vedo niente» disse risoluta Alice.

Carlisle annuì. «Dobbiamo organizzare un piano. E’ solo uno?» chiese a Edward.

Lo percepii irrigidirsi ancor di più. «Lui. Solo lui» sputò con disprezzo.

Era tornato. L’aveva detto e l’aveva fatto. Era tornato. A nulla erano servite le raccomandazioni e le rassicurazioni che Edward mi avevano fatto in quei mesi. Gli incubi peggiori ritornano sempre, e questo, pretendendo il suo posto nella mia mente. Il mio timore non era affatto vano, accresciuto dalle immagini e la situazione così simile a quelle dei miei incubi: il velo al vento, il pericolo a pochi metri da me, la terribile preoccupazione. E… la morte di Edward. Mi gelai completamente, incapace di muovermi o parlare.

Carlisle si mosse per organizzare un piano. «Jasper, cosa proponi?».

Lui lanciò un’occhiata a Edward che gli rispose sicuro quanto arrabbiato. «Lo sento a intervalli, non chiaramente. Vuole combattere».

«Già, ma perché è venuto da solo? Sa benissimo che così non ha speranze… mi sembra troppo facile» meditò Jasper, una ruga di preoccupazione sul volto.

Si udì un nuovo rumore provenire dall’interno.

«Ci dobbiamo sbrigare» intervenne Esme, che camminando si era avvicinata a me e Edward, aumentando la protezione nei miei riguardi.

«Lo uccidiamo, o lo imprigioniamo e chiamiamo i licantropi per farlo venire a prendere?» chiese Alice determinata.

Sentii un brivido attraversarmi la schiena.

«Uccidiamolo, non possiamo permettergli di ritornare» ringhiò Rosalie.

Carlisle sollevò le braccia, bloccando il dibattito che si era venuto a creare. «Vi ricordo che non siamo assassini, se non sarà necessario, non lo uccideremo. Non sappiamo con precisione cosa voglia».

Sentii che la presa di Edward si faceva più forte intorno al mio corpo, possessiva e protettiva, impedendomi di cadere in pezzi.

Jasper cominciò a dare istruzioni: «Va bene, proviamo a capirne le intenzioni, ma se non funziona attacchiamo. Esme e Carlisle, entrate dall’ingresso principale. Rosalie, tu entra dal secondo piano, dalla stanza di Edward. Alice, tu vieni con me, entriamo dal retro. Edward, anche tu verrai con noi» ordinò con decisione, facendomi sbiancare. Significava che… «Emmett, prendi Bella e nascondetevi nel bosco, non allontanatevi troppo, rimanete nei dintorni».

«Cosa? Ma io voglio combattere!» si lamentò lui.

«Edward…» sussurrai solo, quasi involontariamente, stringendomi maggiormente contro il suo petto. Mi stupii di quanto la mia voce fosse distorta e acuta.

Posò le sue labbra sulla mia testa.

Jasper scosse il capo nella mia direzione. «Edward mi serve, non possiamo rischiare di non leggergli nel pensiero. Dobbiamo capire le sue intenzioni, la situazione è troppo strana». Si rivolse al fratello. «Emmett, mi dispiace, sei l’unico che da solo può proteggere Bella, devi stare con lei. Sbrighiamoci».

Ma ero completamente pietrificata, incapace di muovermi o parlare. Mi sentii girare, il mio volto si ritrovò di fronte a quello di Edward. Mi accarezzò, dolcemente, freneticamente. Poi mi lasciò un delizioso quanto rapido bacio sulle labbra, denso di promesse e significati.

«Verrò presto da te, te lo prometto. Fai quello che ti dice Emmett, e non compiere azioni stupide. Non mi accadrà nulla, capito?! Ti amo».

«No, Edward, no» mi lamentai, un basso lamento gorgogliato.

«Shh» mormorò dolcemente, posando ancora le labbra sulle mie.

«No, Edward, no! Ti prego, no!» esclamai, stringendomi a lui con tutto il peso del mio corpo.

Emmett, mi separò facilmente dalle sue braccia, caricandomi in spalla come fossi un sacco di patate. Edward mi fissava con uno sguardo desolato.

«No!» urlai ancora, scalciando, facendo uscire dai miei occhi lacrime di paura e rabbia, mentre il mio corpo si allontanava dal suo. Finché non fummo nella foresta.

Tutto sfrecciava confusamente intorno a me, mentre mi dibattevo nella morsa di Emmett, che comunque manteneva la presa ben salda sulle mie gambe. Improvvisamente mi lasciò andare facendomi atterrare con il sedere per terra. Eravamo in un piccolo spiazzo fra gli alberi. Disperata mi sollevai, velocemente, correndo malamente sui tacchi, verso il punto da dove credevo fossimo venuti. Ma lui mi riacciuffò e mi mise di nuovo in terra. Ancora una volta tentai di sollevarmi, per poi ottenere il medesimo risultato.

«Lasciami andare, lasciami andare, ti prego, lasciami andare!». Era qui. Era qui. Ci avrebbe fatto del male.

«È inutile. Anch’io vorrei stare lì a combattere anziché stare qui a farti da baby-sitter» si lagnò.

«No! Io devo andare, devo andare!» esclamai, la testa fra le mani. Era tutta colpa mia. Se solo non gli avessi dato corda. Se solo avessi messo a tacere, subito, le sue inclinazioni perverse e i suoi ricatti. Se solo avessi compreso la distorsione malata dei suoi pensieri nei miei confronti. Cosa, se non la distorsione e la malattia potevano infatti spingerlo a volermi addirittura rapire per i suoi scopi? Contro la mia volontà?

Mi sollevai ancora, presa da un moto di paura e rabbia, e Emmett mi trattenne ancora una volta. «Bella, per favore, torna qui!» mi bloccò il polso con una mano. «Edward ti ha detto che devi fare quello che dico io, perciò stai ferma».

«No» singhiozzai, scoppiando involontariamente a piangere. «È tutta colpa mia, Emmett. L’ho fatto soffrire fin troppo con la mia ingenuità e con la mia ignoranza. Jacob è sempre stato arrogante, invadente. Pensavo che fosse solo un lato del suo carattere. Invece è malato, è perverso! Guardaci! Siamo qui in un bosco! A nasconderci! Come posso condurre la mia vita in questo modo? Come può ancora Edward soffrire in questo modo a causa mia? Non posso sopportarlo, io… non posso» singhiozzai, nascondendo il viso fra le mani. La voce mi usciva graffiata per il pianto.

Emmett mi strinse nella sua presa finché non finii di sfogarmi. «Edward non ti farebbe mai una colpa di una cosa del genere. Ehi, persino io, che non vado tanto d’accordo con i cani immaginavo che quel tizio lì avrebbe dato di matto in questo modo. Fai proprio perdere la testa agli uomini, eh?» ridacchiò, «anche Edward, sai… non era così, prima che arrivassi tu. Anche lui ha perso la testa per te» ammiccò, facendomi l’occhiolino.

Risi, e poi piansi ancora fino a non avere più acqua in corpo. Esausta, mi abbandonai seduta al centro dello spiazzo, schiena contro schiena con Emmett. Il vento fischiò e gli alberi protesero verso di noi le loro fronde. Sembrava così buia la foresta, sovrastata da quel cielo nero. Iniziai involontariamente a tremare. L’ansia accumulata si stava scaricando in quel momento, facendo vibrare il mio corpo.

«Edward…» mi uscì dalle labbra, fra gli innumerevoli sospiri.

Emmett sospirò. «Non c’è niente di cui preoccuparsi».

Mi voltai nella sua direzione con un cipiglio in volto. «Come fai ad essere così calmo? Anche Rosalie è lì che rischia la vita».

«Vita?». Scoppiò in una fragorosa risata. «Nessuno rischia niente qui! Sono cinque contro uno, diamine».

«Non ti sembra strano? Perché dovrebbe fare qualcosa di così stupido? Sapendo di essere in inferiorità numerica?».

Scrollò le spalle. «Non lo so. Non pretendo di entrare nel cervello del cagnaccio. Se la caveranno comunque. E poi, ehi…» continuò con un ghigno sinistro, stringendomi in quello che doveva essere un abbraccio «se venisse dritto dritto qui… ci penserei io a lui».

Il vento fischiò tra le fronde degli alberi, producendo fruscii sinistri. Un fulmine squarciò il cielo e dopo pochi istanti si udì un tuono.

Mi strinsi maggiormente al suo corpo. E ancor di più quando si udì un altro tuono. Passammo così, abbracciati, diverso tempo, senza che nessuno dei due parlasse rompendo il silenzio, con il suono del temporale in avvicinamento. Le nuvole ci guardavano dall’alto, minacciose e cariche di pioggia. Il mio velo, ancora fra i capelli, scorrazzava al vento. Non c’era secondo in cui non pensassi a Edward, a cosa stesse facendo, al fatto che era in pericolo e che, intimamente, speravo che lo uccidesse. Mi sentivo un mostro, pensandolo, ma volevo che Jacob non esistesse più.

Mi distrasse dai miei pensieri Emmett, con un commento sarcastico. «Beh, è passata quasi un’ora. Forse hanno deciso di giocarti a poker».

Un piccolo sorriso mi piegò le labbra. «Oh, si. M’immagino già Edward vestito stile Chicago: cappello in testa, sigaro in bocca, il completo gessato e le bretelle rosse».

«Oh, beh, tu immaginatelo, io l’ho visto conciato così».

«Davvero?» esclamai, al limite fra il divertimento e la disperazione.

Rise. «Certo! Avresti dovuto stare lì a sentire come pretendeva le calze rosse abbinate!».

Scossi il capo lentamente, il sorriso che scemava, mentre immaginavo la figura del mio fidanzato conciato a quel modo. «Comunque lo straccerebbe».

«Lo ha già stracciato» mormorò Emmett, con un chiaro riferimento a qualcosa che non comprendesse solo la partita.

Mi strinsi le braccia al grembo, sistemandomi meglio contro la spalla di Emmett.

Le sue sopracciglia brune si sollevarono contemporaneamente. «Hai fame?» imbronciò le labbra «in effetti voi mangiate ad orari preimpostati. Dovrebbe essere, umh… un po’ tardi per te».

Scossi il capo. «Non ho fame».

Mi osservò scettico.

«Dico sul serio, ho lo stomaco chiuso» insistetti.

«Se mi svieni Edward non me lo perdonerà mai! Vado a cercare qualcosa da farti mettere sotto i denti, va bene? Rimani qui, e non ti muovere. Starò via meno di un minuto».

Feci roteare gli occhi al cielo. «Non dovevi farmi da baby-sitter?» lo sfidai. Non avevo intenzione di mettere sotto i denti proprio nulla, se non volevo vomitarlo l’istante dopo.

«Ah-ah. Non attacca. Aspetta. Qua» sibilò, prima di scomparire nel nulla.

Frustrata, mi presi le gambe fra le braccia, facendomi piccola piccola. Fu in quel momento che mi ricordai di avere un cellulare ultimo modello in tasca. Pacchetto matrimonio. Edward me l’aveva regalato, per stare sempre in contatto anche nei momenti più impensabili e per chiamarlo per le possibili emergenze nel caso fosse stato a caccia. Inizialmente mi ero lamentata, dicendo che a me non serviva, ma quando poi mi aveva spiegato le sue motivazioni, mi ero dovuta ricredere. Rassicurarmi circa le sue condizioni, rimanere in contatto con lui, era diventato un bisogno primario.

 Tuttavia in questo momento non avrei potuto chiamarlo, l’avrei solo allarmato e messo in difficoltà. Però era passata più di un’ora…

«Ecco qui!» disse Emmett ritornando con le braccia piene di frutta, e scaricandole in un cumulo davanti a me. C’erano mele, pesche, pere e uva. «Magari avresti preferito qualcosa di più sostanzioso» disse grattandosi la testa «ma anche se t’avessi preso un po’ di carne non avresti potuto mica mangiarla cruda!».

«Nemmeno cotta» borbottai, scuotendo la testa. «Grazie, davvero, ma non ho fame».

«Su, prendi qualcosa! Mangia questa» m’invitò Emmett, passandomi una mela rossa.

«No Emmett, non ce la faccio, davvero».

Prese la mela in una mano, porgendomela, e facendole strani gesti intorno con l’altra mano «Dai bambina mia, è una mela magica, dalle un morso» fece imitando la strega di Biancaneve.

Mi sfuggì un piccolo sbuffo simile ad una risata. «Oh, davvero?».

«Ma certo, questa mela avvera tutti i tuoi desideri. Mordila e vedrai».

Roteai gli occhi al cielo, e decisi di accontentarlo. «Beh, se è così allora mi fido» sibilai sarcastica. Afferrai la mela e me la rigirai fra le mani. Mi venne da ridere. «Emmett, lo sai che alla fine Biancaneve viene avvelenata?».

«Certo, ma poi chiamo Edward così ti sveglia!» ammiccò.

«Ah, beh, allora…».

Nello stesso istante in cui cedetti, addentandola, si udì il suono di uno scoppio e mi ritrovai di fronte ad un muro di fuoco.

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Capitolo 17
*** Fuoco ***


Il cuore aveva cominciato a battermi furiosamente nel petto, mentre con le mani mi paravo il viso dal calore, e lasciavo cadere la mela in terra con un tonfo sordo

Capitolo riveduto e corretto.

 

Il cuore aveva cominciato a battermi furiosamente nel petto, mentre con le mani mi paravo il viso dal calore e lasciavo cadere la mela in terra con un tonfo sordo. Fiammate alte e bollenti si stagliavano davanti ai miei occhi. Non feci neppure in tempo ad accorgermene, che mi ritrovai a volare, e vedere le cose sfrecciarmi intorno, veloci. Mi sentii scivolare dal colosso di pietra al quale ero aggrappata.

«Reggiti!» ringhiò sommessamente Emmett, aumentando la stretta sulle mie braccia.

Mi strinsi con le gambe intorno al suo busto, mentre, tremando, nascondevo il viso sulla sua schiena.

Il muro di fuoco era davvero enorme, gli correvamo parallelamente, ma sembrava non finire mai. Era spesso almeno sette file di alberi. Ancora non riuscivo a spiegarmi per quale motivo fosse scoppiato così all’improvviso. Non potevo accettare l’unica soluzione che subito mi era venuta alla mente.

Se Jacob era arrivato a me, allora Edward…

Non mi accorsi quasi quando Emmett si fermò di botto. Il mio cuore aveva smesso di battere. Sentivo il corpo irrigidito, vigile. Ogni muscolo era teso, contratto.

«Maledizione, siamo chiusi in un cerchio!» imprecò.

L’incendio non era affatto casuale. Il pugnale che mi era stato puntato al cuore reclamava il mio petto come fodero. Sentii il crepitio del fuoco punzecchiarmi le orecchie.

«Allora, è stato lui?» chiesi senza fiato, gli occhi ampi. Dovevo sapere.

Emmett ringhiò, facendomi scendere al suolo con un movimento dalle sue spalle. «Sento puzza di cagnaccio».

Mi ritrovai malamente sorretta sui miei stessi piedi. Emmett scrutava le fiamme, tentando di individuare un varco, credo.

«Edward?» la voce mi era uscita alquanto flebile.

Il grosso vampiro si portò le mani fra i capelli, ansioso. «Non lo so, non lo so, accidenti! Non so che diavolo fare!» esclamò, lo sguardò impazzito che si muoveva rapido fra il mio viso e le fiamme, in scatti repentini. Era sempre tanto coraggioso che non si sarebbe certo tirato indietro nel caso di uno scontro. Ma quando non c’era il nemico, non c’era chi fronteggiare, tutto diveniva più complicato.

Respirai, piano. Sentivo il cuore nelle orecchie, ma non era un suono disturbante. Chiusi gli occhi, e presi un altro lungo respiro, portandomi la mano a livello del petto, sulla cicatrice che lo tagliava in obliquo. Erano in sei, e Edward avrebbe saputo difendersi. Cosa avrei potuto fare, comunque, in quel momento, per lui? Niente che non fosse salvare me stessa e suo fratello.

«Emmett». L’istante di silenzio che passò fu riempito dal rumore di un albero bruciato che cadeva in mezzo alle fiamme. Feci un passo in avanti e poggiai le mie mani sulle sue braccia, non potendo con la mia bassa statura, arrivare alle sue spalle. Lo fissai negli occhi con decisione. «Chiamiamo Edward».

Annuì, e per un istante mi parve smarrito e impaurito. Sapevo cosa stava pensando.

«Staranno bene, Rosalie starà bene» provai a rassicurarlo.

Voltò lo sguardo e ringhiò. No, ruggì. Un suono basso e cavernoso, come quello di un orso. «Se solo potessimo uscire da questa dannata gabbia».

Abbassai il viso, cavandomi il cellulare dalle tasche. ‘Il servizio non è attualmente disponibile, ci…’ rispose la voce registrata.

Mi portai una mano alle tempie, stringendo con forza. Il fumo si stava abbassando, per colpa del vento. «Pensiamo, cosa possiamo fare? Non possiamo saltare il muro?» domandai spaventata.

«Se vuoi rischiare di morire» ringhiò frustrato.

«Ehi, calma. Non eri tu il super-vampiro?».

Mi mostrò i denti. «Se non sbaglio sei infiammabile. E anch’io, sai?» sbottò sarcastico.

Sentii il calore bruciarmi il viso e istintivamente feci alcuni passi indietro, seguita da Emmett. Ingoiai il magone di paura che mi stava stringendo la gola.

«Troviamo un cazzo di modo per uscire di qui, allora!» strillai isterica, il calore che mi invadeva ad ondate.

Scosse il capo, con un sorriso. «Accidenti a te, stupida umana».

Gli restituii il sorriso. Cancellando intanto il velo di sudore che mi copriva la fronte.

Sospirò. «Proviamo una cosa. Tieni questa, e non ti abbrustolire» fece, sfilandosi l’enorme giacca e porgendomela.

Corrugai le sopracciglia. «Perché? Ho caldo» protestai.

Mi bloccò le spalle. «Primo, qui si fa come dico io. Secondo, ne so qualcosa in più di te sulle ustioni. Mettila, e copriti bocca e naso».

Sbuffai, obbedendo, tuttavia. Il fumo aleggiava nell’aria pizzicandomi gli occhi e facendomeli lacrimare. Tossicchiai. In un attimo scomparve alla mia vista. «Emmett!» urlai, troppo tardi.

Tornò dopo pochi secondi, con il grosso tronco di un albero fra le braccia.

«Cosa diavolo hai intenzione di fare con quello?» strillai, mentre lo faceva ondeggiare pericolosamente.

«Ci dobbiamo sbrigare» borbottò «il fuoco sta divampando».

«Emmett!».

Mi scoccò un’occhiata. «Sta’ a vedere». E abbassò l’albero divelto, usandolo per spazzare i tronchi bruciacchiati e in fiamme. Riuscì ad abbatterne solo tre, prima che il tronco che aveva in mano prendesse fuoco.

Deglutii, spaventata. Troppo lento. «Di questo passo non ce la faremo mai!» urlai, avvicinandomi per farmi sentire nonostante il crepitio del fuoco. Una zaffata di fumo caldo m’investì in pieno.

«È l’unica cosa che mi è venuta in mente» ringhiò, voltandosi di scatto nella mia direzione. Allargò gli occhi e mi prese fra le braccia, facendo un balzo indietro. «E sta’ lontana, dannata zuccona!».

Scossi il capo, le lacrime ai lati degli occhi. «Non funziona» gracchiai, la voce soffocata.

Abbassò le spalle in un lungo sospiro. «Lo so. Cazzo, lo so» sbottò, gli occhi fissi sul fuoco. «Sali su, proviamo a saltarlo».

Sgranai gli occhi. «Ma, hai appena detto…».

«So cosa ho appena detto» sibilò sui denti. «Salta su».

Tremai, esitai. E poi feci come mi diceva. Forse aveva ragione, un’ustione era meglio della vita. Mi strinsi con tutta la mia forza umana al suo torace ampio. Il fuoco era troppo, troppo alto. E tutto questo accadeva, ancora una volta, solo a causa mia…

Emmett caricò sulle gambe, pronto a saltare.

In quel momento si udì un ringhio mostruoso e un ululato, tanto che chiusi istintivamente gli occhi e mi tappai le orecchie. La presa della mani di Emmett si annullò e caddi a terra. Quando li riaprii lo spettacolo che mi si presentava dinanzi era alquanto pauroso.

Jacob, al centro della radura, tremava in modo violento, nudo, fissando in maniera malsana il velo da sposa che si agitava sui miei capelli. Il cuore prese a battermi velocissimo nel petto. Emmett si era posto davanti a me, a proteggermi.

Jacob alzò lo sguardo, puntandolo nei miei occhi. Il peggiore dei miei incubi si stava realizzando, ed era quasi assurdo che fosse così, quando la persona che avevo davanti era stata un tempo quella che consideravo il mio migliore amico. Ma chi, sano di mente, appicca un fuoco in una foresta solo per avere con sé una donna, una per cui ha un interesse che non può essere definito null’altro che morboso?

«Lasciala a me… E tu te ne potrai andare. Lasciala e me, e vi salverete entrambi. Lasciala a me…» ringhiò fra i fremiti «è mia!» urlò, serrando i pugni. Mi sentii sprofondare. Tutte le speranze che avevo serbato fino a quel momento, in un attimo si erano dissolte nel nulla. Non ero capace di muovermi, di parlare, di fare nulla. Ero bloccata dalla paura. Paura che non era comparsa quando davanti ai miei occhi si era presentata la mia morte. Paura per adesso, con Jacob, per qualche motivo, di fronte a me.

«Scordatelo, cagnaccio!» di rispose furioso Emmett, con un ghigno di sfida stampato in faccia.

Qualcosa svolazzò davanti a i miei occhi. Una foglia bruciata che cadeva lentamente, cullata dal vento, consumandosi nel rosso del fuco. La stessa cosa stava facendo nella mie mente buia un pensiero ramingo. «Dov’è Edward?» chiesi con voce tremante.

Gli occhi di Jacob si scurirono di rabbia. «Pensi sempre a lui, eh? Sempre e solo a lui. È un’ossessione, la tua, come puoi non capirlo? È senza vita, Bells! Il suo cure non batte! Come puoi non vederlo, come puoi non capirlo?».

Serrai i pugni, controllandomi a stento. Non volevo rispondergli. Lui mi ama, gli avrei detto. Mi ama, e questo lo rende più vivo che mai. «Dimmi, dov’è, Edward» scandii, inferocita. La testa cominciò a girarmi, per l’angoscia e per il calore insopportabile.

Fortissimi tremiti, simili a convulsioni, lo attraversarono. Un lento sorriso malevolo si disegnò sulle sue labbra. «No. Lui non c’è più, ci sono solo io ora» ghignò, malevolo.

Il respiro divenne affannoso, mi si bloccò in gola. «Cosa significa non c’è più?!» la mia voce era rotta, roca, a stento controllavo le lacrime, sia per la tensione, che per il fumo nero che mi offuscava la vista. Tossii. Non fidarti di lui. Ascolta la voce nella tua testa. Edward è ancora vivo. Non fidarti di lui. Una trappola, era solo una trappola.

Il suo sorriso si fece strafottente, compiaciuto. Come poteva dire di volermi e cullarsi nel mio dolore? Mi sollevai malamente sulle gambe, andandogli incontro con la cieca intenzione di fargli del male, del male fisico. Di uccidere la sua strafottenza, di seppellirla sotto il fuoco e la cenere, di seppellirlo sotto il fuoco e la cenere.

Emmett mi trattenne per un braccio. «Dicci dov’è, o taci e muori».

Jacob scoppiò in una fragorosa risata. Strafottente. «Se io muoio, chi vi salva?».

Ebbi un fremito. Ero completamente sudata, e il calore mi stava divorando, e mi offuscava la mente. L’angoscia per la sorte di Edward mi stava consumando. Emmett mi mise un braccio intorno al corpo, alleviando il mio malessere con la sua frescura. Jacob ringhiò. Mi sentivo profondamente stordita. Mio malgrado mi abbandonai contro il suo petto, tossicchiando per il fumo.

«Non vedi che sta morendo di caldo? La stai facendo soffrire, cane!».

Jacob parve per un attimo ridestarsi, ritornare il ragazzino di sempre. «Io… io non… non volevo… io non voglio fare del male!».

Provavo odio. Il calore si riversava come un’onda, spinto dal vento. «Cosa vuoi da me?» sibilai a voce bassa, per quanto riuscissi.

Fece un gesto stizzoso con le braccia. «La possibilità di farti capire cosa vuoi veramente».

«L’hai già avuta» sbottai duramente.

«Non davvero» incalzò, ammorbidito da quello che aveva preso come una mia apertura nei suoi confronti. «Non davvero, Bells! Non hai ancora capito che mi ami!».

«Perché non ti amo!» ribattei, frustrata. «Ti sei preso con la forza una parte di me, insinuandoti nella mia vita come un conforto, una spalla su cui piangere. E poi mi hai chiesto sempre di più, sempre di più, non ti bastava mai. Mi hai chiesto ciò che non potevo o volevo darti - no, l’hai preteso. Sei sempre stato abituato a fare uso della tua forza. Basta, Jacob! Ora basta! Lasciami andare!».

«Mai!» urlò, paonazzo.

Sollevai le braccia al cielo, fra il fumo. Mi girava la testa. «Non ti rendi conto quanto folle sia tutto questo? Come puoi non farlo? Come?! Hai appiccato un incendio in un bosco! Solo per parlarmi!». Mi portai le mani sugli occhi, mentre sentivo il mio corpo scivolare inesorabilmente verso il basso, e la presa di Emmett farsi più forte.

Le sue narici si allargavano, mentre respirava rumorosamente. Come un toro infuriato. «Per averti! Non per parlarti… per averti».

«Non mi avrai» ribattei, infuriata. «Mai. Non mi avrai mai! Piuttosto mi ucciderò, hai capito?» strillai, isterica, e gli avrei strappato gli occhi con le unghie se Emmett non mi avesse trattenuta. «Questi mesi sono stati un incubo! Un incubo! Ho vissuto con il terrore che potessi tornare da me. Ho pregato perché mi stessi lontano. E te lo devo confessare, ho pregato, perché tu morissi!».

«Bella».

Mi voltai. Emmett mi teneva stretta nella sua presa. Battei le palpebre, incerta. L’avevo solo immaginato…? La mia mente mi pareva così confusa, adesso, così lontana ora che tutto il fiato mi era uscito dai polmoni.

«Bella!» una voce lontana, mascherata e ovattata dal crepitio del legno che brucia.

Ne ero certa. Non era un’allucinazione. «Edward!» urlai, con tutta la forza che avevo. Mi sentivo immediatamente rinvigorita, più forte, sveglia, come se un dolce balsamo e un velo di seta fosse passato sulle mie ferite pulsanti.

«Lei è mia!». Il grido di Jacob si espanse per tutta la foresta in fiamme.

Risposi con altrettanto vigore e decisione urlando un «No!».

All’istante un enorme lupo furioso, con i denti digrignati, si lanciò verso di me. Mi portai, in un gesto istintivo quanto inutile, le braccia sulla testa, per proteggermi.

Passarono alcuni istanti, ma non successe nulla.

Allora riaprii gli occhi, osservando la scena che mi si presentava a circa venti metri di distanza. Emmett stava lottando contro l’enorme lupo, ad una velocità cui difficilmente riuscivo a tenere testa, soprattutto ora che la mia mente era offuscata.

Avvertii un movimento nella tasca dei miei jeans. Quasi come un automa afferrai il cellulare, e risposi. «Bella!».

Emisi un lungo sibilo. «Edward» poi, più forte «Edward? Dove sei?». Il rumore del fuoco in avanzamento copriva la mia voce.

La sue parole, pur volendo essere rassicuranti, uscirono alquanto ansiose «Sono qui, sono vicino, non temere».

Ero ansiosa, preoccupata. «Edward, lui è qui! E’ tornato, è tornato! E’ stato lui ad appiccare l’incendio…» lanciai un’altra occhiata allo scontro che imperversava.

«Lo so Bella, lo so. Ci ha ingannati tutti, non era lui dentro la casa! Ci ha fatto perdere un mucchio di tempo prezioso, mentre lui era qui con te! Accidenti… Jasper aveva ragione, c’era qualcosa che non andava, ci ha ingannati tutti!» sbottò frustrato, e lo immaginai passarsi una mano fra i capelli, come faceva sempre quando lo era. «Ma ora verrò a prenderti, te lo giuro».

Alcune parole di Jacob mi tornarono alla mente. «Edward?» lo chiamai.

«Sono sempre qui».

«Lui sa come farci uscire da qui, c’è un modo. Quando è scoppiato l’incendio, lui non c’era nel cerchio, è venuto dopo!».

«Carlisle, hai sentito?» gli sentii mormorare. Poi la sua voce si fece più rassicurante. «Lo troverò. Troverò il modo».

Udii un ululato, e mi voltai, spaventata, verso il suo luogo di provenienza. Emmett teneva Jacob per il collo e una zampa, mentre lui si dibatteva, azzannando l’aria con i denti, pericolosamente vicino alla testa di Emmett.

Chiusi le palpebre, e vivida nel buio vivi un’immagine. Il fuoco. L’unica cosa che potesse ferire un vampiro era il fuoco. Jacob aveva progettato perfettamente il suo piano. Voleva che Edward morisse. E voleva avere me. Non gli avrei permesso di ottenere nulla di tutto questo.

Tossii.

«Bella? Bella, cos’hai?».

«N…nulla…» mi cancellai, quasi inutilmente, il sudore che mi ricopriva il viso. La testa mi girava, stavo per cadere a terra, le ginocchia non mi avrebbero sorretto ancora per molto.

«Non è vero che non è nulla, io ti vedo». Mi ricordai, scioccamente, solo allora della sua facoltà di leggere nel pensiero. Crollai accovacciata a terra, il cellulare ben saldo accanto all’orecchio. «Bella! Dannazione!». Un tronco d’albero incendiato cadde a pochi metri da me. Mi feci forza e gli gattonai lontano, verso altri alberi non ancora in fiamme.

«Edward» lo chiamai debolmente.

«Sono qui amore, sono qui. Sto venendo a prenderti».

«Edward» ripetei ancora, come se riempirmi la bocca del suono del suo nome fosse oltremodo rassicurante. «Non permettergli di ucciderti».

Solo il silenzio passò per la cornetta per alcuni secondi. «No. Non lo farò mai» rispose, incerto per le mie parole.

Presi un fiato e un breve respiro. Faceva male morire bruciati? Immaginavo di sì, molto. Chiusi gli occhi, e ricordai uno dei miei primi tentativi di fare un dolce. Ero ancora con mia madre, a Phoenix. Avevo appena sfiorato la teglia bollente, e poi mi aveva fatto male per tutto il giorno, prima di scomparire senza lasciare segni. Le mie palpebre tremolarono. Un altro ricordo. Stavo insegnando a Edward a fare dei biscotti, non più di un mese fa.

«Cosa ti importa? Li mangio solo io».

Aveva sorriso, un sorriso gentile e composto. «Voglio cucinare per te. Almeno per una volta. Dai, cosa ti costa? Insegnami».

C’era stata tanta farina per aria, e tanti baci, e tante prove per la prima notte di nozze. Volevo sempre di più, quando ero con lui.

E poi. «Ehi! Si stanno bruciando!» avevo esclamato, mezzo ridendo. Avevo aperto il forno di fretta, ma il mio anello era rimasto incastrato contro la grata. Solo per qualche secondo. Aveva fatto male qualche, terribile, orribile secondo, poi non avevo sentito più nulla. Era una bruciatura abbastanza grave, e mi era rimasta la cicatrice. Ma aveva fatto male solo per qualche secondo.

«Bella?».

Aprii gli occhi, rispondendo alla voce insistente del mio fidanzato. «Neppure io gli permetterò di prendermi» mormorai contro la cornetta. «Non posso, capisci? Non ci riuscirei». Sembrava facile, c’era molto fuoco.

Il panico comparve in un attimo nella sua voce. «Bella, Bella? Cosa stai dicendo, Bella? Ascoltami, ti prego. Non fare niente di stupido».

La testa mi girava, tossivo. Volevo lasciarmi andare. Forse sarebbe stato anche meno doloroso. Forse non avrei avuto scelta.

«Sì un tunnel, dev’essere proprio un tunnel!».

«Per di qua!».

Sentivo altre voci attraverso la cornetta, e le sentivo girare nella testa. 

«Bella!» - Edward.

«Sì».

«Non costringermi a venire lì adesso, capito? Non mi costringere» sibilò, facendomi sentire la paura nella sua voce, «perché sono pronto ad attraversare il fuoco, se serve».

Chiusi gli occhi, biascicando un «No» a fior di labbra.

«Amore? Ascoltami. Fai ciò che ti dico. Copriti il volto con la maglietta che ti ha dato Emmett. Respira il meno possibile, e con il naso. Fallo» mi ordinò fra i denti.

 Tentai di assecondare la sue richieste.

«Ci sei ancora?».

«Sì…» sospirai. Sentivo lontani rumori strozzati, schiocchi secchi. «Io…Emmett, ho paura per lui… non…non so…».

«Non ti preoccupare di questo, Emmett è un lottatore bravissimo e se la sta cavando alla grande. Presto ti tireremo fuori di lì, non ti preoccupare, ma ora fa come ti dico».

Tossii ancora. Il terreno mi bruciava contro la guancia. Provavo a convincermi, con tutta ma stessa, che Edward sarebbe venuto da me. Che nessuno si sarebbe fatto male.

«Sollevati in piedi, e qualunque cosa accada, non ti addormentare. Non ci provare, capito?!» disse con una disperazione e frustrazione immense.

«Va bene…» la voce mi usciva impastata, lenta, le palpebre erano pesanti. Feci pressione sul polso, posai dapprima un piede, poi mi sollevai sulle gambe inferme.

«Bene, ora cerca di portarti quanto più su puoi con il naso, non respirare più del necessario. Stiamo venendo a salvarti, va bene?! Ma tu devi resistere, resisti. Parlami, dimmi qualcosa…».

Inclinai in alto la testa, facendo come mi diceva. Con la coda dell’occhio osservai la lotta che imperversava davanti ai miei occhi, Jacob che lottava contro Emmett, senza esclusione di colpi. Si udì un ringhio e un guaito, poi ancora silenziosa lotta, animata dai giochi di luci perversi scatenati dalle fiamme. Oramai il cerchio non tempestato dalle fiamme si era davvero ridotto.

«Bella?» sentii richiamarmi da Edward, ansioso.

«Ci sono, scusa» biascicai «vorrei che lui non esistesse. Vorrei che non fosse mai esistito» mi lamentai, sentendo le lacrime spingere contro gli occhi.

Un pausa. «Lo so. Anch’io».

«L’hai trovato? Vai, vai!» sentii ancora delle voci di sottofondo, «andate prima voi! Veloci! Devo rimanere indietro a trattenere gli umani».

Colsi un bagliore bianco e grigio nel vento. «Il mio velo si è tutto bruciato» biascicai con voce tremante.

«Ne avrai uno molto più bello» mi cullò con le sue parole.

«Non capisci, Edward. Lui tornerà sempre». Allentai appena la presa contro il cellulare. Il metallo stava diventando incandescente.

«E tu starai sempre con me, finché ci sarò io».

Singhiozzai, lasciandomi andare carponi. «Perché mi fa desiderare di vederlo morto, Edward? Come può farmi desiderare una cosa tanto atroce? Non avrò…» la mia voce si affievolì «non avrò mai una vita felice insieme a te, finché lui sarà ancora qui».

«Cosa stai dicendo? Bella! - no, di là! Più veloce» aggiunse, rivolgendosi a qualcun altro.

Battei le palpebre, e provai a strisciare in avanti. Le braccia mi cedettero. «Vorrei vederlo morto» farfugliai ancora.

Qualcosa saltò nella mia direzione, facendomi allentare la presa sul telefono e cadere indietro, sui gomiti. Jacob. Puntò i suoi occhi scuri nei miei, ringhiando. Scoccai un’occhiata terrorizzata al cellulare, ad almeno due metri da me, e feci per sgattaiolare a riprenderlo. Mi bloccò la strada con un’enorme zampa. «L-lasciami! Lasciami stare!» strillai terrorizzata, cercando inutilmente la figura di Emmett. Cosa gli aveva fatto?

Le sue labbra arricciate divennero una line retta. Avanzò verso di me, facendomi indietreggiare. Verso il fuoco. Strillai quando un pezzo di ramo incandescente urtò contro il mio braccio. Era caduto da un albero, bruciato da un’estremità. Chinò il muso verso di me, annusando e uggiolando.

Chiusi gli occhi, sentendo le lacrime scendere sul volto. Non gli avrei permesso di prendermi. Non gli avrei permesso di avermi. Il fuoco, il fuoco, il fuoco. Aprii gli occhi, scoccando un’occhiata al piccolo oggetto argentato ormai troppo lontano da me. Edward.

Jacob posò il suo naso umido sulla mia guancia, leccandomi. Quanto ci avrebbe impiegato a trasformarsi e prendermi e portarmi via?

Il fuoco. Edward.

Strizzai gli occhi, scacciando via le lacrime. Con un gesto deciso afferrai il ramo dall’estremità integra colpendo con l’altra il muso del lupo. Guaì, ringhiò, si tirò indietro.

Con le ultime forze mi sollevai da terra, correndo, correndo lontano. Mi voltai solo un attimo per vedere un lupo arrabbiato con un taglio rossastro sul pelo. Si lanciò nella mia direzione, e l’unica cosa che riuscii a fare fu lasciarmi cadere per terra, raggomitolata, e sperare. Udii un grido, un grido umano, e quando osai guardare Emmett stava bloccando Jacob, a pochi metri da me.

«Scappa, Bella! Va’ via! Più lontano!» mi urlò.

Obbedii. Mi sollevai sui piedi, ma quando feci per correre ancora le mie gambe si erano trasformate in marmo. Riuscii a fare solo pochi passi, prima di sentirmi crollare. Ansimai, carponi, tossendo via il fumo, la cenere e il calore.

Poi le braccia non mi ressero più. Le palpebre si chiusero spinte dal calore divampante che mi circondava come una coperta.

Finché un rumore fragoroso, un tuono, mi fece immediatamente riaprire gli occhi.

 

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Capitolo 18
*** Un principe azzurro ***


Un rumore fragoroso, un tuono, mi fece immediatamente riaprire gli occhi

Capitolo riveduto e corretto.

 

Avevo ancora gli occhi chiusi quando riuscii, con le ultime forse, a voltarmi supina. Non avere l’erba secca e calda a pungermi le guance fu quasi piacevole. Mi sentivo molto stanza, e intorpidita, come se stessi per assopirmi. Aprii le palpebre, e vidi tantissime piccole goccioline dirigersi in un moto affannato verso i miei occhi e tempestarmi il viso. Vedevo gli abbagli luminosi causati da tuoni e fulmini. Presto le gocce d’acqua si fecero più grosse, inzuppandomi i vestiti e il volto. Un altro tuono. Il fumo si levava sempre più prepotentemente intorno a me, tanto che oramai non riuscivo più a vedere nulla. Tutto era ricoperto da una coltre grigia. Ancora uno, e un altro e un altro ancora, i tuoni non smettevano di rimbombarmi nelle orecchie. Finché non mi accorsi di essere circondata dal rumore assordante del temporale. Lo scrosciare della pioggia copriva ogni rumore di fuoco, producendo un tanfo puzzolente di carboni umidi.

Volsi leggermente il viso. Il fuoco, che potevo distinguere come un bagliore rosso, ora raggiungeva circa i dieci metri; si era notevolmente ridotto rispetto a pochi istanti prima. Il fango creatosi intorno a me m’imbrattava la camicia, i jeans, e il velo da sposa che, fino a pochi istanti fa, era candidamente bianco.

Il fuoco o Edward? Avevo scelto il fuoco o Edward? Respirai, di un respiro volontario e più profondo. Ero ancora viva. Avevo scelto Edward.

Ero così… confusa. Annebbiata. Nonostante gli elementi naturali lottassero fra di loro a pochi metri da me, mi sentivo come sospesa in un mi universo personale, nel quale non era affatto necessario muoversi.

Quanto tempo stava passando?

Le gocce che ora mi impastavano il viso, i capelli, gli occhi, e si erano insinuate così fastidiosamente da costringermi a battere in continuazione le ciglia. Avrei dovuto voltarmi, probabilmente. Se solo avessi potuto…

Non ce ne fu bisogno. Due braccia forti mi sollevarono, strappandomi via dal fango umido che si stava formando. Avvolsi le braccia contro il suo corpo e lo chiamai per nome. «Edward». Non era un sollievo dirompente quello che provavo: come se avessi da sempre previsto che sarebbe venuto da me, che sarebbe venuto a salvarmi.

«Andrà tutto bene» mi promise, risoluto. Non era ancora finita? Non andava, già, tutto bene? Il suo viso era teso. Fra i suoi capelli erano intrappolate innumerevoli gocce di pioggia. Mi accarezzò le guance, poi si voltò, mormorando qualcosa a qualcuno che gli stava accanto. Si voltò ancora a guardarmi negli occhi. «Ce la fai a metterti in piedi? Ce la fai a camminare?».

Annuii, gli occhi chiusi, e in realtà mi lasciai trascinare verso l’alto dalle sue braccia mentre mi metteva in posizione eretta. Le sue braccia sostenevano quasi completamente il mio peso.

«Reggila, non credo che riesca a mantenersi in piedi da sola; portala da Carlisle e dagli umani» continuò Edward, parlando con la persona a cui mi aveva affidata, e che mi stava sorreggendo in quel momento. Volsi appena lo sguardo: Rosalie. La vampira non doveva essere molto contenta di ritrovarsi lì con me, mentre la imbrattavo di fanghiglia, ma non lo diede comunque a vedere. Sembrava invece piuttosto… impaziente.

Guardai Edward, senza capire. Non sarebbe venuto con noi? Si stava osservando attorno, guardando oltre il fumo, dove i miei occhi non riuscivano ad arrivare. Tossii, forte, quando l’odore acre mi penetrò nei polmoni. «Edward» mormorai, chiamandolo. Si voltò in un attimo nella mia direzione. «D-dove… dove vai?» farfugliai, confusa.

La sua espressione si fece ansiosa. Certo. Come avevo fatto a non capirlo prima? Jacob era ancora lì fuori, a piede libero. E Alice e Jasper, Emmett… dovevano essere con lui. Prima che potessi capirlo sentii la bile risalirmi in gola, acida, e mi piegai in due, rigettando in una tosse convulsa quel poco che il mio stomaco conteneva. Così poco.

Sentii distintamente le braccia di Edward sostituirsi a quelle di Rosalie, e la sua mano fredda rassicurante sulla fronte. Ora doveva essere davvero schifata.

«M-mi dispiace» balbettai, tremante, rendendomi conto di non riuscire a bloccare la tosse convulsa, anche se nel mio stomaco non c’era più niente, ormai.

«Shh, shh, va tutto bene» sussurrò al mio orecchio Edward. «Tranquilla» mi rassicurò, accarezzandomi la schiena.

Sentii uno schiocco, un ruggito feroce e un grido.

«Edward!» gridò Rose, e quando sollevai lo sguardo trovai il suo, preoccupato come non mai. Cos’era successo?

«Va’ da loro, Rose. Mi occupo io di lei, vai» rispose veloce lui, e se non mi avesse tenuta così stretta ero certa che sarei caduta ancora al suolo.

L’ultima cosa che vidi fu la chioma bionda della vampira sfrecciare via, impaziente, oltre le coltre di fumo. Mi trovai sospesa fra le sue braccia. Avevo gli occhi chiusi, e Edward si muoveva a scatti, mezzo saltellando, mezzo correndo, per schivare gli ostacoli infuocati. La nausea era ancora più forte.

«Dove stiamo andando?» riuscii a biascicare.

La sua presa si fece più salda. «Fuori da qui, innanzitutto. C’è un tunnel, ecco com’è entrato. Ti porterò da Carlisle e Esme. Sono rimasti indietro per parlare con gli umani. Il fuoco e il fumo hanno attirato la guardia forestale e i vigili del fuoco».

Aprii gli occhi, improvvisamente più vigile, per poi doverli richiudere a causa di una vertigine più forte delle altre. «Mio padre?» chiesi preoccupata.

«Non ancora» sibilò fra i denti, «ma verrà. Mi dispiace. Ecco, siamo arrivati».

Aprii appena le palpebre, e in un attimo mi sentii cadere un paio di metri più in basso. Edward atterrò gentilmente sui piedi, in un morbido affondo. Eravamo fermi. Guardai in alto, verso i suoi occhi ambrati, come in cerca di spiegazioni. La sua mascella era rigida, percorsa da un tremito costante. Mi stava scrutando. «Come ti senti?».

Chiusi di nuovo gli occhi, accoccolandomi meglio contro il suo petto. «Vorrei che non fosse mai esistito».

Espirò bruscamente. «Lo so».

Deglutii, strofinando il viso contro la sua maglietta bagnata. «Mi sento solo molto, molto stanca».

«Cerca di non addormentarti, allora. Ti porto da Carlisle».

Edward sembrava volare sui suoi piedi. Attraverso le palpebre semi-chiuse riuscii a distinguere sprazzi di paesaggio. All’inizio fu un lungo tunnel buio. Era dunque quello il mezzo usato da Jacob per entrare nel cerchio di fuoco? E… cos’erano quei bagliori bianchi e lucidi, quasi argentei, che distinguevo lungo le pareti? Sembravano linee… lettere… parole…?

Non riuscii a capirlo. Tossivo senza sosta, sentendo la cenere grattarmi contro la gola, così Edward mi sollevò il capo con una mano, posandolo sulla sua maglia bagnata e proteggendomi la bocca e il naso dal fumo.

Prima di arrivare a Carlisle e Esme dovemmo affrontare anche un certo tratto all’aperto, fra gli alberi. «È per non farci vedere dagli umani» mi spiegò Edward.

Annuii appena. Sentivo la gola pungere, secca, e non riuscivo a smettere di tossire tanto da farmi lacrimare gli occhi. Mi accorsi che eravamo vicino agli umani per il vociare veloce e il suono assordante delle sirene.

«Edward» ci chiamò Carlisle, come se fosse sorpreso e sollevato di vederci lì. Ci si fece vicino. «State bene?».

«Sì, papà, grazie. Io sto bene. Potresti visitare Bella?».

Altri due uomini, in divisa, si avvicinarono a noi. «Questo è un vero miracolo!» esclamò uno, più basso e tarchiato. «Ce ne sono altri, dottore?» continuò poi, rivolgendosi a Carlisle.

Il vampiro annuì, lo sguardo concentrato su di me. «I miei quattro figli. Erano tutti usciti a fare una passeggiata, dopo pranzo».

«Bella, tesoro!» gridò Esme, venendomi incontro. Mi abbracciò, nonostante Edward continuasse a tenermi sospesa fra le sue braccia. «Come ti senti?».

«Sto bene» tossicchiai, la voce roca.

L’uomo in divisa che non aveva ancora parlato, con dei baffoni che si continuavano dalle basette, parlò piano alla ricetrasmittente. «Fate portare una barella dall’ambulanza, c’è una ragazza da portare in ospedale».

«No» ansimai, tremante, stringendomi a Edward.

«Non c’è problema, ce la faccio a portarla» ribatté il mio fidanzato, avanzando verso l’ambulanza.

«Lasciala a noi, ragazzino. L’hai portata sino a qui» lo bloccò l’agente più alto, posandogli una mano sulla camicia «devi essere stanco».

“Ragazzino”. Le braccia di Edward si tesero, ed ero certa che stesse per protestare ancora, destando notevoli sospetti…

«La porto io, Edward» intervenne prontamente Carlisle, lanciando un’occhiata significativa al figlio «seguimi, visiterò anche te».

Esitò un attimo, poi mi trasferì nelle braccia del padre. Anche se avessi voluto, non avrei mai potuto oppormi. Ero troppo stanca. «Non voglio andare in ospedale» riuscii a biascicare contro la maglia di Carlisle.

«È tutto apposto, signorina, presto si sentirà meglio» mi rassicurò l’agente più basso, ignorandomi.

«No» ansimai, agitandomi per cercare lo sguardo di Edward o Carlisle o Esme. «No, no, non posso, non voglio. Mi devo sposare. Fra quattro giorni mi devo sposare… Non voglio, Edward» mi lamentai, trovandolo accanto a me e stringendogli la maglia in un pugno.

Il suo viso era tirato, serio. I suoi occhi tanto lontani da non parere lì con me.

«Ti prego» gemetti ancora.

Fu Carlisle a rispondermi. «Sta’ tranquilla, Bella. Ti visiterò qui e ti porteremo in ambulatorio solo se sarà strettamente necessario, va bene?».

Mi voltai verso mio suocero, annuendo preoccupata. «E gli altri?» domandai, tremante.

Mi mise seduta su una barella vicino all’ambulanza. Due paramedici ci si avvicinarono. «Non ti preoccupare per gli altri, staranno bene».

«Tranquilla Bella» mi rassicurò ulteriormente Esme, accarezzandomi i capelli.

Annuii ancora, con le lacrime agli occhi. Pregavo perché questo incubo finisse. Prendetelo, vi prego, prendetelo. Spostai una mano dalla fronte alla barella, per sostenermi dritta. Mi girava la testa.

Edward mi venne accanto, sedendosi accanto a me e stringendomi.

«Come ti senti?» mi domandò Carlisle, infilandosi un paio di guanti di lattice e facendosi passare la sua borsa e una cassettina con alcuni involucri di plastica trasparente.

«Mi gira la testa» mormorai, roca, tossicchiando fra le parole. Non riuscivo a tenere gli occhi fissi su un unico punto. Eravamo vicinissimi a casa Cullen, ed eravamo circondati da gente in divisa che urlava ordini e trascinava roba. Chiamarono Esme perché gli desse informazioni sugli altri figli “dispersi”. Tutta quella confusione per colpa di un’unica persona…

Carlisle posò una mano sul mio polso, piegandolo gentilmente indietro ed esponendo l’arteria radiale. Se la portò discretamente al viso, inspirandone l’odore. Sospirò, come di sollievo, facendo un piccolo sorriso. Posò due dita sul polso, osservandomi gli occhi.

Quando Edward si accorse del mio tremore mi circondò con le sue braccia. Non faceva freddo, persino a Forks l’estate poteva definirsi tiepida. «Gli altri staranno bene» disse per rassicurarmi.

«Sì» sussurrai fra i denti «spero. Sì».

«Apri la bocca. Fai “a”» m’istruì Carlisle, usando una paletta di legno e un piccolo led. Seppur confusa, obbedii. Non appena mi lasciò libera di chiuderla tossii violentemente. «Portate l’ossigeno» continuò, rivolgendosi a qualcuno alla sua destra.

Chiusi gli occhi e posai il capo contro la spalla di Edward. Qualcuno mi mise una mascherina sul viso. Una coperta ruvida e spessa, di quelle di lana, mi fu avvolta attorno alla spalle. Sentivo il fango che si seccava contro la pelle.

Edward mi baciò la pelle sulla tempia. Iniziò a giocare con l’anello che portavo al dito. Era silenzioso, nervoso. Sapevo che avrebbe preferito trovarsi lì fuori a combattere, ma preferivo comunque tenerlo, egoisticamente, vicino a me.

Mi sentii pungere un dito. Fremetti, facendo per guardare, ma Edward mi trattenne. «Tranquilla» mormorò al mio orecchio.

Gemetti, facendo una smorfia per l’odore di sangue.

«Cosa hai mangiato questa mattina a colazione?» mi chiese gentilmente Carlisle.

Mi sentii arrossire. Feci per scuotere il capo, ma poi pensai che, data la nausea, doveva essere davvero una cattiva idea. «Niente» biascicai imbarazzata. Le parole formavano una nuvoletta sulla mascherina trasparente.  

Mio suocero mi guardò con comprensione. «Da quanto non mangi?».

«Ieri pomeriggio» confessai «una mela» aggiunsi poi ad una sua occhiata indagatrice. «Avevo lo stomaco chiuso».

Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato, come se stesse tentando di  nasconderlo. «Va bene, allora. Ti sei bruciata?».

«Non lo so, non credo» sfregai la guancia contro la spalla di Edward. «Forse il braccio. Il sinistro».

Mi sfilarono la coperta e la giacca di Emmett. Senza parlare Carlisle medicò velocemente e con cura il braccio leso. La pioggia si era fatta meno insistente ora, come nei tipici temporali estivi era finita prima ancora di cominciare. I miei capelli erano una poltiglia di fango marrone a cui il velo bianco si era incollato.

Sentii le dita delicate di Edward provare a staccarlo; quasi inutilmente. Gemetti di dolore quando tirò più forte. «Mi dispiace» si scusò immediatamente «forse sarebbe meglio lavarli, prima».

«Bevi questo» mi disse Carlisle, quando finì la sua medicazione. Mi stava porgendo un bicchiere con un liquido trasparente.

«Cos’è?» domandai incerta, prendendolo dalle sue mani.

«Tranquilla, è solo acqua zuccherata. Non è così grave come pensavamo. Credevamo…» guardò velocemente il figlio. «Beh, date le circostanze e per i tuoi sintomi pensavamo ad un’intossicazione. Invece sicuramente è stato peggio per l’ipoglicemia. Tieni per un po’ l’ossigeno e bevi questo, e dovrebbe passare».

Sospirai. Edward mi liberò dalla mascherina, permettendomi di prendere piccoli sorsi dal bicchiere. Dopo pochi minuti Esme ci raggiunse, seguita dai due agenti che ci avevano accolti per primi.

«Ci sono novità?» chiese Carlisle, mostrandosi interessato. Certo. Si ricordavano sempre di salvare le apparenze. Che padre sarebbe stato uno che non si interessava se i suoi figli stessero morendo bruciati?

«Stiamo facendo del nostro meglio, dottor Cullen. Le fiamme sono quasi spente» disse il tizio con i baffoni, mostrando il fumo in lontananza.

Esme ci venne vicino, abbracciando me e Edward. «Come stanno?» chiese al marito.

«Hanno solo la gola molto irritata. Fra un po’ Bella sarà libera dall’ossigeno» mormorò, sfilandosi i guanti e allontanandosi con gli agenti.

«Mio padre?» domandai preoccupata a Esme. Avevo la voce roca.

Mi guardò con comprensione, prendendomi la mani fra le sue. «Sta arrivando, Bella. Al paese ne parlano tutti».

Senza che potessi controllarlo un singhiozzo mi scoppiò nel petto come una bolla. «Come può essere diventato così? Come? Come può una persona sana di mente appiccare un incendio in una foresta?».

Edward aveva lo sguardo basso e i pugni stretti sulle ginocchia. «Non staremo qui a chiedercelo se fossi lì fuori a toglierlo di mezzo» sibilò fra i denti.

Sospirai, distogliendo lo sguardo. Mi faceva così male saperlo lontano da me, esposto al pericolo. Eppure Edward aveva ragione, se volevo che non tornasse più dovevo anche permettergli di andare a prenderlo. «Vai, allora» mormorai, togliendomi la mascherina e lasciandomi scivolare sui piedi instabili. Mi sentivo già un po’ meglio.

Mi guardò fissò, saltando giù dal lettino con un movimento aggraziato. «Non intendevo questo. Non voglio lasciarti qui da sola. È quello che è successo prima».

Gli diedi le spalle, fissandomi i piedi. Non stava più piovendo, quindi le poche gocce d’acqua che caddero dovevano essere lacrime. «Mi dispiace. Ho paura» farfugliai, incrociando le braccia sul petto in un gesto di protezione personale.

Edward si avvicinò, posando le mani sulle mie braccia e costringendomi a voltarmi per guardarlo negli occhi. «Di cosa hai paura?».

«Che ti faccia del male. Che faccia del male a tutti voi. Che non ci permetta di vivere una vita normale» sbottai frustrata «ma una vita in cui ho sempre paura che ritorni».

Il suo sguardo si addolcì. Mi accarezzò una guancia con il pollice. «Davvero?».

Tirai su col naso. Le labbra mi tremarono. «Ho paura che mi porti via da te».

La  sua espressione vacillò. La sua presa sulle mie braccia s’indebolì. «In questo caso, Bella… Se non sei ancora convinta…» annaspò.

«No, Edward!» protestai, prendendogli il viso fra le mani. Ero indignata dal fatto che fosse arrivato ad una simile conclusione. «No! Non intendevo questo. Ho paura… che mi porti fisicamente, via da te».

Serrò i denti. Il suo viso era bianchissimo, più del solito, come se quella fosse la prima volta che prendeva realmente in considerazione quella possibilità. «Questo mai».

Tremai fra le sue braccia, nascondendo il viso nel suo petto. «E-eppure stava per farlo, oggi… Non permetterglielo, Edward, ti prego… Non ce la farei».

Mi scrutò, soppesando le mie parole. Aveva un cipiglio sul viso. «Non glielo permetterò» mi promise, baciandomi la fronte.

Mi ritrassi, un po’ frastornata. «Sono sporca» mi lamentai, sentendo il fango secco che aderiva sulla palle, scatenando un fastidioso prurito.

«Vieni» disse, circondandomi le spalle con un braccio e trascinandomi verso casa Cullen, «ti aiuteremo a fare una doccia». E, quando arrossii da testa a piedi, aggiunse con un risolino. «Esme ti aiuterà a fare una doccia».

Mia suocera smise di parlare con i paramedici e si volse verso il figlio, avviandosi nella nostra direzione. «Vieni, cara. Hai lasciato qualche cambio in camera di Edward? Dai pigiama-party?».

Annuii, imbarazzata. «Non voglio dare fastidio. Imbratterò tutto di fango».

Ma il sorriso smagliante di Esme troncò ogni protesta. «Nessun fastidio. Lasciala a me, caro».

Non ricordo molto di quello che successe poi. C’era molto rumore, prima fuori e poi dentro casa. La doccia non fu nemmeno troppo imbarazzante, ma credo che dovetti addormentarmi prima di finirla, perché non ricordo nulla del poi.

S… v…n…o...p…e…t…

Lettere, c’erano delle lettere. Era buio, e tutto era confuso. Andavamo veloci, troppo perché potessi leggere con precisione.

S…o…v…ne…do…p…en…rt...

Era un tunnel. Un tunnel lungo, lungo, lungo. Un tunnel freddo. Avevo ansia, tanto forte, tanta ansia tanta da soffocare. Era buio. Non riuscivo a leggere.

Sto…venendo…a…prenderti.

Ansia, ansia, ansia. Buio, buio, buio. Freddo, freddo, freddo. Troppo. Troppo veloce.

Sto venendo a prenderti.

Ripetuto decine, centinaia di volte. Quattro parole ripetute all’infinto sulle pareti di un tunnel.

Sto venendo a prenderti.

E non era solo un sogno.

 

«Ahhh!» urlai, scattando seduta sul letto. Come se mi avessero appena dato una scossa elettrica al cuore.

La porta e le imposte delle finestre si aprirono contemporaneamente, facendo passare la luce. E i vampiri. Ovunque, tutta la famiglia Cullen in posizione di difesa, pronta all’attacco. Edward vicino a me, guardandosi in torno, pronto all’agguato.

Ansimai, ancora più impaurita di quando mi ero appena svegliata. Sentii le lacrime gocciolare dal mento. Il cuore correva velocissimo nel mio petto.

Il primo ad abbandonare la sua posizione fu Jasper. «Tranquilli. Era solo un brutto sogno».

Ma non era vero. Erano quelle, quelle le quattro parole che avevo lette, ripetute, sulle pareti del tunnel. Lasciai i singhiozzi traboccare insieme alle lacrime. Tutta la famiglia Cullen, lì. Solo perché avevo gridato. Poteva voler dire solo una cosa… «Verrà a prendermi» singhiozzai, e la voce mi uscì incredibilmente roca, più del giorno precedente «l’ha scritto. Ha scritto che verrà a prendermi» ansimai, tremante.

Edward si sedette sul letto, accanto a me, prendendomi fra le braccia. «Non glielo permetterò, te l’ho detto».

«Era scritto ovunque, ovunque» singhiozzai, gli occhi chiusi, senza ascoltarlo «aveva riempito le pareti. Era inciso dappertutto. “Sto venendo a prenderti”».

«Shh, shh, va tutto bene» continuò, accarezzandomi la schiena e cullandomi.

Presi un grosso respiro. Mi ci volle quasi un minuto per sopprimere i singhiozzi. La famiglia Cullen si era allontanata dalla stanza lasciandoci soli. «Non posso permettergli di prendermi».

La presa di Edward si fece più salda. Mi prese il mento fra le mani, costringendomi a guardarlo. «Non glielo permetteremo».

Volsi il viso, allontanando le sue dita.

«Bella» mi richiamò, ansioso «cosa stai dicendo?». Sapevo che stava pensando alle parole che gli avevo fatto al telefono, quando ero ancora lontana da lui e circondata dal fuoco.

«Lo sai…» sussurrai a voce bassissima «sai cosa vorrebbe da me… non potrei permettergli… non potrei darglielo».

Avvolse le mie guance con le sue mani, come una coppa. I suoi occhi brillavano, come se fossero prossimi alle lacrime. La sua gola era tesa, come se fosse in procinto di dire qualcosa. E cosa? Di immolarmi, di lasciarmi molestare da lui, ma di non uccidermi? Come pensava che avrei potuto vivere, in quel caso?

«Mi dispiace». Abbassai il viso. «Immagino che non l’abbiate preso».

Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «No. È riuscito ad attraversare il confine e a gettarsi in mare». Prese un bicchiere d’acqua dal comodino e me lo porse, dicendo che l’irritazione sarebbe presto scomparsa. «Alice e Jasper hanno parlato con i licantropi, ma hanno detto di non sapere nulla del piano di Jacob. Non ce l’hanno detto esplicitamente, ma crediamo che si sia come separato dal branco. Ha il potere di farlo, dato che lui è il vero alpha». Abbassò il viso sulle mani. Le strinse a pugno. «Ci ha ingannati, Bella. Jasper aveva ragione» disse mesto. «Non era in casa, aveva lasciato dei vestiti con il suo odore e un nastro su due frequenze che emanava i suoni che sentivamo tutti, e i suoi pensieri».

Sgranai gli occhi, scioccata. «Come è possibile?»

«Vedrò come spiegatelo in modo semplice». Ci pensò un attimo. «Ecco, hai presente i fischietti per cani?».

Annuii. «Loro possono sentire il suono del fischietto, e noi no, perché l’orecchio umano non riesce a sentirlo» commentai, ricordandomi di una lezione di biologia.

Edward sorrise, un piccolo e breve movimento. «Esatto, solo che io non sono umano, io sono un vampiro. Lui ha notato che io, che sento i pensieri di tutte le persone, nel tempo, esercitando questo senso, ho affinato il mio udito. Per questo solo io sentivo quella frequenza, seppur debolmente. Vedi, negli ultimi tempi deve averci studiati; ha curato tutto il piano nei minimi dettagli» concluse amaramente.

«È orribile».

Annuì. «Appena ci siamo accorti dell’inganno siamo venuti da voi, ma non sentivamo più la vostra scia, l’aveva coperta con il suo odore, che si ramificava per tutto il bosco. Abbiamo girato a vuoto per parecchio tempo; inutilmente tentavo di contattarti. Poi, ho sentito i pensieri di Emmett, lontani. E dopo poco tempo una coltre di fumo nero levarsi per la foresta. Jacob era arrivato a voi, attraverso un tunnel scavato in precedenza, lo stesso con cui sono arrivato da te».

Battei le palpebre, confusa. «Ma… come faceva a sapere dove saremmo andati per poi scavare il tunnel e organizzare l’incendio?».

Edward sospirò, allungando un braccio oltre le mie spalle e stringendomi al suo petto. «C’erano delle miniere, sotto le foreste. E sei tunnel con dei binari, usati per trasportare la lagna. Molto tempo fa, comunque… in questi mesi deve averli risistemati. Ha usato tre tunnel, con tre possibili aree di influenza. Aveva il controllo di tutta la foresta, e anche se non fossi andata tu, avrebbe fatto prigioniero, o peggio ucciso, almeno uno di noi. Crediamo fosse questo il suo scopo».

Ebbi un sussulto. Come avevo potuto avvicinarmi ad un essere simile?

«Mio padre?».

«A casa. Tranquilla, gli hanno parlato Esme e Alice. Hanno detto che sarebbe stato meglio non svegliarti, che ti saresti riposata qui. Che eravamo abbastanza lontani dal fuoco quando l’incendio è scoppiato».

«E gli altri? Emmett?» domandai, improvvisamente spaventata. Avevo sentito degli schiocchi… Rosalie era così ansiosa… Cercai di ricordarmi se l’avevo visto quando gli altri Cullen avevano fatto irruzione nella mia stanza.

Edward mi sorrise. «Emmett» lo chiamò, a voce bassa.

Due istanti più tardi entrò nella stanza. «Sono tutto intero, carina». Mi fece l’occhiolino.

«Oh, Emmett. Grazie» biascicai, sollevandomi dal letto per andargli incontro.

Finse scherzosamente di darmi una pacca sulla spalla. «Di niente. Allora, sorellina» fece sornione «visto che ti ho riportato il tuo principe azzurro?».

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Capitolo 19
*** Matrimonio ***


-Bella

Capitolo riveduto e corretto.

 

«Bella? Bella?». Carlisle.

Mossi il capo di lato, infastidita da quella voce lontana.

«Bella! Ti prego, apri gli occhi, non fare la bambina!» Alice… e il suo ennesimo rimprovero.

Una voce più dolce e melliflua, a cui solo recentemente mi ero abituata. «Alice, forse dovremmo chiamare Edward. È la terza volta che sviene, non è normale». Rosalie.

«No, abbiamo già chiamato Carlisle, il dottore c’è. Bella non ha nulla, sta solo facendo i capricci» protestò la piccola vampira. Sentii dei colpetti sul volto. «Bella?! Lo so che mi puoi già sentire. Insomma, ti stai per sposare, e sembra che tu debba andare al patibolo!».

Ad un ennesimo colpetto mossi di nuovo la testa.

«Non ha nulla che non va, è solo l’agitazione. Al massimo le posso fare un’iniezione di ansiolitici…».

Spalancai gli occhi, sollevandomi seduta, per poi ricadere all’indietro colpita da un capogiro. «Sto benissimo» biascicai.

Sentii Carlisle ridacchiare. Aveva un’espressione tranquilla sul viso. «Su Bella, non fare così».

«Davvero Carlisle, non ne ho bisogno» protestai determinata. Mi massaggiai le tempie doloranti.

Mi aiutò a mettermi seduta. «Va bene, come vuoi tu».

Realizzai in breve tempo quello che poteva essere accaduto. «E’ successo di nuovo?» domandai titubante.

«Sì!» esclamò Alice in tono accusatorio, facendo scoppiare a ridere Carlisle. Era già la terza volta che svenivo quella mattina. Ogni volta che passavo davanti all’abito da sposa, ogni volta che vedevo gli inviti sparsi qua e là, ogni volta che vedevo gli addobbi del corridoio del piano superiore, gli unici che potessi ammirare, andavo nell’ansia più totale. Ma, il vero problema, era quando qualcuno pronunciava la parola “sposa” ed io, mi ricordavo del mio matrimonio.

E il ricordo del mio matrimonio, portava al ricordo che mio marito sarebbe stato presto Edward.

Ecco, dopo il ricordo di Edward, non ricordavo più nulla, solo il buio e due mani fredde che mi afferravano. Avevo i nervi a fior di pelle.

Mi mordicchiai il labbro inferiore. «Lui non sa niente, vero?!».

«Non ti preoccupare, lui è lontano da qui. Se non vuoi non gli diremo nulla» mi rassicurò Alice, tentando di essere rassicurante. Tuttavia, le leggevo in faccia l’impazienza.

«Sì, grazie! Non ditegli nulla per favore. Se no poi sapete com’è, si agita…e… non voglio rovinare il giorno del nostro matrimonio con tutte queste cose assolutamente stupide… come se non avessimo già abbastanza cose di cui preoccuparci… e mi rendo conto di quanto sia stupido il mio comportamento… se solo potessimo farne a meno… fare a meno e andare avanti e basta…».

Carlisle posò le sue mani sulle mie, che si muovevano frenetiche fra loro, bloccandole e facendole fermare, in un mio sussulto. «Certo Bella, calmati. Mi sembri un po’ troppo agitata. Sicura di non volere i calmanti?» mi chiese serio.

«Sì!» mi affrettai a rispondere. «Davvero, ora mi calmo… è che…».

«È che?» m’incalzò Rosalie.

Quasi urlai. «È che mi sto per sposare, diamine!».

«Bella!» sbottò Alice, smettendola di fare avanti e indietro per la stanza di Edward. «Forza e coraggio, ancora non abbiamo fatto niente. E mancano solo tre ore e mezza! Dimmi se posso finalmente cominciare a truccarti e a farti l’acconciatura o se dobbiamo aspettare che tu svenga ancora una volta» mi accusò, puntandomi un dito contro.

Mandai gli occhi in gloria. «Certo Alice, prevedo di svenire ancora due o tre volte, che ne dici per le “undici e mezza” a te va bene? Oppure si può fare a “e trentacinque”, come vuoi tu» la scimmiottai, sarcastica.

Carlisle ridacchiò sotto i baffi, tentando inutilmente di nasconderlo.

Alice mi fulminò con lo sguardo. «Tutti fuori» sbottò dopo due secondi.

«Ma…cosa… Non ti sarai mica offesa?» le chiesi preoccupata.

Sospirò, facendo roteare gli occhi. «Tutti fuori» ribadii.

«Come vuoi, Alice» fece Carlisle, sollevandosi dal letto di Edward. «Mi raccomando, Bella, calmati».

Rosalie scrollò le spalle, apparendo indifferente e un po’ annoiata dalla situazione, come se non la toccasse più di tanto.

Quando la porta fu chiusa alle loro spalle, Alice gridò «Tutti fuori da casa, grazie».

Mi voltai verso di lei. «Ma, Alice, cosa…?».

«Bella» iniziò, seria, prendendomi le mani fra le sue, minuscole, e sedendosi accanto a me sul letto. «Ora, mi dici cosa c’è che non va?».

Spostai lo sguardo, fuggendo dai suoi occhi indagatori e mordendomi il labbro. Non volevo rispondere.

«Sorellina, ascoltami» mi prese il viso in una mano e me lo fece girare, fino ad incontrare i suoi occhi che curiosi mi squadravano. «Dimmi cosa c’è che non va’. Perché c’è, qualcosa che non va’». Fece una pausa. «Sei felice?».

«Sì!» mi affrettai a rispondere, non volendo esitare.

Prese un respiro, e si fece ancora più seria. «Tutta questa agitazione non centra niente con quello che hai detto a Jasper?».

Corrugai la fronte, pensierosa, tentando di ricordare. Non riuscivo a capire a cosa stesse alludendo.

Improvvisamente sgranai gli occhi, colpita da quel ricordo. «Oh, no, Alice, no, no, no!» urlai, portandomi le mani alla bocca, scioccata, alzandomi dal letto e retrocedendo, spaventata. «No, tu non puoi pensarlo! Non è così! Diamine, non so neppure come possa essermi venuto in mente, è stato un momento, uno stupido pensiero transitorio!».

Lei non parve sorpresa dalla mia reazione. Si alzò dal letto e avanzò piano verso di me, mantenendo comunque qualche passo di distanza «Bella. Io vedo Esme e Rosalie. Loro… hanno Carlisle e Emmett, ma comunque sentono che la loro esistenza è incompleta. Non è come per me. Io non ne sento la necessità, e…beh… pensavo che anche per te potesse essere così…» concluse malinconica.

Feci i tre passi che mi dividevano da lei e l’abbracciai. La sentii sussultare. «Ma è così Alice, te lo giuro. Io amo Edward. Cosa mi importa del resto?! Nulla. Io lo amo…»

«Quindi, ti senti pronta a rinunciare alla possibilità di diventare madre?» chiese ancora, leggermente sollevata.

«Sì» dissi decisa. Non volevo più che quell’argomento venisse fuori. Mai più. «E’ stato…?».

Non mi fece concludere la domanda, che già mi aveva risposto. «No, non è stato Jasper a dirmelo. L’ho visto. Lui sicuramente si starà sforzando per non pensarci, ti vuole bene sai» mormorò, la voce intenerita «anche se non te lo dimostra sempre, ti vuole tanto bene».

Mi abbracciò ancora. Restammo così alcuni minuti.

«Grazie» sussurrai poi.

«Di cosa?».

«Di essere mia sorella».

«Oh, andiamo, non fare le smielata!» protestò, staccandosi. Sospirò ancora. «Me lo vuoi dire cosa c’è che non va?».

Abbassai gli occhi.

«Centra il cane?» Fuoco.

«Hai paura?» Colpita e affondata.

La sentii sospirare ancora. «Non devi averne! Ascolta, ne sono sicura, Edward è insieme a Jasper, Emmett e quelli del clan di Denali. Tu sei ben protetta insieme a noi. I licantropi stanno facendo dei turni di guardia nel territorio. Ce lo devono. Abbiamo anche spostato il matrimonio in chiesa!».

Già, quella era una novità. Questa volta, realizzando che Jacob poteva realmente rappresentare un minaccia, tutta la famiglia si era mobilitata per  far andare tutto per il meglio. Esme aveva trovato una bella chiesetta in cima ad una collina, vicino Forks, a cui si accedeva attraverso una porticina stretta in fondo alla valle per poi proseguire in un lungo corridoio di pietra. Jacob non sarebbe potuto arrivare a me in forma di licantropo, e se si fosse anche solo avvicinato in forma umana, i miei angeli custodi ne avrebbero subito sentito l’odore. Poi, il rinfresco si sarebbe svolto all’interno di casa Cullen, con le meravigliose vetrate aperte che davano libera visione a tutto il paesaggio.

Tutto il piano era stato progettato per la mia serenità, che purtroppo era scomparsa ieri, non appena Edward si era allontanato da me per ordine di Alice.

«Fidati di noi e tutto andrà bene» mi assicurò mia sorella.

Alzai lo sguardo, fino ad incontrare i suoi occhi. «Va bene Alice» acconsentii. Come se potessi fare altro.

Dopo circa cinque minuti Rose e Alice erano nuovamente all’opera su di me. Mi lasciai strapazzare come una bambola, mentre ripensavo alla conversazione che avevamo avuto io e Alice. Quella stupida storia di diventare madre stava andando troppo avanti. Avevo commesso un errore, ne ero consapevole, ma perché il destino, invece di aiutarmi a mettere una pietra sopra, infieriva su di me? Era qualcosa di estremamente ingiusto.

Era ingiusto, anche perché, proprio ora che tutto era diventato perfetto con Edward, l’amore della mia vita, che aveva persino acconsentito al mio piano e a trasformarmi, il mio migliore amico rovinava tutto. Anzi, il mio ex-migliore amico. Dopo quello che mi aveva detto Edward, di come aveva curato il piano pur di anche solo uccidere un membro della mia famiglia, capii che quella volta, davvero, non potevo proprio più tornare indietro. Nemmeno la più piccola parte di me poteva perdonarlo. Non solo ero diventata totalmente insensibile nei suoi confronti, mi trovavo anche a pregare perché non esistesse più.

Mi sentii scuotere. «Bella. Va bene, concordo con te, restarsene imbambolati è meglio che svenire, ma ora mi fai il piacere di prestarmi attenzione cinque minuti, così che io ti possa infilare il vestito?». Alice sventolava a poche spanne da me una spazzola per capelli, con fare minaccioso.

Trasalii. «Mh. Sì» mi sollevai in fretta dalla sedia del bagno, per poi bloccarmi a mezz’aria quando mi venne in mente qualcosa. «Non si rovinerà se lo metto ora? Non mi vorrai mica far rimanere in piedi e ferma per tre ore, spero» mi lagnai.

Lei mi guardava scioccata. «Bella?! Sveglia, sono le nove e mezza, fra un ora ti…» i suoi occhi si fecero un attimo lontani, per una visione «oh, no eh, non svenire di nuovo, guai per te!».

Mi aggrappai a lei barcollante, deglutendo. «Fra un’ora mi sposo?» chiesi con un filo di voce.

«Sì, decisamente» disse, scuotendo il capo con disappunto e trascinandomi in camera di Edward, mentre io, inerme, la lasciavo fare.

Lì Rose e Alice m’infilarono il vestito, attente a non rovinarmi trucco e acconciatura.

Poi, sentii una voce che da decisamente troppo tempo non sentivo dal vivo!

«Mamma…» mormorai commossa mentre lei mi correva letteralmente incontro, con il solito infantilismo che la caratterizzava.

«Tesoro, mi sei mancata davvero tanto!» esclamò, fermandosi ad un metro da me. Ero rimasta ferma con le braccia aperte, pronta ad accoglierla. «No, non ti abbraccio, non se ne parla. Non voglio rovinarti l’abito… Sei davvero, davvero stupenda, Alice, hai compiuto un miracolo, vedo un angelo qui di fronte a me, e l’abito, oh, l’abito è semplicemente magnifico!». Capii, dalla sua voce incrinata, che stava per piangere. Infatti, poco dopo, singhiozzò. «Oh, la mia piccola si sp…».

«No!» strillarono in coro Rose e Alice.

Mia madre le fissò sorpresa, mentre loro le facevano gesti e si sbracciavano per impedirle di continuare la frase.

«Emm, Reneé, vuoi che ti faccia un’acconciatura? Io devo andare ancora a cambiarmi, possiamo andare di là, in camera mia…» fece Rosalie evasiva, prendendola per una mano e trascinandola via.

«Oh. Okay» rispose confusa mia madre, scomparendo dalla mia vista.

Sospirai.

«Bella. Ascoltami» mi chiamò Alice, «stattene buona, buona qui immobile e non fare niente. Io, praticamente, ci metto poco più di tre minuti a cambiarmi e sistemarmi, riesci a rimanere ferma e tranquilla?».

Annuii, incapace di parlare, imbambolata, ferma al centro della stanza.

Come promesso, dopo tre minuti fu da me. O almeno credo fossero passati tre minuti. Ormai, non pensavo più a nulla, la mia mente era come svuotata, me ne ero stata immobile, senza neppure sbattere le ciglia.

Alice indossava un meraviglioso abito di chiffon giallo, mentre i capelli erano fermati sui lati con due graziosissimi nastrini dello stesso colore. Era davvero stupenda.

«Sei…sei bellissima…» squittii, squadrandola, gli occhi spalancati.

Lei sfoderò uno dei suoi meravigliosi sorrisi. «Grazie, ma tu di più».

Un istante dopo entrarono in camera mia madre e Rosalie, che ferì la mia autostima più di quanto non avesse già fatto Alice, mentre io me ne stavo ancora immobile a fissare il vuoto.

«Tesoro? Non ha una bella cera…» commentò mia madre.

«Non si preoccupi Reneé, è tutto sotto controllo. E’ normale che sia così. Ora si calma, vero?!».

«Ma la mia preoccupazione è proprio questa, è troppo calma» disse sventolandomi una mano davanti agli occhi «Bella, mi senti?».

Mi riscossi un attimo, sobbalzando. Annuii impercettibilmente.

Alice mi fissò il velo sui capelli e mi ritrovai a fissare tutto attraverso una rete intrecciata di fili d’organza. Dopo due istanti, mi ritrovai un bouquet fra le mani, e Charlie di fronte a me, che sorrideva imbarazzato. Poi baci, mani, fredde e calde, forse camminai anche.

Poco dopo, senza che neppure me ne rendessi conto, mi ritrovai seduta su un sedile in pelle, lo spazio intorno a me ampio, e il tettuccio imbottito. Ero nella limousine!

Accanto a me, mio padre sembrava molto impacciato, si rigirava le mani, non sapendo cosa dire.

«P…papà?» lo chiamai titubante, deglutendo. Lui mi fece un sorriso tirato. Notai che aveva i lucciconi agli occhi.

«Oh, papà!» esclamai, portandomi una mano alla bocca per nascondere un singhiozzo che mi pervase comunque il petto.

«Bells, non piangere, altrimenti Alice ce l’avrà a vita con me, per averti fatto rovinare il trucco» disse Charlie, la voce evidentemente commossa.

«Beh…» dissi asciugandomi con delicatezza la lacrima che era sfuggita dai miei occhi «credo abbia usato del trucco resistente all’acqua…».

Il vetro divisorio fra posto di guida e i sedili si abbassò, facendo comparire Emmett alla giuda della macchina. «Bella, mi sembra di poter sentire il tuo cuore anche da qui!» sghignazzò.

Mio padre ridacchiò di quella che sembrava potesse essere una battuta. Io deglutii, tentando di calmarmi, ma inutilmente. Non mi parvero davvero, neppure essere passati, quei minuti, che l’auto si fermò. L’agitazione era cresciuta a livelli esponenziali, fino a raggiungere il limite massimo.

Ebbi un sussulto, quando mio padre aprì la portiera dell’auto e con una mano mi invitò a scendere. Sentivo le mie gambe immobili. Sembrava che per nessun motivo al mondo volessero obbedire ai miei ordini. «Papà, ti prego… Reggimi tu» farfugliai.

Dovette rispondermi con parole di conforto, che comunque con sentii. Sentivo le orecchie fischiare, i suoni mi giungevano lontani, ovattati. Se avesse proceduto ancora a quel ritmo sostenuto, presto, il mio cuore, mi sarebbe uscito dal petto.

Fui colpita dai debolissimi raggi del sole, non più protetta dall’ombra dei vetri oscurati. Dinanzi a me, sentivo provenire un mormorio di voci. Doveva essere la mia famiglia. I miei piedi si muovevano per l’inerzia del mio corpo, mentre, non del tutto responsabile delle mie azioni, mi avviavo verso la chiesa.

Edward, Edward, Edward. Edward, mio marito. Mi sentii quasi soffocare, e capii che non stavo più respirando. Mi accorsi che mio padre mi stava guardando allarmato, così presi un bel respiro lungo, con il naso, concentrandomi sullo scalpiccio dei passi sulla ghiaia. Tutti gli alberi intorno alla chiesetta erano stati addobbati con dei fiocchi e dei nastri, piacevoli, ma non eccessivi. Solo venti metri mi separavano dalla scalinata della chiesa. Passi, passi, passi. Toc, toc, toc facevano i miei tacchi sul suolo.

Poi, il rumore prodotto dai miei piedi mi giunse più sommesso e lontano. Capii che stavo calpestando il tappeto rosso.

Contemporaneamente, accaddero due cose, la marcia nuziale partì, e io sbiancai.

Alice, con un leggero svolazzamento del vestito, s’incamminò, avanzando mollemente sui piedi. Notando che restavo immobile, mio padre mi diede un leggero strattone. Mi riscossi e cominciai a salire i gradini, sollevandomi la gonna, piano, con tutta la lentezza che potevo permettermi. Sentivo che il respiro mi usciva incostante dalla gola, opera del mio cuore che da troppo tempo faceva gli straordinari. La marcia nuziale andò sempre più rallentando, finché non arrivai sull’ultimo gradino, e lo vidi.

In tutto il suo immenso splendore, Edward mi guardava, perso nei miei occhi.

Le sue iridi erano completamente dorate, chiarissime, quasi liquide. Il volto etereo risaltava, splendendo della sua bellezza. Il suo corpo era fasciato da uno smoking nero, con una fascia di seta bianca sulla vita. Era una spettacolo divino.

Sentii le guance imporporarsi e gli occhi, quasi a volermi oscurare la visione di quel miracolo, si appannarono di lacrime.

Sentivo una potentissima attrazione verso di lui. Di nuovo, mi ritrovai nelle mia personale bolla, senza avere la cognizione di come, dove, quando o cosa stessi facendo. Sapevo solo che, questa volta, nella mia bolla, c’era Edward, insieme a me.

Mi sembrò quasi di veleggiare, ma quando, finalmente, sentii il contatto con la sua pelle freddissima la bolla si ruppe improvvisamente, catapultandomi nella realtà. Accanto al mio Edward.

Mi sorrideva raggiante, in tutta la sua incomprensibile bellezza. Mi persi completamente nella profondità dei suoi occhi, considerando che solo quello nell’universo aveva importanza in quel momento, e lo sapevo, per lui era lo stesso.

«Isabella Swan…» mossi il capo verso il pastore Weber, quando sentii quelle parole, e, quando una goccia mi cadde sulla mano, capii che avevo le guance inondate di lacrime.

«Sì, lo voglio» la mia voce era uscita rotta dalla commozione e dal pianto, ma allo stesso tempo, non poteva davvero essere più determinata di così.

«Sì, lo voglio» quella frase, pronunciata con la meravigliosa voce di Edward, sembrò del tutto diversa dalla mia, ma con la stessa intenzione e intensità, che può unire solo due amanti di un amore vero.

La mia mano tremante, non so per quale miracolo, adempii immediatamente al primo tentativo di infilare la fede al dito del mio amore, mentre con estrema eleganza la teneva posata sulla mia.

E così, con il mio stesso gesto, e con le parole che servivano per unirci per sempre, agli occhi di tutti, io e Edward ci sciogliemmo l’uno nel volto dell’altro.

Capii che ero stata una folle a non accettare prima la sua proposta, perché quello, e lui l’aveva sempre saputo, sarebbe stato un momento magico per noi, il coronamento del nostro immenso amore, il nostro giuramento eterno.

«Edward Anthony Cullen e Isabella Marie Swan, vi dichiaro marito e moglie».

Si levò un applauso per tutta la chiesa, ma io, contrariamente a quanto avrei fatto in qualsiasi altro caso, non arrossii. La parte più maliziosa di me stava aspettando le parole del prete.

«Ora, può baciare la sposa».

Con il suo sorriso, quello, che ormai io chiamavo “nostro”, mi sollevò con estrema grazia il velo e si avvicinò, senza più aspettare, alle mie labbra.

Inaugurammo una nuova, entusiasmante, danza, sfamandoci uno dell’altro, del bisogno che sentivamo di sentirci uniti.

Quando si staccò da me, anche se le orecchie mi fischiavano, potei sentire gli applausi e i fischi di compiacimento che venivano dal nostro pubblico.

Avvampai violentemente, mentre Edward, prendendomi la mano, mi faceva voltare verso i nostri parenti e amici.

«Ti amo, Bella Cullen» disse con un sorriso smagliante.

«Ti amo, Edward Cullen» risposi con le stessa esplosiva gioia.

Mi sorrise beffardo, stringendomi a sé. «Pronta?».

«Pronta a cosa?» chiesi spaesata.

«A questo!» gridò entusiasta, correndo per la navata, ed io, felice come mai ancora ero stata nella mia vita, mi feci trascinare, sollevandomi l’enorme gonna con la mano libera.

Usciti dalla chiesa, fummo investiti da una valanga di riso e confetti bianchi.

 

Poi, mi ritrovai nella limousine, le labbra di Edward incollate alle mie.

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Capitolo 20
*** Casetta Dorata ***


-E’ così, ora sei la signora Cullen…- mi mormorò Edward all’orecchio, facendomi arrossire

Capitolo riveduto e corretto.

 

ATTENZIONE!

Per leggere questo capitolo nella sua versione originale (estesa e da rating rosso) si può andare qui.

Personalmente consiglio questa versione, neppure troppo erotica.

In ogni caso, la seguente è quella da rating arancione:

 

«E’ così, ora sei la signora Cullen» mormorò Edward al mio orecchio, facendomi arrossire.

Abbassai il viso imporporato sulle gonne. «Già» risposi timida.

Le sue labbra si incollarono ancora una volta alle mie, sorprendendomi.

«Come stai?» mi chiese dolce e sereno, accarezzandomi una guancia.

Corrugai un attimo le sopracciglia, presa alla sprovvista. «Benissimo. Siamo sposati…» dissi emozionata, baciandolo ancora. E niente era andato storto… almeno per ora.

«Mi riferivo a questa mattina» continuò lui, sorridente.

Sgranai gli occhi. Poi capii. «Mia madre» sibilai, nascondendomi il volto fra le mani. Sicuramente lei non aveva fatto attenzione ai suoi pensieri, e Edward ci aveva facilmente letto lo stato d’agitazione in cui ero stata per tutta la mattina.

Lo sentii ridacchiare, così non potei fare a meno di guardarlo di nuovo in faccia, per godermi tutta la sua bellezza. «Sai, anch’io ero molto nervoso» ammise, prendendomi le mani fra le sue.

Lo fissai perplessa. «Tu?». 

Sospirò, avvicinandosi con il volto al mio. «Sì, oggi ho sposato un angelo. Sei meravigliosa».

Arrossi inevitabilmente per quel suo complimento. «G…grazie. B…beh, il meritò sarà tutto di Alice… e… e poi… anche tu… sei stupendo…» balbettai, mordicchiandomi il labbro.

Lui si avventò ancora sulle mie labbra, liberandole dai miei denti. «Il merito di Alice è solo quello di aver mostrato ancor di più quanto sei bella» mi alitò, a due centimetri dalla bocca. Sentivo il cuore esplodermi ancora una volta nel petto.

Poi, ci baciammo ancora, mai sazi di quelle sensazioni.

Ad un tratto Edward aprì al portiera e scese. Non mi ero accorta del fatto che l’auto si fosse fermata. Mi porse la mano e mi invitò a fare lo stesso, così, mi sollevai la gonna con una mano e con l’altra mi appoggiai a quella di Edward.

Appena uscita dalla limousine, mi sentii accecare da mille flash fotografici. Neanche fossimo dei divi di Hollywood. Alice aspettò che prima ci torturassero un po’ con le foto, per poi riunire tutti gli invitati ed invitarli ad entrare nel salone di Casa Cullen. Nel salone si diffondeva una deliziosa melodia, suonata da un quartetto d’archi.

Mio padre, mia madre e Phil vennero a congratularsi con noi, e io li abbracciai e li baciai, pur rimanendo sempre attaccata a Edward. Poi, fu il turno della mia nuova famiglia, quella con cui avrei condiviso l’eternità. Alice tardò un attimo ad arrivare: si stava accertando che i camerieri servissero con correttezza i cocktail.

«Vuoi un cocktail?» mi chiese Emmett, porgendomi un bicchiere pieno di liquido colorato.

«No grazie, passo» Mi sentivo lo stomaco pieno. Di farfalle.

Rosalie ridacchiò, insieme a Esme e Carlisle. «E’ meglio che Bella non beva alcolici» disse lui, facendomi arrossire e ripensare a com’ero agitata quella mattina.

Edward non si unì al coro di risate, ma si voltò verso di me, a baciarmi ancora. Mi pareva così naturale, ora, per niente imbarazzante.

Poi, da noi vennero i miei amici. Angela e Jessica avevano sicuramente pianto, si vedeva dai loro occhi arrossati. Mike era un po’ nervoso, invece Ben era contento, accanto a Angela.

Subito dopo, fu il turno di quelli del clan di Denali. Edward mi presentò ai suoi amici.

«Irina, Kate, Carmen, Elazar e Tanya» li guardai tutti, uno per uno. Erano stupendi, e tutti gli altri umani nella sala creavano quasi inconsciamente una bolla di spazio intorno a loro.

«Sei davvero carina Bella. Edward ha fatto un’ottima scelta» quel commento, giunto con quella voce dolce di Tanya, non me lo sarei mai aspettato.

«G…grazie…» balbettati arrossendo. «Per tutto» aggiunsi, in riferimento al fatto che si erano messi a nostra disposizione contro Jacob.

«Noi l’avevamo detto che i licantropi non sono affidabili» disse quella che mi sembrava Edward avesse chiamato Kate.

Elazar rabbonì l’aria con una risata, cambiando discorso «E comunque, ci dispiace davvero tanto di non essere intervenuti durante la battaglia. Siamo stati degli sciocchi».

«Oh, non ve ne preoccupate, tutto è andato bene, ed è questo quello che conta».

Mentre Edward parlava, scovai il lontananza la mia amica Amber, che se ne stava in disparte, a braccetto con quello che capii subito essere Lucas, il suo fidanzato. Mi sbracciai per salutarla, e le feci segno con una mano di avvicinarsi. Quando mi notò sul suo volto comparve un ampio sorriso e strattonò il suo fidanzato verso di me. Edward intanto si era congedato dal clan di Denali.

«Bella!» esclamò stritolandomi nella sua morsa.

Ridacchiai, tossicchiando, tentando di liberarmi dalla sua presa.

Si staccò immediatamente quando vide che stavo per soffocare «Oh, scusa, ti sto stritolando!».

«No, non ti preoccupare» ansimai riprendendo fiato.

Mi presentò il suo fidanzato e io gli presentai Edward, che gli strinse la mano con cortesia. Mi sembrava un tipo timido e riservato, aveva le mani sudate per l’imbarazzo.

Finito con gli auguri e le congratulazioni, il momento aperitivi declinò deliziosamente in un buffet. Alice fece sedere me e Edward al centro della sala, ad un tavolo tondo coperto da una tovaglia addobbata con nastri e merletti. Ma, davvero, passava il secondo piano, in confronto al meraviglioso volto di Edward che mi sorrideva raggiante, stringendomi la mano fra le sue. Lo baciai ancora, prima di essere nuovamente interrotta da un flash fotografico. Tutti volevano parlare con noi, dirci qualcosa di importante, che poi davvero importante non era, ma io volevo solo rimanere sola con Edward. Non mangiai nulla, nonostante le sue insistenze. Non me la sentivo, ero in fibrillazione, troppo felice in quel momento.

Poi, Alice, dopo aver fatto disporre in fila le ragazza nubili, mi chiamò per lanciare il mazzo di fiori. Mentre Edward mi rivolgeva un sorriso incoraggiante, lanciai con entrambe le mani i fiori all’indietro, e questi andarono a finire in testa alla povera Angela.

«Oh, scusa!» dissi portandomi le mani alla bocca, impacciata, mentre tutti gli invitati ridevano; lei compresa.

Successivamente avvenne una cosa molto più imbarazzante. Tutti gli uomini, a partire da Emmett e Jasper, cominciarono a battere le mani. Edward mi venne accanto, con un sorriso, mentre io, capendo cosa stava succedendo, avvampai fino alla radice dei capelli. Lui, con estrema disinvoltura e delicatezza, si piegò sulle gambe, alzandomi un poco la gonna, per consentire alle sue mani di avventurarsi sotto il tulle. Mi sentii esplodere il cuore nel petto, e, quando Edward strinse con estrema delicatezza la mia gamba con una sua mano fredda, mi dovetti sorreggere a lui per non cadere.

Poi, lo fece. Mi rivolse un sorrisino malizioso, e inoltratosi con la testa sotto la mia gonna, mi lasciò un bacio sulla coscia, facendomi fremere, per poi prendere un lembo di giarrettiera fra i denti. Fra gli strilli e gli applausi della folla, me la sfilò dalla gamba, e la fece volare in faccia a Mike Newton.

Quando si voltò verso di me mi rivolse un sorrisino malizioso, facendomi diventare più rossa di quanto già non fossi.

«Eh-eh, fratellino, visto niente?» scherzò Emmett tra le risate di Jasper. Ricevettero uno scappellotto a testa, rispettivamente da Rosalie e Alice.

Mentre io me ne stavo ancora mezza sconvolta e imbambolata, notai distrattamente che tutti gli invitati si stavano muovendo verso i lati del salone, lasciandoci soli al centro della stanza. La musica cambiò, rallentando il ritmo ed adattandosi ad una nuova atmosfera. Guardavo Edward, rapita dal suo sguardo, mentre lui mi teneva stretta a sé, ricambiando il mio stesso sorriso intriso di gioia.

Sapevo cosa dovevo fare in quel momento, e in qualsiasi altra circostanza mi sarei opposta con tutte le mie forze. Ma non quella volta. Quella volta, io ballavo tra le braccia di Edward, mio marito. E volteggiando mi sembrava quasi di volare, sorretta dalle luminose ali bianche che Edward portava con sé, e nulla mi poteva sembrare migliore. Era un momento magico, il più bello che avessi mai vissuto.

Edward mi baciò una guancia, asciugandomi una lacrima e mi accorsi che stavo piangendo.

«Sei felice amore?» mi chiese dolcemente.

«Sì» risposi in un sussurro.

Il suo sorriso si allargò. «Allora perché piangi?»

Posai il capo sul suo petto. Dove volevo che fosse per l’eternità. «Perché sono troppo felice» mormorai, la voce rotta dal pianto.

La sua, invece, divenne soave. «Spero che non ti accontenterai mai della felicità, perché io non mi accontenterò mai di dartela».

«Oh, Edward…» ansimai, facendo cadere altre lacrime, e sporgendomi per farmi baciare.

Anche Carlisle e Esme, Alice e Jasper, e Rosalie e Emmett si unirono alla pista. E a seguire più o meno tutti gli ospiti. Anche mia madre con Phil.

Ballai quindi, anche con mio padre, con Emmett, mentre Edward volteggiava insieme a Rosalie, e con Carlisle. Mi stavo divertendo da matti, tutta l’agitazione della mattina sembrava come svanita. Emmett mi faceva ridere in continuazione e Alice si muoveva per tutta la stanza sui tacchi correndo qua e là con estrema grazia. Ovviamente, quando potevamo, io ed Edward, non esitavamo a scambiarci una carezza, un bacio, o semplicemente uno sguardo.

Poi fu la volta della torta. Una meravigliosa torta a tre piani che faceva bella mostra di sé su un tavolino adibito appositamente. In cima, una coppia di sposini identici a me e Edward. Ovviamente ad Alice piaceva fare le cose in grande stile. Ci fece mettere in posa per tagliarne una fetta. Edward mi stringeva da dietro, e con una mano sulla mia, impugnavamo il coltello. Mi feci imboccare da lui, che sotto il mio sguardo sbalordito, mangiò il suo pezzo di torta, che gli porgevo con il cucchiaino. Poi, bevemmo lo champagne, con le braccia intrecciate, folgorati da un nuovo flash. Jasper venne a rapirmi per riaprire le danze con lui, mentre Edward magicamente sparì per cinque minuti.

«Grazie di tutto Jasper, ti voglio bene» confessai, ricordandomi delle parole di Alice quella mattina.

Mi lasciò un leggero bacio sulla guancia. Restai un po’ scossa. Mai aveva compiuto un gesto del genere nei miei confronti. «Anch’io, Bella» fece, lasciandomi andare, per poi farmi ritrovare a volteggiare insieme a Edward.

«Mi sei mancata Signora Cullen» disse raggiante.

«Anche tu». Arrossii, per quello che stavo per dire. «Voglio stare con te. Sola».

Lo sentii ispirare profondamente. Sollevai lo sguardo per fissarlo negli occhi. Era preoccupato.

«Non avrai cambiato idea, spero».

Scosse il capo. Deglutii. «Sai che te l’ho promesso più volte».

«Allora?» domandai impaziente.

Mi fece un sorriso nervoso. «Allora, questo non toglie che io possa essere agitato».

«Ansia da prestazione?» scherzai, tentando di sdrammatizzare.

Ridacchiò. «Diciamo di sì».

Chinai il viso, arrossendo. «Sai, dovrei essere io quella nervosa, credo. Con la questione della prima volta e tutto il resto» borbottai, sollevando gli occhi al cielo, rossa in viso.

Quando riportai lo sguardo su Edward stava sorridendo dolcemente. «Farò del mio meglio. Te lo prometto» disse Edward sorridendomi e arrendendosi, finalmente.

Annuii, felice. «Lo so». Tutto era ormai deciso.

In quel momento, notai qualcosa che mai avrei voluto vedere. Alice aveva lo sguardo perso nel vuoto; fissava dinanzi a sé, con un espressione terrorizzata e rabbiosa.

Mi voltai velocemente verso Edward, in un istante che parve durare un’eternità, e vidi un espressione seria sul suo viso, senza più il sorriso che lo aveva contraddistinto per tutta la sera. Sentii tutta la stanza girare troppo velocemente, non più a ritmo dei nostri passi, e sentii le ginocchia cedermi.

Edward mi afferrò dal bacino, repentino, prima che potessi cadere a terra. Immersi il volto nel suo petto, respirando il suo odore e riacquisendo lucidità, mentre aspettavo che tutto tornasse di nuovo immobile e al suo posto.

Non gli avrei permesso di rovinare il mio matrimonio. Io, ero, felice. La paura, che in quei pochi istanti mi aveva sommersa, fu prepotentemente scacciata via da me. Fortunatamente, mi accorsi che quasi nessuno degli invitati aveva notato il mio momento di debolezza.

«E’ solo un capogiro. Forse è colpa dello champagne… ho ballato troppo» dissi a Edward, abbozzando un sorriso. Sapevo benissimo che quelle parole non erano vere. E anche Edward lo sapeva, ma in quel momento nulla avrebbe rovinato la nostra felicità.

«Probabilmente è come dici tu, tesoro» rispose infatti, anche se con poca convinzione. Mi sentii trasportare via dalla pista da ballo. «Forse è meglio se ti siedi un po’».

«Sì, hai ragione». Mi adagiò su una sedia e mi diede un bicchiere d’acqua. «Grazie» sussurrai a Edward, bevendo, mentre la testa smetteva di girarmi.

Lui si sedette sulla sedia dinanzi a me. «Va meglio?» mi chiese, anche se il suo sguardo era distante.

«Sì, non ti preoccupare» gli accarezzai la guancia «te l’ho detto, è stata colpa dello champagne».

Carlisle e Alice ci vennero vicino. Potevo notare, in tutta la stanza i vampiri schierarsi, i Cullen e i Denali.

«Edward, non ti preoccupare per ora» disse Alice risoluta «è stato solo un momento di buio. Ma era lontano, molto lontano. Non vuol dire nulla».

Dunque non ci doveva essere nulla di cui preoccuparsi in quel giorno per noi magico. Nulla.

«Non è necessario agitarsi. Sta andando tutto bene» continuò Carlisle, fissandomi con uno strano sguardo, come in attesa che da un momento all’altro cominciassi a urlare o a piangere come una disperata.

«Edward…» lo richiamai debolmente.

«Sì?» fece, voltandosi di scatto. Mi sentivo di nuovo benissimo.

Accennai un sorriso. «Torniamo a ballare?».

Sospirò, sorridendo a sua volta. «Certo».

Ci ritrovammo ancora sulla pista da ballo, a volteggiare.

La festa durò molto tempo. Si era fatta sera, quando Alice venne a disturbarmi di nuovo. «Sorellina, devo ammetterlo, sei davvero stata bravissima» la ringraziai.

«Finalmente ammetti che la mia non è stata tutta fatica sprecata. Sono contenta che apprezzi, anche se…». Mi fece uno sguardo strano.

«Anche se?» chiesi curiosa.

«Mi ringrazierai ancor di più, più tardi». Era malizia quella che leggevo nei suoi occhi? «E non solo me, anche Esme e Rosalie direi…»

«Ma di cosa stai parlando, Alice?» chiesi spaesata, quasi preoccupata.

Mi liquidò con un «Lo scoprirai presto!», spingendomi accanto a Edward.

Lui mi prese per mano. «Pronta?» mi chiese.

Mi preoccupai un attimo. «Altra corsa?».

Rise di gusto. «Sì, ma stavolta ti porto io!».

«Cosa…? Oh, no, no!» protestai tra le risate, scalciando, mentre Edward mi prendeva in braccio e mi portava nella Aston Martin, attraverso l’ingresso di casa, illuminato da mille lucine bianche e tra gli applausi della folla.

Mi chiuse dentro e velocemente entrò dal lato del guidatore. «Allaccia la cintura».

«Dove mi porti?» chiesi curiosa.

Prese la mia mano con la sua a velocità vampira, la baciò e diede gas. «A stare per sempre con me».

Arrossii, lasciandomi andare contro il suo petto.

L’ansia e l’agitazione, che non avevo mai provato fino a quel momento per quello che avremmo vissuto insieme, comparvero prepotentemente in me. Anche Edward mi parve piuttosto teso. Mentre mi teneva stretta a sé i suoi muscoli erano irrigiditi. Non che di solito fosse morbido, comunque.

Il viaggio fu brevissimo, per quanto potevo vedere attraverso il buio; eravamo rimasti sempre vicini al limitare del bosco. In poco tempo ci ritrovammo in uno spiazzo tra gli alberi, completamente verde e poco visibile nei suoi particolari ai miei occhi, considerando la scarsa quantità di luce. Al centro, illuminato dalla debole e fioca luna di alcune candele, riuscivo a vedere a malapena una costruzione in pietra, estremamente romantica e pittoresca. Un piccolo nido d’amore.

Mi voltai verso mio marito - ancora dovevo abituarmi a chiamarlo così - e notai che mi stava fissando ansioso. «Ti piace?».

«Ti amo» risposi solo.

«Ti amo anch’io», disse lui, prendendomi per mano e trascinandomi delicatamente all’interno.

Dentro era anche più bello. Tutto era illuminato da deboli lucine, come di lucciole, e tutti i muri erano drappeggiati di tessuti coperti da tantissimi brillantini luccicanti. Alle pareti vi erano appesi tutti i miei quadri, compresa la cortigiana. Mi concentrai a fissarli uno per uno e quando mi voltai, mi accorsi che al centro della stanza vi era un enorme letto a due piazze a mezzo, sommerso da cuscini e avvolto da una nuvola di tulle.

Era tutto davvero stupendo. Ecco cosa intendeva Alice…

«È… magnifico…» biascicai quasi senza fiato.

«È la nostra casetta dorata» mi rispose, semplicemente.

Mi voltai a guardarlo negli occhi. Eravamo solo io e lui, rinchiusi nella nostra casetta dorata. Tutto intorno a me brillava: le tende, i tappeti, le coperte, pesino i muri e…il letto.  Ma la cosa che brillava di più, con la luce che si rifrangeva dai brillantini su di lui, in uno scambio continuo e costante di luce, era il mio amato. Mio marito, Edward.

Dolcemente, avvicinò la mia mano alla sua bocca, baciandola, e facendo affiorare un dolce, semplice sorriso sulle sue labbra. Mi sarei aspettata di arrossire, di avere il respiro corto, e il cuore che batteva all’impazzata, ancora agitata, pensando a cosa sarebbe dovuto accadere di lì a poco.

Ma non fu così, o almeno, non subito. Prima, ebbi il tempo di perdermi completamente nel suo sguardo, nei suoi occhi ambra chiaro, e capire che niente in quel momento poteva essere paragonato a quello che avrei vissuto, a cominciare dalla mia prossima azione.

In quel gesto appunto, accadde qualcosa di straordinario, come la prima volta che lo baciai, fui presa da un immenso impeto d’amore, e da una passione che aspettava solo di essere corrisposta. Così, feci un ampio passo verso di lui, ritrovandomi completamente schiacciata al suo petto. I nostri respiri si trasformarono in ansiti, e così lui, con la mia stessa passione, incollò con un repentino movimento le mie labbra alle sue.

Piano, poi, passò la bocca sulla mia, per poi fare qualcosa di mai sperimentato: in un sospiro, aprì le sue labbra, facendo compiere lo stesso gesto alle mie, schiave della sua bocca; poi, insinuò, con infinita dolcezza e altrettanta passione, la sua gelida lingua fra i miei denti, al che risposi con lo stesso abbraccio, reclinando il capo.

In tal punto, ritrovai le mie membra, aggrovigliate alle sue, e le sue alle mie, e prima che me ne rendessi conto, ero distesa sul letto, supina, con Edward su di me, posato sugli avambracci per non gravare con il suo peso.

Le sue labbra erano a due centimetri dalle mie, e ci misero poco a ricominciare la loro danza.

I respiri si erano trasformati in ansiti, sia per me che per lui; il cuore mi martellava furioso nel petto, e il mio viso aveva assunto un color cremisi, non per l’imbarazzo, ma per l’eccitazione che stava dominando il copioso afflusso di sangue al viso.

Mi sentii sollevare per il busto, e reclinai involontariamente il capo all’indietro, presa dalla più totalizzante emozione d’amore.

Improvvisamente rimbalzai sul materasso, con i capelli mossi sparsi sul copriletto. Edward, con un meraviglioso sorriso beato stampato in faccia, mi aveva tolto le forcine.

Inebriata dal suo profumo, come una bambino che odora una torta, mi avvicinai al suo viso, fino ad alzarmi e far sollevare anche lui. Posai il naso sul suo collo, mentre lui mi lasciava morbidi e freddi baci sulla clavicola. Allora io, con una mano, sfilai il papillon dal nodo, per poi gettarlo lontano.

«Bella…» mormorò Edward, sollevando un attimo lo sguardo dal mio corpo, per posarlo nei miei occhi.

«Edward» sussurrai, senza la necessità di aggiungere altro. Non avevamo bisogno di ulteriori prove d’amore: in quel momento volevamo solo essere uno parte dell’altra.

Le sue labbra furono ancora febbrilmente incollate alla mie. Per amarle, baciarle, morderle e torturarle, e così il mio corpo fu attirato al suo, mentre sentivo fredde mani sorreggere con infinita passione e gentilezza la mia schiena.

E così le mie mani sui suoi bottoni, e le sue, sui miei, ci ritrovammo a lavorare entrambi per disfare i nostri corpi dell’inutile pudore, mentre a vicenda ci spingevamo da una parte all’altra della stanza, in un nostro personale ballo di passione, liberandoci delle inutili calzature che ci avrebbero solo permesso di inciampare, e senza mai staccarci l’uno dalle labbra dell’altro.

Poi, sotto il mio sguardo impetuoso, si tolse la giacca e la fascia, aiutato nei movimenti dalle mie mani tremanti.

Sentii il mio corpetto, che tanto quella sera aveva stretto e fasciato, liberare il mio petto, mentre fui schiacciata con la schiena nuda contro il muro. In quel mod, non v’era più niente a contenere in mio cuore palpitante, né, tanto meno, i miei seni, ancora rinchiusi in un casto intimo di pizzo bianco.

Al modo uguale la sua camicia, con un repentino, irrazionale, quanto passionale atto, inaspettatamente da me compiuto, finì ai piedi del letto.

E seguendo sempre il nostro reciproco gioco, ci incantammo entrambi ad osservare quei corpi, che presto ne avrebbero formato un sol uno.

Poi, lui si ridestò da quel sogno incantevole, e con nuovo impeto scese con la bocca a lambire la mia pelle, le mie spalle, il mio cuore. E i brividi e le sensazioni che mi donava, fecero da corroborante alle mani, e mi liberarono da ogni velo di inibizione, così che, con la sua collaborazione, lo liberai da quegli inutili pantaloni, che fasciavano ciò che i miei palmi rivendicavano come proprio: il suo corpo.

Fui incantata da quella meravigliosa e unica visione. Un angelo, cherubino, serafino e arcangelo che fosse, sarebbe sembrato uno stupido pennuto al confronto della sua radiosa bellezza, unica inimmaginabile, di quella che solo un sogno può donare. E quel miracolo di bellezza era lì, che mi osservava. Osservava compiaciuto, e altrettanto ammirato, me, che rimiravo lui, con una mano davanti alla bocca meravigliata, e gli occhi lucidi, unici testimoni di cotanta bellezza.

Ancora, come un fiume in piena, la passione ci travolse, e con mano tremante, ed espressione tormentata sul viso, di un uomo che fatica ad arginare il proprio istinto, ma che costruisce infinite dighe fatte di dolcezza, si mosse sotto il tulle, sulle mie morbide cosce, scartando le mie gambe dalle calze, che ancora mi opprimevano le gambe e scatenando in me piaceri immensi e mai saggiati, mentre mi strofinavo involontariamente sulla parete per tentare in ogni modo di liberarmi di quei piaceri tentatori.

Improvvisamente mi sentii mancare il terreno da sotto i piedi. Edward mi aveva sollevato dalla vita, ed io feci aderire le gambe intorno ai suoi fianchi, e con le braccia mi artigliai alla sua schiena. Avevo i brividi, di freddo e d’eccitazione.

Inaspettatamente il freddo cessò e mi trovai a ribalzare con la schiena sul letto. Poi, la gonna, l’immensa montagna bianca, volò via, scomparendo da quella che unicamente e prepotentemente, voleva essere la mia visuale.

«Edward…» mormorai, e mi stupii, arrossendo, di quanto il mio tono fosse mutato ed eccitato.

«Dammi mille baci, poi cento

poi altri mille, poi ancora cento

poi altri mille, poi cento ancora.

Quindi, quando saremo stanchi di contarli,

continueremo a baciarci senza pensarci,

per non spaventarci e perché nessuno,

nessuno dei tanti che ci invidiano,

possa farci del male sapendo che si può,

coi baci, essere tanto felici» sussurrarono le sue labbra, partecipando della mia stessa passione. Mi strinse fra le braccia, raggelandomi e incredibilmente bruciandomi con il suo tocco, e fu un’emozione immensa, e totalmente indescrivibile sentire la sua pelle, così a contatto con la mia, come non l’avevo mai sentita. Sentivo le sue mani percorrere tutte le venature del mio.

«Baciami allora, cento, mille volte, non aspetto altro…» sfuggì dalle mie labbra, mentre la mia voce veniva soffocata dal movimento esaltante delle sue mani su di me.

Le sue gambe, nude, muscolose, erano strette contro le mie. Le sue mani vagavano sulla mia schiena e sulle mie gambe, come le mie sulle sue spalle fredde. La sua bocca lambiva il mio lobo, mentre la mia non poteva far altro che rimanere semiaperta, bloccata, per far uscire il mio respiro ansante di un corpo scosso dal profondo desiderio.

Dentro di me un’esplosione di gioia, anelo, follia, passione e eccitazione.

Edward si distanziò un attimo da me, e per un attimo la sua espressione mi parve titubante.

«Concedi a questi occhi di inebriarsi della vista di un miracolo e a questa fredda pelle di sfiorare la tua morbida e calda?» bisbigliò, con voce rotta dall’emozione.

«Il vero miracolo sei tu e i miei occhi godono della tua vista. Cosa più facile che donarti il mio corpo? Non chiedere il permesso per avere ciò che è già tuo…» non avevo idea da dove venissero quelle mie parole soffocate. Era tutto così impulsivo e incontrollato…

Tanto che mi meravigliai quando il groviglio delle nostre membra si risolse in un tenero quanto impetuoso abbraccio. Era su di me. Mi guardava, mi contemplava, osservandomi rapito, fremendo e facendomi fremere per il contatto della nostra pelle.

Mi strinse a sé, in modo che i nostri corpi combaciassero perfettamente, e si chinò sul mio orecchio a sussurrare le ultime parole che quella notte avrei udito «Concedi a questo navigatore solitario di profanare questo miracoloso porto?»

«Mai, vi fu navigatore più atteso».

Quelle furono le parole che concessero al navigatore di entrare nel mio porto, mentre io, con una lacrima, imprigionata fra le sue labbra, gli aprivo le mie chiuse.

E come, nel mare, la marea s’ingrossa sempre più, così la nostra eccitazione cresceva di secondo in secondo, mentre mettevamo via l’ansia e il dolore e la paura della tempesta, abbandonandoci sempre più alle onde alte, finché, la calma piatta del mare non sopraggiunse, lasciandoci stremati, ma felici come mai ancora lo eravamo stati.

 

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Capitolo 21
*** Luna di Miele ***


Sentivo i tiepidi raggi di sole, illuminarmi il viso, con delicatezza

Capitolo riveduto e corretto.

 

Sentivo i tiepidi raggi di sole illuminarmi il viso, con delicatezza. E quella dolcezza mi riportò alla mente la stessa che aveva usato con me Edward quella notte. Quel pensiero mi fece imporporare il volto.

Improvvisamente, mi accorsi che avrei dovuto sentire caldo, ma non era così, perché ero stesa su qualcosa di freddo e duro.

Mi voltai, mettendomi a pancia in giù.

Con un sorriso raggiante, mi osservava. Era bellissimo. Nulla di più sconvolgente di Edward dopo aver fatto l’amore. Perfetto, diceva il mio cervello. Il suo sguardo era bramoso, languido. Più o meno come era il mio, temo. Mi resi conto che ero completamente nuda, con il seno schiacciato contro il suo petto.

Inevitabilmente arrossii. Lui mi accarezzò, dolcemente, una guancia. «Edward» lo chiamai, trasognata. Mi guardò negli occhi, intensamente. Deglutii. Sentivo il cuore in gola e non sapevo come farlo ritornare al suo posto. «Sei… sei… sei sconvolgente…» balbettai, imbarazzata, senza riuscire ad aggiungere altro.

Lui ridacchiò un attimo. «Sei tu che sei davvero stupenda» disse poi, con dolcezza.

Le nostre dita corsero ad intrecciarsi sul suo petto. C’era una cosa però che mi premeva chiedergli. Arrossii ancora, facendo aumentare i battiti del mio cuore.

«Cosa c’è?» mi chiese teneramente, portandomi una mano sul petto.

«N…niente» balbettai «solo…».

«Solo?» incalzò lui, sollevandomi il mento per fissare i suoi occhi nei miei.

Inspirai profondamente. «È... è stato… difficile, per te…?» chiesi, più imbarazzata che mai.

Mi rivolse uno sguardo carico d’amore e fece scendere le sue labbra fino a posarsi delicatamente sulle mie. Quel bacio fu casto, eppure pieno di nuova e rinnovata passione. Quando si staccò da me, disse «La rosa più bella, quella più pura e graziosa, è costellata dalle spine più appuntite, che ne proteggono il candore». Come al solito, Edward era un galantuomo.

Mi strinsi maggiormente a lui, accarezzando il suo petto e disegnando cerchi concentrici. Lui chiuse gli occhi, e abbandonò il capo all’indietro. Lo sentii gemere piano e sorrisi compiaciuta, riportando alla mente le avventure di quella notte.

Feci vagare un attimo lo sguardo per la stanza e poi, scoppiai in una fragorosa risata.

Edward si risvegliò dal suo sogno. «Che succede?» mi chiese curioso.

«Guarda» spiegai, indicando la stanza. Tutti i nostri abiti erano disseminati qua e là. I calzini erano da una parte, le scarpe dall’altra. La sua camicia era finita malamente su una sedia e la gonna faceva bella mostra di tutto il suo tulle sul pavimento. «E’ tutto in disordine».

Anche Edward rise con me. «Aspetta, rimediamo subito» fece, alzandosi istantaneamente e ritornando in pochi secondi al mio fianco.

Tutto era di nuovo apposto e perfettamente sistemato. I nostri abiti completi facevano bella mostra di loro su due appendiabiti appoggiati con cura su una sedia. In quel modo ebbi maggiore facoltà di valutare tutti i particolari della stanza.

L’ambiente era piuttosto grande e molto luminoso. Due grandi finestre facevano bella mostra di sé, lasciando intravedere il verde del paesaggio circostante. Sul pavimento c’era una moquette beige chiaro, e, a parte l’immenso letto coperto dalla nuvola bianca di tulle, c’erano due comodini di legno di ciliegio, disegnati con linee morbide e sinuose. Dello stesso stile del letto e del resto del mobilio. Sui comodini due abatjour delle stesse tonalità chiare di tutta la stanza. Era una camera da letto in piena regola. Le pareti, infatti, erano drappeggiate ordinatamente da stoffe che sfumavano dal rosa pesca al bianco. Negli spazi vuoti, invece, tra un drappo e l’altro, c’erano appesi i miei quadri.

Mi mancò un attimo il fiato, quando lo vidi. Proprio davanti a noi, in modo che si potesse vedere dal letto, stava il mio quadro de “La cortigiana”. Senza quasi accorgermene, mi sollevai dal letto e mi avvicinai al mio dipinto, fino quasi a sfiorarlo. Era contornato da una meravigliosa cornice dorata.

«Ti piace?». Contemporaneamente alla parole di Edward, mi sentii stringere da dietro.

Non risposi. Perché aveva messo lì, proprio quel quadro?

«E’ il mio preferito» mi sussurrò ancora.

Deglutii. Era anche il mio preferito. Ma non doveva essere così.

«Hai usato dei colori bellissimi»

Decisi di rispondergli. «Già… sono colori a olio. Sono molto vivaci».

Mi sentii baciare una guancia. «Mi piace il rosso del vestito della cortigiana».

«Gliel’ha regalato il lord. Quella mattina si erano alzati presto ed erano andati a fare una gita. Lui aveva scoperto che fra le insenature delle roccia c’era una grotta» indicai un puntino in lontananza «Nella grotta c’erano dei coralli, così il lord ne fece un colore e lo regalò alla Cortigiana. Lei lo usò per dipingere il suo vestito che inizialmente era bianco, e così, si spogliò del suo candore» dissi, arrossendo per le mie stesse parole e stringendomi maggiormente a Edward.

«Col bianco la purezza, col rosso sangue diventa una donna» mi baciò il capo, osservando ancora il dipinto. «Quel paesaggio, lì in fondo, mi sembra familiare» disse, indicando la grotta.

«Sì, ho preso ispirazione da Goat Rocks, è uno scorcio in cui mi portasti un giorno, te ne ricordi?» chiesi, voltandomi verso di lui.

Mi sorrise, preso da una nuova emozione. «Certo, come potrei dimenticarmene» mi rispose, scendendo a baciare le mie labbra.

Il mio stomaco gorgogliò, e lui rise, seguito poi a ruota da me.

Mi scusai, divertita. «Scusami, è da ieri mattina che non tocco cibo».

«Da ieri mattina?» mi chiese lui preoccupato «Allora bisogna rimediare subito!» aggiunse poi, allegro, baciandomi la clavicola.

Io mi lasciai andare a quella piacevole sensazione, cominciando io stessa a baciargli la mascella, l’orecchio. «Lascia stare…» bisbigliai languidamente «posso vivere di solo amore» ansimai, gettandogli le braccia al collo e facendo arretrare fino al letto.

Lui si stese e io mi sistemai su di lui, senza mai staccare la mie labbra dalle sue. Con una mano, lentamente, cominciò ad accarezzarmi una gamba, dal polpaccio, fino a salire fino all’incavo del ginocchio, alla coscia, e su, più su…

Improvvisamente si staccò da me, uno sguardo divertito sul volto. «Tesoro, dovresti mangiare, ti ricordo che sei ancora un po’ debole…».

Alla mia espressione offesa, aggiunse malizioso «poi, possiamo riprendere da dove abbiamo lasciato, ma ora… ho una sorpresa per te, vestiti». Mi aiutò a sollevarmi dal suo corpo e aprì le ante di qualcosa che sembrava un armadio, ma che in realtà, dato che dopo due istanti Edward scomparve, capii essere una cabina armadio. Rimasi un po’ perplessa.

Dalla sera precedente, ricordavo con precisione che la costruzione dall’esterno mi era apparsa come una piccola, singola stanza.

Edward tornò da me, con la sua immensa bellezza, scacciando via i miei pensieri. Aveva in mano un abitino verde e indossava dei pantaloni larghi e una magliettina bianca e blu a righe larghe e a mezze maniche.

«Tieni» disse, porgendomi il vestito, mentre io lo fissavo imbronciata. Sul suo volto apparve un espressione confusa «Che hai?».

«Ti sei rivestito senza che io ti vedessi!» intrecciai le braccia al petto, offesa.

Nella stanza si diffuse la sua risata cristallina. «Scusa» mi sussurrò all’orecchio non appena smise di ridere «ti prometto che dopo, mi potrai svestire e rivestire quante volte vorrai».

Arrossii terribilmente. Tuttavia risposi, tentando di imitare il suo tono languido «mi sa che preferisco la prima».

Lo investì un’altra ondata d’ilarità.

Mi rivestii sotto il suo sguardo compiaciuto.

«Di che sorpresa parlavi prima?» gli chiesi con noncuranza.

«Se te lo dicessi, non sarebbe più una sorpresa, no?!» mi rispose lui «E poi, dai, lo scoprirai prestissimo, appena finisci di vestirti».

«Okay, pronta» dissi facendo una giravolta su me stessa per mostrare il mio abito. «Come sto?» chiesi con fare provocatorio.

In un attimo mi fu accanto «Sei un angioletto. Il mio, angioletto».

Questa volta fui io a ridere.

Mi prese per mano. «Bene, andiamo. Apri la porta» mi istruì, indicandomi la porta che mi pareva quella da cui eravamo entrati la sera precedente.

«Okay» obbedii un po’ scettica, abbassando la maniglia.

Lo spettacolo che mi si presentò dinanzi non me lo sarei mai aspettato. Davanti ai miei occhi, subito dopo un corridoio, e separato da un arco, c’era un meraviglioso soggiorno. Tutto era arredato con tonalità chiare, e tutto, nella stanza, faceva pensare di essersi persi in una fiaba. Sembrava di essere stati traspostati nella casetta di Biancaneve. C’era persino un sontuoso camino. Quasi incantata, mi avviai a passo leggero per la stanza; tutto era stupendo e curato e arredato nei minimi dettagli. Una porta in legno rosso, di ciliegio probabilmente, portava alla sala da pranzo, al cui centro troneggiava un grande tavolo. Da una porta coi vetri colorati si poteva scorgere una cucina, da un’altra, il grazioso ingresso.

Mi voltai un attimo, scoprendo Edward dietro di me.

Ero sgomenta. Non ci sarebbe dovuta essere una casa lì!

Lui dovette leggere la sorpresa nei miei occhi, perché, dopo avermi sorriso disse: «Bisognerà ringraziare tutta la mia famiglia. In particolare Esme…».

Me ne stavo ancora ferma, sbigottita, con la bocca semi-aperta a fissarlo, incapace di parlare.

Si mosse nervosamente, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra. «Ti piace?».

Dopo circa venti secondi mi accorsi di avere ancora la bocca aperta, così la richiusi in uno schiocco secco. «Ma…ma come…? Ma…ma…io…?» farfugliai incapace di fare un discorso sensato. «Non c’era…».

Edward mi venne accanto, stringendomi a sé. «C’era. Ben nascosta, ma c’era. Alice sosteneva che ieri non era il miglior momento per mostrartela» mormorò pensieroso, picchettandosi le labbra con un dito. Accortosi del mio sguardo fisso su di lui mi sorrise. «Beh, mai andare contro a quello che dice Alice, no? Credo che avesse ragione. Ieri… avevamo di meglio a cui pensare» continuò malizioso. «E’ il loro regalo di nozze. Allora, ti piace la nostra casa?».

Sobbalzai, arrossendo ancor più tenacemente. Il tono che aveva usato per dire “nostra casa”. «È… è meravigliosa!» esclamai.

«Sono contento che ti piaccia».

Esitai, titubante. Non avevo pensato davvero a dove avremmo vissuto. Forse avevo sempre dato per scontato che saremmo rimasti a casa Cullen, almeno fino a che avessi potuto. E poi, mi aveva detto che aveva in mente una sorpresa, per la nostra luna di miele. «Ma…ma è davvero casa nostra?».

«Certo!».

«Possiamo rimanerci quanto tempo vogliamo?» chiesi speranzosa.

«Il più a lungo possibile!» mi rispose, contento, leggendo l’euforia nella mia voce.

Mi fece fare un vero giro della casa, mostrandomi ogni stanza e angolo. Poi mi portò a fare colazione, mentre io ancora mi muovevo come se stessi camminando sulle uova, per paura di rompere l’incanto.

«Allora, che cosa vuole la mia cara moglie per colazione?» disse spostando la sedia, da vero gentiluomo, per farmi sedere intorno al piccolo tavolo in vetro al centro della stanza.

«Mmm… vediamo» feci divertita «che cosa c’è nel tuo repertorio di cuoco?».

Fece un gesto ampio con la mano, come un cameriere che indica un tavolo. «Chiedi e ti sarà dato».

«Davvero?» risposi maliziosa.

Scoppiò a ridere. «Davvero».

«Credo che mi affiderò al maître».

«Bene» mi accontentò, muovendosi a velocità vampiresca per la cucina. Vedevo la ante che sbattevano qua e là, il frigo ora aperto, ora no, e la sua ombra che si destreggiava veloce.  Dopo circa due minuti mi ritrovai di fronte agli occhi un bicchiere di succo, uno di latte, dei biscotti, un pezzo di torta, una barretta di cereali e un piatto di uova strapazzate con la pancetta.

Sgranai gli occhi. «Edward! Non ti aspetterai che io mangi tutto, vero?».

Si sedette accanto a me, con le mani sotto il mento, ad osservarmi «Scegli quello che vuoi».

Sollevai le sopracciglia, scettica. «Okay…». Presi innanzitutto il succo e lo mischiai al latte. Bevvi un sorso di quell’intruglio delizioso. Afferrai un biscotto e lo mordicchiai, poi passai alla torta. Sentivo i suoi occhi addosso. Gli piaceva guardarmi mentre mangiavo. «Mmm… è buonissima!» esclamai.

Mi sorrise. «Sono contento che ti piaccia, l’ha fatta Esme».

Presi un altro sorso di latte e succo, ripensando all’affettuosità della mia famiglia. Mi, anzi ci avevano costruito una casa stupenda. Mi mossi sulla sedia, lievemente a disagio.

Edward mi stava osservando, facendo scorrere mollemente un dito sul mio braccio. «Ti fa male? Senti bruciore?».

Lo guardai un per attimo stralunata. Quando capii a cosa si stesse riferendo tossii, sputando il latte con cui mi stavo affogando. Mi sentii immediatamente battere dei colpetti gentili dietro la schiena, mentre ancora tossicchiavo, con le lacrime agli occhi.

«Stai bene?» mi chiese, preoccupato.

Assentii col capo, sforzandomi di controllare gli ultimi accessi di tosse. Ero rossa in viso, e di certo non solo per il mancato affogamento.

«Che ti è preso?».

Distolsi lo sguardo, in cerca di un buco o un angolo in cui seppellirmi. «Umh… niente». Immaginavo che certi discorsi fossero… normali, fra due persone sposate. Eppure come potevo non contorcermi dall’imbarazzo per quello che mi aveva chiesto? L’attuale stato di salute del mio… della mia… delle mie parti intime.

Mi guardava, cercando di capire la mia espressione.

Tossicchiai, mordicchiandomi un labbro. «Tutto bene, certo» risposi al tavolo, con cui stavo avendo una conversazione privata, visto che i miei occhi non parevano volercisi separare.

«Sei in imbarazzo?» mi chiese, genuinamente sorpreso.

«No!» esclamai, affrettandomi a rispondere. Ansimai, guardando ovunque tranne che il suo volto. «Io… sì» mi si mozzò il respiro in gola, mentre mi portavo la mani a coprire gli occhi e il viso, infuocato d’imbarazzo.

Ci fu qualche istante di silenzio, poi udii una meravigliosa e cristallina, quanto sfacciata risata. «Ti stavi per soffocare per questo?».

Lo fissai truce, arrossendo, se possibile, ancor di più.

Edward cercava, inutilmente, di nascondere il divertimento nella sua voce.  Mi scostò una mano dal volto. «Amore».

«Ti prego, ma sento già abbastanza imbarazzata» cincischiai, abbassando il viso.

Si fece serio. Mi prese il viso fra le mani, costringendomi a guardarlo. «Cosa c’è? Ieri non mi sembravi così  a disagio».

Scossi il capo velocemente, senza rispondergli davvero.

«Allora?».

Deglutii. «Ieri non mi hai fatto domande così… specifiche».

Sorrise, e in un attimo mi trovai fra le sue braccia. Non conoscevo bene la casa, ma abbastanza da intuire che mi stava trasportando verso la camera da letto. «Cosa ne dici se diamo un’occhiata?» domandò, lasciandomi cadere sul materasso.

«Cosa?» strillai, stridula, portandomi automaticamente le mani a coprirmi le pelvi. Lo fissai terrorizzata.

Si sistemò caponi sul letto. Mi fece il suo sorriso sghembo, facendomi palpitare il cuore. L’imbarazzo stava per trasformarsi in eccitazione. Mi prese per una caviglia, tirandomi a sé. Iniziò a lasciare una scia di baci, risalendo verso l’alto. «Ho sempre sognato di organizzare una campagna di esplorazione proprio… qui».

Le mie mani stavano stringendo i suoi capelli, adesso. «Oh, Edward…».

Nella settimana che passò, ci godemmo in pieno la nostra luna di miele. Ormai si poteva dire che ognuno dei due conoscesse alla perfezione il corpo dell’altro, nei dettagli più minuti, e nei punti più inesplorati. L’amore ci rincorreva sempre, non dandoci mai tregua, né noi la chiedevamo, assuefatti com’eravamo l’uno dell’altra. Eravamo rimasti chiusi in casa nostra, senza alcun contatto con l’esterno, a vivere di solo amore. Certo, qualche volta io dovevo dar sfogo ai miei bisogni da umana, ma di tanto in tanto, condividevamo anche quelli. Come la volta in cui facemmo il bagno assieme… Oppure, come la volta in cui, un alimento in particolare decise di movimentare la nostra attività d’amore.

 

Mentre frugavo nella dispensa mi accorsi di un mobiletto in basso, chiuso con una piccola e graziosa chiave. Edward era in camera da letto, e stava cambiando le lenzuola. Avevo chiesto di farlo io, ma lui, gentile come al solito, me l’aveva impedito.

Così, senza chiedere il permesso, aprii l’anta del mobiletto.

Davanti ai miei occhi trovai un’enorme quantità di liquirizia, di tutti i tipi. Immediatamente mi venne un’idea. Dopotutto, Edward era sempre così… affettuoso con me, mentre io ancora non gli avevo dimostrato nulla, e per questo mi sentivo un po’ in colpa. In più, lui doveva sempre cercare di controllarsi…

Afferrai i primi due grossi pacchetti, e mi accorsi che c’era un biglietto, indirizzato a me.

Da Alice, con affetto… Mi raccomando usala bene!

PS. Non far sentire l’odore a Edward prima del necessario…

Ovviamente ci doveva essere il suo zampino. Con un sorrisetto malizioso sulle labbra, presi altri due pacchetti e una bella coppa in vetro che avevo visto sulla penisola della cucina e mi affrettai in bagno, badando bene di lasciare i pacchetti ancora sigillati. Una volta entrata nell’antibagno, aprii tutte le finestre e svuotai i pacchetti nella coppa, formando un bel miscuglio con vari tipi di liquirizie.

Poi, presi una decisione. Rossa in viso per quello che stavo per fare, aprii il cassetto della biancheria e vi trovai un succinto completino blu, costituito più che altro da veli, che faceva un magnifico gioco, “vedo- non vedo”.

«Amore, sei lì dentro?» mi chiamò Edward.

Sobbalzai un attimo, preoccupata di essere stata colta in flagrante, poi, mettendomi una mano sul cuore martellante, mi tranquillizzai. «Sì, vai a letto, sto arrivando» feci alzando inutilmente il tono di voce.

«Va bene» mi rispose poco convinto.

Presi tre grossi respiri e afferrata la coppa in mano, senza neppure guardarmi allo specchio, mi diressi, cercando di sopprimere l’imbarazzo, verso la camera da letto.

Quando mi vide con la liquirizia fra le braccia, mentre tentavo di camminare verso di lui con un minimo di sensualità, i suoi occhi divennero improvvisamente nero liquido, segno che il mio piano stava funzionando. Posai la coppa tra di noi, sul copriletto appena cambiato e ancora immacolato, mentre gattonando mi andavo a mettere al suo fianco.

«Bella…» sussurrò, la voce già bassa e roca.

Gli misi una mano sulle labbra, tentando ancora di non apparire troppo impacciata. «Shh» sussurrai, avvicinandomi pericolosamente al suo orecchio. Presi con delicatezza un pezzo di liquirizia tra le mani mordicchiandolo lascivamente, mentre ebbi la soddisfazione di vedere Edward deglutire, probabilmente veleno. Mi avvicinai a lui, baciandolo e inondandolo del profumo della liquirizia.

Chiuse gli occhi, e lasciò andare la testa all’indietro. «Ancora» mormorò roco.

Presi un altro pezzettino di liquirizia e ripetei quella stessa operazione.

«Mmm… ancora una volta, te ne prego».

Ero salita a cavalcioni su di lui e lo baciavo provocatoriamente con il sapore di liquirizia in bocca.

Emise un gemito tra le labbra «La liquirizia…»

«Sì, mio bel vampiro?» chiesi maliziosa.

Iniziò a prendere l’iniziativa di baciarmi «Irretisce i miei sensi…».

«Sì, mio bel vampiro…».

Mi mise un altro pezzetto di liquirizia tra le labbra, imboccandomi maliziosamente. «Mi fa perdere la percezione dell’olfatto…».

«Sì, mio bel vampiro…» lo baciai ancora.

Mormorò roco «Mi annebbia il cervello».

«Sì, mio bel vampiro!» esclamai, anch’io roca, prima che la coppa venisse spazzata via dal letto, infrangendosi contro il muro e che io mi trovassi a tremare di passione insieme a Edward.

 

Ripensando a quei momenti mi ritrovai più accaldata del solito, mentre al mio risveglio, con la mano, cercavo il corpo di Edward steso accanto a me sul letto. Non trovandolo aprii gli occhi di scatto e mi portai a sedere sull’enorme materasso. Era ancora buio, così accesi l’abatjour. Nella stanza non c’era nessuno oltre a me.

Di fronte ai miei occhi, appeso sulla cornice de “La Cortigiana” c’era un bigliettino, su cui c’era scritto in bella grafia. Mi sollevai dal letto, stropicciandomi gli occhi.

Per starti più vicino sono andato a caccia… Tornerò subito, già adesso mi manchi. Aspettami, e prenditi cura delle mie cose, ricordati che mi appartieni…

Torna a dormire, perchè è sicuramente ancora tardi.

Sogni d’oro,

Tuo per sempre, Edward…

Sospirai. Era strano non averlo accanto, dopo tutto quel tempo insieme. Mi sentivo così strana ad essere da sola, anche se non lo ero realmente. Mi sporsi a guardare fuori dalla finestra, e distinsi una sagoma ferma nell’ombra, debolmente illuminata dalla luna.

«Calmati, Bella! Non è lui».

«C-cosa… Ho visto qualcuno, lì fuori! Te lo giuro» avevo balbettato, prossima alle lacrime.

Mi aveva posato le mani sulle spalle. «Lo so. La mia famiglia sta facendo dei turni».

Avevo strabuzzato gli occhi, sbigottita. «Cosa? La tua famiglia?».

Avevamo discusso. Gli avevo detto che eravamo passati a vivere in una prigione con i carcerieri, piuttosto che avere la nostra luna di miele. Mi ero infuriata, e sentita controllata e imbarazzata. E poi, quando mi aveva fatto calmare, e mi aveva detto che era solo per la mia sicurezza, tutta la mia rabbia si era rivolta verso Jacob, per la vita che la sua presenza mi obbligava a condurre.

«Cosa c’è ancora?» mi aveva chiesto, vedendomi così depressa.

Ero arrossita. «Non voglio che la tua famiglia stia a sentire mentre facciamo l’amore».

Un lento e ampio sorriso si era dipinto sulle sue labbra. «Questo perché non sai che la camera da letto è un blocco perfettamente isolato ed insonorizzato anche all’udito di un vampiro».

«Cosa? Come?».

«Le migliori tecniche d’ingegneria combinate alla naturale conformazione del blocco, addossata ad un costone roccioso…».

Non riuscivo a dormire, così andai a prendere un bicchiere d’acqua.  Ormai mi muovevo piuttosto bene. La nostra casa non ero eccessivamente grande, ma tuttavia confortevole. Era perfetta, sembrava fatta su misura per me, e mi ci trovavo già perfettamente a mio agio. Non avevo ancora ringraziato Esme, anche perché dal giorno del matrimonio non vedevo altri se non Edward, non che la cosa mi dispiacesse, anzi…

Ma sapevo che si stava avvicinando sempre più la fine della nostra luna di miele e insieme a questa, anche il giorno della mia trasformazione.

«Bella» mi chiamò Edward quando rientrai in camera.

Sussultai, e mi affrettai ad accendere la luce. Dovevo essere stata via più del previso. «Oh, sei già qui».

Si sollevò dal letto con uno scatto morbido, accarezzandomi la guancia con i dorso della mano. «Hai le occhiaie» constatò.

Scrollai le spalle. «Non riuscivo a dormire…».

Lui mi fissò accigliato, circondandomi le spalle con un braccio e guidandomi verso il letto. «A cosa pensavi?».

Sospirai, confessandogli la verità. «Al futuro».

Lo sentii irrigidirsi, e per un attimo pensai che stesse fissando il mio dipinto. Mi immaginai la voce uscirgli, per una volta, strozzata. «Il futuro?» chiese invece, fluidamente.

Annuii. «Sì. Alla trasformazione. Quanto ancora resteremo qui?».

Le sue spalle si rilassarono un poco. Prese a giocherellare con le mie dita. «Hai fretta?».

Scossi il capo. «No. Mi…» arrossii, «mi piace fare l’amore con te. Stare qui» sussurrai imbarazzata, accarezzandogli il petto muscoloso. «Ma penso che sarebbe più facile per tutti, una volta che sarò trasformata. Jacob potrà fare pochissimo, e la tua famiglia non dovrebbe più farmi da balia…».

Strinse la mascella. «Non mi sembra un buon motivo».

«Lo è, invece» risposi con voce ragionevole, «e poi sono pronta. Ho avuto tutto ciò che desideravo dalla mia vita umana» aggiunsi con un sorrisetto.

Mi accarezzò il viso. Il suo sorriso scemò un po’. «Farà male».

Deglutii, ma poi rilassai il mio corpo. Il cuore non batteva poi così forte. «Lo so. Ma tu sarai lì con me, vero? Mi stringerai la mano».

«Sì, Bella…» esitò.

«Cosa?».

«Io e Carlisle abbiamo pensato al modo migliore per farlo». Mi osservò. «Ma non so se vuoi saperlo».

Sperando di nascondere il subbuglio del mio stomaco mi misi a sedere con le gambe incrociate sul letto, sperando di avere un’aria distesa. «Dimmi pure».

Mi scrutò attentamente, valutando tutte le mie reazioni alle sue parole. «Pensavamo ad un’anestesia totale, ma ci serviranno alcune strumentazioni per monitorarti. E poi… secondo i suoi studi, la trasformazione può essere accelerata se il soggetto viene morso in più punti, specie quelli in cui il sangue entra in circolo più facilmente».

Deglutii, accennando un debole sorriso. Speravo di non essere verde in faccia. «Cioè?».

Mi fissò di sottecchi. «Beh, per esempio, il cuore…».

Battei le palpebre, cercando di immaginare come il suo veleno potesse entrare nel mio cuore. Poi l’immagine di una siringa con un grosso, grosso ago mi baluginò davanti agli occhi. Presi un respiro come se avessi appena morso un limone. «Bene. Sono contenta che sarò addormentata, perché sento che adesso sto per svenire…».

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Capitolo 22
*** Buio ***


Mi stavo lavando i denti con cura dopo la merenda

Capitolo riveduto e corretto.

 

Mi stavo lavando i denti con cura dopo la merenda. Il sapore della menta dopo aver bevuto il latte mi dava molto fastidio, ma cercavo di eliminare lo sgradevole sapore metallico che quel connubio mi aveva causato.

Erano passate due settimane dal giorno del matrimonio. Domani saremmo dovuti tornare alla vita normale, a trovare le nostre famiglie.

Edward aveva detto che per lui sarebbe anche andato bene posticipare; tutto, pur di vedermi felice. Tuttavia io avevo insistito, dicendo che almeno avremmo potuto fare una capatina dalla sua famiglia, anche solo di cinque minuti, prima di riprendere la nostra… attività. Vidi la mia immagine allo specchio arrossire a quel pensiero.

Sputai il dentifricio nel lavandino e mi sciacquai i denti, facendo scorrere l’acqua. Quello era solo uno dei quattro bagni della casa. Il più bello a mio avviso. Era arredato con bellissime tonalità di azzurro e verde mare, estremamente rilassante. Quattro, uno per ogni camera da letto. Una matrimoniale, per noi, e tre per gli ospiti. Anche se la casa era piccola per i canoni Cullen, rimaneva pur sempre una villetta di dimensioni notevoli. Mi piaceva tantissimo, io e Edward l’avevamo già fatta nostra.

Andai nella stanza da letto, dove Edward, su mio ordine perentorio, era rimasto steso, ma soprattutto… nudo, in attesa che io, altrettanto nuda, lo raggiungessi…

Quando entrai nella stanza e lo vidi, successe qualcosa di estremamente inaspettato.

M’immobilizzai, spalancando la bocca e gli occhi. Edward, avendomi vista arrivare si voltò verso di me. Notò la mia espressione vacua da pesce lesso, e mosse piano il capo di lato, perplesso.

«Bella?» mi chiamò. Non risposi. Ero stata folgorata, colpita da… un’immagine paradisiaca. La sua espressione si fece ansiosa. «Amore?» mi chiamò ancora, muovendosi per venire da me.

«No!» strillai con un po’ troppa verve. Battei le palpebre e deglutii, abbassando la voce. «Non ti muovere».

Ancora perplesso fece come gli dicevo. «Tutto bene?».

Annuii, e, senza rispondergli, mi mossi verso la porta. «Non ti muovere, per favore». Andai diretta verso la stanza dell’arte, dove Esme aveva sistemato tutto il mio materiale per dipingere e il pianoforte di Edward. Afferrai un cartoncino ruvido, di formato A2, una tela di legno su cui poggiarmi, tre pezzi di carboncino e la gomma pane. Edward, che nel frattempo era rimasto immobile, vedendomi arrivare con quelle cose rilassò lo sguardo, sorridendo. Trascinai una sedia proprio davanti alla porta del bagno, da dove, uscendo, avevo trovato l’ispirazione.

Mi sistemai con il foglio in grembo e volsi uno sguardo a Edward, che mi sorrideva sghembo come quando l’avevo visto appena entrata in camera.

Mi rammentai un attimo di una cosa. «P…posso?» chiesi arrossendo.

«Certo» mi rispose lui con serenità.

Iniziai a disegnare. Era semplicemente magnifico; quando ero uscita dal bagno, vedendolo, ero rimasta incredibilmente stordita. Non che non l’avessi visto altre volte nudo, ma forse quando l’avevo fatto ero troppo presa e concentrata da altro per poterlo realmente apprezzare. Ora invece, entrando nella stanza a mente lucida, ero rimasta folgorata dalla sua bellezza.

Era semi-sdariato sul letto, in posizione relax, una mano a sorreggere la testa e l’altra abbandonata lungo il fianco. Il lenzuolo era magistralmente arrotolato lungo una gamba e andava a coprire appena le parti più nascoste del suo corpo, alle quali solo io avevo accesso. Comunque, la cosa più importante di tutte era un debole, singolo raggio di sole che lo colpiva dritto al petto, facendo apparire la sua etera bellezza insieme alla sua differente natura.

La mia mano si muoveva rapida sul foglio, e la gomma pane tra la dita sfocava i punti dove volevo dare più morbidezza.

Il suo sguardo era sicuro e felice… non come quello che aveva avuto un paio di giorni prima. Abbassai il viso, concentrandomi sul disegno. Era inutile, perché poteva sentire il mio cuore battere più forte, ed era bastato solo il ricordo di quello che era accaduto.

 

«È per te, Bella. Io non l’ho ancora aperta» aveva detto porgendomi la busta bianca.

L’avevo guardato con un’espressione incerta. Sulla busta c’era scritto il mio nome, e non sembrava una delle eleganti calligrafie dei Cullen. Avevo deglutito. «Per me? Da chi?».

Edward mi aveva misurata con lo sguardo, in cerca di una mia reazione, mentre rispondeva. «Bill l’ha consegnata personalmente a mia madre».

Avevo aspirato un sibilo fra i denti, lasciando andare la presa sulla busta, come se all’improvviso scottasse. «Edward, io…».

Aveva scosso il capo, mettendo una mano sulla mia. «Non devi aprirla per forza. Ho detto che non sarebbe stata la migliore idea. Ma credevo di dovertela almeno dare».

La busta giaceva bianca sul tavolo di mogano. Avevo aperto e chiuso le mani a pugno, i palmi sudati, provando a calmare il battito veloce del mio cuore. Poi mi ero fatta forza e avevo preso un grosso respiro, strappando malamente la busta per prendere la lettera. Non mi era bastata una sola lettura per capirne il contenuto.

…So che mio figlio è molto cambiato, e questo mi fa più male di quanto tu possa immaginare. Ma sai bene anche tu che non era così. È sempre stato un po’ spocchioso e arrogante, ma non voleva che nascondere la sua timidezza. Ti vuole bene e te ne ha sempre voluto. So che sei contenta con il tuo succ, con Edward, e che siete ora felicemente sposati. Ma voglio solamente che tu e Jacob parliate e vi riappacifichiate. Ti chiedo molto, lo so… ma vorrei riavere indietro mio figlio…

«Bella» mi aveva richiamato Edward.

Con dita tremanti avevo fatto scivolare il foglio nella sua direzione. Dopo che l’aveva letta - in meno di un quarto del tempo che avevo impiegato io per farlo - aveva sollevato il viso crucciato sul mio, ma non aveva detto nulla, aspettando le mie parole.

Avevo sospirato, abbassando il viso. «Sai bene che non voglio vederlo».

«Ma?» aveva continuato gentilmente. «Parlargli era nei nostri accordi sin dall’inizio».

«Prima che voi lottaste e prima che incendiasse metà del bosco per tentare di ucciderti» avevo sbottato, tremante.

Mi aveva messo le mani sulle braccia, e senza dire una parola mi ero lasciata confortare da quel gesto. «Chi ci dice che Bill non sia d’accordo con il figlio e che questa non sia che una trappola per portarmi via da te?».

Si era irrigidito. «Non glielo permetterò, mai».

«Trasformami, allora. Voglio diventare una vampira come te e non avere più paura che niente ci separi».

 

«Finito» dissi mentre mi allontanavo il disegno dal viso per osservarlo meglio. E mentre allontanavo quei pensieri tristi dalla mia mente.

«Posso vedere?» chiese Edward, mentre si muoveva verso di me.

Mi morsi un labbro. «Aspetta…» mormorai, imbarazzata, abbandonando il disegno sulla sedia. Mi avviai a passi sicuri (pretendere dal mio equilibrio e dalla mia goffaggine un passo felpato sarebbe stato troppo) verso il letto. Sul volto di Edward comparve un sorrisetto malizioso, e, non appena mi avvicinai a lui, la meravigliosa statua d’adone che era mio marito prese vita, regalandomi piaceri che una statua non avrebbe mai potuto regalarmi.

Rabbrividii, mentre Edward mi disegnava immaginarie linee sul ventre. Era diventata sera ormai, e la stanza era illuminata da un sofisticato sistema di luci bianche soffuse, come tante piccole lucciole.

«Edward…» mormorai, mentre la sua mano scendeva sempre più in basso.

«Bella» ansimò, roco, mentre lambiva le mie labbra, gustandole e succhiandole. Improvvisamente sentii i miei occhi farsi pesanti, e dalle sue labbra uscì una risata. «Bella, sei stanchissima» fece divertito.

«No» protestai, sbadigliando. Una delle cose che odiavo dell’essere umana era la stanchezza. Lui, invece, non si stancava mai…

Ridacchiò ancora. «Me lo fai vedere il disegno adesso?» chiese impaziente.

«Va bene» gli concessi mio malgrado.

In un attimo la luce fu accesa e mi ritrovai Edward accanto a me con il disegno tra le mani, che lo guardava incantato. Decisamente veloce. «Ti piace?» chiesi, un po’ ansiosa. Mi mordicchiai il labbro imbarazzata

«Stupendo!» esclamò contento, osservando con occhi meravigliati il disegno.

Presi un respiro, più rilassata. «Davvero? E il fatto che tu sia mio marito, che ci siamo appena sposati e che abbiamo appena fatto sesso non c’entra niente con il tuo giudizio?» lo stuzzicai.

Sorrise, malizioso. «Come potrebbe mai influire il fatto che sono tuo marito? Forse il sesso… Mmm… forse…».

«Edward!» gridai, fintamente indignata, lanciandogli un cuscino.

«Ah, osi sfidarmi?!» Esclamò giocosamente, prendendomelo dalle mani e lanciandolo via. Mi si lanciò addosso, facendomi il solletico. Ridacchiai, dimenandomi, ben sapendo che presto si sarebbe trasformato in qualcosa di molto più… sensuale.

Improvvisamente andò via la luce. Edward si sollevò dal mio corpo, sicuro di sé anche nel buio completo. Sentii l’interruttore scattare più volte.

«È andata via la luce?» chiesi al buio, cieca.

«Sì». Mi voltai verso il luogo dove credevo provenisse la sua voce. Udii un fruscio di stoffa -probabilmente aveva infilato i pantaloni. «Vado un attimo a controllare il contatore e torno. Ti prometto che riprendiamo da dove abbiamo lasciato» mormorò divertito.

«Vai!».

Mi sentii sfiorare le labbra dalle sue, e poi scomparve, con l’ombra di una risata.

Mi bastarono pochi istanti per realizzare di essere sola, al buio, mentre la luce era misteriosamente andata via. Provai un forte senso di disagio. Sentivo l’aria pesante, densa, intorno a me. Quando Edward era andato a caccia non era stata la stessa cosa, sapevo perfettamente che fuori dalla finestra c’era qualcuno a sorvegliarmi.

Sentii il cuore palpitare con prepotenza nel petto. Calma Bella, calma, mi dissi. Non essere stupida. Tuttavia l’agitazione non scompariva e io mi sentivo attraversare da brividi.

Tentando in qualche modo di reprimere quell’insensata paura del buio, feci una cosa che facevo sempre da bambina. Mi sdraiai sul letto, in modo da avere la schiena completamente schiacciata al materasso. Non c’era un motivo preciso, ma quel gesto mi faceva sentire più sicura. Forse perché così sapevo che nessuno avrebbe potuto attaccarmi alle spalle.

Passò un minuto forse, ed Edward non era ancora tornato.

All’improvviso, sentii una presenza nella stanza. Come una vibrazione, un sesto senso, ma certo e vivido. Sentii le mia pupille dilatarsi ancora, sia per vedere nel buio, sia come effetto all’enorme quantità di adrenalina che mi scorreva nelle vene. Potevo benissimo udire il suono del mio cuore che insistente batteva sulle mie costole e quello del mio respiro affannato.

Mi decisi a provare a chiamare Edward. Mi avrebbe certamente sentita, ovunque fosse. Non potevo rimanere ancora sola. O peggio. Quella presenza che mi sembrava avvertire non accennava ad andarsene.

Provai a parlare, ma le parole mi uscirono mute, a causa della gola completamente secca. Strisciai lungo il letto, fino a nascondermi sotto il lenzuolo. Me ne stavo raggomitolata sotto le coperte, avvolta intorno al cuscino che avevo portato in grembo, immobile.

Sentii, nel silenzio innaturale, il suono di un passo.

Il respiro mi si mozzò in gola, e una gocciolina di sudore scese lungo la mia tempia.

Poi, sulla spalla, una mano. Una mano. Una mano calda.

A quel punto urlai, un urlo agghiacciante e stridulo, quasi non mio.

Nel successivo istante accaddero tre cose contemporaneamente. Tornò la luce. Un vento freddo, della finestra aperta, inondò la stanza. Edward comparve al mio fianco.

Sentii la coperta spostarsi con uno scatto deciso, mentre rimanevo immobile, gli occhi sgranati e le mani convulsamente aggrappate al cuscino. «Bella?». Sentii chiamare dalla voce agitata di Edward. Non riuscivo ancora a muovermi, tutti i muscoli contratti. Mi sentii sollevare da due braccia fredde, che delicatamente mi aprivano le dita per sfilarmi il cuscino dalle mani. Ben presto mi ritrovai stretta al suo petto, cullata e confortata dal suo odore. «Amore. Cos’è successo?» mi chiese ansioso.

Il mio corpo era scosso da brividi. Tentai di parlare, ma avevo la gola troppo secca. Scossi il capo. Il mio respiro era ancora veloce e agitato.

Edward, comprendendo che non sarei riuscita a parlare in quello stato, tentò di rassicurarmi. Piano, gentilmente, mi aiutò ad indossare una camicia da notte. Mi strinse a sé e mi portò in cucina. Senza mai lasciarmi aprii il frigorifero con disinvoltura e prese una bottiglia d’acqua. Ne versò un po’ in un bicchiere, si sedette sul divano della sala da pranzo, tenendomi stretta al suo corpo, e me lo portò alle labbra.

Lo bevvi tutto, senza fare storie, sentendomi subito meglio. Era incredibile come la sua presenza potesse fare la differenza.

Intuendo i significati del mio sguardo, ne riempì un altro e me lo porse.

Bevvi con la stessa avidità, poi lo riconsegnai alle sue mani.

Studiai la sua espressione. Era teso e preoccupato. Tuttavia, quando i suoi occhi si posarono su di me, divennero dolci e comprensivi. Mi baciò la fronte. «Mi dici cos’è successo?» chiese, con altrettanta dolcezza.

Mi strinsi maggiormente a lui, chiudendo gli occhi. «Era lì Edward. Lì con me…» la mia voce a quel punto s’incrinò.

Lo sentii irrigidirsi. «Ne sei sicura?». Era incredibile quanto ora la sua voce fosse fredda, in confronto a prima.

Annuii, silenziosamente. In un rapido scatto, prima ancora di riaprire gli occhi, capii che ci eravamo mossi.

«Carlisle? Sì, Alice. Ha visto niente?». Stava parlando al telefono. «Va bene, vi aspettiamo».

«Stanno venendo?» chiesi in un sussurro.

Mi accarezzò una guancia, con dolcezza e al tempo stesso determinazione. «Sì» fece una pausa, in cui nei suoi occhi lampeggiò la rabbia «lo troveremo, davvero».

Mi lasciai andare contro il suo petto nudo, le palpebre pesanti.

«Stai bene?» mi chiese apprensivo.

Annuii, gli occhi ormai chiusi. Mi riportò in camera e mi sistemò sotto le coperte. «Resta con me» farfugliai, scivolando nel sonno, mentre mi stringeva da sopra la coperta.

Mi baciò da sopra i capelli. «Sì, sono qui con te».

Il sonno fu riposante. L’aroma e la pelle fredda di mio marito non mi abbandonarono mai, e la… stanchezza fisica mi impedì di svegliarmi durante la notte.

A svegliarmi furono delle voci, sussurri dapprima lontani e poi sempre più vicini e consistenti.

«Non capisco perché dobbiate stare qui dentro! Uscite».

«Edward, non fare sempre il rompiscatole! Voglio solo vedere come sta».

Un sospiro.

«Siete stati bene in questi giorni?».

«Sì. Beh, a parte ieri ovviamente. Si è spaventata tantissimo, Alice. Davvero, mi sono preoccupato quando l’ho vista così… indifesa. Se penso che quel fetido sacco di…».

«Shh, si sta svegliando…».

Mi rigirai nel letto, stringendo la mano fredda di mio marito con le mie. Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre.

«Buongiorno» mi salutò Edward. Era incerto, un po’ preoccupato, mentre mi scrutava alla ricerca di una reazione.

Mi stiracchiai. «‘Giorno…» biascicai, la voce ancora impastata dal sonno. Gli sorrisi. Da una settimana a questa parte i nostri risvegli erano stati stupendi…

«Bella!» sentii trillare da una voce musicale.

«Alice» esclamai, sollevandomi seduta di scatto. Mi affrettai a coprirmi il corpo con le lenzuola. Ero diventata rossa come un peperone. «C-cosa ci fai qui?» mormorai sgomenta, tirando le coperte oltre ogni limite, fin sotto il mento. Ero nuda? O ero vestita? Forse Edward aveva avuto la decenza di mettermi una vestaglia addosso…

Edward sospirò, una mano sotto il mento. «Te l’ho detto che non sarebbe stata felice di questa invasione».

Sua sorella lo ignorò completamente, rivolgendosi direttamente a me. Sollevò un sopracciglio, un sorrisetto sulle labbra. «Vuoi dire che non ti sono mancata?».

«Oh, c-certo» balbettai, provando a nascondere quello che doveva vedersi del mio corpo dietro Edward. «Mi sei mancata» aggiunsi velocemente, muovendomi comicamente verso mio marito «tantissimo».

«Sì, sì, Bella, a chi la dai a bere! Magari nella pausa tra un round e un altro!» esclamò Emmett, facendo il suo ingresso in camera.

Arrossii fino alla radice dei capelli, e dalle mie labbra uscì un rantolo sconvolto.

«Emmett, lascia in pace i novellini!» scherzò Rosalie, entrando nella stanza.

Aprivo e chiudevo la bocca, senza sapere cosa dire. Forse Edward aveva ragione. Sarebbe stato meglio continuare la nostra luna di miele rinchiusi in casa senza interruzioni. Guardai timidamente i miei nuovi parenti, e poi rivolsi uno sguardo di supplica a Edward. «P-per favore… potrei… mmm… se solo lasciaste che mi vesta per un attimo potrei…».

Senza lasciarmi continuare Edward balzò giù dal letto, lasciandomi completamente senza protezione sul fianco destro e costringendomi a seppellirmi in fondo a nuovi strati di lenzuola raccattate velocemente.

«Fuori di qui, avanti!» esclamò, indicando l’uscita con l’indice. Peccato che avesse addosso solo i morbidi pantaloni del pigiama, che gli pendevano mollemente dai fianchi…

Si realizzò la reazione contraria. «Tesoro, non ci tengo a vederti in déshabillé. Almeno sulla carta sei mio fratello» lo canzonò Rose.

«Però, non è mica male, eh» scherzò Alice, facendole l’occhiolino.

«La nostra Bella ha scelto bene».

Mi portai entrambe le mani il viso. Che vergogna.

«Per favore!» sbottò Edward, passandosi nervosamente una mano fra i capelli.

Rose sollevò entrambe le mani, come per un gesto di resa. Ma aveva un sorrisetto impertinente sulle labbra. «Abbiamo capito, abbiamo capito! Ce ne andiamo! Come siamo permalosi…».

Emmett la spalleggiò. «Forse non hanno fatto sesso abbastanza».

«Ragazzi». Jasper fece passare la testa attraverso la porta. Osservò la situazione, aggrottando le sopracciglia. Il suo sguardo passò da Edward, in piedi a torso nudo, a me, affannosamente nascosta dalle coperte.

Scoccai un’occhiata a mio marito, preoccupata come sempre quando lui e Jasper stavano nello stesso posto. Avevo paura che mio cognato potesse vagare con i pensieri al giorno in cui… gli avevo confessato che avere un figlio, magari, mi sarebbe piaciuto. Vidi Jasper esitare, e Edward fare una smorfia confusa. Poi Jasper mi sorrise, un sorriso piccolo e nervoso, quasi un tic, e io capii. Stava usando il suo potere per confondere Edward e non permettergli di leggere i suoi pensieri.

Mio cognato entrò nella stanza. Piegò il capo dal un lato. «Esme e Carlisle hanno detto di venire di là» fece, rivolgendosi ai suoi fratelli.

Rose alzò gli occhi al cielo. «Non stavamo facendo niente di male».

Alice sorrise, voltandosi nella mia direzione. «Va bene, andiamo. Vi ho lasciato un cambio di vestiti in bagno. E poi, Bella, ti devo mostrare come si usa la cabina armadio!» trillò contenta, volteggiando verso la porta.

«Perché, servono le istruzioni?» borbottai fra me e me, costringendola a lasciarsi alle spalle una risatina divertita.

Sospirai, come se mi fossi appena tolta un peso.

Edward mi scoccò un’occhiata di scuse. «Perdonami. All’inizio mi è parsa innocua. Ma non se ne voleva più andare e non dovevano venire tutti gli altri…».

Scossi il capo, lasciando andare le coperte. Mi sarebbero venuti i crampi alle braccia per quanto avevo stretto. «Non c’è problema. Mi piace stare con la tua famiglia. Beh, quando sono vestita» borbottai imbarazzata.

Osservò il mio corpo ben visibile attraverso lo strato sottile della sottana. Mi sorrise, venendomi incontro. «Sbaglio, o avevamo qualcosa in sospeso…?» mormorò, baciandomi la pelle del collo e delle spalle.

«Edward! No!» esclamai, dimenandomi «c’è tutta la tua famiglia di là!» gracchiai stridula.

«Insonorizzata… ricordi?» biascicò, continuando ad esplorare.

Chinai il capo indietro. Sarebbe stato un dolce, dolcissimo risveglio, ed era passato anche troppo tempo dall’ultima volta che… «No! Edward!».

«Ho capito, ho capito» si arrese, sollevandosi. «Andiamo a cambiarci. Mi serve una doccia fredda» borbottò fra sé e sé, come un bambino.

Quando vidi i miei vestiti feci un smorfia. Davanti ai miei occhi c’era un completino intimo a righe rosse e bianche, di seta, e un completo a due pezzi di cotone. Una magliettina a mezze maniche e una gonna lunga fino a sotto il ginocchio con una fantasia che sfumava in giochi e disegni, con gli stessi colori dell’intimo.

«Alice è pazza» mi lamentai, scuotendo il capo. Sperando di placare il suo spirito malizioso indossai comunque, di malavoglia, ciò che mi aveva preparato. Edward fece la sua doccia… che avrei tanto voluto condividere con lui. Aveva davvero, davvero, ragione. Potevamo stare senza i nostri parenti. Sarebbe stato più difficile evitare di saltarci addosso.

Quando entrai nel soggiorno un bel mazzo di fiori, apparentemente di campo, faceva bella mostra di sé sul tavolo.

«Ragazzi!» ci chiamò Esme, venendoci incontro. Mi abbracciò stretta, affettuosamente. «Stai bene tesoro? Ti vedo un po’ sciupata…» constatò, dando, pur inconsapevolmente, adito alle risate e alle battutine di Emmett.

«Edward, Bella…» mi sentii posare una mano sulla spalla. «E’ un piacere rivederti» mi salutò cordialmente Carlisle.

«Anche per me. Grazie per la casa, è stupenda. Ben più di qualsiasi possibile desiderio».

Ci sedemmo tutti intorno al tavolo, popolando la casa. Era strano vedere tutte quelle persone in quella stanza, dato che in quei giorni c’eravamo stati solo io e Edward. E per un attimo pensai a come sarebbe stato bello se avessimo potuto animare quella casa con lo scalpiccio di piedini, i pianti, le risate infantili… Stroncai subito il pensiero sul nascere. In un’altra vita, forse. Non in questa, non con Edward. Per me valeva più di qualsiasi altro sogno.

Mi voltai nella sua direzione, stringendogli la mano sotto il tavolo e sorridendo.

Si girò a sua volta a guardandomi, con un espressione che mi chiedeva “Cosa?”.

Scrollai le spalle, facendolo sorridere. Posai gli occhi sul mogano opaco del tavolo e vidi la busta bianca e strappata che era arrivata qualche giorno prima. Deglutii. «Allora?» chiesi titubante «notizie di… Jacob?».

La presa di Edward sulla mia mano si fece più forte e tutti ammutolirono e bloccarono. Ci fu qualche istante di imbarazzante silenzio. Solo allora mi accorsi che fino a quel momento avevano controllato i miei movimenti, e tentando in ogni modo di alleggerire l’atmosfera.

«Non siamo riusciti a prenderlo» mi spiegò infine Carlisle «ma ci sorprende il fatto che in camera vostra non ci fosse il suo odore».

Battei le palpebre. Mi serviva qualche attimo per metabolizzare le sue parole. Se l’odore non c’era, allora significava che probabilmente credevano che mi fossi immaginata tutto. Davvero l’ansia mi aveva fatto questo brutto scherzo? Eppure, quella mano sembrava così vera… Deglutii.

«Non ti preoccupare amore, lo troveremo. Passerà tutto, te lo prometto» mi rassicurò Edward.

Passerà tutto… Risollevai lo sguardo. «Scusatemi, due istanti» dissi con calma misurata. Mi sollevai dalla mia sedia e andai dritta in cucina. Presi un bicchiere d’acqua e bevvi, spinta dal bisogno di avere le mani e la mente occupata.

Non potevo biasimarli se credevano che fossi vittima di un accesso d’ansia. Dopotutto, ero stata così agitata negli ultimi tempi, specie il giorno del mio matrimonio… Dopotutto, se davvero, con il loro fiuto di vampiri non avevano sentito nessuno strano odore, la notte passata… E infine, dopotutto, considerata la guardia che Edward mi aveva garantito ci fosse, appena fuori dalla casa…

Ansimai. Come poteva il mio cervello farmi uno scherzo simile? Con le dita tastai il punto sulla spalla dove credevo di aver sentito un contatto. Chiudendo gli occhi lo potevo ancora percepire sulla pelle, vivido… e se fosse stata solo finzione?  

Mi accorsi che Edward mi aveva seguita. Mi rigirai il bicchiere fra le dita. «Così non c’era nulla, eh?». La mia voce era molto meno sicura di quanto avessi creduto.

«Bella» sospirò.

Ansimai, distogliendo lo sguardo e dirigendolo alla finestra. «No, va bene. Lo sanno tutti che sono stata un po’ agitata nell’ultimo periodo. Beh, sai com’è… alla mia età, sposarsi, avere un maniaco alle calcagna…». La voce si strozzò prima che finissi di parlare.

Compì il passo che ci separava, prendendomi fra le braccia. «Ehi, tranquilla. Non dirlo neppure. Lo sai che mi fido di te».

«Davvero?» chiesi, tremante, guardandolo negli occhi.

Mi sorrise, accarezzandomi una guancia. «Certo. Non mettere mai in dubbio la fiducia che ripongo in te». Mi avvicinò a sé e mi cullò qualche istante. «Ti va di uscire?» mi chiese ad un orecchio, a bassa voce. «A prendere un gelato?» mi stuzzicò con il suo sorriso sghembo.

Sorrisi. Era molto dolce il fatto che studiasse le mie abitudini umane per propormi qualcosa che mi facesse felice. Annuii, contenta. «Andiamo a prenderne un po’ per metterlo nel freezer, così magari posso mangiarlo stasera. La tua famiglia si potrebbe fermare qui da noi… mi sono mancati tanto… che ne dici?».

Ridacchiò, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Certo. Sono ansioso di provare la nuova scacchiera con Alice. Ma…» si avvicinò, fino ad avere le labbra a contatto con il mio orecchio «non più di stasera. Poi abbiamo impegni…».

«Edward!» esclamai indignata, certa che tutti dall’altra stanza ci avessero sentito.

Scrollò le spalle, indifferente, felice come un bambino.

Comunicammo i nostri programmi al resto dei Cullen che furono felici di aspettare il nostro ritorno. Esme mi assicurò che avrebbe chiamato mio padre, così che potessi vederlo. Prendemmo la Volvo, che se ne stava insieme alla mia auto - usata in totale due o massimo tre volte - e alla Aston Martin nera di Edward, nel nostro nuovo garage. Certo, io ne avrei evidentemente fatto a meno, ma considerando il fatto che quella era anche casa di Edward…

Apprezzai il soprabito che mi aveva dato Alice prima di uscire. Quel giorno faceva così tanto freddo e c’era tanta umidità, che anziché piovere sembrava stesse per nevicare. Nevicare d’estate! Solo a Forks potevano accadere certe cose!

«Mi dovrai insegnare la strada» dissi a Edward mentre mi faceva accomodare sul sedile del passeggero.

«Oh, non è così difficile, basta che tu stia attenta» ridacchiò, dato che avevo già con gli occhi chiusi, abbracciata al suo muscoloso e tonico avambraccio.

«Magari un’altra volta» replicai maliziosa. Mentre mi stringevo al suo braccio pensavo a come il suo odore, il suo tocco, il suo sorriso, mi avessero fatta innamorare di lui.

Quando ero arrivata a Forks, ero solo una ragazzina che trascorreva la sua vita senza aspettarsi nulla dal futuro. Ora invece, avevo Edward. Edward, un vampiro, era mio marito, e presto anch’io lo sarei diventata, per poi trascorrere l’eternità con lui. Era così… tanto.

«Edward?» lo chiamai, ancora appiccicata al suo braccio, riaprendo però gli occhi.

«Sì?».

«Ti amo».

Rilassò i muscoli delle spalle. «Ti amo anch’io». Si avvicinò con le labbra alle mie, donandomi un lungo, lento e delizioso bacio. A quel punto mi accorsi che eravamo fermi di fronte al minimarket di Forks.

Facemmo una corsetta sotto la pioggia sottile che aveva appena cominciato a scendere.

«Mmm» gorgogliò Edward, annusando l’aria mentre le ante scorrevoli del negozio si aprivano «penso che abbiano appena scaricato un carico di liquirizia…». E non potei che leggere la malizia nella sua voce.

Avvampai, ricordandomi della mia sfacciataggine. Quando ritrovai l’uso della parola, lo schernii «Bene, tu vai a prendere la liquirizia e io prendo il gelato, allora! Se davvero questa sera dobbiamo rimanere soli» cincischiai, tentando di apparire sicura di me.

Ridacchiò del mio mancato tentativo e mi baciò la mano con cui gli avevo dato una spintarella, poi s’incamminò verso il centro del negozio.

Sorrisi e mi avviai verso la mia meta: il bancone dei surgelati. Sapevo benissimo cosa stavo cercando, gelato gusto fragola e limone, i miei preferiti. Afferrai con soddisfazione il barattolo di gelato e richiusi il frigo. Missione compiuta. Chissà, magari quella sera avremmo potuto usare anche quello…

Improvvisamente mi ritrovai una lama affilata alla gola e un braccio caldo che m’immobilizzava entrambe le mani lungo il busto.

Una voce calda, roca, mi sussurrò all’orecchio. «Tana per il lupo».

Subito dopo, mi accorsi di due occhi ambra, congelati dal terrore.

 

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Capitolo 23
*** Rapimento ***


Me ne stavo ferma, completamente immobilizzata dalla paura

Capitolo riveduto e corretto.

 

Me ne stavo ferma, completamente immobilizzata dalla paura. Sentivo ogni muscolo contratto, indolenzito come se avessi corso per ore; il cuore mi batteva velocissimo nel petto, ad un ritmo forsennato; il respiro era irregolare e breve.

Sentii tutta la stanza girare molto velocemente su sé stessa, ma mi concentrai in ogni modo possibile per rimanere ferma e imporre alle mie gambe di rimanere dritte. Se mi fossi mossa, anche solo di un centimetro, la lama affilata che mi minacciava avrebbe trafitto la carne sottile del mio collo. Sentivo nella mia gola un magone, come di paura, un blocco che non osavo mandare giù.

Due ringhi cupi nascevano dai petti della due figure leggendarie che si fronteggiavano.

Jacob, dietro di me, strinse la presa sul mio corpo. Era caldo. Davvero caldo. Troppo caldo. La mia schiena doveva trovarsi a contatto direttamente con la sua pelle bollente, quindi doveva essere a petto nudo. Anche se io, considerando la sua enorme stazza, dovevo arrivargli più o meno appena sopra un fianco.

Edward, a circa quindici metri di distanza da noi, in tutta la sua terrificante bellezza, era in posizione d’attacco: le ginocchia piegate, e il busto leggermente inclinato in avanti. Sul suo volto si leggeva il terrore, l’odio puro e la rabbia. La bocca era aperta a mostrare i denti bianchissimi in un ghigno spaventoso. «Lasciala immediatamente» ringhiò, con calma misurata. La sua voce faceva quasi paura anche a me.

Jacob fece un risata sfacciata, ostentando disinvoltura, sebbene sentissi dai muscoli contratti che mi stingevano a lui, che stava cercando di controllarsi. Non osavo neppure immaginare cosa mi sarebbe successo se si fosse arrabbiato tanto da tremare

«No» ringhiò poi, minaccioso «perché dovrei?». Il passaggio repentino d’umore lo faceva apparire ancora più folle e pazzo.

«Jacob, calmiamoci». Edward abbandonò la posizione d’attacco, lentamente, lasciando le braccia a mezz’aria, anche se potevo notare benissimo che la cosa gli costò non poco.

«No. Calmati tu se vuoi!».

Mio marito ebbe un fremito vedendo la lama così pericolosamente vicina alla mia gola. «Jacob, sai cosa accadrà se…» inspirò lentamente, come per calmarsi. «Se ti agiti troppo, le farai del male. Potresti anche ucciderla».

«No!» sbottò Jacob, facendomi cacciare un lieve gemito di paura. «Io so controllarmi. Piuttosto, se io mi agito troppo lei non muore per colpa mia. Muore per colpa tua» insinuò, alludendo al desiderio di Edward di bere il mio sangue.

«Spero non accadrà» rispose lui, ma suonava più come una minaccia che come una speranza. «Ma in tal caso, io, saprò controllarmi. Falla venire da me». Stava usando la sua voce da vampiro, quella suadente che usavano per incantare le vittime.

«Lei è mia» ringhiò allora Jacob.

«No, Jacob, no» sembrava quasi che si stesse sforzando di far ragionare un pazzo, o forse era proprio così. «Lei non è tua…».

«E allora di chi sarebbe, tua?» sputò.

Su volto di Edward comparve un debole sorriso. «Lei non è di nessuno. Tuttavia, ha deciso di stare con me e io non intendo negarle questo piacere».

«Chi te l’ha detto? Forse… lei vorrebbe stare con me…» Jacob sembrava quasi disorientato, i modi suadenti di Edward stavano funzionando.

«Non mi sembra» ribatté lui, calmo ma determinato.

«E chi te lo dice?» urlò l’altro.

«Guardala, Jacob» fece un cenno nella mia direzione «è terrorizzata. Non ha detto una parola, non si è mossa. E’ sconvolta. Guardala, Jacob, ha paura. Ha paura di te».

Ansimai. Stavano parlando di me? Tentai di visualizzare come potesse apparire la mia immagine in quel momento. Gli occhi sgranati, il viso pallido, le mani tremanti e il corpo immobile. E poi, quello che potevano sentire. Il mio respiro irregolare, e il cuore che forsennato mi batteva nel petto.

Il braccio che mi teneva ferma strinse più forte. «Beh, vorrà dire che questa volta la consolerò io, no?!» disse sprezzante «tu hai avuto la tua occasione, ieri sera…».

Aprii le labbra in un gemito sgomento. Era davvero entrato nella nostra camera!

Edward lo fissava furioso e confuso. «Eri tu?».

«Già, io» ghignò «avresti fatto bene a crederle sin da subito, sai succhiasangue? La tua…» sputò per terra «la tua mogliettina aveva ragione! Proprio così».

La mia mente vorticò faticosamente, come se stessi impastando della pasta densa con un mestolo. Come poteva Jacob sapere così tanto? Come poteva essere arrivato a noi?

Edward serrò la mascella, e parlò con i denti contratti. «Non c’era il tuo odore».

Jacob scoppiò ancora in una risata maligna. «Già, come adesso, vero?!». Rise ancora, e Edward strinse ancora di più i pugni. Pareva infuriato. Chissà quale mostruosità poteva avergli letto nella mente.

«Sai, Sanguisuga-Cullen, non dovresti lasciarti scappare certe informazioni, neppure mentre fate certi giochetti…». Sentii la bile salire e scendere velocemente per la gola. «E poi, tutta l’allegra famigliola entrava in camera a controllare e diceva “no, io non sento nulla”. Evitava con cura di farti notare che c’era un forte odore di liquirizia. Discreti come sempre!».

Fissai terrorizzata e disgustata mio marito, mentre tutto si faceva chiaro. In un qualunque altro contesto sarei avvampata fino allo stremo, ma in quell’istante impallidii, nauseata dal senso di schifo e di disgusto. Ci stava controllando!

«La liquirizia è il vostro punto debole, piacevole è vero, ma copre gli altri odori» ghignò sardonico.

Mi tornarono in mente le parole di Edward di poco prima. Penso che abbiano appena scaricato un carico di liquirizia… In qualche modo, ci aveva spiati, aveva scoperto che la liquirizia non permetteva ai vampiri di distinguere efficacemente gli altri odori. E così, l’aveva usata sia in camera, sia qualche istante fa, nel supermercato.

Le labbra di Edward si scoprirono in un ringhio, mostrando i denti.

Improvvisamente mi sentii trascinare. Jacob mi stava portando indietro, verso l’uscita. Non mossi un passo. Pur volendo le gambe non avrebbero risposto ai miei comandi.

«Ti conviene collaborare, Bells…» ringhiò ad un mio orecchio.

Non avevo ancora parlato, come se quelle cose non stessero, o non potessero, accadere a me. Come se stessi vivendo un incubo. Ma avevo il terribile sospetto che una volta sveglia non mi sarei trovata fra la braccia confortevoli di mio marito.

A quel punto vidi gli occhi terrorizzati di Edward incontrare i miei e decisi che dovevo ad ogni costo fare qualcosa. «L…lasciami…ti…ti prego…» protestai debolmente. La voce mi usciva flebile e rauca, la gola completamente secca.

Mi sentii strattonare indietro, con forza. «Cammina» sibilò invadendomi col suo fiato caldo.

I miei occhi erano ancora fissi in quelli di Edward, immobile al suo posto, di nuovo in posizione d’attacco. «No…non ci riesco…» sussurrai flebile.

Il coltello si strinse minaccioso e con più forza sulla mia gola, tanto da costringermi a inclinare la testa indietro. «Cammina» sibilò più lentamente, torvo.

Con un gemito contrariato non potei fare altro che ubbidire. Lentamente, un piede, tremante, si sollevò dal pavimento piastrellato bianco del supermercato.

«Più veloce, Bells!» mi rimproverò, infuriato.

La mia paura e la mia angoscia esplosero in un attimo, trovando gli occhi di Edward che mi fissavano distrutti e terrorizzati.

«Lasciami!» urlai, dibattendomi inutilmente e pericolosamente nella sua morsa ferrea.

Da quel momento non sentii più il terreno sotto i piedi. Tutto sfrecciò intorno a me come una macchia veloce e mi ritrovai di nuovo ferma di fronte alla cassa del supermercato. Edward, ora, era a meno di dieci metri da me.

Notai distrattamente la cassiera che sobbalzava impaurita alla vista di quella scena.

I miei piedi toccarono nuovamente terra.

«Non osare avvicinarti. Non seguirci. Non muoverti. O la uccido». Quelle parole terribili, che sentivo rimbombare nel petto del mio carceriere, mi scatenarono un fremito di paura.

«Edward…» chiamai debolmente. Sentii una goccia di acqua salata scendermi lungo la guancia. Aveva promesso. Aveva promesso che la mia più grande paura non si sarebbe mai realizzata, che Jacob non sarebbe mai riuscito a portarmi via da lui.

«Non oseresti mai» ringhiò mio marito, guardandolo dritto in faccia. Probabilmente gli stava leggendo i pensieri per tentare di capire se stesse dicendo sul serio o fosse soltanto un bluff.

Udii un vocina stridula e angosciata di donna. «C…calma, non farle del male…» disse piano la cassiera, alzandosi dalla sedia con le mani in alto «ti do tutto quello che vuoi, lascia andare la ragazza…».

Sentii altre lacrime cadermi dagli occhi e scivolare lungo le guance, lente, fin sotto al mento, fino alla lama che minacciava la mia gola. Povera donna. Lei non sapeva. Non sapeva che in quel momento nessuno, nella stanza, stava prestando neppure un minimo d’attenzione a cosa stesse dicendo. Non sapeva quali leggendarie creature si stessero scontrando davanti ai suoi occhi. Lei era normale.

Bastò un attimo. Un solo attimo per ricordare la mia vita felice di pochi istanti fa. Un marito, una splendida luna di miele, una famiglia che mi aspettava a braccia aperte; solo per festeggiare la mia felicità. Ricordai il meraviglioso sorriso di Edward, ora sostituito da un ghigno spaventoso.

Quella donna non sapeva nulla, eppure aveva tentato di aiutarmi.

Il cellulare di Edward squillò impaziente nella sua tasca, ma lui non accennò a voler rispondere. Se fosse stata Alice, o chiunque altro della famiglia, comunque, come risposta sarebbe stata altrettanto esauriente. Ma non sarebbero mai riusciti ad arrivare in tempo. Impossibile.

Singhiozzai leggermente, avvicinandomi pericolosamente con la vena pulsante del collo alla lama. L’attenzione di Edward e Jacob si spostò immediatamente su di me.

«Edward…» lo richiamai, la voce rotta dal pianto. Che cosa avrei mai potuto fare se fosse veramente riuscito a prendermi? Sentii la presa di Jacob farsi più forte intorno a me e la mano che mi tratteneva ebbe un fremito.

Smisi di respirare, con un singhiozzo smorzato, spaventata a morte.

Edward si mosse impercettibilmente e Jacob ringhiò.

«Non. Ti. Muovere».

Edward lo scrutava, le braccia semi alzate. «Non oseresti mai ferirla» disse con ostentata sicurezza. Si muoveva con cautela. Non voleva farlo agitare, ma sapeva che non mi avrebbe mai intenzionalmente ferita.

«Non mettermi alla prova» rispose con durezza Jacob.

«Lasciala!» ringhiò ancora mio marito, questa volta più forte. Sembrava quasi spazientito. Non avevo mai visto Edward perdere la pazienza così.

Solo in quel momento, quando un capogiro m’investì, ricordai che non stavo respirando.

Poi, tutto accadde molto velocemente, quasi contemporaneamente. Edward approfittò del momento di distrazione di Jacob, che strinse maggiormente la presa su di me per trattenermi e non lasciarmi scivolare, per muoversi in avanti. Ma poi, inaspettatamente, sentii un dolore bruciante infiammarmi la gola, mentre la lama del coltello si moveva per lacerarmi la pelle e non riuscii a trattenere un urlo.

La povera donna che assisteva alla scena, sgomenta, cacciò uno strillo di terrore.

Subito dopo un liquido caldo e denso mi colava sul collo, nauseandomi con il suo odore.

Edward mi fissava con gli occhi sgranati, sorpreso e terrorizzato. Non se lo sarebbe mai aspettato. Jacob non stava bluffando.

«Ti avevo avvertito. Faccio sul serio sanguisuga». La voce di quello che un tempo - ora non riuscivo a capire quanto lontano - avevo creduto un amico, aveva un che di nervoso e isterico. Non riuscivo a capacitarmi che ci fosse ancora qualcosa di umano in lui. Mi sembravano così lontani i tempi in cui la sua faccia sfocata occupava i miei giorni bui…

Tentai di portarmi una mano sulla gola, per controllare quanto profondo potesse essere il taglio, ma la stretta di Jacob non me lo permise.

D’un tratto, si voltò si scatto verso la porta e imprecò qualcosa, troppo a bassa voce perché potessi sentirlo. Forse, i Cullen stavano arrivando.

Una forte scarica d’adrenalina mi vibrò in tutto il corpo. Mi dibattei, affondando le unghie nel braccio che reggeva la lama. Mi contorsi, pallida in viso, la voce soffocata in gola per la minaccia del coltello.

«Non ci seguire. E questa volta farai bene a fare ciò che ti dico, o la lama andrà più o fondo» minacciò, subito prima che la figura di Edward, sformata ai miei occhi dalle mie lacrime, uscisse dalla mia visuale.

In poco più che dieci secondi mi ritrovai sul sedile di un auto da corsa, il coltello ancora puntato alla gola.

Jacob, accanto a me, ingranò la prima con la sinistra e partì sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia. In un ultimo istante mi parve vedere la figura di Edward, per la strada, immobile, sotto la pioggia battente.

Non aveva mantenuto la promessa. Non aveva potuto farlo. E adesso Jacob mi stava portando via da Edward. Via da mio marito. Via dall’amore della mia vita. In pericolo.

Urlai, urlai forte contorcendomi sul sedile.

Jacob levò via il coltello dalla mia gola. Non serviva evidentemente a intimidire me. Io potevo anche essere fermata molto più semplicemente. Quello serviva solo a minacciare Edward. «Sta ferma» sibilò, concentrandosi sulla guida fra le strade ricoperte dalla pioggia.

«Lasciami andare! Lasciami andare! Lasciami!» urlai, agitandomi sul sedile, sbattendo forte i pugni contro il suo braccio, che rimaneva illeso. Lui restava fermo, concentrato sulla strada che fissava torvo.

Allora mi voltai, e feci per aprire la portiera dell’auto.

A quel punto mi bloccò con un braccio.

«Forse non ci siamo capiti, devi fare la brava» ringhiò cupamente.  

«No!» gli urlai forte in faccia, furiosa. Presi a dimenarmi sul sedile, sbattendo pugni contro il finestrino. «Dove mi porti?! Dove mi stai portando? Fammi ritornare indietro! Non ti voglio, lo capisci? Non ti voglio! Mi fai schifo! Sei un arrogantissimo pezzo di merda!» sbraitai, prima di essere costretta a prendere un respiro.

Sorrideva. «Sei sempre stata così gentile con me. Adoro i tuoi complimenti».

«Fottutissimo stronzo! Ti piace questo complimento? Non sei degno nemmeno di respirare la mia stessa aria, mi appesti con la tua presenza!».

«Gentile» commentò, continuando a guidare impassibile.

Ansimai, i pugni stretti tanto da ferirmi i palmi con le unghie. I denti erano così serrati che sentivo un disgustoso sapore metallico in bocca. La ferita mi bruciava sulla gola, e delle gocce di sangue si erano infiltrate fino alla scollatura dell’abito. Volevo vomitare. Avrei voluto graffiarlo fino a farlo sanguinare, colpirlo e urlargli “smettila, smettila, smettila e lasciami in pace!”.

Invece presi un respiro e mi calmai. Non sarei mai riuscita a infliggergli un danno fisico. E insultarlo non stava portando a nulla. «Jacob. Ti rendi conto che stai attuando un vero sequestro di persona. Stai infrangendo la legge. E quest’auto? Scommetto che l’hai rubata. Mio padre è lo sceriffo di Forks! Pensi che ti lascerà libero quando ti ritroverà?! Andrai in galera!».

Non ottenni alcun risultato. Scoppiò in una fragorosa risata. «Non ci troveranno, ma anche se lo facessero non ho niente da perdere» disse, sicuro di sé. Scrollò le spalle.

Chiusi gli occhi, arrovellandomi alla ricerca di un altro tentativo. Non dovevo pensare a quello che stava accadendo. Non potevo. Non ne sarei uscita viva. Davanti ai miei occhi chiusi comparve vivida l’immagine di una busta bianca con il mio nome. «Non ci pensi a Billy? A tuo padre? È in pensiero per te, lo sai».

Vidi i suoi pugni stringersi con maggiore foga intorno al volante. La sua espressione pareva tormentata. «Lui non è più mio padre» sputò infine.  

Sbiancai. Non avevo capito fino a che punto erano arrivati. Compatii il povero Billy Black, e questo mi fece solo provare più repulsione per Jacob.

Solo con la coda dell’occhio coglievo il paesaggio scorrere in lontananza. Lontano, lontano, sempre più lontano. Fino a dove ci saremmo spinti? Quanto spazio avrebbe messo fra me e Edward? E poi? E poi, cosa ne sarebbe stato di me?

Deglutii, e sentii un latro fiotto caldo di sangue colare dalla ferita. Edward non era riuscito a chiedermelo. Non era riuscito a dirmi che sacrificarmi, lasciando che Jacob facesse del mio corpo quello che voleva, sarebbe stato meglio per lui, piuttosto che suicidarmi. Non me l’aveva chiesto, perché mi aveva promesso che non sarebbe mai riuscito a portarmi via da lui.

Eppure sembrava proprio che ora dovessi decidere…

Con un urlo mi lanciai contro il volante facendo sbandare gravemente l’auto contro il suolo bagnato. Sentii il cuore il gola mentre schizzavamo verso il guardrail, sempre più veloci, sempre più veloci… chiusi gli occhi, e una stridio di freni mi penetrò nelle orecchie. Eravamo fermi.

Ansimai, fissando la strada.

Con una mano afferrò la mia maglietta, sollevandomi dal sedile. Lo fissai con gli occhi sgranati. Era davvero incazzato. «Tu ora verrai con me».

«No» sputai, ricacciando strenuamente indietro le lacrime. Non avrei pianto, non davanti a lui.

Ringhiò, avvicinando il suo viso al mio. «Non sei tu a decidere».

«Ah, no? E chi, allora?» sbottai tremante, tentando inutilmente di liberarmi dalla sua  presa. Mi sentivo soffocare.

«Io» rispose con naturalezza, come se se lo fosse ripetuto mille volte. «Evidentemente non sei in grado di decidere per te».

Scossi il capo. «Ci troverà, lo sai» sibilai fra i denti.

Un ghigno divertito comparve sulle sue labbra. «Invece no. Ho costruito un perfetto rifugio» fece un cenno col capo verso l’esterno, indicando delle sagome rocciose, «il mondo è ampio, enorme. Non penserà mai di cercarci qui, a Goat Rocks».

Mi lasciò andare di colpo, e con un ansito sconvolto caddi sul sedile, gli occhi persi nel vuoto. Non ebbi tempo o modo di ribellarmi, che mi trovai con i mani e i piedi legati dalla corda ruvida, che mi incatenava al sedile.

«Adesso. Sta. Ferma» ringhiò, dando nuovamente gas. Le sue sopracciglia ebbero un sussulto. «Ti piacerà, vedrai» borbottò con convinzione.

Mi lasciai andare sul sedile, completamente distrutta, senza tentare più di arginare le lacrime.

In un attimo tutto il mondo mi stava cadendo addosso. Le promesse che Edward mi aveva fatto in quell’istante furono irrealizzabili. Tutto era cambiato nel giro di pochi istanti, tutta la mia meravigliosa vita era andata in frantumi per il volere di un solo essere.

Il cuore mi fece una capriola nel petto al pensiero di mio marito. Non avevo ancora imparato a chiamarlo così che già dovevo perderlo. Quanto grande sarebbe stata la sua afflizione nel sapere di non aver potuto tenere fede ad una promessa così grande?

E cosa sarebbe stato meglio per lui, sapermi con un altro o sapermi morta? Perché avrei preferito mille volte morire piuttosto che stare con qualcuno che non fosse lui.

Quando un ennesimo singhiozzo mi scosse un ennesimo fiotto di sangue cadde ad inzuppare la mia maglietta. Delle piccole fitte acute mi rendevano difficile respirare.

Mi portai entrambe le mani, legate, all’altezza della ferita, e quando le ritirai le ritrovai copiosamente macchiate di rosso vermiglio. Iniziai inevitabilmente a respirare con la bocca, mentre vedevo intorno a me tutto girare lentamente, dandomi la nausea. Se volevo continuare a vivere avrei avuto bisogno di un bendaggio. Altrimenti, chissà… sarebbe solo servito a facilitare il mio compito d’evasione

Fui scossa da un brivido. Un’idea mi era baluginata nella mente. Un piano complesso, per chiunque, e fatto anche di molte casualità. E Edward era uno degli elementi determinanti. Ma come potevo abbandonare del tutto la speranza? Se volevo arrivare fino in fondo dovevo almeno sforzarmi di lottare.

«Jake…» lo chiamai, facendo bene attenzione a chiamarlo con il suo nomignolo. «Ti…ti prego posso… posso mettermi qualcosa…» deglutii «sulla ferita…?».

S’irrigidì, e si voltò lentamente a scoccarmi un’occhiata preoccupata. Mi scrutò combattuto  valutando quello che il mio gesto avrebbe potuto comportare.  «Fa’ quello che vuoi» sibilò fra i denti, voltandosi repentinamente verso la strada.

Sollevai le mani all’altezza del suo volto perché potesse vederle. Si voltò a guardare le manette. «Non ce la faccio altrimenti…» sussurrai.

Con un ringhio rabbioso sbatté le mani sul volante, facendomi trasalire. Ci pensò un attimo, valutando se concedermi una cosa simile, alla fine espirò, sicuro di sé. Poi afferrò un oggettino dalla tasca e lo avvicinò alla corda. Mi guardò negli occhi. «Se ti muovi, ti faccio del male. Non scherzo Bells. D’ora in poi si fa a modo mio. Capito?!».

Annuii, inerme, terrorizzata. Le mia espressione parve tranquillizzarlo. Sentii il metallo del coltellino scattare e mi ritrovai le mani libere.

Jacob mi lanciò dei fazzolettini e abbassò lo specchietto di cortesia, in modo che potessi guardarmi. «Fai in fretta» m’intimò, e capii che presto mi avrebbe legata di nuovo. In quel momento imboccammo l’autostrada. Dovevo sbrigarmi.

Alla vista della mia immagine sgranai gli occhi. Grossi rivoli di sangue mi cadevano dal collo e la maglietta del completo ne era intrisa. La testa presa a girarmi, tuttavia mi imposi di rimanere lucida. Non dovevo farmi prendere dalla debolezza e dalla nausea, non ancora. Strinsi i denti, per farmi coraggio.

Esaminai il taglio, tamponandolo con i fazzolettini. Così sembrava di certo meno grave: una linea rossa dai bordi pulsanti. Mi sollevai la maglietta fino a rivelare la canotta a righe rosse e bianche che mi aveva preparato Alice quella mattina.

Ne strappai un grosso lembo, molto più grande del necessario. Da quello ne strappai ancora una strisciolina, con cura, in modo da tagliare perfettamente una riga rossa. Altrimenti il mio messaggio non avrebbe avuto alcun senso. Mi ci volle un po’ di tempo perché le mani mi tremavano troppo, e dovevo stare attenta al fatto che Jacob non badasse troppo ai miei gesti.

Presi la parte restante e me l’avvolsi intorno al collo, come una benda, stringendola di lato in un nodino.

Posai la striscia di stoffa rossa sulla ferita, macchiandola con qualche goccia di sangue che era colata dal bendaggio. Poi, la nascosi in un pugno. Così il mio odore sarebbe stato più forte. Soprattutto per i vampiri.

A quel punto mi lasciai andare sul sedile, concedendomi di essere sconvolta e respirando con la bocca. Lanciai un’occhiata alla mia immagine pallida, quasi verdognola, nello specchio e tentai di ricordarmi com’ero con tutto il sangue addosso. Sentii lo stomaco contorcersi e delle gocce di sudore si affrettarono a comparire sulla mia fronte.

«Jacob…puoi… puoi aprire il finestrino… non… non mi sento bene…». E quasi gioii di come la mia voce apparisse debole e tremante.

«No, mia furba Bells» sbottò. Ma quando si voltò nuovamente verso di me qualcosa nel mio viso dovette fargli cambiare idea.

«Ti prego…» lo supplicai, ansante.

Imprecò. Poi, con uno scatto, legò ancora rapidamente la corda attorno ai miei polsi. Abbassò un finestrino elettrico. Tirai un lievissimo sospiro di sollievo. Il cuore sembrava essermi impazzito.

Mi sporsi verso l’esterno, per quanto la corda che mi teneva legata al sedile lo permettesse. Stava piovendo.

Cazzo, stava piovendo. Le tracce d’odore svanivano più velocemente. Tentai di non farmi prendere dall’inutile panico e lasciai comunque andare il pezzo di stoffa dalle mie mani, mentre delle deboli lacrime sfuggivano ai miei occhi.

Contemporaneamente sentii un ringhio e mi ritrovai con la schiena appiccicata allo schienale.

«Che hai fatto?!» sbraitò Jacob.

Mi feci piccola sul sedile, terrorizzata. Stava tremando visibilmente. Se ti muovi ti faccio del male. Chiusi gli occhi. Speravo non troppo male. Non erano i lividi e le ossa rotte quello che non potevo sopportare.

Scoppiò in una risata fragorosa.

Sgranai gli occhi, stupefatta.

«Oh, Bells, cosa hai fatto?» rise ancora, un suono gutturale e terrificante. «Stiamo facendo una deviazione. Anche se trovassero la tua reliquia, non ne sentirebbero mai l’odore, perché sta piovendo! Ma io spero che lo trovino sai, così, il tuo succhiasangue andrà fuori strada, e sarai stata tu stessa a farlo!» esclamò allegro, continuando a ridere.  

Mi gelai sul mio posto. Avrebbe comunque funzionato, mi ripetevo fra me. Si, Edward avrebbe capito tutto. Lui mi avrebbe salvata.

Dovevo crederlo. O morire.

Sperai che non avesse perso ancora la passione per il nostro quadro preferito.

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Capitolo 24
*** Forza ***


Jacob si era messo alla guida e non aveva più aperto bocca e lo stesso avevo fatto io

Capitolo riveduto e corretto.

 

Jacob si era messo alla guida e non aveva più aperto bocca e lo stesso avevo fatto io. Me ne stavo sul sedile, in silenzio, scossa dai singhiozzi causati dal pianto. In lontananza vedevo il sole basso. Era già il tramonto. Mezza giornata era passata lontana da Edward.

Quel pensiero non fece altro che scatenare una nuova ondata di lacrime. I polsi e le caviglie mi dolevano per essere stati immobilizzati da quelle corde ruvide che, ne ero certa, dopo la mia insolenza non mi avrebbe tolto finché non saremmo giunti a destinazione. O forse neppure allora. Il sangue m’imbrattava la maglietta e il solo pensiero mi faceva venire allo stomaco crampi dolorosi, quasi quanto quelli causati dalla rabbia, dall’odio e dalla desolazione. Ero debole. Nonostante non avessi fame capivo che era importante che mangiassi qualcosa, ben più della scarsa colazione consumata quella lontana mattina. Chissà se mi avrebbe fatto mangiare la cena. Chissà dove saremmo stati fra un paio di ore. Magari, se si fosse fermato in una caffetteria o in un bar… Impossibile. Non avrebbe mai rischiato tanto. E a quella stanchezza si univa lo stremante pianto ininterrotto.

Ma non potevo concedermi il lusso di dormire. Dovevo cercare di capire dove, di preciso, mi stesse portando. Non che potesse servire a qualcosa, ma magari sarei riuscita a mandare qualche altro indizio a Edward con la speranza che lo ritrovasse.

E comunque, malgrado tutta la stanchezza, non sarei mai riuscita a dormire con Jacob accanto a me.

Mi ritrovai a pensare a come potessi essere giunta a tanto. Ad aver paura del mio migliore amico. A quale e quando fosse stato il punto di rottura.

L’ultima volta che l’avevo visto, con un sorriso sulle labbra, era stato poco prima che gli dicessi addio. Mi sentivo così in colpa per lui e per quello che gli avevo fatto. Con il mio comportamento, avevo alimentato le sue speranze.

Avevo sbagliato. Sbagliato perché non avevo capito. Jacob aveva sempre covato una malsana idea del nostro rapporto, che avevo dapprima ignorato, poi evitato e infine tentato inutilmente di soffocare. Era inutile. Per quanto lo respingessi, la sua ossessione per me sembrava solo crescere. Come se trovasse infinitamente stimolante il fatto che non potesse avermi, che fosse una sfida.

Forse si era persuaso che, malgrado tutto, lo amassi. Proprio come mi aveva detto, proprio come aveva cercato di farmi capire. Come poterlo convincere del contrario, quando con arroganza ed estrema sfacciataggine vedeva amore nel mio puro odio?

«Smettila di frignare!» mi urlò contro a un certo punto.

M’immobilizzai sul posto, smettendo di respirare, ma non potendo impedire alle lacrime di continuare a scendere.

«Hai capito?» sbraitò ancora.

Era difficile parlare con le labbra che tremavano. «P-perché mi fai qu-esto?».

Le sue folte sopracciglia scure si unirono in una linea. Quando riprese a parlare la durezza delle sue parole mi sconvolse. «Lo faccio per te».

«Per me? Come puoi farlo per me se io non lo voglio?» chiesi, la voce arrochita dal pianto.

A quelle mie parole dure si voltò nuovamente verso la strada e strinse i pugni sul volante. «Tu non sai quello che vuoi».

«Lo so, perfettamente. Voglio che prendi questa cazzo di macchina, fai inversione, e mi riporti alla mia vecchia vita, alla mia famiglia, alla mia casa. Da mio marito» sputai.

Irrigidì la mascella. «Tu non sai quello che vuoi» sibilò minacciosamente.

«Lo so, invece!» urlai. «Ho già avuto mio marito, cosa credi? Abbiamo avuto una lunga, lunghissima luna di miele. Abbiamo fatto sesso, il sesso migliore di sempre, e sai perché? Perché lo amo. Ma cosa te lo dico a fare? Tu eri lì, come un povero sfigato, a spiarci e farti una sega come un maniaco sessuale!».

Iniziò a tremare furioso. «Troia!». L’auto si arrestò bruscamente. Mi mise una mano al collo e mi sbatté contro il finestrino, togliendomi l’aria.

«J…Jacob» sibilai, raspando il fiato nella gola. Oltre al terrore per non poter respirare sentivo il bruciante dolore per la sua presa contratta contro la ferita ancora aperta.

Sembrava un mostro. Mi mostrava i denti, digrignati. Aveva le narici spalancate e respirava irregolarmente. La sua espressione era dura, cattiva, cinica. «Sai cosa?» domandò retoricamente, dato che, ovviamente, non potevo rispondergli in quelle condizioni, «C’è ancora un mucchio di roba che lui non può darti ed io sì».

«E di questo cosa mi importa se…» iniziai a gracchiare debolmente.

Strinse la presa con forza, facendo cozzare la mia testa contro il finestrino. Le parole si soffocarono nella mia gola. «C’è ancora un mucchio di roba. A partire da questo» sibilò, abbassando il tono di voce.

Fremetti di terrore quando indirizzò la mano libera verso il mio corpo. La posò sulla pancia.

«Questo Bells, questo» sussurrò con un tono melenso.

Mi dibattei, ma le mani legate mi impedivano i movimenti. Provai inutilmente ad allontanarlo. «L-asciami… p-orc-o…» riuscii a sputare. Volevo dimostrarmi sicura e arrabbiata, ma non riuscivo a nascondere il terrore. Sentivo le vene e le arterie pulsare violentemente sotto la sua mano, allo stesso ritmo forsennato del mio cuore.

Mi sorrise, sardonico. «Avremo un bellissimo bambino».

Dopo quelle parole non udii più nulla. Sentii qualcosa di liquido bagnarmi copiosamente il collo e, contro tutti i miei propositi, il buio mi avvolse.

Mi risvegliai su un letto a due piazze, sotto una coperta ruvida e calda. Aprii gli occhi, ma quello che vidi non mi piacque.

Non c’erano le morbide nuvole di tulle. Non c’era il copriletto di seta. E soprattutto, a scrutarmi con degli occhi ambrati e un sorriso mozzafiato, non c’era Edward.

Al loro posto c’era una stanza umida, per metà completamente ricoperta da perline di legno e per metà con delle travi a muro che lasciavano intravedere la roccia contro cui erano state accostate. Era come una caverna. Mossi appena il capo, tenendo gli occhi socchiusi nella luce chiara. C’era una piccola porticina, ma sembrava proseguisse più in profondità nella roccia, mentre dall’altro lato una sola porta, a vetri, illuminava la stanza. L’ambiente nel complesso appariva come un monolocale: un piccolo angolo cottura e un camino. O come una baita di montagna. Ma piccolo, freddo e umido.

Nella stanza lui non c’era.

Tirai un sospiro di sollievo.

I polsi e le caviglie mi dolevano ed erano evidenti dei lividi violacei, ma almeno non erano più costretti nelle corde. Mi accorsi di avere una nuova garza intorno al collo, ma era anche questa bagnata di sangue. Dovevo averne perso una notevole quantità. Provai ad alzarmi, ma un capogiro m’investì. I miei sospetti dovevano rivelarsi fondati.

Ai margini della mia mente, indebolita e annebbiata, saettò un pensiero. Forse potevo fuggire. Forse, aveva cambiato idea e mi avrebbe lasciato andare. Ma mi sembrava davvero impossibile che mi avesse lasciato in quella stanza sola e libra. Magari era sicuro che mi avrebbe presa, anche se fossi sfuggita, ma dovevo comunque tentare.

Ignorando le vertigini, mi avviai verso la porta a vetri. I primi passi furono i più incerti e barcollanti, sul pavimento ruvido e freddo. Il cielo era completamente coperto da un sottile manto di nuvole bianche e, attraverso uno spiraglio d’aria proveniente da sotto la porta, mi accorsi che l’aria era frizzante e rarefatta. Dovevo trovarmi in alta quota.

Spalancai le ante e lo spettacolo che mi si presentò dinanzi mi lasciò stupita e inorridita.

In realtà non era una porta: era una finestra. Dava su un piccolissimo balcone che si stagliava, solitario, ad un’altezza tale che non mi permetteva neppure di vedere la valle. Era aggrappato con forza ad una parete di roccia nuda,  impervia e impossibile da scalare. Per un umano almeno. Ecco spiegato tutto. Quella non era affatto una possibile via di fuga.

Con passo malfermo e con le lacrime che minacciavano di cadere dagli occhi andai incontro all’altra porta, nella posizione opposta, spalancando anche quella.

«No!» urlai. C’era solo un bagno. Solo un bagno.

Disperata, non tentai più di contenere le lacrime e corsi contro il letto, buttandomici sopra senza forze e lasciandomi andare ad un pianto isterico e disperato.

Il mio incubo peggiore si era avverato. Jacob mi aveva strappato da Edward e ora mi teneva chissà dove, rinchiusa per sé. La separazione con mio marito cominciava a pesarmi, come se avessi mancanza, o bisogno d’aria. Ma non era quella la cosa che mi faceva più male. No. La cosa che mi faceva soffrire maggiormente era la consapevolezza delle sue attuali condizioni. Sapevo che in quel preciso istante Edward si stava torturando, pensando che tutto ciò che era accaduto fosse colpa sua. Perché me l’aveva promesso. Mi aveva promesso che finché fossi stata con lui Jacob non avrebbe mai potuto prendermi. Ero stata egoista, forse, a chiedergli di tenermi con sé, a giurarmi che niente mi avrebbe separata da lui. Era un vampiro, ma non era infallibile, e accollargli il peso di cose che esulavano dalle sue capacità era orribile. Eppure… In quei momenti l’unico conforto che avevo trovato era sapere che avrebbe fatto di tutto, per me. Avrei voluto stargli accanto, passargli le mani sulla schiena fredda, e baciare le sue labbra, scacciando via ogni sua preoccupazione e mostrandogli un futuro perfetto, con noi, insieme per l’eternità.

Ma io, purtroppo, ero lontana, e quel futuro, a cui solo pochi giorni prima stavo andando incontro, era svanito. Rotto. Frantumato. Perso nel nulla.

Tutto sembrò tremolante e mi accorsi che ero pervasa da brividi di freddo. Mi nascosi nuovamente sotto la coperta, con la testa sotto il cuscino, aspettando di andare incontro al mio orribile destino.

Non avevo idea di quanto tempo potesse essere passato. Mi sembrò tanto. Troppo. I momenti senza Edward mi sembravano troppo lunghi, sempre.

Mi sentii avvolgere da un tepore piacevole e sentii il crepitio del legno bruciacchiato.

Mi alzai di scatto seduta sul letto, e mi tirai le coperte per coprirmi dal freddo pungente. Non c’era più luce, quindi doveva già essere sera. Solo il bagliore irradiato dal caminetto illuminava la stanza e, davanti al fuoco, una sagoma imponente faceva cerare ombre traballanti che arrivavano fino a me.

«Ti sei svegliata, vedo» disse Jacob voltandosi verso di me. «Hai dormito tanto, un giorno intero» a quelle parole ebbi un fremito. Era un giorno e mezzo che non vedevo Edward. «Hai perso molto sangue, sono stato costretto a rifarti le bendatura. Ma ora penso che tu ti stia riprendendo. Magari se mangi un po’ recuperi le forse…»

Lo osservai sbigottita. La sua espressione era serena e il tono colloquiale. Come se fosse tutt’a un tratto tornato il Jacob di sempre. Seguii con lo sguardo la direzione della sua mano e vidi un vassoio di plastica sopra cui vi erano appoggiati due toast e un bicchiere di latte.

Jacob avanzò verso la mia direzione. «Ti piace?» disse indicando l’ambiente con un gesto «Questa d’ora in poi sarà la tua nuova casa». Al mio sguardo impaurito e sbigottito aggiunse, imbarazzato: «Certo, forse è un po’ piccola, ma l’ho fatta io, con le mie mani. Per noi due».

«Che cosa ti fa pensare che io voglia vivere con te?» esclamai acida.

Di nuovo, la maschera d’odio comparve sul suo viso. «Perché d’ora in poi tu farai quello che ti dico io, capisci?» sbraitò.

«No!» esclamai ancora, sfacciata.

Lui sbatté entrambe le mani contro il materasso, facendolo oscillare pericolosamente. «Dannazione Bells! Ora basta. Non lo riavrai più, fattene una ragione». Scosse la testa avanti e indietro, come per calmarsi. Dopo un momento di pausa, espirò e aggiunse «Ora mangia, sei debole e devi rimetterti in forze».

La mia espressione e le labbra serrate furono piuttosto eloquenti.

«Mangia» mi ordinò ancora.

«Che cosa vuoi da me?» sbottai a quel punto, scoppiando in lacrime. «Perché mi hai portata qui e mi tieni rinchiusa? E poi ti interessi se mangio o no… cosa importa a te? Mi volevi morta!» singhiozzai più forte.

Parve rattristarsi. Sembrava quasi il mio vecchio amico: impacciato e impulsivo, sempre pronto a scusarsi per le sue azioni sfacciate. «Io… io non volevo farti del male. Volevo solo averti con me… Volevo farti capire che è me che devi avere, sono io ciò che vuoi! Sei tu che non te ne rendi conto… ma voglio farti cambiare idea…».

Le sue mani corsero a cercare le mie, ma io mi ritrassi immediatamente.

La sua espressione s’indurì ancora «Tu mi darai ciò che voglio» sibilò.

«E cos’è che vuoi?» chiesi, la morte nel cuore.

«Te».

«Non mi avrai mai».

Fu come ricevere un pugno nello stomaco. Combattere sul ring, prendere tanti pugni, e poi un pugno nello stomaco. Un montante che ti mette KO. «Oh, questo lo so… Prima, avrò il tuo corpo, poi, avrò te…».

Urlai, urlai, urlai. Mi alzai in piedi sul letto e sbattei forte le mani  sulle sue spalle, tentando in ogni modo di ferirlo, ma ottenendo solo l’effetto contrario. «No! Tu non mi avrai mai, mai. Hai capito? Mai

Una risata gutturale si espanse per tutta la stanza. «E chi ci sarà a impedirlo. Tu?» Il ghiaccio nei suoi occhi fece gelare anche il mio sangue, immobilizzandomi.

Mi lasciai cadere indietro sui palmi, fissandolo, atterrita. «Edward… Edward mi salverà!».

Lui scoppiò in una sonora risata. «E come? Siamo a milleduecento metri di quota e non vedo porte da queste parti. L’unico accesso è quella finestra, ma avrai potuto constatarlo tu stessa. La pioggia ha completamente cancellato il nostro odore e con quel tuo patetico fazzoletto li hai portati fuori strada. Non sapranno mai che ci nascondiamo a Goat Rock, proprio sotto il loro naso! La tua sanguisuga non ti rivedrà mai più… Tu oramai, sei mia! In un modo o nell’altro…».

Iniziai a tremare, sconvolta dalle sue parole. «Tu… Non oseresti mai farlo…» sbottai sgomenta, non credendo neppure io a quello che dicevo.

Rise ancora, maligno. «Oh, si invece, si. Non mi faccio di questi problemi, non dopo essere arrivato a questo punto».

Caddi sul letto, sconvolta, posandomi una mano sul petto, dove il mio cuore batteva irregolare. Lui avvicinò una mano, come a sfiorarmi una guancia, ma, ad un mio fremito impaurito, la ritrasse.

«Però, preferirei che non fosse così. Preferirei che tu ti concedessi a me. Io lo so che mi ami, è inutile essere così testardi». La sfrontatezza delle sue parole fece accumulare in me un’enorme rabbia. «Quindi aspetterò. Cinque giorni. Se entro questo tempo non ti concederai a me, rivelando i tuoi veri sentimenti, mi prenderò ciò che mi spetta. Poi, quando finalmente avrai aperto gli occhi e capirai di amarmi, come io amo te, vivremo felici in quest’umile dimora, come marito e moglie… E avremo tanti bellissimi bambini».

Sentii le sue parole rimbombarmi nella testa, lontane. Come un cattivo presagio o una brutta storia da raccontare ai bambini per costringerli a fare qualcosa che non vogliono fare. E ancora più terrore m’incuteva il tono con cui Jacob dipingeva un futuro che per lui era roseo, mentre per me era peggiore di qualsiasi dolorosa morte.

«Ora mangia» ordinò, lasciandomi sola sul letto, terrorizzata.

Mi lasciai cadere fra i cuscini. Tre soli, potenti singhiozzi, mi scossero il petto. Poi, tutto divenne buio.

Neppure l’incoscienza, però, portava con sé una consolazione. Perché ero fin troppo lucida, anche nei sogni senza senso, e nelle immagini sfocate. E la lucidità portava con sé la consapevolezza di ciò che mi stava per accadere.

Jacob mi aveva portato via, con la forza, da chi amavo: Edward. E ora, come se questo non bastasse, voleva anche violentarmi e pretendere di vivere con me. Avere dei figli. Non avrei mai ceduto, ma questo avrebbe cambiato qualcosa? Mi avrebbe forse riportato da Edward? Avrebbe evitato i suoi intenti?

No.

Jacob era abituato ormai ad ottenere tutto ciò che desiderava con la forza.

Mi diede un attimo di sollievo, in un sogno, la visione di Edward, che spezzò le immagini scure e tenebrose che mi perseguitavano. «I suoi istinti da lupo stanno prendendo il sopravvento» diceva «ormai ragiona più come animale che come uomo».

Cercavo in tutti i modi possibili di non lasciarlo scappare, di artigliarmi a lui quanto più possibile, di lasciare che la sua immagine e la sua voce melodiosa mi ristorasse e calmasse i singhiozzi che continuavano a scuotermi anche nell’incoscienza.

Ma purtroppo non ci riuscii. La sua immagine svanì e io mi ritrovai in mano non più che un pugno di mosche e un cuore straziato. Il mio.

Pregai di non trovarmi dove in realtà mi trovavo, ma le mie preghiere, ovviamente, non furono esaudite. La mia era situazione orribile, e forse mai più avrei rivisto Edward. E comunque sarebbe potuto essere troppo tardi.

Dove sei amore mio, dove sei? Sentivo perfettamente un buco che mi trapassava il cuore, dolorosissimo, da una parte all’altra. Piansi, piansi ancora, allargando maggiormente la macchia d’acqua salata sul cuscino. Perché non possiamo finalmente essere felici? Edward, Edward… Mi manchi. Mi lasciai andare alla deriva, senza più speranze. Tutto si stava distruggendo. Mi sentivo totalmente impotente rispetto al mio destino. Jacob era troppo forte per me, quel nascondiglio troppo impervio, la mia volontà troppo fragile all’ombra della sua arroganza. Cosa mai avrei potuto fare? Urlare? Implorarlo? O forse lasciarmi andare per sempre…?

Non era la prima volta che ci pensavo. Mi ero avvicinata a quel pensiero anche quando ero prigioniera nella foresta, circondata dal fuoco e minacciata dalla sua presenza. L’avevo anche chiaramente fatto capire a Edward. Gli avevo suggerito che non sarei potuta andare fin in fondo, che non avrei potuto star ferma lasciandomi stuprare. Mai.

Ecco cosa avrei potuto fare. Impiccarmi con le lenzuola, tagliarmi le vene con un coltello, o più semplicemente lasciarmi andare nel vuoto, attraverso la finestra del balcone. E volare, volare, volare nel nulla. Quanto sarebbe durato? Avrei avuto paura aspettando l’impatto con il suolo?

Certo che sì. Ne avrei avuta, e molta, ma io quel momento non avrei potuto farci più niente.

E prima di saltare? Ce l’avrei fatta? Rievocai l’immagine di Edward, stringendomi le mani al petto per evitare di crollare in pezzi. La sua espressione era triste, straziata. I suoi occhi erano scuri e le occhiaie marcate. Ecco cosa avrei visto prima di saltare.  

No. Non avrei mai potuto farlo, per l’amore che mi legava a Edward, non potevo privarlo della mia vita.

Mi dovevo fidare di lui. Lui mi avrebbe salvata. Jacob diceva che quel posto era impossibile da trovare, e che Edward non avrebbe mai sospettato che ci saremmo nascosti tanto vicino. Ma io mi fidavo di lui e per questo avrei dovuto avere la forza di resistere. Per lui, per Edward. Dovevo essere forte.

Sollevai il capo, guardandomi intorno.

Jacob stava dormendo ai piedi del camino, unica fonte di luce in tutta la stanza. Era ancora notte e il cibo era sempre sul vassoio accanto a me.

Mi sentivo molto debole, ma non avrei affatto mangiato, se non avessi pensato a Edward. Per sopravvivere. Per lui. Perché quando sarebbe venuto a salvarmi - e non potevo pensare che non l’avrebbe fatto - mi avrebbe dovuto trovare in vita.

Mi accostai il vassoio, e, senza scendere dal materasso, addentai il primo boccone. Il cibo inizialmente scese con difficoltà nella gola bloccata dal magone e arsa dal pianto. Ma, man mano, la fame aumentava sempre più e mangiare divenne sempre più facile, così in breve finii il primo toast. Bevvi mezzo bicchiere di latte e afferrai il secondo.

Il mio sguardo cadde un attimo su Jacob. Nel sonno il suo viso pareva così innocente. Com’era quando ci eravamo conosciuti, da bambini. Ripensai un attimo alla parole del sogno. Jacob avrebbe ottenuto tutto ciò che voleva con la forza, perché magari era stata proprio quella, la sua forza di licantropo, a corromperlo e farlo diventare ciò che era. Il suo sorriso spensierato era scomparso dietro una tonda luna bianca alla quale ora si volgeva per ululare.

Attenta a creare il minor rumore possibile e raccogliendo le forze per sollevarmi in piedi, andai in bagno, richiudendomi la porta alle spalle. Quando mi osservai allo specchio trovai ciò che mi aspettavo. Avevo gli occhi rossi e gonfi di lacrime e le occhiaie marcate, il colorito era pallidissimo, quasi grigiastro, e i capelli erano completamente annodati. Mi sciacquai il viso e tentai di sistemarmi i capelli.

Il mio sguardo corse al mio collo. Sciolsi le bende macchiate di sangue e osservai la ferita. Si era quasi rimarginata, anche se i bordi, pulsanti, non combaciavano ancora perfettamente. Ci sarebbero voluti dei punti, ma mi dovevo accontentare di ciò che avevo. Mi accorsi di una cassetta medica. La aprii, presi del disinfettante e delle nuove bende pulite. Prima sciacquai la ferita, per evitare che si infettasse, e poi la pulii con il disinfettante e rifeci la fasciatura.

Uscii dal bagno, sempre in silenzio, e venni percossa da un brivido di freddo. Afferrai la coperta dal letto e la tirai su di me, avvolgendomi completamente. Mi avviai verso la finestra e aprii piano un’anta, uscendo sul balcone e richiudendomela dietro. Fuori l’aria era ancora più fredda. Mi sedetti ad un angolo del balcone, stringendomi addosso la coperta e osservando il cielo stellato. 

Chissà se anche tu adesso, Edward, stai osservando questo cielo stellato. Sappi che ti amo e che io, non mi arrenderò, per te…

Cinque giorni, hai solo cinque giorni. Ti prego, solo tu puoi capire il mio messaggio!

 

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Capitolo 25
*** Traccia ***


Edward’s POV

Capitolo riveduto e corretto.

 

Edward

 

Avvicinai il volto al suo cuscino, inspirandone l’odore soave. Improvvisamente una valanga di ricordi mi assalì.

Lei, che arrossiva.

Lei, che mi fissava indispettita e imbronciata.

Lei, che entrava in camera tentando di sedurmi e che mi affascinava con la sua timidezza.

Lei, che mi guardava con gli occhi lucidi e intinsi del piacere che le stavo donando.

Lei, che aveva la paura negli occhi e la morte nel cuore.

Lei, che piangeva invocando il mio nome, perché io potessi in qualche modo salvarla, e affidandosi a me, piangeva ancor di più, sapendo che non le potevo darle aiuto e di quello stesso fatto mi sarei dannato l’anima.

Sempre che io ne possedessi una.

Sentii che in quel momento avrei dovuto piangere, ma la crudeltà della mia natura me lo vietava. Quindi il mio corpo venne scosso da asciutti singhiozzi, ma il dolore di cui si liberavano non era nulla in confronto a quello che si accresceva in me, secondo per secondo, legato esponenzialmente alla durata del suo distacco.

Bella.

Solo quel nome avevo in mente. Solo quel nome sentivo nei pensieri delle persone che erano nella stanza accanto.

Sentivo che mio padre, Jasper e Emmett erano appena tornati.

Allora, di sicuro, non hanno trovato Bella. Una nuova ondata di dolore mi stordii e fui costretto a chiudermi le braccia intorno al petto per tentare di contenerlo. In quel momento mi sentivo fragile. Che assurdo paradosso. Io, un vampiro indistruttibile, sentirmi fragile.

Tentai di concentrarmi su qualsiasi altra cosa, per evitare di annaspare.

Sentivo mia madre e mia sorella Rose parlare con Charlie.

Già, Charlie. Il coinvolgimento della polizia era stato inevitabile considerando che ad assistere alla scena c’erano degli umani. I suoi pensieri su Jacob, in quel momento, erano completamente stravolti. Stentava a capacitarsi di quello che poteva essere successo a sua figlia.

 Sentii anche quelli di Alice, che si trovava sull’attico, la stanza che aveva preparato per Bella. Doveva essere una sorpresa. Si sentiva colpevole. Ma non potevo biasimarla né rincuorarla, perché in quel memento era esattamente quello che provavo anch’io.

Chiusi gli occhi e vidi ancora i suoi, color cioccolato, sgrananti, pieni di lacrime e la sua voce spaurita che invocava il mio nome, mentre io la fissavo impotente, consapevole che qualunque mio movimento l’avrebbe condotta alla morte e al contempo torturato nel pensiero che non più rosea sorte le sarebbe spettata, se ancora fossi rimasto immobile. Poi, vidi la linea rossa di sangue sul suo collo e a quel punto, decisi di alzarmi dal letto per andare a dirlo a mio padre.

Prima non ce ne era stata l’occasione. Carlisle mi aveva detto che io non sarei stato d’aiuto nello stato in cui mi trovavo e quindi mi aveva spedito a casa sotto la supervisione di mia madre, mentre loro si mettevano sulle tracce di Bella. Non avevo obiettato, mi ero lasciato trascinare, per poi diventare perda dell’assoluto sconforto. Non ero stato in grado di dire una parola, perché le sole parole che in quel momento avrei voluto pronunciare erano rivolte a l’unica persona che in quello stesso momento non potevo avere accanto.

Non appena i miei familiari mi videro, i loro pensieri si tramutarono in compassione e pena. Persino quelli di Charlie. Chiusi gli occhi, ma poi capii che era meglio tenerli aperti se in qualche modo volevo avere ancora una sorta di controllo di me.

Inspirai, lentamente, e poi ricacciai fuori l’aria. Feci un cenno con la testa a mio padre e mi avviai verso lo studio, sapendo che mi stava seguendo.

Entrato nella stanza non sprecai tempo a sedermi sulla poltrona o a fare inutile gesti umani.

«Non l’avete trovata», non suonava affatto come una domanda, e in effetti non lo era, ma mi stupii comunque di quanto la mia voce risultasse piatta, lontana e monocorde.

«No».

Non potei fare a meno di fremere, anche se la verità si era già dimostrata palese.

«Figliolo…», mi chiamò con la mente «Non perdere la fiducia, la troveremo. Non serve a nulla compiangersi».

«Carlisle», dissi, con un filo di voce, che se fossi stato un umano, avrei detto sicuramente di stare piangendo, «l’ha ferita». A quelle parole mio padre sgranò gli occhi. Continuai a parlare, voltandomi di spalle e portandomi una mano fra i capelli. «L’ha tagliata intenzionalmente con un coltello sulla gola». Feci una pausa, quasi incapace di continuare. «Valutavo i suoi pensieri, ma mai avrei creduto che la potesse ferire, mi ricattava, ma non pensavo facesse sul serio. Non ho potuto fare più niente, sono dovuto rimanere immobile, dai suoi pensieri si capiva chiaramente che se non l’avessi fatto non avrebbe esitato a ucciderla…». La mia voce si spense.

I pensieri di mio padre ne facevano trapelare il suo reale stupore. Mi sentii poggiare una mano sulla spalla. «Edward, tu hai fatto quanto potevi. Quanto è grave la ferita?»

Mi voltai nuovamente verso di lui. «Non è molto profonda e fortunatamente non credo abbia reciso l’arteria, altrimenti…»

«Altrimenti in questo momento sarebbe già morta» questo mio padre non poté fare a meno di pensarlo. «Dobbiamo sperare che abbia il buon senso di fasciarla e non lasciare che s’infetti».

Respirai ancora una volta, piano, rievocando i pensieri del cane. «Credo che la curerà. I suoi pensieri erano…» feci una pausa, scuotendo la testa. «Non si rende neppure conto di quello che fa, agisce per impulsi e poco per ragione. Ma Bella… lei è… così fragile», conclusi sconsolato.

«Non più di qualsiasi altro umano. Ce la farà. Comprendo la tua apprensione, ma ora ci dobbiamo impegnare per ritrovarla, hai trovato qualche altra notizia nei loro pensieri?»

Mi sentii inutile. «Non sono riuscito a capire dove si nasconderà. Niente, nulla».

«Edward… Tu sai cosa vuole da lei?»

In quel momento strinsi i pugni con tutta la forza con cui avrei voluto avventarmi sul suo collo e sbriciolargli le friabili ossa, in tanti minuscoli e dolorosi pezzi, e sentire la sua carne calda torcersi e sfaldarsi sotto la pressione delle mie mani sanguinarie mentre gli mozzavo il suo ultimo respiro in gola e godevo nel sentire il suo ultimo ansito.

«Figliolo» Vidi la mia immagine dagli occhi di mio padre. Il mio volto, era quello di un assassino, mentre digrignavo i denti e facevo risuonare nel mio petto un ringhio cupo.

«Vuole abusare di lei» dissi con assoluta freddezza.

Mio padre annuì e con i suoi pensieri mi espresse tutto il suo rammarico e la sua sincera amarezza. Data la mia reazione lo sospettava. «Jasper e Emmett sono di nuovo usciti a cercarla, ma la pioggia sta facendo scomparire le loro tracce e la polizia ci sta intralciando. Ci siamo rivolti ai lupi, ma loro non ne sanno nulla. Sono sgomenti, e mi sono sentito di credere alla parola di Sam e soprattutto a quella di Seth. Sono sinceri. Sono andati ad informarsi da Billy e…».

«L’ha ripudiato» intervenni io, ricordandomi dei suoi pensieri.

Mio padre annuii e poi continuò «Dicono che in questi ultimi tempi non si sia mai trasformato in lupo».

In quel momento, non avevo idea del perché il mio subconscio - che ormai aveva preso il controllo di me -, scelse proprio quello, scatenò la mia ira.

«Come ha potuto portamela via? Come?» sbottai urlando, rovesciando una sedia. Mio padre non fece nulla per fermarmi. «Sono stato un empio, un folle, a farla andare sola! Dannazione! Le sarei dovuto rimanere accanto, in ogni momento, gliel’avevo promesso! Invece appena poche ore dopo me la lascio portare via, sotto i miei occhi, senza che io possa fare nulla! Mi sono sentito così impotente, non ho potuto fare nulla! Ogni sua lacrima, ognuna, avrei voluto raccoglierla! Avrei voluto stringerla fra le braccia, consolarla! Averi dovuto farlo, avrei dovuto trovare il modo! Maledizione Carlisle!» sentii un singhiozzo, secco e asciutto, scuotermi il petto e mi lasciai andare contro la parete, la testa fra le mani «Com’è possibile che ora sia nelle mani di quel maniaco, come?! Quale giustizia divina permetterebbe una cosa del genere? Quale?! Quale dio, quale demone!» mossi la testa, in avanti e indietro, come per scacciare quel peso che mi opprimeva «Non posso perderla Carlisle. Lei è tutta la mia vita, tutta la mia esistenza…» queste ultime parole, le pronunciai con tutta la sofferenza che in quel momento trasudavo.

Mio padre, che fino a quel momento era rimasto immobile, si fece strada fra le sedie rovesciate e i libri sparsi ovunque. Si sedette per terra, accanto a me, prendendo la mia testa e posandosela sulla spalla. «Edward, sono convinto che quanto dici tu sia vero. Non meritavi una punizione del genere, no davvero, non proprio tu. Non sappiamo né se un dio esiste né se è a lui che dobbiamo appellarci. Ma so per certo che non possiamo fare nulla in questo memento, tranne tentare di concentrare tutte le nostre forze per ritrovare Bella. E ti assicuro anche che tu hai fatto tutto il possibile per proteggerla. Ora, possiamo solo salvarla, e se anche tu ti impegnerai sono sicuro che ce la faremo» poi, mi sorrise e aggiunse «se Bella fosse qui, non vorrebbe vederti in questo stato. Lei conta su di te e per questo devi fare del tuo meglio per salvarla. Adesso, nel presente. Del passato non dobbiamo curarci ora. Ora, dobbiamo combattere per ritrovarla e sono sicuro che ce la faremo».

Nelle successive ore ringraziai la mia natura di vampiro che mi concesse di dedicarmi completamente alla ricerca di Bella senza dover dare ascolto ai bisogni primari che avrei avuto da umano.

Jasper e Emmett erano usciti, ancora sulle tracce di Bella a Jacob. Mia madre si stava informando dei progressi fatti dalla polizia, più per formalità che per effettivo bisogno di farlo. Ci eravamo trasferiti a casa dei miei genitori, dove potevamo disporre di tutti i mezzi ci sarebbero potuti servire.

Io e Rose stavamo di fronte al computer, tentando di individuare un posto dove il randagio, e non potei pensare a lui senza digrignare i denti, potesse essersi nascosto. Mio padre Carlisle era al telefono con i licantropi, in cerca di nuove informazioni, e Alice era ancora chiusa in camera sua. Si sentiva totalmente inutile senza le sue visioni.

«Rose, torno subito» le dissi alzandomi dalla sedia.

«Va bene… Continuo a cercare». I suoi pensieri erano carichi di apprensione per Bella. Non le avrebbe mai augurato una sorte simile alla sua.

Le feci un cenno affermativo con il capo e corsi veloce su per le scale.

Bussai alla porta di mia sorella.

«Entra, Edward». Feci come mi diceva e le andai accanto sedendomi al suo fianco sul letto. «Ti prego, se puoi, perdonami» pensò disperata.

Vidi nella sua mente formarsi l’immagine di me che la rassicuravo.

«Grazie».

Il mio umore non era affatto ancora migliorato, ma tentavo di incanalare tutto il mio odio e il mio malumore nella sfrenata ricerca della mia piccola Bella.

Mi vidi di nuovo nella mente di Alice. Adoravo quel nostro modo di conversare. «Riesci a concentrarti per vedere intorno a lei?» le chiedevo.

«Ci sto provando, se ci riuscirò giuro che sarai il primo a saperlo»

Annuii, le strinsi la mano nelle mie e uscii dalla stanza.

Quando fui in salotto mio padre, mia madre e mia sorella Rosalie mi vennero accanto.

Mi padre cominciò a parlare. «I licantropi si trovano in una posizione di difficoltà. Hanno cercato fra le loro leggende se in passato si siano verificate situazioni simili. Solo in un caso è accaduto che un licantropo si sia comportato in maniera così sconsiderata, e in quel caso hanno agito contro di lui. Ma in questo frangente, non si sentono di biasimarlo…». Dal mio petto nacque un ringhio cupo, che mio padre ignorò. «Non si sentono di biasimarlo come non si sentono di incoraggiarlo. Poiché è nella sua natura andare contro i vampiri, ma, aggiungono, è nella sua natura anche proteggere gli umani. Quindi, in conclusione dei fatti non agiranno se non quando sarà strettamente necessario, e si impegnano, una volta ritrovato, a segregarlo con loro a la Push…»

A questo punto non mi trattenni. «Perché credono forse che quando lo ritroverò lo lascerò in vita?», ringhiai ancora «Mai».

Carlisle tentò di acquietarmi «Edward, se lo ucciderai senza che ci sia un valido motivo, considereranno il patto rotto e ci ritroveremo con problemi ancora maggiori».

«Perché, non c’è già un valido motivo?» sbottai.

«Sai bene cosa intendo, non rendere le cose più difficili. Per ora concentriamoci per trovare Bella».

A quel punto intervenne Esme. «Pensate sia il caso di chiamare in aiuto il clan di Denali?».

Carlisle scosse il capo, pensieroso. «No, ora il problema è rintracciarlo, la forza è dalla nostra parte e non vedo il motivo di creare altri possibili contrasti fra loro e i licantropi. Sarebbe superfluo e infruttuoso».

Anche gli altri parvero essere d’accordo. Mia madre era molto in pena per Bella, ma tentava in tutti i modi di non esprimere il suo dispiacere, per non farmi stare peggio di quanto già non stessi.

«Bene», disse infine Carlisle dopo un attimo di silenzio. «Mettiamoci al lavoro».

In pochi secondi ci ritrovammo tutti intorno al tavolo da pranzo, su cui era poggiata un’enorme cartina del Nord America.

Sentimmo il rumore della porta di casa che sbatteva al passaggio di Alice. Era andata a prendere il gelato per Bella. Voleva che quando fosse tornata tutto sarebbe stato come se non fosse mai andata via. La mia famiglia ignorò discretamente quel passaggio. In una famiglia come la nostra non potevamo permetterci di essere invadenti.

«Allora» cominciò risoluto mio padre, guardando l’orologio «sono passate quattro ore e mezza. Che auto aveva con sé?».

«Lamborghini Diablo, blu notte, molto probabilmente rubata».

«Probabilmente non si trasformerà, sarà costretto a seguire le autostrade e la velocità media a cui può viaggiare in pieno giorno non è più di 120 km/h», disse Rosalie.

Mio padre annuì, prese una cordicella e un pennarello; lo legò ad un estremità e presa la misura con l’unità di misura in sala sul fondo della cartina e segnò un cerchio che aveva come centro Forks. «Se è vero che ha seguito i percorsi stradali, 300 km di raggio potrebbero bastare per ora».

Tutti ci sporgemmo per tentare di visualizzare un possibile luogo dove avrebbe potuto nascondersi.

«Port Angeles come Seattle, come pure Portland o Everett! Comprende metà dello stato di Washighton e anche parte del Canada», esclamò Rosalie.

Mi presi la testa fra le mani, scompigliandomi i capelli.

«Dove si sarebbe potuto nascondere? Un luogo affollato o poco popolato?» chiese mia madre.

«No, non andrebbe mai in città…», mormorai debolmente.

Carlisle aggiunse, «…Non con la polizia di mezzo. Sapeva che sarebbero intervenuti…».

«Sì».

Improvvisamente il suo cellulare squillò. «Jasper».

«Si è diretto a Nord. Li abbiamo seguiti fino a Everett, ma da lì le tracce si facevano inconsistenti, pensiamo che stiano andando verso Vancouver, ma che senso ha portarla in Canada? Verso l’Alaska e quindi verso Denali? Inoltre si sta per scatenare una bufera di neve e non credo che siano in grado di fronteggiare climi così rigidi. O almeno…»

«Non Bella» conclusi, disperato. Il mio cuore, già fermo, mancò nel mio petto, lasciandomi il vuoto.

«Siete certi che siano passati da Everett?» chiese mio padre.

«Si, proprio quando stavano ritornando indietro, abbiamo trovato una traccia».

«Che genere di traccia?»

«Credo sia meglio dirvelo quando saremo tornati, siamo già in strada, inutile continuare in queste condizioni, in cui loro non possono essere più veloci di noi, ma in cui si possono disperdere. E’ come cercare un ago in un pagliaio. E, se è vero quello che ci ha detto Edward, che sarebbe anche disposto a ucciderla se ci avvicinassimo troppo, non sarebbe prudente girovagare senza una meta precisa. Non è una gara di velocità, è una gara d’astuzia, quindi dobbiamo sviluppare un piano».

«Sì, tornate. Credo anch’io che sia meglio», chiuse la comunicazione e aggiunse, rivolgendosi a noi «dobbiamo aspettare che torni Jasper per sviluppare un piano».

«Carlisle…», sospirai, e mi decisi a parlare, anche se con tono del tutto assente. «Sicuramente avrà perso molto sangue e sarà debole. Se come dice Jasper c’è una tormenta di neve da quelle parti, e stanno procedendo verso Nord, allora…», ansimai, «allora potrebbe indebolirsi maggiormente…», nascosi il volto fra le mani. «Non voglio perderla, non posso…».

«Edward», sentii una mano posarsi sulla mia spalla, «è vero che il rischio di ipotermia, unito alla sua debolezza potrebbe rappresentare un pericolo per la sua salute, ma sai bene che è solo un rischio. E’ una ragazza giovane e forte e devi anche considerare, seppur sia una prospettiva spiacevole, che Jacob ha 42° corporei in media. Inoltre non è detto che siano diretti al Nord…» aspettò che alzassi il volto e spostassi le mani, «non abbattiamoci, forza e coraggio e la ritroveremo».

Non passò un’ora, che Alice fu di ritorno con i gelati - fragola e limone, i suoi preferiti -, e con un mucchio di cuscini colorati sistemati nell’attico di casa nostra. «Al suo ritorno dev’essere tutto perfetto, come se non ci avesse mai lasciati». Alice sembrava determinata nel suo compito, ma io sapevo benissimo che in realtà era disperata come me. Si adoperava in casa mia, correndo da una parte all’altra e sistemando ogni cosa che non fosse già perfetta. Avrei fatto volentieri come lei, pur di fare qualcosa…

Invece mi sentivo, ancora una volta, totalmente impotente, mentre il tempo passava e non potevo far altro che tentare di concentrarmi su quella cartina, più di quanto non mi fossi mai concentrato e individuare le zone in cui il cane avrebbe potuto nascondersi. Mi sembrava di impazzire nel non poter far nulla di realmente concreto. Andava totalmente contro la mia natura abbandonare la vita di Bella, la mia stessa vita, senza fare qualcosa di pragmatico per riaverla con me.

Carlisle si avvicinò nuovamente a me, prese lo stesso filo di prima e tracciò una circonferenza di maggiore diametro.

«Otto ore».

Mi lasciai sprofondare sulla sedia.

In quello stesso istante Jasper e Emmett, seguiti a breve distanza da Alice, entrarono in casa. Mi alzai di scatto dalla sedia, sentendo l’odore del sangue di Bella arrivarmi alle narici. Scattai con la testa verso di lui.

Jasper aveva fra le mani un pezzo di stoffa bagnato del suo sangue. Glielo strappai di mano, inspirandone l’odore. Non fece alcuna resistenza.

«E’ la traccia. L’abbiamo trovata sul ciglio della strada. L’odore era quasi scomparso ormai, e non l’avremmo mai trovato se non fosse stato per le tracce di sangue».

La strinsi forte in un pugno.

«Non sappiamo cosa significhi. Le sarà caduto? Forse è una benda?».

A quel punto prese la parola Emmett. «Crediamo anche che lui le abbia fatto aprire il finestrino, perché c’era un odore diffuso più forte lì vicino… Non sappiamo cosa possa averlo portato a farglielo fare… E’ un gesto sconsiderato…», constatò semplicemente.

«Forse stava davvero male…» pensò per un attimo mio padre, lanciandomi poi un’occhiata di sincero dispiacere in risposta alla mia di penosa disperazione.

Emmett si accorse del mio ulteriore peggioramento d’umore. «Può anche darsi che l’abbia convinto ad aprirlo con l’inganno. E’ molto furba quella piccoletta, non dobbiamo sottovalutarla».

«Quindi avrebbe lasciato cadere quel pezzo di stoffa intenzionalmente?», chiese Esme, perplessa.

Jasper confermò i suoi sospetti. «Credo di sì, per lasciare una sorta di traccia».

«E’ la stoffa della canottiera a righe che le ho dato stamattina…» pensò Alice addolorata. Combatteva con il desiderio di scappare via.

In quel momento mi sentii come stranito, colpito da una strana idea. Osservai il pezzo di stoffa che avevo tra le mani. Addolorato, rammentai l’immagine del suo corpo, il suo pudico rossore mentre si vestiva. Qualcosa che non quadrava, ma ancora non riuscivo a capire cosa. Come se qualche pensiero, qualcosa di palese, sfuggisse ai miei occhi. Mi persi nella contemplazione di quel rosso acceso, senza riuscire a trarne alcuna informazione, se non rammaricarmi maggiormente alla vista delle gocce di sangue di cui era macchiato.

Bella… aveva lasciato cadere quel pezzo di stoffa di proposito. Per non far perdere le loro tracce? No. Aveva ragione Emmett, lei era molto più furba di così.

C’era qualcosa. Un messaggio che lei voleva mandarmi e che era proprio lì, sotto i miei occhi e che io dovevo tentare di decifrare.

Sentivo tante cose, tutto e niente. E tentavo di scovare la verità, stracciare le apparenze, formulare possibili ipotesi, ma ogni mio tentativo si riconduceva al suo volto spaventato. La verità mi sembrava come l’acqua, che tentavo di afferrare a mani nude mentre mi sfuggiva costantemente dalle dita. E non potevo costruirci niente, perché non creava alcun fondamento.

Improvvisamente, i miei occhi misero a fuoco un dettaglio che non avevo precedentemente valutato. La stoffa, sfilacciata su un lato, si incontrava con un solo filo bianco. La sua maglia era a righe.

«Edward» mi sentii chiamare mentalmente da mio padre, mentre una sua mano si posava su una mia spalla. «Stai bene figliolo?».

Inghiottii un fiotto di veleno che mi aveva invaso la bocca.

Notai che nella stanza non c’era più nessuno, solo mio padre. Dai suoi pensieri preoccupati mi resi conto che due ore erano passate; ore non infruttuose. Ero stato completamente immobile tutto quel tempo. Era nella mia natura d’altronde.

«Carlisle» lo chiamai. Nella mia voce percepivo una flebile e debolissima speranza, nata nell’aver fatto anche un seppur minimo passo avanti. Nata dall’aver agito in qualche modo.

«Sì, Edward?» chiese ad alta voce, invitandomi a parlare.

«Bella aveva una canottiera a righe», feci una breve pausa, chiusi gli occhi e gli riaprii lentamente. «Che motivo ci sarebbe stato di strappare con questa precisione una riga? Non l’ha tagliata con le forbici».

Mio padre rimase qualche istante pensieroso. «Pensi che potrebbe aver tentato di inviare un messaggio?».

«Sì».

«Ne sei sicuro? Insomma… Credo che quella stoffa le servisse per farsi una benda, è normale che l’abbia tagliato in una striscia. La stoffa dev’essere più cedevole nel punto in cui si innestano le cuciture…».

«No. Ne sono certo», inspirai «me lo sento».

«Va bene, ma in tal caso, penso che il messaggio sia destinato a te».

Sospirai, sconsolato, mentre anche gli altri entravano nella stanza.

«Credi davvero che possa essere un messaggio?» mi chiese Jasper, stringendo Alice, che mi fissava con sguardo triste.

«Sì» risposi laconico. E quella risposta mi fece inevitabilmente pensare a Bella, e a come mi rimproverava ogni volta che la rispondevo a quel modo.

Sentii una calma innaturale avvolgermi, effetto del potere di Jasper su di me.

«Grazie», gli dissi solo.

Mi guardò con determinazione. «Se è come dici tu, concentrati, isolati da tutto il resto, pensa solo a quel pezzo di stoffa. Se il messaggio è indirizzato a te, è riferito a qualcosa che deve averti detto in confidenza, o che se che può esserti rimasto impresso».

«Sono un vampiro!» ringhiai «A me rimane impresso tutto!».

«Qualcosa più di un’altra. Concentrati, rievoca i ricordi. Alice ed Esme rimarranno qui. Noi stiamo uscendo - in direzioni diverse. Alla polizia risulta che non siano andati in alcun distributore di benzina nello stato di Washington o nel sud del Canada, potrebbe aver portato delle riserve con sé, ma il portabagagli di una Lamborghini non può contenere più di quattro taniche da venticinque litri, quindi…».

Prese la parola Rosalie «Quell’auto fa 400 km con un pieno e la capienza massima del serbatoio è 100 litri, non si sono mai fermati, perché non hanno trovato segni di frenate o  cambiamenti nell’odore, quindi…».

«Quindi adesso si devono essere fermati. Aveva sin dall’inizio intenzione di fermarsi vicino. Sono propenso a pensare a Vancouver, perché erano diretti verso Nord. Quindi io e Emmett andremo a cercare a Nord, mentre Carlisle e Rosalie verranno con noi per un po’, poi si separeranno a andranno verso Est».

Serrai la mascella. «Vengo con voi».

Jasper scosse il capo, dai suoi pensieri capivo che il suo stesso piano non lo convinceva. «Tu resti qui e tenti di decifrare il messaggio. Dobbiamo seguire tutte le strade, fidati Edward, solo in questo modo la troveremo».

Per tutto il tempo successivo non feci altro che tentare di concentrarmi su quel brandello di stoffa. Esme e Alice, accanto a me, facevano lavorare i loro pensieri in direzioni diverse. Tentavo di valutare i loro, i miei, e di trovare un punto d’incontro o un nuovo punto di partenza.

«Hai detto che la maglietta era a righe, vero?» chiese mia madre.

Rispose Alice, senza sollevare il capo. Era accovacciata sul divano, con le ginocchia al petto. «Sì, righe rosse e bianche. Era la sua canottiera».

«Quindi… il fatto che lei abbia strappato una sola striscia, dovrebbe dire qualcosa…?» concluse Esme, perplessa.

«Una striscia… una riga… ti dice niente Edward?» mi chiese Alice.

Scossi il capo.

«Striscia macchiata… tagliata con precisione…».

«Un gioco di parole? Un anagramma?».

«Forse un messaggio nascosto? No…».

Il tempo passava, e persino per la mia mente di vampiro, sentivo che quel pezzo di stoffa, quel messaggio, quel qualcosa la occupava completamente. Nessuna distrazione, nessun pensiero che non fosse quel brandello.

Jasper e Emmett telefonarono alle prime luci dell’alba, mentre Carlisle e Rosalie decisero di tornare indietro che era mezzogiorno. Il motivo era sempre lo stesso: nessuna traccia, nessun indizio. Bella non si trovava. E noi, allo stesso modo, non avevamo fatto nessun passo avanti.

Ormai stavo cadendo nello sconforto più totale e la mancanza di Jasper si faceva sentire.

Ancora una volta mi ritrovai con le mani fra i capelli e il petto scosso da singhiozzi, mentre mia madre mi accarezzava dolcemente, tentando in ogni modo di confortarmi, anche se i suoi pensieri erano molto, troppo simili ai miei.

Mi sentivo così vulnerabile e bisognoso di conforto. Era una sensazione che non avevo mai provato da quando avevo conosciuto Bella. Perché quando l’avevo conosciuta, ero io quello che le aveva sempre dato conforto, e non so cosa avrei dato per poterlo fare ancora.

Quando Carlisle e Rosalie ritornarono, anche i pensieri di mio padre, che finora erano stati così confortanti e determinati, avevano perso la loro verve. Era davvero preoccupato per Bella, considerandola ormai come una figlia.

Mi serviva un appiglio, qualsiasi cosa per sfuggire al buio tetro che inesorabilmente mi stava circondando. E in quel buio sprofondai sempre più, aiutato dalle ricerche inconcludenti e dai passi avanti che non venivano fatti. Dalle chiamate disperate di Charlie e da quelle altrettanto sconfortate dei miei fratelli.

Nulla più aveva senso, neppure il tempo; il vero senso della mia esistenza, era scomparso. Perché Bella era il senso della mia vita.

Improvvisamente, qualcuno mi gettò quell’àncora.

Tutti gli sguardi dei presenti erano puntati su Alice, mentre solo io e lei potevamo vedere.

Una stanza buia. Bella, seduta su un letto, che piangeva, spaurita, la testa fra le mani. Poi un urlo e lei che si accasciava sui cuscini.

Alice crollò a terra, carponi, lo sguardo perso nel vuoto, mentre Jasper le correva accanto per sorreggerla.

Ora tutti fissavano ci, aspettandosi che qualcuno dicesse qualcosa. Non io. No, non avrei parlato. Questa volta, avrei agito. Lo dovevo a Bella. Dovevo trovarla e aiutarla. In qualsiasi modo.

Scattai fuori dalla porta, correndo alla maggiore velocità che potessi permettermi. Nel giro di due minuti fui a casa mia, nella mia stanza da letto, e lì mi bloccai.

Inspirai il suo odore, ancora molto forte fra quelle mura. Mi sedetti sul materasso, le gambe incrociate, e portai davanti agli occhi il brandello di stoffa rossa della sua canottiera.

In un attimo una lampadina si accese nella mia testa. Una cosa che prima non avevo valutato.

Rossa. Ecco il perché di quella precisione. Avrebbe anche potuto strappare un pezzo di stoffa bianco, invece no. Mi voleva dire qualcosa collegato a quel colore. Una riga rossa.

Subito pensai alla ferita che la aveva inflitto Jacob, ma scacciai quel pensiero, poiché non portava nulla se non dolore.

Rossa. Rosso come sangue? Il suo sangue? Perché lei era la mia cantate?

Scossi il capo. No, decisamente assurdo.

Lasciai andare la striscia rossa fra le coperte e mi sollevai dal letto, osservando la stanza. Ogni volta che spostavo lo sguardo vedevo Bella, con i suoi occhi vispi color cioccolato, fissarmi, come se fosse proprio lì con me.

Osservai i suoi dipinti. Era davvero brava, Alice aveva ragione: Bella aveva talento. Osservai il disegno che mi aveva fatto la mattina di due giorni prima. Chiusi gli occhi a quel pensiero felice e proprio per questo doloroso.

Poi, il mio sguardo si posò sul mio quadro preferito. La Cortigiana. Avevo già capito che le piaceva, anche se ogni volta che lo guardava, aveva quella strana luce negli occhi. Sospirai affranto, muovendomi alla mia velocità fino a trovarmi di fronte al dipinto.

Sfiorando con la punta della dita la tela, mi ricordai della mattina dopo che avevamo fatto l’amore la prima volta.

Le avevo detto che mi piacevano i colori vivaci di quel dipinto e lei mi aveva raccontato la storia. Le avevo detto che mi piaceva il rosso del vestito della cortigiana

Improvvisamente, tutto mi fu chiaro.

Goat Rocks.

 

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Capitolo 26
*** Bambola di pezza ***





Al freddo pungente, ma confortante, che mi aveva accompagnato per tutta la notte, si accostò una sensazione calda

Al freddo pungente, ma confortante, che mi aveva accompagnato per tutta la notte, si accostò una sensazione calda. Ebbi paura. Nelle condizioni in cui mi trovavo non era affatto una buona cosa.

«Bella!» ringhiò Jacob a un mio orecchio, stringendomi in una morsa fra le sue braccia e portandomi dentro casa, di fronte al fuoco acceso.

Dibattermi fra le sue braccia era del tutto inutile, e non ero neppure sicura che lo stessi facendo davvero. Mi sentivo intorpidita e infreddolita, faticavo a pensare e mi battevano i denti.

Sentii un altro ringhio. «Sei una stupida! Ti volevi suicidare?! Eh? Non hai visto che freddo che fa?»

Non riuscii a prestargli attenzione e scivolai all’indietro con la testa.

All’improvviso il tono della sua voce mutò, avvicinandosi a un guaito. «Bella, Bella, non ti addormentare ti prego, rimani con me! Non chiudere gli occhi, no…» Le sue mani calde vagavano ansiose sul mio viso, fra i miei capelli.

Ebbi un’immensa paura. Mi ricordai la sua minaccia, i cinque giorni, che ormai erano diventati quattro, e in un attimo fui terrorizzata.  Non so come, riuscii ancora a percepire le mie labbra. «L…asciami…» biascicai.

Lo sentii irrigidirsi e mi sentii tremare più forte. Questa volta non era colpa mia, erano le mani di Jacob. Spalancai gli occhi, preoccupata.

«L’hai fatto perché ti potessi portare da lui, vero?! L’hai fatto perché ti potessi portare via da qui!» mi accusò puntandomi un dito contro. «Beh, sappi che ti stai sbagliando, questo non avverrà mai, capito?! Mai.». Cambiando di nuovo tono, parlò tranquillo, avvicinandosi ancora a me «calmati, non tremare. Adesso ci sono io, vedrai, starai bene… Mi prenderò io cura di te. Vieni qui, ti riscaldo io, non tremare… Non ti dona quella tintarella blu, sai Bells?» tentò di scherzare.

Mi accarezzò la guancia, ma io mi ritrassi immediatamente, sollevandomi sulle gambe traballanti e tentando di correre via.

«Lasciami!» urali, con voce più ferma. Mi sentii afferrare da dietro per il bacino e sollevare per aria, facendomi perdere il senso della gravità. «Vai via, lasciami andare!» gridai più forte, scalciando nell’aria con le ultime forze. Un attimo dopo mi trovai brutalmente schiacciata sul letto.

«Stupida! Ecco cosa sei, solo una stupida! La pagherai cara, vedrai…» urlava con i pugni serrati.

Mi rifugiai fra le coperte, tremante e stordita. «Allora lasciami andare… Sono una stupida, che cosa vuoi da me?».

Si portò le mani alle tempie, serrate in due pugni. Si muoveva con la testa avanti e indietro, tentando di calmarsi. Poi si voltò si scatto verso di me, facendomi sussultare. «Tu sei mia. Mia».

«No, no, no! Ti sbagli di grosso Jacob Black. Io non sono tua. Togliti dalla testa questa stupida convinzione» ribattei acida, con un filo di voce.

Si mise a ridere sguaiatamente e la sua risata fece aumentare il senso di stordimento che per un attimo mi aveva abbandonata. «Sei tu quella convinta Bella, non io. Tu. Tu sei convinta che il cadavere sia l’unico uomo sulla faccia della terra, quello che dici di amare. Ma non sei disposta a guardarti intorno!».

Le mie parole uscirono con un tono basso, e per questo più tagliente. «E chi dovrei vedere se mi guardo intorno? Te?! Non… non sei quello che voglio, lascia che lo decida io quello che voglio!».

«No!!!» urlò, facendomi indietreggiare sul materasso. La testa mi pesava, pulsante. «Lo decido io. Anzi l’ho già deciso. Perché quello che voglio io, non è quello che vuoi tu. E sai come si chiama questo? Conflitto d’interesse. Vince il più forte».

«Cosa stai dicendo Jacob? Cosa? Ti rendi conto di quello che dici?» chiesi con voce lamentosa, tentando di trattenere le lacrime. «Lasciami andare, te ne prego… Tutto tornerà come prima…» la mia stessa voce mi sembrava distante e distorta.

Mi sentii afferrare da due braccia calde, ma non riuscii a contrastarle, perché le forze mi stavano abbandonando. Avevo paura di chiudere gli occhi, fra le sue braccia, in balia di un mostro, ma riuscii a riaprirli solo per alcuni secondi, il tempo per vedere che ci stavamo avvicinando al fuoco e il rumore dell’acqua che bolliva. Poi, scivolai nell’incoscienza.

Non so quanto tempo rimasi priva di sensi, ma fui risvegliata dall’aroma delle erbe e dal caldo a cui ero costretta. Appena mia accorsi che ero fra le braccia di Jacob mi sollevai, sfilandomi dalle sue braccia, e rifugiandomi all’angolo opposto del camino, avvolgendomi in una coperta. Lui mi fece fare senza opporsi.

Sollevai il sguardo e notai che mi osservava con un sorriso sereno. «Sei bellissima Bells…».

Voltai di scatto la testa, senza rispondergli.

Sentivo il corpo ancora intorpidito, ma ora riuscivo a pensare con lucidità. Il sole sorgeva basso all’orizzonte, e i deboli raggi filtravano attraverso a finestra. Ero rimasta tutta la notte sul piccolo balcone, cullandomi nell’illusione del freddo che mi circondava, guardando le stelle nella speranza che anche lui le osservasse. Evidentemente non mi ero accorta che la temperatura si fosse fatta troppo bassa ed ero caduta in una specie di torpore.

Quello era il secondo risveglio senza Edward, e questo significava anche che mi rimanevano solo tre giorni.

L’aria era ancora rarefatta e oltre al primo piacevole odore di aromi naturali, si aggiungeva quello fastidioso della benzina. Un odore assolutamente raccapricciante.

Mi ritrovai una scodella tra le mani e sussultai spaventata.

«Mangia, è solo zuppa calda, ti farà bene, vedrai…» mi disse gentilmente.

In effetti aveva un buon odore e il mio stomaco gorgogliava non poco, ma ero piuttosto titubante. Poi mi ricordai di Edward, e della promessa che mi ero fatta, e non potei evitare di ingoiarne una chucchiaiata, poi un’altra e un’altra. Mi sentii decisamente meglio.

«Ne vuoi ancora?» mi chiese Jacob.

Scossi il capo e sistemandomi meglio la coperta, mi sollevai e andai a rifugiarmi in bagno. Non badai neppure ad osservarmi allo specchio, sicura di quello che avrei trovato.

Dovevo avere fiducia in Edward, fiducia. Solo quella mi avrebbe salvata in quell’infausto momento.

Mi lasciai andare contro una delle pareti, lasciando, senza badare al tempo che scorreva, che dolorosi e necessari ricordi affiorassero nella mia mente stordita.

M’immaginavo le braccia muscolose di Edward, che mi stringevano a se, cullandomi. Mi immaginavo le mie mani fra i suoi morbidi e meravigliosi capelli bronzei. Mi ricordai di una volta, quando gli avevo chiesto come fosse possibile che fossero così morbidi i suoi capelli, se era un vampiro! Lui si era messo a ridere, dicendo che ero assurda. Sorrisi. Lo diceva sempre quando facevo qualcosa di imprevedibile o gli chiedevo qualcosa di strano.

Sussultai, quando sentii un colpo deciso alla porta. «Bella! Sono due ore e mezza che sei chiusa in bagno, non sono ancora entrato per rispetto…».

Capirai, mi vuole violentare…

«Ma se ti stai sentendo male dimmelo, invece, nel caso in cui tu stessi cercando le lamette, per tentare il suicido come stanotte, sappi che non che ne sono e che…».

A quel punto mi sollevai da terra, cancellandomi le lacrime che nel frattempo erano scese, e uscii dal bagno.

Mi fissava con aria scocciata, ma comunque umana.

Non mi soffermai a guardarlo e andai diritta fino a nascondermi fra le coperte del letto.

A quel punto sbuffò e venne a sedersi a terra, su uno dei lati, di fronte al comodino. «Bella, parlami» mi ordinò irritato.

Quindi quello doveva essere un suo punto debole. Ovviamente non lo feci. Allora si alzò da terra e marciò verso un altro punto della stanza. Sospirai, lieta che mi lasciasse in pace, e chiusi gli occhi, tentando di non pensare a nulla. A nulla di doloroso.

«Metti questi» mi ordinò, lanciandomi degli abiti.

Li osservai. Erano miei, erano miei vestiti!

Al mio sguardo sbalordito rispose con una scrollata di spalle. «Così sarai ancora più bella… Sono i vestiti della prima volta che ti ho vista, non quelli delle sanguisughe…» si avvicinò a me, sedendosi sul materasso e facendomi così automaticamente indietreggiare.  «Mettili…» mi disse con voce melliflua, tentando di accarezzarmi. Scostai lo sguardo quando riuscì a entrare in contatto con la mia guancia.

«No…» sussurrai spaventata, tirando su le coperte.

«Mettili ti dico» sibilò a denti stretti, schiacciando con forza la mano bollente sulla mia guancia.

«N…no…» Ero decisamente terrorizzata.

Mosse la mano sulla mia guancia, con ossessione, violenza. «Mettili. La nostra prima volta deve essere speciale… indimenticabile…» mi alitò, avvicinando minacciosamente la sua bocca alla mia.

Non so cosa mi fece parlare, e riacquisire un minimo di lucidità, forse l’adrenalina. «Avevi detto che avresti aspettato… cinque giorni…» lo supplicai.

La sua voce ora era ansante e roca, decisamente disgustosa. «Te ne rimangono solo tre, è la mattina del quarto giorno…» mi strinse con forza, nascondendo la mia testa nella sua scapola, in un gesto che doveva essere tenero, ma che trovai solo raccapricciante. «E non ho detto che non avrei tentato di averti in questi giorni…».

Urlai, e riuscii a sollevarmi in piedi divincolandomi dalla sua presa. Riuscì a stringermi per la vita, provocandomi un’ondata di nausea. Singhiozzai, accasciandomi a terra tremante.

Non volevo che mi toccasse. Non volevo che mi sfiorasse. Non volevo che mi guardasse.

Urali ancora, scoppiando in lacrime. Sentii un ringhio rabbioso, e il suono della porta a vetri che sbatteva, poi mi rannicchiai maggiormente su me stessa e ricominciai a piangere.

Davvero quella sorte poteva essere la mia? Veramente quello non era un incubo?

Edward, Edward, dove sei? Ti prego salvami, aiuto…

In quel momento presi seriamente in considerazione l’idea di suicidarmi. Non potevo resistere in quel modo, non potevo aspettare di sentire le sue mani su di me…

Mi sollevai traballante e corsi in bagno. Vomitai. Distrutta, mi trascinai fino al letto, dove mi stesi, ricominciando a piangere. Faceva sul serio, Jacob faceva sul serio. E dopotutto, l’aveva dimostrato quando mi aveva ferita con il coltello, di fronte allo sguardo terrorizzato di Edward… Chiusi gli occhi, reprimendo l’urlo di terrore che mi stava nascendo nel petto.

Sentii rumori, folate di vento. Era Jacob, che si muoveva nella stanza. Mi dondolai sul letto, la testa tra le mani, tentando di ritrovare un appiglio di lucidità, una parte di me che non fosse infranta, che ancora avesse la forza di lottare.

Poi, una sensazione calda, urlai e la mia voce si spense solo quando non ebbi più la forza di farla uscire. Sentii un attimo lo sguardo del mio amore puntato su di me, poi, il buio.

Il sonno che avevo affrontato non era affatto stato ristoratore, e comunque, anche una volta sveglia non avevo osato controllare che lui fosse lì con me nella stanza. Tremavo, impaurita, e questo non potevo impedirlo, ma me ne stavo ferma e immobile, pregando che non si accorgesse del fatto che fossi sveglia e che così mi lasciasse in pace.

Mi sentivo estremamente frastornata, la testa mi pesava come un macigno e mi pulsava in prossimità della nuca. Probabilmente avevo la febbre. Avevo anche una strana nausea. Negli ultimi tre giorni ero stata sottoposta ad uno stress non indifferente e sicuramente la ferita e lo stazionamento all’aperto con una temperatura inferiore allo zero non avevano aiutato.

Sentii una mano bollente sulla fronte e mi ritrassi spaventata. Vidi Jacob allontanarsi da me con aria serena. Prese un piatto di minestra, ci mise dentro il contenuto verde di una boccetta e me la diede.

«N…no… Non… non la voglio…» mormorai spaventata, fissandolo negli occhi in cerca di una sua possibile spaventosa reazione.

«Non fare la bambina. Devi prendere la medicina, stai male».

Distolsi lo sguardo, rannicchiandomi su me stessa. «No…non è vero… No…».

«Mangia» mi ritrovai il cucchiaio infilato con forza in bocca e per non strozzarmi non potei far altro che mandare giù quell’intruglio.

Senza che me ne rendessi conto fui obbligata a ingoiare altri sorsi di quella cosa maleodorante. A nulla servì dibattermi, mi teneva ferma per il mento, con una mano che mi costringeva con forza a tenere la mascella aperta.

Ad un certo punto con un calcio riuscii a prendere il piatto, poggiato in bilico sul comodino, che volò via schiantandosi contro il muro e riducendosi a pezzi.

«Stupida!» sibilò, poi un dolore bruciante mi ferì la guancia destra.

Quando mi voltai verso di lui, con gli occhi lucidi e una mano sulla guancia lesa, il suo braccio era ancora a mezz’aria.

Lo osservava con aria terrorizzata, come se in realtà non fosse stato lui a compiere quel gesto. «Scusami Bells, io… Io non l’ho fatta apposta… non volevo…».

«Vai via!» urali. «VIA!». Rispesi fiato, ansante, fra i singhiozzi, mentre lui retrocedeva nella stanza. «Lui non l’avrebbe mai fatto! Non mi avrebbe mai fatto del male! Sei solo un bruto!!! VIA!!!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo.

«Mettiti i vestiti» mormorò.

Non feci in tempo a rispondere «NO!», che sentii un fruscio e capii che era uscito di nuovo.

Tentai di riprendere fiato fra gli ansimi che mi impedivano di respirare regolarmente. Provavo a controllare il ritmo dei respiri per non rischiare di perdere ancora coscienza, ma la testa mi girava e tutti i contorni della stanza erano sfocati.

«Edward… Edward… ti prego aiutami, ti prego…» gemetti fra le lacrime, epr poi correre in bagno e vomitare.

 

I miei occhi si riaprirono e ancora una volta, piansi. Era un abitudine ormai, lo facevo sempre quando mi risvegliavo dopo i brevi periodi d’incoscienza.

Non so quanto tempo rimasi a piangere, con la testa fra le gambe, con la paura che lui rientrasse nella stanza, inferocito, e che non volesse più rispettare il tempo di cinque giorni. Due, ormai.

Tutto il tempo era scandito solo da quello. I momenti in cui ero cosciente non erano migliori di quelli in cui il buio mi avvolgeva. Il sonno non era mai ristoratore, e mi svegliavo sempre più debole, dopo essere svenuta, stremata, a causa del pianto e della febbre.

Quando mi sentii troppo debole anche solo per piangere, ed esaurii tutte le mie lacrime, mi sollevai dal letto, avviandomi verso il camino.

Jacob era fuori. Ogni tanto usciva, cacciato da me, in lacrime, o urlante, oppure perché non gli parlavo o gli disobbedivo. Oppure quando si stancava di sentirmi pronunciare il nome di Edward. Non gli permettevo di avvicinarsi, anche nell’incoscienza, riuscivo a rendermi conto di quando era troppo vicino a me e mi svegliavo, sudata, di soprassalto. Non mi aveva più ferita, e la guancia, che nei primi momenti mi aveva fatto molto male, ormai era solo leggermente gonfia, e il livido era già giallognolo.

Ero riuscita a contrastare qualsiasi suo altro tentativo di approcciarsi in qualche modo a me, anche se era riuscito a toccarmi tre volte. Sentivo i punti di contatto con le sue mani brucianti. Le spalle, un piede, e la fronte.

Finii di mettere il brodo nel piatto, presi un pezzo di pane e cominciai a mangiare.

Avevo ancora la febbre, non mi aveva mai abbandonata e ormai ci avevo fatto quasi l’abitudine. Pensavo fosse la malattia che mi aveva portato Jacob, la malattia del calore. Perché non potessi sentire freddo. Agognavo malsanamente ai brividi, l’unica cosa in grado di ricordarmi di lui. Avevo vomitato altre due volte, e speravo di non farlo più, perché, dopo l’incidente con il piatto, odiavo mangiare. Lo facevo solo per Edward, perché le forze mi stavano abbandonando sempre più.

Risposi la scodella e mi stesi di nuovo a letto.

Pensai a una bruttissima cosa. Se mi fossi addormentata, esausta, come il mio corpo mi chiedeva, poi sarebbe rimasto probabilmente solo un giorno utile perché Edward mi ritrovasse.

Il mio sguardo cadde sui miei vestiti ai piedi del letto. Aveva insistito molte altre volte perché li indossassi, ma io mi ero opposta strenuamente. Sapevo che indossare quei vestiti equivaleva a incoraggiarlo a saltarmi addosso. Per questo li repellevo. Malsanamente pretendeva che li indossassi, era addirittura andato a recuperarli a casa di Charlie! Era decisamente pazzo.

Mi nascosi con a testa sotto il cuscino, aspettando, tremante di paura, che ritornasse.

Lasciai che la mia mente vagasse a immaginare cose positive, come il mio ritorno a casa. Mi immaginavo Edward, che mi avrebbe stretta al suo petto e cullata, anche per ore se gliel’avessi chiesto. Poi mi immaginavo Alice, la piccola Alice che mi saltellava intorno, contenta, proponendomi di andare a recuperare il tempo perduto per fare shopping. E poi Charlie. Chissà se era a conoscenza di quello che stava accadendo, avrebbe sicuramente cambiato idea su Jacob. Poi vidi il sorriso rassicurante di Carlisle, la sua mano fredda sulla fronte e il suo tono confortante da medico. Vidi la dolce Esme, che mi avrebbe preparato qualcosa da mangiare, e Emmett, con la sue battutine, Jasper con la sua presenza benefica e Rosalie. La bellissima Rosalie.

Aspettai secondi, minuti, ore, persa nei miei pensieri. Infine, quando ancora non fu accanto a me, decisi di lasciarmi andare al sonno, leggermente più speranzosa e rincuorata dalla sua assenza.

Purtroppo, mi svegliai, vendendomi venire incontro una sorte amara. Sentii una mano che mi bloccava il braccio, poi la puntura di un ago e il dolore bruciante nelle vene.

«Ahh!» urlai, tentando di ritrarlo. Ma Jacob non mi lasciò andare e spinse più in profondità l’ago, facendomi urlare ancora.

«Che cos’è?» gridai spaventata quando ritirò la siringa, gettandola via «che cosa mi hai fatto?».

«Calma Bella, inutile agitarsi» mi sorrise beffardo, mentre io mi massaggiavo il braccio indolenzito e lo fissavo intontita, «anzi si, agitati, così si diffonderà più in fetta…».

Mi sentii la testa girare violentemente, e ricaddi fra i cuscini. «Che… che cosa mi hai fatto?».

«Shh, Bella» mi si avvicinò, sedendosi accanto a me sul letto «calma… Nel giro di due, tre ore sarà tutto finito…».

Fremetti, spaventata quando con una mano si avvicinò al mio volto. Mi scostai, ma non ero pienamente cosciente dei miei movimenti, ed ebbi paura che in realtà non l’avessi fatto. Avevo il terrore di quella che potesse essere la mia sorte. Il mio petto si alzava e si abbassava, furioso, e il cuore pompava più sangue di quanto non volessi.

«Calma…» mi disse, riuscendo a toccarmi il viso. «Voglio ancora rispettare la condizione che ho posto…».

Fui leggermente più sollevata a quelle parole. «Che… che vuoi?» la mia voce era tremula e lontana. Mi sentivo più febbricitante del solito. Avevo la mente annebbiata e i muscoli brucianti e intorpiditi. «Cosa… mi hai fatto?».

«Non ti preoccupare, resterai ferma per un po’… Tornerai normale in tempo utile per domani…»

Mi si mozzò il respiro a quelle parole.

«Ora calma», mi disse scostandomi i capelli dalla fronte. Ci vedevo doppio e non riuscivo a coordinare i movimenti. «Voglio solo metterti questi vestiti, non ti farò nulla…».

Sgranai gli occhi, mentre il petto si muoveva con sempre minore velocità e anche il cuore assumeva un ritmo normale, contro la mia volontà.

«Ecco, ecco qui, stai calma…» disse. Intravidi la sua mano che si muoveva e poi una sensazione calda sul petto.

«No… non mi toccare… ti prego…» lo supplicai.

«Calma» la sua voce arrivava lontana e distorta.

Pensa, mi dicevo, pensa a cosa puoi fare. Ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare una soluzione a quello che stava per accadere. Resisti, Edward ti salverà, tentai di illudermi. «Ti… ti prego… mi… lo faccio da sola…» biascicai, tentando di trovare un modo per evitare quel supplizio, le sue mani su di me…

«No, Bella, no» disse deciso, ma comunque gentile «Hai avuto le tue occasioni».

Sentivo con repulsione il tocco bollente delle sue mani sulle mie braccia. «Ti… ti prego…» balbettati, disperata.

«Su su…».

Sentii il suono spaventoso. La zip del mio abito che veniva abbassata.

«Ti prego…» questa volta la mia foce fu rotta dal pianto e dalle lacrime che copiose avevano cominciato a cadere sulle mie guance. «Ti… ti prego, ti prego…».

«Togliamo questo vestitino brutto…» Sentii la stoffa scivolare sulla mia pelle. «Ohh… come sei bella…»

Singhiozzai e chiusi gli occhi tentando di concentrarmi in qualche modo. Li riaprii piano, e riuscii a vedere i contorni leggermente più netti, ma subito, quando sentii le sue mani calde su di me, furono inondati di lacrime. Gemevo e piangevo, sentivo le sue mani sulle mie braccia, sulle mie gambe, che sfioravano, toccavano, massaggiavano.

Non potevo far altro che piangere, piangere e rimanere immobile.

Sentii le sue mani sulla pancia, sotto la canotta, e mi si bloccò il respiro. Mi sollevò per la schiena, mettendomi seduta e facendomi venire le vertigini.

«Shh, piano, così…» mi poggiò la testa sulla sua spalla, accarezzandomi i capelli come a confortarmi. In quel momento capii come dovesse essersi sentito Edward. Impotente.

Mi sollevò le braccia, che penzolavano inermi, sfilandomi la canottiera dalla testa. Piansi più forte, spaventata da quello che poteva accadere di lì a poco.

Mi accarezzò la schiena, e posò le sue labbra sulla mia spalla. «No… no no no…».

«Sai… La tua pelle ha un sapore buonissimo…» continuò a baciarmi la spalla, risalendo in alto sul collo.

«B…basta…ti…ti prego…»

Mi strinse con forza a sé, inspirando il mio odore poi mi lasciò andare sul letto, adagiandomi come una bambola di pezza fra i cuscini. Con lentezza esasperante mi mise la maglietta, sollevandomi dal materasso per farmela indossare e facendo passare le braccia dalle maniche. Ebbi paura quando subii il supplizio dei jeans e della sue mani troppo vicine alle mie cosce.

Edward, Edward…pensai gemendo. Dovevo resistere, per Edward. Resistere e aspettare che tornasse a salvarmi. Ti prego, salvami Edward… Aiuto!

In balia delle sue mani non potei far altro che piangere.

 

 

Scusateeee! Ok, questa volta non ho scuse valide, lo so, ma questo capitolo era tanto difficile da scrivere!!! E poi… Non uccidete me, uccidete Jacob, dopo quello che ha fatto penso vorrete farlo… A me mi potrete uccidere nel prossimo capitolo e so già che lo farete!

Ok… Non vorrei aver combinato un pasticcio con questo cap, ma i capitoli di questo genere non mi vengono bene…

E cmq, anche questa settimana il pc si è rotto! Già, ma questa volta dovete ringraziarlo. Perché praticamente fino a ieri non avevo scritto che 1 paragrafo, poi ieri sono stata senza connessione, e allora sapete cosa ho fatto? Mi sono reclusa in soggiorno, con 40 gradi all’ombra, umidità 80%, sole cocente, e ho deliberatamente snobbato i 25 asciutti gradi del reparto notte per mettermi su word e scrivere un intero capitolo in un giorno! Poi oggi l’ho completato e rivisto e così eccomi qui!

 

Owh, una cosa. Mi rendo conto che all’inizio può non essersi capito qualcosa, ma è esattamente al continuazione dell’altro capitolo in Pov Bella. Beh, non proprio esattamente, dopo qualche ora al gelo direi…

 

Un’altra cosa. Spero non vogliate linciarmi per il fatto che Jacob ha drogato Bella… grazie. :D

 

PS.Grazie!!! Mi avete fatto superare il record di recensioni! *.* Vi adorooooo! *.*

 

barbiemora______scusa!!Mi dispiace tanto di non essere riuscita a postare prima, ma come sepre scrivere sta diventando un’odissea!!! Se sei già partita spero che al tuo ritorno tu possa leggere il capitolo, altrimenti leggitelo in fretta e in furia prima di sederti sulle valigie per chiudere la zip! ^^

patu4ever ciao!! E si, anche dall’Inghilterra, ma che piacere! J Grazie, mille, e scusa per il ritardo! Questa volta non avevo sonno!!! :P 

Eddyrossen95 Grazie! ^^ Sono contenta di non stufarti troppo… E’ vero sono un po’ prolissa nello scrivere a anche nel fare il commento finale! Ma è nella mia natura! Non ci posso fare proprio nulla… Sono contenta che la mia storia ti piaccia e che tu apprezzi il mio modo di scrivere davvero grazie, mi ha fatto un immenso piacere leggere questa recensione (sto ancora gongolando) sono estremamente lusingata dalle tue parole! Grazie ancora, spero che la mia storia possa continuare a piacerti, ciao!

Xela sisi, parola di Francesca, non ti preoccupare “papà”! ;P Io sono tanto buona, ho anche un aureola smontabile sopra la testa.

Franzeschina mi spiace, ma mi sa che ho fatto ritardo anche questa volta! Comunque… A dire la verità, avevo un po’ paura che come legame fra il vestito rosso e la striscia rossa, fosse un po’ azzardato, però ho dovuto metterlo per forza, altrimenti Bella sarebbe rimasta per sempre rinchiusa lassù!

SaturnoL Ciao, ho letto tutta la tua recensione o, come l’hai chiamata? Ah si, “supplica” XD Ok, devo dirti che non accoglierò la tua richiesta. No. Perché non ce n’è bisogno… XD Ti spiego. Bella non sarà propriamente… “violentata”, no, non nel senso tecnico della parola, ma ci andrà molto molto vicino. Mi dispiace doverti dire di non poter accogliere il tuo suggerimento, ma ogni fatto che avverrà in questi prossimi capitoli, e che ho già “scritto”  nella mia mente, mi serve necessariamente per il futuro prossimo o lontano, ed ho già ideato un modo per salvarla e anche un trama! :P Per quanto riguarda la gravidanza, si, ci sarà e sarà anche di nove mesi, l’avevo già prevista sin da principio, ma non saranno gemelli perché… beh, non mi piace! :P Ho letto parecchie ff in cui Bella è incinta di gemelli e non mi va di replicare ancora…

araba89 grazie, sono contenta ti sia piaciuto, spero solo che “il suo colpo di genio” non sia stato troppo forzato, ci avevo pensato nei precedenti capitoli e mi sembrava passabile ma poi… Non so… Volevo aggiungere anche qualche altro indizio ma poi non sono riuscita a creare nulla, né anagrammi né scritte in codice… boh… Vabbè dai, infondo Edward è un vampiro centenario ultra intelligente e innamorato! XD

azaz povera… io giorni no… ma adesso sono passati e stai tranquilla, vero?! J Sono contenta che il capitolo di Eddy ti sia piaciuto, così triste bello e tenebroso! *.* Per quanto riguarda Bella nei guai, è vero, è già nei guai, ma presto sarà peggio! XD Certo, all’inizio non sarà una cosa piacevole, ma dopo un po’, ti assicuro, si, lo sarà! Proprio come piace a noi! J Nel precedente capitolo i Cullen hanno lavorato come una squadra, non è stato facile farli intervenire tutti, ma dovevo tentare, ispirandomi a quello che la Meyer gli ha fatto fare nella “battaglia” con James… In effetti scoprire il “trucco” di Goat Rocks non era facile, e mi sono preoccupata che il legame fosse un po’ troppo forzato, però poi mi sono detta “infondo Edward è un vampiro innamorato, quindi troverà sicuramente la sua Bella!”! Anch’io come te adoro la lettura, e impazzisco un po’ quando mi metto a leggere i libri! Faccio la full-immerision! XD Mi condizionano anche un po’ il comportamento… Ma ormai sono troppo assuefatta da Twilight per esserne troppo coinvolta! Ciao tesorina! :* Francesca…

cloe cullen okok, non taglio nulla, dopotutto noi siamo quelle dei capitoli prolissi e non vorrei mai che tu tagliassi qualcosa nella tua storia quindi ti capisco… La cosa di Goat Rocks… Non so, forse è troppo forzata?! Ma la mente di Edward è quella di un vampiro, quindi è ok! u.u E poi… mi sa che salà meglio che Edward agisca, in un modo o nell’altro! ;)

luisina ke bella che è questa musica!!! Veramente bellissima e molto rilassante, avevi pienamente ragione! Per quanto riguarda il commento ti giuro che mi sono commossa, non credo davvero di avere tutti i meravigliosi meriti che mi attribuisci. Riuscire Davvero in qualcosa per me è fondamentale, non sono mai riuscita così in qualcosa, mi sono sempre sentita passabile in tutto, ma non sono mai stata davvero brava in qualcosa, qualsiasi cosa. Ho sempre adottato al mia capacità di migliorare, e questo mi ha portato dei meriti, ma non mi sono mai sentita talentuosa. Ti ringrazio davvero e spero di poter migliorare ancora. Ognuino è fragile quando ama perché l’amore, porta dolore, ma l’amore è più bello del dolore e ognuno ci anela. Grazie, di tutto.  

SIRYA95 ma naturalmente la più ingegnosa sono io!!! u.u! No scherzo… Dai, anche Edward ha fatto la sua parte, facciamogli questa gentile concessione… Si, il fatto che Charlie stia capendo che Jacob è un maniaco l’ho messo apposta! Non potevo sopportare che quel vecchietto insinuasse che era tutta colpa di Ed!!! Grr… Sam ha deciso così perché… si insomma, che cosa ti volevi aspettare da quelli, mica possono uccidere il cane o andare contro di lui? E poi Carlisle si sforza di non creare una guerra licantropi-vampiri ed è sempre il solito pacifista… hhh… E questa volta ti giuro che ho dormito! XD Non proprio 15 ore ma ho dormito! XD

tsukinoshippo Sii! Io adoro “you are my sunshine” infatti l’ho anche inserita in un mio capitolo! E’ vero, Edward è molto triste, ma ha subito il trauma di vedersi portare via Bella davanti agli occhi senza poter fare nulla per salvarla! E poi comunque verso la fine si è ripreso e ora ha scoperto dove si trova Bella o ora, speriamo, la salverà! Mmm… mi sa che tu hai capito più o meno come andrà a finire! Eh, ma non diciamo niente alle altre eh?! Shh… Dai tanto ormai l’hanno capito tutti… hhh… Non so tenermi nulla per me!!! Uff… Orgoglio e Pregiudizio è davvero bello, ma Twilight è Twilight! Le emozioni, non la trama, ma le emozioni… sono tutt’altra cosa…

littleSmiley Ciao! Grazie di tutto, ti faccio i migliori auguri per la tua dolce attesa! ^^ Sono contenta di essere riuscita a esprimere le sensazioni di una madre che porta un bambino in grembo, io ovviamente ancora non l’ho provata (sono un po’ troppo piccola) ma davvero la sento molto vicina a me… Per quanto riguarda Orgoglio e Pregiudizio… Mmm davvero bello quel libro! E poi lo stile… e i dialoghi con quello stile così sagace e vivace! Davvero molto bello! Grazie per le ninna nanna, le ho trovate molto molto belle! J Ancora i miei migliori auguri per tua figlia! Francesca.  

Noemix come non hai capito il collegamento!!! Bella ha raccontato a Edward la storia del dipinto… vai a leggere e vedi che c’è scritto e sicuramente, spero, capirai tutto! Orgoglio e Pregiudizio è bellissimo è vero, anche se in alcuni punti mi ha un po’ lasciato con l’amaro in bocca… mmm… non so… Bella davvero la ninna nanna!  

mazza non ti preoccupare, non hai tardato tantissimo, e poi sono io quella che aveva ritardato nell’aggiornamento, quindi…  Allora: A) ovvio, Edward è un vampiro innamorato quindi è logico che l’abbia capito, solo non vorrei che il mio commento fosse stato un po’ troppo forzato…  B) Ho notato la lunghezza maggiore del “siii” XD In Effetti la parte in cui si immagina di ucciderlo sono stata costretta a metterla… rendeva più l’idea, infondo è un vampiro! In effetti volevo metterne anche altre, ma il capitolo stava diventando troppo lungo! C) Si, in effetti è proprio quello che stai pensando… Ragazze, non posso essere troppo buona, ma vi prometto che non sarò tanto cattiva da farmi uccidere. OK? in medio stat virus! D) Non ti preoccupare, questo non accadrà! ^^ E) Nooo! Dove’è che sta sto verbo al presenteee? Ok, ora lo scovo… F) Si si, quando sono apposto il sonno non mi manca, ronfo come un bradipo in letargo! G) Ok, quando vuoi! :*

ale03 Grazie! Ma cmq, meglio scrivere i capitoli a mente lucida và… XD La privazione del sonno può anche essere considerata una tortura! XD E’ vero Bella è stata brava a inviare il messaggio, ma se dall’altra parte non ci fosse stato un vampiro innamorato non se ne sarebbe fatto nulla temo!   

Bellissima Cullen si, mi gusta molto! XD Grazie mille per il commento, davvero sono estremamente lusingata… Spero davvero di riuscire a combinare qualcosa, visto che scrivere sta diventando “il condimento della mia vita”… Non che prima non mi piacesse, ma li scrivere è il mio sale e il mio pepe… Orami non ne potrei più fare a meno, esalta tutto ciò che vivo… Scusami se sto qua a dirti le mie sensazioni, magari a te non importa - giustamente - niente, ma con il tuo commento mi hai ispirata… Grazie mille, davvero.

Cristy97 wow, si devo dire che sono davvero belle, le ho ascoltate tutte! Ma la seconda è bellissima! Ma la terza… la terza è davvero sublime! Wow! Non smetto di ascoltarla, davvero, davvero bella! Altro che Bella’s Lullaby, questa è favolosa!

_la sua bella_ grazie mille! In questo momento ho gli occhi sbrilluccicosi a forma di cuoricino! *.* Io sono sempre troppo prolissa in genere, infatti molte volte mi trovo a dover dividere il capitolo in 2 parti e poi mi vengono i capitoli lunghissimi e due brevi di seguito! Combino sempre danni! XD

Wind Ohhh si, ok, è davvero una bella situazione… ma, mi dispiace rovinarti il piano, a quel punt ci sarebbero i licantropi impazziti e i Volturi pronti a vendicarsi… Chissà, magari scontrandosi morirebbero tutti, però poi anche Seth ci lascerebbe! O_o No, non è possibile! ^^ Io adoro Seth! Per quanto riguarda Bella… oh si, è molto intelligente… Se tu noti, soprattutto in Eclipse, ma anche in Breacking Down le scopre tutte lei le cose! ^^ E poi infondo il suo piano era contorto, è stato Edduccio quello bravo a scoprire il mistero! *.*

Nessie93 Grazie! Sono contenta che alla fine hai capito il collegamento, leggendo il primo commento mi era venuta una mezza crisi… Mi sono detta “oddio ho fatto un collegamento troppo strano”… Ma spero di no… Infondo Edward è un vampiro e ha un cervello supersonico quindi è normale che abbia capito! Per quanto riguarda la differenza… No, non è quella che dici tu… :P Lo scoprirai leggendo, ma intanto non mi uccidere please!  

__TiTtA__ Beh, allora sono contenta, ci saranno molti guai per Bella. La cosa della macchina e della benzina… beh, ti devo dire che mi è venuta in modo estremamente sereno, non l’ho forzato, e meno male! Perché mi serviva un modo per ritardare il loro intervento e non farli andare sempre in giro… Per quanto riguarda la morte di Bella, no! Mi prendi per pazza? No, ok, questa cosa sarebbe probabile… Cmq, no, non la faccio morire né tanto meno trasformare! Bleah! Quando Bella si trasforma in vampiro non c’è più gusto, perché Eddy non la può più salvare! In questa fic Bella si trasformerà o alla fine o mai… J Contenta?

foxina oh, ok, allora sono contenta! J In molte mi hanno detto di essersi commosse, ma ti giuro, non era nei miei piani, anzi non mi sono per nulla impegnata in tal senso… pesavo solo “disperazione, Edward è disperato” Poi, se mi è venuto fuori l’effetto lacrimuccia tanto di guadagnato! Nono è vero, quella nina nanna è bellissima, l’ho ritrovata su you tube e hai ragione è molto bella… Infine, Edward Doveva, Per FORZA scoprire il piano di Bella, se no buona notte al secchio!

lisa76 grazie ma meglio di no, scrivo comunque anche senza problemi, la privazione del sonno non è una cosa particolarmente stimolante per scrivere! XD

Amalia89 grazie! No, non la faccio salvare subito, se no che gusto c’è? Hai presente i film, quando la macchina sta per esplodere, la benzina cola dal serbatoio, il protagonista arranca sulla strada e appena è fuori pericolo la macchina esplode? Beh, ecco, scordatelo, la nostra Bella proverà i “primi danni” dell’esplosione! Muahah…  

cullengirl beh, grazie mille, sono contenta che tu non ti sia addormentata mentre leggevi! ^^ E già, il piano di Bella ha avuto il suo fine, spero solo che non sia sembrato tutto un po’ troppo “forzato”… E cmq, almeno tu, una in tutte le recensioni, ha centrato il problema! La casetta di Jacob è sperduta!!! E’ difficilissimo trovarla… E poi se Bella troverà, speriamo di si, emm… vedrai, le cose non saranno così facili come potrebbe sembrare!!! Nuovi problemi sorgeranno all’orizzonte!

Hanairoh Beethoven! XD No, non rimane in vita, ma non andrà come hai pronosticato tu… ovviamente… altrimenti mi preoccuperei, comincerei a pensare che A) sono troppo prevedibile B) tu hai lo stesso potere di Edward! O.O E si mi sa che questo bel dubbio finale, hai fatto proprio bene a fartelo venire ma ti dico anche che non sarò così prevedibile! Almeno spero! T.T E cmq si, il botolo pulcioso è in via d’estinzione se proprio lo vuoi sapere, ma nessuno lo salverà!!! Muahahah! PS. La ninnananna era davvero stupenda, grazie di avermela consigliata. E scusaaaa se non ho postato prima!!! Spero tu abbia potuto portare Osvy con te altrimenti ho fatto una frittata!!!

Padfoot_07 Grazie mille, sono contenta ti sia piaciuto questo esperimento con Edward, ma per ora, meglio ritornare nella testa della nostra Bella! Eh già… la scuola… non pariamone visto che ormai giugno è praticamente andatolo! Passano troppo in fretta i giorni di vacanza! Ohhh! Che bella la nenia che mi hai detto… davvero molto dolce… E poi la storia dello scrigno con il folletto… wow… ma di dove sei? Dalle parole sembra tipo… trentina… o veneta… magari mi sto sbagliando non so… Non me lo dire se non vuoi…

bigia XD grazie, ma credo sia meglio che io continui a usare il passato! La chiamano concordanza verbale, questa sconosciuta! XD grazie mille ancora…

Bella_Cullen_1987 Harry Potter melody? Mai sentito parlare… Mi sa che dovrò andare a cercarla su You Tube! Boh… XD *me va a informarsi* *me ritorna* Oh, si è la colonna sonora… Non ci avevo mai pensato, ma ora che ci faccio caso, è vero, è davvero molto bella…

barbyemarco questa volta ho dormito regolarmente, giuro! Anche le le stramberie sono sempre le stesse… ^^ Sono contenta che il precedente capitolo ti sia piaciuto, pensavo di aver scritto un mucchio di frasi senza senso e che tutti sarebbero andati avanti a leggerle, saltando ogni tanto qualche rigo!

damaristich XD mi hai fatto ridere tantissimo con la nenia! Non mi sono addormentata, ma ti giuro che ho riso tanto!!! XD E ora, gli aggiornamenti… emm, si, l’altra volta ho fatto un ritardo mostruoso, e anche questa ma spero di essermi fatto perdonare, con questo chappy! *.* E giuro che non lo faccio più! Però aggiorna anche tu, eh?!

Lau_twilight  grazie mille! ^^ Si, Edward ha capito più o meno dove sono nascosti, ma una cosa è questo, un altro paio di maniche è trovarla! Ti ricordo che sono nascosti a non mi ricordo neppure io quanti metri di altitudine! Eh… Il salvataggio non sarà così immediato e facile! ^^

Hikary_a18 eh si l’ha capito, ma Goat Rocks è piuttosto grande, inoltre tieni conto che è passato un po’ di tempo prima che Eddy lo scoprisse, quindi… Ti giuro che sto lavorando al massimo per postare presto! E gli Edward Pov… No, per un po’, meglio di no… Mi fanno venire il mal di testa!

vampirettafolle no per Venerdì non ce l’ho fatta!!! Mi sa che adesso sei anche tornata! ^^ E’ che ho dovuto aggiornare anche l’altra storia… ti giuro che ce l’ho davvero messa tutta, ma massimo scrivo un capitolo ogni due giorni, oppure anche a volte riesco a farne uno tutto in un giorno, ma non riuscirei a farne un altro in un giorno! O.O Uscirei pazza! xD

ledyang non so se ti posso dare tutto quello che mi chiedi, ma una delle due cosa te la darò completamente, l’altra… no… in parte… Non riesco a essere troppo buona!

Anthy Anche tu hai la maturità vero? Brutta cosa, non vorrei trovarmi nei vostri panni… Ma ora tutto è finito, almeno per mia sorella! Alleluia! Edward è sempre stato conosciuto per la sua pazienza, quindi un po’ di nervi saldi li ha mantenuti… eheh E poi è stato bravissimo a scoprire tutto quello che c’era dietro il ragionamento contorto di Bella! E cmq, fortunatamente, la presentite mi è passata!

 

 

*SONDAGGIO*

A chi di voi piace più il freddo del caldo?

A me per esempio. Forse è per questo che odio Jacob! ^^

 

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Capitolo 27
*** Sopravvivere ***





Mi risvegliai, intontita

Mi risvegliai, intontita. Mi sentivo peggio del solito, la testa era più pesante e avvertivo uno spiacevole tepore e torpore.

Mi toccai la fronte. Mi sembrava bollente, ma poteva anche non essere così, perché le mie mani erano freddissime.

Decisi di lasciar perdere. Non mi importava niente della mia salute. Non più, in previsione di quello che stava per accadermi. Quanto mancava ancora? Un’ora, forse due? E poi il tempo sarebbe scaduto e a quel punto solo la morte sarebbe stata più piacevole. Edward non sarebbe arrivato e il mio destino sarebbe stato orribile…

Strinsi i pugni. No. Non dovevo arrendermi. Dovevo usare le mie ultime forze per trovare un modo di lottare contro il mio stesso destino. Anzi no. Non esisteva il destino, niente era segnato e solo io potevo decidere di quello che ne sarebbe stato della mia vita. Dovevo trovare un modo di lottare.

Jacob era troppo forte per me, lo sarebbe stato da umano e lo era ancora di più adesso, da licantropo. Mi osservai intorno. Non c’erano verghe o bastoni, neppure attizzatoi che potessero essere usati contro di lui. Solo un vaso accanto alla porta finestra. Inutile…

Vidi la sua sagoma sul balcone, oltre alla finestra, e un moto di nausea mi assalì. Non potevo evadere. Accidenti! Mi ributtai fra i cuscini. Potevo solo sperare che Edward avesse capito il mio messaggio e che mi trovasse lassù.

In quel momento, Jacob entrò nella stanza.

Il tempo era scaduto.

Si avvicinò piano a me: sentivo ogni rumore che i suoi piedi nudi producevano sul pavimento, come un grande orologio nella mia testa, che segna lo scadere del tempo.

Tentai di imprimere nella voce un timbro dignitoso «Non farlo Jacob. Non farlo».

Lui abbassò le mani lungo i fianchi, con naturalezza. «Te lo chiederò. Ti ho dato cinque giorni per scegliere, ti offro una casa, ti offro un marito, vuoi fare l’amore con me, Bella?».

Sollevai la testa fino a guardarlo dritto negli occhi, sicura come nel primo momento, della risposta che avrei dato. «No, mai».

«Bella…».

Prima che potesse aggiungere altro, sgattaiolai via dal letto, e correndogli accanto, uscii sul balcone. «AIUTO!» urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo. Le parole si dispersero con un eco fra le montagne. «EDWARD, AIUTO!!! ED…» prima che potessi pronunciare anche solo un’altra sillaba, sentì il fiato mozzarsi nei polmoni, a causa di due braccia calde che mi tenevano stretta.

Mi trascinò dentro casa, strattonandomi malamente.

Non appena riuscii a riprendere fiato ricominciai a urlare, ma ormai la porta della stanza era chiusa e temetti che fosse inutile continuare a urlare da dentro alla roccaforte in cui mi trovavo. Fui scaraventata sul letto e un’altra volta le parole si imprigionarono nella mia gola. Evitai di sprecare inutilmente energie e fiato nel gridare e feci per scappare via.

Un braccio mi impedì la fuga, mi voltai dall’altro lato ma un altro braccio scuro mi comparve dinanzi agli occhi.

Mi sovrastava con il suo corpo. Tentai in ogni modo di scappare via, ma fui bloccata. Non avevo scampo.

«Lasciami, ti prego…» sussurrai disperata.

«No, non ti preoccupare Bells, se farai la brava vedrai che ti piacerà…».

Fui raccapricciata da quelle parole, e la nausea mi colpì come un pugno in pancia.

«Bells, non fare così, calmati, te l’ho detto, sarà piacevole…». Mi fissò, avvicinando pericolosamente il suo viso al mio. I suoi occhi erano neri e ardenti.

«No, non farlo!» le mie parole erano intrise di angoscia.

Purtroppo però, le sue labbra si incollarono alle mie. Bollenti, violente, prepotenti…

Tentai di mordergli il labbro, ma lui sembrò perfino gradire il mio gesto. Lo spingevo via, con le mani, con le gambe, ma era come tentare di spostare una roccia. Infine riuscii a spostare la testa di lato e riprendere fiato, ma purtroppo le sue labbra furono subito sulla mia clavicola. La sua bocca febbricitante lasciava barbaramente tracce di saliva sul mio collo, arrossandomi la pelle.

Avevo il respiro corto e veloce, sintomo non di eccitazione, ma di un incombente attacco di panico.

Le parole mi morivano in gola, non riuscivo più nemmeno a fiatare, e avevo i muscoli contratti e infiammati per lo sforzo di allontanarlo da me.

Poi, le sue mani scesero ad accarezzarmi il busto, fino ad infilarsi sotto la mia maglietta.

Disgusto, schifo, orrore, ecco quello che provai per quello che mi stava accadendo e per quello che sapevo che lì di a poco sarebbe accaduto.

A quel pensiero rabbrividii e riuscii a scostarmi, defilandomi dalla sua presa.

Purtroppo però, mi riafferrò quasi subito, imprigionandomi con più forza e violenza nella sua presa.

«Ahh!» urlai, quando mi strappò la maglietta su un fianco, passando con la mano tanto da arrivare a palpeggiarmi un seno.

«Lasciami!!!» urlai inorridita, dimenandomi per quanto potessi, con tutte le sue forze.

Ma le sue mani, brutali, continuavano a toccarmi, con violenza, orrida violenza. E le sue labbra, sudice, sporcavano il mio viso, il mio collo, le mie spalle.

Una sua mano, che non mi stava stringendo il seno, scivolò fino ad afferrarmi crudelmente un fianco, e stringendo il suo bacino contro il mio.

«Basta!» gridai scoppiando in lacrime.

In quel momento, non so cosa fu, forse una scarica d’adrenalina o forse una sua titubanza per il mio urlo, ma riuscii a sollevarmi dal letto per correre in bagno a vomitare.

Purtroppo, non feci in tempo a capacitarmi dal senso di schifo che mi sentivo addosso, che mi riacciuffò e mi sbattè contro il muro, stringendomi i polsi sulla testa, in una morsa di ferro incandescente.

«Basta! Ti prego, basta!!!» singhiozzai fra le lacrime, mentre continuava a infilare le mani sotto a mia maglietta.

«Shh Bells, shh…» disse con voce bassa e roca, che mi fece rabbrividire.

Sempre tenendomi le mani imprigionate, scese con la bocca a baciarmi il ventre, facendomi piangere in singhiozzi convulsi.

Sentivo i suoi ansiti e i suoi gemiti di piacere e mi sentivo terribilmente sbagliata. Perché ero io la causa di quello, ero io la causa del suo piacere.

«Edward… Edward aiutami… Edward…» gemevo disperata.

Tentai, in un ultimo sforzo, con l’ultima oncia di coraggio che mi rimaneva, di immaginare che quelle mani che mi toccavano, quella bocca, fossero in realtà quelle di Edward. Ma questo, non fece altro che farmi sprofondare maggiormente in un baratro senza fondo.

«Edward… Edward…».

Ebbe un raptus. «Zitta! Non devi pronunciare il suo nome, capito?!» disse risollevandosi con il viso alla mia altezza.

«No!» sibilai, sputandogli in faccia con tutta la forza che avevo.

«Questa me la paghi…» sibilò, asciugandosi la faccia con una mano, mentre con l’altra continuava a tenermi i polsi bloccati.

Con un gesto rapido e violento, strappò via le gambe dei pantaloni, graffiandomi le gambe e facendomi urlare di dolore.

Mi lasciò andare i polsi, e quando li abbassai sui fianchi me li imprigionò di nuovo.

Scalciai, tentando di colpirlo, ma lui mi prese per il busto sollevandomi da terra e costringendomi fra il suo corpo e il muro. Le schegge di legno del muro, mi ferivano la schiena, graffiandomi. Ma quello era il male minore.

Il dolore non era nulla in confronto all’orrore, il disgusto, la nausea.

La sua mano scese a sulle mie cosce, stringendomi e graffiandomi ancora l’interno coscia e facendomi ancora urlare.

Poi, successe l’inevitabile. In quel momento fu come se tutto si sospendesse, e come se potessi guardare tutto con una nuova, strana, malata lucidità.

Edward non era arrivato, non era riuscito a salvarmi e io stavo andando incontro al peggior destino che mi si potesse riservare.

La sua mano, stracciò con facilità il cavallo dei pantaloni e si insinuò fra le mie cosce, sotto gli slip, forte e violenta, ferro incandescente che brucia lasciando danni irreversibili.

Nella mia testa, qualcosa si ruppe, si spezzò. Smisi di urlare e di piangere, rimanendo agonizzante e senza fiato. Come un elastico troppo teso, che arriva al punto in cui si rompe. Come una molla che s’incrina. Il punto di rottura, il momento dopo cui non si può più tornare indietro.

Due istanti più tardi, la mia bolla di terrore si ruppe, esattamente quando fui catapultata sul muro accanto e la porta finestra si aprì, infrangendosi in mille pezzi con un tonfo sordo.

Gli occhi, che si erano chiusi per un attimo per proteggersi dalle schegge di vetro che schizzavano da ogni parte, si riaprirono stentando a credere a quello che si manifestò dinanzi.

Edward, con un’espressione rabbiosa e contratta sul viso, ringhiava contro Jacob, ora trasformato in lupo.

Restai muta, gli occhi sgranati e la bocca aperta, con la schiena contro il muro.

Tutte le cose cominciarono a muoversi troppo velocemente perché un occhio umano potesse seguirle. Avevo notato lo sguardo che mi aveva rivolto Edward, e l’impercettibile movimento verso di me. In effetti, ora che lo notavo, la matassa aggrovigliata e opaca di corpi, tendeva ad avvicinarsi sempre di più a me. Capii cosa stavano facendo, stavano tentando entrambi di guadagnare terreno verso la mia parte.

Ma, anche se il mio cervello mi suggeriva di spostarmi verso Edward, non lo feci. Non riuscivo a muovermi, né a parlare o reagire.

Tuttavia, avevo paura. Quello riuscivo a sentirlo. Avevo paura per Edward.

Ascoltavo i rimbombi secchi e poderosi dei loro colpi, che vibravano per tutto l’interno della montagna, scuotendomi. Non riuscivo a capire chi fosse in vantaggio. Edward danzava elegantemente compiendo movimenti sinuosi e armoniosi, ma soprattutto, letali. Jacob invece, un grosso lupo rossiccio che occupava quasi del tutto la mia visuale, attaccava direttamente, solo con l’intento di ferire.

Cinque giorni erano passati senza che lo vedessi, e ora, proprio ora, era lì, davanti ai miei occhi, impegnato in un combattimento all’ultimo sangue.

Mossa dall’ultimo anelito d’amore, decisi di spostarmi. Feci forza sui palmi e cominciai a gattonare verso la portafinestra. Un ringhio rabbioso e un rumore sinistro mi costrinsero a fermarmi.

Jacob aveva un osso rotto, scomposto sulla spalla, ma non guaiva, digrignava i denti ringhiando contro Edward. Gli si avventò addosso e ricominciarono a combattere a velocità sovrumana.

Dopo essermi ripresa, ricominciai a gattonare. Le schegge di vetro, sparse ovunque, mi ferivano i palmi della mani e la ginocchia. Ma non badavo al dolore, né a tutto quello che sentivo dentro. Il vuoto. Solo un puntino di luce era rimasto in me: l’amore per Edward; e lo stavo sfruttando con tutte le mie forze, tentando di trarne la massima energia.

Un altro tonfo, più forte e acuto, mi fece bloccare. Jacob era stato sbattuto contro la parete e Edward tentava di immobilizzarlo e di sfuggire ai suoi artigli e ai suoi denti appuntiti che mordevano l’aria troppo vicino alla sua gola.

Mi mossi ancora, non staccando lo sguardo dalla scena, e notai che gli occhi neri di Jacob erano puntati su di me. Mi voltai e gattonai più velocemente, fino ad arrivare allo stipite della porta.

Proprio in quel momento, quando mi voltai, attirata da uno strano clangore di legno su legno, vidi il letto venirmi addosso comprimendomi contro il muro.

Tossii in mancanza d’aria e proprio in quel momento credei di essere andata in paradiso.

«Bella!» urlò Edward con voce preoccupata e al contempo rabbiosa. Com’era meravigliosa la sua voce! Quanto mi era mancata…

Edward mi venne accanto scostando nuovamente il letto facendolo slittare sul pavimento. Il peso opprimente sui polmoni scomparve e i puntini luminosi ai limiti del campo visivo scemarono via.

Vidi il suo volto preoccupato davanti a me, i suoi occhi ambra e i suoi capelli bronzei spettinati.

Poi, ancora, non più la tregua, ma la mostruosità.

Jacob si era avventato su Edward che si era distratto per me, per venirmi in soccorso. Lo lanciò oltre la finestra, verso il burrone.

Si lanciò su di lui. Edward lo prese per la gola, mantenendosi a mezz’aria, sospeso. Si sorreggeva solo con le mani sul collo di Jacob.

«Edward!» gridai, spaventata, uscendo sul balcone.

Jacob crollò a terra, ansante, quasi strozzato, ritrasformandosi in umano. Ma, inevitabilmente, nello stesso istante, Edward cadde giù. Nell’aria. Nel vuoto.

«NO!!!» urlai, finché la voce non mi morì in gola e rimasi ansate, senza fiato, mentre un sibilo sinistro usciva dalle mie labbra.

Mi sentii spezzare. Squarciata in due, con un dolorosissimo strappo, senza la possibilità di essere più riparata. Dolore puro era quello che fluiva dalla mia ferita pulsante. Dolore, solo dolore, mero dolore. Assurdo da immaginare, troppo grande da comprendere, e impossibile da provare.

Ma la crepa che mi attraversava in corpo, da capo a piedi, non poteva ancora togliermi la vita. Un potentissimo collante, resisteva ancora, facendomi mantenere attaccata.

La voglia di vendetta.

Sensazione mai provata in vita mia, ma che ti impediva di ragionare lucidamente, quando con le unghie ti sentivi strappar via la parte migliore del tuo cuore. Ora, potevo comprendere Edward. In tutto.

Tuttavia sapevo, di non poter assolutamente nulla fisicamente contro Jacob, soprattutto se si fosse ritrasformato in lupo. Ma io avevo un piano.

Mi mossi con assoluta lucidità, spinta da qualcosa che è più potente dell’amore. L’odio. Presi il vaso, che solo poco tempo prima mi era sembrato inutile, e mi avvicinai a Jacob.

Afferrai saldamente il vaso con entrambe le mani, trattenendolo con forza, e glielo infransi in testa.

Una risata gutturale nacque dal suo petto. «Bells… Pensavi di farmi male con… con quello?» disse con scherno, risollevandosi a fatica da terra.

Strinsi i denti e un sorriso maligno mi spuntò sulle labbra. «No. Con questo» dissi glaciale, avventandomi con tutta la forza che possedevo sulla sua carotide, recidendola con precisione con un frammento di vaso che mi era rimasto in mano.  

Jacob era sgomento, gli occhi sgranati e il viso segnato in una smorfia di dolore.

Premetti e insistetti, sentendo la pelle della mia mano lacerarsi. Non ci badai e ci misi ancora più forza, scendendo in profondità nella pelle e godendo del sangue scuro che in zampilli grondava dall’arteria.

Però poi, ai bordi del mio campo visivo, qualcosa mi distrasse.

Edward, in piedi sul balcone, mi fissava preoccupato. Era vivo.

Lasciai andare immediatamente la presa sulla pietra e Jacob, con un sibilo sinistro proveniente dalle sue labbra, cadde all’indietro, verso il vuoto, pronunciando una parola di fuoco.

«Addio».

Morto. Jacob era morto.

Inciampai sul battiscopa e mi accorsi che stavo retrocedendo. Non mi fermai e continuai a camminare all’indietro, verso casa.

Jacob era morto. Per mano mia.

Con gli occhi sgranati, fissi sul punto in cui avevo commesso l’omicidio, avevo nella mia testa un susseguirsi di immagini che violentemente perturbavano la mia mente.

Jacob che mi toccava, abusando del mio corpo.

Edward che cadeva giù dal burrone.

La mia stessa espressione soddisfatta, mentre uccidevo l’uomo che mi stava violentando.

E, infine, indelebili, i suoi occhi neri, sgomenti, e quella parola. Addio.

Arrivai a urtare con la schiena contro il muro, e mi lasciai scivolare sulle gambe.

«Bella». Era la voce di Edward, vicina. «Bella amore, sono qui…».

No, lui non doveva vedermi.

Ero sporca. Due volte. Ero macchiata di violenza subita e di omicidio commesso. E, per l’unica cosa che non mi aveva mai abbandonata, e che ancora continuavo a sentire nel cuore, non potevo permettere che mi vedesse. Il mio amore per lui, era l’unica cosa sopravvissuta in me. Non potevo permettere che i suoi occhi puri, le sue mani candide, il suo corpo sacro, entrassero in contatto con me. Non potevo.

Continuava a chiamarmi. La decisione era già stata presa, per quanto doloroso fosse stato.

«Edward… lasciami… va via… L’ho ucciso… l’ho ucciso…» sussurrai.

Vidi il suo volto, il suo sguardo gentile, preoccupato, ma distolsi subito l’attenzione. Si era inginocchiato accanto a me.

«Bella, amore, vieni qui, vieni da me, ti devo aiutare, stai male».

Mi accorsi solo in quel momento di provare dolore. Stavo muovendo convulsamente le gambe, strisciandole una sull’altra per tentare di darmi sollievo. Il bruciore era forte e mi sentivo intontita e debole.

«Fa male… fa male… fa male…» biascicai, come se quasi non fossi io a pronunciare quelle parole.

«Lo so amore, lo so» mi disse Edward, contrito. Fece per avvicinarsi a me.

«Non ti avvicinare!» urlai con le ultime forze, sull’urlo del pianto, fissandolo negli occhi ambra velati da una profonda tristezza.

«Amore, vieni con me, ti porto da Carlisle, starai meglio…».

Mi strinsi su me stessa, distogliendo lo sguardo. «No…morto… è morto… no Edward… no… non sto male, d… davvero… vai via… ti prego…ti… ti prego…» singhiozzai.

«Bella, amore» mi disse con calma e con voce addolorata, tendendo una mano bianca fino quasi ad accarezzarmi una guancia. «Stai perdendo sangue».

Chinai lo sguardo, fino a vedere una scia rossa di sangue lungo le mie gambe, più intensa e scura nell’interno coscia.

Singhiozzai, nauseata, tremando e sentendo le palpebre vibrare verso il basso.

Lo vidi tentare di avvicinarsi ancora, tendersi con le braccia verso di me, ma mi ritirai.

«Se vuoi ti medico io, magari non c’è bisogno di Carlisle, ti prego Bella, fatti aiutare» m’implorò, la voce intrisa di dolore.

Fu molto più difficile rispondergli questa volta. «No… non mi toccare…» piansi, riaprendo gli occhi annebbiati dalle lacrime.

«Bella…» mi chiamò ancora, addolorato.

«No…».

«Lasciami sola con lei» sollevai il capo. Fra tutte le possibili, mai avrei immaginato di sentire la sua voce.

«Sei sicura?» chiese Edward alzandosi in piedi e facendo scorrere lo sguardo, preoccupato, fra me e Rosalie.

Si scambiarono degli sguardi intensi, e capii che Edward le stava leggendo nella mente. Pssarono alcuni istanti, nei quali la mia menta vagò scivolando quasi nell’incoscienza.

Con un sospiro, infine, Edward si voltò nuovamente verso di me. «Bella?» mi chiamò.

Non risposi, e mi voltai da un lato, nascondendo il volto.

«Va bene Rose, mi raccomando».

«Si» rispose lei, e poi sentii un fruscio d’abiti e capii che era andato via.

Rosalie si accovacciò davanti a me, facendomi sussultare. Mi guardava, come se stesse tentando si scrutarmi dentro. Non sopportavo quello sguardo, cosa voleva da me? Non ci eravamo mai parlate più di tanto. Sapevo che aveva collaborato ai preparativi del matrimonio, perlopiù dietro le quinte, e i nostri rapporti si stavano solidificando negli ultimi tempi, ma… perché lei?

«Bella» mi chiamò con estrema dolcezza.

Non le risposi e rimasi con lo sguardo fisso sul pavimento, intontita e annebbiata. Fremetti. Avevo freddo.

«Bella» mi chiamò ancora. «Puoi parlare con me, Edward si è allontanato e tutti gli altri sono andati a casa. Possiamo parlare» fece una pausa e poi aggiunse «Tesoro, io ti capisco».

In quel momento compresi. Lei aveva subito la mia stessa sorte. Ecco perché Edward aveva acconsentito a lasciarmi sola con lei.

«Bella, piccola…».

In quel momento la interruppi, rispondendole. «No Rosalie, tu non capisci…».

Lei si avvicinò ancora a me, e io puntai i miei occhi nei suoi, senza timore di ferirla. «Bella, io…» cominciò a dirmi, come se mi fosse sfuggito o avessi dimenticato qualcosa.

«No, Rosalie. Tu non avevi Edward. Tu non hai tradito Emmett…».

Sollevò le sopracciglia, come se avesse intuito una verità che fino a quel momento le era rimasta celata. «Oh… Tu… ti sei concessa a lui…» prese un respiro profondo «Bella, non è colpa tua, è una cosa naturale. Anche se hai provato piacere…».

Sgranai gli occhi, sorpresa per la verità a cui era giunta. «C…cosa, piacere?!» sbraitai furibonda, riacquistando immediatamente le forze.

Lei rimase a fissarmi senza battere ciglio, immobile.

«Ho agonizzato ogni secondo, sperando di morire piuttosto che andare incontro ad una sorte del genere!!!» urlai scoppiando in lacrime.

Mi guardò confusa. «Ma allora cosa…?».

«IO l’ho ucciso Rosalie! IO!!!» singhiozzai fra le lacrime.

«Anch’io» disse lei, rimanendo impassibile.

«Tu eri un vampiro…» sussurrai, rannicchiandomi nuovamente su me stessa, stremata.

«Non cambia».

«Si invece».

Sospirò. «Bella, fatti aiutare, ti devo medicare» m’implorò.

Cominciai a singhiozzare, con la testa che mi girava. «No no ti prego, non mi toccare…».

«Bella, mi sembra che la tua situazione sia piuttosto grave» disse preoccupata, tentando di toccarmi la gamba.

Mi ritrassi. «Lasciami morire, voglio morire… ».

«Insomma» mi rimproverò con voce dura. «Sai cosa vuol dire?».

La fissai, non comprendendo le sue parole.

«Tu lo fai per Edward vero?».

Non risposi e lei incalzò. «Tutto questo lo fai per Edward, non è così?».

«Si» sussurrai, con voce flebile.

«E se tu morissi credi che lui continuerebbe a vivere? Sei tanto sciocca da pensarlo?».

Sussultai a quelle sue parole. Aveva ragione.

«Vuoi che Edward muoia?» mi chiese con voce ferma, ma questa volta, anche con dolore.

Ebbi un capogiro. «No…» mormorai.

«Lascia che io ti aiuti allora» si avvicinò con le braccia a me, ma io mi ritirai ancora.

Lei mi sorrise, lasciando le braccia a mezz’aria. «Ti prometto che ci metterò il meno possibile, cercherò di toccarti pochissimo e non ti sfiorerà nessuno oltre a me. Te lo prometto» mi disse dolce e sincera.

Lasciai pian piano che i muscoli si rilassassero e non opposi resistenza, pur tremando, quando mi prese fra le sue braccia e mi depositò dolcemente sul letto, accompagnando con le mani la mia testa, ciondolante, sul cuscino.

Vedevo la stanza traballante, i bordi confusi. La vidi scomparire un attimo dalla mia visuale, come un ombra, e poi ricomparve con delle bende, delle creme e un asciugamano bagnato in mano.

Depositò tutto sul letto, accanto a me, e mi sorrise amabilmente prima di avvicinarsi con una mano all’elastico del mio intimo.

«Vedrai, tutto si risolverà. Tutto tornerà come prima» mi disse dolcemente, come fosse una promessa.

Prima di perdere i sensi, misi una mano sul suo polso ghiacciato.

«Rosalie, non voglio vivere, voglio solo sopravvivere».

 

 

 

 

 

Ok ragazze piano, piano così ecco, deponete le asce, le mazze, i bastoni, i coltelli, gli oggetti contundenti vari ecc ecc.

Mi rendo conto che questo capitolo ha avuto un andamento… altalenante. Prima Bella che viene quasi violentata, e lì tutte con il bastone in mano; poi, arriva Edward, e tutte abbassano il bastone; poi Edward viene lanciato giù dal burrone e i bastoni si rialzano, poi Jacob muore e tutte fanno festa. Infine Bella dice la sua frase finale e tutte mi picchiano, nooo!

 

Ascoltatemi, vi prometto che sarò taaanto buona, che non è come sembra e che Edward le rimarrà sempre accanto d’ora in poi. E con accanto intendo nella stessa stanza. Poi, fra… tre capitoli le cose si sistemeranno, e per un lunghissimo periodo. Inoltre, Jacob è morto, concentratevi su questo!!!

E poi sono stata bravissima e ho postato presto! :P

 

Oh, sono rimasta molto sorpresa, a quasi tutte piace il freddo! Ohoh, che cosa strana! Beh, meglio così, vuol dire che condividete i miei gusti.

 

 

Florence guarda, le hai indovinate tutte! Innanzitutto grazie mille per tutti i complimenti poi, per le altre cose che hai detto… Non vorrei fare troppo spoiler ma direi che sono tutte esatte. Per quanto riguarda la tua domanda… la seconda, direi che in questa fan fiction vorrei essere un po’ meno, ma molto meno, distruttiva! J

_Aislinn_ Ehi mamy! Mi sei mancata tantooo! Non ammazzarti di lavoro, mi raccomando, vacci piano! Il voglio la mia mamy! Sono contenta di essere riuscita a esprimere e comunicare qualcosa anche questa volta. Ma il capitolo pov Edward sai che è piaciuto a molti? Eppure non me l’aspettavo, perché sinceramente parlando l’ho solo usato come espediente narrativo per arricchire la narrazione e sistemare i tempi, invece… beh, meglio così! J

foxina hai ragione il freddo è davvero delizioso, non credevo, ma l’avete detto tutte! Bene così allora… Si, in effetti il cane è antipatico, spero di non essere stata troppo cruenta e di essere riuscita comunque a farlo soffrire abbastanza! Edward è appena arrivato, che bello, è proprio un principe azzurro vero? J

azaz e allora non si può affatto ignorare l’effetto benefico dei miei capitoli, acci… mi sa che mi devo mettere a scrivere di filato, eh?! ^^ Hai adottato una cagnolina? Beh, io preferisco i gatti, l’ho sempre detto… No, mo, sul serio, a prescindere da Jacob, i cani sono troppo esuberanti per me, che prediligo la calma, la pace e la tranquillità… Io adoro i gatti! J Questa cosa di *eccellente* mi sta facendo morire dalle risate! Ma vedrai che periodo buio ci sarà dopo questo capitolo… Tuttavia, non disperare, perché io credo che potrebbe essere di tuo gusto… XD Praticamente ora il cane è morto, e spero che vi siate messe tutte l’anima in pace e che non mi chiediate più di farlo morire! J No la cosa che hai detto non l’ho capita, hai ragione, ci voleva l’interpretazione vocale e facciale! XD Videochiamami! XD E mi raccomando con la new entry, insegnale a leggere le mie storie così hai tempo per leggerle anche tu! No no sto scherzando, povera cagnolina… XD

mieme Grazie! Che bello, mi piace fare nuove conoscenze, stavamo quasi diventando un salottino privè! XD No, no, scherzo… E’ che qui siamo proprio come un grande famiglia! Abbiamo anche la mamma, il papà, la nonna, la piccoletta, le figlie! Proprio tutto insomma… Ok, e dopo queste mie parole, lei mi guarda in modo strano, retrocede si mette a correre e si da alla fuga… NO! Rimani quiiiiiii! Troppo tardi…

Franzeschina no!!! Non odiarmi!!! Ok, ti prometto che fra 3-4 capitoli tutto si risolverà! J Dai, infondo Jacob è morto, questo ti deve consolare no?! *.* Non odiarmi… L

cloe cullen ansia e panico è il mio secondo nome! No scherzo… In effetti l’ho già detto che Jacob non era sano di mente, ma ora è tutto risolto, via il lupo, via il dolore! ^^ Il caldo? No no, io adoro perversamente il freddo, quello pungente con i brividi… brr… che bello!

SIRYA95 sisi, l’avrei ammazzato anch’io!  ;) Ma non l’ho fatto perché mi serviva vivo e vegeto per questo capitolo in cui doveva farsi ammazzare! xD E non fare del male al povero Eddy, lui si è tantooo impegnato e adesso ha salvato la sua Bella! *.* Che bel principe azzurro, vero?! J

ale03 No no, io indiscutibilmente adoro il freddo e come dici tu, rifugiarsi sotto il piumone, davanti al camino con una cioccolata fumante… ahh… meglio il freddo! J

luisina sisi, la conosco questa musica me l’hanno fatta ascoltare proprio l’estate scorsa, mentre facevo uno stage di giornalismo! ^^ Grazie ancora e si, in effetti non posso che darti ragione, QUESTO Jacob, non è proprio quello della Meyer, ma io non lo sopporto per niente, lo detesto e non riesco a capire cere storie in cui Bella lascia Edward per Jacob!!! O.O Non si può, non si Può!!! T.T

Nessie93 Edward è arrivatoo! Ma una mezza frittata è successa lo stesso, ti prego, non piangere, mi fai sentire in colpa e poi piango tanto anch’io! T.T Non andare in crisi, ok?! Infondo il cane è morto, no? Quindi calma e un bel respiro, fra un po’ tutto si sistemerà completamente, pace!

cullengirl no, direi che dopo QUESTO capitolo ha superato il limite, ma direi che l’ha anche pagata cara! Eheh ^^ Anch’io adoro il freddo brr!!! J

hale1843 Ecco qui Eddy!! ^^ E’ arrivato, contenta?! J Bene, però Jacob direi che ha combinato qualche guaio prima di morire, eheh! Jazz, Emmy e tutta la compagnia bella, saranno con noi nei prossimi capitoli e ancora di più nei capitoli a venire!!! Quindi fra un po’ direi che staranno sempre fra i piedi, contenta? J

lullaby_4ever grazie mille! ^^ Sisi, Edward è arrivato e Jacob è morto, direi che ho esaudito tutti i tuoi desideri, vero?! J

littleSmiley Sisi, concordo con te e poi Freddo=Abracci e Coccole, quindi adoro indiscutibilmente il freddo! Jacob lo detesto anch’io sinceramente! ^^ Riguardo al desiderio di diventare madre, io direi di aspettare, si, meglio, anche se tu hai solo 22 anni non penso che questo importi se vuoi davvero bene a tua figlia, penso sia comunque la più bella cosa che ti possa capitare, vero? Credo proprio di si… Ancora auguri, a presto! J

Noemix grazie mille cuore! ^^ Beh, in realtà quando scrivo non è che so proprio precisamente quello che faccio, la sintassi, il lessico… Diciamo che vanno da se! ^^ Beh, almeno con queste cose compenso con quello che combino nei capitoli, vero?! E cmq adesso il cane è morto, quindi… Non mi uccidere… eheh Anch’io adoro il freddo, lo amo proprio, non ne posso fare a meno! Io ODIO il caldo… mamma mia, che brutto…

Wind Allora, io direi che questa cosa che è successa non è proprio irreparabile no?! E poi il cane è morto, quindi… Non c’è motivo per cui tu debba uccidermi, mi sembra già questa una sofferenza appropriata, vero? *.* Si si… :D

Hikary_a18 la penso esattamente come te sul caldo, a prescindere da Jacob, io adoro l’inverno e le vacanze invernali piuttosto che quelle estive… Il freddo è… wow! E non ti preoccupare, alla fine non è andata così male, il cane è morto e tutto andrà per il meglio, fidati di me! ^^ E non mi uccidere daiii un po’ di fiducia, andrà tutto bene. Ti posso solo dire che fra più o meno quattro capitoli i nostri protagonisti saranno contentissimi e in perfetta armonia! Ok? Fiducia!!! J

BellaJey Grazie mille! J E poi… no… io non metto suspance, che dici! Eheh, no davvero, c’è di peggio in giro! ^^

nene_cullen anche a me piace quest’equazione! E anche quella CALDO=JACOB=ODIO calza a pennello!

Lau_twilight  Sisi, Francesca cmq ^^ la brutta fine l’ha fatta, non importa il fatto che Jacob l’abbia Quasi violentata! ^^ E cmq lo stato di tristezza di Bella si protrarrà ancora per un po’ eh… e già… :D

Amalia89 J Il capitolo è arrivato, ma le circostanze… Hai detto che avresti sopportato tutto se avessi ucciso il cane? Beh, direi proprio che devi rispettare quello che mi hai detto e quindi… *.* Non uccidermi!!! Ti prego!!!   

ledyang ok, Edward arriva subito, ma Jacob a combinato tanti danni! Grazie mille cmq… J

Dan E già, come il prezzemolo! Ma a me il prezzemolo piace, quindi niente problemi! J Nono, io preferisco il freddo!!! Odio il caldo, non lo sopporto proprio per niente!!! Si anch’io non… lo preferivo, diciamo solo che in New Moon lo tolleravo… Non lo odiavo ecco, mi era solo antipatico!

__TiTtA__ bene, contenta di vedere che condividi i miei gusti. Ebbene si, Edward è arrivato!!! J Anche a me piace di più il freddo, a prescindere da vampiri e licantropi, io odio il caldo!!! E invece adorooo il freddo… i brividi… le coperte… il camino… la cioccolata calda… ahhh!

Hanairoh XD Bellissima questa storia della faccia, ogni volta mi fai morire dal ridere! XD Dai su, ora anche se tu mi vuoi uccidere, ricorda che ho fatto morire il cane, quindi non farlo, capito? Non farlo ecco si brava, deponi le armi, così, piano…. Ok. Bene. Per quanto riguarda la gravidanza… *Francesca fischietta a caso* cosa? Hai detto qualcosa… La la la, la la la… PS. Non mi uccidere! Please!!!

mazza XD Mi hai fatto morire co’ sta cosa iniziale!!! Ma io lo sapevo che non dovevo mettere gli spoiler, per questo ne ho tolti la metà di quanti non ne avevo messi! Ma la piccoletta è andata come sempre a controllare… hhh… e va bè… per la piccoletta questo ed altro… A) XD Si, ma tu non lo sai che Jacob è un demente praticamente… eh… B) Hai ragione Edward sta arrivando! Anzi è arrivato… ^^ C) Questa questione delle forza è stata esaminata due capitoli or sono… D) XD Si, è proprio un botolo fuori luogo… E) In questo momento praticamente è quando Alice ha la visione e “sente” Edward F) No, veramente in quel momento davvero stava tentando di curarla ^^ G) sisi, questo è accertato! Eheh H) Di cane XD I) si ecco adesso la sta drogando… ^^ J) Eheh direi che in questo capitolo ci siamo andati giù ancora più pesante… hhh… non mi uccidere ok? Uccidi lui!!! Vabbè, è già morto ^^ No, non mi disturba affatto la recensione chilometrica! J

Padfoot_07 Si ok, ho sbagliato alla grande, praticamente mi sono mangiata mezza Italia! ^^ Grazie mil per i complimenti, non mi fare troppo male, ho fatto quello che era giusto, la vita non è rose è fiori e poi non ci sono andata giù troppo pesante, no?! ^^ Spero che il tuo esame orale sia andato bene! J

araba89 no! Computer nuovo, sono troppo affezionata a questo! ^^ E si, in realtà sono telepatica, mi sono detta “sento che qualcuno sta pensando alla mia storia” e allora ho aggiornato! J No, non è vero, ero sono in un ritardo mostruoso… eheh… cmq, ecco Eddy! Evviva! J Contenta? Non mi ammazzare adesso…

aras1796 Bene, perché era proprio questo il mio obbiettivo! ^^ E cmq, dai, ora penso di aver esaudito i tuoi desideri di vendetta, quindi… non mi uccidere ok? Non scatenare la tua collera su di me! ^^

Bellissima Cullen ti piace Jacob sadico?Ecco beh, in questo capitolo ne ho dato libero sfogo, quindi dovrebbe essere di tuo gradimento! ^^ Ti piacciono di più i POV Edward? Mmm… si, ma sono più complessi da scrivere… ok, cmq se ti piacciono ne potrei fare qualcuno in più… E non avercela con il mio pc ^^ eheh, lui mi sta sempre a sentire anche se lo tengo acceso 14 h al giorno!!! Poretto… Io adoro il freddo, indiscutibilmente, da sempre! Anche prima di conoscere il cane!!!

barbyemarco ok, ma preferisco il condizionatore, mi sono attrezzata nel reparto notte! Io ho sempre odiato il caldo e sempre adorato il freddo, anche prima di conoscere Jacob, giuro! J

miss_cullen90 Edward torna prestissimo! Ecco qua!!! J Visto… accontentata subito!

damaristich eheh, ma voi dovete essere clementi, e poi ti ricordo che tu nella tua storia hai fatto lo stesso, quindi non dovresti avere voce in capitolo. J Tutto questo per dire:non uccidermi!!!

 

 

*SONDAGGIO*

A chi piacciono le angurie?

Non ne posso più fare a meno! Quel frutto rosso, succoso… ahh…*Q*

 

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Capitolo 28
*** Mente e corpo ***





La consapevolezza di essere sveglia arrivò pian piano, gradualmente

La consapevolezza di essere sveglia arrivò pian piano, gradualmente. Era avvolta ancora dal tepore, anche se questa volta era piacevole.

Tuttavia, tutta questo si scontrava con l’assoluta consapevolezza di tutto quello che era accaduto. Per questo non volevo aprire gli occhi, non volevo più svegliarmi. La violenza, l’omicidio…Edward… il suo sguardo sconvolto. Ero certa che non fosse stato un incubo, perché nessuna mente, neppure la più perversa avrebbe potuto pensare a delle cose così orribili.

Vidi degli occhi neri, sbarrati, che mi fissavano.

A quel punto spalancai i miei, sgomenta. Percepii la fastidiosa sensazione delle pupille che si dilatavano e si restringevano, per adattarsi alla luce. Poi, davanti ai miei occhi comparve un baldacchino di rose in ferro battuto.

Capii dove mi trovavo, in camera di Edward. Rimasi immobile, lo sguardo fisso al soffitto. Non avevo alcuna intenzione di muovermi. Stavo stesa supina, le gambe stese e leggermente aperte, le braccia lungo i fianchi. Più o meno come starebbe un morto in una bara.

Mi venne da sorridere a quel pensiero macabro, ma non ebbi il reale impulso di farlo, così non lo feci.

In quel momento ai limiti del mio campo visivo comparve un’immagine. Anche se avevo desiderio di spostare lo sguardo per guardarlo meglio, non lo feci e continuai a fissarlo di sottecchi.

Edward stava seduto su una sedia, sulla mia sinistra, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa appoggiata ai pugni chiusi. Sul viso un’espressione neutra, forse un po’ preoccupata, ma decisamente con un ombra di sollievo. Non palesemente né una né l’altra.

Mi colpì forte la sensazione dolorosa quando lo vidi, soprattutto per ciò che stavo per fare.

Mi concessi un unico movimento, inclinai il viso verso destra, dove potevo risparmiarmi quella visione sofferente. Mentre o facevo notai l’espressione di dolore di Edward, ma non potei far nulla per lenirlo, anche se faceva male anche a me vederlo così.

Solo quando un dolore acuto mi pervase mi accorsi che avevo inclinato le gambe, tuttavia non riuscii ad evitare di cacciare un gemito.

«Bella, hai dolore?» mi chiese Edward preoccupato.

Non risposi, addolorata, e stesi nuovamente le gambe, con cautela, mettendole nella posizione iniziale.

Pregai con tutta me stessa che nessuno mi avesse toccata o che almeno Rosalie avesse fatto in fretta e ringraziai il fatto di essere stata incosciente.

Mi sentivo… Usata. Sbagliata. Colpevole.

Non volevo avere nulla a che fare con quel mio corpo che mi ritrovavo, perché non volevo mi appartenesse, in alcun modo. Era macchiato, ed era stato una macchina assassina. Chi poteva volere un corpo del genere?

E la mia mente, da quella purtroppo non potevo separarmi. Ero colpevole. Perché io avevo sedotto Jacob, io avevo alimentato le sue vane speranze, io ero stata ai suoi giochi e io l’avevo ucciso. Non mi meritavo Edward, non mi meritavo nessuno dei Cullen, non mi meritavo i miei genitori né nessun altra persona al mondo.

Colpevole.

Questo ero.

«Si è svegliata?» sentii sussurrare da una voce possente.

«Ha gli occhi spalancati, a meno che non sia sonnambula penso proprio che sia sveglia» mormorò qualcun altro, sarcastico.

Le figure che parlavano, che individuai con quelle di Jasper e Emmett non erano nel mio campo visivo, ma non feci nulla, non mi mossi, né risposi.

«Un’ora e mezza» sentii dire dalla voce di Edward, probabilmente in risposta ad una domanda muta.

Era il tempo che ero sveglia? Forse. Cosa poteva importare…

Davanti ai miei occhi comparve la figura della faccia di Emmett.

«Bellina?» mi chiamò. Non risposi, rimasi immobile e muta. A quel punto mi sventolò una mano di fronte agli occhi. «Siamo sicuri che sia sveglia?» chiese infine, perplesso. Poi si rivolse di nuovo a me «Se stai tentando di imitarci sappi che non ci riuscirai tanto a lungo…».

«Lasciala stare» ringhiò Edward.

Davanti ai miei occhi ricomparve la parete della stanza di Edward.

Non volevo pensare a nulla, perché qualunque cosa pensassi i miei pensieri correvano verso cose spiacevoli che non avevo alcuna intenzione di ricordare. E così me le stavo lì, immobile, tentando di svuotare la mente e di crearci il vuoto dentro. Se non potevo liberarmi della mia mente almeno potevo far finta di non averla.

Vidi il volto dolce di Esme, chissà da quanto tempo era lì. «Tesoro, hai fame?» chiese gentile.

Continuai a fissarla senza metterla a fuoco.

«Sete?» mi chiese, quasi preoccupata.

Rimasi ancora silenziosa. Non volevo farlo, volevo rispondere che non mi andava un accidenti di nulla, ma pensai che a quel punto sarebbe stato meglio mantenere il silenzio.

«Tesoro, dovresti mangiare…» cominciò a dire, ma una voce squillante, con una vena di marcato rancore la interruppe.

«E’ inutile che insisti, non mangerà» disse Alice.

Sussultai, ma non feci altro.

«Non ti parlerà neppure» insistette con più risentimento.

«Alice» la rimproverò Edward.

Sentii un fruscio e dei movimenti, poi di nuovo il silenzio. Non volevo nulla ancora, basta. Non volevo far provare dolore ai miei cari, ma non potevo, non ce la facevo a fare qualcosa in cui… che… che richiedesse il fatto che io pensassi. Quello sarebbe stato ancor più doloroso.

Mi sembrava che nella stanza non ci fosse più nessuno. A parte Edward, ovvio, lui non aveva mai abbandonato la sua sedia. Avrei voluto tanto allungarmi verso di lui, abbracciarlo, magari solo toccarlo, ma non lo feci. Non ne ero degna.

Lasciavo che il tempo mi scorresse attorno e mi estraniai, fluttuando con la mente.

«Non so che fare, è tutto il giorno che proviamo a parlarle, non si è mossa» era la voce di Edward.

Mi accorsi che non c’era più la luce accecante che mi aveva svegliata, ora la stanza era illuminata da una luce artificiale, gialla e soffusa.

«Alice ha provato a parlare per un’ora, e anche Jasper, Edward, tutti. Non ha neppure ascoltato me» questa invece era Rosalie. La vidi, lontana, comparire nel mio campo visivo.

Non mi era affatto resa conto di tutte quelle persone che mi parlavano.

«Secondo te è catatonica?» chiese poi Edward.

«Non so, ora vediamo» rispose un’altra voce, e capii che il terzo interlocutore era Carlisle.

«Bella?» mi sentii chiamare e vidi Carlisle, seduto su una sedia esattamente di fronte a me, in modo che lo potessi osservare completamente dal busto in su. «Come ti senti?» mi chiese tranquillo.

Non risposi e allora lui si mosse sulla sedia e tese il braccio, come se volesse afferrare il polso della mano fasciata.

Ovviamente io lo ritirai, piano, alla stessa velocità con cui lui l’avvicinava, come due magneti che si respingono. Carlisle ritirò la mano, e così io misi il braccio nella posizione iniziale.

Rivolse un sorriso alla mia sinistra, Edward. «Non è in stato catatonico».

Poi si piegò ai piedi del letto e afferrò un oggetto con cui lo vidi avvicinarsi alla mia testa, mi ritrassi ancora, infastidita.

«Bella» mi disse deciso «non ti tocco, giuro». Capii dalla sua faccia che stava dicendo la verità, così lasciai andare i muscoli, contratti, e mi misi nella stessa posizione di prima.

Lui posò la punta di quell’oggetto, gentilmente, nel mio orecchio e dopo un bip lo ritrasse. «37.8, la febbre è scesa» disse, osservandolo.

Sentii un sospiro alle mie spalle.

Poi Carlisle ripose il termometro e si rivolse nuovamente a me. «Mi vuoi dire come ti senti?». Dopo qualche momento di silenzio, parlò ancora. «So che non hai parlato con nessuno, e non mi aspetto che tu lo faccia con me, ma questo non ti fa bene, Bella».

Non dissi ancora nulla.

«Non mi interessa fare discorsi con te, per ora voglio solo sapere come stai, prima che tu ti estranei ancora dal mondo».

Appunto, non ci stavo riuscendo più, e non averne il controllo mi stava dando ai nervi. Svuotare la mente non era così facile come avere il controllo del corpo.

«Bella».

La gentilezza nella sua voce mi stava infastidendo, non la sopportavo.

«Rosalie non mi ha voluto dire quasi nulla» Fui rassicurata da quelle parole. «Ma siamo tutti preoccupati per te, vorremmo sapere come stai…».

Non potei sopportare oltre quelle parole, così mi voltai. Ma dall’altra parte del letto c’era Edward, un espressione afflitta sul viso, e Rosalie, che aveva posato una mano sulla sua spalla, come per rassicurarlo. Mi voltai ancora, immediatamente, e da quei movimenti veloci potei constatare che c’erano solo loro tre nella stanza.

Mi venne la nausea, così chiusi e riaprii gli occhi, lentamente, fissando il baldacchino del letto.

Sentii Carlisle sospirare.

«Devo medicarla» disse Rosalie.

Fremetti. No. Nessuno mi doveva toccare.

«Si, va bene» rispose Carlisle.

No, non volevo, non volevo. Strinsi le braccia sul petto, nel tentativo di lenire il dolore acuto che mi stava pervadendo, imprigionandomi il respiro.

«Bella, respira» mi ordinò Carlisle «piano».

Sentivo i suoni smorzati dei miei singulti e il senso opprimente di soffocamento, la mie mani che artigliavano il lenzuolo…

«Amore, ti prego…» questa voce supplicante invece era di Edward.

«Bella» mi sentii chiamare ancora. Muovevo la testa, e vedevo i volti delle persone che mi stavano davanti, spaventate. Vidi Edward e Rosalie sulla sinistra e Carlisle, troppo vicino a me. Sui loro volti il dolore.

Piegai le ginocchia convulsamente, e sentii un dolore lanciante, lo stesso che avevo provato quella mattina, sulle cosce.

Dopo un singulto scoppiai in un pianto a dirotto, che mi consentì però di ricominciare a respirare. Nascosi il volto fra le mani, singhiozzando. Non sentivo nessun altro rumore nella stanza, nessuno osava toccarmi.

«Bella» mi disse gentile Rosalie dopo qualche minuto, quando i singhiozzi avevano cominciato a scemare. «Devi essere medicata».

Scossi la testa in segno di diniego.

«Qualcuno deve farlo» disse lei, «se non io, qualcun altro. Vuoi Carlisle? Un estraneo? Edward?».

Sobbalzai a quel nome, togliendomi le mani dalla faccia e osservando Rosalie, seduta su letto e Edward e Carlisle in piedi dietro di lei.

«Piccola, ci metterò solo cinque minuti, giuro» mi disse con un sorriso, «l’altra volta ho mantenuto la promessa, lo farò anche ora. Se ci impiego di più sei autorizzata a fermarmi, e tenterò di toccarti il meno possibile».

Vidi Carlisle che mi sorrideva, alle sue spalle, e Edward che tentava di avere un’espressione rassicurante.

Il dolore tornò, e capii che avevo mosso di nuovo le gambe. Chiusi gli occhi e serrai i denti, e man mano il dolore scomparve.

«Fa male vero?» mi chiese Rosalie, facendomi riaprire gli occhi. «Ti prometto che farà sempre meno male, ti devo medicare solo per pochi giorni».

Le lacrime minacciarono di ricadere, ma le cancellai.

«Vieni, andiamo, ti porto in bagno» mi disse Rose, tendendomi le braccia.

Esitai, titubante, poi mi sposi verso di lei e lasciai che mi estraesse dalle coperte, prendendomi con delicatezza fra le braccia e portandomi in bagno. Mi faceva male essere toccata, non volevo. Ma era necessario, una sofferenza necessaria.

Vidi che Edward era leggermente più rilassato. Mi concessi di fissarlo a lungo, per tutto il tragitto nella sua camera e alla fine lui mi rivolse un sorriso, fatto solo per me. Non aveva motivo di sorridere, eppure lo fece per tentare di donarmi felicità.

Quando Rosalie mi poggiò su lettino con un asciugamano bianca stesa sopra, mi resi conto di indossare dei pantaloncini che coprivano fin sopra il ginocchio e un maglietta con dei bottoni sul davanti, tutto di seta verde pallido.

Rose mi sfilò i pantaloni e notai un bendaggio stretto lungo tutte le gambe, tinto di rosso opaco sull’interno coscia. Cominciò a togliermi il bendaggio a velocità vampira. Dopotutto aveva solo cinque minuti. Quattro e mezzo ora.

Quando arrivò alla fine li vidi anch’io. Dei graffi dai bordi rossi, pulsanti, alcuni ancora sanguinanti che correvano sulle gambe intensificandosi sull’interno coscia. Vidi il sangue, per buona parte coagulato, di cui ero cosparsa, e mi venne la nausea.

Saltai giù dal lettino e raggiunsi il water, dove vomitai. Mi sentii subito stremata, e Rosalie mi afferrò prima che cadessi atterra. «Ti lavo, ci impiegherò qualche minuto in più, va bene?».

Annuii. Non volevo rimanere sporca di sangue.

Poi, quando fece per togliermi il resto degli indumenti lesse la titubanza nei miei occhi. «Lui è via, non leggerà nei miei pensieri».

Lasciai che mi lavasse e non mi fermai ad osservare l’acqua rossa che mi scorreva addosso.  

«Sai, lui soffre molto non sapendo come stai». Rose mi sorreggeva con un braccio, mentre con l’altra mano mi strofinava con la spugna e faceva passare il getto dell’acqua per risciacquarmi.

«Non sono brava come Alice a mascherargli i miei pensieri, ma lui ha promesso che non li leggerà, anche se la cosa lo uccide. Bella…».

Fermai le sue parole con un gesto della mano, non riuscendo più ad arginare il dolore che sentivo dentro, e lei sospirò. Mi avvolse nell’asciugamano e mi stese sul lettino, poi mi medicò. Tentai di non pensare a quello che stesse facendo e mi lasciai andare sul lettino, inerme.

Non era facile, ma resistevo. Ci aveva impiegato più di cinque minuti, dato che ora ne erano passati già sedici e trentasette secondi, ritardo dovuto soprattutto alla doccia; tuttavia la ringraziai del fatto che mi avesse toccato il meno possibile e che mi sfiorava appena con la garza, attenta a non toccarmi neppure per sbaglio con le mani.

«Finito» disse poi, quando mi mise nuovamente le bende e un nuovo pigiama, di cotone, giallo questa volta, e un po’ più corto del precedente, dato che lasciava intravedere le bende che arrivavano appena sul ginocchio.

Mi prese nuovamente fra le braccia e mi portò a letto, mi sistemò le coperte e mi diede la buonanotte.

«Buonanotte amore» disse un’altra voce, quando la porta della stanza si fu chiusa. Edward era di nuovo accanto a me.

Mi accoccolai su me stessa e, stremata, sprofondai nel buio.

Immagini terribili comparvero dinanzi ai miei occhi. Girovagavo nella foresta, e sentivo i rami, fastidiosi, sfiorarmi le braccia, toccandomi, così aumentavo il ritmo della corsa e quelli mi toccavano con più insistenza. Più aumentava la corsa, più mi sentivo toccare, più volevo sfuggire, più mi sentivo intrappolata, finché, qualcosa non mi costrinse a fermarmi.

Un cadevate giaceva al suolo, in una pozza di sangue. La carotide recisa.

Mi svegliai, seduta sul letto, ansate, sudata, urlando.

«Bella, amore, era solo un brutto sogno…» mi diceva Edward, che mi fissava preoccupato con gli occhi quasi color onice.

No, non era un brutto sogno, quella era la realtà. Ricaddi fra i cuscini, scoppiando in un pianto disperato.

Vidi la mano di Edward avvicinarsi al mio viso, tremante, con un espressione sofferente, ma poi la ritrasse, sospirando e abbassando lo sguardo.

Mi faceva malissimo vederlo così, e soprattutto mi faceva male sapere che ero io la causa di tutte le sue sofferenze, ma dato che non riuscivo più a creare un muro intorno alla mia mente (il sogno della notte ne era la testimonianza) non potevo permettere che anche la difesa costruita intorno al mio corpo cadesse.

Così piansi, disperata, finché non riuscii ad arginare le lacrime in singhiozzi asciutti e convulsi e mi rannicchiai cu me stessa, tremante, scossa da brividi freddi e sudata.

Vidi Edward, che ora rientrava perfettamente nella mia visuale, muoversi. Poi vidi la sua mano avvicinarsi e il contatto con qualcosa sul mio orecchio. Capii che mi stava misurando la febbre. Sentii il bip e mi sfregai gli occhi, per togliere le ultime lacrime intrappolate fra le ciglia.

«E’ salita di nuovo» lo sentii bisbigliare sgomento. Poi vidi il suo volto meraviglioso proprio davanti ai miei occhi. «Mi prenderò io cura di te adesso, non ti preoccupare. Ci sono io ora, siamo di nuovo insieme» mi disse gentile, abbozzando un sorriso.

Si avrei voluto dirgli. Adesso siamo di nuovo insieme. Ma non lo feci. Tuttavia, non ebbi la forza di rifiutare l’aiuto che mi offriva, così lasciai che si prendesse cura di me.

Scomparì per un attimo, poi tornò con Carlisle e Rosalie.

Mi cancellai il sudore dalla fronte, rigirandomi supina.

«Sei sicura che non ci siano infezioni, la febbre era scesa, come ha fatto a risalire, così tanto poi?» chiese Carlisle, pacato.

La voce di Rosalie invece era molto più ansiosa. «No, sono sicura… Insomma Carlisle io non sono un medico, è tutta teoria per me, non mi sembrava ci fossero infezioni, le ho anche fatto la doccia, insomma, più di così, non so che fare…».

«Bella» mi chiamò Carlisle, sporgendosi verso di me guadandomi negli occhi. «Ti bruciano le ferite, hai dei fastidi?».

Sentivo il mio stesso respiro pensante e lento nelle orecchie.

«Bella». Carlisle chiuse e riaprì gli occhi. «Ti prego, questa informazione mi serve».

Scostai lo sguardo dai suoi occhi venati di scuro e vidi il volto di Edward, dall’altro lato, che mi guardava, quasi implorante.

Non potei non far nulla.

Proprio quando Carlisle stava riaprendo bocca per implorarmi ancora scossi il capo in segno di diniego, piano, causandomi comunque un’ondata di vertigini. Questo scatenò un moto di gioia che comparve palese sul volto di Edward. Mi sentii più in pace con me stessa, così chiusi gli occhi, tentando di riposare. Era stato difficile farlo, muovermi per compiere un azione, riprendere per un attimo consciamente il controllo del mio corpo.

Poco dopo, quando ero quasi scivolata nel dormiveglia, sentii qualcosa di ghiacciato sulla fronte rovente. Spalancai gli occhi, preoccupata, ma mi sbagliavo, non era una mano, era una pezza bagnata con dell’acqua ghiacciata.

Edward mi sorrise. Sembrava decisamente più speranzoso rispetto al mio primo risveglio. Ma le sue speranze svanirono quando, dopo ore, ancora non avevo aperto bocca e non mi ero mossa dal mio posto.

Mi cambiava continuamente il panno sulla testa, di tanto in tanto mi controllava la febbre e mi diceva qualcosa, sempre attento a non sfiorarmi neppure. Quella era la cosa più difficile. Non rispondere, non toccarlo. Mi permettevo di guardarlo. Restavo a fissarlo per lunghissimi tempi, avevo deciso di potermelo concedere. E non volevo rinunciare alla sua presenza, non avevo abbastanza forza di volontà per farlo.

Credo che dopo un po’ scivolai nuovamente nel sonno perché non vidi il suo viso per un bel po’. Ma sentivo ancora qualcosa che mi teneva in contatto con lui, perché a svegliarmi furono dei mormori che provenivano dall’altro lato della porta.

Prima fra tutte sentii la voce di Edward «No, ha ancora la febbre alta, ma… Charlie, ti devo avvisare, non reagisce spesso, non vuole essere toccata e non parla… spero che magari con te si comporti in modo diverso».

«Ne dubito, se non l’ha fatto con te… Sembra che stia proprio come quando… beh sai… mi dispiace…» una pausa, dei singhiozzi. «E’ tutta colpa mia questa volta, sono stato io ad incoraggiarlo, e non sentivo quello che Bells mi diceva…» ancora singhiozzi.

«Bisogna essere forti, per lei. Non è colpa tua, Charlie, inutile compiangersi…».

La mia mente fu ancora annebbiata qualche istante, poi vidi comparire il volto di mio padre davanti ai miei occhi.

«Bells» mi chiamò.

I suoi occhi erano gonfi e rossi per il pianto.

«Piccola, piccola mia, cosa… Cosa ti ha fatto…» disse come una nenia.

Rimasi imperturbabile mentre Edward mi cambiava il panno, ormai caldo, sulla fronte. I miei occhi rimasero semichiusi.

Probabilmente mio padre restò lì ancora a lungo, poi non lo vidi più. Al suo posto c’era Esme.

«Tesoro, ti ho preparato qualcosa da mangiare» mi disse gentile.

Mi dispiaceva vederla così affranta.

«Bella, dovresti mangiare, sei molto debole» incalzò la voce di Carlisle, con la stessa gentilezza.

Mi su un fianco, per non leggere la tristezza negli occhi di quella che consideravo come una madre.

«Amore» mi disse Edward guardandomi intensamente «mangia qualcosa».

Chiusi gli occhi e mi strinsi al cuscino, sentendo le guance rigarsi di lacrime.

«Cosa facciamo?» chiese poi.

Rispose Carlisle. «Non la posso obbligare».

Il tepore mi avvolse nuovamente, sospendendomi nell’annebbiamento. A farmi compagnia il mio respiro lento sul cuscino.

Mancava qualcosa. Qualcosa che non consideravo, ma che quando non c’era si faceva sentire. Non avvertivo il profumo di Edward vicino al mio viso, né il suono della sua voce che mi sussurrava dolci parole nell’orecchio.

Non poteva essere andato via.

Mi sollevai, fino a mettermi seduta, e il panno che avevo ancora in fronte cadde sulla coperta. Mi guardai intorno. C’era Esme, Carlisle e Rosalie. Nessuna traccia di Edward.

Non poteva avermi lasciata sola.

Sentii le lacrime scendere automaticamente, silenziose dai miei occhi.

«Bella?» mi chiamò Esme, preoccupata.

Singhiozzai, guardandomi ancora attorno alla sua disperata ricerca.

Vedevo i volti dei presenti osservarmi preoccupati. Volevo Edward.

I singhiozzi si fecero più ravvicinati.

La porta della stanza si spalancò e lui entrò. «Tesoro, sono qui».

Mi asciugai le lacrime, tirando su col naso. Tutti ci guardarono sollevati, e uscirono man mano dalla stanza, lasciandoci soli.

«Dai su, riposa, mettiti giù» mi disse dolce Edward, avvicinandosi a me.

Mi stesi nuovamente fra i cuscini e lui mi sistemò la coperta, rimettendomi il panno bagnato in fronte.

«Scusami, non volevo lasciarti sola, non me ne andrò più, promesso» disse guardandomi negli occhi.

Annuii, poi li chiusi.

 

Ragazze, io sono stata non brava, non bravissima, stupenda!!! Ma chi ve li fa tanti aggiornamenti così ravvicinati?! u.u

Ok, ora sto esagerando un po’ :P

Però dai ragazze mie, scuotetevi un pochino che mi sembrate tutte addormentate per via del caldo… Poi, nessuno aggiorna, è.é

E io guardate… grr… Mi innervosisco in questi casi… Ma insomma, dove siete finite???!

L’ultima volta non ci sono stati neppure abbastanza istinti omicidi… Ma che state a fa? Jacob vi a distribuito dosi industriali di valium e lexotan???!

-.- Ragazze, Svegliaaaa!

Vi voglio belle allegre e determinate, pronte e uccidere, anche me se necessario, oppure vi devo scuotere io, che dite??!

 

Vabbè, nel prossimo capitolo giuro che mi vendico se non vi mettete in questo stesso istante a scrivere le vostre storie, come tanti topini bianchi da laboratorio, capito???

Ne faccio accadere di tutti i colori, le peggiori cose… u.u

 

Nel prossimo capitolo ne accadranno davvero di tutti i colori, ma questo è scontato, ma se non fate le brave sarò ancora più cattiva! =P

 

patu4ever nono uccidermi, no!!! :P Dai su, che c’è stato il bel colpo di scena… eheh dai!! *.* E poi come dici tu, il cane è morto, dunque no problem! E poi tu non guardare il cavillo, anche se questi capitoli sono un po’ tristi pensa positivo, quando sarai tornata avrai letto quello in cui si risolve tutto e quindi sarà meglio, ma non posso lasciare queste qui che stanno ancora a leggermi in assoluta agonia! Sarei troppo crudele! J

azaz ahah, davvero spero potrai sistemare presto questa cagnolina e magari riuscire a farla stare un po’ tranquilla, eh? Che ne dici? Si, con quella cosa di “eccellente” sono morta dal ridere… Anche se non so come sei fatta mi ti immaginavo con tanto di dita e sguardo malefico! XD Ti è piaciuto il capitolo?! Sono contenta, si, insomma, era proprio il capitolo perno di tutta la storia, si trova anche più o meno a metà… Non te l’aspettavi che fosse Bella a farlo, vero?! Eheh, con Edward sarebbe stato troppo banale, e poi così, hai ragione tu, Bella ne è uscita proprio male… Ecco ora mi aspetto di sentire un “eccellente” da qualche parte… XD Spero che questo capitolo ti sia piaciuto, ma ti dico solo una cosa, il prossimo sarà ancora meglio!!! *.* Vedrai… sarà davvero da leccarsi i baffi, spero che dirai davvero tanti “eccellente” perché se li merita tutti!!! Muahahah, mamma mia, come siamo sadiche! XD

_Aislinn_ Ohh! Finalmente qualcuno che ha notato che in realtà Rose non ha ancora concluso niente!! Allora qualcosa valgo scrittrice! *.* Oppure sei tu che sei una lettrice perspicace! XD Si, comunque si riprenderà fra poco, promesso… J Speriamo che io non ti abbia tolto qualche anno o.O Perché mi servi bella fresca per leggere i miei capitoliiii! XD

_Kiarina Cullen_ ^^ Grazie mille! Sono contenta di sapere che ci sia qualcuno che non nutre istinti omicidi nei miei confronti! XD Beh, questa depressione durerà un po’, ma l’importante è che rimane un punto fisso: Bella ama Edward e fa questo perché lo ama! J

samara28 sisi, non attirerà disgrazie ancora per un bel po’ XD Le Angurie e il Freddo? Perché non le angurie fresche di frigo dopo un bagno a mare allora! XD La cosa di tua madre e del mocio mi ha fatto morire dalle risate!!! Anch’io adoro il freddo, infatti anche d’inverno me ne esco sul balcone per farmi venire i brividi!!! Che bello! *.*

mieme Nono, non mi sguinzagliare proprio i cani! I gatti, i criceti, o i koala, basta che non mi chiami i cani eh?! E poi, dai, la reazione di Bella è comprensibile. Ha ucciso una persona ed è quasi stata violentata… insomma, non è una cosa da tutti i giorni eh! ^^ Dai, tutto si risolverà presto, non abbandonarmi! XD

hale1843 Sisi Jake è… hhh… però io preferisco Carlisle hhh Carlisle… ha il fascinoso fascino da medico! E col camice è da sbav *Q* Visto Rose che dolce? Ma nei prossimi capitoli lo sarà ancora di più! E poi c’è anche Eddy… Sempre presenteeee!!! J

littleSmiley Povera bambina, ma tu pensi che capisce quello che leggi? Speriamo di no, altrimenti penso che adesso sarà traumatizzata! Quante pagine ho scritto? Sette. Di solito ne scrivo sei, quella è la media diciamo… Mi raccomando, calma, credo che dovrei aggiungere un avviso prima di ogni capitolo perché non vorrei farti partorire prima del tempo, sai?! Eheh… J

Noemix grazie!!! *.* Sapere che non hai mai pensato a bastonarmi, a parte un trascurabile possibile proiettile conficcato in un polmone con successivo collasso e morte, mi ha molto rassicurato! ^^ Sono contenta che tu capisca la reazione di Bella, cioè, a me, anche se stanno accadendo tutte queste cose, dico, a me, piace. Non sono pazza, no. Mi piace! Anche se… beh… Eddino c’è comunque no?! J

cullengirl sisi in effetti Rosalie è l’unica che potrebbe aiutarla! E tu trascura la violenza, e pensa piuttosto al cane. Che è morto. Morto. Morto. Morto. Imprimilo bene bene nella mente e non te ne dimenticare!!! J Si, in effetti sono una golosona! ^^ Ma che ci posso fare se mi piacciono le angurieeee!

Franzeschina come la caccia alle streghe! O.O Menomale che non mi odiiii! *.* E edponi quella mazza chiodata, te l’ho detto già l’altra volta, fra due capitoli più o meno tutto sarà risolto, lo giurooooo! ^^ Basta che nel frattempo non mi bruci al rogo! eheh

SIRYA95 Grazie mille! ^^ Menomale che sei giovane, se no chissà quanti infarti ti sarebbero venuti! Sai, io non sono sadica (beh non nei confronti delle lettici ^^), ma sono contenta che tu abbia sofferto mentre leggevi. Significa che ho adempito al mio compito! Ma non sarei mai potuta… ecco si… andare fino infondo direi! Dovevi avere più fiducia in me. E’ vero Edward non sarebbe potuto morire, ma Bella era sconvolta, insomma, è volato giù nel burrone!!! Sono contenta tu abbia apprezzato la reazione di Bella, e pensavo che mi avresti uccisa per questo fato che non vuole essere toccata invece l’hai presa bene! ^^

Bellissima Cullen non ti preoccupare, avrai altri con cui prendertela! ^^ E poi adesso Edward sarà sempre presente d’ora in poi, quindi… don’t worry. Ti è piaciuta la parte con Rose? Eheh, ma adesso… beh, anche con Rose ci sono un po’ di problemi. E per l’anguria: no! Anche tu togli i semini!!!

Wind XD mi hai fatta morire di risate. Allora, per la cavalleria solitaria la spiegazione c’è, e per Bella che pensa che Edward è morto, tieni conto che Bella era sotto shock. XD E Rosalie… si… XD Mamma mia, ogni volta che rileggo quello che hai scritto muoio di risate! Intanto il cane è morto, alè, alleluia! J

Padfoot_07 E già si, l’intento era proprio quello, farvi andare sulle montagne russe! ^^ A parte tutto, il giubilo e l’istinto omicida ecc… sono contenta ti sia piaciuta la reazione di Bella. Si insomma, se l’avesse ucciso Edward sarebbe stato troppo scontato, invece Edward lo mena e Bella gli da il colpo di grazia. Meglio, no? Non tolleri i semi eh? mmm vedrò di eliminarli, come ho fatto con Jacob. è.é

lullaby_4ever eh già povera Bella, ma anche povero Edward! E secondo me le angurie non sono solo il frutto più buono dell’estate, ma anche dell’anno! J

Cristy97 no, non ti preoccupare, ho letto lo stesso! ^^ Ma lo sai che anch’io ho sempre le mani e i piedi freddi? Mio nonno mi diceva sempre “freddo alle mani, caldo al cuore”. Già, ma io rimango sempre un pezzo di ghiaccio! Scusami se ho scritto un capitolo troppo struggente! :P E mi dispiace anche di aver fatto quello che ho fatto ma ormai l’ho scritto e pensa che le poteva andare peggio. J

Nessie93 Come togli tutti i semi? No, no, ma davvero dici?! o.O Che pazienza, davvero! E che hai combinato, eh? è.é Sei andata a leggere la fine… questa te la faccio pagare, ancora non so come, ma te la faccio pagare!!! Vabbè dai sarò clemente, giusto perché mi hai invitato alla festa hawaiana, solo se balla anche il cane con il gonnellino però! E’ vero, Edward teoricamente non poteva morire, ma tieni conto che la poverina era sotto shock… eheh No, non credo che medicandola si possa accorgere che è incinta, no davvero ^^ E cmq si, Edward c’era al suo risveglio… certo, è stata una cosa un po’ sui generis, ma… l’importante che c’era!!!

luisina No che non ti voglio male tesoro, io ti voglio un sacco bene!!! Beh, si, ho tentato di non particolareggiare troppo e soprattutto mi sono dimenticata di mettere all’inizio un avviso per gli stomaci delicati? Che dici, lo scorso capitolo era da raiting rosso?

foxina è già diciamo che è un principe azzurro un po’… “sui generis” và… J In effetti si, è un concentrato di emozioni. “la uccido o non la uccido, la uccido o non lo uccido?” avete pensato tutte questo verooo? Povera me! T.T E beh si in effetti ora sia Bella che Edward stanno soffrendo parecchio, ma… con l’aiuto di Rosalie… in parte ma soprattutto con la forza di volontà di Bella, tutto si sistemerà! ^^ C’è ancora qualche tuo neurone che sta leggendo cosa scrivo? Eh no eh, non farmi scherzi, ti voglio fresca e pimpante! J

BellaJey E’ vero le angurie sono dolci, buone, fresche e succose! *Q* Visto? Bella lo ha fatto fuori. Fatto bene no? Si, in effetti penso che parecchie avrebbero voluto uccidermi mentre… ma poi la pioggia di vetro, il rumore e bum! Edward torna, Bella reagisce e il cane muore. Eheh ^^

damaristich si, le passerà. Presto. Beh relativamente. Ma le passerà J E si, io mi premuro sempre di trasmettere attacchi di panico alle persone u.u No no, scherzo, sono contenta di essere riuscita a comunicarvi qualcosa, davvero! *.*

mazza A) L’ha usato meglio dopo! Eheh B) Appunto, no comment, era il cane, era scemo… C) Corretto, grazie di avermelo detto!  D) Si che schifo, era per aumentare la ripugnanza! Bleah… E) Povera, no dai, non rimanere sconvolta! Poveretta! F) No Povera povera piccoletta!!! >.< G) Appunto, fai bene! Ma no dai, sorridi pure!!!H) XD XD Ok dai, penso si sia preoccupata abbastanza, infondo il suo unico pensiero era Edward in quel momento! ^^ I) Emm… calma mazza, respira a fondo, segui il mio respiro. Inspira. Espira. Piano. J) Sisi è morto non ti preoccupare, non stai sognando!!! J J J K) No piccola povera non piangere piccina… L) Piccina!!! Adesso mi fai piangere tu! Te lo do io un bel bacino virtuale, ecco qui, smack :* Dai su Edward non è morto, Bella ha reagito e poi i dialoghi finali sentimentali… non mi uccidi vero? *.*

araba89 e si, mi avevano chiesto di avvisare quando avrei postato, ma purtroppo non lo posso fare ogni volta, perché scrivo i capitoli man mano, quindi… Si, esattamente hai previsto cosa sta accadendo! Edward che sta lì a mangiarsi le unghie e Bella che si sente indegna e soprattutto sente la colpa per l’omicidio… hhh…

__TiTtA__ che tempismo vero? E già… beh, un po’ prima poteva arrivare sai, ma meglio accontentarsi di quello che si ha. Ebbene, Edward è rimasto accanto a lei, non l’ha abbandonata nonostante lei non lo voglia… E poi c’è Rosalie dai, e tutto si sistemerà presto! ^^ E i guai non avranno fine! ;)

miss_cullen90 Già si, non ti preoccupare! Dai, anche se ora il clima è un po’ particolare tutto si sistema prestissimo! J E poi c’è la cara Rose… E Edward sempre in giro… Che bello no? J

Hanairoh E invece no! Visto che bel regalino? Che aggiornamento a tempo di record che ho fatto l’ultima volta? Sono stata brava, no? :D Sisi, concordo anch’io lo scorso capitolo è stato molto… avvincente, uno dei migliori della storia. Per me è il… quarto più o meno in lista… Si, sullo stupro o tentato stupro J Ho lasciato appositamente un’ombra di dubbio, perché mi serve come espediente narrativo! ^^ E anche un’altra cosa che hai detto dopo mi serve come espediente narrativo! Ma tu mi sgomini tutti i trucchi? L Ma come sei perspicace cara… Bello come reagisce vero? Sinceramente quella parte l’ho scritta qualche mese fa, quand’ero un po’ ispirata sulla vendetta, quindi… diciamo che l’ho “applicata”. Eheh…

lisa76 nono, XD Oddio, ogni volta faccio star male qualcuno qui… Non piangete! Fra un po’ tutto si

sistemerà, dopo la pioggia viene sempre il sole! ^^

Lau_twilight  E’ uguale, non mi cambia nulla, te l’ho detto solo per informazione ^^ Keska o Francesa mi è indifferente. Già Rosalie è stata davvero unica vero? Beh, mi sembrava la più adatta per… insomma, l’affinità con il problema… Bella è stata coraggiosissima, ma questo… eh, questo ha comportato un grande dolore in lei. Togliere una vita non è mai una cosa piacevole, anzi…

cloe cullen ok, la mail di delirio l’ho letta in ritardo quindi… XD Non ti preoccupare… per il ps… si. Vedrai cosa accadrà… eheh… Si è vero, anche Bella avrebbe dovuto pensare che Edward non sarebbe morto, questo dovevo scriverlo acci… ma era troppo scossa per fare pensieri coerenti cmq, quindi… E Bella si riprenderà presto… eh, diciamo, narrativamente presto dalla batosta dai…

ledyang XD No, non l’hai violentata, non… nel senso stretto del termine ecco… Ti prometto, anzi no, ti giuro, che i vecchi capitoli, torneranno prestissimo e anche per un tempo più lungo questa volta. Contenta?

 

*SONDAGGIO*

Chi di voi strozzerebbe chi se ne è andato in vacanza?

Io, sto qui a cosuccia mia, il fatto che il mare mi sta praticamente incollato è un dettaglio u.u

 

Ahh ragazze, una cosetta, nel prossimo capitolo metterò una mia foto. Non perché sono bella, non perché sono una modella, ma perché mi piace il contatto visivo con le persone! J

Ovviamente poi voi, chi vuole, dovrebbe mandarmi una mail con la sua foto! *.* Lo farete, vero?! *.*

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Capitolo 29
*** Dolore ***





Buio, buio, buio, buio

Buio, buio, buio, buio. Riaprii gli occhi e vidi Rosalie che mi fissava apprensiva.

«Hai riaperto gli occhi finalmente» disse con lo stesso tono dimesso che ormai tutti usavano con me «ho già finito, volevo solo informarti che ti sto prendendo in braccio, non vorrei spaventarti».

Non mi mossi, non battei ciglio.

Rosalie si avvicinò con il suo viso al mio. «Ehi» mi chiamò, dolcemente. «Ti riporto da Edward, va bene?».

A sentire quel nome mi riscossi un attimo dal mio torpore e battei le ciglia piano in segno d’assenso.

Lei mi sorrise. Non sapevo quanto tempo fosse passato dal mio ritorno a casa, forse una settimana, ma ormai riconosceva bene e facilmente i segnali che le inviavo. Mi prese fra le braccia, attenta ad entrare in contatto con me il meno possibile, ma quel movimento mi causò un’ondata di nausea.

Emisi un piccolo gemito, e lei capì. Mi lasciò andare e io corsi al gabinetto a vomitare. Nello stomaco avevo solo succhi gastrici, che mi corrodevano la gola. Non mangiavo più nulla.

Rose mi riportò nella camera da letto di Edward. Ringraziai che non mi avessero portata a casa mia. Lì sarebbe decisamente stato tutto più difficile.

«Ehi amore» mi chiamò Edward quando mi vide, sorridendo debolmente. Mi sembrava più pallido del solito, anche se la sua pelle risplendeva debolmente sotto la luce del sole mattutino.

Mi lasciai andare sul letto e mi feci sistemare le coperte da Edward, che si muoveva sempre attento ai miei spazi. Non avevo così tanto bisogno di stare a letto se non fosse stato per due motivi principali. Primo, ero stanchissima, mi sentivo sempre più spossata. Secondo camminare, o stare in piedi, avrebbe comunque significato compiere una qualche azione intenzionale. Cosa che non avevo la minima intenzione di fare se non in caso strettamente necessario.

Carlisle si avvicinò a me con la flebo in mano. Avevo rifiutato ogni genere di cibo, quindi quella era stata l’unica possibile soluzione. La mia mano era già posata sul copriletto, così, senza toccarmi, infilò delicatamente l’ago sottopelle. Solitamente, prima che accadesse tutto quello che era successo, quella era una cosa che non avrei mai fatto. Stare a guardare. Ora per me era vitale.

«Ha vomitato ancora» disse Rosalie.

Carlisle si voltò verso di lei con uno sguardo sconsolato. «Credo sia l’ansia e lo stress Rosalie, per ora è inutile preoccuparsi anche di questo. Tentiamo di convincerla a mangiare piuttosto…».

Ero abituata a sentirli parlare in terza persona di me. Erano così poche ormai la volte in cui rispondevo in qualche modo alle loro parole, o quantomeno mi accorgevo che lo stessero facendo, che ormai consideravano inutile parlarmi. Tranne Edward e Rosalie ovviamente. Per lei era necessario, per Edward… beh, lui non aveva ancora perso la speranza.

Sentii le mie palpebre farsi pesanti così mi abbandonai al sonno.

Mi svegliai come sempre sudata e con il fiato corto. Respirai pesantemente e a lungo finché non mi calmai. Almeno da un po’ di giorni non avevo più la febbre.

Sentii un fruscio e m’immobilizzai, terrorizzata. Solo dopo capii essere Edward. Deglutii spaventata.

«Scusa amore, scusami se ti ho spaventata» disse Edward al mio orecchio.

Quello era un altro problema. Sentire presenze che si muovevano nella mia stanza mi ricordava troppo la mia prigionia. Infatti Edward, notandolo, aveva ordinato a tutti di entrare nella mia stanza in maniera normale, e solo se fosse stato necessario.

Le mie giornate andavano avanti fra lacrime silenziose, incubi, e lunghi momenti bui. Non chiedevo nulla. Solo avere Edward accanto. Quella era una concessione che facevo sia a me che a lui. L’unica.

«Bella?».

Tentai di individuare quale fosse l’origine di quella voce gentile.

«Bella tesoro, sono qui».

Forse era mia madre. Anche lei era venuta a trovarmi, me l’aveva detto Edward in un momento di lucidità. Avevo accennato qualcosa che somigliava a un sorriso e lui ne era stato davvero felice, ma poi tutto era ritornato come prima.

La voce mi ricosse ancora dai miei pensieri. «Bella, guarda, ti ho portato da mangiare». Era Esme. Con lo sguardo mi indicò il vassoio che aveva fra le mani. C’era del brodo. Forse. «E’ squisito, te l’assicuro. Te l’ho preparato io, proprio come piaceva sempre a te, sai…» disse abbassando lo sguardo.

Vedevo che soffriva. Lo vedevo, ma non ci potevo fare nulla. Per quale triste motivo la lucidità era arrivata proprio in quel momento? Così era più difficile dire di no.

«Dai Bella, assaggialo almeno, solo un po’» mi disse con sguardo gentile.

La fissai, ricambiando il suo sguardo. Sentivo altre paia di occhi su di me.

«Solo un po’» disse avvicinando un cucchiaio mezzo pieno di brodo al mio volto.

Il deja vu mi colpì forte, molto forte. Sgranai gli occhi, mentre il respiro si faceva sempre più veloce. Jacob che mi costringeva a mangiare. La sua mano sulla mia bocca, che mi forzava. Il rumore dell’acciaio contro i denti. I miei gemiti di protesta. Il brodo caldo il gola. I suoi occhi. Le sue parole. La sua forza.

L’impotenza.

Dolore.

Senso di prigionia.

«NO!» urlai, sbattendo il vassoio contro il muro, che si ruppe con un suono terribilmente familiare. Sobbalzai, ansimando.

Vidi gli sguardi preoccupati di tutti gli altri vampiri che erano accorsi in camera attirati dal frastuono. Nessuno parlava. Jasper, Emmett, Carlisle, Rosalie. Alice. Edward. Ogni sguardo era una pugnalata al cuore. Nessuno riusciva a capacitarsi di quello che era successo. Neppure Edward.

Vidi Esme, che mi fissava sgomenta, impietrita sul suo posto. Se avesse potuto avrebbe pianto.

Non volevo, non volevo davvero farlo.

Sentii un singhiozzo squarciarmi il petto e gli occhi mi si riempirono di lacrime e ricaddi fra i cuscini, nascondendomi il volto e continuando a singhiozzare pesantemente.

Ero un mostro.

I loro sguardi, loro… loro non mi comprendevano… Ma io non mi comportavo in maniera assurda, non sapevo come fare, non ce la potevo più fare.

Oramai ero sprofondata in un abisso buio, e l’unica flebile luce che riusciva ancora a riscaldarmi tiepidamente non poteva riportarmi in vita. Avevo fatto la mia scelta molto prima di averla davvero fatta consapevolmente. Non potevo più tornare indietro, quello era un biglietto di sola andata per l’inferno.

Scivolai in un agitato dormiveglia. Ero stanca, spossata, e con un gran mal di testa. Non volevo più pensare. Basta.

«Bella amore» mi sentii chiamare dal fondo del mio stagno. «Bella».

Aprii gli occhi e vidi Edward. Non appena si accorse che ero sveglia mi sorrise.

«Amore, ci hai fatto preoccupare, siamo stati molto in pena per te. Non smettevi più di piangere e…» vedevo la sofferenza che aveva provato sul suo volto. «Poi ti sei addormentata ma…» abbassò lo sguardo «Ero preoccupato, ecco».

Presi un profondo respiro e mi asciugai le lacrime che avevo sulle guance. Avevano continuato a scendere anche nel sonno.

Lui mi sorrise.

Basta, mi ero concessa anche troppo. Ricambiai il suo sguardo e mi girai su un fianco, mettendomi in posizione fetale e lasciandomi nuovamente andare alla deriva.

Tempo dopo, non so quando, quando riacquisii lucidità, Carlisle venne da me per cambiarmi la flebo. Vidi il suo sguardo preoccupato e decisamente contrariato, e la sua mano che infilava l’ago sottopelle.

«Secondo te perché non reagisce?» chiese Rosalie.

Carlisle si voltò verso di lei. «Non lo so, non è mai successo. Non si è mai comportata in questo modo, lei odia gli aghi… Non so più nulla Rose» disse afflitto, andandosene.

Sospirai, chiusi gli occhi e mi voltai. Edward, al suo solito posto, sulla sinistra, mi sorrise. Inutile tentare di evadere. Chiusi gli occhi, anche se non riuscii ad addormentarmi e mi lasciai trasportare nel buio, sforzandomi di non pensare.

«Ehi Bella? Dai su, hai dormito abbastanza. Dobbiamo andare di là…» era Rosalie. Anche se non avevo riconosciuto la voce, ero certa fosse lei. Era lei che mi diceva quelle cose. Impossibile che fosse nuovamente arrivato il momento della medicazione.

Scostai il viso da un lato, infastidita.

«Dai su, non fare i capricci Bella, forza».

Aprii gli occhi e mi feci scivolare fra le sue braccia. Era inutile opporre resistenza. Dovevo solo sopportare.

«Ti aspetto qui amore» mi promise Edward. Sapevo che nel frattempo si sarebbe allontanato, lo faceva sempre.

Come al solito, quello fu il momento della giornata che durò più a lungo. Se durante tutto il tempo che trascorrevo a letto mi sembrava che tutto intorno mi sfuggisse, in quegli istanti, quei pochi istanti… cinque minuti. Riuscii a resistere cinque minuti e fui grata a Rose, perché, come sempre, non ci impiegò un istante in più.

Quando mi riportò a letto, come promesso, Edward era lì per me. Mi sistemò la coperta, come faceva ogni volta, e si sedette sul letto.

Sulla destra.

Sussultai, ma non dissi nulla. Maledetta lucidità.

«Amore» cominciò a dire, come per controllare che lo stessi ascoltando. Mi dovette considerare piuttosto attiva, perché continuò, determinato «Bella, non possiamo andare avanti così. Tu, non puoi andare avanti così» era estremamente serio, ma anche molto dolce «io… ti ho dato del tempo, ma niente è cambiato. Tu non mi parli, anzi non parli, con nessuno. Non ti muovi se non è necessario, non mangi, non fai nulla…» la voce si spezzò per il dolore che non era riuscito a contenere.

Sussultai. Perché non riuscivo a rimanere indifferente a quelle parole, perché? Non volevo vederlo soffrire a causa mia, non potevo sopportarlo.

«Scusa» mi disse, prendendo un grosso respiro, e passandosi una mano fra i capelli ramati, per calmarsi, poi riprese «Io… voglio solo che tu stia bene, solo la tua felicità. Ma… Le cose non cambiano» mi fissò intensamente, e mi accorsi di come i suoi occhi si facevano sempre più neri «Tu stai sempre qui e… Non cambia nulla. Lo so che quello che è successo è orribile, lo so. E se potessi, se davvero ci fosse una possibilità, farei qualunque cosa per cancellarlo. Ma non posso» mi disse addolorato «e adesso voglio che tu ti riprenda la tua vita. La nostra vita».

Sentii gli occhi inumidirsi e lottai con tutta me stessa per non piangere, stringendo il lenzuolo nei pugni. Non dovevo, non potevo cedere. Non ero degna dell’amore incondizionato che Edward mi donava.

Si avvicinò ancora, come a toccarmi, ma poi ritrasse la mano. «Io… voglio solo aiutarti. Ti prego, concedimi di aiutarti».

Presi un grosso respiro, distogliendo lo sguardo, e riuscii ad acquietare la tempesta che imperversava dentro di me.

Si rimise al suo posto, sedendosi composto sul bordo del letto. «Bella» mi richiamò ancora, con un tono più sereno. «Ti ricordi cosa mi hai chiesto quella mattina, la nostra ultima mattina felice insieme?».

Rabbrividii e mi voltai verso Edward, con gli occhi lucidi e le labbra tremanti.

Lui continuò, con dolcezza. «Mi hai detto “fidati di me”».

Deglutii. Lo ricordavo perfettamente.

«E ricordi cosa ti ho risposto?».

“Si, mi fido. Non mettere mai in dubbio la fiducia che ripongo in te, amore.” Queste erano le sue parole. Le pensai, ma non le dissi.

«Ho detto che mi fidavo di te, e io mi fido ancora ciecamente di te, ma…» abbassò lo sguardo, per poi risollevarlo con rinnovata determinazione. «Vorrei solo che tu riponessi la stessa fiducia in me».

Sapevo che non ce l’avrei ancora fatta. Vacillavo, sarei crollata di lì a poco. Il magone, che mi stringeva la gola quasi soffocandomi, voleva trovare libero sfogo nella lacrime.

Forse, davvero, quella poteva essere la mia possibilità…

Prima ancora di riuscire a formulare l’intero pensiero, mi colpì prepotentemente un pugno in pancia e presa da un forte conato di vomito corsi in bagno.

«Rose!» esclamò Edward, venendomi dietro.

Subito lei comparve al mio fianco, tenendomi i capelli.

Mi accasciai sul pavimento freddo, divincolandomi dalla sua presa e concedendo alle lacrime, che tanto avevo trattenuto, di scendere lungo le mie guance.

Sentii la porta del bagno chiudersi delicatamente e capii che era andato via, portando con sé una profonda scia di dolore e desolazione.

Meglio così, non avevo ceduto. A che prezzo vendevo la mia anima? Al più alto possibile, non vi era nessun altro possibile scotto.

«Bella » mi chiamò Rosalie. «Stai soffrendo e stai facendo soffrire anche lui. Perché ti comporti così, quando la soluzione c’è, e tutti noi te la stiamo offrendo?! Sei solo tu che la rifiuti…».

Mi voltai di scatto, guardandola furibonda. No, non era così. Non c’era nessuna soluzione per me. Nulla poteva redimermi dai miei peccati indelebili.

Mi sollevai in piedi e ignorai le braccia tese di Rose, che mi fissò con uno sguardo sorpreso e desolato. Entrai in camera e mi stesi sul letto, tirando su di me le coperte.

Edward non c’era. Mi colpì come una potentissima pugnalata. Me lo meritavo. Starmi accanto lo faceva solo soffrire di più e io non potevo davvero essere così egoista da volerlo ancora vicino, anche se questo avrebbe significato la più nera e profonda agonia.

Rosalie era uscita dalla stanza, quindi ero sola. Presi un grosso respiro. Sola, per poco.

La porta della stanza si aprì, ma non potevo affatto immaginare chi ci sarebbe passato. Alice. Non era mai venuta da me, e le poche volte che l’avevo vista, mi aveva guardato con uno sguardo di fuoco che mai aveva usato nei miei confronti. Lo stesso che aveva in questo momento.

Non ne capivo il perché, e soffermarmi con il pensiero per tentare di scoprirlo si sarebbe sicuramente rivelato troppo doloroso, più di quanto già non era.

«Bella» la sua voce era carica di risentimento.

Tentai di non badarci.

«Ora basta» disse dura. «Che cosa stai combinando?! Cosa speri di ottenere con questo tuo modo di fare, me lo spieghi?! Non vedo più il tuo futuro, tutto è scomparso, te ne vuoi solo stare qui a compatirti!!!».

Il suo tono duro e aspro mi fece sussultare. Nessuno mi aveva parlato così.

«Oh scusami, scusa» disse con amaro sarcasmo «ti ho spaventata?!». Si avvicinò a me, fino a trovarsi con il viso a pochi centimetri dal mio. «Devi reagire. Reagisci!!!» urlò.

Fremetti, spaventata. Somigliava davvero a un vampiro e mi faceva male sentir parlare mia sorella così.

Si allontanò da me, velocemente, e ricomparve in piedi accanto al letto. Tutti gli altri vampiri entrarono nella stanza. Tutti, tranne Edward.

«Lo stai facendo soffrire, non capisci?! Questa è solo sofferenza immotivata!!!» mi urlò, i pugni serrati lungo i fianchi.

«Alice…» la richiamò Carlisle.

Lei lo ignorò completamente. «Non puoi più comportarti così, basta, scendi da questo letto!» disse camminando verso di me, come per afferrarmi e farmi alzare.

Mi ritrassi, rannicchiandomi su me stessa.

«Oh scusa» sibilò infuriata «Non vuoi che ti tocchi, bene…» disse, comparendo sull’altro fianco del letto. «Non ti toccherò, ma tu devi scendere da questo letto. BASTA!».

«Alice» la richiamò con più forza Jasper.

La fissavo terrorizzata, intimorita dal suo comportamento così duro nei miei confronti.

Ignorando suo marito, prese le mie coperte e le tirò finché non caddi sul pavimento con un tonfo sordo.

Jasper la afferrò per la vita, trattenendola e bloccandola, mentre lei scalciava a vuoto, in aria.

«Reagisci, devi reagire!» urlava, furiosa.

I suoi occhi avevano un espressione folle, mai vista. Ma una scia, che prima non avevo notato, ma ben visibile sotto la rabbia, urlava dolore.

«Alzati da terra e REAGISCI BELLA!!!» gridò divincolandosi dalle braccia di Jasper.

Istintivamente chiusi gli occhi, spaventata, ma quando li riaprii mi colpì un ondata di dolore.

«Alice» l’aveva richiamata una voce, più ferma delle altre.

Edward, in piedi davanti a me, la abbracciava con affetto. Il suo minuscolo corpo era scosso da singhiozzi troppo potenti. Lui le accarezzava i capelli spettinati con una mano, mentre dolcemente la cullava.

Un lungo, profondissimo e doloroso singhiozzo mi trafisse il petto, facendo scorrere gli sguardi di tutti i presenti su di me.

Puro male, un improvviso flusso doloroso, scorreva dentro di me, facendomi bruciare le vene.

Perché sapevo che quel male, che tutti loro provavano, era causa mia. Perché sapevo, che fra quelle braccia, non ci doveva essere Alice. Ci dovevo essere io. E tutto si sarebbe sistemato.

Ma non poteva essere così.

Attraverso i miei occhi, completamente ricoperti di lacrime, vidi l’enorme finestra della stanza di Edward, aperta.

Forse…

Prima ancora di poter riuscire a formulare un qualsiasi pensiero, l’espressione di Alice si fece terrorizzata e Edward comparve accanto alla finestra chiusa, con un espressione altrettanto sconvolta.

Cacciai un urlo, straziante.

Man mano si affievolì, strozzandosi in gola.

Passarono pochi interminabili istanti di silenzio.

«Rosalie!» era la voce di Carlisle.

Mi sentii sollevare.

«Sul letto, la devi mettere sul letto, sbrigati!» diceva agitato.

«Dimmi che cosa devo fare!» diceva lei con altrettanta agitazione.

Vidi una mano bianca davanti al volto. «Non respira». Il cuscino che avevo sotto la testa scomparve. «Devi inclinarle la testa, all’indietro».

Sentii due mani, una sotto al collo e una sulla fronte.

Non riuscii più a mettere a fuoco nulla e mentre le immagini si facevano sempre più sfocate mi sentii avvolgere dal torpore. Chiusi gli occhi e vidi buio.

Delle voci, lontane, facevano da sottofondo al mio dormiveglia.

«Edward, ascoltami, comprendo perfettamente il tuo punto di vista, ma cerca di capire. Non possiamo andare avanti così. Se avesse delle altre crisi come quelle di oggi non saprei come fronteggiarle. Siamo andati troppo avanti in questa cosa e… ascoltami. Secondo me dovremmo farla parlare con uno psicologo. Conosco un mio amico che sarebbe molto discreto e professionale…».

«No Carlisle, non posso. Non puoi chiedermi questo, non… lei è così… fragile. Credo che questo la potrebbe solo far sentire peggio» rispose Edward con voce intrisa di dolore.

«Forse le dessi degli antidepressivi…».

«No, non credo servirebbero» era la voce di Rosalie.

Un sospiro, poi di nuovo la voce calma di Carlisle. «Bene, comunque le prescrivo dei calmanti. Non si sa mai, potrebbero servire per calmare l’agitazione e farla stare buona per un po’. Se succede qualcosa come quello che è successo oggi… Ma se peggiorasse la strada possibile sarebbe solo una…».

«No… non posso…».

Ancora la voce di Rosalie. «Edward io ho provato a parlarle, ma è stato tutto inutile lo sai…»

Lui rispose agitato. «Se solo tu potessi dirmi qualcosa, qualsiasi cosa su quello che è successo… Non sapere mi uccide…».

«No» disse lei, determinata «Non posso tradire la sua fiducia».

Sentii il suono più doloroso e devastante che potessi udire.

Un singhiozzo. Di Edward.

«Coraggio figliolo, devi farti forza» lo consolava Carlisle.

«Non ce la faccio» un altro singhiozzo «Non ce la faccio a vederla in questo stato».

Scivolai ancora nel sonno, avevo sentito abbastanza.

Purtroppo, anche quella volta, non ebbi pace.

Correvo sempre nel bosco, sempre più velocemente, sentendomi toccare dai rami, insistenti, sempre più velocemente.

Poi lui, a terra, il suo sguardo.

Le sue labbra si mossero «Pazza. Sei pazza».

«No, no, no!» urlai.

Un lago di sangue si espanse fino ai miei piedi. Crebbe sempre più, finché non mi ritrovai immersa e soffocante.

Mi sedetti sul letto, ansante. Tutto intorno a me era buio, poi si accesero le luci e davanti ai miei occhi comparve Edward.

Non più speranza sul suo volto, non più a traccia di un sorriso. «Bella…» mi chiamò debolmente.

Ricaddi sui cuscini, girandomi su un lato e facendo scorrere le lacrime.

Sentii un singulto.

Non volevo che soffrisse, non volevo.

Che cosa stavo facendo?

Un fruscio.

Forse aveva ragione Alice, forse davvero, dovevo…

Il suono della porta che vibrava, aprendosi.

«Edward».

 

 

Careeee :D

Mi volete bene, vero?! *me sbatte le ciglia molto velocemente*.

Ok, l’importante è che alla fine ho postato, nel bene o nel male. J Vero?!

Perché è questo l’importante. :D

Speriamo…

 

Dunque dunque. Io avrei una bella scusa da annoverare al fatto che ho fatto un immenso ritardo, ma non sto qui a dirvi qual è perché questa volta invece di dilettarvi tenderei solo a scocciarvi. J

Quindi, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, perché questo, con il prossimo, è uno dei capitoli che più mi è piaciuto immaginare.

Il comportamento di Alice sarà meglio chiarito in seguito, non è immotivato.

Ah, nel prossimo capitolo, all’inizio, non mi uccidete, aspettate di leggerlo tutto, ok? J Grazie.

 

Bene, dovreste essere contente del fatto che la nostra depressa cronica abbia parlato. J

 

Oh, scusate, una cosa che non faccio quasi mai, ma che ora è davvero di dovere.

233 preferiti.

102 seguiti.

34 autori preferiti.

44 recensioni. *.* Grazie ragazze, siete miticheeeeee!

Dedico questo capitolo a tutte voi e in particolare a chi mi ha mandato mail di “sollecitazione” per scrivere.

Grazie.

Grazie mille di tutto il sostegno che mi date.

 

azaz nooo! Ma come è potuto accadere che tu non accendessi il pc per una settimana!!! Io per due giorni sono andata in crisi, pensa un po’ te! XD Beh, no, non è che ne mancano proprio trenta, oh my god, penso che scappereste tutte a gambe levate! XD Ma diciamo che ce ne sono ancora una quindicina, ok?! ^^ Quindici sono tanti… Sono contenta di averti fatto dire tanti eccellente e spero che anche questo te li abbia fatti dire… Mamma mia, se penso ai prossimi capitoli che ci saranno e a come sarò sadica… hhh… mi devo controllare!!! Se no alla fine la uccido sta Bellina… Ovviamente non si staccherà mai mai più da Eddino, li ho incollati con un abbondante strato di colla vinilica e adesso rimangono lì immobili e non si staccano… a parte occasionali divisioni giornaliere… muahahah… okok, nulla, fai finta che io non abbia detto nulla! ^^ Scusami se non ti ho fatto trovare tantissimi aggiornamenti, spero di essermi fatta comunque perdonare, ciao, a presto! ^^

petitfraise sisi mi bastano, altrochè J Ma io non mi riferivo alla quantità infatti, siete sempre molto generose con me, mi riferivo al contenuto di ogni singola recensione e agli aggiornamenti delle altre storie ^^ Grazie di tutto comunque… :)

_Aislinn_ Ciao Mamy!! No no, lo prometto, non durerà per molto, nel prossimo capitolo tutte le cose si sistemeranno, anche se questo è stato più catastrofico e doloroso del precedente, e potrebbe, dico, potrebbe, non sembrare così!

Eddyrossen95 XD mi ti immagino a saltellare da una roccia all’altra in cerca di selvaggina! XD Ma solo i carnivori, mi raccomando, sono più buoni! XD Mi hai fatto veramente ridere con questo raccontino, e menomale che sei tornata, altrimenti mi sarei ritrovata ancora una volta sola su EFP… Bene, dicevamo… Sono contenta che non abbia mai avuto intenzione di uccidermi ^^ eheh Per quanto riguarda Alice, beh, allora con questo capitolo ti ho fatto proprio un bel regalo! Avevo immaginato questa scena con lei perché, beh, fa capire il profondo dolore che prova Alice… Tutto è spiegato dal fatto che lei vede il futuro, e vede Bella sempre lì, stesa sul letto, che non migliora, e lei sta male per la sorella e non sa proprio come sia possibile e spiegabile il suo comportamento. Perché lei, insomma, non avrebbe mai reagito così, hanno modi di affrontare i problemi diversi! E ora Alice, che è sempre colei che sistema tutto non sa come fare, per questo si sente impotente e di conseguenza risentita! Ma ti prometto che nei prossimi capitoli ci sarà una bella riconciliazione. J

barbiemora______oddio!! Come ha fatto a leggere tutto in 5 minuti?! o.O Le ipotesi sono due: o sei un fulmine, ho hai saltato gran parte dei capitoli! Propendo per la seconda, sai?! XD Dai, su al prossimo capitolo tutto si sistemerà, promesso, davvero… J XD Scusa per il ritardo, non ho intenzione di farti venire nessun esaurimento nervoso, quindi appena ho letto la tua 2° recensione mi sono messa subito al lavoro. La situazione di Jacob verrà palesata fra un po’… XD

foxina grazie! In effetti questa è la mia parte preferita in tutta la storia, l’avevo pensata già dall’inizio e stavo fremendo per scriverla! Mi dovevo controllare, per forza! Infatti per non mettermi a scrivere tutti gli altri capitoli di seguito mi sono dovuta imporre di non farlo! XD Altrimenti tutte voi stavate in vacanza e io mi leggevo la mia storia sola insieme ai pesci dell’acquario…

ale03 Grazie grazie! Eheh, no, tu non puoi prenderla quell’ascia, perché te ne sei bellamente andata in vacanza!!! Eheh, altrimenti poi l’ascia la piglio pure io!!! E poi Jacob è morto, e ve l’ho promesso, nel prossimo capito tutto tornerà apposto, o meglio, comincerà a tornare apposto… per cui niente ascia calma e tranquilla… ^^

Franzeschina Come un furetto! XD Oddio, mi hai fatto venire un idea per un fotomontaggio, io con il corpo da furetto XD XD Mamma che risate. Ok, serietà. Bella non ha solo respirato, sbattuto gli occhi, guardato ecc… no, beh diciamo che ha smesso di respirare, gli occhi gli ha usati per piangere e la bocca per gridare istericamente!!! ^^ Contenta? J

Dan E si, come ti capisco, questi problemi con i ragazzi sono… come dire… frequenti… -.- Dicevo, perdonami, ma la storia è così, mi riesce un po’ difficile modificare tutta la trama, anche se vorrei farti contenta! ^^ In compenso tutto si sistemerà presto prestoooo! J

vampirettafolle no no, non è andato fin infondo, hai capito bene, ma è comunque un trauma e poi ricorda che l’ha ucciso ^^ Neppure Bella non riesce più a non parlare con Eddy!!! J

miss_cullen90 Che bello quando mi fate domande su cui ho tanto da dire! *.* Allora, Bella si comporta in questo modo perché ha subito un trauma grave e ha ucciso una persona. Si sente colpevole di quello che è riuscita a fare con il suo corpo: attirare Jacob/ Ucciderlo, quindi non lo vuole usare più. Alice si comporta così perché vede il futuro di Bella che non cambia, e la ha un carattere totalmente diverso e non riesce a spiegarsi come mai Bella non reagisca, come invece farebbe lei. J Tutto chiaro?!

samara28 No, ma dico, hai notato che nessuno aggiorna qui???! o.O Sono profondamente incacchiolata. è.é Adesso che hai visto la mia foto puoi anche scappare a gambe levate!!! Mi ti immagino, “ahhh!!!” Io non sento affatto la necessità di andare in vacanza perché praticamente il mare è davvero davvero vicino!!! Eheh… Anche se non mi piace andare a mare… XD

my love_my soul Grazieee! Non è proprio mio intento fra piangere le persone… *fischietta a caso* Nono, invece voglio seminare terrore e distruzione nel cuore degli uomini!!! Muahahah! No, non è vero, scherzo! ^^

pazzerella_92 Si si, non ti preoccupare, l’importante è che segui almeno! XD Grazie mille per tutto, Bella si riprenderà presto, nel prossimo capitolo e poi man mano tutto si sistemerà e ci sarà un lunghissimo periodo di felicità! J

SIRYA95 XD Sai, non sei l’unica che la pensa così, ci sono molte a cui piacciono questi miei capitoli in cui infierisco senza fine su Bella! XD Rosalie sta dimostrando il suo lato materno, diciamo che un po’ l’ha adottata, invece Alice non ce la fa proprio a vederla così, perché le sue visioni non cambiano ed è come se avesse per sempre perso un’amica. Si sente in colpa per quello che è successo e non riesce a perdonarsi il fatto che Bella non reagisca, come avrebbe fatto lei che ha un carattere molto più forte e battagliero! J Bella sente il bisogno di avere Edward accanto, e questo l’ho messo apposta per lenire le vostre sofferenze care lettrici, altrimenti sarei già arrivata sulla luna adesso! XD Nooo! Anche tu parti? Ma no se po’… Uff… -.-

araba89 Beh si, Bella si è svegliata dal torpore, anche se non in bene, ma in maniera mooolto dolorosa! XD Dai su, non sono così sadica, nel prossimo capitolo si comincerà a sistemare tutto, è che poi ci sarà un periodo di felicità così prolungato che guarda… ne avrete fin sopra i capelli! XD

lisa76 sisi, dai, lo spiraglio di speranza l’ho messo se no mi ammazzavate già nello scorso capitolo! XD E la ripersa, nel prossimo capitolo, ricomincerà proprio da Edward, quindi, non disperare, ok? E poi si, qui nessuno aggionraaa! Che tristezza…

luisina Ok, non lo alzo allora il raiting, lo lascio così ^^ Sempre contenta di essere riuscita a comunicare qualcosa, che sia gioia, dolore, tristezza o malinconia, ecc… J Edward è premuroso, vero? J Non ce la faccio a non vederlo così! J Ma dai, ora tutto si sistemerà, promesso! A partire da Edward, ovviamente… Io pure non ci vado mai a mare, mia madre tenta di trascinarmi con la forza, ma io oppongo strenua resistenza! XD 

Bellissima Cullen No!Non mi puoi strozzare, perché io odio il mare!!! Mia madre tenta di trascinarmici ogni giorno, ma io proprio non lo sopporto! Eheh Il sole mi fa barellare, mi va venire il mal di testa e mi fa diventare il naso e le gote tutte rosse! Sembro un clown! xD Quindi, per la storia, se lo scorso capitolo era triste, questo è decisamente… doloroso direi… ma dai, nel prossimo capitolo tutto inizierà a sistemarsi, promesso! ^^ Rispostina--> No che non li tolgo! Ci metterei oreee! Ok, ok, devo dire che anche se la maggior parte di voi sembra morta, c’è sempre qualcuna che rimane viva! ^^ Va bene così?! Chi non va in vacanza in pratica… hhh…

barbyemarco Brutta? -.- Nessuno è brutto… Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, e per essere belle bisogna sentirsi belle! Volere è potere! Ok, ho finito tutti i detti, in pratica nessuno è brutto se vuole essere bello, capito?? Beh, tranne il cane ovviamente… Lui è sempre brutto u.u

Nessie93 XD Si, in effetti è tutto un po’ una contraddizione. Prima di tutto dico, si, Rosalie non avrebbe potuto accorgersi si nulla visitandola normalmente, per capire se è incinta bisogna fare o esami del sangue, o esami delle urine, o palpazione dell’addome, o ecografia, non ci sono altri modi! ^^ In effetti si, se lo scorso capitolo era triste, questo è praticamente una batosta di dolore allo stato puro, di quello davvero doloroso! ^^ mI dispiace, ma ti posso dire che nel prossimo capitolo tutto si sistemerà, non disperare!!! Sono contenta di essere riuscita a comunicare tutto quello che prova Bella e le sue motivazioni, si insomma, ecc ecc… J Ti perdono del fatto che te ne vai in vacanza solo se tu non mi uccidi per questo capitolo, ok?! :D

_Kiarina Cullen_ Sia chi è in vacanza che Jacob? Allora perché non Jacob in vacanza? Si insomma, gli facciamo passare un bel cappio intorno al collo… Ma forse è meglio on le mani, c’è più gusto!!! Muahahah!

tsukinoshippo Ahh eccola qua l’abbia trovata quella drogata da Jacob!!! eheh, e cosa ti ha dato, valium o lexotan? XD Capisco benissimo che il pc frigga un po’, anche il mio non trova pace, ecco perché poi ogni tanto fonde, esce un po’ di fumo… Ecco, a quel punto lo spengo! :P Dicevamo, il capitolo, si, se nello scorso la dominane era la tristezza, in questo è un po’ di sana follia e un dolore ancora più profondo, non esprimibile con nulla! Si, in effetti, ti faccio un piccolo spoiler (perché mi ricopri sempre di complimenti che mi fanno andare in brodo di giuggiole ogni volta *.* Grazie!) anche se ha parlato con Edward la cosa è un po’ complessa, ecco… l’importante è che nel prossimo capitolo tutto si sistemerà al meglio! *.*

cullengirl ecco ecco bene! Pensa al cane che è morto! ^^ In effetti, Bella è rimasta traumatizzata e sta anche andando fuori di testa, sai com’è, e Eddy la sta seguendo, tuttavia a volte si arriva a un punto in cui si tocca il fondo e poi non si può più andare più in basso e quindi tutto s’aggiusta! ;)

Rmp XD si, ne sono successe di tutti i colori come vedi! Bella è un po’ uscita fuori di testa e se continua così anche Eddy la seguirà, temo… Ma on temere, nel prossimo capitolo tutte le cose si sistemeranno! ^^ La penso proprio come te per le ragazze che vanno in vacanza, insomma, noi siamo qui, ad aspettare un loro aggiornamento! *^*  

Wind Oh, si, è vero, se fossi stata io al posto di Jacob ora starei facendo una festa intorno a un falò, con tanto di danza uga uga!!! Ehh… ma Bella è Bella, che ci possiamo fare… E’ vero i tuoi aggiornamenti sono più ravvicinati, ma i miei capitoli più lunghi! 1-1 palla al centro! :P

Cristy97 eheh si il capitolo è tristissimo struggente, lo so lo so, ma dai, dal prossimo tutto si sistemerà, promesso, quindi don’t worry e riscaldiamoci questo cuore di ghiaccio che ci ritroviamo! Ok, ok, non ti strozzo perché stai continuando a leggere la mia storia, ok?! J

Padfoot_07 Diciamo che anche quello che è successo in questo capitolo è un scuotimento! Beh, un scuotimento non proprio in bene, ma che porterà al bene nel prossimo capitolo, giuro, perché dal prossimo capitolo tutto comincerà a sistemarsi di nuovo! Le vacanze? Io non ne faccio vacanze, l’ho già detto, ho il mare qui accanto a me, allungo una mano e ci sono già arrivata! J Non paesino dipendente io!!! J

littleSmiley Già penso che il climatizzatore sia a dir poco fondamentale in questo periodo, non so come farei senza! Beh, Bella sta affrontando un momento difficile, in effetti arriva a un punto di rottura e poi di lì riesce a ritornare indietro e guarire”. Mi sembri una persona estremamente dolce e mi farebbe molto piacere fare la tua conoscenza. La piccola cresce bene? Sono contenta… Nomi er la bambina? A me piacciono i nomi classici, ti posso proporre i nomi che darei a mia figlia: Paola, Daniela, Alessandra, Greta, Claudia… Poi ovviamente vorrò vedere la foto della bambina, capito? J

Noemix Nooo! Il magone no, mamma mia! Bella non vuole accanto tutti, vuole solo Eddy, perché non ne può fare a meno, ma non riesce a farsi toccare e non ha la forza di parlare! ^^ Beh, è una cosa un po’ difficile… Ok, bene che te stai a casa così puoi leggere le mie storie!!! Seee! Ma tu Noemi le mie foto le hai già viste… sono io che sono ansiosa di vedere la tua cara!!! J

damaristich Grazie mille! (Doppia recensione, addirittura? *.*) Beh, va bene, diciamo che è tutto giustificato, la tristezza c’è perché la Bellina è depressa poretta, ma dal prossimo capitolo tutto comincerà a sistemarsi, giuro, non vi faccio piangere più!! J Non vedo l’ora di leggere ancora la tua storia!

Hanairoh Ok, ok, mi sono dimenticata di escluderti! Tu si che nutri istinti omicidi, scusaaa, è vero! J Ti è piaciuto il cappy, i sei commossa?? *.* Cara… Ma tu dici che se avesse subito lo stupro sarebbe giustificata, se no, no. Ma, voglio dire, conche se TECNICAMENTE quello che ha subito non è stupro, praticamente si, è rimasta comunque traumatizzata, e poi togliere la vita a qualcuno non è una cosa così da nulla, anche se lo fai per vendetta… J

Amalia89 Doveva soffrire di più? XD Mi dispiace, ma non so descrivere bene le scene di violenza, ma ti assicuro che gli ho fatto molto male!!! XD Si, menomale che il comportamento di Bella ti sembra giustificato, non ti preoccupare nel prossimo capitolo tornerà tutto apposto! J

mieme Allora, tutte le cose si sistemeranno nel prossimo capitolo, promesso, si è arrivati all’apice e ora si scende, non ti preoccupare! E poi ho aggiornato presto, vero? Grazie di tutti complimenti, molto cara… J

mazza A) Appunto, perdonala quella povera anima u.u B) Emmett è sempre lui, tenta solo di sdrammatizzare un po’ e la cosa era proprio per sdrammatizzare! C) Già già, povera ragazza, che mente contorta… dal dolore…  D) Magari desse retta a Carlisle, ma io non potevo non far tentare lui, insomma, è Carlisle *.* E) Come non sei una fan di Bella???! O.o No no povera… si, dai che ora di riprende comunque… F) Eh già… Beh, ma questa nausea è double face! G) Già già, ma non poteva parlare, non ancora, eh J H) Mi sa che ti preoccupa tanto di Edward e un pochino meno di Bella eh?! ma povera, vedi come sta lei!!! I) J No, questo non è sghembo :/ No, non mi esce J) Oddioooo si, lo confesso, non ho corretto l’ultima parte! Eheh ^^ K) Appunto, quello là l’ho messo giusto per XD L) Ribadisco, non ho corretto l’ultima parteee! Ora vado e sistemo tutto J M) Edward era andato un attimo da Alice, ^^

BellaJey Grazie! Si questa cosa è opinione comune… XD Che lo scorso capitolo è tristissimo! Ma dai, come vi avevo promesso Edward le è rimasto accanto sempre caro! *.* Visto che dolcezza?? Ehehe, dai, nel prossimo capitolo si sistemerà tutto, contenta? J Così ti faccio felice visto che non sei andata in vacanza…

Lau_twilight  Grazie cara!!! Si, beh, la tristezza è sparita e ha lasciato il posto a un po’ di follia sana, vero? Che bello questo capitolo penso sarà il mio preferito per sempre, uno struggimento, un dolore… hhh, no, non sono sadica!!! XD

ledyang Nooo!!! Tutti partono e io sono sempre più depressa… L Beh, si, lo scorso era tristissimo, ed era proprio quello che volevo trasmettere: Tristezza a caratteri cubitali. Questo qui è stato invece: Pazzia a caratteri cubitali XD.

cloe cullen Cloeee! Si ok, stavolta sei stata la prima! Perché non mi hai risposto alla mail è.é Mi hai fatto soffrire e stare in pena, pensavo ti fosse accaduto qualcosa!! Beh, si, in effetti il cappy era molto triste, questo è diciamo… più energico e più pazzo anche però! XD

 

 

*SONDAGGIO*

Chi è il vostro personaggio preferito dopo Edward e Bella?

Il mio è Carly! *.* Io l’adoro quell’uomo… *Q*

 

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Capitolo 30
*** Fra le sue braccia ***


«Edward»

«Edward». La voce mi uscii flebile e molto roca, quasi afona. Era la prima parola che dicevo da chissà quanto tempo.

Passarono alcuni interminabili istanti di sospensione nel silenzio. Probabilmente non mi aveva sentita. Meglio così, inutile illudersi…

Ma mi sbagliavo. Perché lui, e solo lui, mi sentì.

Comparve davanti ai miei occhi, con una strana espressione spiritata in viso. «B…Bella…» ansimò dopo un attimo «Tu… tu mi hai…chiamato?».

Non sapevo se rispondere, forse avevo fatto semplicemente uno sbaglio, non potevo davvero concedermi tutto quello.

Vidi il suo sguardo incupirsi pian piano e la speranza abbandonarlo nuovamente.

Non ce la facevo a sapere di essere la causa del suo male. Volevo solo un po’ di pace e riposo, tutto qui, non mi sarei concessa altro.

Annuii, vedendo Edward rianimarsi di riflesso.

«Hai bisogno di qualcosa, c’è qualche problema amore? Dimmi, tutto quello che vuoi» chiese su di giri. In quel momento, se gli avessi chiesto di fare una qualsiasi impresa titanica, l’avrebbe portata sicuramente a termine.

Potevo davvero concedermi di provare gioia per quella felicità che gli stavo dando? Sospirai.

Edward si inginocchiò accanto a me, a terra, per trovarsi con il viso alla mia stessa altezza. I suoi occhi onice si facevano sempre più luccicanti e scrutavano i miei come se stessero contemplando un tesoro prezioso.

Sentivo i miei, invece, farsi sempre più pesanti. Lottai contro la stanchezza, non volevo rivivere quei terribili incubi.

«Che hai tesoro?» mi chiese dolcemente Edward, scrutandomi dentro.

Potevo veramente permettermi di farlo felice? Respirai lentamente, indecisa e tremante. Abbassai lo sguardo. Volevo dormire.

Notai che aveva posato una mano sul materasso. «Bella…» mi richiamò ancora, sofferente.

Sollevai il viso, frustrata e stanca. «… sonno…» biascicai flebilmente.

Quando ascoltò la mia voce fu come se fosse tornato nuovamente in vita. «Hai sonno? Non riesci a dormire?».

Scossi il capo in segno di diniego, facendo scendere delle lacrime silenziose lungo le guance al ricordo degli ultimi incubi vissuti.

«Ehi, piccola… angioletto…» mormorò dolcemente.

Sussultai. Quanto tempo che non lo sentivo chiamarmi così…

«Su non piangere amore, ora sistemiamo tutto, te lo prometto…» mi disse sorridendomi rassicurante. Si guardò intorno, come in cerca di qualcosa o qualcuno che potesse aiutarmi. Poi si bloccò, ritornando a guardarmi. «Carlisle ti ha prescritto dei sonniferi, vedrai che dopo starai meglio. Va bene amore?».

Mi asciugai le lacrime e annuii. Volevo solo stare meglio.

Lui mi sorrise, contento. «Ti chiamo Carlisle…».

Sussultai.

Edward si bloccò notando la mia reazione. «Non… non vuoi Carlisle?».

Scossi il capo.

Lui sospirò, non facendo però scomparire il suo entusiasmo. «Allora… ti chiamo Rosalie, va bene?».

Scossi ancora il capo e decisi di agire. Solo per la sua felicità. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato le mie azioni ma volevo solo vivere quel momento e donare felicità al mio amore. Lentamente, allungai la mia mano sul materasso. Tremava, lo sentivo. Piano, facendola scorrere lungo le lenzuola morbide la feci giungere accanto alla sua. Risollevai lo sguardo su Edward, che intanto faceva scorrere lo sguardo dalle nostre mani al mio volto.

Era commosso. «Io?» mi chiese con voce tremante.

Annuii, lentamente.

«Ma…» deglutì «ma io non… non sono bravo come Carlisle… forse lui sarebbe più…».

Scossi la testa, interrompendolo. Presi un profondissimo respiro. Avvicinai lentamente la mia mano alla sua, guardandolo sempre fisso negli occhi.

Poi successe. Lo sfiorai. Durò solo un attimo, perché mi ritrassi immediatamente, ma quell’attimo durò quanto un’eternità. Quel piccolissimo contatto, freddo, fu come una potentissima scossa che ci pervase da corpo a corpo con una potenza inaudita.

Edward mi fissò negli occhi, annaspando. «V…va bene» disse con voce tremante d’euforia, quando si riprese.

Mentre scompariva dalla mia visuale mi rannicchiai su me stessa. Avevo adempito al mio compito, l’avevo reso felice. Ora volevo solo dormire. Respirai lentamente finché, sempre più, fui avvolta da una nuvola di torpore. Chiusi gli occhi, scivolando in un quieto dormiveglia.

Improvvisamente mi sentii pungere un braccio. Sussultai spaventata e non potei far nulla per tentare di contenere le lacrime.

Ancora una volta i fantasmi del mio recente passato tornavano a tormentarmi. Jacob. L’ago nel braccio. Il mio corpo inerme. La mia impotenza. La mia pelle esposta ai suoi occhi. Le immagini si presentarono come flash bruschi e improvvisi.

Con il fiato corto scattai in piedi.

Edward mi fissava spaventato, spaesato. «Scusami… Non volevo spaventarti…».

Tremando, camminai all’indietro, impaurita.

Con lentezza e gesti misurati, posò la siringa ancora intatta sul copriletto, e tenendo le mani sollevate a mezz’aria iniziò a camminare verso di me. Non c’era più la gioia che solo pochi istanti addietro aveva albergato in lui. Il suo dolore sembrava più profondo di prima. E questo io lo sapevo, l’avevo sempre saputo. Tutto ciò che avevo fatto era solo servito a farlo versare maggiormente nello sconforto. Inutile, non c’erano vie d’uscita.

«Ahh!» fremetti, spaventata, crollando a terra, la schiena contro il muro.

Ne ero certa, più che sicura: qualcosa di bollente mi aveva toccato.

Edward si materializzò davanti ai miei occhi. «Tesoro, Bella, calmati» mi sorrise forzatamente «guarda, era solo il radiatore» mi disse, indicando con lo sguardo un punto alla mia destra.

Mi voltai piano, ansante, e mi accorsi che era proprio come diceva. Quando con lo sguardo ritornai su di lui, aveva un sorriso rassicurante.

«Visto amore?». Mi stava parlando con calma e lentezza, proprio come se stesse parlando con una pazza.

Forse… Jacob aveva ragione. Dopotutto l’aveva detto anche Carlisle… Tutti pensavano che io fossi pazza, ma non era, non era così.

Mi dondolai su me stessa, stringendomi le braccia al petto. «Non sono pazza…» farfugliai sconnessamente.

Edward sussultò, poi mi rassicurò svelto «Nessuno pensa questo Bella, davvero…».

Lo fissai ancora negli occhi, attraverso le lacrime. Io volevo solo Edward, volevo solo riabbracciare mio marito, come se niente fosse successo… perché non potevo farlo, perché?! Volevo cancellare il senso di sporco, di macchiato, che provavo sul mio corpo. Volevo toglierlo, rimuoverlo per sempre…

«Bella, non fare così, ti prego» m’implorò Edward.

Non capii di cosa stesse parlando.

I suoi occhi erano pieni di dolore e angoscia «Ti prego Bella, smettila, ti stai facendo male!».

Mi accorsi solo in quell’istante che le mie unghie graffiavano contro i miei avambracci. Volevo solo cancellare lo sporco, volevo toglierlo…

«Basta, basta!» esclamò ansioso e terrorizzato.

Non lo ascoltai e penetrai nella mia stessa carne con maggior forza.

Ciò che avvenne dopo mi lasciò completamente senza fiato.

Edward mi aveva presa per i polsi e bloccata contro il muro, sollevandomi.

Ansimai, affannosamente. Una volta, lentamente. Due volte, graffiando con il fiato la gola. Tre volte, tremando nel tentativo di far passare il respiro. Sentivo le mie pupille dilatarsi e perdersi sempre più nell’immensità nera degli occhi di Edward.

Riuscii a ritrovare la voce per urlare a squarciagola. Inclinai il capo all’indietro, cominciando a dimenarmi come un’ossessa. Quello per me significava rivivere le più orrende sensazioni mai provate in tutta una vita.

Non mi curai del suono della porta che sbatteva, né delle voci concitate che esclamavano il mio nome tentando di calmarmi.

Gridavo. Gridavo e mi dimenavo.

«Carlisle, sul letto!» esclamò Edward, che ancora non aveva mollato la presa sui miei polsi.

«Jasper!» era la voce di Carlisle, era vicino.

«No… non ci posso fare niente… C’è sangue… scusate devo uscire…».

«Vai!» urlò Edward, a pochi centimetri dal mio viso.

Spalancai gli occhi. Vedevo solo Carlisle e Edward. Respiravo affannosamente e non avevo smesso di agitarmi.

«Calma Bella, calma. Adesso ti lascio, promesso» mi disse Edward, sofferente, ma determinato.

«Tienila ferma» gli disse Carlisle, avvicinandosi con la siringa in mano.

Edward prese un mio braccio e lo allungò in orizzontale, bloccandolo contro il muro.

Cacciai un gemito quando vidi l’ago infilarsi nella vena.

«Shh, shh, è tutto finito amore, calmati…» mi sussurrò.

Sentii i miei strattoni farsi sempre più deboli, mentre le forze abbandonavano tutti i miei muscoli. Infine, abbandonai completamente il mio corpo.

Edward lasciò la presa suoi miei polsi e caddi stremata sul suo petto ghiacciato.

Fu come vedere tutta la scena al rallentatore. Il mio corpo che si avvicinava al suo, il suono del rimbalzo contro di lui, la mia testa che si appoggiava sulla sua spalla.

Petto contro petto. Pelle contro pelle. Cuore contro cuore. Caldo contro freddo.

In quell’istante capii. Era lì che volevo essere, e nulla più avrebbe importato. Era lì che volevo essere. Fra le sue braccia.

«Ti amo» biascicai al suo orecchio, prima di perdere completamente i sensi.

 

Sentivo un odore fastidioso bruciarmi il naso. Come… alcool. La mia mente era annebbiata, confusa, eppure dentro di me avevo un’unica consapevolezza: volevo Edward con me.

Sbattei le palpebre, piano, per riadattare gli occhi alla luce. Lo cercai velocemente con lo sguardo, ma non c’era.

Davanti a me Rosalie mi fissava con un’espressione severa e determinata. «Basta Bella, ti prego. Basta» mi disse dopo pochi istanti, con decisione. «Dobbiamo fare un passo avanti».

Rabbrividii. Mi guardai ancora intorno alla ricerca di Edward. Un passo avanti, volevo fare un passo avanti verso di lui, credevo.

Rosalie notò facilmente che lo stavo cercando. Avvicinò una mano per sfiorarmi e mi ritrassi, sibilando, come scottata. La sua espressione si fece ancor più irremovibile. «Non c’è. Non verrà, non per ora. Prima mi dovrai dire alcune cose, parleremo di quello che è successo, e ti aiuterò».

Sussultai, colpita, sentendomi braccata. Il cuore prese a battermi più veloce, e l’angoscia per la mancanza di Edward mi sembrò troppo familiare a quella di un recente passato.

«Bella» mi richiamò ancora, sporgendosi verso di me.

Feci pressione sulle braccia per sollevarmi e mettermi seduta e fui colpita da delle fitte. Gemetti.

«Ferma, ti aiuto io» mi disse Rose dolcemente, sistemandomi il cuscino dietro la schiena e aiutandomi a mettermi seduta. «Guarda cosa ti sei fatta» mi rimproverò indicando gli avambracci bendati. Poi sollevò ancora lo sguardo su di me, scrutandomi. «Mi dici cos’è successo?».

Mi lamentai, come un animaletto braccato. Alcune sue parole, delle intonazioni… mi ricordavano troppo lui. Non risposi, e distolsi lo sguardo dai suoi occhi indagatori, spostandoli velocemente da un angolo all’altro della stanza, angosciata. La porta, dovevo uscire. Ma era veramente una porta? C’era la finestra? Lo strapiombo?

Lei sospirò. «Edward dice che gli hai parlato, è così?».

In suo nome mi trafisse la testa. «Edward» gemetti, quasi involontariamente.

Lei sgranò gli occhi. «Allora è vero». Fece una pausa, poi cominciò nuovamente, più determinata di prima. «perché hai reagito così? È stato malissimo… si sente terribilmente in colpa…» confessò addolorata.

Mi portai le mani alla testa. Non ero più imprigionata, Edward era lì, era lì con me. «Edward» lo richiamai, più angosciata.

Rosalie ricercò il suo sguardo con il mio, muovendo il capo «Bella».

Fui costretta a guardarla negli occhi.

«Avete bisogno di andare avanti. Entrambi. Non sei sola. Lui è con te, ma gli devi permettere di entrare nel tuo dolore, nel tuo buio. Devi permettergli di aiutarti. Devi raccontargli».

Ansimai, angosciata, divisa. Una fiammella di speranza si accese dentro di me, e poi si spense. Fidati, non ti fidare. Non ti fidare, fidati. Non cambierà mai, non cambierà mai. Fidati, fidati, fidati. Edward, Edward, Edward. Mi portai le mani alle orecchie per non ascoltare più quelle voci e gridai, forte.

Balzai giù dal letto, e gemetti frustrata, tirandomi indietro quando Rosalie mi sfiorò con le sue lunghe dita per fermarmi. Afferrai le pesanti coperte ed incerta e barcollante mi trascinai verso l’angolo più buio della stanza. Mi avvolsi nelle coperte e mi coprii completamente la testa.

Ignorai Rose, le sue proteste, i suoi richiami.

Avevo bisogno di un posto in cui sentirmi al sicuro per poter provare a pensare lucidamente.

Non mi accorsi di chiamare compulsivamente il suo nome finché non chiamò il mio «Bella» e nel suo sospiro il mio suono lamentoso scomparve.

«Bella, amore» mi chiamò ancora Edward, e mi parve che sotto l’infinita amorevolezza vi fosse un abisso di dolore.

Scostai un poco le coperte con la mano, e vidi il suo viso gentile, incerto e preoccupato. Gemetti, esprimendo in quell’unico suono tutto il mio dolore. La sua espressione si fece ancor più carica di affetto.

Sollevai una mano e muovendo le dita lo invitai ad avvicinarsi.

Cauto mi scrutò attentamente, muovendo ogni muscolo con estrema concentrazione. Non mi toccò, si fermò con il busto a pochi centimetri dal mio.

Tremai, stordita dalla sua vicinanza. Poi singhiozzai, e mi lasciai andare contro il suo petto, stringendolo forte.

Lentamente le sue braccia si strinsero attorno al mio busto, e mi trassero delicatamente a sé. Prese ad accarezzarmi i capelli, cullandomi avanti e indietro. Era controllato in ogni gesto, come se si aspettasse che da un secondo all’altro, per un inspiegabile motivo, potessi irrigidirmi, o iniziare ad urlare. Piansi più forte al dolore che mi provocò quel pensiero.

«Shh, shh, ecco» mi rassicurò «ti va di venire su con me? Un po’ sul letto?».

Scossi il capo contro il suo petto, sentendomi rassicurata e insieme ferita da quella vicinanza.

Non disse nulla. Mi strinse più forte e prese ad accarezzarmi la schiena, lentamente, con movimenti circolari.

«Non te ne andare più» biascicai, sentendomi un po’ vile per quelle parole e la pretenziosa promessa che volevano strappare.

Sospirò, afflitto, ma anche contento di sentirmi parlare, di potermi toccare. «No, non me ne vado mai, lo giuro. Shh, tranquilla ora».

Passò molto tempo così. Riuscii a capirlo perché alla fine avevo il suo odore addosso e la mia mente non pensava quasi più che se ne sarebbe andato da un secondo all’altro. Eravamo nascosti dalle coperte, ed ero fra le sue braccia. Mi sentii intontita, un poco nauseata, abbastanza in colpa e al sicuro per pronunciare le parole che dissi «Mi ha drogata».

Edward s’irrigidii immediatamente, ma poi, capendo di avermi spaventata si rilassò subito, riprendendo ad accarezzarmi. Non disse nulla.

Fissai il vuoto, la luce che filtrava oltre la coperta. «Mi ricordo solo l’ago nel braccio. E poi non mi potevo più muovere».

«Mi dispiace così tanto, Bella. Così tanto… non puoi nemmeno immaginare quanto» mormorò, ma dalla sua voce potevo immaginare quanto.

Chiusi gli occhi, sopraffatta. Non potevo sopportare anche il suo dolore, oltre al mio.

«Perché lo ha fatto?» domandò esitante dopo qualche minuto.

Sospirai, lentamente e impercettibilmente. Ero così stanca. «Non mi volevo cambiare» biascicai atona, non riuscendo ad imprimere nelle parole tutto il dolore che provavo «voleva che mettessi i vestiti che mi aveva portato. Io non volevo, quindi lo ha fatto lui. Non mi potevo muovere… poteva farmi tutto quello che voleva. Poteva uccidermi, violentarmi, baciarmi, torturami. E io ero immobile, e tu non c’eri» mormorai ancora, persa nell’infinità del mio angosciante dolore. «Non andare più via, ti prego».

Mi strinse con più forza e tremò, tremò fino ad imprimere quel tremito anche al mio corpo. Piangevamo. Volevo che mi dicesse qualcosa e che mi rassicurasse, così che in qualche modo capissi che era stata la scelta giusta aprirgli la voragine della mia disperazione. Che non gli stavo solo facendo dal male.

Riuscii a racimolare il coraggio di guardarlo negli occhi. Erano neri come la notte, pieni di paure e incertezze, sicuri solo di una cosa: che mi avrebbero amato.

«Mi vuoi baciare?» gli domandai.

Fece un piccolo sorriso, un minuscolo spasmo. «Sì».

Annuii, piano, guardando le sue labbra.

Si avvicinò e mi lasciò un piccolo bacio, duro e freddo.

Rabbrividii. Abbassai lo sguardo. «Lo so che non è così, ma a volte penso che qualcuno qui possa farmi del male».

Mi accarezzò. «Non è così. Sei al sicuro».

Annuii. «Non vi muovete velocemente, per favore. Quando lo fate lo penso di più».

Mi baciò il capo. «No, piano. Lo giuro. Ora ti va di venire su con me? Ti stendi un pochino sul letto? Fa freddo qui».

Tremai, spaventata, guardandolo negli occhi. «Ho paura».

Mi accarezzò una guancia. «No, perché? Non devi averne. È sicuro, e io sarò sempre con te».

Mi morsi le labbra, incerta. Non volevo che intuisse quanto fossi terrorizzata, ma avevo bisogno di esserne sicura. Mi chiesi se pensasse che fossi pazza. I suoi occhi erano dolci, gentili, cauti. Forse lo pensava davvero. Mi morsi il labbro per non farlo tremare. «P-puoi…» balbettai, agitata «P-per favore, puoi controllare?».

Fece un piccolo sospiro, colpito dalla profondità della mia angoscia. Poi il desiderio di prendersi cura di me prevalse, e annuì. «Vieni, ecco. Controlliamo insieme» mi disse, e mi aiutò ad alzarmi, le coperte avvolte attorno alle spalle. «Guarda, non c’è nessuno. Piano, piano, vieni con me. Ecco, non c’è niente di cui aver paura» mi rassicurò, sostenendomi per i gomiti e guidandomi verso il letto.

Guardai compulsivamente in ogni angolo, finché la mia testa si convinse che non c’era nulla di cui aver paura. Il battito del mio cuore si regolarizzò pian piano.

«Ce la fai a camminare?».

Annuii, muovendo dei passi incerti.

In quel momento la porta della stanza si aprì e io sussultai, stringendomi con tutte le mie forze ad Edward. Mi strinse a sé e mi rassicurò con un basso mormorio. Era solo Rosalie.

Mi sorrise, avvicinandosi a passo umano al letto. «Ti senti meglio? Ti ho detto che sarebbe migliorato».

Mossi il capo in un cenno di assenso, e velocemente mi raggomitolai al centro del letto. Mi faceva sentire così insicura stare in piedi al centro della stanza. E avevo così paura che quel terrore mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Agitata strinsi la mano di mio marito, ripentendomi che era tutto solo nella mia testa.

«Cosa succede Bella?» mi chiese gentilmente la vampira.

La guardai, implorante. «Sono pazza? Rose, dimmi la verità, ti prego. Sono pazza?» domandai agitata, facendo passare lo sguardo sui loro volti.

Scosse lentamente il capo. «No. Hai solo un disturbo post-traumatico da stress. Hai vissuto una cosa molto brutta, è normale. Sarebbe capitato a chiunque, ma presto starai meglio, e tutto quello che senti scomparirà. Lo prometto».

La osservai attentamente, preoccupata che mi stesse mentendo. Guardai Edward, e mi sorrise, un ampio sorriso rassicurante. Mi rilassai solo un po’.

«Per stare meglio hai bisogno di raccontare quello che è accaduto. E di capire che alcune sensazioni o eventi possono farti pensare che stia accadendo qualcosa di brutto, ma che non è così. Possono essere cose innocue che ti ricordano il passato. Come prima, quello che hai raccontato a Edward. Sentire il contatto con l’ago, non poterti accertare nel buio di chi ne fosse responsabile ti ha fatto pensare che fosse Jacob, ma non era così».

Sussultai a quel nome, portando velocemente la mano a stringere l’incavo del gomito.

Rosalie annuì. «È proprio così, vero?».

«Sì» mormorai, colpita dalle sue parole. Volevo davvero superare tutto quello che era successo, ma avevo insieme paura di affrontare tutto quello che avrebbe comportato.

«A cosa pensi?» mi domandò ancora.

Mi chiesi perché Edward non parlasse, perché lasciasse parlare la sorella. E poi notai come la controllava, come stringeva la mandibola per non parlare, come controllasse ogni gesto e parola. Anche lui aveva un disturbo post-traumatico da stress?

Mi strinsi le ginocchia al petto, osservando le bende che venivano fuori dai pantaloni del pigiama, avvolte lungo le gambe. «Penso che se ti racconterò ogni cosa Edward soffrirà molto. E anche io» mormorai semplicemente.

«Bella, tu non…» iniziò mio marito, ma sua sorella lo interruppe.

«È probabile che sia così, ma è anche necessario perché possiate stare di nuovo bene insieme».

Lo fissai di sottecchi. «Mi puoi toccare» gli dissi «ma a volte mi farai paura, e tu non devi stare male per questo, va bene?» sussurrai spaventata.

Scosse il capo. «No, va bene».

«Bene» fece sua sorella, risoluta, aprendo le braccia per invitarmi ad andare da lei «vieni qui. Ti devo rifare le medicazioni».

«Posso» mormorai, sollevando il capo «posso fare una doccia?».

Edward mi sorrise «Ma certo…».

«No» lo interruppe Rosalie.

Sgranai gli occhi e mi voltai verso di lei, che mi fissava con fermezza.

«Rosalie…?» cominciò a chiedere Edward, sorpreso, per poi essere nuovamente interrotto dalla sorella.

Lei alzò lo sguardo verso il fratello, poi ancora su di me. «Non se ne andrà così, fidati, non c’è nessun sapone che può lavarlo».

Abbassai lo sguardo, colpita.

«La sensazione di sporco non si può cancellare, ma si può imparare a conviverci. E poi… parlandone, riuscirai a dimenticarla. A nasconderla in un cassetto tanto piccolo della tua mente che neppure ti disturberà».

Risollevai il capo, lasciando scorrere due lacrime lungo le mie guance.

Lei mi sorrise. «Vieni, andiamo di là…».

La guardai supplicante.

«È l’ultima volta, lo prometto, oggi ti tolgo le bende» mi rassicurò.

Senza opporre resistenza passai dalle braccia di Edward a quelle di Rosalie. Lo guardai, intensamente, e lui mi sorrise, accarezzandomi la guancia prima di andarsene.

«Ecco qui» mi disse Rose togliendomi l’ultima benda. I graffi lungo le gambe erano tutti piccoli segni rossi. Non dolevano più.

«Se ne andranno?» chiesi preoccupata che fossero l’ennesimo segno tangibile che sarebbe rimasto di quel trauma.

«Certo che sì» mi rispose lei con un sorriso. «Ho usato tutti i migliori unguenti che sono riuscita a trovare».

Le strinsi la mano, riconoscente. «Grazie, Rose, per tutto quello che hai fatto…».

Lei mi fece un gesto con la mano per zittirmi. «Sei mia sorella».

Sussultai, colpita dalle sue parole affettuose.

Posò una mano sull’elastico del mio intimo, con uno sguardo intenso in una muta richiesta. «Devo controllare anche lì, i graffi dovrebbero essere quasi spariti».

Sospirai, annuendo.

«Tranquilla, non c’è nessuna lesione interna» mi rassicurò brevemente.

Mi lasciai andare sul lettino.

Come al solito Rose fu veloce e delicata.

«Grazie» le dissi, lasciandomi prendere fra le braccia. Poi rabbrividii. «Rosalie, credo di aver bisogno di un pigiama più caldo».

Lei capì il senso delle mie parole e sul suo volto si aprì un meraviglioso sorriso. «Certo, tesoro, certo».

 

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Capitolo 31
*** Fiducia ***


Il suo sguardo… i suoi occhi… il sangue…

Il suo sguardo… i suoi occhi… il sangue…

Mi svegliai, ancora una volta terrorizzata dal mio incubo, urlando con tutto il fiato che avevo in gola.

Sentii qualcosa sfiorarmi il braccio. Fui pervasa dal terrore. Immediatamente mi ritrassi sul cuscino, spaventata, urlando ancora. Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e il respiro ansante.

La finestra si aprì, e dei deboli raggi di sole illuminarono la stanza.

Edward comparve dinanzi a me, un’espressione preoccupata e tormentata sul viso. «Bella amore, sono io».

Sentii le mie labbra tremolare. Era Edward. Era solo lui, nessun altro mi aveva toccata.

Mentre il cuore calmava la sua corsa, sentii i miei occhi inumidirsi di lacrime. Il terrore lasciava pian piano il posto al senso di colpa. Non volevo che lui soffrisse per quelle mie reazioni, a causa mia.

«S-scusami» balbettai «io…io non mi ero resa conto che… m-mi dispiace…» le parole s’incrinarono a causa dei singhiozzi.

«Non ti preoccupare, lo so che non è colpa tua» mi rassicurò dolcemente, offrendomi le sue braccia aperte.

Titubante lo osservai, le lacrime che scendevano dai miei occhi mi offuscavano la vista. Lui non si mosse. Mi sollevai dal letto, gettando le coperte di lato e posando il capo sul suo petto per librare altri singhiozzi. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, del suo affetto, e di togliermi di dosso quella sensazione di calore che mi pervadeva.

«Che succede?» chiese Rosalie entrando in camera e richiudendosi la porta dietro.

«È colpa mia» sussurrai mesta, asciugandomi le lacrime con il polso, prima che Edward potesse dire qualcosa. Parlare per me era un problema. Era come se… non ci fossi più abituata, per questo cercavo di farlo il minimo indispensabile. «Edward si è avvicinato a me e io mi sono ritratta» continuai, abbassando lo sguardo. «Era buio, non l’avevo visto. Avevo paura».

Lui mi strinse più forte. Avevo una strana e spiacevole sensazione di torpore in tutto il corpo e sentivo le ferite pulsare sotto le bende degli avambracci. Non volevo più soffrire, non volevo più questo dolore.

«Tesoro» mi chiamò dolcemente Rosalie «non ti devi preoccupare di questo, in fondo non è successo nulla. Vedi? Ora siete abbracciati».

Risollevai lo sguardo su di lei. Presi un bel respiro, per non far scendere altre lacrime. Tuttavia il tono di voce salì di alcune ottave «Accadrà ancora. Non andrà più via».

Mi sorrise dolcemente. «Non è così. Ti aiuterò io».

«E anch’io. Te l’ho promesso» mi disse Edward, ricordandomi le mie parole del giorno precedente.

Abbassai lo sguardo. Me l’aveva promesso e io ne avevo bisogno, ma non era così facile permettere agli altri di aiutarmi. Significava renderli partecipi di tante cose che avrei voluto tenere nascoste.

«Vieni, siediti qui» mi disse Rosalie indicandomi il bordo del letto e porgendomi una mano.

La afferrai, titubante, e a malincuore mi staccai da Edward, mettendomi seduta sul materasso.

«Tu Edward, siediti qui, accanto» continuò lei, parlando con il fratello.

Anche lui fece come diceva, sedendosi accanto a me, mentre Rosalie rimase in piedi davanti a noi. Mi sentivo frastornata. Forse perché non ero abituata a stare in quella posizione.

«Ora chiudi gli occhi». Aspettò che io, esitante, abbassassi le palpebre.

Dopo alcuni istanti mi sentii toccare una mano e ancora una volta mi ritrassi spaventata, riaprendo gli occhi. Edward aveva una mano a mezz’aria. Ero stata colta di sorpresa e quella era stata una reazione istintiva. In fondo sapevo che non poteva essere altri che lui. «Scusa» mormorai afflitta e frustrata, tentando di calmare il respiro.

«Non ti preoccupare» disse lui con un sorriso rassicurante.

«Vedi Bella» cominciò Rose «quando tu sai che è Edward a toccarti non hai problemi. Quando invece non lo puoi vedere è il tuo istinto che comanda e prende il sopravvento su di te».

Sospirai. Sì, aveva ragione. Ogni contatto era per me motivo di ricordo della mia prigionia, e faceva troppo male. Tutti quei giorni passati a tentare di mantenere sempre un minimo di lucidità e a scattare ad ogni minimo contatto esterno mi avevano fuorviata.

«Richiudi gli occhi» ordinò.

«I…io…» balbettai. Non volevo rifarlo. Non aveva senso, sarebbe accaduto ancora e Edward ne avrebbe sofferto. Non volevo provare nuovamente paura e soprattutto non volevo ferirlo.

«Fidati di me» mi disse decisa.

Lessi solo determinazione nei suoi occhi, ma non bastò per convincermi. Mi voltai verso Edward, che mi sorrise. Decisi di darmi, di darci, un’altra possibilità. Con un sospiro richiusi lentamente gli occhi.

«Edward, prendile la mano».

Inevitabilmente sussultai al suo tocco, e se non avesse trattenuto la mia mano con la sua l’avrei già ritirata. Mi sentivo vulnerabile e indifesa. Avevo paura e non volevo continuare. Il respiro si stava facendo sempre più corto e presto mi sarei ritrovata senza fiato. Feci per aprire gli occhi, ma Rosalie non me lo permise.

«Respira Bella, piano, prendi un bel respiro» mi ordinò con determinazione.

Aprii e chiusi la bocca, ma senza lasciar passare alcun fiato. Stavo impazzando. Feci per ritirare ancora la mano, ma Edward mi strinse più forte.

«Coraggio amore, ce la puoi fare, respira, così» mi disse ad un orecchio, imitando il respiro profondo che avrei dovuto seguire.

Dovevo farmi aiutare, dovevo farlo. Mi lasciai completamente guidare da lui, seguendo il suo ritmo e lasciando man mano rilassare i muscoli contratti.

«Bene» disse infine Rosalie «Ora mi devi dire cosa senti».

Non capii quello che intendesse dire. Mi sembrava scontato e stupido. Un po’ perplessa cominciai a parlare. «Sento… una mano. Che mi tocca…».

«Sbagliato» rispose lei, facendomi sussultare. «Non è una mano. Non devi tenere conto di quello che la rende simile, ma di quello che la rende differente. Devi considerare le differenze, Bella».

Tentai di pensarci, ma non trovai nulla. Gemetti, frustrata. Volevo solo riaprire gli occhi, non ce la facevo a continuare così. Il senso d’oppressione e turbamento stava nuovamente prendendo la meglio su di me.

«Coraggio Bella» incalzò lei.

Dissi la prima e stupida cosa che mi venne in mente. Volevo solo che la smettesse e presto, prima che le lacrime cominciassero a strabordare dai miei occhi. «È… fredda…?!» dissi incerta e scocciata.

«Giusto, per cominciare può andare bene, continua».

Mi sorpresi di quella risposta. Il senso di abbattimento stava per impossessarsi completamente di me. Tentai di concentrarmi, ma non riuscivo a scorgere altre differenze. Le mie gambe si muovevano tamburellando nervose sul pavimento. «Rose io, non so…» sbottai, armeggiata e sull’orlo del pianto, tentando ancora una volta di ritirare la mano.

«Pensaci bene» m’interruppe, intransigente e perentoria.

«Ti prego» gemetti.

«No».

Proprio quando stavo per scoppiare in lacrime mi ricordai che accanto a me in quel momento c’era Edward e che probabilmente stava soffrendo per le mie parole. Sospirai frettolosamente fra i denti. Fredda, mano fredda.

Smisi di tentare di concentrarmi, perdendomi completamente nelle sensazioni che mi stava regalando e nella percezione del suo tocco. Le differenze. Dovevo pensare alle differenze. Questo mi doveva obbligatoriamente portare al ricordo di un altro paio di mani.

Respirai ancora, piano, tentando di calmarmi e riportando la mente al presente.

Le mani di Edward.

«È delicato» biascicai arrossendo, e umettandomi le labbra «Il tocco… è delicato» ispirai ancora, lasciandomi andare maggiormente. «È dura, liscia» sussurrai, prendendola con entrambe le mani e sfiorandone il palmo. La toccai ancora, in tutti i punti. «Le dita… sono lunghe… da pianista» sorrisi debolmente.

«Brava, stai andando benissimo» mi esortò contenta Rosalie.

Serrai gli occhi e ricacciai giù tutta la mia paura insieme ad un conato di vomito. Continuai, guidata dall’istinto di liberarmi del dolore che sentivo dentro. «È forte e modella la mia pelle… ma non mi fa male. E-elegante. È la mano di Edward. Di mio marito».

«Brava Bella» sussurrò Rose con approvazione.

Aprii piano piano gli occhi, lasciando che le macchie rosse che vedevo per averli serrati con tale intensità danzassero davanti al mio campo visivo.

«Va tutto bene» bisbigliò Edward, e non capii subito se fosse un’affermazione o una domanda.

Rose riprese a parlare con più calma. «È un piccolo inizio, lo so. So anche che ti sembra di non aver conquistato nulla, ma in questo momento ogni cosa farà la differenza».

Tremai, alzai lo sguardo su di lei e annuii, ripetendomi mentalmente le sue parole e provando a farmi forza. «Grazie Rose».

«Figurati» disse lei, sorridendomi e chinandosi per accarezzarmi una guancia.

Inaspettatamente fui colta da un improvviso attacco di nausea e mi allontanai. «Scusa» mormorai, con una mano alla bocca e una alla pancia.

«Ti senti male?» chiese Edward accarezzandomi i capelli.

Appoggiai la fronte sulla sua spalla fredda. «Solo… un po’ di nausea».

«Stenditi un po’» mi propose, prendendomi poi in braccio e sollevandosi in piedi. Rosalie sistemò le coperte e Edward mi appoggiò delicatamente sul materasso. Mi rannicchiai su un lato in posizione fetale.

Edward mi sfregava la schiena, tentando di darmi sollievo, mentre Rose mi accarezzava una guancia. «Vuoi che ti porti in bagno?» mi chiese gentilmente dopo un po’.

Scossi il capo sul cuscino, prendendo un respiro. «No… è già passato» mormorai atona.

Edward mi sorrise, tentando di rassicurarmi. «Ti sei agitata un po’. Non ti stancare, riprendi fiato e riposati».

«Possiamo darle i calmanti» disse Rosalie indicando delle fiale di vetro su comodino.

«Sì, avrebbe dovuto prenderli appena sveglia» ripose Edward.

«Dovremmo chiamare Carlisle».

Sentii la bocca ardere, senza saliva, e il fiato bloccarsi in gola, mentre stringevo forte la mano di Edward. Non volevo. Non volevo ancora pensare di aver bisogno di un medico per guarire dalla mia follia.

«Rosalie» la richiamò bonariamente Edward, notando la mia reazione «va bene così, per ora. Se starà di nuovo male lo chiameremo. Ci vorrà qualche giorno di terapia continuativa prima che si possano apprezzare gli effetti».

Rosalie annuì. Aprì il flaconcino che era sul mio comodino e fece cadere sulla mano una compressa che mi porse insieme a un bicchiere d’acqua. La mandai giù in un sorso e glielo riposi.

 Esitai, poi mi strinsi al braccio di Edward, lasciandomi cullare dalla pace e dal torpore artificiale dei farmaci.

«Tesoro, vuoi mangiare qualcosa?» mi chiese Rosalie.

Quella domanda mi sorprese. Non pensavo al cibo da molto, molto tempo.

«È quasi mezzogiorno» continuò lei, aspettando che le rispondessi in qualche modo.

Mi stupii di aver dormito per così tanto tempo, ma non dissi nulla. Non avere il controllo del tempo mi disorientava molto. Mi girai supina e Edward mi sistemò i cuscini dietro la schiena. Il precedente attacco di nausea unito all’effetto degli psicofarmaci mi aveva lasciata spossata.

Edward mi prese le mani fra le sue e mi fissò intensamente, probabilmente in attesa di una mia risposta.

Feci vagare lo sguardo lontano, sospirando. Non avevo appetito, e, stranamente, la prospettiva di farmi infilzare ancora con degli aghi non mi pareva così orribile, ma sapevo che era necessario ricominciare a mangiare. Edward era così fiducioso che lo facessi. «Va bene» biascicai infine, disinteressata.

Mi sorrise, facendo trapelare la sua felicità per quella piccola concessione.

«Torno subito» mi disse Rose, scomparendo.

Mi persi per un attimo ad osservare il volto dell’uomo che avevo sposato. Stavo facendo tutto per lui. La mia vita era legata a un filo. E quel filo dipendeva dal mio amore per lui e dalla sua felicità.

 

«Ecco qui» disse Rose posando il vassoio.

Edward si sedette su un lato del letto, sorridendomi. «Guarda» disse girando con cucchiaio una poltiglia arancione «Deve essere buona».

La osservai vacua. In fondo dovevo solo ingoiare quella cosa. Quanto poteva essere difficile? Sospirai afflitta; poi mi rabbuiai, abbassando lo sguardo. Mi sentivo terribilmente in colpa.

Sentii una mano sotto il mento. «Bella?» mi chiamò Edward, guardandomi intensamente negli occhi. «Cosa succede?».

Sfuggii nuovamente ai suoi occhi indagatori, non volevo che mi guardasse così. Non volevo che mi osservasse. Mi mordicchiai un labbro. «Ci è rimasta molto male?» chiesi infine, a voce così bassa e tremante che se non ci fossero stati due vampiri davanti a me non mi avrebbero neppure sentita.

«Ma no Bella… Esme non ce l’avrebbe mai con te» mi rispose subito Rosalie capendo di cosa stessi parlando.

Edward mi prese il volto fra le mani, cancellando con i pollici le lacrime silenziose che avevano cominciato a scendere.

Mi portai una mano tremante alle labbra, gli occhi persi nel vuoto dei ricordi. «Io… Io…» balbettai «non volevo farlo». Mi lasciai completamente andare, sfogandomi nelle lacrime. Risollevai lo sguardo su quello di Edward e deglutii a vuoto. «Mi voleva far mangiare per forza. Jacob» spiegai, tirando inutilmente su con il naso, visto che ormai il pianto si era fatto più accesso «aveva messo qualcosa nel cibo… e io non lo volevo mangiare. Lui diceva che era solo per far abbassare la febbre, ma… io… mi forzava… tentavo di non mangiare, ma lui…».

«Amore», mi richiamò Edward, gli occhi ampi di rabbia e tensione, accarezzandomi una guancia «non mi perdonerò mai per tutto il male che ti ha fatto. Per tutto quello che hai dovuto sopportare. Deve essere stato orribile».

Presi la mano con cui mi stava accarezzando la guancia e volsi la testa, baciandogli il palmo e lasciando calmare i singhiozzi. «Ti prego, dì ad Esme che mi dispiace tantissimo, ti prego» mormorai afflitta.

«Ma non è necessario, lei già lo sa».

«Ti prego» incalzai, stringendo maggiormente la presa sulla sua mano.

«Lo faccio io Bella» mi disse Rosalie «Se tu vuoi le spiegherò le ragioni del tuo comportamento e vedrai che lei capirà. Starete entrambe sicuramente meglio».

Valutai cautamente quello che mi stava dicendo. No, non volevo che altre persone venissero a sapere dei mostri che torturavano la mia mente. Ma sì, volevo che Esme fosse felice. Volevo rimediare al mio errore. «Sì» sussurrai, calmando definitivamente i singhiozzi e lasciando che Edward mi asciugasse le ultime lacrime. «Solo a lei» aggiunsi debolmente.

«Va bene, solo a lei» disse Rosalie contenta uscendo dalla stanza.

Edward mi sorrise e io ricambiai il suo sguardo con l’intensità che mi potevo permettere. «Ora mangia qualcosa» fece porgendomi una cucchiaiata del passato di verdure. Ci soffiò sopra per farla raffreddare e l’accompagnò alla mia bocca con l’altra mano.

Tremai. Tentai di ricordarmi che ero con Edward, non Jacob. Che ero al sicuro. Aprii le labbra e la mandai giù, non senza qualche difficoltà. Era meno disgustosa di quanto mi sarei immaginata. Pensai che forse sarebbe stato più facile se avessi preso il cucchiaio con le mie mani, ma avevo paura che cambiando qualunque cosa avrei potuto avere una reazione incontrollata. Avrei potuto ferire ancora Edward. Aprii la bocca per prendere una seconda cucchiaiata, e scese giù più facilmente.

Feci per sollevarmi leggermente, in modo da sistemarmi meglio sul letto, facendo leva sulle braccia, ma sentii delle fitte e ricaddi fra i cuscini. Guardai Edward disorientata e preoccupata.

Edward sospirò. «Non è niente, ti sei fatta un po’ male». E poi aggiunse, evasivo, al mio sguardo insistente «Qualche punto».

Distolsi lo sguardo. Presi qualche respiro superficiale per calmarmi. Mi volsi, e lasciai che mi imboccasse ancora. Ingoiai un altro boccone. Fu più difficile. Dopo un altro non potei più continuare. «Basta, ti prego» biascicai. Osservai il piatto. Non ne avevo mangiato neppure metà.

«Va bene» annuì, mal celando una certa preoccupazione. Mise via il piatto. Poi aggiunse, forse per rassicurare più sé stesso che me «È normale che tu non abbia fame. Hai preso i calmati, non hai mangiato per sei giorni. Il tuo organismo si deve riadattare».

«Sei giorni?» mi lasciai sfuggire dalle labbra per la sorpresa.

Lui sorrise per la mia reazione, poi sussultò, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa. «Aspetta un attimo» mi disse con un sorriso incoraggiante. Scomparve in un secondo e dopo pochi istanti era di nuovo di fronte a me, con una mano dietro la schiena. «Indovina cos’ho qui?» mi chiese con dolcezza.

Lo guardai. Dentro di me sentivo una strana sensazione. Mi sentivo rassicurata. Forse quasi… felice?   

«Guarda» mi disse avvicinandosi e mostrandomi un barattolino di gelato e un cucchiaio.

Mi portai le mani alla bocca. «F…fragola e limone?» balbettai, facendo comparire sulle mie labbra l’antica ombra di un sorriso.

«Sì amore», mi disse contento ed emozionato «tieni».

Volevo piangere, ma in quel momento le lacrime di gioia non erano contemplate. Avevo paura che avrebbero riaperto voragini di malinconia che volevo solo tenere sotterrate. Ne presi un paio di cucchiai, e sia io che Edward lo interpretammo come una vittoria. «Grazie» commentai infine atona per farlo smettere.

«Devi ringraziare Alice».

«Alice…?» chiesi debolmente, rabbrividendo al ricordo del nostro ultimo incontro.

Lui sorrise. «Sì, è stata una sua idea».

Aspettai che Edward riponesse il gelato e mi feci pulire le labbra con un tovagliolo, perdendomi in lontananza con lo sguardo.

«Tesoro, Alice non ce l’ha con te» mi disse Edward intuendo i miei pensieri.

Sospirai, affranta e contrariata, al ricordo del risentimento che avevo scatenato in lei.

«Fidati di me, non può nascondermi i pensieri molto a lungo».

Mi voltai ad osservare Edward che, con le sopracciglia aggrottate mi parlava concitato.

«Lei soffre perché ti vede sempre allo stesso modo, che non migliori, che non vuoi migliorare. Non vede più il tuo futuro in cui eravate sorelle. Per questo soffre, e perché non ti comprende. Perché sai com’è Alice, lei è sempre quella che risolve la situazione» disse, parlando teneramente della sorella «lei è sempre quella che reagisce, e non ti comprende. Non capisce perché tu non vuoi reagire. Anche adesso, è vero, qualcosa sta cambiando ma… ha paura che non ritorni più com’eri. Che non ritorni più ad essere te stessa» concluse con dolore.

Non dissi nulla, riconoscendo la verità nelle sue parole. Non ero più io. Mi sentivo un inutile guscio, vuoto, abitato solo da un barlume di speranza alimentato dall’amore per Edward. Purtroppo il mio cervello umano non poteva sopportare dei dolori così grandi contemporaneamente. Lo sapevo che anche parlando e ricominciando a vivere non sarei più stata la stessa. Ero irrimediabilmente cambiata. Sentii un turbine nella testa. Mi sentivo intrappolata. Probabilmente se il diazepam non avesse già fatto effetto a quel punto mi sarei ritrovata in piena crisi di panico. Feci vagare il mio sguardo nella stanza, in cerca di una via d’uscita a quel senso d’oppressione che mi sentivo addosso. «Posso andare un po’ alla finestra? Vorrei prendere un po’ d’aria».

Lo sguardo di Edward si gelò e solo in quel momento mi ricordai di quello che era successo. Chi era dei due ad avere un disturbo da stress post-traumatico?

Mi sentii ancora peggio. Deglutii. Chiusi gli occhi e mi dondolai avanti e indietro, come tentando di cullarmi. «Non lo volevo fare davvero, lo giuro. È stato solo un momento» biascicai querula.

Lui chiuse e riaprì gli occhi, molto lentamente. «Shh. Va bene. Mi fido di te. Te l’ho detto» disse sollevandosi con grazia e porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.

«Grazie» sussurrai grata, prendendo la sua mano e facendomi guidare per la stanza. Mi sentivo molto debole e stanca, probabilmente per opera dei calmanti. E di certo non ero abituata a camminare, ma mi faceva sentire viva essere sulle mie gambe.

Ci sedemmo davanti alla vetrata semi-aperta, uno di fronte all’altra. L’aria fresca di Forks mi fece subito sentire meglio. Guardai in lontananza, fra i monti e fra le finestre e respirando a pieni polmoni.

Ripensavo a tutto l’affetto che ogni componente della famiglia mi aveva riservato in quei giorni. Non lo meritavo. No davvero. Appoggiai la testa al vetro, guardandomi le mani.

Sulla mano destra c’era inciso un segno verticale, rosso sui bordi.

«Loro lo sanno…?» chiesi, senza distogliere lo sguardo dalle mie mani. «Lo sanno che sono stata io, ad ucciderlo?».

«Sì Bella» mi rispose deciso Edward.

Singhiozzai, stringendomi il petto e sentendo i suoi occhi puntati su di me. «Non mi guardare, ti prego» mi strinsi più forte per contrastare il dolore che mi dilaniava «non mi guardare, lasciami qui, va’ via… non sono degna di averti accanto a me…».

«Bella, amore» mi chiamò serio «guardami».

Scossi la testa in segno di diniego.

«Bella» mi richiamò deciso e perentorio.

Dovetti per forza voltarmi. Lo osservai attraverso i miei occhi annebbiati di lacrime. Era estremamente serio, aveva un’espressione decisa in volto.

«È per questo che stai così male, perché lui è morto?».

Singhiozzai, nascondendomi il volto fra le mani. «Non perché è morto» piansi «Perché io ho ucciso una persona, ho ucciso un uomo, capisci?!» la voce era salita fino a che non ero arrivata allo stremo del pianto.

La sua voce invece era bassa, ma intensa e abbattuta «Io capisco che niente, mai, avrebbe dovuto macchiare la tua anima pura, e credimi se ti dico che avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo, ma lui ti ha fatto del male! Ti ha fatto del male Bella, e ne avrebbe fatto anche a me! E a tutti noi. Tu non hai nulla di sbagliato. Hai fatto la cosa giusta».

Non lo ascoltai e sovrastai le sue parole con i miei singhiozzi.

Edward riprese con un altro tono di voce. «È solo per questo o c’è anche altro?». Fece una pausa, durante la quale non risposi. «È per quello che ti ha fatto, vero?» mi chiese gentilmente.

Rimasi in silenzio. Alzai lo sguardo su di lui e l’abbassai. Lo prese come un assenso.

Aspettai di calmarmi. Fu più facile di quanto pensassi, non so se per opera dei calmanti o per il vano sollievo delle lacrime. Edward non disse nulla, ma rimase a guardarmi in silenzio. Sentivo i suoi occhi su di me.

Mi guardai nuovamente la cicatrice che mi ero causata tagliando la gola a Jacob. Tanta era stata la forza che avevo usato da imprimermi un profondo taglio. Un pensiero orribile mi attraversò la mente.

Mi voltai verso Edward, sobbalzando. «E se non fosse morto?» chiesi in un fiato, terrorizzata da questa ipotesi.

Esitò, un’espressione afflitta sul viso, nel tempo che decideva quale realtà mi sarebbe stata più sopportabile. Poi si decise a dirmi la verità. «No Bella, è morto. Ho controllato io stesso». Mi prese le mani fra le sue. Lo feci fare, non avevo abbastanza forza di volontà per oppormi. «Se solo potessi tornare indietro e fare io quello che hai dovuto fare tu, credimi, lo farei. Troverei il modo e lo farei… Ma non posso. Non posso» mi disse addolorato.

I singhiozzi emersero nuovamente in me, con più forza. Io lo avrei voluto. Sentivo un egoistico senso di sollievo nel sapere che doveva essere lui a ucciderlo.

Edward si spaventò particolarmente per quella mia reazione. «Amore» mi chiamò ansioso, tendendomi le braccia.

Non esitai e mi lanciai sul suo petto. «Se… se fosse ancora necessario, s-so che lo rifarei. Lo ucciderei… u-un’altra volta, m-ma… sono solo un’egoista… p-perché preferirei che… fossi tu a farlo…».

Edward mi strinse più forte, tentando inutilmente di calmare i miei potenti singhiozzi. «Sarebbe giusto così» mi prese il viso fra le mani, facendomi scontrare contro i suoi occhi. «Tu non dovevi essere coinvolta in questo mondo strano. Io sono un vampiro Bella, io dovevo ucciderlo, sarebbe stato giusto così! Vampiro contro licantropo è normale. È normale, anche se orribile per me, uccidere qualcuno. Sono creato appositamente. Ma tu, piccolo, dolce, puro amore mio, tu non dovevi avere questo peso gravoso sulla tua anim…».

Chiusi gli occhi sul suo petto, lasciandomi cullare per un po’. Poi mi sentii sollevare e mi ritrovai fra le braccia di Edward. «Ho sentito odio» la mia voce era roca per il pianto appena cessato «tanto, profondo odio, e un forte desiderio di vendetta». Posai la testa nell’incavo del suo collo.

«Era esattamente quello che provavo anch’io» sussurrò Edward.

In quell’istante provai sollievo. Mi sentivo più leggera. Non sentivo più alcun peso opprimente. Respirare era tornato ad essere qualcosa di istintivo e naturale, facile.

Non sapevo esattamente perché, forse per essermi sfogata e aver raccontato a Edward tutto quello che avevo provato, forse perché semplicemente ero fra le sue braccia.

Capii che mi poteva davvero aiutare. Potevo davvero sentirmi meglio.

Mi sollevai leggermente, in modo da poter osservare il suo volto. Aveva un’espressione triste. «Grazie di aver rimpicciolito la paura» mormorai.

Lui mi fece il sorriso sghembo che tanto amavo, aprendosi nella gioia di vedermi un po’ meno fragile.

«Mi sei mancato» confessai, accarezzandogli una guancia.

Lui chiuse gli occhi e posò una mano sulla mia. Fu in quel momento che notai le fedi.

«Mi è mancato tanto mio marito» ammisi.

Sorrise, riaprendo gli occhi. «Anche a me è mancata mia moglie».

Mi avvicinai con il viso al suo, inspirando forte il suo odore dolce e delizioso. Chiusi gli occhi e misi fine allo spazio che ancora divideva le nostre labbra, baciandolo. Era quello di cui avevo bisogno. Era amore, e lavava via ogni mia ferita. Era amore, e curava la mia anima. Era amore, e mi permetteva di amare.

«Ti amo» sussurrai, staccandomi da lui.

Gli occhi di Edward brillavano come i miei, anche senza la possibilità di versare quelle lacrime di gioia che sicuramente avrebbero voluto scendere. «Ti amo anch’io».

«Edward» lo richiamai, ricordandomi di quello che mi aveva chiesto qualche giorno prima. «Anch’io mi fido di te» dissi baciandolo ancora.

 

 

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Capitolo 32
*** Tanta paura ***


«Amore, prova a calmarti, devi respirare piano, così» disse Edward ansioso, mostrandomi il ritmo del respiro che avrei dovuto seguire

«Amore, prova a calmarti, devi respirare piano, così» disse Edward ansioso, mostrandomi il ritmo del respiro che avrei dovuto seguire.

Mi concentrai sui suoi occhi neri, ma nonostante mi sembrava che aprissi e chiudessi la bocca allo stesso ritmo della sua, sentivo che il fiato non riusciva a passare. Strinsi con forza la sua maglia in un pugno, in cerca dell’aria che sempre più scarseggiava. Quello era l’ennesimo attacco di panico in un giorno, dovuto sempre allo stesso motivo…

«Quanto tempo è passato?» chiese Edward a Rosalie.

Scorsi con la coda dell’occhio il suo sguardo preoccupato «Sono già 37 secondi».

Annaspai ancora, sollevandomi leggermente col busto dal materasso e serrando con entrambe le mani la presa sul maglione di Edward. Iniziavo a vedere dei puntini luminosi ai bordi del campo visivo.

Lui mi sostenne per le braccia, fissandomi preoccupato. «Una busta Rose, veloce, vai».

Lei scomparve in un istante.

Tentai di dire il nome di Edward, di respirare come mi diceva lui, ma diventava sempre più difficile farlo. «E…ed…» biascicai, affamata d’aria.

Subito dopo Rosalie comparve con un sacchetto di cartone.

Edward me lo mise davanti alla bocca, ma io lo allontanai gemendo. Mi sembrava che mi togliesse la poca aria che mi rimaneva. La testa mi girava forte e mi sentivo soffocare.

«Fidati di me» mi disse risoluto.

Lo fissai e decisi che non avrei potuto fare altrimenti. Lasciai che mettesse il sacchetto sulla mia bocca, senza protestare.

«Respira» ordinò.

Tentai di farlo e questa volta fu più semplice assecondare la sua richiesta e i suoi occhi puntati nei miei riuscirono a comunicarmi la calma necessaria per farlo.

«Così, brava» m’incoraggiò con un breve sorriso.

Continuai a seguire le sue istruzioni, finché la respirazione non si regolarizzò e sentii di riuscire ad avere nuovamente il controllo di me stessa. Mi lasciai andare sui cuscini, abbandonando la presa che avevo stretto su Edward e chiudendo gli occhi.

Non volevo piangere, non di nuovo. Sapevo che ogni volta che lo facevo lui ci soffriva davvero tanto. Era molto bravo a mascherare le sue emozioni, ma io lo conoscevo fin troppo bene. Però Rosalie me lo diceva, tenermi le cose dentro era anche peggio. Ma questo sarebbe stato l’ultimo tentativo di parlare. Avevo provato a raccontare tutto quello che avevo dovuto subire da Jacob. Quello che avevo ottenuto erano stati dei farfugliamenti più o meno incoerenti e tre attacchi di panico consecutivi, di cui l’ultimo il più devastante.

Malgrado la forza che tentavo di applicare su me stessa, malgrado la psicoterapia di Rosalie e la costante assunzione di psicofarmaci, sentivo le mie labbra stringersi e la gola ardere per il magone che la stava bruciando. Se avessi aperto gli occhi o detta anche una sola parola, sarei scoppiata in lacrime.

«Amore» mi chiamò dolcemente Edward, sfiorandomi una guancia.

Trasalì brevemente, ancora scossa. Aprii gli occhi, scontrandomi con il suo sguardo gentile. «Vi prego… basta…». Come previsto la mia voce si ruppe a causa del pianto.

Edward mi prese fra le braccia e mi strinse a sé, cullandomi.

Mi lasciai trascinare dal suo movimento e tentai di calmarmi in fretta. Le lacrime smisero di scendere piuttosto velocemente. Respirai a pieni polmoni il suo odore, beandomi del contatto con il suo petto.

«Va bene, per oggi basta» acconsentì Rose, accarezzandomi una guancia.

«Grazie» sussurrai, alzando lentamente una mano, fino a sfiorare la sua. Poi mi strinsi la pancia con entrambe le mani, accoccolandomi fra le braccia di Edward.

Rose si sollevò dal letto e si diresse verso il mio comodino. Quanto odiavo quel mobiletto.

«Ancora nausea?» mi chiese lui, accarezzandomi i capelli.

«Un po’…» mormorai. Era una cosa che andava e veniva in tutta la giornata, ma almeno non rigettavo più da un po’. Edward, preoccupato, ne aveva parlato con Carlisle, ma lui aveva detto che ognuno, dopo un forte stress, si sfoga in modi diversi. Quello era il mio. La chiave di tutto era mantenere la calma, oppure, crearla artificialmente.

Rose mi porse il mio bicchiere d’acqua, poi prese dal comodino pieno di medicinali il familiare flaconcino di compresse e me ne diede una.

Lo ingoiai in un sorso, senza protestare. Mi sentivo sempre più fiacca e rallentata, ma per le ore successive alla somministrazione dei calmanti mi sembrava quasi di riuscire a respirare, di riuscire a pensare che per me ci fosse una speranza e nella mia mente non c’era posto solo per i pensieri bui.

«Vedrai che fra un po’ starai meglio» mi rassicurò Edward «te l’ho detto, ci vuole un po’ perché la terapia vada a regime».

Sospirai, voltandomi leggermente per guardarlo negli occhi. Accarezzai con una mano il suo sorriso, la sua mascella, le sue occhiaie. Era stupendo, come sempre, mentre io…

«Rose» chiamai, prima che uscisse dalla stanza «posso fare una doccia?». Lei mi fissò, come se stesse per dire qualcosa, ma io la zittì con un gesto della mano. «Mi sento sudata e appiccicaticcia e non oso immaginare in che stato siano i miei capelli, te ne prego…».

Lei mi sorrise, divertita. «Sì certo», poi aggiunse, titubante «dovrei aiutarti però, non devi bagnare le bende alla braccia».

Sollevai le sopracciglia, perplessa. «Non si possono togliere?».

«No» mi risposero contemporaneamente Edward e Rosalie, destabilizzandomi.

Trasalii alla loro reazione.

Si fissarono per alcuni istanti. Poi intervenne Edward «Tesoro, fatti aiutare da Rose, sarei molto più sicuro» aggiungendo, titubante «certo, se per te non è un problema».

Leggendo la sua espressione preoccupata dissipai tutti i miei dubbi. «No, non ti preoccupare, va bene, davvero» dissi con un sorriso accennato, sollevandomi in piedi e lasciandomi guidare verso il bagno da Rose.

Non era davvero un problema farmi lavare da lei, e non volevo che Edward lo pensasse. Da quando avevo deciso di farmi aiutare da lui e Rose, stavo prendendo molta più coscienza di quello che mi stava intorno. Sapevo che era giovedì. E in questo momento erano le undici del mattino. Stavo facendo progressi. Mentre l’acqua mi scorreva addosso, tentai di ricordarmi la data di quel giorno. Settembre, di sicuro, ma… in quel momento mi ricordai di una cosa.

«R-Rose?» chiamai, mentre lei mi avvolgeva in una morbida asciugamano bianca.

«Sì?» mi disse lei, gentile, porgendomi l’intimo. «Qualcosa non va?».

«No… È solo che… ho… ho un ritardo di… più di due settimane…» balbettai, vestendomi.

Lei mi sorrise con delicatezza. «È normale Bella, non ti preoccupare. Quando si è sottoposti a un forte stress capitano spesso di queste cose» poi si fece più seria «comunque, se ne vuoi parlare con qualcuno… un ginecologo…».

Trasalii.

Lei comprese il mio disagio e venne a sedersi accanto a me sul lettino. «Non c’è motivo di allarmarsi Bella. Aspetteremo e… se sarà necessario…».

«No» la interruppi decisa, cambiando velocemente stato d’animo. «Non m’importa». Spostai lo sguardo lontano. Mi rendevo conto che lei sarebbe stata contraria a quanto avrei detto, ma ormai non poteva più opporsi. Inoltre, questa decisione l’avevo presa già da parecchio tempo. «Fra poco sarò trasformata e comunque, non è importante. Quello che voglio è stare con Edward».

Lei mi passò un braccio sulla spalla. «Sei ancora certa di voler essere trasformata?».

«Sì» sussurrai. «Devo solo decidere il quando, con Edward e… con tutti gli altri».

Lei balzò giù dal lettino, e andò a prendere il pigiama. «Non metterti fretta» mi disse discreta, porgendomelo.

«Rose» la chiamai «posso avere qualcosa che non sia un pigiama?». Abbassai lo sguardo. «Mi sento tanto una malata».

Lei ridacchiò. «Hai ragione, temo che dovrò far scomparire tutti quei medicinali che odi tanto» scherzò. Poi si guardò intorno. «Beh, abbiamo alcuni tuoi vestiti, ma non puoi ancora mettere i jeans, il denim rischia di irritarti la pelle».

«Tuta?» proposi, mordicchiandomi un labbro.

Lei rise ancora, più abbondantemente. «Non credo che Alice abbia pensato a comprarti delle tute!».

Trattenni il respiro, scostando lo sguardo. Il nome “Alice” mi riportava alla mente i recenti rapporti con la mia sorellina. Non ci avevo ancora parlato, né l’avevo vista. Lei ci doveva stare davvero male, ma… Non so se ce l’avrei fatta. Non so come avrei potuto reagire e non volevo farla soffrire ulteriormente.

«Ti prendo un vestito» disse infine Rosalie, probabilmente per interrompere il triste flusso dei miei pensieri.

Mi osservai le gambe. C’era stato un evidente cambiamento, ma ancora si vedevano delle cicatrici in via di guarigione, disseminate dal ginocchio in su.

«Lungo» aggiunse, porgendomi un vestito color amaranto che arrivava fino a metà polpaccio.

Lo indossai e mi feci sistemare i capelli con un fermaglio nero, che richiamava alcune impunture che spiccavano sul corpetto del vestito e sull’orlo della gonna. Fortunatamente Rose fece in fretta, non facendomi indugiare ancora a lungo sul ricordo di Alice.

Mi guardai allo specchio. Avevo le occhiaie e gli occhi un po’ rossi per il pianto e per il sonno. Le guance erano leggermente meno voluminose. Ma nel complesso, con i capelli che finalmente ricadevano morbidi e profumati sulle spalle, e quel vestito così carino, potevo sembrare passabile.

Ritornai in camera. Edward non c’era, sapevo che usciva per concedermi la mia privacy, ma in quel momento il bisogno di lui diventò necessario.

«Sta tornando» mi disse Rosalie, poggiandomi una mano sulla spalla e intuendo i miei pensieri.

Annuii e mi andai a sedere sul letto.

Poco dopo la porta si aprì e Edward spuntò dietro di essa.

Notai il suo abbigliamento. «Ti sei cambiato?».

Sul suo volto si aprì un magnifico sorriso. «L’hai notato?».

Io arrossii, abbassando il capo. Dovevo essere stata piuttosto assente nell’ultimo periodo…

«Sei davvero meravigliosa» sussurrò, ritrovandosi improvvisamente a pochi centimetri dal mio viso. «Niente più pigiama?» scherzò debolmente.

Mi mordicchiai il labbro, risollevando lo sguardo. «Adesso non ho sonno» mormorai imbarazzata. Passavo le mie giornate fra il letto e la psicoterapia di Rosalie. Ero perennemente stanca e intontita per via dei calmanti.

«Vuoi mangiare qualcosa?» mi chiese Edward.

Sgranai gli occhi, sorpresa. «È già ora di pranzo?».

Edward mi sorrise paziente. «Prima erano le undici amore, ricordi? Siete state un’ora in bagno, quindi ora è mezzogiorno».

Speravo che la tortura del dover mangiare arrivasse più tardi. «Non mi va… non ho fame…» protestai.

«Lo so, è l’effetto dei calmanti» - uno dei tanti, pensai - «ma devi riabituarti a farlo, sei dimagrita un bel po’» disse gentile, ma con un tono piuttosto persuasivo.

Scostai lo sguardo e strinsi con le dita le lenzuola. Non volevo mangiare, ma pensare a un atteggiamento oppositivo nei confronti del cibo avrebbe aumentato le mie problematiche aveva detto Rosalie. Cercavo di trattare il fatto di nutrirmi con indifferenza. Emetofobia aveva detto Carlisle. Paura di vomitare, paura quindi di mangiare. Paura di farmi imboccare. Paura di non avere la libertà di scegliere. Presi un respiro, prima che tutte quelle paure prendessero il sopravvento. «Più tardi» affermai, tentando inutilmente di mascherare la mia voce tremante.

«Va bene» mi concesse Edward, capendo che non era il momento di insistere e sedendosi sul letto accanto a me.

«Dov’è Rosalie?» gli chiesi, poggiando la testa sulla sua spalla.

«Giù con Emmett».

«Oh» dissi solo, mordicchiandomi il labbro. Capivo benissimo quella sua esigenza, la stessa che sentivo verso Edward. Lei passava tutto il suo tempo con me e doveva rinunciare a suo marito. Certo, se io avessi acconsentito… «Ci sono anche tutti gli altri?» chiesi a Edward, ostentando indifferenza.

«Sì, tutti» rispose lui, senza aggiungere altro.

«Com’è il tempo oggi?». In realtà poteva sembrare che quella mia domanda non c’entrasse nulla con la conversazione che stavamo facendo, ma invece c’entrava, e molto. Rose diceva che stavo costruendo la mia gabbia di certezze dentro quella stanza, ma che così facendo mi sarei solo trovata in un’altra prigione. Volevo uscire, o almeno provarci. Il problema era se potevo farlo fuori, oppure sarei stata costretta a rimanere dentro…

«Un bel tepore» disse Edward accarezzandomi i capelli «ben ventisette gradi, un record per Forks».

Rabbrividii, stringendomi a lui. No, non sarei uscita. Mi tenevo ben lontana da qualsiasi fonte di calore. Mi strinsi sul corpo ghiacciato di Edward. «Volevo andare a fare una passeggiata» mormorai afflitta, abbassando lo sguardo.

Lui girò il volto verso il mio, sorridendomi benevolo. «Ti va di venire un po’ giù con me?».

Mi irrigidii sul posto. Avevo paura. Semplicemente paura. «Io» balbettai «non so».

«Sarebbe bello uscire da qui, vero? E non vuoi uscire fuori, questo l’ho capito. Nel soggiorno si sta molto bene. Possiamo accendere il condizionatore» disse divertito.

Sorrisi debolmente, per poi farmi di nuovo seria. «Non lo so» biascicai, abbassando e risollevando lo sguardo «qui sono al sicuro. Ci sei tu e sono protetta, so dov’è ogni cosa, tutto è al suo posto. Se… se dovesse tornare la nausea? Se facessero qualcosa di strano? Se si muovessero troppo velocemente? No… non posso avere un altro attacco di panico oggi. Non oggi, non ancora» bisbigliai velocemente, portandomi le mani alla testa.

«Amore, amore» mi richiamò Edward, interrompendo il flusso delle mie parole. «Non c’è niente lì fuori che possa farti del male. Ci sono io e loro, che sono la tua famiglia. Ti amano. Non si muoveranno velocemente, non ti toccheranno e non sarai costretta a rispondergli. Loro ti vorranno bene e ti ameranno, sempre. Qualsiasi cosa tu faccia. E ti capiscono, sanno quello che hai passato» mi sorrise «Inoltre io starò sempre accanto a te, e tu non farai nulla di sbagliato, davvero».

Presi un respiro veloce, tamburellando con il dito sul copriletto. «Forse dovrei prendere un altro calmante per farcela. Quanto tempo è passato dall’ultima dose? Carlisle ha detto che posso riprenderlo se ne ho bisogno» farfugliai concitata.

Edward si sollevò, lentamente proprio come gli avevo chiesto, e si piegò sulle ginocchia davanti a me per guardarmi negli occhi. «Amore» mi disse, sistemandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Non ti reggi in piedi da quanto sei stordita. Sei una piuma ormai, ed è passato troppo poco tempo dall’ultima dose. È vero quello che ha detto Carlisle, ma adesso stai bene. I farmaci non risolveranno tutto. Non deve essere per forza oggi quel giorno, ma ci sarà il momento in cui uscirai da quella porta. E farà paura, finché non l’avrai affrontato».

Annuii, tremante, schiacciata dal peso della sua logica.

«Sì, è così. Adesso hai paura?».

Esitai, incerta se mentirgli. «Sì» mormorai flebile, socchiudendo le palpebre.

Mi carezzò le mani con le sue dita. «Poca paura o tanta paura?».

Mi morsi un labbro. «Media paura» soffiai, con un mezzo sorriso sulle labbra.

Sorrise a sua volta. «Media paura è affrontabilissima, che dici? Insieme a tuo marito. Facciamo qualche passo fuori, e quando vuoi torniamo qui. Hai sempre una via d’uscita e i mostri non ci sono».

Deglutii, ripetendo le sue parole. «I mostri non ci sono».

La mia media paura diventò gigantesca davanti alla porta chiusa della sua stanza. Edward continuava a rassicurarmi al mio orecchio, ma io sentivo solo il battito impazzito del mio cuore.

Posò una mano bianca sulla maniglia, stringendo con più forza la mia mano e sorridendomi rassicurante «Fai un bel respiro» disse aprendo la porta.

Mi sembrò di impazzire. Mi presi tutto il tempo ad analizzare gli unici tre metri di corridoio vuoto che riuscivo a vedere, e la mano di Edward fu sempre nella mia. «Non c’è nessuno» affermai, quasi volessi convincermene.

«Nessuno che ti voglia fare del male».

Annuii, e mossi i primi passi verso l’esterno della stanza. Ero al sicuro. Passo, dopo passo, dopo passo. Non c’era niente di cui avere paura. Passo, dopo passo, dopo passo. Grande paura. Media paura. Poca paura. Mi sorpresi che alla fine del corridoio non avessi ancora avuto un attacco di panico.

Mi volsi verso Edward e mi sorrise, incoraggiante. Ma poi crucciò le sopracciglia e io mi agitai. «Che succede?» domandai scossa, respirando più rapidamente.

Distese immediatamente ogni piega del suo volto. «Shh, va tutto bene. Guarda» disse, facendo per sfilare la mano dalla mia.

«No, no, no. Tanta. Edward, non farlo ti prego. Tanta, tantissima paura» lo supplicai angosciata.

Mi strinse a sé, cullandomi con il capo sul suo petto e dandomi tutto il tempo di calmarmi. «Ecco, così brava. Scusami, non ti volevo lasciare. Voglio solo farti vedere una cosa. E so che è una cosa sicura, che non fa paura e che ti farà stare bene. Ok?» mi disse lentamente, con infinita pazienza.

Annuii, mio malgrado. Non c’erano cose che non mi facevano paura, ormai. Ma questo non glielo dissi.

Rimasi nascosta dietro di lui mentre apriva la porta della stanza che ci stava di fronte, dove ci eravamo fermati.

Smisi per un attimo di respirare. Al contro della stanza, con la testa bassa, che guardava fisso il pavimento ai suoi piedi, c’era Alice. Ad un tratto sollevò il visino pallido e marcato da profonde occhiaie violacee. Gli occhi, scurissimi, erano vacui, come se stesse avendo una visione. Li mise a fuoco su di me e mi guardò con dolcezza. «Anch’io» mi disse soltanto.

Crollai sulle mie gambe e scoppiai a piangere. Nonostante la paura lasciai che si avvicinasse lentamente e mi stringesse a sé. Sentii mia sorella vicina a me. Ma non vicina al mio corpo, vicina alla mia anima. Come se finalmente, in quel silenzioso abbraccio, qualcosa di prezioso fosse stato aggiustato. Come un collezionista che ripara il suo vaso rotto, o come un uomo, ritornato libero dalla sua malattia. «Ti voglio bene» dissi, rispondendo alla frase che mi aveva anticipato.

Si allontanò quanto bastava per guardarmi in viso, con dolcezza e comprensione. «Presto ti chiederà se vuoi dei calmanti. Non prenderli, non cambieranno molto, non oggi, e ti sentirai solo troppo intontita. Lui non sa distinguere il motivo del tuo pianto, ma sa che ora sei felice. Non c’è bisogno che tu lo dica, so che ti dispiace» fece una pausa. «Lo so, avrei dovuto vedere quel buco nero. Niente di tutto questo sarebbe accaduto».

Scossi il capo, ma non riuscii a dire nulla. Sarebbe stato così bello se niente di tutto quello fosse accaduto.

«Andrà bene».

«Lo hai visto?».

Allontanò lo sguardo. «Il tuo futuro è molto incerto, adesso. Hai molte decisioni da prendere» mi accarezzò i capelli con le sue piccole mani delicate. «Ho visto che smetterai di prendere gli psicofarmaci» il suo sguardo si fece per un attimo vacuo e mi sorrise. «E oggi andrà tutto bene». Mi lasciò un bacio sulla guancia e si sollevò, leggiadra, aiutandomi a fare altrettanto. «Ti prometto che ti comprerò dei pantaloni più comodi» spostò lo sguardo verso Edward, grata. «La tua famiglia ti aspetta di sotto» disse poi, scendendo di sotto a passo umano, a mio beneficio.

Mio marito mi porse la mano, sorridendomi. «Andiamo» disse, guidandomi verso le scale.

Oggi andrà tutto bene, aveva detto Alice. Sospirai ed annuii.  

Arrivammo alla scala. Presi un grosso respiro e mossi un passo per scendere, ma fui investita da un’ondata di vertigini che mi fece perdere l’equilibrio. Strinsi la presa sulla mano di Edward, che mi circondò la vita con un braccio prima che potessi cadere in avanti.

«Piano, con calma» soffiò Edward al mio orecchio, «non è il momento per inciampare» provò a scherzare debolmente.

Presi un breve respiro, discretamente. «Non si rischia di inciampare se si è sempre stesi a letto» dissi, cercando di assumere un tono meno spaventato e più leggero possibile.

«No» mormorò, arricciando le labbra in un sorriso trattenuto. Mi aiutò, tenendomi sempre ferma a sé con un braccio, a scendere le scale. Il cuore batteva a ritmo sostenuto e i miei passi erano sempre più timorosi, ma Edward dimostrava sempre la stessa pazienza.

Mi strinsi maggiormente a lui, nascondendomi leggermente dietro la sua schiena, quando arrivammo in soggiorno.

Tutti erano impegnati nella loro attività. Jasper giocava a scacchi con Emmett, Alice e Rosalie chiacchieravano sul divano, Carlisle leggeva un grosso tomo, seduto su una poltrona, ed Esme era seduta al suo tavolo dei disegni.

«Ciao Bella» mi salutò cordialmente Carlisle dopo un po’, per poi ritornare a leggere.

Così fecero anche gli altri. Salutandomi con brevi parole o con sorrisi. Come se nulla fosse successo. Come se fosse ancora una qualsiasi altra visita che facevo loro da quando ero fidanzata con Edward.

Abbandonai la testa sul suo petto, cacciando aria dai polmoni e lasciando che il mio povero cuore ritornasse al suo regolare battito. Mi lasciai trascinare sul divano, sedendomi accanto a lui. Rosalie e Alice si voltarono verso di noi e mi sorrisero.

Restammo un po’ di tempo così. Edward ogni tanto scambiava qualche parola con Alice e Rosalie, che avevano deciso di rifargli il guardaroba. Non lo avevo mai sentito opporsi così. Poi anche Emmett intervenne, prendendolo in giro e deridendolo per la sua “sciagura”. Carlisle si andò a sedere accanto a Esme, per aiutarla, e Jasper si unì a noi.

Io non dicevo niente, non ancora una parola, sollevata da quella apparente quiete ma sempre guardinga. Ogni tanto controllavo la stanza con lo sguardo, in cerca di qualcosa che fosse fuori posto e che potesse farmi del male. Ma non c’era nulla del genere, e piano piano che i minuti passavano distarsi fu più facile. Mi sentivo a mio agio fra loro, quasi come se nulla fosse capitato. Alice non mi aveva mentito.

«Bella» mi chiamò Rosalie «è tardi ormai, mangia qualcosa».

Oppositivo, negativo. Annuii. Emetofobia. No, non oggi. Oggi sarebbe andata bene. Non sarebbero serviti altri calmanti. Non c’era niente di strano nel cibo. Nessuno mi avrebbe imboccato contro la mia volontà, non avrei… Bloccai quei pensieri. «Sì, va bene» biascicai debolmente.

Si alzò in piedi, tendendomi una mano. Edward si chinò a parlarmi ad un orecchio. Era un gesto di protezione nei miei confronti, perché i suoi fratelli potevano comunque sentirlo anche se fosse stato al piano di sopra. «Vuoi tornare in camera o ti farebbe piacere mangiare qui? Penso che possa farti bene».

Indugiai un attimo, evitando lo sguardo di tutti nella sala.

Mi carezzò una guancia, dandomi tutto il tempo di rispondere.

«Qui. Va bene».

Edward sorrise. «Perfetto».

In breve il tavolo del soggiorno era apparecchiato con una tovaglietta. Mi sedetti accanto a Edward, prendendogli la mano. Mi faceva sentire più sicura. Esme entrò nella stanza con in mano un vassoio e felice notai che non era una delle solite minestrine a cui ero abituata. Era della pasta. Stimolò lievemente il mio appetito.

«Ecco qui cara» mi disse con un sorriso.

«Grazie» mormorai, facendo comparire un’espressione affettuosa sul suo volto. Poi abbassai il capo e aggiunsi «Esme… mi dispiace tanto per quello che è successo…».

«Tesoro» mi richiamò, accarezzandomi una guancia e facendomi trasalire.

Respirai piano, cercando di controllarmi e di seguire le indicazioni che nei giorni precedenti mi aveva dato Rosalie. Quando fui sicura di essere abbastanza calma, mi voltai verso i suoi occhi neri, come quelli di tutto il resto della famiglia.

«Non ti preoccupare di questo» mi disse gentile, baciandomi la fronte, come se non avesse assistito al mio lieve momento di debolezza.

Mi feci forza e cercando di non pensarci presi la forchetta con la mano destra. Le braccia ormai erano solo un po’ indolenzite. Mangiai tranquillamente, lentamente. Mangiando notavo che il mio appetito aumentava un po’, ma non riuscii comunque a finire tutto il piatto. Lo passai a Edward.

«Non ti va più?» mi chiese prendendolo con una mano.

Scossi il capo in segno di diniego.

«Va bene» disse riponendolo. Poi sollevò la cloche che nascondeva il secondo. «Vediamo che cosa c’è qui…? Guarda, formaggio e insalata». Mi sorrise, porgendomi il piatto.

Sorrisi anch’io. Sembrava un formaggio italiano. Mozzarella forse. Cominciai a mangiare l’insalata e i pomodori e presi un pezzetto del formaggio.

Improvvisamente mi sembrò troppo acido e fui investita da un altro attacco di nausea. Scattai in piedi, rovesciando la sedia all’indietro e portandomi le mani alla bocca e alla pancia.

Mi ritrovai in movimento ad una velocità vampiresca, prima di piegarmi sul water e vomitare tutto quello che avevo mangiato pochi minuti prima.

Mi accasciai contro la parete piastrellata, ignorando completamente le domande di Edward.

Mi sentii tradita. Da Edward, che mi aveva convinta a mangiare in soggiorno. Da Alice, che aveva detto che tutto sarebbe andato bene. Da me stessa, che non riuscivo più a governare in alcun modo.

Mi sentivo male e mi vergognavo moltissimo. Quasi non badai alle lacrime copiose che cadevano dai miei occhi. Mi strinsi le ginocchia al petto, tenendomi la testa con le mani e singhiozzando.

«Bella, non piangere, vieni qui» disse Edward, sciogliendo le braccia dalla loro rigida presa e facendole passare sul suo collo. Poi mi prese per il busto, traendomi a sé.

Avevo ancora una forte nausea e il pianto mi faceva sentire stanca e intontita. «Voglio andare in camera, voglio tornare in camera» piansi, appoggiando la testa pesante al suo petto.

«Non ora, non ancora» mi rispose lui, gentile ma risoluto.

«Ti prego» gemetti ancora.

«Shh. Poteva succedere anche mentre eri su. È successo tante volte mentre eri su».

«Non ce la faccio più» singhiozzai, alzando la voce, che poi ritornò stanca e lamentosa «sembra che non cambi nulla per quanto mi impegni».

Edward mi strinse con più forza, baciandomi la fronte. «Non è così». Puntò i suoi occhi fissi nei miei, parlando con determinazione «Alice ha ragione. Andrà bene. E bene non vuol dire che non avrai più paura, che non ci saranno gli attacchi di panico e che non vomiterai più. Bene vuol dire che nonostante tutte queste cose andrai avanti, finché non smetteranno di tormentarti» disse, risoluto.

«Non so se ho ancora le forze» biascicai debole.

Mi sorrise con tristezza, carezzandomi il viso con il dorso della mano. «Non hai scelta».

Mi lasciai andare stordita contro il suo petto. Volevo così tanto stare anche solo un po’ meglio. Chiusi gli occhi, e ripensai al giorno prima del rapimento. Ero sempre lì, accoccolata fra le sue braccia, e avevamo appena finito di fare l’amore. Avevamo discusso perché io mi volevo sentire al sicuro e l’unico modo per farlo mi sembrava quello di essere trasformata. Chissà cosa sarebbe cambiato. Forse avrei ucciso Jacob più in fretta.

Spalancai gli occhi, fuggendo da quei pensieri.

«Che succede?» mi domandò cautamente.

Lo guardai dritto negli occhi, malinconica e decisa. Avevo bisogno di sentirmi al sicuro e forse quello sarebbe stato l’unico modo per farlo. «Voglio che tu mi trasformi».

Sul suo viso comparve una strana espressione. Poi tornò a fissarmi. «Credo che dovremmo parlarne».

 

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Capitolo 33
*** Evento ***


«Edward

«Edward?» lo chiamò dall’altro lato della porta la voce di Carlisle.

 Lui, con un’espressione seria e preoccupata mi fece alzare e mi aiutò a sciacquarmi il volto.

«Bella, Carlisle ti dovrebbe rifare le medicazioni alle braccia» disse poi «te la senti?» mi chiese scrutandomi.

Io annuii, nascondendo il volto sul suo petto.

Non sembrava ancora convinto, ma dopo un po’ sospirò, guidandomi fuori dalla stanza. Ad attenderci oltre la porta c’era Carlisle, con un’espressione serena sul volto. «Venite, per di qua» disse facendoci strada. Carlisle era la persona con cui avevo interagito di più, dopo Edward e Rosalie, in quelle ultime due settimane. Sentivo che mi voleva bene come un padre, ma il nostro rapporto ultimamente era stato molto più medico che familiare e questo mi agitava un poco.

Varcammo la porta della stanza che doveva essere quella di Carlisle e Esme. Un’atmosfera di quiete e pace regnava incontrastata. Era come se quella stanza fosse il nucleo di tutta la casa, e irradiasse segnali positivi nel giro di chilometri.

«Siediti qui» mi disse Carlisle, indicandomi una sedia imbottita posta dinanzi ad una scrivania.

Feci come diceva, senza mai staccare la presa dalla mano di Edward, che stava dritto accanto a me.

Carlisle si sedette con una sedia di fronte alla mia, prese la sua borsa e accese un’intesa luce da lettura.

Titubante tolsi la mia mano da quella di Edward, che poggiò entrambe le sue mani sulle mie spalle, infondendomi coraggio. Tesi le braccia in avanti, verso Carlisle.

Lui fece un sorriso rassicurante e cominciò a sciogliere le bande con gesti veloci ed automatici, stando attento a non toccarmi mai.

Quando concluse la sua opera rimasi senza fiato. L’avambraccio era coperto da escoriazioni rosse e pulsanti. In alcuni punti, le ferite frastagliate e irregolari, sovrapponendosi, formavano dei solchi più profondi, chiusi da piccoli gruppi di uno o due punti. Deglutii, distogliendo lo sguardo.

Ero stata io a farmi tutto quello. Appoggiai la testa all’indietro, contro Edward. Poco dopo sentii il fiato freddo sul mio collo e capii che si era abbassato alla mia stessa altezza.

«Mi dispiace» sussurrai mesta, pensando al dolore che dovevo avergli causato.

Lui mi accarezzò una guancia. «Dispiace a me di non averti fermato prima».

«Non avresti potuto» sussurrai soltanto, ripensando alla prigionia mentale che sentivo in quel momento. Il desiderio di cancellare quel tocco dalla mia pelle… Trasalii allo sfioramento di Carlisle.

Si bloccò, e attese che mi rilassassi e che gli dessi il mio consenso prima di ricominciare. Sbendò anche l’altro braccio, in condizioni leggermente migliori rispetto al sinistro. Carlisle esaminò le ferite con lo sguardo. «Dovresti controllare se posso togliere questi punti» disse rivolto a Edward, indicandoli, «e anche questi».

Distolsi lo sguardo, agitata. Carlisle era fresco. Come Rosalie. Come Edward. Come Alice. Mi feci coraggio, e presi la sua mano fredda fra le mie.

Lui sollevò lo sguardo dalle mie braccia, sorpreso.

«Fallo tu» sussurrai, lo sguardo basso.

Lui mi sorrise, mite. «Va bene».

Mi controllò le suture e tolse alcuni punti, poi fece nuovamente il bendaggio. Mi strinsi al petto le braccia, più leggere e pulite di prima. «Grazie. Per tutto. Lo so che non è stato facile. Che non ti ho reso facile il compito, in questi giorni» farfugliai contrita.

«Apprezzo che tu me lo dica, Bella, ma non mi devi ringraziare. La tua famiglia è qui, e lo sarà sempre quando ne avrai bisogno».

Edward mi posò una mano sulla spalla. Mi sorrise, rassicurante. «Diglielo».

Annuii. «Ho bisogno di parlare con tutti voi».

Carlisle sorrise, mentre finiva di sistemare le cose nella borsa. «Riunione di famiglia. Andiamo».

Presi la mano di Edward e mi strinsi a lui, lasciandomi guidare verso il soggiorno. Lì tutti ci aspettavano seduti, in nostra attesa. Ci sedemmo sul divano bianco, di fronte a loro. Strinsi con più forza la presa sulle sue dita.

«Io e Bella dovremmo discutere di qualcosa di importante con tutti voi» cominciò Edward.

Chiusi e aprii le mani, poi mi feci coraggio. «La mia trasformazione» conclusi io.

Non notai una particolare reazione nei loro volti. Se lo aspettavano.

«Io vorrei aspettare» disse Edward, rivolgendosi a me. «Dopo tutto quello che è successo mi sembra giusto aspettare».

«Sono d’accordo» disse Carlisle, spiazzandomi. Mi fece un sorriso mesto. «La trasformazione è qualcosa che cristallizza il nostro essere. Una volta trasformata i cambiamenti saranno quasi impossibili, sarebbe meglio che tu ti riprenda prima» mi spiegò, esponendomi la sua teoria.

Abbassai il capo. Ormai ero già dannata pensai, ma non lo dissi. Avevo ucciso un essere umano, trasformarmi in un essere dannato non avrebbe cambiato le cose. Questo evento aveva cambiato la mia prospettiva sulle parole di Edward, su quanto tenessi alla salvezza della mia anima. Potevo ancora recuperare?

«Tu hai detto… Fra quanto smetterò di prendere i farmaci?» domandai flebile ad Alice.

I suoi occhi si assentarono solo un attimo. «Non passerà molto. Meno di un mese».

Sentii Edward irrigidirsi. Lo vidi scambiare uno sguardo d’incomprensione con il padre. Gli pareva troppo poco, lo sapevo. Pareva troppo poco anche a me, adesso che me ne sentivo così dipendente.

«Non vedi altro?» domandai speranzosa.

Scosse lentamente il capo, con un sorriso mesto. «È la tua decisione».

Mi guardai le mani, insicura. Le braccia bendate, la pelle che si sarebbe rimarginata e le ferite che non sarebbero mai guarite. Sollevai di nuovo il volto. «Due mesi» dissi decisa. Mi voltai verso Edward «fra due mesi mi trasformerai».

«Prima succede meglio è per me» fece Emmett, deciso.

«Bella, tesoro, pensi di potercela fare?» mi chiese Esme.

Deglutii. «Penso che ci sono cose che non guariranno mai» sussurrai con un filo di voce.

«Possiamo vedere come va fra due mesi e discuterne nuovamente» fece Jasper.

Mi voltai verso Rosalie. «Noi ne abbiamo già parlato» fece lei con un sorriso mesto «è ancora il tuo desiderio?» domandò, incerta della sua stessa domanda.

«Anche se dovessi essere triste per l’eternità» sussurrai, avvicinando la mia mano a stringere quella di Edward «preferisco una lunga eternità triste con lui, che una breve vita meno triste senza di lui».

Carlisle mi guardò intensamente. «C’è sempre la possibilità di essere perdonati» mi disse dopo un lunghissimo silenzio. «Non farlo se pensi che ormai sia la tua unica scelta».

«Non lo è?».

«No» mi disse Edward lentamente, guardandomi con estrema serietà.

Sospirai. «Anche se non lo fosse, la mia idea non cambierebbe. L’avevo già scelto prima».

I suoi occhi così scuri rimasero fermi, come solo un vampiro può fare. «Jasper ha ragione. Riparliamone fra due mesi. Non sappiamo cosa ci spingerà a sospendere la terapia così presto, è possibile che starai meglio, oppure…».

«Oppure?».

«Non lo so. Possiamo riparlarne fra due mesi?» mi domandò, chiedendomi implicitamente se mi fidassi ancora di lui.

Mi arresi e decisi di fidarmi.

Mi abbracciò, stretta, come per ringraziarmi.

«C’è qualcos’altro di cui dovremmo discutere» iniziò cautamente Jasper.

Edward s’irrigidì un poco. «Non…» iniziò, ma fu interrotto da Emmett.

«Gli umani. Dobbiamo parlarne» fece Emmett, richiamando l’attenzione su di sé.

«Gli umani?» domandai agitata, liberandomi dalla presa di mio marito.

«Sì, gli umani» disse, alzandosi in piedi in tutta la sua tonante statura. «L’ispettore Swan, tua madre, tutta Forks».

«In che senso?» chiesi allarmata.

Sentii un ringhio cupo nascere dal petto di Edward.

Emmett sollevò un sopracciglio, e poi esasperato le braccia al cielo «Deve saperlo!».

«Alice non ha detto che sarebbe andato così tanto bene da poterglielo dire» sbraitò, infuriato.

Gli occhi della piccola veggente si allontanarono, mentre aveva un'altra piccola visione. «Edward…» mormorò, alzandosi in piedi, lo sguardo perso. «Non ti agitare, peggiorerai le cose»

«Cosa devo sapere? Dirmi cosa? Cosa c’è che non posso sapere?» chiesi agitata, voltandomi verso Edward. Il suo sguardo avrebbe incenerito Emmett, e sentivo che si stava trattenendo, probabilmente a causa della visione di Alice.

Tutti gli altri ci fissavano attenti, l’aria carica di tensione.

«Edward?!» chiesi ancora, il tono di voce lievemente isterico.

Lui sospirò, abbandonando la sua maschera truce, ma non mi rispose.

«Bella» mi chiamò Carlisle.

Mi voltai immediatamente verso di lui.

«Ci sono stati alcuni problemi» cominciò a spiegarmi. «Il tuo rapimento è avvenuto in un locale pubblico e con dei testimoni. Quindi non abbiamo potuto nascondere nulla alla polizia, ancor più perché la donna che ha assistito alla scena ha identificato Jacob. Anche la polizia ha condotto delle ricerche e ormai la questione è di dominio pubblico».

Sospirai, abbassando lo sguardo verso il basso, colpita. C’era un’importantissima domanda che andava posta. «Come» deglutii, risollevando lo sguardo «cosa avete detto?» chiesi.

Carlisle intuì quello che volevo sapere. «Loro sanno che Jacob è scappato dopo aver ottenuto il riscatto che aveva chiesto».

Mi tranquillizzai lievemente. «Mio padre?» chiesi con voce tremante.

«Anche lui» disse Carlisle, rassicurandomi.

Feci un sospiro di sollievo, lasciandomi andare con la schiena contro la spalliera del divano e chiudendo gli occhi. «E i licantropi?» chiesi riaprendo gli occhi, preoccupata.

Questa volta fu Jasper a rispondermi. «Loro sanno tutto».

Chiusi e riaprii molto lentamente gli occhi.

«Era l’unico modo» continuò risoluto «è stata un’idea mia e me ne assumo le responsabilità, se te la devi prendere con qualcuno prenditela con me. Ma se gli avessimo detto che fosse stato uno di noi a ucciderlo, anziché te, il patto sarebbe stato considerato rotto. Invece così è stata solo legittima difesa. Lo so che è doloroso per te, ma ti ripeto è stata solo è unicamente una mia decisione».

Alzai un braccio. «Va bene. Ti capisco» presi un grosso respiro. Solo in quel momento stavo realizzando che se fosse stato Edward a ucciderlo al posto mio, si sarebbe scatenata una sanguinosa guerra. Presi un respiro più profondo. Non capivo come, ma questo mi faceva sentire solo un po’ meglio.

«Come l’hanno presa? Billy?» chiesi ancora.

«Non è facile, Bella. Billy è stato ripudiato» rispose Esme con dolore «ha detto che non era più suo figlio, ma un figlio ti rimane per sempre dentro, non importa cosa faccia o se sia vico o morto.  Soffre molto, per lui e per quello che ti ha fatto. Come tutti noi vorrebbe che tutto questo non fosse mai accaduto».

Poggiai schiena sul petto di Edward, che mi strinse da dietro con le braccia. «Stai bene?» mi chiese in un sussurro, avvicinando la bocca al mio orecchio.

Avevo ancora la nausea, ma avevo deciso di non pensarci. Strofinai una mano sul suo braccio freddo. «Sì» mormorai, lasciando andare il capo contro la sua spalla.

«Stanca?» mi chiese Rose venendomi accanto e accarezzandomi i capelli.

«Sì» sussurrai ancora. Ero così intontita e stremata.

È stata una giornata lunga» disse Edward, prendendomi fra le braccia e sollevandosi in piedi «ti porto qualcosa da mangiare in camera, riposati un po’».

Appoggiai la testa sul suo petto, salutando con una mano il resto della famiglia, che ricambiarono al mio saluto con dei sorrisi e delle parole cortesi. Sbadigliai ancora e mi portai la mano alla bocca.

Mangiai la mia cena in camera, insieme a Edward.

«Finito» dissi, sperando di farlo felice. Ero riuscita a mangiare un intero piatto di carne.

«Brava» disse Edward contento prendendolo dalle mie mani. «Vuoi la frutta?».

Feci una smorfia. Sapevo che non potevo spingermi troppo oltre, se non volevo che finisse come il pranzo. «No, mi dispiace».

«Come vuoi, non ti preoccupare» mi rassicurò con un sorriso.

«Bella» mi chiamò Rose dal bagno «ti ho preparato il pigiama».

Mi sollevai dal letto, sorridendo. Accidentalmente, l’orlo del vestito si sollevò più del previsto, fino a mostrare buona parte della coscia. Mi irrigidii totalmente, voltandomi verso Edward.

Era immobile. Fissava i graffi con un’espressione dolorosa in volto. Non dissi nulla e non mi mossi. Eravamo entrambi immobili.

«Bella, tutto ben…» Rosalie si interruppe, capendo quello che era successo.

In fretta riabbassai la stoffa, arrossendo e abbassando lo sguardo. Non volevo che lui soffrisse. Passarono alcuni istanti di interminabile silenzio. Nessuno si era mosso.

Poi sentii delle braccia fredde intorno alle spalle. «Mi dispiace tanto Bella» disse Edward abbracciandomi.

Risposi al suo abbraccio. «L’ho detto» mormorai a fior di labbra «ci sono ferite che guariranno. Altre no. Per fortuna queste sono fra quelle che guariranno».

«Guariranno tutte» mi promise, mettendo una sua mano fredda sulla mia «ti aiuterò io».

Quella notte dormii accanto a Edward, abbracciata a lui. Non mi impedì di avere degli incubi e di svegliarmi sudata e urlante. Ma almeno, quando mi svegliai, avevo ad accogliermi le fredde braccia di mio marito.

Quando fui sveglia e lucida gli sorrisi, debolmente. «Ehi».

«Ehi» fece lui, mettendomi un dito sulla punta del naso. «Sai che giorno è oggi?».

Sgranai gli occhi. Mi sentivo come un’alunna che non è preparata per l’interrogazione.

Edward rise della mia espressione. «Oggi è il 13 Settembre, sciocchina, tanti auguri!».

Mi portai una mano alla testa, disorientata. Un altro compleanno. «Accidenti, diciannove anni».

Rise della mia espressione. «Quando arriverai a 105 mi dirai cosa si prova».

Sorrisi, e mi stupii di poter essere divertita. Mi accoccolai fra le sue braccia, rassicurata dal freddo del suo corpo. Volsi lo sguardo verso l’ampia vetrata, titubante. «Com’è il tempo oggi?».

«Freddissimo» disse Edward con un sorriso.

Lo guardai, facendomi coraggio. Dopotutto, il giorno precedente non era andata troppo male. «Bene» dissi, sollevandomi malamente in piedi. Andai a spalancare la finestra e inspirare a pieni polmoni l’aria ghiacciata che mi pungeva la pelle. «Perfetto» ribadii, rabbrividendo.

«Bella» mi chiamò Edward incerto «fa davvero molto freddo, ti verrà un malore, ti sei appena ripresa».

Mi voltai, e sorrisi debolmente di lui. «Un malore» dissi scherzosa imitando la sua voce, ma lasciai che chiudesse le imposte.

«Ti prendi gioco di me!?» disse lui fingendosi scandalizzato e ridacchiando insieme a me. Poi cambiò espressione. «Amore» mi chiamò, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ecco… Alice si chiedeva se poteva parlarti» poi si avvicinò con la bocca al mio orecchio, sussurrando a bassa voce «Non te la prendere con lei, non voglio che tu faccia qualcosa forzatamente, ma valuta la sua proposta, ne sarebbe molto felice». Capii che aveva a che fare con il mio compleanno. «Ti assicuro che si è contenuta tantissimo, non è nulla di che».

Sospirai, chiudendo gli occhi. Non ero in vena di affrontare una festa di compleanno, ma Edward aveva ragione. Alice aveva sofferto tanto a causa mia e meritava una piccola felicità. E poi ero sicura che anche tutti gli altri ne sarebbero stati contenti. «Lasciami prima prendere i miei psicofarmaci» dissi infine, con solo una punta di scherzo nella voce.

Edward mi sorrise, passandomi la boccetta dal comodino.

Appena ebbi finito di ingoiare la compressa sentimmo bussare, e la porta si aprì dolcemente, lasciando passare Alice e Rosalie. Avrei preferito che i calmanti iniziassero a fare effetto prima di parlare con qualcuno che non fosse Edward. Mi feci coraggio. Alice mi porse una scatola bianca rettangolare, poggiandola sul letto. Muoveva nervosamente una mano contro l’altra. «È… non è nulla di che… non devi metterlo per forza… solo se ti va» disse balbettando.

Annuii, sforzandomi di sorridere. Ci stavo provando, davvero, a far tornare ogni cosa come prima. Mi andai a sedere sul letto e faci cenno a lei di sedersi accanto a me. Mi misi la scatola in grembo e l’aprii. C’era un vestito color avorio, di una stoffa con dei motivi a rilievo e con delle impunture color cioccolato. Per un attimo nella mente si proiettò l’immagine di Jacob e dei vestiti che aveva rubato a casa di mio padre. Scossi il capo e mandai giù l’ondata di nausea che mi aveva investito. «È molto carino» dissi infine «lo metterò di sicuro».

Lei sorrise, speranzosa. Poi tornò titubante e impaziente. «Posso darti gli auguri?».

Annuii. «Sì, va bene» e mi feci abbracciare da lei.

Poi me li feci dare anche da Rosalie. «Auguri Bella» mi disse con un sorriso. «Cosa vuoi fare oggi?».

«Io avrei un’idea» risposi incerta, guardando di sottecchi Edward.

Annuì con un sorriso.

Circa un’ora dopo, mi ritrovavo a fare una passeggiata nell’enorme giardino dei Cullen, con il mio nuovo vestito e in compagnia di Edward.

«Come stai?».

Mi voltai verso di lui con un sorriso. Non pensavo davvero che fosse possibile, ma mi sentivo piuttosto bene. Davvero, tanto che avevo paura che da un momento all’altro sarebbe successo qualcosa e che quel momento di pace sarebbe finito. Avevo freddo, e il freddo passava sotto il soprabito che mi avevano fatto indossare, mi arrivava al cuore e mi placava. Non avevo neppure la nausea quel giorno. Mi strinsi al suo braccio, beandomi maggiormente della sua temperatura. Rabbrividii.

«Ricorda, non vogliamo che ti ammali» mi riprese Edward, mettendomi in spalla il suo giaccone.

Sospirai. «Va bene».

Rimanemmo fuori a girovagare per non so quanto tempo. Niente che non potessi controllare, ogni cosa che facevamo da quando avevo iniziato a riprendermi era pensata e misurata. Poi ci fermammo per fare un piccolo pic-nic, solo io e lui. Continuavo a controllare il giardino, in tutto il suo perimetro e fino al limitare del bosco. Lì si perdeva il mio sguardo, spaventato di cosa ci potesse essere dietro agli alberi. Mi ero fatto rassicurare più e più volte da Edward che non avvertiva alcun pensiero a distanza di un chilometro, oltre e quelli della sua famiglia.

C’era ancora così tanta strada da fare. Mi bastava chiudere gli occhi per vedere i suoi occhi sgranati e sentire vividissime le mie urla. Tentavo di non pensarci. Tentavo di pensare a Edward che era accanto a me, tentavo di pensare al suo corpo freddo, e tentavo di pensare che quello che avevo fatto era veramente servito a qualcosa e che era stato un gesto necessario. Purtroppo però non c’era verso di pensarla allo stesso modo per quello che lui aveva fatto a me.

«Amore» mi chiamò Edward preoccupato. «Piangi?».

Senza dire nulla mi sollevai dalla tovaglia e andai a mettermi fra le sue braccia, asciugandomi le lacrime. Nuove immagini terribili cominciarono ad affiorare nella mia testa, e ringraziai il cielo che Edward non potesse leggere nella mia mente. Non riuscivo a calmarmi, l’ansia cresceva sempre di più, a io non volevo piangere di nuovo. Sentivo ogni tanto il bisogno di impormi un respiro forzato, come se ci fosse qualcosa a comprimermi i polmoni o come se avessi paura di non riuscire a respirare. Odiavo così tanto quel momento che sembrava stesse rovinando quel giorno finalmente perfetto.

«Edward. T-ti prego» biascicai querula, desolata che la mia tranquillità per quel giorno iniziato così bene fosse finita così in fretta «Ho bisogno di calmarmi» farfugliai, e sapeva cosa stessi cercando.

Mi fissò con attenzione. «Non è passato molto tempo dalla prima compressa».

Singhiozzai, portandomi una mano al collo. Eccola, di nuovo, la sensazione di non riuscire a respirare. «Non ci riesco».

Esitò. Poi estrasse dalla tasca del suo giaccone, posato sulle mie spalle, il flaconcino con i farmaci. Mise sul palmo della sua mano l’ultima compressa che rimaneva, poi mi porse una bottiglietta d’acqua.

La ingoiai in un sorso, rimettendomi fra le sue braccia lasciandomi cullare. Bastarono pochi minuti, e mi calmai. «Scusa» farfugliai, la bocca già più impastata «stava andando così bene».

Lui mi strinse a sé, coprendomi con il suo giaccone. «Non so veramente come Alice…» mormorò, guardando in lontananza. Scrollò le spalle. «Non ti preoccupare, chiederemo a Carlisle com’è meglio comportarci e vedremo come aggiustare la terapia».

Qualche minuto dopo Alice e Rosalie ci raggiunsero.

Alice si morse il labbro, incerta. «C’è una torta di là, e anche gli altri vorrebbero darti gli auguri, cosa ne pensi?».

«Andiamo» dissi con un debolissimo sorriso a Edward.

Entrammo insieme a casa, ma lui mi teneva su per i gomiti, come se avessi paura che cadessi. Mi sentivo intontita. Edward si riprese il giaccone prima che potessi lamentarmi per il caldo, e lo appese all’appendiabiti nell’ingresso. Poi entrammo in salotto.

«Auguri Bellina!» esclamò Emmett stritolandomi nella sua presa.

Tutti s’irrigidirono, preoccupati per una mia reazione, ma io, complice la mia doppia dose giornaliera, mi rilassai fra le sue braccia, ricambiando il suo affetto con una breve risatina fiacca. Mi sentivo già meglio e l’intorpidimento stava scemando, lasciando il posto ad una innaturale quiete. Anche gli altri mi fecero gli auguri. Jasper si tenne a distanza. Probabilmente in altre occasioni l’avrebbe fatto anche lui, ma i suoi occhi erano scurissimi, come quelli del resto della famiglia.

Fu una bella serata, e i miei incubi non riuscirono a rovinarla. Soffiai sulle candeline per spegnerle - tutte e diciannove - e desiderai che la mia vita potesse tornare felice come lo era stata un giorno. Fortunatamente, a parte Alice, nessuno mi aveva fatto regali. Rosalie accese la musica e si mise a ballare con Emmett. Erano davvero stupendi insieme. Quando finirono sorridevo contenta e mi voltai verso Edward. Era molto felice. Eravamo entrambi di nuovo pieni di speranza per il futuro.

Anche tutti gli altri andarono a ballare, e io mi feci trascinare da Edward.  Ballare. Chi avrebbe mai pensato che sarei tornata a ballare, calma e serena fra le braccia di mio marito?

Dopo un po’ mi dichiarai esausta, e mi andai a sedere sul divano. Edward continuò a ballare con Esme, mentre le altre coppie ancora volteggiavano per il salone. Carlisle venne a sedersi accanto a me.

Mi sporsi verso di lui, facendogli segno di avvicinarsi. «Dobbiamo parlare» sussurrai ad un suo orecchio, a voce bassissima «della caccia» aggiunsi.

Lui si ritirò sullo schienale e mi fece l’occhiolino.

«Champagne!» esclamarono Alice e Rosalie portando il secchiello con il ghiaccio.

«Cioè praticamente solo per me» esclamai incerta «non ne vale la pena».

Vidi Edward lanciare un’occhiata a Carlisle e muovere velocemente le labbra. Lui fece un piccolo sorriso e un cenno affermativo.

Bevvi appena un sorso di champagne, ma il resto non andò sprecato. Emmett e Jasper fecero una scommessa: chi riusciva a berne di più.

«Ma non gli farà male?» chiesi a Edward.

Lui fece spallucce. «Non credo, ma io non berrei comunque quella roba, ha un odore orrendo…».

Poco dopo Emmett, che aveva vinto contro Jasper, venne e reclamarmi per ballare. Fu molto più divertente - anche se meno romantico - che ballare con Edward, dato che mi strapazzava come un peluche facendomi volteggiare per aria.

La festicciola procedeva bene. Ero contenta, anche se un po’ stanca.

«Andiamo a prendere i puzzle?» propose Alice, euforica.

«Sì! Facciamo gara di puzzle!» esclamò contento Emmett.

«Per te va bene Bella?» mi chiese Edward, speranzoso ma preoccupato di tirare un po’ troppo la corda per quella sera.

Era così bello potermi sentire di nuovo anche solo un po’ normale. Volevo solo distrarmi. E poi sapevo che tutti ne sarebbero stati contenti. Annuii.

Alice e Rosalie presero quattro scatole di puzzle da mille miliardi di pezzi. C’era da aspettarselo da dei vampiri. Sotto loro esortazione andai a scegliere il disegno che più preferivo, lasciando Edward seduto sull’ultimo gradino delle scale.

Mentre stavo andando verso il tavolo del salotto alle mie spalle tuonò il vocione di Emmett. «Ehi Bellina, non vorrai mica stare in squadra con Edward vero? Non preferisci il tuo fratellone?».

Mi voltai per ribattere, ma nonostante mi fossi fermata, sentii a testa continuare a girare. Travolta dall’improvvisa ondata di vertigini sentii le gambe cedere e la vista offuscarsi. Poco prima di toccare il pavimento sentii delle braccia fredde afferrarmi.

Avevo una completa percezione delle voci di chi mi stava intorno, e che mi chiamavano, e anche delle braccia che mi stringevano il busto mentre ero stesa sul pavimento.

«Bella, mi senti?» chiese Carlisle.

Sentii dei colpetti freddi sul volto. Sbattei le palpebre velocemente, aprendo gli occhi. Aspettai che l’immagine sdoppiata di Carlisle, e di tutta la famiglia alle sue spalle, diventasse una sola. La confusione si diradò velocemente. Ero fra le braccia di Edward, che mi guardava preoccupato. Mi sollevai con il busto.

Carlisle mi mise le mani sulle spalle, costringendomi a rimettermi stesa. «Stai giù» mi ordinò. Esme mi teneva le gambe sollevate.

«Io…» balbettai «non so cosa è successo… è stato… solo un forte capogiro…» dissi portandomi una mano alla testa.

Edward mi mise una mano sulla fronte, cancellandomi il sudore e lasciandomi un bacio.

Tutti mi guardavano dall’alto, preoccupati. Le loro immagini incombevano su di me. Mi sentivo soffocare. Ansimai lievemente.

«Ragazzi, state indietro» disse Carlisle intuendo i miei pensieri. Prese il mio polso fra le dita, con delicatezza. Poi mi passò una mano sulla fronte e sotto la gola.

«Ha la pressione un po’bassa» disse infine. «È successo tutto in un istante o ti sentivi male già prima?».

«No» farfugliai «è stato quando mi sono voltata».

Lui mi osservò attentamente. «Non è il caso di preoccuparsi più del necessario, è stato solo un lieve mancamento».

Io chiusi gli occhi, stringendomi a Edward e gemendo piano. Era ritornata la nausea. «Sarà stato lo champagne» mormorai poi debolmente, riaprendo gli occhi con un debolissimo sorriso.

Carlisle mi sorrise e mi fece una carezza. «Ti gira ancora la testa?».

Scossi il capo. «Ho un vago senso di vertigini» chiusi gli occhi.

Mi sentii sollevare da Edward. «Ti porto in camera a riposare».

Aprii le palpebre, allarmata. «Ma… i puzzle» balbettai, guardando rapidamente gli altri. Erano incerti e preoccupati e sviavano il mio sguardo.

«Amore» mi ghermì delicatamente Edward, catturando la mia attenzione «è stata una lunga giornata e sei tanto debole. Non è colpa tua» aggiunse, a beneficio del mio labbro tremante e del senso di colpa che mi si leggeva in faccia «sarebbe stato molto molto faticoso per qualunque umano. E poi» aggiunse, misurando le parole per paura di turbarmi «c’è stata la doppia dose di calmanti. Possiamo fare i puzzle domani se ti va».

Sentii gli occhi inumidirsi e le lacrime bussare alla loro porta. Deglutii, decisa come non mai a non piangere ancora. «Mi dispiace, sono ancora solo un’umana» provai a scherzare debolmente, ma la voce mi uscì roca e spezzata. Abbassai le palpebre stanche e provai sollievo.

Mi sentii sollevare e appoggiai la testa sul petto di Edward.

«Non dovrebbe essere nulla di grave, ma se non ti senti bene non esitare a chiamarmi» disse la voce di Carlisle.

Mi decisi a tenere le palpebre chiuse, preoccupata di mostrare nei miei occhi tutta la mia debolezza. Sentivo nella stanza un innaturale silenzio.

«Su ragazzi, non fate quelle facce, Bella sta bene».

Sorrisi debolmente alle parole di Carlisle, e sperai che addormentarsi sarebbe davvero stato facile.

 

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Capitolo 34
*** Caccia ***


Edward’s POV

Edward

 

Guardai Bella, mentre scherzava timidamente con mia sorella Alice.

Aveva un piccolo sorriso e le fossette alle guance. Era proprio un angioletto, il mio angioletto. Nell’ultima settimana aveva fatto davvero tanti progressi per riprendersi dalla sua crisi, ed ora si stava riposando dopo la psicoterapia con Rose.

Ricordavo perfettamente il suo volto quando l’avevo trovata nella baita in montagna con il randagio rognoso.

Al suo solo pensiero vidi i muscoli delle mie braccia tendersi. Dovevo calmarmi. Mia sorella Rosalie, con i suoi pensieri me lo ricordava sempre, così non facevo altro che spaventare Bella.

Ma come potevo dimenticare quello che le aveva fatto?! Era terrorizzata. Era semplicemente terrorizzata. E avevo una folle paura di toccarla, di sfiorarla, perché sapevo che questa volta c’era molto più della sua carne, molto più del suo corpo da ferire. Non volevo ferire la sua anima già irreparabilmente lesa.

Ricordavo con la precisione della mia mente vampira il momento in cui si era risvegliata, nella mia camera. Rosalie diceva che era meglio portarla nella nostra vecchia casa, l’ambiente famigliare e la vicinanza con tutti gli altri l’avrebbe aiutata a superare il trauma vissuto.

Non riuscivo neppure a immaginare… chissà quali enormi pene, non ancora confessate, aveva dovuto subire.

La prima settimana era stata un inferno. Tentavo in ogni modo di esserle accanto, di cancellare ai suoi occhi il mio dolore, in modo che mi sentisse vicino e potesse riprendersi. La vedevo stare immobile, abbandonata sul letto, e mi sembrava solo un corpo, un guscio vuoto inerme. La vedevo piangere, la vedevo urlare dopo aver fatto un incubo e la vedevo sgranare i suoi occhi color cioccolato, imprigionati nell’angoscia. E mi sentivo irrimediabilmente impotente. La vedevo fra le braccia di Rose, che confortandomi con i suoi pensieri la portava in bagno per medicarla.

Quanto avrei voluto stare accanto a lei a tenerle la mano, a rassicurarla, a confortarla! Ma non si poteva fare, e Rose non mi poteva dire nulla, solo lei, solo Bella avrebbe potuto farlo.

Ma il tempo passava, e nulla migliorava. La vedevo lì nel letto, pallida, smunta, con un ago nel braccio per la sua ostinazione a non voler mangiare, a non voler parlare, a non voler muoversi. A non voler vivere.

Carlisle ci stava davvero male. Lui, il più sicuro e ottimista della famiglia, non l’avevo mai visto così abbattuto, ma la sua frustrazione nasceva dal rifiuto di Bella di essere aiutata. Dal non poter svolgere il suo mestiere, a cui aveva dedicato una vita.

Anche tutto il resto della famiglia soffriva. Emmett non scherzava più, Esme cucinava e buttava nel cestino tutti i pasti rifiutati da Bella, Rosalie stava perdendo la speranza, Jasper soffriva nel sentire tutte le sue e le nostre tristissime emozioni e Alice… Alice era quella che stava peggio. Dopo di me ovviamente.

Non riusciva a capire come Bella avesse potuto scegliere un destino del genere, come avesse potuto cancellare quel futuro in cui loro erano sorelle e vampire. Non riusciva ad accettarlo.

L’unico che riusciva ancora a sperare, mascherando così il mio immenso dolore, ero io. Tutto questo è impossibile. Mi ripetevo. Bella mi ama e io amo lei, nient’altro conta.

Ma non potevo ignorare la mia gola che ardeva di dolore. Perché quel dolore non aveva nulla a che fare con la sete. Quel dolore era la mia esistenza, l’unica scintilla lucente di vita, donatami da Bella, che si stava spegnendo, congelata nel mio corpo di ghiaccio.

E tutto quel dolore, portato avanti da una finta maschera di speranza, esplose nel giorno in cui Alice non poté più tacere.

Vidi nei suoi pensieri cosa aveva detto a Bella, subito dopo il mio ennesimo tentativo di parlarle, e mi fiondai immediatamente in casa, prendendo la mia sorellina tra le braccia e calmando i suoi singhiozzi. Potevo consolare almeno lei…

Ma poi, una visione… la più terribile che Alice potesse avere. Bella, la finestra, il salto. Il suo corpo esanime in una pozza di sangue. Immediatamente sentii i muscoli scattare e non mi curai più di seguire una velocità umana, ma mi precipitai a chiudere l’oggetto, causa della morte della mia unica ragione di vita.

Purtroppo, sul suo volto, nacque un’espressione ancor più dolorosa. Sentivo fortissima nella mia mente la sua sofferenza, non solo tramite i pensieri di Jasper, ma anche grazie al particolare contatto che ci legava.

Gridò, disperata. E sentivo ancora il suo grido inumano nelle mie orecchie, una straziante richiesta d’aiuto non espressa.

A quel punto ogni mia certezza cadde. Ogni speranza. Lei non era più lei. La mia solare, forte, spensierata, timida e stupenda moglie.

Il suo dolore, immenso, era troppo grande. Lo leggevo nei pensieri di mio padre. Per un umano era impossibile superare tutto quello. Il rapimento, la violenza, l’omicidio. Come avrei voluto farmi peso di tutto quel dolore! Impossibile. Parola mai esistita nel mio vocabolario di un mondo che rende possibili anche le più strane e orrende fantasie dell’uomo.

In quel momento, però, entrambi ci facevamo del male. Bella, chiudendosi sempre più dentro di sé, ed io, che potevo solo stare a guardare, immaginare le immense dimensioni del suo dolore e tentare di spartirlo con la metà della mia anima che dovevamo ancora avere in comune. Dolore, solo dolore.

Ma poi, non so perché, non so se a causa delle parole di Alice o di un’improvvisa lucidità, Bella mi aveva parlato, aveva detto il mio nome. La sua voce era tremante, aliena, piena di tutta la disperazione che provava. Ma era la sua voce e io ne avrei contemplato ogni più musicale nota.

Peccato che solo pochi minuti più tardi, la situazione si era completamente capovolta. Era stato uno strazio terribile vederla ferirsi a quel modo davanti ai miei occhi. Ancor di più perché la scelleratezza di quel gesto mi faceva capire quanto dovesse essere grande la sua angoscia.

Non potei più aspettare, non più. Non potevo più far tacere il mio istinto umano - risvegliato solo da lei - che mi gridava nella testa: aiutala! Salvala!

E così, le nostre anime, stracciate in due parti dal dolore, si erano fuse nuovamente insieme. E in quel momento l’avevo capito, ne avevo finalmente la certezza. Lei aveva bisogno di me. Non c’era bisogno che me lo chiedesse ancora, perché lei lo aveva detto: Ti amo.

E così era cominciata la sua lenta guarigione. Parola dopo parola, contatto dopo contatto. Era fragilissima, pronta a chiudersi ancora su sé stessa, e i lunghi pianti che sfogava contro il mio petto potevano solo farmi immaginare quanto soffrisse. Sapevo che tentava di controllarsi, sapevo che faceva di tutto per reprimere quelle lacrime che aveva paura di versare per amor mio. E tutto questo mi dimostrava ancor di più quanto altruista dovesse essere il mio amore, che si preoccupava di essere stata la causa di un essere immondo che aveva usto - non sapevo ancora fino a che punto - violenza su di lei.

Per ogni cosa che facevo, toccarla, parlare, guardarla, dovevo controllarmi. Tentavo di ricordare tutto quello che la potesse portare a dei ricordi dolorosi ed evitavo di farlo.

Dovevo aver pazienza, dote che grazie al cielo non mi mancava. Ma che sembrava invece mancare ogni tanto a Rose.

Bella era fragile, ci mancava poco a farla sprofondare nuovamente nel suo baratro. Una qualsiasi cosa le faceva mozzare il respiro in gola, la faceva tremare, la faceva scoppiare in lacrime. Ma io mi sentivo bene. Nonostante il costante dolore che provavo, mi sentivo bene perché sapevo di poterla aiutare.

E poi ora si era ripresa così bene. Leggevo sempre nei suoi occhi il bisogno di me. Quando mi allontanavo anche solo di qualche metro, mi richiamava a sé. E se poi se chiedevo se ci fosse qualcosa che non andasse lei scuoteva il suo piccolo capo, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli, e mi abbracciava. Aveva solo bisogno di me. 

«Amore, torno subito» dissi avvicinandomi a lei.

Mi regalò un piccolo sorriso. «Stai andando da Carlisle?».

Mi sorprese il fatto che l’avesse scoperto così facilmente. «Sì» dissi solo. Sapevo che non ne voleva sentire parlare di medicine e non voleva che mi preoccupassi - inutilmente diceva lei - per la sua salute.

Ma il suo sorriso, stranamente, si aprì ancor di più «Bene» disse, tendendosi con il volto verso di me.

Capii cosa voleva, così mi chinai verso le sue labbra e la baciai. Erano così rari quei momenti, che non desideravo altro che sfruttarli per renderla più felice e serena.

«Entra figliolo» mi disse mentalmente Carlisle quando fui davanti alla porta del suo studio. Entrando, mi chiusi la porta alle spalle.

Da quando Bella aveva avuto quel mancamento durante la festa del suo compleanno, mi sentivo molto nervoso e preoccupato. Lei diceva sempre di sentirsi bene, che non c’era nulla che non andasse. Ma la vedevo ogni tanto portarsi una mano alla pancia, o alla bocca, e chiudere gli occhi. Come se stesse avendo un conato di vomito o un capogiro. Ero molto preoccupato.

«Sei ancora in pena per Bella?».

Annuii.

Mio padre mi fece segno di sedermi su una poltrona accanto alla sua. Era un gesto umano e non necessario, ma serviva a creare un’atmosfera tranquilla. «È successo qualcos’altro? Ti ha detto qualcosa?» mi chiese serio.

Attraversai la stanza alla mia velocità, sedendomi sulla poltrona indicata da Carlisle. «No, lo sai che non mi dice nulla… minimizzava già prima, figurati adesso. E così non fa altro che farmi preoccupare di più» confessai sconfortato.

Mio padre mi fece leggere i suoi pensieri. Lui era piuttosto tranquillo, ma riconosceva che lo svenimento accostato alla sua perenne nausea poteva destare qualche sospetto. Tuttavia aveva fatto i controlli di base, e non aveva trovato nulla che non andasse in Bella. Avrebbe voluto fare delle analisi più approfondite, ma Bella si era categoricamente rifiutata di andare in ospedale. Figurarsi che per ora era solo riuscita a fare qualche telefonata a suo padre e sua madre.

«Sì hai ragione» ammisi io allora, sconsolato. «Ma come te lo spieghi allora il suo malore, la nausea?».

«Edward, potrebbero anche essere dei piccoli attacchi di panico. Non mi sembra il caso di tartassarla con delle domande sulla sua salute, potrebbe sentirsi oppressa e reagire contrariamente a come vogliamo che reagisca».

«Già… ma se non sono attacchi di panico? Che cosa potrebbe essere, lo champagne?» chiesi sarcastico. Impossibile che fosse davvero così. Bella non avrebbe potuto bere dell’alcool con la terapia di benzodiazepine, così per il suo compleanno Alice aveva preso uno spumante analcolico.

«Credo che sarebbe bene aspettare, se si dovessero presentare dei sintomi rilevanti o se la nausea dovesse ancora perdurare, allora faremo immediatamente degli altri controlli» mi disse Carlisle. Poi mi mise una mano sulla spalla. «Sta continuando a prendere una sola compressa al giorno?».

«Sì, dal giorno del suo compleanno» dissi, passandomi una mano fra i capelli. Era molto migliorata dal punto di vista dell’umore, e ne ero molto felice. Ormai parlava tranquillamente con il resto della famiglia, mangiava più o meno regolarmente, e scherzava persino. Stava palesemente meglio. Certo, ogni tanto si perdeva in lontananza con lo sguardo, o senza che neppure se ne accorgesse dai suoi occhi scendevano alcune lacrime. Ma per fortuna, con la mia presenza o quella di Jasper, riusciva a riprendersi in fretta, come se nulla fosse successo.

«Come sta? Ha avuto delle altre crisi?» mi chiese mio padre interrompendo il veloce flusso dei miei pensieri.

«Fortunatamente solo una volta». Sospirai. «Il problema è la notte… Si sveglia più volte urlando e poi ci rimette tantissimo a riaddormentarsi. Per questo è sempre così stanca».

Carlisle aprì un cassetto della sua scrivania e prese dei fogli. «Forse dovremmo abbinare dei sonniferi per la notte, e vedere così come va. Manda Emmett in farmacia a prenderli».

«Edward» sentii nella mia testa il richiamo di mia sorella Rosalie. «Bella sta aspettando te per mangiare. Mi sembra piuttosto agitata… Non so… Ha detto di non disturbarti e che ti aspetterà, cosa stai facendo ancora lì?».

«Cosa c’è?» chiese mio padre notando il mio sguardo assente.

«Bella… Rosalie dice che è strana…». Corrugai le sopracciglia. C’era qualcosa che mi padre non mi aveva detto, per cui Bella era agitata. «Che cosa mi devi dire?» chiesi curioso.

Mio padre mi sorrise. «Dobbiamo parlare».

Lo invitai a proseguire.

«Bella è molto perspicace, lo è sempre stata. Ha notato che non andiamo a caccia da un po’ - più di tre settimane per l’esattezza - e che la maggior parte di noi fatica a starle accanto» modo gentile per escludersi «così mi ha chiesto di dire a tutti che vorrebbe che andassimo a caccia, stanotte per la precisione».

Lo guardai stranito. I suoi pensieri mi dicevano che si aspettava una reazione da me, ma io non capivo. «Certo, va bene, andate pure» dissi dopo un po’.

«Edward» mi richiamò mentalmente mio padre «anche tu».

Improvvisamente mi alzai a velocità inumana, facendo cadere la sedia a terra. «Lasciarla?» chiesi sbigottito «lasciarla sola?!».

«Edward, calmati» mi disse Carlisle sia con i pensieri che con le parole.

«No che non mi calmo! Io non la lascerò affatto».

Carlisle sospirò, scuotendo il capo. «Sapeva che avrebbe reagito così».

Ora capivo il motivo della sua agitazione. Impossibile. Io non l’avrei lasciata. Affatto. Decisamente impossibile.

«Vuoi aspettare fino al giorno della sua trasformazione? Fra due mesi?» chiese Carlisle con un sopracciglio alzato.

«Perché no» feci, non credendo neppure io stesso alle mie parole.

Carlisle sospirò.

«Bene. Non aspetterò due mesi, ma non verrò neppure stanotte con voi. Non ho intenzione di lasciarla completamente sola» dissi determinato, battendo un pugno sulla scrivania. Se non fosse stata di legno massello si sarebbe già rotta.

«Invece dovresti» mi disse Carlisle, con la mia stessa convinzione. «Primo, perché nei hai bisogno, non vai a caccia da un mese, e non puoi ridurti in questo stato, guardati» disse indicando la mia immagine allo specchio.

Avevo due ustioni al posto delle occhiaie e le guance tirate. Gli occhi… erano neri come una notte senza stelle. Distolsi lo sguardo. Avrei sopportato un’altra notte.

«Secondo» fece ancora Carlisle «perché mi ha chiesto di rimanere sola».

«Te l’ha chiesto lei?» chiesi sbigottito.

Poi sentii dei passi umani e un respiro pesante dietro la porta.

«Entra, Bella» disse Carlisle, lanciandomi un’occhiata ammonitrice.

Lei aprì titubante la porta e entrò nello studio con passo incerto. Il sangue che le imporporava le guance fece istintivamente salire nella mia gola un fiotto di veleno. Aveva ragione, dannazione. Ero proprio ridotto male.

Aprii le braccia e lei si sedette sulle mie ginocchia. La strinsi a me, inspirando il suo irresistibile odore.

«Gliel’hai già detto?» chiese a Carlisle con la sua debole e melodiosa voce umana.

Lui le sorrise. «Sì, ne stavamo discutendo proprio ora».

Lei annuì, mordicchiandosi un labbro. Poi posò i suoi grandi occhi marroni nei miei. «Ti prego» sussurrò, fissandomi di sottecchi «vai».

Sospirai. Riusciva sempre a convincermi. Ma questa volta non avrei cambiato idea. «No Bella, non ti lascio sola» dissi determinato.

Lei chiuse gli occhi. Poi sospirò, riaprendoli, seria. «Va bene» disse. Mi stupì il fatto che si fosse convinta così velocemente. Si sollevò in piedi e andò verso la porta. Poi l’aprì. «Emmett, Jasper».

Immediatamente i miei fratelli si pararono davanti a me. In quel momento capii le sue intenzioni. Non aveva affatto cambiato idea. Dovevo immaginarlo, Bella era testarda.

Mi guardò con determinazione. «Ne ho già parlato agli altri» disse, e in quel momento nello studio comparve anche il resto della famiglia. «Sono tutti d’accordo, non avercela con me. Stanotte tu andrai a caccia, che lo voglia o no».

«Edward, ha bisogno di rimanere sola», pensò Rosalie.

Alice mi guardò «Andrà tutto bene, l’ho visto. Sarà importante per lei sapere di avercela fatta».

Scossi il capo, e vidi Jasper e Emmett avvicinarsi determinati.

 «Bella» sibilai, frustato e preoccupato.

I suoi occhi si fecero grandi sul suo viso pallido e smunto, ma sostenne il suo sguardo. «H-ho bisogno che voi andiate. S-se… se davvero mi avete detto la verità» farfugliò, studiando rapidamente i nostri volti in cerca di una conferma «se davvero non c’è pericolo per me, non c’è motivo perché non rimanga sola».

«Ci sono invece!» esclamai, facendola trasalire e arretrare istintivamente. Presi un respiro per calmarmi.

Distolse per un attimo lo sguardo, dirigendolo verso la finestra e facendolo diventare vitreo, lontano. La sua voce era piatta e monocorde quando disse «vorresti dirmi che Jacob è ancora vivo?».

Trasalii. Non aveva più pronunciato il suo nome. «No».

Lentamente si volse nuovamente a guardarmi. Piegò il capo da un lato, sperando di piegare anche me con la sua logica.

«Questo non cambia nulla».

«Perché?».

«Non è Jacob il pericolo per te adesso».

«Ah no?» mi domandava, i suoi piccoli pugni chiusi frementi di una tremante rabbia e paura.

«Tu stessa sei il pericolo per te! Stai ancora troppo male».

Un fremito. Un singhiozzo. Tutti gli occhi della mia famiglia su di lei, pieni di pena. Bella che fuggiva in lacrime. Io che correvo da lei per bloccarla senza curarmi della mia velocità vampira. Bella che urlava spaventata dal mio tocco e dalla mia velocità, gettandosi a terra e mettendo le braccia a coprirsi il capo, come a proteggersi.

«Amore, sono solo io!».

«Non mi toccare, non mi toccare!» urlava senza fiato, tutto il suo minuscolo corpo violato scosso violentemente, involucro di una mente ferita che non era più lì con me. «Ah!» l’urlo più agghiacciante «non mi toccare!».

Gli sguardi della mia famiglia erano su Alice, in attesa che rivelasse la sua visione. Solo Bella guardava ancora me, supplicandomi con lo sguardo che non aveva ancora perso la sua fierezza.

«Dormi, amore» un bacio sulla fronte. Buio. Un bacio sulle labbra, e un vero, raro sorriso di Bella, uno di quello che non vedevo… da tempo, l’indomani mattina.

Alice si volse a guardarmi. «Andrà tutto bene» pensò.

Sospirai, malvolentieri. Il mio istinto mi diceva che non era la cosa giusta da fare, ma le visioni di mia sorella mi dicevano che non avevo scelta. Rilassai le spalle e annuì seccamente, di malavoglia. Prima ancora che allargassi le braccia Bella era corsa a rifugiarsi sul mio petto, sollevata.

Mezz’ora dopo ero in camera mia insieme a lei, seduta sulle mie ginocchia. Indossava una morbida vestaglia che arrivava fino a metà coscia, con sotto dei pantaloncini di cotone bianco con gli svolti della stessa seta azzurra del pezzo di sopra.

«Sei arrabbiato con me?» mi domandò preoccupata, studiandomi.

Sospirai, e non le risposi. Non ero arrabbiato, ma solo maledettamente preoccupato. Come dirglielo senza farla dubitare di sé stessa? «Non voglio lasciarti sola» mi arresi a dire infine.

Sentii una sua mano calda sulla guancia. «Dormirò tutta la notte e quando domani mi sveglierò tu sarai lì accanto a me. Non mi accorgerò neppure della tua assenza. E poi…» disse, mordicchiandosi il labbro.

Le misi un dito sotto il mento, sollevandolo. «E poi?» chiesi.

Lei prese un piccolo respiro. «Domani mattina ti racconterò tutto, promesso» mi gettò le braccia intorno al collo e strinse con tutta la sua forza. «Ce la farò… tutto» sussurrò determinata.

Posai una mano sui suoi capelli morbidi. Quel pomeriggio avevamo fatto molti passi avanti durante una seduta di psicoterapia. Era una terribile sofferenza per lei raccontarmi i suoi ricordi dolorosi, ma per me era necessario per sapere e per Rosalie era necessario per superare il trauma.

Sbadigliò. «Sono stanca» mormorò, la pelle pallida e le occhiaie sotto gli occhi, accucciandosi in posizione fetale. Era più stanca di prima, di quando era solo un’umana. Adesso era un’umana ancor più fragile e ferita.

Rosalie entrò nella stanza. «Carlisle ti ha prescritto dei sonniferi, cosa ne pensi di cominciare da stasera?» chiese gentile a Bella. Mia sorella aveva completamente cambiato atteggiamento con lei. Ora spartivano molto più di quanto non avessi voluto…

Lei scosse il capo, accucciandosi maggiormente contro il mio corpo. «No Rose… ce la faccio…».

Mia sorella le sorrise. «Va bene, qualora ne avessi bisogno te li lascio sul mobiletto del bagno, quello sopra il lavandino».

Annuì lievemente.

La dondolai un po’ sul mio corpo, ma nonostante fosse stanca non si addormentava. Così la portai a letto e mi stesi accanto a lei, sussurrando la sua ninna nanna nel suo orecchio e maledicendo il momento in cui mi sarei dovuto staccare da lei.

Si muoveva irrequieta nel letto, ma ancora non riusciva a dormire. La lasciavo abbracciarmi come meglio credeva, ma non riusciva a prendere sonno.

«Sicura che non vuoi prendere un sonnifero?» le chiesi allora.

Scosse il capo, chiudendo le sottili palpebre rosate. Aspettammo ancora, ma non riusciva ad addormentarsi.

«Fa caldo» mugugnò infine.

Mi venne un’idea. La presi fra le braccia e mi sollevai in piedi. Posai la sua testa nell’incavo del mio collo e, nonostante i suoi deboli rifiuti, le misi addosso una copertina, fino a coprirla completamente. Passai diverso tempo così, passeggiando per la stanza e cullandola, massaggiandole la schiena con la mano libera. Ogni tanto interrompevo la mia ninna nanna per baciarle la fronte.

«Ti amo» farfugliò ad un certo punto.

Sorrisi. L’amavo davvero, così tanto. Ed era così debole e fragile. Come avrei potuto separarmi da lei, anche solo per una notte? «Anch’io ti amo, ora dormi».

Continuai a cantare, a cullarla e passeggiare per la stanza. L’amavo. L’amavo e l’adoravo indiscutibilmente. Quando tutto questo sarebbe passato, avrei trascorso la mia serena eternità con lei.

Quando la sua piccola e carnosa bocca rossa si aprì lievemente, lasciando passare un respiro pesante, capii che si era addormentata. Delicatamente, attento a non svegliarla, la misi a letto, rimboccandole le coperte e donandole un ultimo bacio.

Sospirai. Staccarsi dal mio angioletto sarebbe stato difficilissimo, eppure dovevo farlo.

 

Bella

        

Mi sentivo un po’ in colpa per il modo con cui l’avevo costretto ad andare a caccia. Non volevo che soffrisse. Standomi accanto soffriva sia fisicamente, sia per la sua debolezza emotiva, per cui non riusciva più a sopportare sia il mio che il suo dolore. Sentivo di dover avere la prova che stavo meglio, e stare per una misera notte da sola mi pareva una buona idea. Volevo provare a me stessa che era arrivato il momento. Quel momento.

«Domani mattina ti racconterò tutto, promesso» dissi con fermezza, tentando di imprimere decisione nelle mie parole. «Ce la farò… tutto».

Già quel pomeriggio ci avevamo provato, ma mi ero interrotta poco prima di arrivare a finire il racconto.

Eravamo in giardino, sotto l’ombra di un albero, perché secondo Rose essere in un ambiente così tranquillo avrebbe aiutato.

«Pendi la mano di Edward» disse «e poi, piano, fai tre respiri».

Feci come mi diceva e piantai i miei occhi in quelli scuri del mio amore.

«Racconta» disse lei «dall’inizio».

«Era…» mi schiarii la gola «era mattina. Mi ero svegliata da poco e pregavo che il tempo non passasse più, che lui non venisse mai da me» mentre parlavo vedevo le immagini, vivide, comparire dinanzi ai miei occhi. «Ma così non fu» dissi con dolore. «Uscii sul balcone, gridando, ma lui mi riprese e mi scaraventò sul letto» Ricacciai indietro le lacrime, non potevo già piangere. Edward mi strinse con maggior forza la mano. «Cominciò a baciarmi… Prima la bocca e poi… il corpo… il collo… dappertutto…» presi un grosso respiro. Vedevo la sofferenza nel volto di Edward.

«Continua» mi incitò Rose.

«Strappò la maglietta da un lato… e…» mi tremarono le labbra, tentai di rallentare il respiro, portandomi una mano al petto. Dopo un minuto circa, continuai «infilò la mano sotto la maglietta… e… e…». Non riuscii a trattenere ancora le lacrime, che iniziarono a cadere copiose dai miei occhi.

Edward mi strinse a sé. Soffriva, soffriva troppo. E il fatto che non andasse a caccia da molto tempo non faceva che peggiorare le cose.

«Ha cominciato a toccarmi» piansi «e-e io u-urlavo… mi dimenavo ma… lui era troppo forte… e… corsi in bagno… vomitai, ma… lui mi riprese… subito…» i singhiozzi mi forzavano il respiro, facendomi scontrare contro il suo petto. «Mi sbatté contro il muro, tenendomi i polsi…».

Edward mi staccò un attimo da sé, guardandomi negli occhi. «È per questo che hai reagito in quel modo quando l’ho fatto io?».

Annuii, gettandogli nuovamente le braccia al collo. «Scusami… io non volevo…».

Rose mi passò una mano sulla schiena. «Calmati un po’, prenditi del tempo» mi disse dolce.

Aspettammo che i singhiozzi cessassero, tuttavia non riuscii ad arrestare le lacrime.

«Bella» mi chiese Edward «cosa ti ha fatto?».

Presi un respiro attraverso le labbra tremule. «Continuava a toccarmi… baciarmi… ovunque… Io chiamavo te… ero disperata… dicevo il tuo nome… l’unica cosa che potessi fare…». Mi bloccai. Mi bastava chiudere gli occhi per vedere come tutto era andato a finire. Il dolore, fisico ed emotivo che ero stata costretta a subire. Il senso di violazione…

«Che cosa ti ha fatto?» ripeté Edward.

«Si è arrabbiato… mi… ha graffiato… strappato i pantaloni…», serrai con più forza le palpebre.

Edward si irrigidì completamente.

«Sentivo… il suo bacino contro il mio…». Mi costrinsi a prendere un respiro. «Basta!» urlai.

Edward mi distolse dai miei pensieri, chiedendomi ancora se volessi prendere un sonnifero. Risposi di no e tentai di concentrarmi per dormire. Purtroppo però tutta quella agitazione mi aveva lasciata innaturalmente accaldata.

Lui mi prese fra le braccia, sistemandomi una copertina addosso e passeggiando nella stanza canticchiando e cullandomi, nel tentativo di farmi addormentare. Mi sentivo bene fra le sue braccia. Mi sentivo protetta. E ora sapevo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio. Gliel’averi detto, il giorno dopo… Ne avevo già parlato con Rose, volevo tornare a vivere a casa nostra. «Ti amo» sussurrai.

«Anch’io ti amo, ora dormi» mi rispose dolcemente, dondolandosi sui talloni e ricominciando a cantare teneramente.

Mi lasciai cullare in quel paradiso fatto solo di Edward, e scivolai in un tenero e dolce sonno.

 

Edward

 

Erano passate cinque ore ormai. Cinque ore di caccia, cinque ore di separazione da Bella. Cinque ore di pena.

Eravamo tutti più o meno sazi, ma avvertivo dai pensieri dei miei familiari che ci saremmo fermati tre altre ore, in modo da stare tranquilli per un po’. Ci eravamo spinti piuttosto lontano, visto che stavamo cacciando in gruppo numeroso.

Sospirai, serrando la mandibola. Volevo solo tornare da Bella. Mi mancava sentire il suo lento respiro mentre dormiva, il movimento armonico del suo petto, la morbidezza dei suoi capelli sparsi sul cuscino. Avevo bisogno di tenere la situazione sotto controllo e sapere che stava bene. Se avesse avuto un incubo? Se fosse stata spaventata? Se avesse avuto un attacco di panico?

Lasciai andare il corpo esanime di un puma appena dissanguato. Mi leccai le labbra, unica parte del mio corpo sporca di sangue. Sapevo ancora cacciare senza sporcarmi.

Mi sedetti su un grosso ramo di un albero e controllai il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Me l’aveva giurato, mi avrebbe chiamato se fosse accaduto qualcosa. Sbuffai, irritato.

Emmett mi raggiunse e mi mise una mano sulla spalla «Vuoi già tornare a casa dalla tua Bellina?!».

Sospirai, perendomi con lo sguardo nel panorama. «Tanto non me lo permetterai, vero?».

Lui si mise una mano sul cuore, con fare scherzoso. «Oh no impossibile. Ho fatto giurin giurello, mignolino mignoletto con la mia sorellina umana, impossibile!».

Alzai gli occhi al cielo.

In quell’istante, Alice lasciò andare la presa sulla sua preda.

Tutta la famiglia smise di cacciare e si voltò ad osservare i nostri occhi vacui.

Un’immagine terribile prese forma nelle nostre menti.

Bella, mortalmente pallida. I capelli color cioccolato sparsi intorno a lei.

Svenuta a terra sul pavimento dorato della mia stanza.

La sua mano bianca e immobile, semi-aperta e stesa in avanti.

Accanto alle sue dita la nuova boccetta di sonniferi.

Vuota.

 

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Capitolo 35
*** Foglietto illustrativo ***


Bella’s POV

Bella

 

Farsi cullare dalle braccia di Edward era stato stupendo, ma mi stupii il fatto che riuscissi a formulare pensieri piuttosto coerenti. E mi stupii di essermi stupita. Mi stavo svegliando.

A quel punto capii cosa fosse a tirarmi su verso la coscienza del letto caldo. Avevo un fastidio imprecisato all’addome che man mano, con la consapevolezza di essere sveglia, si faceva sempre più forte. Si irradiava dalla pancia alle gambe, dandomi la sensazione di uno strano e fastidioso formicolio.

Forse semplicemente mi era tornato il ciclo. Decisi di alzarmi e andai in bagno. Restai un po’ lì, seduta sul bordo fresco della vasca; sapevo che non sarei mai riuscita a riaddormentarmi subito. Ma il dolore aumentò, e allora capii che non aveva nulla a che fare con il mio ciclo - ancora inesistente.

Avrei dovuto chiamare Edward. Mi aveva lasciato il mio cellulare sul comodino e mi aveva assicurato che avrebbe tenuto il suo sempre acceso. E io avevo promesso di dirgli tutto, se lo fosse venuto a sapere da Alice poi sarebbe stato peggio. Gli nascondevo già abbastanza cose, come la nausea e i capogiri.

Tuttavia, quando finii di sciacquarmi il viso il dolore era scomparso. Sospirai sollevata. Non sarei comunque riuscita a dormire in quelle condizioni, così, come mi era stato suggerito da Rosalie, afferrai dal mobiletto sul lavandino il flacone di sonniferi, ne misi uno sulla mano e lo mandai giù, insieme all’acqua che avevo messo nel bicchiere che solitamente usavo per sciacquarmi i denti.

Mi ero un po’ pentita di aver lasciato andare Edward, ma sapevo che se non l’avessi fatto il giorno dopo non mi sarei mai potuta trasferire con lui a casa nostra.

Presi il tappo del flacone che avevo poggiato sul bordo del lavandino, ma quando feci per avvitarlo - un po’ perché ero ancora mezza addormentata, un po’ per la mia goffaggine che non si faceva sentire da tempo - si rovesciò da un lato. Tutte le compresse caddero sulla ceramica bianca umida del lavandino, bagnandosi ed iniziando a sciogliersi.

Sbuffai frustrata. Solo a me potevano capitare cose del genere. Quanto avrei voluto sentire nel mio orecchio le parole di Edward… che però non arrivarono. Perché ero stata così stupida da chiedergli di lasciarmi sola. Dannazione!

Ormai il danno era fatto. Aprii il getto dell’acqua facendo sciogliere completamente le compresse, poi presi il flacone vuoto, per buttarlo nel cestino della stanza di Edward. Sentivo la testa pesante e leggera insieme. Possibile che i sonniferi stessero già facendo effetto?

Andai in camera di Edward, verso il cestino, ma la testa cominciò a girarmi più veloce, e il dolore alla pancia comparve ancora. Ansavo e mi sentivo piuttosto stordita. Non era un malessere passeggero, avevo delle fitte distinte a un punto dell’addome. Non feci in tempo ad arrancare verso il cellulare, che la vista mi si appannò completamente e caddi svenuta sulla moquette.

 

Edward

 

Avevo lasciato tutti indietro, ero sfrecciato via non appena le immagini nella mente di Alice si erano diradate, pieno di angoscia e rabbia. Appena arrivai di fronte a casa, raggiunsi la finestra direttamente con un balzo, per entrare in camera mia.

Bella era esattamente come nella visione di Alice: pallida e priva di sensi. Mi fiondai immediatamente al suo fianco. Nonostante fosse proprio come nella sua visione, però, vederla dal vivo era molto più doloroso.

«Amore mio, amore mio, mi senti?» sussurrai afflitto ad un suo orecchio.

Con gesti veloci le sfiorai una guancia: era ancora calda. Anche il polso mi pareva regolare. Ma non si muoveva, non reagiva in alcun modo.

Dovevo aspettare Carlisle, ma se non fosse arrivato in tempo…! Ringhiai frustrato, scuotendo la testa. No, non poteva essere.

Controllai la boccetta di sonniferi. Sì, era quella, ed era vuota.

La portai al naso inspirandone l’odore e lo confortai con quello del sangue del mio angioletto.

Era lo stesso.

Rabbiosamente scaraventai lontano quell’oggetto inutile, rimproverandomi per la mia stoltezza, e presi la mia unica ragione di vita fra le braccia, scuotendola leggermente.

«Bella, Bella! Amore, ti prego, rispondimi» gemetti sofferente.

La sollevai fra le braccia, tirandomi su.

La testa e le membra ricaddero all’indietro senza vita, dando una pugnalata al mio cuore già morto.

Perché?! Perché l’aveva fatto?! E perché ero stato così stupido da lasciarmi convincere?!

Singhiozzai, baciando le labbra inanimate di quell’umana così fragile da avere il potere di togliermi la vita.

La sua vita era come acqua in quel momento. Acqua, che mi scivolava dalle mani.

 

Bella

 

Sentii freddo. In faccia. Freddo e dolore su una guancia. Voci, agitate. E acqua. Di nuovo voci. Ancora acqua. In bocca e sugli occhi. Un altro schiaffetto, la mia bocca si aprì e l’acqua entrò dentro impedendomi di respirare.

Aprii gli occhi, sporgendo automaticamente la testa e il busto in avanti e tossendo fuori l’acqua che era entrata nei polmoni. Ero sconvolta, non capivo cosa stesse accadendo. Tentai di orientarmi. Ero fra della braccia fredde e sotto la doccia che emetteva un getto altrettanto gelato. Smisi di tossire. C’era Edward. E anche Carlisle. Vedevo a frammenti i loro volti agitati e preoccupati.

«Si è svegliata!». Era la voce di Edward. Mi teneva lui in braccio e la sua camicia si era bagnata per lo stesso getto d’acqua che investiva il mio volto.

Mi ritrovai fuori dal box doccia. Che cosa stava accadendo? Perché erano tutti così agitati? La mia mente era annebbiata e pesante. Edward… dov’era lui?

Gemetti, distinguendo il suo odore e avvicinandomi con il naso al suo collo. «Edward» biascicai, in maniera quasi incomprensibile.

Le sue braccia si mossero scuotendomi. «Bella?! Amore, su, apri gli occhi!».

Un altro schiaffetto in viso. Infastidita e dolorante aprii gli occhi, scontrandomi con quelli angosciati di Edward. Acquisii maggiore razionalità, ma la testa ancora mi girava impedendomi di comprendere cosa stesse accadendo. «Edward» farfugliai ancora.

«Non ti preoccupare amore, ci sono io adesso» disse stringendomi disperato fra le sue braccia.

Distinsi Carlisle che con un’espressione concentrata in viso passò a Edward un bicchiere.

Perché stava succedendo tutto quello? Ricordavo solo… la testa… che mi girava… il dolore alla pancia… il buio. Ma cosa…?

Edward lo afferrò e me lo portò alle labbra. «Bevi amore, su, dai» mi esortò agitato.

Ero disorientata, non capivo, ma feci come mi diceva.

Dopo un sorso però mi piegai disgustata a vomitare nel water. Acqua e sale. Molto sale. Non capivo più nulla… Perché Edward mi aveva dato quella cosa?

Mi esortò a bere ancora.

Lo guardai confusa e sconvolta. Perché faceva così? Non aveva visto quello che mi aveva fatto?

La sua espressione divenne ancora più supplichevole e angosciata.

«Devi dargliene ancora» disse Carlisle, posandomi una mano ghiacciata sulla fronte.

«Ti prego Bella, bevi, starai meglio dopo, davvero» disse addolorato. «Te lo prometto, adesso bevi».

Non potevo non fidarmi di lui. Bevvi ancora, e inevitabilmente vomitai ancora. Due, tre volte.

«Basta» mi lamentai esausta cadendo con la testa sulla sua spalla.

«Portala di là, prova a farla stare in piedi» era ancora la voce di Carlisle.

Ero molto più lucida ora, e la lucidità mi portava la confusione per gli avvenimenti che si stavano susseguendo. Non capivo i loro comportamenti, non capivo la loro agitazione, non capivo perché mi avessero fatto vomitare…

Edward mi prese per i fianchi e mi tirò su. In un primo momento incespicai sui miei piedi malfermi, ma poi mi feci trascinare nella sua stanza.

Carlisle era a un lato del letto, e trafficava con una bacinella vuota. «Esme, soluzione fisiologica a 38 gradi» distinsi sulle sue labbra.

Alice era appollaiata su una sedia. Le lanciai un’occhiata confusa.

«Edward» mormorai con più decisione.

Lui mi stava trascinando da un lato all’altro della stanza, tenendomi un braccio intorno ai fianchi.

«Falla camminare» disse Alice, dondolandosi sulla sedia con gli occhi vacui. «Non farla addormentare». Non la smetteva di oscillare avanti e indietro, probabilmente tentando di concentrarsi.

«Lo so Alice» ribattè lui secco e rabbioso.

«Edward» lo chiamai ancora.

Lui si voltò si scatto verso di me. «Non ti preoccupare amore, ci sono io adesso, cammina, non addormentarti» disse ansioso spingendomi verso l’altro lato della stanza.

«Che…» fissai il pavimento, disorientata. Deglutii «che succede?» dissi mettendo nuovamente i miei occhi nei suoi.

Nelle sue iridi dorate passò un attimo un lampo scuro, poi si riprese. «Non è nulla, cammina… vieni» disse tirandomi ancora.

Ansimai. Cosa stava accadendo? «Edward… ti prego dimmi… dimmi cosa succede…».

Lui non parlava e continuava a camminare, portandomi con sé.

Carlisle, che per un attimo era scomparso, comparve con una bacinella colma d’acqua «Edward devi…».

«Devi controllare che non sia ipotermica. Asciugale i capelli sta tremando» concluse Alice con lo stesso tono del padre.

«Alice!» esclamò Edward agitato e arrabbiato, «devi vedere più lontano!».

In quell’istante capii cosa stesse facendo, stava cercando di leggere il mio futuro. Alice sobbalzò, scomparve in due istanti e ricomparve accanto a noi con un asciugamano. Alla stessa velocità si mise ancora nella stessa posizione di prima, ricominciando a dondolarsi con gli occhi vacui.

Edward prese l’asciugamano e me lo strofinò sui capelli.

Io non capivo nulla, mi facevo tenere in piedi da lui e facevo quello che mi diceva, ma non capivo, non capivo! Sentii ancora il formicolio fastidioso alla pancia.

Edward mi mise una mano ghiacciata sulla fronte. «35 e 5 circa…» disse a Carlisle.

Lui comparve dinanzi a me, scrutandomi, aumentando il mio senso di disorientamento ed angoscia.

Tutto avveniva così velocemente, e io mi sentivo sempre più disorientata. Non capivo cosa stesse accadendo, erano tutti così nervosi, agitati. Mi portai una mano alla testa. Appena provavo a concentrarmi su una cosa ne facevano un’altra, troppo velocemente. Gemetti frustrata.

Carlisle mi passava le mani sulla fronte, sui polsi, mi guardava… non capivo più nulla. Mi faceva male la pancia e non volevo stare ancora in piedi.

«Edward» mi lamentai, «fammi sedere».

Lui non mi ascoltò e continuò a trascinarmi per la stanza, parlando velocemente con Carlisle rispondendo a delle sue domande mute. Alice oscillava, Edward camminava, Carlisle ci seguiva, mi girava la testa, mi faceva male la pancia, non capivo più nulla, parlavano veloci, camminavano veloci, si muovevano veloci.

«Basta!» esclamai decisa, nonostante il mio tremore, piantandomi con i piedi a terra. Ignorai ogni malessere.

Tutti si bloccarono. Anche Alice, che concentrò le sue iridi dorate su di me.

«Cosa sta succedendo?!» chiesi perentoria, portandomi una mano al petto per bloccare il respiro angosciato.

«Devi dirglielo» disse asciutta Alice, rivolta a Edward.

In un istante mi prese fra le braccia, stringendomi a sé con possessione. «Non sai niente di quello che devo fare» replicò furente, ringhiando.

«Edward, devi dirglielo» disse anche Carlisle, serio.

Spalancò gli occhi, finalmente dorati. Scosse il capo. «No, no» si lamentò a denti stretti. Poi si voltò a fissarlo «che differenza fa?! Tanto ora non è lucida, sarà peggio quando lo ricorderà!».

Lucida?! Ricordare?! «Edward!» esclamai, defilandomi dalla sua presa e reggendomi sulle gambe malferme. «Dimmi che sta succedendo!» dissi affitta.

Lui mi fissò afflitto e disperato. «Hai preso i sonniferi» sussurrò «Tutti».

Mi bloccai, sbarrando gli occhi. I sonniferi… tutti. Tutti? Tutti i sonniferi? Avevo preso tutti i sonniferi?!

«Emmett, Jasper» disse Alice, ricominciando ad oscillare. Notai con la coda dell’occhio la figura di Carlisle scomparire. Edward mi strinse a sé.

Tutti i sonniferi… No. Non era andata così, no! I sonniferi… erano… il flacone… il lavandino. I sonniferi erano caduti nel lavandino!

«Portala sul letto» disse Carlisle comparendo nuovamente nella stanza.

«No!» urlai.

Edward mi sollevò di peso. Scalciai inutilmente. «No, Edward, no, ti stai sbagliando!» urlai ancora.

Lui mi poggiò sul materasso, tenendomi ferma. «Ti sembra abbastanza lucida?» chiese agitato a Carlisle, indicando un oggetto nero che teneva in mano.

«Si, ma se non collabora potremmo fare ben poco» disse lui alzandosi e prendendo qualcosa dalla sua borsa.

«Edward, aspetta, non è come credi tu! Non è successo quello che dici tu!» esclamai ancora, supplichevole, tentando di evadere dalla sua resa ferrea.

Lui mi accarezzò frenetico i capelli ancora umidi. «Shh amore, non ti preoccupare, ora ci sono io qui».

Carlisle si avvicinò con una siringa.

«No!» urlai dimenandomi e scoppiando in lacrime. «No Edward, no!».

Lui mi tenne ferma, mentre Carlisle mi sollevava la manica del pigiama.

«No! Fermi!» piansi, disperata. «Edward!».

Mi bloccò il braccio, con un’espressione afflitta e addolorata.

Singhiozzai amaramente. Poi mi ricordai di una cosa, un’ultima cosa, un’ultima speranza. «Sì, mi fido. Non mettere mai in dubbio la fiducia che ripongo in te, amore» piansi, ricordandogli le sue stesse parole. «È questo che mi hai detto Edward, non te lo ricordi più?! Non ti fidi più di me?!» dissi fra i singhiozzi.

Sentii Edward irrigidirsi e comprendere finalmente che ero molto più lucida di quanto non pensasse. «Carlisle!» esclamò in un fiato, bloccandolo con un gesto della mano.

Singhiozzai ancora, facendo scendere abbondanti lacrime dai miei occhi e tentando di concentrarmi nonostante il dolore alla pancia. «Non li ho presi» singhiozzai «non li ho presi tutti… solo uno… io… mi sono caduti… sono solo caduti…».

Edward mi sollevò dalle braccia, mettendomi seduta sul materasso e guardandomi negli occhi. «Dove?».

«In bagno… nel lavandino» mormorai gemendo.

«Dice la verità» disse Alice sorpresa, scomparendo e ricomparendo nella stanza.

Edward sospirò, come svuotato del terrore che fino a quel momento l’aveva preso. Il terrore che sua moglie non volesse più vivere. Poi mi abbracciò, prima lentamente, poi con forza, accarezzandomi con gesti agitati e baciandomi la fronte. Sentivo dai suoi fremiti che avrebbe tanto voluto piangere. Mi cullò fra le sue braccia, cullando me e sé stesso insieme. «Scusami» sussurrò pianissimo al mio orecchio.

Lo strinsi forte a me. «Non volevo farti preoccupare» mormorai poi «Io… ti stavo per chiamare… davvero».

«Che cosa è successo?» mi chiese prendendomi il volto in una mano e fissandomi negli occhi.

Poggiai la testa sulla sua spalla, esausta, stringendomi le braccia sulla pancia dolorante. «Mi sono svegliata» dissi riportando alla memoria quello che era accaduto «ho preso un sonnifero e… mi faceva male la pancia… molto male… mi girava la testa e poi tutto è diventato buio».

Carlisle mi accarezzò una guancia, e potevo vedere dai cuoi occhi che, nonostante tutto, era molto più sereno e controllato di prima. «Ti fa ancora male?» mi chiese osservando le braccia strette all’addome.

Annuii. «Sì, un po’».

Alice si avvicinò a noi abbracciandomi goffamente, perché Edward mi teneva ancora stretta a sé, per nulla intenzionato a lasciarmi andare. «Mi dispiace così tanto, davvero. Ero convinta che tutto sarebbe andato bene» disse afflitta.

Sentii una fitta più forte alla pancia e serrai gli occhi, gemendo fra i denti.

Subito Alice si staccò da me, mentre Edward mi baciò la fronte, tentando di confortarmi. «Dobbiamo portarla in ospedale» disse poi rivolgendosi a Carlisle.

M’irrigidii, spaventata. «No» fremetti «vi prego» pigolai tremando.

«Bella. Ha ragione Edward, c’è qualcosa che non va, lo vedi anche tu» tentò di convincermi Carlisle.

«No… no… vi prego… non sono pronta, non ce la faccio, non ci voglio anda-» le parole mi morirono in gola. Ero sopraffatta da un’altra fitta.

Carlisle sospirò. «Calmati» disse accarezzandomi i capelli. «Cosa vedi?» chiese ad Alice.

«Non lo so» disse lei, persa nelle sue visioni. «La vedo vampira… ma… Non riesco a vedere più vicino. Ci sono decisioni da prendere. Mi dispiace» aggiunse afflitta «non voglio che decidiate sulla base delle mie visioni. Non ancora».

«Alice…» pigolai. Le volevo dire che non era colpa sua, che non poteva prevedere sempre tutto. Ma mi sentivo molto debole e dolorante.

Carlisle mi guardò con razionalità e serietà. «Posso intento visitarti ed escludere qualcosa di più grave, va bene?» disse tendendomi una mano.

Non appena l’ennesima fitta passò, annuii, prendendo la sua mano e stendendomi sul letto.

«Mi sapresti dire di preciso dove senti dolore?» mi chiese Carlisle.

Scossi il capo, stringendo con maggior forza la mano di Edward. «No… è… non lo so… non capisco… solo quando sento più dolore…».

«Senti come delle fitte?».

«Sì, ma… solo a volte. Sento sempre un fastidio, come un formicolio alla pancia» sussurrai.

Lui annuì, poi prese a tastarmi l’addome. Io mi voltai verso Edward, perdendomi nel suo sguardo color oro, preoccupato ma allo stesso tempo rassicurante.

«Senti più dolore se faccio così?» mi chiese Carlisle tastandomi su un lato.

Scossi il capo in segno di diniego.

Lui ricominciò a tastarmi, poi lo vidi scambiarsi un’occhiata con Edward, che negò velocemente con la testa. «Alice, puoi andare a chiamare Rosalie?».

Quando Carlisle terminò il suo esame tornai fra le braccia di Edward. «Ti fa ancora male?».

«Sì, ma meno di prima» mormorai contro la camicia bagnata di Edward. Respirai a pieni polmoni il suo odore, che riusciva a calmarmi come il migliore degli psicofarmaci. Lui mi strinse a sé, cullandomi piano.

«Bella» disse Rosalie entrando in camera «sta meglio?» chiese poi a Carlisle.

Lui si sollevò dal bordo del letto, su cui era seduto, e le andò incontro uscendo dalla stanza insieme a lei.

Sentivo ancora quella strana tensione alla pancia e alle gambe, ma non era nulla di insopportabile. «Mi dispiace molto» sussurrai arrossendo, rivolta a Edward «che tu ti sia preoccupato così tanto».

Lui mi accarezzò una guancia. «Dispiace a me di aver tratto una conclusione così affrettata» fece addolorato, distogliendo lo sguardo «Ti ho visto nella visione di Alice, così pallida, svenuta a terra, e poi la boccetta di sonniferi vuota» scosse la testa, scacciando i brutti pensieri.

Gli posai una mano sulla guancia, seria, desiderosa come non mai di rassicurarlo. «Mi dispiace di averti dato modo di pensare, con il mio comportamento, che avrei potuto fare qualcosa di così estremo. Lo so, sai» abbassai il capo con un sorriso stanco «che devi controllare ogni tuo gesto, ogni tua parola per paura di ferirmi. Volevo solo che tutto questo finisse. Non avercela con Alice».

Distolse lo sguardo, come se il ricordo della sua visione fosse ancora troppo doloroso. Sospirò. «Adesso occupiamoci di te; hai ancora dolore?».

Scossi il capo. «No, lo giuro. È solo un piccolo formicolio». Corsi con i pensieri a Carlisle e Rosalie. «Carlisle sa cos’ho?».

Edward scosse il capo. «Purtroppo no. Sospetta qualcosa e sta chiedendo conferma a Rosalie. È un medico vampiro con 300 anni di esperienza, ma non alcun super potere. Per una diagnosi ci vorrebbe almeno un’ecografia».

Arrossii. «Pensa» mormorai, mordicchiandomi il labbro «pensa che io abbia una sorta d’infezione?».

Edward mi sorrise con gentilezza, accarezzandomi le guance rosse. «Qualcosa del genere».

Carlisle rientrò in camera insieme a Rosalie e si sedette nuovamente sul bordo del letto con un’espressione concentrata, per poi sorridermi confortante. «Mi puoi dire con precisione i sintomi che hai avuto negli ultimi giorni?».

Annuii, stanca, e con l’ausilio di Edward e Rosalie mi misi a raccontare, senza particolari reticenze. «La nausea… quasi sempre. La testa mi gira ogni tanto invece… quando mi alzo velocemente o mi giro di scatto… mi credo sia normale. E poi… non so… non mi viene in mente nient’altro, a parte il dolore alla pancia…».

Rosalie dovette notare le mie palpebre che tendevano sempre più ad abbassarsi. «Sono le quattro di notte, devi avere sonno».

Sbadigliai. «Sì, ma non credo che riuscirò a dormire» confessai, agitata. «Però» aggiunsi, torcendomi le mani in grembo «se possibile non vorrei prendere altri sonniferi. Non stasera, per favore».

Edward lanciò un’occhiata a Carlisle. «Potrebbe essere un effetto collaterale? Dei calmanti?».

Lui sollevò le sopracciglia, perplesso. «Ti è mai capitato qualcosa di simile?» chiese rivolgendosi a me.

Ripensai alla mia vasta esperienza con i farmaci, ma non ricordai altri episodi del genere. Prendevo dei sonniferi a volte - molto raramente - ma non mi avevano portato alcun effetto nocivo. Anche se…

«Quando ero bambina… avevo più o meno… otto anni… mia madre dovette portarmi in ospedale a causa degli effetti collaterali di alcuni farmaci, ma non ricordo quali fossero» mormorai concitata.

«È davvero poco probabile» disse Carlisle con un’espressione pensierosa «comunque, ricordi per caso il componente di quei farmaci che ti causò questa crisi?».

Sospira afflitta. Mia madre me l’aveva detto ma… forse avrei dovuto chiamarla… «No, forse» biascicai, mordicchiandomi il labbro «non lo so, forse cominciava con la B». Mi portai una mano alla testa, frustrata, tentando in qualche modo di ricordare.

Edward nel frattempo prese la coperta che gli aveva passato Rose e me l’avvolse intorno. Poi si tolse la camicia bagnata e si mise una maglietta asciutta, rimettendomi sul suo petto.

«Non mi ricordo» sbottai infine abbattuta. Subito sentii un’altra fitta all’addome e dovetti serrare i denti per soffocare un gemito.

Carlisle mi accarezzò un braccio.

Sospirai, era già passato, con la stessa velocità con cui era comparso.

«Bella» mi disse lui con un sorriso «cerca di stare tranquilla. Sai cosa possiamo fare? Adesso ti do il foglio illustrativo, leggi i nomi dei componenti e vedi se ti viene in mente qualcosa» concluse con una carezza rassicurante sulla guancia. Sapevo che la prossima mossa sarebbe stata insistere per andare in ospedale. Vedevo già le occhiate che si scambiava con mio marito.

Annuii, nervosa.

«Vado a prenderlo» disse lui scomparendo dalla mia vista.

Edward, notando il mio tremore, mi fece stendere sul letto, avvolta nella coperta, invitando a rilassarmi. Mi accoccolai in posizione fetale, chiudendo gli occhi. Lui mi strofinò con dolcezza una mano dietro la schiena, rassicurandomi.

«Ti prego, non voglio andare» iniziai a supplicarlo.

Mi portò un dito sulle labbra. «Lo so. Vogliamo solo che tu stia bene».

Presi un respiro tremante. Sapevo che non ci sarebbe stato niente di utile su quel foglietto. Sapevo che avevano bisogno di quella dannata ecografia per capire cosa stesse accadendo. Ma lo volevo davvero sapere? «Verrai con me? Lo affronteremo insieme?» domandai, tentando di farmi forza nonostante la mia voce tremante.

Mi carezzò i capelli, baciandomi la fronte. «Come tutto, mia piccola, fragile e forte umana».

Passò poco tempo che Carlisle tornò con un foglietto fra le mani. «Non metterti fretta» disse porgendomelo.

Io lo afferrai con una mano tremante e mi stropicciai gli occhi, stanchi e secchi. Cosa mai avrei potuto trovare che mi salvasse?

Edward accese la luce dell’abat-jour e io cominciai a scorrere con gli occhi, arrendevole, sulle scritte piccole e leggere. “Casa Farmaceutica, Principio attivo, Modo e Dosi d’uso…”.

Improvvisamente mi bloccai, gli occhi sgranati e la bocca aperta. Il cuore arrestò il suo cammino così come la mia respirazione. Il sangue defluì completamente dalle guance, lasciandomi fredda, pallida e shockata.

Non era possibile.

Non era possibile.

Eppure, c’era una sola spiegazione. Eppure, tutto quadrava.

Quella, era la soluzione.

Non usare in caso di gravidanza o allattamento”.

…caso di gravidanza o allattamento…

…gravidanza o allattamento…

gravidanza

 

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Capitolo 36
*** Unverso alternativo ***


Gravidanza… ero incinta

Gravidanza… incinta. Non riuscivo a crederlo. Vuoto, nella mia testa c’era il vuoto e quella sola parola al centro.

Mi sentii chiamare. «Bella? Mi senti?».

«Bella? Sta di nuovo male?».

«Forse ha trovato qualcosa».

Fui scossa leggermente e la voce agitata di mio marito giunse direttamente alle mie orecchie «Tutto bene?».

Sussultai, spostando lo sguardo dal foglietto, ancora immobile nelle mie mani, fino al suo sguardo dorato, preoccupato. Tentai di formulare una frase di senso compiuto, ma i miei pensieri, inesistenti in quel momento, non sarebbero mai riusciti a raggiungere le labbra leggermente aperte per lo stupore.

Sentii una mano fredda sulla spalla e mi voltai, sobbalzando, verso Carlisle, senza abbandonare la mia espressione completamente persa nell’incredulità.

«Bella, ti senti bene?» mi chiese con un tono misurato «hai letto qualcosa che può esserci utile?».

Dovevo parlare, dovevo dirglielo. Ma prima di tutto dovevo rendermene conto io stessa e non pensarlo come un pensiero astratto, ma come qualcosa che mi stava succedendo davvero. Dovevo avere la conferma di quel pensiero assurdo e in ogni modo inconcepibile. Tuttavia anche troppo realistico.

Carlisle mi fissava in attesa della mia risposta.

Dovevo dire quella parola. Quella sola parola. Sentii le labbra muovesi sconnessamente senza produrre alcun suono. Non ci riuscivo. Non potevo dirlo. Come un automa presi il foglietto che avevo fra le mani e glielo consegnai.

Lui lo guardò perplesso, sfilandolo delicatamente dalla mia presa ferrea. «Il foglietto? Devo leggerlo?» mi chiese confuso.

Annuii lentamente, muovendo poi l’indice tremante verso la frase che avrebbe dovuto leggere. La stessa frase che io avevo letto poco prima e che mi aveva portato quella sconcertante illuminazione.

Lui abbassò lo sguardo, titubante. La sua fronte si corrugò un instante, leggendo la frase che gli avevo indicato. Immediatamente si riappianò, scattando verso l’alto con un’espressione sorpresa, come quella che ormai c’era anche sul volto di Edward.

Quella per me fu una ben certa conferma. Ero incinta. Incinta.

No.

Eppure Carlisle aveva avuto la mia stessa reazione. E anche Edward. Questo voleva dire solo una cosa: avevo ragione. Ma come? In che modo potevo avere ragione, se io non…

«Che cosa succede? Cosa sta succedendo?» chiese Rosalie, confusa, osservando le nostre espressioni.

«Bella è incinta» spiegò Carlisle, comprendendo quello che in tutti i quei giorni avevamo fatto finta di non vedere, abbandonando parzialmente lo stupore.

Sentirlo dire fu come farsi attraversare da una potentissima scarica elettrica. Come dovessi accettare per forza la verità. Come se il mio cervello intorpidito si fosse immediatamente rianimato. Non c’era tempo per gli indugi, volevo risposte.

Mi voltai immediatamente verso di lei, rianimata. «Com’è possibile, Rose?!» chiesi, con voce tremante.

Ma lei non mi rispose. Stava immobile, stupefatta, come Edward, come Carlisle, come me pochi istanti prima.

Doveva dirmelo. Doveva dirmi quello che non volevo e non potevo accettare, quello che irrazionalmente volevo sapere da lei perché non avevo il coraggio di chiedere a me stessa. «Come è possibile?!» sbottai, con voce più ferma.

Rimase ancora immobile.

Fui accecata dalla rabbia, dalla frenesia. «Rose!» urlai, sollevandomi dal letto e ignorando la stanchezza inconsistente. «Rosalie!» gridai quando le fui di fronte, tentando inutilmente di scuoterla. Nessuno mi teneva, nessuno mi fermava. Troppo impegnati a capire l’impossibile. Ma lei, lei, Rosalie doveva darmi la risposta che stavo cercando e che pure era l’unica che non potevo accettare. «Rosalie! Devi dirmi com’è possibile!» gridai a perdifiato, facendo cadere dai miei occhi lacrime di rabbia.

Sentii delle mani fredde afferrarmi da dietro, prima che potessi cominciare a farmi male a furia di tirarle pugni sulle spalle. Era Edward. Accanto a lui, Carlisle.

Rosalie sobbalzò. Attraverso i miei occhi appannati dalle lacrime potevo vedere la sua espressione addolorata. Deglutì, distogliendo lo sguardo dai miei occhi furiosi.

«Dimmelo!» urlai, tentando inutilmente di divincolarmi dalla presa immobile e fredda di mio marito.

«Io… io non so…» balbettò, per poi portare i suoi occhi nei miei, assurdamente afflitti.

«Rosalie» la invitò a continuare Edward. Mi stupii di quanto la sua voce fosse neutra e atona. Voleva sapere. Come me. Stava solo aspettando le parole giuste per crollare, come un meraviglioso castello di carte che sta per essere trasportato nella galleria del vento.

Carlisle andò verso Rosalie, posandole una mano sulla spalla. I suoi occhi erano lucidi, come se davvero stesse per piangere «Credo… quando ti ha drogata…» biascicò infine.

E quelle parole, quelle, che non avrei mai voluto sentire, fui costretta di malavoglia ad accettarle, come una spessa lama di una spada affilata, che ti entra nei polmoni, trafiggendoti la carne, togliendoti il respiro, mangiando la tua vita; una lama che non ti chiede il permesso, né ti rassicura dicendoti che non ti farà del male, ma porta a termine il suo scopo. Ti uccide.

«No… No! No!» urlai, liberando tutto il mio immenso dolore. Perché è così. Quando si soffre, quando si sta male, la prima cosa a cui ci si aggrappa è la possibilità di sfogarsi.

Inutilmente, perché il dolore ti rientra dentro con più vigore, togliendoti le ultime forze.

Lasciai che le ginocchia mi cedessero, tenuta in piedi ancora solo da quelle braccia forti e immobili che non si erano mosse di un millimetro, pietrificate in una gabbia di protezione. Immobili, come il corpo immobile del mio amore, contro cui cozzavo spinta da potentissimi singhiozzi.

Farfugliavo, piangevo, biascicavo ingiurie e parole che ancora resistevano, pronunciate da quella piccolissima parte di me che ancora non poteva accettare quello che stava accadendo.

Quando il mio respiro si fece pesante, stanco, e i singhiozzi cessarono, lasciando il posto a pesanti lacrime, vidi nella mia mente annebbiata delle mani, che allontanavano le braccia immobili di Edward da me.

Qualcuno mi afferrò, prima che potessi definitivamente cadere a terra e mi adagiò delicatamente sul letto, accarezzandomi e forse anche rassicurandomi. Non prestavo troppa attenzione ai volti, né alle parole.

Vedevo Edward in piedi, immobile nella stanza e qualcuno, forse più di uno, che lo faceva uscire, portandolo con sé.

Jacob aveva abusato di me. Di me, del mio corpo. Non potei fermare una nuova ondata di lacrime e mi abbandonai, piangente, sulla spalla della persona che mi stava accanto.

Alice.

Mi ritrassi, esausta, gemendo.

Lei mi fissò dispiaciuta, profondamente addolorata. «Bella ti prego» disse con voce rotta «non posso sopportare di perderti ancora».

Mi gettai di slancio fra le sue braccia, di nuovo, liberando nuove, infinite lacrime.

Avevo la testa pesante e dolorante e non riuscivo a fermare i fremiti involontari che mi pervadevano il corpo. Ero esausta, non avevo una buona percezione dello spazio intorno a me, complice la testa che non aveva smesso un istante di girare. Sentivo umido, e il sapore salato delle lacrime.

Che cosa dovevo fare?

Non posso sopportare di perderti ancora. Proprio ora che mi stavo ritrovando.

«Alice» farfugliai, la voce roca per tutte le lacrime versate «dov’è Edward?» mormorai, staccandomi da lei e scostando la coperta che probabilmente mi avevano messo addosso. «Devo parlare con lui» biascicai sconnessamente, provando ad alzarmi.

«No, aspetta» disse bloccandomi e facendomi stendere. Non riuscivo a reggermi in piedi, ero sfinita. Mi accarezzò la testa «Sta arrivando, ti ha sentita» mi rassicurò con un minuscolo sorriso mesto che scomparve quasi subito dal suo piccolo volto. Andò via.

Edward comparve nella stanza d’improvviso dove prima non c’era. Sul suo viso un’espressione di pietra.

Lo studiai in silenzio. Mi vergognavo così tanto di me stessa e del mio corpo che i suoi occhi mi parevano bruciare su di me. Come sarei riuscita ancora a fare l’amore con lui? Mi avrebbe mai voluta? Straziata, mi portai le mani alle labbra, realizzando per la prima volta che un’altra vita dipendeva dalla mia volontà. Cosa dovevo fare con mio figlio?

«Ti ha…» iniziò in quello che non poteva essere più di un sussurro.

«Non ricordo nulla» farfugliai pianissimo.

Annuì. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. «È meglio così».

Scossi il capo, molto lentamente. «Ci ha distrutti».

Fremette, le sue labbra vibrarono e in un lampo fu un metro più vicino. «No» pigolò, afflitto. Serrò gli occhi. «Ti prego, non lasciamoglielo fare».

«È entrato dentro di me, Edward. È entrato dentro di me, dove solo tu eri stato, dove solo tu potevi stare. È entrato nella mia anima e l’ha straziata. Mi è entrato dentro e ha messo un figlio dentro di me» boccheggiai, lasciandomi andare sulle lenzuola «nessun farmaco potrà mai cancellarlo».

Crollò, piegandosi sulle ginocchia. Il fatto che non mi avesse ancora toccata mi uccideva. Rimanemmo in silenzio, così, per un lunghissimo tempo.

Per un attimo pensai di chiedergli se avrebbe mai avuto di nuovo voglia di fare l’amore con me. Non lo feci. Avevo la stessa sensazione di quando volevo staccarmi la pelle dalle braccia con le unghie, moltiplicata per mille. Volevo fare un bagno nell’acido, sciogliere tutta la mia pelle e cancellare la mia vergogna e il mio dolore.

Ero stata abusata. Davvero, fino in fondo. E dentro di me portavo il figlio di uno stupro.

Mi sembrava che morire fosse più facile che sopportare quel dolore che mi stava facendo impazzire. Sapevo cosa andava fatto.

Edward aveva fatto abbastanza per me.

Mi sollevai sulle gambe malferme e gli andai incontro, chinandomi sul pavimento freddo ed abbracciandolo.

«Lo so» mormorò al mio orecchio, sulla mia spalla, senza guardarmi. «So quello che hai detto a Jasper».

Mi raggelai, sconvolta. Mai mi sarei aspettata, in quel momento, di sentire quelle parole. Come poteva essere successo? Gliel’aveva forse detto…?

«No» disse Edward, intuendo i miei pensieri. «Non me l’ha detto lui, lo so dal giorno prima del matrimonio. L’unica che può nascondermi i suoi pensieri, a volte, è Alice». Si staccò da me, guardandomi per la prima volta con intensità.

Calde, stanche, stanchissime lacrime avevano ricominciato a scendere dai miei occhi pulsanti. «Perché non…?» balbettai.

«Perché non ti ho impedito di sposarmi nonostante lo sapessi?» mormorò, mortalmente serio. Mi carezzò il viso. «La prima cosa che ho pensato è stata che dovevo lasciarti andare».

Aprii la bocca, sconvolta.

Serrò la mascella, studiandomi. «Poi ho pensato che non potessi commettere lo stesso errore un’altra volta. Ho parlato con Alice, e lei ti ha parlato, e mi ha convinto che quello che volevi, anche più che avere un figlio, era stare con me» inclinò il capo di lato, sfiorandomi con la dolcezza del suo sguardo senza vita.

«Perché me lo stai dicendo?» balbettai fra le lacrime.

Si aprì in un lungo, lunghissimo sorriso triste. «Lo sai perché».

Mi piegai in un singhiozzo, stringendomi le braccia al petto che mi sembrava stesse andando in mille pezzi. «No, no» farfugliai scuotendo il capo «ci sta uccidendo. Non ho più vita, non ho più forza. Non possiamo sopportare anche questo, Edward. Non possiamo. Sai cosa va fatto».

Prese un respiro, un’espressione devastata sul viso. «Non c’era vita nella mia dannazione. Non c’era forza, non c’era via d’uscita. Ma poi ho incontrato te, e non ti avrei mai incontrato se non fossi stato dannato».

«Questo non ha niente a che vedere con…»

«Non posso permettere che tu lo faccia» mi disse, fissandomi negli occhi. «Che rinunci alla tua unica possibilità di essere madre, e ancora di più che uccidi un altro essere umano» disse, facendomi sussultare «farlo ti ha condotta sull’orlo del baratro più di quello che lui ha fatto a te. Pensi che ti farebbe stare meglio, che aggiusterebbe le cose fra di noi, ma non è così» fece, determinato «solo l’amore può far stare meglio. L’odio non aggiusta nulla. Fa stare solo peggio».

Scossi il capo. «Non chiedermelo, ti prego» singhiozzai esausta.

Si alzò in piedi, guardandomi dall’alto. «Non te lo sto chiedendo. Ti sto dando la possibilità di fare la cosa giusta».

«No» scossi il capo «ci spezzerà».

«Non lo so» mormorò «forse. Ma uccidere tuo figlio non ci salverà di sicuro» sussurrò, lieve «ti amerò comunque per sempre» disse, prima di scomparire nel nulla.

Mi lasciai andare sul pavimento in un mucchio di spasmi singhiozzanti. Se il giorno dopo essere stata salvata mi ero sentita morire, adesso, non so come, in che modo fosse possibile, mi sentivo un miliardo di volte peggio. Se solo avessi potuto avrei davvero preso quella boccetta di calmanti per sprofondare in un sonno che lenisse tutto quel dolore. Chiusi gli occhi, esausta da ogni singolo dei miei pensieri.

Trasalii quando mi sentii toccare il braccio e poi qualcosa pungermi. Era Carlisle. Ed io ero di nuovo a letto, sotto le coperte.  

«Perdonami, pensavo stessi dormendo» disse lui, un’espressione rassicurante.

Sospirai, spostando lo sguardo dall’ago con una smorfia di dolore.

«Ho incannulato la vena, prometto che non ti pungerò più. Dormi, ora. Devi essere davvero esausta, è appena l’alba».

Sospirai, piano. Un lentissimo sospiro stanco. Le mie palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi così secchi eppure così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire. La mia testa si riempì di immagini orribili, le più crude, le peggiori che avessi mai visto. Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non potessero più farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per vedere fino a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.

Le mie labbra si mossero pianissimo, sfregando l’una contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di Carlisle, così attenti e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi sento così violata» biascicai umiliata.

Strinse le labbra in un fremito, e si chinò a carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di distruggermi con il suo tocco. «Lo so bimba mia».

«Cos’è?» domandai fra le labbra secche, stupendomi della rochezza della mia voce.

Carlisle si sedette sul letto, accanto a me. «Un tocolitico, per la gravidanza. Hai una seria minaccia d’aborto».

Serrai le palpebre. Come avrei voluto che la natura decidesse per me in quel momento. «Non è giusto» balbettai.

«Shh, lo so» mi blandì, accarezzandomi i capelli. «Non è giusto, hai ragione. Mi dispiace davvero moltissimo Bella» fece una pausa, e per la prima volta vidi sul suo volto un’espressione rammaricata. «Scusami. Avrei dovuto dare ascolto ai miei figli, quando mi dicevano che ucciderlo era la scelta migliore. Ora non vi sarebbe successo tutto questo».

Rimasi per un attimo senza fiato. Non riuscivo a credere che Carlisle potesse davvero pensare quello che stava dicendo.

«Carlisle» mormorai, avvicinando la mano a stringere la sua.

Mi guardò ancora, afflitto, nel più serio degli sguardi che gli avevo mai visto rivolgermi. «No, però. Per quanto mi dispiaccia non tornerei indietro. Scusami, ancora, se puoi. Ma non posso pensare di portare via nessuna vita umana, non riesco a pensare che ci sia anche solo un più che manifesto e valido motivo per farlo, persino nel peggiore dei casi».  

Mi morsi il labbro con forza. «Nonostante tutto non avrei voluto ucciderlo» riuscii a sputare infine, restando senza fiato dopo quelle parole.

Annuì. «Lo so figliola» mormorò con dolcezza, carezzandomi il braccio.

Singhiozzai, portandomi le mani al viso. «Come posso pensarlo dopo tutto il male che mi ha fatto?».

Mi abbracciò con la tenerezza di un padre. «Non possiamo controllare il comportamento degli altri, il male che ci fanno. A volte sembra che ci distruggano, che non ci lascino alcuna via di fuga, che l’unica cosa da fare sia fare altro male. Ma non è così. L’unica cosa che nessuno potrà mai, mai, mai togliere a nessun altro essere umano è la libertà. La libertà di amare».

Mi portai la mano tremante alle labbra. «Io ho scelto di ucciderlo».

«Non ti voglio far sentire in colpa figlia mia, né ti sto dicendo cosa fare» mi disse in infinita dolcezza, «ti sto solo dicendo che voglio la tua felicità. Che quando si è sommersi da un abisso di infinita disperazione c’è solo una cosa da fare per sfuggire: amare».

Sospirai, piano. Un lentissimo sospiro stanco. Le mie palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi così secchi eppure così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire. La mia testa si riempì di immagini orribili, le più crude, le peggiori che avessi mai visto. Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non potessero più farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per vedere fino a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.

Le mie labbra si mossero pianissimo, sfregando l’una contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di Carlisle, così attenti e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi sento così violata» biascicai umiliata.

Strinse le labbra in un fremito, e si chinò a carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di distruggermi con il suo tocco. «Lo so bimba mia».

Singhiozzai, allentandomi dal suo corpo e stringendo una mano alla bocca e una alla pancia. Mi lasciai andare fra i cuscini.

«Ti senti male?» mi chiese gentilmente, carezzandomi la schiena.

«Non lo so… forse devo vomitare» biascicai, respirando con la bocca.

Restammo così per un po’, in silenzio. Alla fine non vomitai, e la nausea scemò pian piano. Carlisle sospirò, afflitto. «Avrei dovuto capirlo prima».

«Non era possibile» farfugliai afona «nessuno avrebbe potuto saperlo» dissi, immaginando ancora nella mente scene colorite che arricchivano i miei incubi più reconditi. Chiusi gli occhi. Neppure l’oblio del sonno mi avrebbe dato alcun sollievo.

«C’è qualcos’altro che devo dirti» continuò, afflitto. «Devi sapere che con tutti i farmaci che hai assunto, il feto potrebbe aver subito gravi malformazioni, sperando sempre che la gravidanza non si interrompa spontaneamente. A prescindere dalla decisione che prenderai, suggerisco di fare dei test per valutare l’andamento della gravidanza, se sei d’accordo, potrebbero aiutarmi per farti stare meglio».

Non risposi.

«Posso farti alcune domande?».

Annuii, lo sguardo perso nel vuoto.

«Bene» sospirò, fissandomi dispiaciuto. «Quando è stata la data della ultime mestruazioni?» mi chiese formale.

I miei occhi si velarono di tristezza. «Il 28 Luglio».

Carlisle iniziò un rapidissimo calcolo mentale.

Mi sentii attraversare da un brivido, poi da una nuova ondata di nausea.

«Sei certa che sia proprio quello il giorno?» mi chiese Carlisle, pensieroso. Poteva un vampiro sbagliarsi a calcolare?

Annuii, distratta dalla mia nausea. Abbassai il viso sulla mia pancia. Che lo volessi o no, a prescindere da chi fosse il padre, lì dentro c’era mio figlio. Sarei mai riuscita ad amarlo? Come sarebbe stato bello essere in un universo parallelo, dove vampiri e licantropi non esistevano e dove quel bambino era mio e di Edward, entrambi umani. Sospirai, troppo stanca per piangere ancora. Insinuai una mano sotto la maglietta, sotto l’elastico dei pantaloni del pigiama, stringendo forte in cerca di un segno.

Mi ritrovai nel mio universo alternativo.

Fredda e dura. Ecco com’era la mia pelle. Lo sentivo debolmente, sotto il mio strato di pelle, ma lo sentivo. Fredda e dura.

Nell’agonia che stavo provano una gioia sconcertante esplose dentro di me, insieme ad un’innaturale certezza.

«Bella» mi chiamò Carlisle, con la sua voce lontana «questo significa che hai più di tre settimane di ritardo, che il concepimento è avvenuto circa cinque settimane fa, e se i tuoi cicli erano regolari tu eri ancora con…».

Le lacrime di commozione non furono in alcun modo arginate.

«Edward» dicemmo insieme.

Immediatamente tutta la stanchezza scomparve in un solo istante, balzai giù dal letto, strappandomi l’ago della flebo dal braccio.

«Aspetta Bella, non ne sono certo!» mi richiamò Carlisle, troppo tardi.

Io si. Io ne ero certa.

Riuscii a fare tutte le scale di corsa, senza mai cadere, senza mai inciampare. I piedi nudi producevano suoni ritmici e veloci sul parquet.

Esme e Rosalie mi fissarono sbigottite, ma non dissero nulla. Alice mi sorrise emozionata, così che continuai a correre, più veloce di prima.

Mi lanciai fuori dalla porta, sotto la pioggia fitta e pesante, continuando a correre finché non raggiunsi il centro esatto del giardino.

«Edward!» urlai a squarciagola, «Edward!» gridai ancora, piegandomi per riprendere fiato, «Edward!» ripetei, con quanto fiato avevo in corpo.

Dal fitto della vegetazione, attraverso la coltre di pioggia, vidi avanzare la figura di mio marito, a passo umano. Mi lanciai di corsa, ancora, sciaguattando con i piedi nudi nel fango, fino a buttarmi fra le sue braccia.

Attaccai le mie labbra alle sue febbrilmente, con amore, passione, gioia e paura di quella tanta troppo gioia. Lo tenevo stretto a me, la sua testa fra le mie mani, fra i suoi meravigliosi capelli bagnati. Lo baciavo, ancora, ancora, senza staccarmi, comunicandogli tutta la mia felicità e il mio amore immenso. Perché aveva compiuto un miracolo, un piccolo grande miracolo. Perché in un istante, tutto l’universo si era ribaltato, rendendo possibile che portassi in grembo mio figlio, mio e di Edward, nato dal nostro immenso amore.

Edward si staccò da me, guardandomi con immenso amore e dolore, insieme, scostandomi una ciocca bagnata di capelli dal viso. «Va bene, Bella. Hai fatto la scelta giusta, sarò davvero come un padre per lui…».

«No Edward. No» dissi decisa, sorridendo dell’immensa indescrivibile emozione totalizzante che provavo in quel momento. «Tu non sarai come un padre».

Si bloccò, confuso, non capendo le mie parole.

«Tu sei suo padre».

Lui fece un’espressione sbigottita, per poi rivolgere lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai. C’era tutta la famiglia. Carlisle fece un cenno d’assenso, sconcertato.

Edward riportò i suoi occhi nei miei «Ma… com’è possibile?» balbettò, gli occhi sgranati.

Sbattei le palpebre per via della pioggia. «È possibile» dissi solo.

Scosse il capo, incredulo «No… Non… Non è così…».

«Edward» lo chiamai tremante, prendendo la mano che aveva ancora sulla mia guancia e portandola lentamente verso la pancia, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi ambra. Sentivo il cuore nelle orecchie. Infilai la mano sotto la maglietta bagnata, posando il suo palmo sulla mia pelle. «È tuo figlio».

I suoi occhi immobili si sciolsero, accettando in un sospiro quell’incomprensibile verità.

Chiusi gli occhi, sentendo il freddo irradiarsi dalla pancia in tutto il mio corpo, come se stessi godendo in quel momento del più puro e incorruttibile piacere.

La mano di Edward aderì completamente alla mia pancia ed io posai sopra la mia, riaprendo gli occhi e trovando la sua espressione sconvolta.

«Mio figlio» farfugliò, emozionato, per poi baciarmi.

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Capitolo 37
*** Torniamo a casa ***


Non riuscivo più a tenere gli occhi aperti

I vampiri non dormivano e quella notte sembrò più giorno che mai in casa Cullen.

Volevo essere una di loro, stare con loro, parlare e capire come l’impossibile fosse diventato possibile dentro di me. Ma avevo una stanchezza ben più profonda di quella mai provata nel resto della mia vita. Mi si chiusero le palpebre e dolcemente mi lasciai trasportare dalla forza di gravità. Nella mia mente avevo un vortice confuso di pensieri che girava veloce, veloce, veloce, impedendomi un vero sonno ristoratore.

«Dalla a me, le metto qualcosa di asciutto» disse una voce. Forse era Rosalie. Sentivo lontane delle mani su di me, ma non capivo se fossero un sogno o la realtà. C’era un calore confortevole. Aprii leggermente gli occhi quando sentii il rumore di un phon. Ero nel bagno adiacente alla camera di Edward. Alice mi asciugava i capelli e Rosalie finiva di sistemarmi una vestaglia asciutta.

Gemetti, stringendomi la pancia. Volevo dirgli che mi faceva di nuovo male, ma non ci fu bisogno di parlare. Quando riaprii debolmente le palpebre ero a letto, e la flebo era di nuovo al suo posto. Stavo un po’ meglio.

Non so quante ore dormii.

«Ecco, tieni. Le ho preparato questi».

«Alice, il denim non va ancora bene per lei».

Un sospiro trattenuto. «Sono i suoi preferiti».

«Sì, ma ciò non toglie che… Bella» mi chiamò Rosalie con un sorriso appena aprii gli occhi.

Mi portai una mano alla testa. Mi girava e pulsava dolorosamente. La cannula della flebo non c’era più, al suo posto solo un cerotto. Rapidamente, mi coprii la pancia con entrambe le mani. Non faceva più male pensai con… sollievo.

Sollevai lo sguardo sulle mie sorelle vampire, e vidi le loro espressioni serene, i sorrisi sui loro volti. «No, non l’hai solo sognato» mi rassicurò Alice.

Sibilai, sconvolta. «Com’è stato possibile?».

Rosalie rise, una magnifica risata calda e femminile «Non lo sappiamo davvero, è…assurdo, e Carlisle è il più sconvolto di tutti noi, anche se è fermamente convinto che tu abbia ragione».

«Convinto?» domandai agitata, passando con lo sguardo fra di loro. Volevo che ne fosse certo. «Alice, tu non vedi nulla?».

La vampira contrasse la sua espressione, pronta a parlare, ma fu subito interrotta dalla sorella.

«Non ancora. È troppo presto per averne la certezza, ma sono sicura che presto tutto si farà più chiaro» intervenne Rosalie con un sorriso rassicurante.

Mi sollevai per mettermi seduta, ma la testa mi girava tantissimo, tanto che ricaddi fra i cuscini.

«Piano, sei stanchissima» mi bloccò, «hai dormito solo qualche ora. Non vuoi riposare ancora?».

«No» farfugliai, prendendo un lungo respiro per calmarmi. «Ho bisogno di sapere. Dov’è Edward?».

Non appena pronunciai il suo nome mio marito fece il suo ingresso nella stanza. Nello stesso istante Rosalie ed Alice scomparvero come lui, in un batter d’occhio, e mio marito si materializzò davanti a me e si chinò ad accarezzarmi il viso, facendomi sussultare. Si bloccò. «Scusa. Troppo in fretta».

Scossi il capo e posai una mano sulla sua. Mi sembrava molto più tranquillo, pacato, come non lo era stato da tempo, eppure elettrico e frenetico. «Io» mormorai, non riuscendo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi dorati «come facciamo ad esserne certi?».

Senza dire una parola avvicinò una mano alla mia pancia, in basso, e la posò delicatamente. Fremetti al suo tocco, che doveva essere freddo ma che in quel punto mi sembrava che fosse alla mia stessa temperatura. Quella era già una risposta, ma volevamo entrambi di più, glielo leggevo negli occhi. «Sai cosa dovremmo fare» mi rispose serio.

Abbassai lo sguardo sul copriletto, tentando di farmi coraggio. «Dovrò venire in ospedale».

Strinse le labbra, sposando il viso per ricercare il mio sguardo. «Non è solo questo, Bella. Per avere la certezza della gravidanza basterebbe un’analisi delle urine o del tuo sangue, ma Carlisle ne è già piuttosto sicuro» disse con certezza, facendomi sussultare.

Annuii, ancora sconcertata da quell’idea. Una gravidanza.

«Ma per avere la certezza che…» si bloccò, spostando rapidamente lo sguardo in cerca delle migliori parole «se vogliamo fugare ogni ragionevole dubbio sul fatto che sia mio ci sarà bisogno dell’altro».

Presi un respiro, spaventata dalla piega che stava prendendo la conversazione. «Non ne ho bisogno. Io sono certa che sia tuo» balbettai.

Sospirò, provando a sembrare ragionevole. «Lo so, capisco cosa intendi. Ma capirai che…» spalancò gli occhi, sconvolto dalle sue stesse parole «non è mai successo che un vampiro avesse un figlio».

Strinsi la mano sul suo braccio. «Magari non è mai successo che un vampiro facesse l’amore con un umana».

Mi sorrise, carezzandomi la guancia con il dorso della mano. «Probabile. Ma vuoi davvero credere a questa incredibile storia solo sulla fiducia?». Stavo per rispondere di sì, preoccupata dagli esami a cui mi sarei dovuta sottoporre, quando aggiunse, più delicatamente, quasi a voler evitare di turbarmi «non è solo questo. Carlisle vuole datare la gravidanza e capire quanto è grave la minaccia di aborto».

Sospirai, arrendendomi mal volentieri alla logica dei suoi pensieri. «Capisco».

«Davvero?» domandò ansioso, poi aggiunse molto cautamente «Per farlo ha bisogno almeno di un’ecografia e una vista, cose che…» esitò, guardandomi di sottecchi e studiando la mia reazione «lo so, potresti trovare fin troppo invasive nel tuo stato emotivo attuale».

Strinsi le labbra, preoccupata. Fin troppo invasive. Tremai e mi portai una mano alla pancia. «Carlisle ieri sera ha detto che… i farmaci che ho assunto potrebbero aver fatto male al bambino» deglutii preoccupata.

Edward annuì, guardandomi attento negli occhi. «È così, ma non lo sapremo finché non faremo gli esami necessari».

Sospirai, perdendomi con la mente nell’immaginazione del nostro bambino. Nostro figlio. Non potevo credere fosse vero. «È davvero così importante, poi? Penso che lo amerei a prescindere, anche se vorrei con tutto il cuore che stesse bene».

Edward mi sorrise, e anche se era teso per un attimo si permise di far uscire tutta l’emozione che provava sul suo volto. «Penso che lo amiamo già».

Tremante risposi al suo sorriso, permettendomi di far uscire dai miei occhi provati delle lacrime di gioia. «Diventeremo genitori, davvero?».

«Lo spero. Ma» continuò, sapendo di dover insistere dove io continuavo ad essere evasiva «abbiamo davvero bisogno di sapere tutto il possibile, non solo per il bambino. Se davvero questo miracolo si stesse realizzando, sarebbe senza dubbio una gravidanza straordinaria. Abbiamo bisogno non solo di capire come sta questo bambino, ma anche come stai tu, come sta reagendo il tuo corpo a questi cambiamenti» mi prese entrambe le mani e le strinse con dolcezza fra le sue «hai dei sintomi molto importanti, sei molto stanca e provata, e come se non bastasse la gravidanza è iniziata in un momento estremamente delicato della tua vita».

Sospirai, distogliendo lo sguardo dal suo volto. Serrai le palpebre. «Mi stai dicendo che non ho scelta, vero?».

Sentii le sue mani irrigidirsi. «Non voglio mai, mai più che pensi nella tua vita che non avrai scelta» mormorò, con un tono sommesso, spaventato di potermi aver turbato «sto solo dicendo che è arrivato ora, forse troppo in fretta, il momento di dover prendere questa decisione. Mi dispiace» disse, accarezzandomi le mani con i pollici.

Mi volsi nuovamente a guardarlo, a osservare il suo viso da eterno ragazzo che racchiudeva la saggezza di centocinque anni di vita usata con tutto il cuore ad imparare ad amarmi. Non potevo deluderlo. Avevo paura, ma sentivo che dovevo cogliere quell’occasione miracolosa che mi era stata donata per fare un passo avanti e per liberarmi del mio passato. Annuii. «Va bene» mormorai con un piccolo sorriso.

Mi carezzò il viso, sorridendo a sua volta. «Sei l’umana più forte che conosca».

Sorrisi più ampiamente. «Non conosci molti umani Edward» lo presi in giro.

«Sei anche la più simpatica» scherzò di rimando, sollevandosi per lasciarmi un leggero bacio sulle labbra. «Hai fame? Hai bisogno di una mano per prepararti?».

«Di questo ce ne occupiamo noi, se non ti dispiace» disse Rose, comparendo sullo stipite della porta con Alice.

«Va bene?» mi chiese conferma Edward.

Annuii. «Sì, vai. Non ci vorrà molto».

In un attimo era accanto alla sorella. Mi fece sussultare vederli muovere di nuovo così in fretta, ma non dissi nulla. Per loro doveva essere davvero una sofferenza muoversi a passo umano. Era solo un’altra cosa a cui mi sarei dovuta riabituare.

Edward si chinò a mormorare qualcosa a Rosalie, così vampirescamente piano che non riuscii a capire. La sorella annuì, concentrata. Alice si voltò a fissarli di sottecchi, quasi fosse contrariata. Sentii un brivido attraversarmi mentre pensavo che stessero parlando di me, ma non dissi nulla. Era giusto che anche loro avessero dei segreti.

Cautamente mossi le coperte da un lato e feci per alzarmi dal letto. Mi fermai un attimo: la testa mi girava tantissimo.

«Bella» mi chiamò Alice, venendo a sostenermi per i polsi «ce la fai tesoro?».

«Sì» sussurrai, adattandomi rapidamente a quella posizione «voglio solo andare a fare una doccia veloce».

Edward sollevò un sopracciglio, osservandomi. Fece per dire qualcosa ma fu interrotto da Rosalie.

«Me ne occupo io, tranquillo. Vai pure a… sistemare il resto».

Annuì.

Sentii un fruscio di vento e un altro rapido freschissimo bacio sulle labbra. Mi dovetti aggrappare ad Alice per non cadere in terra in preda ad un nuovo capogiro. «Questo non aiuta affatto» balbettai.

«Tesoro» mi chiamò Rosalie «bevi un bel bicchiere d’acqua, ti aiuterà» disse, facendo comparire un bicchiere d’acqua fresca davanti a me «ed è anche passata l’ora delle tue medicine» aggiunse, e nella sua mano sinistra comparve la mia compressa di antidepressivi.

La guardai, prendendo con una mano il bicchiere ed esitando.

Sentii la presa di Alice farsi più forte sulle mie braccia e mi voltai a guardarla. «Tu avevi previsto che avrei smesso presto» mi ricordai, rammentando solo allora dello stupore sul viso di Edward e Carlisle quando Alice gli aveva raccontato della sua visione. Che motivo poteva esserci allora per sospendere così presto la terapia? Adesso cone la storia della gravidanza, era tutto diverso.

Annuì, sollevando un sopracciglio quasi con aria di sfida. «Sì, è così».

Rosalie sospirò seccamente. «Bella» disse, facendo un passo avanti nella mia direzione «non puoi sospendere la terapia così bruscamente. Ti farebbe stare molto male».

«Ma Rosalie» provai a protestare, portandomi delicatamente una mano alla pancia «Carlisle ha detto che fa male al bambino».

«Tesoro» mi disse, venendomi ancor più vicina e carezzandomi un braccio «capisco le tue preoccupazioni, davvero. Ma il tuo bambino non può stare bene se tu non stai bene. Questi antidepressivi» continuò, mettendomi la compressa in mano «li prendono molte donne in gravidanza con disturbi d’ansia e attacchi di panico, ed hanno solo pochi effetti collaterali, molto minori dei benefici che ti daranno. Ti prometto che eviteremo i sonniferi, che sono quelli più pericolosi. Va bene?».

Sospirai, stringendo la mano in cui tenevo la compressa. Capivo il discorso di Rosalie, ma non volevo ancora rischiare di fare del male al bambino, non più. «Io…» esitai.

«Oggi sarà una giornata molto delicata» continuò persuasiva «è possibile che dei ricordi ritornino alla mente e che…».

«Rosalie» la fermò Alice, serena nella sua totale serietà.

Tremai.

«Alice» sibilò di rimando. «Si è raccomandato» sussurrò a voce bassissima.

Ansimai. «Io» deglutii «va bene, tutto okay. Vado a fare la doccia» dissi prendendo la compressa e mandando giù l’acqua. Posai il bicchiere sul comodino e marciai fra le due sorelle e i loro sguardi pesanti. Non sapevo e non volevo sapere cosa stesse accadendo. «Ho bisogno di un po’ di privacy per favore» aggiunsi, chiudendomi la porta del bagno alle spalle. Sollevai la tazza del water e sputai la compressa che avevo fra i denti. Presi dei lunghi respiri, mi carezzai la pancia e sperai di aver fatto la scelta giusta.  

Riuscii a prepararmi completamente da sola dopo tanto tanto tempo. Quando finii di lavarmi ed asciugarmi i capelli mi guardai nello specchio e realizzai che in realtà non ero mai stata sola. Che anche quando Jacob mi aveva rapita e mi sentivo persa avevo un pezzettino di Edward dentro di me. Sorrisi, sconvolta e meravigliata, guardando la pancia ancora completamente piatta. Forse potevamo davvero ricominciare ad avere una vita normale, pensai emozionata.

Quando uscii dalla stanza trovai, perfettamente piegati sul letto del tutto riordinato, due cambi di vestiti, con i loro rispettivi completi intimi e scarpe corrispondenti. Per un attimo pensai che mi volessero lasciare scegliere, ma poi mi chiesi se non avesse a che fare con lo strano comportamento di Alice e Rosalie quella mattina.

Scossi il capo. Chissà cosa gli passava per la mente. Guardai con malinconia il completo con i jeans e la morbida maglietta di cotone abbinata e mi sfiorai da sotto l’accappatoio l’interno coscia. Mi dava ancora un po’ di fastidio. Con un sospiro dovetti decidermi ad indossare il vestito bordò, di jersey, decisamente fuori dal mio stile, ma almeno abbastanza semplice da non farmi sentire a disagio.

Qualcuno bussò alla porta. «Posso?» mi disse Alice, entrando.

Annuii. «Certo».

Mi sorrise, scrutando il mio abbigliamento. «Rosalie lo aveva detto, ma volevo che sapessi che potevi tornare alla normalità, se avessi voluto».

Mi guardai, studiando il vestito che avevo addosso. «Grazie».

Scrollò le spalle. «Hai fatto tutto da sola. Lascia che ti sistemi i capelli, ci metterò un attimo e farò una cosa semplice».

Le sorrisi, andandomi a sedere sul bordo del letto. «Grazie mille Alice. Per tutto, per essermi stata accanto».

Ridacchiò e si fece per un attimo seria, venendo alle mie spalle per acconciarmi. «Edward si è molto arrabbiato per le mie visioni inesatte, quando ha creduto che ti fossi suicidata con i sonniferi».

«Lo immagino» mi rabbuiai «mi dispiace».

Lei sorrise, come se fosse già acqua passata. «Avevo visto il vostro bacio nella pioggia, e quanto sareste stati contenti oggi. Alla fine è successo. Ma, Bella, riguardo ai calmanti» disse, terminando la treccia francese e voltandosi a guardarmi negli occhi «non costringermi a mentirgli ancora. Oggi ti coprirò, ma poi digli la verità se non vuoi prenderli».

Sussultai, colpita. Mi ero quasi dimenticata che era praticamente impossibile tenere qualcosa nascosto ad Alice. Poi annuii, colpevole. «Hai ragione».

Sorrise ancora e mi diede un piccolo buffetto sulla guancia. «Andiamo. Ti sta aspettando».

Dabbasso c’era solo Esme, che mi aveva preparato una merenda da mangiare dopo che avessi fatto il prelievo. Mi spiegarono che Jasper ed Emmett erano andati a fare ricerche per trovare informazioni sulla procreazione fra vampiri. Esme trattenne a stento la sua gioia e la sua emozione, abbracciandomi solo come una madre può fare.

Quando fui sul sedile posteriore della Volvo mi strinsi a Edward, sperando che mi sarebbe bastata la sua vicinanza e il mio coraggio per non avere un attacco di panico quel giorno così difficile. Sperai che il bambino stesse bene, che riuscissi a portare avanti la gravidanza e che il mio corpo fosse sufficientemente forte per farlo. E cercai di non pensare a come per scoprire tutte quelle cose mi sarei dovuta sottoporre a delle attenzioni che volevo evitare per il resto della mia vita.

Ero estremamente fiduciosa della paternità del bambino, per quanto fosse incredibile, ma anche se questo mi diceva che Jacob non era andato fin in fondo, con me, non poteva cancellare il senso di violazione che mi sentivo addosso. Come potevo pensare di poter ricevere quel genere di attenzioni da qualunque essere umano o vampiro? Già farsi visitare da Rosalie era stato così atroce, umiliante e imbarazzante. Farlo ancora… mi sembrava una tortura.

Edward posò la mano sulla mia, che avevo portato in grembo. «Tutto bene?»

Annuii rapidamente e mi volsi a guardare verso il finestrino. «Come mi guarderà la gente? Cosa penserà?» domandai, mal celando la mia agitazione e cercando di dirottarla comunque su ciò che mi preoccupava meno.

«Ehi tranquilla, non ti devi preoccupare di questo» sussurrò, scrutandomi preoccupato. «Sarò sempre con te e nulla potrà farti del male. Concentriamoci sul bambino».

Presi un grosso respiro. Non potevo fargli capire di essere già così agitata. Feci un piccolo sorriso. «Hai ragione».

In pochissimo tempo ci ritrovammo all’ingesso dell’ospedale di Forks. Edward mi aiutò a scendere dall’auto, poi mi mise una mano attorno ai fianchi, guidandomi nell’edificio insieme a Rosalie, mentre Alice andava a parcheggiare.

Appena entrammo si sentì forte l’odore di alcol misto a candeggina. Storsi il naso.

«Nausea?» mi chiese Edward, fermandosi a scrutarmi.

«Non ho mai sopportato l’odore che c’è negli ospedali» risposi evasiva, facendomi guidare verso l’accettazione.

L’ospedale era pieno di gente e questo mi diede molto più la nausea di quanto non facesse l’odore. Mi sentivo pallida e agitata, e il mio stato peggiorò quando mi accorsi delle occhiatine di stupore e sorpresa che mi riservava la gente di Forks. Era una cittadina troppo piccola. In un attimo mi ritrovai a pensare che non potevo controllare tutte le persone che erano in quella stanza, i loro movimenti, gli spazi così ampi, tutte quelle porte e mi diedi della stupida per non aver preso i farmaci che, lo sapevo, avrebbero scacciato almeno quei pensieri.

Edward mi fissò di sottecchi, intuendo immediatamente il mio stato. «Vieni, andiamo in un posto più tranquillo» mi disse, stringendomi forte fra le sue braccia e guidandomi fra i corridoi. “Patologia ostetrica e ginecologica, gravidanza e puerperio” diceva l’intestazione del reparto in cui stavamo entrando. Voltammo rapidamente in una stanzetta adiacente ad un corridoio con molte porte “Ambulatori”. Era ora di pranzo e sedute sulle sedie c’erano meno di una decina di persone, la maggior parte donne con grossi pancioni accompagnate dai propri mariti o dalle proprie madri.

«Il Dottor Cullen in chirurgia. Il dottor Carlisle Cullen è atteso d’urgenza in chirurgia» gracchiò una voce negli altoparlanti.

Alice si sedette su una sedia di plastica di fronte a quella in cui eravamo io e Edward «Stavo per dirvelo, ci impiegherà un po’».

Sospirai, mentre Edward mi aiutava a togliere il giaccone. Mi accarezzò le guance arrossate per lo sbalzo termico.

«Vado a chiedere se intanto le fanno il prelievo, così potrà mangiare qualcosa» disse Rosalie ad Edward. Sollevò lo sguardo su di me, sorridendo per confortarmi. «Va bene tesoro?».

Annuii, faticando a prendere le redini della mia mente. Con lo sguardo passai in rassegna tutte le persone presenti nella stanza, memorizzando le loro posizioni, i loro volti e accorgendomi delle loro occhiate nei miei confronti.

Nella stanza entrarono altre due persone, due uscirono e una porta sbatté. Trasalii, di nuovo angosciata. Sentivo di non avere alcun controllo su quel posto che non conoscevo.

«Signora Cullen» mi chiamò un’infermiera, uscendo dalla porta di uno degli ambulatori.

Mi sollevai in piedi rapidamente e per fortuna Edward mi raggiunse sorreggendomi perché mi sentivo tremare da capo a piedi. «Scusa» balbettai «non mi è mai piaciuto il momento di farmi pungere dagli aghi».

Mi fissò, scrutandomi. «Lo so». Sapeva che era molto più di quello. «Vengo anche io».

«Sei sicuro?» domandai preoccupata.

Crucciò le sopracciglia. «Pensavo che avessimo chiarito il fatto che il tuo sangue non mi dà più alcun problema ormai».

«Lo so, ma» mi voltai a fissare le sue sorelle, tese nelle posizioni vampire per quanto fingessero totale indifferenza «ci sarà il sangue di molte altre persone lì».

Sorrise della mia premura. «Sono andato a caccia ieri, e se posso resistere al sangue della mia cantante posso resistere a quello di chiunque altro».

Sospirai, poi annuì.

«Entra solo la paziente» disse la donna quando ci avvicinammo.

Edward sorrise, rilassato. «Si fidi, entro anche io».

Mi dovetti adattare a stare in un'altra stanza che non conoscevo, e questo mi causò un po’ di agitazione. Per fortuna eravamo solo io, Edward e l’infermiera grassoccia. Stetti stesa sullo scomodo lettino tutto il tempo e non guardai neppure per un attimo l’ago.

Quando Edward fu abbastanza sicuro che non sarei svenuta tornammo nella sala d’attesa, ma la situazione era completamente cambiata. Adesso era completamente piena e il viavai di gente era aumentato così tanto che molti erano in piedi. Riconobbi i volti di un paio di persone che avevo visto a scuola e figli di commercianti del posto. Mi fissavano e mi parve quasi che il brusio aumentasse alla mia vista. Era un gesto così inequivocabile essere in quel posto? Anche loro si sarebbero chiesti di chi fosse il bambino? Mi guardai intorno rapidamente in cerca delle porte, ma non riuscivo a visualizzare via di fuga con tutta quella gente.

Mi sentivo pallidissima e un sudore freddo stava cominciando a imperlare la mia fronte, mentre sentivo un ronzio nelle orecchie. «Edward» lo chiamai, sofferente, tentando inutilmente di minimizzare il mio stato. «Io…» presi un respiro, angosciata. Non volevo avere un attacco di panico, non così presto, non lì in pubblico. «Ho bisogno di un posto più tranquillo».

Mi strinse rapidamente per i gomiti prima che potessi cadere a terra. Mi trascinò piano verso il bagno lì vicino e Alice e Rosalie ci raggiunsero rapidamente. «Shh, tranquilla, va tutto bene» mi rassicurò, trattenendomi contro il suo corpo e avvicinandomi al lavabo per sciacquarmi il viso con l’acqua fresca.

Ansimai in cerca d’aria. «Mi sento svenire» farfugliai pianissimo, faticando a sorreggermi ai bordi del lavello.

«No, no, tranquilla, ti tengo io. Shh» mi rassicurò, trattandomi per la vita e carezzandomi la schiena con movimenti circolari.

Rosalie mi venne vicino, e tirò fuori una bottiglietta d’acqua fresca dalla borsa. «Tieni, questo ti aiuterà».

«Cos’è?» domandai tremante.

Crucciò le sopracciglia. «È solo acqua».

In quel momento accadde qualcosa. Edward s’immobilizzò e s’irrigidì e si voltò con un ringhio verso Alice. «Davvero?» ruggì.

Lei sostenne il suo sguardo con serietà. «Lo ha deciso da sola».

«Vi avevo detto di assicurarvi che prendesse i calmanti!» esclamò arrabbiato «Guarda in che stato è adesso, forse le verrà anche una crisi d’astinenza per il dosaggio che faceva!».

«Mi dispiace» singhiozzai, peggiorando il mio stato «scusami, è colpa mia. Non volevo fare altre cose che facessero male al bambino» piansi, piegandomi sulla pancia «pensavo di farcela. Non prendertela con Alice».

Edward stette in silenzio e mi strinse più forte finché non smisi di piangere e mi calmai. Rosalie, tesa e arrabbiata almeno quanto il fratello, convinse Alice ad uscire dal bagno e lasciarci soli per un po’. Calmarsi fu difficile, e mi costrinsi con tutte le forze a concentrare i miei pensieri vorticosi su una singola cosa positiva, come mi aveva insegnato Rosalie durante la psicoterapia. Alla fine mi sentivo spossata, ma la testa non girava più e l’angoscia era passata.

«Bevi» mi disse Edward, porgendomi la bottiglietta «e mangia qualcosa» aggiunse, passandomi il sandwich che mi aveva preparato Esme.

Lo afferrai, tremante, preoccupata della stabilità del mio stomaco. Presi un morso, poi esitai prima di prenderne un altro. «Sei arrabbiato con me?» domandai roca, fissandolo di sottecchi.

«No, Bella, sono solo dannatamente preoccupato». Trasalii del tuo tono serio, e lui capì che avevo bisogno di altro in quel momento. Voleva dirmi che se avevo avuto un attacco di panico solo per essermi trovata fra la gente di Forks sarei potuta morire quando fosse arrivato il momento della visita, che ormai la sertralina non avrebbe fatto effetto in tempo, che probabilmente mi avrebbero dovuto dare le benzodiazepine, che avevano molti più rischi per la gravidanza e che odiava dannatamente lo stato semi-catatanico in cui mi mettevano. Non lo fece. Mi carezzò la guancia e disse «So che volevi fare qualcosa di buono per il nostro bimbo, ma se tu stai male starà male anche lui, molto più che per gli effetti collaterali del farmaco. Capisci?».

Annuii, piena di sensi di colpa, e gli tesi la mano con il palmo aperto.

Sospirò, e prelevò dalla borsa di Rosalie una compressa di antidepressivi, mettendomela sulla mano. Sperava almeno nell’effetto placebo. La verità era che forse era proprio lui, il vampiro, ad avere bisogno delle benzodiazepine per affrontare quello che stava per avvenire.

La mandai giù, davvero questa volta, senza esitazione, e poi finii il mio sandwich.

Rosalie aprì la porta del bagno. «Carlisle sta arrivando. Ha detto di andare nella…».

«Stanza 3. Arriviamo» finì Edward.  

Mi pulii la bocca dalle briciole con una mano e mandai giù un altro sorso d’acqua. «Mi aspetti fuori? Ho bisogno di usare il bagno un secondo».

«Preferirei aspettarti qui» replicò, fermo nell’androne del bagno.

In quel momento una donna molto incinta entrò nel bagno, e si fermò un attimo alla vista di mio marito nel bagno delle donne. Esitò, incerta, sgranando gli occhi. Avevo quasi dimenticato che effetto facesse sul genere femminile.

«Ci metterò pochissimo. Sto bene» aggiunsi a voce più bassa, dandogli un piccolo bacio sulle labbra e costringendolo suo malgrado ad uscire.

Usai i pochi minuti umani che mi erano stati concessi, e quando uscii dalla toilette mi presi un minuto per sciacquarmi ancora il viso con un po’ d’acqua fresca. Guardai i miei occhi riflessi nello specchio, come se così potessi anche leggere ed analizzare i miei pensieri confusi. Sapevo cosa stava per accadere, e sapevo che non sarebbe stato difficile solo per me. Lo sarebbe stato anche per Edward e Carlisle e gli altri membri della famiglia. Attraverso quella difficoltà, però, c’era una promessa enorme. Mi portai entrambe le mani alla pancia. Era una Grazia così grande avere una nuova vita affidata, una nata dall’amore vero e puro fra me e mio marito, una cosa che non avrei mai sperato di avere nella mia esistenza. Sentivo che proprio superare la mia più grande e più che giustificata paura era l’atto d’amore che dovevo fare.

Non aver paura, pensai, e non mi stavo riferendo a me stessa. Carezzai di nuovo quel miracolo impossibile. Non so come avrei dovuto trovare la forza di sopportare quello che stava per accadere e il modo di renderlo più semplice possibile anche agli altri. Dovevo fidarmi di loro.

Entrammo con Edward mano nella mano in una stanzetta d’ambulatorio per le visite. Era piccola, ma piuttosto confortevole. C’era la macchina per le ecografie e un lettino ginecologico. Ebbi un brivido, ma non dissi nulla.

Carlisle mi stava attendendo con Rosalie, mentre Alice, dissero, era tornata a casa. Speravo che stesse bene. Carlisle era ottimista, lo vedevo dal suo viso disteso e dalla pace che aveva nello sguardo, ma al contempo anche molto teso. No, non doveva essere semplice neppure per lui. «Bella» mi chiamò, sorridendomi ed indicandomi la sedia davanti alla scrivania «come ti senti?».

Sorvolai sull’attacco di panico avuto nell’ultima ora e facendo come mi diceva mi accomodai con Edward sulle sedie «Sto molto meglio di ieri, la pancia non mi ha più fatto tanto male. Però» aggiunsi cautamente «mi sento molto debole».

Mio suocero annuì con un sorriso rilassato, aprendo una cartellina con dei fogli stampati e ruotandoli in modo che fossero nella mia direzione. Iniziò a spiegarmi, indicando con l’indice i valori stampati sul foglio «Hai l’emoglobina un po’ bassa, che vuol dire che sei un po’ anemica, ma questo già lo sapevamo» iniziò a spiegarmi con un sorriso, scambiandosi un’occhiata con Edward – certo che lo sapevano, famiglia succhiasangue - «anche le tue proteine nel sangue sono un po’ basse, probabilmente perché sei un po’ denutrita, e hai qualche lieve squilibrio elettrolitico, cioè diciamo dei tuoi sali nel sangue, ed è compatibile con il fatto che hai vomitato molto ultimamente» disse, continuando a voltare pagina «queste» aggiunse, con un sorriso ampio che nascondeva appena una punta di tensione «sono le tue betaHCG, l’ormone che ci dice che sei incinta».

Mi portai una mano alle labbra, emozionata. Era proprio così allora.

Edward mi accarezzò la schiena con la mano e capii che anche lui era commosso. Ma lo vedevo, era ancora molto nervoso.

«Francamente ragazzi sono sorpreso quanto voi» continuò Carlisle, e sentii che stavano per arrivare le note dolenti «capite che non possiamo fermarci qui. Per avere una diagnosi di gravidanza certa è indispensabile avere una correlazione ecografica a questo dato poiché seppur raramente capita che un aumento delle betaHCG sia dovuto ad altre cause. Non possiamo lasciare lo spazio ad alcun dubbio. In più» continuò passando lo sguardo fra me ed Edward, includendolo cortesemente nel discorso come se lui non potesse leggergli d’un fiato tutti i pensieri, «abbiamo bisogno di sapere che l’embrione si sia impiantato correttamente, vedere che sia formato correttamente e quanto sia grande per sapere con esattezza quando sia stato concepito».

«Quindi dobbiamo fare un’ecografia» conclusi.

«Sì» aprì e chiuse le mani, poi le posò sulla scrivania. Non lo avevo mai visto così incerto. «Non è detto che basti per soddisfare tutte le nostre domande. Forse non mi basterà usare una sonda transaddominale ed è estremamente probabile che ci sia bisogno di fare una visita ginecologica» disse, guardandomi con attenzione.

Annuii pianissimo, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Cauto ma deciso continuò «Abbiamo diverse opzioni, ed ognuna ha le sue criticità. Può farlo una ginecologa, è una mia amica ed è molto brava; ma non conosce la tua storia e se scegliessi questa opzione ti suggerirei di raccontargliela per poter essere a tuo agio con lei. Inoltre ci potrebbero essere dei problemi perché non sappiamo cosa può avere di straordinario questa gravidanza. Può farlo Rosalie» disse, voltandosi a guardare la figlia che era sempre rimasta silenziosa e sorridente al suo fianco «penso che con lei ti sentiresti a tuo agio. Purtroppo sarebbe la sua prima visita ostetrica in assoluto e seppur non metto in dubbio che possa essere molto brava non so se riuscerebbe a darci tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno. L’altra opzione è che lo faccia io» concluse, e non elencò né pro né contro.

Non ce n’era bisogno perché li sapevo molto bene. Era un medico vampiro con 300 anni di esperienza che conosceva benissimo la mia storia, il mio vissuto e la straordinarietà di quello che stavo vivendo ma… era Carlisle.

«Cosa pensi?» mi domandò Edward stringendomi la mano fra le sue.

Feci un piccolo sorriso, davvero il massimo che riuscissi a concedermi, sperando di riuscire ad alleggerire almeno la loro tensione. «Possiamo iniziare con l’ecografia?».

«Certamente» disse mio suocero rispondendo al mio sorriso.

Mi fecero sistemare sul lettino, le luci nella stanza vennero abbassate e mi bastò alzare un pochino la maglietta ed abbassare di qualche centimetro i collant. Il gel mi sembrò alla stessa temperatura della mia pelle nella parte più bassa della pancia.

Appena posò la sonda sulla mia pelle tutti e tre i vampiri s’irrigidirono.

«Che succede?» domandai preoccupata, tentando di sollevarmi per guardare lo schermo.

«Aspetta, stai giù» mi tranquillizzò Edward, al mio fianco. I suoi occhi erano ampi e non si staccavano dallo schermo. Suo padre ruotò leggermente lo schermo verso di me. Era sconvolto, come gli altri.

«Bella, questo» iniziò lentamente, la voce controllata nonostante lo stupore «come puoi vedere è il tuo utero, con le ovaie» continuò, muovendosi ai lati ed indicando le immagini grigie «Questo» continuò, inquadrando un ovale completamente bianco e scintillante, che faceva sfarfallare l’immagine sullo schermo «presumo che sia il sacco amniotico».

«Incredibile» sibilò Rosalie sconvolta.

«Presumi? Cosa è incredibile? Che significa?» domandai agitata.

«Il bambino non si vede, ma quella dev’essere proprio la sua cameretta» disse Carlisle con un sorriso stupefatto.

Passai con lo sguardo da lui a mio marito, per nulla soddisfatta da quella spiegazione.

«Faglielo vedere» disse Edward, porgendogli la mano.

«Ecco» disse, mettendo un po’ di gel sulla mano del figlio «i tessuti si confrontano sulla base dell’ecogenicità, cioè di quanto siano chiari o scuri sull’ecografo. Gli stessi tessuti hanno la stessa ecogenicità. Vedi» fece, poggiando la sonda sulla sua mano. Tutto lo schermo divenne completamente bianco e scintillante, pieno di sfarfallii.

«Oh mio Dio» sussurrai sconvolta. Le lacrime cominciarono ad uscire dagli occhi senza che le potessi controllare. «Allora è proprio così» singhiozzai, guardando Edward.

Annuì, guardandomi meravigliato, lasciando sciogliere un po’ la sua tensione. «È nostro figlio».

Scossi il capo, stupefatta. Nessuno di noi riusciva a credere come fosse possibile.

«Riesci a settare i parametri in modo da vederci dentro?» chiese Rosalie, mentre il padre armeggiava con gli innumerevoli tasti dell’ecografo.

«Ci sto provando, ma non sembra che cambi nulla purtroppo».

Rosalie scosse il capo, nervosa. «Chiamo Jasper ed Emmett, magari hanno scoperto qualcosa».  

«Se non possiamo vederlo come facciamo a sapere che stia bene?» domandai preoccupata, e capii solo allora il motivo della loro tensione. Chi poteva dirci che lì dentro c’era un bel bimbo sano? Chi poteva dire che sarebbe stata una gravidanza come le altre? E chi che lì dentro ci fosse un bambino controllabile, più umano che come uno dei bambini immortali?

Sospirai. Era quello allora. Eppure già sentivo che in quel cerchio bianco luminoso era chiuso un pezzo del mio cuore, qualunque prezzo mi fosse costato darlo alla luce, qualunque cosa avesse fatto, qualunque sembianza avesse avuto.

«Sono sicura che stia bene, sapete?» mormorai dopo un po’. «Penso che quella “casetta” come la tua pelle sia forte come la tua, Edward, e che lo proteggerà».

Mi sorrise debolmente, posando la fronte sulla mia. Era felice di sentirmi, dopo tanto tempo, così fiduciosa, ma le domande che mi ero posta erano le stesse che c’erano nel suo cuore e la sua preoccupazione non diminuiva.

«Sono d’accordo con te Bella» mi disse Carlisle, rassicurandomi. Lo vedevo, avrebbe così tanto voluto guardare quel bambino, avere la sicurezza scientifica che stesse bene e che non mi avrebbe fatto male, ed essere semplicemente felice per noi «penso che i farmaci abbiano potuto attraversare la barriera emato-placentare, ma che il bimbo sia stato abbastanza forte. Però» aggiunse cautamente «c’è una discreta area di distacco amnio-coriale».

«Cosa vuol dire?» domandai preoccupata.

«Non ti agitare, capita a molte donne nel primo trimestre» mi sussurrò ad un orecchio mio marito.

Carlisle annuì. «È quello che ti dicevo riguardo alla minaccia d’aborto. Però» esitò «dato che siamo riusciti ad ottenere così poche informazioni dall’ecografia, adesso penso che sarebbe davvero importante visitarti».

Trattenni il fiato. Mi stava dicendo che doveva farlo lui, lo sentivo. Mi misi seduta sul lettino, asciugandomi la pancia dal gel con il fazzolettino che mi aveva porto. Mi girava la testa e non era per il cambio di posizione. Avevo così tanti pensieri, così tanta paura. Una gioia molto grande richiede un sacrificio molto grande, mi aveva detto una volta Carlisle.

Annuii. «Va bene Carlisle, penso che dovresti farlo tu».

«Va bene» annuì a sua volta «ti lascio un po’ di privacy» mi disse, sistemandomi il paravento in modo che mi potessi spogliare e sistemare il telino pulito attorno alla vita.

Edward mi aiutò a scendere dal lettino. «Hai bisogno di una mano?» mi domandò, incerto.

Lo vedevo così agitato, speranzoso ma consumato dalla preoccupazione, e per di più così spaventato che ancora non lo volessi lì con me in quel momento così delicato e terrorizzato che potessi avere un altro attacco di panico. «Non ne ho bisogno» gli risposi, prendendogli le mani e guardandolo negli occhi «ma resta, ti prego» gli chiesi con estrema fiducia. E per la prima volta ringraziai mentalmente Carlisle di non averlo annoverato fra i miei possibili “medici”. Non avrei mai potuto incasinare ancora di più la mia vita sentimentale e sessuale con lui.

«Sei sicura?».

«Ti prego».

«Va bene» mormorò con un piccolissimo sorriso.

«Ehi» lo chiamai ancora «non aver paura. È un miracolo, è il nostro bambino. E fino a prova contraria voglio pensare che stia bene, che crescerà e nascerà come un bambino normale. O quasi».

«È l’“o quasi” che mi spaventa» scherzò debolmente, facendo trapelare tutta la sua ansia.

«Se la parte che ti spaventa è quella che puoi avergli dato tu non farti spaventare. Perché tu sei meraviglioso e non puoi dargli niente che non sia meraviglioso. Capito?» dissi con decisione.

Prese un respiro e si chinò ad abbracciarmi forte, fino quasi a farmi male. Non dissi nulla e restituii l’abbraccio con la stessa intensità umana.

«Dimmi quando sei pronta, non metterti fretta» mi disse Carlisle mettendosi i guanti ed usando un tono molto formale. 

Strinsi le mani ai bordi del lettino. Non sarei mai stata pronta. Edward, la mio fianco, mi costrinse a sciogliere la presa e prese una delle mie mani fra le sue. Annuii leggermente quando pensai di avere abbastanza controllo sul mio corpo.

«Prova ad essere più rilassata possibile, non ti farò male».

Provai a fare come mi diceva e a cercare di non andare in iperventilazione. Volevo davvero farcela, volevo davvero rendere le cose facili a Edward e Carlisle, volevo dimostrare che la gravidanza mi aveva cambiata e che la speranza mi aveva guarita.

Solo dopo due secondi ero così tesa che un dolore fortissimo era esploso dentro di me. Chiusi gli occhi nella speranza di calmarmi, ma servì solo a riempirmi la tesa di immagini, le peggiori che potessi evocare in quel momento. Non riuscivo a muovermi, ma gli occhi mi si riempirono di lacrime e tutto il mio corpo era duro come una pietra.

Carlisle si fermò immediatamente.

Edward si tese al mio fianco, agitato.

Ero così dispiaciuta di non essere riuscita nel mio intento che mi sentii quasi peggio. «Mi dispiace, faceva male» sussurrai debolmente, mentre le lacrime continuavano a tradirmi.

«Non è colpa tua, Bella» ribattè mio marito. Mi strinse la mano fra le sue «amore mio, non è neppure lontanamente colpa tua, come può esserlo? Shh, calma. Shh, va tutto bene. Sei bravissima. Sei stata bravissima» mormorò al mio orecchio, facendo calmare i miei piccoli singhiozzi.

Quando fui un po’ più calma tirai su con il naso, carezzandomi la pancia. «P-possiamo riprovarci?» balbettai.

«Ti prego, diamole delle benzodiazepine» fece mio marito a Carlisle, supplicandolo.

«No» sussurrai contrariata.

«Bella» mi chiamò mio suocero, molto seriamente «forse ne hai davvero bisogno. Potrebbero aiutarti molto in questa circostanza».

«Mi hai detto che gli fanno male» replicai preoccupata.

«È vero, ma ti ho detto anche che il bambino sembra forte, e tu ora ne hai molto bisogno, Edward ha ragione» cercò di convincermi, persuasivo.

Ansimai. Non potevo, non potevo ancora mettere il mio benessere davanti a quello di mio figlio, non senza provarci davvero. «Vi prego, fatemi provare un’ultima volta» li supplicai, certa della sofferenza che avrei causato anche a loro se avessi fallito ancora.

«Bella» provò ad insistere Carlisle, ma sorprendendomi fu Edward a bloccarlo.

Scosse il capo. «Riproviamoci se è quello che desideri» disse piano, guardandomi con intensa serietà.

Fu difficile quasi come la prima volta, ma non feci lo stupido errore di chiudere gli occhi. Non fui per niente rilassata, fece male, ma durò davvero poco e abbastanza da permettere a Carlisle di raccogliere tutte le informazioni che gli erano necessarie senza dovermi drogare.

Alla fine eravamo tutti e tre molto, molto, più sollevati.

Edward mi strinse forte come se non volesse lasciarmi andare più, facendomi accoccolare sul suo petto mentre il padre, tranquillo, ci parlava.

«La datazione della gravidanza è compatibile con le dimensioni del tuo utero, cioè dovresti essere di circa otto settimane e la data presunta per il parto se…» esitò, cauto «la confrontiamo con una gravidanza normale, è l’otto maggio. Per fortuna non ci sono grandi modificazioni a livello della cervice uterina. Vuol dire che la minaccia di aborto non è così grave come poteva sembrare all’inizio, ed è un’ottima notizia. Ti darò del ferro, degli integratori elettrolitici, delle vitamine e una dieta approssimativa, perché sei molto magra e hai bisogno di prendere peso. Ti prescriverò anche delle iniezioni di progesterone da fare ogni 3 giorni a partire da oggi. Dovrai stare a riposo per un mesetto, evitare ogni ansia e stress e prendere gli antidepressivi. Aspetta» mi interruppe quando feci per ribattere «so che è un tuo desiderio interromperli, ma se lo farai all’improvviso starai molto male e con te il bambino. Se davvero è un tuo desiderio non prenderli più dovrai scalare la dose secondo uno schema che ti darò. D’accordo?».

Annuii, contro la maglietta di Edward. Era stata una lunga giornata e mi sentivo stanchissima, ma le sorprese non erano finite.

«Ho parlato con Jasper» esclamò una trionfante Rosalie rientrando nella stanza.

Sentii il corpo di Edward tendersi sotto il mio e mi voltai a guardarlo, preoccupata.

Ma era, per la prima volta… sinceramente felice.

«Hanno trovato delle fonti in Sud America» iniziò Rose eccitata «è stato tremendamente difficile, e sono solo leggende, ma parlano di bambini veri che crescono a differenza dei bambini immortali. E hanno trovato storie che raccontano di alcune donne che sono state quasi venerate per essere sopravvissute all’“assalto degli immortali”, aver partorito il loro figlio ed essere diventate le anziane dei villaggi» spiegò entusiasta.

Carlisle si sollevò in piedi, estasiato. «Che speranza abbiamo che siano fondate?».

Rosalie scosse le spalle, volgendo lo sguardo su di noi, emozionata. «Che speranza avevamo che succedesse? Eppure è così, è successo».

Mio marito nascose il viso nel mio collo, ispirando tutto il mio odore e abbracciandomi, pieno di gioia e un po’ di sollievo. «Tu sei meravigliosa e non puoi dargli niente che non sia meraviglioso. È la parte che gli darai tu che non mi spaventa».

Tornammo a casa. Io, Edward, e nostro figlio. Edward sapeva che era stata una giornata lunghissima ed ero distrutta e voleva portarmi a letto, ma gli avevo detto che mi faceva piacere stare un po’ in auto con lui, solo io e lui. O meglio. Noi tre. Sorrisi, accarezzandomi la pancia e contemplando quel piccolo pezzettino freddo e duro di pelle.

«Scusami» disse Edward, accostando davanti alla farmacia di Forks «vado a prendere quello che ci serve, te la senti di rimanere in auto?» chiese speranzoso.

Sorrisi debolmente. «Certo, vai, non sarò sola» dissi dandogli un lieve bacio, prima di farlo uscire sotto la perenne pioggia di Forks.

Era ovvio che non volesse farmi uscire. Il mio apprensivo marito. Eppure era stato così attento da chiedermelo. Mi sistemai meglio sul comodo sedile, chiudendo gli occhi e rilassandomi; ero devastata dalla stanchezza, e per di più, nonostante le insistenze di Rosalie, non ero riuscita a cenare. Mi ricordai di una cosa importante che volevo dire a Edward.

Lui tornò in un istante e mi porse un sacchetto di cartone, mentre intanto si toglieva il giaccone bagnato e lo metteva sul sedile posteriore. I suoi capelli scuriti dalla pioggia erano magnifici e le gocce che si erano fermate fra quei fili bronzei sembravano rugiada.

Arrossii a quei pensieri e senza sforzarmi di contenere un sorriso, osservai il sacchetto che avevo fra le mani, tanto per distrarmi dalla contemplazione della sua immagine. Caspita… erano tutti medicinali? Ci guardai dentro, e ciò che vidi mi fece inorridire, tanto che lo richiusi velocemente e lo abbandonai sul sedile posteriore, reprimendo un conato di vomito. Siringhe.

«Mi dispiace» mi prese in giro Edward, che aveva silenziosamente assistito alla scena.

Lo fissai di sottecchi, sfregandomi la natica dove ancor ami faceva male. Poi, con gesti ingenui, in modo che non si potesse insospettire, presi la chiave e la sfilai dalla toppa.

«Che stai facendo?» mi chiese perplesso.

Gli sorrisi, insolente, «Macchina mia, guido io».

«Bella» mi richiamò «sai che non ci metterei nulla se volessi riprendermi le chiavi, vero?».

«Ma non lo farai, vero?» dissi sperando di essere convincente e che il battito del mio cuore non mi tradisse.

Sospirò, perplesso, alzando gli occhi al cielo. «Va bene…».

Ci scambiammo le posizioni e io misi in moto.

Vidi Edward squadrarmi preoccupato.

«Rilassati, o prima di arrivare i capelli ti diventeranno bianchi».

Bofonchiò qualcosa, a cui non badai. Avevo in mente solo una meta: casa nostra. Non ci badai neppure quando mi diceva che stavo sbagliando strada, e quando gli feci presente che mi stava innervosendo si zittì, limitandosi a fissarmi con la sua espressione contrariata.

Espressione che mutò radicalmente, lasciando spazio allo stupore a alla felicità, quando capì che mi stavo dirigendo a casa nostra. «L’hai fatto apposta?» mi chiese ammirato.

«Già» dissi, arrossendo e parcheggiando l’auto.

Lui mi fece voltare verso il suo viso, guardandomi negli occhi. «Ti amo».

«Ti amo anch’…».

Un trillo potente mi fece trasalire. «Bella! Siete arrivati finalmente!» esclamò Alice uscendo di casa. Rosalie la guardava contrariata dall’uscio, scuotendo il capo.

Risi, sollevata. «Ecco dov’era finita».

Trovai Edward a fissarmi, un sorriso commosso sulle labbra.

«Cosa?» domandai imbarazzata, abbassando il viso.

«Tu. È bello sentirti ridere ancora». A velocità vampiresca mi aprì la portiera, tendendomi una mano «Adiamo Bella, andiamo a casa».

L’afferrai. «A casa».

 

 

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Capitolo 38
*** Gelosia ***


«Edward, corri

«Tesoro, prendi la tisana» mi disse Rosalie, porgendomela. Ero sul divano, distesa con una soffice coperta e dei cuscini per farmi stare comoda.

«Non dargliela» ribatté Alice a voce bassa.

Rose sospirò. «Ha la valeriana e la melissa, la farà stare bene e rilassare».

«Non la farà stare bene, vomiterà ancora. La melissa puzza di piedi».

Rosalie stava per ribattere ancora, ma la interruppi. «Va bene, lasciamela qui accanto, per favore. È ancora molto calda, la berrò quando si sarà raffreddata» provai a placarle con un sorriso «magari più tardi non vomiterò. In effetti ho ancora lo stomaco un po’ scombussolato» dissi, abbracciandomi la pancia. Non mi ero ancora ripresa dall’ultimo attacco di nausea e mi sentivo molto debole.

Le mie sorelle badavano amorevolmente a me, standomi accanto così tanto che quasi non mi pareva di essere tornata a casa mia e di Edward. Lui, in compenso, non c’era. Quella mattina si era allontanato perché aveva qualcosa di molto importante da dirsi con Carlisle, e anche se non l’avrei mai ammesso la mia nausea c’entrava anche un po’ con la sua assenza.

«Sono a casa» disse la sua voce, mentre una piccola folata di vento mi faceva capire che aveva aperto la porta d’ingresso.

Sorrisi, ma per poco. L’odore della tisana di Rose mi arrivò al naso: sapeva davvero di piedi. Mi ritrovai a correre verso il bagno.

«Come ti senti?» domandò preoccupato mio marito, passandomi un pezzetto di carta igienica per pulirmi le labbra.

«Tutto bene?» chiese suo padre, bussando alla porta aperta del bagno.

Storsi le labbra, fissandolo di sottecchi. «Non mi convincerai a farmi delle iniezioni anche per smettere di vomitare» biascicai, la guancia schiacciata contro la tavoletta del water.

Ridacchiò. «Posso provare a darti delle compresse a base di zenzero, ma non funzioneranno» fece, sicuro.

Mi sollevai, lasciandomi aiutare da Edward. Mi sentivo così spossata. «Chi sei, Alice? Dammi tutto lo zenzero che hai, non mi lascerò bucare ancora da un ago se non per un’ottima causa».

Mio marito sollevò gli occhi al cielo. «È per un’ottima causa. Sei magrissima» ribatté, prendendomi il polso fra il pollice e l’indice.

Anche Alice e Rosalie ci raggiunsero in un attimo. «Te l’avevo detto che l’avrebbe fatta vomitare» disse la prima.

Strinse i denti. «Magari non avrebbe vomitato se tu non avessi detto che odorava di piedi» ribatté.

Sospirai. Non era la prima volta che si scambiavano quelle frecciatine. «Ehi, cos’è, il club del vomito?» scherzai debolmente, tirando lo sciacquone e tentando di alleggerire la tensione. Odiavo che battibeccassero in quel modo. Per me.

Edward le guardò e loro si zittirono facendo dietrofront. Non feci in tempo a chiedergli spiegazioni che mi bloccò dicendomi «Andiamo in camera. Abbiamo trovato qualcosa che potrebbe aiutarci molto».

«Ho paura» scherzai, lasciandomi trascinare nella nostra stanza.

Carlisle era elettrizzato, aveva il suo sguardo magnetico che gli avevo visto avere solo di fronte ad un’importante scoperta scientifica.

«Che devo fare?» domandai, lasciando trapelare solo una punta della mia preoccupazione. Era ovvio che quella scoperta comprendeva me, o meglio, ciò che era contenuto nella mia pancia.

«Tranquilla Bella» mi rassicurò mio marito con un sorriso divertito sulle labbra «ti piacerà. Vogliamo solo che scopri la pancia».

Scrollai le spalle. «Okay, va bene?» dissi, sollevando la maglietta.

«Posso?» disse, e quando annuii abbassò di qualche centimetro i miei pantaloni, rivelando la mia pancia ancora super piatta. «Fidati di noi, okay?» mi chiese guardandomi negli occhi.

Annuii.

Carlisle prese uno strano marchingegno dalla sua borsa. Non era tanto tecnologico, aveva un aspetto piuttosto antiquato. «Il punto è che ciò che ci ha ingannato di più riguardo la diagnosi della gravidanza è che non è come le altre».

Crucciai le sopracciglia, perplessa. Sapevo che non era come le altre.

Sorrise, collegando il marchingegno alla presa elettrica e avvicinando l’altra estremità alla mia pancia. «Un vampiro, almeno» si bloccò «uno attento, è in grado di fare una diagnosi di gravidanza circa alla sesta- settima settimana di gestazione. Il seno cresce, la pelle si distende, i capelli diventano più lucidi, ma soprattutto» fece, posando la placca di metallo contro la mia pancia. I suoi occhi si allargarono, sorpresi. Edward balzò in piedi, avvicinandosi all’attrezzo. Erano elettrizzati. Alice e Rosalie si precipitarono in camera, sorprese.

«Che sta succedendo?» domandai scocciata.

«Si sente il battito del cuore!» esclamò Alice contenta.

«Che cavolo… davvero?» chiesi sconvolta. «Oh mio Dio».

«Ero sicuro!» trionfò vittorioso Carlisle «non ce l’avremmo mai fatta con l’effetto Doppler, era impossibile. Dovevamo usare questo amplificatore di suoni. Bella. Perdonami, sono andato troppo avanti» si scusò con un gran sorriso «sentiamo il suo cuore che batte come avremmo sentito in qualunque altra gravidanza. Abbiamo dovuto utilizzare una vecchia tecnologia obsoleta basata sull’amplificazione dei suoni, accantonata dopo la scoperta dell’effetto doppler che è la base dell’ecografia, molto più efficace normalmente, ma che nel tuo caso non avrebbe funzionato. Mi dispiace solo non potertelo fare sentire, è davvero troppo basso per l’udito umano».

«Sta bene?» balbettai emozionata.

Edward si avvicinò a stringermi la mano fra le sue e baciarne il dorso. «È meraviglioso».

Gli carezzai i capelli con la mano libera, annuendo fra le lacrime. «Va bene così».

Quella sera venne anche Esme a casa e riuscii a mangiare la cena senza vomitare, con grande sollievo di tutti. Edward e Carlisle parlarono tutto il tempo della gravidanza e per la mia salute mentale decisi di non prendere parte a tutte le congetture che poteva partorire la mente di un vampiro. Alice e Rosalie erano ancora entusiaste di aver potuto sentire il battito del bambino, tanto che mi accudirono tutta la sera con dolcezza senza litigare neppure una volta. Almeno per quella sera.

«Bella» mi sentii chiamare «Bella, svegliati, Bella» mi chiamò ancora quella voce, mentre delle piccole mani fredde mi scuotevano.

Aprii le palpebre, contrariata. «Alice. Che succede?» domandai stropicciandomi gli occhi. Non credevo di aver dormito abbastanza. Mi faceva male la testa e mi sentivo stanca.

Mi sorrise serenamente. «Hanno appena lanciato la linea esclusiva Armani premaman. Vorrei che la vedessi».

Sbattei le palpebre, sconvolta, portandomi una mano alla testa.

Ci fu una folata d’aria nella stanza, e Rosalie si materializzò al mio fianco. «Davvero l’hai svegliata per questo? Ti avevo detto di non farlo. Alice» sospirò, sollevando gli occhi al cielo.

Alice ridusse gli occhi a due fessure. «Le piacerà» disse a denti stretti «l’ho visto».

La sorella fece scioccare la lingua. «Certo».

«Okay» sospirai, sollevando le mani a mo’ di resa. Non capivo cosa avessero, ma odiavo sentirle bisticciare. «Fatemi fare colazione e poi… possiamo vedere la collezione Chanel tutte e tre insieme, okay?».

«È Armani, non Chanel, Bella. È una collezione esclusiva di pezzi unici» ribatté esasperata Alice.

Sollevai gli occhi al cielo, marciando verso la cucina. «Qualunque cosa».

Mangiai la colazione che mi aveva preparato Edward, che mi fece compagnia per tutto il tempo che mi servì per terminarla. Quando fu sicuro che non sarebbe finita nel water mi guardò, incerto, ed io gli dissi che mi sarebbe stato bene se fosse andato da Carlisle a fare altre ricerche. Mi promise che ci avrebbe messo meno tempo possibile e mi lasciò un lunghissimo bacio sulle labbra. Mi sarebbe servito per riuscire a capire se potevo sopravvivere a me stessa per qualche ora al giorno senza di lui, per poter ridurre davvero la mia dipendenza da psicofarmaci.

«Smetterai prestissimo, l’ho visto» disse Alice mentre ne mandavo giù una compressa.

La guardai insicura. «Davvero?». A volte mi sembrava che l’ansia che mi accompagnava non sarebbe mai scomparsa del tutto, e la paura di avere un nuovo attacco di panico mi tormentava.

Rosalie si materializzò al mio fianco in cucina. Trasalii a quello spostamento così veloce. «Non ti mettere pressione, tesoro. Seguirai lo schema che ti ha dato Carlisle e se ne avrai bisogno prolungheremo un po’ il tempo. Hai già scalato il dosaggio, sei stata brava. Non è necessario andare più veloce del dovuto» finì, e l’ultima parte della frase non era rivolta a me.

Alice si avvicinò a passo umano, continuando a fissare la sorella in cagnesco, prendendomi il bicchiere dalle mani per riporlo in lavastoviglie. «Infatti sarebbe più facile se tutti andassimo a passo umano in questa casa, proprio come Bella ci ha chiesto».

M’irrigidii. Ecco che stava succedendo ancora. Dovevo proprio capire che cosa stesse succedendo alle mie sorelle vampire, e c’era solo una persona che poteva aiutarmi, ma non era lì in quel momento. «Beh, ragazze» dissi, saltando giù dallo sgabello della cucina. «Io andrei di là a farmi…» biascicai, aggrappandomi al bancone della cucina per non cadere. Mi ero alzata decisamente troppo in fretta a giudicare da come mi girava la testa «…una doccia» soffiai, quando la testa smise di girarmi.

Rosalie mi strinse le braccia, assicurandosi che fossi stabile sui miei piedi. «Bella, tesoro, lascia che ti accompagni» sussurrò preoccupata.

Volevo scuotere il capo, ma avevo paura che mi sarebbe girata ancora la testa.

«Vuoi che ti accompagni io?» domandò Alice, con una punta di insicurezza.

Sentii la presa di Rosalie irrigidirsi. «Scusa, ma…».

«Tranquille ragazze» feci, sollevando le mani ed allontanandomi dalla presa di Rose. «Va tutto bene, mi sono solo alzata troppo in fretta. Vado a fare la doccia e torno, voi intanto predisponente tutto per la sfilata di… umh… Gucci».

«È Armani!» esclamò Alice mentre mi allontanavo verso il bagno.

«Cosa vuoi che gliene importi chi è Alice, non si è mai interessata di moda».

«Senti, se ho agito così è perché avevo le mie buone motivazioni, ne puoi stare certa».

«Sì, infatti, le tue “visioni”…».

 Sgusciai via e mi chiusi la porta della camera alle spalle. Presi un respiro. Per fortuna che era insonorizzata. Osservai il telefono sul mio comodino. Volevo chiamare Edward e chiedergli di venirmi a dare una mano a capire che diavolo stesse accadendo alle due vampire, ma sapevo che non appena avesse visto uno squillo di una mia chiamata si sarebbe preoccupato da morire. Soppesai il cellulare fra le mie mani. Forse sarebbe bastato un messaggino. “Tutto okay?” scrissi, poi lo cancellai. Avrebbe capito che qualcosa non andava. “Spero che le vostre ricerche vadano bene” scrissi invece, ed esitai, mordicchiandomi un labbro, incerta su come proseguire “ricordami che devo chiederti una cosa quando tornerai”. E premetti il tasto invio con un sospiro, il tempo di sollevare il capo e guardarmi allo specchio. Feci una smorfia. Era davvero arrivato il tempo di farmi una doccia.

Fu una doccia tiepida, perché non potevo ancora sopportare il calore e i suoi ricordi. Conoscevo i miei limiti. Quando uscii lo specchio del bagno era appannato, così lo asciugai con una mano giusto quanto bastava per guardarmi in faccia. Sollevai con una mano una ciocca di capelli bagnati. Erano lunghissimi e sapevo che ci avrei messo una vita a metterli in piega. Quello era un compito che una sorella vampira avrebbe svolto più che volentieri, e chissà, magari avrei potuto convincerle a lavorare su di me insieme, anziché continuare a litigare.

Con quel proposito uscii dal bagno, aprendo appena la porta che dava sulla camera.

«È inutile che le prepari questi vestiti! Non vanno bene per lei, te l’ho detto. Il denim le fa ancora male».

«Voglio solo che il veda Rose!» esclamò Alice arrabbiata. «Voglio che sappia che può scegliere».

Rosalie strinse i denti. «La farà solo soffrire non poterli scegliere!».

«Non la farà soffrire» gridò a voce più alta «l’ho visto!».

«Certo, come stamattina quando l’hai svegliata senza motivo dopo tutta la fatica che io ed Edward avevamo fatto per farla addormentare!».

Alice tremò in tutta la sua piccola statura «Avrebbe avuto un terribile incubo se non l’avessi svegliata con quella scusa della collezione Armani!» urlò arrabbiata.

Trattenni il fiato, indietreggiando. Era stato per quello allora. Deglutii, provando a gestire la mia ansia insieme al battito del mio cuore. Mi occorse qualche secondo per calmarmi, ma quando pensai di essere di nuovo padrona di me stessa sentii un fastidio, come un crampo, crescere ed intensificarsi sulla mia pancia.

Ansimai, sorreggendomi al muro. Sapevo bene cosa significasse. «Aiuto» ansimai.

Entrambe le vampire si materializzarono in bagno. «Bella» soffiò Alice preoccupata.

«Tesoro, reggiti a me» fece Rose, venendo subito al mio fianco «tranquilla, va tutto bene».

Gemetti, piegando lo sguardo verso il basso. Scostai un poco l’accappatoio, quanto bastava per osservare la piccola gocciolina rosata che scivolava lungo il mio interno coscia.

«Che diavolo…?».

«Edward» singhiozzai, sollevando lo sguardo su mio marito.

I suoi occhi si spalancarono, fermi sullo stesso punto che stavo osservando fino a un secondo prima. «Shh, tesoro. Va tutto bene. Ora ci penso io a te» mormorò al mio orecchio, sollevandomi fra le sue braccia. «Calmati, calmati. Questa agitazione non vi fa bene» disse, portandomi verso il letto.

«Edward, noi…» iniziò Rose.

«Non ora» sibilò contrariato. «Chiama Carlisle, e andate via per favore».

«Alice» piansi, tendendo un braccio nella sua direzione «ti prego, dimmi che andrà bene, che il bambino starà bene».

«Veramente io…» esitò, incerta.

«Adesso è troppo complicato Bella» la interruppe Rosalie «cercheremo di capirlo dopo. Ora stai tranquilla» fissò la sorella «andiamo a chiamare Carlisle» disse a denti stretti, prima di scomparire.

Alice mi guardò ancora un secondo, combattuta. Poi scomparve anche lei.

Stavo per chiedere una spiegazione a mio marito, ma mi piegai ancora sulla pancia. Non erano proprio delle fitte, ma quasi un senso di peso e di tensione al bassoventre che mi dava fastidio, come quando stava per venirmi il ciclo. Intrecciai la mia mano con quella di Edward. «Ho paura» mormorai «voglio che stia bene».

«Lo so, anch’io» mi rispose mio marito «l’unico modo che abbiamo per farlo è che tu stia tranquilla, okay?» fece, guardandomi negli occhi.

Annuii.

Carlisle decise di anticipare l’iniezione di progesterone e non mi importò nulla dell’ago quando in gioco c’era la vita di mio figlio. Il fastidio alla pancia scomparve quasi subito e non ebbi più perdite. Mi disse che sarei dovuta stare a riposo davvero, che sarei dovuta stare in un ambiente tranquillo e che non mi sarei dovuta alzare dal letto se non per andare in bagno. E poi, aggiunse, molto serio, che fatto tutto questo dipendeva solo da quanta voglia avesse questo bimbo di venire al mondo.

Edward era arrabbiato con le sue sorelle e non permise loro di rientrare in camera. Mi asciugò i capelli con il phon con dolcezza e per quel giorno decisi che sarebbe andato bene anche legarli in una crocchia disordinata. «Perché sei tornato così presto?» domandai, giocherellando con la fede al suo anulare.

Sollevò un sopracciglio. «“Spero che le vostre ricerche vadano bene”?» domandò scettico carezzandomi i capelli.

Scrollai le spalle. «Era un messaggio come un altro» borbottai imbarazzata.

Sorrise, sollevandomi il mento con una mano. «Era il grido d’aiuto di mia moglie. Cos’è successo? Di cosa mi vuoi parlare?».

Lo guardai negli occhi. «Perché Alice e Rosalie litigano in continuazione?» chiesi, andando dritta al punto.

Sospirò. «Era questo allora. L’avevo immaginato».

«Quindi?».

Scosse il capo. «Non posso dirtelo».

«Ma come?» domandai sorpresa.

«Bella» mi ammansì, «non posso» fece serio «non mi hanno detto nulla, ho solo letto i loro pensieri. Se mi avessero confidato qualcosa magari te ne avrei parlato, ma non posso dirti cosa c’è nelle loro menti. È una regola non scritta che mi porto dentro da un centinaio di anni di convivenza in questa famiglia. Se andassi in giro a raccontare i loro problemi l’uno all’altro non li risolverei in alcun modo, li aiuterei solo a spaccarsi. Mi dispiace molto, ma non posso fare un’eccezione per te, lo capisci?».

Annuii, sorridendo. Gli carezzai una guancia. «Capisco che gli vuoi molto bene».

Fece un piccolissimo ringhio ferino. «Adesso vorrei ammazzarle. Gli avevo chiesto di vegliarti, tenerti tranquilla e al sicuro, e ti ho ritrovata in questo stato».

«Probabilmente sarebbe successo comunque» provai ad ammansirlo.

Sospirò. «È probabile. Ma ci parlerò, e se litigheranno ancora in tua presenza non metteranno più piede in questa casa».

Sorrisi, accucciandomi sul suo petto e sbadigliando. «Le perdonerai» dissi sicura.

Mi abbracciò. «Certo che le perdonerò» ammise dopo un po’. «Bella» aggiunse «non posso rivelarti i loro pensieri, ma ricordati sempre che anche loro ti vogliono molto bene. Puoi provare a parlarci, se vuoi».

Annuii contro la sua maglietta, abbassando le palpebre. «Lo farò» mormorai stanca.

«Shh» sussurrò al mio orecchio, carezzandomi i capelli e cullandomi un po’ avanti e indietro. «Dormi, tranquilla».

Nella settimana che seguì capii una cosa fondamentale: fra stare a riposo e stare a riposo assoluto c’era una bella differenza. Ero vero, ero sempre stanca e dormivo tantissimo, ma passare tutto il mio tempo, anche da sveglia, a letto, era una tortura che di giorno in giorno mi rendeva più insofferente. Non potevo più mangiare a tavola, prepararmi la colazione, farmi una doccia, fare una piccola passeggiata in cortile. Niente. E mi annoiavo a morte, nonostante Edward avesse spostato la TV in camera e tentasse d’intrattenermi in ogni modo, portandomi di tanto in tanto sul divano del soggiorno.

In più aveva parlato con le sue sorelle, e la brillante soluzione che avevano trovato era venire a trovarmi a turni, in modo da non incontrarsi. Jasper ed Emmett erano ancora in giro per il mondo a fare ricerche e Edward mi aveva detto che non sarebbero tornati prima di una settimana almeno, così loro continuavano a dedicarmi tutte le loro attenzioni. Era una situazione davvero ridicola e che mi agitava molto, ma non volevo dirlo a Edward perché sapevo che le avrebbe cacciate e io volevo capire cosa diamine stesse succedendo. Anche se si ostinavano a non dirmelo.

«Va bene così?» mi chiese Rose, massaggiandomi la base della schiena, seduta alle mie spalle sul letto.

«Grazie, sì. Non c’è bisogno che tu lo faccia» biascicai, mentre mugolavo di piacere. Avevo davvero la schiena a pezzi per essere stata così tanto tempo a letto.

Ridacchiò. «È strano, non ricordo da avere un mal di schiena da circa un centinaio di anni. Dev’essere davvero fastidioso per voi umani».

«Eh già, poveri umani» borbottai sarcastica, gli occhi al cielo, facendola ridere ancora.

«Senti» iniziò dopo un po’, cauta, come se si sentisse in colpa, «non hai più avuto dolore alla pancia, vero?».

Mi voltai a guardarla da sopra la spalla. «No, Rose, va tutto bene. Carlisle ha detto che sarebbe successo comunque, probabilmente».

«Probabilmente» fece schioccare la lingua.

«Rosalie» la chiamai ancora preoccupata, prendendo le sue mani fredde fra le mie e fermandola. «Non è stata colpa vostra».

Mi guardò come se fosse sull’orlo delle lacrime. «Non mi sarei mai perdonata se aveste perso vostro figlio per colpa mia».

«Oh Rose» sospirai, voltandomi per abbracciarla. «Non ti ho mai ringraziato abbastanza per quello che hai fatto per me. Mi hai salvato la vita. Grazie» dissi, facendola trasalire.

Sollevò il suo sguardo triste su di me. «Figurati» fece «dopotutto… siamo sorelle, vero?» domandò insicura.

Ansimai, sconvolta. Perché me lo chiedeva? «Certo che siamo sorelle!» esclamai. «Cosa vuol dire? Ha qualcosa a che fare con i tuoi litigi con Alice?».

Si bloccò, retraendosi. In un attimo era in piedi. «No, affatto» guardò l’orologio. «Va tutto bene con Alice. Anzi, fra poco è il suo turno, dovrei iniziare ad andare».

«Tutto bene?» domandai sarcastica «ma se fate a turni per venirmi a trovare».

Si avvicinò in un lampo. «Calma Bella, respira. Facciamo a turni perché tu devi stare tranquilla e non è bene che ci sia troppa gente intorno ad infastidirti. Tutto qui» mentì, accompagnando quella menzogna con un bel sorriso a trentadue letali denti.

«Rosalie» fece Alice sorpresa entrando nella stanza.

«Cosa ci fai qui? È ancora presto» ribatté la sorella sorpresa.

«Sono stata io ad anticipare il suo turno» dissi. Se non avessero voluto dirmi la verità l’avrei scoperta, in un modo o nell’altro. «A me fa piacere che ci siate entrambe, non mi infastidite affatto» scandì lentamente.

Rosalie si allontanò a prendere la sua borsa, evitando lo sguardo della sorella. «Io avrei un impegno però, magari facciamo domani».

«Rose» la chiamai, facendo per alzarmi dal letto. Ricaddi fra i cuscini. «Ti prego, resta. Restate, entrambe. Vorrei tanto farvi vedere i vestitini che ho trovato su internet per il bambino» mormorai imbarazzata, mordicchiandomi il labbro «non sono tanto esperta, avrei bisogno del vostro aiuto» le supplicai.

Si scambiarono un lento sguardo silenzioso.

«Vi prego» incalzai, desiderosa più che mai a mettere pace fra i loro problemi.

Annuirono contemporaneamente.

Alice si volse nella mia direzione. «Vediamo che disastro hai combinato» trillò, saltando sul letto accanto a me.

La loro tensione si sciolse man mano che il pomeriggio passava. Edward entrò un paio di volte in camera a portarmi il pranzo e la merenda, ed assicurarsi che le sue sorelle non litigassero. Gli avevo fatto promettere che mi avrebbe lasciata un po’ sola con loro, per cercare di capire cosa avessero. Di sicuro non me ne importava niente dei vestitini per il bambino, almeno non in quel momento.

«Bella non puoi fargli tutto il corredino giallo o verde, dovremmo aspettare di sapere se è un maschietto o una femminuccia» fece Rosalie con un sorriso, elegantemente seduta alla mia destra sul letto. Mi carezzò delicatamente la pancia «Chissà a chi somiglia questo piccolino».

«Alice» feci, volgendomi a guardare la sorella. «Tu lo devi sapere. Non riesci a vederlo?».

S’irrigidì sul letto. «Umh, io…» i suoi occhi si fecero vacui «credo che starà bene, penso».

«Pensi?» la incalzai.

Scosse il capo, ritornando con gli occhi alla realtà. Esitò. «Bella, mi dispiace».

Sospirai, torcendomi le mani in grembo. «Dici sempre che ci sono delle decisioni da prendere riguardo questa gravidanza ed il bambino, per poter vedere più chiaramente, ma cosa vuol dire?» domandai incerta «Io ed Edward abbiamo deciso di portare avanti la gravidanza qualunque cosa accada, quindi non dipende da noi. Allora? È ancora troppo a rischio?».

Sentii il materasso alzarsi sul lato di Rosalie. Si alzò dal letto e posò le sue eleganti mani sulle mie spalle. «È così purtroppo, per questo non ti devi agitare. Non fa bene né a te né al bambino».

Alice si materializzò al suo fianco, guardandomi con i suoi occhi dorati molto seri. «In realtà non è così».

«Alice» sibilò Rosalie, chiudendo lentamente le palpebre.

«Cosa intendi?» domandai preoccupata, intuendo per la prima volta che c’era qualcosa che mi stavano nascondendo che riguardava me, non solo loro.

«Non riesco a vedere il futuro del bambino perché è un buco nero» sputò d’un fiato prima che la sorella la potesse zittire.

«Cosa?» esclamai, mettendomi seduta sul letto.

«Alice!» ruggì Rosalie arrabbiata.

Presi un fiato, aggrappandomi alle lenzuola. «Mi stai dicendo che mio figlio è un buco nero nelle tue visioni?» domandai con il fiato corto «proprio come lo era Jacob?» esclamai, la voce solo un sibilo stridulo nelle ultime parole.

«Non glielo dovevi dire!» gridò Rosalie.

Alice strinse entrambi i pugni lungo i fianchi. «Era un suo diritto saperlo!».

«Tu pensi solo a te stessa e quello che credi sia giusto. Edward si arrabbierà tantissimo e non ci permetterà più di venire da lei!» esclamò, indicandomi e facendomi trasalire.

Edward sapeva. Certo, pensai, portandomi una mano alla gola, lui leggeva tutto.

«Non mi importa cosa dice Edward!» sibilò Alice «Per me la cosa più importante è che lei sappia. Che sappia che sono disposta a perderla pur di dirle la verità».

La porta della stanza si aprì di scatto, lasciando passare mio marito.

Mi portai le mani alle labbra, sentendo le guance bagnate. Scossi il capo.

«Basta. Andate via» sibilò, furente e angosciato, fissando il mio viso.

Quella volta non lo ascoltarono.

«Non è vero» gridò Rosalie, avvicinandosi sempre di più alla sorella «credi sempre di fare la cosa giusta con lei, ma non è così! Non sempre sputarle in faccia la verità è la cosa che la fa stare meglio! Non è più quella che conoscevi» gridò, facendola sussultare.

«Ha il diritto di sapere!» urlò ancora Alice, puntandole un dito al petto «quanto pensi che avrei ancora potuto tenerglielo nascosto?!».

«Ragazze» ringhiò Edward, mettendosi fra le sorelle.

«Le tue visioni fanno schifo! Ci hai detto di andare a caccia che sarebbe andato tutti bene e l’abbiamo trovata svenuta a terra fra i sonniferi. Hai detto che poteva smettere con gli anti-depressivi e le hai quasi fatto venire una crisi d’astinenza…».

Alice si dibatté per superare Edward. «Non è colpa mia».

«E cosa più importante non sei riuscita a vedere quando il mostro è venuto per rapirla e stuprarla, quindi non gliene frega un dannatissimo niente degli stupidi buchi neri nelle tue visioni!» sbottò, tentando a sua volta di divincolarsi dalla presa di mio marito.

Ansimai.

«Basta, smettetela» le riprese ancora Edward, trattenendole.

Alice prese un profondissimo respiro, come se stesse singhiozzando. «Sei una stronza! Come puoi dire una cosa del genere? Ti sei ricordata di lei solo adesso, dopo che credi di aver condiviso qualcosa di tragico con lei che vi unirà per sempre, ma non è così».

«È così invece! Perché io sono stata stuprata!» sputò Rosalie, disperata.

«Ed io sono stata drogata!» urlò Alice disperata.

«Basta». Era il mio singhiozzo sconvolto.

«Guarda cosa le hai fatto!» gridò Rosalie indicandomi.

«Sei stata tu ad iniziare!».

«Basta!» gridai a mia volta, ma mi ignorarono. Continuarono ad urlarsi contro e tentare di saltarsi addosso.

Mi sollevai in piedi e corsi fuori dalla stanza. «Bella!» mi chiamò mio marito, ma era troppo impegnato a trattenerle per potermi seguire. Afferrai il mio cappotto e lo indossai sopra il pigiama. Infilai le scarpe da tennis e mi avvolsi la sciarpa attorno al collo. Presi le chiavi della mia auto e in meno di cinque minuti ero fuori dal vialetto di casa, guidando senza una meta. Solo lontano.

Guidai per almeno mezz’ora sulle strade bagnate di Forks, forse verso Port Angeles, forse verso Seattle. Non me ne accorsi neppure. Dentro la testa sentivo un ronzio, la paura, il senso di tradimento e la rabbia.

Ad un certo punto sentii un piccolo colpetto, poi lo sportello del passeggero si aprì e un attimo dopo c’era Carlisle.

Strinsi il volante, fissando dritto davanti a me e continuando a guidare.

«Sei arrabbiata con me adesso, lo so».

Non dissi nulla, ma gli occhi cominciarono ad appannarsi di lacrime.

«So che sei ferita, ma l’abbiamo fatto per proteggerti».

Singhiozzai, e Carlisle allungò la mano sul volante.

«Lascialo a me» disse, convincendomi a lasciai scivolare il piede dall’acceleratore e a fermare l’auto.

Sprofondai con il viso sul volante, continuando a piangere. «Sono molto arrabbiata» balbettai fra le lacrime «cosa vuol dire? Che in realtà è di Jacob? Che sarà come lui? Che tornerà?» singhiozzai angosciata.

«Non lo sappiamo» mi consolò, carezzandomi la schiena. «Per questo non volevamo dirtelo. Non può essere di Jacob, però. Ho fatto dei controlli, ho chiesto ad Emily e Sam e ho confrontato le loro ecografie, e il bambino non aveva queste caratteristiche. Questo ti fa sentire un po’ meglio?» domandò speranzoso.

«No» sbottai, sollevando il viso pieno di lacrime «Perché mi avete mentito!».

Sospirò. «Lo so, scusaci. Mi dispiace molto. Shh» fece, abbracciandomi, «abbiamo sbagliato».

Scossi il capo. «Alice e Rosalie, loro… pensano che mi debbano contendere. Pensano che sia una gara per chi ha in comune con me le cose più terribili» singhiozzai.

Mi carezzò i capelli. «Non è così, Bella» mi disse serio, guardandomi negli occhi «loro sono solo gelose».

Mi bloccai, stupita. Tirai su con il naso e Carlisle mi offrì il suo fazzoletto di stoffa. Che vampiro d’altri tempi. «Gelose di me? Del bambino?» domandai confusa e preoccupata.

«No!» esclamò. Sorrise «sono gelose l’una dell’altra. Perché ti adorano, ti vogliono un mondo di bene e vorrebbero averti per sé senza doverti condividere con l’altra. Hanno paura che arriverai a preferirne una delle due».

Spalancai gli occhi, sconvolta. «Come possono pensarlo? E chi te lo ha detto? Edward?» domandai sorpresa. Non l’avrebbe mai fatto.

Carlisle ridacchiò. «Sono vampiro da più di trecento anni e padre da più di cento. Credi davvero che mi serva leggere il pensiero per sapere cosa passa nella testa delle mie figlie?» disse, facendomi l’occhiolino.

Mi fece sorridere debolmente. «Stanno bene adesso?».

«Non preoccuparti» disse, sfilando le chiavi dalla toppa. «Se ne sta occupando Esme. Ha un talento naturale nel rimettere in riga i suoi figli. Ora» aggiunse, osservando il cellulare che vibrava con il nome “Edward” «io guido, tu rispondi, prima che al mio figlio più ansioso venga un attacco di panico. Non so come curarlo in un vampiro» scherzò ancora.

Quando arrivammo a casa i tre vampiri erano seduti sul divano ed Esme stava camminando avanti ed indietro di fronte a loro facendogli una ramanzina.

Edward fu il primo ad alzarsi e comparirmi accanto in un batter d’occhio. «Stai bene?» domandò scrutandomi.

Annuii.

«Il bambino sta bene?» chiese ancora, indicando la mia pancia come per chiedermi il permesso.

Annuii ancora, e lui si avvicinò a sfiorarla con un sospiro, chinandosi sulle ginocchia. Gli carezzai i capelli, poi li strinsi fra le dita per convincerlo a guardarmi negli occhi. «Non mi hai ancora chiesto scusa» dissi crucciata.

«Era per il tuo bene» provò a ribattere, ma presto gli portai un dito sulle labbra, fissandolo seria. Sospirò. «Scusami per averti mentito».

Mi chinai a mia volta, lentamente, sulle ginocchia. «Scusami per non averti dato modo di fidarti di me abbastanza da dirmelo».

Mi circondò fra le braccia, stringendomi forte contro il suo petto.

Le mie sorelle entrarono in camera insieme quella sera, e mio marito s’irrigidì al mio fianco.

Alice sollevò le mani. «Edward, questa volta andrà bene. Io l’ho…».

«L’ha visto» concluse Rosalie, scrollando il capo. «Pare».

Mi voltai a guardare mio marito. «Amore, va bene così» dissi debolmente. Era stata una giornata molto lunga ed ero terribilmente stanca. Gli strinsi le mani fra le mie. «Lasciaci un attimo sole».

Mi carezzò il viso. «Sei molto stanca, non devi farlo per forza stasera».

Gli baciai la punta del naso. «Non riuscirò a dormire altrimenti».

Annuì, lasciandoci sole, non prima di aver scoccato un’occhiata di avvertimento alle sorelle.

«Venite qui» feci, battendo con le mani su entrambi i lati del letto. In un secondo erano accanto a me, sedute ai miei fianchi. Le abbracciai. Con Alice fu più facile, era minuta e si accoccolò subito al mio fianco. Rosalie, invece, aveva il corpo teso e si manteneva un po’ distante.

«Hai sempre avuto un rapporto speciale con lei» sussurrò dopo un po’, gli occhi bassi fissi sul copriletto. «Pensavo di aver guadagnato quel posto nel tuo cuore, dopo quello che abbiamo condiviso. Ho avuto paura che adesso che non avevi più bisogno di me saresti tornata da Alice e non mi avresti più voluto bene. Non come prima» mormorò pianissimo.

«Oh, Rose» la chiamai. Non potevo immaginare l’immensità della sua tristezza. «Non ti voglio bene per ciò che hai fatto per me. Non solo, almeno, capisci? Ti voglio bene e basta, e il posto che hai nel mio cuore non lo potrà mai prendere Alice» dissi, facendo trasalire quest’ultima. Mi voltai a guardare anche lei. «Non potrà, perché tu hai un tuo personale posto, tutto solo per te. Vi voglio bene. E voglio bene a entrambe, e mai l’amore per una escluderà quello per l’altra, okay?».

Alice annuì.

Mi voltai a fissare Rose, che guardava la sorella. «Scusa» sputò, abbandonando per un attimo il suo orgoglio. «Non volevo dire quelle cose cattive su di te e sulle tue visioni».

Alice sorrise, soddisfatta. «Lo sapevo, l’avevo già visto. Scusa anche tu comunque».

«Tu» esclamò scandalizzata «avevi già visto tutto».

Ridacchiò. «Proprio così! E comunque, Bella, smettila di crucciarti per questa storia del buco nero, perché mentre mia sorella mi impediva di stare con te perché era il suo turno, sono diventata bravissima a vedere intorno al bambino. Nascerà e starà bene. E non sembrerà un pipistrello».

«L’hai visto?» domandai sconvolta.

«Beh, no. Ma ho visto che gli compravo delle adorabili tutine che gli andavano a pennello!».

«Alice!» esclamammo insieme io e Rose, per poi scoppiare a ridere tutte e tre insieme.

 

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Capitolo 39
*** Toccami ***


«Tesoro, c’è la colazione» mi disse dolcemente Edward, svegliandomi. Mi stropicciai gli occhi, sbadigliando.

Poi sentii l’odore della mia colazione e storsi il naso.

In un attimo sentii, attraverso i miei sensi alquanto annebbiati, la porta sbattere e Edward ritornare al suo posto, senza più il vassoio della colazione in mano, prima di richiudere gli occhi.

Stavo quasi per riaddormentarmi, quando lo sentii chiedermi «Come stai?».

«Nausea… Sonno…» biascicai, sbadigliando ancora e richiudendo gli occhi, voltandomi a pancia in giù. Ahia. No, quella non era affatto una buona idea.

«Hai ancora sonno?» mi chiese amorevolmente «Hai dormito per ben 14 ore, credo che dovresti mangiare qualcosa».

Decisi di aprire gli occhi, incontrando così il meraviglioso e dolce sorriso di mio marito. Niente più Alice o Rose. Dopo che avevamo parlato avevano capito che non dovevano fare a gara per ottenere il mio affetto. E poi, i loro mariti erano tornati, e chi può resistere al richiamo del proprio marito vampiro? Sorrisi. Non io. E ora mi sentivo felice e tranquilla, nonostante… l’onnipresente nausea.

Sospirai e mi stiracchiai ancora. Sentii la schiena e le braccia indolenzite. Gemetti debolmente, piegando il collo. «Com’è possibile che mi senta così a pezzi pur passando tutta la mia giornata a letto o sul divano?» biascicai assonnata.

Edward ridacchiò, aiutandomi a mettermi seduta sul letto. «Ti devo ricordare in che condizioni ti sei ridotta negli ultimi due ricoveri in ospedale?» chiese, sedendosi dietro di me sul letto, facendo poggiare la mia schiena al suo petto e appoggiandosi alla testiera.

Borbottai qualcosa. «Sì, ma questo letto è decisamente più comodo».

Lui rise ancora, passandomi due cuscini che mi cacciai in grembo, prima di posarci sopra il mento. «Infatti quando eri in ospedale cominciavi a lamentarti dopo tre giorni, ora sono passate più di due settimane» disse cominciando a massaggiarmi la schiena con le sue mani meravigliose.

«Mmm» mugolai in approvazione «è passato già così tanto tempo?».

«Sì» mi rispose con un sorriso sulle labbra «sei alla nona settimana di gravidanza ormai. Tranquilla, presto le nausee scompariranno e se tutto andrà bene non dovrai più stare a riposo».

«Ehi» borbottai, voltandomi appena a fissarlo «come fai a sapere tutte queste cose sulla gravidanza?».

Ridacchiò, continuando a massaggiare con delicatezza. Era sereno, e anche se non gli ero mai di buona compagnia, passando la maggior parte del mio tempo a dormire e vomitare. Lui rimaneva sempre tranquillo, senza annoiarsi. «Ti ricordo che ho frequentato medicina. Due volte».

In un attimo mi venne in mente una cosa e feci una smorfia.

«Che c’è?» mi domandò curioso.

«Niente, niente» borbottai imbarazzata.

«Uh? Come niente? Sputa il rospo».

«Non è niente» protestai, arrossendo.

Sospirò, smettendo di massaggiarmi e lasciandomi un bacio sul collo. «Odio non poterti leggere i pensieri».

Rabbrividii, scrollandomelo di dosso. «Okay. Va bene. Hai mai assistito a un parto?».

«Sì» fece, sorpreso «più di uno in realtà» disse, facendo spallucce.

Mi nascosi il viso in fiamme fra le mani.

«Cosa?» domandò sorpreso.

Scossi il capo, super imbarazzata. «Non posso credere che tu abbia visto altre donne nude. Pensavo di essere l’unica».

Soppresse una risata in un colpo di tosse. «Ti giuro che era solo un puro interesse scientifico» ridacchiò.

«Oddio, ti prego, non prendermi il giro» feci, imbarazzandomi ancor di più.

Mi prese fra le braccia, impedendomi di sfuggirgli. «Ti adoro quando sei gelosa. E quando ti imbarazzi e quel tuo battito umido del cuore aumenta sempre più, ti fa diventare gli occhi più grandi, lucidi, e tutto il tuo bel sangue succulento ti colora il viso pallido» soffiò sulla mia pelle, baciandomi la guancia dov’era più rossa.

Il mio cuore batteva ancora veloce, ma non era imbarazzo. Deglutii. «Dovrei avere paura».

Fece un bel sorriso sghembo. «Dovevi averne prima di dirmi “” all’altare» ridacchiò, stemperando la tensione. Mi abbracciò.

«Edward» mormorai contro la sua maglietta «fa davvero così male come dicono, partorire?» domandai, facendolo scoppiare a ridere ancora.

Mi fece voltare e mise una mano sul mio ventre, e accarezzandolo con dolcezza. «Non sappiamo ancora tante cose. È un po’ presto per pensare a come sarà il parto».

«Sarà» borbottai, pensando al futuro pieno d’incognite. «Io ci penso».

«Sai» mormorò, iniziando a disegnare dei cerchi immaginari sulla mia pancia «questo piccolino mi fa ancora un po’ paura» confessò.

Riaprii gli occhi, chiusi per deliziarmi meglio delle sue carezze, «Hai paura delle visioni di Alice?».

Scrollò le spalle. «Non di quelle in particolare. È solo che sarebbe più facile se riuscisse a vedere che tutto andrà bene per entrambi» confessò, rivelando per un attimo il suo turbamento.

Gli carezzai i capelli. «Jasper ed Emmett hanno trovato tutte quelle leggende, e sembra davvero che ci sia una possibilità che tutto vada bene».

Fece una smorfia. «Vorrei avere qualcosa in più di una leggenda, Bella. Tu non capisci cosa provo» mi disse, guardandomi negli occhi. E vidi tutta la sua paura e la sua ansia.

Solo allora compresi. Sì, ci avevo pensato anch’io. Ma mentre per me sacrificarmi sarebbe stato scontato…

«Non posso scegliere fra lui e te» disse con immenso dolore, chiudendo le palpebre.

Mi sollevai dal suo corpo, girandomi e prendendo il suo viso fra le mani. «Non dovrai farlo, non ce ne sarà bisogno, vedrai. Andrà tutto per il meglio» dissi convinta «me lo sento, e so che anche per te è così, tutto andrà bene e voglio che ci creda anche tu, e che se non ci credessi vorrei che tu venissi a dirmelo, finché non ti convincerò, intesi?».

Lui aprì gli occhi, facendomi il suo sorriso sghembo. «La mia determinata moglie umana. Ti amo».

In risposta mi avvicinai alle sue labbra, baciandole con amore e dolcezza.

Mi portò in cucina, perché sapeva che non mi piaceva mangiare in camera, e amava anche distrarmi, farmi sentire tranquilla e a mio agio. Mangiai sul divano bianco ad angolo. Il mio medico di fiducia, nonché suocero, mi aveva detto che non dovevo davvero stare immobile e letto, che potevo alzarmi per piccoli spostamenti e stare seduta per mangiare. Ma ero così stanca che niente e nessuno mi avrebbe staccato da quel comodissimo divano.

Mangiavo dei crackers alle olive con su un formaggio spalmabile. Carlisle mi aveva consigliato - contro la nausea - di mangiare dei cibi secchi e salati.

«Come va la nausea?» mi chiese Edward spalmando dell’altro formaggio su un cracker.

«È sempre lì che dice “Bella, corri in bagno!”» dissi sarcastica, addentando il biscotto che mi aveva appena passato e annuendo al suo gesto che mi chiedeva se condirne un altro «mi chiedo quando passerà».

«Questo non si può sapere neppure in una gravidanza normale. Di solito passa dopo i primi tre mesi, quindi in teoria fra poco» disse passandomi l’ultimo cracker. «Ne vuoi ancora?».

«No, non sono sicura di riuscire a finire neppure questo» dissi, reprimendo un conato.

«Beh, non hai mangiato molto, era appena un pacchetto, ma non forzarti, non vorrei che fra un po’ mangiare si fosse rivelato inutile».

«Finisco solo questo» dissi, prendendo un altro morso «forse dovemmo… dovresti» mi corressi «andare a fare un po’ di spesa».

Lui ridacchiò. «Ci hanno pensato Alice e Rosalie».

Sorrisi. «Le hai perdonate?».

Mi fissò con aria sarcastica. «Per cosa? Per aver quasi fatto venire un infarto a mia moglie incinta con una minaccia d’aborto mentre non potevo neppure correrle dietro per impedirle di schiantarsi in auto perché troppo impegnato ad impedire che si ammazzassero?».

«Già, per questo».

«Ci sto lavorando».

«Edward» lo richiamai.

«Senti» si sollevò, raccattando il piatto pieno di briciole e il mio bicchiere «le ho perdonate, ma non posso dirglielo per ora, perché altrimenti starebbero di nuovo qui fra i piedi tutto il giorno, e io voglio stare da solo con mia moglie».

Sorrisi. «Sei il peggiore».

Si avvicinò a lasciarmi un piccolo bacio sulle labbra, prima di smaterializzarsi per sistemare la stanza. «Lo so».

Rimanemmo nel soggiorno per l’intera mattinata, e fortunatamente riuscii a non vomitare. Il pranzo lo mandai giù con maggior piacere, dato che, acquietata la nausea, era spuntato un buon appetito.

«Sai a cos’altro stavo pensando?» domandai casualmente.

«A cosa?» mi domandò, comparendo al mio fianco con un sorrisetto appena trattenuto. Sapeva che non era affatto una domanda casuale.

«Alla mia trasformazione».

«Beh, Alice aveva ragione sulla storia degli antidepressivi, ormai fai una dose molto bassa e la prossima settimana potremmo sospenderli. Possiamo trasformarti» mi prese in giro.

Gli diedi un colpetto sulla spalla. «Non prendermi in giro».

«Scusami» disse, prendendomi una mano fra le sue portandosela alle labbra. «Hai ragione, non è stato molto carino. Cosa volevi chiedermi in particolare?».

«Nove mesi sono tanti» mormorai, carezzandomi la pancia «e se il bambino desse troppi problemi… beh, potreste sempre trasformarmi. Avete ancora l’idea di farlo iniettando direttamente il veleno nel mio cuore?» domandai cautamente, e sentii la nausea ritornare.

Edward annuì, mortalmente serio. «Ne tengo sempre una siringa pronta per ogni evenienza».

Scossi il capo, con un sorriso teso. «Tu e Carlisle pensate sempre a tutto, eh? Beh, dovevo aspettarmi una misura del genere dopo la notizia della gravidanza».

«Non è stata un’idea di Carlisle» confessò «è stata una mia idea, e l’ho fatto mentre Jacob ti ha sequestrata. Non sapevo in che condizioni ti avrei trovata».

Presi un respiro. «Allora non hai mai cambiato idea».

«No» ribattè «ti ho dato la mia parola».

Annuii. «Allora c’è qualcos’altro che vorrei chiederti. Vorrei sfruttare questo prolungamento del mio periodo da umana per ricominciare a frequentare l’università».

Lui mi sorrise. «Ci tieni molto? Pensi di essere pronta a stare di nuovo in mezzo alla gente?».

«Sì. Credo di averne bisogno».

Scrollò le spalle. «Allora troveremo il modo, dopo che sarà passato questo periodo di riposo, ovviamente».

«Davvero?» chiesi sorpresa. Non mi sarei mai aspettata una reazione così mite.

«Certo» disse con dolcezza «non vedo come potrebbe andare peggio del mare di dubbi in cui ci troviamo. Navigheremo a vista e risolveremo i problemi che ci si presenteranno giorno dopo giorno».

«Grazie!» esclamai, gettandogli le braccia al collo. «Ohi» esclamai, staccandomi da lui dopo un attimo.

Staccò le mie braccia da lui e mi accarezzò la pancia. «Attenta».

Ma non era la pancia che mi doleva. Sorrisi timidamente, mettendo una mia mano sulla sua, e rabbrividendo. Era freddo… come la membrana che avvolgeva il bambino. Pensai al futuro. A quando lo avrei tenuto fra le braccia accanto a Edward. Sbadigliai inaspettatamente.

«Ti sei stancata?» chiese Edward, accarezzandomi i capelli.

«Sì» sussurrai, con le palpebre-semi chiuse. «Non so perché mi sento sempre così spossata».

Edward mi sistemò addosso il plaid che stava lì accanto, infagottandomici dentro. «Ti va di andare a riposare per un paio d’ore?».

Annuii, facendo per sollevarmi.

«Sta’ giù, ti porto io». Mi prese fra le braccia, facendo scontrare ancora il mio seno contro il suo petto. Gemetti dolorante. «Tutto bene?» mi chiese preoccupato. Annuii ancora, arrossendo. Decise di non indagare ulteriormente, e mi portò in camera, facendomi addormentare.

«Amore?».

«Mmm».

«Amore…».

«Mmm…».

«Sono passate quattro ore, se non ti svegli ora stanotte non dormirai» mi disse con dolcezza.

«Invece sì» borbottai «Te l’ho già detto che sono distrutta e stanchissima e spossata?!».

Lui ridacchiò. «Può darsi, ma c’è tuo padre qui che ti vuole vedere. Che ne dici?».

Spalancai gli occhi, sorpresa, scontrandomi con i suoi.

Incontrai il suo dolce viso apprensivo. «Solo se te la senti, non voglio che tu ti agititi per nulla. Lo faccio entrare?».

«È nel soggiorno?» chiesi in un sussurro.

Mi sorrise. «Sì, è di lì che aspetta. Lo posso far venire? Gli manchi molto».

«No» mormorai «vado io. Non voglio che creda che sia malata».

«Sicura?» fece Edward, inarcando un sopracciglio.

Annuii convinta. «Carlisle ha detto che posso alzarmi per un po’, no?».

Lui mi accarezzò una guancia, lievemente arrossata per lo sfregamento con il cuscino. «Lo sai che dopo che ti sei svegliata sei molto debole».

«Starò bene, mi siederò subito sul divano» sussurrai sicura.

Lui mi sorrise, passandomi la lunga e calda giacca da camera, coordinata al pigiama bianco e rosa che indossavo. Tenendomi un braccio intorno alla vita mi condusse fino al luminoso soggiorno.

Mio padre era in piedi, voltato di spalle. Si dondolava sui talloni, a disagio.

«Papà» sussurrai commossa, facendolo voltare verso di me.

«Bells!» esclamò, aprendo le braccia per accogliermi dopo la mia breve corsa. Era incredibile. Mi era mancato davvero tanto in quei giorni, tuttavia la costante presenza di tutti i membri della famiglia Cullen aveva mitigato un po’ la mia nostalgia. Ma per lui, solo, non doveva affatto essere stato così semplice.

Mio padre mi staccò da sé, solo per guardarmi. «Come stai Bells?» mi chiese, tentando di arginare la commozione.

Edward, che aveva lasciato una certa distanza fra noi, in modo da concedermi un momento con mio padre, mi venne accanto, sorreggendomi ancora.

«Sto bene papà» risposi con un sorriso sincero, stringendomi al petto di Edward. «Tu… tu come stai?».

«Oh, non preoccuparti per il tuo vecchio, io me la cavo!» rispose imbarazzato, scrutandomi con un’aria strana. Come se ancora non si fosse convinto della mia felicità.

«Sei riuscito a cucinare da solo?».

«Certo! Ti ricordo che mi sono auto-cucinato per ben 17 anni!».

«E ancora mi chiedo come tu abbia fatto!» dissi scoppiando a ridere insieme a Edward e Charlie.

Restammo a scherzare e parlare delle cose più futili, finché Edward non parlò. «Amore, forse sarebbe meglio se tu ti stendessi un po’» mi sussurrò dolcemente ad un orecchio.

Arrossii, annuendo, notando che anche mio padre aveva sentito le sue parole e si era irrigidito.

«Tutto bene?» mi chiese preoccupato.

«Sì papà» mormorai debolmente, facendomi guidare verso il divano da Edward, «vieni, accomodati» dissi, indicandogli la poltrona e stendendomi su divano. Edward reclinò lo schienale e mi sistemò il plaid addosso, mettendo un cuscino dietro la schiena e sedendosi accanto a me.

Arrossi quando notai che Charlie stavo osservando con attenzione ogni nostro movimento. Mi sentivo in imbarazzo, ma per me e Edward quei gesti erano diventati così abituali che quasi non ci facevano più caso.

«Bella, dimmi la verità, stai male?» mi chiese preoccupato.

Sorrisi debolmente e mi voltai verso Edward, in una muta richiesta di permesso. Non sapevamo ancora cosa avrebbe avuto di straordinario quella gravidanza, ma sapevamo che se qualcosa fosse andato storto mi avrebbero dovuto trasformare. Fino a quel momento… avevamo deciso di dire a mio padre che ero semplicemente incinta. Beh, non incinta di un vampiro. Edward annuì, così mi voltai verso mio padre e presi un grosso respiro. «Papà, non sto male. Ma… ci sono delle nuove notizie» feci, sorridendo a Edward, incerta, e intrecciando le mie mani nelle sue. Lui mi sorrise di rimando.

Voltando lo sguardo verso mio padre lo notai pensieroso e preoccupato. «Sono brutte?».

«No» mi bloccai «beh, ce n’è una bellissima e una un po’ meno, ma nulla di cui doversi seriamente preoccupare».

Mio padre mi fissava, in attesa della rivelazione.

Presi un respiro. Magari in altri tempi sarei stata preoccupata, ansiosa, per dover rivelare una cosa del genere a mio padre. Ma noi eravamo sposati, non avevamo fatto nulla di male, e inoltre l’esperienza vissuta mi aveva insegnato a vedere il mondo in una nuova ottica. Quindi in quel momento ero euforica. «Papà, io e Edward aspettiamo un bambino» spiegai contenta.

Vidi la bocca di mio padre aprirsi, e gli occhi brillare. «Oh Bella!» disse poi, abbracciandomi di slancio. Era strano che si lasciasse andare così. «Lo sapevo che c’era qualcosa di nuovo, lo sapevo» disse contento, staccandosi «sei così felice, radiosa, non speravo di poterti vedere così contenta ancora, dopo quello che… beh sai…» fece imbarazzato, alludendo al rapimento e al mio periodo di depressione «invece! Diventerò nonno! Congratulazioni ragazzo!» esclamò dando una pacca sulla spalla a Edward.

Ero contentissima per quella sua reazione, mi aspettavo il peggio, ma in cuor mio sapevo che tutto sarebbe andato per il meglio.

«Grazie Charlie» rispose Edward, sorridendogli.

Improvvisamente mio padre si fece serio. «Ma Bells, hai detto anche che c’è una brutta notizia?».

Sospirai. «Non ti preoccupare papà, siediti» dissi indicandogli la poltrona dove era precedentemente seduto.

«È qualcosa che riguarda la gravidanza?» chiese allarmato, sedendosi.

Feci un sorriso tirato. Non sapevo come spiegargli. Rivolsi uno sguardo implorante a Edward.

Lui mi sorrise, rassicurante, poi si voltò verso mio padre. «Vedi Charlie, ci sono stati alcuni problemi all’inizio della gravidanza, e abbiamo rischiato di perdere il bambino» spiegò con serietà, calma e fermezza. «Ma ora sta tutto andando per il meglio, supereremo questo problema, e non ci sarà alcun rischio per il piccolo. L’importante è che Bella non si agiti e che stia a riposo, e non correrà alcun pericolo, né lei, né il bambino» concluse con dolcezza, accarezzandomi il ventre.

«Ma adesso sta bene? E tu?» chiese allarmato.

Sorrisi. «Sì. Sì papà, sta bene» mormorai emozionata.

Vidi il suo sguardo saettare dalla mano di Edward, sul mio ventre, alla mia faccia. «P-posso?» balbettò, indicando la pancia.

Guardai Edward, che annuii. Probabilmente con il pigiama, la vestaglia, e il plaid, il freddo della placenta non sarebbe stato percepibile. Così mi voltai verso mio padre e diedi il mio assenso.

Timoroso avvicinò, tremante, la sua mano e con delicatezza la posò sul ventre, per poi sorridere, estatico. «È bellissimo» disse infine. «Congratulazioni».

Andò via poco dopo, con lo stesso sorriso stampato in faccia. Ero davvero contenta della sua felicità.

«Ciao Bells, mi raccomando, dillo a mamma» disse abbracciandomi stretta.

Feci una smorfia di dolore, senza farmi vedere da lui. Mi faceva male il seno. Mi staccai, sorridendo forzatamente. «Certo, glielo dirò quanto prima» lo salutai, prima che Edward lo accompagnasse alla porta d’ingresso.

Mi sarei sicuramente addormentata se non fosse tornato in meno di cinque minuti. «Bella, dovresti mangiare».

«Sì» farfugliai sbadigliando.

Dopo cena Edward mi riportò in camera. Non riuscivo neppure a stare in piedi per quanto mi sentivo stanca. Ero letteralmente esausta, per i miei canoni letargici quella era stata una giornata molto stancante.

Ad un tratto Edward s’irrigidì. «Il telefono» spiegò ad un mio sguardo incuriosito. «Torno subito», disse, scomparendo nel soggiorno. Aveva spostato il telefono perché non mi disturbasse.

Mi accoccolai in posizione fetale. Mi sentivo molto stanca, ma non era abbastanza per dormire. Da quando avevo avuto la notizia del bambino, nonostante avessi ridotto gli antidepressivi, non avevo più molto spesso incubi, ma, nonostante mi sentissi molto stanca, e nonostante una volta assopita sognavo per lunghe ore, addormentarmi rimaneva un problema, e dato che i sonniferi erano out… Ci pensava Edward.

Mi girai dall’altro lato, mugugnando. Non riuscivo a stare in nessuna posizione per quanto mi doleva il seno. Mi imbarazzava tantissimo, per questo non l’avevo ancora detto a lui.

Intravidi la mia immagine nello specchio. Notai con fastidio che i miei capelli erano pieni di nodi, così erano stati legati in due trecce basse da Rosalie. Avevo bisogno di uno shampoo. Un bagno.

Edward tornò in camera. «Erano Alice e Rose» m’informò «allora, dormiamo?».

Feci un piccolo sorriso. «Vorrei lavarmi» mormorai imbarazzata.

Sollevò le sopracciglia. «Pensi che sia una buona idea? Non ti reggi in piedi. Non sono sicuro che tu ce la faccia».

Abbassai il viso, arrossendo. «Speravo di poter avere un po’ d’aiuto» borbottai imbarazzata.

Lui mi sorrise. «Va bene. Alice e Rose volevano venire, ma pensavo tu volessi dormire. Non c’è problema, le richiamo, saranno qui in men che non si dica» disse voltandosi.

«Edward!» esclamai, prima che sparisse.

Lui si voltò verso di me. «Sì?».

Abbassai lo sguardo, arrossendo ancora e mordicchiandomi il labbro. «Ecco… io… vorrei… sempre che tu voglia… ecco… sì…».

Sentii una mano ghiacciata lenire il calore che m’imporporava una guancia e sussultai, sollevando lo sguardo su Edward. «Amore. Prendi un respiro» mi ordinò con un sorriso.

Sospirai. «Se-se vuoi… puoi farlo tu. Il bagno. Aiutarmi a farlo. Solo se vuoi» cincischiai.

Lui mi sorrise. «Davvero?».

Annuii. «Vuoi?».

«Solo quello che vuoi tu» mi disse dolcemente.

Annuii ancora, consentendogli di aiutarmi ad alzarmi dal letto. «Grazie». Nonostante fosse rimasto con me durante la visita, e nonostante ci fossero state altre brevi occasioni, Edward non mi aveva mai forzata, e aveva continuato a riservarmi una certa privacy.

Riempì la vasca di acqua calda e schiumosa, poi uscì dalla stanza e mi lasciò spogliare e immergermi in quel tepore. Rientrò dopo un po’, si sollevò le maniche della camicia fino ai gomiti, poi prese una spugnetta e cominciò, con gesti lenti e delicati, a passarla sul mio corpo. Non c’era alcuna malizia, era come un restauratore che riporta alla luce una statua antica, con perizia ed estrema leggerezza. Ogni tanto mi lasciava un bacio. In fronte, sul naso, e le sue mani erano un toccasana per il mio corpo, come quando mi massaggiava la schiena.

«Vuoi uscire?» mi chiese dopo un po’ sorridendomi.

Annuii.

Prese un asciugamano bianco e morbido e me lo porse, senza guardarmi. Mi alzai in piedi e mi lasciai avvolgere. Mentre mi asciugava i capelli notai una cosa. Faceva di tutto per non guardarmi, era sempre contenuto nei gesti, stava attento a non toccarmi in maniera impropria. Non mi ero mai fermata a pensare quali conseguenze potesse aver avuto il mio rapimento su di lui. Ripensai a quello che era successo in camera sua, le mie urla, la paura per i suoi gesti e per le sue mani. Per un attimo mi sentii rifiutata, poi di diedi della sciocca. No, era solo terrorizzato all’idea di farmi del male, fisicamente o psicologicamente.

Si sedette sul bordo del letto, con me, ancora avvolta nell’asciugamano, fra le braccia.

Mi accarezzò i capelli, ancora leggermente umidi. «Vado a prendere dei vestiti puliti».

Misi una mano sulla sua guancia, bloccando i suoi gesti. «Aspetta, Edward» mormorai piano.

Mi fissò incuriosito.

«Edward» deglutii «guardami… p-perché non mi guardi?».

Si accigliò. «Ti sto guardando».

«No» sussurrai, scoprendo il mio corpo dall’asciugamano e rimanendo nuda fra le sue braccia. «Guardami, ora».

Lui emise un fremito, poi sollevò lo sguardo verso il vuoto.

Automaticamente strinsi i pugni contro la stoffa della sua camicia. Ed ecco il senso di rifiuto tornare prepotentemente. «Non mi vuoi più?» chiesi, deglutendo per scacciare via il magone che dolorosamente mi chiudeva la gola.

Si voltò di scatto. «No, Bella, no, come puoi dire questo?!» ansimò, per poi voltarsi a fissare nuovamente il vuoto. «Io… non posso» disse, afflitto.

«Perché non puoi?» chiesi addolorata.

«Io» chiuse gli occhi, stringendo i pugni «ti voglio» disse infine, con le palpebre ancora serrate «troppo».

Una lacrima scese dai miei occhi, mentre mi stringevo con forza al suo petto. «Ti prego Edward, dimmelo. Dimmi che sono solo tua, dimmi che mi vuoi, dimmi che sono sempre stata solo tua, sempre. Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo, e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward… sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Lui aprì gli occhi, ma non rispose, pur guardandomi con amore.

Tremate mi asciugai gli occhi, poi presi una sua mano e la posai sopra il mio fianco. «Ti prego… toccami. Amami…».

La sua mano, tremula, delicata, rimase per un po’ ferma a sfiorare il mio fianco.

Immobile.

Quando pensai che non si sarebbe più mossa, prese vita, e con estrema delicatezza salì sul mio volto, sfiorando le mie palpebre chiuse, il naso, le labbra; delicata come le ali si una farfalla. Poi scese sul collo, con dolcezza, accarezzando e sfiorando, le braccia, le mani, le dita, baciando i polpastrelli. Proseguì dalla caviglia, accarezzando i piedi, i polpacci, le ginocchia, disegnando fantasie strane e immaginarie, sempre con la stessa delicatezza, lo stesso amore. Salì fino alla pancia, baciandola e accarezzandola come con un velo di seta e poi… intorno i seni, tracciandone delicatamente il profilo, e giù, sulla schiena, su tutto il corpo.

Mi fissò cautamente, quasi spaventato di potermi aver fatto del male con quelle lievi carezze. «Non ho mai smesso di desiderarti, ma…».

«Lo so» mormorai piano, asciugandomi le lacrime agli angoli degli occhi «non so come faremo, ma ti prometto che impareremo di nuovo ad amarci in tutti i modi possibili. Voglio farlo».

Annuì, guardandomi con intensa serietà.

Scossi il capo, sentendo i miei occhi riempirsi nuovamente di lacrime. «Ti amo così tanto» biascicai.

«Lo so. Ti amo anch’io». Mi prese fra le braccia, stringendomi al suo petto.

Sibilai, dolorante.

Chinò il capo di lato, osservandomi. «Che c’è?».

Sbuffai, sospirando fra i denti. «Mi fa male il seno» confessai infine, rossa fino alla radice dei capelli.

Lui sorrise, sornione. «Mi chiedevo quando me l’avresti detto» ammise con divertimento.

Lo fissai, sbigottita. «Tu lo sapevi!» lo accusai.

Lui rise. «E tu non me l’hai detto!» esclamò continuando a ridere.

M’imbronciai, incrociando, in un gesto istintivo, le braccia al petto. «Ahia» mi lamentai.

Smise di ridere. «Ti fa molto male?» mi domandò, con solo una punta di divertimento nella voce.

«Sì» sussurrai, querula «è una tortura».

Lui mi sorrise dolcemente. «Non ti preoccupare, è normale. È» fece una pausa, pensieroso «la prolattina. Sai, credo che questa interesserà molto a Carlisle. Se il tuo seno si sta preparando per  produrre latte, forse, vuol dire che al bambino piacerà il latte, oppure potrebbe essere una normale risposta del tuo organismo a…» s’interruppe, smettendo di pensare a voce alta. Mi sorrise. «Aspetta qui» mi disse alzandosi e facendomi sedere sul copriletto.

Tornò in un battibaleno con il mio intimo, un pigiama pulito, e una scatolina rettangolare.

Infilai gli slip, ma quando stavo per mettere il reggiseno mi bloccò. «Aspetta» disse, facendomi stendere sul letto e sedendosi accanto a me.

Prese la scatolina rettangolare e tirò fuori un tubetto di crema. «Per le smagliature» mi spiegò con un sorriso «Alice aveva visto che ce ne sarebbe stato bisogno». Ne mise un po’ sulla pancia, massaggiando delicatamente e poi ne mise un po’ sul seno.

«Ahi» mi lamentai quando cominciò a sfregare.

«Scusa» disse lui, rendendo i suoi gesti ancor più delicati.

Ma a ma faceva male lo stesso. Feci una smorfia, mordicchiandomi il labbro. «Ahiiii» pigolai.

«Forse sarebbe meglio se tu facessi un controllo» disse Edward «magari Rosalie…».

«Beh, se sei stato il medico di tutte quelle donne nude non vedo perché non tua moglie» borbottai piena d’imbarazzo.

Tentò seriamente in ogni modo di contenere il suo divertimento. «Saranno state tre o quattro» ridacchiò. «Come desideri, mia gelosa moglie» disse allegro, scuotendo il capo. «Dimmi quando ti fa più male» fece cominciando a tastarmi con delicatezza.

Perché adoravo tanto quelle mani, che si muovevano con assoluta professionalità e senza un briciolo di malizia?! «Ahi… ahi… ahi… ahi…» dissi ad ogni suo tocco.

Rise. «Ma ho detto quando ti fa più male!».

Feci un sorriso malizioso. «Se te lo dico poi tu continui a controllare?» chiesi, arrossendo.

Lui scoppiò in una fragorosa risata, che finì in un appassionato bacio sulle mie labbra. «Quanto tempo vuoi!» esclamò infine.

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Capitolo 40
*** Nomi? ***


Edward’s POV

Edward

 

Muovendomi alla mia velocità sistemai tutti i fiori che mi aveva portato Esme nei rispettivi vasi.

Erano le sette e mezza del mattino, Bella si sarebbe svegliata fra due ore circa. E questo significava che avevo due ore per sistemare alla perfezione tutta casa. Volevo che Bella si sentisse serena e rilassata.

Rosalie ed Alice avevano lungamente insistito per occuparsene personalmente, ma, dopo il disastro che avevano combinato si erano ridimensionate. Anche se nei loro pensieri c’era sempre una traccia di gelosia stavano lavorando sulle loro insicurezze per il bene di Bella.

Inspirai, solo per riuscire a recepire meglio tutti gli odori, aprendo i lustri della finestra e lasciando che la brezza mattutina aleggiasse nel soggiorno.

Mi diressi verso la lavanderia, inserendo il carico di biancheria sporca. In queste settimane trascorse, nonostante avesse ridotto notevolmente la dose di antidepressivi, Bella era sempre stata piuttosto tranquilla. Non mi sarei mai aspettato che fosse così comprensiva, così accondiscendente, tanto da non lamentarsi mai per essere costretta a letto tutto il giorno. Non aveva avuto neppure un attacco di panico. Ma nonostante stessimo di fatto sempre insieme, i momenti davvero per noi erano molto pochi. Era sempre stanchissima.

Speravo che sia lei sia nostro figlio stessero bene.

«Edward».

Scattai in piedi. Che si fosse già svegliata?

In un attimo fui in camera. Era stesa sul letto in orizzontale, con una gamba piegata al petto e l’altra stesa sotto al cuscino, dormendo teneramente con le guance arrossate per lo sfregamento con il cuscino. Era proprio il mio amore, una continua e deliziosa tentazione.

Mi avvicinai, accarezzandola. Aveva semplicemente parlato nel sonno. Era strano che lo facesse, perché nell’ultimo periodo, fatta eccezione per alcuni incubi, aveva un sonno molto pesante e senza sogni. Probabilmente si era inconsciamente lamentata per via del freddo.

La sollevai con un braccio e la misi nella giusta posizione, accompagnando la testa sul cuscino e rimboccandole le coperte. La sua bocca piccola e rossa si apriva dolcemente e si chiudeva al ritmo del suo lento respiro, che faceva muovere su e giù il suo petto. L’amavo intensamente. Avrei voluto sentire quelle labbra morbide e piene sulle mie, fredde e dure, in ogni istante. Sarei rimasto così, incantato a contemplarla, per ore, se non fosse stato per il fatto che dovevo preparare la colazione prima che si svegliasse e telefonare ad Alice per chiederle che cosa potessi cucinarle in modo che non acuisse il suo senso di nausea.

Con un sospiro mi allontanai, e solo allora mi resi conto della sua mano stretta possessivamente alla mia camicia. Sollevai gli occhi al cielo. Tentai di schiuderle le dita senza svegliarla, ma lei si lamentò debolmente, stingendo con più vigore la presa. Non volevo svegliarla, con tutta la fatica che faceva per addormentarsi. La sera precedente avevo dovuto fare avanti e indietro per la stanza per due ore prima che prendesse sonno, poiché nonostante la spossatezza che avvertiva, non riusciva mai ad assopirsi. Aveva bisogno di me, e non volevo che sentisse il bisogno di chiedermelo, desideravo esserci e basta, anche perché il mio bisogno era pari al suo. Volevo discutere con Carlisle delle sue nuove tesi a proposito dell’eccessiva stanchezza e suo problema a prender sonno, ma non ne avrei facilmente avuto l’occasione, poiché non volevo che Bella intuisse qualcosa o che pensasse che fossi preoccupato.

Avvicinai la bocca alla sua mano e le baciai le dita, una per una, finché la presa non si allentò e potei liberarmi dalla sua stretta. Mugugnò qualcosa, poi si girò supina, stendendo le braccia scompostamente intorno alla testa e umettandosi le labbra. Una tentazione.

Tutte le sue curve vennero evidenziate. Il seno, cresciuto di una taglia, e il ventre, ancora piatto ad un occhio umano. Posai una mano, dolcemente, sul quel piccolo nido d’amore.

Sentivo un’emozione incredibile ogni volta che sfioravo quella piccola culla dov’era custodita la vita che avevo creato insieme a Bella. La vita di mio figlio.

Dovevo andare.

Lasciai un bacio veloce sul ventre e poi sulle labbra di mia moglie, che si incresparono in un debole sorriso.

Sentii i pensieri di Alice. Strano che non mi avesse prima chiamato, che fosse successo qualcosa? Tentai di sondarle la mente, ma non trovai nulla. Decisi di andare ad aprire.

«Alice» la salutai pacatamente, aprendo la porta «che ci fai qui?».

«Edward! Come sta Bella?» chiese allegra, entrando in casa, togliendosi la sciarpa e il cappotto e appendendoli all’attaccapanni all’ingresso.

Richiusi la porta alle sue spalle e la seguii, tentando di fermarla. «Bene, ma sta dormendo, non la disturbare per favore. Dopo che ve ne siete andati ieri ci ha messo due ore per addormentarsi, è molto stanca».

Alice si avviò in cucina e cominciò a trafficare con ingredienti e padelle. Si stava mettendo a cucinare? «Stasera potrai parlarne con Carlisle, l’ho visto. La terremo occupata noi, non s’insospettirà di nulla». E così continuò ad armeggiare a velocità vampiresca con zucchero, uova, latte, mandorle, forno, teglie.

«Alice» la chiamai «fermati».

Si bloccò con una padella in mano, lo zucchero nell’altra e un mestolo fra i denti. «Sì?» mi chiese mentalmente.

Vidi la mia domanda formarsi in una sua visione. «Che cosa stai combinando?». Poi, in risposta, vidi una serie di immagini: Bella, il piccolo ritrovo in famiglia con Charlie, e la colazione speciale “anti-nausea” e “pro-bambino” che le stava preparando.

Infine, vidi formarsi nella sua mente l’immagine della lavatrice che finiva di lavare. «Tre, due, uno». Plin. «Vai a mettere la roba nell’asciugatrice, ci penso io qui» fece risoluta.

«Alice, l’ultima volta che l’hai fatta tu non è andata tanto bene, forse sarebbe meglio se me ne occupassi io» tentai di essere più cortese possibile, ma la verità era che Bella aveva dovuto mangiare quello che le aveva preparato per non ferirla, ma poi aveva avuto tutto il giorno un terribile mal di pancia. Il folletto non era tagliato per la cucina.

Incrociò le braccia al petto, stizzita. «Questa volta non accadrà» fece sicura «Esme mi ha dato delle lezioni!».

Sospirai, alzando gli occhi al cielo. Mi dissi che se mi fossi reso conto che quella cosa che stava preparando non era commestibile l’avrei obbligata a buttarla.

Quando tornai dalla lavanderia, la cucina, pulita e riordinata da me la notte stessa, era irriconoscibile: non c’era alcuna traccia de “l’atmosfera serena”.

Fra i fornelli trovai la piccola figura di Alice, coperta di zucchero, glassa e caramello, con in mano un piattino su cui stava poggiato un croccante alle mandorle con glassa caramellata.

Sollevai un sopracciglio, titubante. «Alice, non sarà un po’ troppo» cercai il termine adatto «troppo dolce?».

Lei sbuffò, imbronciandosi. «Le piacerà, l’ho visto!».

Non fui così scortese da ricordarle che le visioni che aveva su Bella erano sempre più imperfette e veloci, così sospirai, annusando il piattino. Disgustoso al punto giusto; almeno sembrava commestibile, anche se troppo dolce. «Io dico che le verrà mal di pancia».

«E io dico di no!».

«Ti dico di sì invece».

Pestò i piedi a terra. «No-o! No, no, no!».

Sentimmo una risata allegra riempire l’aria. Bella era in piedi sulla porta, nel suo pigiama verde, ridendo sfacciatamente. Non era mai successo che si svegliasse da sola, senza che l’andassi a chiamare.

In un attimo le fui accanto, così come Alice.

«Tesoro, ti si già svegliata?» le chiesi stringendola a me, mentre lei si cancellava le lacrime che le erano scese per l’abbondante risata.

«Sì» sussurrò, abbassando lo sguardo sul mio petto. Quando faceva così capivo subito che c’era qualcosa che non andasse, ma di cui non mi voleva parlare. Magari le faceva ancora male il seno, o aveva qualche altro problema. Non volevo metterla in imbarazzo, preferivo che si aprisse spontaneamente con me.

«Bella!» esclamò mia sorella facendola sobbalzare.

Le lanciai un’occhiataccia. Esme era stata chiara, lei e Rosalie si dovevano dare una calmata.

«Ti ho preparato la colazione» disse poi, con un tono normale e appositamente contenuto.

Bella sobbalzò, sgranando gli occhi, mentre il cuore le batteva più forte nel petto. Doveva ricordare bene l’ultima esperienza della cucina di Alice. «Emm… Io…» balbettò, fissandomi implorante, completamente rossa d’imbarazzo.

Guardai mia sorella, reprimendo l’istinto di ridere. «Alice, potresti andare a prendere la vestaglia di Bella, penso che senta un po’ freddo… Oh, e già che ci sei potresti sistemare la biancheria pulita nei cassetti? Non ti dà fastidio, vero?».

Alice sorrise. «Certo» fece, sollevando gli occhi al cielo. Scomparve in un instante.

«Grazie» esclamò Bella gettandomi le braccia al collo e stringendomi con la sua debole forza.

Risi, staccandola da me. «Sta attenta tesoro» la ammonii dolcemente, mettendole una mano sulla pancia e accarezzandola attraverso il pigiama leggero.

La sentii gemere. Sollevai lo sguardo e vidi una smorfia buffa sul viso di mia moglie. «Mi…» sollevò gli occhi al cielo, sbuffando e arrossendo «non… non fare così…» disse mordendosi con insistenza il labbro inferiore. Era… in imbarazzo?

Tolsi la mano perplesso. «Così come?». C’era qualcosa di strano.

Scossi il capo. «Niente, scusa» mormorò velocemente, ma i suoi battiti aumentarono.

Non volevo metterla a disagio e farla agitare, così senza replicare l’accompagnai sulla sedia del tavolo del soggiorno.

Notando le fastidiose e continue nausee, e i problemi causati dal fatto che Bella avesse bisogno di abbondanti dosi di calorie, Carlisle aveva rivisto la sua dieta integrandola con delle proteine in compresse.

Abbassò lo sguardo, arrossendo, e cominciando a disegnare con un dito disegni immaginari sul tavolo. Sospirò. Aveva uno strano comportamento. Bofonchiò qualcosa e concluse con «…dolce».

«Cosa?» chiesi.

Lei sobbalzò, portandosi una mano al cuore, come se fosse stupita di trovarmi ancora lì.

Il suo comportamento era davvero strano. Corrugai le sopracciglia. «Stai bene?».

Sgranò gli occhi e annuì vigorosamente. «Sì».

Chinai il capo di lato. «Hai detto dolce?».

Le sue guance si tinsero di rosso del sangue che l’imporporarono. «Ho… solo… voglia… di… qualcosa di dolce…» concluse velocemente con un sorriso forzato.

Mi stava mentendo. Mi stava mentendo e non sapeva farlo. Oltretutto lei preferiva mangiare salato, per tollerare meglio la nausea. Un sorriso m’increspò le labbra, mentre - decidendo di stare al suo gioco - andavo a prendere la colazione preparata da Alice. Per quanto mi dilaniasse farlo le avrei lasciato i suoi spazi, sperando che non fosse qualcosa di serio di cui doversi preoccupare; solo così si sarebbe aperta.

Avvertii i pensieri di mia sorella che stava parlando con Bella. Magari con lei si sarebbe confidata. Aspettai un po’, il tempo di rimettere in ordine la cucina, ma notando che neppure lei riusciva ad ottenere i suoi scopi, andai da mia moglie con il dolce preparato da Alice.

Non servì mangiarla. Appena vide quella cosa super dolciastra scattò in piedi con una mano alla bocca. Lasciai il piatto nelle mani di Alice e le corsi dietro tenendole la fronte.

«Edward» fece, quando poté parlare «v-vai… vai di là… non… posso fare sola…» mormorò, rossa in viso.

Perplesso, ma pur sempre determinato a non essere troppo invadente, tolsi la mano che le avevo messo in grembo e quella che stava sul suo viso, lasciandola sola. In quell’istante leggerle i pensieri mi sarebbe stato più che utile, ma era giusto anche che le lasciassi la sua privacy.

«Edward!» mi chiamò mentalmente Alice.

Decisi di andare a vedere cosa volesse, magari il comportamento insolito di Bella era semplicemente legato al fatto che avesse bisogno di un po’ di spazio per stare sola.

«Edward, sta tranquillo» mi confortò mia sorella con un bacio su una guancia «ho scritto un biglietto con il pranzo che dovrai prepararle, per le cena ci penserà Esme, basta che tu informi Bella a tutto il resto penso io, d’accordo?» fece, un po’ delusa.

«Non è colpa tua. La bambina blocca le tue visioni» la rincuorai.

Scrollò le spalle. «È brutto non essere invincibili» scherzò debolmente. Mi sorrise, carezzandomi la guancia con affetto. «Mi raccomando, sta tranquillo per stasera!» fece prima di uscire di casa.

Sentii il rumore dei passi sul parquet e di una sedia che si spostava. Vidi Bella seduta al tavolo del soggiorno, mentre si mordicchiava il labbro e si torturava le mani.

Cosa le passava per la testa?

Le portai la colazione, preparata da me, a base dei suoi crackers preferiti, ma mi sembrava che avesse pochissima voglia di mangiare. Era taciturna, silenziosa, e mi pareva costantemente imbarazzata. Non volevo farle domande che le avrebbero portato un ulteriore imbarazzo, così rimasi anch’io in silenzio, tentando di farla sorridere in ogni modo.

«Vuoi vedere la TV?» le chiesi quando finì di mangiare.

Lei lanciò una piccola occhiata al mio viso, poi si fissò le mani, muovendole fra loro, come se fosse indecisa se dirmi o meno qualcosa. Infine annuì, semplicemente.

Quando feci per aiutarla ad alzarsi si sollevò in piedi velocemente e sgattaiolò in silenzio verso il divano. Mi parve che non seguisse affatto il film, continuava ad avere quel comportamento stranissimo. Per quanto avanzassi di volta in volta nuove ipotesi che potevano aver dato adito al suo comportamento, le trovavo o troppo imbarazzanti o troppo invadenti da porre. Cominciai a preoccuparmi un po’, ma mi ripetei che era ancora in assestamento per via della terapia antidepressiva e che farle notare le sue debolezze non l’avrebbe aiutata.

Sbadigliò, stanca, chiudendo gli occhi e stendendo le membra.

«Ti fa male la schiena?» le chiesi, facendo attenzione a conservare un tono cortese.

Sobbalzò, stralunata. «N-no… no… va t-tutto bene…».

Le sorrisi, seppur perplesso e preferii rimanere in silenzio piuttosto che farle notare che era arrossita e che stava balbettando. Le cose andarono via via peggiorando. Durante il pranzo era stata ancor più taciturna e schiva ad ogni contatto con me. Non capivo, e desideravo con impazienza che si aprisse e che insieme risolvessimo i suoi problemi.

Le presi una giacca più pesante pensando volesse andare in giardino, porgendogliela con delicatezza.

«Io» esitò intuendo le mie intenzioni. Era arrossita e non mi guardava negli occhi «ecco… posso… voglio stare un po’ in camera… ti-ti dispiace?».

Un’altra stranezza. Negli ultimi giorni l’aria aperta le era particolarmente piaciuta, adorava quel cambiamento d’ambiente. Nonostante tutto le sorrisi con delicatezza. Ero ansioso di scoprire cosa fosse a turbarla, ma riempirla di domande e dimostrare la mia apprensione sarebbe equivalso solo ad una reazione contraria da parte sua.

«Vuoi dormire?» le chiesi, come ogni pomeriggio, accarezzandole la fronte.

Lei sbadigliò, e vidi le sue palpebre tremolare impercettibilmente verso il basso, ma nonostante questo mi disse di no. Fui seriamente tentato di chiederle cosa non andasse. Tuttavia, continuai ad auto-impormi di mantenere il silenzio. Appena scoperta la causa del suo umore avrei fatto ogni cosa, tutto quello che potevo per aiutarla. Non volevo altro, solo vederla felice e vivere serenamente con nostro figlio, così l’accompagnai in camera.

«Mi… mi potresti prendere un bicchiere d’acqua per favore?» chiese imbarazzata, rossa in viso.

Aprii automaticamente bocca per farle una domanda, ma cambiai rapidamente idea. Sorrisi, non tenendo conto della preoccupazione che imperversava in me. «Certo».

Decisi di lasciarle ancora un po’ di tempo e andai in cucina, lasciandole un po’ di pace e solitudine, sebbene quel distacco mi stesse uccidendo. Non volevo soffocarla con le mie attenzioni e non volevo che fosse proprio quella la causa del suo comportamento. Ma volevo assicurarmi che stesse bene e che il suo umore non dipendesse dalla sospensione della terapia antidepressiva.

Ad un tratto mi arrivò al naso il sentore di umido e salato.

Stava piangendo?! Andai velocemente in camera.

Stava girata su un fianco, rannicchiata su se stessa, e nonostante testasse di placarli, dei piccoli singhiozzi arrivavano fino alle mie orecchie.

Rimasi immobile, tentando di capire quanto potesse essere grave. Stava solo piangendo? Era un vero attacco di panico? Le avrei dovuto dare un’altra compressa o chiamare Carlisle? E se palesandomi avessi peggiorato le cose?

No. Non potevo. Dovevo andare da lei.

Piano mi avvicinai al letto, dandole il tempo di accorgersi della mia presenza. Non appena mi vide sobbalzò, ma i suoi occhi arrossati non smisero di versare nuove lacrime.

«Amore» la chiamai cautamente, sistemandole dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Tutto okay?».

Il suo labbro inferiore tremolò, ma poi si affrettò ad annuire silenziosamente.

Non mi sembrava che avesse un attacco di panico, forse era solo un cambiamento del tono dell’umore dovuto alla gravidanza. «Ti senti triste?» le chiesi accarezzandole una guancia per cancellare le lacrime che le erano scese.

«Edward» sussurrò, stringendomi con tutta la sua forza umana e convincendomi a sdraiarmi accanto a lei sul letto. Rimase qualche istante così, mentre io l’accarezzavo e tentavo di placare il suo pianto e di trovare un modo adatto per chiederle cosa stesse accadendo.

Infine, con ogni occhi asciutti, ma ancora arrossati, sollevò lo sguardo fino a incontrare i miei occhi. «Edward… ri-rimani con me… sono felice quando sei con me» farfugliò con la gola secca.

Mi sentii spezzare il cuore alla sua fragilità, ed insieme mi sentii egoisticamente contento di sapere di poterla fare stare meglio.

Lei si strinse con più forza, muovendo la punta del suo naso sulla mia mascella. «Edward» sospirò, baciandomi con necessità e avidità e stringendo le mani fra i miei capelli. «Sto… impazzendo» sospirò, baciandomi ancora. «Mi… fai impazzire…».

In quell’istante capii.

 

Bella

 

Mi girai su un fianco, dopo aver chiesto a Edward di prendermi dell’acqua.

Da quando mi ero svegliata, sentendo le sue labbra sulle mie, non riuscivo a pensare che a quello. Volevo mio marito, lo desideravo profondamente, con ogni fibra del mio essere.

Non mi era mai successo da quando ero stata rapita da Jacob, e non sapevo come interpretare i segnali che la mia mente e il mio corpo mi mandavano. Lo desideravo ed insieme avevo paura di averlo, della mia reazione quando sarei stata con lui. La cosa che mi faceva stare peggio era che mi toccava, accarezzava, coccolava, continuamente e delicatamente, senza un accenno di desiderio o attrazione maliziosa. Ma come faceva a non rendersi conto dell’effetto che causava?

La sua tenerezza mi faceva desiderare di avere di più, ma insieme la mia mente si riempiva di ricordi e di paure. Era un pensiero totalizzante che occupava la mia mente. Tentavo di non pensarci, tentavo di non agitarmi, ma più il tempo passava, più la mia frustrazione cresceva e mi sentivo sempre più… triste. Ero tristissima, esasperatamente triste e imbarazzata da quel mio desiderio che non sapevo come comunicarli, per paura di scoprire che non era ricambiato, o che lo sarebbe stato solo forzatamente dopo una mia richiesta. Ed ero arrabbiata. Con me stessa e con gli altri. Perché non sapevo come sarei potuta tornare ad avere una vita normale con mio marito, ma lo desideravo molto, e anche da un punto di vista sessuale.

Sbattei un pugno su lenzuolo, rendendomi conto che lo sguardo cominciava ad appannarsi. Ci mancava solo quello stupido pianto! Tentai di asciugarmi in fretta gli occhi, per paura che Edward mi vedesse in quelle condizioni, ma più tentavo di non piangere, più piangevo. Piangevo. Piangevo tanto. E non volevo farlo, perché se ne fosse accorto, si sarebbe preoccupato e io mi sarei imbarazzata ancora di più.

«Amore, tutto okay?» mi disse comparendo nella mia visuale. Nonostante avessi pensato che non doveva vedermi in quello stato, sentii la necessità di averlo accanto. «Sei triste?» mi chiese ancora.

Lo strinsi fra le mie braccia e lo trascinai con me sul letto. Tutta l’enorme tristezza, accumulata senza un apparente motivo in quelle poche ore, scomparve col beneficio della sua presenza. Non riuscivo a capire come fosse possibile, ma averlo accanto a me era come qualcosa di magico, un’inspiegabile presenza che guariva le mie ferite.

E una volta eliminati i dolori non potei far nulla per impedire alla parte più istitutiva di me di emergere e di cancellare ogni inibizione. Mi aspettai di sentirmi bloccare, rimproverare, richiamare, ma così non fu. Cominciò a baciarmi con amore, trasporto. C’era ancora dolcezza in quei baci, ma anche tanta, tantissima passione, e nessun pensiero negativo riuscì ad avere la meglio.

Mi coccolò a lungo, riempiendomi di baci, di attenzioni, di ogni sorta di carezza e dolce emozione e concesse a me di fare lo stesso con lui, mettendosi a disposizione delle mie labbra e del mio tocco. Avevo bisogno di tutto quello. Volevo sentirmi amata e come di secondo in secondo realizzavo che stava andando tutto bene, che potevo tornare ad amare Edward, mi sentivo più tranquilla.

«Grazie» sussurrai timidamente baciandogli il petto nudo dal sotto le coperte.

«Bella, io ti amo» mi disse sorridendomi.

Annuii. «Ti amo anch’io» risposi, stringendolo a me. Sentii un dito delicato e freddo sollevarmi il mento.

Incontrai il suo sguardo intenso. «Se sei triste o se senti che c’è qualcosa che non va, promettimi di parlarne con me» lo vidi temporeggiare, come se cercasse le parole giuste. Mi fece un mezzo sorriso «Siamo in questa cosa insieme. Non c’è niente di sbagliato in te, d’accordo?».

Sorrisi debolmente, arrossendo e annuendo piano. Poi posai la testa sul suo petto, stringendo un braccio intorno alla sua vita. «Scusami… non volevo metterti in questa posizione, ma… io» mi morsi un labbro, sentendo il mio cuore battere forte nel petto «ne avevo bisogno, avevo bisogno di te».

Lo sentii irrigidirsi.

Mi sollevai si scatto, puntando i miei occhi nei suoi. «Non fraintendermi, lo so che tu ci sei sempre per me, che mi sei sempre accanto… io…» sospirai, guardando il vuoto «è che… ho bisogno anche di questo. Di sentirti accanto… fisicamente. Mi capisci?».

Mi sorrise. «Certo che sì. E mi dispiace se non possono esserci stati momenti… del genere fra di noi. Scusami, ma» sospirò «forse avrei dovuto parlartene. Non sapevo se e quando avresti avuto ancora questo desiderio, ma quando Carlisle ha detto che dovevi stare a riposo intendeva anche non avere rapporti. È pericoloso in questo momento della gravidanza così delicata, capisci? Ma sappi, e te lo dico con sincera onestà» aggiunse serio «che non vedo l’ora che questo periodo finisca. E poi potremmo…» aggiunse lievemente malizioso.

Sorrisi. «Potremmo?».

Lui ridacchiò. «Dormi amore. Sogna anche per me» disse, facendomi appoggiare la testa sul suo petto.

Chiusi gli occhi, sbagliando assonnata. «Anche tu mi fai impazzire» sentii dire prima di addormentarmi, stanchissima.

Tre ore dopo mi ritrovai, confusa, in soggiorno. Ricordavo solo che dopo aver aperto gli occhi, due paia di mani fredde si erano impossessate di me e mi avevano infilato i vestiti che ora indossavo.

Alice e Rosalie si muovevano avanti e indietro per casa, Esme, in cucina, preparava la cena per me e per Charlie che a quanto pareva doveva mangiare con noi. Edward l’avevo perso di vista, ma avrei giurato di vederlo passare accanto a me qualche istante prima.

Suonò il campanello, così decisi di andare ad aprire, nonostante stessi più o meno dormendo in piedi. Il pomeriggio con Edward aveva seriamente minato le mie forze già carenti. Quindi fu più che altro un istinto. Come un cane che viene richiamato dal fischietto.

Anche perché, quando arrivai alla porta con il mio passo lento, questa era già stata aperta da Rosalie.

«Sorellina!» tuonò un vocione.

Lo salutai con una mano, sbadigliando.

Emmett non tenne conto della mia carenza d’entusiasmo. Dapprima fece per buttarsi su di me in un abbraccio stritolatore, poi, all’occhiata eloquente che gli riservarono Jasper e Carlisle si ritrasse, per poi inginocchiarsi di fronte e me per contemplarmi la pancia. «Oh! Guarda che bella pancia grossa!» esclamò contento.

Sgranai gli occhi, sorpresa, riprendendomi dal torpore. «Pancia?! Quale pancia? Si vede? Quanto? Come?» chiesi sollevandomi la maglietta e tentando di osservarmi. Lo chiedevo a Edward ogni mattina e lui diceva sempre che non si vedeva niente.

Carlisle ridacchiò, riponendo il cappotto sull’attaccapanni. «Non si vede nessuna pancia, forse si è leggermente allargata la vita» disse dandomi un bacio affettuoso sulla guancia e raggiungendo gli altri in soggiorno.

«Oh» feci, leggermente delusa, ignorando Emmett che mi punzecchiava il ventre con un dito.

Quello fu il turno di Jasper di ridere, mentre scrutava le mie emozioni. «Ci sei rimasta male?».

«No» borbottai, offesa, stringendo le labbra.

«Bellina, secondo me si vede, guarda qui! Si vede benissimo, ecco, ecco!» insistette Emmett indicandomi un punto in cui secondo lui avrei dovuto trovare un rigonfiamento.

«Dove?» esclamò Jasper, precipitandosi in ginocchio davanti a me accanto al fratello e posando una mano, accanto alla sua, sulla mia pancia.

Mi stupii del suo comportamento. Di solito si teneva a distanza.

«Ecco, vedi! È una pancia tonda!» fece saccente l’orso.

«Mah. Secondo me è a punta» ribatté contrariato l’altro.

«Aspetta, da che lato dormi Bella?» mi chiese Emmett.

Sobbalzai, sorpresa dalla domanda e dai loro discorsi. «Non lo so… credo il destro…» borbottai tra uno sbadiglio e l’altro.

«Ah-ah!» fece Jasper, vittorioso.

«Si, ma è stato concepito ad Agosto!».

«Già, ma lei aveva diciott’anni!».

«Però non mangia legumi!».

«E nemmeno banane!».

Ero allibita dal loro comportamento. «Ragazzi, scusate…» tentai di interromperli, per chiedergli quantomeno di togliere le loro mani dalla mia pancia.

«Sai che ci rimane una sola domanda da farle?» fece Emmett serio, ignorandomi.

«Fallo» rispose l’altro, facendo spallucce.

Si voltarono contemporaneamente verso di me. «Bella. Come l’avete concepito?».

Sgranai gli occhi, improvvisamente purpurea.

«Si può?» chiese mio padre, entrando dalla porta ancora aperta. Vedendo la scena che gli si presentò dinanzi, sollevò un sopracciglio. Poi, notando le mani di Emmett e Jasper sulla mia pancia, gli si illuminarono gli occhi.

Abbassai velocemente la maglietta, tirando due colpetti sulle mani dei ragazzi. Mio padre non doveva mettere mano sulla mia pancia.

Per fortuna Edward venne in mio soccorso. «Tesoro, ti ho trovata finalmente. Stai dormendo in piedi, vieni di là a sederti». Poi si voltò verso mio padre, temporeggiando volutamente con un occhiataccia sui suoi fratelli. «Buonasera Charlie, prego, accomodati».

Mio padre sorrise, in naturale imbarazzo. Lasciò il suo giaccone e si avviò in soggiorno, raggiungendo gli altri.

Gli occhi di Edward scintillarono di rabbia. «Voi due» disse puntando minacciosamente un dito contro i suoi fratelli «non provate più a mettere in imbarazzo mia moglie e soprattutto fatemi il favore di non renderla partecipe delle vostre assurde scommesse».

«Certo, certo» fecero con noncuranza, superandoci per andare in soggiorno.

«Su cosa hanno scommesso?» chiesi, stringendomi a Edward.

Scosse il capo, contrariato. «Sul sesso del bambino» disse a mezza voce prima di baciarmi.

Mi ritrassi stupita. «Non ci ho ancora pensato seriamente… tu cosa vorresti?».

Mi sorrise. «Io ci ho pensato, ma… non lo so, non m’importa. So solo che lo amo già ora» disse baciandomi con amore.

«Allora ragazzi, avete capito come funziona la cosa?» chiese Alice distribuendo due bigliettini ciascuno.

«No aspetta» fece Emmett «cioè io devo scrivere il nome che vorrei dare al pargolo se fosse un maschietto su un fogliettino, e se fosse una femminuccia sull’altro. Giusto? Poi si mettono tutti i nomi di maschi da una parte e tutti i nomi delle femmine dall’altra e poi si pescano i turni di scontro?» chiese gesticolando con i bigliettini.

«Esattamente» disse Alice frettolosamente «e poi funziona un po’ come un concorso con le eliminatorie. Tutti voteremo, supereremo ogni turno, alla fine avremo un risultato vincitore per la categoria maschi e una per la categoria femmine e saremo tutti contenti. Bene, chiaro, cominciamo» concluse in fretta.

«No, no aspetta Alice» la interruppi.

Lei sbuffò. «Che c’è?!».

«Mi stai dicendo che noi, cioè tutti voi» dissi mostrando i presenti in sala, «deciderete il nome del nostro bambino?» chiarii indicando me e Edward, seduto sul divano con i miei piedi sulle gambe.

«Esattamente» fece lei, riaprendo bocca per parlare.

«E non pensi che dovremmo essere noi, cioè io e Edward a decidere?» incalzai.

Si voltò scocciata verso di me. «Senti tu, ma non stavi dormendo?! Mi sembri un po’ troppo lucida per i miei gusti. Edward, portala a letto, la votazione la possiamo fare anche soli».

«Alice» la richiamò Esme «se Bella vuole decidere da sola il nome di suo figlio è un suo diritto farlo».

«Ma mamma… Ci metterà troppo! Tanto poi potrà anche cambiare idea, ma mi servono certezze, per ora» fece con uno sguardo eloquente.

Che di eloquente aveva ben poco, ma almeno avevo capito che era una cosa che c’entrava con le sue visioni. Beh, almeno dopo avrei potuto cambiare idea…

«Grazie, grazie, grazie!» esclamò saltellando.

«Ma se ancora non ti ha detto sì» borbottò mio padre.

Alice fece un sorriso a trentadue denti. «Ma noi siamo amiche, e le amiche si capiscono al volo!».

Un’ora dopo contenere il sonno era quasi impossibile. Ma, nonostante i costanti inviti di Edward per andare a dormire, avevo due buoni motivi per non addormentarmi. Il primo, era il nome proposto da Emmett per mia figlia. “Lilla”. Il secondo, era il nome proposto da sua moglie per mio figlio. “Haier”. Lottavo con tutte le mie forze per non farli andare avanti nelle selezioni, tuttavia sembravano riscuotere nei vampiri un certo successo.

Ad un mio sguardo eloquente Edward aveva ben capito che se avesse alzato la mano per votare uno di quei nomi le avrei dato fuoco con un tizzone ardente.

Ad un tratto si sollevò, baciandomi le labbra. «Vado a prenderti una coperta» mi spiegò con un sorriso. In effetti avevo freddo, e i miei piedi erano congelati.

Non feci in tempo a soffrire per l’assenza di mio marito che Jasper mi venne accanto, sedendosi su divano al posto di Edward. «Come va Bella? Ti sento piuttosto tranquilla, ma anche un po’ tesa».

«Molto stanca» biascicai, sbadigliando e lottando per tenere le palpebre aperte.

Lui ridacchiò. «Sì è vero, ma a quello ci sono abituato».

Sospirai, per poi sussurrargli «Grazie per non aver proposto nomi strani per mio figlio».

«Figurati» mi rispose con un sorriso.

Spostai lo sguardo su Rosalie e Alice che discutevano sul voto di un nome. Emmett tentava di acquietare sua moglie mentre Esme faceva lo stesso con Alice. Mio padre invece mi sorrideva, imbarazzato dalla situazione.

Un attimo. Carlisle non c’era. E Edward non era tornato.

«Hai chiamato tua madre, Bella?» mi chiese Charlie tentando di sovrastare le esclamazioni di Rose a Alice.

Catturò poco la mia attenzione. «Mmm, sì. L’ho vista con la webcam, insieme a Edward…».

«Oh, e… come l’ha presa?» mi chiese ancor più in imbarazzo.

Mi concentrai su di lui. «Bene, è molto contenta, ci ha dato la sua benedizione e dice che ci verrà a trovare per Natale; scusami un attimo» dissi alzandomi dal divano.

Non sapevo bene perché l’avevo fatto. Dovevo andare da loro? Stavano parlando di me? Magari volevano solo parlare un momento come padre e figlio, non volevo essere invasiva. Mi mossi verso il camino acceso, solo per non crollare per la stanchezza. Non sapevo bene cosa fare. E se invece stavano parlando di me? Mi stropicciai gli occhi per impedire che si chiudessero. Poi sospirai, vagando verso la finestra. Stava piovendo. Decisi di ritornare al camino, verso il caldo. Mi mordicchiavo nervosamente un labbro. Perché non tornavano? Da quando ero diventata così paranoica?

In quel momento spuntò la figura sorridente di Carlisle, seguita a breve da Edward.

«Amore» dissi avvicinandomi a lui.

Mi accarezzò una guancia, saettando con lo sguardo fra me e Jasper. «Hai sonno?» mi chiese poi.

«Sì, molto» mormorai, completamente abbandonata sul suo petto.

Mi prese in braccio e si sedette sulla sedia a dondolo accanto al camino. Poi mi posò addosso la coperta, ricoprendomi completamente, fin sopra la testa.

«Voti tu per me?» sussurrai mezza addormentata.

«Certo, non ti preoccupare» mi rassicurò, sollevando poco il plaid per baciarmi le labbra. Poi cominciò a dondolare, canticchiando  bassa voce la mia ninna-nanna.

Come al solito addormentarsi immediatamente non fu facile.

Strofinai il volto sulla sua camicia, in cerca di una posizione comoda. In quel momento le mie labbra vennero casualmente in contatto con la pelle nuda della sua clavicola.

Cominciai a lasciare una serie di baci. Mi piaceva da impazzire il suo sapore sulle mie labbra. Per fortuna nessuno mi poteva vedere.

Edward si irrigidì brevemente, poi lo sentii ridacchiare nervosamente, e una sua mano si posò sul mio fianco.

Continuai la mia opera, con un sorriso malizioso a incresparmi le labbra, finché non sentii la lucidità lasciare spazio al sonno.

«Femmina!» urlò Alice ad un tratto, facendomi risvegliare.

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Capitolo 41
*** Burrasca ***


Mi strinsi al cuscino mentre mi portavo una mano al ventre

«Vuoi metterci anche la glassa?» mi domandò Esme passandomi la farina.

Scossi il capo, reprimendo un conato. Ero seduta su uno sgabello della cucina, intenta nella mia preparazione. «Mi sa che alla bambina non piace» feci con una smorfia, continuando ad impastare i biscotti.

Bambina. Già, perché, grazie ad Alice, avevamo scoperto che era una femminuccia. Pur non potendo vedere la bambina, basandosi sui nomi decisi durante la serata in famiglia, era riuscita a vedere che l’avremmo chiamata col nome femminile e non con quello maschile. Edward se ne era dimostrato entusiasta, e anche Emmett; un po’ meno Jasper, che aveva perso la scommessa.

Sbadigliai. Nonostante mi fossi svegliata da poco mi sentivo stanca, e a differenza degli altri giorni non ero solo assonnata, ma mi sembrava di avere meno energie. Questa gravidanza mi stava stremando. Sorrisi, portandomi una mano alla pancia. In quel momento Edward si materializzò al mio fianco, piegandosi all’altezza del mio ventre.

Ridacchiai, scompigliandogli delicatamente i capelli. «Sei tornato». Aveva il viso più freddo del solito per essere stato esposto alle temperature autunnali di Forks. Alice gli aveva dato una mano a fare la spesa per acquistare dei cibi che tenessero sotto controllo la mia onnipresente nausea.

«Come stanno le mie donne?» chiese, lasciandomi un bacio sulla pancia.

«Sono stanche e affamate» gli rispose Esme con un’occhiata di avvertimento, mettendo le gocce di cioccolato nel mio impasto.

Rivolsi a Edward uno sguardo interrogativo. Sapeva cosa volevo sentirmi dire.

Mi fece un piccolo sorriso, pronto ad accontentare la mia muta richiesta, poi posò due mani fredde sui miei fianchi. «Si vede qui» disse, indicando un lato, «e qui» fece, sfiorando l’altro, «ma la pancia è ancora piatta», concluse teneramente.

Sospirai. Ero sempre ansiosa di scoprire i cambiamenti del mio corpo, ma non ce n’erano mai.

Edward mi sollevò il mento con una mano. «Non temere, sta crescendo e sta bene. Tu sei stanchissima, hai sempre la nausea e i tuoi sbalzi d’umore. Quindi lei sta bene».

Non feci in tempo a ribattere che me ne sarei voluta accertare in un altro modo, che squillò il mio cellulare. Era abbandonato sul divano in soggiorno.

«Tranquilla, te lo vado a prendere» fece Esme in un secondo, e un attimo dopo era accanto a me con il telefonino.

Allungai la mano per prenderlo e successero delle cose, cose che succedevano spesso da quando ero entrata a far parte della famiglia dei vampiri.

Alice si materializzò nella stanza, abbandonando poi le buste della spesa sul pavimento, lo sguardo perso. Edward mi strinse a sé, e contemporaneamente posò una mano sulla mia, come per impedirmi di completare il mio gesto.

Mi voltai a fissarlo. Era teso, anche se tentava di non darlo a vedere.

«Che succede?» domandai preoccupata.

Deglutì. «Bella, lascia che risponda io» fece serio.

Corrugai le sopracciglia, e mi voltai a guardare lo schermo illuminato del cellulare che ancora squillava. “Papà”. Mi volsi ancora verso mio marito, allarmata, e senza rispondergli afferrai il cellulare dalle mani di mia suocera e risposi rapidamente «Pronto?».

Ma non c’era mio padre dall’altro capo del telefono. «Isabella Cullen?» domandò una voce sconosciuta.

«S-sì» balbettai sempre più agitata. «Sono io».

Edward posò entrambe le sue mani sulle mie spalle e mimò con le labbra “Tran-quil-la”.

Presi un respiro per calmarmi, ma fu più corto di quello che avrei voluto. «Chi è lei? Perché mi chiama da questo numero?».

«Sono il vice-sceriffo Conrad. Sono stato allertato da Billy Black, stamattina aveva una battuta di pesca con il capo Swan, ma all’inizio pensava che non si fosse presentato. Poi hanno trovato il suo cellulare sulla riva e la barca è ancora ormeggiata. Lei ne sa qualcosa?».

Mi portai una mano alla gola. Sapevo con certezza di essere impallidita visibilmente, perché sentivo il viso freddo e un fischio nelle orecchie. «No» soffiai.

«Bella» mi chiamò Esme preoccupata.

«Non si preoccupi Isabella, lo troveremo. Suo padre è un pescatore esperto e manca da appena 8 ore. L’ipotesi più probabile è che gli sia caduto il cellulare e non se ne sia accorto».

«Non torna mai dopo le 10» sussurrai a voce bassissima.

«Come, scusi?».

Mi schiarii la voce, ma uscii comunque bassa e fiacca. «Non torna mai dopo le 10. Dice che dopo fa troppo caldo e non si trovano pesci».

Una pausa. «Lo troveremo. Adesso stia tranquilla e mi dia il suo indirizzo, in modo da poterla aggiornare in caso di futuri sviluppi. Vedrà, lo troveremo in un paio d’ore e tutto sarà risolto. Ci chiami se la contatta in qualche modo, va bene? Signora Cullen? Signora Cullen mi sente?».

Lasciai che Alice mi sfilasse il cellulare dalle mani.

Edward mi strinse a sé, lasciando che sprofondassi con il viso sul suo petto. Mi sentivo tremare e la testa mi girava, ma non potevo permettermi di crollare. Mi staccai da Edward.

«Bella, sta tranquilla, sicuramente non è nulla di grave e si risolverà presto. Stai bene? Vuoi stenderti un attimo?» mi domandò attento.

Scossi il capo.

Esme mi porse un bicchiere d’acqua e quella volta non rifiutai.

«Cosa può essere successo?» domandai preoccupata «perché doveva vedersi con Billy? Perché proprio con lui? Alice» la chiamai, vedendo che tornava nella stanza.

Sollevò le mani. «Non riesco ad avere visioni, hanno coinvolto i licantropi perché era nella riserva quando è successo. Ma Bella, io sento che sta bene, okay?».

Posai una mano tremante su quella di Edward, sul mio fianco. «Dobbiamo andare. Dobbiamo cercarlo».

«Sì, dobbiamo andare» mi rispose, guardandomi fisso negli occhi «Noi. Non tu. Tu sei umana, incinta e naturalmente sconvolta».

«Edward» protestai agitata «lo sai che devo venire anch’io».

«E cosa?» replicò con la sua logica di ferro «girovagare nel bosco mentre noi lo cerchiamo con i nostri sensi a velocità inumana?».

Strinsi le mani sulle sue braccia. «Non posso aspettare qui» pigolai ansiosa «morirò nell’attesa. Non ce la faccio, Edward».

«E vuoi andare lì? Nella riserva?» continuò persuasivo.

Presi un paio di respiri. La riserva. I licantropi. Billy. Sentii la testa girare più veloce e la sua presa stringersi con più forza.

«Bella, sei sconvolta» fece convincente «Rimani qui, riposati. Esme rimarrà con te» fece ancora, approfittando di quel momento di debolezza per convincermi. Sapevo che mi amava al punto che avrebbe fatto di tutto per proteggermi, anche fare leva sulle mie paure, ma non glielo avrei potuto permettere.

Presi un respiro. «Lo so che lo senti» mormorai tremante, sollevando i miei occhi spaventati nei suoi «Che senti che mi sento svenire, che impallidisco, il battito del mio cuore che aumenta» dissi, facendo aprire i suoi occhi di tristezza. Era proprio così. «E chissà quali e quante altre cose. Lo so. Ma Edward, ti prego» pigolai, convinta però di ciò che dicevo «non posso vivere tutta la mia vita nella paura. Ho bisogno di dire a me stessa che ce la posso fare. E adesso lo devo fare per mio padre. Se gli succedesse qualcosa…».

Edward avvicinò il suo volto al mio. «Non gli succederà nulla» provò ancora, tormentato dalle mie parole piene di verità.

Scossi il capo, gli occhi chiusi. «Ti prego» sussurrai senza voce.

Tirò un sibilo fra i denti, stringendomi il capo e avvicinandoselo al petto, in silenzio, senza dire nulla. Sapevo che avevo ragione.

«Vado ad avvisare gli altri» fece Alice a voce bassa «Jasper ed Emmett lo cercheranno, sembrerà meno strano che a trovarlo siano due uomini. Noi quattro andremo sulla costa, ai confini della riserva, dove sono tutti gli altri. Edward» disse al fratello «falle mettere una giacca pesante. C’è molto vento e fa freddo».

«Grazie» mormorai a mio marito, separandomi da lui quanto bastava per guardarlo negli occhi. Ero preoccupata della sua possibile reazione.

Non mi rispose. Aveva il viso teso e preoccupato. Si chinò a lasciarmi un bacio sulla fronte. «Andiamo».

Come da istruzioni mi fece mettere addosso una giacca molto pesante, una sciarpa e un cappello di lana, tanto che avevo scoperti solo qualche centimetro di viso. In auto avevo caldo, mi sentivo scomoda, e la calura aumentava la mia debolezza e la mia nausea, ma cercai di non protestare, perché sapevo che aveva già fatto tanto per me.

Osservai attraverso il finestrino il percorso di alberi verdi, foglie e cieli grigi. Era dal giorno dell’ospedale che non uscivo di casa, e quel giorno non era andata tanto bene. Ormai era quasi una settimana che non prendevo più gli antidepressivi e a casa, in quell’ambiente tranquillo, con la presenza di Edward, era andato tutto bene. Ma come sapere come avrei reagito fuori?

Stavo andando da Billy Black, il padre dell’uomo che aveva tentato di stuprarmi e che io avevo ucciso. Che coraggio dovevo avere per resistere a quello?

Mi carezzai il ventre piatto. Volevo fare leva sulla speranza che mi dava la vita che stava crescendo in me. Ma come avrei mai potuto trattare l’assassino di mia figlia, anche se lei fosse stata malvagia?

Deglutii, sentendo le forze venirmi meno di secondo in secondo. Forse Edward aveva ragione, non ero pronta ad affrontare Billy.

Presi un respiro, stringendomi una mano al petto e chiudendo gli occhi, cercando di visualizzare il motivo per cui lo stavo facendo: mio padre.

«Calmati» mormorò all’orecchio mio marito, facendomi sobbalzare. Strinse le labbra alla mia reazione, contrariato. Sospirò, posando una mano sulla mia spalla. «Calmati, Bella».

«Pensi che sia stato Billy? Che gli abbia fatto del male per vendicarsi di me?» domandai, dando voce alle mie preoccupazioni.

Strinse la mascella, allontanando lo sguardo. «Non saprei. Avrebbe avuto molte occasioni di farlo prima di oggi».

Sospirai. «Spero sia come dici tu».

«Non temere, Jasper ed Emmett lo troveranno subito».

Annuii, provando davvero a fidarmi delle parole di mio marito.

Mi aiutò a scendere dall’auto, assicurandosi che il cappello e la sciarpa mi proteggessero bene. Alice aveva ragione. L’aria era fredda e pungente come quella degli autunni di Forks che preannunciano l’inverno. Appena fuori dall’auto guardai la spiaggia e in lontananza la scogliera, e un brivido mi attraversò la schiena. C’era già stata, con Jacob. Quando pensavo che fossimo amici.

Edward mi strinse a sé e nonostante fosse contrariato non disse nulla, limitandosi a guidarmi verso il piccolo gruppetto di folla che si era radunato sulla spiaggia. Tremavo, ma speravo di riuscire a tenere il panico a bada.

Un uomo in divisa ci venne incontro.

«Vice-sceriffo Conrad» lo salutò mio marito porgendogli la mano.

L’uomo esitò, accettando il suo gesto con un brivido. I vampiri non si relazionavano spesso con gli umani. «Lei deve essere Edward Cullen. Isabella Cullen» fece, salutando entrambi. Era giovane, fra la trentina e la quarantina, e mio padre mi aveva confidato che sperava che un giorno prendesse il suo posto.

«Lei è mia madre, Esme, e mia sorella Alice Cullen» disse mio marito, indicandole.

L’uomo fece un cenno con il capo a mo’ di saluto e poi aggiunse con tono rassicurante «non era necessario che veniste. Ci sono già tre squadre di ricerca che stanno perlustrando la costa, lo troveremo presto».

Un uomo più basso e tarchiato si avvicinò, mettendo via la sua ricetrasmittente. «In realtà due, Conrad. I ragazzi di La Push si sono appena ritirati. Dicono di non aver trovato nulla».

Tremai, agitata.

Edward sfregò la sua mano sul mio braccio, senza dar vedere il suo turbamento. «In realtà sono ancora tre, vice-sceriffo. I miei fratelli si sono già adoperati per dare una mano» fece, con la sua migliore voce da bravo ragazzo.

Quello crucciò le sopracciglia. «In realtà sarebbe meglio coordinarsi, potrebbe essere pericoloso agire in autonomia…».

«Bella» sussurrò al mio orecchio Alice, distraendomi dalle sue parole «sarà qui fra meno di trenta secondi. Pensi di essere pronta? Puoi tornare in auto se vuoi».

Mi voltai a guardarla a capii subito di chi stesse parlando. Deglutii. «Lascia che venga».

Lei annuì, facendomi un piccolo sorriso. «Ce la farai. Sei molto forte, più di quanto credi».

Venti secondi più tardi, come predetto dalla mia sorella veggente, Billy Black era lì. Si avvicinò al gruppetto di persone composto da uomini in divisa, ragazzi e gente con i lunghi neri capelli Quilite. Poi si voltò a guardarmi. Molti sentimenti passarono sul suo volto. Dolore, rabbia, paura, senso di colpa.

«Scusatemi» mormorai, separandomi da mio marito per andargli incontro.

Lui mi strinse più forte, ma non per trattenermi. Non voleva lasciarmi andare da sola.

Dal piccolo gruppetto si levò un lieve mormorio mentre osservava la scena. «Bells» mi chiamò Billy quando fui abbastanza vicina. Il suo viso era tirato, e sembrava dimagrito ed invecchiato, seduto sulla sedia a rotelle senza che più nessuno la spingesse.

«Solo mio padre mi chiama così» sussurrai a voce bassa.

Puntò i suoi occhi neri fissi nei miei. «Lo faceva anche qualcun altro» disse, facendomi sentire come se qualcuno mi avesse appena tirato un pugno.

Presi un respiro, decisa a non crollare. «Dov’è mio padre? Cosa gli è accaduto?».

«Non lo so. Dovevamo vederci oggi dopo molto tempo, e non si è presentato» fece, senza smettere per un secondo di osservarmi in modo fisso, pacato e cauto «io non so nulla della sua scomparsa».

«Perché vedersi oggi dopo così tanto tempo allora?» incalzai.

«Non lo so» ribatté, solo lievemente esasperato. «È stato lui a insistere».

«Dice la verità» soffiò Edward al mio orecchio.

Billy spostò lo sguardo su di lui, tagliente. «Diceva che lo facevi sempre. Leggere i suoi pensieri» sibilò con rancore e odio.

«Non è servito a salvare mia moglie» ribatté con malcelata rabbia.

«Se solo voi succhiasangue non foste esistiti molte vite sarebbero state risparmiate!» esclamò, battendo i pugni contro i braccioli della sedia.

«Vi prego» biascicai, stentando a trattenere le lacrime.

Fecero silenzio, distogliendo entrambi lo sguardo verso il mare.

«Gli volevo bene, Billy» sussurrai a stento «ma lui mi ha fatto così tanto male, così tanto» biasciai, stringendomi forte a Edward per non crollare.

Billy annuì, la mascella tesa. «Lo so» disse, girando le ruote della sedia a rotelle per allontanarsi da noi.

Nascosi il viso con le mani, lasciando scendere le lacrime. «Avevi ragione tu, non dovevo venire. Mi dispiace» sussurrai, portandomi una mano alla pancia. Mi sentivo debolissima, come non lo ero da tempo, e avevo paura di avere un attacco di panico da un secondo all’altro. Avevo bisogno di calmarmi, ma per farlo dovevo trovarmi in un luogo sicuro. «Portami a casa».

Mi carezzò i capelli, e il viso. Sospirò, facendomi sentire in quel respiro tutto il dolore che provava a sentirmi così debole e fragile, ma anche la consapevolezza che avevo ragione, che dovevo affrontare le mie paure per sapere di poter andare avanti nella mia vita. «Sei stata molto forte Bella. Shh, calmati. Se vuoi andare ti porterò a casa, ma... aspetta» si bloccò, prendendo il cellulare dalla tasca dei jeans.

Presi un fiato. Emmett. Forse erano notizie su mio padre.

Rispose rapidamente. «Sì. Va bene, grazie» un sospiro. Era sollievo? Mi mancò in battito, e pregai che fosse di sollievo. Accortosi del mio stato si volse verso di me e annuì con uno sguardo rassicurante.

Ricominciai a respirare. Dovevano averlo trovato.

«Sì, certo. No, non vi avvicinate, non è una buona idea. Grazie» li salutò prima di chiudere.

«Lo hanno trovato?» domandai subito ansiosa.

«Sì, tranquilla» mi rassicurò immediatamente.

Feci un grande sospiro. «Oh, grazie a Dio. Lo stanno portando qui?» chiesi preoccupata.

«Non proprio, ma stai calma» mi disse con il viso serio, ma disteso, così tanto che decisi di fidarmi di lui «ha qualche escoriazione e Jasper non se la sentiva di avvicinarsi troppo. E poi era ancora nella riserva. Lo hanno seguito a distanza».

«Come?» esclamai, la voce più alta di alcune ottave «e ora dov’è?».

«Calma ti ho detto» fece ancora, posando entrambe le mani sulle mie spalle. Mi prese il mento fra le mani, studiando con tenerezza il mio sguardo spaventato «è qui» disse, volgendo lo sguardo verso la scogliera.

A distanza di almeno un chilometro vidi emergere fra i rami la figura di mio padre. Era proprio lui! «Oh mio Dio» esclamai, lasciando scendere nuove lacrime di sollievo.

Si stava avvicinando a noi, ma capivo che qualcosa non andava. Presto molti brusii si levarono dalla folla e alcuni si staccarono per corrergli incontro.

«Vai» dissi a mio marito, «ti prego. Alice ed Esme saranno con me».

Annuì, e iniziò a correre verso di lui sforzandosi di tenere una velocità umana.

«Sta bene, stai tranquilla» mi rassicurò Esme, stringendomi e carezzandomi.

Alice si avvicinò poco dopo. «Ho chiamato un’ambulanza e avvisato Carlisle. Stai serena» aggiunse a mio beneficio «ha una gamba rotta e qualche escoriazione. Finalmente i licantropi si sono tolti di mezzo. Rimarrà in osservazione in ospedale stanotte. So che vuoi stare con lui, Rosalie ti sta portando qualcosa da mangiare e per rinfrescarti e dei pigiami per lui. Starà benissimo, d’accordo?».

Annuii, tirando su con il naso «Cosa gli è successo?».

Strinse le labbra, un po’ tesa. «Questo dovrai aspettare che te lo racconti lui».

«Papà» esclamai quando fu abbastanza vicino.

Zoppicava, sorretto ai due lati da Edward e da un uomo in divisa, e aveva un taglio sul sopracciglio.

Corsi da lui, e mi gettai fra le sue braccia quando fu abbastanza vicino.

«Bells, figliola, che ci fai qui?» fece, tirandosi indietro con una smorfia di dolore sul viso.

«Cosa ti è capitato?» domandai agitata, studiandolo. A parte il taglio e la gamba zoppicante non sembrava avere nulla di più grave, come aveva detto Alice.

Scosse il capo. «Una cosa davvero assurda» borbottò «non ci crederesti se te lo dicessi».

«Ci crederemo quando ce lo racconterai al caldo in ospedale» replicò Edward, sollevando lo sguardo verso la strada, dove poco dopo comparve l’ambulanza.  

Gli fecero tutti gli esami del caso e dopo circa quattro o cinque ore era nella sua stanza d’ospedale, con il gesso alla gamba e un paio di punti sul viso. Vedendolo lì, in quel letto, potevo capire cosa intendesse Edward quando mi parlava della fragilità umana. Mio padre era così fragile.

«Hai bisogno di qualcosa?» domandai, sistemandogli i cuscini in modo che stesse più comodo «vuoi dell’acqua o una tisana?».

Mio padre mi fissò di sottecchi. «Non dovresti essere a casa a riposare? La mia… nipotina. Come sta?».

Mi voltai a sorridergli. Dopo la rivelazione urlata da Alice sul sesso del bambino era rimasto molto sospettoso. Gli avevano spiegato che erano stati i risultati di un test non invasivo del DNA fetale in circolo sul sangue materno, ad informarla, tramite un messaggio sul cellulare. Carlisle aveva davvero provato a fare quel test, ma non era stata riscontrata alcuna frazione di DNA fetale. Un’ennesima anomalia da gravidanza vampira. «Sta bene. Non sto facendo niente di stressante» ribattei, iniziando a sistemare le sue cose nell’armadio.

«Bells, fermati. Ti prego, vieni qui» mi chiamò indicando la sedia accanto al suo letto.

«Faccio solo questo, non sono stanca» mentii. Ero stremata dal carico emotivo e fisico che avevo vissuto quel giorno, e in più la strana fiacchezza che avvertivo da quella mattina stava peggiorando sempre di più.

«Bells» mi chiamò ancora, «sei bianca come un lenzuolo. Ti prego, vieni a sederti».

Sospirai, lasciando perdere le sue camicie e andandomi a sedere dove mi voleva. «Come ti senti?» domandai, avvicinando incerta la mano alla sua. Noi non facevamo quelle cose, fra di noi. Sentivo che eravamo entrambi in imbarazzo.

Mi guardò di sottecchi, combattuto. «Mi sento molto in colpa» disse infine.

«Cosa? Perché mai?» domandai sorpresa.

Prese un respiro, scuotendo il capo. «Non dovevo spingerti fra le sue braccia. Non dovevo alimentare le speranze di quel… maniaco. Ti ha quasi distrutto» mi disse con voce rotta.

«Oh papà, come potevi saperlo?» tentai di consolarlo.

«Dovevo dare retta a te!» esclamò, «e non arrabbiarmi perché avevi deciso di sposarti prima di andare all’università. Dovevo badare alla tua felicità più che alla mia. E oggi, ti ho fatto stancare e preoccupare così tanto. Volevo solo mettere apposto le cose con Billy».

«Non fare così» dissi rammaricata «ti sei comportato come avrebbe fatto qualunque altro padre».

«Oh, no. Edward è un bravo ragazzo e io lo sapevo» ammise amareggiato «ma c’era qualcosa in lui che istintivamente…».

M’irrigidii e mio padre fraintese il mio gesto.

«No, no, tranquilla. Non lo penso ancora. Credo che fosse solo istinto di protezione paterno. Che ti ha spinto nelle mani dell’uomo sbagliato. Mi perdonerai mai?» mi chiede pieno di rimorsi.

Lo guardai con dolcezza, sapendo che era molto più dell’istinto paterno ad averlo spinto ad aver paura di un vampiro. «Jacob avrebbe fatto tutto ciò che ha fatto anche se tu non fossi esistito. Ma se ti farà stare meglio sì, certo che ti perdono papà».

Annuì. «Grazie».

«Cosa è successo oggi?».

Scosse il capo. «Non sono riuscito a vedere Billy. Volevo parlargli, riconciliarmi con lui e assicurarmi che non ti desse più problemi. Quando sono arrivato era presto e lui non c’era ancora, e in acqua in lontananza ho visto una donna» fece, corrugando il viso e mostrando tutti i suoi segni del tempo «era molto strana, sia lei che la situazione. Insomma, che ci fa una donna in mezzo all’oceano alle quattro del mattino? Davvero molto strana, soprattutto per quello che è successo dopo» disse e mi fece rabbrividire.

«In che senso?» domandai iniziando ad allarmarmi.

Scrollò le spalle, poi fece una piccola smorfia di dolore. «Mi sembrava che stesse annegando, così ho lasciato il cellulare sulla riva e mi sono gettato in mare per salvarla. Ma quando mi sono avvicinato è scomparsa. Letteralmente. Non c’era traccia di lei da nessuna parte, neppure sul fondale. E poi mi sono sentito trascinare dalla corrente e devo essere sbattuto sulla scogliera perché quando mi sono svegliato ero piuttosto malridotto» fece, studiandosi la gamba con il gesso con una smorfia.

Mi feci coraggio tanto da prendergli la mano fra le mie. «Come ti senti adesso?».

«Non preoccuparti per il tuo vecchio» disse con un sorriso «quegli antidolorifici che ti danno in questo posto funzionano alla grande».

Sorrisi a mia volta. «Credimi, lo so».

Qualcuno bussò alla porta aperta, e quando mi voltai c’era mio marito. «Charlie. Come ti senti?».

Mio padre gli sorrise, e mi resi conto dello sforzo che faceva umanamente per andare contro ai suoi istinti e volergli bene. «Stavo proprio discutendo con mia figlia dell’uso della morfina. Dovresti provarla anche tu».

Edward si avvicinò tanto da posare le mani sulle mie spalle. «Grazie, ma credo ne farò a meno. Se non ti dispiace porterei tua figlia a casa. Credo che abbia bisogno di un po’ di riposo».

«Edward» mi voltai a protestare.

«Portala pure. Non mi può essere di alcun aiuto in questo stato. Penso di essere piuttosto noioso da addormentato comunque».

«Papà!» protestai ancora.

«Torneremo domani mattina in tempo per le dimissioni e per portarti a casa» continuò mio marito ignorandomi «Amore» fece poi, rivolgendosi finalmente a me «dov’è la tua giacca? Fa piuttosto freddo fuori».

Feci scioccare la lingua sul palato, ma mi arresi, riconoscendo di avere davvero bisogno di dormire. «Va bene» feci, lasciando grattare la sedia sul pavimento per tirarmi in piedi «è sull’attaccapanni dietro la porta» dissi, indicandolo e sollevandomi… troppo in fretta? No, mi ero sollevata davvero molto lentamente. Allora perché la testa mi girava così tanto? Lasciai passare qualche secondo, perché sapevo che spesso avevo difficoltà ad adattarmi quando cambiavo rapidamente posizione.

Ma durò tanto. Tanto che Edward riuscì ad avvicinarsi a passo umano e a porgermi la giacca perché potessi indossarla.

Presi un respiro, lentamente. Stava passando, ma ci era voluto davvero molto più del solito.

«Tutto bene?» mi domandò, studiandomi, quando ebbi finito di indossare la giacca.

«Sì» sussurrai a mezza voce, non fidandomi di annuire «Hai ragione, sono davvero molto stanca. Mi farà bene dormire un po’».

«Andiamo» disse, lasciandomi un bacio sulla fronte.

«Ciao papà» lo salutai sfiorandogli la mano. Non mi fidavo di chinarmi a lasciargli un bacio.

«Buonanotte Bells, riposati».

Lasciai che Edward mi aprisse la portiera e che mi aiutasse a sistemarmi sul sedile del passeggero.

«Avrà bisogno di molte cure» commentai debolmente, ignorando il fatto che stesse accendendo il riscaldamento al massimo. Lo sapevo che lo faceva per me, ma io odiavo davvero stare troppo al caldo.

«Sì, almeno all’inizio. Per fortuna ha te, e tu hai una famiglia che può aiutarti. Lascia che le ragazze ed Esme ti diano una mano» fece, guidando verso casa.

«Umh, sì. Odio ammetterlo, ma hai ragione, dovrò chiedergli una mano» mormorai, lasciandomi andare sul sedile. Ero così debilitata e stanca che pensavo che mi sarei potuta addormentare da un secondo all’altro. Allentai il primo bottone della giacca, sentendomi soffocare. Sospirai, decidendo di passare ad un argomento più spinoso. «Tu hai visto i suoi pensieri. Sai chi fosse quella donna?».

Strinse le labbra, continuando a guardare fisso la strada. Ma io sapevo che non aveva bisogno di farlo.

«Edward…» iniziai a protestare debolmente, ma mi interruppe subito.

«Non ne sono certo. I ricordi umani sono molto imperfetti e sfocati, e tuo padre ha una memoria più concettuale che visiva» disse, facendomi rabbrividire all’idea della sua vasta conoscenza della mente umana. Fece un piccolo sorriso, rendendosi conto della mia reazione. «So cosa mi stai chiedendo» aggiunse, facendosi di nuovo serio «sì. C’è una discreta possibilità che fosse un’immortale, ma se lo è non è una che conosco».

Mi agitai sul sedile, slacciandomi anche gli altri bottoni della giacca. Sentivo la testa pesante e iniziavo a sentire un fischio nelle orecchie. «Che voleva allora da mio padre?» dissi, leggermente ansimante.

Fece un sospiro. «Non lo so davvero. So che non gli ha fatto del male e che aveva un’occasione di farlo, se avesse voluto. Forse voleva solo mandarci un messaggio o forse è solo una coincidenza. O forse ancora era solo un’umana. Non ti preoccupare anche di questo, chiederò ad Alice di tenerlo d’occhio, le farà bene avere qualcosa su cui concentrarsi che le dia soddisfazione che non siate tu o la bambina. E poi volevo dirti che sono stato davvero orgoglioso di te oggi. Sei stata bravissima a stare non solo in mezzo alla gente, ma anche per aver parlato con Billy Black. Mi dispiace di non aver creduto in te come meritavi, ma ti prometto che per il futuro quando usciremo insieme, e lo faremo, non ci saranno più…».

Ma io non lo stavo più ascoltando. Sentivo le sue parole come se fossi sott’acqua. Volevo togliermi la giacca, ma mi sembrava di non riuscire più a muovermi. Ebbi l’istinto di spegnere quello stupido riscaldamento, anche a costo di litigare con Edward, ma non ci riuscii.

Lo guardai, come rallentata, mentre sentivo che i battiti del mio cuore aumentavano tantissimo nel disperato tentativo di tenermi sveglia. «Edward» lo chiamai, non sentendo neppure la mia voce, anche se ormai era si era già voltato, studiandomi preoccupato. Mi carezzai il ventre. Sentivo le dita formicolare, insensibili. «Non mi sento bene».

«Cos’hai?» mi domandò agitandosi, accostando sul ciglio della strada «ti viene da vomitare?».

«No» riuscii a sillabare. Sentii la testa cadere in avanti e delle macchie buie comparire nel mio campo visivo, allargandosi sempre di più fino ad inglobare ogni cosa.

«Bella, Bella» mi chiamava Edward, tentando di tenermi sveglia. «Bella, rispondimi».

Mi sentii sollevare e stendere sul sedile posteriore dell’auto. Riuscii ad aprire gli occhi e a riacquisire un minimo di lucidità. Vidi il viso preoccupato di mio marito.

«Mi sento svenire» sussurrai ancora, «la bambina».

Mi carezzò la guancia, ansioso. «Tranquilla. Ti porto a casa da Carlisle».

Appena arrivati mi sistemò a letto, stesa con dei cuscini sotto le gambe, e nel giro di un minuto mi sentii meglio, anche se ero così fiacca di non poter neppure pensare di sollevare la testa. Adoperai tutte le mie forze per stringere la mano di mio marito, agitato, al mio fianco. «Mi dispiace di averti fatto preoccupare» sussurrai.

«Ti senti meglio?» domandò ansioso, ricambiando la mia stretta.

Mi umettai le labbra. «Sì, sto meglio».

Mio marito sollevò il capo di scatto «È pallidissima» disse, e subito capii con chi stesse parlando «credo 7 o 8 al massimo».

«Carlisle» lo chiamai con un filo di voce, volgendo il capo nella sua direzione.

«Bella, come stai?» fece, venendomi accanto e studiandomi. Mi guardò gli occhi, la pelle, mi prese il polso fra le mani e se lo portò al naso. «6.9» mormorò sorpreso «È davvero strano, due giorni fa aveva 10.8».

«Di cosa state parlando?» domandai disorientata.

«Della tua emoglobina. Sembra che tu abbia un’anemia acuta. Hai avuto perdite di sangue in questi giorni?».

«No» risposi senza voce, chiudendo gli occhi.

Mio suocero mi mise una cannula nella vena dell’avambraccio e disse che mi avrebbe dato dei liquidi che mi avrebbero fatta stare un po’ meglio. Sentivo che lui ed Edward parlavano fra di loro a voce bassa, troppo anche se fossi stata nello stato di ascoltarli. Presto li raggiunsero anche gli altri della famiglia, mentre sentivo che il nostro soggiorno iniziava a popolarsi. Non capivo cosa dicessero, ma sentivo che erano agitati e preoccupati, perché mi stava accadendo qualcosa di stranissimo che non sapevano come gestire, ed era come se le loro peggiori paure si stessero realizzando.

«Bella» mi disse infine Carlisle «credo che tu abbia bisogno di una trasfusione, così potremmo aiutarti un po’. Forse il tuo organismo è stremato e non ce la fa a stare dietro alle richieste che gli stai facendo, dobbiamo facilitargli il lavoro».

Guardai la cannula che si infilava nel mio avambraccio, assicurata con un cerotto trasparente. «È proprio necessario?» domandai contrariata.

«Non ti farà male» provò a rassicurarmi dolcemente mio marito «userà lo stesso accesso venoso che hai ora».

Scrollai le spalle. «Non è per questo» dissi imbarazzata.

Carlisle mi studiò con cortese attenzione «Per cosa allora?».

Mi morsi il labbro, a disagio. «Beh, non mi va di fare arrivare del sangue in questa casa, potrebbe darvi dei problemi e farvi stare male» mormorai a voce bassissima fissando il copriletto.

«Oh Bella» sospirò Edward, stringendomi la mano e portandosela alle labbra. «Come puoi essere sempre così… altruista».

Carlisle mi sorrise amorevolmente. «Rimarremo solo io ed Edward».

«Non vai a caccia da molto tempo» sussurrai, studiando le occhiaie di mio marito. «E poi…» aggiunsi, più imbarazzata che mai. Se non fossi stata così pallida sono certa che le mie guance si sarebbero tinte di rosso. «E poi una volta mi hai detto che le trasfusioni alterano il mio odore e che ti dà fastidio» conclusi, più imbarazzata che mai.

«Oh, amore mio» soffiò carezzandomi i capelli e guardandomi con tenerezza «durerà al massimo un paio di mesi, e preferisco sopportare il tuo odore diverso e vederti stare bene» sospirò, abbracciandomi e nascondendo il viso nel mio collo.

Ma subito dopo si ritrasse, angosciato. «Carlisle» sibilò «è scesa ancora».

Mi esaminò anche suo padre. «5.5» mormorò sconvolto. Mi esaminò ancora, accuratamente, fece una serie di prelievi e mi disse che non potevamo più scegliere, che dovevo fare quella trasfusione subito.

«Come ti senti?» mi domandò Rosalie, carezzandomi i capelli. Edward si era allontanato in soggiorno per parlare con Alice e cercare insieme di capire cosa stesse accadendo.

«Molto debole» sussurrai «ma sto meglio di prima. Rosalie» la chiamai, preoccupata. Sapevo che stava succedendo qualcosa di grave, qualcosa che avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita. «Sai che forse si troverà nella posizione di scegliere».

Scosse il capo, contrariata. «Bella, ti prego».

«No» soffiai «lo sai che io non ho scelta» le dissi, guardandola con tutto il mio amore di madre.

Prese un respiro tremante. «Lo so».

Le strinsi una mano con la mia. «Aiutalo. Sarà molto difficile per lui».

«Bella» mi chiamò addolorata «neppure io sono disposta a perderti».

«Lo so» mormorai a fior di labbra con le lacrime agli occhi «ma è la mia bambina…» sussurrai senza fiato.

Si chinò ad abbracciarmi e rimanemmo così a lungo, strette, sperando entrambe che non fossero gli ultimi momenti della mia vita.

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Capitolo 42
*** Nadir ***


Qualcuno, Esme forse, mi aveva messo addosso una coperta, non spostandomi però dal divano, forse per paura di svegliarmi

Edward tornò che avevo appena finito di asciugarmi le lacrime, gli occhi ancora rossi. Era angosciato, lo leggevo nei suoi occhi, anche se cercava di controllarsi.

«Li hai mandati via?» domandai con un filo di voce.

Annuì, venendomi subito accanto e carezzandomi la fronte fredda e sudata. «Carlisle sta arrivando, ormai è questione di minuti».

Volevo portare una mano sulla sua, ma mi sentivo davvero troppo debole. «È la bambina, vero?» chiesi senza fiato.

Prese un piccolissimo respiro. Annuì. «Crediamo di sì, ma non capiamo ancora come e adesso non abbiamo tempo di capirlo, dobbiamo farti stare meglio. All’inizio della gravidanza eri un po’ anemica, ma fino a due giorni fa stavi bene, i tuoi livelli di emoglobina stavano salendo con tutti gli integratori che ti ha dato Carlisle. Non capiamo perché sia successo proprio oggi».

Sospirai debolmente. «Vedrai che adesso starò meglio. Non ti preoccupare. Sapevamo che avrebbe avuto dei bisogni speciali».

Strinse i denti, rivelando sul suo viso tutta la sua preoccupazione. «Speravo di non arrivare a questo punto».

Chiusi gli occhi, lasciando riposare le mie palpebre stanche. «Lo so».

Carlisle arrivò quasi subito. La prima cosa che fece fu prendere il mio polso e controllare ancora. Bastò che guardasse il figlio perché capissi anche io: era scesa ancora.

Mia figlia, in qualche strano modo, mi stava letteralmente dissanguando.

«Allora, Bella» fece, togliendo la sacca della flebo ormai terminata e posizionando quella rosso scuro con su scritto “0 negativo” al suo posto «adesso inizieremo la trasfusione. Vorrei farne almeno un paio di sacche. La manderò all’inizio lentamente, in modo che tu abbia tempo di dirmi se qualcosa non va, di qualunque genere. Pronta?».

«Finché non guardo va tutto benissimo» mormorai fra le labbra pallide, il viso rivolto dall’altro lato pieno di disgusto.

Edward comparve al mio fianco, tenendomi la mano. I suoi occhi erano neri ed era pallido quanto me. Aveva sete, e quello era un bel po’ di sangue umano che non assaggiava da tempo. «Guarda me» disse, concentrato sul mio viso.

«Inizio» mi avvertì Carlisle.

Annuii, poi domandai a mio marito. «Sei sicuro di stare bene?». Non potevo immaginare la sofferenza fisica che stava provando alla vicinanza con quel sangue.

«Non potrei mai stare lontano da te adesso» sussurrò, avvicinandosi la mia mano alla bocca per baciarne le nocche.

«Quando sarà tutto finito promettimi che andrai a caccia» mormorai debolmente.

Sospirò. «Ne discuteremo quando sarà finito…».

«Edward, ti prego. Hai detto tu che oggi me la sono cavata bene» riuscii a dire debolmente «ho bisogno di sapere che posso farlo ancora e tu hai bisogno di cacciare».

Sospirò, scuotendo il capo. «Te lo prometto».

Feci un debole sorriso. «Grazie».

«Okay Bella, sembra che vada bene» ci interruppe Carlisle «Inizio a mandarla più velocemente».

«Va bene» mormorai, chiudendo gli occhi. Non volevo pensare al sangue di uno sconosciuto che mi entrava nelle vene, mi veniva da vomitare. «Posso dormire un pochino? Sono molto stanca».

«Certo» sussurrò al mio orecchio Edward. «Dormi, recupera la forze».

Stavo giusto accettando il suo invito, lasciandomi scivolare verso il sonno, che sentii un lieve fastidio nel punto dove la cannula si congiungeva con la pelle. Pensai che fossi solo dolorante per l’ago, ma dopo alcuni secondi divenne un bruciore che si irradiava in tutto il braccio. Feci una smorfia, riaprendo gli occhi. «Mi dà un po’ fastidio» mormorai, sfregandomi il braccio.

«Che fastidio?» mi domandò Carlisle attento.

Ansimai, stringendomelo al petto. «Brucia» mi lamentai, sentendo il dolore aumentare.

«Solo il braccio?» mi chiese solerte.

«Che sta succedendo?» domandò preoccupato mio marito.

«No» pigolai «brucia tutto, mi brucia» piansi, sentendo il dolore espandersi in tutto il corpo e concentrarsi in un punto: la pancia. Mi piegai su me stessa. «Vi prego, basta! Fatelo smettere! Basta, brucia tantissimo, brucia, brucia, vi prego!» gridai, in preda al dolore sempre più forte «La pancia, mi fa male» singhiozzai «la bambina».

«Bella, calma, non c’è più» tentò di rassicurarmi Carlisle, che intanto mi aveva staccato la flebo.

«Carlisle» lo chiamò Edward angosciato, stringendomi a sé e tentando di calmarmi.

«Non lo so, non sembra una reazione trasfusionale. Non so cosa sia» confessò il padre a denti stretti, sostituendo la sacca rossa con una trasparente.

I miei ansiti si calmarono in pochissimi minuti insieme al dolore, lasciandomi tremante e sudata.

«Stai meglio?» mi domandò mio marito agitato, lasciandomi un bacio sulla fronte.

«Sì» soffiai senza forze «mi sentivo come quando mi aveva morsa James e mi stavo trasformando» sussurrai a voce bassissima fra le labbra bianche.

«Non può essere» soffiò sconvolto Edward.

«La bambina deve aver usato il suo veleno, in qualche modo» mormorò Carlisle con stupore.

«Non voleva il sangue, credo» biascicai chiudendo le palpebre «non quello».

Mio marito si allontanò, angosciato. «Vuole il tuo».

«Non fare così, Edward» mi sforzai di dire «Non è colpa sua. Penso ne abbia bisogno per crescere».

«Beh, non può crescere se ti uccide!» esclamò, rabbioso, allontanandosi da me.

«Edward» lo richiamai, tentando di sollevarmi. Caddi irrimediabilmente indietro. «Ti prego».

«Sta’ attenta» fece Carlisle, aiutandomi a sistemarmi fra i cuscini. «Tranquilla, Bella. Avremo fede nelle leggende e nelle visioni di Alice. Ti supporteremo in tutti i modi possibili».

«Starò meglio» mormorai a mia volta.

«Ti prego, Carlisle!» esclamò disperato Edward «non la illudere. Dille che non può sopravvivere a lungo con questi valori di emoglobina, senza poter fare una trasfusione! Dille che c’è la possibilità che l’unico modo di salvarla sia interrompere la gravidanza».

«Edward» lo fermai con un singhiozzo sconvolto. Non potevo credere che l’avesse detto.

Ma Carlisle stette in silenzio, abbassando il viso, preoccupato.

«Credi che lo dica a cuor leggero? Che io voglia sacrificare una di voi due? Il solo pensiero mi uccide!» confessò Edward angosciato, facendo un passo in avanti nella mia direzione, tormentato «ma se tu morirai, adesso, morirà anche lei e il tuo sacrificio non sarà servito a niente!».

Mi portai le mani alle labbra, lasciando scendere tutte le lacrime dai miei occhi. «Non potrò mai uccidere mia figlia» soffiai fra le lacrime.

Edward distolse lo sguardo con dolore immenso. «Vado a chiamare gli altri. Non si farà nessuna trasfusione stasera» disse prima di scomparire.

Mi sentivo davvero, davvero molto debole, come non lo ero mai stata. Avevo pianto tanto, era quasi notte ed era da troppo che non dormivo. Carlisle mi fece una flebo di ferro, insieme ad altre di vitamine concentrate, dicendo che se la bambina avesse voluto solo il mio sangue avremmo dovuto aiutare il mio organismo a produrne di più.

«Carlisle» lo chiamai, stremata.

Era seduto su una sedia accanto al letto, un libro in mano. Chissà, magari stava studiando un modo per salvarmi la vita. Si chinò alla mia altezza. «Dimmi pure».

«Avrei bisogno di Jasper» mormorai a mezza voce. «Puoi farlo venire da me, per favore?».

«Certo» disse, sollevandosi dalla sedia «Bella» esitò «non avercela con Edward, lui… ha molta paura».

Chiusi le palpebre stanche. «Lo so, non ce l’ho con lui».

«Scopriremo cosa sta accadendo. Andare in ospedale adesso è un rischio perché non c’è quasi nulla di normale in ciò che sta accadendo, ma se servirà faremo anche quello, va bene?».

Annuii. Avrei fatto qualunque cosa. «Grazie Carlisle».

Mi sorrise debolmente, alzandosi. «Ti mando Jasper».

Entrò poco dopo nella penombra della stanza, cauto. Mi chiedevo se ci fosse ancora l’odore del sangue che mi aveva fatto bruciare le vene. Si avvicinò lentamente, quasi avesse paura di spaventarmi, e con calma si venne a sedere sulla sedia occupata precedentemente dal padre. Era come se lo facesse per me, per sembrare meno vampiro.

«Ha paura» sussurrai.

Aspettò un attimo prima di rispondere. «Anche tu».

Stetti in silenzio, arrendendomi a chiudere nuovamente le palpebre.

«Gli umani fanno più errori quando non hanno paura. Da noi, per esempio» fece con calma «hanno più probabilità di salvarsi quelli che hanno paura».

Non mi ero mai resa conto di quanto la sua stessa voce fosse tranquillizzante. «Non sono un buon esempio allora».

Non replicò. I suoi occhi gialli scintillarono nella penombra e sì, capii cosa volesse dire l’istinto di aver paura di un vampiro. Ecco perché non c’erano in giro altre donne che avessero concepito figli con loro.

Sospirai. «Grazie per le vostre ricerche. Mi dispiace che vi abbiano portato lontani dalle vostre mogli».

«Continui a misurare il tempo come un’umana. Non è niente per noi. E poi, Bella, sei parte della famiglia. Anche se desidero sempre bere del tuo sangue» commentò, facendomi rabbrividire. Fece una risatina, e capii che stava scherzando. «Perché sono qui?» mi chiese allora, facendosi serio.

«Puoi confortarlo?» domandai.

Chinò il capo da un lato, studiandomi. «Dici come fratello o con i miei poteri?».

«Entrambi» ammisi stanca.

«Posso provarci. Ma si arrabbierà leggendomi i pensieri. Sono qui solo per questo?» domandò ancora.

Deglutii. «Puoi farmi addormentare, per favore?».

I suoi occhi scintillanti si fermarono sul mio viso. «Lui è l’unico in grado di farlo».

«Non stasera» soffiai, deglutendo il magone.

Sospirò, avvicinando cautamente la sua mano al mio braccio. «Posso?» fece prima di toccarmi.

Annuii pianissimo, e dopo il suo tocco si fece tutto buio. Non fu confortante e dolce come addormentarsi con Edward, e il sonno fu pieno di immagini e incubi tormentati.

Quando mi svegliai mio marito era steso accanto a me sul letto e mi stringeva forte. Avrei voluto dirgli che io non volevo morire, e che ero dilaniata dal dolore che gli stavo causando. Non lo feci.

«Che ore sono?» balbettai, portandomi una mano alla testa «mio padre?».

«Esme ed Alice sono andate a prenderlo» mi rispose semplicemente.

Sapevo che si sarebbe preoccupato non vedendomi, e mi dispiaceva che Esme ad Alice dovessero occuparsene al mio posto, ma non sapevo davvero come avrei potuto fare altrimenti.

Sospirai, facendo leva sugli avambracci per sollevarmi. Mi sentivo molto molto stanca e avevo la testa leggera e pesante insieme.

«Cosa fai?» mi domandò Edward studiandomi. «Rimani giù».

Gemetti, guardandomi intorno. La luce era gialla e bassa, doveva essere già tarda mattinata. «Voglio chiamarlo, adesso sarà preoccupatissimo».

In un attimo era alla porta. «Ti prendo il cellulare» disse, ma sembrava freddo e lontano.

«Edward» lo chiamai imbarazzata prima che si potesse allontanare «ho… bisogno di andare in bagno» confessai.

Sospirò, e un battito di ciglia più tardi era di nuovo accanto a me, tendendomi le braccia per aiutarmi ad alzarmi. Mi aiutò a mettermi seduta, poi mi mise le mani sulle spalle. «Rimani un minuto così, poi ti aiuterò da alzarti» continuò con lo stesso tono distaccato.

Presi dei respiri, sollevando il capo per guardarlo negli occhi, dando tutto il lunghissimo tempo che serviva al mio corpo per adattarsi affannosamente a quella nuova posizione. Ma Edward era perso nel suo sguardo lontano.

«Può farlo Rosalie se preferisci» biascicai, la voce più bassa di quello che avrei voluto.

Si chinò sulle ginocchia. «Sono tuo marito» disse serio «lascia che lo faccia io».

Volevo piangere, ma trattenni le lacrime. Non si trattava di me in quel momento, ma di lui. Volevo che avesse fiducia, volevo rassicurarlo e dargli speranza che sarei stata meglio, che sarei guarita e che sia io che la bambina saremmo state bene.

«Okay. Mi sento meglio» mormorai a mezza voce, ed un po’ era vero. Ieri non avrei neppure potuto immaginare di stare seduta. Ma quando mi prese le mani fra le sue le sentivo formicolare tantissimo e quando fece per alzarmi mi sentii cedere immediatamente le ginocchia.

Mi strinse al suo corpo per non farmi cadere e non disse nulla.

«Edward, io…» provai senza fiato.

«Shh, non parlare» fece, tenendomi stretta a sé.

Strinsi forte le mani ai suoi avambracci. Il cuore mi batteva fortissimo, la testa mi girava tantissimo e mi sentivo sudata e pallida. Lentamente riuscì a scortarmi fino in bagno e poi di nuovo fino al letto. Fu faticosissimo e sentirlo così distante da me mi faceva sentire peggio.

Riuscii a chiamare mio padre ma non riuscii a rassicurarlo fino in fondo, perché la mia voce era debole come non mai. Rosalie gli parlò al mio posto, convincendolo che il giorno precedente mi ero stancata molto e che dovevo stare un po’ più a riposo, niente di più.

Quando Carlisle venne a visitarmi con i risultati dei test che avevamo fatto il giorno precedente capii dal suo viso quanto seria fosse la situazione. Disse che l’emoglobina era scesa ancora, anche se molto poco.

Non protestai quando mi portarono in ospedale. Mi fecero delle ecografie, una risonanza magnetica, e degli altri esami del sangue. Carlisle provò di nuovo a farmi una trasfusione con una sacca di sangue diversa, preparata in modo differente e dandomi prima del cortisone, ma la reazione fu la stessa della prima volta e dovemmo interrompere subito.

«Ce la fai?» mi domandò Edward mentre mi accompagnava fuori dalla stanzetta dove Carlisle mi aveva appena prelevato un aspirato midollare. L’ultima spiaggia per capire quanto di “umano” ci fosse in quello che mi stava succedendo e come aiutarmi.

Annuii a denti stretti, ignorando zoppicante il dolore al bacino e concentrandomi solo per mettere un passo davanti all’altro e portare avanti il mio corpo che m’implorava solo di avere pietà.

«Edward» lo avvertì Rosalie quando tremai più forte, sbandando, pallidissima e sudata.

Mi tenne su con forza.

«Ce la faccio» deglutii a fatica, stentando persino a respirare.

Scosse il capo. «Lascia che ti prenda in braccio».

Presi un paio di respiri, aspettando inutilmente di vederci ancora oltre il buio dei miei occhi. «Ce la faccio» ripetei ancora.

Sentii al mio orecchio un ansito doloroso, quasi un singulto di un pianto. Era il verso straziante della disperazione di mio marito, ed io non sapevo come aiutarlo. Mi strinse il capo contro il suo petto. «Amore mio» iniziò pianissimo, attento a non sconvolgermi ancora «sei esausta. Nessun umano potrebbe farcela nelle tue condizioni. Lascia che ti prenda io, ti porterò a casa e potrai riposarti».

Annuii con un sospiro, arrendendomi fra le sue braccia, e mi sentii subito un po’ meglio. «Domani starò meglio» tentai debolmente, ansiosa, ma non mi rispose.

Mi strinse a sé, lasciandomi un bacio sulla fronte, trasportandomi dolcemente verso l’uscita. «Dormi, riposati» mormorò, cullandomi fra le sue braccia sul sedile posteriore dell’auto.

«Dov’è?» chiesi la mattina successiva quando mi svegliai. Nella stanza c’erano Carlisle e Rosalie.

«Bella, tesoro, ti sei svegliata» disse mia sorella venendomi vicino. Mi prese la mano abbandonata accanto a me sul copriletto, collegata a due tubicini di due sacche di flebo differenti. «Puoi dormire un altro pochino se vuoi» fece con dolcezza, carezzandomi il dorso della mano con il pollice.

Presi un piccolo respiro superficiale. «Dov’è andato?» domandai ancora, cercando di non dare a vedere quanto mi mettesse in crisi la sua assenza.

Carlisle si avvicinò, sorridendomi per rassicurarmi. «È uscito con Emmett, voleva convincerlo a cacciare» disse tranquillo e rassicurante, e quasi gli avrei creduto se non avesse aggiunto più teso «Ieri è stata una giornata difficile in ospedale».

Chiusi gli occhi. Dal mio petto si levavano dei respiri piccoli e superficiali. «I test sono tutti negativi, vero?» sussurrai a malapena.

Tentò di rassicurarmi ancora. «Non deve essere per forza una cosa negativa. Il distacco amnio-coriale è rimasto stabile. Vuol dire che non hai un’emorragia, un’aplasia midollare o una leucemia o tante altre malattie più gravi».

«No» biascicai senza fiato, riaprendo gli occhi e portandomi le mani alla pancia «vuol dire che dipende dalla bambina».

Annuì, molto serio.

E in quel momento capii che c’era qualcos’altro che non mi stava dicendo. «È scesa ancora».

Fece un lunghissimo sospiro, poi annuì. «4.9».

Presi un ansito fra i denti, realizzando che la situazione era molto, molto grave.

Rosalie mi strinse la mano. «Bella, non vuol dire molto, è un decimo di punto rispetto a ieri, che vuol dire realisticamente che è praticamente stabile».

«Sì, è vero» intervenne Carlisle «ma è vero anche che è pericolosamente bassa, molto pericolosa non solo per te, ma anche per la perfusione della placenta e quindi per la bambina».

«Non si può fare niente?» domandai ansiosa «forse possiamo riprovare con la trasfusione, potrei resistere al dolore» provai debolmente.

«Bella» fece, stringendo le mani nei pugni. Mi sorrise con tenerezza, rilassando la sua postura «anche se resistessi al dolore probabilmente ti trasformeresti, e in quel caso la gravidanza non avrebbe modo di evolvere».

Scossi il capo, disperata. «Cosa posso fare allora?».

Posò la sua mano sul mio avanbraccio, accanto alla cannula della flebo. «Ti supportiamo, aspettiamo che il tuo corpo reagisca, e speriamo che questo sia il nadir».

«Il nadir?».

Annuì, serio. «Il punto più basso da cui si può solo risalire».

Il mio nadir con Edward fu quel pomeriggio.

«Rosalie» chiamai agitata, tremando. Avevo freddo, e le mani e i piedi mi formicolavano così tanto che sembravano punti da un milione di spilli acuminati. «C-chiudi la finestra p-per favore» ansimai appena la sentii entrare in camera.

«È già chiusa» mi rispose una voce, e non era quella di Rosalie. Un attimo più tardi avevo addosso un’altra coperta. Mi servì un intero minuto per smettere di tremare e ancora non sapevo cosa dire o fare.

«Hai mangiato?» mi domandò mio marito, scrutandomi dalla sedia dov’era seduto, accanto al letto.

Presi almeno quattro o cinque respiri in dieci secondi. Non ce la facevo più a fingere di stare meglio del terribile stato in cui ero ridotta. «Lo sai già» sputai fra i respiri ansimanti. «Nemmeno tu» aggiunsi poi, guardando i suoi occhi nerissimi.

«Non ci sono riuscito» confessò disperato. Fece per avvicinare una mano a carezzarmi, ma si bloccò. Poi, con un sospiro completò il suo gesto, accarezzandomi i capelli. «Appena ho addentato la preda ho pensato che fossi tu e che ti stessi dissanguando» confessò angosciato.

Scossi il capo, mentre osservavo tutto l’abisso della sua agonia. «Non so come fare per farti stare meglio» ammisi con la voce soffocata.

Strinse i denti, una maschera di dolore e disperazione sul viso. «C’è solo un modo, lo sai».

«Edward» singhiozzai.

«Ti prego» gemette a sua volta «non sono pronto a perderti» m’implorò angosciato.

«Io… non posso…» piansi disperata.

«Bella, ti supplico. Come fai a non vederlo?» fece terrorizzato «Carlisle dice che con questi valori di emoglobina potresti resistere una settimana, al massimo dieci giorni. Sempre che non peggiori, perché in quel caso moriresti subito!» esclamò, sbattendomi in faccia la realtà. «E non potrò trasformarti, perché il tuo fisico sarà troppo debilitato».

Strinsi le labbra bianche fra i singhiozzi. «La bambina…».

Sotterrò il viso sulle coperte, accanto a me, stringendomi la mano con le sue. «Non sai quanto mi uccida perderla. Ma non posso, non posso perdere entrambe. Ti prego, Bella, ti prego. Abbiamo fatto tutto il possibile. Non morire. Ti prego, non morire» singhiozzò.

Presi un respiro, sconvolta dal suo dolore. Portai una mano a carezzargli i capelli. Avevo così tanta paura di morire, e le sue parole sconvolte erano così convincenti. Che senso avrebbe avuto sacrificarmi se nostra figlia sarebbe comunque morta con me? Ero davvero troppo malata e irrazionale per capirlo?

Edward se ne accorse, che stavo vacillando. Sollevò il capo, osservandomi con il suo sguardo devastato. «Carlisle ti addormenterà, non sentirai nulla. Lo so che sarà la cosa più difficile che faremo nella nostra esistenza, ma la supereremo insieme» incalzò, disintegrando dalla mia mente l’immagine di nostra figlia, felice, fra le nostre braccia.

Mi portai una mano alla pancia, sfiorandola.

«Non è colpa tua, non è colpa nostra. Lei non può vivere in te, mi dispiace. Sarà per sempre la nostra bambina, la ameremo per sempre, Bella» continuò persuasivo. Così persuasivo, così razionale, così giusto.

Strinsi forte la stoffa del mio pigiama. Non avevo mai avuto il tempo di desiderare un figlio. Ora che lo avevo avuto, semplicemente lo amavo, come non avevo amato nient’altro nella mia vita. Più di me stessa. «Tu» biascicai, guardandolo negli occhi dilaniata dalla sofferenza «hai sentito il battito del suo cuore. Come puoi volerlo fermare?».

Chiuse le palpebre, addolorato. «Bella».

Presi un respiro. «Non c’è solo un modo, lo sai. Potrei riprendermi».

Scosse il capo, guardandomi come se avessi perso il senno. «È troppo rischioso» esclamò agitandosi «Potresti morire. Che senso avrebbe avuto tutto quello che abbiamo passato? La nostra separazione, Jacob, la tua ripresa? Il nostro amore? Che senso avrebbero allora? Ti prego, fallo per noi».

«Edward» dissi ferma nonostante la mia voce flebile «se davvero mi ami non usare mai più le mie paure contro di me. Se davvero mi ami capirai la mia scelta. Perché l’ho già presa. E se tu non sarai d’accordo lo capirò. Ma allora devo chiederti di non tornare da me finché non avrai cambiato idea» dissi con voce spezzata.

Si sollevò di scatto, facendo ribaltare la sedia. «Perché non riesci a capire! Morirete entrambe e non mi rimarrà altro che uccidermi!» gridò, lanciando la sedia contro la parete e lasciandola disintegrare.

Tremai senza fiato, ammutolita.

I suoi ansiti si calmarono e i suoi occhi si riempirono di terrore per ciò che aveva appena fatto. «Bella, io…» provò a chiamarmi.

Mi strinsi una mano al petto, chiudendo gli occhi e rannicchiandomi su me stessa in posizione fetale. «Ti prego. Vai via adesso».

Ci vollero dieci lunghissimi secondi. Poi scomparve. Fu il nadir, ho detto. Ma ancora non avevamo iniziato a risalire dal fondo.

Quella notte non riuscii a dormire un secondo, neppure con l’aiuto di Jasper. Carlisle mi propose di prendere dei sonniferi, ma decisi che se avessero dovuto essere gli ultimi momenti di vita con mia figlia avrei voluto godermeli tutti. La mattina seguente mio padre richiamò. Avrei tanto tanto voluto assicurarmi che stesse bene, ma non ne ero nelle condizioni. Lasciai che Alice e Rosalie andassero da lui ad occuparsene e a trovare una scusa per me.

Speravo che mi sarei sentita meglio, ma quel giorno non riuscii neppure a mettermi seduta. Carlisle mi disse che l’emoglobina era stabile, ma che con le supplementazioni che mi stava dando avrebbe dovuto già cominciare a risalire. Mi diede un po’ di ossigeno e l’affanno si placò lievemente.

Edward non comparve.

Non aveva cambiato idea e quel pensiero si univa all’idea della mia morte vicina gettandomi nella disperazione. Volevo combattere, avevo qualcuno per farlo, ma non avevo più la forza di farlo. Perché quel qualcuno mi stava uccidendo. Aveva sete, e non aveva di che bere se non di me.

Sospirai, stringendomi la coperta addosso. «Hai freddo?» mi domandò Alice venendomi vicino.

«Un po’» sussurrai a mezza voce.

«Vuoi andare di là? C’è il camino acceso e possiamo sistemarti sul divano» mi propose.

Deglutii. «Non so se» iniziai, ma la voce mi morì in gola «non ce la faccio a camminare».

«Vieni, ti porto io» disse avvolgendomi nella coperta e sollevandomi fra le sue braccia. Incredibile come riuscissi a dimenticare della sua forza per via della sua statura minuta.

Nel soggiorno c’erano Emmett, Rosalie e Jasper che discutevano davanti alla vetrata che dava sul bosco. Rosalie si staccò dal gruppetto, avanzando con il suo passo felino verso la sorella, aiutandola a sistemarmi sul divano, assicurandosi che i miei piedi fossero ben coperti e che il fuoco fosse acceso.

«Di che parlavate?» mormorai incerta.

Alice e Rosalie si guardarono, poi lei scrollò le spalle, decidendosi a dirmi la verità. «Parlavamo della sconosciuta che ha incontrato tuo padre. Non è facile identificarla».

Crucciai le sopracciglia preoccupata. «Può essere pericolosa?».

Rosalie scosse il capo. «No, ma saremmo più tranquilli sapendo chi sia. Organizzeremo delle ricerche, ma non ora. Abbiamo bisogno che prima tu stia meglio, fidati di noi».

Combattuta decisi di arrendermi ad annuire. Non avrei potuto fare molto, comunque. Presi le mani di entrambe, guardandole. «Grazie per il vostro aiuto» mormorai.

Rose mi fece un piccolo sorriso, dandomi un buffetto sulla guancia. «Figurati tesoro. Carlisle è da tuo padre, ha detto che sta bene e sta tornando. Dice che potresti mangiare se vuoi, potrebbe aiutarti».

Scrollai le spalle. «Posso provarci».

Annuì, sorridendo. «Dammi solo un attimo».

Alice si sistemò accanto a me sul divano, prendendomi i piedi avvolti dalla coperta e iniziando a massaggiarli. Volevo chiederle se vedesse qualcosa, ma sapevo già che non era così, altrimenti me lo avrebbe detto. «Come sta mio padre?» le domandai.

Non distolse lo sguardo dal fuoco. «Non si è bevuto la storia che eri stanca. Sa che stai male, ma non sa quanto».

Forse non l’avrei più rivisto. Avrei voluto dargli quel bacio prima di andarmene. Rabbrividii, tirando giù la manica del maglione, ma la cannula della flebo rimase impigliata. «Ahi» bisbigliai, provando a liberarla, ma non feci che peggiorare la situazione.

«Bella, aspetta, ti aiuto io» disse Alice venendo in mio aiuto, ma appena mi sfiorò il braccio un paio di gocce di sangue scivolarono sulla mia pelle.

Sollevai lo sguardo sul viso di Alice, che si era immobilizzata, smettendo di respirare.

«Alice» ansimai preoccupata.

Si sollevò, indietreggiando di un passo, gli occhi improvvisamente neri. «Okay, tranquilla. D-devo… dammi un attimo» disse, battendo le palpebre.

Mi voltai spaventata a controllare la vetrata, ma né Jasper né Emmett c’erano più.

«Alice» la chiamò la voce di Rosalie alle mie spalle «ce la posso fare» disse con voce estremamente concentrata «esci, va’ da Jasper».

Presi dei respiri superficiali. «Ragazze io… mi dispiace» ansimai.

Alice scosse il capo, concentrandosi sul mio corpo tremante. «Rimango».

«No» fece la voce di mio marito, facendole volgere entrambe nella sua direzione, alle mie spalle. «Andate».

«È solo poco sangue, ce la possiamo fare» protestò Rosalie.

Edward si materializzò al mio fianco, facendomi trasalire. Mi liberò dal maglione, studiando l’accesso venoso che si era sposizionato. «Andate» fece ancora, concentrato, senza guardarmi «ho bisogno di stare solo con mia moglie».

Strinsi le labbra, ma non protestai.

Alice sollevò lo sguardo verso la sorella e le fece un cenno con il capo. Prima di andarsene portò un pacchetto di garze e un rotolino di cerotto.

Edward mi sfilò con un gesto l’accesso e tamponò la piccola perdita con una garza, coprendola poi con il cerotto.

M lasciai andare con il capo sullo schienale del divano, troppo stanca. «Mi dispiace» bisbigliai con un filo di voce.

Sospirò, sollevando lo sguardo sul mio. «Di cosa?».

Chiusi gli occhi, stanca. «Oh Edward, lo sai. Non è di quello che posso essere dispiaciuta e se ancora non hai cambiato idea…».

«Non ho cambiato idea» disse, facendomi riaprire gli occhi «ma non voglio passare gli ultimi giorni di vita di mia moglie lontano da lei».

Strinsi le labbra, trattenendo a stento le stanche lacrime. «Nemmeno io».

Mangiai sul divano, mandando giù boccone dopo boccone con sofferenza, ma riuscendo infine a non vomitare. Mi sfregai gli occhi, stanca.

«Vuoi dormire?» mi domandò, scrutandomi.

Annuii debolmente, lasciando che mi prendesse fra le braccia e mi portasse in camera. Mi tenne stretta al suo petto mentre sollevava le coperte e mi adagiava sulle lenzuola.

«Mi aiuti, per favore» balbettai, cercando di liberarmi della coperta in cui mi aveva avvolto Rosalie, troppo debole per farlo da sola.

«Aspetta» fece, bloccando i miei deboli tentativi. Ma quando mi tolse la coperta le sue mani finirono accidentalmente sul mio fianco e si bloccò, immobile. Il suo sguardo era perso, sorpreso.

Battei le palpebre, confusa. «Che succede?».

Spostò la mano dal fianco alla pancia, lentamente, senza distogliere lo sguardo dal mio ventre.

Rabbrividii, per un attimo spaventata di trovarmi sola con lui. E se avesse voluto…? No, non avrebbe mai potuto…

Sollevò il suo sguardo sul mio, realizzando di avermi spaventata. «No, io…» mormorò sorpreso «è cresciuta. Si vede».

Mi portai le mani alla bocca, sconvolta. «Si vede?» balbettai emozionata.

Annuì, continuando a tenere le mani sulla pancia. Misi le mani sulle sue, lasciando scendere le lacrime. «Oh, Edward. Ne ha così bisogno. Non posso non darle così di cui ha bisogno. Non posso».

Chiuse gli occhi, portando il suo viso sul mio ventre. «Se solo potessi darle io quello che le serve. Se solo potessi aiutarvi in qualche modo».

«Ti prego» sussurrai, stringendo la sua mano «resta con me. Resta con me stanotte. Non posso dormire senza di te. Non ce la faccio più a non dormire».

Sollevò il viso addolorato e annuì. «Resto».

Dormii, e il giorno dopo quando mi svegliai stavo meglio. Carlisle disse che mi stavo solo “adattando emodinamicamente” alla nuova situazione perché l’emoglobina non era risalita, ma io ero contenta: non era neppure scesa.

Mi sistemò un nuovo accesso venoso a prova di maglioni e vampiri e mi collegò h/24 a delle sacche di flebo. Stava dando una scossa al mio corpo per convincerlo a produrre più sangue. Più di quello che voleva da me mia figlia.

Ma anche il giorno successivo, quando mi svegliai, l’emoglobina era ancora stabile.

«Devo fare pipì» furono le prime parole che dissi appena sveglia.

Rosalie ridacchiò. «La gravidanza».

«Tre litri di liquidi in vena» ribatté suo fratello, prendendomi fra le braccia.

«Aspetta» gli dissi in bagno, appoggiandomi con le mani ai bordi del lavello e guardando il mio viso. Era pallido, con una lieve sfumatura grigiastra. «Vorrei lavarmi i denti» dissi, prendendo lo spazzolino.

«Ce la fai?» mi domandò incerto, sorreggendomi per il gomito.

Annuii, e per qualche strano motivo le vertigini non aumentarono. Era un grande sforzo tenermi in piedi, ma era un miracolo che ci stessi riuscendo senza il suo aiuto.

«È cresciuta ancora?» domandai, abbassando il viso e carezzandomi la pancia.

Strinse le labbra. «Sì» sospirò infine «pare di sì, anche se molto poco».

Sorrisi. Sapevo che era terrorizzato da quello che mi stava facendo, ma sapevo anche che nel suo cuore era felice di sapere che nostra figlia stava bene e che stava crescendo. Portai una mano sulla sua, guardandolo con amore. «Torniamo di là, i tre litri di flebo mi stanno aspettando».

Mangiai e non vomitai. Dormii. Presi i farmaci. Chiamai mio padre. Mangiai ancora, e anche questa volta non vomitai. Dormii. Presi altri farmaci. Mi feci fare altri esami. Mangiai. E quasi mi preoccupai, perché non avevo vomitato né avuto la nausea per un giorno intero e Carlisle mi aveva detto in tempi non sospetti che la nausea era un buon indicatore del benessere della bambina.

Così feci fatica quella sera ad addormentarmi, anche fra le braccia di Edward. Ma quando mi svegliai non aspettai il suo aiuto. Era ancora buio nella stanza e mi alzai di scatto per correre con la mia debole velocità umana verso il bagno a vomitare tutta la cena.

Quando ebbi finito appoggiai la guancia, sfinita, sul bordo della tazza del water. Portai una mano alla pancia. Mi girava la testa, ma mi sentivo sollevata: la bambina era ancora lì.

Edward mi studiava, cauto, dalla porta.

«Che c’è?» ansimai incerta, sollevando a fatica il capo.

«Una bella corsetta, eh?». Si materializzò al mio fianco, prendendo il mio polso e portandoselo al naso. Corrucciò le sopracciglia, dubbioso.

«Cosa?» domandai perplessa «che dovevo fare, vomitare sul pavimento?».

«Carlisle» lo chiamò Edward, sollevando solo appena il tono della voce ed ignorandomi.

Sospirai. «Fantastico. Fammi prima tirare lo sciacquone almeno. Non capisco perché devo avere sempre tutto questo pubblico quando vomito. Ciao Carlisle» lo salutai arrendevole.

Sorrise appena. «Ciao Bella».

Edward mi aiutò a tirarmi su per sedermi sul water. Prese il mio polso e lo porse al padre con uno sguardo carico di aspettative. Si avvicinò subito.

«Che sta succedendo?» domandai, facendomi seria. Qualcosa era cambiato.

Lo sguardo di Carlisle si riempì di sorpresa e anche forse di… sollievo.

Edward sospirò, contento, stringendomi forte al suo petto.

«Sta risalendo. Poco, ma sta risalendo» mi disse Carlisle, guardandomi intensamente.

Mi portai una mano alle labbra, commossa. «È una buona notizia, vero?» balbettai.

Annuì con un sorriso appena accennato. «È una speranza».

Annuii a mia volta, stringendomi forte a mio marito, emozionata. Finalmente una speranza.

Quel giorno mi controllarono ancora, molte volte. Quella sera dissero che era salita ancora un po’ e la mattina seguente non ebbi bisogno di domandare. Edward, al mio fianco, sorrideva e io mi sentivo decisamente più in forze.

«Quanto?» biascicai, le labbra ancora impastate dal sonno.

«7.5. Non basterà per la maratona di New York ma credo sia abbastanza per tenerti in piedi».

Sorrisi a mia volta, carezzando la piccola pancia. «È quello che ci serve».

«Bella» mi chiamò mio marito incerto e preoccupato. «Nessuno ci dice che non capiterà ancora. Adesso che è lunga qualche centimetro ti ha quasi uccisa. Non sappiamo cosa succederà quando sarà molto più grande e avrà sicuramente maggiori esigenze».

Gli carezzai una guancia. «Hai ragione, non lo sappiamo. Non possiamo far altro che sperare che non succeda ancora e tenerci pronti a far fronte al momento in cui succederà. E vivere tutti questi giorni insieme».

Sospirò, annuendo incerto, chinandosi sulla mia pancia. Mentre si chinava, però, si bloccò, stupefatto. Poi prese il mio polso fra le mani, portandoselo al naso, e subito dopo scese con il viso verso la mia pancia. «Carlisle» chiamò sorpreso.

«Che hai sentito?» domandai, mettendomi a sedere.

Sgranò gli occhi, sorpreso, spostando lo sguardo da me al padre. «Mi sembra davvero strano, controlla anche tu. È come se ci fossero due livelli di emoglobina differenti».

 Battei le palpebre, confusa, lasciando che mi esaminasse anche suo padre.

«Hai ragione» disse infine, sorpreso quanto il figlio «dovevo pensarci prima! È come se la bambina avesse immagazzinato dentro di sé un’ingente quantità di sostanze nutrienti, sangue e zuccheri, che le sono necessari per crescere».

Sospirai con un sorriso e carezzai ancora la minuscola pancina sotto cui era nascosta nostra figlia, commossa. «Sono sicura che adesso andrà tutto meglio. Cresci, piccolina».

Edward si chinò a lasciarmi un bacio sulla pancia. «Non bere più il sangue della mamma» disse, facendomi ridere fra le lacrime.

«Sei solo geloso» scherzai debolmente.

Sorrise a sua volta, avvicinando le sue labbra alle mie. «Eccome. Nessuno deve bere il tuo sangue» fece, lasciandomi un lunghissimo bacio alla base del collo.

Rabbrividii. Volevo davvero che andasse tutto bene.

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Capitolo 43
*** Ricordo di emozioni ***


Mi ristabilii nel giro di una settimana. Mi sentivo ancora molto fiacca, ero ancora anemica, e Carlisle insistette per continuare a somministrarmi farmaci in vena per assicurarsi che il mio organismo riuscisse a soddisfare le esigenze di mia figlia.

Infine, dopo numerosissime insistenze, riuscii persino ad andare a trovare mio padre a casa sua. Il patto con Edward era che sarei stata accanto a mio padre sul divano e mi sarei riposata per il resto del giorno, mentre lui ed Alice si occupavano del pranzo e della casa. Mio padre fu davvero sollevato di vedermi e capii quanto dovevo averlo fatto preoccupare.

«Come ti senti?» domandai, indicando la gamba ingessata.

«Non è niente» borbottò, volgendosi a guardarmi, serio «e tu, Bella? Stavi molto male, lo so. Ha a che fare con la gravidanza o…» si torse le mani in grembo «so che non deve essere stato facile tornare in quel posto, vedere Billy».

M’irrigidii. Mio padre pensava che avessi avuto una ricaduta dal punto di vista psichiatrico. Non potevo neppure immaginare in che stato mi avesse vista subito dopo il rapimento con Jacob. Ma la verità era che mi sentivo davvero meglio, nonostante la sospensione degli antidepressivi. Rosalie mi aveva avvisato che la gravidanza era un periodo molto particolare e che avrei potuto avere delle ricadute, ma a parte degli incubi, ogni tanto, e un po’ di inquietudine ad uscire all’aria aperta, potevo dire che stavo bene. «No, papà, davvero. Non è per quello» tentai di rassicurarlo.

«Per cosa allora?» fece serio, scrutandomi. «Non sembri stare bene. Sei molto pallida».

Mi mossi a disagio sui cuscini, non sapendo come spiegare a mio padre gli effetti collaterali di una gravidanza vampira.

Per fortuna Edward venne presto in mio soccorso, venendo a sedersi accanto a me. «Bella ha avuto un po’ di anemia. Era molto stanca e per lei e la bambina abbiamo pensato fosse meglio che stessero un po’ più a riposo».

Mio padre strinse le labbra, incerto se credere alle parole di mio marito. Di certo non avrei potuto essere più rassicurante di lui. «E adesso come stai?».

Gli sorrisi, portandomi una mano alla pancia. «Molto meglio, grazie».

«Sicura?».

Edward mi strinse con un braccio da dietro, portando anche lui la mano sulla mia pancia. Annuì.

Sospirai quando fummo di nuovo nell’auto. «Mi ero dimenticata quanto riuscisse ad essere inquisitorio mio padre. Sei riuscito a leggere i suoi pensieri? Hai riconosciuto il volto?» gli domandai. Uno degli scopi con cui eravamo venuti era proprio domandare a mio padre della donna sconosciuta. Aveva detto di averla fatta cercare dai suoi uomini, ma che era come se fosse scomparsa nel nulla. Un’ulteriore prova che mi spingeva a pensare ad un’immortale.

Edward crucciò la fronte. «Solo un po’ meglio».

«Che c’è?» domandai confusa, osservando il suo sguardo stanco e perso.

Scosse il capo. Aveva il viso teso e pallido, le occhiaie e gli occhi neri. «Forse ho un po’ esagerato» mormorò stringendo le mani sul volante.

«Oh Edward» sussurrai, preoccupata, capendo finalmente. Aveva molta sete, ed io non potevo neppure immaginare quanto stesse soffrendo. Mi sentii davvero stupida ad avergli chiesto di accompagnarmi. Il fatto che fosse così bravo a controllarsi non voleva dire che fosse altrettanto semplice. «Scusami».

«Non è colpa tua» mormorò con un sorriso mesto. «Ma è momento che tenga fede alla promessa. Tu stai meglio ed io devo nutrirmi. E poi volevo spingermi a nord con i ragazzi, sono l’unico oltre a tuo padre che ha visto il volto di quella donna e che potrebbe riconoscerlo. Le ragazze sono andate a caccia la scorsa settimana. Potresti stare con loro, va bene?» domandò, incerto.

Come se dovesse chiedermi il permesso o sentirsi in colpa a lasciarmi per un paio di giorni. «Portami subito a casa e vai» riuscii solo a dire.

Annuì, poi si bloccò, teso. «Se solo…».

«Cosa?» domandai.

Rilassò a fatica i muscoli. «La tua vicina di casa. Il suo odore, i suoi pensieri. È così concentrata su di noi che non riesco a distogliere l’attenzione».

«La mia vicina?» domandai sorpresa, seguendo il suo sguardo.

Era sul vialetto di casa, facendo finta di ritirare la posta mentre intanto ci scoccava per nulla discrete occhiatine di soppiatto. Presi un respiro, arrabbiata. Aprii lo sportello e scesi dall’auto «Ehi» la chiamai a voce alta, facendola trasalire «Adesso sono incinta, contenta? Io sì, molto. Se vuoi la prossima volta ti porto una foto dell’ecografia. Smettila di spiarci!» sbottai, rimettendomi seduta e sbattendo la portiera. Feci un cenno con il mento «Parti».

Edward mi fissò sgomento. «Pensavo che non volessi che la gente pensasse che fossi incinta».

«Quello era prima che fossi realmente incinta. Sono molto orgogliosa di mia figlia. E mi dà molto fastidio che ti diano problemi» spiegai, incrociando le braccia sul petto.

Scosse il capo con un mezzo sorriso, mettendo in moto. «La mia moglie protettiva».

Edward mi lasciò con un lunghissimo bacio, facendomi promettere che non mi sarei stancata, che non sarei stata troppo tempo in piedi e che lo avrei chiamato subito se avessi avuto un problema di qualsiasi tipo. Gli feci promettere che avrebbe fatto altrettanto e che non sarebbe stato sprovveduto con quella donna probabilmente immortale.

Partì quasi subito con Jasper, Emmett e Carlisle e le ragazze vennero a farmi compagnia. Non era solo della compagnia che avevo bisogno, ma di sentirmi protetta, e mio marito lo sapeva. Volevo provare a me stessa di essere in grado di stare da sola, ma sapevo che avevo bisogno di ancora un po’ di tempo per arrivare a quel punto.

«Tesoro, vuoi dei biscotti?» mi chiese Esme, porgendomi un vassoio ricolmo di ogni tipo di biscotto al cioccolato.

«Sì, grazie! Sto morendo di fame» confessai, mettendone uno in bocca.

Rosalie ridacchiò. «Ma se hai appena finito di mangiare! Passata la nausea?».

«Mmm» feci, con un biscotto in bocca, prendendone un altro «no, nienfe affaffo… ma ho fame».

«Bella!» esclamò Alice vendendo verso di me con una pila immensa di giornali, che si sollevava dalle sue braccia fin sopra la testa.

Afferrai un altro biscotto, osservandola con curiosità mentre posava tutti i giornali per terra, formando una pila di 70 cm. «Cfhe fono?» chiesi masticando.

Il suo viso s’illuminò. «Riviste di ultima generazione su gravidanza e bambini!» esclamò contenta «abbiamo tutto il pomeriggio per leggerle!».

«Tutte?» chiesi esterrefatta, indicando la pila.

«Certo! Edward si è raccomandato di non farti stancare, così potrai startene comodamente distesa sul divano. E poi così potremmo fare qualcosa tutte insieme, è divertente, non trovi?» chiese euforica.

Esme venne in mio soccorso. «Magari Bella vuole riposarsi, dev’essere abituata a dormire di pomeriggio».

Intervenni prima che il broncio di Alice si trasformasse in vere e proprie lacrime silenziose. «No, va bene, cominciamo e poi magari vediamo fin dove riusciamo a leggere» feci titubante.

Immediatamente si rallegrò trascinando con sé Rosalie e anche Esme. Passammo molto tempo a leggere articoli di giornale sulla gravidanza e sui neonati. C’erano moltissime cose che ignoravo completamente essendo una ragazza appena diciannovenne, ma me ne stavo rendendo conto solo allora. Tentavo sempre di smorzare il mio entusiasmo con Esme e Rosalie nei paraggi, non era mia intenzione farle intristire. Loro tuttavia sembravano tranquille e serene, felici di immaginare la piccola e di avere la possibilità di prendersene cura.

Quando fu ora di andare a dormire ero molto stanca. Sì, non ero più anemica come prima, ma il mio corpo stava facendo gli straordinari per stare al passo della gravidanza. Avevo sentito Edward al telefono poco dopo cena e ci eravamo reciprocamente rassicurati che andasse tutto bene. E sapevo che aldilà della porta c’erano Alice, Rosalie ed Esme, pronte a proteggermi e a rassicurarmi, ma sentivo un’inquietudine dentro che, mi rendevo conto, mio marito era l’unico in grado di scacciare.

Presi il cellulare in mano ed esitai. Gli avevo promesso di chiamarlo per alcun genere di problema, ma sapevo che si sarebbe preoccupato tantissimo. E volevo che si nutrisse, che stesse con la sua famiglia e che uscisse, ogni tanto, non sentendosi in dovere di stare sempre con me. Mi rannicchiai sotto le coperte. Magari avrei potuto prendere dei calmanti, ma non volevo ricominciare proprio ora che mi sembrava di stare meglio. Sospirai, voltandomi da un lato all’altro nel letto. Ormai era notte fonda, ed ancora non avevo chiuso occhio. Mi carezzai la pancia, dolcemente, pensando alla grazia che avevamo ricevuto con quella gravidanza. Canticchiai alla bimba la ninna-nanna che Edward aveva scritto per me, ma neppure quello riuscì farmi addormentare.

La verità era che mio marito mi mancava terribilmente ed ero molto preoccupata per la storia dell’immortale. Forse mi ero creduta più forte di quello che ero.

Decisi di andare a fare una doccia calda, sperando che mi sarei rilassata e che sarei riuscita a dormire. Sbadigliai, stanchissima, adocchiando nell’angolo del bagno la cesta con i panni sporchi. Esitai, poi afferrai la t-shirt di Edward, quella che aveva usato il giorno prima. La portai al naso: profumava ancora di lui. La indossai e mi accoccolai ancora nel letto. Canticchiai ancora e ad un certo punto, sfinita, dovetti addormentarmi.

Non ricordai immediatamente di aver sognato, ma mi svegliai che ero piuttosto inquieta. Dovevo aver fatto un incubo.

Qualcuno, Esme forse, mi aveva messo addosso una coperta, senza svegliarmi. Notai intorno a me la luce soffusa del cielo perennemente coperto di Forks. Doveva essere tarda mattinata. Dopo aver mangiato tutti quei biscotti, la sera prima, avevo la bocca molto secca. Di solito Edward mi faceva bere dopo mangiato o appena mi svegliavo. Un’attenzione cui non avevo mai dato particolare peso; decisi di alzarmi per andare a prendere un bicchiere d’acqua.

Misi dei pantaloni della tuta che avrebbero sicuramente fatto rabbrividire Alice, ma non me la sentii di rinunciare alla maglietta di Edward.

«Buongiorno» mi salutò Esme dalla poltrona dove stava leggendo un libro. Mi sorrise con dolcezza. «Hai dormito tesoro?».

Mi massaggiai le palpebre stanche. «Sì, grazie» mentii. Beh, qualche ora dovevo aver dormito e la consideravo una vittoria.

«Ti serve qualcosa?» domandò attenta a rispettare i miei spazi, ma accorta «Non ti stancare, chiedi a me».

Feci un mezzo sorriso. «Vado solo a prendere un bicchiere d’acqua» feci, dirigendomi verso la cucina. Presi un bicchiere e mischiai un po’ di acqua del rubinetto con quella in bottiglia che avevamo in frigo.

«Buongiorno Bella. Che fai?» mi chiese curiosa Rosalie, indicando il bicchiere.

Osservai le due bottiglie. «È… perché mi dà fastidio il sapore dell’acqua appena sveglia, lo fa sempre Edward» mormorai, bevendo l’acqua e tentando di non pensare alle mie stesse parole.

«Torneranno fra poco, vedrai» mi rassicurò lei, intuendo i miei pensieri. Lo speravo, mi mancava davvero tantissimo.

Annuii, non riuscendo a nascondere la mia insicurezza. «Non so se ho più paura che la trovino o che non la trovino».

Venne accanto a me, sfregando le mani sulle mie braccia come a rassicurarmi. «Hanno chiamato prima. Stanno bene, torneranno nel pomeriggio. Hanno corso, si sono divertiti e hanno cacciato. Vedrai, Edward starà molto meglio quando sarà qui, molto meno burbero e rompiscatole del solito».

«Oh, hanno già chiamato» sospirai delusa. Avrei tanto voluto sentire la voce di mio marito.

Rose colse la mia delusione. Mi carezzò il mento con una mano. «Puoi provare a richiamare se vuoi».

Alice saltellò verso la cucina. «Adesso sono nel bel mezzo della foresta, il cellulare non ha campo. Dai, Bella. Vieni a riposarti sul divano, non stare in piedi tutto questo tempo. Non fa bene né a te né alla bimba. Invece tuo marito sta benissimo» disse con un sorriso «ha preso già due puma».

«Ugh» feci schifata «okay, non volevo i dettagli».

Mi andai a sedere sul divano bianco con Alice, accendendo la Tv e cominciando a fare zapping; volevo trovare qualcosa di impegnativo, che mi distogliesse dall’assenza di mio marito. Infine scovai un programma per bambini sulle storie delle fiabe. Era divertente e faceva ridere per la sua banalità, così rimasi a guardarlo.

D’un tratto sentii qualcuno schiarirsi la voce. «Mmm… Bella, tutto bene?» fece Alice.

Solo in quell’istante mi accorsi di aver posato la testa sulla sua spalla e aver intrecciato le mie dita con le sue. Divenni rossa d’imbarazzo. «Oh, scusa, io… è che sono abituata… non l’ho fatto apposta… solo che… ecco… Edward…» balbettavo velocemente, a disagio.

Alice rise «E dai Bella, non è successo nulla, volevo solo prenderti un po’ in giro» disse abbracciandomi e schioccandomi un bacio su una guancia. «Ho una sorpresa per te, per distrarti un po’» disse, scomparendo e ricomparendo poco dopo con un bellissimo pacchetto bianco con un fiocco dorato.

«Oh, Alice. Sai che i regali mi mettono sempre in difficoltà» feci imbarazzata.

«Non questo, ti piacerà» fece sicura.

Esme e Rosalie vennero da noi. «È vero, ti piacerà Bella».

«Okay» sospirai incuriosita, scartando con attenzione la carta. C’era stato già abbastanza sangue in quei giorni. «Ma è… grazie!» esclamai aprendolo. C’era un set nuovissimo di pennelli italiani di cinghiale e di colori ad olio con un bellissimo pigmento, insieme a tre libri sull’arte. «È un regalo bellissimo. Grazie» esclamai, abbracciandole di slancio.

Esme ridacchiò. «Sono contenta che ti piaccia. È un po’ di materiale per il prossimo semestre in accademia. Edward ci ha detto che vuoi riprendere. Credo che la sorpresa non sia finita però» disse guardando Rosalie, che con un sorriso mi porse il cellulare.

Lo afferrai titubante, e lo portai all’orecchio. «Pronto?». Il cuore mi batté forte perché c’era solo una voce che volevo sentire in quel momento, quindi fui un po’ delusa quando capii che non era mio marito.

«Bella? Bella sei tu?».

«Amber!» sospirai felice, scacciando subito la delusione. Era da tempo che non la sentivo e mi era mancata. Mi ricordava una vita umana e normale, una quotidianità lontana da quel momento.

«Bella! Oh, quanto tempo! Mi sei mancata tantissimo, sai?! Seguire i corsi senza te non è stata la stessa cosa!». Con il suo solito entusiasmo e la sua solita, solare, gioia di vivere, la mia amica d’università mi regalò più di un sorriso. Mi aggiornò sul programma di studi e su cosa avrei dovuto studiare per rimettermi in pari. Parlammo molto a lungo, mantenendo gli argomenti sull’università e le mostre che ci sarebbero state in città, e alla fine della telefonata le promisi che ci saremmo riviste presto.

Mi aveva fatto molto piacere sentire Amber: per tutta la durata della conversazione, avevo potuto completamente dimenticare l’esistenza di tutto all’infuori di me. Vidi una vita normale, fatta di umani, di college, di studi e di lavoro. Alice aveva avuto ragione, ero riuscita a distrarmi.

Riuscii a pranzare con il buonissimo cibo cucinato da Esme senza vomitare. Era una cuoca fenomenale e mi piaceva tantissimo passare del tempo con lei in cucina. Speravo che presto le nausee passassero presto e che avremmo potuto ricominciare a farlo.

Sbadigliai, molto stanca, portandomi una mano alla pancia. Sentivo come un senso di peso e come se fosse più tiepida del solito.

«Tutto bene?» mi domandò attenta mia suocera, carezzandomi dolcemente la pancia. Era accanto a me, sul divano del salotto.

Annuii, reprimendo un altro sbadiglio. «Non è niente, sono un po’ indolenzita».

I suoi occhi chiari si fecero più attenti e mi sistemò meglio la coperta sulle gambe. «Dovresti sdraiarti un po’, riposare».

Le feci un piccolo sorriso. «Tranquilla, mi capita spesso. Devo solo fare un sonnellino» feci, malinconica. Edward mi accompagnava a letto a quell’ora, coccolandomi finché non mi addormentavo, non prima di somministrarmi tutti i preziosi farmaci che mi tenevano in vita.

«È l’ora della medicina» disse Rosalie con un sorrisino, comparendo accanto al divano con tre compresse in una mano e due siringhe nell’altra.

Mi nascosi il viso con la coperta. «Non ce la posso fare» biascicai con voce soffocata, facendola scoppiare a ridere insieme ed Esme. Abbassai la coperta quanto bastava per liberare un occhio. «Vi prego, non possiamo aspettare che torni Carlisle o Edward…? Rose, non è che non mi fidi di te, è che conosci le mie difficoltà» biascicai querula. In quelle settimane stavo avendo una terapia d’urto riguardo alla mia fobia degli aghi.

Rose sollevò un sopracciglio insieme alla sua logica di ferro, facendo scintillare minacciosi gli aghi. «Intendi le tue difficoltà con questi preziosi farmaci che salvano la tua vita e quella della bambina?» mi prese in giro.

Mi nascosi ancora sotto la coperta, sprofondando arrendevole nel divano. Neppure Edward avrebbe potuto salvarmi da quello.

Così dopo una sceneggiata degna di mia figlia non ancora nata e svariati punti di dignità persi, me ne stetti buona, buona sul divano, aspettando che il mio prode principe azzurro tornasse dalla caccia per salvarmi. L’inquietudine di non averlo accanto era tanta, ma presto vinsero le ore di sonno che avevo perso quella notte lontana da lui, così, tormentata, mi addormentai.

Sognai l’oceano gelido ed io che ci nuotavo. In lontananza una donna che non riuscivo a distinguere. La chiamavo, cominciavo a nuotare verso di lei, ma più volevo gridare forte più la mia voce si bloccava e più volevo nuotare veloce più le mie braccia si facevano pesanti. E quando infine non riuscii più a muovermi capii perché: delle grandi braccia calde mi stavano trattenendo. Quando mi voltai a fissare il suo volto sapevo già a chi appartenessero: Jacob.

Mi svegliai sudata, ansimando, seduta sul divano. Subito mi colpì fortissima la sua assenza: le sue braccia fredde mi avrebbero già raggiunta, circondata, impedendomi di andare in pezzi. Mi avrebbe mormorato una frase dolce all’orecchio o forse solo una nenia, e io avrei capito che niente di ciò che mi faceva paura era reale.

«Bella» mi chiamò Esme preoccupata, scostando le tende. «Tutto bene?».

Mi concentrai per rallentare i miei ansiti frenetici. Mi guardai attorno. Era solo una coperta, una coperta troppo calda che mi aveva portato dei pensieri spiacevoli. Non era reale. Annuii. Non era reale. «Sì» soffiai con un filo di voce.

Si avvicinò cautamente, quasi avesse paura di spaventarmi. «Cos’è successo?».

Scossi il capo, fissando il mio sguardo sulle mani. Il cuore non aveva ancora rallentato la sua folle corsa, e io avevo bisogno di qualcosa di reale per ricominciare a pensare normalmente. «Il progesterone» sibilai afona. Mi schiarii la voce. Deglutii. Ancora non riuscivo a parlare, perché quel maledetto sogno mi era sembrato così reale e l’inquietudine che sentivo non accennava a passare. Il progesterone, che mi somministravano ogni tre giorni per sostenere la gravidanza e scongiurare la minaccia d’aborto, mi faceva sempre fare degli incubi. Edward lo sapeva, non avrebbe mai permesso che mi svegliassi in quello stato senza starmi accanto.

Esme si venne a sedere accanto a me, carezzandomi il capo. «Ha chiamato, prima» mormorò sottovoce, facendomi quasi trasalire «voleva sapere come stessi. Mi ha chiesto di non svegliarti, aveva paura che non avessi riposato abbastanza questa notte».

Annuii, non riuscendo a parlare. Sapeva sempre tutto. Avevo un magone tale che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in lacrime, e non volevo: mio marito avrebbe visto i suoi pensieri al ritorno. Così mi feci coraggio, mi asciugai i palmi delle mani sudati sui pantaloni e mi alzai, dirigendomi verso il nostro bagno. Non potevo piangere.

Lottai contro me stessa finché decisi che non potevo più aspettare. Nonostante Alice mi avesse ripetuto che sarebbe stato in una zona isolata provai a richiamarlo, camminando avanti e indietro, inquieta, nel soggiorno. Non squillò neppure una volta e mi rispose subito la segreteria telefonica.

«Bella» mi chiamò Rosalie dal salotto «vieni di qua. C’è il caminetto acceso. Sdraiati un po’, non ti fa bene stare così tanto tempo in piedi».

Annuii, chiudendo la chiamata e ricomponendo il numero. «Arrivo fra un attimo» mormorai, facendola sospirare.

Anche quella volta mi rispose la segreteria. Mi arresi a lasciargli un messaggio. «Ciao» esitai, incerta «spero che sia andato tutto bene e che ti sia divertito. Mi… dispiace non averti sentito prima» tentennai, spostando il peso da un piede all’altro «mi machi» soffiai infine, chiudendo velocemente la chiamata.

Non feci in tempo a mettere via il cellulare che sentii suonare alla porta.

Immediatamente fui presa da un moto di sollievo. «Vado io!» esclamai, andando verso la porta d’ingresso e verso mio marito.

Chi mi trovai di fronte invece fu Emmett. «Lilla! Ciao!» esclamò subito, buttandosi in ginocchio e cominciando a parlare con la mia pancia.

«Dov’è Edward?» chiesi ansiosa, guardando alle sue spalle ed ignorando il nome dato alla bambina.

 «Ma ciao Lilla. Che combini lì dentro, eh? Dillo allo zio Emm. Tesoro!».

«Emmett, rispondimi» dissi decisa, tirandogli i capelli tanto da costringerlo ad alzare lo sguardo.

«È rimasto con Jasper, verrà fra un po’» mi rispose prima di ricominciare a parlare con la bambina che si sarebbe chiamata in tutti i modi men che “Lilla”.

Mi andai a sedere, delusa, trascinando inevitabilmente anche Emmett, sul divano. L’inquietudine che mi aveva lasciato il sogno e l’assenza di Edward non accennava a diminuire. Avevo paura che presto sarebbe cresciuta tanto che non sarei riuscita a gestirla.

Infastidita, interruppi Emmett che continuava a parlare con la mia pancia. «Emmett, smettila, è lunga appena due centimetri e mezzo, non ti può sentire».

«Mia nipote ha preso tutto da me» fece saccentemente «secondo me mi può sentire, è intelligente».

«Va bene, ma ora smettila» dissi, cercando di suonare un po’ meno burbera, abbassando la maglietta e scacciando le sue mani fredde. Non volevo prendermela con lui, ma mi sentivo indisposta per mancanza di mio marito.

Al secondo suono alla porta scattai nuovamente in piedi, ignorando i rimproveri di Alice e Rosalie che mi dicevano che stavo troppo tempo in piedi e che sarebbero potute andare loro ad aprire.

L’unico vampiro che attraversò il portone fu però Jasper. «Ragazzi, c’è un freddo fuori, meno male che sono un vampiro».

«Dov’è Edward?» chiesi ansiosa.

Abbassò il suo sguardo sul mio. «Bella… stai bene?» chiese sorpreso, sollevando un sopracciglio.

«Sì, sì. Dov’è Edward?» ripetei, sempre più agitata, rispondendo frettolosamente alla sua domanda.

Piantò gli occhi dei miei, corrugando le sopracciglia. «È con Carlisle. Tutto bene?» chiese titubante, leggendo probabilmente le mie emozioni.

«Sì» mormorai afflitta e seccata, abbassando le spalle e trascinandomi nel soggiorno.

«Bella! La cena è pronta!» mi chiamò Esme.

Non volevo deludere le sue aspettative, ma riuscii appena a mandare giù un paio di bocconi di cibo. Se avessi mangiato di più avrei certamente vomitato.

Emmett mi prese in giro, dicendomi che quella sera non ero per niente divertente e Jasper scoccò un’occhiata ad Alice, cauta e perplessa. Da quando era arrivato mi sentivo più tranquilla, ma mi metteva a disagio l’idea che stesse manipolando le mie emozioni.

Tanto meglio. Non volevo che Edward leggesse nei loro pensieri la mia fragilità, così mi decisi ad approfittare di quella tranquillità artificiale per ribattere a tono ad Emmett e rimetterlo scherzosamente al suo posto. Mi raccontarono che si erano divertiti molto cacciando, ma che non avevano trovato alcuna traccia di quella probabile donna immortale. Jasper disse di non preoccuparmi, che si era trattato probabilmente di una “visitatrice occasionale”.

Infine, finalmente, suonarono ancora alla porta, e sapevo che questa volta non poteva che essere lui.

«Bella, sta’ seduta, ti sei alzata già troppe volte oggi».

Ignorando completamente le dolci parole di Esme, scattai in piedi, correndo, letteralmente, verso l’ingresso, e sfidando in ogni modo la forza di gravità.

Carlisle comparve sorridente sull’uscio. «Bella» mi salutò, il viso riposato di chi si era appena nutrito e gli occhi ambrati scintillanti concentrati sulle mie guance arrossate per il fiatone. «Tutto bene?».

«Edward?» fremetti, attorcigliando le dita agitata e ignorando la sua domanda.

La sua espressione si fece sorpresa. «Edward? È con Emmett» rispose, come se fosse ovvio.

«Ma lui…» sentii un fortissimo moto d’agitazione e irritazione crescere in me. Ma prima di impazzire decisi di trovare una spiegazione logica e plausibile. «Emmett» lo chiamai, facendolo comparire immediatamente accanto a noi «Carlisle dice che Edward doveva essere con te».

Anche la sua espressione mutò in sorpresa. «Con me? No, il l’ho lasciato con Jasper» fece tranquillo.

Sgranai gli occhi, ancor più agitata. «Jasper!» esclamai, facendolo precipitare insieme agli altri Cullen. «Edward dovrebbe essere con te, perché non è con te?» sbottai d’un fiato, la voce rotta dall’agitazione.

I suoi occhi scivolarono da Carlisle a Emmett. «Io sapevo che sarebbe rimasto con te Carlisle».

Battei le palpebre confusa, mentre la tranquillità artificiale di Jasper scivolava via sempre più rapidamente.

I tre cominciarono a parlare fra loro, velocemente, accusandosi reciprocamente. Rose, Alice e Esme erano attente ai loro discorsi. Infine Carlisle disse, alquanto divertito, «Ci deve essere stato un malinteso. A questo punto devo ritenere che l’abbiamo lasciato indietro».

Emmett e Jasper scoppiarono a ridere.

Io no. Io ero pietrificata sul posto, immobile. Presi dei lenti e ansanti respiri dalla bocca, mentre sentivo la paura e l’ansia crescere esponenzialmente con il suono delle loro risate.

Jasper, il primo ad accorgersi del mio umore grazie ai suoi poteri, si tirò su, osservandomi. «Bella, tutto bene?».

A poco a poco anche gli altri smisero di ridere, facendosi man mano seri.

«No» biascicai querula, sentendo il primo singhiozzo esplodere nel mio petto, senza che lo potessi controllare. «Voi» farfugliai, spaventata ed arrabbiata «voi… l’avete lasciato solo?!».

Emmett riprese a ridere, facendomi arrabbiare ancora di più.

Strinsi i pugni lungo i fianchi fino a far sbiancare le nocche.

Tutti mi osservavano in silenzio, perplessi, e anche Emmett, resosi conto della mia espressione terrorizzata e seria, tacque. «Bella» fece infine Carlisle, tentando di rassicurarmi, «Edward è un vampiro centenario, sa badare a sé stesso, non temere».

Invece di acquietarmi, quelle parole mi fecero inspiegabilmente crollare, facendo esplodere tutta l’inquietudine che avevo tentato di arginare quel giorno e facendo venir fuori tutta la mia vulnerabilità. «No invece» singhiozzai, scoppiando a piangere «lo avete lasciato solo con quella donna di cui non sappiamo niente in giro».

«Oh cara, su non fare così, Edward se la caverà» tentò di rassicurarmi Esme, accarezzandomi un braccio. «Vieni, andiamoci a sedere. Calmati».

«Non ci riesco» piansi divincolandomi, sentendo l’umido e il salato delle lacrime sulle mie labbra.

Jasper fece un passo nella mia direzione, contraendo l’espressione sul suo viso. «È molto agitata, non riesco a calmarla completamente».

«Bella, tranquilla, vieniti a sedere, su, non fare così» mi riprese bonariamente Alice, prendendomi per l’altro braccio.

«Vorrei solo che fosse qui» singhiozzai, pur lasciandomi trascinare.

Mi sentivo vinta, sopraffatta dal terrore che era cresciuto sempre di più e che alla fine era esploso dentro di me. Ero preoccupata per Edward, presa dal panico all’idea di non poter essere certa che stesse bene ed insieme disperata all’idea di quanto la sua assenza mi facesse stare male.

Bevvi quasi inconsapevolmente dal bicchiere d’acqua fresca che mi trovai fra le mani, portandolo alle labbra tremante. Misi una mano sulla fronte, osservando i volti delle persone che mi fissavano attenti e preoccupati. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che avevo avuto un vero attacco di panico? Lasciai che Rosalie mi parlasse, rassicurandomi, senza quasi a riuscire a sentire le sue parole. Capii solo che mi diceva che non era colpa mia, che potevo permettermi di essere fragile ogni tanto. Ma io mi sentivo fraglie sempre.

Quando fui abbastanza calma afferrai la coperta che stava sul divano e mi diressi in silenzio verso la grande vetrata a est della casa. Mi lasciarono andare, discretamente, senza dirmi nulla. Mi sedetti sul loggione, stendendo le gambe sui cuscini, e mi avvolsi nella coperta, poggiando la fronte sulla lastra fredda di vetro.

Mi sentivo stanca, fisicamente e mentalmente. Vedevo, fuori dalla finestra, il vento forte che soffiava via le foglie brune e rossicce dagli alberi sparpagliandole qua e là, così simili ad una folta chioma di capelli ramati… Rabbrividii, stringendomi nella mia coperta. Ero così spossata che sarei crollata in un sonno tormentato, ma non potevo permettermelo. Non sarei sopravvissuta ad un altro incubo.

Il mio fiato caldo, causa la notevole differenza di temperatura, formava un alone opaco sul vetro. Sollevai una mano fino a posarla sulla lastra trasparente, facendo formare intorno alle dita un altro alone bianco.

Improvvisamente sobbalzai, vedendo cinque perfette e bianche dita da pianista posarsi dall’altro lato del vetro, combaciando con le mie e ravvivando l’alone opaco.

Così com’erano comparse scomparirono, per poi apparire, perfette, nella figura di mio marito accanto a me. Gli occhi perfettamente dorati, i capelli scarmigliati dal vento e sulle rosee labbra un magnifico sorriso sghembo fatto di infinite promesse d’amore.

«Edward» sussurrai, senza poter nascondere il tremore nella voce.

Con un sorriso sghembo e con una velocità inumana mi prese fra le braccia, posando le sue labbra sulle mie.

Lo strinsi forte a me, piena di sollievo, desiderosa di non lasciarlo andare via.

«Mi sei mancata» sussurrò ad un mio orecchio.

Trattenni a stento un singhiozzo di sollievo. «Anche tu».

«Ehi, shh» mormorò consolandomi, sollevandomi il mento con una mano. I suoi occhi dolci e comprensivi mi dicevano che sapeva che effetto mi avrebbe fatto la sua assenza. «Tranquilla, sono qui. Oggi è stato un giorno difficile, lo so» mi disse, sfregandomi la guancia con il pollice e scrutandomi con attenzione «hai fatto un brutto sogno? Oggi era il giorno del progesterone».

«Mi fa ancora male» scherzai debolmente fra le lacrime, lasciando dissolvere tutta la mia paura nel calore di pace che sentivo nel petto.

Ridacchiò, portandomi divertito una mano al sedere «Nulla che non si possa rimediare» mi promise, lasciandomi un altro lento, lungo, bacio sulle labbra.

Scossi il capo, asciugandomi le lacrime. «Mi dispiace. Hai detto che eri stato orgoglioso di me per essere riuscita ad affrontare Billy, invece oggi sono stata pessima e ti ho deluso. Perdonami».

Crucciò le sopracciglia, dispiaciuto. «Come potrei essere deluso?» soffiò con amore «sei la creatura più coraggiosa e forte che conosca. Sei stata bravissima. Puoi permetterti di essere fragile, Bella. Hai sospeso gli antidepressivi da poco più di una settimana, hai affrontato l’incidente di tuo padre e i mille pericoli in questa gravidanza. È normale che tu abbia bisogno di un punto di riferimento per stare bene».

Tirai su con il naso, fissando le sue iridi chiare. «Mi prometti che andrai comunque a caccia in futuro?».

Sospirò con un sorriso, chinandosi ad abbracciarmi. «Oh, mia coraggiosa umana».

E lasciai che mi abbracciasse forte, mettendo a posto tutti i pezzi di me che erano andati in frantumi.

«Bella! Stai ancora mangiando?» chiese scioccata Alice più tardi, indicandomi e distraendomi dai miei pensieri.

Stavo stesa sul divano, fra le gambe di Edward, con la schiena appoggiata al suo petto. L’inquietudine era andata via come una marea che scompare, lasciandomi calma e spossata. «Mmm… ho fame» biascicai con in bocca un cucchiaino di gelatina alla frutta, che estrassi per immergerlo nuovamente nel composto rossastro e traslucido.

Alice incrociò le braccia al petto, fissandomi con disappunto. «E voi non le dite nulla! Ha già cenato, dovrebbe seguire una dieta basata su pasti sani!». Quando vide che nessuno diceva nulla, incalzò «Edward, questa da te non me la sarei mai aspettata. E anche tu Carlisle, insomma, che medico sei?» fece imbronciata.

Io lo fissai con il cucchiaino in bocca e uno sguardo piuttosto eloquente. Nessuno poteva mettersi fra me e la mia gelatina!

Allo stesso modo Alice gli riservò un vero sguardo imbronciato.

Mi aspettai di vedere Carlisle per la prima volta in difficoltà, invece disse «È vero che dovrebbe fare dei pasti sani, ma è vero anche che Bella è leggermente sottopeso. Una gelatina non le farà male» concluse stringendo la mano di Esme che stava seduta accanto a lui sul divano.

Erano tutti tranquilli e scherzosi, come se nulla fosse accaduto.

«Scusatemi per prima» mi sentii di dire imbarazzata, mettendo via la gelatina.

«Oh, tesoro, non c’è bisogno che ti scusi di nulla» fece Esme con un sorriso «noi ti capiamo».

«Piuttosto, Edward» fece Rosalie, finendo di attizzare il fuoco del camino «dove ti eri cacciato?».

Scrollò le spalle, lo sguardo perso. «Stavo seguendo una strana traccia. Mi è sembrato di sentire i pensieri di qualcuno, ma poi sono scomparsi troppo in fretta».

«Poteva essere quella donna?» incalzò Jasper.

Fece spallucce. «Chi può dirlo».

Emmett batté i palmi delle mani sulle ginocchia. «Io dico: torniamo a cercarla» fece, facendomi irrigidire inconsapevolmente.

Carlisle gli lanciò un’occhiata. «Io dico che è ora di andare a dormire. Nessuno si esporrà più per questa donna. Cercarla potrebbe solo indurla ad avvicinarsi di più. Alice cercherà le sue decisioni e se si avvicinerà ancora saremo pronti ad ascoltarla» fece cautamente.

Alice annuì, seria, e io mi lasciai andare serenamente con la testa sulla spalla di mio marito, sbadigliando stanca.

Mi baciò la fronte. «Se volete scusarci» disse, aiutandomi a sollevarmi «è l’ora di andare a dormire».

Crollai subito, sfinita, abbracciata a mio marito. E quella notte non ci fu alcun incubo. Nei giorni successivi andò meglio. Edward fu molto attento e mi seguì da vicino, tanto da essere sicuro che non avessi bisogno del suo continuo supporto. Con il nuovo materiale e le informazioni di Amber riuscii a ricominciare a studiare, ponendomi come obbiettivo quello di recuperare il tempo perduto.

Segnai con il dito il confine della mia pancia, sorridendo, per un attimo distratta dai miei studi. Non perduto completamente; usato per far crescere l’esserino posto appena sotto le mie dita.

Sentii il suono del vetro contro il metallo. Edward era entrato nello studio con un bicchiere di spremuta d’arancia, posandolo sul tavolino da tè.

Sorrisi, scuotendo la testa. «Amore, qualcuno potrebbe pensare che mi approfitti di te. Cosa facevi prima di conoscermi?» feci sarcastica.

Lui mi sorrise, scostando la mia mano per baciare la pancia e per poi salire a posare un bacio sulle mie labbra. «Un sacco di cose poco divertenti» mi spiegò brevemente.

«Edward» voleva essere un rimprovero, ma non riuscii a nascondere l’ilarità nella mia voce.

Mi prese le mani fra le sue e le strinse strofinandole con i pollici. «Davvero, Bella. Non ti sto accanto solo per evitare che tu abbia un attacco di panico. Mi piace stare con te. È per questo che ti ho sposato».

Sospirai, liberando una mano dalle sue per accarezzargli una tempia, godendo della sua espressione assorta nelle mie carezze. Speravo che con il tempo sarei riuscita ad essere più indipendente, non perché non lo volessi accanto, ma perché volevo stare bene anche senza averlo accanto.

«A cosa pensi?» chiese curioso, riaprendo gli occhi e indagando l’espressione del mio viso.

«A te» risposi semplicemente, raccontandogli una parte della verità.

Sollevò le nostre mani unite e poggiò le sue labbra fredde sul dorso della mia mano. «Hai finito di studiare?» mi chiese osservando il libro accanto a me.

Sbuffai, prendendolo con una mano e aprendolo alla pagina che doveva interessarmi. «No, affatto, sono indietro e devo recuperare tutto» dissi rimettendomi a leggere.

Attese un po’ con me per farmi compagnia, ma poi decise di lasciarmi sola per poter studiare senza distrazioni, così potei concentrarmi completamente sulle materie trattate dai grossi tomi. Facendo un salto nel passato, mai avrei immaginato di poter essere così coinvolta in quelle materie artistiche. Mai, avrei pensato di pretendere con tale forza di volontà una certa autonomia negli studi, artistici per giunta.

Sentii dentro di me una strana sensazione di deja vu, nata come una fiammella, scomparsa man mano per lasciare solo un pallido e freddo ricordo di sé. Battei le palpebre lentamente, guardando la porta chiusa dello studio. Possibile che il mio patologico attaccamento a Edward si manifestasse anche con un distacco così breve? Scossi il capo, ricominciando a leggere con più attenzione.

Tuttavia, dopo due ore e mezza potei dire di essermi definitivamente scocciata. Non ero più abituata a stare concentrata sui libri per così tanto tempo, e la nausea, che ancora perdurava, mi dava un’eccellente motivazione per distrarmi.

Mi sollevai dal divano dello studio, dirigendomi in cucina alla ricerca di mio marito e di un po’ di sana distrazione e, perché no, qualcosa da mettere sotto i denti.

La prima cosa che intercettai appena misi piede fuori dalla porta fu l’odore delizioso del caffè. Mi avventurai, come attratta da un’enorme calamita, nel soggiorno, da cui l’aroma veniva diffuso.

Non appena adocchiai la tazza di fumante liquido nero, una voce mi colse in fallo.

«Bells, sei in piedi?» chiese mio padre, seduto sulla poltrona accanto a mio marito.

«Papà?» domandai sconvolta, rinunciando immediatamente alla possibilità di avere anche solo un assaggio di caffè. «Che ci fai qui?» domandai sorpresa, raggiungendoli velocemente in soggiorno.

Incrociò le braccia al petto, scrutandomi. «Mi sono fatto accompagnare da un amico» borbottò, ma da come arrossì pensai che si fosse fatto accompagnare da un’amica.

Sorrisi, chinandomi a baciargli una guancia, decidendo di non indagare ulteriormente. «Sono contenta che tu sia qui» dissi sincera, sistemandomi poi accanto a mio marito, facendomi circondare dal suo abbraccio freddo.

«Mi sembri meno pallida» fece mio padre studiandomi.

Sollevai gli occhi al cielo. «Sto benissimo». Certo che ero meno pallida. I miei medici personali si assicuravano costantemente che la mia emoglobina non scendesse sotto il valore di 10, somministrandomi più e più farmaci ogni giorno.

«Finito di studiare?» mi chiese a bassa voce Edward.

«No» mormorai sbadigliando. «Non ce la farò mai a recuperare tutto, ne sono certa».

Lui scosse la testa in disappunto. «Non essere sciocca, hai fatto tantissimo».

«Quando comincerai a frequentare?» chiese mio padre, inserendosi nel discorso.

«Fra due settimane, all’inizio del nuovo trimestre».

«Oh» fece lui, abbassando lo sguardo sulla tazza di caffè, - mio caffè - che stava sorseggiando. Era arrossito e pareva stranamente assorto nei suoi pensieri. Avevo dato per scontato che fosse venuto solo a controllare che stessi bene, ma ora che lo vedevo così mi chiedevo se non ci fosse dell’altro.

Sentii mio marito irrigidirsi al mio fianco, così mi voltai verso di lui allarmata. Ma nei suoi occhi vidi solo un’espressione composta e serena, tipica maschera di un vampiro.

«Papà?» feci titubante, tastando il terreno. «C’è qualcosa che non va?».

Lui lanciò un’occhiata a Edward, e poi a me. Sembrava a disagio. «Vedi, ecco» cominciò, titubante «devi sapere che in paese si è saputo del tuo… stato» fece cautamente.

Cacciai un respiro secco. Doveva essere stata quella pettegola della mia vicina. «Papà, non m’importa che sappiano che sono incinta, anche se sono giovane io e Edward siamo sposati e le voci di provincia sono l’ultima cosa che…».

«No, no» m’interruppe, sollevando una mano «non è questo» disse con una pausa, in seria difficoltà su come continuare.

Mentre sentivo la presa di Edward intensificarsi e cementarsi sulla mia spalla, vidi Charlie muoversi imbarazzato sulla poltrona. Guardai mio marito. Dal suo sguardo potevo dire che si trattava di qualcosa che lo turbava. «Di cosa si tratta papà?» chiesi allora agitata.

Temporeggiò ancora, passando con gli occhi da me a Edward. Poi sospirò. «Tutti credono che il bambino non sia di Edward… che sia…».

«Basta così» sbottai, indignata, voltandomi verso mio marito.

Era rigido, la mascella serrata e gli occhi lontani.

Non poteva essere. Non poteva essere, ancora, il nostro tormento. Mi sentii ferita e addolorata all’idea di quanto potesse fare male a Edward.  

Gli accarezzai la guancia marmorea con delicatezza e attenzione. «Edward» sussurrai, avvicinandomi al suo orecchio in modo che solo lui mi sentisse. «Sono solo umani, non importa quello che dicono: questa è la nostra bambina e non saranno certo delle stupide menzogne a farlo cambiare».

Sospirò, allontanandosi lievemente da me e fissando il vuoto, immobile.

Avrei voluto continuare a parlargli, rassicurarlo, capire le sue motivazioni, ma la presenza di mio padre me lo impediva. Mi voltai verso di lui, incontrando il suo sguardo dispiaciuto. «Mi dispiace che tu debba sentire queste cose papà, ti prego di non preoccupartene più» feci con un sorriso di scuse.

«Non ti preoccupare Bells» disse, recuperando le sue stampelle. «Non sapevo se dirvelo» esitò poi, incerto «ma non volevo veniste a saperlo da qualcun altro».

«Grazie» sospirai afflitta, stringendo la mano di mio marito, ancora immobile.

Edward riaccompagnò a casa mio padre e quando tornò mi sembrava più sereno di prima.

«Tutto bene?» gli domandai preoccupata, studiandolo di sottecchi.

«Sì» sospirò, togliendosi la giacca bagnata dalla pioggia «Non pensavo che delle voci di stupidi umani potessero darmi tanto fastidio, ma ora ti capisco. Mi secca molto» commentò freddamente.

Mi avvicinai e lui mi strinse a sé, posando un bacio sui miei capelli. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo alla mia vicina».

Fece una risatina stanca al ricordo. «Sarebbe successo comunque. È solo che… non capisco come faccia ancora ad intervenire così nelle nostre vite» fece una breve pausa, serrando più forte la mascella, pensieroso. «Non importa, non diamogli il potere di farlo» concluse infine, illuminando nuovamente il dorato dei suoi occhi nei miei.

Sorrisi debolmente, lasciandogli un altro bacio proprio sull’angolo della bocca. «Stai meglio?».

«Sì» rispose sincero, determinato a concludere il discorso.

Neppure io volevo più parlare dell’argomento, sarebbe stato solo un motivo per non essere felici. «Bene» dissi serena, dirigendomi verso la cucina.

Cominciai a prepararmi qualcosa da mangiare. Da quando potevo fare molte più cose, Edward aveva cominciato a lasciarmi i miei spazi, a concedermi di essere autonoma e indipendente ed io man mano stavo riprendendo il controllo della mia vita.

Ebbi nuovamente quella strana emozione, simile a un ricordo antico e abituale, quando sollevai per un istante il bicchiere d’acqua. Per un attimo mi trovai come sospesa, in un mondo piano e parallelo fatto solo di quell’emozione, che se ne andò via lasciandomi un nugolo nel petto. Una cosa davvero strana.

«Lo sai Bella, che passi troppo tempo in piedi? Non dovresti stancarti di meno?» chiese sarcastico Edward, approfittando del blocco nella scioltezza dei miei movimenti.

«Ah sì, tu dici?» chiesi sollevando gli occhi al cielo e sedendomi accanto a lui, posando il piatto sul tavolo.

«Sì, io dico» fece con finta aria di rimprovero. «Carlisle ha detto un paio d’ore e ne sono passate quasi tre».

«Mmm… allora sì…» biascicai addentando un pezzo del mio pranzo e rivivendo, ancora una volta, la stessa, ormai abituale, emozione antica. M’irrigidii automaticamente.

Notai che Edward mi osservava accigliato.

Scossi il capo con noncuranza, finendo di mangiare in silenzio e lasciando che altrettanto in silenzio, giocasse con una ciocca dei miei capelli.

Non appena il telefono squillò, mi alzai facendo scattare indietro la sedia e con una risata dispettosa andai a rispondere. «Pronto?» chiesi trafelata dalla breve corsa.

«Bella, sei tu? Come mai non ha risposto Edward? Sei sempre in piedi» concluse Carlisle divertito.

Sentii due mani fredde sulla vita e dopo un piccolo volo e un’esclamazione di sorpresa, mi ritrovai sul divano, stretta nella morsa di mio marito che mi solleticava con impertinenza. Ripresi fiato finché non riuscii nuovamente a parlare. «Ora non più» biascicai infine arrossendo, conscia del fatto che mio suocero avesse sentito tutto.

Si sentì una breve risata. «Potresti passarmelo? Alice ha previsto che ci sarà un temporale e mi ha chiesto di avvertirlo, nel caso volesse giocare con noi».

Mi irrigidii un attimo, sorpresa, congelando il sorriso sulle mie labbra. Poi passai in silenzio il telefono a Edward. Sentivo che, egoisticamente, non volevo che andasse. Ma, d’altra parte, era giusto che lo facesse; trascorreva sempre meno tempo con la sua famiglia per potersi dedicare completamente a me.

Mi accorsi che aveva già finito di parlare e che mi osservava attentamente, muto.

«Cosa fai?» chiesi titubante, riemergendo forzatamente dai miei pensieri.

«Stavo tentando di capire a cosa pensi».

Feci una risatina. «Ancora non ti sei dato per vinto?» chiesi sarcastica. Allontanai per un attimo lo sguardo, tentando di apparire disinvolta. Non volevo che andasse via, eppure era giusto che lo facesse. «A che ora devi andare?» chiesi, non guardandolo volutamente negli occhi.

Sentii le sue braccia stringermi più forte. «Non ci vado».

Sollevai lo sguardo, opponendomi alla parte di me che vilmente giova. «Perché no? Dai, Edward, lo so che ci vuoi andare. Vai» lo incoraggiai con un mezzo sorriso finto.

Lui sospirò, facendo così sollevare i miei capelli. «Te l’ho detto» fece serio «mi piace stare con te».

«Edward» mi lamentai «lo so che ti piace stare con me, ma hai anche una famiglia. Da quando» sospirai «da quando Jacob mi ha quasi ucciso non sono più riuscita a stare senza di te senza sentirmi sopraffare dalla paura. Come possiamo andare avanti così? Come posso credere che lo fai solo perché “ti piace stare con me”?».

Mi guardò con dolcezza. «Non hai pensato che anch’io da allora mi senta sopraffare dalla paura quando non sono con te?».

Aprii la bocca per parlare, ma non dissi nulla.

Mi baciò la fronte, abbracciandomi. «So che non può durare per sempre, ma so anche che migliorerà. Adesso è troppo presto e forzare le cose non porta mai nulla di buono».

«Ma loro ti aspettano» protestai debolmente contro la sua spalla «non possono giocare senza di te».

«Bella… non importa, davvero, e poi stasera saranno di nuovo qui con noi» rispose nascondendo maggiormente il suo volto nell’incavo del mio collo.

Sentii ancora una volta lo strano deja vu. Capii per un istante che quell’emozione antica mi lasciava una scia di malinconia. «Suona almeno, fa qualcosa per te» dissi infine, scacciando i miei strani pensieri.

«Adesso? Perché?».

Mi allontanai di proposito, guardandolo negli occhi. «Nemmeno se te lo chiedessi io? Per me?».

Lui ridacchiò. «Crede di avere tutto questo ascendente su di me, mademoiselle?».

Arrossii, imbarazzata. «Beh, io…».

Il mio balbettio scatenò una risata ancor più fragorosa, ma alla fine ci ritrovammo entrambi nello studio, seduti sulla panca del piano, a sentire le deliziose note che si sollevavano dalle sue dita. Mi piaceva sentire come riuscisse a trasporre perfettamente le sue emozioni in musica. Per me le sue melodie erano come uno specchio della sua anima.

Così mi stupii quando notai come potessero essere malinconiche, tristi, o addirittura irose alcune sequenze di note, e mi parve di scorgere lo stesso stato d’animo che c’era stato in lui poche ore prima, in presenza di Charlie. Speravo che si calmasse, volevo fare qualcosa per farlo sentire meglio.  

Saggiai con il palmo della mano la morbidezza dei suoi capelli, stringendo maggiormente la presa sul suo braccio e beandomi del sorriso che comparve sulle sue labbra.

Contemporaneamente le note fluttuarono verso onde più tranquille e serene, fino a diventare del tutto positive. Mi portai una mano alla pancia, tentando di rilassarmi e concentrarmi solo sulla bambina, ma quella strana emozione che sentivo emerse ancora, stridendo con i miei sentimenti.

«Tutto bene amore?» chiese Edward accigliato, rompendo il vuoto sordo del silenzio che si era venuto a creare non appena aveva smesso di suonare.

Sorrisi, carezzando il piccolissimo pancino. «Sì, va tutto bene» mormorai sorridendo.

«Davvero?». Due linee irregolari si formarono sulla sua fronte piatta, mentre poggiava una mano sulla mia.

«Sì» arrossii, rimuginando sui miei pensieri. Avrei voluto condividerli con lui, e magari in qualche modo alleviare quel senso di tristezza che mi era parso percepire nelle sue note. Tuttavia mi sentivo terribilmente sciocca a parlare di quelle emozioni che sentivo. «Oggi mi sento un po’ strana. Non fisicamente, intendo. Solo… un po’ di malinconia. Credi che abbia a che fare con l’attacco di panico dell’altro giorno?» domandai timorosa.

Mi studiò con attenzione. «Credo di no. Ti senti agitata?».

Scossi il capo. «No, affatto. È più come un deja-vù».

Mi sorrise dolcemente. «Capita spesso agli umani. Anche a quelli non in gravidanza e con un disturbo da stress post-traumatico».

«E ai vampiri?» chiesi interessata a comprendere il suo stato d’animo.

Si fece nuovamente pensieroso, lo sguardo perso. «I vampiri non provano emozioni così labili come le vostre. O sono tanto deboli da non scalfirci, o sono abbastanza forti per cambiarci» disse concludendo il discorso.

Pensai per un istante a quelle parole. Non mi ero mai soffermata a pensare alle conseguenze di quello che mi aveva fatto Jacob su Edward, troppo concentrata sulla mia stessa fragilità. E se lo avesse cambiato per sempre?

«Cosa posso fare per te?» domandai preoccupata, studiando il suo viso.

Mi sorrise. «Te l’ho detto. Stare con me, mi basta».

Gli baciai l’angolo della bocca. «Potresti provare gli antidepressivi. Funzionano» scherzai, allontanandomi.

Mi bloccò, impedendomi di allontanarmi troppo. «Ho in mente qualcosa che funziona meglio» soffiò malizioso, facendo aumentare il battito del mio cuore.

«Edward» ansimai, vinta dal desiderio «non possiamo».

«No» mormorò al mio orecchio, lasciandomi dei languidi baci sul collo «però possiamo divertirci un po’».  

Respirai a pieni polmoni il profumo dello shampoo alla fragola, frizionando i capelli con un asciugamano. Quel gesto portò con sé un’ondata di emozioni felici. Sorrisi canticchiando e afferrando il tubetto di crema per le smagliature.

Ne misi un po’ sul palmo e scostai leggermente l’asciugamano bianca in cui ero avvolta per posarlo sulla pancia.

Vidi, attraverso lo specchio, la mia espressione diventare vacua e pensierosa.

Tuttavia, non feci in tempo a rendermi conto della strana inconsuetudine di quel mio gesto, che una mano fredda e perfetta sostituì la mia in un delicato movimento circolare.

Piegai la testa all’indietro, posandola sulla sua spalla e lasciando che le sue labbra marmoree lambissero la pelle bianca e pulsante del mio collo. Strinsi la presa sui suoi capelli mentre mi beavo della delicata forza con cui il suo abbraccio mi stringeva da dietro.

Ed in quel momento pensai che tutto potesse davvero tornare ad essere perfetto, meglio di come fosse mai stato.

Poco dopo, come quasi ogni sera, i Cullen vennero a trovarci. Tuttavia, a malincuore, rimasi per poco tempo con loro, dovendo finire di studiare.

«Bellina, su, resta con noi!» esclamò Emmett dispiaciuto, stringendomi nel suo abbraccio.

Sorrisi. «Sai che mi piacerebbe, ma non posso Emmett, devo studiare, dai» lo supplicai con un visino dolce.

«Guarda cosa c’è per te?». Alice mi mise davanti agli occhi un’ampia fetta di torta.

Immediatamente il mio sguardo s’illuminò.

«Oh, Alice! Ma tu non eri quella che le diceva di dover mangiare sano?» chiese sarcastica Rosalie scatenando l’ilarità di tutti.

Afferrai il piatto con il dolce, improvvisamente affamata.

Alice sorrise, furba. «Sì, ma oggi bisogna festeggiare, perché domani sarà il penultimo giorno di reclusione, dopo di che…».

Sollevai per un attimo la forchettina dal dolce. Dopo di che…? Osservai l’espressione compiaciuta sul volto di Alice. Non prometteva nulla di buono.

«Dopo di che… dobbiamo comprare un intero guardaroba per te e la bambina!».

Per poco non mi strozzai con il piccolo boccone che ancora avevo in bocca, mandando subito un’occhiata supplicante a Edward.

Mi strinse la mano, accarezzandone il dorso.

Fu Esme, stretta in un affettuoso abbraccio con Carlisle, a parlare. «Alice, ti prego, frena il tuo entusiasmo. Le cose si faranno man mano, non è necessario avere tutto subito, c’è ancora molto tempo e altri problemi di cui preoccuparci».

Fu palese il cambiamento d’umore nel suo viso e non mi sfuggì neppure la schermaglia di occhiate che il piccolo folletto si scambiò con Edward. Feci finta di non notarla, concentrandomi sul dolce e ripulendo il piatto. Speravo che riuscissero a convincerla e sapevo di essere vile a non affrontarla direttamente, ma… Sapevo anche che non sarei riuscita a cedere ai suoi modi di fare, come d’altronde era stato per il matrimonio.

Subito dopo aver finito di mangiare mi congedai da tutti, sia per studiare, sia perché avevo intenzione di lasciare Edward un po’ solo con la sua famiglia. Per quanto mi costasse volevo che il nostro bisogno di stare insieme tornasse ad essere vero e luminoso, e non malsanamente morboso.

Tuttavia rimettersi a studiare non fu facile, soprattutto dopo aver passato quasi un intero pomeriggio a stretto contatto con lui. Mi accarezzai la pancia, sorridendo e pensando alle mani e alle labbra del mio amore che per una lunga ora avevano coccolato me e la piccola. Quel momento tra noi mi aveva rilassato e tranquillizzato molto e non avevo più sentito quelle strane emozioni.

Rabbrividii, stupendomi del freddo che sentivo. Di solito i riscaldamenti erano sempre in funzione, ma evidentemente non quella sera. Però non mi andava di attraversare l’intera casa per accenderli; dopo essere tornata dai Cullen non sarei più riuscita a tornare a studiare.

Mi alzai dal grande letto della nostra camera e andai a prendere una coperta nell’armadio. Sbadigliai, stanca; era stata una giornata stancante per una povera umana con la gravidanza vampira come me. Mi avvolsi come un bozzolo nella trapunta e mi misi nuovamente a studiare, tentando di concentrarmi sul senso delle parole per evitare che scorressero nella mia mente come acqua, alleggerite e sospese come bollicine da una più pensante e incalzante stanchezza.

Dovetti addormentarmi, perché cominciai a vedere immagini che non potevano potenzialmente essere reali, ma che non mi davano neppure la certezza di essere finte.

Mi accorsi di un suono strano, confuso, lontano, che man mano prendeva sempre più vigore, come la risacca delle onde in lontananza. Mi mossi alla ricerca della fonte di quel suono, sempre più curiosa, spinta dalla voglia di scoprirne l’origine e la fonte e soprattutto di dare una spiegazione al turbamento che sentivo nascere in me.

D’un tratto mi bloccai: era il suono di un pianto. Il pianto, un vagito di un neonato, costante, monocorde negli sbalzi e nei fiati prorompenti.

«La bambina!» pensai, ancora più allarmata, continuando a correre per quelle che erano diventate le stanze di casa. Le immagini erano in costante movimento, fatte di momenti accelerati e innaturalmente rallentati e gli unici suoni oltre al silenzio, erano il vagito e il rumore del mio fiato ansante.

Nonostante corressi, la cercassi, non mi fermassi, non riuscivo mai a trovarla, e il pianto aumentava di più e sempre più. Annaspai, voltandomi, tentando di individuare la provenienza del suono che ormai sembrava provenire da ogni punto, troppo forte per essere distinto.

Mi lasciai cadere a terra, ansante, mentre tutto prendeva a turbinare velocemente attorno a me.

Ciò che vidi non appena aprii gli occhi fu il buio. Ripresi fiato, portando una mano sul cuore per fermare il suo battito accelerato. Qualcuno, Edward probabilmente, aveva spento la luce e mi aveva sistemato sotto la coperta che avevo usato per avvolgermi.

Chiusi nuovamente gli occhi, stanca. Era la prima volta che facevo un sogno collegato al bambino. Mi sentivo stranissima… come se i miei pensieri fossero dominati dalle mie sensazioni, come se ci fosse qualcosa che mi sfuggisse, qualcosa che non riuscivo a controllare e che mi stava facendo sentire una stranissima sensazione di angoscia. Come un cattivo presentimento, un’immotivata tristezza.

Sentii il lieve cigolio della porta e percepii appena, attraverso le palpebre chiuse, la presenza per qualche istante di una tenue luce.

Era Edward.

Mi aspettai di sentire, come spesso accadeva, scomparire la tristezza, ma così non fu. Sentendo il materasso abbassarsi e sue braccia stringermi in un abbraccio mi voltai, stringendomi al suo petto e aspettando nel silenzio che l’inquietudine mi abbandonasse.

Passarono i secondi, scanditi rumorosamente dal crescente silenzio. Mi sentivo sempre più inquieta, neppure la presenza di Edward riusciva a darmi sollievo per concedermi un nuovo sonno.

«Sono andati via?» mormorai poi debolmente, rompendo il silenzio che opprimeva la mia mente.

Sentii le sue braccia stringermi più forte e una sua mano accarezzarmi i capelli. «Hai avuto un incubo?».

Sopirai, richiudendo gli occhi e tentando di scacciare la pesantezza dalla testa. Ovviamente la presenza di Jasper aveva avuto il suo effetto. «Non lo sai che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda?» chiesi, tentando di essere sarcastica.

«Lo sai che mi preoccupo».

«Certo che lo so, per questo non ti dico niente» gli risposi impertinente. Tuttavia nella mia voce si sentii il tremolio strano dell’esasperante inquietudine.

Sentii una mano sotto al mento, e anche nel buio riuscii a distinguere il bagliore di due occhi ambrati. «Ti senti triste? Te l’ho detto, va bene sentirsi tristi, non fartene una colpa» mi disse serio.

Scossi la testa, divincolandomi dalla sua presa e cancellando le assurde lacrime che si erano formate al bordo dei miei occhi. Mi tuffai con il viso nel suo petto tentando di calmarmi. Sentivo come se ci fosse uno spesso strato di condensa a pulsare sulla mia mente stanca e a cui non riuscivo a trovare sollievo, né origine. Perché mi era capitato, alcune altre volte, di sentirmi così. Ma poi era bastata la presenza di Edward, una sua carezza, una sua parola, per farmi tornare serena.

Ora non era così. Non riuscivo a controllare quella tristezza, come se non fosse mia.

E non era come le altre volte…

Edward fece per parlare di nuovo, ma lo bloccai.

«Io… ora passa, va bene?» chiesi debolmente «Resta qui, resta con me».

Lo sentii sospirare, poi si rilassò e posò le sue labbra sulla mia fronte, come a darmi il suo assenso. Sospirai anch’io, ma non riuscii a rilassarmi.

Ero bloccata in un recinto di sensazioni negative da cui non riuscivo a scappare.

Lasciai istintivamente un bacio sul suo petto, proprio all’altezza del cuore che non batteva più. Poi posai un orecchio ad ascoltare l’eco del mio battito che si perdeva dentro di lui, animandolo; solo così, dopo un tempo infinito, riuscii a trovare pace nel sonno.

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Capitolo 44
*** Solo lacrime ***


Riemergendo dal sonno mi ritrovai beatamente stesa su un marmoreo e ghiacciato materasso, completamente avvolta da una spessa coperta.

Avvertii il contatto con il corpo di Edward, il suo profumo, la perfezione dei suoi muscoli. Sentii, con il senso dell’amore, la sua aura perfetta.

La mia bocca si piegò dolcemente in un sorriso. Sereno, felice, luminoso. Nessuna traccia, neppure quasi il ricordo, delle emozioni vissute la sera precedente.

Sentii una mano sui capelli accarezzarmi dolcemente.

Aprii gli occhi, ruotando completamente e sistemandomi seduta su di lui con gesti lenti ma fluidi, mentre la coperta in cui ero avvolta scivolava automaticamente accanto a noi. Era uno spettacolo, al mattino la sua visione per me faceva ancora parte del mondo dei sogni. Mi faceva venire voglia di restarmene tutto il giorno al letto, tentando di scaldare quelle labbra di ghiaccio e di spettinare ancor di più quei morbidissimi capelli di seta preziosa.

Dopo un po’ di tempo, accertatosi forse che della tristezza sul mio viso non c’era neppure l’ombra, fece piegare le sue labbra nel suo splendido mezzo sorriso prudente.

Avevo deciso: sarei rimasta a letto! Mi chinai con busto, fino a far avvicinare a pochi centimetri le nostre labbra.

«Nuova giornata di studio?» mi chiese con la sua voce tiepida, accarezzandomi un fianco con la punta delle dita.

Rabbrividii, facendo tremolare le mie labbra pericolosamente vicine alle sue. «No», alitai, fin troppo vicina alla sua bocca. Gli rivolsi uno sguardo famelico, poi sorrisi maliziosa. «Oggi sia la bambina - che non disturberà la mamma con le nausee -, sia la mamma - che non vede l’ora - si prenderanno cura del papà» mormorai facendo coincidere i profili delle nostre bocche.

Sentii la sua tendersi in un sorriso, mentre lambivo delicatamente il suo labbro inferiore, stringendolo forte dai capelli. «Davvero?» sussurrò roco, stringendo, con meno irruenza di me, il mio volto, rallentando il ritmo del bacio e aumentandone la passionalità.

Ansimai, scossa, rituffandomi su quel tripudio di bellezza. «Edward, ti amo» mormorai, scendendo con le labbra a baciare il collo.

Sentii il suo fiato freddo sulla spalla. «Anch’io Bella, anch’io» mormorò roco, baciandomi anche lui.

Quando i baci non mi bastarono più, infilai le mani sotto la sua maglietta, ripercorrendo gli addominali scolpiti con movimenti veloci e febbrili e beandomi del freddo che mi donava, ma che comunque non bastava a contrastare il caldo che sentivo crescere dentro. Poggiai la fronte sulla sua spalla, ansimando infastidita. «Ho… ho caldo…» mi lamentai.

Sentii le mani di Edward sui bordi della maglietta del pigiama, e poco dopo mi ritrovai senza.

Lo ringraziai con un sorriso, riprendendo la mia opera di adorazione della sua pelle centimetro per centimetro. Poi lasciai che invertisse le posizioni e che si prendesse cura di me. Scese con la bocca a lambire il decoltè.

Ansimai, reclinando il capo. Solo ora che lo stavo vivendo mi accorgevo come si mancassero quei momenti fra di noi. E comunque non saremmo potuti andare molto lontano…

Si bloccò ad un mio gemito, per un attimo spaventato. «Ti… ti ho fatto male?» mi chiese ansante e roco, spostando la mano dal lato del mio seno, dove albergava fino a qualche istante prima.

La bloccai con la mia, riportandola al suo posto. «Continua» biascicai, baciandolo.

Dopo qualche istante, prudente, ricominciò a lasciarsi andare e ad accarezzarmi con più attenzione, fino a ritornare al ritmo iniziale.

Ero così coinvolta dal tornado di emozioni, che quasi non mi resi conto dello stridente senso di nausea che in pochissimi istanti prese il sopravvento. Mi defilai velocemente dalla sua presa, nascondendo il seno con un braccio e coprendomi la bocca con l’altro.

Sputai i succhi gastrici, unico contenuto del mio stomaco, nel lavandino, sentendo immediatamente la presenza di Edward dietro di me. Mi avvolse nella coperta, aspettando che mi sciacquassi la bocca.

Sbuffai, infilando la maglietta del pigiama e lasciandomi poi andare sul suo petto. Ormai il “bacio del buongiorno” era stato rovinato. «Bimba cattiva» mormorai, accarezzandomi la pancia.

«No, non la rimproverare» fece Edward, posando una sua mano sulle mie. Poi si piegò, fino a trovarsi con la testa all’altezza del ventre. «Sono papà e la mamma che fanno i monelli, vero?».

Sembrava così tranquillo, rilassato, senza neppure una traccia del malumore che ci aveva vinto il giorno precedente. Annusai l’aria, come se l’aroma della felicità fosse percepibile. Se ancora qualcosa lo turbava avrei aspettato che si confidasse a me, come sua moglie. Volevo che mi vedesse abbastanza forte da poterlo aiutare. Sollevò il viso sul mio, notando che lo stavo osservando. Mi sorrise. «Stai bene?».

Annuii. «Sì, meglio di ieri, è tutto passato. E tu?» mi feci coraggio a chiedergli.

Sospirò, sollevandosi ad osservarmi. «Io cosa?».

Gli carezzai i capelli. «So che ieri è stato difficile ciò che ha detto mio padre, ma tu non ti lasci mai scalfire da ciò che pensa la gente, insomma… se dovessi farti influenzare da tutti i pensieri che senti» borbottai, non riuscendo neppure ad immaginare quando fosse difficile per lui.

Fece spallucce. «Quindi?».

Lo fissai, seria. «Dimmi che non ci hai pensato».

«A cosa?» domandò innocentemente, ma sapevo che aveva capito.

Incrociai le braccia al petto. «Al fatto che potessero avere ragione. Che questa bambina sia di Jacob».

«No» rispose troppo velocemente.

«Oh, Edward…».

Sospirò, portandosi le mani alla testa. «Solo per una frazione di un secondo, neppure il tempo di battere le palpebre».

«Ma ti ha fatto molto male» dissi preoccupata, carezzandogli una guancia.

Si lasciò andare contro la mia mano. «Quando all’inizio pensavamo che fosse suo mi ha distrutto più che altro per l’idea di quello che poteva averti fatto. Ma avrei accettato un bambino anche se fosse stato suo figlio. Però all’epoca non avevo mai pensato all’idea di essere padre, di avere una famiglia mia. Adesso, invece» sorrise debolmente, carezzandomi appena la pancia «non posso neppure pensare che mi possa rubare mia figlia».

«Non può» tentai di convincerlo «perché è tua figlia».

«Lo so» mormorò, chiudendo le palpebre.

Cacciai un fiato. «Cosa dobbiamo fare ancora? C’è la pelle gelida, l’ecografia con quella strana membrana, le ecografie normali di Emily. E poi» aggiunsi, lasciandogli un bacio a fior di labbra «chi se non tua figlia avrebbe cercato quasi di dissanguarmi appena una settimana fa?».

Sorrise amaramente, riaprendo gli occhi. Era già stato abbastanza difficile accettare l’idea che avesse la forza di farmi del male e mandare avanti la gravidanza nonostante tutto. Come potevamo mettere di nuovo tutto in discussione?

«Ehi» soffiai sulle sue labbra «se ne hai bisogno sono pronta a fare quel test invasivo di cui parlava Carlisle. Voglio che tu stia bene».

«Davvero?» domandò scrutandomi «quello che si fa con quell’ago di 15 centimetri conficcato nella pancia?» fece, e quando rabbrividii capii dal sorriso che non riuscì a nascondere che mi stava prendendo in giro.

«Volevi farmi vomitare ancora, vero?» deglutii, pallida.

Ridacchiò, stemperando l’atmosfera. «No, Bella. Davvero. Non mi serve alcun test rischioso per te e la bambina per sapere che questa piccola succhiasangue è mia figlia. Andiamo, così potrai fare colazione e prendere le tue medicine».

«Urrà» scherzai, lasciandomi guidare da lui verso la cucina, felice di essere riuscita a parlare dei nostri sentimenti con mio marito.

«Allora, vuoi studiare?» mi chiese più tardi, concentrato ad intrecciare le sue dita con le mie.

Finii di bere il mio latte. «Non so, hai una proposta migliore?» rilanciai.

Fece spallucce, scuotendo il capo. Poi si portò la mia mano con cui stava giocando alle labbra e chiuse gli occhi.

Per come avevo organizzato il programma di studi avevo deciso di potermi permettere due giorni di riposo alla settimana. Ora capivo, dall’esperienza del giorno precedente, che almeno in questo periodo avrei dovuto rallentare un po’ il ritmo. Sia perché non ero più abituata, sia perché avevo capito che Edward aveva bisogno che mi dedicassi a lui. Volevo mettere un po’ di ordine intorno a me.

Mi sollevai, prendendo con me la tazza. La presa di Edward si strinse intorno alla mia mano e prima che me ne rendessi conto mi trovai seduta sulla sedia senza più la tazza fra le mani.

«Ehi» mormorai risentita, squadrandolo mentre sciacquava la tazza nel lavello.

«Stai troppo tempo in piedi, l’ha detto anche Carlisle. Riposati» disse tranquillo.

«Ma dai!». Mi lasciai andare sul tavolo, sbuffando. «Domani faremo i controlli e poi… finalmente…».

Comparve di nuovo davanti a me. «Finalmente niente. Bella, lo sai che anche se risultasse che va tutto bene dovrai ricominciare con calma, senza strafare. È una gravidanza difficile, tu sei stanca e provata e ci sono molte cose che potrebbero metterci in difficoltà e…».

Smisi di ascoltare le sue idiozie e mi ritrassi, accucciata, sul tavolo, fissandolo con aria di sfida e imitando un piccolo ruggito.

Sulle sue labbra comparve un sorriso sghembo. «Ma che bel micio» scherzò. Poi in un secondo si accucciò in posizione d’attacco - molto più elegante di quella che avevo assunto io - e fece un vero ruggito coi fiocchi, che mi fece sobbalzare spaventata.

«Accidenti» biascicai, portandomi una mano al cuore, mentre intanto se la rideva di gusto.

Andai a cambiarmi, indossando indumenti comodi e larghi. Ruotai, osservandomi allo specchio. Era evidente come i fianchi fossero più larghi e la pancia lievemente più pronunciata. E poi… c’era stato un notevole aumento di volume sul seno e sul sedere. Chissà se la cosa dispiaceva a Edward…

Arrossii, ripensando a quella mattina. Non credo gli dispiacesse.

Decidemmo di passare la mattinata a fare una torta. O meglio. Lui faceva la torta e io l’osservavo e lo guidavo nell’opera, comodamente seduta sullo sgabello della cucina. Non appena dimostravo l’intenzione di alzarmi o per afferrare un oggetto, o per andare a fare qualcosa, subito mi precedeva, interrompeva la produzione della torta e lo faceva lui per me.

Ma come faceva ad accorgersene sempre? Stupidi sensi da vampiro. Tuttavia mi sentivo estremamente felice. Ogni cosa era un gioco, uno scherzo, un motivo per ridere. Mi sentivo serena e capace di riflettere lucidamente.

Risi. «Basta, basta ti prego! Non ce la faccio».

Fermò e sue dita che mi stavano solleticando sui fianchi. «Ritratta quello che hai detto» m’intimò scherzoso.

«Non sembri un vecchietto» biascicai, osservando i suoi capelli sporchi di farina e tentando di contenere un’altra ondata di risate.

Lui notò la mia espressione e fece per ricominciare a solleticarmi, ma lo presi in contropiede e misi le mie dita sui suoi fianchi. M’imbronciai quando non rise. «Ehi! Ma non è giusto! Non dirmi che i vampiri non soffrono il solletico!».

Sghignazzò. «No, non sono i vampiri che non lo soffrono, sono io!» esclamò, ricominciando la sua opera.

Dopo pranzo decisi di andare a riposarmi un po’. La felice mattinata mi aveva stancato abbastanza, e ancora non ero riuscita a togliermi l’abitudine di dormire nel pomeriggio. Mi accoccolai meglio fra le coperte, stringendomi il morbido cuscino e scivolando nel mondo dei sogni senza incubi.

A svegliarmi fu Edward e l’aroma della nostra torta.

Fiutai l’aria, stiracchiandomi. «Mmm, che profumo» biascicai «che fame» sbadigliai.

Incontrai i suoi occhi ambra. «Cosa aspetti ad andare a prenderne una fetta?» mi chiese con un sorriso.

Mi umettai le labbra, mettendomi seduta e osservando le coperte sparse attorno a me in maniera del tutto irregolare. Avrei dovuto cambiare le lenzuola…

«Vai, ci penso io!» scherzò dandomi una pacca sul sedere.

«Davvero?».

Sorrise. «Certo».

«Grazie» dissi velocemente, lasciandogli un altrettanto rapido bacio sulle labbra e correndo in cucina, ansiosa di assaggiare quella golosità.

Trovai la torta farcita e decorata sul ripiano. Con l’acquolina in bocca afferrai un coltello. «Amore scusa» dissi, alzando inutilmente la voce affinché mi sentisse «sai che lo farei io, ma visto che non ho i super-poteri e quella che si sta beccando la gravidanza vampira con nausea inesauribile sono io» lo schernii, tagliando la fetta di torta «beh, sarebbe uno spreco che lo facessi io, visto che tu ci impieghi un terzo del mio tempo» feci, sistemandola sul piattino «non trovi?!». Afferrai il cucchiaino e lo misi sul piattino, avviandomi in soggiorno in attesa di una sua sagace risposta.

Dopo tre passi mi resi conto che non avevo preso un tovagliolo, così mi voltai, facendo per ritornare indietro. Inavvertitamente il piattino mi scivolò dalle mani, cadendo a terra e frantumandosi in più pezzi.

Aprii la bocca, sconcertata.

Il rumore si ripeté nelle mie orecchie ancora. Diverso. E un’altra volta. Come l’eco lontano di un suono già sentito. Diverso.

Contemporaneamente Edward comparve dinanzi a me, osservando prima la mia espressione e poi il piattino, scoppiando a ridere. «Era troppo tempo che la tua goffaggine non si faceva sentire» biascicò fra le risate.

Sentii le sue parole come se fossi immersa nell’acqua. Poi, inevitabilmente, singhiozzai.

Immediatamente smise di ridere, facendosi serio. «Tesoro, su, non fare così. Stavo scherzando» mi disse gentilmente, come se si sentisse in colpa.

Piansi più forte.

Una ruga comparve sul suo volto, mentre mi prendeva le mani fra le sue. «Bella? Dai, mi dispiace. Non è successo nulla, davvero». Vedendo che non la smettevo di piangere si piegò a terra e raccolse i cocci del piattino, pulendo poi i residui di panna. Mi fissò con un sorriso, come se quel gesto potesse farmi smettere. «Ecco, vedi, sta’ tranquilla. È tutto a posto ora» sussurrò dolcemente.

Singhiozzai, facendomi stringere dalle sue braccia e lasciando liberamente scivolare le lacrime, senza intenzione di smettere.

«Shh, shh, forza». Edward mi strinse forte e non disse nulla per un po’, ma poi, notando che i miei lamenti si facevano sempre più acuti, si liberò dalla mia debole e inconsistente presa, fissandomi negli occhi. «Bella. Cos’hai?».

Non risposi, continuando a piangere.

«È per la torta? È per quello? Te ne prendo un’altra fetta, ce n’è una intera» fece, cercando contemporaneamente una causa più plausibile. «È per il piattino? Ce n’è un’altra confezione identica ancora intatta, ne puoi rompere quanti ne vuoi! Amore… dimmi cos’hai!».

Singhiozzai, scossa dal pianto.

Mi mise un braccio intorno alla schiena, sorreggendomi e tenendomi le mani con l’altro. «Hai dolore? Ti senti male?» mi chiese ansioso.

Mi resi conto che la sua preoccupazione stava crescendo senza controllo, così come il ritmo del mio pianto. Ma come avrei potuto rispondergli, se non sapevo neppure io da dove era giunta quella tristezza che mi stava man mano affogando sempre più?

«Bella, tesoro, rispondimi, ti prego» fece, posando una mano sul ventre, agitato. Poi la passò sulla mia fronte e sul polso, tentando di individuare la causa del mio pianto.

Mi sentivo completamente in balia della tristezza, spaventosamente simile a quella che avevo provato il giorno precedente. Con la differenza che, questa volta, mi sentivo come costretta a sfogare il dolore attraverso le lacrime. Come se quella fosse l’unica via possibile per liberarmene.

Ma era come voler svuotare un fiume con una cannuccia. Un’impresa titanica.

Sentii le sue mani fredde intorno al viso. «Bella, te ne prego, te ne prego, rispondimi. Ti senti male? Cosa ti fa male?» mi chiese ancora, sempre più agitato.

Non so come, in quell’immensa balia, riuscii a trovare la forza di reagire. Forse aggrappandomi a un altro tipo di dolore. Quello derivato dall’angoscia nelle sue parole.

Scossi il capo, breve ma determinata.

Fece un sospiro, stringendomi forte contro il suo petto. Poi mi posò le mani sulle spalle, allontanandomi per guardarmi negli occhi. «Tesoro» cominciò, più lentamente «prova a calmarti. Qualunque cosa tu stia provando in questo momento non è reale. Calmati, ti prometto che passerà» disse, pensando che fosse un ennesimo attacco di panico.

«N-no» singhiozzai, soffocata dal pianto «non ci riesco».

Vidi la sua espressione contrarsi. «Shh, sì che ce la fai, sei bravissima e ce la fai. Su, avanti, respira piano, piano, non è difficile. Calmati».

Provai a imporre la mia volontà, a fare come diceva, ripetermi che lui era in grado di calmarmi e che presto sarei stata meglio. Respirai a fondo, fra i singhiozzi, respingendolo. Inaspettato fu quello che accadde. Ritornò su con lo stesso vigore e la stessa potenza con cui l’avevo mandato via. Non funzionò. Perché per qualche strano motivo sentivo che non era come le altre volte.

«Oh, Bella» mormorò afflitto, ritornando ad abbracciarmi e a cullarmi. Vedevo il dolore sul suo volto al pensiero che stavo di nuovo male, che i miei attacchi di panico erano ritornati a tormentarmi, ed insieme vedevo la determinazione e la pazienza di volermi aiutare.

«N-non ce la faccio» singhiozzai più forte, riprovando a scacciare la tristezza. Quella, rispondendo con la stessa energia, tornò ad affliggermi. Ogni tentativo di liberarmene era vano. Era come se stessi spingendo una grossa molla; quanta la forza impiegata per comprimerla, tanta era quella con cui rispondeva, distendendosi.

Alla fine, Edward, esasperato, mi prese per la vita, tenendomi stretta. «Bella, non va bene che ti agiti così. Pensa alla bambina».

«M-mi dispiace» piansi, disperata. Esasperata tentai ancora di scacciare la tristezza, inutilmente.

«Accidenti» mormorò, serrando la mascella, afflitto. Mi prese fra le braccia e mi portò in un istante in camera da letto, stendendomi fra le coperte pulite. Mi baciò le mani, la fronte, le labbra. Mi cullò in silenzio, aspettando pazientemente che i miei lamenti si calmassero, come avevano sempre fatto in tutti quei dannati attacchi di panico che mi avevano tormentata nell’ultimo mese.

Il mio pianto era forte, doloroso. Un pianto sonoro e disperato, che si assopisce solo nella spossatezza.

Ma la stanchezza non arrivava. «Bella, amore, ti prego. Stai piangendo da un’ora. Dimmi cosa senti, posso aiutarti. Passerà anche questa volta».

«M-mi sento così t-triste» piansi stanca. Avevo gli occhi rossi e gonfi e mi sentivo terribilmente intontita.

«Per cosa?» mi domandò afflitto «cos’è successo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

Scossi il capo. «Non lo so» singhiozzai, piegandomi su me stessa. Non riuscivo e non potevo pensare a cosa mi stesse accadendo. Mi sentivo totalizzata dalle emozioni che sentivo, ma se fosse stato un attacco di panico sarebbe stato di sicuro il più lungo e doloroso della mia vita.

Ricominciò a cullarmi, agitato, scostandomi i capelli dalla fronte. Infine si staccò da me, facendo per alzarsi.

Piansi, ancora più forte, stringendo con tutta la forza che avevo la sua camicia. Non volevo andasse via. Non poteva. Non doveva. Questo lo sentivo dentro me. L’istinto di averlo accanto.

Mi fissò, sbalordito della mia faccia disperata. Poi si sedette nuovamente sul letto, prendendomi fra le braccia. «Non vado via, sto qui. Non ti preoccupare» mormorò, baciandomi la fronte.

Mi portò con sé in soggiorno, per prendere il telefono. Poi mi mise sulle sue gambe, sedendosi sul bordo del letto e facendomi poggiare la testa sul suo petto. Non smisi mai di piangere.

Compose velocemente un numero al quale risposero brevemente. A causa dell’intontimento, dal rumore assurdo causato dal mio pianto, e dalla velocità con cui parlava, colsi solo alcune parole. Avevo capito che Edward cercava Carlisle.

«Esme… no… sì, non so…» mi rivolse un’occhiata, «Sì. Sì, ti aspetto». Chiuse la comunicazione e riprese a cullarmi, cancellando, inutilmente, le lacrime che ormai mi inondavano tutto il volto, fin sul collo.

Trasalii quando sentii bussare alla porta della camera. Vidi il volto dolce mi Esme che mi fissava. Si sedette sul letto, accanto a Edward, con movimenti lenti e umani. Poi prese ad accarezzarmi la fronte. «Cos’è successo?» chiese con calma a lui.

Sospirò, esasperato. «Non so. So solo che le è caduto il piattino con la torta e poi ha iniziato a piangere. Non riesco a capire».

Singhiozzai, nascondendo il volto sul suo petto e lasciando che continuassero a parlare a velocità non udibile per le mie orecchie umane.

«Amore» fece Edward richiamando la mia attenzione «Esme ti ha portato le tue compresse. Presto starai meglio».

Scossi il capo fra i singhiozzi inconsolabili. «N-non è c-come le altre vol-te. N-on v-voglio ricomincia-re».

Posò il mento sulla mia fronte, cullandomi avanti e indietro, freneticamente. «Non è colpa tua Bella, non è colpa tua. Ma adesso devi stare meglio, capisci? Stai troppo male, troppo. Non riesco ad aiutarti in altri modi».

Mi lasciai andare fra le sue braccia, disperata. Mi sentivo così sconfitta da me stessa e da quello che stava succedendo alla mia mente ed al mio corpo senza che potessi controllarlo.

Sentii una mano fredda sulle mie. «Tesoro, stai tranquilla. Ti porto le tue compresse e una camomilla, torno subito» fece infine con un sorriso rassicurante.

Mi fidai di Edward. Tremante mandai giù due compresse, il doppio della dose che avevo preso ultimamente. Nonostante tutto, i fremiti e i singhiozzi, riuscii sorso dopo sorso a bere la mia camomilla, sperando e volendo che mi facesse smettere di piangere.

Non funzionò. Né la camomilla né gli antidepressivi mi diedero alcuna sorta di sollievo. L’esasperazione aveva raggiunto livelli incredibili. Mi faceva male la testa, come se dentro ci fosse un martello pneumatico. Tremavo come una foglia, in balia dei fremiti.

«Carlisle? Fra quanto tempo arriverà?» domandò Edward fra i denti.

«È ancora in sala operatoria» gli rispose Esme «ora provo a richiamarlo, ma calmati. Se tu ti agiti lei sta peggio».

Volevo solo liberarmi del pianto. Della tristezza. Del dolore. Non ce la facevo più.

Dopo un po’ sentii le voci confuse degli altri. Rosalie, Emmett, Alice, Jasper.

«Jasper, finalmente» sospirò Edward preoccupato.

Il mio fratello vampiro mi fissò sconvolto, facendo passare lo sguardo da me a Edward, colpito quanto lui. «Non ho mai sentito tutto questo dolore» farfugliò esterrefatto.

«Ti prego, fa’ qualcosa» fece Edward, colpito dalla profondità del mio dolore.

Annuì, avvicinandosi.

Sentii una mano sulla spalla e tentai di soffocare quello che pensavo sarebbe stato l’ultimo singhiozzo. Ma la tanta agognata quiete non arrivò. Com’era possibile?

«Non ci riesco» mi voltai fino a fissare la sua espressione sgomenta, simile a quella che c’era sul volto degli altri e anche di Edward. «Edward, non è come al solito» disse serio, studiandomi «Non è un normale attacco di panico» fece a voce bassa, come se gli facesse male starmi accanto.

«Cos’è allora?» chiese preoccupato, stringendomi più forte.

«Non è paura. Sento così tanto dolore» sussurrò, serrando le palpebre.

Edward si chinò a cancellare le nuove lacrime, baciando le guance, nel vano tentativo di calmare i sempre nuovi singhiozzi.

«Può essere una crisi d’astinenza?» domandò preoccupato a Rosalie.

«È strano» fece in difficoltà, studiandomi «è stata bene per quasi due settimane. Quanto le hai dato di sertralina?».

«100 milligrammi».

Rosalie mi studiò, preoccupata. «Diamogliene altri 100» propose.

Edward sospirò, contrariato. Non prendevo quella dose da quasi un mese. «Non voglio mandarla in overdose».

«Edward» provò a convincerlo «non vedo altre soluzioni».

Sospirò, poi annuì seccamente. Avvicinò la bocca al mio orecchio. «Te la senti? So che non vuoi ricominciare, ma abbiamo bisogno di aiutarti in qualche modo, va bene?».

Singhiozzai, non sapendo cosa rispondere.

Mi strinse più forte. «Ti prometto che starai meglio» fece disperato, non riuscendo più a credere neppure alle sue parole.

Mi lasciai convincere a prendere altre due compresse, ma non cambiò, ancora, nulla. Iniziai solo a tremare più forte e sentii il cuore battere più veloce, mentre il dolore rimaneva lì, schiacciandomi e sovrastandomi con il suo peso.

«Com’è possibile che non abbia funzionato?» chiese Esme preoccupata. Mi carezzò la fronte «Ha un po’ di febbre».

Edward posò la guancia contro la mia fronte, ma anche quel piccolo sollievo non riuscì a farmi stare meglio. «È stremata».

«Tu non vedi niente?» chiese Rosalie ad Alice.

Lei scosse il capo, afflitta e disorientata. «No, mi dispiace. Non ho mai avuto un buco nero così lungo su di lei».

Piansi di più. Disperata, esasperata. Sull’orlo di ogni sopportazione.

«Edward, falla venire da me, le posso parlare» propose Rosalie sottovoce, aprendo le braccia come per accogliermi.

Mi strinsi con tutta la mia forza a Edward, nonostante tutto, determinata a non lasciarlo andare per nessun motivo al mondo.

Lui sospirò, baciandomi la fronte. «Non vuole» disse, scuotendo la testa. Mi sollevò in braccio, adagiandomi fra le lenzuola e prendendo ad accarezzarmi la schiena, tentando un altro modo per farmi smettere di piangere.

Esme era al telefono. Alice, invece, stava seduta per terra, tenendosi due mani sulle orecchie per non sentire i miei lamenti acuti e insistenti; accanto, Emmett, come lei in impaziente e sconfortata attesa. Vidi anche Jasper, in un angolo, con la testa fra le mani, concentrato su qualcosa.

«Ti prego» gemette Edward dopo un po’, volgendosi verso Jasper «non posso vederla così e sentire il suo dolore. Non ce la faccio».

Jasper si alzò in piedi e annuì velocemente. Alice si strinse al suo braccio. «Ci allontaniamo. Saremo abbastanza vicini da venire subito per ogni evenienza» fece, avvicinandosi a lasciarmi una lievissima carezza, triste.

Edward annuì, il viso addolorato. «Grazie». Sentii la presa di mio marito farsi più salda e protettiva.

«Vi prego» singhiozzai sfinita «f-fate qualcosa».

Edward irrigidì la mascella, disperato ed impotente. «Dov’è Carlisle?» domandò fra i denti.

«Edward, è inutile, non risponde» disse Esme.

«Continua a provare» sbottò agitato.

Annuì, riprendendo il telefono e scomparendo velocemente nel soggiorno.

«Non c-ce la faccio» singhiozzai roca «v-vi prego».

«Shh, lo so, lo so. Hai ragione» tentò di consolarmi Edward.

Rosalie, con un fazzoletto, mi asciugò le lacrime. «Tesoro, te la senti di parlarmi? Di dirmi cosa provi? Potrebbe aiutarti».

«N-no» piansi, il petto dolente per i singhiozzi senza fine.

La sorella lo guardò, preoccupata.

«Sono più di due ore» fece Edward, rispondendo alla sua domanda mentale.

Singhiozzai, strofinando il volto sulla sua camicia ormai zuppa.

«Che ne dici se provi a farla dormire un po’? Potrebbe funzionare» propose Rosalie.

In effetti, mi sentivo esausta. Quasi priva di forze. Ma per quanto ne sapevo, non sarei riuscita ad addormentarmi facilmente. Annuii, disposta a qualunque cosa per stare meglio.

Edward, mi prese in braccio, sollevandosi in piedi, mentre Rose chiudeva tutte le tende per far cadere la stanza nella penombra. Prese a cullarmi, avanti e indentro per la stanza, canticchiandomi la mia ninnananna. Emmett e Rosalie uscirono, sperando che così sarei riuscita ad assopirmi.

Il pianto, strascicato e stremato, come da me previsto, predurava, senza darmi tregua. Era come una necessità. Una necessità, un istinto dal quale non potevo sfuggire.

Mi avvolse nella coperta, ricominciando a cullarmi. «Amore, non piangere, ci sono qui io con te. Ti prometto che passerà. Non piangere. Mi uccide vederti così. Scopriremo presto cosa sta succedendo, te lo prometto» sussurrò, baciandomi la punta del naso, bagnata anche quella.

Non volevo fargli vedere la profondità della mia disperazione perché sapevo quanto lo facesse soffrire, ma non sapevo come fare altrimenti.

Infine sentii i muscoli di Edward rilassarsi, mentre sospirava. Dopo pochi secondi la porta si aprì, facendo entrare Carlisle, insieme a un po’ di luce.

«Ti prego Carlisle» fece Edward, guardando il padre e sedendosi sul letto con me su. «Fa’ qualcosa».

Carlisle annuì, serio, prima di rivolgermi uno sguardo rassicurante. «Quanto tempo fa le hai dato la sertralina?».

«L’ultima dose quasi un’ora fa. Le ho dato 200 mg in tutto, pensavo che fosse una crisi d’astinenza. Non mi sembra un normale attacco di panico, non riesce a calmarsi con nulla».

Mi esaminò gli occhi, il battito, l’addome. «Altri sintomi?».

«M-mi sento c-così male. T-ti prego» singhiozzai, stringendogli una mano.

«Bella, ti faremo stare meglio, lo prometto» disse rassicurante, guardandomi negli occhi e ricambiando la mia presa.

«Ha vomitato appena sveglia e prima aveva mal di testa. Ora ha un po’ di febbre, è stremata. Ma è stata perfettamente tranquilla per tutta la mattina» fece frustrato «Carlisle, anche ieri sera, quando siete andati via, era triste. Diceva di avere uno strano presentimento. Mai poi stamattina sembrava tutto passato. E poi questo, all’improvviso. Perché?».

«Potrebbe essere una crisi d’astinenza, ma è strano. E comunque adesso avrebbe dovuto stare già meglio, anche con il potere di Jasper. Mi sorprende che non abbia funzionato. Proverò a somministrarle una benzodiazepina» convenne infine.

Tremai, stremata e disorientata, sentendo il profumo di Edward. Piansi a pieni polmoni quando sentii il doloroso contatto con l’ago.

La presa di Edward si fece più stretta per impedirmi di muovermi. «Shh, è quasi finito, non è niente. È quasi finito» mi sussurrò ad un orecchio, rassicurandomi.

Rimasi a piangere, ancora, sulla sua spalla. Ero talmente intontita che a fatica distinguevo i contorni delle persone, le cose. La razionalità era quasi del tutto scomparsa. Quasi a stento capivo dove mi trovavo. Ma non mi addormentavo, e non smettevo di piangere.

Quello, e l’istinto di avere Edward accanto, mi dominavano completamente.

Sentii di nuovo le voci, nella camera.

«Non avrebbe dovuto fare già effetto?» chiese Edward, preoccupato.

«Avrebbe dovuto».

Sentii una mano ghiacciata sulla fronte. «Povero tesoro» sussurrò Esme.

Mi sentii scuotere una mano e vidi il volto di Emmett che mi fissava a disagio. «Bellina, cara. Sai che ci stai spaccando i timpani?».

Sapevo che quell’osservazione era stata fatta con tutta l’intenzione di farmi ridere, ma scatenò l’esatto effetto contrario.

«Emmett, sei uno zuccone» lo rimproverò Rosalie, mentre Edward tentava di calmare la perennemente nuova ondata di lacrime e di singhiozzi.

«Jasper?» chiese Carlisle.

«Si sono allontanati. Non riusciva a pensare qui dentro, e neppure io» replicò Edward stentoreo.

Mio suocero mi guardò, preoccupato. «Richiamiamolo. Non so cosa altro fare, vale la pena che lui faccia un altro tentativo dopo le benzodiazepine».

«Vado io» fece Esme, scomparendo nel soggiorno.

Jasper e Alice tornarono presto da noi come avevano promesso. Alice non aveva ancora visto nulla e Jasper era sconvolto dalla nuova ondata di disperazione con cui lo investii.

«Non funziona. Non so cosa fare, mi dispiace» mormorò sconfortato.

Sapevo che stava sentendo tutta la mia sofferenza e mi dispiaceva davvero tanto. Impulsivamente mi voltai verso mio marito, tendendo le braccia verso di lui per farmi prendere in braccio.

Con un sospiro mi strinse nuovamente al suo petto.

«Accidenti, Bella. Sembri una bambina» borbottò Emmett, ancora imbronciato per il rimprovero della moglie.

Vidi, attraverso le lacrime, l’espressione di Jasper mutare in sorpresa come se finalmente avesse avuto un’illuminazione.

Edward, sotto di me, s’irrigidì. «Cos’è Jasper?» chiese velocemente.

Sfregai il viso contro la camicia di Edward, stringendo maggiormente i pugni sulla stoffa in una disperata richiesta d’aiuto.

«Io, credo…» mormorò Jasper sorpreso.

Mio marito lo guardò, sconvolto quanto lui. «Provaci. Ti prego, provaci».

«Cosa sta succedendo?» domandò Rosalie sorpresa.

Jasper si avvicinò con estrema cautela, come se ogni centimetro più vicino a me fosse un centinaio di volte più doloroso. A differenza di quello che aveva fatto prima non posò la mano sulla mia spalla.

Edward sollevò la mia maglietta di qualche centimetro, quanto bastava per scoprire la pancia.

Jasper, cautamente, posò la punta di un dito sulla mia pelle nuda.

Sentii uno stranissimo fremito attraversarmi, e i miei singhiozzi si fermarono per un attimo, sconvolgendomi, per riprendere immediatamente appena Jasper sollevò la mano.

«Jasper» sibilò Edward sconvolto.

Si fece coraggio, e posò la sua mano completamente sulla mia pancia fredda. Mi sentii improvvisamente investire da un’ondata calda, poi fu come se tutte le terribili emozioni che mi stavano schiacciando venissero improvvisamente risucchiate via, lasciandomi pallida e intontita.

Mi sentii come se mi avessero risucchiato via tutta l’aria dai polmoni contemporaneamente, così feci un respiro profondissimo, senza fiato.

Poi tutte le immagini divennero appannate e nel giro di un paio di secondi si fece tutto buio.

 

 

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Capitolo 45
*** Legate ***


Pian piano riaffiorai verso la coscienza.

Mentre il flusso dei ricordi portava con sé una certa lucidità, mi accorsi di sentire un fortissimo fastidio in testa, come un rumore crescente, che presto identificai con un gran mal di testa. La seconda cosa che notai fu la pesantezza e il calore che avvertivo sugli occhi, che non davano segno di volersi aprire.

Così la mia mente, mettendo insieme tutti quei dettagli, riuscì a ricostruire quello che era avvenuto prima che mi svegliassi, e man mano mi fece sempre più tornare verso la lucidità.

I raggi del sole colpirono i miei occhi aperti, vivificando la realtà. Edward era davanti a me e ancora non smetteva di fissarmi. Mi guardava come se si aspettasse che da un secondo all’altro scoppiassi nuovamente in un pianto a dirotto.

Sbattei le palpebre, allontanando lo sguardo per un attimo. Mi sentivo davvero intontita, come se tutti i miei pensieri fossero rallentati. Pian piano riaffiorarono alla mente i ricordi, lenti, incomprensibili, estranei. Come tutte le sensazioni che avevo vissuto. Pensai di poter dire con assoluta certezza che non mi riconoscevo in niente di ciò che mi era successo. Non era mio quel desiderio morboso, istintivo, di avere Edward accanto. Non era il mio dolore. O meglio, era il mio dolore, ma non provato da me.

Non riuscii a concentrarmi abbastanza su questi pensieri, perché altri, nuovi, più pressanti, pulsavano nella mia testa dolorante.

Senza dire una parola, e senza guardarlo, mi sollevai silenziosamente in piedi, respingendo ogni forma di vertigini. Feci istintivamente tre passi, dandogli le spalle, facendo perdere la mia espressione nel vuoto.

Mi sentivo terribilmente in colpa.

Vedevo lo sguardo preoccupato di mio marito e subito mi rimbombava nella mente quello terrorizzato del giorno prima. Sentii frantumarsi del mio cuore il desiderio di aiutarlo, di farlo stare meglio, di convincerlo che Jacob non poteva più farci del male.

Sentii un dolore e una tristezza che non aveva nulla a che fare con quella provata il giorno precedente. Questa, almeno, la riconoscevo.

Una fresca presa leggera si posò sulla mia spalla. «Bella» poco più di un mormorio.

Sospirai, desolata. Lui c’era sempre e c’era sempre stato per me. Perché non riuscivo in alcun modo ad aiutarlo? Avrei dovuto essere sempre la causa della sua preoccupazione?

«Mi dispiace» mormorai, non potendo fare a meno di far scontrare i miei occhi con i suoi. «Mi dispiace infinitamente, Edward. Io… non so come sia potuto accadere».

La sua espressione divenne tenera, aprendosi in un debole sorriso. Mi prese per il capo e mi stinse forte a sé, facendomi sentire il contatto con la sua pelle. Poi mi baciò sui capelli, staccandosi da me. «Tesoro, tu non hai fatto nulla di cui doverti scusare, non… nulla».

Abbassai il capo, mortificata. Mi sentivo così inutile nei confronti di mio marito che, con una sola parola o con un solo sguardo, poteva cambiare il mio nero umore.

Mi sporsi verso di lui, abbracciandolo ancora, non alla ricerca di un conforto, ma per sentire e far sentire la mia vicinanza. Notai che indossava ancora la camicia celeste, macchiata da un grosso alone di acqua salata. Lo sfiorai con le dita, osservandolo, cercando ti trovare una motivazione.

«Cos’è successo?» chiesi, dando vita ai miei pensieri, cercando di scacciare la nebbia che mi offuscava la mente.

Non mi rispose, così sollevai lo sguardo verso la sua espressione pensosa e lontana. «Che ne dici di cambiarci prima?» disse infine, piuttosto atono. «Di là ci sono gli altri, credo che potremmo parlarne».

Non riuscii ad allontanare gli occhi dal suo sguardo serio. Mi faceva paura quando faceva così. Avevo paura dei suoi pensieri. Paura di perderlo.

«Amore» lo richiamai, tentando di arrestare il tremolio nella voce.

Immediatamente si voltò verso di me, con la stessa espressione fredda.

Timorosa posai una mano sulla sua guancia. «Va… tutto bene?» mormorai.

Lui chiuse gli occhi sfiorando la mia mano con la sua.

Aspettai in silenzio che parlasse.

«Bella» disse, dopo qualche istante. «Sono solo preoccupato. Lo so che non vuoi che mi preoccupi, ma non chiedermelo, perché non posso».

«Io» mormorai, abbassando lo sguardo e tentando di pensare velocemente a un modo per rispondere a quelle parole, pronunciate con un tono così fermo. «Sì» concessi infine, sconsolata, avviandomi verso il bagno.

Dopo tre passi mi bloccai, voltandomi indietro verso lui, ancora immobile.

Mi imposi di non pensare e feci a passo svelto quei tre passi che ci dividevano, unendo velocemente le mie labbra alle sue.

All’inizio rimase rigido per la sorpresa, poi, dopo un istante, rispose al bacio.

Quello era, ancora, l’unico modo che conoscevo per farmi sentire vicina a lui. E per adesso avrei usato quello. «Ti amo» dissi ansante, umettandomi le labbra fredde.

«Anch’io» rispose Edward, mettendomi una mano alla schiena e riunendo con più calma e delicatezza le nostre labbra.

Uscimmo insieme dalla camera da letto, mano nella mano. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata, assicurandomi delle sue emozioni attraverso la sua espressione.

«Tesoro, ti sei svegliata» mi salutò Esme, vendendomi incontro e abbracciandomi, per poi passare con gentilezza una mano sulla mia pancia. «Come ti senti?».

«Bene. Sto bene» farfugliai arrossendo. La testa mi pulsava ancora ma mi sembrava di riuscire a pensare più lucidamente.  

Jasper e Carlisle, prima intenti a discutere sul divano del soggiorno, ci vennero incontro.

Jasper fissò me, e poi Edward. «Siamo pronti, quando vuoi…».

«Spostiamoci di là, abbiamo preparato la colazione per Bella» fece Alice, comparendo insieme a Rose alla nostra vista e scortandomi via.

Ci sistemammo in sala da pranzo, intorno al grande tavolo. Io stavo accanto a Edward, mangiando la mia colazione. In realtà, stranamente, avevo lo stomaco chiuso. Forse per la tensione accumulata o per gli psicofarmaci che mi avevano somministrato, che mi lasciavano sempre debole, apatica e inappetente. Ma non volevo farlo ulteriormente preoccupare, così mangiai.

«Bella, abbiamo sviluppato delle ipotesi per ciò che ti è accaduto. La questione, in linea di principio, è piuttosto semplice» cominciò Jasper, impaziente quanto Carlisle, che pure tentava di contenersi, di esporre la sua tesi. «Nell’ultimo periodo, fin dopo il rapimento di Jacob - fece senza perifrasi - ho notato un certo mutamento nella perfezione della tua aura emozionale».

Lo fissai perplessa, rinunciando completamente alla possibilità di finire il mio latte.

«Mi spiego meglio» disse, notando lo sguardo curioso di tutti gli altri, men che di Edward e Alice, ovviamente. «Non “vedo” l’aura emozionale. Ma la percepisco come se fosse un cerchio piuttosto grande o piccolo - a seconda delle emozioni provate - che gravita pressappoco intorno alla posizione del cuore. Ebbene, nell’ultimo periodo, il cerchio di Bella è a poco a poco diventato un’ellisse».

Aprii la bocca, sorpresa, voltandomi a fissare l’espressione di Edward. Evidentemente, non era questa la parte che lo sconvolgeva, perché giocava, concertato, con i miei capelli.

«Ecco» continuò Jasper «ho pensato che tutto ciò derivasse da una sorta di alienazione delle emozioni» si fece più greve «mi è capitato di percepire auree informi, di persone che avevano subito gravissimi traumi e che non riuscivano più a gestirle; come potevo pensare che quel lieve cambiamento non fosse dovuto la tuo disturbo da stress post traumatico? Che in realtà, la bambina, occupasse uno dei fuochi della tua aura?».

«Cosa?!» esclamai, sorpresa, con voce stridula.

Mi voltai verso Edward, agitata, ma lui mi fece un sorriso rassicurante, stridente con l’espressione dei suoi occhi. «È una bella cosa, tranquilla. Ti piacerà».

Tornai, titubante, confusa, a fissare Jasper, che mi rispose con uno sguardo determinato.

«Bella, la bambina non ha i miei stessi poteri. Ma ieri, dovresti esserne consapevole, è riuscita a “manipolare” le tue emozioni. Questo perché la tua aura sta generando la sua e adesso sono ancora indissolubilmente legate e questo vuol dire che…».

«Io sento quello che sente lei e lei sente quello che sento io» mormorai fioca.

«Sì, esatto».

Cercai di pensare a quella frase nel suo vero senso e non di pronunciarla come se la stessi leggendo e tentando di regolarizzare il turbine di pensieri. Io e la bambina… legate… fino al parto? Legate. Nelle emozioni, nelle sensazioni. Tutte le cose, le sensazioni di stranezza, le emozioni aliene, gli strani istinti di attaccamento nei confronti di Edward… Tutto veniva giustificato alla luce di quella rivelazione. Sì, lui aveva ragione, quella era una cosa stupenda, un miracolo inimmaginabile. Molto più di quanto mi sarei mai aspettata.

Ma allora perché sentivo una fastidiosa voce che mi impediva di essere felice?

Perché quello significava che la bambina era triste. Se le emozioni che avevo provato erano le sue, allora era dannatamente triste.

«Credo…» mormorai, fissandomi le mani. «Credo di aver bisogno di un bicchiere d’acqua».

Mi concessi molti lunghi sorsi, poi ricominciai a prendere il filo dei miei pensieri. Tuttavia, l’unica conclusione a cui ogni volta approdavo era la stessa.

«Significa» chiesi, lentamente, scrutando i volti di Edward e Jasper «significa che la bambina è triste?» chiesi spaventata.

«Non crediamo, Bella» a rispondere e rassicurarmi fu Carlisle. «Non possiamo pensare che la bambina provi emozioni così complesse o che abbia intenzionalmente fatto qualcosa. Piuttosto è ragionevole convenire che “sposti le emozioni” da lei a te, ma devono essere, nella maggior parte, le tue. E non crediamo lo possa fare intenzionalmente, non ancora. È molto più probabile che agisca per istinti. Ma la cosa grandiosa, a questo punto, sta proprio in questo!» esclamò, non riuscendo a nascondere l’entusiasmo, «i bambini crescono e maturano, ricevendo stimoli dall’esterno e modificando una serie di istinti che hanno per loro natura innata. In questo caso la bambina sta già ricevendo molti di questi stimoli!».

«Io l’ho detto che la mia nipotina è una intelligente» fece Emmett, ghignando.

Sospirai, confusa.

«Si, è proprio così!» fece Carlisle, stupendomi «È rudimentale dirlo in questo modo, ma è così. Questa bambina sarà più intelligente degli altri perché già da ora comincia a beneficiare degli stimoli, percependo le emozioni e i contatti con il mondo esterno attraverso te».

«Quindi i bambini umani non percepiscono allo stesso modo le emozioni della madre?» chiese Esme.

Jasper riprese la parola. «No, perché in quel caso le auree si sovrappongono, ma non sono legate.  Per questo gli scambi ci sono, ma sono davvero sporadici e minimi».

Mi portai le mani alla testa, tentando di capacitarmi di tutto. La bambina… le emozioni… il motivo di quella dannata tristezza di Edward, che non sembrava accomunare nessun altro della famiglia!

Sentii una mano fredda sulla spalla. «Finisci la colazione Bella, e sta tranquilla. Man mano capirai tutto» mi disse gentilmente Alice. Il suo sguardo, però, era carico e pensoso. Aveva visto qualcosa che stava per succedere.

Annuii, ricominciando a mangiucchiare e tentando in ogni modo di analizzare con lucidità i fatti.

Io e la bambina condividevamo le nostre emozioni. Quello che era successo ieri era dipeso da questo, ma la bambina non era triste. Da dove veniva, allora, la tristezza?

Sollevai lo sguardo, e incontrai quello sereno di Carlisle e Jasper. Poi, mi voltai alla mia sinistra, verso Edward, bisognosa di cercare conforto e spiegazioni. O magari solo di vederlo.

«Che cosa è successo ieri?» chiesi, fissandolo in volto.

La sua espressione si contrasse, e abbassò lo sguardo prima di passare protettivamente un braccio sulla mia spalla.

«Bella» cominciò Rosalie, «hai studiato un po’ di rudimenti di psicologia? Freud?».

Allontanai lo sguardo dal volto di Edward, stringendomi con tutta la mia forza a lui e annuendo.

Mi sorrise. «Bene, allora saprai che l’uomo usa una minima parte del suo cervello. E nella parte che non viene utilizzata, secondo Freud, ci sta l’inconscio. L’inconscio dove vanno a finire, per esempio, i traumi non rimossi». Fece una pausa, per consentirmi di pensare, forse. «Bella, quello che voglio dire è che quello che è successo ieri non è dipeso dalla bambina, non completamente».

Mi sentii raggelare, mentre la presa di Edward rimaneva immobile e salda. Mi voltai verso di lui, tremante e timorosa, e lessi la stessa espressione fredda di quella mattina.

Era colpa mia.

Mi imposi di respirare regolarmente, di mantenere la calma.

Sussultai, sentendo una mano sulla mia.

«Vuoi un altro bicchiere d’acqua tesoro?» mi chiese con gentilezza Esme.

Annuii, abbassando il capo.

«Vuoi che ti spieghi?» mi chiese Rosalie, guardandomi intensamente negli occhi.

«Sì» biascicai.

«Ecco, ricordi perché hai cominciato a piangere?» mi chiese, e mi ricordò tanto il bruttissimo periodo in cui facevamo i nostri esercizi.

«Sì… io… mi ricordo che mi è caduto il piattino con la torta» farfugliai, attenta a non fissare neppure per un istante gli occhi di Edward, per paura di quello che avrei potuto leggerci.

«E ricordi cosa hai sentito?».

Abbassai il capo, persa nei pensieri. Qualcosa stava tentando di riemergere verso a mia coscienza, ma mentre tentavo di afferrarlo mi pareva di perderlo.

Poi, improvvisamente, capii. Insieme a quella, tante altre cose, a cui non avevo mai fatto caso, o che erano cadute nell’oblio della memoria. Perché odiassi così tanto il caldo. Perché non sopportassi di vedere film drammatici. Perché non riuscissi a non tremare quando qualcuno mi coglieva di spalle, perché preferissi starmene rannicchiata in un angolo… Erano un mucchio di dettagli insignificanti, eppure, solo ora mi rendevo conto di quello che significassero.

Erano cose che avevo sempre saputo, ma che evidentemente, l’immenso potere dell’oblio aveva distrutto.

Solo ora capivo.

«Il piattino» mormorai «il suono del piattino che si rompeva… io… io…» rallentai, ricordando altri dettagli, «l’ho sentito, ma… la bambina» dissi infine, posando una mano sul ventre.

«Cosa?» mi chiese Carlisle, confuso.

Deglutii. «Io ho sentito quel suono, ma poi era come se lo avessi ascoltato un’altra volta. Come… se stessi riascoltando un suono che avevo già sentito, ma… così diverso».

Rosalie annuì, voltandosi verso il padre. «È quel suono che ha dato alla bambina l’accesso al suo inconscio» poi si voltò nuovamente verso di me «la bambina è “entrata” nel tuo inconscio. È vero, è stata lei a farti piangere, è stata lei a farti comportare come ti sei comportata, è stata lei che ti faceva sentire quello che sentivi. Ma sei stata tu a cominciare a piangere e sempre tue, erano le emozioni a cui attingeva. Non sarebbe mai riuscita a sopraffarti se tu non fossi stata così vulnerabile».

Incassai il colpo. Non avevo il coraggio di voltarmi verso Edward, non ora che avevo capito appieno il motivo della sua preoccupazione. Mi accorsi di stare tremando visibilmente solo quando si staccò da me. L’avevo stretto con tutta la mia forza.

Mi imposi di parlare, di dire qualcosa in risposta a questi sguardi gentili. Erano stati così carini con me, tentando in ogni modo di mettermi a mio agio. Perché, anche quando speravo di essermene liberata, i fantasmi del mio passato tornavano a tormentarmi?

«Accadrà ancora?» chiesi, fissando prima loro e poi Edward, ancora immobile.

Rosalie fece per parlare, ma Carlisle la bloccò, posando una mano sul suo braccio. «Io credo che dovreste parlarne, voi due. Edward sa tutto quello che vuoi sapere. E Edward, credo che Bella voglia sapere qualcosa da te» disse tranquillo. Sul suo volto non c’era la stessa espressione tesa di Edward, ma lo sapevo, Carlisle era un ottimo attore.

Mi alzai, come un automa, avviandomi in camera, unica stanza della casa completamente insonorizzata. Dopo pochi passi sentii la presenza di Edward al mio fianco. Mi faceva così male quella distanza.

Entrai in camera in silenzio, chiudendomi la porta alle spalle e andando poi a sedere sul bordo del letto. Aspettai che dicesse qualcosa. L’attesa mi divorava, e sentivo delle scosse elettriche nell’aria, che rompevano quel naturale legame che c’era sempre stato fra noi.

«Ieri mattina, quando ti sei svegliata, eri triste?».

Presi un piccolo respiro, sforzandomi con tutta me stessa di mantenere la calma. Non potevo crollare, non ancora. «No, Edward».

Fece un passo verso di me, sollevando una mano. «Ne sei sicura?».

«Come puoi dirlo!» esclamai stridula «Lo sai che non è così. Stavamo bene, abbiamo riso e scherzato e mi sembrava uno dei giorni più belli della nostra vita» sputai affranta.

Abbassò le spalle, come svuotato. «Perché allora?».

Sospirai, non veramente pronta a dare una risposta. Mi portai le mani sul volto, nascondendolo. «Io… Mi dispiace così tanto, Edward! Ti giuro, ti ho sempre detto quando sentivo che qualcosa non andava!» esclamai, tentando di calmare il tremolio nella voce. «Te lo giuro! Io non mi sono resa conto di questa cosa che stava accadendo! Non so neppure da dove sia venuto» mormorai, disperata, tentando in ogni modo di non piangere.  

Ma lui era distante, freddo, e nella mia mente continuava a rimbombare l’idea disperata e irrazionale che lo avrei perso, che quella distanza mi avrebbe uccisa.

Sentii il materasso abbassarsi e capii che si era seduto accanto a me.

Scostai le mani dal volto, fino ad incontrare il suo sguardo teso e distante. Aveva la mascella serrata e le labbra strette. «Bella» sbottò infine «ho dannatamente paura di quello che provi. Dannatamente paura di perderti. Ieri mi sono sentito così impotente. È stato così doloroso sentire quelle emozioni attraverso Jasper, sentirti pregare di fare qualcosa per farti stare meglio mentre niente di ciò che facevo funzionava!» esclamò serrando i pugni «Ho passato tutta la notte senza staccarmi da te, con il terrore che se ti fossi svegliata ricominciando a piangere o non trovandomi al tuo fianco saresti stata così male che non avrei più potuto fare niente per te!».

Tremai, in silenzio, fissando i suoi occhi scuri e la sua mascella tesa. I secondi parevano ore, sembravano non voler passare mai.

«Mi dispiace» mormorai infine, sull’orlo delle lacrime «ti prego, non essere arrabbiato con me, io… non so cos’altro fare».

Strinse le labbra, teso, preoccupato da quello che stava per dirmi. «Forse dovresti ricominciare a prendere gli antidepressivi».

Presi un fiato, fremendo. Spostai lo sguardo dal suo, fissandomi le mani tremanti. Mi sentivo come se mi avesse appena colpito. Come se mi stesse dicendo che mi aveva dato un’occasione, o più di una, ma non ne ero stata all’altezza. O peggio, pensai, sentendo il suo sguardo bruciare su di me. «Non ce la fai più a starmi accanto così?» soffiai fra le labbra, piena di dolore.

«Bella» sussurrò senza fiato, sconvolto dalla mia conclusione «no, non è questo».

Mi voltai a fissarlo, deglutendo più volte prima di riuscire a parlare. «Nemmeno io riuscirei a starmi accanto così. Volevo solo farti stare meglio, lo giuro» balbettai affranta.

Chiuse gli occhi, addolorato, stringendomi finalmente a sé. «Scusa… scusa, scusa, perdonami se puoi. Non avrei mai voluto che pensassi una cosa simile. Non mi importa quanto possa essere difficile starti accanto, è per il dolore che provi tu che mi preoccupo» riaprì gli occhi, serrando con forza la mascella «perché io non posso…». Si zittì, senza continuare. Poi prese un profondo respiro e ricominciò. «Scusa Bella. Voglio solo che tu e la bambina siate felici e stiate bene».

«E anche tu» aggiunsi io, tremante, scossa dalle sue parole. «Non posso essere felice se non lo sei anche tu, ma ti prego» mi feci coraggio a dire «nemmeno a te piace l’effetto che mi fanno gli antidepressivi. Mi intontiscono, mi passa la fame, la voglia di fare le cose, il...» balbettai imbarazzata «il desiderio di te. Non mi sento più io».

Mi carezzò la guancia con una mano, addolorato.

Misi la mano sulla sua. «Se pensi che sia la mia unica possibilità lo farò. Ma se pensi che abbia anche solo una piccola, minuscola possibilità di farcela da sola lasciami provare, almeno una volta. Ti prego».

Fece scontrare la fronte con la mia, avvicinando così i nostri respiri. «Continuerai la psicoterapia con Rosalie, e ti farai aiutare da Jasper?».

Presi un respiro, sollevata. «Lo giuro».

«E mi dirai sempre quando pensi che le emozioni stiano per sfuggire al tuo controllo?».

«Sì Edward, te lo prometto. Mi dispiace, non sai quanto mi dispiace per quello che hai dovuto vivere ieri».

Scosse il capo, farfugliando qualcosa fra sé.

«Cosa c’è?» domandai preoccupata.

Ma lui sorrise, facendomi rilassare lievemente. «L’ennesima stranezza di questa gravidanza vampira. E siamo solo all’inizio. Ho paura di quello che ci aspetta».

«Questa volta non ha tentato di dissanguarmi» biascicai, rilassandomi un poco.

Ridacchiò appena, lievemente. «No. Anzi, penso che sia una cosa meravigliosa avere questo legame con lei» mi chiese, posando una mano sul ventre e accarezzandomi la pancia.

Sentii la tensione che avevo addosso fino a qualche istante prima scomparire man mano. «Beh, sì. In effetti me ne devo ancora capacitare a dire la verità. È così… è complesso» dissi, pensando che probabilmente anche in quel momento le mie emozioni erano legate a quelle della bimba. Tutto quello che provavo, quello che sentivo, andava direttamente a contatto con le sue emozioni.

«Chissà se…» mormorai poi, sistemandomi seduta a col petto contro quello di Edward. Forse gli avrebbe fatto bene renderlo partecipe delle nostre emozioni. Avvicinai i nostri nasi, facendoli sfiorare così come tante volte lui aveva fatto con me.

«Cos’hai intenzione di fare?» mi chiese perplesso, ma divertito.

Posai un dito sulle sue labbra, prima di scendere con la bocca ad occupare il suo posto. Fu un contatto fugace, inizialmente, poi lo approfondii, prendendo fra i denti il labbro superiore e tirandolo leggermente verso l’alto.

Sentii delle emozioni felici che non dovevano essere le mie, ma non feci in tempo a ridacchiare che mi trovai con la schiena schiacciata sul materasso e Edward lievemente posato su di me. Ero contenta del fatto che sembrava molto più sereno di prima.

Si teneva con una mano, accanto alla mia testa, e con l’altra mi accarezzava il viso, continuando a baciarmi.

Quando si staccò ansimai, aggrappandomi con le braccia alle sue spalle. «Ti voglio Edward, ti voglio così tanto» gemetti.

Lui riprese a baciarmi, con più impeto e forza. C’era tanto desiderio fra di noi, e ancora non sapevo come si sarebbe potuto esprimere e quanto avrei potuto osare, ma sapevo che lo desideravo.

«Ragazzi» fece il vocione di Emmett, aprendo la porta. La sua espressione mutò in succulenta meraviglia, scoprendoci così avvinghiati. «Ohh. Jasper e Alice mi avevano detto che avevate fatto la pace, ma così è davvero troppo».

Edward si spostò con le labbra sul mio collo, non dimostrando, però, alcuna intenzione di voler smettere.

Tentai di divincolarmi dalla sua presa, rossa come un peperone, ma ogni tentativo fu vano. Alla fine mi arresi. Non potevo resistere a quelle labbra così… fredde… lisce… dure… sul mio collo.

«Emmett, va al diavolo!» esclamai, gettandogli un cuscino che acchiappò prontamente, pur scomparendo dietro la porta.

 

«Allora, avete fatto pace» insinuò Rosalie, mentre tagliava la mia insalata.

Arrossi, gettando una rapida occhiata a Edward, dall’altra parte del soggiorno, in compagnia di Emmett, Jasper e Carlisle. Lui mi fece l’occhiolino e io arrossii ancora di più. «Sì» mormorai infine, imbarazzata.

«Lo sapevo! Avevo visto tutto!» esclamò, contenta, Alice.

Arrossii ulteriormente pensando a tutto ciò che potesse aver visto, o peggio, sentito…

«Su, ma non vedete che la state mettendo in imbarazzo? Non ti preoccupare tesoro» mi rassicurò Esme, accarezzandomi i capelli.

Nessuno mi permise di alzarmi dalla poltroncina su cui ero seduta per raggiungere i ragazzi in soggiorno. Erano uno più apprensivo dell’altro. Ma, in fondo, gli volevo bene proprio per questo.

«Dai, dai, basta!» risi, scalciando fra le braccia di Edward «ormai il periodo di riposo è praticamente finito, perché non mi permetti di fare dieci metri?» chiesi accusandolo, mentre mi posava sul divano.

«Edward ha ragione Bella. Ieri è stata una giornata molto stancante per il tuo corpo, approfittane per riposarti. Faremo tutti i controlli e se starai bene potrai ricominciare a fare tutto ciò che vorrai» mi spiegò gentilmente Carlisle.

Intrecciai le dita a quelle di Edward, stringendomi al suo petto e pensando a qualcosa, in particolare, che volevo fare. «Non vedo l’ora» mormorai, seppur imbarazzata, attenta a farmi sentire solo da lui.

In risposta ricominciò a baciarmi, infilando una mano sotto alla maglietta, sulla pancia.

Qualcuno tossì, così mi allontanai di botto, ricordando di avere pubblico.

Emmett non perse occasione per fare una delle sue battute. «Carlisle, non mandarli mai più a parlare da soli. In camera. Non ti dico come stavano tutti…».

Edward ringhiò, così si interruppe, fingendosi spaventato.

«Scusate» biascicai, abbassando lo sguardo e concentrandomi sul cibo. Edward, al contrario, sedeva sicuro di sé al mio fianco niente affatto imbarazzato. Ogni tanto gli lanciavo, per sicurezza, un’occhiata, ma del suo malumore sembrava non esserci più traccia. Sorrideva, tenendomi stretta a sé con un braccio, baciandomi il capo ogni tanto.

Intanto Carlisle, Rosalie e Jasper, continuavano, entusiasmati, a dibattere sulla grande scoperta che avevano fatto. Era una cosa unica secondo loro, tuttavia non riuscii a seguire la maggior parte del discorso.

Sentii la mano di Edward insinuarsi ancora una volta sotto la maglietta, sulla pancia. Rabbrividii, sentendo una strana emozione nascere in me. Posai la mano sul suo braccio, scossa.

«Tutto bene?» mi chiese lui.

Annuii lentamente. «Sì. Sì. Credo che alla bambina piaccia particolarmente».

Notai che tutti si erano voltati verso di me, osservandoci silenziosi.

«Ti era già capitato di sentire le sue emozioni?» mi chiese Carlisle, interessato.

«Sì, io… beh, pensavo che fossero mie, non ci avevo mai fatto così caso».

«E istinti?».

Sgranai gli occhi, imbarazzata. Sì, un morboso attaccamento a Edward. Ma non so quanta colpa possa dare alla bambina, perdonami. Anche perché non credo che lei voglia fare “certe cose” con il padre… Avrei dovuto rispondere così? «Io… non so».

Sorrise, captando il mio imbarazzo. «Va bene».

Mentre il disagio scemava, lo sentii tornare indietro. «Accidenti» mormorai accarezzandomi la pancia. La bambina si stava divertendo a farmi quello?

Jasper rise, capendo ciò che stava accadendo, profondamente esaltato. «È stupendo. La bambina sente quello che sente Bella e ogni tanto le rimanda indietro le emozioni che non riesce a comprendere o che lei scaccia via troppo in fretta. Stupendo. Siete come una mescolanza di sensazioni. Davvero stupendo. Mi chiedevo» aggiunse, fissandomi con interesse e curiosità «potrei provare una cosa?».

«Jasper» lo richiamò Edward.

Cosa voleva provare?

Si bloccò e per un attimo l’euforia scemò dal suo viso. «Oh, io ne userei pochissimo. Ma se tu non vuoi» fece lui.

«Cosa?» chiesi disorientata.

Jasper lanciò prima un’occhiata al fratello, poi mi spiegò. «Mi chiedevo quanto riuscissi ad influenzarti usando il mio potere sulla bambina anziché su di te. Ieri appena l’ho calmata sei stata sopraffatta dall’effetto dei farmaci. Quindi volevo provare. Ma, se non vuoi…».

«Ma sì, certo» risposi, fissando prima lui e poi Edward. «Davvero, si può fare, non mi costa nulla».

Lui mi fissò titubante, poi acconsentì. «Va bene».

Jasper posò una mano sulla pancia, facendomi rivivere la sensazione di brivido provata qualche minuto prima. Dopo pochi secondi, però, giunse anche una sensazione di delizioso torpore.

Per pochi istanti credetti di addormentarmi, ma poi svanì come era venuta, lasciandomi intontita.

«Bella?» mi chiamò Edward, che non aveva mai abbandonato il mio fianco.

«Sto bene» dissi, riscuotendomi. «Ha funzionato». Sorrisi.

«Bene, sono contento. Ci lavoreremo. Dovrai imparare a non farti sopraffare da ciò che prova la bambina. Quando scacci le sue emozioni, fallo con lentezza, e se vai nel panico quando le senti ti rendi solo più vulnerabile».

Sospirai, sconsolata, stringendomi nell’abbraccio con mio marito. «Ma con il tempo le sue emozioni non saranno sempre più forti? Come farò?».

Jasper mi sorrise, come se non aspettasse altro che quella domanda. «Sì, se ora le vostre emozioni sono un miscuglio più o meno mischiato, con il tempo lei acquisirà sempre più spazio e sempre più identità personale. Contemporaneamente, però, devo presupporre che la superficie di contatto diminuirà moltissimo. Quindi è vero, questi “scambi” saranno più forti, ma anche più decisi e determinati e in minore quantità».

Carlisle aggiunse «Nonché, forse, regolati razionalmente dalla bambina».

Rabbrividì, ancora. Notai la mano di Edward sulla mia pancia e le diedi un leggero schiaffetto. «Sta buono o questa birbante non mi lascerà in pace» lo richiamai.

Edward si avvicinò al mio viso, posando il naso, ghiacciato, sul mio collo.

Sentii il mio cuore battere a ritmo sostenuto.

«Il birbante sono io» sussurrò malizioso, divertendosi del rossore che mi imporporava le guance.

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Capitolo 46
*** Quel folle amore ***


«Bene» disse Carlisle, sfilandosi per un attimo lo stetoscopio. «Puoi metterti seduta per favore?» mi chiese gentilmente.

Annuii, e Edward mi aiutò a sollevarmi dalla posizione sdraiata in modo che lui mi misurasse nuovamente la pressione. Attesi in silenzio che ripetesse l’operazione, poggiata con il capo sul petto di Edward, stanca per tutta la mattinata trascorsa in ospedale.

«Okay» disse infine, togliendomi la fascia nera dal braccio. «Abbiamo finito, direi che sia la mamma che la bambina stanno benissimo» mi rassicurò con un sorriso.

Mi abbassai la manica della maglietta, fissandolo con attenzione mentre si sedeva dietro la scrivania, facendoci segno di accomodarci sulle poltroncine davanti a lui.

«Hai ancora la pressione un po’ bassa» mi disse, scrivendo dei dati sulla mia cartella clinica. «Ma niente di cui preoccuparsi. Alzati lentamente per evitare capogiri. Il tuo peso sta aumentando in modo corretto, per essere al terzo mese è perfetto che tu abbia preso un chilo e mezzo. L’emoglobina è stabile sui 10, quindi sospenderò alcuni dei farmaci che stai prendendo e te ne darò altri per bocca».

Sorrisi, sollevata. «Niente più iniezioni?».

Trattenne a stento un sorriso. «Niente più iniezioni».

«E la bambina?» chiesi un po’ preoccupata «siamo sicuri che stia bene?».

Sentii la mano di Edward stringersi attorno alla mia, con assoluta tranquillità. Mi sentivo meglio, la tristezza era un lontano ricordo, e mi sembrava che anche Edward fosse più rilassato.

Carlisle mi sorrise, rassicurante. «All’ecografia non si vede più alcun distacco amniocoriale e la visita va davvero bene».

Rabbrividii, ricordandomi di quella mattina. Fare la visita ginecologica era stato molto più facile dell’ultima volta, ma a parte il naturale disagio era una cosa che mi metteva sempre molto in difficoltà.

«E il battito?» domandai. Ancora i vampiri non riuscivano a sentirlo, ma dicevano che con il macchinario di Carlisle si era sentito molto più forte dell’ultima volta.

Edward si chinò al mio orecchio. «È perfetto, Bella. La bimba sta bene».

Sorrisi, accarezzandomi il ventre. «Bene» sollevai lo sguardo, sorridendo. «Sono sicura che stia bene. È così contenta oggi».

«Davvero?» mi chiese Edward emozionato, posando una mano sulla mia, come se così potesse sentire anche lui la sua felicità.

«Sì» sussurrai, appoggiando la testa sulla sua spalla e lasciando che ci accarezzasse.

«Hai ancora nausee?» mi chiese Carlisle, finendo di scrivere.

Annuii. «Sì», poi aggiunsi, arrossendo, «però ho anche molta fame».

«Appena finiamo ti porto a mangiare qualcosa» mi disse Edward, sollevandomi completamente dalla poltrona e sistemandomi sulle sue gambe, in modo da potermi accarezzare meglio.

Arrossii, ma non dissi nulla. Finché stava bene a lui, andava bene anche a me.

Carlisle sorrise. «Non vi voglio trattenere oltre, ma prima c’è una cosa di cui vi vorrei parlare».

«Cosa?» chiesi, interessata, voltandomi velocemente verso di lui.

Intrecciò le mani, portandole sulla scrivania, segno che stava iniziando un discorso piuttosto serio. «Vedete, ho pensato più di una volta al “problema” del parto» mi fissò intensamente negli occhi, facendo una pausa. «Il tuo quadro clinico, Bella, ti permette di avere una cartella con tutti i tuoi dati, come qualsiasi altra gestante. Permangono, però, diversi problemi. Non ci sono le ecografie, per esempio. E il tuo medico curante, sono io, un chirurgo, non un ginecologo. A parte questi, che sono problemi burocratici facilmente ovviabili, ce n’è un altro di cui vorrei discutere». Vidi il suo sguardo serio posarsi decisamente su Edward. 

Sentendo le sue mani bloccarsi sulla mia pancia, li fissai, spaventata, tentando di immaginare quale potesse essere il problema.

«Sta tranquilla, Bella» disse Carlisle, accorgendosi dei miei pensieri. «Non è nulla di grave, è solo che ritengo che dovremmo fare un taglio cesareo».

«Oh» mormorai, abbassando lo sguardo. Mi sentii improvvisamente rattristata da quelle parole. Eppure, avrei dovuto immaginarlo.

«Le difficoltà che incontreremo con la membrana possono essere svariate, e non potendo monitorare al meglio la situazione sia tua che la bambina potreste correre importanti rischi» tentò di spiegarmi Carlisle.

«Io» mormorai, sempre con lo sguardo basso. «Sì, capisco». In realtà invece sentivo tutto quell’improvviso rammarico, ma sapevo di non poterci fare nulla. Forse derivava dal fatto che avevo letto, su una rivista lasciatami da Rosalie, che le donne che hanno un parto naturale sono legate in maniera speciale ai loro bambini. Forse ero una delle tante mamme che si faceva questo genere di paranoie.

Sentii una mano sotto al mento che mi costrinse a voltarmi fino a incontrare gli occhi ambrati di mio marito. «Ti dispiace molto?».

Feci per dire di no, ma poi optai per una mezza verità. «Un po’». Sentii la mia stessa tristezza provenire dalla bambina. Chiusi gli occhi, tentando, come mi aveva suggerito Jasper, di scacciarla via lentamente. Non era giusto che mi facessi condizionare da queste cose facendola rattristare, volevo che sentisse tutti i miei sentimenti più positivi, d’ora in poi.

«Bella» mi chiamò Carlisle, posando una mano sulla mia. «Mi dispiace, non pensavo ci tenessi così tanto».

«Non ti preoccupare, non è colpa tua. Anzi, ti sono grata per tutto quello che fai per me, solo che…» mi interruppi, tentennando con lo sguardo verso il grande scaffale bianco alle sue spalle, «non so come spiegarlo. Non ci avevo neppure pensato più di tanto fino ad oggi» ammisi infine.

«Sì, capisco» disse lui, ritirandosi sulla poltrona nera di pelle e rimuginando. «Facciamo così, ti prometto che ci penserò, okay? Penserò a un modo per farlo».

Sentii Edward irrigidirsi.

«Ovviamente, senza che tu corra rischi» aggiunse, a suo beneficio, con un sorriso.

Mi sollevai dalle braccia di Edward e corsi ad abbracciarlo. «Grazie, grazie, grazie» mormorai entusiasta contro in suo maglione di cotone color petrolio.

Mi strinse a sé con affetto, poi mi tirò via dalle spalle fino a guardarmi negli occhi. «Ho detto che ci penserò, non è detto che riuscirò a trovare una soluzione» precisò con un sorriso.

Sorrisi anch’io, nonostante tutto. «Certo, va bene».

Sentii due braccia fredde abbracciarmi da dietro. «Andiamo Bella? Avrai fame, no?».

«Sì, sì, in effetti. Mi chiedo quanto ancora potrò latitare dalle grinfie di Alice! Solo a pensarci… cielo! Non oso, non pensiamoci» rabbrividii, e con me la bambina.

Edward e Carlisle scoppiarono ridere.

«Non ridete! Anche lei è d’accordo con me!» esclamai, fingendomi offesa.

«Andiamo» fece Carlisle, togliendosi il camice e appendendolo all’antico appendiabiti in legno di ciliegio - tocco, ne ero certa, di Esme - «il mio turno oggi è concluso, me ne torno a casa anch’io».

Quando arrivammo alla grande porta a vetri all’uscita ci accorgemmo che era in atto uno dei tipici temporali di Forks. Il cielo era grigio scuro e in lontananza si vedevano degli inquietanti lampi di luce chiara. Non appena un uomo, uscendo dalla porta, l’aprì, mi giunse una folata di vento ghiacciato, insieme all’odore prepotente di umido e terra bagnata.

Rabbrividii, sentendo la familiare sensazione che la bambina mi regalava quando Edward accarezzava la pancia.

Edward se ne accorse. «Aspettami qui, vado a prendere la macchina».

«No, ti prego, senti che bel freddo fa lì fuori!» mormorai incollando la faccia al vetro freddo. Mi ostinavo a conservare un masochistico amore per il freddo. D’altronde, se non fossi stata masochista di natura non mi sarebbe mai venuto in mente di sposarmi con un vampiro.

Edward scosse il capo in disappunto, uscendo. «Aspetti con lei?» chiese a Carlisle. Ovviamente, sempre, si premurava ossessivamente di tenere completamente sotto controllo la situazione.

Lui sorrise, pensando, ne ero certa, le stesse cose che stavo pensando anch’io. «Sì, certo».  

Mi voltai verso Carlisle, sorridendogli. Quel giorno c’erano stati meno problemi rispetto alla precedente visita, ma comunque riconoscevo che per me non era affatto stato facile. E sapevo che molto di quello non dipendeva dal naturale imbarazzo…

«Carlisle» lo chiamai, un po’ impacciata per quello che stavo per chiedergli.

«Sì?» mi chiese lui, cortese, passandosi la borsa di cuoio chiaro da una mano all’altra.

Sbirciai con la coda dell’occhio nell’atrio e notai che non c’era nessuno, a parte un’infermiera, troppo lontana per sentire i nostri discorsi. Arrossii. Dovevo approfittarne ora che Edward non era con me, chissà quando sarebbe ricapitato.

«Io, ecco…» cominciai, piuttosto incoerentemente. «Ecco, volevo chiederti una cosa, piuttosto… privata» farfugliai, sentendo un innaturale calore al viso.

Carlisle mi sorrise, percependo il mio imbarazzo. «Capisco. Ecco, vieni, sediamoci qui» mi disse cortesemente indicando i divanetti su un lato del muro. La hall era piccola, ma piuttosto accogliente.

Titubante mi mordicchiai un labbro, poi lo seguii, tentennando, sedendomi con le gambe unite e la testa bassa.

«Problemi con la gravidanza? O… con Edward?» mi chiese, rompendo il silenzio imbarazzante e tentando di venirmi incontro.

Scossi il capo con determinazione. «No, anzi… Direi che… è il contrario» deglutii, sentendo un ronzio nelle orecchie. Volevo chiedere a lui, essere rassicurata, ma… quella cosa mi imbarazzava da morire!  

Sussultai quando sentii le sue mani posarsi sulle mie. Mi sorrise. «Puoi chiedermi tutto ciò che vuoi Bella, rimarrà fra noi» mi rassicurò.

Strinsi anch’io la presa, facendomi coraggio. «Ecco… È da tanto tempo che io e Edward non…» mi interruppi, sentendo le parole morirmi in gola.

«Ho capito, continua» disse tranquillamente.

«Ecco… Vedi… io…» farfugliai, non sapendo da dove cominciare.

«Ti preoccupi per la bambina? Ti garantisco che potete avere normali rapporti sessuali, l’importate, magari, è essere un po’ più… “delicati”, va bene?» mi disse con cortese professionalità.

Annuii, abbassando lo sguardo sulle nostre mani, ancora strette l’une alle altre.

«C’è qualcos’altro?».

Sospirai, guardandolo colpevole. «Ho… ho paura» balbettai, «non di Edward» aggiunsi velocemente «lui non mi fa nessuna pressione, è dolcissimo, ma… ho paura di come potrei reagire».

«Capisco» disse tranquillo, annuendo, «a questo punto potresti aspettare, se non sei sicura. Se non vuoi, non metterti fretta».

Liberai le mani dalle sue per portarle velocemente al viso, nascondendo un nuovo ed impetuoso rossore. «È proprio questo il problema… io voglio. Accidenti se voglio» biascicai completamente a disagio.

Le sue mani sui miei polsi me le fecero abbassare. Mi fissò con seria gentilezza. «Bella, non farti condizionare. Se ti lascerai andare con tranquillità, ti posso garantire che non ci sarà alcun tipo di problema. Andrà tutto bene. Parlatevi, raccontatevi i vostri problemi, le vostre sensazioni e difficoltà. L’intimità fisica non può esistere senza l’intimità spirituale. E sono sicuro che tutto quello che state passando renderà te e Edward più affiatati che mai. Va bene?».

Annuii, già più convinta. «Sì, grazie» dissi, sporgendomi per abbracciarlo.

Lui mi accarezzò la schiena. «Di nulla figliola».

Sorrisi ancor di più, contenta, sentendo la bambina felice quanto me. Mi staccai da lui, accarezzandomi la pancia. «È sempre molto contenta in questi giorni. Mi sembra davvero che tutto stia andando per il meglio. Mi fa sentire così in pace… E anche Edward. Anche lui mi sembra tanto contento» dissi felice.

«Bene» fece, con un naturale sorriso «ricordati che i prossimi mesi saranno i più belli della gravidanza. Sarai più riposata, tranquilla, serena, e anche più bella. Questo non vuol dire che puoi esagerare, ma puoi tranquillamente riprendere tutte le normali attività che svolgevi prima della gravidanza» posò una mano ghiacciata sul mio ventre, accarezzandolo con un’espressione che si perdeva felicemente lontano. «Sono contento che anche tu e Edward possiate assaporare il gusto della famiglia. E ora diventerò anche nonno! I miracoli della vita!». Sollevò la testa di scatto, con un sorriso. «Andiamo, Edward è arrivato» disse porgendomi una mano per farmi tirare su.

Mi accompagnò con il suo ombrello fino all’auto, poi se ne andò con un saluto alla sua Mercedes.

Ancora con un sorriso sulle labbra lo salutai, lasciandomi andare sul comodo sedile, beandomi della calda e confortevole atmosfera. Decisamente potevo dire che Edward aveva acceso al massimo i riscaldamenti. Mi voltai, osservando mio marito.

Non sapevo se per l’effetto dello sbalzo di temperatura, o per la visione del suo viso, ma le gambe mi tremarono seriamente, tanto che se non fossi stata seduta sarei crollata sicuramente a terra.

Aveva il collo del giaccone alzato, le ciglia scurite e bagnate per la pioggia e i suoi occhi liquidi e contrastavano con il pallore del suo volto. Avrei voluto essere ognuna di quelle goccioline che ne adorava il volto. Avrei dato qualsiasi cosa per possedere fra le mani quei morbidissimi capelli umidi e fra le labbra quelle rosee curve perfette… cielo! Si poteva morire per la visione della perfezione?

«Tutto bene?» mi chiese, facendo formare una ruga fra le sopracciglia.

Per carità! Fatemi essere al posto di quella perfetta flessione arcuata della sua pelle bianca… Annuii velocemente, tentando di dissimulare il mio vero stato, non sicura di come sarebbe stata la mia voce in quel momento. E se, ora che realmente potevamo, ci fossimo spinti veramente oltre?

Allontanai velocemente lo sguardo, tentando di darmi un contegno.

Edward ingranò la prima e accelerò.

In poco tempo ci trovammo davanti ad un Mc Donald a Port Angeles. Lui non voleva assolutamente farmi mangiare una di quelle, come le definiva lui, schifezze, e anch’io e avevo sempre reputate tali, finché non me ne era venuta voglia.

«Dai, te ne prego! Ho così tanta voglia di quelle patatine ipercaloriche e di quei panini pieni di grassi, che… oh, su te ne prego».

Mi sorrise. «Sembra che tu li ami più di quanto ami me» insinuò.

Sbuffai, intrecciando le braccia sotto al petto, offesa.

«Va bene, va bene, vado» si arrese, scendendo dall’auto.

Tornò con due sacchetti di cartone pieni di cibarie varie, di tutti i tipi.

«Oh, ti adoro, lo sai che ti adoro!?» esclamai, inspirando l’aroma di cibo “artificiale” e strappandoglieli dalle mani. Mi tuffai nel cibo lasciandomi andare in mugolii di soddisfazione. Stavo morendo di fame.

«Mangia piano» mi rimproverò bonariamente, scuotendo il capo e osservandomi mangiare.

Riuscii a finire appena mezzo sacchetto di leccornie.

«Sei sazia?» mi chiese Edward.

Annuii, soddisfatta, pulendomi la bocca.

«Bene». Velocemente prese il cibo che avanzava e lo gettò nel primo cassonetto che incontrammo sul ciglio della strada.

«Ehi, perché l’hai fatto?! Potevamo portarlo a casa!».

«Proprio per questo l’ho fatto, per evitare che mangiassi ancora quelle schifezze». 

Roteai gli occhi al cielo, ma evitai di ribattere ancora, dopotutto ero pienamente soddisfatta di quello che avevo mangiato e sapevo che gli era costato un certo sacrificio andarmi a comprare quelle “schifezze”.

Non potei fare a meno di ansimare lievemente, quando vidi a che velocità stavamo andando.

Con la coda dell’occhio, ancora sbarrati, fissi sulla strada, potei vedere Edward voltarsi verso di me, allarmato. Immediatamente scalò la marcia, fino a portarsi a una dignitosissima quota di 90km/h.

Mi lasciai andare sul sedile cacciando un sospiro fra i denti. Non sapevo cosa dire. Non sapevo neppure perché avevo reagito così. Avevo avuto paura, un attimo di pura paura. Forse era stata semplicemente la bambina…

La sua mano prese la mia, facendo intrecciare le nostre dita. Si voltò verso di me, sorridendomi con calma e tranquillità.

Sentii il battito del cuore diventare man mano regolare. «Guarda la strada, per favore» mormorai, riacquisendo leggermente il controllo della voce.

«Va bene» acconsentì, senza fare storie.

Quando fui abbastanza calma mi concedetti il lusso di rilassare i muscoli, prima abbandonandoli sul sedile e poi stiracchiarmi debolmente. Mi stesi su un lato, in modo da avere la completa visuale della sua figura, ottima terapia contro la tensione.

Di solito, dopo mangiato, mi addormentavo sempre. Tuttavia, quando i miei occhi incontrarono la sua figura non riuscii più ad assopirmi. Accadde la stessa cosa che era avvenuta quella mattina, anche più amplificata.

Osservai i suoi occhi, tranquilli, fissi sulla strada. Era una vera goduria vederlo così. E poi era così sexy quando guidava. Osservai i suoi movimenti fluidi mentre spingeva a fondo un piede per frenare. Osservai le sue dita affusolate che facevano ruotare il volante. Osservai il gesto naturale con cui i muscoli del suo avambraccio si contrassero mentre cambiava marcia…

Dio! Fatemi essere quella leva del cambio!

Mi sembrava di essere appena salita su una meravigliosa giostra che non la smetteva di ruotare, in modo così armonico, flessuoso…

Si voltò verso di me, sollevando un sopracciglio.

Mi mordicchiai il labbro, strofinando inconsapevolmente con la schiena sul portello. Mi sembrava di poter esplodere da un momento all’altro. «Sei… sei così… sexy… quando guidi» farfugliai, imbarazzata.

Le sue labbra si piegarono in un sorriso malizioso. «Quando guido?» mi chiese carezzevole.

«Sì» mi lasciai sfuggire dalle labbra. «Quando… quando cambi marcia» biascicai quasi inconsapevolmente, tremando, stregata da quello sguardo.

Ridacchiò, divertito da quel gioco. «Così?» chiese roco, scalando a facendo rombare il motore.

«Edward» ansimai, completamente rossa in volto.

Non riuscii più a contenermi. Veloce mi avvicinai al suo collo, abbassando, in un gesto febbrile, la camicia con una mano e cominciando a divorarlo di baci.

Emise un breve ringhio di apprezzamento, ma dopo pochi istanti non resistette più e mi prese per la vita e facendomi ruotare fino a farmi stendere con la testa sulle sue gambe, divorando con la stessa intensità le mie labbra.

Assurdo che appena pochi minuti prima avessi avuto paura della velocità con cui guidava…

Nel movimento urtai contro il cd, che si inserì nell’autoradio, facendola accendere.

Uno sulle labbra dell’altro, ridemmo, sentendo la canzone che era partita.

Cominciai a cantare, apostrofando il cantante e cominciando a muovermi a ritmo di musica. Sapevo di essere piuttosto goffa, ma proprio per questo era una scena davvero esilarante, infatti lui non faceva altro che ridere. Mi sollevai, mettendomi seduta sul mio sedile, senza mai smettere di dondolarmi avanti e indietro.

«Su amore, non fare così» ghignò Edward, parcheggiando sul vialetto di casa nostra.

Feci una finta espressione innocente. «Così come?» chiesi maliziosa, passandomi la lingua sui denti.

Con un ringhio e risata mi trovai in camera nostra, con le labbra di Edward incollate alle mie. Stava accadendo tutto così in fretta e in maniera così naturale che… mi sembrava che non ci fosse tempo per pensare. Ripresi un attimo fiato quando si staccò. Con un dito indicai l’impianto stereo e dopo cinque secondi le note della stessa canzone che stavamo ascoltando nell’auto si diffusero nella stanza. Sperai che avesse premuto il tasto di ripetizione, perché non avevo intenzione di smettere presto…

Mi sentii afferrare con impeto dalla vita e trovai le mie labbra incollate alle sue.

Mi staccai immediatamente, seguendo non so quale ragione. Potevo rimanere a rimuginare sui miei problemi? Potevo rimanere a pensare a come mi sarei dovuta comportare? Volevo giocare. Avevo una dannata voglia di giocare con quel sensualissimo vampiro. Magari, avrei potuto prendere in mano la situazione, in modo da poter regolare con i miei tempi e togliendo Edward dall’ansia e dalla paura di fare qualcosa di sbagliato.

Mi allontanai un po’ ancheggiando lievemente. Non sapevo ballare, e questo era assodato, ma potevo dimostrarmi lievemente sensuale? Lui mi lasciò fare, segno che condivideva il mio modo d’agire e che voleva lasciarmi i miei tempi.

Così mi sfilai il cappotto, sorridendo maliziosa. Avevo le guance arrossate, sia per l’imbarazzo, che per… l’eccitazione.

Quando venne il momento di sfilarmi la sciarpa pensai bene di fare una cosa che avevo visto fare in molti film. La gettai intorno al suo collo e lo strinsi forte a me, scontrando le mie labbra con le sue, piegate in un malizioso ed eccitante sorriso sghembo.

A quel punto si staccò, assumendo per un attimo il controllo. Mi fece girare su me stessa e poi ruotare fra le sue braccia, fino a farmi trovare in un istante a testa in giù e con le nostre bocche ancora unite in un frenetico bacio. Stava andando bene, stava andato tutto perfettamente. Mi feci più audace, pensando che tutto si sarebbe concluso al meglio.

Ansimai staccandomi e riprendendo le redini del gioco. C’era una tale complicità fra di noi, una tale semplicità nei movimenti, una tale frenesia, derivante anche dalla musica… Carlisle aveva ragione, mi dovevo solo lasciare andare, io e Edward eravamo in perfetta sintonia, non ci sarebbe potuto mai essere nulla di sbagliato. Volere è potere.

Succhiai con ardore il lobo del suo orecchio, prima di girare velocemente su me stessa, guidata dalle sue mani. Sentivo girare tutto così velocemente…

Alla fine, con la testa che mi girava pazzamente veloce, persi completamente l’equilibrio e caddi, stesa sulla moquette accanto a Edward, ansante.

La musica era appena finita, e si sentiva solo il rumore dei nostri respiri agitati, soprattutto il mio. Mi voltai verso di lui, sorridendo maliziosa. Volevo andare oltre, sentivo di poterlo fare, magari continuando ad avere il controllo della situazione…

La musica ricominciò. Aveva messo il ripetitore.

Ruotai su me stessa, fino a finire a cavalcioni sulle sue gambe. Cominciai a baciarlo con bramosia, ardore, passione. Vedevo solo lui. Lui, il suo corpo, le sue labbra… che differenza faceva? Se l’avessi potuto mangiare sarebbe già stato il mio succulento pasto.

«Bella, Bella» mormorò roco afferrandomi per la nuca e ansimando al mio orecchio.

Sentii delle scariche elettriche irradiarsi per tutto il corpo, mentre un innaturale calore si impossessava completamente di me. Ce la potevo fare, non c’era più nulla che mi avrebbe fermata. Eravamo io, Edward, il nostro amore e la nostra passione!

Gemetti stringendo con forza i suoi capelli. Mi sembrava di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, ed era proprio lì che dovevo andare, dopo aver pensato in maniera meno casta possibile a Edward. «Spogliami, spogliami Edward, non ce la faccio più… ti voglio… dannazione…».

Non se lo fece ripetere due volte, ma trovò un modo più rapido, ed anche più eccitante, di togliermi i vestiti: strappandoli e lasciando baci sulla pelle rimasta ormai nuda.

Gradendo altamente il gesto seguii l’esempio, e feci lo stesso con i suoi.

Le mie mani erano così bramose, così avide di lui, che continuavo a toccarlo, tremante, in continuazione; non mi bastava mai e mai, volevo averlo più vicino di un contatto, neppure quello mi bastava, ogni minima vicinanza, era sempre troppa, ogni ansito, troppo poco.

Neppure la sua pelle di ghiaccio poteva raffreddare i miei seni, che, bollenti, si scontravano contro il suo petto. Non potevo e non volevo lasciarmi spazio per pensare. Avevo pensato che potesse essere difficile per me, ed era vero, era così; era difficile contenermi per non essere troppo avventata.

«Sei sicura?» domandò, ansimando, vicino al mio orecchio.

«Edward» biascicai più ansimante di lui «sono sicurissima» feci, riprendendo a divorargli le labbra con le mie.

Si staccò, cercando un altro momento di lucidità. «Non dobbiamo farlo solo perché possiamo».

«No» sussurrai, nuda davanti a lui «lo facciamo perché vogliamo. Ti amo» aggiunsi, e questa volta fu lui ad avvicinarsi alle mie labbra.

«Ti amo» ripose, riprendendo a baciarmi.

Nulla poteva bastarmi. Neppure sentirlo gemere, roco, il mio nome, in preda all’eccitazione. Dio, come mi scioglievo sapendo che ero io a causargli tutto quello!

Non mi bastò neppure quando lo sentii tanto vicino quanto mai, da ormai troppo tempo, potessi immaginare di poterlo avere; ero insaziabile, e pensare che lo sarebbe stato anche lui mi faceva letteralmente impazzire!

Dopo avermi lasciato abbondantissimo spazio, e tempo, capì di poter cominciare ad agire anche lui. Prese in mano la situazione, sollevandosi velocemente, sempre unito a me, e facendomi scontrare con la schiena contro il materasso. Al contrario di me era più calmo e delicato, ma anche, decisamente, più sensuale e passionale.

«Amore… amore… Bella… ti amo, ti amo…» mormorò roco, regalandomi in tutti i modi che conosceva inimmaginabili piaceri.

«Mio Dio! È tutto amore questo?!» esclamai, urlando, persa in un lago di piacere.

«No… follia» ringhiò divertito guidandomi verso il pazzo piacere.

 

Sospirai, stringendomi sul seno, molto più dolorante del normale, le coperte. Era incredibile come mi sentissi felice. Avevo agito, senza pensare, lasciandomi completamente andare ai piaceri, all’eccitazione, all’amore. Amore che finalmente ci univa ancora una volta, ancora di più.

Baciai il petto di Edward inspirando il suo odore ancora così tanto marcato. Era stato così passionale, eppure anche così dolce con me. Si era lasciato prendere per mano e guidare verso il piacere, finché non aveva deciso che poteva mostrarmi il suo sentiero, ancor più bello di quello che stavo percorrendo io.

Avevo tutto quello che potevo desiderare. Edward, la bambina, una famiglia che mi voleva bene. I prossimi sarebbero davvero stati i più belli della mia vita, soprattutto se ogni giorno fosse stato come quello… Arrossii, ripensando alla mia audacia.

Sentii Edward ridacchiare. «Hai fame?» mi chiese, baciandomi una guancia calda.

Scossi il capo, serena. «Mangiare ora non rientra nei miei bisogni primari» mi voltai verso di lui, sorridendogli.

Anche lui aveva la mia stessa espressione tranquilla, come se per la prima volta dopo tanto tempo potesse concedersi di avere speranza che tutto sarebbe andato per il meglio. Posai un dito sulle sue labbra, soddisfatta di sentirle tiepide. «Edward. È stato magnifico» sussurrai, desiderosa di comunicargli che tutto, davvero, era andato per il meglio. Che la nostra vita era perfetta e che più nulla l’avrebbe rovinata.

In risposta mi baciò il collo, scendendo poi, con una mezza risata, sotto le coperte, fino a posare le labbra sulla mia pancia nuda.

Sorrisi, lasciandomi baciare con delicatezza e permettendo alle sue labbra di adorare ogni centimetro della mia pelle. Mi rilassai completamente, facendo vagare, lontano, i miei pensieri, annullando ogni resistenza e ogni tensione.

D’improvviso, però, accadde qualcosa che non avevo previsto. Ansimai, velocemente, più volte, sentendo le pupille dilatarsi e il cuore battermi fortissimo nel petto.

Vidi il volto di Edward a pochi centimetri dal mio, mentre quella sensazione fulminea svaniva, scemando man mano. «Bella?» mi richiamò preoccupato.

Ridacchiai, facendo comparire un’espressione confusa sul suo volto. «Non è niente Edward, è stata la bambina. Temo che abbia apprezzato particolarmente l’improvvisa felicità della mamma» dissi, riferendomi allo stato di puro piacere vissuto nel corso del pomeriggio.

Edward si lasciò scivolare su un lato, poi mi abbracciò, lentamente, posando le labbra sui miei capelli.

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Capitolo 47
*** Vecchi armadi ***


Rimasi interdetta, con la bocca aperta e le gambe piantate sul terreno. La mano posata sulla portiera ancora aperta. «Alice» deglutii «Dove. Mi. Hai. Portata?».

«Bellissimo, non è così?» disse indicando l’immenso e coloratissimo edificio, posto su uno dei lati del parco commerciale di Seattle. «Questo è il “Mom & Baby Planet”! Il più fornito centro commerciale dello stato di Washington e della West Coast che vende tutto quello che può servire ad una donna incinta e al suo bambino! Non è meraviglioso?!» spiegò, come se stesse elogiando l’immensa bellezza di un’opera d’arte.

La fissai eloquente.

La sua espressione, sul piccolo visino, divenne secca e dura, nulla a che vedere con quella radiosa che aveva fino a pochi istanti prima. «Oh, senti. Non fare storie! Ti ho anche concesso di portarti dietro Edward!».

Lui mi venne accanto, circondandomi le spalle con un braccio e baciandomi la fronte. «Ti prego di non parlare di me come se fossi un cagnolino» fece, con una punta di risentimento.

«Alice! Ma non dovevamo venire qui! Non erano questi i patti» la sgridai con disappunto.

Si sentì la risata cristallina di Rosalie, appena scesa dall’auto. «Credi forse che ti avrebbe concesso di andare in quel negozietto quattro per quattro di Port Angeles?».

«E va bene» concessi, considerando che non ero dell’umore adatto per litigare. Quella mattina mi ero miracolosamente svegliata senza alcun senso di nausea, ma appena l’avevo comunicato a Edward, Alice e Rosalie erano piombate in casa col chiaro intento di trascinarmi a fare shopping. E come si dice? “Via il dente via il dolore”. Anche perché presto avrei avuto reali problemi con i jeans troppo stretti…

«Su, su, muoversi, veloci! Non c’è un istante da perdere, ci sono così tante cose da acquistare! Seguitemi e non cedete il passo!». Alice ci guidava come un cicerone fra i grandi corridoi colorati con stucchevoli colori pastello e intrisi di profumi dolciastri a base di vaniglia, fragola, e zucchero filato. Non mi sarei affatto stupita se la nausea fosse tornata.

«Allora, bisogna dare un ordine e una priorità!» cominciò, gesticolando per aria «io direi di cominciare a pensare e comprare in rosa!».

Se Edward non mi avesse trattenuta sarei sicuramente andata sbattere contro Rosalie, improvvisamente piantata con i piedi saldamente a terra. «Rosa? Alice, ti prego, ne abbiamo discusso. Non vorrai fare un intero guardaroba rosa alla bambina!?».

È vero che ne abbiamo discusso, e penso fossimo d’accordo che dovevamo convincere la bimba di essere una femminuccia, non è così?».

Mi voltai verso mio marito, con un’occhiata molto eloquente. Quella non era la prima discussione che avveniva fra Rosalie e Alice sulla bambina, nonché su me, e di solito si protraevano per parecchio tempo.

Lui mi sorrise, ignorando e sue sorelle e posando una mano sulla mia pancia. «Come sta la nostra piccolina?».

Sorrisi anch’io, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la sua mano appena sotto la mia maglietta. Sentii l’apprezzamento provenire dalla bambina; quel piccolo, dolce, pezzettino di cioccolata sospeso in un dolce latte. «È contenta. Come sempre in questo periodo» dissi felice, aprendo gli occhi.

«Direi che dovremmo mettere fine alla discussione se vogliamo tornare a casa entro stasera».

«Già».

Misi due dita in bocca, voltandomi determinata verso le mie sorelle, che stavano continuando a discutere, ed emettendo un fischio acuto e deciso.

Si zittirono in contemporanea, voltandosi verso di me orripilate.

«Ha fischiato?».

«No, dico, ho sentito bene?».

«Una donna incinta, la grazia e la tenerezza fatte persona…».

«…ha fischiato».

Sollevai i palmi. «Sentite, prima che facciate i vostri piani su cosa dovete comprare prima o dopo, ecc, ecc… Tenete ben presente l’unica mia piccola richiesta» dissi, fissando Alice.

I suoi occhi divennero per un istante neri e lontani, poi si riscosse, con un’espressione felice. «Perfetto!» esclamò, ricominciando a camminare a passo sostenuto. «Allora, dicevamo, ci vuole rapidità. Dobbiamo comprare di tutto. Dagli scalda-latte, ai passeggini, ai vestitini, alle pancerine, ai giocattoli…».

«Non dobbiamo mica comprare tutto oggi» dissi divertita, stringendomi a Edward.

Rosalie e Alice risero contemporaneamente. «No, infatti, questo è solo l’inizio».

Alzai gli occhi al cielo.

«Stop!» esclamò Alice, voltandosi con una mezza piroetta verso di noi. «Ora, io e Rosalie, andiamo a prendere i cataloghi, là, e là» disse, indicando due punti alle nostre spalle, «in modo da pianificare un piano rapido e efficiente. Voi due qua e qua» continuò, facendo due mezzi archi con le braccia «comincerete con le basi» disse, con un ghigno sospetto in volto.

Non feci in tempo a chiedere spiegazioni che mi mise a tacere con un gesto secco. Schioccò le dita due volte. «Nicole!».

Immediatamente una commessa con una paralisi-sorriso-facciale in volto, vestita con una salopette arancione e una maglietta a righe vede pastello, si presentò al nostro cospetto, come un fungo spuntato in mezzo alla pioggia.

«Occupati di loro» ordinò Alice, prima di scomparire con Rosalie al suo seguito. Non mi domandai come facesse Alice a conoscere la commessa di un negozio del “Mom & Baby qualcosa”, mi sarebbe cosato solo un inutile sforzo mentale e tanto mal di testa.

«Buongiorno e benvenuti al negozio di intimissimi per mamme» si presentò zuccherosa.

Strizzai gli occhi, reprimendo un violento moto di rossore e l’istinto di strangolare mia sorella.

«Allora, cara mammina!» esclamò, posando le mani calde sulla mia pancia.

In quel momento pensai seriamente che di essere provvista di un’aura dorata di luccichio. Era come se in un istante, per lei, nella stanza fossi esistita solo io. Che cara! Pensai sarcastica.

«È piccina questa pancia, non si vede quasi! A che settimana sei?» chiese sbattendo le ciglia contro i suoi occhi truccati. Ovviamente, color pastello, s’intende.

Sembrava, dopo tutto, una ragazza dolce, e io avevo solo voglia di svagarmi un po’, e soprattutto non pensare che mi trovavo, insieme a Edward, in un negozio di intimo. «Beh, è ancora un po’ presto…» dissi, imbarazzata per i suoi modi così confidenziali, «sono solo alla dodicesima».

Si voltò, come se avesse appena saputo dell’ascesa di un nuovo messia, fugacemente verso Edward, e poi verso me, con lo stesso sorriso paralizzato. Poi, nuovamente, sostando molto a lungo su Edward. Il mio luccichio era improvvisamente scomparso, spostandosi su di lui. «Lei è il fratello minore?» chiese trasognata, sbattendo vigorosamente le ciglia.

Primo. Perché fratello? Secondo. Perché minore? Terzo. Perché ha dato del lei a Edward quando poi a me a messo le mani sulla pancia?! Alzai gli occhi al cielo. «È mio marito» dissi, divertita.

Edward le sorrise gentilmente, scostando le sue mani, che ancora giacevano inerti sulla mia pancia, e accarezzandola. «La bambina nascerà a maggio». 

Nicole, non diede nessun segno di ripresa, anzi, sentendo la voce di Edward si sciolse ancor di più, facendo aumentare la mia ilarità. Infine si defilò con un’espressione confusa, dicendoci che sarebbe tornata subito.

Non appena fu via scoppiai in una fragorosa risata. «Oddio, Edward! L’hai irretita con uno sguardo! Sembrava non avesse mai visto un uomo in vita sua» sghignazzai.

«Povera ragazza» fece, contenendo un sorriso. Poi si voltò verso di me, con aria di rimprovero. «Dovevi per forza dirle “È mio marito”» fece, imitando la mia voce e marcando eccessivamente l’aggettivo possessivo.

«Ehi, mai mettersi contro una donna incinta! E poi l’hai sentita anche tu, no?! “Lei, è il fratello, minore”!».

Scoppiammo a ridere insieme.

Quando tornò, sembrava essere ritornata normale, e tutte le sue attenzioni furono nuovamente canalizzate su me e la mia pancia. «Allora, partiamo dalla cosa più semplice, i reggiseni».

Arrossi, mordicchiandomi il labbro.

«Si deve tenere conto di un certo aumento di taglia, ma prima mi deve dire quale portava prima».

Farfugliai qualcosa, rossa come un peperone, inveendo mentalmente contro Alice e Rosalie.

«Una seconda» rispose Edward al mio posto, togliendomi dall’imbarazzo. Poi, quando la commessa fu distratta per prendere dei modelli da mostrarmi, si avvicinò al mio orecchio, stringendomi da dietro, e disse «una misura perfetta, una coppa di champagne».

«Edward» sussurrai, fintamente indignata, ridacchiando.

Finalmente, prima che ci potessimo perdere fra reggiseno con coppe e sostegni regolabili, anallergici, antibatterici, con pizzi e diversi colori, Rosalie e Alice tornarono da noi. Con loro scegliere fu molto più facile data l’esperienza in materia.

Edward aveva preferito rimanere in silenzio, almeno finché non venne il momento di scegliere le pancerine e intervenne apprensivamente per non prenderne di troppo strette, considerando i problemi che c’erano stati all’inizio di gravidanza.

Tentavo di non farmi trascinare troppo da Rosalie e Alice, lasciando nella maggior parte dei casi che scegliessero per me quello che era più giusto. Alice tenne conto della mia piccola ma decisa richiesta e poté sbizzarrirsi per il resto, comprandomi un intero guardaroba di vestiti. Io preferivo rimanere un po’ indietro, insieme a Edward, godendo del contatto con lui e con mia figlia.

Guardavo le donne, che mi passavano accanto, molte delle quali con ingombranti pancioni, accompagnate da un delizioso clima familiare.

«Isabella Swan».

Mi raggelai, appena di fronte ad un ingresso che comunicava con un altro edifico del parco commerciale. Avevo sentito quella voce così poche volte… e… non mi sarei affatto aspettata di sentirla nuovamente in quelle circostanze. Vi voltai, stupita, fissando gli occhietti scuri del professor Danbaster, il professore che aveva strepitosamente valutato il mio dipinto de “La Cortigiana”. «Pr…professore» balbettai, rossa e imbarazzata. «Che piacere».

«La trovo in ottima forma, non è così?» chiese fissandomi con un sorriso sardonico, osservando poi, da sopra gli occhialetti, un punto accanto alla mia spalla.

Edward, notando che mi ero fermata, stava ritornano indietro.

Notai che i due si fissavano in silenzio, così, dissipando il mio rossore e la mia sorpresa, mi accinsi a presentarli. «Mmm… Edward, il mio professore di disegno creativo, Danbaster. Professore, lui è Edward» deglutii «m-mio… miomarito». 

Il ghigno del professore si allungò ancor di più, ma, stranamente, non face alcun commento su quel punto o sulla nostra giovane età. Lanciò una strana occhiata astuta a Edward e gli tese le dita sottili. «Mi chiami pure Philip. Anche tu, Isabella».

Non ebbi il coraggio, nel disagio naturale in cui mi trovavo, di correggerlo e dirgli di chiamarmi Bella. Non ero abituata a condividere quel genere di cose con Edward. Non che non volessi, ma, semplicemente, avevo imparato a viverle in maniera più riservata.

Lui fu molto cortese. «È un piacere conoscerla Philip, mia moglie mi ha parlato molto di lei».

«Già, già» fece il professore, saettando con lo sguardo fra me e Edward. «Spero di vederla quanto prima in università, la sua assenza si è fatta sentire».

Arrossi ancor di più, scoccando un’occhiatina a Edward. «S-sì. La… la prossima settimana» mormorai, abbassando poi lo sguardo.

«Bene, buona giornata dunque» si congedò, salutando.

«Buona giornata» salutai, quando fu troppo lontano per sentirmi. Mi portai una mano sulla pancia, continuando a tenere lo sguardo lontano, verso il punto in cui il professore era scomparso. Sorrisi, contenta, ricordandomi che fra una settimana avrei ripreso la mia carriera universitaria. «Edward, penso di avere molta fame» constatai, ancora sovrappensiero.

Dato che Alice e Rosalie erano scomparse da qualche parte a cercare i migliori lenzuolini antibatterici-ipoallegenici-antisfregamento per la bambina, rimasi seduta sulla panchina, con la promessa che non mi sarei cacciata nei guai, mentre lui andava a prendermi qualcosa da mangiare. Sarei sempre potuta andare con lui, ma avevo il terrore che la tavola calda facesse insorgere nuovamente la nausea, così rimasi buona, buona a coccolare la bimba.

«Vedrai che ti piacerà l’università. È vero che non potremmo stare con papà tutto il tempo, ma conosceremo tante altre persone. Anche il professor Philip, sai» mormorai, sfregando il ventre con movimenti circolari. Quel professore aveva un non so che di strano, e mi aveva lasciato un presentimento… particolare.

Probabilmente era solo l’effetto che mi faceva la bambina in risposta ai miei sentimenti.

Alzai il capo, in cerca di Edward. Di solito era più veloce. Repressi il moto d’angoscia. Quello, ne ero sicura, era opera di quella monella della bambina. Figuriamoci se potevo estendere il mio istinto materno su di lui!

Improvvisamente i miei occhi si posarono su una piccola vetrina, illuminata da alcune luci gialline e con le tende arancioni. Mi sollevai come catturata da quello che vedevo, avvicinandomi lentamente. I miei occhi erano fissi sull’oggetto posto esattamente al certo di essa; mi accorsi che avevo mosso una mano per sfiorarlo quando le mie dita incontrarono il freddo del doppio vetro.

«Bella». Sentii la voce di Edward appena alle mie spalle, ma non mi voltai, rapita com’ero da quel minuscolo oggetto e dalle immagini che mi aveva evocato.

Erano dei piccoli calzini bianchi ricamati. Piccoli… tanto, tanto piccoli. Vidi la soffice pelle rosea di quei minuscoli piedini, grandi quanto metà di un pollice. Vidi dieci perfette ditine tonde, ognuna più piccola dell’altra; dieci cerchietti soffici e morbidi da mordere che si agitavano a destra e a manca con la magnifica scoordinazione degna di ogni neonato.

Sentii la mano grande e perfetta di Edward posarsi sulla mia, poggiata sulla vetrina.

«Penso che la nostra bambina avrà piedini piccolini come quelli» mormorai, ancora stregata da quello che vedevo. Sbattei le palpebre, cancellando le piccole goccioline che si erano formate. «Sono bellissimi».

Le sue labbra, in un sorriso, si posarono sulla mia guancia. «Lo penso anch’io» disse, posando l’altra mano gentilmente sulla mia pancia.

Dieci minuti dopo girovagavamo per il centro commerciale con un pacchetto rosa con un fiocco, contente l’oggettino che aveva fatto scattare la mia fantasia e l’ammirazione di Edward.

«Grazie di esserti ricordato le caramelle» dissi, addentandone un’altra.

Mi sorrise, guardandomi con amore. «Non mangiarne troppe».

Puntai un dito sul suo petto. «Hai paura che io possa ingrassare? Dì la verità» lo stuzzicai.

Alzò gli occhi al cielo. «Non essere sciocca Bella, sei magrissima».

«Mmm» mi piantai con i pedi a terra, avvicinandomi a lui. «Mi daresti un bacio?» chiesi, accarezzandogli il petto.

Sorrise, avvicinando le sue labbra alle mie. Da quando ci eravamo amati, nuovamente, anche fisicamente, non c’era più stata occasione, per un motivo o l’altro, di rifarlo. Non che ne sentissi la così impellente necessità… Beh, forse solo un po’.

«Edward, Bella, ma dove vi eravate cacciati?».

Anche se non erano ancora pienamente soddisfatte, Alice e Rosalie decisero che potevamo tornare a casa, avevano comprato gran parte dei prodotti più urgenti e preso appuntamenti e cataloghi per gli altri.

Posai una mano sul finestrino dell’auto, distogliendo lo sguardo dal paesaggio, che, velocissimo, correva accanto a noi. «Alice, te ne prego, rallenta. Credo che alla bambina non piaccia la velocità, non vorrai farmi rimettere tutto il pranzo?».

Edward, seduto sul sedile posteriore della Porsche, accanto a me, si chinò fino a posare delicatamente l’orecchio sulla pancia. «Vorrei sentire anch’io le sue emozioni».

Gli accarezzai i capelli, sporgendomi indietro con la schiena a lasciando che mi accarezzasse. «Puoi sempre sentire il suo cuoricino».

Lui mi sorrise. «Sì. Batte velocissimo» disse contento. Nei ultimi giorni il suono era diventato più forte e riusciva a sentirlo con minore difficoltà.

Sorrisi, voltandomi con il capo verso il finestrino e osservando il tranquillo fluire del paesaggio. «Alice» chiamai, osservando le sempre più vicine abitazioni di Forks. «Ci lasci da mio padre?».

Accompagnò me e Edward, di fronte a casa, sul vialetto, andando con Rose a sistemare tutti i nuovi acquisti a casa nostra.

Non lo vedevo da qualche giorno, e nonostante la mia famiglia vampira spesso andasse da lui ad aiutarlo dopo il suo infortunio mi dispiaceva non riuscire a fare qualcosa io stessa.

«Bells!». La sua espressione gioiosa fu molto piacevole. Aveva tolto i cerotti sulla fronte e presto sarebbe arrivato il momento di togliere il gesso. Quando si trattava di riposo poteva essere più insofferente di me.

«Papà» lo salutai, abbracciandolo goffamente, ma con sincero affetto.

Quando ci separammo era completamente arrossito e potei giurare di scorgere ai lati degli occhi, fra quelle rughe che ne dichiaravano l’età, delle minuscole goccioline. «Non vi aspettavo fino a domani. Come mai qui oggi?» chiese, osservando prima me e poi Edward.

Lui mi strinse da dietro, accarezzandomi i capelli. «Bella voleva controllare che avessi tutto ciò di cui hai bisogno. Ci fai entrare? Fa freddo» disse, mimando un brivido.

Sorrisi. Sempre il solito.

«Certo, certo, entrate pure» fece Charlie, riprendendosi dallo stupore per quella visita inaspettata e cedendoci il passo.

Appena dentro osservai la casa. Tutto era in ordine grazie all’aiuto di Alice che era stata da lui appena due giorni prima, nonostante le sue proteste. Eppure, mi sembrava che a quella casa mancasse il calore di quando ci abitavo anch’io. Mi sembrava che tutto, tranne la poltroncina di fronte alla Tv e il piccolo tavolino su cui venivano solitamente posate le birre, fosse inutilizzato. In cucina notai la lavatrice, carica di vestiti e la pila di piatti ancora da lavare nel lavandino. Come aveva potuto creare quel disordine in soli due giorni?

«Papà» lo rimproverai, «perché non mi hai detto che avevi bisogno di aiuto? Devi lasciarti aiutare. Oh, accidenti. Ti prometto che adesso che sto meglio verrò più spesso a darti una mano. Devo dare una rinfrescata e soprattutto» dissi schifata, notando l’immensa quantità di pesce surgelato e cibo in scatola nel frigo «cucinarti qualcosa di commestibile!».

Non volli sentire ragioni e mi tolsi immediatamente cappotto e sciarpa, rimboccandomi le maniche mettendomi al lavoro. Lasciai a Edward e a mio padre, a mio rischio e pericolo, il compito di fare la spesa e cucinare una cena degna di tale nome, in modo che potessimo onorare l’invito di mio padre di mangiare da lui.

Sapevo che accettare il mio aiuto era molto più facile che accettare quello dei Cullen, che in fondo, per quanto stesse imparando a volergli bene, erano per lui degli estranei. Cominciai dal piano inferiore, aprendo tutti i lustri delle finestre e mi misi a pulire, lavare e spolverare, sgranchendo un po’ i miei muscoli che da tanto tempo non lavoravano. Non ero mai stata una maniaca delle pulizie, ma solitamente me ne ero occupata sia quando vivevo con mia madre che quando ero con mio padre.

Mi rendeva felice prendermi cura di lui.

«Bella, dai a me» disse Edward prendendo la cesta con i panni sporchi dalle mie mani, prima che potessi iniziare a scendere le scale rischiando di rompermi l’osso del collo.

«Dov’è Charlie?» chiesi sottovoce, guardando di sotto.

«In cucina, sta tagliando le carote».

Sgranai gli occhi. «L’hai lasciato solo in cucina?».

Lui scese qualche gradino, con estrema disinvoltura, nonostante l’ingombro dei vestiti. «Vado da lui, tu hai finito?».

«Quasi, rimane solo la mia camera. Non penso che la usi mai, ma la voglio comunque pulire. Magari la vorrà usare per un altro scopo». Feci spallucce.

«Va bene, fra mezz’ora è pronto, non fare tardi».

Sorrisi, vedendolo scomparire dietro la porta del soggiorno, portandomi una mano alla pancia. Chiusi gli occhi quando sentii un forte calore sprigionarsi dentro di me. Presi un grosso respiro. Non era mai stata così serena.

Mi voltai verso la porta della mia camera, lasciando che i ricordi tornassero alla mente. Pensai al dolore e alla malinconia che dovevo avergli causato e quanto, anche lui, dovesse aver sofferto il mio allontanamento.

Posai le dita, leggere, sul copriletto, pensando a quando Edward entrava di soppiatto in camera per dormire con me. Sfiorai il comodino, la pesante scrivania, il lento e rumoroso computer preistorico. Non avrei mai immaginato che rivedere la mia stanza mi potesse dare tutte quelle sensazioni.

Casualmente lo sguardo si posò sull’armadio di legno sbiadito. Sentii il cuore battere più veloce, ma solo dopo qualche istante capii perché. Vidi, come marchiate a fuoco, le impronte di due mani calde sulle ante. Ci doveva essere un vuoto in quell’armadio. Seconda gruccia, la maglietta verde. Piegati sulla terza pila, in cima, un paio di jeans scoloriti.

I vestiti che indossavo quando Jacob era quasi riuscito a violentarmi. Quelli che lui stesso mi aveva infilato, dopo avermi drogata. Che lui stesso era venuto a prendere da quell’armadio.

Tutto mi pareva come un lontano ricordo sbiadito, come se in realtà dentro di me pensassi che fosse stato un sogno. La mia razionalità diceva no, è il contrario, ma lottava anche contro sé stessa per affermare che non era realmente successo.

Eppure il cuore batteva, batteva forte come se volesse uscire dal petto. E sentivo le guance fredde, bianche, e una forte angoscia stringermi lo stomaco.

La parte di me che voleva dimostrare la realtà mi fece muovere verso l’armadio, mentre sentivo la paura crescere esponenzialmente.

Posai, con terrore, le mani sul legno ruvido, pensando che anche Jacob doveva averlo fatto.

Aprii piano, in un cigolio, entrambi gli sportelli.

Vuoto.

C’era veramente il vuoto.

Mi lasciai scivolare a terra, ansante. Sorprendentemente, la consapevolezza della realtà del passato non faceva così paura. Posai una mano sul ventre. La bambina era riuscita a ridarmi la vita e una ragione per vivere, era riuscita e farmi stare bene e farmi riemergere dall’oblio.

Avevo la sua vita nella mia, e crescendo mi animava sempre più, ma quando sarebbe nata?

Avrei avuto lei, e Edward. Non paura. No, non avrei potuto aver paura e pensare a quell’eventualità era un mio stupido problema che toglieva felicità alla mia vita perfetta.

Mi asciugai le lacrime che, servendosi della grande quantità di tensione accumulata in pochi secondi, erano riuscite a farsi strada sulle mie guance. Sorrisi, sollevandomi in piedi e chiudendo le ante, insieme ai tristi ricordi del passato.

«Bella?». Mi voltai, vedendo Edward fissarmi preoccupato. «Tutto bene?» chiese, perplesso, osservando l’autenticità del mio sorriso.

Feci qualche passo fino a stringermi fra le sue braccia. «Sì, tutto bene» dissi convinta.

Mi accarezzò i capelli.

«Ricordi quando entravi in questa camera senza che papà se ne accorgesse?» chiesi defilandomi dalla sua presa e tuffandomi sul letto.

Lui mi sorrise, cauto. «Certo che ricordo».

Accarezzai il copriletto. «Vieni qui» lo chiamai maliziosa, tirandolo per la camicia.

Lui mi lasciò fare, finché, audacemente, non incollai con passione le mie labbra alle sue. Poteva, pur essendo immutabile, diventare ogni giorno sempre più bello?

Si staccò, ansante, allontanando il mio volto con le mani. «Bella, dobbiamo andare, la cena è pronta».

Mi rituffai sulle sue labbra. «Voglio stare con te» mormorai, baciandogli e mordicchiandogli con foga la mascella squadrata.

Lui mi accarezzò i capelli. «Bella, c’è tuo padre di sotto».

«Chi se ne importa. Sono incinta, credi che non sappia quello che facciamo?».

«Bella».

«Ha una gamba rotta, non verrà mai fin quassù».

«Bella!».

Sbuffai, staccandomi da lui. «Okay, okay, hai ragione».

La cena, fortunatamente, fu commestibile, e fu non poca cosa considerando che era stata cucinata da mio padre e un vampiro. Fu molto piacevole chiacchierare con mio padre, e per fortuna fu abbastanza distratto da non notare Edward che passava la maggior parte del suo cibo a me.

«Quindi avete comprato tutto?».

«Beh sì, in pratica sì, oggi siamo stati a Seattle e Alice e Rosalie non si sono risparmiate, come al solito» dissi con un sorriso.

Mio padre sorrise, a disagio. Poi si bloccò, come se volesse dirmi qualcosa. Saettò con lo sguardo sul tavolo, fino ad incontrare le patate al forno. «Ne vuoi ancora? Non mi sembra che tu abbia mangiato molto, si dovrebbe mangiare di più nel… tuo stato, no?».

Arrossii.

«Non ti preoccupare Charlie, Bella ha mangiato abbastanza per essere quasi nel secondo trimestre» intervenne Edward, facendomi l’occhiolino.

«Oh… capisco… e quando nascerà la… creatura?» farfugliò a bassa voce.

«L’otto maggio».

Abbassò lo sguardo sul suo piatto, arrossendo. «Tua madre verrà per Natale?».

«Sì, certo» risposi, tentando di capire dove volesse andare a parare con le sue domande.

«Ma ci piacerebbe passere anche del tempo con te, sempre per Natale, Charlie, sempre se va bene» disse Edward, prendendo la parola, «inoltre, se ci dovessero essere altre ricorrenze, siamo ben disposti a passarle in famiglia».

Mio padre parve illuminarsi.

Edward mi rivolse un sorriso furbo.

«Ecco, vedete, fra due giorni è Halloween, e io finalmente toglierò questa dannata trappola mortale» disse, riferendosi al suo gesso «Al centro della comunità tutti si raccoglieranno, anche i miei colleghi, con le loro famiglie, per festeggiarlo» iniziò a grattarsi la poca peluria che ancora rimaneva sulla testa «Beh, mi chiedevo se… vi facesse piacere venirci» borbottò imbarazzato.

Fissai Edward, che aveva un bel sorriso incoraggiante sulle labbra, così mi affrettai ad accettare. «Ma certo papà, con immenso piacere!» dissi contenta, sollevandomi dalla sedia e andando a baciarlo sulla guancia.

Lui s’irrigidì, strofinandosi le mani sui pantaloni, arrabattandosi per recuperare le sue stampelle e dirigersi verso la Tv.

Sorrisi a Edward, che, senza farsi vedere, mi fu in un attimo accanto, prendendomi per la vita.

«Ti amo».

«Anch’io».

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Capitolo 48
*** Halloween ***


«Questa è la segreteria telefonica di Edward» «E Bella» - «Non dimenticatevi di Lilla!» «Emmett smettila, mia figlia non avrà il nome di un cane!»  - «Probabilmente volevate parlare con noi» «Ma al momento siamo impegnati» - «…E sì! A fare chissà cosa… uh-uh… povera Lilla!» Un ringhio - «Lasciate un messaggio dopo il bip, e non preoccupatevi, Edward non farà troppo male a suo fratello… ci penserò io!»”.

«Bella, Bella? Sono io, Reneè! Ma che razza di segreteria telefonica hai?! È bellissima, la voglio anch’io!».

Corsi velocemente dalla camera da letto fino al soggiorno, afferrando la cornetta prima che mia madre potesse perdersi in uno dei suoi soliloqui. «Mamma» risposi con il fiatone.

«Oh, Bella, tesoro! Quanto tempo che non ti sento, sono stata così in apprensione!». Da notare il fatto che ci chiamavamo puntualmente ogni giorno. «Come sta la mia nipotina, è cresciuta? Si vede la pancia? E Edward? Dimmi, come sta lui? Avete comprato tutto quello che serve per la bimba? Lo sai vero che c’è bisogno di tante cose!? Esme? Carlisle? Vi stanno dando una mano? E Charlie? Ha tolto il gesso oggi? Hai fatto l’ecografia? È bella la bambina? Oh… sicuramente sarà bellissima…».

Sorrisi, vedendo Edward comparire davanti a me, e lasciando che mia madre continuasse con la sua serie di domande insensate. Feci una smorfia, sollevando gli occhi al cielo, e fui contenta di vederlo sorridere. Potevo essere certa che quel sorriso fosse autentico, e considerando la paura che avevo di vederlo nei suoi momenti tristi, tentavo in ogni modo di saziarmi di quelli felici.

«Bella! Vieni qui, devo finire con te!» mi chiamò Alice dalla nostra camera da letto.

Edward mi sorrise, porgendomi una mano con la chiara intenzione di farsi passare la cornetta.

Mimai un “grazie” con le labbra prima di passargliela e lasciargli un bacio leggero.

Era arrivato il grande e atteso giorno di Halloween. Come promesso a mio padre, saremmo andati alla festa in paese. Subito dopo aver accettato, avevo notato in Edward una certa tensione a quella prospettiva, come se per un attimo la tristezza che mi era parso di vedere fosse riemersa, libera dal suo controllo. Al contrario, io, avevo le idee ben chiare. Avevo già chiesto ad Alice, quando mi aveva costretta ad andare insieme a fare shopping per la bambina, di dividere sostanzialmente in due tipologie gli abiti che avrebbe dovuto acquistare per me.

Quelli da mettere in università, decisamente sobri e che nascondessero quanto più la mia pancia, considerando che fino all’ultimo avrei voluto mantenere il segreto, come d’altronde avevo già fatto con Amber e il professor Philip.

Gli altri, invece, che urlassero quanto fossi incinta e orgogliosa di essere mamma. Beh, quasi mamma. In sostanza, volevo sfoggiare la mia piccola pancia, il mio seno grosso e il mio smisurato sedere in modo che nessuno avesse di che parlarmi alle spalle.

«Alice! Ma cosa mi hai messo?» chiesi, osservandomi allo specchio.

Lei batté un piede a terra, sbuffando. «Sei semplicemente deliziosa. Mi hai detto che doveva vedersi la pancia! Beh, si vede! Non è colpa mia se era troppo piccola perché potesse notarsi, l’ho dovuta mettere in risalto!».

Rotei gli occhi al cielo, uscendo infastidita dalla stanza.

Notai perfettamente Edward, appena dietro la penisola della cucina, soffocare una risata sotto i baffi non appena mi vide.

Gli indirizzai un dito contro. «Smettila» lo minacciai, puntando i piedi a terra.

A quel punto scoppiò in una fragorosa risata, seguita da una folata di vento e un baciamano. «Tesoro, sei…» strinse le labbra, contraendole per non ridere ancora «deliziosa».

Lo fissai di sottecchi. «Sembro una meringa formato gigante» protestai poi, stizzita, osservando com’ero vestita. Avevo dei semplici e comodi jeans, su mia richiesta, e fin qui tutto bene. Le scarpe si poteva dire fossero simili a delle pantofole e sarebbero state perfette se non fosse stato per gli enormi pon pon che vi troneggiavano sopra! E poi, la maglietta… era così ridicola!

Edward infilò una mano sotto l’enorme quantità di tulle, arrivando fino all’elastico che mi stringeva sotto il seno dando alla maglia uno “stile impero”. «Questa maglietta è perfetta per accarezzare la bambina…» sussurrò con un sorriso. «I jeans ti sono sempre piaciuti e le scarpe sono comodissime».

«E che mi dici del fermacapelli?».

Nuovamente, sul suo viso apparve la smorfia curiosa che faceva quando tentava di non lasciarsi andare alle risate. «Bella, è Halloween! Chi vuoi che noti un cerchietto pieno di piume, glitter e… strass!?».

«Già, chi vuoi che lo noti?» chiese Alice, comparendo in un lampo davanti a me. Sentii in un istante le mani fredde sulle mie guance e il sapore amarognolo del rossetto sulle labbra. «Un bacio, ci vediamo piccioncini!».

Non appena realizzai, con il mio lento cervello umano, quello che era avvenuto, mi voltai, intontita, verso lo specchio. «Alice! Somiglio a un vampiro alla luce del sole! Erano proprio necessari i brillantin-» mi bloccai, voltandomi verso Edward e scoppiando a ridere.

Lui sbuffò, togliendosi il cerchietto con le antenne da grillo parlante.

«E no mio caro! Io sono la fatina e tu sei il grillo, avanti, su, indossa il tuo costume!».

«Non ci penso neppure» disse scappando via in una risata.

Provai ad afferrarlo, ma, ovviamente, mi ritrovai con un pugno di mosche in mano. «Vampiri» sibilai.

Fortunatamente, mentre lui era troppo impegnato a fare a pezzi se sue antenne verdi, potei liberamente attingere alle caramelle destinate ai bambini che avrebbero bussato alla nostra porta. Non che realmente credessi che dei bambini potessero spingersi così lontano dal paese. Nessuno avrebbe ammirato le meravigliose candele realizzate con amore da Esme e Rosalie con delle zucche. Di sicuro erano le più belle in circolazione.

Sentii il campanello suonare, così mi affettai a nascondere il corpo del reato. Forse avevo mangiato un po’ troppe caramelle.

Appena dieci minuti dopo, durante un breve viaggio in macchina in cui non feci altro che protestare per il fatto che fossi l’unica travestita da qualcosa, realizzai che eravamo quasi arrivati in paese. Bloccai le mie lamentele, voltandomi a fissare Edward.

Notai immediatamente il silenzio. Non silenzio nel senso assoluto, considerando che Rosalie e Emmett, sul sedile posteriore della Aston Martin, continuavano a chiacchierare animatamente.

Edward guidava, concentrato sulla strada. Ad un qualsiasi umano sarebbe risultato normale, considerando la nebbia fitta che impediva la visuale e del pericolo che si correva a causa delle foglie umide e scivolose, ovunque sull’asfalto. Ma lui non aveva certo bisogno di concentrasi, grazie ai suoi sensi super sviluppati da vampiro.

Posai, timorosa, una mano sulla manica del suo giaccone.

Si voltò, scattando, verso di me, come se l’avessi colto di sorpresa.

Corrugai le sopracciglia. «Tutto bene?».

Lui mi sorrise, distendendo immediatamente la sua espressione. Notai che ora anche Rosalie e Emmett stavano ora in silenzio. «Certo».

Annuii, voltando lo sguardo verso il finestrino. Ero stata così certa del fatto che rincontrare da vicino gli abitanti di Forks non mi avrebbe causato alcun problema, che non mi ero affatto posta il problema di Edward. Accidenti, com’ero stata sciocca! Ma non avevo potuto minimamente pensare che si preoccupasse di quello che pensava la gente. E tutt’ora pensavo che per lui non fosse così importante.

«Edward» feci una pausa, voltandomi verso di lui «non è necessario che ci andiamo. Se non ti va…».

«Ma no Bella, cosa dici» mi sorrise, ma sapevo perfettamente, per quanto fosse un ottimo attore, che quel suo sorriso non era affatto autentico.

«Bellina, non puoi far saltare tutto all’aria, il folletto ti ammazzerebbe!» scherzò Emmett tirando scherzosamente un pugno sulla spalla di Edward.

«È vero» aggiunse Rosalie, con la sua voce composta «millantava le sue doti di truccatrice e costumista, ci rimarrebbe molto male».

Io non scostai i miei occhi da Edward, nuovamente concentrato sulla strada.

Emmett rise. «E poi siamo arrivati!».

Vidi le lunghe dita bianche, splendenti nell’oscurità della sera, stringersi attorno al volante.

Rosalie e Emmett scesero immediatamente dall’auto, forse per fretta, forse, per lasciarci un po’ soli.

Col cuore che mi batteva veloce per la preoccupazione, mi avvicinai a Edward, sentendo i sedili in pelle scricchiolare sotto di me. Gli posai una mano sulla guancia marmorea, fissandolo nei suoi profondi e meravigliosi occhi ambrati. «Edward, possiamo tornare a casa. Non mi importa di questa festa e poi» abbassai lo sguardo «sono anche stanca, tutto il giorno nelle mani di tua sorella» tentai di sdrammatizzare.

Vidi, con la coda dell’occhio, la sua mascella contrarsi.

Sentii il cuore battere velocissimo nel petto, mentre il silenzio sordo si spandeva fra noi. Avevo dannatamente paura per i miliardi di pensieri che, contemporaneamente, potevano affollare la sua mente da vampiro.

Quando, dopo un tempo infinito, spostò il suo sguardo cercando il mio, aveva un’espressione perfettamente serena. «Charlie ci sta aspettando, ma non sono ancora disposto a lasciarti andare».

Lo fissai, attendendo che continuasse, o che magari cominciasse a spiegarmi il motivo del suo comportamento.

«Prima voglio un bacio da mia moglie. Posso?» chiese, posando una mano sulla mia nuca e avvicinandomi a sé.

Annuii, sospirando e rinunciando a qualsiasi tipo di spiegazione.

«Bella, Edward! Siete arrivati finalmente!» esclamò mio padre venendoci incontro in un’originalissima divisa da sceriffo d’altri tempi.

Smisi di guardarmi intorno, distogliendo con disinteresse l’attenzione da tutti gli occhi curiosi, puntati su di me. Strinsi più forte la mano di Edward, che, sereno, fece passare un braccio intorno alla mia vita, stringendomi a sé. «Ciao papà, come stai? Sei un figurino».

«Non sono mai stato meglio. Una liberazione» disse, indicando la sua gamba senza il gesso.

«Buonasera Charlie» salutò cordiale mio marito. Poi mi sorrise, accarezzandomi una guancia bollente e rossa a causa dello sbalzo di temperatura fra l’esterno e l’aria riscaldata del centro comunitario di Forks. «Vuoi dare a me?» chiese, indicando il mio giaccone.

Lo ringraziai, voltandomi di schiena in modo che mi sfilasse con galanteria l’indumento.

Se fino ad un istante prima avevo costantemente percepito l’occhio inquisitore di tutti posato su di me, non appena videro l’evidenza dei fatti potei distintamente sentire un malcelato “Ohhh!”.

Sorrisi, soddisfatta, voltandomi verso Edward e trovando la sua espressione tranquilla.

All’inizio restammo perlopiù con mio padre, in disparte, seduti su alcune sedie addossate in un angolo della grande sala. Beh, “grande” era un’esagerazione in confronto all’ampiezza a cui ero abituata.

Fu una piacevolissima sorpresa rivedere i volti di Angela e Ben, buffamente travestiti da Alchimista e Pietra filosofale. Sì, pietra filosofale. Infatti Angela era completamente avvolta in un vestito ambra lucente. «Bella! Aspetti un bambino?» chiese con gli occhi sgranati, saettando con lo sguardo fra il mio viso e la pancia, su cui stava posata la mia mano intrecciata a quella di Edward.

Sorrisi. «Sì, è una femminuccia, nascerà a maggio» spiegai velocemente.

L’entusiasmo che dimostrò alla notizia fu palesemente sincero. Mi raccontò con serenità della sua vita con Ben, al college, di come stavano andando gli studi. Parlava generalmente con me, in naturale disagio nei confronti di Edward. «Bella» disse infine, a bassa voce e con discrezione, prendendomi le mani fra le sue e sedendosi accanto a me. «Mi dispiace tantissimo per… quello che è successo. Sono stata molto in pena per te» mormorò timorosa, ma sincera. «Ho provato, ogni tanto, a chiamarti. Ma» il suo sguardo saettò per un istante su Edward «non sono mai riuscita a parlarti».

Sorrisi, stringendo le sue mani. «È stato un brutto periodo, purtroppo. Ma ora è passato, ed è questo l’importante».

«Ho portato qualcosa da bere!» esclamò Ben, tornando con quattro bicchieri di ponce.

Edward storse in naso. «Credo sia decisamente corretto. Penso ci sia più alcol che ponce. - Sono astemio, sento subito l’odore dell’alcol», aggiunse, a beneficio delle loro facce dubbiose. Ovviamente cedettero subito al tono suadente di Edward.

«Mi dispiace Ben, ma non posso bere alcolici» mi scusai, alzandomi in piedi e prendendo Edward per mano. «Noi andiamo a fare un giro, mi ha fatto piacere vedervi, ci vediamo!» salutai contenta.

Mi lasciai convincere da Edward a ballare per un po’. In verità ero partita da casa con l’originale intenzione di non demordere, ma vedendolo nuovamente felice e sereno non ebbi il coraggio di fare qualcosa che lo potesse rattristare.

«Mi spieghi una cosa?» mi chiese, facendomi volteggiare.

«Cosa?».

Mi guardò fisso negli occhi, con un sorrisetto. «Tu, prima di sposarci, mi hai fatto penare per convincere tutti del fatto che non fossi incinta, tirando fuori strane teorie su fantomatici “sguardi”. Ora invece lo urli alla tua vicina e chiedi ad Alice di fare in modo che si veda la tua pancia?» chiese sinceramente confuso.

Arrossii, mordicchiandomi un labbro e continuando a dondolarmi, appesa alle sue spalle. «Ora sono orgogliosa di mia figlia. Una donna può sempre cambiare idea. È… non c’è una spiegazione Edward» dissi, facendo una smorfia «è così e basta».

Sorrise. «E’ così e basta».

Parlai con molte altre persone di Forks. Colleghi di mio padre, amici, conoscenti. Anche Jessica e Mike - vestiti da Jessica e Roger Rabbit -, già a conoscenza del pettegolezzo, non persero occasione per fare riferimenti più o meno celati. Non fui del tutto certa della sincerità delle loro congratulazioni, ma le accettai comunque di buon grado.

Mi sembrava che l’atmosfera fosse molto meno tesa rispetto a quando eravamo arrivati, e ne ero compiaciuta. Oltre che a Rosalie e Emmett si aggiunsero, nel corso della serata, Alice e Jasper e poi Carlisle con Esme. Ero perfettamente tranquilla con loro accanto e mi sembrò che anche Edward sciogliesse definitivamente la sua tensione. Risi, spensierata, vedendo Rose e Emmett dare spettacolo con un “bacio alla mela”.

«Bella, tesoro, sei un incanto» si complimentò Esme.

Sorrisi, arrossendo. «Grazie». Poi mi guardai attorno, sospettosa. «Sai dov’è Edward?».

Lei mi sorrise gentile. «Credo stia parlando con Carlisle».

«Oh» mormorai «capisco». Mi persi nuovamente con lo sguardo nella sala, accarezzandomi la pancia. Sentii un senso di fastidio nascere prepotente. Ormai avevo acquisito una certa abilità nel distinguere le emozioni della bambina dalle mie. «Esme» chiamai, voltandomi verso il suo sguardo cortese e attento «io esco un po’ fuori, credo che la bambina sia irritata».

Le sue sopracciglia delicate si incontrarono un attimo. «Va tutto bene? Vuoi che venga con te?» mi chiese calma.

Sorrisi, alzandomi i piedi. «No, non ti preoccupare. Credo che per lei ci sia troppo caldo qui dentro, oppure non le piace l’effetto che mi fa la musica».

«Va bene» concesse, seppur titubante.

Uscii fuori dalla grande sala, prendendo delle boccate d’aria all’esterno e lasciandomi rassicurare dal freddo. Rabbrividii, stringendomi nelle spalle e sentendo un moto di serenità invadermi da dentro. Si era già tranquillizzata.

L’aria era così umida e densa che si potevano vedere le goccioline sospese per aria, e il forte vento riusciva a far sollevare le foglioline appiccicaticce e muovere l’acqua in viso come una frusta gelata.

Chiusi gli occhi. Ero così in pace, mi trovavo a mio agio nel vento freddo e turbinoso che faceva sollevare i veli della mia maglietta e rabbrividire anche la bambina.

Quando li riaprii, però, notai qualcosa che fino ad allora i miei occhi non avevano colto. Sentii il cuore cominciare a galoppare nel petto, mentre il respiro veniva smorzato dalla paura e dall’adrenalina che mi correva in corpo. Fra le fronde nere e lontane degli alberi vidi le montagne nere muoversi. Ansimai, terrorizzata, mentre diverse paia di occhi lucenti si rivelavano al mio sguardo, troppo in alto per un’altezza umana.

Sobbalzai, sentendo delle mani afferrarmi saldamente alle spalle. Mi ritrovai in pochi secondi, con il respiro ancora accelerato e una folle paura del cuore, stretta nella salda presa di Edward, che camminando velocemente mi riportava nel salone.

Le voci di tutte le persone mi parvero sorde e confuse, eppure tranquille, troppo poco importanti per capire cosa stesse accadendo. Vidi Esme avvicinarsi a noi, stringendomi per il fianco non occupato da Edward. Rosalie, Jasper e Emmett uscirono con discrezione, allontanandosi dalla folla. Alice e Carlisle parlavano con mio padre, appena sotto il palco.

«Saluta tuo padre» mi disse Edward, a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio «velocemente, di’ che andiamo via, non ti senti bene».

Carlisle e Alice si allontanarono, uscendo. Non riuscii a chiedermi il motivo dell’ordine di Edward, la mia mente umana stava elaborando tutto quello che stava accadendo troppo lentamente.

Mi ritrovai davanti a Charlie, che mi fissava preoccupato. Mentire non avrebbe dovuto essere così difficile. «P…papà» sentii la presa di Edward rafforzarsi e i suoi occhi lanciarmi un’occhiata di incoraggiamento. «Noi andiamo via» sussurrai, tentando di nascondere il tremore nella voce.

Il suo sguardo si fece ancor più apprensivo. «È successo qualcosa?».

Ansimai, ponendomi anch’io la stessa domanda. Cos’era successo? Mi voltai in cerca di aiuto, o magari una risposta, verso Edward, che fissava il vuoto, immobile. Era teso e preoccupato. Mi voltai, non sapendo cosa dire, verso mio padre, leggendo la sua espressione sempre più ansiosa e sospettosa.

«Bella non si sente molto bene» intervenne Esme, con tono perfettamente controllato e cortese «non credo sia grave, forse si è stancata troppo» un sorriso «sarà comunque meglio andare a casa».

Ovviamente mio padre acconsentì immediatamente, anzi, ci invitò lui stesso ad andar via. Velocemente mi ritrovai all’esterno, con addosso il giaccone e protetta su entrambi i lati da Esme e Edward. Non potei fare a meno di lanciare un’occhiata alle nere fronde erbose scosse dal vento. Le montagne erano scomparse.

Non appena fummo lontani da ogni sguardo, mi sentii sollevare in aria e in un istante mi ritrovai sul sedile posteriore dell’Aston Martin, dove ci aspettavano anche Alice e Carlisle. Esme si sedette accanto ad Alice, sul sedile del passeggero.

«Vai» disse solo Carlisle, un attimo prima che la macchina partisse ad una folle velocità.

Edward abbandonò un attimo la rigidità e la tensione in cui era caduto. Si voltò verso di me, leggendo chissà cosa sul mio viso. «Come stai?» chiese, parlando per la prima volta negli ultimi cinque minuti.

Tentai di ricompormi, umettandomi le labbra per far tornare una normale quantità di saliva nella bocca completamente asciutta. «Sto bene» mormorai, accarezzandomi la pancia, «cosa» deglutii «cos’è successo?».

Carlisle mi accarezzò la fronte, con un’espressione tranquilla. «Niente di troppo grave. I licantropi volevano parlare con te, dobbiamo capire che intenzioni avessero».

Mi zittii, stringendomi al petto di Edward. Lasciai che mi sollevasse e che mi posasse sulle sue gambe, facendomi appoggiare la testa nell’incavo del suo collo.

Da quando erano cominciate le serie tensioni fra i vampiri e i licantropi, a causa di Jacob, loro si erano sempre dimostrati dalla nostra parte, o quantomeno neutrali. Non avevamo trasgredito a nessuna loro legge. Io stessa ero stata a commettere l’omicidio… Non un vampiro, un’umana. Di cosa avrebbero potuto voler parlare?

Né io né gli altri riuscivamo a trovare una soluzione. Le variabili in gioco erano molteplici e i rischi alti. Dovevamo capire come poter agire.

«Non sono riuscito a leggere bene i loro pensieri, erano troppo distanti» disse Edward concitato, intrecciando le dita e posandoci su la fronte.

Esme gli posò una mano sulla spalla. «Edward, potevano avere delle buone intenzioni, non dobbiamo allarmarci così tanto».

Finii di bere la mia camomilla e andai a sedermi accanto a mio marito, sul divano. Gli accarezzai i morbidi capelli ramati, tentando di rassicurarlo.

Rosalie, compostamente seduta sulle gambe di Emmett, non la pensava allo stesso modo. «Mi chiedo, se non avessero avuto cattive intenzioni, perché presentarsi in forma di lupo? E perché si sono avvicinati mentre lei era sola, senza nessuno di noi accanto?».

«Forse perché avevano paura di una nostra reazione esagerata, come di fatto è stata, non pensate?» chiese Alice.

Sentii la testa Edward scattare, appena sotto la mia mano. «Non è stata affatto esagerata, Alice. Era sola. Ti rendi conto? Non possiamo permetterci nessuna negligenza, non finché non sappiamo cosa vogliono» sbottò.

Alice strinse i denti, serrando i pugni lungo i fianchi. «Pensi che non mi sia preoccupata anch’io per lei? Edward! Andiamo, non sono io quella che ha delle reazioni esagerate!».

Edward si alzò in piedi, fulminandola con lo sguardo. Non l’avevo mai visto così. Jasper si mise subito fra sua moglie e Edward in posizione di difesa.

Mi sollevai anch’io, troppo lenta per la loro velocità inumana, posando una mano sul petto di Edward con l’intento di farlo calmare e costringerlo a sedersi.

«Ragazzi, manteniamo la calma» li ammonì Carlisle, con tono misurato.

Alice si allontanò, con Jasper, fino a trovarsi nuovamente di fronte al camino, e Edward finalmente cedette ai miei deboli tentativi, stringendomi a sé e facendomi sedere nella sua presa protettiva sul divano.

Carlisle riprese a parlare. «Non è successo nulla di grave, e poi Edward, per quello che hai potuto capire, volevano solo parlarle, giusto?».

Suo malgrado Edward annuì, silenzioso.

«Bene, proviamo a parlarci, non è il caso di allarmarsi. Potrebbero spiegarci e comprendere quello che sta accedendo. È comunque palese che non avessero cattive intenzioni. Non c’è motivo di creare tensioni, se avessero voluto, sola com’era, non ci avrebbero messo nulla a farle del male».

Sentii la presa di Edward stringersi maggiormente.

«Rimane però il fatto che non può andare all’università finché non avremo con precisione compreso le loro intenzioni» disse Jasper.

«No» mormorai, sconsolata.

Gli occhi di tutti i vampiri si spostarono in un attimo su di me.

Sospirai, sentendomi tanto una piccola bambina immatura che faceva i capricci. Abbassai lo sguardo. «Mi dispiace».

«Oh, avanti!» esclamò Emmett con il suo gran vocione. «Non può mica un branco di licantropi tenere la nostra Mascotte segregata in casa! Usate il cervello! Non le faranno mai del male in pubblico».

Edward fece per parlare, ma Alice lo bloccò. «Emmett ha ragione, Edward. I licantropi non si avvicineranno mai a lei finché è fra gli umani; il loro più potente istinto è difenderli. E uno di noi rimarrà sempre nei paraggi per sicurezza».

Timorosa, sollevai lo sguardo su Edward, aspettandomi che iniziasse una nuova sfuriata.

«Va bene» concesse, stupendomi. «Ma risolviamo questa storia, il più presto possibile».

Mi tolsi, stanca, la maglietta, osservando silenziosa il mio ombelico. Ripensai alla scarica di adrenalina che avevo provato poche ore prima. Chissà se anche la bambina l’aveva avvertita. Ripensandoci, era da allora che non si faceva nettamente sentire.

Posai una mano sul ventre, facendo una leggera pressione. «Piccola? Ci sei?» chiamai in un sussurro. Accarezzai la pancia, massaggiandola in attesa di una qualunque risposta e mi preoccupai quando non arrivò.

«Tutto bene?» chiese Edward, entrando in camera.

«Non so» mormorai preoccupata, alzando lo sguardo. «La bambina, non sento le sue emozioni».

In un attimo fu davanti a me, accarezzandomi la pancia.

Non sentii ancora nessuna risposta. Eppure era sempre felice quando Edward l’accarezzava!

«Non ti preoccupare» mi rassicurò, vedendo la mia espressione ansiosa e le lacrime al bordo dei miei occhi. «Adesso chiamiamo Carlisle, okay?» disse, accarezzandomi il volto.

Annuii, tirando su con il naso.

Carlisle mi visitò, misurò la pressione, sentì i battiti della bambina. Edward era accanto a me, sul letto, accarezzandomi e tentando di farmi stare tranquilla.

«È tutto apposto» mi rassicurò infine Carlisle, quando ebbe finito di visitarmi.

Edward mi aiutò a mettermi a sedere, passandomi poi la maglietta del pigiama.

«Il suo cuore batte forte e sta bene. Penso che per un po’ non si farà sentire con le sue emozioni perché tu l’hai inibita con le tue» mi spiegò cortese, rimettendo a posto lo stetoscopio nella sua borsa «l’adrenalina non piace ai bambini. Rilassati, riposa questa notte, e vedrai che ricomincerai a sentire le sue emozioni».

«Grazie» sussurrai, posando la testa sulla spalla di Edward.

Lui lanciò un’occhiata al figlio, poi mi sorrise, prese la borsa e uscì, raggiungendo il resto della famiglia.

Chiusi gli occhi. Avevo un forte timore. E non per i licantropi. Nonostante la mia prima emozione, dopo averli visti, fosse stata la paura, ragionando a mente fredda avevo realizzato che per me non costituivano una minaccia. Sam, così ligio al rispetto delle regole, Quil, Embry, Seth, il piccolo e astuto Seth. Non mi avrebbero mai fatto del male, anche dopo tutto quello che era successo, ne ero sicura. Più che altro, ora, provavo solo la curiosità di scoprire cosa, di tanto importante, volessero dirmi.

La paura invece era tutta dedicata alla piccola e a Edward.

A lei per quella assenza di emozioni. A Edward… per la paura che era emersa subitaneamente in lui. Infatti, nonostante fosse molto ansioso e premuroso nei miei confronti, solitamente, almeno di fronte a me, riusciva a mantenere il sangue freddo necessario e a nascondere il suo tormento.

«Alice ha ragione» disse tranquillo, continuando ad accarezzarmi i capelli e distogliendomi dai miei pensieri.

«Su cosa?» chiesi confusa.

«Sul fatto che i licantropi non ti farebbero del male».

Mi immobilizzai, voltandomi per fissarlo negli occhi chiari. «Lo dici per farmi stare tranquilla? Edward, davvero, non ce n’è bisogno, io non ho paura di loro. Non c’è bisogno di mentirmi».

Sul suo volto spuntò un sorriso divertito. «Cosa ti fa pensare che io stia mentendo? Dico sul serio Bella» l’umorismo scomparve, «mi dispiace di aver avuto quella reazione esagerata, i loro pensieri mi sono sin da subito sembrati tranquilli. Ma…».

«Ma?» lo spronai a continuare.

Sospirò, stringendomi forte far le sue braccia, molto più di quanto, spesso, si era concesso di fare. «Non voglio perderti» mormorò assente.

Mi lasciai stringere, senza dire nulla. Quando le mie labbra si trovarono a contatto col suo collo bianco e freddo ne approfittarono per lasciare una scia di baci. In fondo non ero poi così stanca, e quello sarebbe stato un ottimo modo per allontanare la tensione, sia mia che di Edward… Continuai a baciarlo, con sempre maggior impeto, sulle labbra, chiarendo le mie intenzioni. Inoltre, sempre per una serie di infiniti e futilissimi motivi, era così tanto tempo che non facevamo l’amore…

I miei polsi, che fino a pochi istanti prima erano poggiati fra i suoi capelli, si trovarono stretti nella presa della sua mano.

«Bella» ansimò «c’è tutta la mia famiglia di là».

Ricominciai a baciarlo con foga, ridacchiando. «Cosa importa? La stanza è completamente insonorizzata».

Si staccò nuovamente. «E se entrasse Emmett?».

Mugolai, aprendogli i primi bottoni della camicia. «Alice non glielo lascerebbe mai fare» mormorai inarcandomi, a cavalcioni su di lui.

«Bella».

Mi staccai, stupita. Per un istante pensai a tutti gli altri casi in cui, per un motivo o per l’altro…

Che pensiero sciocco. Non poteva essere così.

«O-okay» feci, titubante, sollevandomi e indossando i pantaloni del pigiama. «Vado dagli altri» dissi, guardandomi intorno. Lo fissai un’ultima volta, seduto compostamente sul letto con un’espressione serena.

Eppure… No. Non poteva essere.

Sentii la bambina, curiosa e sospettosa quanto me.

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Capitolo 49
*** Caterina Barbarigo ***


Sbattei le palpebre, tentando di concentrarmi sulla lezione. Avevo già cominciato a pentirmi di aver voluto, a tutti i costi, riprendere gli studi. L’università era a dir poco stancante, e nonostante la psicoanalisi e gli esercizi fatti con Jasper avevo sempre la paura che la bambina potesse fare qualcosa che non avrei saputo gestire. E poi rimanere concentrata così a lungo e riuscire a fare qualcosa di produttivo, dopo aver abbandonato per diverso tempo, non era affatto semplice.

Edward mi aveva incoraggiato, senza forzarmi, a non mollare. Si era reso conto che ci tenevo e non voleva che sacrificassi tutti gli sforzi compiuti sino ad allora. D’altra parte, mi controllava perché non mi stancassi troppo. Era sempre così apprensivo…

Sospirai, rendendomi conto che la spiegazione era andata avanti ad un passo più veloce dei miei appunti. Saltai un paragrafo e ripresi dalle parole del professore, pensando che quello, ancora, era il primo giorno, e che non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Se non a me stessa.

In fondo a breve sarei stata trasformata in una vampira, sarei diventata madre… Perché mi ostinavo a voler continuare l’università?

Forse perché mi gratificava, perché mi faceva sentire qualcuno. Perché nella mia vita ero sempre stata abbastanza brava in “quello”, abbastanza dotata in “quell’altro”. Ma non avevo mai avuto la soddisfazione di sentire commenti positivi non accompagnati da aggettivi come “quasi, abbastanza, discretamente”. E, ad essere sincera, non avevo neppure cercato tali soddisfazioni finché non erano giunte.

Eppure, i miei pensieri, come da una settimana a quella parte, non potevano essere che per Edward. Le cose fra noi andavano bene. Molto. Troppo. Era tutto tanto perfetto, felice, sereno, pieno d’amore, nei sentimenti, quanto vuoto nella sfera… fisica.

Non appena la lezione, la seconda della giornata, finì, potei permettermi di smettere di pensare a mio marito e alla preoccupazione per il suo stato d’animo, schiacciata dalla confusione di studenti che si alzavano dai loro posto per cambiare aula. Mi recai, velocemente, nell’atrio, sollevata di avere un’ora buca. Lì trovai Amber.

Mi salutò calorosamente, abbracciandomi. Avevo indossato una felpa larga, con una zip sul davanti, che mascherava molto bene la piccola pancia. Ad un occhio inconsapevole potevo solo sembrare un po’ ingrassata. Così non fece alcun tipo di commento, anzi, mi invitò ad unirmi a lei.

«Stavo andando in biblioteca per poter organizzare gli appunti! Se vieni con me potrò darti delle dispense sulle lezioni che hai saltato, ti va?». Mi prese per mano, tirandomi verso di lei.

«Certo! Ti ringrazio». Sorrisi, seguendola.

L’ora successiva avremmo avuto lezione di “Conservazione delle opere”, che si svolgeva in biblioteca. Infine, l’ultima ora era quella di “Restauro”.

Amber si offrì di aiutarmi a comprendere dei concetti che, studiando sola a casa, non ero riuscita a schematizzare e utilizzare correttamente. Le sue spiegazioni erano semplici, ma chiare, e soprattutto fatte col chiaro intento di aiutarmi.

Sollevando lo sguardo dai suoi appunti mi parve di scorgere la figura del professor Philip che si affaccendava, con un’andatura troppo veloce per il suo gracile corpo, fra alcuni scaffali con vecchi libri impolverati. Rabbrividii, sentendo i sentimenti di disagio che provenivano dalla bambina. Decisi di non pensarci e risposi al richiamo di Amber, riprendendo a seguire i suoi discorsi.

Dopo mezz’ora avevo ricominciato a pensare che l’idea di riprendere l’università non era poi così pessima, e che sarei potuta riuscire nel mio intento.

«Vedi Bella? Queste sono le opere minori del Manierismo. Qui ci sono i ritratti, alcuni sono conservati nella galleria dell’accademia».

Mi sporsi per vedere oltre le sue dita paffute. «Quale dei tre dobbiamo riprodurre?».

«Questo, vedi?».

Mi alzai in piedi e feci il giro del tavolo, fino a trovarmi accanto a lei. Abbassai il capo sul libro.

Improvvisamente un fortissimo odore di profumo femminile mi fece contrarre lo stomaco. Sollevai di scatto la testa, in una necessaria e veloce ricerca dei bagni pubblici. Mi affrettai a raggiungere l’uscita di emergenza e, subito dopo, infilarmi oltre la porta marrone con il cartello “toilette”.

Le nausee erano sostanzialmente scomparse, ma ancora non riuscivo a sopportare determinati forti odori. Sentii la bambina confusa e disorientata, oltre che infastidita dalla situazione.

«Bella! Bella, cosa succede?» mi chiese Amber spaventata, entrando in bagno con il mio cappotto e la mia sciarpa.

«È tutto apposto Amber» sussurrai sciacquandomi la bocca e portando un po’ d’acqua alla fronte per rinfrescarmi. Ovviamente, ora, nel mio piano di discrezione si era aperta una notevole falla.

Lei, agitata, si avvicinò a me, accarezzandomi, scrutandomi, osservando con paura la mano che avevo portato alla pancia. «Cos’hai? Ti senti male? Cavolo! Non so che fare!». Si guardò attorno, ansiosa, in cerca di un qualunque aiuto.

«Calma, davvero» dissi, tentando di farla ricominciare a respirare normalmente. «Stai calma».

Le mi osservò, sofferente, preoccupata, per un attimo in silenzio. Sapevo, perché me l’aveva detto lei stessa, che Amber era una persona ansiosa e che si trovava sempre in difficoltà nelle situazioni di pericolo. Ma quello non era il momento migliore per far emergere la sua indole.

Pensai che mi avesse dato ascolto, ma i miei pensieri furono smentiti quando proruppe «Tu stai qui buona, calma, io chiamo Edward e ti faccio venire a prendere!». Cominciò a frugare nervosamente nella mia borsa.

«No!». Ebbi uno scatto veloce, fermando con determinazione le sue mani, che già avevano afferrato il mio cellulare. «Amber, no» dissi ancora «Stai ferma, ti prego, lascia che io ti spieghi» cominciai con persuasiva calma «Chiamare Edward è l’ultima cosa da fare. Ora, dammi quel telefono».

Osservò prima me, poi l’oggetto chiuso nella sua mano. Non so cosa vide nel mio volto, ma credo che decise di potersi fidare. Con lentezza mosse la mano, restituendomi il cellulare.

Sospirai di sollievo, riponendolo nella borsa e sciacquandomi le mani. Mi avviai verso il phon. «Amber, non sto male» dissi con un piccolo sorriso, facendole muovere sotto il soffio caldo e aspettando che si asciugassero.

Lei mi guardava con attenzione, mordendosi l’interno della guancia.

Mi girai verso di lei, a occhi bassi e rossa in viso. Lentamente, li alzai fino a scontrarmi con il suo viso di porcellana, le mani sul ventre. «Sono incinta» dissi d’un fiato.

Potei notare le sue morbide guance distendersi mentre la bocca le si apriva per lo stupore. Deglutì. «E-Edward lo sa?».

Proruppi in una breve risata. «Certo che lo sa» dissi, divertita, sollevando la maglietta e lasciando vedere la celabile, ma tuttavia ben visibile, pancia. «Sono più di quattro mesi ormai».

Dopo essersi ripresa mi fece i complimenti e mi disse, borbottando e arrossendo, di farli anche a Edward da parte sua. Il fatto che fosse venuta, già il primo giorno, a conoscenza del mio segreto, aveva notevolmente destabilizzato i miei piani. Cominciavo a pensare che nasconderlo agli altri non sarebbe stato così facile come pensavo, ma, forse, avendo un’amica a conoscenza del segreto, tutto avrebbe potuto essere più semplice.

Quando arrivammo in biblioteca la lezione era già cominciata. L’attempato professore ci ignorò completamente, permettendoci di inserirci fra le ultime file del gruppo. Estraeva tomi dagli scaffali come fossero fragili mucchi di polvere. E in effetti lo erano. Poi ne commentava il tipo di conservazione, come dovevano essere consultati e come fossero stati catalogati.

«Guardate là» disse ad un certo punto.

Tutte le teste degli studenti si spostarono contemporaneamente verso la direzione indicata dal suo dito.

«Ricordate sempre, polvere non vuol dire antico, né di valore. Prendetemi uno di quei libri giallognoli sullo scaffale in alto e vi sorprenderò» fece una pausa sporgendosi con il collo per scrutare gli studenti più vicini alla scala «tu. Si, dico a te là in fondo. Prendimene uno».

Raggelai, accorgendomi che il suo sguardo era rivolto a me, e voltandomi con terrore a guardare la scala a pioli alta almeno quattro metri.

Amber mi lanciò un’occhiata spaventata e disorientata.

Il professore fece per parlare per esortarmi a salire e io mi portai una mano alla pancia non sapendo bene cosa dire, scrutando i voti degli studenti che mi osservavano in silenzio, immobili.

La mia amica mi sorprese, prendendo in mano la situazione e salendo sulla scala al mio posto. Il professore borbottò, ma non disse nulla, ricominciando a spiegare, e facendo voltare nella sua direzione tutte le teste dei curiosi.

Feci un sospiro di mero sollievo. Avevo ragione, avere Amber a conoscenza della gravidanza mi avrebbe senz’altro aiutato.

«Grazie» le sussurrai, mentre il professore faceva vedere la recente data di pubblicazione del libro e esemplificava il processo d’ossidazione accelerato a cui era andato incontro.

Sollevando lo sguardo per un attimo, mi parve, nuovamente, di vedere la figura del professor Danbaster che mi osservava. Sbattei le palpebre confusa, e in un attimo sparì. Ero sempre più perplessa. Il professore era molto rinomato e i suoi corsi rari e affollati. Tutti sapevano che il rettore gli aveva concesso di insegnare appena un’ora a settimana, pur se a pieno stipendio. E, considerando che la sua lezione sarebbe stata il giorno seguente, che ci faceva lui lì?

«Tutto bene?» mi chiese Amber, preoccupata, notando il mio momento d’immobilità. «Sai che mi preoccupo. Oh, temo che mi preoccuperò molto. E se mi preoccupassi troppo? Bella, tu mi dirai quando mi sto preoccupando troppo, vero? È che quando mi agito comincio a sudare. E a parlare. Parlare molto. Oh, Bella. Non avercela con me se lo faccio!».

Le sorrisi, lasciando da parte le mie perplessità. «Non potrei mai avercela con te. Su, andiamo» dissi, seguendo il gruppo che si spostava fra gli scaffali.

Alla fine dell’ora notai la differenza che intercorreva fra me e Amber. Lei era ancora lucida e attenta, io ero stanchissima e volevo solo tornare a casa. Purtroppo però avrei dovuto resistere per almeno altre due ore. Altre due ore senza Edward.

Notai lo sguardo poco discreto di Amber, puntato ansiosamente su di me.

«Che c’è?» sussurrai, massaggiandomi con discrezione la pancia.

«Cos’hai?» chiese lei di rimando, facendo attenzione a non farsi sentire dalla professoressa di Restauro nella piccola aula. Il corso era riservato a soli quindici studenti, quindi in pratica ci conosceva uno ad uno.

Mi piagai sul banco, in modo da nascondere le labbra dietro la testa dello studente che mi stava di fronte. «Ma tu non sei stanca? Ho fame» mi lamentai.

Lei ridacchiò, lanciandomi una barretta di cioccolata.

Alzai gli occhi al cielo. «Grazie» mimai con le labbra.

Cominciai a mangiare in silenzio, senza farmi vedere. La stanchezza faceva vagare i miei pensieri e toglieva una notevole parte di attenzione e concentrazione alla lezione. Ero preoccupata per Edward. Il fatto di non potergli stare accanto corrispondeva a non poter controllare come si sentisse, come stesse. Però, d’altra parte, pensavo che magari stando solo sarebbe riuscito a sfogare i suoi pensieri cupi, che sicuramente si costringeva a celare in mia presenza. Forse dipendeva unicamente da quello il fatto che non volesse più… No. Magari era solo una mia idea assurda da donna incinta, una delle tante paranoie.

«Muoversi, prendete i vostri libri e seguitemi». La voce della professoressa sovrastò ogni bisbiglio e mi fece rapidamente e bruscamente emergere dai miei pensieri, tanto che per un secondo dimenticai quali fossero stati.

Feci come diceva, confusa, muovendomi velocemente al fianco di Amber. «Dove stiamo andando?» chiesi, continuando a camminare per i corridoi in marmo dell’accademia.

Amber mi sorrise, con le guance rosse sulla pelle chiarissima. «Laboratorio di restauro! È bellissimo, vedrai! Ci sono le opere d’arte, e poi ci fanno vedere tutti i prodotti chimici e le sperimentazioni, è davvero…».

Il suo entusiasmo scemò alla vista del mio viso deluso e preoccupato.

«Stewart, Swan, muovetevi!».

Continuai a camminare, meno decisa di prima. «Amber! Non posso entrare» biascicai, mordendomi nervosamente il labbro inferiore. Era ancora il primo giorno e ben tre volte avevo rischiato di farmi scoprire. La prima, Amber era venuta a conoscenza di tutto. La seconda, l’avevo scampata per un soffio grazie al suo aiuto. Ed ora? Era così forte la mia ostinazione a non voler rendere noto il mio stato? Sì. Volevo ricavarmi uno spazio di anonimato, in cui nessuno mi conoscesse e badasse a me, almeno una volta a settimana. Ma allora cosa potevo fare?

Amber, all’ennesimo richiamo della professoressa, entrò nel laboratorio con un’occhiata di scuse, sotto mia esortazione. Temporeggiai sulla porta, lanciandomi sguardi fugaci attorno. Sentivo il cuore battere veloce nel petto per l’agitazione.

Dovevo andare via? Dovevo dire alla professoressa? Dovevo entrare? No. Quello non potevo farlo.

«Swan, cosa sta facendo ancora qui? Stiamo aspettando solo lei».

Mi accinsi a spiegare, con un sospiro rassegnato.

«Isabella Swan sta con me». Quella voce, alle mie spalle, mi fece raggelare.

La professoressa lanciò un’occhiata ossequiosa al professor Danbaster.

«Non me ne voglia, l’ho trattenuta io, abbiamo delle cose da chiarire in riguardo alla sua assenza». Fece un sorriso scheletrico, facendo stropicciare tutte le pieghe ai lati della sua smunta bocca.

«Certo» borbottò lei, con un cenno. «Vogliate scusarmi allora» disse, richiudendosi la porta alle spalle.

Il professor Philip mi lanciò un’occhiata di sbieco e mi accorsi di non aver mai lasciato la mia posizione di rigido disagio. Per quale motivo mi aveva aiutata?

Fu percosso da dei forti accessi di tosse. Portò un fazzoletto alle labbra, piegato sulle spalle scosse dai singulti. «Seguimi» borbottò poi brusco, gli occhi ridotti a due fessure.

Rimasi per due secondi immobile, i riflessi rallentati dalla confusione, vedendolo procedere spedito sul marmo bianco. Mi riscossi, seguendolo. Nonostante i suoi passi e i suoi movimenti fossero più veloci, la falcata delle sue gambe era decisamente minore della mia, e la tosse di tanto in tanto lo costringeva a rallentare, così non faticai a stargli dietro. Rimasi in silenzio per tutto il tragitto, non sapendo bene cosa dire, percependo la stranezza della sua persona. Mi sarebbe tanto piaciuto sapere qualcosa di più su di lui. Forse, l’aura di mistero che sentivo circondarlo, si sarebbe diradata venendo a conoscenza di qualche dettaglio sui suoi studi, o sulla sua famiglia, magari.

Aprì la porta del suo ufficio, chiuso a chiave, con un movimento svelto, e ci s’intrufolò, invitandomi ad entrare con rapidi movimenti della mano. Mi chiesi perché si muovesse in maniera così furtiva. Mi sentivo attratta dai suoi modi, attratta dal mistero, eppure così costantemente all’erta. Quanto avrei voluto sapere…

Appena fui dentro, i miei occhi non fecero in tempo ad abituarsi alla penombra della stanza, che sentii il chiavistello girare nuovamente.

Mi voltai di scatto verso il professore, terrorizzata.

«Non essere inquieta cara» fece con un sorriso buono, nulla a che fare con i modi avuti precendentemente. «In questa stanza ci sono opere di grande valore».

Il senso di disagio si alleggerì per un istante, mentre capivo di potermi fidare.

Mi invitò a sedermi su una poltroncina antica, rivestita di velluto rosso, e lo stesso fece lui, sedendosi un una identica di fronte a me. L’ambiente non sembrava esageratamente grande, ma forse era solo un’illusione. Ogni minimo spazio era stipato di oggetti di ogni forma e dimensione, ogni antico scaffale riempito di manuali e pergamene gelosamente custodite in teche trasparenti.

Mi chiesi di cosa potessero trattare tutti quei libri.

Dei pesanti drappi rossi incorniciavano, oscurandola in parte, una grande vetrata. Al centro della parete trasversale vi era un dipinto, attorno al quale mi accorsi che ruotavano tutti gli altri, in un intreccio volto a farne risaltare la cornice. Ritraeva un’affascinante giovane donna, decisamente molto bella. Sentii una strana stretta allo stomaco.

«Isabella» disse allora con un sorriso, sporgendosi verso la scrivania di rovere per afferrare una bottiglia di cristallo mezza piena di un liquido ambrato. Scotch? Ne versò un dito in un bicchiere decorato con gli stessi motivi della bottiglia e poi fece un cenno verso di me.

Arrossii. «No, grazie» borbottai.

Lui ripose la bottiglia, avvicinando il bicchiere alle labbra e bevendo in un lungo sorso.

Mi chiesi se, un uomo della sua età e con quella tosse, potesse bere dello Scotch. Immaginai che sua moglie non dovesse esserne affatto contenta. Era sposato? Abbassai lo sguardo sulla sua fragile mano, notando una vera. Era nera. Che strano colore…

«Ricordi quel discorso che facemmo in merito ad un tuo dipinto?» chiese, distraendomi dai miei pensieri.

«S-sì… sì, certo». Risposi, ricordandomi del solitario 30 e lode sul mio libretto. Era stato il voto assegnato al dipinto de “La Cortigiana” e ancora stentavo a crederci. «Mi disse che i miei sentimenti e la mia vita privata contavano più di qualsiasi ammirazione del pubblico… Che… non avrei mai dovuto svelarla» balbettai.

Lui sospirò, arricciando le labbra esangui e grattandosi la rada peluria bianca sulla testa, come se ne fosse dispiaciuto. Poi scattò, fissandomi di sottecchi. «Può far finta che io non gliel’abbia detto?».

M’irrigidì, spiazzata da quella proposta.

Lui sospirò, tamburellando con le dita sul tavolo. «Eppure ci dev’essere un modo» biascicò, quasi incomprensibilmente.

Non capivo perché volesse sapere qualcosa della mia vita privata. Di me. Perché mai? Voleva sapere la storia celata dietro il mo dipinto? E con quale interesse? Lo stesso che io sentivo verso la sua aura di mistero?

Infine fece chiudere le sue lunghe dita in un pugno. «Ci sono» disse convinto «facciamo così. Lei risponde ad una mia domanda, e io risponderò ad un suo qualsiasi quesito. Siamo d’accordo?».

Mi morsi il labbro, gli occhi che lucevano, affascinata dalla proposta. E se mi avesse, per caso, domandato di segreti che non potevo raccontare? No. Non potevo accettare. Eppure la sua proposta era così invitante… «Io… non so se posso».

Fece un sospiro e un gesto secco. «Le farò prima la mia domanda, così si regolerà se accettare o meno».

Annuii.

«Che cosa sta succedendo? Ho notato il suo strano comportamento e sono molto interessato a capire».

Arrossii, spiazzata dalla domanda. Sembrava decisamente curioso, come se vedesse verità più profonde degli altri. Come se aspettasse la mia risposta come un’importante scoperta scientifica, di vitale importanza. Beh, ne sarebbe rimasto deluso, e di certo non avrebbe leso granché alla mia condizione di donna in carriera. Tuttavia potevo sempre farmi raccontare qualcosa da lui… «Mi risponda lei, prima, poi giuro che darò una risposta alla sua domanda».

Sospirò, esasperato, con impazienza. «Va bene, va bene. Ma si sbrighi a chiedere».

Mi vennero in mente tante possibili domande. Sul suo lavoro, la sua famiglia, sulle opere e su tante piccole stranezze e curiosità che si raccontavano su di lui. Avrei semplicemente potuto chiedere «Perché sei così misterioso? Che cosa nascondi?». No di certo. Eppure nessun altra domanda avrebbe avuto una risposta abbastanza esaustiva.

I miei occhi incrociarono nuovamente quelli furbi del dipinto della donna appeso alla parete, e la domanda non poté far a meno di affiorare sulle mie labbra. «Chi è quella donna?».

Sospirò, ancora, ma questo suo sospiro non aveva nulla a che fare con quelli di impazienza che precedentemente erano usciti dalle sue labbra. Questo era lento, stanco, rassegnato. «Isabella… Mi hai fatto la domanda a cui mi è più difficile rispondere» disse, sconsolato, talmente tanto, che mi sentii in colpa.

«Mi dispiace, io non volevo».

«No» disse lui, interrompendomi. «Fa silenzio, ti racconterò». Poi mi lanciò un’occhiata. «È giusto che tu sappia» mormorò.

Mi mossi sulla sedia, a disagio.

«Alla fine della storia non chiedermi nulla, non ti dirò nulla più. Ci sono cose che non potrai capire» strinse gli occhi «forse. Quella donna Isabella, si chiama Caterina Barbarigo; è una nobile veneziana del ‘700, una delle più belle che ci siano mai state» il suo sguardo si perse in lontananza, come se stesse rievocando ricordi lontani, «I suoi occhi lucevano lucidi alla luce del sole e la sua pelle era nivea come poche l’avevano avuta. Un fascino struggente e ammaliante, un carattere capriccioso e un ingegno e una furbizia prorompenti. Si sposò, per amore, con un giovane tedesco. Era attivo e in cerca di avventura e ammirazione, ancora incapace di comprendere il mondo» il suo sguardo si fece ancor più contrito «ebbe una figlia, Kate la chiamò, ricalcando il suo stesso nome. Uno splendore, un piccolo bocciolo di rosa tanto simile alla madre dalla bellezza mai sfiorente, ancor più bella per la rarità della sua meravigliosa essenza. Le sue labbra erano rosse e piccole. Vissero felici, i cinque anni più belli della loro vita, la loro felicità era invidiata da tutti, si irradiava dai loro volti come la luce più pura. Era perfetta, la perfezione impossibile, il loro segreto, ed era loro, miracolosamente loro.

Ma poi, tutto cambiò. Scoppiarono delle guerre, odi, e amori spezzati, misteri celati ai più. Quando il giovane tornò a casa, Caterina era già perita, prigioniera del nemico. Kate era scomparsa. Tutto era svanito, insieme ai loro segreti e alla loro felicità, e il giovane tedesco non se lo perdonò mai. La sua ricerca, per la vita, è l’anelito alla ricongiunzione con il suo stesso sangue, sua figlia, Kate».

Sentivo il suono sordo del mio cuore nel petto coprire il silenzio portato dalle sue ultime parole. Non capivo perché la sua storia mi avesse colpita così tanto. Era bella, vero, ma non riuscivo a comprendere. Ripensai per un attimo al modo in cui l’aveva raccontata. Così lentamente, così appassionatamente, e con così tanto pathos.

«Tu, Isabella?» disse, schiarendosi la voce dopo essersi ripreso da un ennesimo attacco di tosse.

Immersa nell’atmosfera della storia avevo dimenticato la domanda a cui avrei dovuto rispondere. «Si, scusi. Cosa voleva sapere?».

Ticchettò, nuovamente impaziente. «Mi chiedevo il motivo del suo strano comportamento, non mi dica che non è nulla, sono un buon osservatore, mi sveli li suo segreto».

Arrossii, annuendo con riluttanza. Questo genere di cose mi causavano un certo imbarazzo. Eppure era una cosa che sicuramente avrebbe deluso le sue aspettative. Sospirai, ripensando a come non si fosse minimamente scandalizzato per il mio matrimonio con Edward; certamente non l’avrebbe fatto neppure questa volta.

Puntai i miei occhi nei suoi. «Aspetto un bambino».

Al contrario di come mi sarei aspettata strabuzzò gli occhi, sorpreso. «Sei incinta? Di tuo marito?».

Rimasi sconcertata dalla domanda. «Certo! Mio marito».

Fece un sospiro secco, lasciandosi cadere con le spalle sullo schienale della sedia, scosso nuovamente dalla tosse. Rimase per ben tre minuti in assoluto silenzio, fissando torvo un fermacarte. Poi fece scioccare la lingua e si voltò nuovamente verso me, fulmineo. «Non lo vuoi dire a nessuno, vero Isabella?».

«I-Io… no, non qui» balbettai, disorientata dalle sue domande sempre più sorprendenti e apparentemente prive di significato.

Annuì. «Bene, ti aiuterò a farlo. Ora va’» disse alzandosi e aprendomi la porta «va’ a casa da tuo marito» si bloccò, incerto su cosa aggiungere. «Vai Isabella» disse infine.

Quando mi ritrovai nel cortile dell’accademia in testa mi vorticava una gran moltitudine di pensieri. Osservai il profilo degli alberi in lontananza, e fra questi emerse per un istante il ricordo di un grosso branco di lupi, scalzato immediatamente da questioni più pressanti.

Avevo sperato di risolvere i miei dubbi e chiarire alcuni misteri, invece tutto si era fatto più fitto e oscuro. Per cominciare, la storia che il professore mi aveva raccontato. La sua sostanziale semplicità, e il modo in cui pronunciava le parole. Caterina Barbarigo. E poi, tutte quelle domande che mi aveva fatto…

«Bella».

Alzai lo sguardo di scatto, riconoscendo immediatamente la voce di mio marito. «Edward» mormorai sollevata, la mente sgombra da ogni pensiero, sentendo la felicità della bambina crescere dentro me.

Mi sorrise, un sorriso autentico e meraviglioso sul suo viso da angelo. «Mi sei mancato» mormorai stringendomi al suo maglione. Mi accertai che sul suo viso non vi fosse traccia di tensione e difatti incrociai un suo sorriso autentico, brillante e solare. Feci dentro me un sospiro, sollevata.

Durante tutto il viaggio di ritorno a casa mi concessi di rimanere in silenzio, la mente sostanzialmente vuota, i pensieri rivolti a mio marito. Sembrava tranquillo e calmo, mi aveva fatto qualche domanda su come fosse andata e avevo risposto generalmente. Mi fece pensare che magari fosse riuscito a superare i suoi problemi, almeno in parte.

«Sono un po’ stanca, credo che andrò a riposarmi» dissi mettendo un piatto, usato per il mio pranzo, in lavastoviglie.

Lui mi accarezzò la schiena, poi scese con le labbra a baciarmi in collo, piegato su di me, con il busto attaccato alla mia schiena.

Arrossii, pensando che magari la mia fosse stata semplicemente davvero una paranoia.

«Perché non vai di là, ci penso io a finire qui… Su, vai» mi disse gentile, accarezzandomi la pancia da dietro.

Mi sentii bruciare a quel contatto così ravvicinato e non potei fare a meno di annuire. Mi lasciò libera di defilarmi dalla sua presa e mi sorrise sghembo, mettendosi al mio posto e finendo di caricare la lavastoviglie.

Entrai in camera col cuore che mi batteva forte nel petto. Non ci fu il bisogno di chiedermi cosa avrei dovuto indossare perché trovai il mio pigiama di seta piegato sul bordo del letto. Dopo averlo indossato mi stesi, troppo stanca per rimanere in piedi, sul lato sinistro, tentando di ridare vigore ai miei sensi appannati e di non assopirmi.

Il materasso si abbassò da un lato. Era entrato in camera. Mi voltai verso di lui, tornandomi a sedere. Mi sorrise e scese direttamente con le labbra a baciare la mia pancia. Sorrisi anch’io, accarezzandogli i capelli, e lasciai che sbottonasse gli ultimi bottoni della maglietta e che aprisse leggermente il nodo sui pantaloni. Sì, sicuramente era stata tutta una mia paranoia. Un pensiero stupido, tanto stupido… sorrisi di me stessa.

Mi fece stendere sul letto e si mise di lato, continuando a baciarmi. Eppure i suoi baci erano morbidi, delicati, per niente frettolosi o maliziosi. Sentivo la mia e la felicità della bambina unirsi insieme in spirali di piacere. Strofinava la guancia sulla pancia, la sfiorava con la punta del naso e poi riprendeva a baciare. Ero così felice, e tutto sembrava andare così perfettamente…

Inarcai violentemente la schiena, serrando le dita fra le ciocche dei suoi capelli ramati, quando mi baciò sull’ombelico, provocandomi un brivido.

S’interruppe, e per un istante, mentre fulmineo alzava lo sguardo, potei scorgere una forte paura nei suoi occhi. Immediatamente si addolcirono, mentre il suo volto da beato diciassettenne si apriva in un sorriso. Richiuse i bottoni della maglietta, sollevandomi poi con un braccio e mettendomi sotto le coperte.

«Dormi Bella, sei stanca» disse, accarezzandomi i capelli. Non riuscii a comprendere il suo comportamento. Non riuscii a capire. Eppure, il dubbio che qualcosa lo bloccasse si era fatto sempre più forte in me, e ancora più forte si fece un’ora dopo, quando mi svegliai.

Sentivo un vuoto nel petto, come ci si sente dopo che il cuore ha finito una folle corsa. Ero madida di sudore e i muscoli erano irrigiditi e tesi. Eppure ero emotivamente tranquilla…

Aprì gli occhi, scontrandomi con lo sguardo preoccupato di Edward. Rimasi in silenzio per qualche istante, in attesa che dicesse qualcosa, ma non lo fece. La sua mascella rimaneva immobile e contratta. Cos’era successo?

«Ho sognato?».

«Ricordi di aver sognato?» chiese, e sembrava davvero nervoso, come mai l’avevo visto.

Sollevai le sopracciglia. «No» borbottai. «Non ricordo».

Si lasciò sfuggire un sospiro. «Bene» disse con un sorriso, «vado a prepararti la cena» e scomparve prima che potessi dire qualsiasi altra cosa.

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Capitolo 50
*** Inquietudine ***


Gli ultimi giorni erano trascorsi con ritmo strano e lento, ai quali faceva da sottofondo una mia costante e crescente tensione, stridente con l’umore assolutamente positivo di tutte le persone che mi circondavano - con cui non osavo confidarmi - e in molti casi anche di Edward.

Perché, a parte rari e brevi momenti, non mi dava mai occasione per poter discutere di quello che gli passava per la mente. Così dovevo stare zitta e aspettare pazientemente di coglierlo in fallo.

Ma era evasivo. Terribilmente, vampirescamente, evasivo.

E poi… facendoci attentamente caso, avevo notato che il mio dubbio, sul fatto che Edward non volesse fare l’amore con me, non fosse tanto affatto un dubbio, quanto più una certezza. Innanzitutto, perché non prendeva mai l’iniziativa. In secondo luogo, perché mi dissuadeva sempre quando la prendevo io. Così avevo semplicemente smesso di farlo, evitando di raggiungere ad una sempre più dolorosa serie di certezze.

«Grazie Esme, sei stata molto gentile, come sempre» la ringraziai in un sussurro, prendendo dalle sue mani il vassoio con il mio pranzo.

«Spero che ti piaccia, è una ricetta nuova» mi sorrise, un luminoso e abbagliante sorriso, e fece una piccola carezza alla mia pancia, contenta e soddisfatta.

Carlisle, seduto sulla sedia di fronte a me, aprì le braccia, facendo sedere sua moglie accanto a lui, sorridendo gioioso anch’egli.

Forse quell’atmosfera, che ora mi appariva tanto sfacciatamente felice, c’era in realtà sempre stata, sin da quando tutti avevano ricevuto la notizia della gravidanza. Alice e Rosalie avevano perso gran parte del loro senno per la bambina, Carlisle e Esme erano orgogliosi e soddisfatti come non mai, e Charlie si beava della mia rinnovata felicità. Emmett era persino più allegro del solito! E, infine, anche Jasper, restio a dimostrare i suoi sentimenti, ostentava spesso estatiche espressioni. Solo ora, che cominciavo ad osservare dall’esterno questa “giostra di felicità” potevo rendermene conto.

Volevo urlare «Ehi, guardate! Guardate Edward, c’è qualcosa che non va!». Perché me ne ero accorta solo io? Perché dovevo sentirmi in colpa per aver rotto l’idillio?

«Stai seguendo la dieta che ti ho indicato?» mi chiese Carlisle con i suoi luminosi e cortesi occhi color oro, facendomi riscuotere dai miei turbinosi e costanti pensieri.

Finii di masticare il boccone. «Sì, certo. Sai che ci pensa sempre Edward» mormorai atona.

Entrambi erano venuti per una delle loro tante visite di cortesia, e Edward aveva deciso di approfittarne per uscire, visto che ancora non si sentiva abbastanza fiducioso a lasciarmi sola. Quello, malgrado i licantropi non si fossero più fatti sentire, era un altro grande motivo di tensione per me. Non per la minaccia che costituivano in sé, me per il fatto di dover essere costantemente controllata.

Allontanai il piatto, con lo stomaco improvvisamente chiuso.

Una ruga d’espressione comparve sulla fronte perfetta di Esme, incrinando la perfetta atmosfera di gioia e amore. «Che c’è cara, qualcosa non va?».

Scossi il capo lentamente. «No, non ho più fame, scusa».

Lei mi fissò per un interminabile istante, poi si rizzò in piedi, guardandosi attorno. «Dov’è andato Edward?».

Li studiai. Esme, che sembrava avere uno sguardo di sospetto, nato dalla stranezza della situazione. Poi, Carlisle. Per quanto fosse un magnifico attore, il migliore della famiglia e dell’intero universo forse, non aveva la stessa espressione della moglie, quella che mi aspettavo avesse.

«Non lo ha detto neppure a me» indugiai volutamente con lo sguardo su Carlisle, aspettando di trovare una qualsiasi reazione. Lui lo sostenne con espressione neutra, senza inflessioni.

Sospirai, abbassandolo e massaggiandomi la pancia con movimenti circolari. La bambina si inquietava velocemente per la mia ansia, ed ultimamente gliene offrivo a bizzeffe.

Andai a studiare comodamente semi-distesa sul divano dello studio, tentando di rilassarmi. Esme e Carlisle rimasero per tutto il tempo con me, facendomi sentire affettuosamente e silenziosamente la loro presenza, rivolgendomi sorrisi e attenzioni.

Tentavo in ogni modo di recuperare la maggior quantità di lavoro e di portarmi avanti con velocità negli studi, considerando che a breve avrei avuto molti importanti esami. Provavo a vederlo come un modo per distrarmi da tutti i problemi che stavano crescendo fuori e dentro di me e che non sembrava minimamente scalfire il resto del mio mondo.

Riposi il libro che avevo appena finito di leggere e cercai nell’elenco-tabella, creata con l’aiuto di un entusiasmato Jasper, la prossima materia che avrei dovuto studiare.

Disegno creativo, la materia del professor Philip. Improvvisamente i miei pensieri, come con una ventata gelida, furono trasportati verso quei nitidi e recenti ricordi. Un’altra, ennesima, questione che continuava ad assillarmi con crescente curiosità, era tutto quello che mia aveva detto nel suo studio, e ci ripensavo sempre nei rari momenti in cui la mia mente non era rivolta a Edward.

La misteriosità, il tono accorato con cui ne aveva parlato, la profondità e la bellezza di quel volto bianco. Mi aveva chiesto di non fare domande, ma io non potevo non sapere qualcosa che sicuramente celava altro dietro sé.

Lo sguardo, per un istante, cadde sul monitor piatto del computer posto sulla scrivania appena accanto a me e poi nuovamente sul libro poggiato sulle mie ginocchia tese. Lo chiusi in uno scatto, alzandomi. La storia di Caterina Barbarigo, marchiata a fuoco nella mia memoria, meritava una pausa dai miei studi.

Una volta aperta la pagina iniziale del mio motore di ricerca preferito scrissi il nome della nobile veneziana. Comparvero immediatamente dei risultati illustrati, con il dipinto che si trovava nello studio del professore. Era un’opera minore del periodo tardo-rinascimentale, ma doveva pur sempre essere di grande valore.

Ciò che mi sorprese fu il fatto che trovai pochissime notizie sulla donna e nessuna che corrispondesse a quelle che il professore mi aveva dato. Aggrottai le sopracciglia. Aggiunsi al nome della donna quello della figlia, “Kate”. Rimasi ancor più stupefatta di non trovare nessun risultato utile. Feci un sospiro e mi accinsi ad accostarle invece il nome del marito… Strano. Davvero strano che non ricordassi quel dettaglio, eppure mi pareva, considerando il tempo utilizzato per rimuginarci su, che la conoscessi alla perfezione.

Poi ricordai. Non aveva mai citato, stranamente, il suo nome. Un giovane tedesco. Così aveva detto. Perché?

Un pop-up pubblicitario comparve sullo schermo, facendomi riscuotere. Feci per chiuderlo, ma i miei occhi si soffermarono per un istante sull’immagine rappresentata sulla figura colorata.

“Esibizioni - Pianoforte a coda - Washington state”

«Bella».

Sobbalzai, portandomi una mano al cuore, e chiudendo immediatamente lo spazio pubblicitario. Per quanto lo slogan avesse catturato la mia attenzione in quell’istante il mio cuore palpitava nel petto per mio marito, e col suo sordo rumore scacciava via ogni altro pensiero dalla mia testa.

Gli occhi di Edward saettarono sul monitor del computer, poi, con discrezione, si posarono sul mio viso, gentilmente. «Ti ho spaventata?».

Scacciai con lentezza l’agitazione della bambina, facendo strisciare la sedia sul pavimento e sollevandomi dal mio posto. Mi sfiorai la pancia. «No… Non è nulla…» mormorai a capo chino, attenta a non incontrare il suo sguardo.

Come potevo anche solo pensare di risolvere i problemi, di mantenere la calma, quando anche solo un suo sguardo riusciva a farmi perdere la ragione? Lo volevo, ogni dannato secondo. Allora perché lui non voleva me?

Andai in cucina, dove Esme, l’unica che probabilmente era riuscita a sentire il rumore degli ingranaggi arrugginiti che giravano nel mio cervello, mi aveva preparato una camomilla.

«Grazie» dissi con un sorriso, sorseggiandola piano.

Anche lei mi sorrise, accarezzando attraverso la morbida e calda stoffa della mia maglietta premaman la sua piccola nipotina.

«Edward sta parlando con Carlisle, non è così?» chiesi, tentando di fingere disinteresse, ma mal celando un tono ansioso.

Tentò di acquietarmi con un’espressione serena, ma leggevo nel suo volto un sospetto che sentivo essere parte del mio. «Sì, credo di sì».

Sospirai ancora, prendendo a massaggiarmi con più forza la pancia, mentre sul dolce viso della mia seconda madre acquisita era tornata la consueta espressione serena.

Cos’era che non andava in Edward? Per quanto mi sforzassi di non pensarlo, più volte avevo ipotizzato che, al contrario, ci fosse qualcosa che non andasse in me. Magari non era riuscito a riprendersi dall’idea di quello che mi aveva fatto Jacob. Eppure non mi pareva che quando avevamo rifatto l’amore avesse avuto remore in tal senso. Cos’era allora? Non si fidava ancora della mia salute mentale e voleva che ricominciassi a prendere gli anti-depressivi? Era preoccupato dalla o per la bambina, tanto da parlarne con Carlisle? Perché Carlisle sapeva, oh, se sapeva. E se…

Se invece, semplicemente, l’unico problema fosse stato che non trovava più attrazione nei miei confronti?

Scacciai quell’idea, assurda e dolorosa, che come un verme invadeva i miei pensieri, strisciando subdolamente e senza pietà.

«Avete deciso dove sistemerete la stanza della bambina?». Esme, con cortesia, mi distolse dai miei assurdi, eppur costanti, pensieri.

«Sì, certo, utilizzeremo la camera degli ospiti più vicina alla nostra, ma dovremmo modificarla un po’, togliere qualcosa. Vieni, ti faccio vedere» dissi con un piccolo sorriso, costretto dal suo, smisurato. Volevo decentrare la sua attenzione, appena nata, da me.

Afferrai la tazza con il liquido giallo dolciastro e mi avviai nella futura stanzetta della bambina. «Ecco» dissi, indicando l’ambiente completamente spoglio, «Ieri abbiamo tolto tutti i vecchi mobili… beh, Edward li hai tolti, sai com’è, più forte, più veloce» scherzai con poco entusiasmo.

Lei rise, melodica e armoniosa.

Mi voltai verso il suo viso, dondolando sui piedi e passando la camomilla da una mano all’altra. «Beh, ovviamente vorrei che fossi tu, se non è un problema, a trovare i nuovi arredi, le tende, la moquette» enumerai, con un gesto della mano, contenta di fare qualcosa per lei e di non intaccare la felicità della mia famiglia con la mia ansia.

Vidi l’entusiasmo nei suoi occhi, sincero, ma anche una certa attenzione per il mio comportamento. «Certo Bella, certo, sai che mi farebbe davvero piacere», disse, accarezzandomi gentilmente i capelli, come per darmi conforto.

«Camomilla?» chiese Edward con un sorriso e una smorfia, entrando nella cameretta completamente bianca, e storcendo il naso.

Arrossii. Non volevo fare i capricci, come sempre. Non volevo rattristarlo, soprattutto. Cosa ci potevo fare io, se lui non voleva più fare l’amore? Non potevo e non volevo costringerlo, e farglielo presente sarebbe stato un atteggiamento nettamente infantile, oltre che imbarazzante.

Esme lanciò un’occhiata al figlio, che mi venne accanto in un attimo, lasciandomi una scia di baci sulla guancia. «Che si diceva?» chiese allegro, stringendomi da dietro e accarezzandomi la pancia.

«Parlavamo di quanto sei forte e veloce» disse sarcastica Esme, riferendosi alla mia battuta, stringendosi in un abbraccio al marito e scoccando a lui una medesima occhiata riservata al figlio, carica di rimprovero.

Edward fece una breve risatina, non del tutto sincera a mio avviso, leggendo i pensieri della madre con attenzione.

«Alice verrà domani, è andata a comprare dei vestiti per te e per la bambina» aggiunse lei.

Annuii, senza protestare.

Poco dopo Esme e Carlisle dovettero andare via, poiché presto sarebbe cominciato il suo turno in ospedale. Io mi rimisi a studiare, come sempre troppo indietro per la mia tabella di marcia.

Mi sentivo incredibilmente inquieta, come se ci fosse una parte di me che mi tirava verso il basso di un oblio, e un’altra che invece si teneva aggrappata all’atmosfera tranquilla, all’affetto degli altri, e che voleva conformarsi a tutto ciò, che voleva far finta di non vedere i problemi che solo io avevo scorto. Così ero in un limbo, nell’attesa che accedesse qualcosa di brutto, senza la speranza che potesse avvenire qualcosa di bello, e non abbastanza triste per potermi permettere d’esserlo. Inquieta. Questo era l’aggettivo migliore.

Mentre leggevo, mi accorsi di avere lo sguardo di Edward puntato addosso.

Sollevai il viso e lo guardai, ma lui sembrò quasi non accorgersene. I sui occhi erano vitrei e la mascella contratta in una posa immobile. Abbassai nuovamente lo sguardo e lasciai che le parole scorressero sotto i miei occhi. Quando lo risollevai era ancora fermo, immobile. Aspettai, molti secondi. Arrivai persino a contare il ticchettio delle lancette sull’orologio a muro. Cinque, dieci minuti.

Dovevo intervenire, dire qualcosa, avevo accumulato in un quel lasso di tempo abbastanza decisione e coraggio per farlo. Era il momento adatto per aiutarlo e per comprendere, finalmente, e cercare di risolvere uno dei tanti, nonché il principale, problema che affollava la mia mente.

Non appena feci per alzarmi, però, sentii una folata di vento, un bacio sulla fronte e un «torno subito» scomparso come un eco insieme a lui.

Rimasi immobile, pietrificata. Lo sconforto poi, lentamente, mi assorbì, sommergendomi.

Mi strinsi le gambe alle ginocchia, premendo una mano sulla pancia.

Sconforto, per non poter fare nulla per mio marito, sconforto, per non essere riuscita a comprendere la causa dei suoi problemi. Sconforto… perché il pensiero di non essere abbastanza, di aver fatto qualcosa di sbagliato, di non piacergli più, mi assorbì, bruciandomi, inglobandomi nella sua fredda e dolorosa fiamma.

Sentii le sue mani, delicate, accarezzarmi i capelli, e mi assicurai che nessuna delle lacrime che avevo ingoiato, strette in gola, fosse riuscita a scappare dai miei occhi. Sollevai lentamente la testa, osservandolo con espressione vacua, intenzionata a non far trapelare nulla di ciò che sentivo dentro.

Le sopracciglia rossicce si aggrottarono in una sinuosa linea. «Va tutto bene?» chiese. Sembrava sereno.

Annuii piano. «Sì… la bambina è… solo un po’ agitata» dissi, raccontando solo parte della verità.

«La bambina?» chiese, curioso, accarezzandomi il ventre. Sospirai, lasciando che mi sfiorasse, anche sotto la maglietta. Mi toccava delicatamente, lasciava ogni tanto baci. Sperai che non smettesse mai, che continuasse ancora, facendo scomparire tutti i miei dubbi, facendomi credere che realmente non ci fosse nessun problema, come tutti gli altri pensavano. Pregai che fosse così, ma venni delusa.

«Va meglio?». Era gentile e attento.

Mi sistemai meglio sul divano, appoggiandomi allo schienale. Scossi il capo, timorosa che con anche solo una parola la mia voce si sarebbe potuta spezzare a favore di un abbondante pianto.

Sorrise ancora. «Allora credo di avere una soluzione» disse, baciandomi la punta delle dita, strette nella sua mano. Si accovacciò di fronte a me, tirando fuori dalla sua mano sinistra, nascosta dietro la schiena, un pacco rettangolare e schiacciato, di medie dimensioni.

«Un regalo?» chiesi sorpresa, passando velocemente con lo sguardo dal suo viso compiaciuto al pacco perfettamente incartato, con un gran fiocco rosa shocking sulla carta bianca. «È per questo che sei andato via?».

Annuì.

«Natale è fra un mese» asserii, malgrado gran parte della mia attenzione e il mio sguardo fossero ormai catturati dalla curiosità di scoprire cosa fosse.

Me lo porse, invitandomi a prenderlo. La consistenza era rigida, e facendoci ben caso, notai che in realtà il rettangolo schiacciato era lievemente informe sul lato superiore. «È per la bambina. Beh, in realtà per entrambe, visto che sei sempre a contatto con lei. Non è niente di che, nulla di cui doversi preoccupare, davvero. Permettimi di coccolarvi un po’».

«Vorrei tanto che mi coccolassi» avrei voluto rispondere, ma non lo feci, preferendo tacere e soddisfare la mia curiosità, strappando con mani tremanti la carta bianca e ingoiando il magone che fino a quel istante mi aveva impedito di respirare.

Il primo oggetto che identificai fu un libro. Un grosso libro dalla copertina bianca e con tanti disegni colorati. Fiabe. Il secondo, invece, era una fascia elastica nera, alla quale erano stati applicati, su due lati, due auricolari rosa.

Mi porse la mano, indicandogli di consegnargli l’oggetto. Mi fece sollevare e alzò di poco la maglietta, quanto bastava per far passare la fascia intorno alla vita e chiudere il feltro. Premette un piccolo tasto schiacciato, e improvvisamente sentii dentro di me diffondersi una piccola quiete.

«È una specie di auricolare» spiegò ad un mio sguardo interrogativo. «Ci ho messo alcune melodie rilassanti» disse, accarezzandomi il viso con sguardo vacuo.

«Tu… tu…» farfugliai, portando una mano alla pancia, sulla fascia. Non riuscii a continuare, perché la tensione e le lacrime accumulate sfociarono in un singhiozzante pianto di commozione.

Mi sorrise, baciandomi. Posando una mano sotto i miei capelli e baciandomi. E ancora, e ancora. «Shh, non piangere». Mi fissò comprensivo, asciugandomi le lacrime.

Per tutta la serata rimasi fra le sue braccia. Per tutta la sera, davanti al camino, avvolta in una coperta e fra le sue braccia. Mi teneva stretta a sé, mi cullava, mi accarezzava, mi baciava. Tenevamo, insieme, il libro sulla mia pancia, e con il mento posato sulla mia spalla leggeva con la sua voce armonica fiabe alla nostra bambina.

Non pensavo, e non volevo pensare a nulla, perché tutto era armonioso e perfetto, e mi sembrava che niente potesse rovinare quel momento.

«…Così la rana saltò nello stagno, sola e senza il suo principe».

«Dove sei?» recitai, la voce distorta da un’ennesima ondata di lacrime, voltandomi verso Edward.

Mi sorrise dolcemente. «Sono qui, sono qui con te» continuò, baciandomi.

Tuttavia, la carica di pura serenità che mi diede l’idillio di quel momento, scemò pian piano, nel corso del giorno successivo, quando i miei timori ricominciarono ad aumentare, mentre i contatti intimi con Edward rimanevano sempre fermi in una fase di stallo pari a zero.

«Sai cosa puoi fare oggi?» chiese Esme, intenta a prendere le misure della stanza della bambina.

«Studiare?» feci sarcastica, osservandola, posata sullo stipite della porta, correre velocemente da una parte all’altra.

Rise. «No, pensavo che se ti va potresti occuparti tu di dipingere la stanza».

Mi rizzai, spiazzata dalla proposta. «Francamente non so se ne sono capace».

«Io penso che sia un’idea stupenda, c’è sempre tempo per studiare, no?» disse Edward, comparendo dietro di me e facendomi sobbalzare. «Non trovavi rilassante dipingere? È una buona idea».

«Sì, certo, ma… Per quanto riguarda il tempo non sono della tua stessa opinione, sai?».

«Ho portato i colori!» esclamò una voce vivace, entrando come un turbine nella stanza. Alice si piegò sui talloni, posando un rapido bacio sulla mia pancia.

«Alice! Che ci fai qui?».

Fece spallucce, correndo come un razzo da una parte all’altra. «Ho avuto una visione, devo pur sfruttare l’occasione, no?».

Insistettero a lungo, e vedendo Edward così motivato e contento non me la sentii di dirgli di no, perciò accettai, sperando di farlo felice.

Era sicuramente un’idea bizzarra e mi stupii che proprio Esme ne fosse l’artefice. Mi impegnai per creare nella mia mente un’idea di come volessi suddividere le pareti e realizzai diverse bozze, che Edward definì, ovviamente, tutte eccezionali. Così decisi di smettere di pensare troppo e di basarmi sui colori e sulle emozioni, iniziando ad imbrattare tutto quel bianco.

Canticchiai la stessa melodia che in quell’istante stava ascoltando la bambina, stendendo lunghe pennellate di rosso vermiglio. Ondeggiavo leggermente, seduta a cavalcioni sulla scala.

«Potresti evitare di fare così?» chiese Alice, che sia era auto-proposta come mia aiutate, a mio avviso solo per il gusto di avere una salopette e un cappello di giornale come tenuta.

«Così come?».

«Ondeggiare in questo modo» Mi imitò. «Vorrei ridurre il rischio di caduta, sai com’è. È già tanto che non faccia storie per il fatto che sei su una scala».

Risi, ricominciando a dipingere. «Scusa, ma Edward non ha detto che il tuo ruolo in tutto questo è prendermi al volo se cado? Fallo bene, no?! Come hai detto “devi sfruttare l’occasione”». Ridacchiai, quasi del tutto spensierata, sicuramente più leggera. Aveva ragione, era molto rilassante.

«Pervinca» dissi, tirando giù il secchiello di metallo, concentrata sul disegno.

«Come avresti fatto senza di me, che conosco tutte le tonalità di colori?!» mi accusò.

Scossi la testa, riprendendo a dipingere. Tuttavia, anche se rilassante, fu una cosa davvero stancante, dipingere per tre ore di fila, tanto che alla fine sentivo i muscoli intorpiditi, ma potevo vantarmi di aver colorato due terzi di una parete. Le pennellate erano discontinue e si accavallavano in giochi di colori e schizzi tono su tono e a contrasto. Individuai un punto che mi sembrava troppo bianco e abbastanza asciutto da essere dipinto.

«Pennello A 12». Aspettai che Alice me lo passasse.

«Aspetta, ce ne sono tanti! Qual è?» chiese, la testa corvina nella mia borsa.

Sbuffai. «Lascia stare, faccio con questo» dissi sporgendomi verso destra.

La scala oscillò, il baricentro spostato. In pochi istanti, come se la scena fosse girata al rallentatore, mi sentii cadere nel vuoto, mentre il terrore si faceva, rapidissimo, spazio nel mio cuore.

Prima che potessi sentire il doloroso contatto con il suolo, fui raccolta da un paio di robuste braccia fredde che in un secondo bloccarono anche la scala che ci stava cadendo addosso.

Sentivo ancora il suono del cuore nelle orecchie e il respiro accelerato.

«Va tutto bene? Ti sei fatta male?» chiese Edward agitato, accarezzandomi frenetico il viso.

Mi occorse qualche secondo per recuperare l’uso della parola. Osservai Alice, che era rimasta immobile e pietrificata, col viso rivolto verso di me e gli occhi ancora vacui. Deglutii. «No… Non è… successo nulla».

Gli dissi rilasciarmi andare in piedi e titubante mi accontentò aiutandomi e non smettendo di fissarmi, apprensivo. Notai che le gambe mi tremavano ancora, tanto che se non mi avesse sostenuta per la vita sarei caduta. «Alice, stai bene?» mormorai, tentando di temporeggiare e riprendermi.

Si alzò velocemente in piedi, venendomi di fronte. «Mi dispiace. Mi dispiace di non aver avuto prima la visione. Non ero concentrata, stavo pensando ai pennelli».

«Alice, Alice, non è nulla, davvero».

«Cos’è successo?» chiese Edward impassibile, interrompendomi. Mi voltai verso il suo viso, salendo con lo sguardo all’altezza dei suoi occhi. Erano spenti, scuri, velati da una profonda inquietudine e ansia. Scrutava la sorella, leggendole attentamente i pensieri.

Lei fece un’espressione stupita, eco della mia. Cosa intendeva?

«È caduta… Edward».

«Ho perso l’equilibrio e sono caduta… cosa…» feci, titubante. Pensava che ci potesse essere un altro motivo? Stava dubitando della mia goffaggine?

Si voltò verso di me, finalmente, scrutandomi tormentato e lasciandomi un bacio sulla fronte, stringendomi con forza a sé. Dopo un momento d’esitazione restituii l’abbraccio con lo stesso vigore, tentando di rassicurarlo da qualcosa che no riuscivo a comprendere.

Dopo pranzo, quando la situazione tornò tranquilla, decisi di andare a fare una doccia per ripulirmi dagli schizzi di vernice.

Lasciai che il getto caldo dell’acqua m’investisse il viso, rilassandomi e impedendomi di pensare. Uscii dalla doccia, avvolgendomi in un grande asciugamano. Mi guardai allo specchio, osservando la mia immagine. Ora la pancia era un piccolo rigonfiamento piuttosto evidente.

Cercai con insistenza un qualsiasi dettaglio sbagliato che giustificasse l’atteggiamento di mio marito. Ma mi vedevo esattamente come sempre, normale. Certo, non minimamente comparabile alla bellezza di nessuno dei Cullen, tanto meno la sua, ma per lui non si era mai dimostrato un problema.

Sentii bussare. «Posso entrare?» chiese, una punta di agitazione nella voce argentina.

Sospirai. «Sì, certo Edward, entra».

Entrò, richiudendosi la porta alle spalle e osservandomi con attenzione. Poi si avvicinò in un lampo, mettendosi alle mie spalle e lasciando un piccolo bacio sui capelli bagnati.

Vidi la mia immagine nello specchio arrossire. «Va tutto bene?» chiesi, già sapendo che non mi avrebbe dato una risposta, ma sperando comunque il contrario.

Annuì, infatti, silenzioso, passandosi una mano fra i capelli bronzei e distogliendo lo sguardo.

Mi chinai, tentando di essere disinvolta, in avanti, aprendo l’armadietto con i prodotti, e presi i due flaconi di creme, ma nel movimento il telo mi scivolò addosso, lasciando un seno nudo.

M’irrigidii, immobile. Edward, alle mie spalle, fece un piccolo sorriso naturale e anche molto, molto malizioso. Il cuore cominciò a pompare forte nel petto, facendo risalire il bollore sulle guance. Si avvicinò, lasciando una scia di morbidi baci sul collo, accarezzando la pancia e il fianco.

Chiusi gli occhi, tremando di piacere. Lo volevo, lo volevo tantissimo e sempre, sempre più, per sempre e instancabilmente. Mi voltai di scatto, non più capace di resistere, incollando frenetica le mie labbra alle sue e stringendo le mani fra i suoi capelli. Baciandolo con foga, passione, bramosia, con l’assurdo desiderio di fargli del male.

Si staccò da me, scosso, tenendomi con forza, eppure con gentilezza. Prese con le dita il lembo di stoffa sceso e lo sollevò, incastrandolo con l’altro. Mi sorrise, e in un attimo mi trovai sola.

Mi portai due dita, tremanti, alle labbra tiepide, retrocedendo, quasi inconsciamente, fino a trovarmi con la schiena schiacciata al muro. Mi lasciai scivolare silenziosa, non potendo fare a meno di sentirmi rifiutata.

«Metti questa, ti sta d’incanto» mi disse Alice, passandomi una maglietta verde smeraldo con una gran quantità di veli sulla pancia.

Attraverso la porta aperta del bagno, scoccai un’occhiata a Edward, che, intento a leggere un articolo da una rivista non disse nulla. Saettai indecisa con lo sguardo dalla maglietta che mi aveva indicato Alice ad un'altra, blu.

«Su, indossala!» mi invitò, sorpresa della mia esitazione.

«Vorrei… mettere questa» dissi, arrossendo, e lanciando una nuova occhiata di sbieco a mio marito, sempre silenzioso e concentrato, seduto sulla poltrona della nostra camera, accanto alla finestra, da cui filtrava la fioca luce dell’aria nebulosa.

Alice, pur sorpresa dalla mia richiesta, acconsentì. «Siediti» disse poi, indicando una sedia di fronte allo specchio «ti sistemo i capelli. Non pensi che forse dovresti tagliarli? Sono molto cresciuti».

«Tu dici?» chiesi, improvvisamente incerta, osservando le ciocche di capelli che mi arrivavano fin sotto il seno. Arrossii, mordicchiandomi il labbro e chinando il capo, aspettando che Edward dicesse qualcosa.

Alice fece spallucce. «Magari solo un po’, è un’idea» disse con un sorriso.

Mi voltai verso mio marito, insicura. «Edward». Immediatamente si voltò verso di me, lo sguardo attento e gentile. «Pensi… che… dovrei tagliare i capelli, secondo te?».

La sua espressione si distese in un sorriso, mentre si sollevava in piedi e mi veniva incontro. «Sei bellissima così Bella. Mi piacciono i tuoi capelli lunghi» mormorò, lasciandomi un bacio sulla fronte.

E così scomparve, mentre sentivo il cuore battere con forza nelle orecchie.

Alice rise, scuotendo il capo e brandendo in un istante con il phon. «Ma che vi prende a voi due?» chiese divertita, cominciando ad asciugarmi i capelli.

«Perché? Cosa c’è? Cosa c’è di strano?» chiesi, ansiosa.

Sul suo volto, allo specchio, comparve un’espressione perplessa «Ehi, ehi, Bella, frena. Dicevo solo così per dire».

Feci un sospiro, tentando di calmarmi concentrandomi sul ronzio del phon. «Sì».

«C’è qualcosa che non va?» mi chiese titubante.

Indugiai alcuni istanti, incerta se confidarle i miei timori sul comportamento di Edward. Mi accertai che la porta della stanza fosse chiusa, e alla fine desistetti. «Sono un po’ preoccupata, per Edward».

«Edward? Che c’è che non va?» fece, sorpresa dalla mia affermazione. Evidentemente, come sospettato, non aveva colto nessun problema, come il resto della famiglia.

«Alice. Non vedi com’è strano? C’è qualcosa che non va in lui, lo sento».

«Bella» cominciò dolcemente, nuovamente operosa sui miei capelli «non c’è nulla che non va. Ora ti dico cosa c’è. Tu sei incinta e sei molto ansiosa e ora che va tutto bene senti di dover trovare qualcosa che non va. Edward è super felice di diventare padre, ecco cosa».

«Lo so, ma è anche triste» insistetti, convinta del fatto che non fosse solo una mia paranoia.

«Bella…».

«No Alice. Sono sua moglie, le sento queste cose». Tentai di trovare un possibile esempio, che le facesse credere che non fossi pazza, che non avevo solo immaginato tutto, e sperai di convincere anche me. «Hai visto come ha reagito quando sono caduta dalla scala, c’eri anche tu, no?».

Sollevò un sottile sopracciglio. «Era preoccupato per te, mi sembra normale».

«No, invece! Non è normale» dissi, sempre più ansiosa. «Si rabbuia in un istante, rimane immobile e fermo, si comporta in modo strano, e… e…» arrossii, annaspando «non vuole più fare l’amore con me» conclusi in un sussurro, deglutendo e abbassando lo sguardo.

Il suono del phon smise di riempire l’aria, lasciando un breve silenzio. Dopo due secondi sentii le piccole braccia di Alice attorno a me. Si staccò, osservandomi e accarezzandomi il viso. «Tesoro, sono sicura che non ci sia nulla che non va in Edward. Devi stare calma, okay? Sarà sicuramente una di quelle cose da papà iperprotettivi» scherzò con un sorriso «comunque, parlane con lui, no? Chiedigli il motivo di questa fantomatica tristezza».

Sospirai, giocherellando con le sue dita. «L’ho fatto. Non mi dice nulla, dice che va tutto bene».

Sorrise. «Allora c’è un solo metodo che funzionerà! Fallo arrabbiare, dirà sempre la verità, quando è arrabbiato!».

«Cosa?».

Fece l’occhiolino. «Estate dell’84. Era una grande auto la spider». Ritornò a concentrarsi sulla mia faccia perplessa «fidati, funzionerà».

«Alice, sai bene che Edward non si arrabbierebbe mai con me».

Sospirò, concedendomi la ragione. «Già è vero. Beh, smetti di pensarci allora, Bella. Non c’è nulla di brutto. Fidati, fra poco Emmett avrà abbastanza materiale per prendervi in giro per l’eternità».

Feci schioccare la lingua. «Sarà, ma io nel frattempo ho un’idea migliore».

Si fece sorpresa, poi i suoi occhi brillarono di felicità. «Pianoforte?».

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Capitolo 51
*** Quasi incidente ***


Edward si sbracciò, sorridendomi, dall’ingresso dell’accademia. Affrettai il passo, desiderosa di ritrovarmi fra le sue braccia.

L’ultima settimana era trascorsa decisamente meglio delle precedenti. Non c’erano stati importanti cambiamenti, ma non avevo mai visto mio marito titubare, e avevo sempre paura che potesse accadere, ma… Avevo un obbiettivo, ora. Pensavo che avrei potuto cominciare a risolvere i nostri problemi. Perciò mi concedevo di essere energica, forte. Non potevo farmi prendere né dall’ansia, né dall’indecisione. Lo dovevo a me, ma soprattutto alla bambina. Ci provavo, ci provavo davvero.

Mi abbracciò, stringendomi, accarezzandomi i capelli e lasciandoci un bacio. «Dai a me» disse, indicando la mia borsa con tutti i libri, «è pesante».

Annuii, porgendogliela.

«Com’è andata stamattina?» chiese, non appena fummo in macchina, e l’atmosfera fu tanto intima da permetterci di parlare liberamente.

«Bene» risposi in fretta, ansiosa di cambiare argomento.

«Davvero?» incalzò, accendendo i riscaldamenti per contrastare la bassa temperatura.

«Sì, sì, davvero» lo liquidai. «Hai pensato a quello che ti ho detto?» chiesi mite ma decisa.

Serrò le labbra, guardando fisso la strada di fronte a sé. Automaticamente io rabbrividii, raggelandomi. Avevo paura quando faceva così. Tuttavia mi feci coraggio per non demordere. Piano, allungai una mano tremante accanto alla sua.

«Edward» lo chiamai, tentando di nascondere il tremore.

Lui fece un sospiro. Poi, con lentezza, si voltò verso di me con un’espressione serena. «Bella, non dico che la tua idea non sia carina, che non mi alletti, ma» contrasse il viso «non mi va di stare tanto tempo lontano da te e dalla bambina per andare, due sere a settimana, a suonare all’opera».

«Ma non dovresti stare lontano da me!» esclamai, animata. «Non c’è bisogno che ti eserciti troppo, sei già bravissimo, e poi mi piace sentirti suonare!».

«Dovrei fare esibizioni in tutto il paese, viaggiare molto».

«Verrei a vederti ogni volta!».

«Ci sarà un motivo per cui non potrai venire, un giorno» ribatté tranquillo.

«Ma non è vero» m’interruppi, pensando a dei possibili motivi. E, in effetti, ce ne erano. L’università, la bambina… Di sicuro non sarei potuta andare ogni volta. «Promettimi che ci penserai» borbottai infine, per nulla intenzionata ad arrendermi, ancora una volta.

Lui ridacchiò, vittorioso, prendendo una mia mano tra le sue e baciandola.

«Guarda la strada» lo schernii.

Rise, ancora, accelerando. «Carlisle ha detto di avere delle notizie per noi» disse poi serio, ma tranquillo. Sentii il cuore battere più veloce. Sapevo che tipo di notizie volevo avere, e speravo che fossero tutte positive.

«Andrà tutto bene, vedrai, in qualsiasi caso» mi rassicurò Edward, percependo il mio stato d’animo. Annuii, abbassando i riscaldamenti, improvvisamente infastidita dal calore. «Sta tranquilla» disse, sorridendomi.

«Sì» mormorai. Si stava preoccupando per me, e non volevo che lo facesse. Non quando mi ero proposta di aiutarlo in ogni modo e di capire le motivazioni della sua tristezza. Distolsi lo sguardo, in modo da riprendere il pieno controllo di me, e osservai con rassegnazione la pioggia battente che impediva quasi totalmente la visuale.

Sospirai, voltandomi a fissarlo mentre guidava, sicuro di sé e silenzioso. Lasciai che i bellissimi ricordi m’invadessero la memoria, facendomi imporporare le guance e ricordare con malinconia quei momenti. Quel momento, unico. Ma bellissimo, davvero, davvero bello. Vidi gli occhi neri e sempre più assenti di Edward e sentii una stretta allo stomaco. C’era qualcosa che non andava?

Mi voltai a fissare il finestrino, tentando di non lasciarmi rattristare e osservando il panorama verde di alberi che trapassava continuamente accanto a noi e che cominciava a farsi sempre più rado man mano che ci addentravamo a Forks. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, per far scomparire il suo sguardo malinconico. Quello era il momento migliore per parlare, ma cosa dire? Osservai il profilo delle case sfrecciare ipnoticamente avanti a me.

 

Fui improvvisamente sbalzata bruscamente in avanti, verso il parabrezza, il cuore in gola e il respiro ansante, completamente sconvolta e disorientata. Le cinture di sicurezza e un braccio freddo mi trattennero, facendomi rimbalzare sul sedile, mentre l’auto frenava di botto a pochi millimetri di distanza da un’altra, che ci passò davanti a gran velocità, sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia e producendo un rumore stridulo di freni. Anche la Volvo perse aderenza col terreno, ma dopo un metro si fermò, più dolcemente di prima.

Ansimai pesantemente, scossa, gli occhi sgranati, portandomi una mano al cuore, sentendomi tremante e completamente annichilita dalla paura, tanto da non riuscire a pensare. Mi occorse qualche istante per tentare di capire quello che era successo.

«Bella? Stai bene?» mi chiese Edward, agitato, posandomi una mano sul viso.

Edward aveva frenato… L’altra auto era passata davanti… C’era… la pioggia…

Mi portai una mano alla testa, confusa, sentendola girare più veloce del dovuto, e sentendo la confusione della bambina mischiarsi alla mia. Era sconvolta, almeno quanto me, se non di più. Sobbalzai, voltandomi di scatto, quando sentii tre colpi al finestrino. Era il conducente dell’altra auto.

«Mi dispiace, ero distratto, avrei dovuto darvi la precedenza, è colpa mia. L’importante è che non ci sia stato un incidente. State tutti bene?».

Sentivo la voce dell’uomo, concitata, molto lontana, eppure ero ben riuscita a distinguere una parola. Incidente. Impossibile. Esattamente impossibile che Edward potesse distrarsi a tal punto da rischiare un incidente.

«…vi posso accompagnare in ospedale se c’è bisogno, possiamo chiamare un’ambulanza…».

«No, non si preoccupi, la ringrazio». Gli occhi di Edward si posarono su di me, ansiosi, non appena l’uomo si fu allontanato. «Bella».

«Sto bene» interruppi le sue parole, puntando i miei occhi nei suoi. Lo fissai, in attesa di una spiegazione plausibile, di una illuminazione, ora che la confusione aveva lasciato spazio allo sgomento. Lo fissai, in attesa che la saliva tornasse a bagnarmi la bocca.

Lui sostenne il mio sguardo con preoccupazione e angoscia. «Ti porto da Carlisle» disse infine.

«Cosa è successo, Edward?» chiesi, ignorandolo, ostinata. Non poteva far finta di niente. Mi ero perfettamente accorta del suo sguardo assente prima della frenata, e avrei messo la mano sul fuoco sul fatto che le due cose fossero collegate.

«Niente di cui tu ti debba preoccupare. Ora andiamo».

«No» dissi, ferma, stringendo i pugni e irrigidendo il volto. Non avevo nessuna intenzione di far strabordare quelle dannate lacrime. «Ho detto che sto bene, Edward. Dimmi cos’è successo».

Allo stesso modo contrasse la mascella, un lampo nero negli occhi. «Non importa. Tu ora non sai quello che è meglio per te» mormorò, girando la chiave nel quadro.

Perché mai insisteva così tanto con quella storia di Carlisle? «Edward, non mi sono fatta niente, dannazione!» sbottai. Poi feci un sospiro, ansiosa, pentita di essere stata troppo brusca, sentendo la situazione sfuggirmi di mano, ancora una volta. Lo accarezzai, agitata, in viso, sfiorandogli i capelli. «Ti prego, ti prego» lo supplicai, sull’orlo delle lacrime «dimmi cos’hai. Te ne prego. Non dire che non è niente, ti prego. Dimmelo. Sono tua moglie. Ti prego…».

Sentii le sue braccia fredde sulle mie, mentre finalmente si faceva stringere nel mio abbraccio. Baciai i suoi capelli ramati, ringraziando il fatto che non mi avesse ancora detto di no. «Ti prego».

«Verrai da Carlisle, dopo?» sussurrò atono.

Mi staccai velocemente, guardandolo in viso, fin troppo contenta e sorpresa di avere, finalmente, una sua concessione per curarmi della strana insistenza. «Sì. Sì, certo» risposi repentina, prendendo le sue mani fra le mie.

Distolse lo sguardo, perdendosi nella pioggia. Poi strinse le sottili labbra rosee. «Non… riesco a…» deglutì. Posai lentamente una mano sulla sua guancia, e lui fece lo stesso, intrappolandola nella sua e schiacciandola contro il suo viso perfetto. Si voltò verso di me, tormentato. «Ogni volta, ogni singola volta che vengo qui, con te. È una tortura Bella» sorrise beffardo «non hai idea della moltitudine di pensieri che… tutti quanti, fanno» fece una pausa «su te e… lui».

Sentii un singulto shockato nascere dal petto e nel tempo di due battiti del cuore lo ripresi fra le braccia, stringendolo con tutta la mia forza. Era quello, allora. «Amore, oh, mi dispiace così tanto… Non avrei mai…» strizzai gli occhi, maledicendomi per non essere arrivata a capire quello che poteva comportare per lui stare in mezzo a tutta quella gente. Lo strinsi, ancora più forte. «Non ti preoccupare, ci sono io, qui, adesso. Sono con te e non ho nessuna intenzione di lasciarti agli altri. Nessuna, capito? Tu sei solo mio e io sono solo tua. Non li ascoltare, ti prego, andiamo via da qui».

«Sì Bella. Grazie, davvero, so di poter contare su di te, ma non preoccuparti per me, è una cosa con cui posso convivere» mormorò, annuendo e baciandomi frettolosamente le labbra. «Ti amo».

«Anch’io ti amo, tanto» sussurrai, baciandolo a mia volta e cercando, il quel gesto, di infondere tutto il mio amore. «Ci penserò io ora» dissi convita, ignorando le sue parole.

Sospirò. «Andiamo da Carlisle».

Lo osservai, sistemandomi sul mio sedile. Sembrava ancora molto turbato, forse era preoccupato per me. Comunque, ora che sapevo, non avrei mai più permesso che qualcosa gli facesse così male. «Edward, sto davvero bene. Mi ha bloccato la cintura, e poi c’eri tu, non mi sono fatta male».

Mi lanciò un’occhiata apprensiva. «Per favore. Non ci vorrà tanto, dobbiamo… andiamo».

Non riuscii a trovare la forza di oppormi, malgrado fosse esagerato e strano che insistesse tanto, così annuii, tentando di non creargli ancora alcun tipo di nuovo motivo d’angoscia.

Durante tutto il tragitto ripercorsi con la mente quante volte eravamo andati insieme a Forks. Ricordai Halloween, qualche visita a mio padre, alla farmacia e diverse al supermercato. Se l’avessi saputo prima non l’avrei mai costretto, e, soprattutto, avrei capito benissimo i suoi sguardi e i suoi silenzi. D’ora in poi avrei evitato in ogni modo di avvicinarmi alla cittadina, avrei mandato Alice a fare la spesa, invitato mio padre a casa mia piuttosto che andare da lui. Mi augurai di riuscire, in un modo o nell’altro, a lenire realmente il suo dolore. Potevo farcela, potevo aiutarlo. Immaginai delle possibili parole da potergli dire per confortarlo. Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi, per correggere i miei sbagli.

«Come stai?».

«Sto bene, Edward, davvero» risposi comprensiva, sfilandomi la cintura e quella sorta d’imbracatura che impediva di schiacciare il bambino.

Lo fissai, sotto l’ombrello. Fissai la sua mano tesa verso di me per farmi alzare dal sedile. Allungai la mia per lasciargli una nuova carezza. «Vedrai che andrà tutto bene ora» dissi convinta, provando a convincere anche lui.

«Sì, certo» rispose con voce controllata, mal celando l’impazienza.

Feci un’altra pausa, abbassando lo sguardo e mordicchiandomi il labbro. Lo risollevai verso i suoi occhi. «D’ora in poi mi dirai sempre se qualcosa non va, non è così?» chiesi, non riuscendo a contenere la mia apprensione.

Strinse le labbra, distogliendo lo sguardo. «Bella, andiamo, per favore. Voglio che ti veda Carlisle» disse impaziente, eludendo la mia domanda con sfacciataggine.

Rimasi basita, silenziosa, mentre sentivo la speranza, che fino a pochi istanti prima mi aveva accompagnata, staccarsi da me. Lasciai che mi aiutasse ad alzarmi e mi avviai in casa, senza proferire una sola parola. Possibile che fosse così apprensivo e di conseguenza così impaziente da non rispondere ad una domanda tanto diretta quanto seria? Sperai che fosse così.

«Edward, Bella» ci salutò Esme, aprendoci alla porta. «non vi aspettavamo così presto, accomodatevi» ci invitò, scostandosi su un lato.

«Grazie» mormorai, gli occhi bassi.

Edward mi strinse possessivamente per il fianco. «Carlisle?» chiese con sguardo assente.

Vidi, con la coda dell’occhio, quello di Esme saettare fra noi due. «È successo qualcosa?».

«Edward è preoccupato per il nostro quasi incidente» sospirai, alzando il viso.

La sua espressione si fece preoccupata per un istante e si posò sulle mie mani, strette in grembo. «Stai bene cara?».

«Sì Esme, mi sento bene».

Rivolse un’occhiata di rimprovero a Edward. «Sai che non dovresti farla guidare, soprattutto con questa pioggia».

Non mi stupii che Esme fosse sorpresa quanto me, tanto da non immaginare neppure che potesse essere suo figlio ad avere il volante in mano. «Sono sicura che lo farà» risposi, precedendo le parole di Edward.

Mi fissò per un secondo, ma poi non disse nulla, distratto dalla presenza di suo padre, comparso improvvisamente nella stanza. «Carlisle» gemette sofferente, lasciando cadere la maschera di cera posata sul suo magnifico viso e stringendomi il fianco con più forza, con tormento e possessione.

Lui fece passare il suo sguardo da me a Edward, improvvisamente preoccupato.

Non ero una vampira, e questo era certo. Non pretendevo di rimanere dietro ai loro pensieri, ma di sicuro non ero così stupida da pensare che tutto fosse normale. Al più, il mio cervello umano riusciva a credere che Edward non mi avesse detto la verità, pochi minuti prima, in auto. O almeno, che non l’avesse racconta tutta, perché di certo, in quegli sguardi, c’era qualcosa che mi sfuggiva. Che sfuggiva a me e Esme, e che probabilmente ci nascondevano.

Qualcosa che era la maggiore causa di sofferenza di mio marito. Qualcosa che aveva occupato la sua mente tanto da causare quasi un incidente.

Carlisle mi volò accanto in un istante. «Venite in camera. Come stai Bella?» chiese, osservandomi attentamente.

Edward mi sostenne per le braccia, come se pensasse che sarei potuta crollare da un secondo all’altro, irrigidendo la mascella, angosciato. «Non ho niente» dissi, più seccata di quanto avrei voluto, riuscendo difficilmente a contrastare il senso di disagio e l’angoscia che sentivo dentro.

«Stai tranquilla». Carlisle si chinò sulla sua borsa, ai piedi del letto. «Come va la testa?».

«Bene» risposi sicura, compostamente seduta sul materasso, appena accanto ad un sempre più ansioso Edward. Carlisle mi lanciò un’occhiata eloquente. «Girava solo un po’ e adesso non più» ammisi, giustificandomi in fretta.

Mi puntò un laser negli occhi. «Ricordi quello che è successo?» chiese con più attenzione. Notai anche lo sguardo di Edward, impaziente, fisso su di me.

«Sì, lo ricordo, certo» sospirai, innervosita dall’assurdità della loro preoccupazione.

«Potresti dirmi quello che ricordi, allora?».

Deglutii, sentendomi sotto osservazione. «Io, non so. È arrivata un’auto da sinistra, ma non ci siamo scontrati, la macchina ha frenato in tempo».

«Prima? Ricordi quello che è successo prima?» chiese Edward, facendo trapelare tutta la sua angoscia. Anche Carlisle, che per un attimo aveva spostato lo sguardo sul figlio lo posò nuovamente su di me, carico di aspettativa.

Lo fissai, confusa, disorientata. Perché mi stavano facendo tutte quelle domande? Portai una mano alla testa. «Io… no. Guardavo il finestrino» balbettai. Mi voltai verso mio marito, la sua espressione sempre più ansiosa, come se ci fosse qualcosa di più.

Qualcosa che non ricordavo.

«Guardavo te Edward, guardavo il tuo riflesso e poi… è successo velocemente. Io… non so cosa… non c’è nient’altro» aggiunsi velocemente.

Lanciò un’occhiata ben distinguibile a Carlisle, che rispose con lo stesso sguardo. Cosa stava accadendo? Fu lui a riprendere per primo il controllo. «Va bene Bella, va bene così. Stenditi per favore».

Le domande seguenti rientrarono nella normalità, tuttavia l’inquietudine che divorava Edward non pareva volerlo minimamente abbandonare, anzi. L’ansia che avevo percepito fino a pochi istanti prima si era tramutata in pura disperazione, muta, spessa. Tanto spessa che cadeva fra noi come una nebbia fitta.

«La cintura ha stretto l’addome?» mi chiese Carlisle mentre mi visitava, tastandomi.

«No» risposi sicura, fissando il soffitto della sua camera.

Annuì. «Ti fa male? Senti formicolio?».

Scossi il capo, stringendo più forte la mano di mio marito con la necessità di sentirlo vicino, mentre sapevo che la nebbia ci divideva sempre più, addensandosi, mettendosi fra noi.

«Contrazioni?».

«Neppure». Feci una pausa, poi aggiunsi «la pancia è sempre stata rilassata, non è mai diventata dura nemmeno un po’».

«Sei stressata ultimamente?» mi chiese con più interesse, mentre mi misurava la pressione.

Sussultai a quella domanda e non risposi. Tuttavia sentii, questa volta, la presa di mio marito farsi più forte. «Forse. Un po’. Per l’università, magari» balbettai.

Carlisle puntò i suoi occhi su Edward. Sospirai, distogliendo lo sguardo, imbarazzata per l’intimità della loro conversazione di cui sicuramente non dovevo far parte. Poi tornò a guardarmi. «Bella, la tua visita sarebbe stata fra due giorni, ti dispiace se la anticipiamo ad adesso? So che non è affatto piacevole, ma vorrei essere più sicuro».

«C’è qualcosa che non va?» chiesi, per la prima volta preoccupata.

Edward mi baciò il capo, ansioso di rassicurarmi. «No amore, avevi ragione tu, non hai niente. Perdonami se sono stato così apprensivo. Ma che senso ha aspettare due soli giorni, potremmo essere più sereni, no?».

Le sue parole e il tono suadente con il quale le pronunciò, mi convinsero, facendomi in parte tranquillizzare. «Sì» mormorai, stringendomi sulla sua spalla. «Però non potremmo fare l’ecografia» dissi rattristata. Aspettavo con ansia di usare quel macchinario per sentire il cuore di mia figlia, tanto che non mi accontentavo mai di chiedergli quanto forte battesse.

Carlisle mi accarezzò una guancia. «Non penso l’avrei fatta, comunque. Se vuoi però ti faccio ascoltare con lo stetoscopio, penso che ormai si possa sentire piuttosto bene. Che ne dici?».

Accettai, ansiosa di sentirla. Volli Edward accanto a me e rimasi per tutto il tempo a guardare i suoi occhi, mentre lui guardava i miei. Come potevo pensare che quegli occhi ambrati mi avessero mentito? Non potevo. Aveva sofferto, e questo era evidente. Ma era anche evidente che continuava a soffrire, per qualcosa che non aveva nulla a che fare con quello che mi aveva raccontato. Qualcosa di cui non voleva rendermi partecipe.

«Stai rilassata Bella, abbiamo quasi finito» mi rassicurò Carlisle, notando, forse, una mia crescente agitazione.

Edward mi fece un sorriso, e mi ci aggrappai con tutte le mie forze, pur sapendo che di autentico aveva ben poco. Ma non riuscivo ad ignorare ogni loro occhiata. Ogni singola volta che si guardavano, era una bugia. Era un segreto che avevano deciso di non dirmi. Perché?

Carlisle mi assicurò che la visita era andata al meglio, che la bambina stava bene, fortunatamente, ma mi raccomandò anche di evitare ogni forma di ansia e stress. Eppure, Edward non pareva più tranquillo.

«Ecco, dai a me, ora lo trovo». Carlisle mi sorrise, facendo scorrere la placca di metallo dello stetoscopio sulla mia pancia. «Qui, lo senti?».

Sentii le ciglia inumidirsi. «Sì, sì. Lo sento» balbettai emozionata. «Oh mio Dio Edward, è bellissimo». Sorrisi, portandomi una mano sulla bocca, sentendo la stessa emozione provenire dalla bambina e fondersi con la mia. Edward mi accarezzò, ma mi sembrava assente.

«Bella, se vuoi puoi rimanere ancora un po’, quanto tempo vuoi. Quando hai finito raggiungici di là, va bene?» fece Carlisle, dirigendosi alla porta.

Anche Edward si alzò. Lo fissai, confusa. Non voleva rimanere? «Stai tranquilla, riposati un po’» disse solo, atono, seguendo in un lampo il padre.

Strinsi le labbra, ma non dissi nulla, pur sentendo un forte peso formarsi all’altezza del petto, schiacciandomi. Non riuscii a non sentirmi sola, quando la stanza fu vuota, mentre l’ansia mi sommergeva nuovamente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tentando di calmarmi ascoltando il piccolo cuore di mia figlia battere.

Tumtumtumtumtumtum.  Non gli importava più di me? Allora perché aveva fatto ferro e fuoco per portarmi di suo padre? Perché continuava a nascondermi qualcosa che invece a Carlisle aveva detto, non mi credeva capace di aiutarlo? Perché quella mi sembrava l’unica risposta al fatto che non avesse ancora acconsentito a raccontarmi i suoi problemi. Non tutti, almeno.

Tumtumtumtumtumtum. Forse… forse gli importava solo della bambina, ormai… No. Non era e non poteva essere così. Non potevo essere gelosa di mia figlia, la dovevo smettere di auto-commiserarmi e fare quegli stupidi capricci. Semplicemente non ero abbastanza capace, non per aiutarlo, per aiutare mio marito come lui aveva fatto migliaia di volte con me.

Tumtumtumtumtumtum. Ma mi sentivo così sola, così inutile. Che cosa mi stavano nascondendo? Perché lo stavano facendo?

Mi accorsi di avere da ormai troppo tempo le guance cosparse di acqua salata. Mi strinsi maggiormente su me stessa, inerme, quasi incapace di muovermi. Pregai che non venisse nessuno a vedermi in quello stato pietoso. Ma i singhiozzi rompevano il mio respiro, rendendo il pianto rumoroso. Circondai il petto con le braccia, mentre mi sentivo sul punto di esplodere. Mentre sentivo il vuoto dentro me ingrandirsi e ingrossarsi, occupando tutto lo spazio. Troppo.

Sentii due braccia fredde circondarmi da dietro e mi voltai di scatto per osservare il viso del vampiro. «Bella, cara» sussurrò Esme dispiaciuta.

Non riuscii a trattenermi e mi buttai fra le sue braccia, bisognosa di conforto, riprendendo a singhiozzare senza sosta. Mi sentivo così triste, eppure così mortificata.

«Calma» sussurrò piano, facendomi staccare da lei e aiutandomi a mettermi seduta. Mi prese le mani fra le sue. «Respira, piano, così» disse, imitando il ritmo del respiro che avrai dovuto seguire, onde evitare di avere un attacco di panico in piena regola. «Piano, piano». Posò una mano sull’attaccatura della pancia, aiutandomi.

«Scusami per questa intrusione» disse poi, mesta, quando il mio respiro fu nuovamente regolare.

Mi asciugai gli occhi gonfi e secchi con il fazzolettino che mi aveva dato. «Figurati, Esme. È la tua stanza» mormorai, la voce arrochita dalle lacrime, guardando fisso il copriletto.

«Ti va di parlarne?» mi chiese discreta.

Spostai lo sguardo su un altro punto. «Dov’è Edward?». Perché non era venuto lui? Gli importava così poco ormai?

Esme mi fissò per un istante, sospettosa. «Si è allontanato con Carlisle, verso i boschi». Rimasi in silenzio. «Bella». Sollevai i miei occhi nei suoi. «Edward e Carlisle hanno sempre avuto questo tipo di rapporto. Si conoscono da quasi cento anni, ormai, più di quanto non li conosca io. Hanno condiviso i loro più oscuri e inconfessabili segreti, hanno condiviso il loro essere, hanno condiviso i loro pensieri. Sono molto più di quanto un padre e un figlio, due consanguinei, sarebbero».

Mi strinsi le mani sulla pancia, non riuscendo più a contenermi, non riuscendo più a tacere. «Esme, ho così paura. Ho paura di perdere mio marito, paura che non mi voglia più… con sé» gemetti, portandomi una mano sul viso e stringendo, con l’altra, più forte la pancia, sentendomi profondamente in colpa per le emozioni negative della bambina che mi sferzavano come una frusta.

«Oh tesoro» esclamò abbracciandomi, «calmati, stai calma. Non ti devi agitare così, va bene? Quei due mascalzoni non dovrebbero farti preoccupare così tanto. Sei sempre così in ansia ultimamente, non va bene, sai?» disse preoccupata.

La porta della stanza si aprì, e subito mi ricomposi, temendo che potesse essere Edward.

«Ho sentito» disse Alice, entrando cauta «tutto bene?».

«Alice» sospirai, lasciandomi abbracciare.

«Sempre Edward?» chiese lei, staccandosi da me e scambiandosi un’occhiata con la madre. «Non ha funzionato la tua idea del pianoforte, ho visto. Ma non demordere, vacillerà».

«Non lo so Alice, non so più se…» mi nascosi il volto fra le mani, tentando di reprimere una nuova ondata di lacrime. Aspettarono il tempo necessario per farmi riacquisire il controllo di me stessa, poi mi fissarono dispiaciute, mentre mi asciugavo gli occhi.

Esme mi passò un altro clinex «Bella. Ne parlerò con Edward, sono sicura che non sta…».

«No!» presi un respiro «no, ti prego Esme, ti prego, non dirgli niente. Non voglio farlo preoccupare. Vi prego, vi prego, non fategli sapere niente di tutto questo, vi prego!» non volevo fare stupidi capricci, facendo intervenire sua madre, magari, facendolo sentire in colpa. «Non è colpa sua, in fondo, se…» deglutii «non si fida più di me, se non mi vuole più».

«Oh Bella».

«Non dire così, cara».

Mi sentii incredibilmente frustrata. «Mi ha mentito, capite? Mi ha mentito. Siamo sposati, accidenti. Io lo amo, dice di amarmi, ma… mi ha mentito!» sbottai concitata. «O almeno, non mi ha detto tutta la verità».

Alice mi strinse le mani fra le sue, fissandomi negli occhi. Lo stesso fece Esme. «Tesoro, se Edward si sta comportando così, è proprio perché ti ama, e in un modo o nell’altro sta agendo per il tuo bene, ne sono sicura».

Restai in silenzio, lasciando che le parole strisciassero nella mia coscienza e cominciassero a cozzare contro i miei dubbi. «Io… non so» biascicai, pur convita che le parole della dolce vampira avessero più che un fondo di verità.

«Bella» ricominciò. «Osserva il comportamento di Edward, con calma. Non è possibile che non ti ami, era così preoccupato per te, prima».

«Era preoccupato per la bambina» dissi in un sussurro, confessando i miei oscuri timori, vergognandomi delle mie stesse parole.

«No, tesoro, no. Lui era preoccupato per te. Non hai visto come ti guardava?».

Fissai Esme, poi Alice. Infine abbassai lo sguardo, ricordando l’espressione sul suo volto. «Sì, è vero, mi ama ancora» feci una pausa. «Ma mi ha anche mentito, quando io gli ho chiesto se ci fosse qualcosa che non andava, perché, evidentemente, qualcosa che non va c’è, e non ha quasi niente a che fare con quello che mi ha risposto lui!» esclamai, sempre più in ansia «Questo vuol dire che è inutile che io tenti di aiutarlo, perché lui già sa che non ci riuscirò, che non sarò capace di farlo! Per questo non si confida con me!».

«Oppure perché non vuole farti soffrire» puntualizzò Alice.

Sollevai di scatto la testa, fissandola. «Tu sai?».

Sollevò entrambe le braccia, in segno di difesa. «No, no, io non so niente, mi dispiace!» si affrettò a rispondere «ultimamente ho anche troppi buchi neri. Ci ho provato, ma non ho visto niente».

Sospirai, credendo alle sue parole sincere.

Alice osservò per un istante la madre, che si alzò dal letto. «Hai fame cara? Che ne dici di mangiare qui? Sarai così stanca».

Non avevo fame, anzi, sentivo la classica inappetenza da stress, ma lei non volle sentire ragioni e trasformò quella che era una domanda in un ordine, andando a cucinare per me.

La mia sorellina mi accarezzava i capelli, scrutandomi e rassicurandomi. Mi sentivo molto intontita per via delle lacrime, ma provavo a non piangere ancora per evitare che fosse troppo evidente a Edward. Anche se più di tanto non avrei potuto nasconderglielo.

Alice mi distrasse dai lenti pensieri che scorrevano nella mia testa, tutti volti a tentare di auto-convincermi delle parole rassicuranti di Esme e Alice. «Ancora niente, con Edward…?» chiese, lasciando cadere la domanda.

Mi voltai a fissarla, stranita. Negli ultimi tempi ci avevo pensato molto, ma poi il problema della ragione della tristezza di Edward aveva prevalso nella mia mente rispetto al lato fisico. Abbassai nuovamente il capo, ancora nello sconforto. «No, niente. Vedi che ho motivo di dire che…».

«No, no, aspetta. Esme ha ragione, lui lo fa perché ti ama, in ogni caso. Ma… insomma. Non si confida con te perché ha paura di sarti stare in ansia con i suoi problemi, anche se è uno zuccone e non capisce che così ti fa solo stare peggio. Ma pensaci» disse, puntando il suo volto minuto e luminoso nel mio. «Pensa, magari, se tu gli facessi capire che sei abbastanza forte da sopportare anche i suoi problemi… Insomma. Fagli vedere che non hai paura di nulla! Fagli vedere che tu sei serena e che può confidarsi! Ricordagli che lo ami. Offriti a lui» disse, facendomi l’occhiolino, pur mantenendo la massima serietà.

«Alice» biascicai, accoccolandomi maggiormente su me stessa. Era assurdo.

Vidi i suoi occhi grandi davanti ai miei. «Pensaci. L’amore fisico è qualcosa di importante, soprattutto per i vampiri. Potrebbe essere un solidissimo collante. A meno che…» mi lanciò un’occhiata «non vada a te».

Sorrisi, amaramente sarcastica. «Vado a mangiare» mormorai, ignorando le sue parole.  

Dovetti mangiare tutto quello che mi aveva preparato, sia perché me lo aveva ordinato Esme, sia perché sentivo un forte senso di dovere nei confronti di mia figlia, che, povera vittima innocente, doveva sorbire ogni istante il mio pessimo umore e i miei assurdi pensieri gelosi. E poi… volevo arrivare al dessert. Ne avevo voglia, con una proporzione diretta alla negatività del mio stato d’animo.

Affondai il cucchiaio nel gelato limone e fragola, come se lo stessi accoltellando. Avevo incuneato il barattolino fra le mie gambe, piegate, e la mia pancia. Lo mangiai con gusto, tentando di scacciare la depressione. Gli zuccheri mi tiravano su e forse, forse, avrebbero potuto farmi riflettere.

Edward mi amava, ancora. Voleva proteggermi da tutto, ancora. Perché ancora pensava che fossi una piccola e fragile umana. Sospirai, affondando ancora il cucchiaio, dando un’altra pugnalata agli zuccheri.

Dovevo dimostrargli il contrario?

Sollevai gli occhi dal dolce, portandomi il cucchiaio alle labbra.

In quel istante incontrai gli occhi ambrati di mio marito, accovacciato appena davanti a me.

Dopo un secondo lo lasciai cadere dalla mia mano, lanciandomi con le braccia al suo collo e stringendolo con tutta la mia forza.

Dovevo dimostrargli il contrario.

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Capitolo 52
*** Verità ***


Sollevai rapidamente gli occhi dal libro, come se davvero Edward non si potesse accorgere che lo stessi spiando.

Lui, dall’altra stanza, ricominciò a parlare velocemente al telefono. O meglio, sibilare. Aveva un’espressione vacua e neutra, come se stesse tentando di trattenersi. Ed era andato avanti così per tre giorni, dopo il nostro quasi incidente ancora inspiegabile.

Ma non demordevo.

Dopo un iniziale esitazione avevo deciso di fare qualcosa. Ero stata, ancora una volta, un’egoista, rimanendo a compiangermi senza aiutare in alcun modo Edward. Ero stata stupida, lasciando che l’effetto che mi facevano i suoi problemi prendesse il sopravvento sui problemi stessi. Mi ora avrei corretto i miei sbagli, e visto che sola non mi ero dimostrata capace di farlo sola mi ero completamente affidata ad Alice, che aveva insistito tanto per chiedere consigli anche a Rosalie. Più esperta in queste cose. Così aveva detto. Così mi ero fatta incastrare. Quello che non avevano previsto era che io non avevo nulla a che fare con… quel genere di cose.

Mi mordicchiai le labbra, abbassando lo sguardo e sentendomi avvampare. La bambina era decisamente divertita dal mio imbarazzo. Piccola peste. L’avevo chiesto a Carlisle e lui aveva risposto che era impossibile che ridesse di me. Al più, reagiva così perché era quello che mi aspettavo che facesse.

Comunque stessero le cose, si era molto divertita, in quei giorni, a tutti i miei tentativi di sedurre Edward, che, anche se non me l’aveva mai detto espressamente, non poteva minimamente pensare che non avessi compreso che non voleva fare l’amore con me. Avevo cominciato quasi innocuamente, piegandomi con la schiena piuttosto che con le ginocchia ogni volta che mi chinavo, lanciando sguardi e occhiate, facendo allusioni. Puntualmente, ogni volta, veniva da me e mi baciava con dolcezza, faceva un sorriso gentile, mi accarezzava la pancia. Io arrossivo, e lui svaniva. I miei tentativi andavano tutti in fumo, e tutto si condensava in una vaschetta di gelato e una nuova consulenza con le sorelle Cullen.

«Sì, questa sera Carlisle, ho capito» sentii, mentre sfrecciava a velocità vampiresca da una parte all’altra della stanza, camminando nervosamente.

Sospirai, perdendomi ancora nei miei pensieri. La seconda fase era stata ancor più imbarazzante, e decisamente poteva essere quasi definita un attentato, dal mio pudico punto di vista. L’avevo chiamato, nuda, sotto la doccia, con la scusa del sapone negli occhi. Era venuto in un istante, e mi aveva subito aiutata. E, di certo, non gli ero rimasta indifferente. Tuttavia, dopo essersi accertato che tutto andasse bene era scomparso in un lampo, lasciandomi sotto il getto caldo della doccia e nuovamente in balia del gelato e delle sue sorelle.

Ma nulla sarebbe stato più imbarazzante della terza fase.

«Bella, tutto bene?» chiese, facendomi sobbalzare.

Mi portai una mano alla pancia, spostando gli occhi lontano dal suo viso, facendoli saettare da un lato all’altro, come un bambino appena beccato con le mani nel barattolo di marmellata.

La sua espressione si fece confusa. «Sei tutta rossa» mormorò, poi posò una mano sulla mia fronte. Scrollò le spalle, sorridendomi.

Forse la terza fase poteva essere anticipata.

«Andremo a caccia, con Carlisle, Esme, Rosalie e Alice. Jasper e Emmett rimangono con te».

«Ma Edward» mi lamentai, querula, «non posso rimanere sola? Mi prenderanno in giro tutta la sera». Non potevo permettermi di avere due vampiri tra i piedi. Soprattutto se uno dei due era Emmett, questo sarebbe indubbiamente andato contro i miei piani!

«Sono sicuro che si comporteranno bene» ribatté tranquillo.

Misi il broncio, poggiando la testa sui gomiti. «Scommetteranno su qualsiasi cosa. Non possono rimanere Alice e Rosalie?».

Sospirò, alzando gli occhi scuri al cielo. «Alice ci serve di più con noi. Jasper e Emmett ti sapranno proteggere meglio» spiegò gentile.

«Ma io…» avrei dannatamente avuto bisogno di loro per realizzare i miei piani, che non potevano più essere rimandati!

«Ti prego Bella, non fare così» disse lui, prendendomi il viso fra le mani. «È già abbastanza difficile separarsi da te per tutto questo tempo» mi avvicinò, lasciandomi senza fiato con un bacio tormentato, come se in quello volesse imprimermi tutto il suo amore.

Mi sorrise, la sua fronte attaccata alla mia, mentre ancora mi riprendevo. «Facciamo così, li faccio rimanere a distanza, okay? Avrai tutta la casa per te. Mi raccomando, riposati, rilassati, e stai tranquilla. Non ti addormentare… stasera dobbiamo andare da Carlisle» pronunciò lentamente, come se quella frase avesse un immenso valore. «Mi raccomando» rimarcò ancora.

«Sì, certo» mormorai, toccando nuovamente le mie labbra con le sue, stringendo i capelli nelle mie mani, avida di averlo ancora accanto, più vicino.

Dopo qualche secondo si staccò, ansante, come l’avesse appena attraversato una scossa elettrica, lasciandomi il vuoto fra le mani, dove prima c’era la sua testa. Deglutì, senza staccare gli occhi da me. «Vado» sussurrò, poi sparì.

Sospirai, guardando il vuoto lasciato dalla sua meravigliosa figura. Fui tentata di seguire la mia voglia e andare ancora ad attingere alle risorse di gelato, ma poi pensai che ingrassare sarebbe stato contro tutti i piani congeniati. Ma come avrei fatto, ora che non avevo più il supporto diretto di Alice e Rosalie? Magari avrei potuto posticipare la cosiddetta “terza fase”. Ero già imbarazzata solo al pensiero di dover…

Lo sguardo mi cadde su un dettaglio che sino ad allora non avevo notato. Era un biglietto, appeso alla spalliera del divano, scritto con la calligrafia di Alice. Diceva che avrei, per l’appunto, dovuto cavarmela da sola e che, entrambe, non ammettevano defezioni da parte mia.

Hai tre ore di tempo, mi raccomando, non sprecarle! Ti abbiamo lasciato tutto nell’attico.

Buona fortuna!

Sospirai, sentendomi incredibilmente ridicola, ora che ero sola, senza nessuno che mi spronasse a compiere quelle fesserie. Il cameratismo mi aiutava a sopprimere l’imbarazzo. Sentii un amalgama di sentimenti e emozioni nascere dalla bambina. «Oh, tesoro» farfugliai, accarezzandomi la pancia. La determinazione crebbe pian piano, sopprimendo sempre più il senso di disagio e il rossore sulla mia pelle. Dovevo farlo, per lei.

Cominciai a darmi da fare, dandomi coraggio. Nella grande stanza avevano lasciato una miriade di pacchi e pacchetti, con un grande foglio e un bigliettino su ciascuno di essi che ne descriveva il contenuto. Cominciai a preparare le cose così come erano presentate nell’elenco, tentando di non soffermarmi troppo con la mente su quello che prendevo, toccavo, spostavo.

Ero sicura che questo sarebbe servito a Edward, per questo lo stavo facendo, come dovere di moglie. Edward cambierà idea, stasera sarà di nuovo con te. Questo mi ripetevo, e questo mi aiutava ad andare avanti nell’assurdo piano. Lui non mi avrebbe mai detto di no, ci saremmo amati, come non mai, e saremmo stati di nuovo felici, ancora una volta, affrontando insieme le particolarità di questa gravidanza.

Particolarità fuggevoli e molteplici, così avevano scoperto Emmett e Jasper, ricercando negli antichi testi e nelle vecchie leggende, dall’assurda rarità. Questo era quello che ci avevano riferito, il giorno del nostro quasi incidente. E anche se Carlisle non me l’aveva ancora detto, mi aveva chiaramente fatto capire che partorire mia figlia normalmente sarebbe stato quasi impossibile. Esternare il mio dispiacere era inutile e superfluo, soprattutto con tutti gli altri problemi che avevamo. Comunque la bambina sarebbe stata bene, e io dovevo fare che era meglio per lei e non creare nuovi motivi di tensioni. Sicuramente per Edward sarebbe stato meglio così.

Sistemai tutto l’ambiente, creando l’atmosfera adatta e accendendo al massimo i riscaldamenti. Mi sentivo stanca e accaldata, eppure continuavo a sistemare, in modo che ogni singola cosa fosse davvero perfetta. Quando tutta l’enorme stanza fu completamente circondata da candele, quando il letto a tre piazze e mezzo fu ricoperto da foulard e veli di ogni tipo, quando un aroma intenso e caldo riempiva l’aria, spessa di 30 gradi di temperatura, mi sedetti sul mio posto, in silenzio, prendendo un grosso respiro nell’aria ambrata.

Mi sentivo molto a disagio per quello che stavo facendo. Avevo immaginato da ragazzina, quando ancora vivevo con mia madre, il mio matrimonio. Avevo immaginato mio marito e pensato scherzosamente che l’avrei sedotto. Lo vedevo quasi come un dovere coniugale, qualcosa di divertente, qualcosa di possibile. Ma niente mi aveva preparata al senso di disagio che sentivo. Dopo i fatti accaduti con Jacob la mia mente si era automaticamente difesa. Era molto istintivo per me tentare di proteggere il mio corpo, me stessa, non incappare negli stessi meccanismi che mi avevano quasi portata alla violenza.

Sospirai. Edward non era Jacob.

Costrinsi le braccia a liberare le gambe e i seni, quasi completamente nudi. Presi un grosso respiro, prima che l’aria mi mancasse nei polmoni. Indossavo un succinto intimo di pizzo, nulla di volgare. Nero. Classico, sgambato al punto giusto. Avevo lavato e sciolto i capelli, facendoli cadere, morbidi, sulle spalle.

E mi costava molto fare tutto quello anche perché sapevo perfettamente che pur tentando di essere più bella e sexy, non avrei mai potuto neppure sperare di essere un decimo di quello che era lui.

Sospirai, muovendomi a disagio, e mettendo le mani sotto le gambe. Dannazione! Non stavo facendo nulla di male, perché in fondo Edward era mio marito, e tutto quello era lecito, e dovevo, dovevo farlo. Non potevo più commettere errori, non potevo più temporeggiare! Non potevo più fermarmi a compiangermi. Edward mi avrebbe detto tutta la verità. Risolvere uno dei nostri problemi sarebbe stato un passo avanti per risolverli tutti.

Guardai l’orologio appeso sulla parete drappeggiata. Erano passate due ore e mezza, e se Alice aveva detto tre, voleva dire che mancava appena mezz’ora. Un improvviso, nuovo, ennesimo dubbio mi balenò in mente: come e dove avrei dovuto farmi trovare?

Stesa? Seduta? Inginocchiata…?

Mi mordicchiai un labbro, imbarazzata, nascondendo poi il mio viso fra le mani. Mi mossi, velocemente, nervosa, risollevandomi. Mi sedetti su letto, premendo una mano sulla pancia e costringendomi quel respiro che tanto mi rimaneva bloccato nel petto. Accidenti, non era il caso di farsi venire una crisi poco prima dover sedurre il proprio marito.

Tentai di riconcentrarmi, di assumere nuovamente il controllo di me stessa. In fondo, non sarebbe accaduto nulla. Edward sarebbe tornato, mi avrebbe trovata nella stanza… tutta piena di candele… vestita in un intimo succinto…

Sentii il fiato tra i denti e un bollore diffuso alle guance. No, accidenti, dovevo pensare ad altro. Spostai lo sguardo sulla pancia, e naturalmente i miei pensieri confluirono verso il piccolo amore che c’era rinchiuso dentro. Era piccola, cinque mesi, appena compiuti. Difatti quella sera stessa Alice aveva insistito tanto perché andassimo a trovarli per festeggiarlo. Solo in una famiglia di vampiri potevano essere festeggiate certe ricorrenze! E questo mi faceva solo capire quanto le loro vite fossero state condizionate dal mio ingresso in famiglia e dalla scoperta della gravidanza. Era stato un magnifico imprevisto per loro, tanto che la loro vita sembrava ormai ruotare attorno a quella di mia figlia.

Sorrisi, ricordando l’ultimo dialogo che avevo avuto con Jasper. Gli avevo chiesto se avesse notato nulla di stano in Edward, e lui aveva risposto, sempre intento a giocare con le mie emozioni e quelle della bambina, che… «Edward? Edward era preoccupato, come al solito», il tutto accompagnato da un tono poco interessato e un impeto di anormale euforia per me.

«Bella».

Impallidii, ritornando immediatamente con i piedi per terra, quando sentii pronunciare il mio nome da quella che era inequivocabilmente la voce di mio marito. Sgranai gli occhi, guardandomi velocemente attorno, nella vana ricerca di un posto e un modo per sistemarmi. Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e sarebbe stato inutile tentare di fermarlo, perché di sicuro se n’era già accorto.

Mi voltai terrorizzata verso la rampa di scale.

«Bella, sei qui su? Cosa stai facendo…?». Quando la sua figura fu completamente visibile, io mi ero già nascosta dietro il baldacchino del letto.

Avevo la schiena completamente addossata ad uno dei pilastri e una mano premuta sul petto nel tentativo di fermare i forti sussulti da cui era scosso. Non volevo neppure immaginare la sua espressione alla vista di tutte le candele e i foulard. Ero rossa, rossa come un pomodoro, e avevo imbarazzo e vergogna. Ma ormai era tutto fatto, non potevo permettermi di temporeggiare.

Strizzai gli occhi, posando una mano sulla pancia. Per Edward. Trattenni il fiato, uscendo dal mio nascondiglio e aprendo gli occhi.

Edward era immobile, in piedi al centro della stanza, ad appena cinque metri da me. Il suo viso era un imperturbabile maschera di cera.

Deglutii. Non se n’era ancora andato, e questo era un bene, decisamente. Forse potevo davvero avere una possibilità.

Feci velocemente il tratto che ci divideva, bloccandomi a un metro da lui. Si mosse impercettibilmente, spostando le iridi dorate sul mio corpo e lasciando sfuggire un rantolo dalle labbra.

Non pensai neppure più, compii l’ultimo gesto come se fossi un’altra me stessa e stessi fantasticando su qualcosa di impossibile.  

«Edward» mormorai, accorciando definitivamente le distanze. La mia bocca fu sulla sua, veloce, impetuosa, passionale. Allo stesso modo le mie mani che vagavano tremanti sul suo corpo senza sosta, toccandolo, sfiorandolo, lambendolo. Volevo imprimere la perfezione, la durezza, il freddo della sua pelle, sui miei palmi. Volevo averlo con me, per me, in me.

Lo trascinai, con forza, sul letto. Nonostante rimanesse pressoché fermo, si lasciò trasportare senza opporre alcuna resistenza. «Edward, Edward» sussurrai, baciandogli la mascella perfettamente squadrata. Lo feci cadere sul letto, di schiena, e subito fui su di lui, senza lasciargli il tempo di un inutile respiro.

Mi staccai per un attimo, ansante, seduta sul suo bacino, osservando famelica il suo viso, sconvolto e sorpreso. Mi spinsi su di lui, perseverando nei baci con la stessa passione. Non riuscii a trattenere un sorriso quando lo sentii, finalmente, rispondere al bacio.

Tutta la passione che gli avevo buttato addosso come un fiume in piena stava pian piano facendo braccia fra i suoi argini. Immaginare cosa sarebbe accaduto, una volta esplosa la diga, era un lusso che la mia mente si concedeva volentieri. Era timoroso, delicato, lambiva il mio labbro superiore con le labbra e la lingua ghiacciata, facendomi vibrare dal piacere, e lo sentivo, sotto di me, corrispondere la mia stessa eccitazione.

Era da così tanto tempo che non ero così speranzosa, così serena, così felice.

Mosse le mani, finalmente. Mi accarezzò le braccia e salì fino a stringermi i polsi, le mani immerse fra i suoi morbidissimi capelli. Sentivo il tonfo sordo del mio cuore scontrarsi contro il petto, quando in un solo fluido movimento ribaltò le posizioni, trovandosi su di me, senza gravarmi col suo peso.

Sostenni il suo sguardo, fissandolo coi miei occhi nei suoi, liquidi di passione. «Bella» esalò, roco, scendendo con esasperante lentezza fino al mio viso. Spostò le mani dai miei polsi, intrappolando il mio viso e facendo scorrere la punta del suo naso sul mio.

Mi mancò quasi il respiro quando mi accorsi che c’era qualcosa che non andava.

Chiuse le palpebre, sofferente, serrando la mascella e tremando, tentando di bloccare ogni suo movimento. «Ti prego» farfugliò, attraverso le labbra frementi e tremanti «è già abbastanza difficile… non… rendere tutto più complicato…».

Scostò la testa di scatto, gli occhi sempre serrati, e in un unico gesto si sedette sul letto, a un metro da me, la testa fra le mani.

Ero immobile, semplicemente immobile e paradossalmente rapita dal più pungente dei freddi. Perché questo non veniva dall’esterno, partiva direttamente dal cuore, congelandomi da dentro. Trovai una mano posata sulla bocca, non consapevole del gesto appena compiuto, a sfiorare le labbra, peccatrici. Il gelo imperversava in me, impedendomi ogni movimento, impedendomi di pensare, ma non impedendo al vento, artico, di soffiare nella mia mente, consolidando ciò che fino a quel momento era rimasto dubbio.

Lui non mi voleva.

Riuscii persino a sentire il mio gemito sconvolto, mentre i miei peggiori incubi diventavano realtà. Sentii il ghiaccio esplodere da dentro, formando mille schegge ghiacciate che si conficcavano nella mia carne, tagliavano la mia pelle, mi pungevano come spilli sottili e velenosi.

Alzai la testa di scatto, sollevandomi e correndo con tutta la mia velocità umana verso le scale. Nascondendomi con le braccia, nascondendo imbarazzata il mio corpo.

Sentii una mano ghiacciata sulla spalla.

«Edward» gemetti in un sussurro, scrollandola, piano, perché l’allontanasse, senza voltarmi a guadarlo in faccia, ricominciando a correre.

«Bella, ti prego» disse, fermandomi nuovamente dopo pochi gradini.

«Edward!» sbottai più forte, la voce distorta dal dolore, ricominciando a correre, allontanando tremante con una mano la sua, raggiungendo velocemente la nostra camera da letto.

«Bella ti prego, fermati».

Mi voltai di scatto al centro della stanza, guardandolo finalmente in faccia, e costretta dalle sue parole gli feci vedere i due abbondanti rivoli di lacrime che scendevano dai miei occhi.

Trattenne un sussulto. «Bella» disse addolorato, facendo un passo nella mia direzione e posando il palmo sul mio viso.

Lo allontanai, riversando tutta la mia angoscia, la mia frustrazione, la mia rabbia. «Non mi toccare Edward, non mi toccare!» piansi, sprofondando nel mio dolore tanto quanto sapevo di causarne a lui «Non mi vuoi, allora perché mi tocchi? Cosa cerchi? Non c’è niente che ti posso dare!».

Strinse le labbra in un’espressione sofferente, vedendomi sgattaiolare verso la cabina armadio, ansiosa di celare la mia nudità. Indossai il primo paio di jeans che trovai, rischiando più volte di cadere per via delle lacrime che inondavano la mia visuale. Le asciugai rapidamente con il dorso della mano, tirando su col naso. Trovai una maglietta e la misi, augurandomi di averla indossata nel verso giusto.

Inciampai quando tentai di mettere le scarpe, e subito ci furono le sue braccia a sorreggermi. «Non ti azzardare a toccarmi!» sibilai, liberandomi da lui e lasciando perdere quelle dannate scarpe.

«Bella, amore, ti prego! Non è vero quello che dici, non è così» fece, sofferente.

Mi voltai, rabbiosa, verso di lui. «È anche questo allora? Oltre al fatto che non mi vuoi più pensi anche che io sia troppo stupida per capire, Edward? Lo pensi?» sbottai, i pungi stretti lungo i fianchi. Sentivo un grossissimo peso sul petto, che mi impediva ogni respiro. Ma era un dolore peggiore di quello fisico. Mi comprimeva, e non lasciava più spazio ai miei dolorosi dubbi, che si condensavano in certezze e venivano naturalmente esternati, in dolorosissime parole. «È più di un mese che mi respingi!».

Non mi rispose, fissandomi senza dire nulla.

Abbassai gli occhi, pentendomi delle mie parole. In fondo che colpa aveva lui se non mi voleva più? Sentii le lacrime ricominciare a sgorgare senza sosta. «Ti prego Edward» singhiozzai «lo so che non è colpa tua, ma… mi sento già piuttosto… umiliata… il fatto che tu cerchi di giustificarti mi fa solo stare peggio». All’ennesimo singhiozzo corsi via, in cucina, chiudendomi dentro.

Posai la testa sulla porta, lasciandomi scivolare con la schiena lungo il legno bianco. Lo sentivo, avvertivo la sua presenza ad appena pochi centimetri da me. «Va via» rantolai.

«No, no. Ti prego, esci di lì. Sai che non mi costerebbe nulla entrare».

Sussultai. «Non farlo se ritieni di dovermi almeno un po’ di rispetto». Singhiozzai più forte, sollevandomi, diretta verso il frigo. Aprii, tremante, lo sportello bianco, ma non ci trovai nulla di quello che volevo per saziarmi, per sfogarmi, per tentare in qualche modo di non pensare e di lenire il mio corpo martoriato. Urlai, distrutta, quando non trovai niente di ciò che cercavo. Persino quello! Non bastava quello che avevo subito, persino quel piccolo, inutile, idiota dettaglio!

«Bella! Bella, cosa stai facendo?».

Mi asciugai nuovamente le lacrime, prendendo un grosso respiro. Quando schizzai via lo trovai, come mi aspettavo, appena dietro la porta. Non lo degnai di uno sguardo, non potevo permettermi di indugiare sulla sofferenza del suo volto, sulla sua espressione affranta. Non potevo, perché sapevo che le schegge di ghiaccio infilzate nel mio cuore sarebbero scese più in profondità, senza alcuna pietà.

Riuscii a mettere le scarpe, nonostante il tremore, nonostante le lacrime. Infilai velocemente il primo giaccone che trovai, e scappai via verso l’ingresso, afferrando al volo le chiavi della mia auto.

«Dove stai andando?» chiese sbarrandomi la strada.

Presi un respiro, guardandolo, sofferente. «Fammi passare».

«No» ribatté, secco.

«Edward! Non puoi farmi anche questo! Fammi passare dannazione!» esclamai, tentando inutilmente di farlo.

«No» ribadì ancora, spostandosi alla sua velocità a seconda dei miei movimenti. Non era arrabbiato, non era determinato. Solo mortificato. «Dove stai andando?».

«Voglio solo» feci un respiro secco, lasciando cadere la braccia lungo i fianchi «voglio solo andare a comprare… una cosa. Fammi passare, non hai alcun diritto di tenermi qui» dissi dura, cattiva. Volevo solo andare via. Volevo solo sfogarmi e smettere, dannazione, smettere di fargli del male. Perché era la sola cosa che mi riusciva in quel istante.

Come prevedibile rimase immobile, consentendomi di passare. Corsi in garage e mi chiusi nella mia macchina, respirando affannosamente e facendo in pochi secondi appannare tutti i vetri. Accesi gli sbrinatori e misi in moto, premendo sull’acceleratore e facendo girare il motore a vuoto, rabbioso.

«Bella». Sussultai sentendo la sua voce ovattata, dall’altra parte del finestrino. «Ti prego, non fare sciocchezze, non sei in condizione di guidare».

Tirai giù tutte le sicure, lasciando la frizione e sgommando via. Era il crepuscolo, già buio lungo le strade di Forks, e la visibilità era molto scarsa a causa della pioggia scrosciante. Così potevo anche permettermi di non pensare a nulla, tranne che alla strada e alla guida, e allo sciame d’api che sembrava essermi entrato dentro. Arrivai in poco tempo al piccolo supermercato di Forks, parcheggiai la macchina, occupando ben tre dei pochi posti a disposizione, e mi fiondai all’esterno sotto la pioggia.

A sbarrarmi la strada vidi la figura di mio marito, i capelli incollati all’addolorato viso angelico. Mi aveva seguita, come prevedibile. Con un grande sforzo lo ignorai, passandogli accanto e sgattaiolando nel supermercato. Non era per me tutta quella bellezza.

I suoi passi sciaguattavano accanto ai miei, molto più rumorosi. Mi diressi, decisa, verso quello che cercavo. Sentivo la sua presenza, bruciante, accanto a me, ma facevo finta di non vedere, di non sentire. Non volevo farlo. A che pro? Lui non mi voleva, semplice. Ogni giustificazione sarebbe stata mortificante e dolorosa.

Mi avviai in silenzio verso la cassa, sbuffando quando notai la fila di gente che si era formata.

«Dai a me, pesa».

«No» sibilai, stringendo al petto i miei quattro chili di gelato, presa da quell’inopportuna e fastidiosa voglia che mi stava scombussolando lo stomaco.

«Bella» disse, in tono di rimprovero.

«No. No. No».

Le persone che stavano in fila davanti a noi si voltarono, guardandoci.

«Fate passare avanti quella donna incinta» disse una vecchina.

«Sì, sì» concordarono gli altri.

Edward fece un gesto con un braccio per farmi camminare fra il varco che avevano creato. Strinsi la mascella, fissandolo arrabbiata. «No» dissi testarda. «Non ce n’è bisogno».

«Non essere sciocca» ribatté lui «Grazie» disse poi, rivolto agli altri, spingendomi dolcemente in avanti.

Vedendo i visi e le espressioni curiose delle persone che mi guardavano fui costretta ad accettare, sempre più arrabbiata, sempre più innervosita, per evitare nuovamente di scoppiare a piangere davanti a tutti. Pagai velocemente quello che avevo preso e corsi via, sotto la pioggia, lasciando cadere le lacrime.

«Bella, ti prego. Non puoi guidare così. Vuoi fare del male a tutte e due?». La voce addolorata di mio marito mi raggiunse alle spalle. Era logico che si preoccupasse di sua figlia… lei… lei non aveva nessuna colpa. Lasciai che mi sfilasse le chiavi di mano e mi sedetti sul sedile del passeggero, in silenzio, stringendo il grosso sacco di cartone al petto e guadando fisso fuori dal finestrino.

Era la prima volta che litigavo con Edward. Ed era molto più doloroso di quanto mai avrei potuto immaginare. Ma mi sentivo tradita, mi sentivo umiliata, mi sentivo svuotata. Mi sentivo maledettamente arrabbiata.

«Non puoi mangiare tutto quel gelato, ti sentirai male».

«Non importa».

«A me importa».

Feci scioccare la lingua. «Certo» mormorai a denti stretti.

Scattai fuori dall’auto, entrando in casa non appena ne ebbi l’opportunità. Edward continuava a seguirmi, passo dopo passo, molto più veloce di me. Mi voltai verso di lui, ad appena quattro metri da me, non riuscendo più a rimanere in silenzio. «Lasciami. In. Pace!» esclamai, urlando.

«Bella, amore».

Lasciai cadere con un tanfo secco il gelato sul tavolo del soggiorno. «Che cosa vuoi ancora, che cosa vuoi?! Vuoi che me ne vada io?! Me ne vado!» sbottai, riprovando ad uscire.

«No» mormorò afflitto.

«Allora vattene, vattene Edward! Vai via! Se non mi vuoi più potevi almeno avere la decenza di trattarmi meglio, potevi almeno avere la decenza di non farmi sentire un maledetto schifo!».

«Non è vero che non ti voglio più» scandì con tono controllato, sconsolato.

Quelle parole mi fecero solo infuriare di più. «E allora che c’è? Eh? Che c’è?».

Rimase in silenzio, a disagio.

«Certo. Io non sono abbastanza per capire, non sono abbastanza per comprendere, non posso pretendere di sapere niente, io!».

«Non è così Bella, non hai capito».

«Infatti, è proprio questo il punto! Lo vedi come continui a ferirmi, lo vedi? Vai via Edward, vai via, voglio stare da sola».

«No, Bella. Ti prego, calmati. Non fare così, amore».

«Non chiamarmi amore!» urlai, rossa in viso. Afferrai il primo, stupido, suppellettile che trovai, senza neppure pensarci un secondo, scagliandoglielo addosso. «Con quale cazzo di coraggio mi chiami amore, dove sta l’amore?!».

«Bella, ti prego. Ti stai agitando troppo» fece timoroso, non tentando neppure di afferrare o schivare gli oggetti che gli lanciavo.

«Vai via!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Mi ritrovai, ansante, a fissarlo con disprezzo e disperazione. La testa era compressa in una morsa, pulsava, le mai mi formicolavano e sentivo la gola incendiata per le urla. Ma mentre la mia voce gridava quello, nella mia testa avevo tutt’altro tipo di frasi. «Non mi lasciare, non mi abbandonare. Ti prego, abbracciami e guarisci tutte le ferite che tu stesso hai causato» parole che non potevo pronunciare, ma che mi rimbombavano dentro come un’eco.

«Calmati» ribadì ancora, sollevando le mani come in segno di resa.

«Me lo dovevi dire prima calmati, Edward! Non sono più calma!» esclamai, indicandomi con una mano tremante, mentre mi mordevo le labbra per impedirmi di piangere ancora. Il fatto che si giustificasse, che non tentasse di difendersi, che pensava ancora a me, alla bambina, mi faceva solo sentire sempre peggio e sempre più arrabbiata.

«Io mi sono vestita così per te, capisci, per te! Tu non puoi sapere quanto mi sia costato tutto questo, non puoi! Dannazione, Edward! Volevo sedurti, semplicemente sedurti! Pensi che sia stata una passeggiata? Sai quanto è difficile per me, dopo tutto quello che ho passato, dopo tutto quello che mi è stato fatto. Mi sono detta “Bella, come fai a non capire, tuo marito ha un problema, ha bisogno di te! Sei stata stupida, non hai fatto abbastanza per lui!”. Ti chiedevo, ogni giorno, se ci fosse qualcosa che non andasse. Se ne volessi parlare con me. ma tu “No, va tutto bene!”» sbraitai, furente. Lui mi osservava colpevole, non cercando neppure di ammansirmi.

«E ancora, ancora mi sono sentita in colpa! In colpa, capisci? Mi sono sentita uno schifo di moglie, un’incapace. Allora ho deciso di offrirti l’unica cosa che mi rimaneva, nonostante mi facesse soffrire, patire, il solo pensare di dover offrire, di mia spontanea volontà, il mio corpo! Ma tu ne te sei fregato!» urlai con tutto il fiato che avevo, la testa che mi pulsava per il sangue che velocemente l’aveva raggiunta, lanciando l’ultimo oggetto che mi rimaneva a portata di mano.

Vidi le sue dita bianche bloccarlo prima che si frantumasse contro di lui come tutti gli altri oggetti.

«No, Bella, no, accidenti!» sbraitò improvvisamente, facendomi sgranare gli occhi. Non l’avevo mai sentito gridare così. Non l’avevo mai sentito arrabbiato. Non si era mai arrabbiato con me.

Respirava anche lui affannosamente, malgrado non ce ne fosse alcun bisogno. «Io lo so, lo perfettamente quello che hai passato! Cosa credi? C’ero anch’io a tuo fianco, e ti vedevo soffrire. Ero lì oggi volta che non mangiavi, che non parlavi, quando piangevi. Ero lì ad ogni incubo e ad ogni attacco di panico. E soffrivo, soffrivo con te, ti aiutavo a mettere insieme i cocci. Pensando ogni singolo giorno che tu non saresti stata, che non sarai, più mia! Io c’ero!».

Mi ripresi dallo stupore in pochi istanti, e poi subito risposi.

«E allora perché ti comporti così? Perché?». Il tono delle nostre voci era lo stesso, ormai. «Pensi sul serio che non ci sia più nulla in me? Cosa vuoi, cosa c’è, cosa non va? Tu non mi consideri tua moglie, mi consideri un mucchio di rottami da aggiustare!».

«Ma ti rendi conto di quello che dici Bella? Pensi seriamente che sarei ancora qui se non t’amassi? Io ho solo cercato di proteggerti! Lo facevo, lo farò, e lo sto facendo, ancora!».

«Da cosa? Proteggermi da cosa?».

«Da te stessa!» urlò, irrigidito, fermo nella sua posizione, tremante di rabbia.

Puntò i suoi occhi fiammeggianti nei miei, stringendo con forza titanica i pugni delle mani, lasciando scorrere fiumi di puro dolore fra le sue parole. «Io c’ero, e ci sono, accanto a te. Ogni volta che ti blocchi nel tuo oblio. Ogni volta che guardo i tuoi occhi vitrei, neri. Ogni volta. Ogni volta che gridi, e ti dimeni. Ogni volta che, preda del tormento, urli il nome di Jacob. Io, ci sono. Ogni volta, ogni singola, millesima volta, che chiudi gli occhi, e li riapri, il cuore che sembra voler scappare dal tuo petto, il respiro troppo corto per bastarti, la fronte imperlata di sudore. Non ricordando nulla».

«C-Cosa…?» rantolai, retrocedendo automaticamente.

Chiuse gli occhi, poi li riaprì, piano. «È così. Quasi ogni singola notte. E tre giorni fa è successo anche mentre eri sveglia. È così… da quasi due mesi, ormai» biascicò atono.

Lo fissai, sconvolta, improvvisamente azzittita, mentre le urla lasciavano spazio al silenzio.

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Capitolo 53
*** Insieme ***


Ogni secondo il silenzio diventava più denso, spesso. Ogni secondo, i miei pensieri si facevano sempre più confusi.

Lo sciame d’api che fino a quel istante avevo sentito nel petto, si era spostato nella mia testa. E, malgrado fosse sparso, malgrado avesse una miriade, un campo di fiori su cui vagare, malgrado questo… tendeva sempre a tornare ad un unico punto. Tendeva sempre a tornare all’alveare.

Tendeva sempre, inesorabilmente, ad un unico pensiero.

Il più facile da comprendere, quello con cui poter lottare più facilmente.

Edward mi aveva mentito. Mi aveva mentito per due interi mesi, su una cosa così importante.

Mi accorsi delle lacrime solo quando ebbero raggiunto la base del mento. Posai una mano, tremante, sconvolta, sulla pancia, chiudendo gli occhi e abbassandoli. Per quanto potesse sembrarmi assurda la verità, per quanto tutto sembrava tremare, e non essere più fermo, per quanto ogni cosa sembrasse… impossibile. Quello era un punto fermo. Un doloroso paletto, una certezza. Lo sentivo ben conficcato nel cuore.

Come potevo pensare, accettare, il resto?

«Tu… tu mi hai mentito» farfugliai, riaprendo gli occhi e puntandoli nei suoi. «Tu mi hai mentito» ripetei, pronunciando le parole ad un volume accettabile. «Tu mi. Hai. Mentito!» urlai.

Edward fece un sospiro secco, portandosi una mano fra i capelli, in difficoltà. «Bella! Cercavo solo di proteggerti! Dannazione!» esclamò infine.

«Ma io dovevo sapere, ti rendi conto?! Dovevo sapere una cosa del genere che… che stava capitando a me!» sbottai, la voce incrinata dal pianto, indicandomi, tremante.

Mi fissò spiazzato. «Ma tu non ricordavi nulla! Ho sperato che ci fosse un modo, ma non c’era Bella, non c’era un modo per dirtelo!».

Singhiozzai, portandomi una mano alla bocca. «E che cosa speravi di fare Edward, cosa? Aspettare, ancora? Continuare a mentirmi?».

«No Bella, no!» fece concitato, mantenendo sempre le distanze, non avvicinandosi neppure di un centimetro. «Te l’avrei detto, te l’avrei detto stasera! Eravamo d’accordo, con Carlisle».

Mi voltai di scatto, sgranando gli occhi. «Oh, sì» sibilai senza fiato «perché lui sapeva, Carlisle sapeva, non è così? Lui sapeva tutto, tutto, e io no!». Mi portai le mani alla testa, fra i capelli, sentendola pulsare forte per il sangue che affluiva troppo velocemente. Mi sentivo… sconvolta… ogni mio muscolo tremava come se fosse sotto l’effetto di mille, piccole, minuscole scosse elettriche, dandomi l’impressione di essere senza forze, e, contemporaneamente, alimentata da una forza esterna. Non riuscivo più ad avvicinarmi a lui. Non riuscivo ad annullare quella distanza di appena quattro metri. Perché non era più una distanza fisica. Eravamo noi, distanti. Come non lo eravamo mai stati.

«Bella! Sii ragionevole! Volevo solo proteggerti, volevo solo aiutarti!». La voce di Edward non era più arrabbiata, era addolorata, ancora.

Sentii per un attimo lo sciame diradarsi e ricominciare a vagare lontano.

Edward era addolorato. Che cosa. Cosa, cosa, cosa, dannazione, cosa, stavo pensando? Edward era addolorato. Semplicemente addolorato.

Perché ancora lui si stava sacrificando, si stava sentendo in colpa per quello che gli stavo rinfacciando. Sentii un singulto nel mio petto. Perché lui… era Edward, mio marito. E si era sacrificato, e lo stava ancora facendo. Gli era costata un’immensa parte di sé stesso nascondermi tutto quello, sicuramente. Per nascondermi quella verità che i miei pensieri stavano cominciando a comprendere, ma che non potevano accettare.

Ripensai a tutte le strane parole, a tutte le strane domande. Ripensai ad ogni volta che mi raccomandava di non addormentarmi, di non dormire troppo. Ripensai ad ogni sguardo, ogni singolo, fra Edward e suo padre, dandogli una nuova spiegazione. Ripensai a tre giorni fa… all’incidente, al ritmo già accelerato del mio cuore.

«Bella» mi chiamò afflitto Edward, facendo come per compiere un passo.

Sollevai una mano, bloccandolo. Non riuscivo, non potevo… permettere che si avvicinasse. Sentivo i battiti del mio cuore, distinti, nelle orecchie, e pensavo che per forza, per forza dovevano essere gli ultimi. Se si fosse avvicinato… Non avrei resistito neppure un secondo. No, avevo bisogno di quella distanza.

Perché Jacob non mi aveva ancora abbandonata. Non era finito, nulla. Non erano finite le mie pene. Non era finito il mio dolore. Ma, ancora peggio, non era finito il dolore che avrei causato a chi mi stava attorno. Non era finito il dolore che avrei ancora causato a Edward.

Mi sentii incredibilmente male.

Portai entrambe le braccia sulla pancia, proteggendola. Rantolai ma non riuscii neppure a gridare. Mi risollevai, fissando sconvolta mio marito che ricambiò il mio sguardo con immensa tristezza, gli occhi velati da un’ombra. Non ce la facevo, non ce l’avrei fatta.

Poi… lo sentì.

In un secondo le mie mani furono su entrambi i lati del grembo, e Edward, davanti a me, inginocchiato all’altezza della pancia, aveva posato l’orecchio proprio in corrispondenza dell’ombelico.

Puntò i suoi occhi, vitrei, nei miei, e io nei suoi, ansiosi. «L’ho sentita» farfugliammo insieme. Sgranai gli occhi, e lo stesso fece lui, osservando nuovamente la pancia. Era come se in un istante tutto il peso che sentivo di fosse vaporizzato. Nessuna scossa, nessuna fatica, nessun pungolo. Tutto il ghiaccio che mi feriva e m’intrappolava… si era sciolto.

Lo sentii ancora. Contemporaneamente i nostri occhi si cercarono trovando la conferma l’uno nell’altro. «Ed-Edward» balbettai, poi deglutii «si è mossa. Ho sentito… è così piccola! Era come un piccolo, piccolo pesciolino che… si muoveva… è piccola… tanto piccola, Edward».

I suoi occhi erano sgranati ed emozionati come i miei. Nonostante fosse un vampiro, anche la sua voce tremava. «Si. Si. Ha pensato!».

Ansimai, portandomi una mano alla bocca. «Cosa?» chiesi, stridula.

Lui annuì frettolosamente, posando entrambe le mani, accanto alle mie, sulla pancia. «Ha pensato! Lo ha fatto! Solo per un istante e… non era proprio un pensiero… ma… un impulso. Però l’ho sentita!».

Singhiozzai, lasciandomi scivolare, in ginocchio, fra le sue braccia. Mi prese al volo, stringendomi a sé con quella così tanto poca forza che imprimeva quando sapevo che voleva stringermi di più.

E fu di nuovo perfetto. E fu di nuovo magico, e fu di nuovo noi, tre, uniti.

Mi staccai, prendendo solo un attimo di fiato, per poi incollare con forza le mie labbra alle sue. Rispose immediatamente al bacio con lo stesso vigore, la stessa forza, la stessa, identica, esigenza.

«Scusa. Scusa, scusami se puoi» farfugliai, fra i baci, facendo vagare, febbricitanti, le mie mani su di lui. «Perdonami. Non volevo dirti tutte quelle cose. Ho capito che non era colpa tua, l’ho capito. Scusami, scusami. Ti amo. Lo sai, che ti amo? Ti amo, ti amo, ti amo».

Mi strinse con più forza, buttandomi sulla moquette e tuffandosi nuovamente sulle mie labbra. «No, no, è colpa mia Bella. Avrei dovuto dirtelo, mi dispiace non averlo fatto. Lo sai che ti amo anch’io, immensamente».

Infilai una mano sotto la sua camicia, aprendola a staccando tutti i bottoni in uno strappo. «Mi sei mancato così tanto» mormorai rapita.

Mi tolse, velocemente, il giaccone, e con i piedi mi sfilò le scarpe. «Non sai che pena dirti di no, tutte quelle volte. Bella».

«Oh, Edward!» esclamai, stringendo i suoi capelli e baciandolo.

Si staccò da me, ansante, fissandomi famelico. «Non possiamo. Non possiamo Bella» disse roco, mentre si contraddiceva con i gesti, mentre con le mani esplorava, da sotto la maglietta, il mio corpo.

«Perché no?» ansimai, mordicchiandogli il collo.

«Io… Io se penso a quello che hai sotto Bella… accidenti» ansimò. Mi strinse più forte, poi si bloccò. Mi fermai anch’io. Mi staccò da sé e mi prese fra le braccia, tenendomi stretta contro il suo petto e facendo regolarizzare i nostri respiri. Mi portò sul divano a ci si sedette, attaccato a me. Cominciò ad accarezzarmi i capelli, lasciandomi una scia di baci sulla fronte. Mi accoccolai su di lui, bisognosa come non mai di sentirlo accanto.

Mi prese le mani fra le sue, stringendole e capii che la spiegazione che per tanto tempo avevo atteso, finalmente, stava arrivando. Solo che ora non ero più certa di voler conoscere tutta la verità. «Bella. Quello che ti ho detto prima è… è una cosa molto complessa» disse serio, fissandomi negli occhi.

Deglutì, guardandomi le mani e tornando a fissarlo. Pensai a quando mi aveva chiesto di ricominciare a prendere gli antidepressivi e gli avevo detto di darmi una seconda possibilità. Forse se l’avessi fatto gli avrei risparmiato due mesi di sofferenza. «Mi dispiace» mormorai.

Sul suo viso passò un lampo di sofferenza. «No Bella, vedi, è questo il punto» mi fissò agitato «non è colpa tua» riprese prima che potessi ribattere «io e… Carlisle. Abbiamo motivo di pensare che non dipenda affatto da te. Che dipenda dalla bambina».

«C-cosa?» feci sgomenta. Appena mi aveva detto quelle parole, il segreto celato per tanto tempo, avevo immediatamente dato per scontato che i miei incubi fossero ricomparsi, che di nuovo i fantasmi del passato fossero tornati a perseguitarmi.

Ora, quello che mi stava dicendo cambiava tutto.

Mi accarezzò una guancia, teneramente. «È cominciato tutto in forma molto più… ridotta, di come è adesso. Ti capitava, nel sonno, di agitarti, di ansimare. È come se in quei momenti il tuo corpo fosse sottoposto ad uno sforzo notevole. Inizialmente ho pensato che fossero i soliti incubi» sollevò il viso, fissando lontano, gli occhi velati da un profondo dolore. «Poi, una notte, hai farfugliato il nome di Jacob, e mi sono spaventato, perché pensavo che non lo sognassi più.

Quella mattina ti ho chiesto, ma tu mi hai risposto che non ricordavi nulla, così io non ho voluto farlo. Successe ancora, tre volte. Ero molto dubbioso, ma pensavo che avessi scelto di non dirmelo, e, seppur a malincuore, rispettavo la tua decisione.

Poi, abbiamo fatto l’amore. Da allora, ogni cosa è peggiorata». Mi fissò negli occhi, addolorato. «Ricordi? È successo anche allora».

Feci mente locale, alcuni istanti, e mi parve di ricordare di aver sentito il batticuore appena dopo aver fatto l’amore con lui. Ma era… «Erano le emozioni della bambina!».

Lui annuì. «Sì, fu in quel instante che pensai che tu fossi completamente estranea ai fatti, che non ricordassi nulla, che tutto dipendesse da lei. Le cose continuarono a peggiorare, sempre più. Ti succedeva sempre più spesso, quasi ogni notte, e ogni cosa avveniva in maniera sempre più violenta. Urlavi» fece una pausa, tremante «urli, il suo nome».

«Ma allora non può essere la bambina, lei non può conoscerlo!» esclamai esterrefatta, tentando di stargli dietro.

Annuì serio. «È vero, è l’unica cosa che va contro la mia tesi, in effetti. È l’unico dettaglio che non mi permette di capire. Forse è una tua reazione, non saprei. Comunque, decisi di parlare con Carlisle del problema, non potevo tenerlo ancora per me. Anche lui fu immediatamente d’accordo con me. Pensammo che tutto dipendesse dalla bambina. Capimmo che ti succedeva mentre lei sognava» notò la mia espressione sgomenta «Sì, sembra impossibile, ma è così. Si ipotizza che i feti possano sognare dalle 23esima settimana, e lei è in largo anticipo. E, se, bada bene, se, sognano, sognano quello che possono avvertire con i sensi, mente questi sono sogni decisamente più complessi. Questo va aldilà di tutto, anche se si sapeva che non potevano aspettarci nulla di normale. Ne sono quasi del tutto persuaso. Lei sogna».

«Quindi» mormorai confusa, sbattendo le palpebre «sono i suoi sogni?».

Edward mi sorrise. «Pensiamo sia così. E malgrado dorma spesso, manifesta i suoi sogni solo quando tu glielo consenti. Quando le tue barriere sono così deboli da consentirlo. Quando dormi e quando…».

«Quando facciamo l’amore» mormorai, stringendo in un pugno la sua camicia aperta.

«Sì, esatto. Ed è per questo che tu non ricordi nulla. Lei riversa su di te quello che dovrebbe capitare a lei. Lo sente, ma tu lo manifesti. Però i sogni sono suoi e tu non puoi ricordarlo, perché sono nella sua mente» finì di spiegare. «Mi dispiace davvero non avertelo detto prima, ma non ci riuscivo. Stasera l’avrei fatto, comunque, te lo giuro» disse dispiaciuto.

Scossi il capo lentamente. «Non importa più Edward. Mi chiedo solo come tu abbia fatto a sopportare in silenzio» lo fissai negli occhi, accarezzandogli una guancia «senza dirmi nulla, senza poter condividere o almeno esternare il tuo dolore».

Scosse il capo, e, insieme, la mia mano. «Non è niente rispetto a quello che…» deglutì «succede alla bambina e te».

«È così brutto? È così brutto quello che accade alla nostra bimba?» chiesi preoccupata.

«A voi Bella, succede a voi».

«È così brutto quello che ci accade?».

Sospirò, distogliendo lo sguardo. Fu più che eloquente. Pensai a tutte le volte che aveva dovuto sopportare quella tortura, tutte le volte che mi aveva dovuto sentire urlare. Immaginai di essere al suo posto e rabbrividii. «E… adesso…».

«Adesso è così, purtroppo. Tre giorni fa eri sveglia, quindi è sempre peggio» strinse più forte la mascella, tanto che se fosse stato umano le sue labbra sarebbero sbiancate. «Apri… gli occhi, anche mentre dormi. E le tue iridi sono nere. Non c’è più il cioccolato» si forzò a respirare, mentre sentivo che il fiato stava mancando a me. «Come vedi, non è una cosa normale. Non sono sogni normali».

Strinsi con forza mi marito a me, gettandogli le braccia al collo e provando a riprendere a respirare regolarmente. Lui mi accarezzò velocemente i capelli, tentando di farmi calmare. «Scusami, non volevo farti agitare così. È per questo che non te l’ho detto prima, non riesco a vederti soffrire ancora, a mettere ancora in dubbio la tua sanità mentale e il tuo autocontrollo. E adesso, con la bambina in arrivo, volevo proteggerti e evitare che ti stressassi troppo. Ma sono stato uno sciocco, come al solito, perché ho solo ottenuto l’effetto contrario».

Lo strinsi più forte, lasciando che il tremore mi abbandonasse. «Non è così, Edward. Non ti preoccupare» feci in un sussurro, la voce ancora tremula «va bene».

Si staccò da me per scrutarmi in volto. «Come ti senti?» mi chiese apprensivo, posando una mano sulla mia pancia.

«Va tutto bene» deglutii, annuendo. Sentii le mie guance farsi più rosse per l’imbarazzo e nascosi il viso nell’incavo della sua spalla. Pensai che continuare a tenere per me certe paure sarebbe stato altamente controproducente. «È… è solo per quello che non volevi più… fare l’amore con me?».

Immediatamente mi prese il viso fra due dita, puntando i suoi occhi nei miei, sinceri. «Sì Bella, sì. Perché non potevo essere io a causarti tutto quello, non potevo anche pensare che fosse colpa mia. Perché dopo ogni cosa è peggiorata, la crisi che hai avuto era stata molto più marcata delle precedenti, e quando sei sveglia è anche peggio. Molto, molto peggio. Per questo l’ho fatto. Ma ti giuro» mormorò roco «ti giuro che è stato un supplizio… resistere».

Mi mordicchiai il labbro. «Davvero?» chiesi insicura.

Avvicinò il suo viso al mio, incollando le nostre fronti e lasciandomi un lungo e passionale bacio. Quando si staccò mi avvicinai ancora, baciandolo frettolosamente per poi ritirarmi a fissarlo, ansante.

Sussultai quando sentii nuovamente la bambina muoversi, e lo stesso fece lui. I nostri occhi si incontrarono e sorridemmo. Incredibile come con la sua sola presenza potesse farci stare meglio. «È così speciale. Lo so che ti fa paura, ma è una grazia così grande che sono disposta a sopportare qualunque cosa per lei» dissi convinta, accarezzando la pancia.

Edward mi sorrise, sfiorandomi una guancia. «È così piccola» soffiò, posando lo sguardo dove sua figlia cresceva.

Annuii. «Come può soffrire così tanto?».

Sospirò, poi mi abbracciò, stringendomi a sé. «Se solo potessimo sapere quello che sogna».

«Edward!» strillai, staccandomi da lui. Mi fissò sgomento, preoccupato. «Noi, noi possiamo! Possiamo adesso, possiamo!».

Sbatté velocemente le palpebre, confuso, in un puro riflesso umano.

Posai entrambe le mani sulle sue spalle, inginocchiandomi davanti a lui. «Tu puoi sentire i suoi pensieri. Puoi sentire i suoi pensieri, mentre sogna».

La sua bocca si aprì dallo stupore. Piegò la testa di lato pensandoci. «Beh, quello che dici tu è corretto. Ma non sono sicuro di poterlo fare. Finora ho sentito i suoi pensieri perché si è mossa, per qualche millesimo di secondo, ma non è la stessa cosa. Dovrebbe essere qualcosa di abbastanza forte da permettermi di percepire i suoi pensieri e poi… dovremmo aspettare. È successo la notte passata, non so se stanotte avverrà ancora, ma spero e credo non sia così».

Abbassai lo sguardo pensando solo per pochi istanti. «E se» mormorai, risollevando il viso. Edward attendeva ansioso le mie parole, che faticavano a uscire. «Io… mi chiedevo se…».

Sollevò una mano, fino a posarla sulla mia guancia, strofinando il pollice contro lo zigomo e aspettando paziente.

«Tu hai detto che è imprevedibile. Ma hai anche detto che un modo per causarlo c’è». S’irrigidì non appena comprese le mie parole. «Edward, hai detto che dev’essere più forte del solito e che quando sono sveglia è molto più forte!» mi affettai ad aggiungere.

«Bella, no…» fece, contrariato, tentando di essere il più delicato possibile.

«Ma io ormai so, e voglio. So che non potresti farmi mai nulla di male. So che non sei tu a causarmi nulla. Potremmo scoprire cosa succede a nostra figlia! È un piccolo sacrifico che faccio per lei, è così piccolo, Edward».

Lui continuava a scuotere il capo, lentamente.

Lo abbracciai stretta, lasciandogli alcuni piccoli baci sulla pelle del petto scoperta e sentendolo fremere sotto di me. «Io voglio. Voglio e… ne ho bisogno, ne ho tanto bisogno, Edward».

Mi bloccai, staccandomi da lui con lo sguardo basso. Lo stavo rifacendo. Stavo andando alla disperata ricerca di un rapporto fisico con lui, stavo tentando ancora di sedurlo. Com’era possibile? Come potevo non aver capito che tutto quello poteva causarmi solo sofferenza?

«Amore» mi chiamò piano, prudente.

Strizzai gli occhi e mi sforzai di sorridere. Non volevo che mi compatisse, non volevo che lo facesse ancora. «Sai che ti dico? Ho fame» scherzai debolmente «sicuramente Esme mi starà aspettando con uno dei suoi meravigliosi piatti italiani. Magari non ha ancora esaurito le sue risorse di camomilla, le nostre sono miseramente ridotte» dissi veloce. La sua espressione non cambiava, perciò mi affrettai a riprendere. Mi sollevai dal divano, facendo qualche passo verso il mio giaccone, abbandonato a terra. «Su Edward veloce, non vorrai fare ritardo? Guidi tu, no? Sicuramente sei più affidabile» provai a sdrammatizzare, tentando di dare un tono leggero alla mia voce.

In qualche millesimo di secondo mi ritrovai stesa a terra, le sue labbra sulle mie, prepotenti, come mai lo erano state. Le mani intrecciate fra i miei capelli e vaganti sul mio corpo. «Sono uno stupido, non riesco mai a imparare dai miei sbagli» sibilò roco sul mio collo, ricoprendolo di baci.

«Oh, Edward. Davvero… avevi ragione tu, è una pessima idea» ansimai «davvero una cosa sconveniente che tu…» feci stridula, sgranando gli occhi, mentre le sue mani si facevano sempre più audaci sotto la mia maglietta. «Oh, Edward!» esclamai, corrispondendo allo stesso modo alle sue carezze.

Mi avvinghiai stretta, lasciandogli un debole quanto inutile morso sulla spalla. Feci scontare il mio torace contro il suo e tolsi completamente la sua camicia quando pensai fosse di troppo. Mi sollevò per i fianchi e mi tenne stretta a lui. Fece pochi passi, sulle ginocchia, la bocca incollata alla mia, finché non lo costrinsi a stendersi ancora indietro. Rotolò su un fianco, portandosi su di me, e mi sollevò ancora, mettendosi, questa volta, in piedi.

«La maglietta… Edward… toglila… toglila…» gemetti, le braccia avvinghiate ai suoi capelli, strusciandomi famelica su di lui.

In meno di un secondo accontentò la mia richiesta, strappandola via con un gesto secco, muovendo le mani sui miei seni senza l’intralcio della stoffa. «Ahh» mormorai rapita.

Mi accorse qualche minuto in quel mondo psichedelico per capire che salivamo le scale. A rilento, molto, molto a rilento. La schiena di Edward sbatteva spesso e volentieri sul corrimano. «Dove, cosa…?» ansimai, per poi non resistere a tuffarmi nuovamente sulle sue labbra chiare.

Sentivo il suo fiato spesso accanto al mio orecchio. «È un peccato… sprecare tutto quel ben di Dio che hai preparato».

In un istante, impaziente, Edward mi portò sull’attico, fino ad adagiarmi con la schiena al centro dell’immenso letto. Le mie mani vagarono sole, mentre staccavo la cintura e la zip dei suoi jeans, liberandolo da ogni indumento. Stessa fine, fecero, in poco tempo, i miei pantaloni.

«Sei bellissima, bellissima» mormorava, ormai completamente nudo su di me, lambendo ogni parte del mio corpo, giocando con le dita con mio intimo.

Averi volentieri ricambiato ogni complimento se solo fossi stata in grado di parlare coerentemente!

Slacciò il gancio del reggiseno, liberandomi da ogni costrizione. Strinse forte gli occhi, continuando a baciarmi il petto, la pancia, l’ombelico, scendendo sempre più giù. «Ti voglio» mormorò roco, fissandomi famelico negli occhi.

Sentii un brivido partire dalla spina dorsale e fermarsi in basso, molto in basso.

Posò entrambe le mani sull’elastico delle culottes. «Posso averti?» chiese, continuando a guardarmi.

«Sì» ebbi solo la forza di pronunciare.

Lo ritrovai ben presto su di me, pronto a farmi sua. «Sei consapevole di quello che avverrà?» soffiò sulla mia guancia.

«Dobbiamo… scoprire… Ed…ward…» ansimai, fissandolo negli occhi. Avrei fatto i conti con qualsiasi cosa per aiutare la mia bambina. In più, in quel momento sarebbe stato impossibile tirarsi indietro.

«Starai male».

«Starò peggio se non mi fai tua!» esclamai, il petto nudo che continuava inesorabilmente a cozzare contro il suo, seguendo i battiti accelerati del mio cuore. «Adesso!».

Non si fece pregare un altro istante. Ancora, mi sentii perfetta. Lasciai che ogni timore, ogni indecisione, ogni preoccupazione, cadesse per un attimo nell’oblio della mia memoria, mentre mi sentivo di appartenere sempre più a Edward.

L’unico, meraviglioso, contorno, era il suono dei nostri gemiti, gli ansiti del nostro respiro, e lo schiocco dei nostri baci.

Mi sollevò dal materasso, stringendomi fra le sue braccia, mentre il piacere si faceva strada fra noi.

«Ti amo» mormorò, affaticato.

Mi strinse più forte, e, mentre la stanchezza sopraffaceva anche me, fu il buio.

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Capitolo 54
*** Piccola dea ***


Edward

 

La strinsi più forte a me, in un disperato quanto inutile tentativo di proteggerla da quello che presto sarebbe arrivato.

La liberai dal mio abbraccio fin troppo stretto non appena le sue palpebre tremolarono verso il basso e i suoi occhi si rovesciarono all’indietro. Mi ero già pentito di tutto. Le baciai piano le labbra, serrando le palpebre e aspettando.

Non potevo più tirarmi indietro, in quell’istante dovevo fare ciò che era meglio per lei. Ciò che era meglio per la bambina. Ciò che avevamo deciso di fare, nonostante le conseguenze delle nostre azioni.

Il suo cuore iniziò ad accelerare il suo ritmo, proprio mentre sentivo il respiro farsi più affrettato e il sangue nelle sue vene pulsare contro la mia pelle immobile. Aprii gli occhi e la vidi. I suoi occhi neri, sbarrati, fissavano il vuoto, le pupille completamente spalancate.

Sentii una fitta, troppo familiare ormai, al cuore. Dovevo stare calmo, rimanere concentrato e tentare di ascoltare i pensieri della bambina, altrimenti ogni cosa sarebbe stata inutile.

Rantolò e mentre si tendeva come una corda di violino la sua schiena si sollevò dal materasso. La strinsi fra le braccia, disperato, tentando di tenerla ferma. Un sibilo le uscì dalle labbra ceree, dello stesso pallido colore grigiastro del viso, già imperlato da una miriade di piccole gocce di sudore.

«Bella… Bella, amore, sono qui…». Malgrado la mia testa avesse uno spazio immenso dove far scorrere i pensieri, ora c’era solo lei, e non riuscii ad impedire alle parole soffocate di uscire dalla mia gola.

Serrai gli occhi, abbandonando la testa sul suo petto, stringendola ed evitando che si dibattesse. La facilità con un la immobilizzavo mi faceva male. Pensavo quanto fosse fragile e vulnerabile.

Dovevo concentrarmi. Glielo dovevo.

Abbassai il capo sul suo ventre, fino a percepire con estrema chiarezza il battito costante della nostra bambina addormentata. Rimasi immobile, come solo un vampiro poteva fare, e nonostante le urla di mia moglie mi stessero penetrando senza remore imponevo al mio essere di portare avanti il mio compito.

«Jacob…» un rantolo sputato fra i denti «Jacob!».

Sentivo che la crisi era quasi all’apice e ancora non avevo sentito nulla. Come previsto, ogni cosa sarebbe stata vana. Tutto quel dolore, inutile.

Ruppi la mia statuarietà, sollevando il capo e fissando addolorato di mia moglie. «Bella, amore mio, sono qui. Sono qui Bella» la chiamai disperato, conscio del fatto che non mi avrebbe ascoltato.  Come potevo aver acconsentito a quello scempio? Come potevo io stesso esserne stato fautore?

Abbassai nuovamente il viso sul suo ventre pieno, sentendo il mio corpo marmoreo scosso da pesanti singulti. «Basta amore. Basta, basta». La baciai, proprio dove la sua pelle era più fredda e chiara appena sotto la superficie. «Basta».

In un attimo, come una stoccata, i miei pensieri furono attraversati da una cometa bianca. Ansimai, osservando mia moglie. Si stava agitando, anche più violentemente di prima, mordendo l’aria davanti al viso.

Ancora una volta. Bianco.

Chiusi gli occhi, tentando di concentrarmi. E fu allora che lo vidi, attingendo direttamente ai pensieri della bambina.

Vagavo, fluttuando in uno sfondo completamente bianco. Quello che mi sorprese fu che avvertivo il mio corpo come una massa perfettamente incorporea. Cercai di registrare tutti i dettagli, e fu così che mi accorsi di quello che sentivo. Ricerca. Stavo cercando qualcosa. Cercavo disperatamente e velocemente qualcosa.

Ma cosa? I pensieri della bambina non erano così forti da permettermi di comprenderlo, e avevo paura che tutto sarebbe finito troppo presto.

Ancora, sentii un altro desiderio. Dovevo avvicinarmi… Dovevo andare più vicino in modo da poter…

Tutto scivolò via, e tentare di riprendere quei pensieri sarebbe stato come tentare di afferrare l’acqua. Impossibile anche per me.

Sollevai gli occhi sul viso di mia moglie, proprio mentre lei chiudeva i suoi. Mi sollevai, andandole accanto e abbracciandola, accarezzandole il viso mentre il sangue, spinto forzatamente dal suo cuore, tornava prepotente sulle sue guance lasciandole un innaturale contrasto con le labbra, ancora bianche.

Tentai di concentrarmi sul calore irradiato dal suo piccolo corpicino, rannicchiato fra le mie braccia, per calmarmi io stesso e dare una priorità a tutta la miriade di pensieri confusi che mi occupavano la mente.

«E-Ed…ward…» farfugliò poco coerentemente fra gli ansiti. Solo grazie al mio udito riuscì a comprendere il mio nome.

Le baciai la fronte umida, inspirando il suo forte odore. «Sono qui amore, sono qui».

Sbatté le palpebre velocemente e poi lo fece ancora, con maggiore lentezza. Vidi immediatamente i suoi occhi marrone fuso e tutte le pagliuzze imperfette della sua iride, mentre mi guardava spaesata. Mi rasserenai.

Portò in un gesto automatico la mano, tremante, al petto, tentando di arrestare la sua folle corsa. Sentii il suo cuore rallentare il ritmo con tonfi sordi e umidi.

Le accarezzai il viso, scostandole i capelli che erano rimasti incollati alla fronte, con la mano che non era impegnata a stringerla forte contro la mia pelle nuda, come la sua.

Le lasciai tutto il tempo di fare mente locale. Notai persino la sua tenera espressione imbronciata, e quasi non mi sfuggì un sorriso sulle labbra. Peccato che l’impulso fu troppo debole fra i pressanti pensieri per riuscire a farlo realmente.

Tremò, e si strinse più forte a me in cerca di un calore che non potevo darle. Mi sollevai di poco, tenendola fra le mie braccia, e tirai via le coperte dal letto, avvolgendola nel piumone caldo. Mi sedetti sul letto e la portai sulle mie gambe, abbracciandola.

Mi fissò, disorientata dalla velocità dei miei movimenti. Poi fece una smorfia, comprendendo ogni cosa. Questa volta non riuscii a rattenere il leggero ghigno. Anche lei, come me, avrebbe voluto rimanere a contatto col mio corpo. Peccato che per lungo tempo ci sarebbe stato ancora precluso.

«Edward» la sua voce tremante permise a larga parte della mia mente di concentrarmi su di lei. Si schiarii la gola, in un vano tentativo di apparire meno provata. «Sei riuscito…?». Lasciò cadere la domanda, certa che avrei compreso.

Ma la parte di me che molto spesso emergeva, e che desiderava in ogni modo proteggerla ebbe la meglio. «Stai bene?» chiesi osservando il suo incarnato pallido e tutti i segni di pronunciata astenia.

Le sue labbra si contrassero in una posa stizzita. Non amava che le facessi quel genere di domande, ma le trovavo di vitale importanza. Accertarmi del suo benessere, della sua salute, rientrava nel mio istinto di auto-conservazione. Perché la sua vita era la mia, e se non ci fosse stata lei, non ci sarei potuto essere neppure io.

Eppure mi rendevo conto che per lei era importante conoscere la verità, era importante sentire come mi fidassi di lei, come la considerassi tanto acuta e intelligente da poter comprendere, così le rivelai quello che ero riuscito a leggere, tentando di essere il più possibile delicato.

Per tutto quel tempo avevo tentato di proteggere la sua fragile esistenza umana. Avevo cercato di evitarle ogni forma di ansia o stress. Carlisle, durante il primo trimestre di gravidanza, mi aveva chiaramente detto che Bella era uno dei pazienti più sensibili ed emotivi che avesse mai avuto e che dovevo fare molta attenzione in questo particolare periodo, soprattutto per la natura ignota del feto. Ma poi era stato lui stesso a consigliarmi, anzi, ordinarmi, di rivelarle tutto. Proprio quando ciò che stavo cercando di evitarle la stava opprimendo.

«Tu… hai… idea di quello che possa significare?» chiese debolmente, arrancando con le braccia fra la coperta, infastidita dall’eccessivo calore.

Soffiai leggermente fra i suoi capelli il mio fiato freddo. Al contrario di quanto mi sarei aspettato, non avevo trovato nulla nei suoi pensieri che mi riportasse al terrore, all’angoscia, alla paura che mi aspettavo di trovarci. C’erano sensazioni intense, forti, ma nulla di tutto quello.

Dopo qualche secondo parlai. «No, ci stavo pensando. Ma l’unica conclusione a cui mi sembra di arrivare è che la bambina non soffre, sta sostanzialmente bene. Il resto mi rimane oscuro» mi costrinsi a sorridere e aggiunsi a suo beneficio, con la massima sincerità «sono certo che con la tua perspicacia arriverai alla verità molto prima di me».

Lei abbassò lo sguardo, distogliendolo da me.

Il suo gesto mi ferì, facendomi comprendere quanto l’avessi fatta soffrire, calpestando il suo orgoglio. «Mi aspetto cose eccezionali da te, amore. So che saprai sorprendermi, ne sono certo» dissi, col mo miglior tono persuasivo.

Si portò, piano, entrambe le mani al ventre arrotondato. Poi si voltò, fino a immergere il viso sul mio petto. Aprì bocca, come se volesse parlare, poi la richiuse. Aspettai paziente che dicesse qualcosa, e quando pensai che non avrebbe più parlato mi preparai a farlo io.

«Davvero?» chiese piano, interrompendo le mie parole sul nascere. «Davvero hai questa alta considerazione di me?».

Chiusi gli occhi, dandomi mille volte dell’idiota per aver minato, per tutto quel tempo, la sua fragile insicurezza. «Sai» cominciai, modulando il mio tono in modo tranquillo e sicuro «non puoi immaginare come mi senta sollevato, ora che conosci tutta la verità. Ovviamente» precisai «avrei voluto che lo venissi a sapere in modo più… tranquillo. Ma… nascondertelo… per tutto questo tempo, è stato orribile» confessai amareggiato.

Ripensai a poche ore prima, a quando tutto l’universo sembrava stesse per crollarmi addosso. Pensavo impossibile che tutto lo spazio infinito della mia mente fosse occupato da un solo pensiero, eppure era stato così, sempre più, per ben due mesi. Mi ero paradossalmente sentito invecchiare, corrompere dal tempo e dal male. Ero stato costretto a fingere, creare infinite maschere, che si assottigliavano man mano che lo spazio diminuiva, evidenziando agli occhi di mia moglie il mio tormento.

«Bella» dissi carezzevole, convinto «tu sei stata la prima, la sola, ad accorgerti che qualcosa non andasse in me. Neppure Esme, o Jasper, o ancora di più, Alice, sono riusciti a notarlo. Questo dimostra quanto tu sia perspicace» la fissai adorante, mentre i suoi occhi ricambiavano sorpresi il mio sguardo. «Sei stata una moglie perfetta».

Mi avvicinai, posando le labbra sulle sue, piano, modellando il morbido contorno della sua bocca, «Davvero, davvero perfetta» mormorai roco, facendola arrossire.

Sorrisi, tentando di trovare qualcosa che l’allontanasse da quegli assurdi ed erronei pensieri. «Anche quando mi tiravi dietro le cose» feci divertito.

Si ricosse, e subito il sangue le imporporò le guance. «Oh, mi dispiace. L’ho già detto che mi dispiace tanto? Mi dispiace Edward» fece una pausa tra il fiume di parole «ti… sei fatto male?» chiese, torturandosi con i denti il labbro inferiore.

Scoppiai in una risata allegra e ben presto anche la sua, dolce e meravigliosamente imperfetta, mi raggiunse.

«Sul serio, mi dispiace per aver urlato così» aggiunge mortificata, accarezzando concentrata un lembo della mia pelle. «Non so che mi è preso» disse arrossendo.

Rabbrividii e i suoi occhi tornarono nei miei. Le accarezzai una guancia, ripensando a quando, mentre urlava, si era macchiata di vampate rosso sangue, insieme all’arteria sulla sua tempia che non smetteva di pulsare, insistente. «Non ti dovrei scusare per questo. Mi hai fatto preoccupare, non oso immaginare a che livelli possa essere salita la tua pressione e avevo il terrore che ti sentissi male da un secondo all’altro».

Sorrise furba. «Però Alice aveva ragione, quando ti arrabbi dici sempre la verit… Oh» esclamò d’un tratto, sussultando e portandosi una mano alla pancia. Sentii anch’io, contemporaneamente, un accenno di pensiero provenire da mia figlia. Quello che era un primario input di movimento.

Portai una mano accanto a quella di mia moglie, sulla pancia. Confrontai questo semplicissimo pensiero con quello del sogno. Il primo era un basilare e semplice impulso, che raramente avvertivo nei pensieri di altri esseri, mischiato ad altri molto più complessi pensieri. Quelli che sembravano costituire ciò che avevo avvertito durante il sogno. Decisamente, sembravano due cose molto differenti.

Percepii un movimento ai bordi del mio campo visivo e il colore di una piccola mano sulla guancia. La strinsi a me, sollevandomi in piedi e tenendo il suo corpo fra le braccia. «Andiamo da Carlisle. Ci aspettano».

Feci rapidamente tre passi, poi mi bloccai, osservando il suo viso. Sembrava stanca e provata. «Te la senti?» chiesi osservandola «possono venire qui, se vuoi». Non volevo che mi mentisse sulle sue condizioni, ed era difficile controllare la mia parte apprensiva.

Sussultò, stranita. «Sono sicura di farcela» fece convinta, poi sorrise «e poi… Alice era tanto contenta di festeggiare i cinque mesi». Sembrava sincera, anche perché non sarebbe mai stata capace di mentire adeguatamente, così decisi di fidarmi.

Impiegai molto meno tempo di lei a cambiarmi, e ne approfittai per sistemare ogni cosa al piano superiore e pulire i cocci rotti degli oggetti che mi aveva lanciato addosso. Notai il gelato, già mezzo sciolto, sul tavolo, e sorrisi, sistemando tutto.

Ora che l’opprimente inquietudine di dover mentire a mia moglie mi aveva abbandonato, rimaneva quella dettata dall’ignota causa del malessere della bambina e suo.

«Edward» il gemito stizzito di Bella mi costrinse a correre da lei. La ritrovai incantevolmente vestita di un abito di velluto blu, un paio di calze pesanti avorio a fasciare le sue gambe snelle. «Aiutami» sbottò innervosita, saltellando e tentando di afferrare il gancetto della cerniera che chiudeva l’abito lungo la schiena.

«Aspetta» mormorai delicato, intrappolando nelle mie le sue mani frenetiche. Non appena le lasciai andare fece con le mani una coda dei suoi lunghissimi capelli, facendo arrivare una folata del suo profumo meraviglioso direttamente alle mie narici. Sollevai con facilità la zip, e le sfilai i capelli dalla mano, facendoli ricadere morbidi lungo la schiena. Sorrisi, poggiando il mento sulla sua spalla e le mani sulla piccola pancia. Era molto magra nel complesso, me ne accorgevo dalle braccia e dalle gambe sottili, oltre che dal viso magro. Aveva acquisito un discreto volume sui glutei e sul seno, che la rendevano ancora più desiderabile del solito. Il pancione non era eccessivo, anzi, leggermente piccolo per la sua età gestazionale. Il secondo trimestre l’aveva resa una piccola, tenera, incantevole dea della fertilità.

«L’ho messo per Alice» borbottò arrossendo «il vestito. Sarà meno arrabbiata per il nostro ritardo» i suoi occhi incontrarono i miei e le mani corsero sul ventre, accanto alle mie.

Capii che voleva iniziare un altro genere di discorso, riferito a ciò che di più caro avevamo al mondo, lo vedevo dallo sguardo adorante con cui parlava di ciò che era rinchiuso dentro sé. «Voglio che sia tranquilla e che non corra alcun rischio, anche se ora so che non soffre. Lo so che per un po’ non potremmo più…» arrossì «stare insieme. Ma l’importate è saperlo. Lo sopporterò per lei».

«Certo amore, sì» asserii, comprendendo ancora una volta quanto dovesse essere stato doloroso tutto quello per lei. «Ti prego di perdonarmi. Per tutte le volte che ti ho mentito» supplicai afflitto, sapendo al contempo di non meritare il suo perdono.

«Non importa» si affettò ad aggiungere, ansiosa. «Ma d’ora in poi mi dirai la verità Edward, vero?» chiese voltandosi e prendendomi il viso fra le mani.

«Te lo giuro» affermai sincero. «Te lo giuro» ripetei, avvicinandomi a baciandole la fronte rosea e vellutata.

Durante il percorso in auto fu piuttosto silenziosa. «Edward» mi chiamò ad un certo punto. Sentire il mio nome sulle sue labbra era sempre una maraviglia. Mi inchiodò con il suo sguardo dolce. «Ci hai ripensato riguardo alla questione del… del pianoforte, delle esibizioni?» chiese titubante.

Sospirai, tentando di non dimostrare la mia irritazione. Non che il pensiero di suonare non mi allettasse, ma non mi attraeva particolarmente esibirmi davanti ad una platea di umani. E decisamente non mi sarebbe piaciuto separarmi da mia moglie. Decisi di rimanere calmo. In fondo, potevo ancora temporeggiare per molto. «Conosci le mie motivazioni».

«Sì, ma…» riprese, come se avesse trovato qualcosa che potesse persuadermi «pensa a quanto sarei contenta vedendoti suonare all’opera, in smoking nero, con tutto il tuo splendore. Applaudirti insieme al pubblico» tratteggiò il ritratto incantevole, contemplandolo e tentando di convincermi «e poi, pensa ai miei. Dovrò pur dirgli che il loro genero si sta cimentando in qualcosa, no?».

Scossi il capo, con un sorriso divertito, pur riconoscendo la giustificazione delle sue parole.

Lei sospirò, lasciandosi andare con la schiena sul sedile e voltandosi verso il finestrino. Era per quello che era rimasta taciturna? Per congeniare un piano per incastrarmi? Avevo ragione a pensare che fosse intelligente, considerando che ogni suo attacco si faceva più marcato.

«Pensa» sussurrò a bassa voce «pensa a quanto ne sarebbe orgogliosa tua figlia».

Sentii un fremito di piacere a quel pensiero, eppure non mi concessi di pensarci troppo a lungo.  Due secondi dopo feci per contraddirla in qualche modo, ma capii che non sarebbe stato necessario quando la sentii respirare lentamente nel sonno. Evidentemente il silenzio, oltre che alla riflessione, era dovuto alla stanchezza. Molto probabilmente la crisi di poco prima le aveva portato via molte energie.

Accesi il riscaldamento, considerando che era addormentata e che non avrebbe potuto lamentarsi del caldo, come faceva di solito. Ancora non riuscivo a capire come non si ammalasse mai, pur stando così tanto tempo a contatto con il freddo, da lei tanto amato. Scossi la testa, sorridendo. Poi la osservai, distesa sul sedile, per nulla offuscata ai miei sensi dall’oscurità della sera.

Immediatamente le immagini di tre giorni fa riaffiorarono nella mia vivida memoria.

 

Avevo seguito con attenzione i suoi movimenti finché la mia mente non era stata occupata dai pensieri altrui. Come al solito avevo tentato di scacciare quelle congetture che riuscivano a causarmi solo dolore e di non dimostrare la mia lotta interiore. Proprio in quell’istante mi ero reso conto che qualcosa non andasse in Bella.

«Bella? Amore?» l’avevo chiamata, tentando di farla voltare verso di me, sentendo il suo cuore battere veloce nel petto e il respiro farsi sempre più corto. Il terribile sospetto si era già insinuato in me. «Ti senti male? Bella?», quando il suo volto fu davanti al mio ne ottenni la conferma. I suoi occhi erano neri.

«Dannazione» avevo imprecato fra i denti, sentendomi incredibilmente morire all’idea di quello che stava accadendo. Era sveglia, accidenti! «Bella, Bella, sono qui, mi senti?» avevo chiesto frenetico, stringendola a me con un braccio, appena aveva iniziato a rantolare.

Quello andava ben oltre ciò che avrei potuto accettare. Ben oltre ciò che la mia mente vampira potesse contenere.

Mi accorsi dell’auto solo quando ci fu quasi addosso.

 

Guardai il viso di mia moglie disteso nel sonno. Eravamo arrivati, ma non sarei riuscito a svegliarla, non ancora, non quando dormiva così dolcemente. Non quando le gote le si imporporavano di un lieve e profumato rosato ad ogni respiro, ritmato dal movimento delle sue piccole e sbilanciate labbra umide.

Negli ultimi tempi era stata molto in ansia, e non potevo far finta di credere che non fosse stato a causa mia. Ero pentito di averle nascosto la verità, di avergliela rivelata in maniera così brutale… Sospirai. Lei era stata un angelo, invece. Un angelo che non meritavo.

 

Carlisle aveva immediatamente notato il suo stato di forte tensione, non appena l’avevo portata da lui per avere la conferma che fosse avvenuto quello che immaginavo, e che sia Bella che la bambina stessero bene.

«Edward, voglio controllare» aveva pensato, e mi ero spaventato ancor di più avvertendo il tono teso persino nella sua voce «tutto questo le sta causando molto stress, e ho paura che l’andamento della gravidanza possa risentirne. Voglio anticipare la visita».

Dentro di me era nata una nuova, forte, tensione. Avrei voluto sapere come stesse, ma avevo anche bisogno di parlare con Carlisle, solo, per valutare l’evolversi della tragica situazione. Mi si era spezzato il cuore quando avevo dovuto lasciarla sola, e avevo sperato con tutte e forze che la bambina colmasse un po’ di quel vuoto.

«Edward» mi aveva rimproverato mio padre con tono deciso «non puoi tenerle ancora nascosta la verità, ne sta soffrendo molto. Più di quanto ne soffrirebbe se la conoscesse», poi aveva aggiunto, in tono più mite «devi dirglielo figliolo, per il vostro bene».

«Lo so» avevo mormorato.

 

Scesi velocemente dall’auto, ritrovandomi in un diciottesimo di secondo davanti alla portiera destra. L’aprii senza far rumore e slacciai piano la cintura di sicurezza, attento a non svegliarla. Valutai la differenza di temperatura con l’ambiente esterno e decisi di prendere una delle coperte che stavano sul sedile posteriore, sollevandola fra le braccia e avvolgendola completamente dentro.

Strinsi con una mano la sua testa sulla mia spalla, chiudendo con facilità la portiera e avviandomi verso il vialetto, beandomi del tepore del suo corpo sul mio, rassicurante. Sentivo già i pensieri dei miei familiari, piuttosto distinti fra loro, tutti trepidanti del nostro arrivo.

Avvertivo ancora molta tensione, considerando che stavo per rivelare qualcosa di sconcertante alle persone a me care. Ma lo scoglio più difficile era stato superato, ora Bella sapeva tutto, e non c’era nulla che potessi temere così tanto.

La sentii mugugnare qualcosa, e la sua mano strinse il mio maglione. «Edward» biascicò, aprendo gli occhi «ho caldo…». Sbatté le palpebre, guardandosi intorno per quando riuscisse con l’impedimento della coperta. «Dove siamo?».

Capii che una risposta non era necessaria quando mise a fuoco il portone della casa.

«Fammi scendere» sussurrò solo.

«Sei sicura?».

Annuì e subito l’accontentai, mettendole una mano sulla vita. Si stropicciò gli occhi, sbadigliò, e mi sorrise, con gli occhi lucidi.

Sorrisi anch’io, baciandole la fronte.

«Edward, Bella» ci salutò Esme, venendo ad aprirci alla porta. «Entra cara, fuori fa freddo».

Prima ancora delle parole, mi giunsero i pensieri infuriati di Alice. «Traditori! Avete fatto un ritardo terribile!» ci additò, correndo a sedersi accanto a suo marito, sull’ultimo gradino delle scale. Eppure, nella sua mente, vorticava anche la preoccupazione. Aveva intuito, grazie alle sue visioni incomplete, che fosse accaduto qualcosa di strano.

«Mi dispiace, scusa. Non era nostra intenzione» sussurrò Bella, posando la testa sul mio fianco, non appena Emmett smise di divertirsi con la sua pancia.

Carlisle si mise in piedi, facendo passare lo sguardo da me a lei. «È successo ancora?» pensò, osservando allarmato il pallore sul volto di mia moglie, decisamente marcato per l’attenzione di un vampiro, soprattutto per un medico.

Esitai, incerto su come rispondere, e fu allora che notai gli occhi attenti di mia moglie su di me. «Edward, posso…» avvicinò la sua mano alla mia in un gesto inequivocabile, così intrecciai le dita. «Posso raccontarlo io se vuoi».

Mentre tutti i vampiri prestavano attenzione alle parole di Bella, curiosi, Carlisle la fissò sorpreso, poi capì. «Ben fatto, figliolo» pensò soddisfatto.

Lasciai che cominciasse a spiegare a tutti, mentre la guardavo, orgoglioso della sua determinazione. Riuscii man mano ad inserirmi nel discorso e a prendere in mano la situazione. Vedevo le facce sgomente della mia famiglia, leggevo, addirittura, i loro pensieri, ma continuavo a raccontare, perché sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché Bella era lì, seduta accanto a me, a sostenermi.

«Ma vuol dire che la bambina riesce a influenzare Bella in questo modo? E cosa c’entra Jacob? E perché soffre?».

«Rosalie, tempera la tua audacia» rispose Carlisle «credo che queste domande siano ancora irrisolte anche per loro».

«Non è proprio così Carlisle. In realtà sappiamo più di quanto tu non sappia già» i suoi occhi si spostarono su di me e si chiusero in due fessure, curiosi, così come i suoi pensieri. «Tutto è cambiato, dopo che Bella è riuscita a sentirla» dissi soddisfatto, accarezzandole la pancia.

Sentii un attimo di vuoto nella mente di Rosalie. «L’hai sentita muoversi?» chiese a Bella.

Lei mi lanciò un’occhiata, stringendosi a me e arrossendo. «Beh, in realtà l’abbiamo sentita. Anche Edward» gli occhi e i pensieri di tutti si spostarono su di me «lui ha sentito i suoi pensieri».

«Oh ma è meraviglioso!» esclamò Esme adorante, abbracciandola. Poi si ritirò, guardandoci addolorata. «Ma ragazzi, cosa intendete fare ora con il problema della bambina e…» assottigliò lo sguardo su di me, pensando a come e perché avessi deciso di rivelare a Bella la cosa dopo tanto silenzio, considerando che avevo omesso la nostra piccola discussione, «è questo che ci tenevi nascosto?» il suo viso saettò inevitabilmente verso suo marito. Leggevo nei suoi pensieri che aveva chiaramente intuito quanto fosse coinvolto.

Lui stesso le prese una mano fra le sue, stringendola, e si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole qualcosa. Distolsi l’attenzione per qualche istante, attento a non invadere la loro privacy.

Jasper stava tentando disperatamente di trovare un collegamento, nelle nostre parole, fra i movimenti della bambina e i suoi sogni.

«Bella ha avuto un interessante intuizione» dissi, rispondendo ai suoi pensieri e facendo nuovamente tornare l’attenzione di tutti su di me. «Sono riuscito a leggere i pensieri della bambina durante uno dei sogni».

«Oh… oh… che cosa interessante!» esclamò Alice, leggendo nell’immediato futuro.

«Già, lo è» mormorò Bella, accarezzandosi la pancia «non è fantastico che pensi a queste cose? E poi, Edward dice che non soffre» aggiunse concitata, fissando i miei occhi per cercare la verità, «che non sono pensieri tristi. Così… così va bene» disse annuendo a sé stessa «possiamo capire tutto con calma» sentii la sua voce vibrare in punti strani.

Presi il suo viso fra le mie mani e lo strinsi, tentando di comprenderla. «Ma… soffri tu» dissi piano, sollevando un sopracciglio.

Sussultò distogliendo lo sguardo, lievemente attraversato da una patina lucida. «Non importa visto che non ricordo nulla» disse velocemente, mordendosi il labbro, nervosa.

Feci per rispondere, ma fui interrotto dalla pressante curiosità degli altri. «Cosa hai sentito?» chiese Rosalie.

Sospirai, accingendomi a raccontare ogni cosa come già avevo fatto con Bella. Tutti iniziarono a ipotizzare possibili spiegazioni, ma neppure una riusciva a convincermi. Lei stava sostanzialmente in silenzio, probabilmente ancora molto stanca.

«Ma i sogni non potrebbero semplicemente appartenere alla bambina e alla sua natura?  In fondo il nome pronunciato da Bella potrebbe dipendere unicamente da lei e dalle emozioni che sente» propose Alice.

«In effetti, abbiamo già notato un processo simile tempo fa, quando la bambina irruppe nei suoi pensieri, no?» rimarcò Rosalie.

Jasper annuì. «È vero, la bambina sfrutta le emozioni di Bella in maniera singolare!».

Tutti, dopo aver appreso la notizia, si stavano dando da fare per scoprire la verità. Avevo letto nei loro pensieri un certo rimprovero nei miei confronti, più che per non aver rivelato la verità a loro, per non averlo fatto a Bella. Subito dopo avevo letto la comprensione, l’immedesimazione, nel caso che una cosa del genere fosse avvenuta al loro rispettivo compagno; infine il senso di colpa per non aver capito tutto prima.

«Pensate che non possa più stare in pubblico, insomma, se le accadesse mentre è fra gli umani?» continuò Jasper.

Bella, accanto a me, sussultò, stropicciandosi gli occhi e riprendendosi dal torpore.

«È un’ipotesi a cui abbiamo pensato, con Edward in queste settimane» intervenne Carlisle «ritengo che Bella, ora che sa quello che potrebbe accadere, sarà molto più vigile. Inoltre, penso che dipenda anche in larga parte dalla vicinanza di Edward, quindi non penso che sia necessario. Possiamo sempre prendere una decisone in base a quello che succederà, ma tenerla segregata potrebbe peggiorare il suo stato emotivo al punto da rendere queste crisi più gravi e frequenti».

Bella gli sorrise, timida e grata, accovacciandosi nuovamente contro di me, assonnata.

«Edward, forse è davvero arrivato il momento di riprendere gli antidepressivi» pensò Rosalie preoccupata, guardando Bella, «potrebbero aiutarla».

Lei si accorse del suo sguardo e di come io la fissavo di rimando. Non disse nulla, si voltò, addolorata. Aveva capito che stavamo parlando di lei e non voleva entrare in quella conversazione silenziosa.

«Tesoro» la chiamai dolcemente.

Battè le palpebre, frastornata, voltandosi lentamente verso di me. Avrebbe ascoltato e forse accettato qualunque cosa le avrei chiesto. Mi aveva promesso che se ce ne fosse stato nuovamente bisogno avrebbe ricominciato a prendere i farmaci. I suoi occhi assonnati ma luminosi e attenti mi fissavano, aspettando che parlassi. Chinò il capo di lato, studiandomi. La sua mente era muta e avrei dato tutto me stesso per capire cosa stesse pensando. Dovevo parlare, prima che le sue ipotesi la conducessero a della conclusioni sbagliate.

«Rosalie pensava» iniziai molto cautamente, piano «che potrebbe essere un’idea quella di riprendere la tua terapia anti-depressiva».

Non riuscì a trattenere un sussulto, e ai bordi delle ciglia si addensarono delle minuscole goccioline. Però annuì, quieta, senza distogliere lo sguardo da me.

Sospirai. Gli antidepressivi la facevano stare piuttosto bene, avevamo trovato un dosaggio ottimale per lei. Le toglievano un po’ di appetito e a volte la facevano dormire un po’ troppo. Lei diceva di sentirsi rallentata, ma tutto sommato per gli effetti benefici che le davano erano ottimi per lei. Ma lo stato mentale in cui si metteva all’idea di aver bisogno di un aiuto farmacologico per stare meglio era per lei deprimente. Sentiva come di aver fallito.

Rosalie si fece avanti, sorpresa che avessi voluto dirglielo. «Potrebbero aiutarti a controllare le manifestazioni che ti danno queste crisi».

Annuì, non riuscendo a mascherare la sua tristezza. Mi fissò di sottecchi, cercando di farsi forza. Sapevo anche senza leggerle i pensieri che non si stava preoccupando per lei. Non voleva che io la vedessi durante le crisi. «Va bene, lo farò» acconsentì mestamente, con un minuscolo forzato sorriso sulle labbra.

Scossi il capo, stringendola a me. Non volevo che lo facesse per quella motivazione.

«Se posso» intervenne Jasper «penso che il tono dell’umore e la stabilizzazione emotiva di Bella siano molto migliorate nell’ultimo mese. Sta andando molto meglio con gli esercizi. Dobbiamo ancora lavorare molto dal punto di vista dell’ansia e del panico» aggiunse senza mezzi termini, con la schietta sincerità da cui era caratterizzato «ma personalmente penso di poter continuare a gestire la cosa. Non l’hai riscontrato anche tu?» domandò a Rosalie.

Annuì. «È come ha detto lui. Sono l’ansia e il panico che mi preoccupano, però. Possiamo ancora aspettare. So che lei pensa che sia un fallimento riprendere la farmacoterapia» aggiunse nei suoi pensieri, poi sorrise a Bella «Ci lavoreremo ancora. Non iniziamo subito, ma non scartiamo nessuna delle ipotesi, va bene?».

Ma mia moglie non rispose. Si voltò verso di me, ansiosa, come se avesse bisogno del mio permesso.

Le carezzai i capelli e le sorrisi, cercando di infonderle coraggio. «Penso che aspettare ancora sia la scelta più saggia».

Prese un minuscolo respiro, abbracciandomi e lasciandosi andare con il capo, stanca, contro il mio petto.

La carezzai, sentendo il ritmo del suo cuore rallentare pian piano fino a calmarsi.

«Edward, le porto qualcosa da mangiare, non va bene che salti la cena… preferisci la sala da pranzo?» i pensieri di Esme mi distolsero dalle loro congetture.

Mi voltai verso mia moglie, sistemandole una ciocca ribelle di capelli. «Ti va di mangiare?».

Sospirò, stringendo in un pugno il vestito sull’ombelico.

Fu come una scintilla accesa in una camera a gas. Mi girai di scatto verso Esme quando i suoi pensieri mi arrivarono veloci come flash, tutti riferiti a tre giorni prima. «Esme ti prego, non ho fame… Lo so che devo mangiare, ma non mi va… Per la bambina, sì… - un singhiozzo, un’altra stanza, quella di Esme e Carlisle - Edward non mi vuole più… Non so cosa fare… È così… Non è vero che mi ama ancora, non sono capace di aiutarlo… - parole annaspate fra le lacrime e gli ansiti, occhi tristi e spenti» sentii una morsa stringermi lo stomaco e un bruciore, molto più forte di quello della sete, pervadermi la gola.

Esme sussultò, rendendosi conto del suo piccolo errore «No, no, ti prego! Non dire nulla a Edward, no… Non potrei sopportare di vederlo soffrire a causa mia…». Mia madre scosse la testa, correndo via e tentando di cancellare i suoi pensieri «Mi dispiace» mormorò afflitta.

Era accaduto tutto così velocemente che Bella non aveva avuto il tempo di accorgersi di nulla. Per quanto già sapessi del dolore che le avevo causato mantenendo il silenzio, non mi sarei mai aspettato che fosse arrivato a quei livelli. Ero sbigottito, ancora non riuscivo a riprendermi dall’angoscia.

«Sì, mangio. O penso che mi addormenterò da un secondo all’altro» scherzò debolmente, sollevando il viso dalla pancia. Rabbrividì quando vide i miei occhi. Guardai la mia espressione attraverso i pensieri dei miei familiari e ci vidi tanta tristezza.

Mi imposi un respiro e mi sollevai cauto, porgendole una mano per aiutare a fare lo stesso. L’afferrò, tremante, continuando a guardarmi. La condussi fino in sala da pranzo e mi sedetti su una sedia, facendola sistemare su di me.

Intrecciai le mie dita nei suoi capelli e tirai la sua testa verso di me, inspirando il suo odore dissetante. Lei rimaneva in silenzio, tremante, e dovetti parlare quando mi accorsi che la stavo spaventando.

«Bella» cominciai piano, addolorato «penso di meritare ben più insulti di quanti ne sappia io stesso formulare. Sono stato un terribile idiota. Uno sciagurato. Un empio. Meschino, misero, disgraziato…».

«Edward» mi richiamò sorpresa «non dire così, te ne prego. Sei quanto di più bello c’è nel mio mondo».

Scossi il capo, sorridendo amaramente. «Ti ho fatto del male. Ti ho nascosto tutto, per tutto questo tempo».

«Non mi va che ci pensi ancora, Edward» mi fissò, e nei suoi occhi vidi ancora dolore, eco del mio. Prese un respiro corto fra le piccole labbra. «Dimmi che non ci penserai più, è tutto passato ora, ti prego».

Valutai nuovamente la situazione, con calma, scrutando i suoi occhi. Esternando il mio pentimento la stavo facendo ancora soffrire. E non era, di certo, quello che volevo. Ma come avevo fatto ad essere così… così… Chiusi gli occhi, facendo toccare la mia fronte con la sua, pensando che non potevo più far nulla per correggere i miei errori. Sarei vissuto con il rimorso per l’eternità, probabilmente. Ma almeno, ora, dovevo tentare di non farne di nuovi. «Ti amo» mormorai solo.

Lei fremette, e finalmente capii di aver fatto la cosa giusta, per una volta. Quanto avesse bisogno di nuove certezze, di sentire ancora forte il mio amore. «Me lo puoi dire ancora?» chiese, come se stesse confessando un delitto.

«Ti amo» dissi semplicemente, aprendo gli occhi e guardandola.

Si avvicinò, lasciando un bacio sulle mie labbra. «Ti amo anch’io».

Pensai che sarebbe stato inutile continuare a discutere di quello che era stato. Volevo d’ora in poi aiutarla a costruire nuove certezze, farla sentire amata, protetta, desiderata. Bella e splendente, proprio come appariva ai miei occhi. Una dea. «Sei bellissima» sussurrai, osservando lo scintillio brillare nei suoi occhi vispi. «Bellissima, intelligente, amorevole. Delicata… così preziosa» sorrisi, infondendole tutto il mio amore.

Arrossì, aprendo le labbra ma non emettendo alcun suono.

La baciai piano, sentendo il suo cuore aumentare di battiti. Sentii che la bambina si era mossa e sorrisi sulle sue labbra, e lo stesso fece lei.

L’amavo, oh, se l’amavo.

In quel momento i pensieri di Alice si fecero incredibilmente bui. Due secondi più tardi il telefono squillò.

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Capitolo 55
*** Nervosa? ***


Edward

 

«Cosa succede?» chiese Bella, preoccupata, notando la mia rigidità e staccandosi da me.

Sputai la parola fra i denti. «I licantropi».

Ultimamente si erano avvicinati sul limitare del bosco, facendo incerti e tesi avanti e indietro. Volevano parlare con Bella e volevano che non ci fosse nessun altro oltre a lei. Leggevo nei loro pensieri che non vi era alcuna minaccia, così non me ne ero preoccupato più di tanto, ma non l’avrei mai lasciata sola con loro. Ringhiai. Sarebbero dovuti passare sulle mie ceneri.

Lei, senza dire nulla, si sollevò, correndo verso il soggiorno, dove c’era la mia famiglia e il telefono, da dove proveniva il suono. In un secondo le fui accanto.

Posò una mano su quella di mio padre, tesa per rispondere. «Fate parlare me» disse concitata.

La guardammo tutti straniti.

Ricambiò il nostro sguardo, supplice. «Vi prego. Non mi potranno fare nulla di male per telefono. E magari potremmo chiarire una volta per tutte questa seccatura, almeno questo!» pregò, mordendosi il labbro inferiore.

Carlisle si voltò verso di me, incerto se lasciare che Bella afferrasse la cornetta. «Ha ragione».

Sbuffai, seccato. Non mi andava che lo facesse. Non volevo che le dicessero qualcosa che potesse urtare la sua sensibilità. E poi, perché chiamare con un telefono? Mi pareva un mezzo così poco ortodosso per una comunicazione fra creature leggendarie. Perché tutta quella insistenza?

«Edward» mi supplicò Bella. Strinsi le labbra, ma annuii. Veloce, per la sua velocità umana, si affrettò a rispondere, non appena mio padre le ebbe lasciato spazio libero.

«Pronto?» fece tremante.

«Bella, sei tu?» era la voce potente di Sam Uley, l’alfa.

«Sì, sì, sono io. Cosa… che c’è?» chiese, guardandomi per trovare una sorta di conferma. Mi avvicinai, stringendole una mano e rassicurandola.

«Vogliamo parlare, solo parlare, con te. Decidi tu, quando e dove. Dì ai tuoi… vampiri» non mi sfuggì la naturale nota di disprezzo con cui ci aveva nominati «di rimanere lontani».

Un ringhio basso mi salì dalla gola.

«Se lo scordano!» sbottò Emmett, dall’altra parte della stanza.

Bella mi fissò tremante, incerta. «Edward…» cominciò.

«No» scandii solo. Presi un respiro, pensando di essere stato troppo duro. «Non credo sia affatto una buona idea» le misi una mano sulla pancia e lei sussultò «naturalmente spetta anche a te decidere».

Sospirò, poi annuì, riluttante, comprendendo le mie parole. «Non puoi dirmi qui quello che mi devi dire?» soffiò nella cornetta.

«No» disse decisa la voce dall’altra parte. «Se vuoi sapere dovrai incontrarci. Vuoi sapere?».

Sospirò, nuovamente incerta. Passò in rassegna tutti i volti degli altri vampiri nella stanza. Poi posò una sua mano sulla mia, sulla pancia, appoggiandosi a me. «No».

«Bene, in tal caso giuro sul mio branco che non vi disturberemo più. Bella» salutò.

Due istanti dopo la conversazione era muta.

 

*

 

Bella

 

Sospirai, seccata, intrecciando le gambe. «Questa è una bella seccatura» sibilai, rivolta a mio marito.

Lui era seduto e perfettamente composto con la schiena diritta e le gambe incrociate sul tappetino blu. Sorrise. «Mi sembra che tu me l’abbia già detto».

Feci schioccare la lingua, seccata, ricomponendomi non appena l’istruttrice, passandoci accanto, mi lanciò un’occhiataccia.

Ero stata obbligata a frequentare un assurdo corso “pre-parto simil yoga”. Beh, quasi obbligata. I patti erano che io sarei andata al corso insieme a Edward - e non avrei ricominciato a prendere gli antidepressivi -, e lui avrebbe accettato di esibirsi all’opera. Aveva diminuito la frequenza delle esibizioni rispetto allo standard, ma aveva già inviato alcuni suoi Demo musicali. Ovviamente, accecata dall’entusiasmo per il suo consenso, non avevo adeguatamente riflettuto sulle implicazioni di un corso pre-parto.

Tuta vuol dire palestra, che vuol dire ginnastica, che vuol dire avere l’equilibrio che non avevo. Come avevo potuto non pensarci prima? Forse perché la mia mente era affollata da mille altri pensieri…

Le parole dell’istruttrice volteggiarono melliflue, senza disturbare l’atmosfera zen. «Inspirate l’aria con lentezza ed espirate con la bocca, spingendo con il diaframma. Il dolore è in gran parte suggestione. La contrazione passerà presto, continuate a ripetervelo».

«Ma io non ho le contrazioni! Perché devo pensare di non averle se in effetti non le ho! È assurdo» mormorai, inclinandomi leggermente verso l’orecchio di Edward.

Si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Bella, sta tranquilla e rilassati» l’ultima parola fu come una nenia, una nenia che avevo sentito troppo spesso nell’ultimo periodo.

«Oh certo. Dovrò anche fare un cesareo, mi spieghi a che serve un preparto?» sbottai infastidita, sentendo la curiosità provenire da mia figlia.

Aprì bocca per ribattere, accigliato, ma poi si voltò a guardare l’istruttrice che ci fissava adirata. Arrossii, e ricominciai stupidamente a respirare.

Il fatto principale per cui non volevo fare il corso, oltre all’umiliazione che sentivo di arrecare alla mia persona, era che secondo me avevamo altri problemi più impellenti di cui preoccuparci. Ma tutti sostenevano il contrario! Rosalie era convinta che il corso sarebbe stata un’esperienza stupenda. Jasper diceva che fare yoga era ottimo per imparare a dominare le emozioni della bambina e non farmi controllare dai suoi sogni. Carlisle, persino, sosteneva che avessi bisogno di essere preparata al parto.

Tutti erano sereni, ostentavano tranquillità. Bisognava risolvere il problema dei sogni? Bene, si poteva fare tranquillamente. In fondo, erano i sogni della bambina! Edward aveva rivisto infatti le stesse immagini, anche se meno nitide, durante il mio sonno, e poco ci mancava che replicassimo l’esperienza… induttiva. Infatti, da parte di entrambi, contenersi diventava sempre più complesso. Nonostante questo notavo come anche lui fosse sempre più tranquillo e rilassato. Magari, il senso di ricerca che avvertiva nella bambina era insito nella sua giovane natura, così aveva detto.

Io invece vedevo tanti problemi. E l’esempio più eclatante, il problema di licantropi, che per tutti sembrava superato, io cominciavo ad avvertirlo come una spina nel fianco. E l’università! Oh. C’erano così tanti esami da fare e così poco tempo. Era vero, non c’erano preoccupazioni impellenti per la bambina. Lei stava bene, l’avevo riconosciuto io stessa.

Ma proprio fare questo corso mi pareva totalmente inutile! Una colossale perdita di tempo.

Inoltre avevo maturato una certa naturale ritrosia a dormire, pensando a quello che sarebbe avvenuto durante il sonno, e la frequente insonnia aumentava il mio già incredibile nervosismo. Jasper mi aveva ripetuto che così non andava bene, che presto le emozioni della bambina sarebbero potute sfuggire al mio controllo e così anche Edward aveva iniziato ad insistere per il corso preparto. Non mi avrebbe fatto di certo male, aveva detto.

«Intrecciate le braccia e spingete dolcemente sulle ginocchia. In questo modo eserciteremo i muscoli del bacino… no signora Cullen, così non va bene». Oh, ecco un’umiliazione in arrivo.

L’istruttrice mi si avvicinò, squadrandomi, mettendosi le mani sui fianchi. «Sbaglia la posizione delle mani, il ritmo è troppo veloce, i gesti troppo bruschi e non allena i muscoli giusti. In questo modo non sta tendendo nulla, anzi, rischia uno stiramento muscolare!».

Arrossii, sentendo gli occhi di tutte le altre gestanti e dei loro mariti su di me. M’imbronciai, sollevando le mani dalle ginocchia, sentendo un colpetto provenire da mia figlia. Mi voltai a guardare Edward, che mi rivolse un piccolo sorriso d’incoraggiamento.

L’istruttrice si piegò sui talloni, posando le mani calde sulle mie gambe, infastidendomi per quel contatto così ravvicinato. «Così, deve fare una lieve pressione verso l’esterno. La sente ora? Sente i muscoli allungarsi? Nota la differenza con quello che stava facendo lei?».

«Sì, noto» borbottai, mordicchiandomi il labbro inferiore, sentendo l’irritazione crescere e mischiarsi con quella della bambina, mentre continuava a toccarmi.

Le altre clienti si voltarono e ricominciarono a seguire le parole di un’altra istruttrice, mentre la bruna che parlava con me mi guardava negli occhi con convinzione. «Se non esercita questi muscoli non riuscirà a fare spinte abbastanza forti al momento del parto». Non c’era più rimprovero nella sua voce, solo attenzione e professionalità. Eppure continuava a toccarmi.

Appena mi sfiorò la pancia mi ritrassi, facendo accidentalmente scivolare una sua mano più in alto sulla gamba.

«Ahi» sussultai, stringendo le gambe, non appena sentii una piccola fitta ai muscoli della coscia.

«Bella?» chiese Edward allarmato, stringendomi una mano.

Gli occhi tondi dell’istruttrice si addolcirono. «Mi dispiace, le ho fatto male?» chiese mortificata.

Mi passai una mano fra i capelli, scuotendo la testa. «Non fa niente» mormorai tesa «non è colpa sua».

«Tutto bene?» incalzò Edward.

Annuii, ricominciando a seguire la lezione, solo per avere un pretesto per allontanare l’attenzione da me e dal mio comportamento. Mi fissò per un istante ancora teso, poi mi assecondò.

«Rilassati» mi sussurrò ad un orecchio, entrambe le mani posate sul mio ventre.

Dopo il piccolo incidente con l’istruttrice, le cose erano andate decisamente migliorando. Forse semplicemente per evitare che qualcun altro si avvicinasse a toccarmi la pancia con le sue mani fastidiosamente calde mi ero prefissa di impegnarmi maggiormente in quello che facevo. Man mano ero riuscita a dare sempre più ascolto ai consigli di Edward, estraniarmi da quelli che reputavo problemi, e concentrarmi su di lui. Odiavo ammetterlo, ma l’esercizio che stavamo svolgendo attualmente mi piaceva moltissimo. Edward stava dietro di me, seduto sul tappetino, ed io ero seduta fra le sue gambe. Lasciavo che mi toccasse la pancia e facevo anche gli stupidi movimenti con le mani.

«Così, sei bravissima» sospirò, baciandomi il collo.

«Edward» lo rimproverai, divertita, pur godendomi senza ritegno le sue carezze «ci guardano tutti, non vorrai dare spettacolo?».

«Visto che non era così male?». Sentii il suo sorriso sulla mia pelle. «Stai sorridendo, ed è questo l’importante. L’importante è che le mie due principesse stiano bene, siano tranquille, serene, amate…».

«Così, bravi, espirate piano. Perfetto, per ora basta con gli esercizi! Passiamo nella sala bianca in cui potremmo discutere serenamente, potrete conoscervi, e fugare ogni vostro dubbio sulla gestazione e sul parto, seguiteci» l’istruttrice bruna, che avevo scoperto chiamarsi Karen, procedette verso una porta a vetri, ampia e luminosa, facendo svolazzare il suo saio verde smeraldo.

Tutte le coppie si sollevarono dai rispettivi tappetini della grande sala ampia, luminosa, calpestando il parquet e continuando a rimirare le decorazioni di fiori di pesco sulle pareti.

Mi voltai verso Edward, baciandolo assetata sulle labbra fresche. Rispose al mio bacio con la stessa audacia, intrappolandomi fra le sue braccia e facendo entrare le dita da sotto la felpa. «Ci… ci dobbiamo fermare» ansimai, baciandogli e mordicchiandogli ripetutamente la mascella. Mi strinse più forte immergendo nuovamente le labbra sulle mie.

Non potevamo permetterci di farci prendere nuovamente da un impeto di passione, anche se la cosa era così dannatamente affascinante! Ma ci eravamo già troppe volte avvicinati a quello che sarebbe stato un punto di non ritorno per entrambi. Dovevamo stare più attenti. Anche perché, se quella mano fosse scesa più in basso…

«Basta» farfugliai, riaprendo gli occhi e bloccandomi. Anche lui fece cessare i suoi movimenti, senza fiato come me. I nostri petti si scontravano veloci.

Mi sorrise, sistemandomi i capelli che lui stesso aveva spettinato. Mi feci scivolare accanto a lui, in modo che potesse abbracciarmi senza fare del male alla bambina. Chiusi gli occhi e mi imposi di non baciarlo ancora, poggiando la testa sul suo petto. Ogni volta diventava più difficile e non sapevo quanto ancora saremmo stati capaci di fermarci.

«Dobbiamo andare. Gli altri ci aspetteranno» mormorò quando entrambi i nostri respiri si furono regolarizzati.

«Mmm, non mi va. Voglio rimanere qui con te» protestai sul suo petto. «Stavo così bene».

Non si lasciò sfuggire l’occasione di rispondermi. «Visto che il corso non è così male?».

Sbuffai, staccandomi da lui e sollevandomi lentamente, ancora intontita per il nostro momento di debolezza. «Edward io non dico che è brutto, solo» sospirai, seccata «mi pare di perdere così tanto tempo!».

Si sollevò agevolmente da terra, avviandosi al mio fianco verso la porta a vetri. «Non c’è nulla di più importante da fare» ribatté tranquillo.

«Sì invece!» protestai a bassa voce, stringendo i pugni. «Per esempio, dobbiamo trovare il motivo di questi strani sogni» affermai, indicandomi la pancia «per esempio, dobbiamo capire cosa vogliono i licantropi! Oppure, in ogni caso, potrei studiare! Sai che sono indietro col programma».

Scosse la testa, sorridendo benevolo. «Sai che stanno già investigando gli altri. I licantropi non vorranno niente più che illustrarti una stupida leggenda, e proprio ieri hai dato tre esami».

«Ma ci sono tante altre cose che…».

«Bella» m’interruppe, voltandosi e prendendomi la testa fra e mani. Mi fissò negli occhi, serio. «Se non abbiamo tempo da perdere vuol dire che non dovrei neppure fare quelle esibizioni all’opera?» chiese, inarcando un sopracciglio.

M’imbronciai alla sua logica di ferro. Non era giusto. «No» borbottai di malavoglia.

«Bene!» esclamò leggero, baciandomi la fronte. «Quanto mi piaci quando sei così testarda!» ammiccò.

Sospirai, secca, marciandogli accanto. Quando sentii la sua risatina sommessa arrossii.

Oltre la porta a vetri c’era una graziosa sala bianca, quasi un giardino d’inverno, con le sedie in vimini e i tavolini per il thè. Le donne si erano naturalmente disposte da un lato, verso i tavolini, mentre gli uomini chiacchieravano sui divanetti in fondo alla sala.

Entrai quasi nel panico quando non vidi Edward. Sentii una mano fredda sfiorare la mia e tirai un sospiro di sollievo. «Rilassati Bella, sei solo molto nervosa. Perchè non vai di là a parlare con quelle signore?» mi sussurrò ad un orecchio.

Mi voltai ad abbracciarlo. «Non sei più arrabbiata con me?» chiese divertito.

Elusi la sua seconda domanda. «Non mi va di stare sola con loro» sussurrai ad un suo orecchio, colta da un nuovo, improvviso, problema. Magari volevo solo dare una giustificazione al mio umore nero. «Sono tutte così… snob… perché non siamo venuti ad un corso per persone normali?».

Si staccò per guardarmi in faccia con serietà col suo viso da angelo. «Perdonami, non pensavo che la cosa ti potesse creare fastidio. È in miglior corso nel Washington state».

Sospirai, voltandomi a guardare le donne e i loro abiti firmati, i loro rossetti costosi, i loro modi da classe abbiente. Dovetti ammettere che anch’io indossavo un completo che avevo deciso, per la mia salute mentale, non chiedere quanto costasse. Incredibile quanto crescesse di prezzo un pezzo di maglina con un logo particolare stampato su. Ma come modi, no, come modi non avevo niente a che fare con quelle persone. Poi, però, osservai un particolare, estremamente rilevante, che mi era precedentemente sfuggito.

Erano tutte incinta, proprio come me. Cosa potevano avere di così diverso, mentre condividevano la gioia di portare un figlio in grembo?

Mi voltai verso Edward e annuii. «Va bene» dissi, «ci vado». Gli sorrisi debolmente e mi allontanai, lasciando che mi osservasse, titubante.

Le cose furono più positive di quanto avessi preventivato. Ogni tanto lanciavo uno sguardo a Edward e mi stupivo di vederlo così a suo agio fra gli umani. Anche se non vidi mai i suoi occhi su di me, ero certa che mi stesse controllando attraverso una delle menti delle donne che erano sedute al mio tavolo. Confrontarmi con i loro dubbi e trovare che i miei non erano poi così distanti, mi confortava non poco. Inoltre, fu indubbio il fatto che avessi trovato l’occasione adatta per divertirmi.

«…e poi lavoro molto a maglia. Christine, la mia cameriera, ha la dieta che mi ha dato il ginecologo e mi prepara tutte quelle cose assurde. Beh, un po’ mi scoccio, Richard è quasi sempre fuori e mi annoio a stare sola a casa. Pensa che l’ho dovuto obbligare a venire qui oggi!» la bionda ridacchiò, ammiccando a tutte, che la seguirono.

«Come ti capisco» confermò un’altra donna, sui trent’anni, al suo fianco. «Anch’io sono sempre sola a casa, a non fare nulla». Le altre annuirono, sorseggiando compostamente il thè.

Quasi mi scappò una risata a quell’affermazione. Tutte si voltarono nella mia direzione.

«Tu, ragazza» chiese la donna «non hai anche tu questo genere di problemi?».

Arrossii, notando tutti quegli occhi puntati su di me. «Beh» balbettai «non proprio, diciamo. Ecco» mi morsi un labbro «per quanto mio marito mi aiuti quasi in tutto, passando molto tempo con me quindi, cerco di fare molte cose anche sola». Continuai, vedendo i loro volti interessati «cucino, pulisco, lavo, stiro. E poi studio, soprattutto quello».

«Tu… fai tutte queste cose?» chiese una donna rossiccia al mio fianco, sorpresa.

«Beh, sì».

«Sembri molto giovane» affermò la bionda, curiosa «quanti anni hai?».

Sollevai un sopracciglio «Diciannove, quanti ne ha mio marito. Ci siamo sposati a diciotto, e sono rimasta subito incinta».

La questione si stemperò, e fortunatamente l’attenzione fu spostata via da me. Odiavo sentirmi al centro di tutto. Come avevo immaginato, a parte la loro inettitudine, quelle donne erano proprio come me. Anche l’istruttrice si avvicinò, dandoci suggerimenti e fornendoci spiegazioni. Iniziarono a raccontarmi interessanti dettagli e Ashley, la più grande, mi diede alcuni consigli. Sua sorella aveva avuto un figlio da poco e si era molto documentata.

«Oh, ecco il mio David» esclamò d’un’tratto, sollevandosi dalla sedia e avviandosi verso una donna con in braccio un neonato. Dovevano venire dalla nursery. «Eccolo, questo è il mio nipotino, non è un amore?» chiese, prendendolo dalle braccia di quella che doveva essere sua sorella. Lo cullò con delicatezza, facendosi afferrare un dito dalla sua piccola mano. Anche le altre si alzarono, andandogli intorno e cominciando a fargli moine.

«Isabella» mi chiamò - aveva insistito sul fatto che il mio nome completo fosse più signorile - «vieni a vederlo».

Mi sollevai, imbarazzata, mettendomi accanto a lei. Era… un neonato. Era carino. «Sì, vedo» borbottai.

«Avanti, prendilo!» fece entusiasta, porgendomelo.

Arrossii. «Oh, io. Non ne sono capace, non credo di esserlo» farfugliai.

Lei ridacchiò. «Ma lo sei, certo che lo sei! È impossibile non esserlo».

«Certo piccola» confermò Juliet, la donna bionda. «Si chiama istinto materno».

Anche le altre annuirono, incoraggiandomi. Ashley mi spiegò come mettere le braccia e me lo mise su, nonostante i miei timori e le mie proteste. Anche la madre sembrava volermi dare fiducia.

Sentendolo fra le braccia mi appariva come un fagottino, molto più leggero di quanto mi sarei aspettata, morbido ed estremamente fragile. Emanava calore. Iniziò a muovere e braccia velocemente, mentre ruotava la testa da una parte all’altra. «È… io non so…».

«Stai andando benissimo» m’incoraggiò la madre.

Eppure il bambino continuava ad agitarsi. «Io…mmm…» tentai di cullarlo per riuscire a calmarlo, ma pareva che a ogni mio movimento si agitasse di più. Iniziò a frignare, e mi allarmai, non sapendo come farlo smettere. «Si sta agitando» dissi preoccupata.

«Ma no, sta’ tranquilla».

Ogni mi tentativo di farlo smettere fu inutile. Tentai di imitare il comportamento che avevo visto usare dalle altre donne. «Piccolo, sta’ calmo» biascicai nervosa «su, su, avanti, calmati». Tutta la serenità che ero riuscita a racimolare con gli esercizi di yoga precedentemente svolti stava scomparendo come una meteora di giorno. Lo cullai con più decisione, e a quel punto iniziò a strillare.

Tutte scattarono allarmate, tendendo le braccia verso il bimbo.

«Oh, è strano, ma che succede?».

«Dai a me cara, non fa nulla».

«Ecco, così».

In pochi secondi il mio petto fu liberato da quel piccolo peso, e tutta l’attenzione si concentrò un metro più avanti, intorno al bambino che smise quasi immediatamente di piangere.

Fissai tutte quelle donne in silenzio, sentendo un pungente fastidio invadermi e spingere dal diaframma verso l’alto, verso i polmoni, comprimendoli e impedendomi di respirare.

Mi volsi ed andai via, velocemente, prima che potessero distogliere l’attenzione dal fagotto e accorgersi di me. Attraversai rapidamente la sala con tutti i tappetini blu, fiondandomi negli spogliatoi. Mi lasciai cadere sulla panchina e intrecciai le braccia sotto al seno, premendo sul petto. Contai solo pochi secondi.

«Bella» un sussurro strozzato, quasi affannato, di Edward.

Velocemente mi asciugai i lacrimoni ai bordi degli occhi, sperando che non li vedesse, ostinandomi a guardare nella direzione opposta alla sua.

«Bella» mi chiamò ancora, camminando fino a trovarsi di fronte a me. Indugiò, indeciso su cosa dirmi. Stringevo le labbra per evitare di scoppiare in un pianto a dirotto. «Tutto bene?» mi chiese cauto, inginocchiandosi di fronte a me e accarezzandomi una guancia con la sua mano fredda.

«No» singhiozzai, serrando gli occhi. Li riaprii, fissandolo nei suoi, preoccupati, e lasciando scendere qualche lacrima. Presi due respiri profondi, portandomi una mano all’attaccatura della pancia. «Voglio uscire di qui. Ti prego, fammi uscire. Mi manca l’aria».

Non insistette, non parlò. Capì che avevo solo bisogno di stare in silenzio. Mi mise una mano sul fianco, aiutandomi ad alzarmi. L’aria fresca del giardino mi fece subito riacquistare un minimo di lucidità. Mi fece sedere su una panchina, inginocchiandosi di fronte a me e prendendomi una mano fra le sue, mentre tenevo l’altra ostinatamente premuta contro il ventre.

Non volevo parlare, e non volevo che lo facesse lui. Mi avrebbe confortata, spiegato e dimostrato, in qualche modo, che non era colpa mia. Che non avevo ragione di sentirmi così… inadatta. Ma invece era il contrario, e lo sapevo perfettamente. Perché solo ora, solo ora che il vento freddo usciva irregolare dai miei polmoni, raggelandomi, avevo la lucidità per comprendere.

Mi resi conto di come mi fossi caricata delle aspettative delle persone che mi erano attorno, della mia famiglia vampira e di Edward. Dall’assurda idea di potermi impegnare sempre di più per non deluderli ed insieme di forzarmi di essere una persona migliore, di aiutarli, di essere una buona moglie e di diventare una buona madre.

Eppure ogni cosa che accadeva mi faceva sentire come se non fossi all’altezza. Come dopo quello che Jacob mi aveva fatto mi fossi spezzata e qualunque mio tentativo di rimettermi in sesto fosse inutile.

E mi sentivo così in colpa del nervosismo e dell’agitazione che sentivo e con cui stavo inondando ripetutamente mia figlia non ancora nata. Sarebbe bastato così poco. Una o due pillole al giorno.

«Non mi guardare così, Edward. Non mi guardare così» mormorai, cancellandomi le lacrime che erano scese con le mie parole. Non volevo i suoi occhi apprensivi su di me. Evidenziavano semplicemente il mio ennesimo fallimento. Distolsi lo sguardo, sollevando la mano fino all’attaccatura della pancia e premendo alternativamente per aiutarmi a fare respiri che mi parevano impossibili.

«Bella, ti prego» fece una pausa, scegliendo, nel suo vasto vocabolario, le parole più adatte. «Respira, sta tranquilla» disse infine, cambiando probabilmente il senso della sua frase.

«Ce la faccio» mormorai togliendomi la mano dal petto e allontanando con un gesto la sua. L’aria che mi usciva dalla bocca si condensava in piccole nuvolette e le ciglia bagnate ghiacciavano, dandomi l’impressione di avere delle piccole schegge negli occhi. Eppure non volevo parlare, solo continuare a rimanere in silenzio.

Edward però si risolse a dirmi qualcosa. «Amore», strinse la mia mano «non fare così. Tu sarai una madre stup…».

Scattai, bloccandolo. «Non dirlo Edward, non dirlo perché non è così» singhiozzai «e non riuscirai a convincermi, in alcun modo. L’hai detto anche tu prima quanto dannatamente sia testarda. Ma non avevo capito quanto fosse sbagliato finché non ho fallito per l’ennesima volta come moglie e madre» vidi la sua espressione angosciata e sfilai la mano dalle sue, coprendomi gli occhi pieni di lacrime «mentre avevi ragione tu sin dall’inizio e sarebbe bastato solo prendere dei dannatissimi antidepressivi!» esclamai fra i singhiozzi.

S’irrigidì, sconvolto. «Bella» sussurrò senza fiato.

Strinsi le labbra, fissando il suo viso, addolorata. «Dimmi che non è vero» dissi con un filo di voce.

Si perse con lo sguardo nel vuoto, silenzioso. Deglutì, e spostò di nuovo i suoi occhi nei miei. «Siamo insieme in questa cosa, lo sai? Ricordi quando eri catatonica a letto, senza mangiare? È stato uno dei momenti più brutti della mia vita, perché non sapevo quando e se ti saresti ripresa» disse, angosciato al solo ricordo «ma lo hai fatto, sorprendendo tutti» aggiunse con un piccolissimo sorriso «poi hai scoperto della gravidanza, e non hai pensato per un secondo a quello che la bambina avrebbe potuto farti. Sei stata così coraggiosa da mettere il suo bene davanti al tuo anche quando io non ci riuscivo. Questo secondo me è ciò che farebbe un’ottima madre» continuò con estrema dolcezza.

Tirai su con il naso.

Mi sorrise, scrutandomi cauto. «E poi io avevo così tanta paura di fare l’amore con te, dopo Jacob. Mi sembravi più fragile e vulnerabile di prima e fosse stato per me non mi sarei avvicinato mai più. Ma tu» fece, sorridendomi «oh, tu. Sei stata così amorevole, naturale, dolce. Ti sei affidata a me completamente, con tutto il tuo cuore, facendomi credere che ogni cosa fosse possibile e scaldando il mio cuore di ghiaccio. Ho pensato che se mia moglie, un’umana così fragile, aveva sopportato così tanto e con così tanto amore anch’io mi dovevo impegnare per farlo. Bella» concluse con estremo amore e sincerità «tu mi hai fatto tornare in vita».

Fremetti, scacciando un ennesimo singhiozzo. «Piango sempre» biascicai fra le labbra, commossa e un po’ stordita dalle sue parole «e odio piangere. Non faccio altro che piangere, e tu sei sempre qui a consolarmi e non vorrei farlo! Eppure continuo a farlo senza poterci fare nulla. E ti faccio soffrire, e faccio soffrire la bambina».

«Bella» sospirò, sollevandosi dai talloni e sedendosi sulla panchina, accanto a me, sfregandomi le mani contro le braccia nell’inutile tentativo di infondermi calore. «Hai ragione, sai. Hai perfettamente ragione» commentò, facendomi sobbalzare e abbassare lo sguardo. «Hai un difetto orribile» riprese «quello di non essere per niente consapevole delle tue capacità».

Feci per protestare, ma mi interruppe, posandomi un dito sulle labbra.

«Da cosa pensi che dipenda questa tua insicurezza?» chiese, come se la risposta fosse più che palese. «Cosa, se non quello che io stesso ti ho lasciato credere? Ti prego, dici di non essere una buona moglie, ma se mi ami, ti prego, ascoltami» mi prese il viso fra le mani, fissandomi «tu sei tutto ciò di cui ho bisogno. Tu e la bambina. Vuoi essere una buona moglie? Amami. È solo questo che importa. O forse non mi ami più?».

«Certo» balbettai «certo che ti amo. Ma questo non fa di me una buona moglie».

Sorrise amaramente, scuotendo il capo. «E di certo, non provare a contraddirmi, quello che ho combinato non fa di me un buon marito. Oh, accidenti, siamo proprio due pessimi coniugi!» mi sorrise «cosa ci importa? Io sto bene con te e tu con me».

«Ti stancherai».

«Puoi far decidere me? Sai, non credo che lo farò tanto presto, almeno per… l’eternità?».

Sospirai, appoggiandomi sul suo petto. «Sono stata davvero pessima» borbottai vergognosa.

«Oh Bella, è normale quello che è accaduto, visto che non avevi mai preso in braccio un bambino».

«Invece no!» protestai «le altre donne lo sapevano fare benissimo. Non prendermi in giro».

Scosse il capo benevolo. «Imparerai. I bambini sentono le nostre emozioni, e tu eri molto nervosa. Ti si resa conto di quanto lo sei, nell’ultimo periodo?» chiese serio «sei incinta, Bella. Ti assicuro che è normalissimo sentirsi così. Il tuo corpo cambia, la tua vita cambia, hai tanti ormoni impazziti dentro di te, e di tanto in tanto è normale sentirsi un po’ sfasate» sorrise teneramente «Cosa che non sarebbe accaduta se ti avessi dato l’amore di cui hai bisogno, ma comunque» aggiunse velocemente «tu non mi credi. Ma stai a sentire una cosa, e poi sarai libera di non cambiare idea, okay?».

Sbuffai, incrociando le braccia. Feci passare qualche istante nel silenzio. «Okay» concessi debolmente, fissando la ghiaia del vialetto. Dopotutto, pur non volendolo, avevo così bisogno di sentirgli dimostrare il contrario. Di sentirgli dire quanto mi apprezzasse, quanto mi amasse. Di sapere quanto valessi per lui.

«Tutte quelle donne» cominciò piano «erano incredibilmente invidiose di te».

«Oh, certo» commentai, delusa dal fatto che non avesse trovato un’argomentazione migliore «tutte vorrebbero averti per marito».

Sospirò, prendendomi il viso fra le mani, costringendomi a guardarlo. Mi lasciò senza fiato per l’irruenza del gesto. «Bella. Come fai a non vederti? Come fai a non vedere le tue possibilità?» esclamò infervorato. Fece una pausa, modulando il tono in maniera più gentile. Ero ancora troppo shockata per reagire. «Erano invidiose per quello che sei, per quello che riesci a fare. Hai una vita frenetica e splendida. Lotti per quello che vuoi ottenere. Ti sacrifichi per gli altri, ami appassionatamente. E hai soli diciannove anni! Hai idea di quanto volessero sentirsi realizzate almeno un decimo di quanto lo sei tu?» concluse dolcemente, accarezzandomi la guancia.

Sentii il mio labbro inferiore tremolare, fin troppo vicino al suo. «Io, io…» balbettai, sentendo gli occhi pungermi, mentre il freddo ghiacciato condensava le nuove lacrime. «Mi dispiace» dissi infine. Tirai su col naso, poi lasciai andare il volto sulla sua camicia.

Risi, con ancora le guance bagnate d’acqua, quando sentii la bambina muoversi. Lui mi sorrise, fissandomi adorante. Presi la sua mano e la portai sulla pancia, facendogli sentire sua figlia mentre si muoveva.

«Pensa» sussurrò, «quanto siamo fortunati ad avere questo legame con nostra figlia».

Mi asciugai le nuove lacrime. «Tanto. Troppo» mormorai.

Appena le mie condizioni tornarono accettabili rientrammo nella grande sala dove si facevano gli esercizi per finire la prima seduta del corso. Le altre donne non mi fecero particolari domande, così non mi giustificai. Trassi nuovo beneficio da quegli esercizi che solo poche ore prima credevo stupidi, forse perché avevo una nuova disposizione d’animo, o forse perché, semplicemente, avevo Edward accanto a me. E lui mi faceva sentire amata, ma soprattutto in grado di amare. Per lui ero intelligente, perspicace, bella. E sapevo quanto fosse convinto di quello che mi diceva.

«Oh, credo di aver bisogno di una doccia!» esclamai, lasciando cadere il mio borsone con la tuta sul divano. Sbadigliai, accarezzandomi lo stomaco gorgogliante e voltandomi ad osservare Edward che portava in casa il suo borsone e due grosse scatole marroni. Cielo, era così sexy anche quando non faceva praticamente nulla! Anche quando mi sembrava un bravo marito, un bravo papà, non potevo fare a meno di aggiungere al commento l’aggettivo “sexy”. Magari eravamo due novelli sposi, di cui uno un vampiro, che avevano bisogno di smaltire la loro energia attrattiva ma che proprio non sapevano come fare. Sospirai, distogliendo i miei pensieri non appena lo vidi sfrecciare velocemente per sistemare ogni cosa.

«Credo che prima mangerò qualcosa» dissi a mezza voce, ancora concentrata sulle sue magnifiche gambe fasciate dalla tuta… Andai in cucina, alla ricerca di qualcosa di appetitoso.

Aprii il frigo e mi trovai di fronte ad un’ampia scelta. «Ho voglia di… di…» sussurrai, scorrendo con lo sguardo sulle mensole trasparenti. Mi chinai ad osservare in basso, sull’ultimo ripiano.

Improvvisamente mi sentii afferrare sui fianchi da due mani fredde, inconfondibili. Una decisa pacca sul sedere, mi fece ansimare, stupita. «Io ho voglia di te» mormorò roco al mio orecchio.

Quello che accadde successivamente infranse la promessa che entrambi, solo pochi giorni prima, ci eravamo fatta.

Ma cosa potevamo farci?

Eravamo entrambi troppo masochisti per non godere l’un dell’altra.

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Capitolo 56
*** Il patto ***


Sollevò il capo dalla mia pancia, tornando a sedere sulla sedia accanto alla mia non appena la bambina smise di muoversi. Aveva cominciato ad avvertire nuovi brevi pensieri. Diceva che erano tutti come piccoli impulsi, di movimento, molte volte “sbagliati”. Perché, come mi aveva spiegato, i bambini ne avevano molti, e cominciavano a discernere gli impulsi e gli istinti giusti da quelli sbagliati relazionandosi con il mondo esterno. Tuttavia, né durate il mio sonno, né in altre occasioni era riuscito a trovare la chiave di risoluzione dei pensieri della bimba. La maggior parte delle volte, appena prima di arrivare a pensare all’oggetto della ricerca, i sogni s’interrompevano.

«Sì Amber, ti porto tutto quanto prima, ho quasi finito. No, no, ho fatto tutto ieri… beh sì, ci ho impiegato quattro ore… l’importante è aver finito». Posai la mano su quella di Edward, a palmo in su sul bracciolo della scomoda sedia di plastica della sala d’aspetto. Stavo parlando al cellulare con la mia amica, informandola del lavoro svolto per una delle tante vicine sessioni d’esame. Ultimamente studiavo davvero molto, fino a tardi, e dipingevo spesso, anche. Magari, lo facevo con così tanto impegno perché mi aiutava a distrarmi.

Edward strinse delicatamente la presa sulla mia mano, sorridendomi. Distrarmi da lui, soprattutto. Infatti, per un’intera settimana, non avevamo fatto altro che provocarci reciprocamente, fino ad arrivare più volte a fare quello che ci eravamo ripromessi di negarci. Forse perché eravamo una coppia di novelli sposi. Forse perché era un vampiro. O magari, perché fare qualcosa di proibito e contro le regole ci eccitava decisamente di più…

«Sei stanca?» mi chiese tranquillo, osservandomi.

Scossi il capo con sicurezza. Se era vero che nell’ultimo periodo le mie attività di studio e strappo alle regole erano state incrementate, era vero anche che probabilmente proprio quest’ultima mi dava il lusso di concedermi di dormire serenamente. Da questo derivava una nuova tranquillità e lucidità.

«Cosa dobbiamo fare? Credo di dover passare a casa di Amber entro le sei, facciamo in tempo?».

Annuì, mentre gli occhi dorati e vigili ispezionavano velocemente la sala. «Sì, quasi certamente. Carlisle vorrebbe comunicarmi il risultato di una sua ricerca e ha detto che devi essere presente anche tu. Considerando che siamo già a Seattle non dovremmo impiegarci troppo a raggiungere la casa della tua amica».

Dopo mangiato mi aveva letteralmente messa in macchina, senza spiegarmi il perché. Alle mie continue richieste aveva risposto che avevo già studiato abbastanza, che mi sarei dovuta riposare in ogni caso, e che saremmo andati a trovare Carlisle. Ora comprendevo. Venire a conoscenza di nuovi misteri, di nuove assurde caratteristiche sovrannaturali di mia figlia, mi metteva sempre una certa ansia.

Mi sentii toccare la mano, intrecciata alla sua, con più decisione. «Vedrai, andrà tutto bene. Devi solo stare tranquilla e fidarti di noi» mi disse serio.

Posai una mano sulla pancia, accanto alla sua, potendo sentire la bambina muoversi da dentro e da fuori. In effetti, le sue rassicurazioni sui licantropi erano state sincere, considerando che nonostante i miei dubbi su quello che volessero comunicarci non si erano più fatti sentire.

«Edward, Bella» la voce familiare di Carlisle mi distolse dai miei pensieri. Avanzò nell’asettico corridoio della clinica, fino a raggiungerci.

Mi sollevai, prendendo sotto un braccio il cappotto che avevo depositato sulle gambe, imitando lo stesso movimento di mio marito.

«Seguitemi» disse, a voce alta per far capire anche a me, «andiamo in un luogo più appartato». Ci guidò in un piccolo ambulatorio sul corridoio parallelo a quello in cui eravamo. Non somigliava per niente al suo confortevole e caldo studio dell’ospedale di Forks.

A far tornare la mia mente verso l’impellente rivelazione fu lo sguardo serio di Carlisle. Timorosa, mi voltai verso Edward, seduto su una sedia simile alla mia, tentando di leggere sul suo volto qualcosa in più rispetto a quanto non dicesse quello di suo padre. Eppure, pareva impaziente e curioso; probabilmente Carlisle aveva deciso di farci conoscere la verità insieme.

«Ho effettuato molta ricerca» cominciò pacato «sperimentalmente. Questo ospedale ha attrezzature molto più avanzate rispetto a quello di Forks. Purtroppo non ho ottenuto i risultati che speravo» affermò desolato, portando una mano, stretta a pugno, sotto il mento, e poggiandovi la testa.

Edward sospirò.

«Di che si tratta?» chiesi velocemente, facendo passare il mio sguardo fra i due.

Carlisle mi sorrise rassicurante, riacquisendo la sua solita compostezza. «Credo che andando avanti in questa gravidanza sia fondamentale avere delle anche piccole informazioni sul bambino. La settimana scorsa hai avuto di nuovo un pochino di anemia, niente di preoccupante rispetto alla prima volta, e un po’ di ferro in vena ti ha fatto stare subito meglio» fece con un sorriso.

Annuì, sfregandomi l’incavo dell’avambraccio. Carlisle monitorizzava costantemente la mia emoglobina variando la mia terapia in modo precauzionale, così da non far scendere i miei valori sotto una determinata soglia.

«Il punto è che se succedesse ancora, o se succedessero altre cose non saprei cosa fare. L’esame che ti ho fatto fare prima si chiama Risonanza Magnetica Fetale» disse, riferendosi al grosso tubo rumoroso in cui mi aveva ficcata. «Ma purtroppo ha dato più o meno gli stessi esiti dell’ecografia, così non farci vedere quasi nulla».

Sospirai. «Pensi che possa essere un serio problema?».

Scrollò le spalle. «Non ti nascondo che ogni piccola informazione potrebbe esserci utile. Se solo…» sussurrò, distogliendo lo sguardo, pensieroso.

«Cosa?» domandai, pronta a qualunque cosa per rendergli il lavoro più facile.

Scosse il capo con un sorriso mesto. «Niente, non è praticabile».

Edward mi strinse la mano, e mi volsi a guardarlo.

«Pensava di riuscire a prendere un campione di liquido amniotico o di sangue fetale» mi spiegò con calma.

Spalancai la bocca, sorpresa. «Pensavo che avessimo accantonato questa ipotesi».

«È così» mi spiegò mio suocero «ma ho studiato in letteratura un approccio un po’ differente, magari transplacentare in un punto di minore resistenza. Il problema sarebbe un esame piuttosto invasivo con una reale, seppure piccola percentuale di rischio. Inoltre, tutto potrebbe rivelarsi un inutile buco nell’acqua» dichiarò serio, esponendomi sinceramente la realtà dei fatti.

Strinsi la mano libera sul maglione largo e caldo, all’altezza della pancia. Non mi piaceva che si parlasse della bambina e insieme di rischi. Era una cosa che difficilmente potevo accettare. Ma se tutto fosse servito per aiutarla? Che cosa avrei dovuto scegliere? Cosa ne pensava Edward?

«Bella» mi chiamò. Avvicinò una mano al mio viso, sfiorandomi una guancia, facendomi arrossire per la presenza di suo padre. «Non essere in ansia, non si farà alcun esame». Sussultai. Dunque quella era la sua scelta?

Carlisle rispose alla mia domanda. «Nonostante le mie ricerche credo che sia pressoché impossibile. Dalla risonanza fatto oggi pare che la tua placenta sia nella parete posteriore dell’utero. Non riuscirei a raggiungerla con nessun tipo di ago».

Cacciai un fremito dalle labbra tremanti.

Edward captò velocemente il mo timore. «Non è il caso di farsi impressionare», mi prese il volto fra le mani, costringendomi a guardarlo «non si farà alcun esame».

Annuii, catturata dai suoi occhi magnetici, stordita.

Quando le sue labbra si piegarono in un sorriso e un piccolo oggetto metallico comparve nel mio capo visivo, non capii bene cosa stesse accadendo. «Rispondi» mi esortò, e a quel punto mi resi conto che fra le sue mani c’era il mio cellulare, che vibrava ritmicamente producendo un basso ronzio.

Mi riscossi. Lo afferrai con una mano, portandomelo all’orecchio e facendo grattare la sedia di leggero alluminio contro il pavimento, mentre mi alzavo per allontanarmi di qualche passo. Cosa inutile, considerando il loro super udito, ma che compii come un abituale gesto umano di cortesia.

«Bella, ci sei? Va tutto bene? Perché ci hai impiegato così tanto a rispondere?».

La voce di Amber mi travolse e mi ci volle qualche istante per rispondere, riprendendomi definitivamente dal timore e dalla confusione che mi avevano causato le parole di Carlisle. «Tutto bene» mi schiarii la voce. «Problemi?» osservai l’orologio al mio polso «posso passare anche fra poco se vuoi, credo di aver finito». Mi voltai a cercare la conferma che mi diede Edward, annuendo, interrompendo per un attimo il tranquillo dialogo col padre.

«No, no, anzi! Ti volevo avvisare che il professor Danbaster ha modificato il programma per l’esame di lunedì».

Ebbi uno strano brivido sentendo quel nome. Dopo la nostra chiacchierata nello studio non avevo più incontrato il professore così… “privatamente”. Avevo seguito le sue lezioni e l’avevo visto di sfuggita nei corridoi, troppo poco tempo per fermarlo e chiedergli spiegazioni su quella strana storia che, nonostante tutto, continuava ad assillarmi. Richiedeva una spiegazione che non riuscivo a dare.

«Dobbiamo integrare lo studio delle opere straniere con quelle tedesche e guarda, sul serio, sono talmente tante che io…».

«Germania?» chiesi, stranita e stupita, interrompendola.

«Sì, Germania» ripeté tranquilla. «Il professor Danbaster ha una fissa con i tedeschi, non lo sapevi?» chiese come se fosse ovvio.

«No» balbettai, ricordando facilmente che la nazionalità del misterioso marito di Caterina Barbarigo era tedesca. Un giovane tedesco. Così aveva detto.

«Ma certo! È così perché il professore è di origine tedesca. Davvero non lo sapevi? Oh Bella… Hai proprio la testa fra le nuvole. Il suo nome non ti dice nulla? È così cacofonico».

Ero immobile, paralizzata dalle sue prime parole. Di origine tedesca. Come una saetta scoccata con precisione da un esperto arciere, un’intuizione mi colpì, centrando la verità.

Philip era lui. Era il personaggio della sua storia, il marito della bella Caterina, ne ero così certa! Questo spiegava la sua partecipazione al racconto, spiegava la presenza di quel quadro, e spiegava, soprattutto, perché Caterina e Kate, sua figlia, fossero descritte così accuratamente, mentre il suo personaggio così sommariamente tratteggiato. Era così chiaro che mi chiesi come avessi fatto a non pensarci prima.

Tuttavia questo ancora non spiegava come fosse possibile il fatto che avesse avuto a che fare con personaggi appartenenti ad un’altra epoca. A meno che…

«Bella? Bella?» mi sentii scuotere con forza le spalle e in un istante mi resi conto di non avere più il piccolo cellulare in mano. Realizzai di avere le mani di Edward a sorreggermi previdentemente per i gomiti, mentre quelle che mi scuotevano le spalle erano di Carlisle.

Osservai ancora come in trance i loro volti. Carlisle aveva una maschera professionale, Edward pareva preoccupato. I miei occhi caddero sul triste pavimento bianco e sul cellulare, staccato in due pezzi. Mi era caduto?

«È… non può essere lui… lui stava… lui… beveva… sì…» i balbettii sconnessi giunsero perfino alle mie orecchie ovattate. La mia confusione era amplificata, mischiata con quella della bambina.

La stessa confusione che imperversava sul volto di mio marito. «Chi non può essere?» mi chiese deciso.

Ripresi fiato, mordendomi le labbra per evitare di continuare a pronunciare parole senza senso. Avevo chiaramente visto il professor Philip tossire violentemente, avanzare col suo passo poco aggraziato, avevo guardato a lungo i suoi occhietti celesti. E come se questo non bastasse, l’avevo visto bere, proprio davanti ai me! Che senso avrebbe avuto fingere, tanto più del necessario?

Mi voltai verso Carlisle, serio e risoluto. No, non era un vampiro. Almeno, non lui. «Chi è» scandii piano, ansiosa di farmi comprendere «Caterina Barbarigo?».

Carlisle mi guardò, tentando di comprendere, forse, il significato di quella mia domanda apparentemente senza senso.

«È una nobile del Settecento, veneziana. È famosa per il ritratto che le è stato fatto da Rosalba Carriera» rispose Edward, titubante. «Bella» mi chiamò poi «cosa succede?». Dal suo tono era palese quanto il non poter leggere nei miei pensieri lo facesse andare fuori di testa.

Ma intanto, Carlisle continuava ad osservarmi. E così capii che la mia intuizione non doveva essere affatto sbagliata. «Come la conosci?» chiese interessato, facendo spostare l’attenzione del figlio su di lui. Strinse le labbra, esitò. «È una delle più famose immortali».

Ansimai, sorreggendomi a Edward per non cadere. Allora avevo ragione.

La seguente ora la passai intenta a spiegare a Edward e Carlisle ogni cosa. Il suo studio, quello che avevo visto, quello che mi aveva detto. Dovetti ripetere molte volte le stesse cose, perché spesso le mie frasi rimanevano spezzate e sconnesse.

Ero molto, molto agitata. Ma in fondo l’avevo avvertito sin da subito che ci fosse qualcosa di strano in quell’uomo. Lui era… lui! Era suo marito! Era marito di una vampira, era entrato a conoscenza del mondo sovrannaturale. Era come me.

«Caterina era un’immortale annoiata. E, come tutti gli immortali annoiati, aveva deciso di venire allo scoperto, nel XVIII secolo» mi spiegò Carlisle, invitandomi a bere un altro sorso dell’acqua che, tremante, reggevo fra le mani. Edward mi accarezzò i capelli, stringendomi di più a sé. «Non l’ho mai conosciuta personalmente, ma so che ebbe un importante ruolo nella seconda guerra mondiale».

«La seconda guerra mondiale?» chiesi confusa.

Annuì. «Esattamente, proprio quella. In quel periodo lei era lì. Saprai certamente che ebbe il suo epicentro in Germania. Quello che non sai, Bella, è che alla base di quella guerra, come molte altre avvenute nel mondo umano, non ci sono gli uomini, ma il mondo sovrannaturale».

Strabuzzai gli occhi, sorpresa. Quanto ancora avrei dovuto scoprire di questo mondo, di cui ormai facevo parte? Dovevo continuare a stupirmi?

«La seconda guerra mondiale fu uno dei conflitti più accesi, e scoppiò per un’azione repressiva, mossa da Caius in persona contro i licantropi, i veri licantropi. Caterina era molto affiliata, amica dei Volturi, apertamente ostile ai lupi e in seguito ad innumerevoli provocazioni fu catturata e giustiziata. Fu la scintilla che face scoppiare la guerra».

Mi passai una mano fra i capelli, stupita, confusa da tutta la mole di notizie che mi era giunta in poco tempo. Anche a questo avrei probabilmente dovuto essere abituata. Fino a quell’istante avevo pensato, quasi dato per scontato, per una classica e umana divisione, che il professor Philip, pur avendo questi impensabili segreti facesse parte di una sorta di schiera di “buoni”. Dopotutto, mi aveva anche offerto il suo aiuto. Ora, invece, venivo a sapere che sua moglie era addirittura amica dei Volturi, che avevo sempre considerato negativamente. Dare un giudizio su di lui, ora, mi pareva così complicato.

Cosa avremmo fatto adesso? Come ci saremmo comportati nei suoi confronti? Avrei dovuto far finta di nulla? Potevo semplicemente… ignorarlo?

«Dobbiamo andare da lui!» esclamai, improvvisamente colta da un altro ricordo, saltando giù dal lettino su cui ero seduta.

«Bella» mi chiamò Edward titubante, eseguendo il mio stesso gesto con grazia, calma, e singolare eleganza, «perché vorresti? Magari sarebbe meglio pensarci con più calma. Non sappiamo che tipo di problemi ci potrebbe portare tutto questo con i Volturi».

Scossi il capo con determinazione, indossando velocemente il cappotto. «No Edward. Lui ci serve. Lui sa» presi un respiro, provando a placare la mia fretta, ricordandomi che dovevo ancora renderli partecipi di quella parte della storia. Li guardai negli occhi. «Lui aveva una figlia. Kate. Lui sa» ribadii.

Entrambi furono stupiti dalla mia rivelazione. Il primo a riprendere il contegno fu Carlisle, e lo notai dalle piccole fossettine che comparivano sulle tempie quando la sua espressione si faceva pensosa. «Mi pare impossibile, considerando che il corpo delle donne immortali non può mutare».

Strinsi i pugni, serrano le labbra. «Per questo dobbiamo andare da lui».

Gli occhi di Edward si concentrarono nuovamente su di me. Sospirò, lanciando una breve e fugace, quando ben visibile, occhiata a suo padre. Anche lui doveva essere d’accordo con me. «Andiamo» disse riluttante dopo pochi istanti.

Riuscii ad ottenere informazioni sull’abitazione del professore tramite Amber, dopo averla rassicurata almeno un milione di volte sulle mie ottime condizioni di salute e averla convinta con una dichiarazione diretta di Edward. Sapevo che non avrebbe mai obbiettato a qualcosa detto da lui, era una persona timida in fondo, e mio marito la metteva spesso e volentieri in soggezione.

Ci stavamo dirigendo, dunque, a Sequim, cittadina a metà strada fra Seattle e Port Angeles. Comprendevo da chi avesse preso Edward l’amore per la velocità, vedendo guidare Carlisle. Anche se decisamente la sua guida era meno spericolata ed “acrobatica”.

«Non è necessario che venga anche tu» mi disse Edward ad un tratto, giocando distrattamente con le mie dita.

Lo fissai stupita. Diceva sul serio? «È il mio professore. Voi per lui siete due sconosciuti».

Strinse le labbra, contrariato, continuando a fissare il vuoto e parlando con finta disinvoltura. «Magari potremmo aspettare una visione di Alice, o chiedere a Jasper qual è il modo più adatto per…».

«Non c’è un modo più adatto».

«Perché fare così di fretta?».

«Perché aspettare?». Lo guardai in viso. «Edward, stai tranquillo. Perché fai così?».

Prese un breve respiro, prendendomi per i fianchi e stringendomi a sé. «Perché ho paura di perderti, visto che ho rischiato già troppe volte di farlo».

Sospirai, immedesimandomi in lui e comprendendo il suo tormento. «Pensa che forse finalmente riusciremo a scoprire qualcosa su questa gravidanza! La mia anemia, i sogni strani, le emozioni. Potremmo capire come farla crescere e cosa aspettarci da lei» feci una pausa, contemplando con le mani i suoi zigomi squadrati «è solo un umano. Non potrà fare del male a nessuno di noi, neppure se volesse».

Annuì, stringendomi più forte e baciandomi la fronte. «Non so come farei senza te».

Arrivammo a destinazione dopo appena un’ora. Appena uscii dall’auto rimasi stupita. Subito dopo mi diedi della sciocca. In fondo, cosa mi sarei dovuta aspettare, se non quello che vedevo?

Un ampio cancello e delle siepi incorniciavano il giardino della villa. La costruzione al centro era in mattoni scuri, come grigi, quello del fumo che colora il bordo del camino. Pareva una costruzione a metà fra una fortificazione e un castello incantato. Tutto rigorosamente in miniatura.

Fu Carlisle a suonare il campanello, esteticamente sullo stesso stile medievale. S’illuminò un piccolo display, e decisi di farmi avanti per essere visibile alla telecamera. La serratura del cancello scattò poco dopo con uno schiocco secco, ma nessuno si fece vivo, né venne ad aprirci.

Edward mi strinse un braccio intorno alla vita, e Carlisle fu ben presto sull’altro lato, mentre ci avviavamo silenziosi sul vialetto. Mi chiedevo perché non ci avesse risposto alcuna voce di cortesia, o perché non si fosse ancora fatto vivo nessuno, tuttavia i miei pensieri erano ancora troppo occupati a pensare a ciò che solo poche ore prima avevo scoperto.

Assurdo. Fatti che non mi sarei mai aspettata e che mi facevano, ancora una volta, vedere le cose in modo diverso.

Mi bastò un’occhiata per fermare Edward, appena sull’ingresso. Spinsi il grosso portone di legno scuro, che per quanto avesse l’aspetto di essere molto pesante, si aprì con notevole facilità.

Immediatamente sentii un suono alieno a quel luogo e quella situazione. Un lento applauso. Subito dopo, mentre ai miei occhi si rivelava il lussuoso interno dell’abitazione, vidi la figura del professore, piegata, sulle scale. «Isabella» esclamò, e la sua voce fu quasi un’eco nell’ambiente ampio. «Ce ne hai messo di tempo».

Aggrottai le sopracciglia, confusa, ma prima che potessi chiedere spiegazioni fu Carlisle a parlare, cortese. «Ci scusi per questa intrusione, e mi permetta di presentarmi. Sono Ca…».

«Carlisle Cullen, sì» continuò con un sorriso furbo, cominciando a scendere i gradini, aggrappandosi al passamano curvo. «Vampiro di origine inglese, nato nel 1640 e trasformato, se non vado errato, nel 1663. Lui invece è tuo figlio, uno dei tanti, come dire “adottati”. Edward Cullen, strappato dalla spagnola ad appena diciassette anni. Che pena!» esclamò sarcasticamente, ormai giunto sull’ultimo gradino.

Ero raggelata e avvertivo la stessa sorpresa essere emanata da Edward e Carlisle. Evidentemente sapeva. Anche molto più di quanto potessimo immaginare.

Tossì violentemente a pochi passi da me, e infastidito cacciò un fazzoletto di stoffa dalla tasca, asciugandosi la bocca. «Ah, che seccatura» sollevò lo sguardo, fino a guardarmi negli occhi, ignorando completamente i due vampiri ai miei lati, che si strinsero maggiormente su di me, protettivi, mentre avanzava di un altro passo. «Dicevo cara, ora che le formalità sono state assolte, ce ne hai messo di tempo! Speravo che potessi essere più intuitiva» sorrise, e notai con facilità la sua breve e fuggente occhiata alla mia pancia.

Sentii il mio senso di disagio mescolarsi con quello della bambina, e portai una mano alla pancia per acquietarla.

Sbuffò, alzando gli occhi al cielo, quando un altro accesso di tosse lo colpì. «Su, su, veloci, accomodatevi di là» mugugnò, facendo un ampio gesto con la mano. Entrambi i vampiri temporeggiarono, trattenendosi, ancora sorpresi dal modo con cui si era presentato, con tutte quelle informazioni, così dettagliate, su di loro. «Non volevate sapere qualcosa, o sbaglio? Avanti, cosa potrebbe fare un sol uomo contro due vampiri?» chiese, borbottando.

Notai Carlisle lanciare un’occhiata a Edward, e poco dopo mi ritrovai a camminare senza sapere neppure come.

Ci guidò, traballante, verso una piccola saletta. Ogni cosa sembrava riprodurre lo stesso stile del suo studio all’università: ovunque erano sparsi oggetti che a prima vista potevano parere tutte cianfrusaglie d’egual valore.

«Prego, accomodati» mi disse, parlandomi con gentilezza e indicandomi un largo divano coperto da vari strati di una pesante coperta rossa «non vogliamo far rimanere in piedi una donna in dolce attesa, vero?». Mi sedetti, arrossendo per la cortesia dimostratami, e lo stesso fecero Edward e Carlisle, sedendosi ai miei lati. Con passo incerto zoppicò fino a lasciarsi cadere su una poltrona di pelle, di fronte.

«Dicevamo» cominciò, non appena ci fummo accomodati, «cosa volete chiedermi?» chiese impaziente, andando subito al sodo della questione. Dava per scontato che avessimo un quesito da porgli?

Con la coda dell’occhio, distogliendo il viso dal piccolo e acuto viso magro del professore, vidi qualcosa di strano in Edward. Aveva un’espressione seria e concentrata, fissa sul suo volto. «Philip, lei ci deve delle spiegazioni. Come fa a conoscerci, per esempio, oppure…». Le sue parole furono interrotte da un suo gesto secco.

«Oh sì» borbottò, e parve alquanto infastidito, «avevo dimenticato queste stupide ovvietà. Beh, vi basti sapere che vi conosco. Chiedete, avanti. Non abbiamo tempo da perdere».

«Mio figlio ha ragione» ribadì Carlisle, osservandolo, cauto e attento. Era molto pacato e cortese, come al solito. Pensai che fra tutti i vampiri che avrebbero potuto accompagnarci, sarebbe comunque stato lui quello più adatto.

Il professore sbuffò, contrariato. «Che inutile perdita di tempo. Isabella» mi chiamò, e i suoi occhi si addolcirono mentre pronunciava il mio nome «Hai scoperto la mia storia, non è così? Sei a conoscenza del fatto che mia moglie era una vampira?».

Sussultai, dirizzandomi sul posto. Moglie. E così avevo avuto ragione. Una geniale intuizione. Annuii.

Sorrise, un sorriso piccolo e storto. «Bene, hai sbagliato. Mia moglie in realtà era proprio come tua figlia».

«Cosa?» esclamò Edward sgomento e il professore parve contrariato dell’interruzione. Eppure, anch’io ero stupita quanto lui.

«Oh certo» sibilò, come se fosse ovvio «pensate forse che una vampira possa procreare?!».

«Quindi non è la prima volta che accade?» chiese Carlisle, pacato.

«No. Affatto» ribadì Philip «ci sono almeno ventitrè casi attestati. Tua figlia è il ventiquattresimo».

Automaticamente mi potrai entrambe le mani alla pancia, proteggendo il ventre. Così mia figlia non era affatto unica. Da un lato mi consolava notevolmente, dandomi la speranza di scoprire su di lei di più. Di poterla comprendere e magari poterle essere d’aiuto. Dall’altro sentivo uno strano senso… avevo sempre dato per scontato che fosse unica. Tuttavia, nel turbino dei miei pensieri, un’altra questione aveva la precedenza. «Come fa a sapere tutto questo?» sussurrai piano, guardandolo con insistenza negli occhi.

Mi fissò di rimando senza battere ciglio. «Bene» asserì dopo pochi secondi «credo che dovremmo rimandare le domande, visto che hai bisogno di una spiegazione». Estrasse dalla giacca un contenitore rettangolare e schiacciato, di colore argentato, quello che normalmente si usa per contenere i liquori. Ne mandò giù un lungo sorso, e non mi sfuggì per niente l’occhiata che nel frattempo gli rivolse Carlisle. Anche lui, notandola sicuramente, la ignorò, cominciando a spiegare. «Spero di dover ovviare il fatto che mia moglie fosse molto in simpatia dei Volturi» annuii, così continuò, concentrato «bene. Ho già spiegato che era una vampira solo per metà, così avemmo una figlia, Kate, anche lei, vampira esattamente per metà. E spero di non dover intavolare una discussione scientifica, ma si tratta puramente di genetica mendeliana. Sono due alleli codominanti. Il dottore mi comprenderà» disse, lanciando un’occhiata a Carlisle «così, quello che già sai, è che mia moglie fu fatta prigioniera e uccisa. Anche Kate fu catturata, ma piste attendibili mi riferiscono che è ancora in vita. Ora, per quanto sia interessate tutto il resto, la farò breve. I Volturi vennero a sapere di me, un umano a conoscenza del loro mondo. Per questo motivo sono a conoscenza di tutto sui vampiri e il mondo sovrannaturale».

Lo fissai, perplessa. L’unico pensiero che avevo era che a quel punto per la legge dei Volturi sarebbe dovuto essere già morto. Come me, d’altronde.

«Spiegati» fece Edward, asciutto, confuso quanto me. Mi chiesi perché fosse così disorientato.

Sospirò, seccato di dover continuare a spiegare. «I Volturi hanno deciso di affidare tutti i loro segreti ad un unico uomo che li conservi, li custodisca, e non li riveli a nessuno. Data la loro amicizia con mia moglie il privilegio è spettato a me».

«Perché non sappiamo nulla di questo?» chiese Carlisle.

Philip fece sbattere le mani contro i braccioli della poltrona. «Non è certo una cosa che vanno a raccontare in giro. Come pensi la prenderebbero gli altri immortali? Ci sono cose che neppure i Volturi stessi conoscono, e che devono continuare a rimanere celate».

Carlisle irrigidì la mascella. Sapevo quanto fosse difficile per lui, assetato com’era di conoscenza, venire a sapere di quello che avrebbe sicuramente definito uno “spreco”.

Notai lo sguardo del professore, perso e concentrato sul mio grembo pieno. Edward mi strinse una mano sulla pancia, come a proteggere nostra figlia. In effetti quel contatto mi faceva sentire molto più sicura e protetta. Inoltre dava alla bambina la possibilità di provare la tranquillità che le dava il contatto col padre, in contrasto con l’indecisione e la confusione che avvertivo io in quel momento.

«Perché hanno scelto un umano?» incalzò Edward.

Si riscosse, sollevando lo sguardo fino ai suoi occhi. «Perché gli umani muoiono ragazzo. Pensavo fossi più sveglio. Non hanno intenzione di concentrare tutto il potere nelle mani di un immortale. Ora, se le domande sono finite…».

«Hai detto che sono segreti, e che non dovrebbero essere svelati. Perché allora sei disposto a dirceli?» continuò imperterrito mio marito.

Philip gli scoccò un’occhiata furente. Sembrava che quella domanda l’avesse punto sul vivo. «I Volturi non verranno a saperlo».

Edward affinò lo sguardo, guardandolo fisso. «Aro legge nel pensiero».

Sospirò, lasciandosi andare sulla poltrona e prendendo un altro sorso di liquore. Spostò lo sguardo lontano, facendolo perdere nel vuoto. Il rintocco lento dell’orologio a pendolo scandiva ritmicamente il silenzio.

«Faremo un patto» asserì poi, guardando i due vampiri e concentrando infine gli occhi su di me. «Io vi dirò quello che volete sapere e voi mi riporterete mia figlia».

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Capitolo 57
*** Un accompagnatore ***


«Carlisle» chiamò pacato, non interrompendo il contatto con i miei occhi

Ansimai, boccheggiando, osservando le ciocche ribelli dei capelli rossicci ondeggiare lentamente. Mi strinsi di più a lui, avvinghiandomi completamente al suo corpo e stringendo forte fra le mani la sua chioma bronzea.

«Ti amo» mormorai sulla sua guancia, tremando, sentendo il mio corpo scosso da forti tremiti. Lo baciai con passione, togliendogli, avida, l’inutile respiro.

«Bella» sospirò roco, lasciandosi andare su di me e stringendomi a sua volta, senza gravare con il suo peso su di me.

Sorrisi, chiudendo gli occhi e lasciando che mi baciasse la fronte. Li aprii e presi un profondo respiro, osservando i suoi, ambrati, e aspettando pazientemente che avvenisse l’inevitabile.

 

Quando ebbi nuovamente coscienza del mio corpo mi trovai avvolta in una comoda e calda coperta, spartendo il poco spazio a disposizione sul divano bianco con Edward, le gambe intrecciate alle sue.

Scrutai i suoi occhi, con il fiato ancora corto, cercando di scoprire se stavolta avesse scoperto qualcosa di importante. «Come… come sono andata stavolta?» chiesi mordicchiandomi il labbro, tentando di ironizzare nonostante la stanchezza che mi sentivo addosso.

Mi sistemò una ciocca di capelli che si era appiccicata alla fronte. Sorrise. «Penso che essendone consapevole tu riesca ad avere un miglior controllo di te. Direi che va meglio».

«Oh» feci, quasi imbronciata, «quindi non sei riuscito a scoprire di più».

«Bella» mi rimproverò con la sua proverbiale melodrammaticità «lo sai che non sopporto vederti…».

«Non sopporti vedermi soffrire. Sì, me l’hai ripetuto diverse volte» affermai, divincolandomi dal suo abbraccio e alzandomi con la coperta avvolta intorno al corpo, in cerca della mia biancheria sparsa qua e là, piegandomi per raccoglierla. Mi sollevai, respirando piano per compensare la fatica di quel gesto, «oh, guarda! Abbiamo risparmiato: un reggiseno e tre quarti di slip, questa volta!» lo presi in giro, sventolando i pezzi superstiti e spostando via l’attenzione da me, dalla mia stanchezza, dalla mia sofferenza… cose di cui non mi andava assolutamente di parlare.

In un istante mi sentii afferrare alle spalle, mentre le sue labbra si posavano sul mio collo. «Vorrei ben vedere; se tu fossi un vampiro non rimarrebbe nulla dei miei abiti».

Arrossii violentemente, memore della mia focosità. Mi schiarii la voce, dirigendomi in camera, in cerca di qualcosa di pulito e integro da indossare. «In ogni caso» esordii, riprendendo il discorso interrotto dal mio banale appunto, con l’intento di far valere almeno per una volta le mie ragioni senza che il discorso fosse dirottato direttamente su di me, «lo sai che voglio solo capire. È tutto qui. Dobbiamo cercare di scoprire il più possibile su questa bambina. Questi strani sogni non mi turbano più di tanto» sottolineai sicura, indossando dei nuovi vestiti.

Lo sentii protestare qualcosa, ma non tanto alacremente da spingermi a tacere.

«Infatti» indugiai, indossando un largo maglione «sono dell’avviso che non avremmo bisogno di accettare il patto proposto dal professor Philip; mi sembra molto più un ricatto».

«Ne abbiamo discusso» ribatté tranquillo, sicuramente già vestito di tutto punto. Ero quasi certa che non me l’avrebbe mai data vinta, era una discussione persa in partenza, ma non potevo fare a meno, ancora una volta, di tentare.

Alzai gli occhi al cielo, indossando dei comodi fuseaux e saltellando per farli scorrere lungo le gambe. «Ne abbiamo discusso, dicendo che lo avremmo fatto ancora. Edward, sono più i contro che i pro, e lo sai meglio di me».

Sbucò nella cabina armadio, venendomi incontro e facendo al mio posto un piccolo fiocco sul davanti, appena sulla pancia. «Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile per proteggere te e la bambina. Perché non accettare quello che ci ha offerto lui?».

Dopo la sua proposta, Edward aveva sin da subito detto di voler accettare il patto del professore, nonostante il fatto che continuasse a non sopportarlo. Avrebbe fatto qualunque cosa per avere qualche certezza sulla gravidanza. Non gli avevamo ancora dato una risposta, rimanendo in accordo che quella sera stessa, dopo esserci consultati con gli altri, gliel’avremmo fatto sapere. Lui non aveva aggiunto nient’altro sul suo conto, né risposto a qualsiasi altro nostro quesito. Io non avevo più parlato, rimanendo a osservarlo in silenzio e a disagio.

Sospirai, vedendo mio marito così tranquillo e risoluto. «Perché se lo scoprissero i Volturi ci potrebbero essere mille problemi, perché non mi va che vi arrischiate in un’impresa che non sappiamo quanto possa essere pericolosa, e perché non mi fido di lui. Punto». Protestai, mettendo il broncio e incrociando le braccia sul petto.

Mi guardò, e fui certa che nei suoi occhi ci fosse un immenso divertimento. Oh, sì, ridiamo pure di Bella: la patetica donna incinta! Sentii il consueto divertimento provenire anche dalla bambina. «Amore» mi chiamò calmo «i Volturi non potranno mai punirci per qualcosa che è stato infranto da lui, non con il rischio che c’è che andassimo a raccontare che esiste».

«Ma non voglio che voi rischiate tutto questo per me» ribadii convinta.

«Non rischiamo proprio niente. Philip sa esattamente quello che fa, e a lui, che è un umano, non è successo ancora nulla, fino ad oggi. E per quanto riguarda te» mi precedette, prima che potessi aggiungere qualcosa «vedrai che imparerai a fidarti di lui».

Pensai ai suoi occhietti chiari sulla mia figura e al senso di disagio che ogni volta ne scaturiva. «Certo, lui non fissa te. Fissa me. Fissa continuamente me» brontolai. «Non mi fido. Mi spighi come fai?» gli chiesi, guardandolo torva e pensando a quanto fosse brusco il professore nei suoi confronti. Assurdo. «Lo sopporti meno di me e non riesci neppure a leggergli nel pensiero!» sbottai, pensando alla sconcertante rivelazione, che più di tutte mi aveva convinta a non fidarmi di quell’uomo.

Avevamo infatti scoperto che la fede che si portava al dito non fosse altro che un potente scudo, fisico e mentale, che con il tempo era andato molto affievolendosi. Era stato creato dalla sua stessa moglie, che aveva il potere di trasferire questo tipo di potere in un oggetto. Non più di tre contemporaneamente, comunque. Il piccolo anello nero l’aveva protetto da molti attacchi del mondo sovrannaturale, e riusciva parzialmente a schermare i suoi pensieri. Con questo mi spiegai il perché la bella Caterina fosse tanto amata dai Volturi.

«Perché so che non avere nessuna informazione sulla gravidanza quando possiamo averle è una follia. La settimana scorsa Carlisle ha dovuto farti un altro ciclo di terapia endovenosa per l’anemia. Se succedesse di nuovo e non avessi fatto nulla per contrastarlo? Se i sogni della bambina aumentassero tanto da farti stare peggio? Non possiamo rischiare» fece con logica inoppugnabile. «E poi nonostante non lo sopporti mi fido di lui, e so che non ci, ma soprattutto, ti, farebbe mai del male. Abbiamo votato, e il discorso è chiuso» mi liquidò, afferrando le chiavi dell’auto.

Sospirai, certa che non sarei riuscita a fargli cambiare idea. Né a lui, né ai Cullen, tutti estremamente entusiasti della possibilità di avere notizie e di fare nuove scoperte. Evviva!

Presi un bicchiere d’acqua e lo bevvi in un sorso, tentando di non pensarci; non potevo fare nulla per fargli cambiare idea. Sistemai la mia trousse e il mio vestito, ricoperto dalla grande fodera.

Quella sera, infatti, Edward si sarebbe esibito al “Pantages Theatre”. Ci voleva un bel vestito da sera, così aveva detto Alice, e non mi aveva permesso di obiettare. Avrei passato il pomeriggio a casa loro, con la scusa che presto o tardi sarei finita nelle sue grinfie. Cosa più importante, sarei stata un intero pomeriggio senza Edward.

Mi avviai verso la porta d’ingresso, sbilanciata un po’ dalla piccola pancia in crescita un po’ dall’eccessivo ingombro degli oggetti che portavo.

«Sei incredibile» mormorò divertito Edward, vedendomi ondeggiare.

«Fermo lì, ce la faccio» lo minacciai, brandendo il mio carico sul vialetto della nostra casa, nel breve tragitto fino all’auto.

«Come vuoi» disse, appoggiandosi alla portiera dell’auto con la schiena. Intrecciò le braccia sul petto e aspettò, con un sopracciglio alzato e uno sguardo sarcastico, che m’ingegnassi per scendere i due unici gradini che mi separavano da lui, senza cadere e senza guardarmi i piedi.

Ondeggiai da un lato, appoggiandomi con un fianco alla siepe accanto. Mi morsi il labbro, titubante, su come avrei dovuto affrontare il secondo e valutando il peso sulle due braccia. Decisi di avanzare con in piede destro, appoggiandomi al lato sinistro, ma non trovai il terreno sotto i piedi.

«Fin troppo aggraziata. Mi dispiace amore, ma non abbiamo il tempo di fare una visita al pronto soccorso oggi». Spavaldo mi depositò in auto con la sua forza sovrumana, sistemando in un battibaleno tutte le mie cianfrusaglie nel vano posteriore.

«Molto divertente Edward, davvero molto divertente» sibilai sarcastica «sei peggio di un bambino» lo rimproverai, scuotendo il capo e massaggiandomi la piccola pancia.

 

«Sorellina! Ti vedo radiosa… Vi siete dati da fare, eh?» insinuò Emmett, sollevandomi e facendomi compiere una mezza giravolta.

Arrossii violentemente, pensando alle possibili orecchie indiscrete presenti in quella casa e soprattutto vergognandomi della possibilità che una cosa del genere mi si leggesse in faccia. «Emmett» borbottai, in vago tono di rimprovero.

«Sì, Emmett, lasciala in pace» riprese Edward, trucidando il fratello con lo sguardo.

Lui rise, strafottente come al solito.

Mio marito scosse il capo, contrariato, depositando il mio vestito e la mia roba sul divano più vicino. Lo osservavo fare ogni cosa, in silenzio. Quando ebbe finito venne vicino a me, e mi prese le mani con la sua, grande, posando l’altra sulla pancia.

Mi mancherai. Ce l’avevo sulla punta della lingua, eppure non osavo dirlo. Ero stata io a convincerlo, a spingerlo a buttarsi in quell’impresa. Avevo sognato solo un po’ di normalità nella vita della nostra bambina. C’erano tante altre cose a cui non avevo pensato, come, ad esempio, questa. 

«Mi mancherai» disse al mio posto, risparmiandomi ogni cosa. Ci eravamo più volte separati, per colpa dei miei studi, per colpa della sua natura. Eppure non potevamo fare a meno, di volta in volta, di soffrire anche se solo per un minimo distacco.

Mi gettai con le braccia al suo collo, stringendolo con tutta la forza che pensavo di possedere. «Sarai perfetto stasera» dissi sicura, lasciandogli un bacio sulla fredda guancia. Si scostò baciandomi nuovamente, a sua volta, facendo toccare le nostre labbra.

Poi si staccò, osservandomi con un luccichio negli occhi. Strinse le labbra. Mi pareva assorto. «Carlisle» chiamò infine, pacato, non interrompendo il contatto con i miei occhi.

Non ebbi il tempo di chiedergli perché lo stesse chiamando, né di pensarlo seriamente, che la figura carismatica di mio suocero comparve accanto a noi. «Sì, Edward?» chiese attento, con un sorriso, facendo passare lo sguardo fra me e lui.

Lo fissò un istante attentamente e suo padre fece un passo, avvicinandosi ancor di più a noi. «Carlisle, lo sai che mi fido di te e sai quanto vale la mia stima nei tuoi confronti. Mia moglie stasera, a teatro, sarà sola, e vorrei che ti occupassi di lei e che accompagnassi anche lei, oltre a Esme».

Arrossii violentemente, comprendendo le sue intenzioni, mentre Edward posava la mia mano che aveva fra le sue su quella di Carlisle. «Ed-Edward» balbettai sgomenta. Come gli veniva in mente una cosa simile? Mi sentivo più o meno come in uno di quei film pieni di lunghi abiti vaporosi e ore e ore di estenuanti balli.

Eppure, quando Carlisle gli rispose, sembrava estremamente serio. «Certo Edward, accompagnerò io Bella stasera».

«M-ma… io…» farfugliai a disagio, completamente rossa in viso.

«Povera ragazza» commentò la voce di Esme, sulla porta del soggiorno, «non vi accorgete quanto la mettete in difficoltà con queste cose d’altri tempi? Oh, cara. Non ti curare di questi schiocchini» affermò venendomi accanto in un secondo e prendendomi per le spalle, trascinandomi con sé «vieni con me. Sono sicura che non hai mangiato abbastanza! Ti preparo dei dolci, ne vuoi?».

Circa due ore più tardi, dopo essermi adeguatamente salutata con Edward, avevo preso il mio posto sul deserto tavolo da pranzo, impegnata con un libro per i prossimi esami. Molte volte ebbi l’impressione di sentire lo sguardo di Carlisle su di me, seduto sul divano alle mie spalle.

Di certo la storia dell’ufficialità per la ricerca del mio accompagnatore mi aveva a dir poco lasciata basita. Poi però, mentre le parole del grosso tomo sotto i miei occhi continuavano a scorrere senza senso, avevo riflettuto. Per quanto Edward dimostrasse di essere in tutto e per tutto umano, non poteva rinnegare la sua natura. Era un vampiro, un vampiro con un secolo d’età. Rabbrividii, quando pensai a quella di Carlisle.

«Hai freddo?» mi chiese gentile la sua voce, facendomi tornare con i pensieri al presente.

Mi voltai verso di lui, togliendomi la matita con cui stavo giocherellando dalla bocca. «No, sto bene… credo» cincischiai. Fui certa che in quell’istante qualcuno, in casa, stesse accendendo i riscaldamenti.

Mi sorrise, ritornando con lo sguardo su un grosso libro consunto che reggeva con compostezza fra le mani.

Sbuffai, passando nervosamente le mani fra i capelli, e fermandoli in una crocchia asimmetrica con una penna. Mi stropicciai gli occhi. Mi sentivo assonnata, probabilmente a causa del controllo che la bambina aveva su di me con i suoi sogni.

«Qualcosa non va?» mi chiese Carlisle, con la sua solita discrezione. Faceva parte del patto che aveva fatto con Edward?

A passo umano, decisamente a mio beneficio, venne a sedersi sulla sedia accanto alla mia. «No» borbottai. Presi un respiro, incerta se continuare. «Sono solo stanca» dissi infine, abbassando lo sguardo.

«Forse dovresti rallentare un po’ il ritmo. In questi giorni ti stai impegnando molto per l’università» buttò lì serenamente.

Mi misi una mano sulla pancia, sentendo la bambina muoversi. «Non mi va di essere discriminata solo perché sono incinta» affermai convinta, sollevando i miei occhi sui suoi con determinazione.

Mi sorrise teneramente. «Non lo dico perché sei incinta. A mio parere sarebbe un ritmo troppo veloce anche per una qualsiasi ragazza» ribatté sincero.

«Devo solo finire questo» chiarii «devo fare tre esami, tutti lo stesso giorno, appena dopo Natale. E poi sarò libera fino a giugno; devo affrontare quella sessione d’esame prima di poter dare la prima tesi, e siccome non so quanto mi occuperà la nascita della bambina, devo cercare di anticipare quanto più posso».

«Vedo che hai pianificato tutto quanto. Ma Bella, non darti fretta. Avrai un’eternità per fare tutto, e adesso sei molto stanca». Il suo non sembrava un ordine, un’ammonizione, ma molto più un consiglio da padre.

Cercai di dissimularlo, conscia che presto, come spesso mia accadeva, avrei nuovamente acquisito appieno le forze. «Ce la faccio, sul serio. Posso controllare quello che succede alla bambina, non è un problema».

«Bene» mormorò con un sorriso, ritornando al suo divano e al suo libro.

Dopo un’altra ora passata sui libri pensai che chiaramente qualcuno avesse acceso i riscaldamenti. Lasciai cadere la matita mangiucchiata sul tavolo e vagai verso la cucina alla ricerca di un rinfrescante bicchiere d’acqua. Lì trovai Esme intenta a cucinare dolci per me. Un’immagine decisamente incantevole, quasi uscita da una fiaba. Mi sedetti sulla penisola della cucina, sorseggiando la mia acqua e massaggiando la pancia nel tentativo di far cessare le capriole della bambina. Si agitava sempre, quando sentivo caldo.

«Tutto bene cara?» chiese, lanciandomi una rapida occhiata fra un biscotto e l’altro.

Annuii. «Perché Edward ha chiesto a Carlisle di accompagnarmi?» chiesi curiosa, cambiando discorso.

Rise brevemente, una piccola delizia per l’udito. «Beh. È così che si usa fra gentiluomini. Non voleva che andassi a teatro non accompagnata. È sconveniente per una donna. Soprattutto se questa è in dolce attesa».

«Capisco» cincischiai, saltando giù dallo sgabello. «Oh, Esme. Puoi spegnere i riscaldamenti?» chiesi con voluta leggerezza, tentando di non dare a vedere quanto quel calore mi turbasse.

«Ma certo» sorrise, scomparendo e riapparendo in un attimo. «Ecco. Alice arriverà fra mezz’ora, per prepararti» mi informò pacata, pulendosi le mani dalla farina, strofinandole una contro l’altra. Le resi un’occhiata che doveva essere piuttosto eloquente, tanto da spingerla a deliziarmi ancora con una sua risata.

Mi trascinai fino alla sala da pranzo, con l’intento di raccogliere i miei libri, facendomi aria con una mano contro la calura. Non appena arrivai allo stipite della porta, però, sentii un’accentuata sensazione di leggerezza alla testa e per un attimo il piano del pavimento s’inclinò da un lato. Sbattei le palpebre, strizzando gli occhi e appoggiandomi alla porta con una mano.

«Tutto bene?» alla voce di Carlisle fu accompagnato un notevole sostegno sotto le mie braccia.

«Si… è solo… un po’ la testa…» mormorai, sentendomi guidare verso il divano. Sentii la sua mano fredda sulla fronte, e dopo pochi secondi la vista tornò piuttosto nitida, tanto da permettermi di mettere a fuoco i suoi occhi chiari. Spostò la mano con cui mi stava sorreggendo sul polso.

«Sei un po’ ipotesa. Stai meglio?» mi chiese scrutandomi.

Piuttosto che muovere la testa e rischiare di scatenare una nuova ondata di vertigini preferii mormorare un flebile assenso.

Annuì. «Esme» chiamò pacato «per favore porta un succo o una limonata per Bella» poi si rivolse a me, poggiando la mano fredda sulla mia guancia. «Anche se non sei più anemica come prima hai ancora l’emoglobina un po’ bassa. Magari per la settimana prossima valutiamo l’ipotesi di un altro ciclo di terapia in vena, ve bene?» fece cortese, studiandomi.

«Mi sento già meglio».

Mi sorrise. «Bene. Hai sempre avuto la pressione un po’ bassa, potresti essere soggetta spesso a questi episodi, in questo periodo della gestazione sono più frequenti».

Esme mi portò un bicchiere di spremuta e un piattino con un pezzo di torta. «Grazie» le disse Carlisle, accompagnando la sua dolcezza verso la moglie con lo sguardo «se ti dovesse capitare voglio che bevi possibilmente qualcosa di zuccherato, che stai tranquilla, e se ne senti la necessità ti stendi. Evita i luoghi caldi e portati delle caramelle in borsa, va bene?».

«Sì, grazie Carlisle» mormorai, prendendo un lungo sorso di aranciata.

Mi guardò a lungo, silenzioso. «Edward ha ragione, lo sai. Quando avremo più informazioni saremo senza dubbio più tranquilli».

Sospirai, riconoscendo la verità nelle sue parole. «La decisione è stata presa, ormai».

Il resto del pomeriggio lo passai con Alice, e aldilà di tutto, mi concessi di riflettere su quello che presto sarebbe avvenuto. Subito dopo l’esibizione di Edward, a cui il professor Philip avrebbe presenziato, gli avremmo comunicato la nostra decisione.

Sapevo che era la scelta giusta, ma avevo paura. Paura per loro, paura per Edward, paura per la bambina. Mi rendevo conto che accettare, sarebbe andato a svantaggio di tutti men che mio. Non farlo, invece, sarebbe andato solo a mio svantaggio. Perfetto! Perché non potevano accettarlo in pace? Ce la saremmo cavata, da soli, senza problemi.

Già non sopportavo di sapere Emmett, Rosalie, Alice e Jasper lontani da casa, per la maggior parte del tempo, per cercare l’origine di chissà quale leggenda su dei mezzi vampiri che avevo scoperto esistere realmente. Figuriamoci accettare che affrontassero un’impresa come quella di ricercare una mezza vampira sperduta chissà dove e in compagnia di chissà chi. L’unica fortuna era che Edward sarebbe rimasto con me. Ero egoista, infinitamente egoista, lo sapevo. Eppure sapevo anche quanto avrei sofferto nel caso in cui mi sarei dovuta separare da lui.

Il viaggio in auto verso il “Pantages Theatre” di Tracoma durò all’incirca due ore e fu per lo più silenzioso. Mi diede un’altra eccellente occasione per rimanere a pensare. Arrivai alla conclusione che potevo fare davvero ben poco per far cambiare idea a Edward o a uno qualsiasi degli altri Cullen.

Cominciai a pensare, però, a quale melodia avesse deciso di suonare. Non mi aveva voluto svelare questo segreto fino alla fine. Mi avrebbe sorpreso, ne ero certa. E di sicuro la sua esibizione sarebbe stata perfetta… tanto da costringerlo a inserire alcune imperfezioni.

«Signore» mormorò Carlisle in cima all’ampia scalinata.

Un ragazzo in frac prese i nostri soprabiti, lasciando vedere la linea lunga e flessuosa che il mio vestito argentato disegnava sulla pancia. Quando ero a casa, davanti a uno specchio magari, mi ero più volte fermata ad osservarla mettendomi di profilo e stando ore a contemplare la mia immagine. Tuttavia, molto più spesso mi capitava di abbassare appena il collo, e vedere appena, oltre quella piccola collina, la punta dei piedi.

«Siete incantevoli» commentò Carlisle, facendo il baciamano a entrambe. Ero sicura che Esme sarebbe diventata, se ne avesse avuto l’opportunità, del mio stesso color rosso acceso.

Impallidii, quando comparai mentalmente l’altezza dei miei tacchi e il numero di gradini che avrei dovuto scendere. Carlisle mi sorrise rassicurante, accompagnando con un braccio sua moglie, e con altro, forte, me.

«Sei nervosa?» mi chiese Carlisle a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio ma non voltandosi verso di me. Lo spettacolo era sul punto di cominciare, e a illuminare l’immensa sala c’erano delle grandi luci circolari di colore giallo, poste a intervallo fra i palchi, quella sera sgombri.

Deglutii, osservando i pezzettini che rimanevano del mio depliant. Dovetti fermare l’impulso di passarmi una mano fra i capelli, ricordandomi che così facendo avrei rovinato una complicata acconciatura piena di fermagli luccicanti. «Solo un po’» ammisi riluttante. Presi un respiro, ricordandomi di una cosa. «Gli altri?» chiesi ansiosa.

«Sono passati a prendere tuo padre. Arriveranno a momenti. Rilassati, Bella» disse, fermando con la sua le mie mani, intente a tagliuzzare la carta.

Presi un grosso respiro, facendo calmare, insieme a me, la bambina. Come previsto gli altri arrivarono pochi minuti più tardi, appena in tempo per l’inizio dello spettacolo. Edward, come nuovo artista, sarebbe stato uno dei primi a esibirsi, in una serata dedicata alternativamente al balletto e al piano.

Mio padre era indiscutibilmente più nervoso di me, non tanto perché fosse fuori luogo, quanto più per quanto si sentisse un pesce fur d’acqua.

Sentivo il cuore sussultare ogni volta che m’immaginavo che dai quei pesanti drappi bordeaux sarebbe comparso un meraviglioso sorriso e una splendida chioma rossiccia.

Al contrario di quanto mi sarei aspettata, però, il cuore rallentò i suoi battiti e ogni ansia sparì, quando realmente lo vidi comparire sul palco. Era lui, Edward, mio marito, e sarebbe stato perfetto, ne ero certa.

E così fu. Così, seguii la sua immagine mentre con carisma ed eleganza si spostava lungo il palco, andandosi a sedere sullo sgabello nero e imbottito. Così, vidi le sue mani e le sue dita posarsi sui tasti neri e avorio e suonare una meravigliosa melodia. Sapevo che ogni cosa sarebbe stata perfetta, l’avevo immaginato, mille volte, nella mia mente. Sapevo perfettamente quanto la bambina avrebbe apprezzato quelle note così dolci e musicali.

Fu come quando sei piccola, e aspetti per un intero mese il giorno del tuo compleanno, aspettando i giorni che mancano. E poi c’è la festa, ci sono i tuoi piccoli amici, la torta e tanta panna. E quel giorno ti sembra di non viverlo mai totalmente appieno, di non sfruttarlo abbastanza. Ti senti piena e vuota, ma capisci, alla fine, che tutto è andato proprio come doveva andare.

Il forte applauso delle persone accanto a me ruppe quasi la mia bolla, e mi sollevai fluidamente, insieme agli altri, applaudendo ancora e osservando fisso negli occhi mio marito, che a sua vota non guardava che me.

«Bella, eri uno spasso, non la smettevi di piangere» ridacchiò Emmett, schernendomi ancora.

«No, invece» ruggii, tirando su col naso e cercando di cancellarmi le ultime tracce delle lacrime infami dagli occhi.

Jasper, che camminava nei lunghi corridoi circolari accanto a me, mi posò una mano sulla spalla, infondendomi un po’ di serenità. Alice gli prese la mano, continuando a camminare al mio passo. Ero giusto un po’ lenta, solo perché non volevo rischiare di inciampare e rompermi l’osso del collo su quegli esorbitanti tacchi. Gli altri avevano già raggiunto Edward nel suo camerino, mentre loro e Emmett, che era rimasto con me solo per prendermi in giro, erano rimasti con me.

Alice lanciò un’occhiata veloce a suo marito, e poi schizzò in avanti, insieme a Emmett.

Sbuffai. «Sono troppo lenta anche per lei, ora?» chiesi massaggiandomi la pancia. La bambina si era piuttosto agitata durante l’esibizione del padre. Causa mia, anche.

Jasper mi sorrise, carismatico, e sentii un altro po’ di tranquillità fluire in me. «Ha avuto una visione. Il professor Philip ci raggiungerà fra dieci minuti, è andata a dirlo agli altri».

«Capisco» commentai, e sentii in un angolo della coscienza un certo fastidio per non poter essere realmente infastidita.

«Amore» mi chiamò Edward non appena entrai nel suo camerino, dove già era presente il resto della famiglia.

Jasper staccò la mano dalla mia spalla, e ringraziai mille volte il fatto che non fossi più sottoposta al suo potere. «Edward» lo chiamai, e lasciai che annullasse la distanza fra di noi, poggiando le labbra sulle mie. Si staccò un attimo, ma lo rincorsi, strappandogli altri due veloci baci.

Mi osservò, adorante, facendomi imporporare le guance. «Sei stupenda» soffiò, posando una mano sulla pancia e muovendola piano, circolarmente. Presi un respiro, posando la fronte sul suo petto, quando la bimba iniziò a muoversi impetuosamente.

Spostai il capo di lato. «Dov’è mio padre?».

«È andato via» ripose Rose «sembrava… che fosse urgente» disse, contenendo un piccolo sorriso.

Sorrisi anch’io, al pensiero del disagio di mio padre. Un sorriso che durò ben poco, considerando quanto velocemente la porta di aprì, rivelando un’immagine che riusciva in ogni caso a mettermi a disagio.

«Buonasera» salutò pacato, per niente disturbato dalla presenza di tutti quei vampiri.

Carlisle si fece avanti, salutandolo a sua volta a nome della famiglia. Sentii la presa di Edward farsi più forte intorno alle mie spalle proprio mentre gli occhi cerulei del professore si posavano su me.

«Mi risparmi i convenevoli» affermò brusco, fermando le cortesi parole di Carlisle, e spostando finalmente lo sguardo su di lui «cosa avete deciso?».

Carlisle aspettò un secondo, poi parlò. «Accettiamo» disse solo.

«Oh, ma bene» affermò il professore, zoppicando verso il centro della stanza. «Spero non ci mettiate così tanto tempo anche a mettervi all’opera per cominciare a cercare mia figlia; tutte queste baggianate, puah» fece disgustato, lasciandosi cadere sulla sedia rossa, imbottita, accanto alla scrivania. «Da dove vogliamo cominciare?» chiese, aggrottando le bianche sopracciglia.

Tutti attesero in silenzio, destabilizzati forse dalla sua fretta.

«Mia figlia si trova di sicuro in America. Le sue ultime tracce erano in Messico. Ha viaggiato sola, è stata a volte catturata dai licantropi, fugge da loro. Ha la dote della ricerca e della fuga, per questo è così difficile individuarla. Non spaventatela. La riconoscerete perché sarà lei a farsi riconoscere. Ha quasi settant’anni anni, ne dimostra quindici. Questo, per ora, vi basterà. Domani vi porterò una mappa con i luoghi da perlustrare».

Tutti i vampiri rimasero in silenzio, soppesando le sue parole. Anch’io, nella mia mente, pensavo a quello che aveva detto. Sua figlia dimostrava molti meno anni di quelli che aveva? Allora sarebbe stato lo stesso anche per la mia. Non ero mai stata brava in matematica, e con qualche sforzo feci un calcolo mentale: un anno dimostrato corrispondeva a circa quattro anni e mezzo effettivi? La mia bambina sarebbe cresciuta così lentamente? E poi?

Jasper ruppe per primo il silenzio. «Forse dovrebbe darci più informazioni sui mezzi vampiri, anche per agevolare la ricerca, come d’altronde era d’accordo» dichiarò sicuro, avanzando di un passo.

Philip rise, stiracchiando le rughe ai lati della sua bocca. «Withlock, non è così? Beh… andiamoci piano. Le cose devono essere ben commisurate».

«Non ci tireremo indietro dal nostro impegno, può fidarsi di noi» affermò Carlisle «vogliamo solo avere più spiegazioni possibile, almeno sulla gravidanza, per essere preparati prima che accada qualcosa».

Gli occhi del professore saettarono su di me, facendomi violentemente arrossire e battere forte il cuore. Mi rintanai con il viso sul petto di Edward, a disagio, e sentii le sue mani fredde accarezzarmi i capelli.

«Ahh» brontolò acido. «Come posso sperare che mi aiutiate, se non capite neppure le cose più semplici?».

«Si spieghi meglio» disse fredda Rose.

Sbuffò. «Non vi siete resi conto, pur essendo dei vampiri, di quello che è accaduto a Isabella».

Sollevai nuovamente il volto, scontrandomi con i suoi occhi. Edward mi accarezzò una guancia, e quelli del professore si spostarono verso il suo viso.

«La bambina nascerà in nove mesi. Per ora è lei che ha subito un notevole rallentamento della crescita».

Spalancai la bocca, sconvolta come il resto dei vampiri. Cosa voleva dire?

«Non ci basta» replicò Edward, facendo un passo in avanti.

Il volto del professore si indurì. «Vi dirò il resto dopo che avrete iniziato le ricerche».

Mio marito scosse il capo, muovendosi appena di lato per coprirmi, come se volesse farmi scudo con il suo corpo. «Ci serve adesso. Bella ha avuto una crisi di grave anemia al terzo mese di gestazione. L’ha superata con grande difficoltà e un supporto farmacologico non indifferente, ma ha rischiato la vita».

Gli occhietti cerulei del professore saettarono sul mio volto.

Tremai.

«Adesso sta meglio» sibilò stentoreo, teso nella sua posizione.

Carlisle lo guardò, serio. «Il trend dell’emoglobina è di nuovo in discesa. La richiesta sta progressivamente diventando maggiore della capacità dell’organismo di Bella di produrne di nuovo».

Il professore mi guardò ancora, per lungo tempo, serissimo.

Mi portai una mano alla pancia, distogliendo la sguardo. Sentii un movimento ed un colpetto. Forse era un piedino. La bambina stava diventando sempre più forte.

Edward allungò una mano indietro, accarezzandomi un fianco e rassicurandomi.

Jasper gli fece un cenno, ma lui lo bloccò. Non voleva che usasse il suo potere su di me, non ancora.

«E va bene!» esclamò il professore spazientito, sollevando le mani in cielo. Ringhiò, inquieto. «Come fate a non arrivarci?» esclamò arrabbiato, facendo passare rapidamente lo sguardo su tutti noi. «Dovete darle ciò di cui ha bisogno: sangue!».

«Carlisle glielo ha dato» ribatté Rosalie a denti stretti «è stato impossibile fare una trasfusione».

Serrò i denti, sbuffando. Prese dei respiri veloci, contrariato. Poi puntò i suoi occhi nei miei, inchiodandomi con il suo sguardo. «Non una trasfusione. Lo deve bere».

Presi un respiro, sentendomi improvvisamente senza fiato.

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Capitolo 58
*** Famiglia ***


«Oh

«Oh Dio, grazie di aver inventato i dolci. Voglio mangiare solo dolci per il resto della mia vita».

«Sembra gradire» commentò Edward, seduto davanti a me, accarezzandomi la piccola pancia.

«Sì, sì, lo sento. Me lo sta dicendo in ogni modo possibile… Oh» m’interruppi, riflettendo sulle sue parole «non si stai muovendo. La senti lo stesso?» chiesi curiosa.

Annuì, sorridente. «Un po’».

Sorrisi anch’io, prendendo un altro morso del mio cornetto al cioccolato, lasciando che continuasse ad accarezzare sua figlia. Stava maturando sempre più con i suoi pensieri ed io e Edward ne eravamo davvero orgogliosi.

«Allora» esordì Carlisle, rientrando nel suo studio. Mi ricomposi leggermente sul lettino, pulendomi le briciole ai lati della bocca e arrossendo. «La analisi del sangue vanno piuttosto bene» asserì, fermandosi composto e in piedi al centro della stanza.

«Piuttosto?» domandai un po’ spaventata.

«Finisci il tuo cornetto al cioccolato» mi rassicurò Edward notando la mia espressione nauseata «non dovrai bere nessun bicchiere di sangue».

Mi veniva da vomitare solo all’idea. «Per oggi» balbettai, allontanando quello che rimaneva della mia colazione. La rivelazione del professor Philip ci aveva sconvolto notevolmente, ma Carlisle mi aveva rassicurato che avremmo considerato quell’ipotesi solo nel caso in cui non avessimo avuto altre alternative.

«Bella, le donne di cui parla Philip non avevano a disposizione la terapia farmacologica che stiamo dando a te» mi rassicurò mio suocero con un sorriso «sei sempre anemica, è vero, ma lo sono anche molte altre gestanti con gravidanze meno… speciali».

Edward mi lasciò un bacio sui capelli. «Affronteremo ogni cosa quando ce ne sarà bisogno, ve bene?».

Annuii, accarezzandomi la pancia. Per quanto l’idea mi repellesse avrei fatto qualunque cosa per mia figlia, anche bere del sangue mentre ero ancora umana. Speravo solo non ce ne fosse bisogno.

«Non lo vuoi più?» mi chiese Edward, distraendomi dai miei pensieri e indicando il pezzettino di brioche che avevo lasciato.

Feci una smorfia. «Non mi va».

Ridacchiò, buttandolo via. «Non volevi mangiare solo dolci per il resto della tua vita?».

Sollevai gli occhi al cielo, lasciando dondolare i miei piedi, liberi di muoversi sul bordo del lettino su cui ero seduta. «Possiamo andare?» chiesi speranzosa. Era stata un’estenuante mattinata in ospedale. Considerando quanto poco amassi quel luogo e tutti i trattamenti a cui ero stata sottoposta, non vedevo l’ora di fuggire. Avevo preso seriamente in considerazione l’idea che Edward avesse deciso di comprarmi quei dolci solo per tapparmi in qualche modo la bocca. Ma mi diedi subito della sciocca, capendo che l’aveva fatto solo per il mio benessere, per farmi distrarre e stare meglio.

Eppure, a parte l’idea del sangue, mi sentivo davvero bene.

Alle mie parole l’espressione di Carlisle si contrasse di dispiacere. «Vorrei solo fare un’ultima cosa».

Sospirai, desolata.

«Deve solo controllare quanto stai crescendo» mi sussurrò lievemente Edward «non ci vorrà molto e non ti darà fastidio».

Annuii, seppur riluttante. «Certo, va bene».

Anche l’altra rivelazione del professore era stata piuttosto sconcertante. Pensavo spesso alla bambina, a come sarebbe cresciuta lentamente, e a come io stessa non mi fossi resa conto dei cambiamenti del mio corpo. O meglio, non cambiamenti.

Carlisle prese delicatamente le mie mani fra le sue, osservando le mie unghie. Passò ai capelli, misurò l’altezza, le proporzioni del mio corpo. Disse che in effetti, come Philip ci aveva informati, stavo crescendo più lentamente del solito. Era stato difficile, quasi del tutto impossibile notarlo, per le strane variazioni che ha «l’organismo umano» - sue parole - e per le fasi alternanti di crescita. L’importante era che andasse tutto bene, anche solo per sentire Edward sereno.

Arrossii lievemente quando dovetti salire sulla bilancia. Mi morsi il labbro inferiore, mentre sia Carlisle che Edward osservavano l’infame numeretto rosso sul display. «Prometto che non mangerò più così tanti dolci. O sì, e prometto che non mi farò abbindolare dai manicaretti di Esme…» pensai velocemente, invocando Dio ed alzando gli occhi al cielo.

«Hai preso due chili e mezzo» disse Carlisle sorridendo divertito alla mia espressione eloquente.

Arrossii.

«È anche fin troppo poco. Andiamo… puoi mangiare quanti dolci vuoi» mi disse Edward intuendo i miei pensieri, sollevandomi con un braccio e facendomi scendere dalla bilancia.

«Andiamo via?» chiesi entusiasta.

«Esatto» mi rispose con un sorriso. «Dobbiamo andare in un posto».

«Andate pure. Rinnovo le mie raccomandazioni Bella, non ti stancare troppo». Carlisle si fece improvvisamente più serio. «Come va con i sogni?».

Prima che Edward potesse aprire bocca, risposi io. «Bene» dissi, con forse troppa enfasi, arrossendo subito dopo per la possibile duplice interpretazione delle mie parole. «Va… tutto bene… considerando che sono cosciente di quello che mi accade riesco a controllare la situazione». Nell’ultimo periodo in effetti, grazie anche allo yoga - dovevo ammetterlo - ero riuscita a scoprire di poter acquisire un nuovo ed imprevedibile controllo di me stessa. Per quanto i sogni della bambina mi stancassero notevolmente, l’importante era che lei stesse bene. Tutto andava per il meglio.

La porta marroncina si spalancò di botto. «Dottor Cullen!» esclamò Mark, entrando di corsa nello studio. Era lo specializzando di ginecologia, il migliore del suo corso, che avrebbe dovuto assistere al mio parto. Mi chiedevo se ci fosse una persona più paziente di Carlisle in grado di stargli dietro. Avanzò nello studio frettolosamente. «Stavo registrando i dati sulla cartella e mi sono accorto che forse la VES è troppo bassa!».

Carlisle sorrise composto, scuotendo il capo e offrendogli delucidazioni. Mark era un ragazzo dolcissimo, e con infinita voglia di imparare. Ma anche così maledettamente curioso! Mi sfregai il braccio, ancora dolorante per il prelievo che mi ero lasciata fare da lui per dissuaderlo dalla storia dell’ecografia. Assurdo.

«Ciao Carlisle!» lo salutai, uscendo dall’ambulatorio accanto a mio marito, «ciao Mark, mi raccomando, non lavorare troppo» ironizzai con un sorrisino.

«Oh, no, no» rispose serio «ma Bella, già te ne vai?» chiese, e mi sembrò tanto di vedere un bimbo a cui hanno appena tolto il gioco nuovo.

Ridacchiai, lasciandomi trascinare via da Edward. In fondo, come Carlisle mi aveva spiegato, per uno specializzando era una grande soddisfazione poter seguire personalmente un caso e avere tutto lo spazio che gli stava offrendo. Con la sua curiosità e la sua inesperienza, manipolarlo sarebbe stato più semplice, e Carlisle avrebbe avuto un paio di mani in più su cui contare.

«Oddio, Edward, dove mi hai portata?» esclamai, osservando il grande recinto, pieno di abeti di ogni misura, tutti innevati. Scesi velocemente dall’auto, osservando lo spettacolo di lucine di fronte ai miei occhi. La neve che cadeva giù dal cielo rendeva tutto il quadro decisamente più pittoresco.

Sentii le sue mani fredde sulla vita, e l’euforia della bambina si unì alla mia, mentre l’aria fredda entrava nella mia bocca, aperta per lo stupore. «Puoi scegliere quello che vuoi» mormorò al mio orecchio mio marito, con la sua voce carezzevole.

«Attento, così urterai al muro» lo chiamai, guidandolo.

Rise. «Bella, credi forse che abbia difficoltà a trasportare un abete?».

Borbottai, sfilandomi i guanti e sfregando le mani una contro l’altra, per impedire che si congelassero definitivamente. Lo osservai mentre lasciava ondeggiare l’albero, senza sfiorare alcuna parete o oggetto d’arredamento.

Era davvero un bell’albero. Non troppo alto, anche se Edward aveva voluto che sfiorasse il basso soffitto del salotto. Io, dal canto mio, avevo preteso che avesse una chioma ampia e fitta, e che le foglie fossero verde smeraldo. Era un bell’albero. Il nostro primo albero.

Lo mise in piedi, tenendolo dritto con un braccio ed emergendo dalla folta chioma. «Dove lo vuoi?» chiese con un sorriso contento da ragazzino. Sembrava davvero felice.

Sorrisi anch’io. «Aspetta» mormorai, scomparendo dalla stanza, per poi ritornare con un grosso vaso e un sacco di terra. Lo trascinai sul pavimento, tirandolo.

«Bella» mi sgridò.

«Ce la faccio» mormorai, continuando a trascinare il vaso fino all’angolo opposto al camino. Lo avrei posizionato in modo che i nostri inesistenti vicini potessero vederlo dall’esterno, dalla grande vetrata. Nella notte, con tutte le lucine accese, avrebbe scintillato nell’oscurità, e magari avrebbero potuto vederlo anche gli animali della foresta. Era il nostro albero, il nostro primo albero, ma ogni anno, come ogni famiglia, avrei preteso di addobbarlo sempre nello stesso punto. Stavamo creando la nostra prima consuetudine, di quelle che ti scaldano il cuore ogni volta che le ripeti. Di quelle che ti fanno sentire una famiglia.

«Lascia» disse Edward, togliendomi il sacco di terra dalle mani e posando l’albero al centro esatto del vaso.

Mi pulii le mani, una contro l’altra. «Vorrei fare dei biscotti», dissi a mezza voce, confessando la mia idea e arrossendo un po’, timorosa del fatto che potesse trovarla banale o stupida, «che ne dici? Mi dispiace che vadano buttati, magari li mangerei solo io…».

Mi sorrise. «Potremmo chiamare tuo padre e la mia famiglia stasera. Ti va?» mi baciò la fronte, stringendomi una mano con la sua.

Annuii, radiosa. «Certo». Era sempre attento ad ogni mia richiesta, premuroso, e felice di farmi felice, in qualsiasi modo. L’amavo tantissimo, e pensavo che ben presto mi potesse mancare il respiro dalla felicità.

Mi dedicai alla cucina, cercando fra le vecchie ricette che avevo portato con me da Phoenix, lasciando mio marito a occuparsi della sistemazione dell’albero. Canticchiai, leggera, allegra, impastando la soffice pasta, trasmettendo la stessa allegria alla bambina. Chissà, mi chiesi, se una volta nata avei potuto cucinare per lei, se ci fosse stato qualcuno in grado di apprezzare la mia cucina. L’avrei amata in ogni caso ma speravo di non dover allattare mia figlia con dei biberon pieni di… sangue.

Avremmo potuto risolvere chiedendo semplicemente al professore, eppure lui si ostinava a rimanere in silenzio. Che arroganza! Eppure Rosalie ed Emmett erano via da una settimana, solo per aiutare lui!

«Hai finito?» la voce di Edward, alle mie spalle, mi fece sussultare. Mi abbracciò da dietro, posando la testa sulla mia spalla.

Coprii la ciotola con l’impasto con un canovaccio, spingendolo in avanti sul ripiano della cucina. Mi voltai tanto da poterlo baciare liberamente. Ben presto, però, le sue mani furono sul mio viso, le mie fra i suoi capelli, e la stanza fu riempita di gemiti.

«Edward» mormorai ansante «dobbiamo finire l’albero». Cacciai un urletto quando mi strinse le natiche con le mani.

«Dobbiamo…» mormorò roco baciandomi ripetutamente il collo, tenendomi la testa bloccata e reclinata da un lato.

«Dobbiamo» esalai, lasciandomi andare sul suo petto sconvolta, il cuore che mi batteva dirompente nelle vene, «andiamo».

Aveva fatto un lavoro eccellente, come al solito, piantando l’albero. Pretesi che non utilizzasse, o che almeno tentasse di frenare, le sue doti da vampiro mentre lo addobbavamo. Avevamo comprato tante di quelle decorazioni che a stento si sarebbe visto il verde dei rami sottostanti! Ma Edward non aveva una misura, e non appena aveva visto i miei occhi posarsi su una o su un’altra cosa l’aveva presa. Avremmo deciso più tardi se utilizzarla, così aveva detto. Voleva sempre accontentarmi in tutto, eppure questa volta mi pareva ci fosse qualcosa in più. Mi pareva che anche lui fosse piuttosto preso dalla storia dell’albero.

«Da dove cominciamo?» chiese entusiasta, osservando i rami ancora spogli.

«Dalle luci» risposi, come se fosse ovvio, «dobbiamo metterle intorno».

«Oh… Bene».

«Edward» chiesi perplessa «non sai come si fa un albero? Credevo che sapessi tutto, ormai» dissi ridendo.

Si passò una mano fra i capelli, come imbarazzato. «Se ne sono occupate sempre Esme e Rosalie. Non ricordo molto dell’ultimo albero che ho fatto» mormorò «sono passati tantissimi anni. Allora non c’erano le luci elettriche, suppongo di averlo decorato con mia madre, con delle candele. Avrò avuto all’incirca otto o nove anni».

Mi parve di scorgere un velo di malinconia fra le sue parole. Mi avvicinai, prendendo le sue mani fra le mie, dandomi ella stupida per la mia leggerezza. «Non ti preoccupare, ti insegno io».

Mi sorrise, accarezzandomi i capelli e baciandomi la fronte.

Rispettò il patto, e non usò nessun potere da vampiro. Sistemammo tutte le lucine colorate, e le palline di vetro, e gli addobbi. I nastri, le ghirlande, i fiocchi. Cominciavo a decorare dal basso, e lasciavo che lui si occupasse della parte più alta, un sorriso euforico stampato sul suo volto da ragazzino smaliziato. Sentii più volte la bambina muoversi, e ogni volta lui sollevava il capo e mi osservava, felice.

«È bellissimo» disse infine, osservando il nostro lavoro. Era ricco di addobbi, ma era speciale e nostro. Esprimeva la nostra armonia. Mi piaceva tanto, eppure…

Portai le mani sui fianchi. Immediatamente vidi una delle tante decorazioni avanzate sul tavolo. «Mettilo su, mettilo lassù quel fiocco!» esclamai porgendoglielo. Mancava ancora qualche ritocco. Mi sollevò per i fianchi, facendomi sedere sulle sue spalle. «Oddio, Edward, sei troppo alto…» risi, agitando le braccia.

«Non ti muovere, metti quel fiocco» mi rispose divertito. Non appena l’ebbi sistemato mi afferrò per i fianchi per farmi scendere.

«No, aspetta» dissi stringendomi con le gambe, fasciate dalle calde calze chiare e morbide. «Voglio mettere il puntale!».

«Dove l’hai messo?» chiese, volgendo una rapida occhiata alla stanza e facendomi girare velocemente.

Mi aggrappai con le mani alle sue spalle, facendolo fermare. «Non lo so, l’hai preso tu!».

Mi fece scendere, mettendosi di fronte a me. «Beh, no, pensavo l’avessi preso tu. Ne faremo a meno» mormorò, facendo spallucce, come se fosse una cosa assolutamente normale.

«Beh» mormorai perplessa. «Solitamente il puntale è necessario».

Inarcò un sopracciglio. «Ne sei sicura? Il nostro albero è bellissimo anche così».

«Già» ammisi, osservandolo. Non mi curavo poi tanto di essere tradizionalista. Si poteva dire che il nostro albero non seguisse alcuna tradizione, con l’eclettismo dei suoi addobbi. Sorrisi, facendomi abbracciare e ricordando le parole di mia madre. «Un Natale il nostro puntale si ruppe. Mia madre impazzì, ribadendo l’importanza di quello stupido oggetto. Tutti i negozi erano ormai chiusi, vagammo per tutta la città in cerca di un puntale. Camminavamo fra la neve fredda, congelate, ma le si ostinava a ripetere: “È una questione di principio, il puntale è la parte più importante dell’albero! È così, e basta. Si può fare un albero anche senza nessun addobbo, solo con un puntale, sarebbe stupendo. Il contrario sarebbe una cosa orrenda!”» risi, ricordando la febbre del giorno dopo. Avevamo il nostro albero col puntale, ma dovemmo godercelo entrambe a letto.

Edward strinse le labbra, sollevando entrambe le sopracciglia. «Non credevo fosse così importante. Sicura che non sia necessario?».

Feci spallucce, ma vidi nei suoi occhi una strana scintilla. Già, era il suo primo albero dopo tantissimo tempo. Il nostro primo come famiglia. Era comprensibile che volesse fare tutto quello che andava fatto. «Vado a prenderlo e torno, va bene?» mi chiese, quasi come se volesse il mio permesso.

Annuii, sorridendo. «Certo». Mi sorrise, baciandomi la fronte. «Riordino» dissi osservando lo scempio attorno a noi, «torna presto».

Quando fu scomparso dalla mia vista mi concessi di iniziare a sistemare quel putiferio. C’erano buste di cartone e addobbi in ogni dove. Eravamo stati proprio dei bambini! Sorrisi, invece, ripensando all’espressione contenta sul viso di mio marito. Chissà, magari, una volta tornato a casa, dopo aver messo il puntale… per cuocere i biscotti ci voleva un’ora, era più che sufficiente, potevamo riprendere da dove avevamo lasciato…

Il telefono di casa squillò, così mi affrettai lesta a rispondere, rossa in viso. Scavalcai poco agevolmente il divano, afferrando la cornetta. «Pronto?» feci trafelata.

«Ci sono così tanti tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi tutti…».

Risi alla voce divertita di mio marito. Mi sollevai dal divano, andando verso la vetrata. «Dimmi come sono» feci comprensiva, capendo quanto fosse importante per lui. Osservai il cielo ghiacciato e crepuscolare, e gli alti alberi ricoperti di neve. Il giorno stava quasi volgendo al suo termine. «Credo che quello dorato sia perfetto» mormorai alla cornetta, posando una mano sul vetro trasparente.

«Bene, prenderò questo allora. Hai fatto una magnifica scelta».

Non feci a tempo ad arrossire, che una macchia inconsueta richiamò la mia attenzione. «Ma… cosa…» farfugliai, stringendo gli occhi per vedere meglio in mezzo al bianco accecante della neve.

Solo dopo alcuni istanti riuscii a realizzare che un grosso lupo dal folto pelo marroncino stava correndo velocemente proprio verso di me. Seth!

Edward richiamava la mia attenzione, chiamandomi. «Bella, Bella!». Fissai il lupo in silenzio, completamente paralizzata da quello che stava avvenendo. Era vicino non più di dieci metri, i grandi occhi concentrati su di me.

Lasciai cadere il telefono.

Le orecchie del lupo si appiattirono e le sue zampe anteriori si stirarono frenando bruscamente sulla neve. Era come se un’immensa forza invisibile lo stesse frenando, schiacciandolo. Ululò.

Contemporaneamente, un fischio acutissimo stridette nella mia testa, facendomi vibrare. Urlai, portandomi le mani fra i capelli. Gemetti, mentre il dolore diventava sempre più martellante e una gabbia invisibile m’imprigionava, pervadendomi da dentro.

 

Edward

 

Avevo trascorso una magnifica giornata con mia moglie. Carlisle mi aveva rassicurato su ogni cosa. Prima della visita avevo avuto una certa ansia riguardo all’andamento della gravidanza, riguardo alla sua anemia e alla possibilità che dovesse modificare la sua… dieta. E ancor di più, paura condivisa da mio padre, ero preoccupato riguardo al possibile stress di cui mia moglie avrebbe potuto risentire a quella rivelazione.

«Non l’ho mai vista così serena» mi aveva rassicurato mio padre subito dopo la visita, «sta benissimo. È una donna forte e molto coraggiosa, non avere paura per lei, Edward». E l’aveva guardata con affetto, accarezzandole e capelli e sorridendo per il rossore sulle sue guance.

Così mi ero concesso di essere tranquillo, felice, estraniato dal mondo, dai problemi, e dal sovrannaturale. Almeno per un giorno.

La mia Bella. Era un amore, mentre sgambettava trascinandosi dietro il grande vaso. Era un amore, mentre cucinava con il grembiulino giallo, che le metteva in evidenza la piccola pancia. Era un amore, mentre dirigeva i lavori per la costruzione del nostro albero, il nostro primo albero.

Lei era il mio amore, e noi eravamo una famiglia. Ero semplicemente troppo contento. Non che non mi fossi mai sentito parte di una famiglia, avevo ricevuto tantissimo affetto. Da Carlisle, Esme, da ogni mio fratello. Ma con Bella e la nostra bambina tutto era diverso. Le amavo immensamente, tanto da lasciarmi andare spesso e volentieri in comportamenti che con la freddezza di qualche anno addietro avrei giudicato stupidi e superficiali, ma di cui ora non avrei potuto fare a meno.

Ignorai con un sorriso sarcastico l’occhiata che le donne, giovani e non, mi rivolsero non appena misi piede nel piccolo supermercato di Forks. Ignorai i loro pensieri, quelli rivolti a me, e quelli rivolti a mia moglie, scorrendo veloce verso il reparto che stavo cercando.

Quando mi trovai di fronte all’immensa varietà di addobbi e puntali rimasi allibito. Possibile che in una cittadina con Forks, in cui mancavano cosa fondamentali, come ad esempio una libreria, si desse così tanto spazio alla superficialità?

Composi velocemente il numero di casa. «Pronto?» mi rispose Bella al settimo squillo. Sentivo il suo respiro pesante dall’altro lato della cornetta. Sorrisi, immaginandola destreggiarsi fra la confusione che avevamo creato. Sarei presto tornato da lei, per aiutarla a sistemare.

«Ci sono così tanti tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi tutti» affermai sarcastico, godendomi subito dopo il suono della sua risata allegra. Sentii il fruscio della stoffa e il rumore dei suoi passi, inconfondibili, una musica per le mie orecchie. Immaginai le sue gambe snelle ondeggiare, meravigliosamente perfette.

«Dimmi come sono», disse serena.

Osservai lo scaffale delle decorazioni di fronte a me, e mi lanciai in una minuziosa descrizione. Volevo che scegliesse lei, che tutto fosse come voleva lei. Vederla contenta e felice valeva più di qualsiasi cosa al mondo. Vetro, metallo, forme e dimensioni. Immaginai il nostro eclettico albero, dubbioso. Quale sarebbe stato quello giusto?

«Credo che quello dorato sia perfetto» m’interrupe mia moglie.

«Bene, prenderò questo allora. Hai fatto una magnifica scelta». Sulla mia bocca spuntò un sorriso. Era mia moglie, era Bella, sapevo che mi avrebbe sorpreso, come sempre. Afferrai l’oggetto e mi diressi alla cassa, ansioso di ritornare a casa.

«Ma… cosa…» sentii le parole sconclusionate di mia moglie e un suono strano scalpiccio come sottofondo. Una terribile sensazione s’impossessò di me.

«Bella? Bella?» la chiamai ripetutamente. Non raccolsi il resto, afferrai la mia busta e mi diressi verso l’auto a grandi falcate. Delle terribili prospettive si stavano affacciando alla mia mente. Cos’era successo, cosa stava succedendo? Stava male?

Sentii il tonfo sordo del telefono, mentre cadeva a terra. «Bella! Bella!» continuai a chiamarla, spingendo a fondo l’acceleratore, sempre più perplesso e preoccupato. L’angoscia mi stava divorando.

Due suoni contemporanei e sovrapposti, eppure ben distinguibili al mio udito da vampiro, mi lasciarono spiazzato. Un ululato, e l’urlo di mia moglie. «Bella!» gridai agghiacciato. Dei gemiti bassi e doloranti. Cosa stava accadendo?!

Lasciai l’auto sul vialetto e corsi molto più velocemente dentro casa. Mia moglie era lì, in piedi, di fronte alla vetrata. Avanzai rapidamente verso di lei, e quello che vidi mi lasciò senza fiato.

La sua pelle, pallida. La sua espressione, vacua. I suoi occhi, spalancati, neri.

Sentii un trotterellare veloce, e distinsi con perfezione la figura di un lupo correre via, fra gli alberi. Lo avrei seguito sicuramente, se solo non avessi avuto il viso pallido di mia moglie fra le mani, se solo le sue labbra non si fossero mosse per chiamarmi. «Edward».

Non si agitava. E sarei stato molto meno preoccupato se, come di consueto, l’avesse fatto. Se, come era sempre accaduto, non fosse stata affatto cosciente. «Bella» la chiamai, passando le dita fra le lunghe ciocche scure dei suoi capelli, «Bella, amore. Sono qui… Mi senti?» sussurrai agitato, tentando in qualche modo di farla rinvenire.

Fece un breve e piccolo movimento con il capo, e mi parve come se stesse annuendo.

Mi imposi di mantenere la calma, di pensare lucidamente e razionalmente per aiutarla. La scossi per le spalle, le baciai la fronte, il naso, la bocca. Immobile, era terrorizzata e immobile. La sollevai di peso, prendendola fra le braccia, agitato, preoccupato. «Amore, amore, rispondimi» la chiamai, accarezzandole freneticamente la fronte nivea. Se sue labbra si mossero, ma non ne uscì alcun suono. L’adagiai, facendola sedere sul divano e chinandomi di fronte a lei, continuando a chiamarla, continuando ad accarezzarla.

Un lampo bianco mi colpì gli occhi. Rimasi esterrefatto. Normalmente dovevo notevolmente concentrarmi per poter vedere qualcosa. Questo pensiero mi aveva colpito all’improvviso. Poi di nuovo, la luce. Bella era rigida, immobile. Strinsi le sue mani fra le mie, avvicinandomi alla pancia, tremante, tentando di porre fine a quella tortura.

La luce mi accecò completamente, riempiendomi gli occhi. Era bianca e iridescente. Tuttavia, sentii una sensazione inconsueta. Freddo. Era allo stesso tempo così piacevole e spiacevole. All’improvviso, mentre i miei occhi osservavano, attenti, capii. Era neve. Un’immensa distesa di neve. La sensazione di ricerca, la solita e consueta, crebbe a dismisura dentro di me. Mi aspettai che tutto finisse, come al solito. Invece, questa volta, la mia ricerca fu soddisfatta. Avevo coscienza di me.

Avevo trovato me stesso.

«Ahhh!» l’urlo di mia moglie mi fece tornare alla realtà. Si dimenò, agitandosi, roteando gli occhi, tornati del suo intenso marrone naturale.

«Bella!» esclamai angosciato, vedendola agitarsi dolorante, bloccandole le braccia per impedirle di farsi alcun male.

Si prese la testa fra le mani, gemendo, dondolando avanti e indietro come una forsennata. I denti stretti. Gli occhi, nocciola, sgranati.

«Amore, amore» la chiamai, stringendo il suo piccolo e fragile corpo fra le mie braccia e costringendola a fermarsi, attento a non farle del male.

Ansimò, prendendo dei respiri profondi e veloci, come se fosse appena uscita dall’apnea. Artigliò le mani al mio maglione, stringendomi, aggrappandosi, graffiandomi, come se fossi uno scoglio in un fiume.

«Shh, shh. È tutto finito» la rassicurai, sorpreso dalla sua reazione. La strinsi più forte, attento a non farle male, facendo calmare il battito del suo cuore. Continuava a gemere, a mezza voce. L’allontanai, aspettandomi di trovare i suoi occhi appannati di lacrime. Ma non ce n’erano. C’era solo tanto terrore.

«Edward» esalò, stringendosi sofferente al mio corpo, allacciandosi con forza, tanta da tremare, con le braccia e le gambe. Era bollente. Sentivo tutto il suo calore irradiarsi dal suo corpo verso il mio.

Ero spaventato, sopraffatto dalla veloce successione degli eventi. L’agonia, il sogno, il terrore. Troppe cose persino per una mente spaziosa come la mia. Troppi quesiti irrisolti, troppi i possibili risvolti e collegamenti. Ma ora c’era decisamente una priorità: rassicurare mia moglie.

Mi imposi di avere un tono calmo e pacato, di trasmetterle sicurezza. «Amore» la chiamai dolcemente «è tutto finito. Cosa succede?». Ero preoccupato. Ogni volta lei sminuiva il suo stato, faceva di tutto per nascondermi la sua stanchezza. Ogni volta, ironizzava sulla sua condizione, su quello che le era accaduto. Era convinta di poter tenere tutto perfettamente sottocontrollo.

Ma questa volta era stato evidentemente diverso.

Si strinse con più forza a me, continuando a tremare. Feci per alzarmi, per farla stendere sul divano, o farla mettere in una posizione più comoda. Fare qualsiasi cosa che mi consentisse di aiutarla. Sussultò, cantilenando un no. Posai una mano sulla sua fronte, sul suo collo, trovandoli certamente più caldi di quanto avrebbero dovuto essere. Si appoggiò al mio palmo, rimanendo tremante e silenziosa.

Pochi istanti dopo aver sentito i pensieri dei miei familiari, la porta di casa si aprì.

«Cos’è successo?». I pensieri di Alice, allarmati, furono i primi a giungermi. Si era bloccata a pochi metri da noi, una mano alla bocca. Jasper le fu subito accanto, stringendola.

«Edward» i pensieri di mio padre mi costrinsero a voltarmi verso di lui, al mio fianco.

Bella sussultò, gemendo, stringendo le gambe attorno a me, spaventata, sentendo l’inaspettato contatto con la mano di Esme. Continuava a tremare, gli occhi gradi e fissi nel vuoto. Le accarezzai la schiena, acquietandola. «Shh. Calma».

«Sono entrambe disorientate, destabilizzate» disse Jasper con delicatezza, osservando mia moglie e percependo la gravità della situazione, «Bella è terrorizzata. Cosa diamine è successo?» pensò sgomento.

Sentii i deboli pensieri della bambina, disturbata dal calore. «È calda» dissi conciso, voltandomi verso Carlisle.

Mio padre ricambiò il mio sguardo, allungando una mano verso il viso di mia moglie, attento a farsi guardare e non compiere movimenti bruschi. Non fece una piega quando la mano si posò sulla sua fronte. Subito i suoi pensieri confermarono i miei, la sua temperatura era decisamente più elevata di come avrebbe dovuto essere. «Aspetta» pensò, resosi conto del mio stato d’angoscia «Aspettiamo, forse ora si abbassa».

Lo guardai preoccupato, tentando di leggere nei suoi pensieri quanto fosse sincero e convinto della sua affermazione.

«Cos’è successo, Bella?» chiese Alice preoccupata, avvicinandosi a colei che considerava a tutti gli effetti sua sorella. S’inginocchiò accanto a me, sfiorandole una mano.

Levò un lamento lieve, portando lentamente un palmo aperto sulla tempia e gemendo. «La testa…» mormorò, «la testa…». Mio Dio, cosa le stava accadendo? Cosa le era successo?

La mente di mia sorella fu invasa da una serie di immagini, velocissime, tutte con Bella protagonista. Poi si concentrarono su un altro tipo d’immagine. Non era una visione, era un ricordo. Era Alice, da umana. Una camicia lunga e bianca, sporca. Delle bruciature, un forte dolore alla testa. Ansimò, spalancando gli occhi e guardando Bella.

Jasper venne immediatamente accanto a sua moglie, sollevandola e portandola lontano.

In quel momento notai che il tremore di Bella era cambiato. Si mosse, velocemente, tossendo. «Edward… I…» farfugliò, guardando la porta del bagno.

Capii. La sollevai velocemente e la portai nella stanza, sorreggendola, tenendole la fronte e i capelli. Ci seguì solo Carlisle, chiudendosi la porta alle spalle. «È sotto shock» pensò, osservandola. Mi passò un asciugamano. «Il dolore alla testa potrebbe essere dovuto alla temperatura elevata».

Le asciugai il sudore sulla fronte, le pulii le labbra, sollevandola fra le braccia. Vederla così indifesa mi annientava. Il coraggio che aveva sempre dimostrato mi aveva aiutato ad andare avanti. Era vero, capivo perfettamente quanto minimizzasse, ma lei mi sorrideva, mi guardava tranquilla, mi accarezzava i capelli, dicendomi che tutto andava bene. Come se fossi io quello da rassicurare. Ed era vero, solo ora lo capivo, l’aveva sempre fatto.

«Ti viene ancora da vomitare?». Le scostai una ciocca dal viso.

Scosse il capo, e feci un piccolo sospiro di sollievo, quando mi resi conto che stava riacquistando lucidità. La portai in camera, adagiandola sul copriletto. Le tenni le dita strette alle mie, comprendendo quanto ne avesse ancora bisogno.

Mio padre le sfiorò la fronte, costatando con serenità che la temperatura stata tornando normale. Lo ringraziai della sua rassicurazione. Bella sbatté le palpebre, chiudendole per alcuni secondi, stanca, portandosi una mia mano sulla guancia.

«È tutto finito» le ripetei, ansioso di farla stare meglio.

«Cos’è successo?» chiese Carlisle alle mie spalle. «Alice ha avuto una visione, non molto differente da quello che abbiamo trovato appena siamo arrivati. Cos’è accaduto?» chiese calmo, avvicinandosi a Bella e facendole comprendere le sue intenzioni. Lei annuì. Sollevò con cautela il suo vestito, fin sull’ombelico, tastandole l’addome.

Mi scostai leggermente per agevolargli i movimenti. «È tutto troppo complesso. Ci sono i licantropi di mezzo, e non capisco come possano centrare. Per il resto, la bambina ha fatto il suo solito sogno» osservai mia moglie, mentre ricambiava attenta il mo sguardo, «Sono riuscito a seguirlo tutto. Ma…» deglutii, e Bella strofinò il suo pollice contro la mia guancia «Bella era lucida, e cosciente» rivelai.

I pensieri di mio padre si bloccarono, così come i suoi movimenti. Lei chiuse gli occhi, e mi aspettai che delle lacrime scendessero dalle sue ciglia fitte. Ma non fu così.

Si sollevò, prese il bicchiere che Carlisle le aveva porto e ingoiò in un sorso la compressa. Non chiese perché, non chiese cosa fosse. Tocolitici, mi aveva spiegato, a scopo preventivo per le contrazioni.

Ci lasciò soli non appena la temperatura di Bella fu di nuovo vicina alla normalità. Mi stesi accanto a lei, avvolgendola in una coperta. «Va meglio?» chiesi, accarezzandole il fianco destro.

«Sì» mormorò abbracciandomi.

Le baciai la fronte, morbida e vellutata come la buccia di una pesca. «Mi vuoi dire cosa è successo?» chiesi delicatamente, attento a non turbarla, «anche solo approssimativamente se vuoi».

Strinse le labbra, posando la testa sul mio petto. «La testa… mi… faceva male. Era Seth, il lupo. Era Seth. Ma non si è avvicinato. Si è bloccato, ha ululato, è andato via». Chiuse le palpebre, ancora una volta, stanca.

L’accarezzai. «Riposa» sussurrai a mezza voce.

Rimase in silenzio per molti minuti, ma non si addormentò. Riaprì gli occhi e mi guardò in silenzio, forse titubante. «Sta bene?» chiese infine, a voce appena udibile. Mi resi conto che stesse parlando della bambina, ma mi colpì il tono che aveva usato.

«Sì, sta bene, non ti preoccupare. Non accadrà niente, è tutto passato. Riposa» ripetei, premurandomi di rassicurandola.

Chiuse gli occhi. «Edward» mi chiamò, vibrando nel silenzio.

«Sì?».

Scosse il capo sul mio petto. La strinsi più forte, accarezzandola.

«Hai paura?» chiesi, aspettandomi una risposta negativa.

«Sì».

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Capitolo 59
*** Orribile madre ***


Mi affaccendai con il lenzuolo bianco, sistemandolo e lisciando le pieghe.

Ogni gesto che compivo mi costava un certo sforzo, e la fiacchezza gravava inesorabilmente su di me. Rifare il letto era vitale, però. Significava impedire a mio marito ad esortarmi a riposare, ancora una volta, apprensivo e preoccupato per la piega che stavano prendendo le cose.

Scoccai un’occhiata alla porta della camera e la trovai chiusa, esattamente come l’avevo lasciata. Sapeva quali erano i miei spazi. Sapeva che se l’avevo fatto era perché avevo bisogno di stare sola. Distolsi l’attenzione, trascinandomi stancamente nel bagno, bisognosa di lavare via il velo di sudore che mi aveva man mano ricoperta durante la notte.

Il mio ritratto allo specchio non mentì. Le mie occhiaie parlavano da sole. In due interi giorni passati da quando… era successo, avevo dormito in totale non più di quattro ore.

Mi spagliai lentamente del pigiama, facendo scomparire la maglietta. Non mi soffermai, come di solito avevo sempre fatto, sulla mia pancia.

Ero una madre orribile.

Non dormivo più, perché non potevo rivivere quello che mi era successo. Perché non potevo, non potevo, addormentarmi e lasciarmi andare ancora in balia del dolore. In balia del tormento, in balia del terrore.

Mi ficcai sotto il getto caldo, lasciando che m’inondasse completamente il viso e concedendomi, la prima volta dopo due giorni, un silenzioso pianto.

Ero una madre orribile.

Ero una madre orribile, perché da ben due giorni i miei occhi non si soffermavano sul mio ventre. Perché le mie mani non l’avevano più accarezzato, perché le mie emozioni non avevano più sfiorato la mia creatura.

Perché, da quando il vuoto si era impossessato in un istante di me, da quando il terrore mi aveva sommersa e rinchiusa, da quando il più crudo dolore mi aveva fatto sperare la morte, da quando, quel giorno affatto lontano, la bambina aveva preso il sopravvento su di me, imprigionando la mia mente ancora cosciente, avevo paura.

Avevo paura di mia figlia.

Singhiozzai, e subito dopo mi misi a tacere, mordendomi un labbro e appoggiando una mano alla superficie appannata della parete di vetro. Edward non lo doveva sapere, mai. Mi disgustavo orribilmente della mia persona, per quegli orribili pensieri. E poi… per lui sarebbe stato un tormento, sapere che uno degli oggetti del suo amore era la causa del terrore dell’altro.

Per questo manifestavo il meno possibile le mie emozioni. Per questo non piangevo. Per questo, mentre ero stesa fra le sue braccia, fingevo di dormire.

Ero troppo terrorizzata per farlo realmente…

Si era creata in me una distorta immagine di mia figlia. Era più esatto dire che si fosse sdoppiata, duplicata. Avevo letto che una donna incinta tende ad idealizzare, immaginare, costruirsi nella mente l’idea del proprio bambino. Io ne avevo costruite due. Una, era la mia piccola bambina, dolce, indifesa, che amavo e continuavo ad amare con tutto il mio cuore. Dell’altra avevo solo e semplicemente paura.

Quando mi ritrovai davanti allo specchio osservai con attenzione i miei occhi. Non sapevo cosa avrebbe rilevato l’attenzione di un vampiro. Il sonno o un accidentale incidente con del sapone sarebbero bastati per non farmi scoprire?

Mi portai una mano alla fronte quando per alcuni secondi la mia vista turbinò, facendomi perdere l’equilibrio. Riacquisii velocemente il controllo di me stessa, sbattendo velocemente le palpebre.

Dovevo mangiare. Il mancato sonno mi toglieva gran parte delle forze, e obbligatoriamente dovevo cercare di recuperarle con il cibo.

«Bella?». Sussultai quando sentii Edward aldilà della porta del bagno.

Mi dovette richiamare ancora una volta per costringermi a rispondere. «Eccomi» mormorai piano, nascondendo qualsiasi sottointeso con il basso volume della voce.

Lo ritrovai di fronte a me, gli occhi appositamente tranquilli fissi sulla mia persona. Si avvicinò con un passo elegante, lasciandomi un breve bacio sulle labbra. Mosse una mano, accarezzandomi il ventre. Era così abitale per lui, che mi ricordava quanto lo fosse stato anche per me. Mi ricordava la brusca interruzione di quell’abitudine, la nascita del secondo bambino.

Lo abbracciai, sorridendo piano, puramente a suo beneficio, posando la testa sul suo petto ampio. Continuò ad accarezzarmi, ma la bambina non si mosse. Era così strano che non lo facesse. Era assurdo che non si muovesse da ben due giorni.

Ero in uno strano modo consapevole di essere molto preoccupata, e speravo e sapevo che Edward se ne sarebbe accorto, riferendolo possibilmente a Carlisle. Lo speravo, ma proprio non ce la facevo a parlare di lei, a pormi volontariamente il problema, ad affrontarlo. Era troppo, troppo.

Ed ero convinta che mi sarei sacrificata per lei, che avrei silenziosamente sopportato il dolore, che il mio amore nei suoi confronti sarebbe potuto solo crescere.

Ma come si fa a non aver paura davanti al terrore? Al dolore? Alla morte?

Mi ero scherzosamente professata masochista, mi sbagliavo. Avevo e continuavo inesorabilmente ad avere paura.

Notai i suoi occhi titubanti nei miei. «Hai sentito… Qualcosa di strano?» mi chiese, sistemandomi una ciocca ribelle di capelli. Sembrava un po’ preoccupato. Avevo imparato a conoscere i suoi occhi sotto la sua bella maschera da vampiro.

«Strano?» gli chiesi, fissandolo di rimando, tentando di individuare a cosa si stesse riferendo.

Sospirò, posando nuovamente una mano sulla mia pancia. «Intendo, riguardo alla bambina. Io ero un po’ indeciso» si bloccò, spostando i suoi occhi fra il grembo e me, incerto se continuare. «Si sta muovendo poco?» chiese infine, con delicatezza.

Probabilmente non me l’aveva fatto presente precedentemente per non turbarmi. Fui sollevata dal fatto che me l’avesse chiesto. Annuii, mentre sospiravo dentro me. «Sì» mormorai appena. Lasciai che la preoccupazione prendesse per un istante il sopravvento su di me, che la bambina diventasse una sola, il mio piccolo amore. «Molto… poco…» mormorai e poi deglutii, ingoiando ancora una volta le lacrime, sentendomi in colpa.

Lui annuì, sorridendomi dolcemente. Mi baciò la fronte e mi rassicurò.

Quando l’ennesimo capogiro m’investì decisi che non potevo più indugiare sul petto di Edward, malgrado adorassi quel contatto. Contatto massimo avuto, in quei due giorni. Non sapevo quanto avesse capito del mio comportamento, speravo ben poco. Ma non ero così sciocca da credere che non si fosse accorto quanto fossi rimasta segnata da quello che era avvenuto. Così non mi aveva fatto alcun genere di pressione, e io non ero andata a cercare nessun contatto che fosse più intimo di un bacio.

Spalmai con solerzia la marmellata sul pancarré, ascoltando le sue parole disinteressate.

«Esme ha comprato la confettura alle ciliegie e dice che se vuoi potrebbe anche imparare a farla. E poi ci sono i mirtilli…».

«Devo imparare a fare la salsa di mirtilli freschi» m’imposi d’interromperlo, per dimostrare il mio interessamento in realtà inesistente.

Le sue sopracciglia si arcuarono un attimo, sorprese. Mi parlava per un tacito accordo di apparente serenità, probabilmente non si aspettava che gli rispondessi con qualcosa di diverso da un “mm-mm”. «Certo. Non so se Esme ne sia capace, ma sono certo che tu imparerai alla perfezione».

Mi venne accanto, sedendosi su un alto sgabello, di lato al mio. Il nostro rapporto era stato perlopiù taciturno, ma molto solido e unito. Edward si era molto adoperato per me, mi era sempre stato accanto, supportandomi, condividendo la mia paura. Mi aveva rassicurata, dicendomi che avremmo capito tutto, che non sarebbe accaduto più. Non rispondevo, mi limitavo al più ad annuire, consapevole. Sapevo che anche lui era spaventato. Perché entrambi sapevamo che prima o poi sarebbe potuto succedere ancora, anche mentre ero cosciente, che non eravamo venuti ancora a capo di nulla di tutte quelle strane coincidenze. E se fosse stato ancora di quell’intensità, o addirittura maggiore… Non sapevo. Non avevo idea di quello che avrei fatto. Finii di masticare il mio boccone, passando automaticamente una mano per stropicciarmi gli occhi.

«Hai dormito?» mi chiese di punto in bianco, neutro, non smettendo di osservare il mio viso.

Sussultai, e mi affrettai ad annuire. Presi il mio piatto e animata come da un istinto di fuga mi spostai sul divano del soggiorno. Insisteva sempre perché dormissi. Sapeva che il mio organismo ne risentiva molto, e in una notte passata assieme non potevo fingere per più di due ore, solo per rassicurarlo in qualche modo delle mie condizioni. Ma sapeva quanto non potessi né riuscissi a prendere sonno.

«Sei stanca» mormorò, improvvisamente comparso al mio fianco.

Finii di trangugiare una delle fette di pane, affrettandomi per fare spallucce e accendere la Tv, disinteressata. Non smise di guardarmi per tutto il tempo, mentre finivo di mangiare, sottoposta ai suoi occhi, la mia merenda. Furono molte le volte in cui virai al rosso. Molte di più quelle in cui impallidii, stanca.

«Bella, io penso che…».

«Scusa» lo interruppi, spostando il piatto vuoto dal un lato e facendo per alzarmi «devo sistemare la camera per mia madre e… non ho fatto ancora nulla». Non lo fissi negli occhi. Vagai con lo sguardo, ferendomi il labbro con i denti.

Rimase due secondi in silenzio, poi si sollevò, posandomi una mano sulla spalla per impedirmi di fare lo stesso. Mi sorrise, guardandomi negli occhi. «Lo faccio io, va bene?».

«Ma» provai ad obbiettare in ogni modo, inventando scuse inutili «mia madre… lei… è allergica alla seta e…».

«Vuol dire che non la userò».

«Ma… devo rassettare, pulire…». Qualunque cosa per evadere e soprattutto, evitare di dormire.

Si abbassò, baciandomi le labbra. «Ci metterò pochissimo». E così scomparve in un istante.

Mi lasciai andare sullo schienale, respirando rumorosamente, una smorfia sul viso. Il seme che cresceva in me, la vita collegata miracolosamente alla mia stessa vita, mi faceva de male. Perché? Avvicinai una mano in grembo, fino quasi a sfiorarlo, animata dall’amore. Ma poi… la ritirai, spaurita.

Sospirai. La mia piccola non si muoveva… La paura che provavo per lei, per l’immagine dell’incantevole bambina, stava soppiantando rapidamente quella che provavo per me, tanto che fui sul punto di chiamare Edward, di piangere, spaventata, per la sorte della nostra bambina, come ogni madre avrebbe fatto, esageratamente preoccupata, desiderosa di essere rassicurata. Ma ancora una volta non lo feci. Non ce la facevo. Dovevo combattere con l’altra, l’altra bambina. Strinsi le gambe e ingoiai il magone, alzando al massimo il volume della televisione.

Un ronzio nella testa, man mano sempre maggiore. Si trasformò in un fischio, e divenne tanto stridente da farmi impazzire. Provai a muovere le braccia, portandole alla testa in un gesto istintivo, provando a contenere quello che ormai stava diventando dolore. Ma non riuscivo a muovermi. Ero imprigionata, legata, stretta, rinchiusa. E stavo impazzendo, stavo impazzendo perché l’ansia si faceva strada in me, la testa pulsava, forte. E sapevo che il cuore sarebbe dovuto impazzire, sapevo che il petto si sarebbe dovuto muovere, veloce, rincorrendo il fiato che sembrava mancarmi, e mi faceva morire il fatto che non lo facesse. Mille aghi mi perforavano il cervello, pervaso come da una fortissima scossa elettrica. Volevo urlare, urlare, urlare alla figura di mio marito, davanti ai miei occhi, di salvarmi o di uccidermi per porre fine a quello strazio. Ma non potevo.

Mi sollevai di soprassalto, il cuore velocissimo nel petto. Ansimai, osservando intorno a me la penombra, tentando di mettere a fuoco qualcosa. Ero sudata, causa la coperta che mi era stata con amore e cura sistemata addosso. Probabilmente senza quella non mi sarei svegliata.

Mi portai le mani fra i capelli, osservandomi intorno. I lustri delle finestre si aprirono, facendo passare la luce. Strizzai gli occhi, abituandomi all’improvviso chiarore.

«Mi… mi… sono…» balbettai, non appena Edward comparve accanto a me.

«Avresti potuto dormire di più. Sono passate appena tre ore» disse apprensivo, avvolgendomi nuovamente nella coperta e stringendomi a sé. Mi accarezzò la schiena con la mano, desideroso di sentirmi tranquilla.

Sospirai, umettandomi le labbra secche.

Presi un bicchiere d’acqua, sciogliendo l’arsura della gola. Aveva ragione Edward, avrei avuto bisogno di dormire di più. Suonarono alla porta, e dopo pochi istanti sentii l’inconfondibile voce di mio suocero. Il motivo della sua visita fu in leggero dubbio finché la presenza della sua familiare borsa di cuoio non lo fugò. Ero sollevata dal fatto che Edward l’avesse chiamato.

Non parlai, rimasi in silenzio per tutta la durata della visita. Non avevo mai visto Carlisle così concentrato e chiedermi cosa gli passasse per la testa era… impossibile. Edward stringeva costantemente la mia mano fra le sue, pensando sicuramente a quanto fossi preoccupata per la bambina. E lo ero. Una parte di me lo era realmente. Per il resto mi sentivo completamente svuotata, in balia di qualcosa che non mi apparteneva.

Carlisle sospirò piano, una tipica abitudine umana. Era così abituato a dimostrarsi uomo fra gli uomini. Una persona dotata di infinita forza di volontà e coraggio. Di certo, lui non avrebbe mai temuto di uno dei suoi figli. Tutt’al più l’avrebbe fatto per i suoi figli.

Distolsi lo sguardo, afflitta. Forse non avrei mai potuto essere una madre.

«Non posso dire niente con precisione». La sua voce mi arrivò come lontana, registrata. «Sapevo che prima o poi l’avrei detto, ma speravo non fosse così. La membrana mi impedisce di sapere qualunque cosa in più». Temporeggiò, afflitto, notando che non mi voltavo nella sua direzione.

Edward si chinò su di me, abbracciandomi silenzioso. Era preoccupato, era un padre davvero preoccupato, eppure si premurava di rassicurare me, perché pensava quanto stessi soffrendo per la nostra bambina. Strinsi le braccia attorno al suo collo, silenziosa, voltandomi appena per posare la testa sulla sua spalla.

«La nota positiva è che il battito è buono» mi rassicurò Carlisle, «ma… non lo so. Dovremmo valutare l’ipotesi di un ricovero entro domani».

Rimasi ferma, silenziosa. Le parole mi arrivavano addosso prive di significato.

«Potresti dirmi con più precisione quali sono stati i suoi movimenti?» mi chiese cortese.

Mi morsi un labbro, senza scompormi. Mi presi molto tempo per rispondere. «Si è mossa… poco… pochissimo…» distolsi lo sguardo, chiusi gli occhi, afflitta dalla vaghezza delle mie indicazioni.

Edward rispose per me, dando a Carlisle delle informazioni più precise. «…e nelle ultime tre ore l’ho sentita solo tre volte, ma non erano movimenti significativi…». Improvvisamente s’interruppe, irrigidendosi.

Sentii un sibilo e immediatamente mi staccai, guardando negli occhi mio marito.

«Stai tranquilla, Bella» mi rassicurò, veloce. Saettò con lo sguardo su Carlisle. «Perché è venuto? Non doveva aspettare che andassimo noi?».

Carlisle strinse le labbra. «Non lo so, Edward. Ci conviene parlargli, ora, subito. La situazione ci sta sfuggendo di mano, e abbiamo bisogno di aiuto».

I miei occhi passavano veloci da uno all’altro, senza fermarsi. Non erano preoccupati. Più che altro infastiditi e sull’attenti. Edward si voltò verso di me, scrutandomi. «Vai» disse a suo padre, che scomparve in un istante. Passò una mano sotto la mia nuca, guardandomi intensamente. «Per affrontare questa cosa abbiamo bisogno di aiuto Bella. Ti prometto che tutto passerà, tutto si sistemerà» sospirò, stringendo le labbra lisce «dobbiamo fidarci del professor Philip, adesso».

Sapevo che l’avrebbe detto. Aspettavo solo il momento in cui l’avrebbe fatto. D’altra parte, avevamo stretto un patto con quell’uomo, e in questo momento il nostro stato di difficoltà era palese. In realtà, per quanto riluttante fossi all’idea di farmi aiutare da lui, avevo segretamente cominciato a sperare che le cose potessero davvero aggiustarsi. Che avrebbe trovato una soluzione per il mio snaturato istinto di madre.

Per questo motivo l’accolsi nel mio soggiorno, e non feci neppure una grinza mentre lo osservavo ascoltare quello che Edward e Carlisle gli stavano raccontando. Sorseggiava lentamente il Whisky che io stessa ero andata a versargli. Tutto, pur di allontanarmi anche solo un secondo dai quei piccoli occhi cerulei che non smettevano di fissarmi. Edward aveva intuito il mio stato di tensione, sedendosi accanto a me sul divano, tenendomi stretta con un braccio.

Avevo maturato un occhio critico nei confronti di quell’uomo, tanto da accorgermi che c’era una sottile differenza nel suo comportamento, nei suoi modi, nei suoi sguardi, fra quelli burberi e bruschi che rivolgeva al resto del mondo, e quelli che invece rivolgeva a me.

«La strana convergenza dei licantropi, quello che ha fatto la bambina, quello che è successo a Bella… sembrano cose troppo eterogenee per stare assieme. Non riusciamo ad individuarne la causa», spiegò, concludendo, Carlisle.

I suoi occhi fiammeggiarono. Si strinsero, si allargarono. La fronte si corrugò e poi si distese. Mi chiesi quali pensieri potessero passare in quella mente. «Non vi dirò niente» sancì infine, dopo un maturato ragionamento.

La testa di Edward scattò immediatamente verso di lui. «Cosa?».

Sembrava tranquillo per aver stuzzicato pesantemente un vampiro. «Questo non ha niente a che fare con la natura della bambina e la gravidanza. Non rientra affatto nel patto».

La mascella di Edward si serrò, ne sentii lo schiocco secco. «Cosa intende dire?».

«Niente di più di quello che ho detto. Non vi dirò nulla».

Ansimai, scossa. Mio marito scattò in piedi, avvicinandosi in due ampie falcate a quell’uomo. «I miei fratelli sono in giro per il modo a cercare sua figlia, e Dio solo sa quanto sia doloroso per loro essere strappati dalla propria famiglia». Il suo tono era pedante e sibilante «Non mi appello alla sua coscienza, alla sua integrità di uomo. Non me lo aspetto» aggiunse con disprezzo, «Ma non mi interessa quanto quello che le ho chiesto competa o meno l’ambito del contratto. Lei. Ora. Mi dirà quello che voglio sapere».

Era tanto vicino da scoprire i denti a meno di un metro dal suo collo. Ma Philip non si mosse, non batté ciglio. Carlisle avanzò appena di un passo, certamente consapevole di quanto potesse essere pericoloso un vampiro fuori controllo.

«No» rispose semplicemente.

Edward ringhiò, forte, tanto da far rabbrividire anche me. Era un vero vampiro e faceva paura. «Che cosa vuole? Che cosa c’è ancora? Vuole denaro? Lo prenda pure, anche tutto quello che ho, ma lei mi deve dire quello che succede a mia moglie, ora!».

«Edward» lo richiamò Carlisle, osservando attento la scena, pronto ad intervenire.

I muscoli del suo avambraccio si muovevano convulsamente, pulsando. Le mani erano serrate in due pugni stretti, e ogni parte del suo corpo era rigida a tesa. Come se stesse resistendo all’istinto di ammazzarlo. Probabilmente era davvero così.

Neppure questa volta il professore si mosse, sostenendo il suo sguardo.

Quanto a me, non riuscivo a distogliere lo sguardo da nessuno dei due. Sentivo la fiammella della speranza, quella flebile e dispersa in me, spegnersi mentre ci soffiavano cinicamente sopra.

«Potrei ammazzarla, se solo volessi» pronunciò con un tono di spettrale neutralità gli occhi fiammeggianti fissi nei suoi.

L’altro sguardo fu altrettanto deciso e gelido. «Non avresti le informazioni che cerchi. Nessuna».

Proprio quando vidi Edward ringhiare, proprio in quell’istante in cui sentii che aveva perso il controllo e che più nulla l’avrebbe trattenuto, decisi di agire. «Edward! Ti prego!» gridai, scattando in piedi. «Ti prego!» urlai, in preda al terrore.

Immediatamente mi ritrovai fra le sue braccia, sostenuta dal suo abbraccio freddo. Mi mise seduta sul divano, stretta a lui. Gli accarezzai i capelli, velocemente, rassicurandolo. «Non importa Edward. Non importa…» mormoravo atona «non lo puoi obbligare. Non lo puoi obbligare…» ansimavo, sentendo quanto le mie parole stridessero con quello che provavo. Non c’era più alcuna speranza, nessuna. «Io… io…» farfugliai.

Edward mi prese il viso fra le mani, osservandomi, fissandomi addolorato. Si capiva così tanto quanto stessi soffrendo? Mi riprese fra le sue braccia, ricominciando a stringermi.

Con la testa posata sulla sua spalla vidi l’espressione di Philip, stranamente crucciata. Deglutii quando mosse un passo per avvicinarsi, cominciando a tremare.

Ma improvvisamente, con un movimento fluido, Edward si staccò da me, tenendomi per le braccia e osservando in silenzio oltre la vetrata. Il suo sguardo era attento e concentrato. «Carlisle, dei pensieri. Vado a controllare, rimani con Bella».

Tanto furono un limpido mormorio che non avrei mai potuto comprendere quelle parole se le sue labbra non fossero state a pochi centimetri dalle mie. Non passò un secondo che davanti a me lo spazio fu incredibilmente vuoto.

Ero a dir poco spiazzata da quello che era appena accaduto. Non tanto da impedirmi di capire, seppure con qualche secondo di ritardo, quello che era passato per la sua testa. I licantropi. Erano loro? Avrei sofferto ancora?

Non mi importava. In quell’istante una preoccupazione molto maggiore si stava facendo strada in me. «Carlisle» chiamai decisa, sollevandomi e guardandolo negli occhi «va con lui» mormorai certa.

L’indecisione passò nel suo sguardo, che saettò immediatamente nella direzione del professore. Certo, non volevano lasciarmi sola con lui. «Bella».

Ansimai, preoccupata, arrabbiata, spaventata. «Vai. Ti prego. Se davvero sono i licantropi sai perfettamente anche tu quanto possa essere pericoloso. Vai».

La sua fronte perfetta s’increspò, e i suoi occhi gialli s’incatenarono ai miei. Stavo per pregarlo ancora, quando si mosse. Mi mise una mano sulla spalla, spingendomi verso la porta della mia camera. «Veloce, entra qui dentro. È la stanza più protetta. Chiuditi a chiave e» guardò ancora il professor Philip, che ci stava seguendo «stai attenta Bella».

Prima che potesse scomparire, chiudendo la porta, presi una mano fra le mie. «State attenti voi».

Mi baciò la fronte e in un istante fui sola. Chiusi la porta a doppia mandata e mi assicurai di avere la chiave ben stretta in pugno. Camminai come un fantasma, andandomi a sedere sul bordo del mio letto.

I pensieri, l’angoscia, la preoccupazione, erano mischiati in me, alimentati in ogni modo. C’era una parte della mia mente che immaginava quello che sarebbe potuto accadere in un confronto fra Edward, Carlisle, e quei giganteschi lupi.

L’altra, era l’istinto di auto-conservazione. Alimentata da due cause tanto distinte e autonome quanto fonte di certa paura. L’ultima volta quel pazzesco dolore si era verificato in presenza di un lupo, e la mia mente sperava che non fosse quello il meccanismo di innesto di quella tortura. L’altra causa mi faceva tremare come una foglia, più imminente e vicina.

«Isabella».

Sussultai, mettendo a tacere i miei fremiti. Pareva anche lui crucciato, preoccupato. Non l’avevo mai visto così. Probabilmente era la vicinanza ai licantropi a sortirgli quell’effetto. Avrei potuto dirgli di sedersi, di accomodarsi. Avrei potuto essere gentile e cortese. Ad impedirmelo era il senso di soggezione che mi suscitava.

Mi fissò negli occhi con sicurezza. «Non soffrite così tanto» si avvicinò ancora, piegando per un attimo la testa di lato. Pareva come se… mi volesse rassicurare. «Non vi accadrà più, ve lo giuro».

Aprii la bocca, stupita, mentre i miei pensieri continuavano a ripetere continuamente quella frase, senza cavarne nulla di sensato.

Continuò a parlare, certo che non avessi compreso. «Quello che è successo l’altra volta. Il buio, la confusione, il dolore». Rabbrividii. «Non accadrà più. Era la fine. È passato».

Sentivo il mio respiro pesante e lento, mentre provavo a capacitarmi delle sue parole, arrivando persino a cercare di ricordare quando fossi svenuta, magari stremata dalle poche ore di sonno. Eppure mi sembrava così vero quello che il mio cervello cercava in ogni modo di negare. Per quale motivo non aveva detto nulla, prima? Per quale motivo ora mi stava confessando tutto questo?

«Non poso dirvi di più» aggiunse addolorato, spiazzandomi. Non mi sarei aspettata, mai, di vederlo così, un giorno, specialmente dopo la brutalità e la misantropia con cui aveva respinto le mozioni di Edward pochi minuti prima. «Non posso e, credetemi, è meglio per voi. Ma vi ho detto quello che volevate sapere, Isabella». 

Con lentezza elaborai quello che avevo appreso. Niente più dolore, niente più buio, nessun pensiero latente, nessuna paura di chiudere gli occhi e abbandonarsi al mondo dei sogni. Non sapevo come crederci.

Fece un passo verso di me, trovandosi a meno di due metri di distanza. Sgranai gli occhi preoccupata. Mi guardava intensamente, come se anche con lo sguardo volesse comunicarmi qualcosa. «Vi ho osservata. Siete una persona che affronta i problemi, temeraria in genere. Avete poca considerazione del senso del pericolo. Eppure, osservandovi ancora, oggi, non ho potuto fare a meno di notare i vostri occhi bassi» disse, ormai troppo vicino a me, quasi sfiorandomi con la sua fragile pelle «la vostra espressione afflitta e inanimata» si chinò, il viso vicino al mio.

Tremai, chinandomi automaticamente indietro.

«Ma soprattutto, le vostre mani, i vostri occhi, che mai si sono posati sul vostro grembo. Voi avete paura» asserì convinto, spiazzandomi.

Ansimai velocemente, agitata, turbata.

«Anche mia moglie aveva paura. Ne sono convinto. Voi avete paura di vostra figlia».

Strizzai gli occhi e scossi il capo, tentando in ogni modo di negare l’evidenza, negare ciò che se pronunciato ad alta voce, ammesso, assodato, mi avrebbe portato alla pazzia. No, no, no!

Sussultai quando sentii la sua mano, ruvida, sulla mia guancia. Rabbrividii.

«Non devi aver paura di lei» mi rassicurò «Isabella, non devi averne. Non è stata lei a procurarvi quello che avete sentito. Non ne ha la volontà, né il potere. Non è stata lei».

Il mio respiro pesante era rotto da fremiti. Non riuscivo più a comprendere, nulla.

Non era la mia bambina la fonte di tutto quel dolore… Non era lei… Eppure ne eravamo stati convinti, a lungo, com’era possibile? Come?

«Lei… lei… Sono i suoi sogni… sono i sogni della bambina… cosa… cosa…» farfugliai.

La sua mano si mosse sua mia guancia, tesa a rassicurarmi. «Voi avete sentito ciò che era destinato a lei, percependolo in maniera assai distorta. Lei ha solo fatto da tramite. È vero, sono pensieri che scorrono nella sua mente, ma non ha nessuna colpa».

Mi lasciò libera, allontanando la mano da me, e proprio in quell’istante scoppiai a piangere, singhiozzando, gemendo.

Non era lei, non era colpa sua. Immediatamente le due bambine che avevo immaginato in quei giorni diventarono un’unica figura, unita e perfetta. La bambina che non avevo mai smesso di amare. Che mi voleva bene esattamente quanto io a lei. Singhiozzai forte, senza sosta, senza desiderio di fermarmi.

Non badai alle mani che mi sfilavano la chiave dalle mani, ai successivi rumori.

«Bella!» esclamò Edward, allarmato, entrando di corsa nella stanza.

Non avevo pianto, per due giorni, non avevo pianto. E ora mi stavo sfogando di tutte le lacrime che non avevo versato. Ora, mentre tutto tornava al suo posto, e mi sentivo ancora disposta ad affrontare la vita. Era come se il torpore, la paura, l’angoscia di quei giorni, fossero stata spazzati, e mi sentivo incredibilmente leggera, come quando da bambina, in primavera, rimanevo ferma nei grandi campi, sentendo il fruscio del vento passarmi accanto, accarezzarmi. Chiudevo gli occhi e ogni cosa mi sembrava essere tornata alla perfezione.

Edward mi strinse fra le sue braccia, e immediatamente ricambiai, stringendolo, baciandogli il viso. «Bella, cos’hai? Cosa succede? Cosa ti ha fatto?».

Scossi il capo, tirandomi indietro per permettergli di guardarmi in viso. Mi portai, silenziosa, una mano al ventre, sentendomi ancora una volta nella vita perfetta e completa. Si mosse. Un movimento deciso, lungo e prolungato, e la sentii dentro me, viva.

Risi, risi, risi. Risi gioendo di quella vita, risi, divertita dall’espressione confusa di mio marito.

Nell’ora successiva spiegai sia a lui che a Carlisle quello che il professore mi aveva detto prima di scomparire. Non parlai della mia paura, non dissi nulla. Non ero ancora pronta per farlo. Ma fui davvero felice di sentire perfettamente i movimenti della piccola, che non smise un secondo di agitarsi.

Fortunatamente i pensieri percepiti da Edward non provenivano da quelli che mi veniva sempre più naturale chiamare nemici, ormai. Mi sorrideva, contento di vedermi più serena. Magari avrei dovuto dire grazie al professor Philip. Magari. Avevo ancora troppi dubbi sul suo conto, tanti quanti ne aveva lasciati non dandoci delle spiegazioni concrete.

Ma non riuscivo ancora a pensarci. Ero accecata dall’idea che nulla di male sarebbe più accaduto, e che la mia piccolina non mi aveva mai fatto, né voluto fare del male. Ci speravo davvero.

Un quesito ancora rimaneva irrisolto: chi o cosa era entrato a contatto con la piccola?

Non importava. Avrei avuto il tempo e la forza di scoprirlo.

«Edward» lo chiamai quella sera, stanca, ma serena, contenta di andare a dormire e riposarmi. Osservai il pacchetto sul tavolo del soggiorno «dobbiamo finire qualcosa».

Mi sorrise, stringendomi per i fianchi. Mi sollevò senza alcuno sforzo, quel tanto che bastava per permettermi di sistemare il puntale e finire l’albero.

Il nostro albero.

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Capitolo 60
*** Madri ***


Scesi le scale con attenzione, sorreggendomi al passamano, attenta a non perdere l’equilibrio per il vassoio che portavo nell’altra. Ormai ero alla fine del quinto mese e far passare inosservata la pancia era piuttosto difficile, data la mia corporatura esile.

Affrontai anche l’ultimo gradino senza cadere, e mi affrettai a lavare i piatti sporchi che portavo sul vassoio. Mancava appena una settimana a Natale, e mia madre, insieme a Phil, sarebbe arrivata il giorno stesso. In quel periodo Carlisle era stato sommerso di lavoro, causa l’epidemia di raffreddore e influenza che aveva colpito Forks, e anche il suo invincibile sceriffo, mio padre.

Quando suonarono alla porta andai ad aprire, certa di trovarvi mio marito.

«Come sta?» mi chiese baciandomi, indicando il piano superiore.

Ero stata per tutto il pomeriggio a casa di mio padre, per dargli una mano, cucinargli qualcosa di buono e caldo, e tenere pulita la casa in vista delle feste, senza badare a nessuna delle sue proteste. «Bene, si è addormentato dopo mangiato» sorrisi «l’ho sentito russare».

Mio marito rispose con la stessa espressione complice sull’amabile viso da giovanotto che si ritrovava.

Rassettai le ultime cose in cucina. Da tanto tempo ormai, tanto da far persistere un’espressione contenta e serena sul mio viso, ogni cosa andava piuttosto bene. Avevo scoperto un rinnovato rapporto con mia figlia, preceduto da una breve fase di senso di colpa per la paura che avevo provato nei suoi confronti. Passavo molto tempo, ormai, sola con lei, a dirle quanto le volessi bene, a comunicarle emozioni positive, il mio amore nei suoi confronti. Avevo sviluppato un forte senso d’orgoglio per lei, trasformando quello di cui avevo paura in un motivo di felicità.

Edward aveva certamente avvertito un certo mutamento al riguardo, ma non aveva fatto alcuna esplicita considerazione, preferendo rimanere in silenzio ad osservarci, suonarci una melodia, o cullarci fino a tardi, la sera, in una tacita e muta promessa di comprensione.

Tutto procedeva con il ritmo delle feste natalizie, appena iniziate. Emmett e Rose erano da poco tornati per festeggiare il Natale in famiglia, e presto Jasper e Alice sarebbero partiti al loro posto.

Forse quello era l’unico pensiero fonte di una leggera ansia. Alice aveva avuto dei ricordi del passato, di uno dei suoi periodi più tristi. Vedere me in quello stato le aveva ricordato il periodo in cui l’aveva subito anche lei quel dolore, a causa dell’elettroshock, tecnica frequentemente utilizzata nei manicomi del periodo.

«A che pensi?» mi chiese Edward, facendomi voltare e scontrare i suoi occhi chiarissimi con i miei. Era appena andato a caccia.

Sospirai, scrollando le spalle, legando le braccia al suo collo. Lo baciai con tenerezza, prendendo il suo labbro inferiore fra i denti e provando a torturarlo, senza fargli alcunché. Si trasformò in qualcosa di molto meno tenero quando mi strinse con le mani i capelli, traendomi a sé. «Edward» gemetti, confusa ed eccitata.

In poco tempo mi ritrovai seduta sul ripiano della cucina appena pulito. «Mi sei mancata…» mormorò, baciandomi il collo, accarezzandomi le gambe, fasciate dai fuseaux.

Ormai era diventata un’abitudine farci sorprendere dalla passione nei posti più strani e inusitati, amarci con foga e passione più e più volte, senza stanchezza, senza calma, ma con la frenesia di appartenere l’uno all’altro sempre più.

«Edward» gemetti «a casa di mio padre…».

Continuò imperterrito a stuzzicarmi. «Sta dormendo, l’hai detto anche tu» mormorò roco.

Feci roteare il capo, presa dal piacere, il rimbombo del cuore nelle orecchie. «Sulla sua cucina…».

Sentii le sue labbra piegarsi in un sorriso, e il suono di una risata sommessa, maliziosa. «La nostra l’abbiamo provata anche troppo, ormai».

Arrossii alla verità di quella affermazione, e dalla mia bocca non uscirono più parole. Almeno, non che avessero un proprio senso compiuto.

 

Nella seguente settimana mi applicai molto per rendere tutto perfetto. Pulire, sistemare la casa, preparare quello che sarebbe stato il nostro pranzo.

La fonte di distrazione principale era costituita da Edward. E che distrazione! Mi facevo distrarre molto, spesso e volentieri, per tempo breve o lungo, sempre pronta ad adattarmi a lui, a sentirmi una sua stessa parte. E in quei momenti mi sentivo perfettamente completa. Lui, la bambina, i miei amori più grandi dentro di me, uniti a me. Meraviglioso e perfetto.

L’altra fonte di distrazione era la gravidanza e la bambina. Se da un lato mi incentivava a fare, creare, sistemare, ogni tanto mi capitava di essere stanca o di dover fare alcuni respiri più profondi del solito dopo un piccolo sforzo. Avevo avuto ancora qualche problema a causa della perenne anemia e dell’ipotensione, niente che non si fosse sistemato con uno spuntino extra e con tante coccole di Edward.

«Hai preso la carne, Edward? Il tacchino dev’essere grande ma non esagerato, se non è proporzionato mia madre ci farà un sermone sulla fame nel mondo. Sta seguendo un nuovo corso New Age» sospirai, alzando gli occhi al cielo e finendo di sistemare gli ultimi oggetti che avevamo acquistato nella cameretta della bambina.

Sussultai spaventata quando sentii le sue braccia stringermi improvvisamente da dietro. «Certo, come mi hai detto. È tutto sistemato secondo i tuoi piani?» chiese attento e disponibile, baciandomi una guancia.

Gli accarezzai i morbidi capelli con una mano, osservando con lui i nostri nuovi acquisti. Il fasciatoio, con alcuni piccoli pannolini e salviettine, la culletta, il baby-monitor, e tanti altri piccoli oggetti. Molto pochi, mi dicevo, rispetto a quelli che la bambina avrebbe avuto dopo Natale. Avevo deciso di organizzare tutte queste cose, di dedicarmi a lei, ora che avevo la forza e il tempo di farlo. Le lezioni erano sospese, io ero quasi totalmente pronta per gli imminenti ed ultimi esami della sessione, e potevo dedicarmi a lei.

«Vorrà sapere il suo nome» borbottai, riferendomi a mia madre, gli occhi sempre fissi sulla cameretta.

Edward ridacchiò, facendomi voltare. «Tutti lo vogliono sapere ormai».

Sospirai. Ci avevamo discusso a lungo, ma ancora non avevamo trovato il nome giusto, quello adatto a lei. Quello che mi convincesse davvero. Era stata un’impresa ardua quella di convincere Emmett a non incidere “Lilla” sulla culla.

«Bella, devi decidere solo tu. Non farti condizionare» mi disse serio, prendendomi il mento fra le mani.

«Insieme» puntualizzai «dobbiamo decidere insieme».

In quel periodo svolgevo assiduamente i miei esercizi yoga, con gli attrezzi che Alice aveva fatto pervenire appositamente a casa. La folla iniziale che si era presentata a casa mia, Alice, Jasper, Emmett, Rosalie, tutti pronti a farmi da insegnanti, mi aveva fatto alterare, tanto che Edward aveva fatto appena in tempo a mandarli via. Non ero disposta a sopportare più di un insegnante, punto. Sapeva quanto fossi suscettibile sulla questione della ginnastica.

E come Emmett aveva intuito, borbottando imbronciato «Tu vuoi solo lui sorellina. Chissà perché», l’insegnante che volevo era proprio Edward.

Ero arrossita violentemente, causa il modo in cui quegli attrezzi, quelle strana palla su cui mantenere l’equilibrio, e bel tappetino blu, fossero entrati nelle mie grazie in maniera molto poco ortodossa, in un estenuante pomeriggio di esercizi.

Ero così stanca, e soprattutto scocciata, che non la smettevo di lamentarmi. E avevo continuato a farlo fino a quando i pantaloni blu scuro della tuta di Edward non erano entrati nel mio campo visivo. La mia mente, al pensiero di quella stoffa morbida e soffice, custode di qualcosa di molto più duro e sodo, aveva fatto le capriole e i salti di gioia, obbligando le mani ad agire di conseguenza. E l’incidente dell’acqua, portata con solerzia da Edward per rinfrescarmi, finita accidentalmente sulla mia maglietta sottile non aveva affatto aiutato, così che, entrambi con un autocontrollo pari a zero, ci eravamo lasciati andare.

Così mi aveva insegnato quanto interessanti potessero essere quei comunissimi oggetti.

Pochi giorni prima, dopo aver saputo che la gravidanza avrebbe avuto una durata normale di nove mesi, avevamo programmato la data del taglio cesareo. Avevo una certa paura che non manifestavo, nascosta dalla rassegnazione per non poter avere un parto naturale. Sarebbe stato il 24 aprile, ed oltre a Mark Green, lo specializzando, mi avrebbe assistito un’ostetrica, la dottoressa Emily, donna matura e saggia. Forse un po’ taciturna, ma con me sempre gentile.

Ero sempre stata contenta di poter avere una gravidanza piuttosto normale, tuttavia man mano che il tempo passava notavo sempre più differenze. Il parto era solo la prima di una lunga serie. Il più recente punto di difficoltà era stata la prevista - dalla cara e gentile Alice - insistente voglia di mia madre di vedere l’ecografia della bambina.

Probabilmente lo sapeva solo Esme, o al più Rosalie, ma ci ero rimasta davvero molto male quando aveva sancito che l’unica soluzione sarebbe stata farle vedere l’ecografia di un altro bambino. Non ero strettamente legata a questo genere di cose, eppure, anche se per poco, non avevo potuto fare a meno di soffrire.

Tuttavia man mano che il giorno di Natale di avvicinava ero sempre più attiva e agitata, troppo, per curarmi di questi problemi. Dovevo preparare, sistemare, perfezionare tutto. Avevo comprato dei regali insieme a Edward, sperando che fossero quelli giusti. Avevo fatto un piccolo pensiero anche a lui. Niente di che, ma speravo gli piacesse. Volevo che tutto fosse pronto, sistemato e perfetto.

Passai, la notte di Natale, una magnifica serata insieme a tutti i Cullen e a mio padre, appena rimessosi dall’influenza. I regali per la bambina, come avevo sospettato, furono davvero tantissimi, tanto che mi chiesi se la sua cameretta sarebbe stata abbastanza grande da contenerli.

«Tieni, spero le piacerà» mi aveva detto Alice con un sorriso, dandomi un pacchetto giallo e verde. Tuttavia l’espressione sul suo volto non mi convinceva. Non era presente la comune euforia che dominava i suoi dolci tratti.

«Stanca di non poter vedere il futuro?» azzardai, scartando il dono.

Scosse la testa facendo spallucce. Abbassò il viso e poi lo risollevò, guardandomi negli occhi. «Mi dispiace per quello che hai provato Bella, so quanto fa male». Sussultai alla sua affermazione improvvisa. Nei suoi occhi passò una luce strana. «Perdonami, non te l’ho detto prima perché non volevo fartelo ricordare. Scusami, tu dovresti solo dimenticare queste cose e non stare a sentire me che ti…».

«Alice» la interruppi, prendendole le mani fra le mie «dispiace anche a me che tu abbia provato quello che ho provato io».

Mi fissò per alcuni secondi, con gli occhi che le brillavano, poi mi abbracciò stretta, facendo cadere entrambe dal divano su cui eravamo sedute. Ridemmo.

Jasper venne in nostro gentile soccorso, aiutando soprattutto me a rimettermi in piedi. Alice lo prese amorevolmente per mano, guardandolo. «Jasper mi sta aiutando» abbassò il viso, «non sono cose belle, ma fanno parte del mio passato, l’unico che ho» si voltò verso il marito, guardandolo con adorazione devozione, «non so come farei senza lui».

Sorrisi, contenta, e subito dopo mi trovai stretta nell’abbraccio di mio marito. La serata passò piacevolmente, fra le risate e le chiacchiere. Fu molto divertente e sereno.

Tuttavia il vero Natale iniziò la mattina successiva.

Mi svegliai di buon’ora, mettendomi immediatamente ai fornelli, armata di tanta forza di volontà, rimboccandomi le maniche e legandomi i capelli in una bella coda alta.

«Ehi. Sei già qui» mormorò Edward venendomi incontro con i capelli ancora umidi. Era appena uscito dalla doccia.

Mi strofinai la fronte con un braccio, le mani impegnate a tenere una mela e il coltello. «Devo riuscire a finire presto, il tacchino deve cuocere quattro ore» sospirai, «mi passi quel coltello?» chiesi, indicandone uno più piccolo.

Fece come gli avevo chiesto, fissandomi scettico. «Non vorrei che ti stancassi troppo. Perché non ti fai aiutare da Esme, lei non deve cucinare per nessuno oggi».

Scossi vigorosamente il capo, continuando a sbucciare con solerzia le mie mele. «No, voglio farlo io. Ce la faccio».

Mi posò le mani sulle spalle, costringendomi a fermarmi. «Bella, è da una settimana che lavori tutto il tempo per rendere tutto perfetto e preciso. E lo sarà. Ma perché oggi non ti fai aiutare?».

Mi voltai verso di lui, sospirando. Mi fissai, per quando riuscissi, le punte dei piedi, rossa in viso.

Mise due dita fredde sotto il mio mento, costringendomi a guardarlo negli occhi. «Bella» mormorò crucciato. Questo doveva essere uno di quei momenti in cui avrebbe certamente voluto leggermi nel pensiero.

Presi un profondo respiro, e parlai con tutta la tranquillità di cui ero dotata. «È solo che» deglutii «è la prima volta che faccio una cosa del genere, okay? Il Natale, il pranzo in famiglia. Noi, siamo una famiglia, io, te, e la nostra bambina. E vorrei che noi riuscissimo a farlo, da soli» ammisi, sentendomi stupida. «Vorrei che mi capissi». Balbettai.

Mi accarezzò una guancia, fissandomi serio. «Quindi dici che varrebbe lo stesso se ti aiutassi io, visto che faccio parte della famiglia?». Un sorriso divertito e sghembo era comparso sulle sue labbra.

Pochi minuti dopo anche lui era al lavoro, col suo bel grembiule bordeaux. Mi pelava le patate, tagliava la carne. Diceva che io ero il suo chef. Certamente, avevo compreso, avrebbe fatto di tutto pur di farmi sentire appagata nel nuovo ruolo che stavo man mano scoprendo. E se come madre dovevo ancora fare i conti con mille problemi, secondo la sua opinione come moglie ero semplicemente fantastica. Ma Edward aveva una visione piuttosto distorta della realtà per quanto riguardava la mia persona.

«Edward, ti prego!» esclamai d’un tratto, strappandogli il tagliere dalle mani. Lo portai velocemente dalla mia parte, facendolo scivolare sul ripiano di marmo.

«Che cosa succede? Ehi, calmati» disse, vedendomi ansante per la paura appena provata.

«Non ti avvicinare» lo minacciai. Poi, silenziosa, afferrai ciò che stava per tagliare e gli restituii il tagliere con delle mele. «Taglia quelle» borbottai, triturando io stessa l’aglio.

Non passarono che pochi secondi, e la sua risata argentina mi raggiunse. Arrossii profondamente, ma continuai imperterrita la mia opera, senza alzare il viso.

«Bella?» mi chiamò. Non riposi, come non risposi a nessuna delle sue successive chiamate. Sentii le sue braccia fredde intorno alla mia larga vita. Mi baciò una guancia. «Sai che da quando aspetti la bambina hai sviluppato uno strano istinto materno anche nei miei confronti?» chiese ironico.

Mi mordicchiai il labbro, arrossendo. «Può darsi».

Speravo davvero che in qualche parte dentro di me ci fosse quell’istinto fantomatico di cui tutti parlavano. Avevo solo diciannove anni, non avrei mai pensato di diventare madre così presto e nonostante spesso mi sentissi più matura dei ragazzi della mia età sentivo che c’erano moltissime cose in cui ancora dovevo crescere. E poi quella gravidanza così particolare, quello strano rapporto con mia figlia, la possibilità di sentire le sue emozioni, la paura di comunicarle le emozioni sbagliate.

Non era ancora nata e ne avevamo già passate così tante.

Teoricamente mi ripetevo come avrei dovuto educare, sostenere, far crescere o non crescere mia figlia. Pensavo a quello che non avrei mai voluto fare, né ottenere, e a quello che invece volevo perseguire.

Inevitabilmente mi ritrovai a pensare a me stessa. Volevo che mi figlia diventasse come me? Volevo semplicemente che prendesse i miei pregi e che evitasse il più possibile i miei difetti.

Come fare allora per perseguire il mio scopo? L’educazione impartitami da mia madre era stata a dir poco eccentrica. Per quanto le volessi infinitamente bene dovevo ammettere che spesso io stessa mi ero ritrovata a farle da madre, e non volevo che lo stesso avvenisse con mia figlia. Volevo dunque essere migliore di lei? Oppure volevo semplicemente dimostrarle di essere anch’io, per conto mio, capace di portare avanti la mia famiglia?

Sistemai con minuzia il centrotavola, rendendo perfetto anche quell’ultimo particolare. La tavola imbandita, gli addobbi, il profumo d’arrosto, cannella e vischio nell’aria. Mi ero molto applicata per il mio scopo. Forse anche un po’ stancata, ma di sicuro ne sarebbe valsa la pena.

Presi un profondo respiro quando sentii un movimento veloce della piccola. Accarezzai la pancia con un sorriso, comunicando tanto amore alla mia piccola bambina.

Il tacchino fu presto tirato fuori dal forno, sistemato sul suo piatto da portata, pronto per essere servito; così potei dedicarmi a me stessa, mentre Edward aveva deciso di andare a prendere da solo Phil e mamma all’aeroporto. Mi aveva invitato a rilassarmi e riposarmi, e prendermi tutto il tempo per diventare ancora più bella di quanto già non fossi. Il solito adulatore.

Non appena sentii lo stipite della porta cigolare e la risata allegra da ragazzina adulta, posseduta dal timbro inconfondibile di mia madre, nulla m’impedì di farmi nuovamente sommergere dall’ansia e dall’agitazione. Una sorta di subdola euforia mista ad angoscia.

«Bella!» esclamò non appena mi vide, in piedi davanti al divano e allargò le braccia, osservandomi contenta.

In pochi secondi riuscii a notare dei cambiamenti sul suo volto. Fu una stretta al cuore, sapere di aver perso quel tempo con lei. Ma Reneè era giovane dentro, uno spirito libero, e io sapevo che lei stava bene, che era giusto così. «Mamma» singhiozzai, vergognandomi delle mie stesse lacrime e della parola che avevo appena usato.

Corse da me, stringendomi forte fra le braccia, accarezzandomi i capelli e baciandomi la testa.

Stavo bene, stavo così bene fra le braccia di mia madre. E forse avrei voluto sentirmi ancora semplicemente una ragazzina, protetta da lei, stretta nel suo abbraccio. In quel momento non riuscivo a pensare al fatto che dentro di me un’altra vita, che sarebbe fra poco nata, avrebbe avuto ogni diritto di pretendere lo stesso da me.

«Mi sei mancata» mormorai, stringendola più forte, zittendo i singhiozzi.

«Anche tu amore mio, anche tu mi sei mancata» sussurrò, continuando ad accarezzarmi la schiena.

Mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno. Infine decisi di staccarmi dalla sua spalla, lasciandomi osservare. Avevo indossato il vestito di velluto rosso, lungo fino al ginocchio, che la sera prima Edward mi aveva regalato.

«Sei un incanto!» esclamò con un’espressione dolce, soffermandosi ad osservare la pancia. «Oh, guarda! Sei non fossi così esile neppure si vedrebbe questa pancina così piccola! Falla mangiare Edward, mi raccomando!».

Mio marito mi fu subito accanto, prendendomi una mano fra le sue. «Certo Reneè, non mancherò».

Ma mia madre stava già andando avanti, osservandomi e palpeggiandomi. «Oh, se ci penso! C’è la mia nipotina lì dentro?».

Annuii, asciugandomi gli ultimi residui di lacrime, contenta di non essermi truccata in volto.

Sentii la piccola fare una capriola quando mia madre posò una mano sul ventre tondo. Sussultai, prendendo un respiro profondo, mentre un effluvio di curiosità mi raggiungeva da dentro.

«Cosa succede?». Gli occhi chiari di mia madre saettarono dal ventre tondo a me.

Scossi il capo. «Si è mossa».

Edward sorrise, piegandosi sulle ginocchia. «È la nonna. L’altra nonna. Reneè. Curiosona».

Mi scappò un risolino quando si mosse ancora, facendomi il solletico. Anche Phil mi salutò, cordiale. E ricevetti un bacio anche da mio padre, timido e a disagio. L’agitazione momentanea, la sete di perfezione, scemarono pian piano, mentre il clima si faceva tranquillo e sereno, e mentre, discorrendo con mia madre, potei ritrovare la Reneè di sempre.

Apprensiva obbiettò per il fatto che fossi continuamente in movimento, dalla cucina al soggiorno, senza permetterle di aiutarmi. Edward la rassicurò, spiegandole, convincendola, che ero perfettamente in grado di fare tutto. Per quanto sapessi quanto fosse di parte la sua osservazione, non potei fare a meno di esserne lusingata.

Come quando fui orgogliosa di mio marito, quando tagliò le fette perfette del tacchino, o quando abbassai il capo, arrossendo, quando si complimentarono per la cucina.

«E quando aspettavo te, Bella, non stavi ferma un attimo, eri davvero impossibile, una bambina super attiva, tanto che Charlie dovette, una notte, andare a prendere la valeriana a Port Angeles. Oh, Charlie, raccontaglielo!».

Mio padre arrossì per essere stato tirato al centro dell’attenzione. «Beh» borbottò «non riusciva a dormire per i calci che le tiravi, e l’unica cosa che ti faceva calmare era la valeriana. Ma a quanto pare avevamo esaurito le scorte di Forks».

«Certo!» lo interruppe Reneè, ansiosa di dare il suo contributo al racconto «quindi lui andò, alle due di notte, a prendere la valeriana a Port Angeles» e rise.

«Non potevo essere così iperattiva».

«Magari eri un po’ scoordinata già nella mia pancia, chissà» buttò lì mia madre.

«Reneè» la riprese Phil.

Arrossii, accarezzandomi il grembo. «Lei per ora è tranquilla» dissi, sorridendo.

«Oh tesoro, io avevo sempre la nausea, la pressione bassa, e dormire era una tortura. Per non parlare poi delle gambe gonfie».

«Gambe gonfie?» chiesi allarmata.

Phil rise. «La stai facendo spaventare».

Edward mi accarezzò una spalla, baciandomi una guancia. «Ci vuole ben altro».

Ben presto si gettò in una discussione con Phil e Charlie, lasciando a me mia madre, gestendo perfettamente la situazione. Non avevo ancora appurato che genere di relazione intercorresse fra mio padre e il nuovo marito di mia madre, così li osservai a lungo, in silenzio. Per quanto inizialmente Charlie mi fosse apparso timido e silenzioso, non appena era stata aperta una discussione sullo sport avevano entrambi trovato un punto di intesa, aprendosi vicendevolmente.

Avevo raggiunto il mio scopo, ma non era quello a farmi felice. Mi sentivo contenta per il clima leggero, le battute, la serenità, che aleggiava nella mia casa. Perché era proprio in questo clima sereno e familiare che avrei voluto far nascere mia figlia.

«Tesoro, come mai non abbiamo pranzato anche con la famiglia di Edward?».

Rimasi lievemente stupita dalla domanda di mia madre, ed ebbi un attimo di esitazione, poco avvezza com’ero a mentire.

Edward mi salvò immediatamente. «Rosalie e Emmett sono appena tornati da un viaggio di studio, e hanno pensato di aver bisogno di intimità, volendo concedere lo stesso a noi; in ogni caso ci incontreremo nel pomeriggio, verranno senz’altro a farci visita».

In realtà avevo voluto risparmiargli la tortura di mangiare tutto quello che avevo preparato, tortura che, ahimé, doveva invece subire Edward.

«Come stai?» sussurrai al suo orecchio.

«A cosa ti riferisci?» rispose col mio stesso tono. Gettai uno sguardo eloquente al cibo, a cui rispose con un sorriso. «Istinto materno» sillabò, ironico.

Impulsivamente lo colpii con una gomitata. «Ahi» esclamai subito dopo. Tutti si voltarono verso di me. «Ho… mmm… sbattuto con la gamba al piede del tavolo…» mormorai, rossa in viso.

Mio padre rise. «Tipico di te. Mi sorprende che tu non sia ancora finita in ospedale, Edward deve averti marcata a uomo». E tutti risero.

«Tu sei pazza» sussurrò divertito al mio orecchio, massaggiandomi il gomito.

Con tranquillità passammo al dopo pranzo, appena dopo aver mangiato la mia gelatina all’arancia. Mia madre mi fece i complimenti, richiedendomi la ricetta di quella prelibatezza, che lei avrebbe riprodotto in modo certamente assai più buffo. Ridemmo, ricordando il nostro pudding ai pennarelli a cera! Mi aveva lasciato così tante libertà da bambina, che farmi mettere dei colori in un dolce non le era parso poi così tanto strano.

«Tesoro, devi farti aiutare, ti prego. I piatti li lavo io».

«Ma no mamma. Devo solo metterli in lavastoviglie, non ti preoccupare. Mi aiuterà Edward».

Mio padre corrugò le sopracciglia. «Edward deve accompagnarmi a casa. La mia auto ha deciso di prendere le vacanze di Natale».

La brillante soluzione venne da Phil, che propose a Reneè di accompagnare Charlie a casa. Gli fui grata per l’occasione che in realtà gli stava regalando. Non erano molto in contatto, pur mantenendo un rapporto amichevole. Fu molto gentile da parte sua.

«Edward mi porti i bicchieri per favore? Non posso» riuscii a programmare la lavastoviglie «ecco. Grazie, mettili nel lavandino».

«Sistemo quello che è rimasto» disse, scomparendo nuovamente nel soggiorno.

Annuii, voltandomi verso Phil, offertosi anche lui di dare una mano. «Dobbiamo solo mettere i bicchieri, e asciugare quei piatti. Abbiamo finito» lo informai soddisfatta.

«Bene» mi rispose gentile, aiutandomi a caricare la lavastoviglie.

L’imprevisto avvenne proprio in quell’istante. Un bicchiere bagnato mi scivolò dalla mano, e non sarebbe accaduto nulla di grave se Phil non avesse tentato di afferrarlo. Inutile fu il mio tentativo di bloccarlo, di deviarne la traiettoria. Cadde sul suo polso, con forza, frantumandosi.

«Oh, dannazione» imprecò fra i denti, ritraendo il braccio.

In pochi istanti il copioso odore nauseabondo mi raggiunse. La testa cominciò a girarmi violentemente, e le gambe mi tremarono, mentre vedevo il sangue cremisi colare dalla ferita.

Quasi inconsapevolmente mi portai una mano alla pancia, retrocedendo, tremante, disorientata. Tutto girava. Volevo concentrarmi su Phil, sulle sue parole, aiutarlo magari, ma non comprendevo nulla di quello che stava accadendo. I contorni della mia cucina erano sempre più sfocati e distorti.

Prima che potessi crollare mi sentii sorreggere dalla vita da due mani fredde e decise. Mi voltò verso di sé, guardandomi negli occhi. «Bella? Bella, mi senti?».

Mi sentii in dovere di parlare, di dire qualcosa. «Io… Ed… Edward…» lo chiamai sconnessamente, agitata, desiderosa di mettere a fuoco la sua immagine sfocata. Gli volevo dire di non pensare a me, di aiutare Phil, volevo comprendere cosa stesse accadendo, valutare l’entità del danno.

«Edward, devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare, stringendogli il volto fra le mani.

Mi occorsero pochi istanti per comprendere il mio errore.

Gli stessi istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.

Completamente sporche di sangue.

Lo stesso sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.

Non mi aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.

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Capitolo 61
*** Poteri ***


«Edward, devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare, stringendogli il volto fra le mani.

Mi occorsero pochi istanti per comprendere il mio errore.

Gli stessi istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.

Completamente sporche di sangue.

Lo stesso sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.

Non mi aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.

 

«Edward». Il mormorio inconsapevole e sgomento, prodotto dalle mie labbra, mi giunse flebile e ovattato.

La pelle perfetta e bianca della sua guancia si tese, mentre le labbra scoprivano una fila perfetta di denti, l’arma letale pronta ad uccidere.

Sentii che l’adrenalina che in pochissimi istanti era stata spinta con forza nelle mie vene, aveva cancellato ogni annebbiamento e stordimento, rendendomi perfettamente lucida. Fin troppo cosciente della situazione. «Edward, Edward, ti prego» sussurrai a voce bassa, attenta a non farmi sentire da Phil.

Ma gli occhi di mio marito guardavano più avanti, alle mie spalle, fissi e neri. Mi rendevo conto dello sforzo in cui si stavano impegnando i suoi muscoli in quel momento. Se non avesse avuto l’autocontrollo che aveva, in quell’istante i miei palmi aperti avrebbero premuto contro il vuoto, mentre ai miei occhi si sarebbe offerto uno spettacolo mostruoso e orripilante.

Mi voltai per un istante, timorosa di perdere il contatto visivo con Edward, eppure convinta della necessità di tenere sottocontrollo la situazione. Phil si teneva il braccio con una mano, che aveva ragionevolmente messo nel lavandino. Un battito di ciglia, e notai il sangue. Per terra, nel lavandino, sul braccio. Era tanto.

Resistetti, deglutendo, al pugno che mi arrivò allo stomaco. Mi voltai ancora immediatamente verso mio marito, guardandolo negli occhi stregati e cercando di catturare il suo sguardo. «Edward, guardami, ti prego, guardami» continuai a voce bassa, sollevandomi sulle punte dei piedi per avvicinarmi al suo viso.

Le mani, aperte, spingevano contro il suo maglione chiaro. Sentii il suo petto premere contro i miei palmi. Si stava muovendo, stava vacillando. «Ti prego!» sussurrai con un tono leggermente più alto, sentendo il cuore incespicare e balbettare nel petto. Ancora una volta, fulmineamente, mi voltai a controllare dietro. Phil era troppo impegnato a bloccare il sangue e imprecare per accorgersi del pericolo che stava correndo.

Nuovamente gli occhi di mio marito si scontrarono con i miei. «Amore» provai, addolcendo il tono «amore, ti prego, ti prego. Torna in te…» lo supplicai, spingendolo con tutte le forze. Era come tentare di smuovere una piramide. «Ti prego, va via. Vai Edward, vai fuori, ti prego…».

Sentivo la pulsazione del mio cuore persino nelle dita, tese ad allontanarlo. «Amore, tu puoi farlo, puoi resistere se vuoi. Ti prego, ti prego, ce la fai Edward, puoi farlo». Speravo che le mie parole agitate fossero in qualche modo catturate dalla sua immensa mente, ma i suoi occhi continuavano ad essere lontani, e il suo petto tremava e vibrava sotto il suono dei ringhi.

«Edward!» provai più forte, serrando forte le palpebre e spingendo ancora con le mani, stringendo il suo maglione chiaro fra le dita, nei pugni.

Si piegò quasi impercettibilmente sulle ginocchia. Era pronto. Era pronto all’attacco, pronto ad uccidere, più nulla l’avrebbe fermato. Sentii una scossa elettrica estremamente dolorosa pervadere per tutta la sua lunghezza la mia spina dorsale. L’imminenza della catastrofe mi lasciava l’impronta dell’impossibilità nel corpo. Come se in realtà tutto quello fosse troppo assurdo per avvenire, come se fossi altro al di fuori di me, e stessi osservando la surreale scena.

La fine era vicina.

Tanto che quella parte al di fuori di me, quel dispettoso pezzettino d’anima, alzò un sopracciglio, incuriosito, quando accadde realmente l’impensabile.

Sotto i miei palmi aperti e tesi, c’erano diversi millimetri di vuoto, tanto di permettermi di notare l’impronta rossa che con le mani avevo lasciato sul cotone bianco.

Muovendomi istintivamente spinsi i palmi in avanti, e paradossalmente non fui quasi per nulla sorpresa comprendendo l’estrema facilità con cui riuscivo ad allontanare il suo petto, senza neppure realmente toccarlo, come se lo stessi spingendo con un invisibile cuscinetto d’aria.

E lo sentivo davvero sotto le mie dita, consistente, irradiarsi da dentro me.

Destabilizzata, sollevai lentamente lo sguardo verso il viso di mio marito. Mi stava guardando fisso negli occhi, e sul suo viso potei leggere la mia stessa espressione vuota e smarrita.

«Devi andare via» dissi neutra, automaticamente, senza pensarci. Non passò neppure un battito di ciglia, e sotto i miei palmi non vi fu più nulla. Voltai le mani ancora macchiate, tremanti, verso i miei occhi, osservandole sconvolta.

Dalla mia bocca uscì un respiro secco e veloce.

Poi, mi voltai rapidamente verso Phil, decisa. Afferrai un canovaccio e lo legai sul suo avambraccio, appena sopra la ferita, senza pensare al rosso, senza pensare all’odore, senza pensare al sangue. Valutai in un attimo la situazione. Era pallido. Serrai i denti, trattenni il respiro, guardai il polso. Non avevo certo una laurea in medicina, e nessuno sciocco attestato, ma la mia esperienza personale poteva bastare per decretare la serietà del taglio. Ci sarebbero voluti i punti, subito. Phil mi parlava, mi diceva qualcosa, ma decisi di escludere le sue parole recependo automaticamente che non si stava lamentando per il dolore, né mi stava dando informazioni utili per aiutarlo.

«Carlisle» dissi asciutta, non appena rispose al telefono. Mi bastarono poche parole per descrivere brevemente la situazione. Non far venire nessun altro. Manda Emmett e Jasper da Edward.

M’irrigidì quando Phil mi chiese di lui. Ovviamente aveva notato qualcosa, non era tanto annebbiato da non farlo. «È sensibile al sangue» risposi, in un tono tanto glaciale che non azzardò altre constatazioni. Lo aiutai a sedersi su una sedia. Gli sollevai le gambe e gli feci tenere il braccio alzato. Quando mi accertai di non poter fare nulla di più per lui afferrai il flacone della candeggina e la gettai direttamente sul pavimento e nel lavandino, coprendo l’odore nauseabondo. Pulii risoluta con uno straccio, attenta a non lasciare traccia di sangue.

Dopo aver riposto gli oggetti mi voltai ad osservare Phil. Mi fissava silenzioso. Sembrava, nonostante tutto, che se la cavasse piuttosto bene. Il carnato era chiaro, gli occhi un po’ disorientati, ma tuttavia attenti. La cucina era pulita. Ispezionai l’ambiente, facendo saettare gli occhi in tutti gli angoli, retrocedendo sempre più per ampliare il campo visivo.

Cozzai contro qualcosa. Il frigo. Mi lasciai scivolare con la schiena contro la superficie liscia, lasciando le gambe piegate e divaricate. Mi osservai la punta della pancia, la parte più alta, non pensando sostanzialmente a niente.

Quando Carlisle arrivò aveva un’espressione attenta, preparata, pronta ad affrontare la situazione. «Bella?».

Automaticamente indicai Phil, e la sua testa si volse verso di lui. Sentii solo la prima parte del loro discorso. Vidi Carlisle sedersi sulla sedia di fronte a quella di Phil, e aprire la sua borsa. Poi i miei occhi tornarono ad essere poco attenti, e la mia mente ancora vuota.

La prima cosa da cui la mia attenzione fu nuovamente catturata fu il battito del mio cuore. Mi accorsi che il battito stava cambiando, più debole e tranquillo. Non che prima avesse battuto veloce, piuttosto vigorosamente. Subito dopo sentii come se una patina di lucidità invisibile, che in quegli ultimi minuti mi aveva ricoperta, si stesse man mano ritirando, lasciandomi intorpidita. Sentii le dita delle mani addormentate, poi i piedi, la braccia, le gambe, finché il formicolio non si trasformò in un tremito.

In quel momento nacque l’urgenza di comprendere quello che era appena accaduto. Ma per quanto ne sentissi l’esigenza, mi risultava impossibile pensare coerentemente.

«Sì, me la cavo, mi sento solo un po’ debole. Piuttosto… Bella… sembra… strana».

Il mio viso schizzò in un attimo nella direzione di Phil, e Carlisle fece lo stesso, mandandomi un’occhiata consapevole, per poi ritornare immediatamente al suo lavoro di ago e filo. «Bella, stai bene?».

«Sì» mormorai, incapace in ogni caso di muovermi da quell’innaturale posizione che avevo assunto. Le ginocchia piegate e strette, almeno quanto lo permetteva la piccola pancia.

«Perché non ti vai a stendere un po’ di là, nel soggiorno?».

Non risposi, deglutii. Le mani, l’impronta, il vuoto. L’avevo spinto via. Spinto via senza toccarlo, con le mani, lasciando l’impronta. I miei pensieri erano stretti in un dedalo assai contorto, senza nessun filo d’Arianna capace di farmene venire a capo.

«…Ho trovato la porta aperta e… ehi, ma cos’è quest’odore?! Phil!». Mia madre si precipitò accanto al marito, prendendogli la mano illesa fra le sue. «Cos’è successo?» chiese allarmata.

Carlisle la rassicurò, risoluto. «Devo solo finire il bendaggio, si è tagliato con un bicchiere, va tutto bene. Dopo andrà al pronto soccorso. Non è niente di troppo grave, ha perso un po’ di sangue, ma fortunatamente non ha reciso l’arteria e non ci sono danni permanenti».

Vedevo le cose come un pesce rosso rinchiuso nella sua boccia. Le parole rimbombavano, le immagini erano distorte. Ripensai al flusso di energia che pochi minuti prima si era irradiato dal mio ventre alle mani.

Gli occhi di mia madre temporeggiarono, preoccupati, passando dal marito a Carlisle. Era stato sufficientemente convincente.

«Sto bene tesoro». Phil sorrise, a suffragio di quanto appena detto dal medico.

Poi, lo sguardo di Reneè saettò su di me, e proprio in quel momento si accorse della mia presenza. «Bella!» esclamò, venendomi subito accanto. «Piccola, va tutto bene?» chiese, accarezzandomi il viso, ma non rompendo la bolla in cui ero rinchiusa.

«Accompagnala nel soggiorno Reneè, falla stendere» suggerì Carlisle.

Mia madre mi guardò apprensiva, mettendomi un braccio attorno alla schiena e aiutandomi ad alzarmi. Sentivo il calore della sua pelle, l’odore del profumo di fiori, sensazioni sensoriali futili che mi distraevano completamente da qualsiasi altro pensiero. Il formicolio non aveva smesso di pervadere i miei muscoli, tanto meno quando il sangue tornò a circolare liberamente nelle gambe, e prepotentemente verso la testa, facendomi perdere l’equilibrio appena dopo due passi.

«Bella, tesoro!» esclamò Reneè, affaticata dallo sforzo di tenermi stretta a sé.

Durò pochi secondi, e Carlisle venne subito in suo soccorso. «Porta Phil in ospedale, lo sapranno aiutare. Ci penso io a lei» tono caldo, rassicurante. Sentii le parole tremanti di mia madre, un grazie.

Carlisle mi sollevò, prendendomi fra le braccia e portandomi sul letto. La testa mi girava un po’, e tutti i muscoli delle braccia, delle gambe, non avevano smesso di tremare.

Mi depose sul copriletto, osservandomi, passandomi una mano fredda sulla testa. Mi lamentai della testa che girava, del tremore alle mani.

Eppure, non potevo fare a meno di pensare a quella singolare sensazione che avevo provato. L’irradiarsi dell’energia, il controllo di qualcosa di invisibile.

«Respira tranquilla. Apri e chiudi le mani, ci riesci?».

Annuii, respirando piano, rispondendo alle mani di Carlisle, strette alle mie. Sbattei le palpebre, nell’ultimo tentativo di smettere di pensare a quell’affascinante effluvio di potere. «Devo parlarti».

 

Edward

 

Era successo tutto così velocemente che ne avevo ancora in mente la precisa traccia. Saltai agevolmente da un ramo a quello più basso, lasciando andare l’ennesima carcassa. Ero abbastanza controllato, ormai.

«Vuoi tornare?».

Annuii ai pensieri di Emmett, e ricominciai a correre velocemente fra i rami e gli alberi, in direzione di casa, verso Bella, verso la bambina.

Ripensai ancora una volta a quello che era accaduto. Avevo immediatamente avvertito che qualcosa non andava, prima ancora di percepire il sentore di sangue. Bella era spaventata, e certamente indebolita dalla presenza di quella sostanza che per me era come un nettare.

Chiusi gli occhi, scuotendo il capo. Non mi serviva la vista per continuare a correre senza incappare in alcun ostacolo. Ero stato sul punto di ucciderlo. Il mio autocontrollo non mi aveva mai tradito, ma era bastata una sola goccia di sangue, sentire il suo sapore dopo tanto tempo, osservare il suo colore provocante, la voluttuosa umidità…

Jasper mi fu subito accanto, percependo il mutamento nel mio stato d’animo. «Edward, sei sicuro di voler tornare?».

«Sì».

E poi, tutto il resto. Una distrazione, tanto grande da farmi distogliere lo sguardo, ascoltare e dar retta alle parole di mia moglie, le uniche che potevano avermi fatto temporeggiare e che continuavano a rimbombarmi nella testa. Lo avevo letto nei suoi occhi grandi e smarriti, non sapeva neppure lei cosa stava accedendo. Avevo sentito qualcosa di diverso nei pensieri della piccola, un’esplosione potente e un senso di beato potere.

Quando arrivai in casa, mio padre stava uscendo dalla nostra camera da letto, il suo odore proveniva da lì. Lo osservai allarmato, preoccupato di quello che poteva essere accaduto a mia moglie. «Sta tranquillo, sta bene» mi rassicurò immediatamente. «Si è solo agitata molto, Esme è con lei, sta bene» ribadì, informando anche Alice e Rosalie, in piedi alle mie spalle. Mi guardò comprensivo, mettendomi una mano sulla spalla. Sapeva che sarei voluto andare immediatamente da lei. «Permettimi di rubarti due minuti figliolo» pensò, guidandomi nello studio.

A malincuore lo seguì, fidandomi di lui.

«Come sta?» chiesi, ansioso di avere ben più profonde rassicurazioni.

«È stata molto brava, mi ha chiamato, ha aiutato Phil. Anche lui sta bene. Si è spaventata molto, anche, ma è stata all’altezza della situazione. L’agitazione non giova certo al suo stato».

Abbassai il capo, pensando a come, al contrario, non fossi stato all’altezza della situazione. Non riuscivo a guardare mio padre senza pensare di averlo deluso. Meritavo la comprensione di un essere così compassionevole?

«Edward» sussurrò, venendomi accanto in un istante, abbastanza da far percepire tutti i suoi spostamenti ai miei occhi, «sei stato bravo. Sei stato un ottimo figlio per me».

Corrugai le sopracciglia, irrigidendo la mascella.

Gli occhi di Carlisle cercarono i miei. «Ricorda, non importa che tu abbia vacillato. L’importante è che tu sia riuscito a temperare te stesso. La prossima volta sarai più forte… In pochi avrebbero resistito ad una tentazione del genere».

Scossi il capo, afflitto. «Mi dispiace».

Mi posò una mano sulla spalla, e sentii nei suoi pensieri l’esplicito e sincero desiderio di confortarmi, di farmi comprendere quanto fosse orgoglioso e nient’affatto deluso da me.

«Pensi che stia bene?». Si morse le labbra. «E se Emmett e Jasper non l’avessero trovato?». I pensieri di mia madre arrivarono contemporanei al suono delle parole di Bella.

«Mia moglie ha bisogno di me».

Carlisle annuì, fissandomi serio. «Certo, vai, parleremo dopo di quello che è accaduto» compresi che Bella doveva avergli parlato di come era riuscita a spingermi via. «Philip dovrà darci delle risposte questa volta. Lo farà».

Già, il professor Philip. Quell’uomo doveva restare ancora in fondo ai miei pensieri.

Mi avvicinai alla porta. Temporeggiai, volgendomi verso Carlisle, sentendomi in dovere di pronunciare quell’ultima parola. «Grazie».

Fece un cenno con la testa, aprendosi in un piccolo sorriso. «Di nulla figliolo, di nulla».

Aprii la porta della camera, attento a causare il minimo rumore. La trovai stesa sul letto, la schiena poggiata su un muro di diversi cuscini, addossati alla testiera. Era avvolta in una coperta, lo sguardo lontano, in un’altra direzione. Aveva quegli adorabili nastrini rossi a sollevarle i capelli da ambo i lati, facendoli poi ricrede lunghi sulle spalle, sul petto.

Sussultò, quando si accorse di me, quando entrai nel suo campo visivo. «Edward» mormorò sollevata, e le guance le si colorarono appena di un rosso tenue.

Le presi le manine piccole e bianche fra le mie, ora completamente terse e linde, portandole alle labbra e baciandone le piccole dita. Seguì i miei movimenti con i suoi occhi liquidi, la piccola bocca rossa lievemente dischiusa. «Come stai?» le chiesi, fissandola negli occhi.

Annuì, sfiorandomi lo zigomo con il palmo della mano. «Va tutto bene?». La capacità di preoccuparsi per gli altri oltre ogni misura, e fare l’esatto contrario per sé stessa, era qualcosa di radicato profondamente in lei.

«Certo, va tutto bene» la rassicurai. Stronfiò le gambe, coperte dalle calze avorio, trapuntate, l’una contro l’altra. Avvolsi anche quelle nella coperta, proteggendola dal freddo, e insinuai una mano sul suo grembo, posando il capo sul suo petto florido. Avvertii nei pensieri della bambina un movimento.

Ero titubante e mi muovevo con cautela, saggiando lo stato d’animo di mia moglie. Avevo paura che questo potesse essere un altro destabilizzante colpo al suo fragile equilibrio. La strinsi a me, accarezzandola. Morbida, calda…

«Non l’ho solo immaginato, vero, Edward?» chiese, continuando ad accarezzarmi i capelli.

Il suo tono, pur controllato, pareva tranquillo. Scossi il capo sul suo petto, sollevando poi il capo e guardandola negli occhi. Mi stesi accanto a lei, stringendola a me. Volevo necessariamente sapere qualcosa di più, ma stavo camminando su un mucchio di cristallo. Poche volte mi ero trovato così in difficoltà con mia moglie. «Come… come è stato?» chiesi, tremante, attento a commisurare con delicatezza le parole. Abbassai il tono, rendendolo istintivamente suadente. «Ti ha fatto male?».

Scosse velocemente la testa, facendo ricadere le piccole ciocche di capelli qua e là. Era arrossita. «No, Edward, te lo giuro» disse velocemente, ansiosa, lo sapevo, di convincermi.

Le credetti, non perché mi fidassi del suo stoicismo, ma perché sapevo perfettamente che Bella non era in grado di mentire. Non a me, a maggior ragione. Tentai di comprendere in che misura potesse averla turbata tutto quello che era successo.

Ma prima che potessi parlare, mi precedette. «Perché l’ha fatto?» chiese curiosa, «intendo… secondo te, perché la bambina lo ha fatto? Perché è stata lei, ne sono certa» mormorò, accarezzandosi il ventre gonfio.

Misi la mia mano sulla sua, e la accarezzai anch’io. «È vero. Ho sentito i suoi pensieri».

«Davvero?» chiese, voltandosi di scatto nella mia direzione e smettendo di accarezzare. Boccheggiò lievemente, poi deglutì e riprese. «Io… anch’io l’ho sentita, sai? Ho sentito lei, e poi… tutta quell’energia…».

Aspettai che concludesse la frase, osservandola attento. Non sembrava particolarmente scossa, più che altro sembrava quasi… orgogliosa. Come la madre che osserva il bambino pronunciare la sua prima parola.

«È stata brava» aggiunse fiera, confermando la mia teoria, «ci ha aiutato. Ha sentito che eravamo in pericolo e ci ha aiutato. Se non ci fosse stata lei…».

M’irrigidì, colpito.

Anche lei si bloccò, pentita forse delle sue parole. «Edward, io, mi dispiace» farfugliò, rossa in viso, «tu sei così bravo che io tendo a dimenticare la tua natura e» deglutì «oh, se non fossi stata così avventata, se non ti avessi toccato».

Le misi un dito sulle labbra. Come poteva, come, sentirsi in colpa di una cosa di cui io ero l’unico reo? «Eri completamente frastornata. Se non fosse stato per colpa mia, non sarebbe mai accaduto nulla. Bella. Ti prego. Non fare quella faccia» dissi serio, commentando la sua occhiata scocciata. Distolsi lo sguardo. Avevo la paura costante, non ancora abbandonata, delle ripercussioni che quell’evento avrebbero potuto portare sull’andamento sereno delle nostre vite.

«Edward» mi chiamò, distogliendomi dal rapido corso dei miei pensieri «non essere così apprensivo» affermò, e mi sorprese l’intuito con cui aveva percepito le mie intenzioni. Prese la mia mano fra le sue, intrecciandole. «Voglio che affrontiamo questa cosa insieme, con calma. Non può essere così terribile, no?». Mi sorrise, timida, fiduciosa.

Le sorrisi di rimando, ancora attento.

«Abbiamo affrontato di peggio. Dobbiamo solo capire cosa accade e perché. Ce la possiamo fare» il fervore con cui pronunciava le parole non scaturiva solo dal valore auto-persuasivo che avevano. Doveva averci rimuginato a lungo.

La strinsi a me, accarezzandole i capelli. «Il professor Philip ci aiuterà».

La sentii rabbrividire. Strinse le mani sulla mia camicia, unico indumento che ancora rimaneva a coprirmi, dopo che avevo buttato via il maglione sporco. Non che sentissi freddo. Strofinò il viso sul mio petto, così la strinsi di più a me. Sapevo che odiava quell’uomo. Non volevo metterla continuamente in questo genere di difficoltà, ma diventava ogni giorno più necessario.

«Sì» mormorò, infine, «credo proprio che lo farà».

Le sorrisi di rimando, ringraziandola, perché per l’ennesima volta era stata lei a rassicurare me.

 

Phil e Reneè tornarono un’ora dopo, e fortunatamente in buona salute. Non mi allarmai particolarmente per i pensieri di Phil, tutti piuttosto tranquilli, e mai sospettosi nei miei confronti. Era abbastanza persuaso del fatto di essere molto confuso, quindi evitò di fare e porsi domande.

Ero stato così vicino a far scoprire il nostro segreto…

Fui contento del fatto che Bella fosse riuscita a reinstaurare quel magnifico rapporto che aveva sempre avuto con la madre.

Quella sera stessa, prima di andare a dormire, mi aveva chiamato, prendendo le mie mani fra le sue e guardandomi piena di determinazione. Mi faceva così tanta tenerezza in quei momenti, in cui la sua espressione diventava crucciata e dolcemente buffa. «Edward, ho pensato ad una cosa» cominciò seria, in piedi davanti a me. Mi aveva fatto sedere sul bordo del letto. «Dobbiamo giocarci bene la carta del professor Philip, è la nostra unica opportunità, lo sai».

Annuii, seppur riluttante. Non aveva limiti la sfacciataggine di quell’uomo. Ma era la nostra unica fonte di conoscenza, l’unico modo per tenere sotto controllo la bambina e la gravidanza. Eppure fui sorpreso di sentire quelle parole pronunciate da mia moglie.

Bella portò la mano che avevo intrecciato alla sua sulla pancia. Potevo sentire la sensazione fredda della membrana che avvolgeva la placenta, appena sotto la bella sottana di cotone bianco, che cadeva liscia sulle sue forme, accentuandole. Avevamo ridotto il problema di sua madre, che pure non si era astenuta in carezze nei confronti della piccola, con l’uso di stoffe spesse e pancere protettive.

«Edward» mi richiamò, arrossendo lievemente «ci ho riflettuto. Penso che abbiamo un’unica opportunità. Dovrò parlargli io» affermò convinta.

Fui stupito da quell’affermazione. Doveva averci pensato a lungo. Così il suo strano atteggiamento non era dovuto solo al timore che provava per Philip, ma anche da quel ragionamento che stava maturando. Avevo sempre ritenuto che mia moglie possedesse spiccate capacità di perspicacia.

Per tutta la notte ebbi l’occasione di osservarla, pensando a quello che era accaduto, pensando a quello che mi aveva detto. Ne accarezzai i capelli bruni, il ventre gonfio, e strofinai il dorso delle mani perlacee. Era riuscita a spingermi via con le mani senza neppure toccarmi. Necessariamente doveva essere qualcosa che derivava dalla bambina, o al più dalla gravidanza, ma mille interrogativi imperversavano nella mia mente, e contemporaneamente mille ipotesi e teorie si sviluppavano.

C’era un solo modo per scoprire la verità. Aveva ragione Bella, lei era l’unica che poteva farsela rivelare. Lo sapevo, perché l’avevo letto nei pensieri di quell’uomo.

 

Bella

 

Guardai senza paura l’uomo che mi era di fronte.

Quella mattina mi ero alzata carica di energie, e soprattutto ben decisa e determinata. Mi ero guardata allo specchio, esaminato la pancia in continua crescita, e avevo imposto a me stessa di fare senza remore quello che stavo facendo.

«Quindi vorrei che mi dicesse quello che è successo. E vorrei che me lo spiegasse, e che lo spiegasse anche a mio marito, e ai presenti». Il cuore batté più forte, ma io lo ignorai.

Il professor Philip arcuò un sopracciglio, perplesso e stranamente titubante. E non lo era perché cinque vampiri erano insieme a noi nella mia camera da letto, affatto. Semplicemente perché avevo deciso che non potevo più aspettare e cadere ancora una volta sotto il suo ascendente. Ero sicura, tranquilla. L’ansia che provavo nei suoi confronti chiusa in un casettino, seppur rumoroso, della mia mente, con una chiave che indicava “per mia figlia”.

Mi ero alzata determinata, dunque, e subito dopo aver mandato via mia madre e Phil, in bella compagnia di Esme e Rosalie, avevo fatto chiamare il professore. E poiché sapevo che una richiesta da parte di Edward o un qualsiasi altro vampiro non sarebbe stata fruttifera, avevo deciso di intervenire personalmente, come avevo chiesto la sera prima a mio marito.

«Certo, Isabella».

Non potei evitare di emettere un piccolo sospiro di sollievo, sollievo palese su tutti i volti dei vampiri al mio fianco, in particolar modo di Jasper, che da subito aveva appoggiato la mia idea. Malgrado la determinazione con cui mi ero presentata, non ero del tutto certa che le mie parole potessero avere alcun effetto. Ci speravo però, ci speravo ardentemente. Diverso era per Edward, che sembrava, seppur riluttante ad attuarlo, convinto dell’efficacia del mio piano.

«La bambina ha semplicemente manifestato i suoi poteri. È normale che inizi a farlo in questo periodo».

Lo ascoltai attenta, e come me anche Edward, appena al mio fianco. Dovevo immaginare che come tutti gli altri vampiri, e mezzi, dato quanto sapevo di Caterina Barbarigo, anche mia figlia avesse delle doti extra. In effetti era stata una delle possibili ipotesi che avevo vagliato. L’interessante era rendermi conto che la bambina riuscisse a manifestare il suo potere anche attraverso me.

«Cosa comporterà?» chiese Jasper. Il mio sguardo saettò fra lui e il professor Philip, che s’irrigidì in un istante.

Ci furono alcuni secondi di silenzio, in cui pensai che non avrebbe mai risposto. Poi, però, si voltò nuovamente verso di me. «Hai un esame con me fra due settimane, non è così, Isabella?».

Annuii.

«In quell’occasione ti consegnerò un tomo in cui potrete avere tutte le informazioni che cercate, senza chiamarmi per ogni singola, insignificante scoperta» fece schioccare la lingua con disprezzo, fissando i vampiri.

Presi un piccolo respiro, strinsi convulsamente la mano di Edward, stretta alla mia. «Che cos’è questo potere?».

Il professore mi fissò cauto, tranquillo. «Cosa ha fatto, di preciso?» chiese attento, assottigliando lo sguardo.

Mi concessi di fare un passo avanti, rilassata, sicura di lasciare mio marito appena dietro di me, e rispiegai con più attenzione quello che era avvenuto il giorno precedente.

Esitò, titubante. Abbassò lo sguardo, e lo sollevò nuovamente su di me, sorridendo sardonico.

Sussultai, così mosse un passo nella mia direzione, senza dire nulla, fissandomi in modo sinistro. Cacciò dalla tasca dei pantaloni un piccolo oggetto di legno, che identificai solo quando si dispiegò in una lama.

Respirai profondamente, sentendo l’ansia crescere, e la forzata tranquillità diradarsi velocemente. I suoi occhi rimasero fissi nei miei, mentre avanzava ancora, facendomi retrocedere. Il mio sguardo saettò nella stanza, mentre sentivo che il mio autocontrollo stava deliberatamente cedendo. Tutti i vampiri erano immobili. Persino Edward non pareva particolarmente agitato, più che altro infastidito. Respirai velocemente, sentendo il fiato mancarmi. «Cosa… cosa sta facendo…?» mormorai, attonita.

Si avvicinò ancora, incedendo spavaldo, la lama stretta nella mano.

Deglutii.

Che cosa aveva intenzione di fare? Mi pareva assurdo e surreale il repentino cambiamento del suo atteggiamento.

Mi volsi a Edward, sgomenta, spaventata. Perché non mi aiutava? Perché rimaneva fermo a fissarmi dispiaciuto?

Urtai con le gambe al materasso, cadendo indietro con la schiena, sollevandomi sugli avambracci per tentare di scappare. Mi sembrava di essere in dei miei peggiori incubi.

«Su Isabella, ti farò male».

Angosciata, intrappolata, sollevai istintivamente le mani per proteggermi, mentre il suo braccio caricava il coltellino in direzione della mia pancia, e mentre la disperazione s’impossessava di me.

Passarono diversi secondi, ma l’inevitabile dolore che mi aspettavo non arrivò. Sentii piuttosto una discreta sensazione di consistenza nelle mani. Aprii gli occhi, chiusi istintivamente di fronte al pericolo, e osservai attenta lo scenario che mi si presentò dinanzi.

Philip era bloccato a mezzo metro da me, fermo, col braccio ancora alto, come se una bolla invisibile fosse frapposta fra me e lui. L’aveva fatto apposta. Mi aveva deliberatamente provocata per scatenare una mia reazione. E Edward lo sapeva.

Mi venne accanto in un istante, abbracciandomi, riservandomi un’occhiata di scuse.

Il professore si ricompose, richiudendo con cura il coltellino e allontanandomi.

Ancora agitata, scossa dalla paura appena provata, chiusi i palmi i due pugni e la bolla scomparve, non senza opporre una discreta resistenza.

«Interessante» mormorò «è un resistente scudo magnetico. Molto interessante».

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Capitolo 62
*** Livre du Sang-Mêlé ***


Mi sollevai fra le coperte, il respiro corto, scossa da quello stranissimo sogno

Mi sollevai fra le coperte, il respiro corto, gli occhi pieni di immagini che stavano già svanendo. Mi passai una mano sul viso, realizzando di essere finalmente sveglia e cancellando il sudore che mi ricopriva la fronte.

Regolarizzando il battito del mio cuore mi voltai sulla sinistra, il posto in cui Edward solitamente si sdraiava accanto a me quando dormivo. Ovviamente, era vuoto. Sospirai, ricadendo con la schiena sul materasso.

Era andato a cacciare molto lontano da Forks, con i suoi fratelli, per evitare di dare troppo nell’occhio nelle vicinanze. Avevo insistito io stessa. Sinceramente appena sveglia, a quell’ora del mattino, ero piuttosto pentita di averlo fatto, ma in fondo sapevo che era meglio così. Nelle settimane passate gli impegni natalizi e la presenza di mia madre mi avevano notevolmente distolta dallo studio, e non avrei potuto essere molto di compagnia, dovendo recuperare tutto il tempo perduto in vista degli esami di domani.  

Tre, esami. Sbuffai, facendo ricadere malamente le coperte e dirigendomi a passo svelto, a piedi nudi, in bagno. Mi legai i capelli in una coda alta, mi lavai la faccia con dell’acqua fredda. Mi infastidiva notevolmente dover perdere quel tempo e sprecare così tanto impegno per lo studio, ma purtroppo quegli esami erano necessari per potermi laureare entro l’anno, considerando quanto fossi indietro con il programma.

Ben più pressante era invece la questione dei poteri della bambina. Dovevo ancora abituarmi all’idea. Avevo fatto alcuni esercizi, con Jasper, che mi erano serviti per capire come funzionasse più o meno lo scudo. Più che altro eravamo riusciti a capire che non era la bambina ad attivarlo volontariamente. Ero io, che comunicandole la mia paura, facevo attivare istintivamente lo scudo.

Lasciai cadere l’elastico per i capelli sul bordo del lavandino e mi decisi per una doccia veloce.

La giornata di domani sarebbe stata importante più di ogni altra cosa perché finalmente avrei avuto il libro con tutte le informazioni sulla bambina. Ero rimasta piuttosto compiaciuta e piacevolmente sorpresa dell’accondiscendenza con cui il professore aveva accettato le mie richieste.

Quel libro avrebbe significato avere certezza sui mille interrogativi che ancora non erano stati chiariti. Non sapevamo cosa aspettarci realmente dalla bambina, quali sarebbero state le sue caratteristiche. Volevamo scoprire qualcosa di più sul suo potere. E nessuno di noi si era dimenticato dei suoi sogni, anzi.

Quella era la questione più spinosa, che incombeva su di noi senza che potessimo farci nulla. Nessuno era riuscito a dare un motivo allo strano sogno e nessuno ne parlava, consapevole che il problema avrebbe portato solo ansia e sofferenza. Eravamo piuttosto rassicurati dal fatto che non si sarebbe più verificato nulla di simile, ma perfettamente coscienti che quel libro ci avrebbe potuto dire qualcosa di più. Qualcosa di non perfettamente piacevole, magari.

Mi rigirai svogliatamente la matita fra le mani, distolta dallo studio dai miei pensieri turbinosi. Avevo pensato, immaginato, accettato, eventuali e disparate caratteristiche della bambina. E mi ritenevo pronta, mentalmente, ad affrontare un esserino molto più simile a Edward che a me. Ma un conto era accettarlo teoricamente, un altro venire a sapere immediatamente tutto, senza possibilità di dubbio. Sapevo quali erano state le conseguenze che avevo subito dai non chiari collegamenti che la piccola aveva avuto con me. Scoprire quale fosse il motivo di tali conseguenze mi gettava nell’angoscia. Sospirai, fissando le pagine fittamente scritte del libro davanti ai miei occhi. Non mi potevo permettere di farmi tormentare da quei pensieri.

Presi un foglio pulito e tracciai con la matita una tabella, organizzando il lavoro in modo da evitare distrazioni e inutili angosce. Studio, pranzo, studio - fino alle quattro del pomeriggio, tavola di disegno tecnico.

Il terzo esame sarebbe stato un ritratto estemporaneo, nella materia del professor Philip. Momento in cui mi avrebbe consegnato il libro…

Presi un respiro, fermai il cuore. Studiare, dovevo studiare. Mi armai di coraggio e buona volontà, pianificando tutto per il meglio. «Fa la brava» mormorai, accarezzandomi il ventre gonfio e ormai più che evidente. L’indomani nasconderlo sarebbe stato quasi impossibile. Pazienza.

Il mio programma perfetto cominciò a scricchiolare quando la bambina, al contrario delle mie raccomandazioni, iniziò a farsi sentire notevolmente, assestandomi un calcio al fegato. Mi portai una mano sulla pancia, respirando piano, indolenzita. Tuttavia non fu l’ultima delle ribellioni della piccola. Iniziò ad agitarsi e muoversi velocemente, senza concedermi la tregua necessaria per studiare.

Lo sapevo, era molto intelligente, e per questo sospettavo che sentisse l’assenza del padre. Così decisi di interrompere i miei studi fin troppo movimentati e prendere una camomilla, sperando di calmarla indirettamente. Anche quello funzionò relativamente, così quando Edward, a pranzo, mi chiamò, approfittai della sua voce.

«Potresti parlarle un po’?» chiesi, rossa in viso ma determinata a calmarla. Volevo misurare le parole ed evitare che si precipitasse da me, abbandonando tutto e tutti. «Si è un po’ agitata, credo che le manchi…».

Ci fu qualche momento di silenzio. Probabilmente stava ponderando l’informazione. «Si è agitata?» chiese sospettoso, «Va tutto bene?».

Sospirai, trascinando con me il libro e stendendomi sul divano. «Sì, Edward. Non vuoi parlarle?» chiesi, sapendo di essere un po’ egoista giocando quella carta.

«Certo, certo che voglio».

«Okay» lo interruppi prima che aggiungesse qualcos’altro, portandomi il cellulare sulla pancia e lasciandolo parlare, mentre finalmente ritornavo al mio libro.

In effetti la bambina si calmò parecchio, ma non feci in tempo a bearmi di quella pace che divenne troppa e, complice la camomilla, caddi in un profondo sonno.

Quando mi svegliai erano le tre e mezza e i miei programmi erano andati decisamente a rotoli. Farmi bocciare non rientrava decisamente nei miei piani. Ricominciai a studiare meticolosamente, senza perdere un attimo di tempo. Alle nove, il cielo buio e gli occhi stanchi, senza neppure aver cenato, mi misi a disegnare. Ero così stanca che non riuscivo a distinguere la moltitudine di linee, e più volte dovetti cancellare e tornare indietro sui miei passi.

Andai a dormire tardi, pentita di non aver chiesto a Edward di rimanere con me. Chissà, magari sarebbe stato meglio. Sbadigliai, rivoltandomi nel letto. Dormire equivaleva avvicinarsi inconsapevolmente al domani. Alla certezza. Chiusi gli occhi e contai i battiti del mio cuore.

L’indomani mi svegliai piuttosto agitata. Distrarmi aveva funzionato fino al giorno precedente, ma ora che la realtà mi veniva incontro non potevo far finta di non vederla. Cacciai un respiro secco, saltando giù dal letto. Dovevo solo stare tranquilla, avevo affrontato di peggio.

Incontrai Edward sul vialetto di casa nostra, incrociandolo con la mia Mercedes. Lo salutai, mi feci baciare la fronte. Non feci parola sul fatto di essere tanto nervosa da aver fatto finire la colazione nel water, e declinai il suo invito ad accompagnarmi. «Ti prego, la casa è un disastro, potresti mettere un po’ d’ordine?».

Mi sorrise. Avrebbe potuto dirmi di no? «Certo, non c’è problema».

«Mi dispiace».

«Vai».

«Grazie» sussurrai, accennando un sorriso teso e ripartendo velocemente. Non era contento all’idea di lasciarmi sola con il professore. Eppure sapevo che se non avesse avuto un buon motivo non mi avrebbe mai lasciata andare.

Dovevo consegnare la mia tavola di disegno tecnico, e c’era talmente tanta fila che corsi il rischio di arrivare tardi al secondo esame, orale. Il brusio degli alunni mi teneva impegnata la mente, ma in modo quasi fastidioso. Mi sistemai i capelli dietro le orecchie, facendomi aria con una mano; mi sentivo stanca e agitata, un po’ disorientata.

«Le posso mettere 24. I contenuti erano abbastanza buoni, ma l’esposizione incerta…».

«Certo, grazie» mormorai, sbattendo le palpebre e portandomi una mano sul viso. Per quanto mi riguardava, avrei preso anche un 18.

Il peggio stava per arrivare. Afferrai il mio libretto e la mia borsa e corsi via alla seguente sessione d’esame. Camminavo piano, quasi spaurita, sul pavimento di marmo del corridoio. Il rumore cadenzato dei miei passi, gli stessi movimenti, mi consentivano di cadere in una situazione simile a quella del torpore. Tuttavia non potevano modificare il mio stato d’animo, sempre più teso, né la causa di tale stato.

Mi fermai davanti alla porta aperta dell’aula. Il cuore mi batteva forte, e sentivo delle strane palpitazioni in tutto il corpo. Mi strinsi più forte i libri al petto, socchiusi le palpebre, e feci quel passo che mi separava dall’ingresso.

Le gradinate larghe dell’aula erano disseminate di cavalletti, e molti studenti avevano già preso posto. Dal centro più o meno, Amber mi salutò con una mano.

Mi voltai, col cuore in gola, per individuare la figura del professore, ma inaspettatamente non la trovai. La sua assistente sollevò gli occhi dalla cattedra e mi guardò, ferma davanti a lei, come se si aspettasse che le chiedessi qualcosa. Arrossii, scuotendo il capo e dileguandomi velocemente, raggiungendo la mia amica.

«Ciao» la salutai, guardandola e guardandomi intorno. «Il… professore?» chiesi cauta.

Mi sorrise calorosamente, come solo lei sapeva fare. «Non lo so, non si è ancora visto… spero di non fare tardi!».

Dopo pochi minuti, l’assistente ci diede le direttive per cominciare. Nessuno fece domande, tutti erano concentrati sull’esame. Nessuno d’altronde, tranne me, aspettava quell’incontro con tale impazienza. La sua assenza mi sorprese e mi preoccupò. Perché non si era presentato? Cos’era accaduto? Il pensiero che potesse aver cambiato idea mi colpì all’improvviso.

«Bella, comincia o non riuscirai a finire» mi sussurrò accorata Amber.

Sbattei le palpebre, fino a quel momento rivolte verso il vuoto.

L’espressione della mia amica si fece pensosa. Allontanò la sua tavolozza dalla tavola, fissandomi intensamente. «Tutto bene?».

«Sì» presi un respiro, veloce, e annuii. «Sì». Ingoiai il groppo che avevo in gola e presi ad imbrattare distrattamente la mia tela. Lanciavo di tanto in tanto occhiate in basso, agitata, aspettandomi che comparisse nell’aula.

La bambina si mosse, facendo una capriola. Nella frenesia dell’esame, nessuno aveva notato la mia pancia, seppur evidente, coperta comunque da una larga felpa nera che in quel momento mi stava dando un certo fastidio per il calore che irradiava.

«Cosa succede?» mi chiese Amber, intercettando una mia ennesima occhiata verso il basso.

«Niente, niente» borbottai, riprendendo a dipingere, non sapendo che fare se non aspettare che la sua figura comparisse prima o poi. Chiusi e aprii i palmi delle mani, sudati. Innanzitutto, dovevo in ogni modo evitare di insospettire Amber circa un mio legame con il professore.

Era stato chiaro su questo punto. Non voleva che nessuno lo venisse a sapere.

Ma il pensiero della sua assenza continuava impertinente ad occuparmi la mente. I motivi potevano essere vari. Aveva deciso di non farmi avere più quell’importante manoscritto? Magari voleva venire meno al patto… E se… Il pensiero arrivò come un fulmine a ciel’ sereno. Se fossero stati i Volturi ad intercettarlo?

«Bella».

Scossi il capo, distogliendomi forzatamente dai miei pensieri e riprendendo a respirare. Mi passai una mano sulla fronte sudata. Sicuramente sarebbe arrivato alla fine dell’esame, dovevo solo aspettare. Sicuramente…

Amber mi fissò perplessa e tornò sul suo dipinto. Dovevo avere un’espressione orrenda agli occhi della mia amica.

Guardai la mia tela, pressoché bianca, e le poche linee che avevo disegnato si sdoppiarono. Presi un respiro profondo. Cosa mi succedeva?

L’annebbiamento e il senso di disorientamento crebbero man mano. Deglutii. Spostai il peso da un piede all’altro, finché i miei occhi appannati non si volsero a guardare il grande orologio sopra la cattedra. Mancava poco meno di un’ora alla fine dell’esame. Avrei dovuto aspettare che il professore mi raggiungesse, e nel frattempo calmarmi, ad ogni costo.

Per quando esercitassi su me stessa una notevole pressione psicologica, però, l’ansia che mi attanagliava sembrava radicata nel mio stato. Un capogiro m’investì e dovetti appoggiarmi al cavalletto per non cadere.

«Bella, stai bene? Sei pallida».

Annuii, sollevando una mano e socchiudendo gli occhi. No, non stavo affatto bene. E immaginavo anche, con una certa precisione, quello che mi stava accadendo, considerando che non era la prima volta che accadeva.

Resistere più di dieci minuti fu impensabile. Non mi ero mai sentita così male, dovevo chiamare Edward prima di far correre rischi alla bambina. L’incontro con il professore avrebbe aspettato.

Sentivo il cuore battere con affannosa insistenza nel petto. Presi la mia borsa e le mie cose, lasciando la mia tela, quasi completamente bianca, abbandonata sul cavalletto. Dopo due larghi gradini, però, dovetti appoggiarmi alla parete. La mia mente era in preda alle vertigini e i miei occhi riuscirono a captare solo poche immagini frammentate e senza senso, prima di avere un doloroso contatto col pavimento.

 

«Ragazza, svegliati. Avanti, fai un piccolo sforzo».

Gemetti, confusa. Tremavo, eppure sentivo su di me una coperta. Qualcuno mi aveva sollevato le gambe. Sentivo degli schiaffetti in volto, tanto forti da farmi emergere dal mio stato di torpore.

Aprii gli occhi, non senza una certa difficoltà. Vidi l’immagine sdoppiata di due giovani in divisa arancione che mi osservavano.

«Sapresti dirmi come ti chiami?». Sbattei le palpebre confusa, cercando di mettere a fuoco qualcosa. «Ricordi qual è il tuo nome?» ripeté con più calma.

«I…Isabella… Cullen» balbettai, colpita da una nuova ondata di vertigini.

«È al sesto mese, non lo so a che settimana è!» nella confusione individuai la voce della mia amica.

Qualcuno mi puntò un laser negli occhi, costringendomi a riaprirli. Qualcun altro mi sollevò la manica della maglietta, infilando la striscia fredda e liscia di stoffa.

«Edward» riuscii a sussurrare. Dovevano chiamarlo, dirgli quello che era successo. Avrebbe dovuto incontrare il professore, lui… avrebbe dovuto…

«A che settimana di gravidanza sei?».

Presi un respiro, sforzandomi di venire a capo di tutta quella confusione. «V-ventitrè» balbettai, portandomi automaticamente una mano alla pancia. «Mio marito… per favore… chiamate… chiamate m-mio marito…». Sentii delle parole veloci e risolute, la voce della mia amica. «Edward».

«Lo stanno chiamando Isabella, non ti preoccupare», sentii una carezza in viso, ma quando voltai lo sguardo fu troppo tardi per vedere la mano.

Sentii una fitta al dito. «Ottanta-quaranta». «È ipoglicemica». Subito dopo l’odore distinto di sangue mi raggiunse, facendomi perdere nuovamente i sensi, fin troppo annebbiati.

 

«Piccola, apri gli occhi. Su». Era un po’ diverso, questa volta. La coperta che avevo addosso era piacevolmente ruvida, e sapeva di pulito e fresco. Ero appoggiata sul fianco sinistro, e la voce che mi parlava era dolce e femminile.

Aprii le palpebre, sbattendole velocemente. Riuscii a mettere più velocemente a fuoco l’immagine che mi stava davanti. Una giovane donna dall’espressione dolce con indosso un camice bianco. Gemetti, osservando l’ago infilato sul dorso della mano, sottopelle.

«È normale che tu sia confusa piccolina, non ti preoccupare. Va meglio, ora?».

Corrugai le sopracciglia, incerta. Presi un breve respiro e annuii, silenziosa.

Mi sorrise delicatamente. «Hai avuto un collasso, perlopiù causato e aggravato dall’ipoglicemia. Avevi pochi zuccheri nel sangue, poche energie. Soffrivi già di pressione bassa?».

Annuii, ancora.

«Quando hai mangiato l’ultima volta?».

Mi occorse qualche secondo per fare mente locale. «Ieri» mormorai. Mi schiarii la voce, sottile, roca. «Ieri, a pranzo».

«Capisco. Ora sei all’ospedale di Seattle, presto starai meglio. Ti abbiamo mandato degli esami del sangue, giusto per controllo. Sono la dottoressa Albertine».

Mi portai la mano libera, lentamente, al ventre, mettendo insieme le informazioni e cercando di venire in qualche modo a capo. «La bambina» farfugliai, «cosa… come sta? Sta bene?» chiesi, agitandomi rapidamente.

Mi accarezzò la fronte. «Shh, tranquilla. Sono una ginecologa. Sicuramente starà bene, ma dobbiamo essere sicuri che quando sei svenuta non gli sia arrivato poco ossigeno. Ora ti visito, e vediamo come sta, ma adesso devi rimanere calma, va bene?».

Annuii, il respiro ancora accelerato.

Mi rassicurò ancora, dicendomi che mio marito era stato avvertito dalla mia amica, e che stava arrivando. Quella notizia mi scaldò il cuore, tranquillizzandomi notevolmente, ma non feci in tempo ad ordinare i miei pensieri, ancora troppo confusi, che altre parole spazzarono via ogni cosa.

«…farò la visita, poi faremo il tracciato e l’ecografia, va bene? Sei contenta? Su piccola, sta tranquilla, vado a ritirare un attimo i risultati delle analisi».

Raggelai, e capii immediatamente di dover dire qualcosa. «Ma… ma io…» balbettai, tentando di bloccarla, dissuaderla da quell’idea. Avevamo provato una sola volta, in un disperato tentativo di vederla. Ma la membrana dura e rigida che avvolgeva la bambina impediva chiaramente qualsiasi ecografia.

«Non ti preoccupare» ripeté la dottoressa sulla porta.

Ansimai, angosciata, sollevandomi seduta sul letto. Sapevo che dovevo impedire la cosa ad ogni costo. Sarebbe risultata palese la presenza di qualcosa di molto strano. «La prego». Ma non feci in tempo a terminare la frase che era già scomparsa, con un sorriso comprensivo. Pensava forse che fossi ancora agitata, e che l’ecografia sarebbe stato un giusto mezzo di consolazione?

I miei pensieri si fecero caotici e confusi, e portarono in me un diffuso stato di tensione e agitazione. Il professore, il mancamento, l’ecografia… Mi misi le mani fra i capelli, piegando le ginocchia al petto. Portai una mano sulla pancia, respirando piano.

Mi resi conto, in quell’istante, di indossare un ruvido camice bianco. Voltai di scatto il capo, guardandomi a destra e a manca. Sul comodino erano piegati i miei vestiti. Accanto, la mia borsa e il mio cellulare. Scattai in piedi, afferrando quello che un tempo avevo definito uno stupido aggeggio elettronico, un modello fin troppo accessoriato per l’uso che ne avrei fatto.

Composi velocemente il numero, il cuore in gola. Rimasi a fissarlo per un istante, sedendomi sul bordo del letto, voltandomi poi a lanciare una rapida occhiata alla porta, chiusa. Tornai con lo sguardo suo display, presi due respiri, veloci, e lo chiamai.

Dopo alcuni secondi sentii il suono della chiamata aperta. «Edward?» chiamai velocemente.

«Bella?» la voce gli tremò un istante. «Stai bene?» chiese poi, con un misurato tono distaccato.

Dovevo essere concisa, e arrivare subito al punto, prima che la dottoressa tornasse. Ma sentire la sua voce mi aveva fatto immediatamente sentire meglio. «Sì, sì, certo, sto bene ora» mormorai piuttosto lentamente. «Non è stato nulla. Una sciocchezza, sto bene, davvero».

Un respiro, misurato. «Amber non mi ha detto così».

M’irrigidì. «Amber…? Cosa… Edward, davvero. Sto bene» tentai di rassicurarlo velocemente, cercando di guadagnare tempo prezioso.

«Ha detto che sei svenuta. Che eri pallida e debole, che stavi male. Almeno, questo è quello che sono riuscito a comprendere».

Alzai gli occhi al cielo, agitata. Sapevo che la mia amica tendeva a farsi prendere così tanto la mano, in certi momenti. Ero disperata per aver fatto preoccupare Edward così. «Mi dispiace Edward… io, non volevo che tu ti preoccupassi tanto».

«Cos’hai allora?» m’interruppe, piuttosto preoccupato. «Ti hanno già fatto un emocromo? L’emoglobina è scesa ancora?». Stava dando di matto, lo sapevo.

La porta della mia stanza si aprì. Mi portai una mano in petto, il cuore in gola. Entrò un infermiere, osservando la mia figura in silenzio, con un’espressione contrariata. Mi indicò un cartello appeso alla parete bianca. “Niente telefono, Grazie”.

Presi un breve respiro angosciato. «La prego» mimai con le labbra, supplicandolo con gli occhi.

Indugiò due secondi. Strinse le labbra, e si chiuse la porta dietro.

«Bella? Cosa succede, cosa è successo?».

Sospirai, stanca. «Il professor Philip non si è presentato. Edward, ascoltami. C’è Carlisle? Sei in auto? C’è Carlisle lì con te?».

«Perché vuoi parlare con lui?» chiese disorientato, troppo lento per i miei gusti.

«Ti prego, ho pochissimo tempo. Ti prego, fidati» lo supplicai, sperando che il suo buon senso e la sua risolutezza avessero la meglio sulla sua apprensione.

«Bella?» chiese la voce di mio suocero pochi secondi dopo.

Presi un veloce respiro. «Carlisle, ho avuto un collasso». Pensai velocemente, riportando alla mente i termini usati dalla dottoressa, quelli che potevano essergli utili «ero… ipoglicemica. Hanno fatto delle analisi ma non conoscono ancora i risultati. Adesso devono vedere se la bambina sta bene e devo fare la visita, il tracciato, l’ecografia… come faccio?». Deglutii, cercando disperatamente di far scendere il groppo che avevo in gola.

Passarono pochi secondi di silenzio. «Non puoi fare l’ecografia, e neppure il tracciato. Non rivelerebbe il battito fetale. Dì che non vuoi. Se non vogliono dimetterti temporeggia, fa’ la visita prima. Se devi scegliere fra i due fai l’ecografia. Siamo lì fra mezz’ora, stai tranquilla».

«Sì» sussurrai «sì, va bene, sì». Lanciai nuovamente un’occhiata alla porta sentendo dei passi in avvicinamento. «Digli che sto bene, ti prego» sussurrai, richiudendo velocemente lo sportellino del cellulare.

La dottoressa parve molto sorpresa dal fatto che non volessi fare né l’ecografia, né il tracciato. Disse che non voleva, né poteva assumersi quella responsabilità. Poi mi fissò, a lungo, e pensai che dovevo sembrare davvero scossa, perché parve credere che le mie richieste scaturissero dalla paura o dall’agitazione.

«Non c’è problema, facciamo prima la visita, tranquilla».

Sospirai, rassicurata, almeno in parte e per il momento.

Sentii la quiescente sensazione di silenzioso tormento espandersi pian piano dentro di me. Ero sinceramente rammaricata per la preoccupazione a cui avevo costretto Edward. Sapevo che se i ruoli fossero stati invertiti sarei impazzita. Eppure, non potevo decisamente dare la colpa alla mia amica, che aveva solo tentato di aiutarmi.

No, era molto più giusto dire che la causa di tutto fossi io. Sia dello stato di angoscia fatto provare a Edward, sia di quello che era successo. Non curarmi di me stessa era sempre andato bene, sempre stato insito nella mia natura. Ma adesso, adesso che sarei diventata madre, non mi sarei potuta permettere una cosa del genere.

Sospirai, sull’orlo delle lacrime, rischiando di richiamare l’attenzione della dottoressa. Deglutii. Non era il caso, né il momento, con tutti i problemi che c’erano in quel momento, di pensare a quello. Di pensare a me.

«Possiamo fare il tracciato?».

Scossi velocemente la testa, ridestandomi dai miei pensieri. Lanciai un’occhiata all’orologio: erano passati venti minuti. «Senta, io vorrei andare…».

Mi sorrise comprensiva. «Bella, è una cosa importante. Non posso lasciarti andare così. Non me la sentirei, neppure se ti facessi assumere tutte le responsabilità. Se ci fosse qualcuno ad accompagnarti ti farei andare». Sospirò. «Facciamo così, adesso ti faccio vedere la tua bambina, va bene? Prendiamo giusto il battito. Poi vediamo il resto», disse, voltandosi verso l’ecografo.

«Ma io… non…» presi un respiro tremante. Dovevo inventare qualcosa, temporeggiare qualche minuto. «Voglio… vorrei aspettare mio marito» mormorai, mordicchiandomi il labbro.

«Non possiamo aspettare. Se il bambino sta soffrendo dobbiamo saperlo subito» disse gentile, sollevando il camice bianco fin sulla pancia.

Sentivo il cuore battermi veloce nel petto. «La prego… Mi faccia andare via, me ne assumerò le responsabilità».

«Quando verrà il papà di questa bambina la rifaremo, promesso. Ora sta tranquilla e non ti agitare», disse, facendo cadere un abbondante strato di gel sulla pancia.

Potevo scappare? Quanto tempo ci avrebbero messo a riacciuffarmi, una donna incinta, con solo uno stupido camice addosso?

Respirai velocemente, agitata, pensando ad una possibile scusa con rapidità. Chiusi gli occhi, mentre la sonda si posava sulla mia pancia, muovendosi con leggerezza.

Contai i secondi, mentre la mia mente, sovraffollata di pensieri, non riusciva a seguirne coerentemente neppure uno.

«Oh, non si vede… molto bene… ci sono degli artefatti. Che strana ecogenicità…».

Il respiro si bloccò in gola, mentre il cuore perdeva un battito. Decisamente, mi sarei aspettata solo la prima parte della frase. Sorpresa, aprii gli occhi, fissando immediatamente il monitor.

Rimasi completamente senza fiato, quando, immerso nel grigio, distinsi qualche punto bianco e nero. Cercai affannosamente qualcosa, un appiglio che mi facesse capire che genere di immagine fosse, ma il monitor si spense.

I miei occhi saettarono istintivamente sulla dottoressa. «Scusa, questa sonda deve essere rotta, vado a prenderne un’altra, torno subito».

Ancora senza fiato, scossa, annuii velocemente, silenziosa, lasciandola scomparire dietro la porta. Quando fu via non aspettai un secondo più. Balzai giù dal letto, pulendo velocemente la pancia. Mi infilai i pantaloni, rapidamente, facendoli scorrere lungo le gambe.

Raggelai, voltandomi di scatto, quando la porta si aprì.

Il sospiro che ne seguì fu meravigliosamente liberatorio. «Edward» sussurrai.

In un istante mi venne accanto, prendendomi fra le braccia. Lo strinsi con tutta la poca forza che avevo, felice di riaverlo accanto. Si scostò in un attimo, guardandomi negli occhi, trepidante. «Stai bene?» chiese risoluto.

«Sì» ansimai, sentendo le parole premere per uscire dalla bocca. Le bloccai. «Dobbiamo andare» biascicai, rimandando il discorso a dopo.

Mise una mano fredda sulla mia guancia. Si avvicinò e mi baciò con forza sulla fronte, stringendomi i capelli. Mi sentii mancare un battito, realizzando, ancora una volta, la paura che dovevo avergli fatto provare.

Mi aiutò a rivestirmi con precisione e dolcezza, staccò dalla mano l’ago della flebo. «Carlisle sta preparando le carte per la dimissione» m’informò, guidandomi fuori dalla porta, la mano stretta alla mia. Mi tenne accanto a lui, abbracciandomi, scorrendo velocemente nel corridoio. Guardava fisso davanti a sé, camminando con passo sostenuto.

Sentivo che la sua presenza, accanto a me, emanava un meraviglioso senso liberatorio, di pace. Come se avendolo accanto avessi potuto affrontare ogni cosa, senza alcuna paura. La serenità m’invase, e strinsi più forte la sua mano, avvicinandomi ancor di più.

«Edward» le parole divennero urgenza «si vedeva, la bambina». Immediatamente si voltò verso di me, continuando a camminare. «Un po’, ma si vedeva».

Corrugò le sopracciglia, e tornò a guardare dinanzi a sé, svoltando velocemente verso un altro corridoio lungo e stretto. Ad un tratto rallentò, silenzioso, fino a fermarsi del tutto. «Siediti qui» mormorò, indicando una sedia.

Feci come mi diceva, osservandolo in silenzio mentre lo vedevo compiere lo stesso gesto. Mi pareva strano che non avesse fatto subito un commento, il suo comportamento mi pareva strano. Pensai che dovesse essere ancora turbato. «Mi dispiace» dissi quasi subito «mi dispiace di averti fatto preoccupare così».

Scosse la testa, prendendo una mia mano fra le sue. «Non importa, Bella. Credo che la tua emoglobina sia scesa ancora un po’, ma ce ne accerteremo dopo. Ricordi cosa mi hai detto al telefono?» chiese, osservandomi da dietro le fitte ciglia «Che il professore non si è presentato?».

Annuii, confusa dal veloce cambio di argomento. Era quello il motivo del suo comportamento?

Sollevò il viso, osservando la porta di fronte a noi. «Aspetta qualche secondo».

Pochi istanti dopo la porta venne leggermente aperta, rivelando un lieve brusio. Si aprì maggiormente, e subito riconobbi la persona che si celava dietro. «Oh, Isabella» mi salutò il professor Philip.

«Professore» balbettai disorientata. Mi chiesi immediatamente il motivo della sua presenza in quel luogo.

Il suo sguardo passò da Edward a me. «Così siete venuti a trovarmi per avere quello che cercavate» affermò, sorridendo sardonico.

«Ma, non è così» balbettai.

«Bella è stata poco bene. È una mera casualità» rispose più concisamente Edward.

Il professore sospirò, abbassando lo sguardo verso la sua borsa con aria stanca. Ne prelevò un grosso tomo consunto, che mi porse con mano tremante. Lo afferrai, come se fosse la più sacra delle reliquie, risollevando poi velocemente lo sguardo sul suo viso. «Qui c’è quello che cerchi».

Lo avvicinai lentamente a me, stringendolo al mio petto. «Grazie infinite».

Mi fece un cenno col capo, e senza neppure guardare Edward si avviò in silenzio, con passo trascinato, lungo il corridoio.

Sentivo il battito sordo del cuore nel petto. Abbassai gli occhi sul libro, osservandone la copertina, rilegata in cuoio. “Livre du Sang-Mêlé” c’era scritto con calligrafia dorata. “Il libro dei mezzosangue”, poteva essere una giusta traduzione. Avevo finalmente fra le mani tutto quello che fino a quel giorno avevo sempre cercato. Ma ero anche consapevole che quello che avrei potuto trovare non erano solo cose piacevoli o positive, affatto.

Sollevai il viso, incontrando lo sguardo di mio marito. Presi la sua mano, e la feci aderire sulla copertina. «Abbiamo quello che cercavamo, non è così?».

Strinse le labbra, non rispose. Potevo immaginare quanto il suo stato d’animo fosse affine al mio. Mi prese fra le braccia e mi strinse, inspirando l’odore dei miei capelli.

Sorrisi. Era una fortuna, indubbiamente una fortuna. Ignorare il male non serve ad evitarlo. Conoscerlo, può prevenirlo e rendere in grado di affrontarlo.

«Riusciremo a crescere nostra figlia al meglio» mormorai, baciandogli il petto. Mi accarezzò i capelli, stringendomi più forte, senza farmi male. Posò una mano sul pancione. «Adesso sarà più facile. Niente sorprese spaventose Edward… Niente sorprese…».

«Sì. Niente sorprese» concordò. Si staccò da me e mi sorrise, rasserenandomi immediatamente.

«Dobbiamo ringraziarlo, il professor Philip» biascicai. Arrossii leggermente, incespicando con le parole. «In fondo, è stato bravo con noi. Ci ha aiutati tanto».

«Bella» mormorò, in un tono che mi parve contrariato.

«Lo-lo so che a te non sta simpatico. E neanche a me prima, ma… ma ora non puoi mettere in dubbio che in fondo…».

«Bella» ripeté, fermando il flusso inconsistente delle mie parole. Mi prese il viso fra le mani, accarezzandomi, guardandomi con serietà. «Voglio essere sincero, con te. Non voglio che tu soffra» mi fissò con dolcezza, indugiando ancora un attimo, «mi dispiace, il suo tempo è quasi scaduto. Non gli resta molto da vivere».

Non provavo nessuna forma d’affetto per quell’uomo.

Allora perché calde lacrime scendevano dal mio viso?

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Capitolo 63
*** Sangue ***


Posai il palmo della mano, aperto, sul suo petto nudo, e con un dito tracciai la forma di un cuore, servendomi della schiuma bianca che aleggiava nella cabina della doccia.

Avevo la mente ancora un po’ appannata. La sera precedente, mentre tornavamo dall’ospedale di Seattle, ero stata zitta e pensierosa, rimuginando sulle parole di mio marito e sulla mia reazione.

Forse si dà ogni cosa per scontata finché non la si perde. Forse l’affetto che si offre è spesso muto e silenzioso. Forse, è nella natura e nella morale umana provare pietà.

Mi feci baciare le labbra, lasciando che le sue mani sciogliessero i miei pensieri insieme al getto caldo dell’acqua.

Ringraziai ancora una volta il cielo di avere accanto a me un angelo come Edward, che tacitamente mi aveva supportata e aiutata in ogni istante, senza essere mai troppo invasivo.

Mi lasciai dondolare sulla sedia di legno, accanto al camino, accarezzandomi la pancia. Fortunatamente pareva che la bambina stesse bene e che non avesse riportato nessuna conseguenza in seguito allo svenimento. Non me lo sarei di certo perdonato.

Per un attimo il mio sguardo si posò sul libro, in bella mostra sul tavolo del soggiorno. Sapevo che sia Carlisle, sia Edward, erano già a conoscenza di molte cose racchiuse in quel libro. Era passata una notte, tempo più che sufficiente per leggerlo completamente, ma sapevo che avevano tutta l’intenzione di comprenderlo a fondo e analizzare ogni parte con molta calma.

Io, invece, non l’avevo ancora neppure aperto. Molto probabilmente per leggerlo ci avrei impiegato quantomeno tre o quattro anni, considerando che era perlopiù scritto in lingua straniera e antica.

Esercitava su di me uno stranissimo fascino. Un fascino così particolare da rendermi prudente. Tuttavia ero piuttosto certa che fosse giunto il momento adatto per cominciare a sfogliarlo, e magari decifrarlo.

Sollevai la schiena, intenzionata ad alzarmi, e sentii due mani fredde afferrarmi per i fianchi e farmi scivolare sopra un corpo fin troppo conosciuto. Mi voltai a guardare mio marito con aria interrogativa. I suoi lineamenti erano dolci e delicati, come al solito, eppure ero certa di scorgervi una certa serietà.

«Devo parlarti».

«Si tratta dell’ecografia?» corrugai le sopracciglia «avete scoperto qualcosa?».

Scosse brevemente il capo, lasciando gli occhi fissi nei miei e ricominciando a dondolare. «Sì, abbiamo scoperto qualcosa. Molto, a dir la verità, ma no, non ti voglio parlare di questo» fece con un sorriso appena pronunciato.

Lo osservai alcuni secondi. Aveva un’aria davvero strana. «Avete scoperto qualcosa di brutto?» chiesi, trattenendo immediatamente il fiato.

«No, no» rispose velocemente, prendendomi il viso fra le mani, «non si tratta di questo. È una cosa di cui averi voluto parlarti ieri». Stetti in silenzio, aspettando ansiosa che continuasse. «Bella, ieri è successa una cosa di cui ho sempre avuto timore, e che non avrei mai voluto che accadesse. Sono serio, non sono arrabbiato» precisò, con tono calmo «non voglio che tu trascuri te stessa. Non voglio che tu stia male perché non hai mangiato o perché non hai dormito, e sei così adulta e matura da essere consapevole di quello che fai».

Arrossii, abbassando il capo e mordicchiandomi il labbro. E così mi stavo beccando una bella ramanzina; dopotutto me la meritavo. «Mi dispiace» farfugliai «ho… fatto correre rischi inutili alla bambina e…».

Mi sollevò nuovamente il viso. «Non è per la bambina che lo dico, non solo, e comunque, non voglio che tu pensi questo» mi fissò crucciato. Poi sospirò, distendendo la fronte «ieri quando Amber mi ha chiamato ho avuto paura che la tua emoglobina fosse scesa troppo, che non avrei fatto in tempo, o che ti avrebbero fatto una trasfusione. Ho avuto paura e mi sono sentito impotente. So che per la bambina faresti ogni cosa, ma prima di tutto voglio che tu lo faccia per te stessa. Siamo d’accordo?».

Annuii. «Non era mia intenzione farti preoccupare» biascicai, il viso premuto contro il suo petto.

Sentì il fiato freddo sui miei capelli. «Sempre la solita» borbottò. «Come ti senti?».

Scrollai le spalle. «Un po’ fiacca, ma sto bene. Non mi sento più svenire».

«Bene. Carlisle vuole fare almeno un paio di cicli di terapia questa settimana, dato che l’emoglobina è scesa ancora».

«Le mie povere vene» borbottai, stringendomi l’incavo del gomito.

«Non credo tu preferisca l’alternativa».

Rabbrividii, nauseata. «No».

Si alzò dalla sedia, facendo sollevare anche me. «Vestiti, andiamo in ospedale» disse, prima di scomparire in un istante.

Non feci a tempo a rielaborare le sue parole che i miei occhi caddero nuovamente sul grosso tomo consunto. Mossi due passi verso il tavolo, posai le dita sulla copertina spessa, osservandola ancora una volta.

«Bella, sbrigati, ti devo spiegare tante cose».

Sobbalzai, lasciando il libro a malincuore abbandonato.

 

«Così riguarda la composizione della membrana che la protegge?» chiesi, ancora fin troppo disorientata.

Svoltò con precisione, imboccando il parcheggio dell’ospedale. «Sì, esattamente. Sai che ogni organo del corpo umano è formato da tessuti e quindi da cellule?». Annuii, invitandolo a continuare. Parcheggiò l’auto e poi riprese, voltandosi verso di me. «Anche la placenta, questa membrana, un organo a tutti gli effetti, è formata da tante cellule. Ecco, fino ad ora le cellule erano state in tutto e per tutto identiche alle mie».

«Perfette, spesse, indistruttibili, fredde».

«Esatto. E di certo non sarebbe stato possibile vedere quello che tu hai visto ieri se fossero ancora così».

«Cos’è successo allora?» chiesi perplessa.

Sorrise, comparendo in un istante al mio fianco, la portiera aperta. «Credo che questo sarà felice di spiegartelo Carlisle. Ci sono mille cose di dirti, così tante che non ho idea di dove cominciare».

Mio suocero aveva l’aria di un bambino il giorno di Natale. Sì, il suo meraviglioso contegno si scioglieva come neve al sole di fronte ad una scoperta scientifica. Dopotutto, ognuno di noi aveva un punto debole.

«Le cellule che finora hanno formato la placenta sono un patrimonio importantissimo» mi spiegò, concentrato a tracciare delle linee su un foglio di carta «non possono aumentare di numero, come non lo può fare alcuna altra cellula che forma il mio corpo, o quello di Edward. La bambina ne ha altre, molte, dentro di sé, che servono per costituire parti fondamentali di alcuni organi, come per esempio il cuore, il fegato, delle cellule nervose, parte del cervello» sollevò il viso su di me, lasciando cadere la penna sulla scrivania, «perdonami, questo è un altro discorso, non voglio confonderti».

Accennai un sorriso, scuotendo il capo.

«Dunque» riprese «queste cellule, sostituite da altre cellule umane, si stanno staccando dalla placenta, finendo nel liquido amniotico, fino ad andare a formare…» mi porse il foglietto su cui aveva disegnato «ecco, fino ad andare ad unirsi a quelle della pelle della bambina».

Fissai il disegno sconcertata, analizzando con precisione le varie fasi e rielaborando le sue parole. «Quindi…» balbettai.

«Quindi alla fine della quaranta settimane la placenta sarà identica a quella di qualsiasi altro essere umano».

«E la pelle della bambina, seppur mista e per questo in grado di crescere, molto più simile alla mia» completò Edward, con un sorriso.

Li osservai in silenzio, facendo scorrere lo sguardo fra loro al foglietto che avevo fra le mani. Mi portai una mano al ventre, sentendo la bambina muoversi e provando ad interiorizzare quello che avevo appena ascoltato. Era difficile pensare che tutto quello stesse avvenendo dentro di me.

«Dubbi, perplessità? Domande?».

Sollevai il viso verso quello di Carlisle. «Quindi» feci, cauta «non c’è bisogno che io faccia un taglio cesareo?».

Sorrise. «Beh, non vorrei essere troppo affrettato, ma credo di poterti dire con una certa sicurezza… sì. Potrai partorire tua figlia» concluse smagliante.

 

«Amore, sta ferma» mi ammonì dolcemente Edward. Ero stesa sul lettino e intenzionata a non perdermi nessuna delle immagini che la sonda avrebbe captato durante l’ecografia. Sospirai, riabbassandomi con la testa sulla carta ruvida, attendendo silenziosa e cercando in ogni caso di sbirciare il monitor.

«Non sarà facile vederla, ma dobbiamo approfittarne ora, perché adesso riuscirò ad analizzare al meglio anche i suoi organi interni» spiegò Carlisle, gli occhi puntati sul monitor pressoché nero.

Edward si voltò verso di me al mio ennesimo movimento. «Guardami» mi ordinò «non appena si vedrà guarderemo insieme, va bene?».

Annuii, guardandolo negli occhi e lasciandomi accarezzare le mani, nelle sue. Eppure mi sentivo incredibilmente emozionata, spiritata, quasi. Sì, certamente quella sarebbe stata la descrizione più adatta.

«Ecco». La voce di mio suocero mi fece voltare la testa di scatto verso il monitor. «Ecco qui… c’è la testa, sì, la vedi Bella?».

Annuii frettolosamente, le lacrime che cadevano giù incontrollate. Sentii la presa di Edward farsi più forte sulle mani, fino quasi a farmi male, ma non me ne curai.

«Vediamo se riesco… sì. Questo è un braccio, lo ha piegato sotto il mento. Mi dispiace che non si veda per intero, ma qui si vede anche una gambina, è in una posizione molto buffa».

Mi voltai velocemente verso mio marito, senza vederlo per le lacrime che mi offuscavano gli occhi. Le asciugò velocemente, baciandomi gli occhi, le palpebre, la bocca. «È magnifica» sussurrai, la voce strozzata dal pianto «somiglierà a te».

«Sarà un perfetto punto d’incontro».

Scossi il capo, testarda. «Somiglierà a te».

Mi lasciai torturare la pancia di buon grado per un tempo che parve troppo breve per i miei gusti. Era il primo contatto visivo che avevo con la piccola, ed era davvero stupendo. Immaginai le mille donne stese su quel lettino a contemplare l’immagine del nascituro. Cosa c’è di più bello di una vita che viene alla luce? Cosa c’è di più bello dell’amore che si concretizza in un essere animato? Lasciar creare la vita dentro sé stessi… la meraviglia e lo stupore del mondo.

«La sua testa è qui» disse Carlisle, indicandomi un punto poco superiore all’ombelico «qui c’è la schiena» fece, facendo scorrere due dita verso destra, «e qui i piedi. Sicuramente facendo attenzione riuscirai ad individuarne la posizione anche tu».

«È normale che stia così?» chiesi titubante, arrossendo imbarazzata per la possibile ingenuità della domanda.

«Intendi con i piedi in basso?» chiese con un sorriso «Non ti preoccupare Bella, ha ancora tanto tempo per girarsi. Si muoverà parecchio adesso».

Sorrisi anch’io, saettando con lo sguardo sul viso sorridente di Edward «La sento». Nell’ultimo periodo, infatti, i suoi movimenti erano più decisi e amplificati, e decisamente superiori di numero. Era davvero molto attiva.

«Bella» mi richiamò un attimo mio suocero, con uno strano tono piuttosto controllato.

«Sì».

«Dovrei prendere le dimensioni». Mi sorrise, prendendo il metro e iniziando a misurare.

Mi girai verso Edward, fissando il suo volto. Mi pareva normale, tranquillo. Mi accarezzò il viso e mi baciò il naso. Sorrisi.

Quando finì di misurare, sentii il rumore delle rotelle della sedia che strisciavano contro il pavimento, e mi voltai a fissare Carlisle. Guardò prima Edward e poi me. «Volevo avere la conferma» sollevò le sopracciglia «è un po’ piccola».

Sentii immediatamente l’impeto di rossore sulle guance, causato dal cuore che aveva aumentato i suoi battiti. «Piccola?» chiesi, la bocca secca. Edward mi prese le mani fra le sue, stringendole, ma io continuai ostinatamente a fissare Carlisle.

Rispondeva al mio sguardo, con tranquillità e pacatezza. «Non ho mai potuto fare un’ecografia e per questo confrontare, ma Bella, ascoltami. Non ti agitare. Innanzitutto, per le misurazioni che ho preso in precedenza, la pancia è sempre cresciuta in maniera costante. In secondo luogo, e questo è quello che ti deve rassicurare maggiormente, la bambina è ben proporzionata. Terzo, ho detto “un po’”. Molto probabilmente è solo costituzionalmente piccola».

Continuavo a guardarlo in silenzio, e ben presto i miei occhi sempre fermi, si trovarono a fissare un imprecisato punto vuoto. Sentivo un peso sul petto, razionalmente inesistente. Respirai piano, provando a scacciarlo via.

«…faremo delle analisi e due visite al mese d’ora in poi».

«Carlisle» domandai un po’ preoccupata «pensi che possa dipendere dal fatto che non sto…» deglutii «bevendo il sangue?».

Si scambiò uno sguardo con mio marito e mi agitai.

«È così?» domandai, portandomi una mano alla pancia. Era sempre stata un po’ piccola, lo immaginavo. Ma averne la certezza mi preoccupava molto.

Fu Edward a rispondermi. «Nel libro non c’è scritto nulla di esplicito riguardo a questo perché tutte le donne che…» sospirò, guardando in basso «sono sopravvissute, hanno bevuto il sangue almeno due o tre volte durante la gravidanza».

«Oh Dio» sussurrai «l’altra volta è cresciuta molto dopo la mia anemia. È cresciuta dopo che ha usato il mio sangue» feci preoccupata. Mi sentivo in colpa, perché pensavo di non aver fatto tutto il possibile per mia figlia.

«Bella». Mi voltai verso mio marito. «Stai tranquilla, la bambina sta crescendo, si vede dalla tua pancia» disse, e mi sorrise, accarezzandomi il pancione. Sembrava tranquillo, e mi chiesi come potesse esserlo.

«L’importante» riprese Carlisle, sollevandosi dalla sua sedia «è che tu stia tranquilla, e cerchi di agitarti il meno possibile. Mi rendo conto che molte cose che sono successe in questi mesi possano averti portato in uno stato d’ansia frequente, ma ai bambini non piace l’adrenalina. Ti prometto che dalla nostra parte ti daremo tutto il supporto farmacologico possibile per garantire alla bambina il nutrimento necessario. Anzi, iniziamo adesso un ciclo di terapia, e lo ripetiamo fra due giorni. E se l’emoglobina non risalirà… allora agiremo di conseguenza» finì con un sorriso «Va bene?».

Annuii malvolentieri, lasciando che facesse il necessario per somministrarmi la terapia di cui avevamo bisogno.

«Ripetimi quanto era la mia emoglobina oggi» dissi, uscendo dalla porta dell’ospedale mano nella mano con Edward.

Stava per sospirare, ma si trattenne pazientemente. Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni. «8.7. È bassa, ma sai che è scesa anche molto di più l’altra volta. Possiamo aspettare».

Sollevai lo sguardo sul parcheggio, pensierosa. «Lo so. Mi chiedo se sia giusto farlo».

«Bella» mi chiamò, facendomi voltare nella sua direzione «non voglio che tu lo faccia se non è strettamente necessario. Non mi va che ti esponga a questa cosa mentre sei ancora umana».

Deglutii, preoccupata. «Tu stai male quando hai sete, quando non vai a caccia per tanto tempo. Se per lei fosse lo stesso? Se fosse sempre assetata?».

Posò una mano sul pancino che tendeva i bottoni del giaccone in cui ero avvolta. «Sento i suoi pensieri e sta bene, e tu senti le sue emozioni, ed è tranquilla e felice. Secondo me dovremmo aspettare, ma se tu non ce la fai, se pensi che sia arrivato il tempo, organizzeremo tutto. Voglio che tu sia serena».

Mi mordicchiai il labbro, combattuta. «Va bene» mi arresi infine «aspettiamo».

Sorrise, contento della mia decisione. «Bene. Sai, la dieta di nostra figlia sarà mista, a base di cibo umano per i primi tempi, a cui aggiungerà pian piano anche il sangue. Penso che adesso dovremmo nutrire te. Vuoi mangiare?» chiese guidandomi nel parchetto adiacente all’ospedale.

«Non lo so, non ho molta fame, mi sento un po’ scombussolata».

«Scombussolata?» chiese perplesso, arcuando un sopracciglio.

«Sì» annuii, «sono preoccupata, ma sono anche felice di aver finalmente visto la bambina» balbettai, emozionandomi al ricordo. 

La sua espressione si addolcì. «È stato molto bello. Ma non hai mangiato niente stamattina, e malgrado non sia ancora ora di pranzo non vorrei replicare l’esperienza di ieri».

Esitai, temporeggiando e tenendolo sulle spine. «Pizza?» chiesi sorridente, «lo dice la bambina» mi giustificai.

Sorrise, stando al gioco. «Pizza sia. Mi aspetti qui?».

Mi strofinai la punta del naso, congelata per il freddo di gennaio. «Vado in macchina» dissi, tendendo il palmo della mano aperto.

Ci fece cadere le chiavi e mi baciò le labbra.

Me ne stetti in auto ad aspettare. Piuttosto che accedere i riscaldamenti preferii stringermi nel mio giaccone, strofinando le mani una contro l’altra. Il freddo poteva diventare pungente e fastidioso, il caldo decisamente insopportabile. Accarezzai sbadatamente la pancia, distratta dai miei pensieri. Mi dovevo fidare di mio marito e di mio suocero, che da sempre si erano presi cura di me. Ma loro ragionavano lucidamente, valutando i rischi per me e per la bambina e pensando più che altro al mio benessere. Quello strano istinto materno che stava crescendo sempre di più mi spingeva solo a considerare i rischi per la bambina.  

Rabbrividii, e decisi che accendere i riscaldamenti non sarebbe stata un’idea così assurda, poi, considerando che non era solo per mio piacere che dovevo farlo. Edward aveva ragione, avrei dovuto essere più attenta.

Notai, appena sotto il sedile, la mia borsa. Sospirai, sollevando un sopracciglio. Avevo portato il libro con me.

Una crescita variabile, rallenterà sempre più. La sua pelle morbida come la pesca e resistente come il diamante. In grado di correre come una gazzella senza perdere fiato. Forte tanto da stupire ogni mortale. Ogni bellezza e qualità sboccerà crescendo col tempo. Una creatura decisamente molto potente, con un ascendente incredibile. Ammaliante. Affascinante. L’imperfezione nella perfezione.

Queste erano solo poche delle qualità descritte da Carlisle, qualità che la mia bambina, come ogni altro mezzo-sangue, avrebbe avuto una volta nata.

Era stupefacente, e meraviglioso, sapere che tutto quello era rinchiuso in me. Mi aspettavo di scoprire ancora molto, su di lei. Mi aspettavo di scoprire qualcosa di non perfettamente positivo, anche. Come l’origine dei suoi strani sogni.

E se… quanto avrei dovuto aspettare? Mi morsi un labbro, tesi le dita verso la copertina di cuoio, sentendo una certa forte emozione crescere in me, e mischiarsi con la confusione della piccola.

Sollevai il viso, cauta, lanciando un’occhiata intorno a me per verificare che nessuno mi stesse osservando. Un pick-up blu, molto simile al mio vecchio modello ormai abbandonato, passava a velocità sostenuta sulla strada ghiacciata.

Un altro dettaglio catturò la mia attenzione. Era una ragazzina con un cono gelato ed un vestitino estivo con i fiorellini. Stava attraversando la strada, concentrata sul suo gelato.

Scattai immediatamente in mezzo alla strada, repentina, prendendola fra le braccia e stringendola a me.

Sentii il suono stridente dei freni e immediatamente mi voltai a fissare, attonita, il paraurti dell’auto. Si bloccò, cozzando contro il mio scudo invisibile, scivolando con le ruote sul ghiaccio.

Rilasciai il respiro che fino ad allora avevo trattenuto. Mi sentivo intontita per tutto il potere che era uscito velocemente da me.

E mi resi conto, agghiacciata, di quello che avevo appena fatto.

Quando mi voltai la ragazzina mi restituì lo stesso sguardo sconvolto.

Strinsi debolmente una mano sulla pelle nuda delle sue braccia. Era così fredda… come Edward. Ma quando sollevai lo sguardo sui suoi occhi non erano rossi o ambrati. Erano azzurri, chiarissimi, e mi studiarono per un lunghissimo tempo. Poi si abbassarono sulla mia pancia e se possibile la sua espressione si fece ancor più sorpresa.

Deglutii, staccandomi da lei e cadendo indietro con il sedere sul manto stradale ghiacciato.

Mentre il suono delle voci che si avvicinavano a noi si fece sempre più forte saltò in piedi, voltandosi per fuggire.

«Aspetta!» le dissi preoccupata, tendendole una mano. Tremavo, e mi sentivo fiacca.

Si voltò, combattuta.

«Perché vai via? Io so chi sei! Tuo padre ti cerca» le dissi preoccupata.

Strinse le labbra perfette, imbronciate, da bellissima quindicenne. Aveva i capelli castani, morbidi e lunghi e le guance rosee ancora piene della giovinezza. «Fai attenzione» mormorò con la sua dolce voce melodiosa «Anche loro inizieranno a cercarti. Il tuo bambino mi ha chiamato qui. Credo che volesse avvertirti».

Fremetti, inquieta. «Avvertirmi su cosa?» mormorai spaventata, ma non ci fu più il tempo. Iniziò a correre ed improvvisamente mi trovai circondata da persone.

Il conducente dell’auto mi parlava concitatamente. Volevo alzarmi e correre da lei, ma mi sentivo spossata. Sentivo tutto il mio corpo irradiare il potere che avevo appena usato. La bambina fece una capriola nella mia pancia, il movimento più lungo che le avessi mai sentito fare, e mi lasciò quasi senza fiato. Mi portai una mano al ventre, respirando e sentendomi improvvisamente più debole. Era preoccupata. «Non è successo nulla» dissi con dolcezza, «va tutto bene».

Mi sentii strattonare con decisione verso l’alto. Fissai disorientata gli uomini con il camice turchese, usciti dall’ospedale.

«Signora, sta bene?».

Non mi voltai a controllare l’origine di quella voce. La persona che ora mi stava stringendo il braccio, probabilmente. Il mio sguardo cadde sul cono gelato, ora schiacciato contro l’asfalto.

«Bella!». Edward.

«Sto bene» risposi a entrambi. Mi volsi verso mio marito, che capì subito che qualcosa non andava. Mi feci stringere al suo petto. «Era lei, Edward» mormorai a mezza voce «era Kate, la figlia del professore».

Mi guardò stupito.

Annuii piano. «Vai a cercarla» sussurrai, sentendomi sempre più affannata «non può essere andata lontano».

«Sei gelata» mi disse preoccupato, sfregandomi le mani e la guancia.

Le mie palpebre insisterono per abbassarsi più volte, nonostante i miei sforzi per tenerle aperte. «Lei… sa… sa qualcosa» balbettai sfinita. Mi strinsi più forte sul suo petto.

«Stai bene?» domandò preoccupato, stringendomi il capo con una mano.

«Abbiamo una barella. La portiamo dentro al caldo» disse un uomo alle sue spalle.

L’autista si avvicinò ancora. «Cos’è successo? È incinta? Oh, Dio, è la figlia del capo Swan. Se non avesse spostato quella ragazzina…».

«Il potere… mi sento senza forze» biascicai contro il suo petto.

Edward mi prese fra la braccia, sollevandosi e parlando con la piccola folla intorno a noi. «Bisognerebbe andare a cercare la ragazza, forse è ferita. Bella sta bene, è solo molto scossa. La porterò a casa a riposarsi».

«Edward, sei sicuro di non volerla far controllare?» gli domandò il medico alle sue spalle.

Annuì. «Sì dottor Taylor. I luoghi affollati la fanno stare peggio. Mia moglie è molto… delicata. La farò controllare da mio padre a casa più tardi. Grazie per il suo aiuto» disse con cortesia.

«Capisco» disse l’uomo, dando indicazioni alla sua squadra di ritirarsi.

Mi sistemò in auto e chiamò i suoi fratelli, dando loro istruzioni per cercare Kate. Accese i riscaldamenti ed iniziò a guidare verso casa.

Nonostante il passare del tempo continuavo a sentirmi debole ed il battito del mio cuore era accelerato. «È scesa ancora, vero?» domandai consapevole.

Strinse le mani sul volante ed annuì. «7.5. Non so come sia potuto accadere così rapidamente».

Sospirai, rintanandomi sul sedile e chiudendo gli occhi. «È stato il potere della bambina. Kate… ha detto che la piccola voleva avvertirmi. Che qualcuno inizierà a cercarci» mormorai spaventata. «Ha detto di stare attenta».

Mio marito serrò la mascella. «Non ho sentito i suoi pensieri, solo dei frammenti. Aveva un forte istinto di ricerca, e la spingeva dritta verso nostra figlia».

Mugolai, stanca, lasciandomi andare contro il sedile.

Sentii la sua mano carezzarmi la guancia. «Resisti, siamo quasi a casa».

Edward, Jasper, Alice e Rosalie andarono partirono in cerca di Kate e la cercarono ininterrottamente per ben una settimana. Carlisle continuò a somministrarmi flebo di ferro e vitamine e farmaci per stimolare il mio corpo a produrre più sangue, ma la mia emoglobina non saliva. Era ferma a sette da ormai cinque giorni e tutti noi sapevamo che stavamo procrastinando l’inevitabile.

Mi guardai allo specchio del bagno, osservando la pelle pallida e le occhiaie.

«Stai bene?» mi domandò Esme. «Hai bisogno di aiuto?» fece, circondandomi con un braccio e guidandomi verso la camera da letto.

«Grazie» dissi soltanto, sedendomi sul bordo del letto e stringendomi le mani sulla pancia gonfia.

Edward e Carlisle entrarono nella stanza.

«Hanno chiamato?» domandai ansiosa.

Edward scosse il capo, venendomi subito accanto. «Non ancora».

«Mi chiedo chi… chi è che deve venire a cercarci» ansimai preoccupata. Avevamo vagliato tantissime ipotesi. I Volturi? Altri mezzo-sangue? I lincantropi? I veri licantropi? Qualcun altro? E mi chiedevo ancora, in continuazione, chiunque fosse, se saremmo stati in grado di affrontarlo.

Mi carezzò i capelli. «Chiameranno appena la troveranno».

Deglutii. «Non la troveranno» dissi convinta «così come è riuscita a trovare la bambina ha l’istinto di fuggire da loro» presi un respiro, affaticata «ha paura».

Mio marito sfiorò le mie mani con la sua. «Non ti stancare».

Sollevai lo sguardo su mio suocero. «Carlisle» lo chiamai affannata «temo che sia arrivato quel momento. Non lo possiamo più rimandare».

Mi guardò concentrato. «Non vuoi aspettare un altro paio di giorni? Stiamo pensando al modo migliore per farlo».

La bambina si mosse, facendomi quasi il solletico. Era debole, si muoveva appena. Scossi il capo, abbandonando poi la testa sulla spalla di Edward, troppo stanca per tenerla su. «È debole. Sta male, ma non vuole prendere il mio sangue perché…».

«…sa che sta male anche Bella» concluse mio marito, lasciandomi un bacio sulla fronte. Sospirò, spostando lo sguardo sul padre. «È arrivato il momento» commentò teso.

Carlisle tentennò, preoccupato.

Esme si avvicinò al suo fianco, abbracciandolo. «Bella riuscirà a farlo. La bambina è tutto per lei adesso. Ci riuscirà» disse al suo orecchio.  

Annuì, voltandosi a guardare fiduciosamente la moglie. «Proviamoci, se è quello che vuoi».

Edward insistette per farlo in camera. Non voleva farlo in soggiorno perché odiava che lo collegassi all’idea del cibo.

«Dovremmo farlo con il sangue umano, va bene?» mi domandò, pesando le parole, attento a non turbarmi.

Ma per quanto fossi motivata la cosa mi turbava eccome. «Non c’è altro modo?» domandai scossa.

Carlisle si avvicinò con calma. «Nel libro sono descritte entrambe le tipologie di diete, ma le donne che hanno bevuto sangue animale hanno dovuto farlo per molte più volte. Se decidi di bere il sangue umano» continuò cautamente «potrebbe bastarne solo una».

Edward mise una mano sulla mia. «La decisione spetta a te. Sarà il sangue di un donatore».

Deglutii, mandando giù i succhi gastrici. Sarebbe stato tremendamente difficile. «Va bene» mormorai piano, stringendo la mano di mio marito. «Facciamolo così, come lo avevate pensato».

Esme decise di allontanarsi, non sentendosi confidente ad essere vicina a così tanto sangue umano. Carlisle andò a prepararlo, dicendomi che sarebbe stato più facile se fosse stato più caldo. Mi venne da vomitare, ma repressi il conato.

«Di cosa sa?» domandai a mio marito.

Si bloccò, spiazzato dalla mia domanda.

Presi un respiro. «Intendo… l’odore del sangue mi ha sempre disgustato e fatto sentire male, ma per voi non dev’essere così, immagino. Credo che debba essere buono».

Mi guardò di sottecchi da sotto un ciuffo di capelli bronzei. «Cambia un po’ in base al tipo di preda. Quello… dei carnivori è più buono» mi spiegò con calma, studiando le mie reazioni parola dopo parola. Dovette vedere qualcosa che lo spinse a continuare. «Non lo so paragonare al sapore del cibo umano» fece, perdendosi con lo sguardo nel vuoto «ma è delizioso. È saporito, e quando lo senti in gola è come burro caldo che lenisce all’istante ogni bruciore» fece, e potevo vedere dalla sua espressione come nella sua mente stesse contemplando l’idea di un pasto. S’interruppe, spostando lo sguardo su di me, teso. «Scusami, ti ho turbato?».

Sorrisi dolcemente, carezzandogli la guancia. «No» mormorai fiacca «grazie. Cercherò di immaginarmelo così».

Mi sorrise a sua volta, posando la sua fronte sulla mia. «Sei la persona più coraggiosa che conosca».

Carlisle entrò nella stanza con un bicchiere di plastica opaco ed una cannuccia.

Sospirai. «Aspetta a dirlo» mormorai già nauseata.

Mio suocero mi porse il bicchiere, ma fu Edward a prenderlo, trattenendolo nella sua mano. «Possiamo farlo anche in un altro modo» disse apprensivo «Carlisle può metterti un sondino naso-gastrico. Il tubicino dà un po’ fastidio, ma possiamo metterlo direttamente nel tuo stomaco in modo che tu non ne senta il sapore».

Scossi il capo, ancor più nauseata all’idea. Sentii la bambina carezzarmi la pancia da dentro. Portai una mano a coprirla «È curiosa. Vuole sentirne il sapore».

Edward sospirò. «Facciamolo e basta» disse, porgendomelo.

Lo presi dalla sua mano e chiusi gli occhi. Sentivo il contenitore tiepido fra le mani. Non volevo vedere il rosso del sangue avvicinarsi alle mie labbra attraverso la cannuccia. Deglutii più volte, tentando di bloccare la mia salivazione.

«Prediti il tempo che ti serve» disse cortese Carlisle.

Annuii. Dovevo farlo a basta. Feci per prendere un sorso, ma quando il sangue salì fino a metà cannuccia feci l’errore di aprire gli occhi e l’odore mi arrivò alle narici. Mi piegai oltre il bordo del letto a vomitare.

«Mi dispiace» mormorai fra le braccia di Edward che mi sostenevano.

«Shh, non essere dispiaciuta. Non è colpa tua. Non avresti mai dovuto fare una cosa del genere» mi consolò.

«Ti prego, lasciami riprovare» lo implorai.

«Bella» ansimò, spiazzato. Gli sembrava come di dover corrompere la mia natura umana, come di dovermi fare un maleficio. Lo faceva soffrire enormemente vedermi così, in lotta contro me stessa, contro la mia parte più pura e santa.

«Sai che non c’è altro modo» ansimai stanca.

Chiuse gli occhi, addolorato e combattuto fra l’amore che aveva per me e quello che aveva per la bambina. «Lo so».

Mezz’ora più tardi ci riprovai per la seconda volta. Insistetti per avere accanto a me una bacinella per poter vomitare se ne avessi avuto bisogno. Cercai di calmarmi per impedire alle mie emozioni di prendere il sopravvento.

Guardai mio marito e lui annuì, infondendomi coraggio.

Chiusi gli occhi e mi ripromisi di non aprirli per alcuna ragione al mondo.

Quando tirai su il primo sorso l’odore sgradevole mi sorprese ancora, ma deglutii il sangue, mandandolo giù insieme ad un conato. Era caldo e Carlisle aveva avuto ragione. Era più tollerabile. Non appena sentii il liquido caldo scendere nello stomaco sentii l’emozione più forte che avessi mai percepito da mia figlia: puro piacere.

Mi staccai dalla cannuccia, aprendo le palpebre, sconvolta.

«Bella?» mi chiamò ansioso mio marito «tutto bene?».

Annuii, ancora frastornata. «Lei… le piace» mormorai sconvolta, carezzandomi la pancia.

Bettè le palpebre, concentrandosi sui suoi pensieri. «Sì. Le piace molto» commentò quando la bambina si mosse, dandomi un calcetto.

Presi coraggio e feci un altro lungo sorso. Il sapore e l’odore erano quelli del sangue e mi disgustarono. Respirai con il naso, sofferente, e lasciai che la bambina mi inondasse con le sue emozioni. Mi interruppi ancora, cercando di controllare la mia nausea. Se volevo farcela dovevo lasciare che il suo istinto prendesse il sopravvento su di me. Così mandai giù sorso dopo sorso, provando a non pensarci, concentrandomi solo sul piacere che mi dava e non sul sapore rivoltante che mi faceva vomitare. Continuai finché incredibilmente non sentii il suono di un risucchio: era finito.

Mi lasciai andare con un respiro affannoso sulle coperte, ancora vinta dall’istinto di mia figlia. Sentivo ancora il sapore del sangue sulla lingua.

Mi strinsi in posizione fetale, proteggendo la pancia con le braccia e dondolandomi piano avanti e indietro. Ero pallida e sudata e tremavo, cercando con tutta me stessa di non vomitare. Sarebbe stato tutto inutile.

«Le prendo dell’acqua» disse Carlisle, scomparendo immediatamente alla mia vista.

«Sei stata bravissima, davvero bravissima» mormorò al mio orecchio mio marito, carezzandomi la schiena madida di sudore.

Chiusi le palpebre, cercando di calmarmi. Più e più volte mi trovai a reprimere un conato. Bevvi un po’ d’acqua e mi feci coraggio per masticare un po’ di mollica di pane, sperando che cancellasse il sapore che avevo in bocca.

«Oh» esclamai, piegandomi su me stessa. Era il calcio più forte che la bambina mi avesse mai dato. Mi strinsi sulla pancia il punto dove aveva colpito. «È più forte» dissi speranzosa, guardando mio suocero che mi scrutava, attento.

Mi sorrise. «Sì, lo sentiamo anche dal suo battito. Stai bene?».

Sospirai, stanca. «Mi viene ancora un po’ da vomitare».

Mi venne incontro, posando il dorso della mano sulla mia fronte e studiandomi con i suoi occhi gentili. «Posso darti un farmaco per farti stare un po’ meglio».

Annuii. C’era stato già abbastanza eroismo per quel giorno.

Edward mi aiutò a lavarmi e a mettermi un pigiama asciutto e pulito. Mi strinse a sé, cullando me e la bambina mentre la flebo faceva il suo effetto ed io mi sentivo sempre meglio.

Con le dita carezzai il suo petto, persa nei miei pensieri. «Ti ha turbato?» sussurrai a mezza voce.

Lo sentii stringermi più forte per qualche secondo, e per me fu una risposta.

Sospirai, pensando all’immagine che doveva avere di me in quel momento. «Mi dispiace…».

«No» mi bloccò, continuando a cullarmi ed accarezzare il pancione. Parlava piano nella penombra della stanza. «Pensavo che mi avrebbe turbato, ma non lo ha fatto. Pensavo che avrebbe distrutto la tua purezza, la tua umanità, la tua sacralità» disse piano «ma tutto quello che ho visto era una madre che si sacrificava per suo figlio. E non c’è niente di più puro al mondo».

Mi rilassai, accucciandomi sul suo petto, stanca e sollevata. «Grazie di essermi sempre rimasto accanto. Non l’ho mai dato per scontato» mormorai assonnata.

«Era il mio posto» sussurrò al mio orecchio, cullandomi ancora finché non mi addormentai.

L’indomani mi sentii decisamente meglio. Mi svegliai da sola e fui contenta di fare una normale colazione umana. Per tutto il tempo la bambina si mosse tantissimo, agitandosi e dandomi pugni e calci.

Ero seduta all’isola della cucina, disegnando con la mia matita morbida, quando Edward si avvicinò.

«Come sta la nostra mammina preferita?» mormorò al mio orecchio, abbracciandomi il pancione da dietro.

Mi voltai con un sorriso a lasciargli un bacio sulle labbra. Mi sentivo meglio, e Carlisle mi aveva detto che la mia emoglobina era già salita. «Sto bene» lo rassicurai.

Esme entrò in casa, posando un vaso con un bel mazzo di fiori in soggiorno. «Posso?» fece, gentilmente. «Come stai tesoro? Ti vedo meglio» disse con un sorriso felice, carezzandomi dolcemente la pancia.

La bimba le restituì un calcetto. Aprì la bocca, sorpresa. «L’ho sentita» disse contenta.

Ridacchiai. «Sì, si è mossa un sacco. Mi sento tutta la pancia indolenzita e la pelle tesa come se mi stessero facendo un lifting».

I suoi occhi dorati si concentrarono sul pancione. Si volse verso Edward con un sorriso. «È cresciuta».

Mio marito, alle mie spalle, annuì. «Sì, è cresciuta».

Sorrisi, accarezzandola a mia volta. «Bene».

Esme indicò il disegno sul ripiano di marmo. «Pensavo che volessi prenderti una pausa dagli studi».

Scrollai le spalle. «Non è per studio» dissi, riprendendo in mano la matita e sistemando un dettaglio degli occhi «volevo fare un disegno di Kate in modo che fosse più facile trovarla».

Edward si bloccò, sorpreso.

«Amore, tutto bene?» domandai preoccupata, voltandomi a carezzargli il viso.

Crucciò le sopracciglia, un’espressione seria in viso e lo sguardo fisso sul mio disegno. «È lei» mi disse, voltando lo sguardo su di me «la donna che era in mare, quella che tuo padre ha cercato di salvare. Ha già tentato di avvicinarsi a noi».

Sgranai gli occhi, sorpresa. «Credi che Philip lo sapesse?».

Scosse il capo, pensieroso. «L’ho chiamato, prima. Gli ho detto che non siamo riusciti a trovarla e che i miei fratelli stanno tornando a casa. Si è molto infuriato».

«Oh, Edward» sospirai. Per quello che ne sapevo non l’avremmo mai trovata se lei stessa non si fosse fatta trovare.

Più tardi, quella sera, massaggiai il pancione, stesa sul letto di camera mia, accanto a Edward, stanca.

«Credo che dovremmo andare avanti proprio come abbiamo fatto. La bambina crescerà meglio ora, sfruttando il sangue che le hai dato, e anche tu starai meglio. In merito a Kate… Dobbiamo solo aspettare. Ma per ora prometti che ti rilasserai?» chiese, e sentivo una maggiore serenità anche nella sua voce.

Chiusi gli occhi e sorrisi, striracchiandomi. «Non ti dirò di sì» feci, impertinente. «Oh» li spalancai, mettendomi seduta e portandomi le mani al ventre. «Che calcio» borbottai.

Edward tolse dolcemente le mie mani, massaggiandomi il punto esatto in cui mi aveva colpita. « d’accordo con me» dichiarò tranquillo. Scese con il viso a baciarmi il ventre scoperto. «Facciamo rilassare la mamma» mormorò con un sorriso, lasciandomi piccoli baci, «deve riposarsi».

Sorrisi. Era sempre così, non dovevo stupirmi di amarlo. «Proverò a rilassarmi, lo prometto. Ma non è facile, lo so» gli accarezzai distrattamente i capelli, ripensando a tutto l’incidente, ad ogni problema, «Edward» mormorai «pensavo, che forse potremmo scoprire qualcosa che riguarda… i sogni. Della bambina. Da quel libro, intendo».

Strofinò la punta del naso sul ventre. «Non abbiamo letto ancora nulla a riguardo. Forse, a breve troveremo qualcosa» sollevò il viso, parlando con leggero astio «magari se il profes…».

«No» lo interruppi, «è estremamente turbato dalla storia di Kate, ed ha già fatto molto, per noi. Non avercela con lui». Pensare a quell’uomo mi causava un certo doloroso languore nel petto, sempre. Mi pentivo di averlo odiato così tanto.

Edward serrò la mascella, squadrandomi. «Ci proverò» mormorò infine. Distese la fronte e posò il capo sul mio grembo.

«Magari troveremo qualcosa» sussurrai, riprendendo ad accarezzare la sua chioma.

«Rilassati Bella. Rilassati. Tutto a tempo debito» mormorò, gli occhi chiusi, il viso rilassato. Se non avessi saputo con certezza della sua natura avrei detto che si sarebbe ben presto addormentato.

Passarono alcuni minuti, silenziosi, in cui rimuginai e fantasticai su quello che avremmo potuto trovare, e sul se, avremmo trovato qualcosa. «Chissà, forse, se…».

Si sollevò, aprendo gli occhi di scatto e spostandosi velocemente. Mi ritrovai con il respiro corto, la schiena contro il suo petto, il fiato sul mio collo. «Chissà, forse, se… Bella, che ne dici di una distrazione migliore?». Mi baciò audacemente, risalendo con la mano sotto la maglietta, verso l’alto.

Deglutii. «Magari sì» farfugliai, abbandonandomi al suo corpo.

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Capitolo 64
*** Lacrime ***


Mi rigirai fra le coperte, tentando invano di prendere sonno copertina


Mi rigirai fra le coperte, tentando invano di prendere sonno. Edward si adattò silenziosamente alla mia nuova, ennesima, posizione, senza fare commenti di alcuna sorta.

Sospirai, massaggiandomi il pancione e sistemando meglio il cuscino fra le gambe. Sbuffai, alzandomi finalmente dal letto, costretta a svuotare quella sembrava divenire sempre un più piccola vescica.

La verità era che non potevo asserire di essere tranquilla, convincermi di esserlo, quando poi la realtà dei fatti era un’altra.

 

«Bella, per favore. Non dovremmo discutere anche di questo».

«No, Edward, infatti. Non ho alcuna voglia di farlo».

Proprio quella mattina ci eravamo ritrovati per concludere la lettura del libro e cercare quelle informazioni tanto preziose. Quelle relative agli strani sogni della bambina. La procedura andava avanti un po’ a rilento, dato che ogni nuova scoperta decifrata doveva essere poi spiegata a me. Tuttavia la cosa sembrava non pesare a nessuno.

La scoperta più importante e degna di nota, era stata quella relativa all’alimentazione della piccola. Sia cibo umano, che sangue, con una decisa e naturale inclinazione per quest’ultimo, e nei primi mesi per il latte materno.

Il tomo riportava anche l’esperienza delle altre donne, e il cesareo non era neppure menzionato. Era piuttosto chiaro, anche se Carlisle non si era perfettamente sbilanciato, il normale svolgimento che avrebbe seguito il mio parto.

Da quello era scaturita la discussione con mio marito.

«Non ho nessuna intenzione di farmi infilare un ago di quindici centimetri nella spina dorsale» sibilai, sperando di mettere fine al battibecco.

Alzò gli occhi al cielo, provando a mantenersi calmo. Non amava farmi agitare, andava contro la sua natura. «Invece vorresti provare quanto più dolore possibile, per paura di un solo ago…» bofonchiò.

Strinsi i pugni sulle ginocchia. Portai piano una mano ad accarezzarmi la pancia. «Non voglio fare l’epidurale. Per te può essere un solo ago, ma io ho paura!».

«Oh vi prego, smettetela, entrambi» sbuffò Rose, alzandosi dalla sedia e venendoci incontro, verso il divano. «Siete terribilmente testardi. Bella. Credimi, non provare dolore è una vera manna dal cielo. Edward. Primo, stai facendo agitare mia nipote. Secondo, non la puoi obbligare».

«Non ho intenzione di parlarne ancora» mormorai, abbassando lo sguardo e mordicchiandomi un labbro. Ero testarda.

Ma lui lo era almeno quanto me. Sospirò, abbracciandomi. Mi feci prendere fra le braccia, rimanendo silenziosa. «Si vedrà a momento debito».

Feci per ribattere, ma la voce di mio suocero, ancora piegato sul libro, mi fece desistere.

«Nulla» dichiarò, sollevandosi. Guardò i presenti nella stanza, dando a tutti il tempo di orientarsi verso le sue parole. «Non c’è nulla, neppure un accenno, a quello che è successo. Parla dei collegamenti fra la madre e il bambino. Ma c’è scritto anche che i sogni si sviluppano a partire dall’ottavo mese di gestazione, che sono semplici e basilari pensieri e impulsi. E non accenna affatto a nessuna delle conseguenze alle quali noi siamo venuti incontro. Non so come spiegarlo, mi dispiace…».

 

Sospirai, lasciandomi cadere seduta sul bordo del materasso. Non sarei mai riuscita a dormire.

Le mani fredde di mio marito mi avvolsero da dietro, mentre le labbra fredde si posavano sul collo. «Che hai?» sussurrò nel silenzio.

«Mmm… la pancia dura» biascicai, e la sue mani andarono subito ad accarezzarmi il pancione.

«Da quanto?» chiese serio, posando il mento sulla mia spalla «ti fa male?».

Scossi il capo. «Non è niente… Carlisle ha detto che è normale, un po’. É successo un paio di minuti fa» sospirai «Sono tranquilla, lo giuro». Fissai il buio davanti a me.

«Non devi dire così» le sue mani scivolarono sulle mie spalle, massaggiandole. «É inutile che tu ti sforzi di esserlo se non lo sei. Dimmi cosa ti turba, e starai meglio. Quantomeno potrò aiutarti».

Sapevo che non conoscere i miei pensieri lo mandava in agonia, e capii che non era più momento di tenerli per me.

«Ho… pensato… al fatto che nel libro non ci sia nulla sugli strani sogni della bambina» feci una pausa, appositamente studiata, per fargli metabolizzare il nuovo discorso. «E ho unito questo a quello che…» tremai; deglutii «che ha detto Philip».

Mi accarezzò i capelli, mi fece voltare verso di lui. Potevo scorgere appena i suoi lineamenti servendomi della gialla luce dell’abat-juor.

Il fatto sul libro non avessimo trovato nulla sui sogni, mi aveva dato la conferma di un dubbio che covavo da tempo: non avevano nulla a che vedere con la sua natura. Nulla a che vedere con lei. «Ha detto che quelli che erano pensieri che scorrevano nella mente della bambina. Non ha detto che fossero i suoi…».

Le sopracciglia di mio marito si strinsero un attimo in una flessuosa linea. «Certo. Non lo ha detto. E, in effetti, non sono per niente simili ai pensieri che percepisco solitamente. Il problema è… chi vorrebbe comunicare con lei? E perché a te» posò una mano sulla mia guancia «è successo quello che è successo?».

Mi girai su un fianco, posando la testa sul suo petto, sotto il suo mento. Sentivo il suo odore e ad ogni respiro, mentre lo inalavo, mi faceva sentire tranquilla e in pace.

«Ho pensato… ai licantropi. Così, riesco a spiegare la presenza di Seth. Loro sono coinvolti in questo. Così, riesco a spiegare quello che ho percepito io… perché…» deglutì, ritornando a fissare il volto di Edward, «magari, la sensazione dei licantropi poteva evocare ricordi… non piacevoli».

Sfregò il mento sulla mia fronte, stringendomi nuovamente a sé, pensando. «Pensavo già che saresti stata tu a scoprire qualcosa di interessante» sentii il suo sorriso su di me «forse non così presto. Eppure… ancora non riesco a concepire nessun motivo di collegamento fra i licantropi e nostra figlia. Non riesco, ancora, a spiegarmi lo strano comportamento di Seth…».

Lo guardai, gli occhi luccicanti e colpevoli, lievemente lusingati.

Sollevò entrambe le sopracciglia, sorpreso.

«L’hai capito». Non era una domanda.

Arrossii, scuotendo il capo. «Beh, non riesco a trovare in alcun modo nessun collegamento fra i licantropi e la bambina, ma…» mi morsi un labbro, fissandolo, «Seth. É stato completamente bloccato, in un istante. Io…» biascicai «ricordo…». Chiusi lievemente le palpebre, facendo scorrere nella mia mente le immagini della mia camera, delle parole mozzate, i gesti spezzati, di colui che consideravo un vero amico. «Ricordo quali erano gli effetti di un comando alfa».

S’irrigidì. «Pensi che Seth stesse trasgredendo alle regole?».

Lo fissai, eloquente, soddisfatta nel vederlo approdare alle mie stesse conclusioni. Non dovevano poi essere così tanto affrettate. «Ci ha sempre voluto bene…».

«Stava cercando di avvertirci, di darci un ultimo e disperato monito…».

«Su quello che i licantropi volevano dirci, e che noi abbiamo rifiutato di sentire…».

Gli occhi chiari di Edward scintillarono. «Il collegamento con la bambina. Era di questo che volevano informarci, era questo che Seth voleva dirci, prima di essere bloccato dal comando dell’alfa, prima che, per l’ultima volta, comunicassero con la bambina».

Sorrisi, abbandonandomi alle sue braccia. Ero felice che mi credesse, che non ritenesse le mie ipotesi assurde. Ero felice di averne finalmente parlato con lui. Aveva avuto ragione, renderlo partecipe mi aveva reso indubbiamente più serena. Sbadigliai, stropicciandomi gli occhi e massaggiandomi la pancia.

«Dovresti dormire più che pensare, lo sai?».

«Lo so» biascicai, ironica, un sorriso appena accennato sulle labbra.

«Sono le tre di notte» mi accarezzò i capelli, dolcemente «credo che una bella dormita sia più che meritata».

Anche il resto della famiglia sembrò avallare le mie ipotesi. Sembravano tutti molto soddisfatti e incuriositi dalla vicenda. Certo, le mie rimanevano pur sempre supposizioni, ma tutti ora si sentivano pienamente liberi di concentrarsi su un unico punto: cosa volevano i licantropi da mia figlia?

Questo rimaneva ancora troppo, decisamente, inspiegabile. E le sole due fonti di verità, rimanevano entrambe off-limits. I licantropi non ci avrebbero mai detto cosa volevamo sapere. No di certo, se la mia supposizione su Seth fosse stata esatta. E… l’altra fonte… era il professore.

«No» biascicai, la bocca impastata «aspetti».

La figura del professore, riprodotta fedelmente nel mio sogno, mi guardò tristemente, prima di voltarsi e andarsene.

Mi sentivo incredibilmente in colpa. In colpa, perché dopo averlo odiato, temuto, allontanato, persino, per lungo tempo, mi rendevo conto di aver solo sbagliato. Non ero stata capace di comprenderlo realmente. Aveva sofferto, nella sua esistenza, la scomparsa della moglie, la perdita della figlia.

Se fossi stata al suo posto, non avrei potuto reagire al suo stesso modo, sarei stata semplicemente annullata.

E ora, ora che finalmente avrebbe potuto riabbracciare sua figlia, neppure quello gli sarebbe stato concesso, visto che l’orologio della sua vita scoccava i suoi ultimi rintocchi.

Mi svegliai di soprassalto, mettendomi seduta sul divano. Ansimai lievemente, socchiudendo le palpebre e lasciandomi andare con la schiena, sudata, sul cuscino. Accarezzai il ventre gonfio, facendo calmare la piccola.

Alice si avvicinò, scendendo dalle scale, scivolando tranquilla e silenziosa sul pavimento. Era tornata da appena due giorni, per sistemare ogni cosa per la festa che ci sarebbe stata. Festa per il prossimo arrivo della bambina. Non avevo potuto rifiutare, semplicemente perché non mi aveva chiesto alcun permesso. «La festa non è per te». Queste le sue parole.

Feci per alzarmi, per mettermi seduta, ma me lo impedì con un gesto. «Tutto bene?» chiese placidamente.

Annuii, un sorriso forzato e appena accennato.

Mi studiò attentamente prima di lasciarsi scivolare, seduta, sul tappeto davanti a me. Posò una manina sulla pancia, accarezzandola. «La tua piccola, a differenza di te, non mi mente, e non lo fa neppure male. Se si è agitata c’è un motivo» dedusse logicamente.

Sospirai. «Non avete trovato nessuna traccia di Kate? La figlia di… di Philip?».

I suoi occhi vispi guizzarono nei miei, mentre tentava di capire la vera natura della mia domanda. «No, nulla. Solo una traccia, troppo remota. É brava a scappare, a rifugiarsi. Deve essere nascosta da qualche parte…».

Annuii, sconsolata. «Mi dispiace…». Feci una pausa. Arrossii, imbarazzata. «Ti spiacerebbe… aggiungere…» sollevai il viso, mordendomi violentemente le labbra «un invitato?».

I suoi occhi si velarono, e subito sorrise. Le visioni che aveva su di me e sul bambino erano decisamente ridotte, tuttavia ancora persistevano in alcuni momenti, soprattutto nel futuro imminente. «Nessun problema Bella». Un’espressione buffa, quasi disgustata, comparve sul suo visino. «Lo aggiungerò, ma sappi che quel professore non mi piace…».

Alzai gli occhi al cielo, sconsolata, mettendomi a sedere finalmente sul divano. «Ti prego, Alice…».

«Certo, certo, come vuoi. La pietà è umana…».

La fissai torva, vedendola scomparire nuovamente in cima alle scale. Non provavo pietà. Quell’uomo era degno di qualcosa di meglio dell’umana pietà. La mia gratitudine. Le mie scuse per non essere stata corretta nei suoi confronti. Il mio conforto, forse…

Avrei dato tanto per poterlo vedere e poter chiarire mille cose con lui. Ma sapevo che con ogni probabilità non si sarebbe presentato.

«Ancora contrazioni?». Edward mi fissò di sottecchi, continuando a sparecchiare alla sua velocità inumana.

Scossi il capo, continuando a sbadigliare. «Sta premendo un piede proprio sotto l’ombelico. Ma che birbona…» mormorai sarcastica, «non la senti?» gli chiesi.

Mi venne vicino, posando una mano proprio dove sua figlia insisteva con il piedino.

«Carlisle dice che è perché l’utero cresce rapidamente, e perché la bambina si diverte a lasciare le sue “impronte”». Sorrisi.

«Ha detto anche che se ne senti molte dovremmo avvisarlo» buttò lì con leggerezza.

Affondai le mani fra i suoi capelli, a portata della mia altezza, sorridendo. «La visita sarà pochi giorni dopo la festa. Così potremmo vedere se la piccola è cresciuta».

Sorrise anche lui. «La pancia è cresciuta, a vista d’occhio direi» dichiarò, osservandola con ammirazione. Anche le sue mani, perfettamente aperte sulla pancia, non riuscivano a ricoprirla del tutto. Era cresciuta molto, in effetti.

«Non ho ancora trovato nulla da indossare per la festa. E,» precisai «non sono così masochista da chiederlo da Alice. Rovisterò nell’armadio che mi ha fornito. Un terzo delle cose che ci sono non le ho mai messe, un altro terzo non le ho mai viste».

«Sarai stupenda» disse sicuro.

Abbassai il capo, continuando ad accarezzarlo, senza dire nulla. Mi sentivo un po’ in colpa per avergli taciuto alcuni particolari della festa, come la lista degli invitati. Come… un invitato, in particolare.

La sua non più durevole pazienza pose fine al silenzio. «Cosa c’è?».

«Volevo dirti…». Non avevo alcuna intenzione di farlo suonare come un permesso. Non avevo, d’altro canto, alcuna intenzione di evidenziarla come una menzogna. Mi schiarii la voce. «Ho invitato il professore. Il professor Philip. Spero che non ti dispiaccia…».

Liberò il capo dalle mie mani, tornando a guardarmi.

Avere i suoi occhi su di me mi faceva decisamente essere più vile. «Io…» sospirai «vorrei solo… solo parlargli, un po’… solo…».

Le sue parole furono placide. Non era adirato con me per l’invito, si stava preoccupando del motivo di questo. «Non puoi fare niente per lui».

Contrassi il volto. «Io…».

Mi accarezzò una guancia, sollevandosi da terra. «Non voglio che tu soffra. Ma… la nascita. La morte. Fanno parte della natura umana».

Scossi il capo, nascondendo il viso fra le mani. «É così ingiusto… La sua vita mi sembra così semplicemente ingiusta…» mormorai flebile.

Mi prese fra le braccia, traendomi a sé, lasciandomi impercettibilmente tremare contro il suo petto. «Mi dispiace amore, mi dispiace così tanto…» cantilenò, cullandomi.

«Se solo potessi parlargli» sussurrai, con voce fioca, «anche solo una volta».

«Mi dispiace…» ripeté. Per quanto il professore non fosse fra le sue simpatie, sapevo che mi stava dicendo la verità.

La cosa che più odiava al mondo era vedermi soffrire, e per quanto potessi ignorare quello che avevo da poco appreso, stavo soffrendo, tacitamente, ogni giorno. Per quanto la mia vita potesse essere perfettamente serena e tranquilla, non riuscivo ad ignorare il dolore di un uomo che mi era stato così d’aiuto. Eppure, sapevo che non avrei potuto realmente fare nulla.

La festa doveva essere, ufficialmente, cominciata dieci minuti fa. Alla fine, persa nella mia stessa cabina armadio, ero stata costretta a farmi aiutare a scegliere da Alice, che ne aveva estratto un elegante abito bianco, lungo fino al ginocchio, stile impero, con tanti volant impalpabili. I miei sospetti che l’abito fosse stato acquistato per l’occasione, piuttosto che “sempre stato nell’armadio” come si ostinava a ripetere lei, non avevano motivo di rimanere solo sospetti.

«Sei tanto bella… Stupenda…».

Arrossii, lasciandomi baciare il collo, la testa posata sulla sua spalla. Sempre, da sempre, si era profuso in complimenti per me. Come poteva adorarmi così tanto, quando era lui il vero angelo?

«Dobbiamo andare» farfugliò, ancora stretto a me.

Lo trattenni prima che si allontanasse. «Alice ha detto che non è la mia festa, quindi posso anche non andarci», sussurrai, pretendendo un bacio. Un bacio vero.

Si staccò, fissandomi furbo. «Non credo che la prenderebbe bene, sai? Credo che tu veicoli il soggetto a cui la festa è dedicata», sghignazzò.

Sbuffai. «Non mi va di sentirmi come un’incubatrice ambulante. Ci saranno decine di persone che mi toccheranno la pancia. La bambina sentirà caldo, si innervosirà, non smetterà di tirarmi calci…» borbottai.

Mi tese la mano, sollevandosi dal letto. Aveva il suo mezzo sorriso sulle labbra. «Andiamo?».

«Si, andiamo» biascicai riluttante.

L’immensa sala dell’attico era stata riempita da palloncini, veli, tulle, enormi tavoli imbanditi, e altrettanto enormi pieni zeppi di regali. Mi calmai leggermente quando notai che il numero degli invitati non superava le mie, alquanto ingigantite, previsioni.

Malgrado il chiacchiericcio tutti si voltarono, zittendosi, verso me e Edward, quando poco aggraziatamente raggiunsi la cima delle scale. Mezza Forks mi osservava attentamente.

Arrossii immediatamente, senza poter nascondere in alcun modo il mio disagio. La gravidanza aveva ampliato in modo imbarazzante quel fenomeno.

Edward lasciò la mia mano e passò il braccio dietro al mio busto, stringendomi. In quei secondi, pochi istanti di paralisi immobile, in cui il mio cuore scandiva i suoi forti battiti, perlustrai l’intera sala. Amici di scuola, mio padre, amici di mio padre, la mia famiglia di vampiri. Non il professore.

«…siamo lieti quindi di avervi qui» virò tiepido Edward, con un tono ammaliante e coinvolgente.

«Bella! Come stai? Che bello vederti…» i miei amici di scuola, Angela, Jessica, Ben, Mike, furono i primi a farsi avanti. Li avevo visti molto poco, causa i loro impegni universitari. Ogni tanto Angela era venuta a trovarmi, però. Ogni volta che era tornata a Forks.

Mentre sentivo le parole dei miei amici, continuavo a setacciare incessantemente la stanza. Mi era difficile concentrarmi unicamente su di loro, concentrarmi sugli ospiti, che pure volevano con insistenza parlare con me. Edward mi salvò nella maggior parte dei casi, cancellando il mio imbarazzo.

«Scusa, non ho sentito?» chiesi, fissando il viso di Jessica e accorgendomi del fatto che doveva avermi posto una domanda. Dopo aver salutato più o meno tutti gli invitati, almeno quelli che conoscevo, mi ero rifugiata in un angolo coi divanetti con Edward, che non mi aveva lasciata sola neppure per un istante. Ovviamente, però, la gente continuava a venire a cercarmi.

«Quanto manca al parto?».

Mi portai una mano sulla pancia, appena tiepida. La mutazione della placenta stava portando anche quel cambiamento. «Sono alla ventiseiesima settimana, sesto mese, quasi settimo», sorrisi, guardando la mano di Edward, appena accanto alla mia. In tutto quel disordine, ero contenta di aver rivisto i miei amici. Era una parte di me che mi era mancata un bel po’. Non che avessi rimpianti. Mi andava benissimo avere diciannove anni e fare la madre. Ma… le giovani amicizie erano state un’esperienza umana relativamente piacevole.

«Posso toccarti?» chiese genuinamente Mike.

Edward s’irrigidì impercettibilmente. Arrossii. «Si, certo» mormorai a disagio. Sempre stata troppo vile per dire di No.

Posò il palmo sulla pancia, toccandola con attenzione. La bambina era stata dapprima infastidita da tutti quei caldi contatti che aveva avvertito quella sera. Poi però, il suo fastidio era mutato in confusione e in curiosità. Non era mai avvenuto un evento simile, tante mani diverse a calde, tutte a toccarla. Tuttavia, dopo pochi istanti, la bimba decise di compiere una completa capriola, assestandomi un calcio diritto al fegato.

Gemetti debolmente, sostituendo la mano di Mike alla mia, accarezzandola. «Scusa, è agitata».

Sentii la mano di Edward stringesi protettivamente sul fianco. «Tutto bene?».

Annuii, silenziosa.

Gli occhi di Mike lampeggiarono di uno strano guizzo, ma non disse nulla, si limitò a fissarmi, ancora, in silenzio. Jessica catturò la sua attenzione, trascinandolo via, verso altri ragazzi da me sconosciuti.

Notai la postura rigida e ferma di Edward. Un’improbabile gelosia gli bruciava negli occhi. Mi lasciai andare su di lui, sorridendo e non potendo fare a meno di osservare ancora una volta l’intera stanza.

Mi accarezzò i capelli, intuendo i miei pensieri, diretti dove era diretto il mio sguardo. «Verrà».

Sospirai, incerta.

La festa fu relativamente tranquilla. Ringraziai ogni componente uomo della famiglia Cullen per avermi monopolizzata nel ballo e avermi esonerata da eventuali figure fin troppo imbarazzanti. Solo con mio padre ballare fu d’obbligo, ma, fortunatamente, si stancò molto presto anche lui.

«Mia cara Bella, lo chiffon ti dona, sai?».

Emmett mi fece volteggiare, ancora, velocemente, ed arrossire. Fortunatamente Jasper mi rapì prima che potesse finire di strapazzarmi. Fortuna che non avevo mangiato nulla: il mio stomaco era fin troppo chiuso.

«Come va la serata?» chiese discretamente.

Osservai la gente allegra attorno a me. «Credo che tutti si stiano divertendo. Lo sai meglio di me, tua moglie è un mago in queste cose», finsi di non capire.

«Non intendevo questo» sorrise lievemente.

Sospirai. «Non credo che userò accidentalmente il potere della bambina».

«Tieni le mani strette» ridacchiò, alludendo al potere sprigionato dalle mie mani.

Jasper, impeccabile colonnello tutto d’un pezzo, si era naturalmente posto il problema dell’uso improvviso e improprio dei poteri della bambina, soprattutto il pubblico. Così avevamo fatto diverse prove, e avevo maturato un certo controllo. Più che altro avrei dovuto gestire le mie emozioni.

Cosa che in quel momento mi veniva molto difficile, visto che i miei occhi non riuscivano a non guardare verso le scale, aspettandosi di veder comparire chi non c’era.

«Potrei riavere mia moglie?» chiese Edward, venendomi a reclamare. Lo guardai placidamente, le guance arrossate per il caldo e il ballo. Mi posò una mano fredda sul viso. «Vuoi sederti un po’?».

Annuii, lasciandomi trasportare verso il divanetto, un suo braccio e sorreggermi la schiena. Non feci in tempo a sedermi che per Alice fu già il momento di scartare i regali. Sorridevo, ringraziavo, mi entusiasmavo alla minima spilla. Non doveva non essere la mia festa? Odiavo ricevere regali.

«Oh Bella! Vorrei venire a trovarti più spesso! Anche solo per vedere questa pancia crescere!» esclamò sincera Angela, osservandomi.

«Mi siete mancati anche voi ragazzi» risposi sinceramente, guardando ognuno di loro. Angela, Jessica, Mike, Ben. «Sapete che potete venire a trovarmi ogni volta che vorrete».

Ben si sporse, per guardarmi oltre la sua ragazza. «La prossima volta la piccola sarà già nata?».

Risuonò la risata di Edward, argentea e cristallina. Solo io sentii la nota di nervosismo. Mi abbracciò protettivamente. «Speriamo di no. Vorresti farla nascere prima?» scherzò. L’idea di un parto prematuro doveva terrorizzarlo.

Ben s’irrigidì lievemente, a disagio, prima di ridere anche lui.

Osservai distrattamente i ragazzi, lasciandomi andare sullo schienale e spostando impercettibilmente gli occhi verso le scale, ancora.

Il magone mi chiuse la gola. Due ore, erano passate. Non era venuto.

Mi sollevai dal mio posto, liberandomi dalle braccia di Edward. Mi guardò interrogativo, ma quando puntai in direzione delle scale, arrossendo, rimase con i miei amici e non replicò, intuendo la mia meta.

In quel momento adoravo il mio bagno. Insieme alla camera, blocco di cui faceva parte, era l’unica stanza insonorizzata della casa. Il silenzio che vi regnava mi consentì di riposare la mia mente esausta. Portai le mani al pancione, osservandolo, vacua.

Mi dovevo rassegnare all’idea che, comunque, non avrei potuto fare nulla per lui. Nulla.

Vidi la maniglia della porta abbassarsi e mi ricomposi. Feci un sospiro, e girai la chiave nella toppa.

«Tutto bene?». Annuii a mio marito, pur sapendo di non poterlo ingannare. Mi prese fra le braccia a mi strinse a sé. Sembrava, eppure, stranamente tranquillo. «Se vuoi possiamo rimanere qui. Non c’è bisogno di risalire, dirò ad Alice che sei stanca». Non parlai, continuando ad immergere il viso nel suo petto. Sapeva che il problema non era affatto la mia stanchezza. «Avresti dovuto mangiare qualcosa…».

Sospirai. Feci un piccolo, mezzo, forzato sorriso, a cui rispose con uno molto più pieno e sincero. Senza dire una parola presi la sua mano e lo trascinai con me, ancora una vota, in mezzo alla gente.

Quando arrivai in cima alle scale, però, sentii il cuore immobilizzarsi. Fra tutta la folla, distinsi la sagoma che per tutta la sera avevo cercato e che non speravo più di vedere. Era solo, il viso pallido e stanco, fra le mani un bastone. Era seduto in un angolo buio e remoto della stanza. Mi sorrise, ghignante, e le rughe rivendicarono la propria presenza sul volto.

Ansimai, voltandomi di scatto verso Edward. Il suo sorriso era caldo e profondo, incoraggiante. «Va da lui». Mi accarezzò una guancia, mi baciò la fronte, lasciando la mano che avevo intrecciato alla sua.

Lo fissai ancora, saettando con lo sguardo fra lui e il professore, e intanto facendo muovere inconsciamente i piedi. Deglutii, voltandomi definitivamente verso Philip, incedendo, timidamente. Mi sbagliavo, il suo sguardo attento non aveva mai smesso di mettermi in soggezione.

«Isabella». La voce era più fioca, profonda, antica, di quanto la ricordassi.

Il cuore batté forte nel petto, la bambina si fece sentire. «P-professore… Professor Philip…». I suoi occhi indicarono la sedia accanto alla sua, così mi sedetti, non smettendo di guardarlo.

Il suo sguardo, perso, si allontanò, osservando tutta la sala. «Devi ringraziare tuo marito se sono qui» borbottò, piuttosto contrariato.

Edward. Edward l’aveva chiamato, pur non sopportando la sua presenza, l’aveva chiamato per me. I miei occhi saettarono nella sala, ma non trovarono traccia di mio marito. «Edward…» farfugliai.

«Già Edward» bofonchiò, «ti ama. Mi odia, eppure mi chiama, in casa sua, per farmi parlare con te». Sembrava scocciato dalla questione, come se la reputasse nettamente seccante.

Presi un breve respiro. «Lui non… non vi odia…» mi sentii in dovere di difenderlo.

Sghignazzò, rise, amaro, e ben presto le risate si tramutarono in lunghi e prolungati accessi di tosse. Mi allarmai, tesi le mani per aiutarlo, per contenere i suoi spasmi, ma non riuscii a toccarlo. Si portò un fazzoletto alle labbra, ricomponendosi. «Oh si, mi odia invece» gracchiò «Ed ha ogni ragione di farlo. Ho armi micidiali, persino per i vampiri, create dagli stessi Volturi, capaci di uccidere ogni vampiro in un istante. E le ho usate, oh, se le ho usate, più di una volta. Senza remore né scrupoli. Non sono mosso dalla tua stessa…» i suoi occhi cerulei mi squadrarono, assottigliandosi «pietà».

Il respiro accelerò nel mio petto. Lo avevo, davanti ai miei occhi, finalmente. Ma mai quanto prima riuscivo a rendermi conto della vanità della mia persona. Lui era cinico, sprezzante, totalmente arrogante… pericoloso. Da fare paura anche a Edward. Da costringerlo ad odiarlo per chissà quali cattiverie compiute a cuor leggero in chissà quale tempo.

Eppure, con il tempo, avevo imparato che mai, nulla, è solo come la si vede. E io riuscivo a vedere anche altro, oltre a questo.

Ma cosa avrei potuto fare? Avevo davanti agli occhi una persona a cui riservavo immensa gratitudine, una persona a cui dovevo qualcosa. Qualcosa che non sarei riuscita a dargli. Non in tempo.

«Io… io… volevo solo dire… mi dispiace» affermai, mordendomi contemporaneamente le labbra.

Si lasciò andare ad una risata più contenuta. «Ti dispiace?».

Arrossii. Mi guardai le mani, inermi, piegate in grembo. «Io… avrei voluto essere più… cortese».

Sorrise. Le labbra sottili e consunte si tesero. «Non hai fatto nulla di scortese Isabella» mi lanciò un’occhiata eloquente «tuo marito aveva detto che avevi necessità di parlarmi. Diciamo che ha espresso il concetto con molta solerzia, pensavo che avessi bisogno di dirmi qualcosa di più importante. Sappi che non ti devi dispiacere, né scusare. Quindi, se la questione è chiusa» fece, facendo leva sulle braccia «direi che posso andare. Non lasciarti andare in rimpianti per un povero vecchio. Hai la tua vita giovane e bella davanti».

«No, aspetti!» lo bloccai prima che potesse andarsene. Ero infinitamente grata, a Edward, per averlo chiamato. Ma sapevo che Philip era una persona che non badava molto a quello che gli veniva chiesto, soprattutto quando la richiesta proveniva da un vampiro. Perché, allora, era venuto da me? Ci doveva essere qualcosa di più. «Io… Io… volevo… volevo solo…».

Mi liquidò con una mano. «Non ti preoccupare» i suoi occhi, seri, trovarono i miei. Esitò, tormentato. C’era dolcezza, forse, nel suo sguardo? «Non essere in pena. So che fare di ciò che resta della mia vita. Non avrai più nessun problema Isabella, lo giuro. Né te, né la tua… bambina» socchiuse gli occhi, gli riaprì «ti libererò dai tuoi demoni, ci penserò io. Non chiedermi cosa, non chiedermi perché. Vivi la vita che io non ho vissuto, vivi la gioia che io non potrò vivere.

Edward mi ha detto… Hai capito di Seth. Hai capito dei licantropi. Fermati, qui, adesso. Prima che sia troppo tardi. La conoscenza porta alla sofferenza in una maniera inimmaginabile».

I suoi occhi ardevano di seria preoccupazione. Il suo monito non scaturiva dal potere, non era un ordine. Voleva il mio bene. Si stava preoccupando per me, occupando di me, andando, anche, incontro a chissà quali pericoli, per me.

Perché?

«Perché?» chiesi, disperatamente «Perché fa questo per me?».

Abbassò lo sguardo, come se si stesse vergognando di un’infamia. Non l’avevo mai visto così. Così… debole. Quando lo risollevò ci vidi la stessa occhiata che mille volte mi aveva riservato. L’occhiata che mi faceva rabbrividire, angosciare, palpitare. Solo allora, capì perché.

Mentre il ghiaccio dei suoi occhi diventava turchese, mentre le mie labbra erano spalancate per lo stupore, capì. Mi stava guardando dentro. Con ammirazione, devozione, rispetto. Con affetto.

Quasi senza accorgermene presi un respiro, lungo, affrettato. Ero immobilizzata.

«Isabella» mi parlò, il cuore il mano, «guardo te, e vedo mia moglie. Guardo te, e vedo mia figlia. Ricordo quando ammiravo l’amore della mia giovinezza. La pelle chiara, i capelli mori, le labbra rosee, le mani sulla pancia.

Ma mia moglie era… sfacciata, smaliziata, licenziosa. Aveva alte ambizioni… no» tratteggiò dolcemente, come se con le parole dipingesse un quadro, impresso nei suoi occhi vitrei «tu sei com’era il mio piccolo amore. Timida, riflessiva, eppure anche così amorevole e coraggiosa». Mi guardò, mi ammirò.  «Sei la figlia che vorrei Kate fosse diventata».

Il mio petto si alzava e si abbassava al ritmo del mio respiro cadenzato. Guardavo l’uomo che mi era di fronte con una luce nuova, completamente diversa. Come avevo potuto non comprendere prima la natura dei suoi sguardi troppo intensi?

Ero stata troppo impegnata a nascondere il viso, celandone il rossore.

Il suo sguardo divenne malinconico, nostalgico. Tentennava. «Non mi resta molto, lo sai. Mi sono rassegnato all’idea di non rivedere la mia Kate. Ma, se potessi…» allungò una mano, tramante, pallida.

Vidi le dita di cui seguivo immobile il tragitto stringersi in un pugno e ritirarsi. «No, perdonami…» mormorò voltandosi.

«Aspetti!» malgrado l’esclamazione, la voce mi uscì sottile. «La prego…».

Si girò nuovamente verso di me. Mi guardò, ancora, in viso, il suo sguardo profondo e indagatore. Saettò sul mio grembo, a cui riservò una carezzevole occhiata. «Posso?» mormorò tremante, allungando nuovamente la mano, ma ancora non toccando il ventre pieno, come se avesse paura di profanare un santuario.

Non risposi, i miei occhi parlarono per me.

Quando le sue dita, fresche per la vecchiaia, si posarono su di me, sentii un brivido irradiarsi in tutto il corpo. La bambina si mosse.

Un altro fremito, molto più forte, lo sentii quando, risollevando il viso, vidi la debolezza di un uomo che aveva perso ogni cosa, ma che gioiva, estatico, di quel poco che gli avevo donato.

Lacrime.

 

 

 

 

 

Prima di ogni cosa, vorrei precisare che questo capitolo è dedicato al professore, al mio professor Philip.

Perché si indaghi e si comprenda la mente umana. Perché il buono e il cattivo cessino di essere parametri universali.

 

Bene. Mie adorate, miei lettori. In questo capitolo, ho voluto consegnarvi le ultime, sparse, informazioni. Il prossimo, ho deciso, si ripiegherà un po’ sui nostri protagonisti, esalterà il loro amore con pace e tranquillità, dolcezza, prima che la storia si espanda notevolmente.

 

Beh, inutile ripetere che presto le diremo addio. Presto = 6 - 7 capitoli. :) Non nascondo che penso piangerò per una settimana intera. Che ci posso fare se ho i dotti lacrimali deboli?! :P

 

Vorrei, se me lo concedete, non come un peccato, ma come un gesto di sincero apprezzamento, segnalarvi la storia “Once upon a time in Forks...”, della bravissima CassandraLeben.

 

Sono felice di aggiungervi su twitter, il mio nick è @Keska92. Lì inserirò anche link, del mio blog, sul quale pubblico spoiler e informazioni sugli aggiornamenti.

 

Ancora, un grazie, per l’apprezzamento che avete dimostrato per il Professore. Grazie.

 

Grazie, mie adorate (e magari anche adorati :P) lettrici. :*

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

patu4ever Grazie tesoro! E si, sta nube non poteva rimanere dove stava ancora un po’?! :P Tutto per avere qualche giorno in più di vacanza, eh?! Come ti capisco! :P Grazie infinite per la segnalazione che hai fatto! Tesoro, mia carissima vagabonda! *.* Mi hai fatto felicissima! Sai perfettamente quanto ci tenga al personaggio del professore, e sapere che piace tanto anche a te mi fa letteralmente piangere di gioia! Grazie tesoro! :**

Struppi Waa! *urla e tifo da stadio* Waa! Complimenti vivissimi! Non è affatto semplice leggere la bellezza di 63 capitoli in due giorni! O.o Ovviamente, se quello che ci accomuna è l’odio per Jacob, la cosa non può essere che giustificata. Farei di tutto per questa causa. Comunque *clapclap*, complimenti. E, scherzi a parte :P, un grazie, grazie, grazie. :) Sei stata molto carina. Grazie!

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate Grazie! É vero, Edward è proprio un vero amore, una amore stupendo! Infatti dedicherò un intero, prossimo, capitolo, proprio all’amore fra i due sposi. Un momento di raccolta, piccola dichiarazione d’affetto nel loro universo magnifico. :D Ci tengo molto al professore! Questo, è un capitolo dedicato a lui. Un po’ triste, forse, ma dovuto. :) Un bacio. :*

luisina Oh, darling! Accidenti! Mi hai lasciato tutte queste magnifiche recensioni *.* Grazie!!! Uno degli impegni che mi sono prefissa era proprio quello di creare interessanti, strane, bislacche caratteristiche della bambina, proprio perché, in fondo, la fantasia è proprio l’unica cosa che non mi manca, allora perché non sfruttarla? Perché non divertirsi a creare assurde assurdità? :P Per il discorso del professore, mi potrai capire se ti dico che ci tengo particolarmente a questo personaggio. Insomma, è una creazione della mia mente, completamente mio. E ne percepisco tutta la poliedricità, tutta l’umanità, tutta la psiche. Per questo gli sto dedicando così tanto spazio, compreso questo capitolo, possiamo dire… :P Ci tengo a precisare che sono stata molto combattuta sull’età da assegnare al bambino dello scorso capitolo. Ho una cuginetta di due anni, che è estremamente intelligente, e sapevo che non sarebbe stato troppo strano se si fosse comportata così! Ora, però, non posso assicurare nulla su questo bimbo! :P Ti ringrazio per tutti i bellissimi complimenti! *.* Oh, tesoro, sei stata davvero dolcissima! Conosci la mia passione solo perché è così simile alla tua, immensa. Grazie. :*

endif Carissima! :) Dunque. Preciso che in questo capitolo ho fatto un’opera di auto-bloccaggio e convincimento a inserire più informazioni possibili! In fondo, fra neppure due capitoli, il mistero verrà completamente svelato, e per ora, ciò che era rivelabile, è stato rivelato. Spero che si capisca qualcosa in più! *.* Mi sono davvero ingarbugliata tanto, ma per fortuna - almeno io che sono la scrittrice :P - le idee le avevo piuttosto chiare, quindi non è stato troppo complicato anticipare qualcosa. Ho deciso, prossimo capitolo, PAUSA. Pausa in carattere maiuscolo, perché è necessario un capitolo per raccogliere le idee, senza stranezze, problemi, pensieri, prima di impazzire definitivamente. u.u A presto my dear! Grazie. Sai quanto ci tenga infinitamente alle tue recensioni. :*

Ely_11 Ciao! Che bello sentire nuovi pareri! *.* Grazie mille, sei stata fantastica! Ci provo a pubblicare più veloce che posso, ma spesso mi perdo per ricorreggere mille volte il capitolo! :) Spero la storia continui a piacerti! Un bacio.

Luna Renesmee Lilian Cullen Oh, come ti capisco! É una cosa orribile quando ci si mettono i genitori! Ma non capiscono che il computer può solo farci del bene?! *.* Ehh… Vabbè. Sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto! Beh, penso che dopo tutto quello che ho fatto passare alla nostra protagonista in qualche modo dovesse riscattarsi prima o poi! La faccenda della placenta è stato un altro, assordissimo, colpo di testa non programmato! Oramai devo solo seguire quello che mi dice la mia mente! :P Spero di sentirti presto! Un bacione tesoro, grazie! :*

mazza Ohhh! My dear! Mon Cher! Piccoletta del mio cuore! *.* Ogni volta sei tu quella che mi fa piangere, sommergendomi di complimenti! Viva i fazzoletti Tempo! Altrimenti ora saremmo entrambe annegate in un mare di lacrime. Lo so che mi segui da quando la bimba era solo °,‘*L’EVENTO*’,°, -muahahah - e ancor prima, direi! Nessuno ha mai seguito le mie storie con così tanta dedizione, rimettendosi perfino a rileggere tutti i capitoli che le mancavano per rimettersi in pari! Accidenti che tenacia piccoletta! Questa storia continuerà ancora un po’… sette capitoli, ma sono certa di sforare almeno di due… mi lascerà un bel segno, anche alla fine… Ma come ho già detto, si va avanti, così ho una nuova storia in cantiere… La mia testolina non smette mai di fantasticare, soprattutto per meritare i tuoi bellissimi complimenti! *.* Grazie piccoletta gamma. Sei nel mio cuore sempre e per sempre. :***

AriRock Ciao!!! Infinite grazie, davvero! Mi hai lasciato una recensione bellissima, era davvero tanto tempo che non ne ricevevo una così! É vero che a volte sono un po’ cattiva con Bella, ma altrimenti non ci sarebbe azione, narrazione, dolore, e neppure il tanto sospirato romanticismo! In effetti, scrivo questa storia con la testa proprio fra le nuvole! Non mi sforzo di essere né reale, né realistica, ma diciamo che faccio volare la fantasia. Certo, che molto spesso segue il clichè della bella innamorata salvata dal suo principe, forse non sarebbe così originale da essere pubblicata in un libro! Ma mi fa comunque felicissima vedere l’entusiasmo con cui la seguite, e l’entusiasmo che, ti ringrazio, mi hai dimostrato scrivendomi questa bellissima recensione! La mia storia è su due gruppi di fanfiction su facebook, ed in entrambi, in effetti, è un po’ indietro. Ma di solito leggo tutti i commenti che mi lasciate, qual è il tuo nick su facebook? Grazie, grazie, grazie. Con la speranza di continuare a sorprenderti, sempre. :*

LudoCullen96 Ciao carissima! :) Sono contenta che quella parte col bambino ti sia piaciuta! Quando scrivo cerco sempre di essere originale e mai conforme a nulla, e beh, con quella parte è stata una bella gatta da pelare! :P Ti ringrazio tantissimo! Alla prossima! :*

Sognatrice85 Accidenti! Grazie! Non ho proprio ben capito cosa intendessi con la storia della naturalezza, ma… beh, grazie. :) Ho cominciato a risolvere un po’ di quesiti irrisolti, direi che era d’obbligo! Presto svelerò anche il resto. Spero di non deluderti! Grazie, grazie, grazie.

elysa 172 Ohh, bene! Sono contenta di aver trovato qualcun altro a cui piace il professore! Man mano che vado avanti riesco a portare sempre più persone dalla mia parte! Bene, bene. Questo capitolo è uno di quelli, in effetti! Grazie infinite per i complimenti, sei stata dolcissima! *.* Grazie!

Wind Carissima! Eh, mi mancheranno davvero tanto anche i tuoi commenti. Non facciamoci prendere dalla nostalgia pre-tempo! Sono sicura di sforare di almeno uno o due capitoli! Ahahahah… Sarò anche sadica, ma sono dettagliata e puntigliosa! E quando mi esprimo, faccio del mio meglio per essere compresa! u.u ;D

congy Ohh, grazie Federica! ^^ Beh, l’idea mi è venuta proprio come tutte le altre idee di cui è popolata questa storia! Nella quiescenza del dormiveglia, quando la mia attività celebrale è maniacalmente sopra la media giornaliera! Ahahah… Sono contenta che l’idea ti piaccia! Edward non aveva ancora letto tutto il libro, perché, pur essendo un vampiro, le cose non sono poi scritte così chiaramente, e soprattutto doveva darsi il tempo di interiorizzarle e aspettare sua moglie! Un bacione immenso carissima! Non smetterò, comunque, di scrivere! :*

Nessie93 Lo so! Anch’io la penso come te, ci vuole un po’ di tranquillità! Così ho deciso di scrivere il prossimo capitolo con tutta la dolcezza di Edward che ti piace tanto, con la presenza di Carlisle che adori quanto me, e con un po’ di sana, vera, tranquillità! Grazie cher :*

DarkViolet92 Certo! Si discuterà sulla sua trasformazione! Mi rendo conto che magari a te, che il professor Philip piace, questo capitolo possa essere parso triste! Beh, volevo solo mettere un po’ di realtà nella mia storia poco reale! Grazie carissima! Un bacio. :*

chi61 Concordo perfettamente! La pizza è davvero insostituibile. Niente è come la pizza. Mi rendo conto che Bella si sia trovata un po’ nei panni della supereroina, diciamo che non ho lasciato nessuna coincidenza al caso! Quello che non c’era nel libro era una spiegazione sui sogni della piccola. In questo modo Bella ha potuto formulare e avanzare le sue ipotesi! Non volevo rendere l’ecografia un clichè, ma mi rendo pur conto che la gioia di ogni donna su quel lettino deve essere tale e ripetuta, se necessario, infinite volte. Ogni donna merita quella felicità. Non volevo davvero rendere Carlisle un folletto! Cielo! Non riesco a immaginarmelo in certi panni! É il mio personaggio di Twilight preferito, ci tengo incredibilmente a lui. A presto carissima, a presto, con un’altra delle tue fantastiche recensioni, spero! Grazie.

silvia16595 Carissima Silvietta! ^^ Non ti preoccupare, la punizione senza pc è una gran, gran, brutta cosa! Fai bene a provare pena per il professore! Guarda, questo capitolo è costruito ad arte per questo, se qualcun altro non prova pena, io non so più che pensare! Ci vuole! É nella natura umana (sta scritto anche nel capitolo). É solo che ci tengo davvero tanto, tanto al suo personaggio, tutto qui! Se hai in mente qualcosa da scrivere, buttati! Solo un consiglio: non forzarti, ma immagina! L’ispirazione verrà da sé, te lo assicuro! :) Un bacio. :*

KatyCullen ohh, grazie! Anch’io sono davvero tanto sdolcinata, lo sai?! Non vedo l’ora che nasca la piccina! *.* E, credimi, se ti dico che nel frattempo ho immaginato di tutto! Inizialmente la storia doveva concludersi con la sua nascita… Ora si concluderà, a grande richiesta (diciamo anche obbligo :P) un paio di capitoli dopo. :D Un grazie grazie ancora! :*

Lau_twilight  Grazie mille. Grazie, e te lo dico ogni volta, sempre più, con il cuore, davvero. Grazie, perché non ti stanchi mai di prodigarti in complimenti per me! Non pensi mai che siano abbastanza, e hai ragione! Non ne ho mai, mai, abbastanza! Anch’io adoro Carlisle! Si è notato?! Solo un po’?! No, in effetti, provo una sorta di venerazione per quell’uomo. Ha scoperto tante cose, e anche che Bella potrà partorire! Lo sai che vi siete allarmate tutte quante?! Neanche fossi davvero sadica! Ahahah… Mi conoscete troppo bene ormai. Ma io dico che non c’è bisogno di allarmarsi più del necessario. Concludo con un altro grazie, e non ricordo quale sia, ma ricorda che te ne devo altri mille!!! :*

GiovaneStella Beh, beh, converrai che anche questo capitolo è tranquillo… relativamente, tranquillo, diciamo. In fondo anche qui si danno delle informazioni senza che venga qualche fatto straordinario o straordinariamente spiacevole, in linea con quello che faccio accadere di solito. Se così non fosse, sappi che il prossimo capitolo davvero, sarà tranquillo. ^^ É una promessa. E, fidati, sono io a doverti ringraziare. Non è da tutti scrivere le emozioni che si provano. Ti ringrazio quindi, per aver continuato sempre a farlo.

frafru Ohh! Mia cara, cara, cara. Sei davvero molto attenta, direi! Mi stupisci sempre più. Esattamente, quello che è rimasto da chiarire, è il collegamento fra i licantropi e la bambina. Spero di star conducendo la storia con più linearità! Ricordo che mi dicesti che mi ero un po’ persa! Spero davvero di essermi ripresa, ce l’ho messa tutta per non essere in alcun modo troppo dispersiva. Sono davvero contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Anche se magari c’era un po’ di pausa e non era propriamente attivo. :) Hai compreso perfettamente tutto quello che volevo comunicare con il piccolo incontro fra il bambino e Bella. Grazie, grazie, sei stata una preziosa lettrice e una preziosa commentatrice.

ste87 ciao! Grazie! Non pensavo tanta ammirazione! ^^ Mi fa sempre piacere ricevere pararei da persone nuove, grazie. :)

Ros_Ros Grazie infinite!!! *.* Ohh, carissima! Sono contenta che cominci ad apprezzare il professore! Questo capitolo è stato un po’ dedicato a lui… Mi rendo conto dello spazio che sta acquisendo, ma non posso fare a meno di dargliene! Grazie. :*

manuelitas ciao! Ohh! Presto o tardi non importa, mi fa un immenso piacere il fatto che tu abbia deciso di non essere più “silenziosa”. Grazie! Mi applico davvero tanto in questa storia, non posso che essere felice di fare contenta ogni singolo lettore, di fare contenta te. Grazie, grazie, grazie. Mi hai reso davvero felice.

ledyang Tesoro, suvvia, calma. Lo prometto solennemente, il prossimo capitolo è tranquillo, tranquillo, di quelli che adori! E non è che io pensi che quello che scrivo faccia sempre schifo! É solo che sono diventata molto scrupolosa, tutto qui. Quindi, prima di postare, mi pace ri-correggere come minimo una decina di volte, per non pentirmene poi, una volta che il danno è stato fatto! Niente fiaccolate! Sii buona, e renditi conto che sono sadica! u.u Già scappo! :S

titty88 Oh! Non ti preoccupare, l’ultimo capitolo l’ho postato molto, molto velocemente! ^^ Ti regalerò tanti capitoli di “apnea” fra un po’! Di quelli “sadici of course” :P Quindi, il prossimo, concediamolo tranquillo alle altre lettrici! ;)

frate87 Si! Un capitolo di pace te lo assicuro, mano sul cuore. :) Anche in questo mi sono sforzata tanto per chiarire un po’ di dubbi riguardo ai licantropi e ai problemi vari e generali :) Spero che per quando ogni cosa sarà risolta sarete tutte pronte! :P Un grazie, immenso, e un bacio. :*

Dreamerchan Grazie mille! É proprio la dolcezza la caratteristica che più immagino propria di una donna incinta, anche se magari la cosa è un po’ idealizzata e non sempre come la penso io :P Ma comunque, la mia Bella non può che essere dolce e tenera. Non manca troppo al parto, don’t worry.

 

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Capitolo 65
*** Partenza ***


Edward

copertina

Edward

 

«Bella, amore» la richiamai dolcemente, con riluttanza.

Non ero per niente convinto di quello che avevamo deciso di fare, e tenerla addormentata fra le mie braccia, beatamente rilassata, nel più profondo dei sonni, alimentava la parte di me più incline a desistere.

Ma come avrei potuto? Non mi avrebbe mai più perdonato.

«Bella, avanti, sveglia. È ora di partire».

Mugugnò un gemito in risposta, obbligandosi ad aprire gli occhi. Mi fissò, stanca e disorientata. Evidentemente la sua forza di volontà, meglio definita come testardaggine, vinceva perfino il sonno e la stanchezza. «Che ore sono?» biascicò, e potei sentire tutti gli accenti impastati della sua voce.

«Le quattro e mezza del mattino. Devi cambiarti, gli altri arriveranno a momenti».

Vidi, attraverso le espressioni che passavano sul suo viso, la sua mente farsi più chiara e meno confusa. Fece per ribattere, ma si morse subito la lingua. Non voleva darmi nessun pretesto per farmi cambiare idea. Quasi mi scappò un sorriso alla sua espressione buffa.

«Vado a cambiarmi, allora» mormorò infine, avviandosi, gli occhi ancora non perfettamente aperti, verso il bagno.

Scossi il capo, osservandola. Non sarebbe mai cambiata. Eppure, dovevo dire che questa volta, malgrado la mia apprensione nei suoi confronti, non potevo dirle di no. La sua era stata l’idea migliore, come sempre, e malgrado non mi piacesse, dovevo riconoscerlo.

Pochi giorni prima Alice aveva avuto una visione. Kate, la figlia del professor Philip, sarebbe entrata dall’Oregon nello stato di Washington, comparendo per un po’ nella foresta di Gifford Pinchot. Sapevo quanto per Bella l’argomento fosse delicato. Solo pochi giorni prima era riuscita ad accettare la prossima dipartita del professore, a trovare una, quanto per me fastidiosa, sintonia con lui. Purtroppo, però, sapevamo perfettamente che le speranze di ritrovare Kate prima della morte del professore erano a dir poco minime. Alice non riusciva ad avere visioni che durassero più di pochi secondi. E lei era fuggevole, estremamente fuggevole. Nascondersi era il suo dono migliore.

La bella idea di mia moglie era sorta proprio in quel momento. «Edward, se ci andassi tu sentiresti i suoi pensieri!» aveva esclamato contenta. Mi ero immediatamente stupito delle sue parole. L’idea di lasciarmi, anche solo per pochi giorni, la tormentava quanto quella per me di allontanarmi da lei. In risposta alla mia espressione sbigottita, aveva chiarito ogni cosa, con il rossore sulle guance e le parole balbettate. «Io… Io… verrei con te. Insomma» aveva abbassato lo sguardo sul pancione «penso che avremmo molte più possibilità, se venissi. Kate potrebbe incuriosirsi per la presenza di un’umana fra i vampiri. Oppure, sapere che c’è un altro essere come lei» si sfiorò la pancia «potrebbe convincerla a venire fuori».

Non erano servite a nulla le mie opposizioni. Soprattutto quando la mia famiglia si era schierata dalla sua parte. «Edward» mi aveva chiamato mentalmente Alice, facendomi vedere alcuni scorci delle sue visioni. Era Bella, sorridente, spensierata, felice in mezzo al verde. «Starà bene».

Non ero riuscito a resistere quando mia moglie mi aveva preso le mani fra le sue, e guardandomi negli occhi con i suoi, grandi e lucidi, mi aveva sussurrato. «Abbiamo una vita perfetta, una famiglia perfetta. Non posso non concedere questo ultimo piacere anche a lui. Dobbiamo fare di tutto amore, ti prego».

Sospirai, finendo di sistemare ogni cosa nel grande zaino e nei vari borsoni, premurandomi di prendere ogni cosa che sarebbe potuta servire in una baita in montagna. Perché continuare con quel malumore? Mi forzai ad un sorriso. «Andiamo in gita!» aveva esclamato divertita Bella, burlandosi della mia espressione. Alice aveva ragione, si sarebbe indubbiamente divertita, ed evitarle lo stress almeno in questi ultimi mesi di gestazione era la cosa in cui mi impegnavo maggiormente.

Andai a controllare in camera, e la trovai stesa sul letto, addormentata. Era crollata dal sonno, ancora avvolta nell’asciugamano bianco. Sorrisi, prendendole i vestiti del cassettone e cominciando a vestirla. Si lamentò non più di un paio di volte, mugugnando. Non era abbastanza cosciente per protestare realmente. Feci attenzione a scegliere gli abiti più comodi, confortevoli, e adatti. Le calze elastiche, i fuseaux, la pancerina. Ero attento e controllato nei movimenti, e non volevo che il contatto con le mie mani ghiacciate contro la sua pelle calda e morbida le causasse fastidio. Ma come mi aveva più volte rammentato, per lei era il contrario. Eredità inconscia di uno dei momenti meno piacevoli della sua vita…

«Edward» sbadigliò, rendendosi conto di quello che stavo facendo. «Finisco io, non ti preoccupare» mormorò, infilandosi la maglietta, gli occhi ancora chiusi.

La aiutai comunque.

Aprii debolmente le palpebre, stropicciando gli occhi. «Stanotte è stata bravissima» biascicò orgogliosa, accarezzandosi il pancione. «Non si è agitata quasi per niente» la sua testa andò a posarsi automaticamente sul mio petto, troppo stanca per sorreggersi da sola.

Le baciai il capo, accarezzandola. «In teoria sarebbe ancora notte».

«Mmm» non rispose, stanca.

Non avevo nessuna intenzione di uccidere il suo entusiasmo, ma ero piuttosto preoccupato di quello che sarebbe stato. In fondo, sapevamo con un certo margine di sicurezza che Kate aveva buone intenzioni, non voleva far del male a nessuno. Per lei, eravamo noi i predatori da cui nascondersi. La maggior parte della mia inquietudine risiedeva nel viaggio stesso. Per una donna in stato avanzato di gravidanza non era affatto consigliabile intraprendere un viaggio di tale durata, così faticoso. E ci saremmo ritrovati ben presto isolati, lontani da un ospedale, se malauguratamente fosse accaduto qualcosa. Per questo motivo avevo perentoriamente preteso la presenza di Carlisle.

Sistemai le ultime cose, aiutando Bella a fare lo stesso. Per un po’, la stanchezza scomparve scacciata dall’entusiasmo per il viaggio, e la vidi scorazzare qua e là trasportando oggetti che avrebbe voluto portare. Quando ritenne di aver finito, la stavo osservando a braccia conserte sullo stipite della porta.

«Sicuro che non abbiamo dimenticato nulla?» chiese, nella voce una macchia d’ansia.

Sorrisi. Era così umana a volte. «Non dimenticheremo nostro figlio a casa come in uno stupido film».

I suoi occhi furono per un attimo angosciati, poi portò le mani alla pancia, rilassandosi.

Trattenni a stento una risata. Quello, rivelava quanto la sua mente fosse ancora annebbiata. Era così dolcemente assurda.

«Dovremmo andare» le rammentai, appena in tempo prima che mi ammonisse. «Gli altri ci stanno aspettando qui fuori».

Corse immediatamente a prendere il suo giaccone, e non persi tempo per recuperare tutti i nostri bagagli. Il resto della mia famiglia aspettava all’esterno, ancora indaffarata con le ultime cose.

Il cielo era ancora scuro, ma la luce cominciava a filtrare attraverso i rami della foresta. Era l’aurora.

«Metti tutto nella Volvo, Edward, la Mercedes di Carlisle è piena di bagagli» mi guidò Emmett. Si stava chiedendo come fosse possibile che un’umana necessitasse di meno valigie di una vampira. Non aveva fatto i conti con la personalità di Alice e Rosalie.

Quando l’odore di Bella arrivò chiaro e distinto mi voltai verso l’ingresso di casa. Oscillava sulle gambe, la schiena inarcata, procedendo in quegli ultimi passi. Si fermò, le mani sul pancione, indecisa su come affrontare i pochi gradini che la separavano da me. I miei familiari la salutarono cortesemente. Rispose, e dopo aver trovato il coraggio fece per muovere un passo in direzione delle scale.

Andai ad aiutarla, mettendole discretamente un braccio intorno al busto.

«Grazie» biascicò, lasciandosi trascinare verso l’esterno, verso l’aria frizzante ed estremamente umida della prima mattina. L’euforia era scomparsa quasi del tutto, scalzata da una più pressante stanchezza, tanto che non protestò neppure quando la sollevai di peso adagiandola sul sedile posteriore della Volvo, il capo sulle mie gambe.

 

Bella

 

Mugolai, infastidita, rigirandomi su un lato. Ben presto più di un fastidio si fece sentire. Ci saremmo dovuti fermare spesso, temevo. Essere l’unica umana ed avere certi bisogni, amplificati dalla fase terminale della gravidanza, era a dir poco imbarazzante. Sbadigliai, riaprendo gli occhi.

Edward mi fissava con un piccolo sorriso.

Mi tirai a sedere con difficoltà, aiutata dalle sue braccia. Cercai di sistemarmi i capelli, dovevano essere pessimi. Provai a schiarirmi la gola, imbarazzata, prima di parlare. Edward continuava a guardarmi con serenità. Jasper guidava fluidamente e neppure troppo velocemente per gli standard dei Cullen. L’unica decisamente più attiva dell’abitacolo era Alice. Mi fissava con un gran sorrisone.

Sbirciai fuori dai finestrini, tentando invano di intuire la nostra posizione.

«Siamo in viaggio da appena un’ora e mezza, il viaggio durerà ancora un bel po’» fece Edward intuendo i miei pensieri. Mi strinse a lui, facendo posare la testa sulla sua spalla. «Se vuoi puoi tornare a dormire, sono appena le sette».

Scossi il capo, sentendo il mio volto bollire dal caldo. Ero imbarazzata. Prima che Edward potesse intuire il mio stato mi fiondai sulle sue labbra, lasciando che mi accarezzasse il viso. Era dolce e delicato, ma anche tanto preso dal bacio. Adoravo quando mi faceva sentire così. Quando mi dimostrava quanto mi volesse.

Ci dedicammo un lungo e sincero sorriso. Avevo gli occhi lucidi e il battito accelerato. Quando eravamo a casa, un po’ per gli impegni, un po’ per i miei crucci, per il mio umore variabile, non avevamo l’occasione di dedicarci certi momenti solo per noi. Non quanto volessi.

«Sei felice?» sussurrai, sfiorandogli il naso col mio. Mi sentivo una ragazzina.

«Certo» mi regalò il suo meraviglioso sorriso obliquo. «Deduco dai tuoi occhi che lo sei anche tu» sghignazzò. Si, una ragazzina non sarebbe stata mai euforica quanto me. Dovevo avere gli occhi lucidi dall’eccitazione.

«Jasper, fermati alla prossima stazione di servizio».

Jasper fece un cenno di assenso al fratello, tranquillo.

Mi sentii lievemente a disagio. Dopotutto, ero l’unica umana in un viaggio con sette vampiri, fermarsi ad una stazione di servizio aveva uno scopo utile solo per me. Ma, nonostante l’imbarazzo, non potei controbattere alle parole di Edward. Mi limitai a nascondere il volto rosso fra le pieghe della mia camicia, e sentire Alice ridere senza ritegno.

Appena scesa dall’auto ispirai a pieni polmoni l’aria pulita. La Mercedes scura si fermò appena dopo di noi. Rosalie trascinò Emmett in un piccolo negozietto del complesso, e Esme e Carlisle si offrirono di prendermi la colazione. Sapevo che tutti lo stavano facendo per non farmi sembrare che mi stessero solo aspettando. Come se anche loro avessero qualcosa da fare.

«Vuoi che ti accompagni?», mi chiese apprensivamente Edward, dopo avermi scortata fino ai bagni. «Può venire Alice, se vuoi».

«Devo giusto dare una ritoccata al trucco» fece al volo lei. «Andiamo, Bella, non vorrai perderti» scherzò, scimmiottando il fratello.

Sbocconcellonai un cornetto al cioccolato, lasciando il resto della colazione intatto. Solitamente, ero abituata a mangiare ad un orario più tardo. Inoltre la novità del viaggio e l’alzataccia mi avevano un po’ chiuso lo stomaco.

Non pensavo di essere ancora stanca, ma evidentemente mi sbagliavo, perché non appena rientrai in macchina, sui sedili morbidi e con la testa sulle gambe di Edward, non addormentarsi fu impossibile. Tuttavia, appena mezz’ora dopo, mi svegliai, accaldata e infastidita.

«Chi ha dato il premesso ad Alice di guidare?» mugugnai, gli occhi ancora chiusi.

Sentii un piccolo ringhio, e la piacevole risata di Jasper invase l’abitacolo.

Aprii gli occhi, liberandomi immediatamente della coperta che Edward mi aveva messo addosso. Sospirai, accarezzando il pancione.

Mi tirò sulle sue gambe, facendomi sedere con il viso rivolto verso il suo. «Si è agitata molto».

Come se non la sentissi. Presi dei respiri profondi, tentando di racimolare tutta la calma che mi serviva e acquietare la piccola. Il pancione era a stretto contatto con il corpo fresco di Edward, e lo stava massaggiando sui lati con le mani. Posai la testa sul suo petto, lasciandomi beatamente cullare.

I miei occhi incrociarono il verde che sfrecciava fulmineo all’esterno. «Alice, rallenta, ti prego».

Una mano di Edward si spostò ad accarezzarmi la schiena. «Fa’ come ti dice».

Sentii delle lievi proteste, ma con mio gran sollievo la macchina rallentò di un po’. Alice aveva una guida a dir poco spericolata.

Non smise di borbottare su quanto dovesse andare lenta, così, facendo la seconda sosta decidemmo di cambiare auto e di andare con Carlisle e Esme sulla Mercedes. Lui aveva una guida molto più fluida e tranquilla. Ringraziai il cielo di trovarmi, anche solo per dieci minuti, con i piedi su un suolo fisso.

«Ti stai divertendo cara?» chiese dolcemente Esme, «la bambina è tranquilla?».

Sorrisi senza pensarci. Era sempre così affettuosa. «Si. Si è solo agitata un po’ per il caldo, prima. Ora è tutto passato». Sospirai, sfregando la fronte sul braccio di Edward in cerca di sollievo.

«Tutto bene?».

Annuii, sorridendo. «Mi sento la testa un po’ leggera. Dormire in auto mi fa sempre questo effetto. Mi sento scombussolata».

Gli occhi di Carlisle mi osservarono dallo specchietto retrovisore. «Possiamo fermarci ancora se vuoi, non c’è problema, non abbiamo fretta».

«No, no, va bene così. Prima arriviamo meglio è». I motivi della mia fretta erano due. Agognavo ad un letto o un divano comodo, e… la vera causa che mi aveva spinto ad intraprendere questo viaggio era pressante nella mia mente. Ritrovare Kate. Ritrovarla prima che fosse troppo tardi.

«Alice ha avuto delle visioni di alcuni luoghi che conosco» fece Carlisle, attirando nuovamente la mia attenzione. «La cosa si svolgerà così: dobbiamo farci vedere il più possibile mentre ci comportiamo come umani, e soprattutto in tua presenza. Appena arriveremo al margine attraverseremo la foresta fino alla baita».

Edward guardava il padre. Vidi le sue labbra muoversi velocemente e sussurrare qualcosa di ineffabile.

Il padre rispose risoluto. «Quaranta chilometri. Potremmo farne tre quarti con l’auto. Per il resto dovremmo proseguire a piedi».

L’espressione di Edward si fece sinceramente perplessa e preoccupata. «Dieci chilometri a piedi?». Sentii la sua mano stringersi intorno al mio fianco.

Radici, tronchi, terreno sconnesso, equilibrio precario peggiorato dal pancione. Prevedevo l’inferno.

«Non li deve percorrere tutti a piedi» ci rassicurò Carlisle «Bella, basta che tu faccia i primi tre, se te la senti. Jasper ritiene che sarebbe un buon modo per farla incuriosire e venire allo scoperto, e soprattutto giustificare normalmente la nostra presenza. Pensa che ci possano essere umani nei paraggi. Ma se non vuoi, sicuramente non ne risentirà più di tanto, troveremo il modo di…».

«No, no, va bene». Mi sollevai leggermente dalla presa di Edward in cui ero stretta. «Non c’è problema. L’importate è ritrovare Kate, davvero. E poi, non vedo l’ora di sgranchirmi le gambe e rimettere i piedi a terra» sospirai.

Dopo due ore di macchina, all’ora di pranzo, ci fermammo per una lunga pausa. Avevo la nausea a causa del tempo trascorso nell’auto.

«Sicura di non voler mangiare?».

Gemetti, gli occhi chiusi, la testa abbandonata sulle sue gambe. Non volevo che si pentisse di aver acconsentito al mio piano. Eppure, non potevo mentire davanti all’evidenza dei fatti. «Ora ho la nausea…» ammisi quindi.

Sospirò. «Aspettiamo», disse, e non aggiunse nulla di quello che mi sarei aspettato.

«Non sembri arrabbiato» constatai in un sussurro, saggiando le sue reazioni.

«Dovrei?» chiese. Era forse ironia quella che percepivo?

Mi arrischiai ad aprire le palpebre. Si, il suo viso, al contrario rispetto al mio, stava sorridendo. Ero stasa su una panca, all’aperto. Sospirai. «Mi dispiace» biascicai «mi sono stancata tanto e sono passate appena poche ore. Me l’avevi detto che sarebbe stato faticoso…».

Inaspettatamente sentii le sue labbra sulla mia fronte. «Non importa, Bella».

Riaprii gli occhi, osservando le ciocche ramate ondeggiare vicine al mio viso. «Non importa?».

Scosse lentamente il capo, e vederlo muoversi mi causò una nuova ondata di vertigini. Meglio tenere gli occhi chiusi. «Ogni giorno che passa mi ritengo l’uomo più fortunato di questa terra, per averti sposato. Il mio pensiero di diventare padre era per me come il desiderio per un uomo di diventare immortale, semplicemente impossibile e irraggiungibile» fece, amaramente sarcastico. «Eppure, tu hai permesso che si realizzasse. E mi hai reso l’uomo più felice al mondo. Perdonami, se il mio animo non è così puro, generoso, così sentibile come il tuo, ma l’ho capito».

Ero disorientata e commossa. Il lieve appannamento mi impediva di osservare perfettamente i suoi occhi, luminosi e chiari.

«Ho capito. Per me perdere te o nostra figlia sarebbe una sofferenza atroce. E non giustifico Philip con questo, perché lui e sua moglie hanno fatto delle cose orribili. Perché, nonostante tutto, non vuole ancora renderci partecipi di tutto quello che sa» strinse la mascella «ma credo che mai nessun uomo dovrebbe essere privato dell’amore dei suoi affetti più cari. E, Kate, è innocente. É giusto che ritrovi suo padre».

«Oh, Edward» sussurrai. Ero commossa. Sinceramente commossa della fiducia che mi accorgevo mio marito riponeva in me. Per l’ammirazione con cui mi osservava, per l’amore cieco con cui acconsentiva ad ogni mia richiesta. «Ti amo tanto».

«Non sai quanto ti adori, con tutto me stesso». Sorrise.

Mi sollevai dalle sue gambe, e mi aiutò con gentilezza, sostenendomi. La testa girava ancora un po’.

«Ti vanno dei cracker?».

Lo fissai sorpresa. «Hai portato i cracker?».

Ridacchiò leggermente, meravigliosamente su quel viso d’angelo. «Credi forse che non avessi previsto tutto questo?».

Lo abbracciai stretto, baciandogli le labbra. Avrebbe fatto ogni cosa, per me. «Grazie».

Il viaggio proseguì per altre due ore e mezza. Finché fossi rimasta in auto, la nausea non sarebbe ritornata. Avevo paura del dopo. Cercai di distrarmi, ascoltando il cd che Esme aveva inserito. Non era molto il nostro genere, quello che io e Edward ascoltavamo solitamente, ma era divertente. Divertente vederla canticchiare, un sorriso ricambiato rivolto al marito.

Addentrandoci nella foresta ebbi l’occasione di osservare attentamente l’ambiente circostante. Non che sperassi di trovarci qualcosa che non potesse scorgere la vista di un vampiro, certo, ma in ogni caso non intendevo desistere. Chiesi più volte a Edward se percepisse qualcosa.

«No, ancora nulla, mi dispiace».

Quando ci fermammo, nel cuore del verde, godetti placidamente del venticello fresco che mi sfiorava il viso mentre Edward scaricava i bagagli dall’auto.

Ero attenta ad ogni movimento, attenta ad ogni radice, e al contempo tentavo di osservare ogni cosa attorno a me, nella speranza di distinguere due occhi turchesi simili a quelli del professore. Edward mi aiutava in ogni passo, sorreggendomi tempestivamente per la schiena.

Passai velocemente da avere i muscoli intorpiditi per la lunga permanenza in auto, ad averli infiammati per il cammino.

«Vuoi che ci fermiamo un po’?». Mi strinse per il busto, sostenendomi.

Scossi il capo in segno di diniego. Gli altri erano già molto più avanti rispetto a noi, non mi andava di farli aspettare ancora. Sentii una fitta di pochi secondi alla testa. Ci mancava solo quello.

«Okay, fermiamoci un po’» risposi riluttante all’occhiata perplessa di mio marito.

Sospirai, lasciandomi andare su un tronco di un albero caduto. Edward mi accarezzò la schiena, massaggiandomi lì dove ero indolenzita.

Il resto dei Cullen era seduto davanti a me, apparentemente preso da chissà quali importanti chiacchiere, godendo del momento di ristoro.

Sospirai. «Mi dispiace…». Non riuscii a finire la frase che fui investita di parole che sminuivano l’attesa, volte a confortarmi e non farmi sentire a disagio.

Rosalie si materializzò al mio fianco. «Non ti preoccupare cara, è normale che tu abbia bisogno di un po’ di riposo».

«Non essere in pena, noi ti capiamo» aggiunse Alice, procedendo nella mia direzione alla stessa velocità.

«Ragazze» sussurrai sconcertata, guardandomi velocemente intorno.

Jasper si avvicinò a piccoli passi, con calma. «Se vi fate vedere il brillante piano di Bella va a rotoli. Così la fate spaventare» mormorò a bassa voce, circospetto.

Rosalie sbuffò. «Mi pare improbabile che si faccia vedere. Per me è tempo sprecato».

«Rosalie» la riprese Edward, dietro di me. Posò le mani sulle mie spalle, accarezzandomi.

Gli occhi sinceri della vampira si posarono nei miei. «Ho solo detto la verità, non era mia intenzione ferirti».

Scossi il capo, serena. «No, davvero» sorrisi, abbassando gli occhi sul fogliame e sul muschio verde. «So che non ci sono molte possibilità. Ma voglio provare lo stesso… Tentar non nuoce» abbozzai, risollevando lo sguardo.

Mi sorrisero. «No, certo» rispose Esme.

«Quanto tempo dobbiamo stare qui?» chiese Emmett, osservandosi intorno. «Non potremmo… non so… mettere una specie di trappola? Un’esca?».

«Non stiamo parlando di un’animale, Emmett» lo rimbeccò Alice.

Sbuffò, seccato. «Mi sembra la caccia al topo…».

Carlisle diradò la questione. «Organizzeremo dei piccoli turni, uscendo a gruppi. L’importante» abbassò il tono già modesto della voce «l’importante, è che riusciamo per quanto possibile a farla entrare in contatto con Bella».

Jasper annuì. «Pensiamo che possa avvertire la presenza della bambina. Ma non si deve spaventare per noi, questo è importante».

«Non ci tratterremo più di quindici giorni, comunque», fece, alzandosi, Carlisle. Tese la mano alla moglie in un puro gesto cavalleresco, invitandola a fare lo stesso.

«Quindici giorni?» chiese curioso Emmett.

Carlisle annuì, nello stesso istante in cui le braccia di Edward smisero di massaggiarmi, avvolgendosi a me. Mi osservò. «Non possiamo rischiare che per Bella diventi troppo tardi».

Sospirai, posando una mano in grembo.

Ci rimettemmo a camminare dopo un po’. Fermarsi era stato necessario, eppure faceva sembrare quel che rimaneva del percorso un ostacolo insormontabile.

Sbattei le palpebre.

Sentivo una strana eppur conosciuta sensazione crescere dentro di me. «Edward, per favore» biascicai. Avevo serrato le mani in due pugni.

Mi imposi di parlare lentamente. «Prendi le mani, per favore».

Non aspettò un secondo di più e fece come gli dicevo, fissandomi trepidante, ansioso. Presi profondi respiri, scacciando quella sensazione e calmando la bambina. Jasper fu il primo ad avvicinarsi, in un solo secondo. Posò il palmo aperto sulla pancia, e dopo pochi istanti sentii la calma invadere anche me.

«Ho sentito il suo potere» sussurrai, lasciandomi cadere col viso sul petto di Edward. Le mie mani erano ancora strette nelle sue. «L’ho sentito arrivare».

Non disse nulla. Mi fissò, in apprensione.

«Non mi sono agitata» mi giustificai frettolosamente, provando ad intuire i suoi pensieri.

«No, ha ragione» confermò Jasper «è stata la bambina».

Edward mi lasciò andare le mani e mi accarezzò i capelli. «Va tutto bene, adesso?». Il resto dei Cullen ci aveva raggiunti e ci fissavano, silenziosi.

Annuii, ancora un po’ scossa. «Ho avuto paura di farti male. Era forte».

Continuò ad accarezzarmi, rassicurandomi. «Va tutto bene, non mi avresti fatto male».

«Pensi che la bambina sia sviluppando coscienza di sé?» chiese Carlisle, sia a Jasper che a Edward.

«Può darsi» fece Jasper. Era perplesso. «Tu non hai sentito nulla di strano?».

Edward strinse le labbra, meditabondo. Lo stava fissando negli occhi. Scosse lentamente la testa. «No, nulla».

Insistette per farmi portare da lui per il resto del percorso. Aveva paura che fossi tanto stanca da non poter far fronte neppure alla bambina. Non potei dirgli di no. Avevo i muscoli intorpiditi e la schiena a pezzi. Avevo già fatto abbastanza quel giorno.

Non ricordo quasi nulla di quello che avvenne dopo. Quasi certamente, quella sera crollai nel sonno fra le braccia di Edward. Nella baita faceva molto freddo. Nulla a che vedere con la casa di Forks con i riscaldamenti al massimo.

A risvegliarmi, quindi, fu proprio il crepitio del fuoco. C’era un camino nella camera dal letto. L’ambiente era caldo, i colori scuri, le pareti con le travi a vivo. In un angolo c’era una porta, che istintivamente identificai come quella del bagno.

Provai consciamente un senso di disagio. Quella stanza somigliava troppo ad un’altra baita in montagna, intrisa di ricordi più che spiacevoli.

«Ti sei svegliata» la voce soffice e cristallina mi arrivò all’orecchio destro.

Mi voltai. Vederlo così, appena sveglia, era meraviglioso. Sorrisi, rannicchiandomi su me stessa e stringendomi a lui.

«Fa freddo, ti raffredderai».

Scossi il capo sul suo petto. «No, sto bene». Avevo un pigiama di flanella, e oltre al piumone, ero avvolta in una spessa coperta. Ero fin troppo calda.

Mi accorsi di non avere ancora una perfetta percezione dello spazio e del tempo. Mi sollevai seduta. «Credo… che ore sono?».

Edward ripeté il mio movimento. «É mattina. Dovrebbero essere circa le otto».

Sbadigliai, lasciandomi andare su di lui. «Dove sono gli altri?».

«Tutti in giro. Hanno organizzato dei gruppetti».

Annuii, voltandomi per baciargli il petto. Aveva una maglietta morbida, piuttosto leggera. Stregata dal suo aroma allontanai leggermente il colletto tondo per poter baciare la sua pelle nuda. «Mi piace l’odore della tua pelle» confessai imbarazzata.

Mi sollevò per i fianchi, facendomi sedere su di lui. Mi lasciò baci lievi sulla fronte, la tempia, il mento, le labbra. «Sei stanca?» soffiò lieve sul mio viso, accarezzandomi i capelli.

Scossi il capo, la mente confusa dalla vicinanza. «La testa non gira più. Tutto bene… credo» biascicai, mentre le labbra vagavano sul mio collo.

Le mani scesero dai fianchi alla cosce, stringendomi dolcemente. Le mie braccia erano strette in una presa ferrea attorno al suo collo.

Si assicurò di stringere bene la coperta attorno a me, mentre mi spogliava. «Sotto le coperte?».

Mugolai, baciandogli il collo. Ansimavo. «Non credo che potrei sentire freddo».

Quando facevamo l’amore, soprattutto negli ultimi tempi, era delicatissimo. A causa dell’ingombro del pancione i miei movimenti erano limitati. Ma lui, lui era davvero tanto tenero. Mi accarezzava continuamente, venerando ogni rotondità del mio corpo. Mi faceva sentire bella, amata. Era dolce, molto dolce.

Mi strinse di più a sé, baciandomi la spalla. La mia schiena era contro il suo petto. «Stai bene?».

Sorrisi, beata, profondamente appagata. «Meravigliosamente».

Le sua mani si strinsero sul pancione, accarezzandolo.

Fremetti al suo tocco gelido. «Non vedo l’ora di vedervi» mormorai, chiudendo gli occhi e immaginando.

«Vederci?».

Annuii, gli occhi ancora chiusi, serena. «Vedere te, e la nostra bambina fra le tue braccia. Sarà bellissima. Voi sarete bellissimi».

Posò il volto nell’incavo del mio collo, e le mie mani andarono automaticamente ad accarezzargli i capelli. «Non vedo l’ora di tenerla in braccio». Sembrava rilassato, e… sollevato, anche.

Mi voltai, facendo coincidere le nostre labbra e baciandolo, ancora.

«Dobbiamo andare. Fa’ colazione, e poi potremmo cominciare a fare qualche piccola ricerca. Gli altri stanno arrivando».

Sul mio viso comparve una smorfia. Portai una mano alla fronte, evidentemente il mal di testa non era passato. Era di nuovo una fitta.

A Edward non sfuggì. «Tutto bene?».

Sorrisi, annuii. Era già completamente passato. «Solo un lieve mal di testa. Andiamo».

 

 

 

Ciao a tutti. :)

So che questo capitolo può esservi sembrato strano, visto che gli ultimi in confronto sono stati decisamente più movimentati.

Beh, ho pensato che vi potesse servire immagazzinare questa calma per il futuro. Quindi, anche se potrebbe sembrare il contrario, questo capitolo ha per me un ruolo importantissimo.

 

Ci sono disseminati degli indizi, qui e là, e sono sicura che li avrete compresi. Io ho già iniziato a preparare i vestiti dal mio armadio e i biglietti per la partenza.

 

Bene, dicevamo. Capitolo tranquillo, amore reciproco. Non c’è molto da dire. ^^

Forse però era un po’ che non mi concentravo sui piccioncini :D

 

Boh, basta. Riaffermo che Twitter mi accoglie, con notizie su aggiornamenti e quant’altro, con il nick @keska92, che tra l’altro rimanda direttamente al blog qui sotto citato.

 

Bene. Mi eclisso.

Un bacio a tutte, tutti!

 

PS. Ringrazio ancora, un’ultima volta, chi avesse espresso la propria preferenza per Philip! Grazie. :*

 

PPS. Nessuno mi uccida per il ritardo (a buon intenditor…)

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

ale03 Grazie tesoro! Grazie di continuare a commentare e leggere questa storia nonostante tutto il tempo che è passato! So che qualcuno dev’essersi stancato, non lo biasimo! :P ma ormai siamo alle battute finali, è giusto così. Sono contenta che tu abbia potuto apprezzare la sensibilità di Bella, l’amore e la dedizione reciproca che c’è fra la fantastica coppia. Grazie, tesoro, grazie di tutto. :)

manuelitas Ehh, beh, penso che forse piangerò anch’io! Non farmi pensare alla fine, mi viene il magone! Spero che il capitolo abbia soddisfatto le aspettative. Avevo detto amore e dolcezza, ci volevo mettere qualcosa che non c’entrava poi tanto, così ho cambiato la mia idea originale, spero, conservando però l’idea del sentimento. Lo so, la vita del professore non è stata delle più rosee. Volevo solo inserire un po’ di realismo in questa storia, visto che ne scarseggia… non che mi dispiaccia tanto. Diciamo, che questa è la storia che scrivo per immaginare e sognare. Non chiedo di meglio. Le sorprese ci saranno, anche piuttosto concentrate! Direi che saranno sei capitoli di fuoco! :P Spero che la risoluzione di questa storia sia all’altezza di ogni fantastica lettrice che fino ad ora mi ha seguito. Grazie.

AriRock Ohhh! Non mi aspettavo un’altra dose di complimenti del genere! Figurati, per me è stato un vero piacere, come lo è sempre per recensioni così belle, rispondere alla tua. Spero davvero di riuscire, come dici, a continuare questa storia al meglio! Già, è lunghissima! E se ritornassi indietro di sicuro non riuscirei a farla così lunga! Ma, d’altronde, è anche questo che la caratterizza. La lunghezza infinita. Questa storia mi è servita per crescere. Sono sicura, ora, di poter scrivere altro in maniera molto più consapevole. Grazie, grazie, grazie ancora! Sei stata un vero tesoro! (Ho letto le tue recensione negli altri capitoli, scusa se non l’ho fatto prima, ma ti voglio ringraziare anche per quelle! Grazie mille!)

Noemix Beh, sono contenta che ci siano diversi livelli di apprezzamento per il professore! É giusto così, è giusto che ad alcuni piaccia, ad altri meno, mi fa piacere la cosa ancor di più! :D Gli interrogativi sono davvero tanti, direi! Vi ho fatte stancare, eh?! :P beh, giuro che la verità di tutto è sul serio vicinissima, non dovrai attendere molto altro! Promesso.

DarkViolet92 Ciao! :D Dunque. Non è che Edward voglia far fare un cesareo a Bella. L’epidurale è un tipo di anestesia utilizzata in un parto Cesareo, è vero, ma si usa anche durante la fase terminale del travaglio per un parto naturale, come anestetico. Passa l’ago, l’anestetico va in circolo, il dolore va via :P dura solo pochi secondi, e fanno l’anestesia per l’anestesia, figurati! ^^ É normale che Edward voglia preservare del dolore a Bella. :D Grazie tesoro per la recensione. :) A presto. 

congy Ciao Federica! Beh, si, molte mamme si pongono il problema dell’epidurale, ma di solito le altre, seppur forse con paura, vogliono farla! Ma Bella (e noi ne sappia qualcosa) è stoica – nel senso lato del termine – e inoltre, piuttosto che entrare in contatto con un ago qualsiasi, patirebbe qualunque dolore, direi. Cosa c’entrano i licantropi con la bambina?! É qui è che sta il grandissimo mistero! E chi lo sa?! :P Forse io. Ma credo che bisogna attendere ancora. :P Non molto ahahahah. Penso che alla fine sarete sconvolte. Uahuahuah! Grazie mia carissima, a presto! ;)

patu4ever Tesoro. Hai una comprensione della natura umana molto vasta e matura per la tua età. Si, in realtà niente è perfetto, per questo adoriamo leggere ciò che, come noi, non lo è. Davvero grazie, ancora, perché i tuoi complimenti per il mio personaggio sono stati meravigliosi e graditissimi. Non credo di meritare tanto. Ma mi fa infinitamente felice riceverli perché ci tengo infinitamente al professore. É un personaggio mio, completamente mio, quindi la responsabilità completa delle sue azioni ricade su di me. Quindi, mio tesoro, grazie. Grazie gioia. :*

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate Ahahah, ma no, no, non vuol dire affatto che lo scorso fosse l’ultimo capitolo con il professore. Volevi togliertelo dalle scatole?! Ahahah. No, no, non ho forse detto, in un tempo lontano, che ogni cosa era collegata? É collegata? Mmm, no. :P Quindi, aspettati di tutto, dai prossimi capitoli e dal futuro. Anche se saranno gli ultimi ti posso garantire, comunque, che saranno davvero molto intensi. Spero saranno di tuo gradimento carissima! Un bacione-one-one. :*

Wind Ahahahah, beh, capisco. :P Meglio così, meglio che ci sia qualcuno che ancora odia il professore. ù.ù il mondo è bello perché è vario, d’altronde, no?! Non ti preoccupare, che prima della fine ti faccio prendere un bel colpo (ma anche due o tre). Ahahah, ebbene si, ho concentrato gli infarti (nonché la mia sadicità) tutti alla fine! u.u Aspettati di TUTTO. u.u

Sognatrice85 É vero, Edward è perfetto come sempre. D’altronde, è un vampiro. In questo capitolo, se possibile, lo trovo ancora più dolce, visto che lo ritroviamo ad agire, e parlare, direttamente. Ho voluto rendere il professore molto umano. So che non l’ho fatto per gli altri personaggi, che d’altronde erano vampiri, ma avendone completa fantasia e padronanza, ho potuto inventare di tutto, su di lui. :) Grazie, quindi. Un bacio. :*

KStewLover Ciao Cristina! :D Non ti preoccupare, ti perdono volentierissimo, soprattutto dopo questa bellissima recensione! Lo so, Alice si trasformerà in una spiritata-assatanata della bambina, con un sorriso-paralisi facciale costante, praticamente. Sono contenta che tu abbia carpito gli elementi di Bella e Edward che volevo mettere in risalto nello scorso capitolo. La sensibilità estrema di lei, l’amore e la devozione verso la moglie, di lui. Beh, poi, in questo ho lasciato un po’ di spazio solo per il loro amore. :) Grazie mille per tutto!!! :*

asialea Ciao! Grazie mille! Non puoi immaginare quanto tu mi faccia felice! Lo so, questa storia rimarrà nel mio cuore quanto nel vostro. Ma deve finire anche questa, no? Spero che tutto quello che mi sono inventata per questi ultimi capitoli non ti deluda! Davvero, a volte la mia fantasia è esagerata. Spero vada tutto bene, sento già l’ansia. :S

Tatydanza Ahahah, si, è vero! Per questo non dovresti mai smettere di fare ipotesi. E poi, ti ricordo, non ho mai detto, né si, né no. :) Solo che devo essere reticente, altrimenti ti indirizzo troppo sul futuro, svelandoti la trama. Grazie di recensire, sempre e comunque. So che può essere un periodo con tanti impegni, sono contenta che tu lo faccia comunque. Grazie.

Ros_Ros Oh, cielo! *.* Grazie! Non pensavo di poter far piangere qualcuno! Anche se, confesso, io  stessa mi sono commossa scrivendo. Ma, beh, questo è un altro paio di maniche, visto che scrivendo le emozioni derivano direttamente dal cuore. Sono davvero felicissima di aver rivalutato ai tuoi occhi la figura del prof! Ci tenevo tanto.

Lau_twilight  Oh! Grazie! Si, devo confessare che io stessa prova immensa stima per il mio personaggio del professore. Insomma, questa storia ha fatto un po’ il suo corso, e guardandola per intero direi che l’apprezzo tantissimo, ma diciamo pure che non sia proprio oggettivamente… “perfetta”. Ahahah, anzi. Però mi è servita tanto come “palestra”, per crescere e migliorare. Ecco, il professore si inserisce in tutto questo. É un mio nuovo, uno dei tanti, esperimenti. Direi che le atroci attese e i confusi misteri, hanno fatto il loro corso. Ebbene si, la verità è vicina. ;) Grazie, ancora, carissima. Per tutto. :*

Luna Renesmee Lilian Cullen Certo, certo, fammi sapere se creerai un indirizzo msn. :) Mi farebbe molto piacere parlare con te, di sicuro. In effetti questa storia del computer è un problema. I miei sanno che scrivo, e lo vanno pure a dire in giro, pensa te! É proprio una cosa assurda. Mi fanno sentire in imbarazzo. Sono davvero contenta che il professore ti piaccia! Ho voluto dedicargli un capitolo, lo so, sta prendendo una spazio determinante nella storia, ma sentivo di avere il bisogno di dargli quel ruolo. Mi piace esaltare le sensazioni, gli istinti più immediati, e di sicuro mi sono lasciata andare nello scorso capitolo, in questo senso. Non lo facevo da un po’. :) Grazie di ogni parola! Con affetto e sincera gratitudine. :*

elysa 172 Carissima! ^^ Si! Il professore, anche lui, è umano! Uahahahah! :P Ovviamente, Alice non sarebbe tale se non fosse un po’ festaiola. Serve un po’ della sua energia. E in questo capitolo ho voluto far tornare in campo i Cullen, visto che li avevo trascurati! :D Grazie, grazie, grazie, dolcissima, come sempre.

ste87 Ahahah, e beh, ma la fine ci sarà lo stesso, volenti o nolenti! C’è sempre una fine. u.u E io mi ci sto inesorabilmente avvicinando, con questa storia. :P Grazie per la recensione ;)

chi61 Tesoro! Aspetto le tue recensioni come un’osai nel deserto. Le adoro. Innanzitutto, grazie, perché mi fai sentire lusingata, e fai tantissimo bene al mio ego. Grazie. Sono contenta di riuscire ancora ad emozionare ed emozionarti. Sono stupita dalla tua sensibilità capace di cogliere gli elementi essenziali e più importanti del capitolo. Credo, si, che presto scopriremo anche noi le conseguenze del dialogo fra il professore e Bella. Tutte le frasi a metà, i significati celati, verranno svelati. Spero che alla fine questo capitolo sia venuto abbastanza tranquillo, come avevo in mente. Ovviamente, se ho avvisato che ci sarebbe stato un capitolo tranquillo, è perché è un episodio isolato a cui seguirà nuovamente la normalità. Il problema è: qual è la normalità per me? La cosa dovrebbe fare paura…

Nessie93 Ah, beh, si, la mia fantasia più che illimitata direi che è spropositata! Proprio esagerata, ecco! Diciamo che ho messo in mezzo fin troppe cose, in questa storia! :P Ma, in ogni caso, per la cosa più importante, lo so che è assurdo da dire, non ci ho messo della mia fantasia. Ho solo preso in prestito qualcosa dalla Meyer! :P Pensaci che ci arrivi :D

ledyang Ahahahah, si, mooolto presto! Beh, spero che ti sia piaciuto! In fondo, non è super-dolce?! :P Mi spiace, ma più tranquillo di così, non so proprio farmelo venire, sai?! Orami, credo di averci preso la mano a farli un po’ più movimentati! :P 

Struppi Si! *.* In realtà, il professore racchiude un tenerissimo cuore al caramello! Chi l’avrebbe mai detto, eh?! :D Beh, Edward è tenerissimo! Mi perdo a contemplarlo anch’io! Questo capitolo, infatti, l’ho voluto dedicare proprio alla sua dolcezza! Spero ti sia piaciuto! ^^ Un bacio, a presto. :)

Dreamerchan Ohh! Si, direi che la penso esattamente come te. Primo, non esiste il buono e il cattivo, ma tutto è molto, troppo, relativo. Secondo, non spetta a nessun uomo giudicare l’altro. Non bisogna, mai, giudicare nessuno. La vita è un bene così prezioso che solo chi la conduce può decidere come viverla. La storia mancherà anche a me, credo. :) me ne farò una ragione ;)

Lizzie95 eheheh, che ne dici, la quiete prima della tempesta? :P Chissà… :P Sono contenta di essere riuscita a farti piacere il professore alla fine. Direi che non è stata un’impresa semplice, farvelo prima amare e poi rivalutare… ahahahah… Ma la sono scelta solo questa strada, direi. Beh, ogni cosa ha una fine. E anche se ho ancora miliardi, te lo garantisco, di idee per questa storia, sento ora il bisogno di “staccare”. Di scegliere le idee migliori, le più attinenti, di concludere tutto al meglio delle mia potenzialità, e di “crescere”. Per crescere e maturare come scrittrice ho bisogno di scrivere qualcos’altro, qualcosa di più mio. Non credo che per questo dovrò per forza trattare di temi più impegnati, o con termini più aulici. Vuol dire conservare la dolcezza, il romanticismo, l’amore, la passione, che credo mi accompagneranno per sempre, ma formularli personalmente e consapevolmente. :) Scusa se ti ho annoiata! A presto, lo prometto. Francesca. :*

titty88 Ohhh! *.* E io non posso fare a meno di ringraziarti ogni volta per tutti questi complimenti! Anche a me non piacciono le cose che finiscono, ma temo che ogni cosa debba farlo, purtroppo! ^^ Mi inventerò qualcos’altro, non temere :P

silvia16595 Ciao mia Silvietta! :* Hai dato un’occhiata a “Once upon a time in Forks”?! Io penso che sia davvero stupenda! *.* La adoro! Sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto! Si, fra un po’ arriverà il pargoletto, ma non correre sai?! I due piccioncini devono ancora affrontare di tutto. E con “di tutto”, intendo proprio TUTTO! Ahahahah, sono certa che dovrò cambiare residenza! Ahahahah… Un bacio tesoro. :) A presto, eh?! :***

LudoCullen96 Bene, grazie! :D Sono contenta che il professore ti sia finalmente simpatico! :P certo, la strada per farvelo piacere è stata davvero lunga, eh?! :P Così stai iniziando a leggere “Once upon a time in Forks”?! Io penso sinceramente che sia stupenda. Ogni volta che leggo un capitolo mi emoziono, piango, mi sento completamente partecipe dei sentimenti di Bella. É una storia meravigliosa, davvero. :)

Ely_11 Ohh! Grazie! *.* Sono contenta di essere riuscita a commuoverti! Ho pensato che un dialogo fra il professore e Bella, una pacificazione, la comprensione dei limiti umani e del bene e del male presenti in ogni uomo, ho pensato che dovessero venire fuori. Ci è voluto un capitolo, ma ne è valsa la pena :)

KatyCullen Certo! E ci saranno un paio di capitoli dopo la sua nascita, in cui mi dedicherò completamente a loro. E poi, concluderò, come si deve, la storia. Sono contenta che il professore sia entrato anche solo per un po’ nella tue grazie. :) Grazie della recensione! Grazie! *.*

ANNALISACULLEN Ciao carissima! Grazie, ti sono infinitamente grata, per tutte le tue parole. Lo so che quasi settanta capitoli sono davvero tanti per una storia del genere, ma sapere che c’è ancora qualcuno che continua ad emozionarsi per questa storia mi riempie il cuore di gioia. Dentro di me, ho dedicato un po’ di spazio anche al professore. Mi pareva giusto. :) Ma ora, meglio ritornare ai Cullen. Entrambe le storie si chiuderanno presto.

frafru Grazie! Due volte grazie, allora. Grazie per aver apprezzato così tanto il capitolo, in particolare per aver rivalutato la figura del professore. Mi è molto caro. Mi rendo conto che ha molti il personaggio potrebbe risultare marginale e irrilevante, ma io ne percepisco tutta l’emozione, perché lui è proprio “mio”, quindi, qualunque cosa sia e faccia, non posso fare a meno di comprenderlo nella sua psiche e nella sua interezza. Grazie anche, per avermi fatto evidente la questione delle “dispersioni”! Senza il tuo consiglio non sarei mai riuscita a ridimensionare il fenomeno. Mi sto  impegnando per non commettere nient’altro del genere. :) Spero di riuscirci! A presto, mia carissima. Un bacio. :*

 

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Capitolo 66
*** Incontro ***


B copertina


Barcollai sulle scale della piccola entrata, appoggiandomi alla ringhiera per riuscire a salire. Il peso del pancione mi sbilanciava in avanti, precludendomi la vista dei piedi. Sollevai lo sguardo, leggermente ansante, fissando la pittoresca baita racchiusa nel muschio e nel verde.

Il un istante sentii una folata di vento e l’appoggio delle mie braccia venne triplicato da due mani forti. Edward osservò contrariato il mio viso accaldato, soffiandomi piacevolmente sul collo col suo fiato freddo. Ringraziando il cielo.

Deglutii, intenta a dissimulare la mia stanchezza, e mi arrampicai su quegli ultimi scalini.

Tornavamo dall’ultima delle tante escursioni organizzate appositamente per far cadere Kate nella nostra trappola. Per farla venire allo scoperto. Ormai era più di una settimana che eravamo lì, eppure non avevamo ottenuto alcun risultato concreto. Edward credeva di aver percepito i suoi pensieri un paio di volte, tuttavia in luoghi troppo distanti e per tempi troppo brevi. Il tempo passava, e ormai sapevo di non poter tirare troppo la corda, né con Edward, né con Carlisle.

Portare in giro per i boschi un pancione del settimo mese di gravidanza non era una brillante idea. Anche perché, con la prossima settimana, si sarebbe concluso anche questo.

La mia prima meta era il divano. «Vorrei farmi una doccia» mormorai stiracchiandomi sui cuscini, «stasera potremmo uscire un altro po’, siamo stati via appena venti minuti». Sospirai, cercando di farmi vento con una mano.

Esme mi salutò passando da una stanza all’altra. Gli altri, esclusi Emmett e Jasper,  dovevano essere lì in giro per casa. Mi sfilai le scarpe e incrociai le gambe sul poggiapiedi. Che sollievo. 

«Accendo lo scaldabagno e ti vado a prendere qualcosa da mangiare» mormorò Edward, evitando di rispondere alla mia seconda richiesta.

Decisi di desistere per ora. L’avrei convinto più tardi. «Grazie». Sorrisi, accarezzandomi il pancione, dall’alto verso il basso. La bambina era stata un po’ strana in quella settimana. Niente che non potesse aver rimedio con le coccole del papà, o - non l’avrei mai detto a Edward - con una serata al freddo. La sentivo semplicemente irrequieta, tesa. Eppure io ero così rilassata.

Mi portai una mano alla testa, non potendo nascondere una smorfia. La fitta durò abbastanza perché qualcuno potesse accorgersene.

«Tutto bene?» chiese Carlisle, avvicinandosi con cautela.

Annuii, già libera dal dolore. «É solo un po’ di mal di testa. Mi capita ogni tanto, dura solo pochi secondi».

Non mi ero quasi accorta della presenza di Edward nella stanza. Mi scrutava con ansia.

Carlisle aveva un’espressione serena, atta a rassicurarmi rispetto a quella di mio marito. Si avvicinò con passo fermo. «Da quanto hai questo mal di testa?».

«Da…» mormorai, torcendomi le dita «da quando siamo arrivati qui, più o meno. Sento solo delle brevi fitte».

Carlisle mi sorrise avvicinando le dita alle mie tempie. «Posso?».

Annuii, lanciando una breve occhiata a Edward. Sembrava più sereno. Si venne a sedere accanto a me e mi prese la mano. «Ti sei raffreddata. Tutto questo freddo non ti fa bene» mi ammonì, facendomi arrossire all’idea che probabilmente sapeva quanto lo desiderassi.

«Si» confermò Carlisle, «probabilmente è stato causato dagli sbalzi di temperatura. Dovrebbe essere una nevralgia. Prendi mezza aspirina e evita lo stress». Feci per ribattere, preoccupata dell’effetto che i farmaci avrebbero potuto avere sulla bambina. Ma lui era già scomparso e ritornato con un bicchiere d’acqua e la mezza compressa. «Non le farà male. Questo serve a te». Il tono, ovviamente, non ammetteva repliche.

«Grazie». Sospirai, mandandola giù.

Mangiai qualcosa e feci la doccia con Edward. Qualcosa di molto casto, naturalmente. Con tutti gli altri, specialmente Emmett, nella vicinanze, non potevamo permetterci nulla più.

«Mmm… grazie mille…» gemetti, inarcando la schiena.

Le mani di mio marito scesero sapientemente a massaggiarmi proprio dov’ero più dolorante, alla base della spina dorsale. Non aveva mai smesso di coccolarmi un attimo, mai, in tutto quel tempo. Si prendeva cura di me, faceva tutto quello che non doveva fare per se stesso.  Era sempre cauto, attento a non ferire il mio orgoglio, eppure anche così dolce, premuroso, così presente. Mi bastava chiudere gli occhi per immaginare il nostro magnifico futuro, nostra figlia fra le sue braccia, un sorriso, dei versetti buffi. E quella sensazione magnifica, quell’armonia meravigliosa, quella sensazione che contemplavo e desideravo e che mi sentivo crescere nel petto, pieno fino a scoppiare di gioia.

Speravo solo di poterla estendere a qualcun altro, oltre che tenerla egoisticamente per me. Avrei fatto di tutto, per donarla con pari emozione a Philip.

«Adesso dormi. Devi recuperare le energie».

Mi tirai a sedere sul letto, fissandolo negli occhi liquidi. «Ma dobbiamo andare, Edward…».

«Shh». Mi mise un dito sulle labbra. La sua espressione era serena. Era sicuro di sé. «Io vado. Tu rimani qui e ti riposi». Fermò un mio nuovo tentativo di ribattere con un’occhiata ammonitrice «e, dopo, usciamo di nuovo. Io e te».

«Io e te?».

Sorrise, nella penombra della stanza. «Certo». Mi strinse fra le braccia, baciandomi i capelli ancora umidi. «Ma la bambina ha bisogno di riposarsi un po’, non credi?».

«É così agitata» bisbigliai, appoggiandomi al suo petto, la bocca sul suo cuore.

«Lo sento» fece scorrere la punta delle dita lungo le mie braccia, accarezzandomi. Chiusi gli occhi, tremando al suo tocco. «Non capisco perché…» continuò perplesso.

Presi una sua mano e la portai al pancione. La gioia contemplativa di cui ero pervasa non mi aveva abbandonata. «Ma c’è papà» mormorai «e la mamma» continuai, portando anche la mia mano sotto la sua.

Dopo pochi secondi sospirammo insieme, in un unico corpo, un flessuoso movimento, io e Edward. Era rilassata.

Sorrisi. «Le basta per stare bene».

Nel pomeriggio riuscii a dormire per un’oretta, prima di svegliarmi, accaldata e disorientata. Evidentemente, era tutto dovuto all’assenza di Edward, che altrimenti mi avrebbe certamente tenuta con sé, al fresco, e all’effetto di quei medicinali che mi facevano accalorare come non mai.

Presi un profondo respiro, provando a girarmi su un fianco per contrastare quel senso di affannamento che mi causavano il caldo e il pancione ingombrante. Mugolai, tirandomi - non senza difficoltà - a sedere. Riuscii a malapena a infilarmi una maglietta decente e un paio di scarpe da ginnastica, non riuscendo comunque a rinunciare ai pantaloni della tuta.

Barcollavo, ondeggiando sulle anche, e prendevo dei grossi respiri. Acqua. Ci voleva un bel bicchiere d’acqua fresca. Chiusi il frigo con uno strattone e bevvi con avidità, dissetandomi. Sospirai, posando una mano all’attaccatura della pancia e riprendendo a respirare.

Rosalie venne da me. «Ti sei svegliata». Sorrise.

Annuii, prendendo un altro lungo sorso d’acqua e ricominciando a respirare con calma. Rosalie era sempre stata piuttosto perplessa sulla possibilità di ritrovare Kate. Eppure, si era dimostrata un’ottima amica nell’accettare di fare un tentativo, ancora, per me e per la famiglia. D’altronde era stato chiaro fin da subito, fin da quando l’avevo conosciuta, quanto fosse per lei importante.

Inclinò il capo da un lato, osservandomi.

Mi passai un braccio sulla fronte, e tentando di distogliere l’attenzione dissi: «Sono tutti fuori?».

I suoi occhi meravigliosamente perfetti si strinsero. «No. Carlisle e Esme sono rimasti. Stai bene?».

Arrossii. «Si. É solo il caldo, mi sento soffocare».

La flessuosa linea delle sue labbra vibrò, e i suoi profondi occhi, ambra intenso, non si staccarono da me.

Prima che potesse dire qualsivoglia cosa, decisi di intervenire. «Possiamo andare a fare due passi qui vicino?». Poiché non parlava e continuava a scrutarmi, aggiunsi: «Vorrei prendere un po’ d’aria fresca».

La sua espressione divenne sorpresa, poi serena. Annuì. «Andiamo».

Appena immersa nell’aria fredda, il sollievo fu palpabile. Era freddo, umido, e si infilava tra i vestiti ghiacciandoli. Si posava sulla pelle, scivolava addosso e pian piano penetrava dentro, nella carne e nelle ossa.

«Va meglio?».

«Certo». Guardai, per quanto possibile, i piedi, attenta ad evitare le redici.

Rosalie mi aiutò con discrezione, un piccolo sorriso a incresparle le labbra. La ringraziai, arrossendo. «Presto dovremmo levare le tende, eh?» scherzò, guardando il pancione.

Mi mordicchiai il labbro. «Spero di rimanere il più possibile» borbottai.

La sua risata cristallina tintinnò fra gli alberi, fra l’aria tersa e i pulviscoli illuminati dalla luce bianca che filtrava tra i rami. «Non vorrai che ti si rompano le acque in mezzo al bosco».

Raggelai all’idea. «No, no, decisamente no» dichiarai stridula, immaginandomi la scena imbarazzante e spaventosa.

Rise, con maggior enfasi, aiutandomi a superare un ramo. «Mi dispiace di averti terrorizzata» guardò dinanzi a sé, «non allontaniamoci troppo».

«Sediamoci» proposi, indicando un tronco orizzontale. M’irrigidì pensando che l’unica che avesse bisogno di sedersi fra le due fossi io. Ma lei mi tolse dall’imbarazzo, sedendosi prima di me.

Fu piacevole chiacchierarci. Non eravamo mai state meravigliose amiche, ma dopo le mie disavventure ci eravamo ritrovate unite in una maniera perfetta. Rosalie era schietta e sempre sincera, ma, dopotutto, aveva un carattere dedito e leale.

«Allora, ancora nessuna decisione sul nome?».

Scossi il capo. «Nessuna. Credo che alla fine costringerò Edward a decidere per entrambi…».

«Fai bene a fidarti di lui. Ha un gusto eccellente…» fece, ammiccando. L’allusione mi fece evidentemente arrossire. Per me, Isabella Swan in Cullen, donna di poco conto, ricevere un complimento da Rosalie Hale, dea, Venere fatta persona, non era neppure contemplato.

«Grazie» borbottai imbarazzata.

Guardai oltre gli alberi, tentando di indovinare quanto tempo fosse passato dalla poca luce che filtrava dall’alto. Tutto attorno pareva così… chiaro. Un chiaro quasi sbiadito. Un moto d’ansia stava risalendo dal basso verso di me. Edward sarebbe tornato a breve.

Mi voltai. Rosalie ricambiò affannata e sorpresa il mio sguardo.

«Forse è meglio tornare». La voce mi uscì incredibilmente tremula e soffocata, facendomi rendere conto, ancor di più, dell’angoscia che mi stava turbinando dentro, attorcigliandosi come edera edace al mio interno e stringendomi e soffocandomi in un abbraccio mortale.

Mi voltai. Ansimai. Spalancai le palpebre.

Celere preda del terrore.

E nello stesso istante in cui i miei occhi si facevano di ghiaccio, cacciai un urlo straziante, soffocato nella gola dal dolore.

 

Edward

 

Era già trascorsa una settimana, eppure non avevamo trovato nulla di quello che stavamo cercando. Non nutrivo alcuna migliore speranza, ma pur, la mia coscienza, sperava segretamente di averne una.

Fissai meditabondo l’orizzonte e il cielo, sempre più bianco prima del crepuscolo. Non riuscivo ad abbandonare l’idea che ci fosse qualcosa di strano.

«Edward, sentito niente?». Alice venne al mio fianco, sfiorandomi quasi con le dita il dorso della mia mano, abbandonata lungo il fianco.

Non c’erano mai stati segreti con lei. Lo sentivo e lo percepivo dai suoi pensieri, anche mia sorella avvertiva quella tensione. Il movimento del mio capo fu quasi impercettibile. «Tu?».

I suoi occhi si persero nel vuoto, nella stessa direzione dei miei, e il suo corpo vibrò per la rigidità. «Mai avuto un buco nero così vasto» ammise agghiacciata.

Sospirai, e feci scorrere l’aria fredda nei miei polmoni con un fruscio. Chiusi gli occhi e allargai la mia mente. Silenzio, e i pensieri dei miei fratelli più vicini. Silenzioso silenzio.

La mente di questa creatura era costruita come quella di mia figlia. Imperturbabile a volte. Semplicemente accessibile, altre. Per lei, che malgrado gli anni che dimostrava, aveva raggiunto un’età adulta, dipendeva dalla sua volontà. E per ora non aveva avuto voglia di farsi trovare da me. Da noi.

Improvvisamente, però, qualcosa cambiò. Era mia figlia.

Delle foglie, foglie in rapido movimento occupavano la mia visuale. Viste da una prospettiva persino più alta della mia altezza. Correvo da un ramo all’altro, da una albero all’altro. Da dove provenivano quelle immagini? Foglie verdi, gialle, rosse. Una baita! Era la nostra, baita.

Sussultai, il cuore in gola. Cosa diamine stava accadendo? Che razza di immagini stavano scorrendo nella mente di mia figlia?! Ancora? Ancora? No! Non potevano essere ancora quelli orrendi pensieri!

Alice provò a parlarmi. Mi portai le mani alla testa, accecato da nuove immagini. Sento il suo odore, sento il suo richiamo. Sentii la voce di mia moglie, la sua risata allegra, filtrata attraverso quei pensieri oscuri. Sentii perfino il suo stesso odore.

Fremetti di terrore.

Mia, mia. É qui, vicino, finalmente. MIA.

Scossi il capo violentemente, mi accasciai a terra, provando a liberarmene, ansimando. Era lei, seduta su un tronco, rossa in viso. I suoi occhi si sollevarono, grandi, spalancati. I suoi occhi incontrano i miei. Non mi sfuggirai più, frutto del peccato. La morte ti porterà con me.

Avevo le mani fra i capelli, gli occhi spalancati.

Mia. Iridi nere. Un urlo.

 

Bella

 

Il dolore era comparso in un fulmineo palpito, penetrato con forza nella mia testa, imprigionandomi completamente nella sua morsa, totalizzandomi e nichilizzandomi.

Se solo non fosse stato per la vibrante immobilità del mio corpo, per quei resistenti, taglienti, invisibili fili che mi penetravano e tendevano da parte a parte, i miei occhi innaturalmente spalancati non avrebbero visto ciò che più ancora mi faceva cadere nel terrore. Attraverso una strana prospettiva e visuale, per quanto distorta ai bordi così nitida al suo centro, non potevo non vedere quel volto.

Così sconosciuto e abnorme quanto angosciosamente familiare.

Un così tondo viso d’ebano, quasi incastonato nel fogliame avanzò ondeggiando nella mia direzione. E mentre scopriva i denti eburnei mi accorsi degli altri dettagli lattacei sulla sua pelle. Quei marchi dalla forme strane che apparivano come curiose incisioni solcate e fuse nella cute.

Quasi mi accorsi, mentre il mio corpo esalava un profondo respiro, del dolore che lasciava il posto ad un acuto fischio nelle orecchie. Perché vacillai in avanti, e di certo sarei crollata in terra se le braccia di Rosalie non mi avessero raccolta.

«Bella, Bella». Mi arrivò alle orecchie la sua voce preoccupata. Tremavo come un fuscello quando mi voltai ad incontrare i suoi occhi. Era preoccupata, spaventata, e sorpresa almeno quanto me.

Così, in quel momento, mi accorsi di quanto il dolore fosse mostruosamente simile a quello che avevo provato quel giorno, quell’orribile e orrendo giorno. Le mie urla, il dolore, bruciante, alla testa, l’immagini di un grosso lupo che mi correva incontro. Non era un semplice mal di testa. No. No. Non lo era…

Mi voltai ancora, osservando la figura che incedeva nella mia direzione, con una maggiore lucidità. Era gigantesco, altissimo. Nero, uniforme, in tutta la pelle. I muscoli massicci e tondi imprigionati un cotone bianco resistente, strappato sul lato sinistro del petto. Lì, dove un altro longilineo inciso lattaceo svettava fiero. Come una cicatrice.

Socchiusi le palpebre, ancora confusa e intontita dal dolore. Era così assurdamente impossibile quella sua espressione.

«Bella». Una voce calda e vibrante. Quella che non poteva essere. L’unica.

Il palpitare frenetico del mio cuore si arrestò.

Stavo sognando. Quello era uno degli incubi che non facevo da tanto tempo. Ma mi sarei svegliata, fra le braccia di mio marito. Mi sarei svegliata, e mi avrebbe cullata e rassicurata, dicendomi che ero il suo amore, il suo tesoro, e che avevamo lì la prova concreta del nostro bene, nostra figlia, la nostra piccola, adorata, bambina, e tutto era così assurdamente meraviglioso per noi…

La sua bocca si dischiuse, e la lingua - nera anch’essa - umettò le sua labbra.

«Sono io Bella. Sono io».

E, malgrado l’apparenza fosse assolutamente contrastante con quello che era la persona che mi stava dinanzi, non potevo, straziata, negare quello che una parte di me aveva istintivamente scoperto fin dal primo istante.

Tutti i muscoli del mio corpo, a partire dalla gola, si contrassero su se stessi. Mi sentii soffocare.

«Jacob».

«Io». Il suo compenetrante sguardo si fissò su un punto ben preciso del mio corpo, e capii che in realtà era sempre lì che aveva guardato.

Lei. Mia figlia.

Il mio mondo distorto, la ragione nella mia mente, erano cristallizzate dinanzi a quell’assurda verità. Il dolore lacerante non c’era, non ancora. Lo aspettavo, attendevo. Ma ero realmente troppo sbalordita per provarlo realmente.

Ero immobile e tremante, sulle gambe malferme. La vista ancora appannata dal dolore che ancora non mi aveva del tutto abbandonata.

Bloccata, spaventata, esterrefatta, impaurita.

Sentivo l’esigenza di gridare e urlare di paura, e ancor di più sentivo l’assurda follia di non poterlo fare. Perché sapevo, sapevo, che dalla mia gola non sarebbe venuto fuori il minimo udibile suono. Niente più di un flebile rantolo soffocato e sputato fra i muscoli contratti e la gola secca, chiusa, muta.

E, ancora, come nel peggiore degli incubi sapevo di voler correre, scappare, rifugiarmi, ovunque. Ma le mie gambe erano bloccate, lì, ferme, con il compito assurdo e impossibile di sorreggermi e impedirmi di crollare su me stessa, annientata.

Il mio corpo immobilizzato dal terrore.

Avanzò di un passo. «Si, trema». Pronunciò le parole con odio. «Ti strapperò tua figlia dal ventre davanti ai tuoi occhi».

Prima che potessi realmente urlare, rantolare, tentare in ogni modo di concretizzare quell’assurdo terrore, sentii un feroce ringhio accanto a me.

Poi, tutto accade così velocemente da non darmi il tempo di un respiro, il tempo di pensare.

Rosalie si accucciò in un istante, effimero momento non percepibile per un umano, e gli balzò addosso, felina e letale.

Ma, ancora, prima che alcun suono potesse giungermi alle orecchie, prima che qualunque terribile immagine potesse concretizzarsi dinanzi ai miei occhi, Rosalie era a dieci metri da me, a terra, distesa, gemente.

Non il tempo per voltarmi, non il tempo per capire, un altro ringhio giunse alle mie orecchie. Più feroce, più assassino, più spaventoso.

«Tu, ancora tu» sputò con odio Jacob.

I miei occhi saettarono da Rosalie, ancora stesa e immobile, alla figura apparsa al limitare della piccola radura.

Il professore. Era lì, era lui. Aveva uno strano oggetto in mano.

Spalancai le palpebre, sorpresa, shockata, destabilizzata. Era stato lui, era stato lui a bloccare Rose.

«L’avrebbe uccisa» mormorò risoluto, saettando col suo sguardo immediatamente su Jacob, ancora. In un interminabile attimo, i miei sensi ancora bloccati e slegati dalla mia mente, mi accorsi quanto apparisse diverso dall’ultima volta che l’avevo visto. Più energico, più giovane, più… in vita.

Ero terrorizzata, mentre assistevo a tutto quello che stava avvenendo così confusamente, così velocemente. Ero così preda dall’angoscia e così poco della razionalità. Philip si mise davanti a me, in un chiaro moto di difesa. Jacob ricambiava il suo sguardo con ostilità.

«Perdonami» mormorò il professore, e la voce tremò. Vidi i suoi occhi dirigersi sul lungo segno bianco sulla parte sinistra del petto nero. «Non sono riuscito a fermarlo».

Avevo avuto ragione. Era una cicatrice.

E così, ecco quello che mi aveva tenuto nascosto. Quello di cui aveva deciso di occuparsi al mio posto. Jacob.

Lui lo sapeva. Pensai straziata.

Due figure fecero familiari immediatamente la loro apparizione nello spiazzo. Carlisle si diresse immediatamente a Rosalie, Esme, un’espressione ombra opaca e specchio della mia, mi circondò nel suo abbraccio, sorreggendomi.

Facendomi riscuotere quel tanto che bastava per far, lentamente, ritornare la mia razionalità. «Tu non» provai, ma come avevo pensato, il movimento delle labbra non produsse alcun suono udibile, se non un dolore, una fitta bruciante alla gola. Ci riprovai, non staccando i miei occhi da quelli di quell’essere oscuro. «Non sei reale. Non sei… tu non… non esisti davvero…».

La sua espressione s’indurì. «Esisto Bella. Sono sempre esistito» disse con fermezza.

E la sua voce vibrava, e arrivava alle mie orecchie. E i suoi occhi, nero su bianco, guardavano me. E il suo corpo, lì, fermo, minaccioso, era a pochi metri dal mio. Per quanto, ancora, avrei potuto mentire a me stessa per non cadere preda di un impossibile tormento?

«Purtroppo, però, tu hai sempre avuto un’assurda inclinazione al ricordo delle leggende su questi schifosi succiasangue, piuttosto che quella che ti avrebbe, sempre, assicurata della mia esistenza».

Le braccia di Esme mi strinsero con più forza, e capii che stavo crollando sulle mie ginocchia.

Chiuse gli occhi, li riaprì, rinnovando il suo odio nei miei. «Anche quella sera, davanti al falò, non sei stata abbastanza attenta. Non ricordi il principio di quelle leggende, Bella? Hai dimenticato la mia natura?».

Sussultai.

«Eravamo spiriti guerrieri. Spiriti, Bella. E anche se questa nostra caratteristica, la nostra magia, era stata abbandonata per sempre, non è mai scomparsa.

«Per quanto il mio corpo stesse morendo, l’odio mi ha consentito di ricordare quello che ero realmente, di riacquisire il mio potere originario, il potere che per ultimo aveva usato Taha Aki. Così, rinunciai al mio corpo, allontanandomi come spirito,  scampando in un ultimo anelito al sonno eterno. La morte del mio corpo non determinava la morte della mia anima. Era stato così per Utalpa, che aveva sgozzato il suo corpo per impadronirsi di quello di Taha Aki.

«Vivere come spirito non è affatto semplice. Il desiderio umano di essere corpo è radicato nella nostra mente, e non riuscivo a liberarmene. Il regno degli spiriti non è affatto bello. Così Bells, così, ho vagato confuso, disorientato, senza una meta, pentendomi perfino della mia scelta, per sempre destinato all’esilio, bandito dal sonno della morte e dal mondo. Ho vagato, solo, per tutto quel tempo.

«Ma poi, qualcosa, qualcosa è cambiato, in un mondo in cui si può interagire con gli spiriti.

«Così, lentamente, sono riuscito a ricordare la cosa più materiale che avessi. Tutto quello che mi rimaneva. La rabbia, il desiderio folle di vendetta. L’odio. Così. Così ho ritrovato me stesso. Era successo anche all’ultimo degli Spiriti Supremi.».

«Taha Aki» sussurrai «l’incarnazione terrena del suo spirito».

«Esatto, un corpo. Il mio corpo. Specchio reale della mia anima. Ecco, cosa sono».

E così, quello non era altro che il suo vero io. E così, quello che mi aveva detto era reale, era sempre vissuto, sempre sopravvissuto. Ansimai, senza aria nei polmoni.

Carlisle si acquattò, nascondendo e proteggendo su figlia, ancora dolorante e confusa, seduta in terra. Lo stesso fece Esme, al mio fianco, pronta all’attacco.

«No, fermi!» li bloccò Philip. «Non lo potete toccare, il suo sangue vi ucciderà».

Sangue? Subito compresi. Certo. I segni bianchi, le cicatrici. Sangue…

Carlisle saettò con lo sguardo verso di lui, ancora indeciso. Contrasse la mascella e rimase fermo, non senza abbandonare la sua posizione. Stava pensando.

E a me? Chi avrebbe dato a me il tempo per pensare? Chi la facoltà di farlo, in tutta la paura e il terrore?

Jacob rise, ignorando tutti e tutto. Rise, breve e amaro. «E così non ricordavi nulla, Bella. Peccato. Pensavo che quella sera, accanto al fuoco del falò, fra le mie braccia, avessi apprezzato non solo il calore».

«Lo odio» farfugliai, prossima a cadere in pezzi, aggrappandomi a tutto quello che mi rimaneva. Concedendomi di manifestargli il mio odio. «Noi», mormorai, la voce distorta, portandomi una mano, per quanto tremante, al ventre «lo odiamo».

Il suo sguardo corse serio e silenzioso al mio grembo. «Già, sembra proprio così. Quella piccola impertinente…».

«Non parlare di mia figlia!» urlai, isterica. «Tu non sai niente di lei! Non ti permettere di pronunciare un sola parola, non ti permettere!» singhiozzai asciutta, senza fiato, ingoiando le parole. Non mi rimaneva più nulla. Lacerata e straziata, ecco, com’ero. E rimpiansi e piansi, disperata, tutti quei momenti in cui desideravo non averlo ucciso. I giorni, le notti, le ore, trascorse nella sofferenza, bruciante, corrodente, mia, e di mio marito.

Le sue labbra si piegarono in un sorriso sardonico. «Ancora non hai capito?» mormorò derisorio. «É lei. É lei che voglio, per prima. É lei la causa e il principio di tutto. Lei è il mio imprinting, Bella».

Ansimai, senza fiato, tenendomi a Esme per non cadere.

No. Non questo. Non anche, questo.

No.

«No… Lei è mia figlia… no… non la toccare!» sibilai, il respiro corto.

«Che cosa le stai facendo creatura, che cosa le stai facendo?» sussurrò Esme senza fiato.

Vidi con la coda dell’occhio Carlisle rivolgere una fugace occhiata a Rosalie. Si stava rialzando. «Scappate, porta via Bella, Esme, veloci». Le parole erano volate melliflue fino a noi.

Lei sussultò, e tentennò, straziata, per un istante, guardando il marito.

Si voleva sacrificare, per noi.

«No» singhiozzai.

E quell’istante bastò perché Jacob potesse spostarsi alle nostre spalle e precluderci la più efficace via di fuga, in un movimento che causò una spostamento d’aria tale da sferzarmi il viso e frustarmi con i miei stessi capelli. Calda. Calda da far male. Era arrivata velocemente. Troppo, velocemente, anche per un vampiro.

«Tranquilla, Bella» dichiarò con astio «non ho intenzione di amarla. Dopotutto, lei mi ha ucciso, per salvare te».

Un nuovo singulto fece tremare il mio corpo.

«Credevi forse che la tua forza sarebbe stata sufficiente a farmi questo?» chiese, indicando un ora ben visibile taglio netto sulla gola. «Ma devo esserle grato, sai. In tutti questi mesi i suoi pensieri mi hanno fatto compagnia.

«É stata lei, Bella. É stato lo spirito che ho trovato, che ho riconosciuto, il centro e l’orientamento del mio mondo. Lei. Oh, lei è stato il punto fisso e costante, l’unico che mi teneva ancora ancorato qui. É stata lei a farmi ritrovare me stesso».

Carlisle e Rosalie, ancora confusa, si mossero, venendo più vicino a noi, serrando i ranghi dinanzi a me. Ero io il punto debole. Era me che voleva, la mia bambina.

La confusione, lo shock che dominavano i miei pensieri, mi facevano impazzire, alimentati dal terrore e dal dolore.

Tutti quegli strani sogni, tutta quella confusione, quel dolore, dei mesi passati, stavano assumendo un senso. E pensare che la mente pura di mia figlia era entrata in contatto con quella di quell’essere immondo era semplicemente orripilante. E così, ogni casella rientrava nella giusta prospettiva. In quel modo riuscivo a giustificare la mia istintiva e terrificante reazione al contatto con quella creatura abominevole.

Avevo avuto ragione, c’era un collegamento. Ma, avevo sbagliato, non erano i licantropi. «Il branco…».

«Si, si. Il branco sentiva i miei pensieri, avvertiva la mia presenza. Ha cercato di avvisarti. Sciocchi» mormorò con risentimento. «Ma l’unico modo per sbarazzarti di me prima che la mia anima trovasse un corpo, era sbarazzarti di lei», fece, alludendo alla bimba. «Non ne saresti stata entusiasta, ne erano consapevoli, tutti rischiavano a rendertene partecipe… così… Seth, si è offerto come volontario, aveva deciso di esporsi. Pensava che a lui non avreste fatto del male. Ha cercato di avvertirti lo stesso, quel giorno di Dicembre, quell’ultimo giorno, poco prima che riuscissi a ritrovare me stesso, in un ultimo tentativo e monito». I suoi occhi saettarono sul professore.

«Qualcun altro non l’ha fatto» sputò risentita Rosalie, la voce ancora opaca, rispetto al consueto tintinnio.

Il capo del professor Philip si spostò di scatto verso di lei. «L’avevo quasi ucciso, sciocca ragazzina. E se non foste venuti qui, l’avrei fatto. Volevo solo risparmiarvi l’angoscia e il dolore. E la poco più che certa morte» sibilò duro.

Carlisle sollevò entrambe le mani. «Non è tempo di discussioni» mormorò, fermo, eppure con una strano tremolio nella voce. Lo sentiva anche lui, l’aveva capito. Tutti noi eravamo in pericolo.

E dopo pochi istanti, ne fui ancor più certa.

Tutti.

Edward comparve al limitare della radura, tutti i suoi fratelli, in un istante invisibile, accanto a lui.

I miei occhi si appannarono completamente di lacrime. Eravamo tutti spacciati. «Edward…».

«Bella» la sua voce flebile era il calco della mia. Aveva sentito tutto. Improvvisamente le sue braccia mi strinsero, mentre la radura si faceva più affollata, e i ranghi ancor più serrati.

Tutti, contro quell’orribile mostro.

L’amore contro l’odio. L’eterna battaglia che non aveva mai avuto vincitore e vinto. Due essenze così fuse, in sé, che erano una la degenerazione e la morte dell’altra.

Di nuovo, quel ringhio pauroso e spaventoso riempì completamente lo spazio circostante. Scoprì i denti bianchi sulle labbra nere.

«Vi osserverete morire l’un l’altro, senza poterci fare nulla. Ti strapperò tua figlia dal ventre, e più nessuno vi salverà».

 

 

 

Calma… shh… tranquille… buone… Shh…

Guardate la spirale, guardatela attentamente. Fissate il centro. Così, da brave…

 

spirale ipnotica

 

*voi non ricordate niente*

*voi non ricordate assolutamente niente*

*va tutto bene*

*tutto è tranquillo*

 

Bene, addio… Io andrei…

 

Dunque, scherzi a parte. Tremo come una fogliolina. Insomma, questo è IL capitolo. Quello che tutte stavate aspettando, l’enigma che vi ha tolto il sonno per tanto tempo, il pezzo mancante del puzzle… E non tremo solo per i danni fisici che potreste arrecare alla mia persona. Tremo perché… e se non vi piacesse? Se tutto questo vi sembrasse TROPPO folle?

Se così fosse, potrei buttare in un cestino tutto quello che ho scritto finora.

Quindi sono qui, e mangio con foga la unghie.

 

Siccome la storia è già scritta nella mia testa, comunque, vi consiglio di trattenere in respiro per un po’, e anche quando vi sembrerà di poter riprendere fiato, affettatevi a farlo, perché da ora alla fine della storia vi darò pochissima tregua.

 

Spero di avervi trasmesso tutte le sensazioni ed emozioni che avevo in mente. Spero che non sia tutto troppo assurdo. Spero che abbiate apprezzato il riferimento al libro della saga. Per comprendere meglio, vi lascio un breve riassunto di quelle che era la leggenda ideata dalla Meyer, e i punti che ho sfruttato.

 

[…] Poi arrivò l'ultimo Spirito Supremo, Taha Aki. Era celebre per la sua saggezza e la sua indole pacifica. La gente viveva felice e serena sotto la sua protezione. Ma c'era un uomo, Utlapa, che non era sereno».

[…] Utlapa ricevette l'ordine di lasciare la tribù e di non usare mai più il suo spirito. Utlapa era un uomo forte, ma i guerrieri del Supremo erano in gran numero. Non ebbe altra scelta che andarsene. Furioso, l'uomo si nascose nella foresta vicina, in attesa dell'occasione per vendicarsi sul Supremo. Anche in tempo di pace, lo Spirito Supremo vigilava per proteggere la sua gente. Spesso andava in un luogo segreto fra le montagne. Lasciava il suo corpo lì e scendeva attraverso le foreste e lungo la costa, per allontanare le minacce. Un giorno che Taha Aki partì per compiere il suo dovere, Utlapa lo seguì. […]

Taha Aki lasciò il suo corpo nel luogo segreto e volò con il vento per vegliare sulla sua gente. Utlapa aspettò, finché non fu sicuro che lo spirito del Supremo si fosse allontanato abbastanza. Quando Utlapa lo raggiunse nel mondo degli spiriti, Taha Aki se ne accorse subito e intuì anche il suo piano omicida. Tornò rapido al luogo segreto, ma neanche i venti furono così veloci da salvarlo. Al suo arrivo, il suo corpo era già sparito. Il corpo di Utlapa giaceva abbandonato, ma Utlapa non aveva lasciato a Taha Aki vie di fuga: aveva sgozzato il proprio corpo con le mani di Taha Aki. [nda In forma di Spirito più sopravvivere anche senza corpo].

Taha Aki seguì il suo corpo lungo la montagna. Urlò a Utlapa, ma Utlapa lo ignorò, come se fosse il vento. Disperato, Taha Aki vide Utlapa prendere il suo posto come capo dei Quileute. […] Divenne un parassita, pretese privilegi che Taha Aki non aveva mai reclamato, si rifiutò di lavorare con i suoi guerrieri, ebbe una seconda moglie, più giovane di lui, e poi una terza, malgrado la prima fosse ancora viva, cosa inaudita per la tribù. Taha Aki osservava, furioso ma impotente. Alla fine, Taha Aki provò a uccidere il proprio corpo per salvare la tribù dagli eccessi di Utlapa. Fece scendere un lupo feroce dalle montagne, ma Utlapa si nascose dietro i suoi guerrieri. Quando il lupo uccise un giovane che cercava di proteggere il capo impostore, Taha Aki si sentì devastare dal dolore. Ordinò al lupo di andarsene.

Le storie narrano che non era facile essere spirito guerriero. Liberarsi del proprio corpo era più spaventoso che esaltante. Ecco perché quel potere veniva usato solo in caso di necessità. I viaggi solitari di perlustrazione del capotribù erano uno sforzo e un sacrificio. Essere senza corpo turbava; era scomodo, orribile. Taha Aki era stato lontano dal suo corpo così a lungo che ormai viveva nei tormenti. Si sentiva condannato: non avrebbe mai potuto attraversare l'Ultima Terra, dove i suoi antenati lo aspettavano. Sarebbe rimasto bloccato per sempre nello strazio di quel nulla. Il grande lupo seguì lo spirito di Taha Aki nei boschi, mentre si contorceva fra i tormenti. Il lupo era molto grande per la sua razza, e bellissimo. All'improvviso Taha Aki si sentì invidioso dell'animale. Non sapeva parlare, ma almeno aveva un corpo. Una vita. Persino vivere da animale sarebbe stato meglio di quell'orribile coscienza incorporea. Così Taha Aki ebbe l'idea che ha cambiato il destino di tutti noi. Chiese al grande lupo di fargli spazio nel suo corpo, di dividerlo con lui. Il lupo acconsentì. Taha Aki entrò nel corpo del lupo con sollievo e gratitudine. Non era il suo corpo umano, ma era meglio del vuoto del mondo degli spiriti.

Ormai divenuti una cosa sola, l'uomo e il lupo tornarono al villaggio sul golfo. […] I guerrieri iniziarono a capire che quel lupo non era un animale qualunque, che era sotto l'influenza di uno spirito. Uno dei guerrieri più anziani, un uomo di nome Yut, decise di disobbedire all'ordine del capo impostore e provò a comunicare con il lupo. Non appena Yut ebbe fatto ingresso nel mondo degli spiriti, Taha Aki lasciò il lupo, in docile attesa del suo ritorno, per parlare con lui. In un attimo Yut comprese la verità e salutò il ritorno del suo vero Capo Supremo. In quel momento arrivò Utlapa, per vedere se il lupo era stato sconfitto. Quando vide il corpo di Yut giacere a terra senza vita, protetto dagli altri guerrieri, capì cos'era accaduto. Sfoderò il coltello e si affrettò a uccidere Yut prima che potesse tornare al suo corpo.

"Traditore", gridò, mentre i guerrieri non sapevano cosa fare. Il capo aveva stabilito che era proibito tornare nel mondo degli spiriti, e spettava a lui decidere come punire i trasgressori. […] Yut non ebbe il tempo di dire neanche una parola per avvisare gli altri, perché Utlapa lo ridusse per sempre al silenzio. […]

Provò una grande rabbia, più intensa di qualsiasi sensazione avesse mai provato. Entrò di nuovo nel corpo del grande lupo, deciso a sgozzare Utlapa. Ma, non appena fu di nuovo dentro al lupo, avvenne la grande magia.

La rabbia di Taha Aki era la rabbia di un uomo. L'amore che provava per la sua gente e l'odio contro il suo oppressore erano troppo vasti, troppo umani per il corpo del lupo. Il lupo iniziò a tremare e, davanti agli occhi sconvolti dei guerrieri e di Utlapa, si trasformò in uomo. Il nuovo uomo non somigliava a Taha Aki. Era molto più grande. Era l'incarnazione terrena dello spirito di Taha Aki. [nda Lo stesso accade a Jacob con il suo odio, e si trasforma nella sua vera incarnazione] […]

 

 

Aspetto, qui, impaziente.

 

Grazie, grazie, grazie, a tutti.

Scusate il ritardo, sarò più celere. :*

 

Cercatemi su twitter (@Keska92), per leggere le mie CaSSate e notizie sugli aggiornamenti, lasciate nel blog qui sotto.

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

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edwardina4e Grazie mille! *.* Sei stata buonissima! Grazie, grazie! Sapere che la mia storia ti piace così tanto non può che farmi gioire! :) Scusa per il ritardo… purtroppo è un periodo intenso con la scuola. :)

mikvampire Cielo! Grazie! Questi complimenti mi fanno piangere di gioia. :) Scrivo, e devo ringraziare questo sito per consentirmi di farlo, per consentirmi di confrontarmi e migliorarmi. Grazie perché, in poche parole, non hai dimenticato di essere così buona con me.

Lau_twilight  Ciao tesoro! Grazie! :) beh, in effetti edward non ha mai negato niente a Bella. Questo è un lato del suo carattere che mi è rimasto impresso in Breaking Down e come ho fatto con tante altre cose volevo riprodurlo anche nella mia storia per non farlo disperdere del tutto. La verità, finalmente, è arrivata. Che ne dici? Tutti gli indizi, i capitoli di questi mesi, tutti gli enigmi, tutto doveva puntare a questo, tutto a questo capitolo. Diciamo che è la sintesi del mio lavoro mentale di questi mesi, il fatto in cui ho detto tutto si sarebbe condensato. I tuoi complimenti sono sempre fantastici e sicuramente ben accetti, sei sempre precisa e scrupolosa nelle tue recensioni, e per questo non smetterò mai di ringraziarti. Ma, se dopo questo capitolo avessi anche critiche da farmi, sono ben accette :) A presto, un grazie, un bacio. :*

Struppi Emh. Si… *si nasconde* mi dispiace… di… emm… averti dimostrato il contrario… *ora della supplica* ti prego, non farmi del male! Guarda questa faccia triste, questi occhi che t’implorano! *.* Dopotutto, c’è scritto lieto fine, no? Lieto fine, lieto fine, lieto fine… pensaci, e guarda l’aspirale… e poi, hai detto che ti piacciono i casini con la pace dopo! Pace, pace, promesso, giuro! u.u

manuelitas Ohhh! Grazie a te, che mi lusinghi con questi complimenti così generosi! Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto. So che apprezzate gli Edward’s POV, ma mi devono venire piuttosto spontanei perché possa scriverli… E poi, penso che nessuna di noi si stancherebbe mai di vederlo così dolce, tenero, e premuroso… Siamo delle eterne romanticone, non è così? :)

Luna Renesmee Lilian Cullen Ohh, finalmente la mamma ti ha ridato il cavo! Ahahah, ma davvero, sono pessimi questi genitori quando ci si mettono. Dunque. Il mio indirizzo msn è (francino_92@yahoo.it), spero che dopo questo capitolo vorrai ancora parlarmi o che non userai il contatto per offese verbali e minacce ahahahah Si, così, ho in cantiere un’atra storia. Sarà un bel po’ diversa da quelle che ho scritto fino ad ora, ma non credo di abbandonare il romanticismo, né lo farò mai! :) Grazie, per le tue splendide parole. Un bacio e a presto carissima.

lisa76 Grazie mille. :) Allora, le tue considerazioni sono state fertili? :P Sei riuscita a mettere insieme gli indizi? Spero che questo capitolo sia stato all’altezza delle tue aspettative. Grazie mille, ancora, per i complimenti.  

FUNNi Ciao! Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto, volevo proprio lasciarvi una boccata d’aria e di leggerezza prima di questo. Che dici, ho fatto bene? :P Eh si, Bella ormai è quasi all’ottavo mese, trascinarsi in giro con un pancione non credo sia semplice, soprattutto se si decide di fare delle escursioni nelle foreste! Che cattiva sono :P Grazie della recensione, davvero!

DarkViolet92 Bene. Ora tremo. Tremo in questo capitolo perché so che nel prossimo ti vedrò come capofila della massa per il linciaggio della mia persona. *deglutisce* Calma, ricordati sempre di mantenere la calma e guardare la spirale! :P Sono contenta di averti dato delucidazioni! Quelle sul parto sono tutte cose che ho letto qua e là in giro. :) Mi piace documentarmi :P

GiovaneStella Ohh! Grazie! Grazie di avermi recensita persino dall’ufficio di tuo padre, non sai quanto l’ho apprezzato! :D So che con i pc ci sono sempre problemi, il mio è il primo. Infatti, presto, scriverò un capitolo che è una vera e proprio ode alla rottura dei pc. Ahahah Sono contenta che ti siano piaciuti gli scorsi capitoli! Philip è un mio personaggio, e come tale ci tengo davvero molto a lui. Kate? Chissà come andrà a finire la storia. Dopo questo capitolo, aspettati di tutto!

Nessie93 Grazie *.* Si, direi che qualcosa di giusto c’era nel tuo discorso! Ma non perdere fiducia, non ora, che siamo alla fine! Allora. La bambina usa il potere quando avverte paura e pericolo. Ha avvertito la presenza del qui resuscitato, e quindi ha usato lo scudo. Così come, (l’altro indizio), il mal di testa, dovuto alla costante sua presenza. Sei stata molto gentile! Grazie di recensire sempre la mia storia, spero anche dopo questo capitolo! Ahahahah

tsukinoshippo Ma chi sarà mai questa sconosciuta che decide di lasciarmi una recensione? :O Ahahahah, tesoro, l’ho già detto. Tu fai così tanto, tutto, per me, che decisamente non posso che dirti che tutto questo non è necessario, lo sai. Sento il tuo affetto, e penso che sia una parte importantissima per me, per continuare a scrivere. Mi dai fiducia, e mi conforti quando sono disorientata, o preoccupata. Mi dai consigli e mi guidi sempre sulla strada migliore, quando perdo la bussola. E parlo solo di quello che fai per me in relazione a questa storia, ovviamente ;) Però, però, non posso che dirti grazie, per aver sentito l’esigenza, aver provato il piacere, di regalarmi queste belle parole. Di non darlo per scontato, insomma. Grazie. Un bacio vero, ai. :*

mine Cielo, grazie! Mi viene una malinconia pensando a quando scrivevo quei primi capitoli… Quel piacere disincantato di scrivere, così, di getto, solo per il puro gusto di farlo! Non che ora non sia così. Ma di sicuro diciamo che faccio una scrittura più “consapevole”, ecco. E questo richiede più impegno da parte mia. Il capitolo in cui Bella si ubriaca, comunque, rimarrà per sempre nel mio cuore! Ahahahah… Poco ma sicuro. Ed ora, eccoci qui, con lui di nuovo fra noi. Roba da non crederci, non è così? :P Il professore riuscirà ad avere il suo lieto fine? Questione scottante, direi… Dico solo che… Aspettati di tutto. ;) Grazie, di continuare a recensire, ancora, sempre, dopo tutto questo tempo. Grazie. :*

ste87 ohh, grazie a te! Non ringraziarmi. Sei stata molto gentile a lasciarmi una recensione. Spero che questo capitolo sia stato di tuo gradimento, non potrei chiedere di meglio :)

silvia16595 Ciao carissima! Dunque, lo so, vi ho fatto pensare, disperare, aspettare, scervellare, per capitoli e capitoli. Ma ora, infine, ecco la verità! Non mi puoi rimproverare nulla, se non proprio l’argomento della verità! Ahahahah… Mi rendo conto della possibile rabbia-istinto omicida che io stessa ho evocato nei miei confronti! Che dici, scappo? :P

Lizzie95 Grazie mille tesoro! :) Sempre gentilissima. Spero quindi che ti possa piace anche quello che ho in mente per la mia prossima nuova storia! Non devi pensare alla brutte figure, io voglio sapere! Ormai, il dado è tratto, perché le cose sono successe, ma puoi sempre dirmi se ci avevi preso, no? Non riesco davvero a rendermi conto della vostra possibile reazione a quello che ho scritto. Non riesco a immaginare se vi aspettavate un ritorno del genere, oppure la vostra attenzione era focalizzata più che altro sui licantropi! Quindi, sono curiosissima di raccogliere tutte le vostre impressioni. Don’t Worry, ma la “benedetta” (ahahahah) Kate, ci farà ancora compagnia! :)

Sognatrice85 Ohhh *.* Che frase magnifica hai scritto! Mi hai fatto venire la pelle d’oca! Grazie a te, per stare qui a leggere questa loro vita, inventata e sviluppata in questa testa pazza. Grazie. Vivo con i miei personaggi, come fanno tutti, qui, credo, con i loro e… è un piacere. É un piacere immenso, ricevere questi complimenti. :)

ale03 Ciao tesoro! É vero, Edward e Bella sono dolcissimi insieme! Promesso che i prossimi capitolo saranno tutti incentrati su di loro, giurin giurello! :* Cerco di caratterizzare i personaggi attenendomi quanto più possibile agli originali, e così ho cercato di fare con Esme, con Rosalie, ma soprattutto con Carlisle *.* Lo so lo nomino troppo, lo so. Taccio. :X

ledyang Ma no che non mi rompi… In fondo… ahahahah… No, dai, non mi rompi, tanto alla fine posto sempre quando dico io :P Dunque, con i licantropi ci hai mezzo azzeccato, ma tu fai pronostici tipo Rosalie?! Ahahah, la facciamo partorì là, in mezzo al fogliame? Uahuahuah… Povera Bella… :P Grazie di tutto ;)

KatyCullen Ehh si… In questo capitolo ci sono stati un po’ di sogni ad occhi aperti, con tanto di quadretti immaginari con Edward, Bella, e la bambina! Cosa sono quelle fitte alla testa? Ahahah, magari non ti sarebbe piaciuto saperlo! :P Mi spiace! Grazie mille, grazie, grazie, per non dimenticare mai di essere così buona con me.

endif Darling :) E così, la matassa di sciolse… Beh, quantomeno, dopo questo capitolo, niente più indizi, niente più enigmi, perché, finalmente, la grande questione da cui TUTTO era originato, è stata definitivamente sciolta. Certo, ovviamente, ci sono tante, tante cose da sciogliere, non potevo rendere il capitolo un lezione scolastica… E, ovviamente, questo capitolo… diciamo che ancora non è concluso, e comunque porterà delle significative conseguenze. Sono curiosa di scoprire cosa ne pensi. Sono stata scontata? Ripetitiva? Ti aspettavi una svolta del genere? Sono stata troppo lenta, o affrettata? Mi, raccomando, non risparmiarti, dimmi tutto quello che pensi. Son qui, e attendo. :) Un bacio affettuoso.

chi61 Bene, e ora iniziano le note dolenti. Ecco, questo, è il capitolo che tutti aspettavano, quello “critico”, il punto di snodo di tutta la confusione e i problemi, i piccoli indizi, creati nei capitoli precedenti. Ecco, da questo deriva la mia angoscia, da questo deriva il fatto che io ci abbia messo così tanto a pubblicarlo. Fallito questo, fallisce tutto quello che c’è stato prima. Spero che le mie idee, le mie giustificazioni, non siano state troppo banali o scontate, e soprattutto ripetitive. Mi sto praticamente tuffando nel vuoto. Per rispondere alle tue domande, ti dico che la capacità di Alice di vedere mezzi vampiri dipende dal livello di conoscenza e famigliarità con la creatura che vuole vedere. Con la bambina non ci riesce bene, ancora, perché non ne è ancora nata. Con Kate, non ci riesce perché non è ancora entrata in contatto diretto con lei. Questo, comunque, non preclude totalmente la possibilità di avere visioni, dato che per metà questi esseri sono vampiri. Spero di essere stata esaustiva. :) Un abbraccio, un bacio, un grazie, immenso, a te.

titty88 Si! Ho una nuova storia in cantiere… Ora concludo queste due che ho ancora in corso, e comincio subito con quella, non temere! :) Vedrai, spero davvero che i prossimi capitoli possano essere di tuo gradimento, da quanto mi dissi, tempo fa, credo di si. Chissà ;)

Ros_Ros Ahahahah, non preoccuparti! Non devi affatto essere terrorizzata dai complimenti “troppo” abbondanti! Figurati se non accetto tutto con il massimo senso di lusinga! E spero che, nonostante questo capitolo non sia tranquillo come il precedente… beh, spero di non uscire completamente dalle tue grazie, in un lampo! Ahahahah… Grazie davvero… :)

Dreamerchan Ciao! Beh, spero che il seguito sia stato di tuo gradimento, e gli indizi ben evidenti! Ahahah, magari ti saresti aspettata qualcosa di decisamente meno terrificante e scandaloso, ma purtroppo, come dicono i Romantici, la fantasia non ha freni ;P Grazie :*

Wind Ahahah, non preoccuparti, non c’è pericolo di arrivare addirittura a quota cento! Ahahahah… Beh, che te ne pare del “movimento”?! Hai detto tu stessa che un po’ di movimento ci vuole sempre! Allora, non aspettarti tregua da qui alla fine della storia, perché non ve ne darò! Muahahah… Hai chiesto tu u.u…

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate Grazie mille! *.* É vero, avevi ragione sulla “calma prima della tempesta” ahahahah… In effetti speravo di farvi percepire questa cosa, che vedo ha toccato gli animi più sensibili ;) Hai avuto ragione, le fitte alla testa, decisamente, non erano un dato casuale. Anch’io ho esperienza con i viaggi in auto e nausee connesse… Lo so, è una vera tortura! Senti tutto il giorno come se fossi ancora in macchina… che brutta sensazione…

Ely_11 Grazie mille carissima! Sei davvero tanto gentilissima, lo sai? :) Mi fai venire i brividi. Allora, adoro ricevere domande! :P Dunque. Ho diciott’anni, forse per questo ti “sballo” un po’, perché diciamo che non sono né troppo giovane, né troppo “vecchia”, passami il termine. Perché scrivo su EFP anziché scrivere un libro mio, pubblicato da case editrici? Perché, in primis, non sono ancora abbastanza brava per scrivere un libro mio, quando lo farò voglio essere al massimo delle mie potenzialità. In secondo luogo, ti dirò, ho già in mente una forma per un libro. Poi, scrivere una fan fiction mi dà la possibilità di farmi leggere direttamente e di confrontarmi immediatamente con un pubblico, e questo alimenta molto la mia passione e la mia voglia di farlo. Infine, scrivere un libro al giorno d’oggi è come avventurasi in una giungla di case editrici pronte a sfruttarti all’osso, traendone il massimo profitto, e lasciandoti… senza niente in mano. :D Spero di essere stata esaustiva. 

LudoCullen96 Ahahah, chissà, chissà come sarà Kate. Un po’ l’ho descritta, credo (?!), nel capitolo in cui ne raccontava il professore. Ovviamente, all’epoca era come una bambina, ma di sicuro è molto bella. Somigliante alla madre, ma con delle caratteristiche del padre ;) Grazie per i bellissimi complimenti, sei sempre un tesoro, molto gentile con me. Grazie.

frafru Mi spiace! Aveva ragione, non ho potuto fare a meno di inserire un “colpo di scena”, IL colpo di scena, direi, visto che in istante ha distorto l’equilibrio generale! Ti ringrazio, per tutte le tue bellissime parole! Sono contenta di leggere che la mia storia ti sia entrata tanto dentro! *.* Anche per me sarà un po’ come se una parte di me morisse. Insomma, tu scrivi, lo sai come vanno queste cose. I personaggi vivono con noi, e noi li facciamo crescere, li alleviamo, e li conduciamo a quella che per loro è la morte. Non so come farò per colmare il vuoto che mi lascerà questa storia… Non c’è modo, forse :)

ANNALISACULLEN Beh, diciamo che non hai dovuto aspettare molto per capire la natura delle fitte! Diciamo che il capitolo precedente, più sulla coppia, più sulla dolcezza di Edward e Bella, l’ho usato, lo confesso, per ingraziarmi il vostro favore, per la folle paura che mi farete dopo aver letto questo! Per quanto riguarda il progetto di riunire padre-figlia… vedrai, presto… Dammi giusto il tempo per correre ai ripari! Ahahahah

congy Ebbene, sei contenta di averci preso stavolta? Beh, più o meno… Ma forse saresti stata più contenta se ti fossi sbagliata, visto come stanno andando le cose… Non troppo bene, diciamo :P I fuochi d’artificio ci sono stati, ci sono, ci saranno… ma ricordati, che ancora, non siamo alla fine. Mancano un pochino di capitoli, e ti dico solo che mi sbizzarrirò totalmente con la fantasia, senza risparmiare nessuno! :P A presto cara ;)

 

 

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Capitolo 67
*** Addii ***


«Vi osserverete morire l’un l’altro, senza poterci fare nulla copertina


«Vi osserverete morire l’un l’altro, senza poterci fare nulla. Ti strapperò tua figlia dal ventre, e più nessuno vi salverà».

Dal petto di Edward si levò un ringhio brutale, specchio del suo. La sua mano, velocissima, corse al ventre gonfio, protettiva.

La nostra bambina, pensai, tremando.

Eppure, quell’orrida creatura non ne parve minimamente scalfita.

Dopotutto, come poteva il suo sguardo d’odio essere ancora peggio di così?

Ero pervasa dal terrore. Per me, per tutte quelle persone che mi volevano bene. Per Edward, il mio Edward. Per la bambina, dolce creatura innocente, ancora rinchiusa nel mio grembo.

Sentivo dolore alle mani, alle dita, strette e incuneate sui fianchi del mio amore, in un inutile e disperato tentativo di tenerlo a me, di preservare la sua vita e quella della nostra piccola, stretta fra i nostri corpi stretti.

I suoi occhi si specchiarono nei miei. Bruciavano d’odio e desiderio di vendetta. No, non mi ero sbagliata. Sarebbe stata una battaglia fra odio e amore, di sicuro. L’odio che leggevo nei suoi occhi agghiacciati. L’amore per me e per sua figlia, per il quale avrebbe dato l’esistenza.

Lo sentii. Sentii quell’attimo, in cui mi parve che la sua mano fredda mi sfiorasse il viso, dandomi un improbabile sollievo. Sentii l’attimo prima che tutto avesse inizio.

Cominciò come una danza mortale.

Edward fu il primo ad attaccare, balzando in avanti, letale. Se solo avesse sfiorato uno di quei segni bianchi di cui il corpo di quell’abominevole creatura era bardata sarebbe morto, morto per sempre.

«No!» urlai, sentendomi mancare. Troppo tardi, troppo, troppo tardi. Ormai, tutto era cominciato.

Edward gli si avvicinò e rimbalzò all’indietro, fermandosi a qualche metro da me. Sembrava che niente fosse cambiato. Si era toccati? Chi era stato colpito?

Un istante dopo che i suoi piedi ebbero toccato nuovamente il terreno, tutti i vampiri, tutti e sette i vampiri davanti a me, attaccarono contemporaneamente ripetendo lo stesso movimento, avanti, indietro. Un aggraziato movimento letale.

Eppure, Jacob non pareva minimamente scalfito. Eppure, nessuno dei Cullen abbandonava la sua posizione, la sua espressione concentrata.

Terrorizzata, angustiata, fissavo attonita la scena, le mani angosciosamente sul grembo.

Avanti, indietro. In un secondo il disegno mutò. Jacob sempre al centro. Attaccavano a intervalli, ora.

Lo stavano accerchiando. Erano in parità. Jacob, col vantaggio di non poter essere toccato. I Cullen, con quello di essere sette contro uno.

Delle altre braccia mi strinsero, facendomi arretrare. Il professore. Tremavo, tremavo, e pregavo perché tutto quello potesse avere fine, perché potessi svegliarmi e credere realmente che tutto fosse solo e solamente un sogno, un brutto incubo da cui mi sarei certamente svegliata, presto.

Edward! La bambina, la mia bambina! No!

Come poteva tutto essersi realmente infranto così, distruggendo i meravigliosi sogni di vita insieme!?

Annaspai, provando a liberarmi da quella stretta che mi teneva ferma, provando a fare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse essere d’aiuto.

Il professore mi strinse più forte e mi fissò con severità. «No» fece deciso.

Sciocca ragazza che ero. Cosa mai avrei potuto fare? Cosa, se non allontanarmi il più possibile e fare l’unica cosa che mi era concessa, salvare la nostra bambina? Non lottai più. Feci cadere le braccia, i pugni chiusi, lungo i fianchi. I miei occhi invasi i lacrime fissarono la scena agghiacciante, impotenti, mentre il mio animo si spezzava angosciosamente sotto il peso del mio dolore.

All’ennesima scarica di adrenalina annaspai, mentre tutto, in me, persino il dolore, si congelava. Perché i miei occhi vacui l’avevano visto: qualcosa era cambiato. Nonostante non riuscissi minimamente a scorgere i movimenti della lotta incalzante, ne avevo, fin dal primo istante, percepito la perfezione, scaturita dalla parità. Ma in quel momento, qualcosa era cambiato.

Il sollievo provato per la smorfia sul viso di Jacob non fu niente, rispetto al terrore dello schianto fragoroso del corpo di Esme su un albero. Immediatamente rimbalzò e si risollevò sui talloni, ricominciando a lottare.

Ma qualcosa non andava, la danza aveva perso il suo ritmo, tutto era fuori fase.

Singhiozzai, e le mie ginocchia tremarono, piegandosi l’una contro l’altra per impedirmi di cadere. Le lacrime scorrevano fluide lungo il viso, incontrollate. Stavo perdendo tutto. Tutto in un attimo, e non potevo fare niente.

Il professore puntò quello strano oggetto che aveva fra le mani - identificabile come forma solo come una rivoltella - proprio in direzione della battaglia.

Ci furono altri schianti, altri rimbalzi. La lotta stava prendendo una piega, l’ago della bilancia si era spostato verso qualcuno, constatai sgomenta. Verso Jacob.

Il professore caricò l’arma, mentre la paura mi assaliva. E se avesse accidentalmente ferito gli altri? La mia famiglia, Edward? Non poteva rischiare di farlo. Come poteva, con la sua vista umana, evitarli?

Poi, capì.

Esattamente quando riuscii a distinguere le dita bianche di Edward posarsi esattamente sulla spalla nera di Jacob, uno degli unici punti privo di cicatrici stranamente sanguinanti. Jasper, fece lo stesso con la gamba. Emmett, il fianco. Carlisle, la testa.

Era tutto pronto. Pronto per finirlo, pronto per ucciderlo. Il professore doveva assestargli il colpo fatale. Il mio cuore sussultò, infinitesimamente rincuorato eppure agghiacciato alla scena cui brave avrei assistito. Non tutto era perso, non tutto, non ancora. Le lacrime, immobili, si ghiacciarono sulle mie guance, spinte dal leggero venticello.

Un attimo dopo, tutto era perso.

Jacob si sbarazzò di tutti in attimo, con un urlò feroce e sofferente. I loro corpi volarono lontano, immobili. In un attimo si proiettò in avanti. Lo percepii di fronte a me prima di sentire l’aria calda, lo spostamento. E in un secondo, il professore non era più davanti a me.

La sua arma, la nostra ultima speranza, in terra, distrutta. Jacob, al suo posto. Troppo vicino a me. Un solo movimento, e la sua profezia si sarebbe avverata. I suoi occhi, così bianchi sul viso così nero, si fissarono insistenti e rabbiosi sul mio corpo. La sua mole spaventosa mi sovrastava completamente, oscurandomi dalla già flebile luce che filtrava fra gli alberi.

Io, Edward, la bambina. Tutti i miei affetti più cari, me stessa, spazzati lontano.

Non ebbi la forza, né il tempo, di aprire bocca e urlare.

Il dolore, il panico, l’assurda paura. L’oblio dei sensi, la fine dell’esistenza, la morte di ogni cosa, pervasero così tanto di terrore le corde della mia anima, che mi sentii vibrare da dentro qualcosa di così grande, così incontrollabile, così potente, che non riuscii in alcun modo a trattenere.

Esplose, da dentro a fuori di me. Attraversandomi, tendendomi e trapassandomi. Tutto il mio corpo spiegato in quel potentissimo moto, permeato del potere che lo faceva fremere, incontenibile.

Sentii come se stesse trapassando la mia pelle, uscendo fuori da me, con una forza distruttiva immensa, attraversando la carne e le ossa. Ma non faceva male. Era… puro e denso potere.

Perfettamente cosciente, anche se non padrona del mio corpo, vidi tutto quello che accadde.

La mano di Jacob, lì, vicina al mio grembo, pronta a strappare dal mio corpo la vita di mia figlia. La sua faccia, intrisa e pervasa di rabbia a furia. I suoi muscoli contratti nell’atto di compiere l’empietà.

E poi, l’immensa onda d’urto. E tutta quell’aria spostata, che lasciava il vuoto rarefatto intorno a me. Il palmo nero si allontanò con una velocità così elevata e fu scaraventata via con una forza tale da non consentirmi di vedere nulla, nulla altro che quella, e una nera macchia indistinta scagliata lontano, oltre gli alberi piegati, sulla roccia, con un fragore mostruoso e violento.

Rimbombò con forza fino a me, agghiacciandomi, facendomi vibrare e battere violentemente i denti. Tutta la mia pelle, mi accorsi, era pervasa da un tremolio e un formicolio costanti.

Ansimai, lasciando che ai miei sensi arrivarono le più futili percezioni. Il tempo rallentò nella mia mente, scandito dallo svolazzare di un paio d’ali nere; un corvo che, spaventato, volava da una albero al diametralmente opposto, gracchiando.

Il potere scaturito da dentro di me, mi aveva abbandonata, espandendosi all’esterno, lasciandomi incredibilmente… vuota.

Mentre il cerchio di alberi piegati, tutto intorno, sembrava incredibilmente ruotare, sentii le mie gambe cedere, e il pavimento ruvido e freddo mi venne dolorosamente incontro.

 

Riaprii gli occhi carica di tensione e angoscia. Mi tirai automaticamente a sedere, agitata, scrutandomi ansiosamente attorno.

Gli occhi di Edward, preoccupati, incontrarono i miei. «Amore, tranquilla, tranquilla. Sei al sicuro adesso. Siete al sicuro» mi rassicurò velocemente, posando entrambe le mani sulle mie spalle.

Mentre con un movimento repentino scrutavo l’ambiente attorno a me, mi accorsi di essere a casa, nel letto della baita. I miei respiri veloci impedirono alle parole, bloccate nella mia mente, di venir fuori. Cosa era accaduto? Perché ci trovavamo lì? Cosa era successo? Lui dov’era?

Le braccia forti di mio marito mi strinsero, e non potei non sentirmi per un attimo in pace. Avevo avuto la folle paura di non poterlo mai più sentire così. Mi fece stendere fra le lenzuola, mi prese la mano fra le sue. Cercavo, non potendo parlare, di capire il più possibile dal suo sguardo. Se eravamo lì voleva dire che eravamo fuggiti, che era stato sconfitto? Voleva dire che tutto era andato per il meglio, non era così? Perché, allora, i suoi occhi erano così terribilmente angosciati?

«Edward» chiamai stridula «ti prego» lo implorai, in una richiesta che andava ben oltre la voglia di conoscere, arrivando alla disperata speranza.

Le sue labbra si contrassero in una smorfia, come se stesse per singhiozzare. Si aprirono, tremanti, e presero un respiro. Mi accarezzò i capelli con infinita dolcezza, avvicinando il viso al mio. «É fuggito» mormorò solo, e potei sentire tutta la sua disperazione.

Chiusi gli occhi, strinsi le labbra, sentendo l’eco di quelle parole nella mia mente così piena e paradossalmente vuota. Era finita. Per ora, ma era finita. Ringraziai il cielo di avere ancora la mia piccola in grembo e le mani di Edward sul mio corpo. Le mie membra si distesero tutte contemporaneamente, allentando la sordida tensione. Era finita. Eppure…

Passarono diversi attimi, nei quali mi prese fra le braccia e mi strinse a sé. Stava soffrendo, lo sentivo. Mi accarezzò il viso, le palpebre. Poi scese sul pancione. Le sue parole volarono leggere come ali di farfalla sulla mia pelle: «Siete al sicuro con me, ve lo prometto».

Riaprii gli occhi, guardando la sua espressione afflitta. Gli accarezzai i capelli, gli zigomi. Ma ancora non trovavo le labbra per parlare, ancora non riuscivo ad emettere alcun suono.

Perché, perché non potevo crederci? Perché questa, a differenza di tutte le altre volte che mi aveva rassicurata, sempre, attraverso le mille disgrazie che eravamo stati costretti a subire, era diversa. Perché leggevo, nella sua espressione, qualcosa di nuovo e strano che mi bloccava il respiro, persino peggiore della consapevolezza della sorte che ci stava attendendo.

Interpretò il mio silenzio come terrore. «Te lo giuro, Bella, lo sconfiggeremo. Ora lo sappiamo, sappiamo come fare, non ci faremo cogliere impreparati. Non sarete più in pericolo, mai più…».

Le sue parole erano venute fuori con desiderio di persuasione. Eppure, erano venute fuori anche con estrema angoscia. D’un tratto, fui colta da una paura immensa.

Mi irrigidii. «Dove sono gli altri?» chiesi affannata.

«Shh, shh, tranquilla» mi cullò, accarezzandomi i capelli. I suoi occhi erano lontani, vacui. «Adesso viene Carlisle a visitarti, ci hai fatto prendere una brutta paura. Non ti devi agitare, devi solo riposare».

Il mio respiro accelerò velocemente. Dov’era Carlisle? Se non era già qui voleva dire che qualcuno stava male? Lui stesso?

Scalciai, frenetica, provando a liberarmi dalla sua presa per guardarlo negli occhi. Le lacrime traboccarono nel mo tentativo di parlare «Dove sono gli altri?» provai a gridare «cos’è successo, Edward, dove sono gli altri?» chiesi, la voce sottile.

I suoi occhi si riempirono di scuse, ma non parlò. Il mio respiro pesante passava fra i nostri volti.

La porta si aprì, entrò Carlisle. Lo fissai terrorizzata. Chi? Chi era? Da chi era stato? «Bella» mormorò, e mi venne subito accanto. Fece un cenno a suo figlio, che mi ripose fra le coperte.

Mi adirai. «Ditemi che sta succedendo! Ditemelo, adesso! Non potete farmi questo, vi prego, vi prego!» gridai, agitandomi, stringendo il mio fiato fra i respiri frammezzati dai rapidi singhiozzi.

Edward mi tenne le mani sulle braccia, bloccandomi. «Bella, ti supplico! Non fare così! Pensa alla bambina…».

«No!» gridai, stringendo gli occhi gonfi, pesanti di pianto «devo sapere, ho il diritto di sapere!».

Carlisle raddoppiò la presa del figlio su di me. Lo guardò, un istante, e i suoi occhi tornarono sul mio viso.

«Sono stato da Philip».

Smisi di dibattermi, fissando la sua espressione impassibile, con terrore. Allentò la presa su di me e si sollevò, andando verso la porticina del bagno, lasciandomi nelle mani di mio marito. Il mio sguardo, vuoto, si posò su di lui. Perché sentivo tutto sgretolarsi, attorno a me? «Lui» pigolai «lui non…».

Serrò la mascella. Fece un rapido movimento di diniego con le labbra. «Mi dispiace, amore».

Lo fissai supplicante.

«Non ce la farà…».

«No…» sillabai, opponendomi strenuamente all’evidente verità. I singhiozzi mi scossero, senza pietà, facendomi annaspare. Avevo passato tanto di quel tempo, nei mesi addietro, cercando di abituarmi a quell’idea. E ora, così, per causa mia la sua vita doveva aver fine? Senza la possibilità di rivedere un’ultima volta sua figlia?

 

«Bella, Bella, rispondimi, ti prego!». La voce mi mio marito m’implorava, lontana. Quasi non mi ero accorta di essere nuovamente scivolata in quella starna incoscienza. «Amore, mi senti? Sono qui, sono qui accanto a te!».

La voce pacata di mio suocero ci raggiunse. «Calmati, figliolo. Lasciale il tempo per elaborare la cosa…».

La presa delle dita fredde e forti aumentò, seppur delicatamente, e mi sfiorò il dorso della mano con il pollice.

 

Edward mi guidò silenzioso lungo il corridoio. Mi guardava con apprensione, ma sapeva quanto fosse per meglio per me il silenzio, in quel momento. La sua presenza, la sua mano sul mio fianco, sarebbero valse più di qualsiasi altra parola di conforto.

Avevo un peso sul cuore, sul petto, che non mi abbandonava.

Quando entrai nella stanza in cui avevano sistemato Philip lo sentii triplicare, e le lacrime, ineluttabili, scesero sul mio volto.

«Bella» sussurrò Edward, stringendomi forte fra le braccia.

Mi concessi un momento per singhiozzare liberamente, sapendo comunque di non poter smettere tanto presto di piangere. Nascosi il viso sul suo petto, mentre l’immagine del professore, pallido ed emaciato, rimaneva vivida nella mia mente. Aveva gli occhi chiusi, e il respiro pesante gli scuoteva il petto: non doveva essersi accorto della nostra presenza.

Non appena mi ripresi posai un palmo sul suo petto, sollevando la testa per guardarlo negli occhi. «Vai, Edward…» mormorai, e repressi un singhiozzo mordendomi il labbro «devo… devo rimanere con lui…» biascicai.

I suoi occhi luccicarono, mentre stringeva le labbra, preoccupato. Non disse nulla, conducendomi fino alla sedia vicino al letto. Si piegò sulle ginocchia e mi baciò la fonte, sistemandomi i capelli scompigliati dietro le orecchie. «Torno fra mezz’ora» sussurrò.

Annuii, e lo lasciai andare con un bacio.

Sospirai, osservando la figura davanti ai miei occhi. Misi le mani in grembo, cercando di trovare la forza per affrontare quello che stava venendo. Tremante, mi allungai fino a toccare le increspature di quella mano che, pallida e fredda, giaceva sul copriletto. Sentii un brivido quando la presi fra le mie.

Lente le sue palpebre si aprirono, scoprendo i suoi occhi cerulei. «Isabella».

Il sapore bagnato e salato sulle mie labbra aumentò d’intensità. Annuii, veloce. «Sono qui».

Sospirò, e le linee irregolari delle sue labbra si piagarono in una smorfia che doveva somigliare a un sorriso. «Mi dispiace che tu debba essere qui» la sua voce era così debole che a stento distinguevo le parole «ma sono contento che… tu ci sia».

Mi affrettai a placare i singhiozzi per poter parlare chiaramente. «Non la lascerò, glielo prometto. Resterò qui, tutto il tempo che vuole».

«Tutto il tempo che mi rimane» affermò, un sorriso ironico disegnato sul volto.

«La prego, non dica così» affermai, querula. La mia mente non si era ancora rassegnata. «La prego, la prego, deve trovare la forza di vivere. Tutto quello che vuole». Ricordai quella sera, la festa della bambina, e i suoi desideri nascosti. Strinsi più forte la sua mano fra le mie, e la portai al mio viso, ne baciai il palmo, la strinsi fra le mie e la posai sulla pancia. «La prego».

Abbandonò le palpebre e prese un lungo respiro. «Grazie, Isabella. Grazie di quest’ultimo regalo. Un povero vecchio non avrebbe potuto chiedere di meglio».

«No» singhiozzai, e mi abbandonai col capo sul copriletto, sopraffatta dal pianto, sussurrando e biascicando, fra i singhiozzi, quel monosillabo. L’avevo sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivato un giorno simile. Ma in quell’istante non riuscivo proprio, malgrado ci provassi, ad accettarlo. Perché, avevo pensato, prima di vederlo morire l’avrei visto ricongiunto con sua figlia. Perché avrebbe così avuto la sua ultima gioia, e il sonno della morte sarebbe stato meno duro, se quell’affetto così caro gli avesse tenuto la mano mentre esalava il suo ultimo respiro.

Sollevai la testa, di scatto, spaventata, quando sentii forti accessi di tosse scuoterlo nel profondo.

Feci per chiamare aiuto, ma l’attacco sembrò cessare così com’era arrivato, mentre il suo palmo si posava sulla mia bocca aperta, impedendomi le parole.

«Isabella, ascoltami» mormorò, e mi affannai ad avvicinarmi, per non perdere nessuna di quelle che, con terrore, pensavo potessero essere le sue ultime parole. «Ti prego una sola cosa. Sii felice. Metti al mondo la tua bambina, costruisci la tua famiglia, e preservala… per sempre… per…» affannò. Gli posai una mano sulla fronte, sembrava così freddo. «per l’eternità».

Venni folgorata. Improvvisamente, i miei occhi umidi si strinsero, facendo traboccare altre lacrime. Le spazzai velocemente con il dorso della mano, animata da una nuova speranza. «la prego, mi ascolti. Noi, noi possiamo trasformala. Darle l’eternità. Potrà trovare sua figlia e vivere per sempre con lei! Si, si, perché non ci ho pensato prima!» esclamai tremante, portandomi le dita sulle labbra per nascondere quello che stava fiorendo come un sorriso.

«No, Isabella» disse, e il suo tono fu così fermo, malgrado la sua debolezza, da farmi raggelare.

«Perché no? Perché? Non vuole rivedere sua figlia? Non vuole sopravvivere?».

«Isabella, Isabella» mi richiamò, e il suo sforzo su così grande che pensai non ce l’avrebbe fatta a continuare. «Quello è il tuo destino. Vivi Isabella, promettimi di farlo. Non posso vivere un’eternità, e rischiare di rimanere per sempre isolato dai miei affetti più cari. Comprendimi Isabella, te ne prego. So che hai un cuore grande e riuscirai a farlo…».

 

Il tempo fu distorto, e il passare delle ore lento e asfissiante.

Edward mi accarezzò i capelli, tenendomi stretta in braccio, seduti entrambi su quella sedia vicina al capezzale. Mi accarezzò la pancia, cullandomi.

I miei occhi erano rossi e gonfi, immobili. Nella mia mente il tempo si era fermato.

Mi baciò la mascella e la guancia, risalendo con il fiato fino all’orecchio. «Stai bene?» sussurrò piano.

Socchiusi le palpebre e sospirai, voltandomi per baciargli la bocca. Avevo un estremo bisogno di sentire il mio amore vicino a me, e gli succhiavo la forza delle labbra, sperando mi bastasse per andare avanti.

Carlisle ci interruppe gentilmente, fissando prima Edward e poi me. Mio marito annuì.

«Bella» fece mio suocero, piagandosi in avanti e posando una mano sulla mia guancia umida e fredda. Chissà quante volte, pesai frastornata, ha dovuto fare quello che sta facendo ora. Dopotutto era medico da oltre due secoli, e dare brutte notizie, avere tatto, delicatezza, e la giusta partecipazione, faceva parte del suo lavoro e della sua moralità. «Mi dispiace… manca poco».

Tremai, fra le braccia di Edward. Lui mi strinse più forte, spaventato, accarezzandomi il grembo. Poche ore prima tutto andava bene, e mio marito contemplava il mio pancione per il puro piacere di farlo, felice, libero, contento.

Un lamento si levò dal professore. Mi preoccupai, sobbalzando fra le braccia di Edward.

I suoi occhi cerulei vagarono senza meta per la stanza, prima di fissarsi nei miei. «Oh, sei qui» sussurrò «sei qui, sei qui, finalmente».

Mi sollevai, lasciandomi cadere sulla ginocchia, la mano stretta alla sua, sempre più fredda. «Si, si, sono qui» biascicai velocemente «non me ne sono mai andata… Sono qui…».

I suoi occhi luccicarono, e le labbra si tesero, prima che pronunciasse la frase che mi fece gelare il cuore. «Kate… sei tornata…».

M’irrigidii, sgomenta, e subito Edward venne da me, stringendomi la spalla.

«Kate, Kate, figlia mia… Ti ho ritrovata…».

Edward provò a sollevarmi da terra, ma mi volsi veloce verso di lui, le lacrime agli occhi, scuotendo il capo, piano. I miei occhi ritornarono su Philip, sul suo viso fiducioso, sui suoi occhi pieni d’amore.

Le labbra mi tremarono. «Si… Sono qui». Singhiozzai. «Ti voglio bene… padre» biascicai, piangendo, disperata.

Le sue membra si rilassarono sul letto. Prese la mia mano e la portò al suo petto, sul cuore. Per quanto le sue mani fossero fredde, il suo corpo era incredibilmente e innaturalmente caldo. «Ti amo, figlia mia», tossì, e odiai quegli accessi, che osteggiavano persino l’ultimo soffio di vita «la morte è meno dolorosa, con te accanto».

Tremante, prese la mia mano fra le sue. Se la portò alle labbra e la baciò, con l’ultimo sospiro della sua vita. Poi, silenzioso, spirò, mentre le dita abbandonavano la presa sulla mia mano.

 

Le mie urla, il mio piato disperato, riusuonarono per la casa, per tutta la notte. Sentivo voci, volti, ma non riuscivo a concentrarmi su niente. Non fui in me per diverso tempo, e quando riacquisii il minimo controllo, mi sentii estremamente spossata.

Quando mi svegliai, l’indomani, dei raggi chiari mi ferivano il viso, poggiato, con le guance bagnate, su quello che immediatamente riconobbi come il petto di mio marito.

Sollevai gli occhi, tristi, gonfi, sul suo viso.

Era stato con me tutto il giorno precedente. Una condizione necessaria per me, che altrimenti non sarei mai riuscita ad affrontare nulla. Mi era stato semplicemente, amorevolmente, accanto. Come solo lui avrebbe potuto fare.

Lo vedevo, il tormento che l’attanagliava. Riuscivo a riconoscerlo. Nei suoi occhi chiari, i suoi amorevoli lineamenti, vedevo la sua sofferenza. Aveva paura, una folle paura, che la mia instabile emotività potesse essere scossa ancora. Potevo farlo soffrire in quel modo?

Mi obbligai a fare un cenno di quello che doveva essere un sorriso, e la sua espressione si fece ancor più angosciata.

Pensava ora che non ricordassi nulla? O che stessi per scoppiare ancora a piangere?

Portai una mano al suo viso, e una al pancione. Sbattei le palpebre, e non mi obbligai più a muovere in qualsivoglia innaturale modo i muscoli facciali. E così, la vita di Philip aveva avuto la sua fine. La mia testa, intorpidita da quello che doveva essere stato un lunghissimo pianto, riuscì a comprenderlo.

«Dovresti dire ad Alice di procurarmi un abito nero, per piacere» dissi, atona, malgrado la voce grattasse contro la gola secca. «I funerali saranno domani? Oppure dovremmo aspettare?» biascicai senza forze, dirigendo il mio sguardo nel suo.

Tentennò, ponderando le mie parole e la mia reazione. «Carlisle si è occupato della documentazione, non sarà necessaria un’autopsia» fece, cauto. «Esme sta organizzando il resto. Pensava ad una piccola cerimonia a Sequim… cosa ne pensi?» chiese con discrezione. Stava vagliando la mia reazione, aspettandosi qualsiasi cosa da un momento all’altro.

Ma io sapevo cosa fare, me l’aveva chiesto lui. Era giusto che avessi la mia vita con Edward e con la bambina. Per Edward, per la bambina, e per me. Vedevo la strada davanti a me. Dovevo solo sbarazzarmi di quelle ortiche che mi tenevano ancora ancorata, prima di percorrerla.

Senza fretta, senza ferocia. Lasciando il tempo al dolore di fare il suo corso.

«Sono convinta che Esme sappia cosa fare. E…» deglutii, massaggiandomi le tempie «Non conosco nessuno fra i suoi parenti, ma sono convinta che alcuni suoi alunni vorrebbero presenziare…» mormorai.

«Certo, va bene» acconsentì immediatamente «provvederà a tutto, vedrai» fece accorato, stringendomi fra le braccia, ansioso e desideroso di rassicurarmi.

Gli accarezzai i capelli, gli baciai la scapola. «Va tutto bene… Edward» mormorai infine.

Si staccò da me per guardarmi negli occhi.

«So quello che è accaduto. Lo aspettavo da tanto. Ma… ma io ho te. E ho nostra figlia, qui, in grembo, che cresce e scalcia, e mi fa sentire la sua forza e la sua vita. E, malgrado tutto, Philip è morto… con sua figlia accanto. Va tutto bene. Riuscirò a guardare avanti a questo, e lo supererò,  riprendendo le redini della mia vita, come è giusto che sia. E dobbiamo farlo, perché dobbiamo affrontare ancora tutto quello che ci attende, e… non sarà il più roseo dei futuri».

L’oro dei suoi occhi scintillò fino ai miei.

«Solo, Amore» sussurrai, mentre la gola si stringeva «adesso, devi ricordarmi come si fa a respirare». Portai la sua mano sulla pelle scoperta del mio collo. «Ricordami come si fa a respirare, perché, davvero, non ci riesco…».

Mi strinse velocemente fra le braccia, forte, cullandomi. «Non lo ricordo più nemmeno io…» mormorò «ma… possiamo provare insieme» disse, e mi baciò, soffiandomi aria nei polmoni e concedendomi di fare lo stesso.

 

Rimasi ad osservare il bosco, sulla soglia di casa. Gli altri stavano sistemando tutto per la partenza, e entro poche ore sarebbe arrivata un’ambulanza. Non avere più un motivo per restare mi faceva avvertire un indicibile senso di vuoto.

Il cielo era coperto da un manto leggero di nubi. Guardavo gli alberi, e pensavo che il giorno prima c’ero stata io fra quegli alberi, rischiando di perdere la vita e quanto di più caro avevo avuto al mondo. Pensai che il giorno prima fra quegli alberi c’era stato anche il professor Philip. Dov’era finita, ora, la sua essenza?

A testa alta sfidai l’orizzonte nascosto. Incredibile come la mia immensa felicità potesse essere mutata così, nel giro di poche ore.

«Hai sbagliato» dissi, con voce ferma. «Hai lasciato che il dolore ti consumasse. Ti sei fermata a rimpiangere il passato. Hai fatto l’errore più grande che potessi commettere. Hai affogato l’affetto, e l’amore, sotto un mare di paura». I miei occhi ondeggiarono fra le foglie. «Hai sbagliato, Kate. E ormai non importa più nulla, perché più nulla potrà cambiare. Hai perso la tua occasione, per colpa della tua sciocca paura». Voltai le spalle la bosco, stringendomi nel giaccone e salendo le scale. «Addio per sempre, Kate».

Mio marito mi accolse sull’uscio, baciandomi le palpebre.

 

I miei occhi rossi e mesti ricambiavano il mio sguardo sulla specchiera.

«Edward» sussurrai, sentendo la gola stringersi. Sapevo che quello che stavo per dirgli non gli sarebbe affatto piaciuto, almeno quanto non piaceva a me, ma speravo che mi comprendesse. Avevo preso la mia amara decisione quella stessa notte, passata a piangere silenziosamente fra le lenzuola.

Mi fece voltare, piegandosi sulle ginocchia per arrivare alla mia stessa altezza col viso. Si fidava di me, e mi amava. Avrebbe accattato di tutto.

«Non possiamo permetterci» mormorai, e sentii già la gola stringersi. Presi un respiro, schiarendomi la gola, perché altrimenti non sarei mai riuscita a continuare, a dire quello che mai una madre dovrebbe dire. «Dobbiamo proteggere nostra figlia» dissi, la voce incrinata.

Le sue sopracciglia si alzarono, e la sua mano corse al mio pancione, sul vestito nero. «Bella, amore mio, noi faremo…».

Scossi il capo, lentamente, e la nausea mi pervase per quello che stavo per dire. «Dopo il parto» farfugliai «dobbiamo…» presi un respiro, ma, malgrado tutto, un singhiozzo sfuggì dalle mie labbra, «dobbiamo nasconderla Edward… dobbiamo… allontanarla da noi» piansi.

 

Non contai le lacrime, che pur scorsero, libere e abbondanti, sulle mie guance. Quale modo migliore per sbarazzarsi del dolore, se non l’oblio dei sensi? Non potevo essere più dilaniata di così. Neppure quando Edward mi aveva lasciata, avevo provato tanto dolore. Neppure in seguito al mio primo incontro ravvicinato con Jacob. Era troppo, troppo.

Rimasi così tanto tempo a fissare il continuo scorrere del paesaggio davanti a me, che credetti davvero che nella mia testa il tempo potesse essersi fermato sotto il velo dei miei occhi gonfi. I cadenzati raggi di luce filtrati dai vetri oscurati, la mano di Edward che accarezzava il velluto nero sulla mia pancia, il dondolio dei nastrini di raso nero fra i miei capelli, i sospiri di Esme, le rassicurazioni sussurrate da Carlisle.

«É lì fuori» mormorai, rompendo l’immobilità generale. La mia voce era adatta al luogo in cui ci stavamo dirigendo. Ruotai il capo, molto lentamente, in direzione di mio marito. I suoi occhi mi squadravano attenti e preoccupati.

La decisione, io, l’avevo già presa. Edward aveva detto di no, che l’avremmo sconfitto, che ci saremmo riusciti. Ma io, per quanto potesse per me essere terrificante l’idea di strapparmi dal seno mia figlia, sapevo ciò che dovevo fare, per lei. Mi sarei lacerata l’anima piuttosto che vederla morta.

«Hai paura?» chiesi, nuovamente senza alcuna inflessione nella voce.

Portò una mano sulla mia guancia, sotto la nuca, accarezzandomi i capelli. «Non devi temere nulla. Non ti farà del male, né a te né alla bambina, sta tranquilla. Abbiamo la situazione sotto controllo» si affrettò a rassicurarmi. «Non ci sarà bisogno di fare nulla, vedrai…».

«No» mormorai, e presi un respiro, cercando di schiarire la mente annebbiata. «Non è quello che ti ho chiesto». Lo fissai nuovamente ed insistentemente. «Hai paura?».

Le sue palpebre si socchiusero. «Bella…».

Mi lasciai andare sul suo petto. «La nostra vita era stupenda due giorni fa. Ma la felicità non dura mai così a lungo. Sapevo che dovevamo attenderci tutto questo… Ma… non possiamo permettere alla paura di fare questo. Dobbiamo prendere la decisione migliore…». Il mio lento lamento era venuto fuori impastato, tra le mie labbra. Tutta la mia meravigliosa vita mi stava crollando addosso, inghiottita dal buio. Tutto quello che avevo sempre creduto passato non stava che aspettando per farmi più male possibile.

Edward mi strinse forte al suo petto, baciandomi con foga le labbra tumide. «Non dobbiamo consentire alla paura di rovinare la nostra vita…» mormorò, ripentendo le stesse parole che solo il giorno prima avevo urlato al vento. «E non consentiremo al coraggio di fare lo stesso».

 

Il verde smeraldo riprendeva il motivo di un prato inglese, e pensavo davvero, stupendomi di quel mio pensiero assurdo nella mente annebbiata, che sarei potuta essere a Londra, visto come la pioggia cadeva giù dal cielo.

Quando arrivammo al grande spiazzo verde, circondato dagli alti aghifoglie, la funzione aveva già avuto inizio. C’era un piccolo gruppetto di ragazzi, professori, e conoscenti forse. Non era da considerarsi una folla, ma avrebbero fatto onore alla memoria dell’eccentrico professore.

Al suo pensiero e alla vista di quel legno scuro dov’era celato il suo corpo, non potei impedire alle lacrime di trovare il loro percorso sulle mie guance.

Edward strinse un braccio al mio busto, sorreggendo l’ombrello, tanto grande da coprirci entrambi, con l’altra mano. Non riuscivo bene a focalizzare tutti i dettagli attorno a me, ero così confusa. A malapena riuscii ad accorgermi dell’uomo che mi cedeva il posto sulla sedia di legno.

Rimasi tutto il tempo a piangere, credendo che solo quello avrei potuto fare in quel momento. E se solo pensavo al fatto che non avrei più rivisto quel paio di occhi cerulei, o che l’orrore ci aspettava, lì, da qualche parte, o il futuro che incombeva su di noi, i miei singhiozzi si facevano più fitti e forti.

Mio marito si abbassò sui talloni, guardandomi negli occhi. Riuscii ad accorgermi che la funzione era al termine, ormai, e che tutti stavano dando l’ultimo commiato, intrattenendosi con i reciproci ricordi.

«Vuoi andare?» mi chiese con gentilezza.

Mi guardai attorno, frastornata, e mi diede tutto il tempo di ritornare coi pensieri al presente. Mi asciugai gli occhi con il fazzoletto che mi trovavo fra le mani e annuii, sollevandomi. Insieme alle lacrime, speravo di lasciare su quell’erba verde anche quella paura che avevo rimproverato a Kate, ma sapevo perfettamente provare io stessa.

Davvero sarei stata capace da spingermi così oltre, tanto da sacrificare il mio amore, parte della mia anima, di me stessa, per salvare mia figlia?

Cominciai a contare le settimane che mi sarebbero rimaste fino al parto…

«Stiamo andando a casa?» chiesi tremante, camminando sul prato bagnato.

«Si, amore. Puoi fare un bagno caldo e riposarti un po’, se vuoi…» mi rassicurò Edward, sorridendomi appena.

Sospirai, e i miei occhi spenti si dispersero nel vuoto. «Si… Credo che dormirò un po’» farfugliai.

Mio marito mi sorrise ancora, baciandomi le guance e le labbra, cercando di comunicarmi tutto l’affetto possibile.

Anche gli altri stavano venendo via, verso il marciapiede. Carlisle e Esme si sarebbero fermati per concludere le formalità. Edward si voltò, sempre attento a tenere l’ombrello sopra di noi, aprendo con l’altra mano l’auto, le cui luci lampeggiarono per un istante, contemporaneamente.

Sbattei le palpebre, cacciando un respiro fra i denti. «Edward» mormorai, e immediatamente si voltò verso di me, preoccupato. «Non… mi sento bene…» farfugliai, prima di crollare su me stessa.

Lasciò andare l’ombrello, afferrandomi con entrambe le mani. «Bella!» gridò allarmato, vedendo le forze abbandonarmi completamente.

E un corvo gracchiò, nella mia testa.

 

 

 

 

Mi dispiace per il ritardo, e mi dispiace perché quasi certamente questo non è quello che molte di voi si aspettavano.

Ma questo passa il convento…

Non temete, e ricordate quello che ho scritto “lieto fine”. Non troppo pazzo, spero.

Confido in illuminate e illuminanti riflessioni. Confido in voi. ;)

 

Nei prossimi capitoli l’incomprensibile sarà capito. Lo spero. Mi sto applicando per rendere tutto comprensibile ^^

 

GRAZIE. Siete state davvero meravigliose con me.

 

Sono felice di aggiungervi su twitter, @Keska92, dove potrete conoscermi un po’ e trovare notizie su aggiornamenti e quant’altro.

 

Grazie, ancora. Grazie. Grazie. Grazie.

 

A presto. :*

 

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

 

Luna Renesmee Lilian Cullen Giorgina cara! Ciao. :) Ti ringrazio tantissimo, sono davvero contenta che ti sia piaciuto! Era un capitolo importante, l’avrai certamente capito, ero preoccupata per l’esito che avrebbe potuto avere… Vedrai, che un modo mi inventerò per sconfiggere Jacob! Dopotutto ho scritto “lieto fine”, no?! Ogni promessa è debito. Sono davvero contenta che ti piaccia la mia Rosalie. Ovviamente non si può dire sia il mio personaggio preferito (quel posto è occupato da Carlisle), ma occupa un dignitoso posto nella mia scala. Per quanto riguarda il suo comportamento in BD, vedi, ti posso rispondere solo questo. Ogni scrittore scrive e pensa ritenendo che il personaggio si comporti in un determinato modo per dei motivi. Evidentemente, se non lo specifica, vuole lasciare al lettore la possibilità di immaginare ciò che più gli aggrada. Ma, se chiedessi a me se Rosalie si comporta così per aiutare Bella o per avere il bambino per se, nella mia opinione ti posso dire entrambe. Nessuno è un moralista e ha solo luce in sé, per quanto voglia. Può magari anche rendersi conto dei proprio sbagli, ma non riuscire o volere cambiare. Ecco quello che penso. :) Grazie di tutto tesoro. :*

bambolina9988 Ciao! Grazie infinite! Sono davvero contenta di avere una nuova lettrice! Vedrai che ogni cosa si capirà. So che questi sono capitoli con un ritmo un po’ pedante, però, vedrai, ho intenzione di dedicare quelli che verranno esclusivamente alla comprensione di quello che è accaduto. :) Grazie ancora…

mazza Ahahah, si, è vero tesoro, ogni tanto ridacchio leggendo quello che mi scrivete. Ogni tanto il cuore batte, un po’ per agitazione e paura, un po’ per riconoscenza e orgoglio. Ma mi sento sempre molto, molto bene, in qualsiasi caso, leggendo le recensioni. Grazie mia carissima piccoletta gamma, di essere qui dopo ben 66 estenuanti capitoli! Ahahah… è vero, riparte la maratona di insulti al cane, ma come avresti potuto pensare che avrei potuto lasciarlo da parte, perdendo l’intero obbiettivo della mia fan fiction?! Ucciderlo una sola volta, evidentemente, non era sufficiente! Dovevo approfonditamente vendicarmi di tutte le libertà concessegli dalla Meyer. In realtà inizialmente non avevo in mente nulla di quello che ho scritto! Pensavo più che altro di mantenerlo come amico, facendolo soffrire u.u ma poi, tutto ha preso sta piega… Ehh… sempre detto che devo sistemare i primi capitoli! Prima o poi lo farò! ^^ A presto cara, e grazie, infinite! :*

endif Grazie. Spero davvero che possa esserti piaciuto, per questo e per i capitoli a venire non trovare remore a esprimere quello che pensi. Il ritorno di Jacob, e la leggenda, sono sempre stati i punti fissi nella mia testa, più o meno da quando ho concepito questa storia. É tutto ciò che è passato in mezzo, i vari indizi e intrecci, i dettagli, sono stati aggiunti in seguito. Siccome le assurdità non sono finite, e ovviamente, ancora niente è concluso, tremo ancora come una fogliolina, ma voglio davvero conoscere i tuoi pensieri a riguardo, di qualsiasi genere. :) Grazie davvero per esserci sempre. :*

cloe cullen Ciao tesoro! Non ti preoccupare, figurati. So che questo è un periodo denso di esami! Pensa a scrivere, che ci mancano le tue storie. :) A presto :*

Biaa Ciao! Scommetto che te le devo davvero queste ore di sonno! Non dev’essere affatto semplice leggere una storia di ben 66 capitoli in soli pochi giorni! Chapeau a te! Grazie infinite per tutti i complimenti. Il desiderio di intrecciare quanto più possibile una trama, e l’idea che una storia debba essere zeppa di sorprese per essere entusiasmante, beh, direi che sono i principali motivi che ho in mente mentre scrivo! Talmente tanto, forse, da tralasciare tutto il resto! Beh, mi diverto scrivendo, è già questo è tanto importante. Poi è ovviamente lusinghiero ricevere recensioni e commenti, e sapere di essere riusciti ad entusiasmare anche il lettore è quanto di meglio si possa immaginare. Mi ha fatto davvero tanto piacere ricevere la tua attenta e gentile recensione. Onorata di avere una compagna nella lotta anti-Jacob ;) Sangue?! Più o meno… Spero bene :S

giulia_cullen_96 Eh, altrimenti Renesmee dove nasce?! Ahahahah, no, dai non ti preoccupare, che ci penso io a farla nascere la bimba, che NON si chiamerà Renesmee, però… u.u Beh, “a volte ritornano”, si dice così, non è vero?! Ed è tornato anche Jacob, come è giusto che sia. In effetti, la prima volta che l’avevo tolto di mezzo, sembrava in tutto e per tutto morto! XD Grazie per la recensione! A presto…

Struppi Ahahah, si, ormai siete tutti fissati a chiamare la bimba Lilla! Anzi, direi che c’è un team Lilla, e uno anti-Lilla! Chissà come andrà a finire, alla fine confonderete anche me! Va bene, questo è un maga casino, te lo concedo. Ma, pensaci. Mega casino = mega pace dopo, mica male, no?! Ecco, a presto con la mega pace! ^^ (Grazie di tutto, gentilissima! :*)

Lau_twilight  Ciao, e grazie tesoro! Sei sempre, te l’avrò detto un miliardo di volte ormai, gentilissima con me. É colpa del fatto che ripenso quasi 24 ore su 24 a questa storia, se poi mi vengono in mente tutti questi intrecci fitti, fitti! Ho avuto molte volte paura di perdermi e di non riuscire a organizzare tutte le storie e svilupparle in parallelo. Spero che quello che accadrà in seguito continui a sembrarti ben collegato, e non troppo assurdo o folle! Ti giuro che sto morendo di paura! Ma tutto è già scritto, è troppo tardi per tirarsi indietro, purtroppo :S

manuelitas Grazie infinite! Sono contenta che “tutti i tasselli siano tornati apposto”. Allora, per quanto riguarda il professore, la questione è più semplice, e verrà affrontata in seguito nei capitoli, ma ti preannuncio già che è stato per una questione di riflessione “personale”, ecco. Per quanto riguarda i licantropi, la cosa è più controversa, ma pure verrà affrontata! Non ti resta che aspettare un po’, il tempo di farmi raccogliere le idee e inserirle nel capitolo ;) Grazie ancora.

svampy1996 Okay, grazie! Dire che non ho notato il tuo entusiasmo sarebbe fin troppo ironico! Sono davvero contenta che la mia storia ti piaccia! E tutti i punti esclamativi e le esclamazioni sono state molto lusinghiere, direi… Grazie ^^

silvia16595 Silvietta mia! Eh… qui, direi che le cose non stanno andando precisamente come sperato. Ma non disperare, c’è ancora un po’ di tempo per aggiustare il tiro, no?! Il professore è un personaggio dinamico. Credo che anche questo capitolo non ti abbia lasciato a bocca asciutta nei suoi riguardi! Dimmi cosa ne pensi. Grazie cara, grazie per le tue bellissime parole. :*

ale03 Grazie!!! Mi dispiace tantissimo di averti shockata! Però, suvvia, cos’è la vita senza un po’ d’emozione?! Bisognerebbe dirlo a Bella e Edward, che, poveretti, si ritrovano in queste condizioni. Il personaggio del professore mi ha dato davvero tantissimo spazio per esprimermi, e credo che anche tu avrai la possibilità di offrirmi un nuovo giudizio dopo questo capitolo! Comunque, non disperare, perchè Lieto fine rimane sempre scritto lì. Sono io che mi sto disperando, perché questi capitoli sono davvero super pazzi, e ho paura di quello che sto scrivendo, in tutta sincerità! :S Speriamo bene… Grazie per tutto!

Noemix Chi è questa figura nera?! O.o Non comprendo l’allusione!!! O.o Chissà… Mi spiegherai… Comunque, ti sembra modo di iniziare una recensione! Prima mi chiami “cuore” e poi mi dici che mi ammazzi! Mi fai prendere un coccolone! Cielo! I miei nervi fragili! =.= comunque, non è mica colpa della bimba, anzi. Lei non c’entra proprio niente… povera, non sono che le è toccato quel cane con l’imprinting, pure le offese u.u :P Bacio cara. :*

FUNNi Adulatrice! *.* *diventa tutta rossa e si nasconde il viso* Cielo! Di questo passo il mio ego non sarà rintracciabile nei confini terrestri! Quando scrivo i dettagli non mi sembrano davvero mai abbastanza. Ho l’idea nella mente di dover evocare un’immagine o una sensazione vivida nella mente del lettore. Questa è una cosa di cui non posso fare a meno! Per quanto riguarda Jacob, hai perfettamente ragione, ucciderlo per ben 2 volte, è molto più soddisfacente. Insomma… Non si erano vendicati abbastanza, vero?! Però, però, c’è sempre l’altra faccia della medaglia, e direi che non è che Bella e Edward se la stiano cavando proprio benissimo, ecco… Spero non ti manchi la fiducia in me, e nelle parole “lieto fine”. ;) Grazie ancora, a parte scherzi, sei stata stupenda. Grazie davvero.

GiovaneStella *^* Paura! :S Ti ho deluso?! Beh… diciamo che non avevo in mente proprio una vera battaglia, solo un piccolo scontro… ed evidentemente, i fatti non si sono conclusi… Spero tu abbia ancora un po’ di fiducia in questa testa pazza, e che i prossimi collegamenti, quelli si, non ti sembrino troppo azzardati. Nel frattempo, non posso far altro che ringraziarti. Grazie.

lisa76 Ciao! No, no, in effetti il capitolo era molto complesso e poco comprensibile. Ho cercato di semplificare il discorso, inserendo anche in chiosa la leggenda, ma evidentemente una cosa è tenere i pensieri nella mia testa e un’altra esprimerli. Dunque. Per quanto riguarda la storia dei pensieri, è una cosa che si vedrà in seguito, come anche tanti piccoli dettagli. Jacob è scampato alla morte del suo corpo trasformandosi in spirito, staccandosene. Era perso e disorientato nel mondo degli spiriti. Ha ritrovato la strada per tornare, un punto fisso, nella bambina. In questo caso, un punto fisso da odiare. L’odio per la piccola, per Bella, per Edward, hanno condensato il suo Spirito in un corpo. Ecco, spero di essere stata più chiara… Se così non fosse, dimmelo senza problemi. Scusa se non lo sono stata nel testo…

RenEsmee_Carlie_Cullen Grazie a te!!! Si, si, non ti preoccupare, e non ti fare shockare da questo capitolo! Il bene trionfa sempre sul male! Sono contenta che il mio collegamento folle ti sia piaciuto! Grazie infinite! ;)

Mapi Ciao! Sei stata davvero gentile, sono contenta che la mia storia ti piaccia. Non ricordo neppure il giorno in cui collegai gli indizi, è passato così tanto tempo ormai! Questa storia è stata una continua scoperta, e tanti pezzi, per mia fortuna, hanno deciso di incastrarsi da soli, non so come avrei potuto fare altrimenti! Lo so che questo capitolo è un po’ così… ma… abbi fede. “Lieto fine” ;)

mikvampire Grazie, grazie, grazie! Mi sono sempre chiesta come avreste presto la notizia, pensando ci potessero essere dei sospetti in giro, o, al contrario, che nessuno temesse nulla. Non posso che essere contenta per come avete appreso la notizia, e spero che questo capitolo non peggiori ancora la tua ansia. A presto con il prossimo!

rodney Certo, un trasloco è sempre un bel problema! Stare senza internet, poi… :S Non riuscirei proprio a pensarci! Comprendo le tue imprecazioni! Beh, in teoria lo scopo era quello di sorprendervi, sono contenta di esserci riuscita. Penso proprio che tu abbia ragione, una delle cose peggiori di tutta la faccenda è proprio il contatto che la piccola ha avuto e sta avendo con quell’essere assolutamente immondo! É veramente una cosa orribile… ma non potevo scrivere di meglio, ho cercato di attenuare gli aspetti più negativi! Che ne dici di Philip in questo capitolo?! Ehh… Purtroppo, mai nulla è come sembra… ;) Grazie di tutto.

Nessie93 No, sacrificare Carlisle sarebbe praticamente come l’amputazione di un arto per me, sta tranquilla, non lo sacrificherei mai e poi mai! Sono davvero contenta che tu non abbia alcuna intenzione di abbandonarmi! Beh, sapevo che sarebbe stata una verità sconvolgente, e speravo che vi avrebbe sconvolto in positivo. :) Grazie mille, sei stata gentilissima! A presto! :* Ps. Con Edward, tutto è possibile! :D

_zafry_ Oh, bene, allora direi che su un punto siamo più che d’accordo, perché lo odio tantissimo anch’io! :P Vedrai, presto: Vendetta. ;) Grazie! ;)

patu4ever Grazieeee! Grazie, grazie, mille! Mi rendo conto di star scrivendo capitoli impegnativi, che sia difficile starmi dietro in mezzo a tutte queste cose nuove (e il prossimo capitolo sarà ancora peggio), ma confidavo al massimo nella vostra, nella tua, capacità di analisi e lettura. É vero, è un bel paradosso che la bambina sia contemporaneamente la cosa più bella che possa essere capitata ai Cullen, ma anche fonte, anche se totalmente indiretta, di questa disgrazia. Sinceramente non ricordo neppure come mi sia venuto in mente di collegare la leggenda Quelites a tutto questo! Sarà stata una delle tante volte in cui rileggevo il libro pensando a Cullen’s Love… (anche se in genere la parte delle leggende la salto sempre, sai che noia! :P). Bene. Non posso che aspettare un altro tuo magnifico commento. Adoro la tua capacità di analisi! *.* Ps. Non mi minacciare, plissS! *.*

LudoCullen96 bene! Prego, per me puoi anche entrare nella storia e farlo fuori. Sai, devo dire la verità. Scrivendo questa storia mi sono liberata di molto di quell’odio che avevo per Jacob. Non so… Magari è che la vendetta si è ormai compiuta… magari è perché è qualche mesetto che non riprendo in mano Eclipse! Penso che ora che vedrò il film comincerò a ripensarla diversamente! Sono davvero contenta che ti sia piaciuto quello che ho scritto! *.* Avevo una paura matta, e ho spesso pensato di aver scritto assurdità! Ahahah, meglio così! Grazie! ;)

Ros_Ros Oh, si, grazie mille! :P beh, non ti preoccupare, non è solo perché hai il “cervello scollegato” che non riesci a dare risposta alle domande che mi hai posto. Diciamo che cono gli “enigmi” a cui ancora non ho dato risposta, ma che l’avranno molto presto… In ogni caso, direi che ho risolto la parte principale di tutta la “matassa”, no?! Con la comparsa di Jacob dovrebbero essere scomparsi (permettimi il gioco di parole) parecchi interrogativi davvero! Per quanto riguarda il professore, come hai potuto notare, si è affrettato a fare la sua parte, ma purtroppo, non hanno fatto i conti con la forza che pure ha questo nuovo jacob, e la minaccia del suo sangue! ^^ presto una soluzione a tutto, promesso! :)

congy Cara! (anch’io in questo capitolo ci ho messo, non volendo, una semi-citazione di Foscolo - É forse la morte men dura..? - qualcosa del genere ahahahah). Si, hai indovinato, per una volta! Facciamo partire la fanfara! Che cosa succederà a Jacobino caro?! Chissà. Chissà, perché questo capitolo non promette nulla di buono, vero?! Ehh… vedremo cosa accadrà. Aspettati di tutto dalla mia testolina, da me completamente indipendente! u.u

ichigo15 Ohh! No, direi che potrei fare proprio di tutto, tranne offendermi, se mi dici che potrei trarne un libro. Magari, se non fosse una fan fiction ci penserei sul serio! Per ora però devo ancora migliorare e imparare tanto. Forse, un giorno, chissà… Potrei anche scrivere qualcosa di mio. Grazie, un pensiero davvero carino. :)

Sognatrice85 Grazie!!! In effetti, con Jacob non era finita. Mi sono spesso chiesta cosa potesse immaginare chi leggeva quello che ho scritto. Se pensavate che Jacob sarebbe tornato, come, se era in qualche modo nei vostri pensieri, o se sarebbe stata una cosa del tutto inaspettata! Hai ragione, Bella ha sofferto e sta soffrendo moltissimo, anche ora. Sono davvero contenta che ti sia piaciuta la scena in cui si ritrovano, con Edward al limitare del bosco. É… Mi sono immaginata questi sussurri nel silenzio e nel terrore generale, ecco. :) Grazie ancora, una bellissima recensione.

blu_ice Ciao! Grazie infinite! In effetti, si, è una bella svolta! Che però stavo covando da un bel po’ di tempo… Aspetta e vedrai, cosa ho in serbo ancora! ^^

Roxisnotdied Oh! Grazie, grazie mille! *.* Lo so che da questo capitolo sembra solo che le cose stiano andando peggio, ma, fiducia! Datemi un po’ di fiducia e tutto si sistemerà, lo prometto! Grazie infinite per la tua gentilezza!

DarkViolet92 Oh bene! Sono contenta che tu sia riuscita a placare i tuoi istinti omicidi nei miei confronti! ^^ Allora, domande legittimissime quelle che hai fatto, e ti prometto che molto presto avranno tutte quante una soluzione. :) Diciamo che sono gli ultimi enigmi ancora non risolti! Aspetta a vedrai, con la speranza che quello che leggerai ti piaccia!   

rei__ Ahahah, beh, mi spiace che non sia ancora morto. Ho detto “ancora”? :P Ti giuro che non so davvero io come ho fatto a collegare un’idea del genere, con tutto quello che viene prima e con quello che verrà. Moltissimi sono stati i colpi di fortuna, i lampi di genio estemporanei, e senza questi niente avrebbe avuto senso o veridicità. Sono davvero contenta che nonostante la lunghezza ti sia risultato scorrevole! Spero sia lo stesso con questo, che è di ben 9 pagine di word! ^^ Grazie mille per tutto, sei stata molto gentile. :)

KatyCullen :D Grazie allora! Bene, sono contenta che tutti i pezzettini, gli indizi, gli enigni irrisolti, siano andati al loro posto e abbiano avuto la loro soluzione. Come vedi, per ora, la risoluzione del problema non c’è! Ma stai con gli occhi aperti e aspettati di tutto, mi raccomando! Grazie, grazie! :*

ledyang Davvero non è servita la spirale?! Sicura di no essere ancora sotto ipnosi?! Ahahahah Io non ci giurerei… E non sono sadica, suvvia, non hai ancora visto niente, rispetto a quello che ho intenzione di fare! Muahahah! Si! Ti voglio fare morire d’infartoooo! Muahahahah! A presto! É una minaccia!!! :P

Dreamerchan Carissima! Allora. Premettendo che adoro le domande - che creatura è diventata Jacob? É un umano molto poco umano. Ha tutte le fattezze di un umano, testa, corpo, braccia, gambe. Però, ha la pelle nera, nera, è imponente, massiccio, i muscoli turgidi e gonfi, e, cosa più importante, è ricoperto di cicatrici, bianche. Perché, il suo sangue è bianco. Ci tengo a precisare che è corporeo e non spirituale. Ecco cos’è ^^ In effetti, la lotta c’è stata, ma… direi che non è stata quella la soluzione… :P Grazie ;)

ANNALISACULLEN Eheh, si, non ti fare impressionare da questo capitolo, ti prego! Che già prima ti vedevo piuttosto aggressiva, non so cosa aspettarmi dopo questo, ammetto che mi sento colpevole ^^ ma si, ricordati che ho scritto che sarà una storia a lieto fine, e fidati di me, che sono l’autrice - si fa per dire ahahahah - e tutto si aggiusterà, prima a o poi! :P

Luna Viola Carissima! Eh, si, della serie “a volte ritornano” e “chi non muore si rivede”, sei ritornata non solo tu, ma pure Jacob! Scherzi a parte, mi fa davvero piacere che tu abbia deciso di lasciarmi un’altra recensione! Grazie mille. Lo so, anch’io soffrirò le pene dell’inferno ora che questa storia finirà. Sto già pensando a scrivere qualcosa di diverso, ma i miei pensieri tornano sempre qua, con nuove idee che però non potranno vedere luce. Sono davvero contentissima che tu abbia potuto apprezzare il mio “colpo di scena”, con tutte le maiuscole, come hai detto giustamente. É vero, è orripilante! Mi hanno detto che sembra sbucato da un film dell’orrore! Ahahahah Ti ringrazio infinitamente per gli apprezzamenti ai personaggi. Gli ho sempre ritenuti il mio tallone d’Achille. In particolare, grazie per quello che hai detto del mio professore. É stato il mio primo esperimento di personaggio principale! Ma quelli della storie che hanno partecipato al concorso erano davvero caratterizzati benissimo. :)

patrizia 61 Ciao! Grazie infinite! Si, si, il modo per liberarsi del “sacco di pulci”, ovviamente, c’è, nella mia testa ben custodito. Se non ci fosse non mi sarei mai permessa di scrivere nell’introduzione “lieto fine”. Tuttavia, almeno ora, non è una soluzione evidente, né scontata. Ma sarà la giusta soluzione. :) Lo spero, almeno!

ste87 Oh! *.* Mi pare inutile oppormi ai tuoi ringraziamenti, visto che continui a dispensarne! (Potrei farlo, ma sinceramente mi sento troppo lusingata). Sono davvero contentissima che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Era importante. :)

frafru Ahahah, si, ma direi che è stato inevitabile come colpo di scena, e ti giuro, non in reazione alla tua richiesta, ma molto, molto premeditato! Ahahahah ;) beh, ci vuole un po’ di movimento, non è così? Anzi, ho trascinato indizi e enigmi, come giustamente mi facesti notare, anche per troppi capitoli. Era ora, finalmente di conoscere la verità, quale che essa sia, no?! :P Okay. Non mi ammazzare nemmeno per questo “colpo di scena”. La mia storia è poco ortodossa, ho condotto il tutto in maniera tale, ma, ricordati, “lieto fine” rimane sempre. Quale che sia la sempre poco ortodossa soluzione! :) Spero di tuo gradimento. A presto!

damaristich Ciao e grazie! Sono davvero contenta di rivederti! Allora, rispondo con piacere alle tue domande. Allora, si è una specie di horcrux, senza l’oggetto, solo per il fatto che l’anima sopravvive e il corpo no. Jacob non è Taha Aki, semplicemente costui era un suo antenato, il suo capostipite, e aveva il potere di essere una spirito guerriero. Ora. Il fatto che Taha Aki si diventato lupo, non vuol dire che ha penso la possibilità di diventare anche lui, a suo piacimento, Spirito. Non l’ha fatto solo per la pericolosità della cosa. Oer quanto riguarda il professore… :P beh, lui seguiva Jacob, perché voleva ucciderlo. I dettagli li conoscerai molto presto, e tutto ti sarà più chiaro ;)

chi61 Grazie mille. Aspettavo la tua recensione con ansia. Sono davvero molto contenta che tutti i tuoi dubbi e le tue perplessità siano stati chiariti. Riguardo al problema dei licantropi, in particolare, ho pensato che Edward non sarebbe riuscito a fidarsi di loro, non dopo come si erano comportati in seguito alla morte di Jacob. E il fatto che il messaggio che veicolavano e il modo in cui avevano intenzione di risolverlo, sarebbero potuti essere causa di un acceso incontro, ha bloccato i licantropi dall’altro lato. Ricordo perfettamente di aver scritto che la storia è a lieto fine :) manterrò la promessa, lo giuro. E spero di non essere ancora più folle di quanto io non sia stata ora nella soluzione del problema. Mi raccomando, occhi aperti, confido in te. Grazie per tutto. Grazie per la recensione. Non esitare a dirmi cosa non va.

Lizzie95 Accidenti. É una recensione davvero bellissima. Ho sentito tutta la tua felicità, e carica, e… è stato stupendo. Sono davvero contenta che il capitolo possa esserti piaciuto così tanto. Sono davvero, davvero, davvero, commossa, per il fatto che la mia storia ti piaccia così tanto. Mi sono prefissata obbiettivi fuori dalla mia portata, e adesso sto tracciando i miei limiti, e ho tutta l’intenzione di superarli. Mi diverte tantissimo scrivere questa storia, e aspettare le vostre reazioni, sperando che siano proprio simili a quelle che io stessa ho provato, ideando i capitolo e fantasticando sui personaggi. Scrivere è divertente, è emozionate, è anche stancante a volte, e a volte diventa persino impegnativo, però… per ricevere recensioni come quella che mi hai lasciato tu, si, in questo caso penso ne valga proprio la pena. :) Che creatura orgogliosa sono, non è così?! Me ne farò una ragione… ;)

mony cullen Ciao! Grazie mille! Sono contenta che tu abbia deciso di lasciarmi una recensione! Il problema dell’imprinting verrà affrontato nel prossimo capitolo. ma ti posso già annunciare che non si tratta di qualcosa di perfettamente convenzionale, ecco. Non sussiste, nel mio caso, il problema che ti ponevi nell’ottica della bimba :) Spero che ogni tuo dubbio possa essere fugato molto presto!

titty88 Ohh! O.o Mi dispiace per averti shockata! *.* Sono contenta che rileggendo la mia storia ( *.* ), ti sia venuta in mente l’idea che Jacob potesse essere non definitivamente morto, diciamo… E si, è proprio una brutta cosa che Jacob abbia avuto l’imprinting con la piccola… una cosa davvero obbrobriosa che la bambina debba essere stata in contatto con la mente di quell’orribile mostro. Non vi voglio morte, lo giuro! (anche se da questo capitolo non sembrerebbe), ma se voi moriste, chi leggerebbe la mia storia?! u.u non si può…

AriRock Ahahah! Ho seminato panico! Spero che la cioccolata non ti sia andata di traverso in questo capitolo ahahahah Mi spiace che Philip non possa essere proprio la soluzione dei problemi. ^^ Grazie, grazie, per tutti i fantasticissimi complimenti. Ho sempre cercato di scrivere una storia che fosse in qualche modo parallela a quella della Meyer, e ho pensato che prendere spunto direttamente da una sua leggenda, potesse dare molta più veridicità anche alla mia storia. So che hai fame di SAPERE, fidati di me, non dovrai aspettare ancora molto. Tutti i dettagli verranno chiariti molto ma molto presto! Grazie, grazie, ancora. Stupenda *.*

00Stella00 Grazie!!! Beh, si, avevo immaginato che qualcuno avesse intuito il ritorno di Jacob ;) forse arrivare a pensare a qualcosa di così assurdo come la leggenda era davvero troppo! Anche perché, sinceramente, proprio non ricordo come possa essermi venuto in mente! Non ho fatto morire nessun Cullen (anche se l’intenzione c’era, devo ammetterlo, ma l’idea della folla inferocita proprio mi ha dissuasa), e per ora, coma la Triste Mietitrice, mi sono accontentata di prendermi l’anima di Philip… E di fare altri danni… Fiducia, comunque. Sono certa che vorrai riporla in me (sembra molto una supplica), anche in vista di quello che ho scritto nell’introduzione della storia ---> Lieto Fine.

Ely_11 *.* Non mi dire così, che divento un pomodornino peggio di Bella *.* Grazie! Sono contentissima che la mia storia ti piaccia, ancora più contenta che apprezzi tanto il mio modo di scrivere! É molto importante questo per me, perché mi da le basi e la fiducia per poter migliorare! Non si smette mai di imparare quando si scrive, per noi che siamo all’inizio a maggior ragione, vero?! Ci vuole solo tanta pratica, tanta lettura, tanto mettersi in gioco, non stancarsi mai di migliorare e… mmm… forse anche saper gettare la spugna quando e se viene il momento? Chissà… (speculazione personali - fine). Dunque. Non posso che essere felice per il fatto che a mia idea folle non sia troppo folle! Il nostro odio per Jacob è una buona base su cui fondare un’alleanza. Qua la mano. u.u

mine Grazie, grazie, grazie! Tutti i tuoi complimenti mi faranno impazzire! *.* Si, non ho mezze misure, in effetti. Credo, se vogliamo rivolgerci all’oroscopo, che dipenda dal fatto che sono un acquario. :P Sono cattiva, e sono stata molto, molto in questo capitolo. Ma se sono cattiva, è sia per soddisfare la mia indole romantica, sia per dare un bel po’ di movimento alla storia. Vorrei non averti shockato ancora con questo capitolo, con questa fine così… sospesa?! Vorrei davvero avere una foto della tua faccia durante la lettura! Chissà se è come consegnare il tema di italiano e vedere la faccia che fa la prof mentre lo corregge… ahahahah Grazie ancora ;)

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate Grazieee! *.* Lo scorso capitolo era fondamentale, quello su cui tutta la storia aveva sempre ruotato! Morivo e muoio tuttora di paura, perchè penso che sia un’idea davvero assurda! E non sarei mai riuscita a mettere tutto insieme senza un pizzico di fortuna. Tutto si sistemerà, mi pare superfluo dirlo, visto che io stessa ho scritto che sarebbe stata una storia a lieto fine. Come? Beh, non aspettarti nulla di troppo convenzionale. ;) E, vedrai che le cose che non ti sono ancora chiare le metterò in luce fra poco davvero, dammi un po’ di tempo!

tamy79 Wow! Anch’io, team Edward forever! (non so se si era capito, anche nel mio caso ;P). Sono davvero contenta che la mia storia ti piaccia, grazie mille! Mi sono messa in testa di organizzare e scrivere tutte le idee che mi passavano per la mente in una forma che potesse essere accattivante, piena di dinamismo, e strutturata. Chi vuole leggere una storia che porta tanti fatti slegati, senza una trama? Non io, mi sono detta. Per questo mi sto impegnando per riuscire a creare una storia e una trama. Senza pretese, con il gusto di farlo. :)

Wind Carissima :P Beh, si, speravo che qualcuno fosse tanto furbo da accorgersi che non avevo tolto l’avviso! Volevo scrivere una fan fiction anti-Jacob, e sono andata fino in fondo. Oh, comunque, sono contenta di non essermi ri-guadagnata il titolo di sadica, ma anzi che tu abbia apprezzato il “movimento”. Anche perché, ne avremo ancora per un bel po’… :P A presto, e grazie.

prudence_78 Ciao! Sono davvero onorata di ricevere i tuoi complimenti! Spero che questo capitolo non abbia contribuito al secondo mezzo infarto, non vorrei mai. :) Ovviamente, la storia sarà a lieto fine… Quindi ci vuole solo un po’ di fiducia nell’autrice (sarei io, anche se il titolo non mi compete appieno) e un po’ di fortuna ;)

 

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Capitolo 68
*** Contatto ***


Sbattei le palpebre, cacciando un respiro fra i denti copertina


Sbattei le palpebre, cacciando un respiro fra i denti. «Edward» mormorai, e immediatamente si voltò verso di me, preoccupato. «Non… mi sento bene…» farfugliai, prima di crollare su me stessa.

Lasciò andare l’ombrello, afferrandomi con entrambe le mani. «Bella!» gridò allarmato, vedendo le forze abbandonarmi completamente.

Per secoli e millenni gli uomini hanno tentato di comprendere cosa davvero sia l’uomo in grado di conoscere. Gli ultimi di una lunga serie sono empirismo, razionalismo, necessità del mondo fenomenico, idealismo, relativismo. Il punto, per l’uomo, è sempre stato questo, in fondo. Cosa ci è dato conoscere? Cosa, invece, è solo illusione dei sensi, tanto vivida da apparire reale?

«Bella, amore, rispondimi, ti prego!».

Le sue mani mi scossero, e fui certa, sopra ogni cosa, che fossero proprio le sue. Su quello non mi sarei mai potuta ingannare.

Ma sulla pioggia che m’inondava il viso, appiccicando fredda capelli e nastrini sulla fronte? E sul cielo chiaro, coperto da nubi sporche? Sulla voce della donna che urlò, allarmata «Chiamate un medico!», o sullo spiazzo, verde smeraldo, che mi circondava?

Cosa potevo dire, su quello? Avevo forse la certezza che fossero reali?

Perché quando i miei occhi furono costretti da aprirsi, sotto il pungolo dei deboli colpetti sulla guancia, un diverso fotogramma, per quanto simile, eppure reale e passato, mi apparve davanti al viso.

«Bella!» mi chiamò qualcun altro, e per quanto distinsi quella voce come quella di Carlisle, certamente, non potei fare a meno di sentirne l’eco sovrapposto.

Edward mi scostò i capelli, che dovevano essere bagnati, dal viso, chiamandomi a sé. Eppure, un istante dopo, i miei capelli non mi parvero affatto bagnati.

E la sua voce preoccupata mi chiamava, insieme a quella di Carlisle, e qualcuno mi tirava dei colpetti sul viso, come pure qualcun altro mi scuoteva.

Ma perché il cielo mi parve molto più scuro, e circondato da grandissime conifere? E perché abiti, circostanze, suoni, persino la stessa percezione sensoriale di me stessa, cambiarono?

«Che cos’ha, Carlisle? Che cos’ha?» chiese Edward angosciato, stringendomi più forte fra le braccia. I suoi capelli bronzei dovevano essere scuriti dalla pioggia, eppure, mi apparvero chiari e scintillanti.

Scossi il capo, velocemente, cercando di metter fine alla confusione, padrona della mia mente.

E sentii un corvo, spaventato, gracchiare dal suo trespolo, su un albero.

E fu così, esattamente come ci si risveglia da un sogno, che capii dove mi trovassi e cosa stesse accadendo, distinguendo la realtà dall’immaginazione.

Gemetti, sentendo il corpo e la pelle bruciare, il respiro bloccarsi in gola e uscire come un affanno.

Edward mi scrutò, ansioso. «Bella, amore, cos’hai?».

Alle mie orecchie giunse un altro rantolo, perfettamente speculare al mio, ma di un corpo che giaceva a metri di distanza, dal timbro cupo.

«Che cosa sta succedendo?» gridò Edward, mentre lo fissavo attonita, incapace di proferir parola.

«Isabella, mi senti? Non risponde agli stimoli…» constatò il professore, in piedi fra me e la creatura, al centro dello spiazzo che avevo creato con lo scudo della bambina.

Di un giorno la mia mente aveva viaggiato. Ma il tempo si era fermato in quello spiazzo, proprio lì, dove avevo scagliato lontano Jacob, perdendo i sensi.

Insieme al consueto e immenso dolore alla testa sentii una fitta insostenibile al petto, e mi piegai in avanti, urlando. Il medesimo urlo provenne dal suo corpo.

Edward, attonito, mi fissò, sofferente, voltandosi poi a ringhiare verso Jacob.

«Perché, perché sei tornato?!» urlò rabbioso. Poche volte l’avevo visto così… così… così vampiro. Annaspai. «Te ne sei andato, prendendoti tutti quello che avevo! Hai distrutto, nell’anima, il bene che avevo più caro! E quando, finalmente» girdò, tremando e stringendomi con più forza «riesco a rimettere insieme ciò che avevi ucciso, e la mia vita viene premiata da un miracolo… tu decidi di strapparmela ancora una volta via» urlò, rabbioso e angosciato.

Annaspai, e per un attimo allentò la mano sulla mia schiena, come se volesse lasciarmi.

«Mai!» ringhiò, cupo.

«No, Edward, sta fermo!» lo fermò il professore, prima che potesse finirlo. «Tieni tua moglie fra le braccia, e proteggila. Siamo nelle sue mani, adesso. La mia arma è andata distrutta, e nessuno di voi può ucciderlo. É lei, che lo deve fare».

Annaspai, ricercando la sguardo del mio amore. Mi sentivo comprimere il fiato, e la mia fronte era madida di sudore. Nella mia testa c’erano mille aghi. Mi lamentai ancora, provando a piegarmi su me stessa. Le mani forti di Carlisle mi bloccarono, ma non avvenne lo stesso per Jacob, che si piegò, ringhiando.

I miei occhi erano appannati, e le immagini ruotavano asimmetricamente, ma riuscii a distinguere le figure di Emmett, Rosalie e Jasper, accanto al corpo di Jacob. Tutti gli altri erano vicini a me.

Muovevo la testa, per quanto mi fosse possibile, e gli occhi di Philip trovarono i miei, carichi di mal celata apprensione. «I loro spiriti sono entrati in contatto, prima, con l’uso dello scudo. Stanno lottando entrambi fra la vita e la morte. Uno dei due sopravvivrà, Jacob o…».

Singhiozzai, dolorante.

La fronte di Edward si appiattì. «La bambina».

Urlai, contorcendomi, quando il peso al petto si trasformò in dolore.

«Non solo Isabella sta riproducendo quello che succede alla piccola» fece Philip, accorato. «Sta lottando anche lei».

Avrei voluto esprimere la disperazione, l’angoscia per la bambina, il terrore, per la mia e la sua vita, ma non ci riuscivo. Perché il dolore mi stava annientando.

«Bella, calmati. Stringi i denti, siamo tutti qui» la voce gentile e accorata di Alice mi raggiunse. Lei sapeva cosa stavo passando. Così simile a quello che aveva provato lei.

Mi lamentai, urlando, scuotendo la testa, pervasa da spasmi convulsi.

«Amore, amore, sta tranquilla, sta calma…» Neppure la voce di Edward riusciva in qualche modo a darmi sollievo. Perché lottavo col fiato per riuscire a respirare, perché un dolore acutissimo mi stava squarciando il petto.

«Il cuore!» strillai, senza riuscire, per un istante, a vedere nulla che non fosse rosso.

«…Fa qualcosa, ti prego Carlisle, fa qualcosa…».

«…Non posso fare niente, Edward, il suo cuore non ha niente!».

Gridai ancora, con tutta la forza che avevo nei polmoni. Quando riaprii le palpebre, serrate per il dolore, vidi lo sguardo disperato di Edward.

Sentii la voce del professore, alle sue spalle. «Non credo potrai trovare qualcosa adesso! Bisogna solo aspettare, sperando che riesca a sopravvivere a…».

«No!» gridò, e i suoi lineamenti s’indurirono d’un colpo. «Come pensa che possa aspettare e vedere mia figlia e mia moglie morire fra le mie braccia, mentre urla di dolore?» ringhiò «se l’è dimenticato cos’era per lei?!» gridò, sofferente.

Il silenzio aleggiò nello spiazzo, finché sia io che Jacob non ci ritrovammo nuovamente a urlare, poco dopo esserci ripresi dai rantoli.

«Amore, sono qui, sono qui» mi chiamò Edward, stringendomi a sé e cullandomi convulsamente.

Avevo gli occhi spalancati, e il respiro mi usciva interrotto, come ansiti e rantoli. Mi sentivo così male che non riuscivo a trovare un modo per ragionare e vincere il terrore che mi attanagliava.

«É caldissima» sibilò Edward, preoccupato. «Carlisle…» mormorò querulo, angosciato.

«Tienila stretta a te, povero tesoro» sussurrò Esme, sfilandomi le scarpe e i calzini e raffreddandomi le caviglie, fermando il loro movimento inconsulto.

«Perché non ammazziamo il cane?» la voce tagliente di Rosalie mi arrivò alle orecchie.

«Perché non potete!» sputò Philip.

Sentii dei ringhi furiosi. «Rosalie, calmati» le intimò la voce di Emmett.

Disperata, provai a sollevare le braccia, accarezzare il viso di Edward, forse per l’ultima volta. Ma erano morte e abbandonate accanto al mio corpo, senza forze. Provai a sentire mia figlia, ma qualcosa bloccava ogni contatto con lei.

Lui lesse nei miei occhi la mia disperazione e mi prese una mano fra le sue, baciandola. Poi la portò alla mia pancia, stringendola con le sue dita.

Strinsi con tutta la mia forza la mano sul pancione. «Edward…» biascicai senza forze «mi sento morire…». Le labbra mi tremavano, mentre pronunciavo le parole.

«No, no, shh, non ti preoccupare» mormorò, continuando disperatamente a cullarmi. «Ci sono io qui con te, non ti lascio. E nemmeno tu mi lasci, vedrai, ora passa tutto, ora troviamo un modo per…».

Tremavo, fra le sua braccia, animata da scosse simili a piccole convulsioni. «Ed…ward…» gemetti.

«Ti amo, Bella, ti amo» sussurrò baciandomi le guance. «Non mi lasciare amore! Ti supplico!».

«Si…» farfugliai in un sospiro. «Si… ti amo…» singhiozzai, prima di stringere i denti e urlare per un dolore che mai avrei creduto poter provare.

 

Edward

 

Pensavo di aver visto di tutto, ormai, nella mia lunga esistenza. Ma ero un vampiro, e come tale non potevo pretendere che il mondo fosse tanto benevolo con me da non stupirmi ancora.

Bella, il viso pallido, le labbra esangui aperte per cacciare quell’ultimo urlo, si contorceva fra le mie braccia.

Fui pervaso dal terrore, mentre la voce le moriva in gola in un sibilo. Le sue palpebre spalancate si abbassarono lentamente, la bocca si chiuse.

Stavo perdendo i miei due amori più grandi. Il filo del mio destino si era incrinato spaventosamente, sotto il suono delle urla di dolore di mia moglie, più taglienti di qualsiasi dente di vampiro. Stavo perdendo la mia anima e me stesso.

Quasi la mia mente non registrò i miei gesti istintivi, mentre la scuotevo tentando di farla ritornare in sé, di far passare quel respiro intrappolato.

Le sue iridi spente mi fissavano ancora, assenti, morte. Ed era così che mi sentivo, morto.

Non respira. Il pensiero mi raggelò.

Mi voltai terrorizzato verso mio padre, che mi rispose con un’occhiata seria, fredda. Mi fece posare quanto di più prezioso avessi, mia moglie e mia figlia, sul terriccio umido. Posò una mano sul diaframma, appena sopra il pancione.

Non respira.

Il tempo si fermò per pochi millesimi di secondo. Mi voltai, registrando mio malgrado in quei pochissimi frammenti di istanti, tutti gli infinitesimi dettagli degli alberi, della foglie, dei rami, finché non fissai, pieno di terrore e angoscia, il corpo informe alle mie spalle, ponendomi la domanda che mi stava risuonando in testa come un eco sorda: era vivo?

Non un suo pensiero proveniva da lui. Non un pensiero era mai provenuto da quella creatura che sentivo di odiare nel più profondo dell’anima, così intensamente da far male e risvegliare tutta la mia natura più crudele. I miei occhi si concentrarono sul suo torace, per captarne un movimento. Il battito fangoso del cuore.

E tutto riaccelerò, nello stesso lasso di tempo in cui si era bloccato.

«Ahh…» il debole gemito della mia Bella, insieme ad un seppur minimo impulso proveniente dalla mente dalla piccola, mi fece immediatamente voltare nella loro direzione.

Non c’era alcun battito, in quella creatura. La lotta era finita, la mia bambina aveva vinto.

«É tutto finito» sussurrai, stentando io stesso a credere alle mie parole. La mia bocca era vicino al suo orecchio, e mi ricordai di utilizzare un volume tale da essere udibile alle sue orecchie umane. «É tutto finito amore mio, è tutto finito…» dissi, e non potei nascondere il sorriso spontaneo che era sorto sulle mie labbra.

Fu come liberarsi da un peso orribile. Essere arrivato su un ciglio di un burrone, guardare il vuoto sotto i piedi, e ritornare indietro, al sicuro, ancora preda delle vertigini.

«Edward…» mi chiamò debolmente, senza fiato «Lui… lui è…».

Fui sorpreso di sentire, nei pensieri di Alice e Jasper, che Philip si stava avvicinando alla creatura, intimando ai vampiri di non fare lo stesso. Trattenni il fiato, colpito dalla sua audacia. Si abbassò, posando due dita sulla carotide. «Morto».

Cacciai un seppur inutile sospiro di sollievo. «É finita Bella, è finita. É morto, per sempre» la rassicurai, velocemente, sentendo la mia voce ritornare melliflua e rassicurante, piena d’emozione.

Le sue palpebre tremolarono. «Per sempre…» soffiò, prima che i suoi occhi si rovesciassero all’indietro. Svenne fra le mie braccia.

Carlisle fu rapido e risoluto. «Jasper, Alice, Emmett. Occupatevi di lui, ma fate attenzione. Rosalie, vieni con noi. Esme, porta Philip. Io vado con loro» mio padre osservò attento Bella per alcuni istanti. «Portiamola in casa, Edward».

Annuii, senza smettere di osservarla, sollevandola fra le mie braccia con delicatezza. Ricordavo la sua espressione felice, risposta della mia, euforica, che avevo quando correvo alla mia velocità sovrumana. Avevo un motivo in più per concedermi di essere, nel più profondo, estatico. Il suo corpo morbido e delicato, protezione di uno ancor più piccolo e fragile, fra le mie braccia.

«Mettila sul letto» fece velocemente Carlisle, sollevando le lenzuola, «bisogna toglierle i vestiti e provare a farle abbassare la temperatura».

L’adagiai con delicatezza sul materasso, accompagnandole la testa sul cuscino. Resisti solo un altro po’, amore mio. Le sfilai i pantaloni e la maglietta, rivelando il ventre gonfio. Le presi i polsi fra le mie mani. Le baciai la fronte bollente, attento a determinare una temperatura. Quaranta gradi, forse?

«Quaranta e due» pensò più precisamente mio padre, procedendo ad una rapida visita, aiutato da Rosalie.

Bella si agitava, calda, paonazza, sotto le mie mani. Quando mi ero reso conto di quello che stava accedendo, arrivato nello spiazzo, era anche subito stato chiaro come mi sarei dovuto comportare. Malgrado tutto, malgrado faticassi a fidarmi ancora di quell’uomo, sapevo che avrei dovuto fare come diceva Philip. Trattenerlo per dargli modo di ucciderlo.

Chi si sarebbe mai aspettato di vedere proprio mia figlia come nostra unica speranza, quando pensavo che la mia vita sarebbe andata persa insieme alla sua? Un attimo prima che Jacob compisse l’empietà, aveva usato il suo potere, stordendolo.

Eppure, simile angoscia provai quando mia moglie cadde senza forze in mezzo al prato. Ben maggiore, quando, pochi minuti dopo, cominciò a urlare di dolore.

«Salvo la temperatura alta non ha niente, la bambina dovrebbe stare bene» rassicurò tutti Carlisle, appena fuori dalla stanza. Aveva un tono di voce abbastanza basso da non disturbare il sonno di Bella, abbastanza alto per farsi udire da ogni ascoltatore. «Aspettiamo che la febbre si abbassi…».

Mia moglie gemette, scuotendo il capo. La mia mano si stava riscaldando sulla sua fronte. Posai una guancia. «Esme, potresti portare un po’ di ghiaccio?» sussurrai velocemente.

Passò tutta la notte con la febbre alta, senza svegliarsi. Parlò molto nel sono, tra i deliri della febbre, agitandosi fra le lenzuola. Sentivo un peso al petto vedendola così, ma aveva bisogno che mi dedicassi a lei, adesso.

Mormorai un melodia, tentando di rassicurarla, cambiando il panno umido sulla sua fronte.

«Edward» sussurrò.

Lasciai cadere la pezza nella bacinella e mi voltai verso di lei. I suoi occhi grandi, lucidi, mi fissavano smarriti.

Sorrisi, solo per il piacere di rassicurarla. «Va tutto bene Bella, è tutto finito» mormorai cauto.

Il suo respiro sussultò nel suo petto, e provò a sollevarsi, agitata. «Il professore, dov’è Philip?! Cosa è successo? Dov’è Jacob, è fuggito?» sussultò, spalancando gli occhi «la bambina» fece querula, portandosi una mano al ventre. «La bambina…» singhiozzò, accarezzandosi la pancia.

La presi fra le braccia prima che ricadesse fra i cuscini, preoccupato dalla sua reazione. La strinsi a me, cullandola. «Va tutto bene amore, te lo giuro. Va tutto bene…». Accompagnai con una mano la sua testa sul mio petto.

Singhiozzò. «Phi-Philip era morto e… Jacob era andato via» disse, respirando a fatica «e… e… la nostra bambina…» le sue parole affogarono nel pianto.

Le presi il mento fra le mani, provando a comprendere le sue parole. «Amore, te lo giuro. Era solo un sogno, un brutto sogno. É passato…» dissi, e cercai di imprimere tutta la mia dolcezza nella parole.

I suoi singhiozzi parvero scemare. «Era un sogno» bisbigliò, come se lo stesse ricordando, prendendone coscienza.

«Hai la febbre alta, deliravi. Non ti preoccupare, non era reale…».

«No» biascicò stanca. «Non l’ho sognato adesso. Prima…» sussurrò «quando… ero nello spiazzo, dopo aver usato il potere della bambina. Ho visto… cose orribili…».

Mi stupii della sua memoria, e malgrado la mia curiosità mi stesse rodendo, per capire cosa, di preciso, avesse visto, non osai chiederlo, vedendo quanto la cosa la turbasse.

Prese fiato in modo ansioso, poi si aggrappò alle mie spalle, e mi spaventai, pensando che stesse avendo un’altra crisi. Ma lei mi strinse il collo, i capelli, sollevandosi quanto più possibile e incollando avidamente e febbrilmente le labbra alle mie.

«Ho visto la nostra vita distruggesi Edward… Tutto distruggesi…» singhiozzò, disperata.

La baciai ancora, preoccupato, ansioso di consolarla. Lo so, avrei voluto dirle, l’ho vista anch’io. É stato atroce. Il ritorno di Jacob. La minaccia agli affetti più cari. Tutti ciò che avevo gelosamente costruito e ricostruito, con i cocci che mi aveva lasciato di mia moglie…

Tentai di asciugarle le lacrime sulle guance, e posai una mano sul suo ventre gonfio, consapevole che se fossi riuscito a rassicurare la piccola avrei ottenuto lo stesso con lei. Ero terrorizzato dall’idea che quell’incontro potesse averla distrutta ancora. Non l’averi sopportato, sarei impazzito di dolore.

Singhiozzò, stringendosi la pancia. «Giura che non tornerà più» biascicò fra le lacrime.

La fissai serio, addolorato, prendendole il mento fra le mani. «Te lo giuro. La… bambina. L’ha allontanato per sempre…».

I suoi occhi si strinsero, per l’angoscia e il dolore. «É così piccola» farfugliò. «Come può… povera piccola… la nostra bambina… come può Edward, come può?!» mormorò disperata.

Sospirai, addolorato. Non sapevo che risponderle. Pensare che mia figlia fosse entrata in contatto con quell’essere. Pensare che fosse stata lei a… eliminarlo. Avevo paura, e pensavo alle ripercussioni che tutto questo avrebbe potuto avere su di lei. Come poteva una bambina non ancora nata aver vissuto questo orrore?

Accarezzai la guancia di mia moglie, con dolcezza. «Lei ha la sua mamma» le dissi, prendendo la sua mano, e posandola sul suo pancione. «E il suo papà» mormorai, ripetendo le stesse parole che lei stessa mi aveva detto il giorno precedente, quando tutto era perfetto.

Tremò, abbassando gli occhi umidi. Era attonita, spaventata. Non riusciva ancora a capacitarsi di quello che era successo. Chi poteva?

La strinsi fra le braccia, baciandole i capelli. «Hai paura?».

Le sue lacrime si fecero più dense, i suoi respiri più smorzati. Mi spaventai terribilmente. Cosa mai potevo averle detto? Non feci in tempo a capire, incollò nuovamente le labbra alle mie, baciandomi. Non dissi più nulla, la cullai e rassicurai finché non si calmò.

«Preferisco averne» mormorò a voce bassissima, esausta, sul mio collo.

Non riuscii a chiederle il senso delle sua parole, che era già addormentata. In seguito, dissimulò tutto, negando la sua risposta. Preferii non insistere, per non turbarla ulteriormente, tuttavia non potei fare a meno di intuire che fosse qualcosa attinente a quello che aveva visto nel suo lungo e tormentato sogno.

Il professore le spiegò quello che era successo. Quando la bambina aveva usato il suo potere, aveva esteso la sua essenza fino a Jacob. E malgrado ora avesse un corpo, era quanto di più simile ci fosse allo spirito. Così, erano entrati in contatto, innescando una lotta fra la vita e la morte.

Era naturale, aveva detto, che la bambina inviasse a Bella sensazioni tali da farle vedere ciò che aveva visto. Cose orribili.

Mi aveva chiesto, malgrado la febbre non fosse ancora passata, di portarla un po’ nel soggiorno per parlare con gli altri. Voleva sapere, far luce su quello che ancora, a tutti noi, appariva troppo irreale, e io non me la sentivo di farla rimanere troppo sola a rimuginare. Non osavo neppure immaginare quello che lo stress di quei giorni poteva aver portato all’andamento della gravidanza. Carlisle diceva che sembrava essere tutto apposto, ma appena tornati a casa, appena fosse stata meglio, avremmo fatto dei controlli, sicuramente.

Bella sospirò, posando la fronte sul mio petto in cerca di sollievo. «É ancora tutto molto assurdo» farfugliò. «Mi fa male la testa».

«Tesoro, forse…» cominciai preoccupato, ma m’interruppe.

«No» si lamentò. «Alice» mormorò, indicando il bicchiere d’acqua posato sul tavolino davanti al divano. Più mani si tesero contemporaneamente per passarglielo. Arrossì, prendendolo dalle mani della sorella. «Grazie».

Posai una mano sulla sua fronte e sospirai, sentendola ancora così calda. «Com’è possibile?» sibilai amareggiato, una volume non udibile dalle sue orecchie umane.

Carlisle mi lanciò un’occhiata. «Edward, non è stato facile per lei. Non sembra affatto che le cose che ha visto siano state piacevoli. Il corpo umano non è una macchina perfetta, dalle tempo…».

«Quello che sta dicendo Philip» fece Jasper, con tono diffidente «potrebbe essere la causa della febbre? Questo… “incontro fra gli spiriti”?».

Tutti noi eravamo poco fiduciosi nei confronti del professore, dopo aver scoperto quello che ci aveva tenuto nascosto. Ed ero estremamente ed intimamente curioso di scoprire come l’avrebbe presa Bella, che ancora non aveva in alcun modo manifestato le sue inclinazioni in tal senso.

Il professore restituì l’occhiataccia. «Hanno tentato vicendevolmente di annullarsi, e non solo sul piano psichico. Ciascuno ha scatenato ciò che più avrebbe potuto indebolire l’altro. Il mostro» come di consueto aveva preso a chiamarlo «l’ha fatto con il calore, indirettamente con il sogno di Bella. La bambina… chissà… bisognerebbe chiederglielo…» fece sarcastico.

Bella tremò. L’idea che nostra figlia e quell’essere fossero entrati in contatto le piaceva quanto piaceva a me.

«E quando le passerà?» chiese preoccupata Esme.

«Non lo so! ma chi volete che sia, un indovino?!» sbottò.

Ringhiai e prima che potessi dire qualsiasi cosa, lasciando mia moglie sola sul divano e facendole assistere ad uno spettacolo che certamente non le sarebbe piaciuto, intervenne Rosalie.

Si alzò dalla sua poltrona, incedendo minacciosamente verso di lui. «Senta, lei. Ci ha tenuto nascoste fin troppe cose. Ora. Non mi interessa per niente se alla fine di tutto questo dovrò aggiungere un'altra unità al numero di uomini che ho ucciso», fece, puntandogli minacciosamente un dito contro «ma adesso ci dice tutto quello che sa, oppure…».

«Rosalie» la richiamò Carlisle.

Prima che mi sorella potesse riprendere la sua arringa, la voce debole e fioca di mia moglie la interruppe. «Perché non me l’ha detto?» chiese, e pensai che la sua voce fosse molto più delusa che arrabbiata. «Pensavo di avere il diritto di saperlo…».

Il professore la guardò, scrutandola. M’irrigidì, quando sentii nei suoi pensieri quanto temesse di aver perso la fiducia di Bella. «Perché non volevo che avessi una vita come la mia. Persa alla ricerca di qualcosa. Perché non avevo niente da perdere» prese un respiro, e distolse lo sguardo, amareggiato per essersi dovuto esporre così tanto di fronte ai vampiri. «E sareste morti tutti nel tentativo di ucciderlo, e a te, Isabella, non avrebbe fatto piacere».

«Perché dice così?» incalzò Jasper, «perché ci ha detto che il suo sangue ci avrebbe ucciso?».

Il professore abbassò il capo per un istante. «Cos’era lui? Ci avete pensato? L’incarnazione della sua anima. Da cos’era costituita la sua anima, se non dall’odio per voi?!» la sollevò in un cenno secco «l’ambrosia di cui vi nutrite vi avrebbe portato la morte. Semplice…».

Mia moglie tremò leggermente fra le mie mani, sforzandosi di non darlo a vedere. Gli occhi di Philip tornarono su di lei. «Sarei riuscito ad ucciderlo molto tempo fa, se…», tossì, «Se non fosse per questo».

«Mi deve dire come ha fatto, allora» incalzò Bella, decisa. Mi voltai a guardarla. I suoi occhi bruciavano di determinazione.

«A fare cosa?» chiese il professore, ma anche il suo sguardo era fermo e serio.

Lei fece un cenno col capo. «Il suo corpo. Prima. Sembrava diverso. Sembrava guarito… Mi deve dire come ha fatto».

Rimasi fermo, meravigliato, ad osservarla. Se ne era accorta anche lei? Era così evidente anche per degli occhi umani?

No. Avevo sempre sostenuto che le sua qualità e virtù andassero oltre i confini umani.

Il professore batté le palpebre, rilassandosi sullo schienale. Sospirò, fissando sempre la mia Bella negli occhi. Poi estrasse la sua fiaschetta argentata per alcolici e la posò sul tavolino fra di noi, ritirandosi a sedere.

Bella ruppe la sua immobilità, fissandola confusa.

«Cos’è?» domandò Alice.

«Aprila» m’invitò il professore con i suoi pensieri. I pochi che mi concedeva udire.

La presi fra le dita, valutandone immediatamente il peso. Il liquido contenuto era molto poco, eppure doveva essere più denso dell’alcool o dell’acqua. Lanciai un’occhiata breve e fugace a tutti vampiri in attesa, per ultimo a mia moglie, che mi fissava attenta.

Svitai il tappo e la prima cosa di cui mi accorsi fu l’odore.

Così nuovo eppure così familiare…

 

 

 

Ciao a tutti! Sono stata breve, vero?

Forse per farmi perdonare di avervi sì sconvolte. Mi spiace. Sinceramente… no, sinceramente no. Ma mi spiace ^^

Spero cha sia stato tutto comprensibile e che non sia risultato troppo folle. *paura*

 

Volevo farvi dare un’occhiata a quello che sarebbe stato se anche solo una cosa fosse andata storta. Naturalmente, ciò che non è, ha ripercussioni su ciò che è.

E, naturalmente, non è finita qui. ^^

Cioè, Jacob non tornerà più, ma non è finita qui. Fidatevi stavolta. :P

 

Spero che abbiate gradito la presenza di Edward. Questo capitolo è stato diviso a metà (nella mia mente era un unico), e la seconda parte continuerà a chiarire misteri.

Se qualcosa non è chiara, dite pure.

 

Un grazie alla mia titolatonos inventa titoli. :P --> Camilla. *clap clap* [titoli eccellenti u.u (lo so che ti sfrutto *^*) :P - ma tu trovi sempre “l’essenza”]

 

Bene. Come al solito, il mio twitter non è cambiato --> @Keska92. E il blog qui sotto vi aspetta sempre. ^^

 

Grazie infinite per tutto il sostegno che mi date! Grazie *.*

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

Edit. 21.00

 

Notate nello scorso capitolo, il 67, la duplice presenza del corvo.

Appena dopo che Bella usa i poteri della bambina:

 

Ansimai, lasciando che ai miei sensi arrivarono le più futili percezioni. Il tempo rallentò nella mia mente, scandito dallo svolazzare di un paio d’ali nere; un corvo che, spaventato, volava da una albero al diametralmente opposto, gracchiando.

Il potere scaturito da dentro di me, mi aveva abbandonata, espandendosi all’esterno, lasciandomi incredibilmente… vuota.

Mentre il cerchio di alberi piegati, tutto intorno, sembrava incredibilmente ruotare, sentii le mie gambe cedere, e il pavimento ruvido e freddo mi venne dolorosamente incontro.

 

E in fine capitolo, quando nuovamente perde i sensi:

 

Sbattei le palpebre, cacciando un respiro fra i denti. «Edward» mormorai, e immediatamente si voltò verso di me, preoccupato. «Non… mi sento bene…» farfugliai, prima di crollare su me stessa.

Lasciò andare l’ombrello, afferrandomi con entrambe le mani. «Bella!» gridò allarmato, vedendo le forze abbandonarmi completamente.

E un corvo gracchiò, nella mia testa.

 

Ecco. Il corvo perché c’è due volte? Perché in realtà Bella sviene e si risveglia dopo pochi minuti, lì, nella radura.

Tutto quello che accade fra i due pezzi che vi ho riportato, era solo un sogno di Bella. Il professore non è mai morto. Jacob non è mai fuggito.

La bambina lancia lo scudo e Jacob perde i sensi insieme a Bella. Pochi minuti dopo si ritrova ad urlare.

Il corvo è un elemento stilistico per facilitare la comprensione di quello che è accaduto.

Quando Bella inizia a urlare, dall’inizio di questo capitolo in poi, è tutto realtà.

 

Non sono particolarmente gaia per questo edit, speravo tanto di essere stata più comprensibile.

 

ale03 e frafru, perdonatemi, vi risponderò quanto prima. Grazie infinite nel frattempo.

 

 

 

_Ara_Volturi_ Grazie!! ç.ç Oh cielo, così mi fai piangere! Non posso sopportare tutti questi complimenti in una volta, sei troppo buona con me! Spero di non farti piangere ancora troppo! ç.ç Grazie, grazie, grazie mille. *.*

NessieGiulia Ciao Giulia! Ti ringrazio infinitamente. Concordo per tutto quanto tu abbia detto contro quel cane. Non lo sopporto un po’ neanche io. Con questa storia del cane, la Meyer ci ha rovinato la perfetta storia d’amore, e ancor di più lo sta facendo Slade e la Rosemberg con Eclipse, che a quanto pare avrà come fulcro il triangolo che neppure esiste! Che rabbia. Ti assicuro che nei capitoli successivi al 9 Edward rimane sempre quanto di più romantico ci possa essere… Che ci posso fare? Sono fatta così… Grazie ancora.

italyvampires Grazie mille! Eh si, è proprio contro le lupacchiotte. ^^ Mi spiace, ma se vuoi puoi pensare che questo Jacob non ha niente a che fare con quello della Meyer, e considerarlo come se fosse un’altra persona. ^^ Grazie per i complimenti. :*

sivyb Grazie mille! É vero. Mi sento davvero particolarmente vicina ai capitoli più malinconici. Credo di scatenare tutta una parte di me più nascosta, e di dare tutto quello che ho al testo. Le mani scorrono da sole, ed è più facile scrivere tutto. :) Sono davvero contenta ed entusiasta che la mia storia ti piaccia. Grazie, se un grazie più bastare.

mazza Tesoro! Sono contenta. Per quanto certamente inizialmente le critiche possano non fare piacere, danno un’ottima spinta per migliorare, una volta dimenticata la delusione per le parole ricevute. Almeno, per me è inevitabile soffrire un po’, all’inizio. Però poi capisco sempre che ogni recensione, anche la più dura, sfacciata, e sincera, può farti migliorare. Direttamente, dandoti consigli, e forse ancor di più indirettamente, dandoti la spinta a fare meglio. Come non ringraziarti, dunque, ancora, di questa dolcissima recensione? Sei stata un angelo, come sempre. Scoprire la vera storia dietro i fazzoletti Tempo mi ha fatto tanto ridere! Io piango sul serio, però. Ho la lacrima facile forse, ma a volte le lacrime mi arrivano sotto il mento, e sul collo, e i singhiozzi mi scuotono così tanto che devo smettere di leggere. :) Facciamo giungere tutto all’apoteosi de “L’evento”?! Direi che c’è da aspettare ancora giusto un pochino. ;) Un grazie immenso. Sei sempre stata colei che mi ha supportato per più tempo, non abbandonandomi mai, in tutti questi 68 capitoli. Grazie. :*

Wind Eheh, no dai, niente zampino sadico! Per ora rimettiamo a posto i cocci di quello che ho rotto. Per poco, troppo poco, ovviamente. Hai ragione, il sapore della fine lo sento anch’io. Non è lontanissima… Spero di non esagerare, con il numero dei capitoli. :S Lo spero tanto. Perché come eventi siamo alla fine. ^^

manuelitas Cara, ti giuro, ci tengo tantissimo la vostra psiche! *.* Infatti, non potevo far morire il professore senza prima farlo ricongiungere con sua figlia, dovrei averlo promesso da qualche parte, quindi credo proprio che lo farò! Sono contenta che ti sia piaciuta quella frase. Bella chiede a Edward come si fa a respirare, perché è proprio quello che succede a me, quando sono triste o accade qualcosa di brutto. Sento la gola stringersi incredibilmente ed è proprio come se mi sentissi soffocare, come se non riuscissi più a respirare. :) Grazie per ogni singolo complimento, sei sempre troppo buona e generosa con me. Grazie.

Ros_Ros Eh, intatti! :P Su che non ti voglio morta, il corvo serviva solo come indizio per individuare il periodo di “sonno” e sogno di Bella. :) Non dovevate farvi impressionare così tanto! Ora sembra che tutto stia andando verso il lieto fine (sembra). Ma quello che scrivo non è mai come sembra! Ahahahah, si, sono troppo contorta, lo so. =.=

Lau_twilight  E proprio quando sembrava che tutto precipitasse e che non ci fosse più scampo… ci voleva un bel colpo di scena! Spero che non sia un colpo troppo colpo! In realtà, sto tremando ancora una volta di paura per quello che ho combinato. Volevo solo far vedere, al lettore a e Bella, come sarebbe potuta essere disastrosa la sua vita, se anche una singola cosa fosse andata storta. Sono contenta che il capitolo ti abbia emozionata così tanto! Non so perché, ma mi sento particolarmente vicina alle parti malinconiche, pur non essendo tale caratterialmente. Almeno credo. Ti ringrazio carissima per tutto. Sempre un immenso piacere leggere le tue recensioni. Ne sono lusingata.

Luna Renesmee Lilian Cullen Ciao Giorgia! Sono davvero contenta che ti sia piaciuto. Beh, la seppur momentanea dipartita del professore era necessaria. Insomma, tutti gli inizi portavano al fatto che sarebbe morto. Non potevo darvi questa delusione, facendolo rimanere in vita. u.u Fila il discorso, vero? Cielo. Questo capitolo non mi piace poi tanto. Avevo in mente di scriverlo con un bel po’ di pathos in più, mi dispiace che sia venuto appena così… Eppure adesso ho tanti tanti piccoli fili da riallacciare, distendere, e far chiarire. Ormai siamo arrivati alla fine de “la matassa”, e spero solo di riuscire a sciogliere al meglio gli ultimi nodi. Grazie tesoro, per tutto l’affetto, il supporto, e il sostegno. Grazie. :*

ledyang Ma dai, le zanzare mi perseguitano da una vita, quelle non valgono come vendetta. u.u Sta buona, oppure dovrò togliere anche il capitolo felice che ti ho promesso, e… è davvero felice, e mi dispiacerebbe mooolto, toglierlo! :P no dai, non sono così cattiva. Però lo sai, ti farò penare ancora un po’. *sadicainside* Muahahah

GiovaneStella Oh, grazie! Beh, lo so che il professore ti piace, e piace tanto anche a me, non lo potevo far morire così, senza essersi ricongiunto con la figlia. Eppure, Bella doveva essere consapevole di quello che sarebbe potuto accadere. Un’idea assurda, lo so, quella di allontanare la figlia. Sicuramente dettata da shock, e estremo atto di quello che Bella riteneva fosse coraggio. A volte, nella vita, è anche giusto essere egoisti per vivere felici. Che vita è altrimenti, se fatta solo di sacrificio? :)

grazianaarena Ohh! Che piacere vederti qui. Grazie mille. :) Beh, direi che questa storia si è trasformata man mano col tempo, mentre si trasformava anche il mio modo di scrivere, spero, spero, di essere un po’ migliorata. Nonostante questo, sono contenta che apprezzi alcuni dei miei primi capitoli. Sempre onorata. :)

Dreamerchan Ciao! Grazie mille. Si, in effetti è proprio come se, da un lato, quello fisico possiamo dire, Bella avesse una sorta di protezione da parte della bambina. Sul lato degli affetti, dei sentimenti, sul lato “mentale”, è proprio il contrario. É Bella che con il suo amore, insieme a quello di Bella, protegge la bambina, dandole anche la forza di fare quello che ha fatto. Spero che questo folle capitolo ti sia piaciuto. Con gratitudine, a presto.

patrizia 61 Grazie! *.* Beh, si, ho cercato di alleggerire in ogni modo la sua morte, anche se ovviamente ci sarebbe da fare tutta una riflessione morale sul fatto che la presenza di un proprio caro in quel momento possa veramente portare sollievo… magari, chissà, forse si. Purtroppo non si posso dare aiuti metaletterari, ma direi che la piccola se l’è cavata piuttosto bene! :P Grazie per tutti i meravigliosi complimenti! Grazie!

Struppi Nooo! Non astenerti, t’imploro! ç.ç Okay, dopotutto dovrei in un certo qual modo essermi fatta perdonare con questo capitolo! E nonostante vi abbia giocato un brutto tiro con lo scorso capitolo, con questo dovrei aver sistemato tutto, no?! :D Beh, lo spero ^^

Sognatrice85 Oh, cielo, grazie! Sento che scrivere situazioni tristi o malinconiche mi è più facile. Mi sento particolarmente vicina ai protagonisti in questi momenti, pur non essendo una persona triste o cupa… Sono contenta di ogni singola emozione che posso averti regalato, e ti ringrazio infinitamente per ogni singola parola che tu, mi hai regalato. Neppure io posso pensare a qualcuno che possa far del male a due persone come Edward e Bella… Forse, semplicemente, è l’egoismo di Jacob che lo acceca. Vorrebbe tutto quello che Edward ha per sé. É così, l’uomo è egoista per natura…

Nessie93 Mah, magari avevo paura per i risvolti che ci sarebbero stati in questo capitolo… Eppure, il professore non è morto alla fine, e Bella non ha più idee malsane… Eppure, sono spaventata proprio per questo, perché potreste uccidermi per avervi giocato questo brutto tiro… Grazie per tutti i complimenti, davvero. ^^

Lizzie95 Bene, vedi? Tutto sta virando verso un lieto fine (per ora). É vero, penso che ha volte l’amore di una madre possa portare a dei gesti estremi come questo, per esempio. Ma… sono anche giusti? A volte nella vita non bisogna anche essere un po’ egoisti? Boh, chi lo sa. Ora invero sono un po’ dispiaciuta di averti fatto soffrire tanto per la morte del professore. In fondo volevo solo far vedere a Bella e a voi ciò se sarebbe potuto essere se fosse accaduto il contrario, se Jacob avesse sconfitto loro. Tuttavia, non potevo neppure far morire il professore senza farlo ricongiungere veramente con la figlia, non trovi?! :) beh, grazie ancora, per tutti i complimenti. Mi fa davvero piacere ricevere le tue recensioni, una gioia per la mia mente. A presto carissima! Grazie.

mikvampire Stai scherzando vero, con la storia del topo morto?! Cielo, che schifo. Bene, io odio questo gran cagnaccio in maniera inestimabile, quindi, credo di aver perfettamente espresso e ribadito più volte il mio odio per lui… Grazie mille, per tutti i complimenti. Ora devo solo convincerti che è veramente morto, e di sicuro lo farò… Beh, dopo la respirazione bocca a bocca al topo morto non dovrebbe farti paura niente :) 

lisa76 Ciao! No, non sarebbe stata una cosa impensabile il parto prematuro, ma meglio evitare, per adesso… É ancora un po’ troppo presto, solo fine settimo mese. Spero che questo capitolo non sia stata una scelta troppo azzardata, e che sia stato più facile comprenderlo. Il corvo, ahimé, doveva avere proprio la funzione di far apparire il collegamento più semplice. Grazie davvero per la recensione.

silvia16595 Ma no, che non la faccio partorire in mezzo al cimitero cara. Hai ragione tu, non è il posto adatto. Ne troverò uno molto più adatto per il parto (non è vero, scherzo - lo so, sono crudele muahahah). Comunque, sono contenta che per un breve lasso di tempo ti sia dispiaciuto per il professore, per quanto breve, meglio di niente, no?! Spero che un po’ ti dispiaccia acora dopo questo e il prossimo capitolo. Grazie per tutti i complimenti Silvia, sono davvero tanto contenta di riceverli da te, di sapere che sto migliorando. Grazie. :*

bambolina9988 Ohh! Una lupacchiotta?! Non ti conviene venire allo scoperto qui, sono tutte team Edward fan sfegatate! Sei la prima team Jacob che incontro. Spiegami il tuo punto di vista, e chissà, magari proverò a capire. :) Si, ho scritto lieto fine e un lieto fine vi ho dato, con tanto di morte di Jacob. Non sono stata abbastanza esplicita? Lo sarò. ;) Grazie per tutto.

FUNNi Niente complimenti?! :O Sono sinceramente scandalizzata mia cara, ma come, non lo sai che predico bene e razzolo male? Eh u.u Non ti risparmiare la prossima volta, se ne senti l’esigenza :P beh, si, direi che il capitolo precedente è stato un po’ catastrofico, ma speravo davvero di aver raddrizzato il tiro con questo! Lilla! Si chiamerà davvero Lilla?! Ahahahah, ormai questo nome è inflazionato… E comunque, sappi che mi diverto, non io, ma qualcun altro che sta alle mie spalle :P a inventare titoli ingannevoli! Uahuahuah Grazie mille carissima, a parte scherzi. ;) Grazie. 

KatyCullen No, no, nessun film horror! Ahahahah, il corvo serviva per far capire, con la sua duplice presenza, il momento in cui Bella si sarebbe addormentata e quello in cui si sarebbe risvegliata… Tutto qui ^^ In effetti ho scelto il corvo perché è abbastanza inquietante… Grazie mille per tutti i complimenti! Vedrò che posso fare per non fare ancora del male a Bella!

Biaa Ahahah, sembra proprio che Edward abbia accolto il tuo appello! Ahahah, mi ha fatto morire dal ridere leggerlo, perché l’avevo già scritto. :P Sappilo, l’inanellarsi delle sventure di Bella non finirà mai! L’ho trovata io, ed è una catena circolare da percorrere all’infinito! :P Sono davvero, davvero, contenta che tu ti sia accorta della duplice presenza del corvo! In effetti, non era propriamente una scelta stilistica, non per il motivo che hai detto tu, ma forse sarebbe stato troppo pazzo indovinare quello che avevo in mente io! Kate, Kate… Direi che sarà ancora con noi indirettamente… Non ti preoccupare, nessuno allontanerà nessuno da nessuno, anzi! Guarda un po’ come si comporta Bella… Direi tutto il contrario, no?! Diciamo che è rinsavita. Grazie per la tua recensione, bella e divertente. A presto cara! ;)

LudoCullen96 Ohh! Esatto, il mio intento è proprio quello, scrivere l’incomprensibile e fare avverare l’incomprensibile, entrambe le cose. Beh, spero davvero che tutto questo non sia davvero troppo pazzo, e dammi un paio di capitoli di tempo per risistemare il tutto in vista del gran finale. Spero che tutto sia degno della vostra attenzione. :S Come al solito muoio di paura quando scrivo queste cose folli o pazze, prima o poi mi ci manderete, a quel paese. Grazie di tutto. ^^

KStewLover Oh, non ti preoccupare, anch’io sono stata impegnata con lo studio, ti capisco perfettamente. Beh, diciamo che la cosa che mi piace di più è descrivere le emozioni tristi e malinconiche, sono un po’ emo inside. Ahahah, no, vabbè, non esageriamo. Dunque, ho trovato questo espediente sia per lasciarmi andare con un po’ di buone e sane emozioni emo, sia per far vedere come sarebbe stata la vita se solo Jacob fosse sopravvissuto e la bambina no. Spero sia stato tutto di tuo gradimento! Un grazie immenso! 

mistica88 Ciao! Beh, gli sbocchi, magari, non si vedono, ma sono lì, da qualche parte, nascosti. ^^ Per esempio il corvo ripetuto due volte il capitolo, avrebbe quantomeno dovuto destare la vostra attenzione… Non è stato proprio come speravo, ma io ho la mente un po’ contorta, quindi ^^ Non credo che farò nascere la piccolina tanto presto, facciamo godere qualche altra settimana in santa pace, per così dire, alla povera Bella. Grazie di ogni complimento. A presto.

RenEsmee_Carlie_Cullen Ah beh, se si fosse dato fuoco da solo, direi che si sarebbero tolti di mezzo un bel problema mooolto velocemente. No, non facciamo partorire Bella troppo in fretta, per quello c’è tempo *si sfrega le mani* Spero di non averti fatta piangere anche in questo capitolo, e non posso fare a meno di ringraziarti per tutti i complimenti! Grazie!

ste87 Eh, adesso?! Ahahah… Beh, suvvia, sono stata fin troppo buona ^^

chi61 Ciao! Spero che quello che il convento passa sta volta non sia davvero troppo folle. Okay, è forse solo un tantino assurdo. Troppo assurdo, magari. Volevo solo veicolare il messaggio “ehi, guarda cosa sarebbe potuto accadere, guarda cosa avresti potuto perdere”. In ogni caso, per quanto riguarda la “scelta” di Bella di allontanare sua figlia, posso dire in primo luogo che non fosse una scelta propriamente razionale, visto che stava “sognando” e in un sogno di razionale c’è ben poco. In secondo luogo, la soluzione che è rimasta intrappolata nella mia testa era questa: la bambina affidata alle Amazzoni, al clan di Denali, meglio ancora, ai Volturi. Credi che Aro potrebbe mai far mettere in pericolo quello che diventerebbe il suo gioiello più prezioso? Ecco, questa è stata la mia idea. Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, grazie per tutto.

titty88 Ahahahah, grazie a te! Ma che mi ringrazi?! ^^ E si, non sono contenta se non do la sua razione a Bella ^^ Un po’ sadica… :P

Ely_11 Grazie ancora! *.* Non puoi dire tutto questo di me, ti giuro che non lo reggo! Non posso ammettere di aver tirato un brutto colpo, perché in realtà ho risolto tutto… magari un colpo basso, per come l’ho fatto… :P Non ti preoccupare, non abbandoneranno la loro figliola… Ma temo che Bella debba pensare un po’ alle conseguenze della scelta che ha preso, sebbene nel suo sogno, e tutto ciò che l’aveva portata a prenderla… Su, non farmi del male, faccio cosa posso per aggiornare il più in fretta e il meglio possibile! ^^ E poi, con questo caldo, scrivere e stare davanti al pc non è affatto semplice, te lo giuro!

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate Grazieee! Non mi dire così, troppo velocemente, tutto in una recensione! Non fa bene al mio ego!!! Allora… Ovviamente c’era un motivo per la narrazione accelerata, doveva tutto dare l’idea del sogno, per quella mente geniale che avrebbe dovuto accorgersi della duplice presenza del corvo nel capitolo. ^^ Per informazione, Bella si trova alla fine del settimo mese, inizio ottavo in questo capitolo, non ti preoccupare, non te le faccio partorire ora! Troppo scontato, troppo comodo. u.u Avevo immaginato che la bambina potesse essere fatta rifugiare dalle Amazzoni, dai Denali, o dai Volturi… pensi che lì l’avrebbe trovata? Mh… chissà…

ANNALISACULLEN Grazie mille! Non sai quanto significhi per me sentirmi dire che sto migliorando, è importantissimo! Mi spiace averti fatto stare così in pena! Un po’ mi sono pentita di quello che ho combinato. Ho solo provato a predicare ancora una volta la mia morale: la sofferenza prima porta più felicità poi. Concordo perfettamente con te, la fantasia è qualcosa di meraviglioso in cui non smetterei mai di rifugiarmi. Leggere un libro, vedere un film, fantasticare, creano inevitabilmente nella mente dell’uomo una realtà che non per forza deve sottostare a quella “vera”. Magari è semplicemente per questo che scriviamo e leggiamo, no? Per immaginare qualcosa di migliore di quello che è. :) Grazie ancora cara, a presto.

DarkViolet92 Fiduciaaa! Ma su, potevo farlo morire così, senza fargli vedere la figlia, dopo anche avervi promesso di fargliela riabbracciare?! Giammai. Ho detto che il tema della sua trasformazione sarebbe stato discusso, e così è stato, e così sarà… :) Spero che questo scherzetto durato un capitolo non mi sia costato la pelle ^^

prudence_78 Ahahah, il polpettone sarebbe Taylor?! Concordo appieno, non lo sopporto proprio neppure io! Allora, prendo appunti: morto (direi che ci siamo), stecchito (pure), per la sepoltura, ci sarà anche quella, come coronamento del mio odio per Jacob. Non dovrai davvero attendere a lungo! Ora è arrivato l’altro mezzo infarto?! Se non arriva ora ho un altro po’ di capitoli in serbo per farlo arrivare! Ahahahah…

 

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Capitolo 69
*** Per Sempre ***


Svitai il tappo e la prima cosa di cui mi accorsi fu l’odore copertina
 

Bella

 

La testa mi pulsava dolorosamente, proprio lì, alla base della nuca. Ma questo non era il male peggiore, affatto. Il calore opprimente e nauseante confondeva i miei pensieri, amplificava la mia angoscia, mi rendeva schiava della confusione.

Osservai attentamente i gesti di mio marito, mentre sollevava la fiaschetta argentata. Era lì la risposta ad uno dei miei mille quesiti? Come aveva potuto il professore cambiare in quel modo il suo corpo? Eppure, ora pareva essere ritornato proprio come l’avevo sempre ricordato…

Sul viso di Edward comparve una smorfia. Il naso accostato al collo della fiaschetta di arricciò.

Lo fissai, confusa, tentando di comprendere cosa avesse scoperto. Pareva essere disorientato anche lui. Mi voltai velocemente a scrutare il professor Philip.

«Cos’è?».

Strinse le labbra, guardandomi. Sollevò le sopracciglia e diresse lo sguardo nel vuoto. «Sai cosa succede se il veleno di voi vampiri entra in contatto con del sangue umano?» chiese pacato.

Mi portai una mano alla tempia, deglutendo. «L’umano si trasforma» dissi, evidenziando l’ovvio.

Scosse lentamente il capo, fermandosi per fissarmi. «Non ho detto nel caso in cui il vampiro morde l’umano. Se il veleno di vampiro entra in contatto con del sangue umano, fuori da un corpo, si ottiene ciò che è contenuto in quella boccetta».

Edward s’irrigidì sotto di me, stringendola.

Carlisle fissò Philip, a dir poco sorpreso. Di certo la sua mente lucida funzionava più velocemente della mia. «Vuole dire che si è iniettato questo composto?».

Sobbalzai, fissando Philip a bocca aperta.

Annuì con riluttanza. «É un antidito, testato da diversi secoli».

«Non si sarebbe dovuto trasformare, a questo punto?!» sbottò Emmett, stringendo Rosalie a sé.

«No, affatto» sputò il professore. «Pensavo che almeno dei vampiri fossero più svegli» borbottò, e dovette ringraziare il fatto che Rosalie fosse ben imprigionata fra le braccia di suo marito.

Mi portai entrambe le mani sul pancione, sospirando confusa. «Io… non capisco…».

Philip alleggerì la sua espressione. «Ho usato del veleno di vampiro che avevo, un dono di tanto tempo fa» mormorò, perso con gli occhi nel vuoto degli anni «bisogna mescolarci il sangue della persona a cui si intende iniettarlo. Tutto il veleno deve reagire con questo sangue, e se ne ottiene questo composto, un sangue più forte, trasformato. Quello che viene iniettato è inerte, non reagisce con l’atro sangue, tuttavia conserva la sua proprietà di guarire i tessuti. Rimane in circolo per pochi giorni, massimo una settimana».

Sussultai, e sentii le braccia di Edward stringermi a sé. Mi accarezzò la fronte calda. Mi voltai verso di lui, osservando la sua espressione. Sembrava sorpreso quanto me, pur sforzandosi di non darlo a vedere.

«É come un vaccino?» chiese Alice.

Philip si voltò verso di lei. «In senso molto lato, ma si. Neutralizza la funzione primaria, mantenendo quella secondaria, o indiretta. Ovviamente non mancano gli aspetti negativi».

«Aspetti negativi?» chiese ancora Carlisle, estremamente attento.

«Li può facilmente immaginare, dottore. L’effetto è solo temporaneo, finché il sangue non viene smaltito. E bisogna avere una perfetta precisione nelle dosi, per evitare di avere effetti indesiderati. Produce… conseguenze estremamente imprevedibili. E malgrado guarisca alcuni organi e tessuti, ne danneggia altri. Fegato, milza, reni…».

Gli occhi di mio suocero si strinsero. «Certo, capisco» fece compassato.

Come avrei voluto dire lo stesso anch’io. Capisco, certo, è tutto chiaro. Niente, niente era chiaro nella mia testa in quel momento. Fosse stata solo una la domanda senza risposta, solo uno il problema non risolto.

Mi accarezzai il pancione, stanca e confusa.

Edward mi strinse più forte da dietro la schiena. «Vuoi andare a riposare?».

«No» mormorai, voltandomi e stringendomi a lui. Avevo la nausea, e un senso di bruciore alla gola. Sicuramente stare coricata non avrebbe giovato, affatto, e finché non avessi chiarito ogni cosa non sarei mai stata in pace. Volevo sapere, tutto.

Quello che il professore aveva sempre saputo e aveva scelto di non dirmi. Non lo biasimavo, non totalmente, perché sapevo e sentivo che l’aveva fatto con le migliori intenzioni. Ma come avevo potuto rimanere allo scuro di tutto quello che succedeva? Di tutto quello che stava vivendo mia figlia?

Mi strinsi le mani alla pancia, sentendo la piccola muoversi. Non osavo neppure pensarlo. Avevo rischiato di perderla. Lo stavo scegliendo io stessa.

Gli occhi chiari di mio marito mi fissarono, in apprensione. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso. «Sei sicura? Forse la febbre sta risalendo ancora» mormorò, fissandomi con preoccupazione. Potei solo provare ad indovinare quale potesse essere l’espressione del mio viso. Non sapeva nulla della parte più dolorosa del mio sogno, non riuscivo ad aprire bocca…

Scossi il capo, voltandomi nuovamente verso Philip. «Mi deve dire» sussurrai agitata «mi deve dire come faceva a sapere tutto! Perché noi non sapevamo niente, e lei si! Non lo conosceva neppure quel… quel… Jacob» gemetti, mordendomi il labbro.

Mio marito provò a placare la mia ansia. «Bella» fece rassicurante.

«No Edward, no» mormorai querula, «io devo capire. Devo capire prima di impazzire… Non ce la faccio altrimenti…».

La voce del professore interruppe il mio balbettare frenetico. «Stai calma Isabella. Ti dirò tutto quello che vuoi sapere» disse con serietà. «Calmati, ora. Non è il caso di agitarsi ancora».

Presi dei respiri, lasciando che fosse Edward a occuparsi di accarezzare il pancione.

«Tutto» deglutii, seria «voglio sapere tutto».

Ci fu una brevissima battaglia di sguardi, da cui uscì fiaccamente sconfitto. Non gli piaceva lasciarsi andare così davanti ai vampiri. E pensare, che avevo immaginato fosse morto… I miei sentimenti erano così confusi e contrastanti in quel momento.

«Ricordi la leggenda che ha citato il mostro?» non aveva problemi a chiamarlo tranquillamente così. «I suoi antenati avevano la possibilità di separare il corpo dall’anima e di andare in un’altra dimensione, in cui tutti riescono a comunicare con la mente, perché sono solo spiriti e non conoscono i confini del corpo. Questa dimensione non è completamente spopolata Isabella. Non c’era solo lo spirito del mostro…» disse, con una punta di dolore negli occhi.

«Chi altro?».

«I discendenti degli altri spiriti guerrieri, per esempio. Il mondo sovrannaturale è molto più ricco di quanto tu possa immaginare, e ci sono altri tipi di anime lì» mormorò, rigirandosi la fede al dito, lo sguardo basso. Lo sollevò su me. «Prima, ho parlato di conseguenze imprevedibili… l’afflusso dell’antidoto al cervello porta una di queste. Per me».

Aggrottai le sopracciglia.

Mi sorrise con mestizia, sollevando la mano bianca e indicandomi la vera nera al dito. «Ti ricordi? Lei ha messo i suoi poteri qui dentro, la sua essenza. Il veleno che ho usato per creare l’antidoto era il suo. La sua anima non se n’è mai andata Isabella… Lo spirito di mia moglie è sempre rimasto con me» mormorò fissando il cerchietto nero «Il suo veleno e il mio sangue, insieme, ci permettono di comunicare. É lei che mi ha detto di Jacob, è lei che mi aiuta a trovare la nostra Kate…».

Portai una mano alle labbra, stringendomi a Edward.

L’ansia e la confusione non scemarono affatto con quella rivelazione. Ad una prima schiarita seguirono una serie di dubbi, incertezze, turbamenti. Cedetti a mio marito, decidendo che basta, ne avevo avuto abbastanza per un po’, almeno per un giorno.

«Shh… Tranquilla» mi sussurrò, massaggiandomi la schiena con delicatezza. «Cerca di dormire… Hai bisogno di un altro cuscino?».

Gemetti, voltandomi verso di lui e stringendomi al suo petto. Era tutto così strano e impossibile, ancora. Avevo accavallato quello che avevo visto nel sogno con la realtà, tanto che ora anche questa mi pareva assurda e estremamente improbabile.

Non riuscivo ad accettare veramente l’idea della celere comparsa e definitiva morte di Jacob. Non riuscivo ad accettare il ruolo che mia figlia aveva avuto in tutto questo. Non riuscivo e non potevo capire come avessi potuto decidere, seppure in un sogno, di separarla da me, anche se per il suo bene.

Mi faceva male solo il pensiero.

«Credo» sussurrai, accarezzandomi il grembo, «di aver bisogno di Carlisle» socchiusi le palpebre «ho un po’ male alla pancia».

Mio suocero mi raggiunse immediatamente, richiamato da Edward. Non volevo allarmare tutti, ma io stessa, spaventata, sentivo un peso al cuore. Ero terribilmente angosciata, oltremisura…

«Calma Bella, va tutto bene» mi rassicurò mio marito vedendomi in quello stato angoscioso. Mi baciò il capo, cullandomi fra le sue braccia. «Ti devi rilassare… É tutto finito, va bene? Non c’è motivo di essere così agitati».

«Sono solo delle piccole contrazioni» mi rassicurò da parte sua Carlisle, «ora ti do qualcosa e quasi certamente andranno via». La sua espressione era comprensiva. Sapeva che tutto questo, questa ansia, era qualcosa di incontrollabile per me. «Prova a dormire, ti potrebbe fare bene».

Edward mise fra di noi una coperta, e mi cullò silenzioso fra le sue braccia. Ero stanca e intorpidita per via della febbre, eppure l’ansia che mi attanagliava m’impedì di scivolare completamente nel sonno, anche dopo molto tempo.

 

«Cosa facciamo? Volete tornare a casa?».

«No, Rosalie, non è prudente spostarla in queste condizioni. Con la febbre e il resto rischieremmo di aggravare notevolmente la situazione». La seconda voce era di Carlisle.

Le braccia di mio marito ripresero a cullarmi. Forse avevo detto qualcosa nel sonno. «Desiderava trovarla. Eppure, per come è evoluta la circostanza, converrà anche lei che la scelta migliore sia quella di andarsene. É all’ottavo mese, ormai, non possiamo più aspettare che Kate spunti fuori» il suo tono si abbassò «e non mi va che resti qui, corriamo troppi rischi» la sua voce s’incupì a quella parola, ma il mio cervello annebbiato non riuscì ad andare oltre quella stranezza.

«Aspettiamo che la situazione diventi stabile e che la febbre le passi. Appena ne avremmo l’occasione torneremo a casa».

La mattina seguente, con gran fortuna, le contrazioni sembravano scomparse. Ripetei la terapia della sera precedente, e provai a fidarmi di Carlisle quando mi disse che se fossi stata tranquilla non sarebbero ricomparse.

«La febbre è scesa, hai solo qualche linea. Per qualsiasi cosa mi puoi chiamare, sono di là. Ma per oggi riposati, va bene?» mi sorrise, accarezzandomi una guancia.

Annuii brevemente, silenziosa.

Dopo pranzo chiesi a mio marito di fermarci nel soggiorno, più arieggiato e soleggiato della nostra stanzetta buia. Ci eravamo sistemati su una di quelle sdraio di vimini che mi piacevano tanto, che Esme non aveva potuto fare a meno di inserire nel pittoresco arredamento. Ero così allegra e spensierata, quando, arrivata, glielo feci notare, litigando con Emmett per chi dovesse avere la precedenza. Il pancione me la garantiva su molte sedie e divani…

Sospirai, fissando la grande vetrata che dava sul bosco, appena davanti a noi.

Edward, sotto di me, giocherellava con le dita della mia mano. Lo fissai, posando con calma il capo sulla sua spalla, osservando il suo gioco. «Sai, ieri ho pensato una cosa assurda» esordii, continuando a fissare le nostre mani.

«Che cosa?». Il suo tono era calmo, come il mio, eppure non mi era sfuggito il brevissimo sussulto delle sue dita. Temeva l’argomento di cui avrei voluto parlare.

«La bambina» dissi, «e… Jacob. Erano… erano legati dall’imprinting. Eppure lui voleva ucciderla, e lei…» deglutii «l’ha fatto. Com’è possibile?».

La sua mano si fermò, intrecciando le dita alle mie. «Non so cosa lui ti abbia detto sull’imprinting. Ma i licantropi danno per scontato che siccome la donna riceve tutte le più perfette attenzioni che possa mai avere da un uomo, automaticamente lo ami», fece, aspro.

Annuii, comprensiva. Non sapevo come comportarmi di fronte a quella chiarificazione. Ero egoisticamente sollevata, perché non riuscivo a pensare che mia figlia potesse amarlo. Ed ero felice perché non era stata costretta a compiere del male verso colui che amava, ma… in questo modo, dovevo accettare l’idea che fosse entrata in contatto con quell’essere che le aveva riservato solo odio.

«La nostra piccola…» sussurrai, sentendo gli occhi bagnarsi «come può averla odiata tanto? Come può averle fatto questo?» piagnucolai.

Mi prese il viso fra le mani, facendomi voltare verso di lui e baciandomi. «Shh… Calma amore, sta calma…» disse, accarezzandomi il ventre.

Strinsi i capelli morbidi fra le mani, nascondendo il viso sulla sua scapola.

Mi baciò il capo. «L’imprinting è una forza incredibile e ineluttabile, a cui nessuno può sottrarsi. Ma… quanto è breve la distanza fra odio e amore?» sussurrò con gentilezza, abbassando il capo per guardarmi negli occhi. «Sono così vicini…».

Annuii debolmente sulla sua spalla. «Si…» sospirai, «si». Il destino di quel mostro era odiare con tutto se stesso mia figlia. Mia figlia, che ancora non era neppure nata. Che non aveva mai visto la luce del giorno…

«Come è possibile?» chiesi ancora «che fossero così…» deglutii «legati? Lui non l’ha mai vista…».

Si guardò attorno nella stanza, in cerca di qualcosa o qualcuno. Poi, piegò il capo, guardando in basso, verso la piccola. Posò un dito sul pancione, premendo con delicatezza. «Penso che dipenda da quello che ha detto Philip».

Mi voltai per guardarlo negli occhi, appositamente per valutare la sua reazione in relazione a quel nome. Non l’avrei biasimato se ce l’avesse avuta con lui. Eppure io potevo comprendere Philip…

Ma il suo sguardo era indecifrabile persino ai miei occhi. «Mentre lui era spirito, non c’era nessun ostacolo a impedirgli di entrare in contatto con lei».

«Ma lei non…» borbottai.

«É univoco» mi accarezzò la guancia, alleggerendo il tono «ricordati che è univoco».

Sospirai, annuendo. Mi portai entrambe le mani al pancione, su quelle di mio marito, tornando a fissare il verde davanti ai miei occhi. «Ti fa male?» chiese. Scossi il capo, continuando ad accarezzarlo. Posò il mento sulla mia spalla, consentendomi di continuare ad accarezzargli i capelli. «Non riesco a vederti così» farfugliò, e soffrii io stessa sentendo la sua disperazione. «É tutto finito, dobbiamo andare avanti…».

«Mi dispiace» singhiozzai sorda, cercando di trattenermi, «non… non riesco a immaginare… la nostra bambina…».

Mi strinse a sé, come lo faceva sempre quando voleva comunicarmi tutto il suo affetto, le braccia così strette eppure così timorose di farmi del male. «Le faremo dimenticare tutto questo. Lo giuro Bella, farò di tutto per fare come se non fosse mai esistito… Ci sarò io per lei, per entrambe».

Mi voltai a posargli una mano sulla mascella. Mi baciò il palmo della mano, guardandomi negli occhi. «No» mormorai. «Per lei. Anch’io ci sono per lei… E…» sospirai «non sai quanto possa essere felice del fatto che abbia te come padre. Lo so, io già lo so. Sarà la bambina più fortunata del mondo, solo per questo» dichiarai commossa.

Se non avessi avuto Edward accanto a me, non avrei neppure osato dare uno sguardo a quel futuro che ora pareva terrorizzarmi. La mia forza d’animo e il mio coraggio si erano forse consumati come una cometa?

Malgrado fossi confusa il disorientamento si stava diradando, portando man mano con sé un angoscioso senso di vuoto. Non riuscivo neppure a riconoscere ciò a cui il mio animo stava agognando.

Carlisle mi aveva rassicurato sulla gravidanza, e le contrazioni sembravano essere andate via. Eppure, Edward era preoccupato. Lo sapevo, lo leggeva nei miei occhi il tormento che ci legava.

La febbre bruciò ancora la mia testa e le mie membra, per vari giorni. Ancora non sapevamo nulla del rapporto che Jacob aveva con i licantropi, e ben presto capii che questa era la seconda reale fonte di preoccupazione per Edward. Temevo non volesse rendermi partecipe del pericolo per paura di farmi agitare. Eppure, l’unica volta che avevo provato a parlargliene, avevo visto nei suoi occhi il dolore, che mi aveva subito fatta desistere. Si sentiva in colpa per non aver accattato il loro aiuto.

«Credo che dovreste preoccuparvi del branco di La Push» disse il professore, preparando i bagagli per partire. Era debole e ancora malato, e Carlisle gli aveva giustamente consigliato di approfittare del suo momentaneo buono stato per intraprendere il viaggio di ritorno. «Mi sorprende che non siano intervenuti, né da un lato, né dall’altro».

«Prenderemo le opportune precauzioni e ci metteremo in contatto quanto prima» ribatté Jasper, sempre restio a fidarsi delle sue parole.

Edward richiamò alla mia mente le stesse parole che Jacob, in un tempo molto lontano, mi aveva riferito. Lui era di diritto l’alfa del branco, e non potevamo sapere quanto e come questo ne fosse stato influenzato. Comunque, ora che lui era scomparso per sempre, non c’era nulla di cui preoccuparsi seriamente. Così aveva liquidato le mie domande, deciso a non riaprire l’argomento, almeno non con me.

Barcollai sulle gambe, trascinandomi il pancione dal bagno verso la camera da letto. Sospirai, accarezzandolo in tutta la sua rotondità. Mi concessi un piccolo e breve sorriso, e un po’ di quiete interiore, atta a rassicurare la piccola.

Il suo peso mi gravava sulla schiena inarcata e sulla base della pancia, facendomi presto stancare mentre ero in piedi.

«Bella» mi chiamò la voce di Alice, aldilà della porta «posso entrare?».

Mi strinsi nella vestaglietta sul pigiama, muovendomi verso il bordo del letto. «Si, entra».

Si richiuse dolcemente la porta alle spalle, venendo presto ad aiutarmi a sedere. Mi sentivo a disagio a stendermi davanti a lei, eppure i polpacci erano così doloranti che non riuscivo a rinunciare all’idea di farli riposare sul materasso. Vedendo la mia incertezza mi ordinò perentoriamente di stendermi, e non volle sentire alcuna scusa, né io fui tanto brava da fornirgliene.

Eppure, mentre accarezzava il pancione guardandolo fisso, mi pareva ci fosse qualcosa di strano nella sua espressione. Temevo che avesse visto qualcosa.

«Questo pigiama ti sta d’incanto, sono davvero contenta che ti piaccia» mormorò, continuando silenziosa a sfiorarmi con le punte delle dita.

Sussultai leggermente, portando una mano a stropicciare il morbido cotone chiaro sulla pancia.

La sua testa scattò verso l’alto, velocemente. «Tutto bene?» chiese, scrutandomi preoccupata.

Scossi lievemente il capo. «Solo un calcio… mi fai il solletico» mormorai, riappoggiando la schiena sui cuscini, posati sulla testiera del letto. Eppure, quell’espressione non aveva abbandonato il viso di mia sorella. «Hai visto qualcosa?» chiesi, senza nascondere il mio turbamento, guardandole fisso il viso per cercare di leggervi qualsiasi cosa. «La… bambina?».

Si affrettò a scuotere il capo. «No, no. Sai, ora che… lui non c’è più… vi vedo più chiaramente. Eppure, niente parto in vista almeno per un mese. Stai tranquilla» mi rassicurò, prendendomi le dita con le sue, sottili.

Sospirai, troppo stanca, lasciandomi andare sul materasso. Chiusi gli occhi. «Niente coperte Alice, te ne prego». Odiavo il fatto che ovunque mi addormentassi ci fosse qualcuno pronto a coprirmi. Stavo già per cadere nel sonno, stremata…

Eppure, le sue dita si erano irrigidite sulle mie. Aprii gli occhi, e incontrai i suoi, persi nel vuoto. Due istanti più tardi, Edward entrò velocemente in camera, venendo accanto a me.

«Che cosa ha visto?» chiesi agitata.

Alice sbatté le palpebre, fissando il fratello. Lui indugiò solo un attimo prima di stringermi. «Torneremo presto a casa. Fra tre giorni».

Lo guardai con ansia, deglutendo. Aveva davvero visto quello? Solo quello?

Mi prese il viso fra le mani, accarezzandomi la guancia con il pollice. «Ehi, tranquilla… Stavi per addormentarti, vero? Rimango con te…». Mi rassicurò, sedendosi sul letto e prendendomi fra le braccia.

«Vado a dirlo agli altri» disse velocemente Alice. I suoi occhi erano sinceri, non mi pareva che stesse mentendo.

Annuii con riluttanza, posando il capo sul petto di Edward. «Va bene» sussurrai, e quando chiusi gli occhi fu davvero difficile resistere al sonno, con i sussurri di mio marito all’orecchio e i suoi baci lasciati sul viso.

Ma non appena i miei sensi furono abbastanza annebbiati da consentirmi di scorgere immagini irreali e abbastanza irrazionali, ai miei occhi comparve ciò che non avrei voluto vedere.

Ero sola, ed ero a casa, a Forks. Avevo paura. Sentivo quel consueto senso di vuoto, irrequietezza, agitazione, che mi aveva accompagnato negli ultimi giorni. Quando guardai in basso, scoprii di essere meno sola di quanto avessi immaginato.

La mia pancia era piatta, ma fra le mie braccia si celava un piccolo fagottino. Non appena un ringhio mostruoso ci raggiunse, cominciai a scappare correndo da una stanza all’altra, cercando di proteggere in ogni modo la bambina. Ma non ci riuscivo, i miei passi erano troppo lenti e sapevo che lui era alle mie spalle, ci stava raggiungendo. Caddi a terra. Ci avrebbe trovate, ci avrebbe prese. Mi raggomitolai su mia figlia, provando a proteggerla.

Immediatamente, mentre ero lì, tremante, a terra, capii il motivo della mia paura, del mio senso di vuoto.

Avevo paura che potesse tornare da un momento all’altro. Sempre. Mi sentivo minacciata. E per quanto potessi credere alle parole di mio marito, non riuscivo ancora a realizzare quello che era successo troppo velocemente.

Quando l’angoscia si fece folle e sentii il tocco di una mano pur consciamente inesistente, mi svegliai, urlando.

Lo lessi facilmente negli occhi consapevoli di mio marito che era proprio quello, che solo pochi minuti prima era stato visto da Alice. Quantomeno, niente di più preoccupante. Dovetti fare pressione su me stessa e esercitare tutto il controllo che pensavo di poter possedere per riuscire a calmarmi e regolarizzare il respiro.

«Va tutto bene» ripeté ancora Edward, stringendomi la mano fra le sue.

Mossi il capo di lato, sul cuscino, gli occhi ancora chiusi. E pregai perché le lacrime rimanessero lì intrappolate fra le ciglia. «Non va tutto bene Edward» dissi a bassa voce per cercare di mantenere il controllo del mio timbro.

Subito si agitò, tentando di convincermi. «Si, invece, non c’è niente di cui ti debba preoccupare!» affermò concitato, baciandomi le punte delle dita. «I licantropi non sono un problema, davvero. Non c’è niente che possa mettervi in pericolo, niente…».

Riuscii a posare un dito sulle sue labbra, e aprii gli occhi. L’ultima cosa che avrei desiderato vedere era la tristezza e l’angoscia che albergava nei suoi. Spostai la mano al lato del suo viso, accarezzandogli la guancia. Volevo fargli capire quello che sentivo, quello che davvero stavo provando. «Edward… É successo tutto così velocemente. Io…» sospirai «sono così confusa… Ho visto tutte quelle cose, e credevo realmente che fossero vere. E… poi è scomparso. Di nuovo, così velocemente» spiegai cauta.

Aggrottò la fronte, fissandomi crucciato.

«Tu me lo ripeti sempre. É tutto finito. Se n’è andato. Non tornerà più. Ma anche prima. Anche prima Edward, non sarebbe dovuto più ritornare. Posso credere a te. Ma come faccio a credere a me stessa?».

Sospirò, desolato, prendendomi fra le braccia e stringendomi a sé. Sospirò, ma non parlò. Cominciò ad accarezzarmi i capelli, calmandomi e calmandosi. Pensai che stesse scegliendo le parole migliori, o che, addirittura, non sapesse cosa dirmi. Sperai tuttavia che avesse compreso il mio stato d’animo.

«Lo so. Lo so quello che vuoi dire. Ma io come faccio?» mormorò agitato. M’irrigidì, colpita. Attese un secondo, e la sua voce ritornò calma e melliflua. «Posso fare tutto, tutto, per te. E voglio, fare ogni cosa che posso per farti stare meglio. Ma… questa volta… posso dirti solo che non tornerà più…».

Il cuore mi batteva forte quando mi ritrassi per guardarlo negli occhi. Indirizzai nel mio sguardo tutta la mia maggiore forza persuasiva, e tutto il sentimento che in quell’istante mi dominava. «C’è qualcosa che puoi fare» mormorai.

Quando gli esposi la mia richiesta fu immediatamente sconvolto. Vederlo, vedere il suo immondo corpo esanime. Come lui aveva potuto fare, come tutti gli altri avevano potuto fare. Quello era ciò che mi serviva per accettare ogni cosa.

«Come puoi chiedermi una cosa del genere?!» chiese nervoso, sollevandosi e cominciando a camminare troppo velocemente per la stanza. «Ti rendi conto? Puoi solo immaginare quello che mi stai chiedendo?!». Aveva le mani fra i capelli.

Abbassai il capo sul copriletto. «Tu mi hai chiesto… cosa… io…».

La porta della camera si aprì, rivelando la figura di Jasper. Entrò velocemente, fissandoci circospetto. Gli occhi angosciati di Edward erano ancora su di me.

«Cosa succede?» chiese cauto suo fratello. Subito dopo sentii il torpore e la calma avvolgermi.

Lui scosse velocemente il capo, come se stesse tentando di sbarazzarsi dell’ipnotico potere del fratello. Lo guardò con astio, e Jasper rispose con un’occhiata decisa.

Edward strinse i denti e sibilò con rabbia: «Non è una cosa per un umano. Non è una cosa per una donna. Non è una cosa per una donna incinta. Non è una cosa per Bella. Lei non lo vedrà» dichiarò con fermezza.

Gli occhi dispiaciuti di Jasper incontrarono i miei, e subito voltai il capo per nascondere le mie lacrime. Mi raggomitolai su me stessa, proteggendo il pancione fra le braccia.

Altre persone entrarono in camera, cominciando a discutere. Non volevo che succedesse tutto questo, non volevo creare tanta tensione, soprattutto con mio marito. Eppure… non riuscivo a pensare all’idea di una vita nel terrore e nell’angoscia. Volevo provare, provare a stare meglio…

Mi sentii prendere fra le braccia di colei che subito riconobbi e accettai come Esme. Mi rassicurò, dicendomi di stare calma. Accettai quello che mi portò alle labbra senza protestare.

«É un’idea assurda! Sono l’unico ad avere ancora del buon senso qui?» la voce di Edward era nervosa, ansiosa. Mi faceva male sentirlo così.

«No, sei l’unico ad essere cieco. Lo sai benissimo che accettare la morte di qualcuno non è un processo psicologico immediato. Entrare in contatto con il defunto è fondamentale».

«Non mi fare la lezione di psicologia su mia moglie Rosalie» gridò alterato «non te lo permetto. Dovresti sapere, quando la metti in questi termini, quanto possa essere traumatico… questo. Non lo permetterò. É una follia».

«Edward, nessuno vuole dire niente qui» cercò di rabbonirlo suo padre. «Dobbiamo solo cercare di capire qual è la scelta migliore per lei, possiamo discuterne con calma».

Sentii un ringhio, sicuro preludio di un’altra esclamazione di mio marito, eppure un’altra voce, tranquilla, squillante, lo interruppe. «É la sua la scelta migliore» disse tintinnante e serena, «l’hai sempre detto. E se non fossi così annebbiato lo diresti ancora. Lei prende sempre la scelta migliore».

Non sentii la voce di mio marito, così mi asciugai le lacrime, osservando la scena davanti ai miei occhi. La guardava in cagnesco, la fronte aggrottata, e lei sosteneva con la massima tranquillità il suo sguardo, altrettanto seria.

Chiuse gli occhi e sospirò. Quelli di Edward si spalancarono, sorpresi.

Presi un respiro, affrettandomi a sostenere il pancione per sollevarmi velocemente dal letto. Corsi da mio marito, fermandomi a meno di mezzo metro da lui. Passarono pochissimi secondi di silenzio, e i suoi occhi passarono da Alice, alle mie spalle, a me, mettendomi a fuoco.

Sollevò la mano, posandola sulla mia guancia. Non c’era ira, furia, o rabbia nei suoi occhi. Solo desolazione e tristezza. Avanzai un passo verso di lui, posando due dita sulle sue labbra. Mi bastava leggere nei suoi occhi per sentirmi meglio. Per sentire la mia pelle accarezzata da brividi delicati.

Sospirò, spostando la mano dalla guancia alla nuca, accarezzandomi i capelli. Si avvicinò ancora, posando le labbra sulla mia fronte.

«Non è un bello spettacolo».

«Lo so».

«Quell’immagine potrebbe albergare nei tuoi incubi per molto tempo».

«Meglio che vivere per sempre nell’angoscia».

«Devo decidere».

«Cosa?».

«Qual è la cosa peggiore».

«Più aspetteremo peggio sarà».

La sua mano aumentò la presa sui miei capelli, e si allontanò con il viso per guardarmi negli occhi, sofferente.

Si strinsero in due fessure e scattarono di nuovo alle mie spalle. «Ho capito Alice, basta» mormorò, la mascella serrata.

Mi voltai a guardare mia sorella, perplessa. Il suo viso non tradiva nessuna emozione. E neppure, voltandomi, ne lessi alcuna in quello di Edward.

Mi prese il viso fra le mani, attirandomi a sé e baciandomi senza indugi. «Io lo faccio per te…» soffiò sulle labbra.

«Cosa ha visto?» chiesi, tremante.

I suoi occhi si congelarono nei miei. «La mia scelta» sussurrò, chiudendo le palpebre.

Un’ora e mezza più tardi, protetta dal vento freddo che spirava fra gli alberi del bosco da più e più strati di maglieria pesante, aspettavo tremante e con un nodo allo stomaco. Ovviamente, tutte le preoccupazioni di Edward non potevano non essere anche le mie. Ma volevo farmi coraggio e essere forte. Liberarmi per sempre dei miei demoni.

E speravo che questa volta per sempre fosse davvero per sempre.

I miei occhi caddero sulla figura taciturna di Esme. Anche lei, come Edward, vedeva più gli aspetti negativi che quelli positivi di quello che stavo per fare. Non voleva imporre un suo pensiero sulla mia scelta, ma, apprensivamente, non riusciva ad approvarla.

«Ascoltami» mi chiamò Edward, stringendo più forte la mano che aveva fra le sue, «in qualsiasi momento volessi tirarti indietro, puoi farlo. Hai tutto il tempo che vuoi, mi basta un cenno, e ci fermiamo».

Jasper venne da noi in un lampo. Più avanti i ragazzi stavano preparando tutto. Presi un respiro cauto. «É tutto pronto, Edward» fece interrompendolo «è tutto apposto» disse, scambiandosi col fratello un’occhiata densa di significati. «La temperatura è stata bassa questa settimana, e l’avevamo isolato con l’erba secca». Si accorse della mia ansia e preferì procedere con una comunicazione mentale.

Mi strinsi più forte a Edward e guardai senza vedere nulla alle spalle di Jasper. Era lì. Dovevo farlo, dovevo rendermi conto, accertarmi io stessa.

«Bella» mi richiamò ancora mio marito. Mi prese il capo fra le sue mani, sistemandomi le ciocche di capelli dietro le orecchie e aggiustandomi il cappellino di lana. Mi guardò negli occhi. «Se ti senti male o hai la nausea devi dirmelo, va bene?» chiese serio.

Annuii.

Sospirò. «Tappati il naso».

Ci avvicinammo con cautela, nel silenzio più assoluto delle persone circostanti. Sentivo i loro occhi puntati addosso, compresi quelli di Edward, stretto dietro di me. I miei occhi erano concentrati sulla figura scura posata sul fogliame, ancora a qualche metro da me. Così concentrati, che l’odore acre mi raggiunse improvvisamente.

Dovetti irrigidirmi, perché immediatamente la mano di Edward corse davanti alla mia bocca, facendo quello che non avevo ancora fatto. Deglutii, e mi ritrovai con le orecchie tappate. Ci eravamo fermati.

«Vuoi smettere?». La voce mi giunse chiara e persuasiva all’orecchio destro.

Scossi maldestramente il capo, imponendo io stessa alle mie gambe tremanti di andare avanti. Mi mossi per alcuni metri, rassicurata dalla costante presenza di mio marito a contatto con la mia schiena.

Serrai gli occhi quando fui troppo vicina. Un pugno mi aveva colpito lo stomaco, facendo risalire un sapore acido lungo la gola. Il cuore mi batteva fortissimo. Avevo paura. E lui lo sentiva. Tutti, lo sentivano. Probabilmente più che il battito forsennato sarebbe bastato il mio tremolio o il certo odore di adrenalina che doveva aleggiare nello spiazzo insieme a quel tanfo…

Mi strinse più forte, posando una mano sul pancione e accarezzandolo. «Bella… Possiamo ancora tornare indietro…». Mia figlia era stata forte, e aveva fatto tutto, tutto per me e per noi. Era stata l’unica con il potere di salvarci. Non potevo essere meno forte di lei.

Aprii gli occhi e osservai la figura davanti a me. Era lui, lo stesso mostro che mi aveva perseguitata nella radura. In pochi, rapidi e profondi battiti di cuore, registrai i dettagli.

La pelle nera velata di uno strato biancastro, la rigidità, il gonfiore delle pelle.

Era morto. Morto. Per sempre.

Agitata, mi voltai verso Edward lanciandomi fra le sue braccia e stringendomi a lui convulsamente, respirando in modo affannoso.

Mi accarezzò i capelli, traendomi a sé e indietreggiando notevolmente, con velocità. Mi cullò fra le sue braccia, ansioso. L’immagine era ancora troppo vivida nella mia mente perché potessi in qualsiasi modo sminuire il mio stato.

Fare quello che avevo fatto sarebbe potuta sembrare una follia, solo una pazzia. Non avevo nessun gusto per il macabro. Nessun interesse a vedere un cadavere. Nessuno, ancora, a vedere quello che era stato un amico e che si era poi rivelato il mio peggior nemico, così, ridotto in quello stato.

Repressi un altro conato di vomito.

«Tutto bene?» chiese mio marito, guardandomi in volto.

Annuii con cautela, una mano alla bocca.

Le sue labbra si strinsero. Era pentito di avermi permesso di farlo, glielo leggevo in faccia. Eppure, non osava dirmelo. Alice doveva avergli mostrato quanto peggio sarebbe stato non farlo. «Ti viene da vomitare?».

Feci una smorfia ma non dissi nulla. Mentre tutti gli altri si erano affollati verso il luogo della riesumazione, Carlisle e Alice vennero verso di noi, appena in tempo perché potessi piegarmi sulle gambe, in preda ai conati.

Quando le mani di Edward che mi sorreggevano strette mi consentirono di sollevare il viso mi accorsi degli sguardi che si scambiava con Alice. Carlisle mi distrasse, passandomi un fazzoletto pulito e chiedendomi come stessi.

Edward sospirò, concentrandosi nuovamente su di me e stringendomi fra le braccia. «É tutto finito» disse, e pareva piuttosto tranquillo quando mi baciò la tempia.

Fare quello che avevo fatto sarebbe potuta sembrare una follia, solo una pazzia.

«Si» dissi, convinta «è tutto finito».

Una follia che mi aveva per sempre liberata dai miei demoni.

 

 

 

 

‘Giorno.

Perdono per il ritardo.

Ecco, spero solo non abbiate trovato il capitolo troppo macabro. Per scriverlo ho dovuto leggere un testo sulla decomposizione, e persino io, che per queste cose ho “lo stomaco forte”, dico che non è stato bello. No, affatto. :S

 

Comunque, spero vivamente di non aver offeso né disgustato nessuno, volevo solo fare intendere quanto fosse importante per Bella fare quello che ha fatto. E non voglio giudicare, in qualsiasi caso, il comportamento di una persona di fronte ad una problematica del genere. Perché qualsiasi scelta porta i suoi lati negativi. (Io sarei probabilmente scappata via).

Però Bella è una persona forte, e ho pensato giusto che prendesse la decisione che ha preso. Non vuol dire che l’abbia presa a cuor leggero, o che non le abbia fatto o le faccia male.

 

Bene. Posso dire a occhio e croce che manchino quattro capitoli alla fine della mia storia. Tutto dipende con che agevolezza e velocità riuscirò a superare l’ultimo ostacolo, per ora non riesco a fare una stima più precisa.

 

Per quanto riguarda lo scorso capitolo e la scelta di presentare il tutto come un’illusione.

É stata una scelta azzardata, e ne sono perfettamente consapevole. So della scelta che ho fatto, e me ne assumo le responsabilità. Vi è piaciuta? Sono contenta. Non vi è piaciuta? Mi va bene anche così, è giusto anche che me l’abbiate detto (GiovaneStella non ti preoccupare, apprezzo la tua sincerità).

E, non vorrei che dal mio edit fosse emerso qualcosa di diverso da quello che volevo comunicare. Non sono “arrabbiata” o “delusa” se non avete capito. Non voglio turbare la vostra attenzione più di quanto non sia lecito, più di quanto non mi sia consentito richiedervi.

Evidentemente, se non avete capito, era poco comprensibile. Punto. Inutile girarci intorno.

 

Dovete scusarmi se non rispondo alle vostre bellissime recensioni. Ho avuto dei problemi, ultimamente, che mi costringono a scrivere il meno possibile, pur avendo davvero tanto da scrivere. Mi dispiace, ma vi ringrazio sinceramente una ad una.

 

Rispondo in breve alle questioni che avete sollevato:

 

|-_ Jacob è morto per sempre (spero di averlo fatto sufficientemente capire) e non tornerà più!

|-_ Il professore ha scambiato Bella per Kate perché era fra i deliri della febbre, prima della morte.

|-_ Per chi non avesse ancora capito la questione del sogno, rimando all’edit del precedente capitolo, e se ancora ci fossero dubbi, chiedete pure. Ma: il professore non è mai morto, Jacob non è mai scappato.

|-_ «l’ambrosia di cui vi nutrite vi avrebbe portato la morte. Semplice…». É il sangue di Jacob la cosa più pericolosa per i vampiri. La cosa che li attrae di più sarebbe stata quella che li avrebbe uccisi, perché la sua essenza cos’era? Puro odio verso di loro.

|-_ Il corvo è uno, e c’è solo una volta, in realtà. Poco dopo che Bella ha usato il potere della bambina. Lui si trova lì, nello spiazzo. Quando Bella si risveglia, il corvo è lì. É solo un elemento narrativo, usato per rendere più semplice il salto temporale.

|-_ Il sogno di Bella è dovuto alla battaglia che la bambina e Jacob combattono, e le sensazioni che la piccola invia alla madre. Il dolore di Bella, e le sue reazioni, sono in parte ciò che anche la piccola prova, in parte invece cioè che Bella riceve come sensazioni dalla bambina.

|-_ Flavour of Love è stata terminata. :)

 

Come sempre il mio nick su twitter è: @Keska92. Aggiungetemi se vi va.

 

PS. Grazie Ely_11 per BRAINORI, mi hai fatto morire di risate ;)

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

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Capitolo 70
*** Questioni irrisolte ***


«Si è addormentata copertina


«Si è addormentata?».

«Si, penso proprio di si. É tranquilla oggi».

«Che meraviglia».

«Guarda, la mano…».

Edward accarezzò il punto in cui la piccola aveva puntellato il palmo della mano. In tutta l’ingombranza delle trentotto settimane, me ne stavo finalmente a riposare sul divano, esausta. Il pancione non era propriamente immenso rispetto a quello delle altre mamme, ma decisamente di una grandezza non trascurabile.

La gita nel parco naturale era ormai un lontano ricordo. L’unica cosa di cui mi rammaricavo era non aver trovato Kate, la figlia del professore. Eppure ero così certa che fosse stata così poco distante da noi…

Per il resto, la mia mente aveva assorbito la notizia, attutito il colpo, e avevo avuto sufficiente tempo per assimilare la cosa. E per quanto, soprattutto nei primi tempi, la paura e il ricordo costante di ciò che di terribile era successo, mi avesse tormentato nel profondo, ora riuscivo a stare bene. Abbastanza bene.

Ora, tutta la mia attenzione si era spostata sulla piccola che mi cresceva in grembo, che mi faceva stancare ad ogni movimento, che mi faceva correre in bagno fin troppo spesso. Sorrisi. Era la mia piccola, adorabile, bambina.

«Vuoi mangiare qualcosa?».

Scossi il capo. «No» mormorai, arrancando per tirarmi seduta. «Sbaglio, o gli altri ci aspettano?».

Edward mi offrì una mano per aiutarmi ad alzarmi. «Non sbagli». Posai la testa sulla sua spalla, sbadigliando e stropicciandomi gli occhi. «Ma se sei troppo stanca possiamo rimanere».

«No, mi voglio divertire un po’» biascicai, la bocca impastata.

Non osò ribattere. Dopotutto, era ancora infinitamente preoccupato per le possibili ripercussioni che la nostra disavventura poteva aver portato su di me. Vegliava sui miei sogni, stava attento ai miei e ai suoi gesti. Si prendeva cura di me. Io, dal canto mio, mi limitavo a preoccuparmi dei disagi della bambina e dalla questione del branco, rimasta ancora irrisolta.

Quando arrivammo a casa Cullen c’era il solito silenzioso fermento. Ognuno impegnato nella propria attività, ognuno pronto a lasciarla per fare due chiacchiere o divertirsi.

Jasper aggiornò Edward sui licantropi. «Non riusciamo a metterci in contatto. Carlisle vuole evitare di valicare il confine per entrare a La Push, determinerebbe un attacco di guerra. Ma allo stato attuale non sappiamo nulla…».

Mi massaggiai circolarmente il pancione. «E quindi come faremo?» chiesi, fissando ansiosamente lui e mio marito.

Alice mi piombò addosso, distogliendomi forzatamente dal discorso. Jasper mi assicurò che non ci fosse nient’altro su cui discutere, che mi avrebbero tenuta aggiornata, e con il beneplacito di Edward mi trascinò su per le scale. Mi lasciai dolcemente coccolare dalla sue cure. Creme, manicure, pedicure, ceretta… Persino a quel punto mi lasciai torturare senza proteste.

«Va tutto bene Bella?» chiese, vedendomi silenziosa.

«Si» sospirai «si, sono solo stanca. Credo che se non mi avessi chiamato mi sarei addormentata. Questa peste si muove in continuazione, ogni tanto mi sento un po’ indolenzita».

Mi sorrise, lasciando un leggera carezza sulla pancia. «Eh si, è proprio una peste».

«Di solito appena mi sveglio la mattina è calma. É verso l’ora di pranzo che comincia a scalpitare, e se non la calmo con un cd di musica o una fiaba non la smette. Devo cercare di dormire quanto più possibile a pomeriggio, perché la notte tira calci a non finire. Si sente sempre e costantemente curiosa, dovresti sentire come me lo fa presente!».

Un’espressione tenera comparve sul suo viso, ma non disse nulla.

«Che c’è?» chiesi perplessa.

«Beh, è evidente che ci sia uno spesso legame fra voi. Vi… amate. Siete madre e figlia». Troppo interdetta per le sue parole, sussultai quando mi si precipitò addosso. «Oh Bella, sono così contenta per te».

Sorrisi, contenta. Era vero, stavo così maledettamente bene con mia figlia. Avevo basato la mia felicità sulla sua presenza. L’avevo fatto la prima volta per emergere dalla depressione che mi aveva causato Jacob, per combattere i miei e i suoi problemi, e per andare avanti adesso, dopo tutto quello che, ancora, era successo. Mi sentivo bene.

Appena due giorni prima avevo fatto l’ennesima visita con Carlisle. «La testa è ancora alta» aveva detto, tastandomi l’addome, e aveva concluso «il collo dell’utero è ancora lungo e chiuso. A quanto pare la piccola si farà attendere».

Sorrisi, come avevo sorriso in quel momento a Edward, e mi lasciai andare nella vasca, coccolata dai massaggi della mia sorellina.

Ovunque andassi, specialmente quando mi trovavo a casa Cullen, c’era sempre qualcuno pronto ad offrirmi un braccio o un gomito su cui appigliarmi per non cadere. Dopotutto, ero stata goffa da sempre, e non poter vedere i miei piedi, dover camminare con le gambe larghe e piegate, non era propriamente un aiuto al mio equilibrio.

«Ce la faccio, ce la faccio» biascicai, abbarbicandomi alla ringhiera della scala per non cadere. Edward mi guidò con una mano sul bacino all’ultimo gradino.

«Oh… Perché la tua pancia non è tonda, Bella? Ci sei caduta su e l’hai ammaccata?».

Ansimai, con uno sbuffo. Mi portai una mano alla schiena dolorante. «No, Emmett. La bambina non sta ferma, sai?» ribattei piccata. Accarezzai il pancione. «Magari ci stesse…» feci con una smorfia contrariata.

Rose mi venne accanto, passandomi una mano sotto il braccio. Vederla muoversi così sinuosamente mi faceva rabbrividire. «Carlisle è in ospedale. Esme ti ha preparato qualcosa da mangiare ed è uscita. Torneranno stasera per il dopocena… Hai fame?».

Qualsiasi cosa purché mi potessi sedere. Mangiai con gusto il piatto cucinato da mia suocera. Nell’ultimo periodo avevamo passato così, io e Edward, i nostri pomeriggi. O soli a coccolarci e coccolare la bambina, o con la sua famiglia, a divertirci, talvolta con la presenza di mio padre.

Facevano di tutto per farmi stare tranquilla e serena in vista delle ultime settimane di gestazione, e, contro tutte le mie proteste, evitavano di informarmi spesso e volentieri sui progressi che facevano sulla questione La Push. Dovevo cavare la parole di bocca a Edward, facendogli presente quanto peggio sarebbe stata l’angoscia di non conoscere con precisione come procedesse la situazione.

Attualmente, avevamo semplicemente considerato che pur essendo stati presumibilmente sotto il controllo di Jacob, non erano intervenuti durante lo scontro, e che lui era ormai morto.

«Tranquillizzati» mi diceva Edward, con un sorriso «è tutto sotto controllo». Eppure, per quanto il suo tono fosse persuasivo e disinvolto, conoscevo fin troppo bene la sua capacità recitativa per fidarmi pienamente di lui.

Decise, dopo pranzo, di suonare un po’ il piano. Non lo usava da tempo e a Esme avrebbe fatto piacere, una volta tornata, trovarlo accordato. Io mi misi sul divano ad ascoltarlo. A noi si unì Jasper. E a Jasper Alice. La calma e la tranquillità fu rotta quando Emmett decise di “ravvivare l’atmosfera”.

Un momento più tardi, Rosalie suonava un allegro.

«Avanti, vieni a ballare con me» insistette, prendendomi la mano.

Fui seriamente tentata di fargli la linguaccia. «Se riesci a farmi alzare da qui» feci, facendo spallucce.

Mi scappò un risolino, quando, ghignante, mi sollevò di peso da divano, prendendomi fra le braccia e facendomi ruotare. Gli tirai dei deboli colpetti sulla spalla. «Emmett, smettila! Mi farai vomitare tutto il pranzo così!» esclamai giocosa, finché non mi lasciò andare. Per fortuna, chissà per quale momento di assenamento, si limitò a farci dondolare qua e là.

Anche Alice e Jasper si divertirono, e ben presto Edward venne a reclamarmi. Aveva un sorriso appena accennato sulle labbra. «Non avevi detto che avresti ballato solo con me?».

Arrossii, abbassando il capo. Decisamente, ballare con lui era molto più romantico e piacevole. Gorgogliai qualcosa di incomprensibile sulla sua spalla, sollevandomi sulle punte dei piedi per stringergli le braccia al collo. Ridacchiò, e mi accarezzò i capelli.

Passò poco tempo, e, stanca, mi dovetti andare a sedere sul divano. Edward diede un po’ il cambio a Rose, per permetterle di ballare con Emmett, ma presto si stancarono del genere decisamente più tranquillo prediletto da mio marito, e fu felice di ri-cedere il suo posto e venire a sedersi accanto a me.

Emmett faceva il cretino con Alice, ballando con lei e divertendosi a provare a scompigliarle i capelli. Ero felice. Risi, battendo le mani, quando lei si liberò dalla sua persa, saltandogli sulle spalle.

Improvvisamente, però, mi bloccai. Sentivo un crampo alla parte bassa della pancia. Sollevai lo sguardo, la bocca spalancata. Nessuno si era accorto di nulla. Con una mano mi aggrappai alla manica della camicia di Edward, l’altra al ventre.

Si voltò verso di me, e subito il sorriso gli morì sulle labbra. «Cos’hai?», chiese velocemente, inginocchiandosi davanti a me.

«Ah…» mi lamentai senza fiato, stringendo più forte la sua camicia e la mia maglietta, sulla pancia. Tutti si erano fermati e mi stavano osservando, nel silenzio più assoluto.

Appena il dolore passò mi lasciai andare sui cuscini, prendendo dei respiri affannosi. Rose venne in un istante al mio fianco. Edward mi tastò il grembo. «Contrazioni?» chiese, scrutandomi il viso.

Non feci in tempo ad annuire, che mi ritrovai a sorreggermi ancora la pancia, gli occhi serrati. «Che male…» mi lamentai, in preda al dolore. Edward aumentò la presa sulla mia mano.

«Senti dolore alla schiena? Alla pancia? Eri indolenzita?» chiese Rose, posandomi una mano sul pancione.

Ma io non riuscivo a parlare. Alice mi venne più vicino. «Prima ha detto che aveva la pancia indolenzita».

«Quando prima?».

«Tre ore fa».

Edward mi accarezzò il viso, aspettando trepidante che il dolore scemasse. Non appena potei respirare si scambiò un’occhiata seria con Rose.

«Potrebbe metterci meno del previsto» fece lei, accarezzandomi la pancia. «É meglio se andiamo in ospedale. É il momento».

Una doccia fredda mi calò addosso. É il momento.

Mio maritò annuì, procedendo velocemente. «Rose, il suo borsone è a casa nostra, prendilo e torna. Emmett, vai a preparare l’auto. Alice, avvisa Carlisle che stiamo andando. Jasper» s’interruppe, stringendo le labbra. Tutti gli altri fratelli erano già scomparsi in un secondo dalla stanza. «Allontanati» disse solo.

Avevamo deciso… Per non rischiare. Quando mi si fossero rotte le acque… per il sangue. Non adesso, pensai confusa. É il momento. No.

Mio marito mi prese le mani fra le sue, guardandomi con dolcezza. «Andiamo amore…».

«No» sillabai. Gli occhi spalancati, stupita. Mi sentivo congelata, bloccata. Mi sentivo semplicemente terrorizzata.

Mi fissò perplesso, alzandosi in piedi. «Bella…».

«No» ripetei, irrigidendomi sul divano e tirandomi indietro, spaventata. «No. Non è il momento» feci ansiosa «chiama Emmett, digli di tornare qua, subito, e… e Rose… deve suonare, stavano ballando… ci… ci stavamo divertendo… stavano ballando… Non è il moment… ah…» sussultai, serrando gli occhi e portandomi una mano alla pancia.

Si accovacciò accanto a me, parlandomi con gentilezza. «Piano, prendi dei respiri. Stai calma Bella, è tutto normale. Stai solo per partorire».

Se possibile, sbiancai ancora di più, la bocca aperta per lo stupore oltre che per il dolore. Partorire. Preferivo ‘il momento’. «No» mormorai stridula, appena fui in condizione di parlare. «No, no, no… Non sto partorendo. Non devo partorire. Non devo respirare. No!» esclamai, tentando di ignorare l’indolenzimento alla pancia.

Era confuso, stupito. Era preoccupato. «Bella, non fare così. Avanti, vieni…» fece, provando a farmi passare un braccio dietro la schiena per farmi alzare.

«No!» mi ribellai, provando ad oppormi alla sua presa. Mi avvinghiai al cuscino del divano, tremando di paura. Non poteva. Non poteva nascere. «No, no, non voglio! Carlisle ha detto che mancava ancora tanto! Che c’era tempo! Non sto per partorire, no!».

Leggevo sul suo volto tutto il suo smarrimento. Non si sarebbe mai aspettato una tale reazione da parte mia, e neppure io, consciamente, l’avrei fatto. Ma ero stata calma, ero stata tranquilla, avevo goduto di tutti i momenti con mia figlia. Nel mio grembo.

Provò a farmi ragionare. «Ma amore, hai le doglie. Stai male. Andiamo in ospedale e vediamo che…».

«No! No!». Quello era un incubo. Un incubo che mi si stava precipitando addosso. La mia mente si stava ribellando a quello che stava accadendo al mio corpo.

«Edward!» esclamò Rosalie apparendo nella stanza. «Siete ancora qui?». A differenza del fratello non volle sentire ragioni, e all’ennesima contrazione lo obbligò a caricarmi di peso e trascinarmi in macchina, prima che lo facesse lei stessa.

Avevo paura, e non ero pronta. Avevo pensato che tutto fosse perfetto, e adesso la nascita della bambina non era qualcosa di positivo. Avrei sopportato i fastidi, il mal di schiena, l’assenza di sonno. Ogni cosa era migliore della separazione.

Carlisle aveva detto che avevamo tempo. Questo non era tempo! Erano passati solo due giorni, dannazione!

«Calmati, calmati, respira» mio marito provava a farmi calmare, massaggiandomi le spalle e imitando il ritmo del respiro che avrei dovuto seguire.

Non volevo credere alla realtà, non potevo credere che tutto quello si stesse realizzando. Così presto. Eppure, sentivo il dolore. Sentivo le contrazioni. Eppure, quella dannata automobile mi stava portando in ospedale.

Non appena l’ennesima fitta scemò mi abbandonai per tutta la lunghezza del sedile, per quanto la presenza di Edward, ai miei piedi, me lo consentisse. Scoppiai in lacrime. «Non potete farmi questo! Non voglio, non voglio venire!» piansi.

Lui sembrava rammaricato. Provò a chinarsi su di me. «Amore, mi dispiace. Ma andrà tutto bene, davvero… La bambina starà bene…».

«No!» urlai, in preda al dolore. Fu facile per lui stringermi a sé. Troppo facile tentarmi con il suo abbraccio rassicurante. «Lei è piccola… Mancano ancora due settimane. Ha paura… Non può nascere adesso… Sta tanto bene dentro di me, nella mia pancia… Non me la potete portare via…» singhiozzai, inondandogli la camicia di lacrime.

Mi accarezzò i capelli, ansioso. Non comprendeva tutta la mia paura, non era a conoscenza di tutte le mie paure. «Nessuno te la vuole portare via Bella. La bambina sta solo nascendo…».

«No… Carlisle ha detto… ha detto… ah…» singhiozzai, ripiegandomi sul pancione, «fa male…».

Mi cullò, stringendomi. Sembrava nervoso, si muoveva a scatti. «Amore, non è tardi. Potremmo provare con l’epidu…».

Il mio grido lo fece ammutolire. «Non ci provare Edward! Non ci provare, non mentre sto morendo di dolore!».

Sembrò prendere sul serio il mio avvertimento, perché non ne fece una sola parola. Emmett parcheggiò direttamente davanti al pronto soccorso, e Rosalie scese dall’auto per andare a trovare Carlisle.

«Bella, amore…» fece, a metà fra un sospiro e una supplica.

«No! No, non voglio scendere! Riportatemi indietro! Emmett, riportami indietro subito! Non ci voglio stare qua…» singhiozzai querula. Mi opponevo alle realtà. Mi opponevo alla realtà per paura di andare incontro a quello che era stato solo un sogno. Un bruttissimo sogno.

Edward aprì la portiera, e mi prese per le braccia, invitandomi a scendere. Mi opposi con tutta la mia debole forza umana.

«No… Non mi puoi costringere… Non te ne puoi approfittare solo perché sono debole e… ah… in preda al dolore…» biascicai fra i denti, stringendomi la pancia.

Sospirò, inginocchiandosi di fronte a me con determinazione. «Respira. Amore, guardami» disse, fissandomi con aria seria. Presi un respiro fra le labbra bagnate. «Se rimani in macchina, corri rischi per te e per la bambina. Rischi che stia male, e tu non lo vuoi, vero?» chiese, costringendomi a diniegare col capo, eppure senza smettere di piangere. «Ascoltami. Ho capito che adesso hai paura, e vorresti che questo non stesse succedendo. Ma lo senti anche tu il dolore» fece afflitto, posando una mano sul pancione, «e sei consapevole di quello che succederà. Vieni con me» disse, tendendomi la mano «ti prometto che starai meglio».

Singhiozzai più forte, sentendo il peso della logica dei suoi pensieri. Non potevo più oppormi. Stava succedendo, io e la bambina ci saremmo dovute separare, e non potevo farci nulla, per quanto terribile fosse quel pensiero. Non ti separerai da lei, provò a rassicurarmi la parte più razionale della mia mente, non riusciresti mai a separartene. Era solo un brutto sogno, niente più.

Allungai la mano, tremante, a prendere la sua. Vidi i muscoli dell’avambraccio rilassarsi. Ma un attimo prima che si toccassero la strinsi in un pugno.

«Bella» fece, scattando con la testa verso l’alto.

«Devi promettermi…» mugugnai, tirando su col naso.

«Tutto quello che vuoi» mormorò agitato, accarezzandomi il viso, pronto ad accontentarmi.

Deglutii. «Devi promettermi che sarai sempre con me» feci, la voce arrochita per il pianto, «che non mi lascerai mai».

La sua espressione si addolcì teneramente. Mi accarezzò una guancia. «Certo, si» fece, ansioso di soddisfare ogni mia richiesta. «Non ti lascerò mai. Sarò sempre accanto a te, ti terrò la mano nella mia, te lo prometto».

Incoraggiata e solo lievemente rassicurata dalle sue parole presi un respiro profondo, ricominciando a parlare. «Devi promettermi che… che non insisterai più con la storia dell’epidurale…».

Parve preso in contropiede. «Bella…».

«Promettilo!».

«Si, lo prometto» concesse riluttante. «Andiamo adesso», fece, tenendo il braccio per aiutarmi a tirarmi su.

«Ah» gemetti, piegandomi «ti prego» dissi fra i denti, lasciandomi avvolgere nel suo abbraccio. Mi accarezzò la schiena con la mano. «Promettimi…» dissi fra gli ansiti «promettimi che potrò urlare!»

Ridacchiò, nervoso, stringendomi più forte e cullandomi, finché anche quella contrazione non ebbe il suo corso. «Ti prometto tutto, potrai urlare quanto vuoi» mi guardò con dolcezza, «adesso andiamo. Riesci a camminare?».

Afferrai, tremante, la sua mano. Lo guardai con il viso rosso, inondato di lacrime. Un’espressione mista fra terrore e angosciosa rassegnazione. «Non mi sento le gambe…» farfugliai querula, terrorizzata, lasciando che mi prendesse fra le braccia.

 

Nove ore e mezza più tardi, quasi notte ormai, addentai il mio panino felicemente seduta sul sedile anteriore della Volvo. Non protestavo per i riscaldamenti accesi, era una delle fredde e pazze giornate di fine Aprile, e avevo già abbastanza urtato i nervi di mio marito, che ora guidava, silenzioso, al mio fianco.

Con paura e un’espressione triste e sconsolata, le lacrime ancora agli angoli degli occhi, mi ero lasciata andare al mio destino. Eppure, quando Carlisle era venuto a visitarmi aveva ripetuto esattamente le stesse parole dei due giorni precedenti: niente faceva pensare che il parto fosse vicino. Mi ero calmata, sorpresa e sollevata, e le fitte erano man mano scemate in intensità e numero. Finché, con mia somma gioia, non avevano deciso di lasciarmi andare a casa, per ritornare quando fosse realmente stato il momento. «Può succedere», aveva detto mio suocero con un sorriso.

«Bella. Dobbiamo parlare». La mano di mio marito si strinse sul volante.

Affondai con la bocca nel mio panino, solo per avere una scusa adatta per temporeggiare. «Sto bene adesso» mugugnai a bocca piena, fingendo di non capire «Carlisle ha detto di tornare quando sentirò di nuovo dolore…».

«Bella». Sussultai, ingoiando il boccone. «Non pensi che dovremmo discutere di qualcosa?».

Lo fissai di sottecchi, decisa a evitare la questione. «Non credo che… no. Non penso. Va tutto bene…» mormorai.

Si voltò verso di me con un’espressione estremamente seria. Da fare paura.

Distolsi lo sguardo, mordicchiandomi il labbro. Allontanai il resto della mia cena, investita improvvisamente dalla nausea. «Non mi va, sono stanca» feci, accarezzandomi il pancione.

Sentì lo schiocco della sua mascella, mentre si serrava, e il suo sguardo si spostò sulla strada. Un attimo più tardi la portiera dell’auto si aprì, e mi tese una mano per farmi uscire dall’abitacolo. «Finisci il tuo panino» fece, un tono che non ammetteva repliche.

Lo spiluccai in silenzio sul tavolo della cucina. Avevo il suo sguardo addosso e non osavo sostenerlo. Troppo nauseata per finire realmente di mangiare lasciai la mia cena, abbassando il capo sulla pancia. «Mi dispiace» farfugliai, quando l’increscioso silenzio divenne insostenibile.

Sentii il palmo della mano sulla mia guancia. «Guardami» fece, costringendomi a voltarmi senza sforzo. «Non voglio che tu mi dica questo. Voglio che mi spieghi cos’è successo Bella, perché io non ho mica capito, sai?».

Le mie labbra tremarono. «Mi dispiace» ripetei, sentendomi in colpa per tutto quello che dovevo avergli fatto passare nelle ultime ore. Presi la sua mano libera fra le mie, ansiosa.

Corrugò la fronte, fissandomi con attenzione, cercando di capirmi. «Bella, tu eri tranquilla, eri serena. Lo sei sempre stata nelle ultime settimane, non pensavo che la nascita della bambina rappresentasse un problema. Ma… oggi…» la sua espressione si fece crucciata «cos’è successo? Spiegami».

«Ho avuto paura…» balbettai.

«E gli altri giorni? Prima? Non avevi paura, sapendo quello che inevitabilmente sarebbe successo?». Parlava con calma, la voce piena della logica e della razionalità che mi erano mancate.

Abbassai il capo. «Pensavo di avere tempo» ammisi riluttante. «Ma il dolore è arrivato all’improvviso, e Carlisle aveva detto che mancava ancora molto, e ci sono ancora due settimane, e… io… non credevo che…».

«Cosa non credevi?» chiese, abbassando il viso per cercare i miei occhi. «Spiegami, di cosa hai paura?».

Lasciai che il suo sguardo mi scrutasse, appena per qualche istante, cercando un modo per dirgli cosa pensavo, o un modo per evadere dalla verità. Gli buttai le braccia al collo, destabilizzandolo. «Avevo paura, faceva male, e… La bambina non è pronta Edward, è tanto piccina, e sta così bene qui con me, nella mia pancia. Lei è protetta con me, è protetta…».

Provò dolcemente a staccarsi dalla mia presa, ma infine rinunciò, sospirando e sollevandomi fra la braccia, fino a condurmi in camera da letto. «Amore» mi chiamò, accarezzandomi i capelli e invitandomi a sollevare la testa dalla sua spalla, «quando sarà nata, sarà stupendo» parlò piano, con gentilezza «noi ci occuperemo di lei, la faremo crescere nel migliore dei modi. E noi la proteggeremo, come la stai proteggendo tu, adesso, con il tuo corpo. Nessuno ce la porterà via».

Sospirai, abbassando il capo. Se nessuno l’avesse portata via da noi, chi poteva garantirmi che niente mi avrebbe convinto a farlo io stessa? No, avrei detto, in quel preciso momento, se qualcuno me l’avesse chiesto. Non potresti mai allontanare tua figlia da te. Eppure in preda al terrore l’avevo già fatto.

 

Edward

 

I miei soli e costanti desideri in quei giorni erano stati la salute e il benessere di Bella e della bambina. Mia moglie si stava riprendendo adeguatamente da tutto quello che era successo nelle ultime settimane, e la bambina cresceva sana e serena, coccolata dai suoi genitori.

Avevo il controllo di quello che mi stava attorno. Sorreggevo, accudivo silenziosamente, mi beavo dei momenti più dolci. Dopotutto, non sembrava andare tanto male.

Dopotutto, a quanto pareva, avevo fatto male i conti.

Sentendomi tirare la manica della camicia e vedendo l’espressione dolorante e terrorizzata di Bella, avevo sentito una scarica di quella che non poteva essere adrenalina. Mancavano due settimane, era vero, ma sapevo benissimo quanto fosse comune nelle primipare anticipare la data del parto. E quando Rosalie aveva pensato, ansiosa «Le contrazioni sembrano piuttosto lunghe e dolorose. Era già indolenzita prima, Edward. Non è prudente rimanere qui». Avevo capito che stava succedendo davvero, mi figlia stava per venire al mondo.

E mi ero sentito angosciato, agitato, nervoso, entusiasmato, elettrizzato. E avevo prontamente represso tutto con quel sangue freddo che, ironicamente e non, non poteva mancare.

Ma Bella! Niente mi avrebbe mai preparato alla sua reazione. Lei era solo e semplicemente terrorizzata.

Sospirai, cercando di prestare seria attenzione al discorso che mio padre mi stava facendo sul branco di La Push. Concordavo perfettamente con lui. Non potevamo lasciare nulla al caso, dovevamo forzatamente ristabilire il patto, e trovare un modo per metterci pacificamente in contatto con loro, dal momento che rifiutavano ogni tentativo da parte nostra di farlo.

«É il tuo telefono» pensò Carlisle, unendo questo al flusso dei suoi pensieri.

Sussultai, mettendomi una mano in tasca. Mio padre strinse gli occhi, perplesso per il mio comportamento. Stavo andando fuori di testa con questa storia dei licantropi e di… Bella.

«Pronto?» risposi al cellulare, modulando la voce il modo che anche l’udito umano la potesse percepire. Avevo lasciato Bella a casa con Jasper, sperando che il suo potere riuscisse a calmarla.

«Edward devi venire subito». Jasper. Il sempre calmo e carismatico Jasper era nervoso. Poteva voler dire solo una cosa.

Feci un cenno secco a Carlisle, e prima ancora di aspettarlo saltai dalla finestra, alla volta di casa. «Da quanto?» chiesi velocemente. Non era la prima volta che si ripeteva. Bella aveva avuto ancora contrazioni.

Quando arrivai da lei era agitata, le labbra strette e le lacrime agli angoli degli occhi. Provava a non farsi prendere dal panico. Perché?, mi chiedevo, struggendomi al pensiero, perché deve andare nel panico, quando sta succedendo quella che considero la cosa più bella che possa capitarci?

La strinsi a me, facendole morire il gemito di dolore in un bacio. «Shh, tranquilla. Andrà tutto bene» la rassicurai prontamente. Strinse i denti e annuì.

Terrorizzata. A chi la dava a bere? Era terrorizzata. Dopo averle parlato, ogni volta che aveva una contrazione non si ribellava più, non piangeva più, non gridava, nemmeno, più. Ma come non notare il terrore nascosto dai suoi lineamenti tremanti, dagli occhi rossi, o dalle labbra strette per fermarne il tremito?

Ora negava. Negava ogni sorta di paura.

«Ah…» si lamentò, irrigidendosi fra i cuscini. Mio padre che si dava da fare per controllare la situazione. Si strinse forte con le braccia a me, cercando conforto. Osservavo attento i movimenti di Carlisle, ascoltavo i suoi pensieri metodici, ma non glielo negai. Modulai la voce, addolcii il tono. «Sta tranquilla Bella, è il primo figlio il più difficile, poi gli altri verranno da sé».

S’irrigidì fra le mie braccia, e quando mi voltai a scrutare il suo volto era semplicemente… senza parole. Serrai i denti, silenzioso. Ci avevo pensato. Non l’avevo ancora, prima d’ora, resa partecipe.

Non osai immaginare cosa si celasse realmente dietro quell’espressione, che si piegò senza fiato sul pancione, dolorante.

Mi voltai celermente verso Carlisle. «Mi dispiace ragazzi» fece, scuotendo il capo, «ancora non ci siamo».

La mia espressione diceva tutto quello che ancora non avevano detto le parole. «Com’è possibile che soffra tanto?».

Carlisle si sfilò i guanti, fissando Bella con un sorriso per non farle intendere nulla. «Edward, sta tranquillo. Sai che per ogni donna è diverso. E lei si fa prendere dal panico, e sente l’agitazione e il dolore. Quando saranno quelle vere noterà la differenza».

L’aiutò a risistemarsi sui cuscini, consigliandole di cambiare posizione per alleviare il dolore. Come previsto da mio padre, procedendo irregolarmente e a singhiozzi, man mano le contrazioni scomparvero. La rassicurai in ogni istante, tenendole la mano stretta alla mia, proprio come avevo promesso. Ad ogni contrazione più corta, ad ogni intervallo più lungo, i suoi occhi, che non facevano altro che muoversi a scatti per la stanza, rallentavano sempre più il loro frenetico andare.

«Lo so» rispondeva ormai, in un sussurro, alle mie rassicurazioni.

Quando fu fatta notte, crollò addormentata, stremata, fra le mie braccia.

Poteva un vampiro avere mal di testa? Socchiusi la porta della stanza, così che se mi avesse chiamato o avesse avuto bisogno di aiuto sarei potuto andare velocemente da lei.

«Sta bene?» chiese cortesemente Esme, seduta sulla penisola della cucina a mano a mano con Carlisle.

Mi passai una mano fra i capelli. «Si, si è addormentata da poco». Mi sedetti su uno sgabello dalla parte opposta della penisola, appoggiando i gomiti sul tavolo e la testa sui pugni.

«Sta tranquillo» mi rassicurò mio padre, «sta bene. Tutto questo è estremamente comune, il suo corpo si sta preparando al parto. Mi sarei aspettato una qualche risposta, invero, ma il progesterone che le abbiamo dato qualche settimana fa deve aver rallentato le cose».

Sollevai un sopracciglio, piegando il capo sulle mani per guardarlo in faccia.

Sembrava serio. «Se le cose non procedono naturalmente dovremmo indurre il parto, Edward…» cambiò tono quando mi vide scuotere il capo, un sorriso amaro sulle labbra, «ci sono diversi metodi, anche indiretti. Lasciale più spazio per occuparsi di sé, della casa, dalle motivo di stancarsi. Non deve compire sforzi eccessivi, ma questo non mi sembra impossibile…» si fermò di fronte al mio continuo dissenso. E infine aggiunse: «aspettare troppo significa correre rischi. Per ora la bambina è abbastanza piccola, e ci possiamo permettere di temporeggiare, ma quando non lo sarà più ci sarà poco fra cui scegliere».

«Tu non capisci» dissi, lasciando cadere le braccia sul ripiano e drizzandomi finalmente a guardarlo. «É terrorizzata anche per tutti i più piccoli crampi, per ogni dolorino. E non è nella natura di mia moglie, lo sai. Prima le dovevo leggere le labbra per trovare un gemito soffocato, dovevo osservare ogni gesto per cercare di capire quando, con dolore, si portava una mano alla pancia. Ma ora non è così. Lei non vuole che nasca. E io comprendo l’ansia, comprendo la paura, ma Bella non è così. Lei è terrorizzata».

«L’ansia da parto è comune, Edward».

Diniegai col capo e mia madre allungò le mani sul tavolo, prendendo le mie fra le sue. «Figlio mio, io lo so cosa pensa Bella» disse, con tutto il suo tatto e la sua gentilezza «anch’io ero felice, pensando di poter avere il mio piccino fra le braccia. Eppure, quando fu il momento del parto, provai anch’io tanta paura». Quasi inconsciamente si portò una mano a quello che per sempre sarebbe stato un ventre piatto. «Un po’ per il dolore, un po’ per il disagio. Un po’ per la paura e l’inadeguatezza che sentivo. Ma soprattutto, per la paura di separarmi da lui. Vedi Edward, quando lo senti crescere dentro di te, lo nutri, lo proteggi, lo senti come una parte di te stessa. E sai che niente potrebbe fargli del male, perché prima, tu stessa, lo proteggeresti con il tuo stesso corpo».

Sospirai, abbassando il capo. «Ma lei è così terribilmente afflitta…».

«Bella ha un legame speciale con sua figlia. Per nove mesi sono state in stretto contatto. Non è facile rinunciarvi» finì, e si ritirò sul suo sgabello, lasciando che Carlisle le accarezzasse con discrezione le spalle.

Sentii dei movimenti provenire dalla camera, e attesi qualche istante, finché non udii la porta del bagno aprirsi. «Scusatemi» dissi, alzandomi e procedendo a passo umano verso la camera.

Quando entrai mi chiusi la porta alle spalle, e attesi finché Bella non riaprì la porta. Andai ad aiutarla.

«Ehi… sei qui» mormorò, appoggiandosi al mio corpo. Insistetti affinché dormisse ancora, ma lei si oppose tanto che alla fine lasciai che si sedesse, la schiena contro la testiera del letto.

«Vuoi che mi stenda un po’ io con te?». Certamente non avevo bisogno di dormire, ma avevo preso l’abitudine di farle compagnia la notte, stendendomi al suo fianco e tenendola fra le braccia.

Abbassò gli occhi, evasiva. Temporeggiò. «Carlisle è ancora qui?» chiese infine, ma pensai che non fosse realmente ciò che intendeva dirmi. Tuttavia risposi, fingendo di non accorgermene. Allora sollevò timidamente lo sguardo. «Cosa» fece, e si interruppe con una smorfia, «prima. Hai detto una cosa su… altri figli».

M’irrigidii, presi in contropiede. Certamente, la mente di mia moglie non smetteva di stupirmi. Rilassai le spalle, scrutandola in viso per cercare di intuire i suoi pensieri. Non era affatto semplice. «Si» risposi cauto.

Lei annuì frettolosamente, spostando imbarazzata lo sguardo. Non avrei voluto che l’argomento venisse fuori così, e il fatto che mi fossi lasciato sfuggire quella frase testimoniava quanto la mia mente fosse assurdamente presa dai problemi che incombevano.

Sospirai, deciso ormai a parlarne seriamente. «Ci ho pensato. E sinceramente pensavo che inizialmente non avresti mai acconsentito. Ma considerando ora che durante la gravidanza la tua crescita rallenta, non dovresti porti problemi sulla tua età. Naturalmente è una decisione che dobbiamo prendere insieme».

Mi fissò in silenzio, e si morse un labbro. «Sinceramente…» mormorò «non ci avevo pensato. Ma… si» fece con un sorriso appena accennato «penso che la gioia di avere un figlio sia immensa… perché non quella di averne altri? Avremmo un’eternità davanti, e ora che sono umana, sarebbe giusto… cogliere l’attimo» fece, sostenendo debolmente le sue parole con un rossore sulle guance.

Le sorrisi, sinceramente colpito e rinfrancato dalla piega che stava prendendo il discorso. Parlare ancora delle sue paure e dei suoi timori, temevo, non avrebbe fatto altro che accrescerli. E non potei essere più felice quando anche lei mi sorrise, serena come non mi sembrava da tanto. «Spero non ti dispiacerà doverti abituare per un po’ al pancione» fece, accarezzandosi la pancia.

Mi avvicinai al suo viso, baciandole appassionatamente le labbra. «Non credo, mai. Avremmo tantissimi figli».

Rise, divertita. «Tantissimi? Non esagerare, Edward».

«Almeno dieci» feci, con un tono dispettoso che nascondeva una certa verità.

Mi fissò, scandalizzata e sorpresa. «Dieci! Ma per chi mi hai preso? Magari tre potrebbero bastare».

«Tre? Tre sono pochi. Non dimenticare l’epoca da cui provengo…».

«Ma smettila» mi interruppe con un risolino, dandomi una leggera pacca sulla spalla. E mi beai di vederla così spensierata. «Tu eri figlio unico Edward».

Le sorrisi, avvicinandomi al suo viso e godendo al sentire il suo cuore accelerare la sua corsa. «Ne avremmo quanti ne verranno. Con felicità e gioia». Mi sorrise, e la baciai.

 

«Pronto?». La voce di Sam Uley dall’altro capo del telefono.

Bella mi scoccò un’occhiata timorosa, e le strinsi la mano, facendole un cenno col capo. «Sam, sono Bella. Isabella Cullen» precisò, utilizzando il mio cognome.

Non rispondendo a nessuna delle nostre chiamate o tentativi di metterci in contatto, avevamo pensato che Bella sarebbe stato l’unico ponte percorribile.

Ci fu solo qualche attimo di esitazione. «Bella» fece, premurandosi di non aggiungere altro.

Mia moglie prese un respiro, e sentii il suo cuore battere veloce. Portai la mano libera sulla sua pancia. Avevamo ripetuto mille volte, tutti, cosa avrebbe dovuto dire. Ma trovarsi con sette vampiri immobili e silenziosi a fissarti, carichi di aspettativa, e un licantropo dall’altra parte del telefono, non doveva essere semplice. La accarezzai, mimando con le labbra ‘stai andando bene’.

«Sam» face, e si interruppe per schiarirsi la voce «alla luce degli ultimi avvenimenti, pensiamo che sia necessario ristabilire e riconfermare il patto che ci consente di vivere serenamente. Per questo vorremmo incontrarci» ripeté, con un tono deciso per quanto tremante.

Le sue labbra vibrarono mentre il silenzio dall’altro lato si faceva sempre più lungo.

«Non c’è niente da ristabilire».

La linea cadde.

Con la cornetta ancora in mano, Bella mi guardò angosciata.

 

 

Ciao a tutte!

Ho fatto una bella vacanza, lì da mia sorella, a Pavia. Sono mancata tredici giorni, e ora eccomi con l’aggiornamento, perdonatemi il ritardo.

Molto presto (si spera :P) aggiungerò anche il prologo della nuova storia che da un po’ di tempo mi sta frullando nella testa, dal titolo “Diamante”.

 

Allora. Bella dà un po’ di matto. Perché? Perché Bella, dannazione, non si è accorta prima della sua paura, com’è possibile che abbia avuto questa reazione?

Ecco, secondo me reazioni del genere non si posso prevedere, non consciamente. É la paura, il terrore di quell’attimo, a far scattare “la molla” ed individuare le cause.

 

Spero abbiate apprezzato l’Edward POV. La cosa in cui mi diletto maggiormente quando scrivo dal suo punto di vista, è la totale dedizione e ammirazione che ha nei confronti di sua moglie. Questo spasmodico desiderio di capirla e amarla.

 

Cosa accadrà, ancora, cosa ci farà questa sadica e cattiva scrittrice, mai puntuale, e così lunatica? Vi chiederete.

Lo so, sono pessima. Ma state all’erta, i guai non sono finiti. (Credo si capisca dalle ultime righe).

 

Ringrazio tutti. Preferiti, seguiti.

E tutti, tutti quelli che commentano facendomi ridere, facendomi commuovere, facendomi increspare le labbra o sghignazzare. (Faccio tutto questo). Leggo ogni singolo commento con gioia, ballando sulla mia poltroncina rossa. Grazie, grazie, grazie.

 

 

PS. In questi giorni ho pubblicato una shot, di nome “Lussuria”, che ha partecipato al contest di erzsi. Troverete tutti i link nel capitolo, se vi va di leggerlo. Ovviamente, invito a farlo solo ai maggiorenni, visto che, come si sarà capito, è a rating rosso.

 

PPS. Scusate per la lunghezza di questo e dei prossimi capitoli. Scusate, ma sono gli ultimi!!!

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

 

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Capitolo 71
*** Escamotage ***


Bella copertina


Bella

 

Silenziosa, mi mossi da una stanza all’altra, sistemando quello che mi capitava a tiro.

Ero turbata. Incredibilmente turbata per il nostro rapporto con i licantropi.

«Non c’è niente da ristabilire».

Cosa dovevo farmene di quella frase? C’era, eccome, qualcosa da ristabilire. E se loro fossero stati in buoni e sereni rapporti con noi, non avrebbero opposto alcuna resistenza. Ma era solo l’astio per la morte di Jacob?

Proprio quello che stavo cercando di evitare, una vita nell’angoscia, mi stava ora perseguitando.

Quando passai davanti a Edward, con il carico di biancheria fra le braccia posato appena sull’enorme pancione, sussultò. Mi fissò, e strinse le labbra. Ma dovette reputare che quel carico non fosse abbastanza eccessivo per dovermi venire ad aiutare.

Quattro giorni. Erano passati quattro giorni dalla presunta data del termine, ma ancora niente faceva presagire che il parto fosse vicino. «La testa della bambina non ha ancora impegnato il bacino, e non c’è dilatazione». Queste le parole di Carlisle, che accompagnate da un’occhiata appena velata, dicevano: “Se continua così dovremmo indurre il parto”.

Ma io non ce la facevo. Non potevo pensare contemporaneamente alla questione dei licantropi e a quella di mia figlia. Dovevo necessariamente affrontare una cosa per volta. Sussultai a un dolorino, portandomi una mano alla pancia e sorreggendomi al cassettone. Presi un respiro profondo, e il dolore sparì.

Questo genere di cose mi avevano disturbata abbastanza, in quegli ultimi giorni. E sempre vedevo l’espressione inquieta di Edward, non potendo fare a meno di sentirmi in colpa. Dopotutto, se non fosse stato per la mia reazione, non si sarebbe mai sentito così nervoso. Quindi tacevo, nascondevo il dolore, e lasciavo morire l’ansia e la paura dentro di me.

Quando tornai nel soggiorno, però, mi sedetti stremata sul divano. Non riuscivo a stare in piedi così a lungo, mi dolevano le gambe, la schiena, e l’enorme pancione indolenzito. Sospirai. Il pranzo era passato, ma avevo mangiato appena mezzo sandwich, lo stomaco fin troppo pieno, in quel momento. Adesso, invece, a due ore di distanza, morivo di fame. Ma avrei doluto prepararmi da mangiare se avessi desiderato sfamarmi.

Edward, però, non osò obbiettare al mio sguardo stanco. Dopotutto, evitare di assistermi e coccolarmi non aveva mai fatto parte della sua natura.

Mi lasciai andare con un sospiro fra i cuscini del divano; tuttavia, troppo presto, qualcosa mi costrinse ad alzarmi. Il telefono che squillava. Sapevo quasi certamente la chiamata sarebbe provenuta da Jasper o Emmett, con quelle che erano le scarse notizie sui licantropi.

Tutti rimandavano una decisiva scelta in merito a dopo la nascita della piccola. Per ora, eravamo in stato d’allerta. Ma la decisione che avremmo dovuto prendere, appena accennata da Jasper, era una: partire. Loro cominciavano a dover dimostrare un’età sempre maggiore di quella consentitagli, e prima o poi sarebbe successo.

Ma mi ero abituata alla mia casa. Alla cittadina. A… mio padre.

Eppure, prima o poi avrei dovuto rinunciarvi.

«Pronto?» risposi in un sospiro.

«Isabella».

Mi drizzai, portandomi una mano dietro la schiena. «Professor Philip» lo chiamai, sorpresa di sentire la sua voce. Ancor di più di sentirla con quel tono.

«Isabella» borbottò, e sembrava stanco, affaticato, agitato «devi venire qui, subito».

Sbattei le palpebre, confusa, e Edward mi apparve immediatamente dinanzi. «Cosa… cosa succede?».

Ci furono degli ansiti, dei sospiri, che non fecero altro che farmi agitare di più. «Isabella, ti prego, vieni qui» fece, con quello che sembrava il tono di un angosciosa supplica.

«Io… io…» balbettai, fissando il volto imperturbabile di mio marito. Fece un cenno per farsi passare il telefono, ma diniegai, stringendo più forte le dita sulla cornetta.

«Ti prego Isabella, ti prego. Vieni… a casa mia… da sola» disse, e la voce tremò di uno stranissimo tono. Poi la chiamata fu interrotta.

Lasciai che Edward mi sfilasse la cornetta di mano, troppo interdetta per farlo io stessa.

Deglutii, angosciata, e sollevai lo sguardo per incontrare quello di mio marito, inintelligibile. «Edward…» farfugliai.

Serrò la mascella. «Non se ne parla».

Sospirai, sentendo le labbra tremare. «Lui ci ha aiutati…».

«Anche ingannati».

«Edward…» lo richiamai, portando le mie mani al suo volto. «Non posso lasciarlo così. E se stesse male?» soffiai, a delle immagini mi passarono alla mente. Le immagini del mio sogno, di lui, morente. Mi morsi violentemente il labbro, sentendo il dolore spostarsi dal cuore alla pancia.

Mi scrutò, attento, osservando la mia espressione. «Manderemo qualcun altro» fece infine.  

«Ti prego, Edward, lui… voleva me…» feci, abbassando la sguardo. Ancora le immagini imperversarono nella mia mente. La sua voce debole che mi chiamava col nome di sua figlia.

Portai una mano alla bocca, quasi sull’orlo delle lacrime, e mi defilai immediatamente, avanzando verso l’ingresso e afferrando il cappotto. Quando allungai la mano per afferrare le chiavi della mia auto, nella ciotola, mi sentii stringere fermamente il polso.

Mi voltai verso mio marito, un’espressione mista fra supplica e determinazione. «Lasciami andare. Ti prego…».

Mi fissò silenzioso, in una battaglia di sguardi. Infine abbassò il viso, e prendendo le chiavi dalla ciotola mi lasciò andare il polso. Afferrò il suo giaccone e aprì il portone, tenendolo aperto e facendosi da parte per farmi passare.

«Edward» sospirai, abbassando le spalle.

«Non credere che ti faccia andare sola, al termine della gravidanza, così lontana da casa, da quell’uomo meschino e…» indurì l’espressione, rivelando la sua paura «con i licantropi in giro».

Esitai, ma ben presto capii che quello era già il massimo di quello che mi avrebbe potuto concedere.

Assecondando la mia ansia, guidò alla sua massima velocità sulla strada per Sequim. Io provavo insistentemente a richiamare il professore, ma ogni tentativo cadeva nel vuoto di continui bip. Sospirai, lasciando cadere il cellulare nel portaoggetti del cruscotto.

«Calmati» fece Edward, portando una sua mano sulla mia, «stiamo andando da lui, e capiremo cosa succede. Non manca più di mezz’ora. Chiama Emmett, piuttosto, e digli dove siamo. Non erano previsti nostri movimenti».

Ripresi il cellulare e composi il numero. «Cosa vuoi dire? Non erano previsti?» chiesi perplessa.

Sospirò, e rispose in modo evasivo. «Dobbiamo avvisarli per fargli tenere la situazione sottocontrollo».

Dovetti lasciare cadere il discorso per poter avvisare Emmett di quello che mi aveva appena detto Edward. Ma quando mi chiese le coordinate della nostra posizione passai il cellulare a lui, lasciando che fosse più veloce e preciso di me.

Mi lasciai andare sul sedile, e sentii un fastidioso formicolio avere principio dai reni e dalla sommità della pancia, fino a spandersi verso il basso e le gambe, intensificandosi in dolore. Sospirai, socchiudendo gli occhi.

«Tutto bene?» chiese, e capii avesse chiuso la chiamata.

«Che cosa vuol dire che i nostri movimenti non erano previsti?» incalzai, eludendo la sua domanda.

Si voltò, restio a rispondere. «Che per essere maggiormente sicuri sulla questione dei licantropi abbiamo organizzato un sistema di sicurezza, tutto qui…».

Sospirai, cercando di ignorare il dolore. «Sempre l’ultima a sapere le cos…» strinsi i denti, sussultando, sentendolo incalzare sempre più.

«Bella?» mi chiamò preoccupato Edward «Bella, hai le contrazioni?».

Appena il dolore scemò mi piegai su me stessa, cacciando un respiro. «É tutto sottocontrollo. Ce la faccio. Carlisle ha detto che mi accorgerò quando saranno quelle vere. Adesso cambio un attimo posizione e… ah» sussultai, quando, benché mi fossi girata su un fianco, il dolore restò immutato.

«Bella» fece Edward ansioso, guardando più me che la strada pressoché deserta delle due di pomeriggio, «io non credo che in queste condizioni potremmo andare da qualsivoglia parte. Adesso torniamo a casa» s’interruppe, sentendo il mio gemito sofferente «o direttamente in ospedale».

Presi fiato, e proprio in quel momento il mio cellulare squillò. «É il professore» farfugliai, afferrandolo con mani tremanti. Scoccai immediatamente un occhiata a Edward «un attimo» feci, «un attimo, lasciami parlare», e immediatamente risposi.

«Isabella» il suo tono apparve se possibile più angosciato di prima.

«Professore…» iniziai, ma immediatamente m’interruppe.

«Isabella, ascoltami» fece in fretta «devi andartene, scappa, riparati dai tuoi vampiri». Mi voltai a guardare Edward, confusa, angosciata, dolorante.

Indurì la sua presa sul volante, e pochi istanti dopo un’espressione di terrore si dipinse sul suo volto.

«Edward» lo chiamai, stridula e confusa per quello che stava accadendo troppo velocemente.

«Isabella, i licantropi vi stanno cercando! Mi dispiace, mi dispiace! Ho dovuto farlo! Hanno preso la mia Kate! Mi dispiace così tanto!».

Ansimai, voltandomi terrorizzata verso Edward. Odio e terrore erano dipinti sul suo volto. Mi aveva chiamata sotto ricatto dei licantropi. Era una trappola. Mi aveva ingannata.

Eppure, le parole che seguirono cambiarono ogni cosa.

«L’hanno presa… Hanno detto che la uccideranno… Ma… io non ho potuto» fece, l’afflizione peggiore che si possa provare, quella di essere così vicini a ritrovare un figlio e perderlo per sempre. «Sei ancora in tempo, vattene» disse, e la sua voce scomparve, isolandosi nel suo dolore.

Ci aveva avvisati… pur sapendo… che avrebbe perso sua figlia per sempre.

«Maledizione!» esclamò Edward, perdendo per un istante il suo terribile controllo. La sua gamba si muoveva a vuoto sul pedale. Ci aveva avvisati, potevamo salvarci, allora perché…

Mi portai una mano alla pancia, ansimando spaventata. «Che succede?» chiesi stridula.

«I freni, non funzionano» disse asciutto. Subito dopo fece passare un braccio oltre le mie spalle, traendomi a sé. Serrai gli occhi quando tirò il freno a mano, ma neppure in quel caso l’auto si arrestò.

Serrò con più forza la presa, guardandosi velocemente intorno e dietro. «Dannazione».

Mi bastarono fugaci e veloci occhiate agli specchietti retrovisori. Eravamo chiusi. Dietro di noi, un’auto da rally. Di lato e davanti, tre lupi immensi.

Edward sterzò bruscamente, provando a perdere velocità urtando la fiancata contro il guardrail. Strinse i denti, scoccandomi un’occhiata, quando i nostri inseguitori serrarono lo spazio intorno a noi. «Tieniti a me, forte».

Gli gettai le braccia al collo, stringendomi a lui con tutta la mia forza. Subito dopo, sentii il rumore delle cinture di sicurezza che si laceravano. Tremai, chiudendo gli occhi, e altri frastuoni giunsero alle mie orecchie. La presa di Edward sul mio corpo s’intensificò, e sentii uno strattone e uno spostamento d’aria.

Pochi secondi più tardi, ansimante, realizzai di essere sulla terraferma. Il sibilo impazzito del motore si allontanò, affievolendosi. Feci appena in tempo a sbirciare oltre la spalla di Edward, che vidi l’auto andare fuoristrada, fermandosi contro un albero.

Mi voltai verso mio marito, le mani ancora in un’assurda presa sul suo collo, ansimando spaventata. Il suo volto immobile mi fissava, teso. Gemetti, piegandomi sulla sua spalla, quando un dolore improvviso mi colse impreparata. Era decisamente intenso, diffuso dall’alto al basso in tutta l’estensione dell’addome. «Edward…» mi lamentai terrorizzata «sono quelle vere…».

Non feci in tempo a dirlo, che mi trovai fra le sue braccia, delle immagini verdi e sfocate intorno a noi.

Tutto stava succedendo così in fretta e così precipitosamente da non darmi il tempo di pensare. Il professore si era sbagliato, non eravamo più in tempo. E malgrado il puro moto d’odio e biasimo che avevo provato nei suoi confronti nel primo istante, ora non poteva che stringermisi il cuore per il suo vano sacrificio.

Sentivo i loro ringhi, ci stavano raggiungendo.

Improvvisamente Edward cambiò direzione, scartando due alberi e saltando su un ramo, tenendomi facilmente fra le braccia, stretta e protetta. Pochi secondi ancora, e scattò di nuovo, deviando. I suoi movimenti si fecero più discontinui e veloci, intermittenti, nervosi.

Il cuore mi batteva forte contro il petto marmoreo di mio marito, e la paura e il dolore domavano ogni altra emozione, facendomi pensare di stare vivendo un incubo. Solo un altro incubo.

Edward si arrestò. Si arrestò fra due file di alberi, ruotando velocemente su se stesso e ringhiando. Non avevo la sua vista, e i nostri sensi non erano neppure paragonabili. Ma lo percepivo. Eravamo circondati.

Si voltò a guardarmi, mi strinse più forte, con un’espressione mista fra concentrazione e rabbia, e muovendosi più velocemente di quanto non avesse fatto finora, corse per circa dieci metri, tanto da riuscire a darsi lo slancio per scattare contro il tronco di un albero e saltare, in alto, nella direzione opposta.

In quel momento accadde la cosa peggiore che potesse succedere. Percepii un colpo, filtrato attraverso Edward, e sentii la presa delle sue mani venire letteralmente strappata dal mio corpo.

Ci separarono.

Dopo un volo di circa cinque metri, completamente priva d’equilibrio, venni bloccata, sospesa con i piedi e pochi centimetri dal terreno. Due mani caldissime sulle braccia, e un petto altrettanto caldo contro la schiena. Sentii il frastuono, una serie di ringhi, e nella posizione in cui mi trovavo non potei non vedere cosa stava accedendo.

Edward era steso per terra, quattro enormi lupi su di lui.

«No!» urlai con tutta la mia forza, provando a divincolarmi dalla morsa che mi costringeva con assoluta facilità le braccia. «Edward!».

«Basta!» decretò una voce che immediatamente collegai con quella di Sam. Fra me e mio marito, a pochi metri di distanza l’uno dall’altra, comparve la figura del capo branco, in forma umana.

Arrestai i miei movimenti, e i licantropi fecero lo stesso. Lo vidi. Edward era a terra, e le loro zampe, le unghie affilate, lo costringevano al suolo, impedendogli di muoversi. Si dibatteva seccamente, ringhiando.

Il panico che sentivo doveva essere immotivato, scaturito da una reazione angosciosa al loro comportamento. Ci doveva essere un motivo. Non potevano volerci fare del male. Non potevano.

Ma mentre leggevo il terrore, la rabbia, l’odio sul volto di mio marito, del mio eterno amore, e l’espressione neutra e fissa di Sam, il panico crebbe impazzendo nel mio corpo.

«No… Lascia-telo» ansimai, e mi ritrovai senza fiato per il dolore. Le braccia che mi imprigionavano mi strinsero con più forza, sostenendomi.

«Bella!» gridò Edward, provando a sollevare la testa. «Lasciatela! Lasciatela andare!». Ripresi un respiro non appena la contrazione passò.

Sam fece un passo, poi si bloccò. Una smorfia si dipinse sul suo viso. «Voi» fece, e parve quasi che le parole gli si mozzassero in gola.

Panico. Puro panico. Perché malgrado il dolore, malgrado il terrore, c’era una parte della mia mente, istintiva o non, che non poteva credere che non ci fosse qualcosa di terribile in agguato per noi. Non ci avrebbero presi. Non ci avrebbero trattenuti. Accerchiati, fermati, inseguiti.

Non c’è niente da ristabilire.

Perché per loro il patto era già irreparabilmente rotto.

Sam ringhiò, e scosse la testa violentemente. «É stato deciso… dovete…» s’interruppe, e tremò «morire. Uno di fronte all’altra… senza potervi… toccare… ma… per leggere il dolore… negli occhi… dell’altro» fece, digrignando i denti e arrancando con le parole fino alla fine.

Lasciai un ansito sconvolto, non riuscendo né a muovermi né a parlare.

Sam si fissò una mano tremante, e i suoi occhi neri furono in uno scatto secco nei miei. «Jacob» disse, strozzando il suo nome fra i denti «ce lo ha ordinato».

Sentii il mio corpo pulsare. La nuca, la gola, le braccia, dove la presa di faceva più forte.

Edward. La bambina.

«Ah…» ansimai, e non opposi alcuna resistenza quando il mio corpo si piegò in un movimento convulso sul pancione.

«Bella, no!» gridò sbracciandosi, provando a sollevarsi. I suoi occhi chiari ardevano di terrore. Il suo viso era tirato. «Lasciatela andare, sta male! Lasciatela andare! Bella!».

«Edward…» farfugliai, stentando a rimettermi in piedi.

Devastata. Psicologicamente e fisicamente.

Tutti i licantropi erano immobili. Il ragazzone che mi bloccava, non ancora identificato, non si muoveva, come loro. Stavano solo aspettando l’ordine per mettere in atto l’omicidio. Ma come poteva essere possibile?

Jacob era morto. L’avevo visto con i miei occhi.

Il tono di voce di mio marito si abbassò, diventando mellifluo e suadente. «Lasciatela stare, lasciatela andare. Cosa ve ne fate di lei? Sono io il vostro nemico naturale, sono un vampiro, uno stupido succhiasangue» le teste dei licantropi scattarono nella sua direzione, facendomi tremare dal terrore «lasciatela andare» incalzò, suadente «lei è umana, voi dovete proteggere gli umani da quelli come me, come avete sempre fatto» un lupo dal colore bruno piegò il capo, lasciando un respiro secco.

Tremai, angosciata. Non poteva farlo. Non poteva dirlo. Mi sentii stringere la gola, come se stessi per soffocare, ma capii essere solo il terrore.

Stavo per perdere l’amore della mia vita.

I quattro licantropi si piegarono su di lui. Ringhiarono. Uno, dal pelo color sabbia, guaì. Seth.

«Si, si, è così. Voi dovete proteggerla» continuò Edward, suadente «come avete sempre fatto. É me che volete, lei sta male, non può stare male. É me che volete…».

«No… no…» balbettai.

I lupi ringhiarono inferociti, avvicinandosi a lui, dimenticandosi quasi della mia presenza. Uno diede una zampata a vuoto, vicino alla sua faccia, facendola morire nel terreno.

Non poteva, lui non poteva farmi questo. «No…» feci, in un sospiro, la bocca aperta per il terrore e lo stupore.

Fra i ringhi e i denti scoperti, fra il pelo infeltrito e arruffato, Edward si sollevò appena.

Stava per morire. Un sorriso di scuse a nascondere la naturale paura della morte. «Usa il tuo scudo. Vai via» le sue parole veleggiarono fino a me. Dolci. Affettuose.

«No!» urlai, gli occhi pungenti di lacrime, sbracciandomi con tutta la mia forza, provando a divincolarmi dalla presa che mi costringeva per correre da mio marito. Si stava sacrificando. Si stava sacrificando per noi, per proteggerci.

Lo scudo. Lo scudo. Dovevo usare lo scudo. Usarlo, e salvare tutti e tre.

I musi dei lupi si avvicinarono a Edward. I denti furono scoperti. Ringhiarono.

Le lacrime rotolarono sulle guance.

Ci provai. Tentai. Con tutte le mie forze, con tutti i miei pensieri. Ma non accadde nulla. Non avevo un perfetto controllo sul potere di mia figlia, ma quello andava ben oltre. Avevo paura, terrore. Lo scudo si sarebbe dovuto attivare.

Gemetti, un’altra contrazione. Io e la bambina ci stavamo separando.

«Basta così» sibilò la voce di Sam. Tutti i lupi si bloccarono. Edward ringhiò, sbattendo un braccio imprigionato contro il terreno. Io tremavo, ferma, spaurita, le lacrime che cadevano silenziose inondandomi il volto.

Chiuse gli occhi, e la bocca vibrò, come se stentasse a trattenere un ringhio. Una smorfia comparve sul suo viso, e la spalla si contrasse.

Riaprì gli occhi. «Uccideteli».

Edward ringhiò, e una fila di denti, una tagliola, gli si avvicinò alla gola, mentre gli altri lupi lo imprigionavano al suolo. Non mi ero neppure resa conto della mano scura che con la stessa mossa si era avvicinata alla mia, di gola, avvolgendola con fermezza.

Aveva avuto ragione Jacob. Era la cosa peggiore che potessi immaginare, morire, vedendo la morte negli occhi di Edward.

Cosa l’aveva mai portato a questo? A condannarci a questa sorte orribile?

Gli occhi del mio eterno amore brillarono. Odio, rabbia, paura, amore. I suoi lineamenti tesi e la sua bocca stretta. La sua espressione contratta. Questo, i miei occhi avrebbero visto come ultima cosa. Non di migliore prospettiva poteva sicuramente godere sul mio volto.

E il nostro piccolo, piccolo amore non ancora nato, sarebbe stato trascinato nella morte proprio quando stava per venire alla luce. Che mondo crudele.

«Bella…» sussurrò Edward, le labbra mosse appena.

Le mie tremarono, e non emisero alcun suono. Forse la mano che mi stringeva. Forse il panico che mi mozzava il respiro, impedendomi persino di pronunciare le mie ultime parole. Forse, il dolore che stava arrivando, inondandomi il grembo.

Urlai, e riuscii a portarmi le braccia, ora libere, al ventre.

Poi, sentii un ringhio rompere il brutale silenzio. Non era di Edward.

 

Edward

 

La mia mente era completamente aperta ad ogni pensiero circostante. Tutti i licantropi erano forzati, spezzati, confusi. Sam, in particolare, sentiva la sua coscienza latente e il peso dell’ordine ricevuto, che gli impediva di prendere una decisione diversa da quello che aveva appena decretato.

«Uccideteli».

Chi l’avrebbe detto, solo pochi anni addietro, che la mia fine, la fine di un essere dannato, mi sarebbe costata tanto dolore?

Forse perché accompagnata alla morte dei due esseri più cari, gli unici, capaci di redimermi.

Vedevo il volto di mia moglie congelato nel terrore. Le guance umide e pallide, completamente bagnate di quelle inconsapevoli lacrime che compivano il loro cammino. La labbra esangui lievemente aperte, tanto da soffiare gli ultimi respiri. Tremanti.

Era la nostra fine.

Mi sentii incredibilmente soffocare, quando, in preda ad uno spasmo di dolore, si tenne con le mani il grosso pancione, urlando. Voleva nascere. Nostra figlia voleva nascere, e doveva morire insieme a noi.

E pensare che proprio lei, l’oggetto dell’imprinting, manteneva ancora vivo l’altrimenti decaduto ordine di Jacob, morto. E lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo.

Improvvisamente, però, dei pensieri si mossero impazziti. Mi voltai verso il lupo color sabbia.

«La più sacra di tutte le leggi del branco è che nessun lupo può uccidere per nessun motivo l’oggetto dell’imprinting di un altro lupo… La bambina… il suo imprinting…». Ringhiò. Un bagliore e una schiarita accompagnarono i pensieri di Seth, e non appena la sua presa si annullò sulla parte sinistra del mio corpo, fui tanto forte da divincolarmi da quella degli altri lupi, scattando in avanti.

Pochi, pochissimi momenti di esitazione. Sam non fece in tempo a trasformarsi, che lo colpii velocemente, spezzandogli il costato e il bacino. Non avrei mai voluto fargli del male. Ma dovevo, dovevo, per poter scappare.

Otto decimi di secondo. Raggiunsi Jared, carceriere di mia moglie, e gli riservai la stessa sorte. Seth era balzato davanti a me, proteggendomi dai suoi compagni, ancora stregati dall’ordine di Jacob. Bella era terrorizzata. Cercava la mia figura, non capiva, non vedeva. Era successo tutto così velocemente per i suoi occhi umani.

La presi fra le braccia, e scappai. Seth ci aveva salvati con il suo escamotage.

Strinsi il corpo di mia moglie, il corpo di mia figlia, al mio. Prima di separarci ancora avrebbero dovuto farmi a pezzi. Concentrai tutta la mia forza nelle gambe e corsi via, alla massima velocità che potevo permettermi.

Con istinto e facilità la mia mente scartava gli alberi e decideva la direzione da percorrere. Ci eravamo mossi molto a sud-est. Ora stavo risalendo verso ovest, il cuore della foresta nazionale della penisola. Tutto il resto era concentrato sui pensieri dei licantropi.

Sam e Jared erano fuori combattimento. Seth stava cercando di trattenere i suoi compagni, ma era solo contro tre lupi. Il fatto che non intendessero fargli del male giocava dalla sua parte, ma non li avrebbe fermati ancora per molto.

Scattai, saltando su una roccia e dandomi la necessaria spinta per saltare sul ramo più alto di un albero. Cercavo di confondere la nostra scia.

Sentii mia moglie tremare fra le mie braccia. Mi concessi con facilità di abbassare il viso solo per constatare che in realtà il tremore non erano altro che singhiozzi che scuotevano convulsamente il suo corpo. Aveva una mano stretta alla mia maglietta. Una sul suo vestito, sulla pancia.

Sta male, pensai angosciato, sta male e io non posso fermarmi.

Immediatamente alla mia vista si rivelò un dettaglio del sottobosco. Clathrus cancellatus. Mi lasciai cadere verso il basso e afferrai lo strano fungo rossiccio. Fungo proverbiale per l’olezzo che emanava. Lo sfaldai velocemente con la mano, non smettendo di correre, passandomelo sui vestiti e sulle mani. Dovevamo coprire il nostro odore.

«Sta tranquilla» sussurrai a mia moglie, desideroso di far cessare i suoi singhiozzi convulsi «non ci prenderanno».

Ma il suo pianto crebbe, e con più forza strinse la mano alla mia maglietta. «Come hai potuto… come hai potuto…» farfugliò fra le lacrime, lasciandomi interdetto.

«Mi volevi lasciare sola… con tua figlia… non avrei mai potuto… mai… vivere senza di te…» mormorò, con intenso dolore.

Distolsi lo sguardo, stringendola più forte a me. Avevo dovuto. E sarei morto mille volte per salvarle, e sarebbe certamente stato un più che giusto sacrificio. Un accenno di amaro sorriso comparve sulle mie labbra. Ci ero anche quasi riuscito.

Ma non dissi nulla di tutto questo a mia moglie. La strinsi più forte fra le braccia e la rassicurai. «Ma non è successo, non è successo amore, sta tranquilla. Adesso ci salveremo».

Serrò la sua presa, stringendo un braccio oltre la mia spalla. Aveva paura. Aveva temuto di perdermi per sempre. «Non mi lasciare, non mi lasciare ma… ah!» esclamò, serrando gli occhi.

Un attimo più tardi, sentii i pensieri di due licantropi. Erano riusciti a sfuggire a Seth. Con la morte nel cuore portai una mano sulla bocca di mia moglie, soffocandole il gemito. Ci avrebbero trovati, altrimenti. «Ti prego» mormorai, abbassando quanto più possibile la voce «ci sentiranno».

Con gli occhi sgranati per il mio gesto, ancora rossi e umidi, tremò, zittendosi.

Avevo appena infranto una delle mie promesse.

I suoi occhi esprimevano eppure tutta la sua paura e confusione. Non capiva cosa fosse successo, come fosse potuto succedere, e presto, presto mi ripromisi, le avrei chiarito tutto con più di qualche vana parola di rassicurazione. Più di quanto fosse, allo stato attuale, chiaro a me.

Chi avrebbe detto che ancora una volta nostra figlia ci avrebbe condannati e salvati?

Solo la sua esistenza poteva aver tenuto vivo l’ordine di Jacob. Finché l’oggetto dell’imprinting di un capo alfa fosse vissuto, così sarebbero sopravvissuti a lui i suoi ordini. Questa la verità che avevo letto nei pensieri di Sam.

Mai tormentati quanto quelli di Seth. Non si rassegnava all’idea del destino a cui dovevamo andare incontro. Ci voleva bene in fondo, con naturalezza e ingenuità. Ma l’ordine lasciato da Jacob e propagato e rafforzato da Sam lo aveva tenuto sottocontrollo finché con immensa astuzia non era riuscito a sfuggirgli.

«La più sacra di tutte le leggi del branco è che nessun lupo può uccidere per nessun motivo l’oggetto dell’imprinting di un altro lupo…».

Questo, gli aveva impedito di attuare nella sua interezza l’ordine. Una legge di lupo è più radicata e importante in un vero lupo che non vuole attuare l’ordine che gli è stato dato. Uccidendo me e Bella, Bella in particolare, avrebbe ucciso anche la bambina. Inconcepibile. Contro la più sacra di tutte le leggi.

Alla successiva contrazione Bella si piegò si di me, ma strinse così forte i denti che non un solo suono uscì dalle sua labbra. Le baciai la tempia. Un velo di sudore stava cominciando a coprirle il corpo. Dovevo muovermi, uscire dalla foresta e andare in un ospedale, o chiamare Carlisle.

Ma la prima cosa da fare sarebbe dovuta essere seminare i licantropi. Ero veloce, ma loro erano in due, e non avevo sufficientemente disperso la traccia. Ad un tratto, però, sentii il rumore di un fiume, e deviai istantaneamente.

Temporeggiai solo un secondo alla riva. «Stai bene?» chiesi con preoccupazione. Non riuscivo quasi più a sentire i pensieri dei lupi.

Aveva le guance striate di rosso. «Ce la faccio» soffiò, stringendosi a me.

In un istante afferrai il cellulare dalla tasca dei jeans, mettendolo in una chiusura protetta del cappotto. Speravo non si bagnasse. Mi voltai verso il mio amore tremante fra le mie braccia. «Mi dispiace, dobbiamo andare nel fiume. L’acqua sarà fredda…».

«Vai Edward, vai, non ti preoccupare» mormorò stringendosi.

«Tieniti forte, chiudi la bocca» dissi, proteggendole la testa con una mano.

M’immersi velocemente, sapendo che provare a tenerla all’asciutto avrebbe solo aumentato il rischio di rendere inefficace l’espediente. Eppure, provai a nuotare velocemente, riemergendo il più spesso possibile per farle prendere aria.

Andai avanti a nord-ovest per un tratto sufficiente, nuotando per circa un quarto d’ora. I pensieri dei licantropi non si ripresentarono, e la mia angoscia si affievolì col passare dei minuti. Speravo che Seth fosse riuscito a portarli dalla sua parte. Avrei voluto essere più sicuro, ma non potevo rischiare di tenere con me Bella ancora in acqua.

«Tutto bene?» chiesi, riemergendo alla riva.

Tossì un po’ d’acqua, annuendo silenziosamente. Aveva i capelli incollati al viso, e il volto pallido. Dovevo trovare un luogo isolato e riparato in cui fermarmi per gestire la situazione.

Strinsi le labbra, provando a concentrarmi sull’ambiente circostante, camminando lentamente. Il vento s’infrangeva su ogni cosa in modo diverso. Alberi, rocce. Un pertugio. Un grotta non sarebbe andata bene, mi serviva un ambiente secco in cui fare asciugare i nostri vestiti.

Mi bloccai. Avevo percepito qualcosa di estremamente diverso da quello che avevo finora sentito. Perfetto.

Immediatamente scattai, ricominciando a correre alla mia velocità. Mia moglie si lamentò fra le mie braccia, non facendomi capire altro che non fosse: corri più veloce. Quando arrivai fui pienamente soddisfatto della mia meta. Una cascina.

Bella gemette, e appena realizzò quello che stavo facendo s’irrigidì. «Edward…».

«Non ti preoccupare, è certamente disabitata adesso. La usano dei cacciatori in altri periodi, l’ho vista tempo fa, quando sono venuto da queste parti».

«Ma…».

«Non ti preoccupare».

Mugugnò, stringendo gli occhi e una mano sulla pancia, dolorante.

Aprii la porta con facilità, senza neppure lasciare segni evidenti di effrazione, ansioso di trovare un modo per darle sollievo. Fui ancora più soddisfatto dell’ambiente interno, era asciutta e accogliente. Non era particolarmente arredata, ma c’era lo stretto necessario. Un divano, un camino, una credenza, una cassapanca, e una porticina per il bagno.

Immediatamente adagiai Bella sul divano, accarezzandole i capelli bagnati. «Come stai?» chiesi, stringendole le mani.

Si morse un labbro, contraendo il viso in una smorfia. «Fa un po’ male…» mugugnò, ansimando lievemente. Sembrava essere tornata la Bella di sempre, quella che abbassava gli occhi per non farvi leggere il dolore che, così poco esperta com’era a mentire, sarebbe trapelato.

Mi chiesi quanto la consueta paura che l’aveva presa negli ultimi giorni stesse adesso occupando la sua mente, in tutta la confusione che si era creata. Non riuscivo a farmene un’idea precisa, ma più che altro mi sembrava intenta a contenere il dolore.

Tremò.

«Tranquilla, tranquilla» provai a rassicurarla «ora risolviamo tutto». Speravo davvero di poterlo fare.

Decisi innanzitutto toglierle gli abiti bagnati e farla riscaldare. Sistemai tre grossi ceppi di legna nel camino, aggiungendo dell’erba secca a cui diedi immediatamente fuoco. Mi sfilai il cappotto, la maglietta, le scarpe e i pantaloni, sistemandoli su una sedia affianco al camino.

Tornai rapidamente da mia moglie, spostando il divano finché non fu sistemato esattamente davanti al fuoco. Le tolsi le scarpe e le calze, e, sostenendola a me, le sfilai il vestito su per le braccia.

«Ah… ah…» si lamentò, portando le braccia a proteggere il pancione scoperto. «Ahi…» mormorò, stentando a trattenere il dolore. «Ci prenderanno…» mormorò spaventata, scrutandomi in viso.

La tenni fra le braccia, aiutandola ad adagiarsi fra i cuscini. «Shh… No, non ci prenderanno, siamo al sicuro qui. Li ho seminati, non riusciranno a trovarci. Tranquilla, respira, ora passa…» la rassicurai, accarezzandole un fianco. Dopo pochi secondi si rilassò sul divano, chiudendo gli occhi per nascondervi la paura.

Sistemai anche i suoi vestiti su una sedia, e presi una coperta dalla cassapanca per coprirla, e un’asciugamani dal bagno per asciugarle i capelli.

Avevo deciso di fermarmi per paura che muovendomi i licantropi potessero intercettare la nostra scia, e per tenere con più facilità sottocontrollo la situazione di Bella. Ora dovevo chiamare gli altri e avvisarli, cercando di farci salvare.

Sussultò. Soffrivo a vedere il suo volto concentrato, così contratto per evitare di lasciarsi sfuggire anche un solo gemito. Sapevo, solo per gli studi che avevo fatto, quanto in quel momento il dolore stesse incalzando, contrazioni o non. Cominciò a gemere, forse senza neppure rendersene conto, dondolandosi piano avanti e indietro con la testa.

«Calma, sta tranquilla» la rassicurai, prendendola fra le braccia. Pensavo che cambiando posizione potesse stare meglio. Aveva funzionato i giorni precedenti. Ma evidentemente aveva ragione lei, queste erano quelle vere, probabilmente era già in travaglio avanzato.

«Mi voglio sollevare» mi disse, staccandosi debolmente per guardarmi negli occhi. «Devo… devo stare in piedi… rischio di impazzire…» fece, con una punta di tormentato sarcasmo.

La aiutai a sollevarsi, tenendola a me con una mano su un fianco e una nella sua. Ne approfittai per recuperare il cellulare nel cappotto, e ringraziai il cielo che non si fosse particolarmente bagnato. Funzionava ancora.

Ne osservai il display, e mi guardai intorno nella camera.

«Cosa c’è?» chiese Bella, il respiro lievemente affannoso. Il peso del suo corpo era completamente su di me.

«Devo chiamare Carlisle, ma non prende» spiegai velocemente.

Con un gemito si aggrappò con entrambe le braccia alla sedia. «Muoviti, spostati» mormorò fra i denti.

«Bella…».

«Ce la faccio. Faccio la spola da qua al divano, due metri. Per quanto non mi senta le gambe a quanto pare funzionano» fece, con accennata ironia. «Vai».

Lasciai gradualmente la presa, e quando fui certo che fosse in equilibrio, mi mossi velocemente verso la porta, poi verso la credenza, provando a intercettare un campo elettromagnetico. Non appena ci riuscii composi immediatamente il numero.

«Carlisle?».

«Edward!» mi rispose la voce di mio padre, sollevata.

Mi affrettai a spiegare velocemente, un’occhiata al viso contratto di mia moglie. «I licantropi ci hanno bloccato. Volevano farci del male. Philip ha chiamato Bella, ma si è rivelata tutta una trappola. L’hanno ricattato tenendo in ostaggio sua figlia, l’hanno catturata durante lo scontro con Jacob» dissi, accompagnando le ultime parole all’odio che provavo.

Ci furono solo pochissimi istanti di silenzio. «Lo so, Edward. Philip ci ha appena avvisati. É intervenuto nello scontro, aiutando Seth. Quil e Embry sono stati fermati, ma Paul è ancora fuori controllo».

Sospirai, in parte sollevato per la piega che stavano prendendo le cose, sopprimendo solo di poco quella sensazione di ansia e nervosismo che mi stava attanagliando. «É intervenuto?» chiesi, scuro in volto. Non pensavo che Philip si sarebbe esposto così, non dopo quello che ci aveva fatto.

«Si, è intervenuto. Ma di sua figlia nessuna traccia. Tu ne sai niente?».

Ripensai all’immagine che avevo letto nelle loro menti. La ragazzina dagli occhi celesti. «L’hanno catturata. Ma non so dove sia o che fine abbia fatto».

«Mh…». La mia testa scattò in alto al lamento di mia moglie. Si teneva al bracciolo del divano, sostenendo il pancione con l’altra mano.

«Bella è in travaglio, questo te l’ha detto?» chiesi, nervoso, stringendo i denti.

I due secondi di silenzio che seguirono furono densi dello stupore che non potevo leggere sul suo volto. «Le cose si complicano» osservò mio padre. «Non potete spostarvi adesso, è troppo pericoloso, con Paul in giro e con quello che mi hai appena detto. Non puoi rischiare che vi trovi. É più conveniente che veniamo noi stessi a controllare la situazione fino a lì, e spero di non impiegarci più di tre-quattro ore. Vi siete spinti a sud».

«Non passerà troppo tempo?» chiesi angosciato, osservando mia moglie e la sua espressione sofferente.

«Da quanto è cominciato il travaglio? Ogni quanto sono le contrazioni?».

Feci rapidi e semplici calcoli. «Due ore fa, all’incirca. Le contrazioni sono ogni dieci minuti. Durano venticinque secondi».

«Si sono già rotte le acque?».

«No».

Sussultai, raggelato, voltandomi verso mia moglie. «Edward…» mi chiamò tremando, terrorizzata, una mano sul pancione, gli occhi sul pavimento.

«Si».

 

 

 

 

Buondì.

Sono distrutta, sfiancata, molto poco lucida e appena tornata da mare. Non sono responsabile di quello che sto per scrivere.

Dunque. Cosa dire?

Prima di tutto, evitate di ledere alla mia persona. Dopotutto, (solo perché la storia è praticamente finita), questa è l’ultima che vi faccio. Il finale sarà più soft (si spera, sto cercando di evitare altre catastrofi).

Il capitolo era molto lungo, e spero che nessuno sia arrivato alla fine con la barba bianca. Il prossimo, ahimé, è diventato “i prossimi”. Ebbene sì, ho dovuto dividere il capitolo in due e aggiungerne uno in più al numero totale, perché l’edward pov voleva essere partorito dalla mia mente.

 

 

Questa…

 

“La più sacra di tutte le leggi del branco è che nessun lupo può uccidere per nessun motivo l’oggetto dell’imprinting di un altro lupo…”

 

…è una frase presa da Breaking Down.

E la giustificazione del comportamento di Seth è presa, ovviamente, da questo.

 

 

Alcune di voi comprendono Bella, altre, giustamente, no. Io dico che è una cosa che può variare per ogni donna.

Vi siete rammaricate e arrabbiate per i licantropi, e ora, alla luce di quanto avete appena letto, vorrei conoscere la vostra opinione.

Sono davvero contenta che l’Edward pov vi sia piaciuto così tanto, proverò a scrivere, fra gli extra, qualcosa dal suo punto di vista!

Edward e Bella sono pazzi a volere altri figli?! Ahahahah… susu, non dite così. A questo proposito, ho notato che qualcuno era confuso riguardo all’invecchiamento di Bella. Semplicemente, durante la gravidanza rimane immutata, non invecchia. :)

Grazie per gli auguri di buone vacanze, li ricambio con piacere!

Oh… se Bella ha una gestazione da elefante, avrà un parto degno. ù.ù

E per ultimo, ringrazio Maria Luisa per avermi fatto notare i miei errori riguardo ai sintomi di Bella e il tempo per cui è stata trattenuta in ospedale. Eccessivi entrambi. :P Ci tenevo ad essere precisa a dirvelo, non voglio dispensarvi false notizie. ù.ù

 

Che dire altro, se non grazie, grazie, grazie. Grazie a chi mi segue praticamente da sempre, a chi mi conosce da poco, grazie a chi mi fa ridere, grazie a chi mi fa piangere, grazie per le vostre ricche, belle, lunghe, meravigliose e stupende recensioni.

Grazie.

 

 

PS. La volta scorsa mi avete chiesto di leggere alcune delle vostre storie! Lo farò senz’altro appena potrò! :)

 

Sono sempre su twitter --> @Keska92. E sul mio blog, qui giù.

Bye!

 

PPS. perdonatemi se sono prolissa.

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

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Capitolo 72
*** Travaglio ***


Bella

copertina

Bella

 

Una pressione alla pancia, e una strana sensazione, aggiunta al fastidio e alla tensione che mi costringeva schiena a addome. Fui lenta, in quegli istanti, a collegare tutto a quello che sentii dopo. Una sensazione di bagnato fra le gambe, e una piccola pozza ai miei piedi.

Immediatamente sentii il sostegno delle braccia di Edward intorno al corpo. Sollevai il viso, e notai il cellulare ancora contro il suo orecchio. Sentii il suo nome ripetersi, e capii che io stessa lo stavo chiamando, terrorizzata. «Edward… ho paura… ho paura…» mi lamentai spaventata.

«Calma, calma» mi rassicurò, cancellandomi quelle lacrime che non mi ero neppure accorta fossero scese.

Mi feci aiutare a stendermi, dolorante, confusa, spaventata. Tutto stava andando storto, tutto. I licantropi, il parto, la paura. E non riuscivo più a tenere quel contegno che mi ero imposta per rendere tutto più facile a mio marito e me. «Si sono rotte le acque…» farfugliai piangendo, in preda alla disperazione.

E sebbene capissi che questo non doveva essere il primo problema di cui preoccuparmi, visto che eravamo appena scampati alla morte, per chissà quanto, non potevo non pensare che mia figlia stava per nascere nel bosco. In una cascina di chissà chi. Senza Carlisle.

Il viso di mio marito tornò a rassicurarmi. Mi accarezzò la fronte. «Bella, amore, ascolta. Carlisle vuole parlare con te, io devo controllare la… situazione. Non ti farò male. Ti fidi di me?» chiese ansioso, accarezzandomi le braccia.

Mossi il capo irrazionalmente sul cuscino, spaventata. «Ho paura…» singhiozzai, rivelando effettivamente l’unica cosa a cui riuscissi a pensare in quel momento.

Vidi Edward muoversi, serio e concentrato, e dopo alcuni secondi la voce di mio suocero si diffuse nella stanza. Aveva messo il vivavoce. Arrivò a scatti per alcuni secondi, ma dopo poco il segnale si stabilizzò tanto da consentirmi di capire. «Bella, stai calma. Mi senti? Andrà tutto bene. Devi lasciare che Edward si occupi di te…».

Singhiozzai più forte, portandomi le mani al viso. «Non può nascere qui… Non può…» piansi. Il panico era incontrollato. Non avrei voluto aggravare la situazione, capivo quanto fosse importante rimanere ludici in momenti simili, e mi fidavo di mio marito. Ma come potevo non volere un vero medico accanto?

«No, no Bella. Ti prometto che non sarà così. Arriverò presto, è solo un controllo. Se adesso lasci che Edward si occupi di te potremmo decidere come agire, e troveremo un modo per fare andare tutto nel migliore dei modi» mi assicurò.

Levai le mani dal viso, osservando l’espressione preoccupata di mio marito. «Farò tutto quello che farebbe Carlisle, mi dirà lui» fece prontamente, accarezzandomi una guancia, «andrà tutto apposto, va bene?» fece, con una punta d’ansia.

Sentii il dolore crescere e investirmi. Un’altra contrazione. Mi lasciai andare fra i cuscini e annuii, silenziosa e arrendevole. Dopo un bacio freddo sulla fronte sentii la mani di mio marito sulle gambe. La voce di Carlisle mi rassicurava dall’altro capo del telefono, invitandomi a respirare.

Sentivo la testa pulsare, e una sensazione di calore avvolgermi. La pancia, ma soprattutto la schiena e le gambe, erano spossate da una fastidiosa sensazione di dolore, costante e continuato. Mi sentivo semplicemente male.

«É a tre centimetri» fece Edward, avvolgendomi con la coperta marroncina, «in effetti, si sono rotto il tappo. Come vuoi fare?» chiese, rivolgendosi evidentemente a Carlisle.

«Penso che ci servirà del tempo, e spero di averlo. Adesso che si sono rotte le acque il travaglio dovrebbe accellerare, ma controlla ogni tanto la situazione e avvertimi sia se velocizza troppo, sia se rallenta. Noi raggiungeremo il confine sud-est, come ti avevo detto, e dobbiamo esaminare lo stato dei lupi e mettere tutto sottocontrollo. Se ogni cosa andrà bene, dovremmo farcela in tre-quattro ore, e se il travaglio procederà come penso, avremmo tempo di raggiungervi».

Rabbrividii, turbata, all’idea che potesse passare così tanto tempo. Ansimai lievemente, mi passai una mano sulla fronte sudata e accaldata, ma proprio quando feci per chiedere, per mettere fine alla mia confusione sulla questione dei licantropi, sentii la nausea avvolgermi.

Non feci in tempo a dire anche una sola parola che mi piegai oltre il divano, in preda ai conati. Male. Mi sentivo febbrilmente male.

«Bella?!» mi chiamò preoccupato Edward, accorrendo a sostenermi e sollevarmi i capelli. Appena potei mi lasciai andare sul cuscino del divano, sentendo la testa girare.

Non risposi ai suoi richiami, stanca e stremata, in balia della sofferenza. Avevo gli occhi chiusi per provare a controllarmi. Sentii Carlisle rassicurarlo, dicendogli quanto fosse normale per via degli ormoni e del… dolore. Si, i miei pensieri non potevano che essere d’accordo con quest’ultima affermazione.

«Lasciala mettersi come preferisce, camminare, accovacciarsi, stendersi. Posso consigliare di provare a farla stendere su un fianco, con un cuscino fra le gambe. Devo andare. Sarò sempre reperibile per ogni inconveniente, a più tardi…».

Pochi minuti più tardi sentii le mani di mio marito ad accarezzarmi il viso. Sembrava turbato, preoccupato. Provai ad essere più recettiva alle sue domande. «Come ti senti?».

Socchiusi gli occhi. «Mi gira la testa» dissi, distogliendo l’attenzione dall’assurdo dolore al pancione, schiena e gambe. Sentii quasi come se stessi alzando la testa dal cuscino, ma capii solo essere un capogiro più forte degli altri.

S’inginocchiò accanto ai piedi del divano, e con una rapidissima e fugace occhiata notai il pavimento ripulito. Prese il viso fra le mie mani e lo baciò, rinfrescandolo. «Va meglio? Hai ancora nausea?».

«Un po’…» mormorai, gemendo subito dopo per una contrazione più forte delle precedenti. Portò una mano alla schiena, accarezzandola con movimenti circolari. «Edward» lo chiamai, sospirando lievemente, intontita e confusa.

«Si?» rispose subito.

«Spiegami… spiegami cos’è successo con i licantropi…» biascicai.

Sentii la sua guancia a contatto con la mia. «Non ti devi preoccupare di questo».

Sospirai, riaprendo gli occhi. Aveva un’espressione seria a turbata, non doveva essere semplice gestire tutto, e mi dispiaceva che Edward si fosse ritrovato in questa situazione. «Ti… prego» sospirai «ho bisogno di sapere, schiarirmi le idee. E se mi parli… mi aiuti a distrarmi… dal dolore. Ti prego…».

Sospirò, non resistette un solo attimo e mi spiegò ogni cosa con trepidazione, accarezzandomi il viso e il corpo e fermandosi ogni volta che era interrotto da una contrazione. Alla fine del racconto, mi sentii decisamente sollevata. C’era una parte di me che ringraziava infinitamente l’affetto di Seth, una dispiaciuta per la sorte dei licantropi, e una contemporaneamente arrabbiata e affranta per quella di Philip.

«Ti vuoi sollevare?» chiese Edward, leggendo la smorfia sul mio viso e il mio tentativo di fare leva sulle braccia. Senza neppure aspettare una risposta mi aiutò a mettermi seduta, facendomi poggiare il capo sulla sua spalla. «Va meglio?» chiese, e forse ci sperava davvero.

Con un mezzo sorriso, muovendomi leggermente per contrastare l’insopportabile fastidio, mormorai una mezza verità. «Meno confusa. Spero davvero che tutta la situazione con i licantropi si possa risolvere, e… beh… questa nascita possa avvenire senza turbamenti» mormorai stanca, facendo uscire le parole con il desiderio di rassicurarlo.

Sentii sotto la guancia la sua spalla sussultare lievemente. Seguirono alcuni istanti di silenzio, e sentii il suo viso voltarsi nella mia direzione. Stavo per chiedergli se ci fosse qualcosa che non andasse, ma prima mi chiese. «Non hai paura?».

Sussultai, sollevando lo sguardo per fissarlo in viso. Accarezzai il grembo. «Mi… dispiace per prima» iniziai perplessa, parlando con lentezza per via del fastidio e l’intontimento che sentivo, «è solo un po’ preoccupante dover far nascere la bambina qui, senza un medico, fuori da un ospedale… ma Carlisle ha promesso che verrà e…».

Le mie parole si affievolirono davanti alla sua espressione impassibile e seria. Cosa stava mai pensando? Sussultò, rendendosi conto dell’insistenza del suo sguardo, ma tentennò per qualche secondo, indeciso se rendermi o meno partecipe dei suoi veri pensieri. Infine si arrese. «Mi riferivo a tutti i giorni passati, alla paura che hai avuto in queste ultime settimane» ammise, e distolse lo sguardo, fin troppo serio.

Deglutii, lasciandomi andare sulla spalliera del divano con dolore, fisico e emotivo. Mi rammaricavo di averlo fatto stare così male. E sapevo che aveva davvero sofferto. Eppure, mi era stato accanto, continuando ad aiutarmi e consolarmi, senza insistere troppo per conoscere la vera natura della mia paura.

Paura che in quel momento era sepolta sotto altre paure più pressanti, sotto il dolore, e sotto la preoccupazione. Allungai una mano per accarezzare i capelli di mio marito. «Mi dispiace, Edward…» mormorai con sincerità.

Sospirò. «Va bene, non fa niente» fece, accarezzandomi la pancia «stai tranquilla, non ti stressare».

Aprii gli occhi e incontrai i suoi. «Non sono pazza» mormorai, cercando velocemente sollievo sulla sua spalla contro il calore del fuoco. Sospirai fra i denti, dolorante. «C’è un motivo per tutto. E… mi dispiace non averti reso partecipe prima. Ma avevo paura. E non sapevo come comportarmi, io… era tutto così confuso… quello che è successo… il dolore che ho provato… mi vergognavo…» confessai frettolosamente, faticando persino a respirare.

«Ehi calma, calma» mi richiamò Edward, facendomi staccare da lui e prendendomi il viso fra le mani «calma» disse, e attese finché il mio respiro non si regolarizzò, accarezzandomi i capelli. Mi prese fra le braccia, con dolcezza, e mi accarezzò. «Stai tranquilla, ed andrà tutto bene. Fra poco dovrò controllarti di nuovo, e potremmo chiamare a Carlisle» disse, parlando con la calma che non c’era stata nelle mie ultime parole. Lasciai, silenziosa, che mi rassicurasse e mi cullasse. Mi fu di sostegno ad ogni fitta, pensieroso e taciturno, almeno quanto me, per qualche minuto.

Poi decise che era tempo di parlare. «Sai che non c’è niente di cui ti debba vergognare» fece cauto.

Arrossii, prendendo dei respiri, e pensai che, vedendomi così dolorante, si fosse pentito di aver parlato, così subito risposi. «Dammi… dammi un attimo…» feci, cercando di controllare il dolore. Mi accarezzò i capelli, paziente e preoccupato, in attesa che gli confessassi le mie paure. E lo feci. Gli raccontai del sogno, di tutto quello che avevo visto, della paura che avevo provato, della scelta scellerata che avevo fatto. Allontanare mia figlia da me. Che assurdità.

«Non ce ne sarà bisogno, Bella» fece con serietà «non dovremmo mai farlo, te lo prometto».

Mi morsi un labbro. «Guarda oggi. Guarda i licantropi. E poi i Volturi, e tutto questo mondo. Non potremmo mai stare tranquilli, non ci potremmo mai fidare di nessuno… è…» gemetti «è così, lo so…».

Mi strinse forte a sé, bisognoso di esprimere tutta la sua vicinanza, affetto, amore. «Non lo faremo mai. Mai. Te lo giuro. Mai. Nostra figlia sarà sempre con noi» si distanziò un po’ da me, solo per prendermi il viso con fervore fra le mani «ti giuro che m’impegnerò con tutto me stesso a mantenere la mia promessa. Non verremo mai separati da nostra figlia, mai…».

«Ma se… io…».

«Te lo impedirò» incalzò, stringendo ancora più forte sulle guance. «Mai».

Gemetti, portandomi le mani sul pancione. Ritirò le mani come scottato, stringendo il mio corpo con più delicatezza. Malgrado il dolore, mi sentii solo un po’ meglio, protetta, fra le sue braccia. Non perché mi avesse assicurato che si sarebbe impegnato con tanta veemenza, o forse solo in parte. Tuttavia la maggior parte della mia serenità derivava dal fatto di aver condiviso la mia paura con mio marito, e avere il suo amore con cui spartirne il peso.

Le contrazioni incalzarono senza sosta, e quando pensavo che non potessero essere più dolorose, la successiva mi smentiva. Il continuo fastidio alla pancia, alla schiena, era il più insopportabile. Potevo sopportare un acuto e breve dolore, ma come fare con uno moderato e ininterrotto?

Edward chiamò Carlisle dopo due ore, quando, per molto tempo, la dilatazione si era fermata a quattro centimetri, e la durata e la vicinanza delle contrazioni sembrava essersi stabilizzata.

Respirai piano, beandomi solo della sua mano sulla mia fronte. Parlò lentamente, con un tono che sfiorava il silenzio, preoccupato di turbarmi. «Tranquilla, andrà tutto bene. Carlisle dice che l’aveva previsto. Loro sono quasi arrivati, e presto si risolverà tutto. Se… la situazione non si smuove e ne ha la possibilità proverà a staccarsi dal gruppo portarci l’ossitocina, per velocizzare il parto». Mi lamentai debolmente, scuotendo il capo. Non volevo che rischiassero per me. «Vuoi sollevarti?» mi chiese, ansioso. Annuii, lasciandomi guidare dalle sue braccia.

Mi fece fare qualche passo per la stanza, sorreggendomi silenzioso. Mi muovevo, alla deriva, cercando assurdamente sollievo. Posai le mani sul muro, sorreggendomi, lasciando che mi accarezzasse la schiena. Mi accovacciai a terra, respirando affannosamente, muovendo il capo in modo sconnesso. Sollevai le gambe, le piegai, arrancai verso il bagno per vomitare, ancora una volta, ciò che il mio stomaco non conteneva. Era un’odissea, una terribile odissea.

Mossi velocemente le braccia verso Edward, stringendolo a me. Stesa sul tappeto davanti al camino, non potendo fare a meno di sentirlo così vicino a me. «Basta… basta…» sussurrai, pur sapendo consciamente che non poteva fare nulla, per fermare ogni cosa. Chiedevo solo qualche minuto d’oblio. Pochi, insignificanti, momenti di sonno per dimenticare il dolore.

«Shh… shh… così… così… va meglio così?» chiese, accarezzandomi la pancia con intensità. Piegai convulsamente le gambe al pancione. Dove passavano le sue mani avevo un attimo di sollievo, solo per essere raggiunto dal dolore non appena si spostavano. Annuii. «Ecco, andrà tutto bene, vedrai…» mormorò, posandomi baci sulla fronte.

«Edward» lo chiamai, spalancando gli occhi, colta improvvisamente da un ennesimo attacco di paura «e se Carlisle non venisse in tempo? E se ci fossero problemi con la bambina?» feci stridula.

Mi sorrise appena. Un sorriso che celava nervosismo, ne ero certa. «Sono sicuro di poter mantenere tutte e tre le promesse che ti ho fatto».

«Che… ah…» sussultai, sentendo una forte fitta alla pancia. Strinsi gli occhi, dolorante, aspettando trepidante che passasse. «Che promesse Edward? Che promesse?» chiesi a denti stretti, desiderosa di farmi distrarre.

Mi scostò i capelli, arruffati, dal viso, baciandomi ancora la fronte. «Sono qui con te, e ti posso stringere la mano» fece, prendendomela fra le sue «ed evidentemente, mi risulta un po’ difficile insistere perché tu ti faccia anestetizzare, visto che non ho un ago da quindici né un analgesico qui con me. L’unica preghiera te la faccio sull’ultima promessa» si fermò, sollevandomi il mento «per ora, almeno».

Feci comparire un brevissimo sorriso. Eravamo turbati, entrambi. le cose non stavano andando come volevamo, e il fatto che così presto si fossero rotte le acque rappresentava un grosso rischio. Non avevamo Carlisle con noi, eravamo miglia lontani da un ospedale, e la presenza oscura di Paul incombeva su noi, là, fuori da quella cascina. «Sembra che non ti turbi il fatto che siamo in una cascina, senza un medico, durante il travaglio, potenzialmente inseguiti e ricercati…».

Scrollò le spalle, con calcolata indifferenza. «Cerco di guardare il lato positivo».

«Non l’hai mai fatto».

Serrò le labbra, messo alle strette. «Cerco di farlo per te».

Mi lamentai all’ennesima contrazione, piegandomi sulla pancia. Volli spostarmi contro il muro, e dopo aver lasciato per qualche istante ancora il ruolo di medico improvvisato a mio marito, mi aiutò a rivestirmi.

Eravamo uno accanto all'altra, scaldati debolmente dalla luce e dal tepore del fuoco, e stretti per rincuorarci a vicenda. Con la schiena poggiata contro il muro, accovacciata per terra, l'ennesima contrazione sopraggiunse inaspettatamente dolorosa. «Ahh!» gridai, piagandomi convulsamente sul pancione.

Improvvisamente e inavvertitamente le mani di Edward mi serrarono il fiato in gola, facendomi raggelare.

Era fermo, irrigidito, sull'attenti. Le pupille dilatate, lo sguardo sgomento, lo fissai in volto, terrorizzata.

Ci avevano trovato?

Il dolore incalzò, non dandomi neppure la forza per pensare. Serrai gli occhi. Edward, velocemente, spostò le sue dita per scambiarle con le labbra. «Shh... resisti, ti prego» soffiò appena, baciandomi, sofferente, racchiudendo il dolore e il terrore nelle nostre bocche.

Strinse forte la mia mano, infondendomi tutto il coraggio che le vili lacrime che macchiavano il mio e il suo volto stavano cancellando. Eravamo lì, soli, spaventati, fra il calore e il ghiaccio. E stavamo soffrendo insieme quel dolore che in ogni modo cercava di spartire con me. Restiti, Bella, mi dissi, fallo per tuo marito, fallo per tua figlia. Spostai una mano sui suoi capelli, e strinsi forte, serrando stretti gli occhi e sospirando il dolore nella sua bocca. Ti amo, pensai ancora, e sperai che quel pensiero mi desse abbastanza forza per andare avanti, ancora, per sopravvivere a qualunque altro pericolo.

Dopo alcuni, interminabili, dolorosi secondi, si staccò, lasciandomi riprendere fiato. Tremavo. Mi fece posare la testa sulla sua spalla, cullandomi ed accarezzandomi il capo. «Shh, va tutto bene» mormorò «va tutto bene, non so chi fosse, era lontano, non sentivo bene i pensieri. Si è fermato solo un attimo, è andato via. Non credo fosse Paul, sta tranquilla, siete al sicuro» mi rassicurò, tenendomi più stretta a sé.

Le sue rassicurazioni furono confermate dalla chimata di Carlisle, a due ore di distanza dall’ultima, che confermò le supposizioni di Edward, togliendomi un peso dal cuore: chiunque fosse, non era Paul. «Si, il travaglio procede, si sta velocizzando di nuovo» fece, accarezzandomi intanto la mia schiena oltre la stoffa pesante del vestito, «non saprei, è dolorante… si… credo sia normale…» fece con una smorfia. «Quando ci puoi raggiungere?».

Mi lamentai, stanca, volgendo la testa contro il pavimento. Il parto. Era una tortura. Dolore acuto, dolore continuato, nausea, giramenti di testa. Tutto per allontanare per sempre il proprio figlio dal proprio corpo. Che visione assurda della cosa. Avrei dovuto pensare al fatto che presto avrei potuto conoscere la mia bambina, amarla, crescerla, educarla. Vivere con lei momenti magici della mia vita. Ma perché soffrire così tanto per poterlo fare?

«Cielo… perché… perché… basta. Voglio che smetta! Smettila piccola peste! La mamma ti vuole tanto bene, e tu non puoi farle questo…» mi lamentai, conscia dell’insensatezza delle mie parole, ma così ebbra di dolore da non riuscire neppure a ragionare.

Sentii le braccia di Edward stringermi da dietro. Rimase silenzioso.

Tremai, stremata, stentando a voltarmi. «Cosa succede?» sospirai, un'ombra di paura nell voce.

Mi sistemò i capelli dietro l’orecchio. «Hanno finito. Ci stanno raggiungendo con l’auto, e dovremmo poter andare in ospedale. Andrà tutto bene…».

Misi una mano sulla sua guancia, ansimando lievemente. Arcuai un sopracciglio. «Hanno… risolto tutto, non è vero?» chiesi preoccupata.

La sua espressione rimase seria, ma parlò con tranquillità. «Si. A quanto pare anche Quil e Embry sono passati dalla nostra parte. Con l’aiuto di Jasper e degli altri hanno ritrovato Paul e l’hanno riportato a La Push, insieme a Sam e Jared. Sono tutti sotto sorveglianza stretta, non ci saranno problemi».

Sospirai, sollevata, solo per poter cacciare un gemito più forte quando un’ennesima contrazione arrivò. «Ahi… che male…» mi lamentai.

Nessuna reazione simile alla precedente. Edward mi strinse con dolcezza la mano con la sua. «Respira, calma…» fece, accarezzandomi i capelli. Ma sembrava distante, un po’ turbato.

Sollevai lo sguardo, facendo come mi diceva, ancora troppo dolorante per poter parlare. «Va tutto bene Edward?» chiesi fra i denti, «stanno tutti bene?».

Mi accarezzò con insistenza la guancia, finché il dolore non scemò. Poi parlò con calma calcolata e freddezza. «Philip è intervenuto nello scontro, ed ha aiutato Seth. Ho letto nella mente dei licantropi che avevano catturato Kate, e l’ho vista, nelle loro menti, rinchiusa. Ma…» prese un respiro «non sanno ancora perfettamente come sia andata la questione, ma non hanno trovato altro che cenere».

«Oh…». Sollevai entrambe le sopracciglia. «Oh» ripetei sorpresa, portandomi una mano alla bocca. Sentii il cuore battermi forte nel petto. Mi dispiaceva. Mi dispiaceva così tanto. Era tutto… così confuso. Il fatto che ci avesse condannati e poi aiutati. Il fatto che per questo avesse perso per sempre sua figlia, la sua unica ragione di vita. Sentii un respiro mancarmi.

Senza rendermene conto, mi trovai fra le braccia di Edward, scossa da singhiozzi. Sapevo che avrei dovuto odiarlo per quello che ci aveva fatto, che questa era tutta colpa sua, che ci trovavamo in queste condizioni per sua causa, ma… non ce la facevo.

Allontanai il mio viso da quello di mio marito, rosso di lacrime. Risalii con lo sguardo dal mento fino ai suoi occhi, poggiando l’indice sulle sue labbra. «Se…» mormorai, la voce roca «Lo so che ha fatto una cosa ignobile. Ma se minacciassero la tua unica ragione di vita… forse…».

«Non devi dire così» m’interruppe Edward. Sospirò, e mi aprì il suo cuore con sincerità, parlando con delicatezza e trasporto. «Sinceramente, pensavo fosse molto più egoista di così. Sinceramente, pensavo che non avrebbe indugiato un attimo e salvato sua figlia, gettandoci in pasto ai lupi». Posò una mano sul mio viso, con un’espressione afflitta e sincera. «Invece ci ha aiutato, mettendo noi davanti a se stesso. É stato molto migliore di quanto avrei mai pensato. Molto migliore di quanto io sarei potuto essere».

Sospirai, commossa e addolorata, stringendomi a lui. Edward aveva una mente razionale, una capacità di giudizio sopra il comune, e, malgrado la testardaggine, l’ottima qualità di ammettere le proprie colpe. «Gli dobbiamo tanto» sussurrai solo, sinceramente turbata.

La mia ansia, il mio turbamento, passarono forzatamente e velocemente in un altro strato della mia mente, spinte dall’incalzante dolore. E Edward fece appena in tempo pianificare ogni cosa, che dovemmo, forzatamente, darci una mossa. Le contrazioni avevano accelerato il ritmo, e “dolore davanti al calore e alla luce del fuoco, confortata dal proprio marito”, divenne “dolore atroce da non capire niente di quello che mi accadeva”.

«Ah… ah… uhh… si, si, respiro, respiro, respiro… ah…» gemetti, stringendo i denti e una mano sulla pancia.

Il parto stava procedendo velocemente, nell’ultima fase. Molto, velocemente. Troppo, velocemente. Così decisero di cambiare i programmi. «Si, dobbiamo incontrarci, subito. Non possiamo aspettare ancora, è già a otto centimetri, Carlisle, devo venirti incontro» farfugliava nervoso nel telefono, concentrato per non farsi distrarre dalle mie grida e dai miei lamenti.

Mi venne subito accanto. Mi avvolse il suo cappotto intorno al corpo, sul mio, con attenzione, come se avesse paura di farmi del male. «Manca poco amore, abbiamo deciso che adesso ti porterò da Carlisle, ci incontreremo sul confine ovest».

Non gli risposi neppure, continuando a lamentarmi e cominciando a piangere. Avrei voluto dirgli: «Andiamocene, ti prego, basta che ce ne andiamo… Smettila di parlare!» ma per nessun motivo avrei voluto ferirlo, sapendo quanto stesse soffrendo in quel momento ad ogni mio gemito. Zittirmi completamente sarebbe stato fuori discussione, ma, per adesso, sarebbe stato meglio evitare insulti e volgarità.

In men che non si dica mi ritrovai fra il vento degli alberi, più intontita di prima. Avevo freddo, ma il freddo era cancellato dal dolore e dal buon odore che sentivo sul cappotto che mi era stato messo, con tanto affetto, a mo’ di coperta. Fra le urla e il pianto ero quasi assuefatta alle rassicurazioni di Edward. «Ah! Ah! Voglio andare a casa!» gridai, tremando contro il suo corpo, solo per singhiozzare subito dopo «basta, basta…».

Non mi resi conto di quello che aveva fatto, finché non sentii la voce di mio suocero. «Bella, calmati, ascoltami…».

«No! Non voglio sentire la tua voce, ti voglio qui, qui, adesso. Sono più di sette ore che sono in queste condizioni! Ah!» mi lamentai ancora, scalpitando fra le braccia di mio marito.

«Bella, amore. Prendi il cellulare in mano, avanti. Parla un po’ con Carlisle, magari riesci a stare un po’ meglio…».

L’avrei ammazzato in quel momento, magari strangolato. Invece strinsi i senti, e soffocai un altro grido. Arriveremo presto, arriveremo presto, sarà tutto finito. Era il mio mantra.

«Carlisle, accidenti, come faccio?! É tardi, è troppo tardi» fece agitato Edward, nervoso, intensificando la presa.

«Stai calmo, abbiamo ancora un po’ di tempo. Possiamo non andare in ospedale, Esme sta cercando di trovare una sistemazione più vicino. La bambina nascerà e starà bene…».

«No, no» farfugliai terrorizzata, lamentandomi «sta nascendo, non nascerà. Sta nascendo…».

«Bella, sentimi. Devi respirare, e stare tranquilla. Se ti fai prendere dal panico senti solo più dolore. Senti l’impulso di spingere?».

L’urlo che ne seguì fu piuttosto eloquente. Mi strinsi a Edward e resistetti all’istinto di mordergli la spalla, solo perché sapevo che l’unica a farsi del male sarei stata io, e che certamente mio marito non era un cuscino.

«Calma, stai calma. Non devi fare niente. Non spingere. Rilassati, e fai un respiro, avanti, fammi sentire mentre prendi un respiro».

Strinsi i denti e fra le labbra cacciai un respiro appena accennato, rotto in un ennesimo urlo. Edward si portò il cellulare all’orecchio, chiudendo la conversazione con veloci sospiri. Mi sollevò tanto da farmi posare la testa sulla sua spalla, coprendomi accuratamente con il suo cappotto.

Mi baciò la guancia, non avendo, probabilmente, più parole da dire. Mi dispiaceva che fosse così teso, che si sentisse, lo sapevo, così impotente. Eppure, aveva ragione lui. Aveva tenuto fede a tutte le mie promesse, e di quello, per ora, dovevo accontentarmi.

«Edward» singhiozzai «sono contenta che sei qui… che ci sei tu…».

«Te l’ho promesso. Sarò con te. Ma magari se ci fosse stato Carlisle…».

Serrai un grido fra le labbra. «No tu, tu» ripetei convulsamente «volevo te accanto a me, per tutto questo tempo. Non mi importa che non sei un medico… volevo te… ah!».

Mi accarezzò i capelli, e sentii l’impronta di un sorriso tirato sulla guancia.

Respirare seriamente, mantenere il controllo, era ormai fuori discussione. Il tempo procedeva su due binari separati. Uno, per i miei gusti, troppo veloce, quello che faceva incalzare le contrazioni. Un altro, al contrario, troppo lento, che non ci faceva mai arrivare da Carlisle. Non riuscivo neppure a prendere fiato, che una contrazione dopo l’altra giocava a mozzarmelo in gola.

Quando sentii un altro paio di mani fredde sul corpo, stentai a credere a quello che vedevo. «Non sei un miraggio… un delirio da parto o qualcosa del genere…» mormorai roca, le lacrime sul viso.

Carlisle mi sorrise, posando le dita fredde sul polso e sulla fronte. «No» fece, aiutando Edward a sollevarmi dal suo petto, dove mi ero rannicchiata, spossata, per sistemarmi sul sedile posteriore dell’auto. «Sta tranquilla Bella, andrà tutto bene adesso».

Mio marito mi fece posare la schiena contro il suo petto, baciandomi la tempia sudata. Sui sedili anteriori Emmett e Esme. Carlisle si chiuse la portiera alle spalle, sistemandosi ai miei piedi. «Vai Emmett, sbrigati». Mi sorrise, rassicurante.

Per un istante mi stupii della silenziosa razionalità di Emmett, e per il fatto che non avesse ancora aperto bocca. Subito dopo inarcai la schiena, stringendo i denti e sibilando un gemito, mentre una contrazione mi lacerava il ventre. Edward mi accarezzò i capelli, e prese le mie mani, abbandonate sul mio corpo, fra le sue. Presi appena un respiro.

Carlisle lo osservò un attimo, e subito tornò a concentrarsi su di me. Sentivo le sue mani esperte sul mio corpo.

Dalla mia bocca non uscivano che deboli lamenti e quelli che erano residui di singhiozzi. Esme si voltò, con un piccolo sorriso appena accennato, sfiorandomi una guancia con le dita. «Tieni duro tesoro». Le risposi con un basso mormorio sconnesso, prima di stringere i denti e lamentarmi più forte, lasciando andare la testa all’indietro, sulla spalla di Edward. Mi sentivo il corpo febbricitante, coperto di sudore. I capelli incollati al viso, il respiro pesante e frenetico.

Carlisle sollevò il viso e mi guardò negli occhi. Sentii la presa di Edward più salda intorno al mio corpo. Poi mio suocero si voltò verso Emmett. «Emmett, vai in ospedale».

«Ma ci impiegherò il doppio del tempo…» protestò debolmente.

«Non importa» ribatté Carlisle, con fermezza.

Sentii le mie labbra tremare. «Cosa succede?» chiesi terrorizzata, gli occhi sgranati. Edward fece scontrare la sua guancia fredda contro la mia. Provai a dibattermi, voltarmi e guardarlo negli occhi. «Cosa succede?» ripetei col fiatone, arrendendomi a fissare mio suocero.

«Bella» iniziò con calma «bisogna andare in ospedale, e fare un cesareo. Sei troppo stanca, dopo un travaglio così lungo e senza assistenza medica, non ce la puoi fare, non hai abbastanza forza. Respiri e parli a malapena».

Aprii la bocca, stupefatta. «No» farfugliai «no, no, no… Non puoi farmi questo Carlisle…».

«Amore, andrà tutto bene» provò a rassicurarmi Edward.

«No!» protestai. «No. Ho sofferto per tutto questo tempo, non potete fare così, no! Chi lo dice che non ce la faccio?» singhiozzai, trovando nuove lacrime per piangere. «Vi prego… non potete fare così… ah!» quasi urlai, piegandomi su me stessa.

«Shh… shh…» mi sussurrò all’orecchio Edward «calmati. Calmati Bella…».

«No…» continuai a singhiozzare, piangendo fra le urla di dolore.

Carlisle mi rassicurò, mortificato. «Bella, bisogna solo fare ciò che è meglio per te e la bambina».

Presi la sua mano fredda, sporca del mio sangue, con la mia «ti prego… Carlisle…» mormorai piangendo «ti prego…».

Sospirò. Strinse le labbra e si voltò nuovamente verso Emmett, confuso sulla meta da prendere. «Vai in ospedale, Emmett».

Tremendamente afflitta, lasciai andare la presa della mia mano sulla sua, ma lui la intensificò, e mi guardò negli occhi. «Proviamo Bella. Possiamo provare, ma dobbiamo avere tutta l’assistenza che ci serve. Appena mi accorgo che non ce la fai andiamo in sala operatoria…».

Deglutii, sorpresa, e annuii velocemente, pronta ad accettare qualsiasi compromesso.

«Carlisle» si ritrovò a protestare debolmente Edward. Suo padre rispose con un’occhiata e lui si arrese con un sospiro, baciandomi la guancia.

Quando arrivammo in ospedale Carlisle fu il primo a uscire, andando velocemente verso il pronto-soccorso.

«Come ti senti?» mi chiese Edward, sfilandomi con lentezza e accortezza dall’auto.

Il cielo era grigio, scuro nell’ombra delle nuvole e della notte. Dovevano essere le undici, più o meno.

Presi dei respiri, troppo veloci perché mi fossero davvero utili. «Come una che sta partorendo» spuntai fra i denti, in preda al dolore.

Sollevò lo sguardo, e vidi una barella bianca e alcuni paramedici in azzurro, insieme a Carlisle, venire verso di noi.

«Datele l’ossitocina, soluzione glucosata e portatela in sala parto» fece, voltandosi verso l’ostetrica. «Tenete pronta una sala operatoria».

Mi lasciai trasportare, pensando solo a stringere la mano di mio marito ed ascoltare le sue parole dolci al mio orecchio. Dovette separarsi da me, e lo fissai terrorizzata finché non mi disse che doveva solo indossare il camice sterile, e sarebbe subito tornato a prendermi la mano fra le sue. L’ostetrica mi aiutò a cambiarmi e prepararmi per quello che di lì a poco sarebbe successo, e andò a vedere a che punto fosse Carlisle. Per la prima volta dopo tanto tempo, per una manciata di minuti, mi trovai sola.

Il cuore mi batteva veloce. E non era solo per la paura, il dolore, o l’imbarazzo. Stavo per conoscere una parte di me. Una parte di me e di Edward, formata e creata direttamente da noi. Una parte di noi che era cresciuta dentro di me per nove mesi, tenendomi sveglia con i suoi precisi calcetti la notte, facendomi ridere di solletico per il suo singhiozzo, facendomi innamorare del suo navigare nella mia pancia. Rendendo speciale e unico il nostro contatto.

«Ti voglio bene» pensai, accarezzandomi il pancione. Per molto tempo, quasi tutto il travaglio, non avevo sentito nulla provenire da mia figlia, ma in quel secondo mi arrivò la più densa e distinta emozione che mi avesse mai fatto sentire. Amore. Intensa quanto breve.

 

 

 

 

Buongiorno.

Lo so. Stiamo ancora in alto mare. Lo so. É tutto troppo lungo. Ma questa è la mia storia, e si fa come dico io. ù.ù

In realtà il capitolo era leggermente più lunghetto, ma non aveva l’Edward POV, che invece ho aggiunto dividendo il capitolo a metà. É che mi mancava la prospettiva del papà, non potevo farne a meno, mi capite?! *.*

 

In questo capitolo ci sono dei dettagli abbastanza tecnici. Ora. Mi sono affidata ai discorsi e racconti da mamme (compresa la mia). Ma se ci sono errori, non esitate a farmelo presente.

coccinella86 spero vada bene anche così!

Wind, chi61. Siete un po’ stupite per l’ “ingenuità” di Bella. Ma mettetevi nei suoi panni. Lei pensava che fosse successo qualcosa di brutto al professore. Perché mai avrebbe dovuto pensare che fosse una trappola? E, se vi riferite al fatto che se va vada a zonzo oltre il termine di gravidanza, credetemi, ho visto cose che mi fanno ritenere che QUESTO non può fermare una donna incinta. O.O (Mammi rulez ù.ù). Se invece vi riferite ai licantropi in giro… okay. Un po’ condivido, è stata ingenuotta. ù.ù

Dreamerchan, frafru [arringa geniale ahahah]. Sono contenta che abbiate apprezzato l’intervento di Seth in quanto tale! ^^ Anche a me è il cagnolino è sempre stato simpatico. (L’unico).

SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate, Ros_Ros  Eravate tutte convinte (a volte turbate, e lo sarei stata anch’io o.o) che Edward aiutasse Bella a scodellare la bimba. Ahahahah. Invece no! Non potevo far mancare questa a Carly! *-* Mi spiace, sarà per un'altra volta!

prudence_78 non essere troppo dura col prof! ^^

ste87 hanno partorito le tue amiche? :P

Noemix scusa, sono indietro con gli aggiornamenti! Recupererò presto! Promesso >.<

lisa76 no cara, mi spiace… l’illuminazione di Seth è stata di Seth :S Lui ha solo aiutato… dopo, ecco ^^ Grazie, in ogni caso!

patu4ever sei sempre la solita vagabonda! ;) (perdonatissima, se verrò di nuovo a Pavia te lo farò sapere).

luisina te sei pazza a commentare tutti i capitoli!!! Grazie tesoro! Grazie per tutto! :*

endif spero che il tuo cuoricino possa stare meglio, grazie, non esitare a farmi presente ogni cosa. Un abbraccio grande, grande! :*

Scusate per avervi fatto morire d’ansia ledyang [grazie per esser così], Luna Renesmee Lilian Cullen [al prossimo scoprirai il nome ;) ], ANNALISACULLEN [le cose andranno bene, promesso, e non sto incrociando le dita! ù.ù] e  Sognatrice85 [hai ragione col tuo pensiero sui licantropi!].

Giada is owned by Edward per adesso facciamo rimanere Bella umana, eh? ;)

manuelitas [si, ci saranno degli extra ;) ] e silvia16595 Grazie, le mie vacanze sono andate e stanno andando bene.

Grazie per i bellissimi complimenti, stupendi! Sono letteralmente morta dalla gioia leggendovi, non ci sono parole! mine, Ely_11, mikvampire e  ale03.

Benvenute, anche se siamo in fine, a pomeriggio,  valli e vale_129

 

Ringrazio, ancora una volta, tutte.

Due capitoli, e tutto sarà finito. Lo so che siete tristi come me, e vi sono grata del fatto che me l’abbiate detto…

Hhh… me ne farò una ragione :(

 

Per chi mi volesse seguire su twitter--> @Keska92. E per chi volesse sapere del mio blog, con notizie sugli aggiornamenti, è qui giù. ^^

 

Alla prossima!  … :’( , anzi ;( [Camilla rulez, ahahahah :*].

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

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Capitolo 73
*** Kate ***


Edward copertina


Edward

 

Tutto stava andando precipitosamente. Avevo avuto paura, sentendo mia moglie tremare, urlare e piangere fra le mie braccia. Mi faceva stringere il cuore vederla così sofferente. E sentivo il suo, a stretto contatto con il mio petto, battere forsennato, mentre correvo nella foresta.

Aveva il corpo madido di sudore, il vestito e i capelli attaccati alla pelle.

E per quanto avere Carlisle accanto mi avesse confortato immediatamente, i suoi pensieri mi avevano fatto preoccupare.

«E’ troppo stanca, Edward. Il travaglio l’ha sfiancata, non è in grado di affrontare un parto».

Strinsi il corpo di mia moglie più forte a me. Aveva una mano sul pancione enorme, dolorante, e malgrado fosse pallida, le guance erano rosse per lo sforzo e il dolore. I respiri troppo veloci per poter compensare la mancanza d’ossigeno, le membra troppo stremate per potersi tirare su ad ogni contrazione.

Carlisle aveva ragione, eppure Bella non si rassegnò a quello che le aveva detto. Potevo pensare, dopo quello che mi aveva confessato, che la separazione da sua figlia scandisse qualcosa di preoccupante per lei, troppo, per non poterlo vivere appieno.

Per questo, quando mio padre mi rassicurò, non potei protestare. «Possiamo provare, saremmo in ospedale e se qualsiasi cosa andasse storta potremmo operare. Non è troppo rischioso provare, possiamo farlo, ma dobbiamo andare in ospedale».

Accarezzai i capelli di mia moglie, tenendo salda la sua presa sulla mia mano, mentre un’altra contrazione le lacerava il ventre. «Facciamo in tempo?» chiesi preoccupato, osservandola.

Carlisle posò una mano sul suo ventre, ascoltando il battito cardiaco della bambina con attenzione. «La bambina sta bene. Abbiamo ancora un po’ di tempo».

Sentivo che la piccola stava bene. Sentivo i suoi pensieri, che andavano fra il curioso al rilassato. Non capiva cosa stesse accadendo, ma se ne stava buona e ferma, aspettando il suo turno di venire al mondo.

Persi la mano a mia moglie, tirandola verso di me e aiutandola a venire fuori dall’auto. Le feci passare un braccio dietro la schiena, e l’altro sotto le gambe. Era leggerissima, morbida. In quell’istante aveva gli occhi chiusi per contrastare il dolore, e subito, quando la presi con me, serrò una mano sulla mia camicia.

La adagiai delicatamente sul lettino che avevano portato, non lasciandole mai la mano che aveva preso nella mia. Si lasciò andare sul cuscino, stremata, e anche un po’ confortata, sperai, di avere finalmente un letto comodo. La coprirono immediatamente con una coperta, trascinandola all’interno dell’ospedale.

«Sono qui, sono qui accanto a te» la rassicurai, quando i suoi occhi marroni, umidi e preoccupati, vagarono in cerca della mia figura.

Le baciai le nocche della mano, provando ad alleviare il suo dolore, mentre stringeva il labbro con forza fra i denti per non pensare all’ago della flebo. Sicuramente, in tutto quel dolore, quello sarebbe dovuto essere l’ultimo dei suoi problemi. Avrei dovuto insistere maggiormente per l’epidurale, ma attualmente non volevo farla stressare ancor di più, era troppo testarda, non sarebbe servito a niente.

«Edward, vieni con me. Se vuoi entrare in sala parto devi indossare il camice» fece Carlisle, facendomi un cenno con una mano. «Lascia che l’ostetrica si occupi di Bella per qualche istante e che la prepari».

Annuii, e mi chinai a baciare il capo di mia moglie, restio a staccarmi da lei. Mi guardò disorientata quando allentai la presa sulla sua mano, e sgranò gli occhi, terrorizzata. «Cosa… ahh! Edward…» singhiozzò, le labbra tremanti.

Immediatamente le presi il viso fra le mani. «Ehi, ehi… Non ti lascio, non ti lascio. Devo solo mettere il camice, qualche istante» feci, ripetendo le parole di Carlisle cui evidentemente, in preda al dolore, non aveva fatto caso. «Torno subito» soffiai, baciandole l’angolo della bocca, spaventato di poterle togliere quella poca aria che sembrava rimanere nei suoi polmoni baciandole le labbra.

Lei annuì, stringendo gli occhi, afferrando la prima mano che un’infermiera volenterosa le aveva offerto. «Ahh…» si lamentò, provando a resistere.

La lasciai, deciso a seguirla proprio attraverso la mente di quell’infermiera, e mi avviai velocemente per l’ospedale, seguendo mio padre.

Una cosa prettamente umana, scontata, banale, semplice per un umano, e a maggior ragione per un vampiro, stava diventando impossibile. Indossare un camice. Avevo quasi paura che le mani potessero tremarmi per il nervosismo.

Bella era stata appena spostata su un letto, e le avevano fatto indossare un camice.

«Andrà tutto bene, Edward» mi rassicurò mio padre, stringendomi appena un braccio e facendomi scongelare dalla mia posizione rigida.

Deglutii, abbassando il capo, deciso a mettere quell’indumento. «Mi sento come…» m’interruppi, guardando mio padre «mia figlia sta nascendo…» dissi, semi-trasognato, provando quasi ad auto-convincermene.

Un piccolo sorriso, che riusciva a nascondere quello invece ben più ampio celato nella sua mente, comparve sul viso di mio padre. «Sta nascendo».

Sussultai quando sentii, attraverso pensieri e non, l’urlo di mia moglie. L’infermiera la teneva sollevata, le sue braccia erano avvolte attorno al suo busto, e l’ostetrica le stava fissando sul pancione la fascia per il monitoraggio delle contrazioni e del battito fetale. Sentii, attraverso i pensieri dell’infermiera, che le sue braccia si stavano stringendo con più forza al suo busto. Stava soffrendo.

«Carlisle…» feci, sofferente e preoccupato, rivelando tutta la mia frustrazione.

«Sta tranquillo, è l'ossitocina che le fa sentire più dolore, ma almeno avremo più possibilità che ce la faccia».

Sarebbe andato tutto meglio se si fosse fatta anestetizzare. «Non si può fare l’epidurale?».

«Lo sai che dipende da Bella, non la posso costringere» disse subito, finendo di lavarsi le braccia fino ai gomiti e facendosi aiutare da un assistente per indossare camice e guanti. «E comunque, adesso è troppo tardi per l’epidurale. Va da lei, confortala, e bada a non farla agitare» mi posò una mano sulla spalla. «Hai fatto un buon lavoro figliolo» pensò orgoglioso.

Gli rivolsi una breve occhiata, e ancora fibrillante raggiunsi mia moglie in sala parto. Sentivo i pensieri della mia famiglia, del padre di Bella, che aspettavano nei corridoi.

Quando entrai la vidi stesa sul lettino ginecologico, un lenzuolo dalle gambe in giù, che le lasciava nudo il ventre. Il seno coperto dal camice, piegato. Le guance bollenti, i capelli, in ciocche, incollati al viso da sotto la cuffietta verde.

Mia moglie urlò ancora. Mia figlia stava per nascere, e io ne sentivo i pensieri. Era euforica.

 

Bella

 

Edward comparve immediatamente al mio fianco, prendendomi la mano con la sua, accarezzandomi con l’altra i capelli bagnati, appiccicati alla fronte madida, sistemandomeli dietro la cuffietta verde che mi aveva fatto indossare un’infermiera.

«Al prossimo figlio» biascicai spossata «per favore, evitiamo tutto questo casino!» esclamai, troppo dolorante perché potesse passare come una battuta.

Rise debolmente, baciandomi una tempia. «Direi che è difficile uguagliare una situazione simile».

«Si» convenni, mordendomi un labbro per non urlare ancora, «speriamo».

Carlisle mi raggiunse subito. «Direi che ci siamo» disse, strofinando con una mano la mia coscia scoperta, un gesto di affettuoso conforto. «Quando ti dico di spingere devi esercitare forza sui muscoli bassi dell’addome. E devi continuare a spingere finché te lo dico. Possiamo cominciare?».

Annuii, stringendo con più forza la mano di mio marito.

«Spingi, adesso» fece, e aiutata da più di un paio di braccia mi piegai su me stessa, in preda al dolore, stringendo forsennata la mano di Edward. «Vai, brava, continua così» disse calmo, non dandomi ancora il permesso per smettere. Al suo «Basta» mi lasciai andare sul lettino, col fiatone. Ma non passarono che pochi secondi quando mi invitò a spingere ancora, non appena il dolore sopraggiunse ancora. «Brava, brava, così. Devi spingere per dieci secondi, ce la fai. Sette, otto…».

«Conta più veloce» sbottai fra i denti, le labbra serrate e il viso rosso per lo sforzo e il dolore. Quando pensai che un altro secondo ancora mi avrebbe uccisa mi lasciò smettere. Presi velocemente aria, ma fu troppo presto quando arrivò la successiva contrazione e la richiesta di spingere ancora. «Ahh…» gridai, e mi parve davvero che Carlisle contasse troppo, troppo lentamente. Al sei lo supplicai di smettere.

«Stai andando benissimo Bella, la bambina sta nascendo, mi servono solo altre tre, quattro spinte. Dai, basta così» mi concesse, e immediatamente mi lasciai andare sulla carta ruvida, contro il braccio di Edward, sempre teso oltre la mia schiena.

Respirai, stanca. «No… no… aspetta… non ce la faccio» mi lamentai, in preda al panico, quando, non dandomi abbastanza tempo per riprendermi, mi invitò a spingere ancora. I miei respiri erano corti, e malgrado il dolore sapevo di non avere un grammo di forza in quell’istante.

«Va bene, non ti preoccupare» fece, osservandomi attentamente, «aspettiamo qualche secondo» e lanciò una breve occhiata all’orologio alla parete.

Cercai in ogni modo di evitare le lacrime, che non avrebbero fatto altro che togliermi la poca aria che mi rimaneva, ma non potei fare a meno di farmi scuotere da alcuni singhiozzi. Avevo paura che Carlisle avesse avuto ragione, che non avessi davvero abbastanza forza.

«Amore, ce la fai» mi rassicurò dolcemente Edward, baciandomi la guancia. Mi colpì sentirlo così fiducioso, proprio quando anch’io stavo per arrendermi per la sala operatoria. I suoi occhi ambra mi guardarono amorevoli, e con le labbra mi baciò una tempia sudata «ce la fai. Stai andando benissimo, e fra poco la bambina nascerà. Ce la fai» disse, aumentando la presa sul braccio che aveva portato oltre la mia spalla.

La mia attenzione fu richiamata da Carlisle. «Bella, devi spingere. Ce la fai?». Non feci in tempo ad annuire che subito mi disse «Vai» costringendomi un ennesimo grido di dolore nella gola.

Serrai gli occhi e strinsi le labbra, aiutata da Edward a sollevarmi, mentre mi sentivo lacerare e cercavo dentro di me qualcosa che mi aiutasse a far nascere mia figlia.

«Brava, brava, continua così» fece Edward al mio orecchio, lasciando che gli strapazzassi la mano con la mia, dandomi da fare con tutta la mia forza.

«Okay, basta. La prossima volta devi spingere un po’ più forte Bella, va bene? Come stavi facendo prima. Su…».

«Ah…» mi lamentai, senza alcuna intenzione né possibilità di rispondergli. «Mi sento scoppiare…» biascicai, stringendo forte la dita dei piedi. Come potevo spingere più forte? Spingere ancora? Come potevo fare qualcosa che non fosse limitarsi a respirare o urlare?

Alla mia occhiata terrorizzata mio marito mi accarezzò la fronte, lanciandomi uno sguardo dolce e amorevole. «Ce la fai Bella, sono qui con te, avanti».

«Sono le ultime spinte. Vai» m’incitò Carlisle. Urlai, finalmente urlai non provando neppure a contenere il grido nella gola, dando sfogo al fiato che troppo velocemente entrava e usciva dai polmoni. «Bravissima, così. Vedo la testa. Brava, sei brava Bella, avanti…». Pensai, mentre la mia mente vagava nel non-raziocinio, quanto dovessero essere solleciti i medici a riempire di complimenti i propri pazienti in certe circostanze.

Non appena mi accasciai stremata sul lettino, pervasa da ogni dolore, distrutta e stremata, Carlisle m’invitò a spingere ancora, e allora non ci fu più spazio per nessun altro pensiero. Non potevo. «Edward… non ce la faccio» biascicai, arrendendomi al dolore.

Mi accarezzò la fronte sudata, asciugandomi velocemente le lacrime dal viso. «Si che ce la fai. Avanti amore, ce la fai… Sta nascendo, Bella» mi rassicurò prontamente.

Carlisle mi rivolse un’occhiata. «Solo un’altra spinta».

Con un respiro disperato raccolsi tutte le mie forze per assecondare quel dolore che mi stava dilaniando, ma quando mi lasciai andare l’ennesima volta sul lettino non ero più in grado di fare niente. Annaspavo, e vedevo dei puntini luminosi ai bordi del mio campo visivo. Mi sentivo squarciare, e non avevo più un grammo di forza nel corpo. Né un grammo d’aria.

«Bella? Bella?!» sentii la voce agitata di mio marito chiamarmi, e subito dopo sentii una mascherina sul viso.

«Edward…» sussurrai. I neon mi accecavano e la mia vista, in quell’istante, per le lacrime e il dolore, era imperfetta.

Il viso di mio suocero apparve fra la nebbia. «Solo un’altra spinta Bella, solo una. Ce la fai?».

Mi stava offrendo una scelta. Il mio corpo reclamava pace. Pace che non poteva avere. Sentii le labbra di mio marito sulle dita. Solo un’altra spinta.

Annuii.

La mano che me la teneva ferma sul viso spostò per un attimo la mascherina. «Spingi» sentii. Non ero perfettamente cosciente di me stessa. Mi piegai e urlai, lasciando scorrere le lacrime sul volto, la strada spianata dalle precedenti, fino al mento. Pensai di poter morire di dolore, in quell’istante, pensai di poter morire davvero. Invece sentii una sensazione incredibilmente umida fra le gambe, e la pancia stringesi in uno spasmo. E poi, mi sentii incredibilmente vuota.

«É nata» mi sussurrò, emozionato, Edward. Malgrado le lacrime e la confusione provai disperatamente a scorgere un piccolo fagottino, ovunque fosse. Ma prima che i miei sensi potessero raggiungerla, lei stessa rivelò la sua presenza, urlando la sua vita con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

Tutto il mio corpo formicolava, teso, ancora incredibilmente dolorante. E uno dei miei battiti incalzanti e affannosi mancò, quando la bambina mi venne posata sul petto.

I miei occhi erano puntati su quelli liquidi di Edward, la mia mente ancora troppo lenta e turbata, quando, seguendo la direzione del suo braccio, trovai le sue dita ad accarezzare con assoluta devozione e delicatezza la leggerissima peluria che copriva la testa di sua figlia. Nostra figlia. Fra le mie braccia.

Un esserino così minuto, buffo, e strano, che si agitava sul mio petto, dotato di vita propria. La vita che io e Edward gli avevamo dato. Era nostra. Era proprio nostra, pensai velocemente, allentando inconsciamente la disperata presa sulla mano di Edward, cedendo al buio.

 

Edward

 

Avevo aiutato, assecondato ogni movimento, sostenuto, in ogni istante. Controllai ancora una volta, velocemente, i parametri di Bella e della bambina, sul piccolo schermo.

«Edward… non ce la faccio». Il mormorio disperato di mia moglie mi costrinse a voltarmi verso di lei. Il viso era inondato di lacrime, rosso sulle guance per lo sforzo. Sapevo che se non l’avessi tirata su io per la schiena non sarebbe mai riuscita neppure a sollevarsi dal lettino.

Ma non potevo dirle semplicemente quello che volevo io per lei. La bambina stava bene, avevamo ancora un po’ di tempo, e non era questo che dovevo fare per il bene di mia moglie. Per quanto adesso si fosse arresa, lei voleva la sua bambina, e la voleva così. E sapevo che dovevo farle fare ciò di cui non si sarebbe pentita. «Si che ce la fai. Avanti amore, ce la fai… Sta nascendo, Bella».

«Sta andando bene, la bambina sta nascendo. Ma se è troppo stanca non la possiamo forzare» pensò mio padre, analizzando attentamente la situazione. M’imposi, come avevo promesso a mia moglie, di non leggere più del necessario i pensieri di mio padre. Voleva che restassi al suo fianco durante il parto, ed era contraria e imbarazzata all’idea che potessi sbirciare. Quando le avevo fatto presente le mie lauree in medicina e la nostra vita intima, mi aveva risposto, le guance rosse. “Non voglio che tu mi veda in modo diverso”.

Quando mio padre la invitò a fare un'altra spinta, la mano che aveva nella mia, che non aveva mai, mai lasciato da quando ero entrato in sala parto, si strinse più forte. Accompagnai verso l’alto il suo corpo, caldo, debole e stanco, e le baciai una guancia. Dolorante, serrò i denti. Mentre i secondi passavano vedevo la mascella contrarsi sempre più, le lacrime sbocciare dagli occhi, e la mano stringersi alla mia tanto che pensavo che prima o poi sarei riuscito a sentire la sua presa.

«Basta» la bloccò Carlisle.

Immediatamente i suoi muscoli irrigiditi si rilassarono, abbandonandosi. La condussi con la schiena sul lettino, per farle riuscire ad avere pochi secondi di sollievo. La bambina era euforica, curiosa. «Ci siamo quasi» pensò velocemente mio padre.

Ma c’era qualcosa che non andava. Sentii il respiro troppo agitato di mia moglie, e la prima cosa che vidi, quando mi voltai, furono i suoi occhi assenti sul volto pallido. «Bella? Bella?!» la chiamai agitato, spaventato.

Carlisle venne immediatamente al mio fianco, ordinando all’infermiera di prendere la mascherina dell’ossigeno. Quando ne fu in grado biascicò il mio nome. Le palpebre si alzarono e si abbassarono un paio di volte. La mano strinse inconsciamente più forte la mia. Il fiato appannava al ritmo del respiro la mascherina che per metà viso le copriva la faccia.

Ce la poteva fare. Ce la doveva fare. Timoroso, la portai alle labbra e ne baciai le nocche, con devozione, una ad una.

Prese un respiro più profondo, e sentii la presa della sua mano intensificarsi. Con amore le baciai la tempia, chiudendo gli occhi per non farmi distrarre dal suono agghiacciante del suo urlo.

E poi lo sentii. Sentii l’aria sulla pelle, i colori e le luci troppo forti, il contatto con delle cose troppo fredde. E un immenso fastidio. Fastidio contrastato con tutta la forza, tanto da riuscire a gonfiare i polmoni, far fruire l’aria, e respirare. Il primo respiro.

Mia figlia era nata.

Il vagito riempiva la stanza. «Sembra stare bene. E’ forte, il pianto squillante» pensò mio padre, lasciando che pulissero appena la piccola, e la avvolgessero in un lenzuolino verde. Me la passò fra le braccia con un sorriso, e per pochissimi istanti non vidi che il suo volto. Il volto di mia figlia.

Non credevo, davvero, potesse esistere qualcosa di più perfetto. Si dimenò, gemendo, e mi sentii fibrillante vedendola così, vedendola viva. Come potevo io, un essere morto per sempre, averle donato la vita?

Mi forzai a staccarla dalle mie braccia, solo per depositarla sul petto caldo, ancora pervaso da un movimento frenetico, di mia moglie. Dopo quello che aveva sofferto meritava di averla con sé. Strinsi la sua mano, che non avevo mai, mai lasciato, e con l’altra accarezzai la peluria chiara dei capelli di mia figlia.

Gli occhi di Bella si riempirono di lacrime, che, aggiungendosi a quelle che già da tempo le bagnavano le guance, impedivano la vista di quello che ormai per noi era il bene più importante del mondo.

Si sentì bene a contatto col corpo caldo della mamma, e fermò per qualche istante il suo dimenarsi. Una faccia minuscola, arrossata e umida. Due occhi lineiformi, ancora chiusi. Ci aveva riconosciuti. Aveva riconosciuto chi le aveva donato la vita.

In quell’istante la forte presa della mano di mia moglie sulla mia si allentò, fino ad annullarsi. Mi voltai appena in tempo per vedere i suoi occhi sollevarsi e le palpebre abbassarsi.

«Carlisle!» chiamai subito, ansioso.

L’infermiera sollevò la bambina dal suo petto, lasciando spazio a mio padre. La controllò velocemente, analizzando i suoi parametri, e provò a svegliarla. «Bella, mi senti?».

«Bella?» la chiamai anch’io, terrorizzato. Era pallida.

Mugugnò qualcosa, e le palpebre si sollevarono un attimo.

Carlisle le accarezzò i capelli. «E’ esausta. Datele di nuovo l’ossigeno e procedete con il secondamento. Sta bene Edward, non ti preoccupare». Doveva occuparsi della bambina, lo sapevo, e sapevo anche che si fidava dell’equipe che aveva costituito per mia moglie, altrimenti non l’avrebbe mai lasciata.

Io però, rimasi con Bella. Mia figlia in quell’istante era in buone mani, per quanto il mio amore e la mia curiosità tendessero verso di lei. Non rimase sempre incosciente, e dopo il secondamento l’ostetrica decise di farla rimanere per un po’ in sala parto prima di portarla nella sua camera. Voleva che riprendesse un po’ di forze per provare a farla camminare.

«Edward…» biascicò ad un certo punto «la bambina… non sappiamo come sta. Vai…» soffiò, esausta, chiudendo per un attimo gli occhi bagnati.

«Sta bene. Posso andarci dopo» mormorai, mentre attentamente controllavo i pensieri di mio padre e della piccola.

Era spossata, le palpebre si tenevano appena aperte sul viso pallido, imperlato di goccioline di sudore. Scosse debolmente il capo. «Vai, e poi… torna. Vai…».

Sospirai, baciandole le labbra, bianche quanto il viso.

Non appena uscì dalla sala parto, però, la mia famiglia mi bloccò, e si avvicinarono rapidamente a me. M’irrigidii, rigirando la cuffietta verde di Bella fra le mani. Jasper e Rosalie erano rimasti con Seth, per tenere sotto stretto controllo la situazione. Lessi velocemente i pensieri dei miei familiari per cercare nuove informazioni, ma le loro parole mi bloccarono.

«Come stanno?» chiese subito mia madre.

Sospirai. «La bambina sta bene. E’ nata a mezzanotte e ventitré. E’ bellissima» dissi, non potendo fare a meno di tratteggiare le parole con emozione «Adesso Carlisle la sta visitando. Bella è… molto stanca. E’ stata dura. Ora che finiscono con lei la accompagneremo nella sua camera. Deve riposare».

Tutti furono immediatamente euforici. Esme mi chiese ancora di Bella. Charlie, più indietro rispetto agli altri, si affaccendò a nascondere le lacrime. Alice insistette per sapere più dettagli sulla bambina. E per quanto potessi davvero stare per ore a parlare dei miei due amori più grandi, non desideravo altro che vederne uno e correre subito dall'altro, sperando di avere abbastanza forza da farlo.

«Stavo andando dalla bambina, fatemi passare, e presto, forse, lo saprete» dissi, divincolandomi e procedendo sicuro nei corridoi.

Raggiunsi mio padre, trovandolo indaffarato sulla piccola. Era contento, orgoglioso, felice. La bambina stava bene.

«Le da fastidio la luce» dissi piano, come se avessi paura di turbarla, osservando il suo movimento e vedendola dibattersi sulla carta chiara della bilancia.

Mio padre accennò un sorriso. «Ho sempre pensato che interagendo con dei neonati avresti potuto dare un importante contributo alla scienza».

Mi avvicinai a mia figlia, con un piccolo sorriso sulle labbra. Carlisle le aveva messo indosso una tutina rosa, calda. «Ha ancora gli occhi chiusi» constatai, sfiorandole la guancia. Sussultò istintivamente, ritraendosi, ma poi si avvicinò al contatto freddo della mia mano. Le piaceva.

«E’ normale, presto li aprirà. Questione di minuti o ore. Come sta Bella?».

«Sembra bene. Ha perso ancora i sensi, e il tuo specializzando le ha messo dei punti» feci, trattenendo a stento una smorfia, concentrato ad accarezzare mia figlia «l’ostetrica vuole provare a farla camminare. Ora devo tornare da lei, non mi va di lasciarla sola».

«Si, va bene. Dopo verrò a visitarla, non ti preoccupare. E’ stata brava, forte. Ad un certo punto ho pensato di dover ricorrere seriamente alla sala operatoria. Ma Bella è sempre così. E direi che questa piccolina ha preso da lei» fece, quando la bambina strinse le sue piccole dita attorno al mio mignolo.

Era bella. Aveva preso i tratti dolci di mia moglie, ma il mio taglio di occhi. I capelli, invece, erano ancora marrone chiaro. Una partita aperta per le scommesse dei miei fratelli. Ma non importava a chi somigliasse. Era bella. Tremendamente bella.

Sentii la mano di mio padre sulla mia spalla. «Prendila, tienila in braccio. Per cinque minuti, e non di più, direi che me la puoi requisire. Dopotutto, è tua».

Mia. Sorrisi, grato, contento di poterla sentire a contatto col mio corpo. Gemette debolmente quando la presi fra le braccia, preoccupato come solo con Bella ero stato di farle del male. Fragile. Ecco com’era tutto il mio amore, fragile.

Si accoccolò sul mio petto, strofinandoci la guancia. Non il freddo. Io. Le piacevo io, pensai commosso.

 

 

Bella

 

Mi svegliai nella stanza d’ospedale nella quale, dopo il secondamento, mi avevano trascinata. Non ero propriamente certa che quell’ultima fase fosse realmente avvenuta, perché oltre il peso di un corpicino sulla mia pelle, stentavo a ricordare molte cose.

«Ben svegliata» mi disse mio marito, accarezzandomi il dorso della mano. Sembrava come un condottiero, esausto per la guerra, ma vittorioso.

Realizzai di avere ancora la mascherina d’ossigeno sul viso. Edward, intuendo la mia espressione, mi aiutò a spostarla. «L’hanno lasciata per sicurezza. Eri molto stanca, per questo hai perso i sensi». Mi sorrise. «Sei stata bravissima. Nonostante tutto, ce l'hai fatta. Sono orgoglioso di te...».

Sospirai appena. Del parto avevo un vago e annebbiato ricordo, sepolto solo sotto la cosapevolezza del dolore provato. Era come se uno strato di confusione, tenerezza, torpore, mi avvolgesse completamente. «Se non ci fossi stato tu... Grazie... per essrmi sempre stato accanto».

Mi accarezzò una guancia con la mano, guardandomi teneramente. «Non dirlo neanche per scherzo, era quello il mio posto. Come ti senti?».

«Debole» biascicai, muovendomi appena fra le lenzuola. Oltre le coperte, dove qualche ora prima c’era stato un degno e fiero pancione, ora c’era solo una piccola collina. Se me l’avessero staccato a coltellate avrei probabilmente sofferto meno. Feci una piccola smorfia di dolore. A parte la spossatezza mi sentivo estremamente dolorante. «Ah» mi lamentai, sentendo una fitta.

«Tranquilla» mi rassicurò, accarezzandomi i capelli. «Ti hanno messo alcuni punti. Ora viene Carlisle a controllarti».

«Quanto» mormorai disorientata, notando il buio oltre i lustri della finestra «quanto tempo è passato?» mi feci coraggio, e, tremante, aggiunsi «Avete notizie dalla riserva?».

«Jasper e Rosalie hanno tutto sottocontrollo. Abbiamo Seth, Quil e Embry dalla nostra parte, e gli altri sono imprigionati o fuori combattimento. Non ti preoccupare, va tutto bene. Siete al sicuro adesso». Sorrise, rassicurante. «E' passata appena un’ora dal parto. Carlisle sta visitando la bambina, ha dovuto occuparsene di persona» fece, e la sua espressione mi fece quasi scappare un sorriso. Avrebbe voluto che ci fossero certamente due Carlisle, uno per me e uno per la bambina. Povero suocero. Ma quando i suoi occhi s’illuminarono non ci fu spazio per le battute. «Pesa tre chili e duecentoquaranta grammi, alta quarantanove centimetri e sette. Sta bene, ed è in salute ed ottima forma. E, naturalmente, è bellissima…».

Sorrisi, stanca ma emozionata, e subito dopo sentii qualcuno bussare alla porta. Sussultai quando fra le braccia di Carlisle riconobbi mia figlia. Stentavo ancora a crederci. Era lei quel frugoletto che mi era cresciuto nella pancia per nove mesi, accompagnandomi nel dolore e nella gioia, sostenendo battaglie immensamente più grandi del suo piccolo corpicino?

Nonostante la stanchezza, tesi immediatamente le braccia quando Carlisle si avvicinò. Quando l’ebbi sul petto rimasi ancora incantata. Aveva la pelle morbidissima, con una leggera patina bianca, ma rosso vivo sulle guance e fra le pieghette delle manine, minuscole. Gli occhi erano due linee chiuse, e i capelli di un indistinto marroncino chiaro. Non capivo bene come, in che modo, ma eravamo io e Edward lì. Eravamo lì insieme nel suo corpo.

Ero stata semplicemente stupida ad avere paura. Non avrei, mai, potuto separarmi da lei. L’amavo troppo.

Mi accorsi che la bambina stava vagendo, rivelando il palato rosa e scuotendo le braccia. Probabilmente fra qualche notte non l’avrei pensata così, ma ora il suo pianto mi sembrava un suono meraviglioso, tanto da far piangere anche me.

Provai ad accarezzarla un po’ con un braccio, asciugandomi gli occhi con l’altra mano. «Perché piange?» chiesi, voltandomi velocemente verso mio marito, incantato quanto me.

«Ha fame» mi rispose.

«Ho provato a darle del latte in polvere, ma per adesso non lo vuole. Prima di insistere vorresti provare ad allattarla?».

Mi voltai velocemente verso Carlisle, mordendomi un labbro. «Si» mormorai insicura.

Mi sorrise, e suggerendomi di lasciare per un attimo la bambina in braccio a Edward, più che contento di farlo, mi aiutò a sollevarmi fra i cuscini e mettermi in una posizione abbastanza comoda e poco fastidiosa. Mi chiese cortesemente se non preferissi avere con me la puericultrice, ma preferii affidarmi a lui, incerta per il possibile comportamento di mia figlia.

«Avvicina la bambina al seno, e guidalo nella bocca. Non devi darle solo il capezzolo, altrimenti tu rischi un’irritazione e la bambina non riesce a suggere il latte» mi spiegò cortesemente «prendilo fra l’indice e il medio e dalle tutta l’areola, la bambina non si affoga» fece con un sorriso alla mia occhiata «e così riesce a prendere il latte. Prova» disse, lasciandomi tentare.

Mi sentii abbastanza impacciata nei movimenti, ma sollevai la bambina, provando a fare esattamente come mi aveva detto. La piccola non fece complimenti, e immediatamente, a contatto col mio seno, mosse le labbra in un gesto istintivo. Ma io non sentii niente oltre il dolore.

Alzai il capo, preoccupata di aver fatto qualcosa di sbagliato.

«Tranquilla» mi rassicurò Edward, «aspetta un po’».

Lo stesso disse Carlisle, e dopo qualche minuto, mentre la mia tensione aumentava e la bambina si staccò, insoddisfatta, per vagire, mi consigliò di provare a cambiare seno. «É normale che sia così, tranquilla. Adesso aspettiamo un po’. Non tenerla mai più di dieci minuti allo stesso seno».

Osservai mia figlia, e mi arrischiai a tenerla con un solo braccio portando la mia mano alla sua. Aveva la pelle così morbida. Mi strinse le dita contro il mio, poi aprì la manina a la posò casualmente sul seno, chiusa in un pugnetto.

Spalancai la bocca, sorpresa, quando sentii la bambina succhiare con avidità di latte. Sorrisi, e appena pochi secondi dopo sentii un crampo alla pancia. Chiusi gli occhi, una smorfia sul viso.

«É normale sentire ancora contrazioni, si intensificano durante l’allattamento» mi spiegò Carlisle, posandomi una mano sulla fronte. «Hai un po’ di febbre, vengo a controllarti fra poco» disse, lasciandoci soli e con un po’ di privacy.

Edward mi passò un braccio dietro al busto, baciando me e osservando nostra figlia.

La mia attenzione cadde sul minuscolo braccialetto, così simile al mio, che la piccola aveva al polso. Sul suo c’era scritto, a stampatello, “Isabella Cullen”. Sul mio, invece, dopo i due punti, c’era un rigo vuoto.

«Ho lottato contro la puericultrice per farmi dare un po’ di tempo».

«Dobbiamo darle il nome» dissi, voltandomi verso Edward.

Mi sorrise appena. «Senti» fece, accarezzandomi la guancia con la punta del naso. «Io avrei in mente un’idea. Un nome che non stona per niente con gli altri presenti in famiglia, ma che per me è sempre stupendo, in qualsiasi epoca, e denso di significato» disse con gentilezza, e mi pareva che in quel sorriso appena accennato ci fosse quasi sarcasmo.

Mi fidavo del gusto di mio marito, eppure pensavo che avrei dovuto lottare per farmi dire la sua idea. «Che nome?» chiesi sorpresa.

«Kate» disse, con un sorriso sfacciato. «Katherine Cullen. Non suona bene, dici?».

«Oh, Edward!» sussurrai commossa, e gli avrei gettato le braccia al collo se non avessi avuto nostra figlia fra le braccia. «Kate» la chiamai «Kate, Katherine, ti piace il tuo nome, si?» chiesi, aspettandomi stupidamente un qualsiasi segno da mia figlia che potessi individuare come un’inclinazione affermativa.

Mi voltai verso mio marito, e sorridemmo come due ragazzini, commossi e felici. E mi baciò.

E in quell’istante mia figlia non poté che partecipare alla nostra felicità, aprendo gli occhi e rivelando le sue iridi chiare, e il suo sguardo, astuto e attento.

 

 

*sospira*

E così… Questo è il penultimo capitolo, ma, in fondo, questo è IL capitolo. Ciò che da tempo io e voi stavamo aspettando.

Vi ha deluso? Ha superato le vostre aspettative?

Io posso dire che è andato via da me, perché immaginarlo non è come averlo scritto, e avendolo scritto non lo si può più immaginare.

Questa storia è cresciuta con me e… non devo piangere né fare questi discorsi perché c’è ancora un capitolo.

Mi rendo conto che alcuni si sono un po’ persi per la lunghezza dello scritto (grazie di avermelo fatto presente -.-), ma comunque, un po’, ogni tanto, mi sono persa anch’io :P.

Bando alle ciance.

Kate (si chiama cusì e voglio che cusì la chiamiate ù.ù), è nata! Che meravigliosa frugoletta! :D ^^

 

L’ultimo capitolo arriverà molto probabilmente in ritardo perché, a differenza di questi, non l’ho ancora scritto.

 

Spero vivamentissimamente di non aver scritto caSSate nemmeno stavolta. (coccinella86, endif - grazie per il tuo racconto, stupendo ;) - e lisa76, e tutte quante con esperienza “filiali” mi affido a voi ;) ).

mikvampire (nemmeno un figlio, tante paranoie xD) Hanairoh, ale03, mine (grazie grazie grazie), ANNALISACULLEN (grazie dei complimenti, da piangere *.*) Sono contenta che abbiate apprezzato così tanto il travaglio! Mi sono data da fare, affidandomi a dolori personali e fantasia, oltre a tutti i racconti che le varie mamme hanno gentilmente condiviso su internet, e quelli a volte non desiderati di mammi -.- .

Perché non è Edward ad aiutare Bella a partorire? Perché 1. Edward è solo laureato in medicina, il che non lo rende decisamente un medico). 2. In BD quando Bella sta male Edward non si mette a fare diagnosi, anzi propone di portarla da un medico. 3. Pur essendo laureato in medicina non lo è in ginecologia, e non è un tuttologo come Carlisle. 4. Se no Carlisle che ci sta a fare?! ù.ù Dreamerchan :D spero di essere stata esaustiva. :D

Rosy_Cullen (grazie di apprezzare il mio sadismo) erzsi , ste87 (evviva le amiche partorienti!), congy. Non sono sadica. ù.ù É inutile che continuate a ripeterlo, e se qualcuno scrive nelle recensioni la parola “sadica”, giuro che invece di scrivere la versione attuale del finale ne scrivo un’altra che avevo in mente. è.é (sì, è una minaccia).

Ros_Ros, luisina (Carly the doctor :P), Luna Renesmee Lilian Cullen, prudence_78 (mi dispiace non riuscire a farti apprezzare il prof, ma sono contenta che tu abbia una tua idea :) ) Avete festeggiato per l’arrivo di Carlisle! ;)

ledyang lo so tesoro, e non posso che ringraziarti, ma quando mi fai gli occhini del gatto sei terribile! :P

patu4ever baci vagabonda ;)

Noemix ti autorizzo a prendere a calci questo sederino se non riprenderò in mano la tua storia quanto prima. Scusa. ç.ç

Gattino Bianco ciao! Anche se ormai siamo in fine storia, grazie sinceramente di averla letta. É un piacere (lo è ancor di più dopo aver letto le tue fantastiche recensioni :P). Grazie.

silvia16595 non dirò più che i capitoli sono lunghi :P ma… sono lunghi! Ahahahah

Lau_twilight (grazie!), Nessie93, KatyCullen (te li sei recensiti tutti!!! *-*) Grazie per aver recuperato tutti i capitoli e non avermi abbandonata al mio destino! ;P

Grazie, grazie, grazie, per tutti i meravigliosi complimenti, e per il fatto di rimpiangere la fine di questa lunghissima storia! (Ely_11, pomeriggio, Struppi, chi61, LudoCullen96)

 

Vi ringrazio, ora, di vero cuore, tutte. Mi avete recensita, letta, commentata e accompagnata. Grazie grazie grazie, a tutte voi,

un bacio.

:*

 

Twitter--> @Keska92.

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

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Capitolo 74
*** Tutto bene ***


«Mh…» mi lamentai lievemente, tirandomi a sedere sul divano copertina

«Mh…» mi lamentai lievemente, tirandomi a sedere sul divano. L’intera stanza era avvolta nella penombra. Sentivo il corpo pesante e pervaso dal torpore che segue a un sonno poco comodo. «Mi sono addormentata?». La domanda mi uscì con un tono impastato, diretta al vuoto dinanzi a me.

Sentii subito dopo l’eco di alcuni passi sul pavimento, e le finestre furono subito aperte. «Avresti potuto dormire ancora». La voce di Edward, il viso lievemente accigliato.

Sospirai, raddrizzando le gambe e poggiandomi contro lo schienale del divano. Magari sì, avrei potuto dormire ancora. Non dicevo di non essere completamente esausta. Ma in quel momento la mia mente aveva qualcosa di meglio a cui pensare.

Non appena Edward mi raggiunse, sedendosi al mio fianco, intrecciai le dita con le sue in un gesto di automatica ricerca di forza e conforto. Era così. Sentirlo accanto, fisicamente e non, era la necessità della mia vita.  

«Andrà tutto bene, vero?» chiesi insicura.

Annuì, silenzioso, scendendo con le labbra fredde a lambirmi una guancia, lasciando sulla mia pelle l’impronta perfetta.

Eravamo entrambi preoccupati, ed entrambi sapevamo quanto inevitabile fosse quello che stava per accadere. Non potevamo continuare più a lungo in queste condizioni.

«Katie?» chiesi, senza riuscire a nascondere il tremore nella voce.

Edward mi accarezzò i capelli. «Era con i nonni. Stanno per arrivare», si voltò a guardarmi con un sorriso appena accennato, rigirandosi una mia ciocca sul dito. L’aria era densa d’attesa. «Vuoi mangiare qualcosa?».

Scossi il capo, sollevandomi goffamente dal mio posto. «Credo di avere lo stomaco chiuso».

Non feci a tempo a finire la frase che la porta di casa si aprì, sbattendo, rompendo l’attesa e inviandomi immediatamente una scarica lungo la spina dorsale. «Mammi!» gridò, sgambettando, la mia piccola bambina.

«Tesoro» la chiamai con un sorriso. Ogni volta, ogni volta che la vedevo mi rendevo conto della meraviglia che avevamo creato. Era un vero amore. Dolce, così riflessiva. Così intelligente…

Corse verso di me e si fermò, appena un passo prima. I suoi vispi occhi verdi cercarono immediatamente il padre, come se si aspettasse un rimprovero, come se fosse perfettamente cosciente che quella che stava per fare era una marachella.

«Kate, non saltare in braccio alla mamma» la riprese bonariamente, come c’era da aspettarsi.

Ridacchiai, cercando di mascherare tutto il mio nervosismo, accovacciandomi goffamente a terra nonostante il grosso pancione. «Vieni qui tesoro» dissi, aprendo le braccia e stringendomela al petto. I suoi capelli si erano man mano scuriti, fino a diventare dello stesso color mogano dei miei. Mori, morbidi, profumati.

Si strinse a me, strofinando la guancia soffice e rosa contro la mia. Aveva appena un anno e mezzo, capacità intellettive decisamente più sviluppate, e si dimostrava appena più minuta per la sua età. Fortunatamente, la crescita sarebbe rallentata sempre più nel corso degli anni, senza far apparire troppo forte il contrasto fra l’età del suo corpo e quella della sua mente.

Edward la sollevò dalle mie braccia, facendole fare una mezza giravolta, e riempiendo la stanza del suono della sua risata fanciullesca. «Ti sei divertita con i nonni?» chiese, baciandole la fronte.

«Ti, papà! Ancola, ancola!» chiese, saltellando impaziente fra le sue braccia.

Edward spalancò la bocca con fare teatrale. «Ancora? Sei sicura?». E contemporaneamente la fece volteggiare ancora, lanciandola in aria e facendola ridere.

Sospirai, con un sorriso. Mi tirai a sedere per sistemarmi sul divano, un nugolo in petto. Era sempre stata una bambina allegra e serena, fin da quando era nata. Vederla così, ancora, ancora oggi, mi rincuorava e mi destabilizzava enormemente.

E non riuscivo a non pensare, mentre il cuore mi batteva sordo nel petto, che quello che stavamo per fare era un grosso errore, la scelta più sbagliata per la nostra bambina.

«Bella» mi salutò Esme, entrando in casa affiancata da Carlisle. Feci per alzarmi, ma immediatamente mi raggiunse, posandomi una mano sulla spalla. «Stai seduta, cara» mi ammonì, baciandomi una guancia.

Edward si lasciò cadere, fintamente esausto, sul divano accanto a me. «Basta… Papà è stanchissimo…». Trascinò la bambina fra le sue braccia, prima di lasciarla andare fra me e lui. La verità era che non si sarebbe mai stancato di giocare con lei. Ogni volta che la guardava leggevo una tale devozione nei suoi occhi… pari solo a quella che, mi rendevo conto, aveva quando guardava me.

«Dai papà, ancola, ancola!» protestò. Poi volse lo sguardo verso di me, e la bocca si aprì in un sorriso pieno di minuscoli dentini. «Atellino! Papà! Atellino!».

Edward ridacchiò, accarezzandole una guancia. «E come vuoi giocare col fratellino? É ancora troppo piccolo. Quando nascerà potrai giocarci» disse, con uno sguardo affettuoso. Mi sorrise, un sorriso pieno d’amore e devozione, d’affetto per me, per sua figlia, per quel piccolo che stava per venire. Per tutta la famiglia. Posò la mano alla base del pancione, facendomi rabbrividire.

La bambina seguì il movimento e puntò i suoi grandi occhioni verdi nei miei. Le sopracciglia si piegarono leggermente, e le guanciotte si gonfiarono, dandole una buffa aria pensierosa. «Mammi… bascio».

Prima che potessi accontentarla le mani di Edward la tirarono indietro, facendola voltare verso di lui. «Come ho detto che si dice? Bacio. Ba-cio» fece, scandendo con le labbra le parole.

Sollevai gli occhi al cielo. Edward aveva la fissa di insegnarle a pronunciare correttamente le parole che usava più spesso. Ma per quanto fosse strano da dire, non mi piaceva l’idea che mia figlia imparasse a parlare così bene. Insomma… era già strano che parlasse, che lo facesse così tanto e così scioltamente. Non mi piaceva insegnarle qualcosa e poi chiederle di non farla. E poi, imparava sempre così presto…

«Scio. Scio. Papà, no!» strinse le piccole labbra in un buffissimo sforzo, mentre sbatteva i piccoli pugnetti sul suo vestitino. «Bacio». I suoi occhioni si allargarono, liquidi, soddisfatti, appagati. Felici, come solo un bambino può esserlo. «Cio!» esclamò contenta, ridendo a battendo le mani.

Edward, contento, orgoglioso, la prese fra le braccia e cominciò a tempestarle il viso di baci, appagando l’ilarità di Kate.  

Sentii l’esigenza di distogliere lo sguardo da mia figlia e mio marito, per evitare che il fastidio pungente agli occhi si trasformasse in lacrime. «É stata brava?» chiesi, quasi sottovoce, accarezzandole distrattamente i capelli.

«Certo Bella. Tua figlia è sempre un amore» rispose con piacere Esme, seduta sul divano davanti al nostro, accanto a Carlisle.

Non potevo essere propriamente d’accordo con la sua affermazione. Mia figlia aveva… molta voglia di vivere, e molta curiosità. Appena nata mi aveva tenuta sveglia per più di una notte. Avere un marito vampiro senza bisogno di dormire era stata una benedizione, ma all’ora della pappa nessuno poteva convincere mia figlia a preferire un biberon al mio seno.

Ed ero lusingata, in un certo senso, di questo suo attaccamento a me. Mi mancava il contatto speciale che avevamo avuto quando era nella mia pancia, tutta quell’armonia, quello scambio costante di emozioni. E sapere di non aver perso completamente quel nostro legame non poteva che farmi felice.

Carlisle sorrise, stringendo la mano sul ginocchio di sua moglie. «É stata a casa per un’oretta, e ha fatto la merenda. Volevi che si distraesse un po’, così…» fece, con un sorriso appena accennato.

«Non dirmelo» esalai, un misto di bonaria esasperazione.

Kate scivolò sulle gambine, giù dal divano, correndo verso Carlisle. «Nonno ha portato Kate al lavolo!» gridò entusiasta, afferrando la sua mano e saltellando. «Lavolo! Lavolo!».

Mia figlia… che adorava andare a lavoro in ospedale con Carlisle. Questa sì che era una cosa che di certo non poteva aver ereditato da me.

Sulla mia fronte comparve una ruga d’apprensione. «Non hai parlato Katie, vero? Ricordi quello che ti hanno detto mamma e papà?».

Inclinò lievemente la testa per guardarmi di sottecchi, portandosi un dito sulle labbra umide. «No, mammi» dichiarò sincera.

Carlisle sorrise, accarezzandole i capelli. «É stata brava. Si è limitata ai monosillabi e a “nonno”». Esme la prese fra le braccia e se la tirò a sé, parlandole intensamente. «É una bambina intelligente, Bella» continuò rivolto a me, e sapevo che le sue parole non si riferivano solo a quanto gli avevo chiesto. «Lei capisce, capisce tutto» disse eloquentemente. Poi sospirò, «si è comportata molto bene, è un piacere per noi tenerla, lo sai». 

Annuii, e ringraziai. Se non fosse stato per l’aiuto su cui sapevo di poter contare, su tutta la famiglia di Edward, non mi sarei mai lasciata convincere ad avere un altro figlio, non così presto.

Accarezzai il grosso pancione con una mano, l’altra stretta costantemente a quella di mio marito.

«Emmett dice che ci aspettano per le sei di stasera. Al crepuscolo» ci informò Carlisle, acquisendo un tono estremamente serio.

Rabbrividii, e mi lasciai andare con la testa nell’incavo del collo di Edward.

«Andrà tutto bene» mi rassicurò, accarezzandomi dolcemente il fianco. Le dita scorrevano sul vestito leggero, senza quasi toccarmi. Sentivo la rigidità del suo corpo e il suo nervosismo, specchio del mio.

«Mammi, mammi!» gridò Katie, distogliendomi improvvisamente dai miei pensieri. Mi liberai da Edward per prestare attenzione a mia figlia, che sgambettava verso di me col suo zainetto rosa - dono di zia Alice. «Mammi! Uarda cosa mi hanno legalato nonno e nonna!» disse contenta.

Mi ripresi in fretta, scacciando ogni traccia d’ansia dal mio viso. «Oh, nonno e nonna ti viziano incredibilmente» dissi, scuotendo il capo con un’occhiata affettuosa. «Fammi vedere tesoro».

Posò lo zainetto a terra, attenta a non sbilanciarsi, e subito dopo si lasciò cautamente cadere a terra col sedere. Sbirciò nello zainetto e vi infilò una manina, tirando fuori l’oggetto che stava cercando. «Uarda, mammi!» disse, mostrandomi quello che aveva tutta l’aria di essere un camice in miniatura… rosa. «Uesto me l’ha regalato nonna» fece seriamente, posandolo con precisione accanto a sé, sul pavimento. Il sorriso si allargò, birichino, quando dallo zainetto afferrò l’altro oggetto.

Mi portai le mani alla bocca, guardandola con tutta la sorpresa che si aspettava di ricevere.

«Setoscopo!» disse, dimenando la mano con l’oggetto in questione. «E uarda mammi, è osa, osa!».

Scossi il capo, lanciando un’occhiata a mio suocero. Volevo che mia figlia capisse il valore delle cose che aveva in mano. Una cosa erano oggetti con cui giocare, un’altra era prendere uno strumento medico e consegnarlo in mano a una creatura che non volevo rinunciare a chiamare piccola bambina.

«Katherine, non lo rompere. Uno stetoscopio non è una cosa con cui giocare. Anche se è rosa…» dissi, alzando gli occhi al cielo.

Smise di agitarlo e dimenarsi, e fece peso su una mano per alzarsi. Camminò con un visino serio, tendendo l’oggetto verso di me, fino a posarlo sul pancione. «No, mammi. Uesto è per sentile atellino. Katie no rompe». Alzò lo sguardo, e mi fissò intensamente e seriamente. Mi guardò, e i suoi occhi verdi incontrarono i miei, ripristinando ancora una volta quel legame che da sempre ci aveva unite.

Mi lasciai sfuggire un sorriso appena accennato, quasi un rantolo. Per poco non mi scivolò una lacrima dagli occhi. «Va bene» mormorai, accarezzandole la testa, «non lo rompere tesoro».

Scosse il capo, facendo ricadere qua e là le ciocche scomposte. Tese le braccia e provò a circondare il pancione in un abbraccio. «Basc…» strinse gli occhi, sforzandosi «Bacio» sussurrò soddisfatta, posando le labbra sulla pancia.

Ero un misto di tenerezza, ansia, paura, senso di colpa. Sospirai, tremante. Mi asciugai velocemente le guance, provando a chinarmi per baciarle il capo.

 

Esme saettò da una parte all’altra della cucina, facendo scomparire i nostri piatti vuoti. «Non ti preoccupare tesoro, ci penso io a sparecchiare».

Sospirai, accarezzandomi il ventre pieno. Kate era intenta a mangiare la sua pappa, serena rispetto a quello che di lì a poco sarebbe successo.

Mi chiedevo, con una fitta nel petto, se quella serenità derivasse dall’innocenza dei suoi anni o semplicemente dalla sua indole. Non capivo. E il suo atteggiamento non faceva che allarmarmi ancor di più.

Trasalii quando sentii il tocco di una mano fredda sulla spalla. Carlisle si chinò, fissandomi attentamente. «Vieni di là in camera? Ieri avevi il controllo, anche se è saltato» mi spiegò con un sorriso gentile «Edward ha detto che hai avuto delle contrazioni».

Annuii, lasciando che mi aiutasse a sollevarmi dalla sedia.

Quando fummo in camera Edward chiuse velocemente la porta, e corse da me per guidarmi sul copriletto. Sapevamo entrambi della nostra ansia, e entrambi stavamo cercando di distrarci. «Credo che questo piccolo nascerà prima, rispetto a Katie» buttò lì con leggerezza, la voce tenue. Accarezzò il pancione.

Carlisle posò le mani sul mio ventre scoperto, misurandone le dimensioni. «In effetti il piccolo Mark è più grosso rispetto a Kate. Penso e spero che fra qualche giorno ti aspetterà la sala parto».

Mi lasciai andare sul cuscino, chiudendo gli occhi. «Sembra strano da dire, ma per adesso è l’ultimo dei miei pensieri» confessai nervosamente.

Edward mi accarezzò i capelli. «Andrà tutto bene… vedrai. Nostra figlia è davvero forte, e credo che ce lo dimostri giorno dopo giorno. Affronterà anche questo, e sarà per sempre al sicuro».

Lui aveva un forte legame con la piccola. Non sempre, ma quando era più vulnerabile poteva sentirne i pensieri. Dovevo affidarmi a lui, quando mi diceva quanto fosse forte nostra figlia, per non dare di matto per quello che stava per accadere.

Jared, Sam e Paul erano ancora sotto l’“incantesimo” di Jacob, sotto il suo ordine di uccidere me e Edward. L’unico modo per rompere quel laccio invisibile che li soggiogava, era far revocare l’ordine dall’unica persona che fosse in grado di farlo. L’unica che lo tenesse ancora in vita.

Mia figlia.

Dopo la sua nascita ero stata una madre angosciata e attenta, pronta a cogliere ogni segnale che quello che aveva vissuto quando era solo nella mia pancia venisse a galla. Ma in nessun modo, niente, era stato manifestato.

«É così piccola, Edward. Chi ti dice che tutto questo non la farà tornare indietro a tutto quello che è successo? Che non la farà stare male? Sembra così spensierata adesso…» mormorai ansiosa, portandomi una mano sugli occhi.

Mi accarezzò il volto, prendendolo fra le mani e costringendomi ad aprirli. «Ti posso assicurare che lei sa, in fondo al suo cuore ricorda. Ieri, quando le abbiamo spiegato quello che avrebbe dovuto fare, ho sentito qualcosa dentro di lei. Andrà bene» sussurrò persuasivo, verso me e lui stesso.

«Emmett, Rose e Jasper sono a La Push. É tutto pronto, l’incontro avverrà nella massima sicurezza» intervenne Carlisle.

Alternativamente i vampiri si erano dati da fare per mantenere sottocontrollo la situazione. Ma tenere bloccati tre licantropi non era facile, anzi, stava diventando un’impresa via via più complicata.

Perché semplicemente non avevano potuto comprendere, trovare un escamotage come tutti gli altri? Non sempre, mi aveva spiegato Seth, le leggi delle tribù erano radicate allo stesso modo in un individuo.

«Mammi» mi chiamò debolmente Kate, sbirciando nella stanza. Esme le aveva fatto indossare il suo camice, e dalla tasca destra sbucava lo stetoscopio.

«Vieni qui» mormorai in un sospiro, lasciando che sgambettasse fino a me. Edward la aiutò ad issarsi sul materasso. Volevo tenerla vicina, e stare attenta a captare ogni minimo segnale d’ansia. Se solo mi fossi accorta del suo pur minimo turbamento avrei fermato ogni cosa.

«Atellino». Kate indicò la mia pancia e tirò fuori lo stetoscopio dalla tasca.

Carlisle ci lasciò soli, e Edward aiutò la piccola a cercare il punto in cui avrebbe potuto sentire il cuore del fratello. Cercai di rilassarmi, mentre osservavo quella piccola grande personcina, così serena, dimostrare e regalare tanto affetto e amore con dei gesti così semplici.

Sentivo un brivido partire dal punto in cui Edward e Kate tenevano la mano sul pancione, così vicini a me e a quel bambino non ancora venuto al mondo, ma a cui già volevano bene.

«Come fa il cuore di Mark?» chiese affettuosamente Edward, accarezzandole i capelli.

«Mak!». La piccola strofinò la mano sul mio ventre pieno, poi sollevò lo sguardo su di noi. «Tum tum tum tum» mimò, facendo muovere le labbra umide.

I suoi occhi risplendettero in quelli della figlia, verde nel verde. «Si tesoro, fa proprio così» disse soddisfatto, guardandola con orgoglio.

Non potei fare a meno di sorridere.

«Papà» fece, sollevando lo sguardo su di lui.

«Dimmi».

I suoi occhi ardevano di curiosità. Si posò una manina sul petto. «Mammi fa tum tum. Io faccio tum tum. Perché tu no tum tum? E nonno? E zii?».

Mi mancò un respiro, presa in contropiede da quella domanda. Non era la prima volta che si rendeva conto delle differenze che c’erano fra di noi, e ogni volta, pazientemente, Edward e io le rivelavamo una parte della verità.

Così fece quella volta. Sospirò, le prese fra le braccia, la mise fra noi. Cominciò a spiegarle la differenza. Tuttavia, la piega che stava prendendo il suo discorso era fin troppo scientifica, e man mano notai quanto mio marito fosse turbato e stranamente a corto di parole.

Presi la mano di Kate, facendola accoccolare sul mio petto. Le accarezzai una guancia. «Tesoro, il nostro cuore fa tum tum, ed è un suono bellissimo. É bello perché significa “vita”. Ma ti ricordi quanto ti dissi com’è bello essere unici e speciali, che ognuno di noi lo è?».

La piccola annuì, guardandomi attentamente.

Intrecciai le dita con quelle di Edward, racchiudendo Kate nel nostro abbraccio. «Papà è speciale. Il suo cuore è un grande cristallo, luminoso e bellissimo, e brilla, incastonato nel suo petto» spiegai con un sorriso.

Strinse le labbra - un movimento ereditato dal padre - e spostò lo sguardo sul mio polso. «Come blaccialetto?».

Sorrisi sinceramente, baciandole la fronte. «Si tesoro, come il cuore del mio braccialetto». La strinsi a me, abbracciandola. Gli occhi di Edward, brillanti, si specchiarono nei miei, pieni d’amore e gratitudine.

«Ti amo» sussurrò, muovendo le punte delle dita sui miei capelli.

Socchiusi gli occhi e sospirai, sulla testa di nostra figlia. «Ti amo anch’io».

 

«Vieni tesoro, infila il braccio» mormorai, sistemandole addosso il cappotto. Una parte della mia coscienza rideva di me. La stavo proteggendo dal freddo dell’inverno, dalle intemperie. I suoi occhi, pieni di fiducia, il suo corpo e la sua mente affidati a me. Perché si fidava, perché mi avrebbe dato la sua piccola vita.

E io. Io la stavo per portare davanti a quelli che erano stati i suoi incubi peggiori.

Sentii la porta della cameretta aprirsi, e quando mi voltai il viso di mio marito si rabbuiò immediatamente. In un attimo era ad un centimetro da me. Baciò le guance, appena sotto le palpebre, catturando con le labbra le mie lacrime salate.

Mi strinse la testa sulla sua spalla, fissando la piccola Kate. «Sei bellissima» le disse, con un tono apparentemente tranquillo. Le sue parole vibrarono nel suo torace fino al mio.

Lacrime silenziose non avevano smesso di scendere sulle mie guance. Ero riluttante. Riluttante e turbata di fronte all’inevitabile.

«Ricordi cosa devi fare amore mio?» le chiese attentamente.

«Si papà» scandì attentamente.

«Me lo vuoi dire?».

Mi liberai dalla presa di mio marito, facendo un passo lontano da loro. “Pensa attentamente che sono liberi. Pensa che ogni ordine è sciolto. Pensa anche solo a quanto vuoi bene a mamma e papà, e a quanto vuoi tenerli con te”. Già ieri le avevamo spiegato tutto. Già ieri aveva annuito, ci aveva guardato negli occhi, fiduciosa, pronta a fare qualsiasi cosa per noi.

Presi un respiro, posando un braccio fra il seno e il pancione. Con la punta delle dita mi asciugai le ultime lacrime, e mi voltai verso Kate con un sorriso forzato.

Edward la stava accarezzando. «Hai paura tesoro? Vuoi farlo?» le chiese piano, dandole possibilità di rispondere. Ma era così piccola. Cosa poteva aspettarsi, se non fare tutto quello che le chiedevamo?!

Ma lei annuì, un’espressione estremamente seria sul volto. «Katie no paura».

 “Un uomo cattivo, consumato dall’odio e dalla gelosia, voleva farci del male. A me, alla mamma, a tutti noi. Ma tu, tesoro, con l’amore che provavi per noi, l’hai mandato via. E adesso è scomparso, non c’è più piccola. Ma c’è ancora qualcosa in sospeso. Devi pensare a quanto vuoi bene alla mamma e a papà, e andrà via per sempre”. Le parole del giorno precedente risuonavano ancora nella mia mente.

Mi avvicinai di un passo, prendendola fra le braccia e lasciando che Edward mi avvolgesse da dietro.

 

Mentre la mia Mercedes scura scivolava sull’asfalto, noi eravamo ancora rinchiusi nella nostra bolla. Carlisle e Esme sui sedili anteriori. Io, Edward e Katie, stretti in abbraccio.

E in quel momento pensavo a quanto fosse stata bella la nostra vita in quell’anno e mezzo, non potendo fare a meno di distrarmi con quei pensieri. Ogni giorno era stato una gioia, una scoperta. Anche quando ero stremata, anche quando avevo dovuto sgridarla, anche quando non tutto era andato bene, conservavo un ricordo estremamente positivo del tempo passato. Vedevo luce, luce e amore nella mia vita. Vedevo gli abbracci, i baci di mio marito e di mia figlia. Vedevo le loro e le mie risate spensierate. Le prime parole, i primi passi, i giochi. Il tempo passato ad osservarla anche solo dormire, troppo bella, troppo un miracolo per non poter godere il magnifico spettacolo del suo innocente sonno.

E se da un lato avevo paura per quello che stavo per fare, paura di compromettere la felicità di mia figlia, il lato più impavido di me bramava nuovi momenti come quelli vissuti, pieni fino in fondo di felicità e serenità, per l’eternità.

Un futuro per me, Edward, Kate, il piccolo che doveva ancora venire e ognuno che sarebbe venuto.

Kate ci osservava, stretta fra me e Edward, silenziosa. I suoi occhi erano grandi e liquidi. La pelle chiara per il freddo faceva risaltare il contrasto con le labbra carnose, rosse e umide. Era così bella. Somigliava così tanto a Edward, se non fosse stato per il taglio degli occhi e i capelli…

Edward scivolò fuori dall’auto. Prese Kate da sotto le braccia, stringendole il cappotto al corpo in modo che non sentisse freddo. Mi trascinai fuori, barcollando, e raddrizzandomi sui piedi aiutata dal supporto della mano di mio marito.

Il vento soffiò, al limitare fra i nostri e i loro territori. In lontananza, fra gli alberi, il crepuscolo ci accompagnava. Rabbrividii, ma non per il freddo. Troppo questi alti alberi mi ricordavano scenari terribilmente familiari.

Il giorno in cui incontrai Edward, mai avrei previsto che la mia vita prendesse questa inaspettata piega. Eppure, non potevo fare a meno di pensare che mi avrebbe regalato tanto male quanto puro e sincero amore. E l’amore è sempre qualcosa per cui vale la pena soffrire e lottare.

Sapevo che dovevo fare questo. Sapevo che non era giusto tenere Sam, Jared e Paul imprigionati. Sapevo che non avremmo potuto vivere tutta la vita come profughi, rischiando per noi e i nostri figli.

Speravo solo ci fosse un’altra soluzione.

Mossi i miei passi, stretta a Edward e a Kate. Una fila schierata di licantropi, di cui solo tre si dimenavano, rabbiosi. Una fila di vampiri.

Ogni passo risuonava nella mia mente. Ogni passo  ero più incerta e insicura di quello precedente. Ogni passo, la presa sul corpo di mia figlia, fra le braccia di mio marito, si rafforzava.

Guardava attentamente, con un espressione neutra, i licantropi davanti a noi.

Un rantolo mi sfuggì di bocca. La piccola si voltò verso di me, scrutandomi.

«Vieni qui» mormorai, tendendo le braccia. Katie si sporse verso di me, e Edward la trattenne abbastanza per riservarmi un’occhiata. «Ho bisogno di averla con me» mimai con le labbra, sollevandola dalle sue braccia per stringermela la petto.

Mio marito rafforzò la presa sulle mie spalle, guidandomi, ancora, avanti. Il lupi ringhiavano, così vicini a noi, trattenuti dalla forza degli altri lupi.

Il vento soffiò.

Feci un passo, incerta. Al seguente mi bloccai, tremante, facendo voltare Edward nella mia direzione.

«Bella-» protestò debolmente.

Sentii tirarmi una ciocca di capelli, e allentai la presa sul corpo di mia figlia. Mi posò una mano sul petto, guardandomi negli occhi, confusa. «Mamma, erché hai paura?».

La fissai negli occhi, scrutandola. I suoi splendevano d’affetto e amore.

«Katie vi uole bene» disse, facendo stringere il mio cuore nel petto.

Le sorrisi, stringendomela al seno, senza parole e senza fiato. Edward la sollevò dalle mie braccia, baciandole la fronte e tirandomi con lei.

Feci ancora un passo, e la bambina strinse i pugni sul giaccone di Edward e il mio, chiudendo forte gli occhi.

Pochi istanti più tardi, ad uno ad uno, i licantropi smisero di dimenarsi. Per ultimo Sam, si lasciò andare sul terreno, innocuo.

E mentre il suono del vento e del battito del mio cuore riempiva le mie orecchie, mia figlia aprì gli occhi, sorridendomi serena.

Era, davvero, tutto finito.

 

«Andrà tutto bene, vero?» chiesi. E alla stessa domanda, il tremolio che solo poche ore fa l’aveva distorta era scomparso.

Edward fece passare le braccia da dietro la mia schiena, avvolgendomi in un abbraccio. Posò il mento sulla mia spalla, dondolando piano avanti e indietro. «É già andato tutto bene».

Sentivo, vicino all’orecchio, l’odore dolce del suo respiro fresco. Le sue labbra, ci avrei giurato, piegate in un sorriso.

Mi accarezzò il grembo, con lenti movimenti circolari. «Non vedo l’ora di conoscerlo».

Le mie labbra si piegarono in una smorfia. «Io un po’ meno, permettimelo» scherzai debolmente, sollevando un braccio per accarezzargli i capelli. «Spero che sia un piccolo Edward in miniatura, proprio come te. Però… può aspettare ancora un paio di giorni» mormorai ironicamente.

«Ma guarda» sussurrò, indicando il lettino con le sbarre in legno.

Dentro, nostra figlia, in uno dei suoi sonni più beati. Me e Edward, lì, intrecciati nei suoi lineamenti. Gli occhi socchiusi, le palpebre tremolanti. Le labbra, piccole, carnose, bagnate, aperte e dischiuse ad ogni respiro che le gonfiava il piccolo petto. Il suo profumo, profumo di buono, di pulito, profumo di bambino. Il sorriso e l’aria beata del suo volto. Ed era là, la creatura più dolce e pacifica del mio universo.

Avvicinò le labbra fino a sfiorare l’orecchio. «Non ne vuoi un altro così?» chiese, suadente.

Sospirai, completamente destabilizzata da quella vista. «Mi hai convinto così ad avere Mark, non è vero?» chiesi, torcendomi per guardarlo in viso. «Ricordamelo quando non dormirò la notte. Quando dovrò allattarlo, quando riempirà le tutine di vomito e bave, quando strillerà ad ogni ora e ci subisserà di domande, richiedendo tutta la nostra forza e le nostre attenzioni. Oh, ricordamelo soprattutto mentre sto partorendo».

Ridacchiò, con tono mite, a pochi centimetri del mio volto.

Sospirai, voltandomi ancora verso Kate. «Sta bene, vero?». Mi liberai dalla presa di mio marito, chinandomi su di lei. Le accarezzai la guancia.

La sua mano raggiunse la mia, vezzeggiando la pelle color crema.

Mi voltai a guardarlo. «Benissimo».

Annuì, sistemandole le coperte e accarezzandole i capelli. «Ci vuole bene…» sussurrai, un misto di agitazione e affetto.

Restai lì, ad osservarla nel sonno, lasciando che l’idea di serenità che emanava penetrasse pian piano dentro di me. Mi dovevo abituare a quella nuova idea di pace, di armonia, cancellare per sempre le tracce di quello che era stato.

La mia mente era come la sabbia bagnata in riva al mare, gli ultimi flutti stavano cancellando, onda dopo onda, ogni traccia di quello che era passato.

«Edward?» sussurrai, smettendo di accarezzare nostra figlia per posarle una mano sulla guancia.

Si voltò a guardarmi.

Sollevai lo sguardo per incontrare il suo. Le mie labbra si piegarono in un sorriso.

«Andrà tutto bene».

 

 

Rimando ogni cosa all’epilogo, fra pochi giorni.

Per ora, GRAZIE.

Scusate la fretta.

 

La mia nuova storia, Diamante.

diamante

 

 

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Capitolo 75
*** Epilogo ***


Il vento soffiò nella vasta radura, sui miei lineamenti incorruttibili e perfetti, sulla mia pelle fredda e fra i miei capelli setosi

copertina


Il vento soffiò nella vasta radura, sui miei lineamenti incorruttibili e perfetti, sulla mia pelle fredda e fra i miei capelli setosi. Il cielo, minaccioso, mostrò un lampo di luce fra le nuvole plumbee.

«Corri, Kate! Corri!» la incitò suo padre, bello e sorridente come non mai, vestito impeccabilmente di una costosissima divisa da baseball.

Mia figlia aumentò il veloce e aggraziato ritmo delle sue gambe, che ora, grazie alla mia nuova natura, potevo cogliere perfettamente.

Ma Mark era già sbucato dalla foresta, con un perfetto sorriso di dentini e la palla in mano. «Yeah!» esclamò Emmett contento «dammi il cinque ragazzo!». Mio figlio rise, orgoglioso, ricevendo un occhiolino da parte di Edward.

Katie non era dello stesso umore. Corse verso il padre, con un broncio stampato in viso. «Papà» mugugnò, tendendo le braccia verso di lui.

La sollevò velocemente, sfiorandole il naso con un dito. «Non ti preoccupare mon petite champion, ci rifaremo al prossimo inning».

Mia figlia Kate non amava gli sport, ma adorava suo padre e le sue coccole, e soprattutto era estremamente intelligente. Così non si era lasciata sfuggire l’occasione di stare con lui e fra le sue braccia.

Mark invece era un tornado. Adorava la sua sorellina più grande, muoversi e giocare. Venne fin da me per avere il bacio della vittoria, che con un saluto caloroso gli concessi, baciandolo sulla guancia sporca.

Sospirai, osservandolo allontanarsi per il campo con un senso di deja-vù. Dopotutto, in un certo senso, la mia avventura era cominciata proprio lì, su quel campo e fra quegli alberi. Era lì che avevo fatto il mio primo vero passo nel mondo dei vampiri, mettendo concretamente in gioco la mia vita.

La prima delle mille volte.

Ma non rimpiangevo niente pensando agli ultimi sei anni passati con i miei figli, né tutti quelli che erano venuti prima.

Dopo Kate Mark, dopo Mark…

«Mammiii!» «Ammii!» chiamarono insieme le mie gemelline, vestite di candidi e graziosi abitini bianchi, sedute in compagnia delle zie sulla tovaglia scozzese del pic-nick.

Anne e Juliet erano le nostre piccole principessine. E apprendendo la notizia delle gravidanza gemellare avevo guardando sconvolta Edward, accusandolo di avermi in infilato qualcosa nel caffè; finché Carlisle non mi aveva spiegato che le bambine erano identiche, nate da un’unica placenta, una situazione puramente casuale e rarissima. Omozigoti, così aveva detto Carlisle, mentre ancora non mi ero del tutto ripresa dalla notizia.

Allargare la famiglia da quattro a sei, con dei bambini così piccoli, era stato tutto il contrario di quello che si potrebbe definire “una passeggiata”.

«A-elli! A-elli!». «Uadda ammi!» mi chiamarono, mostrando i nastrini che con tanto entusiasmo Alice e Rosalie le avevano infilato nei capelli.

Non solo tre gravidanze e relativi parti non erano stati facili da gestire, la presenza di quattro bambini in casa era terrorizzante. E malgrado andassero spessamente d’accordo e si divertissero insieme, capitava che avessero umori o esigenze diverse, o che litigassero fra di loro.

Se non fosse stato per tutti i vampiri, per i Cullen e per Edward, che non avevano quasi nulla da fare e un’infinità di tempo a disposizione, probabilmente non sarei riuscita a sopravvivere agli ultimi anni, pensai scherzosamente.

In ogni caso, avevo voluto comunque dare tutta me stessa ai miei figli, dedicando a ciascuno tutto il tempo che avevo a disposizione, abbandonando gli studi e ogni svago.

La notizia che mi aveva sconvolta era stata quella della quarta, estenuante, gravidanza. E malgrado inizialmente si fosse prospettata molto più tranquilla delle precedenti - niente nausee e ormoni impazziti - causa l’eccessivo sforzo esercitato sul mio corpo era finita in maniera preoccupante e tragica.

Distacco della placenta. Emorragia. Diminuzione del battito fetale.

Quando pensavo di essere morta, di non poter più rivedere i miei figli e mio marito e mai il piccolo nato, il veleno, l’essenza di vampiro di mio marito, era entrato in circolo nelle mie vene, salvandomi e trasformandomi in quella che ero diventata.

Una vampira.

«Prendila, Kate!» esclamò Esme, dopo che Emmett ebbe colpito la palla con la mazza. Mia figlia si lanciò di corsa fra gli alberi.

Edward era felicissimo dei bambini, e la mia trasformazione aveva interferito con quello che mi rendevo conto essere un suo reale progetto: avere quanti più figli possibile. Aveva un sorriso perennemente stampato in volto, un viso diametralmente opposto a quello che vagheggiava sui suoi lineamenti nei periodi più cupi della sua esistenza. Adorava i suoi figli e adorava me, come io amavo lui e loro.

Alice si sollevò, mettendo giù Juliet e guardando fra gli alberi, dove poco prima era scomparsa mia figlia. «Kate!» gridò, indicando quel punto.

Volsi il capo in quella direzione, osservando ciò che avvenne poco dopo.

Philip e sua figlia Kate passarono fra gli alberi, con mia figlia fra le braccia, entrambi immortali. «Zia Katherine!» la salutò mia figlia, baciandole una guancia.

Poco dopo aver sistemato ogni cosa con i licantropi Kate si era fatta avanti e finalmente ricongiunta a suo padre, appagando il suo cuore. Così aveva deciso di trasformarlo in vampiro, mentre viaggiavano come profughi lontano da Aro, protetti dal loro anello magico.

Mi aveva aiutata psicologicamente, permettendomi fin dai miei primi giorni di vampira di entrare in contatto con gli umani e i miei figli. Era un uomo nuovo, forte e rinvigorito. Ed ero certa che ad essere guarito non fosse il suo corpo, ma la sua anima.

«Volevamo salutarvi prima che andaste via» disse pacatamente, rivolgendomi un’occhiata.

Da troppo tempo nessuno di noi non mutava aspetto, e questo, alla radura, era l’ultimo nostro giorno a Forks. L’ultimo mio giorno da umana, o quasi. L’ultimo giorno prima di separarmi da mio padre e dalla mia vita passata.

Li salutai cordialmente, con tutta la disposizione d’animo che sentivo di avere.

 

Un fulmine e un lampo squarciarono il cielo.

La nostra vita era meravigliosa. Mille volte i miei figli mi avevano fatta entusiasmare e commuovere, con piccoli gesti che con occhi luccicanti o un sorriso innocente diventavano la gioia della mia vita.

E la dura lotta che avevo fatto e facevo ogni giorno per conquistare la mia felicità non era che un puntino buio in un mare di luce.

E mentre i bambini salutavano Katherine e Philip, Edward mi venne incontro, un beato sorriso sulle labbra. «Ehi» mormorò, sedendosi con grazia acconto a me e circondandomi le spalle con un braccio. Mi guardò con serietà, con i suoi occhi limpidi. «Ti amo, lo sai?».

«A cosa devo questo scoppio d’affetto?» sussurrai, fingendo di non essere colpita dalle sue parole.

Scrollò le spalle e mi sorrise con sincerità e senza ombra di imbarazzo, posando la testa sulla mia e contemplando insieme a me i nostri figli, beandosi dei loro gridolini estasiati, dei loro sorrisi e dei loro bronci.

Strinsi fra le braccia il piccolo fagottino caldo, avvolto in una coperta. La mia più piccola bambina vi giaceva, vagendo timidamente. Due occhi grandi, le guanciotte morbide, e un piccolo naso all’insù.

La sollevai, per darle modo di guardare la mia, la sua, la nostra famiglia. Ridacchiò, contenta. Mi avvicinai con la mia alla sua morbidissima guancia, per la gioia di scatenarle un altro versetto. «Ti piace, Camille?» domandai emozionata. «É tutto tuo».

Con la coda dell’occhio vidi il sorriso sul volto di Edward allargarsi, e mentre una mano si posava sul capo di nostra figlia, le sue dita incontrarono le mie, la stessa temperatura, la stessa morbidezza, intrecciandosi sul terreno.

«Ti amo».

 

Fine.

 

 

 

Piccole risposte: Kate non ha ucciso i licantropi; mi piace SMODATAMENTE far fare figli a Bella e Edward; (Ely_11, per il programma ti mando una mail).

 

Comunicazioni di servizio: gli extra di questa storia verranno pubblicati non su EFP ma sul mio blog, semplicemente per il fatto che non ritengo facciano parte della storia.

Compatibilmente con quello che ho in mente vi invito a chiedermi qualsiasi cosa, in varietà di POV, tempi e situazioni.

 

Comunicazioni per il futuro: Ho postato una nuova storia, Diamante, di cui segue l’introduzione e la copertina.


Quando, all'inizio del XIX secolo, neo-classicismo e pre-romanticismo si incontrarono...
"Un viaggio per cercare un marito,
un naufragio per trovare l'amore"

...lo fecero anche una dama e un gentiluomo, mettendo in discussione quelle che sembravano certezze, per condividere la magia dell'Amore.

 

 diamante

 

 

E così, così, si conclude questa storia.

Devo dire talmente tante cose che cominciare mi sembra difficile.

 

Questa storia è stata un sogno, partorita da un sogno, e frutto della mia più fervida immaginazione. Mi sono divertita a idealizzare e estremizzare la felicità, anche attraverso il dolore magari, di una coppia non reale, forse realistica.

Mi pare evidente che per quanto abbia provato a descrivere i personaggi esattamente com’erano nella mente dell’autrice della saga, una parte di me non ha potuto fare a meno di andare a fare parte di loro.

 

Prima di tutto, scrivere questa storia è stata una gioia. Non c’è mai stato un capitolo che non mi andasse di scrivere, o una pagina che non volesse saperne di venire formulata. In alti e bassi, scrivere è sempre stato un piacere.

75 capitoli e un anno e mezzo mi hanno accompagnata non solo nella scrittura, ma anche nella mia vita, nella mia testa, e nei miei fantasiosi dormiveglia.

 

Sono cresciuta, sono cresciuta tanto con e per mezzo di questa storia, e malgrado mi renda conto che a volte avrei potuto fare di più o prendere un’altra scelta narrativa, non rimpiango nulla di quello che ho scritto. Ogni parola, ogni decisione, anche “sbagliata” è Cullen’s Love, e mi ha resa quella che sono.

 

Veniamo all’importante. Siete stati voi, proprio voi, a rendere Cullen’s Love la storia che è stata. A dare questa meravigliosa risposta, a scegliere di leggere la mia storia, a spronarmi e esaltarmi così tanto, facendola entrare ancor di più nel mio cuore.

Ci sono state volte in cui ho pianto, commossa, emozionata, per le vostre recensioni.

Avete scherzato, avete analizzato criticamente, vi siete emozionati, mi avete ricoperta (e vi ringrazio) di mille, infiniti, bellissimi complimenti.

Grazie. A chi mi segue dall’inizio di questa avventura, non perdendosi neppure un capitolo o un aggiornamento.

Grazie. A chi mi ha confortata nei periodi peggiori, tirandomi su.

Grazie. A chi insistentemente e incessantemente mi chiedeva di aggiornare.

Grazie, anche ha chi mi ha fatto notare i miei errori. Senza di voi, non sarei mai potuta crescere.

Grazie. Grazie. Grazie.

(Perdonatemi se non faccio nomi, ci sono mille di voi che dovrei baciare da capo a piedi).

 

Oggi, 28 Settembre, è un giorno importante.

Oggi si conclude la mia storia. Oggi, come un anno fa’, la mia vita cambiava.

Grazie, a chi saprà leggere il mio amore fra le righe di questo epilogo.

 

 

 

 

 

 

Twitter--> @Keska92.

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

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