Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
«Ciao,
Charlie!». Ero rimasta così scombussolata dagli
ultimi eventi, che vedere mio padre mi dava un indicibile sollievo,
di
solito… Volevo passare il maggior tempo
possibile con lui e anche se la
presenza di Edward era ormai decisamente insostituibile, quella
l’avrei avuta
per l’eternità, mentre mio padre,
ahimé, l’avrei dovuto lasciare a breve.
La proposta di Edward,
l’inaspettata reazione positiva
(almeno migliore delle previsioni) dei miei genitori,
l’improvvisa “schiavitù” a
cui Alice piaceva sottopormi, erano eventi di una tale portata che mi
avevano
condotta alle soglie di uno stress non indifferente. Fortunatamente la
felicità
che provavo quasi ogni pomeriggio in compagnia di Edward poteva ben
compensare,
ricordandomi, di giorno in giorno, quanto ne valesse la pena. Tutto
sarebbe
andato perfettamente, se un filo scucito non stonasse sul ricamo che
avevo
tanto gelosamente confezionato.
«Bella» si
limitò a dire per salutarmi. Il suo saluto
risultò strano, spento, diverso da quelli che abitualmente,
anche dopo essere
venuto a conoscenza del mio progetto di matrimonio, mi rivolgeva.
«Tutto bene
papà?» chiesi, intenta a tagliare le
carote per la sua cena.
«Bells, siediti un
attimo». Eh, no. Non mi piaceva,
quel tono di voce non mi piaceva affatto. Seguii perplessa le sue
parole,
sedendomi di fronte a lui, sulla sedia che mi aveva indicato. Aveva
un’espressione vacua e addolorata. La mia mente rincorreva
velocemente la
possibile causa del problema.
«Cos’è
successo papà?» chiesi, cercando di restare
calma, e nascondere il vile tremolio nella voce.
«Jacob»
esordì, e quel nome fu una pugnalata al cuore
«diciamo che non ha gradito molto l’invito»
fece eloquentemente, come se
dovessi essere a conoscenza di quello cui stesse parlando.
Lo fissai interrogativa, esprimendo
in un’occhiata
tutta la mia confusione. Di certo, non mi sarebbe mai saltato in mente
di
invitarlo alle mie nozze. Non dopo come ci eravamo lasciati, non dopo
tutta la
sofferenza che avevo causato a lui e a Edward. Non che non volessi
ancora
averlo vicino a me, come amico. Ma appunto, non
potevo volere che fosse
nulla più che quello, quando il mio cuore aveva avuto la
certezza di non dover
neppure scegliere quello che aveva sempre saputo e che solo alcune
circostanze
e una mente confusa avevano fatto sembrare in dubbio.
Emisi un breve fiato quando
approdai ad una soluzione,
l’unica possibile: Edward.
«Co-cosa ha
fatto?» sussurrai in preda al terrore. Non
avrei mai smesso, credevo, per tutta la vita, di sentirmi in colpa per
quelle
azioni sconsiderate. Quanto dolore ancora dovevo causare? E il pensiero
che Edward
l’avesse fatto per me, che avesse mandato
quell’invito per rendermi felice e
darmi un sorriso, mi faceva sentire ancora più pentita e
egoista.
Mio padre dondolò da un
lato all’altro della sedia,
accarezzandosi i baffi. Aveva da sempre mostrato una propensione verso
il mio
amico della natura di lupo. «Si è infuriato, a
cominciato a urlare, diceva
brutte cose» fece una pausa voleva, sospirando
«voleva… oh non l’ho mai sentito
parlare così…» borbottò
affranto e crucciato.
Oh Jacob. Un
impetuoso moto di tristezza mi scosse da dentro, stordendomi. Speravo
di aver
per sempre detto addio a questi momenti, speravo che fosse per sempre
finita
quella vita in cui continuavo a causare dolore negli altri, ora che
davvero
un’era della mia vita si stava concludendo. Sentii
le lacrime lottare contro i
miei occhi per riuscire a venire fuori.
Le bloccai. No, quell’era
doveva veramente
concludersi, finalmente. No, per amor di Edward, non avrei pianto. No.
Mi alzai come un automa, facendo
grattare la sedia sul
pavimento nel silenzio della stanza, e andai al tagliere a finire il
mio
lavoro. Avevo svuotato la mia mente, per evitare che qualsiasi pensiero
mi
tormentasse ancora, e che ancora, ancora, la mia mante mi conducesse a
compiere
i gesti più sbagliati.
«Bells, ma,
cosa…?» biascicò Charlie, a dir poco
sorpreso dal mio comportamento.
Continuai impassibile il mio
lavoro. La lama del
coltello scivolava veloce. Tac, tac,
tac.
«Bells…
Ascolta, forse dovresti chiamarlo, non so…
Bella. Voltati quando ti parlo».
Ancora tagli, ancora silenzio.
«Bells…».
Tac, tac,
tac.
«Bella!»
esclamò esasperato, animandosi. «Non fai
niente, non dici niente? Vuoi lasciarlo soffrire? Vuoi causargli altro
dolore?».
La lama si bloccò,
lasciandomi un taglio fra il
pollice e l’indice. Mi voltai lentamente verso mio padre,
tenendomi la mano
sanguinante. Era diventato paonazzo.
«Papà, io amo
Edward. Sto per sposarmi con Edward. Edward,
non Jacob. Edward. Cosa credi che debba fare
esattamente?» dissi senza
particolari inflessioni nella voce, i miei occhi spenti che lo
fissavano senza
guardarlo.
Non rispose, si limitò a
chiudere la bocca che era
rimasta spalancata dopo l’urlo.
Cercando di fermare la piccola
perdita di sangue, più
per amor di Edward che per amor mio, andai in bagno. Mi sciacquai la
ferita
sotto l’acqua fredda e mi misi un cerotto.
Quella sera andai a letto senza
cena, chiusa nel
silenzio della stanza, lo stomaco ormai troppo chiuso nella nausea per
poter
anche solo pensare di mangiare. Charlie, qualunque cosa volesse fare,
sarebbe
sopravvissuto anche senza la mia insalata. Era un buon padre, lo
sapevo. Si
sforzava di esserlo almeno, dopo non esserlo stato per tanto tempo. E
voleva
che sua figlia facesse le scelte migliori, scelte di cui non doversi
pentire.
Di questa, non mi sarei pentita.
Di quelle passate, lo avevo
già fatto.
La stanza silenziosa faceva
viaggiare la mia mente
contro scenari passati, che si stagliavano sul muro come le ombre
prodotte dai
rami. Eppure, pensavo, mi sentivo segretamente ferita dalla razione di
Jacob.
Forse perché una parte di me aveva sperato che potesse
essere davvero
semplicemente quel buon amico che non era stato e che, in quelle
condizioni,
non poteva essere.
Ma dovevo lasciarlo andare.
Sì, lasciarlo andare per
sempre. Era quella la mia scelta, l’avevo fatta, ne avevo
sofferto. Ma tutto
era concluso, ormai, quando il mio amore risplendeva solo per
un’anima: Edward.
Sussultai, sentendo un suono
smorzato di dubbia
provenienza. Mi guardai velocemente attorno, in cerca della fonte. In
altre
circostanze avrei pensato immediatamente a Edward, ma ogni cosa mi
faceva
pensare che fosse ancora impegnato con la caccia. Ne seguì
un altro, e questa
volta mi volsi istintivamente in direzione della finestra, dove, con
mio sommo
sgomento, troneggiava la figura seminuda di Jacob.
Sul volto aveva
un’espressione truce, furiosa, che gli
sfigurava i lineamenti giovani trapassandolo da parte in parte.
Tremai, inconsapevolmente.
«Jacob…» sussurrai appena. Non
avevo intenzione di trovarmi in quella situazione. Non volevo in nessun
modo
riaprire una ferita chiusa e suturata da tempo, né causarne
altre sul corpo del
mio amico.
Le sue labbra tremarono, e con i
pugni lungo i fianchi
avanzò di un passo nella mia direzione. «Bella,
ora tu verrai con me, che tu lo
voglia o meno» mi intimò con voce cavernosa.
Sospirai, scuotendo debolmente il
capo. E mi chiesi,
stoicamente, quale diavolo potesse averlo condotto sul limbo
dell’inferno a cui
i suoi occhi si affacciavano. «No. Jacob, non puoi. Non
farlo» supplicai,
determinata in ogni modo a fermare quell’empietà.
«Non ti
lascerò morire, Bells, basta. Non ti lascerò a
lui. Perché…» inspirò
profondamente «Non puoi buttare via la tua vita in questo
modo, quando la tua mente è così offuscata. Non
hai fatto la scelta giusta, non
hai fatto la scelta migliore. E ti amo troppo per vederla buttare via
così. E
ci ho provato» mormorò con tormento «Ci
ho provato, a lasciarti andare. Ma è
impossibile, perché sento, dentro di me, che devi essere
mia. Ora, vuoi venire
con me?» tuonò cupo, la voce che a stento
nascondeva quella di un ragazzino
innamorato. Mi porse una sua gigantesca mano.
Mi ritrassi d’istinto,
retrocedendo, guardando con i
miei occhi il danno che avevo causato. Un danno che ormai mi appariva
indelebile. Ma un danno che io avevo causato,
spinta, stordita,
ammaliata, da lui. Lo sapeva, per chi batteva il
mio cuore. Lo sapeva,
di chi era sempre stato. Ma la sua ossessione non si era placata alla
luce di
quella ragione.
Inspirai, presi fiato, calmai il
mio corpo. Ero
risoluta. «No, Jacob, non posso. Il mio posto è
qui, il mio posto è accanto a
lui. Accanto a Edward» affermai, con la mia voce
più autoritaria.
Un lampo di puro dolore
passò nei suoi occhi, ben
presto coperto dalla follia. «Tu non capisci! Non capisci!
Non si tratta più di
scegliere, ciò che io ho scelto per te, ciò che
io sono sicuro sia meglio per
te. Vieni. Devi venire».
Sospirai ancora, scuotendo
debolmente il capo.
Ringhiò, sollevando i
pugni al cielo, disperato. «Allora
ti prenderò con la forza». Fece un passo verso di
me.
Automaticamente ne feci uno
anch’io all’indietro,
verso il muro. E in quel momento cominciai a tremare di paura,
perché qualcosa,
qualcosa di strano e alieno di era insinuato nei suoi occhi: follia.
«Lui verrà a
salvarmi, lo sai» tentai debolmente di
minacciarlo.
Si lasciò scappare un
risata fragorosa. «Ah, sì e come
lo saprà? La sua sorellina succhiasangue non può
vedermi, ricordi?» esclamò
beffardo, facendo cadere in una pozza fangosa le mie deboli
intimidazioni.
Perché, se anche Alice si fosse accorta del buco nero fra le
sue visioni,
sarebbe stato così difficile tornare in tempo dalla caccia!
Spaventata e spaurita, tentai di
cambiare la mia
tattica, mentre le parole mi uscivano confuse e poco chiare,
intrappolate nella
mia mente allarmata. «Jacob, ti prego…
tu… sei mio amico. Possiamo rimanere
amici, dovevamo rimanere amici. Tu mi ami, dici. Non lo so se
è vero, ma se mi
vuoi bene non puoi farmi questo».
S’infiammò,
rabbioso. «E tu Bells? Eh? Tu vuoi bene a
me? Però mi fai del male… Come vedi non funziona
così. E come puoi» sputò con
disgusto, un’espressione di ribrezzo sul viso
«Minimizzare così i miei
sentimenti, calpestandoli ancora? Chiamare “voler
bene” quello che provo per
te?! Io ti amo. E anche tu»
dichiarò tombalmente, avanzando di un altro
passo verso di me.
Lo spazio nella stanza si stava
riducendo, causando un
accelerare del palpitare del mio cuore e del sudore, veloce, che
correva in
goccioline sulle mie membra. Sentivo il pericolo vicino a me. Il mio
amico, una
persona a cui avevo voluto e volevo, ancora, bene. Sapevo, pensavo, che
non mi
avrebbe mai fatto del male. Ma portarmi via? Tremai. La sola idea di
essere
strappata alle braccia di Edward mi faceva star male. Ero coraggiosa,
in fondo.
L’avevo sempre fronteggiato. Ma qualcosa, qualcosa che
insinuava la paura nel
mio corpo, mi suggeriva che questa volta non potevo alzare la voce, o
gridare.
Non potevo semplicemente oppormi e affermare la mia volontà.
Non in quel
momento, almeno, in cui sembrava che niente di simile
l’avrebbe fatto
ragionare.
«Jacob…
stai… stai facendo qualcosa che è contro la
legge, è un sequestro di persona!» urlai,
stridula, sperando che Charlie mi
sentisse e che accorresse in qualche modo in mio aiuto.
«Charlie è
uscito», ribatté intuendo le mie
intenzioni.
Un pensiero agghiacciante
m’immobilizzò. Aveva
pianificato tutto, oppure erano d’accordo?
Un ghigno amaro pervase il suo
volto. «Oh, Bells, non
temere. Sarei disposto a fare ben di peggio, per affermare il mio
amore. No,
no. Non sarà la legge a fermarmi».
M’irrigidii, sgomenta e
terrorizzata, sentendo le sue
parole vibrare dentro di me.
Si aprì in un sorriso
sardonico. «Oh, sì. Dopo che ti
avrò portata via, ucciderò il tuo succhiasangue.
Non voglio tormentarti, non
voglio che tu pensi solo di poter esserti sbagliata. Così
non dovrai più
scegliere, visto che non avrai più alternative».
«Non stai dicendo sul
serio. Jacob… Jake…» esalai
senza fiato, stentando a riconoscere la persona che mi stava dinanzi.
«Non stai
dicendo sul serio» mormorai attonita.
Scosse il capo, rabbioso, desolato,
devastato. Stava
soffrendo atrocemente.
«Jake…»
annaspai in pena.
«Zitta!»
urlò, avanzando di un passo e afferrandomi
saldamente e facilmente per le esili spalle.
«Jacob!»
gridai, provando a divincolarmi dalla sua
presa. «Smettila, smettila ti prego! Lasciami andare! Tu sai
che non lo voglio,
ti prego! Non puoi decidere per me!».
Ansimò, addolorato, a
pochi centimetri dal mio viso.
Era distrutto, distrutto dai suoi sentimenti e dal suo amore,
alimentato da un
animo giovane e dalla forza di un licantropo.
«Ascolta» ansimò, fissandomi con
serietà. Una serietà folle. «Ascolta,
ti do un ultima possibilità. Cambia idea,
vieni con me e non lo ucciderò. Io posso darti
ciò che lui non potrà mai farti
avere».
Annaspai, addolorata.
«Jacob, ti prego. Abbiamo già
passato tutto questo. Ne abbiamo già discusso. Conosco il
mio cuore, so quello
che voglio. E so che non potrei mai rinunciare a lui. Io lo
amo»
farfugliai, mentre sentivo lacrime amare di dolore e rabbia scendermi
silenziose lungo il viso.
Sollevò una mano a
mezz’aria, fermando le parole che
lo stavano torturando nel profondo.
«Aspetta»
ansimò, follemente determinato, nel
disperato tentativo di tenermi ancora a sé.
«Aspetta. Forse c’è qualcosa a cui
non puoi rinunciare e che lui non ti può dare. Condividila
con me, e decidi.
Decidi, e questa volta, finalmente, potrai fare la scelta
più giusta» disse, la
voce carica di persuasione.
«C-cosa?»
singhiozzai, smarrita e confusa,
completamente disarmata.
La sua espressione si
cristallizzò, divenendo se
possibile ancora più seria. «Fai l’amore
con me».
Il respiro mi si bloccò
in gola. «Cosa…?» sussurrai,
senza fiato, completamente spiazzata dalla sua richiesta inaspettata.
«Come
puoi anche solo pensare che…io…? Lui»
biascicai, balbettando confusa «lui me lo
può dare…».
Sorrise, quasi teneramente se il
suo sorriso non fosse
stato intriso s’amarezza. Sorrise, come se fosse ovvio che
qualcosa mi stesse
sfuggendo. «Lui non può darti questa esperienza umana.
Io sì» rivelò
pedante.
Gonfiai i polmoni, fremente di
rabbia, rivoltandomi
come un’anguilla fra le sue mani. «Primo»
ansimai, l’ira che permeava le mie
parole «questi non sono affari tuoi. E sì, Jacob,
sì. Lui può farmi fare questa
esperienza da umana!» sbottai,
strattonandolo ancora.
Il suo volto fu trapassato dallo
sgomento. Ma non
rimase immobile a lungo, quando seguirono in rapida successione la
cieca
frustrazione e l’ira.
«Cosa?!»
urlò sgomento. «Ti vuoi suicidare Bells? Sei
pazza?» sbraitò, stringendomi più forte
e causandomi un gemito di dolore. «Se
prima avevo dubbi, ora non ce ne sono più. Non te lo
lascerò fare. Tu, ora, verrai
con me!».
«No!» gridai di
rimando, facendomi piccola fra le sue
mani e chiudendo gli occhi per la paura.
Sentii scuotermi da violenti
tremori. Si stava
trasformando. Mi strattonò verso la finestra.
E mentre la paura cieca e il
terrore esplosero verso
di me, feci l’unica cosa che mi venne in mente. «Ti
odio!!!» urlai, con quanto
fiato avevo in corpo.
In meno di un secondo mi sentii
scaraventare e mi
ritrovai con la schiena schiacciata contro il muro. Scivolai a terra,
boccheggiante. Un dolore immenso imperversava lungo la mia spina
dorsale
impedendomi il respiro.
La figura di Jacob, ritornato
celermente alla sua
forma umana, si avvicinò rapidamente a me. Era spaventato,
addolorato. Neppure
un’ombra d’ira sul suo volto.
«Bella…» mormorò, sorpreso
dal suo stesso gesto,
«Bella…
scusa…perdonami…» mi
supplicò angustiato.
Ansimai, faticando a riprendere
fiato. Mi sentivo
tramortita, e un formicolio doloroso si propagava lungo tutto il dorso.
«Non mi
toccare. Vattene» sibilai con la voce rotta dal dolore.
Mi accarezzò
freneticamente il volto con le mani
grandi e calde. Tremavano ancora. «Bella… Mi
dispiace».
Provai a scostare il viso, non
senza sentire nuove
fitte attraversarmi il corpo. «Edward non mi avrebbe mai
fatto del male»
scandii, decisa, in ogni caso, a mandarlo via.
S’irrigidì
sotto il peso delle mie parole. Il suo volto
era una maschera fissa di dolore. Ero arrabbiata, infuriata. Ed ero
addolorata,
profondamente, perché avevo infine compreso che
l’amicizia che volevo non
sarebbe mai potuta sopravvivere fra di noi. Mi aveva fatto del male.
«Va’
via» ripetei, gemendo.
Si sollevò, lentamente,
e prese ancora fiato,
strizzando gli occhi. Poi si volse e scappò via attraverso
la finestra, in un
balzo.
Ansimai. Il dolore si era spostato,
vibrante, in tutta
la schiena, schiacciandomi con la sua forza pulsante. Faticavo a tenere
il
respiro regolare, come se qualcosa me lo impedisse.
Eppure, nel dolore, un pensiero
scorreva lucido e
chiaro nella mia mente: Edward non doveva sapere. Non volevo neppure
immaginare
quale sarebbe stata la sua reazione, ma qualunque fosse sapevo che
prevedeva
uno scontro con Jacob. E questo non doveva avvenire, pensai con paura.
E non
doveva avvenire, perché, nonostante tutto, volevo che gli
ultimi minuti fossero
cancellati per sempre dalla mia memoria. Edward non doveva soffrire
ancora.
Alice mi avrebbe vista a breve. Non
potevo rimanere
lì, piegata contro il muro. Tremai. Mi pareva, speravo, che
il dolore iniziasse
a scemare. Cercai di muovere un braccio. Una serie di scosse mi
attraversò la
schiena e mi fece lanciare un grido di dolore, soffocato in un gemito.
Respirai,
provando a calmarmi, e stoicamente mossi anche l’altro,
puntando un palmo a
terra, stringendo i denti per soffocare un gemito. Mi misi carponi,
dolorante,
sentendo le lacrime scorrere lungo il viso, strisciando a terra per
raggiungere
il letto.
Mi sentivo ferita intimamente,
pensandomi lì, nella
stanza, abbandonata a me stessa. E pensando con dolore a quanto fossi
causa del
mio stesso male. Singhiozzai, lasciandomi scivolare sotto le coperte.
Respirai
piano, e provai a calmarmi, nella testa l’immagine del viso
di Edward. Spazzai
via le lacrime con i palmi delle mani, scacciando qualunque prova di
quella
notte.
Allungai una mano nel cassettino
del comodino,
misurando i movimenti per contenere il dolore. Afferrai
l’oggetto della mia ricerca:
il flaconcino di antidolorifici. Me l’aveva lasciato Edward,
quel flaconcino,
il giorno di un’altra disastrosa mia avventura. Ingoiai due
compresse, e chiusi
gli occhi, sperando che così la mia memoria e i miei
pensieri si potessero
cancellare.
Il giorno dopo sarebbe tutto
passato, provai a
confortarmi, tentando di ignorare l’acuto bruciore che mi
pervadeva le membra e
il respiro irregolare che mi usciva dalle labbra. Dopotutto, ero
abituata a
farmi male.
Quella sera, per la prima volta da
quando lo conoscevo,
sperai che Edward non venisse. Non avrei mai voluto capisse
ciò che era
successo. Quella era l’ultima parola, la parola fine del
capitolo della mia
vita intitolato Jacob.
I miei sogni furono agitati e
confusi. Vidi strani
boschi, luoghi che sentivo familiari ma che in realtà
dovevano essere di
fantasia: scorci senza tempo dei boschi di Forks. Comparve Edward, di
spalle
rispetto a me. Stava puntando qualcuno, ma non riuscivo a capire chi
fosse. Mi
mossi, più volte, per spostarmi, ma non riuscivo a muovermi.
Capii tutto solo
quando un grosso lupo rossiccio gli si scaraventò addosso,
comparendo in un
lampo nella mia visuale.
Mi svegliai.
Immediatamente la mia mente ci
affaccendò per farmi
comprende quanto di tutto quello fosse realtà o quanto solo
sogno. Ma le
sensazioni vivide sulla pelle e il calore della realtà mi
suggerivano di aver
appena sognato. Allora, anche il litigio con Jacob era stato tutto
frutto della
mia immaginazione?
Sbattei le palpebre, giusto il
tempo di intravedere un
bagliore ramato sparso sul cuscino. Edward. Il mio adone, dio greco
personale,
mi osserva sereno dall’alto della sua bellezza.
«Ben
svegliata…» sussurrò con la sua morbida
voce di
velluto.
Sorrisi e feci per muovermi. Mossa
sbagliata. Sentivo
come se la schiena fosse appena stata percossa da una serie di legnate.
Fu
inevitabile la smorfia sul mio viso che cercai, comunque, di reprimere
in
fretta, spaventata. Non doveva essere stato tutto
un sogno.
Edward mi osservò
incredulo, non intuendo,
fortunatamente, la natura della mia espressione. «Hai ancora
sonno? Hai dormito
11 ore» borbottò. Poi mi sorrise dolcemente,
sistemandomi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Dovrei pensare che stai
diventando una dormigliona?» mi
canzonò.
Mugolai, troppo inebetita per
rispondere e troppo
preoccupata per farlo. Mi avvicinai al suo petto strofinandomici un
po’ su e
sentendo il suo odore invadermi le narici. La causa del mio lungo sonno
dovevano essere gli antidolorifici. Provavo un misto senso di paura al
pensiero
di fargli sapere di quello che era successo. Speravo che tenerglielo
nascosto
non si rivelasse un’impresa troppo ardua. Lo speravo,
perché in nessun modo
volevo ripetere nel mio animo le orrende sensazioni che erano passate
solo
poche ore prima. Rabbrividii. «Mi-mi sei mancato».
Mi sollevò il mento. Mi
sporsi per farmi baciare.
Baciarlo appena sveglia contribuiva, e non poco, a farmi creare strani
universi
paralleli misti di realtà e sogno. E la mia mente viaggiava,
veloce, da uno
all’altro. Il fiato si fece subito veloce, e per qualche
istante ebbi
difficoltà a continuare a respirare. Lo staccai velocemente
da me, spaventata.
«Che
c’è?» mi chiese confuso.
Dovevo controllare, al
più presto, l’entità del danno.
E sperare davvero che fosse possibile tenerne Edward
all’oscuro.
«Ehi»
mormorò, rompendo il mio silenzio. «Anche tu mi
sei mancata, sai. Se vuoi non me ne vado
più…». Aveva un’ espressione
colpevole
dipinta sul volto. «Alice mi ha detto,
ecco…» iniziò, per poi fermarsi quando
lesse il panico nei miei occhi. Sospirò, scuotendo il capo.
«Non preoccuparti,
anzi mi dispiace per aver mandato il biglietto d’invito.
Cosa… Che cosa vi
siete detti? Volevo lasciarvi parlare un po’ da soli. Le
è preso il panico
quando ha avuto un buco nella visione. Ma… Beh, diciamo che
ho preferito
bloccarla» sussurrò con triste entusiasmo.
Mi morsi un labbro, strofinandomi
contro il suo petto.
«Allora? Cosa vi siete
detti?» mi chiese, baciandomi
la fronte. Mi mise una mano dietro la schiena e mi tirò un
po’ più a sé.
M’irrigidii, colpita da
un acuto bruciore fulminante,
non riuscendo in alcun modo a soffocare un gemito.
Si bloccò di rimando.
«Bella, ti sei fatta male?».
Ansimai, cercando rapidamente di
riprendermi dal
dolore, che scemando, aveva lasciato dietro di sé solo un
pulsante indolenzimento.
«P-perché?» farfugliai, conscia che
mentire sarebbe stato molto più difficile
del previsto.
Mi scrutò perplesso, con
un senso d’ovvietà dipinto in
viso. Mi portò la mano con cui avevo afferrato la sua di
fronte alla faccia. Era
quella col cerotto.
Lasciai andare il fiato in un
impercettibile sospiro,
solo in minima parte rassicurata.
«Stai bene? Ti vedo un
po’ agitata stamattina…»
alitò
a pochi centimetri dalla mia faccia.
Annuii velocemente, arrossendo e
sbiancando - in uno
strano misto - in rapida successione. Mi allontanai velocemente,
concedendomi
una nuova lucidità di pensiero. Se dovevo mentire, mentire a
un vampiro attento
e premuroso, dovevo farlo bene. E in quel momento sarei fallita
miseramente
nella mia impresa.
Lo fissai di sottecchi.
«V-vado un attimo in bagno, ne
parliamo dopo va bene?» riuscii a dire. Avevo bisogno di
tempo, di schiarirmi
le idee e decidere cosa e come dirglielo.
Si mise a sedere sul letto, in
tutta la sua armonia e
grazia. «Certo, vai, ti aspetto qui».
Incerta mi tirai a sedere, e non
appena mi assicurai
di riuscire a rimanere ritta in piedi - non senza un notevole sforzo e
dolore -
agguantai il mio beauty-case e corsi a rifugiarmi in bagno, dove
pregavo di
avere un momento per compiere l’impossibile e dove,
fiduciosa, speravo di non
dover andare incontro al peggio.
Osservai la mia immagine riflessa
nello specchio,
trovandoci un volto spento e pallido che mi fissava in trepida
apprensione. Sentivo
la gola stretta dall’ansia. Volevo ignorare quel dolore sordo
e pulsante alla
schiena, che però continuava a farsi presente, perturbando
la mia mente.
Presi un respiro, e mi
sembrò di non riuscire a
respirare fino in fondo.
Non farti prendere dal panico,
Bella. É tutto apposto.
Agitai le braccia, provando a
quantificare l’entità
del danno. Ci riuscivo facilmente. Leggermente risollevata tentai di
muovere le
gambe. Lievi fitte di dolore mi attraversarono il dorso e il petto, ma
riuscii
nella mia impresa.
Sospirai, e una fitta mi
attraversò il petto. Strinsi
gli occhi, portandomi una mano alla bocca e concentrandomi per
mantenere un
respiro regolare. Potevo farcela, pensai.
Mi osservai ancora, tristemente.
Non potevo dirgli la
verità. Per nessun motivo gli averi rivelato il vero motivo
della visita di
Jacob. Volevo… mi portai le mani fra i capelli…
volevo che fosse come se non
fosse mai successo. Non potevo permettermi altri errori, non ancora.
Non potevo
permettermi di farlo soffrire, ancora. Avrei stoicamente sopportato il
dolore
per un paio di settimane, evitando accuratamente di farmi scoprire. Questo
si meritava Edward.
Questo, e la bugia che stavo per
raccontargli.
E’ venuto per dirmi addio. Peccato che l’avesse
già fatto, diverse settimane
addietro, determinando la finale rottura del nostro rapporto.
E’ venuto per dirmi che
mi dà il suo benestare. Avrebbe certamente funzionato, se
non fosse stato che
sforzarmi di dimostrare la felicità che in quel caso avrei
dovuto avere sarebbe
stato impossibile.
Mi morsi un labbro, angosciata.
Avevo bisogno di
dirgli qualcosa neutro, né triste, né felice. E
che fosse credibile. E’
venuto per vedermi e basta, aveva nostalgia di me. Annuii a
me stessa, poco
soddisfatta della mia persona, ma convinta della necessità
di mentirgli. Per il
suo bene. Sperai solo di essere veramente capace di farlo.
Presi un debole fiato, non senza un
certo sforzo, e
portai una mano tremante all’orlo della maglietta. Pavida.
Chiusi gli occhi e
la sollevai lentamente. Non è niente Bella, non
è niente, mi ripetei
affannosamente. Vedrai, è una sciocchezza.
Ma quando aprii gli occhi ad
attendermi c’era uno
spettacolo mostruoso. Sulle costole si espandevano due grosse macchie
viola,
così scure, in due punti, che si avvicinavano al nero.
Tremando violentemente
mi volsi appena per scorgere uno spettacolo simile lungo la schiena.
Annaspai,
tenendomi con entrambe le mani al lavandino, la testa che mi girava.
Avevo paura. Temevo per me stessa e
temevo per Edward,
per paura di non poterglielo tenere nascosto. Il respiro si fece subito
affannoso. E se fosse stato davvero così grave come
sembrava? Gli occhi si
inumidirono immediatamente. Avrei forse dovuto raccontargli tutto?
Sentii un suono, come un fruscio
dietro la porta.
Mi portai immediatamente una mano
alle labbra,
sgranando gli occhi. No. Non potevo, e non dovevo, dirgli la
verità. Non volevo
continuare a sentire la preoccupazione nella voce, leggere la paura
negli
occhi. E sapere di essere stata io, solo io, a causargliela.
Un pensiero mi
agghiacciò: Alice.
Sperai che mi stesse riservando la
mia privacy.
Mi risollevai in fretta, schivando
con un’occhiata il
mio riflesso mostruoso. Mi affrettai a ricoprirmi, concentrata su ogni
gesto. Una
canottiera, viola. Non occasionalmente scelta. Una maglietta a maniche
lunghe
per nascondere il livido che Jacob mi aveva lasciato sul polso,
strattonandomi.
Osservai ancora una volta la mia
immagine. Era estate,
e io ero un po’ troppo coperta per il periodo. Fremetti,
sperando che lo
spirito di osservazione di Edward fosse davvero molto, molto basso,
quella
mattina.
Mi aspettava, con un sereno e
disteso sorriso
celestiale, seduto sulla sedia a dondolo. La vista del suo volto sereno
non
fece altro che persuadermi, sempre più, a non dirgli una
sola sillaba di
verità.
Fui quasi presa
dall’impulso di corrergli fra le
braccia, salvo fermarmi, memore del fatto che non sarebbe stata affatto
una
buona idea. Mi avvicinai lentamente, misurando il fiato e ogni passo,
finché
non mi accoccolai, con cautela, fra le sue braccia. Il posto in cui
avrei
passato ogni istante.
Scostò una ciocca di
capelli che mi era ricaduta sulla
fronte e la portò dietro l’orecchio. Osservandomi,
alzò un sopracciglio,
perplesso. «Perché ti sei vestita così?
Io non me ne intendo, ma fa piuttosto
caldo…».
Arrossii, incapace di controllare
le mie reazioni, e
il ritmo del respiro aumentò impercettibilmente. Controlla
le tue reazioni,
ti prego! Scrollai le spalle, ostentando
un’indifferenza che non avevo.
«Avevo freddo» mentii, sperando di risultare
convincente.
Continuò a fissarmi per
un istante, poi annuì, facendo
rilassare contemporaneamente tutti i muscoli del mio corpo.
«Vuoi» cominciò,
con tono vago «parlarmi dell’incontro di
ieri?».
Sentii il cuore accelerare i
battiti e veloce mi tesi
per poggiare le mie labbra sulle sue, in un gesto che doveva apparire
tenero,
atto a rassicurare Edward circa la natura delle mie pulsazioni veloci.
Rimase
per un attimo interdetto prima di rispondere, dolcemente, al mio bacio.
Dopo pochi istanti si
separò da me, fissandomi negli
occhi. Mi accarezzò il viso, lasciandomi riprendere fiato.
Fiato che sempre più
e sempre più velocemente sfuggiva al mio controllo.
«Allora?» chiese ancora,
gli occhi corrosi dal bruciante desiderio di sapere. E come potevo
biasimarlo?
Sospirai, ignorando ogni genere di
dolore. Come un
bambino che si prepara per la sua prima battuta alla recita scolastica,
così
feci io. «E’ venuto per vedermi e basta, aveva
nostalgia di me». Peccato che,
sin da bambina, durante le recite scolastiche ero sempre relegata al
ruolo
della pianta. Ferma e zitta sul palco. Abbassai gli occhi, incapace di
sostenere
i suoi.
Temporeggiò un istante
prima di parlare. «Tutto bene?»
mi chiese, apprensivo. Alzai il viso, per leggere la preoccupazione nel
suo
sguardo. Pensava stessi male per Jacob… Oh,
Edward. Non sai quanto ti
sbagli, questa volta. Non sai quanto.
Mi lasciai trasportare nel suo
abbraccio. «Si… va
tutto bene Edward» sussurrai contro il suo petto, chiudendo
gli occhi e
pregando. Che fosse per sempre tutto finito così.
«Bella?» mi
chiamò perplesso Edward, leggermente
preoccupato.
«Cosa?»
ansimai, scattando seduta ritta sulle sue
ginocchia.
Mi osservò in silenzio,
concentrato. «Hai la tosse?».
Sollevai le sopracciglia.
«La tosse?».
«Sì, la tosse.
Hai appena tossito. E hai un respiro
strano, corto. Ti sei raffreddata?» chiese, muovendo le mani
per posarle sulla
gola, in corrispondenza dei linfonodi.
Sgranai gli occhi, sollevandomi
velocemente e
allontanandomi di un passo, defilandomi dalla sua presa. «Ma
no, Edward. Non ho
niente. Mi si sarà bloccato un attimo il fiato,
davvero».
Corrugò le sopracciglia,
osservandomi. «Forse sarebbe
meglio farti visitare da Carlisle…».
Gemetti a bassa voce. «E
dai, Edward. Non essere
paranoico» tentai di persuaderlo, «ti ho detto che
non ho niente» ribadii, la
paura che dilagava dentro di me, «fidati, per
favore» dissi, con un tono che
sembrava una supplica. Non osavo immaginare la sua reazione alla vista
dei
grossi lividi che portavo sul torace.
Sospirò, irrigidendo la
mascella e annuendo
seccamente. «Come vuoi. Ma, ti prego…».
«Sì»
lo zittii, posandogli una mano sulle labbra, e
sentendomi intanto morire dentro. «Te lo
dirò».
Scendemmo giù in cucina,
alla ricerca di qualcosa con
cui potessi fare colazione. Prima che potessi muovermi, mi aveva
bloccato il
passaggio.
«Vuoi fare qualcosa,
oggi?» mi chiese dolcemente,
traendomi a sé.
Strofinai la guancia sul suo petto,
scuotendo il capo.
«Solo» feci, sollevando il capo per guardarlo negli
occhi, «almeno oggi, ferma
tua sorella. Non…» sospirai afflitta
«oggi avevamo un’altra prova del vestito,
ma proprio io…» mormorai tremante, rabbrividendo.
Non poteva vedermi. Non
poteva vedere quello che era del mio corpo.
Mi accarezzò una
guancia. «Certo» disse subito,
infilando una mano fra i miei capelli, «te l’ho
detto, Bella. Non devi fare per
forza come ti dice. Secondo me ti stai sacrificando anche troppo. A
volte penso
che tu non sia abbastanza felice, che tu non pensi affatto a te
stessa» i suoi
occhi si velarono di tristezza e ansia.
Posai entrambi i palmi sul suo
petto. «Edward. Questo
non è affatto un sacrificio. Non mi importa niente di
ciò che tua sorella vuole
fare, di quello che vuole organizzare. Io ho te. Anche se fossi la
persona più
sfortunata al mondo,-».
«Non lo
escludo» fece, sarcastico.
«-sarei comunque felice
perché ho te» continuai,
ignorando le sue parole.
Sospirò, sfiorando il
naso contro il mio. «Te l’ho già
detto che ti amo?» mi sussurrò ad un orecchio.
«Si, ma ogni volta che lo
dici è ben accetto» dissi
con un filo di voce. Specialmente ora, pensai, che ho bisogno di una
forza che
non sono sicura di possedere.
«Ti amo»
alitò, lasciando che le mie guance
s’imporporassero
di rosso. Rimasi ancor più istupidita e confusa, quando si
aprì in un sorriso.
«Respira».
E in quel momento suonò
il telefono. Driin, driin.
Mi staccai da lui, allontanandomi
di un passo per riprendere
fiato. Mi voltai velocemente, sollevando la cornetta.
«Oh Bella! Non puoi farmi
questo, accidenti! Voi due, non
avete idea dello sforzo che sto impiegando in tutto questo! Come potete
farmi
una cosa del genere, boicottarmi in questo modo, avete solo la minima e
recondita idea di quanto io ci stia mettendo…».
Alice.
Lanciai un’occhiata
implorante a Edward, ritto accanto
a me.
«Non provare a farti
aiutare da Edward!» mi minacciò
dall’altro capo del telefono.
«Passamela»
disse lui sorridendomi. Scossi il capo
assente sentendo la voce irata di Alice. La lasciai inveire e sfogare,
ma,
visto che le sue visioni sul progetto del pomeriggio non mutavano,
capì bene
che non avevo intenzione di cambiare idea. Ero irremovibile.
Sospirò, e la sua voce
cambiò di tono, diventando
dolce e persuasiva. «Almeno vai da Esme a assaggiare le
torte. Così, per
colazione… Non ti chiedo un grande sforzo, ma il minimo
dell’impegno. E su,
Bella».
Non feci in tempo a prendere un
respiro che la sua
voce tornò a squillare nella cornetta, esultante. Dopo pochi
secondi, un
beep continuo. Sospirai, riagganciando la cornetta, notando
disorientata
che non ero riuscita neppure ad aprire bocca dorante tutta la
conversazione.
Osservai Edward, fermo ad
osservarmi lui stesso.
Intrecciò le sue dita
alle mie, perplesso e
dispiaciuto. «Non sei obbligata».
Sorrisi appena. «Non
credo che Alice sia d’accordo con
te» dichiarai sarcastica, «e comunque, credo che
sopravvivrò ben bene ad una
colazione con le torte di Esme!» esclamai, tentando di
mostrare il mio
entusiasmo. Nonostante un lieve senso di spossatezza e fiacchezza mi
stesse
scuotendo, restare ferma e seduta a mangiare mi sembrava una perfetta
attività,
in quel momento, per il mio corpo dolorante.
Edward si morse un labbro, come se
stesse trattenendo
una risata. «Non credo dirai la stessa cosa una volta
arrivata a casa» mormorò
sottovoce.
A casa Cullen trovai il salotto
completamente
ricoperto di torte a tre piani, le più piccole. Ce
n’erano di così tanti tipi e
colori che sembrava di stare in una pasticceria. Una pasticceria
immensa. Mi
ero preparata a qualcosa di simile, abituata alle manie di esagerazione
dei
Cullen. Esme poteva aver passato ore intere, notte compresa, a
prepararle
tutte.
L’odore delizioso ebbe un
duplice effetto: stimolò il
mio appetito, e m’inebriò, facendomi sentire un
senso di vertigine. Respirai -
un po’ difficoltosamente, mi resi conto, e non senza sentire
un’ennesima fitta.
«Non sei obbligata a
entrare in sala da pranzo» si
scusò Edward, fraintendendo la natura della mia smorfia.
«Sorellina!»
tuonò la voce possente di Emmett. In un
attimo si era materializzato ai piedi delle scale. «Lo devo a
te se ogni oncia
della mia casa puzza terribilmente?!» mi accusò,
sciabolando le sopracciglia.
«Scusa
Emmett…» feci affranta, provando a immaginare
che tortura dovesse essere per loro quell’odore che a me
appariva sublime.
Lui rise. Io arrossii.
Esme entrò in salotto,
prendendomi una mano e
sorridendomi. «Bella, tesoro. Spero che tu non abbia fatto
colazione
stamattina» sussurrò, con quello che mi pareva un
tono di scusa. «Alice mi ha
detto dell’assaggio. Da quale vuoi cominciare?».
Le sorrisi di rimando,
accomodandomi sulla sedia che
mi aveva indicato, mentre Edward rimaneva accanto a me, una mano sulla
mia
spalla. Il mio corpo trovò subito un poco di sollievo.
«Quella che preferisci».
«Va bene, cominciamo da
questa». Prese una torta
ricoperta da melassa gialla che stava poggiata su un tavolino accanto
al
divano. Ne mise una fetta su un piattino, offrendomela. Era al limone,
ma aveva
un giusto equilibrio fra vaniglia e delicatezza del pan di spagna.
Esme mi fissava, in trepidante
attesa.
«Oh Esme, è
deliziosa!» esclamai esaltata; ma, quando
feci per prenderne un’altra forchettata, mi
bloccò, sottraendomi il piattino
dalle mani.
«Oh Bella, no. Non
così. Devi assaggiarle
tutte,se le mangi non
riuscirai mai a finire».
Tutte? «Ma-»
non feci in tempo a formulare una frase o esprimere il mio disappunto
che già
l’aveva rimpiazzato con un’altra torta, alle mele.
Sospirai, arrendendomi e
prendendone un morso. «Mmm squisita».
«Ti piace?» mi
chiese, contenta.
Annuii, masticando un altro
po’ di torta che ero
riuscita a prendere con la forchetta prima che mi togliesse anche
questa
piattino dalle mani.
Mi fissò intensamente,
piazzandosi dinanzi a me. «Ora,
ti piace più questa o quella di prima?».
Inorridii, non riuscendo a
nascondere la smorfia che
comparve sul mio viso. Ecco dov’era la fregatura. Mi guardai,
sconsolata, attorno,
conscia del mio destino.
Quando incontrai il viso di Edward
mi rivolse un’occhiata
contrita. Sollevai gli occhi al cielo. Avrebbe potuto avvisarmi
tempestivamente.
La mattinata fu impegnata solo da
quello. Assaggiare
torte. Quello che avevo creduto una svago e un motivo per passare il
tempo
ignorando i miei problemi, ignorando ogni dolore, si stava rivelando
una lenta
tortura. E, quando all’ennesima torta mi rifiutai di mangiare
ancora,
personalmente Alice venne ad imboccarmi, scatenando una lite con Edward.
Sconfitta e preoccupata mi arresi
ancora, non incline
in nessun modo a perturbare l’equilibrio della casa.
«Mangia!»
ordinò, infilandomi direttamente una
forchettata in bocca con un gesto fulmineo. Emmett se ne stava seduto
sulle
scale e rideva a crepapelle.
«Anlicie!»
borbottai con la bocca piena.
«Mi dispiace,
tesoro» si scusò Esme con tono contrito.
Mi lasciai andare contro lo
schienale della sedia.
«Esme! Se mangio ancorna nom mi entferà
più i vesfito!».
«Alice…»
ringhiò Edward dietro di me.
Strinse i pugni lungo i fianchi,
sollevandosi sulle
punte dei piedi per fronteggiarlo. «No, Edward! La devi
smettere di fare il
bastian contrario, come se la stessi torturando, come se le stessi
facendo del
male! Non puoi sempre mettermi i bastoni fra le ruote! Ti ricordo che
sto
preparando il vostro matrimonio».
«Nessuno te
l’ha chiesto» la fronteggiò lui di
rimando.
Alice ringhiò forte.
Mi presi la testa fra le mani,
posando i gomiti sul
tavolo. La sentivo fluttuare, leggera, e il respiro mi risultava
pesante e
forzato.
«Ragazzi, adesso
basta» li interruppe Esme, con un tono
che non ammetteva repliche, «Alice, apprezziamo il tuo
sforzo. E anche Edward e
Bella, saranno entusiasti della cerimonia, malgrado tuo fratello non te
lo
dimostri spesso. Ma, non esagerare. Basta ora. Su», la
rimbrottò, facendola
scomparire, imbronciata, al piano di sopra. «Bella, tesoro,
ti prendo qualcosa
da bere» aggiunse poi con voce soffice, volendo via verso la
cucina.
Edward posò entrambe le
mani sulle mie spalle,
continuando a tenere lo sguardo puntato in direzione delle scale, verso
dove
era scomparsa la sorella. «Vuoi uscire un
po’?» mi chiese asciutto.
«E dai,
Edward!» protestò Emmett, affrettandosi a
venire al mio fianco, «lasciami un po’ con questo
curioso animaletto! La vuoi
monopolizzare?».
Un altro ringhio si levò
dal petto di Edward. «Forse
non vi è chiaro, a tutti quanti. Ma quello che la deve
sposare sono io, qui»
sbottò acido.
Sospirai, stanca. Il respiro mi si
bloccò in gola e
automaticamente tossii, portandomi entrambe le meni alla bocca. Delle
fitte
continue mi scossero il petto. Rabbrividii impercettibilmente,
chiudendo gli
occhi.
«Bella?» fece
Edward, chinandosi al mio fianco.
Presi velocemente fiato, stordita,
sollevando il viso.
«Sto bene!» sbottai, tentando di controllare il
lieve affanno.
I suoi occhi mi fissarono
lungamente, apprensivi.
Alzai i miei al cielo, ostentando una sicurezza che non mi sentivo di
giustificare o possedere, in quel momento. «Non essere
paranoico» lo ripresi,
ansiosa e acida, mordendomi il labbro. L’agitazione che
sentivo per me stessa
si stava trasformando rapidamente in nervosismo, mentre prendevo atto
delle mie
condizioni, che di secondo in secondo mi parevano peggiorare.
«Ma-».
«Oh, Dio, sì!
Mi sento male! Sto per morire!» esclamai
sarcastica, stendendomi tragicamente lungo il tavolo e completando la
mia
pantomima.
«Bella?!»
esclamò, un reale accenno di paura nella
voce.
Non volevo, assolutamente,
immaginare la sua reazione
se davvero fosse venuto a conoscenza della realtà.
«Edward!» esclamai con tono
isterico.
Emmett se la rideva di gusto. Anche
Esme, che nel
frattempo era entrata nella stanza, sghignazzava, cercando di contenere
una
risata vera e propria.
«Stavo
scherzando» dissi, mostrandogli
l’ovvietà della
cosa.
«Oh»
mormorò, imbronciato. Si tirò in piedi, in un
movimento fluido. «Ti sembrano scherzi da farsi,
questi?» fece, con quella che,
non potevo nasconderlo, ma pareva una voce offesa.
Sbuffai, passandomi una mano sulla
fronte. «Guarda che
non l’hai capito solo tu» dissi, indicando con un
eloquente cenno del capo Esme
e Emmett. «Ti prego. Non essere così…
così» feci, con un gesto esasperato.
«Se è
così, allora» si chinò sulle ginocchia,
osservandomi. Sulle sue labbra era comparso un ghigno sfacciatamente
burlesco.
Prima che me ne potessi rendere
conto, mi caricò sulle
spalle, sfrecciando via su per le scale.
Edward mi lasciò cadere sul letto della sua
camera
Capitolo riveduto e
corretto.
Edward mi lasciò cadere
sul letto della sua camera. Non
riuscii a reprimere lo strillo che l’impatto del materasso
contro la schiena mi
aveva causato. Chiusi gli occhi, intrappolando immediatamente le
lacrime.
Edward, euforico per la corsa e
divertito, rise,
pensando che stessi scherzando. Si avvicinò a me,
sovrastandomi senza pesarmi
addosso, il fiato che galleggiava vicino al mio viso.
«Allora» mormorò
languidamente, prendendomi i polsi e stendendomi la braccia sulla
testa,
imprigionandomi nella sua morsa.
Riaprii gli occhi e deglutii,
ignorando il dolore. Stare
stesa sul letto lo leniva, in un certo modo, lasciandolo bruciare
lento. Il suo
viso era di fronte al mio, il suo respiro fruttato vicino, e le ciocche
ramate
ricadevano nella mia direzione, scomposte. Mi dimenai piano, - non un
vero
tentativo di sfuggirgli - e la sua presa si fece appena più
forte.
Sorrise, birichino. «Non
credi che un uomo abbia il
diritto di difendere la propria vita?» soffiò sul
mio volto.
Protestai debolmente con un
mugolio, il respiro appena
più pesante. «Sì…»
ansimai, istupidita dal suo volto e da quella vicinanza.
«Lo biasimeresti? Lo
considereresti paranoico se lo
facesse?» chiese, mentre si abbassava sensualmente a baciarmi
il collo, piano,
e il suo corpo scendeva a sfiorare il mio - petto contro petto.
Scossi velocemente il capo, non
provando neppure a
sottrarmi. «No» sussurrai stravolta. Fui sorpresa
dal tono basso e roco della
mia voce. Sentivo già la testa leggera, confusa. Il mio
corpo e la mia mente
erano deboli, e lui ci aveva messo davvero poco a farli vacillare e
cadere.
Con le labbra scese a baciarmi il
petto, lì dove la
mia maglietta con scollo a V lo permetteva. «Allora come fai
a non
comprendermi, se te l’ho detto mille volte che tu
sei la mia vita» disse,
battendo piano le ciglia e guardandomi negli occhi, con la voce
più melodiosa
che gli avessi mai sentito usare.
Salendo con il naso lungo il
profilo del mio collo
arrivò alle labbra e mi baciò. Ero totalmente
alla sua mercè. Non chiusi gli
occhi come facevo di solito; li lasciai aperti a godere la vista del
suo volto.
Era… completamente preso dal bacio. Non potevo descriverlo.
Sembrava che stesse
leccando panna, mentre mi assaporava dolcemente. Ma, come accadeva
sempre, s’irrigidì
e fece per allontanarsi.
Senza pensarci, pazza, folle e
completamente persa,
afferrai con una mano la sua camicia e avvicinai ancora le sua labbra
alle mie.
Sgranò gli occhi,
sorpreso, ma subito dopo rispose
appassionatamente al bacio. «Allora, non sei più
arrabbiata?» ansimò a due
centimetri dalla bocca, divertito.
La mia mente confusa era troppo
debole, in quel
momento. Mi stava facendo letteralmente impazzire.
«No» dichiarai decisa,
puntando ancora alle sue labbra.
Rise della mia sfacciataggine,
proprio lì, dove le
nostre bocche si congiungevano. Poi le sue sopracciglia si
aggrottarono, come
se qualcosa l’avesse infastidito. Si allontanò un
po’ e sbuffò. Sembrava
irritato.
«Che
c’è?» chiesi, accarezzandogli una
guancia.
«Alice vuole che ti
chieda se hai intenzione di andare
con lei e Rosalie a scegliere i merletti per non so
cosa…» iniziò scocciato,
per poi far apparire un’espressione irritata «no
Alice non intendo essere più
convincente. E non provare ad entrare in camera se ci tieni ancora agli
addobbi!»
la minacciò innervosito.
Sorrisi per quel litigio a
distanza. «No Alice, mi
dispiace. Non se ne parla nemmeno» feci risoluta.
Edward rise di gusto. Si
chinò a sfiorarmi il naso con
il suo. «Si è arrabbiata. Temo che fra poco dovrai
affrontare un’Alice con il
broncio, e un Emmett molto arrabbiato» ridacchiò,
gli occhi vispi che
luccicavano «l’hanno obbligato ad andare con
loro».
Leccai le labbra, umettandole, e
puntando con gli
occhi in una sola direzione: le sue. «Mmm, magari
dopo…». Così dicendo mi
avvinghiai a lui avventandomi sulle sue labbra. Sulle prime rimase
interdetto,
poi si sciolse e mi restituì il bacio. Avevo i battiti a
mille.
Aprì le labbra,
respirando il mio profumo a pieni
polmoni. Ero totalmente persa nel bacio, la mente chiusa in una spirale
velocissima.
Accadde tutto velocemente. Prima
ancora che me ne
accorgessi, mi ritrovai senza quasi più ossigeno, i respiri
troppo corti e
veloci per poter compensare.
Appena se ne accorse e si
staccò immediatamente da me.
Mi sorrise «Respira, Bella» fece divertito,
pensando che fosse il solito
affanno, quella strana tendenza che avevo di dimenticarmi anche delle
cose più
basilari in sua presenza.
Ma non potevo, perché il
ritmo del respiro, affannoso
e veloce, era diventato incontrollabile. Tremai, spaventata, e tentai
di
prendere un respiro più profondo.
Si accigliò, fissandomi
perplesso.
Preoccupata e intontita mi sforzai
di calmare ancora
il fiato, che assurdamente sembrava sfuggire dal mio controllo, veloce,
breve.
Edward si sollevò,
rabbuiandosi. «Avanti Bella, non
scherzare» disse, una voce estremamente seria, che solo in
sottofondo
nascondeva un ben distinguibile tremolio.
Ma l’ennesimo tentativo
di prendere un respiro più
profondo del precedente fallì miseramente. Portai una mano
alla testa,
terrorizzata, sentendola girare forte. Cosa mi stava succedendo? Cosa
averi
dovuto fare? Edward… Edward era lì…
«Oh Bella,
smettila!» esclamò, una rabbia
inconsistente che nascondeva una ben più profonda
preoccupazione. Si alzò in
piedi a si allontanò, in un istante, lontano da me.
Ansimai, portandomi
un’altra mano al petto. E non
pensai più tanto alle cose che non volevo fare, che non
volevo dire. Perché la
situazione era sfuggita al mio controllo e la mia mente scarseggiava di
ossigeno. Dovevo dirglielo. «No… non
sto… scherzando» farfugliai. Una lacrima
mi rigò il volto.
In un attimo mi fu accanto.
«Bella!» mi chiamò,
prendendomi il volto fra le mani fredde e fissandomi in viso, ansioso.
«Bella,
cos’hai?».
Scossi il capo, singhiozzando,
respirando ancora meno
agevolmente. «Non respiro» ansimai, stringendo
entrambe le mani alla sua
camicia, terrorizzata.
«Shh, shh»
sussurrò, cullandomi freneticamente, avanti
e indietro. «Esme!» gridò, nonostante
non ce ne fosse di certo alcun bisogno.
«Chiama Carlisle, digli di venire. Subito!».
«Edward…»
ansimai, stringendomi più forte al suo
maglione, preda di un’ansia e una paura vorticanti e
asfissianti.
Mi accarezzò i capelli,
stendendomi sul copriletto.
«Calma, stai calma» fece, ansioso, posando una mano
appena sul diaframma.
«Respira, ti prego» fece, accompagnando il ritmo
che avrei dovuto seguire con
la mano.
Gemetti, dolorante, piagandomi su
me stessa. «No, no»
singhiozzai, tentando disperatamente di prendere un respiro
più profondo.
Sorpreso, mi scostò i
capelli dal volto, frenetico. Mi
prese fra le braccia, traendomi a sé. «Per favore,
Bella. Ti devi calmare,
altrimenti è peggio. Ti prego. Devi sforzarti di rimanere
calma».
Scossi il capo, ansiosa,
preoccupata. Perché lui non
sapeva nulla, nulla di quello che avrebbe dovuto sapere. Ma io
sì. Io lo
sapevo, e se il mio corpo fremeva e tremava, preda
dell’angoscia, non potevo in
alcun modo biasimarlo.
Esme fu in camera, in un attimo.
«Bella, tesoro,
cos’ha?» chiese preoccupata, saettando con lo
sguardo da me a lui.
Edward scosse il capo, fissandomi
risoluto. «Non
respira, non riesce a respirare», fece, provando ancora a
farmi stendere sul
copriletto.
Un dolore atroce si stava
espandendo per le costole,
sul petto. «No» singhiozzai, tenendomi
più forte alle sue braccia, annaspando.
La testa mi girava, impazzita.
«Falla girare su un
fianco» gli suggerì Esme,
accarezzandomi la fronte. «Su, tesoro, vedrai che ora
passa».
«E-d…rd»
ansimai, cercando il suo sguardo attraverso
gli occhi appannati.
«Bella» mi
chiamò risoluto, obbligandomi a stendermi
nonostante le mie deboli proteste «devi calmarti»
fece, prendendomi il viso con
entrambe le mani «devi respirare, piano. Se ti agiti
è solo peggio. Prova a
calmarti e vediamo se passa. Avanti…».
«No, no» mi
lamentai scuotendo il capo e
singhiozzando, ansimando più forte. No, Edward,
no. Non sai davvero quello
che mi sta succedendo.
«Bella!» mi
chiamò a gran voce, «ti prego!»
esclamò,
stringendo più forte le mani sulle mie guance
«prova a calmarti. Respira.
Respira come faccio io, piano. Per favore…»
sussurrò supplichevole, vicino al
mio viso, «per favore».
La prima cosa che riuscii a calmare
furono i
singhiozzi. Esme aiutò Edward a girarmi su un fianco, e lui
mi prese la mano
per rassicurarmi, guardandomi negli occhi. «Così,
vedi che va molto meglio?
Avanti, calmati… Shh…»
mormorò, accarezzandomi una guancia.
Posai la mano libera contro il
piumone, lottando per
tenere le palpebre aperte.
«Brava, così,
stai andando bene» fece, sforzandosi di
regalarmi un sorriso disteso. «Vedrai, andrà tutto
bene. Adesso verrà Carlisle
e… Bella!».
Senza che lo potessi controllare il
respiro aveva
preso ancora ad accelerare. Chiusi gli occhi. Avrei dovuto dirgli la
verità.
L’avrebbe saputa comunque, in ogni caso. E, anche se fosse
stata una cosa da
niente… Bella. Riesci a malapena a respirare.
Repressi un singhiozzo e riaprii
gli occhi,
traboccanti di lacrime. Edward mi fissava, preoccupato e sconvolto, in
preda
alla paura. Era assurdo, ma le circostanze degli eventi avevano deciso
per me.
Non avevo nessuna possibilità di mentirgli.
«Ti
prego…» sussurrò ancora, avvicinandosi
alle mie
labbra e soffiandoci un breve fiato.
Ansimai, sempre più
piano, lasciando un sordo dolore
al petto dove prima c’era stato un movimento irrequieto. Si
arrese a prendermi
fra le braccia, stringendomi al suo corpo. La sua vicinanza, il suo
profumo,
contribuirono non poco a farmi distendere e regolarizzare il respiro.
Dopo
pochi minuti era solo un sibilo lento, poco più affannoso
del normale.
Mi baciò la fronte,
scostandomi i capelli dal viso. Le
guance erano striate di lacrime.
Mi strinsi più forte a
lui, nascondendo il viso sul
suo petto. Scusa, pensavo, scusa.
E intanto lo tenevo stretto a
me, per paura che presto sarebbe andato via, lontano. Presto, non
appena
avrebbe saputo la verità. Allora irrazionalmente stringevo
la presa sul suo
corpo, come se così avessi potuto tenerlo con me e
impedirgli ogni
allontanamento.
«Va tutto bene»
sussurrò, carezzandomi dolcemente i
capelli, soffiando sulla mia testa, «sta passando,
è passato. Vedrai, andrà
tutto bene».
Esme mi accarezzò il
dorso della mano, cercando di
confortarmi.
«Ho paura»
confessai, reprimendo un ennesimo
singhiozzo.
«No, Bella, no.
Shh… non ti devi preoccupare. Ci sono
io qui, vedrai…» mi rassicurò
velocemente, tenendomi più stretta a sé.
Capii quando Carlisle fu arrivato,
perché Edward s’irrigidì
impercettibilmente, cacciando un breve fiato smorzato.
«Bella» mi
chiamò, avvicinandosi rapidamente.
«Cos’è
successo?» chiese, accarezzandomi una guancia.
Edward mi fece scivolare, mio
malgrado, fuori dalle
sue braccia, stendendomi sul letto. Fissava il padre senza parlare, una
maschera di cera sul viso.
Fu Esme a rispondere, dando anche a
me il beneficio di
ascoltare. «Fatica a respirare. Prima era peggio».
Carlisle annuì, un
cipiglio in volto. «Prendi la mia
borsa, per favore» fece, osservandomi in viso.
«Edward?» fece, posando una mano
fredda sulla mia fronte e una sul polso.
«Ha cominciato a stare
meglio quando si è calmata.
Era… quasi in iperventilazione. No, no. Era diverso.
Sicuramente aggravato
dallo stato emotivo, sì». Le sue parole erano
leggere, sussurrate, risposta
diretta ai pensieri del padre.
Mi sorrise, rassicurante.
«Bella?» fece, posando una
mano leggera sul diaframma, misurando il lieve affanno nel mio respiro
«mi dici
cosa senti? Hai avuto altri sintomi?».
Sospirai, mentre la paura si
stringeva nel petto. Ero
così vicina a dover svelare la verità, ma le
parole rimanevano bloccate nella
gola. Strinsi più forte la mano congiunta a Edward,
voltandomi nella sua
direzione. «Mi… non riesco a respirare…
respirare bene» farfugliai, agitata.
Esme tornò in
quell’istante, con la borsa di Carlisle.
«Hai mai sofferto di asma
o allergie?».
Scossi il capo, rannicchiandomi su
me stessa. Mi
girava la testa.
Edward mi accarezzò,
comprendendo il mio smarrimento e
il mio bisogno di averlo accanto. «Ha avuto diversi accessi
di tosse nella
mattinata» fece, sussurrando.
Carlisle lasciò passare
il suo sguardo da Edward a me,
facendosi passare la borsa da Esme. «La visito adesso, e se
è il caso la
portiamo in ospedale».
Ansimai, sbattendo le palpebre.
«Vedrai tesoro,
andrà tutto bene» mi rassicurò Esme,
sistemandosi dietro alla bassa testata del letto per accarezzarmi i
capelli.
Avevo le vertigini. Feci per
sollevare una mano, ma
fallii miseramente nel tentativo. Sentivo la vista sfocare di secondo
in
secondo.
«Edward» fece
Carlisle al figlio, intuendo il mio
stato e facendosi passare un cuscino. Me lo sistemò sotto le
ginocchia,
sollevandomele. «Forza Bella, non mi lasciare»
disse piano, accarezzandomi il
viso. La sua voce era distesa, delicata.
Le palpebre, senza che le
controllassi, si stavano
abbassando. Ero spaventata e agitata.
«Amore»
sussurrò Edward, a pochi millimetri dal mio
orecchio. Si sollevò per fissare il padre. «Che
sta succedendo?» chiese, non
nascondendo più la preoccupazione nella sua voce.
Carlisle scosse il capo.
«Non lo so, ma prima la
visito meglio è».
«Vuoi auscultarle i
polmoni?».
Carlisle annuì,
affaccendandosi nella sua borsa.
Trattenni il fiato, quel poco che
mi era rimasto,
agitata. «Edward…» farfugliai.
L’avevo detto così piano che difficilmente mi
avrebbe sentito se non fosse stato un vampiro.
«Edward…» lo chiamai ancora,
tentando in ogni modo di stringere la presa sulla sua mano.
«Tesoro»
sussurrò, chinandosi su di me per stringermi
delicatamente fra le braccia. «Va tutto bene. Vedrai che
adesso sistemiamo
tutto» disse, parlando piano, misurando le parole con
dolcezza.
Ansimai leggermente, non riuscendo
ad impedire ad una
lacrima di rotolare giù dai miei occhi. Che avrebbe visto la
verità, di lì a
pochi secondi, mi appariva ormai scontato. Mi sentivo così
disperata che non
potei non supplicarlo. «Non mi lasciare, ti prego. Rimani con
me».
Un’espressione sorpresa e
preoccupata attraversò il
suo volto. «No, non ti lascio. Non ti lascio,
Bella» cantilenò, scostandomi le
ciocche scomposte di capelli dal viso. Sollevò lo sguardo su
suo padre, che
aspettava, in attesa che si allontanasse da me per potermi visitare.
Strinsi più forte la
presa sulla sua mano.
«Promettilo».
«Lo prometto»
sussurrò, baciandomi appena le labbra e
allontanandosi.
Edward mi aiutò a
sollevarmi, per sfilare più
facilmente la maglietta. Carlisle ne sollevò delicatamente
l’orlo, fino a
scoprire lo stomaco, e fece per infilare, discretamente, la sonda dello
stetoscopio sotto gli indumenti.
Sentii un respiro smorzato, un
risucchio. «Aspetta»
farfugliò Edward, bloccando i movimenti del padre. Chiusi
gli occhi, e lasciai
scorrere le lacrime sulle guance, silenziose.
Avvicinando discretamente le dita,
sollevò ancora
l’orlo, scoprendo un’altra porzione di pelle.
Questa volta i sussulti furono
tre, finché non decise di sollevare definitivamente la
maglietta, sfilandomela
per la testa. Tutti smisero di respirare quando videro il livido,
lasciando che
un interminabile silenzio si espandesse per la stanza.
Aprii gli occhi, rossi, appannati,
e fissai con
insistenza il copriletto dorato, lasciandomi consumare dalla colpa.
Strinsi i
pugni sul lenzuolo. Il mio respiro accennato si diffondeva nella stanza
e
dentro il mio corpo, arrivandomi distorto e pesante alle
orecchie.
Carlisle fu il primo a rompere
l’assordante silenzio.
Si avvicinò, osservando con attenzione le chiazze violacee
sul petto e sulla
schiena. Sfiorò la mia pelle con le sue mani fredde.
«Esme, puoi andare a preparare
l’auto?» chiese, con calma misurata.
«Come»
ansimò Edward, sconvolto «come te lo sei
fatto?».
Sollevai lo sguardo sul suo,
sentendo le labbra
tremare. «Edward» ansimai.
Lo vedevo fissarmi confuso,
sorpreso, agitato… arrabbiato.
In una parola, tormentato. Scosse il capo, sollevandosi in piedi. Era
incredulo.
Mi protesi nella sua direzione, ma
mi bloccò Carlisle,
che mi accompagnò facilmente sul copriletto, facendomi
stendere su un fianco.
«Perché non me
l’hai detto?» esalò sconvolto.
«Bella…
non mi hai detto niente».
Mi sentivo bruciare di dolore,
dentro, nell’animo.
Avevo tentato con tutta me stessa di evitare che soffrisse, eppure,
ora, con le
mia ennesima scelta sbagliata, leggevo il dolore nei suoi occhi.
«Edward, ti
prego…» lo supplicai, il mio corpo teso
verso di lui. Carlisle passò una mano, leggera, sulla mia
schiena.
Chiuse gli occhi, scuotendo il
capo, incredulo. Poi si
fermò, e ansimò, aprendo gli occhi.
«É stato lui» sbottò, iroso.
«É stato lui,
Bella, è così?».
Deglutii, cacciando un fremito fra
i denti.
Strinse i denti, irrigidendo la
mascella. «Perché
diavolo non mi hai detto niente?» gridò,
arrabbiato, addolorato, «non ti rendi
conto, Bella, non ti rendi conto di quello che ti ha fatto?! Non ti
rendi conto
delle tue condizioni?! Volevi continuare a proteggerlo?».
Scoppiai in un pianto disperato,
sentendo fitte di
dolore scuotermi. Nascosi il volto fra le coperte.
«Edward, non ora. Potete
discuterne dopo con calma per
favore?». Carlisle esercitò una lieve pressione
sulla schiena e non potei fare
a meno di gemere, dolorante.
Edward strinse i pugni lungo i
fianchi, frustrato.
«Guarda che cosa ti ha fatto!» sibilò, i
suoi occhi che si coloravano di nero. «E
guardati, guardati! Per quale insano motivo hai pensato che tacere
sarebbe
stato meglio che dirmi la verità?!»
esclamò, lasciando vibrare la sua voce,
tesa, nell’aria.
Singhiozzai, gemetti, dolorante,
ripiegandomi su me
stessa. La mano di Carlisle tastava, decisa, i punti più
doloranti.
La sua voce divenne bassa, tombale.
«Non mi importa di
niente, Bella. Questa è l’ultima volta. Questa
volta non resterò a guardare».
Singhiozzai, tentando strenuamente
di rimettermi in
piedi, sottraendomi alle mani di Carlisle. «Ti prego, ti
prego» lo implorai,
faticando ad alzarmi. «Mi dispiace…»
singhiozzai, cadendo miseramente al primo
passo.
Istintivamente si
allungò a prendermi prima che avessi
un doloroso impatto col pavimento.
«Ti
prego…» farfugliai, stringendo le braccia al suo
corpo, sentendolo rigido e fermo.
«Edward, ora le servi
qui. Le hai promesso che le
saresti rimasto accanto» gli rammentò Carlisle,
venuto presto accanto a noi.
S’irrigidì,
spiazzato. Il mio respiro era diventato
ancora una volta corto, irregolare. Faticavo a farlo passare dalla gola
ai polmoni,
e viceversa. Sospirò, tirandomi su e sistemandomi sulle
coperte. Strinsi più
forte le braccia al suo collo, tanto che non sarebbe riuscito a
separarmi da
lui senza farmi male. Vedevo delle piccole luci ai bordi del campo
visivo, non
riuscivo quasi più a prendere fiato, impossibilitata anche
dal dolore.
«Calmati»
borbottò, tentando ancora di separare le mie
braccia dal suo corpo. «Calmati, Bella»
ripeté.
Scossi il capo sul suo collo,
ansimando. «Mi…
d-spiac-e» ansai, singhiozzando.
«Calmati, avanti.
Non…» sospirò «non
è necessario
tutto questo. Calmati. Non me ne vado».
Lo strinsi più forte,
schiacciando la mia guancia
contro la sua.
«Te l’ho
promesso, no?» mormorò la sua voce amara.
«Non ti lascio. Ora calmati, e lasciami andare».
Allentai la mia presa tremante sul
suo corpo, e
immediatamente si liberò delle mie braccia, facendomi
stendere sul copriletto.
La freddezza nei suoi occhi mi feriva, facendomi molto più
male di quanto non
doleva il mio petto martoriato.
Carlisle esercitò una
pressione decisa su una costola.
Un dolore acuto mi pervase, facendomi urlare. Edward posò
una mano sulla mia,
fissando il vuoto dinanzi a sé.
«Bella» mi
chiamò Carlisle, fissandomi negli occhi
«dimmi esattamente come te lo sei fatto».
«Non… non
l’ha fatto apposta…» ansimai,
disorientata
«si è trasformato e… io ero
lì… Mi-mi ha fatto sbattere contro il
muro».
Edward ringhiò, fra i
denti, distogliendo lo sguardo.
Tremai, spaventata.
Carlisle parlò,
richiamando la mia attenzione su di
sé. I suoi occhi erano sicuri e attenti. «Sei
sbattuta con la schiena?»
continuò, ignorando il figlio.
Annuii, spostando velocemente lo
sguardo su di lui. La
rabbia aveva lasciato spazio a una tristezza e una malcelata
frustrazione.
«L’auto
è pronta» disse Esme, rientrando in camera.
«Sì, stiamo
scendendo. La portiamo in ospedale e…»
Mi rannicchiai su me stessa,
afflitta e dolorante. La
testa mi pesava per le lacrime versate. Avevo sbagliato tutto, ancora
una
volta. Repressi le lacrime, che ancora una volta volevano sgorgare
dagli occhi
caldi. Chiusi gli occhi, e il fiato mi si intrappolò in
gola. Tossii.
Quando allontanai la mano che mi
ero portata alla
bocca vidi tre piccole gocce di sangue. Non ci fu bisogno di parlare,
neppure
di fiatare, perché, sollevando gli occhi dalla mano,
incontrai gli sguardi di
tre vampiri preoccupati.
«Portiamola
via» disse Carlisle, risoluto.
Edward mi teneva stretta al suo
corpo, fra le sue
braccia. Avvolta in una coperta calda me ne stavo con la testa poggiata
contro
la sua spalla. Ma era lontano, distante. Era… freddo,
pensai, rabbrividendo.
«Carlisle, cosa credi che
abbia?» chiese Esme, poco
più che un sussurro della sua voce apprensiva.
«Un trauma
toracico» rispose inflessibile, «di sicuro
qualche costola incrinata. Una rotta. Forse di
più».
Sua moglie scosse il capo,
afflitta.
Edward rimase impassibile, lo
sguardo perso nel vuoto.
La distanza fra i nostri cuori mi sembrava enorme, abissale. Mi rendevo
conto,
solo allora, davanti alle conseguenze delle mie scelte, di quanto
fossero state
sciocche. Come se si potesse controllare ciò che
è già sbagliato, come se
avessi potuto cancellare ciò che non sarebbe dovuto esistere
sin da principio.
Una speranza per Jacob.
E magari lui non avrebbe demorso,
spavaldo, testardo,
perseverando nelle sue azioni. Ma avrei evitato tutto questo dolore
all’unica
persona cui volevo più bene, l’unica che, nel mio
cuore, volevo preservare da
ogni male.
«Edward»
sussurrai. La voce mi uscì incredibilmente
debole.
Parve ridestarsi dai suoi pensieri.
Mi osservò, in
silenzio.
Arrivati al pronto soccorso, Carlisle ci fece entrare in
ambulatorio e Edward mi fece sedere su una barella
Capitolo riveduto e
corretto
Appena arrivammo al pronto soccorso
Carlisle guidò Edward nell’accettazione,
scomparendo velocemente dietro le
porte scorrevoli e assicurandoci che sarebbe tornato fra un attimo.
Edward, lontano da me
più di quanto si
potesse intuire vedendo le sue braccia strette attorno al mio corpo, mi
fece
stendere su una barella marrone, rivestita di carta grigiastra e ruvida.
Ansimai, stringendo forte la sua
mano
con la mia, quando fece per allontanarsi. Ero terrorizzata.
Scosse il capo, fissandomi
evasivamente
negli occhi. «Non me ne vado…»
mormorò impercettibilmente «almeno…
finché non
so cosa… ti ha fatto»
sbottò, a bassa voce, ma così minaccioso che mi
causò un brivido.
Era distante, freddo. Mi sembrava
un’altra persona rispetto a quella che poche ore prima,
baciandomi, aveva detto
di amarmi. E di certo non potevo prendermela con lui.
«Ti prego,
Edward» annaspai, provando a
sollevarmi. Gemetti, dolorante, una fitta al petto.
Mi bloccò, obbligandomi
a rimanere
stesa. «Stai giù» protestò
debolmente, afflitto.
Afferrai la sua mano, contro il mio
petto, con la mia, e me la portai alla guancia. «Mi dispiace,
Edward. Non sai
quanto mi dispiace» gemetti, tentando di reprimere le
lacrime.
Allontanò lo sguardo,
ferito.
«Non l’ho fatto
per lui. Non l’ho fatto
per proteggerlo» feci, premendo più forte la sua
mano contro il mio viso e
bagnandola con le lacrime che non ero riuscita a trattenere.
«L’ho fatto per
te, e l’ho fatto perché
volevo…» singhiozzai «perdonami,
Edward».
Si voltò nella mia
direzione, turbato.
«Perdonami»
continuai, allungando le
mani per circondare il suo volto, «non solo per oggi.
Perdonami per ogni giorno
in cui, pur amandoti, non ti ho dimostrato quanti ti ami».
Sospirò, lasciando che
lo avvicinassi a
me, fronte contro fronte. «Lo so, che mi ami»
mormorò mestamente «ma tu…
c’era
anche lui… amavi anche lui…».
«No» lo
interruppi, serrando la presa
sulle sue tempie, «no, Edward. Lui non
c’è mai stato, mai. Ci sei stato solo
tu. Sempre, solo, tu. Mi ha ingannata, mi ha confusa, mi ha forzata. Ma
sapevo
sin da principio di aver scelto te, di volere solo te. Non
l’ho mai amato. Mai.
L’amore vero si regala solo ad una persona, nella vita. E
quella persona per me
sei tu, e basta. Ti voglio dare la mia esistenza».
I suoi occhi si sciolsero, nel
dolore e
nell’amore. Si avvicinò, abbracciandomi, premendo
il viso contro la mia
guancia.
«Che cosa
voleva?» mormorò contro il
mio collo.
Presi fiato in un risucchio. Non
avevo
più molto da perdere, dicendogli la verità.
«Voleva… portarmi via con sé. Non
gli bastava più… voleva… ha
detto… ha detto che…io… io gli ho
detto che lo
odiavo» rabbrividii «voleva… oh,
Edward… era così assurdo…».
«Cosa voleva?»
ripeté, staccandosi per
guardarmi negli occhi.
Abbassai il viso, incapace di
sostenere
il suo sguardo. «Mi ha chiesto di… andare con lui.
Di… fare… di fare l’amore
con lui» annaspai, strappando con la mano un pezzo di carta
ruvida in un pugno.
La sua espressione si fece ancora
una
volta di vetro. Ringhiò.
«Ti prego!» lo
supplicai, gettandomi
fra le sue braccia nonostante il dolore, «non andare da lui.
Ti prego. Voleva…
voleva ucciderti Edward… Oh, ho tanta paura… Per
favore, per favore… è scappato
via, non tornerà più. Non te ne
andare!» singhiozzai, piangendo a pieni
polmoni.
Strinse gli occhi, afflitto,
angosciato. «Non posso credere che sia stato tanto
vile». Sospirò,
accarezzandomi i capelli con le mani, «non posso credere che
ti abbia lasciata,
ferita, e sia scappato via».
«Per questo ci sei tu,
Edward»
annaspai, stringendo la sua maglietta fra le mani «per questo
ci sei tu. Non mi
puoi lasciare sola. Ti ho dato la mia vita, ho solo te. Non mi puoi
lasciare
sola, ti prego».
Si chinò, baciandomi le
palpebre
pesanti. «Non ti agitare. Te l’ho detto, non ti
lascio sola».
«Mai, ti prego»
sussurrai, cercando di
strappare un’ulteriore promessa, o di sentirlo in qualche
modo più vicino a me.
Mi sorrise appena, un sorriso
troppo
debole per soddisfarmi. Sospirò, accarezzandomi una guancia.
«Vedremo. Stai
giù, per favore» fece, ricomponendosi in fretta.
In meno di due secondi la porta
dell’ambulatorio si aprì. «Quali sono i
sintomi?» chiese il dottore entrando
nella stanza. Doveva essere lo specialista. Accanto a lui camminava
Carlisle. A
sua differenza aveva l’aria di un vero medico:
quarant’anni, barba bianca,
aspetto erudito, occhiali.
«Dispnea, shock,
emottisi… lussazione e
contusioni costali e trauma toracico» rispose attento
Carlisle, riferendogli un
quadro preciso.
Rabbrividii. Edward, al mio fianco,
non
parve stupito per la prole di suo padre; tuttavia, accorgendosi del mio
sguardo
spaventato su di lui, strinse più forte la mano con la mia.
Lo specialista annuì.
«Com’è successo?»
chiese, muovendosi per prendere dall’apposito contenitore un
paio di guanti
bianchi.
Fu Carlisle a rispondere
prontamente,
senza battere ciglio. «É caduta al ruscello,
scivolata. Ha sbattuto sulle
rocce».
Mi osservò attentamente.
«Credi abbia
un trauma cranico?».
Carlisle scosse il capo, seguendo
gli
stessi gesti del collega. «Lo escluderei, per ora. Ma sarebbe
meglio aspettare
i risultati della TAC».
L’uomo annuì,
avvicinandosi nella mia
direzione e tirando a sé un carrellino. «Sono il
dottor Parks. Come ti chiami?»
chiese, afferrando una lucina e puntandomela negli occhi.
«Guarda il dito».
«Isabella…
Bella, Bella Swan» mormorai
disorientata, provando a seguire le sue istruzioni. Non era la prima
volta che
mi trovavo in quelle circostanze, sapevo come funzionava. Luce negli
occhi,
pressione, battito, esami… Ma questa volta non sembrava
essere così facile.
Il dottor Parks contrasse il viso
in
una smorfia di disappunto. «Ah, senti il respiro?»
fece, chiedendo a Carlisle,
«com’è la saturazione?».
«Non abbiamo ancora
verificato. Ho già
un’idea di quello che potrebbe avere, ma vorrei che la
visitassi tu, per
conferma».
«Sì»
scattò, allontanandosi per un
attimo per accendere il neon sulla barella, «togli la
maglietta» mi ordinò,
prima di sollevare lo sguardo e notare, come se non l’avesse
ancora visto, la
presenza di Edward. «Dovresti uscire».
Sbiancai, sentendo il ritmo del
respiro
aumentare. Strinsi più forte la mano di Edward, voltandomi
velocemente nella
sua direzione.
Sospirò, allungando una
mano per
accarezzarmi il braccio.
Intervenne Carlisle a calmare la
situazione. «Richard, la ragazza è scossa, non
vogliamo che si agiti ancora.
Credo che possa rimanere, si devono sposare ad Agosto».
Il dottore scosse la testa, in
disappunto. «No, non vogliamo che si agiti»
sospirò infine, fissandomi in
attesa «la maglietta, per favore».
Rincuorata, a fatica, mi tirai a
sedere. Furono le mani confortanti di Edward, discrete, ad aiutarmi a
liberarmi
della felpa che Esme mi aveva fatto indossare. Ogni contatto devoto
della sua
pelle contro la mia fu infinitamente rassicurante.
Mi stesi sul lettino, girandomi su
un
fianco, e il dottor Parks cominciò ad esaminare,
attentamente, ogni lembo di
pelle, tastandolo di tanto in tanto.
Gli occhi di Edward, color ambra
per la
caccia del giorno prima, mi fissavano attenti, dentro i miei. Averlo
ancora
accanto mi pareva un sogno. Non avrei dormito, non avrei mangiato, non
avrei
fatto nulla, se necessario, per potermi assicurare che rimanesse sempre
accanto
a me. Per fare in modo che mi sorridesse, che mi baciasse, che mi
amasse.
Gemetti, ritirandomi
istintivamente,
quando la mano del dottore esercitò una maggiore pressione.
«Buona, buona»
mi riprese con tono
austero, muovendo la mano più in alto e premendo ancora.
Urlai, serrando gli occhi.
Edward sollevò una mano
per
accarezzarmi una guancia. «Shh, va tutto bene»
mormorò piano, rassicurandomi.
Il dottore annuì.
«Facciamola voltare».
Stesa, supina, continuò
a tastare ogni
lembo di pelle. Gemevo, dolorante, stringevo i denti, chiudevo gli
occhi,
quando le sue mani individuavano i punti più lesi. Carlisle
partecipava
all’attento esame. Edward, la cui mano non avevo mai
lasciato, assisteva
silenzioso.
Con le dita, tremanti, disegnai un
cuore sul palmo della sua mano. Aprii appena gli occhi, cercando il suo
sguardo. Ma era troppo distante per poterlo leggere davvero. Sospirai,
angosciata.
Il dottor Parks si
allontanò, gettando
via i suoi guanti. Edward mi aiutò subito a rimettere la
maglietta. «Facciamo
subito gli esami, Carlisle. Ci sono costole fratturate e un emotorace.
La
ricoveriamo e decidiamo come intervenire» disse, premendo il
testo rosso della
chiamata.
«Sì, penso
anch’io» fece Carlisle,
d’accordo con le sue parole.
Rabbrividii, spaventata. Non avevo
una
precisa idea di quanto avevano detto ma…
ricoverarmi… Cercai smarrita lo
sguardo di Edward. Era statico, fermo. Avevo paura.
Arrivò
un’infermiera, e i medici le
diedero indicazioni sugli esami che avrei dovuto eseguire. La mia
attenzione
era catalizzata su Edward, al mio fianco. Non mi avrebbe mai perdonata
davvero.
L’ansia e l’angoscia mi stavano corrodendo.
La donna mi fece un cenno per farsi
seguire. Stava prendendo una sedia a rotelle dal fondo della stanza.
«Edward»
sussurrai, invitandolo a
seguirmi. Implorandolo di seguirmi.
Sospirò, sollevando le
braccia.
«Bella…» mormorò a bassa
voce.
Annaspai, morsi un labbro.
Trattenni in
ogni modo quelle lacrime infami che volevano traboccarmi dagli occhi.
Non
voleva venire. Forse, non era da Jacob che voleva andare. Forse,
semplicemente,
si era stancato di me.
Mi sollevai, tremante, dal lettino,
puntellandomi sui gomiti. Sfuggii all’aiuto che le sue mani
volevano darmi,
mettendo i piedi a terra. Stare in posizione eretta acuiva il dolore
alle
costole.
Ma come mossi due passi, sentii le
forze abbandonarmi. La testa girava, veloce, in preda alle vertigini.
Caddi
carponi, ansimando.
«Bella!»
esclamò Edward, e le sua mani
furono le prime che sentii sui fianchi.
Avevo paura che la forza che mi
scorreva nelle braccia fosse troppo poca per sorreggermi. Tremavo,
disorientata, confusa. Tremavo, e sentivo le voci dei due medici, i
loro
tocchi. Ma l’unico che percepivo con certezza era quello
statico di Edward. Le
sue mani salde.
Una goccia cadde dal mio viso. Una
lacrima. Un’altra. Sangue.
Tossii, violentemente, e non sarei
mai
riuscita a reggermi ancora senza alcun sostegno. Tossii, e alla goccia
di
sangue che macchiava il pavimento se ne unì
un’altra, e un’altra, e un’altra
ancora.
«Bella!» mi
chiamò ancora Edward, spaventato,
sorreggendo tutto il peso del mio corpo. Stavo per perdere i sensi.
Chiusi gli
occhi, abbandonandomi. Mi prese fra le braccia, mi sollevò.
«Portala sul
lettino» ordinò una voce
risoluta. Carlisle. Sentivo delle mani sui polsi, dietro la nuca, sulla
fronte.
Alcuni deboli colpi sulle guance. Delle voci, confuse, agitate nella
mia testa,
che mi chiamavano.
«Bella» un
sussurro, addolorato. Un
sospiro. «Bella, amore, apri gli occhi.
Va tutto bene, tranquilla. Va
tutto bene. Adesso Carlisle, adesso… ci sono io,
Bella. Ci sono io, qui
per te» mormorò, agitato e afflitto. E, piano,
sentii le sue dita. Sul palmo
della mano. Un cuore.
Aprii piano gli occhi, muovendo il
capo
da una direzione all’altra, irrazionalmente. Ero debole, ero
confusa.
«Sono qui, accanto a
te» mi richiamò la
sua voce. Aveva capito, prima… aveva capito.
Lo fissai, insistentemente,
cercando
qualsiasi cosa nel suo volto.
Mi sorrise. Debolmente.
Feci immediatamente le lastre e la
TAC. Edward mi seguì, mi seguì senza che glielo
chiedessi con le parole o con lo sguardo, e
mi tenne la mano stretta con la sua ogni istante in cui poté
farlo,
garantendomi continuamente la sua presenza e il suo sostegno. Mi
rassicurò
quando i miei occhi si facevano più spaventati, e un
accarezzò, e mi baciò,
ogni volta che gemevo, dolorante, o che sentivo il fiato più
corto o la testa
più leggera.
Attento a non farmi male mi
sollevò dal
lettino, prendendomi fra le braccia e facendomi scivolare sulla sedia a
rotelle. A dividerci solo il sottilissimo strato del camice che mi
avevano
fatto indossare.
«La stanza è
la N14, secondo piano» ci informò
l’infermiera. «Avete bisogno che vi
accompagni?».
Edward posò entrambe le
mani sulla
spalliera della sedia. «No, grazie, faccio da
solo», rispose educatamente,
cominciando a spingere. Si muoveva piano, il passo cadenzato e lento.
Gemetti debolmente, appoggiandomi,
con
cautela, allo schienale nero. Il movimento ritmico mi rimbombava nel
corpo e
nella testa. Mi sentivo spossata, dolorante. Mi girava la testa, e mi
sentivo
debole a ogni movimento. Non avrei immaginato di trovarmi nelle
condizioni in
cui versavo. Non potevo di certo oppormi all’evidenza: mi
sentivo male. Ma
odiavo ogni singola cosa di quello che mi circondava, men che Edward.
«Come ti
senti?» mi chiese
discretamente, decelerando appena il passo.
Scossi debolmente il capo.
«Ce la
faccio» sussurrai, arrossendo.
«Hai dolore?»
chiese ancora.
Deglutii, e strinsi le mani sui
manici.
«Non è…» mi morsi un labbro
«non così tanto» mentii, orgogliosa,
spaventata.
Si fermò, sospirando.
«Bella».
Il cuore accelerò la sua
corsa nel
petto. I miei occhi rimasero bassi, puntati sulle ginocchia e sul
camice
azzurro.
Edward fece il giro della sedia,
piazzandosi davanti a me e chinandosi sulle ginocchia.
Sollevò le ciocche di
capelli che gli impedivano la vista dei miei occhi. «Bella,
credo di doverti
chiedere scusa anch’io. Non è solo colpa
tua» ammise, mesto «forse… forse, per
una volta, avrei dovuto smettere di cercare di fare la cosa che pensavo
essere
la migliore per te, e fare semplicemente quello che desideravo. Avrei
dovuto
smettere di spingerti fra le sue braccia con una mano, e tenerti a me
con
l’altra. Vedi?» fece, pedante «vedi le
cose che abbiamo sbagliato? Ma ora sono
certo» continuò «di volerti per me, e di
non volerti spartire con nessuno».
«Edward…»
mormorai, posando una mano
sulla sua, sulla mia guancia.
«Per questo non posso
fare a meno di
incontrare Jacob…».
Annaspai.
«…con te, per
parlare e chiarire una
volta per tutte. Appena starai bene».
«Oh,
Edward…» sospirai, prendendolo fra
le braccia.
Mi strinse al suo petto,
accarezzandomi
i capelli con una mano. «Va tutto bene, Bella. Va tutto bene.
Non ti lascio,
non ti lascio. Andrà tutto bene…».
Mi portò fin nella
stanza. Era una
piccola stanza d’ospedale, di quelle che avevo imparato ad
odiare nel corso
della mia vita. Non era di grandi dimensioni, ma aveva un solo posto
letto, e
mi avrebbe così consentito una maggiore privacy. A colpirmi
immediatamente fu
l’odore dei fiori e la vista di un meraviglioso mazzo
sistemato sul comodino.
Di certo, i Cullen non erano creature prevedibili.
Ad aspettarmi, sedute sul letto,
Esme e
Alice.
Sorrisi appena, sforzandomi di
dimostrarmi più in salute di quanto non fossi.
«Bella!»
esclamò la mia amica non
appena mi vide. «Oh, Bella!» fece, gli occhi colmi
di tristezza, precipitandosi
ad abbracciarmi.
«Va tutto bene»
sussurrai appena,
accarezzandole piano la schiena, «va tutto bene,
davvero».
Si staccò appena per
fissarmi negli
occhi. «Mi dispiace così tanto. Io… non
so cosa succede» fece, le parole che
volavano veloce fuori dalla sua bocca. «É tutta
colpa mia, ti ho fatta stancare
così tanto! Se solo avessi saputo…».
Sussultai, colpita. «Non
è colpa tua»
feci, a bassa voce, «non… non è colpa
tua» ripetei a voce più alta deglutendo.
«Alice, per favore» la supplicai, «non
pensarci neppure. Non farlo».
Edward posò una mano
sulla mia spalla,
accarezzandomi con l’altra i capelli.
«Alice» mormorò, scuotendo il capo,
«va
bene così. Basta».
Ma la piccola vampira stava
tremando,
preda dei sensi di colpa. «Avrei dovuto vederti, Bella. Non
c’è ragione per cui
non avrei dovuto farlo. Ma ero così presa dal matrimonio che
non sono riuscita
a farlo, a capire che stavi male. E ora è tutto confuso e
indistinto» mormorò,
mesta, fissando senza riuscire a reggerlo lo sguardo di Edward
«non riesco a
vederti chiaramente. Oh, e se fosse successo qualcosa di più
grave? E se
fosse…?» singhiozzò, portandosi
entrambe le mani al viso.
«Alice, Alice.
Smettila!» la chiamai,
tendendomi nella sua direzione, «non è colpa tua
se non mi hai vista. Tu stai
organizzando il mio matrimonio. Per me.
Tu non hai il dovere di
vegliare su tutto ciò che mi accade» alzai gli
occhi al cielo, stringendo i
pugni sulle ginocchia. Respirai a fondo, recuperando il fiato che mi
era stato
sottratto per parlare. «Lo fa già Edward, senza
che nessuno glielo chieda».
Si chinò, alle mie
parole, al mio
fianco, sussurrando a bassa voce: «a quanto pare non
è abbastanza. Forse dovrei
darmi più da fare, Bella?».
M’irrigidii e scossi il
capo, storcendo
le labbra.
«Ragazzi»
intervenne Esme, abbracciando
la figlia, «l’importante è che ora la
situazione si risolva, va bene? Facciamo
stendere un po’ Bella».
La sorrisi, riconoscente.
Fu Edward ad aiutarmi a sollevarmi
dalla sedia, tenendomi per i fianchi. Quando fui in piedi, compresi
quanto il
senso di debolezza e spossatezza di stesse espandendo velocemente nel
mio
corpo. Mi strinsi alla sua camicia, tremando per mantenermi sulle
gambe,
nonostante sostenesse lui stesso gran parte del mio peso. Mi pulsava la
testa,
dolorosamente, cadendo di tanto in tanto preda della vertigini.
«Non… non mi
sento tanto bene…»
mormorai contro il suo petto.
Mi accarezzò i capelli,
preoccupato,
sostenendo meglio il mio peso. «Le costole? Esme, chiama
Carlisle per favore…».
Il un rapido movimento mi sollevò da terra, prendendomi fra
le braccia per
adagiarmi direttamente fra le coperte, sul letto. Posò una
mano su una guancia,
e mi baciò la fronte.
«Edward…»
feci, prendendola fra le mie
«non… non ti preoccupare eccessivamente, ti
prego» protestai debolmente,
nonostante il tono delle mie parole chiedesse il contrario.
Alice si avvicinò,
osservandomi in
silenzio, preoccupata. «Febbre?» chiese, voltandosi
verso il fratello.
Annuì seccamente.
«Non vedi altro?».
Sospirò, sconsolata.
«No, purtroppo».
Carlisle entrò in camera
pochi minuti
più tardi, immergendosi in un buio silenzio. Mi doleva la
testa, le membra, e
il clima di muta penombra alleviava solo leggermente il mio malessere.
«Carlisle» fece
Edward, sussurrando,
alzandosi per andare incontro al padre, «temo che abbia la
febbre. Ha detto di
non sentirsi bene».
Annuì, mi venne vicino,
e posò una mano
fredda sulla mia fronte. Rabbrividii. «Sì.
Trentotto e tre, credo» fece
inflessibile. D’altronde, anche se la mia mente fosse stata
più lucida in quel
momento, non avrei voluto aspettarmi nulla di meno da dei secoli
passati in ospedale
e sensi ipersviluppati.
Sbattei debolmente le palpebre,
sentendo gli occhi caldi e gonfi.
Mi sorrise, rassicurante.
«Resta a
letto, riposati». Sollevò lo sguardo in cerca di
suo figlio «assicurati che lo
faccia. Vado a ritirare i risultati degli esami e sono da voi. Vediamo
se posso
darle qualcosa».
Alice mi aiutò a
spogliarmi di quel
camice che aveva definito “orrendo”, ed aiutarmi a
infilare il pigiama che lei
stessa mi aveva previdentemente portato. Ogni movimento mi procurava
fitte
acute dalla cintola in su. Mi sistemai sotto le coperte, stremata, e
subito il
tepore collaborò a farmi assopire. Chiusi gli occhi.
«Dormi…».
«Mi sono appena
svegliata» borbottai,
protestando debolmente.
«Sei debole».
Una mano fredda, con un
gesto confortante, mi accarezzò la fronte e i capelli.
Sospirai di sollievo.
«Dormi Bella
amore…».
«Bella! Cosa le
è successo?».
Aprii gli occhi di scatto,
allarmata.
Ansimai. Avevo riconosciuto quella voce: mio padre.
«Papà»
mormorai, tentando inutilmente
di tirarmi a sedere «calmati…per
favore…». Parlavo con voce fioca.
Mio padre, in piedi al centro della
stanza, si avvicinò al mio letto a grandi passi, allungando
le braccia nella
mia direzione. «Bells! Come ti senti?» mi chiese,
agitato, preoccupato «sei
così pallida…».
«Così…»
sussurrai, lasciandomi andare,
senza forze, sul cuscino. Senza neppure la forza di far imporporare le
guance.
«Stai giù,
Bella, non ti sforzare» mi
sussurrò Edward, al mio fianco, aiutandomi a sistemarmi fra
le coperte.
Il volto di Charlie si fece
velocemente
paonazzo. «Edward Cullen. Mi devi una spiegazione»
sbottò bruscamente.
Trattenni il fiato, preoccupata per
la
piega che stavano prendendo le cose. Era davvero assurdo il
ribaltamento della
verità che era avvenuto. La persona per cui patteggiava, tra
le braccia di cui
aveva cercato di spingermi, mi aveva fatto questo. E proprio Edward,
che invece
mi aveva aiutata e salvata, stava andando in contro al rimprovero di
mio padre.
«Charlie. Si sieda,
prego» gli rispose,
offrendogli la sedia con la solita cortesia che lo contraddistingueva.
Mio padre lo squadrò, in
silenzio, e
Edward sostenne educatamente il suo sguardo. Ci si lasciò
cadere. «Allora?
Cos’è successo?» chiese ancora, esigendo
una risposta.
Edward sospirò, parlando
pacatamente e
con convinzione. «Eravamo a fare un pic-nic in riva al fiume.
Bella è scivolata
sul limo».
Strinsi i pugni sul lenzuolo,
agitata,
ansando. «Papà, non è stata colpa di
Edward…» sussurrai, ansiosa, senza forze.
Edward si voltò nella
mia direzione,
passandomi una mano sulla fronte per darmi sollievo. «Shh
Bella, non fa niente»
mi rassicurò con dolcezza.
Mio padre serrò i pugni
lungo i
fianchi. «Edward! Io ti avevo affidato mia figlia!»
esclamò a gran voce,
minacciandolo con un dito.
«Papà»
ansimai, ansiosa, provando a
sollevarmi. Ero così afflitta, che avrei voluto urlargli la
verità in faccia.
«Ti ho dato la mia
benedizione!»
continuò, ignorandomi completamente «E tu non sei
stato capace di prenderti
cura di lei!».
Strinsi più forte le
mani sul lenzuolo,
tremando.
«Bella!».
Mi accorsi che il respiro mi si
bloccava
fra i denti.
Edward si mosse veloce premendo un tasto rosso sulla mia
testa
Capitolo riveduto e
corretto.
Edward si mosse veloce premendo un
tasto rosso sulla
mia testa.
Ansimai, e subito il dolore
pulsante alle costole e
alla schiena si trasformò in fitte acute. Il mondo si era
fermato in
quell’istante, condensato nel breve lasso di tempo che
passava da un ansito
all’altro, dilazionato spaventosamente dal terrore.
«Cosa le
succede?» chiese mio padre, spaventato.
«Non respira!».
Non li vedevo, a malapena li
sentivo. La camera
tremava e girava su se stessa. Un’ansia,
un’angoscia strisciante si erano
impossessate di me. Tirai indietro la schiena, in un disperato quanto
fallace
tentativo di avere più fiato. Inutile. Solo doloroso.
«Cosa succede?»
fu l’esclamazione, contenuta da un
tono professionale di chi è abituato a certi tipi di
emergenze, dell’infermiera
di turno, subito accorsa.
La risposta di Edward su secca e
concisa. «Crisi
respiratoria». E subito posò una mano, leggera,
sulla mia fronte. Le sue labbra
si muovevano, segno che mi stava parlando, magari rassicurando. Forse
chiedendo
di rimanere tranquilla, mantenere la calma, proprio come aveva fatto
quando ero
in camera sua, fra le sue braccia.
«Edward…
papà…» farfugliai fra gli ansiti e i
respiri
smorzati. Avrei probabilmente dovuto seguire il senso delle sue parole,
ma avevo
troppa paura. Tremavo.
I miei occhi, persi in uno strano
vuoto, incontrarono
il viso ansioso di mio padre. Aveva la bocca aperta, il fiato bloccato,
come se
fosse troppo sconvolto per farlo andare su o giù. Scosse il
capo, incredulo.
«Questo non sarebbe mai successo se avessi scelto
Jacob».
Edward
s’immobilizzò. Il suo sguardo si fece vitreo.
Non avevo creduto fosse possibile,
ma il ritmo del
respiro si fece più veloce. Era una conseguenza diretta
della parole di mio
padre, e degli effetti disastrosi delle mie scelte che ancora vedevo
ricadere
su Edward.
Avrei voluto sollevarmi. Avrei
voluto stringere il suo
viso fra le mani. Avrei voluto assicurarmi della sua consistenza, e del
fatto
che avrebbe tenuto fede alla promessa. Più di tutto, se
avessi potuto, in
quell’istante avrei voluto urlare. Semplicemente urlare di
dolore. Non dovrebbe
essere un diritto negabile a un moribondo, il più
rudimentale modo di sfogare
le proprie pene.
Una lacrima mi rotolò
lungo la guancia, fredda,
fastidiosa.
Il dottor Parks entrò
nella stanza, seguito da
un’equipe di infermieri. Si avvicinò
immediatamente al letto. «Dovete uscire»
disse, rivolgendosi ai miei visitatori.
Strinsi un pugno sul lenzuolo,
tentando disperatamente
di deglutire. Se Edward fosse andato via in quell’istante,
senza che sapesse,
senza che mi assicurassi della sua meta… Se fosse uscito con
mio padre, e lui
avesse continuato a ripetergli, mentalmente e non, quelle cose
orrende…
«No, no, no»
sussurrai fra i sibili, e i miei
movimenti si fecero più veloci, convulsi, quasi
incontrollati. A ogni
spostamento corrispondeva una fitta, atroce, ma non per quello decidevo
di
fermarmi. La stanza era piena di suoni estranei, poco confortanti. Era
piena di
luci, e voci sconosciute.
Non c’era Edward.
Peggio di quando, da bambina,
giravo su me stessa fino
a cadere a terra. Peggio. La testa girava ancora più veloce.
«Edward!»
gridai, sollevandomi a sedere sul letto.
Dolorante, madida di sudore. Cercai disperatamente la sua figura nella
stanza,
sperando che potesse rimanere immobile per qualche instante per darmi
la
possibilità di farlo.
Ma una mano mi bloccò la
spalla, facendomi ricadere
fra i cuscini.
Non c’era. Edward non
c’era.
«Sta’
ferma» ordinò perentoria la voce del medico
«sta’ ferma, Bella».
Scossi la testa, mi dibattei. Il
dolore dilagava nel
mio corpo. Possibile che non capissero? «Ed…
vo… voglio… Ed-Edward…»
farfugliai, ansai, muovendomi sul letto come un pesce fuor
d’acqua. Volevo
l’unica cosa che potesse farmi stare bene. La certezza che
Edward non sarebbe
andato da nessuna parte, come mi aveva promesso.
Le mani che mi bloccavano sul
materasso divennero due,
su entrambe le spalle. «Bella, adesso ti aiutiamo noi.
Calmati. Ferma».
«No!
Ed…no…non…».
«Calma Bella,
ferma» mi ordinò ancora, avvicinando una
mascherina di plastica trasparente al mio viso.
«Lasciatemi!»
urlai, divincolandomi dalla presa,
scuotendo la testa. Era irrazionale. I medici mi avrebbero aiutata,
avrei
ricominciato a respirare normalmente, e avrei saputo di Edward, trenta
secondi
più tardi. Ma in quel momento volevo semplicemente
accertarmi che non avesse
lasciato le mura dell’ospedale. Tutto era diventato una
macchia indistinta,
sentivo voci, vedevo ombre che si muovevano.
«Bloccatela».
Della mani afferrarono prontamente
braccia e gambe, inchiodandomi
al letto. Continuavo ad agitarmi, ma non riuscivo a muovermi. La
mascherina
trasparente prese prepotente posto sul mio viso.
Le pupille erano dilatate per la
paura. La carotide
pulsava indisturbata contro il cuscino. Tossii. Provai
a tossire, ma mi
sentii soffocare.
«La saturazione
dell’ossigeno sta scendendo.
Settanta».
«Le stiamo facendo
male».
«La stiamo
perdendo».
Tirai più forte un
braccio nella mia direzione e la
presa di una mano s’intensificò. Non
respiro, non respiro, non respiro, era
il pensiero ossessivo di chi sta per soffocare. Il mio.
«Datele un tranquillante,
ora. Così non riesco ad
intervenire» sbottò il dottore.
Pensai che avevo perso, tanto
valeva calmarsi. Pensai
che a quel punto non ne valesse più la pena di agitarsi,
perché fra qualche
istante non sarei stata più cosciente di me. Ma entrambi i
pensieri furono
meteorici nella mia mente confusa, così non smisi di
agitarmi, non smisi di
soffocare, non smisi di vedere la stanza girare su se stessa.
Qualcuno mi afferrò un
braccio, trapassandomi la pelle
con un ago.
«Edward!»
gorgogliai, fra quello strano tentativo di
tossire e il soffocamento in atto. Mi dibattei per pochi istanti
ancora, come
un insetto appena schiacciato i cui arti continuano a muoversi per
chissà quali
riflessi involontari.
Qualcuno mi girò su un
fianco, e per un attimo mi
tolsero la mascherina. Vidi il buio delle mie palpebre, e vidi la luce
della
stanza. Un piccolo fiotto di sangue mi colò dalle labbra.
Buio, luce. Buio, luce, buio, luce,
buio.
Buio.
La mia mente registrava a scansioni
progressive
orribili scenari. Se Edward fosse andato da Jacob sarebbe stata la
fine. La sua
minaccia poco velata aleggiava ancora nella mia mente. Ma evidentemente
ogni
volta che tentavo di mettere un freno, di bloccare le conseguenze delle
mie
scelte peggiori, il destino si faceva beffe di me, aggirando bellamente
l’ostacolo, indisturbato.
Terrore, ansia, angoscia, erano
termini riduttivi per
esprimere il mio stato emotivo anche al solo pensiero di un possibile
incontro
fra i due.
Dovevo impedirlo, ad ogni costo.
C’era silenzio, non udivo
alcun suono. Faceva caldo,
tanto caldo. E c’era molta luce.
Aprii gli occhi. Ero nella stanza
d’ospedale, ma intorno
a me non c’era nessuno. Sul comodino il bel mazzo di fiori
profumato era secco,
appassito. Tutti i macchinari che avrebbero dovuto esserci, al loro
posto,
erano scomparsi. Aleggiava un innaturale silenzio.
Mi sollevai a sedermi, e scoprii
con poco stupore che la
schiena non faceva più male.
Dovevo scoprire cos’era
successo. Al più presto.
Misi un piede fuori dalle coperte,
sul pavimento. Ero
scalza. Indossavo il camice che Alice aveva definito
“orrendo”. Mi sollevai dal
letto, e uscii dalla stanza. Ma i corridoi erano deserti.
Corrugai le sopracciglia.
Da lontano sentivo provenire un
pianto strozzato,
smorzato. Seguii automaticamente il suono, dirigendomi verso il luogo
da cui
proveniva. Mi ritrovai in una piccola stanzetta completamente spoglia,
con solo
una sedia al centro.
Sulla sedia, una donna. Era lei che
piangeva, almeno,
per quello che poteva.
No, non era come pensavo io. Non
poteva essere così.
«Esme…»
sussurrai.
Cessò immediatamente i
suoi lamenti. Rimase voltata di
spalle, col volto basso. «I loro cuori non sono stati
abbastanza grandi da
poter contenere entrambi l’amore per te», la sua
voce era disperata, rabbiosa,
angosciata, ma allo stesso tempo, spenta.
Cos’è
successo? Cos’è successo, Esme?, non lo chiesi ad alta voce. Ma mi
rispose.
«Sono morti. Tutti e due.
Edward e Jacob».
Tutto si fece buio.
«No!» gridai,
tirandomi a sedere. Tremavo, pervasa da
brividi di freddo, ma la schiena e la fronte erano madidi di sudore.
Dovetti
ricadere immediatamente fra i cuscini, ma feci appena a tempo a
osservarmi
intorno per capire di trovarmi ancora nella stanza
d’ospedale. Ma questa volta
i fiori profumavano, i macchinari erano ai loro posti, e
così anche i loro
corrispettivi rumori.
«Bella, amore. Calmati,
sono qui con te».
La mia mente era confusa, appena
uscita da qualcosa
che… sì. Doveva essere stato un sogno, se
riuscivo ancora a sentire la voce di
Edward, vedere il suo volto. Se mi sembravano così vividi e
reali. Ma
l’immaginazione, esperta beffatrice, mi stava ancora
confondendo la mente
pesante.
Scossi il capo, incredula. Un
singhiozzo mi nacque dal
petto, facendo espandere in tutto il mio corpo un’onda di
nauseante dolore.
La sua espressione si fece
crucciata, preoccupata. Mi
accarezzò il volto, prendendolo con entrambe le mani.
«Va tutto bene. Sono qui,
sono qui con te. Va tutto bene».
Annaspai per un attimo, e subito
sentii il peso di una
mascherina trasparente sul viso. Mi carezzò i capelli,
sostenendo l’oggetto con
una mano, senza premerlo con forza.
«Rilassati, ecco.
Così. Va tutto bene tesoro, non ti
agitare» mormorò delicatamente, soffiando le
parole sul mio viso. «É stato solo
un brutto sogno».
Lo osservai ancora, immobile, gli
occhi pesanti e
lucidi. Battei le palpebre, e mossi una mano sulla mascherina, gemendo.
«D-dove…» farfugliai
«non… non lasciarmi
più…» lo implorai, stringendo la mano
che aveva posato sulla mia guancia.
Si chinò a baciarmi la
fronte. «Non ti lascio, te l’ho
promesso» disse, gli occhi che ardevano di
sincerità, «non ti ho mai lasciato.
Mai».
Le labbra mi tremarono e per un
istante la testa mi
girò. «Ma… come…»
biascicai, la gola secca.
«Sono sempre stato qui
con te» fece, sorridendomi
dolcemente, «eri in un tale stato di agitazione e confusione
che non riuscivo a
rassicurarti. Era normale, in quelle condizioni».
Sospirai, gemendo debolmente. Il
corpo era pesante,
caldo, febbricitante. Mi sentivo debole e dolorante. Provai a tirarmi a
sedere,
per liberarmi, almeno in parte, di quelle coperte calde. Ma appena feci
leva
sulla braccia delle fitte dolorose mi assalirono. Feci una smorfia,
strofinandomi le braccia. Sotto le maniche del pigiama una serie di
lividi,
ancora freschi.
Le mani di Edward si sostituirono
alle mie. «Mi
dispiace. Nessuno voleva farti del male, ma non riuscivano a tenerti
ferma. Ti
chiamavo, ti parlavo, ma non riuscivi a sentirmi. Avrei voluto che
tutto questo
non fosse stato necessario».
Sollevai il viso nel suo. Stare
seduta acuiva il
dolore alla schiena e alle costole. «Non è colpa
tua, lo sai» mormorai,
abbassando lo sguardo. «Mi dispiace tantissimo per quello che
ti ha detto mio
padre. Io…» annaspai, «non è
giusto che tu… che debba subire anche
questo…».
«Ehi»
mormorò, sollevandomi il mento. Mi sorrise. «Va
bene così. Era ovvio, dopo quanto detto, che se la prendesse
con me. Ma ora è
tutto apposto. L’importante è che tu stia
bene».
Mi tesi nella sua direzione,
stringendo il suo corpo
col mio e i suoi capelli far le dita. «Ho avuto
così tanta paura, così tanta
paura di perderti» confessai, gemendo, piano.
Allontanò il mio corpo
dal suo con cautela,
permettendomi di tornare ad una posizione che fosse meno dolorosa e
scomoda per
il mio busto ferito. Mi accarezzò una guancia, stringendomi
i capelli con
l’altra mano, e, piano, si avvicinò a me, alle mie
labbra, toccandole e
lambendole con le sue.
Strinsi più forte la mia
presa sui suoi capelli,
tentando di non lasciarlo andare e contemporaneamente regolarizzare il
ritmo
del respiro.
Edward si allontanò
appena. «A quanto pare dovremmo
andarci piano» mormorò contrariato, osservando il
monitor dietro le mie spalle.
Mi indicò la mascherina, ma scossi il capo, lasciando che il
ritmo del respiro
si normalizzasse autonomamente.
Arrossii quando la porta della
stanza si aprì,
lasciando passare Carlisle, seguito da Charlie e Esme.
«Bella» mi
salutò il medico, «ti sei svegliata».
«Bells»
farfugliò mio padre a disagio, «stai meglio,
vedo…». Mi avvicinò al letto, e
tremando posò le dita sulla mia fronte. Sapevo
che quei gesti non erano naturali per lui, per di più se
fatti in pubblico. «Mi
dispiace» prese un respiro, «per
prima…».
Misi una mano sulla sua,
guardandolo negli occhi. «Va
tutto bene» sussurrai appena, poco incline a continuare quel
dialogo che
causava tanto disagio a me quanto a lui.
Mi sorrise, allontanandosi di
qualche passo.
Esme sistemò un nuovo
mazzo di fiori sul mo comodino,
aprendo appena la finestra per arieggiare la stanza. Carlisle
controllò
velocemente i miei parametri, scoccando un’occhiata al figlio
quando lesse
l’ultimo picco rivelato, risalendo velocemente alla causa
dato il rossore sulle
mie guance.
«Come ti
senti?» mi chiese, osservandomi.
Annuii, senza parlare. Ma presto
rimasi immobile,
vinta da un’ondata di nausea. Non propriamente bene. Non
ricordavo di essere
stata così malridotta da tanto tempo.
«Rimani stesa, dovrebbe
far meno male. Vuoi degli
antidolorifici?».
Edward mi accompagnò
nuovamente sul letto, fra le
coperte. Scossi il capo, stringendo stoicamente i denti.
«Sei sicura?»
mi chiese quest’ultimo, accarezzandomi
il viso.
«Sì»
sussurrai, chiudendo appena gli occhi. Avevo
paura dei farmaci. Non volevo essere così poco lucida da non
comprendere cosa mi
stava attorno. Non volevo provare ancora la sensazione di terrore, di
perdita,
che avevo provato quando avevo creduto Edward lontano da me.
«Charlie»
cominciò a spiegare pacatamente Carlisle,
«Bella ha un trauma toracico. Ha diverse fratture alle
costole, e delle
lussazioni. Questo ha causato delle lesioni delle pleure e un
conseguente
emotorace».
«Quanto è
grave?» chiese, preoccupato. Aprii gli
occhi.
«Se interveniamo in tempo
non c’è pericolo».
«Se
intervenite?» sussurrai, lo smarrimento nella
voce. Edward strinse più forte la mia mano, accarezzandomi i
capelli.
Carlisle si voltò nella
mia direzione. Il suo sguardo
era pacato, atto a rassicurarmi. «La procedura è
abbastanza invasiva, ma non
troppo dolorosa. Potrebbe essere risolutiva, se non
c’è troppo sangue. In caso
contrario dovremmo intervenire con un intervento chirurgico».
Strinsi le labbra, fermando il loro
fremito.
Si avvicinò di un passo,
sedendosi sul bordo del letto.
«Bisogna aspirare il sangue in eccesso per mezzo di una
siringa. Farò piano».
Impallidii, sentendo lo stomaco
stringersi in una
morsa. Edward mi accarezzò i capelli.
«Sarò sempre con te. Te l’ho promesso.
Andrà tutto bene, vedrai».
Deglutii, risollevando debolmente
lo sguardo su suo
padre. «Q-quando…?» farfugliai a mezza
voce.
Mi sorrise appena. «Sono
le quattro» fece, guardando
l’orologio, «fra un paio d’ore, credo.
Meglio non aspettare oltre».
Annuii, abbassando le palpebre in
un sospiro.
Non mi sentivo bene. E la
situazione non fece che
peggiorare al passare di ogni minuto, quando diventava sempre
più difficile
muovermi, parlare, tenere gli occhi aperti. Ero estremamente intontita
e
dolorante.
Mio padre restò ancora
poco con me, poi tornò al
lavoro, declinando l’offerta di Esme di cucinargli qualcosa.
Lo conoscevo
abbastanza per sapere che era tanto simile a me da odiare allo stesso
modo gli
ospedali. Non che non mi volesse bene, non che se non
gliel’avessi chiesto non
mi sarebbe rimasto affianco. Ma sapevo che in quel momento aveva
bisogno di
buttarsi nel lavoro, la sua centrale di polizia, un luogo sicuro, per
dimenticare l’ansia che lo attanagliava.
Edward restò con me, ad
accarezzarmi e baciarmi in
ogni momento. Era bruciato dalla preoccupazione e, per quanto tentasse
di non
darlo a vedere, dalla rabbia. Mi aveva promesso un incontro pacifico,
non
appena mi fossi ripresa, tutti e tre insieme. Speravo solo di riuscire
a
sostenerne il peso, ma in cuor mio sapevo che non avrebbe potuto
portare a
nessuna conseguenza positiva.
Un’unica idea avevo in
mente: seguire il mio cuore.
Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno sbaglio, neppure
il più piccolo. E
se ciò avrebbe significato cancellare ogni sorta di amicizia
con Jacob l’avrei
fatto, non a cuor leggero, ma sicuramente molto più libero e
sgombro che al
solo pensiero di separarmi anche minimamente da Edward.
Non rimanemmo soli a lungo. Presto
Alice tornò a farmi
visita, portando con sé nuovi ricambi per quei giorni.
Pigiami nuovi di zecca
che non avevo mai visto in vita mia. Avrei voluto essere più
di compagnia,
avrei voluto risponderle e partecipare al dialogo sussurrato fra lei e
il
fratello. Ma non ne avevo la forza.
«Tesoro, come ti
senti?» domandò, accarezzandomi i
capelli e chinandosi su di me. «Gli altri vorrebbero venire,
dopo, o magari
domani, durante l’orario delle visite. Mi dispiace
per… Jasper» la sua
espressione si fece tenera e crucciata «lui non se la sente
di venire qui, ma
ti manda i suoi saluti».
Sorrisi, debolmente.
«Certo, Alice. Grazie» sussurrai,
prendendo un fiato più lungo del precedente. Il respiro era
corto, affannoso.
«Vuoi ancora la
mascherina?» mi chiese gentilmente
Edward, accarezzandomi la nuca scoperta. Stavo girata su un lato,
quello che mi
pareva dolesse meno, per cercare di calmare tutti gli altri dolori,
pulsanti
come stelle in un cielo di luglio.
Scossi il capo, tentando di
raggomitolarmi
maggiormente su me stessa.
Poco tempo dopo chiamò
mia madre, allarmata e
preoccupata. Ci vollero Alice e le sue parole dolci, prima che fosse in
uno
stato tale da poter parlare con me, e che potessi risponderle.
«Mamma…».
Ma la sua voce era troppo acuta e squillante
per la mia testa martoriata, e le mie risposte sempre più
brevi, deboli e
rotte.
Feci una smorfia di dolore,
stringendo le dita sul
piccolo cellulare. Me lo sfilò dalle dita Alice, riprendendo
a parlarle.
«Stai bene?» mi
chiese Edward, facendo il giro del
letto per venirmi vicino. Ansimai leggermente, stringendo il punto del
torace
da cui sentivo provenire maggiore dolore. Mi sfiorò il viso.
«Vuoi girarti
Bella?».
Annuii, serrando i denti e gli
occhi. Mi sollevò
delicatamente, attento a non causarmi più dolore di quanto
non ne stessi
sentendo. Mi prese una mano, accarezzandomi i capelli in attesa che
scemasse.
Ma, anziché calmarsi, aumentava di secondo in secondo,
pulsando, inesorabile.
Provammo con l’ossigeno, sperando che se fossi riuscita a
respirare meglio
anche il dolore si sarebbe assopito. Neppure quello
funzionò.
«Chiamo
l’infermiera, ti darà qualcosa»
mormorò,
rassicurandomi, premendo il tasto rosso sulla mia testa.
«Edward»
mormorai, agitata, quando l’infermiera entrò
nella mia stanza con una siringa di antidolorifici. La mia mente era
frastornata e sconvolta, e non potevo fare a meno di pensare a quello
che
sarebbe successo di lì a poco, quando anche Carlisle sarebbe
dovuto
intervenire.
Mi sorrise, un sorriso che voleva
essere sereno e
rassicurante. «Tranquilla, non ti
toccherà» mi rassicurò, chinandosi a
sfiorarmi le labbra.
«Va tutto bene, piccola.
Presto non sentirai più
dolore» mi rassicurò l’infermiera,
iniettando il medicinale direttamente nel
tubicino trasparente collegato alla mia vena. «É
un leggero antidolorifico. Il
dottor Cullen ha detto che dopo dovranno intervenire e in quel caso le
somministreranno un anestetico locale. Edward» lo
salutò, uscendo dalla stanza.
Sbattei le palpebre, stringendo la
presa sulle
lenzuola. Non volevo che si preoccupasse ancora; mi rendevo conto di
quanto la
situazione fosse grave di per sé e mi sentivo profondamente
in colpa per
l’angoscia che gli stavo causando. Così volevo
starmene zitta, nel letto, le
labbra serrate, quasi pensando che sarebbe stato meglio - per lui, non
certo
per me - se non avesse assistito all’intervento che di
lì a poco mi attendeva.
Potevo essere tanto egoista da volerlo accanto, ad ogni costo?
Portai una mano al viso,
nascondendolo. In poco tempo
i polpastrelli si bagnarono delle lacrime che mi scorrevano dagli occhi.
«Ehi»
mormorò Edward, preoccupato, scostandomi la mano
dal viso.
«Fa male»
singhiozzai, tentando di asciugarmi le guance.
Mi prese il volto fra le mani,
baciando delicatamente
la fronte, il naso, le labbra. «Va tutto bene»
mormorò, sedendosi sul letto
accanto a me. Con estrema delicatezza passò un braccio
attorno alle mie spalle,
sollevandomi per stringermi fra le sue braccia. «Adesso
passa, vedrai. Aspetta
che i farmaci facciano effetto» mi rassicurò,
cullandomi a sé, baciandomi le
palpebre chiuse e pesanti.
Non potevo immaginare una vita
senza di lui.
Rabbrividii, ricordando l’angoscia e il terrore che avevo
provato, sognando di
averlo perso per sempre, per causa mia. Perdere le sue labbra sul mio
viso,
quel meraviglioso contatto duro e freddo che mi faceva entusiasmare e
rabbrividire.
«Va meglio?» mi
chiese, sorridendomi, quando riaprii
gli occhi.
Annuii, avvicinando il naso bagnato
alla sua mascella,
baciandolo piano. «Grazie» borbottai, stringendo il
suo maglione con la mano.
Si chinò sul mio
orecchio, sospirando piano. «Non
dovresti ringraziarmi. Fra poco saremo sposati, e credo che questo
rientri in
uno dei cosiddetti “doveri coniugali”. Non essere
così imbarazzata, Bella, ti
prego» fece dolcemente, con un sorriso. E avrei ribattuto se
non avessi saputo
quanto ci sarebbe rimasto male, così serio come, in fondo,
era. «Voglio che il
mondo sappia quanto ti amo. Che sappia che sei mia».
Sarebbe stato un magico momento di
distrazione se non:
primo, il monitor non avesse iniziato a contare i miei battiti,
impazzito; secondo,
l’infermiera non si fosse precipitata in camera trovandoci
così avvinghiati.
Spalancai gli occhi, arrossendo.
Provai a separarmi
dal suo corpo, ma lui mi trattenne, non dandomi via di fuga. Immaginavo
che
sarebbe stata davvero dura stare in ospedale quei giorni.
«Edward, Bella dovrebbe
riposare» lo ammonì, le mani
sui fianchi.
Il viso del mio fidanzato si
aprì in un sorriso
angelico. «É proprio quello che avevo in mente,
Mrs Nupe. Bella non riusciva a
calmarsi, aveva dolore» spiegò, mellifluo.
La donna arrossì, e
borbottando uscì dalla stanza,
senza replicare.
«Edward»
biascicai indignata, ancora troppo rossa per
dare al mio viso una parvenza di serietà. Sapevo che per lui
non era un
problema farci trovare vicini, o abbracciati. Ma io non ero come lui.
Aveva
ragione: ero terribilmente timida e imbarazzata.
Mi sorrise, un sorriso furbo, ma
presto il suo viso si
distese in un’espressione dolce. «Ho detto la
verità» mormorò, baciandomi la
fronte.
Mi lasciò andare fra le
coperte, rimanendo seduto
accanto a me, accarezzandomi e baciandomi.
La porta della stanza si
aprì.
«Ci siamo Bella. Non ti
preoccupare e andrà tutto
bene».
«Certo»
sussurrai. Sarebbe andato tutto bene con
Edward accanto a me.
Strinsi la presa sul braccio di
Edward, cercando
conforto nella sua vicinanza. Ma quando i miei occhi caddero dietro il
dottor
Parks, sul carrellino trasportato da due infermieri in blu, non potei
fare a
meno di sbiancare vistosamente.
Aghi.
C’erano troppi aghi.
Annaspai, il respiro affannoso,
voltandomi
immediatamente verso Edward. Mi accarezzò il viso,
sorridendo in modo da essere
rassicurante. Sentivo lo stomaco contorcersi in una morsa di nausea al
pensiero
che quell’ago avrebbe dovuto trapassare la mia
pelle… rabbrividii, deglutendo
per allontanare il ronzio alle orecchie.
«Come ti
senti?» mi chiese Carlisle, controllando
velocemente i miei dati. «La febbre è scesa,
fortunatamente».
Rispose Edward, non smettendo per
un istante di
accarezzarmi i capelli. «Prima aveva dolore, e
l’infermiera le ha dato degli
anti-dolorifici. Ha avuto sempre questo respiro affannoso».
Il dottor Parks si
avvicinò al mio letto. «Ragazzo,
dovresti uscire» fece, rivolgendosi a Edward, alle mie
spalle. «Adesso dobbiamo
intervenire».
Non dissi nulla. La mia mano era
serrata su quella di
Edward, tanto che sospettavo avrebbero dovuto tagliarla se avessero
avuto
intenzione di separarmi da lui. Le lacrime sorsero spontanee sui miei
occhi.
«Edward…» mormorai tremante.
Mi strinse la mano.
«Dottor Parks, Bella è spaventata.
Crede di poter fare qualcosa?» domandò con
educazione, «non interferirò in
alcun modo».
Il dottore sospirò
scuotendo il capo. «Abbiamo fatto
un’eccezione, già in due casi.
Un’infermiera si prenderà cura di lei
più che
volentieri».
Ansimai, stringendomi al suo
braccio. Portai
velocemente una mano al corpo dolorante. Sentivo un tremito e un conato
di
nausea al pensiero di dover subire quell’intervento. Doverlo
fare senza Edward
mi faceva mancare il respiro.
Carlisle fece un passo avanti,
frapponendosi.
«Richard, sappiamo benissimo entrambi che per una toracentesi
il paziente deve
poter usufruire di tutta la calma del caso. Bella è molto
ansiosa e agitata, e
non credo che la presenza di Edward possa dare fastidio, quanto
beneficio al
buon fine dell’intervento».
Il suo collega lo
squadrò di sottecchi. «Carlisle, la
prassi…».
«Non credo sia la prima
volta che ti capita una
situazione simile».
«Ah…»
sospirò, scuotendo il capo. «Sbrighiamoci, ho un
altro intervento più tardi».
Tirai su col naso, voltandomi a
guardare Edward. Mi
sorrise, cancellandomi le lacrime sulle guance bagnate.
Carlisle mi spiegò con
calma come sarebbe avvenuto
l’intervento, e intanto mi prepararono, facendomi indossare
il camice sterile.
«Siediti al bordo del letto, e poggia le braccia sul
tavolino» mi guidò,
lasciando che Edward mi aiutasse a sollevarmi per fare come diceva.
Un’infermiera mi fece posare la testa su un cuscino,
sistemato sul tavolino.
Avevo la schiena scoperta, esposta allo sguardo dei dottori, e mi
sentivo
piccola e vulnerabile. Volevo voltarmi e scappare via, posticipare
continuamente il momento in cui l’ago avrebbe toccato la mia
pelle…
Edward era davanti a me, appena
dietro il tavolino.
Il dottor Parks aveva sistemato una
mia radiografia su
uno schermo luminoso. Si vedevano i polmoni. L’immagine era
come quella nel
libro di biologia, ma c’erano anche diverse macchie scure.
Le mani gentili di Carlisle, alle
mie spalle,
tastarono la pelle della mia schiena. Sussultai lievemente quando
sentii
dolore. «Ok, piano, va bene…» mi
rassicurò, mettendo una mano sulla spalla per
bloccare un altro mio eventuale movimento. Mi sentivo nervosa, agitata,
pronta
a scattare ad ogni istante. Prese un pennarello e tracciò
delle linee sulla mia
pelle.
Edward mi sorrise, un sorriso
rassicurante, e non
potei fare a meno di restituire un pallido sguardo affettuoso.
Man mano che passavano il
disinfettante sulla schiena
sentivo che il momento in cui l’ago si sarebbe fatto spazio
fra le mie costole
si stava avvicinando, e il mio viso diveniva sempre più
pallido.
«Adesso il dottor Parks
ti farà un’anestesia locale,
con un piccolo ago. Sarà come una normale iniezione,
pungerà solo un po’»
m’informò la voce metodica di Carlisle.
Affondai il viso sul cuscino,
stringendo le braccia
contro il petto.
Il dottore posò una mano
sulla schiena. «Dimmi quando
sei pronta».
Mai. Non
sarei mai stata pronta. Lo sapeva il mio cuore, che batteva contro il
tavolino.
Lo sapeva bene. «Lo faccia e basta» mormorai,
tremando e tentando strenuamente
di rimanere comunque ferma.
M’irrigidii, sgranando
gli occhi, quando avvertii il
contatto bruciante dell’ago. Strinsi i pugni contro il petto,
trattenendo a
stento le lacrime.
«Ferma, Bella»
mi ammonì dolcemente Carlisle,
accarezzandomi la pelle scoperta del collo per calmarmi. O forse per
tenermi
ferma sul cuscino ed evitare che mi muovessi.
Morsi il cuscino con i denti,
agitata. Il dolore
pungente m’infiammava il petto. Una mano fredda prese la mia,
dischiuse le dita
serrate in un pugno e la strinse. Edward.
Quando, circa mezzo minuto dopo, mi
sentii libera da
quel tormento espirai riaprendo gli occhi.
«Brava, finora sei stata
brava» mi rassicurò Carlisle,
strofinando dolcemente la nuca. «Adesso interverremo con
l’aspirazione. Potrà
durare anche più di dieci minuti, e voglio che tu rimanga
sempre calma e che ci
dici se hai fastidio o se senti troppo dolore. Respira piano e rimani
ferma».
Annuii, piano, sollevando
disorientata gli occhi in
cerca di quelli di Edward. Mi sorrise, dall’altro lato del
tavolino,
accarezzandomi una guancia. Strinsi più forte la sua mano,
spaventata.
«Senti le mie
dita?» chiese Carlisle, tastandomi la
schiena nel punto in cui, poco prima, il dottor Parks aveva fatto
l’anestesia.
«N-no»
farfugliai, scavando con le dita sul cuscino.
Tremavo così tanto da avere paura di mordermi la lingua con
i denti.
«Calma Bella, va tutto
bene» mi assicurò Edward, «non
farà male…».
«Si» sussurrai
velocemente, «si…».
Sentivo la
nausea pervadermi ad ondate al pensiero di quello che sarebbe successo.
La
testa mi girava, e il corpo era preda di un trattenuto spasmo convulso.
Non
avrebbe fatto male, non avrebbe fatto male,
non avrebbe fatto
male. Mi sentivo a disagio. Non potevo lasciarmi prendere dal
panico. Strinsi
con la mano quella di Edward.
Carlisle si sistemò alle
mie spalle, posando una mano
sulla scapola. «Sto per inserire
l’ago…» m’informò.
Scattai. A quelle parole mi tirai
su a sedere,
divincolandomi dalla blanda presa di Edward sui miei capelli.
«No…» singhiozzai
agitata, «no» sussurrai, voltandomi tanto da
guardare la siringa Carlisle aveva
in mano.
Chiusi gli occhi, pervasa da
un’ondata di nausea. Non
volevo comportarmi come una bambina, mi vergognavo così
tanto. Ma ero certa che
se mi avesse anche solo toccata non sarei riuscita a resistere per
dieci o
quindici minuti. «Mi dispiace» mormorai
mortificata, ritraendomi e distogliendo
lo sguardo.
Il dottor Parks sospirò,
facendomi venire le lacrime
agli occhi.
«Sta tranquilla,
Bella» mi rassicurò immediatamente
Carlisle, riponendo per un attimo la siringa. Si sollevò,
fino a fare il giro
del tavolino. Posò una mano sulla mia. «Non
è successo niente. Voglio che tu
sia calma e tranquilla, va bene? Rilassati, respira piano».
Provai a seguire un ritmo
più lento, ma i singhiozzi
perturbavano il mio petto. Mi presi il capo fra le mani. «Mi
viene da
vomitare…» sussurrai, in ansia.
Mi fece mettere la testa fra le
ginocchia, e mi aiutò
a calmarmi, facendomi ritrovare il giusto ritmo del respiro. Era
comprensivo e
disponibile.
«Va bene, visto che ci
riesci? Va meglio, vero?».
Annuii, piano.
«Carlisle» lo
chiamò Edward. «La posso tenere io. La
posso tenere io, se la fa stare meglio. Si può
fare?».
Padre e figlio spostarono lo
sguardo sul dottor Parks.
Roteò gli occhi al cielo. «Sbrighiamoci».
Edward si sistemò
davanti a me con una sedia,
stringendomi al suo corpo. «Sono qui con te»
sussurrò, facendomi posare la
testa sulla sua spalla, stringandomi con una mano sulla nuca e con
l’altra sui
reni. Il mio petto aderiva al suo corpo. La sua presa era tale che,
anche se
avessi voluto, non avrei potuto muovermi. Ma non mi sentivo in
trappola. Mi
concentravo sulla nostra vicinanza.
«Stringiti al suo corpo,
Bella, così. Perfetto, rimani
ferma. Posso procedere?» chiese Carlisle, senza alcuna fretta
nella voce.
Feci per annuire, ma mi
bloccò.
«No, no, non ti muovere.
Ricorda, parla o solleva la
mano».
Nascosi il naso sul maglione di
Edward, e il suo odore
mi arrivò dolcemente alle narici. Mi baciò la
fronte, scostandosi appena. «Non
farà male» mi rassicurò ancora,
sfiorandomi la tempia con la punta del naso, «sarò
qui con te».
Deglutii, stringendo con entrambe
le mani, chiuse in
due pugni, la sua maglietta. E lasciai che Carlisle cominciasse.
Sentii chiaramente un piccolo
contatto pungente. Poi,
lentamente, qualcosa mi mozzò il respiro. L’ago
scendeva sempre più in
profondità. Strinsi più forte la mani sulla
stoffa, sgranando gli occhi.
«Piano, piano»
mormorò al mio orecchio Edward,
facendomi calmare fra le sue braccia. «Vedi? Non è
così impossibile. Lo so che
sei una ragazza in gamba, devi solo credere un po’ di
più in te stessa. Non
preoccuparti, ci penserò io. É per questo che ti
sposo» fece, un sorriso sulle
labbra.
Arrossii, stringendo con
più forza la sua maglietta.
Sentivo gli occhi di tutti i presenti su di me, e i loro sorrisi alla
mia
faccia rossa. Non ero pronta ai loro sguardi alla notizia succulenta
che sapevo
offrirgli. «Mi-mi…» farfugliai,
stringendo i denti quando sentii l’ago scendere
più in profondità.
Edward mi accarezzò la
nuca, mantenendo salda la sua
presa. «Ti faccio imbarazzare, lo so»
scherzò debolmente. Poi abbassò la voce,
sussurrando al mio orecchio «ma devo pur fornire la notizia
del giorno, no? Non
voglio rischiare che sia quella della tua accidentale caduta».
Feci per sospirare, ma
m’interruppi a metà, sentendo
una fitta provenire da dove l’ago giaceva nel mio petto.
«Mi dispiace»
farfugliai, immediatamente memore del fatto che tutta quella situazione
era
stata causata per colpa mia. Ed Edward era sempre stato così
buono con me, era
sempre stato ciò che ogni ragazza sogna, ciò che
non si illude di avere ma a
cui infondo spera di arrivare. Un sogno. E non avevo avuto alcun
diritto di
sciuparlo.
«Ehi»
mormorò preoccupato, asciugandomi le lacrime che
erano rotolate lungo le guance «fa male?».
Carlisle, alle mie spalle, si fermò.
«N-no»
sussurrai, «no». Il fastidio
dell’intrusione
era notevole, e l’idea dell’ago mi stava facendo
impazzire. Ma sapevo di poter
tenere la situazione sottocontrollo, ancora un po’.
Edward strofinò la
guancia contro la mia. «Calmati.
Non parlerò del nostro matrimonio se non vuoi, non ti
preoccupare».
Il mento mi tremò,
contro la sua spalla. «N-no… non…
non ti preoc-» presi fiato in un risucchio quando Carlisle
cominciò ad aspirare.
Sollevai immediatamente la mano.
Faceva male.
«Senti dolore?»
mi chiese immediatamente, fermandosi.
«Procediamo più lentamente, ecco. Fa ancora
male?».
Edward mi accarezzò,
silenzioso, negli istanti in cui
aspettavo che il dolore scemasse e che il mio viso pallido, imperlato
di
sudore, riprendesse colore. Poi abbassai il braccio.
Rimasi così, attaccata
al suo corpo, concentrandomi su
quello anziché ciò che mi stavano facendo. Ogni
secondo, ogni istante, mi
accarezzava con le dita, sorreggendomi la testa, abbandonata sulla sua
spalla,
baciandomi le guance, la fronte, e non smettendo mai di canticchiare,
al mio
orecchio, una dolce melodia. Ero troppo preoccupata e presa dal
parlottio dei
dottori alle mie spalle per essere imbarazzata, nonostante la
situazione, in un
ambito diverso, mi avrebbe causato un notevole senso di disagio.
Invece in quel momento pensavo solo
ai miei ormai
decisi propositi per il futuro. Edward, solo Edward, ad ogni costo.
Pentendomi,
cullata dalla dolce melodia della sua voce, di ogni mia stupida ed
errata
scelta.
Sentii un fastidio crescere per il
polmoni, e
l’affanno aumentare lievemente, nel respiro.
Edward mi baciò la
fronte, accarezzandomi i capelli.
«Che succede?».
«M-mi viene da
tossire» mormorai agitata. Un istante dopo
successe. Sentii una dolorosa fitta espandersi per il torace. Gemetti,
piegandomi convulsamente sul suo corpo.
Carlisle venne subito vicino.
«Calma Bella, calma.
Rilassati» fece, posando entrambe le mani sulla mia schiena.
Ansimai, spaventata, e presto
tossii ancora. Un’altra
ondata di dolore m’investì, bruciante. Gemetti,
singhiozzando.
«Tienila
ferma!» Esclamò il dottor Parks,
«dobbiamo
finire, ci vorrà poco».
«Aspetta,
Richard…».
«Ahh!» gridai,
sentendo altri accessi di tosse
scuotermi, e il dolore continuare ad imperversare, indisturbato.
«Fa male!»
piansi.
«Ora tutto passa,
davvero. Calmati, resisti ancora un
po’» mi rassicurò velocemente Edward,
ansioso.
Sollevai velocemente le braccia,
provando a muovermi,
allontanarmi. Mi sentivo soffocare, non riuscivo più a
respirare. Rantolavo,
senza parlare, mentre la vista si offuscava. Qualcuno provò
a sistemarmi la
mascherina sul viso. La tolsi, immediatamente, quando il senso di
soffocamento
aumentò esponenzialmente.
Strinsi entrambe le mani sul
maglione di Edward,
tirando indietro la testa. Tossii. E si sporcò di un fiotto
rosso. Sangue. Sollevai
lo sguardo sui suoi occhi neri, e lasciai che il buio
m’inghiottisse.
*
«Ah, finalmente si
è svegliata».
Aprii gli occhi, disorientata. Ero
ancora sul letto.
Ma nella stanza non c’erano i macchinari. Di nuovo.
Di fronte a me un uomo sulla
carrozzella, che immediatamente
identificai come Billy Balck.
«Cosa…? Dove
sono?» chiesi, mettendomi a sedere,
perplessa. La testa mi ronzava fastidiosamente, ma, a parte quello, non
sentivo
nessuno dei precedenti dolori.
Puntò i suoi occhi nei
miei, freddi. «Che c’è Bella,
non ricordi più?». Nella sua voce graffiata
c’era rancore, odio e una ben
leggibile nota di isteria.
Mi portai una mano alle tempie,
sorpresa; pulsavano.
«Oh, la nostra povera
Bella è disorientata, non sa,
piccina. Cosa hai fatto? Hai fatto la cattiva bambina?».
Scossi il capo, frastornata per il
suo comportamento.
«Ma… Billy…» farfugliai.
Scoppiò in una risata
raggelante. Aveva un ghigno
terrificante stampato in faccia. Un orribile sospetto
cominciò a impossessarsi
di me.
«Dove… dove
sono?» chiesi, fra le lacrime che subito
avevano cominciato a scendere, copiose, dai miei occhi. La mia mente,
frenetica, riusciva ad individuare un solo motivo per il suo
comportamento.
«Sei
all’ospedale, ma dovresti essere
all’inferno»
sentenziò con assoluta freddezza.
Annaspai, sgomenta, raggelando. Un
dolore atroce mi
squarciò il petto. Cacciai l’urlo più
potente che mi potessi permettere.
*
«Ahhhh!».
Improvvisamente, fui invasa da altre mille
altre dolorosissime lame. Sentivo voci, voci confuse. Dolore diffuso su
tutto
il corpo. Vedevo sagome di persone che si muovevano veloci intorno a
me. Erano
macche indistinte.
La paura si aggomitolò
ancora, rapidamente, nel mio petto.
Edward non c’era, non c’era. Era morto. Morto.
«Edward» provai
a dire, e subito individuai una delle
fonti del dolore, la gola. Ma era nullo in confronto a quello che
portavo
dentro. «Edward!» provai a voce più
forte. Ma anche questa volta, nonostante
l’incredibile dolore, la parola non fu affatto comprensibile.
Realizzai di
avere un tubo in gola e che per quanto mi sforzassi non mi avrebbero
mai
capito.
Le voci che mi stava attorno erano
agitate,
terrorizzate, mischiate, lontanissime. Troppo, rispetto alla vivida
paura che
nutrivo in petto. Ero angosciata, disorientata. Nauseata dal rapido
succedersi
degli eventi.
Poi, d’un tratto, fu come
se fossi stata bruscamente
ribaltata nella realtà. Le voci si fecero troppo forti.
Faceva male.
«La saturazione
dell’ossigeno sta scendendo».
«Codice rosso».
«I battiti stanno
calando».
«Preparate la sala
operatoria».
Sgranai gli occhi, annaspando. Ogni
sensazione
sensoriale sul mio corpo più vivida e vicina. Ancora
più dolorosa e fastidiosa.
«Amore, sono
qui».
Ero su una barella, si stava
muovendo veloce nel
corridoio. La confusione nauseante, lo smarrimento,
l’incertezza, presero
rapidamente il posto della paura e dell’angoscia.
«Bella, sono accanto a
te».
Mossi velocemente la testa, a
destra e a sinistra,
alla disperata ricerca del suo volto. Due mani decise mi bloccarono,
senza darmi
la possibilità di spostarmi.
Lo vidi. Vidi il suo volto angelico
piegato da
un’espressione terrificata. «Sta ferma, sono
qui» m’implorò, preoccupato.
I neon si susseguivano rapidi e
cadenzati sui miei
occhi, ora aperti, ora chiusi. Ero circondata da persone che si
muovevano
rapidamente intorno a me, ma ancora troppo disorientata. Avevo paura di
ingannarmi ancora, di confondere ancora il sogno con la
realtà. Sentivo Edward,
vivo, accanto a me. Come solo poco prima
l’avevo certamente creduto
morto.
«Edward» cercai
di dire, ma una nuova ondata di dolore
mi assalì la gola.
«Shh, non parlare.
Shh…». Scese veloce a baciarmi la
fronte.
La corsa si era fermata.
«Edward, dobbiamo entrare» lo
informò la voce metodica di Carlisle.
Edward deglutì, il volto
attraversato dalla
preoccupazione e dal dolore. Ero frastornata e confusa. Il corpo era
attraversato da una miriade di piccoli dolori, che ad ondate pulsavano
lungo
tutte le mie membra. Sentivo di non averne il controllo, lo sapevo.
Anche il
respiro, nel petto, era così forzato da farmi venire la
nausea.
Mi accarezzò le guance
con le mani, frenetico. Non
sentivo bene il contatto, solo un piccolo formicolio. «Bella,
affronterò questa
cosa con te. Ma adesso ti devo aspettare qui».
Un ansito venne risucchiato dal
tubo che mi
attraversava la gola. Le lacrime cominciarono a rigarmi il viso.
La sua espressione si
rattristò maggiormente, e il
movimento delle sue mani sul mio viso si fece più veloce.
Voleva farmi sentire
il suo contatto sulla pelle, ma era delicato, come se temesse di farmi
del
male. «Entra lì dentro e resisti. Non lasciarmi,
capito?» m’implorò, turbato.
Non risposi. Annaspai, e chiusi gli
occhi. Sentivo che
non ce l’avrei fatta senza di lui. Se il mio corpo era
ferito, il mio animo era
lacerato dalla paura e dal senso di colpa.
La voce frettolosa di Carlisle ci
raggiunse. «Edward,
dobbiamo andare».
Sospirò, soffiandomi sul
viso. Le sue mani scesero a
stringere le mie. «Fallo per me, ti prego», mi
chiese, ansioso. Sul viso
l’espressione più addolorata di sempre.
Tremai. Strinsi debolmente la sua
mano. Chiusi e
riaprii gli occhi, in assenso. Lo amavo troppo per non farlo. Per farlo
soffrire ancora una volta.
Mi sorrise appena, troppo devastato
perché il suo
sorriso potesse apparirmi vero. «Ti amo»
sussurrò, scendendo a baciarmi un
angolo della bocca.
Speravo, almeno questa volta, di
aver preso la scelta
migliore. Di essere riuscita nel mio proposito altruista.
Immediatamente la barella
entrò nella sala operatoria,
mentre la sagoma addolorata di Edward si faceva sempre più
piccola e lontana.
Poi, quando delle luci al neon mi accecarono, tutto cominciò
a sfocarsi, finché
non sprofondai ancora nell’inconscio.
*
Ma la luce c’era ancora,
ben presente. Potevo vederla
attraverso le palpebre chiuse dei miei occhi. Li aprii istintivamente.
Era così
strano, mi trovavo stesa su un prato. Tutti i colori del paesaggio
erano
smorti, oscuri, ma contemporaneamente era illuminato da una luce
innaturale,
bianca. Come il mezzogiorno bianco delle giornate autunnali, quando
tutto
sembra avvolto dalla patina del medesimo colore, e le nubi assorbono la
luce
gialla lasciando solo quella bianca e accecante. Il cielo era bianco;
sul prato
vi erano posati crisantemi viola. Intorno a me non c’era in
minimo movimento,
nessuno spostamento d’aria, neppure l’ombra di un
venticello. Un silenzio
assoluto e anomalo mi circondava.
Mi alzai. Mi sentivo leggera,
stranamente e troppo,
rispetto all’aria uggiosa. Indossavo un vestitino giallo. Era
un giallo strano.
Né giallo limone, quello felicità, né
giallo inteso, il colore della gelosia.
Era giallo, un giallo smorto e finto che mi feriva gli occhi solo a
guardarlo.
Dinanzi a me un cancello nero.
Lì intorno nessuno
oltre a me.
Dove mi trovavo?
«C’è
nessuno?». Nel luogo deserto si spanse l’eco
agghiacciante della mia voce.
Calpestando l’erba finta
e inconsistente, leggera e
incorporea, oltrepassai il cancello.
Il luogo in cui mi trovai era
identico al precedente.
Completamente coperto d’erba piatta.
«C’è
nessuno?» ripetei. Niente, solo l’eco della mia
voce a farmi, ancora una volta, compagnia.
Fu allora che, in fondo ad un
sentiero comparso dal
nulla, notai un grosso massi e sentii l’esigenza di
avvicinarmici.
Sul masso era incisa
un’iscrizione, celata dal verde
muschio. Sentii l’immensa necessità di leggere
cosa vi era scritto. Cominciai a
scostare l’erba con la mano, ma non veniva via. Allora
diventò un’ urgenza e
cominciai a grattarlo, veloce, con le unghie, ricoprendomi le mani di
sangue.
Finché non la vidi.
‘Qui giacciono Edward
Cullen e Jacob Black, uccisi dal
perfido amore di Isabella Marie Swan’
Le mie urla erano sorde, si perdevano nella
vastità dell’aria e nell’assoluto
silenzio che mi circondava
Capitolo riveduto e
corretto.
Le mie urla erano sorde, si
perdevano
nella vastità dell’aria e nell’assoluto
silenzio che mi circondava. E ogni urlo
ne portava con sé un altro, un altro e un altro ancora,
facendo passare minuti,
ore, giorni…
‘Qui giacciono Edward
Cullen e Jacob
Black, uccisi dal perfido amore di Isabella Marie Swan’
Quelle parole erano marchiate a
fuoco
nella mia mente. Il dolore che provavo era a dir poco immenso. Usavo le
mie
urla, le mie grida di voce straziata, come valvola di sfogo, ma quando
pensavo
che il dolore mi stesse per sopraffare quel paesaggio smorto mi dava
energia,
incupendosi sempre di più della sua luce innaturale.
Niente mi teneva ancorata a quella
che
pensavo potesse essere la realtà, come pure niente mi teneva
ancorata a ciò che
poteva dimostrarsi sogno, perché nulla nel sogno era vero.
Ero sospesa in un
limbo. Un limbo fatto solo di dolore e senso di colpa.
Un vento imponente e turbinoso si
era
alzato nel prato e mi frustava il viso con l’aria gelida.
Dai miei occhi non cadevano
lacrime, non riuscivo
a piangere. Avrei voluto farmi del male, del male fisico
perché solo quello
poteva farmi sfogare adeguatamente da ciò che sembrava, ma
non poteva, essere
vero.
Sì. Solo quella era la
possibile
soluzione: farmi del male.
«Fallo Bella,
torna da me…» Mi
votai di scatto. Era la sua voce, la voce di Edward, proveniva dalla
lapide.
L’assurdità
del pensiero mi colpì in pieno
volto. Non poteva. Non poteva volere che mi facessi del male.
Nonostante avessi
sbagliato, mille volte, con lui, nonostante l’avessi tradito
e fatto
soffrire - fui pervasa dal fantasma della nausea al solo
pensiero -
nonostante questo, aveva promesso di non abbandonarmi mai. Mai.
Perfido amore… perfido
amore… uccisi…
Risucchiai l’aria attorno
a me, sentendola
mancare nei polmoni.
Sagome apparvero da nugoli di fumo
oscuro,
agghiacciante in contrasto alla luce chiara e bianca del luogo.
Il vento si placò
all’istante.
Rabbrividii.
Erano nove, incappucciati. Mi
portai una
mano tremante alle labbra, per trattenere altre eventuali urla che
oramai non
potevano più fare a meno di uscire dalla mia gola.
La prima figura a destra fece un
passo in
avanti. Si tolse il cappuccio. Jasper. «Bella» mi
chiamò, neutro, inflessibile
e implacabile. I suoi occhi sapevano. Mi guardava, e nelle sue pupille
c’era la
consapevolezza di condividere la verità con me.
«Sentivo le tue emozioni.
Perché hai sbagliato? Così? Sarebbe stato tutto
più semplice, se non ti fossi
fatta ingannare da te stessa» fece, lieve nell’aria
lieve.
Deglutii, distogliendo appena lo
sguardo.
Una seconda figura, subito accanto
a lui,
fece un passo in avanti e si tolse il cappuccio. La luce bianca
rivelò uno
scintillio di capelli dorati. Rosalie. «Tu, piccola, ingenua,
Bella» mormorò
con voce intrisa di debole amarezza. «Cosa credevi di
ottenere?» le sue
sopracciglia sottili si unirono in una maschera di rimprovero
«Ho sempre detto
che saresti solo stato un peso. Hai distrutto le persone che ti stavano
accanto».
Mi portai le mani alla bocca.
E ancora, mia madre.
Reneè. La sua voce
nostalgica veleggiò verso di me nell’aria
inconsistente. «Piccola Bella… lo
amavi. L’ho visto, te l’ho detto. La vostra forza
di gravità vi legava. Perché
ti sei allontanata? Perché li hai feriti,
entrambi?». Mi rivolse uno sguardo
addolorato, incomprensivo.
Tremai, mentre sentivo il cerchio
chiedersi attorno a me.
«Perché?».
Carlisle. «Perché, Bella?
Perché hai dovuto ferire Edward? Aveva trovato la luce.
Aveva trovato
finalmente la luce…». La sua voce era vuota,
secca, arida. Scosse il capo.
Strinsi una mano sul petto,
annaspai.
Quelle parole mi ferivano più che le lame.
Poi ancora. Mio padre, Charlie.
L’uomo da
cui mi aspettavo conforto, l’uomo che mi aveva spinto fra le
braccia di un
altro uomo. L’uomo da cui volevo comprensione. Scosse il
capo. No. Lo sapevo.
Mi bastava guardarlo, puntare i sui occhi sulla sua figura
così strana in quel
campo di erba verde stinta, per sapere che neppure lui
l’avrebbe fatto.
«Pensavo che lo sapessi» fece, e si
strofinò i baffi. Scrollò le spalle, e la sua
occhiata delusa mi raggiunse. «Speravo che almeno tu sapessi
cosa volevi. O
uno, o l’altro. Non va bene,
così…».
Feci per muovere un passo, ma mi
sentii
bloccata. Bloccata da una forza inconsistente, pesante come tutta
l’aria che mi
sovrastava inchiodandomi al terreno.
Emmett. Nei suoi occhi spenti non
c’era
più quella naturale propensione allo scherzo, alla burla, al
gioco che lo aveva
caratterizzato. Niente che non fosse un’innaturale
serietà, un’innaturale
tristezza sul suo volto da bambino giocoso. Non parlò:
sollevò le mani, scosse
il capo. Afflitto.
Ogni battito del cuore nel petto
era
affannoso, bruciante, doloroso. Il male mi stava corrodendo.
La più minuta sagoma
fece un passo.
Vibrava, scossa dai singhiozzi. «Bella… come hai
potuto? Ti volevo bene»
mormorò, le labbra bianche che tremavano. Avrei voluto
correre, stringerla a
me, farmi stringere. Chiedere perdono, trovare un modo per tornare
indietro nel
tempo perché tutto ciò non accadesse ancora.
«Sorellina…» singhiozzò.
Scosse il
capo. «Sono morti…».
Le sue parole mi entrarono nel
petto come
coltellate. Non riuscivo quasi più a sostenermi. Feci per
parlare, per
chiamarla, ma non c’era alcun modo in cui avrei potuto essere
padrona
consapevole delle mie labbra.
Un’altra figura, un altro
passo, un altro
dolore. Billy. «Hai ucciso tu mio figlio»
scandì lentamente, la stessa voce
lenta e pedante che gli avevo sentito usare quando parlava della sua
tribù.
Quando parlava, con odio, del vampiro ucciso. «Dovevi tirarti
indietro quando
potevi, e non pretendere l’amicizia quando non eri disposta a
concederti al suo
amore».
Portai le mani alla testa, scossi
il capo.
La verità delle loro parole mi trapassava da parte a parte.
Era la paura di uno
sbaglio, coltivata e cresciuta, giorno dopo giorno, che espressa a voce
da
qualcun altro mi bruciava la pelle, come se me la stessero tirando via,
per
entrarmi dentro e ricominciare a bruciare. Diventava evidente
verità.
Ero in balia del dolore, ero in
balia del
vento. Servì davvero poco per farmi crollare.
Degli occhi ambrati, tondi, sempre
dolci,
ma ora pieni di dolore, rabbia, agonia, mi fissarono morti.
«Mio figlio… Bella»
esalò senza fiato Esme, «hai ucciso mio figlio.
Non ti bastava il suo amore…».
Annaspai, indietreggiando appena.
Terrorizzata.
«Tu volevi anche il suo
cuore» sibilò.
«E il suo»
aggiunse Bill.
Mi guardai attorno, disorientata,
colpita,
senza fiato. Se avessi potuto, se solo avessi potuto cancellare anche
solo una
parte dei miei peccati, concedere tutta la mia anima e il mio corpo a
Edward,
liberare Jacob dall’essenza della mia presenza. Se
solo… se solo avessi
potuto.
Senza che lo potessi prevedere
sulla mia
mano apparve un oggetto. Bianco, duro, freddo. Scintillante alla luce
del sole.
Sull’altra mano un altro oggetto. Rosso, caldo, pulsante.
Immobili. Morti. Per colpa mia.
Cacciai un urlo, inorridita. Erano
i loro
cuori.
«E’stata tutta
colpa tua» disse Esme.
«E’stata tutta
colpa tua». Bill.
«E’stata
tutta colpa tua!» esclamò
contemporaneamente il coro dissonante di voci.
Colpa tua… colpa
tua… tutta colpa tua…
Mi rimbombavano nella mente,
ferendomi e
lacerandomi, straziandomi con l’assurda verità che
portavano con sé. E volevo
scampare, in qualche modo, a tutto quel dolore. Farlo prima di
impazzire,
poiché già pensare mi sembrava impossibile.
Tutto prese a girare
vorticosamente, le
sagome nere inconsistenti, il prato sbiadito, le forme irreali. Il
vento il
alzò, le voci si fecero man mano sempre più
lontane, la luce sempre più forte,
quasi accecante.
Finché non venni
abbagliata e caddi riversa
sulle ginocchia. Svuotata. Schiacciata.
Aprii gli occhi, ansante, stanca,
distrutta. Il macigno della colpa sul cuore e nella testa. Ero ancora
nel mio
incubo personale. Stessa scena, stesso monotono paesaggio, stessa lapide.
La mia testa scattò in
alto, veloce, tanto
veloce da farmi male, colpire con una fitta il cervello, il centro dei
miei
pensieri. «Bella, vieni da me…
insieme…». Era la sua voce, era la voce
di Edward.
Mi alzai di fatica sulle ginocchia,
il
fiato corto. «Edward?» chiamai spaesata,
angosciata. Mi sorpresi di quanto la
mia voce fosse bassa e roca. Una speranza, una speranza. Cercavo un
barlume di
speranza in quel dolore accecante.
«Sono qui, ma tu
adesso devi tornare da
me…».
Ancora, la mia testa si mosse
veloce.
Proveniva dalla lapide. Mi misi a correre, affannata, verso la fonte
della sua
angelica voce. Ma faticavo incredibilmente, per quanto mi muovessi, per
quanto
corressi, si allontanava sempre di più, non la raggiungevo
mai. Cadevo, mi
alzavo, rinciampavo. E ancora e ancora. Sempre più lontana,
sempre più
distante.
«Edward!»
urlai, frustrata e distrutta,
lacerata.
E improvvisamente lo spazio fra me
e la
lapide si accorciò paurosamente. Mi ritrovai
all’istante bloccata, davanti al
masso freddo e privo di vita. Ansai, ferma. Con mille domande, con
mille
tormenti, ma senza neppure una risposta.
«Bella, torna
con me…».
Singhiozzai, affranta e stremata.
Un
singhiozzo asciutto e per questo ancor più doloroso. Sapevo
di non meritarlo,
sapevo di non avere nessun diritto di chiederlo ancora al mio fianco,
di averlo
con me. Eppure non potevo fare a meno di desiderare, strenuamente,
riaverlo
vicino, come sempre, per sempre. Desiderare risvegliarmi ed essere
tornata
indietro nel tempo.
«Come?» chiesi,
piano. Troppo piano,
forse, perché potesse sentire la mia voce tremante. Il
sangue mi pulsò nelle
vene.
Silenzio. Assoluto.
«Come?!»
gridai, sentendo le forze
esplodere fuori dal mio corpo e insieme venir meno.
Ancora, nulla. E in quel momento la
disperazione soppresse ogni germe di speranza. La realtà e
l’illusione si erano
confuse, rendendo vero anche cosa non lo era. E ora ero persa e
straziata,
senza alcuna via di fuga, sospesa in un limbo di dolore e senso di
colpa.
Immaginata. Dovevo aver immaginato
la sua
voce angelica. E la realtà, non esisteva. Edward…
era morto. Jacob… questa era
la realtà. Lui… anche lui. Certo. Come sarebbe
stato possibile pensare il
contrario? Erano entrambi morti.
I miei pensieri si aggrovigliarono
e si
contorsero, si strinsero, uno addosso all’altro, vorticando
nella mia mente. Mi
uccidevano, mi struggevano.
Tutta colpa tua! Quella, quella era la voce che
riuscivo a sentire e
distinguere nettamente, l’unica che riuscissi a pensare. Che
le conseguenze
fossero state portate allo stremo o no, che potessi ancora avere la
possibilità
di ricucire o meno, quello era vero, nella realtà o
nell’illusione. Era
completamente, tutta, colpa mia. Come dare torto a quella voce nella
mia
testa?! Come, se lo sentivo anche nel cuore affannato o nel dibattersi
veloce
nel mio petto?! Non c’era limite alla sofferenza che avevo
causato.
Passai le mani sui bordi irregolari
della
lapide, graffiandomi i palmi. Osservavo il percorso che compivano con
occhi
spenti, stanchi, pesanti. Sentivo di non riuscire quasi più
a respirare. Avevo
raggiunto un livello di dolore così acuto da desiderare la
morte come
cessazione dei miei mali.
Volevo morire. Volevo uccidermi.
«Sì…Ricongiungiti
a me…».
Annaspai, portandomi le mani alla
gola.
Era quello che voleva. Che mi suicidassi per ricongiungermi con lui.
All’inferno. Abbassai il viso sulle mie mani, deglutii. Se
questo fosse stato
il mondo reale… Mi portai una mano alla guancia. Sembrava
così vero…
Sussultai quando una sagoma mi
apparve di
fronte agli occhi. Alice. «Fallo. Ucciditi». Nella
sua voce non c’era odio.
Freddezza, gelo.
Scossi il capo, afflitta,
incredula. No,
lei non era reale, tutto quel mondo non era reale.
«Vattene!» esclamai
debolmente, spaventata, portandomi entrambe le mani alle orecchie e
chiudendo
gli occhi. Non volevo vedere, non volevo sentire. «Tu non sei
reale!».
Una ristata, diabolica e
agghiacciante si
levò dal suo petto. «Ah, no? Non sono
reale?».
Aprii gli occhi, la fissai,
sofferente e
angosciata. Dovevo negare, negare. Questa non poteva essere la vita
reale. Non
poteva. Era solo un terribile incubo. Malgrado lei sembrasse
così
maledettamente vera. «No!» urlai, sopraffatta,
prendendomi la testa fra le
mani.
Scosse il capo, per nulla ferita o
turbata. La verità nella sua voce. «E qual
è la realtà? E tu perché parli con
me se non sono reale?» fece, un tono di pazzia nella voce,
fissandomi negli
occhi con un sorrisetto divertito.
Tremai, farfugliai. Retrocedetti di
un
passo. «No…non lo so…».
Sui suoi lineamenti calò
una maschera di
indifferenza. «Ucciditi» mi disse, e
svanì.
L’illusoria voce
soffocante e liberatoria
di Edward tornò a farmi compagnia. «Amore…Dobbiamo
stare insieme».
Non feci in tempo ad ansimare, a
crollare,
o a tentare di versare anche solo una lacrima. Sentii improvvisamente
qualcosa
di freddo e duro fra le mani. Abbassai il viso. Era un pugnale
argentato.
«Stringi»
m’incitò delicata la voce
del mio amato.
«Ma…»
feci per obbiettare, sussultando.
L’istinto di conservazione mi legava a quel mondo orrendo e
forse irreale,
combattendo con l’amore e la dedizione che mi dicevano solo
di lasciarmi
andare, lasciare andare la mia vita e affidarmi a Edward.
«Avanti, torna
da me…».
Le emozioni contrastanti, il
dolore, la
paura, il senso di colpa, perirono dinanzi a qualcosa che si scaldava e
pulsava
nel mio petto. Avevo sbagliato, certamente. Il mio comportamento era
stato
incredibilmente deleterio. Ma lo amavo. Lo amavo, e se amarlo avesse
significato dargli la mia vita, se fosse stato quello il prezzo dei
miei
errori, l’avrei pagato.
Strinsi il pugnale fra le mie mani.
Lo
girai e lo puntai fra le costole.
Una sola, solitaria lacrima, mi
rigò il
viso.
«Ti amo,
Edward».
Mi trapassai il petto. Fui avvolta
da un
immenso dolore. Poi, spirai.
Edward
La mia piccola umana. Le
accarezzavo la
fronte, e con l’altra mano tenevo la sua, piccola, calda,
senza forze. Giaceva
nel letto, con i capelli mori scompigliati sul cuscino. Alice le aveva
messo
una vestaglia di seta, chiara, color avorio, lo stesso colore della sua
pelle... di solito. Non il colore pallido, quasi bianco, che
c’era ora sulle
sue guance.
Ma nonostante questo, nonostante il
pallore della malattia, i numerosi tubicini e cavi che in qualche modo
le
agevolavano il compito di vivere, rimaneva sempre un angioletto.
Carlisle diceva che dovevamo
aspettare
ancora, che era rimasta senza ossigeno e sangue per un po’ di
tempo e che solo
il suo risveglio ci avrebbe portato informazioni. Comprensibile che il
suo
corpo stremato dovesse cercare riposo, dopo quattro ore di intervento
d’urgenza.
Mi sentivo prosciugato, e
arrabbiato. Era
davvero strano che le emozioni più forti provate in tutta la
mia esistenza si
concentrassero negli ultimi anni. Assurdo. Eppure, non avevo mai
provato questa
furia, questa rabbia, questa gelosia… questo amore. Con il
pollice disegnai il
contorno delle sue piccole labbra, forzatamente da un lato. Un
tubicino,
passando dalla bocca alla trachea, le soffiava il respiro nei polmoni.
Presto,
Carlisle l’avrebbe rimosso, provando a farla respirare con la
mascherina perché
il risveglio non fosse doloroso e…
Sospirai. Come eravamo potuti
arrivare a
questo?
Mi ero sentito frustrato,
amareggiato,
ferito da quello che era accaduto negli ultimi mesi. Ero arrivato a
pensare di
averla persa per sempre. Ma poi, non potevo negare di leggere nei suoi
occhi
quella scintilla d’amore che mi teneva legato a lei. Non
potevo negare
l’adorazione assoluta che il suo corpo e la sua mente
rivolgevano nei miei
confronti. Perdendo Jacob Black poteva aver perso un amico, un
fratello, forse
un innamorato, una di quelle cotte liceali. Ma me lo diceva. Era me,
me, che
voleva. E il mio cuore fermo non si poteva rifiutare di crederle,
troppo
incline a farlo, egoisticamente, a tenerla stretta a me.
Sospirai, osservando attentamente
la sua
figura eterea. Aspettavo un tremolio, un battito di ciglia, un riflesso
di un
dito. Aspettavo.
Mi chiedevo cosa avrei fatto se
fossi
stato dalla parte di Black. Lo sapevo. Avrei, come lui, tentato in ogni
modo di
averla per me. Avrei provato a legarla al mio vincolo, a persuaderla.
Ed ero un
vampiro. E lei era umana. E io troppo attratto dal suo sangue.
Ma mai, mai, mai le avrei fatto del
male.
Perché prima, un istante prima, avrei fatto in modo di
uccidermi piuttosto che
ferirla.
Per questo, mai, avrei potuto
perdonare il
lupo. Lui non poteva amarla davvero. Perché altrimenti lei
adesso non sarebbe
stata su quel letto, le palpebre livide sul viso emaciato, soffrendo le
pene
del suo dolore per…
Strinsi con rabbia i pugni, fino a
fare
sbiancare le nocche. Mi allontanai di qualche centimetro da lei,
attento a non
farle del male. Avevo detto che avrei aspettato, e forse, forse, per
amore di
Bella sarei riuscito ad aspettare. Ma poi Jacob Black me
l’avrebbe pagata cara.
Sospirai, provando a calmarmi, e mi
chinai
a baciarle la fronte. Le presi la mano fra le mie, attento a non
staccarle
l’ago della flebo. Me ne sarei accorto. Se si fosse mossa, me
ne sarei accorto.
Ma mi sembrava troppo che non lo faceva. «Fallo Bella, torna
da me…» la
implorai, piano, vicino all’orecchio, parlandole come sapevo
che adorava. Ma
non ottenni alcuna reazione.
«Edward». La
presenza di Charlie, già
preannunciata dal suo pesante passo umano, dal fiato pesante e dal
susseguirsi
dei suoi pensieri umani, si palesò quando comparve sulla
porta «sono tre giorni
che sei lì. Vai un po’ fuori o giù al
bar, che ne dici?» mi chiese, provando,
dopo 72 ore, ad essere gentile.
Non lo biasimavo. Pensavo che al
suo
posto, al pensiero di chi aveva ridotto così una creatura a
così cara, sarei
andato su tutte le furie. Quello che avevo fatto, dopotutto.
Anche Esme provò a farmi
ragionare,
sospingendomi coi pensieri. «Edward, dovresti farlo,
anche solo mezz’ora.
Non hai bisogno di riposo fisico, ma il riposo mentale
potrebbe aiutarti,
tesoro».
Anche Carlisle entrò
nella stanzetta,
posando la sua mano secolare sulla mia spalla. «Vai,
figliolo,almeno
per salvare le apparenze. Ti chiameremo appena avremo notizie».
Scossi il capo, per nulla persuasa
ad
allontanarmi. Era quello il mio posto, lo sentivo. Quello e nessun
altro. «No.
Ti ringrazio, ma preferisco rimanere qui…» feci,
provando a restituire la
stessa cortesia. Non mi sarei allontanato, e non l’avrei di
certo fatto proprio
nel momento della visita. Speravo che ci fossero cambiamenti.
Malgrado fosse una fitta costante
nel
costato, rimasi accanto a lei quando Carlisle la staccò dal
ventilatore
artificiale, aiutandola con la mascherina. Non sapevo quello che poteva
percepire, e mi dannai per non poter leggere nei suoi pensieri. Ma in
ogni
caso, volevo esserci. Volevo che percepisse la mia presenza, che si
sentisse
rassicurata. Che immaginasse di avermi accanto anche in quello che
speravo
fosse un sogno. Perché, quando si sarebbe
svegliata… sapevo quanto avrebbe
patito in ospedale.
«Risponde bene allo
svezzamento. In breve
tempo potrà tornare a respirare autonomamente»
informò gentilmente mio padre
Esme e Charlie.
Al momento di cambiare la
medicazione
uscirono, lasciandoci soli con Bella. Con il suo corpo stanco. Non mi
ero mai
attardato, per rispetto della sua persona e del suo corpo, a osservare
le sue
nudità. Eppure avrei potuto, facilmente, in qualsiasi
momento. In
quell’istante, niente mi sconvolse come vedere il suo petto.
E non erano
sentimenti positivi.
Una lunga cicatrice rossa,
pulsante,
regolare, le divideva un lato del petto, uno squarcio sulla sua pelle
pallida.
Qualcosa che sarebbe rimasto lì. Per sempre.
Mi alzai di scatto, meno di un
ottavo di
secondo, irrigidendo i muscoli e gonfiando i polmoni, precludendomi
quella
vista straziante. Uccidere. Lo volevo uccidere, per quello che le aveva
fatto.
«Edward»
mi ammonì mio padre, «controllati».
Tentai di sciogliere i muscoli
tremanti,
pentendomi della mia reazione. Non avrei voluto che Bella mi vedesse
così.
Carlisle mi raggiunse, prendendomi
un
braccio per farmi voltare. «Vai a
cacciare, ne hai bisogno. Ci vorrà poco. Non puoi starle
accanto in queste
condizioni. Vai».
Sospirai, costretto ad ascoltarlo.
Non era
passato molto da che ero andato a caccia, ma lo stress a cui ero stato
sottoposto psicologicamente e l’odore di fondo
dell’ospedale avevano messo a
dura prova il mio autocontrollo.
Annuii seccamente, avvicinandomi in
un
istante a Bella e posando un lieve bacio sulla sua fronte nivea.
Sospirai,
accarezzandole una guancia. Svegliati. Ti prego.
Lasciai la stanza, incontrando
immediatamente Charlie nel corridoio.
«Sto uscendo,
tornerò fra poco» mormorai
piano, allontanandomi.
Annuì in silenzio. Era
rimasto colpito
dalla mia fedeltà e dalla mia devozione nei confronti di
Bella. Niente. Niente
in confronto a quello che avrei fatto davvero per lei.
Uscii in fretta
dall’ospedale. Non mi
fermai ad indugiare su nessun pensiero intorno a me. In pochi secondi,
appena
fui fuori dall’edificio, immerso nella fredda aria umida e
condensata, mi
ritrovai lanciato nella corsa fra la boscaglia di Forks. La caccia fu
veloce e
vicina, i miei pensieri rivolti a Bella. Un antilope risentì
di tutta la mia
furia accumulata e repressa. Deglutii, osservando il corpo martoriato e
dolorante dell’animale, e, disgustato da me stesso, le
spezzai il collo,
finendo di dissetarmi.
Appena mi trovai ad una distanza
apprezzabile dall’ospedale, distinsi i pensieri di mio padre.
«Edward, la
febbre è salita…».
Strinsi la mascella, correndo
più veloce.
Mi sentivo spezzare dagli eventi. E, secondo dopo secondo, accumulavo
una
rabbia cocente, spessa, che mi impediva quasi di muovermi o di parlare.
Che mi
totalizzava, spingendomi ad agire per istinti. Uccidendo. Uccidendo chi
l’aveva
ridotta così.
Bella, sul letto, aveva il viso
imperlato
di sudore. L’avevano sistemata fuori dalle coperte e le
avevano messo delle
borse di ghiaccio sui polsi e sulle caviglie. Si agitava, farfugliando
parole
senza senso.
Mi avvicinai a lei, il dolore a
stringermi
la gola. Le posai una mano sulla fronte, tentando di contribuire, in
qualche
modo, a darle sollievo.
Mio padre, in piedi
all’altra parte del
letto, le lasciò andare il polso. «Delira»
m’informò cautamente, «la temperatura si
aggira intorno ai 40-41 gradi».
Sospirai, tremante e angosciato,
abbassando il viso alla sua altezza e sussurrando piano.
«Bella, vieni da me.
Dobbiamo stare insieme, te l’ho promesso» la
implorai, mormorando piano.
Le guance erano arrossate per la
febbre,
il fiato caldo disegnava nuvolette sulla mascherina. Le sue piccole
labbra,
asciutte, tremolarono. «Edward…». La sua
voce, poco più di un sussurrò, colpì
le corde della mia anima. Da troppo non la sentivo, e quel tono mi
straziava.
Mi sedetti accanto a lei. Presi una
pezza
dalla bacinella d’acqua sul comodino e le bagnai le labbra.
«Vado a prendere
qualcosa di più forte
per abbassare la febbre» pensò mio
padre, concitato.
Annuii, concentrato sul volto della
mia
amata. «Sono qui, ma tu adesso devi tornare da
me…» canticchiai piano al suo
orecchio, stringendo più forte la sua mano. Torna Bella, ti
prego, torna.
Non si muoveva coerentemente, ma le
sue
labbra tremolarono ancora, più decise.
«Edward!» esclamò, la voce appena
più
alta, ancor più distrutta. Si agitava nel letto, accaldata.
Il mio angelo
ferito dalle ali strappate.
«Bella, torna con
me» la implorai ancora,
disperato, posandole le dita alla base del collo sudato.
Si agitava, si muoveva, farfugliava
parole
incomprensibili. Ma non rispondeva. Soffriva.
«Sì angioletto
mio, sono qui. Ricongiungiti
a me, ti sto aspettando».
Si mosse, si agitò
ancora. Speravo che in
quel limbo in cui stava bruciando avesse posto per le mie parole.
«Te l’ho
promesso, dobbiamo stare insieme»
la rassicurai con voce flebile, stringendomi sul suo petto, attento a
non farle
male. Le strinsi il polso abbandonato sul lenzuolo, misi un mio dito
nella sua
manina aperta.
«Stringi» la
incitai, «avanti, torna con
me».
Fu allora che sentii una lieve
pressione.
Una lacrima, confusa fra il pallore, il rossore, e le perle lucenti del
suo
dolore, le rigò il viso.
«Ti amo,
Edward» una flebile e
inconsistente promessa, tremolante da labbra tremolanti, dolorante da
un corpo
martoriato. Poi il respiro le si bloccò in gola.
Anche nella morte, quel dolore non sembrava affatto
affievolirsi
Capitolo riveduto e
corretto.
Anche nella morte quel dolore non
sembrava affatto
affievolirsi. Ma se questo era il prezzo da pagare per essere stata la
causa
della fine del mio eterno amore e di quello che era stato il mio
miglior amico,
l’avrei pagato ben volentieri. Meritavo quella sofferenza,
non me ne sarei
sottratta. Meritavo quel dolore forte, che veniva dal petto.
Improvvisamente realizzai che avevo
assunto una nuova
prospettiva corporea. Non che prima non riuscissi a controllare il mio
corpo,
ma era come se lo dessi per scontato, come se non esistesse realmente.
Ora
invece sentivo bene il luogo di provenienza di quella tortura.
«Cosa ci fai tu
qui?». Quella voce, adirata, ringhiava
vicino a me. Molto più vicina di prima, come se adesso ci
fosse davvero, come
se fossimo nella stessa stanza. Era con me?
«Edward?»
provai a chiamarlo. Ma adesso non era più
facile come prima. Non era come essere sospesi in un vuoto rarefatto.
Ora le
mie labbra pesavano, come i pesi ghiacciati sui polsi e le caviglie. Il
ghiaccio. Il ghiaccio c’era anche all’inferno.
«Tu…
tu…» vibrò ancora la voce di Edward.
Era
spettralmente calma, così pungentemente e minacciosamente
bassa, «dovrei
ucciderti per quello che la hai fatto…».
Le sue parole, la sua voce,
turbinarono nella mia
testa pulsante di dolore, quasi quanto quello che mi trafiggeva il
petto.
«Io… non
volevo…». Quella. Quella era un’altra
voce. Jacob.
Spalancai gli occhi.
All’inizio dovetti richiuderli in
fretta, perché la luce bianca al neon mi aveva accecata; ma
poi, aprendoli con
più cautela mi accorsi che mi trovavo in una stanza
d’ospedale. C’erano
tantissimi macchinari intorno a me e di certo non mancavano quei
tubicini di
flebo che tanto odiavo. Ero “incardinata” al letto
da quattro borse di
ghiaccio, sui polsi e sulle caviglie. Il dolore al petto e alla testa
erano
ancora tanto ben presenti, ma tutto stava riacquisendo spessore, tutto
si stava
capovolgendo in una giusta prospettiva, piano. Come quando ci si alza
troppo in
fretta, e si resta un momento con una mano a mezz’aria per
riprendere
l’equilibrio e ricominciare a vedere i colori. Stavo per
riacquisire
l’equilibrio, e quello che avrei visto non mi sarebbe
piaciuto affatto.
Dinanzi a me Edward, in posizione
di attacco. Davanti
a lui Jacob, un’espressione contrita sul volto. Dalla gola di
Edward si levò un
ringhio minaccioso. Nessuno si era accorto del mio risveglio, troppo
impegnati
a squadrarsi a vicenda.
Ecco. In quell’istante
ripresi il mio equilibrio, e in
quell’istante realizzai che quello che fino a quel momento
era stato un sogno
si stava per avverare. Ma, almeno adesso, dovevo impedirlo. Almeno
adesso,
dovevo agire rettamente e schierarmi dalla parte di uno solo di loro,
in modo
di sostenere lui col mio amore e liberare l’altro con la mia
decisione.
Cercai di parlare, ma mi accorsi
che la gola era
troppo secca per emettere qualsiasi suono.
«Dimmi, dimmi cane. Dopo
averla ridotta così» sputò
Edward con odio, «con quale coraggio vieni qui?!».
L’unica risposta fu un
gemito di frustrazione.
Impotente e disperato. Liberarlo, per sempre.
Edward scosse il capo,
un’espressione disgustata sul
viso. Strinse e chiuse i pugni, tremando, come provando a trattenersi.
«Va’
via!» sibilò furioso.
«No».
«Via»
ringhiò ancora, piegandosi sulle ginocchia.
Jacob arretrò di due
passi, ma non demorse, non si
spostò. «No».
Fu un momento, un attimo
impercettibile per un umano,
fuggevole per i miei occhi appannati e stanchi e la mia mente confusa.
Edward
balzò in avanti, sollevandolo da terra.
Il mio corpo fu invaso da un veloce
formicolio, come
una bruciante forza che cancellava il torpore. Dovevo fermarli, volevo
agire, ma
il massimo che riuscii a fare fu muovere il dito di una mano.
«Non vorresti patire
quello che hai fatto soffrire a
lei, credimi» soffiò a pochi centimetri dal suo
viso. Poi lo sollevò e lo
scaraventò contro il muro. Si udì solo un tonfo
sordo.
Il mio animo angosciato condusse la
forza vivificante
in altre parti del mio corpo, come un fiato caldo sulla fiamma. Mossi
le mani,
determinata a fare di più.
Jacob, accasciato contro il muro,
si rialzò,
improvvisamente agguerrito.
Vedevo la schiena di Edward alzarsi
e abbassarsi al
ritmo del suo respiro ansante. «Una cosa»
cominciò deciso «una cosa non sono
ancora riuscito a spiegarmi. Perché sei andato da lei, che
cosa volevi. Che
cosa ti ha spinto a farle del male» mormorò
tormentato.
«Lei non te lo vuole dire
eh?!» sghignazzò Jacob,
spavaldo, asciugandosi con il dorso della mano un rivolo di sangue che
gli
cadeva da un lato della bocca. «Forse… forse il
fatto che tu sia tanto pazzo da
prometterle qualcosa che non le puoi dare? Non senza ucciderla,
almeno» sibilò
fra i denti.
Edward emise un sibilo sconvolto,
avventandosi su di
lui e bloccandolo al muro con un avambraccio. «Questi…
non sono affari
tuoi» sibilò, minaccioso come mai era stato.
Il luccichio del suo sorriso
colpì le mie pupille.
«Sì, invece. Se me la faccio al tuo posto».
Edward ringhiò, in un
atto di furia cieca. Afferrò
quella che doveva essere un siringa e la conficcò fra le
costole di Jacob, che
reclinò il capo all’indietro, guaendo fra i denti.
«Questo è quello che le hai
fatto patire, essere immondo!» sbraitò,
«ti ammazzerò prima che tu ti possa
avvicinare ancora».
Ansimai appena, sconvolta, provando
a muovere le
braccia e la gambe. Non poteva succedere. Se avevo avuto una seconda
possibilità, dovevo cambiare le cose. Non poteva succedere.
Jacob si mise a ridere
gutturalmente. Era inquietante.
«Provaci, sanguisuga». In un attimo si
strappò l’ago dal petto e esplose, in
avanti, verso Edward, trasformandosi. Si udì un altro tonfo,
non abbastanza
forte da attirare qualcuno in camera.
Riuscii a muovere completamente il
corpo, ma fui
colpita da un’ondata di dolore, proveniente dal petto e dalla
testa.
Altri tonfi, altri scontri. Non
riuscivo a vedere le
dinamiche dei loro movimenti. La stanza era relativamente grande, ma
non sarebbe
riuscita a contenerli ancora.
Poi, un’immagine un lupo
enorme con le zanne a poca
distanza dalla testa di Edward, che lo teneva per la gola.
«Nessuna ulteriore
possibilità, nessuna sfida. Questa
è una cosa che decideremo io e Bella, e tu non potrai farci
niente» disse
rabbioso Edward.
Ancora, provai a muovermi, cercai
di sollevarmi,
ignorando il dolore atroce del petto, ma le vertigini mi costrinsero a
ricadere
fra i cuscini. Provai a parlare, ma mi uscì solo un tono
soffocato.
«Ha già
scelto. Me. E tu non dovrai provare
neppure ad avvicinarti a lei».
La scena si sbloccò,
ancora movimenti, ancora
turbinii, veloci. Ringhi, guaiti, lamenti, troppo deboli per essere
uditi dall’esterno.
Di nuovo, immobili. Edward schiacciava contro il muro un lupo
mostruoso, che
ringhiava, mostrando le sue zanne.
Non so cosa fu, forse una scarica
di adrenalina. Mi
rialzai. Ignorando tutto, dolore, vertigini, spossatezza. Le borse di
ghiaccio ricaddero
qua e là, due sui cuscini due per terra.
Vedevo quel precario equilibrio,
che sapevo, comunque,
sarebbe sfociato in dolore se non fossi intervenuta in tempo. Mi
sollevai in
piedi, reggendomi faticosamente al letto. Le gambe mi tremavano,
doloranti.
Faticavo a respirare, faticavo a vedere, a mantenermi dritta per via
delle
vertigini. Ma resistevo. Mi strappai la pinza che mi stringeva il dito
e le
flebo, le lacrime di dolore e paura che scorrevano dai miei occhi. Mi
sentivo
stanca, ferita, dolorante. Mi sentivo spossata e dilaniata dal dolore.
Ma
dentro di me echeggiava l’urlo di una donna che non poteva
rimanere a guardare,
che doveva correggere i propri sbagli. Una donna schiacciata dal senso
di
colpa.
I ringhi si fecero sempre
più forti. Non si erano
accorti di me. Nessuno si muoveva, tutti i muscoli dei loro corpi erano
contratti.
Poi, tutto successe molto in
fretta. I loro corpi scattarono,
attaccandosi a vicenda. Brancolai in avanti, disperata, sentendo la
cute del
mio petto lacerarsi in una fitta di intenso dolore.
Edward si voltò,
accorgendosi di me, fissandomi con
gli occhi sgranati.
La porta della camera si
spalancò.
I miei polmoni si gonfiarono nello
sforzo di urlare,
mentre i miei occhi si riempivano di bianco.
«Edward!» urlai, non so con quale
forza. Semplicemente amore, dolore. Lo stava attaccando. Lo stava
attaccando al
collo, approfittando del suo momento di distrazione.
Carlisle scattò
immediatamente accanto al figlio,
liberandolo dal peso del lupo, che sbattendo contro un tavolino si
ritrasformò.
Ansimai, senza fiato, senza forze,
con le lacrime
ancora congelate e intrappolate nelle ciglia. Sentii le ginocchia
cedermi e
caddi, stremata.
«Bella!» mi
chiamò una voce, mentre le sue braccia
fredde mi sollevavano per stringermi al suo corpo. La sua voce
rimbombava nella
mia testa dolorante, ma non faceva male. Era come dormire su un
braccio. Ci dà
fastidio, ma lo facciamo per illuderci di un abbraccio.
Mi strinsi alla sua maglietta,
faticando per aprire
gli occhi e vedere Jacob. Il suo corpo era ricoperto da tagli e lividi
violacei, e ne ero sicura, aveva più che una decine di
fratture fra le costole
e le braccia. Respirava a fatica e rivoli di sangue gli scendevano da
bocca e
naso.
Mi fissava, distrutto. Ma questo
non poteva essere il
tempo dell’indulgenza o delle esitazioni.
«Non dovresti essere
qui» singhiozzai, stringendomi al
corpo di Edward in cerca di conforto, nascondendo il viso nel suo petto
per non
vederlo, «non ti voglio vedere, non ti voglio vedere,
va’ via. Va’ via»
gemetti, dolorante e disperata.
«Bella…»
mi chiamò la sua voce, supplicante.
«Vai via, cane. Prima che
debba ucciderti» vibrò il
petto di Edward, mentre le sue mani mi stringevano al suo corpo.
Mi voltai appena a guardarlo. Ogni
parola che mi
grattava la gola era la necessaria e dura verità. Valeva lo
sforzo che mi
costava. «Ho fatto la mia scelta, Jacob. É stato
tutto un errore, sin
dall’inizio. Non c’era amore in me, per te. Non
c’è mai stato. Mi hai convinta
di qualcosa che non esisteva, mi hai spinta a dichiararlo per non farti
uccidere. Ma non è questo l’amore che
voglio» biascicai appena, strofinando la
guancia sulla spalla di Edward, «non sei tu. Non sei tu la
persona per me, e
non lo sei mai stata. Non avevo diritto di darti spazio, ma tu non lo
avevi di ingannarmi,
di pretendere ciò che non potevo o volevo darti. Vai via,
perché non importa
quello che fai o farai, io non ti amo, non ti ho mai amato,
né ti amerò mai.
Addio, Jacob. Noi non possiamo essere amici. Addio».
Strinse i pugni in una morsa
d’acciaio e una ruga di
disprezzo nacque sul suo volto ferito. «Tu mi ami. Tu ami me,
presto lo
capirai. Ti farò cambiare idea». Si
girò di scatto e volò via dalla finestra,
gemendo appena.
Ansimai, distrutta e sconvolta,
sentendo gli occhi
chiudersi, non abbastanza per impedire alle lacrime di scendere sulle
guance
fredde. Tremai, ma non era un tremolio nato dal freddo. Era un tremolio
di
debolezza, era un tremolio di sofferenza, un tremolio di dolore. Non
per la
scelta che avevo fatto, ma per il pentimento di non essere riuscita a
farla
prima.
«Bella, tesoro»
mi chiamò Edward, facendo dolcemente
scivolare le mani lungo il mio corpo, per stringermi e sollevarmi senza
farmi
del male. «Va tutto bene. Ti sei svegliata. Ti senti bene? Va
tutto bene, te lo
prometto» mormorò, vicino al mio orecchio,
riponendomi sul letto e baciandomi
la fronte. Calda. Perché le sue labbra erano troppo fredde.
Annuii appena, incapace di fare
altrimenti. Mi sentivo
debole. Mi sentivo troppo vile, e stanca, per
parlare con Edward e
guardarlo negli occhi, leggendovi magari il dolore che gli avevo
causato.
Mi sentivo in colpa.
Mi prese la mano, stringendola fra
le sue,
strofinandola in un vano tentativo di darmi calore. Stavo bollendo. Non
lo
sentiva che stavo bollendo? «Sta tremando. Perché
trema? Dovremmo coprirla?»
chiese preoccupato a suo padre.
«Credo sia la febbre,
Edward. E alcuni punti devono
essere saltati. Fammi controllare, poi la potremmo coprire».
Chiusi e aprii gli occhi, incapace
di tenerli aperti
per un tempo troppo lungo. Mi sentivo debole, mi sentivo male.
«Non voglio che
torni» biascicai, spaventata, irrazionale. Mi sentivo
irrazionale. «Non voglio
che torni. Non deve tornare. Non voglio. Ho paura» ansimai,
sbattendo
velocemente le palpebre.
Le mani si Edward si richiusero sul
mio viso,
tenendolo fermo. Guardandomi, puntando i suoi occhi nei miei.
Preoccupato. «Non
tornerà. Non tornerà, te lo prometto.
Farò di tutto perché non torni».
Annaspai, sentendo le lacrime
ricominciare a scendere
per le guance. Lo vedevo il dolore. Lo vedevo. «Io voglio te.
Voglio te,
Edward. Voglio solo te. Ho paura, non voglio che torni. Resta con me,
ti prego.
Resta con me».
Sorrise appena, nervoso,
intenzionato in ogni modo a
rassicurarmi. «Certo che resto con te. Ci dobbiamo sposare.
Resto con te,
Bella, per sempre. Te l’ho promesso».
Sussultai, stringendo con forza la
sua mano e
sgranando gli occhi, quando il dolore di un ago
s’insinuò nel mio petto.
«Tranquilla Bella. Era
solo l’anestesia. Ti devo
rimettere alcuni punti. Tranquilla, ci metterò poco,
promesso» mi rassicurò
Carlisle, chinandosi a ricucirmi.
Deglutii, distogliendo lo sguardo
dagli occhi di
Edward. Non riuscivo a guardarlo. Non riuscivo a sostenerlo. Mi voltai
nella
sua direzione, allungando un braccio e chiudendo gli occhi.
«Resta con me, per
favore. Ho paura» lo supplicai con voce flebile.
«Shh…
shh… calmati. Certo che resto con te» mi
rassicurò, accarezzandomi il viso e le mani, canticchiando
parole gentili al
mio orecchio.
«Ho finito,
Bella» disse a mezza voce Carlisle. Come
se avesse paura che mi fossi addormentata. Avrei potuto, fra le mani di
Edward.
Annuii appena, senza parlare.
Mi sentii sollevare una gamba e il
bacino. Aprii appena
gli occhi e provai a muovermi per aiutarlo. «Stai
giù. Non ti preoccupare. Ci
penso io, stai giù» mi rassicurò
dolcemente Edward, sistemandomi sotto le
coperte, la schiena fra i cuscini.
Carlisle mi accarezzò la
fronte e i capelli. «Ti diamo
qualcosa per la febbre, va bene Bella? Dovrebbe farti stare
meglio». Mi prese
il braccio, tastando piano l’incavo del mio gomito.
Sibilai fra i denti, scontenta. Non
avrei sopportato a
lungo tutto quello.
«Ti fa male?».
Mi schiarii la gola, secca.
«Un po’».
«É per le
flebo che abbiamo fatto in questi giorni. Se
ti fa troppo male potrei prendere una centrale, ma preferirei
evitare».
Deglutii ancora, aprendo appena gli
occhi. Edward mi
guardava. Strofinai le dita sul dorso della sua mano.
«No… va bene».
Mi prese le dita nel palmo,
invertendo le posizioni.
Sospirai quando mi sentii pungere, e non potei fare a meno di sollevare
lo
sguardo su quello di Edward. Lo ignoravo, ignoravo il senso di colpa,
perché
volevo andare avanti e vivere con lui, perché era quello che
desideravo e avevo
fatto la mia scelta, e non riuscivo a rinunciarvi. Ma cresceva,
cresceva come
un grosso e fastidioso animale, troppo per averlo in casa e far finta
di
niente.
«Come ti
senti?».
«Stanca,
debole… Dolorante. Ho la gola secca» mi
lamentai.
Mi aiutò a bere qualche
sorso d’acqua, piccole gocce
alla volta, sorreggendomi la testa per aiutarmi. Lo volevo, lo volevo
il suo
amore. Solo, volevo non avergli causato tanto dolore.
Carlisle uscì,
lasciandoci soli.
«Vuoi che avvisi tuo
padre che ti sei svegliata?» mi
chiese cortesemente.
Un'altra fitta al cuore. Uno degli
ultimi effetti delle
mie scelte. La voce quasi si spezzò. «É
qui?».
Annuì, piano,
accarezzandomi i capelli e contemplando
il mio viso. «Sì, è qui. É
quasi sempre stato qui».
«D… davvero?
Mi…mio padre?». Non si era mai mosso da
casa. Anche quando ero stata ricoverata a Phoenix era stato con me il
primo
giorno e poi era ripartito. Odiava gli ospedali, come me.
«Sì, proprio
tuo padre». Sorrise. «Vuoi che lo
chiami?» chiese, facendo per allontanarsi.
Annaspai, osservandolo sconvolta e
stringendo la mia
mano nella sua. «No. No, rimani con me» feci
debolmente, distogliendo
immediatamente lo sguardo, colpevole.
Mi accarezzò le guance,
tanto da farmi quasi
addormentare. «Cos’hai?».
Allontanai il viso, mordendomi un
labbro. Non riuscivo
a parlare. Sentivo le lacrime spingere per uscire dai miei occhi.
Eppure,
egoisticamente, volevo essere confortata. Avevo bisogno che mi dicesse
cha
andava tutto bene.
«Bella» mi
chiamò preoccupato.
Mi affrettai a cancellare la
lacrime con il braccio
libero, trattenendo i fremiti. «Mi dispiace, Edward, mi
dispiace tanto. Mi…
sento in colpa» confessai.
«Bella…».
«No, ascoltami»
vibrai, voltandomi nella sua
direzione, «ascoltami, per favore. Voglio che tu sappia
qualcosa che non ho mai
avuto il coraggio di dirti. Voglio che tu lo sappia. Quella sera,
quando…
quando ho detto addio a… Jacob…».
Era afflitto. «Non
c’è bisogno che tu mi dica
niente-».
Strinsi più forte la
presa sulla sua mano. «No, per
favore. Ascoltami. M-mi fa male parlare, quindi ascoltami, ti prego.
Sono…
troppo stanca per essere sicura di riuscire a ripetermi»
ansimai, certa di aver
ottenuto il suo silenzio. «Edward. Quella sera, ogni lacrima
in più che ho
versato, ogni gemito strozzato, ogni volta che stavo male, male
davvero, era
per te. Non volevo più piangere per Jacob. Piangevo per
quello che ti stavo
facendo, e per quello che ti avevo fatto. Dovevi saperlo. Dovevi
saperlo,
perché può sembrare stupido, invece è
importante» mormorai disperata, la voce
flebile.
Mi osservò in silenzio,
senza parlare. Sollevò la mia
mano, e la baciò, rimanendo così, senza dire
nulla, con gli occhi chiusi.
Osservavo la sua figura perfetta, i
suoi lineamenti
giovani, i suoi capelli rossicci. Lo osservavo, e pensavo che non sarei
riuscita ad allontanarmi da quel miracolo. Lo osservavo, e pensavo che
avrei
dovuto lasciare l’animale a piede libero per casa, o munirmi
presto di una
revolver.
«Grazie» disse
infine, riaprendo gli occhi nei miei.
«Grazie per avermelo detto. Non sentirti in colpa».
Abbassai lo sguardo, silenziosa.
«Lo farò, solo se
farai una cosa. Lo farò, non mi sentirò
più in colpa, solo se lo farai. Una
cosa che non hai fatto. Una cosa che non hai detto».
Annuì, cauto.
«Perdonami. Perdonami
Edward, ti prego, perdonami».
«Bella…»
protestò appena, sconvolto.
«Sei un vampiro, sei un
uomo, non sei un santo. Liberami
Edward. Perdonami».
Si sollevò dalla sedia,
allontanandosi di qualche
passo da me. Le sue spalle non si alzavano e si abbassavano. Non stava
respirando.
Vi voltò, e mi venne
vicino. Sfiorò il naso con il
mio, mi sfiorò le labbra con le sue. Sospirò,
facendo passare ancora fiato nei
polmoni.
Pian piano mi stavo svegliando.
Nell’aria c’era
l’aroma di caffé, misto con uno strano odore di
qualcosa di ben noto, ma che
ora proprio non mi tornava alla mente. Sentivo su di me delle coperte
ruvide e,
oltre a quel fastidioso dolore al petto, avevo la schiena massacrata.
Stavo per
compiere un gesto abituale, che facevo ogni mattina: stiracchiarmi e
girarmi
stesa a pancia in giù prima di riaddormentarmi ancora un
po’. ‘Stavo’
perché, non appena mi mossi, mi sentii bloccare da due
macigni freddi.
Aprii gli occhi, infastidita.
Il viso di Edward mi
fissò, un sorriso accennato
«Buongiorno».
Sospirai, osservando le sue braccia
che mi impedivano
di muovermi. «Buongiorno» biascicai, la voce ancora
impastata dal sonno.
Erano passati cinque giorni
dall’intervento e mi
trovavo ancora nella stanza d’ospedale. Passavo il tempo a
dormire. Mangiavo poco
e niente, perché a causa dei sedativi avevo una forte
nausea; quindi mi avevano
dovuto, con mi enorme rammarico, nutrire endovena. Per di
più, non mi potevo
muovere da quella posizione.
Feci una smorfia, stanca e
dolorante.
Edward mi accarezzò
gentilmente i capelli. «Vuoi che
ti sistemi i cuscini?».
Annuii. «Sì,
per favore…». In quei giorni era stato
una presenza costante e indispensabile. Nonostante non potesse
sopportare di
vedermi stanca, ferita e dolorante, non perdeva mai occasione di
pensare a me,
di distrarmi, farmi svagare e non pensare alla mia triste condizione.
Quando si allontanò
appena per sollevare la spalliera
del letto, notai la presenza di mio padre in camera, intento a
sorseggiare il
suo caffé.
Edward fece scivolare una mano
appena dietro la mia
scapola, accompagnandomi gentilmente il busto verso l’alto.
Mi strinsi al suo
corpo, una piccola smorfia di dolore sul viso, aspettando che
sistemasse i
cuscini alle mie spalle.
Malgrado fosse sempre stato accanto
a me, e mi avesse
costantemente aiutata, avevo notato qualcosa di diverso in lui. Il
tocco. Il
tocco delle sue mani aveva perso qualcosa. Era sempre dolce, gentile, e
delicato.
Ma in quel tocco non c’era più il palpito e la
scossa che ci attraversava ad
ogni contatto.
Quando mi adagiò sul
letto, sentii un po’ di sollievo.
«Grazie…» mormorai, intontita e
pensierosa.
Si sedette accanto a me,
sorridendomi. Con lo sguardo
mi osservava, cautamente, come se tenesse sottocontrollo ogni mio gesto.
Avrei voluto prendergli le mani e
stringerle forte,
tanto da farglielo sentire. Chiedergli
“cos’hai?”. Perché qualcosa di
strano
l’aveva. Era per quello che gli avevo detto? Era per la mia
ferita? Era per
tutta la questione che si era venuta a creare?
Ma c’era mio padre in
camera. Le mie sarebbero potute
essere semplici speculazioni prive di fondamento. E avevo davvero
troppa paura
che la motivazione sarebbe potuta essere proprio una di quelle che
immaginavo.
«Come ti senti
Bells?» chiese mio padre, districandosi
malamente fra il cappotto che teneva piegato sul braccio e il
caffé.
Annuii appena, schiarendomi la
gola. «Sto bene».
Mio padre mi osservò
senza dire nulla che non fosse un
«Bene» borbottato. Poi aggiunse «Alice si
sta davvero impegnando per il
matrimonio. Siete sicuri di riuscire a fare tutto in tempo? Non vorrei
che
quella ragazza si stancasse troppo, si può sempre
posticipare…».
«Penso che mi sorella lo
adori, signore» intervenne
prontamente Edward «è stata una sua idea quella di
organizzare tutto, e ne è
entusiasta. Finché le condizioni di salute di Bella lo
permetteranno,
preferirei che la data del matrimonio non fosse spostata. Cosa ne
pensi?»
chiese poi, rivolgendosi a me.
Arrossii. In quei giorni non ero
stata in grado di
aiutare in alcun modo Alice, anzi. Avevo dovuto lasciare che fosse lei
ad
aiutare me, più di quanto non stesse facendo con il
matrimonio. Nonostante
tutto fosse una sua idea, mi sentivo in colpa al pensiero di non
contribuire
alla mia festa, ma stanca e dolorante com’ero avrei comunque
potuto fare poco.
«Certo, papà. Non c’è nessuno
motivo per spostare… per spostarlo. Va bene.
Aiuterò Alice appena potrò, mi
impegnerò».
Edward mi accarezzò i
capelli, facendo trasferire il
mio sguardo sul suo viso. «Tesoro, non ce
n’è bisogno, lo sai. Non ti devi
stancare. Carlisle dice che devi stare a riposo, sarà tutto
perfetto lo stesso,
vedrai».
Mio padre strinse le labbra.
«Perché ancora non avete
spedito le partecipazioni?».
Sussultai, abbassando il viso.
Colpa mia. Ancora
troppo vergognosa all’idea del matrimonio, avevo chiesto a
Edward di
procrastinare il tutto fino a quando non fossi uscita
dall’ospedale. Fino a
quando non avessi avuto un posto in cui nascondermi.
«Papà» protestai,
addolorata del fatto che il suo unico pensiero sembrava quello di
volerlo far
andare a monte, il matrimonio. «Ti prego… me
l’avevi promesso» cincischiai.
Sospirò, borbottando.
«Certo, certo. Non ti agitare.
Lo dicevo per voi ragazzi. Non ti agitare» ripeté,
infilandosi il giaccone «io
vado via. Torno stasera Bells. E… ciao».
«Ciao» lo
salutai, lasciandomi sprofondare fra i
cuscini. «Mi dispiace» dissi, non appena fu uscito
dalla stanza.
Edward scosse il capo, sereno.
«É solo preoccupato per
te, vuole che tu sia sicura e che non commetta i suoi stessi errori. Va
bene.
Io ti amo, e tu mi ami. Non commetteremo gli stessi errori».
Lo fissai, rattristata.
«Vorrei che si fidasse di te».
Mi sorrise, facendo passare la mano
che mi stava
accarezzando i capelli sulla nuca. «Non mi importa, va bene.
Va tutto bene»
mormorò dolcemente, cullandomi con le sue parole.
Stregata mi lasciai trasportare
nella sua direzione, e
chiusi gli occhi. Troppo, passò troppo tempo
perché mi baciasse. Le sue labbra
si incollarono alle mie. Fredde fattezze lambivano le mie piccole e
rosee
labbra. Calme, dolci, tenere. Senza passione, o amore. Quasi con paura.
Ansimai, e mi tesi nella sua
direzione, avventurandomi
con le dita fra le morbide ciocche dei suoi capelli. Volevo sentirlo
più
vicino, più mio, più passionale. Più
coinvolto. Era tenero, dolce. Ma distante.
Gemetti, e feci ancora per avvicinarmi, perché il suo corpo
sembrava essere
troppo lontano dal mio.
Mi lamentai, dolorante, ritraendomi
di scatto.
«Ehi» fece
Edward, accompagnandomi nuovamente sul
cuscino, «stai giù, attenta».
Annuii velocemente, stringendogli
una mano. «Sì, sì,
certo» biasciai fra i denti, scontenta a frustrata. Un dolore
acuto mi tagliava
il petto all’altezza della ferita. Mi accarezzò la
guancia, gentilmente,
aspettando che riprendessi il controllo del mio corpo. Man mano il
dolore andò
scemando.
Me lo leggeva in faccia quanto
fossi insofferente per
quella situazione, e ogni volta inventava qualcosa per distrarmi. Ma
ormai i
giorni che avevo passato confinata in quel letto e fra quelle mura
erano
troppi, troppi per poterli sopportare.
Per l’ennesima volta mi
fu accanto, se non
passionalmente come lo desideravo, quantomeno con tenerezza.
«Tieni, è per
te» disse, porgendomi un pacchetto di
medie dimensioni, impaccato in carta gialla e lucida.
Arrossii, facendo per protestare.
Lo sapeva quanto
odiassi i regali, mi metteva a disagio che fosse proprio lui a farmene.
«Edward…».
«Niente. Aprilo e basta,
è una sciocchezza» m’incitò
con un sorriso.
Riluttante, strappai malamente la
carta lucidata,
sapendo che sarebbe stato inutile e ancor più imbarazzante
rifiutare il suo
regalo. Fortunatamente, non era provvisto di fiocchi che si dovessero
slacciare, sono una piccola coccarda su un lato.
«Liquirizia?»
chiesi stupita. Ce ne erano di tutti i
tipi, divisi da piccoli scompartimenti nella scatolina colorata.
Sassolini
neri, pezzetti di radice naturale, all’aroma di anice,
lavanda, gommosa,
trasparente…
«Liquirizia»
ripeté, un sorriso sulle labbra.
Sollevai lo sguardo sul suo volto,
sorpresa. «Posso
mangiarla? Davvero?».
Annuì. «Certo
che puoi. Spero che ti piaccia».
Arrossii, non potendo fare a meno
di osservarla
ancora. «Grazie» mormorai, imbarazzata
«mi piace davvero molto».
«Assaggiala»
m’incitò, avvicinandosi con la sedia al
letto, ma senza sdraiarsi accanto a me, nonostante le mie proteste.
«É davvero
buona» commentai, passandogli il pacchetto
perché lo sistemasse sul comodino. Mi osservava mentre
mangiavo, con
un’espressione quasi beata sul viso. «Non ti
dà fastidio? L’odore… non ti
disturba?».
Scosse il capo. «No, a
dire il vero. E’ l’unico
alimento umano di cui mi piace l’odore: è dolce,
aspro, saporito, salato, unico
e non paragonabile a nulla. Inoltre, antichi popoli credevano avesse
proprietà
curative. É… potente. Irretisce quasi tutti i
miei sensi».
Strinsi le labbra, assaporando il
pezzetto che avevo
messo in bocca. «Quindi non è stata una scelta
casuale».
«No, non lo è
stata».
Mi morsi un labbro, osservandolo
attentamente. Dei
pensieri stavano cominciando ad affollare la mia mente. Se aveva
comprato la
liquirizia, era andato via. Se era andato via… Deglutii,
improvvisamente in
ansia. Non potevo pretendere che stesse sempre con me, ma la paura mi
sopraffaceva spesso appena pensavo alla minaccia malcelata nella parole
di
Jacob. Sarebbe tornato. E io non avrei mai più voluto farmi
trovare sola, senza
Edward.
«Va tutto
bene?» mi chiese pensieroso, notando
l’espressione sul mio viso.
Annuii, provando a dissimulare il
mio stato.
Avvicinò una mano alla
mia guancia, accarezzandomi.
«Ehi… Cosa c’è che non
va?».
Scossi il capo. «Non
posso stare senza te, capisci?
Non posso. Lui…» deglutii, «lui non deve
tornare. Per favore. Non… non…»
ansimai, stringendo affannosamente le sue mani.
Strinse i miei polsi con una mano,
stringendomi il
viso con l’altra. «Calma» mi
ordinò, con voce pacata, «lui non ti
farà del
male. Te l’ho promesso. Non te ne farà».
Chiusi gli occhi, concentrandomi
sul suono del suo
respiro per far rallentare il mio. «Stenditi accanto a
me».
«Bella-».
«Stenditi accanto a me,
per favore» ripetei,
implorandolo, gli occhi ancora chiusi.
Scivolò sul materasso,
avvolgendomi con le braccia e
facendomi adagiare per metà sul suo corpo. Mormorava piano
qualcosa al mio
orecchio, baciandomi la tempia di tanto in tanto. Non mi stava
consolando per
l’assenza di Jacob, come era avvenuto solo qualche settimana
fa. Mi stava
rassicurando sul fatto che non sarebbe più tornato, che gli
avrebbe impedito di
farmi del male. Io, ero stata io a chiedergli di lottare per me.
«Grazie»
sussurrai, lasciando che i nostri corpi si
rasserenassero assieme.
Non passò molto, che
Carlisle entrò in camera con la
mia cartella clinica per la consueta visita giornaliera.
Temporeggiò per un
secondo trovandoci abbracciati sul letto.
Arrossii, vergognosa, lasciando
immediatamente cadere
la presa sul corpo di Edward.
Lui non era imbarazzato, osservava
il padre con uno di
quegli sguardi carichi di serietà, che sapevo nascondevano
qualcosa che non
potevo capire, o sentire. Ad ogni modo si sollevò,
ritornando dove voleva
essere, sulla sedia accanto al mio letto.
«Come va stamattina,
Bella?» mi chiese cortesemente
Carlisle, avvicinandosi.
«Sto bene».
Mi sorrise, controllando i dati che
le infermiere
avevano aggiornato sulla mia cartella. «Va bene, cambiamo il
bendaggio allora».
Edward si sollevò dalla
sedia e mi baciò la fronte.
«Vi lascio per un attimo insieme, torno subito».
Feci per protestare, scontenta.
«Perché devi andare
via?» chiesi preoccupata, tentando inutilmente di dissimulare
la mia morbosa
dipendenza da lui.
«Non ti preoccupare,
torno presto» fece, anziché darmi
una risposta esauriente, e scappò via in un attimo.
Sospirai, lasciandomi andare fra i
cuscini e umettando
inutilmente le labbra secche, gli occhi chiusi. Carlisle
sistemò lo schienale
in modo che fosse agevolato nel suo compito. Odiavo il fatto che Edward
avesse
deciso di andare via proprio adesso, mentre sapeva che detestavo
più di tutti
proprio quel momento della giornata. Non era da lui, questo. No,
affatto.
«Ce la fai a
sollevarti?».
Annuii, facendo leva sulle braccia
con un po’ di
sforzo e dolore. «Tu sai cos’ha Edward?»
chiesi velocemente, preoccupata.
Carlisle rimase concentrato sul
bendaggio, in modo da
non farmi stancare troppo in quella posizione.
«Perché, ha qualcosa?».
Strinsi le labbra, sentendomi
stupida per la domanda
appena fatta. «Niente, scusa» mormorai, stendendomi
nuovamente non appena me ne
diede la possibilità.
«Stai guarendo bene. Ti
do degli altri antibiotici,
non possiamo rischiare che la ferita s’infetti. Vorrei che
questa febbre
scomparisse definitivamente» disse, districandosi con il
tubicino che avevo
perennemente collegato a un vaso all’interno del gomito.
Rimasi ferma, silenziosa. Non
sopportavo più niente di
tutto ciò. Aghi, tubicini, bendaggi. Niente.
«Credo che se tutto
andrà bene fra cinque giorni
potremmo dimetterti. A condizione che tu prosegua con il riposo anche a
casa».
«Cinque
giorni?» chiesi, improvvisamente angosciata,
aprendo gli occhi.
Un’espressione di scusa
comparve sul suo volto. «Mi
dispiace, vorrei che le fratture si stabilizzassero».
«Cinque giorni»
esalai, depressa, scuotendo il capo.
Mi accarezzò gentilmente
i capelli. «Appena starai
meglio. Vedrai, passeranno in fretta, non te ne accorgerai
neppure».
Mi imposi di non aprire bocca. Non
sarebbero uscite
parole carine dalle mie labbra. Quello che più mi frustrava
era che non avevo
proprio nessuno con cui prendermela, men che con me stessa.
Il rumore della porta che scorreva
preannunciò
l’entrata nella stanza di Edward. «Avete
finito» constatò.
«Come se non lo
sapessi» borbottai, esasperata.
Rivolse un fugace sguardo al padre
prima di
avvicinarsi il mio capezzale. Mi accarezzò i capelli, ma non
disse nulla,
perché sapeva che ero insofferente, e sapeva di non poter
dire nulla per
aiutarmi.
Carlisle recuperò la mia
cartella e mi salutò
cordialmente, lasciandomi nelle mani di suo figlio.
Provò a parlarmi, a
scherzare, anche a leggere un
libro. L’aveva fatto spesso in questi giorni, leggere
finché non mi
addormentavo, per paura - come già era successo - che io
stessa, troppo stanca,
non riuscissi a portare avanti la lettura. Ma ora non funzionava
più. Ora ero
stanca, oppressa, e insofferente, e inspiegabilmente preoccupata che
qualcosa
non andasse in lui.
«Hai visto? Puoi
mangiare. Non sei contenta?» fece,
scoperchiando il vassoio con il mio pranzo.
«É
pastina» protestai, delusa. Pastina. Pastina.
Non sapevo neppure se potesse essere classificata come cibo.
«Devi riabituarti a
mangiare» provò a farmi ragionare,
gentilmente, «e la pastina ti è sempre piaciuta.
É buona».
«Perché non la
mangi tu allora?» sbottai stizzita.
«Bella»
sospirò pazientemente, «non la vuoi? Posso
sempre mandarla indietro e chiedere qualche altra sorta di cremina, ma
non
credo tu possa ottenere un vero cibo solido» fece, alzandosi
e prendendo fra le
mani il vassoio con il mio cibo.
Lo trattenni, stringendo la sua
camicia. «No, no,
rimani qui» ansimai, angosciata che volesse lasciarmi sola.
Deglutii, provando
a nascondere il mio terrore «Dai, rimani qui. Dammi la mia
pastina».
Sospirò, lasciando
andare il mio vassoio. Provai uno o
due cucchiai di quella mistura, ma ero nauseata e disgustata.
Perlopiù ci
giocavo con il cucchiaio, disinteressata.
Mi tolse il cucchiaio dalle mani,
rimestando quella
che avevo sparpagliato sul bordo e prendendone una cucchiaiata.
L’accompagnò
con la mano, per evitare di gocciolare sul mio pigiama. «Apri
la bocca»
m’incitò.
Sospirai, imbronciata, provando a
riprendermi il
cucchiaio.
Non me lo permise. «Apri
la bocca» ripeté.
Mi umettai le labbra, lasciando che
si avvicinasse con
il cucchiaio alla mia bocca semi-aperta. Strinsi il lenzuolo fra le
dita,
prendendo i bocconi che mi offriva.
«Mi ricorda qualcosa.
Quando mia madre lo faceva con
me. É strano, vero? Ero un po’ grande, ma
quell’estate mi ero ammalato, perché
volevo sempre giocare fuori all’aperto. Così mia
madre si sedeva accanto a me,
sul letto, e m’imboccava».
Lo osservai, prendendo un altro
boccone. Era forse
quello il motivo della sua tristezza? Antichi ricordi che affioravano?
«Va tutto
bene?» mi chiese con un sorriso, vedendomi
mansueta e silenziosa.
Annuii. «Basta»
protestai, tirandomi indietro con la
schiena. «Non ne voglio più».
«E la frutta?»
chiese speranzoso.
«No».
Dovetti addormentarmi presto,
perché quando mi
svegliai la luce che illuminava la stanza era più bassa e
intensa del consueto.
Mi stropicciai gli occhi.
«Ti sei
svegliata» mormorò Edward, carezzandomi il
viso.
Improvvisamente arrossii, colta da
un impellente
bisogno fisiologico. «Potresti… umh» mi
schiarii la voce, imbarazzata «ho
bisogno del bagno».
Rispose gentilmente, sollevandosi
in piedi. «Certo. Ti
chiamo un’infermiera, un attimo».
Annuii, silenziosa. Era strano che
non fosse lui
stesso a volermi aiutare, considerato che, anche quando ero stata
ricoverata a
Phoenix, l’aveva sempre fatto. Sicuramente, però,
non gliel’avrei mai chiesto.
Quando rientrò in camera
assieme a lui c’era anche
Carlisle.
«Bella, cosa ne pensi di
camminare un po’?» mi propose
con un sorriso.
Edward parve entusiasmarsi della
mia contentezza.
«Esatto. Vuoi provare?».
Annuii, velocemente, cancellando
ogni pensiero triste
e problema. «Posso? Posso farlo adesso?».
«Certo» mi
assicurò Carlisle, «vorrei solo che non
stessi in piedi per più di mezz’ora. É
importante, capisci? La posizione
verticale e la forza di gravità sono contro le tue fratture,
non vorrei doverti
tenere qui per più tempo».
«Mezz’ora?»
domandò Edward a mezza voce, preoccupato.
«Mezz’ora
andrà bene» lo rassicurò il padre.
«Grazie»
mormorai, gli occhi pieni di gratitudine e
felicità. Anche se gli costava parecchia fatica farmi fare
qualcosa che lui
riteneva così pericoloso, era felice di vedermi felice.
Scostò le coperte e mi
fece sedere sul bordo del
letto. Mi infilò le pantofole e mi prese fra le braccia, per
poi sistemarmi in
posizione eretta di fronte a lui, sempre tenendomi ben ferma. Sentii i
muscoli
indolenziti delle gambe tendersi.
Mi strinsi al suo corpo, annusando
il suo odore. Era
fermo e estremamente delicato. Tanto che quasi gli sfuggii dalle
braccia. «Puoi
stringermi di più, non mi fai male» scherzai,
stringendo fra i pugni la stoffa
della sua camicia.
«Sì»
mormorò appena, ma la presa
s’intensificò di
pochissimo, come se davvero avesse paura di farmi del male.
«Ti fa male il
petto?» chiese gentilmente, strofinando una mano sulla
schiena.
«No, non
tanto».
«Abituati a stare in
piedi per un po’» intervenne
Carlisle, «e poi prova a fare qualche passo. Torno stasera a
controllarti, a
dopo».
Lo salutai, borbottando sulla
maglietta di Edward. «Possiamo
provare?» chiesi speranzosa.
«Proviamo»
acconsentì allentando la presa sul busto
per rinsaldarla sugli avambracci. All’inizio mi sentii un
po’ cedere, infatti
la presa di Edward si fece più forte. Poi, ritrovai
l’equilibrio. Feci, con
lentezza, il primo passo. Riappoggiai il piede per terra e ritrovai una
rinnovata stabilità. Edward mi sorrise, incoraggiante. Mossi
l’alto piede e
feci un altro passo. Non era come se stessi imparando a camminare. Era
solo il
dolore alle costole a frenarmi.
Sorrisi, e non poté fare
a meno di farlo anche lui.
«Possiamo uscire in corridoio?» lo supplicai
«per favore».
Sospirò, incapace di
dirmi di no. «Va bene. Per
mezz’ora».
Prima di farmi uscire dalla mia
camera mi fece mettere
un giacchetta, coordinata al pigiama che mi aveva regalato Alice. Uno
dei pigiami che mi aveva regalato Alice, e che ogni giorno passava a
cambiarmi.
Quest’ultimo era una vestaglia giallina di cotone fresco, con
i bordini di merletto
blu. Invece la giacchetta era di cotone, blu, con i fiocchetti gialli.
Mi guidò, tenendomi
sempre stretta al sua fianco e
accompagnandomi pian piano fino alla porta della camera.
Nel corridoio l’aria era
piacevolmente fresca. Il mio
reparto era quello di “malattie respiratorie”
quindi in giro c’erano più che
altro anziani e signori panciuti. Edward mi camminava accanto, a venti
centimetri di distanza, sorreggendomi di passo in passo. Ero euforica
per
quella mia libertà e felice di vedere facce nuove, e -
perché no - muri nuovi,
invece che starmene chiusa in camera.
Rivolsi un sorriso a Edward, che mi
rispose con lo
stesso affetto.
«Andiamo un po’
alla finestra?» gli proposi.
«Certo». Fece
scivolare un braccio intorno alla mia vita
e mi condusse al balcone. L’aria fresca e ventosa mi avvolse
con i suoi
profumi. Era una giornata chiara, forse un po’ annuvolata, ma
piacevole per gli
standard di Forks.
Edward mi stringeva da dietro,
lasciandomi libera di
ammirare il paesaggio. Si scorgevano le colline verdi, le strade
sterrate, e si
poteva vedere anche la casa di Edward, che presto sarebbe stata anche
mia.
Mi voltai ad osservarlo. Il
panorama stupendo non
poteva minimamente competere con lui. Il suo volto, ora sereno e
rilassato, mi
fissava con amore. I suoi lineamenti distesi, formavano sinuose linee
continue,
e i suoi capelli bronzei spettinati creavano un piacevole contrasto con
la sua
pelle pallida.
Gli sfiorai una guancia con il
palmo della mia mano.
Chiuse gli occhi, inebriato da quel contatto, e reclinò la
testa di lato, per
posarla sulla mia guancia.
Come potevo immaginare che qualcosa
non andasse in un
essere così perfetto come lui?
«Ti amo»
sussurrò, portando con quelle parole il suo
profumo meraviglioso.
«Anch’io».
Mi sporsi sulle punte dei piedi solo per
baciarlo, aspettandomi che mi venisse incontro con le sue labbra.
Delle voci ben familiari ci
interruppero prima che
potessimo farlo.
«Bella!» mi
chiamò Angela, correndomi incontro.
«Angela! Jessica!
Mike!» esclamai sorpresa.
Mi abbracciò forte,
facendomi gemere di dolore. La
presa di Edward sul mio fianco s’intensificò.
Subito si ritirò,
mortificata. «Oh, scusa».
Scossi il capo. «Non ti
preoccupare» ansimai,
riprendendo velocemente fiato.
«Abbiamo saputo la
notizia, sulle prime pagine del Forks
Time, potrai capire. “Isabella Swan, la figlia dello
sceriffo, in ospedale. Ma
che ti è capitato?» chiese velocemente Mike,
saettando con lo sguardo da me a
Edward. Fu lui a rispondere, bando la versione ufficiale dei fatti.
«Mi fa piacere
vedervi» aggiunsi poi, sinceramente
contenta.
Jessica ridacchiò,
osservando Edward. «É stato lui a
chiamarci, ringrazialo, no?» fece, maliziosa.
Mi voltai verso Edward, arrossendo
e vergognandomi un
po’ per il cattivo umore che avevo tenuto per tutto il
giorno. Aveva sempre
troppa pazienza con me, ed ero convinta che tutto, a partire dal
permesso di
camminare fino all’incontro con i miei amici, fossero una sua
idea.
«Grazie» dissi
commossa.
Mi baciò la punta del
naso. Perfetto. Niente andava
male. Era perfetto.
Ci fermammo a lungo a parlare, su
una panchina nel
corridoio. Discorremmo sul più e sul meno, sul futuro, sul
passato e sulla
vivacissima cittadina di Forks.
Scoprii che Jessica e Mike si erano
rimessi insieme, e
Angela mi disse che sarebbe voluto venire anche Ben, ma era a casa con
la
febbre. Avevano tutti trovato un’università dove
andare. Mike e Jessica
andavano a Seattle, Jessica aveva preso “Lettere
Moderne” e Mike “Economia
Finanziaria”. Invece Angela andava insieme a Ben a
“Medicina”.
Io sapevo che il mio posto sarebbe
stato in eterno
accanto a Edward e… il matrimonio. E
vedevo quel mio futuro il migliore
che mi sarei mai potuta aspettare.
«Io e Edward ci
sposiamo». Quell’affermazione, unita
al tono determinato con cui lo dissi, stupì anche Edward. Si
riprese in pochi
istanti, restituendomi un sorriso. Non immaginava che riuscissi a
dirglielo di
persona, prima di quanto gli avessi chiesto.
D’altro canto i miei
amici mi fissavano scioccati.
«Ci sposiamo ad Agosto,
il 13. Ovviamente voi siete
invitati» spiegò il mio fidanzato con naturalezza,
stringendomi la vita e
lasciando che le mie guance s’imporporassero.
La prima a riprendersi e
congratularsi fu Angela.
Anche Mike e Jessica, seppur spiazzati e disorientati, non mancarono di
farci i
loro complimenti.
Quando i suoi occhi si posarono sul
mio ventre strinsi
la mano a Edward, rivolgendogli un’occhiata. «Sono
un po’ stanca» mormorai
impacciata.
«Hai passato troppo tempo
in piedi. Vieni, ti
accompagno a letto» fece, aiutandomi a rialzarmi dalla
panchina e traendomi al
suo corpo. Sentivo tutti i muscoli del mio protestare
all’unisono. «Scusateci,
ha bisogno di riposo. Non è abituata a stare in piedi.
Però ci farebbe molto
piacere vedervi tornare domani» si congedò
cordialmente, strappando una
promessa dalla bocca dei miei amici.
Quando fui fra le coperte, Edward
si chinò a baciarmi
la fronte. Sapevo di aver fatto la scelta giusta, nessun futuro poteva
essere
paragonato all’eternità con lui.
«Grazie»
ripetei, accarezzandogli il viso, immersa con
lo sguardo nei suoi occhi.
Cambiai canale ancora, e ancora, e
ancora. Tic,
tic, tic. Fare zapping era diventata la mia nuova
attività giornaliera. Mi
lasciai scivolare meglio sulla poltrona, incrociando le braccia sotto
il petto,
imbronciata. Non che, comunque, avessi qualcosa di meglio da fare. E
non che,
comunque, questa situazione non fosse colpa mia. Ma se solo fosse
passato un
altro secondo di questo genere, il telecomando si sarebbe potuto
frantumare
volentieri contro il muro…
Sussultai quando suonarono alla
porta. Una serie di
imprecazioni provenne dalla cucina, dove mio padre provava a cucinare.
Sollevai
gli occhi al cielo, approfittando della sua distrazione per alzarmi io
stessa a
andare ad aprire.
Ci vollero solo pochi attimi
perché mi sollevassi
dalla poltrona. Le costole mi dolevano ancora, essendo stata dimessa da
poco
dall’ospedale, ma non era niente di insopportabile. Camminare
era un lusso che
potevo concedermi non appena me lo lasciavano fare.
«Ehi» mormorai,
facendomi da parte per far entrare
Edward, sottraendolo alla pioggia perenne di Forks.
Mi sorrise appena, ravvivandosi i
capelli con una
mano. Negli ultimi giorni era stato una presenza indispensabile per
lenire la
mia paura riguardo al ritorno del mio ex miglior amico. Ma,
contemporaneamente,
era stato buio e pensieroso come non lo vedevo da tempo.
Feci per sporgermi a baciarlo ma si
tirò indietro,
scrollandosi la pioggia di dosso. «Sono bagnato»
fece con un sorriso di scuse,
«perché non ti vai a sedere? Sei stata un
po’ stesa stamattina? Lo sai, stare a
riposo ti aiuta a guarire prima».
Sospirai, cercando di misurare il
respiro per non
accentuare il dolore. «No, Edward. Non sono stata stesa,
perché non sono più in
ospedale e supermalata come prima, e perché non ce la faccio
più, a stare
stesa».
«Mmm»
mormorò, chinandosi al mio orecchio «qualcuno
è
di cattivo umore, qui… Brutta mattinata?».
Lo ignorai, continuando a
trascinarmi fino alla mia
poltrona. Appena in tempo per vedere la faccia di ammonimento che mio
padre
fece al mio fidanzato. Sollevai gli occhi al cielo, tentando malamente
di
sedermi. Mi sentivo un caso umano, come se stessero trattando con una
pazza.
Edward venne subito in mio aiuto,
facendomi sollevare
una gamba e sorreggendomi affinché mi poggiassi allo
schienale. «Ti serve
un’altra coperta o questa va bene?»
domandò, sistemandomela addosso.
«Questa va più
che bene. Ne farei volentieri a meno,
anche. Grazie».
«Bella» mi
rimproverò mio padre «avanti, non essere
sgarbata».
Sollevai un sopracciglio. Da quando
andavano
d’accordo? Cos’era, una naturale coalizione
maschile contro l’ingestibilità
delle donne?
«Potrei avere dei
calmanti?» domandai allora, le
braccia incrociate al petto.
Edward si crucciò,
osservandomi. «Hai dolore?».
«Ehi Bells, me lo devi
dire se stai male» fece mio
padre, subito agitato, carezzandomi una guancia. «Carlisle mi
ha dato tutta una
lista di farmaci che devo darti per ogni cosa diversa. Che cosa
senti?».
«Solo un po’
male al petto» risposi, lasciandomi
andare nei cuscini e chiudendo gli occhi. …e la
voglia di drogarmi piuttosto
che stare ancora ad ascoltarvi.
«Dolore, dolore. Fammi
controllare, va bene?»
borbottò, correndo in cucina.
«Sì,
sì papà. Controlla» cincischiai, gli
occhi ancora
chiusi.
Passò poco che Edward mi
prese la mano fra le sue,
stringendola e portandosela alle labbra. Sospirai, lasciandomi andare,
languida, al suo tocco, l’unico in grado di calmarmi
veramente. «Cos’hai?».
«Te l’ho detto,
è solo un po’ di
indolenzimento…».
«No»
m’interruppe, chinandosi a baciare le palpebre
chiuse e costringendomi a riaprirle.
«Cos’hai?» domandò ancora,
guardandomi
negli occhi.
Mi morsi un labbro. «Dimmelo
tu».
Tornò mio padre,
portando con sé la lista delle
medicine. Mi fece mangiare quello che aveva cucinato prima di
lasciarmele
assumere, come prescritto. Peccato che, nonostante si fosse applicato
molto per
me, la vera medicina da ingoiare fu il suo cibo. Per questo Edward, con
parole
e gesti dolci nonostante il discorso che tenevamo ancora in sospeso,
m’invitò a
mangiare a casa sua, quella sera, e propose come se fosse
un’idea di Esme
quella di cucinarci qualcosa finché non mi fossi rimessa.
«Voglio andare a
riposare» mormorai, facendo per
alzarmi. In realtà volevo solo una scusa per andare di sopra
e poter finire il
mio discorso in sospeso con Edward.
«Ti accompagno»
disse lui, intuendo forse le mie
ragioni, o piuttosto per puro spirito di cavalleria, visto che
ultimamente si
sottraeva sempre più spesso alle mie domande.
Mio padre si schiarì la
voce, osservandoci
improvvisamente agitato. «Posso portarti io, Bells»
borbottò, squadrandomi,
forse per soppesare il mio peso.
Edward mi trasse a sé,
sollevandomi fra le sue
braccia. «Tornerò immediatamente di sotto, capo
Swan. Per me non è un
problema». Mi allacciai al suo collo, socchiudendo gli occhi.
Mio padre storse le labbra,
combattuto. «Portala su. E
falle un po’ compagnia» cincischiò,
lasciandosi malamente cadere sul divano, il
telecomando finalmente di nuovo suo. Era come se avesse perso una
decina d’anni
della sua vita, per assistermi. In fondo, essere padre non doveva
essere così
facile. «Compagnia casta,
ragazzo» lo minacciò, mentre intanto Edward mi
portava su per le scale.
«Papà!»
esclamai, nascondendo il mio volto rosso sul
suo petto.
Edward chiuse le tende della
stanza, riducendola alla
penombra e facendomi capire che no, non mi aveva accompagnata nella mia
camera
per parlare.
Strinsi il palmo contro il
lenzuolo. «Edward…» lo
chiamai, stanca di essere così scontrosa, desiderosa davvero
di capire quale
fosse il suo problema «rimani con me, per favore».
Mi sorrise appena, sfregandosi le
mani. Sospirò, e si
avvicinò al mio letto, dapprima temporeggiando accanto ad
una sedia, e poi
risolvendosi per sedersi accanto a me sul materasso.
Lo strinsi con le braccia,
lasciando che facesse lo
stesso con me. «Dormi. Riposarti ti
aiuta…».
«A guarire,
sì, lo so» completai la frase per lui,
appena un sussurro nella stanza.
Sospirò e
annuì.
Deglutii contro il suo petto,
chiudendo gli occhi.
Anche se avessi voluto non avrei potuto mettermi a dormire,
perché la mia mente
pensava troppo. E non a mille cose e mille problemi, ma uno solo,
tuttavia
enorme: Edward.
Che fosse per una ragione o per
un’altra, non era più
lui, e questo era certo. Non potevo negare di aver pensato, e spesso,
che non
fosse poi davvero riuscito a perdonarmi. E per questo, per quanto
egoistico
fosse, mi ero di gran lunga pentita di averlo spronato a riconoscere il
mio
errore.
«A cosa hai
pensato?» mormorai, nel silenzio della
stanza, contro il suo petto, «vorrei sapere che cosa hai
pensato mentre ero lì,
dentro quella sala operatoria, senza sapere se ne sarei uscita viva e
come. Tu
pensi tanto, quindi qualcosa devi averla pensata».
«Abbiamo qualcun altro
che pensa tanto qui, sbaglio?»
scherzò, il sorriso premuto contro i miei capelli.
Scrollai le spalle.
«Tanto tempo a disposizione e
niente da fare. Allora? Cosa hai pensato?».
Sospirò. «Una
parte di me pensava fondamentalmente che
dovevo stare calmo, o le poltroncine della sala d’aspetto non
avrebbero più
avuto i loro braccioli…».
«E dai!» lo
rimproverai, pizzicandogli un fianco,
«dimmelo e basta».
Mi sorrise, facendosi
più serio. «Ho pensato che
dovevo fidarmi di mio padre, perché lui era il migliore, e
ti avrebbe salvata.
Dapprima ho fatto su e giù per la sala d’aspetto,
troppo irrequieto per stare
fermo, pur con tutto l’appoggio di mia madre e di Rosalie.
Volevo distrarmi,
perché non volevo guardare nei pensieri di mio padre, di uno
dei suoi
assistenti o gli infermieri per vedere…»
s’irrigidì, stringendo con le mani i
piedi che stavo sfregando contro le sue gambe «per vederti
lì, su quel tavolo
operatorio. Ma poi, ho capito che non ci sarei riuscito. Mi sono
lasciato
andare, e ho visto, passo per passo, e sentito i loro pensieri.
Così mi sono
rilassato, e ho cominciato a pensare normalmente, come se fossi anche
io lì con
te. Ero arrabbiato».
Trattenni il fiato, osservandolo.
«Mi dispiace».
Scosse il capo, un sorriso sulle
labbra. «Non fa
niente. Vuoi che ti dica lo stesso?».
Annuii, stringendolo più
forte e chiudendo gli occhi.
Qualsiasi cosa.
Prese a carezzarmi i capelli con la
mano. «Ero
arrabbiato con Jacob per quello che ti aveva fatto. Credimi, ero
furioso. E lo
ero perché ti aveva fatto del male, ma non era questo il
motivo principale. Ero
afflitto perché anch’io, per quanto il pensiero
fosse assurdo, avrei potuto
fartene, molto più di lui. Certo non ti avrei mai
abbandonata in quello stato,
ma…».
«Edward»
sussurrai, riaprendo gli occhi «tu non mi
farai del male. Perché dovresti? Non lo farai».
Sospirò, scuotendo il
capo. Abbassò lo sguardo sulla
coperta, non facendomi scorgere le iridi ambrate nascoste dalle sue
lunghe
ciglia. «Ero arrabbiato anche con te»
mormorò, nel silenzio della stanza,
«perché ci dobbiamo sposare, e pensavo di dover
essere informato se qualcuno ti
schiaccia con la schiena contro una parete».
«Edward» lo
chiamai «mi dispiace, lo sai. Avevo solo
paura… solo paura che saresti andato da lui, violato un
patto che non ti
avrebbe più permesso di stare qui con me o vi foste fatti
del male…».
«Se gli avessi fatto
male» fece, con dolore, risentimento,
quasi… gelosia.
Provai a prendergli il volto fra le
mani, per
costringerlo a guardarmi. Inutilmente. «Te, Edward, te. Avevo
paura per te.
Tutto questo, quello che è successo, non è
passato senza lasciare traccia. Me
ne sono accorta. Mai, mai ho amato nessun altro che non fossi tu. Mai.
Non
metterlo in dubbio, ti prego».
Annuì, silenzioso.
«Lo so. Me lo hai detto. Non è
questo, il punto. Il punto è che, nonostante tutto, ti avevo
dato la mia
fiducia, e tu non me l’hai detto».
«Ma ora sto
bene».
«Ma se fosse stato
più grave?» mi rimbeccò, voltandosi
a guardarmi negli occhi «se fosse stato più grave,
o se fossimo arrivati
qualche secondo più tardi? Ogni secondo, ogni secondo in cui
mi guardavi e
dicevi, con gli occhi “ti prego, aiutami”,
perdevo mille anni della mia
esistenza. Lo capisci questo?».
Stetti immobile a fissarlo senza
dire nulla, finché
mio padre, forse preoccupato che da casta la sua compagnia diventasse
non
casta, chiamò Edward al piano di sotto. Mi lasciò
con la promessa che se avessi
dormito, quando mi fossi risvegliata l’avrei ritrovato la mio
fianco.
E così fu.
«Ti rimarrà la
cicatrice» mormorò, continuando a
passare le dita sul mio petto scoperto.
Aprii gli occhi, ancora assonnata.
Lo fissai senza
parlare.
Mi sorrise, sollevandosi dal
materasso per prendere
qualcosa che era posata sul comodino. Una busta bianca.
Mi umettai le labbra,
stropicciandomi gli occhi per
riprendermi dal sonno appena passato. Feci per mettermi seduta, ma
proprio quel
movimento fu più difficile del previsto.
«Aspetta» fece,
venendo subito in mio aiuto.
«Grazie»
cincischiai, la voce ancora impastata dal
sonno. Afferrai la busta che mi porgeva dalle sue mani. Era spessa,
patinata.
Una carta di quelle che mi sarei aspettata contenere uno dei nostri
inviti di
matrimonio. «Cos’è?» domandai,
voltandola su entrambi i lati «un invito di
matrimonio?».
Sorrise. «No, no, per
quello ci penserà Alice, stanne
pur certa. Se questa sera sei invitata a casa mia non è solo
per farti
rimpinzare, credimi. Ad ogni modo, aprila e basta».
Feci come diceva, e mi trovai
dinanzi ad
un’intestazione strana e inquietante.
“Accademia
delle
Belle Arti”
Fissai il foglio spesso cercando di
dare un senso a
quello che leggevo. Un lungo e approfondito corso estivo, preliminare
solo a
tutta una serie di scadenze e esami che permetteva di entrare nelle
alte sfere
artistiche dello stato di Washington e, con un po’ di
talento, di tutti gli
Stati Uniti.
Perché?
Mi accorsi delle lacrime sin dal
primo istante, da
quando sfiorarono le guance fin quando arrivarono sotto il mento.
«Bella…»
mi chiamò Edward, disorientato e preoccupato.
«Ti-ti vuoi sbarazzare di
me?» chiesi, piano, la voce
che mi tremava.
Aggrottò le
sopracciglia, stupefatto della mia
domanda. «Cosa? No. Certo che
no».
«E allora…
cosa? Vuoi che sia migliore di così, che
faccia per forza una stupida università o un…
corso di belle arti?»
singhiozzai, fissandolo incredula «come ti viene in mente? Se
il tuo scopo non
è quello di allontanarmi allora perché non stai
con me quando sono sveglia, non
mi abbracci, non mi baci mai? Cos’hai, Edward?
Cosa…» scossi il capo,
asciugandomi il viso con la manica del pigiama. Abbassai la testa,
osservando
ossessivamente il mio copriletto. «Ti ostini a dirmi che sono
malata, e può
darsi che sia vero. Ma non sono stupida».
«Non sei
stupida».
«No» ripetei,
sollevando il capo, gli occhi rossi.
«Non lo sono».
Mi fissò con insistenza,
ricambiando il mio sguardo
senza abbassarlo. Infine sospirò, sfregandosi le tempie con
le dita. Scosse il
capo. «Non posso dirtelo. So come andrà a finire,
è inutile che te lo dica».
«Fallo decidere a
me» ribattei. Ma non parlò,
nonostante aprisse e chiudesse la bocca, senza lasciar passare aria.
Strinsi i
pugni sui fianchi, decisa a pensare il peggio di quello che potevo. Le
lacrime
premettero per uscire dalle ciglia e le arginai strenuamente, chiudendo
la gola
in un magone. Aprii la bocca. «Non riesci a
perdonarmi» sussurrai, soffocando
ogni sillaba nel pianto.
«Ma no» fece
subito, prendendomi per le braccia «no,
no Bella, non è affatto questo. Non è per te, tu
non c’entri».
Singhiozzai, provando inutilmente
ad asciugarmi il
viso con una mano.
Si sporse nella mia direzione,
agitato, raddoppiando
la presa sulle mie braccia.
Gemetti, mio malgrado.
Mi lasciò andare
immediatamente, tirandosi indietro e
scuotendo il capo. «Di questo, Bella. Ho paura di
questo» sollevò il viso,
osservando attentamente la parete contro cui, quella notte, il mio ex
migliore
amico Jacob Black mi aveva scagliata. «Da quando è
successo tutto, non faccio
altro che odiarlo - beh, più di prima. Ma
quest’odio mi logora, perché sono
consapevole che, in fondo, ha ragione.
Perché posso farti del male»
mormorò, spostando ancora lo sguardo su di me, triste,
afflitto. «E perché, per
quanto tu dica che non ne senti l’esigenza, ti sto privando
della possibilità
di avere un figlio».
Sospirai, facendo per sollevare una
mano.
Scosse il capo, troncando le mie
parole sul nascere.
«No, Bella. Non è qualcosa che puoi negare,
mettere da parte, mettere a tacere.
Lo conosco il tuo punto di vista, so cosa pensi. Ma questa volta non
basta un
cerotto, per curare questa ferita. Perché
continuerò a pensarci, e pensarci, e
pensarci. E non riesco a farlo cambiare».
Non dissi più una
parola, ma spostai le mani ad
accarezzare i suoi capelli. Pensavo. Riflettevo sulle mie
capacità, su quello
che avrei potuto fare per farlo sentire meglio. Ma non trovavo niente,
perché
lui aveva ragione. Non bastava un cerotto. «Cosa vuoi
fare?» mormorai allora,
il cuore in gola «mi vuoi… non mi vuoi
più sposare?».
Sibilò, irrigidendosi.
«Certo, che voglio sposarti».
Annuii, intimamente più
rincuorata. «Era per quello,
allora? Era per quello il depliant delle Belle Arti? Per convincermi a
continuare la mia vita da umana?» chiesi, provando a capire.
Scosse il capo. «No. Non
è per quello» sorrise
amaramente. «Ho pensato che ti potesse piacere coltivare un
lato umano di te,
prima della trasformazione. Mi piacciono i disegni che fai ovunque,
quando sei
nervosa, e Alice mi ha dato conferma del tuo talento dicendomi che
quando eri a
Phoenix disegnavi. Allora ho pensato che non volevi andare al college
perché
non avevi ancora trovato qualcosa che ti piacesse davvero, e
così… eccomi qui».
Sorrisi, ascoltando il suo discorso
imbarazzato. «Mi
dispiace per aver reagito così. Non dovevo. Sono
solo… solo un casino. E
tu… tu eri così
strano…».
Rise appena, chinandosi a baciarmi
le labbra. «Lo so.
Sei davvero un casino».
«Ehi» protestai
debolmente, senza nascondere il
divertimento nella mia voce. Mi feci più seria, osservandolo
dal basso, stretta
nelle mie braccia.
Anche lui mi guardò
più intensamente, carezzandomi la
schiena con un palmo aperto. «Dammi solo un po’ di
tempo, va bene? Non ho
cambiato idea su niente. Ti amo come prima. Ma dammi un po’
di tempo, ti prego».
Annuii, immergendo il capo nel suo
petto. «Grazie.
Grazie per non aver cambiato idea».
«Ce la fai? Stai attento,
per favore» Edward aprì
velocemente la porta di casa, lanciandomi una rapida occhiata,
«non ti sta
facendo male, vero?» domandò ansioso.
Emmett mi sbatacchiò in
tutte le direzioni,
ondeggiando verso l’ingresso. «Sta tranquillo,
fratello. Non te la sciupo»
dichiarò ilare, lasciandomi cadere sul divano.
«Se potessi camminare non
mi sciuperei affatto»
dichiarai risoluta, sospirando.
«E brava
Bella!» esclamò ilare la mia amica,
comparendo in un attimo nella stanza. Si piegò china su di
me. «Così devi
parlare. Edward continua a dirmi che stai male, che sei in fase di
guarigione,
che sei stanca - Edward, non farle segni».
«Non ho fatto nessun
segno!».
«Ti vedo, lo sai
– dicevo. Non è vero, giusto?» mi
domandò, un’espressione perfettamente innocente
«vero che sei perfettamente
guarita?».
Disorientata la osservai, passando
velocemente da lei
allo sguardo ansioso del mio fidanzato. «Beh…
certo, sono…».
«Perfetto!»
esclamò, sollevandosi e battendo le mani.
«Ho una cosa da amiche da fare per ragazze in ottima
salute!».
Edward abbassò il capo,
scuotendolo.
Avevo il sentore di essermi
cacciata nei pasticci.
Deglutii. «Beh, magari non sono proprio in perfetta salute.
Emmett ha dovuto
scortarmi qui dentro… Vero Emmett?».
Sorrise, sornione. «Beh,
a dire il vero ho dovuto
convincerla, non voleva neppure farsi portare. Sempre ad opporsi, fare
l’indipendente…».
«Vero, Emmett?»
sibilai fra i denti.
Sollevò gli occhi al
cielo. «Vero, vero».
Ma Alice non demorse. Mi
osservò, un sorriso sul viso.
«Non ti preoccupare. E’
un’attività rilassante per persone in discreta
salute.
Sarà divertente, vedrai. E» aggiunse, quando vide
che stavo per ribattere «il
qui presente Edward, il tuo fidanzato nonché amore
della tua vita, ti
aiuterà» completò splendidamente,
arpionandosi al suo braccio.
Storsi la bocca in una smorfia.
Sì, mi ero cacciata
proprio nei pasticci.
«Okay, questo fa
male» mi lamentai, torcendomi le dita.
La bella Alice se n’era andata, lasciandomi con un mucchio
di inviti da
firmare a mano. Il fatto che ci fosse Edward con me non mi aiutava
affatto,
poiché avrei preferito usare il nostro tempo insieme in
maniera molto
più produttiva.
Fargli capire che non ero una
bambola di porcellana,
ad esempio.
«Mi dispiace. Vedrai,
presto sarà pronto da mangiare e
potremo fare una pausa».
Sollevai gli occhi al cielo,
sconsolata. «Potrò fare
una pausa. È inutile che fai finta di andare piano per me.
Lo so che ci metteresti
solo un nanosecondo» mi lagnai, querula, mettendo il broncio.
Mi sorrise. «Dai, non
fare così. Sorridi» mi ordinò,
chinandosi a baciarmi. Baciarmi sul serio. Mi occorse un istante, dopo
il tempo
che era passato da un bacio del genere. Espirai, stringendo le mani ai
suoi
capelli e spremendo le labbra contro le sue.
Si staccò, osservandomi.
«Ehi, respira» scherzò,
toccandomi appena il petto nel punto in cui mi doleva.
Annuii, spostandomi accanto a lui
sul divano. Lo
fissai intensamente, finché il sorriso sulle sue labbra non
divenne una linea
retta.
«Che
c’è?».
«Non aver
paura» mormorai, sollevando una mano a
carezzarmi una guancia, «non aver paura, andrà
tutto bene. Se è troppo, per te,
ci fermeremo, ci riproveremo. Puoi dirmelo. Posso perdere fare
l’amore con te.
Non posso perdere te».
Sospirò, colpito.
Annuì, abbracciandomi. «Non perderai
nulla. Te lo prometto».
«Mmm» mugolai,
accoccolandomi contro il suo fianco. Posai
il capo contro la sua spalla, lasciando che lo baciasse. «Ho
pensato, sai».
Mi accarezzò i capelli.
«Ah. Di solito una frase che
inizia così non porta mai nulla di buono»
scherzò, smorzando un po’ il tono
serio che aleggiava ora fra di noi.
Gli tirai una pacca leggera.
«Dai, smettila. Ho
pensato davvero. Potrebbe… piacermi, il
corso di cui mi hai parlato».
Si bloccò, chinandosi ad
osservarmi. «Davvero?»
chiese, entusiasta.
Annuii. «Davvero. Pensi
sul serio che… possa farlo?
Non è perché ti aspetti qualcosa di
più da me?» chiesi, muovendomi a disagio
fra le sue braccia.
«No, no» fece
immediatamente, posando le mani su
entrambi i miei fianchi. «Ascoltami, fallo solo se ti va e se
ti piace. Non
devi dimostrarmi nulla. È solo per un semestre, solo per
divertirti e imparare
qualcosa di nuovo, se vuoi. Decidi in piena
libertà».
Sorrisi, timidamente. «Mi
piacerebbe».
Mi restituì lo stesso
sorriso radioso. «Bene,
perfetto» dichiarò ilare, tornando a stringermi
forte fra le sue braccia. E
speravo che non smettesse mai di stringermi così
forte.
«Edward?».
«Hmm?».
«Tu sai riprodurre perfettamente
la mia
calligrafia, vero?».
«Guarda che vi
ho sentiti! Firma e basta, Bella!».
Il cielo era chiaro, coperto di
nuvole chiare.
Percorrevo la navata con il mio vestito di pizzo bianco, Edward mi
aspettava
sotto l’arco con il suo sorriso raggiante. Mio padre Charlie
mi camminava
accanto, tutti mi guardavano, e io rispondevo ai loro sorrisi con
imbarazzo.
Era il giorno delle mie nozze, e tutto sembrava perfetto.
D’ un tratto, una
sferzata d’aria fredda mi colpì il
viso facendomi voltare verso la foresta. Il cielo divenne nero e
cominciò a
tuonare. Dagli alberi si sollevò un ululato mostruoso. Un
lupo enorme fece il
suo ingresso, ringhiando. Mi fissava con gli occhi rossi,
l’aria inferocita. Era
tornato.
«Edward!»
strillai. Ma non feci in tempo a voltarmi,
che con una zampata mi scagliò lontano, graffiandomi con le
unghie e
impedendomi la vista.
Caddi a terra, disorientata, il
vestito imbrattato di
fango e il bouquet di rose che tenevo in una mano che mi feriva,
pungolandomi, con
le sue spine. Provai ad aprire il pugno per lasciarlo cadere, ma la mia
presa
si faceva sempre più forte, ferendomi sempre di
più, lasciando che il dolore si
irradiasse dalla mano al corpo.
Agghiacciata dal dolore,
terrorizzata da quello che
non vedevo, sollevai lo sguardo appannato dalle lacrime. Un turbinio di
movimenti si agitava davanti ai miei occhi. Sgomenta, terrorizzata,
capii.
Stavano lottando. Presi a correre, sollevandomi la gonna del vestito.
Un vento
fortissimo mi respingeva indietro, frustandomi il viso e gli occhi.
Inciampai
più e più volte, ferendomi le mani e
imbrattandomi e stracciandomi il vestito.
Sentivo i capelli, fino a poco prima acconciati, cadere scomposi sulle
guance.
Divorata dallo sforzo e dal dolore
correvo, lacerata
nella ricerca del viso di Edward, con le caviglie spezzate dallo sforzo
della
corsa. Improvvisamente, d’un tratto, mi ritrovai, ansante, al
centro di quel
teatro di lotta.
Edward era riverso al suolo, senza
vita. Crollai sulle
ginocchia.
Il mio urlo di dolore
riecheggiò in ogni direzione. «No!».
Mi svegliai in camera mia, seduta
sul letto, la fronte
madida di sudore. Avevo il respiro ansante, mi mancava l’aria.
Edward mi teneva stretta e
sé, cullandomi frenetico.
«Shh, amore, shh… Era solo un sogno, solo un
brutto sogno» mi rassicurò,
stringendomi al suo corpo «Respira piano, non ti preoccupare,
ci sono io qui
con te».
Sollevai una mano, stringendola
contro la sua
maglietta. «È tornato». Ero ancora
troppo angosciata, per parlare. Troppo
stupita che, ancora una volta, lo stesso sogno si fosse ripetuto.
Mi osservò, fissando i
suoi occhi nei miei e
prendendomi il viso fra le mani. «Non è
tronato. Te lo assicuro. Sono
qui, con te, e lui non è tornato».
Annaspai, disorientata, tremando.
Lasciai scivolare il
capo contro il suo petto, chiedendogli silenziosamente di stringermi a
sé.
Sospirò, accarezzandomi
i capelli. «Non devi avere
paura. Non devi, va bene? Ci sono io qui. Non permetterò mai
più che ti faccia
del male» sussurrò, baciandomi i capelli.
«Mai più».
Lo strinsi più forte,
desiderosa di sentire il suo
corpo sul mio, tanto forte da farmi quasi male. Le sue parole, insieme
agli
sforzi che l’intera famiglia Cullen faceva per me mi
aiutavano, mi
acquietavano. Ma poi, non potevano fermare il terrore che continuava a
tornare
nei momenti più disparati, o la paura inconscia che emergeva
nei sogni. «E se
tornasse il giorno del nostro matrimonio» sussurrai contro il
suo petto, gli
occhi chiusi «come faremo?».
Fremette, provando ad allontanarmi
da sé. Desistette
quando scossi il capo contro il suo corpo.
«Ci saranno anche quelli
del clan di Denali. E ci
organizzeremo, oltre che cercare un modo per fermarlo prima».
Tremai. Sollevai il viso nel suo, e
posai una mano
contro la sua guancia. «Ho paura».
Strinse gli occhi, osservandomi. Si
chinò piano,
respirando il mio odore col naso. Lo sentivo, pian piano si era
riavvicinato a
me. Non era facile superare i propri pensieri, ne ero la prova vivente.
Ma
Edward si era applicato, perché voleva donarmi esattamente
l’amore che
desideravo. Lambì dolcemente le mie labbra, con dolcezza.
Spostò una mano sul
mio fianco, accarezzandolo. «Nessuno ti farà male.
Ci sono io, qui. Ci sono io,
qui, per te, e non permetterò a niente di portarti
via». Si sollevò,
dischiudendo le palpebre e osservandomi. «Te lo
giuro».
Lasciò che lo
abbracciassi ancora, carezzandomi la
schiena. «Oggi è un giorno pieno di impegni, lo
sai, vero?».
«Edward…»
provai a protestare.
«Niente Edward, si fa
come dico. Andiamo a casa mia e
ti fai togliere i punti, e poi ti porto subito a Port
Angeles».
Provai a mascherare il mio tremore,
storcendo la bocca
in una smorfia. «Non voglio stare senza di te»
borbottai contro la sua camicia,
arrossendo.
Sorrise sulla mia guancia.
«Vedrai, ti farà bene
conoscere nuove persone, distrarti un po’. Te lo
assicuro».
Strofinai il naso contro il suo
petto, scuotendo il
capo. «Le Belle Arti non fanno per me. Mi sentirò
un’intrusa in mezzo a un
mucchio di giovani talentuosi».
Mi fece l’occhiolino,
sfiorandomi le labbra con le
sue. «Ti sentirai una giovane talentuosa in mezzo a un
mucchio di intrusi»
scherzò.
«Non sono giovane, sono
vecchia» brontolai, ancora di
malumore.
Edward ammiccò.
«Ma sei pur sempre talentuosa!».
Gli lanciai un cuscino.
Mi lasciai trascinare dentro casa
Cullen. Quella casa
era eterna. Non conosceva il passare del tempo, perché che
fosse giorno, notte,
mattina presto o pomeriggio, tutti erano solo e sempre occupati nelle
più
disparate faccende.
«‘Giorno»
borbottai, stropicciandomi un po’ gli occhi.
Troppo luminosa per i miei sensi stanchi.
«Oh, Bella!» mi
chiamò Esme, correndo ad abbracciarmi.
«È passato tanto tempo da quando una mia figlia
non aveva il suo primo giorno
di scuola, lo sai, vero? Sono così contenta!».
Sorrisi, facendomi appena
contagiare dal suo
entusiasmo. Qualche istante prima che Alice entrasse nella stanza.
«Bella!» mi
salutò, apparentemente cordiale «ovviamente hai
preferito venire in jeans e
t-shirt e non truccarti affatto così che avessi piena
libertà su come vestirti»
sottolineò eloquentemente.
Sgranai gli occhi. Osservandomi.
Avevo messo qualcosa
di confortevole, ma anche… beh carino. Sì, mi
sembrava che fosse carino. «P-perché?»
balbettai, cercando velocemente lo sguardo dei vampiri in sala
«cosa c’è che
non va? Sto male, Edward?» chiesi insicura.
Increspò le
sopracciglia, scuotendo fermamente il
capo. «Ma no, sei perfetta» mi assicurò.
«Se dovesse andare al
supermercato qui a Forks» ribatté
la sorella. «Non offenderti, Bella. Sei carina. Ma non hai
gusto per la moda, l’ho
sempre detto».
Spostai il peso da un piede
all’altro, a disagio.
Esme mi diede un buffetto sulla
guancia. «Sei
carinissima, tesoro. Vuoi fare colazione?».
Scossi la testa. «Ho
mangiato con mio padre. Glielo
dovevo».
Annuì con un sorriso.
«Vieni, Bella?»
mi chiamò Edward, portandomi nello
studio di suo padre. Carlisle mi visitò, controllando i
pochi punti che
rimanevano da togliere. Rimasi stesa, stanca. Chiusi gli occhi. Ero
nervosa per
come era cominciata la giornata, e ora mi sentivo a disagio per il mio
abbigliamento. Se già mi sentivo imbarazzata per il pensiero
di non essere al
livello degli altri alunni della scuola, questo non faceva che sommarsi
alla
mia tensione crescente. Non mi sentivo in grado, né
all’altezza di quella
scuola. Lì ci andavano tutte le persone con talento, era
un’accademia di
prestigio. Ovviamente Edward mi aveva imposto di pagarmi
l’esorbitante retta.
Era una delle clausole del “pacchetto
trasformazione” come quella di cambiarmi
il pick-up, qualora si fosse rotto, cosa che mai sarebbe potuta
avvenire se
Edward non me lo avesse fatto toccare ancora per un altro po’.
«Ho quasi finito
Bella» mi assicurò Carlisle, tirando
via un filo, «non ti faccio male, vero?».
«No» sospirai,
«non mi fai male».
Il padre sollevò lo
guardo da me, rivolgendo un’occhiata
al figlio che ci osservava, poco lontano.
Edward scosse il capo.
«Ucciderò Alice».
Mi morsi un labbro.
«Lasciala stare, Edward. Non è
colpa sua».
«Lo è,
invece» ribatté piccato «se dice certe
cose
solo per poterti trattare come una bambola».
Comunque, alla fine, non fui
abbastanza forte da
rimanere indifferente ai suoi commenti. Fu quando passai davanti ad uno
specchio, adocchiando la mia figura scialba, che decisi che sarebbe
stato
meglio farsi aiutare da lei piuttosto che rifugiarmi sotto un sacco di
cartone
per il resto della giornata. Edward non fu d’accordo,
sostenendo che ero già
bellissima. Ma quando mi vide così nervosa non
osò controbattere oltre.
Quando scesi dalle scale, lasciando
una soddisfatta
Alice al primo piano, sentii Edward scambiare alcune parole con i suoi
fratelli.
«Avete avuto sue
notizie?».
«Nulla, nulla. Sembra
scomparso nel nulla».
«Sì, ma
c’è da considerare anche il fatto che il padre
non vuole parlarci, e che di certo gli altri potrebbero
mentirci».
«Avete provato con il
ragazzo?».
«Oh, Edward. Piantiamola.
Manda me a cercare Jacob e
facciamola finita!».
«Emmett!»
sibilò una voce.
«Jacob?»
domandai, scendendo le scale. Passai
velocemente lo sguardo sui loro volti. «P-perché
state cercando Jacob?» chiesi
spaventata.
Edward mi sorrise, venendomi
vicino. Speravo che non
fosse un così bravo attore. «Sei davvero
bella» commentò, osservando la mia
nuova mise, «ma lo eri anche prima, te lo assicuro».
Scossi il capo, deglutendo. Gli
occhi erano ancora
spalancati di paura. «Cosa c’entra Jacob? Edward,
mi avevi promesso che nessuno
correva rischi».
«Ed è
così» mi rassicurò immediatamente
«è così,
fidati. Stiamo solo monitorando i suoi movimenti».
Agitata, osservai i volti degli
altri due vampiri. «N-no.
Io non vado. Non ci vado. Voglio rimanere con te, Edward. Non voglio
allontanarmi con la paura che vi possa accadere qualcosa».
«Ma Bella!»
protestò immediatamente «non ha senso.
Nessuno si sta esponendo a fare nulla di sconsiderato».
«Perché non me
l’hai detto, allora?» strillai isterica
«vuoi mandarmi via in modo che tu possa andare a farti
uccidere?!».
Gli altri vampiri entrarono
velocemente nella stanza,
attirati dal suono delle mie urla.
«Edward?»
chiamò Jasper, non smettendo di fissarmi.
Pochi secondi dopo mi sentii
intorpidire.
Mi portai una mano sulla testa,
sfregandola. «Smettila»
protestai fra i denti, retrocedendo, barcollante, di qualche passo. Mi
sentivo
afflitta per non essere stata messa al corrente di quanto stava
accadendo. Ed
ero spaventata per il rischio che sicuramente tutti loro stavano
correndo.
Arrabbiata mi voltai, uscendo di
corsa dall’uscio di
casa Cullen. Sentendomi patetica e stanca mi lasciai scivolare contro
il tronco
di un albero. Dove sarei potuta andare, poi? Ricacciai via, con forza,
le
lacrime che mi stavano bagnando le guance. E al diavolo se il vestito
si fosse
sporcato di terra.
Ci furono delle urla, nella casa.
Così strano, dato
che i vampiri non alzavano mai la voce. Strinsi le ginocchia al petto
con le
braccia, poggiando il mento sugli avambracci uniti. Dopo poco tempo,
quando le
urla si furono acquietate, Edward venne a sedersi accanto a me.
«Non ti ho iscritta alla
Belle Arti per questo».
«Sono
arrabbiata» protestai fra i denti.
Sospirò.
«Immagino. Ma ti ripeto: non è per tenerti
lontana che ti ho iscritta alle Belle Arti».
«Ma mi hai
mentito» ribattei.
«Per
proteggerti».
«No!» sbottai,
voltandomi nella sua direzione «no, non
per proteggermi! Perché sapevi che altrimenti non sarei mai
stata d’accordo!».
«Bella…».
«Niente
“Bella”, Edward. Mi sento messa da parte. Mi
sento fragile, e patetica. E sono dannatamente arrabbiata!»
esclamai, sentendo
lacrime di rabbia rigarmi il viso.
Sospirò, prendendolo fra
le mani. «Non esserlo, per
favore. Avevo bisogno di monitorare la sua posizione perché
mi sembra troppo
strano che non si sia ancora fatto avanti. Non volevo che ci cogliesse
impreparati».
«E hai pensato bene di
non dirmelo!».
«Bella»
protestò, stringendo la presa «guarda quanto
sei spaventata! Come potrei essere io la causa di
un’ulteriore paura? Non
voglio. Per favore, prova a credermi. Voglio che tu segua il corso
perché penso
che ti piacerebbe, e non perché voglio tenerti
lontana».
Mi asciugai una lacrima con una
mano. «Non è colpa mia
se sono spaventata» piansi, tirando su con il naso.
Mi sorrise appena. «Lo
so».
«E di a Jasper di
smetterla con i suoi giochetti!».
«Lo
farò».
«E…
e… non mi interessa niente se il vestito si è
sgualcito o sporcato. Non ho nessuna intenzione di
cambiarmi».
«Shh… vieni
qui» mi chiamò, passandomi un braccio
intorno alle spalle. Mi aiutò a sollevarmi.
«Vieni, andiamocene via. Io e te,
andiamo a vedere com’è questa Accademia. E se non
ci piace ce ne torniamo a
casa, va bene?».
Annuii, stringendomi a lui.
Il viaggio in auto fu silenzioso.
Continuavo a pensare
a Jacob. Emmett e Jasper avevano detto di non aver trovato sue notizie,
e questo
significava che poteva trovarsi dappertutto. Anche dietro di noi, in
quel
momento. Rabbrividii.
Edward mi osservò con la
coda dell’occhio, senza
interrompere la sua guida fluida. «Tutto bene?».
Annuii silenziosamente.
«Non» feci, cercando il coraggio
per continuare «non l’avete trovato?».
Rimase in silenzio per qualche
istante, stringendo con
più forza il volante. «No» disse poi
«no, non l’abbia trovato».
«E se l’aveste
fatto?» domandai pacata.
«Magari avremmo potuto
parlarci».
Scossi il capo, agitata.
«No. Non voglio parlargli
Edward, no» protestai.
«Va bene. Ma ci sarebbe
d’aiuto sapere dov’è. Potrei
parlargli e convincerlo a non avvicinarti più».
«No, no!»
esclamai allarmata. «Non se ne parla Edward,
non voglio. Per favore».
Sospirò. «Lo
so, lo so che non vuoi. Potremmo usare
dei mezzi umani, comunque. Denunciarlo per tentata aggressione,
ottenere un
ordine restrittivo» buttò lì con
leggerezza.
«Cosa?»
domandai stridula, sgranando gli occhi «dici
sul serio?» feci, agitata.
«Beh
sì» replicò, più
bruscamente. Deglutì, come per
calmarsi. «Ma se non vuoi, in nome delle vostra amicizia,
ti capisco».
Scossi il capo. «Non
è in nome di alcuna amicizia, che
dico di no!» esclamai «È in nome del
fatto che mio padre rimarrebbe
esterrefatto e arrabbiato e ferito per la mia bugia, che la sua
amicizia con
Billy andrebbe in frantumi, che saremmo costretti a trasferirci lontano
da
Forks, che una stupida cella o un ordine restrittivo non lo
fermerebbero mai e
poi mai!».
Sospirò, distorcendo il
volto in una smorfia. «Ma
tutto il mondo saprebbe che non sono stato io, a farti del
male».
Ansimai, colpita dalle sue parole.
Il suo volto
ferito, davanti ai miei occhi, mi diceva più di quanto non
mi avesse mai detto.
«Io… lo so io, Edward. Tu non mi hai fatto del
male. Non me ne farai mai. Sei
la creatura più buona che io abbia mai incontrato. E mi
ami».
Le sue labbra si dispiegarono
appena in un sorriso
ironico. «Credo che tu ne abbia incontrate poche».
Sorrisi anch’io,
debolmente, e presi una sua mano fra
le mie, baciandone il dorso. «Può darsi. Ma fra
quelle ho incontrato te. E non
intendo cambiare questa compagnia per…
l’eternità».
Quando arrivammo, mano per mano,
osservammo il
cancello dell’Accademia. L’ingresso consisteva in
un cancello in ferro battuto
nero, dietro al quale si stagliava un grande giardino, con una villa la
centro.
Il giardino era stupendo. Un trionfo di odori e colori, di tipi di
fiori, di
piante, di forme. Fontanelle rinfrescavano l’aria e la
decoravano di tintinnii
e armonie di suoni. Con le siepi avevano realizzato delle sculture e
una aiuola
recitava: “Accademia delle Belle Arti”. Non era poi
così minaccioso quando
pensavo, confrontandolo, al volto di Jacob.
Mi voltai verso Edward, sorridendo.
«Ci sarai alla mia
uscita?».
«Rimarrò qui
ad aspettarti».
«Edward»
protestai.
Scosse il capo. «Prendi
questo cellulare» m’intimò,
passandomelo fra le mani. Un modello nuovo e luccicante.
«Usalo per ogni eventualità.
Voglio essere sicuro che tu stia bene».
Mi morsi un labbro.
«Dammi un bacio, per favore» lo
supplicai, lasciando che le sue labbra si posassero sulle mie.
Mi salutò con un
sorriso. «A dopo!» esclamò,
lasciandomi incamminare verso l’Accademia.
Timorosamente, affrettai i miei
passi sulla ghiaia. Entrata
nel mastodontico edificio rimasi più meravigliata che per
l’esterno. Tutto era
decorato e ornato, nessun dettaglio delle pareti, dei tavoli, dei
pavimenti era
lasciato libero e semplice. Quel posto ostentava creatività,
libertà e arte, da
tutte le parti. Dentro c’era un gran movimento, non era come
a Forks. Una gran
quantità di giovani ragazzi camminava da una parte
all’altra, in fretta,
frenetica. Sembrava di stare in una metropolitana.
Mi feci piccola, piccola, e mi
recai in quella che
doveva essere la segreteria per perfezionare la mia iscrizione. Solo
dopo,
senza smettere di guardarmi intorno, mi recai nella mia aula. Presi
posto in
seconda fila accontentandomi di quel posto vacante.
Accanto a me stava una ragazza con
i capelli ricci e
biondi, pingue, con gli occhi azzurro cielo. La faccia sembrava quella
di una
bambola di porcellana, bianca di cipria e con le guance rosse di phard.
«Piacere,
Amber» si presentò con un bel sorrisone.
Strinsi la sua mano calda e sudata. Non ero più abituata a
quel tipo di
contatto.
«Bella…»
le sorrisi di rimando. Dopo quel saluto
cordiale, si voltò verso la cattedra e cominciò a
farsi gli affari propri. Ero
sicura che saremmo andate d’accordo.
Qualche minuto più
tardi, arrivò il professore. Era
panciuto, di mezza età e un po’ stempiato. Si
perse in una lunga e noiosa
introduzione su ciò che era e rappresentava questa scuola.
Disse che anche
seguendo assiduamente i corsi, solo pochi di noi sarebbero diventati
degli
artisti veri. E le solite formalità monotone.
Dopo tre ore di lezione ero
affascinata da quello che
avevo scelto, o meglio, da quello che Edward aveva scelto per me.
Sentivo che,
se il suo intento fosse stato davvero quello di distrarmi, allora aveva
scelto
bene come farlo.
Alla fine della giornata avevo la
testa piena di idee,
di disegni, di arti. Fortunatamente nessuno, oltre a Amber, si era
presentato.
Con mio sommo piacere, ero quasi invisibile. Lei mi aveva rivolto la
parola
ogni tanto, con cortesia. Sembrava una ragazza solare, da quello che
avevo
capito, abitava a Seattle ed era venuta in quella scuola solo per il
suo
prestigio. Suo padre faceva l’avvocato, mentre sua madre
dipingeva su tela. Non
era mai stata eccessiva nel dialogo, ma neppure timida. Mi piaceva
davvero. Si
era anche limitata a lanciare un’occhiata curiosa al mio
anello di fidanzamento,
senza chiedere spiegazioni. E io le avevo semplicemente detto che ero
fidanzata.
Anche se mi ero divertita molto,
quando uscii nella
villa, mi sentii immediatamente disorientata. Il cielo era
completamente
coperto da nuvoloni neri e un vento forte e freddo tempestava
l’aria. Improvvisamente,
quella percezione m’immobilizzò: era come nel mio
sogno.
Il mio respiro si fece sempre
più veloce, corto,
ansante. Lacrime calde cominciarono a scendere dai miei occhi. Prima
lentamente, poi sempre più velocemente, fino quasi a
correre, mi precipitai
fuori dal cortile, finché non sbattei contro qualcosa di
freddo e duro.
Mi sentii stringere.
«Bella? Bella
cos’hai?» era la voce preoccupata di
Edward che mi chiamava.
«Ho paura
Edward… Ho paura…» biascicai. Mi
accorsi che
il mio corpo era attraversato da tremiti.
Lo sentii irrigidirsi.
Deglutì. «Non ti devi
preoccupare, ora ci sono io con te. Nessuno potrà farti del
male. Te lo
prometto» mi sorrise, asciugandomi le lacrime.
-Vieni, muoviti, non c’è nessuno-
sussurrai a Edward mentre sbirciavo con fare circospetto fuori da casa
Capitolo riveduto e
corretto.
«Vieni, muoviti. Non
c’è nessuno» sussurrai a Edward
mentre sbirciavo con fare circospetto fuori da casa.
Lui sbuffò.
«Ma guarda che se la tua vicina ti ha
fatto gli auguri per il matrimonio non te li farà di
nuovo» tentò di
convincermi.
La mia vicina di casa mi aveva
sorpresa - due giorni
prima - mentre prendevo la posta, e mi aveva fatto gli auguri per il
matrimonio, facendosi sentire da tutto il vicinato. Da quel giorno mi
ero
rinchiusa in casa. Uscivo solo per andare
all’università o a casa di Edward, ed
era proprio lì che stavamo andando adesso.
Lo guardai di sottecchi.
«No che non me li rifarà, ma
farà “Lo Sguardo”» dissi,
decisa, arrossendo appena sulle guance. Lo sapevo che
stava per prendermi in giro, ma non per questo avrei certamente
cambiato idea.
Edward aggrottò le
sopracciglia, perplesso. «Lo
Sguardo?».
Sollevai gli occhi al cielo,
esasperata. «Sì, Lo
Sguardo…» sostenni con decisione. «Prima
ti guardano in faccia. Poi,
lentamente, fanno scivolare lo sguardo sulla mia
pancia, e poi, di
nuovo, velocemente, ritornano su, per non farsi scoprire quelle
pettegole!»
dissi, simulando il tutto, «non posso neppure ingrassare,
capisci?!» esclamai,
lievemente isterica, provando a far valere le mie ragioni per sentirmi
meno ridicola.
«Bella» fece
Edward, afferrandomi per le spalle e
inchiodandomi con lo sguardo «secondo me stai
esagerando».
«Nient’affatto!»
protestai, incrociando le braccia sul
petto e arrossendo. «Te l’avevo detto che tutti
avrebbero pensato che fossi
incinta!». E, solo per ripararmi dal suo sguardo accusatore e
sentirmi meno
ridicola, mi volsi ancora verso la porta, sbirciando.
Gli inviti del matrimonio, firmati
tutti, ad uno ad
uno - finché Edward non aveva deciso di salvarmi - di mio
pugno, erano stati spediti
ai nostri amici, rendendo l’evento di pubblico dominio. Ma
mentre i miei amici
- pur pensandolo, forse - non mi avevano fatto capire che credessero
fossi
rimasta “incastrata”, lo stesso trattamento non mi
era stato riservato dagli
altri compaesani. A partire dai vicini e i colleghi di lavoro di mio
padre. Mia
madre, poi, sulla scorta della sua esperienza personale, mi aveva fatto
tutta
una cultura su Lo Sguardo. Per questo adoravo
rintanarmi in università,
dove nessuno mi conosceva e tutti si facevano gli affari propri, o a
casa
Cullen, dove tutti conoscevano la verità - pur con Emmett
pronto a sfottermi e
Alice a usarmi come modella personale.
«Ah!»
urlacchiai richiudendomi la porta alle spalle.
«Cosa?» fece
Edward, sollevando un sopracciglio.
«La
vicina…» sussurrai con gli occhi sgranati. Era
uscita per prendere il giornale.
Sbuffò.
Afferrai degli occhiali da sole che
mi aveva regalato
Jessica, ringraziai il suo gusto estroso per averli presi
così grandi, e il suo
lato sconsiderato per avermi regalato degli occhiali da sole in una
città
perennemente annuvolata, e mi nascosi nel mio trench, coprendomi per
bene la
pancia. Trattenni il respiro, poi presi Edward per una mano e lo
trascinai, o
meglio, si fece trascinare, a passo svelto per il vialetto. Oltrepassai
il
cortile, dribblai il taglia-erba e mi precipitai al pick-up. Mi infilai
dentro
e espirai, lasciandomi andare sul sedile.
Lui, al mio fianco mi guardava di
sottecchi.
«Bella» disse a
mo’ di rimprovero.
«Mi ha vista?»
sussurrai.
«Ma cosa vuoi che ne
sappia… Cosa importa quello che
pensano gli altri?».
Gli lanciai uno sguardo eloquente.
Che lui fosse un
centenario abituato alle consuetudini del suo secolo, dove sposarsi
così
giovani era normale, gli altri non lo sapevano, e io, soprattutto, non
appartenevo a quel mondo.
Sbuffò. «No,
non ti ha vista, contenta?» esclamò
esasperato.
Gli rivolsi un’occhiata.
«Edward» cominciai, «ne
abbiamo già parlato. Io… mi vergogno, va
bene?».
«Ti vergogni del nostro
matrimonio» balbettò, e seppi
di averlo offeso.
Un po’ pentita per il mio
comportamento presi una sua
mano fra le mie. «Per favore. Lo sai che non è
così. Ehi. Io ti voglio sposare
perché ti amo, e, ora…» deglutii
«alla luce di quello che è successo, lo voglio
più di prima, perché niente ci separi.
Ma… la vicina mi guarda la pancia!»
esclamai, isterica.
Sorrise a mezza bocca, voltandosi a
guardarmi.
«Sarebbe così orribile essere incinta di
me?».
Inebetita, rimasi ferma a fissarlo.
Non mi aveva mai
posto una questione simile.
Scosse il capo, sorridendo appena.
«Andiamo, Bella.
Andiamo e basta».
Silenziosa, obbedii al suo ordine,
troppo sgomenta e
in imbarazzo per parlare. Infilai la chiave nella toppa e girai. Il
pick-up
emise un suono strozzato che andò a scemare. Girai di nuovo
la chiave. Stessa
reazione, con l’aggiunta di uno scoppiettio e un singulto.
Poi più nulla.
«Questo doveva essere il
suo ultimo sospiro» constatò
Edward, mascherando in un accesso di tosse una risata.
Sgranai gli occhi.
«Cosa?!» esclamai stridula. Per una
delle clausole del matrimonio il pick-up andato equivaleva a una
macchina
nuova. Tentai inutilmente di farlo ripartire, ma questa volta non dava
nessun
segno vitale. «E’ morto…»
sospirai esterrefatta.
Il sorriso di Edward, finora
composto e pacato, si era
trasformato in un ampio ghigno.
«Non è ancora
detta l’ultima parola, possiamo provare
a rianimarlo» dissi speranzosa, tentando in tutti i modi di
non andare incontro
a quella sorte funesta: farmi comprare una macchina nuova
fiammante a
millemila cavalli da lui.
Mi fissò con uno sguardo
innocentemente triste. «Credo
non ci sia più niente da fare».
«No, no, e no!»
mi intestardii.
«Bella, perché
ti ostini? E’ morto. Ora del decesso
10:47» disse guardandosi l’orologio con aria
solenne.
Lo afferrai per le spalle,
nonostante io fossi piccola
e minuta e lui uno statuario vampiro. «Non è
morto, ok? Ha solo avuto un
infarto. Ora gli facciamo una respirazione bocca a bocca, un massaggio
cardiaco
e vedi che riparte!» esclamai, cercando di convincere
più me stessa che lui.
Passammo un’ora buona a
tentare di riparare il mezzo.
O meglio Edward tentava di riparare, io mi limitavo a estrarre pezzi
dal muso
del mio vecchio amico pick-up chiedendo “guarda?”,
“forse è questo?”, “oppure
questo qui”, “questo
cos’è?”. Edward mi accontentava sempre,
spiegandomi -
inutilmente s’intende - tutto il funzionamento dei vari
pezzi, e nonostante
avrebbe preferito andare immediatamente a comprare una macchina nuova
fiammante, controllava ogni aggeggio che gli mostravo.
«Non lo so
Bella… Per me è completamente andato. Credo
sia il motore» sospirò infine.
«Questo qui?»
chiesi indicando un pezzo centrale
abbastanza grosso e sporco.
«Sì,
“questo qui”» fece Edward, trattenendo un
sorriso, pulendosi le mani su una pezza. Nonostante la sua del tutto
sovrumana
capacità di non sporcarsi, ero riuscita, indicando e
porgendogli pezzi, ad
imbrattare sia la mia che la sua camicia.
«Non si può
riparare?» chiesi speranzosa, per nulla
incline a demordere.
Mi fissò affranto. Tanto
lo sapevo che dentro di se
era contentissimo, si poteva risparmiare la pantomima.
«Per favore, Edward. Fai
finta che ti importi
qualcosa. Lo so che è un catorcio, ma ci sono affezionata.
È un regalo di mio
padre».
Alzò gli occhi al cielo.
«E va bene, portiamolo da
Rose».
Tre ore dopo ero nel garage di casa
Cullen e Rose, con
una bella tuta attillata da meccanico, smanettava nel muso del mio
pick-up.
«Bella, non vuoi venire a
mangiare qualcosa?» mi
chiese Edward accarezzandomi una guancia.
«No…»
sussurrai imbronciata.
Rose sospirò, pulendosi
le mani su un’asciugamani.
Anch’io ero ancora più imbrattata di prima, ma in
quel momento non
m’interessava, visto che ormai le condizioni del mio mezzo si
erano rese
evidenti. «E’ morto»
diagnosticò infatti «condoglianze».
Un brivido mi fece fremere dalla
testa ai piedi. Avevo
appena pensato che, se Jacob fosse ancora mio amico, avrebbe certamente
trovato
un modo per riparare il mio amato pick-up. Rosalie era abituata alle
macchine
sportive, e quando un pezzo si rompeva di certo non lo riparava
correndo il rischio
che si rompesse di nuovo: semplicemente ne comprava un altro. Ero
sicura che
lui, invece, quello che era stato il mio meccanico personale, avesse
più
confidenza con quel tipo di mezzi.
Avevo dunque nostalgia di Jacob?
No. Con mia sorpresa, constatai di
no. Avevo
malinconia di quello che era stato il mio vecchio amico, ma non speravo
certo
nella presenza di quello che era ora: era diventato come un cancro,
come delle
mie stesse cellule che, impazzite, mi si stavano ritorcendo contro,
minacciandomi.
«Ehi» mi
chiamò Edward, vedendomi silenziosa e pensosa
«è morto di vecchiaia dopo una vita lunga e
felice» scherzò, provando a farmi
sorridere.
Scossi il capo, ricacciando
indietro le lacrime.
Sorrisi appena. «Certo. Sei contento, vero? Non è
necessario che fingi di non
esserlo».
«Sono dispiaciuto che tu
sia triste per il tuo
pick-up. Ma, sì. Sono contento di poterti regalare
finalmente qualcosa».
Feci una smorfia. «Non
possiamo aspettare dopo il
matrimonio?».
Sollevò un sopracciglio.
«E fino ad allora ti farai
scortare dalla volante di tuo padre?».
Emisi un gemito al solo pensiero.
«No, certo che no»
ovviai «mi porti tu».
«E quando sarò
a caccia? O quando ci sarà troppo
sole?».
Mi morsi un labbro.
«Perché, hai intenzione di
lasciarmi sola?» mormorai, provando a scherzare e nascondere
la paura che
celavano quelle parole.
Sospirò, carezzandomi
una ciocca di capelli. «No,
certo che no. Ma un’auto ti serve, Bella. Avevi
promesso».
Sollevai gli occhi al cielo,
portandomi le mani a
coprirmi il viso. «E va bene, dannazione» concessi,
seppur riluttante.
Fu quando spostai le mani per
guardarlo che scoppiò a
ridere.
«Cosa?»
esclamai, sorpresa.
«La tua faccia»
sorrise, provando a trattenersi.
Mi guardai i palmi della mani, e
capii: erano
completamente unte di grasso.
Afferrò i miei polsi,
allontanando le mani dal mio e
suo corpo perché non facessi altri danni. «Bella,
io direi che converrebbe fare
una doccia. Che ne dici?».
Mi morsi un labbro, sorridendo e
avvicinandomi alla
sua bocca. «Vuoi dire che vieni con me?».
«Ah»
sospirò, un mezzo sorriso trattenuto. Si avvicinò
alle mie labbra «non saprei. Non avevamo un patto?»
alitò sul mio viso.
Annullai quella distanza,
baciandolo. «Tu sei troppo
fissato, con questi patti» ansimai quando si
staccò da me. «E nessuno ha detto
che li infrangeremmo…».
Mi sorrise. «Mi
piacerebbe, ma mi sembra che io abbia
una commissione da fare».
Sgranai gli occhi. «Di
già?! Cioè, intendi… ora?».
Sorrise euforico. «Certo,
ora. Vai a fare quella
doccia. Quando tornerai, avrai la tua bellissima nuova auto».
«Ma…».
«I patti sono
patti».
«Se lo dici ancora una
volta ti uccido» lo minacciai.
Rise. «Vedrai, ti
piacerà».
«Non ne dubito»
brontolai sarcastica, saltando giù dal
tavolo su cui mi ero seduta. «Ah, Edward» lo
richiamai, prima che potesse
scomparire in un attimo dalla mia vista. «Solo una cosa, per
la mia auto».
Sollevò un sopracciglio,
sorpreso. «Dimmi».
«Finestrini oscurati. Se
devo andare in giro con una
macchina da Hollywood almeno che non possano chiedersi se che la guida
è la
provincialotta incinta!».
Mi fissò, con aria di
sfida. «Ripeto: sarebbe così
orribile essere incinta di me?».
Ma prima che potessi ribattere mi
ero già strozzata
con la mia stessa saliva, e Edward era corso via da me.
Bussai alla porta della stanza di
Alice.
«Certo che puoi usare il
mio bagno, ti ho già
preparato dei vestiti puliti» disse rispondendo alla mia
domanda non formulata
e invitandomi ad entrare con un occhiolino.
Distogliendo velocemente lo sguardo
dall’immane
quantità di addobbi, pizzi, tovaglie, vestiti, merletti,
fogli e inviti, mi
feci uno spazietto nell’ingresso, chiudendomi la porta alle
spalle. Adesso
capivo Jasper quando mi diceva che l’avevo cacciato dalla sua
camera. «Grazie
Alice» balbettai, sforzandomi di sorpassare una montagna di
tulle senza
sporcarlo.
Mi sorrise. «Dovere.
Ricorda che a pomeriggio dobbiamo
provare il vestito, non puoi sporcarlo».
Sollevai gli occhi al cielo,
facendo una smorfia a
tutte quelle decorazioni. Il solo pensiero del mio matrimonio mi faceva
venire
la nausea. Lì non mi sarei affatto potuta nascondere da
sguardi indiscreti.
«Senti,
Alice…» cominciai, mordendomi un labbro,
quando finalmente arrivai alla porta del bagno.
Scosse il capo, decisa.
«No, Bella. Non posso dirti
niente».
«Oh, ti prego. In nome
della nostra amicizia. Cosa ti
costa?».
Sollevò un sopracciglio.
«Mi costa il fatto che, se ti
do un qualsiasi dettaglio sull’auto, appena
tornerà a casa mi farà a pezzi. E
non lo dico in senso figurato. Avanti. Fai questa doccia e
basta».
Sospirai, arrendendomi ai Cullen.
Vampiri impossibili.
Il getto caldo della doccia sciolse
per un attimo i
nodi della mia tensione, facendoli venire a galla. Mi sentivo
stressata, ma
pensavo che fosse proprio di ogni sposa esserlo. Certo, non ogni sposa
aveva la
mia stessa avversione per il proprio matrimonio, né si
sposava alla mia età,
con la minaccia del suo ex amico licantropo a incombere su di lei.
E quelle parole di Edward, su un
figlio…
Io ero troppo giovane per pensare
di poter rimanere
incinta. E forse, sì, non lo negavo, nella mia lunga
esistenza - nonostante
l’avversione che mia madre aveva provato a farmi crescere per
quelle creaturine
“tutta cacca e lamenti” - ne avrei desiderato uno.
Ma con Edward. Solo con lui.
E lui di certo non me lo poteva dare. Perché allora mi
poneva una domanda che
non aveva soluzione?
«Bella?» mi
chiamò Alice da dietro la porta «hai
finito?».
Sospirai, chiudendo il getto
dell’acqua. «Sì, sì. Ho
finito».
Mangiai nel soggiorno, mentre Alice
prendeva le misure
per il mio vestito. I giorni precedenti, Rose, un po’ in
disparte, era rimasta
a guardarci, sfogliando una rivista e dandoci ogni tanto il suo parere.
Non che
fossimo amiche, ma avevo apprezzato che non si dimostrasse
più ostile nei miei
confronti. Quel giorno invece Rosalie non c’era, e non mi era
difficile
immaginare dove fosse finita. Il mio umore nero, la prospettiva di una
macchina
nuova e la morte del pick-up rendevano tutto più pesante.
«Tesoro, sicura di non
volerne più? Ti vedo sciupata»
constatò Esme, osservando il piatto quasi integro di
maccheroni al formaggio.
Scossi il capo. «Ho lo
stomaco chiuso» borbottai.
«Bella» mi
riprese Alice. «Esme ha ragione. Ho dovuto
toglierti due centimetri dal bacino dall’ultima volta che
abbiamo provato il
vestito» fece, osservando il metro. «Per
l’amor del cielo, mangia».
«Fammi mangiare in pace,
allora» brontolai,
liberandomi dalla sue mani e sedendomi al tavolo.
Sospirò. «Va
bene, vado a sistemare l’abito. Appena
hai finito sali su, noi due dobbiamo parlare»
sottolineò eloquentemente.
Cincischiai nel mio piatto,
mescolando la pasta. Non
mi sarebbe piaciuto, ma forse era quello di cui avevo bisogno.
Esme mi sorrise, carezzandomi una
guancia. «Sarai una
sposa bellissima» sussurrò con affetto, provando
così a tirarmi su di morale.
Arrossii, abbassando il capo.
«Grazie».
Come preannunciato da Alice, appena
tornai nella sua
stanza volle parlare con me. Seduta su una sedia fra decorazioni, pizzi
e
merletti, me ne stavo a guardarmi i piedi, arrossendo.
«Bella?»
chiamò la mia amica, provando a farmi
parlare.
«Non so che dirti,
Alice» borbottai, rifuggendo al suo
sguardo.
Si abbassò sui talloni,
pronta ad intercettarlo. «Sei
stanca, stressata e nervosa. E un po’ lo capisco,
perché ti stai per sposare e
sono successe mille cose, in questi giorni. Ma,
Bella. A me sembra che
oggi tu sia più stressata del solito. E qualcosa mi dice che
non riguarda la
tua nuova auto. O meglio, non solo quella».
Scossi il capo, mordendomi un
labbro. Gli occhi mi
bruciavano.
«È
così terribile?» chiese, prendendomi le mani fra
le
sue.
Scrollai le spalle.
«È…» cominciai, la voce
ridotta a
un filo. «Edward ha detto…» balbettai,
ma non seppi continuare. Come descrivere
la fitta che mi aveva causato immaginare me e Edward con un bambino
tutto
nostro? Perché l’aveva detto? Forse, dopotutto,
anche se io ero giovane,
sciocca e traviata da mia madre, Edward aveva cent’anni, e
proveniva da
un’epoca in cui a far figli si cominciava molto prima.
Lui… doveva averci
pensato.
Alice mi sfregò le mani,
passandomi un kleenex. «Non
devi dirmelo per forza. Ma… se volessi io sono qui, ve
bene?».
Annuii, sfregandomi gli occhi.
Mi sorrise. «Se vuoi il
vestito lo possiamo provare un
altro giorno».
Le regalai un sorriso bagnato,
lanciandomi fra le sue
braccia. «Oh, Alice» sospirai, piangendo.
Mi strinse fra le braccia.
«Non ti preoccupare tesoro.
Va tutto bene» mormorò, sfregandomi dolcemente la
schiena.
Più tardi decidetti di
provare, comunque, il mio
abito. Volevo un modo qualsiasi per distrarmi da quello squarcio nel
futuro che
Edward mi aveva aperto.
«Rilassati,
Bella» sussurrò Alice al mio orecchio,
mentre mi faceva passare il bustino dalla testa, «pensa a un
posto bellissimo,
dove ti piacerebbe essere in questo momento. Non pensare a tutti i
problemi che
ci sono nella tua testa. C’è solo Edward. Tu, e
Edward. Un posto bellissimo in
cui ci siete solo vuoi due. Pensaci. Questo è il tuo rifugio
felice».
Sorrisi, chiudendo gli occhi.
Niente. Non mi serviva
nient’altro che Edward, per essere felice. Una
felicità immediata, forte, perfetta.
E così sarebbe stato per noi, per
l’eternità. Avremmo vissuto insieme la nostra
incorruttibile felicità perfetta, che non bisognava di nulla
che di noi due.
Saremmo stati, entrambi, sempre contenti. Forse.
«Non dire niente a
Edward, per favore» sussurrai
ansiosa, riaprendo gli occhi.
Mi sorrise, complice.
«Niente. Qualcosa in più da
tenergli nascosto» disse, facendomi un occhiolino.
«Che cosa mi devi
nascondere?» chiese Edward
dall’altro lato della porta.
Sgranai gli occhi, terrorizzata.
«Edward, scompari! Stiamo
provando il vestito!» ordinò
velocemente Alice, aiutandomi a liberarmi di quell’abito
ingombrante.
Mi aspettava ai piedi delle scale.
Aveva cambiato la
camicia, dopo che io gli avevo sporcato quella bianca e immacolata che
portava
la mattina. Ora ne aveva una beige con i pantaloni in tessuto, neri.
Era
raggiante.
Sollevai gli occhi al cielo.
«Vediamo quest’auto
nuova».
Sospirò. «Lo
sapevi che prima o poi il pick-up si
sarebbe rotto».
«Sì, ma non
potevo immaginare che lo facesse così in
fretta!». Quando avevamo raggiunto il nostro zoppicate
compromesso avrei potuto
sospettare la carta di credito di platino, il nuovo televisore, gli
abbonamenti
alle riviste, il nuovo corredo, forse anche la nuova
università, ma pensare che
il mio pick-up desistesse tanto in fretta, mai e poi mai!
Mi condusse alle soglie del garage,
un bel sorriso e
gli occhi luccicanti. Qualcosa che mi faceva credere che il suo viso mi
sarebbe
bastato per darmi gioia per l’eternità. Mi
lasciò all’ingresso e si infilò
dentro con un “torno subito”. Infatti, sei secondi
più tardi, le porte del
garage si spalancano.
Al centro dell’enorme
stanza troneggiava una macchina
bellissima, sportiva, con la carrozzeria nera e tirata a lucido. I
finestrini
erano oscurati - almeno quello - e da quanto ne sapevo di macchine,
leggendo il
marchio doveva essere una Mercedes. Dava
l’aria di essere piuttosto
sicura. Tutti i vampiri le stavano intorno e la guardavano con aria di
deferenza. Tutti, persino Esme, il che mi faceva pensare dovesse essere
davvero
un’auto fantastica.
«Ma è una Mercedes
Guardian!».
«Guarda i cerchi in
lega!».
«Quanti cavalli ha il
motore?».
Edward, al mio fianco, mi osservava
speranzoso.
Abbozzai un sorriso.
«Emm…grazie…» balbettai
arrossendo, incapace di dimostrare un migliore entusiasmo.
«Ti piace?» mi
chiese, ansioso.
Mi affrettai ad annuire.
«Mh… fantastica» feci,
provando a scegliere l’aggettivo più adatto.
«Cioè, ecco… io non me ne intendo
di auto, ma credo che questa sia proprio… carina».
«Carina?»
fece Emmett, sgranando gli occhi.
«Ha detto
carina» lo rimbeccò Rosalie, ridendo sotto i
baffi.
Emmett scoppiò a ridere.
«Ti prego, dimmi che la tua
fidanzata non ha appena definito una Guardian
“carina”, o sarò costretto
a sopprimerla».
Edward ghignò.
«Credo che dovresti lasciare in pace la
mia fidanzata ignorante di motori, oppure sarò io quello che
dovrà sopprimere
qualcuno. Carina va bene» fece, rivolgendosi a me con un
occhiolino «era più di
quanto mi aspettassi».
«Avevi aspettative molto
basse, allora» scherzò
Jasper, accarezzando la carrozzeria fiammante.
Arrossii, abbassando il viso.
«Almeno adesso non mi
guarderanno tutti» balbettai, sorridendo appena a Edward.
«Perché,
tesoro? C’è qualcuno che ti
infastidisce?»
domandò Esme preoccupata, prendendo la mano a suo marito.
Alice mi lanciò
un’occhiata, come a chiedermi se fosse
quella la causa del mio malumore.
Scossi il capo, sentendomi
terribilmente in imbarazzo.
«Non è
niente» fece Edward «sono solo supposizioni di
Bella».
«Beh, non sono solo mie
supposizioni» sbuffai «tu
leggi le loro menti, sai quello che pensano».
«Bella, credimi. Non ti
interessa tutto quello che
pensa la gente».
«Edward» lo
riprese Carlisle «forse c’è qualcosa che
la turba» fece, lanciando un’occhiata a Jasper.
Questi sollevò un sopracciglio,
osservandomi.
Mossi le mani davanti al viso.
«No, no, davvero.
Niente. Basta parlare di me. E… Edward ha ragione, sono solo
mie supposizioni.
Allora» feci, provando ad allontanare l’attenzione
da me. «Ci posso fare un
giro?».
Edward mi sorrise.
«Certo».
«Prendi,
sorellina» fece Emmett, lanciandomi oggettino
piccolo e luccicante, che anziché atterrare fra le mie mani
rimbalzò sulla mia
fronte.
«Ahia!»
protestai, sfregandomi il punto leso.
«Emmett» lo
rimproverò Edward, sostituendo la sua mano
alla mia «lo sai che non ha la coordinazione
mano-occhio!».
«Ehi» mi
lamentai, tirandogli una gomitata.
Mi fermò
previdentemente. «Non ti vorrai fare male di
nuovo» mi schernì con un mezzo sorriso.
«Te la farò
pagare quando sarò una vampira» lo
minacciai scherzosamente.
Rise. «Sì, ma
nel frattempo pensa a rimanere in vita.
Vieni, facciamo un giro» disse, trascinandomi verso
l’auto.
In quel momento notai che in un
angolo del garage
c’era un telo che copriva una cosa che, a giudicare dalla
forma, doveva essere
un’auto.
«Cos’è?»
chiesi, indicandola.
Edward sembrò
dissimulare. «Nulla di che…»
mormorò
casualmente.
Sollevai un sopracciglio.
Mi fissò per qualche
istante. Poi sospirò, riluttante.
«Quella è l’altra tua
macchina».
Aprii e chiusi la bocca, sgomenta.
«Cosa? Cosa?!»
strillai.
«Bella, calmati, non
c’è motivo di agitarsi» fece,
provando ad ammansirmi.
«Non
c’è motivo di agitarsi? Non
c’è motivo di
agitarsi?! Mi hai comprato due auto! Due!».
Mi mise entrambe le mani sulle
spalle. «Bella.
Calmati. Respira mh?!».
Sospirai, incrociando le braccia al
petto.
«Questa è
l’auto del “prima”» disse,
indicando la Mercedes
nera «quella è l’auto del
“dopo”, ma la riceverai solo quando avrò
restituito
questa, che è l’auto del prima, va bene? Quindi in
sostanza la macchina è una».
«Prima e dopo
cosa?» chiesi più calma.
Sul suo viso di allargò
un sorriso. «Lo scoprirai».
«Bella, per favore! Oh,
benedetta ragazza. Dobbiamo
finire di sistemare un mucchio di cose, non startene sempre per conto
tuo».
Ignorai la sua voce, senza staccare
gli occhi dal
libro.
«Alice, lasciala
stare» mormorò Edward, dietro di me.
Mi carezzò il collo, posando una guancia contro la mia.
Scossi la testa, esasperata.
«Come pensate che possa
studiare se continuate a fare… così!»
esclamai, indicandoli.
«Cosa?» fecero,
sorpresi.
«Tu. Mi stai riempiendo
la testa di problemi per il
matrimonio di cui non dovevo essere neppure a conoscenza, dato che
volevo
sposarmi su una motocicletta a Las Vegas. E tu!» strillai,
diventando
completamente rossa e indicando Edward.
Sorrise, malizioso. «Io
cosa?».
Mi coprii il viso. «Oh,
Edward…».
Rise, per pochi secondi, prima di
abbracciarmi e
costringermi dolcemente a sedermi sul suo grembo. «Non ti do
più fastidio,
promesso».
«Come se potessi studiare
così. Come se mi dessi
davvero fastidio» mugugnai, terribilmente imbarazzata.
Rise ancora, sfacciatamente. Poi
sollevò il viso verso
Alice. «Lascia stare la mia fidanzata. È
nervosa».
«Non sono
nervosa!» mi difesi, scattando in alto con
la testa «sono… sono solo… un
po’ stressata, ecco».
Alice sollevò un
sopracciglio. «La fiera dei sinonimi.
Bella» incalzò poi «lo sai che non
c’è alcun motivo per essere nervosi. O stressati».
Feci scoccare la lingua.
«Certo» borbottai,
sarcastica.
Edward sospirò, unendo
le braccia intorno ai miei
fianchi. «Emmett e Jasper lo stanno cercando a Nord e Sud. Ma
non è semplice,
perché non ci fanno accedere ai territori della riserva.
Potrebbero tenerlo
nascosto».
Fremetti, agitandomi sul suo
grembo. «A Nord e Sud? Ma
sono separati? Non si faranno male, vero?» domandai
velocemente, preoccupata.
«No, no, Bella.
No» dichiarò velocemente, posando
entrambe le mani sulle mie spalle. «No, va bene? Sono uniti,
e non corrono
rischi. Anche se lo trovassero non lo affronterebbero. Vogliamo solo
monitorare
la sua posizione».
«Ma stiamo parlando di
Emmett!» esclamai agitata.
Edward sospirò,
prendendomi le mani fra le sue.
«Potresti fidarti di me, per favore? Non farei nulla che
possa mettere in
pericolo i miei fratelli, né lo permetterei. E credi che
Alice, qui, lascerebbe
andare suo marito se non sapesse che è perfettamente al
sicuro?» fece,
indicandola.
Mi voltai verso di lei. Mi sorrise,
apparentemente
perfettamente serena. «Non succederà nulla, Bella.
Sta’ tranquilla».
Sospirai, nascondendo il volto
nella spalla di Edward.
«Lo spero per te. Altrimenti mi arrabbierei.
Moltissimo».
Rise appena. «Sono pronto
ad affrontare la tua furia».
«Ehi!» lo
rimbrottai, allontanandomi per tirargli una
pacca sulla spalla.
Poco più tardi,
approfittando della calura estiva del
mese di Luglio, decidemmo di recarci al ruscello per un bagno. Sapevo
che
Edward aveva in mente di distrarmi, eppure lo lasciai fare,
perché sapevo
anch’io di averne bisogno.
«Credo che Alice
apprezzerebbe una tua certa
collaborazione ai preparativi per il matrimonio»
mormorò sulle mie labbra.
Risi, avvicinando il mio corpo al
suo, le gambe
allacciate contro il suo bacino. «Ma lo sto facendo. Stiamo
facendo le prove
per il matrimonio, adesso» scherzai, strusciandomi
maliziosamente contro di
lui.
«Ah
sì… Hai proprio ragione»
sussurrò, avventandosi
con le labbra contro le mie, succhiando e lambendo, lasciando che gli
tirassi i
capelli fra le dita.
«Prometti che farai
l’amore con me?» ansimai sulla sua
bocca, senza smettere di guardarlo negli occhi.
«L’ho
già promesso» sussurrò, «non
rimangio mai le mie
promesse. Non, soprattutto, quando mi stai così
avvinghiata».
Ridacchiai, rossa in viso. Posai
una guancia contro la
sua spalla. «Allora… non ci hai ripensato. Non hai
paura».
Sospirò.
«Bella, non smetterò mai di avere paura. Ma
lo faremo. L’ho promesso e lo voglio. Lo faremo».
Sorrisi, allontanandomi per
guardarlo negli occhi.
«Grazie».
Mi sorrise di rimando, quel sorriso
imperfetto che
tanto amavo. «Prego» mormorò,
sollevandomi insieme a lui per farci cedere
insieme nell’acqua.
Risi.
Nel pomeriggio Edward dovette
andare a caccia, così
decisi di seguire Alice a Seattle per perfezionare alcuni preparativi
per il
matrimonio. A caccia dell’aria condizionata,
aveva detto lei. Per
farla contenta ed ingannare il tempo, avevo detto io.
«Tutto bene?»
domandò, vedendomi intenta a fissare il
paesaggio che scorreva attraverso il finestrino della sua Porche.
Non
prendevamo mai la mia auto. Erano passate due settimane da quando
Edward me
l’aveva regalata, ma l’avevo utilizzata solo una
volta per andare
all’università, ovviamente insieme a lui, e solo
un’altra volta mi ero azzardata
a guidarla in mezzo a Forks - spinta dagli occhi languidi di Edward -
per poi
pentirmene subito dopo. In compenso Charlie l’adorava, e
l’aveva guidata molto
più di me.
Mi voltai a sorriderle. Un sorriso
stanco e accennato.
«Sì, tutto bene» sussurrai, chiudendo
fuori il magone che avevo ogni volta che
non ero con Edward. Se mi era rimasto qualcosa dagli eventi
dell’ultimo mese,
questo era proprio la paura per il ritorno di Jacob e un morboso
attaccamento a
Edward. E non era solo perché sapevo che avrebbe potuto
difendermi, stando con
me, che lo volevo accanto. Era perché desideravo che non gli
capitasse nulla di
male, e per fargli capire, secondo dopo secondo, quanto
l’amassi.
Alice annuì, spostando
nuovamente lo sguardo sulla
strada. «Bella, senti. Tu sei come una sorella per
me» cominciò, tornando a
guardarmi negli occhi «se tu credi che… Se tu
credi che questo matrimonio non
vada bene per te. Se hai dei… ripensamenti,
sappi che io sarei comunque
dalla tua parte, e tu sei liberissima di scegliere se piuttosto che mio
fratello volessi quel cane. Non che mi piacerebbe
essere imparentata con
lui e non che non mi si spezzerebbe il cuore per mio fratello ma io
comunque…».
Allargai la bocca, esterrefatta.
Scossi il capo con
decisione. «No, no, Alice. No» dichiarai con
fermezza, arrestando il flusso
delle sue parole. «No. Sei completamente
fuori strada. Non è affatto
questo, affatto».
Mi osservò, cercando la
verità nelle mie parole.
«No» ribadii,
sgomenta dal fatto che mettesse in
dubbio le mie parole. «No. Io amo Edward,
con tutta me stessa. Lo amo
così tanto da voler passare l’eternità
con lui, e lo voglio sposare. Tutto
quello che è successo non mi ha fatto capire
nient’altro che Jacob non è stato
altro che il frutto del terrore che Edward non volesse più
me. No, Alice. No.
Io non l’ho mai amato. Mi ha sempre ingannata, mi ha fatto
credere quello he
non era vero. Io ho sempre e solo amato tuo fratello, e mai, mai,
provato qualcosa
in più di un’amicizia calcificata dal dolore per
la lontananza di Edward, per
Jacob. Mai».
Sorrise, e si voltò a
guardare la strada. «Meglio
così, allora. Se mi avessi detto il contrario avremmo dovuto
latitare lontano
da Edward. Mi avrebbe uccisa se avesse saputo che ti avevo spinta a
cambiare
idea» scherzò.
Risi appena. «Non avrei
mai cambiato idea. Alice».
«Sì?».
«Grazie di essere mia
amica. Mia sorella».
«Figurati. Ma ancora non
mi hai detto cosa ti turba,
vero?» domandò, sollevando un sopracciglio.
Raggelai, storcendo il viso in una
smorfia.
«Non importa. Presto lo
farai» dichiarò sicura,
premendo più a fondo l’acceleratore.
Arrivammo a Seattle in
un’ora e mezza, la metà di
quello che mediamente avrei impiegato per arrivarci. Quantomeno sarei
stata
meno tempo lontana da casa, e meno tempo lontana da Edward.
Il primo posto in cui ci recammo fu
il servizio di
catering. Ma, con mio grande stupore, non lo facemmo per ordinare i
piatti e
gli assaggini, bensì per scegliere i camerieri. Da un
catalogo. La signora
dell’agenzia pareva conoscere molto bene Alice, segno che il
profumo delle sue
carte di credito era già stato sentito da quelle parti. Non
avrei mai smesso di
stupirmi.
Da lì passammo alla
scelta dei merletti, dei fiori,
dell’arco.
Più volte mi
passò per la mente di chiamare Edward, ma
Alice, vedendo le mie intenzioni, trovò sempre un nuovo modo
per distrarmi o
farmi riprendere interesse per quello che stavamo facendo.
«Che ne dici di prendere
qualcosa da mangiare? Un bel
gelato? E poi ti porto a fare un massaggio eccezionale. Ho sentito che
qui
hanno massaggiatrici bravissime» mi propose con un
occhiolino.
«Vada per il
gelato» dissi, incamminandomi verso la
galleria dell’edificio. «Della massaggiatrice non
sono molto convinta…» protestai,
storcendo la bocca.
Mi sorrise. «Vedrai,
sarà rilassante. Sediamoci qui»
fece, indicando un tavolino. Con grazia sollevò una mano
guantata per
richiamare l’attenzione di un cameriere, da cui
ordinò una grande coppa di
gelato con i miei gusti preferiti.
«Alice» la
chiamai, osservandola. Mi morsi un labbro,
imbarazzata. «Ecco… vorrei chiederti
se… ti andrebbe di comprare qualcosa con
me».
Sollevò un sopracciglio,
sorridendomi. «Certo».
Arrossii. «Beh,
ecco… mi chiedevo se…» deglutii
«potessimo
comprare qualcosa di carino. Un… umh. Un completino,
ecco» cincischiai,
completamente in imbarazzo.
Portò una mano sulla
mia, facendomi sollevare lo
sguardo. «Ne compreremo uno stupendo. L’ho
già visto» ammiccò, contenta.
Ridacchiai, provando a scacciare il
mio imbarazzo.
«Oh, bene. Grazie».
«E di
cosa…».
Il gelato arrivò poco
dopo. Stare con Alice era
piacevole, non per nulla aveva chiaramente visto, sin
dall’inizio, che saremmo
diventate ottime amiche. Un motivo in più per trasformare la
mia vita in
un’eternità. Anche se avrei perso qualcosa. Anche
se quelle strane parole di
Edward tornavano sempre, nei momenti meno opportuni, a torturarmi la
mente…
Alice sussultò, lo
sguardo improvvisamente vitreo.
Ansimai, lievemente, avvolta dalla
paura. Provai a
ricordare cosa faceva Jasper quando sua moglie aveva una delle sue
visioni.
«A-Alice? Alice, mi senti?» la chiamai, posando una
mano sulla sua, sul tavolo.
Deglutii, non ricevendo nessuna risposta. Il cuore mi stava battendo
forte nel
petto. Che avesse visto qualcosa che doveva accadere a Edward?
«Alice!» la
richiamai con più forza, afferrando con decisione la sua
mano.
Si riscosse, battendo le palpebre e
mettendomi a
fuoco.
«Cosa hai
visto?» domandai ansiosa.
Scosse il capo, sollevandosi in
piedi e prendendomi
per mano.
«Alice! Dove mi stai
portando?!» esclamai, mentre mi
trascinava fra la folla.
«Vieni, Bella. Seguimi.
Non ti preoccupare. Volevi
quel massaggio, vero? Beh, credo sia arrivata
l’ora».
Ansimai, agitata. «Ma,
Alice! Non mi hai detto cosa
hai visto! Che succede?».
Mi ficcò in un
ascensore, aspettando che tutti
uscissero in modo che potessimo starci da sole. Posò
entrambe le mani sulle mie
spalle. «Voglio che tu sia calma e rilassata. Non
accadrà nulla. Sto solo
cercando di proteggerti, va bene? Rilassati»
ordinò, voltandosi poi a premere
il tasto più alto nell’ordine dei piani. Ma
lì c’erano solo uffici! «Andrà
tutto bene» mi assicurò puntando il suo sguardo
magnetico nei miei occhi. Un
secondo prima che le porte dell’ascensore cominciassero a
chiudersi era
sgattaiolata via.
«Alice!»
gridai, chiusa da sola in ascensore. Ansimai,
guardandomi attorno, spaventata. Un intero lato costituiva una vetrata,
da cui,
man mano che saliva, si poteva vedere un panorama sempre più
vasto della città
di Seattle. Le mani mi tremarono, e feci per premere altri tasti, per
arrestare
la salita dell’ascensore e uscire da quella trappola alla
ricerca di Alice. Ma
nei pochi secondi che mi servirono per pensare se fosse meglio seguire
i suoi
moniti o fare di testa mia, dopo un sibilo e un rumore sinistro,
l’ascensore si
era bloccato a mezz’aria.
Ansimai, terrorizzata. Premetti
ripetutamente il
pulsante d’allarme, con un dito, con un palmo, con un pugno,
quasi fino a
romperlo. «Alice! Alice!» urlai spaventata
«Aprite! Aiuto!» gridai, la voce
sempre più sottile e le lacrime agli occhi. Deglutii,
terrorizzata, voltandomi
a guardare alle mie spalle e sentendomi mancare il terreno sotto i
piedi.
Mille scenari stavano vorticando
nella mia testa,
mille cose che Alice poteva aver visto, ma tutte avevano a che fare con
una
persona: Jacob. Presi la testa fra le mani,
sentandola girare
velocemente.
«Signorina?» mi
sentii chiamare.
Mi ridestai immediatamente.
«S-sì…
si è bloccato l’ascensore» biascicai,
senza
riuscire a dare un contegno alla voce.
«Lo sappiamo, ce ne
dispiace. Fortunatamente è l’unica
ad essere rimasta bloccata, sfortunatamente anche il sistema di
sicurezza è andato.
Ma in tre ore dovrebbero poterla tirare fuori».
«No» balbettai
«no! No! Non posso rimanere qui tre
ore, non posso, non posso!» esclamai, tremando, agitata.
Sbattei le mani contro
le portiere «fatemi uscire! Fatemi uscire di qui!»
urlai, terrorizzata.
La voce, ovattata dalla distanza
delle pareti, mi
pareva maschile. «Signorina, sta bene?».
«No, no»
singhiozzai, scoppiando a piangere, «no». Jacob
che trovava Jasper e Emmett. Jacob che andava a cercare Edward mentre
era solo,
a caccia. Jacob che veniva a prendermi quando ero sola con Alice, e non
potevo
difendermi.
«C’è
qualcuno lì dentro?».
«Si è bloccato
l’ascensore?».
«Sta arrivando
l’assistenza…». Sentii un vociare
confuso. Un certo numero di gente si stava affollando lì
intorno.
«Signorina? Come si
chiama?» mi chiese la stessa voce
di prima.
Ansimai, scuotendo la testa,
terrorizzata.
«Signorina?».
«B…Bella…Bella
Swan» singhiozzai fra gli ansiti.
«Bella. Vuole che
contattiamo qualcuno, c’è qualcuno qui
insieme a lei nell’edificio?».
Singhiozzai più forte,
vedendo il pavimento
inclinarsi. «Alice» sussurrai spaventata,
terrorizzata da quello che le poteva
accadere. Forse… aveva voluto bloccarmi in ascensore per
proteggermi. «Alice,
Alice Cullen!» esclamai, con più forza. Le lacrime
si mischiarono alle
vertigini, dandomi la nausea. «Chiamatela, per favore! Deve
venire qui!
Chiamatela!» gridai agitata.
«Va bene, va bene. Gliela
chiamo, lei rimanga calma».
Agitata, incapace di rimanere in
piedi, mi lasciai
crollare contro la parete. Le lacrime mi scendevano sul volto e le mani
mi
tremavano. Avevo paura. Se mi avesse trovata cosa avrei fatto? Avrebbe
avuto il
coraggio di prendermi o di farmi del male in pubblico? E come sarebbe
potuto
arrivare a me? D’un tratto mi trovai ad essere grata, ad
Alice, per avermi
chiusa in quella che fino a quel momento avevo considerato una
prigione.
Ma durò un secondo,
perché subito il terrore mi
schiacciò ancora, ad ondate. E se fosse arrivato a lei? La
piccola e indifesa
Alice? Cosa le avrebbe fatto? E se invece si fosse scontrato con Edward?
Singhiozzai, portandomi entrambe le
mani al viso, agghiacciata.
Cosa avrei fatto, se anche fossi sfuggita a lui ancora una volta? Avrei
vissuto
tutta la vita nel terrore che sarebbe potuto tornare? Edward aveva
ragione,
dovevo affrontarlo.
«Edward»
singhiozzai, scuotendo il capo. Cominciai a
singhiozzare più forte. I miei singulti si sentivano, forti
e asciutti.
«Che ha, sta
male?».
«Povera
ragazza».
«La sua
amica?».
«Non si trova».
Fremetti, non riuscendo quasi a
respirare per il
pianto.
«Quanto tempo ci
vuole?» domandò una voce femminile,
distinta.
«Almeno altre due ore.
Siamo già all’opera».
«Senta, non
c’è un modo per tirala fuori di lì il
più
velocemente possibile?» sentii chiedere dalla stessa donna di
prima.
«Si potrebbe provare ad
aprire le porte manualmente,
ma l’ascensore è bloccato fra due piani, bisogna
farla salire fin quassù, mi
creda, sarebbe meglio aspettare, stiamo lavorando a ritmo sostenuto,
un’oretta
e mezza e sarà fuori di lì».
Boccheggiai in cerca
d’aria. «Alice» biascicai senza
fiato, vedendo dei puntini luminosi ai bordi del mio campo visivo.
«No, la tiri fuori, ora.
Il prima possibile. La
ragazza sta male».
«Va bene allora. Altri
dieci minuti e ce la dovremmo
fare».
«A-Alice…»
biascicai, la voce ridotta ad un sussurro
dagli ansiti.
«Bella!» mi
sentii chiamare dalla sua voce. «Bella,
Bella, tesoro, sono qui».
«Alice» chiamai
più forte, singhiozzando. Mi sentivo
senza forze. La testa mi girava e le mani mi tremavano. Il petto era
scosso da
singulti che mi impedivano di respirare.
«È lei
l’amica?».
«Sì,
sì, sono io. Alice Cullen».
«Crede che dovremmo
chiamare un’ambulanza? Non sembra
stare bene».
«No, no. Ci penso io.
Niente ambulanza».
Al sollievo per la presenza di
Alice seguii
velocemente la paura. Era quella a paralizzarmi, schiacciata contro la
parete.
Non volevo allontanarmi, perché avevo un folle terrore che
così mi avrebbe
presa.
«Bella, calmati, per
favore! Sono qui tesoro».
«Edward»
singhiozzai, sentendo il viso impastarsi di
lacrime e sudore.
«L’ho chiamato,
l’ho chiamato. Sta bene, sta venendo
qui. Calmati».
Tremai, sentendo la testa girare
più forte. Senza
forze, mi lasciai andare con la testa contro il vetro, e fui accecata e
sorpresa
dallo spazio infinito. Richiusi gli occhi, ma tutto questo non faceva
altro che
aumentare il senso di nausea, mentre la mia testa vagava in una
dimensione
psichedelica.
Mi lasciai cadere, completamente
distrutta, verso
avanti, sul pavimento. Posai un palmo contro il metallo freddo,
mettendomi
rannicchiata in posizione fetale. Tremavo.
«Bella! Bella, parlami,
dimmi qualcosa» era Alice,
preoccupata.
«A…Alice…»
la mia voce fu poco più che un sussurro, ma
ero convinta che lei l’avesse sentita.
«Continua a parlarmi,
parlami!».
Boccheggiai ancora, in piena crisi
di panico. Il mio
fiato sollevava nuvolette di polvere dal pavimento. Le palpebre si
fecero
pesanti. Sentii un rumore stridulo, forzato, come i freni di un treno
che sta
andando ad alta velocità. Le portiere si aprirono, lasciando
un’apertura di
poco meno di un metro. Era a due metri d’altezza, per tutto
l’altro tratto
c’era una lamiera di ferro.
Vidi il viso di Alice, poi un
signore con una divisa
gialla da pompiere, entrambi inginocchiati sul pavimento. Il vociare si
fece
ancora più forte.
«Bella!»
esclamò la mia amica, preoccupata.
«Signorina, ce la fa a
venire qui vicino, così
possiamo sollevarla?» mi chiese l’uomo.
Battei le palpebre. Non risposi.
Strinsi i pugni, e
scossi il capo. Non riuscivo a muovermi.
«La prego, faccia uno
sforzo».
Non risposi, boccheggiai ancora in
cerca d’aria.
«Bella, ti prego, vieni
qui! È tutto apposto tesoro»
mi chiamò Alice, disperata.
Piansi ancora. Sentivo le lacrime
solcarmi il viso e
bagnare il pavimento. La voce di Alice, del pompiere, della signora,
erano confuse
e mischiate nella mia testa come un minestrone girato col cucchiaio; e
tutte
insieme, fondendosi, formavano strani suoni e perdevano di significato.
Sentii
il cuore - che mi batteva forsennato nel petto - gli ansiti, la testa
che
sembrava oscillare impazzita. Ed io ero ferma, immobile, solo il mio
petto era
mosso dal ritmo incalzante dei miei respiri involontari. Sentii tutte
le forze
defluire da me, ma proprio quando le palpebre si stavano chiudendo per
consegnarmi al buio sentii la sua voce.
«Alice! È
qui?».
Spalancai immediatamente gli occhi.
«Bella!».
«Edward»
sussurrai, con la voce arrochita dal pianto.
Mi fissava dall’alto,
preoccupato. «Tesoro. Vieni qui,
ce la fai?».
Singhiozzai ancora. Non potevo
muovermi. Non potevo.
«Bella, tesoro, non
c’è niente di cui aver paura»
mormorò velocemente, scambiandosi un’occhiata con
Alice. «Niente, te lo
prometto. Vieni qui, vieni da me. Andrà tutto
bene».
Tremai, ma non riuscii neppure ad
aprire le mani,
chiuse in due pugni. «Non riesco… non riesco a
muovermi» singhiozzai, agitata.
«Shh, shh, va tutto bene.
Ci riesci invece, ci riesci.
Vieni qui Bella, avanti. Piano» mi tese una mano
«muovi una mano, piano piano.
Abbiamo tutto il tempo».
Con difficoltà, senza
smettere di guardarlo, aprii e
chiusi una mano. Portai il palmo sul pavimento, provando a fare leva
per
sollevarmi.
«Ecco, brava. Ce la fai.
Vieni qui tesoro» mi chiamò,
sbracciandosi ancora di più verso di me e ignorando il
monito del pompiere al
suo fianco.
Mi sollevai, mettendomi seduta. Mi
girava la testa.
Deglutii, non smettendo di guardare Edward. Sentivo tutti i muscoli
contratti,
refrattari ai miei movimenti.
«Solo due
passi» fece, incoraggiandomi a mettermi in
piedi «solo due. Ti predo io. Afferra le mie mani».
Mi sollevai, vacillando sui piedi.
Velocemente, come
un pezzo di metallo attirato dal magnete, gli andai incontro, tendendo
le
braccia. Un passo, poi un altro. Finalmente toccai la sua mano fredda,
che si
strinse alla mia. Mi sentii confortata e protetta. Feci lo stesso con
l’altra
mano, e mi sentii tirare velocemente su.
Mi strinse al suo petto, tastandomi
il corpo,
preoccupato. «Shh, shh» sussurrò,
accarezzandomi.
Singhiozzai, tramando fra le sue
braccia. «Ho avuto
così tanta paura, Edward. Ti prego, non voglio
più averne, ti prego».
«No, no, te lo
prometto» sussurrò velocemente, non
smettendo di cullarmi, «va tutto bene. Stiamo tutti bene, non
è successo niente».
Si allontanò appena per guardarmi negli occhi. Mi
carezzò i capelli. «Stai
bene, vero?».
Annuii, tirando su con il naso.
Sospirò, asciugandomi le
lacrime dal viso e baciandomi
la fronte.
«Bella» mi
chiamò dolcemente Alice, prendendomi una
mano fra le sue. «Scusami. Era l’unico
modo» sussurrò piano.
Solo in quel momento, avvampando,
notai che una
molteplicità di occhi indiscreti ci fissavano senza alcun
riserbo. Tremai,
premendo il capo contro la spalla di Edward. Mi prese le mani fra le
sue,
massaggiandole per riattivare la circolazione.
«Volete spostarvi nel mio
ufficio?» chiese gentilmente
la donna che mi aveva parlato quando ero in ascensore.
«No, grazie»
rifiutò educatamente Alice, carezzandomi
i capelli, «credo che adesso la cosa migliore sia tornare a
casa».
La donna annuì,
invitando la folla degli spettatori ad
allontanarsi. Sì scusò, mortificata, per il
problema causato, mettendoci a
disposizione, qualora ne avessimo bisogno, qualunque cosa.
«Prego, prenda un
bicchiere d’acqua» disse, porgendomi quello che le
avevano appena portato.
«Grazie»
sussurrai, le labbra troppo secche perché
potesse udirsi davvero.
«Sono contenta che sia
arrivato lei» fece,
rivolgendosi a Edward «non saremmo mai riusciti a
convincerla, altrimenti».
Annuì, contro il mio
petto, continuando a stringermi. Intrecciò
la sua mano con la mia.
Fu in quel momento che gli occhi
della donna si
posarono sul mio anello di fidanzamento. Bastarono pochi attimi
perché il suo
sguardo si spostasse dal mio viso alla mia pancia, sorpreso. Come se
avesse
finalmente più chiaro il motivo del mio malessere.
«È sicura che non vuole che
le chiami un’ambulanza?» balbettò,
osservando Alice.
Ma prima che la mia amica, molto
educatamente, potesse
declinare, brontolai stizzita: «Non sono incinta».
La donna arrossì,
imbarazzata, mormorando un: «Certo».
Edward rise appena sulla mia
spalla, aiutandomi a
tirarmi su. Ma quando fui in piedi un capogiro più forte
m’investì. Mi prese
fra le braccia, sollevandomi e portandomi verso un altro ascensore
indicato
dalla donna, sicuramente più sicuro. Chiusi gli occhi,
nascondendo il viso sulla
sua spalla. Non volevo vedere.
«È andato
via?» chiese a mezza voce Edward quando
fummo soli in ascensore.
«Non so neppure se sia
mai venuto. Ho visto un grosso
buco nero, non sapevo cosa fare».
Fremetti, provando a riaprire gli
occhi. Inutilmente. Edward
rafforzò la presa sul mio corpo.
«Mi dispiace per lei. Ma
non sapevo che fare. Avevo
paura di non poterla proteggere da sola».
«Jacob»
mormorai fra le labbra, tremando.
«Shh, Bella. Va tutto
bene» mi assicurò Edward,
stringendomi il capo con una mano sulla sua spalla.
«Ehi, ti sei
svegliata» mormorò Edward, vedendomi
aprire gli occhi.
Li stropicciai con una mano,
tirandomi a sedere. «Mi
fa male la testa» mi lamentai con una smorfia, portandomi una
mano al capo.
La porta della camera di Edward si
aprì, facendo
passare Alice con un vassoio. C’era un bicchiere
d’acqua e una compressa di
paracetamolo.
«Grazie»
mormorai, prendendola fra le dita e
mandandola giù insieme a un sorso d’acqua.
«Che ore sono?» chiesi, osservandomi
attorno. Era buio.
«Circa le undici e mezza
di sera» mi rispose
gentilmente.
Mi allarmai.
«Ma… mi padre?» chiesi agitata,
osservandoli.
Edward posò entrambe le
mani sulle mie spalle. «Tranquilla
Bella, tranquilla. Alice l’ha chiamato e ha avvisato che
dormirai qui, questa
notte. È tutto apposto».
Sospirai, stanca.
«Grazie. Stanno tutti bene?».
Annuì.
«Fortunatamente era solo un falso allarme. Quel
buco nero che ha avuto Alice nelle visioni potrebbe non voler dire
nulla.
Potrebbe essere dovuto agli altri licantropi o qualcosa che noi non
conosciamo.
Ad ogni modo nessuno si è fatto male. È questo
l’importante».
Sospirai, posando ancora la testa
sul cuscino.
«Hai fame? Vado a
prenderti qualcosa da mangiare» si
offrì, sollevandosi dal materasso.
«Sì,
grazie».
«Torno subito»
mormorò, chinandosi a baciarmi la
fronte.
Alice prese il suo posto, sedendosi
accanto a me. «Mi
dispiace per il massaggio. Sarà per un’altra
volta, promesso».
«Non ti preoccupare
Alice. Grazie per tutto quello che
fai per me. Ho avuto così tanta paura di perderti,
oggi…» confessai con le
lacrime agli occhi.
«Oh tesoro»
sussurrò, abbracciandomi «non ho corso
alcun rischio, davvero. Ho pensato che non sarebbe riuscito ad arrivare
a te se
ti avessi chiusa lì, con tutta quella gente
intorno».
Mi tirai via, osservandola.
«Spero che non ritorni mai
più».
Mi sorrise, carezzandomi una
guancia. «Sta tranquilla»
mi rassicurò. Poi si chinò, con aria circospetta,
a prendere qualcosa sotto il
letto. Era una busta piccola e patinata. «Aprila»
m’invitò.
Sorpresa, feci come diceva,
scoprendoci dentro un
meraviglioso completino coordinato, quasi impalpabile.
«Ti sarebbe piaciuto,
l’ho visto».
«Oh, Alice!»
esclamai emozionata, lanciandole le
braccia al collo e facendola ridere.
Feci scorrere lo sguardo sullo
scaffale che mi stava
dinanzi. C’era ogni sorta di colore, una vastissima gamma
assortita. Eppure non
riuscivo a selezionare quelli che mi sarebbero serviti per uno dei miei
primi
dipinti.
Forse era colpa del fatto che fossi
stata piuttosto
occupata, mentalmente, nell’ultimo periodo, e nonostante i
miei sforzi, non
riuscissi a dedicarmi all’arte. Dopotutto non vedevo in me
quel talento che
invece spingeva Edward a incoraggiarmi: speravo solo che non lo dicesse
per
amor mio, perché in quel caso mi avrebbe distrutta.
«Trovato
qualcosa?».
Sussultai violentemente, il cuore
in gola, facendo
cadere diversi colori dallo scaffale. «Oh cavolo!»
esclamai, chinandomi subito
a raccoglierli.
Edward seguì i miei
movimenti, fissandomi con aria
pensierosa. «Ti ho spaventata?» chiese, riponendo
immediatamente tutto nel
giusto ordine.
Misi al suo posto
l’ultimo colore, non potendo evitare
che la mano mi tremasse. «N-no» balbettai,
affrettandomi a nasconderla.
«Niente».
Mi studiò attentamente.
Non avrebbe lasciato correre,
lo sapevo. Ero solo stata così in allerta, dopo tutto quello
che era successo
con Jacob… Così spaventata…
Distolsi immediatamente lo sguardo,
affrettandomi per
afferrare un deciso rosso cardinale. «Ecco,
prenderò questo, andiamo» mormorai
velocemente, affrettandomi verso la cassa. Almeno mi lasciò
pagare la poca
attrezzatura che avevo comprato. Anche se, a tutta ragione…
la carta nera e
dorata era praticamente sua.
Lo ringraziai del fatto che non
avesse indagato oltre
sul mio piccolo momento d’isteria, perché quando
fummo entrambi in auto mi
chiese semplicemente quale fosse il soggetto della mia tela.
Sospirai, posando il gomito sullo
sportello e il mento
sulla mano. Osservavo il paesaggio che correva fuori dal finestrino,
bagnato da
alcune gocce d’acqua. «Devo rappresentare un prato
inglese del Settecento».
«Quindi?».
Sospirai stancamente, voltandomi
piano verso di lui.
«Non lo so, di solito ho un’idea prima di
cominciare. Una storia o un’illuminazione.
Non è tutto chiarissimo, ma qualcosa sì, e da
quello procedo con cose che mi
vengono in mente man mano…»
m’interruppi, battendo le palpebre «cavolo devo
sembrare una di quelle artiste che si credono vissute» mi
biasimai, scuotendo
il capo «sono un’idiota».
«Affatto»
ribatté Edward tranquillamente, «ti stavo
ascoltando. Ero molto interessato a quello che volevi dirmi. Racconta,
avanti».
Mi morsi il labbro, imbarazzata.
Trovarmi in auto non
mi faceva sentire a mio agio. Continuavo a guardare
all’esterno, preoccupata
che prima o poi un grosso lupo dal pelo rossiccio ci seguisse a grandi
balzi
per attaccarci. Portai la mano su quella che aveva sul cambio. Si
voltò nella
mia direzione, sorpreso. «Potresti… solo andare a
casa mia, per favore? Vorrei
rimanere con te» mormorai a fior di labbra, il viso rosato
dal sangue.
Si portò la mano alle
labbra, poi annuì. «Ma certo».
Avere il suo corpo freddo sul mio
mi scaldava il
sangue nella vene. Mi faceva sentire come il vino intiepidito in una
bocca che
lo gusta, ed era come una coperta che mi scaldava davanti a un camino
in pieno
inverno. Mi sentivo protetta e confortata.
Mi baciò il collo,
scendendo sempre più in basso verso
il decolleté. Affondai le dita fra i
suoi capelli, traendolo a me. Avrei
voluto che non si fermasse mai. Che scendesse in basso, più
in basso, più in
basso… Come stava facendo la mia mano in quel momento, fino
a incastrarsi nella
tasca posteriore dei suoi jeans.
Sollevò il viso ad
osservarmi, un sopracciglio alzato.
«Scusami»
mormorai. Ma il mio mormorio era uscito
davvero impertinente, con quel sorriso sulle labbra, e la mano non
accennava a
spostarsi da dove stava ben annidata.
Edward sollevò il viso,
con un leggero ringhio
giocoso. Si tuffò sulle mie labbra, concentrandosi in un
bacio pieno di
passione, fatto di labbra, lingue, e affondi.
Mi concentrai sul suo bacio,
evitando di pensare a
ogni cosa che fosse problemi, disagi, paure. Quando stavo con lui era
tutto
così meraviglioso, tutto così magico. Non vedevo
l’ora di sposarlo, farlo e mettere
da parte ogni problema. Convolare a nozze con il mio fascinoso vampiro
che in
quel momento si stava impudicamente sfregando col suo corpo di teenager
al mio.
Eccitante,
pensai, passando la lingua sull’arcata superiore dei suoi
denti, quasi a
volermi sincerare dell’assenza dei canini.
Sussultai subito dopo, lanciando
un’imprecazione
farfugliata.
«Bella?!» mi
richiamò Edward, sgomento, tirandosi
indietro per guardarmi negli occhi.
Mi portai entrambe le mani alla
bocca, saltando subito
in piedi. «Mi sono tagliata la lingua!»
biascicai in maniera quasi
incomprensibile, saltellando sul posto.
Mi raggiunse immediatamente,
mettendomi le mani sulle
spalle. «Ma come ti è saltato in mente di fare una
cosa del genere?».
Lo fissai supplicante e vergognosa,
sentendo le
lacrime nascere ai bordi degli occhi. «Brucia,
brucia!» balbettai,
insofferente, continuando ad agitarmi. Un dolore pungente si stava
irradiando
dalla lingua alla bocca al collo. Dannato veleno di vampiro.
«Vieni qui, avanti. Apri
la bocca» mi ordinò
immediatamente Edward, mettendomi una mano sotto al mento.
Il sapore metallico del sangue si
stava diffondendo in
bocca, facendomi quasi venire un contato. Resisti,
pensai, imponendomi
di respirare con il naso e riuscendo a trovare un minimo di
stabilità. Edward
esaminò la ferita con lo sguardo per alcuni secondi, e poi
mi ordinò: «stai
ferma» per chinarsi come se mi stesse per baciare. Fece
roteare la sua lingua
attorno alla mia, poi strinse le labbra, succhiando.
Spalancai gli occhi, persa nel suo
volto attento e
concentrato. Se non avessi saputo che lo stava facendo per riassorbire
il
veleno in circolo mi sarei già sciolta sotto il suo tocco.
Anche così,
osservando la sua espressione quasi sofferente…
Mi sostenne per le spalle, forse
perché - nonostante
il mio cervello faticasse a comprenderlo - non mi stavo più
reggendo
autonomamente in piedi, o magari perché non avevo alcuna
intenzione di
staccarmi da lui.
Mi fissò con
serietà, sistemandomi una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. «Meglio?».
La lingua mi formicolava,
intorpidita, e quasi non
riuscivo più a sentirla, figuriamoci sentire dolore. Stavo
per annuire,
inebetita, quando un altro tranquillo fiotto di sangue mi
colò in bocca.
Arricciai il viso in una smorfia. «Sto per
vomitare» biascicai mortificata.
Mi aveva sistemata sul letto, con
diversi cuscini
sotto le gambe, quando avevo minacciato di dare di stomaco. Nonostante
cercasse
di mascherarlo non faceva che ridacchiare sotto i baffi. Mi sentivo così
imbarazzata.
«Fai
“a”» m’incitò,
chinandosi sul mio viso.
Aprii piano le labbra imbronciate.
«Aaaaahia,
Edward» borbottai, sussultando, quando le sue dita tastarono
la mia lingua.
Sorrise candidamente.
«Stavo solo controllando. Ti
rendi conto che è come se avessi passato la lingua su una
lama, vero?» fece,
ripetendo lui stesso il gesto con la sua lingua super resistente
«a cosa stavi
pensando?».
«Non
stavo pensando!» brontolai offesa e sempre
più umiliata «a cosa vuoi che pensi mentre ho la
lingua nella tua bocca?».
Mi sorrise, ma questa volta
sembrava quasi contento
della risposta, come se fosse compiaciuto dell’effetto che mi
causava. Mi
carezzò dolcemente una guancia, baciandomi il lato della
bocca. «Forse ti ci
vorranno dei punti. Potremmo chiedere a Carlisle
di…».
«Nemmeno in
un’altra vita!» sbottai, tirandomi
immediatamente a sedere col viso paonazzo.
«Perché
no?» chiese Edward, sorpreso dalla mia
reazione.
Sgranai gli occhi, saltando
giù dal letto. «Come
perché no? Non andrò mai a dire al padre del mio
ragazzo che mi sono tagliata
la lingua perché era troppo impegnata ad esplorare la bocca
di suo figlio,
mai!».
Scoppiò a ridere,
tenendosi la pancia con le mani.
«Non puoi dire sul serio» biascicò fra
le risate.
Gli lanciai un occhiata torva.
«Posso. Non giocare con
la mia pazienza, Edward» borbottai, incrociando le braccia
sul petto. «Devo
anche cominciare il dipinto. Lo devo consegnare fra due giorni, e
ancora non ho
idea… di cosa fare» sospirai.
Venne accanto a me, mettendo da
parte l’ilarità. «Qual
è il problema?».
Scossi il capo. «Mancanza
d’ispirazione. Forse dovrei
documentarmi un po’ in giro sul soggetto e sperare che mi
venga in mente
qualcosa… non lo so».
Edward mi fisso attento.
«Hai detto che si tratta di
un prato inglese del Settecento?».
«Sì, del
Settecento. Perché pensi che… oh.
E
chi?».
Mi sorrise, radioso.
«Carlisle, ovviamente. Non c’è
nessuno più informato di lui. Ci ha vissuto!».
«Non lo
disturberemo?» provai ancora a trattenerlo,
titubante.
Ma lui mi aveva già
preso per mano, recuperando il suo
giaccone e precipitandosi giù per le scale.
«Sarà contentissimo, vedrai. Oggi
ha la mattina libera. E poi ha detto che voleva parlarmi di qualcosa,
non c’è
momento migliore».
«Hai freddo?»
mi chiese, osservandomi dal suo sedile.
Scossi il capo, ma mi strinsi
più forte il giaccone
addosso. Con il suo modo di guidare saremmo arrivati a casa sua in meno
di tre
minuti. Non vedevo l’ora.
Sospirò spostando
nuovamente lo sguardo sulla strada.
Imboccò il vialetto che portava a casa sua, quello che per
la festa del diploma
era stato decorato con mille lucine. «Bella,
tesoro…» cominciò, e capii
immediatamente che questa volta non avrebbe lasciato correre. Mi feci
rigida
sul sedile. «Lo sai che non c’è nulla da
temere, vero?».
«No, nulla.
Nulla» avevo sbottato prima che potesse
finire di parlare, tenendomi con forza con una mano alla sportello.
Frenò bruscamente, e
prima che potessi intuire che
fossimo semplicemente arrivati avevo cacciato uno strillo acuto.
Girò la chiave nel
cruscotto, osservandomi con un
sopracciglio alzato. Mi prese la mano fra le sue. Un discorso serio era
in
arrivo, lo sentivo. «Carlisle ti ha detto che puoi prendere
dei leggeri
tranquillanti per un primo periodo».
Scossi violentemente il capo,
eppure mi sollevai dal
mio posto, andandomi a rannicchiare sul suo petto. Lo strinsi fra la
braccia,
invitandolo a fare lo stesso. «Non voglio drogarmi. Posso
resistere, fino alla
trasformazione».
Mi baciò il capo,
accarezzandomi i capelli. «Non
voglio che arrivi al matrimonio con i nervi a pezzi».
Mi scostai per guardarlo in faccia
con un sorrisetto
divertito. «Non è la missione di ogni
sposa?».
Mi sorrise, toccandomi il naso con
la punta del dito.
«Sì, probabilmente. Sì».
Carlisle fu molto gentile con me e
m’illustrò tutto
quello che volevo sapere, dagli usi e costumi londinesi del secolo alla
politica all’arte. I suoi occhi luccicavano mentre parlava
dei tempi passati, e
per un attimo mi sentii intimorita davanti a lui. Era facile scordarsi
quanti
anni avesse.
Passò ben presto ad
illustrarmi le varie tipologie di
abiti e accessori utilizzate sia dagli uomini che dalle donne. Sembrava
davvero
contento di essermi utile in quel senso. «E poi le dame
indossavano
un’intelaiatura sotto la gonna, la crinolina, che la rendeva
più vaporosa, ed era
formata da due drappi, così…» disse
disegnandomi uno schizzo di vestito. I suoi
bozzetti corrispondevano ai miei disegni originali: vivere in una casa
di
vampiri non faceva bene alla mia autostima.
Annuii, osservandolo.
«Capisco…» mormorai fra le
labbra, attenta.
Esme entrò nello studio
di Carlisle, con un vassoio di
biscotti al cioccolato in mano. Ovviamente, sapevo perfettamente a chi
erano destinati,
e con Esme in giro, soprattutto perché sapevo che li aveva
fatti lei
esclusivamente per me, non potevo rinunciare.
«Grazie» dissi,
prendendone uno. Con un sorriso, andò
a mettersi accanto a Carlisle, posandogli una mano sulla spalla.
«Allora, come sta
andando? Hai ottenuto le
informazioni che ti servivano?» mi chiese cortese.
«Oh, si… Ora
però devo andare a casa a dipingere, sono
un po’ indietro con il lavoro…» dissi
mordendomi il labbro.
Edward mi prese una mano.
«Ti accompagno».
«Edward» lo
chiamò Carlisle, sollevandosi dal suo
posto. «Potresti aspettare un attimo per quella cosa cui ti
dovevo parlare?».
Edward fece scorrere lo sguardo fra
me e lui, e subito
Esme si drizzò, afferrando il vassoio di biscotti e
venendomi accanto. «Bella,
tesoro, vieni con me. Sono sicura di avere del succo ai mirtilli in
frigo».
Mi lasciai trascinare con lei,
riluttante. Speravo che
dopo la discussione che avevamo avuto con Edward, se si fosse trattato
di
qualcosa che concerneva Jacob, mi avrebbe resa partecipe, dopo. Forse
che prima
ne parlassero fra loro era meglio, in modo che poi la notizia mi
sarebbe
arrivata filtrata e sarei stata in grado di filtrarla meglio.
«Hai pranzato
tesoro?» mi chiese con gentilezza Esme,
sistemando delle stoviglie sporche nella lavastoviglie.
Sollevai il capo, distolta dai miei
pensieri. «No, non
ancora. Aspettavo di tornare a casa e farmi venire
un’illuminazione mentre mi
cucinavo qualcosa».
I suoi occhi si illuminarono.
«Vuoi che prepari un po’
di pasta? Un panino? Un risotto? Un’insalata?».
Sorrisi appena, e non ebbi il cuore
di dirle di no.
«Cosa vuoi tu, grazie».
Mi fece un sorriso radioso.
«Non te ne pentirai»
dichiarò mettendosi immediatamente all’opera.
Sembrava fosse davvero fatta per
essere una madre, a differenza della mia. Avrei voluto chiederle
com’era stato
avere un bambino, o se crescere cinque vampiri l’aveva
soddisfatta abbastanza,
ma non ne ebbi il coraggio. Mi limitai a stare in silenzio e mangiare
il
delizioso pranzo che mi offriva.
Edward tornò
da me dopo appena dieci minuti, e io
avevo già servita un’insalata al pollo o noci
condita con una deliziosa salsa
di cipolla e yogurt.
«Dobbiamo andare
via?» mormorai, sollevando il viso
dal piatto e finendo di masticare ciò che avevo in bocca.
Scosse il capo, sorridendomi e
sedendosi accanto a me.
«Fa’ con comodo».
«Ehi,
fratello!» ci raggiunse la voce di Emmett
«Devo
andare a fare il pieno all’auto per la partenza, prendo la
Volvo o la
Mercedes?».
«Partenza?»
domandai, gli occhi ampi dalla sorpresa.
Edward sibilò fra i
denti, scontento. Mi rivolse
un’espressione gentile. «Finisci di mangiare
tesoro» m’invitò, prima di
sollevarsi per guardare in cagnesco il fratello.
Ovviamente, non lo ascoltai.
Lasciai andare la
forchetta per voltarmi a fissarli in attesa di una spiegazione.
«Andiamo in Alaska,
sorellina» fece Emmett,
lanciandomi un occhiolino.
«Emmett»
ringhiò Edward, troncando le sue parole.
Sollevai un sopracciglio,
osservando il mio fidanzato.
«Perché in Alaska?».
«Andiamo a trovare il
clan di Denali» mi rispose senza
tergiversare «Irina ha preso come un’offesa
personale la morte di Laurent, e
abbiamo paura che anche il resto del clan sia dalla sua parte. Andiamo
a
chiarire la situazione con loro».
«Ma…»
biascicai «devi andarci ora? Non potete farlo
dopo la mia trasformazione?».
Edward strinse le labbra, e
scoccò un’occhiata di
ammonimento al fratello che si era già preparato per
parlare. Si avvicinò,
riprendendo posto accanto a me e prendendomi le mani fra le sue.
«Preferiamo
che sia ora, perché quando sarai trasformata voglio
occuparmi solo di te. E
poi, sarebbe bene che… in misura precauzionale,
siano presenti anche
loro al matrimonio».
«Precauzionale per
Jacob» farfugliai agitata.
Mi carezzò una guancia,
sorridendomi per rassicurarmi.
«Vogliamo essere tranquilli, va bene?».
Sospirai, annuendo, seppur
riluttante. Non mi andava
che partisse, lasciandomi sola, ma allo stesso tempo non volevo lasciar
trapelare il mio morboso attaccamento nei suoi confronti. Sarei stata
bene,
Edward non avrebbe mai permesso che mi facessero del male.
«Mi chiamerai?»
chiesi, quando fui sicura che la mia voce non sarebbe stata stridula.
Mi prese fra le braccia.
«Ogni ora. E starò via solo
un giorno, te lo prometto. Inoltre non sarai sola. Faremo in modo che nessuno
si avvicini a casa tua».
E sapevo che con quel nessuno
indicava solo una
persona.
Mi baciò appena le
labbra. «Mangia, adesso»
m’invitò,
sollevandosi dal posto per tornare a parlare con Emmett.
Malvolentieri presi un altro paio
di bocconi,
cincischiando con quello che rimaneva.
«Perfetto, allora.
Mercedes sia. Ci divertiremo un
mondo lassù, fratellone» esclamò
entusiasta Emmett, lanciando e riafferrando le
chiavi. Prima di andare via si voltò a lasciarmi un gran
sorrisone e dicendo
qualcosa che ebbe il potere di riscuotermi rapidamente dia miei
pensieri. «Ah,
sorellina. Cosa hai fatto alla lingua?».
Tossii, affogandomi con il boccone,
il viso
improvvisamente rosso.
Se ne andò con una
risata. «Hai capito il
fratellino…».
Edward mi riaccompagnò a
casa subito dopo che ebbi
finito di mangiare. Mi spiegò che si sarebbero organizzati
in turni per
sorvegliare la casa e farmi stare al sicuro, e poi, dopo un lungo bacio
d’addio, mi lasciò con la promessa che sarebbe
presto tornato da me.
Per occupare il tempo senza
nascondermi sotto le
coperte in preda al terrore, decisi di mettermi all’opera con
il dipinto.
Avrei, comunque, dovuto terminarlo nel giro di due giorni. Presi la
tela e la
fissai sul cavalletto. Poi, ricuperai i colori dal cassetto nella
scrivania e
cominciai a prepararli. Mi misi all’opera, di fronte al
quadro, dipingendo un
tranquillo paesaggio verde, piuttosto anonimo. Speravo che intanto
potessi
avere una vera ispirazione.
Erano solo le cinque quando sentii
la porta di casa
aprirsi. Per un secondo il cuore prese a battermi
all’impazzata, ma quando
realizzai che Jacob non si sarebbe disturbato ad entrare dalla porta o
che una
delle mie guardie non gliel’avrebbe mai lasciato fare, mi
diedi subito della
stupida. Forse la proposta dei tranquillanti non era poi tanto assurda.
Stavo
diventando paranoica.
Quando andai a controllare, di
fatti, era mio padre.
«Cosa ci fai qui?» chiesi sorpresa dalla cima delle
scale.
Torse il collo per guardarmi.
«Oh, Bells, sei qui.
Pensavo fossi da… lui, sai. Sono tornato prima per sistemare
alcuni scatoloni
che sono saltati fuori dal mio armadio. Non avevo più
spazio».
Mio padre che non aveva
più spazio nell’armadio,
questa sì che era una notizia. A parte tre completi, una
polo e un paio di
pantaloni di velluto e le due divise non gli avevo visto indossare poi
molto.
Doveva esserci aria di cambiamento, in giro. «Hai bisogno
d’aiuto?».
«No, no, non ti
preoccupare. Ma… umh… lui non
c’è?»
chiese, una volta giunto sulla cima delle scale, guardandosi attorno.
Sollevai gli occhi al cielo. Si
ostinava a non
chiamarlo per nome. «No, papà. Edward
non c’è. Tornerà domani. Preparo
la cena alle sette, come al solito».
«Le sette, come al
solito. Certo Bells, certo»
borbottò, infilandosi in camera sua.
Tuttavia il pomeriggio fu poco
produttivo. Non riuscii
a far altro che completare lo sfondo, senza però avere
niente di simile all’ispirazione
che stavo cercando. Raccolsi la chiamata di Edward, che, come promesso,
si
stava facendo sentire ogni ora, e poi mi recai al piano di sotto per
preparare
la cena.
Mi sentivo triste, e avevo voglia
di ciondolare per
casa senza fare nulla. Non mi andava neppure tanto di mangiare. Era
incredibile
quanto Edward potesse mancarmi. Non vedevo l’ora di mettermi
a dormire per far
passare velocemente il tempo o poi ritrovarlo di nuovo, come sempre,
accanto
ame.
Al contrario mio padre, affamato,
apprezzò il mio
risotto col pesce. «Allora Bells, come va con il
dipinto?» mi chiese,
continuando a rimpinzarsi.
Storsi le labbra. «Sono
un po’ in ritardo. Temo che
dovrò lavorare per tutta la notte».
Sollevò le sopracciglia,
mormorando qualcosa e
ciondolando sulla sedia. «Oh, beh, comunque. Volevo darti
questo» disse,
passandomi quello che aveva tutta l’aria di essere un album
fotografico.
Sollevai le sopracciglia,
prendendolo, ma non
commentai per non metterlo ulteriormente in imbarazzo. Fu solo quando
fui in
camera, sola, che decisi di aprirlo per vedere di che foto si
trattasse. Rimasi
a bocca aperta quando vidi mio padre e mia madre in abiti da sposi.
Charlie non
sembrava nemmeno lui, con tutti quei capelli.
Sorrisi, voltando pagina. Dopo una
decina di foto del
matrimonio ne seguì una in una posa che non riuscii a
comprendere
immediatamente, ma che quando lo feci mi lasciò di stucco.
Mio padre era chino
sulla pancia di mia madre, sdraiata, e l’accarezzava
amorevolmente. Le
successive ritraevano mia madre con un pancione crescente e la gioia
dipinta
sul volto. Mi chiedevo cosa fosse andato storto, fra loro, vedendoli
così
felici. Realizzai di star piangendo solo quando vidi la foto che
ritraeva Reneè
e Charlie stretti in un abbraccio, con me, piccolissima, incuneata
nelle
braccia di mio padre.
Presi due respiri, lentamente. Le
mani mi tremavano.
Il telefono squillò. Edward.
Mi asciugai le lacrime e mi
sollevai di scatto.
«Edward?» mormorai velocemente, ansiosa di sentire
la sua voce.
«Tesoro. Siamo
quasi arrivati. Tutto bene?».
«Mm-mm. Avevo voglia di
sentire la tua voce» mormorai,
senza riuscire a nascondere la malinconia.
«Oh, amore. Lo
sai che tornerò presto, vero?».
Lottai, e riuscii ad arginare le lacrime. Mi passai una mano attorno al
busto.
Stavo così bene quando pensavo a lui, non mi mancava
nient’altro. Rimasi così,
cullata dal suono della sua voce finché non mi fui calmata
del tutto. «Ti
amo» mi salutò.
«Anch’io. Ti
amo» sospirai, chiudendo la cornetta. Fissai
il vuoto nella mia stanza. Avevo una tela da finire.
Dipinsi per tutta la sera, fino a
notte fonda. Avevo
abbozzato due dame, una cortigiana con una vestito rosso e un
ombrellino e una
dama di compagnia, e intorno a loro tre bambini giocavano felici,
correndo da
una parte all’altra. Erano tutti e tre figli della dama di
compagnia e la
cortigiana li aveva adottati come suoi, perché non poteva
averne. Sul suo volto
avevo dipinto un’espressione di ammirazione e allo stesso
tempo rammarico, per
quella situazione.
Dovetti addormentarmi,
perché sentii delle mani
scuotermi poco delicatamente. Di certo così sudate e goffe
non erano di Edward.
«Bells! Credo che tu ti sia addormentata, piccola»
mi chiamò mio padre.
Probabilmente avevo ancora addosso
gli abiti del
giorno prima. Dove mi ero stesa? E quando? Non riuscivo a ricordarlo.
«Ho sonno…»
mi lamentai, ricadendo sui cuscini. La luce del sole penetrava
attraverso le
mie palpebre. Era giorno? Quanto avevo dormito?
Sentii mio padre sbuffare.
«Non hai una bella cera…
Alzati e vestiti, io devo andare a lavoro, ti lascio
un’aspirina sul ripiano
della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a ritirare la
bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato
a quei
teppistelli che…» le sue parole persero di
consistenza e mi riaddormentai.
«Bells! Mi hai
sentito?».
«Teppistelli. Aspirina.
Afferrato» mormorai, riaprendo
gli occhi a fatica. «Vai».
Sospirò.
«Vado, vado…».
Mi alzai di malavoglia, strisciando
i piedi. Controllai
un attimo il cellulare e notai che c’erano due chiamate
perse. Mi dovevo essere
addormentata prima di dire a Edward che sarei andata a dormire,
così per prima
cosa lo chiamai. Fu un colloquio semplice e piuttosto monosillabico, da
parte
mia, ma almeno lo tranquillizzai.
Decisi di prendere
un’aspirina e fare colazione prima
di cambiarmi e rimettermi al lavoro. Così, ancora mezza
addormentata, mi
ritrovai in cucina. Presi l’aspirina in granuli che mio padre
aveva lasciato
sul tavolo della cucina e la sciolsi in un bicchiere
dell’acqua che avevo
trovato lì accanto, probabilmente lasciata da mio padre.
Aveva un saporaccio,
decisamente peggiore anche del solito. Quindi presi un altro
bicchierone
d’acqua per mandarlo via, tuttavia sembrò solo
peggiorare.
Desistetti, e decisi di mettere
qualcosa sotto i
denti. Preparai i cereali, e il latte, e quando mi misi seduta,
stranamente,
già sentivo gli effetti del medicinale. Avvertivo la testa
molto più leggera,
quasi come se levitasse. Mangiai la colazione e mi resi conto che la
vista era
leggermente sfocata; probabilmente avrei presto avuto bisogno di
occhiali, ma
considerando che sarei diventata un vampiro quello non era un mio
problema. Salii
le scale e andai a cambiarmi, ma quella sensazione di leggerezza non mi
abbandonava, inoltre, ero inciampata più del solito sulle
scale. Mi presi una
mezz’ora per mettere apposto la casa. Sistemai la mia camera,
misi i panni a
lavare, rifeci il mio letto e quello di mio padre e scesi al piano di
sotto a
sistemare la cucina.
Misi il cartone del latte in frigo,
le goccioline di
condensa che si erano formate sullo sportello del freezer mi caddero
sulla
mano. Improvvisamente mi venne da ridere, forte. Trovavo la cosa
estremamente
divertente, per qualche strano motivo. Le cose peggiorarono quando
chiusi lo
sportello del frigo e notai che la luce che lo illuminava si spegneva.
Aprii
ancora lo sportello, per controllare il motivo per cui si fosse spenta
e
magicamente si riaccese. Restai un po’ sorpresa, ma poi, la
richiusi, ed ecco
che ancora una volta si spense. Poi, l’aprì ancora
e si accese. Risi ancora,
piegandomi a metà. Era una cosa assurda. Poi singhiozzai. Mi
portai
immediatamente una mano alla bocca e scoppiai di nuovo a ridere.
«Estremamente
divertente» biascicai, sentendo la voce
distorcersi malamente in alcuni punti. Scossi il capo, vedendo il
pavimento
ondeggiare stranamente. Dire che mi sentivo un po’ su di giri
era un eufemismo.
Afferrai il cartone dei cereali e presi uno sgabello per metterli al
loro posto
nella dispensa. Salii sullo sgabello e tesi il braccio per sistemare i
cereali,
ma un’ondata di vertigini improvvise mi assalì,
facendomi sbilanciare
all’indietro.
Mi ritrovai fra due braccia fredde
e non spiaccicata
sul pavimento come mi sarei aspettata. Scoppiai a ridere.
«Oddio, non sei
Edward!» esclamai fra le risate mal trattenute
«ciao Jasper».
Mi fissò, con un
sopracciglio alzato, facendomi
scendere dalle sue braccia. «No, non lo sono». Mi
mise in posizione eretta, ma
le mie gambe cedettero.
«Ops!» dissi,
cercando di contenere le risate, mentre
lui mi afferrava.
«Bella? Ti senti bene?
Sembri… euforica direi…»
sembrava estremamente confuso.
«Oh, ma certo! Che male
c’è ad essere contenti!?» esclamai,
ridacchiando come una scolaretta.
«Niente,
suppongo… Non ho capito perché Alice mi abbia
detto di venire qui, ma deve avere a che fare con il tuo
comportamento» disse
scrutandomi.
«Meglio»
dichiarai gioiosa. Mi strinsi al suo braccio.
«Sai, mi sentivo molto sola» mormorai, la voce
intinta nel miele.
La sua espressione si fece ancora
più scettica. «Stai
male?» domandò, posandomi una mano sulla fronte.
La bloccai lì dove
l’aveva messa, schiacciando il mio
petto al suo. «Mi sei mancato, Edward. Non lasciarmi
più sola. Promettilo».
«Pensavo che avessimo
chiarito il punto che non sono
Edward». Si sventolò una mano davanti al
naso, facendo una smorfia, come se
avesse sentito un pessimo odore. «Hai bevuto?».
Sgranai gli occhi, sorpresa dalla
domanda. «Chi? Io?
Umh… ho bevuto l’acqua. E il latte. Vuoi bere
qualcosa insieme a me? Avanti,
Edward, non farti pregare».
«Si, hai
bevuto» constatò.
«Non ho bevuto niente con
te. Quindi non conta. Vuoi
bere un po’ da me?» domandai, chinando il collo per
esporre la giugulare e dimenando
le sopracciglia maliziosamente. La mia voce era così
strana, eppure non
riuscivo a curarmene.
«Adesso chiamiamo
Alice…» disse Jasper, come se stessa
parlando con una bambina.
«Oh»
m’imbronciai. «Ma poi Alice vorrà fare
tutte
quelle prove per il matrimonio. Non ho tempo!» sbottai,
allontanandomi da lui
ma non riuscendo a fare neppure due passi in linea retta.
Jasper scosse il capo, caricandomi
sulle spalle e
trascinandomi fino al piano di sopra.
«Oddio, mi piace questo
gioco! Gira tutto, è così
strano» ridacchiai. Il pavimento era diventato il soffitto.
Mi lasciò cadere sul
letto. «Aspetta qui» mi ordinò
perentorio.
Annuii, chinando il capo a fissare
le mie quattro
mani, mentre sentivo Jasper parlare velocemente con qualcun altro
dall’altro
capo del telefono.
Sentii qualcosa del tipo
“sì, ti dico che ha bevuto, e
anche tanto…” e poi “no, Edward non sa
niente”, “ho capito, allora non gli dirò
nulla”, poi chiuse la chiamata e tornò a guardarmi.
«Edward, non sai
niente?» domandai disorientata.
Sospirò. «Ok,
adesso tu te ne stai qui buona buona e
io trovo un modo per farti ritornare normale…».
Intanto ero sgattaiolata verso la
finestra e l’avevo
spalancata, avvistando la mia vicina. «Ehi, lei!»
la chiamai,
sporgendomi. La signora sobbalzò, sentendo la mia voce e mi
rivolse un saluto
timido con una mano.
«Vieni qui!»
sibilò Jasper nel momento in cui un
raggio di sole m’illuminò.
«Signora! Le volevo dire
che non sono incita!
Vede?!» dissi sollevandomi in maglione per mostrare la pancia
«non c’è più
bisogno di spiarmi io mi sposo perché amo
il mio fidanzato!».
La signora mi fissava con gli occhi
spalancati,
sbigottita, mentre il sole fu coperto dalle nuvole e io mi sentii
afferrare da
dietro da due macigni ghiacciati.
«Vieni qui e non ti
muovere, capito?»
«Ciao, Jasper!»
lo salutai contenta «e tu cosa ci fai
qui? Dov’è finito Edward?» domandai,
improvvisamente triste.
Sollevò gli occhi al
cielo.
Abbassai il viso, presa da una
nostalgia immensa. Come
poteva, nel giro di così pochi secondi? Mi portai una mano
alla bocca, sentendo
le lacrime salire agli occhi. Mi sentii improvvisamente stanca e fui
sommersa
da un senso di nausea. Scattai in bagno e mi ritrovai piegata sul
gabinetto a
vomitare. Tutta l’euforia provata si era trasformata
d’un tratto in tristezza.
Jasper mi aiutò a sciacquarmi la bocca, poi mi sedetti sul
pavimento del bagno,
fissando le piastrelle davanti a me.
Jasper era guardingo al mio fianco.
«Edward non
c’è…» constatai tristemente.
«Vuoi che vada a
chiamarlo?» mi chiese con dolcezza.
Scossi il capo, depressa.
«Voglio… voglio rimanere
sola…» mormorai, tirando su con il naso. Abbassai
il viso, premendomi una mano
contro il ventre.
Mi sentii investire da
un’ondata di calma, ma la
tristezza faticava a scomparire.
Lasciai scivolare la guancia contro
la sua spalla. Per
un attimo sussultò, poi si adattò alla mia
posizione. «Ieri mio padre mi ha
dato delle foto. C’era mia madre, e lui. E lei era incinta.
Avevano… un
bambino. Beh, ero io. Sembravano davvero felici, Jasper…
così felici… ed io ho
dipinto un quadro su tutta questa storia, perché per un
attimo ho pensato che
avere un figlio sia davvero una delle più belle cose che
possa accadere, e io…
oh. Sono come la mia Cortigiana, non l’avrò
mai…» singhiozzai, portandomi le
mani al viso.
Jasper
s’irrigidì, e poco dopo sentii invadermi da
nuova calma. «Bella, sei sicura di quello che
vuoi?» mi chiese preoccupato dopo
un po’.
Nonostante il notevole
annebbiamento mentale, capii la
sua domanda. Battei le palpebre, sorpresa dalle parole che mi erano
uscite
dalla bocca. «Lui. Io voglio lui, tutto il resto non
importa» dichiarai convinta,
tuttavia sempre più assonnata. Era vero, nonostante forse lo
volessi, nessun
ipotetico figlio avrebbe potuto darmi la felicità di avere
Edward al mio
fianco. Mi pentii di essermi lasciata sfuggire una stupidata del genere
con suo
fratello.
Mi sentii sollevare per aria e mi
ritrovai nel mio
letto.
«Jasper… Non
dire niente a Edward, per favore…»
mormorai, macerata dal senso di colpa.
Sospirò.
«Certo Bella. Ora dormi».
«Per favore, niente»
ribadii, scivolando sempre
più nel sonno.
«Bella? Bella,
tesoro?» mi chiamò la voce di Edward.
Sobbalzai, portandomi una mano alla
testa e
spalancando gli occhi. La stanza era in penombra, le tende tirate, lui
era in
piedi accanto al letto.
Mi fissava, al mio fianco,
preoccupato. «Perché sei
coricata? E perché vestita?».
Mi portai una mano alla testa
dolorante confusa. «Sei
tornato…» balbettai, sbattendo le palpebre.
Posò una mano sul mio
viso, facendolo piegare nella
sua direzione. «Jasper mi ha detto di venire, ma non mi ha
spiegato il perché»
fece, perplesso «cosa succede?».
Sibilai fra i denti, portandomi
mani alle tempie. «Non
urlare, per favore…».
Lo vidi fissarmi preoccupato, con
un sopracciglio
inarcato. «Bella? Ti senti male?» mi chiese
confuso.
Dovevo avere un cantiere in
costruzione nella testa,
perché altrimenti non avrebbe dovuto farmi così
male. «Oddio!» esclamai,
ferendomi con la mia stessa voce. Nella testa avevo come una matassa di
cotone,
se il cotone potesse essere dotato di infiniti spuntoni che penetravano
in ogni
dove. Ogni pensiero era stanco e rallentato. Non capivo come potessi
trovarmi
lì, faticavo a ricordare il motivo, il luogo e il tempo in
cui mi ero
addormentata.
«Che ore sono?»
sussurrai, fissandolo con gli occhi
semi-chiusi. Cercavo di fare mente locale.
Sospirò, avviandosi ad
aprire la tenda della mia
stanza. «Sono le sei e mezza» dichiarò,
spalancandola e facendo entrare la luce
gialla del sole basso.
«Ah! Chiudila, per
favore, ti prego!» esclamai. Gli
occhi mi bruciavano come se fossi davvero un vampiro.
Malgrado fosse estremamente confuso
fece come gli
avevo chiesto, richiudendola immediatamente. Mi venne accanto,
circondandomi il
viso con le mani e costringendomi a riaprire gli occhi. «Temo
di doverti
chiedere cosa sta accadendo, Bella. Inizio a preoccuparmi
seriamente» dichiarò,
osservandomi con attenzione, come per uno studio medico.
«Ed io temo di doverti
chiedere di parlare a bassa
voce, se non vuoi che mi metta a urlare di dolore. Per
favore».
Sfiorò una tempia con il
pollice. «Non è così che
avevo immaginato il mio ritorno» mormorò,
adattandosi al mio volume di voce,
«ti fa male la testa?».
Annuii, una smorfia sul viso.
«Mi dispiace. Sono
contenta che tu sia tornato» aggiunsi con un piccolo sorriso.
Lo ricambiò dolcemente.
Si chinò, e mi lasciò un bacio
sulle labbra. «Lo sono anch’io. Mi sei mancata. Ma
adesso temo tu abbia bisogno
di un’aspirina».
A quella parole battei le palpebre,
scattando in
piedi. Aspirina. Mi fiondai fuori dalla stanza e mi
precipitai giù per
le scale. Ogni mio passo mi rimbombava nella testa con una furia
pazzesca.
Entrai in cucina e afferrai dal mobiletto il pacchetto di medicinali,
notando
la scatola di cereali posta in bilico. I cereali.
Jasper. Lo stato di
ubriachezza. La farneticazioni. La vicina. La nausea. Le confessioni.
Il sonno.
Tutto ritornò bruscamente alla memoria, colpendomi
all’improvviso.
Sbiancai, respirando a fatica,
ansimando.
C’erano tre principali
problemi di cui preoccuparmi.
1. Avevo praticamente urlato contro
la vicina di non
essere incinta.
2. Avevo confessato a Jasper il mio
idiota, fulmineo,
momentaneo, momento di smarrimento e voglia di essere madre.
3. Non conoscevo la causa
perché tutto ciò potesse
essere successo. Insomma, non mi ero mica ubriacata…
«Bella» mi
richiamò Edward, confuso.
Sentivo il cuore in gola e le
lacrime agli angoli
degli occhi. Avrebbe letto la mente di Jasper? Lo aveva già
fatto? Come potevo
essere stata tanto stupida da dire o ancor prima pensare una cosa
simile?
Deglutii con forza, sentendo la bile salirmi fin sulla faringe.
Pensieroso si avvicinò
di un passo.
Mi bloccai subito, voltandomi e
prendendo dei lunghi
respiri per stabilizzarmi. Non l’avrebbe mai saputo. Jasper
avrebbe mantenuto
la promessa, ci saremmo sposati, e niente più sarebbe
cambiato. Questo era
quello che volevo. Il resto era solo un delizioso contorno. Avevo avuto
troppo
dalla vita per desiderare seriamente di più.
«Ti
spiacerebbe…» esordì Edward alle mie
spalle.
Sollevai una mano per bloccare le
sua parole. Lo
sguardo mi scivolò su una bottiglia sul ripiano della
cucina. Era una normale
bottiglia d’acqua, quella da cui avevo bevuto quella mattina.
La presi fra le
mani e la osservai. Ne ispirai l’odore. Feci una smorfia.
Decisamente pessimo.
La feci annusare a Edward, che
rifece la mia stessa
smorfia. «Alcol. Anche piuttosto concentrato,
direi».
Sospirai, scuotendo il capo. Tutto
mi era tornato alla
mente. A cominciare dalle parole di mio padre: ti lascio
un’aspirina sul
ripiano della cucina e ricordati che deve passare il mio collega a
ritirare la
bottiglia che sta in cucina, quella trasparente che abbiamo sequestrato
a quei
teppistelli… Avevo preso l’aspirina,
credendo che la bottiglia che mio
padre ci aveva lasciato accanto fosse acqua, ma in realtà
doveva essere l’alcol
che aveva sequestrato a dei ragazzi. Ecco perché aveva quel
saporaccio! Piuttosto
concentrato aveva detto Edward. Mischiato con un medicinale
doveva essere
stato un mix letale per le mie povere meningi.
«Questo vorrebbe dire che
ti sei data all’alcol?» domandò,
fra lo scettico e l’ansioso. Altro che tranquillanti. Forse
stava pensando di
ricoverarmi in una clinica psichiatrica.
Feci una smorfia, osservandolo con
un’espressione di
scusa. «Non è come sembra».
«Spero davvero di
no».
Sospirai, andandomi a sedere su una
sedia. Posai la
testa pesante su una mano. «Questa mattina mio padre mi ha
lasciato un’aspirina
per il mal di testa. Sono scesa in cucina e ho trovato accanto al
medicinale
una bottiglia. Pensavo fosse acqua, ma in realtà era
quella» indicai la bottiglia
di alcol che stava poggiata sul tavolo «il resto, lo puoi
immaginare…»
borbottai vergognosa.
Mi fissò confuso per un
momento, poi, scoppiò a
ridere. Mi sentii esplodere la testa, soppressa da mille suoni
stridenti e
contrastanti.
«Ahia!»
esclamai, la testa fra le mani.
Mi prese velocemente fra le
braccia, baciandomi la
fronte. «Scusa, scusa, mi dispiace!»
sussurrò, cercando di trattenere le
risate.
«Questo non fa bene al
mio ego» piagnucolai, querula.
«Non che io abbia un orgoglio, dopo tutte le mie magre
figure, ma ti pregherei
di non ridere, se fosse possibile».
Le sue labbra
s’incresparono. «Non volevo ferire il
tuo ego, lo sai».
Sospirai,
posando il capo contro il suo petto. I tiepidi raggi del sole
illuminavano
debolmente il suo viso, facendolo risplendere leggermente e i suoi
capelli
spettinati rifulgevano di riflessi bronzei. Misi fine alla mia tortura
accorciando la distanza che rimaneva fra le nostre labbra. Le mie mani
finirono
fra i suoi capelli, morbidi, setosi, soffici, contorcendoglieli e
attorcigliandoglieli intorno alle mie dita. «Lo so che non
vuoi ferirlo. Tu
tendi a gonfiare il mio ego, anche troppo. Vedi iscrivermi in una
scuola per
gente talentuosa senza neppure chiedermi il permesso».
Sorrise, baciandomi la fronte.
«Come va il lavoro con
il dipinto?».
Spalancai gli occhi, mordendomi
ferocemente il labbro,
e fui salvata solo dal suono del campanello.
«Ciao Bella, tuo padre
deve aver lasciato qualcosa per
me» disse l’agente di polizia, collega di mio
padre, presentandosi alla porta.
Feci una smorfia al volume della sua voce, sentendo la testa pulsare,
dolorante, ma non ebbi il coraggio di chiedergli di non urlare: quale
spiegazione
avrei potuto dargli?
Annuii brevemente. Cincischiando un
assenso fra le
labbra andai a prendere quell’odiosa bottiglia di alcol di
cui mi volevo
sbarazzare il prima possibile.
Quando gliela porsi, salutandolo
discretamente, notai
alle sue spalle qualcuno di ben conosciuto. La mia vicina!
Mi congedai frettolosamente
dall’uomo, poi richiusi la porta alle mie spalle, lasciandomi
scivolare seduta
con le spalle contro il portone chiuso.
La donnina mi aveva lanciato
un’occhiata spaventata.
Sollevai timorosa lo sguardo fino a
incontrare quello
di Edward, che si stava evidentemente trattenendo per non ridermi in
faccia.
Nascosi il volto fra le mani,
scuotendo il capo. «Cosa
stava pensando?» sussurrai imbarazzata, allargando le dita
della mano per
guardarlo negli occhi.
«Beh, penso che non
oserà mai più fissarti la pancia,
sei contenta?» sghignazzò lui. Mi nascosi
nuovamente con il volto fra le mani.
«Che cosa mi sono perso Bella?» ghignò,
sforzandosi di non scoppiare in una
sonora risata.
«Credo di avere dei
problemi legati alla tua
assenza…».
Ridacchiò, risvegliando
le ferite pulsanti alla testa.
Mi morsi un labbro, scuotendo la
testa, rossa in viso,
e rievocando ricordi ingombranti. «Temo che dovrò
scusarmi anche con Jasper».
Rise più forte, un
po’ sorpreso. «Jasper era qui? Devo
correre immediatamente a casa a leggergli i pensieri! Torno
subito!».
Sgranai gli occhi, improvvisamente
terrorizzata. «No,
Edward, no!».
Mi prese in giro, incurante del mio
stato. «Ti prego
Bella, qualcosa, qualche istante, un flash!» mi
supplicò, continuando a ridere
sotto i baffi.
Mi avvinghiai con le braccia
attorno alle sue gambe,
gli occhi ampi. «Non te ne andare» mormorai fra le
labbra, deglutendo a più
riprese tutta la mia paura.
«Ehi»
mormorò serio, accorgendosi del mia stato.
Sospirò,
accovacciandosi al mio fianco e accarezzandomi la guancia.
«Come ti senti ora?»
mi chiese con un sorriso gentile.
Presi un respiro fra le labbra. Non
volevo che si
rendesse conto che c’era qualcosa che non andasse. Se solo
avesse scoperto, o
anche lontanamente immaginato quello che avevo detto a Jasper, ero
certa che mi
avrebbe lasciata immediatamente. Non potevo credere che quelle parole
fossero
proprio uscite dalla mia bocca, non avendo mai io provato uno spiccato
desiderio
di maternità. Era vero anche che, ripensandoci, non potevo
non ammettere di
essere stata sincera con me stessa. Avrei voluto un bambino. Ma, molto
di più,
volevo Edward.
Posai una mano sulla sua guancia.
«Se continui a
sussurrare e la smetti di ridere, per quanto io sia ridicola, posso
ignorare il
dolore alla testa» bisbigliai, «Mi sei mancato, e
ora non posso stare con te
come vorrei perché devo finire un dipinto per domani. Forse
non sono tagliata
per tutto questo. Mi vorrai sempre, anche se non mi
avvicinerò neppure ad
essere un’artista decente, o qualunque altra cosa?».
Scosse il capo, stringendo il mio
fra le mani. «Certo
che sì» dichiarò serio, probabilmente
sorpreso dalle mie parole.
Mi strinsi a lui, posando il capo
sul suo petto. «Non
mi lasciare. Mai».
«Mai»
ribadì, accarezzandomi la schiena. Rimanemmo
così per qualche secondo, finché non decise di
rompere il silenzio. «Vuoi
vedere che riuscirai a finire la tua opera d’arte per
domani?».
Sorrisi, staccandomi da lui.
«Come?».
Lasciò un leggero
buffetto sul mio naso. «Fidati di
me».
Pochi minuti più tardi
dipingevo la mia tela, con un
grosso bicchiere d’acqua ed uno di caffè accanto a
me. La presenza di Edward
non mi dava fastidio, era discreta e riposante, e mi faceva mettere
tutto nella
giusta prospettiva. La paura, il senso di vuoto, erano completamente
spariti,
lasciando spazio ad un appagamento dato dalla sua vicinanza. Non avevo
bisogno
di nient’altro se lui era con me. Questo era quello che
volevo.
Sentivo il rumore dei pennelli
strisciare sulla tela
ruvida, ma non era fastidioso, mi aiutava a concentrarmi. Cambiavo
spesso
pennello, la forma e la dimensione erano determinanti. Così
anche il piacevole
suono che ne fuoriusciva mutava, creando quasi una sinfonia. Rosso,
verde, blu,
bianco. Ogni colore prendeva posto e si accavallava, sposava,
sovrapponeva,
mischiava con l’altro, in un gioco d’intrecci.
Mi accorsi che ogni personaggio
aveva preso il suo
posto sul prato, solo quando mi ritrovai ad osservarlo, con Edward che
mi
cingeva i fianchi. La Cortigiana aveva accanto a sé un
meraviglioso Lord, e
sorrideva felice.
L’indomani Edward mi
accompagnò all’Accademia. Il
dipinto giaceva nel portabagagli, ben impacchettato per opera sua; io
ero
sfinita, appena dopo averlo terminato mi ero addormentata. Gli avevo
espressamente chiesto, comunque, di non guardare il dipinto finito. Non
sapevo
se sarei riuscita a reggere il suo sguardo critico senza pensare che
potesse
immaginare la storia costruita dietro quelle immagini. Lui, da vero
galantuomo
qual era sempre stato acconsentì al mio volere.
Avevo gli occhi chiusi quando
giungemmo a Port Angeles.
«Siamo
arrivati» mi richiamò Edward, facendomi quasi
sobbalzare.
Battei le palpebre, guardandomi
attorno disorientata. «Sì,
certo» mormorai, affannandomi a tastare con le mani la
maniglia della portiera.
I miei occhi scivolarono verso l’ambiente aperto dei giardini
dell’accademia.
Un brivido percorse per intero la mia spina dorsale. Mi voltai vero di
lui,
regalandogli una piccola occhiata timorosa. «D-devo solo
consegnare il dipinto,
m-mi… aspetti qui?».
Mi sorrise con comprensione.
«Certo». Scese dall’auto
con un movimento fluido, recuperando la mia opera dal bagagliaio.
«Sicura che
non vuoi che ti accompagni? È pesante?» fece,
sistemandomelo con cautela fra le
mani.
Non feci a tempo a rispondergli che
la voce timida
della mia amica Amber mi chiamò, a qualche decina di metri
di distanza. Eppure
non si avvicinò.
Salutai frettolosamente Edward con
un bacio sulle
labbra, desiderosa di allontanare quel dipinto incriminato da lui -
seppur
bisognosa della sua vicinanza.
Parlare con Amber fu tranquillo e
distensivo. Era una
delle poche persone con cui mi lasciavo andare rispetto
all’arte. Con tutti i
vampiri finivo per sentirmi fin troppo inibita, i miei genitori non
avevano
conoscenza alcuna in materia.
Stavo ancora discorrendo
tranquillamente con lei
quando il mio professore di disegno creativo mi chiamò:
“Signorina Isabella
Marie Swan”. Con mani tremanti sfilai il dipinto dal
portaritratti e mi avviai
verso la cattedra , lasciando che le sue mani rugose e sfilate
avvolgessero la
cornice del dipinto. Quel professore aveva la reputazione di essere
molto
severo, in pochi superavano il suo esame con un voto dignitoso. Si
diceva che
di tanto in tanto, quando le creazioni degli studenti non lo
soddisfacevano,
usasse distruggerli davanti ai loro occhi. Osservavo la mia cortigiana
con un
sentimento ambivalente: volevo che scomparisse per sempre, insieme ai
miei
pensieri assurdi, eppure non potevo che continuare a sentirmene legata.
Il professore se ne stava seduto
comodamente su una
poltrona dietro la cattedra, con i suoi occhialini tondi, posati sul
naso
aquilino, e i capelli e la barba bianchi, pizzuti, a incorniciargli il
volto austero
e caprino. Con aria svogliata, strappò malamente la carta da
imballaggio
marroncina, che tanto accuratamente Edward aveva usato. Mise il dipinto
ben in
vista di fronte ai suoi occhi, scrutandolo. Stavo attenta a notare ogni
cambiamento di espressione, torturandomi il labbro inferiore.
All’inizio le sue
sopracciglia erano crucciate, aveva un’aria pensierosa.
Osservava ogni
dettaglio, abbassando di tanto in tanto gli occhiali, per vedere meglio.
La sua espressione si fece
più concentrata, poi, sul
suo viso, comparve un’espressione quasi…
disgustata? Il cuore iniziò a battermi
forte nel petto. Il mio pensiero volò a Edward. Distruggilo.
Ti prego,
distruggilo e cancella i miei pensieri.
Il professore annuì.
«Lo vedo. Rimarrà per sempre qui»
i suoi occhi azzurri, quasi cerulei, si tuffarono nei miei. Era come se
mi
stesse scrutando nell’anima. Un profondo turbamento mi
avvolse completamente.
Cosa aveva quell’uomo di così strano? Mi osservava
come se mi stesse vedendo
per la prima e ultima volta.
Scosse il capo con un movimento
secco, distogliendo lo
sguardo, come turbato intimamente. «È un
trenta» borbottò.
Il mio petto fremeva di appagamento
e ansia, mentre le
sue dita artigliavano la penna stilografica. La strinse, si
bloccò. Sollevò il
capo di scatto, intimorendomi con la sua occhiata penetrante.
«Me la vuole
raccontare?» continuò, sollevando un sopracciglio
in segno di sfida.
Deglutii, destabilizzata.
Lanciò
un’occhiata alla mia tela. «La sua
storia».
Boccheggiai, presa completamente in
contropiede. Ci
misi qualche istante a riprendere il controllo di me stessa. Edward.
Mai.
«No». La sua espressione si fece più
interessata, la mia ancor più intimorita.
Volevo andare via. I suoi occhi mi stavano scrutando, troppo, troppo a
fondo. «No»
balbettai ancora. Le mie mani si strinsero sulla mia borsa in un
riflesso automatico.
Scappa.
Annuì, e questa volta la
sua penna non esitò.
“30*
Trenta cum laude”
Recitava in meravigliosa
calligrafia.
«E adesso vada»
mormorò, annuendo e chiudendo gli
occhi, strofinando una mano sulle palpebre. Stanco.
Ero ancora scossa quando io, Edward
e Amber ci
ritrovammo in un caffè davanti all’Accademia. La
mia amica era
comprensibilmente caduta vittima del fascino del mio fidanzato, ma si
era
previdentemente ripresa, soprattutto in vista della visita prossima del
suo
amato ragazzo.
La mia amica aveva spiattellato con
orgoglio il mio
voto a Edward, sottolineando come il professor Danbaster - questo era
il suo
nome - non fosse affatto generoso nelle sue valutazioni. Per questo
motivo Edward
e Amber si erano decisi a festeggiare il mio successo.
Non senza una mia certa ritrosia,
Edward aveva tanto insistito
per vedere il dipinto completato, e io non avevo potuto che accettare,
arrendevole. Ne era rimasto sinceramente strabiliato.
Io avevo trattenuto il fiato e
pensato: come, poi
avrebbe potuto scoprire la machiavellica storia che vi era dietro? Ma
l’avrebbe
comunque ricordata a me.
L’avrei odiato. E amato,
insieme.
«Cosa
c’è?» domandò Edward,
carezzandomi la schiena
attraverso il sottile strato della mia magliettina estiva.
Scrollai le spalle, continuando a
guardare basso dove
mettevo i piedi. Camminavano nel sole alto di un mezzogiorno
d’estate verso l’auto.
«Va tutto bene? Non sei
contenta del tuo risultato?»
mi chiese pensieroso.
«Certo che lo
sono» mormorai sottovoce, stringendomi
al dolce refrigerio che mi offriva il suo corpo.
Si bloccò, voltandosi a
osservarmi. Piegò il capo da
un lato, tracciando un semicerchio con il pollice sulla mia guancia.
«E allora?».
«Niente. Non lo so, ho
una brutta sensazione»
confessai, tremando appena. Addosso sentivo ancora l’ultimo
sguardo che il
professore mi aveva rivolto. Era uno sguardo di chi prometteva molto.
Di chi
giurava che ci saremmo rivisti.
Una ruga increspò la
fronte perfetta del mio futuro
marito. Mi baciò. «Va meglio?».
Gli sorrisi appena.
«Baciami ancora e te lo dirò».
Gli spruzzi d’acqua
fresca raggiunsero il mio viso,
rinfrescandomi. Avevo la bocca amara e lo stomaco chiuso in una morsa.
Calma, Bella. Sta bene.
È lì fuori da qualche parte
senza che tu lo possa vedere, ma… sta bene.
Presi un grosso respiro, guardando
ancora una volta
l’immagine del mio viso che si rifletteva allo specchio. I
rumori provenienti
dall’esterno erano un sottofondo nella mia mente: chi
trasportava i fiori, chi
le panche, chi addobbava gli alberi con nastri e lucine.
Bussarono alla porta.
Trasalii appena, affrettandomi ad
asciugare il viso ed
uscire dalla stanza. Mi ero nascosta fin troppo a lungo. Alice mi
rivolse
un’occhiata piena di disappunto. Era così
nervosa… come se quella a
doversi sposare fra quattro giorni fosse lei, e non io.
«Siamo in ritardo, lo
sai? Fra venti minuti arriverà il pastore».
Annuii mestamente, costringendomi a
darle corda,
piuttosto che dover subire le sue isterie. Strinse il braccio al mio,
guidandomi verso il cortile. «Vorrei almeno darti
un’idea di quello che dovrai
fare. Hai scritto la tua promessa?».
«Ci sto
lavorando» borbottai, scuotendo il capo.
«Ci stai lavorando?
Bella!» esclamò, piantandosi al
centro del giardino «devi fare solo quello, che diamine stai
aspettando?». Sbuffò
con un gesto eccessivo per il suo piccolo corpicino, portandosi una
mano sul
fianco e sollevando gli occhi al cielo, prima di puntarli su di me.
«Si può
sapere che diavolo hai, oggi?».
Scrollai le spalle, spostando lo
sguardo per celare i
miei pensieri. «Niente».
«Bella» mi
richiamò con funebre serietà. Posò
entrambe
le mani sulle mie spalle. «Che diavolo succede? È
perché ho mandato via Edward?
Lo sai che non può stare qui mentre provi il tuo vestito. E
si sta rendendo
utile, andando a noleggiare l’auto per il vostro
matrimonio».
«Non potevamo usarne una
delle nostre?» protestai,
imbronciata.
«No! E
comunque… oh, al diavolo!» imprecò,
mandando
ancora gli occhi in gloria.
Non feci in tempo a domandarmi
perché che: «Bella!» mi
richiamò la voce di Edward, facendomi voltare di scatto
nella sua direzione con
un sorriso di sollievo stampato sulle labbra. Peccato che il tragitto
della mia
testa al suo indirizzo fosse ostacolato dalla cassapanca che Carlisle e
mio
padre - ho motivo di ritenere che effettivamente la presenza
di
quest’ultimo sia stata la causa dell’incidente,
altrimenti evitabile - stavano
trasportando.
Barcollai all’indietro,
portandomi immediatamente una
mano al punto leso, una smorfia sul viso. Più voci
contemporaneamente mi
chiamarono, e insieme si avvicinarono a me. Attraverso
l’unico occhio che
mantenni aperto vidi Edward correre - ad una velocità umana,
a beneficio di mio
padre - nella mia direzione.
«Merda, che
male» imprecai sottovoce, strofinando con
le punte delle dita la parte lesa.
«Non riesci a stare
cinque minuti senza farti male,
eh?» mi prese in giro Emmett, beccandosi
un’occhiataccia.
Edward si avvicinò con
un cipiglio, scostando senza
tante cerimonie la mia mano e osservando da vicino la mia fronte.
Infine sospirò,
scuotendo il capo e posando le sue labbra fresche sul punto dolente.
«Non è
niente».
«Niente? Niente? Che ci
faccio con la tua faccia se
per caso ti viene un bernoccolo?! Me lo dici?! La sposa col
bernoccolo,
in tutti i cinema dal 13 Agosto!» sbraitò Alice,
nervosa. Ancora non aveva
smesso di fissarmi, con la bocca spalancata.
«Non dovremmo lasciare
che la controlli qualcuno di
più esperto?» obbiettò mio padre,
fissando in malo modo il mio fidanzato.
«Sto bene,
papà» borbottai, rossa di vergogna. Edward
premeva il suo palmo contro la mia fronte. Meglio del ghiaccio.
«Chi ce lo
dice?» borbottò con serietà
«l’ultima volta
sei finita in ospedale».
Edward tentò di
ammansirlo, con voce gentile. «Le
assicuro, signore, che sua figlia sta bene. Sarà solo un
po’ indolenzita».
Ovviamente il suo commento non ebbe
che l’effetto
contrario, facendo infervorare ancor di più mio padre, che
si era preparato a
ribattere, un pugno per aria.
«Possiamo controllare. Un
minuto, non costerà nulla»
intervenne prontamente Carlisle, un sorriso conciliatore.
«Vieni, Bella. Ci
impiegheremo solo un attimo, davvero».
Mio padre borbottò
quello che sembrava un brontolio
soddisfatto, mentre con un sospiro Edward accettò di
guidarmi verso la panca a
un lato del giardino. «Carlisle, davvero. Spero tu non voglia
farlo sul
serio» protestai quando mi si avvicinò.
Eravamo abbastanza distanti e
nascosti da mio padre perché non si accorgesse di nulla.
Mi sorrise, scuotendo il capo.
«Fammi solo vedere un secondo»
mormorò, posando le punte delle dita fresche sulla mia
fronte, per meno di
qualche secondo. «Un po’ di… ghiaccio
andrà bene», continuò, lasciandomi
un occhiolino e allontanandosi discretamente.
Sospirai, chinandomi verso Edward.
Avvolse il capo con
una mano, nascondendolo nell’incavo del suo collo e
baciandomi la sommità della
testa. Chiusi gli occhi, beata in quella posizione, e man mano sentii i
muscoli
del corpo riacquisire il giusto rilassamento, quello che per tutta la
mattinata
gli era stata negato, chiudendomi lo stomaco e impedendomi di fare
colazione.
Eppure… continuavo a sentire qualcosa che mi bloccava.
«Cosa
c’è?» mormorò Edward,
intuendo forse il mio
stato.
Deglutii contro il suo petto.
«Mi sei mancato».
Baciò ancora una volta i
miei capelli. «Lo sai che non
mi accadrà nulla. So badare a me stesso. E non si
è più fatto vivo, lo sai».
Chiusi gli occhi, prendendo a
respirare più
superficialmente. Mi stava tornando la nausea - molto probabilmente
avrei
saltato anche il pranzo. «Lo so. È quello che mi
sono ripetuta. Però…».
«Però?».
Mi morsi un labbro con forza.
«Ho solo un cattivo
presentimento. Un brutto, cattivo presentimento».
«Ehi»
mormorò, separandosi dal mio corpo per guardarmi
negli occhi «non ti accadrà nulla. Te lo
prometto».
«E nemmeno a
te» borbottai preoccupata.
Mi sorrise. «E nemmeno a
me».
«E nemmeno a nessun
altro».
Ridacchiò, avvicinandosi
a sfiorare il naso col mio.
«Mh-mh. A nessuno» soffiò sulle mie
labbra prima di lambirle dolcemente con le
sue. Un bacio dolce e amorevole che ben presto crebbe, sotto la spinta
della
mia frustrazione repressa. Meglio. Avremmo approfondito quelle che
chiamavo
“prove pre-matrimonio”.
Avevo le mani avvinghiate nei suoi
capelli, e lui nei
miei, quando il pastore Weber si schiarì la voce.
«Non mi sembra di aver detto
ancora “adesso può baciare la
sposa”» scherzò, dall’altezza
della sua posizione
eretta.
Sollevai lo sguardo e avvampai. Mi
affrettai a
sollevarmi in piedi, dando un minimo di contegno alla mia aria
strapazzata.
«Pastore Weber»
lo salutò cordialmente Edward,
impeccabile, porgendogli una mano e cingendomi con l’altro
braccio, facendomi
imbarazzare ancor di più.
«Buongiorno»
cincischiai io, rossa come un pomodoro.
Ridacchiò, evidentemente
per nulla toccato dalla
nostra performance. «Buongiorno ragazzi.
Allora, dov’è che mi devo
mettere? Prima cominciamo e prima finiamo. Penso ci impiegheremo non
più di
un’oretta, poi io dovrei andare via…».
«Oh, pastore!»
lo richiamò Alice, svolazzandogli
intorno. Di sicuro lei non era dello stesso avviso. «Venga,
le mostro dove ho
intenzione di mettere l’arco. Lei che ne dice, quel posto
lì infondo le piace?
Oppure si poterebbe fare lì è lì. Di
solito come sono disposte le sedie? Come
le sistemano? C’è abbastanza spazio?».
«B…beh,
signorina. Io sono abituato a celebrare anche
in chiesa, per me non fa molta differenza…»
balbettò il pastore, imbarazzato.
Sospirai, voltandomi verso Edward
che scrollò le
spalle, noncurante. Venti minuti dopo stavamo provando. Ero
sull’ingresso, con
mio padre (più imbarazzato di me) al mio fianco. Alice mi
aveva messo un pezzo
di tulle a mo’ di velo fra i capelli, e ora svolazzava al
vento che
contraddistingueva quella giornata. Il cielo era denso di nuvole di
pioggia
ancora non scesa.
Lei camminava davanti a me, con
estrema grazia e
leggiadria, sussurrandomi di tanto in tanto “attenta a dove
metti i piedi”, “non
inciampare”. Mi aveva costretto ad indossare i tacchi, come
prova per il giorno
del matrimonio. A nulla erano servite le mie proteste per cercare di
ottenere
un paio di ballerine. Non so come, riuscii ad arrivare accanto a
Edward, che se
ne stava impeccabile, sorridendo accanto al pastore. Ci
spiegò tutto quello che
dovevamo dire e come si doveva svolgere in teoria la funzione.
Così, cominciammo a
provare. Cominciammo, e
circa due ore e mezzo dopo eravamo ancora lì. Mio padre
sbuffava a non finire,
borbottando circa impegni improrogabili. A me dolevano incredibilmente
i piedi,
la nausea non accennava a passare, e la noia mi rendeva più
difficile contenere
il mio cattivo umore.
Il pastore Weber, spazientito come
tutti gli umani
privi di resistenza e pazienza illimitata, lanciava continue occhiate
all’orologio al suo polso. «Signorina Alice, mi
dispiace, ma devo proprio
andare, mi sembra che gli sposi siano perfetti, non
c’è nulla che non vada. Sono
in ritardo per il mio appuntamento» disse, squagliandosela.
«Ma, pastore! Non si
può intrattenere ancora altri
cinque minuti! La prego!» provò a trattenerlo
Alice.
Lui fece un cenno lontano con una
mano, mentre apriva
la portiera dell’auto e se ne andava.
«Mi dispiace Alice, ma
devo andare anch’io» si accodò
mio padre, cogliendo la palla al balzo «Ho proprio
un… umh… impegno
improrogabile» ciancicò prima di fuggire.
Sospirai, stringendomi a Edward.
Libera da quella
tortura.
Ma non per Alice. «Bella,
noi continuiamo a provare.
Jasper, tu fai la parte di Charlie. Emmett, tu quella del
pastore».
Gemetti, sollevando gli occhi al
cielo.
«Alice,
smettila» la interruppe Edward prima che
potessi farlo io «è tardi e siamo stanchi, e a me
e Bella non importa che sia
tutto perfetto. L’importante è sposarci.
È ora di pranzo, ormai».
A quelle parole sentii un conato,
represso
prontamente. Non sarei stata in grado di inserire nulla nel mio stomaco
in
subbuglio. «Beh… forse… potremmo
provare ancora un paio di volte» balbettai,
provando a sembrare convincente. Non volevo rendere Edward parte del
mio stato
di agitazione.
Si voltò nella mia
direzione con un’espressione
perplessa. Questo, prima che una folata di vento improvvisa soffiasse
nella
nostra direzione, e tutti i vampiri si bloccassero, smettendo di
respirare e
voltandosi verso l’ingresso di casa Cullen. Tutti in
posizione di difesa.
Edward aveva il volto impregnato di un’espressione di puro
odio. Ringhiava, fra
i denti.
Il mio cuore aumentò
esponenzialmente i battiti,
mentre il respiro si mozzava in gola. Il mio presentimento. Il mio
terribile
presentimento.
«Cani…»
sibilò Edward, contenendosi a stento.
Il mio cuore, che in quei pochi
secondi aveva
accelerato repentinamente, si bloccò. Si udì un
tuono, e il suono di qualcosa
che veniva spostato dentro casa. Era lì, a pochi metri da
me. Era lì, e i miei
ultimi peggiori incubi si stavano realizzando, letteralmente.
«Calma»
intervenne Carlisle, cosicché tutti,
lentamente, abbandonarono la loro posizione di difesa, mantenendo uno
stato di
tensione. Facilmente palpabile.
Edward si mosse rigidamente ponendo
un braccio intorno
alla mia vita, stringendomi a sé, in un istinto di
protezione.
«E’ in
casa» bisbigliò Jasper.
«Non vedo
niente» disse risoluta Alice.
Carlisle annuì.
«Dobbiamo organizzare un piano. E’
solo uno?» chiese a Edward.
Lo percepii irrigidirsi ancor di
più. «Lui.
Solo lui» sputò con disprezzo.
Era tornato.
L’aveva detto e l’aveva fatto. Era tornato.
A nulla erano servite le
raccomandazioni e le rassicurazioni che Edward mi avevano fatto in quei
mesi.
Gli incubi peggiori ritornano sempre, e questo, pretendendo il suo
posto nella
mia mente. Il mio timore non era affatto vano, accresciuto dalle
immagini e la
situazione così simile a quelle dei miei incubi: il velo al
vento, il pericolo
a pochi metri da me, la terribile preoccupazione. E… la
morte di Edward.
Mi gelai completamente, incapace di muovermi o parlare.
Carlisle si mosse per organizzare
un piano. «Jasper,
cosa proponi?».
Lui lanciò
un’occhiata a Edward che gli rispose sicuro
quanto arrabbiato. «Lo sento a intervalli, non chiaramente.
Vuole combattere».
«Già, ma
perché è venuto da solo? Sa benissimo che
così non ha speranze… mi sembra troppo
facile» meditò Jasper, una ruga di
preoccupazione sul volto.
Si udì un nuovo rumore
provenire dall’interno.
«Ci dobbiamo
sbrigare» intervenne Esme, che camminando
si era avvicinata a me e Edward, aumentando la protezione nei miei
riguardi.
«Lo uccidiamo, o lo
imprigioniamo e chiamiamo i
licantropi per farlo venire a prendere?» chiese Alice
determinata.
Sentii un brivido attraversarmi la
schiena.
«Uccidiamolo, non
possiamo permettergli di ritornare»
ringhiò Rosalie.
Carlisle sollevò le
braccia, bloccando il dibattito
che si era venuto a creare. «Vi ricordo che non siamo
assassini, se non sarà
necessario, non lo uccideremo. Non sappiamo con precisione cosa
voglia».
Sentii che la presa di Edward si
faceva più forte
intorno al mio corpo, possessiva e protettiva, impedendomi di cadere in
pezzi.
Jasper cominciò a dare
istruzioni: «Va bene, proviamo
a capirne le intenzioni, ma se non funziona attacchiamo. Esme e
Carlisle,
entrate dall’ingresso principale. Rosalie, tu entra dal
secondo piano, dalla
stanza di Edward. Alice, tu vieni con me, entriamo dal retro. Edward,
anche tu
verrai con noi» ordinò con decisione, facendomi
sbiancare. Significava che… «Emmett,
prendi Bella e nascondetevi nel bosco, non allontanatevi troppo,
rimanete nei
dintorni».
«Cosa? Ma io voglio
combattere!» si lamentò lui.
«Edward…»
sussurrai solo, quasi involontariamente,
stringendomi maggiormente contro il suo petto. Mi stupii di quanto la
mia voce fosse
distorta e acuta.
Posò le sue labbra sulla
mia testa.
Jasper scosse il capo nella mia
direzione. «Edward mi
serve, non possiamo rischiare di non leggergli nel pensiero. Dobbiamo
capire le
sue intenzioni, la situazione è troppo strana». Si
rivolse al fratello. «Emmett,
mi dispiace, sei l’unico che da solo può
proteggere Bella, devi stare con lei.
Sbrighiamoci».
Ma ero completamente pietrificata,
incapace di
muovermi o parlare. Mi sentii girare, il mio volto si
ritrovò di fronte a
quello di Edward. Mi accarezzò, dolcemente, freneticamente.
Poi mi lasciò un
delizioso quanto rapido bacio sulle labbra, denso di promesse e
significati.
«Verrò presto
da te, te lo prometto. Fai quello che ti
dice Emmett, e non compiere azioni stupide. Non mi accadrà
nulla, capito?! Ti
amo».
«No, Edward,
no» mi lamentai, un basso lamento
gorgogliato.
«Shh»
mormorò dolcemente, posando ancora le labbra
sulle mie.
«No, Edward, no! Ti
prego, no!» esclamai, stringendomi
a lui con tutto il peso del mio corpo.
Emmett, mi separò
facilmente dalle sue braccia, caricandomi
in spalla come fossi un sacco di patate. Edward mi fissava con uno
sguardo
desolato.
«No!» urlai
ancora, scalciando, facendo uscire dai
miei occhi lacrime di paura e rabbia, mentre il mio corpo si
allontanava dal
suo. Finché non fummo nella foresta.
Tutto sfrecciava confusamente
intorno a me, mentre mi
dibattevo nella morsa di Emmett, che comunque manteneva la presa ben
salda
sulle mie gambe. Improvvisamente mi lasciò andare facendomi
atterrare con il
sedere per terra. Eravamo in un piccolo spiazzo fra gli alberi.
Disperata mi
sollevai, velocemente, correndo malamente sui tacchi, verso il punto da
dove
credevo fossimo venuti. Ma lui mi riacciuffò e mi mise di
nuovo in terra.
Ancora una volta tentai di sollevarmi, per poi ottenere il medesimo
risultato.
«Lasciami andare,
lasciami andare, ti prego, lasciami
andare!». Era qui. Era qui. Ci avrebbe fatto del male.
«È inutile.
Anch’io vorrei stare lì a combattere
anziché stare qui a farti da baby-sitter» si
lagnò.
«No! Io devo andare, devo
andare!» esclamai, la testa
fra le mani. Era tutta colpa mia. Se solo non gli avessi dato corda. Se
solo
avessi messo a tacere, subito, le sue inclinazioni perverse e i suoi
ricatti.
Se solo avessi compreso la distorsione malata dei suoi pensieri nei
miei
confronti. Cosa, se non la distorsione e la malattia potevano infatti
spingerlo
a volermi addirittura rapire per i suoi scopi? Contro la mia
volontà?
Mi sollevai ancora, presa da un
moto di paura e
rabbia, e Emmett mi trattenne ancora una volta. «Bella, per
favore, torna qui!»
mi bloccò il polso con una mano. «Edward ti ha
detto che devi fare quello che
dico io, perciò stai ferma».
«No»
singhiozzai, scoppiando involontariamente a
piangere. «È tutta colpa mia, Emmett.
L’ho fatto soffrire fin troppo con la mia
ingenuità e con la mia ignoranza. Jacob è sempre
stato arrogante, invadente.
Pensavo che fosse solo un lato del suo carattere. Invece è
malato, è perverso!
Guardaci! Siamo qui in un bosco! A nasconderci! Come posso condurre la
mia vita
in questo modo? Come può ancora Edward soffrire in questo
modo a causa mia? Non
posso sopportarlo, io… non posso» singhiozzai,
nascondendo il viso fra le mani.
La voce mi usciva graffiata per il pianto.
Emmett mi strinse nella sua presa
finché non finii di
sfogarmi. «Edward non ti farebbe mai una colpa di una cosa
del genere. Ehi,
persino io, che non vado tanto d’accordo con i cani
immaginavo che quel tizio
lì avrebbe dato di matto in questo modo. Fai proprio perdere
la testa agli
uomini, eh?» ridacchiò, «anche Edward,
sai… non era così, prima che arrivassi
tu. Anche lui ha perso la testa per te» ammiccò,
facendomi l’occhiolino.
Risi, e poi piansi ancora fino a
non avere più acqua
in corpo. Esausta, mi abbandonai seduta al centro dello spiazzo,
schiena contro
schiena con Emmett. Il vento fischiò e gli alberi protesero
verso di noi le
loro fronde. Sembrava così buia la foresta, sovrastata da
quel cielo nero. Iniziai
involontariamente a tremare. L’ansia accumulata si stava
scaricando in quel
momento, facendo vibrare il mio corpo.
«Edward…»
mi uscì dalle labbra, fra gli innumerevoli
sospiri.
Emmett sospirò.
«Non c’è niente di cui
preoccuparsi».
Mi voltai nella sua direzione con
un cipiglio in
volto. «Come fai ad essere così calmo?
Anche Rosalie è lì che rischia la
vita».
«Vita?».
Scoppiò in una fragorosa risata. «Nessuno
rischia niente qui! Sono cinque contro uno, diamine».
«Non ti sembra strano?
Perché dovrebbe fare qualcosa
di così stupido? Sapendo di essere in inferiorità
numerica?».
Scrollò le spalle.
«Non lo so. Non pretendo di entrare
nel cervello del cagnaccio. Se la caveranno comunque. E poi,
ehi…» continuò con
un ghigno sinistro, stringendomi in quello che doveva essere un
abbraccio «se
venisse dritto dritto qui… ci penserei io a lui».
Il vento fischiò tra le
fronde degli alberi, producendo
fruscii sinistri. Un fulmine squarciò il cielo e dopo pochi
istanti si udì un
tuono.
Mi strinsi maggiormente al suo
corpo. E ancor di più
quando si udì un altro tuono. Passammo così,
abbracciati, diverso tempo, senza
che nessuno dei due parlasse rompendo il silenzio, con il suono del
temporale
in avvicinamento. Le nuvole ci guardavano dall’alto,
minacciose e cariche di
pioggia. Il mio velo, ancora fra i capelli, scorrazzava al vento. Non
c’era
secondo in cui non pensassi a Edward, a cosa stesse facendo, al fatto
che era
in pericolo e che, intimamente, speravo che lo uccidesse. Mi sentivo un
mostro,
pensandolo, ma volevo che Jacob non esistesse più.
Mi distrasse dai miei pensieri
Emmett, con un commento
sarcastico. «Beh, è passata quasi
un’ora. Forse hanno deciso di giocarti a
poker».
Un piccolo sorriso mi
piegò le labbra. «Oh, si.
M’immagino già Edward vestito stile Chicago:
cappello in testa, sigaro in
bocca, il completo gessato e le bretelle rosse».
«Oh, beh, tu
immaginatelo, io l’ho visto conciato
così».
«Davvero?»
esclamai, al limite fra il divertimento e
la disperazione.
Rise. «Certo! Avresti
dovuto stare lì a sentire come
pretendeva le calze rosse abbinate!».
Scossi il capo lentamente, il
sorriso che scemava,
mentre immaginavo la figura del mio fidanzato conciato a quel modo.
«Comunque
lo straccerebbe».
«Lo ha già
stracciato» mormorò Emmett, con un chiaro
riferimento a qualcosa che non comprendesse solo la partita.
Mi strinsi le braccia al grembo,
sistemandomi meglio
contro la spalla di Emmett.
Le sue sopracciglia brune si
sollevarono
contemporaneamente. «Hai fame?»
imbronciò le labbra «in effetti voi mangiate ad
orari preimpostati. Dovrebbe essere, umh… un po’
tardi per te».
Scossi il capo. «Non ho
fame».
Mi osservò scettico.
«Dico sul serio, ho lo
stomaco chiuso» insistetti.
«Se mi svieni Edward non
me lo perdonerà mai! Vado a
cercare qualcosa da farti mettere sotto i denti, va bene? Rimani qui, e
non ti
muovere. Starò via meno di un minuto».
Feci roteare gli occhi al cielo.
«Non dovevi farmi da
baby-sitter?» lo sfidai. Non avevo intenzione di mettere
sotto i denti proprio
nulla, se non volevo vomitarlo l’istante dopo.
«Ah-ah. Non attacca.
Aspetta. Qua» sibilò, prima di
scomparire nel nulla.
Frustrata, mi presi le gambe fra le
braccia, facendomi
piccola piccola. Fu in quel momento che mi ricordai di avere un
cellulare ultimo
modello in tasca. Pacchetto matrimonio. Edward me
l’aveva regalato, per
stare sempre in contatto anche nei momenti più impensabili e
per chiamarlo per
le possibili emergenze nel caso fosse stato a caccia. Inizialmente mi
ero
lamentata, dicendo che a me non serviva, ma quando poi mi aveva
spiegato le sue
motivazioni, mi ero dovuta ricredere. Rassicurarmi circa le sue
condizioni,
rimanere in contatto con lui, era diventato un bisogno primario.
Tuttavia in questo
momento non avrei potuto
chiamarlo, l’avrei solo allarmato e messo in
difficoltà. Però era passata più
di un’ora…
«Ecco qui!»
disse Emmett ritornando con le braccia
piene di frutta, e scaricandole in un cumulo davanti a me.
C’erano mele,
pesche, pere e uva. «Magari avresti preferito qualcosa di
più sostanzioso»
disse grattandosi la testa «ma anche se t’avessi
preso un po’ di carne non
avresti potuto mica mangiarla cruda!».
«Nemmeno cotta»
borbottai, scuotendo la testa.
«Grazie, davvero, ma non ho fame».
Prese la mela in una mano,
porgendomela, e facendole
strani gesti intorno con l’altra mano «Dai bambina
mia, è una mela magica,
dalle un morso» fece imitando la strega di Biancaneve.
Mi sfuggì un piccolo
sbuffo simile ad una risata. «Oh,
davvero?».
«Ma certo, questa mela
avvera tutti i tuoi desideri.
Mordila e vedrai».
Roteai gli occhi al cielo, e decisi
di accontentarlo.
«Beh, se è così allora mi
fido» sibilai sarcastica. Afferrai la mela e me la
rigirai fra le mani. Mi venne da ridere. «Emmett, lo sai che
alla fine
Biancaneve viene avvelenata?».
«Certo, ma poi chiamo
Edward così ti sveglia!»
ammiccò.
«Ah, beh,
allora…».
Nello stesso istante in cui
cedetti, addentandola, si
udì il suono di uno scoppio e mi ritrovai di fronte ad un
muro di fuoco.
Il cuore aveva cominciato a battermi furiosamente nel
petto, mentre con le mani mi paravo il viso dal calore, e lasciavo
cadere la mela in terra con un tonfo sordo
Capitolo riveduto e
corretto.
Il cuore aveva cominciato a
battermi furiosamente nel
petto, mentre con le mani mi paravo il viso dal calore e lasciavo
cadere la
mela in terra con un tonfo sordo. Fiammate alte e bollenti si
stagliavano
davanti ai miei occhi. Non feci neppure in tempo ad accorgermene, che
mi
ritrovai a volare, e vedere le cose sfrecciarmi intorno, veloci. Mi
sentii
scivolare dal colosso di pietra al quale ero aggrappata.
«Reggiti!»
ringhiò sommessamente Emmett, aumentando la
stretta sulle mie braccia.
Mi strinsi con le gambe intorno al
suo busto, mentre,
tremando, nascondevo il viso sulla sua schiena.
Il muro di fuoco era davvero
enorme, gli correvamo
parallelamente, ma sembrava non finire mai. Era spesso almeno sette
file di
alberi. Ancora non riuscivo a spiegarmi per quale motivo fosse
scoppiato così
all’improvviso. Non potevo accettare l’unica
soluzione che subito mi era venuta
alla mente.
Se Jacob era arrivato a me, allora
Edward…
Non mi accorsi quasi quando Emmett
si fermò di botto.
Il mio cuore aveva smesso di battere. Sentivo il corpo irrigidito,
vigile. Ogni
muscolo era teso, contratto.
«Maledizione, siamo
chiusi in un cerchio!» imprecò.
L’incendio non era
affatto casuale. Il pugnale che mi
era stato puntato al cuore reclamava il mio petto come fodero. Sentii
il crepitio
del fuoco punzecchiarmi le orecchie.
«Allora, è
stato lui?» chiesi senza fiato, gli
occhi ampi. Dovevo sapere.
Emmett ringhiò,
facendomi scendere al suolo con un
movimento dalle sue spalle. «Sento puzza di
cagnaccio».
Mi ritrovai malamente sorretta sui
miei stessi piedi.
Emmett scrutava le fiamme, tentando di individuare un varco, credo.
«Edward?» la
voce mi era uscita alquanto flebile.
Il grosso vampiro si
portò le mani fra i capelli,
ansioso. «Non lo so, non lo so, accidenti! Non so che diavolo
fare!» esclamò,
lo sguardò impazzito che si muoveva rapido fra il mio viso e
le fiamme, in
scatti repentini. Era sempre tanto coraggioso che non si sarebbe certo
tirato
indietro nel caso di uno scontro. Ma quando non c’era il
nemico, non c’era chi
fronteggiare, tutto diveniva più complicato.
Respirai, piano. Sentivo il cuore
nelle orecchie, ma
non era un suono disturbante. Chiusi gli occhi, e presi un altro lungo
respiro,
portandomi la mano a livello del petto, sulla cicatrice che lo tagliava
in
obliquo. Erano in sei, e Edward avrebbe saputo difendersi. Cosa avrei
potuto
fare, comunque, in quel momento, per lui? Niente che non fosse salvare
me
stessa e suo fratello.
«Emmett».
L’istante di silenzio che passò fu riempito
dal rumore di un albero bruciato che cadeva in mezzo alle fiamme. Feci
un passo
in avanti e poggiai le mie mani sulle sue braccia, non potendo con la
mia bassa
statura, arrivare alle sue spalle. Lo fissai negli occhi con decisione.
«Chiamiamo Edward».
Annuì, e per un istante
mi parve smarrito e impaurito.
Sapevo cosa stava pensando.
«Staranno bene, Rosalie
starà bene» provai a
rassicurarlo.
Voltò lo sguardo e
ringhiò. No, ruggì. Un suono basso
e cavernoso, come quello di un orso. «Se solo potessimo
uscire da questa
dannata gabbia».
Abbassai il viso, cavandomi il
cellulare dalle tasche.
‘Il servizio non è attualmente
disponibile, ci…’ rispose la voce
registrata.
Mi portai una mano alle tempie,
stringendo con forza.
Il fumo si stava abbassando, per colpa del vento. «Pensiamo,
cosa possiamo
fare? Non possiamo saltare il muro?» domandai spaventata.
«Se vuoi rischiare di
morire» ringhiò frustrato.
«Ehi, calma. Non eri tu
il super-vampiro?».
Mi mostrò i denti.
«Se non sbaglio sei infiammabile. E
anch’io, sai?» sbottò sarcastico.
Sentii il calore bruciarmi il viso
e istintivamente
feci alcuni passi indietro, seguita da Emmett. Ingoiai il magone di
paura che
mi stava stringendo la gola.
«Troviamo un cazzo di
modo per uscire di qui, allora!»
strillai isterica, il calore che mi invadeva ad ondate.
Scosse il capo, con un sorriso.
«Accidenti a te,
stupida umana».
Gli restituii il sorriso.
Cancellando intanto il velo
di sudore che mi copriva la fronte.
Sospirò.
«Proviamo una cosa. Tieni questa, e non ti
abbrustolire» fece, sfilandosi l’enorme giacca e
porgendomela.
Corrugai le sopracciglia.
«Perché? Ho caldo»
protestai.
Mi bloccò le spalle.
«Primo, qui si fa come dico io.
Secondo, ne so qualcosa in più di te sulle ustioni. Mettila,
e copriti bocca e
naso».
Sbuffai, obbedendo, tuttavia. Il
fumo aleggiava
nell’aria pizzicandomi gli occhi e facendomeli lacrimare.
Tossicchiai. In un
attimo scomparve alla mia vista. «Emmett!» urlai,
troppo tardi.
Tornò dopo pochi
secondi, con il grosso tronco di un
albero fra le braccia.
«Cosa diavolo hai
intenzione di fare con quello?»
strillai, mentre lo faceva ondeggiare pericolosamente.
«Ci dobbiamo
sbrigare» borbottò «il fuoco sta
divampando».
«Emmett!».
Mi scoccò
un’occhiata. «Sta’ a vedere». E
abbassò
l’albero divelto, usandolo per spazzare i tronchi
bruciacchiati e in fiamme.
Riuscì ad abbatterne solo tre, prima che il tronco che aveva
in mano prendesse
fuoco.
Deglutii, spaventata. Troppo lento.
«Di questo passo
non ce la faremo mai!» urlai, avvicinandomi per farmi sentire
nonostante il
crepitio del fuoco. Una zaffata di fumo caldo
m’investì in pieno.
«È
l’unica cosa che mi è venuta in mente»
ringhiò,
voltandosi di scatto nella mia direzione. Allargò gli occhi
e mi prese fra le
braccia, facendo un balzo indietro. «E sta’
lontana, dannata zuccona!».
Scossi il capo, le lacrime ai lati
degli occhi. «Non
funziona» gracchiai, la voce soffocata.
Abbassò le spalle in un
lungo sospiro. «Lo so. Cazzo,
lo so» sbottò, gli occhi fissi sul fuoco.
«Sali su, proviamo a saltarlo».
Sgranai gli occhi. «Ma,
hai appena detto…».
«So cosa ho appena
detto» sibilò sui denti. «Salta
su».
Tremai, esitai. E poi feci come mi
diceva. Forse aveva
ragione, un’ustione era meglio della vita. Mi strinsi con
tutta la mia forza
umana al suo torace ampio. Il fuoco era troppo, troppo alto. E tutto
questo
accadeva, ancora una volta, solo a causa mia…
Emmett caricò sulle
gambe, pronto a saltare.
In quel momento si udì
un ringhio mostruoso e un
ululato, tanto che chiusi istintivamente gli occhi e mi tappai le
orecchie. La
presa della mani di Emmett si annullò e caddi a terra.
Quando li riaprii lo
spettacolo che mi si presentava dinanzi era alquanto pauroso.
Jacob, al centro della radura,
tremava in modo
violento, nudo, fissando in maniera malsana il velo da sposa che si
agitava sui
miei capelli. Il cuore prese a battermi velocissimo nel petto. Emmett
si era
posto davanti a me, a proteggermi.
Jacob alzò lo sguardo,
puntandolo nei miei occhi. Il
peggiore dei miei incubi si stava realizzando, ed era quasi assurdo che
fosse così,
quando la persona che avevo davanti era stata un tempo quella che
consideravo
il mio migliore amico. Ma chi, sano di mente, appicca un fuoco in una
foresta
solo per avere con sé una donna, una per cui ha un interesse
che non può essere
definito null’altro che morboso?
«Lasciala a
me… E tu te ne potrai andare. Lasciala e
me, e vi salverete entrambi. Lasciala a me…»
ringhiò fra i fremiti «è
mia!»
urlò, serrando i pugni. Mi sentii sprofondare. Tutte le
speranze che avevo
serbato fino a quel momento, in un attimo si erano dissolte nel nulla.
Non ero
capace di muovermi, di parlare, di fare nulla. Ero bloccata dalla
paura. Paura
che non era comparsa quando davanti ai miei occhi si era presentata la
mia
morte. Paura per adesso, con Jacob, per qualche motivo, di fronte a me.
«Scordatelo,
cagnaccio!» di rispose furioso Emmett,
con un ghigno di sfida stampato in faccia.
Qualcosa svolazzò
davanti a i miei occhi. Una foglia
bruciata che cadeva lentamente, cullata dal vento, consumandosi nel
rosso del
fuco. La stessa cosa stava facendo nella mie mente buia un pensiero
ramingo.
«Dov’è Edward?» chiesi con
voce tremante.
Gli occhi di Jacob si scurirono di
rabbia. «Pensi
sempre a lui, eh? Sempre e solo a lui. È
un’ossessione, la tua, come puoi non
capirlo? È senza vita, Bells! Il suo cure non batte! Come
puoi non vederlo,
come puoi non capirlo?».
Serrai i pugni, controllandomi a
stento. Non volevo
rispondergli. Lui mi ama, gli avrei detto. Mi
ama, e questo lo rende
più vivo che mai. «Dimmi,
dov’è, Edward» scandii, inferocita. La
testa
cominciò a girarmi, per l’angoscia e per il calore
insopportabile.
Fortissimi tremiti, simili a
convulsioni, lo
attraversarono. Un lento sorriso malevolo si disegnò sulle
sue labbra. «No. Lui
non c’è più, ci sono solo io
ora» ghignò, malevolo.
Il respiro divenne affannoso, mi si
bloccò in gola. «Cosa
significa non c’è più?!»
la mia voce era rotta, roca, a stento
controllavo le lacrime, sia per la tensione, che per il fumo nero che
mi
offuscava la vista. Tossii. Non fidarti di lui. Ascolta la
voce nella tua
testa. Edward è ancora vivo. Non fidarti di lui. Una
trappola, era solo una
trappola.
Il suo sorriso si fece
strafottente, compiaciuto. Come
poteva dire di volermi e cullarsi nel mio dolore? Mi sollevai malamente
sulle
gambe, andandogli incontro con la cieca intenzione di fargli del male,
del male
fisico. Di uccidere la sua strafottenza, di seppellirla sotto il fuoco
e la
cenere, di seppellirlo sotto il fuoco e la cenere.
Emmett mi trattenne per un braccio.
«Dicci dov’è, o
taci e muori».
Jacob scoppiò in una
fragorosa risata. Strafottente. «Se
io muoio, chi vi salva?».
Ebbi un fremito. Ero completamente
sudata, e il calore
mi stava divorando, e mi offuscava la mente. L’angoscia per
la sorte di Edward
mi stava consumando. Emmett mi mise un braccio intorno al corpo,
alleviando il
mio malessere con la sua frescura. Jacob ringhiò. Mi sentivo
profondamente
stordita. Mio malgrado mi abbandonai contro il suo petto, tossicchiando
per il
fumo.
«Non vedi che sta morendo
di caldo? La stai facendo soffrire,
cane!».
Jacob parve per un attimo
ridestarsi, ritornare il
ragazzino di sempre. «Io… io non… non
volevo… io non voglio fare del male!».
Provavo odio. Il calore si
riversava come un’onda,
spinto dal vento. «Cosa vuoi da me?» sibilai a voce
bassa, per quanto
riuscissi.
Fece un gesto stizzoso con le
braccia. «La possibilità
di farti capire cosa vuoi veramente».
«L’hai
già avuta» sbottai duramente.
«Non davvero»
incalzò, ammorbidito da quello che aveva
preso come una mia apertura nei suoi confronti. «Non davvero,
Bells! Non hai
ancora capito che mi ami!».
«Perché non
ti amo!» ribattei, frustrata. «Ti
sei preso con la forza una parte di me, insinuandoti nella mia vita
come un
conforto, una spalla su cui piangere. E poi mi hai chiesto sempre di
più, sempre
di più, non ti bastava mai. Mi hai chiesto ciò
che non potevo o volevo darti -
no, l’hai preteso. Sei sempre stato abituato a fare uso della
tua forza. Basta,
Jacob! Ora basta! Lasciami andare!».
«Mai!»
urlò, paonazzo.
Sollevai le braccia al cielo, fra
il fumo. Mi girava
la testa. «Non ti rendi conto quanto folle sia tutto questo?
Come puoi non
farlo? Come?! Hai appiccato un incendio in un bosco! Solo per
parlarmi!». Mi
portai le mani sugli occhi, mentre sentivo il mio corpo scivolare
inesorabilmente verso il basso, e la presa di Emmett farsi
più forte.
Le sue narici si allargavano,
mentre respirava
rumorosamente. Come un toro infuriato. «Per averti! Non per
parlarti… per averti».
«Non mi avrai»
ribattei, infuriata. «Mai. Non
mi avrai mai! Piuttosto mi ucciderò, hai capito?»
strillai, isterica, e gli
avrei strappato gli occhi con le unghie se Emmett non mi avesse
trattenuta.
«Questi mesi sono stati un incubo! Un incubo! Ho vissuto con
il terrore
che potessi tornare da me. Ho pregato perché mi stessi
lontano. E te lo devo
confessare, ho pregato, perché tu morissi!».
«Bella».
Mi voltai. Emmett mi teneva stretta
nella sua presa.
Battei le palpebre, incerta. L’avevo solo
immaginato…? La mia mente mi pareva
così confusa, adesso, così lontana ora che tutto
il fiato mi era uscito dai
polmoni.
«Bella!» una
voce lontana, mascherata e ovattata dal
crepitio del legno che brucia.
Ne ero certa. Non era
un’allucinazione. «Edward!»
urlai, con tutta la forza che avevo. Mi sentivo immediatamente
rinvigorita, più
forte, sveglia, come se un dolce balsamo e un velo di seta fosse
passato sulle
mie ferite pulsanti.
«Lei è mia!».
Il grido di Jacob si espanse per
tutta la foresta in fiamme.
Risposi con altrettanto vigore e
decisione urlando un «No!».
All’istante un enorme
lupo furioso, con i denti
digrignati, si lanciò verso di me. Mi portai, in un gesto
istintivo quanto
inutile, le braccia sulla testa, per proteggermi.
Passarono alcuni istanti, ma non
successe nulla.
Allora riaprii gli occhi,
osservando la scena che mi
si presentava a circa venti metri di distanza. Emmett stava lottando
contro
l’enorme lupo, ad una velocità cui difficilmente
riuscivo a tenere testa,
soprattutto ora che la mia mente era offuscata.
Avvertii un movimento nella tasca
dei miei jeans. Quasi
come un automa afferrai il cellulare, e risposi. «Bella!».
Emisi un lungo sibilo.
«Edward» poi, più forte
«Edward? Dove sei?». Il rumore del fuoco in
avanzamento copriva la mia voce.
La sue parole, pur volendo essere
rassicuranti,
uscirono alquanto ansiose «Sono qui, sono vicino,
non temere».
Ero ansiosa, preoccupata.
«Edward, lui è qui! E’
tornato, è tornato! E’ stato lui ad appiccare
l’incendio…» lanciai un’altra
occhiata allo scontro che imperversava.
«Lo so Bella, lo
so. Ci ha ingannati tutti, non era
lui dentro la casa! Ci ha fatto perdere un mucchio di tempo prezioso,
mentre
lui era qui con te! Accidenti… Jasper aveva ragione,
c’era qualcosa che non
andava, ci ha ingannati tutti!» sbottò
frustrato, e lo immaginai passarsi
una mano fra i capelli, come faceva sempre quando lo era. «Ma
ora verrò a
prenderti, te lo giuro».
Alcune parole di Jacob mi tornarono
alla mente. «Edward?»
lo chiamai.
«Sono sempre qui».
«Lui sa come farci uscire
da qui, c’è un modo. Quando
è scoppiato l’incendio, lui non c’era
nel cerchio, è venuto dopo!».
«Carlisle, hai
sentito?» gli sentii mormorare. Poi
la sua voce si fece più rassicurante. «Lo
troverò. Troverò il modo».
Udii un ululato, e mi voltai,
spaventata, verso il suo
luogo di provenienza. Emmett teneva Jacob per il collo e una zampa,
mentre lui
si dibatteva, azzannando l’aria con i denti, pericolosamente
vicino alla testa
di Emmett.
Chiusi le palpebre, e vivida nel
buio vivi
un’immagine. Il fuoco. L’unica cosa che potesse
ferire un vampiro era il fuoco.
Jacob aveva progettato perfettamente il suo piano. Voleva che Edward
morisse. E
voleva avere me. Non gli avrei permesso di ottenere nulla di tutto
questo.
Tossii.
«Bella? Bella,
cos’hai?».
«N…nulla…»
mi cancellai, quasi inutilmente, il sudore
che mi ricopriva il viso. La testa mi girava, stavo per cadere a terra,
le
ginocchia non mi avrebbero sorretto ancora per molto.
«Non
è vero che non è nulla, io ti vedo».
Mi
ricordai, scioccamente, solo allora della sua facoltà di
leggere nel pensiero. Crollai
accovacciata a terra, il cellulare ben saldo accanto
all’orecchio. «Bella!
Dannazione!». Un tronco d’albero
incendiato cadde a pochi metri da me. Mi
feci forza e gli gattonai lontano, verso altri alberi non ancora in
fiamme.
«Edward» lo
chiamai debolmente.
«Sono qui amore,
sono qui. Sto venendo a prenderti».
«Edward»
ripetei ancora, come se riempirmi la bocca
del suono del suo nome fosse oltremodo rassicurante. «Non
permettergli di
ucciderti».
Solo il silenzio passò
per la cornetta per alcuni
secondi. «No. Non lo farò mai»
rispose, incerto per le mie parole.
Presi un fiato e un breve respiro.
Faceva male morire
bruciati? Immaginavo di sì, molto. Chiusi gli occhi, e
ricordai uno dei miei
primi tentativi di fare un dolce. Ero ancora con mia madre, a Phoenix.
Avevo
appena sfiorato la teglia bollente, e poi mi aveva fatto male per tutto
il
giorno, prima di scomparire senza lasciare segni. Le mie palpebre
tremolarono.
Un altro ricordo. Stavo insegnando a Edward a fare dei biscotti, non
più di un
mese fa.
«Cosa ti importa? Li
mangio solo io».
Aveva sorriso, un sorriso gentile e
composto. «Voglio
cucinare per te. Almeno per una volta. Dai, cosa ti costa?
Insegnami».
C’era stata tanta farina
per aria, e tanti baci, e
tante prove per la prima notte di nozze. Volevo sempre di
più, quando ero con
lui.
E poi. «Ehi! Si stanno
bruciando!» avevo esclamato,
mezzo ridendo. Avevo aperto il forno di fretta, ma il mio anello era
rimasto
incastrato contro la grata. Solo per qualche secondo. Aveva fatto male
qualche,
terribile, orribile secondo, poi non avevo sentito più
nulla. Era una
bruciatura abbastanza grave, e mi era rimasta la cicatrice. Ma aveva
fatto male
solo per qualche secondo.
«Bella?».
Aprii gli occhi, rispondendo alla
voce insistente del
mio fidanzato. «Neppure io gli permetterò di
prendermi» mormorai contro la
cornetta. «Non posso, capisci? Non ci riuscirei».
Sembrava facile, c’era molto
fuoco.
Il panico comparve in un attimo
nella sua voce. «Bella,
Bella? Cosa stai dicendo, Bella? Ascoltami, ti prego. Non fare niente
di
stupido».
La testa mi girava, tossivo. Volevo
lasciarmi andare.
Forse sarebbe stato anche meno doloroso. Forse non avrei avuto scelta.
«Sì
un tunnel, dev’essere proprio un tunnel!».
«Per di qua!».
Sentivo altre voci attraverso la
cornetta, e le
sentivo girare nella testa.
«Bella!»
- Edward.
«Sì».
«Non
costringermi a venire lì adesso, capito? Non
mi costringere» sibilò, facendomi
sentire la paura nella sua voce, «perché
sono pronto ad attraversare il fuoco, se serve».
Chiusi gli occhi, biascicando un
«No» a fior di
labbra.
«Amore?
Ascoltami. Fai ciò che ti dico. Copriti il
volto con la maglietta che ti ha dato Emmett. Respira il meno
possibile, e con
il naso. Fallo» mi ordinò fra i denti.
Tentai di assecondare la
sue richieste.
«Ci sei ancora?».
«Sì…»
sospirai. Sentivo lontani rumori strozzati,
schiocchi secchi. «Io…Emmett, ho paura per
lui… non…non so…».
«Non ti
preoccupare di questo, Emmett è un
lottatore bravissimo e se la sta cavando alla grande. Presto ti
tireremo fuori
di lì, non ti preoccupare, ma ora fa come ti dico».
Tossii ancora. Il terreno mi
bruciava contro la
guancia. Provavo a convincermi, con tutta ma stessa, che Edward sarebbe
venuto
da me. Che nessuno si sarebbe fatto male.
«Sollevati in
piedi, e qualunque cosa accada, non
ti addormentare. Non ci provare, capito?!» disse
con una disperazione e
frustrazione immense.
«Va
bene…» la voce mi usciva impastata, lenta, le
palpebre erano pesanti. Feci pressione sul polso, posai dapprima un
piede, poi
mi sollevai sulle gambe inferme.
«Bene, ora cerca
di portarti quanto più su puoi con
il naso, non respirare più del necessario. Stiamo venendo a
salvarti, va bene?!
Ma tu devi resistere, resisti. Parlami, dimmi qualcosa…».
Inclinai in alto la testa, facendo
come mi diceva. Con
la coda dell’occhio osservai la lotta che imperversava
davanti ai miei occhi,
Jacob che lottava contro Emmett, senza esclusione di colpi. Si
udì un ringhio e
un guaito, poi ancora silenziosa lotta, animata dai giochi di luci
perversi
scatenati dalle fiamme. Oramai il cerchio non tempestato dalle fiamme
si era
davvero ridotto.
«Bella?»
sentii richiamarmi da Edward, ansioso.
«Ci sono,
scusa» biascicai «vorrei che lui non
esistesse. Vorrei che non fosse mai esistito» mi lamentai,
sentendo le lacrime
spingere contro gli occhi.
Un pausa. «Lo
so. Anch’io».
«L’hai
trovato? Vai, vai!» sentii ancora delle
voci di sottofondo, «andate prima voi! Veloci!Devo rimanere indietro
a trattenere gli umani».
Colsi un bagliore bianco e grigio
nel vento. «Il mio
velo si è tutto bruciato» biascicai con voce
tremante.
«Ne avrai uno
molto più bello» mi cullò con
le
sue parole.
«Non capisci, Edward. Lui
tornerà sempre». Allentai
appena la presa contro il cellulare. Il metallo stava diventando
incandescente.
«E tu starai
sempre con me, finché ci sarò io».
Singhiozzai, lasciandomi andare
carponi. «Perché mi fa
desiderare di vederlo morto, Edward? Come può farmi
desiderare una cosa tanto
atroce? Non avrò…» la mia voce si
affievolì «non avrò mai una vita felice
insieme a te, finché lui sarà ancora
qui».
«Cosa stai
dicendo? Bella!- no, di là!
Più
veloce» aggiunse, rivolgendosi a qualcun altro.
Battei le palpebre, e provai a
strisciare in avanti.
Le braccia mi cedettero. «Vorrei vederlo morto»
farfugliai ancora.
Qualcosa saltò nella mia
direzione, facendomi allentare
la presa sul telefono e cadere indietro, sui gomiti. Jacob.
Puntò i suoi occhi
scuri nei miei, ringhiando. Scoccai un’occhiata terrorizzata
al cellulare, ad
almeno due metri da me, e feci per sgattaiolare a riprenderlo. Mi
bloccò la
strada con un’enorme zampa. «L-lasciami! Lasciami
stare!» strillai
terrorizzata, cercando inutilmente la figura di Emmett. Cosa gli aveva
fatto?
Le sue labbra arricciate divennero
una line retta.
Avanzò verso di me, facendomi indietreggiare. Verso il
fuoco. Strillai quando
un pezzo di ramo incandescente urtò contro il mio braccio.
Era caduto da un
albero, bruciato da un’estremità. Chinò
il muso verso di me, annusando e
uggiolando.
Chiusi gli occhi, sentendo le
lacrime scendere sul
volto. Non gli avrei permesso di prendermi. Non gli avrei permesso di
avermi. Il
fuoco, il fuoco, il fuoco. Aprii gli occhi, scoccando
un’occhiata al
piccolo oggetto argentato ormai troppo lontano da me. Edward.
Jacob posò il suo naso
umido sulla mia guancia,
leccandomi. Quanto ci avrebbe impiegato a trasformarsi e prendermi e
portarmi
via?
Il fuoco. Edward.
Strizzai gli occhi, scacciando via
le lacrime. Con un
gesto deciso afferrai il ramo dall’estremità
integra colpendo con l’altra il
muso del lupo. Guaì, ringhiò, si tirò
indietro.
Con le ultime forze mi sollevai da
terra, correndo,
correndo lontano. Mi voltai solo un attimo per vedere un lupo
arrabbiato con un
taglio rossastro sul pelo. Si lanciò nella mia direzione, e
l’unica cosa che
riuscii a fare fu lasciarmi cadere per terra, raggomitolata, e sperare.
Udii un grido, un grido umano, e quando osai guardare Emmett stava
bloccando
Jacob, a pochi metri da me.
«Scappa, Bella!
Va’ via! Più lontano!» mi
urlò.
Obbedii. Mi sollevai sui piedi, ma
quando feci per
correre ancora le mie gambe si erano trasformate in marmo. Riuscii a
fare solo
pochi passi, prima di sentirmi crollare. Ansimai, carponi, tossendo via
il
fumo, la cenere e il calore.
Poi le braccia non mi ressero
più. Le palpebre si
chiusero spinte dal calore divampante che mi circondava come una
coperta.
Finché un rumore
fragoroso, un tuono, mi fece
immediatamente riaprire gli occhi.
Un rumore fragoroso, un tuono, mi fece immediatamente
riaprire gli occhi
Capitolo riveduto e
corretto.
Avevo ancora gli occhi chiusi
quando riuscii, con le
ultime forse, a voltarmi supina. Non avere l’erba secca e
calda a pungermi le
guance fu quasi piacevole. Mi sentivo molto stanza, e intorpidita, come
se
stessi per assopirmi. Aprii le palpebre, e vidi tantissime piccole
goccioline
dirigersi in un moto affannato verso i miei occhi e tempestarmi il
viso. Vedevo
gli abbagli luminosi causati da tuoni e fulmini. Presto le gocce
d’acqua si
fecero più grosse, inzuppandomi i vestiti e il volto. Un
altro tuono. Il fumo
si levava sempre più prepotentemente intorno a me, tanto che
oramai non
riuscivo più a vedere nulla. Tutto era ricoperto da una
coltre grigia. Ancora
uno, e un altro e un altro ancora, i tuoni non smettevano di
rimbombarmi nelle
orecchie. Finché non mi accorsi di essere circondata dal
rumore assordante del
temporale. Lo scrosciare della pioggia copriva ogni rumore di fuoco,
producendo
un tanfo puzzolente di carboni umidi.
Volsi leggermente il viso. Il
fuoco, che potevo
distinguere come un bagliore rosso, ora raggiungeva circa i dieci
metri; si era
notevolmente ridotto rispetto a pochi istanti prima. Il fango creatosi
intorno
a me m’imbrattava la camicia, i jeans, e il velo da sposa
che, fino a pochi
istanti fa, era candidamente bianco.
Il fuoco o Edward? Avevo scelto il
fuoco o Edward?
Respirai, di un respiro volontario e più profondo. Ero
ancora viva. Avevo
scelto Edward.
Ero così… confusa.
Annebbiata. Nonostante gli
elementi naturali lottassero fra di loro a pochi metri da me, mi
sentivo come
sospesa in un mi universo personale, nel quale non era affatto
necessario
muoversi.
Quanto tempo stava passando?
Le gocce che ora mi impastavano il
viso, i capelli,
gli occhi, e si erano insinuate così fastidiosamente da
costringermi a battere
in continuazione le ciglia. Avrei dovuto voltarmi, probabilmente. Se
solo
avessi potuto…
Non ce ne fu bisogno. Due braccia
forti mi
sollevarono, strappandomi via dal fango umido che si stava formando.
Avvolsi le
braccia contro il suo corpo e lo chiamai per nome.
«Edward». Non era un
sollievo dirompente quello che provavo: come se avessi da sempre
previsto che
sarebbe venuto da me, che sarebbe venuto a salvarmi.
«Andrà tutto
bene» mi promise, risoluto. Non era
ancora finita? Non andava, già, tutto bene? Il suo viso era
teso. Fra i suoi
capelli erano intrappolate innumerevoli gocce di pioggia. Mi
accarezzò le
guance, poi si voltò, mormorando qualcosa a qualcuno che gli
stava accanto. Si
voltò ancora a guardarmi negli occhi. «Ce la fai a
metterti in piedi? Ce la fai
a camminare?».
Annuii, gli occhi chiusi, e in
realtà mi lasciai
trascinare verso l’alto dalle sue braccia mentre mi metteva
in posizione
eretta. Le sue braccia sostenevano quasi completamente il mio peso.
«Reggila, non credo che
riesca a mantenersi in piedi
da sola; portala da Carlisle e dagli umani»
continuò Edward, parlando con la
persona a cui mi aveva affidata, e che mi stava sorreggendo in quel
momento.
Volsi appena lo sguardo: Rosalie. La vampira non doveva essere molto
contenta
di ritrovarsi lì con me, mentre la imbrattavo di fanghiglia,
ma non lo diede
comunque a vedere. Sembrava invece piuttosto… impaziente.
Guardai Edward, senza capire. Non
sarebbe venuto con
noi? Si stava osservando attorno, guardando oltre il fumo, dove i miei
occhi
non riuscivano ad arrivare. Tossii, forte, quando l’odore
acre mi penetrò nei
polmoni. «Edward» mormorai, chiamandolo. Si
voltò in un attimo nella mia
direzione. «D-dove… dove vai?»
farfugliai, confusa.
La sua espressione si fece ansiosa.
Certo. Come avevo
fatto a non capirlo prima? Jacob era ancora lì fuori, a
piede libero. E Alice e
Jasper, Emmett… dovevano essere con lui. Prima che potessi
capirlo sentii la
bile risalirmi in gola, acida, e mi piegai in due, rigettando in una
tosse
convulsa quel poco che il mio stomaco conteneva. Così poco.
Sentii distintamente le braccia di
Edward sostituirsi
a quelle di Rosalie, e la sua mano fredda rassicurante sulla fronte.
Ora doveva
essere davvero schifata.
«M-mi dispiace»
balbettai, tremante, rendendomi conto
di non riuscire a bloccare la tosse convulsa, anche se nel mio stomaco
non
c’era più niente, ormai.
«Shh, shh, va tutto
bene» sussurrò al mio orecchio
Edward. «Tranquilla» mi rassicurò,
accarezzandomi la schiena.
Sentii uno schiocco, un ruggito
feroce e un grido.
«Edward!»
gridò Rose, e quando sollevai lo sguardo
trovai il suo, preoccupato come non mai. Cos’era successo?
«Va’ da loro,
Rose. Mi occupo io di lei, vai» rispose
veloce lui, e se non mi avesse tenuta così stretta ero certa
che sarei caduta
ancora al suolo.
L’ultima cosa che vidi fu
la chioma bionda della
vampira sfrecciare via, impaziente, oltre le coltre di fumo. Mi trovai
sospesa
fra le sue braccia. Avevo gli occhi chiusi, e Edward si muoveva a
scatti, mezzo
saltellando, mezzo correndo, per schivare gli ostacoli infuocati. La
nausea era
ancora più forte.
«Dove stiamo
andando?» riuscii a biascicare.
La sua presa si fece più
salda. «Fuori da qui, innanzitutto.
C’è un tunnel, ecco com’è
entrato. Ti porterò da Carlisle e Esme. Sono rimasti
indietro per parlare con gli umani. Il fuoco e il fumo hanno attirato
la
guardia forestale e i vigili del fuoco».
Aprii gli occhi, improvvisamente
più vigile, per poi
doverli richiudere a causa di una vertigine più forte delle
altre. «Mio padre?»
chiesi preoccupata.
«Non ancora»
sibilò fra i denti, «ma verrà. Mi
dispiace. Ecco, siamo arrivati».
Aprii appena le palpebre, e in un
attimo mi sentii
cadere un paio di metri più in basso. Edward
atterrò gentilmente sui piedi, in
un morbido affondo. Eravamo fermi. Guardai in alto, verso i suoi occhi
ambrati,
come in cerca di spiegazioni. La sua mascella era rigida, percorsa da
un
tremito costante. Mi stava scrutando. «Come ti
senti?».
Chiusi di nuovo gli occhi,
accoccolandomi meglio
contro il suo petto. «Vorrei che non fosse mai
esistito».
Espirò bruscamente.
«Lo so».
Deglutii, strofinando il viso
contro la sua maglietta
bagnata. «Mi sento solo molto, molto stanca».
«Cerca di non
addormentarti, allora. Ti porto da
Carlisle».
Edward sembrava volare sui suoi
piedi. Attraverso le
palpebre semi-chiuse riuscii a distinguere sprazzi di paesaggio.
All’inizio fu
un lungo tunnel buio. Era dunque quello il mezzo usato da Jacob per
entrare nel
cerchio di fuoco? E… cos’erano quei bagliori
bianchi e lucidi, quasi argentei,
che distinguevo lungo le pareti? Sembravano linee…
lettere… parole…?
Non riuscii a capirlo. Tossivo
senza sosta, sentendo
la cenere grattarmi contro la gola, così Edward mi
sollevò il capo con una
mano, posandolo sulla sua maglia bagnata e proteggendomi la bocca e il
naso dal
fumo.
Prima di arrivare a Carlisle e Esme
dovemmo affrontare
anche un certo tratto all’aperto, fra gli alberi.
«È per non farci vedere dagli
umani» mi spiegò Edward.
Annuii appena. Sentivo la gola
pungere, secca, e non
riuscivo a smettere di tossire tanto da farmi lacrimare gli occhi. Mi
accorsi
che eravamo vicino agli umani per il vociare veloce e il suono
assordante delle
sirene.
«Edward» ci
chiamò Carlisle, come se fosse sorpreso e
sollevato di vederci lì. Ci si fece vicino. «State
bene?».
«Sì,
papà, grazie. Io sto bene. Potresti visitare
Bella?».
Altri due uomini, in divisa, si
avvicinarono a noi.
«Questo è un vero miracolo!»
esclamò uno, più basso e tarchiato. «Ce
ne sono
altri, dottore?» continuò poi, rivolgendosi a
Carlisle.
Il vampiro annuì, lo
sguardo concentrato su di me. «I
miei quattro figli. Erano tutti usciti a fare una passeggiata, dopo
pranzo».
«Bella,
tesoro!» gridò Esme, venendomi incontro. Mi
abbracciò, nonostante Edward continuasse a tenermi sospesa
fra le sue braccia.
«Come ti senti?».
«Sto bene»
tossicchiai, la voce roca.
L’uomo in divisa che non
aveva ancora parlato, con dei
baffoni che si continuavano dalle basette, parlò piano alla
ricetrasmittente.
«Fate portare una barella dall’ambulanza,
c’è una ragazza da portare in
ospedale».
«No» ansimai,
tremante, stringendomi a Edward.
«Non
c’è problema, ce la faccio a portarla»
ribatté il
mio fidanzato, avanzando verso l’ambulanza.
«Lasciala a noi,
ragazzino. L’hai portata sino a qui»
lo bloccò l’agente più alto, posandogli
una mano sulla camicia «devi essere
stanco».
“Ragazzino”. Le
braccia di Edward si tesero, ed ero
certa che stesse per protestare ancora, destando notevoli
sospetti…
«La porto io,
Edward» intervenne prontamente Carlisle,
lanciando un’occhiata significativa al figlio
«seguimi, visiterò anche te».
Esitò un attimo, poi mi
trasferì nelle braccia del
padre. Anche se avessi voluto, non avrei mai potuto oppormi. Ero troppo
stanca.
«Non voglio andare in ospedale» riuscii a
biascicare contro la maglia di
Carlisle.
«È tutto
apposto, signorina, presto si sentirà meglio»
mi rassicurò l’agente più basso,
ignorandomi.
«No» ansimai,
agitandomi per cercare lo sguardo di
Edward o Carlisle o Esme. «No, no, non posso, non voglio. Mi
devo sposare. Fra
quattro giorni mi devo sposare… Non voglio,
Edward» mi lamentai, trovandolo
accanto a me e stringendogli la maglia in un pugno.
Il suo viso era tirato, serio. I
suoi occhi tanto
lontani da non parere lì con me.
«Ti prego»
gemetti ancora.
Fu Carlisle a rispondermi.
«Sta’ tranquilla, Bella. Ti
visiterò qui e ti porteremo in ambulatorio solo se
sarà strettamente
necessario, va bene?».
Mi voltai verso mio suocero,
annuendo preoccupata. «E gli
altri?» domandai, tremante.
Mi mise seduta su una barella
vicino all’ambulanza.
Due paramedici ci si avvicinarono. «Non ti preoccupare per
gli altri, staranno
bene».
«Tranquilla
Bella» mi rassicurò ulteriormente Esme,
accarezzandomi i capelli.
Annuii ancora, con le lacrime agli
occhi. Pregavo
perché questo incubo finisse. Prendetelo, vi
prego, prendetelo. Spostai
una mano dalla fronte alla barella, per sostenermi dritta. Mi girava la
testa.
Edward mi venne accanto, sedendosi
accanto a me e stringendomi.
«Come ti
senti?» mi domandò Carlisle, infilandosi un
paio di guanti di lattice e facendosi passare la sua borsa e una
cassettina con
alcuni involucri di plastica trasparente.
«Mi gira la
testa» mormorai, roca, tossicchiando fra
le parole. Non riuscivo a tenere gli occhi fissi su un unico punto.
Eravamo
vicinissimi a casa Cullen, ed eravamo circondati da gente in divisa che
urlava
ordini e trascinava roba. Chiamarono Esme perché gli desse
informazioni sugli
altri figli “dispersi”. Tutta quella confusione per
colpa di un’unica persona…
Carlisle posò una mano
sul mio polso, piegandolo gentilmente
indietro ed esponendo l’arteria radiale. Se la
portò discretamente al viso,
inspirandone l’odore. Sospirò, come di sollievo,
facendo un piccolo sorriso. Posò
due dita sul polso, osservandomi gli occhi.
Quando Edward si accorse del mio
tremore mi circondò
con le sue braccia. Non faceva freddo, persino a Forks
l’estate poteva
definirsi tiepida. «Gli altri staranno bene» disse
per rassicurarmi.
«Sì»
sussurrai fra i denti «spero. Sì».
«Apri la bocca. Fai
“a”» m’istruì
Carlisle, usando una
paletta di legno e un piccolo led. Seppur confusa, obbedii. Non appena
mi
lasciò libera di chiuderla tossii violentemente.
«Portate l’ossigeno» continuò,
rivolgendosi a qualcuno alla sua destra.
Chiusi gli occhi e posai il capo
contro la spalla di
Edward. Qualcuno mi mise una mascherina sul viso. Una coperta ruvida e
spessa,
di quelle di lana, mi fu avvolta attorno alla spalle. Sentivo il fango
che si
seccava contro la pelle.
Edward mi baciò la pelle
sulla tempia. Iniziò a
giocare con l’anello che portavo al dito. Era silenzioso,
nervoso. Sapevo che
avrebbe preferito trovarsi lì fuori a combattere, ma
preferivo comunque
tenerlo, egoisticamente, vicino a me.
Mi sentii pungere un dito.
Fremetti, facendo per
guardare, ma Edward mi trattenne. «Tranquilla»
mormorò al mio orecchio.
Gemetti, facendo una smorfia per
l’odore di sangue.
«Cosa hai mangiato questa
mattina a colazione?» mi
chiese gentilmente Carlisle.
Mi sentii arrossire. Feci per
scuotere il capo, ma poi
pensai che, data la nausea, doveva essere davvero una cattiva idea.
«Niente»
biascicai imbarazzata. Le parole formavano una nuvoletta sulla
mascherina
trasparente.
Mio suocero mi guardò
con comprensione. «Da quanto non
mangi?».
«Ieri
pomeriggio» confessai «una mela» aggiunsi
poi ad
una sua occhiata indagatrice. «Avevo lo stomaco
chiuso».
Le sue labbra si piegarono in un
sorriso appena
accennato, come se stesse tentando di nasconderlo.
«Va bene, allora. Ti sei
bruciata?».
«Non lo so, non
credo» sfregai la guancia contro la
spalla di Edward. «Forse il braccio. Il sinistro».
Mi sfilarono la coperta e la giacca
di Emmett. Senza
parlare Carlisle medicò velocemente e con cura il braccio
leso. La pioggia si
era fatta meno insistente ora, come nei tipici temporali estivi era
finita
prima ancora di cominciare. I miei capelli erano una poltiglia di fango
marrone
a cui il velo bianco si era incollato.
Sentii le dita delicate di Edward
provare a staccarlo;
quasi inutilmente. Gemetti di dolore quando tirò
più forte. «Mi dispiace» si
scusò immediatamente «forse sarebbe meglio
lavarli, prima».
«Bevi questo»
mi disse Carlisle, quando finì la sua
medicazione. Mi stava porgendo un bicchiere con un liquido trasparente.
«Cos’è?»
domandai incerta, prendendolo dalle sue mani.
«Tranquilla, è
solo acqua zuccherata. Non è così grave
come pensavamo. Credevamo…» guardò
velocemente il figlio. «Beh, date le
circostanze e per i tuoi sintomi pensavamo ad
un’intossicazione. Invece
sicuramente è stato peggio per l’ipoglicemia.
Tieni per un po’ l’ossigeno e
bevi questo, e dovrebbe passare».
Sospirai. Edward mi
liberò dalla mascherina,
permettendomi di prendere piccoli sorsi dal bicchiere. Dopo pochi
minuti Esme
ci raggiunse, seguita dai due agenti che ci avevano accolti per primi.
«Ci sono
novità?» chiese Carlisle, mostrandosi
interessato. Certo. Si ricordavano sempre di salvare le apparenze. Che
padre
sarebbe stato uno che non si interessava se i suoi figli stessero
morendo
bruciati?
«Stiamo facendo del
nostro meglio, dottor Cullen. Le
fiamme sono quasi spente» disse il tizio con i baffoni,
mostrando il fumo in
lontananza.
Esme ci venne vicino, abbracciando
me e Edward. «Come
stanno?» chiese al marito.
«Hanno solo la gola molto
irritata. Fra un po’ Bella
sarà libera dall’ossigeno»
mormorò, sfilandosi i guanti e allontanandosi con
gli agenti.
«Mio padre?»
domandai preoccupata a Esme. Avevo la
voce roca.
Mi guardò con
comprensione, prendendomi la mani fra le
sue. «Sta arrivando, Bella. Al paese ne parlano
tutti».
Senza che potessi controllarlo un
singhiozzo mi
scoppiò nel petto come una bolla. «Come
può essere diventato così? Come? Come
può una persona sana di mente appiccare un incendio in una
foresta?».
Edward aveva lo sguardo basso e i
pugni stretti sulle
ginocchia. «Non staremo qui a chiedercelo se fossi
lì fuori a toglierlo di
mezzo» sibilò fra i denti.
Sospirai, distogliendo lo sguardo.
Mi faceva così male
saperlo lontano da me, esposto al pericolo. Eppure Edward aveva
ragione, se
volevo che non tornasse più dovevo anche permettergli di
andare a prenderlo. «Vai,
allora» mormorai, togliendomi la mascherina e lasciandomi
scivolare sui piedi
instabili. Mi sentivo già un po’ meglio.
Mi guardò
fissò, saltando giù dal lettino con un movimento
aggraziato. «Non intendevo questo. Non voglio lasciarti qui
da sola. È quello
che è successo prima».
Gli diedi le spalle, fissandomi i
piedi. Non stava più
piovendo, quindi le poche gocce d’acqua che caddero dovevano
essere lacrime.
«Mi dispiace. Ho paura» farfugliai, incrociando le
braccia sul petto in un
gesto di protezione personale.
Edward si avvicinò,
posando le mani sulle mie braccia
e costringendomi a voltarmi per guardarlo negli occhi. «Di
cosa hai paura?».
«Che ti faccia del male.
Che faccia del male a tutti
voi. Che non ci permetta di vivere una vita normale» sbottai
frustrata «ma una
vita in cui ho sempre paura che ritorni».
Il suo sguardo si
addolcì. Mi accarezzò una guancia
con il pollice. «Davvero?».
Tirai su col naso. Le labbra mi
tremarono. «Ho paura
che mi porti via da te».
La sua espressione
vacillò. La sua presa sulle mie
braccia s’indebolì. «In questo caso,
Bella… Se non sei ancora convinta…»
annaspò.
«No, Edward!»
protestai, prendendogli il viso fra le
mani. Ero indignata dal fatto che fosse arrivato ad una simile
conclusione.
«No! Non intendevo questo. Ho paura… che mi porti fisicamente,
via da
te».
Serrò i denti. Il suo
viso era bianchissimo, più del
solito, come se quella fosse la prima volta che prendeva realmente in
considerazione quella possibilità. «Questo
mai».
Tremai fra le sue braccia,
nascondendo il viso nel suo
petto. «E-eppure stava per farlo, oggi… Non
permetterglielo, Edward, ti prego…
Non ce la farei».
Mi scrutò, soppesando le
mie parole. Aveva un cipiglio
sul viso. «Non glielo permetterò» mi
promise, baciandomi la fronte.
Mi ritrassi, un po’
frastornata. «Sono sporca» mi
lamentai, sentendo il fango secco che aderiva sulla palle, scatenando
un
fastidioso prurito.
«Vieni» disse,
circondandomi le spalle con un braccio
e trascinandomi verso casa Cullen, «ti aiuteremo a fare una
doccia». E, quando
arrossii da testa a piedi, aggiunse con un risolino. «Esme
ti aiuterà a
fare una doccia».
Mia suocera smise di parlare con i
paramedici e si
volse verso il figlio, avviandosi nella nostra direzione.
«Vieni, cara. Hai
lasciato qualche cambio in camera di Edward? Dai
pigiama-party?».
Annuii, imbarazzata. «Non
voglio dare fastidio.
Imbratterò tutto di fango».
Ma il sorriso smagliante di Esme
troncò ogni protesta.
«Nessun fastidio. Lasciala a me, caro».
Non ricordo molto di quello che
successe poi. C’era
molto rumore, prima fuori e poi dentro casa. La doccia non fu nemmeno
troppo
imbarazzante, ma credo che dovetti addormentarmi prima di finirla,
perché non
ricordo nulla del poi.
S…
v…n…o...p…e…t…
Lettere, c’erano delle
lettere. Era buio, e tutto era
confuso. Andavamo veloci, troppo perché potessi leggere con
precisione.
S…o…v…ne…do…p…en…rt...
Era un tunnel. Un tunnel lungo,
lungo, lungo. Un
tunnel freddo. Avevo ansia, tanto forte, tanta ansia tanta da
soffocare. Era
buio. Non riuscivo a leggere.
Ripetuto decine, centinaia di
volte. Quattro parole
ripetute all’infinto sulle pareti di un tunnel.
Sto venendo a prenderti.
E non era solo un sogno.
«Ahhh!» urlai,
scattando seduta sul letto. Come se mi
avessero appena dato una scossa elettrica al cuore.
La porta e le imposte delle
finestre si aprirono
contemporaneamente, facendo passare la luce. E i vampiri. Ovunque,
tutta la
famiglia Cullen in posizione di difesa, pronta all’attacco.
Edward vicino a me,
guardandosi in torno, pronto all’agguato.
Ansimai, ancora più
impaurita di quando mi ero appena
svegliata. Sentii le lacrime gocciolare dal mento. Il cuore correva
velocissimo
nel mio petto.
Il primo ad abbandonare la sua
posizione fu Jasper.
«Tranquilli. Era solo un brutto sogno».
Ma non era vero. Erano quelle,
quelle le quattro
parole che avevo lette, ripetute, sulle pareti del tunnel. Lasciai i
singhiozzi
traboccare insieme alle lacrime. Tutta la famiglia Cullen,
lì. Solo perché
avevo gridato. Poteva voler dire solo una cosa…
«Verrà a prendermi»
singhiozzai, e la voce mi uscì incredibilmente roca,
più del giorno precedente
«l’ha scritto. Ha scritto che verrà a
prendermi» ansimai, tremante.
Edward si sedette sul letto,
accanto a me, prendendomi
fra le braccia. «Non glielo permetterò, te
l’ho detto».
«Era scritto ovunque,
ovunque» singhiozzai, gli occhi
chiusi, senza ascoltarlo «aveva riempito le pareti. Era
inciso dappertutto. “Sto
venendo a prenderti”».
«Shh, shh, va tutto
bene» continuò, accarezzandomi la
schiena e cullandomi.
Presi un grosso respiro. Mi ci
volle quasi un minuto
per sopprimere i singhiozzi. La famiglia Cullen si era allontanata
dalla stanza
lasciandoci soli. «Non posso permettergli di
prendermi».
La presa di Edward si fece
più salda. Mi prese il
mento fra le mani, costringendomi a guardarlo. «Non glielo permetteremo».
Volsi il viso, allontanando le sue
dita.
«Bella» mi
richiamò, ansioso «cosa stai dicendo?».
Sapevo che stava pensando alle parole che gli avevo fatto al telefono,
quando
ero ancora lontana da lui e circondata dal fuoco.
«Lo
sai…» sussurrai a voce bassissima «sai
cosa
vorrebbe da me… non potrei permettergli… non
potrei darglielo».
Avvolse le mie guance con le sue
mani, come una coppa.
I suoi occhi brillavano, come se fossero prossimi alle lacrime. La sua
gola era
tesa, come se fosse in procinto di dire qualcosa. E cosa? Di immolarmi,
di
lasciarmi molestare da lui, ma di non uccidermi? Come pensava che avrei
potuto
vivere, in quel caso?
«Mi dispiace».
Abbassai il viso. «Immagino che non
l’abbiate preso».
Lasciò cadere le braccia
lungo i fianchi. «No. È
riuscito ad attraversare il confine e a gettarsi in mare».
Prese un bicchiere
d’acqua dal comodino e me lo porse, dicendo che
l’irritazione sarebbe presto
scomparsa. «Alice e Jasper hanno parlato con i licantropi, ma
hanno detto di
non sapere nulla del piano di Jacob. Non ce l’hanno detto
esplicitamente, ma
crediamo che si sia come separato dal branco. Ha il potere di farlo,
dato che
lui è il vero alpha». Abbassò il viso
sulle mani. Le strinse a pugno. «Ci ha
ingannati, Bella. Jasper aveva ragione» disse mesto.
«Non era in casa, aveva
lasciato dei vestiti con il suo odore e un nastro su due frequenze che
emanava
i suoni che sentivamo tutti, e i suoi pensieri».
Sgranai gli occhi, scioccata.
«Come è possibile?»
«Vedrò come
spiegatelo in modo semplice». Ci pensò un
attimo. «Ecco, hai presente i fischietti per cani?».
Annuii. «Loro possono
sentire il suono del fischietto,
e noi no, perché l’orecchio umano non riesce a
sentirlo» commentai,
ricordandomi di una lezione di biologia.
Edward sorrise, un piccolo e breve
movimento. «Esatto,
solo che io non sono umano, io sono un vampiro. Lui ha notato che io,
che sento
i pensieri di tutte le persone, nel tempo, esercitando questo senso, ho
affinato il mio udito. Per questo solo io sentivo quella frequenza,
seppur
debolmente. Vedi, negli ultimi tempi deve averci studiati; ha curato
tutto il
piano nei minimi dettagli» concluse amaramente.
«È
orribile».
Annuì. «Appena
ci siamo accorti dell’inganno siamo
venuti da voi, ma non sentivamo più la vostra scia,
l’aveva coperta con il suo
odore, che si ramificava per tutto il bosco. Abbiamo girato a vuoto per
parecchio tempo; inutilmente tentavo di contattarti. Poi, ho sentito i
pensieri
di Emmett, lontani. E dopo poco tempo una coltre di fumo nero levarsi
per la
foresta. Jacob era arrivato a voi, attraverso un tunnel scavato in
precedenza,
lo stesso con cui sono arrivato da te».
Battei le palpebre, confusa.
«Ma… come faceva a sapere
dove saremmo andati per poi scavare il tunnel e organizzare
l’incendio?».
Edward sospirò,
allungando un braccio oltre le mie
spalle e stringendomi al suo petto. «C’erano delle
miniere, sotto le foreste. E
sei tunnel con dei binari, usati per trasportare la lagna. Molto tempo
fa,
comunque… in questi mesi deve averli risistemati. Ha usato tre
tunnel,
con tre possibili aree di influenza. Aveva il
controllo di tutta la
foresta, e anche se non fossi andata tu, avrebbe fatto prigioniero, o
peggio
ucciso, almeno uno di noi. Crediamo fosse questo il suo
scopo».
Ebbi un sussulto. Come avevo potuto
avvicinarmi ad un
essere simile?
«Mio padre?».
«A casa. Tranquilla, gli
hanno parlato Esme e Alice.
Hanno detto che sarebbe stato meglio non svegliarti, che ti saresti
riposata
qui. Che eravamo abbastanza lontani dal fuoco quando
l’incendio è scoppiato».
«E gli altri?
Emmett?» domandai, improvvisamente
spaventata. Avevo sentito degli schiocchi… Rosalie era
così ansiosa… Cercai di
ricordarmi se l’avevo visto quando gli altri Cullen avevano
fatto irruzione
nella mia stanza.
Edward mi sorrise.
«Emmett» lo chiamò, a voce bassa.
Due istanti più tardi
entrò nella stanza. «Sono tutto
intero, carina». Mi fece l’occhiolino.
«Oh, Emmett.
Grazie» biascicai, sollevandomi dal letto
per andargli incontro.
Finse scherzosamente di darmi una
pacca sulla spalla.
«Di niente. Allora, sorellina» fece sornione
«visto che ti ho riportato il tuo
principe azzurro?».
Mossi il capo di lato, infastidita
da quella voce
lontana.
«Bella! Ti prego, apri
gli occhi, non fare la bambina!»
Alice… e il suo ennesimo rimprovero.
Una voce più dolce e
melliflua, a cui solo
recentemente mi ero abituata. «Alice, forse dovremmo chiamare
Edward. È la
terza volta che sviene, non è normale». Rosalie.
«No, abbiamo
già chiamato Carlisle, il dottore c’è.
Bella non ha nulla, sta solo facendo i capricci»
protestò la piccola vampira. Sentii
dei colpetti sul volto. «Bella?! Lo so che mi puoi
già sentire. Insomma, ti
stai per sposare, e sembra che tu debba andare al patibolo!».
Ad un ennesimo colpetto mossi di
nuovo la testa.
«Non ha nulla che non va,
è solo l’agitazione. Al
massimo le posso fare un’iniezione di
ansiolitici…».
Spalancai gli occhi, sollevandomi
seduta, per poi
ricadere all’indietro colpita da un capogiro. «Sto
benissimo» biascicai.
Sentii Carlisle ridacchiare. Aveva
un’espressione
tranquilla sul viso. «Su Bella, non fare
così».
«Davvero Carlisle, non ne
ho bisogno» protestai
determinata. Mi massaggiai le tempie doloranti.
Mi aiutò a mettermi
seduta. «Va bene, come vuoi tu».
Realizzai in breve tempo quello che
poteva essere
accaduto. «E’ successo di nuovo?»
domandai titubante.
«Sì!»
esclamò Alice in tono accusatorio, facendo
scoppiare a ridere Carlisle. Era già la terza volta che
svenivo quella mattina.
Ogni volta che passavo davanti all’abito da sposa, ogni volta
che vedevo gli
inviti sparsi qua e là, ogni volta che vedevo gli addobbi
del corridoio del
piano superiore, gli unici che potessi ammirare, andavo
nell’ansia più totale.
Ma, il vero problema, era quando qualcuno pronunciava la parola
“sposa” ed io,
mi ricordavo del mio matrimonio.
E il ricordo del mio matrimonio,
portava al ricordo
che mio marito sarebbe stato presto Edward.
Ecco, dopo il ricordo di Edward,
non ricordavo più
nulla, solo il buio e due mani fredde che mi afferravano. Avevo i nervi
a fior
di pelle.
Mi mordicchiai il labbro inferiore.
«Lui non sa
niente, vero?!».
«Non ti preoccupare, lui
è lontano da qui. Se non vuoi
non gli diremo nulla» mi rassicurò Alice, tentando
di essere rassicurante.
Tuttavia, le leggevo in faccia l’impazienza.
«Sì, grazie!
Non ditegli nulla per favore. Se no poi
sapete com’è, si agita…e…
non voglio rovinare il giorno del nostro matrimonio
con tutte queste cose assolutamente stupide… come se non
avessimo già
abbastanza cose di cui preoccuparci… e mi rendo conto di
quanto sia stupido il
mio comportamento… se solo potessimo farne a
meno… fare a meno e andare avanti
e basta…».
Carlisle posò le sue
mani sulle mie, che si muovevano
frenetiche fra loro, bloccandole e facendole fermare, in un mio
sussulto. «Certo
Bella, calmati. Mi sembri un po’ troppo agitata. Sicura di
non volere i
calmanti?» mi chiese serio.
«Sì!»
mi affrettai a rispondere. «Davvero, ora mi
calmo… è che…».
«È
che?» m’incalzò Rosalie.
Quasi urlai.
«È che mi sto per sposare,
diamine!».
«Bella!»
sbottò Alice, smettendola di fare avanti e
indietro per la stanza di Edward. «Forza e coraggio, ancora
non abbiamo fatto
niente. E mancano solo tre ore e mezza! Dimmi se posso finalmente
cominciare a
truccarti e a farti l’acconciatura o se dobbiamo aspettare
che tu svenga ancora
una volta» mi accusò, puntandomi un dito contro.
Mandai gli occhi in gloria.
«Certo Alice, prevedo di
svenire ancora due o tre volte, che ne dici per le “undici e
mezza” a te va
bene? Oppure si può fare a “e
trentacinque”, come vuoi tu» la scimmiottai,
sarcastica.
Carlisle ridacchiò sotto
i baffi, tentando inutilmente
di nasconderlo.
Alice mi fulminò con lo
sguardo. «Tutti fuori» sbottò
dopo due secondi.
«Ma…cosa…
Non ti sarai mica offesa?» le chiesi
preoccupata.
Sospirò, facendo roteare
gli occhi. «Tutti fuori»
ribadii.
«Come vuoi,
Alice» fece Carlisle, sollevandosi dal
letto di Edward. «Mi raccomando, Bella, calmati».
Rosalie scrollò le
spalle, apparendo indifferente e un
po’ annoiata dalla situazione, come se non la toccasse
più di tanto.
Quando la porta fu chiusa alle loro
spalle, Alice
gridò «Tutti fuori da casa,
grazie».
Mi voltai verso di lei.
«Ma, Alice, cosa…?».
«Bella»
iniziò, seria, prendendomi le mani fra le sue,
minuscole, e sedendosi accanto a me sul letto. «Ora, mi dici
cosa c’è che non
va?».
Spostai lo sguardo, fuggendo dai
suoi occhi indagatori
e mordendomi il labbro. Non volevo rispondere.
«Sorellina,
ascoltami» mi prese il viso in una mano e
me lo fece girare, fino ad incontrare i suoi occhi che curiosi mi
squadravano. «Dimmi
cosa c’è che non va’. Perché c’è,
qualcosa che non va’». Fece una pausa.
«Sei felice?».
«Sì!»
mi affrettai a rispondere, non volendo esitare.
Prese un respiro, e si fece ancora
più seria. «Tutta
questa agitazione non centra niente con quello che hai detto a
Jasper?».
Corrugai la fronte, pensierosa,
tentando di ricordare.
Non riuscivo a capire a cosa stesse alludendo.
Improvvisamente sgranai gli occhi,
colpita da quel
ricordo. «Oh, no, Alice, no, no, no!» urlai,
portandomi le mani alla bocca,
scioccata, alzandomi dal letto e retrocedendo, spaventata.
«No, tu non puoi
pensarlo! Non è così! Diamine, non so neppure
come possa essermi venuto in
mente, è stato un momento, uno stupido pensiero
transitorio!».
Lei non parve sorpresa dalla mia
reazione. Si alzò dal
letto e avanzò piano verso di me, mantenendo comunque
qualche passo di distanza
«Bella. Io vedo Esme e Rosalie. Loro… hanno
Carlisle e Emmett, ma comunque
sentono che la loro esistenza è incompleta. Non è
come per me. Io non ne sento
la necessità, e…beh… pensavo che anche
per te potesse essere così…» concluse
malinconica.
Feci i tre passi che mi dividevano
da lei e
l’abbracciai. La sentii sussultare. «Ma
è così Alice, te lo giuro. Io amo
Edward. Cosa mi importa del resto?! Nulla. Io lo
amo…»
«Quindi, ti senti pronta
a rinunciare alla possibilità
di diventare madre?» chiese ancora, leggermente sollevata.
«Sì»
dissi decisa. Non volevo più che quell’argomento
venisse fuori. Mai più.
«E’ stato…?».
Non mi fece concludere la domanda,
che già mi aveva
risposto. «No, non è stato Jasper a dirmelo.
L’ho visto. Lui sicuramente si
starà sforzando per non pensarci, ti vuole bene
sai» mormorò, la voce
intenerita «anche se non te lo dimostra sempre, ti vuole
tanto bene».
Mi abbracciò ancora.
Restammo così alcuni minuti.
«Grazie»
sussurrai poi.
«Di cosa?».
«Di essere mia
sorella».
«Oh, andiamo, non fare le
smielata!» protestò,
staccandosi. Sospirò ancora. «Me lo vuoi dire cosa
c’è che non va?».
Abbassai gli occhi.
«Centra il
cane?» Fuoco.
«Hai paura?»
Colpita e affondata.
La sentii sospirare ancora.
«Non devi averne! Ascolta,
ne sono sicura, Edward è insieme a Jasper, Emmett e quelli
del clan di Denali.
Tu sei ben protetta insieme a noi. I licantropi stanno facendo dei
turni di
guardia nel territorio. Ce lo devono. Abbiamo anche spostato il
matrimonio in
chiesa!».
Già, quella era una
novità. Questa volta, realizzando
che Jacob poteva realmente rappresentare un minaccia, tutta la famiglia
si era
mobilitata per far andare tutto per il meglio. Esme aveva
trovato una bella
chiesetta in cima ad una collina, vicino Forks, a cui si accedeva
attraverso
una porticina stretta in fondo alla valle per poi proseguire in un
lungo
corridoio di pietra. Jacob non sarebbe potuto arrivare a me in forma di
licantropo, e se si fosse anche solo avvicinato in forma umana, i miei
angeli
custodi ne avrebbero subito sentito l’odore. Poi, il
rinfresco si sarebbe
svolto all’interno di casa Cullen, con le meravigliose
vetrate aperte che
davano libera visione a tutto il paesaggio.
Tutto il piano era stato progettato
per la mia
serenità, che purtroppo era scomparsa ieri, non appena
Edward si era
allontanato da me per ordine di Alice.
«Fidati di noi e tutto
andrà bene» mi assicurò mia
sorella.
Alzai lo sguardo, fino ad
incontrare i suoi occhi. «Va
bene Alice» acconsentii. Come se potessi fare altro.
Dopo circa cinque minuti Rose e
Alice erano nuovamente
all’opera su di me. Mi lasciai strapazzare come una bambola,
mentre ripensavo
alla conversazione che avevamo avuto io e Alice. Quella stupida storia
di
diventare madre stava andando troppo avanti. Avevo commesso un errore,
ne ero
consapevole, ma perché il destino, invece di aiutarmi a
mettere una pietra
sopra, infieriva su di me? Era qualcosa di estremamente ingiusto.
Era ingiusto, anche
perché, proprio ora che tutto era
diventato perfetto con Edward, l’amore della mia vita, che
aveva persino
acconsentito al mio piano e a trasformarmi, il mio migliore amico
rovinava
tutto. Anzi, il mio ex-migliore amico. Dopo quello che mi aveva detto
Edward,
di come aveva curato il piano pur di anche solo uccidere un membro
della mia
famiglia, capii che quella volta, davvero, non potevo proprio
più tornare
indietro. Nemmeno la più piccola parte di me poteva
perdonarlo. Non solo ero
diventata totalmente insensibile nei suoi confronti, mi trovavo anche a
pregare
perché non esistesse più.
Mi sentii scuotere.
«Bella. Va bene, concordo con te,
restarsene imbambolati è meglio che svenire, ma ora mi fai
il piacere di
prestarmi attenzione cinque minuti, così che io ti possa
infilare il vestito?».
Alice sventolava a poche spanne da me una spazzola per capelli, con
fare
minaccioso.
Trasalii. «Mh.
Sì» mi sollevai in fretta dalla sedia
del bagno, per poi bloccarmi a mezz’aria quando mi venne in
mente qualcosa. «Non
si rovinerà se lo metto ora? Non mi vorrai mica far rimanere
in piedi e ferma
per tre ore, spero» mi lagnai.
Lei mi guardava scioccata.
«Bella?! Sveglia, sono le
nove e mezza, fra un ora ti…» i suoi occhi si
fecero un attimo lontani, per una
visione «oh, no eh, non svenire di nuovo, guai per
te!».
Mi aggrappai a lei barcollante,
deglutendo. «Fra
un’ora mi sposo?» chiesi con un
filo di voce.
«Sì,
decisamente» disse, scuotendo il capo con
disappunto e trascinandomi in camera di Edward, mentre io, inerme, la
lasciavo
fare.
Lì Rose e Alice
m’infilarono il vestito, attente a non
rovinarmi trucco e acconciatura.
Poi, sentii una voce che da
decisamente troppo
tempo non sentivo dal vivo!
«Mamma…»
mormorai commossa mentre lei mi correva
letteralmente incontro, con il solito infantilismo che la
caratterizzava.
«Tesoro, mi sei mancata
davvero tanto!» esclamò,
fermandosi ad un metro da me. Ero rimasta ferma con le braccia aperte,
pronta
ad accoglierla. «No, non ti abbraccio, non se ne parla. Non
voglio rovinarti
l’abito… Sei davvero, davvero stupenda, Alice, hai
compiuto un miracolo, vedo
un angelo qui di fronte a me, e l’abito, oh,
l’abito è semplicemente magnifico!».
Capii, dalla sua voce incrinata, che stava per piangere. Infatti, poco
dopo,
singhiozzò. «Oh, la mia piccola si
sp…».
«No!»
strillarono in coro Rose e Alice.
Mia madre le fissò
sorpresa, mentre loro le facevano
gesti e si sbracciavano per impedirle di continuare la frase.
«Emm, Reneé,
vuoi che ti faccia un’acconciatura? Io
devo andare ancora a cambiarmi, possiamo andare di là, in
camera mia…» fece
Rosalie evasiva, prendendola per una mano e trascinandola via.
«Oh. Okay»
rispose confusa mia madre, scomparendo
dalla mia vista.
Sospirai.
«Bella.
Ascoltami» mi chiamò Alice, «stattene
buona,
buona qui immobile e non fare niente. Io, praticamente, ci metto poco
più di
tre minuti a cambiarmi e sistemarmi, riesci a rimanere ferma e
tranquilla?».
Annuii, incapace di parlare,
imbambolata, ferma al centro
della stanza.
Come promesso, dopo tre minuti fu
da me. O almeno
credo fossero passati tre minuti. Ormai, non pensavo più a
nulla, la mia mente
era come svuotata, me ne ero stata immobile, senza neppure sbattere le
ciglia.
Alice indossava un meraviglioso
abito di chiffon
giallo, mentre i capelli erano fermati sui lati con due graziosissimi
nastrini
dello stesso colore. Era davvero stupenda.
«Sei…sei
bellissima…» squittii, squadrandola, gli
occhi spalancati.
Lei sfoderò uno dei suoi
meravigliosi sorrisi. «Grazie,
ma tu di più».
Un istante dopo entrarono in camera
mia madre e
Rosalie, che ferì la mia autostima più di quanto
non avesse già fatto Alice,
mentre io me ne stavo ancora immobile a fissare il vuoto.
«Tesoro? Non ha una bella
cera…» commentò mia madre.
«Non si preoccupi
Reneé, è tutto sotto controllo. E’
normale che sia così. Ora si calma, vero?!».
«Ma la mia preoccupazione
è proprio questa, è troppo
calma» disse sventolandomi una mano davanti agli occhi
«Bella, mi senti?».
Mi riscossi un attimo, sobbalzando.
Annuii
impercettibilmente.
Alice mi fissò il velo
sui capelli e mi ritrovai a
fissare tutto attraverso una rete intrecciata di fili
d’organza. Dopo due
istanti, mi ritrovai un bouquet fra le mani, e Charlie di fronte a me,
che
sorrideva imbarazzato. Poi baci, mani, fredde e calde, forse camminai
anche.
Poco dopo, senza che neppure me ne
rendessi conto, mi
ritrovai seduta su un sedile in pelle, lo spazio intorno a me ampio, e
il
tettuccio imbottito. Ero nella limousine!
Accanto a me, mio padre sembrava
molto impacciato, si
rigirava le mani, non sapendo cosa dire.
«P…papà?»
lo chiamai titubante, deglutendo. Lui mi
fece un sorriso tirato. Notai che aveva i lucciconi agli occhi.
«Oh,
papà!» esclamai, portandomi una mano alla bocca
per nascondere un singhiozzo che mi pervase comunque il petto.
«Bells, non piangere,
altrimenti Alice ce l’avrà a
vita con me, per averti fatto rovinare il trucco» disse
Charlie, la voce
evidentemente commossa.
«Beh…»
dissi asciugandomi con delicatezza la lacrima
che era sfuggita dai miei occhi «credo abbia usato del trucco
resistente
all’acqua…».
Il vetro divisorio fra posto di
guida e i sedili si
abbassò, facendo comparire Emmett alla giuda della macchina.
«Bella, mi sembra
di poter sentire il tuo cuore anche da qui!»
sghignazzò.
Mio padre ridacchiò di
quella che sembrava potesse
essere una battuta. Io deglutii, tentando di calmarmi, ma inutilmente.
Non mi
parvero davvero, neppure essere passati, quei minuti, che
l’auto si fermò.
L’agitazione era cresciuta a livelli esponenziali, fino a
raggiungere il limite
massimo.
Ebbi un sussulto, quando mio padre
aprì la portiera
dell’auto e con una mano mi invitò a scendere.
Sentivo le mie gambe immobili.
Sembrava che per nessun motivo al mondo volessero obbedire ai miei
ordini. «Papà,
ti prego… Reggimi tu» farfugliai.
Dovette rispondermi con parole di
conforto, che
comunque con sentii. Sentivo le orecchie fischiare, i suoni mi
giungevano
lontani, ovattati. Se avesse proceduto ancora a quel ritmo sostenuto,
presto,
il mio cuore, mi sarebbe uscito dal petto.
Fui colpita dai debolissimi raggi
del sole, non più
protetta dall’ombra dei vetri oscurati. Dinanzi a me, sentivo
provenire un
mormorio di voci. Doveva essere la mia famiglia. I miei piedi si
muovevano per
l’inerzia del mio corpo, mentre, non del tutto responsabile
delle mie azioni,
mi avviavo verso la chiesa.
Edward, Edward,
Edward. Edward,
mio marito.
Mi sentii quasi soffocare, e capii che non stavo più
respirando. Mi
accorsi che mio padre mi stava guardando allarmato, così
presi un bel respiro
lungo, con il naso, concentrandomi sullo scalpiccio dei passi sulla
ghiaia.
Tutti gli alberi intorno alla chiesetta erano stati addobbati con dei
fiocchi e
dei nastri, piacevoli, ma non eccessivi. Solo venti metri mi separavano
dalla
scalinata della chiesa. Passi, passi, passi. Toc, toc, toc
facevano i
miei tacchi sul suolo.
Poi, il rumore prodotto dai miei
piedi mi giunse più
sommesso e lontano. Capii che stavo calpestando il tappeto rosso.
Contemporaneamente, accaddero due
cose, la marcia
nuziale partì, e io sbiancai.
Alice, con un leggero svolazzamento
del vestito,
s’incamminò, avanzando mollemente sui piedi.
Notando che restavo immobile, mio
padre mi diede un leggero strattone. Mi riscossi e cominciai a salire i
gradini, sollevandomi la gonna, piano, con tutta la lentezza che potevo
permettermi. Sentivo che il respiro mi usciva incostante dalla gola,
opera del
mio cuore che da troppo tempo faceva gli straordinari. La marcia
nuziale andò
sempre più rallentando, finché non arrivai
sull’ultimo gradino, e lo vidi.
In tutto il suo immenso splendore,
Edward mi guardava,
perso nei miei occhi.
Le sue iridi erano completamente
dorate, chiarissime,
quasi liquide. Il volto etereo risaltava, splendendo della sua
bellezza. Il suo
corpo era fasciato da uno smoking nero, con una fascia di seta bianca
sulla
vita. Era una spettacolo divino.
Sentii le guance imporporarsi e gli
occhi, quasi a
volermi oscurare la visione di quel miracolo, si appannarono di lacrime.
Sentivo una potentissima attrazione
verso di lui. Di
nuovo, mi ritrovai nelle mia personale bolla, senza avere la cognizione
di
come, dove, quando o cosa stessi facendo. Sapevo solo che, questa
volta, nella
mia bolla, c’era Edward, insieme a me.
Mi sembrò quasi di
veleggiare, ma quando, finalmente,
sentii il contatto con la sua pelle freddissima la bolla si ruppe
improvvisamente, catapultandomi nella realtà. Accanto al mio
Edward.
Mi sorrideva raggiante, in tutta la
sua
incomprensibile bellezza. Mi persi completamente nella
profondità dei suoi
occhi, considerando che solo quello nell’universo aveva
importanza in quel
momento, e lo sapevo, per lui era lo stesso.
«Isabella
Swan…» mossi il capo verso il pastore Weber,
quando sentii quelle parole, e, quando una goccia mi cadde sulla mano,
capii
che avevo le guance inondate di lacrime.
«Sì, lo
voglio» la mia voce era uscita rotta dalla
commozione e dal pianto, ma allo stesso tempo, non poteva davvero
essere più
determinata di così.
«Sì, lo
voglio» quella frase, pronunciata con la
meravigliosa voce di Edward, sembrò del tutto diversa dalla
mia, ma con la
stessa intenzione e intensità, che può unire solo
due amanti di un amore vero.
La mia mano tremante, non so per
quale miracolo,
adempii immediatamente al primo tentativo di infilare la fede al dito
del mio
amore, mentre con estrema eleganza la teneva posata sulla mia.
E così, con il mio
stesso gesto, e con le parole che
servivano per unirci per sempre, agli occhi di tutti, io e Edward ci
sciogliemmo l’uno nel volto dell’altro.
Capii che ero stata una folle a non
accettare prima la
sua proposta, perché quello, e lui l’aveva sempre
saputo, sarebbe stato un
momento magico per noi, il coronamento del nostro immenso amore, il
nostro
giuramento eterno.
«Edward Anthony Cullen e
Isabella Marie Swan, vi dichiaro
marito e moglie».
Si levò un applauso per
tutta la chiesa, ma io,
contrariamente a quanto avrei fatto in qualsiasi altro caso, non
arrossii. La parte
più maliziosa di me stava aspettando le parole del prete.
«Ora, può
baciare la sposa».
Con il suo sorriso, quello, che
ormai io chiamavo
“nostro”, mi sollevò con estrema grazia
il velo e si avvicinò, senza più
aspettare, alle mie labbra.
Inaugurammo una nuova,
entusiasmante, danza,
sfamandoci uno dell’altro, del bisogno che sentivamo di
sentirci uniti.
Quando si staccò da me,
anche se le orecchie mi
fischiavano, potei sentire gli applausi e i fischi di compiacimento che
venivano dal nostro pubblico.
Avvampai violentemente, mentre
Edward, prendendomi la
mano, mi faceva voltare verso i nostri parenti e amici.
«Ti amo, Bella
Cullen» disse con un sorriso
smagliante.
«Ti amo, Edward
Cullen» risposi con le stessa
esplosiva gioia.
Mi sorrise beffardo, stringendomi a
sé. «Pronta?».
«Pronta a
cosa?» chiesi spaesata.
«A questo!»
gridò entusiasta, correndo per la navata,
ed io, felice come mai ancora ero stata nella mia vita, mi feci
trascinare,
sollevandomi l’enorme gonna con la mano libera.
Usciti dalla chiesa, fummo
investiti da una valanga di
riso e confetti bianchi.
Poi, mi ritrovai nella limousine,
le labbra di Edward
incollate alle mie.
-E’ così, ora sei la signora
Cullen…- mi mormorò Edward
all’orecchio, facendomi arrossire
Capitolo riveduto e
corretto.
ATTENZIONE!
Per leggere questo
capitolo nella sua versione originale (estesa e da rating rosso) si
può andare
qui.
Personalmente consiglio
questa versione, neppure troppo erotica.
In ogni caso, la seguente
è quella da rating arancione:
«E’
così, ora sei la signora Cullen»
mormorò Edward al
mio orecchio, facendomi arrossire.
Abbassai il viso imporporato sulle
gonne. «Già»
risposi timida.
Le sue labbra si incollarono ancora
una volta alle
mie, sorprendendomi.
«Come stai?» mi
chiese dolce e sereno, accarezzandomi
una guancia.
Corrugai un attimo le sopracciglia,
presa alla
sprovvista. «Benissimo. Siamo sposati…»
dissi emozionata, baciandolo ancora. E
niente era andato storto… almeno per ora.
«Mi riferivo a questa
mattina» continuò lui,
sorridente.
Sgranai gli occhi. Poi capii.
«Mia madre» sibilai,
nascondendomi il volto fra le mani. Sicuramente lei non aveva fatto
attenzione
ai suoi pensieri, e Edward ci aveva facilmente letto lo stato
d’agitazione in
cui ero stata per tutta la mattina.
Lo sentii ridacchiare,
così non potei fare a meno di
guardarlo di nuovo in faccia, per godermi tutta la sua bellezza.
«Sai, anch’io
ero molto nervoso» ammise, prendendomi le mani fra le sue.
Lo fissai perplessa.
«Tu?».
Sospirò, avvicinandosi
con il volto al mio. «Sì, oggi
ho sposato un angelo. Sei meravigliosa».
Arrossi inevitabilmente per quel
suo complimento.
«G…grazie. B…beh, il meritò
sarà tutto di Alice… e… e
poi… anche tu… sei
stupendo…» balbettai, mordicchiandomi il labbro.
Lui si avventò ancora
sulle mie labbra, liberandole
dai miei denti. «Il merito di Alice è solo quello
di aver mostrato ancor di più
quanto sei bella» mi alitò, a due centimetri dalla
bocca. Sentivo il cuore
esplodermi ancora una volta nel petto.
Poi, ci baciammo ancora, mai sazi
di quelle
sensazioni.
Ad un tratto Edward aprì
al portiera e scese. Non mi
ero accorta del fatto che l’auto si fosse fermata. Mi porse
la mano e mi invitò
a fare lo stesso, così, mi sollevai la gonna con una mano e
con l’altra mi
appoggiai a quella di Edward.
Appena uscita dalla limousine, mi
sentii accecare da
mille flash fotografici. Neanche fossimo dei divi di Hollywood. Alice
aspettò
che prima ci torturassero un po’ con le foto, per poi riunire
tutti gli
invitati ed invitarli ad entrare nel salone di Casa Cullen. Nel salone
si
diffondeva una deliziosa melodia, suonata da un quartetto
d’archi.
Mio padre, mia madre e Phil vennero
a congratularsi
con noi, e io li abbracciai e li baciai, pur rimanendo sempre attaccata
a
Edward. Poi, fu il turno della mia nuova famiglia, quella con cui avrei
condiviso l’eternità. Alice tardò un
attimo ad arrivare: si stava accertando
che i camerieri servissero con correttezza i cocktail.
«Vuoi un
cocktail?» mi chiese Emmett, porgendomi un
bicchiere pieno di liquido colorato.
«No grazie,
passo» Mi sentivo lo stomaco pieno. Di
farfalle.
Rosalie ridacchiò,
insieme a Esme e Carlisle. «E’
meglio che Bella non beva alcolici» disse lui, facendomi
arrossire e ripensare
a com’ero agitata quella mattina.
Edward non si unì al
coro di risate, ma si voltò verso
di me, a baciarmi ancora. Mi pareva così naturale, ora, per
niente
imbarazzante.
Poi, da noi vennero i miei amici.
Angela e Jessica
avevano sicuramente pianto, si vedeva dai loro occhi arrossati. Mike
era un po’
nervoso, invece Ben era contento, accanto a Angela.
Subito dopo, fu il turno di quelli
del clan di Denali.
Edward mi presentò ai suoi amici.
«Irina, Kate, Carmen,
Elazar e Tanya» li guardai
tutti, uno per uno. Erano stupendi, e tutti gli altri umani nella sala
creavano
quasi inconsciamente una bolla di spazio intorno a loro.
«Sei davvero carina
Bella. Edward ha fatto un’ottima
scelta» quel commento, giunto con quella voce dolce di Tanya,
non me lo sarei
mai aspettato.
«G…grazie…»
balbettati arrossendo. «Per tutto»
aggiunsi, in riferimento al fatto che si erano messi a nostra
disposizione
contro Jacob.
«Noi l’avevamo
detto che i licantropi non sono
affidabili» disse quella che mi sembrava Edward avesse
chiamato Kate.
Elazar rabbonì
l’aria con una risata, cambiando
discorso «E comunque, ci dispiace davvero tanto di non essere
intervenuti
durante la battaglia. Siamo stati degli sciocchi».
«Oh, non ve ne
preoccupate, tutto è andato bene, ed è
questo quello che conta».
Mentre Edward parlava, scovai il
lontananza la mia
amica Amber, che se ne stava in disparte, a braccetto con quello che
capii
subito essere Lucas, il suo fidanzato. Mi sbracciai per salutarla, e le
feci segno
con una mano di avvicinarsi. Quando mi notò sul suo volto
comparve un ampio
sorriso e strattonò il suo fidanzato verso di me. Edward
intanto si era
congedato dal clan di Denali.
«Bella!»
esclamò stritolandomi nella sua morsa.
Ridacchiai, tossicchiando, tentando
di liberarmi dalla
sua presa.
Si staccò immediatamente
quando vide che stavo per
soffocare «Oh, scusa, ti sto stritolando!».
«No, non ti
preoccupare» ansimai riprendendo fiato.
Mi presentò il suo
fidanzato e io gli presentai
Edward, che gli strinse la mano con cortesia. Mi sembrava un tipo
timido e
riservato, aveva le mani sudate per l’imbarazzo.
Finito con gli auguri e le
congratulazioni, il momento
aperitivi declinò deliziosamente in un buffet. Alice fece
sedere me e Edward al
centro della sala, ad un tavolo tondo coperto da una tovaglia addobbata
con
nastri e merletti. Ma, davvero, passava il secondo piano, in confronto
al
meraviglioso volto di Edward che mi sorrideva raggiante, stringendomi
la mano
fra le sue. Lo baciai ancora, prima di essere nuovamente interrotta da
un flash
fotografico. Tutti volevano parlare con noi, dirci qualcosa di
importante, che
poi davvero importante non era, ma io volevo solo rimanere sola con
Edward. Non
mangiai nulla, nonostante le sue insistenze. Non me la sentivo, ero in
fibrillazione, troppo felice in quel momento.
Poi, Alice, dopo aver fatto
disporre in fila le
ragazza nubili, mi chiamò per lanciare il mazzo di fiori.
Mentre Edward mi
rivolgeva un sorriso incoraggiante, lanciai con entrambe le mani i
fiori all’indietro,
e questi andarono a finire in testa alla povera Angela.
«Oh, scusa!»
dissi portandomi le mani alla bocca,
impacciata, mentre tutti gli invitati ridevano; lei compresa.
Successivamente avvenne una cosa
molto più
imbarazzante. Tutti gli uomini, a partire da Emmett e Jasper,
cominciarono a
battere le mani. Edward mi venne accanto, con un sorriso, mentre io,
capendo
cosa stava succedendo, avvampai fino alla radice dei capelli. Lui, con
estrema
disinvoltura e delicatezza, si piegò sulle gambe, alzandomi
un poco la gonna,
per consentire alle sue mani di avventurarsi sotto il tulle. Mi sentii
esplodere il cuore nel petto, e, quando Edward strinse con estrema
delicatezza
la mia gamba con una sua mano fredda, mi dovetti sorreggere a lui per
non
cadere.
Poi, lo fece. Mi rivolse un
sorrisino malizioso, e
inoltratosi con la testa sotto la mia gonna, mi lasciò un
bacio sulla coscia,
facendomi fremere, per poi prendere un lembo di giarrettiera fra i
denti. Fra
gli strilli e gli applausi della folla, me la sfilò dalla
gamba, e la fece
volare in faccia a Mike Newton.
Quando si voltò verso di
me mi rivolse un sorrisino
malizioso, facendomi diventare più rossa di quanto
già non fossi.
«Eh-eh, fratellino, visto
niente?» scherzò Emmett tra
le risate di Jasper. Ricevettero uno scappellotto a testa,
rispettivamente da
Rosalie e Alice.
Mentre io me ne stavo ancora mezza
sconvolta e
imbambolata, notai distrattamente che tutti gli invitati si stavano
muovendo
verso i lati del salone, lasciandoci soli al centro della stanza. La
musica
cambiò, rallentando il ritmo ed adattandosi ad una nuova
atmosfera. Guardavo
Edward, rapita dal suo sguardo, mentre lui mi teneva stretta a
sé, ricambiando
il mio stesso sorriso intriso di gioia.
Sapevo cosa dovevo fare in quel
momento, e in qualsiasi
altra circostanza mi sarei opposta con tutte le mie forze. Ma non
quella volta.
Quella volta, io ballavo tra le braccia di Edward, mio marito. E
volteggiando
mi sembrava quasi di volare, sorretta dalle luminose ali bianche che
Edward
portava con sé, e nulla mi poteva sembrare migliore. Era un
momento magico, il
più bello che avessi mai vissuto.
Edward mi baciò una
guancia, asciugandomi una lacrima
e mi accorsi che stavo piangendo.
«Sei felice
amore?» mi chiese dolcemente.
«Sì»
risposi in un sussurro.
Il suo sorriso si
allargò. «Allora perché
piangi?»
Posai il capo sul suo petto. Dove
volevo che fosse per
l’eternità. «Perché sono
troppo felice» mormorai, la voce rotta dal pianto.
La sua, invece, divenne soave.
«Spero che non ti
accontenterai mai della felicità, perché io non
mi accontenterò mai di
dartela».
«Oh,
Edward…» ansimai, facendo cadere altre lacrime, e
sporgendomi per farmi baciare.
Anche Carlisle e Esme, Alice e
Jasper, e Rosalie e
Emmett si unirono alla pista. E a seguire più o meno tutti
gli ospiti. Anche
mia madre con Phil.
Ballai quindi, anche con mio padre,
con Emmett, mentre
Edward volteggiava insieme a Rosalie, e con Carlisle. Mi stavo
divertendo da
matti, tutta l’agitazione della mattina sembrava come
svanita. Emmett mi faceva
ridere in continuazione e Alice si muoveva per tutta la stanza sui
tacchi
correndo qua e là con estrema grazia. Ovviamente, quando
potevamo, io ed
Edward, non esitavamo a scambiarci una carezza, un bacio, o
semplicemente uno
sguardo.
Poi fu la volta della torta. Una
meravigliosa torta a
tre piani che faceva bella mostra di sé su un tavolino
adibito appositamente.
In cima, una coppia di sposini identici a me e Edward. Ovviamente ad
Alice
piaceva fare le cose in grande stile. Ci fece mettere in posa per
tagliarne una
fetta. Edward mi stringeva da dietro, e con una mano sulla mia,
impugnavamo il
coltello. Mi feci imboccare da lui, che sotto il mio sguardo
sbalordito, mangiò
il suo pezzo di torta, che gli porgevo con il cucchiaino. Poi, bevemmo
lo
champagne, con le braccia intrecciate, folgorati da un nuovo flash.
Jasper
venne a rapirmi per riaprire le danze con lui, mentre Edward
magicamente sparì
per cinque minuti.
«Grazie di tutto Jasper,
ti voglio bene» confessai,
ricordandomi delle parole di Alice quella mattina.
Mi lasciò un leggero
bacio sulla guancia. Restai un
po’ scossa. Mai aveva compiuto un gesto del genere nei miei
confronti.
«Anch’io, Bella» fece, lasciandomi
andare, per poi farmi ritrovare a
volteggiare insieme a Edward.
«Mi sei mancata Signora
Cullen» disse raggiante.
«Anche tu».
Arrossii, per quello che stavo per dire.
«Voglio stare con te. Sola».
Lo sentii ispirare profondamente.
Sollevai lo sguardo
per fissarlo negli occhi. Era preoccupato.
«Non avrai cambiato idea,
spero».
Scosse il capo. Deglutii.
«Sai che te l’ho promesso
più volte».
«Allora?»
domandai impaziente.
Mi fece un sorriso nervoso.
«Allora, questo non toglie
che io possa essere agitato».
«Ansia da
prestazione?» scherzai, tentando di
sdrammatizzare.
Ridacchiò.
«Diciamo di sì».
Chinai il viso, arrossendo.
«Sai, dovrei essere io
quella nervosa, credo. Con la questione della prima volta e tutto il
resto»
borbottai, sollevando gli occhi al cielo, rossa in viso.
Quando riportai lo sguardo su
Edward stava sorridendo
dolcemente. «Farò del mio meglio. Te lo
prometto» disse Edward sorridendomi e
arrendendosi, finalmente.
Annuii, felice. «Lo
so». Tutto era ormai deciso.
In quel momento, notai qualcosa che
mai avrei voluto
vedere. Alice aveva lo sguardo perso nel vuoto; fissava dinanzi a
sé, con un espressione
terrorizzata e rabbiosa.
Mi voltai velocemente verso Edward,
in un istante che
parve durare un’eternità, e vidi un espressione
seria sul suo viso, senza più
il sorriso che lo aveva contraddistinto per tutta la sera. Sentii tutta
la
stanza girare troppo velocemente, non più a ritmo dei nostri
passi, e sentii le
ginocchia cedermi.
Edward mi afferrò dal
bacino, repentino, prima che
potessi cadere a terra. Immersi il volto nel suo petto, respirando il
suo odore
e riacquisendo lucidità, mentre aspettavo che tutto tornasse
di nuovo immobile
e al suo posto.
Non gli avrei permesso di rovinare
il mio matrimonio.
Io, ero, felice. La paura, che in
quei pochi istanti mi aveva sommersa, fu prepotentemente scacciata via
da me.
Fortunatamente, mi accorsi che quasi nessuno degli invitati aveva
notato il mio
momento di debolezza.
«E’ solo un
capogiro. Forse è colpa dello champagne…
ho ballato troppo» dissi a Edward, abbozzando un sorriso.
Sapevo benissimo che
quelle parole non erano vere. E anche Edward lo sapeva, ma in quel
momento
nulla avrebbe rovinato la nostra felicità.
«Probabilmente
è come dici tu, tesoro» rispose
infatti, anche se con poca convinzione. Mi sentii trasportare via dalla
pista
da ballo. «Forse è meglio se ti siedi un
po’».
«Sì, hai
ragione». Mi adagiò su una sedia e mi diede
un bicchiere d’acqua. «Grazie» sussurrai
a Edward, bevendo, mentre la testa
smetteva di girarmi.
Lui si sedette sulla sedia dinanzi
a me. «Va meglio?»
mi chiese, anche se il suo sguardo era distante.
«Sì, non ti
preoccupare» gli accarezzai la guancia «te
l’ho detto, è stata colpa dello
champagne».
Carlisle e Alice ci vennero vicino.
Potevo notare, in
tutta la stanza i vampiri schierarsi, i Cullen e i Denali.
«Edward, non ti
preoccupare per ora» disse Alice
risoluta «è stato solo un momento di buio. Ma era
lontano, molto lontano. Non
vuol dire nulla».
Dunque non ci doveva essere nulla
di cui preoccuparsi
in quel giorno per noi magico. Nulla.
«Non è
necessario agitarsi. Sta andando tutto bene»
continuò Carlisle, fissandomi con uno strano sguardo, come
in attesa che da un
momento all’altro cominciassi a urlare o a piangere come una
disperata.
«Edward…»
lo richiamai debolmente.
«Sì?»
fece, voltandosi di scatto. Mi sentivo di nuovo
benissimo.
Accennai un sorriso.
«Torniamo a ballare?».
Sospirò, sorridendo a
sua volta. «Certo».
Ci ritrovammo ancora sulla pista da
ballo, a
volteggiare.
La festa durò molto
tempo. Si era fatta sera, quando
Alice venne a disturbarmi di nuovo. «Sorellina, devo
ammetterlo, sei davvero
stata bravissima» la ringraziai.
«Finalmente ammetti che
la mia non è stata tutta
fatica sprecata. Sono contenta che apprezzi, anche
se…». Mi fece uno sguardo
strano.
«Anche se?»
chiesi curiosa.
«Mi ringrazierai ancor di
più, più tardi». Era malizia
quella che leggevo nei suoi occhi? «E non solo me, anche Esme
e Rosalie direi…»
«Ma di cosa stai
parlando, Alice?» chiesi spaesata,
quasi preoccupata.
Mi liquidò con un
«Lo scoprirai presto!», spingendomi
accanto a Edward.
Lui mi prese per mano.
«Pronta?» mi chiese.
Mi preoccupai un attimo.
«Altra corsa?».
Rise di gusto.
«Sì, ma stavolta ti porto io!».
«Cosa…? Oh,
no, no!» protestai tra le risate,
scalciando, mentre Edward mi prendeva in braccio e mi portava nella
Aston
Martin, attraverso l’ingresso di casa, illuminato da mille
lucine bianche e tra
gli applausi della folla.
Mi chiuse dentro e velocemente
entrò dal lato del
guidatore. «Allaccia la cintura».
«Dove mi
porti?» chiesi curiosa.
Prese la mia mano con la sua a
velocità vampira, la
baciò e diede gas. «A stare per sempre con
me».
Arrossii, lasciandomi andare contro
il suo petto.
L’ansia e
l’agitazione, che non avevo mai provato fino
a quel momento per quello che avremmo vissuto insieme, comparvero
prepotentemente in me. Anche Edward mi parve piuttosto teso. Mentre mi
teneva
stretta a sé i suoi muscoli erano irrigiditi. Non che di
solito fosse morbido,
comunque.
Il viaggio fu brevissimo, per
quanto potevo vedere
attraverso il buio; eravamo rimasti sempre vicini al limitare del
bosco. In
poco tempo ci ritrovammo in uno spiazzo tra gli alberi, completamente
verde e
poco visibile nei suoi particolari ai miei occhi, considerando la
scarsa
quantità di luce. Al centro, illuminato dalla debole e fioca
luna di alcune
candele, riuscivo a vedere a malapena una costruzione in pietra,
estremamente
romantica e pittoresca. Un piccolo nido d’amore.
Mi voltai verso mio
marito - ancora dovevo
abituarmi a chiamarlo così - e notai che mi stava fissando
ansioso. «Ti
piace?».
«Ti amo»
risposi solo.
«Ti amo
anch’io», disse lui, prendendomi per mano e
trascinandomi
delicatamente all’interno.
Dentro era anche più
bello. Tutto era illuminato da
deboli lucine, come di lucciole, e tutti i muri erano drappeggiati di
tessuti
coperti da tantissimi brillantini luccicanti. Alle pareti vi erano
appesi tutti
i miei quadri, compresa la cortigiana. Mi concentrai a fissarli uno per
uno e
quando mi voltai, mi accorsi che al centro della stanza vi era un
enorme letto
a due piazze a mezzo, sommerso da cuscini e avvolto da una nuvola di
tulle.
Era tutto davvero stupendo. Ecco
cosa intendeva Alice…
«È…
magnifico…» biascicai quasi senza fiato.
«È la nostra
casetta dorata» mi rispose,
semplicemente.
Mi voltai a guardarlo negli occhi.
Eravamo solo io e
lui, rinchiusi nella nostra casetta dorata. Tutto intorno a me
brillava: le
tende, i tappeti, le coperte, pesino i muri e…il
letto. Ma la cosa che
brillava di più, con la luce che si rifrangeva dai
brillantini su di lui, in
uno scambio continuo e costante di luce, era il mio amato. Mio marito, Edward.
Dolcemente, avvicinò la
mia mano alla sua bocca,
baciandola, e facendo affiorare un dolce, semplice sorriso sulle sue
labbra. Mi
sarei aspettata di arrossire, di avere il respiro corto, e il cuore che
batteva
all’impazzata, ancora agitata, pensando a cosa sarebbe dovuto
accadere di lì a
poco.
Ma non fu così, o
almeno, non subito. Prima, ebbi il
tempo di perdermi completamente nel suo sguardo, nei suoi occhi ambra
chiaro, e
capire che niente in quel momento poteva essere paragonato a quello che
avrei
vissuto, a cominciare dalla mia prossima azione.
In quel gesto appunto, accadde
qualcosa di
straordinario, come la prima volta che lo baciai, fui presa da un
immenso
impeto d’amore, e da una passione che aspettava solo di
essere corrisposta.
Così, feci un ampio passo verso di lui, ritrovandomi
completamente schiacciata
al suo petto. I nostri respiri si trasformarono in ansiti, e
così lui, con la
mia stessa passione, incollò con un repentino movimento le
mie labbra alle sue.
Piano, poi, passò la
bocca sulla mia, per poi fare
qualcosa di mai sperimentato: in un sospiro, aprì le sue
labbra, facendo
compiere lo stesso gesto alle mie, schiave della sua bocca; poi,
insinuò, con
infinita dolcezza e altrettanta passione, la sua gelida lingua fra i
miei
denti, al che risposi con lo stesso abbraccio, reclinando il capo.
In tal punto, ritrovai le mie
membra, aggrovigliate
alle sue, e le sue alle mie, e prima che me ne rendessi conto, ero
distesa sul
letto, supina, con Edward su di me, posato sugli avambracci per non
gravare con
il suo peso.
Le sue labbra erano a due
centimetri dalle mie, e ci
misero poco a ricominciare la loro danza.
I respiri si erano trasformati in
ansiti, sia per me
che per lui; il cuore mi martellava furioso nel petto, e il mio viso
aveva
assunto un color cremisi, non per l’imbarazzo, ma per
l’eccitazione che stava
dominando il copioso afflusso di sangue al viso.
Mi sentii sollevare per il busto, e
reclinai
involontariamente il capo all’indietro, presa dalla
più totalizzante emozione
d’amore.
Improvvisamente rimbalzai sul
materasso, con i capelli
mossi sparsi sul copriletto. Edward, con un meraviglioso sorriso beato
stampato
in faccia, mi aveva tolto le forcine.
Inebriata dal suo profumo, come una
bambino che odora
una torta, mi avvicinai al suo viso, fino ad alzarmi e far sollevare
anche lui.
Posai il naso sul suo collo, mentre lui mi lasciava morbidi e freddi
baci sulla
clavicola. Allora io, con una mano, sfilai il papillondal
nodo, per poi
gettarlo lontano.
«Bella…»
mormorò Edward, sollevando un attimo lo
sguardo dal mio corpo, per posarlo nei miei occhi.
«Edward»
sussurrai, senza la necessità di aggiungere
altro. Non avevamo bisogno di ulteriori prove d’amore: in
quel momento volevamo
solo essere uno parte dell’altra.
Le sue labbra furono ancora
febbrilmente incollate
alla mie. Per amarle, baciarle, morderle e torturarle, e
così il mio corpo fu
attirato al suo, mentre sentivo fredde mani sorreggere con infinita
passione e
gentilezza la mia schiena.
E così le mie mani sui
suoi bottoni, e le sue, sui
miei, ci ritrovammo a lavorare entrambi per disfare i nostri corpi
dell’inutile
pudore, mentre a vicenda ci spingevamo da una parte all’altra
della stanza, in
un nostro personale ballo di passione, liberandoci delle inutili
calzature che
ci avrebbero solo permesso di inciampare, e senza mai staccarci
l’uno dalle
labbra dell’altro.
Poi, sotto il mio sguardo
impetuoso, si tolse la
giacca e la fascia, aiutato nei movimenti dalle mie mani tremanti.
Sentii il mio corpetto, che tanto
quella sera aveva
stretto e fasciato, liberare il mio petto, mentre fui schiacciata con
la
schiena nuda contro il muro. In quel mod, non v’era
più niente a contenere in
mio cuore palpitante, né, tanto meno, i miei seni, ancora
rinchiusi in un casto
intimo di pizzo bianco.
Al modo uguale la sua camicia, con
un repentino,
irrazionale, quanto passionale atto, inaspettatamente da me compiuto,
finì ai
piedi del letto.
E seguendo sempre il nostro
reciproco gioco, ci
incantammo entrambi ad osservare quei corpi, che presto ne avrebbero
formato un
sol uno.
Poi, lui si ridestò da
quel sogno incantevole, e con
nuovo impeto scese con la bocca a lambire la mia pelle, le mie spalle,
il mio
cuore. E i brividi e le sensazioni che mi donava, fecero da
corroborante alle
mani, e mi liberarono da ogni velo di inibizione, così che,
con la sua
collaborazione, lo liberai da quegli inutili pantaloni, che fasciavano
ciò che
i miei palmi rivendicavano come proprio: il suo corpo.
Fui incantata da quella
meravigliosa e unica visione.
Un angelo, cherubino, serafino e arcangelo che fosse, sarebbe sembrato
uno
stupido pennuto al confronto della sua radiosa bellezza, unica
inimmaginabile,
di quella che solo un sogno può donare. E quel miracolo di
bellezza era lì, che
mi osservava. Osservava compiaciuto, e altrettanto ammirato, me, che
rimiravo
lui, con una mano davanti alla bocca meravigliata, e gli occhi lucidi,
unici
testimoni di cotanta bellezza.
Ancora, come un fiume in piena, la
passione ci
travolse, e con mano tremante, ed espressione tormentata sul viso, di
un uomo
che fatica ad arginare il proprio istinto, ma che costruisce infinite
dighe
fatte di dolcezza, si mosse sotto il tulle, sulle mie morbide cosce,
scartando
le mie gambe dalle calze, che ancora mi opprimevano le gambe e
scatenando in me
piaceri immensi e mai saggiati, mentre mi strofinavo involontariamente
sulla
parete per tentare in ogni modo di liberarmi di quei piaceri tentatori.
Improvvisamente mi sentii mancare
il terreno da sotto
i piedi. Edward mi aveva sollevato dalla vita, ed io feci aderire le
gambe
intorno ai suoi fianchi, e con le braccia mi artigliai alla sua
schiena. Avevo
i brividi, di freddo e d’eccitazione.
Inaspettatamente il freddo
cessò e mi trovai a
ribalzare con la schiena sul letto. Poi, la gonna, l’immensa
montagna bianca,
volò via, scomparendo da quella che unicamente e
prepotentemente, voleva essere
la mia visuale.
«Edward…»
mormorai, e mi stupii, arrossendo, di quanto
il mio tono fosse mutato ed eccitato.
coi baci, essere tanto felici» sussurrarono le sue
labbra, partecipando della mia
stessa passione. Mi strinse fra le braccia, raggelandomi e
incredibilmente
bruciandomi con il suo tocco, e fu un’emozione immensa, e
totalmente
indescrivibile sentire la sua pelle, così a contatto con la
mia, come non
l’avevo mai sentita. Sentivo le sue mani percorrere tutte le
venature del mio.
«Baciami allora, cento,
mille volte, non aspetto
altro…» sfuggì dalle mie labbra, mentre
la mia voce veniva soffocata dal
movimento esaltante delle sue mani su di me.
Le sue gambe, nude, muscolose,
erano strette contro le
mie. Le sue mani vagavano sulla mia schiena e sulle mie gambe, come le
mie
sulle sue spalle fredde. La sua bocca lambiva il mio lobo, mentre la
mia non
poteva far altro che rimanere semiaperta, bloccata, per far uscire il
mio
respiro ansante di un corpo scosso dal profondo desiderio.
Dentro di me
un’esplosione di gioia, anelo, follia,
passione e eccitazione.
Edward si distanziò un
attimo da me, e per un attimo
la sua espressione mi parve titubante.
«Concedi a questi occhi
di inebriarsi della vista di
un miracolo e a questa fredda pelle di sfiorare la tua morbida e
calda?»
bisbigliò, con voce rotta dall’emozione.
«Il vero miracolo sei tu
e i miei occhi godono della
tua vista. Cosa più facile che donarti il mio corpo? Non
chiedere il permesso
per avere ciò che è già
tuo…» non avevo idea da dove venissero quelle mie
parole
soffocate. Era tutto così impulsivo e
incontrollato…
Tanto che mi meravigliai quando il
groviglio delle
nostre membra si risolse in un tenero quanto impetuoso abbraccio. Era
su di me.
Mi guardava, mi contemplava, osservandomi rapito, fremendo e facendomi
fremere
per il contatto della nostra pelle.
Mi strinse a sé, in modo
che i nostri corpi
combaciassero perfettamente, e si chinò sul mio orecchio a
sussurrare le ultime
parole che quella notte avrei udito «Concedi a questo
navigatore solitario di
profanare questo miracoloso porto?»
«Mai, vi fu navigatore
più atteso».
Quelle furono le parole che
concessero al navigatore
di entrare nel mio porto, mentre io, con una lacrima, imprigionata fra
le sue
labbra, gli aprivo le mie chiuse.
E come, nel mare, la marea
s’ingrossa sempre più, così
la nostra eccitazione cresceva di secondo in secondo, mentre mettevamo
via
l’ansia e il dolore e la paura della tempesta, abbandonandoci
sempre più alle
onde alte, finché, la calma piatta del mare non
sopraggiunse, lasciandoci
stremati, ma felici come mai ancora lo eravamo stati.
Sentivo i tiepidi raggi di sole, illuminarmi il viso,
con delicatezza
Capitolo riveduto e
corretto.
Sentivo i tiepidi raggi di sole
illuminarmi il viso,
con delicatezza. E quella dolcezza mi riportò alla mente la
stessa che aveva
usato con me Edward quella notte. Quel pensiero mi fece imporporare il
volto.
Improvvisamente, mi accorsi che
avrei dovuto sentire
caldo, ma non era così, perché ero stesa su qualcosa
di freddo e duro.
Mi voltai, mettendomi a pancia in
giù.
Con un sorriso raggiante, mi
osservava. Era
bellissimo. Nulla di più sconvolgente di Edward dopo aver
fatto l’amore. Perfetto,
diceva il mio cervello. Il suo sguardo era bramoso, languido.
Più o meno
come era il mio, temo. Mi resi conto che ero completamente nuda, con il
seno
schiacciato contro il suo petto.
Inevitabilmente arrossii. Lui mi
accarezzò, dolcemente,
una guancia. «Edward» lo chiamai, trasognata. Mi
guardò negli occhi,
intensamente. Deglutii. Sentivo il cuore in gola e non sapevo come
farlo
ritornare al suo posto. «Sei… sei… sei
sconvolgente…» balbettai, imbarazzata,
senza riuscire ad aggiungere altro.
Lui ridacchiò un attimo.
«Sei tu che sei davvero
stupenda» disse poi, con dolcezza.
Le nostre dita corsero ad
intrecciarsi sul suo petto.
C’era una cosa però che mi premeva chiedergli.
Arrossii ancora, facendo
aumentare i battiti del mio cuore.
«Cosa
c’è?» mi chiese teneramente, portandomi
una mano
sul petto.
«N…niente»
balbettai «solo…».
«Solo?»
incalzò lui, sollevandomi il mento per fissare
i suoi occhi nei miei.
Inspirai profondamente.
«È... è stato… difficile,
per
te…?» chiesi, più imbarazzata che mai.
Mi rivolse uno sguardo carico
d’amore e fece scendere
le sue labbra fino a posarsi delicatamente sulle mie. Quel bacio fu
casto,
eppure pieno di nuova e rinnovata passione. Quando si staccò
da me, disse «La
rosa più bella, quella più pura e graziosa,
è costellata dalle spine più appuntite,
che ne proteggono il candore». Come al solito, Edward era un
galantuomo.
Mi strinsi maggiormente a lui,
accarezzando il suo
petto e disegnando cerchi concentrici. Lui chiuse gli occhi, e
abbandonò il
capo all’indietro. Lo sentii gemere piano e sorrisi
compiaciuta, riportando
alla mente le avventure di quella notte.
Feci vagare un attimo lo sguardo
per la stanza e poi,
scoppiai in una fragorosa risata.
Edward si risvegliò dal
suo sogno. «Che succede?» mi
chiese curioso.
«Guarda»
spiegai, indicando la stanza. Tutti i nostri
abiti erano disseminati qua e là. I calzini erano da una
parte, le scarpe
dall’altra. La sua camicia era finita malamente su una sedia
e la gonna faceva
bella mostra di tutto il suo tulle sul pavimento.
«E’ tutto in disordine».
Anche Edward rise con me.
«Aspetta, rimediamo subito» fece,
alzandosi istantaneamente e ritornando in pochi secondi al mio fianco.
Tutto era di nuovo apposto e
perfettamente sistemato.
I nostri abiti completi facevano bella mostra di loro su due
appendiabiti appoggiati
con cura su una sedia. In quel modo ebbi maggiore facoltà di
valutare tutti i
particolari della stanza.
L’ambiente era piuttosto
grande e molto luminoso. Due
grandi finestre facevano bella mostra di sé, lasciando
intravedere il verde del
paesaggio circostante. Sul pavimento c’era una moquette beige
chiaro, e, a
parte l’immenso letto coperto dalla nuvola bianca di tulle,
c’erano due
comodini di legno di ciliegio, disegnati con linee morbide e sinuose.
Dello
stesso stile del letto e del resto del mobilio. Sui comodini due
abatjour delle
stesse tonalità chiare di tutta la stanza. Era una camera da
letto in piena
regola. Le pareti, infatti, erano drappeggiate ordinatamente da stoffe
che
sfumavano dal rosa pesca al bianco. Negli spazi vuoti, invece, tra un
drappo e
l’altro, c’erano appesi i miei quadri.
Mi mancò un attimo il
fiato, quando lo vidi.
Proprio davanti a noi, in modo che si potesse vedere dal letto, stava
il mio
quadro de “La cortigiana”. Senza
quasi accorgermene, mi sollevai dal
letto e mi avvicinai al mio dipinto, fino quasi a sfiorarlo. Era
contornato da
una meravigliosa cornice dorata.
«Ti piace?».
Contemporaneamente alla parole di Edward,
mi sentii stringere da dietro.
Non risposi. Perché
aveva messo lì, proprio quel
quadro?
«E’ il mio
preferito» mi sussurrò ancora.
Deglutii. Era anche il mio
preferito. Ma non doveva
essere così.
«Hai usato dei colori
bellissimi»
Decisi di rispondergli.
«Già… sono colori a olio. Sono
molto vivaci».
Mi sentii baciare una guancia.
«Mi piace il rosso del
vestito della cortigiana».
«Gliel’ha
regalato il lord. Quella mattina si erano
alzati presto ed erano andati a fare una gita. Lui aveva scoperto che
fra le
insenature delle roccia c’era una grotta» indicai
un puntino in lontananza «Nella
grotta c’erano dei coralli, così il lord ne fece
un colore e lo regalò alla
Cortigiana. Lei lo usò per dipingere il suo vestito che
inizialmente era
bianco, e così, si spogliò del suo
candore» dissi, arrossendo per le mie stesse
parole e stringendomi maggiormente a Edward.
«Col bianco la purezza,
col rosso sangue diventa una
donna» mi baciò il capo, osservando ancora il
dipinto. «Quel paesaggio, lì in
fondo, mi sembra familiare» disse, indicando la grotta.
«Sì, ho preso
ispirazione da Goat Rocks, è uno scorcio
in cui mi portasti un giorno, te ne ricordi?» chiesi,
voltandomi verso di lui.
Mi sorrise, preso da una nuova
emozione. «Certo, come
potrei dimenticarmene» mi rispose, scendendo a baciare le mie
labbra.
Il mio stomaco
gorgogliò, e lui rise, seguito poi a
ruota da me.
Mi scusai, divertita.
«Scusami, è da ieri mattina che
non tocco cibo».
«Da ieri
mattina?» mi chiese lui preoccupato «Allora
bisogna rimediare subito!» aggiunse poi, allegro, baciandomi
la clavicola.
Io mi lasciai andare a quella
piacevole sensazione,
cominciando io stessa a baciargli la mascella, l’orecchio.
«Lascia stare…»
bisbigliai languidamente «posso vivere di solo
amore» ansimai, gettandogli le
braccia al collo e facendo arretrare fino al letto.
Lui si stese e io mi sistemai su di
lui, senza mai
staccare la mie labbra dalle sue. Con una mano, lentamente,
cominciò ad
accarezzarmi una gamba, dal polpaccio, fino a salire fino
all’incavo del
ginocchio, alla coscia, e su, più su…
Improvvisamente si
staccò da me, uno sguardo divertito
sul volto. «Tesoro, dovresti mangiare, ti ricordo che sei
ancora un po’ debole…».
Alla mia espressione offesa,
aggiunse malizioso «poi,
possiamo riprendere da dove abbiamo lasciato, ma ora… ho una
sorpresa per te,
vestiti». Mi aiutò a sollevarmi dal suo corpo e
aprì le ante di qualcosa che
sembrava un armadio, ma che in realtà, dato che dopo due
istanti Edward
scomparve, capii essere una cabina armadio. Rimasi un po’
perplessa.
Dalla sera precedente, ricordavo
con precisione che la
costruzione dall’esterno mi era apparsa come una piccola,
singola stanza.
Edward tornò da me, con
la sua immensa bellezza,
scacciando via i miei pensieri. Aveva in mano un abitino verde e
indossava dei
pantaloni larghi e una magliettina bianca e blu a righe larghe e a
mezze
maniche.
«Tieni» disse,
porgendomi il vestito, mentre io lo
fissavo imbronciata. Sul suo volto apparve un espressione confusa
«Che hai?».
«Ti sei rivestito senza
che io ti vedessi!» intrecciai
le braccia al petto, offesa.
Nella stanza si diffuse la sua
risata cristallina.
«Scusa» mi sussurrò
all’orecchio non appena smise di ridere «ti
prometto che
dopo, mi potrai svestire e rivestire quante volte vorrai».
Arrossii terribilmente. Tuttavia
risposi, tentando di
imitare il suo tono languido «mi sa che preferisco la
prima».
Lo investì
un’altra ondata d’ilarità.
Mi rivestii sotto il suo sguardo
compiaciuto.
«Di che sorpresa parlavi
prima?» gli chiesi con
noncuranza.
«Se te lo dicessi, non
sarebbe più una sorpresa, no?!»
mi rispose lui «E poi, dai, lo scoprirai prestissimo, appena
finisci di
vestirti».
«Okay, pronta»
dissi facendo una giravolta su me
stessa per mostrare il mio abito. «Come sto?»
chiesi con fare provocatorio.
In un attimo mi fu accanto
«Sei un angioletto. Il mio,
angioletto».
Questa volta fui io a ridere.
Mi prese per mano. «Bene,
andiamo. Apri la porta» mi istruì,
indicandomi la porta che mi pareva quella da cui eravamo entrati la
sera
precedente.
«Okay» obbedii
un po’ scettica, abbassando la
maniglia.
Lo spettacolo che mi si
presentò dinanzi non me lo
sarei mai aspettato. Davanti ai miei occhi, subito dopo un corridoio, e
separato da un arco, c’era un meraviglioso soggiorno. Tutto
era arredato con
tonalità chiare, e tutto, nella stanza, faceva pensare di
essersi persi in una
fiaba. Sembrava di essere stati traspostati nella casetta di
Biancaneve. C’era
persino un sontuoso camino. Quasi incantata, mi avviai a passo leggero
per la
stanza; tutto era stupendo e curato e arredato nei minimi dettagli. Una
porta
in legno rosso, di ciliegio probabilmente, portava alla sala da pranzo,
al cui
centro troneggiava un grande tavolo. Da una porta coi vetri colorati si
poteva
scorgere una cucina, da un’altra, il grazioso ingresso.
Mi voltai un attimo, scoprendo
Edward dietro di me.
Ero sgomenta. Non ci sarebbe dovuta
essere una casa lì!
Lui dovette leggere la sorpresa nei
miei occhi,
perché, dopo avermi sorriso disse:
«Bisognerà ringraziare tutta la mia
famiglia. In particolare Esme…».
Me ne stavo ancora ferma,
sbigottita, con la bocca
semi-aperta a fissarlo, incapace di parlare.
Si mosse nervosamente, spostando il
peso del corpo da
una gamba all’altra. «Ti piace?».
Dopo circa venti secondi mi accorsi
di avere ancora la
bocca aperta, così la richiusi in uno schiocco secco.
«Ma…ma come…?
Ma…ma…io…?»
farfugliai incapace di fare un discorso sensato. «Non
c’era…».
Edward mi venne accanto,
stringendomi a sé. «C’era.
Ben nascosta, ma c’era. Alice sosteneva che ieri non era il
miglior momento per
mostrartela» mormorò pensieroso, picchettandosi le
labbra con un dito.
Accortosi del mio sguardo fisso su di lui mi sorrise. «Beh,
mai andare contro a
quello che dice Alice, no? Credo che avesse ragione. Ieri…
avevamo di meglio a
cui pensare» continuò malizioso.
«E’ il loro regalo di nozze. Allora, ti piace
la nostra casa?».
Sobbalzai, arrossendo ancor
più tenacemente. Il tono
che aveva usato per dire “nostra casa”.
«È… è
meravigliosa!» esclamai.
«Sono contento che ti
piaccia».
Esitai, titubante. Non avevo
pensato davvero a dove
avremmo vissuto. Forse avevo sempre dato per scontato che saremmo
rimasti a
casa Cullen, almeno fino a che avessi potuto. E poi, mi aveva detto che
aveva
in mente una sorpresa, per la nostra luna di miele.
«Ma…ma è davvero casa
nostra?».
«Certo!».
«Possiamo rimanerci
quanto tempo vogliamo?» chiesi
speranzosa.
«Il più a
lungo possibile!» mi rispose, contento,
leggendo l’euforia nella mia voce.
Mi fece fare un vero giro della
casa, mostrandomi ogni
stanza e angolo. Poi mi portò a fare colazione, mentre io
ancora mi muovevo
come se stessi camminando sulle uova, per paura di rompere
l’incanto.
«Allora, che cosa vuole
la mia cara moglie per
colazione?» disse spostando la sedia, da vero gentiluomo, per
farmi sedere
intorno al piccolo tavolo in vetro al centro della stanza.
«Mmm…
vediamo» feci divertita «che cosa
c’è nel tuo
repertorio di cuoco?».
Fece un gesto ampio con la mano,
come un cameriere che
indica un tavolo. «Chiedi e ti sarà
dato».
«Davvero?»
risposi maliziosa.
Scoppiò a ridere.
«Davvero».
«Credo che mi
affiderò al maître».
«Bene» mi
accontentò, muovendosi a velocità vampiresca
per la cucina. Vedevo la ante che sbattevano qua e là, il
frigo ora aperto, ora
no, e la sua ombra che si destreggiava veloce. Dopo circa due
minuti mi
ritrovai di fronte agli occhi un bicchiere di succo, uno di latte, dei
biscotti, un pezzo di torta, una barretta di cereali e un piatto di
uova
strapazzate con la pancetta.
Sgranai gli occhi.
«Edward! Non ti aspetterai che io
mangi tutto, vero?».
Si sedette accanto a me, con le
mani sotto il mento,
ad osservarmi «Scegli quello che vuoi».
Sollevai le sopracciglia, scettica.
«Okay…». Presi
innanzitutto il succo e lo mischiai al latte. Bevvi un sorso di
quell’intruglio
delizioso. Afferrai un biscotto e lo mordicchiai, poi passai alla
torta.
Sentivo i suoi occhi addosso. Gli piaceva guardarmi mentre mangiavo.
«Mmm… è
buonissima!» esclamai.
Mi sorrise. «Sono
contento che ti piaccia, l’ha fatta
Esme».
Presi un altro sorso di latte e
succo, ripensando
all’affettuosità della mia famiglia. Mi, anzi ci
avevano costruito una
casa stupenda. Mi mossi sulla sedia, lievemente a disagio.
Edward mi stava osservando, facendo
scorrere
mollemente un dito sul mio braccio. «Ti fa male? Senti
bruciore?».
Lo guardai un per attimo
stralunata. Quando capii a
cosa si stesse riferendo tossii, sputando il latte con cui mi stavo
affogando.
Mi sentii immediatamente battere dei colpetti gentili dietro la
schiena, mentre
ancora tossicchiavo, con le lacrime agli occhi.
«Stai bene?» mi
chiese, preoccupato.
Assentii col capo, sforzandomi di
controllare gli
ultimi accessi di tosse. Ero rossa in viso, e di certo non solo per il
mancato
affogamento.
«Che ti è
preso?».
Distolsi lo sguardo, in cerca di un
buco o un angolo
in cui seppellirmi. «Umh… niente».
Immaginavo che certi discorsi fossero… normali,
fra due persone sposate. Eppure come potevo non contorcermi
dall’imbarazzo per
quello che mi aveva chiesto? L’attuale stato di salute del
mio… della mia…
delle mie parti intime.
Mi guardava, cercando di capire la
mia espressione.
Tossicchiai, mordicchiandomi un
labbro. «Tutto bene,
certo» risposi al tavolo, con cui stavo avendo una
conversazione privata, visto
che i miei occhi non parevano volercisi separare.
«Sei in
imbarazzo?» mi chiese, genuinamente sorpreso.
«No!» esclamai,
affrettandomi a rispondere. Ansimai,
guardando ovunque tranne che il suo volto. «Io…
sì» mi si mozzò il respiro in
gola, mentre mi portavo la mani a coprire gli occhi e il viso,
infuocato
d’imbarazzo.
Ci fu qualche istante di silenzio,
poi udii una
meravigliosa e cristallina, quanto sfacciata risata. «Ti
stavi per soffocare
per questo?».
Lo fissai truce, arrossendo, se
possibile, ancor di
più.
Edward cercava, inutilmente, di
nascondere il
divertimento nella sua voce. Mi scostò una mano
dal volto. «Amore».
«Ti prego, ma sento
già abbastanza imbarazzata»
cincischiai, abbassando il viso.
Si fece serio. Mi prese il viso fra
le mani,
costringendomi a guardarlo. «Cosa c’è?
Ieri non mi sembravi così a disagio».
Scossi il capo velocemente, senza
rispondergli
davvero.
«Allora?».
Deglutii. «Ieri non mi
hai fatto domande così… specifiche».
Sorrise, e in un attimo mi trovai
fra le sue braccia.
Non conoscevo bene la casa, ma abbastanza da intuire che mi stava
trasportando
verso la camera da letto. «Cosa ne dici se diamo
un’occhiata?» domandò,
lasciandomi cadere sul materasso.
«Cosa?»
strillai, stridula, portandomi automaticamente
le mani a coprirmi le pelvi. Lo fissai terrorizzata.
Si sistemò caponi sul
letto. Mi fece il suo sorriso
sghembo, facendomi palpitare il cuore. L’imbarazzo stava per
trasformarsi in
eccitazione. Mi prese per una caviglia, tirandomi a sé.
Iniziò a lasciare una
scia di baci, risalendo verso l’alto. «Ho sempre
sognato di organizzare una
campagna di esplorazione proprio… qui».
Le mie mani stavano stringendo i
suoi capelli, adesso.
«Oh, Edward…».
Nella settimana che
passò, ci godemmo in pieno la
nostra luna di miele. Ormai si poteva dire che ognuno dei due
conoscesse alla
perfezione il corpo dell’altro, nei dettagli più
minuti, e nei punti più
inesplorati. L’amore ci rincorreva sempre, non dandoci mai
tregua, né noi la
chiedevamo, assuefatti com’eravamo l’uno
dell’altra. Eravamo rimasti chiusi in
casa nostra, senza alcun contatto con l’esterno, a vivere di
solo amore. Certo,
qualche volta io dovevo dar sfogo ai miei bisogni da umana, ma di tanto
in
tanto, condividevamo anche quelli. Come la volta in cui facemmo il
bagno
assieme… Oppure, come la volta in cui, un alimento in
particolare decise di
movimentare la nostra attività d’amore.
Mentre frugavo nella dispensa mi
accorsi di un
mobiletto in basso, chiuso con una piccola e graziosa chiave. Edward
era in
camera da letto, e stava cambiando le lenzuola. Avevo chiesto di farlo
io, ma
lui, gentile come al solito, me l’aveva impedito.
Così, senza chiedere il
permesso, aprii l’anta del
mobiletto.
Davanti ai miei occhi trovai
un’enorme quantità di
liquirizia, di tutti i tipi. Immediatamente mi venne un’idea.
Dopotutto, Edward
era sempre così… affettuoso
con me, mentre io ancora non gli avevo
dimostrato nulla, e per questo mi sentivo un po’ in colpa. In
più, lui doveva
sempre cercare di controllarsi…
Afferrai i primi due grossi
pacchetti, e mi accorsi
che c’era un biglietto, indirizzato a me.
Da Alice, con affetto…
Mi raccomando usala bene!
PS. Non far sentire
l’odore a Edward prima del
necessario…
Ovviamente ci doveva essere il suo
zampino. Con un
sorrisetto malizioso sulle labbra, presi altri due pacchetti e una
bella coppa
in vetro che avevo visto sulla penisola della cucina e mi affrettai in
bagno,
badando bene di lasciare i pacchetti ancora sigillati. Una volta
entrata
nell’antibagno, aprii tutte le finestre e svuotai i pacchetti
nella coppa,
formando un bel miscuglio con vari tipi di liquirizie.
Poi, presi una decisione. Rossa in
viso per quello che
stavo per fare, aprii il cassetto della biancheria e vi trovai un
succinto completino
blu, costituito più che altro da veli, che faceva un
magnifico gioco, “vedo-
non vedo”.
«Amore, sei lì
dentro?» mi chiamò Edward.
Sobbalzai un attimo, preoccupata di
essere stata colta
in flagrante, poi, mettendomi una mano sul cuore martellante, mi
tranquillizzai. «Sì, vai a letto, sto
arrivando» feci alzando inutilmente il
tono di voce.
«Va bene» mi
rispose poco convinto.
Presi tre grossi respiri e
afferrata la coppa in mano,
senza neppure guardarmi allo specchio, mi diressi, cercando di
sopprimere
l’imbarazzo, verso la camera da letto.
Quando mi vide con la liquirizia
fra le braccia,
mentre tentavo di camminare verso di lui con un minimo di
sensualità, i suoi
occhi divennero improvvisamente nero liquido, segno che il mio piano
stava
funzionando. Posai la coppa tra di noi, sul copriletto appena cambiato
e ancora
immacolato, mentre gattonando mi andavo a mettere al suo fianco.
«Bella…»
sussurrò, la voce già bassa e roca.
Gli misi una mano sulle labbra,
tentando ancora di non
apparire troppo impacciata. «Shh» sussurrai,
avvicinandomi pericolosamente al
suo orecchio. Presi con delicatezza un pezzo di liquirizia tra le mani
mordicchiandolo lascivamente, mentre ebbi la soddisfazione di vedere
Edward
deglutire, probabilmente veleno. Mi avvicinai a lui, baciandolo e
inondandolo
del profumo della liquirizia.
Chiuse gli occhi, e
lasciò andare la testa
all’indietro. «Ancora» mormorò
roco.
Presi un altro pezzettino di
liquirizia e ripetei
quella stessa operazione.
«Mmm… ancora
una volta, te ne prego».
Ero salita a cavalcioni su di lui e
lo baciavo
provocatoriamente con il sapore di liquirizia in bocca.
Emise un gemito tra le labbra
«La liquirizia…»
«Sì, mio bel
vampiro?» chiesi maliziosa.
Iniziò a prendere
l’iniziativa di baciarmi «Irretisce
i miei sensi…».
«Sì, mio bel
vampiro…».
Mi mise un altro pezzetto di
liquirizia tra le labbra,
imboccandomi maliziosamente. «Mi fa perdere la percezione
dell’olfatto…».
«Sì, mio bel
vampiro…» lo baciai ancora.
Mormorò roco
«Mi annebbia il cervello».
«Sì, mio bel
vampiro!» esclamai, anch’io roca, prima
che la coppa venisse spazzata via dal letto, infrangendosi contro il
muro e che
io mi trovassi a tremare di passione insieme a Edward.
Ripensando a quei momenti mi
ritrovai più accaldata
del solito, mentre al mio risveglio, con la mano, cercavo il corpo di
Edward
steso accanto a me sul letto. Non trovandolo aprii gli occhi di scatto
e mi
portai a sedere sull’enorme materasso. Era ancora buio,
così accesi l’abatjour.
Nella stanza non c’era nessuno oltre a me.
Di fronte ai miei occhi, appeso
sulla cornice de “La
Cortigiana” c’era un bigliettino, su cui
c’era scritto in bella grafia. Mi
sollevai dal letto, stropicciandomi gli occhi.
Per starti più vicino
sono andato a caccia… Tornerò
subito, già adesso mi manchi. Aspettami, e prenditi cura
delle mie cose,
ricordati che mi appartieni…
Torna a dormire, perchè
è sicuramente ancora tardi.
Sogni d’oro,
Tuo per sempre, Edward…
Sospirai. Era strano non averlo
accanto, dopo tutto
quel tempo insieme. Mi sentivo così strana ad essere da
sola, anche se non lo
ero realmente. Mi sporsi a guardare fuori dalla finestra, e distinsi
una sagoma
ferma nell’ombra, debolmente illuminata dalla luna.
«Calmati, Bella! Non
è lui».
«C-cosa… Ho
visto qualcuno, lì fuori! Te lo giuro»
avevo balbettato, prossima alle lacrime.
Mi aveva posato le mani sulle
spalle. «Lo so. La mia
famiglia sta facendo dei turni».
Avevo strabuzzato gli occhi,
sbigottita. «Cosa? La
tua famiglia?».
Avevamo discusso. Gli avevo detto
che eravamo passati
a vivere in una prigione con i carcerieri, piuttosto che avere la
nostra luna
di miele. Mi ero infuriata, e sentita controllata e imbarazzata. E poi,
quando
mi aveva fatto calmare, e mi aveva detto che era solo per la mia
sicurezza,
tutta la mia rabbia si era rivolta verso Jacob, per la vita che la sua
presenza
mi obbligava a condurre.
«Cosa
c’è ancora?» mi aveva chiesto, vedendomi
così
depressa.
Ero arrossita. «Non
voglio che la tua famiglia stia a
sentire mentre facciamo l’amore».
Un lento e ampio sorriso si era
dipinto sulle sue labbra.
«Questo perché non sai che la camera da letto
è un blocco perfettamente isolato
ed insonorizzato anche all’udito di un vampiro».
«Cosa?
Come?».
«Le migliori tecniche
d’ingegneria combinate alla
naturale conformazione del blocco, addossata ad un costone
roccioso…».
Non riuscivo a dormire,
così andai a prendere un
bicchiere d’acqua. Ormai mi muovevo piuttosto bene.
La nostra casa non ero
eccessivamente grande, ma tuttavia confortevole. Era perfetta, sembrava
fatta
su misura per me, e mi ci trovavo già perfettamente a mio
agio. Non avevo
ancora ringraziato Esme, anche perché dal giorno del
matrimonio non vedevo
altri se non Edward, non che la cosa mi dispiacesse, anzi…
Ma sapevo che si stava avvicinando
sempre più la fine
della nostra luna di miele e insieme a questa, anche il giorno della
mia
trasformazione.
«Bella» mi
chiamò Edward quando rientrai in camera.
Sussultai, e mi affrettai ad
accendere la luce. Dovevo
essere stata via più del previso. «Oh, sei
già qui».
Si sollevò dal letto con
uno scatto morbido, accarezzandomi
la guancia con i dorso della mano. «Hai le
occhiaie» constatò.
Scrollai le spalle. «Non
riuscivo a dormire…».
Lui mi fissò accigliato,
circondandomi le spalle con
un braccio e guidandomi verso il letto. «A cosa
pensavi?».
Sospirai, confessandogli la
verità. «Al futuro».
Lo sentii irrigidirsi, e per un
attimo pensai che
stesse fissando il mio dipinto. Mi immaginai la voce uscirgli, per una
volta,
strozzata. «Il futuro?» chiese invece, fluidamente.
Annuii. «Sì.
Alla trasformazione. Quanto ancora
resteremo qui?».
Le sue spalle si rilassarono un
poco. Prese a
giocherellare con le mie dita. «Hai fretta?».
Scossi il capo. «No.
Mi…» arrossii, «mi piace fare
l’amore
con te. Stare qui» sussurrai imbarazzata, accarezzandogli il
petto muscoloso. «Ma
penso che sarebbe più facile per tutti, una volta che
sarò trasformata. Jacob
potrà fare pochissimo, e la tua famiglia non dovrebbe
più farmi da balia…».
Strinse la mascella. «Non
mi sembra un buon motivo».
«Lo è,
invece» risposi con voce ragionevole, «e poi
sono pronta. Ho avuto tutto ciò che desideravo dalla mia
vita umana» aggiunsi
con un sorrisetto.
Mi accarezzò il viso. Il
suo sorriso scemò un po’.
«Farà
male».
Deglutii, ma poi rilassai il mio
corpo. Il cuore non
batteva poi così forte. «Lo so. Ma tu sarai
lì con me, vero? Mi stringerai la
mano».
«Sì,
Bella…» esitò.
«Cosa?».
«Io e Carlisle abbiamo
pensato al modo migliore per
farlo». Mi osservò. «Ma non so se vuoi
saperlo».
Sperando di nascondere il subbuglio
del mio stomaco mi
misi a sedere con le gambe incrociate sul letto, sperando di avere
un’aria
distesa. «Dimmi pure».
Mi scrutò attentamente,
valutando tutte le mie
reazioni alle sue parole. «Pensavamo ad
un’anestesia totale, ma ci serviranno
alcune strumentazioni per monitorarti. E poi… secondo i suoi
studi, la
trasformazione può essere accelerata se il soggetto viene
morso in più punti,
specie quelli in cui il sangue entra in circolo più
facilmente».
Deglutii, accennando un debole
sorriso. Speravo di non
essere verde in faccia. «Cioè?».
Mi fissò di sottecchi.
«Beh, per esempio, il cuore…».
Battei le palpebre, cercando di
immaginare come il suo
veleno potesse entrare nel mio cuore. Poi l’immagine di una
siringa con un
grosso, grosso ago mi baluginò davanti agli occhi. Presi un
respiro come se
avessi appena morso un limone. «Bene. Sono contenta che
sarò addormentata,
perché sento che adesso sto per
svenire…».
Mi stavo lavando i denti con cura
dopo la merenda. Il
sapore della menta dopo aver bevuto il latte mi dava molto fastidio, ma
cercavo
di eliminare lo sgradevole sapore metallico che quel connubio mi aveva
causato.
Erano passate due settimane dal
giorno del matrimonio.
Domani saremmo dovuti tornare alla vita normale, a trovare le nostre
famiglie.
Edward aveva detto che per lui
sarebbe anche andato
bene posticipare; tutto, pur di vedermi felice. Tuttavia io avevo
insistito,
dicendo che almeno avremmo potuto fare una capatina dalla sua famiglia,
anche
solo di cinque minuti, prima di riprendere la nostra… attività.
Vidi la
mia immagine allo specchio arrossire a quel pensiero.
Sputai il dentifricio nel lavandino
e mi sciacquai i
denti, facendo scorrere l’acqua. Quello era solo uno
dei quattro bagni
della casa. Il più bello a mio avviso. Era arredato con
bellissime tonalità di
azzurro e verde mare, estremamente rilassante. Quattro,
uno per ogni
camera da letto. Una matrimoniale, per noi, e tre per gli ospiti. Anche
se la
casa era piccola per i canoni Cullen, rimaneva pur sempre una villetta
di
dimensioni notevoli. Mi piaceva tantissimo, io e Edward
l’avevamo già fatta nostra.
Andai nella stanza da letto, dove
Edward, su mio
ordine perentorio, era rimasto steso, ma soprattutto… nudo,
in attesa
che io, altrettanto nuda, lo raggiungessi…
Quando entrai nella stanza e lo
vidi, successe
qualcosa di estremamente inaspettato.
M’immobilizzai,
spalancando la bocca e gli occhi.
Edward, avendomi vista arrivare si voltò verso di me.
Notò la mia espressione
vacua da pesce lesso, e mosse piano il capo di lato, perplesso.
«Bella?» mi
chiamò. Non risposi. Ero stata folgorata,
colpita da… un’immagine paradisiaca. La sua
espressione si fece ansiosa. «Amore?»
mi chiamò ancora, muovendosi per venire da me.
«No!» strillai
con un po’ troppa verve. Battei le
palpebre e deglutii, abbassando la voce. «Non ti
muovere».
Ancora perplesso fece come gli
dicevo. «Tutto bene?».
Annuii, e, senza rispondergli, mi
mossi verso la
porta. «Non ti muovere, per favore». Andai diretta
verso la stanza dell’arte,
dove Esme aveva sistemato tutto il mio materiale per dipingere e il
pianoforte
di Edward. Afferrai un cartoncino ruvido, di formato A2, una tela di
legno su
cui poggiarmi, tre pezzi di carboncino e la gomma pane. Edward, che nel
frattempo era rimasto immobile, vedendomi arrivare con quelle cose
rilassò lo
sguardo, sorridendo. Trascinai una sedia proprio davanti alla porta del
bagno,
da dove, uscendo, avevo trovato l’ispirazione.
Mi sistemai con il foglio in grembo
e volsi uno
sguardo a Edward, che mi sorrideva sghembo come quando
l’avevo visto appena
entrata in camera.
Mi rammentai un attimo di una cosa.
«P…posso?» chiesi
arrossendo.
«Certo» mi
rispose lui con serenità.
Iniziai a disegnare. Era
semplicemente magnifico;
quando ero uscita dal bagno, vedendolo, ero rimasta incredibilmente
stordita.
Non che non l’avessi visto altre volte nudo, ma forse quando
l’avevo fatto ero
troppo presa e concentrata da altro per poterlo
realmente apprezzare. Ora
invece, entrando nella stanza a mente lucida, ero rimasta folgorata
dalla sua
bellezza.
Era semi-sdariato sul letto, in
posizione relax, una
mano a sorreggere la testa e l’altra abbandonata lungo il
fianco. Il lenzuolo
era magistralmente arrotolato lungo una gamba e andava a coprire appena
le
parti più nascoste del suo corpo, alle quali solo io avevo
accesso. Comunque,
la cosa più importante di tutte era un debole, singolo
raggio di sole che lo
colpiva dritto al petto, facendo apparire la sua etera bellezza insieme
alla
sua differente natura.
La mia mano si muoveva rapida sul
foglio, e la gomma
pane tra la dita sfocava i punti dove volevo dare più
morbidezza.
Il suo sguardo era sicuro e
felice… non come quello
che aveva avuto un paio di giorni prima. Abbassai il viso,
concentrandomi sul
disegno. Era inutile, perché poteva sentire il mio cuore
battere più forte, ed
era bastato solo il ricordo di quello che era accaduto.
«È per te,
Bella. Io non l’ho ancora aperta» aveva
detto porgendomi la busta bianca.
L’avevo guardato con
un’espressione incerta. Sulla
busta c’era scritto il mio nome, e non sembrava una delle
eleganti calligrafie
dei Cullen. Avevo deglutito. «Per me? Da chi?».
Edward mi aveva misurata con lo
sguardo, in cerca di
una mia reazione, mentre rispondeva. «Bill l’ha
consegnata personalmente a mia
madre».
Avevo aspirato un sibilo fra i
denti, lasciando andare
la presa sulla busta, come se all’improvviso scottasse.
«Edward, io…».
Aveva scosso il capo, mettendo una
mano sulla mia.
«Non devi aprirla per forza. Ho detto che non sarebbe stata
la migliore idea.
Ma credevo di dovertela almeno dare».
La busta giaceva bianca sul tavolo
di mogano. Avevo
aperto e chiuso le mani a pugno, i palmi sudati, provando a calmare il
battito
veloce del mio cuore. Poi mi ero fatta forza e avevo preso un grosso
respiro,
strappando malamente la busta per prendere la lettera. Non mi era
bastata una
sola lettura per capirne il contenuto.
“…So
che mio figlio è molto cambiato, e questo mi
fa più male di quanto tu possa immaginare. Ma sai bene anche
tu che non era
così. È sempre stato un po’ spocchioso
e arrogante, ma non voleva che
nascondere la sua timidezza. Ti vuole bene e te ne ha sempre voluto. So
che sei
contenta con il tuo succ, con Edward, e che siete
ora felicemente
sposati. Ma voglio solamente che tu e Jacob parliate e vi
riappacifichiate. Ti
chiedo molto, lo so… ma vorrei riavere indietro mio
figlio…”
«Bella» mi
aveva richiamato Edward.
Con dita tremanti avevo fatto
scivolare il foglio
nella sua direzione. Dopo che l’aveva letta - in meno di un
quarto del tempo
che avevo impiegato io per farlo - aveva sollevato il viso crucciato
sul mio,
ma non aveva detto nulla, aspettando le mie parole.
Avevo sospirato, abbassando il
viso. «Sai bene che non
voglio vederlo».
«Ma?» aveva
continuato gentilmente. «Parlargli era nei
nostri accordi sin dall’inizio».
«Prima che voi lottaste e
prima che incendiasse metà
del bosco per tentare di ucciderti» avevo sbottato, tremante.
Mi aveva messo le mani sulle
braccia, e senza dire una
parola mi ero lasciata confortare da quel gesto. «Chi ci dice
che Bill non sia
d’accordo con il figlio e che questa non sia che una trappola
per portarmi via
da te?».
Si era irrigidito. «Non
glielo permetterò, mai».
«Trasformami, allora.
Voglio diventare una vampira
come te e non avere più paura che niente ci
separi».
«Finito» dissi
mentre mi allontanavo il disegno dal
viso per osservarlo meglio. E mentre allontanavo quei pensieri tristi
dalla mia
mente.
«Posso vedere?»
chiese Edward, mentre si muoveva verso
di me.
Mi morsi un labbro.
«Aspetta…» mormorai, imbarazzata,
abbandonando
il disegno sulla sedia. Mi avviai a passi sicuri (pretendere dal mio
equilibrio
e dalla mia goffaggine un passo felpato sarebbe stato troppo) verso il
letto.
Sul volto di Edward comparve un sorrisetto malizioso, e, non appena mi
avvicinai a lui, la meravigliosa statua d’adone che era mio
marito prese vita,
regalandomi piaceri che una statua non avrebbe mai potuto regalarmi.
Rabbrividii, mentre Edward mi
disegnava immaginarie
linee sul ventre. Era diventata sera ormai, e la stanza era illuminata
da un
sofisticato sistema di luci bianche soffuse, come tante piccole
lucciole.
«Edward…»
mormorai, mentre la sua mano scendeva sempre
più in basso.
«Bella»
ansimò, roco, mentre lambiva le mie labbra,
gustandole e succhiandole. Improvvisamente sentii i miei occhi farsi
pesanti, e
dalle sue labbra uscì una risata. «Bella, sei
stanchissima» fece divertito.
«No» protestai,
sbadigliando. Una delle cose che
odiavo dell’essere umana era la stanchezza. Lui, invece, non
si stancava mai…
Ridacchiò ancora.
«Me lo fai vedere il disegno adesso?»
chiese impaziente.
«Va bene» gli
concessi mio malgrado.
In un attimo la luce fu accesa e mi
ritrovai Edward
accanto a me con il disegno tra le mani, che lo guardava incantato.
Decisamente
veloce. «Ti piace?» chiesi, un po’
ansiosa. Mi mordicchiai il labbro
imbarazzata
«Stupendo!»
esclamò contento, osservando con occhi
meravigliati il disegno.
Presi un respiro, più
rilassata. «Davvero? E il fatto
che tu sia mio marito, che ci siamo appena sposati e che abbiamo appena
fatto
sesso non c’entra niente con il tuo giudizio?» lo
stuzzicai.
Sorrise, malizioso. «Come
potrebbe mai influire il
fatto che sono tuo marito? Forse il sesso… Mmm… forse…».
«Edward!»
gridai, fintamente indignata, lanciandogli
un cuscino.
«Ah, osi
sfidarmi?!» Esclamò giocosamente,
prendendomelo dalle mani e lanciandolo via. Mi si lanciò
addosso, facendomi il
solletico. Ridacchiai, dimenandomi, ben sapendo che presto si sarebbe
trasformato in qualcosa di molto più… sensuale.
Improvvisamente andò via
la luce. Edward si sollevò
dal mio corpo, sicuro di sé anche nel buio completo. Sentii
l’interruttore
scattare più volte.
«È andata via
la luce?» chiesi al buio, cieca.
«Sì».
Mi voltai verso il luogo dove credevo provenisse
la sua voce. Udii un fruscio di stoffa -probabilmente aveva infilato i
pantaloni. «Vado un attimo a controllare il contatore e
torno. Ti prometto che
riprendiamo da dove abbiamo lasciato» mormorò
divertito.
«Vai!».
Mi sentii sfiorare le labbra dalle
sue, e poi
scomparve, con l’ombra di una risata.
Mi bastarono pochi istanti per
realizzare di essere
sola, al buio, mentre la luce era misteriosamente andata via. Provai un
forte
senso di disagio. Sentivo l’aria pesante, densa, intorno a
me. Quando Edward
era andato a caccia non era stata la stessa cosa, sapevo perfettamente
che
fuori dalla finestra c’era qualcuno a sorvegliarmi.
Sentii il cuore palpitare con
prepotenza nel petto. Calma
Bella, calma, mi dissi. Non essere stupida.
Tuttavia l’agitazione
non scompariva e io mi sentivo attraversare da brividi.
Tentando in qualche modo di
reprimere quell’insensata
paura del buio, feci una cosa che facevo sempre da bambina. Mi sdraiai
sul
letto, in modo da avere la schiena completamente schiacciata al
materasso. Non c’era
un motivo preciso, ma quel gesto mi faceva sentire più
sicura. Forse perché
così sapevo che nessuno avrebbe potuto attaccarmi alle
spalle.
Passò un minuto forse,
ed Edward non era ancora
tornato.
All’improvviso, sentii
una presenza nella stanza. Come
una vibrazione, un sesto senso, ma certo e vivido. Sentii le mia
pupille
dilatarsi ancora, sia per vedere nel buio, sia come effetto
all’enorme quantità
di adrenalina che mi scorreva nelle vene. Potevo benissimo udire il
suono del
mio cuore che insistente batteva sulle mie costole e quello del mio
respiro
affannato.
Mi decisi a provare a chiamare
Edward. Mi avrebbe
certamente sentita, ovunque fosse. Non potevo rimanere ancora sola. O
peggio.
Quella presenza che mi sembrava avvertire non accennava ad andarsene.
Provai a parlare, ma le parole mi
uscirono mute, a
causa della gola completamente secca. Strisciai lungo il letto, fino a
nascondermi sotto il lenzuolo. Me ne stavo raggomitolata sotto le
coperte,
avvolta intorno al cuscino che avevo portato in grembo, immobile.
Sentii, nel silenzio innaturale, il
suono di un passo.
Il respiro mi si mozzò
in gola, e una gocciolina di
sudore scese lungo la mia tempia.
Poi, sulla spalla, una mano. Una
mano. Una mano calda.
A quel punto urlai, un urlo
agghiacciante e stridulo,
quasi non mio.
Nel successivo istante accaddero
tre cose
contemporaneamente. Tornò la luce. Un vento freddo, della
finestra aperta,
inondò la stanza. Edward comparve al mio fianco.
Sentii la coperta spostarsi con uno
scatto deciso,
mentre rimanevo immobile, gli occhi sgranati e le mani convulsamente
aggrappate
al cuscino. «Bella?». Sentii chiamare dalla voce
agitata di Edward. Non
riuscivo ancora a muovermi, tutti i muscoli contratti. Mi sentii
sollevare da
due braccia fredde, che delicatamente mi aprivano le dita per sfilarmi
il
cuscino dalle mani. Ben presto mi ritrovai stretta al suo petto,
cullata e
confortata dal suo odore. «Amore. Cos’è
successo?» mi chiese ansioso.
Il mio corpo era scosso da brividi.
Tentai di parlare,
ma avevo la gola troppo secca. Scossi il capo. Il mio respiro era
ancora veloce
e agitato.
Edward, comprendendo che non sarei
riuscita a parlare
in quello stato, tentò di rassicurarmi. Piano, gentilmente,
mi aiutò ad
indossare una camicia da notte. Mi strinse a sé e mi
portò in cucina. Senza mai
lasciarmi aprii il frigorifero con disinvoltura e prese una bottiglia
d’acqua.
Ne versò un po’ in un bicchiere, si sedette sul
divano della sala da pranzo, tenendomi
stretta al suo corpo, e me lo portò alle labbra.
Lo bevvi tutto, senza fare storie,
sentendomi subito
meglio. Era incredibile come la sua presenza potesse fare la differenza.
Intuendo i significati del mio
sguardo, ne riempì un
altro e me lo porse.
Bevvi con la stessa
avidità, poi lo riconsegnai alle
sue mani.
Studiai la sua espressione. Era
teso e preoccupato. Tuttavia,
quando i suoi occhi si posarono su di me, divennero dolci e
comprensivi. Mi
baciò la fronte. «Mi dici
cos’è successo?» chiese, con altrettanta
dolcezza.
Mi strinsi maggiormente a lui,
chiudendo gli occhi. «Era
lì Edward. Lì con me…» la
mia voce a quel punto s’incrinò.
Lo sentii irrigidirsi.
«Ne sei sicura?». Era
incredibile quanto ora la sua voce fosse fredda, in confronto a prima.
Annuii, silenziosamente. In un
rapido scatto, prima
ancora di riaprire gli occhi, capii che ci eravamo mossi.
«Carlisle? Sì,
Alice. Ha visto niente?». Stava
parlando al telefono. «Va bene, vi aspettiamo».
«Stanno
venendo?» chiesi in un sussurro.
Mi accarezzò una
guancia, con dolcezza e al tempo
stesso determinazione. «Sì» fece una
pausa, in cui nei suoi occhi lampeggiò la
rabbia «lo troveremo, davvero».
Mi lasciai andare contro il suo
petto nudo, le
palpebre pesanti.
«Stai bene?» mi
chiese apprensivo.
Annuii, gli occhi ormai chiusi. Mi
riportò in camera e
mi sistemò sotto le coperte. «Resta con
me» farfugliai, scivolando nel sonno,
mentre mi stringeva da sopra la coperta.
Mi baciò da sopra i
capelli. «Sì, sono qui con te».
Il sonno fu riposante.
L’aroma e la pelle fredda di
mio marito non mi abbandonarono mai, e la… stanchezza fisica
mi impedì di
svegliarmi durante la notte.
A svegliarmi furono delle voci,
sussurri dapprima
lontani e poi sempre più vicini e consistenti.
«Non capisco
perché dobbiate stare qui dentro! Uscite».
«Edward, non fare sempre
il rompiscatole! Voglio solo
vedere come sta».
Un sospiro.
«Siete stati bene in
questi giorni?».
«Sì. Beh, a
parte ieri ovviamente. Si è spaventata
tantissimo, Alice. Davvero, mi sono preoccupato quando l’ho
vista così…
indifesa. Se penso che quel fetido sacco di…».
«Shh, si sta
svegliando…».
Mi rigirai nel letto, stringendo la
mano fredda di mio
marito con le mie. Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre.
«Buongiorno» mi
salutò Edward. Era incerto, un po’
preoccupato, mentre mi scrutava alla ricerca di una reazione.
Mi stiracchiai.
«‘Giorno…» biascicai, la voce
ancora
impastata dal sonno. Gli sorrisi. Da una settimana a questa parte i
nostri
risvegli erano stati stupendi…
«Bella!» sentii
trillare da una voce musicale.
«Alice»
esclamai, sollevandomi seduta di scatto. Mi
affrettai a coprirmi il corpo con le lenzuola. Ero diventata rossa come
un
peperone. «C-cosa ci fai qui?» mormorai sgomenta,
tirando le coperte oltre ogni
limite, fin sotto il mento. Ero nuda? O ero vestita? Forse Edward aveva
avuto
la decenza di mettermi una vestaglia addosso…
Edward sospirò, una mano
sotto il mento. «Te l’ho
detto che non sarebbe stata felice di questa invasione».
Sua sorella lo ignorò
completamente, rivolgendosi
direttamente a me. Sollevò un sopracciglio, un sorrisetto
sulle labbra. «Vuoi
dire che non ti sono mancata?».
«Oh, c-certo»
balbettai, provando a nascondere quello
che doveva vedersi del mio corpo dietro Edward. «Mi sei
mancata» aggiunsi
velocemente, muovendomi comicamente verso mio marito
«tantissimo».
«Sì,
sì, Bella, a chi la dai a bere! Magari nella
pausa tra un round e un altro!» esclamò Emmett,
facendo il suo ingresso in
camera.
Arrossii fino alla radice dei
capelli, e dalle mie
labbra uscì un rantolo sconvolto.
«Emmett, lascia in pace i
novellini!» scherzò Rosalie,
entrando nella stanza.
Aprivo e chiudevo la bocca, senza
sapere cosa dire.
Forse Edward aveva ragione. Sarebbe stato meglio continuare la nostra
luna di
miele rinchiusi in casa senza interruzioni. Guardai timidamente i miei
nuovi
parenti, e poi rivolsi uno sguardo di supplica a Edward.
«P-per favore… potrei…
mmm… se solo lasciaste che mi vesta per un attimo
potrei…».
Senza lasciarmi continuare Edward
balzò giù dal letto,
lasciandomi completamente senza protezione sul fianco destro e
costringendomi a
seppellirmi in fondo a nuovi strati di lenzuola raccattate velocemente.
«Fuori di qui,
avanti!» esclamò, indicando l’uscita
con l’indice. Peccato che avesse addosso solo i morbidi
pantaloni del pigiama,
che gli pendevano mollemente dai fianchi…
Si realizzò la reazione
contraria. «Tesoro, non ci
tengo a vederti in déshabillé. Almeno sulla carta
sei mio fratello» lo canzonò
Rose.
«Però, non
è mica male, eh» scherzò Alice,
facendole l’occhiolino.
«La nostra Bella ha
scelto bene».
Mi portai entrambe le mani il viso.
Che vergogna.
«Per favore!»
sbottò Edward, passandosi nervosamente
una mano fra i capelli.
Rose sollevò entrambe le
mani, come per un gesto di
resa. Ma aveva un sorrisetto impertinente sulle labbra.
«Abbiamo capito,
abbiamo capito! Ce ne andiamo! Come siamo
permalosi…».
Emmett la spalleggiò.
«Forse non hanno fatto sesso
abbastanza».
«Ragazzi».
Jasper fece passare la testa attraverso la
porta. Osservò la situazione, aggrottando le sopracciglia.
Il suo sguardo passò
da Edward, in piedi a torso nudo, a me, affannosamente nascosta dalle
coperte.
Scoccai un’occhiata a mio
marito, preoccupata come
sempre quando lui e Jasper stavano nello stesso posto. Avevo paura che
mio
cognato potesse vagare con i pensieri al giorno in cui… gli
avevo confessato
che avere un figlio, magari, mi sarebbe piaciuto. Vidi Jasper esitare,
e Edward
fare una smorfia confusa. Poi Jasper mi sorrise, un sorriso piccolo e
nervoso,
quasi un tic, e io capii. Stava usando il suo potere per confondere
Edward e
non permettergli di leggere i suoi pensieri.
Mio cognato entrò nella
stanza. Piegò il capo dal un
lato. «Esme e Carlisle hanno detto di venire di
là» fece, rivolgendosi ai suoi
fratelli.
Rose alzò gli occhi al
cielo. «Non stavamo facendo
niente di male».
Alice sorrise, voltandosi nella mia
direzione. «Va
bene, andiamo. Vi ho lasciato un cambio di vestiti in bagno. E poi,
Bella, ti
devo mostrare come si usa la cabina armadio!»
trillò contenta, volteggiando
verso la porta.
«Perché,
servono le istruzioni?» borbottai fra me e
me, costringendola a lasciarsi alle spalle una risatina divertita.
Sospirai, come se mi fossi appena
tolta un peso.
Edward mi scoccò
un’occhiata di scuse. «Perdonami.
All’inizio
mi è parsa innocua. Ma non se ne voleva più
andare e non dovevano venire tutti
gli altri…».
Scossi il capo, lasciando andare le
coperte. Mi
sarebbero venuti i crampi alle braccia per quanto avevo stretto.
«Non c’è
problema. Mi piace stare con la tua famiglia. Beh, quando sono vestita»
borbottai imbarazzata.
Osservò il mio corpo ben
visibile attraverso lo strato
sottile della sottana. Mi sorrise, venendomi incontro.
«Sbaglio, o avevamo
qualcosa in sospeso…?» mormorò,
baciandomi la pelle del collo e delle spalle.
«Edward! No!»
esclamai, dimenandomi «c’è tutta la tua
famiglia di là!» gracchiai stridula.
«Insonorizzata…
ricordi?» biascicò, continuando ad
esplorare.
Chinai il capo indietro. Sarebbe
stato un dolce,
dolcissimo risveglio, ed era passato anche troppo tempo
dall’ultima volta che… «No!
Edward!».
«Ho capito, ho
capito» si arrese, sollevandosi. «Andiamo
a cambiarci. Mi serve una doccia fredda» borbottò
fra sé e sé, come un bambino.
Quando vidi i miei vestiti feci un
smorfia. Davanti ai
miei occhi c’era un completino intimo a righe rosse e
bianche, di seta, e un
completo a due pezzi di cotone. Una magliettina a mezze maniche e una
gonna lunga
fino a sotto il ginocchio con una fantasia che sfumava in giochi e
disegni, con
gli stessi colori dell’intimo.
«Alice è
pazza» mi lamentai, scuotendo il capo.
Sperando di placare il suo spirito malizioso indossai comunque, di
malavoglia,
ciò che mi aveva preparato. Edward fece la sua
doccia… che avrei tanto voluto
condividere con lui. Aveva davvero, davvero, ragione. Potevamo stare
senza i
nostri parenti. Sarebbe stato più difficile evitare di
saltarci addosso.
Quando entrai nel soggiorno un bel
mazzo di fiori,
apparentemente di campo, faceva bella mostra di sé sul
tavolo.
«Ragazzi!» ci
chiamò Esme, venendoci incontro. Mi
abbracciò stretta, affettuosamente. «Stai bene
tesoro? Ti vedo un po’ sciupata…»
constatò, dando, pur inconsapevolmente, adito alle risate e
alle battutine di
Emmett.
«Edward,
Bella…» mi sentii posare una mano sulla
spalla. «E’ un piacere rivederti» mi
salutò cordialmente Carlisle.
«Anche per me. Grazie per
la casa, è stupenda. Ben più
di qualsiasi possibile desiderio».
Ci sedemmo tutti intorno al tavolo,
popolando la casa.
Era strano vedere tutte quelle persone in quella stanza, dato che in
quei
giorni c’eravamo stati solo io e Edward. E per un attimo
pensai a come sarebbe
stato bello se avessimo potuto animare quella casa con lo scalpiccio di
piedini, i pianti, le risate infantili… Stroncai subito il
pensiero sul
nascere. In un’altra vita, forse. Non in questa, non con
Edward. Per me valeva
più di qualsiasi altro sogno.
Mi voltai nella sua direzione,
stringendogli la mano
sotto il tavolo e sorridendo.
Si girò a sua volta a
guardandomi, con un espressione
che mi chiedeva “Cosa?”.
Scrollai le spalle, facendolo
sorridere. Posai gli
occhi sul mogano opaco del tavolo e vidi la busta bianca e strappata
che era
arrivata qualche giorno prima. Deglutii. «Allora?»
chiesi titubante «notizie di…
Jacob?».
La presa di Edward sulla mia mano
si fece più forte e
tutti ammutolirono e bloccarono. Ci fu qualche istante di imbarazzante
silenzio. Solo allora mi accorsi che fino a quel momento avevano
controllato i
miei movimenti, e tentando in ogni modo di alleggerire
l’atmosfera.
«Non siamo riusciti a
prenderlo» mi spiegò infine
Carlisle «ma ci sorprende il fatto che in camera vostra non
ci fosse il suo
odore».
Battei le palpebre. Mi serviva
qualche attimo per
metabolizzare le sue parole. Se l’odore non c’era,
allora significava che
probabilmente credevano che mi fossi immaginata tutto. Davvero
l’ansia mi aveva
fatto questo brutto scherzo? Eppure, quella mano sembrava
così vera… Deglutii.
«Non ti preoccupare
amore, lo troveremo. Passerà
tutto, te lo prometto» mi rassicurò Edward.
Passerà tutto…
Risollevai lo sguardo. «Scusatemi, due istanti»
dissi con calma misurata. Mi
sollevai dalla mia sedia e andai dritta in cucina. Presi un bicchiere
d’acqua e
bevvi, spinta dal bisogno di avere le mani e la mente occupata.
Non potevo biasimarli se credevano
che fossi vittima
di un accesso d’ansia. Dopotutto, ero stata così
agitata negli ultimi tempi,
specie il giorno del mio matrimonio… Dopotutto, se davvero,
con il loro fiuto
di vampiri non avevano sentito nessuno strano odore, la notte
passata… E
infine, dopotutto, considerata la guardia che Edward mi aveva garantito
ci
fosse, appena fuori dalla casa…
Ansimai. Come poteva il mio
cervello farmi uno scherzo
simile? Con le dita tastai il punto sulla spalla dove credevo di aver
sentito
un contatto. Chiudendo gli occhi lo potevo ancora percepire sulla
pelle, vivido…
e se fosse stata solo finzione?
Mi accorsi che Edward mi aveva
seguita. Mi rigirai il
bicchiere fra le dita. «Così non c’era
nulla, eh?». La mia voce era molto meno
sicura di quanto avessi creduto.
«Bella»
sospirò.
Ansimai, distogliendo lo sguardo e
dirigendolo alla
finestra. «No, va bene. Lo sanno tutti che sono stata un
po’ agitata nell’ultimo
periodo. Beh, sai com’è… alla mia
età, sposarsi, avere un maniaco alle
calcagna…».
La voce si strozzò prima che finissi di parlare.
Compì il passo che ci
separava, prendendomi fra le
braccia. «Ehi, tranquilla. Non dirlo neppure. Lo sai che mi
fido di te».
«Davvero?»
chiesi, tremante, guardandolo negli occhi.
Mi sorrise, accarezzandomi una
guancia. «Certo. Non
mettere mai in dubbio la fiducia che ripongo in te». Mi
avvicinò a sé e mi
cullò qualche istante. «Ti va di
uscire?» mi chiese ad un orecchio, a bassa
voce. «A prendere un gelato?» mi
stuzzicò con il suo sorriso sghembo.
Sorrisi. Era molto dolce il fatto
che studiasse le mie
abitudini umane per propormi qualcosa che mi facesse felice. Annuii,
contenta. «Andiamo
a prenderne un po’ per metterlo nel freezer, così
magari posso mangiarlo
stasera. La tua famiglia si potrebbe fermare qui da noi… mi
sono mancati tanto…
che ne dici?».
Ridacchiò, sistemandomi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Certo. Sono ansioso di provare la nuova scacchiera con
Alice. Ma…» si
avvicinò, fino ad avere le labbra a contatto con il mio
orecchio «non più di
stasera. Poi abbiamo impegni…».
«Edward!»
esclamai indignata, certa che tutti dall’altra
stanza ci avessero sentito.
Scrollò le spalle,
indifferente, felice come un
bambino.
Comunicammo i nostri programmi al
resto dei Cullen che
furono felici di aspettare il nostro ritorno. Esme mi
assicurò che avrebbe
chiamato mio padre, così che potessi vederlo. Prendemmo la
Volvo, che se ne
stava insieme alla mia auto - usata in totale due o massimo tre volte -
e alla
Aston Martin nera di Edward, nel nostro nuovo garage. Certo, io ne
avrei
evidentemente fatto a meno, ma considerando il fatto che quella era
anche casa
di Edward…
Apprezzai il soprabito che mi aveva
dato Alice prima
di uscire. Quel giorno faceva così tanto freddo e
c’era tanta umidità, che
anziché piovere sembrava stesse per nevicare. Nevicare
d’estate! Solo a Forks
potevano accadere certe cose!
«Mi dovrai insegnare la
strada» dissi a Edward mentre
mi faceva accomodare sul sedile del passeggero.
«Oh, non è
così difficile, basta che tu stia attenta»
ridacchiò, dato che avevo già con gli occhi
chiusi, abbracciata al suo
muscoloso e tonico avambraccio.
«Magari
un’altra volta» replicai maliziosa. Mentre mi
stringevo
al suo braccio pensavo a come il suo odore, il suo tocco, il suo
sorriso, mi
avessero fatta innamorare di lui.
Quando ero arrivata a Forks, ero
solo una ragazzina
che trascorreva la sua vita senza aspettarsi nulla dal futuro. Ora
invece,
avevo Edward. Edward, un vampiro, era mio marito, e presto
anch’io lo sarei
diventata, per poi trascorrere l’eternità con lui.
Era così… tanto.
«Edward?» lo
chiamai, ancora appiccicata al suo
braccio, riaprendo però gli occhi.
«Sì?».
«Ti amo».
Rilassò i muscoli delle
spalle. «Ti amo anch’io». Si
avvicinò con le labbra alle mie, donandomi un lungo, lento e
delizioso bacio. A
quel punto mi accorsi che eravamo fermi di fronte al minimarket di
Forks.
Facemmo una corsetta sotto la
pioggia sottile che
aveva appena cominciato a scendere.
«Mmm»
gorgogliò Edward, annusando l’aria mentre le
ante scorrevoli del negozio si aprivano «penso che abbiano
appena scaricato un
carico di liquirizia…». E non potei che leggere la
malizia nella sua voce.
Avvampai, ricordandomi della mia
sfacciataggine.
Quando ritrovai l’uso della parola, lo schernii
«Bene, tu vai a prendere la
liquirizia e io prendo il gelato, allora! Se davvero questa sera
dobbiamo
rimanere soli» cincischiai, tentando di apparire sicura di
me.
Ridacchiò del mio
mancato tentativo e mi baciò la mano
con cui gli avevo dato una spintarella, poi
s’incamminò verso il centro del
negozio.
Sorrisi e mi avviai verso la mia
meta: il bancone dei
surgelati. Sapevo benissimo cosa stavo cercando, gelato gusto fragola e
limone,
i miei preferiti. Afferrai con soddisfazione il barattolo di gelato e
richiusi
il frigo. Missione compiuta. Chissà, magari quella sera
avremmo potuto usare
anche quello…
Improvvisamente mi ritrovai una
lama affilata alla
gola e un braccio caldo che m’immobilizzava entrambe le mani
lungo il busto.
Una voce calda, roca, mi
sussurrò all’orecchio. «Tana
per il lupo».
Subito dopo, mi accorsi di due
occhi ambra, congelati
dal terrore.
Me ne stavo ferma, completamente immobilizzata dalla
paura
Capitolo riveduto e
corretto.
Me ne stavo ferma, completamente
immobilizzata dalla
paura. Sentivo ogni muscolo contratto, indolenzito come se avessi corso
per ore;
il cuore mi batteva velocissimo nel petto, ad un ritmo forsennato; il
respiro
era irregolare e breve.
Sentii tutta la stanza girare molto
velocemente su sé
stessa, ma mi concentrai in ogni modo possibile per rimanere ferma e
imporre
alle mie gambe di rimanere dritte. Se mi fossi mossa, anche solo di un
centimetro, la lama affilata che mi minacciava avrebbe trafitto la
carne
sottile del mio collo. Sentivo nella mia gola un magone, come di paura,
un
blocco che non osavo mandare giù.
Due ringhi cupi nascevano dai petti
della due figure
leggendarie che si fronteggiavano.
Jacob, dietro di me, strinse la
presa sul mio corpo.
Era caldo. Davvero caldo. Troppo caldo. La mia schiena doveva trovarsi
a
contatto direttamente con la sua pelle bollente, quindi doveva essere a
petto
nudo. Anche se io, considerando la sua enorme stazza, dovevo arrivargli
più o
meno appena sopra un fianco.
Edward, a circa quindici metri di
distanza da noi, in
tutta la sua terrificante bellezza, era in posizione
d’attacco: le ginocchia
piegate, e il busto leggermente inclinato in avanti. Sul suo volto si
leggeva
il terrore, l’odio puro e la rabbia. La bocca era aperta a
mostrare i denti
bianchissimi in un ghigno spaventoso. «Lasciala
immediatamente» ringhiò, con
calma misurata. La sua voce faceva quasi paura anche a me.
Jacob fece un risata sfacciata,
ostentando
disinvoltura, sebbene sentissi dai muscoli contratti che mi stingevano
a lui,
che stava cercando di controllarsi. Non osavo neppure immaginare cosa
mi
sarebbe successo se si fosse arrabbiato tanto da tremare…
«No»
ringhiò poi, minaccioso «perché
dovrei?». Il
passaggio repentino d’umore lo faceva apparire ancora
più folle e pazzo.
«Jacob,
calmiamoci». Edward abbandonò la posizione
d’attacco, lentamente, lasciando le braccia a
mezz’aria, anche se potevo notare
benissimo che la cosa gli costò non poco.
«No. Calmati tu se
vuoi!».
Mio marito ebbe un fremito vedendo
la lama così
pericolosamente vicina alla mia gola. «Jacob, sai cosa
accadrà se…» inspirò
lentamente, come per calmarsi. «Se ti agiti troppo, le farai
del male. Potresti
anche ucciderla».
«No!»
sbottò Jacob, facendomi cacciare un lieve gemito
di paura. «Io so controllarmi. Piuttosto, se io mi agito
troppo lei non muore
per colpa mia. Muore per colpa tua» insinuò,
alludendo al desiderio di Edward
di bere il mio sangue.
«Spero non
accadrà» rispose lui, ma suonava più
come
una minaccia che come una speranza. «Ma in tal caso, io,
saprò controllarmi.
Falla venire da me». Stava usando la sua voce da vampiro,
quella suadente che
usavano per incantare le vittime.
«Lei è mia»
ringhiò allora Jacob.
«No, Jacob, no»
sembrava quasi che si stesse sforzando
di far ragionare un pazzo, o forse era proprio così.
«Lei non è tua…».
«E allora di chi sarebbe,
tua?» sputò.
Su volto di Edward comparve un
debole sorriso. «Lei
non è di nessuno. Tuttavia, ha deciso di stare con me e io
non intendo negarle
questo piacere».
«Chi te l’ha
detto? Forse… lei vorrebbe stare con
me…»
Jacob sembrava quasi disorientato, i modi suadenti di Edward stavano
funzionando.
«Non mi sembra»
ribatté lui, calmo ma determinato.
«E chi te lo
dice?» urlò l’altro.
«Guardala,
Jacob» fece un cenno nella mia direzione
«è
terrorizzata. Non ha detto una parola, non si è mossa.
E’ sconvolta. Guardala,
Jacob, ha paura. Ha paura di te».
Ansimai. Stavano parlando di me?
Tentai di
visualizzare come potesse apparire la mia immagine in quel momento. Gli
occhi
sgranati, il viso pallido, le mani tremanti e il corpo immobile. E poi,
quello
che potevano sentire. Il mio respiro irregolare, e il cuore che
forsennato mi
batteva nel petto.
Il braccio che mi teneva ferma
strinse più forte. «Beh,
vorrà dire che questa volta la consolerò io,
no?!» disse sprezzante «tu hai
avuto la tua occasione, ieri sera…».
Aprii le labbra in un gemito
sgomento. Era davvero
entrato nella nostra camera!
Edward lo fissava furioso e
confuso. «Eri tu?».
«Già,
io» ghignò «avresti fatto bene a
crederle sin da
subito, sai succhiasangue? La tua…»
sputò per terra «la tuamogliettina
aveva ragione! Proprio così».
La mia mente vorticò
faticosamente, come se stessi
impastando della pasta densa con un mestolo. Come poteva Jacob sapere
così
tanto? Come poteva essere arrivato a noi?
Edward serrò la
mascella, e parlò con i denti
contratti. «Non c’era il tuo odore».
Jacob scoppiò ancora in
una risata maligna. «Già, come
adesso, vero?!». Rise ancora, e Edward strinse ancora di
più i pugni. Pareva
infuriato. Chissà quale mostruosità poteva
avergli letto nella mente.
«Sai, Sanguisuga-Cullen,
non dovresti lasciarti
scappare certe informazioni, neppure mentre fate certi
giochetti…». Sentii la
bile salire e scendere velocemente per la gola. «E poi, tutta
l’allegra
famigliola entrava in camera a controllare e diceva “no,
io non sento nulla”.
Evitava con cura di farti notare che c’era un forte odore di
liquirizia.
Discreti come sempre!».
Fissai terrorizzata e disgustata
mio marito, mentre
tutto si faceva chiaro. In un qualunque altro contesto sarei avvampata
fino allo
stremo, ma in quell’istante impallidii, nauseata dal senso di
schifo e di
disgusto. Ci stava controllando!
«La liquirizia
è il vostro punto debole, piacevole è
vero, ma copre gli altri odori» ghignò sardonico.
Mi tornarono in mente le parole di
Edward di poco
prima. Penso che abbiano appena scaricato un carico di
liquirizia… In
qualche modo, ci aveva spiati, aveva scoperto che
la liquirizia non
permetteva ai vampiri di distinguere efficacemente gli altri odori. E
così,
l’aveva usata sia in camera, sia qualche istante fa, nel
supermercato.
Le labbra di Edward si scoprirono
in un ringhio,
mostrando i denti.
Improvvisamente mi sentii
trascinare. Jacob mi stava
portando indietro, verso l’uscita. Non mossi un passo. Pur
volendo le gambe non
avrebbero risposto ai miei comandi.
«Ti conviene collaborare,
Bells…» ringhiò ad un mio orecchio.
Non avevo ancora parlato, come se
quelle cose non
stessero, o non potessero, accadere a me. Come se stessi vivendo un
incubo. Ma
avevo il terribile sospetto che una volta sveglia non mi sarei trovata
fra la
braccia confortevoli di mio marito.
A quel punto vidi gli occhi
terrorizzati di Edward
incontrare i miei e decisi che dovevo ad ogni costo fare qualcosa.
«L…lasciami…ti…ti
prego…» protestai debolmente. La voce mi usciva
flebile e
rauca, la gola completamente secca.
Mi sentii strattonare indietro, con
forza. «Cammina»
sibilò invadendomi col suo fiato caldo.
I miei occhi erano ancora fissi in
quelli di Edward,
immobile al suo posto, di nuovo in posizione d’attacco.
«No…non ci riesco…»
sussurrai flebile.
Il coltello si strinse minaccioso e
con più forza
sulla mia gola, tanto da costringermi a inclinare la testa indietro.
«Cammina»
sibilò più lentamente, torvo.
Con un gemito contrariato non potei
fare altro che
ubbidire. Lentamente, un piede, tremante, si sollevò dal
pavimento piastrellato
bianco del supermercato.
«Più veloce,
Bells!» mi rimproverò, infuriato.
La mia paura e la mia angoscia
esplosero in un attimo,
trovando gli occhi di Edward che mi fissavano distrutti e terrorizzati.
«Lasciami!»
urlai, dibattendomi inutilmente e
pericolosamente nella sua morsa ferrea.
Da quel momento non sentii
più il terreno sotto i
piedi. Tutto sfrecciò intorno a me come una macchia veloce e
mi ritrovai di
nuovo ferma di fronte alla cassa del supermercato. Edward, ora, era a
meno di
dieci metri da me.
Notai distrattamente la cassiera
che sobbalzava
impaurita alla vista di quella scena.
I miei piedi toccarono nuovamente
terra.
«Non osare avvicinarti.
Non seguirci. Non muoverti. O
la uccido». Quelle parole terribili, che sentivo rimbombare
nel petto del mio
carceriere, mi scatenarono un fremito di paura.
«Edward…»
chiamai debolmente. Sentii una goccia di
acqua salata scendermi lungo la guancia. Aveva promesso. Aveva promesso
che la
mia più grande paura non si sarebbe mai realizzata, che
Jacob non sarebbe mai
riuscito a portarmi via da lui.
«Non oseresti
mai» ringhiò mio marito, guardandolo
dritto in faccia. Probabilmente gli stava leggendo i pensieri per
tentare di
capire se stesse dicendo sul serio o fosse soltanto un bluff.
Udii un vocina stridula e
angosciata di donna. «C…calma,
non farle del male…» disse piano la cassiera,
alzandosi dalla sedia con le mani
in alto «ti do tutto quello che vuoi, lascia andare la
ragazza…».
Sentii altre lacrime cadermi dagli
occhi e scivolare
lungo le guance, lente, fin sotto al mento, fino alla lama che
minacciava la
mia gola. Povera donna. Lei non sapeva. Non sapeva che in quel momento nessuno,
nella stanza, stava prestando neppure un minimo d’attenzione
a cosa stesse
dicendo. Non sapeva quali leggendarie creature si stessero scontrando
davanti
ai suoi occhi. Lei era normale.
Bastò un attimo. Un solo
attimo per ricordare la mia
vita felice di pochi istanti fa. Un marito, una splendida luna di
miele, una
famiglia che mi aspettava a braccia aperte; solo per festeggiare la mia
felicità. Ricordai il meraviglioso sorriso di Edward, ora
sostituito da un
ghigno spaventoso.
Quella donna non sapeva nulla,
eppure aveva tentato di
aiutarmi.
Il cellulare di Edward
squillò impaziente nella sua
tasca, ma lui non accennò a voler rispondere. Se fosse stata
Alice, o chiunque
altro della famiglia, comunque, come risposta sarebbe stata altrettanto
esauriente. Ma non sarebbero mai riusciti ad arrivare in tempo.
Impossibile.
Singhiozzai leggermente,
avvicinandomi pericolosamente
con la vena pulsante del collo alla lama. L’attenzione di
Edward e Jacob si
spostò immediatamente su di me.
«Edward…»
lo richiamai, la voce rotta dal pianto. Che
cosa avrei mai potuto fare se fosse veramente riuscito a prendermi?
Sentii la
presa di Jacob farsi più forte intorno a me e la mano che mi
tratteneva ebbe un
fremito.
Smisi di respirare, con un
singhiozzo smorzato,
spaventata a morte.
Edward si mosse impercettibilmente
e Jacob ringhiò.
«Non. Ti.
Muovere».
Edward lo scrutava, le braccia semi
alzate. «Non
oseresti mai ferirla» disse con ostentata sicurezza. Si
muoveva con cautela. Non
voleva farlo agitare, ma sapeva che non mi avrebbe mai intenzionalmente
ferita.
«Non mettermi alla
prova» rispose con durezza Jacob.
«Lasciala!»
ringhiò ancora mio marito, questa volta
più forte. Sembrava quasi spazientito. Non avevo mai visto
Edward perdere la
pazienza così.
Solo in quel momento, quando un
capogiro m’investì,
ricordai che non stavo respirando.
Poi, tutto accadde molto
velocemente, quasi
contemporaneamente. Edward approfittò del momento di
distrazione di Jacob, che
strinse maggiormente la presa su di me per trattenermi e non lasciarmi
scivolare, per muoversi in avanti. Ma poi, inaspettatamente, sentii un
dolore
bruciante infiammarmi la gola, mentre la lama del coltello si moveva
per lacerarmi
la pelle e non riuscii a trattenere un urlo.
La povera donna che assisteva alla
scena, sgomenta,
cacciò uno strillo di terrore.
Subito dopo un liquido caldo e
denso mi colava sul
collo, nauseandomi con il suo odore.
Edward mi fissava con gli occhi
sgranati, sorpreso e
terrorizzato. Non se lo sarebbe mai aspettato. Jacob non stava
bluffando.
«Ti avevo avvertito.
Faccio sul serio sanguisuga». La
voce di quello che un tempo - ora non riuscivo a capire quanto lontano
- avevo
creduto un amico, aveva un che di nervoso e isterico. Non riuscivo a
capacitarmi che ci fosse ancora qualcosa di umano in lui. Mi sembravano
così
lontani i tempi in cui la sua faccia sfocata occupava i miei giorni
bui…
Tentai di portarmi una mano sulla
gola, per
controllare quanto profondo potesse essere il taglio, ma la stretta di
Jacob
non me lo permise.
D’un tratto, si
voltò si scatto verso la porta e
imprecò qualcosa, troppo a bassa voce perché
potessi sentirlo. Forse, i Cullen
stavano arrivando.
Una forte scarica
d’adrenalina mi vibrò in tutto il
corpo. Mi dibattei, affondando le unghie nel braccio che reggeva la
lama. Mi
contorsi, pallida in viso, la voce soffocata in gola per la minaccia
del
coltello.
«Non ci seguire. E questa
volta farai bene a fare ciò
che ti dico, o la lama andrà più o
fondo» minacciò, subito prima che la figura
di Edward, sformata ai miei occhi dalle mie lacrime, uscisse dalla mia
visuale.
In poco più che dieci
secondi mi ritrovai sul sedile
di un auto da corsa, il coltello ancora puntato alla gola.
Jacob, accanto a me,
ingranò la prima con la sinistra
e partì sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia. In un
ultimo istante mi
parve vedere la figura di Edward, per la strada, immobile, sotto la
pioggia
battente.
Non aveva mantenuto la promessa.
Non aveva potuto
farlo. E adesso Jacob mi stava portando via da Edward. Via da mio
marito. Via
dall’amore della mia vita. In pericolo.
Urlai, urlai forte contorcendomi
sul sedile.
Jacob levò via il
coltello dalla mia gola. Non serviva
evidentemente a intimidire me. Io potevo anche essere fermata molto
più
semplicemente. Quello serviva solo a minacciare Edward. «Sta
ferma» sibilò,
concentrandosi sulla guida fra le strade ricoperte dalla pioggia.
«Lasciami andare!
Lasciami andare! Lasciami!»
urlai, agitandomi sul sedile, sbattendo forte i pugni contro il suo
braccio,
che rimaneva illeso. Lui restava fermo, concentrato sulla strada che
fissava
torvo.
Allora mi voltai, e feci per aprire
la portiera
dell’auto.
A quel punto mi bloccò
con un braccio.
«Forse non ci siamo
capiti, devi fare la brava»
ringhiò cupamente.
«No!» gli urlai
forte in faccia, furiosa. Presi a
dimenarmi sul sedile, sbattendo pugni contro il finestrino.
«Dove mi porti?! Dove
mi stai portando? Fammi ritornare indietro! Non ti voglio, lo capisci?
Non ti
voglio! Mi fai schifo! Sei un arrogantissimo pezzo di merda!»
sbraitai, prima
di essere costretta a prendere un respiro.
Sorrideva. «Sei sempre
stata così gentile con me. Adoro
i tuoi complimenti».
«Fottutissimo stronzo! Ti
piace questo complimento?
Non sei degno nemmeno di respirare la mia stessa aria, mi appesti con
la tua
presenza!».
«Gentile»
commentò, continuando a guidare impassibile.
Ansimai, i pugni stretti tanto da
ferirmi i palmi con
le unghie. I denti erano così serrati che sentivo un
disgustoso sapore
metallico in bocca. La ferita mi bruciava sulla gola, e delle gocce di
sangue
si erano infiltrate fino alla scollatura dell’abito. Volevo
vomitare. Avrei
voluto graffiarlo fino a farlo sanguinare, colpirlo e urlargli
“smettila,
smettila, smettila e lasciami in pace!”.
Invece presi un respiro e mi
calmai. Non sarei mai
riuscita a infliggergli un danno fisico. E insultarlo non stava
portando a
nulla. «Jacob. Ti rendi conto che stai attuando un vero
sequestro di persona. Stai
infrangendo la legge. E quest’auto? Scommetto che
l’hai rubata. Mio padre è lo
sceriffo di Forks! Pensi che ti lascerà libero quando ti
ritroverà?! Andrai in
galera!».
Non ottenni alcun risultato.
Scoppiò in una fragorosa
risata. «Non ci troveranno, ma anche se lo facessero non ho
niente da perdere»
disse, sicuro di sé. Scrollò le spalle.
Chiusi gli occhi, arrovellandomi
alla ricerca di un
altro tentativo. Non dovevo pensare a quello che stava accadendo. Non
potevo.
Non ne sarei uscita viva. Davanti ai miei occhi chiusi comparve vivida
l’immagine di una busta bianca con il mio nome.
«Non ci pensi a Billy? A tuo
padre? È in pensiero per te, lo sai».
Vidi i suoi pugni stringersi con
maggiore foga intorno
al volante. La sua espressione pareva tormentata. «Lui non
è più mio padre»
sputò infine.
Sbiancai. Non avevo capito fino a
che punto erano
arrivati. Compatii il povero Billy Black, e questo mi fece solo provare
più
repulsione per Jacob.
Solo con la coda
dell’occhio coglievo il paesaggio
scorrere in lontananza. Lontano, lontano, sempre più
lontano. Fino a dove ci
saremmo spinti? Quanto spazio avrebbe messo fra me e Edward? E poi? E
poi, cosa
ne sarebbe stato di me?
Deglutii, e sentii un latro fiotto
caldo di sangue
colare dalla ferita. Edward non era riuscito a chiedermelo. Non era
riuscito a
dirmi che sacrificarmi, lasciando che Jacob facesse del mio corpo
quello che
voleva, sarebbe stato meglio per lui, piuttosto che suicidarmi. Non me
l’aveva
chiesto, perché mi aveva promesso che non sarebbe mai
riuscito a portarmi via
da lui.
Eppure sembrava proprio che ora
dovessi decidere…
Con un urlo mi lanciai contro il
volante facendo
sbandare gravemente l’auto contro il suolo bagnato. Sentii il
cuore il gola mentre
schizzavamo verso il guardrail, sempre più veloci, sempre
più veloci… chiusi
gli occhi, e una stridio di freni mi penetrò nelle orecchie.
Eravamo fermi.
Ansimai, fissando la strada.
Con una mano afferrò la
mia maglietta, sollevandomi
dal sedile. Lo fissai con gli occhi sgranati. Era davvero incazzato.
«Tu ora
verrai con me».
«No» sputai,
ricacciando strenuamente indietro le
lacrime. Non avrei pianto, non davanti a lui.
Ringhiò, avvicinando il
suo viso al mio. «Non sei tu a
decidere».
«Ah, no? E chi,
allora?» sbottai tremante, tentando inutilmente
di liberarmi dalla sua presa. Mi sentivo soffocare.
«Io» rispose
con naturalezza, come se se lo fosse
ripetuto mille volte. «Evidentemente non sei in grado di
decidere per te».
Scossi il capo. «Ci
troverà, lo sai» sibilai fra i
denti.
Un ghigno divertito comparve sulle
sue labbra. «Invece
no. Ho costruito un perfetto rifugio» fece un cenno col capo
verso l’esterno, indicando
delle sagome rocciose, «il mondo è ampio, enorme.
Non penserà mai di cercarci
qui, a Goat Rocks».
Mi lasciò andare di
colpo, e con un ansito sconvolto
caddi sul sedile, gli occhi persi nel vuoto. Non ebbi tempo o modo di
ribellarmi, che mi trovai con i mani e i piedi legati dalla corda
ruvida, che
mi incatenava al sedile.
«Adesso. Sta.
Ferma» ringhiò, dando nuovamente gas. Le
sue sopracciglia ebbero un sussulto. «Ti piacerà,
vedrai» borbottò con
convinzione.
Mi lasciai andare sul sedile,
completamente distrutta,
senza tentare più di arginare le lacrime.
In un attimo tutto il mondo mi
stava cadendo addosso.
Le promesse che Edward mi aveva fatto in quell’istante furono
irrealizzabili.
Tutto era cambiato nel giro di pochi istanti, tutta la mia meravigliosa
vita
era andata in frantumi per il volere di un solo essere.
Il cuore mi fece una capriola nel
petto al pensiero di
mio marito. Non avevo ancora imparato a chiamarlo così che
già dovevo perderlo.
Quanto grande sarebbe stata la sua afflizione nel sapere di non aver
potuto
tenere fede ad una promessa così grande?
E cosa sarebbe stato meglio per
lui, sapermi con un
altro o sapermi morta? Perché avrei preferito mille volte
morire piuttosto che
stare con qualcuno che non fosse lui.
Quando un ennesimo singhiozzo mi
scosse un ennesimo
fiotto di sangue cadde ad inzuppare la mia maglietta. Delle piccole
fitte acute
mi rendevano difficile respirare.
Mi portai entrambe le mani, legate,
all’altezza della
ferita, e quando le ritirai le ritrovai copiosamente macchiate di rosso
vermiglio. Iniziai inevitabilmente a respirare con la bocca, mentre
vedevo
intorno a me tutto girare lentamente, dandomi la nausea. Se volevo
continuare a
vivere avrei avuto bisogno di un bendaggio. Altrimenti,
chissà… sarebbe solo
servito a facilitare il mio compito d’evasione…
Fui scossa da un brivido.
Un’idea mi era baluginata
nella mente. Un piano complesso, per chiunque, e fatto anche di molte
casualità. E Edward era uno degli elementi determinanti. Ma
come potevo abbandonare
del tutto la speranza? Se volevo arrivare fino in fondo dovevo almeno
sforzarmi
di lottare.
«Jake…»
lo chiamai, facendo bene attenzione a
chiamarlo con il suo nomignolo. «Ti…ti prego
posso… posso mettermi qualcosa…»
deglutii «sulla ferita…?».
S’irrigidì, e
si voltò lentamente a scoccarmi
un’occhiata preoccupata. Mi scrutò combattuto
valutando quello che il mio
gesto avrebbe potuto comportare. «Fa’
quello che vuoi» sibilò fra i denti,
voltandosi repentinamente verso la strada.
Sollevai le mani
all’altezza del suo volto perché
potesse vederle. Si voltò a guardare le manette.
«Non ce la faccio altrimenti…»
sussurrai.
Con un ringhio rabbioso
sbatté le mani sul volante,
facendomi trasalire. Ci pensò un attimo, valutando se
concedermi una cosa
simile, alla fine espirò, sicuro di sé. Poi
afferrò un oggettino dalla tasca e
lo avvicinò alla corda. Mi guardò negli occhi.
«Se ti muovi, ti faccio del male.
Non scherzo Bells. D’ora in poi si fa a modo mio.
Capito?!».
Annuii, inerme, terrorizzata. Le
mia espressione parve
tranquillizzarlo. Sentii il metallo del coltellino scattare e mi
ritrovai le mani
libere.
Jacob mi lanciò dei
fazzolettini e abbassò lo
specchietto di cortesia, in modo che potessi guardarmi. «Fai
in fretta»
m’intimò, e capii che presto mi avrebbe legata di
nuovo. In quel momento
imboccammo l’autostrada. Dovevo sbrigarmi.
Alla vista della mia immagine
sgranai gli occhi.
Grossi rivoli di sangue mi cadevano dal collo e la maglietta del
completo ne
era intrisa. La testa presa a girarmi, tuttavia mi imposi di rimanere
lucida.
Non dovevo farmi prendere dalla debolezza e dalla nausea, non
ancora.
Strinsi i denti, per farmi coraggio.
Esaminai il taglio, tamponandolo
con i fazzolettini. Così
sembrava di certo meno grave: una linea rossa dai bordi pulsanti. Mi
sollevai
la maglietta fino a rivelare la canotta a righe rosse e bianche che mi
aveva preparato
Alice quella mattina.
Ne strappai un grosso lembo, molto
più grande del
necessario. Da quello ne strappai ancora una strisciolina, con cura, in
modo da
tagliare perfettamente una riga rossa. Altrimenti il mio messaggio non
avrebbe
avuto alcun senso. Mi ci volle un po’ di tempo
perché le mani mi tremavano
troppo, e dovevo stare attenta al fatto che Jacob non badasse troppo ai
miei
gesti.
Presi la parte restante e me
l’avvolsi intorno al
collo, come una benda, stringendola di lato in un nodino.
Posai la striscia di stoffa rossa
sulla ferita,
macchiandola con qualche goccia di sangue che era colata dal bendaggio.
Poi, la
nascosi in un pugno. Così il mio odore sarebbe stato
più forte. Soprattutto per
i vampiri.
A quel punto mi lasciai andare sul
sedile, concedendomi
di essere sconvolta e respirando con la bocca. Lanciai
un’occhiata alla mia
immagine pallida, quasi verdognola, nello specchio e tentai di
ricordarmi
com’ero con tutto il sangue addosso. Sentii lo stomaco
contorcersi e delle
gocce di sudore si affrettarono a comparire sulla mia fronte.
«Jacob…puoi…
puoi aprire il finestrino… non… non mi
sento bene…». E quasi gioii di come la mia voce
apparisse debole e tremante.
«No, mia furba
Bells» sbottò. Ma quando si voltò
nuovamente verso di me qualcosa nel mio viso dovette fargli cambiare
idea.
«Ti
prego…» lo supplicai, ansante.
Imprecò. Poi, con uno
scatto, legò ancora rapidamente
la corda attorno ai miei polsi. Abbassò un finestrino
elettrico. Tirai un
lievissimo sospiro di sollievo. Il cuore sembrava essermi impazzito.
Mi sporsi verso
l’esterno, per quanto la corda che mi
teneva legata al sedile lo permettesse. Stava piovendo.
Cazzo, stava piovendo. Le tracce d’odore
svanivano più velocemente. Tentai
di non farmi prendere dall’inutile panico e lasciai comunque
andare il pezzo di
stoffa dalle mie mani, mentre delle deboli lacrime sfuggivano ai miei
occhi.
Contemporaneamente sentii un
ringhio e mi ritrovai con
la schiena appiccicata allo schienale.
«Che hai fatto?!»
sbraitò Jacob.
Mi feci piccola sul sedile,
terrorizzata. Stava
tremando visibilmente. Se ti muovi ti faccio del male.
Chiusi gli occhi.
Speravo non troppo male. Non erano i lividi e le ossa rotte quello che
non
potevo sopportare.
Scoppiò in una risata
fragorosa.
Sgranai gli occhi, stupefatta.
«Oh, Bells, cosa hai
fatto?» rise ancora, un suono gutturale
e terrificante. «Stiamo facendo una deviazione. Anche se
trovassero la tua
reliquia, non ne sentirebbero mai l’odore, perché
sta piovendo! Ma io spero che
lo trovino sai, così, il tuo succhiasangue andrà
fuori strada, e sarai stata tu
stessa a farlo!» esclamò allegro, continuando a
ridere.
Mi gelai sul mio posto. Avrebbe
comunque funzionato,
mi ripetevo fra me. Si, Edward avrebbe capito tutto. Lui mi avrebbe
salvata.
Dovevo crederlo. O morire.
Sperai che non avesse perso ancora
la passione per il
nostro quadro preferito.
Jacob si era messo alla guida e non aveva più
aperto bocca e lo stesso avevo fatto io
Capitolo riveduto e
corretto.
Jacob si era messo alla guida e non
aveva più aperto
bocca e lo stesso avevo fatto io. Me ne stavo sul sedile, in silenzio,
scossa
dai singhiozzi causati dal pianto. In lontananza vedevo il sole basso.
Era già
il tramonto. Mezza giornata era passata lontana da Edward.
Quel pensiero non fece altro che
scatenare una nuova
ondata di lacrime. I polsi e le caviglie mi dolevano per essere stati
immobilizzati da quelle corde ruvide che, ne ero certa, dopo la mia
insolenza
non mi avrebbe tolto finché non saremmo giunti a
destinazione. O forse neppure
allora. Il sangue m’imbrattava la maglietta e il solo
pensiero mi faceva venire
allo stomaco crampi dolorosi, quasi quanto quelli causati dalla rabbia,
dall’odio e dalla desolazione. Ero debole. Nonostante non
avessi fame capivo
che era importante che mangiassi qualcosa, ben più della
scarsa colazione
consumata quella lontana mattina. Chissà se mi avrebbe fatto
mangiare la cena.
Chissà dove saremmo stati fra un paio di ore. Magari, se si
fosse fermato in
una caffetteria o in un bar… Impossibile. Non avrebbe mai
rischiato tanto. E a
quella stanchezza si univa lo stremante pianto ininterrotto.
Ma non potevo concedermi il lusso
di dormire. Dovevo cercare
di capire dove, di preciso, mi stesse portando. Non che potesse servire
a
qualcosa, ma magari sarei riuscita a mandare qualche altro indizio a
Edward con
la speranza che lo ritrovasse.
E comunque, malgrado tutta la
stanchezza, non sarei
mai riuscita a dormire con Jacob accanto a me.
Mi ritrovai a pensare a come
potessi essere giunta a
tanto. Ad aver paura del mio migliore amico. A quale e quando fosse
stato il
punto di rottura.
L’ultima volta che
l’avevo visto, con un sorriso sulle
labbra, era stato poco prima che gli dicessi addio. Mi sentivo
così in colpa
per lui e per quello che gli avevo fatto. Con il mio comportamento,
avevo
alimentato le sue speranze.
Avevo sbagliato. Sbagliato
perché non avevo capito.
Jacob aveva sempre covato una malsana idea del nostro rapporto, che
avevo
dapprima ignorato, poi evitato e infine tentato inutilmente di
soffocare. Era
inutile. Per quanto lo respingessi, la sua ossessione per me sembrava
solo
crescere. Come se trovasse infinitamente stimolante il fatto che non
potesse
avermi, che fosse una sfida.
Forse si era persuaso che, malgrado
tutto, lo amassi.
Proprio come mi aveva detto, proprio come aveva cercato di farmi
capire. Come
poterlo convincere del contrario, quando con arroganza ed estrema
sfacciataggine vedeva amore nel mio puro odio?
«Smettila di
frignare!» mi urlò contro a un certo
punto.
M’immobilizzai sul posto,
smettendo di respirare, ma
non potendo impedire alle lacrime di continuare a scendere.
«Hai capito?»
sbraitò ancora.
Era difficile parlare con le labbra
che tremavano.
«P-perché mi fai qu-esto?».
Le sue folte sopracciglia scure si
unirono in una
linea. Quando riprese a parlare la durezza delle sue parole mi
sconvolse. «Lo
faccio per te».
«Per me? Come puoi farlo
per me se io non lo voglio?»
chiesi, la voce arrochita dal pianto.
A quelle mie parole dure si
voltò nuovamente verso la
strada e strinse i pugni sul volante. «Tu non sai quello che
vuoi».
«Lo so, perfettamente.
Voglio che prendi questa cazzo
di macchina, fai inversione, e mi riporti alla mia vecchia vita, alla
mia
famiglia, alla mia casa. Da mio marito»
sputai.
Irrigidì la mascella.
«Tu non sai quello che vuoi»
sibilò minacciosamente.
«Lo so,
invece!» urlai. «Ho già avuto mio
marito, cosa
credi? Abbiamo avuto una lunga, lunghissima luna di miele. Abbiamo
fatto sesso,
il sesso migliore di sempre, e sai perché? Perché
lo amo. Ma cosa te lo dico a
fare? Tu eri lì, come un povero sfigato, a spiarci e farti
una sega come un
maniaco sessuale!».
Iniziò a tremare
furioso. «Troia!». L’auto si
arrestò
bruscamente. Mi mise una mano al collo e mi sbatté contro il
finestrino,
togliendomi l’aria.
«J…Jacob»
sibilai, raspando il fiato nella gola. Oltre
al terrore per non poter respirare sentivo il bruciante dolore per la
sua presa
contratta contro la ferita ancora aperta.
Sembrava un mostro. Mi mostrava i
denti, digrignati.
Aveva le narici spalancate e respirava irregolarmente. La sua
espressione era
dura, cattiva, cinica. «Sai cosa?»
domandò retoricamente, dato che, ovviamente,
non potevo rispondergli in quelle condizioni,
«C’è ancora un mucchio di roba
che lui non può darti ed io sì».
«E di questo cosa mi
importa se…» iniziai a gracchiare
debolmente.
Strinse la presa con forza, facendo
cozzare la mia
testa contro il finestrino. Le parole si soffocarono nella mia gola.
«C’è
ancora un mucchio di roba. A partire da questo»
sibilò, abbassando il tono di
voce.
Fremetti di terrore quando
indirizzò la mano libera
verso il mio corpo. La posò sulla pancia.
«Questo Bells,
questo» sussurrò con un tono melenso.
Mi dibattei, ma le mani legate mi
impedivano i
movimenti. Provai inutilmente ad allontanarlo.
«L-asciami… p-orc-o…» riuscii
a
sputare. Volevo dimostrarmi sicura e arrabbiata, ma non riuscivo a
nascondere
il terrore. Sentivo le vene e le arterie pulsare violentemente sotto la
sua
mano, allo stesso ritmo forsennato del mio cuore.
Mi sorrise, sardonico.
«Avremo un bellissimo bambino».
Dopo quelle parole non udii
più nulla. Sentii qualcosa
di liquido bagnarmi copiosamente il collo e, contro tutti i miei
propositi, il
buio mi avvolse.
Mi risvegliai su un letto a due
piazze, sotto una
coperta ruvida e calda. Aprii gli occhi, ma quello che vidi non mi
piacque.
Non c’erano le morbide
nuvole di tulle. Non c’era il
copriletto di seta. E soprattutto, a scrutarmi con degli occhi ambrati
e un
sorriso mozzafiato, non c’era Edward.
Al loro posto c’era una
stanza umida, per metà
completamente ricoperta da perline di legno e per metà con
delle travi a muro
che lasciavano intravedere la roccia contro cui erano state accostate.
Era come
una caverna. Mossi appena il capo, tenendo gli occhi socchiusi nella
luce
chiara. C’era una piccola porticina, ma sembrava proseguisse
più in profondità
nella roccia, mentre dall’altro lato una sola porta, a vetri,
illuminava la
stanza. L’ambiente nel complesso appariva come un monolocale:
un piccolo angolo
cottura e un camino. O come una baita di montagna. Ma piccolo, freddo e
umido.
Nella stanza lui non
c’era.
Tirai un sospiro di sollievo.
I polsi e le caviglie mi dolevano
ed erano evidenti
dei lividi violacei, ma almeno non erano più costretti nelle
corde. Mi accorsi
di avere una nuova garza intorno al collo, ma era anche questa bagnata
di
sangue. Dovevo averne perso una notevole quantità. Provai ad
alzarmi, ma un
capogiro m’investì. I miei sospetti dovevano
rivelarsi fondati.
Ai margini della mia mente,
indebolita e annebbiata,
saettò un pensiero. Forse potevo fuggire. Forse, aveva
cambiato idea e mi
avrebbe lasciato andare. Ma mi sembrava davvero impossibile che mi
avesse
lasciato in quella stanza sola e libra. Magari era sicuro che mi
avrebbe presa,
anche se fossi sfuggita, ma dovevo comunque tentare.
Ignorando le vertigini, mi avviai
verso la porta a
vetri. I primi passi furono i più incerti e barcollanti, sul
pavimento ruvido e
freddo. Il cielo era completamente coperto da un sottile manto di
nuvole
bianche e, attraverso uno spiraglio d’aria proveniente da
sotto la porta, mi
accorsi che l’aria era frizzante e rarefatta. Dovevo trovarmi
in alta quota.
Spalancai le ante e lo spettacolo
che mi si presentò
dinanzi mi lasciò stupita e inorridita.
In realtà non era una
porta: era una finestra. Dava su
un piccolissimo balcone che si stagliava, solitario, ad
un’altezza tale che non
mi permetteva neppure di vedere la valle. Era aggrappato con forza ad
una
parete di roccia nuda, impervia e impossibile da scalare. Per
un umano almeno.
Ecco spiegato tutto. Quella non era affatto una possibile via di fuga.
Con passo malfermo e con le lacrime
che minacciavano
di cadere dagli occhi andai incontro all’altra porta, nella
posizione opposta,
spalancando anche quella.
«No!» urlai.
C’era solo un bagno. Solo un bagno.
Disperata, non tentai
più di contenere le lacrime e
corsi contro il letto, buttandomici sopra senza forze e lasciandomi
andare ad
un pianto isterico e disperato.
Il mio incubo peggiore si era
avverato. Jacob mi aveva
strappato da Edward e ora mi teneva chissà dove, rinchiusa
per sé. La separazione
con mio marito cominciava a pesarmi, come se avessi mancanza, o bisogno
d’aria.
Ma non era quella la cosa che mi faceva più male. No. La
cosa che mi faceva
soffrire maggiormente era la consapevolezza delle sue attuali
condizioni.
Sapevo che in quel preciso istante Edward si stava torturando, pensando
che
tutto ciò che era accaduto fosse colpa sua.
Perché me l’aveva promesso. Mi
aveva promesso che finché fossi stata con lui Jacob non
avrebbe mai potuto
prendermi. Ero stata egoista, forse, a chiedergli di tenermi con
sé, a giurarmi
che niente mi avrebbe separata da lui. Era un vampiro, ma non era
infallibile,
e accollargli il peso di cose che esulavano dalle sue
capacità era orribile.
Eppure… In quei momenti l’unico conforto che avevo
trovato era sapere che
avrebbe fatto di tutto, per me. Avrei voluto stargli accanto, passargli
le mani
sulla schiena fredda, e baciare le sue labbra, scacciando via ogni sua
preoccupazione e mostrandogli un futuro perfetto, con noi, insieme per
l’eternità.
Ma io, purtroppo, ero lontana, e
quel futuro, a cui
solo pochi giorni prima stavo andando incontro, era svanito. Rotto.
Frantumato.
Perso nel nulla.
Tutto sembrò tremolante
e mi accorsi che ero pervasa
da brividi di freddo. Mi nascosi nuovamente sotto la coperta, con la
testa
sotto il cuscino, aspettando di andare incontro al mio orribile
destino.
Non avevo idea di quanto tempo
potesse essere passato.
Mi sembrò tanto. Troppo. I momenti senza Edward mi
sembravano troppo lunghi,
sempre.
Mi sentii avvolgere da un tepore
piacevole e sentii il
crepitio del legno bruciacchiato.
Mi alzai di scatto seduta sul
letto, e mi tirai le
coperte per coprirmi dal freddo pungente. Non c’era
più luce, quindi doveva già
essere sera. Solo il bagliore irradiato dal caminetto illuminava la
stanza e,
davanti al fuoco, una sagoma imponente faceva cerare ombre traballanti
che
arrivavano fino a me.
«Ti sei svegliata,
vedo» disse Jacob voltandosi verso
di me. «Hai dormito tanto, un giorno intero» a
quelle parole ebbi un fremito.
Era un giorno e mezzo che non vedevo Edward. «Hai perso molto
sangue, sono
stato costretto a rifarti le bendatura. Ma ora penso che tu ti stia
riprendendo. Magari se mangi un po’ recuperi le
forse…»
Lo osservai sbigottita. La sua
espressione era serena
e il tono colloquiale. Come se fosse tutt’a un tratto tornato
il Jacob di
sempre. Seguii con lo sguardo la direzione della sua mano e vidi un
vassoio di
plastica sopra cui vi erano appoggiati due toast e un bicchiere di
latte.
Jacob avanzò verso la
mia direzione. «Ti piace?» disse
indicando l’ambiente con un gesto «Questa
d’ora in poi sarà la tua nuova casa».
Al mio sguardo impaurito e sbigottito aggiunse, imbarazzato:
«Certo, forse è un
po’ piccola, ma l’ho fatta io, con le mie mani. Per
noi due».
«Che cosa ti fa pensare
che io voglia vivere con te?»
esclamai acida.
Di nuovo, la maschera
d’odio comparve sul suo viso. «Perché
d’ora in poi tu farai quello che ti dico io,
capisci?» sbraitò.
«No!» esclamai
ancora, sfacciata.
Lui sbatté entrambe le
mani contro il materasso,
facendolo oscillare pericolosamente. «Dannazione Bells! Ora
basta. Non lo
riavrai più, fattene una ragione». Scosse la testa
avanti e indietro, come per
calmarsi. Dopo un momento di pausa, espirò e aggiunse
«Ora mangia, sei debole e
devi rimetterti in forze».
La mia espressione e le labbra
serrate furono
piuttosto eloquenti.
«Mangia» mi
ordinò ancora.
«Che cosa vuoi da
me?» sbottai a quel punto,
scoppiando in lacrime. «Perché mi hai portata qui
e mi tieni rinchiusa? E poi
ti interessi se mangio o no… cosa importa a te? Mi volevi
morta!» singhiozzai
più forte.
Parve rattristarsi. Sembrava quasi
il mio vecchio
amico: impacciato e impulsivo, sempre pronto a scusarsi per le sue
azioni
sfacciate. «Io… io non volevo farti del male.
Volevo solo averti con me… Volevo
farti capire che è me che devi avere, sono io ciò
che vuoi! Sei tu che non te
ne rendi conto… ma voglio farti cambiare
idea…».
Le sue mani corsero a cercare le
mie, ma io mi
ritrassi immediatamente.
La sua espressione
s’indurì ancora «Tu mi darai
ciò
che voglio» sibilò.
«E
cos’è che vuoi?» chiesi, la morte nel
cuore.
«Te».
«Non mi avrai
mai».
Fu come ricevere un pugno nello
stomaco. Combattere
sul ring, prendere tanti pugni, e poi un pugno nello stomaco. Un
montante che
ti mette KO. «Oh, questo lo so… Prima,
avrò il tuo corpo, poi, avrò
te…».
Urlai, urlai, urlai. Mi alzai in
piedi sul letto e
sbattei forte le mani sulle sue spalle, tentando in ogni modo
di ferirlo, ma
ottenendo solo l’effetto contrario. «No! Tu non mi
avrai mai, mai. Hai
capito? Mai!»
Una risata gutturale si espanse per
tutta la stanza.
«E chi ci sarà a impedirlo. Tu?» Il
ghiaccio nei suoi occhi fece gelare anche
il mio sangue, immobilizzandomi.
Mi lasciai cadere indietro sui
palmi, fissandolo,
atterrita. «Edward… Edward mi
salverà!».
Lui scoppiò in una
sonora risata. «E come? Siamo a
milleduecento metri di quota e non vedo porte da queste parti.
L’unico accesso
è quella finestra, ma avrai potuto constatarlo tu stessa. La
pioggia ha
completamente cancellato il nostro odore e con quel tuo patetico
fazzoletto li
hai portati fuori strada. Non sapranno mai che ci nascondiamo a Goat
Rock,
proprio sotto il loro naso! La tua sanguisuga non ti rivedrà
mai più… Tu oramai,
sei mia! In un modo o nell’altro…».
Iniziai a tremare, sconvolta dalle
sue parole. «Tu…
Non oseresti mai farlo…» sbottai sgomenta, non
credendo neppure io a quello che
dicevo.
Rise ancora, maligno.
«Oh, si invece, si. Non mi
faccio di questi problemi, non dopo essere arrivato a questo
punto».
Caddi sul letto, sconvolta,
posandomi una mano sul
petto, dove il mio cuore batteva irregolare. Lui avvicinò
una mano, come a
sfiorarmi una guancia, ma, ad un mio fremito impaurito, la ritrasse.
«Però,
preferirei che non fosse così. Preferirei che
tu ti concedessi a me. Io lo so che mi ami, è inutile essere
così testardi». La
sfrontatezza delle sue parole fece accumulare in me un’enorme
rabbia. «Quindi
aspetterò. Cinque giorni. Se entro questo tempo non ti
concederai a me,
rivelando i tuoi veri sentimenti, mi prenderò ciò
che mi spetta. Poi, quando
finalmente avrai aperto gli occhi e capirai di amarmi, come io amo te,
vivremo
felici in quest’umile dimora, come marito e
moglie… E avremo tanti bellissimi
bambini».
Sentii le sue parole rimbombarmi
nella testa, lontane.
Come un cattivo presagio o una brutta storia da raccontare ai bambini
per
costringerli a fare qualcosa che non vogliono fare. E ancora
più terrore
m’incuteva il tono con cui Jacob dipingeva un futuro che per
lui era roseo,
mentre per me era peggiore di qualsiasi dolorosa morte.
«Ora mangia»
ordinò, lasciandomi sola sul letto,
terrorizzata.
Mi lasciai cadere fra i cuscini.
Tre soli, potenti
singhiozzi, mi scossero il petto. Poi, tutto divenne buio.
Neppure l’incoscienza,
però, portava con sé una
consolazione. Perché ero fin troppo lucida, anche nei sogni
senza senso, e
nelle immagini sfocate. E la lucidità portava con
sé la consapevolezza di ciò
che mi stava per accadere.
Jacob mi aveva portato via, con la
forza, da chi amavo:
Edward. E ora, come se questo non bastasse, voleva anche violentarmi e
pretendere di vivere con me. Avere dei figli. Non avrei mai ceduto, ma
questo
avrebbe cambiato qualcosa? Mi avrebbe forse riportato da Edward?
Avrebbe
evitato i suoi intenti?
No.
Jacob era abituato ormai ad
ottenere tutto ciò che
desiderava con la forza.
Mi diede un attimo di sollievo, in
un sogno, la
visione di Edward, che spezzò le immagini scure e tenebrose
che mi
perseguitavano. «I suoi istinti da lupo stanno
prendendo il sopravvento»
diceva «ormai ragiona più come animale
che come uomo».
Cercavo in tutti i modi possibili
di non lasciarlo
scappare, di artigliarmi a lui quanto più possibile, di
lasciare che la sua
immagine e la sua voce melodiosa mi ristorasse e calmasse i singhiozzi
che
continuavano a scuotermi anche nell’incoscienza.
Ma purtroppo non ci riuscii. La sua
immagine svanì e
io mi ritrovai in mano non più che un pugno di mosche e un
cuore straziato. Il
mio.
Pregai di non trovarmi dove in
realtà mi trovavo, ma
le mie preghiere, ovviamente, non furono esaudite. La mia era
situazione
orribile, e forse mai più avrei rivisto Edward. E comunque
sarebbe potuto
essere troppo tardi.
Dove sei amore mio, dove sei? Sentivo perfettamente un buco che
mi trapassava il
cuore, dolorosissimo, da una parte all’altra. Piansi, piansi
ancora, allargando
maggiormente la macchia d’acqua salata sul cuscino. Perché
non possiamo
finalmente essere felici?Edward,
Edward… Mi manchi. Mi lasciai
andare alla deriva, senza più speranze. Tutto si stava
distruggendo. Mi sentivo
totalmente impotente rispetto al mio destino. Jacob era troppo forte
per me,
quel nascondiglio troppo impervio, la mia volontà troppo
fragile all’ombra
della sua arroganza. Cosa mai avrei potuto fare? Urlare? Implorarlo? O
forse
lasciarmi andare per sempre…?
Non era la prima volta che ci
pensavo. Mi ero
avvicinata a quel pensiero anche quando ero prigioniera nella foresta,
circondata dal fuoco e minacciata dalla sua presenza. L’avevo
anche chiaramente
fatto capire a Edward. Gli avevo suggerito che non sarei potuta andare
fin in
fondo, che non avrei potuto star ferma lasciandomi stuprare. Mai.
Ecco cosa avrei potuto fare.
Impiccarmi con le
lenzuola, tagliarmi le vene con un coltello, o più
semplicemente lasciarmi
andare nel vuoto, attraverso la finestra del balcone. E volare, volare,
volare
nel nulla. Quanto sarebbe durato? Avrei avuto paura aspettando
l’impatto con il
suolo?
Certo che sì. Ne avrei
avuta, e molta, ma io quel
momento non avrei potuto farci più niente.
E prima di saltare? Ce
l’avrei fatta? Rievocai l’immagine
di Edward, stringendomi le mani al petto per evitare di crollare in
pezzi. La
sua espressione era triste, straziata. I suoi occhi erano scuri e le
occhiaie
marcate. Ecco cosa avrei visto prima di saltare.
No. Non avrei mai potuto farlo, per
l’amore che mi
legava a Edward, non potevo privarlo della mia vita.
Mi dovevo fidare di lui. Lui mi
avrebbe salvata. Jacob
diceva che quel posto era impossibile da trovare, e che Edward non
avrebbe mai
sospettato che ci saremmo nascosti tanto vicino. Ma io mi fidavo di lui
e per
questo avrei dovuto avere la forza di resistere. Per lui, per Edward.
Dovevo
essere forte.
Sollevai il capo, guardandomi
intorno.
Jacob stava dormendo ai piedi del
camino, unica fonte
di luce in tutta la stanza. Era ancora notte e il cibo era sempre sul
vassoio
accanto a me.
Mi sentivo molto debole, ma non
avrei affatto
mangiato, se non avessi pensato a Edward. Per sopravvivere. Per lui.
Perché
quando sarebbe venuto a salvarmi - e non potevo pensare che non
l’avrebbe fatto
- mi avrebbe dovuto trovare in vita.
Mi accostai il vassoio, e, senza
scendere dal
materasso, addentai il primo boccone. Il cibo inizialmente scese con
difficoltà
nella gola bloccata dal magone e arsa dal pianto. Ma, man mano, la fame
aumentava sempre più e mangiare divenne sempre
più facile, così in breve finii
il primo toast. Bevvi mezzo bicchiere di latte e afferrai il secondo.
Il mio sguardo cadde un attimo su
Jacob. Nel sonno il
suo viso pareva così innocente. Com’era quando ci
eravamo conosciuti, da
bambini. Ripensai un attimo alla parole del sogno. Jacob avrebbe
ottenuto tutto
ciò che voleva con la forza, perché magari era
stata proprio quella, la sua
forza di licantropo, a corromperlo e farlo diventare ciò che
era. Il suo
sorriso spensierato era scomparso dietro una tonda luna bianca alla
quale ora
si volgeva per ululare.
Attenta a creare il minor rumore
possibile e
raccogliendo le forze per sollevarmi in piedi, andai in bagno,
richiudendomi la
porta alle spalle. Quando mi osservai allo specchio trovai
ciò che mi
aspettavo. Avevo gli occhi rossi e gonfi di lacrime e le occhiaie
marcate, il
colorito era pallidissimo, quasi grigiastro, e i capelli erano
completamente annodati.
Mi sciacquai il viso e tentai di sistemarmi i capelli.
Il mio sguardo corse al mio collo.
Sciolsi le bende
macchiate di sangue e osservai la ferita. Si era quasi rimarginata,
anche se i
bordi, pulsanti, non combaciavano ancora perfettamente. Ci sarebbero
voluti dei
punti, ma mi dovevo accontentare di ciò che avevo. Mi
accorsi di una cassetta
medica. La aprii, presi del disinfettante e delle nuove bende pulite.
Prima
sciacquai la ferita, per evitare che si infettasse, e poi la pulii con
il
disinfettante e rifeci la fasciatura.
Uscii dal bagno, sempre in
silenzio, e venni percossa
da un brivido di freddo. Afferrai la coperta dal letto e la tirai su di
me,
avvolgendomi completamente. Mi avviai verso la finestra e aprii piano
un’anta,
uscendo sul balcone e richiudendomela dietro. Fuori l’aria
era ancora più
fredda. Mi sedetti ad un angolo del balcone, stringendomi addosso la
coperta e
osservando il cielo stellato.
Chissà se anche tu
adesso, Edward, stai osservando
questo cielo stellato. Sappi che ti amo e che io, non mi
arrenderò, per te…
Cinque giorni, hai solo cinque
giorni. Ti prego, solo
tu puoi capire il mio messaggio!
Avvicinai il volto al suo cuscino,
inspirandone
l’odore soave. Improvvisamente una valanga di ricordi mi
assalì.
Lei, che arrossiva.
Lei, che mi fissava indispettita e
imbronciata.
Lei, che entrava in camera tentando
di sedurmi e che
mi affascinava con la sua timidezza.
Lei, che mi guardava con gli occhi
lucidi e intinsi
del piacere che le stavo donando.
Lei, che aveva la paura negli occhi
e la morte nel
cuore.
Lei, che piangeva invocando il mio
nome, perché io
potessi in qualche modo salvarla, e affidandosi a me, piangeva ancor di
più,
sapendo che non le potevo darle aiuto e di quello stesso fatto mi sarei
dannato
l’anima.
Sempre che io ne possedessi una.
Sentii che in quel momento avrei
dovuto piangere, ma
la crudeltà della mia natura me lo vietava. Quindi il mio
corpo venne scosso da
asciutti singhiozzi, ma il dolore di cui si liberavano non era nulla in
confronto a quello che si accresceva in me, secondo per secondo, legato
esponenzialmente alla durata del suo distacco.
Bella.
Solo quel nome avevo in mente. Solo
quel nome sentivo
nei pensieri delle persone che erano nella stanza accanto.
Sentivo che mio padre, Jasper e
Emmett erano appena
tornati.
Allora, di sicuro, non hanno
trovato Bella. Una nuova
ondata di dolore mi stordii e fui costretto a chiudermi le braccia
intorno al
petto per tentare di contenerlo. In quel momento mi sentivo fragile.
Che
assurdo paradosso. Io, un vampiro indistruttibile, sentirmi fragile.
Tentai di concentrarmi su qualsiasi
altra cosa, per
evitare di annaspare.
Sentivo mia madre e mia sorella
Rose parlare con
Charlie.
Già, Charlie. Il
coinvolgimento della polizia era
stato inevitabile considerando che ad assistere alla scena
c’erano degli umani.
I suoi pensieri su Jacob, in quel momento, erano completamente
stravolti. Stentava
a capacitarsi di quello che poteva essere successo a sua figlia.
Sentii anche quelli di
Alice, che si trovava
sull’attico, la stanza che aveva preparato per Bella. Doveva
essere una
sorpresa. Si sentiva colpevole. Ma non potevo biasimarla né
rincuorarla, perché
in quel memento era esattamente quello che provavo anch’io.
Chiusi gli occhi e vidi ancora i
suoi, color
cioccolato, sgrananti, pieni di lacrime e la sua voce spaurita che
invocava il
mio nome, mentre io la fissavo impotente, consapevole che qualunque mio
movimento l’avrebbe condotta alla morte e al contempo
torturato nel pensiero
che non più rosea sorte le sarebbe spettata, se ancora fossi
rimasto immobile.
Poi, vidi la linea rossa di sangue sul suo collo e a quel punto, decisi
di
alzarmi dal letto per andare a dirlo a mio padre.
Prima non ce ne era stata
l’occasione. Carlisle mi
aveva detto che io non sarei stato d’aiuto nello stato in cui
mi trovavo e
quindi mi aveva spedito a casa sotto la supervisione di mia madre,
mentre loro
si mettevano sulle tracce di Bella. Non avevo obiettato, mi ero
lasciato
trascinare, per poi diventare perda dell’assoluto sconforto.
Non ero stato in
grado di dire una parola, perché le sole parole che in quel
momento avrei
voluto pronunciare erano rivolte a l’unica persona che in
quello stesso momento
non potevo avere accanto.
Non appena i miei familiari mi
videro, i loro pensieri
si tramutarono in compassione e pena. Persino quelli di Charlie. Chiusi
gli
occhi, ma poi capii che era meglio tenerli aperti se in qualche modo
volevo
avere ancora una sorta di controllo di me.
Inspirai, lentamente, e poi
ricacciai fuori l’aria.
Feci un cenno con la testa a mio padre e mi avviai verso lo studio,
sapendo che
mi stava seguendo.
Entrato nella stanza non sprecai
tempo a sedermi sulla
poltrona o a fare inutile gesti umani.
«Non l’avete
trovata», non suonava affatto come una
domanda, e in effetti non lo era, ma mi stupii comunque di quanto la
mia voce
risultasse piatta, lontana e monocorde.
«No».
Non potei fare a meno di fremere,
anche se la verità
si era già dimostrata palese.
«Figliolo…»,
mi chiamò con la mente «Non
perdere la fiducia, la troveremo. Non serve a nulla
compiangersi».
«Carlisle»,
dissi, con un filo di voce, che se fossi
stato un umano, avrei detto sicuramente di stare piangendo,
«l’ha ferita». A
quelle parole mio padre sgranò gli occhi. Continuai a
parlare, voltandomi di
spalle e portandomi una mano fra i capelli. «L’ha
tagliata intenzionalmente con
un coltello sulla gola». Feci una pausa, quasi incapace di
continuare.
«Valutavo i suoi pensieri, ma mai avrei creduto che la
potesse ferire, mi
ricattava, ma non pensavo facesse sul serio. Non ho potuto fare
più niente,
sono dovuto rimanere immobile, dai suoi pensieri si capiva chiaramente
che se
non l’avessi fatto non avrebbe esitato a
ucciderla…». La mia voce si spense.
I pensieri di mio padre ne facevano
trapelare il suo
reale stupore. Mi sentii poggiare una mano sulla spalla.
«Edward, tu hai fatto
quanto potevi. Quanto è grave la ferita?»
Mi voltai nuovamente verso di lui.
«Non è molto
profonda e fortunatamente non credo abbia reciso l’arteria,
altrimenti…»
«Altrimenti in
questo momento sarebbe già morta»
questo mio padre non poté fare a meno di pensarlo.
«Dobbiamo sperare che abbia
il buon senso di fasciarla e non lasciare che
s’infetti».
Respirai ancora una volta, piano,
rievocando i
pensieri del cane. «Credo che la curerà. I suoi
pensieri erano…» feci una
pausa, scuotendo la testa. «Non si rende neppure conto di
quello che fa, agisce
per impulsi e poco per ragione. Ma Bella… lei
è… così fragile»,
conclusi
sconsolato.
«Non
più di qualsiasi altro umano. Ce la
farà. Comprendo la tua apprensione, ma ora ci
dobbiamo impegnare per
ritrovarla, hai trovato qualche altra notizia nei loro
pensieri?»
Mi sentii inutile. «Non
sono riuscito a capire dove si
nasconderà. Niente, nulla».
«Edward…Tu sai cosa vuole da lei?»
In quel momento strinsi i pugni con
tutta la forza con
cui avrei voluto avventarmi sul suo collo e sbriciolargli le friabili
ossa, in
tanti minuscoli e dolorosi pezzi, e sentire la sua carne calda torcersi
e
sfaldarsi sotto la pressione delle mie mani sanguinarie mentre gli
mozzavo il
suo ultimo respiro in gola e godevo nel sentire il suo ultimo ansito.
«Figliolo»
Vidi la mia immagine dagli occhi di
mio padre. Il mio volto, era quello di un assassino, mentre digrignavo
i denti
e facevo risuonare nel mio petto un ringhio cupo.
«Vuole abusare di
lei» dissi con assoluta freddezza.
Mio padre annuì e con i
suoi pensieri mi espresse
tutto il suo rammarico e la sua sincera amarezza. Data la mia reazione
lo
sospettava. «Jasper e Emmett sono di nuovo usciti a cercarla,
ma la pioggia sta
facendo scomparire le loro tracce e la polizia ci sta intralciando. Ci
siamo
rivolti ai lupi, ma loro non ne sanno nulla. Sono sgomenti, e mi sono
sentito
di credere alla parola di Sam e soprattutto a quella di Seth. Sono
sinceri.
Sono andati ad informarsi da Billy e…».
«L’ha
ripudiato» intervenni io, ricordandomi dei suoi
pensieri.
Mio padre annuii e poi
continuò «Dicono che in
questi ultimi tempi non si sia mai trasformato in lupo».
In quel momento, non avevo idea del
perché il mio
subconscio - che ormai aveva preso il controllo di me -, scelse proprio
quello,
scatenò la mia ira.
«Come ha potuto portamela
via? Come?» sbottai urlando,
rovesciando una sedia. Mio padre non fece nulla per fermarmi.
«Sono stato un
empio, un folle, a farla andare sola! Dannazione! Le sarei dovuto
rimanere
accanto, in ogni momento, gliel’avevo promesso! Invece appena
poche ore dopo me
la lascio portare via, sotto i miei occhi, senza che io possa fare
nulla! Mi
sono sentito così impotente, non ho potuto fare nulla! Ogni
sua lacrima,
ognuna, avrei voluto raccoglierla! Avrei voluto stringerla fra le
braccia,
consolarla! Averi dovuto farlo, avrei dovuto trovare il modo!
Maledizione
Carlisle!» sentii un singhiozzo, secco e asciutto, scuotermi
il petto e mi
lasciai andare contro la parete, la testa fra le mani
«Com’è possibile che ora
sia nelle mani di quel maniaco, come?! Quale giustizia divina
permetterebbe una
cosa del genere? Quale?! Quale dio, quale demone!» mossi la
testa, in avanti e
indietro, come per scacciare quel peso che mi opprimeva «Non
posso perderla
Carlisle. Lei è tutta la mia vita, tutta la mia
esistenza…» queste ultime
parole, le pronunciai con tutta la sofferenza che in quel momento
trasudavo.
Mio padre, che fino a quel momento
era rimasto
immobile, si fece strada fra le sedie rovesciate e i libri sparsi
ovunque. Si
sedette per terra, accanto a me, prendendo la mia testa e posandosela
sulla spalla.
«Edward, sono convinto che quanto dici tu sia vero. Non
meritavi una punizione
del genere, no davvero, non proprio tu. Non sappiamo né se
un dio esiste né se
è a lui che dobbiamo appellarci. Ma so per certo che non
possiamo fare nulla in
questo memento, tranne tentare di concentrare tutte le nostre forze per
ritrovare
Bella. E ti assicuro anche che tu hai fatto tutto il possibile per
proteggerla.
Ora, possiamo solo salvarla, e se anche tu ti impegnerai sono sicuro
che ce la
faremo» poi, mi sorrise e aggiunse «se Bella fosse
qui, non vorrebbe vederti in
questo stato. Lei conta su di te e per questo devi fare del tuo meglio
per
salvarla. Adesso, nel presente. Del passato non dobbiamo curarci ora. Ora,
dobbiamo combattere per ritrovarla e sono sicuro che ce la faremo».
Nelle successive ore ringraziai la
mia natura di
vampiro che mi concesse di dedicarmi completamente alla ricerca di
Bella senza
dover dare ascolto ai bisogni primari che avrei avuto da umano.
Jasper e Emmett erano usciti,
ancora sulle tracce di
Bella a Jacob. Mia madre si stava informando dei progressi fatti dalla
polizia,
più per formalità che per effettivo bisogno di
farlo. Ci eravamo trasferiti a
casa dei miei genitori, dove potevamo disporre di tutti i mezzi ci
sarebbero
potuti servire.
Io e Rose stavamo di fronte al
computer, tentando di
individuare un posto dove il randagio, e non potei pensare a lui senza
digrignare i denti, potesse essersi nascosto. Mio padre Carlisle era al
telefono con i licantropi, in cerca di nuove informazioni, e Alice era
ancora
chiusa in camera sua. Si sentiva totalmente inutile senza le sue
visioni.
«Rose, torno
subito» le dissi alzandomi dalla sedia.
«Va bene…
Continuo a cercare». I suoi pensieri erano carichi
di apprensione per Bella. Non le avrebbe mai augurato una sorte simile
alla
sua.
Le feci un cenno affermativo con il
capo e corsi
veloce su per le scale.
Bussai alla porta di mia sorella.
«Entra, Edward».
Feci come mi diceva e le andai
accanto sedendomi al suo fianco sul letto. «Ti
prego, se puoi, perdonami»
pensò disperata.
Vidi nella sua mente formarsi
l’immagine di me che la
rassicuravo.
«Grazie».
Il mio umore non era affatto ancora
migliorato, ma
tentavo di incanalare tutto il mio odio e il mio malumore nella
sfrenata
ricerca della mia piccola Bella.
Mi vidi di nuovo nella mente di
Alice. Adoravo quel
nostro modo di conversare. «Riesci a concentrarti per vedere
intorno a lei?» le
chiedevo.
«Ci sto
provando, se ci riuscirò giuro che sarai il
primo a saperlo»
Annuii, le strinsi la mano nelle
mie e uscii dalla
stanza.
Quando fui in salotto mio padre,
mia madre e mia
sorella Rosalie mi vennero accanto.
Mi padre cominciò a
parlare. «I licantropi si trovano
in una posizione di difficoltà. Hanno cercato fra le loro
leggende se in
passato si siano verificate situazioni simili. Solo in un caso
è accaduto che
un licantropo si sia comportato in maniera così
sconsiderata, e in quel caso
hanno agito contro di lui. Ma in questo frangente, non si sentono di
biasimarlo…».
Dal mio petto nacque un ringhio cupo, che mio padre ignorò.
«Non si sentono di
biasimarlo come non si sentono di incoraggiarlo. Poiché
è nella sua natura
andare contro i vampiri, ma, aggiungono, è nella sua natura
anche proteggere
gli umani. Quindi, in conclusione dei fatti non agiranno se non quando
sarà
strettamente necessario, e si impegnano, una volta ritrovato, a
segregarlo con
loro a la Push…»
A questo punto non mi trattenni.
«Perché credono forse
che quando lo ritroverò lo lascerò in
vita?», ringhiai ancora «Mai».
Carlisle tentò di
acquietarmi «Edward, se lo ucciderai
senza che ci sia un valido motivo, considereranno il patto rotto e ci
ritroveremo con problemi ancora maggiori».
«Perché, non
c’è già un valido motivo?»
sbottai.
«Sai bene cosa
intendo, non rendere le cose più
difficili. Per ora concentriamoci per trovare Bella».
A quel punto intervenne Esme.
«Pensate sia il caso di chiamare
in aiuto il clan di Denali?».
Carlisle scosse il capo,
pensieroso. «No, ora il
problema è rintracciarlo, la forza è dalla nostra
parte e non vedo il motivo di
creare altri possibili contrasti fra loro e i licantropi. Sarebbe
superfluo e
infruttuoso».
Anche gli altri parvero essere
d’accordo. Mia madre
era molto in pena per Bella, ma tentava in tutti i modi di non
esprimere il suo
dispiacere, per non farmi stare peggio di quanto già non
stessi.
«Bene», disse
infine Carlisle dopo un attimo di
silenzio. «Mettiamoci al lavoro».
In pochi secondi ci ritrovammo
tutti intorno al tavolo
da pranzo, su cui era poggiata un’enorme cartina del Nord
America.
Sentimmo il rumore della porta di
casa che sbatteva al
passaggio di Alice. Era andata a prendere il gelato per Bella. Voleva
che quando
fosse tornata tutto sarebbe stato come se non fosse mai andata via. La
mia
famiglia ignorò discretamente quel passaggio. In una
famiglia come la nostra
non potevamo permetterci di essere invadenti.
«Allora»
cominciò risoluto mio padre, guardando
l’orologio «sono passate quattro ore e mezza. Che
auto aveva con sé?».
«Lamborghini Diablo, blu
notte, molto probabilmente
rubata».
«Probabilmente non si
trasformerà, sarà costretto a
seguire le autostrade e la velocità media
a cui può viaggiare in pieno
giorno non è più di 120 km/h», disse
Rosalie.
Mio padre annuì, prese
una cordicella e un pennarello;
lo legò ad un estremità e presa la misura con
l’unità di misura in sala sul
fondo della cartina e segnò un cerchio che aveva come centro
Forks. «Se è vero
che ha seguito i percorsi stradali, 300 km di raggio potrebbero bastare
per ora».
Tutti ci sporgemmo per tentare di
visualizzare un
possibile luogo dove avrebbe potuto nascondersi.
«Port
Angeles come Seattle, come pure
Portland o Everett! Comprende
metà dello
stato di Washighton e anche parte del Canada»,
esclamò Rosalie.
Mi presi la testa fra le mani,
scompigliandomi i
capelli.
«Dove si sarebbe potuto
nascondere? Un luogo affollato
o poco popolato?» chiese mia madre.
«No, non andrebbe mai in
città…», mormorai debolmente.
Carlisle aggiunse,
«…Non con la polizia di mezzo. Sapeva
che sarebbero intervenuti…».
«Sì».
Improvvisamente il suo cellulare
squillò. «Jasper».
«Si è
diretto a Nord. Li abbiamo seguiti fino a
Everett, ma da lì le tracce si facevano inconsistenti,
pensiamo che stiano
andando verso Vancouver, ma che senso ha portarla in Canada? Verso
l’Alaska e
quindi verso Denali? Inoltre si sta per scatenare una bufera di neve e
non
credo che siano in grado di fronteggiare climi così rigidi.
O almeno…»
«Non Bella»
conclusi, disperato. Il mio cuore, già
fermo, mancò nel mio petto, lasciandomi il vuoto.
«Siete certi che siano
passati da Everett?» chiese mio
padre.
«Si, proprio
quando stavano ritornando indietro,
abbiamo trovato una traccia».
«Che genere di
traccia?»
«Credo sia
meglio dirvelo quando saremo tornati,
siamo già in strada, inutile continuare in queste
condizioni, in cui loro non
possono essere più veloci di noi, ma in cui si possono
disperdere. E’ come
cercare un ago in un pagliaio. E, se è vero quello che ci ha
detto Edward, che
sarebbe anche disposto a ucciderla se ci avvicinassimo troppo, non
sarebbe
prudente girovagare senza una meta precisa. Non è una gara
di velocità, è una
gara d’astuzia, quindi dobbiamo sviluppare un piano».
«Sì, tornate.
Credo anch’io che sia meglio», chiuse la
comunicazione e aggiunse, rivolgendosi a noi «dobbiamo
aspettare che torni
Jasper per sviluppare un piano».
«Carlisle…»,
sospirai, e mi decisi a parlare, anche se
con tono del tutto assente. «Sicuramente avrà
perso molto sangue e sarà debole.
Se come dice Jasper c’è una tormenta di neve da
quelle parti, e stanno
procedendo verso Nord, allora…», ansimai,
«allora potrebbe indebolirsi
maggiormente…», nascosi il volto fra le mani.
«Non voglio perderla, non
posso…».
«Edward»,
sentii una mano posarsi sulla mia spalla, «è
vero che il rischio di ipotermia, unito alla sua debolezza potrebbe
rappresentare un pericolo per la sua salute, ma sai bene che
è solo un rischio.
E’ una ragazza giovane e forte e devi anche considerare,
seppur sia una
prospettiva spiacevole, che Jacob ha 42° corporei in media.
Inoltre non è detto
che siano diretti al Nord…»aspettò
che alzassi il volto e spostassi
le mani,«non abbattiamoci, forza e
coraggio e la ritroveremo».
Non passò
un’ora, che Alice fu di ritorno con i gelati
- fragola e limone, i suoi preferiti -, e con un mucchio di cuscini
colorati
sistemati nell’attico di casa nostra. «Al
suo ritorno dev’essere tutto
perfetto, come se non ci avesse mai lasciati».
Alice sembrava determinata
nel suo compito, ma io sapevo benissimo che in realtà era
disperata come me. Si
adoperava in casa mia, correndo da una parte all’altra e
sistemando ogni cosa
che non fosse già perfetta. Avrei fatto volentieri come lei,
pur di fare
qualcosa…
Invece mi sentivo, ancora una
volta, totalmente
impotente, mentre il tempo passava e non potevo far altro che tentare
di
concentrarmi su quella cartina, più di quanto non mi fossi
mai concentrato e
individuare le zone in cui il cane avrebbe potuto nascondersi. Mi
sembrava di
impazzire nel non poter far nulla di realmente concreto. Andava
totalmente
contro la mia natura abbandonare la vita di Bella, la mia stessa vita,
senza
fare qualcosa di pragmatico per riaverla con me.
Carlisle si avvicinò
nuovamente a me, prese lo stesso
filo di prima e tracciò una circonferenza di maggiore
diametro.
«Otto ore».
Mi lasciai sprofondare sulla sedia.
In quello stesso istante Jasper e
Emmett, seguiti a
breve distanza da Alice, entrarono in casa. Mi alzai di scatto dalla
sedia,
sentendo l’odore del sangue di Bella arrivarmi alle narici.
Scattai con la
testa verso di lui.
Jasper aveva fra le mani un pezzo
di stoffa bagnato
del suo sangue. Glielo strappai di mano, inspirandone
l’odore. Non fece alcuna
resistenza.
«E’ la traccia.
L’abbiamo trovata sul ciglio della
strada. L’odore era quasi scomparso ormai, e non
l’avremmo mai trovato se non
fosse stato per le tracce di sangue».
La strinsi forte in un pugno.
«Non sappiamo cosa
significhi. Le sarà caduto? Forse è
una benda?».
A quel punto prese la parola
Emmett. «Crediamo anche
che lui le abbia fatto aprire il finestrino, perché
c’era un odore diffuso più
forte lì vicino… Non sappiamo cosa possa averlo
portato a farglielo fare… E’ un
gesto sconsiderato…», constatò
semplicemente.
«Forse stava
davvero male…» pensò per un
attimo
mio padre, lanciandomi poi un’occhiata di sincero dispiacere
in risposta alla
mia di penosa disperazione.
Emmett si accorse del mio ulteriore
peggioramento
d’umore. «Può anche darsi che
l’abbia convinto ad aprirlo con l’inganno.
E’
molto furba quella piccoletta, non dobbiamo sottovalutarla».
«Quindi avrebbe lasciato
cadere quel pezzo di stoffa
intenzionalmente?», chiese Esme, perplessa.
Jasper confermò i suoi
sospetti. «Credo di sì, per
lasciare una sorta di traccia».
«E’ la
stoffa della canottiera a righe che le ho
dato stamattina…» pensò Alice
addolorata. Combatteva con il desiderio di
scappare via.
In quel momento mi sentii come
stranito, colpito da una
strana idea. Osservai il pezzo di stoffa che avevo tra le mani.
Addolorato,
rammentai l’immagine del suo corpo, il suo pudico rossore
mentre si vestiva. Qualcosa
che non quadrava, ma ancora non riuscivo a capire cosa. Come se qualche
pensiero, qualcosa di palese, sfuggisse ai miei occhi. Mi persi nella
contemplazione di quel rosso acceso, senza riuscire a trarne alcuna
informazione, se non rammaricarmi maggiormente alla vista delle gocce
di sangue
di cui era macchiato.
Bella… aveva lasciato
cadere quel pezzo di stoffa di
proposito. Per non far perdere le loro tracce? No. Aveva ragione
Emmett, lei
era molto più furba di così.
C’era qualcosa. Un messaggio
che lei voleva
mandarmi e che era proprio lì, sotto i miei occhi e che io
dovevo tentare di
decifrare.
Sentivo tante cose, tutto e niente.
E tentavo di
scovare la verità, stracciare le apparenze, formulare
possibili ipotesi, ma
ogni mio tentativo si riconduceva al suo volto spaventato. La
verità mi
sembrava come l’acqua, che tentavo di afferrare a mani nude
mentre mi sfuggiva
costantemente dalle dita. E non potevo costruirci niente,
perché non creava
alcun fondamento.
Improvvisamente, i miei occhi
misero a fuoco un
dettaglio che non avevo precedentemente valutato. La stoffa,
sfilacciata su un
lato, si incontrava con un solo filo bianco. La sua
maglia era a righe.
«Edward»
mi sentii chiamare mentalmente da mio
padre, mentre una sua mano si posava su una mia spalla. «Stai
bene figliolo?».
Inghiottii un fiotto di veleno che
mi aveva invaso la
bocca.
Notai che nella stanza non
c’era più nessuno, solo mio
padre. Dai suoi pensieri preoccupati mi resi conto che due ore erano
passate; ore
non infruttuose. Ero stato completamente immobile tutto quel tempo. Era
nella
mia natura d’altronde.
«Carlisle» lo
chiamai. Nella mia voce percepivo una
flebile e debolissima speranza, nata nell’aver fatto anche un
seppur minimo
passo avanti. Nata dall’aver agito in qualche modo.
«Sì,
Edward?» chiese ad alta voce, invitandomi a
parlare.
«Bella aveva una
canottiera a righe», feci una breve
pausa, chiusi gli occhi e gli riaprii lentamente. «Che motivo
ci sarebbe stato
di strappare con questa precisione una riga? Non l’ha
tagliata con le forbici».
Mio padre rimase qualche istante
pensieroso. «Pensi
che potrebbe aver tentato di inviare un messaggio?».
«Sì».
«Ne sei sicuro?
Insomma… Credo che quella stoffa le
servisse per farsi una benda, è normale che
l’abbia tagliato in una striscia.
La stoffa dev’essere più cedevole nel punto in cui
si innestano le cuciture…».
«No. Ne sono
certo», inspirai «me lo sento».
«Va bene, ma in tal caso,
penso che il messaggio sia
destinato a te».
Sospirai, sconsolato, mentre anche
gli altri entravano
nella stanza.
«Credi davvero che possa
essere un messaggio?» mi
chiese Jasper, stringendo Alice, che mi fissava con sguardo triste.
«Sì»
risposi laconico. E quella risposta mi fece
inevitabilmente pensare a Bella, e a come mi rimproverava ogni volta
che la
rispondevo a quel modo.
Sentii una calma innaturale
avvolgermi, effetto del
potere di Jasper su di me.
«Grazie», gli
dissi solo.
Mi guardò con
determinazione. «Se è come dici tu,
concentrati, isolati da tutto il resto, pensa solo a quel pezzo di
stoffa. Se
il messaggio è indirizzato a te, è riferito a
qualcosa che deve averti detto in
confidenza, o che se che può esserti rimasto
impresso».
«Sono un
vampiro!» ringhiai «A me rimane impresso
tutto!».
«Qualcosa più
di un’altra. Concentrati, rievoca i
ricordi. Alice ed Esme rimarranno qui. Noi stiamo uscendo - in
direzioni
diverse. Alla polizia risulta che non siano andati in alcun
distributore di
benzina nello stato di Washington o nel sud del Canada, potrebbe aver
portato
delle riserve con sé, ma il portabagagli di una Lamborghini
non può contenere
più di quattro taniche da venticinque litri,
quindi…».
Prese la parola Rosalie
«Quell’auto fa 400 km con un pieno e la capienza
massima del serbatoio è 100 litri, non si sono mai fermati,
perché non hanno trovato segni di frenate o
cambiamenti nell’odore, quindi…».
«Quindi adesso si devono
essere fermati. Aveva
sin dall’inizio intenzione di fermarsi vicino. Sono propenso
a pensare a
Vancouver, perché erano diretti verso Nord. Quindi io e
Emmett andremo a
cercare a Nord, mentre Carlisle e Rosalie verranno con noi per un
po’, poi si
separeranno a andranno verso Est».
Serrai la mascella.
«Vengo con voi».
Jasper scosse il capo, dai suoi
pensieri capivo che il
suo stesso piano non lo convinceva. «Tu resti qui e tenti di
decifrare il
messaggio. Dobbiamo seguire tutte le strade, fidati Edward,
solo in questo
modo la troveremo».
Per tutto il tempo successivo non
feci altro che
tentare di concentrarmi su quel brandello di stoffa. Esme e Alice,
accanto a
me, facevano lavorare i loro pensieri in direzioni diverse. Tentavo di
valutare
i loro, i miei, e di trovare un punto d’incontro o un nuovo
punto di partenza.
«Hai detto che la
maglietta era a righe, vero?» chiese
mia madre.
Rispose Alice, senza sollevare il
capo. Era
accovacciata sul divano, con le ginocchia al petto.
«Sì, righe rosse e bianche.
Era la sua canottiera».
«Quindi… il
fatto che lei abbia strappato una sola
striscia, dovrebbe dire qualcosa…?» concluse Esme,
perplessa.
«Una striscia…
una riga… ti dice niente Edward?» mi
chiese Alice.
Scossi il capo.
«Striscia
macchiata… tagliata con precisione…».
«Un gioco di
parole? Un anagramma?».
«Forse un
messaggio nascosto? No…».
Il tempo passava, e persino per la
mia mente di
vampiro, sentivo che quel pezzo di stoffa, quel messaggio, quel
qualcosa la
occupava completamente. Nessuna distrazione, nessun pensiero che non
fosse quel
brandello.
Jasper e Emmett telefonarono alle
prime luci
dell’alba, mentre Carlisle e Rosalie decisero di tornare
indietro che era
mezzogiorno. Il motivo era sempre lo stesso: nessuna traccia, nessun
indizio.
Bella non si trovava. E noi, allo stesso modo, non avevamo fatto nessun
passo
avanti.
Ormai stavo cadendo nello sconforto
più totale e la
mancanza di Jasper si faceva sentire.
Ancora una volta mi ritrovai con le
mani fra i capelli
e il petto scosso da singhiozzi, mentre mia madre mi accarezzava
dolcemente,
tentando in ogni modo di confortarmi, anche se i suoi pensieri erano
molto,
troppo simili ai miei.
Mi sentivo così
vulnerabile e bisognoso di conforto.
Era una sensazione che non avevo mai provato da quando avevo conosciuto
Bella.
Perché quando l’avevo conosciuta, ero io quello
che le aveva sempre dato
conforto, e non so cosa avrei dato per poterlo fare ancora.
Quando Carlisle e Rosalie
ritornarono, anche i
pensieri di mio padre, che finora erano stati così
confortanti e determinati,
avevano perso la loro verve. Era davvero preoccupato per Bella,
considerandola
ormai come una figlia.
Mi serviva un appiglio, qualsiasi
cosa per sfuggire al
buio tetro che inesorabilmente mi stava circondando. E in quel buio
sprofondai
sempre più, aiutato dalle ricerche inconcludenti e dai passi
avanti che non
venivano fatti. Dalle chiamate disperate di Charlie e da quelle
altrettanto
sconfortate dei miei fratelli.
Nulla più aveva senso,
neppure il tempo; il vero senso
della mia esistenza, era scomparso. Perché Bella era il
senso della mia vita.
Improvvisamente, qualcuno mi
gettò quell’àncora.
Tutti gli sguardi dei presenti
erano puntati su Alice,
mentre solo io e lei potevamo vedere.
Una stanza buia. Bella, seduta su
un letto, che
piangeva, spaurita, la testa fra le mani. Poi un urlo e lei che si
accasciava
sui cuscini.
Alice crollò a terra,
carponi, lo sguardo perso nel
vuoto, mentre Jasper le correva accanto per sorreggerla.
Ora tutti fissavano ci,
aspettandosi che qualcuno
dicesse qualcosa. Non io. No, non avrei parlato. Questa volta, avrei
agito. Lo
dovevo a Bella. Dovevo trovarla e aiutarla. In qualsiasi modo.
Scattai fuori dalla porta, correndo
alla maggiore
velocità che potessi permettermi. Nel giro di due minuti fui
a casa mia, nella
mia stanza da letto, e lì mi bloccai.
Inspirai il suo odore, ancora molto
forte fra quelle
mura. Mi sedetti sul materasso, le gambe incrociate, e portai davanti
agli
occhi il brandello di stoffa rossa della sua
canottiera.
In un attimo una lampadina si
accese nella mia testa.
Una cosa che prima non avevo valutato.
Rossa. Ecco
il perché di quella precisione. Avrebbe anche potuto
strappare un pezzo di
stoffa bianco, invece no. Mi voleva dire qualcosa collegato a quel
colore. Una
riga rossa.
Subito pensai alla ferita che la
aveva inflitto Jacob,
ma scacciai quel pensiero, poiché non portava nulla se non
dolore.
Rossa. Rosso
come sangue? Il suo sangue? Perché lei era la mia cantate?
Scossi il capo. No, decisamente
assurdo.
Lasciai andare la striscia rossa
fra le coperte e mi
sollevai dal letto, osservando la stanza. Ogni volta che spostavo lo
sguardo
vedevo Bella, con i suoi occhi vispi color cioccolato, fissarmi, come
se fosse
proprio lì con me.
Osservai i suoi dipinti. Era
davvero brava, Alice
aveva ragione: Bella aveva talento. Osservai il disegno che mi aveva
fatto la
mattina di due giorni prima. Chiusi gli occhi a quel pensiero felice e
proprio
per questo doloroso.
Poi, il mio sguardo si
posò sul mio quadro preferito. La
Cortigiana. Avevo già capito che le piaceva, anche
se ogni volta che lo guardava,
aveva quella strana luce negli occhi. Sospirai
affranto, muovendomi alla
mia velocità fino a trovarmi di fronte al dipinto.
Sfiorando con la punta della dita
la tela, mi ricordai
della mattina dopo che avevamo fatto l’amore la prima volta.
Le avevo detto che mi piacevano i
colori vivaci di
quel dipinto e lei mi aveva raccontato la storia. Le avevo detto che mi
piaceva
il rosso del vestito della cortigiana…
Al freddo pungente, ma confortante, che mi aveva accompagnato per tutta
la notte, si accostò una sensazione calda
Al freddo pungente, ma confortante, che mi aveva
accompagnato per tutta la notte, si accostò una sensazione calda. Ebbi paura.
Nelle condizioni in cui mi trovavo non era affatto una buona cosa.
«Bella!» ringhiò Jacob a un mio orecchio, stringendomi
in una morsa fra le sue braccia e portandomi dentro casa, di fronte al fuoco
acceso.
Dibattermi fra le sue braccia era del tutto inutile, e
non ero neppure sicura che lo stessi facendo davvero. Mi sentivo intorpidita e
infreddolita, faticavo a pensare e mi battevano i denti.
Sentii un altro ringhio. «Sei una stupida! Ti volevi
suicidare?! Eh? Non hai visto che freddo che fa?»
Non riuscii a prestargli attenzione e scivolai
all’indietro con la testa.
All’improvviso il tono della sua voce mutò,
avvicinandosi a un guaito. «Bella, Bella, non ti addormentare ti prego, rimani
con me! Non chiudere gli occhi, no…» Le sue mani calde vagavano ansiose sul mio
viso, fra i miei capelli.
Ebbi un’immensa paura. Mi ricordai la sua minaccia, i
cinque giorni, che ormai erano diventati quattro, e in un attimo fui
terrorizzata. Non so come, riuscii ancora a percepire le mie labbra.
«L…asciami…» biascicai.
Lo sentii irrigidirsi e mi sentii tremare più forte.
Questa volta non era colpa mia, erano le mani di Jacob. Spalancai gli occhi, preoccupata.
«L’hai fatto perché ti potessi portare da lui, vero?!
L’hai fatto perché ti potessi portare via da qui!» mi accusò puntandomi un dito
contro. «Beh, sappi che ti stai sbagliando, questo non avverrà mai, capito?!
Mai.». Cambiando di nuovo tono, parlò tranquillo, avvicinandosi ancora a me
«calmati, non tremare. Adesso ci sono io, vedrai, starai bene… Mi prenderò io
cura di te. Vieni qui, ti riscaldo io, non tremare… Non ti dona quella
tintarella blu, sai Bells?» tentò di scherzare.
Mi accarezzò la guancia, ma io mi ritrassi
immediatamente, sollevandomi sulle gambe traballanti e tentando di correre via.
«Lasciami!» urali, con voce più ferma. Mi sentii
afferrare da dietro per il bacino e sollevare per aria, facendomi perdere il
senso della gravità. «Vai via, lasciami andare!» gridai più forte, scalciando
nell’aria con le ultime forze. Un attimo dopo mi trovai brutalmente schiacciata
sul letto.
«Stupida! Ecco cosa sei, solo una stupida! La pagherai
cara, vedrai…» urlava con i pugni serrati.
Mi rifugiai fra le coperte, tremante e stordita.
«Allora lasciami andare… Sono una stupida, che cosa vuoi da me?».
Si portò le mani alle tempie, serrate in due pugni. Si
muoveva con la testa avanti e indietro, tentando di calmarsi. Poi si voltò si
scatto verso di me, facendomi sussultare. «Tu sei mia. Mia».
«No, no, no! Ti sbagli di grosso Jacob Black. Io non
sono tua. Togliti dalla testa questa stupida convinzione» ribattei acida, con
un filo di voce.
Si mise a ridere sguaiatamente e la sua risata fece
aumentare il senso di stordimento che per un attimo mi aveva abbandonata. «Sei
tu quella convinta Bella, non io. Tu. Tu sei convinta che il cadavere
sia l’unico uomo sulla faccia della terra, quello che dici di amare. Ma non sei
disposta a guardarti intorno!».
Le mie parole uscirono con un tono basso, e per questo
più tagliente. «E chi dovrei vedere se mi guardo intorno? Te?! Non… non sei
quello che voglio, lascia che lo decida io quello che voglio!».
«No!!!» urlò, facendomi indietreggiare sul materasso. La
testa mi pesava, pulsante. «Lo decido io. Anzi l’ho già deciso. Perché quello
che voglio io, non è quello che vuoi tu. E sai come si chiama questo? Conflitto
d’interesse. Vince il più forte».
«Cosa stai dicendo Jacob? Cosa? Ti rendi conto di
quello che dici?» chiesi con voce lamentosa, tentando di trattenere le lacrime.
«Lasciami andare, te ne prego… Tutto tornerà come prima…» la mia stessa voce mi
sembrava distante e distorta.
Mi sentii afferrare da due braccia calde, ma non
riuscii a contrastarle, perché le forze mi stavano abbandonando. Avevo paura di
chiudere gli occhi, fra le sue braccia, in balia di un mostro, ma riuscii a
riaprirli solo per alcuni secondi, il tempo per vedere che ci stavamo
avvicinando al fuoco e il rumore dell’acqua che bolliva. Poi, scivolai
nell’incoscienza.
Non so quanto tempo rimasi priva di sensi, ma fui
risvegliata dall’aroma delle erbe e dal caldo a cui ero costretta. Appena mia
accorsi che ero fra le braccia di Jacob mi sollevai, sfilandomi dalle sue
braccia, e rifugiandomi all’angolo opposto del camino, avvolgendomi in una
coperta. Lui mi fece fare senza opporsi.
Sollevai il sguardo e notai che mi osservava con un
sorriso sereno. «Sei bellissima Bells…».
Voltai di scatto la testa, senza rispondergli.
Sentivo il corpo ancora intorpidito, ma ora riuscivo a
pensare con lucidità. Il sole sorgeva basso all’orizzonte, e i deboli raggi
filtravano attraverso a finestra. Ero rimasta tutta la notte sul piccolo
balcone, cullandomi nell’illusione del freddo che mi circondava, guardando le
stelle nella speranza che anche lui le osservasse. Evidentemente non mi ero
accorta che la temperatura si fosse fatta troppo bassa ed ero caduta in una
specie di torpore.
Quello era il secondo risveglio senza Edward, e questo
significava anche che mi rimanevano solo tre giorni.
L’aria era ancora rarefatta e oltre al primo piacevole
odore di aromi naturali, si aggiungeva quello fastidioso della benzina. Un
odore assolutamente raccapricciante.
Mi ritrovai una scodella tra le mani e sussultai
spaventata.
«Mangia, è solo zuppa calda, ti farà bene, vedrai…» mi
disse gentilmente.
In effetti aveva un buon odore e il mio stomaco
gorgogliava non poco, ma ero piuttosto titubante. Poi mi ricordai di Edward, e
della promessa che mi ero fatta, e non potei evitare di ingoiarne una
chucchiaiata, poi un’altra e un’altra. Mi sentii decisamente meglio.
«Ne vuoi ancora?» mi chiese Jacob.
Scossi il capo e sistemandomi meglio la coperta, mi
sollevai e andai a rifugiarmi in bagno. Non badai neppure ad osservarmi allo
specchio, sicura di quello che avrei trovato.
Dovevo avere fiducia in Edward, fiducia. Solo quella
mi avrebbe salvata in quell’infausto momento.
Mi lasciai andare contro una delle pareti, lasciando,
senza badare al tempo che scorreva, che dolorosi e necessari ricordi
affiorassero nella mia mente stordita.
M’immaginavo le braccia muscolose di Edward, che mi
stringevano a se, cullandomi. Mi immaginavo le mie mani fra i suoi morbidi e
meravigliosi capelli bronzei. Mi ricordai di una volta, quando gli avevo
chiesto come fosse possibile che fossero così morbidi i suoi capelli, se era un
vampiro! Lui si era messo a ridere, dicendo che ero assurda. Sorrisi. Lo diceva
sempre quando facevo qualcosa di imprevedibile o gli chiedevo qualcosa di
strano.
Sussultai, quando sentii un colpo deciso alla porta.
«Bella! Sono due ore e mezza che sei chiusa in bagno, non sono ancora entrato
per rispetto…».
Capirai, mi vuole violentare…
«Ma se ti stai sentendo male dimmelo, invece, nel caso
in cui tu stessi cercando le lamette, per tentare il suicido come stanotte,
sappi che non che ne sono e che…».
A quel punto mi sollevai da terra, cancellandomi le
lacrime che nel frattempo erano scese, e uscii dal bagno.
Mi fissava con aria scocciata, ma comunque umana.
Non mi soffermai a guardarlo e andai diritta fino a
nascondermi fra le coperte del letto.
A quel punto sbuffò e venne a sedersi a terra, su uno
dei lati, di fronte al comodino. «Bella, parlami» mi ordinò irritato.
Quindi quello doveva essere un suo punto debole.
Ovviamente non lo feci. Allora si alzò da terra e marciò verso un altro punto
della stanza. Sospirai, lieta che mi lasciasse in pace, e chiusi gli occhi,
tentando di non pensare a nulla. A nulla di doloroso.
«Metti questi» mi ordinò, lanciandomi degli abiti.
Li osservai. Erano miei, erano miei vestiti!
Al mio sguardo sbalordito rispose con una scrollata di
spalle. «Così sarai ancora più bella… Sono i vestiti della prima volta che ti
ho vista, non quelli delle sanguisughe…» si avvicinò a me, sedendosi sul
materasso e facendomi così automaticamente indietreggiare. «Mettili…» mi disse
con voce melliflua, tentando di accarezzarmi. Scostai lo sguardo quando riuscì
a entrare in contatto con la mia guancia.
«No…» sussurrai spaventata, tirando su le coperte.
«Mettili ti dico» sibilò a denti stretti, schiacciando
con forza la mano bollente sulla mia guancia.
«N…no…» Ero decisamente terrorizzata.
Mosse la mano sulla mia guancia, con ossessione,
violenza. «Mettili. La nostra prima volta deve essere speciale…
indimenticabile…» mi alitò, avvicinando minacciosamente la sua bocca alla mia.
Non so cosa mi fece parlare, e riacquisire un minimo
di lucidità, forse l’adrenalina. «Avevi detto che avresti aspettato… cinque
giorni…» lo supplicai.
La sua voce ora era ansante e roca, decisamente
disgustosa. «Te ne rimangono solo tre, è la mattina del quarto giorno…» mi
strinse con forza, nascondendo la mia testa nella sua scapola, in un gesto che
doveva essere tenero, ma che trovai solo raccapricciante. «E non ho detto che
non avrei tentato di averti in questi giorni…».
Urlai, e riuscii a sollevarmi in piedi divincolandomi
dalla sua presa. Riuscì a stringermi per la vita, provocandomi un’ondata di
nausea. Singhiozzai, accasciandomi a terra tremante.
Non volevo che mi toccasse. Non volevo che mi
sfiorasse. Non volevo che mi guardasse.
Urali ancora, scoppiando in lacrime. Sentii un ringhio
rabbioso, e il suono della porta a vetri che sbatteva, poi mi rannicchiai maggiormente
su me stessa e ricominciai a piangere.
Davvero quella sorte poteva essere la mia? Veramente
quello non era un incubo?
Edward, Edward, dove sei? Ti prego salvami, aiuto…
In quel momento presi seriamente in considerazione
l’idea di suicidarmi. Non potevo resistere in quel modo, non potevo aspettare
di sentire le sue mani su di me…
Mi sollevai traballante e corsi in bagno. Vomitai. Distrutta,
mi trascinai fino al letto, dove mi stesi, ricominciando a piangere. Faceva sul
serio, Jacob faceva sul serio. E dopotutto, l’aveva dimostrato quando mi aveva
ferita con il coltello, di fronte allo sguardo terrorizzato di Edward… Chiusi
gli occhi, reprimendo l’urlo di terrore che mi stava nascendo nel petto.
Sentii rumori, folate di vento. Era Jacob, che si
muoveva nella stanza. Mi dondolai sul letto, la testa tra le mani, tentando di
ritrovare un appiglio di lucidità, una parte di me che non fosse infranta, che
ancora avesse la forza di lottare.
Poi, una sensazione calda, urlai e la mia voce si
spense solo quando non ebbi più la forza di farla uscire. Sentii un attimo lo
sguardo del mio amore puntato su di me, poi, il buio.
Il sonno che avevo affrontato non era affatto stato
ristoratore, e comunque, anche una volta sveglia non avevo osato controllare
che lui fosse lì con me nella stanza. Tremavo, impaurita, e questo non potevo
impedirlo, ma me ne stavo ferma e immobile, pregando che non si accorgesse del
fatto che fossi sveglia e che così mi lasciasse in pace.
Mi sentivo estremamente frastornata, la testa mi
pesava come un macigno e mi pulsava in prossimità della nuca. Probabilmente
avevo la febbre. Avevo anche una strana nausea. Negli ultimi tre giorni ero
stata sottoposta ad uno stress non indifferente e sicuramente la ferita e lo
stazionamento all’aperto con una temperatura inferiore allo zero non avevano
aiutato.
Sentii una mano bollente sulla fronte e mi ritrassi
spaventata. Vidi Jacob allontanarsi da me con aria serena. Prese un piatto di
minestra, ci mise dentro il contenuto verde di una boccetta e me la diede.
«N…no… Non… non la voglio…» mormorai spaventata,
fissandolo negli occhi in cerca di una sua possibile spaventosa reazione.
«Non fare la bambina. Devi prendere la medicina, stai
male».
Distolsi lo sguardo, rannicchiandomi su me stessa.
«No…non è vero… No…».
«Mangia» mi ritrovai il cucchiaio infilato con forza
in bocca e per non strozzarmi non potei far altro che mandare giù
quell’intruglio.
Senza che me ne rendessi conto fui obbligata a
ingoiare altri sorsi di quella cosa maleodorante. A nulla servì dibattermi, mi
teneva ferma per il mento, con una mano che mi costringeva con forza a tenere
la mascella aperta.
Ad un certo punto con un calcio riuscii a prendere il
piatto, poggiato in bilico sul comodino, che volò via schiantandosi contro il
muro e riducendosi a pezzi.
«Stupida!» sibilò, poi un dolore bruciante mi ferì la
guancia destra.
Quando mi voltai verso di lui, con gli occhi lucidi e
una mano sulla guancia lesa, il suo braccio era ancora a mezz’aria.
Lo osservava con aria terrorizzata, come se in realtà
non fosse stato lui a compiere quel gesto. «Scusami Bells, io… Io non l’ho
fatta apposta… non volevo…».
«Vai via!» urali. «VIA!». Rispesi fiato, ansante, fra
i singhiozzi, mentre lui retrocedeva nella stanza. «Lui non l’avrebbe mai
fatto! Non mi avrebbe mai fatto del male! Sei solo un bruto!!! VIA!!!» gridai
con tutto il fiato che avevo in corpo.
«Mettiti i vestiti» mormorò.
Non feci in tempo a rispondere «NO!», che sentii un
fruscio e capii che era uscito di nuovo.
Tentai di riprendere fiato fra gli ansimi che mi
impedivano di respirare regolarmente. Provavo a controllare il ritmo dei respiri
per non rischiare di perdere ancora coscienza, ma la testa mi girava e tutti i
contorni della stanza erano sfocati.
«Edward… Edward… ti prego aiutami, ti prego…» gemetti
fra le lacrime, epr poi correre in bagno e vomitare.
I miei occhi si riaprirono e ancora una volta, piansi.
Era un abitudine ormai, lo facevo sempre quando mi risvegliavo dopo i brevi
periodi d’incoscienza.
Non so quanto tempo rimasi a piangere, con la testa
fra le gambe, con la paura che lui rientrasse nella stanza, inferocito, e che
non volesse più rispettare il tempo di cinque giorni. Due, ormai.
Tutto il tempo era scandito solo da quello. I momenti
in cui ero cosciente non erano migliori di quelli in cui il buio mi avvolgeva.
Il sonno non era mai ristoratore, e mi svegliavo sempre più debole, dopo essere
svenuta, stremata, a causa del pianto e della febbre.
Quando mi sentii troppo debole anche solo per
piangere, ed esaurii tutte le mie lacrime, mi sollevai dal letto, avviandomi
verso il camino.
Jacob era fuori. Ogni tanto usciva, cacciato da me, in
lacrime, o urlante, oppure perché non gli parlavo o gli disobbedivo. Oppure
quando si stancava di sentirmi pronunciare il nome di Edward. Non gli
permettevo di avvicinarsi, anche nell’incoscienza, riuscivo a rendermi conto di
quando era troppo vicino a me e mi svegliavo, sudata, di soprassalto. Non mi
aveva più ferita, e la guancia, che nei primi momenti mi aveva fatto molto
male, ormai era solo leggermente gonfia, e il livido era già giallognolo.
Ero riuscita a contrastare qualsiasi suo altro
tentativo di approcciarsi in qualche modo a me, anche se era riuscito a
toccarmi tre volte. Sentivo i punti di contatto con le sue mani brucianti. Le
spalle, un piede, e la fronte.
Finii di mettere il brodo nel piatto, presi un pezzo
di pane e cominciai a mangiare.
Avevo ancora la febbre, non mi aveva mai abbandonata e
ormai ci avevo fatto quasi l’abitudine. Pensavo fosse la malattia che mi aveva
portato Jacob, la malattia del calore. Perché non potessi sentire freddo.
Agognavo malsanamente ai brividi, l’unica cosa in grado di ricordarmi di lui. Avevo
vomitato altre due volte, e speravo di non farlo più, perché, dopo l’incidente
con il piatto, odiavo mangiare. Lo facevo solo per Edward, perché le forze mi
stavano abbandonando sempre più.
Risposi la scodella e mi stesi di nuovo a letto.
Pensai a una bruttissima cosa. Se mi fossi
addormentata, esausta, come il mio corpo mi chiedeva, poi sarebbe rimasto
probabilmente solo un giorno utile perché Edward mi ritrovasse.
Il mio sguardo cadde sui miei vestiti ai piedi del
letto. Aveva insistito molte altre volte perché li indossassi, ma io mi ero
opposta strenuamente. Sapevo che indossare quei vestiti equivaleva a
incoraggiarlo a saltarmi addosso. Per questo li repellevo. Malsanamente
pretendeva che li indossassi, era addirittura andato a recuperarli a casa di
Charlie! Era decisamente pazzo.
Mi nascosi con a testa sotto il cuscino, aspettando,
tremante di paura, che ritornasse.
Lasciai che la mia mente vagasse a immaginare cose
positive, come il mio ritorno a casa. Mi immaginavo Edward, che mi avrebbe
stretta al suo petto e cullata, anche per ore se gliel’avessi chiesto. Poi mi
immaginavo Alice, la piccola Alice che mi saltellava intorno, contenta,
proponendomi di andare a recuperare il tempo perduto per fare shopping. E poi
Charlie. Chissà se era a conoscenza di quello che stava accadendo, avrebbe
sicuramente cambiato idea su Jacob. Poi vidi il sorriso rassicurante di
Carlisle, la sua mano fredda sulla fronte e il suo tono confortante da medico. Vidi
la dolce Esme, che mi avrebbe preparato qualcosa da mangiare, e Emmett, con la
sue battutine, Jasper con la sua presenza benefica e Rosalie. La bellissima
Rosalie.
Aspettai secondi, minuti, ore, persa nei miei
pensieri. Infine, quando ancora non fu accanto a me, decisi di lasciarmi andare
al sonno, leggermente più speranzosa e rincuorata dalla sua assenza.
Purtroppo, mi svegliai, vendendomi venire incontro una
sorte amara. Sentii una mano che mi bloccava il braccio, poi la puntura di un
ago e il dolore bruciante nelle vene.
«Ahh!» urlai, tentando di ritrarlo. Ma Jacob non mi
lasciò andare e spinse più in profondità l’ago, facendomi urlare ancora.
«Che cos’è?» gridai spaventata quando ritirò la
siringa, gettandola via «che cosa mi hai fatto?».
«Calma Bella, inutile agitarsi» mi sorrise beffardo,
mentre io mi massaggiavo il braccio indolenzito e lo fissavo intontita, «anzi
si, agitati, così si diffonderà più in fetta…».
Mi sentii la testa girare violentemente, e ricaddi fra
i cuscini. «Che… che cosa mi hai fatto?».
«Shh, Bella» mi si avvicinò, sedendosi accanto a me
sul letto «calma… Nel giro di due, tre ore sarà tutto finito…».
Fremetti, spaventata quando con una mano si avvicinò
al mio volto. Mi scostai, ma non ero pienamente cosciente dei miei movimenti,
ed ebbi paura che in realtà non l’avessi fatto. Avevo il terrore di quella che
potesse essere la mia sorte. Il mio petto si alzava e si abbassava, furioso, e
il cuore pompava più sangue di quanto non volessi.
«Calma…» mi disse, riuscendo a toccarmi il viso. «Voglio
ancora rispettare la condizione che ho posto…».
Fui leggermente più sollevata a quelle parole. «Che…
che vuoi?» la mia voce era tremula e lontana. Mi sentivo più febbricitante del
solito. Avevo la mente annebbiata e i muscoli brucianti e intorpiditi. «Cosa…
mi hai fatto?».
«Non ti preoccupare, resterai ferma per un po’…
Tornerai normale in tempo utile per domani…»
Mi si mozzò il respiro a quelle parole.
«Ora calma», mi disse scostandomi i capelli dalla
fronte. Ci vedevo doppio e non riuscivo a coordinare i movimenti. «Voglio solo
metterti questi vestiti, non ti farò nulla…».
Sgranai gli occhi, mentre il petto si muoveva con
sempre minore velocità e anche il cuore assumeva un ritmo normale, contro la
mia volontà.
«Ecco, ecco qui, stai calma…» disse. Intravidi la sua
mano che si muoveva e poi una sensazione calda sul petto.
«No… non mi toccare… ti prego…» lo supplicai.
«Calma» la sua voce arrivava lontana e distorta.
Pensa, mi
dicevo, pensa a cosa puoi fare. Ma per quanto mi sforzassi non riuscivo
a trovare una soluzione a quello che stava per accadere. Resisti, Edward ti
salverà, tentai di illudermi. «Ti… ti prego… mi… lo faccio da sola…»
biascicai, tentando di trovare un modo per evitare quel supplizio, le sue mani
su di me…
«No, Bella, no» disse deciso, ma comunque gentile «Hai
avuto le tue occasioni».
Sentivo con repulsione il tocco bollente delle sue
mani sulle mie braccia. «Ti… ti prego…» balbettati, disperata.
«Su su…».
Sentii il suono spaventoso. La zip del mio abito che
veniva abbassata.
«Ti prego…» questa volta la mia foce fu rotta dal
pianto e dalle lacrime che copiose avevano cominciato a cadere sulle mie
guance. «Ti… ti prego, ti prego…».
«Togliamo questo vestitino brutto…» Sentii la stoffa
scivolare sulla mia pelle. «Ohh… come sei bella…»
Singhiozzai e chiusi gli occhi tentando di
concentrarmi in qualche modo. Li riaprii piano, e riuscii a vedere i contorni
leggermente più netti, ma subito, quando sentii le sue mani calde su di me,
furono inondati di lacrime. Gemevo e piangevo, sentivo le sue mani sulle mie
braccia, sulle mie gambe, che sfioravano, toccavano, massaggiavano.
Non potevo far altro che piangere, piangere e rimanere
immobile.
Sentii le sue mani sulla pancia, sotto la canotta, e
mi si bloccò il respiro. Mi sollevò per la schiena, mettendomi seduta e
facendomi venire le vertigini.
«Shh, piano, così…» mi poggiò la testa sulla sua
spalla, accarezzandomi i capelli come a confortarmi. In quel momento capii come
dovesse essersi sentito Edward. Impotente.
Mi sollevò le braccia, che penzolavano inermi,
sfilandomi la canottiera dalla testa. Piansi più forte, spaventata da quello
che poteva accadere di lì a poco.
Mi accarezzò la schiena, e posò le sue labbra sulla
mia spalla. «No… no no no…».
«Sai… La tua pelle ha un sapore buonissimo…» continuò
a baciarmi la spalla, risalendo in alto sul collo.
«B…basta…ti…ti prego…»
Mi strinse con forza a sé, inspirando il mio odore poi
mi lasciò andare sul letto, adagiandomi come una bambola di pezza fra i cuscini.
Con lentezza esasperante mi mise la maglietta, sollevandomi dal materasso per
farmela indossare e facendo passare le braccia dalle maniche. Ebbi paura quando
subii il supplizio dei jeans e della sue mani troppo vicine alle mie cosce.
Edward, Edward…pensai
gemendo. Dovevo resistere, per Edward. Resistere e aspettare che tornasse a
salvarmi. Ti prego, salvami Edward… Aiuto!
In balia delle sue mani non potei far altro che
piangere.
Scusateeee!
Ok, questa volta non ho scuse valide, lo so, ma questo capitolo era tanto
difficile da scrivere!!! E poi… Non uccidete me, uccidete Jacob, dopo quello
che ha fatto penso vorrete farlo… A me mi potrete uccidere nel prossimo
capitolo e so già che lo farete!
Ok… Non
vorrei aver combinato un pasticcio con questo cap, ma i capitoli di questo
genere non mi vengono bene…
E cmq,
anche questa settimana il pc si è rotto! Già, ma questa volta dovete
ringraziarlo. Perché praticamente fino a ieri non avevo scritto che 1
paragrafo, poi ieri sono stata senza connessione, e allora sapete cosa ho
fatto? Mi sono reclusa in soggiorno, con 40 gradi all’ombra, umidità 80%, sole
cocente, e ho deliberatamente snobbato i 25 asciutti gradi del reparto notte
per mettermi su word e scrivere un intero capitolo in un giorno! Poi oggi l’ho
completato e rivisto e così eccomi qui!
Owh, una
cosa. Mi rendo conto che all’inizio può non essersi capito qualcosa, ma è
esattamente al continuazione dell’altro capitolo in Pov Bella. Beh, non proprio
esattamente, dopo qualche ora al gelo direi…
Un’altra
cosa. Spero non vogliate linciarmi per il fatto che Jacob ha drogato Bella…
grazie. :D
PS.Grazie!!!
Mi avete fatto superare il record di recensioni! *.* Vi adorooooo! *.*
barbiemora______scusa!!Mi dispiace
tanto di non essere riuscita a postare prima, ma come sepre scrivere sta
diventando un’odissea!!! Se sei già partita spero che al tuo ritorno tu possa
leggere il capitolo, altrimenti leggitelo in fretta e in furia prima di sederti
sulle valigie per chiudere la zip! ^^
patu4ever ciao!! E si, anche
dall’Inghilterra, ma che piacere! J
Grazie, mille, e scusa per il ritardo! Questa volta non avevo sonno!!! :P
Eddyrossen95 Grazie! ^^ Sono
contenta di non stufarti troppo… E’ vero sono un po’ prolissa nello scrivere a
anche nel fare il commento finale! Ma è nella mia natura! Non ci posso fare
proprio nulla… Sono contenta che la mia storia ti piaccia e che tu apprezzi il
mio modo di scrivere davvero grazie, mi ha fatto un immenso piacere leggere
questa recensione (sto ancora gongolando) sono estremamente lusingata dalle tue
parole! Grazie ancora, spero che la mia storia possa continuare a piacerti,
ciao!
Xelasisi, parola di
Francesca, non ti preoccupare “papà”! ;P Io sono tanto buona, ho anche un
aureola smontabile sopra la testa.
Franzeschinami spiace, ma mi
sa che ho fatto ritardo anche questa volta! Comunque… A dire la verità, avevo
un po’ paura che come legame fra il vestito rosso e la striscia rossa, fosse un
po’ azzardato, però ho dovuto metterlo per forza, altrimenti Bella sarebbe rimasta
per sempre rinchiusa lassù!
SaturnoLCiao, ho letto
tutta la tua recensione o, come l’hai chiamata? Ah si, “supplica” XD Ok, devo
dirti che non accoglierò la tua richiesta. No. Perché non ce n’è bisogno… XD Ti
spiego. Bella non sarà propriamente… “violentata”, no, non nel senso tecnico
della parola, ma ci andrà molto molto vicino. Mi dispiace doverti dire di non
poter accogliere il tuo suggerimento, ma ogni fatto che avverrà in questi prossimi
capitoli, e che ho già “scritto” nella mia mente, mi serve necessariamente per
il futuro prossimo o lontano, ed ho già ideato un modo per salvarla e anche un
trama! :P Per quanto riguarda la gravidanza, si, ci sarà e sarà anche di nove
mesi, l’avevo già prevista sin da principio, ma non saranno gemelli perché…
beh, non mi piace! :P Ho letto parecchie ff in cui Bella è incinta di gemelli e
non mi va di replicare ancora…
araba89grazie, sono
contenta ti sia piaciuto, spero solo che “il suo colpo di genio” non sia stato
troppo forzato, ci avevo pensato nei precedenti capitoli e mi sembrava
passabile ma poi… Non so… Volevo aggiungere anche qualche altro indizio ma poi
non sono riuscita a creare nulla, né anagrammi né scritte in codice… boh… Vabbè
dai, infondo Edward è un vampiro centenario ultra intelligente e innamorato! XD
azazpovera… io giorni no… ma adesso sono passati e stai
tranquilla, vero?! J Sono contenta che il capitolo di
Eddy ti sia piaciuto, così triste bello e tenebroso! *.* Per quanto riguarda
Bella nei guai, è vero, è già nei guai, ma presto sarà peggio! XD Certo,
all’inizio non sarà una cosa piacevole, ma dopo un po’, ti assicuro, si, lo
sarà! Proprio come piace a noi! J Nel
precedente capitolo i Cullen hanno lavorato come una squadra, non è stato
facile farli intervenire tutti, ma dovevo tentare, ispirandomi a quello che la Meyer gli ha fatto fare nella “battaglia” con James… In effetti scoprire il “trucco” di Goat
Rocks non era facile, e mi sono preoccupata che il legame fosse un po’ troppo
forzato, però poi mi sono detta “infondo Edward è un vampiro innamorato, quindi
troverà sicuramente la sua Bella!”! Anch’io come te adoro la lettura, e
impazzisco un po’ quando mi metto a leggere i libri! Faccio la full-immerision!
XD Mi condizionano anche un po’ il comportamento… Ma ormai sono troppo
assuefatta da Twilight per esserne troppo coinvolta! Ciao tesorina! :* Francesca…
cloe
cullenokok,
non taglio nulla, dopotutto noi siamo quelle dei capitoli prolissi e non vorrei
mai che tu tagliassi qualcosa nella tua storia quindi ti capisco… La cosa di
Goat Rocks… Non so, forse è troppo forzata?! Ma la mente di Edward è quella di
un vampiro, quindi è ok! u.u E poi… mi sa che salà meglio che Edward agisca, in
un modo o nell’altro! ;)
luisinake bella che è
questa musica!!! Veramente bellissima e molto rilassante, avevi pienamente
ragione! Per quanto riguarda il commento ti giuro che mi sono commossa, non
credo davvero di avere tutti i meravigliosi meriti che mi attribuisci. Riuscire
Davvero in qualcosa per me è fondamentale, non sono mai riuscita così in
qualcosa, mi sono sempre sentita passabile in tutto, ma non sono mai stata
davvero brava in qualcosa, qualsiasi cosa. Ho sempre adottato al mia capacità
di migliorare, e questo mi ha portato dei meriti, ma non mi sono mai sentita
talentuosa. Ti ringrazio davvero e spero di poter migliorare ancora. Ognuino è
fragile quando ama perché l’amore, porta dolore, ma l’amore è più bello del
dolore e ognuno ci anela. Grazie, di tutto.
SIRYA95ma naturalmente la più ingegnosa sono io!!! u.u! No
scherzo… Dai, anche Edward ha fatto la sua parte, facciamogli questa gentile
concessione… Si, il fatto che Charlie stia capendo che Jacob è un maniaco l’ho
messo apposta! Non potevo sopportare che quel vecchietto insinuasse che era
tutta colpa di Ed!!! Grr… Sam ha deciso così perché… si insomma, che cosa ti
volevi aspettare da quelli, mica possono uccidere il cane o andare contro di
lui? E poi Carlisle si sforza di non creare una guerra licantropi-vampiri ed è
sempre il solito pacifista… hhh… E questa volta ti giuro che ho dormito! XD Non
proprio 15 ore ma ho dormito! XD
tsukinoshippoSii! Io adoro “you
are my sunshine” infatti l’ho anche inserita in un mio capitolo! E’ vero,
Edward è molto triste, ma ha subito il trauma di vedersi portare via Bella
davanti agli occhi senza poter fare nulla per salvarla! E poi comunque verso la
fine si è ripreso e ora ha scoperto dove si trova Bella o ora, speriamo, la
salverà! Mmm… mi sa che tu hai capito più o meno come andrà a finire! Eh, ma
non diciamo niente alle altre eh?! Shh… Dai tanto ormai l’hanno capito tutti…
hhh… Non so tenermi nulla per me!!! Uff… Orgoglio e Pregiudizio è davvero
bello, ma Twilight è Twilight! Le emozioni, non la trama, ma le emozioni… sono
tutt’altra cosa…
littleSmileyCiao! Grazie di
tutto, ti faccio i migliori auguri per la tua dolce attesa! ^^ Sono contenta di
essere riuscita a esprimere le sensazioni di una madre che porta un bambino in
grembo, io ovviamente ancora non l’ho provata (sono un po’ troppo piccola) ma
davvero la sento molto vicina a me… Per quanto riguarda Orgoglio e Pregiudizio…
Mmm davvero bello quel libro! E poi lo stile… e i dialoghi con quello stile
così sagace e vivace! Davvero molto bello! Grazie per le ninna nanna, le ho
trovate molto molto belle! J Ancora i
miei migliori auguri per tua figlia! Francesca.
Noemixcome non hai
capito il collegamento!!! Bella ha raccontato a Edward la storia del dipinto…
vai a leggere e vedi che c’è scritto e sicuramente, spero, capirai tutto!
Orgoglio e Pregiudizio è bellissimo è vero, anche se in alcuni punti mi ha un
po’ lasciato con l’amaro in bocca… mmm… non so… Bella davvero la ninna nanna!
mazzanon ti
preoccupare, non hai tardato tantissimo, e poi sono io quella che aveva
ritardato nell’aggiornamento, quindi… Allora: A) ovvio, Edward è un vampiro
innamorato quindi è logico che l’abbia capito, solo non vorrei che il mio
commento fosse stato un po’ troppo forzato… B) Ho notato la lunghezza maggiore
del “siii” XD In Effetti la parte in cui si immagina di ucciderlo sono stata
costretta a metterla… rendeva più l’idea, infondo è un vampiro! In effetti
volevo metterne anche altre, ma il capitolo stava diventando troppo lungo! C) Si,
in effetti è proprio quello che stai pensando… Ragazze, non posso essere troppo
buona, ma vi prometto che non sarò tanto cattiva da farmi uccidere. OK? in
medio stat virus! D) Non ti preoccupare, questo non accadrà! ^^ E) Nooo! Dove’è
che sta sto verbo al presenteee? Ok, ora lo scovo… F) Si si, quando sono
apposto il sonno non mi manca, ronfo come un bradipo in letargo! G) Ok, quando
vuoi! :*
ale03Grazie! Ma cmq,
meglio scrivere i capitoli a mente lucida và… XD La privazione del sonno può
anche essere considerata una tortura! XD E’ vero Bella è stata brava a inviare
il messaggio, ma se dall’altra parte non ci fosse stato un vampiro innamorato
non se ne sarebbe fatto nulla temo!
BellissimaCullensi, mi gusta molto! XD
Grazie mille per il commento, davvero sono estremamente lusingata… Spero
davvero di riuscire a combinare qualcosa, visto che scrivere sta diventando “il
condimento della mia vita”… Non che prima non mi piacesse, ma li scrivere è il
mio sale e il mio pepe… Orami non ne potrei più fare a meno, esalta tutto ciò
che vivo… Scusami se sto qua a dirti le mie sensazioni, magari a te non importa
- giustamente - niente, ma con il tuo commento mi hai ispirata… Grazie mille,
davvero.
Cristy97wow,
si devo dire che sono davvero belle, le ho ascoltate tutte! Ma la seconda è
bellissima! Ma la terza… la terza è davvero sublime! Wow! Non smetto di
ascoltarla, davvero, davvero bella! Altro che Bella’s Lullaby, questa è
favolosa!
_la sua
bella_grazie
mille! In questo momento ho gli occhi sbrilluccicosi a forma di cuoricino! *.*
Io sono sempre troppo prolissa in genere, infatti molte volte mi trovo a dover
dividere il capitolo in 2 parti e poi mi vengono i capitoli lunghissimi e due
brevi di seguito! Combino sempre danni! XD
WindOhhh si, ok, è
davvero una bella situazione… ma, mi dispiace rovinarti il piano, a quel punt
ci sarebbero i licantropi impazziti e i Volturi pronti a vendicarsi… Chissà,
magari scontrandosi morirebbero tutti, però poi anche Seth ci lascerebbe! O_o
No, non è possibile! ^^ Io adoro Seth! Per quanto riguarda Bella… oh si, è
molto intelligente… Se tu noti, soprattutto in Eclipse, ma anche in Breacking
Down le scopre tutte lei le cose! ^^ E poi infondo il suo piano era contorto, è
stato Edduccio quello bravo a scoprire il mistero! *.*
Nessie93 Grazie! Sono contenta che alla
fine hai capito il collegamento, leggendo il primo commento mi era venuta una
mezza crisi… Mi sono detta “oddio ho fatto un collegamento troppo strano”… Ma
spero di no… Infondo Edward è un vampiro e ha un cervello supersonico quindi è
normale che abbia capito! Per quanto riguarda la differenza… No, non è quella
che dici tu… :P Lo scoprirai leggendo, ma intanto non mi uccidere please!
__TiTtA__Beh, allora sono
contenta, ci saranno molti guai per Bella. La cosa della macchina e della
benzina… beh, ti devo dire che mi è venuta in modo estremamente sereno, non
l’ho forzato, e meno male! Perché mi serviva un modo per ritardare il loro
intervento e non farli andare sempre in giro… Per quanto riguarda la morte di
Bella, no! Mi prendi per pazza? No, ok, questa cosa sarebbe probabile… Cmq, no,
non la faccio morire né tanto meno trasformare! Bleah! Quando Bella si
trasforma in vampiro non c’è più gusto, perché Eddy non la può più salvare! In
questa fic Bella si trasformerà o alla fine o mai… J Contenta?
foxinaoh, ok, allora
sono contenta! J In molte mi hanno detto di essersi
commosse, ma ti giuro, non era nei miei piani, anzi non mi sono per nulla
impegnata in tal senso… pesavo solo “disperazione, Edward è disperato” Poi, se
mi è venuto fuori l’effetto lacrimuccia tanto di guadagnato! Nono è vero,
quella nina nanna è bellissima, l’ho ritrovata su you tube e hai ragione è
molto bella… Infine, Edward Doveva, Per FORZA scoprire il piano di Bella, se no
buona notte al secchio!
lisa76grazie ma meglio
di no, scrivo comunque anche senza problemi, la privazione del sonno non è una
cosa particolarmente stimolante per scrivere! XD
Amalia89grazie! No, non la
faccio salvare subito, se no che gusto c’è? Hai presente i film, quando la
macchina sta per esplodere, la benzina cola dal serbatoio, il protagonista
arranca sulla strada e appena è fuori pericolo la macchina esplode? Beh, ecco,
scordatelo, la nostra Bella proverà i “primi danni” dell’esplosione! Muahah…
cullengirlbeh, grazie mille,
sono contenta che tu non ti sia addormentata mentre leggevi! ^^ E già, il piano
di Bella ha avuto il suo fine, spero solo che non sia sembrato tutto un po’
troppo “forzato”… E cmq, almeno tu, una in tutte le recensioni, ha centrato il
problema! La casetta di Jacob è sperduta!!! E’ difficilissimo trovarla… E poi
se Bella troverà, speriamo di si, emm… vedrai, le cose non saranno così facili
come potrebbe sembrare!!! Nuovi problemi sorgeranno all’orizzonte!
HanairohBeethoven! XD No,
non rimane in vita, ma non andrà come hai pronosticato tu… ovviamente…
altrimenti mi preoccuperei, comincerei a pensare che A) sono troppo prevedibile
B) tu hai lo stesso potere di Edward! O.O E si mi sa che questo bel dubbio
finale, hai fatto proprio bene a fartelo venire ma ti dico anche che non sarò
così prevedibile! Almeno spero! T.T E cmq si, il botolo pulcioso è in via
d’estinzione se proprio lo vuoi sapere, ma nessuno lo salverà!!! Muahahah! PS.
La ninnananna era davvero stupenda, grazie di avermela consigliata. E scusaaaa
se non ho postato prima!!! Spero tu abbia potuto portare Osvy con te altrimenti
ho fatto una frittata!!!
Padfoot_07Grazie mille, sono
contenta ti sia piaciuto questo esperimento con Edward, ma per ora, meglio
ritornare nella testa della nostra Bella! Eh già… la scuola… non pariamone
visto che ormai giugno è praticamente andatolo! Passano troppo in fretta i
giorni di vacanza! Ohhh! Che bella la nenia che mi hai detto… davvero molto
dolce… E poi la storia dello scrigno con il folletto… wow… ma di dove sei?
Dalle parole sembra tipo… trentina… o veneta… magari mi sto sbagliando non so…
Non me lo dire se non vuoi…
bigiaXD grazie, ma credo sia
meglio che io continui a usare il passato! La chiamano concordanza verbale,
questa sconosciuta! XD grazie mille ancora…
Bella_Cullen_1987 Harry Potter melody? Mai sentito parlare… Mi sa che
dovrò andare a cercarla su You Tube! Boh… XD *me va a informarsi* *me ritorna*
Oh, si è la colonna sonora… Non ci avevo mai pensato, ma ora che ci faccio
caso, è vero, è davvero molto bella…
barbyemarcoquesta volta ho
dormito regolarmente, giuro! Anche le le stramberie sono sempre le stesse… ^^
Sono contenta che il precedente capitolo ti sia piaciuto, pensavo di aver
scritto un mucchio di frasi senza senso e che tutti sarebbero andati avanti a
leggerle, saltando ogni tanto qualche rigo!
damaristichXD mi hai fatto
ridere tantissimo con la nenia! Non mi sono addormentata, ma ti giuro che ho
riso tanto!!! XD E ora, gli aggiornamenti… emm, si, l’altra volta ho fatto un
ritardo mostruoso, e anche questa ma spero di essermi fatto perdonare, con
questo chappy! *.* E giuro che non lo faccio più! Però aggiorna anche tu, eh?!
Lau_twilight grazie mille! ^^
Si, Edward ha capito più o meno dove sono nascosti, ma una cosa è questo, un
altro paio di maniche è trovarla! Ti ricordo che sono nascosti a non mi ricordo
neppure io quanti metri di altitudine! Eh… Il salvataggio non sarà così immediato
e facile! ^^
Hikary_a18eh si l’ha capito, ma Goat Rocks è
piuttosto grande, inoltre tieni conto che è passato un po’ di tempo prima che
Eddy lo scoprisse, quindi… Ti giuro che sto lavorando al massimo per postare
presto! E gli Edward Pov… No, per un po’, meglio di no… Mi fanno venire il mal
di testa!
vampirettafolleno per Venerdì non
ce l’ho fatta!!! Mi sa che adesso sei anche tornata! ^^ E’ che ho dovuto
aggiornare anche l’altra storia… ti giuro che ce l’ho davvero messa tutta, ma
massimo scrivo un capitolo ogni due giorni, oppure anche a volte riesco a farne
uno tutto in un giorno, ma non riuscirei a farne un altro in un giorno! O.O
Uscirei pazza! xD
ledyangnon so se ti posso
dare tutto quello che mi chiedi, ma una delle due cosa te la darò
completamente, l’altra… no… in parte… Non riesco a essere troppo buona!
AnthyAnche tu hai la
maturità vero? Brutta cosa, non vorrei trovarmi nei vostri panni… Ma ora tutto
è finito, almeno per mia sorella! Alleluia! Edward è sempre stato conosciuto
per la sua pazienza, quindi un po’ di nervi saldi li ha mantenuti… eheh E poi è
stato bravissimo a scoprire tutto quello che c’era dietro il ragionamento
contorto di Bella! E cmq, fortunatamente, la presentite mi è passata!
*SONDAGGIO*
A chi
di voi piace più il freddo del caldo?
A me per
esempio. Forse è per questo che odio Jacob! ^^
Mi risvegliai, intontita. Mi sentivo peggio del
solito, la testa era più pesante e avvertivo uno spiacevole tepore e torpore.
Mi toccai la fronte. Mi sembrava bollente, ma poteva
anche non essere così, perché le mie mani erano freddissime.
Decisi di lasciar perdere. Non mi importava niente
della mia salute. Non più, in previsione di quello che stava per accadermi.
Quanto mancava ancora? Un’ora, forse due? E poi il tempo sarebbe scaduto e a
quel punto solo la morte sarebbe stata più piacevole. Edward non sarebbe
arrivato e il mio destino sarebbe stato orribile…
Strinsi i pugni. No. Non dovevo arrendermi. Dovevo
usare le mie ultime forze per trovare un modo di lottare contro il mio stesso
destino. Anzi no. Non esisteva il destino, niente era segnato e solo io potevo
decidere di quello che ne sarebbe stato della mia vita. Dovevo trovare un modo
di lottare.
Jacob era troppo forte per me, lo sarebbe stato da
umano e lo era ancora di più adesso, da licantropo. Mi osservai intorno. Non
c’erano verghe o bastoni, neppure attizzatoi che potessero essere usati contro
di lui. Solo un vaso accanto alla porta finestra. Inutile…
Vidi la sua sagoma sul balcone, oltre alla finestra, e
un moto di nausea mi assalì. Non potevo evadere. Accidenti! Mi ributtai fra i
cuscini. Potevo solo sperare che Edward avesse capito il mio messaggio e che mi
trovasse lassù.
In quel momento, Jacob entrò nella stanza.
Il tempo era scaduto.
Si avvicinò piano a me: sentivo ogni rumore che i suoi
piedi nudi producevano sul pavimento, come un grande orologio nella mia testa,
che segna lo scadere del tempo.
Tentai di imprimere nella voce un timbro dignitoso
«Non farlo Jacob. Non farlo».
Lui abbassò le mani lungo i fianchi, con naturalezza.
«Te lo chiederò. Ti ho dato cinque giorni per scegliere, ti offro una casa, ti
offro un marito, vuoi fare l’amore con me, Bella?».
Sollevai la testa fino a guardarlo dritto negli occhi,
sicura come nel primo momento, della risposta che avrei dato. «No, mai».
«Bella…».
Prima che potesse aggiungere altro, sgattaiolai via
dal letto, e correndogli accanto, uscii sul balcone. «AIUTO!» urlai, con tutto
il fiato che avevo in corpo. Le parole si dispersero con un eco fra le
montagne. «EDWARD, AIUTO!!! ED…» prima che potessi pronunciare anche solo
un’altra sillaba, sentì il fiato mozzarsi nei polmoni, a causa di due braccia
calde che mi tenevano stretta.
Mi trascinò dentro casa, strattonandomi malamente.
Non appena riuscii a riprendere fiato ricominciai a
urlare, ma ormai la porta della stanza era chiusa e temetti che fosse inutile
continuare a urlare da dentro alla roccaforte in cui mi trovavo. Fui
scaraventata sul letto e un’altra volta le parole si imprigionarono nella mia
gola. Evitai di sprecare inutilmente energie e fiato nel gridare e feci per
scappare via.
Un braccio mi impedì la fuga, mi voltai dall’altro
lato ma un altro braccio scuro mi comparve dinanzi agli occhi.
Mi sovrastava con il suo corpo. Tentai in ogni modo di
scappare via, ma fui bloccata. Non avevo scampo.
«Lasciami, ti prego…» sussurrai disperata.
«No, non ti preoccupare Bells, se farai la brava
vedrai che ti piacerà…».
Fui raccapricciata da quelle parole, e la nausea mi
colpì come un pugno in pancia.
«Bells, non fare così, calmati, te l’ho detto, sarà
piacevole…». Mi fissò, avvicinando pericolosamente il suo viso al mio. I suoi
occhi erano neri e ardenti.
«No, non farlo!» le mie parole erano intrise di
angoscia.
Purtroppo però, le sue labbra si incollarono alle mie.
Bollenti, violente, prepotenti…
Tentai di mordergli il labbro, ma lui sembrò perfino gradire
il mio gesto. Lo spingevo via, con le mani, con le gambe, ma era come tentare
di spostare una roccia. Infine riuscii a spostare la testa di lato e riprendere
fiato, ma purtroppo le sue labbra furono subito sulla mia clavicola. La sua
bocca febbricitante lasciava barbaramente tracce di saliva sul mio collo,
arrossandomi la pelle.
Avevo il respiro corto e veloce, sintomo non di
eccitazione, ma di un incombente attacco di panico.
Le parole mi morivano in gola, non riuscivo più
nemmeno a fiatare, e avevo i muscoli contratti e infiammati per lo sforzo di
allontanarlo da me.
Poi, le sue mani scesero ad accarezzarmi il busto,
fino ad infilarsi sotto la mia maglietta.
Disgusto, schifo, orrore, ecco quello che provai per
quello che mi stava accadendo e per quello che sapevo che lì di a poco sarebbe
accaduto.
A quel pensiero rabbrividii e riuscii a scostarmi,
defilandomi dalla sua presa.
Purtroppo però, mi riafferrò quasi subito,
imprigionandomi con più forza e violenza nella sua presa.
«Ahh!» urlai, quando mi strappò la maglietta su un
fianco, passando con la mano tanto da arrivare a palpeggiarmi un seno.
«Lasciami!!!» urlai inorridita, dimenandomi per quanto
potessi, con tutte le sue forze.
Ma le sue mani, brutali, continuavano a toccarmi, con
violenza, orrida violenza. E le sue labbra, sudice, sporcavano il mio viso, il
mio collo, le mie spalle.
Una sua mano, che non mi stava stringendo il seno,
scivolò fino ad afferrarmi crudelmente un fianco, e stringendo il suo bacino
contro il mio.
«Basta!» gridai scoppiando in lacrime.
In quel momento, non so cosa fu, forse una scarica
d’adrenalina o forse una sua titubanza per il mio urlo, ma riuscii a sollevarmi
dal letto per correre in bagno a vomitare.
Purtroppo, non feci in tempo a capacitarmi dal senso
di schifo che mi sentivo addosso, che mi riacciuffò e mi sbattè contro il muro,
stringendomi i polsi sulla testa, in una morsa di ferro incandescente.
«Basta! Ti prego, basta!!!» singhiozzai fra le
lacrime, mentre continuava a infilare le mani sotto a mia maglietta.
«Shh Bells, shh…» disse con voce bassa e roca, che mi
fece rabbrividire.
Sempre tenendomi le mani imprigionate, scese con la
bocca a baciarmi il ventre, facendomi piangere in singhiozzi convulsi.
Sentivo i suoi ansiti e i suoi gemiti di piacere e mi
sentivo terribilmente sbagliata. Perché ero io la causa di quello, ero io la
causa del suo piacere.
«Edward… Edward aiutami… Edward…» gemevo disperata.
Tentai, in un ultimo sforzo, con l’ultima oncia di
coraggio che mi rimaneva, di immaginare che quelle mani che mi toccavano,
quella bocca, fossero in realtà quelle di Edward. Ma questo, non fece altro che
farmi sprofondare maggiormente in un baratro senza fondo.
«Edward… Edward…».
Ebbe un raptus. «Zitta! Non devi pronunciare il suo
nome, capito?!» disse risollevandosi con il viso alla mia altezza.
«No!» sibilai, sputandogli in faccia con tutta la
forza che avevo.
«Questa me la paghi…» sibilò, asciugandosi la faccia
con una mano, mentre con l’altra continuava a tenermi i polsi bloccati.
Con un gesto rapido e violento, strappò via le gambe
dei pantaloni, graffiandomi le gambe e facendomi urlare di dolore.
Mi lasciò andare i polsi, e quando li abbassai sui
fianchi me li imprigionò di nuovo.
Scalciai, tentando di colpirlo, ma lui mi prese per il
busto sollevandomi da terra e costringendomi fra il suo corpo e il muro. Le
schegge di legno del muro, mi ferivano la schiena, graffiandomi. Ma quello era
il male minore.
Il dolore non era nulla in confronto all’orrore, il disgusto,
la nausea.
La sua mano scese a sulle mie cosce, stringendomi e
graffiandomi ancora l’interno coscia e facendomi ancora urlare.
Poi, successe l’inevitabile. In quel momento fu come
se tutto si sospendesse, e come se potessi guardare tutto con una nuova, strana,
malata lucidità.
Edward non era arrivato, non era riuscito a salvarmi e
io stavo andando incontro al peggior destino che mi si potesse riservare.
La sua mano, stracciò con facilità il cavallo dei
pantaloni e si insinuò fra le mie cosce, sotto gli slip, forte e violenta,
ferro incandescente che brucia lasciando danni irreversibili.
Nella mia testa, qualcosa si ruppe, si spezzò. Smisi
di urlare e di piangere, rimanendo agonizzante e senza fiato. Come un elastico
troppo teso, che arriva al punto in cui si rompe. Come una molla che s’incrina.
Il punto di rottura, il momento dopo cui non si può più tornare indietro.
Due istanti più tardi, la mia bolla di terrore si
ruppe, esattamente quando fui catapultata sul muro accanto e la porta finestra
si aprì, infrangendosi in mille pezzi con un tonfo sordo.
Gli occhi, che si erano chiusi per un attimo per
proteggersi dalle schegge di vetro che schizzavano da ogni parte, si riaprirono
stentando a credere a quello che si manifestò dinanzi.
Edward, con un’espressione rabbiosa e contratta sul
viso, ringhiava contro Jacob, ora trasformato in lupo.
Restai muta, gli occhi sgranati e la bocca aperta, con
la schiena contro il muro.
Tutte le cose cominciarono a muoversi troppo
velocemente perché un occhio umano potesse seguirle. Avevo notato lo sguardo che
mi aveva rivolto Edward, e l’impercettibile movimento verso di me. In effetti,
ora che lo notavo, la matassa aggrovigliata e opaca di corpi, tendeva ad
avvicinarsi sempre di più a me. Capii cosa stavano facendo, stavano tentando
entrambi di guadagnare terreno verso la mia parte.
Ma, anche se il mio cervello mi suggeriva di spostarmi
verso Edward, non lo feci. Non riuscivo a muovermi, né a parlare o reagire.
Tuttavia, avevo paura. Quello riuscivo a sentirlo.
Avevo paura per Edward.
Ascoltavo i rimbombi secchi e poderosi dei loro colpi,
che vibravano per tutto l’interno della montagna, scuotendomi. Non riuscivo a
capire chi fosse in vantaggio. Edward danzava elegantemente compiendo movimenti
sinuosi e armoniosi, ma soprattutto, letali. Jacob invece, un grosso lupo
rossiccio che occupava quasi del tutto la mia visuale, attaccava direttamente,
solo con l’intento di ferire.
Cinque giorni erano passati senza che lo vedessi, e
ora, proprio ora, era lì, davanti ai miei occhi, impegnato in un combattimento
all’ultimo sangue.
Mossa dall’ultimo anelito d’amore, decisi di
spostarmi. Feci forza sui palmi e cominciai a gattonare verso la portafinestra.
Un ringhio rabbioso e un rumore sinistro mi costrinsero a fermarmi.
Jacob aveva un osso rotto, scomposto sulla spalla, ma
non guaiva, digrignava i denti ringhiando contro Edward. Gli si avventò addosso
e ricominciarono a combattere a velocità sovrumana.
Dopo essermi ripresa, ricominciai a gattonare. Le
schegge di vetro, sparse ovunque, mi ferivano i palmi della mani e la
ginocchia. Ma non badavo al dolore, né a tutto quello che sentivo dentro. Il
vuoto. Solo un puntino di luce era rimasto in me: l’amore per Edward; e lo
stavo sfruttando con tutte le mie forze, tentando di trarne la massima energia.
Un altro tonfo, più forte e acuto, mi fece bloccare.
Jacob era stato sbattuto contro la parete e Edward tentava di immobilizzarlo e
di sfuggire ai suoi artigli e ai suoi denti appuntiti che mordevano l’aria
troppo vicino alla sua gola.
Mi mossi ancora, non staccando lo sguardo dalla scena,
e notai che gli occhi neri di Jacob erano puntati su di me. Mi voltai e
gattonai più velocemente, fino ad arrivare allo stipite della porta.
Proprio in quel momento, quando mi voltai, attirata da
uno strano clangore di legno su legno, vidi il letto venirmi addosso
comprimendomi contro il muro.
Tossii in mancanza d’aria e proprio in quel momento
credei di essere andata in paradiso.
«Bella!» urlò Edward con voce preoccupata e al
contempo rabbiosa. Com’era meravigliosa la sua voce! Quanto mi era mancata…
Edward mi venne accanto scostando nuovamente il letto
facendolo slittare sul pavimento. Il peso opprimente sui polmoni scomparve e i
puntini luminosi ai limiti del campo visivo scemarono via.
Vidi il suo volto preoccupato davanti a me, i suoi occhi
ambra e i suoi capelli bronzei spettinati.
Poi, ancora, non più la tregua, ma la mostruosità.
Jacob si era avventato su Edward che si era distratto
per me, per venirmi in soccorso. Lo lanciò oltre la finestra, verso il burrone.
Si lanciò su di lui. Edward lo prese per la gola,
mantenendosi a mezz’aria, sospeso. Si sorreggeva solo con le mani sul collo di
Jacob.
«Edward!» gridai, spaventata, uscendo sul balcone.
Jacob crollò a terra, ansante, quasi strozzato,
ritrasformandosi in umano. Ma, inevitabilmente, nello stesso istante, Edward
cadde giù. Nell’aria. Nel vuoto.
«NO!!!» urlai, finché la voce non mi morì in gola e
rimasi ansate, senza fiato, mentre un sibilo sinistro usciva dalle mie labbra.
Mi sentii spezzare. Squarciata in due, con un dolorosissimo
strappo, senza la possibilità di essere più riparata. Dolore puro era quello
che fluiva dalla mia ferita pulsante. Dolore, solo dolore, mero dolore. Assurdo
da immaginare, troppo grande da comprendere, e impossibile da provare.
Ma la crepa che mi attraversava in corpo, da capo a
piedi, non poteva ancora togliermi la vita. Un potentissimo collante, resisteva
ancora, facendomi mantenere attaccata.
La voglia di vendetta.
Sensazione mai provata in vita mia, ma che ti impediva
di ragionare lucidamente, quando con le unghie ti sentivi strappar via la parte
migliore del tuo cuore. Ora, potevo comprendere Edward. In tutto.
Tuttavia sapevo, di non poter assolutamente nulla
fisicamente contro Jacob, soprattutto se si fosse ritrasformato in lupo. Ma io
avevo un piano.
Mi mossi con assoluta lucidità, spinta da qualcosa che
è più potente dell’amore. L’odio. Presi il vaso, che solo poco tempo
prima mi era sembrato inutile, e mi avvicinai a Jacob.
Afferrai saldamente il vaso con entrambe le mani,
trattenendolo con forza, e glielo infransi in testa.
Una risata gutturale nacque dal suo petto. «Bells…
Pensavi di farmi male con… con quello?» disse con scherno, risollevandosi a
fatica da terra.
Strinsi i denti e un sorriso maligno mi spuntò sulle
labbra. «No. Con questo» dissi glaciale, avventandomi con tutta la forza che
possedevo sulla sua carotide, recidendola con precisione con un frammento di
vaso che mi era rimasto in mano.
Jacob era sgomento, gli occhi sgranati e il viso
segnato in una smorfia di dolore.
Premetti e insistetti, sentendo la pelle della mia
mano lacerarsi. Non ci badai e ci misi ancora più forza, scendendo in
profondità nella pelle e godendo del sangue scuro che in zampilli grondava
dall’arteria.
Però poi, ai bordi del mio campo visivo, qualcosa mi
distrasse.
Edward, in piedi sul balcone, mi fissava preoccupato. Era
vivo.
Lasciai andare immediatamente la presa sulla pietra e
Jacob, con un sibilo sinistro proveniente dalle sue labbra, cadde all’indietro,
verso il vuoto, pronunciando una parola di fuoco.
«Addio».
Morto. Jacob era morto.
Inciampai sul battiscopa e mi accorsi che stavo
retrocedendo. Non mi fermai e continuai a camminare all’indietro, verso casa.
Jacob era morto. Per mano mia.
Con gli occhi sgranati, fissi sul punto in cui avevo
commesso l’omicidio, avevo nella mia testa un susseguirsi di immagini che
violentemente perturbavano la mia mente.
Jacob che mi toccava, abusando del mio corpo.
Edward che cadeva giù dal burrone.
La mia stessa espressione soddisfatta, mentre uccidevo
l’uomo che mi stava violentando.
E, infine, indelebili, i suoi occhi neri, sgomenti, e
quella parola. Addio.
Arrivai a urtare con la schiena contro il muro, e mi
lasciai scivolare sulle gambe.
«Bella». Era la voce di Edward, vicina. «Bella amore,
sono qui…».
No, lui non doveva vedermi.
Ero sporca. Due volte. Ero macchiata di violenza
subita e di omicidio commesso. E, per l’unica cosa che non mi aveva mai
abbandonata, e che ancora continuavo a sentire nel cuore, non potevo permettere
che mi vedesse. Il mio amore per lui, era l’unica cosa sopravvissuta in me. Non
potevo permettere che i suoi occhi puri, le sue mani candide, il suo corpo
sacro, entrassero in contatto con me. Non potevo.
Continuava a chiamarmi. La decisione era già stata
presa, per quanto doloroso fosse stato.
«Edward… lasciami… va via… L’ho ucciso… l’ho ucciso…»
sussurrai.
Vidi il suo volto, il suo sguardo gentile,
preoccupato, ma distolsi subito l’attenzione. Si era inginocchiato accanto a
me.
«Bella, amore, vieni qui, vieni da me, ti devo aiutare,
stai male».
Mi accorsi solo in quel momento di provare dolore.
Stavo muovendo convulsamente le gambe, strisciandole una sull’altra per tentare
di darmi sollievo. Il bruciore era forte e mi sentivo intontita e debole.
«Fa male… fa male… fa male…» biascicai, come se quasi
non fossi io a pronunciare quelle parole.
«Lo so amore, lo so» mi disse Edward, contrito. Fece
per avvicinarsi a me.
«Non ti avvicinare!» urlai con le ultime forze,
sull’urlo del pianto, fissandolo negli occhi ambra velati da una profonda
tristezza.
«Amore, vieni con me, ti porto da Carlisle, starai
meglio…».
Mi strinsi su me stessa, distogliendo lo sguardo. «No…morto…
è morto… no Edward… no… non sto male, d… davvero… vai via… ti prego…ti… ti
prego…» singhiozzai.
«Bella, amore» mi disse con calma e con voce addolorata,
tendendo una mano bianca fino quasi ad accarezzarmi una guancia. «Stai perdendo
sangue».
Chinai lo sguardo, fino a vedere una scia rossa di
sangue lungo le mie gambe, più intensa e scura nell’interno coscia.
Singhiozzai, nauseata, tremando e sentendo le palpebre
vibrare verso il basso.
Lo vidi tentare di avvicinarsi ancora, tendersi con le
braccia verso di me, ma mi ritirai.
«Se vuoi ti medico io, magari non c’è bisogno di Carlisle,
ti prego Bella, fatti aiutare» m’implorò, la voce intrisa di dolore.
Fu molto più difficile rispondergli questa volta. «No…
non mi toccare…» piansi, riaprendo gli occhi annebbiati dalle lacrime.
«Bella…» mi chiamò ancora, addolorato.
«No…».
«Lasciami sola con lei» sollevai il capo. Fra tutte le
possibili, mai avrei immaginato di sentire la sua voce.
«Sei sicura?» chiese Edward alzandosi in piedi e
facendo scorrere lo sguardo, preoccupato, fra me e Rosalie.
Si scambiarono degli sguardi intensi, e capii che
Edward le stava leggendo nella mente. Pssarono alcuni istanti, nei quali la mia
menta vagò scivolando quasi nell’incoscienza.
Con un sospiro, infine, Edward si voltò nuovamente
verso di me. «Bella?» mi chiamò.
Non risposi, e mi voltai da un lato, nascondendo il
volto.
«Va bene Rose, mi raccomando».
«Si» rispose lei, e poi sentii un fruscio d’abiti e
capii che era andato via.
Rosalie si accovacciò davanti a me, facendomi
sussultare. Mi guardava, come se stesse tentando si scrutarmi dentro. Non
sopportavo quello sguardo, cosa voleva da me? Non ci eravamo mai parlate più di
tanto. Sapevo che aveva collaborato ai preparativi del matrimonio, perlopiù
dietro le quinte, e i nostri rapporti si stavano solidificando negli ultimi
tempi, ma… perché lei?
«Bella» mi chiamò con estrema dolcezza.
Non le risposi e rimasi con lo sguardo fisso sul
pavimento, intontita e annebbiata. Fremetti. Avevo freddo.
«Bella» mi chiamò ancora. «Puoi parlare con me, Edward
si è allontanato e tutti gli altri sono andati a casa. Possiamo parlare» fece
una pausa e poi aggiunse «Tesoro, io ti capisco».
In quel momento compresi. Lei aveva subito la mia
stessa sorte. Ecco perché Edward aveva acconsentito a lasciarmi sola con lei.
«Bella, piccola…».
In quel momento la interruppi, rispondendole. «No
Rosalie, tu non capisci…».
Lei si avvicinò ancora a me, e io puntai i miei occhi
nei suoi, senza timore di ferirla. «Bella, io…» cominciò a dirmi, come se mi
fosse sfuggito o avessi dimenticato qualcosa.
«No, Rosalie. Tu non avevi Edward. Tu non hai tradito
Emmett…».
Sollevò le sopracciglia, come se avesse intuito una
verità che fino a quel momento le era rimasta celata. «Oh… Tu… ti sei
concessa a lui…» prese un respiro profondo «Bella, non è colpa tua, è una cosa
naturale. Anche se hai provato piacere…».
Sgranai gli occhi, sorpresa per la verità a cui era
giunta. «C…cosa, piacere?!» sbraitai furibonda, riacquistando
immediatamente le forze.
Lei rimase a fissarmi senza battere ciglio, immobile.
«Ho agonizzato ogni secondo, sperando di morire
piuttosto che andare incontro ad una sorte del genere!!!» urlai scoppiando in
lacrime.
Mi guardò confusa. «Ma allora cosa…?».
«IO l’ho ucciso Rosalie! IO!!!» singhiozzai fra le
lacrime.
«Anch’io» disse lei, rimanendo impassibile.
«Tu eri un vampiro…» sussurrai, rannicchiandomi
nuovamente su me stessa, stremata.
«Non cambia».
«Si invece».
Sospirò. «Bella, fatti aiutare, ti devo medicare»
m’implorò.
Cominciai a singhiozzare, con la testa che mi girava.
«No no ti prego, non mi toccare…».
«Bella, mi sembra che la tua situazione sia piuttosto
grave» disse preoccupata, tentando di toccarmi la gamba.
Mi ritrassi. «Lasciami morire, voglio morire… ».
«Insomma» mi rimproverò con voce dura. «Sai cosa vuol
dire?».
La fissai, non comprendendo le sue parole.
«Tu lo fai per Edward vero?».
Non risposi e lei incalzò. «Tutto questo lo fai per
Edward, non è così?».
«Si» sussurrai, con voce flebile.
«E se tu morissi credi che lui continuerebbe a vivere?
Sei tanto sciocca da pensarlo?».
Sussultai a quelle sue parole. Aveva ragione.
«Vuoi che Edward muoia?» mi chiese con voce ferma, ma
questa volta, anche con dolore.
Ebbi un capogiro. «No…» mormorai.
«Lascia che io ti aiuti allora» si avvicinò con le
braccia a me, ma io mi ritirai ancora.
Lei mi sorrise, lasciando le braccia a mezz’aria. «Ti
prometto che ci metterò il meno possibile, cercherò di toccarti pochissimo e
non ti sfiorerà nessuno oltre a me. Te lo prometto» mi disse dolce e sincera.
Lasciai pian piano che i muscoli si rilassassero e non
opposi resistenza, pur tremando, quando mi prese fra le sue braccia e mi depositò
dolcemente sul letto, accompagnando con le mani la mia testa, ciondolante, sul
cuscino.
Vedevo la stanza traballante, i bordi confusi. La vidi
scomparire un attimo dalla mia visuale, come un ombra, e poi ricomparve con
delle bende, delle creme e un asciugamano bagnato in mano.
Depositò tutto sul letto, accanto a me, e mi sorrise
amabilmente prima di avvicinarsi con una mano all’elastico del mio intimo.
«Vedrai, tutto si risolverà. Tutto tornerà come prima»
mi disse dolcemente, come fosse una promessa.
Prima di perdere i sensi, misi una mano sul suo polso
ghiacciato.
«Rosalie, non voglio vivere, voglio solo
sopravvivere».
Ok
ragazze piano, piano così ecco, deponete le asce, le mazze, i bastoni, i
coltelli, gli oggetti contundenti vari ecc ecc.
Mi rendo
conto che questo capitolo ha avuto un andamento… altalenante. Prima Bella che
viene quasi violentata, e lì tutte con il bastone in mano; poi, arriva Edward,
e tutte abbassano il bastone; poi Edward viene lanciato giù dal burrone e i
bastoni si rialzano, poi Jacob muore e tutte fanno festa. Infine Bella dice la
sua frase finale e tutte mi picchiano, nooo!
Ascoltatemi,
vi prometto che sarò taaanto buona, che non è come sembra e che Edward le
rimarrà sempre accanto d’ora in poi. E con accanto intendo nella stessa stanza.
Poi, fra… tre capitoli le cose si sistemeranno, e per un lunghissimo periodo.
Inoltre, Jacob è morto, concentratevi su questo!!!
E poi
sono stata bravissima e ho postato presto! :P
Oh, sono
rimasta molto sorpresa, a quasi tutte piace il freddo! Ohoh, che cosa strana!
Beh, meglio così, vuol dire che condividete i miei gusti.
Florenceguarda, le hai
indovinate tutte! Innanzitutto grazie mille per tutti i complimenti poi, per le
altre cose che hai detto… Non vorrei fare troppo spoiler ma direi che sono
tutte esatte. Per quanto riguarda la tua domanda… la seconda, direi che in
questa fan fiction vorrei essere un po’ meno, ma molto meno, distruttiva! J
_Aislinn_Ehi mamy! Mi sei
mancata tantooo! Non ammazzarti di lavoro, mi raccomando, vacci piano! Il
voglio la mia mamy! Sono contenta di essere riuscita a esprimere e comunicare
qualcosa anche questa volta. Ma il capitolo pov Edward sai che è piaciuto a
molti? Eppure non me l’aspettavo, perché sinceramente parlando l’ho solo usato
come espediente narrativo per arricchire la narrazione e sistemare i tempi,
invece… beh, meglio così! J
foxinahai ragione il
freddo è davvero delizioso, non credevo, ma l’avete detto tutte! Bene così
allora… Si, in effetti il cane è antipatico, spero di non essere stata troppo
cruenta e di essere riuscita comunque a farlo soffrire abbastanza! Edward è
appena arrivato, che bello, è proprio un principe azzurro vero? J
azaze allora non si può affatto ignorare l’effetto benefico
dei miei capitoli, acci… mi sa che mi devo mettere a scrivere di filato, eh?!
^^ Hai adottato una cagnolina? Beh, io preferisco i gatti, l’ho sempre detto…
No, mo, sul serio, a prescindere da Jacob, i cani sono troppo esuberanti per
me, che prediligo la calma, la pace e la tranquillità… Io adoro i gatti! J Questa cosa di *eccellente* mi sta facendo morire
dalle risate! Ma vedrai che periodo buio ci sarà dopo questo capitolo…
Tuttavia, non disperare, perché io credo che potrebbe essere di tuo gusto… XD
Praticamente ora il cane è morto, e spero che vi siate messe tutte l’anima in
pace e che non mi chiediate più di farlo morire! J No la cosa che hai detto non l’ho capita, hai ragione, ci voleva
l’interpretazione vocale e facciale! XD Videochiamami! XD E mi raccomando con
la new entry, insegnale a leggere le mie storie così hai tempo per leggerle
anche tu! No no sto scherzando, povera cagnolina… XD
miemeGrazie! Che bello,
mi piace fare nuove conoscenze, stavamo quasi diventando un salottino privè! XD
No, no, scherzo… E’ che qui siamo proprio come un grande famiglia! Abbiamo
anche la mamma, il papà, la nonna, la piccoletta, le figlie! Proprio tutto
insomma… Ok, e dopo queste mie parole, lei mi guarda in modo strano, retrocede
si mette a correre e si da alla fuga… NO! Rimani quiiiiiii! Troppo tardi…
Franzeschinano!!! Non
odiarmi!!! Ok, ti prometto che fra 3-4 capitoli tutto si risolverà! J Dai, infondo Jacob è morto, questo ti deve
consolare no?! *.* Non odiarmi… L
cloe
cullenansia e
panico è il mio secondo nome! No scherzo… In effetti l’ho già detto che Jacob
non era sano di mente, ma ora è tutto risolto, via il lupo, via il dolore! ^^
Il caldo? No no, io adoro perversamente il freddo, quello pungente con i
brividi… brr… che bello!
SIRYA95sisi, l’avrei ammazzato anch’io!
;) Ma non l’ho fatto perché mi serviva vivo e vegeto per questo capitolo in cui
doveva farsi ammazzare! xD E non fare del male al povero Eddy, lui si è tantooo
impegnato e adesso ha salvato la sua Bella! *.* Che bel principe azzurro,
vero?! J
ale03No no, io
indiscutibilmente adoro il freddo e come dici tu, rifugiarsi sotto il piumone,
davanti al camino con una cioccolata fumante… ahh… meglio il freddo! J
luisinasisi, la
conosco questa musica me l’hanno fatta ascoltare proprio l’estate scorsa,
mentre facevo uno stage di giornalismo! ^^ Grazie ancora e si, in effetti non
posso che darti ragione, QUESTO Jacob, non è proprio quello della Meyer, ma io
non lo sopporto per niente, lo detesto e non riesco a capire cere storie in cui
Bella lascia Edward per Jacob!!! O.O Non si può, non si Può!!! T.T
Nessie93 Edward è arrivatoo! Ma una mezza
frittata è successa lo stesso, ti prego, non piangere, mi fai sentire in colpa
e poi piango tanto anch’io! T.T Non andare in crisi, ok?! Infondo il cane è
morto, no? Quindi calma e un bel respiro, fra un po’ tutto si sistemerà
completamente, pace!
cullengirlno, direi che dopo
QUESTO capitolo ha superato il limite, ma direi che l’ha anche pagata cara!
Eheh ^^ Anch’io adoro il freddo brr!!! J
hale1843Ecco
qui Eddy!! ^^ E’ arrivato, contenta?! J Bene, però Jacob direi che ha combinato
qualche guaio prima di morire, eheh! Jazz, Emmy e tutta la compagnia bella,
saranno con noi nei prossimi capitoli e ancora di più nei capitoli a venire!!!
Quindi fra un po’ direi che staranno sempre fra i piedi, contenta? J
lullaby_4ever grazie mille! ^^ Sisi, Edward è
arrivato e Jacob è morto, direi che ho esaudito tutti i tuoi desideri, vero?! J
littleSmileySisi, concordo con
te e poi Freddo=Abracci e Coccole, quindi adoro indiscutibilmente il freddo!
Jacob lo detesto anch’io sinceramente! ^^ Riguardo al desiderio di diventare
madre, io direi di aspettare, si, meglio, anche se tu hai solo 22 anni non
penso che questo importi se vuoi davvero bene a tua figlia, penso sia comunque
la più bella cosa che ti possa capitare, vero? Credo proprio di si… Ancora
auguri, a presto! J
Noemixgrazie mille
cuore! ^^ Beh, in realtà quando scrivo non è che so proprio precisamente quello
che faccio, la sintassi, il lessico… Diciamo che vanno da se! ^^ Beh, almeno
con queste cose compenso con quello che combino nei capitoli, vero?! E cmq
adesso il cane è morto, quindi… Non mi uccidere… eheh Anch’io adoro il freddo,
lo amo proprio, non ne posso fare a meno! Io ODIO il caldo… mamma mia, che
brutto…
WindAllora, io direi
che questa cosa che è successa non è proprio irreparabile no?! E poi il cane è
morto, quindi… Non c’è motivo per cui tu debba uccidermi, mi sembra già questa
una sofferenza appropriata, vero? *.* Si si… :D
Hikary_a18la penso esattamente come te sul
caldo, a prescindere da Jacob, io adoro l’inverno e le vacanze invernali
piuttosto che quelle estive… Il freddo è… wow! E non ti preoccupare, alla fine
non è andata così male, il cane è morto e tutto andrà per il meglio, fidati di
me! ^^ E non mi uccidere daiii un po’ di fiducia, andrà tutto bene. Ti posso
solo dire che fra più o meno quattro capitoli i nostri protagonisti saranno
contentissimi e in perfetta armonia! Ok? Fiducia!!! J
BellaJeyGrazie mille! J E poi… no… io non metto suspance, che dici! Eheh,
no davvero, c’è di peggio in giro! ^^
nene_cullenanche a me piace
quest’equazione! E anche quella CALDO=JACOB=ODIO calza a pennello!
Lau_twilight Sisi, Francesca
cmq ^^ la brutta fine l’ha fatta, non importa il fatto che Jacob l’abbia Quasi
violentata! ^^ E cmq lo stato di tristezza di Bella si protrarrà ancora per un
po’ eh… e già… :D
Amalia89J Il capitolo è arrivato, ma le
circostanze… Hai detto che avresti sopportato tutto se avessi ucciso il cane?
Beh, direi proprio che devi rispettare quello che mi hai detto e quindi… *.*
Non uccidermi!!! Ti prego!!!
ledyangok, Edward arriva
subito, ma Jacob a combinato tanti danni! Grazie mille cmq… J
DanE già, come il prezzemolo! Ma a me
il prezzemolo piace, quindi niente problemi! J Nono, io preferisco il freddo!!! Odio il caldo, non lo sopporto
proprio per niente!!! Si anch’io non… lo preferivo, diciamo solo che in New
Moon lo tolleravo… Non lo odiavo ecco, mi era solo antipatico!
__TiTtA__bene, contenta di
vedere che condividi i miei gusti. Ebbene si, Edward è arrivato!!! J Anche a me piace di più il freddo, a prescindere da
vampiri e licantropi, io odio il caldo!!! E invece adorooo il freddo… i
brividi… le coperte… il camino… la cioccolata calda… ahhh!
HanairohXD Bellissima
questa storia della faccia, ogni volta mi fai morire dal ridere! XD Dai su, ora
anche se tu mi vuoi uccidere, ricorda che ho fatto morire il cane, quindi non
farlo, capito? Non farlo ecco si brava, deponi le armi, così, piano…. Ok. Bene.
Per quanto riguarda la gravidanza… *Francesca fischietta a caso* cosa? Hai
detto qualcosa… La la la, la la la… PS. Non mi uccidere! Please!!!
mazzaXD Mi hai fatto
morire co’ sta cosa iniziale!!! Ma io lo sapevo che non dovevo mettere gli
spoiler, per questo ne ho tolti la metà di quanti non ne avevo messi! Ma la
piccoletta è andata come sempre a controllare… hhh… e va bè… per la piccoletta
questo ed altro… A) XD Si, ma tu non lo sai che Jacob è un demente
praticamente… eh… B) Hai ragione Edward sta arrivando! Anzi è arrivato… ^^ C)
Questa questione delle forza è stata esaminata due capitoli or sono… D) XD Si,
è proprio un botolo fuori luogo… E) In questo momento praticamente è quando
Alice ha la visione e “sente” Edward F) No, veramente in quel momento davvero
stava tentando di curarla ^^ G) sisi, questo è accertato! Eheh H) Di cane XD I)
si ecco adesso la sta drogando… ^^ J) Eheh direi che in questo capitolo ci
siamo andati giù ancora più pesante… hhh… non mi uccidere ok? Uccidi lui!!!
Vabbè, è già morto ^^ No, non mi disturba affatto la recensione chilometrica! J
Padfoot_07Si ok, ho sbagliato
alla grande, praticamente mi sono mangiata mezza Italia! ^^ Grazie mil per i
complimenti, non mi fare troppo male, ho fatto quello che era giusto, la vita
non è rose è fiori e poi non ci sono andata giù troppo pesante, no?! ^^ Spero
che il tuo esame orale sia andato bene! J
araba89no! Computer
nuovo, sono troppo affezionata a questo! ^^ E si, in realtà sono telepatica, mi
sono detta “sento che qualcuno sta pensando alla mia storia” e allora ho
aggiornato! J No, non è vero, ero sono in un
ritardo mostruoso… eheh… cmq, ecco Eddy! Evviva! J Contenta? Non mi ammazzare adesso…
aras1796Bene, perché era
proprio questo il mio obbiettivo! ^^ E cmq, dai, ora penso di aver esaudito i tuoi
desideri di vendetta, quindi… non mi uccidere ok? Non scatenare la tua collera
su di me! ^^
BellissimaCullenti piace Jacob
sadico?Ecco beh, in questo capitolo ne ho dato libero sfogo, quindi dovrebbe
essere di tuo gradimento! ^^ Ti piacciono di più i POV Edward? Mmm… si, ma sono
più complessi da scrivere… ok, cmq se ti piacciono ne potrei fare qualcuno in
più… E non avercela con il mio pc ^^ eheh, lui mi sta sempre a sentire anche se
lo tengo acceso 14 h al giorno!!! Poretto… Io adoro il freddo,
indiscutibilmente, da sempre! Anche prima di conoscere il cane!!!
barbyemarcook, ma preferisco
il condizionatore, mi sono attrezzata nel reparto notte! Io ho sempre odiato il
caldo e sempre adorato il freddo, anche prima di conoscere Jacob, giuro! J
miss_cullen90Edward torna
prestissimo! Ecco qua!!! J Visto… accontentata subito!
damaristicheheh, ma voi
dovete essere clementi, e poi ti ricordo che tu nella tua storia hai fatto lo
stesso, quindi non dovresti avere voce in capitolo. J Tutto questo per dire:non uccidermi!!!
*SONDAGGIO*
A chi
piacciono le angurie?
Non ne
posso più fare a meno! Quel frutto rosso, succoso… ahh…*Q*
La consapevolezza di essere sveglia arrivò pian piano, gradualmente
La consapevolezza di essere sveglia arrivò pian piano,
gradualmente. Era avvolta ancora dal tepore, anche se questa volta era
piacevole.
Tuttavia, tutta questo si scontrava con l’assoluta
consapevolezza di tutto quello che era accaduto. Per questo non volevo aprire
gli occhi, non volevo più svegliarmi. La violenza, l’omicidio…Edward… il suo
sguardo sconvolto. Ero certa che non fosse stato un incubo, perché nessuna
mente, neppure la più perversa avrebbe potuto pensare a delle cose così
orribili.
Vidi degli occhi neri, sbarrati, che mi fissavano.
A quel punto spalancai i miei, sgomenta. Percepii la
fastidiosa sensazione delle pupille che si dilatavano e si restringevano, per
adattarsi alla luce. Poi, davanti ai miei occhi comparve un baldacchino di rose
in ferro battuto.
Capii dove mi trovavo, in camera di Edward. Rimasi
immobile, lo sguardo fisso al soffitto. Non avevo alcuna intenzione di
muovermi. Stavo stesa supina, le gambe stese e leggermente aperte, le braccia
lungo i fianchi. Più o meno come starebbe un morto in una bara.
Mi venne da sorridere a quel pensiero macabro, ma non
ebbi il reale impulso di farlo, così non lo feci.
In quel momento ai limiti del mio campo visivo
comparve un’immagine. Anche se avevo desiderio di spostare lo sguardo per
guardarlo meglio, non lo feci e continuai a fissarlo di sottecchi.
Edward stava seduto su una sedia, sulla mia sinistra,
i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa appoggiata ai pugni chiusi. Sul
viso un’espressione neutra, forse un po’ preoccupata, ma decisamente con un
ombra di sollievo. Non palesemente né una né l’altra.
Mi colpì forte la sensazione dolorosa quando lo vidi,
soprattutto per ciò che stavo per fare.
Mi concessi un unico movimento, inclinai il viso verso
destra, dove potevo risparmiarmi quella visione sofferente. Mentre o facevo
notai l’espressione di dolore di Edward, ma non potei far nulla per lenirlo,
anche se faceva male anche a me vederlo così.
Solo quando un dolore acuto mi pervase mi accorsi che
avevo inclinato le gambe, tuttavia non riuscii ad evitare di cacciare un
gemito.
«Bella, hai dolore?» mi chiese Edward preoccupato.
Non risposi, addolorata, e stesi nuovamente le gambe,
con cautela, mettendole nella posizione iniziale.
Pregai con tutta me stessa che nessuno mi avesse
toccata o che almeno Rosalie avesse fatto in fretta e ringraziai il fatto di
essere stata incosciente.
Mi sentivo… Usata. Sbagliata. Colpevole.
Non volevo avere nulla a che fare con quel mio corpo
che mi ritrovavo, perché non volevo mi appartenesse, in alcun modo. Era
macchiato, ed era stato una macchina assassina. Chi poteva volere un corpo del
genere?
E la mia mente, da quella purtroppo non potevo
separarmi. Ero colpevole. Perché io avevo sedotto Jacob, io avevo alimentato le
sue vane speranze, io ero stata ai suoi giochi e io l’avevo ucciso. Non mi
meritavo Edward, non mi meritavo nessuno dei Cullen, non mi meritavo i miei
genitori né nessun altra persona al mondo.
Colpevole.
Questo ero.
«Si è svegliata?» sentii sussurrare da una voce
possente.
«Ha gli occhi spalancati, a meno che non sia
sonnambula penso proprio che sia sveglia» mormorò qualcun altro, sarcastico.
Le figure che parlavano, che individuai con quelle di
Jasper e Emmett non erano nel mio campo visivo, ma non feci nulla, non mi mossi,
né risposi.
«Un’ora e mezza» sentii dire dalla voce di Edward,
probabilmente in risposta ad una domanda muta.
Era il tempo che ero sveglia? Forse. Cosa poteva
importare…
Davanti ai miei occhi comparve la figura della faccia
di Emmett.
«Bellina?» mi chiamò. Non risposi, rimasi immobile e
muta. A quel punto mi sventolò una mano di fronte agli occhi. «Siamo sicuri che
sia sveglia?» chiese infine, perplesso. Poi si rivolse di nuovo a me «Se stai
tentando di imitarci sappi che non ci riuscirai tanto a lungo…».
«Lasciala stare» ringhiò Edward.
Davanti ai miei occhi ricomparve la parete della
stanza di Edward.
Non volevo pensare a nulla, perché qualunque cosa
pensassi i miei pensieri correvano verso cose spiacevoli che non avevo alcuna
intenzione di ricordare. E così me le stavo lì, immobile, tentando di svuotare
la mente e di crearci il vuoto dentro. Se non potevo liberarmi della mia mente
almeno potevo far finta di non averla.
Vidi il volto dolce di Esme, chissà da quanto tempo
era lì. «Tesoro, hai fame?» chiese gentile.
Continuai a fissarla senza metterla a fuoco.
«Sete?» mi chiese, quasi preoccupata.
Rimasi ancora silenziosa. Non volevo farlo, volevo
rispondere che non mi andava un accidenti di nulla, ma pensai che a quel punto
sarebbe stato meglio mantenere il silenzio.
«Tesoro, dovresti mangiare…» cominciò a dire, ma una
voce squillante, con una vena di marcato rancore la interruppe.
«E’ inutile che insisti, non mangerà» disse Alice.
Sussultai, ma non feci altro.
«Non ti parlerà neppure» insistette con più
risentimento.
«Alice» la rimproverò Edward.
Sentii un fruscio e dei movimenti, poi di nuovo il
silenzio. Non volevo nulla ancora, basta. Non volevo far provare dolore ai miei
cari, ma non potevo, non ce la facevo a fare qualcosa in cui… che… che
richiedesse il fatto che io pensassi. Quello sarebbe stato ancor più doloroso.
Mi sembrava che nella stanza non ci fosse più nessuno.
A parte Edward, ovvio, lui non aveva mai abbandonato la sua sedia. Avrei voluto
tanto allungarmi verso di lui, abbracciarlo, magari solo toccarlo, ma non lo
feci. Non ne ero degna.
Lasciavo che il tempo mi scorresse attorno e mi
estraniai, fluttuando con la mente.
«Non so che fare, è tutto il giorno che proviamo a
parlarle, non si è mossa» era la voce di Edward.
Mi accorsi che non c’era più la luce accecante che mi
aveva svegliata, ora la stanza era illuminata da una luce artificiale, gialla e
soffusa.
«Alice ha provato a parlare per un’ora, e anche
Jasper, Edward, tutti. Non ha neppure ascoltato me» questa invece era Rosalie.
La vidi, lontana, comparire nel mio campo visivo.
Non mi era affatto resa conto di tutte quelle persone
che mi parlavano.
«Secondo te è catatonica?» chiese poi Edward.
«Non so, ora vediamo» rispose un’altra voce, e capii
che il terzo interlocutore era Carlisle.
«Bella?» mi sentii chiamare e vidi Carlisle, seduto su
una sedia esattamente di fronte a me, in modo che lo potessi osservare
completamente dal busto in su. «Come ti senti?» mi chiese tranquillo.
Non risposi e allora lui si mosse sulla sedia e tese
il braccio, come se volesse afferrare il polso della mano fasciata.
Ovviamente io lo ritirai, piano, alla stessa velocità
con cui lui l’avvicinava, come due magneti che si respingono. Carlisle ritirò
la mano, e così io misi il braccio nella posizione iniziale.
Rivolse un sorriso alla mia sinistra, Edward. «Non è
in stato catatonico».
Poi si piegò ai piedi del letto e afferrò un oggetto
con cui lo vidi avvicinarsi alla mia testa, mi ritrassi ancora, infastidita.
«Bella» mi disse deciso «non ti tocco, giuro». Capii
dalla sua faccia che stava dicendo la verità, così lasciai andare i muscoli,
contratti, e mi misi nella stessa posizione di prima.
Lui posò la punta di quell’oggetto, gentilmente, nel
mio orecchio e dopo un bip lo ritrasse. «37.8, la febbre è scesa» disse,
osservandolo.
Sentii un sospiro alle mie spalle.
Poi Carlisle ripose il termometro e si rivolse
nuovamente a me. «Mi vuoi dire come ti senti?». Dopo qualche momento di
silenzio, parlò ancora. «So che non hai parlato con nessuno, e non mi aspetto
che tu lo faccia con me, ma questo non ti fa bene, Bella».
Non dissi ancora nulla.
«Non mi interessa fare discorsi con te, per ora voglio
solo sapere come stai, prima che tu ti estranei ancora dal mondo».
Appunto, non ci stavo riuscendo più, e non averne il
controllo mi stava dando ai nervi. Svuotare la mente non era così facile come
avere il controllo del corpo.
«Bella».
La gentilezza nella sua voce mi stava infastidendo,
non la sopportavo.
«Rosalie non mi ha voluto dire quasi nulla» Fui
rassicurata da quelle parole. «Ma siamo tutti preoccupati per te, vorremmo
sapere come stai…».
Non potei sopportare oltre quelle parole, così mi
voltai. Ma dall’altra parte del letto c’era Edward, un espressione afflitta sul
viso, e Rosalie, che aveva posato una mano sulla sua spalla, come per
rassicurarlo. Mi voltai ancora, immediatamente, e da quei movimenti veloci
potei constatare che c’erano solo loro tre nella stanza.
Mi venne la nausea, così chiusi e riaprii gli occhi,
lentamente, fissando il baldacchino del letto.
Sentii Carlisle sospirare.
«Devo medicarla» disse Rosalie.
Fremetti. No. Nessuno mi doveva toccare.
«Si, va bene» rispose Carlisle.
No, non volevo, non volevo. Strinsi le braccia sul
petto, nel tentativo di lenire il dolore acuto che mi stava pervadendo,
imprigionandomi il respiro.
«Bella, respira» mi ordinò Carlisle «piano».
Sentivo i suoni smorzati dei miei singulti e il senso
opprimente di soffocamento, la mie mani che artigliavano il lenzuolo…
«Amore, ti prego…» questa voce supplicante invece era
di Edward.
«Bella» mi sentii chiamare ancora. Muovevo la testa, e
vedevo i volti delle persone che mi stavano davanti, spaventate. Vidi Edward e
Rosalie sulla sinistra e Carlisle, troppo vicino a me. Sui loro volti il
dolore.
Piegai le ginocchia convulsamente, e sentii un dolore
lanciante, lo stesso che avevo provato quella mattina, sulle cosce.
Dopo un singulto scoppiai in un pianto a dirotto, che
mi consentì però di ricominciare a respirare. Nascosi il volto fra le mani,
singhiozzando. Non sentivo nessun altro rumore nella stanza, nessuno osava
toccarmi.
«Bella» mi disse gentile Rosalie dopo qualche minuto,
quando i singhiozzi avevano cominciato a scemare. «Devi essere medicata».
Scossi la testa in segno di diniego.
«Qualcuno deve farlo» disse lei, «se non io, qualcun
altro. Vuoi Carlisle? Un estraneo? Edward?».
Sobbalzai a quel nome, togliendomi le mani dalla
faccia e osservando Rosalie, seduta su letto e Edward e Carlisle in piedi
dietro di lei.
«Piccola, ci metterò solo cinque minuti, giuro» mi
disse con un sorriso, «l’altra volta ho mantenuto la promessa, lo farò anche
ora. Se ci impiego di più sei autorizzata a fermarmi, e tenterò di toccarti il
meno possibile».
Vidi Carlisle che mi sorrideva, alle sue spalle, e
Edward che tentava di avere un’espressione rassicurante.
Il dolore tornò, e capii che avevo mosso di nuovo le
gambe. Chiusi gli occhi e serrai i denti, e man mano il dolore scomparve.
«Fa male vero?» mi chiese Rosalie, facendomi riaprire
gli occhi. «Ti prometto che farà sempre meno male, ti devo medicare solo per
pochi giorni».
Le lacrime minacciarono di ricadere, ma le cancellai.
«Vieni, andiamo, ti porto in bagno» mi disse Rose,
tendendomi le braccia.
Esitai, titubante, poi mi sposi verso di lei e lasciai
che mi estraesse dalle coperte, prendendomi con delicatezza fra le braccia e
portandomi in bagno. Mi faceva male essere toccata, non volevo. Ma era
necessario, una sofferenza necessaria.
Vidi che Edward era leggermente più rilassato. Mi
concessi di fissarlo a lungo, per tutto il tragitto nella sua camera e alla
fine lui mi rivolse un sorriso, fatto solo per me. Non aveva motivo di
sorridere, eppure lo fece per tentare di donarmi felicità.
Quando Rosalie mi poggiò su lettino con un asciugamano
bianca stesa sopra, mi resi conto di indossare dei pantaloncini che coprivano
fin sopra il ginocchio e un maglietta con dei bottoni sul davanti, tutto di
seta verde pallido.
Rose mi sfilò i pantaloni e notai un bendaggio stretto
lungo tutte le gambe, tinto di rosso opaco sull’interno coscia. Cominciò a
togliermi il bendaggio a velocità vampira. Dopotutto aveva solo cinque minuti.
Quattro e mezzo ora.
Quando arrivò alla fine li vidi anch’io. Dei graffi
dai bordi rossi, pulsanti, alcuni ancora sanguinanti che correvano sulle gambe
intensificandosi sull’interno coscia. Vidi il sangue, per buona parte
coagulato, di cui ero cosparsa, e mi venne la nausea.
Saltai giù dal lettino e raggiunsi il water, dove
vomitai. Mi sentii subito stremata, e Rosalie mi afferrò prima che cadessi
atterra. «Ti lavo, ci impiegherò qualche minuto in più, va bene?».
Annuii. Non volevo rimanere sporca di sangue.
Poi, quando fece per togliermi il resto degli
indumenti lesse la titubanza nei miei occhi. «Lui è via, non leggerà nei miei
pensieri».
Lasciai che mi lavasse e non mi fermai ad osservare l’acqua
rossa che mi scorreva addosso.
«Sai, lui soffre molto non sapendo come stai». Rose mi
sorreggeva con un braccio, mentre con l’altra mano mi strofinava con la spugna
e faceva passare il getto dell’acqua per risciacquarmi.
«Non sono brava come Alice a mascherargli i miei
pensieri, ma lui ha promesso che non li leggerà, anche se la cosa lo uccide.
Bella…».
Fermai le sue parole con un gesto della mano, non
riuscendo più ad arginare il dolore che sentivo dentro, e lei sospirò. Mi
avvolse nell’asciugamano e mi stese sul lettino, poi mi medicò. Tentai di non
pensare a quello che stesse facendo e mi lasciai andare sul lettino, inerme.
Non era facile, ma resistevo. Ci aveva impiegato più
di cinque minuti, dato che ora ne erano passati già sedici e trentasette
secondi, ritardo dovuto soprattutto alla doccia; tuttavia la ringraziai del
fatto che mi avesse toccato il meno possibile e che mi sfiorava appena con la
garza, attenta a non toccarmi neppure per sbaglio con le mani.
«Finito» disse poi, quando mi mise nuovamente le bende
e un nuovo pigiama, di cotone, giallo questa volta, e un po’ più corto del
precedente, dato che lasciava intravedere le bende che arrivavano appena sul
ginocchio.
Mi prese nuovamente fra le braccia e mi portò a letto,
mi sistemò le coperte e mi diede la buonanotte.
«Buonanotte amore» disse un’altra voce, quando la
porta della stanza si fu chiusa. Edward era di nuovo accanto a me.
Mi accoccolai su me stessa e, stremata, sprofondai nel
buio.
Immagini terribili comparvero dinanzi ai miei occhi.
Girovagavo nella foresta, e sentivo i rami, fastidiosi, sfiorarmi le braccia,
toccandomi, così aumentavo il ritmo della corsa e quelli mi toccavano con più
insistenza. Più aumentava la corsa, più mi sentivo toccare, più volevo
sfuggire, più mi sentivo intrappolata, finché, qualcosa non mi costrinse a
fermarmi.
Un cadevate giaceva al suolo, in una pozza di sangue.
La carotide recisa.
Mi svegliai, seduta sul letto, ansate, sudata,
urlando.
«Bella, amore, era solo un brutto sogno…» mi diceva
Edward, che mi fissava preoccupato con gli occhi quasi color onice.
No, non era un brutto sogno, quella era la realtà.
Ricaddi fra i cuscini, scoppiando in un pianto disperato.
Vidi la mano di Edward avvicinarsi al mio viso,
tremante, con un espressione sofferente, ma poi la ritrasse, sospirando e
abbassando lo sguardo.
Mi faceva malissimo vederlo così, e soprattutto mi
faceva male sapere che ero io la causa di tutte le sue sofferenze, ma dato che
non riuscivo più a creare un muro intorno alla mia mente (il sogno della notte
ne era la testimonianza) non potevo permettere che anche la difesa costruita
intorno al mio corpo cadesse.
Così piansi, disperata, finché non riuscii ad arginare
le lacrime in singhiozzi asciutti e convulsi e mi rannicchiai cu me stessa,
tremante, scossa da brividi freddi e sudata.
Vidi Edward, che ora rientrava perfettamente nella mia
visuale, muoversi. Poi vidi la sua mano avvicinarsi e il contatto con qualcosa
sul mio orecchio. Capii che mi stava misurando la febbre. Sentii il bip e mi
sfregai gli occhi, per togliere le ultime lacrime intrappolate fra le ciglia.
«E’ salita di nuovo» lo sentii bisbigliare sgomento.
Poi vidi il suo volto meraviglioso proprio davanti ai miei occhi. «Mi prenderò
io cura di te adesso, non ti preoccupare. Ci sono io ora, siamo di nuovo
insieme» mi disse gentile, abbozzando un sorriso.
Si avrei
voluto dirgli. Adesso siamo di nuovo insieme. Ma non lo feci. Tuttavia,
non ebbi la forza di rifiutare l’aiuto che mi offriva, così lasciai che si
prendesse cura di me.
Scomparì per un attimo, poi tornò con Carlisle e
Rosalie.
Mi cancellai il sudore dalla fronte, rigirandomi
supina.
«Sei sicura che non ci siano infezioni, la febbre era
scesa, come ha fatto a risalire, così tanto poi?» chiese Carlisle, pacato.
La voce di Rosalie invece era molto più ansiosa. «No,
sono sicura… Insomma Carlisle io non sono un medico, è tutta teoria per me, non
mi sembrava ci fossero infezioni, le ho anche fatto la doccia, insomma, più di
così, non so che fare…».
«Bella» mi chiamò Carlisle, sporgendosi verso di me
guadandomi negli occhi. «Ti bruciano le ferite, hai dei fastidi?».
Sentivo il mio stesso respiro pensante e lento nelle
orecchie.
«Bella». Carlisle chiuse e riaprì gli occhi. «Ti
prego, questa informazione mi serve».
Scostai lo sguardo dai suoi occhi venati di scuro e
vidi il volto di Edward, dall’altro lato, che mi guardava, quasi implorante.
Non potei non far nulla.
Proprio quando Carlisle stava riaprendo bocca per
implorarmi ancora scossi il capo in segno di diniego, piano, causandomi comunque
un’ondata di vertigini. Questo scatenò un moto di gioia che comparve palese sul
volto di Edward. Mi sentii più in pace con me stessa, così chiusi gli occhi,
tentando di riposare. Era stato difficile farlo, muovermi per compiere un
azione, riprendere per un attimo consciamente il controllo del mio corpo.
Poco dopo, quando ero quasi scivolata nel dormiveglia,
sentii qualcosa di ghiacciato sulla fronte rovente. Spalancai gli occhi,
preoccupata, ma mi sbagliavo, non era una mano, era una pezza bagnata con
dell’acqua ghiacciata.
Edward mi sorrise. Sembrava decisamente più speranzoso
rispetto al mio primo risveglio. Ma le sue speranze svanirono quando, dopo ore,
ancora non avevo aperto bocca e non mi ero mossa dal mio posto.
Mi cambiava continuamente il panno sulla testa, di
tanto in tanto mi controllava la febbre e mi diceva qualcosa, sempre attento a
non sfiorarmi neppure. Quella era la cosa più difficile. Non rispondere, non
toccarlo. Mi permettevo di guardarlo. Restavo a fissarlo per lunghissimi tempi,
avevo deciso di potermelo concedere. E non volevo rinunciare alla sua presenza,
non avevo abbastanza forza di volontà per farlo.
Credo che dopo un po’ scivolai nuovamente nel sonno perché
non vidi il suo viso per un bel po’. Ma sentivo ancora qualcosa che mi teneva
in contatto con lui, perché a svegliarmi furono dei mormori che provenivano
dall’altro lato della porta.
Prima fra tutte sentii la voce di Edward «No, ha
ancora la febbre alta, ma… Charlie, ti devo avvisare, non reagisce spesso, non
vuole essere toccata e non parla… spero che magari con te si comporti in modo
diverso».
«Ne dubito, se non l’ha fatto con te… Sembra che stia
proprio come quando… beh sai… mi dispiace…» una pausa, dei singhiozzi. «E’
tutta colpa mia questa volta, sono stato io ad incoraggiarlo, e non sentivo
quello che Bells mi diceva…» ancora singhiozzi.
«Bisogna essere forti, per lei. Non è colpa tua,
Charlie, inutile compiangersi…».
La mia mente fu ancora annebbiata qualche istante, poi
vidi comparire il volto di mio padre davanti ai miei occhi.
«Bells» mi chiamò.
I suoi occhi erano gonfi e rossi per il pianto.
«Piccola, piccola mia, cosa… Cosa ti ha fatto…» disse
come una nenia.
Rimasi imperturbabile mentre Edward mi cambiava il
panno, ormai caldo, sulla fronte. I miei occhi rimasero semichiusi.
Probabilmente mio padre restò lì ancora a lungo, poi
non lo vidi più. Al suo posto c’era Esme.
«Tesoro, ti ho preparato qualcosa da mangiare» mi
disse gentile.
Mi dispiaceva vederla così affranta.
«Bella, dovresti mangiare, sei molto debole» incalzò
la voce di Carlisle, con la stessa gentilezza.
Mi su un fianco, per non leggere la tristezza negli
occhi di quella che consideravo come una madre.
«Amore» mi disse Edward guardandomi intensamente
«mangia qualcosa».
Chiusi gli occhi e mi strinsi al cuscino, sentendo le
guance rigarsi di lacrime.
«Cosa facciamo?» chiese poi.
Rispose Carlisle. «Non la posso obbligare».
Il tepore mi avvolse nuovamente, sospendendomi
nell’annebbiamento. A farmi compagnia il mio respiro lento sul cuscino.
Mancava qualcosa. Qualcosa che non consideravo, ma che
quando non c’era si faceva sentire. Non avvertivo il profumo di Edward vicino
al mio viso, né il suono della sua voce che mi sussurrava dolci parole
nell’orecchio.
Non poteva essere andato via.
Mi sollevai, fino a mettermi seduta, e il panno che
avevo ancora in fronte cadde sulla coperta. Mi guardai intorno. C’era Esme,
Carlisle e Rosalie. Nessuna traccia di Edward.
Non poteva avermi lasciata sola.
Sentii le lacrime scendere automaticamente, silenziose
dai miei occhi.
«Bella?» mi chiamò Esme, preoccupata.
Singhiozzai, guardandomi ancora attorno alla sua
disperata ricerca.
Vedevo i volti dei presenti osservarmi preoccupati.
Volevo Edward.
I singhiozzi si fecero più ravvicinati.
La porta della stanza si spalancò e lui entrò.
«Tesoro, sono qui».
Mi asciugai le lacrime, tirando su col naso. Tutti ci
guardarono sollevati, e uscirono man mano dalla stanza, lasciandoci soli.
«Dai su, riposa, mettiti giù» mi disse dolce Edward,
avvicinandosi a me.
Mi stesi nuovamente fra i cuscini e lui mi sistemò la
coperta, rimettendomi il panno bagnato in fronte.
«Scusami, non volevo lasciarti sola, non me ne andrò
più, promesso» disse guardandomi negli occhi.
Annuii, poi li chiusi.
Ragazze,
io sono stata non brava, non bravissima, stupenda!!! Ma chi ve li fa tanti
aggiornamenti così ravvicinati?! u.u
Ok, ora
sto esagerando un po’ :P
Però dai
ragazze mie, scuotetevi un pochino che mi sembrate tutte addormentate per via
del caldo… Poi, nessuno aggiorna, è.é
E io
guardate… grr… Mi innervosisco in questi casi… Ma insomma, dove siete
finite???!
L’ultima
volta non ci sono stati neppure abbastanza istinti omicidi… Ma che state a fa?
Jacob vi a distribuito dosi industriali di valium e lexotan???!
-.-
Ragazze, Svegliaaaa!
Vi voglio
belle allegre e determinate, pronte e uccidere, anche me se necessario, oppure
vi devo scuotere io, che dite??!
Vabbè,
nel prossimo capitolo giuro che mi vendico se non vi mettete in questo stesso
istante a scrivere le vostre storie, come tanti topini bianchi da laboratorio,
capito???
Ne faccio
accadere di tutti i colori, le peggiori cose… u.u
Nel
prossimo capitolo ne accadranno davvero di tutti i colori, ma questo è
scontato, ma se non fate le brave sarò ancora più cattiva! =P
patu4ever nono uccidermi, no!!! :P Dai
su, che c’è stato il bel colpo di scena… eheh dai!! *.* E poi come dici tu, il
cane è morto, dunque no problem! E poi tu non guardare il cavillo, anche se
questi capitoli sono un po’ tristi pensa positivo, quando sarai tornata avrai
letto quello in cui si risolve tutto e quindi sarà meglio, ma non posso
lasciare queste qui che stanno ancora a leggermi in assoluta agonia! Sarei
troppo crudele! J
azazahah, davvero spero potrai sistemare presto questa
cagnolina e magari riuscire a farla stare un po’ tranquilla, eh? Che ne dici?
Si, con quella cosa di “eccellente” sono morta dal ridere… Anche se non so come
sei fatta mi ti immaginavo con tanto di dita e sguardo malefico! XD Ti è
piaciuto il capitolo?! Sono contenta, si, insomma, era proprio il capitolo
perno di tutta la storia, si trova anche più o meno a metà… Non te l’aspettavi
che fosse Bella a farlo, vero?! Eheh, con Edward sarebbe stato troppo banale, e
poi così, hai ragione tu, Bella ne è uscita proprio male… Ecco ora mi aspetto
di sentire un “eccellente” da qualche parte… XD Spero che questo capitolo ti
sia piaciuto, ma ti dico solo una cosa, il prossimo sarà ancora meglio!!! *.*
Vedrai… sarà davvero da leccarsi i baffi, spero che dirai davvero tanti
“eccellente” perché se li merita tutti!!! Muahahah, mamma mia, come siamo
sadiche! XD
_Aislinn_Ohh! Finalmente
qualcuno che ha notato che in realtà Rose non ha ancora concluso niente!!
Allora qualcosa valgo scrittrice! *.* Oppure sei tu che sei una lettrice
perspicace! XD Si, comunque si riprenderà fra poco, promesso… J Speriamo che io non ti abbia tolto qualche anno o.O
Perché mi servi bella fresca per leggere i miei capitoliiii! XD
_Kiarina
Cullen_^^
Grazie mille! Sono contenta di sapere che ci sia qualcuno che non nutre istinti
omicidi nei miei confronti! XD Beh, questa depressione durerà un po’, ma
l’importante è che rimane un punto fisso: Bella ama Edward e fa questo perché
lo ama! J
samara28sisi, non attirerà
disgrazie ancora per un bel po’ XD Le Angurie e il Freddo? Perché non le
angurie fresche di frigo dopo un bagno a mare allora! XD La cosa di tua madre e
del mocio mi ha fatto morire dalle risate!!! Anch’io adoro il freddo, infatti
anche d’inverno me ne esco sul balcone per farmi venire i brividi!!! Che bello!
*.*
miemeNono, non mi
sguinzagliare proprio i cani! I gatti, i criceti, o i koala, basta che non mi
chiami i cani eh?! E poi, dai, la reazione di Bella è comprensibile. Ha ucciso
una persona ed è quasi stata violentata… insomma, non è una cosa da tutti i
giorni eh! ^^ Dai, tutto si risolverà presto, non abbandonarmi! XD
hale1843Sisi
Jake è… hhh… però io preferisco Carlisle hhh Carlisle… ha il fascinoso fascino
da medico! E col camice è da sbav *Q* Visto Rose che dolce? Ma nei prossimi
capitoli lo sarà ancora di più! E poi c’è anche Eddy… Sempre presenteeee!!! J
littleSmileyPovera bambina, ma
tu pensi che capisce quello che leggi? Speriamo di no, altrimenti penso che
adesso sarà traumatizzata! Quante pagine ho scritto? Sette. Di solito ne scrivo
sei, quella è la media diciamo… Mi raccomando, calma, credo che dovrei
aggiungere un avviso prima di ogni capitolo perché non vorrei farti partorire
prima del tempo, sai?! Eheh… J
Noemixgrazie!!! *.*
Sapere che non hai mai pensato a bastonarmi, a parte un trascurabile possibile
proiettile conficcato in un polmone con successivo collasso e morte, mi ha
molto rassicurato! ^^ Sono contenta che tu capisca la reazione di Bella, cioè,
a me, anche se stanno accadendo tutte queste cose, dico, a me, piace. Non sono
pazza, no. Mi piace! Anche se… beh… Eddino c’è comunque no?! J
cullengirlsisi in effetti
Rosalie è l’unica che potrebbe aiutarla! E tu trascura la violenza, e pensa
piuttosto al cane. Che è morto. Morto. Morto. Morto. Imprimilo bene bene nella
mente e non te ne dimenticare!!! J
Si, in effetti sono una golosona! ^^ Ma che ci posso fare se mi piacciono le
angurieeee!
Franzeschinacome la caccia
alle streghe! O.O Menomale che non mi odiiii! *.* E edponi quella mazza
chiodata, te l’ho detto già l’altra volta, fra due capitoli più o meno tutto
sarà risolto, lo giurooooo! ^^ Basta che nel frattempo non mi bruci al rogo!
eheh
SIRYA95Grazie mille! ^^ Menomale che sei
giovane, se no chissà quanti infarti ti sarebbero venuti! Sai, io non sono
sadica (beh non nei confronti delle lettici ^^), ma sono contenta che tu abbia
sofferto mentre leggevi. Significa che ho adempito al mio compito! Ma non sarei
mai potuta… ecco si… andare fino infondo direi! Dovevi avere più fiducia in me.
E’ vero Edward non sarebbe potuto morire, ma Bella era sconvolta, insomma, è volato
giù nel burrone!!! Sono contenta tu abbia apprezzato la reazione di Bella, e
pensavo che mi avresti uccisa per questo fato che non vuole essere toccata
invece l’hai presa bene! ^^
BellissimaCullennon ti preoccupare,
avrai altri con cui prendertela! ^^ E poi adesso Edward sarà sempre presente
d’ora in poi, quindi… don’t worry. Ti è piaciuta la parte con Rose? Eheh, ma
adesso… beh, anche con Rose ci sono un po’ di problemi. E per l’anguria: no!
Anche tu togli i semini!!!
WindXD mi hai fatta
morire di risate. Allora, per la cavalleria solitaria la spiegazione c’è, e per
Bella che pensa che Edward è morto, tieni conto che Bella era sotto shock. XD E
Rosalie… si… XD Mamma mia, ogni volta che rileggo quello che hai scritto muoio
di risate! Intanto il cane è morto, alè, alleluia! J
Padfoot_07E già si,
l’intento era proprio quello, farvi andare sulle montagne russe! ^^ A parte
tutto, il giubilo e l’istinto omicida ecc… sono contenta ti sia piaciuta la
reazione di Bella. Si insomma, se l’avesse ucciso Edward sarebbe stato troppo
scontato, invece Edward lo mena e Bella gli da il colpo di grazia. Meglio, no?
Non tolleri i semi eh? mmm vedrò di eliminarli, come ho fatto con Jacob. è.é
lullaby_4evereh già povera
Bella, ma anche povero Edward! E secondo me le angurie non sono solo il frutto
più buono dell’estate, ma anche dell’anno! J
Cristy97no,
non ti preoccupare, ho letto lo stesso! ^^ Ma lo sai che anch’io ho sempre le
mani e i piedi freddi? Mio nonno mi diceva sempre “freddo alle mani, caldo al
cuore”. Già, ma io rimango sempre un pezzo di ghiaccio! Scusami se ho scritto
un capitolo troppo struggente! :P E mi dispiace anche di aver fatto quello che
ho fatto ma ormai l’ho scritto e pensa che le poteva andare peggio. J
Nessie93 Come togli tutti i semi? No, no,
ma davvero dici?! o.O Che pazienza, davvero! E che hai combinato, eh? è.é Sei
andata a leggere la fine… questa te la faccio pagare, ancora non so come, ma te
la faccio pagare!!! Vabbè dai sarò clemente, giusto perché mi hai invitato alla
festa hawaiana, solo se balla anche il cane con il gonnellino però! E’ vero,
Edward teoricamente non poteva morire, ma tieni conto che la poverina era sotto
shock… eheh No, non credo che medicandola si possa accorgere che è incinta, no
davvero ^^ E cmq si, Edward c’era al suo risveglio… certo, è stata una cosa un
po’ sui generis, ma… l’importante che c’era!!!
luisinaNo che non ti
voglio male tesoro, io ti voglio un sacco bene!!! Beh, si, ho tentato di non
particolareggiare troppo e soprattutto mi sono dimenticata di mettere
all’inizio un avviso per gli stomaci delicati? Che dici, lo scorso capitolo era
da raiting rosso?
foxinaè già diciamo che
è un principe azzurro un po’… “sui generis” và… J In effetti si, è un concentrato di emozioni. “la uccido o non la
uccido, la uccido o non lo uccido?” avete pensato tutte questo verooo? Povera
me! T.T E beh si in effetti ora sia Bella che Edward stanno soffrendo
parecchio, ma… con l’aiuto di Rosalie… in parte ma soprattutto con la forza di
volontà di Bella, tutto si sistemerà! ^^ C’è ancora qualche tuo neurone che sta
leggendo cosa scrivo? Eh no eh, non farmi scherzi, ti voglio fresca e pimpante!
J
BellaJeyE’ vero le angurie
sono dolci, buone, fresche e succose! *Q* Visto? Bella lo ha fatto fuori. Fatto
bene no? Si, in effetti penso che parecchie avrebbero voluto uccidermi mentre…
ma poi la pioggia di vetro, il rumore e bum! Edward torna, Bella reagisce e il
cane muore. Eheh ^^
damaristichsi, le passerà.
Presto. Beh relativamente. Ma le passerà J
E si, io mi premuro sempre di trasmettere attacchi di panico alle persone u.u
No no, scherzo, sono contenta di essere riuscita a comunicarvi qualcosa,
davvero! *.*
mazzaA) L’ha usato
meglio dopo! Eheh B) Appunto, no comment, era il cane, era scemo… C) Corretto,
grazie di avermelo detto! D) Si che schifo, era per aumentare la ripugnanza!
Bleah… E) Povera, no dai, non rimanere sconvolta! Poveretta! F) No Povera
povera piccoletta!!! >.< G) Appunto, fai bene! Ma no dai, sorridi
pure!!!H) XD XD Ok dai, penso si sia preoccupata abbastanza, infondo il suo
unico pensiero era Edward in quel momento! ^^ I) Emm… calma mazza, respira a
fondo, segui il mio respiro. Inspira. Espira. Piano. J) Sisi è morto non ti
preoccupare, non stai sognando!!! JJJ K) No piccola povera non piangere piccina… L) Piccina!!! Adesso mi
fai piangere tu! Te lo do io un bel bacino virtuale, ecco qui, smack :* Dai su
Edward non è morto, Bella ha reagito e poi i dialoghi finali sentimentali… non
mi uccidi vero? *.*
araba89e si, mi avevano
chiesto di avvisare quando avrei postato, ma purtroppo non lo posso fare ogni
volta, perché scrivo i capitoli man mano, quindi… Si, esattamente hai previsto
cosa sta accadendo! Edward che sta lì a mangiarsi le unghie e Bella che si
sente indegna e soprattutto sente la colpa per l’omicidio… hhh…
__TiTtA__che tempismo vero?
E già… beh, un po’ prima poteva arrivare sai, ma meglio accontentarsi di quello
che si ha. Ebbene, Edward è rimasto accanto a lei, non l’ha abbandonata
nonostante lei non lo voglia… E poi c’è Rosalie dai, e tutto si sistemerà
presto! ^^ E i guai non avranno fine! ;)
miss_cullen90Già si, non ti
preoccupare! Dai, anche se ora il clima è un po’ particolare tutto si sistema
prestissimo! J E poi c’è la cara Rose… E Edward
sempre in giro… Che bello no? J
HanairohE invece no! Visto
che bel regalino? Che aggiornamento a tempo di record che ho fatto l’ultima
volta? Sono stata brava, no? :D Sisi, concordo anch’io lo scorso capitolo è
stato molto… avvincente, uno dei migliori della storia. Per me è il… quarto più
o meno in lista… Si, sullo stupro o tentato stupro J Ho lasciato appositamente un’ombra di dubbio,
perché mi serve come espediente narrativo! ^^ E anche un’altra cosa che hai
detto dopo mi serve come espediente narrativo! Ma tu mi sgomini tutti i
trucchi? L Ma come sei perspicace cara… Bello
come reagisce vero? Sinceramente quella parte l’ho scritta qualche mese fa,
quand’ero un po’ ispirata sulla vendetta, quindi… diciamo che l’ho “applicata”.
Eheh…
lisa76nono, XD Oddio,
ogni volta faccio star male qualcuno qui… Non piangete! Fra un po’ tutto si
sistemerà,
dopo la pioggia viene sempre il sole! ^^
Lau_twilight E’ uguale, non mi
cambia nulla, te l’ho detto solo per informazione ^^ Keska o Francesa mi è
indifferente. Già Rosalie è stata davvero unica vero? Beh, mi sembrava la più
adatta per… insomma, l’affinità con il problema… Bella è stata coraggiosissima,
ma questo… eh, questo ha comportato un grande dolore in lei. Togliere una vita
non è mai una cosa piacevole, anzi…
cloe
cullenok, la
mail di delirio l’ho letta in ritardo quindi… XD Non ti preoccupare… per il ps…
si. Vedrai cosa accadrà… eheh… Si è vero, anche Bella avrebbe dovuto pensare
che Edward non sarebbe morto, questo dovevo scriverlo acci… ma era troppo
scossa per fare pensieri coerenti cmq, quindi… E Bella si riprenderà presto…
eh, diciamo, narrativamente presto dalla batosta dai…
ledyangXD No, non l’hai
violentata, non… nel senso stretto del termine ecco… Ti prometto, anzi no, ti
giuro, che i vecchi capitoli, torneranno prestissimo e anche per un tempo più
lungo questa volta. Contenta?
*SONDAGGIO*
Chi di
voi strozzerebbe chi se ne è andato in vacanza?
Io, sto
qui a cosuccia mia, il fatto che il mare mi sta praticamente incollato è un
dettaglio u.u
Ahh
ragazze, una cosetta, nel prossimo capitolo metterò una mia foto. Non perché
sono bella, non perché sono una modella, ma perché mi piace il contatto visivo
con le persone! J
Ovviamente
poi voi, chi vuole, dovrebbe mandarmi una mail con la sua foto! *.* Lo farete,
vero?! *.*
Buio, buio, buio, buio. Riaprii gli occhi e vidi
Rosalie che mi fissava apprensiva.
«Hai riaperto gli occhi finalmente» disse con lo
stesso tono dimesso che ormai tutti usavano con me «ho già finito, volevo solo
informarti che ti sto prendendo in braccio, non vorrei spaventarti».
Non mi mossi, non battei ciglio.
Rosalie si avvicinò con il suo viso al mio. «Ehi» mi
chiamò, dolcemente. «Ti riporto da Edward, va bene?».
A sentire quel nome mi riscossi un attimo dal mio
torpore e battei le ciglia piano in segno d’assenso.
Lei mi sorrise. Non sapevo quanto tempo fosse passato
dal mio ritorno a casa, forse una settimana, ma ormai riconosceva bene e
facilmente i segnali che le inviavo. Mi prese fra le braccia, attenta ad
entrare in contatto con me il meno possibile, ma quel movimento mi causò
un’ondata di nausea.
Emisi un piccolo gemito, e lei capì. Mi lasciò andare
e io corsi al gabinetto a vomitare. Nello stomaco avevo solo succhi gastrici,
che mi corrodevano la gola. Non mangiavo più nulla.
Rose mi riportò nella camera da letto di Edward.
Ringraziai che non mi avessero portata a casa mia. Lì sarebbe decisamente stato
tutto più difficile.
«Ehi amore» mi chiamò Edward quando mi vide,
sorridendo debolmente. Mi sembrava più pallido del solito, anche se la sua pelle
risplendeva debolmente sotto la luce del sole mattutino.
Mi lasciai andare sul letto e mi feci sistemare le
coperte da Edward, che si muoveva sempre attento ai miei spazi. Non avevo così
tanto bisogno di stare a letto se non fosse stato per due motivi principali.
Primo, ero stanchissima, mi sentivo sempre più spossata. Secondo camminare, o
stare in piedi, avrebbe comunque significato compiere una qualche azione
intenzionale. Cosa che non avevo la minima intenzione di fare se non in caso
strettamente necessario.
Carlisle si avvicinò a me con la flebo in mano. Avevo
rifiutato ogni genere di cibo, quindi quella era stata l’unica possibile
soluzione. La mia mano era già posata sul copriletto, così, senza toccarmi,
infilò delicatamente l’ago sottopelle. Solitamente, prima che accadesse tutto
quello che era successo, quella era una cosa che non avrei mai fatto. Stare a
guardare. Ora per me era vitale.
«Ha vomitato ancora» disse Rosalie.
Carlisle si voltò verso di lei con uno sguardo
sconsolato. «Credo sia l’ansia e lo stress Rosalie, per ora è inutile
preoccuparsi anche di questo. Tentiamo di convincerla a mangiare piuttosto…».
Ero abituata a sentirli parlare in terza persona di me.
Erano così poche ormai la volte in cui rispondevo in qualche modo alle loro
parole, o quantomeno mi accorgevo che lo stessero facendo, che ormai
consideravano inutile parlarmi. Tranne Edward e Rosalie ovviamente. Per lei era
necessario, per Edward… beh, lui non aveva ancora perso la speranza.
Sentii le mie palpebre farsi pesanti così mi
abbandonai al sonno.
Mi svegliai come sempre sudata e con il fiato corto.
Respirai pesantemente e a lungo finché non mi calmai. Almeno da un po’ di
giorni non avevo più la febbre.
Sentii un fruscio e m’immobilizzai, terrorizzata. Solo
dopo capii essere Edward. Deglutii spaventata.
«Scusa amore, scusami se ti ho spaventata» disse
Edward al mio orecchio.
Quello era un altro problema. Sentire presenze che si
muovevano nella mia stanza mi ricordava troppo la mia prigionia. Infatti
Edward, notandolo, aveva ordinato a tutti di entrare nella mia stanza in
maniera normale, e solo se fosse stato necessario.
Le mie giornate andavano avanti fra lacrime
silenziose, incubi, e lunghi momenti bui. Non chiedevo nulla. Solo avere Edward
accanto. Quella era una concessione che facevo sia a me che a lui. L’unica.
«Bella?».
Tentai di individuare quale fosse l’origine di quella
voce gentile.
«Bella tesoro, sono qui».
Forse era mia madre. Anche lei era venuta a trovarmi,
me l’aveva detto Edward in un momento di lucidità. Avevo accennato qualcosa che
somigliava a un sorriso e lui ne era stato davvero felice, ma poi tutto era
ritornato come prima.
La voce mi ricosse ancora dai miei pensieri. «Bella,
guarda, ti ho portato da mangiare». Era Esme. Con lo sguardo mi indicò il vassoio
che aveva fra le mani. C’era del brodo. Forse. «E’ squisito, te l’assicuro. Te
l’ho preparato io, proprio come piaceva sempre a te, sai…» disse abbassando lo
sguardo.
Vedevo che soffriva. Lo vedevo, ma non ci potevo fare
nulla. Per quale triste motivo la lucidità era arrivata proprio in quel
momento? Così era più difficile dire di no.
«Dai Bella, assaggialo almeno, solo un po’» mi disse
con sguardo gentile.
La fissai, ricambiando il suo sguardo. Sentivo altre
paia di occhi su di me.
«Solo un po’» disse avvicinando un cucchiaio mezzo
pieno di brodo al mio volto.
Il deja vu mi colpì forte, molto forte. Sgranai gli
occhi, mentre il respiro si faceva sempre più veloce. Jacob che mi costringeva
a mangiare. La sua mano sulla mia bocca, che mi forzava. Il rumore dell’acciaio
contro i denti. I miei gemiti di protesta. Il brodo caldo il gola. I suoi
occhi. Le sue parole. La sua forza.
L’impotenza.
Dolore.
Senso di prigionia.
«NO!» urlai, sbattendo il vassoio contro il muro, che
si ruppe con un suono terribilmente familiare. Sobbalzai, ansimando.
Vidi gli sguardi preoccupati di tutti gli altri
vampiri che erano accorsi in camera attirati dal frastuono. Nessuno parlava. Jasper,
Emmett, Carlisle, Rosalie. Alice. Edward. Ogni sguardo era una pugnalata al
cuore. Nessuno riusciva a capacitarsi di quello che era successo. Neppure
Edward.
Vidi Esme, che mi fissava sgomenta, impietrita sul suo
posto. Se avesse potuto avrebbe pianto.
Non volevo, non volevo davvero farlo.
Sentii un singhiozzo squarciarmi il petto e gli occhi
mi si riempirono di lacrime e ricaddi fra i cuscini, nascondendomi il volto e
continuando a singhiozzare pesantemente.
Ero un mostro.
I loro sguardi, loro… loro non mi comprendevano… Ma io
non mi comportavo in maniera assurda, non sapevo come fare, non ce la potevo
più fare.
Oramai ero sprofondata in un abisso buio, e l’unica
flebile luce che riusciva ancora a riscaldarmi tiepidamente non poteva
riportarmi in vita. Avevo fatto la mia scelta molto prima di averla davvero
fatta consapevolmente. Non potevo più tornare indietro, quello era un biglietto
di sola andata per l’inferno.
Scivolai in un agitato dormiveglia. Ero stanca,
spossata, e con un gran mal di testa. Non volevo più pensare. Basta.
«Bella amore» mi sentii chiamare dal fondo del mio stagno.
«Bella».
Aprii gli occhi e vidi Edward. Non appena si accorse che
ero sveglia mi sorrise.
«Amore, ci hai fatto preoccupare, siamo stati molto in
pena per te. Non smettevi più di piangere e…» vedevo la sofferenza che aveva
provato sul suo volto. «Poi ti sei addormentata ma…» abbassò lo sguardo «Ero
preoccupato, ecco».
Presi un profondo respiro e mi asciugai le lacrime che
avevo sulle guance. Avevano continuato a scendere anche nel sonno.
Lui mi sorrise.
Basta, mi ero concessa anche troppo. Ricambiai il suo
sguardo e mi girai su un fianco, mettendomi in posizione fetale e lasciandomi
nuovamente andare alla deriva.
Tempo dopo, non so quando, quando riacquisii lucidità,
Carlisle venne da me per cambiarmi la flebo. Vidi il suo sguardo preoccupato e
decisamente contrariato, e la sua mano che infilava l’ago sottopelle.
«Secondo te perché non reagisce?» chiese Rosalie.
Carlisle si voltò verso di lei. «Non lo so, non è mai
successo. Non si è mai comportata in questo modo, lei odia gli aghi… Non so più
nulla Rose» disse afflitto, andandosene.
Sospirai, chiusi gli occhi e mi voltai. Edward, al suo
solito posto, sulla sinistra, mi sorrise. Inutile tentare di evadere. Chiusi
gli occhi, anche se non riuscii ad addormentarmi e mi lasciai trasportare nel
buio, sforzandomi di non pensare.
«Ehi Bella? Dai su, hai dormito abbastanza. Dobbiamo
andare di là…» era Rosalie. Anche se non avevo riconosciuto la voce, ero certa
fosse lei. Era lei che mi diceva quelle cose. Impossibile che fosse nuovamente
arrivato il momento della medicazione.
Scostai il viso da un lato, infastidita.
«Dai su, non fare i capricci Bella, forza».
Aprii gli occhi e mi feci scivolare fra le sue
braccia. Era inutile opporre resistenza. Dovevo solo sopportare.
«Ti aspetto qui amore» mi promise Edward. Sapevo che
nel frattempo si sarebbe allontanato, lo faceva sempre.
Come al solito, quello fu il momento della giornata
che durò più a lungo. Se durante tutto il tempo che trascorrevo a letto mi
sembrava che tutto intorno mi sfuggisse, in quegli istanti, quei pochi istanti…
cinque minuti. Riuscii a resistere cinque minuti e fui grata a Rose, perché,
come sempre, non ci impiegò un istante in più.
Quando mi riportò a letto, come promesso, Edward era
lì per me. Mi sistemò la coperta, come faceva ogni volta, e si sedette sul
letto.
Sulla destra.
Sussultai, ma non dissi nulla. Maledetta lucidità.
«Amore» cominciò a dire, come per controllare che lo
stessi ascoltando. Mi dovette considerare piuttosto attiva, perché continuò,
determinato «Bella, non possiamo andare avanti così. Tu, non puoi andare
avanti così» era estremamente serio, ma anche molto dolce «io… ti ho dato del
tempo, ma niente è cambiato. Tu non mi parli, anzi non parli, con nessuno. Non
ti muovi se non è necessario, non mangi, non fai nulla…» la voce si spezzò per
il dolore che non era riuscito a contenere.
Sussultai. Perché non riuscivo a rimanere indifferente
a quelle parole, perché? Non volevo vederlo soffrire a causa mia, non potevo
sopportarlo.
«Scusa» mi disse, prendendo un grosso respiro, e
passandosi una mano fra i capelli ramati, per calmarsi, poi riprese «Io… voglio
solo che tu stia bene, solo la tua felicità. Ma… Le cose non cambiano» mi fissò
intensamente, e mi accorsi di come i suoi occhi si facevano sempre più neri «Tu
stai sempre qui e… Non cambia nulla. Lo so che quello che è successo è
orribile, lo so. E se potessi, se davvero ci fosse una possibilità, farei
qualunque cosa per cancellarlo. Ma non posso» mi disse addolorato «e adesso
voglio che tu ti riprenda la tua vita. La nostra vita».
Sentii gli occhi inumidirsi e lottai con tutta me
stessa per non piangere, stringendo il lenzuolo nei pugni. Non dovevo, non
potevo cedere. Non ero degna dell’amore incondizionato che Edward mi donava.
Si avvicinò ancora, come a toccarmi, ma poi ritrasse
la mano. «Io… voglio solo aiutarti. Ti prego, concedimi di aiutarti».
Presi un grosso respiro, distogliendo lo sguardo, e
riuscii ad acquietare la tempesta che imperversava dentro di me.
Si rimise al suo posto, sedendosi composto sul bordo
del letto. «Bella» mi richiamò ancora, con un tono più sereno. «Ti ricordi cosa
mi hai chiesto quella mattina, la nostra ultima mattina felice insieme?».
Rabbrividii e mi voltai verso Edward, con gli occhi
lucidi e le labbra tremanti.
Lui continuò, con dolcezza. «Mi hai detto “fidati di
me”».
Deglutii. Lo ricordavo perfettamente.
«E ricordi cosa ti ho risposto?».
“Si, mi fido. Non mettere mai in dubbio la fiducia che
ripongo in te, amore.” Queste erano le sue parole. Le pensai, ma non le dissi.
«Ho detto che mi fidavo di te, e io mi fido ancora
ciecamente di te, ma…» abbassò lo sguardo, per poi risollevarlo con rinnovata
determinazione. «Vorrei solo che tu riponessi la stessa fiducia in me».
Sapevo che non ce l’avrei ancora fatta. Vacillavo,
sarei crollata di lì a poco. Il magone, che mi stringeva la gola quasi
soffocandomi, voleva trovare libero sfogo nella lacrime.
Forse, davvero, quella poteva essere la mia
possibilità…
Prima ancora di riuscire a formulare l’intero
pensiero, mi colpì prepotentemente un pugno in pancia e presa da un forte conato
di vomito corsi in bagno.
«Rose!» esclamò Edward, venendomi dietro.
Subito lei comparve al mio fianco, tenendomi i
capelli.
Mi accasciai sul pavimento freddo, divincolandomi
dalla sua presa e concedendo alle lacrime, che tanto avevo trattenuto, di
scendere lungo le mie guance.
Sentii la porta del bagno chiudersi delicatamente e
capii che era andato via, portando con sé una profonda scia di dolore e
desolazione.
Meglio così, non avevo ceduto. A che prezzo vendevo la
mia anima? Al più alto possibile, non vi era nessun altro possibile scotto.
«Bella » mi chiamò Rosalie. «Stai soffrendo e stai
facendo soffrire anche lui. Perché ti comporti così, quando la soluzione c’è, e
tutti noi te la stiamo offrendo?! Sei solo tu che la rifiuti…».
Mi voltai di scatto, guardandola furibonda. No, non
era così. Non c’era nessuna soluzione per me. Nulla poteva redimermi dai miei
peccati indelebili.
Mi sollevai in piedi e ignorai le braccia tese di Rose,
che mi fissò con uno sguardo sorpreso e desolato. Entrai in camera e mi stesi
sul letto, tirando su di me le coperte.
Edward non c’era. Mi colpì come una potentissima
pugnalata. Me lo meritavo. Starmi accanto lo faceva solo soffrire di più e io
non potevo davvero essere così egoista da volerlo ancora vicino, anche se
questo avrebbe significato la più nera e profonda agonia.
Rosalie era uscita dalla stanza, quindi ero sola.
Presi un grosso respiro. Sola, per poco.
La porta della stanza si aprì, ma non potevo affatto
immaginare chi ci sarebbe passato. Alice. Non era mai venuta da me, e le poche
volte che l’avevo vista, mi aveva guardato con uno sguardo di fuoco che mai
aveva usato nei miei confronti. Lo stesso che aveva in questo momento.
Non ne capivo il perché, e soffermarmi con il pensiero
per tentare di scoprirlo si sarebbe sicuramente rivelato troppo doloroso, più
di quanto già non era.
«Bella» la sua voce era carica di risentimento.
Tentai di non badarci.
«Ora basta» disse dura. «Che cosa stai combinando?!
Cosa speri di ottenere con questo tuo modo di fare, me lo spieghi?! Non vedo
più il tuo futuro, tutto è scomparso, te ne vuoi solo stare qui a
compatirti!!!».
Il suo tono duro e aspro mi fece sussultare. Nessuno
mi aveva parlato così.
«Oh scusami, scusa» disse con amaro sarcasmo «ti ho
spaventata?!». Si avvicinò a me, fino a trovarsi con il viso a pochi centimetri
dal mio. «Devi reagire. Reagisci!!!» urlò.
Fremetti, spaventata. Somigliava davvero a un vampiro
e mi faceva male sentir parlare mia sorella così.
Si allontanò da me, velocemente, e ricomparve in piedi
accanto al letto. Tutti gli altri vampiri entrarono nella stanza. Tutti, tranne
Edward.
«Lo stai facendo soffrire, non capisci?! Questa è solo
sofferenza immotivata!!!» mi urlò, i pugni serrati lungo i fianchi.
«Alice…» la richiamò Carlisle.
Lei lo ignorò completamente. «Non puoi più comportarti
così, basta, scendi da questo letto!» disse camminando verso di me, come per
afferrarmi e farmi alzare.
Mi ritrassi, rannicchiandomi su me stessa.
«Oh scusa» sibilò infuriata «Non vuoi che ti tocchi,
bene…» disse, comparendo sull’altro fianco del letto. «Non ti toccherò, ma tu
devi scendere da questo letto. BASTA!».
«Alice» la richiamò con più forza Jasper.
La fissavo terrorizzata, intimorita dal suo
comportamento così duro nei miei confronti.
Ignorando suo marito, prese le mie coperte e le tirò
finché non caddi sul pavimento con un tonfo sordo.
Jasper la afferrò per la vita, trattenendola e
bloccandola, mentre lei scalciava a vuoto, in aria.
«Reagisci, devi reagire!» urlava, furiosa.
I suoi occhi avevano un espressione folle, mai vista.
Ma una scia, che prima non avevo notato, ma ben visibile sotto la rabbia,
urlava dolore.
«Alzati da terra e REAGISCI BELLA!!!» gridò
divincolandosi dalle braccia di Jasper.
Istintivamente chiusi gli occhi, spaventata, ma quando
li riaprii mi colpì un ondata di dolore.
«Alice» l’aveva richiamata una voce, più ferma delle
altre.
Edward, in piedi davanti a me, la abbracciava con
affetto. Il suo minuscolo corpo era scosso da singhiozzi troppo potenti. Lui le
accarezzava i capelli spettinati con una mano, mentre dolcemente la cullava.
Un lungo, profondissimo e doloroso singhiozzo mi
trafisse il petto, facendo scorrere gli sguardi di tutti i presenti su di me.
Puro male, un improvviso flusso doloroso, scorreva
dentro di me, facendomi bruciare le vene.
Perché sapevo che quel male, che tutti loro provavano,
era causa mia. Perché sapevo, che fra quelle braccia, non ci doveva essere
Alice. Ci dovevo essere io. E tutto si sarebbe sistemato.
Ma non poteva essere così.
Attraverso i miei occhi, completamente ricoperti di
lacrime, vidi l’enorme finestra della stanza di Edward, aperta.
Forse…
Prima ancora di poter riuscire a formulare un
qualsiasi pensiero, l’espressione di Alice si fece terrorizzata e Edward comparve
accanto alla finestra chiusa, con un espressione altrettanto sconvolta.
Cacciai un urlo, straziante.
Man mano si affievolì, strozzandosi in gola.
Passarono pochi interminabili istanti di silenzio.
«Rosalie!» era la voce di Carlisle.
Mi sentii sollevare.
«Sul letto, la devi mettere sul letto, sbrigati!»
diceva agitato.
«Dimmi che cosa devo fare!» diceva lei con altrettanta
agitazione.
Vidi una mano bianca davanti al volto. «Non respira».
Il cuscino che avevo sotto la testa scomparve. «Devi inclinarle la testa,
all’indietro».
Sentii due mani, una sotto al collo e una sulla
fronte.
Non riuscii più a mettere a fuoco nulla e mentre le
immagini si facevano sempre più sfocate mi sentii avvolgere dal torpore. Chiusi
gli occhi e vidi buio.
Delle voci, lontane, facevano da sottofondo al mio
dormiveglia.
«Edward, ascoltami, comprendo perfettamente il tuo
punto di vista, ma cerca di capire. Non possiamo andare avanti così. Se avesse
delle altre crisi come quelle di oggi non saprei come fronteggiarle. Siamo
andati troppo avanti in questa cosa e… ascoltami. Secondo me dovremmo farla
parlare con uno psicologo. Conosco un mio amico che sarebbe molto discreto e
professionale…».
«No Carlisle, non posso. Non puoi chiedermi questo,
non… lei è così… fragile. Credo che questo la potrebbe solo far sentire
peggio» rispose Edward con voce intrisa di dolore.
«Forse le dessi degli antidepressivi…».
«No, non credo servirebbero» era la voce di Rosalie.
Un sospiro, poi di nuovo la voce calma di Carlisle.
«Bene, comunque le prescrivo dei calmanti. Non si sa mai, potrebbero servire
per calmare l’agitazione e farla stare buona per un po’. Se succede qualcosa
come quello che è successo oggi… Ma se peggiorasse la strada possibile sarebbe
solo una…».
«No… non posso…».
Ancora la voce di Rosalie. «Edward io ho provato a
parlarle, ma è stato tutto inutile lo sai…»
Lui rispose agitato. «Se solo tu potessi dirmi
qualcosa, qualsiasi cosa su quello che è successo… Non sapere mi uccide…».
«No» disse lei, determinata «Non posso tradire la sua
fiducia».
Sentii il suono più doloroso e devastante che potessi
udire.
Un singhiozzo. Di Edward.
«Coraggio figliolo, devi farti forza» lo consolava Carlisle.
«Non ce la faccio» un altro singhiozzo «Non ce la
faccio a vederla in questo stato».
Scivolai ancora nel sonno, avevo sentito abbastanza.
Purtroppo, anche quella volta, non ebbi pace.
Correvo sempre nel bosco, sempre più velocemente,
sentendomi toccare dai rami, insistenti, sempre più velocemente.
Poi lui, a terra, il suo sguardo.
Le sue labbra si mossero «Pazza. Sei pazza».
«No, no, no!» urlai.
Un lago di sangue si espanse fino ai miei piedi.
Crebbe sempre più, finché non mi ritrovai immersa e soffocante.
Mi sedetti sul letto, ansante. Tutto intorno a me era
buio, poi si accesero le luci e davanti ai miei occhi comparve Edward.
Non più speranza sul suo volto, non più a traccia di
un sorriso. «Bella…» mi chiamò debolmente.
Ricaddi sui cuscini, girandomi su un lato e facendo
scorrere le lacrime.
Sentii un singulto.
Non volevo che soffrisse, non volevo.
Che cosa stavo facendo?
Un fruscio.
Forse aveva ragione Alice, forse davvero, dovevo…
Il suono della porta che vibrava, aprendosi.
«Edward».
Careeee
:D
Mi volete
bene, vero?! *me sbatte le ciglia molto velocemente*.
Ok,
l’importante è che alla fine ho postato, nel bene o nel male. J Vero?!
Perché è
questo l’importante. :D
Speriamo…
Dunque
dunque. Io avrei una bella scusa da annoverare al fatto che ho fatto un immenso
ritardo, ma non sto qui a dirvi qual è perché questa volta invece di dilettarvi
tenderei solo a scocciarvi. J
Quindi,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto, perché questo, con il prossimo, è
uno dei capitoli che più mi è piaciuto immaginare.
Il
comportamento di Alice sarà meglio chiarito in seguito, non è immotivato.
Ah, nel
prossimo capitolo, all’inizio, non mi uccidete, aspettate di leggerlo tutto,
ok? J Grazie.
Bene,
dovreste essere contente del fatto che la nostra depressa cronica abbia
parlato. J
Oh,
scusate, una cosa che non faccio quasi mai, ma che ora è davvero di dovere.
233 preferiti.
102
seguiti.
34 autori
preferiti.
44
recensioni. *.* Grazie ragazze, siete miticheeeeee!
Dedico
questo capitolo a tutte voi e in particolare a chi mi ha mandato mail di
“sollecitazione” per scrivere.
Grazie.
Grazie
mille di tutto il sostegno che mi date.
azaznooo! Ma come è potuto accadere che tu non accendessi il
pc per una settimana!!! Io per due giorni sono andata in crisi, pensa un po’
te! XD Beh, no, non è che ne mancano proprio trenta, oh my god, penso che
scappereste tutte a gambe levate! XD Ma diciamo che ce ne sono ancora una
quindicina, ok?! ^^ Quindici sono tanti… Sono contenta di averti fatto dire
tanti eccellente e spero che anche questo te li abbia fatti dire… Mamma mia, se
penso ai prossimi capitoli che ci saranno e a come sarò sadica… hhh… mi devo
controllare!!! Se no alla fine la uccido sta Bellina… Ovviamente non si
staccherà mai mai più da Eddino, li ho incollati con un abbondante strato di
colla vinilica e adesso rimangono lì immobili e non si staccano… a parte
occasionali divisioni giornaliere… muahahah… okok, nulla, fai finta che io non
abbia detto nulla! ^^ Scusami se non ti ho fatto trovare tantissimi
aggiornamenti, spero di essermi fatta comunque perdonare, ciao, a presto! ^^
petitfraisesisi mi bastano,
altrochè J Ma io non mi riferivo alla
quantità infatti, siete sempre molto generose con me, mi riferivo al contenuto
di ogni singola recensione e agli aggiornamenti delle altre storie ^^Grazie di tutto comunque… :)
_Aislinn_Ciao Mamy!! No no,
lo prometto, non durerà per molto, nel prossimo capitolo tutte le cose si
sistemeranno, anche se questo è stato più catastrofico e doloroso del
precedente, e potrebbe, dico, potrebbe, non sembrare così!
Eddyrossen95 XD mi ti immagino a
saltellare da una roccia all’altra in cerca di selvaggina! XD Ma solo i
carnivori, mi raccomando, sono più buoni! XD Mi hai fatto veramente ridere con
questo raccontino, e menomale che sei tornata, altrimenti mi sarei ritrovata
ancora una volta sola su EFP… Bene, dicevamo… Sono contenta che non abbia mai
avuto intenzione di uccidermi ^^ eheh Per quanto riguarda Alice, beh, allora
con questo capitolo ti ho fatto proprio un bel regalo! Avevo immaginato questa
scena con lei perché, beh, fa capire il profondo dolore che prova Alice… Tutto
è spiegato dal fatto che lei vede il futuro, e vede Bella sempre lì, stesa sul
letto, che non migliora, e lei sta male per la sorella e non sa proprio come
sia possibile e spiegabile il suo comportamento. Perché lei, insomma, non
avrebbe mai reagito così, hanno modi di affrontare i problemi diversi! E ora
Alice, che è sempre colei che sistema tutto non sa come fare, per questo si
sente impotente e di conseguenza risentita! Ma ti prometto che nei prossimi
capitoli ci sarà una bella riconciliazione. J
barbiemora______oddio!! Come ha fatto a
leggere tutto in 5 minuti?! o.O Le ipotesi sono due: o sei un fulmine, ho hai
saltato gran parte dei capitoli! Propendo per la seconda, sai?! XD Dai, su al
prossimo capitolo tutto si sistemerà, promesso, davvero… J XD Scusa per il
ritardo, non ho intenzione di farti venire nessun esaurimento nervoso, quindi
appena ho letto la tua 2° recensione mi sono messa subito al lavoro. La
situazione di Jacob verrà palesata fra un po’… XD
foxinagrazie! In effetti
questa è la mia parte preferita in tutta la storia, l’avevo pensata già
dall’inizio e stavo fremendo per scriverla! Mi dovevo controllare, per forza!
Infatti per non mettermi a scrivere tutti gli altri capitoli di seguito mi sono
dovuta imporre di non farlo! XD Altrimenti tutte voi stavate in vacanza e io mi
leggevo la mia storia sola insieme ai pesci dell’acquario…
ale03Grazie grazie!
Eheh, no, tu non puoi prenderla quell’ascia, perché te ne sei bellamente andata
in vacanza!!! Eheh, altrimenti poi l’ascia la piglio pure io!!! E poi Jacob è
morto, e ve l’ho promesso, nel prossimo capito tutto tornerà apposto, o meglio,
comincerà a tornare apposto… per cui niente ascia calma e tranquilla… ^^
FranzeschinaCome un furetto!
XD Oddio, mi hai fatto venire un idea per un fotomontaggio, io con il corpo da
furetto XD XD Mamma che risate. Ok, serietà. Bella non ha solo respirato,
sbattuto gli occhi, guardato ecc… no, beh diciamo che ha smesso di respirare,
gli occhi gli ha usati per piangere e la bocca per gridare istericamente!!! ^^
Contenta? J
DanE si, come ti capisco, questi
problemi con i ragazzi sono… come dire… frequenti… -.- Dicevo, perdonami, ma la
storia è così, mi riesce un po’ difficile modificare tutta la trama, anche se
vorrei farti contenta! ^^ In compenso tutto si sistemerà presto prestoooo! J
vampirettafolleno no, non è
andato fin infondo, hai capito bene, ma è comunque un trauma e poi ricorda che
l’ha ucciso ^^ Neppure Bella non riesce più a non parlare con Eddy!!! J
miss_cullen90Che bello quando
mi fate domande su cui ho tanto da dire! *.* Allora, Bella si comporta in
questo modo perché ha subito un trauma grave e ha ucciso una persona. Si sente
colpevole di quello che è riuscita a fare con il suo corpo: attirare Jacob/
Ucciderlo, quindi non lo vuole usare più. Alice si comporta così perché vede il
futuro di Bella che non cambia, e la ha un carattere totalmente diverso e non
riesce a spiegarsi come mai Bella non reagisca, come invece farebbe lei. J Tutto chiaro?!
samara28No, ma dico, hai
notato che nessuno aggiorna qui???! o.O Sono profondamente incacchiolata. è.é
Adesso che hai visto la mia foto puoi anche scappare a gambe levate!!! Mi ti
immagino, “ahhh!!!” Io non sento affatto la necessità di andare in vacanza
perché praticamente il mare è davvero davvero vicino!!! Eheh… Anche se non mi
piace andare a mare… XD
my love_my soulGrazieee! Non è proprio mio intento fra piangere le persone… *fischietta
a caso* Nono, invece voglio seminare terrore e distruzione nel cuore degli uomini!!!
Muahahah! No, non è vero, scherzo! ^^
pazzerella_92Si si, non ti
preoccupare, l’importante è che segui almeno! XD Grazie mille per tutto, Bella
si riprenderà presto, nel prossimo capitolo e poi man mano tutto si sistemerà e
ci sarà un lunghissimo periodo di felicità! J
SIRYA95XD Sai, non sei l’unica che la
pensa così, ci sono molte a cui piacciono questi miei capitoli in cui
infierisco senza fine su Bella! XD Rosalie sta dimostrando il suo lato materno,
diciamo che un po’ l’ha adottata, invece Alice non ce la fa proprio a vederla
così, perché le sue visioni non cambiano ed è come se avesse per sempre perso
un’amica. Si sente in colpa per quello che è successo e non riesce a perdonarsi
il fatto che Bella non reagisca, come avrebbe fatto lei che ha un carattere
molto più forte e battagliero! J Bella
sente il bisogno di avere Edward accanto, e questo l’ho messo apposta per lenire
le vostre sofferenze care lettrici, altrimenti sarei già arrivata sulla luna
adesso! XD Nooo! Anche tu parti? Ma no se po’… Uff… -.-
araba89Beh si, Bella si è
svegliata dal torpore, anche se non in bene, ma in maniera mooolto dolorosa! XD
Dai su, non sono così sadica, nel prossimo capitolo si comincerà a sistemare
tutto, è che poi ci sarà un periodo di felicità così prolungato che guarda… ne
avrete fin sopra i capelli! XD
lisa76sisi, dai, lo
spiraglio di speranza l’ho messo se no mi ammazzavate già nello scorso
capitolo! XD E la ripersa, nel prossimo capitolo, ricomincerà proprio da
Edward, quindi, non disperare, ok? E poi si, qui nessuno aggionraaa! Che
tristezza…
luisinaOk, non lo alzo
allora il raiting, lo lascio così ^^ Sempre contenta di essere riuscita a
comunicare qualcosa, che sia gioia, dolore, tristezza o malinconia, ecc… J Edward è premuroso, vero? J Non ce la faccio a non vederlo così! J Ma dai, ora tutto si sistemerà, promesso! A partire
da Edward, ovviamente… Io pure non ci vado mai a mare, mia madre tenta di
trascinarmi con la forza, ma io oppongo strenua resistenza! XD
BellissimaCullenNo!Non mi puoi
strozzare, perché io odio il mare!!! Mia madre tenta di trascinarmici ogni
giorno, ma io proprio non lo sopporto! Eheh Il sole mi fa barellare, mi va
venire il mal di testa e mi fa diventare il naso e le gote tutte rosse! Sembro
un clown! xD Quindi, per la storia, se lo scorso capitolo era triste, questo è
decisamente… doloroso direi… ma dai, nel prossimo capitolo tutto inizierà a
sistemarsi, promesso! ^^ Rispostina--> No che non li tolgo! Ci metterei
oreee! Ok, ok, devo dire che anche se la maggior parte di voi sembra morta, c’è
sempre qualcuna che rimane viva! ^^ Va bene così?! Chi non va in vacanza in
pratica… hhh…
barbyemarcoBrutta? -.-
Nessuno è brutto… Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, e per
essere belle bisogna sentirsi belle! Volere è potere! Ok, ho finito tutti i
detti, in pratica nessuno è brutto se vuole essere bello, capito?? Beh, tranne
il cane ovviamente… Lui è sempre brutto u.u
Nessie93 XD Si, in effetti è tutto un po’
una contraddizione. Prima di tutto dico, si, Rosalie non avrebbe potuto
accorgersi si nulla visitandola normalmente, per capire se è incinta bisogna
fare o esami del sangue, o esami delle urine, o palpazione dell’addome, o
ecografia, non ci sono altri modi! ^^ In effetti si, se lo scorso capitolo era
triste, questo è praticamente una batosta di dolore allo stato puro, di quello
davvero doloroso! ^^ mI dispiace, ma ti posso dire che nel prossimo capitolo
tutto si sistemerà, non disperare!!! Sono contenta di essere riuscita a
comunicare tutto quello che prova Bella e le sue motivazioni, si insomma, ecc
ecc… J Ti perdono del fatto che te ne vai
in vacanza solo se tu non mi uccidi per questo capitolo, ok?! :D
_Kiarina
Cullen_Sia
chi è in vacanza che Jacob? Allora perché non Jacob in vacanza? Si insomma, gli
facciamo passare un bel cappio intorno al collo… Ma forse è meglio on le mani,
c’è più gusto!!! Muahahah!
tsukinoshippoAhh eccola qua
l’abbia trovata quella drogata da Jacob!!! eheh, e cosa ti ha dato, valium o
lexotan? XD Capisco benissimo che il pc frigga un po’, anche il mio non trova
pace, ecco perché poi ogni tanto fonde, esce un po’ di fumo… Ecco, a quel punto
lo spengo! :P Dicevamo, il capitolo, si, se nello scorso la dominane era la
tristezza, in questo è un po’ di sana follia e un dolore ancora più profondo,
non esprimibile con nulla! Si, in effetti, ti faccio un piccolo spoiler (perché
mi ricopri sempre di complimenti che mi fanno andare in brodo di giuggiole ogni
volta *.* Grazie!) anche se ha parlato con Edward la cosa è un po’ complessa,
ecco… l’importante è che nel prossimo capitolo tutto si sistemerà al meglio!
*.*
cullengirlecco ecco bene!
Pensa al cane che è morto! ^^ In effetti, Bella è rimasta traumatizzata e sta
anche andando fuori di testa, sai com’è, e Eddy la sta seguendo, tuttavia a
volte si arriva a un punto in cui si tocca il fondo e poi non si può più andare
più in basso e quindi tutto s’aggiusta! ;)
RmpXD si, ne sono successe
di tutti i colori come vedi! Bella è un po’ uscita fuori di testa e se continua
così anche Eddy la seguirà, temo… Ma on temere, nel prossimo capitolo tutte le
cose si sistemeranno! ^^ La penso proprio come te per le ragazze che vanno in
vacanza, insomma, noi siamo qui, ad aspettare un loro aggiornamento! *^*
WindOh, si, è vero, se
fossi stata io al posto di Jacob ora starei facendo una festa intorno a un
falò, con tanto di danza uga uga!!! Ehh… ma Bella è Bella, che ci possiamo
fare… E’ vero i tuoi aggiornamenti sono più ravvicinati, ma i miei capitoli più
lunghi! 1-1 palla al centro! :P
Cristy97eheh
si il capitolo è tristissimo struggente, lo so lo so, ma dai, dal prossimo
tutto si sistemerà, promesso, quindi don’t worry e riscaldiamoci questo cuore
di ghiaccio che ci ritroviamo! Ok, ok, non ti strozzo perché stai continuando a
leggere la mia storia, ok?! J
Padfoot_07Diciamo che anche
quello che è successo in questo capitolo è un scuotimento! Beh, un scuotimento
non proprio in bene, ma che porterà al bene nel prossimo capitolo, giuro,
perché dal prossimo capitolo tutto comincerà a sistemarsi di nuovo! Le vacanze?
Io non ne faccio vacanze, l’ho già detto, ho il mare qui accanto a me, allungo
una mano e ci sono già arrivata! J
Non paesino dipendente io!!! J
littleSmileyGià penso che il
climatizzatore sia a dir poco fondamentale in questo periodo, non so come farei
senza! Beh, Bella sta affrontando un momento difficile, in effetti arriva a un
punto di rottura e poi di lì riesce a ritornare indietro e guarire”. Mi sembri
una persona estremamente dolce e mi farebbe molto piacere fare la tua
conoscenza. La piccola cresce bene? Sono contenta… Nomi er la bambina? A me
piacciono i nomi classici, ti posso proporre i nomi che darei a mia figlia:
Paola, Daniela, Alessandra, Greta, Claudia… Poi ovviamente vorrò vedere la foto
della bambina, capito? J
NoemixNooo! Il magone
no, mamma mia! Bella non vuole accanto tutti, vuole solo Eddy, perché non ne
può fare a meno, ma non riesce a farsi toccare e non ha la forza di parlare! ^^
Beh, è una cosa un po’ difficile… Ok, bene che te stai a casa così puoi leggere
le mie storie!!! Seee! Ma tu Noemi le mie foto le hai già viste… sono io che
sono ansiosa di vedere la tua cara!!! J
damaristichGrazie mille!
(Doppia recensione, addirittura? *.*) Beh, va bene, diciamo che è tutto
giustificato, la tristezza c’è perché la Bellina è depressa poretta, ma dal prossimo capitolo tutto comincerà a sistemarsi, giuro, non vi faccio piangere
più!! J Non vedo l’ora di leggere ancora
la tua storia!
HanairohOk, ok, mi sono
dimenticata di escluderti! Tu si che nutri istinti omicidi, scusaaa, è vero! J Ti è piaciuto il cappy, i sei commossa?? *.* Cara…
Ma tu dici che se avesse subito lo stupro sarebbe giustificata, se no, no. Ma,
voglio dire, conche se TECNICAMENTE quello che ha subito non è stupro,
praticamente si, è rimasta comunque traumatizzata, e poi togliere la vita a
qualcuno non è una cosa così da nulla, anche se lo fai per vendetta… J
Amalia89Doveva soffrire di
più? XD Mi dispiace, ma non so descrivere bene le scene di violenza, ma ti
assicuro che gli ho fatto molto male!!! XD Si, menomale che il comportamento di
Bella ti sembra giustificato, non ti preoccupare nel prossimo capitolo tornerà
tutto apposto! J
miemeAllora, tutte le
cose si sistemeranno nel prossimo capitolo, promesso, si è arrivati all’apice e
ora si scende, non ti preoccupare! E poi ho aggiornato presto, vero? Grazie di
tutti complimenti, molto cara… J
mazzaA) Appunto,
perdonala quella povera anima u.u B) Emmett è sempre lui, tenta solo di
sdrammatizzare un po’ e la cosa era proprio per sdrammatizzare! C) Già già,
povera ragazza, che mente contorta… dal dolore… D) Magari desse retta a
Carlisle, ma io non potevo non far tentare lui, insomma, è Carlisle *.* E) Come
non sei una fan di Bella???! O.o No no povera… si, dai che ora di riprende
comunque… F) Eh già… Beh, ma questa nausea è double face! G) Già già, ma non
poteva parlare, non ancora, eh J H) Mi sa
che ti preoccupa tanto di Edward e un pochino meno di Bella eh?! ma povera,
vedi come sta lei!!! I) J No, questo non è sghembo :/ No,
non mi esce J) Oddioooo si, lo confesso, non ho corretto l’ultima parte! Eheh
^^ K) Appunto, quello là l’ho messo giusto per XD L) Ribadisco, non ho corretto
l’ultima parteee! Ora vado e sistemo tutto J
M) Edward era andato un attimo da Alice, ^^
BellaJeyGrazie! Si questa
cosa è opinione comune… XD Che lo scorso capitolo è tristissimo! Ma dai, come
vi avevo promesso Edward le è rimasto accanto sempre caro! *.* Visto che
dolcezza?? Ehehe, dai, nel prossimo capitolo si sistemerà tutto, contenta? J Così ti faccio felice visto che non sei andata in
vacanza…
Lau_twilight Grazie cara!!!
Si, beh, la tristezza è sparita e ha lasciato il posto a un po’ di follia sana,
vero? Che bello questo capitolo penso sarà il mio preferito per sempre, uno
struggimento, un dolore… hhh, no, non sono sadica!!! XD
ledyangNooo!!! Tutti
partono e io sono sempre più depressa… L
Beh, si, lo scorso era tristissimo, ed era proprio quello che volevo
trasmettere: Tristezza a caratteri cubitali. Questo qui è stato invece: Pazzia
a caratteri cubitali XD.
cloe
cullenCloeee!
Si ok, stavolta sei stata la prima! Perché non mi hai risposto alla mail è.é Mi
hai fatto soffrire e stare in pena, pensavo ti fosse accaduto qualcosa!! Beh,
si, in effetti il cappy era molto triste, questo è diciamo… più energico e più
pazzo anche però! XD
*SONDAGGIO*
Chi è
il vostro personaggio preferito dopo Edward e Bella?
«Edward». La
voce mi uscii flebile e molto roca, quasi
afona. Era la prima parola che dicevo da chissà quanto tempo.
Passarono alcuni interminabili
istanti di sospensione
nel silenzio. Probabilmente non mi aveva sentita. Meglio
così, inutile illudersi…
Ma mi sbagliavo. Perché
lui, e solo lui, mi sentì.
Comparve davanti ai miei occhi, con
una strana
espressione spiritata in viso.
«B…Bella…» ansimò
dopo un attimo «Tu… tu mi
hai…chiamato?».
Non sapevo se rispondere, forse
avevo fatto
semplicemente uno sbaglio, non potevo davvero concedermi tutto quello.
Vidi il suo sguardo incupirsi pian
piano e la speranza
abbandonarlo nuovamente.
Non ce la facevo a sapere di essere
la causa del suo
male. Volevo solo un po’ di pace e riposo, tutto qui, non mi
sarei concessa
altro.
Annuii, vedendo Edward rianimarsi
di riflesso.
«Hai bisogno di qualcosa,
c’è qualche problema amore?
Dimmi, tutto quello che vuoi» chiese su di giri. In quel
momento, se gli avessi
chiesto di fare una qualsiasi impresa titanica, l’avrebbe
portata sicuramente a
termine.
Potevo davvero concedermi di
provare gioia per quella
felicità che gli stavo dando? Sospirai.
Edward si inginocchiò
accanto a me, a terra, per
trovarsi con il viso alla mia stessa altezza. I suoi occhi onice si
facevano sempre
più luccicanti e scrutavano i miei come se stessero
contemplando un tesoro
prezioso.
Sentivo i miei, invece, farsi
sempre più pesanti.
Lottai contro la stanchezza, non volevo rivivere quei terribili incubi.
«Che hai
tesoro?» mi chiese dolcemente Edward,
scrutandomi dentro.
Potevo veramente permettermi di
farlo felice? Respirai
lentamente, indecisa e tremante. Abbassai lo sguardo. Volevo dormire.
Notai che aveva posato una mano sul
materasso.
«Bella…» mi richiamò ancora,
sofferente.
Sollevai il viso, frustrata e
stanca. «… sonno…»
biascicai flebilmente.
Quando ascoltò la mia
voce fu come se fosse tornato
nuovamente in vita. «Hai sonno? Non riesci a
dormire?».
Scossi il capo in segno di diniego,
facendo scendere
delle lacrime silenziose lungo le guance al ricordo degli ultimi incubi
vissuti.
«Ehi, piccola…
angioletto…» mormorò dolcemente.
Sussultai. Quanto tempo che non lo
sentivo chiamarmi
così…
«Su non piangere amore,
ora sistemiamo tutto, te lo
prometto…» mi disse sorridendomi rassicurante. Si
guardò intorno, come in cerca
di qualcosa o qualcuno che potesse aiutarmi. Poi si bloccò,
ritornando a
guardarmi. «Carlisle ti ha prescritto dei sonniferi, vedrai
che dopo starai
meglio. Va bene amore?».
Mi asciugai le lacrime e annuii.
Volevo solo stare
meglio.
Lui mi sorrise, contento.
«Ti chiamo Carlisle…».
Sussultai.
Edward si bloccò notando
la mia reazione. «Non… non
vuoi Carlisle?».
Scossi il capo.
Lui sospirò, non facendo
però scomparire il suo
entusiasmo. «Allora… ti chiamo Rosalie, va
bene?».
Scossi ancora il capo e decisi di
agire. Solo per la
sua felicità. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato le mie
azioni ma volevo
solo vivere quel momento e donare felicità al mio amore.
Lentamente, allungai
la mia mano sul materasso. Tremava, lo sentivo. Piano, facendola
scorrere lungo
le lenzuola morbide la feci giungere accanto alla sua. Risollevai lo
sguardo su
Edward, che intanto faceva scorrere lo sguardo dalle nostre mani al mio
volto.
Era commosso.
«Io?» mi chiese con voce tremante.
Annuii, lentamente.
«Ma…»
deglutì «ma io non… non sono bravo come
Carlisle… forse lui sarebbe
più…».
Scossi la testa, interrompendolo.
Presi un
profondissimo respiro. Avvicinai lentamente la mia mano alla sua,
guardandolo
sempre fisso negli occhi.
Poi successe. Lo
sfiorai. Durò solo un attimo, perché mi
ritrassi immediatamente, ma
quell’attimo durò quanto
un’eternità. Quel piccolissimo contatto, freddo,
fu
come una potentissima scossa che ci pervase da corpo a corpo con una
potenza
inaudita.
Edward mi fissò negli
occhi, annaspando. «V…va bene»
disse con voce tremante d’euforia, quando si riprese.
Mentre scompariva dalla mia visuale
mi rannicchiai su
me stessa. Avevo adempito al mio compito, l’avevo reso
felice. Ora volevo solo
dormire. Respirai lentamente finché, sempre più,
fui avvolta da una nuvola di
torpore. Chiusi gli occhi, scivolando in un quieto dormiveglia.
Improvvisamente mi sentii pungere
un braccio.
Sussultai spaventata e non potei far nulla per tentare di contenere le
lacrime.
Ancora una volta i fantasmi del mio
recente passato
tornavano a tormentarmi. Jacob. L’ago nel braccio. Il mio
corpo inerme. La mia
impotenza. La mia pelle esposta ai suoi occhi. Le immagini si
presentarono come
flash bruschi e improvvisi.
Con il fiato corto scattai in
piedi.
Edward mi fissava spaventato,
spaesato. «Scusami… Non
volevo spaventarti…».
Tremando, camminai
all’indietro, impaurita.
Con lentezza e gesti misurati,
posò la siringa ancora
intatta sul copriletto, e tenendo le mani sollevate a
mezz’aria iniziò a
camminare verso di me. Non c’era più la gioia che
solo pochi istanti addietro
aveva albergato in lui. Il suo dolore sembrava più profondo
di prima. E questo
io lo sapevo, l’avevo sempre saputo. Tutto ciò che
avevo fatto era solo servito
a farlo versare maggiormente nello sconforto. Inutile, non
c’erano vie
d’uscita.
«Ahh!»
fremetti, spaventata,
crollando a terra, la schiena contro il muro.
Ne ero certa, più che
sicura: qualcosa di bollente mi
aveva toccato.
Edward si materializzò
davanti ai miei occhi. «Tesoro,
Bella, calmati» mi sorrise forzatamente «guarda,
era solo il radiatore» mi
disse, indicando con lo sguardo un punto alla mia destra.
Mi voltai piano, ansante, e mi
accorsi che era proprio
come diceva. Quando con lo sguardo ritornai su di lui, aveva un sorriso
rassicurante.
«Visto amore?».
Mi stava parlando con calma e
lentezza, proprio come se stesse parlando con una pazza.
Forse… Jacob aveva
ragione. Dopotutto l’aveva detto
anche Carlisle… Tutti pensavano che io fossi pazza, ma non
era, non era così.
Mi dondolai su me stessa,
stringendomi le braccia al
petto. «Non sono pazza…» farfugliai
sconnessamente.
Edward sussultò, poi mi
rassicurò svelto «Nessuno
pensa questo Bella, davvero…».
Lo fissai ancora negli occhi,
attraverso le lacrime.
Io volevo solo Edward, volevo solo riabbracciare mio marito, come se
niente
fosse successo… perché non potevo farlo,
perché?! Volevo cancellare il senso di
sporco, di macchiato, che provavo sul mio corpo. Volevo toglierlo,
rimuoverlo
per sempre…
«Bella, non fare
così, ti prego» m’implorò
Edward.
Non capii di cosa stesse parlando.
I suoi occhi erano pieni di dolore
e angoscia «Ti
prego Bella, smettila, ti stai facendo male!».
Mi accorsi solo in
quell’istante che le mie unghie
graffiavano contro i miei avambracci. Volevo solo cancellare lo sporco,
volevo
toglierlo…
«Basta, basta!»
esclamò ansioso e terrorizzato.
Non lo ascoltai e penetrai nella
mia stessa carne con
maggior forza.
Ciò che avvenne dopo mi
lasciò completamente senza
fiato.
Edward mi aveva presa per i polsi e
bloccata contro il
muro, sollevandomi.
Ansimai, affannosamente. Una volta,
lentamente. Due
volte, graffiando con il fiato la gola. Tre volte, tremando nel
tentativo di
far passare il respiro. Sentivo le mie pupille dilatarsi e perdersi
sempre più
nell’immensità nera degli occhi di Edward.
Riuscii a ritrovare la voce per
urlare a squarciagola.
Inclinai il capo all’indietro, cominciando a dimenarmi come
un’ossessa. Quello
per me significava rivivere le più orrende sensazioni mai
provate in tutta una
vita.
Non mi curai del suono della porta
che sbatteva, né
delle voci concitate che esclamavano il mio nome tentando di calmarmi.
Gridavo. Gridavo e mi dimenavo.
«Carlisle, sul
letto!» esclamò Edward, che ancora non
aveva mollato la presa sui miei polsi.
«Jasper!» era
la voce di Carlisle, era vicino.
«No… non ci
posso fare niente… C’è
sangue… scusate
devo uscire…».
«Vai!»
urlò Edward, a pochi centimetri dal mio viso.
Spalancai gli occhi. Vedevo solo
Carlisle e Edward.
Respiravo affannosamente e non avevo smesso di agitarmi.
«Calma Bella, calma.
Adesso ti lascio, promesso» mi
disse Edward, sofferente, ma determinato.
«Tienila ferma»
gli disse Carlisle, avvicinandosi con
la siringa in mano.
Edward prese un mio braccio e lo
allungò in
orizzontale, bloccandolo contro il muro.
Cacciai un gemito quando vidi
l’ago infilarsi nella
vena.
«Shh,
shh,
è tutto finito amore, calmati…» mi
sussurrò.
Sentii i miei strattoni farsi
sempre più deboli,
mentre le forze abbandonavano tutti i miei muscoli. Infine, abbandonai
completamente il mio corpo.
Edward lasciò la presa
suoi miei polsi e caddi
stremata sul suo petto ghiacciato.
Fu come vedere tutta la scena al
rallentatore. Il mio
corpo che si avvicinava al suo, il suono del rimbalzo contro di lui, la
mia
testa che si appoggiava sulla sua spalla.
Petto contro petto. Pelle contro
pelle. Cuore contro
cuore. Caldo contro freddo.
In quell’istante capii.
Era lì che volevo essere, e
nulla più avrebbe importato. Era lì che volevo
essere. Fra le sue braccia.
«Ti amo»
biascicai al suo orecchio, prima di perdere
completamente i sensi.
Sentivo un odore fastidioso
bruciarmi il naso. Come…
alcool. La mia mente era annebbiata, confusa, eppure dentro di me avevo
un’unica consapevolezza: volevo Edward con me.
Sbattei le palpebre, piano, per
riadattare gli occhi
alla luce. Lo cercai velocemente con lo sguardo, ma non c’era.
Davanti a me Rosalie mi fissava con
un’espressione
severa e determinata. «Basta Bella, ti prego.
Basta» mi disse dopo pochi
istanti, con decisione. «Dobbiamo fare un passo
avanti».
Rabbrividii. Mi guardai ancora
intorno alla ricerca di
Edward. Un passo avanti, volevo fare un passo avanti verso di lui,
credevo.
Rosalie notò facilmente
che lo stavo cercando.
Avvicinò una mano per sfiorarmi e mi ritrassi, sibilando,
come scottata. La sua
espressione si fece ancor più irremovibile. «Non
c’è. Non verrà, non per ora.
Prima mi dovrai dire alcune cose, parleremo di quello che è
successo, e ti
aiuterò».
Sussultai, colpita, sentendomi
braccata. Il cuore
prese a battermi più veloce, e l’angoscia per la
mancanza di Edward mi sembrò
troppo familiare a quella di un recente passato.
«Bella» mi
richiamò ancora, sporgendosi verso di me.
Feci pressione sulle braccia per
sollevarmi e mettermi
seduta e fui colpita da delle fitte. Gemetti.
«Ferma, ti aiuto
io» mi disse Rose dolcemente,
sistemandomi il cuscino dietro la schiena e aiutandomi a mettermi
seduta.
«Guarda cosa ti sei fatta» mi rimproverò
indicando gli avambracci bendati. Poi
sollevò ancora lo sguardo su di me, scrutandomi.
«Mi dici cos’è successo?».
Mi lamentai, come un animaletto
braccato. Alcune sue
parole, delle intonazioni… mi ricordavano troppo lui. Non risposi, e distolsi lo sguardo
dai suoi occhi indagatori,
spostandoli velocemente da un angolo all’altro della stanza,
angosciata. La
porta, dovevo uscire. Ma era veramente una porta? C’era la
finestra? Lo
strapiombo?
Lei sospirò.
«Edward dice che gli hai parlato, è
così?».
In suo nome mi trafisse la testa.
«Edward» gemetti,
quasi involontariamente.
Lei sgranò gli occhi.
«Allora è vero». Fece una pausa,
poi cominciò nuovamente, più determinata di
prima. «perché hai reagito così?
È
stato malissimo… si sente terribilmente in
colpa…» confessò addolorata.
Mi portai le mani alla testa. Non
ero più
imprigionata, Edward era lì, era lì con me.
«Edward» lo richiamai, più
angosciata.
Rosalie ricercò il suo
sguardo con il mio, muovendo il
capo «Bella».
Fui costretta a guardarla negli
occhi.
«Avete bisogno di andare
avanti. Entrambi. Non sei sola.
Lui è con te, ma gli devi permettere di entrare nel tuo
dolore, nel tuo buio.
Devi permettergli di aiutarti. Devi raccontargli».
Ansimai, angosciata, divisa. Una
fiammella di speranza
si accese dentro di me, e poi si spense. Fidati, non ti fidare. Non ti
fidare,
fidati. Non cambierà mai, non cambierà mai.
Fidati, fidati, fidati. Edward,
Edward, Edward. Mi portai le mani alle orecchie per non ascoltare
più quelle
voci e gridai, forte.
Balzai giù dal letto, e
gemetti frustrata, tirandomi
indietro quando Rosalie mi sfiorò con le sue lunghe dita per
fermarmi. Afferrai
le pesanti coperte ed incerta e barcollante mi trascinai verso
l’angolo più
buio della stanza. Mi avvolsi nelle coperte e mi coprii completamente
la testa.
Ignorai Rose, le sue proteste, i
suoi richiami.
Avevo bisogno di un posto in cui
sentirmi al sicuro
per poter provare a pensare lucidamente.
Non mi accorsi di chiamare
compulsivamente il suo nome
finché non chiamò il mio
«Bella» e nel suo sospiro il mio suono lamentoso
scomparve.
«Bella, amore»
mi chiamò ancora Edward, e mi parve che
sotto l’infinita amorevolezza vi fosse un abisso di dolore.
Scostai un poco le coperte con la
mano, e vidi il suo
viso gentile, incerto e preoccupato. Gemetti, esprimendo in
quell’unico suono
tutto il mio dolore. La sua espressione si fece ancor più
carica di affetto.
Sollevai una mano e muovendo le
dita lo invitai ad
avvicinarsi.
Cauto mi scrutò
attentamente, muovendo ogni muscolo
con estrema concentrazione. Non mi toccò, si
fermò con il busto a pochi centimetri
dal mio.
Tremai, stordita dalla sua
vicinanza. Poi singhiozzai,
e mi lasciai andare contro il suo petto, stringendolo forte.
Lentamente le sue braccia si
strinsero attorno al mio
busto, e mi trassero delicatamente a sé. Prese ad
accarezzarmi i capelli,
cullandomi avanti e indietro. Era controllato in ogni gesto, come se si
aspettasse che da un secondo all’altro, per un inspiegabile
motivo, potessi
irrigidirmi, o iniziare ad urlare. Piansi più forte al
dolore che mi provocò
quel pensiero.
«Shh,
shh,
ecco» mi rassicurò «ti va di venire su
con me? Un po’ sul letto?».
Scossi il capo contro il suo petto,
sentendomi
rassicurata e insieme ferita da quella vicinanza.
Non disse nulla. Mi strinse
più forte e prese ad
accarezzarmi la schiena, lentamente, con movimenti circolari.
«Non te ne andare
più» biascicai, sentendomi un po’
vile per quelle parole e la pretenziosa promessa che volevano strappare.
Sospirò, afflitto, ma
anche contento di sentirmi
parlare, di potermi toccare. «No, non me ne vado mai, lo
giuro. Shh, tranquilla
ora».
Passò molto tempo
così. Riuscii a capirlo perché alla
fine avevo il suo odore addosso e la mia mente non pensava quasi
più che se ne
sarebbe andato da un secondo all’altro. Eravamo nascosti
dalle coperte, ed ero
fra le sue braccia. Mi sentii intontita, un poco nauseata, abbastanza
in colpa
e al sicuro per pronunciare le parole che dissi «Mi ha
drogata».
Edward s’irrigidii
immediatamente, ma poi, capendo di
avermi spaventata si rilassò subito, riprendendo ad
accarezzarmi. Non disse
nulla.
Fissai il vuoto, la luce che
filtrava oltre la
coperta. «Mi ricordo solo l’ago nel braccio. E poi
non mi potevo più muovere».
«Mi dispiace
così tanto, Bella. Così tanto… non
puoi
nemmeno immaginare quanto» mormorò, ma dalla sua
voce potevo immaginare quanto.
Chiusi gli occhi, sopraffatta. Non
potevo sopportare
anche il suo dolore, oltre al mio.
«Perché lo ha
fatto?» domandò esitante dopo qualche
minuto.
Sospirai, lentamente e
impercettibilmente. Ero così
stanca. «Non mi volevo cambiare» biascicai atona,
non riuscendo ad imprimere
nelle parole tutto il dolore che provavo «voleva che mettessi
i vestiti che mi
aveva portato. Io non volevo, quindi lo ha fatto lui. Non mi potevo
muovere…
poteva farmi tutto quello che voleva. Poteva uccidermi, violentarmi,
baciarmi,
torturami. E io ero immobile, e tu non c’eri»
mormorai ancora, persa
nell’infinità del mio angosciante dolore.
«Non andare più via, ti prego».
Mi strinse con più forza
e tremò, tremò fino ad
imprimere quel tremito anche al mio corpo. Piangevamo. Volevo che mi
dicesse
qualcosa e che mi rassicurasse, così che in qualche modo
capissi che era stata
la scelta giusta aprirgli la voragine della mia disperazione. Che non
gli stavo
solo facendo dal male.
Riuscii a racimolare il coraggio di
guardarlo negli
occhi. Erano neri come la notte, pieni di paure e incertezze, sicuri
solo di
una cosa: che mi avrebbero amato.
«Mi vuoi
baciare?» gli domandai.
Fece un piccolo sorriso, un
minuscolo spasmo. «Sì».
Annuii, piano, guardando le sue
labbra.
Si avvicinò e mi
lasciò un piccolo bacio, duro e
freddo.
Rabbrividii. Abbassai lo sguardo.
«Lo so che non è
così, ma a volte penso che qualcuno qui possa farmi del
male».
Mi accarezzò.
«Non è così. Sei al sicuro».
Annuii. «Non vi muovete
velocemente, per favore.
Quando lo fate lo penso di più».
Mi baciò il capo.
«No, piano. Lo giuro. Ora ti va di
venire su con me? Ti stendi un pochino sul letto? Fa freddo
qui».
Tremai, spaventata, guardandolo
negli occhi. «Ho
paura».
Mi accarezzò una
guancia. «No, perché? Non devi
averne. È sicuro, e io sarò sempre con
te».
Mi morsi le labbra, incerta. Non
volevo che intuisse
quanto fossi terrorizzata, ma avevo bisogno di esserne sicura. Mi
chiesi se
pensasse che fossi pazza. I suoi occhi erano dolci, gentili, cauti.
Forse lo
pensava davvero. Mi morsi il labbro per non farlo tremare.
«P-puoi…» balbettai,
agitata «P-per favore, puoi controllare?».
Fece un piccolo sospiro, colpito
dalla profondità
della mia angoscia. Poi il desiderio di prendersi cura di me prevalse,
e annuì.
«Vieni, ecco. Controlliamo insieme» mi disse, e mi
aiutò ad alzarmi, le coperte
avvolte attorno alle spalle. «Guarda, non
c’è nessuno. Piano, piano, vieni con
me. Ecco, non c’è niente di cui aver
paura» mi rassicurò, sostenendomi per i
gomiti e guidandomi verso il letto.
Guardai compulsivamente in ogni
angolo, finché la mia
testa si convinse che non c’era nulla di cui aver paura. Il
battito del mio
cuore si regolarizzò pian piano.
«Ce la fai a
camminare?».
Annuii, muovendo dei passi incerti.
In quel momento la porta della
stanza si aprì e io sussultai,
stringendomi con tutte le mie forze ad Edward. Mi strinse a
sé e mi rassicurò
con un basso mormorio. Era solo Rosalie.
Mi sorrise, avvicinandosi a passo
umano al letto. «Ti
senti meglio? Ti ho detto che sarebbe migliorato».
Mossi il capo in un cenno di
assenso, e velocemente mi
raggomitolai al centro del letto. Mi faceva sentire così
insicura stare in
piedi al centro della stanza. E avevo così paura che quel
terrore mi avrebbe
accompagnato per il resto della vita.
Agitata strinsi la mano di mio
marito, ripentendomi
che era tutto solo nella mia testa.
«Cosa succede
Bella?» mi chiese gentilmente la
vampira.
La guardai, implorante.
«Sono pazza? Rose, dimmi la
verità, ti prego. Sono pazza?» domandai agitata,
facendo passare lo sguardo sui
loro volti.
Scosse lentamente il capo.
«No. Hai solo un disturbo
post-traumatico da stress. Hai vissuto una cosa molto brutta,
è normale.
Sarebbe capitato a chiunque, ma presto starai meglio, e tutto quello
che senti
scomparirà. Lo prometto».
La osservai attentamente,
preoccupata che mi stesse
mentendo. Guardai Edward, e mi sorrise, un ampio sorriso rassicurante.
Mi
rilassai solo un po’.
«Per stare meglio hai
bisogno di raccontare quello che
è accaduto. E di capire che alcune sensazioni o eventi
possono farti pensare
che stia accadendo qualcosa di brutto, ma che non è
così. Possono essere cose
innocue che ti ricordano il passato. Come prima, quello che hai
raccontato a
Edward. Sentire il contatto con l’ago, non poterti accertare
nel buio di chi ne
fosse responsabile ti ha fatto pensare che fosse Jacob, ma non era
così».
Sussultai a quel nome, portando
velocemente la mano a
stringere l’incavo del gomito.
Rosalie annuì.
«È proprio così, vero?».
«Sì»
mormorai, colpita dalle sue parole. Volevo
davvero superare tutto quello che era successo, ma avevo insieme paura
di
affrontare tutto quello che avrebbe comportato.
«A cosa pensi?»
mi domandò ancora.
Mi chiesi perché Edward
non parlasse, perché lasciasse
parlare la sorella. E poi notai come la controllava, come stringeva la
mandibola per non parlare, come controllasse ogni gesto e parola. Anche
lui
aveva un disturbo post-traumatico da stress?
Mi strinsi le ginocchia al petto,
osservando le bende
che venivano fuori dai pantaloni del pigiama, avvolte lungo le gambe.
«Penso
che se ti racconterò ogni cosa Edward soffrirà
molto. E anche io» mormorai
semplicemente.
«Bella, tu
non…» iniziò mio marito, ma sua sorella
lo
interruppe.
«È probabile
che sia così, ma è anche necessario
perché possiate stare di nuovo bene insieme».
Lo fissai di sottecchi.
«Mi puoi toccare» gli dissi
«ma a volte mi farai paura, e tu non devi stare male per
questo, va bene?»
sussurrai spaventata.
Scosse il capo. «No, va
bene».
«Bene» fece sua
sorella, risoluta, aprendo le braccia
per invitarmi ad andare da lei «vieni qui. Ti devo rifare le
medicazioni».
«Posso»
mormorai, sollevando il capo «posso fare una
doccia?».
Edward mi sorrise «Ma
certo…».
«No» lo
interruppe Rosalie.
Sgranai gli occhi e mi voltai verso
di lei, che mi
fissava con fermezza.
«Rosalie…?»
cominciò a chiedere Edward, sorpreso, per
poi essere nuovamente interrotto dalla sorella.
Lei alzò lo sguardo
verso il fratello, poi ancora su
di me. «Non se ne andrà così, fidati,
non c’è nessun sapone che può
lavarlo».
Abbassai lo sguardo, colpita.
«La sensazione di sporco
non si può cancellare, ma si
può imparare a conviverci. E poi… parlandone,
riuscirai a dimenticarla. A
nasconderla in un cassetto tanto piccolo della tua mente che neppure ti
disturberà».
Risollevai il capo, lasciando
scorrere due lacrime
lungo le mie guance.
Lei mi sorrise. «Vieni,
andiamo di là…».
La guardai supplicante.
«È
l’ultima volta, lo prometto, oggi ti tolgo le
bende» mi rassicurò.
Senza opporre resistenza passai
dalle braccia di
Edward a quelle di Rosalie. Lo guardai, intensamente, e lui mi sorrise,
accarezzandomi la guancia prima di andarsene.
«Ecco qui» mi
disse Rose togliendomi l’ultima benda. I
graffi lungo le gambe erano tutti piccoli segni rossi. Non dolevano
più.
«Se ne
andranno?» chiesi preoccupata che fossero
l’ennesimo segno tangibile che sarebbe rimasto di quel trauma.
«Certo che
sì» mi rispose lei con un sorriso. «Ho
usato tutti i migliori unguenti che sono riuscita a trovare».
Le strinsi la mano, riconoscente.
«Grazie, Rose, per
tutto quello che hai fatto…».
Lei mi fece un gesto con la mano
per zittirmi. «Sei
mia sorella».
Sussultai, colpita dalle sue parole
affettuose.
Posò una mano
sull’elastico del mio intimo, con uno
sguardo intenso in una muta richiesta. «Devo controllare
anche lì, i graffi
dovrebbero essere quasi spariti».
Sospirai, annuendo.
«Tranquilla, non
c’è nessuna lesione interna» mi
rassicurò brevemente.
Mi lasciai andare sul lettino.
Come al solito Rose fu veloce e
delicata.
«Grazie» le
dissi, lasciandomi prendere fra le braccia.
Poi rabbrividii. «Rosalie, credo di aver bisogno di un
pigiama più caldo».
Lei capì il senso delle
mie parole e sul suo volto si
aprì un meraviglioso sorriso. «Certo, tesoro,
certo».
Mi svegliai, ancora una volta
terrorizzata dal mio
incubo, urlando con tutto il fiato che avevo in gola.
Sentii qualcosa sfiorarmi il
braccio. Fui pervasa dal
terrore. Immediatamente mi ritrassi sul cuscino, spaventata, urlando
ancora.
Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e il respiro ansante.
La finestra si aprì, e
dei deboli raggi di sole
illuminarono la stanza.
Edward comparve dinanzi a me,
un’espressione
preoccupata e tormentata sul viso. «Bella amore, sono
io».
Sentii le mie labbra tremolare. Era
Edward. Era solo
lui, nessun altro mi aveva toccata.
Mentre il cuore calmava la sua
corsa, sentii i miei
occhi inumidirsi di lacrime. Il terrore lasciava pian piano il posto al
senso
di colpa. Non volevo che lui soffrisse per quelle mie reazioni, a causa
mia.
«S-scusami»
balbettai «io…io non mi ero resa conto
che… m-mi dispiace…» le parole
s’incrinarono a causa dei singhiozzi.
«Non ti preoccupare, lo
so che non è colpa tua» mi
rassicurò dolcemente, offrendomi le sue braccia aperte.
Titubante lo osservai, le lacrime
che scendevano dai
miei occhi mi offuscavano la vista. Lui non si mosse. Mi sollevai dal
letto,
gettando le coperte di lato e posando il capo sul suo petto per librare
altri
singhiozzi. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, del suo affetto, e
di
togliermi di dosso quella sensazione di calore che mi pervadeva.
«Che succede?»
chiese Rosalie entrando in camera e
richiudendosi la porta dietro.
«È colpa
mia» sussurrai mesta, asciugandomi le lacrime
con il polso, prima che Edward potesse dire qualcosa. Parlare per me
era un
problema. Era come se… non ci fossi più abituata,
per questo cercavo di farlo
il minimo indispensabile. «Edward si è avvicinato
a me e io mi sono ritratta»
continuai, abbassando lo sguardo. «Era buio, non
l’avevo visto. Avevo paura».
Lui mi strinse più
forte. Avevo una strana e
spiacevole sensazione di torpore in tutto il corpo e sentivo le ferite
pulsare
sotto le bende degli avambracci. Non volevo più soffrire,
non volevo più questo
dolore.
«Tesoro» mi
chiamò dolcemente Rosalie «non ti devi
preoccupare di questo, in fondo non è successo nulla. Vedi?
Ora siete
abbracciati».
Risollevai lo sguardo su di lei.
Presi un bel respiro,
per non far scendere altre lacrime. Tuttavia il tono di voce
salì di alcune
ottave «Accadrà ancora. Non andrà
più via».
Mi sorrise dolcemente.
«Non è così. Ti aiuterò
io».
«E anch’io. Te
l’ho promesso» mi disse Edward,
ricordandomi le mie parole del giorno precedente.
Abbassai lo sguardo. Me
l’aveva promesso e io ne avevo
bisogno, ma non era così facile permettere agli altri di
aiutarmi. Significava
renderli partecipi di tante cose che avrei voluto tenere nascoste.
«Vieni, siediti
qui» mi disse Rosalie indicandomi il
bordo del letto e porgendomi una mano.
La afferrai, titubante, e a
malincuore mi staccai da
Edward, mettendomi seduta sul materasso.
«Tu Edward, siediti qui,
accanto» continuò lei,
parlando con il fratello.
Anche lui fece come diceva,
sedendosi accanto a me,
mentre Rosalie rimase in piedi davanti a noi. Mi sentivo frastornata.
Forse
perché non ero abituata a stare in quella posizione.
«Ora chiudi gli
occhi». Aspettò che io, esitante,
abbassassi le palpebre.
Dopo alcuni istanti mi sentii
toccare una mano e
ancora una volta mi ritrassi spaventata, riaprendo gli occhi. Edward
aveva una
mano a mezz’aria. Ero stata colta di sorpresa e quella era
stata una reazione
istintiva. In fondo sapevo che non poteva essere altri che lui.
«Scusa»
mormorai afflitta e frustrata, tentando di calmare il respiro.
«Non ti
preoccupare» disse lui con un sorriso
rassicurante.
«Vedi Bella»
cominciò Rose «quando tu sai che è
Edward
a toccarti non hai problemi. Quando invece non lo puoi vedere
è il tuo istinto
che comanda e prende il sopravvento su di te».
Sospirai. Sì, aveva
ragione. Ogni contatto era per me
motivo di ricordo della mia prigionia, e faceva troppo male. Tutti quei
giorni
passati a tentare di mantenere sempre un minimo di lucidità
e a scattare ad
ogni minimo contatto esterno mi avevano fuorviata.
«Richiudi gli
occhi» ordinò.
«I…io…»
balbettai. Non volevo rifarlo. Non aveva
senso, sarebbe accaduto ancora e Edward ne avrebbe sofferto. Non volevo
provare
nuovamente paura e soprattutto non volevo ferirlo.
«Fidati di me»
mi disse decisa.
Lessi solo determinazione nei suoi
occhi, ma non bastò
per convincermi. Mi voltai verso Edward, che mi sorrise. Decisi di
darmi, di
darci, un’altra possibilità. Con un sospiro
richiusi lentamente gli occhi.
«Edward, prendile la
mano».
Inevitabilmente sussultai al suo
tocco, e se non
avesse trattenuto la mia mano con la sua l’avrei
già ritirata. Mi sentivo
vulnerabile e indifesa. Avevo paura e non volevo continuare. Il respiro
si
stava facendo sempre più corto e presto mi sarei ritrovata
senza fiato. Feci
per aprire gli occhi, ma Rosalie non me lo permise.
«Respira Bella, piano,
prendi un bel respiro» mi
ordinò con determinazione.
Aprii e chiusi la bocca, ma senza
lasciar passare
alcun fiato. Stavo impazzando. Feci per ritirare ancora la mano, ma
Edward mi
strinse più forte.
«Coraggio amore, ce la
puoi fare, respira, così» mi
disse ad un orecchio, imitando il respiro profondo che avrei dovuto
seguire.
Dovevo farmi aiutare, dovevo farlo.
Mi lasciai
completamente guidare da lui, seguendo il suo ritmo e lasciando man
mano
rilassare i muscoli contratti.
«Bene» disse
infine Rosalie «Ora mi devi dire cosa
senti».
Non capii quello che intendesse
dire. Mi sembrava
scontato e stupido. Un po’ perplessa cominciai a parlare.
«Sento… una mano. Che
mi tocca…».
«Sbagliato»
rispose lei, facendomi sussultare. «Non è una mano. Non devi tenere conto di
quello che la rende simile, ma di quello che la rende differente. Devi
considerare le differenze, Bella».
Tentai di pensarci, ma non trovai
nulla. Gemetti,
frustrata. Volevo solo riaprire gli occhi, non ce la facevo a
continuare così.
Il senso d’oppressione e turbamento stava nuovamente
prendendo la meglio su di
me.
«Coraggio
Bella» incalzò lei.
Dissi la prima e stupida cosa che
mi venne in mente.
Volevo solo che la smettesse e presto, prima che le lacrime
cominciassero a strabordare
dai miei occhi. «È…
fredda…?!» dissi incerta e scocciata.
«Giusto, per cominciare
può andare bene, continua».
Mi sorpresi di quella risposta. Il
senso di
abbattimento stava per impossessarsi completamente di me. Tentai di
concentrarmi, ma non riuscivo a scorgere altre differenze. Le mie gambe
si
muovevano tamburellando nervose sul pavimento. «Rose io, non
so…» sbottai,
armeggiata e sull’orlo del pianto, tentando ancora una volta
di ritirare la
mano.
«Pensaci bene»
m’interruppe, intransigente e perentoria.
«Ti prego»
gemetti.
«No».
Proprio quando stavo per scoppiare
in lacrime mi
ricordai che accanto a me in quel momento c’era Edward e che
probabilmente
stava soffrendo per le mie parole. Sospirai frettolosamente fra i
denti.
Fredda, mano fredda.
Smisi di tentare di concentrarmi,
perdendomi
completamente nelle sensazioni che mi stava regalando e nella
percezione del
suo tocco. Le differenze. Dovevo pensare alle differenze. Questo mi
doveva
obbligatoriamente portare al ricordo di un altro paio di mani.
Respirai ancora, piano, tentando di
calmarmi e
riportando la mente al presente.
Le mani di Edward.
«È
delicato» biascicai arrossendo, e umettandomi le
labbra «Il tocco… è delicato»
ispirai ancora, lasciandomi andare maggiormente.
«È dura, liscia» sussurrai, prendendola
con entrambe le mani e sfiorandone il
palmo. La toccai ancora, in tutti i punti. «Le
dita… sono lunghe… da pianista»
sorrisi debolmente.
«Brava, stai andando
benissimo» mi esortò contenta
Rosalie.
Serrai gli occhi e ricacciai
giù tutta la mia paura
insieme ad un conato di vomito. Continuai, guidata
dall’istinto di liberarmi
del dolore che sentivo dentro. «È forte e modella
la mia pelle… ma non mi fa
male. E-elegante. È la mano di Edward. Di mio
marito».
«Brava Bella»
sussurrò Rose con approvazione.
Aprii piano piano gli occhi,
lasciando che le macchie
rosse che vedevo per averli serrati con tale intensità
danzassero davanti al
mio campo visivo.
«Va tutto bene»
bisbigliò Edward, e non capii subito
se fosse un’affermazione o una domanda.
Rose riprese a parlare con
più calma. «È un piccolo
inizio, lo so. So anche che ti sembra di non aver conquistato nulla, ma
in
questo momento ogni cosa farà la differenza».
Tremai, alzai lo sguardo su di lei
e annuii, ripetendomi
mentalmente le sue parole e provando a farmi forza. «Grazie
Rose».
«Figurati»
disse lei, sorridendomi e chinandosi per
accarezzarmi una guancia.
Inaspettatamente fui colta da un
improvviso attacco di
nausea e mi allontanai. «Scusa» mormorai, con una
mano alla bocca e una alla
pancia.
«Ti senti
male?» chiese Edward accarezzandomi i
capelli.
Appoggiai la fronte sulla sua
spalla fredda. «Solo… un
po’ di nausea».
«Stenditi un
po’» mi propose, prendendomi poi in
braccio e sollevandosi in piedi. Rosalie sistemò le coperte
e Edward mi
appoggiò delicatamente sul materasso. Mi rannicchiai su un
lato in posizione
fetale.
Edward mi sfregava la schiena,
tentando di darmi
sollievo, mentre Rose mi accarezzava una guancia. «Vuoi che
ti porti in bagno?»
mi chiese gentilmente dopo un po’.
Scossi il capo sul cuscino,
prendendo un respiro. «No…
è già passato» mormorai atona.
Edward mi sorrise, tentando di
rassicurarmi. «Ti sei
agitata un po’. Non ti stancare, riprendi fiato e
riposati».
«Possiamo darle i
calmanti» disse Rosalie indicando
delle fiale di vetro su comodino.
«Sì, avrebbe
dovuto prenderli appena sveglia» ripose
Edward.
«Dovremmo chiamare
Carlisle».
Sentii la bocca ardere, senza
saliva, e il fiato
bloccarsi in gola, mentre stringevo forte la mano di Edward. Non
volevo. Non
volevo ancora pensare di aver bisogno di un medico per guarire dalla
mia
follia.
«Rosalie» la
richiamò bonariamente Edward, notando la
mia reazione «va bene così, per ora. Se
starà di nuovo male lo chiameremo. Ci vorrà
qualche giorno di terapia continuativa prima che si possano apprezzare
gli effetti».
Rosalie annuì.
Aprì il flaconcino che era sul mio
comodino e fece cadere sulla mano una compressa che mi porse insieme a
un
bicchiere d’acqua. La mandai giù in un sorso e
glielo riposi.
Esitai,
poi mi
strinsi al braccio di Edward, lasciandomi cullare dalla pace e dal
torpore
artificiale dei farmaci.
«Tesoro, vuoi mangiare
qualcosa?» mi chiese Rosalie.
Quella domanda mi sorprese. Non
pensavo al cibo da
molto, molto tempo.
«È quasi
mezzogiorno» continuò lei, aspettando che le
rispondessi in qualche modo.
Mi stupii di aver dormito per
così tanto tempo, ma non
dissi nulla. Non avere il controllo del tempo mi disorientava molto. Mi
girai
supina e Edward mi sistemò i cuscini dietro la schiena. Il
precedente attacco
di nausea unito all’effetto degli psicofarmaci mi aveva
lasciata spossata.
Edward mi prese le mani fra le sue
e mi fissò
intensamente, probabilmente in attesa di una mia risposta.
Feci vagare lo sguardo lontano,
sospirando. Non avevo
appetito, e, stranamente, la prospettiva di farmi infilzare ancora con
degli
aghi non mi pareva così orribile, ma sapevo che era
necessario ricominciare a
mangiare. Edward era così fiducioso che lo facessi.
«Va bene» biascicai infine,
disinteressata.
Mi sorrise, facendo trapelare la
sua felicità per
quella piccola concessione.
«Torno subito»
mi disse Rose, scomparendo.
Mi persi per un attimo ad osservare
il volto dell’uomo
che avevo sposato. Stavo facendo tutto per lui. La mia vita era legata
a un
filo. E quel filo dipendeva dal mio amore per lui e dalla sua
felicità.
«Ecco qui»
disse Rose posando il vassoio.
Edward si sedette su un lato del
letto, sorridendomi.
«Guarda» disse girando con cucchiaio una poltiglia
arancione «Deve essere
buona».
La osservai vacua. In fondo dovevo
solo ingoiare
quella cosa. Quanto poteva essere difficile? Sospirai afflitta; poi mi
rabbuiai, abbassando lo sguardo. Mi sentivo terribilmente in colpa.
Sentii una mano sotto il mento.
«Bella?» mi chiamò Edward,
guardandomi intensamente negli occhi. «Cosa
succede?».
Sfuggii nuovamente ai suoi occhi
indagatori, non
volevo che mi guardasse così. Non volevo che mi osservasse.
Mi mordicchiai un
labbro. «Ci è rimasta molto male?»
chiesi infine, a voce così bassa e tremante
che se non ci fossero stati due vampiri davanti a me non mi avrebbero
neppure
sentita.
«Ma no Bella…
Esme non ce l’avrebbe mai con te» mi
rispose subito Rosalie capendo di cosa stessi parlando.
Edward mi prese il volto fra le
mani, cancellando con
i pollici le lacrime silenziose che avevano cominciato a scendere.
Mi portai una mano tremante alle
labbra, gli occhi
persi nel vuoto dei ricordi. «Io…
Io…» balbettai «non volevo
farlo». Mi lasciai
completamente andare, sfogandomi nelle lacrime. Risollevai lo sguardo
su quello
di Edward e deglutii a vuoto. «Mi voleva far mangiare per
forza. Jacob»
spiegai, tirando inutilmente su con il naso, visto che ormai il pianto
si era
fatto più accesso «aveva messo qualcosa nel
cibo… e io non lo volevo mangiare.
Lui diceva che era solo per far abbassare la febbre, ma…
io… mi forzava…
tentavo di non mangiare, ma lui…».
«Amore», mi
richiamò Edward, gli occhi ampi di rabbia
e tensione, accarezzandomi una guancia «non mi
perdonerò mai per tutto il male
che ti ha fatto. Per tutto quello che hai dovuto sopportare. Deve
essere stato
orribile».
Presi la mano con cui mi stava
accarezzando la guancia
e volsi la testa, baciandogli il palmo e lasciando calmare i
singhiozzi. «Ti
prego, dì ad Esme che mi dispiace tantissimo, ti
prego» mormorai afflitta.
«Ma non è
necessario, lei già lo sa».
«Ti prego»
incalzai, stringendo maggiormente la presa
sulla sua mano.
«Lo faccio io
Bella» mi disse Rosalie «Se tu vuoi le
spiegherò le ragioni del tuo comportamento e vedrai che lei
capirà. Starete
entrambe sicuramente meglio».
Valutai cautamente quello che mi
stava dicendo. No,
non volevo che altre persone venissero a sapere dei mostri che
torturavano la
mia mente. Ma sì, volevo che Esme
fosse felice.
Volevo rimediare al mio errore. «Sì»
sussurrai, calmando definitivamente i
singhiozzi e lasciando che Edward mi asciugasse le ultime lacrime.
«Solo a lei»
aggiunsi debolmente.
«Va bene, solo a
lei» disse Rosalie contenta uscendo
dalla stanza.
Edward mi sorrise e io ricambiai il
suo sguardo con
l’intensità che mi potevo permettere.
«Ora mangia qualcosa» fece porgendomi una
cucchiaiata del passato di verdure. Ci soffiò sopra per
farla raffreddare e
l’accompagnò alla mia bocca con l’altra
mano.
Tremai. Tentai di ricordarmi che
ero con Edward, non
Jacob. Che ero al sicuro. Aprii le labbra e la mandai giù,
non senza qualche
difficoltà. Era meno disgustosa di quanto mi sarei
immaginata. Pensai che forse
sarebbe stato più facile se avessi preso il cucchiaio con le
mie mani, ma avevo
paura che cambiando qualunque cosa avrei potuto avere una reazione
incontrollata. Avrei potuto ferire ancora Edward. Aprii la bocca per
prendere
una seconda cucchiaiata, e scese giù più
facilmente.
Feci per sollevarmi leggermente, in
modo da sistemarmi
meglio sul letto, facendo leva sulle braccia, ma sentii delle fitte e
ricaddi
fra i cuscini. Guardai Edward disorientata e preoccupata.
Edward sospirò.
«Non è niente, ti sei fatta un po’
male». E poi aggiunse, evasivo, al mio sguardo insistente
«Qualche punto».
Distolsi lo sguardo. Presi qualche
respiro
superficiale per calmarmi. Mi volsi, e lasciai che mi imboccasse
ancora. Ingoiai
un altro boccone. Fu più difficile. Dopo un altro non potei
più continuare. «Basta,
ti prego» biascicai. Osservai il piatto. Non ne avevo
mangiato neppure metà.
«Va bene»
annuì, mal celando una certa preoccupazione.
Mise via il piatto. Poi aggiunse, forse per rassicurare più
sé stesso che me «È
normale che tu non abbia fame. Hai preso i calmati, non hai mangiato
per sei
giorni. Il tuo organismo si deve riadattare».
«Sei giorni?»
mi lasciai sfuggire dalle labbra per la
sorpresa.
Lui sorrise per la mia reazione,
poi sussultò, come se
si fosse improvvisamente ricordato qualcosa. «Aspetta un
attimo» mi disse con
un sorriso incoraggiante. Scomparve in un secondo e dopo pochi istanti
era di
nuovo di fronte a me, con una mano dietro la schiena.
«Indovina cos’ho qui?» mi
chiese con dolcezza.
Lo guardai. Dentro di me sentivo
una strana
sensazione. Mi sentivo rassicurata. Forse quasi… felice?
«Guarda» mi
disse avvicinandosi e mostrandomi un
barattolino di gelato e un cucchiaio.
Mi portai le mani alla bocca.
«F…fragola e limone?»
balbettai, facendo comparire sulle mie labbra l’antica ombra
di un sorriso.
«Sì
amore», mi disse contento ed emozionato
«tieni».
Volevo piangere, ma in quel momento
le lacrime di
gioia non erano contemplate. Avevo paura che avrebbero riaperto
voragini di
malinconia che volevo solo tenere sotterrate. Ne presi un paio di
cucchiai, e
sia io che Edward lo interpretammo come una vittoria.
«Grazie» commentai infine
atona per farlo smettere.
«Devi ringraziare
Alice».
«Alice…?»
chiesi debolmente, rabbrividendo al ricordo
del nostro ultimo incontro.
Lui sorrise.
«Sì, è stata una sua idea».
Aspettai che Edward riponesse il
gelato e mi feci
pulire le labbra con un tovagliolo, perdendomi in lontananza con lo
sguardo.
«Tesoro, Alice non ce
l’ha con te» mi disse Edward
intuendo i miei pensieri.
Sospirai, affranta e contrariata,
al ricordo del
risentimento che avevo scatenato in lei.
«Fidati di me, non
può nascondermi i pensieri molto a
lungo».
Mi voltai ad osservare Edward che,
con le sopracciglia
aggrottate mi parlava concitato.
«Lei soffre
perché ti vede sempre allo stesso modo,
che non migliori, che non vuoi migliorare. Non vede più il
tuo futuro in cui
eravate sorelle. Per questo soffre, e perché non ti
comprende. Perché sai com’è
Alice, lei è sempre quella che risolve la
situazione» disse, parlando
teneramente della sorella «lei è sempre quella che
reagisce, e non ti
comprende. Non capisce perché tu non vuoi reagire. Anche
adesso, è vero,
qualcosa sta cambiando ma… ha paura che non ritorni
più com’eri. Che non
ritorni più ad essere te stessa» concluse con
dolore.
Non dissi nulla, riconoscendo la
verità nelle sue
parole. Non ero più io. Mi sentivo un inutile guscio, vuoto,
abitato solo da un
barlume di speranza alimentato dall’amore per Edward.
Purtroppo il mio cervello
umano non poteva sopportare dei dolori così grandi
contemporaneamente. Lo
sapevo che anche parlando e ricominciando a vivere non sarei
più stata la
stessa. Ero irrimediabilmente cambiata. Sentii un turbine nella testa.
Mi
sentivo intrappolata. Probabilmente se il diazepam non avesse
già fatto effetto
a quel punto mi sarei ritrovata in piena crisi di panico. Feci vagare
il mio
sguardo nella stanza, in cerca di una via d’uscita a quel
senso d’oppressione
che mi sentivo addosso. «Posso andare un po’ alla
finestra? Vorrei prendere un
po’ d’aria».
Lo sguardo di Edward si
gelò e solo in quel momento mi
ricordai di quello che era successo. Chi era dei due ad avere un
disturbo da
stress post-traumatico?
Mi sentii ancora peggio. Deglutii.
Chiusi gli occhi e
mi dondolai avanti e indietro, come tentando di cullarmi.
«Non lo volevo fare
davvero, lo giuro. È stato solo un momento»
biascicai querula.
Lui chiuse e riaprì gli
occhi, molto lentamente. «Shh.
Va bene. Mi fido di te. Te l’ho detto» disse
sollevandosi con grazia e porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.
«Grazie»
sussurrai grata, prendendo la sua mano e
facendomi guidare per la stanza. Mi sentivo molto debole e stanca,
probabilmente per opera dei calmanti. E di certo non ero abituata a
camminare,
ma mi faceva sentire viva essere sulle mie gambe.
Ci sedemmo davanti alla vetrata
semi-aperta, uno di
fronte all’altra. L’aria fresca di Forks mi fece
subito sentire meglio. Guardai
in lontananza, fra i monti e fra le finestre e respirando a pieni
polmoni.
Ripensavo a tutto
l’affetto che ogni componente della
famiglia mi aveva riservato in quei giorni. Non lo meritavo. No
davvero.
Appoggiai la testa al vetro, guardandomi le mani.
Sulla mano destra c’era
inciso un segno verticale,
rosso sui bordi.
«Loro lo
sanno…?» chiesi, senza distogliere lo sguardo
dalle mie mani. «Lo sanno che sono stata io, ad
ucciderlo?».
«Sì
Bella» mi rispose deciso Edward.
Singhiozzai, stringendomi il petto
e sentendo i suoi
occhi puntati su di me. «Non mi guardare, ti prego»
mi strinsi più forte per
contrastare il dolore che mi dilaniava «non mi guardare,
lasciami qui, va’ via…
non sono degna di averti accanto a me…».
«Bella, amore»
mi chiamò serio «guardami».
Scossi la testa in segno di diniego.
«Bella» mi
richiamò deciso e perentorio.
Dovetti per forza voltarmi. Lo
osservai attraverso i
miei occhi annebbiati di lacrime. Era estremamente serio, aveva
un’espressione
decisa in volto.
«È per questo
che stai così male, perché lui è
morto?».
Singhiozzai, nascondendomi il volto
fra le mani. «Non
perché è morto» piansi
«Perché io ho ucciso una persona, ho ucciso un
uomo,
capisci?!» la voce era salita fino a che non ero arrivata
allo stremo del
pianto.
La sua voce invece era bassa, ma
intensa e abbattuta
«Io capisco che niente, mai, avrebbe dovuto macchiare la tua
anima pura, e
credimi se ti dico che avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo, ma lui
ti ha
fatto del male! Ti ha fatto del male Bella, e ne avrebbe fatto anche a
me! E a
tutti noi. Tu non hai nulla di sbagliato. Hai fatto la cosa
giusta».
Non lo ascoltai e sovrastai le sue
parole con i miei
singhiozzi.
Edward riprese con un altro tono di
voce. «È solo per
questo o c’è anche altro?». Fece una
pausa, durante la quale non risposi. «È
per quello che ti ha fatto, vero?» mi chiese gentilmente.
Rimasi in silenzio. Alzai lo
sguardo su di lui e
l’abbassai. Lo prese come un assenso.
Aspettai di calmarmi. Fu
più facile di quanto pensassi,
non so se per opera dei calmanti o per il vano sollievo delle lacrime.
Edward
non disse nulla, ma rimase a guardarmi in silenzio. Sentivo i suoi
occhi su di
me.
Mi guardai nuovamente la cicatrice
che mi ero causata
tagliando la gola a Jacob. Tanta era stata la forza che avevo usato da
imprimermi un profondo taglio. Un pensiero orribile mi
attraversò la mente.
Mi voltai verso Edward,
sobbalzando. «E se non fosse
morto?» chiesi in un fiato, terrorizzata da questa ipotesi.
Esitò,
un’espressione afflitta sul viso, nel tempo che
decideva quale realtà mi sarebbe stata più
sopportabile. Poi si decise a dirmi la
verità. «No Bella, è morto. Ho
controllato io stesso». Mi prese le mani fra le
sue. Lo feci fare, non avevo abbastanza forza di volontà per
oppormi. «Se solo
potessi tornare indietro e fare io quello che hai dovuto fare tu,
credimi, lo
farei. Troverei il modo e lo farei… Ma non posso. Non
posso» mi disse
addolorato.
I singhiozzi emersero nuovamente in
me, con più forza.
Io lo avrei voluto. Sentivo un egoistico senso di sollievo nel sapere
che
doveva essere lui a ucciderlo.
Edward si spaventò
particolarmente per quella mia
reazione. «Amore» mi chiamò ansioso,
tendendomi le braccia.
Non esitai e mi lanciai sul suo
petto. «Se… se fosse
ancora necessario, s-so che lo rifarei. Lo ucciderei… u-un’altra
volta, m-ma… sono solo un’egoista…
p-perché preferirei che… fossi tu a
farlo…».
Edward mi strinse più
forte, tentando inutilmente di
calmare i miei potenti singhiozzi. «Sarebbe giusto
così» mi prese il viso fra
le mani, facendomi scontrare contro i suoi occhi. «Tu non
dovevi essere
coinvolta in questo mondo strano. Io sono
un vampiro Bella, io dovevo
ucciderlo, sarebbe stato giusto così! Vampiro contro
licantropo è normale. È
normale, anche se orribile per me, uccidere qualcuno. Sono creato
appositamente.
Ma tu, piccolo, dolce, puro amore mio, tu non dovevi avere questo peso
gravoso
sulla tua anim…».
Chiusi gli occhi sul suo petto,
lasciandomi cullare
per un po’. Poi mi sentii sollevare e mi ritrovai fra le
braccia di Edward. «Ho
sentito odio» la mia voce era roca per il pianto appena
cessato «tanto,
profondo odio, e un forte desiderio di vendetta». Posai la
testa nell’incavo
del suo collo.
«Era esattamente quello
che provavo anch’io» sussurrò
Edward.
In quell’istante provai
sollievo. Mi sentivo più
leggera. Non sentivo più alcun peso opprimente. Respirare
era tornato ad essere
qualcosa di istintivo e naturale, facile.
Non sapevo esattamente
perché, forse per essermi
sfogata e aver raccontato a Edward tutto quello che avevo provato,
forse perché
semplicemente ero fra le sue braccia.
Capii che mi poteva davvero
aiutare. Potevo davvero
sentirmi meglio.
Mi sollevai leggermente, in modo da
poter osservare il
suo volto. Aveva un’espressione triste. «Grazie di
aver rimpicciolito la paura»
mormorai.
Lui mi fece il sorriso sghembo che
tanto amavo,
aprendosi nella gioia di vedermi un po’ meno fragile.
«Mi sei
mancato» confessai, accarezzandogli una
guancia.
Lui chiuse gli occhi e
posò una mano sulla mia. Fu in
quel momento che notai le fedi.
«Mi è mancato
tanto mio marito» ammisi.
Sorrise, riaprendo gli occhi.
«Anche a me è mancata
mia moglie».
Mi avvicinai con il viso al suo,
inspirando forte il
suo odore dolce e delizioso. Chiusi gli occhi e misi fine allo spazio
che ancora
divideva le nostre labbra, baciandolo. Era quello di cui avevo bisogno.
Era
amore, e lavava via ogni mia ferita. Era amore, e curava la mia anima.
Era
amore, e mi permetteva di amare.
«Ti amo»
sussurrai, staccandomi da lui.
Gli occhi di Edward brillavano come
i miei, anche
senza la possibilità di versare quelle lacrime di gioia che
sicuramente
avrebbero voluto scendere. «Ti amo
anch’io».
«Edward» lo
richiamai, ricordandomi di quello che mi
aveva chiesto qualche giorno prima. «Anch’io mi
fido di te» dissi baciandolo
ancora.
«Amore, prova a calmarti, devi respirare
piano, così» disse Edward ansioso, mostrandomi il
ritmo del respiro che avrei dovuto seguire
«Amore, prova a calmarti,
devi respirare piano, così»
disse Edward ansioso, mostrandomi il ritmo del respiro che avrei dovuto
seguire.
Mi concentrai sui suoi occhi neri,
ma nonostante mi
sembrava che aprissi e chiudessi la bocca allo stesso ritmo della sua,
sentivo
che il fiato non riusciva a passare. Strinsi con forza la sua maglia in
un
pugno, in cerca dell’aria che sempre più
scarseggiava. Quello era l’ennesimo
attacco di panico in un giorno, dovuto sempre allo stesso
motivo…
«Quanto tempo
è passato?» chiese Edward a Rosalie.
Scorsi con la coda
dell’occhio il suo sguardo
preoccupato «Sono già 37 secondi».
Annaspai ancora, sollevandomi
leggermente col busto
dal materasso e serrando con entrambe le mani la presa sul maglione di
Edward.
Iniziavo a vedere dei puntini luminosi ai bordi del campo visivo.
Lui mi sostenne per le braccia,
fissandomi
preoccupato. «Una busta Rose, veloce, vai».
Lei scomparve in un istante.
Tentai di dire il nome di Edward,
di respirare come mi
diceva lui, ma diventava sempre più difficile farlo.
«E…ed…» biascicai,
affamata d’aria.
Subito dopo Rosalie comparve con un
sacchetto di
cartone.
Edward me lo mise davanti alla
bocca, ma io lo
allontanai gemendo. Mi sembrava che mi togliesse la poca aria che mi
rimaneva.
La testa mi girava forte e mi sentivo soffocare.
«Fidati di me»
mi disse risoluto.
Lo fissai e decisi che non avrei
potuto fare
altrimenti. Lasciai che mettesse il sacchetto sulla mia bocca, senza
protestare.
«Respira»
ordinò.
Tentai di farlo e questa volta fu
più semplice
assecondare la sua richiesta e i suoi occhi puntati nei miei riuscirono
a
comunicarmi la calma necessaria per farlo.
«Così,
brava» m’incoraggiò con un breve sorriso.
Continuai a seguire le sue
istruzioni, finché la
respirazione non si regolarizzò e sentii di riuscire ad
avere nuovamente il
controllo di me stessa. Mi lasciai andare sui cuscini, abbandonando la
presa
che avevo stretto su Edward e chiudendo gli occhi.
Non volevo piangere, non di nuovo.
Sapevo che ogni
volta che lo facevo lui ci soffriva davvero tanto. Era molto bravo a
mascherare
le sue emozioni, ma io lo conoscevo fin troppo bene. Però
Rosalie me lo diceva,
tenermi le cose dentro era anche peggio. Ma questo sarebbe stato
l’ultimo
tentativo di parlare. Avevo provato a raccontare tutto quello che avevo
dovuto
subire da Jacob. Quello che avevo ottenuto erano stati dei
farfugliamenti più o
meno incoerenti e tre attacchi di panico consecutivi, di cui
l’ultimo il più
devastante.
Malgrado la forza che tentavo di
applicare su me
stessa, malgrado la psicoterapia di Rosalie e la costante assunzione di
psicofarmaci, sentivo le mie labbra stringersi e la gola ardere per il
magone
che la stava bruciando. Se avessi aperto gli occhi o detta anche una
sola
parola, sarei scoppiata in lacrime.
«Amore» mi
chiamò dolcemente Edward, sfiorandomi una
guancia.
Trasalì brevemente,
ancora scossa. Aprii gli occhi,
scontrandomi con il suo sguardo gentile. «Vi
prego… basta…». Come previsto la
mia voce si ruppe a causa del pianto.
Edward mi prese fra le braccia e mi
strinse a sé,
cullandomi.
Mi lasciai trascinare dal suo
movimento e tentai di
calmarmi in fretta. Le lacrime smisero di scendere piuttosto
velocemente.
Respirai a pieni polmoni il suo odore, beandomi del contatto con il suo
petto.
«Va bene, per oggi
basta» acconsentì Rose,
accarezzandomi una guancia.
«Grazie»
sussurrai, alzando lentamente una mano, fino
a sfiorare la sua. Poi mi strinsi la pancia con entrambe le mani,
accoccolandomi fra le braccia di Edward.
Rose si sollevò dal
letto e si diresse verso il mio
comodino. Quanto odiavo quel mobiletto.
«Ancora
nausea?» mi chiese lui, accarezzandomi i
capelli.
«Un
po’…» mormorai. Era una cosa che andava
e veniva
in tutta la giornata, ma almeno non rigettavo più da un
po’. Edward,
preoccupato, ne aveva parlato con Carlisle, ma lui aveva detto che
ognuno, dopo
un forte stress, si sfoga in modi diversi. Quello era il mio. La chiave
di
tutto era mantenere la calma, oppure, crearla artificialmente.
Rose mi porse il mio bicchiere
d’acqua, poi prese dal
comodino pieno di medicinali il familiare flaconcino di compresse e me
ne diede
una.
Lo ingoiai in un sorso, senza
protestare. Mi sentivo
sempre più fiacca e rallentata, ma per le ore successive
alla somministrazione
dei calmanti mi sembrava quasi di riuscire a respirare, di riuscire a
pensare
che per me ci fosse una speranza e nella mia mente non c’era
posto solo per i
pensieri bui.
«Vedrai che fra un
po’ starai meglio» mi rassicurò
Edward «te l’ho detto, ci vuole un po’
perché la terapia vada a regime».
Sospirai, voltandomi leggermente
per guardarlo negli
occhi. Accarezzai con una mano il suo sorriso, la sua mascella, le sue
occhiaie.
Era stupendo, come sempre, mentre io…
«Rose» chiamai,
prima che uscisse dalla stanza «posso
fare una doccia?». Lei mi fissò, come se stesse
per dire qualcosa, ma io la
zittì con un gesto della mano. «Mi sento sudata e
appiccicaticcia e non oso
immaginare in che stato siano i miei capelli, te ne
prego…».
Lei mi sorrise, divertita.
«Sì certo», poi aggiunse,
titubante «dovrei aiutarti però, non devi bagnare
le bende alla braccia».
Sollevai le sopracciglia,
perplessa. «Non si possono
togliere?».
«No» mi
risposero contemporaneamente Edward e Rosalie,
destabilizzandomi.
Trasalii alla loro reazione.
Si fissarono per alcuni istanti.
Poi intervenne Edward
«Tesoro, fatti aiutare da Rose, sarei molto più
sicuro» aggiungendo, titubante
«certo, se per te non è un problema».
Leggendo la sua espressione
preoccupata dissipai tutti
i miei dubbi. «No, non ti preoccupare, va bene,
davvero» dissi con un sorriso
accennato, sollevandomi in piedi e lasciandomi guidare verso il bagno
da Rose.
Non era davvero un problema farmi
lavare da lei, e non
volevo che Edward lo pensasse. Da quando avevo deciso di farmi aiutare
da lui e
Rose, stavo prendendo molta più coscienza di quello che mi
stava intorno.
Sapevo che era giovedì. E in questo momento erano le undici
del mattino. Stavo facendo
progressi. Mentre l’acqua mi scorreva addosso, tentai di
ricordarmi la data di
quel giorno. Settembre, di sicuro, ma… in quel momento mi
ricordai di una cosa.
«R-Rose?»
chiamai, mentre lei mi avvolgeva in una
morbida asciugamano bianca.
«Sì?»
mi disse lei, gentile, porgendomi l’intimo.
«Qualcosa non va?».
«No…
È solo che… ho… ho un ritardo
di… più di due
settimane…» balbettai, vestendomi.
Lei mi sorrise con delicatezza.
«È normale Bella, non
ti preoccupare. Quando si è sottoposti a un forte stress
capitano spesso di
queste cose» poi si fece più seria
«comunque, se ne vuoi parlare con qualcuno…
un ginecologo…».
Trasalii.
Lei comprese il mio disagio e venne
a sedersi accanto
a me sul lettino. «Non c’è motivo di
allarmarsi Bella. Aspetteremo e… se sarà
necessario…».
«No» la
interruppi decisa, cambiando velocemente stato
d’animo. «Non m’importa».
Spostai lo sguardo lontano. Mi rendevo conto che lei
sarebbe stata contraria a quanto avrei detto, ma ormai non poteva
più opporsi.
Inoltre, questa decisione l’avevo presa già da
parecchio tempo. «Fra poco sarò
trasformata e comunque, non è importante. Quello che voglio
è stare con
Edward».
Lei mi passò un braccio
sulla spalla. «Sei ancora
certa di voler essere trasformata?».
«Sì»
sussurrai. «Devo solo decidere il quando,
con Edward e… con tutti gli
altri».
Lei balzò giù
dal lettino, e andò a prendere il
pigiama. «Non metterti fretta» mi disse discreta,
porgendomelo.
«Rose» la
chiamai «posso avere qualcosa che non sia un
pigiama?». Abbassai lo sguardo. «Mi sento tanto una
malata».
Lei ridacchiò.
«Hai ragione, temo che dovrò far
scomparire tutti quei medicinali che odi tanto»
scherzò. Poi si guardò intorno.
«Beh, abbiamo alcuni tuoi vestiti, ma non puoi ancora mettere
i jeans, il denim
rischia di irritarti la pelle».
«Tuta?»
proposi, mordicchiandomi un labbro.
Lei rise ancora, più
abbondantemente. «Non credo che
Alice abbia pensato a comprarti delle tute!».
Trattenni il respiro, scostando lo
sguardo. Il nome
“Alice” mi riportava alla mente i recenti rapporti
con la mia sorellina. Non ci
avevo ancora parlato, né l’avevo vista. Lei ci
doveva stare davvero male, ma…
Non so se ce l’avrei fatta. Non so come avrei potuto reagire
e non volevo farla
soffrire ulteriormente.
«Ti prendo un
vestito» disse infine Rosalie, probabilmente
per interrompere il triste flusso dei miei pensieri.
Mi osservai le gambe.
C’era stato un evidente
cambiamento, ma ancora si vedevano delle cicatrici in via di
guarigione,
disseminate dal ginocchio in su.
«Lungo»
aggiunse, porgendomi un vestito color amaranto
che arrivava fino a metà polpaccio.
Lo indossai e mi feci sistemare i
capelli con un
fermaglio nero, che richiamava alcune impunture che spiccavano sul
corpetto del
vestito e sull’orlo della gonna. Fortunatamente Rose fece in
fretta, non
facendomi indugiare ancora a lungo sul ricordo di Alice.
Mi guardai allo specchio. Avevo le
occhiaie e gli
occhi un po’ rossi per il pianto e per il sonno. Le guance
erano leggermente
meno voluminose. Ma nel complesso, con i capelli che finalmente
ricadevano
morbidi e profumati sulle spalle, e quel vestito così
carino, potevo sembrare
passabile.
Ritornai in camera. Edward non
c’era, sapevo che
usciva per concedermi la mia privacy, ma in quel momento il bisogno di
lui
diventò necessario.
«Sta tornando»
mi disse Rosalie, poggiandomi una mano
sulla spalla e intuendo i miei pensieri.
Annuii e mi andai a sedere sul
letto.
Poco dopo la porta si
aprì e Edward spuntò dietro di
essa.
Notai il suo abbigliamento.
«Ti sei cambiato?».
Sul suo volto si aprì un
magnifico sorriso. «L’hai
notato?».
Io arrossii, abbassando il capo.
Dovevo essere stata
piuttosto assente nell’ultimo periodo…
«Sei davvero
meravigliosa» sussurrò, ritrovandosi
improvvisamente a pochi centimetri dal mio viso. «Niente
più pigiama?» scherzò debolmente.
Mi mordicchiai il labbro,
risollevando lo sguardo.
«Adesso non ho sonno» mormorai imbarazzata. Passavo
le mie giornate fra il
letto e la psicoterapia di Rosalie. Ero perennemente stanca e intontita
per via
dei calmanti.
«Vuoi mangiare
qualcosa?» mi chiese Edward.
Sgranai gli occhi, sorpresa.
«È già ora di pranzo?».
Edward mi sorrise paziente.
«Prima erano le undici
amore, ricordi? Siete state un’ora in bagno, quindi ora
è mezzogiorno».
Speravo che la tortura del dover
mangiare arrivasse
più tardi. «Non mi va… non ho
fame…» protestai.
«Lo so, è
l’effetto dei calmanti» - uno dei tanti,
pensai - «ma devi riabituarti a farlo, sei dimagrita un bel
po’» disse gentile,
ma con un tono piuttosto persuasivo.
Scostai lo sguardo e strinsi con le
dita le lenzuola.
Non volevo mangiare, ma pensare a un atteggiamento oppositivo nei
confronti del
cibo avrebbe aumentato le mie problematiche aveva detto Rosalie.
Cercavo di
trattare il fatto di nutrirmi con indifferenza. Emetofobia
aveva detto Carlisle. Paura di vomitare, paura quindi di mangiare.
Paura di
farmi imboccare. Paura di non avere la libertà di scegliere.
Presi un respiro,
prima che tutte quelle paure prendessero il sopravvento.
«Più tardi» affermai,
tentando inutilmente di mascherare la mia voce tremante.
«Va bene» mi
concesse Edward, capendo che non era il
momento di insistere e sedendosi sul letto accanto a me.
«Dov’è
Rosalie?» gli chiesi, poggiando la testa sulla
sua spalla.
«Giù con
Emmett».
«Oh» dissi
solo, mordicchiandomi il labbro. Capivo
benissimo quella sua esigenza, la stessa che sentivo verso Edward. Lei
passava
tutto il suo tempo con me e doveva rinunciare a suo marito. Certo, se
io avessi
acconsentito… «Ci sono anche tutti gli
altri?» chiesi a Edward, ostentando
indifferenza.
«Sì,
tutti» rispose lui, senza aggiungere altro.
«Com’è
il tempo oggi?». In realtà poteva sembrare che
quella mia domanda non c’entrasse nulla con la conversazione
che stavamo
facendo, ma invece c’entrava, e molto. Rose diceva che stavo
costruendo la mia
gabbia di certezze dentro quella stanza, ma che così facendo
mi sarei solo
trovata in un’altra prigione. Volevo uscire, o almeno
provarci. Il problema era
se potevo farlo fuori, oppure sarei stata costretta a rimanere
dentro…
«Un bel tepore»
disse Edward accarezzandomi i capelli
«ben ventisette gradi, un record per Forks».
Rabbrividii, stringendomi a lui.
No, non sarei uscita.
Mi tenevo ben lontana da qualsiasi fonte di calore. Mi strinsi sul
corpo
ghiacciato di Edward. «Volevo andare a fare una
passeggiata» mormorai afflitta,
abbassando lo sguardo.
Lui girò il volto verso
il mio, sorridendomi benevolo.
«Ti va di venire un po’ giù con
me?».
Mi irrigidii sul posto. Avevo
paura. Semplicemente
paura. «Io» balbettai «non so».
«Sarebbe bello uscire da
qui, vero? E non vuoi uscire
fuori, questo l’ho capito. Nel soggiorno si sta molto bene.
Possiamo accendere
il condizionatore» disse divertito.
Sorrisi debolmente, per poi farmi
di nuovo seria. «Non
lo so» biascicai, abbassando e risollevando lo sguardo
«qui sono al sicuro. Ci sei
tu e sono protetta, so dov’è ogni cosa, tutto
è al suo posto. Se… se dovesse
tornare la nausea? Se facessero qualcosa di strano? Se si muovessero
troppo
velocemente? No… non posso avere un altro attacco di panico
oggi. Non oggi, non
ancora» bisbigliai velocemente, portandomi le mani alla testa.
«Amore, amore»
mi richiamò Edward, interrompendo il
flusso delle mie parole. «Non c’è niente
lì fuori che possa farti del male. Ci
sono io e loro, che sono la tua famiglia. Ti amano. Non si muoveranno
velocemente, non ti toccheranno e non sarai costretta a rispondergli.
Loro ti
vorranno bene e ti ameranno, sempre. Qualsiasi cosa tu faccia. E ti
capiscono,
sanno quello che hai passato» mi sorrise «Inoltre
io starò sempre accanto a te,
e tu non farai nulla di sbagliato, davvero».
Presi un respiro veloce,
tamburellando con il dito sul
copriletto. «Forse dovrei prendere un altro calmante per
farcela. Quanto tempo
è passato dall’ultima dose? Carlisle ha detto che
posso riprenderlo se ne ho
bisogno» farfugliai concitata.
Edward si sollevò,
lentamente proprio come gli avevo
chiesto, e si piegò sulle ginocchia davanti a me per
guardarmi negli occhi.
«Amore» mi disse, sistemandomi una ciocca di
capelli dietro un orecchio. «Non
ti reggi in piedi da quanto sei stordita. Sei una piuma ormai, ed
è passato
troppo poco tempo dall’ultima dose. È vero quello
che ha detto Carlisle, ma
adesso stai bene. I farmaci non risolveranno tutto. Non deve essere per
forza
oggi quel giorno, ma ci sarà il momento in cui uscirai da
quella porta. E farà
paura, finché non l’avrai affrontato».
Annuii, tremante, schiacciata dal
peso della sua
logica.
«Sì,
è così. Adesso hai paura?».
Esitai, incerta se mentirgli.
«Sì» mormorai flebile,
socchiudendo le palpebre.
Mi carezzò le mani con
le sue dita. «Poca paura o
tanta paura?».
Mi morsi un labbro.
«Media paura» soffiai, con un
mezzo sorriso sulle labbra.
Sorrise a sua volta.
«Media paura è affrontabilissima,
che dici? Insieme a tuo marito. Facciamo qualche passo fuori, e quando
vuoi
torniamo qui. Hai sempre una via d’uscita e i mostri non ci
sono».
Deglutii, ripetendo le sue parole.
«I mostri non ci
sono».
La mia media paura
diventò gigantesca davanti alla
porta chiusa della sua stanza. Edward continuava a rassicurarmi al mio
orecchio, ma io sentivo solo il battito impazzito del mio cuore.
Posò una mano bianca
sulla maniglia, stringendo con
più forza la mia mano e sorridendomi rassicurante
«Fai un bel respiro» disse
aprendo la porta.
Mi sembrò di impazzire.
Mi presi tutto il tempo ad
analizzare gli unici tre metri di corridoio vuoto che riuscivo a
vedere, e la
mano di Edward fu sempre nella mia. «Non
c’è nessuno» affermai, quasi volessi
convincermene.
«Nessuno che ti voglia
fare del male».
Annuii, e mossi i primi passi verso
l’esterno della
stanza. Ero al sicuro. Passo, dopo passo, dopo passo. Non
c’era niente di cui
avere paura. Passo, dopo passo, dopo passo. Grande paura. Media paura.
Poca
paura. Mi sorpresi che alla fine del corridoio non avessi ancora avuto
un
attacco di panico.
Mi volsi verso Edward e mi sorrise,
incoraggiante. Ma
poi crucciò le sopracciglia e io mi agitai. «Che
succede?» domandai scossa, respirando
più rapidamente.
Distese immediatamente ogni piega
del suo volto. «Shh,
va tutto bene. Guarda» disse, facendo per sfilare la
mano dalla mia.
«No, no, no. Tanta.
Edward, non farlo ti prego. Tanta,
tantissima paura» lo supplicai angosciata.
Mi strinse a sé,
cullandomi con il capo sul suo petto
e dandomi tutto il tempo di calmarmi. «Ecco, così
brava. Scusami, non ti volevo
lasciare. Voglio solo farti vedere una cosa. E so che è una
cosa sicura, che
non fa paura e che ti farà stare bene. Ok?» mi
disse lentamente, con infinita
pazienza.
Annuii, mio malgrado. Non
c’erano cose che non mi
facevano paura, ormai. Ma questo non glielo dissi.
Rimasi nascosta dietro di lui
mentre apriva la porta
della stanza che ci stava di fronte, dove ci eravamo fermati.
Smisi per un attimo di respirare.
Al contro della
stanza, con la testa bassa, che guardava fisso il pavimento ai suoi
piedi,
c’era Alice. Ad un tratto sollevò il visino
pallido e marcato da profonde
occhiaie violacee. Gli occhi, scurissimi, erano vacui, come se stesse
avendo
una visione. Li mise a fuoco su di me e mi guardò con
dolcezza. «Anch’io» mi
disse soltanto.
Crollai sulle mie gambe e scoppiai
a piangere.
Nonostante la paura lasciai che si avvicinasse lentamente e mi
stringesse a sé.
Sentii mia sorella vicina a me. Ma non vicina al mio corpo, vicina alla
mia
anima. Come se finalmente, in quel silenzioso abbraccio, qualcosa di
prezioso
fosse stato aggiustato. Come un collezionista che ripara il suo vaso
rotto, o
come un uomo, ritornato libero dalla sua malattia. «Ti voglio
bene» dissi,
rispondendo alla frase che mi aveva anticipato.
Si allontanò quanto
bastava per guardarmi in viso, con
dolcezza e comprensione. «Presto ti chiederà se
vuoi dei calmanti. Non
prenderli, non cambieranno molto, non oggi, e ti sentirai solo troppo
intontita. Lui non sa distinguere il motivo del tuo pianto, ma sa che
ora sei
felice. Non c’è bisogno che tu lo dica, so che ti
dispiace» fece una pausa. «Lo
so, avrei dovuto vedere quel buco nero. Niente di tutto questo sarebbe
accaduto».
Scossi il capo, ma non riuscii a
dire nulla. Sarebbe
stato così bello se niente di tutto quello fosse accaduto.
«Andrà
bene».
«Lo hai
visto?».
Allontanò lo sguardo.
«Il tuo futuro è molto incerto,
adesso. Hai molte decisioni da prendere» mi
accarezzò i capelli con le sue piccole
mani delicate. «Ho visto che smetterai di prendere gli
psicofarmaci» il suo
sguardo si fece per un attimo vacuo e mi sorrise. «E oggi
andrà tutto bene». Mi
lasciò un bacio sulla guancia e si sollevò,
leggiadra, aiutandomi a fare
altrettanto. «Ti prometto che ti comprerò dei
pantaloni più comodi» spostò lo
sguardo verso Edward, grata. «La tua famiglia ti aspetta di
sotto» disse poi,
scendendo di sotto a passo umano, a mio beneficio.
Mio marito mi porse la mano,
sorridendomi. «Andiamo»
disse, guidandomi verso le scale.
Oggi andrà tutto bene, aveva detto Alice. Sospirai ed
annuii.
Arrivammo alla scala. Presi un
grosso respiro e mossi
un passo per scendere, ma fui investita da un’ondata di
vertigini che mi fece
perdere l’equilibrio. Strinsi la presa sulla mano di Edward,
che mi circondò la
vita con un braccio prima che potessi cadere in avanti.
«Piano, con
calma» soffiò Edward al mio orecchio,
«non
è il momento per inciampare» provò a
scherzare debolmente.
Presi un breve respiro,
discretamente. «Non si rischia
di inciampare se si è sempre stesi a letto» dissi,
cercando di assumere un tono
meno spaventato e più leggero possibile.
«No»
mormorò, arricciando le labbra in un sorriso
trattenuto. Mi aiutò, tenendomi sempre ferma a sé
con un braccio, a scendere le
scale. Il cuore batteva a ritmo sostenuto e i miei passi erano sempre
più
timorosi, ma Edward dimostrava sempre la stessa pazienza.
Mi strinsi maggiormente a lui,
nascondendomi
leggermente dietro la sua schiena, quando arrivammo in soggiorno.
Tutti erano impegnati nella loro
attività. Jasper
giocava a scacchi con Emmett, Alice e Rosalie chiacchieravano sul
divano,
Carlisle leggeva un grosso tomo, seduto su una poltrona, ed Esme
era seduta al suo tavolo dei disegni.
«Ciao Bella» mi
salutò cordialmente Carlisle dopo un
po’, per poi ritornare a leggere.
Così fecero anche gli
altri. Salutandomi con brevi
parole o con sorrisi. Come se nulla fosse successo. Come se fosse
ancora una
qualsiasi altra visita che facevo loro da quando ero fidanzata con
Edward.
Abbandonai la testa sul suo petto,
cacciando aria dai
polmoni e lasciando che il mio povero cuore ritornasse al suo regolare
battito.
Mi lasciai trascinare sul divano, sedendomi accanto a lui. Rosalie e
Alice si voltarono
verso di noi e mi sorrisero.
Restammo un po’ di tempo
così. Edward ogni tanto
scambiava qualche parola con Alice e Rosalie, che avevano deciso di
rifargli il
guardaroba. Non lo avevo mai sentito opporsi così. Poi anche
Emmett intervenne,
prendendolo in giro e deridendolo per la sua
“sciagura”. Carlisle si andò a
sedere accanto a Esme,
per aiutarla, e Jasper si unì
a noi.
Io non dicevo niente, non ancora
una parola, sollevata
da quella apparente quiete ma sempre guardinga. Ogni tanto controllavo
la
stanza con lo sguardo, in cerca di qualcosa che fosse fuori posto e che
potesse
farmi del male. Ma non c’era nulla del genere, e piano piano
che i minuti
passavano distarsi fu più facile. Mi sentivo a mio agio fra
loro, quasi come se
nulla fosse capitato. Alice non mi aveva mentito.
«Bella» mi
chiamò Rosalie «è tardi ormai, mangia
qualcosa».
Oppositivo, negativo. Annuii. Emetofobia.
No, non oggi. Oggi
sarebbe andata bene. Non sarebbero serviti altri calmanti. Non
c’era niente di
strano nel cibo. Nessuno mi avrebbe imboccato contro la mia
volontà, non avrei…
Bloccai quei pensieri. «Sì, va bene»
biascicai debolmente.
Si alzò in piedi,
tendendomi una mano. Edward si chinò
a parlarmi ad un orecchio. Era un gesto di protezione nei miei
confronti, perché
i suoi fratelli potevano comunque sentirlo anche se fosse stato al
piano di
sopra. «Vuoi tornare in camera o ti farebbe piacere mangiare
qui? Penso che
possa farti bene».
Indugiai un attimo, evitando lo
sguardo di tutti nella
sala.
Mi carezzò una guancia,
dandomi tutto il tempo di
rispondere.
«Qui. Va bene».
Edward sorrise.
«Perfetto».
In breve il tavolo del soggiorno
era apparecchiato con
una tovaglietta. Mi sedetti accanto a Edward, prendendogli la mano. Mi
faceva
sentire più sicura. Esme
entrò nella stanza con in
mano un vassoio e felice notai che non era una delle solite minestrine
a cui
ero abituata. Era della pasta. Stimolò
lievemente il mio appetito.
«Ecco qui cara»
mi disse con un sorriso.
«Grazie»
mormorai, facendo comparire un’espressione
affettuosa sul suo volto. Poi abbassai il capo e aggiunsi «Esme…
mi dispiace tanto per quello che è
successo…».
«Tesoro» mi
richiamò, accarezzandomi una guancia e
facendomi trasalire.
Respirai piano, cercando di
controllarmi e di seguire
le indicazioni che nei giorni precedenti mi aveva dato Rosalie. Quando
fui
sicura di essere abbastanza calma, mi voltai verso i suoi occhi neri,
come
quelli di tutto il resto della famiglia.
«Non ti preoccupare di
questo» mi disse gentile,
baciandomi la fronte, come se non avesse assistito al mio lieve momento
di
debolezza.
Mi feci forza e cercando di non
pensarci presi la
forchetta con la mano destra. Le braccia ormai erano solo un
po’ indolenzite.
Mangiai tranquillamente, lentamente. Mangiando notavo che il mio
appetito
aumentava un po’, ma non riuscii comunque a finire tutto il
piatto. Lo passai a
Edward.
«Non ti va
più?» mi chiese prendendolo con una mano.
Scossi il capo in segno di diniego.
«Va bene» disse
riponendolo. Poi sollevò la cloche che
nascondeva il secondo. «Vediamo che cosa
c’è qui…? Guarda, formaggio e
insalata». Mi sorrise, porgendomi il piatto.
Sorrisi anch’io. Sembrava
un formaggio italiano.
Mozzarella forse. Cominciai a mangiare l’insalata e i
pomodori e presi un
pezzetto del formaggio.
Improvvisamente mi
sembrò troppo acido e fui investita
da un altro attacco di nausea. Scattai in piedi, rovesciando la sedia
all’indietro e portandomi le mani alla bocca e alla pancia.
Mi ritrovai in movimento ad una
velocità vampiresca,
prima di piegarmi sul water e vomitare tutto quello che avevo mangiato
pochi
minuti prima.
Mi accasciai contro la parete
piastrellata, ignorando
completamente le domande di Edward.
Mi sentii tradita. Da Edward, che
mi aveva convinta a
mangiare in soggiorno. Da Alice, che aveva detto che tutto sarebbe
andato bene.
Da me stessa, che non riuscivo più a governare in alcun
modo.
Mi sentivo male e mi vergognavo
moltissimo. Quasi non
badai alle lacrime copiose che cadevano dai miei occhi. Mi strinsi le
ginocchia
al petto, tenendomi la testa con le mani e singhiozzando.
«Bella, non piangere,
vieni qui» disse Edward,
sciogliendo le braccia dalla loro rigida presa e facendole passare sul
suo
collo. Poi mi prese per il busto, traendomi a sé.
Avevo ancora una forte nausea e il
pianto mi faceva
sentire stanca e intontita. «Voglio andare in camera, voglio
tornare in camera»
piansi, appoggiando la testa pesante al suo petto.
«Non ora, non
ancora» mi rispose lui, gentile ma
risoluto.
«Ti prego»
gemetti ancora.
«Shh.
Poteva succedere anche
mentre eri su. È successo tante volte mentre eri
su».
«Non ce la faccio
più» singhiozzai, alzando la voce,
che poi ritornò stanca e lamentosa «sembra che non
cambi nulla per quanto mi
impegni».
Edward mi strinse con
più forza, baciandomi la fronte.
«Non è così».
Puntò i suoi occhi fissi nei miei, parlando con
determinazione «Alice
ha ragione. Andrà bene. E bene non vuol dire che non avrai
più paura, che non
ci saranno gli attacchi di panico e che non vomiterai più.
Bene vuol dire che
nonostante tutte queste cose andrai avanti, finché non
smetteranno di
tormentarti» disse, risoluto.
«Non so se ho ancora le
forze» biascicai debole.
Mi sorrise con tristezza,
carezzandomi il viso con il
dorso della mano. «Non hai scelta».
Mi lasciai andare stordita contro
il suo petto. Volevo
così tanto stare anche solo un po’ meglio. Chiusi
gli occhi, e ripensai al
giorno prima del rapimento. Ero sempre lì, accoccolata fra
le sue braccia, e
avevamo appena finito di fare l’amore. Avevamo discusso
perché io mi volevo
sentire al sicuro e l’unico modo per farlo mi sembrava quello
di essere
trasformata. Chissà cosa sarebbe cambiato. Forse avrei
ucciso Jacob più in
fretta.
Spalancai gli occhi, fuggendo da
quei pensieri.
«Che succede?»
mi domandò cautamente.
Lo guardai dritto negli occhi,
malinconica e decisa.
Avevo bisogno di sentirmi al sicuro e forse quello sarebbe stato
l’unico modo
per farlo. «Voglio che tu mi trasformi».
Sul suo viso comparve una strana
espressione. Poi
tornò a fissarmi. «Credo che dovremmo
parlarne».
«Edward?» lo
chiamò dall’altro lato della porta la
voce di Carlisle.
Lui,
con un’espressione
seria e preoccupata mi fece alzare e mi aiutò a sciacquarmi
il volto.
«Bella, Carlisle ti
dovrebbe rifare le medicazioni
alle braccia» disse poi «te la senti?» mi
chiese scrutandomi.
Io annuii, nascondendo il volto sul
suo petto.
Non sembrava ancora convinto, ma
dopo un po’ sospirò,
guidandomi fuori dalla stanza. Ad attenderci oltre la porta
c’era Carlisle, con
un’espressione serena sul volto. «Venite, per di
qua» disse facendoci strada. Carlisle
era la persona con cui avevo interagito di più, dopo Edward
e Rosalie, in
quelle ultime due settimane. Sentivo che mi voleva bene come un padre,
ma il
nostro rapporto ultimamente era stato molto più medico che
familiare e questo
mi agitava un poco.
Varcammo la porta della stanza che
doveva essere
quella di Carlisle e Esme.
Un’atmosfera di quiete e
pace regnava incontrastata. Era come se quella stanza fosse il nucleo
di tutta
la casa, e irradiasse segnali positivi nel giro di chilometri.
«Siediti qui»
mi disse Carlisle, indicandomi una sedia
imbottita posta dinanzi ad una scrivania.
Feci come diceva, senza mai
staccare la presa dalla
mano di Edward, che stava dritto accanto a me.
Carlisle si sedette con una sedia
di fronte alla mia,
prese la sua borsa e accese un’intesa luce da lettura.
Titubante tolsi la mia mano da
quella di Edward, che
poggiò entrambe le sue mani sulle mie spalle, infondendomi
coraggio. Tesi le
braccia in avanti, verso Carlisle.
Lui fece un sorriso rassicurante e
cominciò a
sciogliere le bande con gesti veloci ed automatici, stando attento a
non
toccarmi mai.
Quando concluse la sua opera rimasi
senza fiato. L’avambraccio
era coperto da escoriazioni rosse e pulsanti. In alcuni punti, le
ferite
frastagliate e irregolari, sovrapponendosi, formavano dei solchi
più profondi,
chiusi da piccoli gruppi di uno o due punti. Deglutii, distogliendo lo
sguardo.
Ero stata io a farmi tutto quello.
Appoggiai la testa
all’indietro, contro Edward. Poco dopo sentii il fiato freddo
sul mio collo e
capii che si era abbassato alla mia stessa altezza.
«Mi dispiace»
sussurrai mesta, pensando al dolore che
dovevo avergli causato.
Lui mi accarezzò una
guancia. «Dispiace a me di non
averti fermato prima».
«Non avresti
potuto» sussurrai soltanto, ripensando
alla prigionia mentale che sentivo in quel momento. Il desiderio di
cancellare
quel tocco dalla mia pelle… Trasalii allo sfioramento di
Carlisle.
Si bloccò, e attese che
mi rilassassi e che gli dessi
il mio consenso prima di ricominciare. Sbendò anche
l’altro braccio, in
condizioni leggermente migliori rispetto al sinistro. Carlisle
esaminò le
ferite con lo sguardo. «Dovresti controllare se posso
togliere questi punti»
disse rivolto a Edward, indicandoli, «e anche
questi».
Distolsi lo sguardo, agitata.
Carlisle era fresco.
Come Rosalie. Come Edward. Come Alice. Mi feci coraggio, e presi la sua
mano
fredda fra le mie.
Lui sollevò lo sguardo
dalle mie braccia, sorpreso.
«Fallo tu»
sussurrai, lo sguardo basso.
Lui mi sorrise, mite. «Va
bene».
Mi controllò le suture e
tolse alcuni punti, poi fece
nuovamente il bendaggio. Mi strinsi al petto le braccia, più
leggere e pulite
di prima. «Grazie. Per tutto. Lo so che non è
stato facile. Che non ti ho reso
facile il compito, in questi giorni» farfugliai contrita.
«Apprezzo che tu me lo
dica, Bella, ma non mi devi
ringraziare. La tua famiglia è qui, e lo sarà
sempre quando ne avrai bisogno».
Edward mi posò una mano
sulla spalla. Mi sorrise,
rassicurante. «Diglielo».
Annuii. «Ho bisogno di
parlare con tutti voi».
Carlisle sorrise, mentre finiva di
sistemare le cose
nella borsa. «Riunione di famiglia. Andiamo».
Presi la mano di Edward e mi
strinsi a lui,
lasciandomi guidare verso il soggiorno. Lì tutti ci
aspettavano seduti, in
nostra attesa. Ci sedemmo sul divano bianco, di fronte a loro. Strinsi
con più
forza la presa sulle sue dita.
«Io e Bella dovremmo
discutere di qualcosa di
importante con tutti voi» cominciò Edward.
Chiusi e aprii le mani, poi mi feci
coraggio. «La mia
trasformazione» conclusi io.
Non notai una particolare reazione
nei loro volti. Se
lo aspettavano.
«Io vorrei
aspettare» disse Edward, rivolgendosi a me.
«Dopo tutto quello che è successo mi sembra giusto
aspettare».
«Sono
d’accordo» disse Carlisle, spiazzandomi. Mi fece
un sorriso mesto. «La trasformazione è qualcosa
che cristallizza il nostro
essere. Una volta trasformata i cambiamenti saranno quasi impossibili,
sarebbe
meglio che tu ti riprenda prima» mi spiegò,
esponendomi la sua teoria.
Abbassai il capo. Ormai
ero già dannata pensai,
ma non lo dissi. Avevo ucciso un essere umano, trasformarmi in un
essere
dannato non avrebbe cambiato le cose. Questo evento aveva cambiato la
mia prospettiva
sulle parole di Edward, su quanto tenessi alla salvezza della mia
anima. Potevo
ancora recuperare?
«Tu hai detto…
Fra quanto smetterò di prendere i
farmaci?» domandai flebile ad Alice.
I suoi occhi si assentarono solo un
attimo. «Non
passerà molto. Meno di un mese».
Sentii Edward irrigidirsi. Lo vidi
scambiare uno
sguardo d’incomprensione con il padre. Gli pareva troppo
poco, lo sapevo.
Pareva troppo poco anche a me, adesso che me ne sentivo così
dipendente.
«Non vedi
altro?» domandai speranzosa.
Scosse lentamente il capo, con un
sorriso mesto. «È la
tua decisione».
Mi guardai le mani, insicura. Le
braccia bendate, la
pelle che si sarebbe rimarginata e le ferite che non sarebbero mai
guarite. Sollevai
di nuovo il volto. «Due mesi» dissi decisa. Mi
voltai verso Edward «fra due
mesi mi trasformerai».
«Prima succede meglio
è per me» fece Emmett, deciso.
«Bella, tesoro, pensi di
potercela fare?» mi chiese Esme.
Deglutii. «Penso che ci
sono cose che non guariranno
mai» sussurrai con un filo di voce.
«Possiamo vedere come va
fra due mesi e discuterne
nuovamente» fece Jasper.
Mi voltai verso Rosalie.
«Noi ne abbiamo già parlato»
fece lei con un sorriso mesto «è ancora il tuo
desiderio?» domandò, incerta
della sua stessa domanda.
«Anche se dovessi essere
triste per l’eternità»
sussurrai, avvicinando la mia mano a stringere quella di Edward
«preferisco una
lunga eternità triste con lui, che una breve vita meno
triste senza di lui».
Carlisle mi guardò
intensamente. «C’è sempre la
possibilità di essere perdonati» mi disse dopo un
lunghissimo silenzio. «Non
farlo se pensi che ormai sia la tua unica scelta».
«Non lo
è?».
«No» mi disse
Edward lentamente, guardandomi con
estrema serietà.
Sospirai. «Anche se non
lo fosse, la mia idea non
cambierebbe. L’avevo già scelto prima».
I suoi occhi così scuri
rimasero fermi, come solo un
vampiro può fare. «Jasper ha ragione. Riparliamone
fra due mesi. Non sappiamo
cosa ci spingerà a sospendere la terapia così
presto, è possibile che starai
meglio, oppure…».
«Oppure?».
«Non lo so. Possiamo
riparlarne fra due mesi?» mi
domandò, chiedendomi implicitamente se mi fidassi ancora di
lui.
Mi arresi e decisi di fidarmi.
Mi abbracciò, stretta,
come per ringraziarmi.
«C’è
qualcos’altro di cui dovremmo discutere»
iniziò
cautamente Jasper.
Edward
s’irrigidì un poco.
«Non…» iniziò, ma fu
interrotto da Emmett.
«Gli umani. Dobbiamo
parlarne» fece Emmett,
richiamando l’attenzione su di sé.
«Gli umani?»
domandai agitata, liberandomi dalla presa
di mio marito.
«Sì, gli
umani» disse, alzandosi in piedi in tutta la
sua tonante statura. «L’ispettore Swan, tua madre,
tutta Forks».
«In che senso?»
chiesi allarmata.
Sentii un ringhio cupo nascere dal
petto di Edward.
Emmett sollevò un
sopracciglio, e poi esasperato le
braccia al cielo «Deve saperlo!».
«Alice non ha detto che
sarebbe andato così tanto
bene da poterglielo dire» sbraitò, infuriato.
Gli occhi della piccola veggente si
allontanarono, mentre
aveva un'altra piccola visione.
«Edward…» mormorò, alzandosi
in piedi, lo
sguardo perso. «Non ti agitare, peggiorerai le cose»
«Cosa devo sapere? Dirmi
cosa? Cosa c’è che non posso
sapere?» chiesi agitata, voltandomi verso Edward. Il suo
sguardo avrebbe
incenerito Emmett, e sentivo che si stava trattenendo, probabilmente a
causa
della visione di Alice.
Tutti gli altri ci fissavano
attenti, l’aria carica di
tensione.
«Edward?!»
chiesi ancora, il tono di voce lievemente
isterico.
Lui sospirò,
abbandonando la sua maschera truce, ma
non mi rispose.
«Bella» mi
chiamò Carlisle.
Mi voltai immediatamente verso di
lui.
«Ci sono stati alcuni
problemi» cominciò a spiegarmi.
«Il tuo rapimento è avvenuto in un locale pubblico
e con dei testimoni. Quindi
non abbiamo potuto nascondere nulla alla polizia, ancor più
perché la donna che
ha assistito alla scena ha identificato Jacob. Anche la polizia ha
condotto
delle ricerche e ormai la questione è di dominio
pubblico».
Sospirai, abbassando lo sguardo
verso il basso,
colpita. C’era un’importantissima domanda che
andava posta. «Come» deglutii,
risollevando lo sguardo «cosa avete detto?» chiesi.
Carlisle intuì quello
che volevo sapere. «Loro sanno
che Jacob è scappato dopo aver ottenuto il riscatto che
aveva chiesto».
Mi tranquillizzai lievemente.
«Mio padre?» chiesi con
voce tremante.
«Anche lui»
disse Carlisle, rassicurandomi.
Feci un sospiro di sollievo,
lasciandomi andare con la
schiena contro la spalliera del divano e chiudendo gli occhi.
«E i licantropi?»
chiesi riaprendo gli occhi, preoccupata.
Questa volta fu Jasper a
rispondermi. «Loro sanno
tutto».
Chiusi e riaprii molto lentamente
gli occhi.
«Era l’unico
modo» continuò risoluto «è
stata un’idea
mia e me ne assumo le responsabilità, se te la devi prendere
con qualcuno
prenditela con me. Ma se gli avessimo detto che fosse stato uno di noi
a
ucciderlo, anziché te, il patto sarebbe stato considerato
rotto. Invece così è
stata solo legittima difesa. Lo so che è doloroso per te, ma
ti ripeto è stata
solo è unicamente una mia decisione».
Alzai un braccio. «Va
bene. Ti capisco» presi un
grosso respiro. Solo in quel momento stavo realizzando che se fosse
stato
Edward a ucciderlo al posto mio, si sarebbe scatenata una sanguinosa
guerra. Presi
un respiro più profondo. Non capivo come, ma questo mi
faceva sentire solo un
po’ meglio.
«Come l’hanno
presa? Billy?» chiesi ancora.
«Non è facile,
Bella. Billy è stato ripudiato» rispose
Esme con dolore
«ha detto che non era più suo figlio,
ma un figlio ti rimane per sempre dentro, non importa cosa faccia o se
sia vico
o morto. Soffre
molto, per lui e per
quello che ti ha fatto. Come tutti noi vorrebbe che tutto questo non
fosse mai
accaduto».
Poggiai schiena sul petto di
Edward, che mi strinse da
dietro con le braccia. «Stai bene?» mi chiese in un
sussurro, avvicinando la
bocca al mio orecchio.
Avevo ancora la nausea, ma avevo
deciso di non
pensarci. Strofinai una mano sul suo braccio freddo.
«Sì» mormorai, lasciando
andare il capo contro la sua spalla.
«Stanca?» mi
chiese Rose venendomi accanto e
accarezzandomi i capelli.
«Sì»
sussurrai ancora. Ero così intontita e stremata.
È stata una giornata
lunga» disse Edward, prendendomi
fra le braccia e sollevandosi in piedi «ti porto qualcosa da
mangiare in
camera, riposati un po’».
Appoggiai la testa sul suo petto,
salutando con una
mano il resto della famiglia, che ricambiarono al mio saluto con dei
sorrisi e
delle parole cortesi. Sbadigliai ancora e mi portai la mano alla bocca.
Mangiai la mia cena in camera,
insieme a Edward.
«Finito» dissi,
sperando di farlo felice. Ero riuscita
a mangiare un intero piatto di carne.
«Brava» disse
Edward contento prendendolo dalle mie
mani. «Vuoi la frutta?».
Feci una smorfia. Sapevo che non
potevo spingermi
troppo oltre, se non volevo che finisse come il pranzo. «No,
mi dispiace».
«Come vuoi, non ti
preoccupare» mi rassicurò con un
sorriso.
«Bella» mi
chiamò Rose dal bagno «ti ho preparato il
pigiama».
Mi sollevai dal letto, sorridendo.
Accidentalmente,
l’orlo del vestito si sollevò più del
previsto, fino a mostrare buona parte
della coscia. Mi irrigidii totalmente, voltandomi verso Edward.
Era immobile. Fissava i graffi con
un’espressione
dolorosa in volto. Non dissi nulla e non mi mossi. Eravamo entrambi
immobili.
«Bella, tutto
ben…» Rosalie si interruppe, capendo
quello che era successo.
In fretta riabbassai la stoffa,
arrossendo e
abbassando lo sguardo. Non volevo che lui soffrisse. Passarono alcuni
istanti
di interminabile silenzio. Nessuno si era mosso.
Poi sentii delle braccia fredde
intorno alle spalle.
«Mi dispiace tanto Bella» disse Edward
abbracciandomi.
Risposi al suo abbraccio.
«L’ho detto» mormorai a fior
di labbra «ci sono ferite che guariranno. Altre no. Per
fortuna queste sono fra
quelle che guariranno».
«Guariranno
tutte» mi promise, mettendo una sua mano
fredda sulla mia «ti aiuterò io».
Quella notte dormii accanto a
Edward, abbracciata a
lui. Non mi impedì di avere degli incubi e di svegliarmi
sudata e urlante. Ma
almeno, quando mi svegliai, avevo ad accogliermi le fredde braccia di
mio
marito.
Quando fui sveglia e lucida gli
sorrisi, debolmente.
«Ehi».
«Ehi» fece lui,
mettendomi un dito sulla punta del
naso. «Sai che giorno è oggi?».
Sgranai gli occhi. Mi sentivo come
un’alunna che non è
preparata per l’interrogazione.
Edward rise della mia espressione.
«Oggi è il 13
Settembre, sciocchina, tanti auguri!».
Mi portai una mano alla testa,
disorientata. Un altro
compleanno. «Accidenti, diciannove anni».
Rise della mia espressione.
«Quando arriverai a 105 mi
dirai cosa si prova».
Sorrisi, e mi stupii di poter
essere divertita. Mi
accoccolai fra le sue braccia, rassicurata dal freddo del suo corpo.
Volsi lo
sguardo verso l’ampia vetrata, titubante.
«Com’è il tempo oggi?».
«Freddissimo»
disse Edward con un sorriso.
Lo guardai, facendomi coraggio.
Dopotutto, il giorno
precedente non era andata troppo male.
«Bene» dissi, sollevandomi
malamente in piedi. Andai a spalancare la finestra e inspirare a pieni
polmoni
l’aria ghiacciata che mi pungeva la pelle.
«Perfetto» ribadii, rabbrividendo.
«Bella» mi
chiamò Edward incerto «fa davvero molto
freddo, ti verrà un malore, ti sei appena ripresa».
Mi voltai, e sorrisi debolmente di
lui. «Un malore»
dissi scherzosa imitando la
sua voce, ma lasciai che chiudesse le imposte.
«Ti prendi gioco di
me!?» disse lui fingendosi
scandalizzato e ridacchiando insieme a me. Poi cambiò
espressione. «Amore» mi
chiamò, sistemandomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Ecco… Alice si
chiedeva se poteva parlarti» poi si avvicinò con
la bocca al mio orecchio,
sussurrando a bassa voce «Non te la prendere con lei, non
voglio che tu faccia
qualcosa forzatamente, ma valuta la sua proposta, ne sarebbe molto
felice».
Capii che aveva a che fare con il mio compleanno. «Ti
assicuro che si è contenuta
tantissimo, non è nulla di che».
Sospirai, chiudendo gli occhi. Non
ero in vena di
affrontare una festa di compleanno, ma Edward aveva ragione. Alice
aveva
sofferto tanto a causa mia e meritava una piccola felicità.
E poi ero sicura
che anche tutti gli altri ne sarebbero stati contenti.
«Lasciami prima prendere
i miei psicofarmaci» dissi infine, con solo una punta di
scherzo nella voce.
Edward mi sorrise, passandomi la
boccetta dal comodino.
Appena ebbi finito di ingoiare la
compressa sentimmo
bussare, e la porta si aprì dolcemente, lasciando passare
Alice e Rosalie. Avrei
preferito che i calmanti iniziassero a fare effetto prima di parlare
con
qualcuno che non fosse Edward. Mi feci coraggio. Alice mi porse una
scatola
bianca rettangolare, poggiandola sul letto. Muoveva nervosamente una
mano
contro l’altra. «È… non
è nulla di che… non devi metterlo per
forza… solo se ti
va» disse balbettando.
Annuii, sforzandomi di sorridere.
Ci stavo provando,
davvero, a far tornare ogni cosa come prima. Mi andai a sedere sul
letto e faci
cenno a lei di sedersi accanto a me. Mi misi la scatola in grembo e
l’aprii.
C’era un vestito color avorio, di una stoffa con dei motivi a
rilievo e con
delle impunture color cioccolato. Per un attimo nella mente si
proiettò
l’immagine di Jacob e dei vestiti che aveva rubato a casa di
mio padre. Scossi
il capo e mandai giù l’ondata di nausea che mi
aveva investito. «È molto
carino» dissi infine «lo metterò di
sicuro».
Lei sorrise, speranzosa. Poi
tornò titubante e
impaziente. «Posso darti gli auguri?».
Annuii. «Sì,
va bene» e mi feci abbracciare da lei.
Poi me li feci dare anche da
Rosalie. «Auguri Bella»
mi disse con un sorriso. «Cosa vuoi fare oggi?».
«Io avrei
un’idea» risposi incerta, guardando di
sottecchi Edward.
Annuì con un sorriso.
Circa un’ora dopo, mi
ritrovavo a fare una passeggiata
nell’enorme giardino dei Cullen,
con il mio nuovo
vestito e in compagnia di Edward.
«Come stai?».
Mi voltai verso di lui con un
sorriso. Non pensavo
davvero che fosse possibile, ma mi sentivo piuttosto bene. Davvero,
tanto che
avevo paura che da un momento all’altro sarebbe successo
qualcosa e che quel
momento di pace sarebbe finito. Avevo freddo, e il freddo passava sotto
il
soprabito che mi avevano fatto indossare, mi arrivava al cuore e mi
placava.
Non avevo neppure la nausea quel giorno. Mi strinsi al suo braccio,
beandomi
maggiormente della sua temperatura. Rabbrividii.
«Ricorda, non vogliamo
che ti ammali» mi riprese
Edward, mettendomi in spalla il suo giaccone.
Sospirai. «Va
bene».
Rimanemmo fuori a girovagare per
non so quanto tempo. Niente
che non potessi controllare, ogni cosa che facevamo da quando avevo
iniziato a
riprendermi era pensata e misurata. Poi ci fermammo per fare un piccolo
pic-nic,
solo io e lui. Continuavo a controllare il giardino, in tutto il suo
perimetro
e fino al limitare del bosco. Lì si perdeva il mio sguardo,
spaventato di cosa
ci potesse essere dietro agli alberi. Mi ero fatto rassicurare
più e più volte
da Edward che non avvertiva alcun pensiero a distanza di un chilometro,
oltre e
quelli della sua famiglia.
C’era ancora
così tanta strada da fare. Mi bastava
chiudere gli occhi per vedere i suoi occhi sgranati e sentire
vividissime le
mie urla. Tentavo di non pensarci. Tentavo di pensare a Edward che era
accanto
a me, tentavo di pensare al suo corpo freddo, e tentavo di pensare che
quello
che avevo fatto era veramente servito a qualcosa e che era stato un
gesto
necessario. Purtroppo però non c’era verso di
pensarla allo stesso modo per
quello che lui aveva fatto a me.
«Amore» mi
chiamò Edward preoccupato. «Piangi?».
Senza dire nulla mi sollevai dalla
tovaglia e andai a
mettermi fra le sue braccia, asciugandomi le lacrime. Nuove immagini
terribili
cominciarono ad affiorare nella mia testa, e ringraziai il cielo che
Edward non
potesse leggere nella mia mente. Non riuscivo a calmarmi,
l’ansia cresceva
sempre di più, a io non volevo piangere di nuovo. Sentivo
ogni tanto il bisogno
di impormi un respiro forzato, come se ci fosse qualcosa a comprimermi
i
polmoni o come se avessi paura di non riuscire a respirare. Odiavo
così tanto
quel momento che sembrava stesse rovinando quel giorno finalmente
perfetto.
«Edward. T-ti
prego» biascicai querula, desolata che
la mia tranquillità per quel giorno iniziato così
bene fosse finita così in
fretta «Ho bisogno di calmarmi» farfugliai, e
sapeva cosa stessi cercando.
Mi fissò con attenzione.
«Non è passato molto tempo
dalla prima compressa».
Singhiozzai, portandomi una mano al
collo. Eccola, di
nuovo, la sensazione di non riuscire a respirare. «Non ci
riesco».
Esitò. Poi estrasse
dalla tasca del suo giaccone,
posato sulle mie spalle, il flaconcino con i farmaci. Mise sul palmo
della sua
mano l’ultima compressa che rimaneva, poi mi porse una
bottiglietta d’acqua.
La ingoiai in un sorso,
rimettendomi fra le sue
braccia lasciandomi cullare. Bastarono pochi minuti, e mi calmai.
«Scusa» farfugliai,
la bocca già più impastata «stava
andando così bene».
Lui mi strinse a sé,
coprendomi con il suo giaccone. «Non
so veramente come Alice…» mormorò,
guardando in lontananza. Scrollò le spalle.
«Non ti preoccupare, chiederemo a Carlisle
com’è meglio comportarci e vedremo come
aggiustare la terapia».
Qualche minuto dopo Alice e Rosalie
ci raggiunsero.
Alice si morse il labbro, incerta.
«C’è una torta di
là, e anche gli altri vorrebbero darti gli auguri, cosa ne
pensi?».
«Andiamo» dissi
con un debolissimo sorriso a Edward.
Entrammo insieme a casa, ma lui mi
teneva su per i
gomiti, come se avessi paura che cadessi. Mi sentivo intontita. Edward
si
riprese il giaccone prima che potessi lamentarmi per il caldo, e lo
appese
all’appendiabiti nell’ingresso. Poi entrammo in
salotto.
«Auguri
Bellina!» esclamò Emmett stritolandomi nella
sua presa.
Tutti s’irrigidirono,
preoccupati per una mia reazione,
ma io, complice la mia doppia dose giornaliera, mi rilassai fra le sue
braccia,
ricambiando il suo affetto con una breve risatina fiacca. Mi sentivo
già meglio
e l’intorpidimento stava scemando, lasciando il posto ad una
innaturale quiete.
Anche gli altri mi fecero gli auguri. Jasper si tenne a distanza.
Probabilmente
in altre occasioni l’avrebbe fatto anche lui, ma i suoi occhi
erano scurissimi,
come quelli del resto della famiglia.
Fu una bella serata, e i miei
incubi non riuscirono a
rovinarla. Soffiai sulle candeline per spegnerle - tutte e diciannove -
e
desiderai che la mia vita potesse tornare felice come lo era stata un
giorno.
Fortunatamente, a parte Alice, nessuno mi aveva fatto regali. Rosalie
accese la
musica e si mise a ballare con Emmett. Erano davvero stupendi insieme.
Quando
finirono sorridevo contenta e mi voltai verso Edward. Era molto felice.
Eravamo
entrambi di nuovo pieni di speranza per il futuro.
Anche tutti gli altri andarono a
ballare, e io mi feci
trascinare da Edward. Ballare.
Chi
avrebbe mai pensato che sarei tornata a ballare, calma e serena fra le
braccia
di mio marito?
Dopo un po’ mi dichiarai
esausta, e mi andai a sedere
sul divano. Edward continuò a ballare con Esme,
mentre le altre coppie ancora volteggiavano per il salone. Carlisle
venne a
sedersi accanto a me.
Mi sporsi verso di lui, facendogli
segno di
avvicinarsi. «Dobbiamo parlare» sussurrai ad un suo
orecchio, a voce bassissima
«della caccia» aggiunsi.
Lui si ritirò sullo
schienale e mi fece l’occhiolino.
«Champagne!»
esclamarono Alice e Rosalie portando il
secchiello con il ghiaccio.
«Cioè
praticamente solo per me» esclamai incerta «non
ne vale la pena».
Vidi Edward lanciare
un’occhiata a Carlisle e muovere
velocemente le labbra. Lui fece un piccolo sorriso e un cenno
affermativo.
Bevvi appena un sorso di champagne,
ma il resto non
andò sprecato. Emmett e Jasper fecero una scommessa: chi
riusciva a berne di
più.
«Ma non gli
farà male?» chiesi a Edward.
Lui fece spallucce. «Non
credo, ma io non berrei
comunque quella roba, ha un odore orrendo…».
Poco dopo Emmett, che aveva vinto
contro Jasper, venne
e reclamarmi per ballare. Fu molto più divertente - anche se
meno romantico -
che ballare con Edward, dato che mi strapazzava come un peluche
facendomi
volteggiare per aria.
La festicciola procedeva bene. Ero
contenta, anche se
un po’ stanca.
«Andiamo a prendere i
puzzle?» propose Alice,
euforica.
«Sì! Facciamo
gara di puzzle!» esclamò contento
Emmett.
«Per te va bene
Bella?» mi chiese Edward, speranzoso
ma preoccupato di tirare un po’ troppo la corda per quella
sera.
Era così bello potermi
sentire di nuovo anche solo un
po’ normale. Volevo solo distrarmi. E poi sapevo che tutti ne
sarebbero stati
contenti. Annuii.
Alice e Rosalie presero quattro
scatole di puzzle da
mille miliardi di pezzi. C’era da aspettarselo da dei
vampiri. Sotto loro
esortazione andai a scegliere il disegno che più preferivo,
lasciando Edward
seduto sull’ultimo gradino delle scale.
Mentre stavo andando verso il
tavolo del salotto alle
mie spalle tuonò il vocione di Emmett. «Ehi
Bellina, non vorrai mica stare in
squadra con Edward vero? Non preferisci il tuo fratellone?».
Mi voltai per ribattere, ma
nonostante mi fossi
fermata, sentii a testa continuare a girare. Travolta
dall’improvvisa ondata di
vertigini sentii le gambe cedere e la vista offuscarsi. Poco prima di
toccare
il pavimento sentii delle braccia fredde afferrarmi.
Avevo una completa percezione delle
voci di chi mi
stava intorno, e che mi chiamavano, e anche delle braccia che mi
stringevano il
busto mentre ero stesa sul pavimento.
«Bella, mi
senti?» chiese Carlisle.
Sentii dei colpetti freddi sul
volto. Sbattei le
palpebre velocemente, aprendo gli occhi. Aspettai che
l’immagine sdoppiata di
Carlisle, e di tutta la famiglia alle sue spalle, diventasse una sola.
La
confusione si diradò velocemente. Ero fra le braccia di
Edward, che mi guardava
preoccupato. Mi sollevai con il busto.
Carlisle mi mise le mani sulle
spalle, costringendomi
a rimettermi stesa. «Stai giù» mi
ordinò. Esme
mi
teneva le gambe sollevate.
«Io…»
balbettai «non so cosa è successo…
è stato… solo
un forte capogiro…» dissi portandomi una mano alla
testa.
Edward mi mise una mano sulla
fronte, cancellandomi il
sudore e lasciandomi un bacio.
Tutti mi guardavano
dall’alto, preoccupati. Le loro
immagini incombevano su di me. Mi sentivo soffocare. Ansimai lievemente.
«Ragazzi, state
indietro» disse Carlisle intuendo i
miei pensieri. Prese il mio polso fra le dita, con delicatezza. Poi mi
passò
una mano sulla fronte e sotto la gola.
«Ha la pressione un
po’bassa» disse infine. «È
successo
tutto in un istante o ti sentivi male già prima?».
«No» farfugliai
«è stato quando mi sono voltata».
Lui mi osservò
attentamente. «Non è il caso di
preoccuparsi più del necessario, è stato solo un
lieve mancamento».
Io chiusi gli occhi, stringendomi a
Edward e gemendo
piano. Era ritornata la nausea. «Sarà stato lo
champagne» mormorai poi
debolmente, riaprendo gli occhi con un debolissimo sorriso.
Carlisle mi sorrise e mi fece una
carezza. «Ti gira
ancora la testa?».
Scossi il capo. «Ho un
vago senso di vertigini» chiusi
gli occhi.
Mi sentii sollevare da Edward.
«Ti porto in camera a
riposare».
Aprii le palpebre, allarmata.
«Ma… i puzzle»
balbettai, guardando rapidamente gli altri. Erano incerti e preoccupati
e
sviavano il mio sguardo.
«Amore» mi
ghermì delicatamente Edward, catturando la
mia attenzione «è stata una lunga giornata e sei
tanto debole. Non è colpa tua»
aggiunse, a beneficio del mio labbro tremante e del senso di colpa che
mi si
leggeva in faccia «sarebbe stato molto molto faticoso per
qualunque umano. E
poi» aggiunse, misurando le parole per paura di turbarmi
«c’è stata la doppia
dose di calmanti. Possiamo fare i puzzle domani se ti va».
Sentii gli occhi inumidirsi e le
lacrime bussare alla
loro porta. Deglutii, decisa come non mai a non piangere ancora.
«Mi dispiace,
sono ancora solo un’umana» provai a scherzare
debolmente, ma la voce mi uscì
roca e spezzata. Abbassai le palpebre stanche e provai sollievo.
Mi sentii sollevare e appoggiai la
testa sul petto di
Edward.
«Non dovrebbe essere
nulla di grave, ma se non ti
senti bene non esitare a chiamarmi» disse la voce di Carlisle.
Mi decisi a tenere le palpebre
chiuse, preoccupata di
mostrare nei miei occhi tutta la mia debolezza. Sentivo nella stanza un
innaturale silenzio.
«Su ragazzi, non fate
quelle facce, Bella sta bene».
Sorrisi debolmente alle parole di
Carlisle, e sperai
che addormentarsi sarebbe davvero stato facile.
Guardai Bella, mentre scherzava
timidamente con mia
sorella Alice.
Aveva un piccolo sorriso e le
fossette alle guance.
Era proprio un angioletto, il mio angioletto. Nell’ultima
settimana aveva fatto
davvero tanti progressi per riprendersi dalla sua crisi, ed ora si
stava
riposando dopo la psicoterapia con Rose.
Ricordavo perfettamente il suo
volto quando l’avevo
trovata nella baita in montagna con il randagio rognoso.
Al suo solo pensiero vidi i muscoli
delle mie braccia
tendersi. Dovevo calmarmi. Mia sorella Rosalie, con i suoi pensieri me
lo
ricordava sempre, così non facevo altro che spaventare
Bella.
Ma come potevo dimenticare quello
che le aveva fatto?!
Era terrorizzata. Era semplicemente terrorizzata. E avevo una folle
paura di
toccarla, di sfiorarla, perché sapevo che questa volta
c’era molto più della
sua carne, molto più del suo corpo da ferire. Non volevo
ferire la sua anima
già irreparabilmente lesa.
Ricordavo con la precisione della
mia mente vampira il
momento in cui si era risvegliata, nella mia camera. Rosalie diceva che
era
meglio portarla nella nostra vecchia casa, l’ambiente
famigliare e la vicinanza
con tutti gli altri l’avrebbe aiutata a superare il trauma
vissuto.
Non riuscivo neppure a
immaginare… chissà quali enormi
pene, non ancora confessate, aveva dovuto subire.
La prima settimana era stata un
inferno. Tentavo in
ogni modo di esserle accanto, di cancellare ai suoi occhi il mio
dolore, in
modo che mi sentisse vicino e potesse riprendersi. La vedevo stare
immobile,
abbandonata sul letto, e mi sembrava solo un corpo, un guscio vuoto
inerme. La
vedevo piangere, la vedevo urlare dopo aver fatto un incubo e la vedevo
sgranare i suoi occhi color cioccolato, imprigionati
nell’angoscia. E mi
sentivo irrimediabilmente impotente. La vedevo fra le braccia di Rose,
che
confortandomi con i suoi pensieri la portava in bagno per medicarla.
Quanto avrei voluto stare accanto a
lei a tenerle la
mano, a rassicurarla, a confortarla! Ma non si poteva fare, e Rose non
mi
poteva dire nulla, solo lei, solo Bella avrebbe potuto farlo.
Ma il tempo passava, e nulla
migliorava. La vedevo lì
nel letto, pallida, smunta, con un ago nel braccio per la sua
ostinazione a non
voler mangiare, a non voler parlare, a non voler muoversi. A non voler vivere.
Carlisle ci stava davvero male.
Lui, il più sicuro e
ottimista della famiglia, non l’avevo mai visto
così abbattuto, ma la sua
frustrazione nasceva dal rifiuto di Bella di essere aiutata. Dal non
poter
svolgere il suo mestiere, a cui aveva dedicato una vita.
Anche tutto il resto della famiglia
soffriva. Emmett
non scherzava più, Esme
cucinava e buttava nel
cestino tutti i pasti rifiutati da Bella, Rosalie stava perdendo la
speranza,
Jasper soffriva nel sentire tutte le sue e le nostre tristissime
emozioni e
Alice… Alice era quella che stava peggio. Dopo di me
ovviamente.
Non riusciva a capire come Bella
avesse potuto
scegliere un destino del genere, come avesse potuto cancellare quel
futuro in
cui loro erano sorelle e vampire. Non riusciva ad accettarlo.
L’unico che riusciva
ancora a sperare, mascherando
così il mio immenso dolore, ero io. Tutto
questo è impossibile. Mi ripetevo. Bella
mi ama e io amo lei, nient’altro conta.
Ma non potevo ignorare la mia gola
che ardeva di
dolore. Perché quel dolore non aveva nulla a che fare con la
sete. Quel dolore
era la mia esistenza, l’unica scintilla lucente di vita,
donatami da Bella, che
si stava spegnendo, congelata nel mio corpo di ghiaccio.
E tutto quel dolore, portato avanti
da una finta
maschera di speranza, esplose nel giorno in cui Alice non
poté più tacere.
Vidi nei suoi pensieri cosa aveva
detto a Bella, subito dopo il mio ennesimo tentativo di parlarle, e mi
fiondai
immediatamente in casa, prendendo la mia sorellina tra le braccia e
calmando i
suoi singhiozzi. Potevo consolare almeno lei…
Ma poi, una visione… la
più terribile che Alice
potesse avere. Bella, la finestra, il salto. Il suo corpo esanime in
una pozza
di sangue. Immediatamente sentii i muscoli scattare e non mi curai
più di
seguire una velocità umana, ma mi precipitai a chiudere
l’oggetto, causa della
morte della mia unica ragione di vita.
Purtroppo, sul suo volto, nacque
un’espressione ancor
più dolorosa. Sentivo fortissima nella mia mente la sua
sofferenza, non solo
tramite i pensieri di Jasper, ma anche grazie al particolare contatto
che ci
legava.
Gridò, disperata. E
sentivo ancora il suo grido
inumano nelle mie orecchie, una straziante richiesta d’aiuto
non espressa.
A quel punto ogni mia certezza
cadde. Ogni speranza.
Lei non era più lei. La mia solare, forte, spensierata,
timida e stupenda
moglie.
Il suo dolore, immenso, era troppo
grande. Lo leggevo
nei pensieri di mio padre. Per un umano era impossibile superare tutto
quello.
Il rapimento, la violenza, l’omicidio. Come avrei voluto
farmi peso di tutto
quel dolore! Impossibile. Parola
mai
esistita nel mio vocabolario di un mondo che rende possibili anche le
più
strane e orrende fantasie dell’uomo.
In quel momento, però,
entrambi ci facevamo del male.
Bella, chiudendosi sempre più dentro di sé, ed
io, che potevo solo stare a
guardare, immaginare le immense dimensioni del suo dolore e tentare di
spartirlo con la metà della mia anima che dovevamo ancora
avere in comune.
Dolore, solo dolore.
Ma poi, non so perché,
non so se a causa delle parole
di Alice o di un’improvvisa lucidità, Bella mi
aveva parlato, aveva detto il mio
nome. La sua voce era tremante, aliena, piena di tutta la disperazione
che
provava. Ma era la sua voce e io ne avrei contemplato ogni
più musicale nota.
Peccato che solo pochi minuti
più tardi, la situazione
si era completamente capovolta. Era stato uno strazio terribile vederla
ferirsi
a quel modo davanti ai miei occhi. Ancor di più
perché la scelleratezza di quel
gesto mi faceva capire quanto dovesse essere grande la sua angoscia.
Non potei più aspettare,
non più. Non potevo più far
tacere il mio istinto umano - risvegliato solo da lei - che mi gridava
nella
testa: aiutala! Salvala!
E così, le nostre anime,
stracciate in due parti dal
dolore, si erano fuse nuovamente insieme. E in quel momento
l’avevo capito, ne
avevo finalmente la certezza. Lei aveva bisogno di me. Non
c’era bisogno che me
lo chiedesse ancora, perché lei lo aveva detto: Ti amo.
E così era cominciata la
sua lenta guarigione. Parola
dopo parola, contatto dopo contatto. Era fragilissima, pronta a
chiudersi
ancora su sé stessa, e i lunghi pianti che sfogava contro il
mio petto potevano
solo farmi immaginare quanto soffrisse. Sapevo che tentava di
controllarsi,
sapevo che faceva di tutto per reprimere quelle lacrime che aveva paura
di
versare per amor mio. E tutto questo mi dimostrava ancor di
più quanto
altruista dovesse essere il mio amore, che si preoccupava di essere
stata la
causa di un essere immondo che aveva usto - non sapevo ancora fino a
che punto
- violenza su di lei.
Per ogni cosa che facevo, toccarla,
parlare,
guardarla, dovevo controllarmi. Tentavo di ricordare tutto quello che
la
potesse portare a dei ricordi dolorosi ed evitavo di farlo.
Dovevo aver pazienza, dote che
grazie al cielo non mi
mancava. Ma che sembrava invece mancare ogni tanto a Rose.
Bella era fragile, ci mancava poco
a farla sprofondare
nuovamente nel suo baratro. Una qualsiasi cosa le faceva mozzare il
respiro in
gola, la faceva tremare, la faceva scoppiare in lacrime. Ma io mi
sentivo bene.
Nonostante il costante dolore che provavo, mi sentivo bene
perché sapevo di
poterla aiutare.
E poi ora si era ripresa
così bene. Leggevo sempre nei
suoi occhi il bisogno di me. Quando mi allontanavo anche solo di
qualche metro,
mi richiamava a sé. E se poi se chiedevo se ci fosse
qualcosa che non andasse
lei scuoteva il suo piccolo capo, facendo ondeggiare i suoi lunghi
capelli, e
mi abbracciava. Aveva solo bisogno di me.
«Amore, torno
subito» dissi avvicinandomi a lei.
Mi regalò un piccolo
sorriso. «Stai andando da
Carlisle?».
Mi sorprese il fatto che
l’avesse scoperto così
facilmente. «Sì»
dissi solo. Sapevo che non ne voleva
sentire parlare di medicine e non voleva che mi preoccupassi -
inutilmente
diceva lei - per la sua salute.
Ma il suo sorriso, stranamente, si
aprì ancor di più
«Bene» disse, tendendosi con il volto verso di me.
Capii cosa voleva, così
mi chinai verso le sue labbra
e la baciai. Erano così rari quei momenti, che non
desideravo altro che
sfruttarli per renderla più felice e serena.
«Entra
figliolo»
mi disse mentalmente Carlisle quando fui davanti alla porta del suo
studio.
Entrando, mi chiusi la porta alle spalle.
Da quando Bella aveva avuto quel
mancamento durante la
festa del suo compleanno, mi sentivo molto nervoso e preoccupato. Lei
diceva
sempre di sentirsi bene, che non c’era nulla che non andasse.
Ma la vedevo ogni
tanto portarsi una mano alla pancia, o alla bocca, e chiudere gli
occhi. Come
se stesse avendo un conato di vomito o un capogiro. Ero molto
preoccupato.
«Sei
ancora in
pena per Bella?».
Annuii.
Mio padre mi fece segno di sedermi
su una poltrona
accanto alla sua. Era un gesto umano e non necessario, ma serviva a
creare un’atmosfera
tranquilla. «È successo qualcos’altro?
Ti ha detto qualcosa?» mi chiese serio.
Attraversai la stanza alla mia
velocità, sedendomi
sulla poltrona indicata da Carlisle. «No, lo sai che non mi
dice nulla…
minimizzava già prima, figurati adesso. E così
non fa altro che farmi
preoccupare di più» confessai sconfortato.
Mio padre mi fece leggere i suoi
pensieri. Lui era
piuttosto tranquillo, ma riconosceva che lo svenimento accostato alla
sua
perenne nausea poteva destare qualche sospetto. Tuttavia
aveva fatto i controlli di base, e non aveva trovato nulla che non
andasse in
Bella. Avrebbe voluto fare delle analisi più approfondite,
ma Bella si era
categoricamente rifiutata di andare in ospedale. Figurarsi che per ora
era solo
riuscita a fare qualche telefonata a suo padre e sua madre.
«Sì hai
ragione» ammisi io allora, sconsolato. «Ma
come te lo spieghi allora il suo malore, la nausea?».
«Edward,
potrebbero anche essere dei piccoli attacchi di panico. Non
mi sembra il
caso di tartassarla con delle domande sulla sua salute, potrebbe
sentirsi
oppressa e reagire contrariamente a come vogliamo che
reagisca».
«Già…
ma se non sono attacchi di panico? Che cosa
potrebbe essere, lo champagne?»
chiesi sarcastico. Impossibile che fosse davvero così. Bella
non avrebbe potuto
bere dell’alcool con la terapia di benzodiazepine,
così per il suo compleanno
Alice aveva preso uno spumante analcolico.
«Credo che sarebbe bene
aspettare, se si dovessero
presentare dei sintomi rilevanti o se la nausea dovesse ancora
perdurare,
allora faremo immediatamente degli altri controlli» mi disse
Carlisle. Poi mi
mise una mano sulla spalla. «Sta continuando a prendere una
sola compressa al
giorno?».
«Sì, dal
giorno del suo compleanno» dissi, passandomi
una mano fra i capelli. Era molto migliorata dal punto di vista
dell’umore, e
ne ero molto felice. Ormai parlava tranquillamente con il resto della
famiglia,
mangiava più o meno regolarmente, e scherzava persino. Stava
palesemente
meglio. Certo, ogni tanto si perdeva in lontananza con lo sguardo, o
senza che
neppure se ne accorgesse dai suoi occhi scendevano
alcune lacrime. Ma per fortuna, con la mia presenza o quella di Jasper,
riusciva a riprendersi in fretta, come se nulla fosse successo.
«Come sta? Ha avuto delle
altre crisi?» mi chiese mio
padre interrompendo il veloce flusso dei miei pensieri.
«Fortunatamente solo una
volta». Sospirai. «Il
problema è la notte… Si sveglia più
volte urlando e poi ci rimette tantissimo a
riaddormentarsi. Per questo è sempre così
stanca».
Carlisle aprì un
cassetto della sua scrivania e prese
dei fogli. «Forse dovremmo abbinare dei sonniferi per la
notte, e vedere così
come va. Manda Emmett in farmacia a
prenderli».
«Edward»
sentii nella mia testa il richiamo di mia sorella Rosalie. «Bella sta aspettando te per mangiare. Mi
sembra piuttosto agitata… Non so… Ha detto di non
disturbarti e che ti
aspetterà, cosa stai facendo ancora lì?».
«Cosa
c’è?» chiese mio padre notando il mio
sguardo
assente.
«Bella…
Rosalie dice che è strana…». Corrugai
le
sopracciglia. C’era qualcosa che mi padre non mi aveva detto,
per cui Bella era
agitata. «Che cosa mi devi dire?» chiesi curioso.
Mio padre mi sorrise. «Dobbiamo parlare».
Lo invitai a proseguire.
«Bella è molto
perspicace, lo è sempre stata. Ha
notato che non andiamo a caccia da un po’ - più di
tre settimane per l’esattezza
- e che la maggior parte di noi fatica a starle accanto» modo
gentile per
escludersi «così mi ha chiesto di dire a tutti che
vorrebbe che andassimo a
caccia, stanotte per la precisione».
Lo guardai stranito. I suoi
pensieri mi dicevano che
si aspettava una reazione da me, ma io non capivo. «Certo, va
bene, andate
pure» dissi dopo un po’.
«Edward»
mi
richiamò mentalmente mio padre «anche
tu».
Improvvisamente mi alzai a
velocità inumana, facendo
cadere la sedia a terra. «Lasciarla?» chiesi
sbigottito «lasciarla sola?!».
«Edward,
calmati» mi disse Carlisle sia con i pensieri
che con le parole.
«No che non mi calmo! Io
non la lascerò affatto».
Carlisle sospirò,
scuotendo il capo. «Sapeva che
avrebbe reagito così».
Ora capivo il motivo della sua
agitazione.
Impossibile. Io non l’avrei lasciata. Affatto. Decisamente
impossibile.
«Vuoi aspettare fino al
giorno della sua
trasformazione? Fra due mesi?» chiese Carlisle con un
sopracciglio alzato.
«Perché
no» feci, non credendo neppure io stesso alle
mie parole.
Carlisle sospirò.
«Bene. Non
aspetterò due mesi, ma non verrò neppure
stanotte con voi. Non ho intenzione di lasciarla completamente
sola» dissi
determinato, battendo un pugno sulla scrivania. Se non fosse stata di
legno
massello si sarebbe già rotta.
«Invece
dovresti» mi disse Carlisle, con la mia stessa
convinzione. «Primo, perché nei hai bisogno, non
vai a caccia da un mese, e non
puoi ridurti in questo stato, guardati» disse indicando la
mia immagine allo
specchio.
Avevo due ustioni al posto delle
occhiaie e le guance
tirate. Gli occhi… erano neri come una notte senza stelle.
Distolsi lo sguardo.
Avrei sopportato un’altra notte.
«Secondo» fece
ancora Carlisle «perché mi ha chiesto
di rimanere sola».
«Te l’ha
chiesto lei?» chiesi sbigottito.
Poi sentii dei passi umani e un
respiro pesante dietro
la porta.
«Entra, Bella»
disse Carlisle, lanciandomi un’occhiata
ammonitrice.
Lei aprì titubante la
porta e entrò nello studio con
passo incerto. Il sangue che le imporporava le guance fece
istintivamente
salire nella mia gola un fiotto di veleno. Aveva ragione, dannazione.
Ero
proprio ridotto male.
Aprii le braccia e lei si sedette
sulle mie ginocchia.
La strinsi a me, inspirando il suo irresistibile odore.
«Gliel’hai
già detto?» chiese a Carlisle con la sua
debole e melodiosa voce umana.
Lui le sorrise.
«Sì, ne stavamo discutendo proprio
ora».
Lei annuì,
mordicchiandosi un labbro. Poi posò i suoi
grandi occhi marroni nei miei. «Ti prego»
sussurrò, fissandomi di sottecchi
«vai».
Sospirai. Riusciva sempre a
convincermi. Ma questa
volta non avrei cambiato idea. «No Bella, non ti lascio
sola» dissi
determinato.
Lei chiuse gli occhi. Poi
sospirò, riaprendoli, seria.
«Va bene» disse. Mi stupì il fatto che
si fosse convinta così velocemente. Si
sollevò in piedi e andò verso la porta. Poi
l’aprì. «Emmett, Jasper».
Immediatamente i miei fratelli si
pararono davanti a
me. In quel momento capii le sue intenzioni. Non aveva affatto cambiato
idea.
Dovevo immaginarlo, Bella era testarda.
Mi guardò con
determinazione. «Ne ho già parlato agli
altri» disse, e in quel momento nello studio comparve anche
il resto della
famiglia. «Sono tutti d’accordo, non avercela con
me. Stanotte tu andrai a
caccia, che lo voglia o no».
«Edward,
ha
bisogno di rimanere sola», pensò
Rosalie.
Alice mi guardò
«Andrà
tutto bene, l’ho visto. Sarà importante per lei
sapere di avercela
fatta».
Scossi il capo, e vidi Jasper e
Emmett avvicinarsi determinati.
«Bella»
sibilai, frustato e preoccupato.
I suoi occhi si fecero grandi sul
suo viso pallido e
smunto, ma sostenne il suo sguardo. «H-ho bisogno che voi
andiate. S-se… se
davvero mi avete detto la verità»
farfugliò, studiando rapidamente i nostri
volti in cerca di una conferma «se davvero non
c’è pericolo per me, non c’è
motivo perché non rimanga sola».
«Ci sono
invece!» esclamai, facendola trasalire e
arretrare istintivamente. Presi un respiro per calmarmi.
Distolse per un attimo lo sguardo,
dirigendolo verso
la finestra e facendolo diventare vitreo, lontano. La sua voce era
piatta e
monocorde quando disse «vorresti dirmi che Jacob è
ancora vivo?».
Trasalii. Non aveva più
pronunciato il suo nome. «No».
Lentamente si volse nuovamente a
guardarmi. Piegò il
capo da un lato, sperando di piegare anche me con la sua logica.
«Questo non cambia
nulla».
«Perché?».
«Non è Jacob
il pericolo per te adesso».
«Ah no?» mi
domandava, i suoi piccoli pugni chiusi
frementi di una tremante rabbia e paura.
«Tu stessa sei il
pericolo per te! Stai ancora troppo
male».
Un fremito. Un singhiozzo. Tutti
gli occhi della mia
famiglia su di lei, pieni di pena. Bella che fuggiva in lacrime. Io che
correvo
da lei per bloccarla senza curarmi della mia velocità
vampira. Bella che urlava
spaventata dal mio tocco e dalla mia velocità, gettandosi a
terra e mettendo le
braccia a coprirsi il capo, come a proteggersi.
«Amore, sono solo
io!».
«Non mi toccare, non mi
toccare!» urlava senza fiato,
tutto il suo minuscolo corpo violato scosso violentemente, involucro di
una
mente ferita che non era più lì con me.
«Ah!» l’urlo più agghiacciante
«non mi
toccare!».
Gli sguardi della mia famiglia
erano su Alice, in
attesa che rivelasse la sua visione. Solo Bella guardava ancora me,
supplicandomi con lo sguardo che non aveva ancora perso la sua
fierezza.
«Dormi, amore»
un bacio sulla fronte. Buio. Un bacio
sulle labbra, e un vero, raro sorriso di Bella, uno di quello che non
vedevo…
da tempo, l’indomani mattina.
Alice si volse a guardarmi.
«Andrà tutto bene»
pensò.
Sospirai, malvolentieri. Il mio
istinto mi diceva che
non era la cosa giusta da fare, ma le visioni di mia sorella mi
dicevano che
non avevo scelta. Rilassai le spalle e annuì seccamente, di
malavoglia. Prima
ancora che allargassi le braccia Bella era corsa a rifugiarsi sul mio
petto,
sollevata.
Mezz’ora dopo ero in
camera mia insieme a lei, seduta
sulle mie ginocchia. Indossava una morbida vestaglia che arrivava fino
a metà
coscia, con sotto dei pantaloncini di cotone bianco con gli svolti
della stessa
seta azzurra del pezzo di sopra.
«Sei arrabbiato con
me?» mi domandò preoccupata,
studiandomi.
Sospirai, e non le risposi. Non ero
arrabbiato, ma
solo maledettamente preoccupato. Come dirglielo senza farla dubitare di
sé
stessa? «Non voglio lasciarti sola» mi arresi a
dire infine.
Sentii una sua mano calda sulla
guancia. «Dormirò
tutta la notte e quando domani mi sveglierò tu sarai
lì accanto a me. Non mi
accorgerò neppure della tua assenza. E
poi…» disse, mordicchiandosi il labbro.
Le misi un dito sotto il mento,
sollevandolo. «E poi?»
chiesi.
Lei prese un piccolo respiro.
«Domani mattina ti
racconterò tutto, promesso» mi gettò le
braccia intorno al collo e strinse con
tutta la sua forza. «Ce la farò…
tutto» sussurrò determinata.
Posai una mano sui suoi capelli
morbidi. Quel
pomeriggio avevamo fatto molti passi avanti durante una seduta di
psicoterapia.
Era una terribile sofferenza per lei raccontarmi i suoi ricordi
dolorosi, ma
per me era necessario per sapere e per Rosalie era necessario per
superare il
trauma.
Sbadigliò.
«Sono stanca» mormorò, la pelle pallida
e
le occhiaie sotto gli occhi, accucciandosi in posizione fetale. Era
più stanca
di prima, di quando era solo un’umana. Adesso era
un’umana ancor più fragile e
ferita.
Rosalie entrò nella
stanza. «Carlisle ti ha prescritto
dei sonniferi, cosa ne pensi di cominciare da stasera?»
chiese gentile a Bella.
Mia sorella aveva completamente cambiato atteggiamento con lei. Ora
spartivano
molto più di quanto non avessi voluto…
Lei scosse il capo, accucciandosi
maggiormente contro
il mio corpo. «No Rose… ce la
faccio…».
Mia sorella le sorrise.
«Va bene, qualora ne avessi
bisogno te li lascio sul mobiletto del bagno, quello sopra il
lavandino».
Annuì lievemente.
La dondolai un po’ sul
mio corpo, ma nonostante fosse
stanca non si addormentava. Così la portai a letto e mi
stesi accanto a lei,
sussurrando la sua ninna nanna nel suo orecchio e maledicendo il
momento in cui
mi sarei dovuto staccare da lei.
Si muoveva irrequieta nel letto, ma
ancora non
riusciva a dormire. La lasciavo abbracciarmi come meglio credeva, ma
non
riusciva a prendere sonno.
«Sicura che non vuoi
prendere un sonnifero?» le chiesi
allora.
Scosse il capo, chiudendo le
sottili palpebre rosate.
Aspettammo ancora, ma non riusciva ad addormentarsi.
«Fa caldo»
mugugnò infine.
Mi venne un’idea. La
presi fra le braccia e mi
sollevai in piedi. Posai la sua testa nell’incavo del mio
collo e, nonostante i
suoi deboli rifiuti, le misi addosso una copertina, fino a coprirla
completamente. Passai diverso tempo così, passeggiando per
la stanza e
cullandola, massaggiandole la schiena con la mano libera. Ogni tanto
interrompevo la mia ninna nanna per baciarle la fronte.
«Ti amo»
farfugliò ad un certo punto.
Sorrisi. L’amavo davvero,
così tanto. Ed era così
debole e fragile. Come avrei potuto separarmi da lei, anche solo per
una notte?
«Anch’io ti amo, ora dormi».
Continuai a cantare, a cullarla e
passeggiare per la
stanza. L’amavo. L’amavo e l’adoravo
indiscutibilmente. Quando tutto questo
sarebbe passato, avrei trascorso la mia serena eternità con
lei.
Quando la sua piccola e carnosa
bocca rossa si aprì
lievemente, lasciando passare un respiro pesante, capii che si era
addormentata. Delicatamente, attento a non svegliarla, la misi a letto,
rimboccandole le coperte e donandole un ultimo bacio.
Sospirai. Staccarsi dal mio
angioletto sarebbe stato
difficilissimo, eppure dovevo farlo.
Bella
Mi sentivo un po’ in
colpa per il modo con cui l’avevo
costretto ad andare a caccia. Non volevo che soffrisse. Standomi
accanto
soffriva sia fisicamente, sia per la sua debolezza emotiva, per cui non
riusciva
più a sopportare sia il mio che il suo dolore. Sentivo di
dover avere la prova
che stavo meglio, e stare per una misera notte da sola mi pareva una
buona
idea. Volevo provare a me stessa che era arrivato il momento. Quel
momento.
«Domani mattina ti
racconterò tutto, promesso» dissi
con fermezza, tentando di imprimere decisione nelle mie parole.
«Ce la farò…
tutto».
Già quel pomeriggio ci
avevamo provato, ma mi ero
interrotta poco prima di arrivare a finire il racconto.
Eravamo in giardino, sotto
l’ombra di un albero, perché
secondo Rose essere in un ambiente così tranquillo avrebbe
aiutato.
«Pendi la mano di
Edward» disse «e poi, piano, fai tre
respiri».
Feci come mi diceva e piantai i
miei occhi in quelli
scuri del mio amore.
«Racconta»
disse lei «dall’inizio».
«Era…»
mi schiarii la gola «era mattina. Mi ero
svegliata da poco e pregavo che il tempo non passasse più,
che lui non venisse
mai da me» mentre parlavo vedevo le immagini, vivide,
comparire dinanzi ai miei
occhi. «Ma così non fu» dissi con
dolore. «Uscii sul balcone, gridando, ma lui
mi riprese e mi scaraventò sul letto» Ricacciai
indietro le lacrime, non potevo
già piangere. Edward mi strinse con maggior forza la mano.
«Cominciò a
baciarmi… Prima la bocca e poi… il
corpo… il collo…
dappertutto…» presi un
grosso respiro. Vedevo la sofferenza nel volto di Edward.
«Continua» mi
incitò Rose.
«Strappò la
maglietta da un lato… e…» mi tremarono
le
labbra, tentai di rallentare il respiro, portandomi una mano al petto.
Dopo un
minuto circa, continuai «infilò la mano sotto la
maglietta… e… e…». Non
riuscii
a trattenere ancora le lacrime, che iniziarono a cadere copiose dai
miei occhi.
Edward mi strinse a sé.
Soffriva, soffriva troppo. E
il fatto che non andasse a caccia da molto tempo non faceva che
peggiorare le
cose.
«Ha cominciato a
toccarmi» piansi «e-e io u-urlavo… mi
dimenavo ma… lui era troppo forte… e…
corsi in bagno… vomitai, ma… lui mi
riprese… subito…» i singhiozzi mi
forzavano il respiro, facendomi scontrare
contro il suo petto. «Mi sbatté contro il muro,
tenendomi i polsi…».
Edward mi staccò un
attimo da sé, guardandomi negli
occhi. «È per questo che hai reagito in quel modo
quando l’ho fatto io?».
Annuii, gettandogli nuovamente le
braccia al collo.
«Scusami… io non volevo…».
Rose mi passò una mano
sulla schiena. «Calmati un po’,
prenditi del tempo» mi disse dolce.
Aspettammo che i singhiozzi
cessassero, tuttavia non
riuscii ad arrestare le lacrime.
«Bella» mi
chiese Edward «cosa ti ha fatto?».
Presi un respiro attraverso le
labbra tremule.
«Continuava a toccarmi… baciarmi… ovunque…
Io chiamavo te… ero disperata… dicevo il tuo
nome… l’unica cosa che potessi
fare…». Mi bloccai. Mi bastava chiudere gli occhi
per vedere come tutto era
andato a finire. Il dolore, fisico ed emotivo che ero stata costretta a
subire.
Il senso di violazione…
«Che cosa ti ha
fatto?» ripeté Edward.
«Si è
arrabbiato… mi… ha graffiato…
strappato i
pantaloni…», serrai con più forza le
palpebre.
Edward si irrigidì
completamente.
«Sentivo… il
suo bacino contro il mio…». Mi costrinsi
a prendere un respiro. «Basta!» urlai.
Edward mi distolse dai miei
pensieri, chiedendomi
ancora se volessi prendere un sonnifero. Risposi di no e tentai di
concentrarmi
per dormire. Purtroppo
però tutta quella agitazione mi
aveva lasciata innaturalmente accaldata.
Lui mi prese fra le braccia,
sistemandomi una
copertina addosso e passeggiando nella stanza canticchiando e
cullandomi, nel
tentativo di farmi addormentare. Mi sentivo bene fra le sue braccia. Mi
sentivo
protetta. E ora sapevo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Gliel’averi
detto, il giorno dopo… Ne avevo già parlato con
Rose, volevo tornare a vivere a
casa nostra. «Ti amo» sussurrai.
«Anch’io ti
amo, ora dormi» mi rispose dolcemente,
dondolandosi sui talloni e ricominciando a cantare teneramente.
Mi lasciai cullare in quel paradiso
fatto solo di
Edward, e scivolai in un tenero e dolce sonno.
Edward
Erano passate cinque ore ormai.
Cinque ore di caccia,
cinque ore di separazione da Bella. Cinque ore di pena.
Eravamo tutti più o meno
sazi, ma avvertivo dai
pensieri dei miei familiari che ci saremmo fermati tre altre ore, in
modo da
stare tranquilli per un po’. Ci eravamo spinti piuttosto
lontano, visto che
stavamo cacciando in gruppo numeroso.
Sospirai, serrando la mandibola.
Volevo solo tornare
da Bella. Mi mancava sentire il suo lento respiro mentre dormiva, il
movimento
armonico del suo petto, la morbidezza dei suoi capelli sparsi sul
cuscino.
Avevo bisogno di tenere la situazione sotto controllo e sapere che
stava bene.
Se avesse avuto un incubo? Se fosse stata spaventata? Se avesse avuto
un
attacco di panico?
Lasciai andare il corpo esanime di
un puma appena
dissanguato. Mi leccai le labbra, unica parte del mio corpo sporca di
sangue.
Sapevo ancora cacciare senza sporcarmi.
Mi sedetti su un grosso ramo di un
albero e controllai
il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Me
l’aveva giurato, mi
avrebbe chiamato se fosse accaduto qualcosa. Sbuffai, irritato.
Emmett mi raggiunse e mi mise una
mano sulla spalla «Vuoigià
tornare a casa dalla tua Bellina?!».
Sospirai, perendomi con lo sguardo
nel panorama.
«Tanto non me lo permetterai, vero?».
Lui si mise una mano sul cuore, con
fare scherzoso. «Oh
no impossibile. Ho fatto giuringiurello, mignolino mignoletto
con la mia sorellina umana, impossibile!».
Alzai gli occhi al cielo.
In quell’istante, Alice
lasciò andare la presa sulla
sua preda.
Tutta la famiglia smise di cacciare
e si voltò ad
osservare i nostri occhi vacui.
Un’immagine terribile
prese forma nelle nostre menti.
Bella,
mortalmente pallida. I capelli color cioccolato sparsi intorno a lei.
Svenuta
a terra sul pavimento dorato della mia stanza.
La sua
mano
bianca e immobile, semi-aperta e stesa in avanti.
Accanto
alle
sue dita la nuova boccetta di sonniferi.
Farsi cullare dalle braccia di
Edward era stato
stupendo, ma mi stupii il fatto che riuscissi a formulare pensieri
piuttosto
coerenti. E mi stupii di essermi stupita. Mi stavo svegliando.
A quel punto capii cosa fosse a
tirarmi su verso la
coscienza del letto caldo. Avevo un fastidio imprecisato
all’addome che man
mano, con la consapevolezza di essere sveglia, si faceva sempre
più forte. Si
irradiava dalla pancia alle gambe, dandomi la sensazione di uno strano
e
fastidioso formicolio.
Forse semplicemente mi era tornato
il ciclo. Decisi di
alzarmi e andai in bagno. Restai un po’ lì, seduta
sul bordo fresco della
vasca; sapevo che non sarei mai riuscita a riaddormentarmi subito. Ma
il dolore
aumentò, e allora capii che non aveva nulla a che fare con
il mio ciclo -
ancora inesistente.
Avrei dovuto chiamare Edward. Mi
aveva lasciato il mio
cellulare sul comodino e mi aveva assicurato che avrebbe tenuto il suo
sempre
acceso. E io avevo promesso di dirgli tutto, se lo fosse venuto a
sapere da
Alice poi sarebbe stato peggio. Gli nascondevo già
abbastanza cose, come la
nausea e i capogiri.
Tuttavia, quando finii di
sciacquarmi il viso il
dolore era scomparso. Sospirai sollevata. Non sarei comunque riuscita a
dormire
in quelle condizioni, così, come mi era stato suggerito da
Rosalie, afferrai
dal mobiletto sul lavandino il flacone di sonniferi, ne misi uno sulla
mano e
lo mandai giù, insieme all’acqua che avevo messo
nel bicchiere che solitamente
usavo per sciacquarmi i denti.
Mi ero un po’ pentita di
aver lasciato andare Edward,
ma sapevo che se non l’avessi fatto il giorno dopo non mi
sarei mai potuta
trasferire con lui a casa nostra.
Presi il tappo del flacone che
avevo poggiato sul
bordo del lavandino, ma quando feci per avvitarlo - un po’
perché ero ancora
mezza addormentata, un po’ per la mia goffaggine che non si
faceva sentire da
tempo - si rovesciò da un lato. Tutte le compresse caddero
sulla ceramica
bianca umida del lavandino, bagnandosi ed iniziando a sciogliersi.
Sbuffai frustrata. Solo a me
potevano capitare cose
del genere. Quanto avrei voluto sentire nel mio orecchio le parole di
Edward…
che però non arrivarono. Perché ero stata
così stupida da chiedergli di
lasciarmi sola. Dannazione!
Ormai il danno era fatto. Aprii il
getto dell’acqua
facendo sciogliere completamente le compresse, poi presi il flacone
vuoto, per
buttarlo nel cestino della stanza di Edward. Sentivo la testa pesante e
leggera
insieme. Possibile che i sonniferi stessero già facendo
effetto?
Andai in camera di Edward, verso il
cestino, ma la
testa cominciò a girarmi più veloce, e il dolore
alla pancia comparve ancora.
Ansavo e mi sentivo piuttosto stordita. Non era un malessere
passeggero, avevo
delle fitte distinte a un punto dell’addome. Non feci in
tempo ad arrancare
verso il cellulare, che la vista mi si appannò completamente
e caddi svenuta
sulla moquette.
Edward
Avevo lasciato tutti indietro, ero
sfrecciato via non
appena le immagini nella mente di Alice si erano diradate, pieno di
angoscia e
rabbia. Appena arrivai di fronte a casa, raggiunsi la finestra
direttamente con
un balzo, per entrare in camera mia.
Bella era esattamente come nella
visione di Alice:
pallida e priva di sensi. Mi fiondai immediatamente al suo fianco.
Nonostante
fosse proprio come nella sua visione, però, vederla dal vivo
era molto più
doloroso.
«Amore mio, amore mio, mi
senti?» sussurrai afflitto
ad un suo orecchio.
Con gesti veloci le sfiorai una
guancia: era ancora
calda. Anche il polso mi pareva regolare. Ma non si muoveva, non
reagiva in
alcun modo.
Dovevo aspettare Carlisle, ma se
non fosse arrivato in
tempo…! Ringhiai frustrato, scuotendo la testa. No, non
poteva essere.
Controllai la boccetta di
sonniferi. Sì, era quella,
ed era vuota.
La portai al naso inspirandone
l’odore e lo confortai
con quello del sangue del mio angioletto.
Era lo stesso.
Rabbiosamente scaraventai lontano
quell’oggetto
inutile, rimproverandomi per la mia stoltezza, e presi la mia unica
ragione di
vita fra le braccia, scuotendola leggermente.
«Bella, Bella! Amore, ti
prego, rispondimi» gemetti
sofferente.
La sollevai fra le braccia,
tirandomi su.
La testa e le membra ricaddero
all’indietro senza
vita, dando una pugnalata al mio cuore già morto.
Perché?!
Perché l’aveva fatto?! E perché ero
stato
così stupido da lasciarmi convincere?!
Singhiozzai, baciando le labbra
inanimate di
quell’umana così fragile da avere il potere di
togliermi la vita.
La sua vita era come acqua in quel
momento. Acqua, che
mi scivolava dalle mani.
Bella
Sentii freddo. In faccia. Freddo e
dolore su una
guancia. Voci, agitate. E acqua. Di nuovo voci. Ancora acqua. In bocca
e sugli
occhi. Un altro schiaffetto, la mia bocca si aprì e
l’acqua entrò dentro
impedendomi di respirare.
Aprii gli occhi, sporgendo
automaticamente la testa e
il busto in avanti e tossendo fuori l’acqua che era entrata
nei polmoni. Ero
sconvolta, non capivo cosa stesse accadendo. Tentai di orientarmi. Ero
fra
della braccia fredde e sotto la doccia che emetteva un getto
altrettanto
gelato. Smisi di tossire. C’era Edward. E anche Carlisle.
Vedevo a frammenti i
loro volti agitati e preoccupati.
«Si è
svegliata!». Era la voce di Edward. Mi teneva
lui in braccio e la sua camicia si era bagnata per lo stesso getto
d’acqua che
investiva il mio volto.
Mi ritrovai fuori dal box doccia.
Che cosa stava
accadendo? Perché erano tutti così agitati? La
mia mente era annebbiata e
pesante. Edward… dov’era lui?
Gemetti, distinguendo il suo odore
e avvicinandomi con
il naso al suo collo. «Edward» biascicai, in
maniera quasi incomprensibile.
Le sue braccia si mossero
scuotendomi. «Bella?! Amore,
su, apri gli occhi!».
Un altro schiaffetto in viso.
Infastidita e dolorante
aprii gli occhi, scontrandomi con quelli angosciati di Edward. Acquisii
maggiore razionalità, ma la testa ancora mi girava
impedendomi di comprendere
cosa stesse accadendo. «Edward» farfugliai ancora.
«Non ti preoccupare
amore, ci sono io adesso» disse
stringendomi disperato fra le sue braccia.
Distinsi Carlisle che con
un’espressione concentrata
in viso passò a Edward un bicchiere.
Perché stava succedendo
tutto quello? Ricordavo solo…
la testa… che mi girava… il dolore alla
pancia… il buio. Ma cosa…?
Edward lo afferrò e me
lo portò alle labbra. «Bevi
amore, su, dai» mi esortò agitato.
Ero disorientata, non capivo, ma
feci come mi diceva.
Dopo un sorso però mi
piegai disgustata a vomitare nel
water. Acqua e sale. Molto sale. Non capivo più
nulla… Perché Edward mi aveva
dato quella cosa?
Mi esortò a bere ancora.
Lo guardai confusa e sconvolta.
Perché faceva così?
Non aveva visto quello che mi aveva fatto?
La sua espressione divenne ancora
più supplichevole e
angosciata.
«Devi dargliene
ancora» disse Carlisle, posandomi una
mano ghiacciata sulla fronte.
«Ti prego Bella, bevi,
starai meglio dopo, davvero»
disse addolorato. «Te lo prometto, adesso bevi».
Non potevo non fidarmi di lui.
Bevvi ancora, e
inevitabilmente vomitai ancora. Due, tre volte.
«Basta» mi
lamentai esausta cadendo con la testa sulla
sua spalla.
«Portala di
là, prova a farla stare in piedi» era
ancora la voce di Carlisle.
Ero molto più lucida
ora, e la lucidità mi portava la
confusione per gli avvenimenti che si stavano susseguendo. Non capivo i
loro
comportamenti, non capivo la loro agitazione, non capivo
perché mi avessero
fatto vomitare…
Edward mi prese per i fianchi e mi
tirò su. In un
primo momento incespicai sui miei piedi malfermi, ma poi mi feci
trascinare
nella sua stanza.
Carlisle era a un lato del letto, e
trafficava con una
bacinella vuota. «Esme, soluzione fisiologica a 38
gradi» distinsi sulle sue
labbra.
Alice era appollaiata su una sedia.
Le lanciai
un’occhiata confusa.
«Edward»
mormorai con più decisione.
Lui mi stava trascinando da un lato
all’altro della
stanza, tenendomi un braccio intorno ai fianchi.
«Falla
camminare» disse Alice, dondolandosi sulla
sedia con gli occhi vacui. «Non farla
addormentare». Non la smetteva di
oscillare avanti e indietro, probabilmente tentando di concentrarsi.
«Lo so Alice» ribattè lui
secco e rabbioso.
«Edward» lo
chiamai ancora.
Lui si voltò si scatto
verso di me. «Non ti
preoccupare amore, ci sono io adesso, cammina, non
addormentarti» disse ansioso
spingendomi verso l’altro lato della stanza.
«Che…»
fissai il pavimento, disorientata. Deglutii
«che succede?» dissi mettendo nuovamente i miei
occhi nei suoi.
Nelle sue iridi dorate
passò un attimo un lampo scuro,
poi si riprese. «Non è nulla, cammina…
vieni» disse tirandomi ancora.
Ansimai. Cosa stava accadendo?
«Edward… ti prego
dimmi… dimmi cosa succede…».
Lui non parlava e continuava a
camminare, portandomi
con sé.
Carlisle, che per un attimo era
scomparso, comparve
con una bacinella colma d’acqua «Edward
devi…».
«Devi controllare che non
sia ipotermica. Asciugale i
capelli sta tremando» concluse Alice con lo stesso tono del
padre.
«Alice!»
esclamò Edward agitato e arrabbiato, «devi
vedere più lontano!».
In quell’istante capii
cosa stesse facendo, stava
cercando di leggere il mio futuro. Alice sobbalzò, scomparve
in due istanti e
ricomparve accanto a noi con un asciugamano. Alla stessa
velocità si mise
ancora nella stessa posizione di prima, ricominciando a dondolarsi con
gli
occhi vacui.
Edward prese
l’asciugamano e me lo strofinò sui
capelli.
Io non capivo nulla, mi facevo
tenere in piedi da lui
e facevo quello che mi diceva, ma non capivo, non capivo! Sentii ancora
il
formicolio fastidioso alla pancia.
Edward mi mise una mano ghiacciata
sulla fronte. «35 e
5 circa…» disse a Carlisle.
Lui comparve dinanzi a me,
scrutandomi, aumentando il
mio senso di disorientamento ed angoscia.
Tutto avveniva così
velocemente, e io mi sentivo
sempre più disorientata. Non capivo cosa stesse accadendo,
erano tutti così
nervosi, agitati. Mi portai una mano alla testa. Appena provavo a
concentrarmi
su una cosa ne facevano un’altra, troppo velocemente. Gemetti
frustrata.
Carlisle mi passava le mani sulla
fronte, sui polsi,
mi guardava… non capivo più nulla. Mi faceva male
la pancia e non volevo stare
ancora in piedi.
«Edward» mi
lamentai, «fammi sedere».
Lui non mi ascoltò e
continuò a trascinarmi per la
stanza, parlando velocemente con Carlisle rispondendo a delle sue
domande mute.
Alice oscillava, Edward camminava, Carlisle ci seguiva, mi girava la
testa, mi
faceva male la pancia, non capivo più nulla, parlavano
veloci, camminavano
veloci, si muovevano veloci.
«Basta!»
esclamai decisa, nonostante il mio tremore,
piantandomi con i piedi a terra. Ignorai ogni malessere.
Tutti si bloccarono. Anche Alice,
che concentrò le sue
iridi dorate su di me.
«Cosa sta
succedendo?!» chiesi perentoria, portandomi
una mano al petto per bloccare il respiro angosciato.
«Devi
dirglielo» disse asciutta Alice, rivolta a
Edward.
In un istante mi prese fra le
braccia, stringendomi a
sé con possessione. «Non sai niente di quello che
devo fare» replicò furente,
ringhiando.
«Edward, devi
dirglielo» disse anche Carlisle, serio.
Spalancò gli occhi,
finalmente dorati. Scosse il capo.
«No, no» si lamentò a denti stretti. Poi
si voltò a fissarlo «che differenza
fa?! Tanto ora non è lucida, sarà peggio quando
lo ricorderà!».
Lucida?! Ricordare?!
«Edward!» esclamai, defilandomi
dalla sua presa e reggendomi sulle gambe malferme. «Dimmi che
sta succedendo!»
dissi affitta.
Lui mi fissò afflitto e
disperato. «Hai preso i
sonniferi» sussurrò «Tutti».
Mi bloccai, sbarrando gli occhi. I
sonniferi… tutti.
Tutti? Tutti i sonniferi? Avevo preso tutti i sonniferi?!
«Emmett,
Jasper» disse Alice, ricominciando ad
oscillare. Notai con la coda dell’occhio la figura di
Carlisle scomparire.
Edward mi strinse a sé.
Tutti i sonniferi… No.
Non era andata così, no! I
sonniferi… erano… il flacone… il
lavandino. I sonniferi erano caduti nel
lavandino!
«Portala sul
letto» disse Carlisle comparendo
nuovamente nella stanza.
«No!» urlai.
Edward mi sollevò di
peso. Scalciai inutilmente. «No,
Edward, no, ti stai sbagliando!» urlai ancora.
Lui mi poggiò sul
materasso, tenendomi ferma. «Ti
sembra abbastanza lucida?» chiese agitato a Carlisle,
indicando un oggetto nero
che teneva in mano.
«Si, ma se non collabora
potremmo fare ben poco» disse
lui alzandosi e prendendo qualcosa dalla sua borsa.
«Edward, aspetta, non
è come credi tu! Non è successo
quello che dici tu!» esclamai ancora, supplichevole, tentando
di evadere dalla
sua resa ferrea.
Lui mi accarezzò
frenetico i capelli ancora umidi. «Shh
amore, non ti preoccupare, ora ci sono io qui».
Carlisle si avvicinò con
una siringa.
«No!» urlai
dimenandomi e scoppiando in lacrime. «No
Edward, no!».
Lui mi tenne ferma, mentre Carlisle
mi sollevava la
manica del pigiama.
«No! Fermi!»
piansi, disperata. «Edward!».
Mi bloccò il braccio,
con un’espressione afflitta e
addolorata.
Singhiozzai amaramente. Poi mi
ricordai di una cosa,
un’ultima cosa, un’ultima speranza. «Sì,
mi fido. Non mettere mai in dubbio la fiducia che ripongo in te, amore»
piansi, ricordandogli le sue stesse parole. «È
questo che mi hai detto Edward,
non te lo ricordi più?! Non ti fidi più di
me?!» dissi fra i singhiozzi.
Sentii Edward irrigidirsi e
comprendere finalmente che
ero molto più lucida di quanto non pensasse.
«Carlisle!» esclamò in un fiato,
bloccandolo con un gesto della mano.
Singhiozzai ancora, facendo
scendere abbondanti
lacrime dai miei occhi e tentando di concentrarmi nonostante il dolore
alla
pancia. «Non li ho presi» singhiozzai
«non li ho presi tutti… solo uno…
io… mi
sono caduti… sono solo caduti…».
Edward mi sollevò dalle
braccia, mettendomi seduta sul
materasso e guardandomi negli occhi. «Dove?».
«In bagno… nel
lavandino» mormorai gemendo.
«Dice la
verità» disse Alice sorpresa, scomparendo e
ricomparendo nella stanza.
Edward sospirò, come
svuotato del terrore che fino a
quel momento l’aveva preso. Il terrore che sua moglie non
volesse più vivere.
Poi mi abbracciò, prima lentamente, poi con forza,
accarezzandomi con gesti
agitati e baciandomi la fronte. Sentivo dai suoi fremiti che avrebbe
tanto
voluto piangere. Mi cullò fra le sue braccia, cullando me e
sé stesso insieme.
«Scusami» sussurrò pianissimo al mio
orecchio.
Lo strinsi forte a me.
«Non volevo farti preoccupare»
mormorai poi «Io… ti stavo per
chiamare… davvero».
«Che cosa è
successo?» mi chiese prendendomi il volto
in una mano e fissandomi negli occhi.
Poggiai la testa sulla sua spalla,
esausta,
stringendomi le braccia sulla pancia dolorante. «Mi sono
svegliata» dissi
riportando alla memoria quello che era accaduto «ho preso un
sonnifero e… mi
faceva male la pancia… molto male… mi girava la
testa e poi tutto è diventato
buio».
Carlisle mi accarezzò
una guancia, e potevo vedere dai
cuoi occhi che, nonostante tutto, era molto più sereno e
controllato di prima.
«Ti fa ancora male?» mi chiese osservando le
braccia strette all’addome.
Annuii. «Sì,
un po’».
Alice si avvicinò a noi
abbracciandomi goffamente,
perché Edward mi teneva ancora stretta a sé, per
nulla intenzionato a lasciarmi
andare. «Mi dispiace così tanto, davvero. Ero
convinta che tutto sarebbe andato
bene» disse afflitta.
Sentii una fitta più
forte alla pancia e serrai gli
occhi, gemendo fra i denti.
Subito Alice si staccò
da me, mentre Edward mi baciò
la fronte, tentando di confortarmi. «Dobbiamo portarla in
ospedale» disse poi
rivolgendosi a Carlisle.
«Bella. Ha ragione
Edward, c’è qualcosa che non va, lo
vedi anche tu» tentò di convincermi Carlisle.
«No…
no… vi prego… non sono pronta, non ce la faccio,
non
ci voglio anda-»
le parole mi morirono in gola. Ero
sopraffatta da un’altra fitta.
Carlisle sospirò.
«Calmati» disse accarezzandomi i
capelli. «Cosa vedi?» chiese ad Alice.
«Non lo so»
disse lei, persa nelle sue visioni. «La
vedo vampira… ma… Non riesco a vedere
più vicino. Ci sono decisioni da prendere.
Mi dispiace» aggiunse afflitta «non voglio che
decidiate sulla base delle mie
visioni. Non ancora».
«Alice…»
pigolai. Le volevo dire che non era colpa
sua, che non poteva prevedere sempre tutto. Ma mi sentivo molto debole
e
dolorante.
Carlisle mi guardò con
razionalità e serietà. «Posso
intento visitarti ed escludere qualcosa di più grave, va
bene?» disse
tendendomi una mano.
Non appena l’ennesima
fitta passò, annuii, prendendo
la sua mano e stendendomi sul letto.
«Mi sapresti dire di
preciso dove senti dolore?» mi
chiese Carlisle.
Scossi il capo, stringendo con
maggior forza la mano
di Edward. «No… è… non lo
so… non capisco… solo quando sento più
dolore…».
«Senti come delle
fitte?».
«Sì,
ma… solo a volte. Sento sempre un fastidio, come
un formicolio alla pancia» sussurrai.
Lui annuì, poi prese a
tastarmi l’addome. Io mi voltai
verso Edward, perdendomi nel suo sguardo color oro, preoccupato ma allo
stesso
tempo rassicurante.
«Senti più
dolore se faccio così?» mi chiese Carlisle
tastandomi su un lato.
Scossi il capo in segno di diniego.
Lui ricominciò a
tastarmi, poi lo vidi scambiarsi
un’occhiata con Edward, che negò velocemente con
la testa. «Alice, puoi andare
a chiamare Rosalie?».
Quando Carlisle terminò
il suo esame tornai fra le
braccia di Edward. «Ti fa ancora male?».
«Sì, ma meno
di prima» mormorai contro la camicia
bagnata di Edward. Respirai a pieni polmoni il suo odore, che riusciva
a
calmarmi come il migliore degli psicofarmaci. Lui mi strinse a
sé, cullandomi
piano.
«Bella» disse
Rosalie entrando in camera «sta meglio?»
chiese poi a Carlisle.
Lui si sollevò dal bordo
del letto, su cui era seduto,
e le andò incontro uscendo dalla stanza insieme a lei.
Sentivo ancora quella strana
tensione alla pancia e
alle gambe, ma non era nulla di insopportabile. «Mi dispiace
molto» sussurrai
arrossendo, rivolta a Edward «che tu ti sia preoccupato
così tanto».
Lui mi accarezzò una
guancia. «Dispiace a me di aver
tratto una conclusione così affrettata» fece
addolorato, distogliendo lo
sguardo «Ti ho visto nella visione di Alice, così
pallida, svenuta a terra, e
poi la boccetta di sonniferi vuota» scosse la testa,
scacciando i brutti pensieri.
Gli posai una mano sulla guancia,
seria, desiderosa
come non mai di rassicurarlo. «Mi dispiace di averti dato
modo di pensare, con
il mio comportamento, che avrei potuto fare qualcosa di così
estremo. Lo so,
sai» abbassai il capo con un sorriso stanco «che
devi controllare ogni tuo
gesto, ogni tua parola per paura di ferirmi. Volevo solo che tutto
questo
finisse. Non avercela con Alice».
Distolse lo sguardo, come se il
ricordo della sua
visione fosse ancora troppo doloroso. Sospirò.
«Adesso occupiamoci di te; hai
ancora dolore?».
Scossi il capo. «No, lo
giuro. È solo un piccolo
formicolio». Corsi con i pensieri a Carlisle e Rosalie.
«Carlisle sa cos’ho?».
Edward scosse il capo. «Purtroppo
no. Sospetta qualcosa e sta chiedendo conferma a Rosalie. È
un medico vampiro
con 300 anni di esperienza, ma non alcun super potere. Per una diagnosi
ci
vorrebbe almeno un’ecografia».
Arrossii.
«Pensa» mormorai, mordicchiandomi il labbro
«pensa che io abbia una sorta
d’infezione?».
Edward mi sorrise con gentilezza,
accarezzandomi le
guance rosse. «Qualcosa del genere».
Carlisle rientrò in
camera insieme a Rosalie e si
sedette nuovamente sul bordo del letto con un’espressione
concentrata, per poi
sorridermi confortante. «Mi puoi dire con precisione i
sintomi che hai avuto
negli ultimi giorni?».
Annuii, stanca, e con
l’ausilio di Edward e Rosalie mi
misi a raccontare, senza particolari reticenze. «La
nausea… quasi sempre. La
testa mi gira ogni tanto invece… quando mi alzo velocemente
o mi giro di
scatto… mi credo sia normale. E poi… non
so… non mi viene in mente nient’altro,
a parte il dolore alla pancia…».
Rosalie dovette notare le mie
palpebre che tendevano
sempre più ad abbassarsi. «Sono le quattro di
notte, devi avere sonno».
Sbadigliai.
«Sì, ma non credo che riuscirò a
dormire»
confessai, agitata. «Però» aggiunsi,
torcendomi le mani in grembo «se possibile
non vorrei prendere altri sonniferi. Non stasera, per favore».
Edward lanciò
un’occhiata a Carlisle. «Potrebbe essere
un effetto collaterale? Dei calmanti?».
Lui sollevò le
sopracciglia, perplesso. «Ti è mai
capitato qualcosa di simile?» chiese rivolgendosi a me.
Ripensai alla mia vasta esperienza
con i farmaci, ma
non ricordai altri episodi del genere. Prendevo dei sonniferi a volte -
molto
raramente - ma non mi avevano portato alcun effetto nocivo. Anche
se…
«Quando ero
bambina… avevo più o meno… otto
anni… mia
madre dovette portarmi in ospedale a causa degli effetti collaterali di
alcuni
farmaci, ma non ricordo quali fossero» mormorai concitata.
«È davvero
poco probabile» disse Carlisle con un’espressione
pensierosa «comunque, ricordi per caso il componente di quei
farmaci che ti causò
questa crisi?».
Sospira afflitta. Mia madre me
l’aveva detto ma… forse
avrei dovuto chiamarla… «No, forse»
biascicai, mordicchiandomi il labbro «non
lo so, forse cominciava con la B».
Mi
portai una mano alla testa, frustrata, tentando in qualche modo di
ricordare.
Edward nel frattempo prese la
coperta che gli aveva
passato Rose e me l’avvolse intorno. Poi si tolse la camicia
bagnata e si mise
una maglietta asciutta, rimettendomi sul suo petto.
«Non mi
ricordo» sbottai infine abbattuta. Subito
sentii un’altra fitta all’addome e dovetti serrare
i denti per soffocare un
gemito.
Carlisle mi accarezzò un
braccio.
Sospirai, era già
passato, con la stessa velocità con
cui era comparso.
«Bella» mi
disse lui con un sorriso «cerca di stare
tranquilla. Sai cosa possiamo fare? Adesso ti do il foglio
illustrativo, leggi
i nomi dei componenti e vedi se ti viene in mente qualcosa»
concluse con una
carezza rassicurante sulla guancia. Sapevo che la prossima mossa
sarebbe stata
insistere per andare in ospedale. Vedevo già le occhiate che
si scambiava con
mio marito.
Annuii, nervosa.
«Vado a
prenderlo» disse lui scomparendo dalla mia
vista.
Edward, notando il mio tremore, mi
fece stendere sul
letto, avvolta nella coperta, invitando a rilassarmi. Mi accoccolai in
posizione
fetale, chiudendo gli occhi. Lui mi strofinò con dolcezza
una mano dietro la
schiena, rassicurandomi.
«Ti prego, non voglio
andare» iniziai a supplicarlo.
Mi portò un dito sulle
labbra. «Lo so. Vogliamo solo
che tu stia bene».
Presi un respiro tremante. Sapevo
che non ci sarebbe
stato niente di utile su quel foglietto. Sapevo che avevano bisogno di
quella
dannata ecografia per capire cosa stesse accadendo. Ma lo volevo
davvero
sapere? «Verrai con me? Lo affronteremo insieme?»
domandai, tentando di farmi
forza nonostante la mia voce tremante.
Mi carezzò i capelli,
baciandomi la fronte. «Come
tutto, mia piccola, fragile e forte umana».
Passò poco tempo che
Carlisle tornò con un foglietto
fra le mani. «Non metterti fretta» disse
porgendomelo.
Io lo afferrai con una mano
tremante e mi stropicciai
gli occhi, stanchi e secchi. Cosa mai avrei potuto trovare che mi
salvasse?
Edward accese la luce
dell’abat-jour e io cominciai a
scorrere con gli occhi, arrendevole, sulle scritte piccole e leggere.
“Casa Farmaceutica, Principio attivo, Modo
e Dosi
d’uso…”.
Improvvisamente mi bloccai, gli
occhi sgranati e la
bocca aperta. Il cuore arrestò il suo cammino
così come la mia respirazione. Il
sangue defluì completamente dalle guance, lasciandomi
fredda, pallida e
shockata.
Non era possibile.
Non era possibile.
Eppure, c’era una sola
spiegazione. Eppure, tutto
quadrava.
Gravidanza… incinta. Non riuscivo
a crederlo. Vuoto, nella mia
testa c’era il vuoto e quella sola parola al centro.
Mi sentii chiamare.
«Bella? Mi senti?».
«Bella? Sta di nuovo
male?».
«Forse ha trovato
qualcosa».
Fui scossa leggermente e la voce
agitata di mio marito
giunse direttamente alle mie orecchie «Tutto bene?».
Sussultai, spostando lo sguardo dal
foglietto, ancora
immobile nelle mie mani, fino al suo sguardo dorato, preoccupato.
Tentai di
formulare una frase di senso compiuto, ma i miei pensieri, inesistenti
in quel
momento, non sarebbero mai riusciti a raggiungere le labbra leggermente
aperte
per lo stupore.
Sentii una mano fredda sulla spalla
e mi voltai,
sobbalzando, verso Carlisle, senza abbandonare la mia espressione
completamente
persa nell’incredulità.
«Bella, ti senti
bene?» mi chiese con un tono misurato
«hai letto qualcosa che può esserci
utile?».
Dovevo parlare, dovevo dirglielo.
Ma prima di tutto
dovevo rendermene conto io stessa e non pensarlo come un pensiero
astratto, ma
come qualcosa che mi stava succedendo davvero. Dovevo avere la conferma
di quel
pensiero assurdo e in ogni modo inconcepibile. Tuttavia
anche troppo realistico.
Carlisle mi fissava in attesa della
mia risposta.
Dovevo dire quella parola. Quella
sola parola. Sentii
le labbra muovesi sconnessamente senza produrre alcun suono. Non ci
riuscivo.
Non potevo dirlo. Come un automa presi il foglietto che avevo fra le
mani e
glielo consegnai.
Lui lo guardò perplesso,
sfilandolo delicatamente
dalla mia presa ferrea. «Il foglietto? Devo
leggerlo?» mi chiese confuso.
Annuii lentamente, muovendo poi
l’indice tremante
verso la frase che avrebbe dovuto leggere. La stessa frase che io avevo
letto
poco prima e che mi aveva portato quella sconcertante illuminazione.
Lui abbassò lo sguardo,
titubante. La sua fronte si
corrugò un instante, leggendo la frase che gli avevo
indicato. Immediatamente
si riappianò, scattando verso l’alto con
un’espressione sorpresa, come quella
che ormai c’era anche sul volto di Edward.
Quella per me fu una ben certa
conferma. Ero incinta.
Incinta.
No.
Eppure Carlisle aveva avuto la mia stessa
reazione. E anche
Edward. Questo voleva dire solo una cosa: avevo ragione. Ma come? In
che modo
potevo avere ragione, se io non…
«Che cosa succede? Cosa
sta succedendo?» chiese
Rosalie, confusa, osservando le nostre espressioni.
«Bella è
incinta» spiegò Carlisle, comprendendo quello
che in tutti i quei giorni avevamo fatto finta di non vedere,
abbandonando
parzialmente lo stupore.
Sentirlo dire fu come farsi
attraversare da una
potentissima scarica elettrica. Come dovessi accettare per forza la
verità.
Come se il mio cervello intorpidito si fosse immediatamente rianimato.
Non
c’era tempo per gli indugi, volevo risposte.
Mi voltai immediatamente verso di
lei, rianimata.
«Com’è possibile, Rose?!»
chiesi, con voce tremante.
Ma lei non mi rispose. Stava
immobile, stupefatta,
come Edward, come Carlisle, come me pochi istanti prima.
Doveva dirmelo. Doveva dirmi quello
che non volevo e
non potevo accettare, quello che irrazionalmente volevo sapere da lei
perché
non avevo il coraggio di chiedere a me stessa. «Come
è possibile?!» sbottai,
con voce più ferma.
Rimase ancora immobile.
Fui accecata dalla rabbia, dalla
frenesia. «Rose!»
urlai, sollevandomi dal letto e ignorando la stanchezza inconsistente.
«Rosalie!» gridai quando le fui di fronte, tentando
inutilmente di scuoterla.
Nessuno mi teneva, nessuno mi fermava. Troppo impegnati a capire
l’impossibile.
Ma lei, lei, Rosalie doveva darmi la risposta che stavo cercando e che
pure era
l’unica che non potevo accettare. «Rosalie! Devi
dirmi com’è possibile!» gridai
a perdifiato, facendo cadere dai miei occhi lacrime di rabbia.
Sentii delle mani fredde afferrarmi
da dietro, prima
che potessi cominciare a farmi male a furia di tirarle pugni sulle
spalle. Era
Edward. Accanto a lui, Carlisle.
Rosalie sobbalzò.
Attraverso i miei occhi appannati
dalle lacrime potevo vedere la sua espressione addolorata.
Deglutì,
distogliendo lo sguardo dai miei occhi furiosi.
«Dimmelo!»
urlai, tentando inutilmente di divincolarmi
dalla presa immobile e fredda di mio marito.
«Io… io non
so…» balbettò, per poi portare i suoi
occhi nei miei, assurdamente afflitti.
«Rosalie» la
invitò a continuare Edward. Mi stupii di
quanto la sua voce fosse neutra e atona. Voleva sapere. Come me. Stava
solo
aspettando le parole giuste per crollare, come un meraviglioso castello
di
carte che sta per essere trasportato nella galleria del vento.
Carlisle andò verso
Rosalie, posandole una mano sulla
spalla. I suoi occhi erano lucidi, come se davvero stesse per piangere
«Credo…
quando ti ha drogata…» biascicò infine.
E quelle parole, quelle, che non
avrei mai voluto
sentire, fui costretta di malavoglia ad accettarle, come una spessa
lama di una
spada affilata, che ti entra nei polmoni, trafiggendoti la carne,
togliendoti
il respiro, mangiando la tua vita; una lama che non ti chiede il
permesso, né
ti rassicura dicendoti che non ti farà del male, ma porta a
termine il suo
scopo. Ti uccide.
«No… No! No!»
urlai, liberando tutto il mio
immenso dolore. Perché è così. Quando
si soffre, quando si sta male, la prima
cosa a cui ci si aggrappa è la possibilità di
sfogarsi.
Inutilmente, perché il
dolore ti rientra dentro con
più vigore, togliendoti le ultime forze.
Lasciai che le ginocchia mi
cedessero, tenuta in piedi
ancora solo da quelle braccia forti e immobili che non si erano mosse
di un
millimetro, pietrificate in una gabbia di protezione. Immobili, come il
corpo
immobile del mio amore, contro cui cozzavo spinta da potentissimi
singhiozzi.
Farfugliavo, piangevo, biascicavo
ingiurie e parole
che ancora resistevano, pronunciate da quella piccolissima parte di me
che
ancora non poteva accettare quello che stava accadendo.
Quando il mio respiro si fece
pesante, stanco, e i
singhiozzi cessarono, lasciando il posto a pesanti lacrime, vidi nella
mia
mente annebbiata delle mani, che allontanavano le braccia immobili di
Edward da
me.
Qualcuno mi afferrò,
prima che potessi definitivamente
cadere a terra e mi adagiò delicatamente sul letto,
accarezzandomi e forse
anche rassicurandomi. Non prestavo troppa attenzione ai volti,
né alle parole.
Vedevo Edward in piedi, immobile
nella stanza e
qualcuno, forse più di uno, che lo faceva uscire, portandolo
con sé.
Jacob
aveva
abusato di me.
Di me, del mio corpo.
Non potei fermare una nuova ondata di lacrime e mi abbandonai,
piangente, sulla
spalla della persona che mi stava accanto.
Alice.
Mi ritrassi, esausta, gemendo.
Lei mi fissò
dispiaciuta, profondamente addolorata.
«Bella ti prego» disse con voce rotta
«non posso sopportare di perderti ancora».
Mi gettai di slancio fra le sue
braccia, di nuovo,
liberando nuove, infinite lacrime.
Avevo la testa pesante e dolorante
e non riuscivo a
fermare i fremiti involontari che mi pervadevano il corpo. Ero esausta,
non
avevo una buona percezione dello spazio intorno a me, complice la testa
che non
aveva smesso un istante di girare. Sentivo umido, e il sapore salato
delle
lacrime.
Che cosa dovevo fare?
Non posso sopportare di perderti
ancora.
Proprio ora che mi stavo ritrovando.
«Alice»
farfugliai, la voce roca per tutte le lacrime
versate «dov’è Edward?»
mormorai, staccandomi da lei e scostando la coperta che
probabilmente mi avevano messo addosso. «Devo parlare con
lui» biascicai
sconnessamente, provando ad alzarmi.
«No, aspetta»
disse bloccandomi e facendomi stendere.
Non riuscivo a reggermi in piedi, ero sfinita. Mi accarezzò
la testa «Sta
arrivando, ti ha sentita» mi rassicurò con un
minuscolo sorriso mesto che
scomparve quasi subito dal suo piccolo volto. Andò via.
Edward comparve nella stanza
d’improvviso dove prima
non c’era. Sul suo viso un’espressione di pietra.
Lo studiai in silenzio. Mi
vergognavo così tanto di me
stessa e del mio corpo che i suoi occhi mi parevano bruciare su di me.
Come
sarei riuscita ancora a fare l’amore con lui? Mi avrebbe mai
voluta? Straziata,
mi portai le mani alle labbra, realizzando per la prima volta che
un’altra vita
dipendeva dalla mia volontà. Cosa dovevo fare con mio
figlio?
«Ti
ha…» iniziò in quello che non poteva
essere più di
un sussurro.
«Non ricordo
nulla» farfugliai pianissimo.
Annuì. Strinse i pugni
fino a far sbiancare le nocche.
«È meglio così».
Scossi il capo, molto lentamente.
«Ci ha distrutti».
Fremette, le sue labbra vibrarono e
in un lampo fu un
metro più vicino. «No»
pigolò, afflitto. Serrò gli
occhi. «Ti prego, non lasciamoglielo fare».
«È entrato
dentro di me, Edward. È entrato dentro di
me, dove solo tu eri stato, dove solo tu potevi stare. È
entrato nella mia
anima e l’ha straziata. Mi è entrato dentro e ha
messo un figlio dentro di me»
boccheggiai, lasciandomi andare sulle lenzuola «nessun
farmaco potrà mai
cancellarlo».
Crollò, piegandosi sulle
ginocchia. Il fatto che non
mi avesse ancora toccata mi uccideva. Rimanemmo in silenzio,
così, per un
lunghissimo tempo.
Per un attimo pensai di chiedergli
se avrebbe mai
avuto di nuovo voglia di fare l’amore con me. Non lo feci.
Avevo la stessa
sensazione di quando volevo staccarmi la pelle dalle braccia con le
unghie,
moltiplicata per mille. Volevo fare un bagno nell’acido,
sciogliere tutta la
mia pelle e cancellare la mia vergogna e il mio dolore.
Ero stata abusata. Davvero, fino in
fondo. E dentro di
me portavo il figlio di uno stupro.
Mi sembrava che morire fosse
più facile che sopportare
quel dolore che mi stava facendo impazzire. Sapevo cosa andava fatto.
Edward aveva fatto abbastanza per
me.
Mi sollevai sulle gambe malferme e
gli andai incontro,
chinandomi sul pavimento freddo ed abbracciandolo.
«Lo so»
mormorò al mio orecchio, sulla mia spalla,
senza guardarmi. «So quello che hai detto a Jasper».
Mi raggelai, sconvolta. Mai mi
sarei aspettata, in
quel momento, di sentire quelle parole. Come poteva essere successo?
Gliel’aveva forse detto…?
«No» disse Edward, intuendo i miei
pensieri. «Non me l’ha
detto lui, lo so dal giorno prima del matrimonio. L’unica che
può nascondermi i
suoi pensieri, a volte, è Alice». Si
staccò da me, guardandomi per la prima
volta con intensità.
Calde, stanche, stanchissime
lacrime avevano
ricominciato a scendere dai miei occhi pulsanti.
«Perché non…?» balbettai.
«Perché non ti
ho impedito di sposarmi nonostante lo
sapessi?» mormorò, mortalmente serio. Mi
carezzò il viso. «La prima cosa che ho
pensato è stata che dovevo lasciarti andare».
Aprii la bocca, sconvolta.
Serrò la mascella,
studiandomi. «Poi ho pensato che non
potessi commettere lo stesso errore un’altra volta. Ho
parlato con Alice, e lei
ti ha parlato, e mi ha convinto che quello che volevi, anche
più che avere un
figlio, era stare con me» inclinò il capo di lato,
sfiorandomi con la dolcezza
del suo sguardo senza vita.
«Perché me lo
stai dicendo?» balbettai fra le lacrime.
Si aprì in un lungo,
lunghissimo sorriso triste. «Lo
sai perché».
Mi piegai in un singhiozzo,
stringendomi le braccia al
petto che mi sembrava stesse andando in mille pezzi. «No,
no» farfugliai
scuotendo il capo «ci sta uccidendo. Non ho più
vita, non ho più forza. Non
possiamo sopportare anche questo, Edward. Non possiamo. Sai cosa va
fatto».
Prese un respiro,
un’espressione devastata sul viso.
«Non c’era vita nella mia dannazione. Non
c’era forza, non c’era via d’uscita.
Ma poi ho incontrato te, e non ti avrei mai incontrato se non fossi
stato
dannato».
«Questo non ha niente a
che vedere con…»
«Non posso permettere che
tu lo faccia» mi disse,
fissandomi negli occhi. «Che rinunci alla tua unica
possibilità di essere
madre, e ancora di più che uccidi un altro essere
umano» disse, facendomi
sussultare «farlo ti ha condotta sull’orlo del
baratro più di quello che lui ha
fatto a te. Pensi che ti farebbe stare meglio, che aggiusterebbe le
cose fra di
noi, ma non è così» fece, determinato
«solo l’amore può far stare meglio.
L’odio non aggiusta nulla. Fa stare solo peggio».
Scossi il capo. «Non
chiedermelo, ti prego»
singhiozzai esausta.
Si alzò in piedi,
guardandomi dall’alto. «Non te lo
sto chiedendo. Ti sto dando la possibilità di fare la cosa
giusta».
«No» scossi il capo «ci
spezzerà».
«Non lo so»
mormorò «forse. Ma uccidere tuo figlio non
ci salverà di sicuro» sussurrò, lieve
«ti amerò comunque per sempre» disse,
prima di scomparire nel nulla.
Mi lasciai andare sul pavimento in
un mucchio di
spasmi singhiozzanti. Se il giorno dopo essere stata salvata mi ero
sentita
morire, adesso, non so come, in che modo fosse possibile, mi sentivo un
miliardo di volte peggio. Se solo avessi potuto avrei davvero preso
quella
boccetta di calmanti per sprofondare in un sonno che lenisse tutto quel
dolore.
Chiusi gli occhi, esausta da ogni singolo dei miei pensieri.
Trasalii quando mi sentii toccare
il braccio e poi
qualcosa pungermi. Era Carlisle. Ed io ero di nuovo a letto, sotto le
coperte.
«Perdonami, pensavo
stessi dormendo» disse lui, un’espressione
rassicurante.
Sospirai, spostando lo sguardo
dall’ago con una
smorfia di dolore.
«Ho incannulato la vena,
prometto che non ti pungerò più. Dormi, ora. Devi
essere davvero esausta, è
appena l’alba».
Sospirai, piano. Un lentissimo
sospiro stanco. Le mie
palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi
così secchi eppure
così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire.
La mia testa si
riempì di immagini orribili, le più crude, le
peggiori che avessi mai visto.
Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non
potessero più
farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per
vedere fino
a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.
Le mie labbra si mossero
pianissimo, sfregando l’una
contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di
Carlisle, così attenti
e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi
sento così violata» biascicai
umiliata.
Strinse le labbra in un fremito, e
si chinò a
carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di
distruggermi con
il suo tocco. «Lo so bimba mia».
«Cos’è?»
domandai fra le labbra secche, stupendomi
della rochezza della mia voce.
Carlisle si sedette sul letto,
accanto a me. «Un
tocolitico, per la gravidanza. Hai una seria minaccia
d’aborto».
Serrai le palpebre. Come avrei
voluto che la natura
decidesse per me in quel momento. «Non è
giusto» balbettai.
«Shh,
lo so» mi blandì,
accarezzandomi i capelli. «Non è giusto, hai
ragione. Mi dispiace davvero
moltissimo Bella» fece una pausa, e per la prima volta vidi
sul suo volto
un’espressione rammaricata. «Scusami. Avrei dovuto
dare ascolto ai miei figli,
quando mi dicevano che ucciderlo era la scelta migliore. Ora non vi
sarebbe
successo tutto questo».
Rimasi per un attimo senza fiato.
Non riuscivo a credere
che Carlisle potesse davvero pensare quello che stava dicendo.
«Carlisle»
mormorai, avvicinando la mano a stringere
la sua.
Mi guardò ancora,
afflitto, nel più serio degli
sguardi che gli avevo mai visto rivolgermi. «No,
però. Per quanto mi dispiaccia
non tornerei indietro. Scusami, ancora, se puoi. Ma non posso pensare
di
portare via nessuna vita umana, non riesco a pensare che ci sia anche
solo un
più che manifesto e valido motivo per farlo, persino nel
peggiore dei casi».
Mi morsi il labbro con forza.
«Nonostante tutto non
avrei voluto ucciderlo» riuscii a sputare infine, restando
senza fiato dopo
quelle parole.
Annuì. «Lo so
figliola» mormorò con dolcezza,
carezzandomi il braccio.
Singhiozzai, portandomi le mani al
viso. «Come posso
pensarlo dopo tutto il male che mi ha fatto?».
Mi abbracciò con la
tenerezza di un padre. «Non
possiamo controllare il comportamento degli altri, il male che ci
fanno. A
volte sembra che ci distruggano, che non ci lascino alcuna via di fuga,
che
l’unica cosa da fare sia fare altro male. Ma non è
così. L’unica cosa che
nessuno potrà mai, mai, mai togliere a nessun altro essere
umano è la libertà.
La libertà di amare».
Mi portai la mano tremante alle
labbra. «Io ho scelto
di ucciderlo».
«Non ti voglio far
sentire in colpa figlia mia, né ti
sto dicendo cosa fare» mi disse in infinita dolcezza,
«ti sto solo dicendo che
voglio la tua felicità. Che quando si è sommersi
da un abisso di infinita
disperazione c’è solo una cosa da fare per
sfuggire: amare».
Sospirai, piano. Un lentissimo
sospiro stanco. Le mie
palpebre erano calde, stanche, affaticate. Avevo gli occhi
così secchi eppure
così gonfi di lacrime che non aspettavano altro che uscire.
La mia testa si
riempì di immagini orribili, le più crude, le
peggiori che avessi mai visto.
Niente. Mi sentivo così morta dentro che mi sembrava che non
potessero più
farmi nulla. Continuai a pensarci, ancora e ancora, quasi come per
vedere fino
a che punto sarei potuta arrivare prima di crollare.
Le mie labbra si mossero
pianissimo, sfregando l’una
contro l’altra come carta vetrata. Guardai gli occhi di
Carlisle, così attenti
e concentrati, così pieni di pena per me. «Mi
sento così violata» biascicai
umiliata.
Strinse le labbra in un fremito, e
si chinò a
carezzarmi i capelli, lieve, lievissimo, quasi avesse paura di
distruggermi con
il suo tocco. «Lo so bimba mia».
Singhiozzai, allentandomi dal suo
corpo e stringendo
una mano alla bocca e una alla pancia. Mi lasciai andare fra i cuscini.
«Ti senti
male?» mi chiese gentilmente, carezzandomi
la schiena.
«Non lo so…
forse devo vomitare» biascicai, respirando
con la bocca.
Restammo così per un
po’, in silenzio. Alla fine
non vomitai, e la nausea scemò pian piano. Carlisle
sospirò, afflitto. «Avrei dovuto capirlo
prima».
«Non era
possibile» farfugliai afona «nessuno avrebbe
potuto saperlo» dissi, immaginando ancora nella mente scene
colorite che
arricchivano i miei incubi più reconditi. Chiusi gli occhi.
Neppure l’oblio del
sonno mi avrebbe dato alcun sollievo.
«C’è
qualcos’altro che devo dirti» continuò,
afflitto.
«Devi sapere che con tutti i farmaci che hai assunto, il feto
potrebbe aver
subito gravi malformazioni, sperando sempre che la gravidanza non si
interrompa
spontaneamente. A prescindere dalla decisione che prenderai, suggerisco
di fare
dei test per valutare l’andamento della gravidanza, se sei
d’accordo,
potrebbero aiutarmi per farti stare meglio».
Non risposi.
«Posso farti alcune
domande?».
Annuii, lo sguardo perso nel vuoto.
«Bene»
sospirò, fissandomi dispiaciuto. «Quando
è
stata la data della ultime mestruazioni?» mi chiese formale.
I miei occhi si velarono di
tristezza. «Il 28 Luglio».
Carlisle iniziò un
rapidissimo calcolo mentale.
Mi sentii attraversare da un
brivido, poi da una nuova
ondata di nausea.
«Sei certa che sia
proprio quello il giorno?» mi
chiese Carlisle, pensieroso. Poteva un vampiro sbagliarsi a calcolare?
Annuii, distratta dalla mia nausea.
Abbassai il viso
sulla mia pancia. Che lo volessi o no, a prescindere da chi fosse il
padre, lì
dentro c’era mio figlio. Sarei mai riuscita ad amarlo? Come
sarebbe stato bello
essere in un universo parallelo, dove vampiri e licantropi non
esistevano e
dove quel bambino era mio e di Edward, entrambi umani. Sospirai, troppo
stanca
per piangere ancora. Insinuai una mano sotto la maglietta, sotto
l’elastico dei
pantaloni del pigiama, stringendo forte in cerca di un segno.
Mi ritrovai nel mio universo
alternativo.
Fredda e dura. Ecco
com’era la mia pelle. Lo sentivo
debolmente, sotto il mio strato di pelle, ma lo sentivo. Fredda e dura.
Nell’agonia che stavo
provano una gioia sconcertante
esplose dentro di me, insieme ad un’innaturale certezza.
«Bella» mi
chiamò Carlisle, con la sua voce lontana
«questo significa che hai più di tre settimane di
ritardo, che il concepimento
è avvenuto circa cinque settimane fa, e se i tuoi cicli
erano regolari tu eri
ancora con…».
Le lacrime di commozione non furono
in alcun modo
arginate.
«Edward»
dicemmo insieme.
Immediatamente tutta la stanchezza
scomparve in un
solo istante, balzai giù dal letto, strappandomi
l’ago della flebo dal braccio.
«Aspetta Bella, non ne
sono certo!» mi richiamò
Carlisle, troppo tardi.
Io si. Io ne ero certa.
Riuscii a fare tutte le scale di
corsa, senza mai
cadere, senza mai inciampare. I piedi nudi producevano suoni ritmici e
veloci
sul parquet.
Esme e Rosalie mi fissarono sbigottite,
ma non dissero
nulla. Alice mi sorrise emozionata, così che continuai a
correre, più veloce di
prima.
Mi lanciai fuori dalla porta, sotto
la pioggia fitta e
pesante, continuando a correre finché non raggiunsi il
centro esatto del
giardino.
«Edward!» urlai
a squarciagola, «Edward!» gridai
ancora, piegandomi per riprendere fiato, «Edward!»
ripetei, con quanto fiato
avevo in corpo.
Dal fitto della vegetazione,
attraverso la coltre di
pioggia, vidi avanzare la figura di mio marito, a passo umano. Mi
lanciai di
corsa, ancora, sciaguattando con i piedi nudi nel fango, fino a
buttarmi fra le
sue braccia.
Attaccai le mie labbra alle sue
febbrilmente, con
amore, passione, gioia e paura di quella tanta troppo gioia. Lo tenevo
stretto
a me, la sua testa fra le mie mani, fra i suoi meravigliosi capelli
bagnati. Lo
baciavo, ancora, ancora, senza staccarmi, comunicandogli tutta la mia
felicità
e il mio amore immenso. Perché aveva compiuto un miracolo,
un piccolo grande
miracolo. Perché in un istante, tutto l’universo
si era ribaltato, rendendo
possibile che portassi in grembo mio figlio,
mio e di Edward, nato dal nostro immenso amore.
Edward si staccò da me,
guardandomi con immenso amore
e dolore, insieme, scostandomi una ciocca bagnata di capelli dal viso.
«Va
bene, Bella. Hai fatto la scelta giusta, sarò davvero come
un padre per lui…».
«No Edward. No»
dissi decisa, sorridendo dell’immensa
indescrivibile emozione totalizzante che provavo in quel momento.
«Tu non sarai
come un padre».
Si bloccò, confuso, non
capendo le mie parole.
«Tu sei suo
padre».
Lui fece un’espressione
sbigottita, per poi rivolgere
lo sguardo alle mie spalle. Mi voltai. C’era tutta la
famiglia. Carlisle fece
un cenno d’assenso, sconcertato.
Edward riportò i suoi
occhi nei miei «Ma… com’è
possibile?» balbettò, gli occhi sgranati.
Sbattei le palpebre per via della
pioggia. «È
possibile» dissi solo.
Scosse il capo, incredulo
«No… Non… Non è
così…».
«Edward» lo
chiamai tremante, prendendo la mano che
aveva ancora sulla mia guancia e portandola lentamente verso la pancia,
senza
mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi ambra. Sentivo il cuore nelle
orecchie. Infilai la mano sotto la maglietta bagnata, posando il suo
palmo
sulla mia pelle. «È tuo figlio».
I suoi occhi immobili si sciolsero,
accettando in un
sospiro quell’incomprensibile verità.
Chiusi gli occhi, sentendo il
freddo irradiarsi dalla
pancia in tutto il mio corpo, come se stessi godendo in quel momento
del più
puro e incorruttibile piacere.
La mano di Edward aderì
completamente alla mia pancia
ed io posai sopra la mia, riaprendo gli occhi e trovando la sua
espressione sconvolta.
«Mio figlio»
farfugliò, emozionato, per poi baciarmi.
I vampiri non dormivano e quella
notte sembrò più
giorno che mai in casa Cullen.
Volevo essere una di loro, stare
con loro, parlare e
capire come l’impossibile fosse diventato possibile dentro di
me. Ma avevo una
stanchezza ben più profonda di quella mai provata nel resto
della mia vita. Mi
si chiusero le palpebre e dolcemente mi lasciai trasportare dalla forza
di
gravità. Nella mia mente avevo un vortice confuso di
pensieri che girava
veloce, veloce, veloce, impedendomi un vero sonno ristoratore.
«Dalla a me, le metto
qualcosa di asciutto» disse una
voce. Forse era Rosalie. Sentivo lontane delle mani su di me, ma non
capivo se
fossero un sogno o la realtà. C’era un calore
confortevole. Aprii leggermente
gli occhi quando sentii il rumore di un phon. Ero nel bagno adiacente
alla
camera di Edward. Alice mi asciugava i capelli e Rosalie finiva di
sistemarmi
una vestaglia asciutta.
Gemetti, stringendomi la pancia.
Volevo dirgli che mi
faceva di nuovo male, ma non ci fu bisogno di parlare. Quando riaprii
debolmente le palpebre ero a letto, e la flebo era di nuovo al suo
posto. Stavo
un po’ meglio.
Non so quante ore dormii.
«Ecco, tieni. Le ho
preparato questi».
«Alice, il denim non va
ancora bene per lei».
Un sospiro trattenuto.
«Sono i suoi preferiti».
«Sì, ma
ciò non toglie che… Bella» mi
chiamò Rosalie
con un sorriso appena aprii gli occhi.
Mi portai una mano alla testa. Mi
girava e pulsava
dolorosamente. La cannula della flebo non c’era
più, al suo posto solo un
cerotto. Rapidamente, mi coprii la pancia con entrambe le mani. Non
faceva più
male pensai con… sollievo.
Sollevai lo sguardo sulle mie
sorelle vampire, e vidi
le loro espressioni serene, i sorrisi sui loro volti. «No,
non l’hai solo
sognato» mi rassicurò Alice.
Sibilai, sconvolta.
«Com’è stato possibile?».
Rosalie rise, una magnifica risata
calda e femminile
«Non lo sappiamo davvero, è…assurdo, e
Carlisle è il più sconvolto di tutti
noi, anche se è fermamente convinto che tu abbia
ragione».
«Convinto?»
domandai agitata, passando con lo sguardo
fra di loro. Volevo che ne fosse certo. «Alice, tu non vedi
nulla?».
La vampira contrasse la sua
espressione, pronta a
parlare, ma fu subito interrotta dalla sorella.
«Non ancora. È
troppo presto per averne la certezza,
ma sono sicura che presto tutto si farà più
chiaro» intervenne Rosalie con un
sorriso rassicurante.
Mi sollevai per mettermi seduta, ma
la testa mi girava
tantissimo, tanto che ricaddi fra i cuscini.
«Piano, sei
stanchissima» mi bloccò, «hai dormito
solo
qualche ora. Non vuoi riposare ancora?».
«No»
farfugliai, prendendo un lungo respiro per
calmarmi. «Ho bisogno di sapere. Dov’è
Edward?».
Non appena pronunciai il suo nome
mio marito fece il
suo ingresso nella stanza. Nello stesso istante Rosalie ed Alice
scomparvero
come lui, in un batter d’occhio, e mio marito si
materializzò davanti a me e si
chinò ad accarezzarmi il viso, facendomi sussultare. Si
bloccò. «Scusa. Troppo
in fretta».
Scossi il capo e posai una mano
sulla sua. Mi sembrava
molto più tranquillo, pacato, come non lo era stato da
tempo, eppure elettrico
e frenetico. «Io» mormorai, non riuscendo a
distogliere lo sguardo dai suoi
occhi dorati «come facciamo ad esserne certi?».
Senza dire una parola
avvicinò una mano alla mia
pancia, in basso, e la posò delicatamente. Fremetti al suo
tocco, che doveva
essere freddo ma che in quel punto mi sembrava che fosse alla mia
stessa
temperatura. Quella era già una risposta, ma volevamo
entrambi di più, glielo
leggevo negli occhi. «Sai cosa dovremmo fare» mi
rispose serio.
Abbassai lo sguardo sul copriletto,
tentando di farmi
coraggio. «Dovrò venire in ospedale».
Strinse le labbra, sposando il viso
per ricercare il
mio sguardo. «Non è solo questo, Bella. Per avere
la certezza della gravidanza
basterebbe un’analisi delle urine o del tuo sangue, ma
Carlisle ne è già
piuttosto sicuro» disse con certezza, facendomi sussultare.
Annuii, ancora sconcertata da
quell’idea. Una
gravidanza.
«Ma per avere la certezza
che…» si bloccò, spostando
rapidamente lo sguardo in cerca delle migliori parole «se
vogliamo fugare ogni
ragionevole dubbio sul fatto che sia mio ci sarà bisogno
dell’altro».
Presi un respiro, spaventata dalla
piega che stava
prendendo la conversazione. «Non ne ho bisogno. Io sono certa
che sia tuo»
balbettai.
Sospirò, provando a
sembrare ragionevole. «Lo so,
capisco cosa intendi. Ma capirai che…»
spalancò gli occhi, sconvolto dalle sue
stesse parole «non è mai successo che un vampiro
avesse un figlio».
Strinsi la mano sul suo braccio.
«Magari non è mai
successo che un vampiro facesse l’amore con un
umana».
Mi sorrise, carezzandomi la guancia
con il dorso della
mano. «Probabile. Ma vuoi davvero credere a questa
incredibile storia solo
sulla fiducia?». Stavo per rispondere di sì,
preoccupata dagli esami a cui mi
sarei dovuta sottoporre, quando aggiunse, più delicatamente,
quasi a voler
evitare di turbarmi «non è solo questo. Carlisle
vuole datare la gravidanza e
capire quanto è grave la minaccia di aborto».
Sospirai, arrendendomi mal
volentieri alla logica dei
suoi pensieri. «Capisco».
«Davvero?»
domandò ansioso, poi aggiunse molto
cautamente «Per farlo ha bisogno almeno di
un’ecografia e una vista, cose che…»
esitò, guardandomi di sottecchi e studiando la mia reazione
«lo so, potresti
trovare fin troppo invasive nel tuo stato emotivo attuale».
Strinsi le labbra, preoccupata. Fin
troppo invasive.
Tremai e mi portai una mano alla pancia. «Carlisle ieri sera
ha detto che… i
farmaci che ho assunto potrebbero aver fatto male al bambino»
deglutii
preoccupata.
Edward annuì,
guardandomi attento negli occhi. «È
così, ma non lo sapremo finché non faremo gli
esami necessari».
Sospirai, perdendomi con la mente
nell’immaginazione
del nostro bambino. Nostro
figlio. Non potevo credere fosse vero.
«È davvero così importante, poi? Penso
che lo amerei a prescindere, anche se
vorrei con tutto il cuore che stesse bene».
Edward mi sorrise, e anche se era
teso per un attimo
si permise di far uscire tutta l’emozione che provava sul suo
volto. «Penso che
lo amiamo già».
Tremante risposi al suo sorriso,
permettendomi di far
uscire dai miei occhi provati delle lacrime di gioia.
«Diventeremo genitori,
davvero?».
«Lo spero. Ma»
continuò, sapendo di dover insistere
dove io continuavo ad essere evasiva «abbiamo davvero bisogno
di sapere tutto
il possibile, non solo per il bambino. Se davvero questo miracolo si
stesse
realizzando, sarebbe senza dubbio una gravidanza straordinaria. Abbiamo
bisogno
non solo di capire come sta questo bambino, ma anche come stai tu, come
sta
reagendo il tuo corpo a questi cambiamenti» mi prese entrambe
le mani e le
strinse con dolcezza fra le sue «hai dei sintomi molto
importanti, sei molto
stanca e provata, e come se non bastasse la gravidanza è
iniziata in un momento
estremamente delicato della tua vita».
Sospirai, distogliendo lo sguardo
dal suo volto.
Serrai le palpebre. «Mi stai dicendo che non ho scelta,
vero?».
Sentii le sue mani irrigidirsi.
«Non voglio mai, mai
più che pensi nella tua vita che non avrai scelta»
mormorò, con un tono
sommesso, spaventato di potermi aver turbato «sto solo
dicendo che è arrivato
ora, forse troppo in fretta, il momento di dover prendere questa
decisione. Mi
dispiace» disse, accarezzandomi le mani con i pollici.
Mi volsi nuovamente a guardarlo, a
osservare il suo
viso da eterno ragazzo che racchiudeva la saggezza di centocinque anni
di vita
usata con tutto il cuore ad imparare ad amarmi. Non potevo deluderlo.
Avevo
paura, ma sentivo che dovevo cogliere quell’occasione
miracolosa che mi era
stata donata per fare un passo avanti e per liberarmi del mio passato.
Annuii.
«Va bene» mormorai con un piccolo sorriso.
Mi carezzò il viso,
sorridendo a sua volta. «Sei
l’umana più forte che conosca».
Sorrisi più ampiamente.
«Non conosci molti umani
Edward» lo presi in giro.
«Sei anche la
più simpatica» scherzò di rimando,
sollevandosi per lasciarmi un leggero bacio sulle labbra.
«Hai fame? Hai
bisogno di una mano per prepararti?».
«Di questo ce ne
occupiamo noi, se non ti dispiace»
disse Rose, comparendo sullo stipite della porta con Alice.
«Va bene?» mi
chiese conferma Edward.
Annuii. «Sì,
vai. Non ci vorrà molto».
In un attimo era accanto alla
sorella. Mi fece
sussultare vederli muovere di nuovo così in fretta, ma non
dissi nulla. Per
loro doveva essere davvero una sofferenza muoversi a passo umano. Era
solo
un’altra cosa a cui mi sarei dovuta riabituare.
Edward si chinò a
mormorare qualcosa a Rosalie, così
vampirescamente piano che non riuscii a capire. La sorella
annuì, concentrata.
Alice si voltò a fissarli di sottecchi, quasi fosse
contrariata. Sentii un
brivido attraversarmi mentre pensavo che stessero parlando di me, ma
non dissi
nulla. Era giusto che anche loro avessero dei segreti.
Cautamente mossi le coperte da un
lato e feci per
alzarmi dal letto. Mi fermai un attimo: la testa mi girava tantissimo.
«Bella» mi
chiamò Alice, venendo a sostenermi per i
polsi «ce la fai tesoro?».
«Sì»
sussurrai, adattandomi rapidamente a quella
posizione «voglio solo andare a fare una doccia
veloce».
Edward sollevò un
sopracciglio, osservandomi. Fece per
dire qualcosa ma fu interrotto da Rosalie.
«Me ne occupo io,
tranquillo. Vai pure a… sistemare il
resto».
Annuì.
Sentii un fruscio di vento e un
altro rapido
freschissimo bacio sulle labbra. Mi dovetti aggrappare ad Alice per non
cadere
in terra in preda ad un nuovo capogiro. «Questo non aiuta
affatto» balbettai.
«Tesoro» mi
chiamò Rosalie «bevi un bel bicchiere
d’acqua, ti aiuterà» disse, facendo
comparire un bicchiere d’acqua fresca
davanti a me «ed è anche passata l’ora
delle tue medicine» aggiunse, e nella
sua mano sinistra comparve la mia compressa di antidepressivi.
La guardai, prendendo con una mano
il bicchiere ed
esitando.
Sentii la presa di Alice farsi
più forte sulle mie
braccia e mi voltai a guardarla. «Tu avevi previsto che avrei
smesso presto» mi
ricordai, rammentando solo allora dello stupore sul viso di Edward e
Carlisle
quando Alice gli aveva raccontato della sua visione. Che motivo poteva
esserci
allora per sospendere così presto la terapia? Adesso cone la
storia della
gravidanza, era tutto diverso.
Annuì, sollevando un
sopracciglio quasi con aria di
sfida. «Sì, è
così».
Rosalie sospirò
seccamente. «Bella» disse, facendo un
passo avanti nella mia direzione «non puoi sospendere la
terapia così
bruscamente. Ti farebbe stare molto male».
«Ma Rosalie»
provai a protestare, portandomi delicatamente
una mano alla pancia «Carlisle ha detto che fa male al
bambino».
«Tesoro» mi
disse, venendomi ancor più vicina e
carezzandomi un braccio «capisco le tue preoccupazioni,
davvero. Ma il tuo
bambino non può stare bene se tu non stai bene. Questi
antidepressivi»
continuò, mettendomi la compressa in mano «li
prendono molte donne in
gravidanza con disturbi d’ansia e attacchi di panico, ed
hanno solo pochi
effetti collaterali, molto minori dei benefici che ti daranno. Ti
prometto che
eviteremo i sonniferi, che sono quelli più pericolosi. Va
bene?».
Sospirai, stringendo la mano in cui
tenevo la
compressa. Capivo il discorso di Rosalie, ma non volevo ancora
rischiare di
fare del male al bambino, non più.
«Io…» esitai.
«Oggi sarà una
giornata molto delicata» continuò
persuasiva «è possibile che dei ricordi ritornino
alla mente e che…».
«Rosalie» la
fermò Alice, serena nella sua totale
serietà.
Tremai.
«Alice»
sibilò di rimando. «Si è
raccomandato»
sussurrò a voce bassissima.
Ansimai. «Io»
deglutii «va bene, tutto okay. Vado a
fare la doccia» dissi prendendo la compressa e mandando
giù l’acqua. Posai il
bicchiere sul comodino e marciai fra le due sorelle e i loro sguardi
pesanti.
Non sapevo e non volevo sapere cosa stesse accadendo. «Ho
bisogno di un po’ di
privacy per favore» aggiunsi, chiudendomi la porta del bagno
alle spalle.
Sollevai la tazza del water e sputai la compressa che avevo fra i
denti. Presi
dei lunghi respiri, mi carezzai la pancia e sperai di aver fatto la
scelta
giusta.
Riuscii a prepararmi completamente
da sola dopo tanto
tanto tempo. Quando finii di lavarmi ed asciugarmi i capelli mi guardai
nello
specchio e realizzai che in realtà non ero mai stata sola.
Che anche quando
Jacob mi aveva rapita e mi sentivo persa avevo un pezzettino di Edward
dentro
di me. Sorrisi, sconvolta e meravigliata, guardando la pancia ancora
completamente piatta. Forse potevamo davvero ricominciare ad avere una
vita
normale, pensai emozionata.
Quando uscii dalla stanza trovai,
perfettamente
piegati sul letto del tutto riordinato, due cambi di vestiti, con i
loro
rispettivi completi intimi e scarpe corrispondenti. Per un attimo
pensai che mi
volessero lasciare scegliere, ma poi mi chiesi se non avesse a che fare
con lo
strano comportamento di Alice e Rosalie quella mattina.
Scossi il capo. Chissà
cosa gli passava per la mente.
Guardai con malinconia il completo con i jeans e la morbida maglietta
di cotone
abbinata e mi sfiorai da sotto l’accappatoio
l’interno coscia. Mi dava ancora
un po’ di fastidio. Con un sospiro dovetti decidermi ad
indossare il vestito
bordò, di jersey, decisamente fuori dal mio stile, ma almeno
abbastanza
semplice da non farmi sentire a disagio.
Qualcuno bussò alla
porta. «Posso?» mi disse Alice,
entrando.
Annuii.
«Certo».
Mi sorrise, scrutando il mio
abbigliamento. «Rosalie
lo aveva detto, ma volevo che sapessi che potevi tornare alla
normalità, se
avessi voluto».
Mi guardai, studiando il vestito
che avevo addosso.
«Grazie».
Scrollò le spalle.
«Hai fatto tutto da sola. Lascia
che ti sistemi i capelli, ci metterò un attimo e
farò una cosa semplice».
Le sorrisi, andandomi a sedere sul
bordo del letto.
«Grazie mille Alice. Per tutto, per essermi stata
accanto».
Ridacchiò e si fece per
un attimo seria, venendo alle
mie spalle per acconciarmi. «Edward si è molto
arrabbiato per le mie visioni
inesatte, quando ha creduto che ti fossi suicidata con i
sonniferi».
«Lo immagino»
mi rabbuiai «mi dispiace».
Lei sorrise, come se fosse
già acqua passata. «Avevo
visto il vostro bacio nella pioggia, e quanto sareste stati contenti
oggi. Alla
fine è successo. Ma, Bella, riguardo ai calmanti»
disse, terminando la treccia
francese e voltandosi a guardarmi negli occhi «non
costringermi a mentirgli
ancora. Oggi ti coprirò, ma poi digli la verità
se non vuoi prenderli».
Sussultai, colpita. Mi ero quasi
dimenticata che era
praticamente impossibile tenere qualcosa nascosto ad Alice. Poi annuii,
colpevole. «Hai ragione».
Sorrise ancora e mi diede un
piccolo buffetto sulla
guancia. «Andiamo. Ti sta aspettando».
Dabbasso c’era solo Esme,
che mi aveva preparato una
merenda da mangiare dopo che avessi fatto il prelievo. Mi spiegarono
che Jasper
ed Emmett erano andati a fare ricerche per trovare informazioni sulla
procreazione fra vampiri. Esme trattenne a stento la sua gioia e la sua
emozione, abbracciandomi solo come una madre può fare.
Quando fui sul sedile posteriore
della Volvo mi
strinsi a Edward, sperando che mi sarebbe bastata la sua vicinanza e il
mio
coraggio per non avere un attacco di panico quel giorno così
difficile. Sperai
che il bambino stesse bene, che riuscissi a portare avanti la
gravidanza e che
il mio corpo fosse sufficientemente forte per farlo. E cercai di non
pensare a
come per scoprire tutte quelle cose mi sarei dovuta sottoporre a delle
attenzioni che volevo evitare per il resto della mia vita.
Ero estremamente fiduciosa della
paternità del
bambino, per quanto fosse incredibile, ma anche se questo mi diceva che
Jacob
non era andato fin in fondo, con me, non poteva cancellare il senso di
violazione che mi sentivo addosso. Come potevo pensare di poter
ricevere quel
genere di attenzioni da qualunque essere umano o vampiro?
Già farsi visitare da
Rosalie era stato così atroce, umiliante e imbarazzante.
Farlo ancora… mi
sembrava una tortura.
Edward posò la mano
sulla mia, che avevo portato in
grembo. «Tutto bene?»
Annuii rapidamente e mi volsi a
guardare verso il
finestrino. «Come mi guarderà la gente? Cosa
penserà?» domandai, mal celando la
mia agitazione e cercando di dirottarla comunque su ciò che
mi preoccupava
meno.
«Ehi tranquilla, non ti
devi preoccupare di questo»
sussurrò, scrutandomi preoccupato.
«Sarò sempre con te e nulla potrà farti
del
male. Concentriamoci sul bambino».
Presi un grosso respiro. Non potevo
fargli capire di
essere già così agitata. Feci un piccolo sorriso.
«Hai ragione».
In pochissimo tempo ci ritrovammo
all’ingesso
dell’ospedale di Forks. Edward mi aiutò a scendere
dall’auto, poi mi mise una
mano attorno ai fianchi, guidandomi nell’edificio insieme a
Rosalie, mentre
Alice andava a parcheggiare.
Appena entrammo si sentì
forte l’odore di alcol misto
a candeggina. Storsi il naso.
«Nausea?» mi
chiese Edward, fermandosi a scrutarmi.
«Non ho mai sopportato
l’odore che c’è negli
ospedali»
risposi evasiva, facendomi guidare verso l’accettazione.
L’ospedale era pieno di
gente e questo mi diede molto
più la nausea di quanto non facesse l’odore. Mi
sentivo pallida e agitata, e il
mio stato peggiorò quando mi accorsi delle occhiatine di
stupore e sorpresa che
mi riservava la gente di Forks. Era una cittadina troppo piccola. In un
attimo
mi ritrovai a pensare che non potevo controllare tutte le persone che
erano in
quella stanza, i loro movimenti, gli spazi così ampi, tutte
quelle porte e mi
diedi della stupida per non aver preso i farmaci che, lo sapevo,
avrebbero
scacciato almeno quei pensieri.
Edward mi fissò di
sottecchi, intuendo immediatamente
il mio stato. «Vieni, andiamo in un posto più
tranquillo» mi disse,
stringendomi forte fra le sue braccia e guidandomi fra i corridoi.
“Patologia
ostetrica e ginecologica, gravidanza e puerperio”
diceva l’intestazione del
reparto in cui stavamo entrando. Voltammo rapidamente in una stanzetta
adiacente ad un corridoio con molte porte “Ambulatori”.
Era ora di
pranzo e sedute sulle sedie c’erano meno di una decina di
persone, la maggior
parte donne con grossi pancioni accompagnate dai propri mariti o dalle
proprie
madri.
«Il Dottor
Cullen in chirurgia. Il dottor Carlisle
Cullen è atteso d’urgenza in chirurgia»gracchiò una voce negli
altoparlanti.
Alice si sedette su una sedia di
plastica di fronte a
quella in cui eravamo io e Edward «Stavo per dirvelo, ci
impiegherà un po’».
Sospirai, mentre Edward mi aiutava
a togliere il
giaccone. Mi accarezzò le guance arrossate per lo sbalzo
termico.
«Vado a chiedere se
intanto le fanno il prelievo, così
potrà mangiare qualcosa» disse Rosalie ad Edward.
Sollevò lo sguardo su di me,
sorridendo per confortarmi. «Va bene tesoro?».
Annuii, faticando a prendere le
redini della mia
mente. Con lo sguardo passai in rassegna tutte le persone presenti
nella
stanza, memorizzando le loro posizioni, i loro volti e accorgendomi
delle loro
occhiate nei miei confronti.
Nella stanza entrarono altre due
persone, due uscirono
e una porta sbatté. Trasalii, di nuovo angosciata. Sentivo
di non avere alcun
controllo su quel posto che non conoscevo.
«Signora
Cullen» mi chiamò un’infermiera, uscendo
dalla porta di uno degli ambulatori.
Mi sollevai in piedi rapidamente e
per fortuna Edward
mi raggiunse sorreggendomi perché mi sentivo tremare da capo
a piedi. «Scusa»
balbettai «non mi è mai piaciuto il momento di
farmi pungere dagli aghi».
Mi fissò, scrutandomi.
«Lo so». Sapeva che era molto
più di quello. «Vengo anche io».
«Sei sicuro?»
domandai preoccupata.
Crucciò le sopracciglia.
«Pensavo che avessimo
chiarito il fatto che il tuo sangue non mi dà più
alcun problema ormai».
«Lo so, ma» mi
voltai a fissare le sue sorelle, tese
nelle posizioni vampire per quanto fingessero totale indifferenza
«ci sarà il
sangue di molte altre persone lì».
Sorrise della mia premura.
«Sono andato a caccia ieri,
e se posso resistere al sangue della mia cantante posso resistere a
quello di
chiunque altro».
Sospirai, poi annuì.
«Entra solo la
paziente» disse la donna quando ci
avvicinammo.
Edward sorrise, rilassato.
«Si fidi, entro anche io».
Mi dovetti adattare a stare in
un'altra stanza che non
conoscevo, e questo mi causò un po’ di agitazione.
Per fortuna eravamo solo io,
Edward e l’infermiera grassoccia. Stetti stesa sullo scomodo
lettino tutto il
tempo e non guardai neppure per un attimo l’ago.
Quando Edward fu abbastanza sicuro
che non sarei
svenuta tornammo nella sala d’attesa, ma la situazione era
completamente
cambiata. Adesso era completamente piena e il viavai di gente era
aumentato
così tanto che molti erano in piedi. Riconobbi i volti di un
paio di persone
che avevo visto a scuola e figli di commercianti del posto. Mi
fissavano e mi parve
quasi che il brusio aumentasse alla mia vista. Era un gesto
così inequivocabile
essere in quel posto? Anche loro si sarebbero chiesti di chi fosse il
bambino?
Mi guardai intorno rapidamente in cerca delle porte, ma non riuscivo a
visualizzare via di fuga con tutta quella gente.
Mi sentivo pallidissima e un sudore
freddo stava
cominciando a imperlare la mia fronte, mentre sentivo un ronzio nelle
orecchie.
«Edward» lo chiamai, sofferente, tentando
inutilmente di minimizzare il mio
stato. «Io…» presi un respiro,
angosciata. Non volevo avere un attacco di
panico, non così presto, non lì in pubblico.
«Ho bisogno di un posto più
tranquillo».
Mi strinse rapidamente per i gomiti
prima che potessi
cadere a terra. Mi trascinò piano verso il bagno
lì vicino e Alice e Rosalie ci
raggiunsero rapidamente. «Shh, tranquilla, va tutto
bene» mi rassicurò,
trattenendomi contro il suo corpo e avvicinandomi al lavabo per
sciacquarmi il
viso con l’acqua fresca.
Ansimai in cerca d’aria.
«Mi sento svenire» farfugliai
pianissimo, faticando a sorreggermi ai bordi del lavello.
«No, no, tranquilla, ti
tengo io. Shh» mi rassicurò,
trattandomi per la vita e carezzandomi la schiena con movimenti
circolari.
Rosalie mi venne vicino, e
tirò fuori una bottiglietta
d’acqua fresca dalla borsa. «Tieni, questo ti
aiuterà».
«Cos’è?»
domandai tremante.
Crucciò le sopracciglia.
«È solo acqua».
In quel momento accadde qualcosa.
Edward s’immobilizzò
e s’irrigidì e si voltò con un ringhio
verso Alice. «Davvero?» ruggì.
Lei sostenne il suo sguardo con
serietà. «Lo ha deciso
da sola».
«Vi avevo detto di
assicurarvi che prendesse i
calmanti!» esclamò arrabbiato «Guarda in
che stato è adesso, forse le verrà
anche una crisi d’astinenza per il dosaggio che
faceva!».
«Mi dispiace»
singhiozzai, peggiorando il mio stato
«scusami, è colpa mia. Non volevo fare altre cose
che facessero male al
bambino» piansi, piegandomi sulla pancia «pensavo
di farcela. Non prendertela
con Alice».
Edward stette in silenzio e mi
strinse più forte
finché non smisi di piangere e mi calmai. Rosalie, tesa e
arrabbiata almeno
quanto il fratello, convinse Alice ad uscire dal bagno e lasciarci soli
per un
po’. Calmarsi fu difficile, e mi costrinsi con tutte le forze
a concentrare i
miei pensieri vorticosi su una singola cosa positiva, come mi aveva
insegnato
Rosalie durante la psicoterapia. Alla fine mi sentivo spossata, ma la
testa non
girava più e l’angoscia era passata.
«Bevi» mi disse
Edward, porgendomi la bottiglietta «e
mangia qualcosa» aggiunse, passandomi il sandwich che mi
aveva preparato Esme.
Lo afferrai, tremante, preoccupata
della stabilità del
mio stomaco. Presi un morso, poi esitai prima di prenderne un altro.
«Sei
arrabbiato con me?» domandai roca, fissandolo di sottecchi.
«No, Bella, sono solo
dannatamente preoccupato».
Trasalii del tuo tono serio, e lui capì che avevo bisogno di
altro in quel
momento. Voleva dirmi che se avevo avuto un attacco di panico solo per
essermi
trovata fra la gente di Forks sarei potuta morire quando fosse arrivato
il
momento della visita, che ormai la sertralina non avrebbe fatto effetto
in
tempo, che probabilmente mi avrebbero dovuto dare le benzodiazepine,
che
avevano molti più rischi per la gravidanza e che odiava
dannatamente lo stato
semi-catatanico in cui mi mettevano. Non lo fece. Mi carezzò
la guancia e disse
«So che volevi fare qualcosa di buono per il nostro bimbo, ma
se tu stai male
starà male anche lui, molto più che per gli
effetti collaterali del farmaco.
Capisci?».
Annuii, piena di sensi di colpa, e
gli tesi la mano
con il palmo aperto.
Sospirò, e
prelevò dalla borsa di Rosalie una
compressa di antidepressivi, mettendomela sulla mano. Sperava almeno
nell’effetto
placebo. La verità era che forse era proprio lui, il
vampiro, ad avere bisogno
delle benzodiazepine per affrontare quello che stava per avvenire.
La mandai giù, davvero
questa volta, senza esitazione,
e poi finii il mio sandwich.
Rosalie aprì la porta
del bagno. «Carlisle sta arrivando.
Ha detto di andare nella…».
«Stanza 3.
Arriviamo» finì Edward.
Mi pulii la bocca dalle briciole
con una mano e mandai
giù un altro sorso d’acqua. «Mi aspetti
fuori? Ho bisogno di usare il bagno un
secondo».
«Preferirei aspettarti
qui» replicò, fermo
nell’androne del bagno.
In quel momento una donna molto
incinta entrò nel
bagno, e si fermò un attimo alla vista di mio marito nel
bagno delle donne.
Esitò, incerta, sgranando gli occhi. Avevo quasi dimenticato
che effetto
facesse sul genere femminile.
«Ci metterò
pochissimo. Sto bene» aggiunsi a voce più
bassa, dandogli un piccolo bacio sulle labbra e costringendolo suo
malgrado ad
uscire.
Usai i pochi minuti umani che mi
erano stati concessi,
e quando uscii dalla toilette mi presi un minuto per sciacquarmi ancora
il viso
con un po’ d’acqua fresca. Guardai i miei occhi
riflessi nello specchio, come
se così potessi anche leggere ed analizzare i miei pensieri
confusi. Sapevo
cosa stava per accadere, e sapevo che non sarebbe stato difficile solo
per me.
Lo sarebbe stato anche per Edward e Carlisle e gli altri membri della
famiglia.
Attraverso quella difficoltà, però,
c’era una promessa enorme. Mi portai
entrambe le mani alla pancia. Era una Grazia così grande
avere una nuova vita
affidata, una nata dall’amore vero e puro fra me e mio
marito, una cosa che non
avrei mai sperato di avere nella mia esistenza. Sentivo che proprio
superare la
mia più grande e più che giustificata paura era
l’atto d’amore che dovevo fare.
Non aver paura,
pensai, e non mi stavo riferendo a me stessa. Carezzai di nuovo quel
miracolo
impossibile. Non so come avrei dovuto trovare la forza di sopportare
quello che
stava per accadere e il modo di renderlo più semplice
possibile anche agli
altri. Dovevo fidarmi di loro.
Entrammo con Edward mano nella mano
in una stanzetta
d’ambulatorio per le visite. Era piccola, ma piuttosto
confortevole. C’era la
macchina per le ecografie e un lettino ginecologico. Ebbi un brivido,
ma non
dissi nulla.
Carlisle mi stava attendendo con
Rosalie, mentre
Alice, dissero, era tornata a casa. Speravo che stesse bene. Carlisle
era ottimista,
lo vedevo dal suo viso disteso e dalla pace che aveva nello sguardo, ma
al
contempo anche molto teso. No, non doveva essere semplice neppure per
lui.
«Bella» mi chiamò, sorridendomi ed
indicandomi la sedia davanti alla scrivania
«come ti senti?».
Sorvolai sull’attacco di
panico avuto nell’ultima ora
e facendo come mi diceva mi accomodai con Edward sulle sedie
«Sto molto meglio
di ieri, la pancia non mi ha più fatto tanto male.
Però» aggiunsi cautamente
«mi sento molto debole».
Mio suocero annuì con un
sorriso rilassato, aprendo
una cartellina con dei fogli stampati e ruotandoli in modo che fossero
nella
mia direzione. Iniziò a spiegarmi, indicando con
l’indice i valori stampati sul
foglio «Hai l’emoglobina un po’ bassa,
che vuol dire che sei un po’ anemica, ma
questo già lo sapevamo» iniziò a
spiegarmi con un sorriso, scambiandosi
un’occhiata con Edward – certo che lo sapevano,
famiglia succhiasangue - «anche
le tue proteine nel sangue sono un po’ basse, probabilmente
perché sei un po’
denutrita, e hai qualche lieve squilibrio elettrolitico,
cioè diciamo dei tuoi
sali nel sangue, ed è compatibile con il fatto che hai
vomitato molto
ultimamente» disse, continuando a voltare pagina
«queste» aggiunse, con un
sorriso ampio che nascondeva appena una punta di tensione
«sono le tue betaHCG,
l’ormone che ci dice che sei incinta».
Mi portai una mano alle labbra,
emozionata. Era
proprio così allora.
Edward mi accarezzò la
schiena con la mano e capii che
anche lui era commosso. Ma lo vedevo, era ancora molto nervoso.
«Francamente ragazzi sono
sorpreso quanto voi»
continuò Carlisle, e sentii che stavano per arrivare le note
dolenti «capite
che non possiamo fermarci qui. Per avere una diagnosi di gravidanza
certa è
indispensabile avere una correlazione ecografica a questo dato
poiché seppur
raramente capita che un aumento delle betaHCG sia dovuto ad altre
cause. Non
possiamo lasciare lo spazio ad alcun dubbio. In
più» continuò passando lo
sguardo fra me ed Edward, includendolo cortesemente nel discorso come
se lui
non potesse leggergli d’un fiato tutti i pensieri,
«abbiamo bisogno di sapere
che l’embrione si sia impiantato correttamente, vedere che
sia formato correttamente
e quanto sia grande per sapere con esattezza quando sia stato
concepito».
«Quindi dobbiamo fare
un’ecografia» conclusi.
«Sì»
aprì e chiuse le mani, poi le posò sulla
scrivania. Non lo avevo mai visto così incerto.
«Non è detto che basti per soddisfare
tutte le nostre domande. Forse non mi basterà usare una
sonda transaddominale
ed è estremamente probabile che ci sia bisogno di fare una
visita ginecologica»
disse, guardandomi con attenzione.
Annuii pianissimo, senza
distogliere lo sguardo dal suo.
Cauto ma deciso continuò
«Abbiamo diverse opzioni, ed
ognuna ha le sue criticità. Può farlo una
ginecologa, è una mia amica ed è
molto brava; ma non conosce la tua storia e se scegliessi questa
opzione ti
suggerirei di raccontargliela per poter essere a tuo agio con lei.
Inoltre ci
potrebbero essere dei problemi perché non sappiamo cosa
può avere di
straordinario questa gravidanza. Può farlo
Rosalie» disse, voltandosi a
guardare la figlia che era sempre rimasta silenziosa e sorridente al
suo fianco
«penso che con lei ti sentiresti a tuo agio. Purtroppo
sarebbe la sua prima visita
ostetrica in assoluto e seppur non metto in dubbio che possa essere
molto brava
non so se riuscerebbe a darci tutte le informazioni di cui abbiamo
bisogno.
L’altra opzione è che lo faccia io»
concluse, e non elencò né pro né
contro.
Non ce n’era bisogno
perché li sapevo molto bene. Era
un medico vampiro con 300 anni di esperienza che conosceva benissimo la
mia
storia, il mio vissuto e la straordinarietà di quello che
stavo vivendo ma… era
Carlisle.
«Cosa pensi?»
mi domandò Edward stringendomi la mano
fra le sue.
Feci un piccolo sorriso, davvero il
massimo che
riuscissi a concedermi, sperando di riuscire ad alleggerire almeno la
loro
tensione. «Possiamo iniziare con
l’ecografia?».
«Certamente»
disse mio suocero rispondendo al mio
sorriso.
Mi fecero sistemare sul lettino, le
luci nella stanza
vennero abbassate e mi bastò alzare un pochino la maglietta
ed abbassare di
qualche centimetro i collant. Il gel mi sembrò alla stessa
temperatura della
mia pelle nella parte più bassa della pancia.
Appena posò la sonda
sulla mia pelle tutti e tre i
vampiri s’irrigidirono.
«Che succede?»
domandai preoccupata, tentando di
sollevarmi per guardare lo schermo.
«Aspetta, stai
giù» mi tranquillizzò Edward, al mio
fianco. I suoi occhi erano ampi e non si staccavano dallo schermo. Suo
padre
ruotò leggermente lo schermo verso di me. Era sconvolto,
come gli altri.
«Bella, questo»
iniziò lentamente, la voce controllata
nonostante lo stupore «come puoi vedere è il tuo
utero, con le ovaie» continuò,
muovendosi ai lati ed indicando le immagini grigie
«Questo» continuò,
inquadrando un ovale completamente bianco e scintillante, che faceva
sfarfallare l’immagine sullo schermo «presumo che
sia il sacco amniotico».
«Incredibile»
sibilò Rosalie sconvolta.
«Presumi? Cosa
è incredibile? Che significa?» domandai
agitata.
«Il bambino non si vede,
ma quella dev’essere proprio
la sua cameretta» disse Carlisle con un sorriso stupefatto.
Passai con lo sguardo da lui a mio
marito, per nulla
soddisfatta da quella spiegazione.
«Faglielo
vedere» disse Edward, porgendogli la mano.
«Ecco» disse,
mettendo un po’ di gel sulla mano del
figlio «i tessuti si confrontano sulla base
dell’ecogenicità, cioè di quanto
siano chiari o scuri sull’ecografo. Gli stessi tessuti hanno
la stessa
ecogenicità. Vedi» fece, poggiando la sonda sulla
sua mano. Tutto lo schermo
divenne completamente bianco e scintillante, pieno di sfarfallii.
«Oh mio Dio»
sussurrai sconvolta. Le lacrime
cominciarono ad uscire dagli occhi senza che le potessi controllare.
«Allora è
proprio così» singhiozzai, guardando Edward.
Annuì, guardandomi
meravigliato, lasciando sciogliere
un po’ la sua tensione. «È nostro
figlio».
Scossi il capo, stupefatta. Nessuno
di noi riusciva a
credere come fosse possibile.
«Riesci a settare i
parametri in modo da vederci
dentro?» chiese Rosalie, mentre il padre armeggiava con gli
innumerevoli tasti
dell’ecografo.
«Ci sto provando, ma non
sembra che cambi nulla
purtroppo».
Rosalie scosse il capo, nervosa.
«Chiamo Jasper ed
Emmett, magari hanno scoperto qualcosa».
«Se non possiamo vederlo
come facciamo a sapere che
stia bene?» domandai preoccupata, e capii solo allora il
motivo della loro
tensione. Chi poteva dirci che lì dentro c’era un
bel bimbo sano? Chi poteva
dire che sarebbe stata una gravidanza come le altre? E chi che
lì dentro ci
fosse un bambino controllabile, più umano che come uno dei
bambini immortali?
Sospirai. Era quello allora. Eppure
già sentivo che in
quel cerchio bianco luminoso era chiuso un pezzo del mio cuore,
qualunque
prezzo mi fosse costato darlo alla luce, qualunque cosa avesse fatto,
qualunque
sembianza avesse avuto.
«Sono sicura che stia
bene, sapete?» mormorai dopo un
po’. «Penso che quella
“casetta” come la tua pelle sia forte come la tua,
Edward, e che lo proteggerà».
Mi sorrise debolmente, posando la
fronte sulla mia.
Era felice di sentirmi, dopo tanto tempo, così fiduciosa, ma
le domande che mi
ero posta erano le stesse che c’erano nel suo cuore e la sua
preoccupazione non
diminuiva.
«Sono d’accordo
con te Bella» mi disse Carlisle,
rassicurandomi. Lo vedevo, avrebbe così tanto voluto
guardare quel bambino, avere
la sicurezza scientifica che stesse bene e che non mi avrebbe fatto
male, ed
essere semplicemente felice per noi «penso che i farmaci
abbiano potuto
attraversare la barriera emato-placentare, ma che il bimbo sia stato
abbastanza
forte. Però» aggiunse cautamente
«c’è una discreta area di distacco
amnio-coriale».
«Cosa vuol
dire?» domandai preoccupata.
«Non ti agitare, capita a
molte donne nel primo
trimestre» mi sussurrò ad un orecchio mio marito.
Carlisle annuì.
«È quello che ti dicevo riguardo alla
minaccia d’aborto. Però»
esitò «dato che siamo riusciti ad ottenere
così poche
informazioni dall’ecografia, adesso penso che sarebbe davvero
importante
visitarti».
Trattenni il fiato. Mi stava
dicendo che doveva farlo
lui, lo sentivo. Mi misi seduta sul lettino, asciugandomi la pancia dal
gel con
il fazzolettino che mi aveva porto. Mi girava la testa e non era per il
cambio
di posizione. Avevo così tanti pensieri, così
tanta paura. Una gioia molto
grande richiede un sacrificio molto grande, mi aveva detto una volta
Carlisle.
Annuii. «Va bene
Carlisle, penso che dovresti farlo
tu».
«Va bene»
annuì a sua volta «ti lascio un po’ di
privacy» mi disse, sistemandomi il paravento in modo che mi
potessi spogliare e
sistemare il telino pulito attorno alla vita.
Edward mi aiutò a
scendere dal lettino. «Hai bisogno
di una mano?» mi domandò, incerto.
Lo vedevo così agitato,
speranzoso ma consumato dalla
preoccupazione, e per di più così spaventato che
ancora non lo volessi lì con
me in quel momento così delicato e terrorizzato che potessi
avere un altro
attacco di panico. «Non ne ho bisogno» gli risposi,
prendendogli le mani e
guardandolo negli occhi «ma resta, ti prego» gli
chiesi con estrema fiducia. E
per la prima volta ringraziai mentalmente Carlisle di non averlo
annoverato fra
i miei possibili “medici”. Non avrei mai potuto
incasinare ancora di più la mia
vita sentimentale e sessuale con lui.
«Sei sicura?».
«Ti prego».
«Va bene»
mormorò con un piccolissimo sorriso.
«Ehi» lo
chiamai ancora «non aver paura. È un
miracolo, è il nostro bambino. E fino a prova contraria
voglio pensare che stia
bene, che crescerà e nascerà come un bambino
normale. O quasi».
«È
l’“o quasi” che mi
spaventa» scherzò
debolmente, facendo trapelare tutta la sua ansia.
«Se la parte che ti
spaventa è quella che puoi avergli
dato tu non farti spaventare. Perché tu sei meraviglioso e
non puoi dargli
niente che non sia meraviglioso. Capito?» dissi con
decisione.
Prese un respiro e si
chinò ad abbracciarmi forte,
fino quasi a farmi male. Non dissi nulla e restituii
l’abbraccio con la stessa
intensità umana.
«Dimmi quando sei pronta,
non metterti fretta» mi
disse Carlisle mettendosi i guanti ed usando un tono molto
formale.
Strinsi le mani ai bordi del
lettino. Non sarei mai
stata pronta. Edward, la mio fianco, mi costrinse a sciogliere la presa
e prese
una delle mie mani fra le sue. Annuii leggermente quando pensai di
avere
abbastanza controllo sul mio corpo.
«Prova ad essere
più rilassata possibile, non ti farò
male».
Provai a fare come mi diceva e a
cercare di non andare
in iperventilazione. Volevo davvero farcela, volevo davvero rendere le
cose
facili a Edward e Carlisle, volevo dimostrare che la gravidanza mi
aveva cambiata
e che la speranza mi aveva guarita.
Solo dopo due secondi ero
così tesa che un dolore
fortissimo era esploso dentro di me. Chiusi gli occhi nella speranza di
calmarmi, ma servì solo a riempirmi la tesa di immagini, le
peggiori che
potessi evocare in quel momento. Non riuscivo a muovermi, ma gli occhi
mi si
riempirono di lacrime e tutto il mio corpo era duro come una pietra.
Carlisle si fermò
immediatamente.
Edward si tese al mio fianco,
agitato.
Ero così dispiaciuta di
non essere riuscita nel mio
intento che mi sentii quasi peggio. «Mi dispiace, faceva
male» sussurrai
debolmente, mentre le lacrime continuavano a tradirmi.
«Non è colpa
tua, Bella» ribattè mio marito. Mi
strinse la mano fra le sue «amore mio, non è
neppure lontanamente colpa tua, come
può esserlo? Shh, calma. Shh, va tutto bene. Sei bravissima.
Sei stata
bravissima» mormorò al mio orecchio, facendo
calmare i miei piccoli singhiozzi.
Quando fui un po’
più calma tirai su con il naso,
carezzandomi la pancia. «P-possiamo riprovarci?»
balbettai.
«Ti prego, diamole delle
benzodiazepine» fece mio
marito a Carlisle, supplicandolo.
«No» sussurrai
contrariata.
«Bella» mi
chiamò mio suocero, molto seriamente «forse
ne hai davvero bisogno. Potrebbero aiutarti molto in questa
circostanza».
«Mi hai detto che gli
fanno male» replicai
preoccupata.
«È vero, ma ti
ho detto anche che il bambino sembra
forte, e tu ora ne hai molto bisogno, Edward ha ragione»
cercò di convincermi,
persuasivo.
Ansimai. Non potevo, non potevo
ancora mettere il mio
benessere davanti a quello di mio figlio, non senza provarci davvero.
«Vi
prego, fatemi provare un’ultima volta» li
supplicai, certa della sofferenza che
avrei causato anche a loro se avessi fallito ancora.
«Bella»
provò ad insistere Carlisle, ma sorprendendomi
fu Edward a bloccarlo.
Scosse il capo.
«Riproviamoci se è quello che
desideri» disse piano, guardandomi con intensa
serietà.
Fu difficile quasi come la prima
volta, ma non feci lo
stupido errore di chiudere gli occhi. Non fui per niente rilassata,
fece male,
ma durò davvero poco e abbastanza da permettere a Carlisle
di raccogliere tutte
le informazioni che gli erano necessarie senza dovermi drogare.
Alla fine eravamo tutti e tre
molto, molto, più
sollevati.
Edward mi strinse forte come se non
volesse lasciarmi
andare più, facendomi accoccolare sul suo petto mentre il
padre, tranquillo, ci
parlava.
«La datazione della
gravidanza è compatibile con le dimensioni
del tuo utero, cioè dovresti essere di circa otto settimane
e la data presunta
per il parto se…» esitò, cauto
«la confrontiamo con una gravidanza normale,
è l’otto maggio. Per fortuna non ci sono grandi
modificazioni a livello della
cervice uterina. Vuol dire che la minaccia di aborto non è
così grave come
poteva sembrare all’inizio, ed è
un’ottima notizia. Ti darò del ferro, degli
integratori elettrolitici, delle vitamine e una dieta approssimativa,
perché
sei molto magra e hai bisogno di prendere peso. Ti
prescriverò anche delle
iniezioni di progesterone da fare ogni 3 giorni a partire da oggi.
Dovrai stare
a riposo per un mesetto, evitare ogni ansia e stress e prendere gli
antidepressivi. Aspetta» mi interruppe quando feci per
ribattere «so che è un
tuo desiderio interromperli, ma se lo farai all’improvviso
starai molto male e
con te il bambino. Se davvero è un tuo desiderio non
prenderli più dovrai
scalare la dose secondo uno schema che ti darò.
D’accordo?».
Annuii, contro la maglietta di
Edward. Era stata una
lunga giornata e mi sentivo stanchissima, ma le sorprese non erano
finite.
«Ho parlato con
Jasper» esclamò una trionfante Rosalie
rientrando nella stanza.
Sentii il corpo di Edward tendersi
sotto il mio e mi
voltai a guardarlo, preoccupata.
Ma era, per la prima
volta… sinceramente felice.
«Hanno trovato delle
fonti in Sud America» iniziò Rose
eccitata «è stato tremendamente difficile, e sono
solo leggende, ma parlano di
bambini veri che crescono a differenza dei bambini immortali. E hanno
trovato storie
che raccontano di alcune donne che sono state quasi venerate per essere
sopravvissute all’“assalto degli immortali”,
aver partorito il loro
figlio ed essere diventate le anziane dei villaggi»
spiegò entusiasta.
Carlisle si sollevò in
piedi, estasiato. «Che speranza
abbiamo che siano fondate?».
Rosalie scosse le spalle, volgendo
lo sguardo su di
noi, emozionata. «Che speranza avevamo che succedesse? Eppure
è così, è
successo».
Mio marito nascose il viso nel mio
collo, ispirando
tutto il mio odore e abbracciandomi, pieno di gioia e un po’
di sollievo. «Tu
sei meravigliosa e non puoi dargli niente che non sia meraviglioso.
È la parte
che gli darai tu che non mi spaventa».
Tornammo a casa. Io, Edward, e
nostro figlio. Edward sapeva
che era stata una giornata lunghissima ed ero distrutta e voleva
portarmi a
letto, ma gli avevo detto che mi faceva piacere stare un po’
in auto con lui,
solo io e lui. O meglio. Noi tre. Sorrisi, accarezzandomi la pancia e
contemplando quel piccolo pezzettino freddo e duro di pelle.
«Scusami» disse
Edward, accostando davanti alla
farmacia di Forks «vado a prendere quello che ci serve, te la
senti di rimanere
in auto?» chiese speranzoso.
Sorrisi debolmente.
«Certo, vai, non sarò sola» dissi
dandogli un lieve bacio, prima di farlo uscire sotto la perenne pioggia
di
Forks.
Era ovvio che non volesse farmi
uscire. Il mio
apprensivo marito. Eppure era stato così attento da
chiedermelo. Mi sistemai
meglio sul comodo sedile, chiudendo gli occhi e rilassandomi; ero
devastata
dalla stanchezza, e per di più, nonostante le insistenze di
Rosalie, non ero
riuscita a cenare. Mi ricordai di una cosa importante che volevo dire a
Edward.
Lui tornò in un istante
e mi porse un sacchetto di
cartone, mentre intanto si toglieva il giaccone bagnato e lo metteva
sul sedile
posteriore. I suoi capelli scuriti dalla pioggia erano magnifici e le
gocce che
si erano fermate fra quei fili bronzei sembravano rugiada.
Arrossii a quei pensieri e senza
sforzarmi di
contenere un sorriso, osservai il sacchetto che avevo fra le mani,
tanto per
distrarmi dalla contemplazione della sua immagine. Caspita…
erano tutti
medicinali? Ci guardai dentro, e ciò che vidi mi fece
inorridire, tanto che lo
richiusi velocemente e lo abbandonai sul sedile posteriore, reprimendo
un
conato di vomito. Siringhe.
«Mi dispiace»
mi prese in giro Edward, che aveva
silenziosamente assistito alla scena.
Lo fissai di sottecchi, sfregandomi
la natica dove
ancor ami faceva male. Poi, con gesti ingenui, in modo che non si
potesse
insospettire, presi la chiave e la sfilai dalla toppa.
«Che stai
facendo?» mi chiese perplesso.
Gli sorrisi, insolente,
«Macchina mia, guido io».
«Bella» mi
richiamò «sai che non ci metterei nulla se
volessi riprendermi le chiavi, vero?».
«Ma non lo farai,
vero?» dissi sperando di essere
convincente e che il battito del mio cuore non mi tradisse.
Sospirò, perplesso,
alzando gli occhi al cielo. «Va
bene…».
Ci scambiammo le posizioni e io
misi in moto.
Vidi Edward squadrarmi preoccupato.
«Rilassati, o prima di
arrivare i capelli ti
diventeranno bianchi».
Bofonchiò qualcosa, a
cui non badai. Avevo in mente
solo una meta: casa nostra. Non ci badai neppure
quando mi diceva che
stavo sbagliando strada, e quando gli feci presente che mi stava
innervosendo si
zittì, limitandosi a fissarmi con la sua espressione
contrariata.
Espressione che mutò
radicalmente, lasciando spazio
allo stupore a alla felicità, quando capì che mi
stavo dirigendo a casa nostra.
«L’hai fatto apposta?» mi chiese ammirato.
«Già»
dissi, arrossendo e parcheggiando l’auto.
Lui mi fece voltare verso il suo
viso, guardandomi
negli occhi. «Ti amo».
«Ti amo
anch’…».
Un trillo potente mi fece
trasalire. «Bella! Siete
arrivati finalmente!» esclamò Alice uscendo di
casa. Rosalie la guardava
contrariata dall’uscio, scuotendo il capo.
Risi, sollevata. «Ecco
dov’era finita».
Trovai Edward a fissarmi, un
sorriso commosso sulle
labbra.
«Cosa?»
domandai imbarazzata, abbassando il viso.
«Tu. È bello
sentirti ridere ancora». A velocità
vampiresca mi aprì la portiera, tendendomi una mano
«Adiamo Bella, andiamo a
casa».
«Tesoro, prendi la
tisana» mi disse Rosalie,
porgendomela. Ero sul divano, distesa con una soffice coperta e dei
cuscini per
farmi stare comoda.
«Non dargliela»
ribatté Alice a voce bassa.
Rose sospirò.
«Ha la valeriana e la melissa, la farà
stare bene e rilassare».
«Non la farà
stare bene, vomiterà ancora. La melissa
puzza di piedi».
Rosalie stava per ribattere ancora,
ma la interruppi.
«Va bene, lasciamela qui accanto, per favore. È
ancora molto calda, la berrò
quando si sarà raffreddata» provai a placarle con
un sorriso «magari più tardi
non vomiterò. In effetti ho ancora lo stomaco un
po’ scombussolato» dissi,
abbracciandomi la pancia. Non mi ero ancora ripresa
dall’ultimo attacco di
nausea e mi sentivo molto debole.
Le mie sorelle badavano
amorevolmente a me, standomi
accanto così tanto che quasi non mi pareva di essere tornata
a casa mia e di
Edward. Lui, in compenso, non c’era. Quella mattina si era
allontanato perché
aveva qualcosa di molto importante da dirsi con Carlisle, e anche se
non
l’avrei mai ammesso la mia nausea c’entrava anche
un po’ con la sua assenza.
«Sono a casa»
disse la sua voce, mentre una piccola
folata di vento mi faceva capire che aveva aperto la porta
d’ingresso.
Sorrisi, ma per poco.
L’odore della tisana di Rose mi
arrivò al naso: sapeva davvero di piedi. Mi ritrovai a
correre verso il bagno.
«Come ti
senti?» domandò preoccupato mio marito,
passandomi un pezzetto di carta igienica per pulirmi le labbra.
«Tutto bene?»
chiese suo padre, bussando alla porta
aperta del bagno.
Storsi le labbra, fissandolo di
sottecchi. «Non mi
convincerai a farmi delle iniezioni anche per smettere di
vomitare» biascicai,
la guancia schiacciata contro la tavoletta del water.
Ridacchiò.
«Posso provare a darti delle compresse a
base di zenzero, ma non funzioneranno» fece, sicuro.
Mi sollevai, lasciandomi aiutare da
Edward. Mi sentivo
così spossata. «Chi sei, Alice? Dammi tutto lo
zenzero che hai, non mi lascerò
bucare ancora da un ago se non per un’ottima
causa».
Mio marito sollevò gli
occhi al cielo. «È per
un’ottima causa. Sei magrissima»
ribatté, prendendomi il polso fra il pollice e
l’indice.
Anche Alice e Rosalie ci
raggiunsero in un attimo. «Te
l’avevo detto che l’avrebbe fatta
vomitare» disse la prima.
Strinse i denti. «Magari
non avrebbe vomitato se tu
non avessi detto che odorava di piedi» ribatté.
Sospirai. Non era la prima volta
che si scambiavano
quelle frecciatine. «Ehi, cos’è, il club
del vomito?» scherzai debolmente,
tirando lo sciacquone e tentando di alleggerire la tensione. Odiavo che
battibeccassero in quel modo. Per me.
Edward le guardò e loro
si zittirono facendo
dietrofront. Non feci in tempo a chiedergli spiegazioni che mi
bloccò dicendomi
«Andiamo in camera. Abbiamo trovato qualcosa che potrebbe
aiutarci molto».
«Ho paura»
scherzai, lasciandomi trascinare nella
nostra stanza.
Carlisle era elettrizzato, aveva il
suo sguardo
magnetico che gli avevo visto avere solo di fronte ad
un’importante scoperta
scientifica.
«Che devo
fare?» domandai, lasciando trapelare solo
una punta della mia preoccupazione. Era ovvio che quella scoperta
comprendeva
me, o meglio, ciò che era contenuto nella mia pancia.
«Tranquilla
Bella» mi rassicurò mio marito con un
sorriso divertito sulle labbra «ti piacerà.
Vogliamo solo che scopri la
pancia».
Scrollai le spalle.
«Okay, va bene?» dissi, sollevando
la maglietta.
«Posso?» disse,
e quando annuii abbassò di qualche
centimetro i miei pantaloni, rivelando la mia pancia ancora super
piatta. «Fidati
di noi, okay?» mi chiese guardandomi negli occhi.
Annuii.
Carlisle prese uno strano
marchingegno dalla sua
borsa. Non era tanto tecnologico, aveva un aspetto piuttosto antiquato.
«Il
punto è che ciò che ci ha ingannato di
più riguardo la diagnosi della
gravidanza è che non è come le altre».
Crucciai le sopracciglia,
perplessa. Sapevo che non
era come le altre.
Sorrise, collegando il marchingegno
alla presa
elettrica e avvicinando l’altra estremità alla mia
pancia. «Un vampiro, almeno»
si bloccò «uno attento,
è in grado di fare una diagnosi di gravidanza
circa alla sesta- settima settimana di gestazione. Il seno cresce, la
pelle si
distende, i capelli diventano più lucidi, ma
soprattutto» fece, posando la
placca di metallo contro la mia pancia. I suoi occhi si allargarono,
sorpresi.
Edward balzò in piedi, avvicinandosi all’attrezzo.
Erano elettrizzati. Alice e
Rosalie si precipitarono in camera, sorprese.
«Che sta
succedendo?» domandai scocciata.
«Si sente il battito del
cuore!» esclamò Alice
contenta.
«Ero sicuro!»
trionfò vittorioso Carlisle «non ce
l’avremmo mai fatta con l’effetto Doppler, era
impossibile. Dovevamo usare
questo amplificatore di suoni. Bella. Perdonami, sono andato troppo
avanti» si
scusò con un gran sorriso «sentiamo il suo cuore
che batte come avremmo sentito
in qualunque altra gravidanza. Abbiamo dovuto utilizzare una vecchia
tecnologia
obsoleta basata sull’amplificazione dei suoni, accantonata
dopo la scoperta
dell’effetto doppler che è la base
dell’ecografia, molto più efficace
normalmente, ma che nel tuo caso non avrebbe funzionato. Mi dispiace
solo non
potertelo fare sentire, è davvero troppo basso per
l’udito umano».
«Sta bene?»
balbettai emozionata.
Edward si avvicinò a
stringermi la mano fra le sue e
baciarne il dorso. «È meraviglioso».
Gli carezzai i capelli con la mano
libera, annuendo
fra le lacrime. «Va bene così».
Quella sera venne anche Esme a casa
e riuscii a
mangiare la cena senza vomitare, con grande sollievo di tutti. Edward e
Carlisle parlarono tutto il tempo della gravidanza e per la mia salute
mentale
decisi di non prendere parte a tutte le congetture che poteva partorire
la
mente di un vampiro. Alice e Rosalie erano ancora entusiaste di aver
potuto
sentire il battito del bambino, tanto che mi accudirono tutta la sera
con
dolcezza senza litigare neppure una volta. Almeno per quella sera.
«Bella» mi
sentii chiamare «Bella, svegliati, Bella»
mi chiamò ancora quella voce, mentre delle piccole mani
fredde mi scuotevano.
Aprii le palpebre, contrariata.
«Alice. Che succede?»
domandai stropicciandomi gli occhi. Non credevo di aver dormito
abbastanza. Mi
faceva male la testa e mi sentivo stanca.
Mi sorrise serenamente.
«Hanno appena lanciato la
linea esclusiva Armani premaman. Vorrei che la vedessi».
Sbattei le palpebre, sconvolta,
portandomi una mano
alla testa.
Ci fu una folata d’aria
nella stanza, e Rosalie si
materializzò al mio fianco. «Davvero
l’hai svegliata per questo? Ti avevo detto
di non farlo. Alice» sospirò, sollevando gli occhi
al cielo.
Alice ridusse gli occhi a due
fessure. «Le piacerà»
disse a denti stretti «l’ho visto».
La sorella fece scioccare la
lingua. «Certo».
«Okay»
sospirai, sollevando le mani a mo’ di resa. Non
capivo cosa avessero, ma odiavo sentirle bisticciare. «Fatemi
fare colazione e
poi… possiamo vedere la collezione Chanel tutte e tre
insieme, okay?».
«È Armani, non
Chanel, Bella. È una collezione
esclusiva di pezzi unici» ribatté esasperata
Alice.
Sollevai gli occhi al cielo,
marciando verso la
cucina. «Qualunque cosa».
Mangiai la colazione che mi aveva
preparato Edward,
che mi fece compagnia per tutto il tempo che mi servì per
terminarla. Quando fu
sicuro che non sarebbe finita nel water mi guardò, incerto,
ed io gli dissi che
mi sarebbe stato bene se fosse andato da Carlisle a fare altre
ricerche. Mi promise
che ci avrebbe messo meno tempo possibile e mi lasciò un
lunghissimo bacio
sulle labbra. Mi sarebbe servito per riuscire a capire se potevo
sopravvivere a
me stessa per qualche ora al giorno senza di lui, per poter ridurre
davvero la
mia dipendenza da psicofarmaci.
«Smetterai prestissimo,
l’ho visto» disse Alice mentre
ne mandavo giù una compressa.
La guardai insicura.
«Davvero?». A volte mi sembrava
che l’ansia che mi accompagnava non sarebbe mai scomparsa del
tutto, e la paura
di avere un nuovo attacco di panico mi tormentava.
Rosalie si materializzò
al mio fianco in cucina.
Trasalii a quello spostamento così veloce. «Non ti
mettere pressione, tesoro. Seguirai
lo schema che ti ha dato Carlisle e se ne avrai bisogno prolungheremo
un po’ il
tempo. Hai già scalato il dosaggio, sei stata brava. Non
è necessario andare
più veloce del dovuto» finì, e
l’ultima parte della frase non era rivolta a me.
Alice si avvicinò a
passo umano, continuando a fissare
la sorella in cagnesco, prendendomi il bicchiere dalle mani per riporlo
in
lavastoviglie. «Infatti sarebbe più facile se
tutti andassimo a passo umano in
questa casa, proprio come Bella ci ha chiesto».
M’irrigidii. Ecco che
stava succedendo ancora. Dovevo
proprio capire che cosa stesse succedendo alle mie sorelle vampire, e
c’era
solo una persona che poteva aiutarmi, ma non era lì in quel
momento. «Beh,
ragazze» dissi, saltando giù dallo sgabello della
cucina. «Io andrei di là a
farmi…» biascicai, aggrappandomi al bancone della
cucina per non cadere. Mi ero
alzata decisamente troppo in fretta a giudicare da come mi girava la
testa «…una
doccia» soffiai, quando la testa smise di girarmi.
Rosalie mi strinse le braccia,
assicurandosi che fossi
stabile sui miei piedi. «Bella, tesoro, lascia che ti
accompagni» sussurrò
preoccupata.
Volevo scuotere il capo, ma avevo
paura che mi sarebbe
girata ancora la testa.
«Vuoi che ti accompagni
io?» domandò Alice, con una
punta di insicurezza.
Sentii la presa di Rosalie
irrigidirsi. «Scusa, ma…».
«Tranquille
ragazze» feci, sollevando le mani ed
allontanandomi dalla presa di Rose. «Va tutto bene, mi sono
solo alzata troppo
in fretta. Vado a fare la doccia e torno, voi intanto predisponente
tutto per
la sfilata di… umh… Gucci».
«È
Armani!» esclamò Alice mentre mi allontanavo verso
il bagno.
«Cosa vuoi che gliene
importi chi è Alice, non si è
mai interessata di moda».
«Senti, se ho agito
così è perché avevo le mie buone
motivazioni, ne puoi stare certa».
«Sì, infatti,
le tue “visioni”…».
Sgusciai via e mi chiusi
la porta della camera alle
spalle. Presi un respiro. Per fortuna che era insonorizzata. Osservai
il
telefono sul mio comodino. Volevo chiamare Edward e chiedergli di
venirmi a
dare una mano a capire che diavolo stesse accadendo alle due vampire,
ma sapevo
che non appena avesse visto uno squillo di una mia chiamata si sarebbe
preoccupato da morire. Soppesai il cellulare fra le mie mani. Forse
sarebbe
bastato un messaggino. “Tutto okay?”
scrissi, poi lo cancellai. Avrebbe
capito che qualcosa non andava. “Spero che le vostre
ricerche vadano bene”
scrissi invece, ed esitai, mordicchiandomi un labbro, incerta su come
proseguire “ricordami che devo chiederti una cosa
quando tornerai”. E
premetti il tasto invio con un sospiro, il tempo di sollevare il capo e
guardarmi allo specchio. Feci una smorfia. Era davvero arrivato il
tempo di
farmi una doccia.
Fu una doccia tiepida,
perché non potevo ancora
sopportare il calore e i suoi ricordi. Conoscevo i miei limiti. Quando
uscii lo
specchio del bagno era appannato, così lo asciugai con una
mano giusto quanto
bastava per guardarmi in faccia. Sollevai con una mano una ciocca di
capelli
bagnati. Erano lunghissimi e sapevo che ci avrei messo una vita a
metterli in
piega. Quello era un compito che una sorella vampira avrebbe svolto
più che
volentieri, e chissà, magari avrei potuto convincerle a
lavorare su di me
insieme, anziché continuare a litigare.
Con quel proposito uscii dal bagno,
aprendo appena la
porta che dava sulla camera.
«È inutile che
le prepari questi vestiti! Non vanno
bene per lei, te l’ho detto. Il denim le fa ancora
male».
«Voglio solo che il veda
Rose!» esclamò Alice
arrabbiata. «Voglio che sappia che può
scegliere».
Rosalie strinse i denti.
«La farà solo soffrire non
poterli scegliere!».
«Non la farà
soffrire» gridò a voce più alta
«l’ho
visto!».
«Certo, come stamattina
quando l’hai svegliata senza
motivo dopo tutta la fatica che io ed Edward avevamo fatto per farla
addormentare!».
Alice tremò in tutta la
sua piccola statura «Avrebbe
avuto un terribile incubo se non l’avessi svegliata con
quella scusa della
collezione Armani!» urlò arrabbiata.
Trattenni il fiato,
indietreggiando. Era stato per
quello allora. Deglutii, provando a gestire la mia ansia insieme al
battito del
mio cuore. Mi occorse qualche secondo per calmarmi, ma quando pensai di
essere
di nuovo padrona di me stessa sentii un fastidio, come un crampo,
crescere ed
intensificarsi sulla mia pancia.
Ansimai, sorreggendomi al muro.
Sapevo bene cosa
significasse. «Aiuto» ansimai.
Entrambe le vampire si
materializzarono in bagno.
«Bella» soffiò Alice preoccupata.
«Tesoro, reggiti a
me» fece Rose, venendo subito al
mio fianco «tranquilla, va tutto bene».
Gemetti, piegando lo sguardo verso
il basso. Scostai
un poco l’accappatoio, quanto bastava per osservare la
piccola gocciolina
rosata che scivolava lungo il mio interno coscia.
«Che
diavolo…?».
«Edward»
singhiozzai, sollevando lo sguardo su mio
marito.
I suoi occhi si spalancarono, fermi
sullo stesso punto
che stavo osservando fino a un secondo prima. «Shh, tesoro.
Va tutto bene. Ora
ci penso io a te» mormorò al mio orecchio,
sollevandomi fra le sue braccia.
«Calmati, calmati. Questa agitazione non vi fa
bene» disse, portandomi verso il
letto.
«Edward,
noi…» iniziò Rose.
«Non ora»
sibilò contrariato. «Chiama Carlisle, e
andate via per favore».
«Alice» piansi,
tendendo un braccio nella sua
direzione «ti prego, dimmi che andrà bene, che il
bambino starà bene».
«Veramente
io…» esitò, incerta.
«Adesso è
troppo complicato Bella» la interruppe
Rosalie «cercheremo di capirlo dopo. Ora stai
tranquilla» fissò la sorella
«andiamo a chiamare Carlisle» disse a denti
stretti, prima di scomparire.
Alice mi guardò ancora
un secondo, combattuta. Poi
scomparve anche lei.
Stavo per chiedere una spiegazione
a mio marito, ma mi
piegai ancora sulla pancia. Non erano proprio delle fitte, ma quasi un
senso di
peso e di tensione al bassoventre che mi dava fastidio, come quando
stava per
venirmi il ciclo. Intrecciai la mia mano con quella di Edward.
«Ho paura»
mormorai «voglio che stia bene».
«Lo so,
anch’io» mi rispose mio marito
«l’unico modo
che abbiamo per farlo è che tu stia tranquilla,
okay?» fece, guardandomi negli
occhi.
Annuii.
Carlisle decise di anticipare
l’iniezione di
progesterone e non mi importò nulla dell’ago
quando in gioco c’era la vita di
mio figlio. Il fastidio alla pancia scomparve quasi subito e non ebbi
più
perdite. Mi disse che sarei dovuta stare a riposo davvero,
che sarei
dovuta stare in un ambiente tranquillo e che non mi sarei dovuta alzare
dal
letto se non per andare in bagno. E poi, aggiunse, molto serio, che
fatto tutto
questo dipendeva solo da quanta voglia avesse questo bimbo di venire al
mondo.
Edward era arrabbiato con le sue
sorelle e non permise
loro di rientrare in camera. Mi asciugò i capelli con il
phon con dolcezza e
per quel giorno decisi che sarebbe andato bene anche legarli in una
crocchia
disordinata. «Perché sei tornato così
presto?» domandai, giocherellando con la
fede al suo anulare.
Sollevò un sopracciglio.
«“Spero che le vostre
ricerche vadano bene”?»
domandò scettico carezzandomi i capelli.
Scrollai le spalle. «Era
un messaggio come un altro»
borbottai imbarazzata.
Sorrise, sollevandomi il mento con
una mano. «Era il
grido d’aiuto di mia moglie. Cos’è
successo? Di cosa mi vuoi parlare?».
Lo guardai negli occhi.
«Perché Alice e Rosalie
litigano in continuazione?» chiesi, andando dritta al punto.
Sospirò. «Era
questo allora. L’avevo immaginato».
«Quindi?».
Scosse il capo. «Non
posso dirtelo».
«Ma come?»
domandai sorpresa.
«Bella» mi
ammansì, «non posso» fece serio
«non mi
hanno detto nulla, ho solo letto i loro pensieri. Se mi avessero
confidato
qualcosa magari te ne avrei parlato, ma non posso dirti cosa
c’è nelle loro
menti. È una regola non scritta che mi porto dentro da un
centinaio di anni di
convivenza in questa famiglia. Se andassi in giro a raccontare i loro
problemi
l’uno all’altro non li risolverei in alcun modo, li
aiuterei solo a spaccarsi.
Mi dispiace molto, ma non posso fare un’eccezione per te, lo
capisci?».
Annuii, sorridendo. Gli carezzai
una guancia. «Capisco
che gli vuoi molto bene».
Fece un piccolissimo ringhio
ferino. «Adesso vorrei
ammazzarle. Gli avevo chiesto di vegliarti, tenerti tranquilla e al
sicuro, e
ti ho ritrovata in questo stato».
«Probabilmente sarebbe
successo comunque» provai ad
ammansirlo.
Sospirò.
«È probabile. Ma ci parlerò, e se
litigheranno ancora in tua presenza non metteranno più piede
in questa casa».
Sorrisi, accucciandomi sul suo
petto e sbadigliando.
«Le perdonerai» dissi sicura.
Mi abbracciò.
«Certo che le perdonerò» ammise dopo un
po’. «Bella» aggiunse «non
posso rivelarti i loro pensieri, ma ricordati sempre
che anche loro ti vogliono molto bene. Puoi provare a parlarci, se
vuoi».
Annuii contro la sua maglietta,
abbassando le
palpebre. «Lo farò» mormorai stanca.
«Shh»
sussurrò al mio orecchio, carezzandomi i capelli
e cullandomi un po’ avanti e indietro. «Dormi,
tranquilla».
Nella settimana che
seguì capii una cosa fondamentale:
fra stare a riposo e stare a riposo
assoluto c’era una bella
differenza. Ero vero, ero sempre stanca e dormivo tantissimo, ma
passare tutto
il mio tempo, anche da sveglia, a letto, era una tortura che di giorno
in
giorno mi rendeva più insofferente. Non potevo
più mangiare a tavola,
prepararmi la colazione, farmi una doccia, fare una piccola passeggiata
in
cortile. Niente. E mi annoiavo a morte, nonostante Edward avesse
spostato la TV
in camera e tentasse d’intrattenermi in ogni modo, portandomi
di tanto in tanto
sul divano del soggiorno.
In più aveva parlato con
le sue sorelle, e la
brillante soluzione che avevano trovato era venire a trovarmi a turni,
in modo
da non incontrarsi. Jasper ed Emmett erano ancora in giro per il mondo
a fare
ricerche e Edward mi aveva detto che non sarebbero tornati prima di una
settimana almeno, così loro continuavano a dedicarmi tutte
le loro attenzioni. Era
una situazione davvero ridicola e che mi agitava molto, ma non volevo
dirlo a
Edward perché sapevo che le avrebbe cacciate e io volevo
capire cosa diamine
stesse succedendo. Anche se si ostinavano a non dirmelo.
«Va bene
così?» mi chiese Rose, massaggiandomi la base
della schiena, seduta alle mie spalle sul letto.
«Grazie, sì.
Non c’è bisogno che tu lo faccia»
biascicai, mentre mugolavo di piacere. Avevo davvero la schiena a pezzi
per
essere stata così tanto tempo a letto.
Ridacchiò.
«È strano, non ricordo da avere un mal di
schiena da circa un centinaio di anni. Dev’essere davvero
fastidioso per voi
umani».
«Eh già,
poveri umani» borbottai sarcastica, gli occhi
al cielo, facendola ridere ancora.
«Senti»
iniziò dopo un po’, cauta, come se si sentisse
in colpa, «non hai più avuto dolore alla pancia,
vero?».
Mi voltai a guardarla da sopra la
spalla. «No, Rose,
va tutto bene. Carlisle ha detto che sarebbe successo comunque,
probabilmente».
«Probabilmente»
fece schioccare la lingua.
«Rosalie» la
chiamai ancora preoccupata, prendendo le
sue mani fredde fra le mie e fermandola. «Non è
stata colpa vostra».
Mi guardò come se fosse
sull’orlo delle lacrime. «Non
mi sarei mai perdonata se aveste perso vostro figlio per colpa
mia».
«Oh Rose»
sospirai, voltandomi per abbracciarla. «Non
ti ho mai ringraziato abbastanza per quello che hai fatto per me. Mi
hai
salvato la vita. Grazie» dissi, facendola trasalire.
Sollevò il suo sguardo
triste su di me. «Figurati»
fece «dopotutto… siamo sorelle, vero?»
domandò insicura.
Ansimai, sconvolta.
Perché me lo chiedeva? «Certo che
siamo sorelle!» esclamai. «Cosa vuol dire? Ha
qualcosa a che fare con i tuoi
litigi con Alice?».
Si bloccò, retraendosi.
In un attimo era in piedi.
«No, affatto» guardò
l’orologio. «Va tutto bene con Alice. Anzi, fra
poco è il
suo turno, dovrei iniziare ad andare».
«Tutto bene?»
domandai sarcastica «ma se fate a turni
per venirmi a trovare».
Si avvicinò in un lampo.
«Calma Bella, respira.
Facciamo a turni perché tu devi stare tranquilla e non
è bene che ci sia troppa
gente intorno ad infastidirti. Tutto qui» mentì,
accompagnando quella menzogna
con un bel sorriso a trentadue letali denti.
«Rosalie» fece
Alice sorpresa entrando nella stanza.
«Cosa ci fai qui?
È ancora presto» ribatté la sorella
sorpresa.
«Sono stata io ad
anticipare il suo turno»
dissi. Se non avessero voluto dirmi la verità
l’avrei scoperta, in un modo o
nell’altro. «A me fa piacere che ci siate entrambe,
non mi infastidite
affatto» scandì lentamente.
Rosalie si allontanò a
prendere la sua borsa, evitando
lo sguardo della sorella. «Io avrei un impegno
però, magari facciamo domani».
«Rose» la
chiamai, facendo per alzarmi dal letto.
Ricaddi fra i cuscini. «Ti prego, resta. Restate, entrambe.
Vorrei tanto farvi
vedere i vestitini che ho trovato su internet per il bambino»
mormorai
imbarazzata, mordicchiandomi il labbro «non sono tanto
esperta, avrei bisogno
del vostro aiuto» le supplicai.
Si scambiarono un lento sguardo
silenzioso.
«Vi prego»
incalzai, desiderosa più che mai a mettere
pace fra i loro problemi.
Annuirono contemporaneamente.
Alice si volse nella mia direzione.
«Vediamo che
disastro hai combinato» trillò, saltando sul letto
accanto a me.
La loro tensione si sciolse man
mano che il pomeriggio
passava. Edward entrò un paio di volte in camera a portarmi
il pranzo e la
merenda, ed assicurarsi che le sue sorelle non litigassero. Gli avevo
fatto
promettere che mi avrebbe lasciata un po’ sola con loro, per
cercare di capire
cosa avessero. Di sicuro non me ne importava niente dei vestitini per
il
bambino, almeno non in quel momento.
«Bella non puoi fargli
tutto il corredino giallo o
verde, dovremmo aspettare di sapere se è un maschietto o una
femminuccia» fece
Rosalie con un sorriso, elegantemente seduta alla mia destra sul letto.
Mi
carezzò delicatamente la pancia «Chissà
a chi somiglia questo piccolino».
«Alice» feci,
volgendomi a guardare la sorella. «Tu lo
devi sapere. Non riesci a vederlo?».
S’irrigidì sul
letto. «Umh, io…» i suoi occhi si
fecero vacui «credo che starà bene,
penso».
«Pensi?» la
incalzai.
Scosse il capo, ritornando con gli
occhi alla realtà.
Esitò. «Bella, mi dispiace».
Sospirai, torcendomi le mani in
grembo. «Dici sempre
che ci sono delle decisioni da prendere riguardo questa gravidanza ed
il
bambino, per poter vedere più chiaramente, ma cosa vuol
dire?» domandai incerta
«Io ed Edward abbiamo deciso di portare avanti la gravidanza
qualunque cosa
accada, quindi non dipende da noi. Allora? È ancora troppo a
rischio?».
Sentii il materasso alzarsi sul
lato di Rosalie. Si
alzò dal letto e posò le sue eleganti mani sulle
mie spalle. «È così purtroppo,
per questo non ti devi agitare. Non fa bene né a te
né al bambino».
Alice si materializzò al
suo fianco, guardandomi con i
suoi occhi dorati molto seri. «In realtà non
è così».
«Alice»
sibilò Rosalie, chiudendo lentamente le palpebre.
«Cosa intendi?»
domandai preoccupata, intuendo per la
prima volta che c’era qualcosa che mi stavano nascondendo che
riguardava me,
non solo loro.
«Non riesco a vedere il
futuro del bambino perché è un
buco nero» sputò d’un fiato prima che la
sorella la potesse zittire.
«Cosa?»
esclamai, mettendomi seduta sul letto.
«Alice!»
ruggì Rosalie arrabbiata.
Presi un fiato, aggrappandomi alle
lenzuola. «Mi stai
dicendo che mio figlio è un buco nero nelle tue
visioni?» domandai con il fiato
corto «proprio come lo era Jacob?»
esclamai, la voce solo un sibilo
stridulo nelle ultime parole.
«Non glielo dovevi
dire!» gridò Rosalie.
Alice strinse entrambi i pugni
lungo i fianchi. «Era
un suo diritto saperlo!».
«Tu pensi solo a te
stessa e quello che credi sia
giusto. Edward si arrabbierà tantissimo e non ci
permetterà più di venire da
lei!» esclamò, indicandomi e facendomi trasalire.
Edward sapeva. Certo,
pensai, portandomi una
mano alla gola, lui leggeva tutto.
«Non mi importa cosa dice
Edward!» sibilò Alice «Per
me la cosa più importante è che lei sappia. Che
sappia che sono disposta a
perderla pur di dirle la verità».
La porta della stanza si
aprì di scatto, lasciando
passare mio marito.
Mi portai le mani alle labbra,
sentendo le guance
bagnate. Scossi il capo.
«Basta. Andate
via» sibilò, furente e angosciato,
fissando il mio viso.
Quella volta non lo ascoltarono.
«Non è
vero» gridò Rosalie, avvicinandosi sempre di
più alla sorella «credi sempre di fare la cosa
giusta con lei, ma non è così!
Non sempre sputarle in faccia la verità è la cosa
che la fa stare meglio! Non è
più quella che conoscevi» gridò,
facendola sussultare.
«Ha il diritto di
sapere!» urlò ancora Alice,
puntandole un dito al petto «quanto pensi che avrei ancora
potuto tenerglielo
nascosto?!».
«Ragazze»
ringhiò Edward, mettendosi fra le sorelle.
«Le tue visioni fanno
schifo! Ci hai detto di andare a
caccia che sarebbe andato tutti bene e l’abbiamo trovata
svenuta a terra fra i
sonniferi. Hai detto che poteva smettere con gli anti-depressivi e le
hai quasi
fatto venire una crisi d’astinenza…».
Alice si dibatté per
superare Edward. «Non è colpa
mia».
«E cosa più
importante non sei riuscita a vedere
quando il mostro è venuto per rapirla e stuprarla, quindi
non gliene frega un
dannatissimo niente degli stupidi buchi neri nelle tue
visioni!» sbottò,
tentando a sua volta di divincolarsi dalla presa di mio marito.
Ansimai.
«Basta,
smettetela» le riprese ancora Edward,
trattenendole.
Alice prese un profondissimo
respiro, come se stesse
singhiozzando. «Sei una stronza! Come puoi dire una cosa del
genere? Ti sei
ricordata di lei solo adesso, dopo che credi di aver condiviso qualcosa
di
tragico con lei che vi unirà per sempre, ma non è
così».
«È
così invece! Perché io sono stata
stuprata!» sputò
Rosalie, disperata.
«Ed io sono stata
drogata!» urlò Alice disperata.
«Basta». Era il
mio singhiozzo sconvolto.
«Guarda cosa le hai
fatto!» gridò Rosalie indicandomi.
«Sei stata tu ad
iniziare!».
«Basta!» gridai
a mia volta, ma mi ignorarono.
Continuarono ad urlarsi contro e tentare di saltarsi addosso.
Mi sollevai in piedi e corsi fuori
dalla stanza.
«Bella!» mi chiamò mio marito, ma era
troppo impegnato a trattenerle per
potermi seguire. Afferrai il mio cappotto e lo indossai sopra il
pigiama. Infilai
le scarpe da tennis e mi avvolsi la sciarpa attorno al collo. Presi le
chiavi
della mia auto e in meno di cinque minuti ero fuori dal vialetto di
casa,
guidando senza una meta. Solo lontano.
Guidai per almeno
mezz’ora sulle strade bagnate di
Forks, forse verso Port Angeles, forse verso Seattle. Non me ne accorsi
neppure.
Dentro la testa sentivo un ronzio, la paura, il senso di tradimento e
la
rabbia.
Ad un certo punto sentii un piccolo
colpetto, poi lo
sportello del passeggero si aprì e un attimo dopo
c’era Carlisle.
Strinsi il volante, fissando dritto
davanti a me e
continuando a guidare.
«Sei arrabbiata con me
adesso, lo so».
Non dissi nulla, ma gli occhi
cominciarono ad
appannarsi di lacrime.
«So che sei ferita, ma
l’abbiamo fatto per
proteggerti».
Singhiozzai, e Carlisle
allungò la mano sul volante.
«Lascialo a me»
disse, convincendomi a lasciai
scivolare il piede dall’acceleratore e a fermare
l’auto.
Sprofondai con il viso sul volante,
continuando a
piangere. «Sono molto arrabbiata» balbettai fra le
lacrime «cosa vuol dire? Che
in realtà è di Jacob? Che sarà come
lui? Che tornerà?» singhiozzai angosciata.
«Non lo
sappiamo» mi consolò, carezzandomi la schiena.
«Per questo non volevamo dirtelo. Non può essere
di Jacob, però. Ho fatto dei
controlli, ho chiesto ad Emily e Sam e ho confrontato le loro
ecografie, e il
bambino non aveva queste caratteristiche. Questo ti fa sentire un
po’ meglio?»
domandò speranzoso.
«No» sbottai,
sollevando il viso pieno di lacrime
«Perché mi avete mentito!».
Sospirò. «Lo
so, scusaci. Mi dispiace molto. Shh»
fece, abbracciandomi, «abbiamo sbagliato».
Scossi il capo. «Alice e
Rosalie, loro… pensano che mi
debbano contendere. Pensano che sia una gara per chi ha in comune con
me le
cose più terribili» singhiozzai.
Mi carezzò i capelli.
«Non è così, Bella» mi disse
serio, guardandomi negli occhi «loro sono solo gelose».
Mi bloccai, stupita. Tirai su con
il naso e Carlisle
mi offrì il suo fazzoletto di stoffa. Che vampiro
d’altri tempi. «Gelose di me?
Del bambino?» domandai confusa e preoccupata.
«No!»
esclamò. Sorrise «sono gelose l’una
dell’altra.
Perché ti adorano, ti vogliono un mondo di bene e vorrebbero
averti per sé
senza doverti condividere con l’altra. Hanno paura che
arriverai a preferirne
una delle due».
Spalancai gli occhi, sconvolta.
«Come possono
pensarlo? E chi te lo ha detto? Edward?» domandai sorpresa.
Non l’avrebbe mai
fatto.
Carlisle ridacchiò.
«Sono vampiro da più di trecento
anni e padre da più di cento. Credi davvero che mi serva
leggere il pensiero
per sapere cosa passa nella testa delle mie figlie?» disse,
facendomi
l’occhiolino.
Mi fece sorridere debolmente.
«Stanno bene adesso?».
«Non
preoccuparti» disse, sfilando le chiavi dalla
toppa. «Se ne sta occupando Esme. Ha un talento naturale nel
rimettere in riga
i suoi figli. Ora» aggiunse, osservando il cellulare che
vibrava con il nome
“Edward” «io guido, tu rispondi, prima
che al mio figlio più ansioso venga un
attacco di panico. Non so come curarlo in un vampiro»
scherzò ancora.
Quando arrivammo a casa i tre
vampiri erano seduti sul
divano ed Esme stava camminando avanti ed indietro di fronte a loro
facendogli
una ramanzina.
Edward fu il primo ad alzarsi e
comparirmi accanto in
un batter d’occhio. «Stai bene?»
domandò scrutandomi.
Annuii.
«Il bambino sta
bene?» chiese ancora, indicando la mia
pancia come per chiedermi il permesso.
Annuii ancora, e lui si
avvicinò a sfiorarla con un
sospiro, chinandosi sulle ginocchia. Gli carezzai i capelli, poi li
strinsi fra
le dita per convincerlo a guardarmi negli occhi. «Non mi hai
ancora chiesto
scusa» dissi crucciata.
«Era per il tuo
bene» provò a ribattere, ma presto gli
portai un dito sulle labbra, fissandolo seria. Sospirò.
«Scusami per averti
mentito».
Mi chinai a mia volta, lentamente,
sulle ginocchia.
«Scusami per non averti dato modo di fidarti di me abbastanza
da dirmelo».
Mi circondò fra le
braccia, stringendomi forte contro
il suo petto.
Le mie sorelle entrarono in camera
insieme quella
sera, e mio marito s’irrigidì al mio fianco.
Alice sollevò le mani.
«Edward, questa volta andrà
bene. Io l’ho…».
«L’ha
visto» concluse Rosalie, scrollando il capo.
«Pare».
Mi voltai a guardare mio marito.
«Amore, va bene così»
dissi debolmente. Era stata una giornata molto lunga ed ero
terribilmente
stanca. Gli strinsi le mani fra le mie. «Lasciaci un attimo
sole».
Mi carezzò il viso.
«Sei molto stanca, non devi farlo
per forza stasera».
Gli baciai la punta del naso.
«Non riuscirò a dormire
altrimenti».
Annuì, lasciandoci sole,
non prima di aver scoccato
un’occhiata di avvertimento alle sorelle.
«Venite qui»
feci, battendo con le mani su entrambi i
lati del letto. In un secondo erano accanto a me, sedute ai miei
fianchi. Le
abbracciai. Con Alice fu più facile, era minuta e si
accoccolò subito al mio
fianco. Rosalie, invece, aveva il corpo teso e si manteneva un
po’ distante.
«Hai sempre avuto un
rapporto speciale con lei»
sussurrò dopo un po’, gli occhi bassi fissi sul
copriletto. «Pensavo di aver
guadagnato quel posto nel tuo cuore, dopo quello che abbiamo condiviso.
Ho
avuto paura che adesso che non avevi più bisogno di me
saresti tornata da Alice
e non mi avresti più voluto bene. Non come prima»
mormorò pianissimo.
«Oh, Rose» la
chiamai. Non potevo immaginare
l’immensità della sua tristezza. «Non ti
voglio bene per ciò che hai fatto per
me. Non solo, almeno, capisci? Ti voglio bene e basta, e il posto che
hai nel
mio cuore non lo potrà mai prendere Alice» dissi,
facendo trasalire
quest’ultima. Mi voltai a guardare anche lei. «Non
potrà, perché tu hai un tuo
personale posto, tutto solo per te. Vi voglio bene. E voglio bene a
entrambe, e
mai l’amore per una escluderà quello per
l’altra, okay?».
Alice annuì.
Mi voltai a fissare Rose, che
guardava la sorella.
«Scusa» sputò, abbandonando per un
attimo il suo orgoglio. «Non volevo dire
quelle cose cattive su di te e sulle tue visioni».
Alice sorrise, soddisfatta.
«Lo sapevo, l’avevo già
visto. Scusa anche tu comunque».
«Tu»
esclamò scandalizzata «avevi già visto
tutto».
Ridacchiò.
«Proprio così! E comunque, Bella, smettila
di crucciarti per questa storia del buco nero, perché mentre
mia sorella mi
impediva di stare con te perché era il suo turno, sono
diventata bravissima a
vedere intorno al bambino. Nascerà e
starà bene. E non sembrerà un
pipistrello».
«L’hai
visto?» domandai sconvolta.
«Beh, no. Ma ho visto che
gli compravo delle adorabili
tutine che gli andavano a pennello!».
«Alice!»
esclamammo insieme io e Rose, per poi scoppiare
a ridere tutte e tre insieme.
«Tesoro,
c’è la colazione» mi disse dolcemente
Edward,
svegliandomi. Mi stropicciai gli occhi, sbadigliando.
Poi sentii l’odore della
mia colazione e storsi il
naso.
In un attimo sentii, attraverso i
miei sensi alquanto
annebbiati, la porta sbattere e Edward ritornare al suo posto, senza
più il
vassoio della colazione in mano, prima di richiudere gli occhi.
Stavo quasi per riaddormentarmi,
quando lo sentii
chiedermi «Come stai?».
«Nausea…
Sonno…» biascicai, sbadigliando ancora e
richiudendo
gli occhi, voltandomi a pancia in giù. Ahia. No, quella non
era affatto una
buona idea.
«Hai ancora
sonno?» mi chiese amorevolmente «Hai
dormito per ben 14 ore, credo che dovresti mangiare
qualcosa».
Decisi di aprire gli occhi,
incontrando così il
meraviglioso e dolce sorriso di mio marito. Niente più Alice
o Rose. Dopo che
avevamo parlato avevano capito che non dovevano fare a gara per
ottenere il mio
affetto. E poi, i loro mariti erano tornati, e chi può
resistere al richiamo
del proprio marito vampiro? Sorrisi. Non io. E ora mi sentivo felice e
tranquilla, nonostante… l’onnipresente nausea.
Sospirai e mi stiracchiai ancora.
Sentii la schiena e
le braccia indolenzite. Gemetti debolmente, piegando il collo.
«Com’è possibile
che mi senta così a pezzi pur passando tutta la mia giornata
a letto o sul
divano?» biascicai assonnata.
Edward ridacchiò,
aiutandomi a mettermi seduta sul
letto. «Ti devo ricordare in che condizioni ti sei ridotta
negli ultimi due
ricoveri in ospedale?» chiese, sedendosi dietro di me sul
letto, facendo
poggiare la mia schiena al suo petto e appoggiandosi alla testiera.
Borbottai qualcosa.
«Sì, ma questo letto è decisamente
più comodo».
Lui rise ancora, passandomi due
cuscini che mi cacciai
in grembo, prima di posarci sopra il mento. «Infatti quando
eri in ospedale
cominciavi a lamentarti dopo tre giorni, ora sono passate
più di due settimane»
disse cominciando a massaggiarmi la schiena con le sue mani
meravigliose.
«Mmm»
mugolai in
approvazione «è passato già
così tanto tempo?».
«Sì»
mi rispose con un sorriso sulle labbra «sei alla
nona settimana di gravidanza ormai. Tranquilla, presto le nausee
scompariranno
e se tutto andrà bene non dovrai più stare a
riposo».
«Ehi»
borbottai, voltandomi appena a fissarlo «come
fai a sapere tutte queste cose sulla gravidanza?».
Ridacchiò, continuando a
massaggiare con delicatezza. Era
sereno, e anche se non gli ero mai di buona compagnia, passando la
maggior
parte del mio tempo a dormire e vomitare. Lui rimaneva sempre
tranquillo, senza
annoiarsi. «Ti ricordo che ho frequentato medicina. Due
volte».
In un attimo mi venne in mente una
cosa e feci una
smorfia.
«Che
c’è?» mi domandò curioso.
«Niente,
niente» borbottai imbarazzata.
«Uh? Come niente? Sputa
il rospo».
«Non è
niente» protestai, arrossendo.
Sospirò, smettendo di
massaggiarmi e lasciandomi un
bacio sul collo. «Odio non poterti leggere i
pensieri».
Rabbrividii, scrollandomelo di
dosso. «Okay. Va bene.
Hai mai assistito a un parto?».
«Sì»
fece, sorpreso «più di uno in
realtà» disse,
facendo spallucce.
Mi nascosi il viso in fiamme fra le
mani.
«Cosa?»
domandò sorpreso.
Scossi il capo, super imbarazzata.
«Non posso credere
che tu abbia visto altre donne nude. Pensavo di essere
l’unica».
Soppresse una risata in un colpo di
tosse. «Ti giuro
che era solo un puro interesse scientifico»
ridacchiò.
«Oddio, ti prego, non
prendermi il giro» feci,
imbarazzandomi ancor di più.
Mi prese fra le braccia,
impedendomi di sfuggirgli.
«Ti adoro quando sei gelosa. E quando ti imbarazzi e quel tuo
battito umido del
cuore aumenta sempre più, ti fa diventare gli occhi
più grandi, lucidi, e tutto
il tuo bel sangue succulento ti colora il viso pallido»
soffiò sulla mia pelle,
baciandomi la guancia dov’era più rossa.
Il mio cuore batteva ancora veloce,
ma non era
imbarazzo. Deglutii. «Dovrei avere paura».
Fece un bel sorriso sghembo.
«Dovevi averne prima di
dirmi “sì”
all’altare» ridacchiò, stemperando la
tensione. Mi abbracciò.
«Edward»
mormorai contro la sua maglietta «fa davvero
così male come dicono, partorire?» domandai,
facendolo scoppiare a ridere
ancora.
Mi fece voltare e mise una mano sul
mio ventre, e
accarezzandolo con dolcezza. «Non sappiamo ancora tante cose.
È un po’ presto
per pensare a come sarà il parto».
«Sarà»
borbottai, pensando al futuro pieno
d’incognite. «Io ci penso».
«Sai»
mormorò, iniziando a disegnare dei cerchi
immaginari sulla mia pancia «questo piccolino mi fa ancora un
po’ paura»
confessò.
Riaprii gli occhi, chiusi per
deliziarmi meglio delle
sue carezze, «Hai paura delle visioni di Alice?».
Scrollò le spalle.
«Non di quelle in particolare. È
solo che sarebbe più facile se riuscisse a vedere che tutto
andrà bene per
entrambi» confessò, rivelando per un attimo il suo
turbamento.
Gli carezzai i capelli.
«Jasper ed Emmett hanno
trovato tutte quelle leggende, e sembra davvero che ci sia una
possibilità che
tutto vada bene».
Fece una smorfia. «Vorrei
avere qualcosa in più di una
leggenda, Bella. Tu non capisci cosa provo» mi disse,
guardandomi negli occhi. E
vidi tutta la sua paura e la sua ansia.
Solo allora compresi.
Sì, ci avevo pensato anch’io. Ma
mentre per me sacrificarmi sarebbe stato scontato…
«Non posso scegliere fra
lui e te» disse con immenso
dolore, chiudendo le palpebre.
Mi sollevai dal suo corpo,
girandomi e prendendo il
suo viso fra le mani. «Non dovrai farlo, non ce ne
sarà bisogno, vedrai. Andrà
tutto per il meglio» dissi convinta «me lo sento, e
so che anche per te è così,
tutto andrà bene e voglio che ci creda anche tu, e che se
non ci credessi vorrei
che tu venissi a dirmelo, finché non ti
convincerò, intesi?».
Lui aprì gli occhi,
facendomi il suo sorriso sghembo.
«La mia determinata moglie umana. Ti amo».
In risposta mi avvicinai alle sue
labbra, baciandole
con amore e dolcezza.
Mi portò in cucina,
perché sapeva che non mi piaceva
mangiare in camera, e amava anche distrarmi, farmi sentire tranquilla e
a mio
agio. Mangiai sul divano bianco ad angolo. Il mio medico di fiducia,
nonché
suocero, mi aveva detto che non dovevo davvero
stare immobile e letto,
che potevo alzarmi per piccoli spostamenti e stare seduta per mangiare.
Ma ero
così stanca che niente e nessuno mi avrebbe staccato da quel
comodissimo
divano.
Mangiavo dei crackers alle olive
con su un formaggio
spalmabile. Carlisle mi aveva consigliato - contro la nausea - di
mangiare dei
cibi secchi e salati.
«Come va la
nausea?» mi chiese Edward spalmando
dell’altro formaggio su un cracker.
«È sempre
lì che dice “Bella, corri in bagno!”»
dissi sarcastica, addentando il biscotto che mi aveva appena passato e
annuendo
al suo gesto che mi chiedeva se condirne un altro «mi chiedo
quando passerà».
«Questo non si
può sapere neppure in una gravidanza
normale. Di solito passa dopo i primi tre mesi, quindi in teoria fra
poco»
disse passandomi l’ultimo cracker. «Ne vuoi
ancora?».
«No, non sono sicura di
riuscire a finire neppure
questo» dissi, reprimendo un conato.
«Beh, non hai mangiato
molto, era appena un pacchetto,
ma non forzarti, non vorrei che fra un po’ mangiare si fosse
rivelato inutile».
«Finisco solo
questo» dissi, prendendo un altro morso
«forse dovemmo… dovresti»
mi corressi
«andare a fare un po’ di spesa».
Lui ridacchiò.
«Ci hanno pensato Alice e Rosalie».
Sorrisi. «Le hai
perdonate?».
Mi fissò con aria
sarcastica. «Per cosa? Per aver
quasi fatto venire un infarto a mia moglie incinta con una minaccia
d’aborto
mentre non potevo neppure correrle dietro per impedirle di schiantarsi
in auto
perché troppo impegnato ad impedire che si
ammazzassero?».
«Già, per
questo».
«Ci sto
lavorando».
«Edward» lo
richiamai.
«Senti» si
sollevò, raccattando il piatto pieno di
briciole e il mio bicchiere «le ho perdonate, ma non posso
dirglielo per ora,
perché altrimenti starebbero di nuovo qui fra i piedi tutto
il giorno, e io
voglio stare da solo con mia moglie».
Sorrisi. «Sei il
peggiore».
Si avvicinò a lasciarmi
un piccolo bacio sulle labbra,
prima di smaterializzarsi per sistemare la stanza. «Lo
so».
Rimanemmo nel soggiorno per
l’intera mattinata, e
fortunatamente riuscii a non vomitare. Il pranzo lo mandai
giù con maggior
piacere, dato che, acquietata la nausea, era spuntato un buon appetito.
«Sai a
cos’altro stavo pensando?» domandai
casualmente.
«A cosa?» mi
domandò, comparendo al mio fianco con un
sorrisetto appena trattenuto. Sapeva che non era affatto una domanda
casuale.
«Alla mia
trasformazione».
«Beh, Alice aveva ragione
sulla storia degli
antidepressivi, ormai fai una dose molto bassa e la prossima settimana
potremmo
sospenderli. Possiamo trasformarti» mi prese in giro.
Gli diedi un colpetto sulla spalla.
«Non prendermi in
giro».
«Scusami»
disse, prendendomi una mano fra le sue
portandosela alle labbra. «Hai ragione, non è
stato molto carino. Cosa volevi
chiedermi in particolare?».
«Nove mesi sono
tanti» mormorai, carezzandomi la pancia
«e se il bambino desse troppi problemi…
beh, potreste sempre
trasformarmi. Avete ancora l’idea di farlo iniettando
direttamente il veleno
nel mio cuore?» domandai cautamente, e sentii la nausea
ritornare.
Edward annuì,
mortalmente serio. «Ne tengo sempre una
siringa pronta per ogni evenienza».
Scossi il capo, con un sorriso
teso. «Tu e Carlisle
pensate sempre a tutto, eh? Beh, dovevo aspettarmi una misura del
genere dopo
la notizia della gravidanza».
«Non è stata
un’idea di Carlisle» confessò
«è stata
una mia idea, e l’ho fatto mentre Jacob ti ha sequestrata.
Non sapevo in che
condizioni ti avrei trovata».
Presi un respiro. «Allora
non hai mai cambiato idea».
«No» ribattè «ti
ho dato la
mia parola».
Annuii. «Allora
c’è qualcos’altro che vorrei chiederti.
Vorrei sfruttare questo prolungamento del mio periodo da umana per
ricominciare
a frequentare l’università».
Lui mi sorrise. «Ci tieni
molto? Pensi di essere
pronta a stare di nuovo in mezzo alla gente?».
«Sì. Credo di
averne bisogno».
Scrollò le spalle.
«Allora troveremo il modo, dopo che
sarà passato questo periodo di riposo, ovviamente».
«Davvero?»
chiesi sorpresa. Non mi sarei mai aspettata
una reazione così mite.
«Certo» disse
con dolcezza «non vedo come potrebbe
andare peggio del mare di dubbi in cui ci troviamo. Navigheremo a vista
e
risolveremo i problemi che ci si presenteranno giorno dopo
giorno».
«Grazie!»
esclamai, gettandogli le braccia al collo.
«Ohi» esclamai, staccandomi da lui dopo un attimo.
Staccò le mie braccia da
lui e mi accarezzò la pancia.
«Attenta».
Ma non era la pancia che mi doleva.
Sorrisi
timidamente, mettendo una mia mano sulla sua, e rabbrividendo. Era
freddo… come
la membrana che avvolgeva il bambino. Pensai al futuro. A quando lo
avrei
tenuto fra le braccia accanto a Edward. Sbadigliai inaspettatamente.
«Ti sei
stancata?» chiese Edward, accarezzandomi i
capelli.
«Sì»
sussurrai, con le palpebre-semi chiuse. «Non so
perché mi sento sempre così spossata».
Edward mi sistemò
addosso il plaid che stava lì
accanto, infagottandomici dentro. «Ti va di andare a riposare
per un paio
d’ore?».
Annuii, facendo per sollevarmi.
«Sta’
giù, ti porto io». Mi prese fra le braccia,
facendo scontrare ancora il mio seno contro il suo petto. Gemetti
dolorante.
«Tutto bene?» mi chiese preoccupato. Annuii ancora,
arrossendo. Decise di non
indagare ulteriormente, e mi portò in camera, facendomi
addormentare.
«Amore?».
«Mmm».
«Amore…».
«Mmm…».
«Sono passate quattro
ore, se non ti svegli ora
stanotte non dormirai» mi disse con dolcezza.
«Invece
sì» borbottai «Te l’ho
già detto che sono
distrutta e stanchissima e spossata?!».
Lui ridacchiò.
«Può darsi, ma c’è tuo padre
qui che ti
vuole vedere. Che ne dici?».
Spalancai gli occhi, sorpresa,
scontrandomi con i
suoi.
Incontrai il suo dolce viso
apprensivo. «Solo se te la
senti, non voglio che tu ti agititi per nulla. Lo faccio
entrare?».
«È nel
soggiorno?» chiesi in un sussurro.
Mi sorrise.
«Sì, è di lì che aspetta. Lo
posso far
venire? Gli manchi molto».
«No» mormorai
«vado io. Non voglio che creda che sia
malata».
«Sicura?» fece
Edward, inarcando un sopracciglio.
Annuii convinta.
«Carlisle ha detto che posso alzarmi
per un po’, no?».
Lui mi accarezzò una
guancia, lievemente arrossata per
lo sfregamento con il cuscino. «Lo sai che dopo che ti sei
svegliata sei molto
debole».
«Starò bene,
mi siederò subito sul divano» sussurrai sicura.
Lui mi sorrise, passandomi la lunga
e calda giacca da
camera, coordinata al pigiama bianco e rosa che indossavo. Tenendomi un
braccio
intorno alla vita mi condusse fino al luminoso soggiorno.
Mio padre era in piedi, voltato di
spalle. Si
dondolava sui talloni, a disagio.
«Papà»
sussurrai commossa, facendolo voltare verso di
me.
«Bells!»
esclamò, aprendo le
braccia per accogliermi dopo la mia breve corsa. Era incredibile. Mi
era
mancato davvero tanto in quei giorni, tuttavia la costante presenza di
tutti i
membri della famiglia Cullen
aveva mitigato un po’ la
mia nostalgia. Ma per lui, solo, non doveva affatto essere stato
così semplice.
Mio padre mi staccò da
sé, solo per guardarmi. «Come
stai Bells?»
mi chiese, tentando di arginare la
commozione.
Edward, che aveva lasciato una
certa distanza fra noi,
in modo da concedermi un momento con mio padre, mi venne accanto,
sorreggendomi
ancora.
«Sto bene
papà» risposi con un sorriso sincero,
stringendomi al petto di Edward. «Tu… tu come
stai?».
«Oh, non preoccuparti per
il tuo vecchio, io me la cavo!»
rispose imbarazzato, scrutandomi con un’aria strana. Come se
ancora non si
fosse convinto della mia felicità.
«Sei riuscito a cucinare
da solo?».
«Certo! Ti ricordo che mi
sono auto-cucinato per ben
17 anni!».
«E ancora mi chiedo come
tu abbia fatto!» dissi
scoppiando a ridere insieme a Edward e Charlie.
Restammo a scherzare e parlare
delle cose più futili,
finché Edward non parlò. «Amore, forse
sarebbe meglio se tu ti stendessi un
po’» mi sussurrò dolcemente ad un
orecchio.
Arrossii, annuendo, notando che
anche mio padre aveva
sentito le sue parole e si era irrigidito.
«Tutto bene?»
mi chiese preoccupato.
«Sì
papà» mormorai debolmente, facendomi guidare verso
il divano da Edward, «vieni, accomodati» dissi,
indicandogli la poltrona e
stendendomi su divano. Edward reclinò lo schienale e mi
sistemò il plaid
addosso, mettendo un cuscino dietro la schiena e sedendosi accanto a
me.
Arrossi quando notai che Charlie
stavo osservando con
attenzione ogni nostro movimento. Mi sentivo in imbarazzo, ma per me e
Edward
quei gesti erano diventati così abituali che quasi non ci
facevano più caso.
«Bella, dimmi la
verità, stai male?» mi chiese
preoccupato.
Sorrisi debolmente e mi voltai
verso Edward, in una
muta richiesta di permesso. Non sapevamo ancora cosa avrebbe avuto di
straordinario quella gravidanza, ma sapevamo che se qualcosa fosse
andato
storto mi avrebbero dovuto trasformare. Fino a quel momento…
avevamo deciso di
dire a mio padre che ero semplicemente incinta. Beh, non incinta di un
vampiro.
Edward annuì, così mi voltai verso mio padre e
presi un grosso respiro. «Papà,
non sto male. Ma… ci sono delle nuove notizie»
feci, sorridendo a Edward,
incerta, e intrecciando le mie mani nelle sue. Lui mi sorrise di
rimando.
Voltando lo sguardo verso mio padre
lo notai
pensieroso e preoccupato. «Sono brutte?».
«No» mi bloccai
«beh, ce n’è una bellissima e una un
po’ meno, ma nulla di cui doversi seriamente
preoccupare».
Mio padre mi fissava, in attesa
della rivelazione.
Presi un respiro. Magari in altri
tempi sarei stata
preoccupata, ansiosa, per dover rivelare una cosa del genere a mio
padre. Ma
noi eravamo sposati, non avevamo fatto nulla di male, e inoltre
l’esperienza
vissuta mi aveva insegnato a vedere il mondo in una nuova ottica.
Quindi in
quel momento ero euforica. «Papà, io e Edward
aspettiamo un bambino» spiegai
contenta.
Vidi la bocca di mio padre aprirsi,
e gli occhi
brillare. «Oh Bella!» disse poi, abbracciandomi di
slancio. Era strano che si
lasciasse andare così. «Lo sapevo che
c’era qualcosa di nuovo, lo sapevo» disse
contento, staccandosi «sei così felice, radiosa,
non speravo di poterti vedere
così contenta ancora, dopo quello che… beh
sai…» fece imbarazzato, alludendo al
rapimento e al mio periodo di depressione «invece!
Diventerò nonno!
Congratulazioni ragazzo!» esclamò dando una pacca
sulla spalla a Edward.
Ero contentissima per quella sua
reazione, mi
aspettavo il peggio, ma in cuor mio sapevo che tutto sarebbe andato per
il
meglio.
«Grazie
Charlie» rispose Edward, sorridendogli.
Improvvisamente mio padre si fece
serio. «Ma Bells,
hai detto anche che c’è una brutta
notizia?».
Sospirai. «Non ti
preoccupare papà, siediti» dissi
indicandogli la poltrona dove era precedentemente seduto.
«È qualcosa
che riguarda la gravidanza?» chiese
allarmato, sedendosi.
Feci un sorriso tirato. Non sapevo
come spiegargli.
Rivolsi uno sguardo implorante a Edward.
Lui mi sorrise, rassicurante, poi
si voltò verso mio
padre. «Vedi Charlie, ci sono stati alcuni problemi
all’inizio della
gravidanza, e abbiamo rischiato di perdere il bambino»
spiegò con serietà,
calma e fermezza. «Ma ora sta tutto andando per il meglio,
supereremo questo
problema, e non ci sarà alcun rischio per il piccolo.
L’importante è che Bella
non si agiti e che stia a riposo, e non correrà alcun
pericolo, né lei, né il
bambino» concluse con dolcezza, accarezzandomi il ventre.
«Ma adesso sta bene? E
tu?» chiese allarmato.
Sorrisi. «Sì.
Sì papà, sta bene» mormorai emozionata.
Vidi il suo sguardo saettare dalla
mano di Edward, sul
mio ventre, alla mia faccia. «P-posso?»
balbettò, indicando la pancia.
Guardai Edward, che annuii.
Probabilmente con il
pigiama, la vestaglia, e il plaid, il freddo della placenta non sarebbe
stato
percepibile. Così mi voltai verso mio padre e diedi il mio
assenso.
Timoroso avvicinò,
tremante, la sua mano e con
delicatezza la posò sul ventre, per poi sorridere, estatico.
«È bellissimo»
disse infine. «Congratulazioni».
Andò via poco dopo, con
lo stesso sorriso stampato in
faccia. Ero davvero contenta della sua felicità.
«Ciao Bells, mi raccomando,
dillo a mamma» disse abbracciandomi stretta.
Feci una smorfia di dolore, senza
farmi vedere da lui.
Mi faceva male il seno. Mi staccai, sorridendo forzatamente.
«Certo, glielo
dirò quanto prima» lo salutai, prima che Edward lo
accompagnasse alla porta
d’ingresso.
Mi sarei sicuramente addormentata
se non fosse tornato
in meno di cinque minuti. «Bella, dovresti
mangiare».
«Sì»
farfugliai sbadigliando.
Dopo cena Edward mi
riportò in camera. Non riuscivo
neppure a stare in piedi per quanto mi sentivo stanca. Ero
letteralmente
esausta, per i miei canoni letargici quella era stata una giornata
molto
stancante.
Ad un tratto Edward
s’irrigidì. «Il telefono»
spiegò
ad un mio sguardo incuriosito. «Torno subito»,
disse, scomparendo nel
soggiorno. Aveva spostato il telefono perché non mi
disturbasse.
Mi accoccolai in posizione fetale.
Mi sentivo molto
stanca, ma non era abbastanza per dormire. Da quando avevo avuto la
notizia del
bambino, nonostante avessi ridotto gli antidepressivi, non avevo
più molto
spesso incubi, ma, nonostante mi sentissi molto stanca, e nonostante
una volta assopita
sognavo per lunghe ore, addormentarmi rimaneva un problema, e dato che
i
sonniferi erano out… Ci pensava Edward.
Mi girai dall’altro lato,
mugugnando. Non riuscivo a
stare in nessuna posizione per quanto mi doleva il seno. Mi imbarazzava
tantissimo, per questo non l’avevo ancora detto a lui.
Intravidi la mia immagine nello
specchio. Notai con
fastidio che i miei capelli erano pieni di nodi, così erano
stati legati in due
trecce basse da Rosalie. Avevo bisogno di uno shampoo. Un bagno.
Edward tornò in camera.
«Erano Alice e Rose» m’informò
«allora, dormiamo?».
Feci un piccolo sorriso.
«Vorrei lavarmi» mormorai
imbarazzata.
Sollevò le sopracciglia.
«Pensi che sia una buona idea?
Non ti reggi in piedi. Non sono sicuro che tu ce la faccia».
Abbassai il viso, arrossendo.
«Speravo di poter avere
un po’ d’aiuto» borbottai imbarazzata.
Lui mi sorrise. «Va bene.
Alice e Rose volevano
venire, ma pensavo tu volessi dormire. Non c’è
problema, le richiamo, saranno
qui in men che non si dica» disse voltandosi.
«Edward!»
esclamai, prima che sparisse.
Lui si voltò verso di
me. «Sì?».
Abbassai lo sguardo, arrossendo
ancora e
mordicchiandomi il labbro. «Ecco… io…
vorrei… sempre che tu voglia… ecco…
sì…».
Sentii una mano ghiacciata lenire
il calore che
m’imporporava una guancia e sussultai, sollevando lo sguardo
su Edward. «Amore.
Prendi un respiro» mi ordinò con un sorriso.
Sospirai. «Se-se
vuoi… puoi farlo tu. Il bagno.
Aiutarmi a farlo. Solo se vuoi» cincischiai.
Lui mi sorrise.
«Davvero?».
Annuii. «Vuoi?».
«Solo quello che vuoi
tu» mi disse dolcemente.
Annuii ancora, consentendogli di
aiutarmi ad alzarmi
dal letto. «Grazie». Nonostante fosse rimasto con
me durante la visita, e
nonostante ci fossero state altre brevi occasioni, Edward non mi aveva
mai
forzata, e aveva continuato a riservarmi una certa privacy.
Riempì la vasca di acqua
calda e schiumosa, poi uscì
dalla stanza e mi lasciò spogliare e immergermi in quel
tepore. Rientrò dopo un
po’, si sollevò le maniche della camicia fino ai
gomiti, poi prese una
spugnetta e cominciò, con gesti lenti e delicati, a passarla
sul mio corpo. Non
c’era alcuna malizia, era come un restauratore che riporta
alla luce una statua
antica, con perizia ed estrema leggerezza. Ogni tanto mi lasciava un
bacio. In
fronte, sul naso, e le sue mani erano un toccasana per il mio corpo,
come
quando mi massaggiava la schiena.
«Vuoi uscire?»
mi chiese dopo un po’ sorridendomi.
Annuii.
Prese un asciugamano bianco e
morbido e me lo porse,
senza guardarmi. Mi alzai in piedi e mi lasciai avvolgere. Mentre mi
asciugava
i capelli notai una cosa. Faceva di tutto per non guardarmi, era sempre
contenuto nei gesti, stava attento a non toccarmi in maniera impropria.
Non mi
ero mai fermata a pensare quali conseguenze potesse aver avuto il mio
rapimento
su di lui. Ripensai a quello che era successo in
camera sua, le mie urla,
la paura per i suoi gesti e per le sue mani. Per un attimo mi sentii
rifiutata,
poi di diedi della sciocca. No, era solo terrorizzato
all’idea di farmi del
male, fisicamente o psicologicamente.
Si sedette sul bordo del letto, con
me, ancora avvolta
nell’asciugamano, fra le braccia.
Mi accarezzò i capelli,
ancora leggermente umidi.
«Vado a prendere dei vestiti puliti».
Misi una mano sulla sua guancia,
bloccando i suoi
gesti. «Aspetta, Edward» mormorai piano.
Mi fissò incuriosito.
«Edward»
deglutii «guardami… p-perché non mi
guardi?».
Si accigliò.
«Ti sto guardando».
«No» sussurrai,
scoprendo il mio corpo
dall’asciugamano e rimanendo nuda fra le sue braccia.
«Guardami, ora».
Lui emise un fremito, poi
sollevò lo sguardo verso il
vuoto.
Automaticamente strinsi i pugni
contro la stoffa della
sua camicia. Ed ecco il senso di rifiuto tornare prepotentemente.
«Non mi vuoi
più?» chiesi, deglutendo per scacciare via il
magone che dolorosamente mi
chiudeva la gola.
Si voltò di scatto.
«No, Bella, no, come puoi dire
questo?!» ansimò, per poi voltarsi a fissare
nuovamente il vuoto. «Io… non
posso» disse, afflitto.
«Perché non
puoi?» chiesi addolorata.
«Io» chiuse gli
occhi, stringendo i pugni «ti voglio»
disse infine, con le palpebre ancora serrate
«troppo».
Una lacrima scese dai miei occhi,
mentre mi stringevo
con forza al suo petto. «Ti prego Edward, dimmelo. Dimmi che
sono solo tua,
dimmi che mi vuoi, dimmi che sono sempre stata solo tua, sempre.
Perché… anche
la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia
tocca il mio corpo, e scivola
via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna
traccia. L’unico a lasciare una
traccia sei stato tu Edward… sono tua, sono solo tua e lo
sono sempre stata…».
Lui aprì gli occhi, ma
non rispose, pur guardandomi
con amore.
Tremate mi asciugai gli occhi, poi
presi una sua mano
e la posai sopra il mio fianco. «Ti prego…
toccami. Amami…».
La sua mano, tremula, delicata,
rimase per un po’
ferma a sfiorare il mio fianco.
Immobile.
Quando pensai che non si sarebbe
più mossa, prese
vita, e con estrema delicatezza salì sul mio volto,
sfiorando le mie palpebre
chiuse, il naso, le labbra; delicata come le ali si una farfalla. Poi
scese sul
collo, con dolcezza, accarezzando e sfiorando, le braccia, le mani, le
dita,
baciando i polpastrelli. Proseguì dalla caviglia,
accarezzando i piedi, i
polpacci, le ginocchia, disegnando fantasie strane e immaginarie,
sempre con la
stessa delicatezza, lo stesso amore. Salì fino alla pancia,
baciandola e
accarezzandola come con un velo di seta e poi… intorno i
seni, tracciandone
delicatamente il profilo, e giù, sulla schiena, su tutto il
corpo.
Mi fissò cautamente,
quasi spaventato di potermi aver
fatto del male con quelle lievi carezze. «Non ho mai smesso
di desiderarti, ma…».
«Lo so»
mormorai piano, asciugandomi le lacrime agli
angoli degli occhi «non so come faremo, ma ti prometto che
impareremo di nuovo
ad amarci in tutti i modi possibili. Voglio farlo».
Annuì, guardandomi con
intensa serietà.
Scossi il capo, sentendo i miei
occhi riempirsi nuovamente
di lacrime. «Ti amo così tanto»
biascicai.
«Lo so. Ti amo
anch’io». Mi prese fra le braccia,
stringendomi al suo petto.
Sibilai, dolorante.
Chinò il capo di lato,
osservandomi. «Che c’è?».
Sbuffai, sospirando fra i denti.
«Mi fa male il seno»
confessai infine, rossa fino alla radice dei capelli.
Lui sorrise, sornione.
«Mi chiedevo quando me
l’avresti detto» ammise con divertimento.
Lo fissai, sbigottita.
«Tu lo sapevi!» lo accusai.
Lui rise. «E tu non me
l’hai detto!» esclamò
continuando a ridere.
M’imbronciai,
incrociando, in un gesto istintivo, le
braccia al petto. «Ahia» mi lamentai.
Smise di ridere. «Ti fa
molto male?» mi domandò, con
solo una punta di divertimento nella voce.
«Sì»
sussurrai, querula «è una tortura».
Lui mi sorrise dolcemente.
«Non ti preoccupare, è
normale. È» fece una pausa, pensieroso
«la prolattina. Sai, credo che questa
interesserà molto a Carlisle. Se il tuo seno si sta
preparando perprodurre
latte, forse, vuol dire che al
bambino piacerà il latte, oppure potrebbe essere una normale
risposta del tuo
organismo a…» s’interruppe, smettendo di
pensare a voce alta. Mi sorrise.
«Aspetta qui» mi disse alzandosi e facendomi sedere
sul copriletto.
Tornò in un battibaleno
con il mio intimo, un pigiama
pulito, e una scatolina rettangolare.
Infilai gli slip, ma quando stavo
per mettere il
reggiseno mi bloccò. «Aspetta» disse,
facendomi stendere sul letto e sedendosi
accanto a me.
Prese la scatolina rettangolare e
tirò fuori un
tubetto di crema. «Per le smagliature» mi
spiegò con un sorriso «Alice aveva
visto che ce ne sarebbe stato bisogno». Ne mise un
po’ sulla pancia,
massaggiando delicatamente e poi ne mise un po’ sul seno.
«Ahi» mi
lamentai quando cominciò a sfregare.
«Scusa» disse
lui, rendendo i suoi gesti ancor più
delicati.
Ma a ma faceva male lo stesso. Feci
una smorfia,
mordicchiandomi il labbro. «Ahiiii»
pigolai.
«Forse sarebbe meglio se
tu facessi un controllo»
disse Edward «magari Rosalie…».
«Beh, se sei stato il
medico di tutte quelle donne
nude non vedo perché non tua moglie» borbottai
piena d’imbarazzo.
Tentò seriamente in ogni
modo di contenere il suo
divertimento. «Saranno state tre o quattro»
ridacchiò. «Come desideri, mia
gelosa moglie» disse allegro, scuotendo il capo.
«Dimmi quando ti fa più male»
fece cominciando a tastarmi con delicatezza.
Perché adoravo tanto
quelle mani, che si muovevano con
assoluta professionalità e senza un briciolo di malizia?!
«Ahi… ahi… ahi…
ahi…»
dissi ad ogni suo tocco.
Rise. «Ma ho detto quando
ti fa più
male!».
Feci un sorriso malizioso.
«Se te lo dico poi tu
continui a controllare?» chiesi, arrossendo.
Lui scoppiò in una
fragorosa risata, che finì in un
appassionato bacio sulle mie labbra. «Quanto tempo
vuoi!» esclamò infine.
Muovendomi alla mia
velocità sistemai tutti i fiori
che mi aveva portato Esme
nei rispettivi vasi.
Erano le sette e mezza del mattino,
Bella si sarebbe
svegliata fra due ore circa. E questo significava che avevo due ore per
sistemare alla perfezione tutta casa. Volevo che Bella si sentisse
serena e
rilassata.
Rosalie ed Alice avevano lungamente
insistito per
occuparsene personalmente, ma, dopo il disastro che avevano combinato
si erano
ridimensionate. Anche se nei loro pensieri c’era sempre una
traccia di gelosia
stavano lavorando sulle loro insicurezze per il bene di Bella.
Inspirai, solo per riuscire a
recepire meglio tutti
gli odori, aprendo i lustri della finestra e lasciando che la brezza
mattutina
aleggiasse nel soggiorno.
Mi diressi verso la lavanderia,
inserendo il carico di
biancheria sporca. In queste settimane trascorse, nonostante avesse
ridotto
notevolmente la dose di antidepressivi, Bella era sempre stata
piuttosto
tranquilla. Non mi sarei mai aspettato che fosse così
comprensiva, così
accondiscendente, tanto da non lamentarsi mai per essere costretta a
letto
tutto il giorno. Non aveva avuto neppure un attacco di panico. Ma
nonostante
stessimo di fatto sempre insieme, i momenti davvero
per noi erano molto pochi. Era sempre stanchissima.
Speravo che sia lei sia nostro
figlio stessero bene.
«Edward».
Scattai in piedi. Che si fosse
già svegliata?
In un attimo fui in camera. Era
stesa sul letto in
orizzontale, con una gamba piegata al petto e l’altra stesa
sotto al cuscino,
dormendo teneramente con le guance arrossate per lo sfregamento con il
cuscino.
Era proprio il mio amore, una continua e deliziosa tentazione.
Mi avvicinai, accarezzandola. Aveva
semplicemente
parlato nel sonno. Era strano che lo facesse, perché
nell’ultimo periodo, fatta
eccezione per alcuni incubi, aveva un sonno molto pesante e senza
sogni.
Probabilmente si era inconsciamente lamentata per via del freddo.
La sollevai con un braccio e la
misi nella giusta
posizione, accompagnando la testa sul cuscino e rimboccandole le
coperte. La
sua bocca piccola e rossa si apriva dolcemente e si chiudeva al ritmo
del suo
lento respiro, che faceva muovere su e giù il suo petto.
L’amavo intensamente.
Avrei voluto sentire quelle labbra morbide e piene sulle mie, fredde e
dure, in
ogni istante. Sarei rimasto così, incantato a contemplarla,
per ore, se non
fosse stato per il fatto che dovevo preparare la colazione prima che si
svegliasse e telefonare ad Alice per chiederle che cosa potessi
cucinarle in
modo che non acuisse il suo senso di nausea.
Con un sospiro mi allontanai, e
solo allora mi resi
conto della sua mano stretta possessivamente alla mia camicia. Sollevai
gli
occhi al cielo. Tentai di schiuderle le dita senza svegliarla, ma lei
si
lamentò debolmente, stingendo con più vigore la
presa. Non volevo svegliarla,
con tutta la fatica che faceva per addormentarsi. La sera precedente
avevo
dovuto fare avanti e indietro per la stanza per due ore prima che
prendesse
sonno, poiché nonostante la spossatezza che avvertiva, non
riusciva mai ad assopirsi.
Aveva bisogno di me, e non volevo che sentisse il bisogno di
chiedermelo, desideravo
esserci e basta, anche perché il mio bisogno era pari al
suo. Volevo discutere
con Carlisle delle sue nuove tesi a proposito dell’eccessiva
stanchezza e suo
problema a prender sonno, ma non ne avrei facilmente avuto
l’occasione, poiché
non volevo che Bella intuisse qualcosa o che pensasse che fossi
preoccupato.
Avvicinai la bocca alla sua mano e
le baciai le dita,
una per una, finché la presa non si allentò e
potei liberarmi dalla sua
stretta. Mugugnò qualcosa, poi si girò supina,
stendendo le braccia scompostamente
intorno alla testa e umettandosi le labbra. Una tentazione.
Tutte le sue curve vennero
evidenziate. Il seno,
cresciuto di una taglia, e il ventre, ancora piatto ad un occhio umano.
Posai
una mano, dolcemente, sul quel piccolo nido d’amore.
Sentivo un’emozione
incredibile ogni volta che
sfioravo quella piccola culla dov’era custodita la vita che
avevo creato
insieme a Bella. La vita di mio figlio.
Dovevo andare.
Lasciai un bacio veloce sul ventre
e poi sulle labbra
di mia moglie, che si incresparono in un debole sorriso.
Sentii i pensieri di Alice. Strano
che non mi avesse
prima chiamato, che fosse successo qualcosa? Tentai di sondarle la
mente, ma
non trovai nulla. Decisi di andare ad aprire.
«Alice» la
salutai pacatamente, aprendo la porta «che
ci fai qui?».
«Edward! Come sta
Bella?» chiese allegra, entrando in
casa, togliendosi la sciarpa e il cappotto e appendendoli
all’attaccapanni
all’ingresso.
Richiusi la porta alle sue spalle e
la seguii,
tentando di fermarla. «Bene, ma sta dormendo, non la
disturbare per favore. Dopo che ve ne siete andati ieri ci
ha messo due
ore per addormentarsi, è molto stanca».
Alice si avviò in cucina
e cominciò a trafficare con
ingredienti e padelle. Si stava mettendo a cucinare? «Stasera potrai parlarne con Carlisle,
l’ho visto. La terremo
occupata noi, non s’insospettirà di
nulla». E così continuò ad armeggiare a
velocità vampiresca con zucchero, uova, latte, mandorle,
forno, teglie.
«Alice» la
chiamai «fermati».
Si bloccò con una
padella in mano, lo zucchero
nell’altra e un mestolo fra i denti. «Sì?»
mi chiese mentalmente.
Vidi la mia domanda formarsi in una
sua visione. «Che cosa stai
combinando?». Poi, in
risposta, vidi una serie di immagini: Bella, il piccolo ritrovo in
famiglia con
Charlie, e la colazione speciale “anti-nausea” e
“pro-bambino” che le stava
preparando.
Infine, vidi formarsi nella sua
mente l’immagine della
lavatrice che finiva di lavare. «Tre, due, uno». Plin. «Vai a mettere la roba
nell’asciugatrice, ci penso io qui» fece
risoluta.
«Alice,
l’ultima volta che l’hai fatta tu non è
andata
tanto bene, forse sarebbe meglio se me ne occupassi io»
tentai di essere più
cortese possibile, ma la verità era che Bella aveva dovuto
mangiare quello che
le aveva preparato per non ferirla, ma poi aveva avuto tutto il giorno
un
terribile mal di pancia. Il folletto non era tagliato per la cucina.
Incrociò le braccia al
petto, stizzita. «Questa volta
non accadrà» fece sicura «Esme mi ha dato delle
lezioni!».
Sospirai, alzando gli occhi al
cielo. Mi dissi che se
mi fossi reso conto che quella cosa che stava preparando non era
commestibile
l’avrei obbligata a buttarla.
Quando tornai dalla lavanderia, la
cucina, pulita e
riordinata da me la notte stessa, era irriconoscibile: non
c’era alcuna traccia
de “l’atmosfera serena”.
Fra i fornelli trovai la piccola
figura di Alice,
coperta di zucchero, glassa e caramello, con in mano un piattino su cui
stava
poggiato un croccante alle mandorle con glassa caramellata.
Sollevai un sopracciglio,
titubante. «Alice, non sarà un
po’ troppo» cercai il termine adatto
«troppo dolce?».
Lei sbuffò,
imbronciandosi. «Le
piacerà, l’ho visto!».
Non fui così scortese da
ricordarle che le visioni che
aveva su Bella erano sempre più imperfette e veloci,
così sospirai, annusando
il piattino. Disgustoso al punto giusto; almeno sembrava commestibile,
anche se
troppo dolce. «Io dico che le verrà mal di
pancia».
«E io dico di
no!».
«Ti dico di sì
invece».
Pestò i piedi a terra.
«No-o! No, no, no!».
Sentimmo una risata allegra
riempire l’aria. Bella era
in piedi sulla porta, nel suo pigiama verde, ridendo sfacciatamente.
Non era
mai successo che si svegliasse da sola, senza che l’andassi a
chiamare.
In un attimo le fui accanto,
così come Alice.
«Tesoro, ti si
già svegliata?» le chiesi stringendola
a me, mentre lei si cancellava le lacrime che le erano scese per
l’abbondante
risata.
«Sì» sussurrò, abbassando lo
sguardo sul mio petto. Quando
faceva così capivo subito che c’era qualcosa che
non andasse, ma di cui non mi
voleva parlare. Magari le faceva ancora male il seno, o aveva qualche
altro
problema. Non volevo metterla in imbarazzo, preferivo che si aprisse
spontaneamente con me.
«Bella!»
esclamò mia sorella facendola sobbalzare.
Le lanciai
un’occhiataccia. Esme
era stata chiara, lei e Rosalie si dovevano dare una calmata.
«Ti ho preparato la
colazione» disse poi, con un tono
normale e appositamente contenuto.
Bella sobbalzò,
sgranando gli occhi, mentre il cuore
le batteva più forte nel petto. Doveva ricordare bene
l’ultima esperienza della
cucina di Alice. «Emm…
Io…» balbettò, fissandomi
implorante, completamente rossa d’imbarazzo.
Guardai mia sorella, reprimendo
l’istinto di ridere.
«Alice, potresti andare a prendere la vestaglia di Bella,
penso che senta un
po’ freddo… Oh, e già che ci sei
potresti sistemare la biancheria pulita nei
cassetti? Non ti dà fastidio, vero?».
Alice sorrise.
«Certo» fece, sollevando gli occhi al
cielo. Scomparve in un instante.
«Grazie»
esclamò Bella gettandomi le braccia al collo
e stringendomi con la sua debole forza.
Risi, staccandola da me.
«Sta attenta tesoro» la
ammonii dolcemente, mettendole una mano sulla pancia e accarezzandola
attraverso il pigiama leggero.
La sentii gemere. Sollevai lo
sguardo e vidi una
smorfia buffa sul viso di mia moglie.
«Mi…» sollevò gli occhi al
cielo,
sbuffando e arrossendo «non… non fare
così…» disse mordendosi con insistenza
il
labbro inferiore. Era… in imbarazzo?
Tolsi la mano perplesso.
«Così come?». C’era qualcosa
di strano.
Scossi il capo. «Niente,
scusa» mormorò velocemente, ma
i suoi battiti aumentarono.
Non volevo metterla a disagio e
farla agitare, così senza
replicare l’accompagnai sulla sedia del tavolo del soggiorno.
Notando le fastidiose e continue
nausee, e i problemi
causati dal fatto che Bella avesse bisogno di abbondanti dosi di
calorie,
Carlisle aveva rivisto la sua dieta integrandola con delle proteine in
compresse.
Abbassò lo sguardo,
arrossendo, e cominciando a
disegnare con un dito disegni immaginari sul tavolo.
Sospirò. Aveva uno strano
comportamento. Bofonchiò qualcosa e concluse con
«…dolce».
«Cosa?» chiesi.
Lei sobbalzò, portandosi
una mano al cuore, come se
fosse stupita di trovarmi ancora lì.
Il suo comportamento era davvero strano. Corrugai le sopracciglia.
«Stai bene?».
Sgranò gli occhi e
annuì vigorosamente. «Sì».
Chinai il capo di lato.
«Hai detto dolce?».
Le sue guance si tinsero di rosso
del sangue che
l’imporporarono. «Ho… solo…
voglia… di… qualcosa di
dolce…» concluse velocemente
con un sorriso forzato.
Mi stava mentendo. Mi stava
mentendo e non sapeva
farlo. Oltretutto lei preferiva mangiare salato, per tollerare meglio
la nausea.
Un sorriso m’increspò le labbra, mentre -
decidendo di stare al suo gioco - andavo
a prendere la colazione preparata da Alice. Per quanto mi dilaniasse
farlo le
avrei lasciato i suoi spazi, sperando che non fosse qualcosa di serio
di cui
doversi preoccupare; solo così si sarebbe aperta.
Avvertii i pensieri di mia sorella
che stava parlando
con Bella. Magari con lei si sarebbe confidata. Aspettai un
po’, il tempo di
rimettere in ordine la cucina, ma notando che neppure lei riusciva ad
ottenere
i suoi scopi, andai da mia moglie con il dolce preparato da Alice.
Non servì mangiarla.
Appena vide quella cosa super
dolciastra scattò in piedi con una mano alla bocca. Lasciai
il piatto nelle
mani di Alice e le corsi dietro tenendole la fronte.
«Edward» fece,
quando poté parlare «v-vai… vai di
là…
non… posso fare sola…»
mormorò, rossa in viso.
Perplesso, ma pur sempre
determinato a non essere
troppo invadente, tolsi la mano che le avevo messo in grembo e quella
che stava
sul suo viso, lasciandola sola. In quell’istante leggerle i
pensieri mi sarebbe
stato più che utile, ma era giusto anche che le lasciassi la
sua privacy.
«Edward!»
mi
chiamò mentalmente Alice.
Decisi di andare a vedere cosa
volesse, magari il
comportamento insolito di Bella era semplicemente legato al fatto che
avesse
bisogno di un po’ di spazio per stare sola.
«Edward,
sta
tranquillo» mi confortò mia sorella con
un bacio su una guancia «ho scritto
un biglietto con il pranzo che dovrai prepararle, per le cena ci
penserà Esme,
basta che tu informi Bella a tutto il resto penso io,
d’accordo?» fece, un po’ delusa.
«Non è colpa
tua. La bambina blocca le tue visioni» la
rincuorai.
Scrollò le spalle.
«È brutto non essere invincibili»
scherzò debolmente. Mi sorrise, carezzandomi la guancia con
affetto. «Mi
raccomando, sta tranquillo per
stasera!» fece prima di uscire di casa.
Sentii il rumore dei passi sul
parquet e di una sedia
che si spostava. Vidi Bella seduta al tavolo del soggiorno, mentre si
mordicchiava il labbro e si torturava le mani.
Cosa le passava per la testa?
Le portai la colazione, preparata
da me, a base dei
suoi crackers preferiti, ma mi sembrava che avesse pochissima voglia di
mangiare. Era taciturna, silenziosa, e mi pareva costantemente
imbarazzata. Non
volevo farle domande
che le avrebbero portato un
ulteriore imbarazzo, così rimasi anch’io in
silenzio, tentando di farla
sorridere in ogni modo.
«Vuoi vedere la TV?»
le chiesi quando finì di mangiare.
Lei lanciò una piccola
occhiata al mio viso, poi si
fissò le mani, muovendole fra loro, come se fosse indecisa
se dirmi o meno qualcosa.
Infine annuì, semplicemente.
Quando feci per aiutarla ad alzarsi
si sollevò in
piedi velocemente e sgattaiolò in silenzio verso il divano.
Mi parve che non
seguisse affatto il film, continuava ad avere quel comportamento
stranissimo.
Per quanto avanzassi di volta in volta nuove ipotesi che potevano aver
dato
adito al suo comportamento, le trovavo o troppo imbarazzanti o troppo
invadenti
da porre. Cominciai a preoccuparmi un po’, ma mi ripetei che
era ancora in
assestamento per via della terapia antidepressiva e che farle notare le
sue
debolezze non l’avrebbe aiutata.
Sbadigliò, stanca,
chiudendo gli occhi e stendendo le
membra.
«Ti fa male la
schiena?» le chiesi, facendo attenzione
a conservare un tono cortese.
Sobbalzò, stralunata.
«N-no… no… va t-tutto
bene…».
Le sorrisi, seppur perplesso e
preferii rimanere in
silenzio piuttosto che farle notare che era arrossita e che stava
balbettando. Le
cose andarono via via peggiorando. Durante il pranzo era stata ancor
più
taciturna e schiva ad ogni contatto con me. Non capivo, e desideravo
con impazienza
che si aprisse e che insieme risolvessimo i suoi problemi.
Le presi una giacca più
pesante pensando volesse
andare in giardino, porgendogliela con delicatezza.
«Io»
esitò intuendo le mie intenzioni. Era arrossita e
non mi guardava negli occhi «ecco…
posso… voglio stare un po’ in camera…
ti-ti
dispiace?».
Un’altra stranezza. Negli
ultimi giorni l’aria aperta
le era particolarmente piaciuta, adorava quel cambiamento
d’ambiente.
Nonostante tutto le sorrisi con delicatezza. Ero ansioso di scoprire
cosa fosse
a turbarla, ma riempirla di domande e dimostrare la mia apprensione
sarebbe
equivalso solo ad una reazione contraria da parte sua.
«Vuoi dormire?»
le chiesi, come ogni pomeriggio, accarezzandole
la fronte.
Lei sbadigliò, e vidi le
sue palpebre tremolare
impercettibilmente verso il basso, ma nonostante questo mi disse di no.
Fui
seriamente tentato di chiederle cosa non andasse. Tuttavia, continuai
ad
auto-impormi di mantenere il silenzio. Appena scoperta la causa del suo
umore
avrei fatto ogni cosa, tutto quello che potevo per aiutarla. Non volevo
altro,
solo vederla felice e vivere serenamente con nostro figlio,
così l’accompagnai
in camera.
«Mi… mi
potresti prendere un bicchiere d’acqua per
favore?» chiese imbarazzata, rossa in viso.
Aprii automaticamente bocca per
farle una domanda, ma
cambiai rapidamente idea. Sorrisi, non tenendo conto della
preoccupazione che
imperversava in me. «Certo».
Decisi di lasciarle ancora un
po’ di tempo e andai in cucina,
lasciandole un po’ di pace e solitudine, sebbene quel
distacco mi stesse uccidendo.
Non volevo soffocarla con le mie attenzioni e non volevo che fosse
proprio
quella la causa del suo comportamento. Ma volevo assicurarmi che stesse
bene e
che il suo umore non dipendesse dalla sospensione della terapia
antidepressiva.
Ad un tratto mi arrivò
al naso il sentore di umido e
salato.
Stava
piangendo?!
Andai velocemente in
camera.
Stava girata su un fianco,
rannicchiata su se stessa,
e nonostante testasse di placarli, dei piccoli singhiozzi arrivavano
fino alle
mie orecchie.
Rimasi immobile, tentando di capire
quanto potesse
essere grave. Stava solo piangendo? Era un vero attacco di panico? Le
avrei
dovuto dare un’altra compressa o chiamare Carlisle? E se
palesandomi avessi
peggiorato le cose?
No. Non potevo. Dovevo andare da
lei.
Piano mi avvicinai al letto,
dandole il tempo di
accorgersi della mia presenza. Non appena mi vide sobbalzò,
ma i suoi occhi
arrossati non smisero di versare nuove lacrime.
«Amore» la
chiamai cautamente, sistemandole dietro
l’orecchio una ciocca di capelli. «Tutto
okay?».
Il suo labbro inferiore
tremolò, ma poi si affrettò ad
annuire silenziosamente.
Non mi sembrava che avesse un
attacco di panico, forse
era solo un cambiamento del tono dell’umore dovuto alla
gravidanza. «Ti senti
triste?» le chiesi accarezzandole una guancia per cancellare
le lacrime che le
erano scese.
«Edward»
sussurrò, stringendomi con tutta la sua forza
umana e convincendomi a sdraiarmi accanto a lei sul letto. Rimase
qualche
istante così, mentre io l’accarezzavo e tentavo di
placare il suo pianto e di
trovare un modo adatto per chiederle cosa stesse accadendo.
Infine, con ogni occhi asciutti, ma
ancora arrossati,
sollevò lo sguardo fino a incontrare i miei occhi.
«Edward… ri-rimani
con me… sono felice quando sei con me»
farfugliò con la gola secca.
Mi sentii spezzare il cuore alla
sua fragilità, ed
insieme mi sentii egoisticamente contento di sapere di poterla fare
stare
meglio.
Lei si strinse con più
forza, muovendo la punta del
suo naso sulla mia mascella. «Edward»
sospirò, baciandomi con necessità e
avidità e stringendo le mani fra i miei capelli.
«Sto… impazzendo» sospirò,
baciandomi ancora. «Mi… fai
impazzire…».
In quell’istante capii.
Bella
Mi girai su un fianco, dopo aver
chiesto a Edward di
prendermi dell’acqua.
Da quando mi ero svegliata,
sentendo le sue labbra
sulle mie, non riuscivo a pensare che a quello. Volevo mio marito, lo
desideravo profondamente, con ogni fibra del mio essere.
Non mi era mai successo da quando
ero stata rapita da
Jacob, e non sapevo come interpretare i segnali che la mia mente e il
mio corpo
mi mandavano. Lo desideravo ed insieme avevo paura di averlo, della mia
reazione quando sarei stata con lui. La cosa che mi faceva stare peggio
era che
mi toccava, accarezzava, coccolava, continuamente
e delicatamente, senza un
accenno di desiderio o attrazione maliziosa. Ma come faceva a non
rendersi
conto dell’effetto che causava?
La sua tenerezza mi faceva
desiderare di avere di più,
ma insieme la mia mente si riempiva di ricordi e di paure. Era un
pensiero
totalizzante che occupava la mia mente. Tentavo di non pensarci,
tentavo di non
agitarmi, ma più il tempo passava, più la mia
frustrazione cresceva e mi
sentivo sempre più… triste.
Ero tristissima,
esasperatamente triste e imbarazzata da quel mio desiderio che non
sapevo come
comunicarli, per paura di scoprire che non era ricambiato, o che lo
sarebbe
stato solo forzatamente dopo una mia richiesta. Ed ero arrabbiata. Con
me
stessa e con gli altri. Perché non sapevo come sarei potuta
tornare ad avere
una vita normale con mio marito, ma lo desideravo molto, e anche da un
punto di
vista sessuale.
Sbattei un pugno su lenzuolo,
rendendomi conto che lo
sguardo cominciava ad appannarsi. Ci mancava solo quello stupido
pianto! Tentai
di asciugarmi in fretta gli occhi, per paura che Edward mi vedesse in
quelle
condizioni, ma più tentavo di non piangere, più
piangevo. Piangevo. Piangevo
tanto. E non volevo farlo, perché se ne fosse accorto, si
sarebbe preoccupato e
io mi sarei imbarazzata ancora di più.
«Amore, tutto
okay?» mi disse comparendo nella mia
visuale. Nonostante avessi pensato che non doveva vedermi in quello
stato,
sentii la necessità di averlo accanto. «Sei
triste?» mi chiese ancora.
Lo strinsi fra le mie braccia e lo
trascinai con me
sul letto. Tutta l’enorme tristezza, accumulata senza un
apparente motivo in
quelle poche ore, scomparve col beneficio della sua presenza. Non
riuscivo a
capire come fosse possibile, ma averlo accanto a me era come qualcosa
di
magico, un’inspiegabile presenza che guariva le mie ferite.
E una volta eliminati i dolori non
potei far nulla per
impedire alla parte più istitutiva di me di emergere e di
cancellare ogni
inibizione. Mi aspettai di sentirmi bloccare, rimproverare, richiamare,
ma così
non fu. Cominciò a baciarmi con amore, trasporto.
C’era ancora dolcezza in quei
baci, ma anche tanta, tantissima passione, e nessun pensiero negativo
riuscì ad
avere la meglio.
Mi coccolò a lungo,
riempiendomi di baci, di
attenzioni, di ogni sorta di carezza e dolce emozione e concesse a me
di fare
lo stesso con lui, mettendosi a disposizione delle mie labbra e del mio
tocco.
Avevo bisogno di tutto quello. Volevo sentirmi amata e come di secondo
in
secondo realizzavo che stava andando tutto bene, che potevo tornare ad
amare
Edward, mi sentivo più tranquilla.
«Grazie»
sussurrai timidamente baciandogli il petto
nudo dal sotto le coperte.
«Bella, io ti
amo» mi disse sorridendomi.
Annuii. «Ti amo
anch’io» risposi, stringendolo a me. Sentii
un dito delicato e freddo sollevarmi il mento.
Incontrai il suo sguardo intenso.
«Se sei triste o se
senti che c’è qualcosa che non va, promettimi di
parlarne con me» lo vidi
temporeggiare, come se cercasse le parole giuste. Mi fece un mezzo
sorriso «Siamo
in questa cosa insieme. Non c’è niente di
sbagliato in te, d’accordo?».
Sorrisi debolmente, arrossendo e
annuendo piano. Poi
posai la testa sul suo petto, stringendo un braccio intorno alla sua
vita.
«Scusami… non volevo metterti in questa posizione,
ma… io» mi morsi un labbro,
sentendo il mio cuore battere forte nel petto «ne avevo
bisogno, avevo bisogno
di te».
Lo sentii irrigidirsi.
Mi sollevai si scatto, puntando i
miei occhi nei suoi.
«Non fraintendermi, lo so che tu ci sei sempre per me, che mi
sei sempre
accanto… io…» sospirai, guardando il
vuoto «è che… ho bisogno anche di questo. Di sentirti accanto… fisicamente. Mi capisci?».
Mi sorrise. «Certo che
sì. E mi dispiace se non
possono esserci stati momenti… del genere fra di noi.
Scusami, ma» sospirò «forse
avrei dovuto parlartene. Non sapevo se e quando avresti avuto
ancora questo desiderio, ma quando Carlisle ha detto che dovevi stare a
riposo
intendeva anche non avere rapporti. È pericoloso in questo
momento della
gravidanza così delicata, capisci? Ma sappi, e te lo dico
con sincera onestà»
aggiunse serio «che non vedo l’ora che questo
periodo finisca. E poi potremmo…»
aggiunse lievemente malizioso.
Sorrisi.
«Potremmo?».
Lui ridacchiò.
«Dormi amore. Sogna anche per me»
disse, facendomi appoggiare la testa sul suo petto.
Chiusi gli occhi, sbagliando
assonnata. «Anche tu mi fai impazzire»
sentii dire
prima di addormentarmi, stanchissima.
Tre ore dopo mi ritrovai, confusa,
in soggiorno.
Ricordavo solo che dopo aver aperto gli occhi, due paia di mani fredde
si erano
impossessate di me e mi avevano infilato i vestiti che ora indossavo.
Alice e Rosalie si muovevano avanti
e indietro per
casa, Esme, in cucina,
preparava la cena per me e per
Charlie che a quanto pareva doveva mangiare con noi. Edward
l’avevo perso di
vista, ma avrei giurato di vederlo passare accanto a me qualche istante
prima.
Suonò il campanello,
così decisi di andare ad aprire,
nonostante stessi più o meno dormendo in piedi. Il
pomeriggio con Edward aveva
seriamente minato le mie forze già carenti. Quindi fu
più che altro un istinto.
Come un cane che viene richiamato dal fischietto.
Anche perché, quando
arrivai alla porta con il mio
passo lento, questa era già stata aperta da Rosalie.
«Sorellina!»
tuonò un vocione.
Lo salutai con una mano,
sbadigliando.
Emmett non tenne conto della mia
carenza d’entusiasmo.
Dapprima fece per buttarsi su di me in un abbraccio stritolatore, poi,
all’occhiata eloquente che gli riservarono Jasper e Carlisle
si ritrasse, per
poi inginocchiarsi di fronte e me per contemplarmi la pancia.
«Oh! Guarda che
bella pancia grossa!» esclamò contento.
Sgranai gli occhi, sorpresa,
riprendendomi dal torpore.
«Pancia?! Quale pancia? Si vede? Quanto? Come?»
chiesi sollevandomi la
maglietta e tentando di osservarmi. Lo chiedevo a Edward ogni mattina e
lui
diceva sempre che non si vedeva niente.
Carlisle ridacchiò,
riponendo il cappotto
sull’attaccapanni. «Non si vede nessuna pancia,
forse si è leggermente
allargata la vita» disse dandomi un bacio affettuoso sulla
guancia e
raggiungendo gli altri in soggiorno.
«Oh» feci,
leggermente delusa, ignorando Emmett che mi
punzecchiava il ventre con un dito.
Quello fu il turno di Jasper di
ridere, mentre
scrutava le mie emozioni. «Ci sei rimasta male?».
«No» borbottai, offesa, stringendo le
labbra.
«Bellina, secondo me si
vede, guarda qui! Si vede
benissimo, ecco, ecco!» insistette Emmett indicandomi un
punto in cui secondo
lui avrei dovuto trovare un rigonfiamento.
«Dove?»
esclamò Jasper, precipitandosi in ginocchio
davanti a me accanto al fratello e posando una mano, accanto alla sua,
sulla
mia pancia.
Mi stupii del suo comportamento. Di
solito si teneva a
distanza.
«Ecco, vedi! È
una pancia tonda!» fece saccente l’orso.
«Mah. Secondo me
è a punta» ribatté contrariato
l’altro.
«Aspetta, da che lato
dormi Bella?» mi chiese Emmett.
Sobbalzai, sorpresa dalla domanda e
dai loro discorsi.
«Non lo so… credo il destro…»
borbottai tra uno sbadiglio e l’altro.
«Ah-ah!» fece
Jasper, vittorioso.
«Si, ma è
stato concepito ad Agosto!».
«Già, ma lei
aveva diciott’anni!».
«Però non
mangia legumi!».
«E nemmeno
banane!».
Ero allibita dal loro
comportamento. «Ragazzi,
scusate…» tentai di interromperli, per chiedergli
quantomeno di togliere le
loro mani dalla mia pancia.
«Sai che ci rimane una
sola domanda da farle?» fece
Emmett serio, ignorandomi.
«Fallo» rispose
l’altro, facendo spallucce.
Si voltarono contemporaneamente
verso di me. «Bella. Come
l’avete concepito?».
Sgranai gli occhi, improvvisamente
purpurea.
«Si
può?»
chiese mio padre, entrando
dalla porta ancora aperta.
Vedendo la scena che gli si presentò dinanzi,
sollevò un sopracciglio. Poi,
notando le mani di Emmett e Jasper sulla mia pancia, gli si
illuminarono gli
occhi.
Abbassai velocemente la maglietta,
tirando due
colpetti sulle mani dei ragazzi. Mio padre non doveva mettere mano
sulla mia
pancia.
Per fortuna Edward venne in mio
soccorso. «Tesoro, ti
ho trovata finalmente. Stai dormendo in piedi, vieni di là a
sederti». Poi si
voltò verso mio padre, temporeggiando volutamente con un
occhiataccia sui suoi
fratelli. «Buonasera Charlie, prego, accomodati».
Mio padre sorrise, in naturale
imbarazzo. Lasciò il
suo giaccone e si avviò in soggiorno, raggiungendo gli
altri.
Gli occhi di Edward scintillarono
di rabbia. «Voi due»
disse puntando minacciosamente un dito contro i suoi fratelli
«non provate più
a mettere in imbarazzo mia moglie e soprattutto fatemi il favore di non
renderla partecipe delle vostre assurde scommesse».
«Certo, certo»
fecero con noncuranza, superandoci per
andare in soggiorno.
«Su cosa hanno
scommesso?» chiesi, stringendomi a
Edward.
Scosse il capo, contrariato.
«Sul sesso del bambino»
disse a mezza voce prima di baciarmi.
Mi ritrassi stupita. «Non
ci ho ancora pensato
seriamente… tu cosa vorresti?».
Mi sorrise. «Io ci ho
pensato, ma… non lo so, non
m’importa. So solo che lo amo già ora»
disse baciandomi con amore.
«Allora ragazzi, avete
capito come funziona la cosa?» chiese
Alice distribuendo due bigliettini ciascuno.
«No aspetta»
fece Emmett «cioè io devo scrivere il
nome che vorrei dare al pargolo se fosse un maschietto su un
fogliettino, e se
fosse una femminuccia sull’altro. Giusto? Poi si mettono
tutti i nomi di maschi
da una parte e tutti i nomi delle femmine dall’altra e poi si
pescano i turni
di scontro?» chiese gesticolando con i bigliettini.
«Esattamente»
disse Alice frettolosamente «e poi
funziona un po’ come un concorso con le eliminatorie. Tutti
voteremo, supereremo
ogni turno, alla fine avremo un risultato vincitore per la categoria
maschi e
una per la categoria femmine e saremo tutti contenti. Bene, chiaro,
cominciamo»
concluse in fretta.
«No, no aspetta
Alice» la interruppi.
Lei sbuffò.
«Che c’è?!».
«Mi stai dicendo che noi,
cioè tutti voi»
dissi mostrando i presenti in sala,
«deciderete il nome del nostro
bambino?» chiarii indicando me e Edward, seduto sul divano
con i miei piedi
sulle gambe.
«Esattamente»
fece lei, riaprendo bocca per parlare.
«E non pensi che dovremmo
essere noi, cioè io e Edward
a decidere?» incalzai.
Si voltò scocciata verso
di me. «Senti tu, ma non
stavi dormendo?! Mi sembri un po’ troppo lucida per i miei
gusti. Edward,
portala a letto, la votazione la possiamo fare anche soli».
«Alice» la
richiamò Esme
«se
Bella vuole decidere da sola il nome di suo figlio è un suo
diritto farlo».
«Ma mamma… Ci
metterà troppo! Tanto poi potrà anche
cambiare idea, ma mi servono certezze,
per ora» fece con uno sguardo eloquente.
Che di eloquente aveva ben poco, ma
almeno avevo
capito che era una cosa che c’entrava con le sue visioni.
Beh, almeno dopo
avrei potuto cambiare idea…
«Grazie, grazie,
grazie!» esclamò saltellando.
«Ma se ancora non ti ha
detto sì» borbottò mio padre.
Alice fece un sorriso a trentadue
denti. «Ma noi siamo
amiche, e le amiche si capiscono al volo!».
Un’ora dopo contenere il
sonno era quasi impossibile.
Ma, nonostante i costanti inviti di Edward per andare a dormire, avevo
due
buoni motivi per non addormentarmi. Il primo, era il nome proposto da
Emmett
per mia figlia. “Lilla”. Il secondo, era il nome
proposto da sua moglie per mio
figlio. “Haier”.
Lottavo con tutte le mie forze per
non farli andare avanti nelle selezioni, tuttavia sembravano riscuotere
nei
vampiri un certo successo.
Ad un mio sguardo eloquente Edward
aveva ben capito
che se avesse alzato la mano per votare uno di quei nomi le avrei dato
fuoco
con un tizzone ardente.
Ad un tratto si sollevò,
baciandomi le labbra. «Vado a
prenderti una coperta» mi spiegò con un sorriso.
In effetti avevo freddo, e i
miei piedi erano congelati.
Non feci in tempo a soffrire per
l’assenza di mio
marito che Jasper mi venne accanto, sedendosi su divano al posto di
Edward.
«Come va Bella? Ti sento piuttosto tranquilla, ma anche un
po’ tesa».
«Molto stanca»
biascicai, sbadigliando e lottando per
tenere le palpebre aperte.
Lui ridacchiò.
«Sì è vero, ma a quello ci sono
abituato».
Sospirai, per poi sussurrargli
«Grazie per non aver
proposto nomi strani per mio figlio».
«Figurati» mi
rispose con un sorriso.
Spostai lo sguardo su Rosalie e
Alice che discutevano
sul voto di un nome. Emmett tentava di acquietare sua moglie mentre Esme faceva lo stesso con Alice.
Mio padre invece mi sorrideva,
imbarazzato dalla situazione.
Un attimo. Carlisle non
c’era. E Edward non era
tornato.
«Hai chiamato tua madre,
Bella?» mi chiese Charlie tentando
di sovrastare le esclamazioni di Rose a Alice.
Catturò poco la mia
attenzione. «Mmm,
sì. L’ho vista con la webcam, insieme a
Edward…».
«Oh, e… come
l’ha presa?» mi chiese ancor più in
imbarazzo.
Mi concentrai su di lui.
«Bene, è molto contenta, ci
ha dato la sua benedizione e dice che ci verrà a trovare per
Natale; scusami un
attimo» dissi alzandomi dal divano.
Non sapevo bene perché
l’avevo fatto. Dovevo andare da
loro? Stavano parlando di me? Magari volevano solo parlare un momento
come
padre e figlio, non volevo essere invasiva. Mi mossi verso il camino
acceso,
solo per non crollare per la stanchezza. Non sapevo bene cosa fare. E
se invece
stavano parlando di me? Mi stropicciai gli occhi per impedire che si
chiudessero. Poi sospirai, vagando verso la finestra. Stava piovendo.
Decisi di
ritornare al camino, verso il caldo. Mi mordicchiavo nervosamente un
labbro.
Perché non tornavano? Da quando ero diventata
così paranoica?
In quel momento spuntò
la figura sorridente di Carlisle,
seguita a breve da Edward.
«Amore» dissi
avvicinandomi a lui.
Mi accarezzò una
guancia, saettando con lo sguardo fra
me e Jasper. «Hai sonno?» mi chiese poi.
«Sì,
molto» mormorai, completamente abbandonata sul
suo petto.
Mi prese in braccio e si sedette
sulla sedia a dondolo
accanto al camino. Poi mi posò addosso la coperta,
ricoprendomi completamente,
fin sopra la testa.
«Voti tu per
me?» sussurrai mezza addormentata.
«Certo, non ti
preoccupare» mi rassicurò, sollevando
poco il plaid per baciarmi le labbra. Poi cominciò a
dondolare,
canticchiandobassa
voce la mia
ninna-nanna.
Come al solito addormentarsi
immediatamente non fu
facile.
Strofinai il volto sulla sua
camicia, in cerca di una
posizione comoda. In quel momento le mie labbra vennero casualmente in
contatto
con la pelle nuda della sua clavicola.
Cominciai a lasciare una serie di
baci. Mi piaceva da
impazzire il suo sapore sulle mie labbra. Per fortuna nessuno mi poteva
vedere.
Edward si irrigidì
brevemente, poi lo sentii
ridacchiare nervosamente, e una sua mano si posò sul mio
fianco.
Continuai la mia opera, con un
sorriso malizioso a
incresparmi le labbra, finché non sentii la
lucidità lasciare spazio al sonno.
«Femmina!»
urlò Alice ad un tratto, facendomi risvegliare.
Mi strinsi al cuscino mentre mi portavo una mano al
ventre
«Vuoi metterci anche la
glassa?» mi domandò Esme
passandomi la farina.
Scossi il capo, reprimendo un
conato. Ero seduta su
uno sgabello della cucina, intenta nella mia preparazione.
«Mi sa che alla
bambina non piace» feci con una smorfia, continuando ad
impastare i biscotti.
Bambina. Già,
perché, grazie ad Alice, avevamo scoperto che
era una femminuccia. Pur non potendo vedere la bambina, basandosi sui
nomi
decisi durante la serata in famiglia, era riuscita a vedere che
l’avremmo
chiamata col nome femminile e non con quello maschile. Edward se ne era
dimostrato entusiasta, e anche Emmett; un po’ meno Jasper,
che aveva perso la
scommessa.
Sbadigliai. Nonostante mi fossi
svegliata da poco mi
sentivo stanca, e a differenza degli altri giorni non ero solo
assonnata, ma mi
sembrava di avere meno energie. Questa gravidanza mi stava stremando.
Sorrisi,
portandomi una mano alla pancia. In quel momento Edward si
materializzò al mio
fianco, piegandosi all’altezza del mio ventre.
Ridacchiai, scompigliandogli
delicatamente i capelli.
«Sei tornato». Aveva il viso più freddo
del solito per essere stato esposto
alle temperature autunnali di Forks. Alice gli aveva dato una mano a
fare la
spesa per acquistare dei cibi che tenessero sotto controllo la mia
onnipresente
nausea.
«Come stanno le mie
donne?» chiese, lasciandomi un
bacio sulla pancia.
«Sono stanche e
affamate» gli rispose Esme con
un’occhiata di avvertimento, mettendo le gocce di cioccolato
nel mio impasto.
Rivolsi a Edward uno sguardo
interrogativo. Sapeva
cosa volevo sentirmi dire.
Mi fece un piccolo sorriso, pronto
ad accontentare la
mia muta richiesta, poi posò due mani fredde sui miei
fianchi. «Si vede qui»
disse, indicando un lato, «e qui» fece, sfiorando
l’altro, «ma la pancia è
ancora piatta», concluse teneramente.
Sospirai. Ero sempre ansiosa di
scoprire i cambiamenti
del mio corpo, ma non ce n’erano mai.
Edward mi sollevò il
mento con una mano. «Non temere,
sta crescendo e sta bene. Tu sei stanchissima, hai sempre la nausea e i
tuoi
sbalzi d’umore. Quindi lei sta bene».
Non feci in tempo a ribattere che
me ne sarei voluta
accertare in un altro modo, che squillò il mio cellulare.
Era abbandonato sul
divano in soggiorno.
«Tranquilla, te lo vado a
prendere» fece Esme in un
secondo, e un attimo dopo era accanto a me con il telefonino.
Allungai la mano per prenderlo e
successero delle
cose, cose che succedevano spesso da quando ero entrata a far parte
della
famiglia dei vampiri.
Alice si materializzò
nella stanza, abbandonando poi
le buste della spesa sul pavimento, lo sguardo perso. Edward mi strinse
a sé, e
contemporaneamente posò una mano sulla mia, come per
impedirmi di completare il
mio gesto.
Mi voltai a fissarlo. Era teso,
anche se tentava di
non darlo a vedere.
«Che succede?»
domandai preoccupata.
Deglutì.
«Bella, lascia che risponda io» fece serio.
Corrugai le sopracciglia, e mi
voltai a guardare lo
schermo illuminato del cellulare che ancora squillava. “Papà”.
Mi volsi
ancora verso mio marito, allarmata, e senza rispondergli afferrai il
cellulare
dalle mani di mia suocera e risposi rapidamente
«Pronto?».
Ma non c’era mio padre
dall’altro capo del telefono. «Isabella
Cullen?»
domandò una voce sconosciuta.
«S-sì»
balbettai sempre più agitata. «Sono io».
Edward posò entrambe le
sue mani sulle mie spalle e
mimò con le labbra “Tran-quil-la”.
Presi un respiro per calmarmi, ma
fu più corto di
quello che avrei voluto. «Chi è lei?
Perché mi chiama da questo numero?».
«Sono il vice-sceriffo
Conrad. Sono stato allertato da Billy Black, stamattina aveva una
battuta di
pesca con il capo Swan, ma all’inizio pensava che non si
fosse presentato. Poi
hanno trovato il suo cellulare sulla riva e la barca è
ancora ormeggiata. Lei
ne sa qualcosa?».
Mi portai una mano alla gola.
Sapevo con certezza di
essere impallidita visibilmente, perché sentivo il viso
freddo e un fischio
nelle orecchie. «No»
soffiai.
«Bella» mi
chiamò Esme preoccupata.
«Non si
preoccupi Isabella, lo troveremo. Suo padre
è un pescatore esperto e manca da appena 8 ore.
L’ipotesi più probabile è che gli sia
caduto il cellulare e non se ne sia
accorto».
«Non torna mai dopo le
10» sussurrai a voce
bassissima.
«Come, scusi?».
Mi schiarii la voce, ma uscii
comunque bassa e fiacca.
«Non torna mai dopo le 10. Dice che dopo fa troppo caldo e
non si trovano pesci».
Una pausa. «Lo
troveremo. Adesso stia tranquilla e
mi dia il suo indirizzo, in modo da poterla aggiornare in caso di
futuri
sviluppi. Vedrà, lo troveremo in un paio d’ore e
tutto sarà risolto. Ci chiami
se la contatta in qualche modo, va bene? Signora Cullen?
Signora Cullen mi
sente?».
Lasciai che Alice mi sfilasse il
cellulare dalle mani.
Edward mi strinse a sé,
lasciando che sprofondassi con
il viso sul suo petto. Mi sentivo tremare e la testa mi girava, ma non
potevo
permettermi di crollare. Mi staccai da Edward.
«Bella, sta tranquilla,
sicuramente non è nulla di
grave e si risolverà presto. Stai bene? Vuoi stenderti un
attimo?» mi domandò
attento.
Scossi il capo.
Esme mi porse un bicchiere
d’acqua e quella volta non
rifiutai.
«Cosa può
essere successo?» domandai preoccupata
«perché doveva vedersi con Billy?
Perché proprio con lui? Alice» la chiamai,
vedendo che tornava nella stanza.
Sollevò le mani.
«Non riesco ad avere visioni, hanno
coinvolto i licantropi perché era nella riserva quando
è successo. Ma Bella, io
sento che sta bene, okay?».
Posai una mano tremante su quella
di Edward, sul mio
fianco. «Dobbiamo andare. Dobbiamo cercarlo».
«Sì, dobbiamo
andare» mi rispose, guardandomi fisso
negli occhi «Noi. Non tu. Tu sei umana,
incinta e naturalmente
sconvolta».
«Edward»
protestai agitata «lo sai che devo venire
anch’io».
«E cosa?»
replicò con la sua logica di ferro
«girovagare nel bosco mentre noi lo cerchiamo con i nostri
sensi a velocità
inumana?».
Strinsi le mani sulle sue braccia.
«Non posso
aspettare qui» pigolai ansiosa «morirò
nell’attesa. Non ce la faccio, Edward».
«E vuoi andare
lì? Nella riserva?»
continuò
persuasivo.
Presi un paio di respiri. La
riserva. I licantropi.
Billy. Sentii la testa girare più veloce e la sua presa
stringersi con più
forza.
«Bella, sei
sconvolta» fece convincente «Rimani qui,
riposati. Esme rimarrà con te» fece ancora,
approfittando di quel momento di
debolezza per convincermi. Sapevo che mi amava al punto che avrebbe
fatto di
tutto per proteggermi, anche fare leva sulle mie paure, ma non glielo
avrei
potuto permettere.
Presi un respiro. «Lo so
che lo senti» mormorai
tremante, sollevando i miei occhi spaventati nei suoi «Che
senti che mi sento
svenire, che impallidisco, il battito del mio cuore che
aumenta» dissi, facendo
aprire i suoi occhi di tristezza. Era proprio così.
«E chissà quali e quante
altre cose. Lo so. Ma Edward, ti prego» pigolai, convinta
però di ciò che
dicevo «non posso vivere tutta la mia vita nella paura. Ho
bisogno di dire a me
stessa che ce la posso fare. E adesso lo devo fare per mio padre. Se
gli
succedesse qualcosa…».
Edward avvicinò il suo
volto al mio. «Non gli
succederà nulla» provò ancora,
tormentato dalle mie parole piene di verità.
Scossi il capo, gli occhi chiusi.
«Ti prego» sussurrai
senza voce.
Tirò un sibilo fra i
denti, stringendomi il capo e
avvicinandoselo al petto, in silenzio, senza dire nulla. Sapevo che
avevo
ragione.
«Vado ad avvisare gli
altri» fece Alice a voce bassa
«Jasper ed Emmett lo cercheranno, sembrerà meno
strano che a trovarlo siano due
uomini. Noi quattro andremo sulla costa, ai confini della riserva, dove
sono tutti
gli altri. Edward» disse al fratello «falle mettere
una giacca pesante. C’è
molto vento e fa freddo».
«Grazie»
mormorai a mio marito, separandomi da lui
quanto bastava per guardarlo negli occhi. Ero preoccupata della sua
possibile
reazione.
Non mi rispose. Aveva il viso teso
e preoccupato. Si
chinò a lasciarmi un bacio sulla fronte.
«Andiamo».
Come da istruzioni mi fece mettere
addosso una giacca
molto pesante, una sciarpa e un cappello di lana, tanto che avevo
scoperti solo
qualche centimetro di viso. In auto avevo caldo, mi sentivo scomoda, e
la
calura aumentava la mia debolezza e la mia nausea, ma cercai di non
protestare,
perché sapevo che aveva già fatto tanto per me.
Osservai attraverso il finestrino
il percorso di
alberi verdi, foglie e cieli grigi. Era dal giorno
dell’ospedale che non uscivo
di casa, e quel giorno non era andata tanto bene. Ormai era quasi una
settimana
che non prendevo più gli antidepressivi e a casa, in
quell’ambiente tranquillo,
con la presenza di Edward, era andato tutto bene. Ma come sapere come
avrei
reagito fuori?
Stavo andando da Billy Black, il
padre dell’uomo che
aveva tentato di stuprarmi e che io avevo ucciso. Che coraggio dovevo
avere per
resistere a quello?
Mi carezzai il ventre piatto.
Volevo fare leva sulla
speranza che mi dava la vita che stava crescendo in me. Ma come avrei
mai
potuto trattare l’assassino di mia figlia, anche se lei fosse
stata malvagia?
Deglutii, sentendo le forze venirmi
meno di secondo in
secondo. Forse Edward aveva ragione, non ero pronta ad affrontare
Billy.
Presi un respiro, stringendomi una
mano al petto e
chiudendo gli occhi, cercando di visualizzare il motivo per cui lo
stavo
facendo: mio padre.
«Calmati»
mormorò all’orecchio mio marito, facendomi
sobbalzare. Strinse le labbra alla mia reazione, contrariato.
Sospirò, posando
una mano sulla mia spalla. «Calmati, Bella».
«Pensi che sia stato
Billy? Che gli abbia fatto del
male per vendicarsi di me?» domandai, dando voce alle mie
preoccupazioni.
Strinse la mascella, allontanando
lo sguardo. «Non
saprei. Avrebbe avuto molte occasioni di farlo prima di
oggi».
Sospirai. «Spero sia come
dici tu».
«Non temere, Jasper ed
Emmett lo troveranno subito».
Annuii, provando davvero a fidarmi
delle parole di mio
marito.
Mi aiutò a scendere
dall’auto, assicurandosi che il
cappello e la sciarpa mi proteggessero bene. Alice aveva ragione.
L’aria era
fredda e pungente come quella degli autunni di Forks che preannunciano
l’inverno. Appena fuori dall’auto guardai la
spiaggia e in lontananza la
scogliera, e un brivido mi attraversò la schiena.
C’era già stata, con Jacob.
Quando pensavo che fossimo amici.
Edward mi strinse a sé e
nonostante fosse contrariato
non disse nulla, limitandosi a guidarmi verso il piccolo gruppetto di
folla che
si era radunato sulla spiaggia. Tremavo, ma speravo di riuscire a
tenere il
panico a bada.
Un uomo in divisa ci venne
incontro.
«Vice-sceriffo
Conrad» lo salutò mio marito
porgendogli la mano.
L’uomo esitò,
accettando il suo gesto con un brivido.
I vampiri non si relazionavano spesso con gli umani. «Lei
deve essere Edward Cullen.
Isabella Cullen»
fece,
salutando entrambi. Era giovane, fra la trentina e la quarantina, e mio
padre
mi aveva confidato che sperava che un giorno prendesse il suo posto.
«Lei è mia
madre, Esme, e mia sorella Alice Cullen»
disse mio marito, indicandole.
L’uomo fece un cenno con
il capo a mo’ di saluto e poi
aggiunse con tono rassicurante «non era necessario che
veniste. Ci sono già tre
squadre di ricerca che stanno perlustrando la costa, lo troveremo
presto».
Un uomo più basso e
tarchiato si avvicinò, mettendo
via la sua ricetrasmittente. «In realtà due,
Conrad. I ragazzi di La Push
si sono appena ritirati. Dicono di non aver trovato
nulla».
Tremai, agitata.
Edward sfregò la sua
mano sul mio braccio, senza dar
vedere il suo turbamento. «In realtà sono ancora
tre, vice-sceriffo.
I miei fratelli si sono già adoperati per dare una
mano» fece, con la sua
migliore voce da bravo ragazzo.
Quello crucciò le
sopracciglia. «In realtà sarebbe
meglio coordinarsi, potrebbe essere pericoloso agire in
autonomia…».
«Bella»
sussurrò al mio orecchio Alice, distraendomi
dalle sue parole «sarà qui fra meno di trenta
secondi. Pensi di essere pronta?
Puoi tornare in auto se vuoi».
Mi voltai a guardarla a capii
subito di chi stesse
parlando. Deglutii. «Lascia che venga».
Lei annuì, facendomi un
piccolo sorriso. «Ce la farai.
Sei molto forte, più di quanto credi».
Venti secondi più tardi,
come predetto dalla mia sorella
veggente, Billy Black era lì. Si avvicinò al
gruppetto di persone composto da
uomini in divisa, ragazzi e gente con i lunghi neri capelli Quilite.
Poi si voltò a guardarmi. Molti sentimenti passarono sul suo
volto. Dolore,
rabbia, paura, senso di colpa.
«Scusatemi»
mormorai, separandomi da mio marito per
andargli incontro.
Lui mi strinse più
forte, ma non per trattenermi. Non
voleva lasciarmi andare da sola.
Dal piccolo gruppetto si
levò un lieve mormorio mentre
osservava la scena. «Bells»
mi chiamò Billy quando
fui abbastanza vicina. Il suo viso era tirato, e sembrava dimagrito ed
invecchiato, seduto sulla sedia a rotelle senza che più
nessuno la spingesse.
«Solo mio padre mi chiama
così» sussurrai a voce
bassa.
Puntò i suoi occhi neri
fissi nei miei. «Lo faceva
anche qualcun altro» disse, facendomi sentire come se
qualcuno mi avesse appena
tirato un pugno.
Presi un respiro, decisa a non
crollare. «Dov’è mio
padre? Cosa gli è accaduto?».
«Non lo so. Dovevamo
vederci oggi dopo molto tempo, e
non si è presentato» fece, senza smettere per un
secondo di osservarmi in modo
fisso, pacato e cauto «io non so nulla della sua
scomparsa».
«Perché
vedersi oggi dopo così tanto tempo allora?»
incalzai.
«Non lo so»
ribatté, solo lievemente esasperato. «È
stato lui a insistere».
«Dice la
verità» soffiò Edward al mio orecchio.
Billy spostò lo sguardo
su di lui, tagliente. «Diceva
che lo facevi sempre. Leggere i suoi pensieri»
sibilò con rancore e odio.
«Non è servito
a salvare mia moglie» ribatté con malcelata
rabbia.
«Se solo voi succhiasangue
non foste esistiti molte vite sarebbero state risparmiate!»
esclamò, battendo i
pugni contro i braccioli della sedia.
«Vi prego»
biascicai, stentando a trattenere le
lacrime.
Fecero silenzio, distogliendo
entrambi lo sguardo
verso il mare.
«Gli volevo bene,
Billy» sussurrai a stento «ma lui mi
ha fatto così tanto male, così tanto»
biasciai, stringendomi forte a Edward per
non crollare.
Billy annuì, la mascella
tesa. «Lo so» disse, girando
le ruote della sedia a rotelle per allontanarsi da noi.
Nascosi il viso con le mani,
lasciando scendere le
lacrime. «Avevi ragione tu, non dovevo venire. Mi
dispiace» sussurrai, portandomi
una mano alla pancia. Mi sentivo debolissima, come non lo ero da tempo,
e avevo
paura di avere un attacco di panico da un secondo all’altro.
Avevo bisogno di
calmarmi, ma per farlo dovevo trovarmi in un luogo sicuro.
«Portami a casa».
Mi carezzò i capelli, e
il viso. Sospirò, facendomi
sentire in quel respiro tutto il dolore che provava a sentirmi
così debole e
fragile, ma anche la consapevolezza che avevo ragione, che dovevo
affrontare le
mie paure per sapere di poter andare avanti nella mia vita.
«Sei stata molto
forte Bella. Shh,
calmati. Se vuoi andare ti porterò
a casa, ma... aspetta» si bloccò, prendendo il
cellulare dalla tasca dei jeans.
Presi un fiato. Emmett.
Forse erano notizie su
mio padre.
Rispose rapidamente.
«Sì. Va bene, grazie» un sospiro.
Era sollievo? Mi mancò in battito, e pregai che fosse di
sollievo. Accortosi
del mio stato si volse verso di me e annuì con uno sguardo
rassicurante.
Ricominciai a respirare. Dovevano
averlo trovato.
«Sì, certo.
No, non vi avvicinate, non è una buona
idea. Grazie» li salutò prima di chiudere.
«Lo hanno
trovato?» domandai subito ansiosa.
«Sì,
tranquilla» mi rassicurò immediatamente.
Feci un grande sospiro.
«Oh, grazie a Dio. Lo stanno
portando qui?» chiesi preoccupata.
«Non proprio, ma stai
calma» mi disse con il viso
serio, ma disteso, così tanto che decisi di fidarmi di lui
«ha qualche
escoriazione e Jasper non se la sentiva di avvicinarsi troppo. E poi
era ancora
nella riserva. Lo hanno seguito a distanza».
«Come?»
esclamai, la voce più alta di alcune ottave «e
ora dov’è?».
«Calma ti ho
detto» fece ancora, posando entrambe le
mani sulle mie spalle. Mi prese il mento fra le mani, studiando con
tenerezza il
mio sguardo spaventato «è qui» disse,
volgendo lo sguardo verso la scogliera.
A distanza di almeno un chilometro
vidi emergere fra i
rami la figura di mio padre. Era proprio lui! «Oh mio
Dio» esclamai, lasciando
scendere nuove lacrime di sollievo.
Si stava avvicinando a noi, ma
capivo che qualcosa non
andava. Presto molti brusii si levarono dalla folla e alcuni si
staccarono per
corrergli incontro.
«Vai» dissi a
mio marito, «ti prego. Alice ed Esme
saranno con me».
Annuì, e
iniziò a correre verso di lui sforzandosi di
tenere una velocità umana.
«Sta bene, stai
tranquilla» mi rassicurò Esme,
stringendomi e carezzandomi.
Alice si avvicinò poco
dopo. «Ho chiamato un’ambulanza
e avvisato Carlisle. Stai serena» aggiunse a mio beneficio
«ha una gamba rotta
e qualche escoriazione. Finalmente i licantropi si sono tolti di mezzo.
Rimarrà
in osservazione in ospedale stanotte. So che vuoi stare con lui,
Rosalie ti sta
portando qualcosa da mangiare e per rinfrescarti e dei pigiami per lui.
Starà
benissimo, d’accordo?».
Annuii, tirando su con il naso
«Cosa gli è successo?».
Strinse le labbra, un po’
tesa. «Questo dovrai
aspettare che te lo racconti lui».
«Papà»
esclamai quando fu abbastanza vicino.
Zoppicava, sorretto ai due lati da
Edward e da un uomo
in divisa, e aveva un taglio sul sopracciglio.
Corsi da lui, e mi gettai fra le
sue braccia quando fu
abbastanza vicino.
«Bells,
figliola, che ci fai
qui?» fece, tirandosi indietro con una smorfia di dolore sul
viso.
«Cosa ti è
capitato?» domandai agitata, studiandolo. A
parte il taglio e la gamba zoppicante non sembrava avere nulla di
più grave,
come aveva detto Alice.
Scosse il capo. «Una cosa
davvero assurda» borbottò
«non ci crederesti se te lo dicessi».
«Ci crederemo quando ce
lo racconterai al caldo in ospedale»
replicò Edward, sollevando lo sguardo verso la strada, dove
poco dopo comparve
l’ambulanza.
Gli fecero tutti gli esami del caso
e dopo circa
quattro o cinque ore era nella sua stanza d’ospedale, con il
gesso alla gamba e
un paio di punti sul viso. Vedendolo lì, in quel letto,
potevo capire cosa
intendesse Edward quando mi parlava della fragilità umana.
Mio padre era così
fragile.
«Hai bisogno di
qualcosa?» domandai, sistemandogli i
cuscini in modo che stesse più comodo «vuoi
dell’acqua o una tisana?».
Mio padre mi fissò di
sottecchi. «Non dovresti essere
a casa a riposare? La mia… nipotina.
Come sta?».
Mi voltai a sorridergli. Dopo la
rivelazione urlata da
Alice sul sesso del bambino era rimasto molto sospettoso. Gli avevano
spiegato
che erano stati i risultati di un test non invasivo del DNA fetale in
circolo
sul sangue materno, ad informarla, tramite un messaggio sul cellulare.
Carlisle
aveva davvero provato a fare quel test, ma non era stata riscontrata
alcuna
frazione di DNA fetale. Un’ennesima anomalia da gravidanza
vampira. «Sta bene. Non
sto facendo niente di stressante» ribattei, iniziando a
sistemare le sue cose
nell’armadio.
«Bells,
fermati. Ti prego,
vieni qui» mi chiamò indicando la sedia accanto al
suo letto.
«Faccio solo questo, non
sono stanca» mentii. Ero
stremata dal carico emotivo e fisico che avevo vissuto quel giorno, e
in più la
strana fiacchezza che avvertivo da quella mattina stava peggiorando
sempre di
più.
«Bells»
mi chiamò ancora,
«sei bianca come un lenzuolo. Ti prego, vieni a
sederti».
Sospirai, lasciando perdere le sue
camicie e andandomi
a sedere dove mi voleva. «Come ti senti?» domandai,
avvicinando incerta la mano
alla sua. Noi non facevamo quelle cose, fra di noi. Sentivo che eravamo
entrambi in imbarazzo.
Mi guardò di sottecchi,
combattuto. «Mi sento molto in
colpa» disse infine.
«Cosa? Perché
mai?» domandai sorpresa.
Prese un respiro, scuotendo il
capo. «Non dovevo
spingerti fra le sue braccia. Non dovevo alimentare le speranze di
quel…
maniaco. Ti ha quasi distrutto» mi disse con voce rotta.
«Oh papà, come
potevi saperlo?» tentai di consolarlo.
«Dovevo dare retta a
te!» esclamò, «e non arrabbiarmi
perché avevi deciso di sposarti prima di andare
all’università. Dovevo badare
alla tua felicità più che alla mia. E oggi, ti ho
fatto stancare e preoccupare
così tanto. Volevo solo mettere apposto le cose con
Billy».
«Non fare
così» dissi rammaricata «ti sei
comportato
come avrebbe fatto qualunque altro padre».
«Oh, no. Edward
è un bravo ragazzo e io lo sapevo»
ammise amareggiato «ma c’era qualcosa in lui che
istintivamente…».
M’irrigidii e mio padre
fraintese il mio gesto.
«No, no, tranquilla. Non
lo penso ancora. Credo che
fosse solo istinto di protezione paterno. Che ti ha spinto nelle mani
dell’uomo
sbagliato. Mi perdonerai mai?» mi chiede pieno di rimorsi.
Lo guardai con dolcezza, sapendo
che era molto più
dell’istinto paterno ad averlo spinto ad aver paura di un
vampiro. «Jacob
avrebbe fatto tutto ciò che ha fatto anche se tu non fossi
esistito. Ma se ti
farà stare meglio sì, certo che ti perdono
papà».
Annuì.
«Grazie».
«Cosa è
successo oggi?».
Scosse il capo. «Non sono
riuscito a vedere Billy.
Volevo parlargli, riconciliarmi con lui e assicurarmi che non ti desse
più
problemi. Quando sono arrivato era presto e lui non c’era
ancora, e in acqua in
lontananza ho visto una donna» fece, corrugando il viso e
mostrando tutti i
suoi segni del tempo «era molto strana, sia lei che la
situazione. Insomma, che
ci fa una donna in mezzo all’oceano alle quattro del mattino?
Davvero molto
strana, soprattutto per quello che è successo
dopo» disse e mi fece
rabbrividire.
«In che senso?»
domandai iniziando ad allarmarmi.
Scrollò le spalle, poi
fece una piccola smorfia di
dolore. «Mi sembrava che stesse annegando, così ho
lasciato il cellulare sulla
riva e mi sono gettato in mare per salvarla. Ma quando mi sono
avvicinato è
scomparsa. Letteralmente. Non c’era traccia di lei da nessuna
parte, neppure
sul fondale. E poi mi sono sentito trascinare dalla corrente e devo
essere
sbattuto sulla scogliera perché quando mi sono svegliato ero
piuttosto
malridotto» fece, studiandosi la gamba con il gesso con una
smorfia.
Mi feci coraggio tanto da
prendergli la mano fra le
mie. «Come ti senti adesso?».
«Non preoccuparti per il
tuo vecchio» disse con un
sorriso «quegli antidolorifici che ti danno in questo posto
funzionano alla
grande».
Sorrisi a mia volta.
«Credimi, lo so».
Qualcuno bussò alla
porta aperta, e quando mi voltai
c’era mio marito. «Charlie. Come ti
senti?».
Mio padre gli sorrise, e mi resi
conto dello sforzo
che faceva umanamente per andare contro ai suoi istinti e volergli
bene. «Stavo
proprio discutendo con mia figlia dell’uso della morfina.
Dovresti provarla
anche tu».
Edward si avvicinò tanto
da posare le mani sulle mie
spalle. «Grazie, ma credo ne farò a meno. Se non
ti dispiace porterei tua
figlia a casa. Credo che abbia bisogno di un po’ di
riposo».
«Edward» mi
voltai a protestare.
«Portala pure. Non mi
può essere di alcun aiuto in
questo stato. Penso di essere piuttosto noioso da addormentato
comunque».
«Papà!»
protestai ancora.
«Torneremo domani mattina
in tempo per le dimissioni e
per portarti a casa» continuò mio marito
ignorandomi «Amore» fece poi,
rivolgendosi finalmente a me «dov’è la
tua giacca? Fa piuttosto freddo fuori».
Feci scioccare la lingua sul
palato, ma mi arresi,
riconoscendo di avere davvero bisogno di dormire.
«Va bene» feci,
lasciando grattare la sedia sul pavimento per tirarmi in piedi
«è
sull’attaccapanni dietro la porta» dissi,
indicandolo e sollevandomi… troppo in
fretta? No, mi ero sollevata davvero molto lentamente. Allora
perché la testa
mi girava così tanto? Lasciai passare qualche secondo,
perché sapevo che spesso
avevo difficoltà ad
adattarmi quando cambiavo
rapidamente posizione.
Ma durò tanto. Tanto che
Edward riuscì ad avvicinarsi
a passo umano e a porgermi la giacca perché potessi
indossarla.
Presi un respiro, lentamente. Stava
passando, ma ci
era voluto davvero molto più del solito.
«Tutto bene?»
mi domandò, studiandomi, quando ebbi
finito di indossare la giacca.
«Sì» sussurrai a mezza voce, non
fidandomi di annuire «Hai
ragione, sono davvero molto stanca. Mi farà bene dormire un
po’».
«Andiamo»
disse, lasciandomi un bacio sulla fronte.
«Ciao
papà» lo salutai sfiorandogli la mano. Non mi
fidavo di chinarmi a lasciargli un bacio.
«Buonanotte Bells,
riposati».
Lasciai che Edward mi aprisse la
portiera e che mi
aiutasse a sistemarmi sul sedile del passeggero.
«Avrà bisogno
di molte cure» commentai debolmente,
ignorando il fatto che stesse accendendo il riscaldamento al massimo.
Lo sapevo
che lo faceva per me, ma io odiavo davvero stare
troppo al caldo.
«Sì, almeno
all’inizio. Per fortuna ha te, e tu hai una
famiglia che può aiutarti. Lascia che le ragazze ed Esme ti
diano una mano»
fece, guidando verso casa.
«Umh,
sì. Odio ammetterlo,
ma hai ragione, dovrò chiedergli una mano»
mormorai, lasciandomi andare sul
sedile. Ero così debilitata e stanca che pensavo che mi
sarei potuta
addormentare da un secondo all’altro. Allentai il primo
bottone della giacca,
sentendomi soffocare. Sospirai, decidendo di passare ad un argomento
più
spinoso. «Tu hai visto i suoi pensieri. Sai chi fosse quella
donna?».
Strinse le labbra, continuando a
guardare fisso la
strada. Ma io sapevo che non aveva bisogno di farlo.
«Edward…»
iniziai a protestare debolmente, ma mi
interruppe subito.
«Non ne sono certo. I
ricordi umani sono molto
imperfetti e sfocati, e tuo padre ha una memoria più
concettuale che visiva»
disse, facendomi rabbrividire all’idea della sua vasta
conoscenza della mente
umana. Fece un piccolo sorriso, rendendosi conto della mia reazione.
«So cosa
mi stai chiedendo» aggiunse, facendosi di nuovo serio
«sì. C’è una discreta
possibilità che fosse un’immortale, ma se lo
è non è una che conosco».
Mi agitai sul sedile, slacciandomi
anche gli altri
bottoni della giacca. Sentivo la testa pesante e iniziavo a sentire un
fischio
nelle orecchie. «Che voleva allora da mio padre?»
dissi, leggermente ansimante.
Fece un sospiro. «Non lo
so davvero. So che non gli ha
fatto del male e che aveva un’occasione di farlo, se avesse
voluto. Forse
voleva solo mandarci un messaggio o forse è solo una
coincidenza. O forse
ancora era solo un’umana. Non ti preoccupare anche di questo,
chiederò ad Alice
di tenerlo d’occhio, le farà bene avere qualcosa
su cui concentrarsi che le dia
soddisfazione che non siate tu o la bambina. E poi volevo dirti che
sono stato
davvero orgoglioso di te oggi. Sei stata bravissima a stare non solo in
mezzo
alla gente, ma anche per aver parlato con Billy Black. Mi dispiace di
non aver
creduto in te come meritavi, ma ti prometto che per il futuro quando
usciremo
insieme, e lo faremo, non ci saranno
più…».
Ma io non lo stavo più
ascoltando. Sentivo le sue
parole come se fossi sott’acqua. Volevo togliermi la giacca,
ma mi sembrava di
non riuscire più a muovermi. Ebbi l’istinto di
spegnere quello stupido
riscaldamento, anche a costo di litigare con Edward, ma non ci riuscii.
Lo guardai, come rallentata, mentre
sentivo che i
battiti del mio cuore aumentavano tantissimo nel disperato tentativo di
tenermi
sveglia. «Edward» lo chiamai, non sentendo neppure
la mia voce, anche se ormai
era si era già voltato, studiandomi preoccupato. Mi carezzai
il ventre. Sentivo
le dita formicolare, insensibili. «Non mi sento
bene».
«Cos’hai?»
mi domandò agitandosi, accostando sul
ciglio della strada «ti viene da vomitare?».
«No» riuscii a sillabare. Sentii la
testa cadere in avanti
e delle macchie buie comparire nel mio campo visivo, allargandosi
sempre di più
fino ad inglobare ogni cosa.
«Bella, Bella»
mi chiamava Edward, tentando di tenermi
sveglia. «Bella, rispondimi».
Mi sentii sollevare e stendere sul
sedile posteriore
dell’auto. Riuscii ad aprire gli occhi e a riacquisire un
minimo di lucidità.
Vidi il viso preoccupato di mio marito.
Mi carezzò la guancia,
ansioso. «Tranquilla. Ti porto
a casa da Carlisle».
Appena arrivati mi
sistemò a letto, stesa con dei
cuscini sotto le gambe, e nel giro di un minuto mi sentii meglio, anche
se ero
così fiacca di non poter neppure pensare di sollevare la
testa. Adoperai tutte
le mie forze per stringere la mano di mio marito, agitato, al mio
fianco. «Mi
dispiace di averti fatto preoccupare» sussurrai.
«Ti senti
meglio?» domandò ansioso, ricambiando la mia
stretta.
Mi umettai le labbra.
«Sì, sto meglio».
Mio marito sollevò il
capo di scatto «È pallidissima»
disse, e subito capii con chi stesse parlando «credo 7 o 8 al
massimo».
«Carlisle» lo
chiamai con un filo di voce, volgendo il
capo nella sua direzione.
«Bella, come
stai?» fece, venendomi accanto e
studiandomi. Mi guardò gli occhi, la pelle, mi prese il
polso fra le mani e se
lo portò al naso. «6.9»
mormorò sorpreso «È davvero strano, due
giorni fa aveva
10.8».
«Di cosa state
parlando?» domandai disorientata.
«Della tua emoglobina.
Sembra che tu abbia un’anemia
acuta. Hai avuto perdite di sangue in questi giorni?».
«No» risposi senza voce, chiudendo gli
occhi.
Mio suocero mi mise una cannula
nella vena
dell’avambraccio e disse che mi avrebbe dato dei liquidi che
mi avrebbero fatta
stare un po’ meglio. Sentivo che lui ed Edward parlavano fra
di loro a voce
bassa, troppo anche se fossi stata nello stato di ascoltarli. Presto li
raggiunsero anche gli altri della famiglia, mentre sentivo che il
nostro
soggiorno iniziava a popolarsi. Non capivo cosa dicessero, ma sentivo
che erano
agitati e preoccupati, perché mi stava accadendo qualcosa di
stranissimo che
non sapevano come gestire, ed era come se le loro peggiori paure si
stessero
realizzando.
«Bella» mi
disse infine Carlisle «credo che tu abbia
bisogno di una trasfusione, così potremmo aiutarti un
po’. Forse il tuo
organismo è stremato e non ce la fa a stare dietro alle
richieste che gli stai
facendo, dobbiamo facilitargli il lavoro».
Guardai la cannula che si infilava
nel mio avambraccio,
assicurata con un cerotto trasparente. «È proprio
necessario?» domandai contrariata.
«Non ti farà
male» provò a rassicurarmi dolcemente mio
marito «userà lo stesso accesso venoso che hai
ora».
Scrollai le spalle. «Non
è per questo» dissi
imbarazzata.
Carlisle mi studiò con
cortese attenzione «Per cosa
allora?».
Mi morsi il labbro, a disagio.
«Beh, non mi va di fare
arrivare del sangue in questa casa, potrebbe darvi dei problemi e farvi
stare
male» mormorai a voce bassissima fissando il copriletto.
«Oh Bella»
sospirò Edward, stringendomi la mano e
portandosela alle labbra. «Come puoi essere sempre
così… altruista».
Carlisle mi sorrise amorevolmente.
«Rimarremo solo io
ed Edward».
«Non vai a caccia da
molto tempo» sussurrai, studiando
le occhiaie di mio marito. «E poi…»
aggiunsi, più imbarazzata che mai. Se non
fossi stata così pallida sono certa che le mie guance si
sarebbero tinte di
rosso. «E poi una volta mi hai detto che le trasfusioni
alterano il mio odore e
che ti dà fastidio» conclusi, più
imbarazzata che mai.
«Oh, amore mio»
soffiò carezzandomi i capelli e
guardandomi con tenerezza «durerà al massimo un
paio di mesi, e preferisco
sopportare il tuo odore diverso e vederti stare bene»
sospirò, abbracciandomi e
nascondendo il viso nel mio collo.
Ma subito dopo si ritrasse,
angosciato. «Carlisle»
sibilò «è scesa ancora».
Mi esaminò anche suo
padre. «5.5» mormorò sconvolto.
Mi esaminò ancora, accuratamente, fece una serie di prelievi
e mi disse che non
potevamo più scegliere, che dovevo fare quella trasfusione
subito.
«Come ti
senti?» mi domandò Rosalie, carezzandomi i
capelli. Edward si era allontanato in soggiorno per parlare con Alice e
cercare
insieme di capire cosa stesse accadendo.
«Molto debole»
sussurrai «ma sto meglio di prima.
Rosalie» la chiamai, preoccupata. Sapevo che stava succedendo
qualcosa di
grave, qualcosa che avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita.
«Sai che
forse si troverà nella posizione di scegliere».
Scosse il capo, contrariata.
«Bella, ti prego».
«No» soffiai «lo sai che io
non ho scelta» le dissi,
guardandola con tutto il mio amore di madre.
Prese un respiro tremante.
«Lo so».
Le strinsi una mano con la mia.
«Aiutalo. Sarà molto
difficile per lui».
«Bella» mi
chiamò addolorata «neppure io sono disposta
a perderti».
«Lo so»
mormorai a fior di labbra con le lacrime agli
occhi «ma è la mia bambina…»
sussurrai senza fiato.
Si chinò ad abbracciarmi
e rimanemmo così a lungo,
strette, sperando entrambe che non fossero gli ultimi momenti della mia
vita.
Qualcuno, Esme forse, mi aveva messo addosso una
coperta, non spostandomi però dal divano, forse per paura di
svegliarmi
Edward tornò che avevo
appena finito di asciugarmi le
lacrime, gli occhi ancora rossi. Era angosciato, lo leggevo nei suoi
occhi,
anche se cercava di controllarsi.
«Li hai mandati
via?» domandai con un filo di voce.
Annuì, venendomi subito
accanto e carezzandomi la
fronte fredda e sudata. «Carlisle sta arrivando, ormai
è questione di minuti».
Volevo portare una mano sulla sua,
ma mi sentivo
davvero troppo debole. «È la bambina,
vero?» chiesi senza fiato.
Prese un piccolissimo respiro.
Annuì. «Crediamo di sì,
ma non capiamo ancora come e adesso non abbiamo tempo di capirlo,
dobbiamo
farti stare meglio. All’inizio della gravidanza eri un
po’ anemica, ma fino a
due giorni fa stavi bene, i tuoi livelli di emoglobina stavano salendo
con
tutti gli integratori che ti ha dato Carlisle. Non capiamo
perché sia successo proprio
oggi».
Sospirai debolmente.
«Vedrai che adesso starò meglio.
Non ti preoccupare. Sapevamo che avrebbe avuto dei bisogni
speciali».
Strinse i denti, rivelando sul suo
viso tutta la sua
preoccupazione. «Speravo di non arrivare a questo
punto».
Chiusi gli occhi, lasciando
riposare le mie palpebre
stanche. «Lo so».
Carlisle arrivò quasi
subito. La prima cosa che fece
fu prendere il mio polso e controllare ancora. Bastò che
guardasse il figlio
perché capissi anche io: era scesa ancora.
Mia figlia, in qualche strano modo,
mi stava
letteralmente dissanguando.
«Allora, Bella»
fece, togliendo la sacca della flebo
ormai terminata e posizionando quella rosso scuro con su scritto
“0 negativo”
al suo posto «adesso inizieremo la trasfusione. Vorrei farne
almeno un paio di
sacche. La manderò all’inizio lentamente, in modo
che tu abbia tempo di dirmi
se qualcosa non va, di qualunque genere. Pronta?».
«Finché non
guardo va tutto benissimo» mormorai fra le
labbra pallide, il viso rivolto dall’altro lato pieno di
disgusto.
Edward comparve al mio fianco,
tenendomi la mano. I
suoi occhi erano neri ed era pallido quanto me. Aveva sete, e quello
era un bel
po’ di sangue umano che non assaggiava da tempo.
«Guarda me» disse, concentrato
sul mio viso.
«Inizio» mi
avvertì Carlisle.
Annuii, poi domandai a mio marito.
«Sei sicuro di
stare bene?». Non potevo immaginare la sofferenza fisica che
stava provando
alla vicinanza con quel sangue.
«Non potrei mai stare
lontano da te adesso» sussurrò,
avvicinandosi la mia mano alla bocca per baciarne le nocche.
«Quando sarà
tutto finito promettimi che andrai a
caccia» mormorai debolmente.
Sospirò. «Ne
discuteremo quando sarà finito…».
«Edward, ti prego. Hai
detto tu che oggi me la sono
cavata bene» riuscii a dire debolmente «ho bisogno
di sapere che posso farlo
ancora e tu hai bisogno di cacciare».
Sospirò, scuotendo il
capo. «Te lo prometto».
Feci un debole sorriso.
«Grazie».
«Okay Bella, sembra che
vada bene» ci interruppe
Carlisle «Inizio a mandarla più
velocemente».
«Va bene»
mormorai, chiudendo gli occhi. Non volevo
pensare al sangue di uno sconosciuto che mi entrava nelle vene, mi
veniva da
vomitare. «Posso dormire un pochino? Sono molto
stanca».
«Certo»
sussurrò al mio orecchio Edward. «Dormi,
recupera la forze».
Stavo giusto accettando il suo
invito, lasciandomi
scivolare verso il sonno, che sentii un lieve fastidio nel punto dove
la
cannula si congiungeva con la pelle. Pensai che fossi solo dolorante
per l’ago,
ma dopo alcuni secondi divenne un bruciore che si irradiava in tutto il
braccio. Feci una smorfia, riaprendo gli occhi. «Mi
dà un po’ fastidio»
mormorai, sfregandomi il braccio.
«Che fastidio?»
mi domandò Carlisle attento.
Ansimai, stringendomelo al petto.
«Brucia» mi
lamentai, sentendo il dolore aumentare.
«Solo il
braccio?» mi chiese solerte.
«Che sta
succedendo?» domandò preoccupato mio marito.
«No» pigolai «brucia tutto,
mi brucia» piansi, sentendo il
dolore espandersi in tutto il corpo e concentrarsi in un punto: la
pancia. Mi
piegai su me stessa. «Vi prego, basta! Fatelo smettere!
Basta, brucia
tantissimo, brucia, brucia, vi prego!» gridai, in preda al
dolore sempre più
forte «La pancia, mi fa male» singhiozzai
«la bambina».
«Bella, calma, non
c’è più» tentò di
rassicurarmi
Carlisle, che intanto mi aveva staccato la flebo.
«Carlisle» lo
chiamò Edward angosciato, stringendomi a
sé e tentando di calmarmi.
«Non lo so, non sembra
una reazione trasfusionale. Non
so cosa sia» confessò il padre a denti stretti,
sostituendo la sacca rossa con
una trasparente.
I miei ansiti si calmarono in
pochissimi minuti
insieme al dolore, lasciandomi tremante e sudata.
«Stai meglio?»
mi domandò mio marito agitato,
lasciandomi un bacio sulla fronte.
«Sì» soffiai senza forze «mi
sentivo come quando mi aveva
morsa James e mi stavo trasformando» sussurrai a voce
bassissima fra le labbra
bianche.
«Non può
essere» soffiò sconvolto Edward.
«La bambina deve aver
usato il suo veleno, in qualche
modo» mormorò Carlisle con stupore.
«Non voleva il sangue,
credo» biascicai chiudendo le
palpebre «non quello».
Mio marito si allontanò,
angosciato. «Vuole il tuo».
«Non fare
così, Edward» mi sforzai di dire «Non
è
colpa sua. Penso ne abbia bisogno per crescere».
«Beh, non può
crescere se ti uccide!» esclamò,
rabbioso, allontanandosi da me.
«Edward» lo
richiamai, tentando di sollevarmi. Caddi
irrimediabilmente indietro. «Ti prego».
«Sta’
attenta» fece Carlisle, aiutandomi a sistemarmi
fra i cuscini. «Tranquilla, Bella. Avremo fede nelle leggende
e nelle visioni
di Alice. Ti supporteremo in tutti i modi possibili».
«Starò
meglio» mormorai a mia volta.
«Ti prego,
Carlisle!» esclamò disperato Edward «non
la illudere. Dille che
non può sopravvivere a lungo con
questi valori di emoglobina, senza poter fare una trasfusione! Dille
che c’è la
possibilità che l’unico modo di salvarla sia
interrompere la gravidanza».
«Edward» lo
fermai con un singhiozzo sconvolto. Non
potevo credere che l’avesse detto.
Ma Carlisle stette in silenzio,
abbassando il viso,
preoccupato.
«Credi che lo dica a cuor
leggero? Che io voglia
sacrificare una di voi due? Il solo pensiero mi uccide!»
confessò Edward
angosciato, facendo un passo in avanti nella mia direzione, tormentato
«ma se
tu morirai, adesso, morirà anche lei e il tuo sacrificio non
sarà servito a
niente!».
Mi portai le mani alle labbra,
lasciando scendere
tutte le lacrime dai miei occhi. «Non potrò mai
uccidere mia figlia» soffiai
fra le lacrime.
Edward distolse lo sguardo con
dolore immenso. «Vado a
chiamare gli altri. Non si farà nessuna trasfusione
stasera» disse prima di
scomparire.
Mi sentivo davvero, davvero molto
debole, come non lo
ero mai stata. Avevo pianto tanto, era quasi notte ed era da troppo che
non
dormivo. Carlisle mi fece una flebo di ferro, insieme ad altre di
vitamine
concentrate, dicendo che se la bambina avesse voluto solo il mio sangue
avremmo
dovuto aiutare il mio organismo a produrne di più.
«Carlisle» lo
chiamai, stremata.
Era seduto su una sedia accanto al
letto, un libro in
mano. Chissà, magari stava studiando un modo per salvarmi la
vita. Si chinò
alla mia altezza. «Dimmi pure».
«Avrei bisogno di
Jasper» mormorai a mezza voce. «Puoi
farlo venire da me, per favore?».
«Certo» disse,
sollevandosi dalla sedia «Bella» esitò
«non avercela con Edward, lui… ha molta
paura».
Chiusi le palpebre stanche.
«Lo so, non ce l’ho con
lui».
«Scopriremo cosa sta
accadendo. Andare in ospedale
adesso è un rischio perché non
c’è quasi nulla di normale in ciò che
sta
accadendo, ma se servirà faremo anche quello, va
bene?».
Annuii. Avrei fatto qualunque cosa.
«Grazie Carlisle».
Mi sorrise debolmente, alzandosi.
«Ti mando Jasper».
Entrò poco dopo nella
penombra della stanza, cauto. Mi
chiedevo se ci fosse ancora l’odore del sangue che mi aveva
fatto bruciare le
vene. Si avvicinò lentamente, quasi avesse paura di
spaventarmi, e con calma si
venne a sedere sulla sedia occupata precedentemente dal padre. Era come
se lo
facesse per me, per sembrare meno vampiro.
«Ha paura»
sussurrai.
Aspettò un attimo prima
di rispondere. «Anche tu».
Stetti in silenzio, arrendendomi a
chiudere nuovamente
le palpebre.
«Gli umani fanno
più errori quando non hanno paura. Da
noi, per esempio» fece con calma «hanno
più probabilità di salvarsi quelli che
hanno paura».
Non mi ero mai resa conto di quanto
la sua stessa voce
fosse tranquillizzante. «Non sono un buon esempio
allora».
Non replicò. I suoi
occhi gialli scintillarono nella
penombra e sì, capii cosa volesse dire l’istinto
di aver paura di un vampiro.
Ecco perché non c’erano in giro altre donne che
avessero concepito figli con
loro.
Sospirai. «Grazie per le
vostre ricerche. Mi dispiace
che vi abbiano portato lontani dalle vostre mogli».
«Continui a misurare il
tempo come un’umana. Non è
niente per noi. E poi, Bella, sei parte della famiglia. Anche se
desidero
sempre bere del tuo sangue» commentò, facendomi
rabbrividire. Fece una risatina,
e capii che stava scherzando. «Perché sono
qui?» mi chiese allora, facendosi
serio.
«Puoi
confortarlo?» domandai.
Chinò il capo da un
lato, studiandomi. «Dici come
fratello o con i miei poteri?».
«Entrambi»
ammisi stanca.
«Posso provarci. Ma si
arrabbierà leggendomi i
pensieri. Sono qui solo per questo?» domandò
ancora.
Deglutii. «Puoi farmi
addormentare, per favore?».
I suoi occhi scintillanti si
fermarono sul mio viso.
«Lui è l’unico in grado di
farlo».
«Non stasera»
soffiai, deglutendo il magone.
Sospirò, avvicinando
cautamente la sua mano al mio
braccio. «Posso?» fece prima di toccarmi.
Annuii pianissimo, e dopo il suo
tocco si fece tutto
buio. Non fu confortante e dolce come addormentarsi con Edward, e il
sonno fu
pieno di immagini e incubi tormentati.
Quando mi svegliai mio marito era
steso accanto a me
sul letto e mi stringeva forte. Avrei voluto dirgli che io non volevo
morire, e
che ero dilaniata dal dolore che gli stavo causando. Non lo feci.
«Che ore sono?»
balbettai, portandomi una mano alla
testa «mio padre?».
«Esme ed Alice sono
andate a prenderlo» mi rispose
semplicemente.
Sapevo che si sarebbe preoccupato
non vedendomi, e mi
dispiaceva che Esme ad Alice dovessero occuparsene al mio posto, ma non
sapevo
davvero come avrei potuto fare altrimenti.
Sospirai, facendo leva sugli
avambracci per
sollevarmi. Mi sentivo molto molto stanca e avevo la testa leggera e
pesante
insieme.
«Cosa fai?» mi
domandò Edward studiandomi. «Rimani
giù».
Gemetti, guardandomi intorno. La
luce era gialla e
bassa, doveva essere già tarda mattinata. «Voglio
chiamarlo, adesso sarà
preoccupatissimo».
In un attimo era alla porta.
«Ti prendo il cellulare»
disse, ma sembrava freddo e lontano.
«Edward» lo
chiamai imbarazzata prima che si potesse
allontanare «ho… bisogno di andare in
bagno» confessai.
Sospirò, e un battito di
ciglia più tardi era di nuovo
accanto a me, tendendomi le braccia per aiutarmi ad alzarmi. Mi
aiutò a
mettermi seduta, poi mi mise le mani sulle spalle. «Rimani un
minuto così, poi
ti aiuterò da alzarti» continuò con lo
stesso tono distaccato.
Presi dei respiri, sollevando il
capo per guardarlo
negli occhi, dando tutto il lunghissimo tempo che serviva al mio corpo
per
adattarsi affannosamente a quella nuova posizione. Ma Edward era perso
nel suo
sguardo lontano.
«Può farlo
Rosalie se preferisci» biascicai, la voce
più bassa di quello che avrei voluto.
Si chinò sulle
ginocchia. «Sono tuo marito» disse
serio «lascia che lo faccia io».
Volevo piangere, ma trattenni le
lacrime. Non si
trattava di me in quel momento, ma di lui. Volevo che avesse fiducia,
volevo
rassicurarlo e dargli speranza che sarei stata meglio, che sarei
guarita e che
sia io che la bambina saremmo state bene.
«Okay. Mi sento
meglio» mormorai a mezza voce, ed un
po’ era vero. Ieri non avrei neppure potuto immaginare di
stare seduta. Ma
quando mi prese le mani fra le sue le sentivo formicolare tantissimo e
quando
fece per alzarmi mi sentii cedere immediatamente le ginocchia.
Mi strinse al suo corpo per non
farmi cadere e non
disse nulla.
«Edward,
io…» provai senza fiato.
«Shh,
non parlare» fece,
tenendomi stretta a sé.
Strinsi forte le mani ai suoi
avambracci. Il cuore mi
batteva fortissimo, la testa mi girava tantissimo e mi sentivo sudata e
pallida. Lentamente riuscì a scortarmi fino in bagno e poi
di nuovo fino al
letto. Fu faticosissimo e sentirlo così distante da me mi
faceva sentire
peggio.
Riuscii a chiamare mio padre ma non
riuscii a
rassicurarlo fino in fondo, perché la mia voce era debole
come non mai. Rosalie
gli parlò al mio posto, convincendolo che il giorno
precedente mi ero stancata
molto e che dovevo stare un po’ più a riposo,
niente di più.
Quando Carlisle venne a visitarmi
con i risultati dei
test che avevamo fatto il giorno precedente capii dal suo viso quanto
seria
fosse la situazione. Disse che l’emoglobina era scesa ancora,
anche se molto
poco.
Non protestai quando mi portarono
in ospedale. Mi
fecero delle ecografie, una risonanza magnetica, e degli altri esami
del
sangue. Carlisle provò di nuovo a farmi una trasfusione con
una sacca di sangue
diversa, preparata in modo differente e dandomi prima del cortisone, ma
la
reazione fu la stessa della prima volta e dovemmo interrompere subito.
«Ce la fai?» mi
domandò Edward mentre mi accompagnava
fuori dalla stanzetta dove Carlisle mi aveva appena prelevato un
aspirato
midollare. L’ultima spiaggia per capire quanto di
“umano” ci fosse in quello
che mi stava succedendo e come aiutarmi.
Annuii a denti stretti, ignorando
zoppicante il dolore
al bacino e concentrandomi solo per mettere un passo davanti
all’altro e
portare avanti il mio corpo che m’implorava solo di avere
pietà.
«Edward» lo
avvertì Rosalie quando tremai più forte,
sbandando, pallidissima e sudata.
Mi tenne su con forza.
«Ce la faccio»
deglutii a fatica, stentando persino a
respirare.
Scosse il capo. «Lascia
che ti prenda in braccio».
Presi un paio di respiri,
aspettando inutilmente di
vederci ancora oltre il buio dei miei occhi. «Ce la
faccio» ripetei ancora.
Sentii al mio orecchio un ansito
doloroso, quasi un
singulto di un pianto. Era il verso straziante della disperazione di
mio
marito, ed io non sapevo come aiutarlo. Mi strinse il capo contro il
suo petto.
«Amore mio» iniziò pianissimo, attento a
non sconvolgermi ancora «sei esausta.
Nessun umano potrebbe farcela nelle tue condizioni. Lascia che ti
prenda io, ti
porterò a casa e potrai riposarti».
Annuii con un sospiro, arrendendomi
fra le sue braccia,
e mi sentii subito un po’ meglio. «Domani
starò meglio» tentai debolmente, ansiosa,
ma non mi rispose.
Mi strinse a sé,
lasciandomi un bacio sulla fronte,
trasportandomi dolcemente verso l’uscita. «Dormi,
riposati» mormorò, cullandomi
fra le sue braccia sul sedile posteriore dell’auto.
«Dov’è?»
chiesi la mattina successiva quando mi svegliai.
Nella stanza c’erano Carlisle e Rosalie.
«Bella, tesoro, ti sei
svegliata» disse mia sorella
venendomi vicino. Mi prese la mano abbandonata accanto a me sul
copriletto,
collegata a due tubicini di due sacche di flebo differenti.
«Puoi dormire un
altro pochino se vuoi» fece con dolcezza, carezzandomi il
dorso della mano con
il pollice.
Presi un piccolo respiro
superficiale. «Dov’è andato?»
domandai ancora, cercando di non dare a vedere quanto mi mettesse in
crisi la
sua assenza.
Carlisle si avvicinò,
sorridendomi per rassicurarmi.
«È uscito con Emmett, voleva convincerlo a
cacciare» disse tranquillo e
rassicurante, e quasi gli avrei creduto se non avesse aggiunto
più teso «Ieri è
stata una giornata difficile in ospedale».
Chiusi gli occhi. Dal mio petto si
levavano dei
respiri piccoli e superficiali. «I test sono tutti negativi,
vero?» sussurrai a
malapena.
Tentò di rassicurarmi
ancora. «Non deve essere per
forza una cosa negativa. Il distacco amnio-coriale è rimasto
stabile. Vuol dire
che non hai un’emorragia, un’aplasia midollare o
una leucemia o tante altre
malattie più gravi».
«No» biascicai senza fiato, riaprendo
gli occhi e
portandomi le mani alla pancia «vuol dire che dipende dalla
bambina».
Annuì, molto serio.
E in quel momento capii che
c’era qualcos’altro che
non mi stava dicendo. «È scesa ancora».
Fece un lunghissimo sospiro, poi
annuì. «4.9».
Presi un ansito fra i denti,
realizzando che la
situazione era molto, molto grave.
Rosalie mi strinse la mano.
«Bella, non vuol dire
molto, è un decimo di punto rispetto a ieri, che vuol dire
realisticamente che
è praticamente stabile».
«Sì,
è vero» intervenne Carlisle «ma
è vero anche che
è pericolosamente bassa, molto pericolosa non solo per te,
ma anche per la
perfusione della placenta e quindi per la bambina».
«Non si può
fare niente?» domandai ansiosa «forse
possiamo riprovare con la trasfusione, potrei resistere al
dolore» provai
debolmente.
«Bella» fece,
stringendo le mani nei pugni. Mi sorrise
con tenerezza, rilassando la sua postura «anche se resistessi
al dolore probabilmente
ti trasformeresti, e in quel caso la gravidanza non avrebbe modo di
evolvere».
Scossi il capo, disperata.
«Cosa posso fare allora?».
Posò la sua mano sul mio
avanbraccio, accanto alla
cannula della flebo. «Ti supportiamo, aspettiamo che il tuo
corpo reagisca, e
speriamo che questo sia il nadir».
«Il nadir?».
Annuì, serio.
«Il punto più basso da cui si può solo
risalire».
Il mio nadir con Edward fu quel
pomeriggio.
«Rosalie»
chiamai agitata, tremando. Avevo freddo, e
le mani e i piedi mi formicolavano così tanto che sembravano
punti da un
milione di spilli acuminati. «C-chiudi la finestra p-per
favore» ansimai appena
la sentii entrare in camera.
«È
già chiusa» mi rispose una voce, e non era quella
di Rosalie. Un attimo più tardi avevo addosso
un’altra coperta. Mi servì un
intero minuto per smettere di tremare e ancora non sapevo cosa dire o
fare.
«Hai mangiato?»
mi domandò mio marito, scrutandomi
dalla sedia dov’era seduto, accanto al letto.
Presi almeno quattro o cinque
respiri in dieci
secondi. Non ce la facevo più a fingere di stare meglio del
terribile stato in
cui ero ridotta. «Lo sai già» sputai fra
i respiri ansimanti. «Nemmeno tu»
aggiunsi poi, guardando i suoi occhi nerissimi.
«Non ci sono
riuscito» confessò disperato. Fece per
avvicinare una mano a carezzarmi, ma si bloccò. Poi, con un
sospiro completò il
suo gesto, accarezzandomi i capelli. «Appena ho addentato la
preda ho pensato
che fossi tu e che ti stessi dissanguando»
confessò angosciato.
Scossi il capo, mentre osservavo
tutto l’abisso della
sua agonia. «Non so come fare per farti stare
meglio» ammisi con la voce
soffocata.
Strinse i denti, una maschera di
dolore e disperazione
sul viso. «C’è solo un modo, lo
sai».
«Edward»
singhiozzai.
«Ti prego»
gemette a sua volta «non sono pronto a
perderti» m’implorò angosciato.
«Io… non
posso…» piansi disperata.
«Bella, ti supplico. Come
fai a non vederlo?» fece
terrorizzato «Carlisle dice che con questi valori di
emoglobina potresti
resistere una settimana, al massimo dieci giorni. Sempre che non
peggiori,
perché in quel caso moriresti subito!»
esclamò, sbattendomi in faccia la
realtà. «E non potrò trasformarti,
perché il tuo fisico sarà troppo
debilitato».
Strinsi le labbra bianche fra i
singhiozzi. «La
bambina…».
Sotterrò il viso sulle
coperte, accanto a me,
stringendomi la mano con le sue. «Non sai quanto mi uccida
perderla. Ma non
posso, non posso perdere entrambe. Ti prego, Bella, ti prego. Abbiamo
fatto
tutto il possibile. Non morire. Ti prego, non morire»
singhiozzò.
Presi un respiro, sconvolta dal suo
dolore. Portai una
mano a carezzargli i capelli. Avevo così tanta paura di
morire, e le sue parole
sconvolte erano così convincenti. Che senso avrebbe avuto
sacrificarmi se
nostra figlia sarebbe comunque morta con me? Ero davvero troppo malata
e
irrazionale per capirlo?
Edward se ne accorse, che stavo
vacillando. Sollevò il
capo, osservandomi con il suo sguardo devastato. «Carlisle ti
addormenterà, non
sentirai nulla. Lo so che sarà la cosa più
difficile che faremo nella nostra
esistenza, ma la supereremo insieme» incalzò,
disintegrando dalla mia mente
l’immagine di nostra figlia, felice, fra le nostre braccia.
Mi portai una mano alla pancia,
sfiorandola.
«Non è colpa
tua, non è colpa nostra. Lei non può
vivere in te, mi dispiace. Sarà per sempre la nostra
bambina, la ameremo per
sempre, Bella» continuò persuasivo.
Così persuasivo, così razionale, così
giusto.
Strinsi forte la stoffa del mio
pigiama. Non avevo mai
avuto il tempo di desiderare un figlio. Ora che lo avevo avuto,
semplicemente
lo amavo, come non avevo amato nient’altro nella mia vita.
Più di me stessa.
«Tu» biascicai, guardandolo negli occhi dilaniata
dalla sofferenza «hai sentito
il battito del suo cuore. Come puoi volerlo fermare?».
Chiuse le palpebre, addolorato.
«Bella».
Presi un respiro. «Non
c’è solo un modo, lo sai.
Potrei riprendermi».
Scosse il capo, guardandomi come se
avessi perso il
senno. «È troppo rischioso»
esclamò agitandosi «Potresti morire. Che senso
avrebbe avuto tutto quello che abbiamo passato? La nostra separazione,
Jacob,
la tua ripresa? Il nostro amore? Che senso avrebbero allora? Ti prego,
fallo
per noi».
«Edward» dissi
ferma nonostante la mia voce flebile
«se davvero mi ami non usare mai più le mie paure
contro di me. Se davvero mi
ami capirai la mia scelta. Perché l’ho
già presa. E se tu non sarai d’accordo
lo capirò. Ma allora devo chiederti di non tornare da me
finché non avrai
cambiato idea» dissi con voce spezzata.
Si sollevò di scatto,
facendo ribaltare la sedia.
«Perché non riesci a capire! Morirete entrambe e
non mi rimarrà altro che
uccidermi!» gridò, lanciando la sedia contro la
parete e lasciandola
disintegrare.
Tremai senza fiato, ammutolita.
I suoi ansiti si calmarono e i suoi
occhi si
riempirono di terrore per ciò che aveva appena fatto.
«Bella, io…» provò a
chiamarmi.
Mi strinsi una mano al petto,
chiudendo gli occhi e
rannicchiandomi su me stessa in posizione fetale. «Ti prego.
Vai via adesso».
Ci vollero dieci lunghissimi
secondi. Poi scomparve.
Fu il nadir, ho detto. Ma ancora non avevamo iniziato a risalire dal
fondo.
Quella notte non riuscii a dormire
un secondo, neppure
con l’aiuto di Jasper. Carlisle mi propose di prendere dei
sonniferi, ma decisi
che se avessero dovuto essere gli ultimi momenti di vita con mia figlia
avrei
voluto godermeli tutti. La mattina seguente mio padre
richiamò. Avrei tanto
tanto voluto assicurarmi che stesse bene, ma non ne ero nelle
condizioni.
Lasciai che Alice e Rosalie andassero da lui ad occuparsene e a trovare
una
scusa per me.
Speravo che mi sarei sentita
meglio, ma quel giorno
non riuscii neppure a mettermi seduta. Carlisle mi disse che
l’emoglobina era
stabile, ma che con le supplementazioni che mi stava dando avrebbe
dovuto già
cominciare a risalire. Mi diede un po’ di ossigeno e
l’affanno si placò
lievemente.
Edward non comparve.
Non aveva cambiato idea e quel
pensiero si univa
all’idea della mia morte vicina gettandomi nella
disperazione. Volevo
combattere, avevo qualcuno per farlo, ma non avevo più la
forza di farlo.
Perché quel qualcuno mi stava uccidendo. Aveva sete, e non
aveva di che bere se
non di me.
Sospirai, stringendomi la coperta
addosso. «Hai
freddo?» mi domandò Alice venendomi vicino.
«Un
po’» sussurrai a mezza voce.
«Vuoi andare di
là? C’è il camino acceso e possiamo
sistemarti sul divano» mi propose.
Deglutii. «Non so
se» iniziai, ma la voce mi morì in
gola «non ce la faccio a camminare».
«Vieni, ti porto
io» disse avvolgendomi nella coperta
e sollevandomi fra le sue braccia. Incredibile come riuscissi a
dimenticare
della sua forza per via della sua statura minuta.
Nel soggiorno c’erano
Emmett, Rosalie e Jasper che
discutevano davanti alla vetrata che dava sul bosco. Rosalie si
staccò dal
gruppetto, avanzando con il suo passo felino verso la sorella,
aiutandola a
sistemarmi sul divano, assicurandosi che i miei piedi fossero ben
coperti e che
il fuoco fosse acceso.
«Di che
parlavate?» mormorai incerta.
Alice e Rosalie si guardarono, poi
lei scrollò le
spalle, decidendosi a dirmi la verità. «Parlavamo
della sconosciuta che ha
incontrato tuo padre. Non è facile identificarla».
Crucciai le sopracciglia
preoccupata. «Può essere
pericolosa?».
Rosalie scosse il capo.
«No, ma saremmo più tranquilli
sapendo chi sia. Organizzeremo delle ricerche, ma non ora. Abbiamo
bisogno che
prima tu stia meglio, fidati di noi».
Combattuta decisi di arrendermi ad
annuire. Non avrei
potuto fare molto, comunque. Presi le mani di entrambe, guardandole.
«Grazie
per il vostro aiuto» mormorai.
Rose mi fece un piccolo sorriso,
dandomi un buffetto
sulla guancia. «Figurati tesoro. Carlisle è da tuo
padre, ha detto che sta bene
e sta tornando. Dice che potresti mangiare se vuoi, potrebbe
aiutarti».
Scrollai le spalle.
«Posso provarci».
Annuì, sorridendo.
«Dammi solo un attimo».
Alice si sistemò accanto
a me sul divano, prendendomi
i piedi avvolti dalla coperta e iniziando a massaggiarli. Volevo
chiederle se
vedesse qualcosa, ma sapevo già che non era così,
altrimenti me lo avrebbe
detto. «Come sta mio padre?» le domandai.
Non distolse lo sguardo dal fuoco.
«Non si è bevuto la
storia che eri stanca. Sa che stai male, ma non sa quanto».
Forse non l’avrei
più rivisto. Avrei voluto dargli quel
bacio prima di andarmene. Rabbrividii, tirando giù la manica
del maglione, ma
la cannula della flebo rimase impigliata. «Ahi»
bisbigliai, provando a liberarla, ma non feci che peggiorare la
situazione.
«Bella, aspetta, ti aiuto
io» disse Alice venendo in
mio aiuto, ma appena mi sfiorò il braccio un paio di gocce
di sangue
scivolarono sulla mia pelle.
Sollevai lo sguardo sul viso di
Alice, che si era
immobilizzata, smettendo di respirare.
«Alice» ansimai
preoccupata.
Si sollevò,
indietreggiando di un passo, gli occhi
improvvisamente neri. «Okay, tranquilla. D-devo…
dammi un attimo» disse,
battendo le palpebre.
Mi voltai spaventata a controllare
la vetrata, ma né
Jasper né Emmett c’erano più.
«Alice» la
chiamò la voce di Rosalie alle mie spalle
«ce la posso fare» disse con voce estremamente
concentrata «esci, va’ da
Jasper».
Presi dei respiri superficiali.
«Ragazze io…
mi dispiace» ansimai.
Alice scosse il capo,
concentrandosi sul mio corpo
tremante. «Rimango».
«No» fece la voce di mio marito,
facendole volgere
entrambe nella sua direzione, alle mie spalle.
«Andate».
«È solo poco
sangue, ce la possiamo fare» protestò
Rosalie.
Edward si materializzò
al mio fianco, facendomi
trasalire. Mi liberò dal maglione, studiando
l’accesso venoso che si era sposizionato.
«Andate» fece ancora, concentrato, senza
guardarmi «ho bisogno di stare solo con mia
moglie».
Strinsi le labbra, ma non
protestai.
Alice sollevò lo sguardo
verso la sorella e le fece un
cenno con il capo. Prima di andarsene portò un pacchetto di
garze e un rotolino
di cerotto.
Edward mi sfilò con un
gesto l’accesso e tamponò la
piccola perdita con una garza, coprendola poi con il cerotto.
M lasciai andare con il capo sullo
schienale del
divano, troppo stanca. «Mi dispiace» bisbigliai con
un filo di voce.
Sospirò, sollevando lo
sguardo sul mio. «Di cosa?».
Chiusi gli occhi, stanca.
«Oh Edward, lo sai. Non è di
quello che posso essere dispiaciuta e se ancora non hai cambiato
idea…».
«Non ho cambiato
idea» disse, facendomi riaprire gli
occhi «ma non voglio passare gli ultimi giorni di vita di mia
moglie lontano da
lei».
Strinsi le labbra, trattenendo a
stento le stanche
lacrime. «Nemmeno io».
Mangiai sul divano, mandando
giù boccone dopo boccone
con sofferenza, ma riuscendo infine a non vomitare. Mi sfregai gli
occhi,
stanca.
«Vuoi dormire?»
mi domandò, scrutandomi.
Annuii debolmente, lasciando che mi
prendesse fra le
braccia e mi portasse in camera. Mi tenne stretta al suo petto mentre
sollevava
le coperte e mi adagiava sulle lenzuola.
«Mi aiuti, per
favore» balbettai, cercando di
liberarmi della coperta in cui mi aveva avvolto Rosalie, troppo debole
per
farlo da sola.
«Aspetta» fece,
bloccando i miei deboli tentativi. Ma
quando mi tolse la coperta le sue mani finirono accidentalmente sul mio
fianco
e si bloccò, immobile. Il suo sguardo era perso, sorpreso.
Battei le palpebre, confusa.
«Che succede?».
Spostò la mano dal
fianco alla pancia, lentamente,
senza distogliere lo sguardo dal mio ventre.
Rabbrividii, per un attimo
spaventata di trovarmi sola
con lui. E se avesse voluto…? No, non avrebbe mai
potuto…
Sollevò il suo sguardo
sul mio, realizzando di avermi
spaventata. «No, io…» mormorò
sorpreso «è cresciuta. Si vede».
Mi portai le mani alla bocca,
sconvolta. «Si vede?»
balbettai emozionata.
Annuì, continuando a
tenere le mani sulla pancia. Misi
le mani sulle sue, lasciando scendere le lacrime. «Oh,
Edward. Ne ha così
bisogno. Non posso non darle così di cui ha bisogno. Non
posso».
Chiuse gli occhi, portando il suo
viso sul mio ventre.
«Se solo potessi darle io quello che le serve. Se solo
potessi aiutarvi in
qualche modo».
«Ti prego»
sussurrai, stringendo la sua mano «resta
con me. Resta con me stanotte. Non posso dormire senza di te. Non ce la
faccio
più a non dormire».
Sollevò il viso
addolorato e annuì. «Resto».
Dormii, e il giorno dopo quando mi
svegliai stavo
meglio. Carlisle disse che mi stavo solo “adattando
emodinamicamente”
alla nuova situazione perché l’emoglobina non era
risalita, ma io ero contenta:
non era neppure scesa.
Mi sistemò un nuovo
accesso venoso a prova di maglioni
e vampiri e mi collegò h/24 a delle sacche di flebo. Stava
dando una scossa al
mio corpo per convincerlo a produrre più sangue.
Più di quello che voleva da me
mia figlia.
Ma anche il giorno successivo,
quando mi svegliai,
l’emoglobina era ancora stabile.
«Devo fare
pipì» furono le prime parole che dissi
appena sveglia.
Rosalie ridacchiò.
«La gravidanza».
«Tre litri di liquidi in
vena» ribatté suo fratello,
prendendomi fra le braccia.
«Aspetta» gli
dissi in bagno, appoggiandomi con le
mani ai bordi del lavello e guardando il mio viso. Era pallido, con una
lieve
sfumatura grigiastra. «Vorrei lavarmi i denti»
dissi, prendendo lo spazzolino.
«Ce la fai?» mi
domandò incerto, sorreggendomi per il
gomito.
Annuii, e per qualche strano motivo
le vertigini non
aumentarono. Era un grande sforzo tenermi in piedi, ma era un miracolo
che ci
stessi riuscendo senza il suo aiuto.
«È cresciuta
ancora?» domandai, abbassando il viso e
carezzandomi la pancia.
Strinse le labbra. «Sì»
sospirò infine «pare di sì, anche se
molto poco».
Sorrisi. Sapevo che era
terrorizzato da quello che mi
stava facendo, ma sapevo anche che nel suo cuore era felice di sapere
che
nostra figlia stava bene e che stava crescendo. Portai una mano sulla
sua,
guardandolo con amore. «Torniamo di là, i tre
litri di flebo mi stanno aspettando».
Mangiai e non vomitai. Dormii.
Presi i farmaci.
Chiamai mio padre. Mangiai ancora, e anche questa volta non vomitai.
Dormii.
Presi altri farmaci. Mi feci fare altri esami. Mangiai. E quasi mi
preoccupai,
perché non avevo vomitato né avuto la nausea per
un giorno intero e Carlisle mi
aveva detto in tempi non sospetti che la nausea era un buon indicatore
del
benessere della bambina.
Così feci fatica quella
sera ad addormentarmi, anche
fra le braccia di Edward. Ma quando mi svegliai non aspettai il suo
aiuto. Era
ancora buio nella stanza e mi alzai di scatto per correre con la mia
debole
velocità umana verso il bagno a vomitare tutta la cena.
Quando ebbi finito appoggiai la
guancia, sfinita, sul
bordo della tazza del water. Portai una mano alla pancia. Mi girava la
testa,
ma mi sentivo sollevata: la bambina era ancora lì.
Edward mi studiava, cauto, dalla
porta.
«Che
c’è?» ansimai incerta, sollevando a
fatica il
capo.
«Una bella corsetta,
eh?». Si materializzò al mio
fianco, prendendo il mio polso e portandoselo al naso.
Corrucciò le
sopracciglia, dubbioso.
«Cosa?»
domandai perplessa «che dovevo fare, vomitare
sul pavimento?».
«Carlisle» lo
chiamò Edward, sollevando solo appena il
tono della voce ed ignorandomi.
Sospirai. «Fantastico.
Fammi prima tirare lo
sciacquone almeno. Non capisco perché devo avere sempre
tutto questo pubblico
quando vomito. Ciao Carlisle» lo salutai arrendevole.
Sorrise appena. «Ciao
Bella».
Edward mi aiutò a
tirarmi su per sedermi sul water.
Prese il mio polso e lo porse al padre con uno sguardo carico di
aspettative.
Si avvicinò subito.
«Che sta
succedendo?» domandai, facendomi seria.
Qualcosa era cambiato.
Lo sguardo di Carlisle si
riempì di sorpresa e anche
forse di… sollievo.
Edward sospirò,
contento, stringendomi forte al suo
petto.
«Sta risalendo. Poco, ma
sta risalendo» mi disse
Carlisle, guardandomi intensamente.
Mi portai una mano alle labbra,
commossa. «È una buona
notizia, vero?» balbettai.
Annuì con un sorriso
appena accennato. «È una
speranza».
Annuii a mia volta, stringendomi
forte a mio marito,
emozionata. Finalmente una speranza.
Quel giorno mi controllarono
ancora, molte volte.
Quella sera dissero che era salita ancora un po’ e la mattina
seguente non ebbi
bisogno di domandare. Edward, al mio fianco, sorrideva e io mi sentivo
decisamente più in forze.
«Quanto?»
biascicai, le labbra ancora impastate dal
sonno.
«7.5. Non
basterà per la maratona di New York ma credo
sia abbastanza per tenerti in piedi».
Sorrisi a mia volta, carezzando la
piccola pancia. «È
quello che ci serve».
«Bella» mi
chiamò mio marito incerto e preoccupato.
«Nessuno ci dice che non capiterà ancora. Adesso
che è lunga qualche centimetro
ti ha quasi uccisa. Non sappiamo cosa succederà quando
sarà molto più grande e
avrà sicuramente maggiori esigenze».
Gli carezzai una guancia.
«Hai ragione, non lo
sappiamo. Non possiamo far altro che sperare che non succeda ancora e
tenerci
pronti a far fronte al momento in cui succederà. E vivere
tutti questi giorni
insieme».
Sospirò, annuendo
incerto, chinandosi sulla mia
pancia. Mentre si chinava, però, si bloccò,
stupefatto. Poi prese il mio polso
fra le mani, portandoselo al naso, e subito dopo scese con il viso
verso la mia
pancia. «Carlisle» chiamò sorpreso.
«Che hai
sentito?» domandai, mettendomi a sedere.
Sgranò gli occhi,
sorpreso, spostando lo sguardo da me
al padre. «Mi sembra davvero strano, controlla anche tu.
È come se ci fossero
due livelli di emoglobina differenti».
Battei
le
palpebre, confusa, lasciando che mi esaminasse anche suo padre.
«Hai ragione»
disse infine, sorpreso quanto il figlio
«dovevo pensarci prima! È come se la bambina
avesse immagazzinato dentro di sé
un’ingente quantità di sostanze nutrienti, sangue
e zuccheri, che le sono
necessari per crescere».
Sospirai con un sorriso e carezzai
ancora la minuscola
pancina sotto cui era nascosta nostra figlia, commossa. «Sono
sicura che adesso
andrà tutto meglio. Cresci, piccolina».
Edward si chinò a
lasciarmi un bacio sulla pancia.
«Non bere più il sangue della mamma»
disse, facendomi ridere fra le lacrime.
«Sei solo
geloso» scherzai debolmente.
Sorrise a sua volta, avvicinando le
sue labbra alle
mie. «Eccome. Nessuno deve bere il tuo sangue»
fece, lasciandomi un lunghissimo
bacio alla base del collo.
Rabbrividii. Volevo davvero che
andasse tutto bene.
Mi ristabilii nel giro di una
settimana. Mi sentivo
ancora molto fiacca, ero ancora anemica, e Carlisle insistette per
continuare a
somministrarmi farmaci in vena per assicurarsi che il mio organismo
riuscisse a
soddisfare le esigenze di mia figlia.
Infine, dopo numerosissime
insistenze, riuscii persino
ad andare a trovare mio padre a casa sua. Il patto con Edward era che
sarei stata
accanto a mio padre sul divano e mi sarei riposata per il resto del
giorno, mentre
lui ed Alice si occupavano del pranzo e della casa. Mio padre fu
davvero
sollevato di vedermi e capii quanto dovevo averlo fatto preoccupare.
«Come ti
senti?» domandai, indicando la gamba
ingessata.
«Non è
niente» borbottò, volgendosi a guardarmi, serio
«e tu, Bella? Stavi molto male, lo so. Ha a che fare con la
gravidanza o…» si
torse le mani in grembo «so che non deve essere stato facile
tornare in quel
posto, vedere Billy».
M’irrigidii. Mio padre
pensava che avessi avuto una
ricaduta dal punto di vista psichiatrico. Non potevo neppure immaginare
in che
stato mi avesse vista subito dopo il rapimento con Jacob. Ma la
verità era che
mi sentivo davvero meglio, nonostante la sospensione degli
antidepressivi.
Rosalie mi aveva avvisato che la gravidanza era un periodo molto
particolare e
che avrei potuto avere delle ricadute, ma a parte degli incubi, ogni
tanto, e
un po’ di inquietudine ad uscire all’aria aperta,
potevo dire che stavo bene.
«No, papà, davvero. Non è per
quello» tentai di rassicurarlo.
«Per cosa
allora?» fece serio, scrutandomi. «Non
sembri stare bene. Sei molto pallida».
Mi mossi a disagio sui cuscini, non
sapendo come spiegare
a mio padre gli effetti collaterali di una gravidanza vampira.
Per fortuna Edward venne presto in
mio soccorso,
venendo a sedersi accanto a me. «Bella ha avuto un
po’ di anemia. Era molto
stanca e per lei e la bambina abbiamo pensato fosse meglio che stessero
un po’
più a riposo».
Mio padre strinse le labbra,
incerto se credere alle
parole di mio marito. Di certo non avrei potuto essere più
rassicurante di lui.
«E adesso come stai?».
Gli sorrisi, portandomi una mano
alla pancia. «Molto
meglio, grazie».
«Sicura?».
Edward mi strinse con un braccio da
dietro, portando
anche lui la mano sulla mia pancia. Annuì.
Sospirai quando fummo di nuovo
nell’auto. «Mi ero
dimenticata quanto riuscisse ad essere inquisitorio mio padre. Sei
riuscito a
leggere i suoi pensieri? Hai riconosciuto il volto?» gli
domandai. Uno degli
scopi con cui eravamo venuti era proprio domandare a mio padre della
donna
sconosciuta. Aveva detto di averla fatta cercare dai suoi uomini, ma
che era
come se fosse scomparsa nel nulla. Un’ulteriore prova che mi
spingeva a pensare
ad un’immortale.
Edward crucciò la
fronte. «Solo un po’ meglio».
«Che
c’è?» domandai confusa, osservando il
suo sguardo
stanco e perso.
Scosse il capo. Aveva il viso teso
e pallido, le
occhiaie e gli occhi neri. «Forse ho un po’
esagerato» mormorò stringendo le
mani sul volante.
«Oh Edward»
sussurrai, preoccupata, capendo
finalmente. Aveva molta sete, ed io non potevo neppure immaginare
quanto stesse
soffrendo. Mi sentii davvero stupida ad avergli chiesto di
accompagnarmi. Il
fatto che fosse così bravo a controllarsi non voleva dire
che fosse altrettanto
semplice. «Scusami».
«Non è colpa
tua» mormorò con un sorriso mesto. «Ma
è
momento che tenga fede alla promessa. Tu stai meglio ed io devo
nutrirmi. E poi
volevo spingermi a nord con i ragazzi, sono l’unico oltre a
tuo padre che ha
visto il volto di quella donna e che potrebbe riconoscerlo. Le ragazze
sono
andate a caccia la scorsa settimana. Potresti stare con loro, va
bene?»
domandò, incerto.
Come se dovesse chiedermi il
permesso o sentirsi in
colpa a lasciarmi per un paio di giorni. «Portami subito a
casa e vai» riuscii
solo a dire.
Annuì, poi si
bloccò, teso. «Se solo…».
«Cosa?»
domandai.
Rilassò a fatica i
muscoli. «La tua vicina di casa. Il
suo odore, i suoi pensieri. È così concentrata su
di noi che non riesco a
distogliere l’attenzione».
«La mia
vicina?» domandai sorpresa, seguendo il suo
sguardo.
Era sul vialetto di casa, facendo
finta di ritirare la
posta mentre intanto ci scoccava per nulla discrete occhiatine di
soppiatto.
Presi un respiro, arrabbiata. Aprii lo sportello e scesi
dall’auto «Ehi» la
chiamai a voce alta, facendola trasalire «Adesso sono
incinta, contenta? Io sì,
molto. Se vuoi la prossima volta ti porto una foto
dell’ecografia. Smettila di
spiarci!» sbottai, rimettendomi seduta e sbattendo la
portiera. Feci un cenno
con il mento «Parti».
Edward mi fissò
sgomento. «Pensavo che non volessi che
la gente pensasse che fossi incinta».
«Quello era prima che
fossi realmente incinta. Sono
molto orgogliosa di mia figlia. E mi dà molto fastidio che
ti diano problemi»
spiegai, incrociando le braccia sul petto.
Scosse il capo con un mezzo
sorriso, mettendo in moto.
«La mia moglie protettiva».
Edward mi lasciò con un
lunghissimo bacio, facendomi
promettere che non mi sarei stancata, che non sarei stata troppo tempo
in piedi
e che lo avrei chiamato subito se avessi avuto un problema di qualsiasi
tipo.
Gli feci promettere che avrebbe fatto altrettanto e che non sarebbe
stato
sprovveduto con quella donna probabilmente immortale.
Partì quasi subito con
Jasper, Emmett e Carlisle e le
ragazze vennero a farmi compagnia. Non era solo della compagnia che
avevo
bisogno, ma di sentirmi protetta, e mio marito lo sapeva. Volevo
provare a me
stessa di essere in grado di stare da sola, ma sapevo che avevo bisogno
di
ancora un po’ di tempo per arrivare a quel punto.
«Tesoro, vuoi dei
biscotti?» mi chiese Esme,
porgendomi un vassoio ricolmo di ogni tipo di biscotto al cioccolato.
«Sì, grazie!
Sto morendo di fame» confessai,
mettendone uno in bocca.
Rosalie ridacchiò.
«Ma se hai appena finito di
mangiare! Passata la nausea?».
«Mmm»
feci, con un biscotto
in bocca, prendendone un altro «no, nienfeaffaffo… ma
ho fame».
«Bella!»
esclamò Alice vendendo verso di me con una
pila immensa di giornali, che si sollevava dalle sue braccia fin sopra
la
testa.
Afferrai un altro biscotto,
osservandola con curiosità
mentre posava tutti i giornali per terra, formando una pila di 70 cm.
«Cfhe
fono?» chiesi masticando.
Il suo viso
s’illuminò. «Riviste di ultima
generazione
su gravidanza e bambini!» esclamò contenta
«abbiamo tutto il pomeriggio per
leggerle!».
«Tutte?»
chiesi esterrefatta, indicando la pila.
«Certo! Edward si
è raccomandato di non farti
stancare, così potrai startene comodamente distesa sul
divano. E poi così
potremmo fare qualcosa tutte insieme, è divertente, non
trovi?» chiese
euforica.
Esme venne in mio soccorso.
«Magari Bella vuole
riposarsi, dev’essere abituata a dormire di
pomeriggio».
Intervenni prima che il broncio di
Alice si
trasformasse in vere e proprie lacrime silenziose. «No, va
bene, cominciamo e
poi magari vediamo fin dove riusciamo a leggere» feci
titubante.
Immediatamente si
rallegrò trascinando con sé Rosalie
e anche Esme. Passammo molto tempo a leggere articoli di giornale sulla
gravidanza e sui neonati. C’erano moltissime cose che
ignoravo completamente
essendo una ragazza appena diciannovenne, ma me ne stavo rendendo conto
solo
allora. Tentavo sempre di smorzare il mio entusiasmo con Esme e Rosalie
nei
paraggi, non era mia intenzione farle intristire. Loro tuttavia
sembravano
tranquille e serene, felici di immaginare la piccola e di avere la
possibilità
di prendersene cura.
Quando fu ora di andare a dormire
ero molto stanca.
Sì, non ero più anemica come prima, ma il mio
corpo stava facendo gli
straordinari per stare al passo della gravidanza. Avevo sentito Edward
al
telefono poco dopo cena e ci eravamo reciprocamente rassicurati che
andasse
tutto bene. E sapevo che aldilà della porta
c’erano Alice, Rosalie ed Esme,
pronte a proteggermi e a rassicurarmi, ma sentivo
un’inquietudine dentro che,
mi rendevo conto, mio marito era l’unico in grado di
scacciare.
Presi il cellulare in mano ed
esitai. Gli avevo
promesso di chiamarlo per alcun genere di problema, ma sapevo che si
sarebbe preoccupato
tantissimo. E volevo che si nutrisse, che stesse con la sua famiglia e
che
uscisse, ogni tanto, non sentendosi in dovere di stare sempre con me.
Mi
rannicchiai sotto le coperte. Magari avrei potuto prendere dei
calmanti, ma non
volevo ricominciare proprio ora che mi sembrava di stare meglio.
Sospirai,
voltandomi da un lato all’altro nel letto. Ormai era notte
fonda, ed ancora non
avevo chiuso occhio. Mi carezzai la pancia, dolcemente, pensando alla
grazia
che avevamo ricevuto con quella gravidanza. Canticchiai alla bimba la
ninna-nanna che Edward aveva scritto per me, ma neppure quello
riuscì farmi
addormentare.
La verità era che mio
marito mi mancava terribilmente
ed ero molto preoccupata per la storia dell’immortale. Forse
mi ero creduta più
forte di quello che ero.
Decisi di andare a fare una doccia
calda, sperando che
mi sarei rilassata e che sarei riuscita a dormire. Sbadigliai,
stanchissima,
adocchiando nell’angolo del bagno la cesta con i panni
sporchi. Esitai, poi
afferrai la t-shirt di Edward, quella che aveva usato il giorno prima.
La
portai al naso: profumava ancora di lui. La indossai e mi accoccolai
ancora nel
letto. Canticchiai ancora e ad un certo punto, sfinita, dovetti
addormentarmi.
Non ricordai immediatamente di aver
sognato, ma mi
svegliai che ero piuttosto inquieta. Dovevo aver fatto un incubo.
Qualcuno, Esme forse, mi aveva
messo addosso una
coperta, senza svegliarmi. Notai intorno a me la luce soffusa del cielo
perennemente coperto di Forks. Doveva essere tarda mattinata. Dopo aver
mangiato tutti quei biscotti, la sera prima, avevo la bocca molto
secca. Di
solito Edward mi faceva bere dopo mangiato o appena mi svegliavo.
Un’attenzione
cui non avevo mai dato particolare peso; decisi di alzarmi per andare a
prendere un bicchiere d’acqua.
Misi dei pantaloni della tuta che
avrebbero
sicuramente fatto rabbrividire Alice, ma non me la sentii di rinunciare
alla
maglietta di Edward.
«Buongiorno» mi salutò Esme dalla
poltrona dove stava leggendo un
libro. Mi sorrise con dolcezza. «Hai dormito
tesoro?».
Mi massaggiai le palpebre stanche.
«Sì, grazie»
mentii. Beh, qualche ora dovevo aver dormito e la consideravo una
vittoria.
«Ti serve
qualcosa?» domandò attenta a rispettare i
miei spazi, ma accorta «Non ti stancare, chiedi a
me».
Feci un mezzo sorriso.
«Vado solo a prendere un
bicchiere d’acqua» feci, dirigendomi verso la
cucina. Presi un bicchiere e
mischiai un po’ di acqua del rubinetto con quella in
bottiglia che avevamo in
frigo.
«Buongiorno Bella. Che
fai?» mi chiese curiosa
Rosalie, indicando il bicchiere.
Osservai le due bottiglie.
«È… perché mi dà
fastidio
il sapore dell’acqua appena sveglia, lo fa sempre
Edward» mormorai, bevendo
l’acqua e tentando di non pensare alle mie stesse parole.
«Torneranno fra poco,
vedrai» mi rassicurò lei,
intuendo i miei pensieri. Lo speravo, mi mancava davvero tantissimo.
Annuii, non riuscendo a nascondere
la mia insicurezza.
«Non so se ho più paura che la trovino o che non
la trovino».
Venne accanto a me, sfregando le
mani sulle mie
braccia come a rassicurarmi. «Hanno chiamato prima. Stanno
bene, torneranno nel
pomeriggio. Hanno corso, si sono divertiti e hanno cacciato. Vedrai,
Edward
starà molto meglio quando sarà qui, molto meno
burbero e rompiscatole del
solito».
«Oh, hanno già
chiamato» sospirai delusa. Avrei tanto
voluto sentire la voce di mio marito.
Rose colse la mia delusione. Mi
carezzò il mento con
una mano. «Puoi provare a richiamare se vuoi».
Alice saltellò verso la
cucina. «Adesso sono nel bel
mezzo della foresta, il cellulare non ha campo. Dai, Bella. Vieni a
riposarti
sul divano, non stare in piedi tutto questo tempo. Non fa bene
né a te né alla
bimba. Invece tuo marito sta benissimo» disse con un sorriso
«ha preso già due
puma».
«Ugh»
feci schifata «okay,
non volevo i dettagli».
Mi andai a sedere sul divano bianco
con Alice,
accendendo la Tv e cominciando a fare zapping; volevo trovare qualcosa
di
impegnativo, che mi distogliesse dall’assenza di mio marito. Infine
scovai un programma per bambini sulle storie delle fiabe. Era
divertente e
faceva ridere per la sua banalità, così rimasi a
guardarlo.
D’un tratto sentii
qualcuno schiarirsi la voce. «Mmm…
Bella, tutto bene?» fece Alice.
Solo in quell’istante mi
accorsi di aver posato la
testa sulla sua spalla e aver intrecciato le mie dita con le sue.
Divenni rossa
d’imbarazzo. «Oh, scusa, io…
è che sono abituata… non l’ho fatto
apposta… solo
che… ecco… Edward…»
balbettavo velocemente, a disagio.
Alice rise «E dai Bella,
non è successo nulla, volevo
solo prenderti un po’ in giro» disse abbracciandomi
e schioccandomi un bacio su
una guancia. «Ho una sorpresa per te, per distrarti un
po’» disse, scomparendo
e ricomparendo poco dopo con un bellissimo pacchetto bianco con un
fiocco
dorato.
«Oh, Alice. Sai che i
regali mi mettono sempre in
difficoltà» feci imbarazzata.
«Non questo, ti
piacerà» fece sicura.
Esme e Rosalie vennero da noi.
«È vero, ti piacerà
Bella».
«Okay» sospirai
incuriosita, scartando con attenzione
la carta. C’era stato già abbastanza sangue in
quei giorni. «Ma è… grazie!»
esclamai aprendolo. C’era un set nuovissimo di pennelli
italiani di cinghiale e
di colori ad olio con un bellissimo pigmento, insieme a tre libri
sull’arte. «È
un regalo bellissimo. Grazie» esclamai, abbracciandole di
slancio.
Esme ridacchiò.
«Sono contenta che ti piaccia. È un
po’ di materiale per il prossimo semestre in accademia.
Edward ci ha detto che
vuoi riprendere. Credo che la sorpresa non sia finita
però» disse guardando
Rosalie, che con un sorriso mi porse il cellulare.
Lo afferrai titubante, e lo portai
all’orecchio.
«Pronto?». Il cuore mi batté forte
perché c’era solo una voce che volevo
sentire in quel momento, quindi fui un po’ delusa quando
capii che non era mio
marito.
«Bella?
Bella
sei tu?».
«Amber!»
sospirai felice, scacciando subito la
delusione. Era da tempo che non la sentivo e mi era mancata. Mi
ricordava una
vita umana e normale, una quotidianità lontana da quel
momento.
«Bella!
Oh,
quanto tempo! Mi sei mancata tantissimo, sai?! Seguire i corsi senza te
non è
stata la stessa cosa!». Con il suo solito
entusiasmo e la sua solita,
solare, gioia di vivere, la mia amica d’università
mi regalò più di un sorriso.
Mi aggiornò sul programma di studi e su cosa avrei dovuto
studiare per
rimettermi in pari. Parlammo molto a lungo, mantenendo gli argomenti
sull’università e le mostre che ci sarebbero state
in città, e alla fine della telefonata
le promisi che ci saremmo riviste presto.
Mi aveva fatto molto piacere
sentire Amber: per tutta
la durata della conversazione, avevo potuto completamente dimenticare
l’esistenza di tutto all’infuori di me. Vidi una
vita normale, fatta di umani,
di college, di studi e di lavoro. Alice aveva avuto ragione, ero
riuscita a
distrarmi.
Riuscii a pranzare con il
buonissimo cibo cucinato da
Esme senza vomitare. Era una cuoca fenomenale e mi piaceva tantissimo
passare
del tempo con lei in cucina. Speravo che presto le nausee passassero
presto e
che avremmo potuto ricominciare a farlo.
Sbadigliai, molto stanca,
portandomi una mano alla
pancia. Sentivo come un senso di peso e come se fosse più
tiepida del solito.
«Tutto bene?»
mi domandò attenta mia suocera,
carezzandomi dolcemente la pancia. Era accanto a me, sul divano del
salotto.
Annuii, reprimendo un altro
sbadiglio. «Non è niente,
sono un po’ indolenzita».
I suoi occhi chiari si fecero
più attenti e mi sistemò
meglio la coperta sulle gambe. «Dovresti sdraiarti un
po’, riposare».
Le feci un piccolo sorriso.
«Tranquilla, mi capita
spesso. Devo solo fare un sonnellino» feci, malinconica.
Edward mi accompagnava
a letto a quell’ora, coccolandomi finché non mi
addormentavo, non prima di
somministrarmi tutti i preziosi farmaci che mi tenevano in vita.
«È
l’ora della medicina» disse Rosalie con un
sorrisino, comparendo accanto al divano con tre compresse in una mano e
due
siringhe nell’altra.
Mi nascosi il viso con la coperta.
«Non ce la posso
fare» biascicai con voce soffocata, facendola scoppiare a
ridere insieme ed
Esme. Abbassai la coperta quanto bastava per liberare un occhio.
«Vi prego, non
possiamo aspettare che torni Carlisle o Edward…? Rose, non
è che non mi fidi di
te, è che conosci le mie difficoltà»
biascicai querula. In quelle settimane
stavo avendo una terapia d’urto riguardo alla mia fobia degli
aghi.
Rose sollevò un
sopracciglio insieme alla sua logica
di ferro, facendo scintillare minacciosi gli aghi. «Intendi
le tue difficoltà
con questi preziosi farmaci che salvano la tua vita e quella della
bambina?» mi
prese in giro.
Mi nascosi ancora sotto la coperta,
sprofondando
arrendevole nel divano. Neppure Edward avrebbe potuto salvarmi da
quello.
Così dopo una
sceneggiata degna di mia figlia non
ancora nata e svariati punti di dignità persi, me ne stetti
buona, buona sul
divano, aspettando che il mio prode principe azzurro tornasse dalla
caccia per
salvarmi. L’inquietudine di non averlo accanto era tanta, ma
presto vinsero le
ore di sonno che avevo perso quella notte lontana da lui,
così, tormentata, mi
addormentai.
Sognai l’oceano gelido ed
io che ci nuotavo. In
lontananza una donna che non riuscivo a distinguere. La chiamavo,
cominciavo a
nuotare verso di lei, ma più volevo gridare forte
più la mia voce si bloccava e
più volevo nuotare veloce più le mie braccia si
facevano pesanti. E quando infine
non riuscii più a muovermi capii perché: delle
grandi braccia calde mi stavano
trattenendo. Quando mi voltai a fissare il suo volto sapevo
già a chi
appartenessero: Jacob.
Mi svegliai sudata, ansimando,
seduta sul divano.
Subito mi colpì fortissima la sua assenza: le sue braccia
fredde mi avrebbero
già raggiunta, circondata, impedendomi di andare in pezzi.
Mi avrebbe mormorato
una frase dolce all’orecchio o forse solo una nenia, e io
avrei capito che
niente di ciò che mi faceva paura era reale.
«Bella» mi
chiamò Esme preoccupata, scostando le tende.
«Tutto bene?».
Mi concentrai per rallentare i miei
ansiti frenetici.
Mi guardai attorno. Era solo una coperta, una coperta troppo calda che
mi aveva
portato dei pensieri spiacevoli. Non era reale. Annuii. Non era reale. «Sì»
soffiai con un filo di voce.
Si avvicinò cautamente,
quasi avesse paura di
spaventarmi. «Cos’è
successo?».
Scossi il capo, fissando il mio
sguardo sulle mani. Il
cuore non aveva ancora rallentato la sua folle corsa, e io avevo
bisogno di
qualcosa di reale per ricominciare a pensare normalmente. «Il
progesterone»
sibilai afona. Mi schiarii la voce. Deglutii. Ancora non riuscivo a
parlare,
perché quel maledetto sogno mi era sembrato così
reale e l’inquietudine che
sentivo non accennava a passare. Il progesterone, che mi
somministravano ogni
tre giorni per sostenere la gravidanza e scongiurare la minaccia
d’aborto, mi
faceva sempre fare degli incubi. Edward lo sapeva, non avrebbe mai
permesso che
mi svegliassi in quello stato senza starmi accanto.
Esme si venne a sedere accanto a
me, carezzandomi il
capo. «Ha chiamato, prima» mormorò
sottovoce, facendomi quasi trasalire «voleva
sapere come stessi. Mi ha chiesto di non svegliarti, aveva paura che
non avessi
riposato abbastanza questa notte».
Annuii, non riuscendo a parlare.
Sapeva sempre tutto.
Avevo un magone tale che se avessi aperto bocca sarei scoppiata in
lacrime, e
non volevo: mio marito avrebbe visto i suoi pensieri al ritorno.
Così mi feci
coraggio, mi asciugai i palmi delle mani sudati sui pantaloni e mi
alzai,
dirigendomi verso il nostro bagno. Non potevo piangere.
Lottai contro me stessa
finché decisi che non potevo
più aspettare. Nonostante Alice mi avesse ripetuto che
sarebbe stato in una
zona isolata provai a richiamarlo, camminando avanti e indietro,
inquieta, nel
soggiorno. Non squillò neppure una volta e mi rispose subito
la segreteria
telefonica.
«Bella» mi
chiamò Rosalie dal salotto «vieni di qua.
C’è il caminetto acceso. Sdraiati un
po’, non ti fa bene stare così tanto tempo
in piedi».
Annuii, chiudendo la chiamata e
ricomponendo il
numero. «Arrivo fra un attimo» mormorai, facendola
sospirare.
Anche quella volta mi rispose la
segreteria. Mi arresi
a lasciargli un messaggio. «Ciao»
esitai, incerta
«spero che sia andato tutto bene e che ti sia divertito.
Mi… dispiace non
averti sentito prima» tentennai, spostando il peso da un
piede all’altro «mi
machi» soffiai infine, chiudendo velocemente la chiamata.
Non feci in tempo a mettere via il
cellulare che
sentii suonare alla porta.
Immediatamente fui presa da un moto
di sollievo. «Vado
io!» esclamai, andando verso la porta d’ingresso e
verso mio marito.
Chi mi trovai di fronte invece fu
Emmett. «Lilla!
Ciao!» esclamò subito, buttandosi in ginocchio e
cominciando a parlare con la
mia pancia.
«Dov’è
Edward?» chiesi ansiosa, guardando alle sue
spalle ed ignorando il nome dato alla bambina.
«Ma ciao
Lilla. Che combini lì dentro, eh? Dillo allo zio Emm.
Tesoro!».
«Emmett,
rispondimi» dissi decisa, tirandogli i
capelli tanto da costringerlo ad alzare lo sguardo.
«È rimasto con
Jasper, verrà fra un po’» mi rispose
prima di ricominciare a parlare con la bambina che si sarebbe chiamata
in tutti
i modi men che “Lilla”.
Mi andai a sedere, delusa,
trascinando inevitabilmente
anche Emmett, sul divano. L’inquietudine che mi aveva
lasciato il sogno e
l’assenza di Edward non accennava a diminuire. Avevo paura
che presto sarebbe
cresciuta tanto che non sarei riuscita a gestirla.
Infastidita, interruppi Emmett che
continuava a
parlare con la mia pancia. «Emmett, smettila, è
lunga appena due centimetri e
mezzo, non ti può sentire».
«Mia nipote ha preso
tutto da me» fece saccentemente
«secondo me mi può sentire, è
intelligente».
«Va bene, ma ora
smettila» dissi, cercando di suonare
un po’ meno burbera, abbassando la maglietta e scacciando le
sue mani fredde.
Non volevo prendermela con lui, ma mi sentivo indisposta per mancanza
di mio
marito.
Al secondo suono alla porta scattai
nuovamente in
piedi, ignorando i rimproveri di Alice e Rosalie che mi dicevano che
stavo
troppo tempo in piedi e che sarebbero potute andare loro ad aprire.
L’unico vampiro che
attraversò il portone fu però
Jasper. «Ragazzi, c’è un freddo fuori,
meno male che sono un vampiro».
«Dov’è
Edward?» chiesi ansiosa.
Abbassò il suo sguardo
sul mio. «Bella… stai bene?»
chiese sorpreso, sollevando un sopracciglio.
«Sì,
sì. Dov’è Edward?» ripetei,
sempre più agitata,
rispondendo frettolosamente alla sua domanda.
Piantò gli occhi dei
miei, corrugando le sopracciglia.
«È con Carlisle. Tutto bene?» chiese
titubante, leggendo probabilmente le mie
emozioni.
«Sì» mormorai afflitta e seccata,
abbassando le spalle e
trascinandomi nel soggiorno.
«Bella! La cena
è pronta!» mi chiamò Esme.
Non volevo deludere le sue
aspettative, ma riuscii
appena a mandare giù un paio di bocconi di cibo. Se avessi
mangiato di più avrei
certamente vomitato.
Emmett mi prese in giro, dicendomi
che quella sera non
ero per niente divertente e Jasper scoccò
un’occhiata ad Alice, cauta e
perplessa. Da quando era arrivato mi sentivo più tranquilla,
ma mi metteva a
disagio l’idea che stesse manipolando le mie emozioni.
Tanto meglio. Non volevo che Edward
leggesse nei loro
pensieri la mia fragilità, così mi decisi ad
approfittare di quella
tranquillità artificiale per ribattere a tono ad Emmett e
rimetterlo
scherzosamente al suo posto. Mi raccontarono che si erano divertiti
molto
cacciando, ma che non avevano trovato alcuna traccia di quella
probabile donna
immortale. Jasper disse di non preoccuparmi, che si era trattato
probabilmente
di una “visitatrice occasionale”.
Infine, finalmente, suonarono
ancora alla porta, e
sapevo che questa volta non poteva che essere lui.
«Bella, sta’
seduta, ti sei alzata già troppe volte
oggi».
Ignorando completamente le dolci
parole di Esme,
scattai in piedi, correndo, letteralmente, verso l’ingresso,
e sfidando in ogni
modo la forza di gravità.
Carlisle comparve sorridente
sull’uscio. «Bella» mi
salutò, il viso riposato di chi si era appena nutrito e gli
occhi ambrati
scintillanti concentrati sulle mie guance arrossate per il fiatone.
«Tutto
bene?».
«Edward?»
fremetti, attorcigliando le dita agitata e
ignorando la sua domanda.
La sua espressione si fece
sorpresa. «Edward? È con
Emmett» rispose, come se fosse ovvio.
«Ma
lui…» sentii un fortissimo moto
d’agitazione e
irritazione crescere in me. Ma prima di impazzire decisi di trovare una
spiegazione logica e plausibile. «Emmett» lo
chiamai, facendolo comparire
immediatamente accanto a noi «Carlisle dice che Edward doveva
essere con te».
Anche la sua espressione
mutò in sorpresa. «Con me?
No, il l’ho lasciato con Jasper» fece tranquillo.
Sgranai gli occhi, ancor
più agitata. «Jasper!» esclamai,
facendolo precipitare insieme agli altri Cullen.
«Edward dovrebbe essere con te, perché non
è con te?» sbottai d’un fiato, la
voce rotta dall’agitazione.
I suoi occhi scivolarono da
Carlisle a Emmett. «Io
sapevo che sarebbe rimasto con te Carlisle».
Battei le palpebre confusa, mentre
la tranquillità
artificiale di Jasper scivolava via sempre più rapidamente.
I tre cominciarono a parlare fra
loro, velocemente,
accusandosi reciprocamente. Rose, Alice e
Esme erano
attente ai loro discorsi. Infine
Carlisle disse,
alquanto divertito, «Ci deve essere stato un malinteso. A
questo punto devo
ritenere che l’abbiamo lasciato indietro».
Emmett e Jasper scoppiarono a
ridere.
Io no. Io ero pietrificata sul
posto, immobile. Presi
dei lenti e ansanti respiri dalla bocca, mentre sentivo la paura e
l’ansia
crescere esponenzialmente con il suono delle loro risate.
Jasper, il primo ad accorgersi del
mio umore grazie ai
suoi poteri, si tirò su, osservandomi. «Bella,
tutto bene?».
A poco a poco anche gli altri
smisero di ridere,
facendosi man mano seri.
«No» biascicai querula, sentendo il
primo singhiozzo
esplodere nel mio petto, senza che lo potessi controllare.
«Voi» farfugliai,
spaventata ed arrabbiata «voi… l’avete
lasciato solo?!».
Emmett riprese a ridere, facendomi
arrabbiare ancora
di più.
Strinsi i pugni lungo i fianchi
fino a far sbiancare
le nocche.
Tutti mi osservavano in silenzio,
perplessi, e anche
Emmett, resosi conto della mia espressione terrorizzata e seria,
tacque.
«Bella» fece infine Carlisle, tentando di
rassicurarmi, «Edward è un vampiro
centenario, sa badare a sé stesso, non temere».
Invece di acquietarmi, quelle
parole mi fecero
inspiegabilmente crollare, facendo esplodere tutta
l’inquietudine che avevo
tentato di arginare quel giorno e facendo venir fuori tutta la mia
vulnerabilità. «No invece» singhiozzai,
scoppiando a piangere «lo avete
lasciato solo con quella donna di cui non sappiamo niente in
giro».
«Oh cara, su non fare
così, Edward se la caverà»
tentò
di rassicurarmi Esme, accarezzandomi un braccio. «Vieni,
andiamoci a sedere.
Calmati».
«Non ci riesco»
piansi divincolandomi, sentendo
l’umido e il salato delle lacrime sulle mie labbra.
Jasper fece un passo nella mia
direzione, contraendo
l’espressione sul suo viso. «È molto
agitata, non riesco a calmarla
completamente».
«Bella, tranquilla,
vieniti a sedere, su, non fare
così» mi riprese bonariamente Alice, prendendomi
per l’altro braccio.
«Vorrei solo che fosse
qui» singhiozzai, pur
lasciandomi trascinare.
Mi sentivo vinta, sopraffatta dal
terrore che era
cresciuto sempre di più e che alla fine era esploso dentro
di me. Ero
preoccupata per Edward, presa dal panico all’idea di non
poter essere certa che
stesse bene ed insieme disperata all’idea di quanto la sua
assenza mi facesse
stare male.
Bevvi quasi inconsapevolmente dal
bicchiere d’acqua
fresca che mi trovai fra le mani, portandolo alle labbra tremante. Misi
una
mano sulla fronte, osservando i volti delle persone che mi fissavano
attenti e
preoccupati. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che
avevo avuto un vero
attacco di panico? Lasciai che Rosalie mi parlasse, rassicurandomi,
senza quasi
a riuscire a sentire le sue parole. Capii solo che mi diceva che non
era colpa
mia, che potevo permettermi di essere fragile ogni tanto. Ma io mi
sentivo
fraglie sempre.
Quando fui abbastanza calma
afferrai la coperta che
stava sul divano e mi diressi in silenzio verso la grande vetrata a est
della casa.
Mi lasciarono andare, discretamente, senza dirmi nulla. Mi sedetti sul
loggione, stendendo le gambe sui cuscini, e mi avvolsi nella coperta,
poggiando
la fronte sulla lastra fredda di vetro.
Mi sentivo stanca, fisicamente e
mentalmente. Vedevo,
fuori dalla finestra, il vento forte che soffiava via le foglie brune e
rossicce dagli alberi sparpagliandole qua e là,
così simili ad una folta chioma
di capelli ramati… Rabbrividii, stringendomi nella mia
coperta. Ero così
spossata che sarei crollata in un sonno tormentato, ma non potevo
permettermelo. Non sarei sopravvissuta ad un altro incubo.
Il mio fiato caldo, causa la
notevole differenza di
temperatura, formava un alone opaco sul vetro. Sollevai una mano fino a
posarla
sulla lastra trasparente, facendo formare intorno alle dita un altro
alone
bianco.
Improvvisamente sobbalzai, vedendo
cinque perfette e
bianche dita da pianista posarsi dall’altro lato del vetro,
combaciando con le
mie e ravvivando l’alone opaco.
Così com’erano
comparse scomparirono, per poi
apparire, perfette, nella figura di mio marito accanto a me. Gli occhi
perfettamente dorati, i capelli scarmigliati dal vento e sulle rosee
labbra un
magnifico sorriso sghembo fatto di infinite promesse d’amore.
«Edward»
sussurrai, senza poter nascondere il tremore
nella voce.
Con un sorriso sghembo e con una
velocità inumana mi
prese fra le braccia, posando le sue labbra sulle mie.
Lo strinsi forte a me, piena di
sollievo, desiderosa
di non lasciarlo andare via.
«Mi sei
mancata» sussurrò ad un mio orecchio.
Trattenni a stento un singhiozzo di
sollievo. «Anche
tu».
«Ehi, shh»
mormorò
consolandomi, sollevandomi il mento con una mano. I suoi occhi dolci e
comprensivi mi dicevano che sapeva che effetto mi avrebbe fatto la sua
assenza.
«Tranquilla, sono qui. Oggi è stato un giorno
difficile, lo so» mi disse,
sfregandomi la guancia con il pollice e scrutandomi con attenzione
«hai fatto
un brutto sogno? Oggi era il giorno del progesterone».
«Mi fa ancora
male» scherzai debolmente fra le
lacrime, lasciando dissolvere tutta la mia paura nel calore di pace che
sentivo
nel petto.
Ridacchiò, portandomi
divertito una mano al sedere
«Nulla che non si possa rimediare» mi promise,
lasciandomi un altro lento,
lungo, bacio sulle labbra.
Scossi il capo, asciugandomi le
lacrime. «Mi dispiace.
Hai detto che eri stato orgoglioso di me per essere riuscita ad
affrontare
Billy, invece oggi sono stata pessima e ti ho deluso.
Perdonami».
Crucciò le sopracciglia,
dispiaciuto. «Come potrei
essere deluso?» soffiò con amore «sei la
creatura più coraggiosa e forte che
conosca. Sei stata bravissima. Puoi permetterti di essere fragile,
Bella. Hai
sospeso gli antidepressivi da poco più di una settimana, hai
affrontato
l’incidente di tuo padre e i mille pericoli in questa
gravidanza. È normale che
tu abbia bisogno di un punto di riferimento per stare bene».
Tirai su con il naso, fissando le
sue iridi chiare.
«Mi prometti che andrai comunque a caccia in
futuro?».
Sospirò con un sorriso,
chinandosi ad abbracciarmi.
«Oh, mia coraggiosa umana».
E lasciai che mi abbracciasse
forte, mettendo a posto
tutti i pezzi di me che erano andati in frantumi.
«Bella! Stai ancora
mangiando?» chiese scioccata Alice
più tardi, indicandomi e distraendomi dai miei pensieri.
Stavo stesa sul divano, fra le
gambe di Edward, con la
schiena appoggiata al suo petto. L’inquietudine era andata
via come una marea
che scompare, lasciandomi calma e spossata. «Mmm… ho
fame» biascicai con in bocca un cucchiaino di gelatina alla
frutta, che
estrassi per immergerlo nuovamente nel composto rossastro e traslucido.
Alice incrociò le
braccia al petto, fissandomi con
disappunto. «E voi non le dite nulla! Ha già
cenato, dovrebbe seguire una dieta
basata su pasti sani!». Quando vide che nessuno diceva nulla,
incalzò «Edward,
questa da te non me la sarei mai aspettata. E anche tu Carlisle,
insomma, che
medico sei?» fece imbronciata.
Io lo fissai con il cucchiaino in
bocca e uno sguardo
piuttosto eloquente. Nessuno poteva mettersi fra me e la mia gelatina!
Allo stesso modo Alice gli
riservò un vero sguardo
imbronciato.
Mi aspettai di vedere Carlisle per
la prima volta in
difficoltà, invece disse «È vero che
dovrebbe fare dei pasti sani, ma è vero
anche che Bella è leggermente sottopeso. Una gelatina non le
farà male»
concluse stringendo la mano di Esme che stava seduta accanto a lui sul
divano.
Erano tutti tranquilli e scherzosi,
come se nulla
fosse accaduto.
«Scusatemi per
prima» mi sentii di dire imbarazzata,
mettendo via la gelatina.
«Oh, tesoro, non
c’è bisogno che ti scusi di nulla»
fece Esme con un sorriso «noi ti capiamo».
«Piuttosto,
Edward» fece Rosalie, finendo di attizzare
il fuoco del camino «dove ti eri cacciato?».
Scrollò le spalle, lo
sguardo perso. «Stavo seguendo
una strana traccia. Mi è sembrato di sentire i pensieri di
qualcuno, ma poi
sono scomparsi troppo in fretta».
«Poteva essere quella
donna?» incalzò Jasper.
Fece spallucce. «Chi
può dirlo».
Emmett batté i palmi
delle mani sulle ginocchia. «Io
dico: torniamo a cercarla» fece, facendomi irrigidire
inconsapevolmente.
Carlisle gli lanciò
un’occhiata. «Io dico che è ora di
andare a dormire. Nessuno si esporrà più per
questa donna. Cercarla potrebbe
solo indurla ad avvicinarsi di più. Alice
cercherà le sue decisioni e se si
avvicinerà ancora saremo pronti ad ascoltarla»
fece cautamente.
Alice annuì, seria, e io
mi lasciai andare serenamente
con la testa sulla spalla di mio marito, sbadigliando stanca.
Mi baciò la fronte.
«Se volete scusarci» disse,
aiutandomi a sollevarmi «è l’ora di
andare a dormire».
Crollai subito, sfinita,
abbracciata a mio marito. E
quella notte non ci fu alcun incubo. Nei giorni successivi
andò meglio. Edward
fu molto attento e mi seguì da vicino, tanto da essere
sicuro che non avessi
bisogno del suo continuo supporto. Con il nuovo materiale e le
informazioni di
Amber riuscii a ricominciare a studiare, ponendomi come obbiettivo
quello di
recuperare il tempo perduto.
Segnai con il dito il confine della
mia pancia,
sorridendo, per un attimo distratta dai miei studi. Non perduto
completamente; usato
per far crescere l’esserino posto appena sotto le mie dita.
Sentii il suono del vetro contro il
metallo. Edward era
entrato nello studio con un bicchiere di spremuta d’arancia,
posandolo sul
tavolino da tè.
Sorrisi, scuotendo la testa.
«Amore, qualcuno potrebbe
pensare che mi approfitti di te. Cosa facevi prima di
conoscermi?» feci
sarcastica.
Lui mi sorrise, scostando la mia
mano per baciare la
pancia e per poi salire a posare un bacio sulle mie labbra.
«Un sacco di cose
poco divertenti» mi spiegò brevemente.
«Edward» voleva
essere un rimprovero, ma non riuscii a
nascondere l’ilarità nella mia voce.
Mi prese le mani fra le sue e le
strinse strofinandole
con i pollici. «Davvero, Bella. Non ti sto accanto solo per
evitare che tu
abbia un attacco di panico. Mi piace stare con te.
È per questo che ti
ho sposato».
Sospirai, liberando una mano dalle
sue per
accarezzargli una tempia, godendo della sua espressione assorta nelle
mie
carezze. Speravo che con il tempo sarei riuscita ad essere
più indipendente,
non perché non lo volessi accanto, ma perché
volevo stare bene anche senza
averlo accanto.
«A cosa pensi?»
chiese curioso, riaprendo gli occhi e
indagando l’espressione del mio viso.
«A te» risposi
semplicemente, raccontandogli una parte
della verità.
Sollevò le nostre mani
unite e poggiò le sue labbra
fredde sul dorso della mia mano. «Hai finito di
studiare?» mi chiese osservando
il libro accanto a me.
Sbuffai, prendendolo con una mano e
aprendolo alla
pagina che doveva interessarmi. «No, affatto, sono indietro e
devo recuperare
tutto» dissi rimettendomi a leggere.
Attese un po’ con me per
farmi compagnia, ma poi
decise di lasciarmi sola per poter studiare senza distrazioni,
così potei
concentrarmi completamente sulle materie trattate dai grossi tomi.
Facendo un
salto nel passato, mai avrei immaginato di poter essere così
coinvolta in quelle
materie artistiche. Mai, avrei pensato di pretendere con tale forza di
volontà una
certa autonomia negli studi, artistici per giunta.
Sentii dentro di me una strana
sensazione di deja vu,
nata come una fiammella, scomparsa man mano per
lasciare solo un pallido e freddo ricordo di sé. Battei le
palpebre lentamente,
guardando la porta chiusa dello studio. Possibile che il mio patologico
attaccamento a Edward si manifestasse anche con un distacco
così breve? Scossi
il capo, ricominciando a leggere con più attenzione.
Tuttavia, dopo due ore e mezza
potei dire di essermi
definitivamente scocciata. Non ero più abituata a stare
concentrata sui libri
per così tanto tempo, e la nausea, che ancora perdurava, mi
dava un’eccellente
motivazione per distrarmi.
Mi sollevai dal divano dello
studio, dirigendomi in
cucina alla ricerca di mio marito e di un po’ di sana
distrazione e, perché no,
qualcosa da mettere sotto i denti.
La prima cosa che intercettai
appena misi piede fuori dalla
porta fu l’odore delizioso del caffè. Mi
avventurai, come attratta da un’enorme
calamita, nel soggiorno, da cui l’aroma veniva diffuso.
Non appena adocchiai la tazza di
fumante liquido nero,
una voce mi colse in fallo.
«Bells,
sei in piedi?»
chiese mio padre, seduto sulla poltrona accanto a mio marito.
«Papà?»
domandai sconvolta, rinunciando immediatamente
alla possibilità di avere anche solo un assaggio di
caffè. «Che ci fai qui?»
domandai sorpresa, raggiungendoli velocemente in soggiorno.
Incrociò le braccia al
petto, scrutandomi. «Mi sono
fatto accompagnare da un amico» borbottò, ma da
come arrossì pensai che si
fosse fatto accompagnare da un’amica.
Sorrisi, chinandomi a baciargli una
guancia, decidendo
di non indagare ulteriormente. «Sono contenta che tu sia
qui» dissi sincera,
sistemandomi poi accanto a mio marito, facendomi circondare dal suo
abbraccio
freddo.
«Mi sembri meno
pallida» fece mio padre studiandomi.
Sollevai gli occhi al cielo.
«Sto benissimo». Certo
che ero meno pallida. I miei medici personali si assicuravano
costantemente che
la mia emoglobina non scendesse sotto il valore di 10, somministrandomi
più e
più farmaci ogni giorno.
«Finito di
studiare?» mi chiese a bassa voce Edward.
«No» mormorai sbadigliando.
«Non ce la farò mai a
recuperare tutto, ne sono certa».
Lui scosse la testa in disappunto.
«Non essere
sciocca, hai fatto tantissimo».
«Quando comincerai a
frequentare?» chiese mio padre,
inserendosi nel discorso.
«Fra due settimane,
all’inizio del nuovo trimestre».
«Oh» fece lui, abbassando lo sguardo
sulla tazza di caffè,
- mio caffè - che stava sorseggiando. Era arrossito e pareva
stranamente
assorto nei suoi pensieri. Avevo dato per scontato che fosse venuto
solo a
controllare che stessi bene, ma ora che lo vedevo così mi
chiedevo se non ci
fosse dell’altro.
Sentii mio marito irrigidirsi al
mio fianco, così mi
voltai verso di lui allarmata. Ma nei suoi occhi vidi solo
un’espressione
composta e serena, tipica maschera di un vampiro.
«Papà?»
feci titubante, tastando il terreno.
«C’è
qualcosa che non va?».
Lui lanciò
un’occhiata a Edward, e poi a me. Sembrava
a disagio. «Vedi, ecco» cominciò,
titubante «devi sapere che in paese si è
saputo del tuo… stato» fece cautamente.
Cacciai un respiro secco. Doveva
essere stata quella
pettegola della mia vicina. «Papà, non
m’importa che sappiano che sono incinta,
anche se sono giovane io e Edward siamo sposati e le voci di provincia
sono
l’ultima cosa che…».
«No, no»
m’interruppe, sollevando una mano «non è
questo» disse con una pausa, in seria difficoltà
su come continuare.
Mentre sentivo la presa di Edward
intensificarsi e
cementarsi sulla mia spalla, vidi Charlie muoversi imbarazzato sulla
poltrona.
Guardai mio marito. Dal suo sguardo potevo dire che si trattava di
qualcosa che
lo turbava. «Di cosa si tratta papà?»
chiesi allora agitata.
Temporeggiò ancora,
passando con gli occhi da me a
Edward. Poi sospirò. «Tutti credono che il bambino
non sia di Edward… che
sia…».
«Basta
così» sbottai, indignata, voltandomi verso mio
marito.
Era rigido, la mascella serrata e
gli occhi lontani.
Non poteva essere. Non poteva
essere, ancora, il
nostro tormento. Mi sentii ferita e addolorata all’idea di
quanto potesse fare
male a Edward.
Gli accarezzai la guancia marmorea
con delicatezza e
attenzione. «Edward» sussurrai, avvicinandomi al
suo orecchio in modo che solo
lui mi sentisse. «Sono solo umani, non importa quello che
dicono: questa è la
nostra bambina e non saranno certo delle stupide menzogne a farlo
cambiare».
Sospirò, allontanandosi
lievemente da me e fissando il
vuoto, immobile.
Avrei voluto continuare a
parlargli, rassicurarlo, capire
le sue motivazioni, ma la presenza di mio padre me lo impediva. Mi
voltai verso
di lui, incontrando il suo sguardo dispiaciuto. «Mi dispiace
che tu debba
sentire queste cose papà, ti prego di non preoccupartene
più» feci con un
sorriso di scuse.
«Non ti preoccupare Bells»
disse, recuperando le sue stampelle. «Non sapevo se
dirvelo» esitò poi, incerto
«ma non volevo veniste a saperlo da qualcun altro».
«Grazie»
sospirai afflitta, stringendo la mano di mio
marito, ancora immobile.
Edward riaccompagnò a
casa mio padre e quando tornò mi
sembrava più sereno di prima.
«Tutto bene?»
gli domandai preoccupata, studiandolo di
sottecchi.
«Sì» sospirò, togliendosi la
giacca bagnata dalla pioggia
«Non pensavo che delle voci di stupidi umani potessero darmi
tanto fastidio, ma
ora ti capisco. Mi secca molto» commentò
freddamente.
Mi avvicinai e lui mi strinse a
sé, posando un bacio
sui miei capelli. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirlo alla
mia vicina».
Fece una risatina stanca al
ricordo. «Sarebbe successo
comunque. È solo che… non capisco come faccia
ancora ad intervenire così nelle
nostre vite» fece una breve pausa, serrando più
forte la mascella, pensieroso. «Non
importa, non diamogli il potere di farlo» concluse infine,
illuminando nuovamente
il dorato dei suoi occhi nei miei.
Sorrisi debolmente, lasciandogli un
altro bacio
proprio sull’angolo della bocca. «Stai
meglio?».
«Sì» rispose sincero, determinato a
concludere il discorso.
Neppure io volevo più
parlare dell’argomento, sarebbe
stato solo un motivo per non essere felici. «Bene»
dissi serena, dirigendomi
verso la cucina.
Cominciai a prepararmi qualcosa da
mangiare. Da quando
potevo fare molte più cose, Edward aveva cominciato a
lasciarmi i miei spazi, a
concedermi di essere autonoma e indipendente ed io man mano stavo
riprendendo
il controllo della mia vita.
Ebbi nuovamente quella strana
emozione, simile a un
ricordo antico e abituale, quando sollevai per un istante il bicchiere
d’acqua.
Per un attimo mi trovai come sospesa, in un mondo piano e parallelo
fatto solo
di quell’emozione, che se ne andò via lasciandomi
un nugolo nel petto. Una cosa
davvero strana.
«Lo sai Bella, che passi
troppo tempo in piedi? Non
dovresti stancarti di meno?» chiese sarcastico Edward,
approfittando del blocco
nella scioltezza dei miei movimenti.
«Ah sì, tu
dici?» chiesi sollevando gli occhi al cielo
e sedendomi accanto a lui, posando il piatto sul tavolo.
«Sì, io dico»
fece con finta aria di rimprovero. «Carlisle ha detto un paio
d’ore e ne sono
passate quasi tre».
«Mmm…
allora sì…» biascicai
addentando un pezzo del mio pranzo e rivivendo, ancora una volta, la
stessa,
ormai abituale, emozione antica. M’irrigidii automaticamente.
Notai che Edward mi osservava
accigliato.
Scossi il capo con noncuranza,
finendo di mangiare in
silenzio e lasciando che altrettanto in silenzio, giocasse con una
ciocca dei
miei capelli.
Non appena il telefono
squillò, mi alzai facendo
scattare indietro la sedia e con una risata dispettosa andai a
rispondere.
«Pronto?» chiesi trafelata dalla breve corsa.
«Bella,
sei tu?
Come mai non ha risposto Edward? Sei sempre in piedi»
concluse Carlisle divertito.
Sentii due mani fredde sulla vita e
dopo un piccolo
volo e un’esclamazione di sorpresa, mi ritrovai sul divano,
stretta nella morsa
di mio marito che mi solleticava con impertinenza. Ripresi fiato
finché non
riuscii nuovamente a parlare. «Ora non
più» biascicai infine arrossendo,
conscia del fatto che mio suocero avesse sentito tutto.
Si sentì una breve
risata. «Potresti passarmelo? Alice
ha previsto che ci sarà un temporale e mi ha chiesto di
avvertirlo, nel caso
volesse giocare con noi».
Mi irrigidii un attimo, sorpresa,
congelando il
sorriso sulle mie labbra. Poi passai in silenzio il telefono a Edward.
Sentivo
che, egoisticamente, non volevo che andasse. Ma, d’altra
parte, era giusto che
lo facesse; trascorreva sempre meno tempo con la sua famiglia per
potersi
dedicare completamente a me.
Mi accorsi che aveva già
finito di parlare e che mi
osservava attentamente, muto.
«Cosa fai?»
chiesi titubante, riemergendo forzatamente
dai miei pensieri.
«Stavo tentando di capire
a cosa pensi».
Feci una risatina.
«Ancora non ti sei dato per vinto?»
chiesi sarcastica. Allontanai per un attimo lo sguardo, tentando di
apparire
disinvolta. Non volevo che andasse via, eppure era giusto che lo
facesse. «A
che ora devi andare?» chiesi, non guardandolo volutamente
negli occhi.
Sentii le sue braccia stringermi
più forte. «Non ci
vado».
Sollevai lo sguardo, opponendomi
alla parte di me che
vilmente giova. «Perché no? Dai, Edward, lo so che
ci vuoi andare. Vai» lo
incoraggiai con un mezzo sorriso finto.
Lui sospirò, facendo
così sollevare i miei capelli. «Te
l’ho detto» fece serio «mi piace stare
con te».
«Edward» mi
lamentai «lo so che ti piace stare con me,
ma hai anche una famiglia. Da quando» sospirai «da
quando Jacob mi ha quasi
ucciso non sono più riuscita a stare senza di te senza
sentirmi sopraffare
dalla paura. Come possiamo andare avanti così? Come posso
credere che lo fai
solo perché “ti piace stare con
me”?».
Mi guardò con dolcezza.
«Non hai pensato che anch’io
da allora mi senta sopraffare dalla paura quando non sono con
te?».
Aprii la bocca per parlare, ma non
dissi nulla.
Mi baciò la fronte,
abbracciandomi. «So che non può
durare per sempre, ma so anche che migliorerà. Adesso
è troppo presto e forzare
le cose non porta mai nulla di buono».
«Ma loro ti
aspettano» protestai debolmente contro la
sua spalla «non possono giocare senza di te».
«Bella… non
importa, davvero, e poi stasera saranno di
nuovo qui con noi» rispose nascondendo maggiormente il suo
volto nell’incavo
del mio collo.
Sentii ancora una volta lo strano deja
vu. Capii per un istante che quell’emozione antica mi
lasciava una scia di
malinconia. «Suona almeno, fa qualcosa per te»
dissi infine, scacciando i miei
strani pensieri.
«Adesso?
Perché?».
Mi allontanai di proposito,
guardandolo negli occhi.
«Nemmeno se te lo chiedessi io? Per me?».
Lui ridacchiò.
«Crede di avere tutto questo ascendente
su di me, mademoiselle?».
Arrossii, imbarazzata.
«Beh, io…».
Il mio balbettio scatenò
una risata ancor più
fragorosa, ma alla fine ci ritrovammo entrambi nello studio, seduti
sulla panca
del piano, a sentire le deliziose note che si sollevavano dalle sue
dita. Mi
piaceva sentire come riuscisse a trasporre perfettamente le sue
emozioni in
musica. Per me le sue melodie erano come uno specchio della sua anima.
Così mi stupii quando
notai come potessero essere
malinconiche, tristi, o addirittura irose alcune sequenze di note, e mi
parve
di scorgere lo stesso stato d’animo che c’era stato
in lui poche ore prima, in
presenza di Charlie. Speravo che si calmasse, volevo fare qualcosa per
farlo
sentire meglio.
Saggiai con il palmo della mano la
morbidezza dei suoi
capelli, stringendo maggiormente la presa sul suo braccio e beandomi
del
sorriso che comparve sulle sue labbra.
Contemporaneamente le note
fluttuarono verso onde più
tranquille e serene, fino a diventare del tutto positive. Mi portai una
mano
alla pancia, tentando di rilassarmi e concentrarmi solo sulla bambina,
ma
quella strana emozione che sentivo emerse ancora, stridendo con i miei
sentimenti.
«Tutto bene
amore?» chiese Edward accigliato, rompendo
il vuoto sordo del silenzio che si era venuto a creare non appena aveva
smesso
di suonare.
Sorrisi, carezzando il piccolissimo
pancino. «Sì, va
tutto bene» mormorai sorridendo.
«Davvero?». Due
linee irregolari si formarono sulla
sua fronte piatta, mentre poggiava una mano sulla mia.
«Sì» arrossii, rimuginando sui miei
pensieri. Avrei voluto
condividerli con lui, e magari in qualche modo alleviare quel senso di
tristezza che mi era parso percepire nelle sue note. Tuttavia
mi sentivo terribilmente sciocca a parlare di quelle emozioni che
sentivo. «Oggi
mi sento un po’ strana. Non fisicamente, intendo.
Solo… un po’ di malinconia.
Credi che abbia a che fare con l’attacco di panico
dell’altro giorno?» domandai
timorosa.
Mi studiò con
attenzione. «Credo di no. Ti senti
agitata?».
Scossi il capo. «No,
affatto. È più come un deja-vù».
Mi sorrise dolcemente.
«Capita spesso agli umani.
Anche a quelli non in gravidanza e con un disturbo da stress
post-traumatico».
«E ai vampiri?»
chiesi interessata a comprendere il
suo stato d’animo.
Si fece nuovamente pensieroso, lo
sguardo perso. «I
vampiri non provano emozioni così labili come le vostre. O
sono tanto deboli da
non scalfirci, o sono abbastanza forti per cambiarci» disse
concludendo il
discorso.
Pensai per un istante a quelle
parole. Non mi ero mai
soffermata a pensare alle conseguenze di quello che mi aveva fatto
Jacob su
Edward, troppo concentrata sulla mia stessa fragilità. E se
lo avesse cambiato per
sempre?
«Cosa posso fare per
te?» domandai preoccupata,
studiando il suo viso.
Mi sorrise. «Te
l’ho detto. Stare con me, mi basta».
Gli baciai l’angolo della
bocca. «Potresti provare gli
antidepressivi. Funzionano» scherzai, allontanandomi.
Mi bloccò, impedendomi
di allontanarmi troppo. «Ho in
mente qualcosa che funziona meglio» soffiò
malizioso, facendo aumentare il
battito del mio cuore.
«Edward»
ansimai, vinta dal desiderio «non possiamo».
«No» mormorò al mio
orecchio, lasciandomi dei languidi
baci sul collo «però possiamo divertirci un
po’».
Respirai a pieni polmoni il profumo
dello shampoo alla
fragola, frizionando i capelli con un asciugamano. Quel gesto
portò con sé un’ondata
di emozioni felici. Sorrisi canticchiando e afferrando il tubetto di
crema per
le smagliature.
Ne misi un po’ sul palmo
e scostai leggermente
l’asciugamano bianca in cui ero avvolta per posarlo sulla
pancia.
Vidi, attraverso lo specchio, la
mia espressione
diventare vacua e pensierosa.
Tuttavia, non feci in tempo a
rendermi conto della
strana inconsuetudine
di quel mio gesto, che una mano
fredda e perfetta sostituì la mia in un delicato movimento
circolare.
Piegai la testa
all’indietro, posandola sulla sua
spalla e lasciando che le sue labbra marmoree lambissero la pelle
bianca e
pulsante del mio collo. Strinsi la presa sui suoi capelli mentre mi
beavo della
delicata forza con cui il suo abbraccio mi stringeva da dietro.
Ed in quel momento pensai che tutto
potesse davvero
tornare ad essere perfetto, meglio di come fosse mai stato.
Poco dopo, come quasi ogni sera, i Cullen
vennero a trovarci. Tuttavia, a malincuore, rimasi per poco tempo con
loro,
dovendo finire di studiare.
«Bellina, su, resta con
noi!» esclamò Emmett dispiaciuto,
stringendomi nel suo abbraccio.
Sorrisi. «Sai che mi
piacerebbe, ma non posso Emmett,
devo studiare, dai» lo supplicai con un visino dolce.
«Guarda cosa
c’è per te?». Alice mi mise davanti agli
occhi un’ampia fetta di torta.
Immediatamente il mio sguardo
s’illuminò.
«Oh, Alice! Ma tu non eri
quella che le diceva di dover
mangiare sano?» chiese sarcastica Rosalie scatenando
l’ilarità di tutti.
Afferrai il piatto con il dolce,
improvvisamente affamata.
Alice sorrise, furba.
«Sì, ma oggi bisogna
festeggiare, perché domani sarà il penultimo
giorno di reclusione, dopo di che…».
Sollevai per un attimo la
forchettina dal dolce. Dopo di
che…? Osservai l’espressione
compiaciuta sul volto di Alice. Non prometteva nulla di buono.
«Dopo di che…
dobbiamo comprare un intero guardaroba
per te e la bambina!».
Per poco non mi strozzai con il
piccolo boccone che
ancora avevo in bocca, mandando subito un’occhiata
supplicante a Edward.
Mi strinse la mano, accarezzandone
il dorso.
Fu Esme, stretta in un affettuoso
abbraccio con
Carlisle, a parlare. «Alice, ti prego, frena il tuo
entusiasmo. Le cose si
faranno man mano, non è necessario avere tutto subito,
c’è ancora molto tempo e
altri problemi di cui preoccuparci».
Fu palese il cambiamento
d’umore nel suo viso e non mi
sfuggì neppure la schermaglia di occhiate che il piccolo
folletto si scambiò
con Edward. Feci finta di non notarla, concentrandomi sul dolce e
ripulendo il
piatto. Speravo che riuscissero a convincerla e sapevo di essere vile a
non affrontarla
direttamente, ma… Sapevo anche che non sarei riuscita a
cedere ai suoi modi di
fare, come d’altronde era stato per il matrimonio.
Subito dopo aver finito di mangiare
mi congedai da
tutti, sia per studiare, sia perché avevo intenzione di
lasciare Edward un po’
solo con la sua famiglia. Per quanto mi costasse volevo che il nostro
bisogno
di stare insieme tornasse ad essere vero e luminoso, e non malsanamente
morboso.
Tuttavia rimettersi a studiare non fu
facile, soprattutto dopo
aver passato quasi un intero pomeriggio a stretto contatto con lui. Mi
accarezzai la pancia, sorridendo e pensando alle mani e alle labbra del
mio
amore che per una lunga ora avevano coccolato me e la piccola. Quel
momento tra
noi mi aveva rilassato e tranquillizzato molto e non avevo
più sentito quelle
strane emozioni.
Rabbrividii, stupendomi del freddo
che sentivo. Di
solito i riscaldamenti erano sempre in funzione, ma evidentemente non
quella
sera. Però non mi andava di attraversare l’intera
casa per accenderli; dopo
essere tornata dai Cullen
non sarei più riuscita a
tornare a studiare.
Mi alzai dal grande letto della
nostra camera e andai
a prendere una coperta nell’armadio. Sbadigliai, stanca; era
stata una giornata
stancante per una povera umana con la gravidanza vampira come me. Mi
avvolsi
come un bozzolo nella trapunta e mi misi nuovamente a studiare,
tentando di
concentrarmi sul senso delle parole per evitare che scorressero nella
mia mente
come acqua, alleggerite e sospese come bollicine da una più
pensante e
incalzante stanchezza.
Dovetti addormentarmi,
perché cominciai a vedere
immagini che non potevano potenzialmente essere reali, ma che non mi
davano
neppure la certezza di essere finte.
Mi accorsi di un suono strano,
confuso, lontano, che
man mano prendeva sempre più vigore, come la risacca delle
onde in lontananza. Mi
mossi alla ricerca della fonte di quel suono, sempre più
curiosa, spinta dalla
voglia di scoprirne l’origine e la fonte e soprattutto di
dare una spiegazione
al turbamento che sentivo nascere in me.
D’un tratto mi bloccai:
era il suono di un pianto. Il
pianto, un vagito di un neonato, costante, monocorde negli sbalzi e nei
fiati
prorompenti.
«La
bambina!»
pensai, ancora più allarmata, continuando a correre per
quelle che erano
diventate le stanze di casa. Le immagini erano in costante movimento,
fatte di
momenti accelerati e innaturalmente rallentati e gli unici suoni oltre
al
silenzio, erano il vagito e il rumore del mio fiato ansante.
Nonostante corressi, la cercassi,
non mi fermassi, non
riuscivo mai a trovarla, e il pianto aumentava di più e
sempre più. Annaspai,
voltandomi, tentando di individuare la provenienza del suono che ormai
sembrava
provenire da ogni punto, troppo forte per essere distinto.
Mi lasciai cadere a terra, ansante,
mentre tutto
prendeva a turbinare velocemente attorno a me.
Ciò che vidi non appena
aprii gli occhi fu il buio.
Ripresi fiato, portando una mano sul cuore per fermare il suo battito
accelerato. Qualcuno, Edward probabilmente, aveva spento la luce e mi
aveva
sistemato sotto la coperta che avevo usato per avvolgermi.
Chiusi nuovamente gli occhi,
stanca. Era la prima
volta che facevo un sogno collegato al bambino. Mi sentivo
stranissima… come se
i miei pensieri fossero dominati dalle mie sensazioni, come se ci fosse
qualcosa
che mi sfuggisse, qualcosa che non riuscivo a controllare e che mi
stava
facendo sentire una stranissima sensazione di angoscia. Come un cattivo
presentimento, un’immotivata tristezza.
Sentii il lieve cigolio della porta
e percepii appena,
attraverso le palpebre chiuse, la presenza per qualche istante di una
tenue
luce.
Era Edward.
Mi aspettai di sentire, come spesso
accadeva,
scomparire la tristezza, ma così non fu. Sentendo il
materasso abbassarsi e sue
braccia stringermi in un abbraccio mi voltai, stringendomi al suo petto
e
aspettando nel silenzio che l’inquietudine mi abbandonasse.
Passarono i secondi, scanditi
rumorosamente dal
crescente silenzio. Mi sentivo sempre più inquieta, neppure
la presenza di
Edward riusciva a darmi sollievo per concedermi un nuovo sonno.
«Sono andati
via?» mormorai poi debolmente, rompendo
il silenzio che opprimeva la mia mente.
Sentii le sue braccia stringermi
più forte e una sua
mano accarezzarmi i capelli. «Hai avuto un incubo?».
Sopirai, richiudendo gli occhi e
tentando di scacciare
la pesantezza dalla testa. Ovviamente la presenza di Jasper aveva avuto
il suo
effetto. «Non lo sai che non si risponde ad una domanda con
un’altra domanda?»
chiesi, tentando di essere sarcastica.
«Lo sai che mi
preoccupo».
«Certo che lo so, per
questo non ti dico niente» gli
risposi impertinente. Tuttavia
nella mia voce si
sentii il tremolio strano dell’esasperante inquietudine.
Sentii una mano sotto al mento, e
anche nel buio
riuscii a distinguere il bagliore di due occhi ambrati. «Ti
senti triste? Te
l’ho detto, va bene sentirsi tristi, non fartene una
colpa» mi disse serio.
Scossi la testa, divincolandomi
dalla sua presa e
cancellando le assurde lacrime che si erano formate al bordo dei miei
occhi. Mi
tuffai con il viso nel suo petto tentando di calmarmi. Sentivo come se
ci fosse
uno spesso strato di condensa a pulsare sulla mia mente stanca e a cui
non
riuscivo a trovare sollievo, né origine. Perché
mi era capitato, alcune altre
volte, di sentirmi così. Ma poi era bastata la presenza di
Edward, una sua
carezza, una sua parola, per farmi tornare serena.
Ora non era così. Non
riuscivo a controllare quella
tristezza, come se non fosse mia.
E non era come le altre
volte…
Edward fece per parlare di nuovo,
ma lo bloccai.
«Io… ora
passa, va bene?» chiesi debolmente «Resta qui,
resta con me».
Lo sentii sospirare, poi si
rilassò e posò le sue
labbra sulla mia fronte, come a darmi il suo assenso. Sospirai
anch’io, ma non
riuscii a rilassarmi.
Ero bloccata in un recinto di
sensazioni negative da
cui non riuscivo a scappare.
Lasciai istintivamente un bacio sul
suo petto, proprio
all’altezza del cuore che non batteva più. Poi
posai un orecchio ad ascoltare
l’eco del mio battito che si perdeva dentro di lui,
animandolo; solo così, dopo
un tempo infinito, riuscii a trovare pace nel sonno.
Riemergendo dal sonno mi ritrovai
beatamente stesa su
un marmoreo e ghiacciato materasso, completamente avvolta da una spessa
coperta.
Avvertii il contatto con il corpo
di Edward, il suo
profumo, la perfezione dei suoi muscoli. Sentii, con il senso
dell’amore, la
sua aura perfetta.
La mia bocca si piegò
dolcemente in un sorriso.
Sereno, felice, luminoso. Nessuna traccia, neppure quasi il ricordo,
delle
emozioni vissute la sera precedente.
Sentii una mano sui capelli
accarezzarmi dolcemente.
Aprii gli occhi, ruotando
completamente e sistemandomi
seduta su di lui con gesti lenti ma fluidi, mentre la coperta in cui
ero
avvolta scivolava automaticamente accanto a noi. Era uno spettacolo, al
mattino
la sua visione per me faceva ancora parte del mondo dei sogni. Mi
faceva venire
voglia di restarmene tutto il giorno al letto, tentando di scaldare
quelle
labbra di ghiaccio e di spettinare ancor di più quei
morbidissimi capelli di
seta preziosa.
Dopo un po’ di tempo,
accertatosi forse che della
tristezza sul mio viso non c’era neppure l’ombra,
fece piegare le sue labbra
nel suo splendido mezzo sorriso prudente.
Avevo deciso: sarei rimasta a
letto! Mi chinai con
busto, fino a far avvicinare a pochi centimetri le nostre labbra.
«Nuova giornata di
studio?» mi chiese con la sua voce
tiepida, accarezzandomi un fianco con la punta delle dita.
Rabbrividii, facendo tremolare le
mie labbra
pericolosamente vicine alle sue. «No», alitai, fin
troppo vicina alla sua
bocca. Gli rivolsi uno sguardo famelico, poi sorrisi maliziosa.
«Oggi sia la
bambina - che non disturberà la mamma con le nausee -, sia
la mamma - che non
vede l’ora - si prenderanno cura del
papà» mormorai facendo coincidere i
profili delle nostre bocche.
Sentii la sua tendersi in un
sorriso, mentre lambivo
delicatamente il suo labbro inferiore, stringendolo forte dai capelli.
«Davvero?»
sussurrò roco, stringendo, con meno irruenza di me, il mio
volto, rallentando il
ritmo del bacio e aumentandone la passionalità.
Ansimai, scossa, rituffandomi su
quel tripudio di
bellezza. «Edward, ti amo» mormorai, scendendo con
le labbra a baciare il
collo.
Sentii il suo fiato freddo sulla
spalla. «Anch’io
Bella, anch’io» mormorò roco, baciandomi
anche lui.
Quando i baci non mi bastarono
più, infilai le mani
sotto la sua maglietta, ripercorrendo gli addominali scolpiti con
movimenti
veloci e febbrili e beandomi del freddo che mi donava, ma che comunque
non
bastava a contrastare il caldo che sentivo crescere dentro. Poggiai la
fronte
sulla sua spalla, ansimando infastidita. «Ho… ho
caldo…» mi lamentai.
Sentii le mani di Edward sui bordi
della maglietta del
pigiama, e poco dopo mi ritrovai senza.
Lo ringraziai con un sorriso,
riprendendo la mia opera
di adorazione della sua pelle centimetro per centimetro. Poi lasciai
che
invertisse le posizioni e che si prendesse cura di me. Scese con la
bocca a
lambire il decoltè.
Ansimai, reclinando il capo. Solo
ora che lo stavo
vivendo mi accorgevo come si mancassero quei momenti fra di noi. E
comunque non
saremmo potuti andare molto lontano…
Si bloccò ad un mio
gemito, per un attimo spaventato.
«Ti… ti ho fatto male?» mi chiese
ansante e roco, spostando la mano dal lato
del mio seno, dove albergava fino a qualche istante prima.
La bloccai con la mia, riportandola
al suo posto.
«Continua» biascicai, baciandolo.
Dopo qualche istante, prudente,
ricominciò a lasciarsi
andare e ad accarezzarmi con più attenzione, fino a
ritornare al ritmo iniziale.
Ero così coinvolta dal
tornado di emozioni, che quasi
non mi resi conto dello stridente senso di nausea che in pochissimi
istanti
prese il sopravvento. Mi defilai velocemente dalla sua presa,
nascondendo il
seno con un braccio e coprendomi la bocca con l’altro.
Sputai i succhi gastrici, unico
contenuto del mio
stomaco, nel lavandino, sentendo immediatamente la presenza di Edward
dietro di
me. Mi avvolse nella coperta, aspettando che mi sciacquassi la bocca.
Sbuffai, infilando la maglietta del
pigiama e lasciandomi
poi andare sul suo petto. Ormai il “bacio del
buongiorno” era stato rovinato. «Bimba
cattiva» mormorai, accarezzandomi la pancia.
«No, non la
rimproverare» fece Edward, posando una sua
mano sulle mie. Poi si piegò, fino a trovarsi con la testa
all’altezza del
ventre. «Sono papà e la mamma che fanno i monelli,
vero?».
Sembrava così
tranquillo, rilassato, senza neppure una
traccia del malumore che ci aveva vinto il giorno precedente. Annusai
l’aria,
come se l’aroma della felicità fosse percepibile.
Se ancora qualcosa lo turbava
avrei aspettato che si confidasse a me, come sua moglie. Volevo che mi
vedesse
abbastanza forte da poterlo aiutare. Sollevò il viso sul
mio, notando che lo
stavo osservando. Mi sorrise. «Stai bene?».
Annuii. «Sì,
meglio di ieri, è tutto passato. E tu?»
mi feci coraggio a chiedergli.
Sospirò, sollevandosi ad
osservarmi. «Io cosa?».
Gli carezzai i capelli.
«So che ieri è stato difficile
ciò che ha detto mio padre, ma tu non ti lasci mai scalfire
da ciò che pensa la
gente, insomma… se dovessi farti influenzare da tutti i
pensieri che senti»
borbottai, non riuscendo neppure ad immaginare quando fosse difficile
per lui.
Fece spallucce.
«Quindi?».
Lo fissai, seria. «Dimmi
che non ci hai pensato».
«A cosa?»
domandò innocentemente, ma sapevo che aveva
capito.
Incrociai le braccia al petto.
«Al fatto che potessero
avere ragione. Che questa bambina sia di Jacob».
«No» rispose troppo velocemente.
«Oh,
Edward…».
Sospirò, portandosi le
mani alla testa. «Solo per una
frazione di un secondo, neppure il tempo di battere le
palpebre».
«Ma ti ha fatto molto
male» dissi preoccupata,
carezzandogli una guancia.
Si lasciò andare contro
la mia mano. «Quando
all’inizio pensavamo che fosse suo mi ha distrutto
più che altro per l’idea di
quello che poteva averti fatto. Ma avrei accettato un bambino anche se
fosse
stato suo figlio. Però all’epoca non avevo mai
pensato all’idea di essere
padre, di avere una famiglia mia. Adesso, invece» sorrise
debolmente,
carezzandomi appena la pancia «non posso neppure pensare che
mi possa rubare
mia figlia».
«Non
può» tentai di convincerlo
«perché è tua figlia».
«Lo so»
mormorò, chiudendo le palpebre.
Cacciai un fiato. «Cosa
dobbiamo fare ancora? C’è la
pelle gelida, l’ecografia con quella strana membrana, le
ecografie normali di
Emily. E poi» aggiunsi, lasciandogli un bacio a fior di
labbra «chi se non tua
figlia avrebbe cercato quasi di dissanguarmi appena una settimana
fa?».
Sorrise amaramente, riaprendo gli
occhi. Era già stato
abbastanza difficile accettare l’idea che avesse la forza di
farmi del male e
mandare avanti la gravidanza nonostante tutto. Come potevamo mettere di
nuovo
tutto in discussione?
«Ehi» soffiai
sulle sue labbra «se ne hai bisogno sono
pronta a fare quel test invasivo di cui parlava Carlisle. Voglio che tu
stia
bene».
«Davvero?»
domandò scrutandomi «quello che si fa con
quell’ago di 15 centimetri conficcato nella
pancia?» fece, e quando rabbrividii
capii dal sorriso che non riuscì a nascondere che mi stava
prendendo in giro.
Ridacchiò, stemperando
l’atmosfera. «No, Bella.
Davvero. Non mi serve alcun test rischioso per te e la bambina per
sapere che
questa piccola succhiasangue
è mia figlia. Andiamo,
così potrai fare colazione e prendere le tue
medicine».
«Urrà»
scherzai, lasciandomi guidare da lui verso la
cucina, felice di essere riuscita a parlare dei nostri sentimenti con
mio
marito.
«Allora, vuoi
studiare?» mi chiese più tardi,
concentrato ad intrecciare le sue dita con le mie.
Finii di bere il mio latte.
«Non so, hai una proposta
migliore?» rilanciai.
Fece spallucce, scuotendo il capo.
Poi si portò la mia
mano con cui stava giocando alle labbra e chiuse gli occhi.
Per come avevo organizzato il
programma di studi avevo
deciso di potermi permettere due giorni di riposo alla settimana. Ora
capivo,
dall’esperienza del giorno precedente, che almeno in questo
periodo avrei
dovuto rallentare un po’ il ritmo. Sia perché non
ero più abituata, sia perché
avevo capito che Edward aveva bisogno che mi dedicassi a lui. Volevo
mettere un
po’ di ordine intorno a me.
Mi sollevai, prendendo con me la
tazza. La presa di
Edward si strinse intorno alla mia mano e prima che me ne rendessi
conto mi
trovai seduta sulla sedia senza più la tazza fra le mani.
«Ehi» mormorai
risentita, squadrandolo mentre
sciacquava la tazza nel lavello.
«Stai troppo tempo in
piedi, l’ha detto anche
Carlisle. Riposati» disse tranquillo.
«Ma dai!». Mi
lasciai andare sul tavolo, sbuffando. «Domani
faremo i controlli e poi… finalmente…».
Comparve di nuovo davanti a me.
«Finalmente niente. Bella,
lo sai che anche se risultasse che va tutto bene dovrai ricominciare
con calma,
senza strafare. È una gravidanza difficile, tu sei stanca e
provata e ci sono
molte cose che potrebbero metterci in difficoltà
e…».
Smisi di ascoltare le sue idiozie e
mi ritrassi,
accucciata, sul tavolo, fissandolo con aria di sfida e imitando un
piccolo
ruggito.
Sulle sue labbra comparve un
sorriso sghembo. «Ma che
bel micio» scherzò. Poi in un secondo si
accucciò in posizione d’attacco -
molto più elegante di quella che avevo assunto io - e fece
un vero ruggito coi
fiocchi, che mi fece sobbalzare spaventata.
«Accidenti»
biascicai, portandomi una mano al cuore,
mentre intanto se la rideva di gusto.
Andai a cambiarmi, indossando
indumenti comodi e
larghi. Ruotai, osservandomi allo specchio. Era evidente come i fianchi
fossero
più larghi e la pancia lievemente più
pronunciata. E poi… c’era stato un
notevole aumento di volume sul seno e sul sedere. Chissà se
la cosa dispiaceva
a Edward…
Arrossii, ripensando a quella
mattina. Non credo gli
dispiacesse.
Decidemmo di passare la mattinata a
fare una torta. O
meglio. Lui faceva la torta e io l’osservavo e lo guidavo
nell’opera, comodamente
seduta sullo sgabello della cucina. Non appena dimostravo
l’intenzione di alzarmi
o per afferrare un oggetto, o per andare a fare qualcosa, subito mi
precedeva,
interrompeva la produzione della torta e lo faceva lui per me.
Ma come faceva ad accorgersene
sempre? Stupidi sensi
da vampiro. Tuttavia mi
sentivo estremamente felice. Ogni
cosa era un gioco, uno scherzo, un motivo per ridere. Mi sentivo serena
e
capace di riflettere lucidamente.
Risi. «Basta, basta ti
prego! Non ce la faccio».
Fermò e sue dita che mi
stavano solleticando sui
fianchi. «Ritratta quello che hai detto»
m’intimò scherzoso.
«Non
sembri
un vecchietto» biascicai, osservando i suoi capelli sporchi
di farina e
tentando di contenere un’altra ondata di risate.
Lui notò la mia
espressione e fece per ricominciare a
solleticarmi, ma lo presi in contropiede e misi le mie dita sui suoi
fianchi.
M’imbronciai quando non rise. «Ehi! Ma non
è giusto! Non dirmi che i vampiri
non soffrono il solletico!».
Sghignazzò.
«No, non sono i vampiri che non lo
soffrono, sono io!» esclamò, ricominciando la sua
opera.
Dopo pranzo decisi di andare a
riposarmi un po’. La
felice mattinata mi aveva stancato abbastanza, e ancora non ero
riuscita a
togliermi l’abitudine di dormire nel pomeriggio. Mi
accoccolai meglio fra le
coperte, stringendomi il morbido cuscino e scivolando nel mondo dei
sogni senza
incubi.
A svegliarmi fu Edward e
l’aroma della nostra torta.
Fiutai l’aria,
stiracchiandomi. «Mmm,
che profumo» biascicai «che fame»
sbadigliai.
Incontrai i suoi occhi ambra.
«Cosa aspetti ad andare
a prenderne una fetta?» mi chiese con un sorriso.
Mi umettai le labbra, mettendomi
seduta e osservando
le coperte sparse attorno a me in maniera del tutto irregolare. Avrei
dovuto
cambiare le lenzuola…
«Vai, ci penso
io!» scherzò dandomi una pacca sul
sedere.
«Davvero?».
Sorrise.
«Certo».
«Grazie» dissi
velocemente, lasciandogli un
altrettanto rapido bacio sulle labbra e correndo in cucina, ansiosa di
assaggiare quella golosità.
Trovai la torta farcita e decorata
sul ripiano. Con
l’acquolina in bocca afferrai un coltello. «Amore
scusa» dissi, alzando
inutilmente la voce affinché mi sentisse «sai che
lo farei io, ma visto che non
ho i super-poteri e quella che si sta beccando la gravidanza vampira
con nausea
inesauribile sono io» lo schernii, tagliando la fetta di
torta «beh, sarebbe
uno spreco che lo facessi io, visto che tu ci impieghi un terzo del mio
tempo»
feci, sistemandola sul piattino «non trovi?!».
Afferrai il cucchiaino e lo misi
sul piattino, avviandomi in soggiorno in attesa di una sua sagace
risposta.
Dopo tre passi mi resi conto che
non avevo preso un
tovagliolo, così mi voltai, facendo per ritornare indietro.
Inavvertitamente il
piattino mi scivolò dalle mani, cadendo a terra e
frantumandosi in più pezzi.
Aprii la bocca, sconcertata.
Il rumore si ripeté
nelle mie orecchie ancora. Diverso.
E un’altra volta. Come l’eco lontano
di un suono già sentito. Diverso.
Contemporaneamente Edward comparve
dinanzi a me,
osservando prima la mia espressione e poi il piattino, scoppiando a
ridere. «Era
troppo tempo che la tua goffaggine non si faceva sentire»
biascicò fra le
risate.
Sentii le sue parole come se fossi
immersa nell’acqua.
Poi, inevitabilmente, singhiozzai.
Immediatamente smise di ridere,
facendosi serio. «Tesoro,
su, non fare così. Stavo scherzando» mi disse
gentilmente, come se si sentisse
in colpa.
Piansi più forte.
Una ruga comparve sul suo volto,
mentre mi prendeva le
mani fra le sue. «Bella? Dai, mi dispiace. Non è
successo nulla, davvero».
Vedendo che non la smettevo di piangere si piegò a terra e
raccolse i cocci del
piattino, pulendo poi i residui di panna. Mi fissò con un
sorriso, come se quel
gesto potesse farmi smettere. «Ecco, vedi, sta’
tranquilla. È tutto a posto
ora» sussurrò dolcemente.
Singhiozzai, facendomi stringere
dalle sue braccia e
lasciando liberamente scivolare le lacrime, senza intenzione di
smettere.
«Shh,
shh,
forza». Edward mi strinse forte e non disse nulla per un
po’, ma poi, notando
che i miei lamenti si facevano sempre più acuti, si
liberò dalla mia debole e
inconsistente presa, fissandomi negli occhi. «Bella.
Cos’hai?».
Non risposi, continuando a
piangere.
«È per la
torta? È per quello? Te ne prendo un’altra
fetta, ce n’è una intera» fece, cercando
contemporaneamente una causa più
plausibile. «È per il piattino? Ce
n’è un’altra confezione identica ancora
intatta, ne puoi rompere quanti ne vuoi! Amore… dimmi
cos’hai!».
Singhiozzai, scossa dal pianto.
Mi mise un braccio intorno alla
schiena, sorreggendomi
e tenendomi le mani con l’altro. «Hai dolore? Ti
senti male?» mi chiese
ansioso.
Mi resi conto che la sua
preoccupazione stava
crescendo senza controllo, così come il ritmo del mio
pianto. Ma come avrei
potuto rispondergli, se non sapevo neppure io da dove era giunta quella
tristezza che mi stava man mano affogando sempre più?
«Bella, tesoro,
rispondimi, ti prego» fece, posando
una mano sul ventre, agitato. Poi la passò sulla mia fronte
e sul polso,
tentando di individuare la causa del mio pianto.
Mi sentivo completamente in balia
della tristezza,
spaventosamente simile a quella che avevo provato il giorno precedente.
Con la
differenza che, questa volta, mi sentivo come costretta a sfogare il
dolore
attraverso le lacrime. Come se quella fosse l’unica via
possibile per
liberarmene.
Ma era come voler svuotare un fiume
con una cannuccia.
Un’impresa titanica.
Sentii le sue mani fredde intorno
al viso. «Bella, te
ne prego, te ne prego, rispondimi. Ti senti male? Cosa ti fa
male?» mi chiese
ancora, sempre più agitato.
Non so come, in
quell’immensa balia, riuscii a trovare
la forza di reagire. Forse aggrappandomi a un altro tipo di dolore.
Quello
derivato dall’angoscia nelle sue parole.
Scossi il capo, breve ma
determinata.
Fece un sospiro, stringendomi forte
contro il suo
petto. Poi mi posò le mani sulle spalle, allontanandomi per
guardarmi negli
occhi. «Tesoro» cominciò, più
lentamente «prova a calmarti. Qualunque cosa tu
stia provando in questo momento non è reale. Calmati, ti
prometto che passerà»
disse, pensando che fosse un ennesimo attacco di panico.
«N-no»
singhiozzai, soffocata dal pianto «non ci
riesco».
Vidi la sua espressione contrarsi.
«Shh,
sì che ce la fai, sei bravissima e ce la fai. Su,
avanti, respira piano, piano, non è difficile.
Calmati».
Provai a imporre la mia
volontà, a fare come diceva, ripetermi
che lui era in grado di calmarmi e che presto sarei stata meglio.
Respirai a
fondo, fra i singhiozzi, respingendolo. Inaspettato fu quello che
accadde.
Ritornò su con lo stesso vigore e la stessa potenza con cui
l’avevo mandato
via. Non funzionò. Perché per qualche strano
motivo sentivo che non era come le
altre volte.
«Oh, Bella»
mormorò afflitto, ritornando ad
abbracciarmi e a cullarmi. Vedevo il dolore sul suo volto al pensiero
che stavo
di nuovo male, che i miei attacchi di panico erano ritornati a
tormentarmi, ed
insieme vedevo la determinazione e la pazienza di volermi aiutare.
«N-non ce la
faccio» singhiozzai più forte, riprovando
a scacciare la tristezza. Quella, rispondendo con la stessa energia,
tornò ad
affliggermi. Ogni tentativo di liberarmene era vano. Era come se stessi
spingendo una grossa molla; quanta la forza impiegata per comprimerla,
tanta
era quella con cui rispondeva, distendendosi.
Alla fine, Edward, esasperato, mi
prese per la vita,
tenendomi stretta. «Bella, non va bene che ti agiti
così. Pensa alla bambina».
«M-mi dispiace»
piansi, disperata. Esasperata tentai
ancora di scacciare la tristezza, inutilmente.
«Accidenti»
mormorò, serrando la mascella, afflitto. Mi
prese fra le braccia e mi portò in un istante in camera da
letto, stendendomi
fra le coperte pulite. Mi baciò le mani, la fronte, le
labbra. Mi cullò in
silenzio, aspettando pazientemente che i miei lamenti si calmassero,
come
avevano sempre fatto in tutti quei dannati attacchi di panico che mi
avevano
tormentata nell’ultimo mese.
Il mio pianto era forte, doloroso.
Un pianto sonoro e
disperato, che si assopisce solo nella spossatezza.
Ma la stanchezza non arrivava.
«Bella, amore, ti prego.
Stai piangendo da un’ora. Dimmi cosa senti, posso aiutarti.
Passerà anche
questa volta».
«M-mi sento
così t-triste» piansi stanca. Avevo gli
occhi rossi e gonfi e mi sentivo terribilmente intontita.
«Per cosa?» mi
domandò afflitto «cos’è
successo? Ho
fatto qualcosa di sbagliato?».
Scossi il capo. «Non lo
so» singhiozzai, piegandomi su
me stessa. Non riuscivo e non potevo pensare a cosa mi stesse
accadendo. Mi
sentivo totalizzata dalle emozioni che sentivo, ma se fosse stato un
attacco di
panico sarebbe stato di sicuro il più lungo e doloroso della
mia vita.
Ricominciò a cullarmi,
agitato, scostandomi i capelli
dalla fronte. Infine si
staccò da me, facendo per
alzarsi.
Piansi, ancora più
forte, stringendo con tutta la
forza che avevo la sua camicia. Non volevo andasse via. Non poteva. Non
doveva.
Questo lo sentivo dentro me. L’istinto di averlo accanto.
Mi fissò, sbalordito
della mia faccia disperata. Poi
si sedette nuovamente sul letto, prendendomi fra le braccia.
«Non vado via, sto
qui. Non ti preoccupare» mormorò, baciandomi la
fronte.
Mi portò con
sé in soggiorno, per prendere il
telefono. Poi mi mise sulle sue gambe, sedendosi sul bordo del letto e
facendomi poggiare la testa sul suo petto. Non smisi mai di piangere.
Compose velocemente un numero al
quale risposero
brevemente. A causa dell’intontimento, dal rumore assurdo
causato dal mio
pianto, e dalla velocità con cui parlava, colsi solo alcune
parole. Avevo
capito che Edward cercava Carlisle.
«Esme…
no… sì, non so…» mi rivolse
un’occhiata, «Sì. Sì,
ti aspetto». Chiuse la comunicazione e riprese a cullarmi,
cancellando,
inutilmente, le lacrime che ormai mi inondavano tutto il volto, fin sul
collo.
Trasalii quando sentii bussare alla
porta della
camera. Vidi il volto dolce mi Esme che mi fissava. Si sedette sul
letto, accanto
a Edward, con movimenti lenti e umani. Poi prese ad accarezzarmi la
fronte. «Cos’è
successo?» chiese con calma a lui.
Sospirò, esasperato.
«Non so. So solo che le è caduto
il piattino con la torta e poi ha iniziato a piangere. Non riesco a
capire».
Singhiozzai, nascondendo il volto
sul suo petto e
lasciando che continuassero a parlare a velocità non udibile
per le mie
orecchie umane.
«Amore» fece
Edward richiamando la mia attenzione «Esme
ti ha portato le tue compresse. Presto starai meglio».
Scossi il capo fra i singhiozzi
inconsolabili. «N-non
è c-come le altre vol-te.
N-on v-voglio
ricomincia-re».
Posò il mento sulla mia
fronte, cullandomi avanti e
indietro, freneticamente. «Non è colpa tua Bella,
non è colpa tua. Ma adesso
devi stare meglio, capisci? Stai troppo male, troppo. Non riesco ad
aiutarti in
altri modi».
Mi lasciai andare fra le sue
braccia, disperata. Mi
sentivo così sconfitta da me stessa e da quello che stava
succedendo alla mia
mente ed al mio corpo senza che potessi controllarlo.
Sentii una mano fredda sulle mie.
«Tesoro, stai
tranquilla. Ti porto le tue compresse e una camomilla, torno
subito» fece
infine con un sorriso rassicurante.
Mi fidai di Edward. Tremante mandai
giù due compresse,
il doppio della dose che avevo preso ultimamente. Nonostante tutto, i
fremiti e
i singhiozzi, riuscii sorso dopo sorso a bere la mia camomilla,
sperando e
volendo che mi facesse smettere di piangere.
Non funzionò.
Né la camomilla né gli antidepressivi mi
diedero alcuna sorta di sollievo. L’esasperazione aveva
raggiunto livelli
incredibili. Mi faceva male la testa, come se dentro ci fosse un
martello
pneumatico. Tremavo come una foglia, in balia dei fremiti.
«Carlisle? Fra quanto
tempo arriverà?» domandò Edward
fra i denti.
«È ancora in
sala operatoria» gli rispose Esme «ora
provo a richiamarlo, ma calmati. Se tu ti agiti lei sta
peggio».
Volevo solo liberarmi del pianto.
Della tristezza. Del
dolore. Non ce la facevo più.
Dopo un po’ sentii le
voci confuse degli altri.
Rosalie, Emmett, Alice, Jasper.
«Jasper,
finalmente» sospirò Edward preoccupato.
Il mio fratello vampiro mi
fissò sconvolto, facendo
passare lo sguardo da me a Edward, colpito quanto lui. «Non
ho mai sentito
tutto questo dolore» farfugliò esterrefatto.
«Ti prego, fa’
qualcosa» fece Edward, colpito dalla
profondità del mio dolore.
Annuì, avvicinandosi.
Sentii una mano sulla spalla e
tentai di soffocare
quello che pensavo sarebbe stato l’ultimo singhiozzo. Ma la
tanta agognata
quiete non arrivò. Com’era possibile?
«Non ci riesco»
mi voltai fino a fissare la sua
espressione sgomenta, simile a quella che c’era sul volto
degli altri e anche
di Edward. «Edward, non è come al
solito» disse serio, studiandomi «Non è
un
normale attacco di panico» fece a voce bassa, come se gli
facesse male starmi
accanto.
«Cos’è
allora?» chiese preoccupato, stringendomi più
forte.
«Non è paura.
Sento così tanto dolore» sussurrò,
serrando le palpebre.
Edward si chinò a
cancellare le nuove lacrime,
baciando le guance, nel vano tentativo di calmare i sempre nuovi
singhiozzi.
«Può essere
una crisi d’astinenza?» domandò
preoccupato a Rosalie.
«È
strano» fece in difficoltà, studiandomi
«è stata
bene per quasi due settimane. Quanto le hai dato di sertralina?».
«100
milligrammi».
Rosalie mi studiò,
preoccupata. «Diamogliene altri 100»
propose.
Edward sospirò,
contrariato. Non prendevo quella dose
da quasi un mese. «Non voglio mandarla in
overdose».
«Edward»
provò a convincerlo «non vedo altre
soluzioni».
Sospirò, poi
annuì seccamente. Avvicinò la bocca al
mio orecchio. «Te la senti? So che non vuoi ricominciare, ma
abbiamo bisogno di
aiutarti in qualche modo, va bene?».
Singhiozzai, non sapendo cosa
rispondere.
Mi strinse più forte.
«Ti prometto che starai meglio»
fece disperato, non riuscendo più a credere neppure alle sue
parole.
Mi lasciai convincere a prendere
altre due compresse,
ma non cambiò, ancora, nulla. Iniziai solo a tremare
più forte e sentii il
cuore battere più veloce, mentre il dolore rimaneva
lì, schiacciandomi e
sovrastandomi con il suo peso.
«Com’è
possibile che non abbia funzionato?» chiese
Esme preoccupata. Mi carezzò la fronte «Ha un
po’ di febbre».
Edward posò la guancia
contro la mia fronte, ma anche
quel piccolo sollievo non riuscì a farmi stare meglio.
«È stremata».
«Tu non vedi
niente?» chiese Rosalie ad Alice.
Lei scosse il capo, afflitta e
disorientata. «No, mi
dispiace. Non ho mai avuto un buco nero così lungo su di
lei».
Piansi di più.
Disperata, esasperata. Sull’orlo di
ogni sopportazione.
«Edward, falla venire da
me, le posso parlare» propose
Rosalie sottovoce, aprendo le braccia come per accogliermi.
Mi strinsi con tutta la mia forza a
Edward, nonostante
tutto, determinata a non lasciarlo andare per nessun motivo al mondo.
Lui sospirò, baciandomi
la fronte. «Non vuole» disse,
scuotendo la testa. Mi sollevò in braccio, adagiandomi fra
le lenzuola e
prendendo ad accarezzarmi la schiena, tentando un altro modo per farmi
smettere
di piangere.
Esme era al telefono. Alice,
invece, stava seduta per
terra, tenendosi due mani sulle orecchie per non sentire i miei lamenti
acuti e
insistenti; accanto, Emmett, come lei in impaziente e sconfortata
attesa. Vidi anche
Jasper, in un angolo, con la testa fra le mani, concentrato su
qualcosa.
«Ti prego»
gemette Edward dopo un po’, volgendosi
verso Jasper «non posso vederla così e sentire il
suo dolore. Non ce la
faccio».
Jasper si alzò in piedi
e annuì velocemente. Alice si
strinse al suo braccio. «Ci allontaniamo. Saremo abbastanza
vicini da venire
subito per ogni evenienza» fece, avvicinandosi a lasciarmi
una lievissima
carezza, triste.
Edward annuì, il viso
addolorato. «Grazie». Sentii la
presa di mio marito farsi più salda e protettiva.
«Vi prego»
singhiozzai sfinita «f-fate qualcosa».
Edward irrigidì la
mascella, disperato ed impotente.
«Dov’è Carlisle?»
domandò fra i denti.
«Edward, è
inutile, non risponde» disse Esme.
«Continua a
provare» sbottò agitato.
Annuì, riprendendo il
telefono e scomparendo
velocemente nel soggiorno.
«Non c-ce la
faccio» singhiozzai roca «v-vi prego».
«Shh,
lo so, lo so. Hai
ragione» tentò di consolarmi Edward.
Rosalie, con un fazzoletto, mi
asciugò le lacrime. «Tesoro,
te la senti di parlarmi? Di dirmi cosa provi? Potrebbe
aiutarti».
«N-no» piansi,
il petto dolente per i singhiozzi senza
fine.
La sorella lo guardò,
preoccupata.
«Sono più di
due ore» fece Edward, rispondendo alla
sua domanda mentale.
Singhiozzai, strofinando il volto
sulla sua camicia
ormai zuppa.
«Che ne dici se provi a
farla dormire un po’? Potrebbe
funzionare» propose Rosalie.
In effetti, mi sentivo esausta.
Quasi priva di forze. Ma
per quanto ne sapevo, non sarei riuscita ad addormentarmi facilmente.
Annuii,
disposta a qualunque cosa per stare meglio.
Edward, mi prese in braccio,
sollevandosi in piedi,
mentre Rose chiudeva tutte le tende per far cadere la stanza nella
penombra. Prese
a cullarmi, avanti e indentro per la stanza, canticchiandomi la mia
ninnananna.
Emmett e Rosalie uscirono, sperando che così sarei riuscita
ad assopirmi.
Il pianto, strascicato e stremato,
come da me
previsto, predurava,
senza darmi tregua. Era come una
necessità. Una necessità, un istinto dal quale
non potevo sfuggire.
Mi avvolse nella coperta,
ricominciando a cullarmi. «Amore,
non piangere, ci sono qui io con te. Ti prometto che
passerà. Non piangere. Mi
uccide vederti così. Scopriremo presto cosa sta succedendo,
te lo prometto»
sussurrò, baciandomi la punta del naso, bagnata anche
quella.
Non volevo fargli vedere la
profondità della mia
disperazione perché sapevo quanto lo facesse soffrire, ma
non sapevo come fare
altrimenti.
Infine sentii i muscoli di Edward
rilassarsi, mentre
sospirava. Dopo pochi secondi
la porta si aprì,
facendo entrare Carlisle, insieme a un po’ di luce.
«Ti prego
Carlisle» fece Edward, guardando il padre e
sedendosi sul letto con me su. «Fa’
qualcosa».
Carlisle annuì, serio,
prima di rivolgermi uno sguardo
rassicurante. «Quanto tempo fa le hai dato la sertralina?».
«L’ultima dose
quasi un’ora fa. Le ho dato 200 mg in
tutto, pensavo che fosse una crisi d’astinenza. Non mi sembra
un normale
attacco di panico, non riesce a calmarsi con nulla».
Mi esaminò gli occhi, il
battito, l’addome. «Altri
sintomi?».
«M-mi sento
c-così male. T-ti prego» singhiozzai,
stringendogli
una mano.
«Bella, ti faremo stare
meglio, lo prometto» disse
rassicurante, guardandomi negli occhi e ricambiando la mia presa.
«Ha vomitato appena
sveglia e prima aveva mal di
testa. Ora ha un po’ di febbre, è stremata. Ma
è stata perfettamente tranquilla
per tutta la mattina» fece frustrato «Carlisle,
anche ieri sera, quando siete
andati via, era triste. Diceva di avere uno strano presentimento. Mai
poi
stamattina sembrava tutto passato. E poi questo,
all’improvviso. Perché?».
«Potrebbe essere una
crisi d’astinenza, ma è strano. E
comunque adesso avrebbe dovuto stare già meglio, anche con
il potere di Jasper.
Mi sorprende che non abbia funzionato. Proverò a
somministrarle una
benzodiazepina» convenne infine.
Tremai, stremata e disorientata,
sentendo il profumo di
Edward. Piansi a pieni polmoni quando sentii il doloroso contatto con
l’ago.
La presa di Edward si fece
più stretta per impedirmi
di muovermi. «Shh,
è quasi finito, non è niente. È
quasi finito» mi sussurrò ad un orecchio,
rassicurandomi.
Rimasi a piangere, ancora, sulla
sua spalla. Ero
talmente intontita che a fatica distinguevo i contorni delle persone,
le cose. La
razionalità era quasi del tutto scomparsa. Quasi a stento
capivo dove mi
trovavo. Ma non mi addormentavo, e non smettevo di piangere.
Quello, e l’istinto di
avere Edward accanto, mi
dominavano completamente.
Sentii di nuovo le voci, nella
camera.
«Non avrebbe dovuto fare
già effetto?» chiese Edward,
preoccupato.
«Avrebbe
dovuto».
Sentii una mano ghiacciata sulla
fronte. «Povero
tesoro» sussurrò Esme.
Mi sentii scuotere una mano e vidi
il volto di Emmett
che mi fissava a disagio. «Bellina, cara. Sai che ci stai
spaccando i
timpani?».
Sapevo che
quell’osservazione era stata fatta con
tutta l’intenzione di farmi ridere, ma scatenò
l’esatto effetto contrario.
«Emmett, sei uno
zuccone» lo rimproverò Rosalie,
mentre Edward tentava di calmare la perennemente nuova ondata di
lacrime e di
singhiozzi.
«Jasper?»
chiese Carlisle.
«Si sono allontanati. Non
riusciva a pensare qui
dentro, e neppure io» replicò Edward stentoreo.
Mio suocero mi guardò,
preoccupato. «Richiamiamolo.
Non so cosa altro fare, vale la pena che lui faccia un altro tentativo
dopo le
benzodiazepine».
«Vado io» fece
Esme, scomparendo nel soggiorno.
Jasper e Alice tornarono presto da
noi come avevano
promesso. Alice non aveva ancora visto nulla e Jasper era sconvolto
dalla nuova
ondata di disperazione con cui lo investii.
«Non funziona. Non so
cosa fare, mi dispiace» mormorò
sconfortato.
Sapevo che stava sentendo tutta la
mia sofferenza e mi
dispiaceva davvero tanto. Impulsivamente mi voltai verso mio marito,
tendendo
le braccia verso di lui per farmi prendere in braccio.
Con un sospiro mi strinse
nuovamente al suo petto.
«Accidenti, Bella. Sembri
una bambina» borbottò
Emmett, ancora imbronciato per il rimprovero della moglie.
Vidi, attraverso le lacrime,
l’espressione di Jasper
mutare in sorpresa come se finalmente avesse avuto
un’illuminazione.
Edward, sotto di me,
s’irrigidì. «Cos’è
Jasper?»
chiese velocemente.
Sfregai il viso contro la camicia
di Edward, stringendo
maggiormente i pugni sulla stoffa in una disperata richiesta
d’aiuto.
«Io,
credo…» mormorò Jasper sorpreso.
Mio marito lo guardò,
sconvolto quanto lui. «Provaci.
Ti prego, provaci».
«Cosa sta
succedendo?» domandò Rosalie sorpresa.
Jasper si avvicinò con
estrema cautela, come se ogni
centimetro più vicino a me fosse un centinaio di volte
più doloroso. A
differenza di quello che aveva fatto prima non posò la mano
sulla mia spalla.
Edward sollevò la mia
maglietta di qualche centimetro,
quanto bastava per scoprire la pancia.
Jasper, cautamente, posò
la punta di un dito sulla mia
pelle nuda.
Sentii uno stranissimo fremito
attraversarmi, e i miei
singhiozzi si fermarono per un attimo, sconvolgendomi, per riprendere
immediatamente appena Jasper sollevò la mano.
«Jasper»
sibilò Edward sconvolto.
Si fece coraggio, e posò
la sua mano completamente
sulla mia pancia fredda. Mi sentii improvvisamente investire da
un’ondata
calda, poi fu come se tutte le terribili emozioni che mi stavano
schiacciando
venissero improvvisamente risucchiate via, lasciandomi pallida e
intontita.
Mi sentii come se mi avessero
risucchiato via tutta
l’aria dai polmoni contemporaneamente, così feci
un respiro profondissimo,
senza fiato.
Poi tutte le immagini divennero
appannate e nel giro
di un paio di secondi si fece tutto buio.
Mentre il flusso dei ricordi
portava con sé una certa
lucidità, mi accorsi di sentire un fortissimo fastidio in
testa, come un rumore
crescente, che presto identificai con un gran mal di testa. La seconda
cosa che
notai fu la pesantezza e il calore che avvertivo sugli occhi, che non
davano
segno di volersi aprire.
Così la mia mente,
mettendo insieme tutti quei dettagli,
riuscì a ricostruire quello che era avvenuto prima che mi
svegliassi, e man
mano mi fece sempre più tornare verso la
lucidità.
I raggi del sole colpirono i miei
occhi aperti,
vivificando la realtà. Edward era davanti a me e ancora non
smetteva di fissarmi.
Mi guardava come se si aspettasse che da un secondo all’altro
scoppiassi
nuovamente in un pianto a dirotto.
Sbattei le palpebre, allontanando
lo sguardo per un
attimo. Mi sentivo davvero intontita, come se tutti i miei pensieri
fossero
rallentati. Pian piano riaffiorarono alla mente i ricordi, lenti,
incomprensibili, estranei. Come tutte le sensazioni che avevo vissuto.
Pensai
di poter dire con assoluta certezza che non mi riconoscevo in niente di
ciò che
mi era successo. Non era mio quel desiderio morboso, istintivo, di
avere Edward
accanto. Non era il mio dolore. O meglio, era il mio dolore, ma non
provato da
me.
Non riuscii a concentrarmi
abbastanza su questi
pensieri, perché altri, nuovi, più pressanti,
pulsavano nella mia testa
dolorante.
Senza dire una parola, e senza
guardarlo, mi sollevai
silenziosamente in piedi, respingendo ogni forma di vertigini. Feci
istintivamente tre passi, dandogli le spalle, facendo perdere la mia
espressione nel vuoto.
Mi sentivo terribilmente in colpa.
Vedevo lo sguardo preoccupato di
mio marito e subito
mi rimbombava nella mente quello terrorizzato del giorno prima. Sentii
frantumarsi del mio cuore il desiderio di aiutarlo, di farlo stare
meglio, di
convincerlo che Jacob non poteva più farci del male.
Sentii un dolore e una tristezza
che non aveva nulla a
che fare con quella provata il giorno precedente. Questa, almeno, la
riconoscevo.
Una fresca presa leggera si
posò sulla mia spalla.
«Bella» poco più di un mormorio.
Sospirai, desolata. Lui
c’era sempre e c’era sempre
stato per me. Perché non riuscivo in alcun modo ad aiutarlo?
Avrei dovuto
essere sempre la causa della sua preoccupazione?
«Mi dispiace»
mormorai, non potendo fare a meno di far
scontrare i miei occhi con i suoi. «Mi dispiace
infinitamente, Edward. Io… non
so come sia potuto accadere».
La sua espressione divenne tenera,
aprendosi in un debole
sorriso. Mi prese per il capo e mi stinse forte a sé,
facendomi sentire il
contatto con la sua pelle. Poi mi baciò sui capelli,
staccandosi da me. «Tesoro,
tu non hai fatto nulla di cui doverti scusare, non… nulla».
Abbassai il capo, mortificata. Mi
sentivo così inutile
nei confronti di mio marito che, con una sola parola o con un solo
sguardo,
poteva cambiare il mio nero umore.
Mi sporsi verso di lui,
abbracciandolo ancora, non
alla ricerca di un conforto, ma per sentire e far sentire la mia
vicinanza. Notai
che indossava ancora la camicia celeste, macchiata da un grosso alone
di acqua
salata. Lo sfiorai con le dita, osservandolo, cercando ti trovare una
motivazione.
«Cos’è
successo?» chiesi, dando vita ai miei pensieri,
cercando di scacciare la nebbia che mi offuscava la mente.
Non mi rispose, così
sollevai lo sguardo verso la sua
espressione pensosa e lontana. «Che ne dici di cambiarci
prima?» disse infine,
piuttosto atono. «Di là ci sono gli altri, credo
che potremmo parlarne».
Non riuscii ad allontanare gli
occhi dal suo sguardo
serio. Mi faceva paura quando faceva così. Avevo paura dei
suoi pensieri. Paura
di perderlo.
«Amore» lo
richiamai, tentando di arrestare il
tremolio nella voce.
Immediatamente si voltò
verso di me, con la stessa
espressione fredda.
Timorosa posai una mano sulla sua
guancia. «Va… tutto
bene?» mormorai.
Lui chiuse gli occhi sfiorando la
mia mano con la sua.
Aspettai in silenzio che parlasse.
«Bella» disse,
dopo qualche istante. «Sono solo
preoccupato. Lo so che non vuoi che mi preoccupi, ma non
chiedermelo, perché non posso».
«Io» mormorai,
abbassando lo sguardo e tentando di
pensare velocemente a un modo per rispondere a quelle parole,
pronunciate con
un tono così fermo. «Sì»
concessi infine, sconsolata, avviandomi verso il
bagno.
Dopo tre passi mi bloccai,
voltandomi indietro verso lui,
ancora immobile.
Mi imposi di non pensare e feci a
passo svelto quei
tre passi che ci dividevano, unendo velocemente le mie labbra alle sue.
All’inizio rimase rigido
per la sorpresa, poi, dopo un
istante, rispose al bacio.
Quello era, ancora,
l’unico modo che conoscevo per
farmi sentire vicina a lui. E per adesso avrei usato quello.
«Ti amo» dissi
ansante, umettandomi le labbra fredde.
«Anch’io»
rispose Edward, mettendomi una mano alla
schiena e riunendo con più calma e delicatezza le nostre
labbra.
Uscimmo insieme dalla camera da
letto, mano nella
mano. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata, assicurandomi
delle sue emozioni
attraverso la sua espressione.
«Tesoro, ti sei
svegliata» mi salutò Esme, vendendomi
incontro e abbracciandomi, per poi passare con gentilezza una mano
sulla mia
pancia. «Come ti senti?».
«Bene. Sto
bene» farfugliai arrossendo. La testa mi
pulsava ancora ma mi sembrava di riuscire a pensare più
lucidamente.
Jasper e Carlisle, prima intenti a
discutere sul
divano del soggiorno, ci vennero incontro.
Jasper fissò me, e poi
Edward. «Siamo pronti, quando
vuoi…».
«Spostiamoci di
là, abbiamo preparato la colazione per
Bella» fece Alice, comparendo insieme a Rose alla nostra
vista e scortandomi
via.
Ci sistemammo in sala da pranzo,
intorno al grande
tavolo. Io stavo accanto a Edward, mangiando la mia colazione. In
realtà,
stranamente, avevo lo stomaco chiuso. Forse per la tensione accumulata
o per
gli psicofarmaci che mi avevano somministrato, che mi lasciavano sempre
debole,
apatica e inappetente. Ma non volevo farlo ulteriormente preoccupare,
così
mangiai.
«Bella, abbiamo
sviluppato delle ipotesi per ciò che
ti è accaduto. La questione, in linea di principio,
è piuttosto semplice»
cominciò Jasper, impaziente quanto Carlisle, che pure
tentava di contenersi, di
esporre la sua tesi. «Nell’ultimo periodo, fin dopo
il rapimento di Jacob -
fece senza perifrasi - ho notato un certo mutamento nella perfezione
della tua
aura emozionale».
Lo fissai perplessa, rinunciando
completamente alla
possibilità di finire il mio latte.
«Mi spiego
meglio» disse, notando lo sguardo curioso
di tutti gli altri, men che di Edward e Alice, ovviamente.
«Non “vedo” l’aura
emozionale. Ma la percepisco come se fosse un cerchio
piuttosto grande o piccolo - a seconda delle emozioni
provate - che gravita pressappoco intorno alla posizione del cuore.
Ebbene,
nell’ultimo periodo, il cerchio di Bella è a poco
a poco diventato un’ellisse».
Aprii la bocca, sorpresa,
voltandomi a fissare
l’espressione di Edward. Evidentemente, non era questa la
parte che lo
sconvolgeva, perché giocava, concertato, con i miei capelli.
«Ecco»
continuò Jasper «ho pensato che tutto
ciò
derivasse da una sorta di alienazione delle emozioni» si fece
più greve «mi è
capitato di percepire auree informi, di persone che avevano subito
gravissimi
traumi e che non riuscivano più a gestirle; come potevo
pensare che quel lieve
cambiamento non fosse dovuto la tuo disturbo da stress post traumatico?
Che in
realtà, la bambina, occupasse uno dei fuochi della tua aura?».
«Cosa?!»
esclamai, sorpresa, con voce stridula.
Mi voltai verso Edward, agitata, ma
lui mi fece un
sorriso rassicurante, stridente con l’espressione dei suoi
occhi. «È una bella
cosa, tranquilla. Ti piacerà».
Tornai, titubante, confusa, a
fissare Jasper, che mi
rispose con uno sguardo determinato.
«Bella, la bambina non ha
i miei stessi poteri. Ma
ieri, dovresti esserne consapevole, è riuscita a
“manipolare” le tue emozioni.
Questo perché la tua aura sta generando la sua e adesso sono
ancora
indissolubilmente legate e questo vuol dire che…».
«Io sento quello che
sente lei e lei sente quello che
sento io» mormorai fioca.
«Sì,
esatto».
Cercai di pensare a quella frase
nel suo vero senso e
non di pronunciarla come se la stessi leggendo e tentando di
regolarizzare il
turbine di pensieri. Io e la bambina… legate…
fino al parto? Legate. Nelle
emozioni, nelle sensazioni. Tutte le cose, le sensazioni di stranezza,
le
emozioni aliene, gli strani istinti di attaccamento nei confronti di
Edward…
Tutto veniva giustificato alla luce di quella rivelazione.
Sì, lui aveva
ragione, quella era una cosa stupenda, un miracolo inimmaginabile.
Molto più di
quanto mi sarei mai aspettata.
Ma allora perché sentivo
una fastidiosa voce che mi
impediva di essere felice?
Perché quello
significava che la bambina era triste.
Se le emozioni che avevo provato erano le sue, allora era dannatamente
triste.
«Credo…»
mormorai, fissandomi le mani. «Credo di aver
bisogno di un bicchiere d’acqua».
Mi concessi molti lunghi sorsi, poi
ricominciai a
prendere il filo dei miei pensieri. Tuttavia, l’unica
conclusione a cui ogni
volta approdavo era la stessa.
«Significa»
chiesi, lentamente, scrutando i volti di
Edward e Jasper «significa che la bambina è
triste?» chiesi spaventata.
«Non crediamo,
Bella» a rispondere e rassicurarmi fu
Carlisle. «Non possiamo pensare che la bambina provi emozioni
così complesse o
che abbia intenzionalmente fatto qualcosa. Piuttosto è
ragionevole convenire
che “sposti le emozioni” da lei a te, ma devono
essere, nella maggior parte, le
tue. E non crediamo lo possa fare intenzionalmente, non ancora.
È molto più
probabile che agisca per istinti. Ma la cosa grandiosa, a questo punto,
sta
proprio in questo!» esclamò, non riuscendo a
nascondere l’entusiasmo, «i
bambini crescono e maturano, ricevendo stimoli dall’esterno e
modificando una
serie di istinti che hanno per loro natura innata. In questo caso la
bambina
sta già ricevendo molti di questi stimoli!».
«Io l’ho detto
che la mia nipotina è una intelligente»
fece Emmett, ghignando.
Sospirai, confusa.
«Si, è proprio
così!» fece Carlisle, stupendomi
«È
rudimentale dirlo in questo modo, ma è così.
Questa bambina sarà più
intelligente degli altri perché già da ora
comincia a beneficiare degli
stimoli, percependo le emozioni e i contatti con il mondo esterno
attraverso
te».
«Quindi i bambini umani
non percepiscono allo stesso
modo le emozioni della madre?» chiese Esme.
Jasper riprese la parola.
«No, perché in quel caso le
auree si sovrappongono, ma non sono legate.Per questo gli scambi ci sono, ma sono davvero sporadici e
minimi».
Mi portai le mani alla testa,
tentando di capacitarmi
di tutto. La bambina… le emozioni… il motivo di
quella dannata tristezza di
Edward, che non sembrava accomunare nessun altro della famiglia!
Sentii una mano fredda sulla
spalla. «Finisci la
colazione Bella, e sta tranquilla. Man mano capirai tutto» mi
disse gentilmente
Alice. Il suo sguardo, però, era carico e pensoso. Aveva
visto qualcosa che
stava per succedere.
Annuii, ricominciando a
mangiucchiare e tentando in
ogni modo di analizzare con lucidità i fatti.
Io e la bambina condividevamo le
nostre emozioni. Quello
che era successo ieri era dipeso da questo, ma la bambina non era
triste. Da
dove veniva, allora, la tristezza?
Sollevai lo sguardo, e incontrai
quello sereno di
Carlisle e Jasper. Poi, mi voltai alla mia sinistra, verso Edward,
bisognosa di
cercare conforto e spiegazioni. O magari solo di vederlo.
«Che cosa è
successo ieri?» chiesi, fissandolo in
volto.
La sua espressione si contrasse, e
abbassò lo sguardo
prima di passare protettivamente un braccio sulla mia spalla.
«Bella»
cominciò Rosalie, «hai studiato un po’
di rudimenti
di psicologia? Freud?».
Allontanai lo sguardo dal volto di
Edward,
stringendomi con tutta la mia forza a lui e annuendo.
Mi sorrise. «Bene, allora
saprai che l’uomo usa una
minima parte del suo cervello. E nella parte che non viene utilizzata,
secondo
Freud, ci sta l’inconscio. L’inconscio dove vanno a
finire, per esempio, i
traumi non rimossi». Fece una pausa, per consentirmi di
pensare, forse. «Bella,
quello che voglio dire è che quello che è
successo ieri non è dipeso dalla
bambina, non completamente».
Mi sentii raggelare, mentre la
presa di Edward
rimaneva immobile e salda. Mi voltai verso di lui, tremante e timorosa,
e lessi
la stessa espressione fredda di quella mattina.
Era
colpa mia.
Mi imposi di respirare
regolarmente, di mantenere la
calma.
Sussultai, sentendo una mano sulla
mia.
«Vuoi un altro bicchiere
d’acqua tesoro?» mi chiese
con gentilezza Esme.
Annuii, abbassando il capo.
«Vuoi che ti
spieghi?» mi chiese Rosalie, guardandomi
intensamente negli occhi.
«Sì»
biascicai.
«Ecco, ricordi
perché hai cominciato a piangere?» mi
chiese, e mi ricordò tanto il bruttissimo periodo in cui
facevamo i nostri
esercizi.
«Sì…
io… mi ricordo che mi è caduto il piattino con la
torta» farfugliai, attenta a non fissare neppure per un
istante gli occhi di
Edward, per paura di quello che avrei potuto leggerci.
«E ricordi cosa hai
sentito?».
Abbassai il capo, persa nei
pensieri. Qualcosa stava
tentando di riemergere verso a mia coscienza, ma mentre tentavo di
afferrarlo
mi pareva di perderlo.
Poi, improvvisamente, capii.
Insieme a quella, tante
altre cose, a cui non avevo mai fatto caso, o che erano cadute
nell’oblio della
memoria. Perché odiassi così tanto il caldo.
Perché non sopportassi di vedere
film drammatici. Perché non riuscissi a non tremare quando
qualcuno mi coglieva
di spalle, perché preferissi starmene rannicchiata in un
angolo… Erano un
mucchio di dettagli insignificanti, eppure, solo ora mi rendevo conto
di quello
che significassero.
Erano cose che avevo sempre saputo,
ma che
evidentemente, l’immenso potere dell’oblio aveva
distrutto.
Solo ora capivo.
«Il piattino»
mormorai «il suono del piattino che si
rompeva… io… io…» rallentai,
ricordando altri dettagli, «l’ho sentito,
ma… la
bambina» dissi infine, posando una mano sul ventre.
«Cosa?» mi
chiese Carlisle, confuso.
Deglutii. «Io ho sentito
quel suono, ma poi era come
se lo avessi ascoltato un’altra volta. Come… se
stessi riascoltando un suono
che avevo già sentito, ma… così
diverso».
Rosalie annuì,
voltandosi verso il padre. «È quel
suono che ha dato alla bambina l’accesso al suo
inconscio» poi si voltò
nuovamente verso di me «la bambina è
“entrata” nel tuo inconscio. È vero,
è
stata lei a farti piangere, è stata lei a farti comportare
come ti sei
comportata, è stata lei che ti faceva sentire quello che
sentivi. Ma sei stata tu a
cominciare a piangere e sempre tue,
erano le emozioni a cui attingeva.
Non sarebbe mai riuscita a sopraffarti se tu non fossi stata
così vulnerabile».
Incassai il colpo. Non avevo il
coraggio di voltarmi
verso Edward, non ora che avevo capito appieno il motivo della sua
preoccupazione. Mi accorsi di stare tremando visibilmente solo quando
si staccò
da me. L’avevo stretto con tutta la mia forza.
Mi imposi di parlare, di dire
qualcosa in risposta a
questi sguardi gentili. Erano stati così carini con me,
tentando in ogni modo di
mettermi a mio agio. Perché, anche quando speravo di
essermene liberata, i
fantasmi del mio passato tornavano a tormentarmi?
«Accadrà
ancora?» chiesi, fissando prima loro e poi
Edward, ancora immobile.
Rosalie fece per parlare, ma
Carlisle la bloccò,
posando una mano sul suo braccio. «Io credo che dovreste
parlarne, voi due.
Edward sa tutto quello che vuoi sapere. E Edward, credo che Bella
voglia sapere
qualcosa da te» disse tranquillo. Sul suo volto non
c’era la stessa espressione
tesa di Edward, ma lo sapevo, Carlisle era un ottimo attore.
Mi alzai, come un automa,
avviandomi in camera, unica
stanza della casa completamente insonorizzata. Dopo pochi passi sentii
la
presenza di Edward al mio fianco. Mi faceva così male quella
distanza.
Entrai in camera in silenzio,
chiudendomi la porta
alle spalle e andando poi a sedere sul bordo del letto. Aspettai che
dicesse qualcosa.
L’attesa mi divorava, e sentivo delle scosse elettriche
nell’aria, che
rompevano quel naturale legame che c’era sempre stato fra
noi.
«Ieri mattina, quando ti
sei svegliata, eri triste?».
Presi un piccolo respiro,
sforzandomi con tutta me
stessa di mantenere la calma. Non potevo crollare, non ancora.
«No, Edward».
Fece un passo verso di me,
sollevando una mano. «Ne
sei sicura?».
«Come puoi
dirlo!» esclamai stridula «Lo sai che non
è
così. Stavamo bene, abbiamo riso e scherzato e mi sembrava
uno dei giorni più
belli della nostra vita» sputai affranta.
Abbassò le spalle, come
svuotato. «Perché allora?».
Sospirai, non veramente pronta a
dare una risposta. Mi
portai le mani sul volto, nascondendolo. «Io… Mi
dispiace così tanto, Edward!
Ti giuro, ti ho sempre detto quando sentivo che qualcosa non
andava!» esclamai,
tentando di calmare il tremolio nella voce. «Te lo giuro! Io
non mi sono resa
conto di questa cosa che stava accadendo! Non so neppure da dove sia
venuto»
mormorai, disperata, tentando in ogni modo di non piangere.
Ma lui era distante, freddo, e
nella mia mente
continuava a rimbombare l’idea disperata e irrazionale che lo
avrei perso, che
quella distanza mi avrebbe uccisa.
Sentii il materasso abbassarsi e
capii che si era
seduto accanto a me.
Scostai le mani dal volto, fino ad
incontrare il suo
sguardo teso e distante. Aveva la mascella serrata e le labbra strette.
«Bella»
sbottò infine «ho dannatamente paura di quello che
provi. Dannatamente paura di
perderti. Ieri mi sono sentito così impotente. È
stato così doloroso sentire
quelle emozioni attraverso Jasper, sentirti pregare di fare qualcosa
per farti stare
meglio mentre niente di ciò che facevo
funzionava!» esclamò serrando i pugni
«Ho passato tutta la notte senza staccarmi da te, con il
terrore che se ti
fossi svegliata ricominciando a piangere o non trovandomi al tuo fianco
saresti
stata così male che non avrei più potuto fare
niente per te!».
Tremai, in silenzio, fissando i
suoi occhi scuri e la
sua mascella tesa. I secondi parevano ore, sembravano non voler passare
mai.
«Mi dispiace»
mormorai infine, sull’orlo delle lacrime
«ti prego, non essere arrabbiato con me, io… non
so cos’altro fare».
Strinse le labbra, teso,
preoccupato da quello che
stava per dirmi. «Forse dovresti ricominciare a prendere gli
antidepressivi».
Presi un fiato, fremendo. Spostai
lo sguardo dal suo,
fissandomi le mani tremanti. Mi sentivo come se mi avesse appena
colpito. Come
se mi stesse dicendo che mi aveva dato un’occasione, o
più di una, ma non ne
ero stata all’altezza. O peggio, pensai, sentendo il suo
sguardo bruciare su di
me. «Non ce la fai più a starmi accanto
così?» soffiai fra le labbra, piena di
dolore.
«Bella»
sussurrò senza fiato, sconvolto dalla mia
conclusione «no, non è questo».
Mi voltai a fissarlo, deglutendo
più volte prima di
riuscire a parlare. «Nemmeno io riuscirei a starmi accanto
così. Volevo solo
farti stare meglio, lo giuro» balbettai affranta.
Chiuse gli occhi, addolorato,
stringendomi finalmente
a sé. «Scusa… scusa, scusa, perdonami
se puoi. Non avrei mai voluto che
pensassi una cosa simile. Non mi importa quanto possa essere difficile
starti
accanto, è per il dolore che provi tu che mi
preoccupo» riaprì gli occhi,
serrando con forza la mascella «perché io non posso…». Si
zittì, senza continuare. Poi prese un profondo
respiro e ricominciò. «Scusa Bella. Voglio solo
che tu e la bambina siate
felici e stiate bene».
«E anche tu»
aggiunsi io, tremante, scossa dalle sue
parole. «Non posso essere felice se non lo sei anche tu, ma
ti prego» mi feci
coraggio a dire «nemmeno a te piace l’effetto che
mi fanno gli antidepressivi.
Mi intontiscono, mi passa la fame, la voglia di fare le cose,
il...» balbettai
imbarazzata «il desiderio di te. Non mi sento più
io».
Mi carezzò la guancia
con una mano, addolorato.
Misi la mano sulla sua.
«Se pensi che sia la mia unica
possibilità lo farò. Ma se pensi che abbia anche
solo una piccola, minuscola
possibilità di farcela da sola lasciami provare, almeno una
volta. Ti prego».
Fece scontrare la fronte con la
mia, avvicinando così
i nostri respiri. «Continuerai la psicoterapia con Rosalie, e
ti farai aiutare
da Jasper?».
Presi un respiro, sollevata.
«Lo giuro».
«E mi dirai sempre quando
pensi che le emozioni stiano
per sfuggire al tuo controllo?».
«Sì Edward, te
lo prometto. Mi dispiace, non sai
quanto mi dispiace per quello che hai dovuto vivere ieri».
Scosse il capo, farfugliando
qualcosa fra sé.
«Cosa
c’è?» domandai preoccupata.
Ma lui sorrise, facendomi rilassare
lievemente.
«L’ennesima stranezza di questa gravidanza vampira.
E siamo solo all’inizio. Ho
paura di quello che ci aspetta».
«Questa volta non ha
tentato di dissanguarmi»
biascicai, rilassandomi un poco.
Ridacchiò appena,
lievemente. «No. Anzi, penso che sia
una cosa meravigliosa avere questo legame con lei» mi chiese,
posando una mano
sul ventre e accarezzandomi la pancia.
Sentii la tensione che avevo
addosso fino a qualche
istante prima scomparire man mano. «Beh, sì. In
effetti me ne devo ancora capacitare
a dire la verità. È così…
è complesso» dissi, pensando che probabilmente
anche
in quel momento le mie emozioni erano legate a quelle della bimba.
Tutto quello
che provavo, quello che sentivo, andava direttamente a contatto con le
sue
emozioni.
«Chissà
se…» mormorai poi, sistemandomi seduta a col
petto contro quello di Edward. Forse gli avrebbe fatto bene renderlo
partecipe
delle nostre emozioni. Avvicinai i nostri nasi, facendoli sfiorare
così come
tante volte lui aveva fatto con me.
«Cos’hai
intenzione di fare?» mi chiese perplesso, ma
divertito.
Posai un dito sulle sue labbra,
prima di scendere con
la bocca ad occupare il suo posto. Fu un contatto fugace, inizialmente,
poi lo
approfondii, prendendo fra i denti il labbro superiore e tirandolo
leggermente
verso l’alto.
Sentii delle emozioni felici che
non dovevano essere
le mie, ma non feci in tempo a ridacchiare che mi trovai con la schiena
schiacciata sul materasso e Edward lievemente posato su di me. Ero
contenta del
fatto che sembrava molto più sereno di prima.
Si teneva con una mano, accanto
alla mia testa, e con
l’altra mi accarezzava il viso, continuando a baciarmi.
Quando si staccò
ansimai, aggrappandomi con le braccia
alle sue spalle. «Ti voglio Edward, ti voglio così
tanto» gemetti.
Lui riprese a baciarmi, con
più impeto e forza. C’era
tanto desiderio fra di noi, e ancora non sapevo come si sarebbe potuto
esprimere e quanto avrei potuto osare, ma sapevo che lo desideravo.
«Ragazzi» fece
il vocione di Emmett, aprendo la porta.
La sua espressione mutò in succulenta meraviglia,
scoprendoci così avvinghiati.
«Ohh. Jasper e Alice mi avevano detto che avevate fatto la
pace, ma così è davvero
troppo».
Edward si spostò con le
labbra sul mio collo, non
dimostrando, però, alcuna intenzione di voler smettere.
Tentai di divincolarmi dalla sua
presa, rossa come un
peperone, ma ogni tentativo fu vano. Alla fine mi arresi. Non potevo
resistere
a quelle labbra così… fredde…
lisce… dure… sul mio collo.
«Emmett, va al
diavolo!» esclamai, gettandogli un
cuscino che acchiappò prontamente, pur scomparendo dietro la
porta.
«Allora, avete fatto
pace» insinuò Rosalie, mentre
tagliava la mia insalata.
Arrossi, gettando una rapida
occhiata a Edward,
dall’altra parte del soggiorno, in compagnia di Emmett,
Jasper e Carlisle. Lui
mi fece l’occhiolino e io arrossii ancora di più.
«Sì» mormorai infine,
imbarazzata.
Arrossii ulteriormente pensando a
tutto ciò che
potesse aver visto, o peggio, sentito…
«Su, ma non vedete che la
state mettendo in imbarazzo?
Non ti preoccupare tesoro» mi rassicurò Esme,
accarezzandomi i capelli.
Nessuno mi permise di alzarmi dalla
poltroncina su cui
ero seduta per raggiungere i ragazzi in soggiorno. Erano uno
più apprensivo
dell’altro. Ma, in fondo, gli volevo bene proprio per questo.
«Dai, dai,
basta!» risi, scalciando fra le braccia di
Edward «ormai il periodo di riposo è praticamente
finito, perché non mi
permetti di fare dieci metri?» chiesi accusandolo, mentre mi
posava sul divano.
«Edward ha ragione Bella.
Ieri è stata una giornata
molto stancante per il tuo corpo, approfittane per riposarti. Faremo
tutti i
controlli e se starai bene potrai ricominciare a fare tutto
ciò che vorrai» mi
spiegò gentilmente Carlisle.
Intrecciai le dita a quelle di
Edward, stringendomi al
suo petto e pensando a qualcosa, in particolare, che volevo fare.
«Non vedo
l’ora» mormorai, seppur imbarazzata, attenta a
farmi sentire solo da lui.
In risposta ricominciò a
baciarmi, infilando una mano
sotto alla maglietta, sulla pancia.
Qualcuno tossì,
così mi allontanai di botto,
ricordando di avere pubblico.
Emmett non perse occasione per fare
una delle sue
battute. «Carlisle, non mandarli mai più a parlare
da soli. In camera. Non ti
dico come stavano tutti…».
Edward ringhiò,
così si interruppe, fingendosi
spaventato.
«Scusate»
biascicai, abbassando lo sguardo e
concentrandomi sul cibo. Edward, al contrario, sedeva sicuro di
sé al mio
fianco niente affatto imbarazzato. Ogni tanto gli lanciavo, per
sicurezza,
un’occhiata, ma del suo malumore sembrava non esserci
più traccia. Sorrideva,
tenendomi stretta a sé con un braccio, baciandomi il capo
ogni tanto.
Intanto Carlisle, Rosalie e Jasper,
continuavano,
entusiasmati, a dibattere sulla grande scoperta che avevano fatto. Era
una cosa
unica secondo loro, tuttavia non riuscii a seguire la maggior parte del
discorso.
Sentii la mano di Edward insinuarsi
ancora una volta
sotto la maglietta, sulla pancia. Rabbrividii, sentendo una strana
emozione
nascere in me. Posai la mano sul suo braccio, scossa.
«Tutto bene?»
mi chiese lui.
Annuii lentamente.
«Sì. Sì. Credo che alla bambina
piaccia particolarmente».
Notai che tutti si erano voltati
verso di me,
osservandoci silenziosi.
«Ti era già
capitato di sentire le sue emozioni?» mi
chiese Carlisle, interessato.
«Sì,
io… beh, pensavo che fossero mie, non ci avevo
mai fatto così caso».
«E istinti?».
Sgranai gli occhi, imbarazzata. Sì, un morboso attaccamento a Edward. Ma
non so quanta colpa possa dare
alla bambina, perdonami. Anche perché non credo che lei
voglia fare “certe
cose” con il padre… Avrei dovuto
rispondere così? «Io… non
so».
Sorrise, captando il mio imbarazzo.
«Va bene».
Mentre il disagio scemava, lo
sentii tornare indietro.
«Accidenti» mormorai accarezzandomi la pancia. La
bambina si stava divertendo a
farmi quello?
Jasper rise, capendo ciò
che stava accadendo,
profondamente esaltato. «È stupendo. La bambina
sente quello che sente Bella e
ogni tanto le rimanda indietro le emozioni che non riesce a comprendere
o che
lei scaccia via troppo in fretta. Stupendo. Siete come una mescolanza
di
sensazioni. Davvero stupendo. Mi chiedevo» aggiunse,
fissandomi con interesse e
curiosità «potrei provare una cosa?».
«Jasper» lo
richiamò Edward.
Cosa voleva provare?
Si bloccò e per un
attimo l’euforia scemò dal suo
viso. «Oh, io ne userei pochissimo. Ma se tu non
vuoi» fece lui.
«Cosa?» chiesi
disorientata.
Jasper lanciò prima
un’occhiata al fratello, poi mi
spiegò. «Mi chiedevo quanto riuscissi ad
influenzarti usando il mio potere
sulla bambina anziché su di te. Ieri appena l’ho
calmata sei stata sopraffatta
dall’effetto dei farmaci. Quindi volevo provare. Ma, se non
vuoi…».
«Ma sì,
certo» risposi, fissando prima lui e poi
Edward. «Davvero, si può fare, non mi costa
nulla».
Lui mi fissò titubante,
poi acconsentì. «Va bene».
Jasper posò una mano
sulla pancia, facendomi rivivere la
sensazione di brivido provata qualche minuto prima. Dopo pochi secondi,
però,
giunse anche una sensazione di delizioso torpore.
Per pochi istanti credetti di
addormentarmi, ma poi
svanì come era venuta, lasciandomi intontita.
«Bella?» mi
chiamò Edward, che non aveva mai
abbandonato il mio fianco.
«Bene, sono contento. Ci
lavoreremo. Dovrai imparare a
non farti sopraffare da ciò che prova la bambina. Quando
scacci le sue
emozioni, fallo con lentezza, e se vai nel panico quando le senti ti
rendi solo
più vulnerabile».
Sospirai, sconsolata, stringendomi
nell’abbraccio con
mio marito. «Ma con il tempo le sue emozioni non saranno
sempre più forti? Come
farò?».
Jasper mi sorrise, come se non
aspettasse altro che
quella domanda. «Sì, se ora le vostre emozioni
sono un miscuglio più o meno
mischiato, con il tempo lei acquisirà sempre più
spazio e sempre più identità
personale. Contemporaneamente, però, devo presupporre che la
superficie di
contatto diminuirà moltissimo. Quindi è vero,
questi “scambi” saranno più
forti, ma anche più decisi e determinati e in minore
quantità».
Carlisle aggiunse
«Nonché, forse, regolati
razionalmente dalla bambina».
Rabbrividì, ancora.
Notai la mano di Edward sulla mia
pancia e le diedi un leggero schiaffetto. «Sta buono o questa
birbante non mi
lascerà in pace» lo richiamai.
Edward si avvicinò al
mio viso, posando il naso,
ghiacciato, sul mio collo.
Sentii il mio cuore battere a ritmo
sostenuto.
«Il birbante sono
io» sussurrò malizioso, divertendosi
del rossore che mi imporporava le guance.
«Bene» disse
Carlisle, sfilandosi per un attimo lo
stetoscopio. «Puoi metterti seduta per favore?» mi
chiese gentilmente.
Annuii, e Edward mi
aiutò a sollevarmi dalla posizione
sdraiata in modo che lui mi misurasse nuovamente la pressione. Attesi
in
silenzio che ripetesse l’operazione, poggiata con il capo sul
petto di Edward,
stanca per tutta la mattinata trascorsa in ospedale.
«Okay» disse
infine, togliendomi la fascia nera dal
braccio. «Abbiamo finito, direi che sia la mamma che la
bambina stanno
benissimo» mi rassicurò con un sorriso.
Mi abbassai la manica della
maglietta, fissandolo con
attenzione mentre si sedeva dietro la scrivania, facendoci segno di
accomodarci
sulle poltroncine davanti a lui.
«Hai ancora la pressione
un po’ bassa» mi disse, scrivendo
dei dati sulla mia cartella clinica. «Ma niente di cui
preoccuparsi. Alzati
lentamente per evitare capogiri. Il tuo peso sta aumentando in modo
corretto,
per essere al terzo mese è perfetto che tu abbia preso un
chilo e mezzo.
L’emoglobina è stabile sui 10, quindi
sospenderò alcuni dei farmaci che stai
prendendo e te ne darò altri per bocca».
Sorrisi, sollevata.
«Niente più iniezioni?».
Trattenne a stento un sorriso.
«Niente più iniezioni».
«E la bambina?»
chiesi un po’ preoccupata «siamo
sicuri che stia bene?».
Sentii la mano di Edward stringersi
attorno alla mia,
con assoluta tranquillità. Mi sentivo meglio, la tristezza
era un lontano
ricordo, e mi sembrava che anche Edward fosse più rilassato.
Carlisle mi sorrise, rassicurante.
«All’ecografia non
si vede più alcun distacco amniocoriale e la visita va
davvero bene».
Rabbrividii, ricordandomi di quella
mattina. Fare la
visita ginecologica era stato molto più facile
dell’ultima volta, ma a parte il
naturale disagio era una cosa che mi metteva sempre molto in
difficoltà.
«E il battito?»
domandai. Ancora i vampiri non
riuscivano a sentirlo, ma dicevano che con il macchinario di Carlisle
si era
sentito molto più forte dell’ultima volta.
Edward si chinò al mio
orecchio. «È perfetto, Bella.
La bimba sta bene».
Sorrisi, accarezzandomi il ventre.
«Bene» sollevai lo
sguardo, sorridendo. «Sono sicura che stia bene. È
così contenta oggi».
«Davvero?» mi
chiese Edward emozionato, posando una
mano sulla mia, come se così potesse sentire anche lui la
sua felicità.
«Sì» sussurrai, appoggiando la testa
sulla sua spalla e
lasciando che ci accarezzasse.
«Hai ancora
nausee?» mi chiese Carlisle, finendo di
scrivere.
Annuii.
«Sì», poi aggiunsi, arrossendo,
«però ho anche
molta fame».
«Appena finiamo ti porto
a mangiare qualcosa» mi disse
Edward, sollevandomi completamente dalla poltrona e sistemandomi sulle
sue
gambe, in modo da potermi accarezzare meglio.
Arrossii, ma non dissi nulla.
Finché stava bene a lui,
andava bene anche a me.
Carlisle sorrise. «Non vi
voglio trattenere oltre, ma
prima c’è una cosa di cui vi vorrei
parlare».
«Cosa?» chiesi,
interessata, voltandomi velocemente
verso di lui.
Intrecciò le mani,
portandole sulla scrivania, segno
che stava iniziando un discorso piuttosto serio. «Vedete, ho
pensato più di una
volta al “problema” del parto» mi
fissò intensamente negli occhi, facendo una
pausa. «Il tuo quadro clinico, Bella, ti permette di avere
una cartella con
tutti i tuoi dati, come qualsiasi altra gestante. Permangono,
però, diversi
problemi. Non ci sono le ecografie, per esempio. E il tuo medico
curante, sono
io, un chirurgo, non un ginecologo. A parte questi, che sono problemi
burocratici facilmente ovviabili, ce n’è un altro
di cui vorrei discutere».
Vidi il suo sguardo serio posarsi decisamente su Edward.
Sentendo le sue mani bloccarsi
sulla mia pancia, li
fissai, spaventata, tentando di immaginare quale potesse essere il
problema.
«Sta tranquilla,
Bella» disse Carlisle, accorgendosi
dei miei pensieri. «Non è nulla di grave,
è solo che ritengo che dovremmo fare
un taglio cesareo».
«Oh» mormorai, abbassando lo sguardo.
Mi sentii
improvvisamente rattristata da quelle parole. Eppure, avrei dovuto
immaginarlo.
«Le difficoltà
che incontreremo con la membrana
possono essere svariate, e non potendo monitorare al meglio la
situazione sia tua
che la bambina potreste correre importanti rischi»
tentò di spiegarmi Carlisle.
«Io» mormorai,
sempre con lo sguardo basso. «Sì,
capisco». In realtà invece sentivo tutto
quell’improvviso rammarico, ma sapevo
di non poterci fare nulla. Forse derivava dal fatto che avevo letto, su
una
rivista lasciatami da Rosalie, che le donne che hanno un parto naturale
sono
legate in maniera speciale ai loro bambini. Forse ero una delle tante
mamme che
si faceva questo genere di paranoie.
Sentii una mano sotto al mento che
mi costrinse a
voltarmi fino a incontrare gli occhi ambrati di mio marito.
«Ti dispiace
molto?».
Feci per dire di no, ma poi optai
per una mezza
verità. «Un po’». Sentii la
mia stessa tristezza provenire dalla bambina.
Chiusi gli occhi, tentando, come mi aveva suggerito Jasper, di
scacciarla via
lentamente. Non era giusto che mi facessi condizionare da queste cose
facendola
rattristare, volevo che sentisse tutti i miei sentimenti più
positivi, d’ora in
poi.
«Bella» mi
chiamò Carlisle, posando una mano sulla
mia. «Mi dispiace, non pensavo ci tenessi così
tanto».
«Non ti preoccupare, non
è colpa tua. Anzi, ti sono
grata per tutto quello che fai per me, solo che…»
mi interruppi, tentennando
con lo sguardo verso il grande scaffale bianco alle sue spalle,
«non so come
spiegarlo. Non ci avevo neppure pensato più di tanto fino ad
oggi» ammisi
infine.
«Sì,
capisco» disse lui, ritirandosi sulla poltrona nera
di pelle e rimuginando. «Facciamo così, ti
prometto che ci penserò, okay?
Penserò a un modo per farlo».
Sentii Edward irrigidirsi.
«Ovviamente, senza che tu
corra rischi» aggiunse, a
suo beneficio, con un sorriso.
Mi sollevai dalle braccia di Edward
e corsi ad
abbracciarlo. «Grazie, grazie, grazie» mormorai
entusiasta contro in suo
maglione di cotone color petrolio.
Mi strinse a sé con
affetto, poi mi tirò via dalle
spalle fino a guardarmi negli occhi. «Ho detto che ci
penserò, non è detto che
riuscirò a trovare una soluzione»
precisò con un sorriso.
Sorrisi anch’io,
nonostante tutto. «Certo, va bene».
Sentii due braccia fredde
abbracciarmi da dietro.
«Andiamo Bella? Avrai fame, no?».
«Sì,
sì, in effetti. Mi chiedo quanto ancora potrò
latitare dalle grinfie di Alice! Solo a pensarci… cielo! Non
oso, non
pensiamoci» rabbrividii, e con me la bambina.
Edward e Carlisle scoppiarono
ridere.
«Non ridete! Anche lei
è d’accordo con me!» esclamai,
fingendomi offesa.
«Andiamo» fece
Carlisle, togliendosi il camice e appendendolo
all’antico appendiabiti in legno di ciliegio - tocco, ne ero
certa, di Esme - «il
mio turno oggi è concluso, me ne torno a casa
anch’io».
Quando arrivammo alla grande porta
a vetri all’uscita
ci accorgemmo che era in atto uno dei tipici temporali di Forks. Il
cielo era
grigio scuro e in lontananza si vedevano degli inquietanti lampi di
luce
chiara. Non appena un uomo, uscendo dalla porta,
l’aprì, mi giunse una folata
di vento ghiacciato, insieme all’odore prepotente di umido e
terra bagnata.
Rabbrividii, sentendo la familiare
sensazione che la
bambina mi regalava quando Edward accarezzava la pancia.
Edward se ne accorse.
«Aspettami qui, vado a prendere
la macchina».
«No, ti prego, senti che
bel freddo fa lì fuori!»
mormorai incollando la faccia al vetro freddo. Mi ostinavo a conservare
un
masochistico amore per il freddo. D’altronde, se non fossi
stata masochista di
natura non mi sarebbe mai venuto in mente di sposarmi con un vampiro.
Edward scosse il capo in
disappunto, uscendo. «Aspetti
con lei?» chiese a Carlisle. Ovviamente, sempre, si premurava
ossessivamente di
tenere completamente sotto controllo la situazione.
Lui sorrise, pensando, ne ero
certa, le stesse cose
che stavo pensando anch’io. «Sì,
certo».
Mi voltai verso Carlisle,
sorridendogli. Quel giorno
c’erano stati meno problemi rispetto alla precedente visita,
ma comunque
riconoscevo che per me non era affatto stato facile. E sapevo che molto
di
quello non dipendeva dal naturale imbarazzo…
«Carlisle» lo
chiamai, un po’ impacciata per quello
che stavo per chiedergli.
«Sì?»
mi chiese lui, cortese, passandosi la borsa di
cuoio chiaro da una mano all’altra.
Sbirciai con la coda
dell’occhio nell’atrio e notai
che non c’era nessuno, a parte un’infermiera,
troppo lontana per sentire i
nostri discorsi. Arrossii. Dovevo approfittarne ora che Edward non era
con me,
chissà quando sarebbe ricapitato.
«Io,
ecco…» cominciai, piuttosto incoerentemente.
«Ecco, volevo chiederti una cosa, piuttosto… privata» farfugliai, sentendo
un innaturale calore al viso.
Carlisle mi sorrise, percependo il
mio imbarazzo.
«Capisco. Ecco, vieni, sediamoci qui» mi disse
cortesemente indicando i
divanetti su un lato del muro. La hall era piccola, ma piuttosto
accogliente.
Titubante mi mordicchiai un labbro,
poi lo seguii, tentennando,
sedendomi con le gambe unite e la testa bassa.
«Problemi con la
gravidanza? O… con Edward?» mi
chiese, rompendo il silenzio imbarazzante e tentando di venirmi
incontro.
Scossi il capo con determinazione.
«No, anzi… Direi
che… è il contrario» deglutii, sentendo
un ronzio nelle orecchie. Volevo
chiedere a lui, essere rassicurata, ma… quella cosa mi
imbarazzava da morire!
Sussultai quando sentii le sue mani
posarsi sulle mie.
Mi sorrise. «Puoi chiedermi tutto ciò che vuoi
Bella, rimarrà fra noi» mi
rassicurò.
Strinsi anch’io la presa,
facendomi coraggio. «Ecco… È
da tanto tempo che io e Edward non…» mi
interruppi, sentendo le parole morirmi
in gola.
«Ho capito,
continua» disse tranquillamente.
«Ecco…
Vedi… io…» farfugliai, non sapendo da
dove
cominciare.
«Ti preoccupi per la
bambina? Ti garantisco che potete
avere normali rapporti sessuali, l’importate, magari,
è essere un po’ più…
“delicati”, va bene?» mi disse con
cortese professionalità.
Annuii, abbassando lo sguardo sulle
nostre mani,
ancora strette l’une alle altre.
«C’è
qualcos’altro?».
Sospirai, guardandolo colpevole.
«Ho… ho paura» balbettai,
«non di Edward» aggiunsi velocemente «lui
non mi fa nessuna pressione, è
dolcissimo, ma… ho paura di come potrei reagire».
«Capisco» disse
tranquillo, annuendo, «a questo punto
potresti aspettare, se non sei sicura. Se non vuoi, non metterti
fretta».
Liberai le mani dalle sue per
portarle velocemente al
viso, nascondendo un nuovo ed impetuoso rossore.
«È proprio questo il problema…
io voglio. Accidenti se
voglio»
biascicai completamente a disagio.
Le sue mani sui miei polsi me le
fecero abbassare. Mi
fissò con seria gentilezza. «Bella, non farti
condizionare. Se ti lascerai
andare con tranquillità, ti posso garantire che non ci
sarà alcun tipo di
problema. Andrà tutto bene. Parlatevi, raccontatevi i vostri
problemi, le
vostre sensazioni e difficoltà.
L’intimità fisica non può esistere
senza l’intimità
spirituale. E sono sicuro che tutto quello che state passando
renderà te e Edward
più affiatati che mai. Va bene?».
Annuii, già
più convinta. «Sì, grazie»
dissi,
sporgendomi per abbracciarlo.
Lui mi accarezzò la
schiena. «Di nulla figliola».
Sorrisi ancor di più,
contenta, sentendo la bambina
felice quanto me. Mi staccai da lui, accarezzandomi la pancia.
«È sempre molto
contenta in questi giorni. Mi sembra davvero che tutto stia andando per
il
meglio. Mi fa sentire così in pace… E anche
Edward. Anche lui mi sembra tanto
contento» dissi felice.
«Bene» fece,
con un naturale sorriso «ricordati che i
prossimi mesi saranno i più belli della gravidanza. Sarai
più riposata,
tranquilla, serena, e anche più bella. Questo non vuol dire
che puoi esagerare,
ma puoi tranquillamente riprendere tutte le normali attività
che svolgevi prima
della gravidanza» posò una mano ghiacciata sul mio
ventre, accarezzandolo con un’espressione
che si perdeva felicemente lontano. «Sono contento che anche
tu e Edward
possiate assaporare il gusto della famiglia. E ora diventerò
anche nonno! I miracoli
della vita!». Sollevò la testa di scatto, con un
sorriso. «Andiamo, Edward è
arrivato» disse porgendomi una mano per farmi tirare su.
Mi accompagnò con il suo
ombrello fino all’auto, poi
se ne andò con un saluto alla sua Mercedes.
Ancora con un sorriso sulle labbra
lo salutai,
lasciandomi andare sul comodo sedile, beandomi della calda e
confortevole
atmosfera. Decisamente potevo dire che Edward aveva acceso al massimo i
riscaldamenti. Mi voltai, osservando mio marito.
Non sapevo se per
l’effetto dello sbalzo di
temperatura, o per la visione del suo viso, ma le gambe mi tremarono
seriamente, tanto che se non fossi stata seduta sarei crollata
sicuramente a
terra.
Aveva il collo del giaccone alzato,
le ciglia scurite
e bagnate per la pioggia e i suoi occhi liquidi e contrastavano con il
pallore
del suo volto. Avrei voluto essere ognuna di quelle goccioline che ne
adorava
il volto. Avrei dato qualsiasi cosa per possedere fra le mani quei
morbidissimi
capelli umidi e fra le labbra quelle rosee curve perfette…
cielo! Si poteva morire
per la visione della perfezione?
«Tutto bene?»
mi chiese, facendo formare una ruga fra
le sopracciglia.
Per carità! Fatemi
essere al posto di quella perfetta
flessione arcuata della sua pelle bianca… Annuii
velocemente, tentando di
dissimulare il mio vero stato, non sicura di come sarebbe stata la mia
voce in
quel momento. E se, ora che realmente potevamo, ci fossimo spinti
veramente
oltre?
Allontanai velocemente lo sguardo,
tentando di darmi
un contegno.
Edward ingranò la prima
e accelerò.
In poco tempo ci trovammo davanti
ad un Mc Donald a
Port Angeles. Lui non voleva assolutamente farmi mangiare una di
quelle, come
le definiva lui, schifezze, e anch’io e avevo sempre reputate
tali, finché non
me ne era venuta voglia.
«Dai, te ne prego! Ho
così tanta voglia di quelle
patatine ipercaloriche e di quei panini pieni di grassi,
che… oh, su te ne
prego».
Mi sorrise. «Sembra che
tu li ami più di quanto ami me»
insinuò.
Sbuffai, intrecciando le braccia
sotto al petto,
offesa.
«Va bene, va bene,
vado» si arrese, scendendo
dall’auto.
Tornò con due sacchetti
di cartone pieni di cibarie
varie, di tutti i tipi.
«Oh, ti adoro, lo sai che
ti adoro!?» esclamai,
inspirando l’aroma di cibo “artificiale”
e strappandoglieli dalle mani. Mi
tuffai nel cibo lasciandomi andare in mugolii di soddisfazione. Stavo
morendo
di fame.
«Mangia piano»
mi rimproverò bonariamente, scuotendo
il capo e osservandomi mangiare.
Riuscii a finire appena
mezzo sacchetto di leccornie.
«Sei sazia?» mi
chiese Edward.
Annuii, soddisfatta, pulendomi la
bocca.
«Bene».
Velocemente prese il cibo che avanzava e lo
gettò nel primo cassonetto che incontrammo sul ciglio della
strada.
«Ehi, perché
l’hai fatto?! Potevamo portarlo a casa!».
«Proprio per questo
l’ho fatto, per evitare che
mangiassi ancora quelle schifezze».
Roteai gli occhi al cielo, ma
evitai di ribattere
ancora, dopotutto ero pienamente soddisfatta di quello che avevo
mangiato e
sapevo che gli era costato un certo sacrificio andarmi a comprare
quelle
“schifezze”.
Non potei fare a meno di ansimare
lievemente, quando
vidi a che velocità stavamo andando.
Con la coda dell’occhio,
ancora sbarrati, fissi sulla
strada, potei vedere Edward voltarsi verso di me, allarmato.
Immediatamente
scalò la marcia, fino a portarsi a una dignitosissima quota
di 90km/h.
Mi lasciai andare sul sedile
cacciando un sospiro fra
i denti. Non sapevo cosa dire. Non sapevo neppure perché
avevo reagito così.
Avevo avuto paura, un attimo di pura paura. Forse era stata
semplicemente la
bambina…
La sua mano prese la mia, facendo
intrecciare le
nostre dita. Si voltò verso di me, sorridendomi con calma e
tranquillità.
Sentii il battito del cuore
diventare man mano
regolare. «Guarda la strada, per favore» mormorai,
riacquisendo leggermente il
controllo della voce.
«Va bene»
acconsentì, senza fare storie.
Quando fui abbastanza calma mi
concedetti il lusso di rilassare
i muscoli, prima abbandonandoli sul sedile e poi stiracchiarmi
debolmente. Mi
stesi su un lato, in modo da avere la completa visuale della sua
figura, ottima
terapia contro la tensione.
Di solito, dopo mangiato, mi
addormentavo sempre.
Tuttavia, quando i miei occhi incontrarono la sua figura non riuscii
più ad
assopirmi. Accadde la stessa cosa che era avvenuta quella mattina,
anche più
amplificata.
Osservai i suoi occhi, tranquilli,
fissi sulla strada.
Era una vera goduria vederlo così. E poi era così
sexy quando guidava. Osservai
i suoi movimenti fluidi mentre spingeva a fondo un piede per frenare.
Osservai
le sue dita affusolate che facevano ruotare il volante. Osservai il
gesto
naturale con cui i muscoli del suo avambraccio si contrassero mentre
cambiava
marcia…
Dio! Fatemi essere quella leva del
cambio!
Mi sembrava di essere appena salita
su una
meravigliosa giostra che non la smetteva di ruotare, in modo
così armonico,
flessuoso…
Si voltò verso di me,
sollevando un sopracciglio.
Mi mordicchiai il labbro,
strofinando inconsapevolmente
con la schiena sul portello. Mi sembrava di poter esplodere da un
momento
all’altro. «Sei… sei
così… sexy…
quando guidi» farfugliai, imbarazzata.
Le sue labbra si piegarono in un
sorriso malizioso.
«Quando guido?» mi chiese carezzevole.
«Sì» mi lasciai sfuggire dalle labbra.
«Quando… quando
cambi marcia» biascicai quasi inconsapevolmente, tremando,
stregata da quello
sguardo.
Ridacchiò, divertito da
quel gioco. «Così?» chiese
roco, scalando a facendo rombare il motore.
«Edward»
ansimai, completamente rossa in volto.
Non riuscii più a
contenermi. Veloce mi avvicinai al
suo collo, abbassando, in un gesto febbrile, la camicia con una mano e
cominciando a divorarlo di baci.
Emise un breve ringhio di
apprezzamento, ma dopo pochi
istanti non resistette più e mi prese per la vita e
facendomi ruotare fino a
farmi stendere con la testa sulle sue gambe, divorando con la stessa
intensità
le mie labbra.
Assurdo che appena pochi minuti
prima avessi avuto
paura della velocità con cui guidava…
Nel movimento urtai contro il cd,
che si inserì
nell’autoradio, facendola accendere.
Uno sulle labbra
dell’altro, ridemmo, sentendo la
canzone che era partita.
Cominciai a cantare, apostrofando
il cantante e
cominciando a muovermi a ritmo di musica. Sapevo di essere piuttosto
goffa, ma
proprio per questo era una scena davvero esilarante, infatti lui non
faceva
altro che ridere. Mi sollevai, mettendomi seduta sul mio sedile, senza
mai
smettere di dondolarmi avanti e indietro.
«Su amore, non fare
così» ghignò Edward, parcheggiando
sul vialetto di casa nostra.
Feci una finta espressione
innocente. «Così come?»
chiesi maliziosa, passandomi la lingua sui denti.
Con un ringhio e risata mi trovai
in camera nostra,
con le labbra di Edward incollate alle mie. Stava accadendo tutto
così in
fretta e in maniera così naturale che… mi
sembrava che non ci fosse tempo per
pensare. Ripresi un attimo fiato quando si staccò. Con un
dito indicai
l’impianto stereo e dopo cinque secondi le note della stessa
canzone che
stavamo ascoltando nell’auto si diffusero nella stanza.
Sperai che avesse
premuto il tasto di ripetizione, perché non avevo intenzione
di smettere presto…
Mi sentii afferrare con impeto
dalla vita e trovai le
mie labbra incollate alle sue.
Mi staccai immediatamente, seguendo
non so quale
ragione. Potevo rimanere a rimuginare sui miei problemi? Potevo
rimanere a
pensare a come mi sarei dovuta comportare? Volevo giocare. Avevo una
dannata
voglia di giocare con quel sensualissimo vampiro. Magari, avrei potuto
prendere
in mano la situazione, in modo da poter regolare con i miei tempi e
togliendo
Edward dall’ansia e dalla paura di fare qualcosa di
sbagliato.
Mi allontanai un po’
ancheggiando lievemente. Non
sapevo ballare, e questo era assodato, ma potevo dimostrarmi lievemente
sensuale? Lui mi lasciò fare, segno che condivideva il mio
modo d’agire e che
voleva lasciarmi i miei tempi.
Così mi sfilai il
cappotto, sorridendo maliziosa.
Avevo le guance arrossate, sia per l’imbarazzo, che
per… l’eccitazione.
Quando venne il momento di sfilarmi
la sciarpa pensai
bene di fare una cosa che avevo visto fare in molti film. La gettai
intorno al
suo collo e lo strinsi forte a me, scontrando le mie labbra con le sue,
piegate
in un malizioso ed eccitante sorriso sghembo.
A quel punto si staccò,
assumendo per un attimo il
controllo. Mi fece girare su me stessa e poi ruotare fra le sue
braccia, fino a
farmi trovare in un istante a testa in giù e con le nostre
bocche ancora unite
in un frenetico bacio. Stava andando bene, stava andato tutto
perfettamente. Mi
feci più audace, pensando che tutto si sarebbe concluso al
meglio.
Ansimai staccandomi e riprendendo
le redini del gioco.
C’era una tale complicità fra di noi, una tale
semplicità nei movimenti, una
tale frenesia, derivante anche dalla musica… Carlisle aveva
ragione, mi dovevo solo
lasciare andare, io e Edward eravamo in perfetta sintonia, non ci
sarebbe
potuto mai essere nulla di sbagliato. Volere
è potere.
Succhiai con ardore il lobo del suo
orecchio, prima di
girare velocemente su me stessa, guidata dalle sue mani. Sentivo girare
tutto
così velocemente…
Alla fine, con la testa che mi
girava pazzamente
veloce, persi completamente l’equilibrio e caddi, stesa sulla
moquette accanto
a Edward, ansante.
La musica era appena finita, e si
sentiva solo il rumore
dei nostri respiri agitati, soprattutto il mio. Mi voltai verso di lui,
sorridendo
maliziosa. Volevo andare oltre, sentivo di poterlo fare, magari
continuando ad
avere il controllo della situazione…
La musica ricominciò. Aveva messo il ripetitore.
Ruotai su me stessa, fino a finire
a cavalcioni sulle
sue gambe. Cominciai a baciarlo con bramosia, ardore, passione. Vedevo
solo
lui. Lui, il suo corpo, le sue labbra… che differenza
faceva? Se l’avessi
potuto mangiare sarebbe già stato il mio succulento pasto.
«Bella, Bella»
mormorò roco afferrandomi per la nuca e
ansimando al mio orecchio.
Sentii delle scariche elettriche
irradiarsi per tutto
il corpo, mentre un innaturale calore si impossessava completamente di
me. Ce
la potevo fare, non c’era più nulla che mi avrebbe
fermata. Eravamo io, Edward,
il nostro amore e la nostra passione!
Gemetti stringendo con forza i suoi
capelli. Mi
sembrava di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, ed era
proprio lì che
dovevo andare, dopo aver pensato in maniera meno casta possibile a
Edward. «Spogliami,
spogliami Edward, non ce la faccio più… ti
voglio… dannazione…».
Non se lo fece ripetere due volte,
ma trovò un modo
più rapido, ed anche più eccitante, di togliermi
i vestiti: strappandoli e
lasciando baci sulla pelle rimasta ormai nuda.
Gradendo altamente il gesto seguii
l’esempio, e feci
lo stesso con i suoi.
Le mie mani erano così
bramose, così avide di lui, che
continuavo a toccarlo, tremante, in continuazione; non mi bastava mai e
mai,
volevo averlo più vicino di un contatto, neppure quello mi
bastava, ogni minima
vicinanza, era sempre troppa, ogni ansito, troppo poco.
Neppure la sua pelle di ghiaccio
poteva raffreddare i
miei seni, che, bollenti, si scontravano contro il suo petto. Non
potevo e non
volevo lasciarmi spazio per pensare. Avevo pensato che potesse essere
difficile
per me, ed era vero, era così; era difficile contenermi per
non essere troppo avventata.
«Sei sicura?»
domandò, ansimando, vicino al mio
orecchio.
«Edward»
biascicai più ansimante di lui «sono
sicurissima» feci, riprendendo a divorargli le labbra con le
mie.
Si staccò, cercando un
altro momento di lucidità. «Non
dobbiamo farlo solo perché possiamo».
«No» sussurrai, nuda davanti a lui
«lo facciamo perché
vogliamo. Ti amo» aggiunsi, e questa volta fu lui ad
avvicinarsi alle mie
labbra.
«Ti amo»
ripose, riprendendo a baciarmi.
Nulla poteva bastarmi. Neppure
sentirlo gemere, roco,
il mio nome, in preda all’eccitazione. Dio, come mi
scioglievo sapendo che ero
io a causargli tutto quello!
Non mi bastò neppure
quando lo sentii tanto vicino
quanto mai, da ormai troppo tempo, potessi immaginare di poterlo avere;
ero insaziabile,
e pensare che lo sarebbe stato anche lui mi faceva letteralmente
impazzire!
Dopo avermi lasciato
abbondantissimo spazio, e tempo, capì
di poter cominciare ad agire anche lui. Prese in mano la situazione,
sollevandosi velocemente, sempre unito a me, e facendomi scontrare con
la
schiena contro il materasso. Al contrario di me era più
calmo e delicato, ma
anche, decisamente, più sensuale e passionale.
«Amore…
amore… Bella… ti amo, ti
amo…» mormorò roco,
regalandomi in tutti i modi che conosceva inimmaginabili piaceri.
«Mio Dio! È
tutto amore questo?!» esclamai, urlando,
persa in un lago di piacere.
«No…
follia» ringhiò divertito guidandomi verso il
pazzo piacere.
Sospirai, stringendomi sul seno,
molto più dolorante
del normale, le coperte. Era incredibile come mi sentissi felice. Avevo
agito,
senza pensare, lasciandomi completamente andare ai piaceri,
all’eccitazione,
all’amore. Amore che finalmente ci univa ancora una volta,
ancora di più.
Baciai il petto di Edward
inspirando il suo odore
ancora così tanto marcato. Era stato così
passionale, eppure anche così dolce
con me. Si era lasciato prendere per mano e guidare verso il piacere,
finché
non aveva deciso che poteva mostrarmi il suo sentiero, ancor
più bello di
quello che stavo percorrendo io.
Avevo tutto quello che potevo
desiderare. Edward, la
bambina, una famiglia che mi voleva bene. I prossimi sarebbero davvero
stati i
più belli della mia vita, soprattutto se ogni giorno fosse
stato come quello…
Arrossii, ripensando alla mia audacia.
Sentii Edward ridacchiare.
«Hai fame?» mi chiese,
baciandomi una guancia calda.
Scossi il capo, serena.
«Mangiare ora non rientra nei
miei bisogni primari» mi voltai verso di lui, sorridendogli.
Anche lui aveva la mia stessa
espressione tranquilla,
come se per la prima volta dopo tanto tempo potesse concedersi di avere
speranza che tutto sarebbe andato per il meglio. Posai un dito sulle
sue
labbra, soddisfatta di sentirle tiepide. «Edward.
È stato magnifico» sussurrai,
desiderosa di comunicargli che tutto, davvero, era andato per il
meglio. Che la
nostra vita era perfetta e che più nulla l’avrebbe
rovinata.
In risposta mi baciò il
collo, scendendo poi, con una
mezza risata, sotto le coperte, fino a posare le labbra sulla mia
pancia nuda.
Sorrisi, lasciandomi baciare con
delicatezza e permettendo
alle sue labbra di adorare ogni centimetro della mia pelle. Mi rilassai
completamente, facendo vagare, lontano, i miei pensieri, annullando
ogni
resistenza e ogni tensione.
D’improvviso,
però, accadde qualcosa che non avevo
previsto. Ansimai, velocemente, più volte, sentendo le
pupille dilatarsi e il
cuore battermi fortissimo nel petto.
Vidi il volto di Edward a pochi
centimetri dal mio,
mentre quella sensazione fulminea svaniva, scemando man mano.
«Bella?» mi
richiamò preoccupato.
Ridacchiai, facendo comparire
un’espressione confusa
sul suo volto. «Non è niente Edward, è
stata la bambina. Temo che abbia
apprezzato particolarmente l’improvvisa felicità
della mamma» dissi,
riferendomi allo stato di puro piacere vissuto nel corso del
pomeriggio.
Edward si lasciò
scivolare su un lato, poi mi
abbracciò, lentamente, posando le labbra sui miei capelli.
Rimasi interdetta, con la bocca
aperta e le gambe
piantate sul terreno. La mano posata sulla portiera ancora aperta.
«Alice»
deglutii «Dove. Mi. Hai. Portata?».
«Bellissimo, non
è così?» disse indicando
l’immenso e
coloratissimo edificio, posto su uno dei lati del parco commerciale di
Seattle.
«Questo è il “Mom
& Baby Planet”! Il più fornito
centro commerciale dello stato di Washington e della West Coast
che vende tutto quello che può servire ad una donna incinta
e al suo bambino!
Non è meraviglioso?!» spiegò, come se
stesse elogiando l’immensa bellezza di
un’opera d’arte.
La fissai eloquente.
La sua espressione, sul piccolo
visino, divenne secca
e dura, nulla a che vedere con quella radiosa che aveva fino a pochi
istanti
prima. «Oh, senti. Non fare storie! Ti ho anche concesso di
portarti dietro
Edward!».
Lui mi venne accanto, circondandomi
le spalle con un
braccio e baciandomi la fronte. «Ti prego di non parlare di
me come se fossi un
cagnolino» fece, con una punta di risentimento.
«Alice! Ma non dovevamo
venire qui! Non erano questi i
patti» la sgridai con disappunto.
Si sentì la risata
cristallina di Rosalie, appena
scesa dall’auto. «Credi forse che ti avrebbe
concesso di andare in quel
negozietto quattro per quattro di Port Angeles?».
«E va bene»
concessi, considerando che non ero
dell’umore adatto per litigare. Quella mattina mi ero
miracolosamente svegliata
senza alcun senso di nausea, ma appena l’avevo comunicato a
Edward, Alice e
Rosalie erano piombate in casa col chiaro intento di trascinarmi a fare
shopping. E come si dice? “Via il dente via il
dolore”. Anche perché presto
avrei avuto reali problemi con i jeans troppo stretti…
«Su, su, muoversi,
veloci! Non c’è un istante da
perdere, ci sono così tante cose da acquistare! Seguitemi e
non cedete il
passo!». Alice ci guidava come un cicerone fra i grandi
corridoi colorati con stucchevoli
colori pastello e intrisi di profumi dolciastri a base di vaniglia,
fragola, e
zucchero filato. Non mi sarei affatto stupita se la nausea fosse
tornata.
«Allora, bisogna dare un
ordine e una priorità!»
cominciò, gesticolando per aria «io direi di
cominciare a pensare e comprare in
rosa!».
Se Edward non mi avesse trattenuta
sarei sicuramente
andata sbattere contro Rosalie, improvvisamente piantata con i piedi
saldamente
a terra. «Rosa? Alice, ti
prego, ne
abbiamo discusso. Non vorrai fare un intero guardaroba rosa alla
bambina!?».
È vero che ne abbiamo
discusso, e penso fossimo
d’accordo che dovevamo convincere la bimba di essere una
femminuccia, non è
così?».
Mi voltai verso mio marito, con
un’occhiata molto
eloquente. Quella non era la prima discussione che avveniva fra Rosalie
e Alice
sulla bambina, nonché su me, e di solito si protraevano per
parecchio tempo.
Lui mi sorrise, ignorando e sue
sorelle e posando una
mano sulla mia pancia. «Come sta la nostra
piccolina?».
Sorrisi anch’io,
chiudendo gli occhi e facendo
scivolare la sua mano appena sotto la mia maglietta. Sentii
l’apprezzamento
provenire dalla bambina; quel piccolo, dolce, pezzettino di cioccolata
sospeso
in un dolce latte. «È contenta. Come sempre in
questo periodo» dissi felice,
aprendo gli occhi.
«Direi che dovremmo
mettere fine alla discussione se
vogliamo tornare a casa entro stasera».
«Già».
Misi due dita in bocca, voltandomi
determinata verso
le mie sorelle, che stavano continuando a discutere, ed emettendo un
fischio
acuto e deciso.
Si zittirono in contemporanea,
voltandosi verso di me orripilate.
«Ha fischiato?».
«No, dico, ho sentito
bene?».
«Una donna incinta, la
grazia e la tenerezza fatte
persona…».
«…ha
fischiato».
Sollevai i palmi.
«Sentite, prima che facciate i
vostri piani su cosa dovete comprare prima o dopo, ecc, ecc…
Tenete ben
presente l’unica mia piccola richiesta» dissi,
fissando Alice.
I suoi occhi divennero per un
istante neri e lontani,
poi si riscosse, con un’espressione felice.
«Perfetto!» esclamò, ricominciando
a camminare a passo sostenuto. «Allora, dicevamo, ci vuole
rapidità. Dobbiamo
comprare di tutto. Dagli scalda-latte, ai passeggini, ai vestitini,
alle pancerine, ai
giocattoli…».
«Non dobbiamo mica
comprare tutto oggi» dissi
divertita, stringendomi a Edward.
Rosalie e Alice risero
contemporaneamente. «No,
infatti, questo è solo l’inizio».
Alzai gli occhi al cielo.
«Stop!»
esclamò Alice, voltandosi con una mezza
piroetta verso di noi. «Ora, io e Rosalie, andiamo a prendere
i cataloghi, là,
e là» disse, indicando due punti alle nostre
spalle, «in modo da pianificare un
piano rapido e
efficiente. Voi due qua e qua»
continuò, facendo due mezzi archi con le braccia
«comincerete con le basi»
disse, con un ghigno sospetto in
volto.
Non feci in tempo a chiedere
spiegazioni che mi mise a
tacere con un gesto secco. Schioccò le dita due volte.
«Nicole!».
Immediatamente una commessa con una
paralisi-sorriso-facciale in volto, vestita con una salopette arancione
e una
maglietta a righe vede pastello, si presentò al nostro
cospetto, come un fungo
spuntato in mezzo alla pioggia.
«Occupati di
loro» ordinò Alice, prima di scomparire
con Rosalie al suo seguito. Non mi domandai come facesse Alice a
conoscere la
commessa di un negozio del “Mom
& Baby
qualcosa”, mi sarebbe cosato solo un inutile sforzo
mentale e tanto mal di
testa.
«Buongiorno e benvenuti
al negozio di intimissimi per
mamme» si presentò zuccherosa.
Strizzai gli occhi, reprimendo un
violento moto di
rossore e l’istinto di strangolare mia sorella.
«Allora, cara
mammina!» esclamò, posando le mani calde
sulla mia pancia.
In quel momento pensai seriamente
che di essere
provvista di un’aura dorata di luccichio. Era come se in un
istante, per lei,
nella stanza fossi esistita solo io. Che
cara! Pensai sarcastica.
«È piccina
questa pancia, non si vede quasi! A che
settimana sei?» chiese sbattendo le ciglia contro i suoi
occhi truccati.
Ovviamente, color pastello, s’intende.
Sembrava, dopo tutto, una ragazza
dolce, e io avevo
solo voglia di svagarmi un po’, e soprattutto non pensare che
mi trovavo,
insieme a Edward, in un negozio di intimo. «Beh, è
ancora un po’ presto…»
dissi, imbarazzata per i suoi modi così confidenziali,
«sono solo alla
dodicesima».
Si voltò, come se avesse
appena saputo dell’ascesa di
un nuovo messia, fugacemente verso Edward, e poi verso me, con lo
stesso
sorriso paralizzato. Poi, nuovamente, sostando molto
a lungo su Edward. Il mio luccichio era improvvisamente
scomparso, spostandosi su di lui. «Lei è il
fratello minore?» chiese trasognata,
sbattendo vigorosamente le ciglia.
Primo. Perché fratello?
Secondo. Perché minore?
Terzo. Perché
ha dato del lei a Edward quando poi
a
me a messo le mani sulla pancia?! Alzai gli occhi al cielo.
«È mio marito» dissi,
divertita.
Edward le sorrise gentilmente,
scostando le sue mani,
che ancora giacevano inerti sulla mia pancia, e accarezzandola.
«La bambina
nascerà a maggio».
Nicole, non diede nessun segno di
ripresa, anzi, sentendo la
voce di Edward si sciolse ancor di più, facendo aumentare la
mia ilarità. Infine
si defilò con un’espressione confusa, dicendoci
che
sarebbe tornata subito.
Non appena fu via scoppiai in una
fragorosa risata.
«Oddio, Edward! L’hai irretita con uno sguardo!
Sembrava non avesse mai visto
un uomo in vita sua» sghignazzai.
«Povera
ragazza» fece, contenendo un sorriso. Poi si
voltò verso di me, con aria di rimprovero. «Dovevi
per forza dirle “È mio
marito”» fece, imitando la mia voce
e marcando eccessivamente l’aggettivo possessivo.
«Ehi, mai mettersi contro
una donna incinta! E poi
l’hai sentita anche tu, no?! “Lei,
è
il fratello, minore”!».
Scoppiammo a ridere insieme.
Quando tornò, sembrava
essere ritornata normale, e tutte
le sue attenzioni
furono nuovamente canalizzate su me e la mia pancia. «Allora,
partiamo dalla
cosa più semplice, i reggiseni».
Arrossi, mordicchiandomi il labbro.
«Si deve tenere conto di
un certo aumento di taglia,
ma prima mi deve dire quale portava prima».
Farfugliai qualcosa, rossa come un
peperone, inveendo
mentalmente contro Alice e Rosalie.
«Una seconda»
rispose Edward al mio posto, togliendomi
dall’imbarazzo. Poi, quando la commessa fu distratta per
prendere dei modelli
da mostrarmi, si avvicinò al mio orecchio, stringendomi da
dietro, e disse «una
misura perfetta, una coppa di champagne».
Finalmente, prima che ci potessimo
perdere fra
reggiseno con coppe e sostegni regolabili, anallergici, antibatterici,
con
pizzi e diversi colori, Rosalie e Alice tornarono da noi. Con loro
scegliere fu
molto più facile data l’esperienza in materia.
Edward aveva preferito rimanere in
silenzio, almeno
finché non venne il momento di scegliere le pancerine
e intervenne apprensivamente per non prenderne di troppo strette,
considerando
i problemi che c’erano stati all’inizio di
gravidanza.
Tentavo di non farmi trascinare
troppo da Rosalie e
Alice, lasciando nella maggior parte dei casi che scegliessero per me
quello
che era più giusto. Alice tenne conto della mia piccola ma
decisa richiesta e
poté sbizzarrirsi per il resto, comprandomi un intero
guardaroba di vestiti. Io
preferivo rimanere un po’ indietro, insieme a Edward, godendo
del contatto con
lui e con mia figlia.
Guardavo le donne, che mi passavano
accanto, molte
delle quali con ingombranti pancioni, accompagnate da un delizioso
clima
familiare.
«Isabella
Swan».
Mi raggelai, appena di fronte ad un
ingresso che
comunicava con un altro edifico del parco commerciale. Avevo sentito
quella
voce così poche volte… e… non mi sarei
affatto aspettata di sentirla nuovamente
in quelle circostanze. Vi voltai, stupita, fissando gli occhietti scuri
del
professor Danbaster, il
professore che aveva strepitosamente
valutato il mio dipinto de “La Cortigiana”.
«Pr…professore» balbettai, rossa e
imbarazzata. «Che
piacere».
«La trovo in ottima
forma, non è così?» chiese
fissandomi con un sorriso sardonico, osservando poi, da sopra gli
occhialetti,
un punto accanto alla mia spalla.
Edward, notando che mi ero fermata,
stava ritornano
indietro.
Notai che i due si fissavano in
silenzio, così,
dissipando il mio rossore e la mia sorpresa, mi accinsi a presentarli.
«Mmm…
Edward, il mio professore di disegno creativo, Danbaster.
Professore, lui è Edward» deglutii
«m-mio… miomarito».
Il ghigno del professore si
allungò ancor di più, ma,
stranamente, non face alcun commento su quel punto o sulla nostra
giovane età.
Lanciò una strana occhiata astuta a Edward e gli tese le
dita sottili. «Mi
chiami pure Philip. Anche tu, Isabella».
Non ebbi il coraggio, nel disagio
naturale in cui mi
trovavo, di correggerlo e dirgli di chiamarmi Bella. Non ero abituata a
condividere quel genere di cose con Edward. Non che non volessi, ma,
semplicemente, avevo imparato a viverle in maniera più
riservata.
Lui fu molto cortese.
«È un piacere conoscerla Philip,
mia moglie mi ha parlato molto di lei».
«Già,
già» fece il professore, saettando con lo
sguardo fra me e Edward. «Spero di vederla quanto prima in
università, la sua
assenza si è fatta sentire».
Arrossi ancor di più,
scoccando un’occhiatina a
Edward. «S-sì. La… la prossima
settimana» mormorai, abbassando poi lo sguardo.
«Bene, buona giornata
dunque» si congedò, salutando.
«Buona
giornata» salutai, quando fu troppo lontano per
sentirmi. Mi portai una mano sulla pancia, continuando a tenere lo
sguardo
lontano, verso il punto in cui il professore era scomparso. Sorrisi,
contenta,
ricordandomi che fra una settimana avrei ripreso la mia carriera
universitaria.
«Edward, penso di avere molta fame» constatai,
ancora sovrappensiero.
Dato che Alice e Rosalie erano
scomparse da qualche
parte a cercare i migliori lenzuolini antibatterici-ipoallegenici-antisfregamento per la bambina,
rimasi seduta sulla
panchina, con la promessa che non mi sarei cacciata nei guai, mentre
lui andava
a prendermi qualcosa da mangiare. Sarei sempre potuta andare con lui,
ma avevo
il terrore che la tavola calda facesse insorgere nuovamente la nausea,
così
rimasi buona, buona a coccolare la bimba.
«Vedrai che ti
piacerà l’università. È vero
che non
potremmo stare con papà tutto il tempo, ma conosceremo tante
altre persone.
Anche il professor Philip, sai» mormorai, sfregando il ventre
con movimenti
circolari. Quel professore aveva un non so che di strano, e mi aveva
lasciato
un presentimento… particolare.
Probabilmente era solo
l’effetto che mi faceva la
bambina in risposta ai miei sentimenti.
Alzai il capo, in cerca di Edward.
Di solito era più
veloce. Repressi il moto d’angoscia. Quello, ne ero sicura,
era opera di quella
monella della bambina. Figuriamoci se potevo estendere il mio istinto
materno su
di lui!
Improvvisamente i miei occhi si
posarono su una
piccola vetrina, illuminata da alcune luci gialline e con le tende
arancioni.
Mi sollevai come catturata da quello che vedevo, avvicinandomi
lentamente. I
miei occhi erano fissi sull’oggetto posto esattamente al
certo di essa; mi
accorsi che avevo mosso una mano per sfiorarlo quando le mie dita
incontrarono
il freddo del doppio vetro.
«Bella». Sentii
la voce di Edward appena alle mie
spalle, ma non mi voltai, rapita com’ero da quel minuscolo
oggetto e dalle
immagini che mi aveva evocato.
Erano dei piccoli calzini bianchi
ricamati. Piccoli…
tanto, tanto piccoli. Vidi la
soffice pelle rosea di
quei minuscoli piedini, grandi quanto metà di un pollice.
Vidi dieci perfette ditine
tonde, ognuna più piccola dell’altra; dieci
cerchietti soffici e morbidi da mordere che si agitavano a destra e a
manca con
la magnifica scoordinazione degna di ogni neonato.
Sentii la mano grande e perfetta di
Edward posarsi
sulla mia, poggiata sulla vetrina.
«Penso che la nostra
bambina avrà piedini piccolini
come quelli» mormorai, ancora stregata da quello che vedevo.
Sbattei le
palpebre, cancellando le piccole goccioline che si erano formate.
«Sono
bellissimi».
Le sue labbra, in un sorriso, si
posarono sulla mia
guancia. «Lo penso anch’io» disse,
posando l’altra mano gentilmente sulla mia
pancia.
Dieci minuti dopo girovagavamo per
il centro
commerciale con un pacchetto rosa con un fiocco, contente
l’oggettino che aveva
fatto scattare la mia fantasia e l’ammirazione di Edward.
«Grazie di esserti
ricordato le caramelle» dissi,
addentandone un’altra.
Mi sorrise, guardandomi con amore.
«Non mangiarne
troppe».
Puntai un dito sul suo petto.
«Hai paura che io possa
ingrassare? Dì la verità» lo stuzzicai.
Alzò gli occhi al cielo.
«Non essere sciocca Bella,
sei magrissima».
«Mmm»
mi piantai con i pedi
a terra, avvicinandomi a lui. «Mi daresti un
bacio?» chiesi, accarezzandogli il
petto.
Sorrise, avvicinando le sue labbra
alle mie. Da quando
ci eravamo amati, nuovamente, anche fisicamente, non c’era
più stata occasione,
per un motivo o l’altro, di rifarlo. Non che ne sentissi la
così impellente
necessità… Beh, forse solo un po’.
«Edward, Bella, ma dove
vi eravate cacciati?».
Anche se non erano ancora
pienamente soddisfatte, Alice
e Rosalie decisero che potevamo tornare a casa, avevano comprato gran
parte dei
prodotti più urgenti e
preso
appuntamenti e cataloghi per gli altri.
Posai una mano sul finestrino
dell’auto, distogliendo
lo sguardo dal paesaggio, che, velocissimo, correva accanto a noi.
«Alice, te
ne prego, rallenta. Credo che alla bambina non piaccia la
velocità, non vorrai
farmi rimettere tutto il pranzo?».
Edward, seduto sul sedile
posteriore della Porsche, accanto a
me, si chinò fino a
posare delicatamente l’orecchio sulla pancia.
«Vorrei sentire anch’io le sue
emozioni».
Gli accarezzai i capelli,
sporgendomi indietro con la
schiena a lasciando che mi accarezzasse. «Puoi sempre sentire
il suo cuoricino».
Lui mi sorrise.
«Sì. Batte velocissimo» disse
contento. Nei ultimi
giorni il suono era diventato più
forte e riusciva a sentirlo con minore difficoltà.
Sorrisi, voltandomi con il capo
verso il finestrino e
osservando il tranquillo fluire del paesaggio.
«Alice» chiamai, osservando le
sempre più vicine abitazioni di Forks. «Ci lasci
da mio padre?».
Accompagnò me e Edward,
di fronte a casa, sul
vialetto, andando con Rose a sistemare tutti i nuovi acquisti a casa
nostra.
Non lo vedevo da qualche giorno, e
nonostante la mia
famiglia vampira spesso andasse da lui ad aiutarlo dopo il suo
infortunio mi
dispiaceva non riuscire a fare qualcosa io stessa.
«Bells!».
La sua espressione
gioiosa fu molto piacevole. Aveva tolto i cerotti sulla fronte e presto
sarebbe
arrivato il momento di togliere il gesso. Quando si trattava di riposo
poteva
essere più insofferente di me.
«Papà»
lo salutai, abbracciandolo goffamente, ma con
sincero affetto.
Quando ci separammo era
completamente arrossito e
potei giurare di scorgere ai lati degli occhi, fra quelle rughe che ne
dichiaravano l’età, delle minuscole goccioline.
«Non vi aspettavo fino a
domani. Come mai qui oggi?» chiese, osservando prima me e poi
Edward.
Lui mi strinse da dietro,
accarezzandomi i capelli.
«Bella voleva controllare che avessi tutto ciò di
cui hai bisogno. Ci fai
entrare? Fa freddo» disse, mimando un brivido.
Sorrisi. Sempre il solito.
«Certo, certo, entrate
pure» fece Charlie,
riprendendosi dallo stupore per quella visita inaspettata e cedendoci
il passo.
Appena dentro osservai la casa.
Tutto era in ordine
grazie all’aiuto di Alice che era stata da lui appena due
giorni prima, nonostante
le sue proteste. Eppure, mi sembrava che a quella casa mancasse il
calore di
quando ci abitavo anch’io. Mi sembrava che tutto, tranne la
poltroncina di
fronte alla Tv e il piccolo tavolino su cui venivano solitamente posate
le
birre, fosse inutilizzato. In cucina notai la lavatrice, carica di
vestiti e la
pila di piatti ancora da lavare nel lavandino. Come aveva potuto creare
quel
disordine in soli due giorni?
«Papà»
lo rimproverai, «perché non mi hai detto che
avevi bisogno di aiuto? Devi lasciarti aiutare. Oh, accidenti. Ti
prometto che
adesso che sto meglio verrò più spesso a darti
una mano. Devo dare una
rinfrescata e soprattutto» dissi schifata, notando
l’immensa quantità di pesce
surgelato e cibo in scatola nel frigo «cucinarti qualcosa di
commestibile!».
Non volli sentire ragioni e mi
tolsi immediatamente
cappotto e sciarpa, rimboccandomi le maniche mettendomi al lavoro.
Lasciai a
Edward e a mio padre, a mio rischio e pericolo, il compito di fare la
spesa e cucinare
una cena degna di tale nome, in modo che potessimo onorare
l’invito di mio
padre di mangiare da lui.
Sapevo che accettare il mio aiuto
era molto più facile
che accettare quello dei Cullen,
che in fondo, per
quanto stesse imparando a volergli bene, erano per lui degli estranei.
Cominciai
dal piano inferiore, aprendo tutti i lustri delle finestre e mi misi a
pulire,
lavare e spolverare, sgranchendo un po’ i miei muscoli che da
tanto tempo non
lavoravano. Non ero mai stata una maniaca delle pulizie, ma solitamente
me ne
ero occupata sia quando vivevo con mia madre che quando ero con mio
padre.
Mi rendeva felice prendermi cura di
lui.
«Bella, dai a
me» disse Edward prendendo la cesta con
i panni sporchi dalle mie mani, prima che potessi iniziare a scendere
le scale
rischiando di rompermi l’osso del collo.
«Dov’è
Charlie?» chiesi sottovoce, guardando di sotto.
«In cucina, sta tagliando
le carote».
Sgranai gli occhi.
«L’hai lasciato solo in cucina?».
Lui scese qualche gradino, con
estrema disinvoltura,
nonostante l’ingombro dei vestiti. «Vado da lui, tu
hai finito?».
«Quasi, rimane solo la
mia camera. Non penso che la
usi mai, ma la voglio comunque pulire. Magari la vorrà usare
per un altro
scopo». Feci spallucce.
«Va bene, fra
mezz’ora è pronto, non fare tardi».
Sorrisi, vedendolo scomparire
dietro la porta del
soggiorno, portandomi una mano alla pancia. Chiusi gli occhi quando
sentii un
forte calore sprigionarsi dentro di me. Presi un grosso respiro. Non
era mai
stata così serena.
Mi voltai verso la porta della mia
camera, lasciando
che i ricordi tornassero alla mente. Pensai al dolore e alla malinconia
che
dovevo avergli causato e quanto, anche lui, dovesse aver sofferto il
mio allontanamento.
Posai le dita, leggere, sul
copriletto, pensando a
quando Edward entrava di soppiatto in camera per dormire con me.
Sfiorai il
comodino, la pesante scrivania, il lento e rumoroso computer
preistorico. Non
avrei mai immaginato che rivedere la mia stanza mi potesse dare tutte
quelle
sensazioni.
Casualmente lo sguardo si
posò sull’armadio di legno
sbiadito. Sentii il cuore battere più veloce, ma solo dopo
qualche istante
capii perché. Vidi, come marchiate a fuoco, le impronte di
due mani calde sulle
ante. Ci doveva essere un vuoto in quell’armadio. Seconda
gruccia, la maglietta
verde. Piegati sulla terza pila, in cima, un paio di jeans scoloriti.
I vestiti che indossavo quando
Jacob era quasi
riuscito a violentarmi. Quelli che lui stesso mi aveva infilato, dopo
avermi
drogata. Che lui stesso era venuto a prendere da
quell’armadio.
Tutto mi pareva come un lontano
ricordo sbiadito, come
se in realtà dentro di me pensassi che fosse stato un sogno.
La mia razionalità
diceva no, è il contrario, ma lottava anche contro
sé stessa per affermare che
non era realmente successo.
Eppure il cuore batteva, batteva forte
come se volesse
uscire dal petto. E sentivo le guance fredde, bianche, e una forte
angoscia
stringermi lo stomaco.
La parte di me che voleva
dimostrare la realtà mi fece
muovere verso l’armadio, mentre sentivo la paura crescere
esponenzialmente.
Posai, con terrore, le mani sul
legno ruvido, pensando
che anche Jacob doveva averlo fatto.
Aprii piano, in un cigolio,
entrambi gli sportelli.
Vuoto.
C’era veramente il vuoto.
Mi lasciai scivolare a terra,
ansante.
Sorprendentemente, la consapevolezza della realtà del
passato non faceva così
paura. Posai una mano sul ventre. La bambina era riuscita a ridarmi la
vita e
una ragione per vivere, era riuscita e farmi stare bene e farmi
riemergere
dall’oblio.
Avevo la sua vita nella mia, e
crescendo mi animava
sempre più, ma quando sarebbe nata?
Avrei avuto lei, e Edward. Non
paura. No, non avrei
potuto aver paura e pensare a quell’eventualità
era un mio stupido problema che
toglieva felicità alla mia vita perfetta.
Mi asciugai le lacrime che,
servendosi della grande
quantità di tensione accumulata in pochi secondi, erano
riuscite a farsi strada
sulle mie guance. Sorrisi, sollevandomi in piedi e chiudendo le ante,
insieme
ai tristi ricordi del passato.
«Bella?». Mi
voltai, vedendo Edward fissarmi
preoccupato. «Tutto bene?» chiese, perplesso,
osservando l’autenticità del mio
sorriso.
Feci qualche passo fino a
stringermi fra le sue
braccia. «Sì, tutto bene» dissi
convinta.
Mi accarezzò i capelli.
«Ricordi quando entravi
in questa camera senza che
papà se ne accorgesse?» chiesi defilandomi dalla
sua presa e tuffandomi sul
letto.
Lui mi sorrise, cauto.
«Certo che ricordo».
Accarezzai il copriletto.
«Vieni qui» lo chiamai
maliziosa, tirandolo per la camicia.
Lui mi lasciò fare,
finché, audacemente, non incollai
con passione le mie labbra alle sue. Poteva, pur essendo immutabile,
diventare
ogni giorno sempre più bello?
Si staccò, ansante,
allontanando il mio volto con le
mani. «Bella, dobbiamo andare, la cena è
pronta».
Mi rituffai sulle sue labbra.
«Voglio stare con te»
mormorai, baciandogli e mordicchiandogli con foga la mascella
squadrata.
Lui mi accarezzò i
capelli. «Bella, c’è tuo padre di
sotto».
«Chi se ne importa. Sono
incinta, credi che non sappia
quello che facciamo?».
«Bella».
«Ha una gamba rotta, non
verrà mai fin quassù».
«Bella!».
Sbuffai, staccandomi da lui.
«Okay, okay, hai
ragione».
La cena, fortunatamente, fu
commestibile, e fu non
poca cosa considerando che era stata cucinata da mio padre e un
vampiro. Fu
molto piacevole chiacchierare con mio padre, e per fortuna fu
abbastanza
distratto da non notare Edward che passava la maggior parte del suo
cibo a me.
«Quindi avete comprato
tutto?».
«Beh sì, in
pratica sì, oggi siamo stati a Seattle e
Alice e Rosalie non si sono risparmiate, come al solito»
dissi con un sorriso.
Mio padre sorrise, a disagio. Poi
si bloccò, come se
volesse dirmi qualcosa. Saettò con lo sguardo sul tavolo,
fino ad incontrare le
patate al forno. «Ne vuoi ancora? Non mi sembra che tu abbia
mangiato molto, si
dovrebbe mangiare di più nel… tuo
stato,
no?».
Arrossii.
«Non ti preoccupare
Charlie, Bella ha mangiato
abbastanza per essere quasi nel secondo trimestre» intervenne
Edward, facendomi
l’occhiolino.
«Oh…
capisco… e quando nascerà la… creatura?» farfugliò
a bassa voce.
«L’otto
maggio».
Abbassò lo sguardo sul
suo piatto, arrossendo. «Tua
madre verrà per Natale?».
«Sì,
certo» risposi, tentando di capire dove volesse
andare a parare con le sue domande.
«Ma ci piacerebbe passere
anche del tempo con te,
sempre per Natale, Charlie, sempre se va bene» disse Edward,
prendendo la
parola, «inoltre, se ci dovessero essere altre ricorrenze,
siamo ben disposti a
passarle in famiglia».
Mio padre parve illuminarsi.
Edward mi rivolse un sorriso furbo.
«Ecco, vedete, fra due
giorni è Halloween, e io
finalmente toglierò questa dannata trappola
mortale» disse, riferendosi al suo
gesso «Al centro della comunità tutti si
raccoglieranno, anche i miei colleghi,
con le loro famiglie, per festeggiarlo» iniziò a
grattarsi la poca peluria che
ancora rimaneva sulla testa «Beh, mi chiedevo se…
vi facesse piacere venirci»
borbottò imbarazzato.
Fissai Edward, che aveva un bel
sorriso incoraggiante
sulle labbra, così mi affrettai ad accettare. «Ma
certo papà, con immenso
piacere!» dissi contenta, sollevandomi dalla sedia e andando
a baciarlo sulla
guancia.
Lui
s’irrigidì, strofinandosi le mani sui pantaloni,
arrabattandosi per recuperare le sue stampelle e dirigersi verso la Tv.
Sorrisi a Edward, che, senza farsi
vedere, mi fu in un
attimo accanto, prendendomi per la vita.
“«Questa
è la
segreteria telefonica di Edward» «E
Bella» - «Non dimenticatevi di Lilla!»
«Emmett smettila, mia figlia non avrà il nome di
un cane!»-
«Probabilmente volevate parlare con noi»
«Ma al momento siamo impegnati» -
«…E sì! A fare chissà
cosa… uh-uh… povera
Lilla!» Un ringhio - «Lasciate un messaggio dopo il
bip, e non preoccupatevi,
Edward non farà troppo male a suo fratello… ci
penserò io!»”.
«Bella,
Bella?
Sono io, Reneè! Ma che razza di segreteria telefonica hai?!
È bellissima, la
voglio anch’io!».
Corsi velocemente dalla camera da
letto fino al
soggiorno, afferrando la cornetta prima che mia madre potesse perdersi
in uno
dei suoi soliloqui. «Mamma» risposi con il fiatone.
«Oh,
Bella,
tesoro! Quanto tempo che non ti sento, sono stata così in
apprensione!». Da
notare il fatto che ci chiamavamo puntualmente ogni giorno. «Come sta la mia nipotina, è cresciuta?
Si
vede la pancia? E Edward? Dimmi, come sta lui? Avete comprato tutto
quello che
serve per la bimba? Lo sai vero che c’è bisogno di
tante cose!? Esme? Carlisle?
Vi stanno dando una mano? E Charlie? Ha tolto il gesso oggi? Hai fatto
l’ecografia? È bella la bambina? Oh…
sicuramente sarà bellissima…».
Sorrisi, vedendo Edward comparire
davanti a me, e
lasciando che mia madre continuasse con la sua serie di domande
insensate. Feci
una smorfia, sollevando gli occhi al cielo, e fui contenta di vederlo
sorridere. Potevo essere certa che quel sorriso fosse autentico, e
considerando
la paura che avevo di vederlo nei suoi momenti tristi, tentavo in ogni
modo di saziarmi
di quelli felici.
«Bella! Vieni qui, devo
finire con te!» mi chiamò
Alice dalla nostra camera da letto.
Edward mi sorrise, porgendomi una
mano con la chiara
intenzione di farsi passare la cornetta.
Mimai un “grazie”
con le labbra prima di passargliela e lasciargli un bacio leggero.
Era arrivato il grande e atteso
giorno di Halloween.
Come promesso a mio padre, saremmo andati alla festa in paese. Subito
dopo aver
accettato, avevo notato in Edward una certa tensione a quella
prospettiva, come
se per un attimo la tristezza che mi era parso di vedere fosse
riemersa, libera
dal suo controllo. Al contrario, io, avevo le idee ben chiare. Avevo
già
chiesto ad Alice, quando mi aveva costretta ad andare insieme a fare
shopping
per la bambina, di dividere sostanzialmente in due tipologie gli abiti
che
avrebbe dovuto acquistare per me.
Quelli da mettere in
università, decisamente sobri e
che nascondessero quanto più la mia pancia, considerando che
fino all’ultimo
avrei voluto mantenere il segreto, come d’altronde avevo
già fatto con Amber e
il professor Philip.
Gli altri, invece, che urlassero quanto fossi incinta e orgogliosa di
essere mamma. Beh, quasi
mamma. In sostanza, volevo sfoggiare la mia piccola pancia, il mio seno
grosso
e il mio smisurato sedere in modo che nessuno avesse di che parlarmi
alle
spalle.
«Alice! Ma cosa mi hai
messo?» chiesi, osservandomi
allo specchio.
Lei batté un piede a
terra, sbuffando. «Sei
semplicemente deliziosa. Mi hai detto che doveva vedersi la pancia!
Beh, si
vede! Non è colpa mia se era troppo piccola
perché potesse notarsi, l’ho dovuta
mettere in risalto!».
Rotei gli occhi al cielo, uscendo
infastidita dalla
stanza.
Notai perfettamente Edward, appena
dietro la penisola
della cucina, soffocare una risata sotto i baffi non appena mi vide.
Gli indirizzai un dito contro.
«Smettila» lo
minacciai, puntando i piedi a terra.
A quel punto scoppiò in
una fragorosa risata, seguita
da una folata di vento e un baciamano. «Tesoro,
sei…» strinse le labbra,
contraendole per non ridere ancora «deliziosa».
Lo fissai di sottecchi.
«Sembro una meringa formato
gigante» protestai poi, stizzita, osservando
com’ero vestita. Avevo dei
semplici e comodi jeans, su mia richiesta, e fin qui tutto bene. Le
scarpe si
poteva dire fossero simili a delle pantofole e sarebbero state perfette
se non
fosse stato per gli enormi ponpon
che vi troneggiavano sopra! E poi, la maglietta… era
così ridicola!
Edward infilò una mano
sotto l’enorme quantità di
tulle, arrivando fino all’elastico che mi stringeva sotto il
seno dando alla
maglia uno “stile impero”.
«Questa
maglietta è perfetta per accarezzare la
bambina…» sussurrò con un sorriso.
«I
jeans ti sono sempre piaciuti e le scarpe sono comodissime».
«E che mi dici del
fermacapelli?».
Nuovamente, sul suo viso apparve la
smorfia curiosa
che faceva quando tentava di non lasciarsi andare alle risate.
«Bella, è
Halloween! Chi vuoi che noti un cerchietto pieno di piume, glitter
e… strass!?».
«Già, chi vuoi
che lo noti?» chiese Alice, comparendo
in un lampo davanti a me. Sentii in un istante le mani fredde sulle mie
guance
e il sapore amarognolo del rossetto sulle labbra. «Un bacio,
ci vediamo
piccioncini!».
Non appena realizzai, con il mio
lento cervello umano,
quello che era avvenuto, mi voltai, intontita, verso lo specchio.
«Alice!
Somiglio a un vampiro alla luce del sole! Erano proprio necessari i brillantin-» mi
bloccai, voltandomi verso Edward e
scoppiando a ridere.
Lui sbuffò, togliendosi
il cerchietto con le antenne
da grillo parlante.
«E no mio caro! Io sono
la fatina e tu sei il grillo,
avanti, su, indossa il tuo costume!».
«Non ci penso
neppure» disse scappando via in una
risata.
Provai ad afferrarlo, ma,
ovviamente, mi ritrovai con
un pugno di mosche in mano. «Vampiri» sibilai.
Fortunatamente, mentre lui era
troppo impegnato a fare
a pezzi se sue antenne verdi, potei liberamente attingere alle
caramelle
destinate ai bambini che avrebbero bussato alla nostra porta. Non che
realmente
credessi che dei bambini potessero spingersi così lontano
dal paese. Nessuno
avrebbe ammirato le meravigliose candele realizzate con amore da Esme e
Rosalie
con delle zucche. Di sicuro erano le più belle in
circolazione.
Sentii il campanello suonare,
così mi affettai a
nascondere il corpo del reato. Forse avevo mangiato un po’
troppe caramelle.
Appena dieci minuti dopo, durante
un breve viaggio in
macchina in cui non feci altro che protestare per il fatto che fossi
l’unica
travestita da qualcosa, realizzai che eravamo quasi arrivati in paese.
Bloccai
le mie lamentele, voltandomi a fissare Edward.
Notai immediatamente il silenzio.
Non silenzio nel
senso assoluto, considerando che Rosalie e
Emmett, sul
sedile posteriore della Aston Martin, continuavano a chiacchierare
animatamente.
Edward guidava, concentrato sulla
strada. Ad un
qualsiasi umano sarebbe risultato normale, considerando la nebbia fitta
che impediva
la visuale e del pericolo che si correva a causa delle foglie umide e
scivolose, ovunque sull’asfalto. Ma lui non aveva certo
bisogno di concentrasi,
grazie ai suoi sensi super sviluppati da vampiro.
Posai, timorosa, una mano sulla
manica del suo
giaccone.
Si voltò, scattando,
verso di me, come se l’avessi
colto di sorpresa.
Corrugai le sopracciglia.
«Tutto bene?».
Lui mi sorrise, distendendo
immediatamente la sua
espressione. Notai che ora anche Rosalie e
Emmett
stavano ora in silenzio. «Certo».
Annuii, voltando lo sguardo verso
il finestrino. Ero
stata così certa del fatto che rincontrare da vicino gli
abitanti di Forks non
mi avrebbe causato alcun problema, che non mi ero affatto posta il
problema di
Edward. Accidenti, com’ero stata sciocca! Ma non avevo potuto
minimamente
pensare che si preoccupasse di quello che pensava la gente. E
tutt’ora pensavo
che per lui non fosse così importante.
«Edward» feci
una pausa, voltandomi verso di lui «non
è necessario che ci andiamo. Se non ti
va…».
«Ma no Bella, cosa
dici» mi sorrise, ma sapevo
perfettamente, per quanto fosse un ottimo attore, che quel suo sorriso
non era
affatto autentico.
«Bellina, non puoi far
saltare tutto all’aria, il
folletto ti ammazzerebbe!» scherzò Emmett tirando
scherzosamente un pugno sulla
spalla di Edward.
«È
vero» aggiunse Rosalie, con la sua voce composta
«millantava le sue doti di truccatrice e costumista, ci
rimarrebbe molto male».
Io non scostai i miei occhi da
Edward, nuovamente
concentrato sulla strada.
Emmett rise. «E poi siamo
arrivati!».
Vidi le lunghe dita bianche,
splendenti nell’oscurità
della sera, stringersi attorno al volante.
Rosalie e
Emmett scesero
immediatamente dall’auto, forse per fretta, forse, per
lasciarci un po’ soli.
Col cuore che mi batteva veloce per
la preoccupazione,
mi avvicinai a Edward, sentendo i sedili in pelle scricchiolare sotto
di me. Gli
posai una mano sulla guancia marmorea, fissandolo nei suoi profondi e
meravigliosi occhi ambrati. «Edward, possiamo tornare a casa.
Non mi importa di
questa festa e poi» abbassai lo sguardo «sono anche
stanca, tutto il giorno
nelle mani di tua sorella» tentai di sdrammatizzare.
Vidi, con la coda
dell’occhio, la sua mascella
contrarsi.
Sentii il cuore battere velocissimo
nel petto, mentre
il silenzio sordo si spandeva fra noi. Avevo dannatamente paura per i
miliardi
di pensieri che, contemporaneamente, potevano affollare la sua mente da
vampiro.
Quando, dopo un tempo infinito,
spostò il suo sguardo
cercando il mio, aveva un’espressione perfettamente serena.
«Charlie ci sta
aspettando, ma non sono ancora disposto a lasciarti andare».
Lo fissai, attendendo che
continuasse, o che magari
cominciasse a spiegarmi il motivo del suo comportamento.
«Prima voglio un bacio da
mia moglie. Posso?» chiese,
posando una mano sulla mia nuca e avvicinandomi a sé.
Annuii, sospirando e rinunciando a
qualsiasi tipo di
spiegazione.
«Bella, Edward! Siete
arrivati finalmente!» esclamò
mio padre venendoci incontro in un’originalissima divisa da
sceriffo d’altri
tempi.
Smisi di guardarmi intorno,
distogliendo con
disinteresse l’attenzione da tutti gli occhi curiosi, puntati
su di me. Strinsi
più forte la mano di Edward, che, sereno, fece passare un
braccio intorno alla
mia vita, stringendomi a sé. «Ciao
papà, come stai? Sei un figurino».
«Non sono mai stato
meglio. Una liberazione» disse,
indicando la sua gamba senza il gesso.
«Buonasera
Charlie» salutò cordiale mio marito. Poi mi
sorrise, accarezzandomi una guancia bollente e rossa a causa dello
sbalzo di
temperatura fra l’esterno e l’aria riscaldata del
centro comunitario di Forks. «Vuoi
dare a me?» chiese, indicando il mio giaccone.
Lo ringraziai, voltandomi di
schiena in modo che mi
sfilasse con galanteria l’indumento.
Se fino ad un istante prima avevo
costantemente
percepito l’occhio inquisitore di tutti posato su di me, non
appena videro
l’evidenza dei fatti potei distintamente sentire un malcelato
“Ohhh!”.
Sorrisi, soddisfatta, voltandomi
verso Edward e
trovando la sua espressione tranquilla.
All’inizio restammo
perlopiù con mio padre, in
disparte, seduti su alcune sedie addossate in un angolo della grande
sala. Beh,
“grande” era un’esagerazione in confronto
all’ampiezza a cui ero abituata.
Fu una piacevolissima sorpresa
rivedere i volti di
Angela e Ben, buffamente travestiti da Alchimista e Pietra filosofale.
Sì,
pietra filosofale. Infatti
Angela era completamente
avvolta in un vestito ambra lucente. «Bella! Aspetti un
bambino?» chiese con
gli occhi sgranati, saettando con lo sguardo fra il mio viso e la
pancia, su
cui stava posata la mia mano intrecciata a quella di Edward.
Sorrisi. «Sì,
è una femminuccia, nascerà a maggio»
spiegai velocemente.
L’entusiasmo che
dimostrò alla notizia fu palesemente
sincero. Mi raccontò con serenità della sua vita
con Ben, al college, di come
stavano andando gli studi. Parlava generalmente con me, in naturale
disagio nei
confronti di Edward. «Bella» disse infine, a bassa
voce e con discrezione,
prendendomi le mani fra le sue e sedendosi accanto a me. «Mi
dispiace
tantissimo per… quello che è successo. Sono stata
molto in pena per te» mormorò
timorosa, ma sincera. «Ho provato, ogni tanto, a chiamarti.
Ma» il suo sguardo
saettò per un istante su Edward «non sono mai
riuscita a parlarti».
Sorrisi, stringendo le sue mani.
«È stato un brutto
periodo, purtroppo. Ma ora è passato, ed è questo
l’importante».
«Ho portato qualcosa da
bere!» esclamò Ben, tornando
con quattro bicchieri di ponce.
Edward storse in naso.
«Credo sia decisamente
corretto. Penso ci sia più alcol che ponce. - Sono astemio,
sento subito
l’odore dell’alcol», aggiunse, a
beneficio delle loro facce dubbiose. Ovviamente
cedettero subito al tono suadente di Edward.
«Mi dispiace Ben, ma non
posso bere alcolici» mi
scusai, alzandomi in piedi e prendendo Edward per mano. «Noi
andiamo a fare un
giro, mi ha fatto piacere vedervi, ci vediamo!» salutai
contenta.
Mi lasciai convincere da Edward a
ballare per un po’.
In verità ero partita da casa con l’originale
intenzione di non demordere, ma
vedendolo nuovamente felice e sereno non ebbi il coraggio di fare
qualcosa che
lo potesse rattristare.
«Mi spieghi una
cosa?» mi chiese, facendomi
volteggiare.
«Cosa?».
Mi guardò fisso negli
occhi, con un sorrisetto. «Tu,
prima di sposarci, mi hai fatto penare per convincere tutti del fatto
che non
fossi incinta, tirando fuori strane teorie su fantomatici “sguardi”. Ora invece lo urli
alla tua vicina e chiedi ad Alice di
fare in modo che si veda la tua pancia?» chiese sinceramente
confuso.
Arrossii, mordicchiandomi un labbro
e continuando a
dondolarmi, appesa alle sue spalle. «Ora sono orgogliosa di
mia figlia. Una
donna può sempre cambiare idea. È… non
c’è una spiegazione Edward» dissi,
facendo una smorfia «è così e
basta».
Sorrise. «E’
così e basta».
Parlai con molte altre persone di
Forks. Colleghi di
mio padre, amici, conoscenti. Anche Jessica e Mike - vestiti da Jessica
e Roger
Rabbit -, già
a conoscenza del pettegolezzo, non
persero occasione per fare riferimenti più o meno celati.
Non fui del tutto
certa della sincerità delle loro congratulazioni, ma le
accettai comunque di
buon grado.
Mi sembrava che
l’atmosfera fosse molto meno tesa
rispetto a quando eravamo arrivati, e ne ero compiaciuta. Oltre che a
Rosalie e Emmett si
aggiunsero, nel corso della serata, Alice e
Jasper e poi Carlisle con Esme. Ero perfettamente tranquilla con loro
accanto e
mi sembrò che anche Edward sciogliesse definitivamente la
sua tensione. Risi,
spensierata, vedendo Rose e
Emmett dare spettacolo con
un “bacio alla mela”.
«Bella, tesoro, sei un
incanto» si complimentò Esme.
Sorrisi, arrossendo.
«Grazie». Poi mi guardai attorno,
sospettosa. «Sai dov’è
Edward?».
Lei mi sorrise gentile.
«Credo stia parlando con
Carlisle».
«Oh» mormorai
«capisco». Mi persi nuovamente con lo
sguardo nella sala, accarezzandomi la pancia. Sentii un senso di
fastidio
nascere prepotente. Ormai avevo acquisito una certa abilità
nel distinguere le
emozioni della bambina dalle mie. «Esme» chiamai,
voltandomi verso il suo
sguardo cortese e attento «io esco un po’ fuori,
credo che la bambina sia
irritata».
Le sue sopracciglia delicate si
incontrarono un
attimo. «Va tutto bene? Vuoi che venga con te?» mi
chiese calma.
Sorrisi, alzandomi i piedi.
«No, non ti preoccupare.
Credo che per lei ci sia troppo caldo qui dentro, oppure non le piace
l’effetto
che mi fa la musica».
«Va bene»
concesse, seppur titubante.
Uscii fuori dalla grande sala,
prendendo delle boccate
d’aria all’esterno e lasciandomi rassicurare dal
freddo. Rabbrividii,
stringendomi nelle spalle e sentendo un moto di serenità
invadermi da dentro.
Si era già tranquillizzata.
L’aria era
così umida e densa che si potevano vedere
le goccioline sospese per aria, e il forte vento riusciva a far
sollevare le
foglioline appiccicaticce e muovere l’acqua in viso come una
frusta gelata.
Chiusi gli occhi. Ero
così in pace, mi trovavo a mio
agio nel vento freddo e turbinoso che faceva sollevare i veli della mia
maglietta e rabbrividire anche la bambina.
Quando li riaprii, però,
notai qualcosa che fino ad
allora i miei occhi non avevano colto. Sentii il cuore cominciare a
galoppare
nel petto, mentre il respiro veniva smorzato dalla paura e
dall’adrenalina che
mi correva in corpo. Fra le fronde nere e lontane degli alberi vidi le montagne nere muoversi.
Ansimai, terrorizzata, mentre diverse paia di occhi
lucenti si rivelavano al mio sguardo, troppo in alto per
un’altezza umana.
Sobbalzai, sentendo delle mani
afferrarmi saldamente
alle spalle. Mi ritrovai in pochi secondi, con il respiro ancora
accelerato e
una folle paura del cuore, stretta nella salda presa di Edward, che
camminando
velocemente mi riportava nel salone.
Le voci di tutte le persone mi
parvero sorde e
confuse, eppure tranquille, troppo poco importanti per capire cosa
stesse
accadendo. Vidi Esme avvicinarsi a noi, stringendomi per il fianco non
occupato
da Edward. Rosalie, Jasper e
Emmett uscirono con
discrezione, allontanandosi dalla folla. Alice e Carlisle parlavano con
mio
padre, appena sotto il palco.
«Saluta tuo
padre» mi disse Edward, a bassa voce,
avvicinandosi al mio orecchio «velocemente, di’ che
andiamo via, non ti senti
bene».
Carlisle e Alice si allontanarono,
uscendo. Non
riuscii a chiedermi il motivo dell’ordine di Edward, la mia
mente umana stava
elaborando tutto quello che stava accadendo troppo lentamente.
Mi ritrovai davanti a Charlie, che
mi fissava
preoccupato. Mentire non avrebbe dovuto essere così
difficile. «P…papà» sentii
la presa di Edward rafforzarsi e i suoi occhi lanciarmi
un’occhiata di
incoraggiamento. «Noi andiamo via» sussurrai,
tentando di nascondere il tremore
nella voce.
Il suo sguardo si fece ancor
più apprensivo. «È
successo qualcosa?».
Ansimai, ponendomi
anch’io la stessa domanda. Cos’era
successo? Mi voltai in cerca di aiuto, o magari una risposta, verso
Edward, che
fissava il vuoto, immobile. Era teso e preoccupato. Mi voltai, non
sapendo cosa
dire, verso mio padre, leggendo la sua espressione sempre
più ansiosa e
sospettosa.
«Bella non si sente molto
bene» intervenne Esme, con
tono perfettamente controllato e cortese «non credo sia
grave, forse si è
stancata troppo» un sorriso «sarà
comunque meglio andare a casa».
Ovviamente mio padre
acconsentì immediatamente, anzi,
ci invitò lui stesso ad andar via. Velocemente mi ritrovai
all’esterno, con
addosso il giaccone e protetta su entrambi i lati da Esme e Edward. Non
potei
fare a meno di lanciare un’occhiata alle nere fronde erbose
scosse dal vento.
Le montagne erano scomparse.
Non appena fummo lontani da ogni
sguardo, mi sentii
sollevare in aria e in un istante mi ritrovai sul sedile posteriore
dell’Aston
Martin, dove ci aspettavano anche Alice e Carlisle. Esme si sedette
accanto ad
Alice, sul sedile del passeggero.
«Vai» disse
solo Carlisle, un attimo prima che la
macchina partisse ad una folle velocità.
Edward abbandonò un
attimo la rigidità e la tensione
in cui era caduto. Si voltò verso di me, leggendo
chissà cosa sul mio viso. «Come
stai?» chiese, parlando per la prima volta negli ultimi
cinque minuti.
Tentai di ricompormi, umettandomi
le labbra per far
tornare una normale quantità di saliva nella bocca
completamente asciutta. «Sto
bene» mormorai, accarezzandomi la pancia,
«cosa» deglutii
«cos’è successo?».
Carlisle mi accarezzò la
fronte, con un’espressione
tranquilla. «Niente di troppo grave. I licantropi volevano
parlare con te,
dobbiamo capire che intenzioni avessero».
Mi zittii, stringendomi al petto di
Edward. Lasciai
che mi sollevasse e che mi posasse sulle sue gambe, facendomi
appoggiare la
testa nell’incavo del suo collo.
Da quando erano cominciate le serie
tensioni fra i
vampiri e i licantropi, a causa di Jacob, loro si erano sempre
dimostrati dalla
nostra parte, o quantomeno neutrali. Non avevamo trasgredito a nessuna
loro
legge. Io stessa ero stata a commettere
l’omicidio… Non un vampiro, un’umana. Di
cosa avrebbero potuto voler parlare?
Né io né gli
altri riuscivamo a trovare una soluzione.
Le variabili in gioco erano molteplici e i rischi alti. Dovevamo capire
come
poter agire.
«Non sono riuscito a
leggere bene i loro pensieri,
erano troppo distanti» disse Edward concitato, intrecciando
le dita e posandoci
su la fronte.
Esme gli posò una mano
sulla spalla. «Edward, potevano
avere delle buone intenzioni, non dobbiamo allarmarci così
tanto».
Finii di bere la mia camomilla e
andai a sedermi
accanto a mio marito, sul divano. Gli accarezzai i morbidi capelli
ramati,
tentando di rassicurarlo.
Rosalie, compostamente seduta sulle
gambe di Emmett,
non la pensava allo stesso modo. «Mi chiedo, se non avessero
avuto cattive
intenzioni, perché presentarsi in forma di lupo? E
perché si sono avvicinati
mentre lei era sola, senza nessuno di noi accanto?».
«Forse perché
avevano paura di una nostra reazione
esagerata, come di fatto è stata, non pensate?»
chiese Alice.
Sentii la testa Edward scattare,
appena sotto la mia
mano. «Non è stata affatto esagerata, Alice. Era
sola. Ti rendi conto? Non possiamo
permetterci nessuna negligenza, non
finché non sappiamo cosa vogliono»
sbottò.
Alice strinse i denti, serrando i
pugni lungo i
fianchi. «Pensi che non mi sia preoccupata anch’io
per lei? Edward! Andiamo,
non sono io quella che ha delle reazioni esagerate!».
Edward si alzò in piedi,
fulminandola con lo sguardo.
Non l’avevo mai visto così. Jasper si mise subito
fra sua moglie e Edward in
posizione di difesa.
Mi sollevai anch’io,
troppo lenta per la loro velocità
inumana, posando una mano sul petto di Edward con l’intento
di farlo calmare e
costringerlo a sedersi.
«Ragazzi, manteniamo la
calma» li ammonì Carlisle, con
tono misurato.
Alice si allontanò, con
Jasper, fino a trovarsi
nuovamente di fronte al camino, e Edward finalmente cedette ai miei
deboli
tentativi, stringendomi a sé e facendomi sedere nella sua
presa protettiva sul
divano.
Carlisle riprese a parlare.
«Non è successo nulla di
grave, e poi Edward, per quello che hai potuto capire, volevano solo
parlarle,
giusto?».
Suo malgrado Edward
annuì, silenzioso.
«Bene, proviamo a
parlarci, non è il caso di
allarmarsi. Potrebbero spiegarci e comprendere quello che sta
accedendo. È comunque
palese che non avessero cattive intenzioni. Non
c’è motivo di creare tensioni,
se avessero voluto, sola com’era, non ci avrebbero messo
nulla a farle del male».
Sentii la presa di Edward
stringersi maggiormente.
«Rimane però
il fatto che non può andare
all’università finché non avremo con
precisione compreso le loro intenzioni»
disse Jasper.
«No» mormorai, sconsolata.
Gli occhi di tutti i vampiri si
spostarono in un
attimo su di me.
Sospirai, sentendomi tanto una
piccola bambina
immatura che faceva i capricci. Abbassai lo sguardo. «Mi
dispiace».
«Oh, avanti!»
esclamò Emmett con il suo gran vocione.
«Non può mica un branco di licantropi tenere la
nostra Mascotte segregata in
casa! Usate il cervello! Non le faranno mai del male in
pubblico».
Edward fece per parlare, ma Alice
lo bloccò. «Emmett
ha ragione, Edward. I licantropi non si avvicineranno mai a lei
finché è fra
gli umani; il loro più potente istinto è
difenderli. E uno di noi rimarrà
sempre nei paraggi per sicurezza».
Timorosa, sollevai lo sguardo su
Edward, aspettandomi
che iniziasse una nuova sfuriata.
«Va bene»
concesse, stupendomi. «Ma risolviamo questa
storia, il più presto possibile».
Mi tolsi, stanca, la maglietta,
osservando silenziosa
il mio ombelico. Ripensai alla scarica di adrenalina che avevo provato
poche
ore prima. Chissà se anche la bambina l’aveva
avvertita. Ripensandoci, era da
allora che non si faceva nettamente sentire.
Posai una mano sul ventre, facendo
una leggera
pressione. «Piccola? Ci sei?» chiamai in un
sussurro. Accarezzai la pancia,
massaggiandola in attesa di una qualunque risposta e mi preoccupai
quando non
arrivò.
«Tutto bene?»
chiese Edward, entrando in camera.
«Non so»
mormorai preoccupata, alzando lo sguardo. «La
bambina, non sento le sue emozioni».
In un attimo fu davanti a me,
accarezzandomi la
pancia.
Non sentii ancora nessuna risposta.
Eppure
era sempre felice quando Edward l’accarezzava!
«Non ti
preoccupare» mi rassicurò, vedendo la mia
espressione ansiosa e le lacrime al bordo dei miei occhi.
«Adesso chiamiamo
Carlisle, okay?» disse, accarezzandomi il volto.
Annuii, tirando su con il naso.
Carlisle mi visitò,
misurò la pressione, sentì i
battiti della bambina. Edward era accanto a me, sul letto,
accarezzandomi e tentando
di farmi stare tranquilla.
«È tutto
apposto» mi rassicurò infine Carlisle, quando
ebbe finito di visitarmi.
Edward mi aiutò a
mettermi a sedere, passandomi poi la
maglietta del pigiama.
«Il suo cuore batte forte
e sta bene. Penso che per un
po’ non si farà sentire con le sue emozioni
perché tu l’hai inibita con le tue»
mi spiegò cortese, rimettendo a posto lo stetoscopio nella
sua borsa «l’adrenalina
non piace ai bambini. Rilassati, riposa questa notte, e vedrai che
ricomincerai
a sentire le sue emozioni».
«Grazie»
sussurrai, posando la testa sulla spalla di
Edward.
Lui lanciò
un’occhiata al figlio, poi mi sorrise,
prese la borsa e uscì, raggiungendo il resto della famiglia.
Chiusi gli occhi. Avevo un forte
timore. E non per i
licantropi. Nonostante la mia prima emozione, dopo averli visti, fosse
stata la
paura, ragionando a mente fredda avevo realizzato che per me non
costituivano
una minaccia. Sam, così ligio al rispetto delle regole, Quil,
Embry, Seth, il piccolo
e astuto Seth. Non mi
avrebbero mai fatto del male, anche dopo tutto quello che era successo,
ne ero
sicura. Più che altro, ora, provavo solo la
curiosità di scoprire cosa, di
tanto importante, volessero dirmi.
La paura invece era tutta dedicata
alla piccola e a
Edward.
A lei per quella assenza di
emozioni. A Edward… per la
paura che era emersa subitaneamente in lui. Infatti, nonostante fosse
molto
ansioso e premuroso nei miei confronti, solitamente, almeno di fronte a
me,
riusciva a mantenere il sangue freddo necessario e a nascondere il suo
tormento.
«Alice ha
ragione» disse tranquillo, continuando ad
accarezzarmi i capelli e distogliendomi dai miei pensieri.
«Su cosa?»
chiesi confusa.
«Sul fatto che i
licantropi non ti farebbero del
male».
Mi immobilizzai, voltandomi per
fissarlo negli occhi
chiari. «Lo dici per farmi stare tranquilla? Edward, davvero,
non ce n’è
bisogno, io non ho paura di loro. Non c’è bisogno
di mentirmi».
Sul suo volto spuntò un
sorriso divertito. «Cosa ti fa
pensare che io stia mentendo? Dico sul serio Bella»
l’umorismo scomparve, «mi
dispiace di aver avuto quella reazione esagerata, i loro pensieri mi
sono sin
da subito sembrati tranquilli. Ma…».
«Ma?» lo
spronai a continuare.
Sospirò, stringendomi
forte far le sue braccia, molto
più di quanto, spesso, si era concesso di fare.
«Non voglio perderti» mormorò
assente.
Mi lasciai stringere, senza dire
nulla. Quando le mie
labbra si trovarono a contatto col suo collo bianco e freddo ne
approfittarono
per lasciare una scia di baci. In fondo non ero poi così
stanca, e quello
sarebbe stato un ottimo modo per allontanare la tensione, sia mia che
di Edward…
Continuai a baciarlo, con sempre maggior impeto, sulle labbra,
chiarendo le mie
intenzioni. Inoltre, sempre per una serie di infiniti e futilissimi
motivi, era
così tanto tempo che non facevamo
l’amore…
I miei polsi, che fino a pochi
istanti prima erano
poggiati fra i suoi capelli, si trovarono stretti nella presa della sua
mano.
«Bella»
ansimò «c’è tutta la mia
famiglia di là».
Ricominciai a baciarlo con foga,
ridacchiando. «Cosa
importa? La stanza è completamente insonorizzata».
Si staccò nuovamente.
«E se entrasse Emmett?».
Mugolai, aprendogli i primi bottoni
della camicia.
«Alice non glielo lascerebbe mai fare» mormorai
inarcandomi, a cavalcioni su di
lui.
«Bella».
Mi staccai, stupita. Per un istante
pensai a tutti gli
altri casi in cui, per un motivo o per l’altro…
Che pensiero sciocco. Non poteva
essere così.
«O-okay» feci,
titubante, sollevandomi e indossando i
pantaloni del pigiama. «Vado dagli altri» dissi,
guardandomi intorno. Lo fissai
un’ultima volta, seduto compostamente sul letto con
un’espressione serena.
Eppure… No. Non poteva
essere.
Sentii la bambina, curiosa e
sospettosa quanto me.
Sbattei le palpebre, tentando di
concentrarmi sulla
lezione. Avevo già cominciato a pentirmi di aver voluto, a
tutti i costi,
riprendere gli studi. L’università era a dir poco
stancante, e nonostante la
psicoanalisi e gli esercizi fatti con Jasper avevo sempre la paura che
la
bambina potesse fare qualcosa che non avrei saputo gestire. E poi
rimanere
concentrata così a lungo e riuscire a fare qualcosa di
produttivo, dopo aver
abbandonato per diverso tempo, non era affatto semplice.
Edward mi aveva incoraggiato, senza
forzarmi, a non
mollare. Si era reso conto che ci tenevo e non voleva che sacrificassi
tutti
gli sforzi compiuti sino ad allora. D’altra parte, mi
controllava perché non mi
stancassi troppo. Era sempre così apprensivo…
Sospirai, rendendomi conto che la
spiegazione era
andata avanti ad un passo più veloce dei miei appunti.
Saltai un paragrafo e
ripresi dalle parole del professore, pensando che quello, ancora, era
il primo
giorno, e che non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Se non a me
stessa.
In fondo a breve sarei stata
trasformata in una
vampira, sarei diventata madre… Perché mi
ostinavo a voler continuare
l’università?
Forse perché mi
gratificava, perché mi faceva sentire qualcuno.
Perché nella mia vita ero
sempre stata abbastanza brava in
“quello”,
abbastanza dotata in
“quell’altro”.
Ma non avevo mai avuto la soddisfazione di sentire commenti positivi
non
accompagnati da aggettivi come “quasi, abbastanza,
discretamente”. E, ad essere
sincera, non avevo neppure cercato tali soddisfazioni finché
non erano giunte.
Eppure, i miei pensieri, come da
una settimana a
quella parte, non potevano essere che per Edward. Le cose fra noi
andavano
bene. Molto. Troppo. Era tutto tanto perfetto, felice, sereno, pieno
d’amore,
nei sentimenti, quanto vuoto nella sfera… fisica.
Non appena la lezione, la seconda
della giornata,
finì, potei permettermi di smettere di pensare a mio marito
e alla
preoccupazione per il suo stato d’animo, schiacciata dalla
confusione di
studenti che si alzavano dai loro posto per cambiare aula. Mi recai,
velocemente, nell’atrio, sollevata di avere un’ora
buca. Lì trovai Amber.
Mi salutò calorosamente,
abbracciandomi. Avevo
indossato una felpa larga, con una zip sul davanti, che mascherava
molto bene
la piccola pancia. Ad un occhio inconsapevole potevo solo sembrare un
po’
ingrassata. Così non fece alcun tipo di commento, anzi, mi
invitò ad unirmi a
lei.
«Stavo andando in
biblioteca per poter organizzare gli
appunti! Se vieni con me potrò darti delle dispense sulle
lezioni che hai
saltato, ti va?». Mi prese per mano, tirandomi verso di lei.
«Certo! Ti
ringrazio». Sorrisi, seguendola.
L’ora successiva avremmo
avuto lezione di
“Conservazione delle opere”, che si svolgeva in
biblioteca. Infine, l’ultima
ora era quella di “Restauro”.
Amber si offrì di
aiutarmi a comprendere dei concetti
che, studiando sola a casa, non ero riuscita a schematizzare e
utilizzare
correttamente. Le sue spiegazioni erano semplici, ma chiare, e
soprattutto
fatte col chiaro intento di aiutarmi.
Sollevando lo sguardo dai suoi
appunti mi parve di
scorgere la figura del professor Philip che si affaccendava, con
un’andatura troppo
veloce per il suo gracile corpo, fra alcuni scaffali con vecchi libri
impolverati. Rabbrividii, sentendo i sentimenti di disagio che
provenivano
dalla bambina. Decisi di non pensarci e risposi al richiamo di Amber,
riprendendo a seguire i suoi discorsi.
Dopo mezz’ora avevo
ricominciato a pensare che l’idea
di riprendere l’università non era poi
così pessima, e che sarei potuta
riuscire nel mio intento.
«Vedi Bella? Queste sono
le opere minori del
Manierismo. Qui ci sono i ritratti, alcuni sono conservati nella
galleria
dell’accademia».
Mi sporsi per vedere oltre le sue
dita paffute. «Quale
dei tre dobbiamo riprodurre?».
«Questo, vedi?».
Mi alzai in piedi e feci il giro
del tavolo, fino a
trovarmi accanto a lei. Abbassai il capo sul libro.
Improvvisamente un fortissimo odore
di profumo femminile
mi fece contrarre lo stomaco. Sollevai di scatto la testa, in una
necessaria e
veloce ricerca dei bagni pubblici. Mi affrettai a raggiungere
l’uscita di
emergenza e, subito dopo, infilarmi oltre la porta marrone con il
cartello
“toilette”.
Le nausee erano sostanzialmente
scomparse, ma ancora
non riuscivo a sopportare determinati forti odori. Sentii la bambina
confusa e
disorientata, oltre che infastidita dalla situazione.
«Bella! Bella, cosa
succede?» mi chiese Amber
spaventata, entrando in bagno con il mio cappotto e la mia sciarpa.
«È tutto
apposto Amber» sussurrai sciacquandomi la
bocca e portando un po’ d’acqua alla fronte per
rinfrescarmi. Ovviamente, ora,
nel mio piano di discrezione si era aperta una notevole falla.
Lei, agitata, si
avvicinò a me, accarezzandomi,
scrutandomi, osservando con paura la mano che avevo portato alla
pancia. «Cos’hai?
Ti senti male? Cavolo! Non so che fare!». Si
guardò attorno, ansiosa, in cerca
di un qualunque aiuto.
«Calma,
davvero» dissi, tentando di farla ricominciare
a respirare normalmente. «Stai calma».
Le mi osservò,
sofferente, preoccupata, per un attimo
in silenzio. Sapevo, perché me l’aveva detto lei
stessa, che Amber era una
persona ansiosa e che si trovava sempre in difficoltà nelle
situazioni di pericolo.
Ma quello non era il momento migliore per far emergere la sua indole.
Pensai che mi avesse dato ascolto,
ma i miei pensieri
furono smentiti quando proruppe «Tu stai qui buona, calma, io
chiamo Edward e
ti faccio venire a prendere!». Cominciò a frugare
nervosamente nella mia borsa.
«No!». Ebbi uno
scatto veloce, fermando con
determinazione le sue mani, che già avevano afferrato il mio
cellulare. «Amber,
no» dissi ancora «Stai ferma, ti prego, lascia che
io ti spieghi» cominciai con
persuasiva calma «Chiamare Edward è
l’ultima cosa da fare. Ora, dammi quel
telefono».
Osservò prima me, poi
l’oggetto chiuso nella sua mano.
Non so cosa vide nel mio volto, ma credo che decise di potersi fidare.
Con
lentezza mosse la mano, restituendomi il cellulare.
Sospirai di sollievo, riponendolo
nella borsa e
sciacquandomi le mani. Mi avviai verso il phon. «Amber, non
sto male» dissi con
un piccolo sorriso, facendole muovere sotto il soffio caldo e
aspettando che si
asciugassero.
Lei mi guardava con attenzione,
mordendosi l’interno
della guancia.
Mi girai verso di lei, a occhi
bassi e rossa in viso.
Lentamente, li alzai fino a scontrarmi con il suo viso di porcellana,
le mani
sul ventre. «Sono incinta» dissi d’un
fiato.
Potei notare le sue morbide guance
distendersi mentre
la bocca le si apriva per lo stupore. Deglutì.
«E-Edward lo sa?».
Proruppi in una breve risata.
«Certo che lo sa» dissi,
divertita, sollevando la maglietta e lasciando vedere la celabile, ma
tuttavia
ben visibile, pancia. «Sono più di quattro mesi
ormai».
Dopo essersi ripresa mi fece i
complimenti e mi disse,
borbottando e arrossendo, di farli anche a Edward da parte sua. Il
fatto che
fosse venuta, già il primo giorno, a conoscenza del mio
segreto, aveva
notevolmente destabilizzato i miei piani. Cominciavo a pensare che
nasconderlo
agli altri non sarebbe stato così facile come pensavo, ma,
forse, avendo
un’amica a conoscenza del segreto, tutto avrebbe potuto
essere più semplice.
Quando arrivammo in biblioteca la
lezione era già
cominciata. L’attempato professore ci ignorò
completamente, permettendoci di
inserirci fra le ultime file del gruppo. Estraeva tomi dagli scaffali
come
fossero fragili mucchi di polvere. E in effetti lo erano. Poi ne
commentava il
tipo di conservazione, come dovevano essere consultati e come fossero
stati
catalogati.
«Guardate
là» disse ad un certo punto.
Tutte le teste degli studenti si
spostarono
contemporaneamente verso la direzione indicata dal suo dito.
«Ricordate sempre,
polvere non vuol dire antico, né di
valore. Prendetemi uno di quei libri giallognoli sullo scaffale in alto
e vi
sorprenderò» fece una pausa sporgendosi con il
collo per scrutare gli studenti
più vicini alla scala «tu. Si, dico a te
là in fondo. Prendimene uno».
Raggelai, accorgendomi che il suo
sguardo era rivolto
a me, e voltandomi con terrore a guardare la scala a pioli alta almeno
quattro
metri.
Amber mi lanciò
un’occhiata spaventata e disorientata.
Il professore fece per parlare per
esortarmi a salire
e io mi portai una mano alla pancia non sapendo bene cosa dire,
scrutando i
voti degli studenti che mi osservavano in silenzio, immobili.
La mia amica mi sorprese, prendendo
in mano la
situazione e salendo sulla scala al mio posto. Il professore
borbottò, ma non
disse nulla, ricominciando a spiegare, e facendo voltare nella sua
direzione
tutte le teste dei curiosi.
Feci un sospiro di mero sollievo.
Avevo ragione, avere
Amber a conoscenza della gravidanza mi avrebbe senz’altro
aiutato.
«Grazie» le
sussurrai, mentre il professore faceva
vedere la recente data di pubblicazione del libro e esemplificava il
processo
d’ossidazione accelerato a cui era andato incontro.
Sollevando lo sguardo per un
attimo, mi parve,
nuovamente, di vedere la figura del professor Danbaster che mi
osservava. Sbattei
le palpebre confusa, e in un attimo sparì. Ero sempre
più perplessa. Il
professore era molto rinomato e i suoi corsi rari e affollati. Tutti
sapevano
che il rettore gli aveva concesso di insegnare appena un’ora
a settimana, pur
se a pieno stipendio. E, considerando che la sua lezione sarebbe stata
il
giorno seguente, che ci faceva lui lì?
«Tutto bene?»
mi chiese Amber, preoccupata, notando il
mio momento d’immobilità. «Sai che mi
preoccupo. Oh, temo che mi preoccuperò
molto. E se mi preoccupassi troppo? Bella, tu mi dirai quando mi sto
preoccupando troppo, vero? È che quando mi agito comincio a
sudare. E a
parlare. Parlare molto. Oh, Bella. Non avercela con me se lo
faccio!».
Le sorrisi, lasciando da parte le
mie perplessità.
«Non potrei mai avercela con te. Su, andiamo»
dissi, seguendo il gruppo che si
spostava fra gli scaffali.
Alla fine dell’ora notai
la differenza che
intercorreva fra me e Amber. Lei era ancora lucida e attenta, io ero
stanchissima e volevo solo tornare a casa. Purtroppo però
avrei dovuto
resistere per almeno altre due ore. Altre due ore senza Edward.
Notai lo sguardo poco discreto di
Amber, puntato
ansiosamente su di me.
«Che
c’è?» sussurrai, massaggiandomi con
discrezione
la pancia.
«Cos’hai?»
chiese lei di rimando, facendo attenzione a
non farsi sentire dalla professoressa di Restauro nella piccola aula.
Il corso
era riservato a soli quindici studenti, quindi in pratica ci conosceva
uno ad
uno.
Mi piagai sul banco, in modo da
nascondere le labbra
dietro la testa dello studente che mi stava di fronte. «Ma tu
non sei stanca?
Ho fame» mi lamentai.
Lei ridacchiò,
lanciandomi una barretta di cioccolata.
Alzai gli occhi al cielo.
«Grazie» mimai con le
labbra.
Cominciai a mangiare in silenzio,
senza farmi vedere.
La stanchezza faceva vagare i miei pensieri e toglieva una notevole
parte di
attenzione e concentrazione alla lezione. Ero preoccupata per Edward.
Il fatto
di non potergli stare accanto corrispondeva a non poter controllare
come si
sentisse, come stesse. Però, d’altra parte,
pensavo che magari stando solo
sarebbe riuscito a sfogare i suoi pensieri cupi, che sicuramente si
costringeva
a celare in mia presenza. Forse dipendeva unicamente da quello il fatto
che non
volesse più… No. Magari era solo una mia idea
assurda da donna incinta, una
delle tante paranoie.
«Muoversi, prendete i
vostri libri e seguitemi». La
voce della professoressa sovrastò ogni bisbiglio e mi fece
rapidamente e
bruscamente emergere dai miei pensieri, tanto che per un secondo
dimenticai
quali fossero stati.
Feci come diceva, confusa,
muovendomi velocemente al
fianco di Amber. «Dove stiamo andando?» chiesi,
continuando a camminare per i
corridoi in marmo dell’accademia.
Amber mi sorrise, con le guance
rosse sulla pelle
chiarissima. «Laboratorio di restauro! È
bellissimo, vedrai! Ci sono le opere
d’arte, e poi ci fanno vedere tutti i prodotti chimici e le
sperimentazioni, è
davvero…».
Il suo entusiasmo scemò
alla vista del mio viso deluso
e preoccupato.
«Stewart, Swan,
muovetevi!».
Continuai a camminare, meno decisa
di prima. «Amber!
Non posso entrare» biascicai, mordendomi nervosamente il
labbro inferiore. Era
ancora il primo giorno e ben tre volte avevo rischiato di farmi
scoprire. La prima,
Amber era venuta a conoscenza di tutto. La seconda, l’avevo
scampata per un
soffio grazie al suo aiuto. Ed ora? Era così forte la mia
ostinazione a non
voler rendere noto il mio stato? Sì. Volevo ricavarmi uno
spazio di anonimato,
in cui nessuno mi conoscesse e badasse a me, almeno una volta a
settimana. Ma
allora cosa potevo fare?
Amber, all’ennesimo
richiamo della professoressa,
entrò nel laboratorio con un’occhiata di scuse,
sotto mia esortazione. Temporeggiai
sulla porta, lanciandomi sguardi fugaci attorno. Sentivo il cuore
battere
veloce nel petto per l’agitazione.
Dovevo andare via? Dovevo dire alla
professoressa?
Dovevo entrare? No. Quello non potevo farlo.
«Swan, cosa sta facendo
ancora qui? Stiamo aspettando
solo lei».
Mi accinsi a spiegare, con un
sospiro rassegnato.
«Isabella Swan sta con
me». Quella voce, alle mie
spalle, mi fece raggelare.
La professoressa lanciò
un’occhiata ossequiosa al
professor Danbaster.
«Non me ne voglia,
l’ho trattenuta io, abbiamo delle
cose da chiarire in riguardo alla sua assenza». Fece un
sorriso scheletrico,
facendo stropicciare tutte le pieghe ai lati della sua smunta bocca.
«Certo»
borbottò lei, con un cenno. «Vogliate scusarmi
allora» disse, richiudendosi la porta alle spalle.
Il professor Philip mi
lanciò un’occhiata di sbieco e
mi accorsi di non aver mai lasciato la mia posizione di rigido disagio.
Per
quale motivo mi aveva aiutata?
Fu percosso da dei forti accessi di
tosse. Portò un
fazzoletto alle labbra, piegato sulle spalle scosse dai singulti.
«Seguimi»
borbottò poi brusco, gli occhi ridotti a due fessure.
Rimasi per due secondi immobile, i
riflessi rallentati
dalla confusione, vedendolo procedere spedito sul marmo bianco. Mi
riscossi,
seguendolo. Nonostante i suoi passi e i suoi movimenti fossero
più veloci, la
falcata delle sue gambe era decisamente minore della mia, e la tosse di
tanto
in tanto lo costringeva a rallentare, così non faticai a
stargli dietro. Rimasi
in silenzio per tutto il tragitto, non sapendo bene cosa dire,
percependo la
stranezza della sua persona. Mi sarebbe tanto piaciuto sapere qualcosa
di più
su di lui. Forse, l’aura di mistero che sentivo circondarlo,
si sarebbe
diradata venendo a conoscenza di qualche dettaglio sui suoi studi, o
sulla sua
famiglia, magari.
Aprì la porta del suo
ufficio, chiuso a chiave, con un
movimento svelto, e ci s’intrufolò, invitandomi ad
entrare con rapidi movimenti
della mano. Mi chiesi perché si muovesse in maniera
così furtiva. Mi sentivo
attratta dai suoi modi, attratta dal mistero, eppure così
costantemente
all’erta. Quanto avrei voluto sapere…
Appena fui dentro, i miei occhi non
fecero in tempo ad
abituarsi alla penombra della stanza, che sentii il chiavistello girare
nuovamente.
Mi voltai di scatto verso il
professore, terrorizzata.
«Non essere inquieta
cara» fece con un sorriso buono,
nulla a che fare con i modi avuti precendentemente. «In
questa stanza ci sono
opere di grande valore».
Il senso di disagio si
alleggerì per un istante, mentre
capivo di potermi fidare.
Mi invitò a sedermi su
una poltroncina antica,
rivestita di velluto rosso, e lo stesso fece lui, sedendosi un una
identica di
fronte a me. L’ambiente non sembrava esageratamente grande,
ma forse era solo
un’illusione. Ogni minimo spazio era stipato di oggetti di
ogni forma e
dimensione, ogni antico scaffale riempito di manuali e pergamene
gelosamente
custodite in teche trasparenti.
Mi chiesi di cosa potessero
trattare tutti quei libri.
Dei pesanti drappi rossi
incorniciavano, oscurandola
in parte, una grande vetrata. Al centro della parete trasversale vi era
un
dipinto, attorno al quale mi accorsi che ruotavano tutti gli altri, in
un
intreccio volto a farne risaltare la cornice. Ritraeva
un’affascinante giovane
donna, decisamente molto bella. Sentii una strana stretta allo stomaco.
«Isabella»
disse allora con un sorriso, sporgendosi
verso la scrivania di rovere per afferrare una bottiglia di cristallo
mezza
piena di un liquido ambrato. Scotch? Ne versò un dito in un
bicchiere decorato
con gli stessi motivi della bottiglia e poi fece un cenno verso di me.
Arrossii. «No,
grazie» borbottai.
Lui ripose la bottiglia,
avvicinando il bicchiere alle
labbra e bevendo in un lungo sorso.
Mi chiesi se, un uomo della sua
età e con quella tosse,
potesse bere dello Scotch. Immaginai che sua moglie non dovesse esserne
affatto
contenta. Era sposato? Abbassai lo sguardo sulla sua fragile mano,
notando una
vera. Era nera. Che strano colore…
«Ricordi quel discorso
che facemmo in merito ad un tuo
dipinto?» chiese, distraendomi dai miei pensieri.
«S-sì…
sì, certo». Risposi, ricordandomi del solitario
30 e lode sul mio libretto. Era stato il voto assegnato al dipinto de
“La
Cortigiana” e ancora stentavo a crederci. «Mi disse
che i miei sentimenti e la
mia vita privata contavano più di qualsiasi ammirazione del
pubblico… Che… non
avrei mai dovuto svelarla» balbettai.
Lui sospirò, arricciando
le labbra esangui e
grattandosi la rada peluria bianca sulla testa, come se ne fosse
dispiaciuto. Poi
scattò, fissandomi di sottecchi. «Può
far finta che io non gliel’abbia detto?».
M’irrigidì,
spiazzata da quella proposta.
Lui sospirò,
tamburellando con le dita sul tavolo. «Eppure
ci dev’essere un modo» biascicò, quasi
incomprensibilmente.
Non capivo perché
volesse sapere qualcosa della mia
vita privata. Di me. Perché mai? Voleva sapere la storia
celata dietro il mo
dipinto? E con quale interesse? Lo stesso che io sentivo verso la sua
aura di
mistero?
Infine fece chiudere le sue lunghe
dita in un pugno.
«Ci sono» disse convinto «facciamo
così. Lei risponde ad una mia domanda, e io
risponderò ad un suo qualsiasi quesito. Siamo
d’accordo?».
Mi morsi il labbro, gli occhi che
lucevano,
affascinata dalla proposta. E se mi avesse, per caso, domandato di
segreti che
non potevo raccontare? No. Non potevo accettare. Eppure la sua proposta
era
così invitante… «Io… non so
se posso».
Fece un sospiro e un gesto secco.
«Le farò prima la
mia domanda, così si regolerà se accettare o
meno».
Annuii.
«Che cosa sta succedendo?
Ho notato il suo strano
comportamento e sono molto interessato a capire».
Arrossii, spiazzata dalla domanda.
Sembrava
decisamente curioso, come se vedesse verità più
profonde degli altri. Come se
aspettasse la mia risposta come un’importante scoperta
scientifica, di vitale
importanza. Beh, ne sarebbe rimasto deluso, e di certo non avrebbe leso
granché
alla mia condizione di donna in carriera. Tuttavia potevo sempre farmi
raccontare qualcosa da lui… «Mi risponda lei,
prima, poi giuro che darò una
risposta alla sua domanda».
Sospirò, esasperato, con
impazienza. «Va bene, va
bene. Ma si sbrighi a chiedere».
Mi vennero in mente tante possibili
domande. Sul suo
lavoro, la sua famiglia, sulle opere e su tante piccole stranezze e
curiosità
che si raccontavano su di lui. Avrei semplicemente potuto chiedere
«Perché sei
così misterioso? Che cosa
nascondi?». No di certo. Eppure nessun altra
domanda avrebbe avuto una
risposta abbastanza esaustiva.
I miei occhi incrociarono
nuovamente quelli furbi del
dipinto della donna appeso alla parete, e la domanda non
poté far a meno di
affiorare sulle mie labbra. «Chi è quella
donna?».
Sospirò, ancora, ma
questo suo sospiro non aveva nulla
a che fare con quelli di impazienza che precedentemente erano usciti
dalle sue
labbra. Questo era lento, stanco, rassegnato.
«Isabella… Mi hai fatto la
domanda a cui mi è più difficile
rispondere» disse, sconsolato, talmente tanto,
che mi sentii in colpa.
«Mi dispiace, io non
volevo».
«No» disse lui,
interrompendomi. «Fa silenzio, ti
racconterò». Poi mi lanciò
un’occhiata. «È giusto che tu
sappia» mormorò.
Mi mossi sulla sedia, a disagio.
«Alla fine della storia
non chiedermi nulla, non ti
dirò nulla più. Ci sono cose che non potrai
capire» strinse gli occhi «forse.
Quella donna Isabella, si chiama Caterina
Barbarigo;
è una nobile veneziana del ‘700, una delle
più belle che ci siano mai state» il
suo sguardo si perse in lontananza, come se stesse rievocando ricordi
lontani,
«I suoi occhi lucevano lucidi alla luce del sole e la sua
pelle era nivea come
poche l’avevano avuta. Un fascino struggente e ammaliante, un
carattere
capriccioso e un ingegno e una furbizia prorompenti. Si
sposò, per amore, con
un giovane tedesco. Era attivo e in cerca di avventura e ammirazione,
ancora
incapace di comprendere il mondo» il suo sguardo si fece
ancor più contrito
«ebbe una figlia, Kate la
chiamò, ricalcando il suo stesso nome. Uno
splendore, un piccolo bocciolo di rosa tanto simile alla madre dalla
bellezza
mai sfiorente, ancor più bella per la rarità
della sua meravigliosa essenza. Le
sue labbra erano rosse e piccole. Vissero felici, i cinque anni
più belli della
loro vita, la loro felicità era invidiata da tutti, si
irradiava dai loro volti
come la luce più pura. Era perfetta, la perfezione
impossibile, il loro
segreto, ed era loro, miracolosamente loro.
Ma poi, tutto cambiò.
Scoppiarono
delle guerre, odi, e amori spezzati, misteri celati ai più.
Quando il giovane
tornò a casa, Caterina era già perita,
prigioniera del nemico. Kate era
scomparsa. Tutto era svanito, insieme ai loro segreti e alla loro
felicità, e
il giovane tedesco non se lo perdonò mai. La sua ricerca,
per la vita, è
l’anelito alla ricongiunzione con il suo stesso sangue, sua
figlia, Kate».
Sentivo il suono sordo del
mio cuore nel petto coprire il silenzio portato dalle sue ultime
parole. Non
capivo perché la sua storia mi avesse colpita
così tanto. Era bella, vero, ma
non riuscivo a comprendere. Ripensai per un attimo al modo in cui
l’aveva
raccontata. Così lentamente, così
appassionatamente, e con così tanto pathos.
«Tu, Isabella?»
disse, schiarendosi
la voce dopo essersi ripreso da un ennesimo attacco di tosse.
Immersa nell’atmosfera
della storia avevo dimenticato la domanda a cui avrei dovuto
rispondere. «Si,
scusi. Cosa voleva sapere?».
Ticchettò, nuovamente
impaziente. «Mi chiedevo il motivo del suo strano
comportamento, non mi dica
che non è nulla, sono un buon osservatore, mi sveli li suo
segreto».
Arrossii, annuendo con
riluttanza. Questo genere di cose mi causavano un certo imbarazzo.
Eppure era
una cosa che sicuramente avrebbe deluso le sue aspettative. Sospirai,
ripensando a come non si fosse minimamente scandalizzato per il mio
matrimonio
con Edward; certamente non l’avrebbe fatto neppure questa
volta.
Puntai i miei occhi nei
suoi. «Aspetto un bambino».
Al contrario di come mi
sarei aspettata strabuzzò gli occhi, sorpreso.
«Sei incinta? Di tuo marito?».
Rimasi sconcertata dalla
domanda. «Certo! Mio marito».
Fece un sospiro secco,
lasciandosi cadere con le spalle sullo schienale della sedia, scosso
nuovamente
dalla tosse. Rimase per ben tre minuti in assoluto silenzio, fissando
torvo un
fermacarte. Poi fece scioccare la lingua e si voltò
nuovamente verso me,
fulmineo. «Non lo vuoi dire a nessuno, vero
Isabella?».
«I-Io… no, non
qui»
balbettai, disorientata dalle sue domande sempre più
sorprendenti e
apparentemente prive di significato.
Annuì. «Bene,
ti aiuterò a
farlo. Ora va’» disse alzandosi e aprendomi la
porta «va’ a casa da tuo marito»
si bloccò, incerto su cosa aggiungere. «Vai
Isabella» disse infine.
Quando mi ritrovai nel
cortile dell’accademia in testa mi vorticava una gran
moltitudine di pensieri.
Osservai il profilo degli alberi in lontananza, e fra questi emerse per
un
istante il ricordo di un grosso branco di lupi, scalzato immediatamente
da
questioni più pressanti.
Avevo sperato di risolvere
i miei dubbi e chiarire alcuni misteri, invece tutto si era fatto
più fitto e
oscuro. Per cominciare, la storia che il professore mi aveva
raccontato. La sua
sostanziale semplicità, e il modo in cui pronunciava le
parole. Caterina Barbarigo.
E poi, tutte quelle domande che mi aveva
fatto…
«Bella».
Alzai lo sguardo di scatto,
riconoscendo immediatamente la voce di mio marito.
«Edward» mormorai sollevata,
la mente sgombra da ogni pensiero, sentendo la felicità
della bambina crescere
dentro me.
Mi sorrise, un sorriso
autentico e meraviglioso sul suo viso da angelo. «Mi sei
mancato» mormorai
stringendomi al suo maglione. Mi accertai che sul suo viso non vi fosse
traccia
di tensione e difatti incrociai un suo sorriso autentico, brillante e
solare. Feci
dentro me un sospiro, sollevata.
Durante tutto il viaggio di
ritorno a casa mi concessi di rimanere in silenzio, la mente
sostanzialmente
vuota, i pensieri rivolti a mio marito. Sembrava tranquillo e calmo, mi
aveva
fatto qualche domanda su come fosse andata e avevo risposto
generalmente. Mi
fece pensare che magari fosse riuscito a superare i suoi problemi,
almeno in
parte.
«Sono un po’
stanca, credo
che andrò a riposarmi» dissi mettendo un piatto,
usato per il mio pranzo, in
lavastoviglie.
Lui mi accarezzò la
schiena, poi scese con le labbra a baciarmi in collo, piegato su di me,
con il
busto attaccato alla mia schiena.
Arrossii, pensando che
magari la mia fosse stata semplicemente davvero una paranoia.
«Perché non
vai di là, ci
penso io a finire qui… Su, vai» mi disse gentile,
accarezzandomi la pancia da
dietro.
Mi sentii bruciare a quel
contatto così ravvicinato e non potei fare a meno di
annuire. Mi lasciò libera
di defilarmi dalla sua presa e mi sorrise sghembo, mettendosi al mio
posto e finendo
di caricare la lavastoviglie.
Entrai in camera col cuore
che mi batteva forte nel petto. Non ci fu il bisogno di chiedermi cosa
avrei
dovuto indossare perché trovai il mio pigiama di seta
piegato sul bordo del
letto. Dopo averlo indossato mi stesi, troppo stanca per rimanere in
piedi, sul
lato sinistro, tentando di ridare vigore ai miei sensi appannati e di
non
assopirmi.
Il materasso si abbassò
da
un lato. Era entrato in camera. Mi voltai verso di lui, tornandomi a
sedere. Mi
sorrise e scese direttamente con le labbra a baciare la mia pancia.
Sorrisi
anch’io, accarezzandogli i capelli, e lasciai che sbottonasse
gli ultimi
bottoni della maglietta e che aprisse leggermente il nodo sui
pantaloni. Sì,
sicuramente era stata tutta una mia paranoia. Un pensiero stupido,
tanto
stupido… sorrisi di me stessa.
Mi fece stendere sul letto
e si mise di lato, continuando a baciarmi. Eppure i suoi baci erano
morbidi,
delicati, per niente frettolosi o maliziosi. Sentivo la mia e la
felicità della
bambina unirsi insieme in spirali di piacere. Strofinava la guancia
sulla
pancia, la sfiorava con la punta del naso e poi riprendeva a baciare.
Ero così
felice, e tutto sembrava andare così
perfettamente…
Inarcai violentemente la
schiena, serrando le dita fra le ciocche dei suoi capelli ramati,
quando mi
baciò sull’ombelico, provocandomi un brivido.
S’interruppe, e per un
istante, mentre fulmineo alzava lo sguardo, potei scorgere una forte
paura nei
suoi occhi. Immediatamente si addolcirono, mentre il suo volto da beato
diciassettenne si apriva in un sorriso. Richiuse i bottoni della
maglietta,
sollevandomi poi con un braccio e mettendomi sotto le coperte.
«Dormi Bella, sei
stanca»
disse, accarezzandomi i capelli. Non riuscii a comprendere il suo
comportamento. Non riuscii a capire. Eppure, il dubbio che qualcosa lo
bloccasse si era fatto sempre più forte in me, e ancora
più forte si fece un’ora
dopo, quando mi svegliai.
Sentivo un vuoto nel petto,
come ci si sente dopo che il cuore ha finito una folle corsa. Ero
madida di
sudore e i muscoli erano irrigiditi e tesi. Eppure ero emotivamente
tranquilla…
Aprì gli occhi,
scontrandomi con lo sguardo preoccupato di Edward. Rimasi in silenzio
per
qualche istante, in attesa che dicesse qualcosa, ma non lo fece. La sua
mascella rimaneva immobile e contratta. Cos’era successo?
«Ho sognato?».
«Ricordi di aver
sognato?»
chiese, e sembrava davvero nervoso, come mai l’avevo visto.
Sollevai le sopracciglia.
«No» borbottai. «Non ricordo».
Si lasciò sfuggire un
sospiro. «Bene» disse con un sorriso,
«vado a prepararti la cena» e scomparve
prima che potessi dire qualsiasi altra cosa.
Gli ultimi giorni erano trascorsi
con ritmo strano e
lento, ai quali faceva da sottofondo una mia costante e crescente
tensione,
stridente con l’umore assolutamente positivo di tutte le
persone che mi
circondavano - con cui non osavo confidarmi - e in molti casi anche di
Edward.
Perché, a parte rari e
brevi momenti, non mi dava mai
occasione per poter discutere di quello che gli passava per la mente.
Così
dovevo stare zitta e aspettare pazientemente di coglierlo in fallo.
Ma era evasivo. Terribilmente, vampirescamente, evasivo.
E poi… facendoci
attentamente caso, avevo notato che
il mio dubbio, sul fatto che Edward non volesse fare l’amore
con me, non fosse
tanto affatto un dubbio, quanto
più
una certezza. Innanzitutto, perché non prendeva mai
l’iniziativa. In secondo
luogo, perché mi dissuadeva sempre quando la prendevo io.
Così avevo
semplicemente smesso di farlo, evitando di raggiungere ad una sempre
più
dolorosa serie di certezze.
«Grazie Esme, sei stata
molto gentile, come sempre» la
ringraziai in un sussurro, prendendo dalle sue mani il vassoio con il
mio
pranzo.
«Spero che ti piaccia,
è una ricetta nuova» mi
sorrise, un luminoso e abbagliante sorriso, e fece una piccola carezza
alla mia
pancia, contenta e soddisfatta.
Carlisle, seduto sulla sedia di
fronte a me, aprì le
braccia, facendo sedere sua moglie accanto a lui, sorridendo gioioso
anch’egli.
Forse quell’atmosfera,
che ora mi appariva tanto
sfacciatamente felice, c’era in realtà sempre
stata, sin da quando tutti
avevano ricevuto la notizia della gravidanza. Alice e Rosalie avevano
perso
gran parte del loro senno per la bambina, Carlisle e
Esme erano orgogliosi e soddisfatti come non mai, e Charlie si beava
della mia
rinnovata felicità. Emmett era persino più
allegro del solito! E, infine, anche
Jasper, restio a dimostrare i suoi sentimenti, ostentava spesso
estatiche
espressioni. Solo ora, che cominciavo ad osservare
dall’esterno questa “giostra
di felicità” potevo rendermene conto.
Volevo urlare «Ehi,
guardate! Guardate Edward, c’è qualcosa che non va!».
Perché me ne ero
accorta solo io? Perché dovevo sentirmi in colpa per aver
rotto l’idillio?
«Stai seguendo la dieta
che ti ho indicato?» mi chiese
Carlisle con i suoi luminosi e cortesi occhi color oro, facendomi
riscuotere
dai miei turbinosi e costanti pensieri.
Finii di masticare il boccone.
«Sì, certo. Sai che ci
pensa sempre Edward» mormorai atona.
Entrambi erano venuti per una delle
loro tante visite
di cortesia, e Edward aveva deciso di approfittarne per uscire, visto
che
ancora non si sentiva abbastanza fiducioso a lasciarmi sola. Quello,
malgrado i
licantropi non si fossero più fatti sentire, era un altro
grande motivo di
tensione per me. Non per la minaccia che costituivano in sé,
me per il fatto di
dover essere costantemente controllata.
Allontanai il piatto, con lo
stomaco improvvisamente
chiuso.
Una ruga d’espressione
comparve sulla fronte perfetta
di Esme, incrinando la perfetta atmosfera di gioia e amore.
«Che c’è cara,
qualcosa non va?».
Scossi il capo lentamente.
«No, non ho più fame,
scusa».
Lei mi fissò per un
interminabile istante, poi si
rizzò in piedi, guardandosi attorno.
«Dov’è andato Edward?».
Li studiai. Esme, che sembrava
avere uno sguardo di
sospetto, nato dalla stranezza della situazione. Poi, Carlisle. Per
quanto fosse
un magnifico attore, il migliore della famiglia e dell’intero
universo forse,
non aveva la stessa espressione della moglie, quella che mi aspettavo
avesse.
«Non lo ha detto neppure
a me» indugiai volutamente
con lo sguardo su Carlisle, aspettando di trovare una qualsiasi
reazione. Lui
lo sostenne con espressione neutra, senza inflessioni.
Sospirai, abbassandolo e
massaggiandomi la pancia con
movimenti circolari. La bambina si inquietava velocemente per la mia
ansia, ed
ultimamente gliene offrivo a bizzeffe.
Andai a studiare comodamente
semi-distesa sul divano
dello studio, tentando di rilassarmi. Esme e Carlisle rimasero per
tutto il
tempo con me, facendomi sentire affettuosamente e silenziosamente la
loro
presenza, rivolgendomi sorrisi e attenzioni.
Tentavo in ogni modo di recuperare
la maggior quantità
di lavoro e di portarmi avanti con velocità negli studi,
considerando che a
breve avrei avuto molti importanti esami. Provavo a vederlo come un
modo per
distrarmi da tutti i problemi che stavano crescendo fuori e dentro di
me e che
non sembrava minimamente scalfire il resto del mio mondo.
Riposi il libro che avevo appena
finito di leggere e
cercai nell’elenco-tabella, creata con l’aiuto di
un entusiasmato Jasper, la
prossima materia che avrei dovuto studiare.
Disegno
creativo,
la materia del professor
Philip. Improvvisamente i miei pensieri, come con una ventata gelida,
furono
trasportati verso quei nitidi e recenti ricordi. Un’altra,
ennesima, questione
che continuava ad assillarmi con crescente curiosità, era
tutto quello che mia
aveva detto nel suo studio, e ci ripensavo sempre nei rari momenti in
cui la
mia mente non era rivolta a Edward.
La misteriosità, il tono
accorato con cui ne aveva
parlato, la profondità e la bellezza di quel volto bianco.
Mi aveva chiesto di
non fare domande, ma io non potevo non sapere qualcosa che sicuramente
celava
altro dietro sé.
Lo sguardo, per un istante, cadde
sul monitor piatto
del computer posto sulla scrivania appena accanto a me e poi nuovamente
sul
libro poggiato sulle mie ginocchia tese. Lo chiusi in uno scatto,
alzandomi. La
storia di Caterina Barbarigo,
marchiata a fuoco nella
mia memoria, meritava una pausa dai miei studi.
Una volta aperta la pagina iniziale
del mio motore di
ricerca preferito scrissi il nome della nobile veneziana. Comparvero
immediatamente dei risultati illustrati, con il dipinto che si trovava
nello
studio del professore. Era un’opera minore del periodo
tardo-rinascimentale, ma
doveva pur sempre essere di grande valore.
Ciò che mi sorprese fu
il fatto che trovai pochissime
notizie sulla donna e nessuna che corrispondesse a quelle che il
professore mi
aveva dato. Aggrottai le sopracciglia. Aggiunsi al nome della donna
quello
della figlia, “Kate”. Rimasi ancor più
stupefatta di non trovare nessun
risultato utile. Feci un sospiro e mi accinsi ad accostarle invece il
nome del
marito… Strano. Davvero strano che non ricordassi quel
dettaglio, eppure mi
pareva, considerando il tempo utilizzato per rimuginarci su, che la
conoscessi
alla perfezione.
Poi ricordai. Non aveva mai citato,
stranamente, il
suo nome. Un giovane tedesco.
Così
aveva detto. Perché?
Un pop-up pubblicitario comparve
sullo schermo,
facendomi riscuotere. Feci per chiuderlo, ma i miei occhi si
soffermarono per
un istante sull’immagine rappresentata sulla figura colorata.
“Esibizioni
- Pianoforte a coda -
Washington state”
«Bella».
Sobbalzai, portandomi una mano al
cuore, e chiudendo
immediatamente lo spazio pubblicitario. Per quanto lo slogan avesse
catturato
la mia attenzione in quell’istante il mio cuore palpitava nel
petto per mio
marito, e col suo sordo rumore scacciava via ogni altro pensiero dalla
mia
testa.
Gli occhi di Edward saettarono sul
monitor del
computer, poi, con discrezione, si posarono sul mio viso, gentilmente.
«Ti ho
spaventata?».
Scacciai con lentezza
l’agitazione della bambina,
facendo strisciare la sedia sul pavimento e sollevandomi dal mio posto.
Mi
sfiorai la pancia. «No… Non è
nulla…» mormorai a capo chino, attenta a non
incontrare il suo sguardo.
Come potevo anche solo pensare di
risolvere i
problemi, di mantenere la calma, quando anche solo un suo sguardo
riusciva a
farmi perdere la ragione? Lo volevo, ogni dannato secondo. Allora
perché lui
non voleva me?
Andai in cucina, dove Esme,
l’unica che probabilmente
era riuscita a sentire il rumore degli ingranaggi arrugginiti che
giravano nel
mio cervello, mi aveva preparato una camomilla.
«Grazie» dissi
con un sorriso, sorseggiandola piano.
Anche lei mi sorrise, accarezzando
attraverso la
morbida e calda stoffa della mia maglietta premaman la sua piccola
nipotina.
«Edward sta parlando con
Carlisle, non è così?»
chiesi, tentando di fingere disinteresse, ma mal celando un tono
ansioso.
Tentò di acquietarmi con
un’espressione serena, ma
leggevo nel suo volto un sospetto che sentivo essere parte del mio.
«Sì, credo
di sì».
Sospirai ancora, prendendo a
massaggiarmi con più
forza la pancia, mentre sul dolce viso della mia seconda madre
acquisita era
tornata la consueta espressione serena.
Cos’era che non andava in
Edward? Per quanto mi
sforzassi di non pensarlo, più volte avevo ipotizzato che,
al contrario, ci
fosse qualcosa che non andasse in me. Magari non era riuscito a
riprendersi
dall’idea di quello che mi aveva fatto Jacob. Eppure
non mi pareva che quando avevamo rifatto l’amore avesse avuto
remore in tal
senso. Cos’era allora? Non si fidava ancora della mia salute
mentale e voleva
che ricominciassi a prendere gli anti-depressivi?
Era
preoccupato dalla o per la bambina, tanto da parlarne con Carlisle?
Perché
Carlisle sapeva, oh, se sapeva. E se…
Se invece, semplicemente,
l’unico problema fosse stato
che non trovava più attrazione nei miei confronti?
Scacciai quell’idea,
assurda e dolorosa, che come un
verme invadeva i miei pensieri, strisciando subdolamente e senza
pietà.
«Avete deciso dove
sistemerete la stanza della
bambina?». Esme, con cortesia, mi distolse dai miei assurdi,
eppur costanti,
pensieri.
«Sì, certo,
utilizzeremo la camera degli ospiti più
vicina alla nostra, ma dovremmo modificarla un po’, togliere
qualcosa. Vieni,
ti faccio vedere» dissi con un piccolo sorriso, costretto dal
suo, smisurato. Volevo
decentrare la sua attenzione, appena nata, da me.
Afferrai la tazza con il liquido
giallo dolciastro e
mi avviai nella futura stanzetta della bambina.
«Ecco» dissi, indicando
l’ambiente completamente spoglio, «Ieri abbiamo
tolto tutti i vecchi mobili…
beh, Edward li hai tolti, sai com’è,
più forte, più veloce» scherzai con
poco
entusiasmo.
Lei rise, melodica e armoniosa.
Mi voltai verso il suo viso,
dondolando sui piedi e
passando la camomilla da una mano all’altra. «Beh,
ovviamente vorrei che fossi
tu, se non è un problema, a trovare i nuovi arredi, le
tende, la moquette»
enumerai, con un gesto della mano, contenta di fare qualcosa per lei e
di non
intaccare la felicità della mia famiglia con la mia ansia.
Vidi l’entusiasmo nei
suoi occhi, sincero, ma anche una
certa attenzione per il mio comportamento. «Certo Bella,
certo, sai che mi
farebbe davvero piacere», disse, accarezzandomi gentilmente i
capelli, come per
darmi conforto.
«Camomilla?»
chiese Edward con un sorriso e una
smorfia, entrando nella cameretta completamente bianca, e storcendo il
naso.
Arrossii. Non volevo fare i
capricci, come sempre. Non
volevo rattristarlo, soprattutto. Cosa ci potevo fare io, se lui non
voleva più
fare l’amore? Non potevo e non volevo costringerlo, e
farglielo presente sarebbe
stato un atteggiamento nettamente infantile, oltre che imbarazzante.
Esme lanciò
un’occhiata al figlio, che mi venne
accanto in un attimo, lasciandomi una scia di baci sulla guancia.
«Che si
diceva?» chiese allegro, stringendomi da dietro e
accarezzandomi la pancia.
«Parlavamo di quanto sei
forte e veloce» disse
sarcastica Esme, riferendosi alla mia battuta, stringendosi in un
abbraccio al
marito e scoccando a lui una medesima occhiata riservata al figlio,
carica di
rimprovero.
Edward fece una breve risatina, non
del tutto sincera
a mio avviso, leggendo i pensieri della madre con attenzione.
«Alice verrà
domani, è andata a comprare dei vestiti
per te e per la bambina» aggiunse lei.
Annuii, senza protestare.
Poco dopo Esme e Carlisle dovettero
andare via, poiché
presto sarebbe cominciato il suo turno in ospedale. Io mi rimisi a
studiare,
come sempre troppo indietro per la mia tabella di marcia.
Mi sentivo incredibilmente
inquieta, come se ci fosse
una parte di me che mi tirava verso il basso di un oblio, e
un’altra che invece
si teneva aggrappata all’atmosfera tranquilla,
all’affetto degli altri, e che
voleva conformarsi a tutto ciò, che voleva far finta di non
vedere i problemi
che solo io avevo scorto. Così ero in un limbo,
nell’attesa che accedesse qualcosa
di brutto, senza la speranza che potesse avvenire qualcosa di bello, e
non
abbastanza triste per potermi permettere d’esserlo. Inquieta.
Questo era
l’aggettivo migliore.
Mentre leggevo, mi accorsi di avere
lo sguardo di
Edward puntato addosso.
Sollevai il viso e lo guardai, ma
lui sembrò quasi non
accorgersene. I sui occhi erano vitrei e la mascella contratta in una
posa
immobile. Abbassai nuovamente lo sguardo e lasciai che le parole
scorressero
sotto i miei occhi. Quando lo risollevai era ancora fermo, immobile.
Aspettai,
molti secondi. Arrivai persino a contare il ticchettio delle lancette
sull’orologio
a muro. Cinque, dieci minuti.
Dovevo intervenire, dire qualcosa,
avevo accumulato in
un quel lasso di tempo abbastanza decisione e coraggio per farlo. Era
il
momento adatto per aiutarlo e per comprendere, finalmente, e cercare di
risolvere uno dei tanti, nonché il principale, problema che
affollava la mia
mente.
Non appena feci per alzarmi,
però, sentii una folata
di vento, un bacio sulla fronte e un «torno subito»
scomparso come un eco
insieme a lui.
Rimasi immobile, pietrificata. Lo
sconforto poi,
lentamente, mi assorbì, sommergendomi.
Mi strinsi le gambe alle ginocchia,
premendo una mano
sulla pancia.
Sconforto, per non poter fare nulla
per mio marito,
sconforto, per non essere riuscita a comprendere la causa dei suoi
problemi.
Sconforto… perché il pensiero di non essere
abbastanza, di aver fatto qualcosa
di sbagliato, di non piacergli più, mi assorbì,
bruciandomi, inglobandomi nella
sua fredda e dolorosa fiamma.
Sentii le sue mani, delicate,
accarezzarmi i capelli,
e mi assicurai che nessuna delle lacrime che avevo ingoiato, strette in
gola,
fosse riuscita a scappare dai miei occhi. Sollevai lentamente la testa,
osservandolo con espressione vacua, intenzionata a non far trapelare
nulla di
ciò che sentivo dentro.
Le sopracciglia rossicce si
aggrottarono in una
sinuosa linea. «Va tutto bene?» chiese. Sembrava
sereno.
Annuii piano.
«Sì… la bambina
è… solo un po’ agitata»
dissi, raccontando solo parte della verità.
«La bambina?»
chiese, curioso, accarezzandomi il
ventre. Sospirai, lasciando che mi sfiorasse, anche sotto la maglietta.
Mi
toccava delicatamente, lasciava ogni tanto baci. Sperai che non
smettesse mai,
che continuasse ancora, facendo scomparire tutti i miei dubbi,
facendomi
credere che realmente non ci fosse nessun problema, come tutti gli
altri
pensavano. Pregai che fosse così, ma venni delusa.
«Va meglio?».
Era gentile e attento.
Mi sistemai meglio sul divano,
appoggiandomi allo schienale.
Scossi il capo, timorosa che con anche solo una parola la mia voce si
sarebbe
potuta spezzare a favore di un abbondante pianto.
Sorrise ancora. «Allora
credo di avere una soluzione»
disse, baciandomi la punta delle dita, strette nella sua mano. Si
accovacciò di
fronte a me, tirando fuori dalla sua mano sinistra, nascosta dietro la
schiena,
un pacco rettangolare e schiacciato, di medie dimensioni.
«Un regalo?»
chiesi sorpresa, passando velocemente con
lo sguardo dal suo viso compiaciuto al pacco perfettamente incartato,
con un
gran fiocco rosa shocking sulla carta bianca. «È
per questo che sei andato
via?».
Annuì.
«Natale è fra
un mese» asserii, malgrado gran parte
della mia attenzione e il mio sguardo fossero ormai catturati dalla
curiosità
di scoprire cosa fosse.
Me lo porse, invitandomi a
prenderlo. La consistenza
era rigida, e facendoci ben caso, notai che in realtà il
rettangolo schiacciato
era lievemente informe sul lato superiore. «È per
la bambina. Beh, in realtà
per entrambe, visto che sei sempre a contatto con lei. Non è
niente di che,
nulla di cui doversi preoccupare, davvero. Permettimi di coccolarvi un
po’».
«Vorrei
tanto
che mi coccolassi» avrei voluto rispondere, ma non
lo feci, preferendo
tacere e soddisfare la mia curiosità, strappando con mani
tremanti la carta
bianca e ingoiando il magone che fino a quel istante mi aveva impedito
di
respirare.
Il primo oggetto che identificai fu
un libro. Un
grosso libro dalla copertina bianca e con tanti disegni colorati. Fiabe. Il secondo, invece, era una
fascia elastica nera, alla quale erano stati applicati, su due lati,
due auricolari
rosa.
Mi porse la mano, indicandogli di
consegnargli
l’oggetto. Mi fece sollevare e alzò di poco la
maglietta, quanto bastava per
far passare la fascia intorno alla vita e chiudere il feltro. Premette
un
piccolo tasto schiacciato, e improvvisamente sentii dentro di me
diffondersi
una piccola quiete.
«È una specie
di auricolare» spiegò ad un mio sguardo
interrogativo. «Ci ho messo alcune melodie
rilassanti» disse, accarezzandomi il
viso con sguardo vacuo.
«Tu…
tu…» farfugliai, portando una mano alla pancia,
sulla fascia. Non riuscii a continuare, perché la tensione e
le lacrime
accumulate sfociarono in un singhiozzante pianto di commozione.
Mi sorrise, baciandomi. Posando una
mano sotto i miei
capelli e baciandomi. E ancora, e ancora. «Shh, non
piangere». Mi fissò comprensivo, asciugandomi le
lacrime.
Per tutta la serata rimasi fra le
sue braccia. Per
tutta la sera, davanti al camino, avvolta in una coperta e fra le sue
braccia. Mi
teneva stretta a sé, mi cullava, mi accarezzava, mi baciava.
Tenevamo, insieme,
il libro sulla mia pancia, e con il mento posato sulla mia spalla
leggeva con
la sua voce armonica fiabe alla nostra bambina.
Non pensavo, e non volevo pensare a
nulla, perché
tutto era armonioso e perfetto, e mi sembrava che niente potesse
rovinare quel
momento.
«…Così
la rana saltò nello stagno, sola e senza il suo
principe».
«Dove sei?»
recitai, la voce distorta da un’ennesima
ondata di lacrime, voltandomi verso Edward.
Mi sorrise dolcemente.
«Sono qui, sono qui con te»
continuò, baciandomi.
Tuttavia, la carica di pura
serenità che mi diede l’idillio
di quel momento, scemò pian piano, nel corso del giorno
successivo, quando i
miei timori ricominciarono ad aumentare, mentre i contatti intimi con
Edward
rimanevano sempre fermi in una fase di stallo pari a zero.
«Sai cosa puoi fare
oggi?» chiese Esme, intenta a
prendere le misure della stanza della bambina.
«Studiare?»
feci sarcastica, osservandola, posata sullo
stipite della porta, correre velocemente da una parte
all’altra.
Rise. «No, pensavo che se
ti va potresti occuparti tu
di dipingere la stanza».
Mi rizzai, spiazzata dalla
proposta. «Francamente non
so se ne sono capace».
«Io penso che sia
un’idea stupenda, c’è sempre tempo
per studiare, no?» disse Edward, comparendo dietro di me e
facendomi
sobbalzare. «Non trovavi rilassante dipingere? È
una buona idea».
«Sì, certo,
ma… Per quanto riguarda il tempo non sono
della tua stessa opinione, sai?».
«Ho portato i
colori!» esclamò una voce vivace,
entrando come un turbine nella stanza. Alice si piegò sui
talloni, posando un
rapido bacio sulla mia pancia.
«Alice! Che ci fai
qui?».
Fece spallucce, correndo come un
razzo da una parte
all’altra. «Ho avuto una visione, devo pur
sfruttare l’occasione, no?».
Insistettero a lungo, e vedendo
Edward così motivato e
contento non me la sentii di dirgli di no, perciò accettai,
sperando di farlo
felice.
Era sicuramente un’idea
bizzarra e mi stupii che
proprio Esme ne fosse l’artefice. Mi impegnai per creare
nella mia mente
un’idea di come volessi suddividere le pareti e realizzai
diverse bozze, che
Edward definì, ovviamente, tutte eccezionali.
Così decisi di smettere di
pensare troppo e di basarmi sui colori e sulle emozioni, iniziando ad
imbrattare tutto quel bianco.
Canticchiai la stessa melodia che
in quell’istante
stava ascoltando la bambina, stendendo lunghe pennellate di rosso
vermiglio. Ondeggiavo
leggermente, seduta a cavalcioni sulla scala.
«Potresti evitare di fare
così?» chiese Alice, che sia
era auto-proposta come mia aiutate, a mio avviso solo per il gusto di
avere una
salopette e un cappello di giornale come tenuta.
«Così
come?».
«Ondeggiare in questo
modo» Mi imitò. «Vorrei ridurre
il rischio di caduta, sai com’è. È
già tanto che non faccia storie per il fatto
che sei su una scala».
Risi, ricominciando a dipingere.
«Scusa, ma Edward non
ha detto che il tuo ruolo in tutto questo è prendermi al
volo se cado? Fallo
bene, no?! Come hai detto “devi
sfruttare
l’occasione”». Ridacchiai,
quasi del tutto spensierata, sicuramente più
leggera. Aveva ragione, era molto rilassante.
«Pervinca»
dissi, tirando giù il secchiello di metallo,
concentrata sul disegno.
«Come avresti fatto senza
di me, che conosco tutte le tonalità
di colori?!» mi accusò.
Scossi la testa, riprendendo a
dipingere. Tuttavia,
anche se rilassante, fu una cosa davvero stancante, dipingere per tre
ore di
fila, tanto che alla fine sentivo i muscoli intorpiditi, ma potevo
vantarmi di
aver colorato due terzi di una parete. Le pennellate erano discontinue
e si
accavallavano in giochi di colori e schizzi tono su tono e a contrasto.
Individuai un punto che mi sembrava troppo bianco e abbastanza asciutto
da
essere dipinto.
«Pennello A
12». Aspettai che Alice me lo passasse.
«Aspetta, ce ne sono
tanti! Qual è?» chiese, la testa
corvina nella mia borsa.
Sbuffai. «Lascia stare,
faccio con questo» dissi
sporgendomi verso destra.
La scala oscillò, il
baricentro spostato. In pochi
istanti, come se la scena fosse girata al rallentatore, mi sentii
cadere nel
vuoto, mentre il terrore si faceva, rapidissimo, spazio nel mio cuore.
Prima che potessi sentire il
doloroso contatto con il suolo,
fui raccolta da un paio di robuste braccia fredde che in un secondo
bloccarono
anche la scala che ci stava cadendo addosso.
Sentivo ancora il suono del cuore
nelle orecchie e il
respiro accelerato.
«Va tutto bene? Ti sei
fatta male?» chiese Edward
agitato, accarezzandomi frenetico il viso.
Mi occorse qualche secondo per
recuperare l’uso della
parola. Osservai Alice, che era rimasta immobile e pietrificata, col
viso
rivolto verso di me e gli occhi ancora vacui. Deglutii.
«No… Non è… successo
nulla».
Gli dissi rilasciarmi andare in
piedi e titubante mi
accontentò aiutandomi e non smettendo di fissarmi,
apprensivo. Notai che le
gambe mi tremavano ancora, tanto che se non mi avesse sostenuta per la
vita
sarei caduta. «Alice, stai bene?» mormorai,
tentando di temporeggiare e
riprendermi.
Si alzò velocemente in
piedi, venendomi di fronte. «Mi
dispiace. Mi dispiace di non aver avuto prima la visione. Non ero
concentrata,
stavo pensando ai pennelli».
«Alice, Alice, non
è nulla, davvero».
«Cos’è
successo?» chiese Edward impassibile,
interrompendomi. Mi voltai verso il suo viso, salendo con lo sguardo
all’altezza dei suoi occhi. Erano spenti, scuri, velati da
una profonda
inquietudine e ansia. Scrutava la sorella, leggendole attentamente i
pensieri.
Lei fece un’espressione
stupita, eco della mia. Cosa
intendeva?
«È
caduta… Edward».
«Ho perso
l’equilibrio e sono caduta…
cosa…» feci,
titubante. Pensava che ci potesse essere un altro motivo? Stava
dubitando della
mia goffaggine?
Si voltò verso di me,
finalmente, scrutandomi
tormentato e lasciandomi un bacio sulla fronte, stringendomi con forza
a sé.
Dopo un momento d’esitazione restituii l’abbraccio
con lo stesso vigore,
tentando di rassicurarlo da qualcosa che no riuscivo a comprendere.
Dopo pranzo, quando la situazione
tornò tranquilla,
decisi di andare a fare una doccia per ripulirmi dagli schizzi di
vernice.
Lasciai che il getto caldo
dell’acqua m’investisse il
viso, rilassandomi e impedendomi di pensare. Uscii dalla doccia,
avvolgendomi
in un grande asciugamano. Mi guardai allo specchio, osservando la mia
immagine.
Ora la pancia era un piccolo rigonfiamento piuttosto evidente.
Cercai con insistenza un qualsiasi
dettaglio sbagliato
che giustificasse l’atteggiamento di mio marito. Ma mi vedevo
esattamente come
sempre, normale. Certo, non minimamente comparabile alla bellezza di
nessuno
dei Cullen, tanto meno la sua, ma per lui non si era mai dimostrato un
problema.
Sentii bussare. «Posso
entrare?» chiese, una punta di
agitazione nella voce argentina.
Sospirai. «Sì,
certo Edward, entra».
Entrò, richiudendosi la
porta alle spalle e
osservandomi con attenzione. Poi si avvicinò in un lampo,
mettendosi alle mie
spalle e lasciando un piccolo bacio sui capelli bagnati.
Vidi la mia immagine nello specchio
arrossire. «Va
tutto bene?» chiesi, già sapendo che non mi
avrebbe dato una risposta, ma
sperando comunque il contrario.
Annuì, infatti,
silenzioso, passandosi una mano fra i
capelli bronzei e distogliendo lo sguardo.
Mi chinai, tentando di essere
disinvolta, in avanti,
aprendo l’armadietto con i prodotti, e presi i due flaconi di
creme, ma nel
movimento il telo mi scivolò addosso, lasciando un seno
nudo.
M’irrigidii, immobile.
Edward, alle mie spalle, fece
un piccolo sorriso naturale e anche molto, molto malizioso. Il cuore
cominciò a
pompare forte nel petto, facendo risalire il bollore sulle guance. Si
avvicinò,
lasciando una scia di morbidi baci sul collo, accarezzando la pancia e
il
fianco.
Chiusi gli occhi, tremando di
piacere. Lo volevo, lo
volevo tantissimo e sempre, sempre più, per sempre e
instancabilmente. Mi
voltai di scatto, non più capace di resistere, incollando
frenetica le mie
labbra alle sue e stringendo le mani fra i suoi capelli. Baciandolo con
foga,
passione, bramosia, con l’assurdo desiderio di fargli del
male.
Si staccò da me, scosso,
tenendomi con forza, eppure
con gentilezza. Prese con le dita il lembo di stoffa sceso e lo
sollevò,
incastrandolo con l’altro. Mi sorrise, e in un attimo mi
trovai sola.
Mi portai due dita, tremanti, alle
labbra tiepide,
retrocedendo, quasi inconsciamente, fino a trovarmi con la schiena
schiacciata
al muro. Mi lasciai scivolare silenziosa, non potendo fare a meno di
sentirmi
rifiutata.
«Metti questa, ti sta
d’incanto» mi disse Alice,
passandomi una maglietta verde smeraldo con una gran
quantità di veli sulla
pancia.
Attraverso la porta aperta del
bagno, scoccai
un’occhiata a Edward, che, intento a leggere un articolo da
una rivista non
disse nulla. Saettai indecisa con lo sguardo dalla maglietta che mi
aveva
indicato Alice ad un'altra, blu.
«Su,
indossala!» mi invitò, sorpresa della mia
esitazione.
«Vorrei…
mettere questa» dissi, arrossendo, e
lanciando una nuova occhiata di sbieco a mio marito, sempre silenzioso
e
concentrato, seduto sulla poltrona della nostra camera, accanto alla
finestra,
da cui filtrava la fioca luce dell’aria nebulosa.
Alice, pur sorpresa dalla mia
richiesta, acconsentì. «Siediti»
disse poi, indicando una sedia di fronte allo specchio «ti
sistemo i capelli.
Non pensi che forse dovresti tagliarli? Sono molto
cresciuti».
«Tu dici?»
chiesi, improvvisamente incerta, osservando
le ciocche di capelli che mi arrivavano fin sotto il seno. Arrossii,
mordicchiandomi il labbro e chinando il capo, aspettando che Edward
dicesse
qualcosa.
Alice fece spallucce.
«Magari solo un po’, è
un’idea»
disse con un sorriso.
Mi voltai verso mio marito,
insicura. «Edward».
Immediatamente si voltò verso di me, lo sguardo attento e
gentile. «Pensi… che…
dovrei tagliare i capelli, secondo te?».
La sua espressione si distese in un
sorriso, mentre si
sollevava in piedi e mi veniva incontro. «Sei bellissima
così Bella. Mi
piacciono i tuoi capelli lunghi» mormorò,
lasciandomi un bacio sulla fronte.
E così scomparve, mentre
sentivo il cuore battere con
forza nelle orecchie.
Alice rise, scuotendo il capo e
brandendo in un
istante con il phon. «Ma che vi prende a voi due?»
chiese divertita,
cominciando ad asciugarmi i capelli.
«Perché? Cosa
c’è? Cosa c’è di
strano?» chiesi,
ansiosa.
Sul suo volto, allo specchio,
comparve un’espressione
perplessa «Ehi, ehi, Bella, frena. Dicevo solo
così per dire».
Feci un sospiro, tentando di
calmarmi concentrandomi
sul ronzio del phon. «Sì».
«C’è
qualcosa che non va?» mi chiese titubante.
Indugiai alcuni istanti, incerta se
confidarle i miei
timori sul comportamento di Edward. Mi accertai che la porta della
stanza fosse
chiusa, e alla fine desistetti. «Sono un po’
preoccupata, per Edward».
«Edward? Che
c’è che non va?» fece, sorpresa dalla
mia
affermazione. Evidentemente, come sospettato, non aveva colto nessun
problema,
come il resto della famiglia.
«Alice. Non vedi
com’è strano? C’è qualcosa
che non va
in lui, lo sento».
«Bella»
cominciò dolcemente, nuovamente operosa sui
miei capelli «non c’è nulla che non va.
Ora ti dico cosa c’è. Tu sei incinta e
sei molto ansiosa e ora che va tutto bene senti di dover trovare
qualcosa che
non va. Edward è super felice di diventare padre, ecco
cosa».
«Lo so, ma è
anche triste» insistetti, convinta del
fatto che non fosse solo una mia paranoia.
«Bella…».
«No Alice. Sono sua
moglie, le sento queste cose». Tentai
di trovare un possibile esempio, che le facesse credere che non fossi
pazza,
che non avevo solo immaginato tutto, e sperai di convincere anche me.
«Hai
visto come ha reagito quando sono caduta dalla scala, c’eri
anche tu, no?».
Sollevò un sottile
sopracciglio. «Era preoccupato per
te, mi sembra normale».
«No, invece! Non
è normale» dissi, sempre più ansiosa.
«Si rabbuia in un istante, rimane immobile e fermo, si
comporta in modo strano,
e… e…» arrossii, annaspando
«non vuole più fare l’amore con
me» conclusi in un
sussurro, deglutendo e abbassando lo sguardo.
Il suono del phon smise di riempire
l’aria, lasciando
un breve silenzio. Dopo due secondi
sentii le piccole
braccia di Alice attorno a me. Si staccò, osservandomi e
accarezzandomi il
viso. «Tesoro, sono sicura che non ci sia nulla che non va in
Edward. Devi
stare calma, okay? Sarà sicuramente una di quelle cose da
papà iperprotettivi»
scherzò con un sorriso «comunque, parlane con lui,
no? Chiedigli il motivo di
questa fantomatica tristezza».
Sospirai, giocherellando con le sue
dita. «L’ho fatto.
Non mi dice nulla, dice che va tutto bene».
Sorrise. «Allora
c’è un solo metodo che funzionerà!
Fallo arrabbiare, dirà sempre la verità, quando
è arrabbiato!».
«Cosa?».
Fece l’occhiolino.
«Estate dell’84. Era una grande
auto la spider». Ritornò a concentrarsi sulla mia
faccia perplessa «fidati,
funzionerà».
«Alice, sai bene che
Edward non si arrabbierebbe mai
con me».
Sospirò, concedendomi la
ragione. «Già è vero. Beh,
smetti di pensarci allora, Bella. Non c’è nulla di
brutto. Fidati, fra poco
Emmett avrà abbastanza materiale per prendervi in giro per
l’eternità».
Feci schioccare la lingua.
«Sarà, ma io nel frattempo
ho un’idea migliore».
Si fece sorpresa, poi i suoi occhi
brillarono di
felicità. «Pianoforte?».
Edward si sbracciò,
sorridendomi, dall’ingresso
dell’accademia. Affrettai il passo, desiderosa di ritrovarmi
fra le sue
braccia.
L’ultima settimana era
trascorsa decisamente meglio
delle precedenti. Non c’erano stati importanti cambiamenti,
ma non avevo mai
visto mio marito titubare, e avevo sempre paura che potesse accadere,
ma… Avevo
un obbiettivo, ora. Pensavo che avrei potuto cominciare a risolvere i
nostri problemi.
Perciò mi concedevo di essere energica, forte. Non potevo
farmi prendere né
dall’ansia, né dall’indecisione. Lo
dovevo a me, ma soprattutto alla bambina. Ci
provavo, ci provavo davvero.
Mi abbracciò,
stringendomi, accarezzandomi i capelli e
lasciandoci un bacio. «Dai a me» disse, indicando
la mia borsa con tutti i
libri, «è pesante».
Annuii, porgendogliela.
«Com’è
andata stamattina?» chiese, non appena fummo in
macchina, e l’atmosfera fu tanto intima da permetterci di
parlare liberamente.
«Bene» risposi
in fretta, ansiosa di cambiare
argomento.
«Davvero?»
incalzò, accendendo i riscaldamenti per
contrastare la bassa temperatura.
«Sì,
sì, davvero» lo liquidai. «Hai pensato a
quello
che ti ho detto?» chiesi mite ma decisa.
Serrò le labbra,
guardando fisso la strada di fronte a
sé. Automaticamente io rabbrividii, raggelandomi. Avevo
paura quando faceva
così. Tuttavia
mi feci coraggio per non demordere.
Piano, allungai una mano tremante accanto alla sua.
«Edward» lo
chiamai, tentando di nascondere il tremore.
Lui fece un sospiro. Poi, con
lentezza, si voltò verso
di me con un’espressione serena. «Bella, non dico
che la tua idea non sia
carina, che non mi alletti, ma» contrasse il viso
«non mi va di stare tanto
tempo lontano da te e dalla bambina per andare, due sere a settimana, a
suonare
all’opera».
«Ma non dovresti stare
lontano da me!» esclamai,
animata. «Non c’è bisogno che ti
eserciti troppo, sei già bravissimo, e poi mi
piace sentirti suonare!».
«Dovrei fare esibizioni
in tutto il paese, viaggiare
molto».
«Verrei a vederti ogni
volta!».
«Ci sarà un
motivo per cui non potrai venire, un
giorno» ribatté tranquillo.
«Ma non è
vero» m’interruppi, pensando a dei possibili
motivi. E, in effetti, ce ne erano. L’università,
la bambina… Di sicuro non
sarei potuta andare ogni volta. «Promettimi che ci
penserai» borbottai infine,
per nulla intenzionata ad arrendermi, ancora una volta.
Lui ridacchiò,
vittorioso, prendendo una mia mano tra
le sue e baciandola.
«Guarda la
strada» lo schernii.
Rise, ancora, accelerando.
«Carlisle ha detto di avere
delle notizie per noi» disse poi serio, ma tranquillo. Sentii
il cuore battere
più veloce. Sapevo che tipo di notizie volevo avere, e
speravo che fossero
tutte positive.
«Andrà tutto
bene, vedrai, in qualsiasi caso» mi
rassicurò Edward, percependo il mio stato d’animo.
Annuii, abbassando i
riscaldamenti, improvvisamente infastidita dal calore. «Sta
tranquilla» disse,
sorridendomi.
«Sì» mormorai. Si stava preoccupando
per me, e non volevo
che lo facesse. Non quando mi ero proposta di aiutarlo in ogni modo e
di capire
le motivazioni della sua tristezza. Distolsi lo sguardo, in modo da
riprendere
il pieno controllo di me, e osservai con rassegnazione la pioggia
battente che
impediva quasi totalmente la visuale.
Sospirai, voltandomi a fissarlo
mentre guidava, sicuro
di sé e silenzioso. Lasciai che i bellissimi ricordi
m’invadessero la memoria,
facendomi imporporare le guance e ricordare con malinconia quei
momenti. Quel
momento, unico. Ma bellissimo, davvero, davvero bello. Vidi gli occhi
neri e
sempre più assenti di Edward e sentii una stretta allo
stomaco. C’era qualcosa
che non andava?
Mi voltai a fissare il finestrino,
tentando di non
lasciarmi rattristare e osservando il panorama verde di alberi che
trapassava
continuamente accanto a noi e che cominciava a farsi sempre
più rado man mano
che ci addentravamo a Forks. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, per
far
scomparire il suo sguardo malinconico. Quello era il momento migliore
per
parlare, ma cosa dire? Osservai il profilo delle case sfrecciare
ipnoticamente
avanti a me.
Fui improvvisamente sbalzata
bruscamente in avanti,
verso il parabrezza, il cuore in gola e il respiro ansante,
completamente
sconvolta e disorientata. Le cinture di sicurezza e un braccio freddo
mi
trattennero, facendomi rimbalzare sul sedile, mentre l’auto
frenava di botto a
pochi millimetri di distanza da un’altra, che ci
passò davanti a gran velocità,
sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia e producendo un rumore
stridulo di
freni. Anche la
Volvo
perse aderenza col terreno, ma dopo un metro si fermò,
più dolcemente di prima.
Ansimai pesantemente, scossa, gli
occhi sgranati, portandomi
una mano al cuore, sentendomi tremante e completamente annichilita
dalla paura,
tanto da non riuscire a pensare. Mi occorse qualche istante per tentare
di
capire quello che era successo.
«Bella? Stai
bene?» mi chiese Edward, agitato, posandomi
una mano sul viso.
Edward aveva frenato…
L’altra auto era passata
davanti… C’era… la pioggia…
Mi portai una mano alla testa,
confusa, sentendola
girare più veloce del dovuto, e sentendo la confusione della
bambina mischiarsi
alla mia. Era sconvolta, almeno quanto me, se non di più.
Sobbalzai, voltandomi
di scatto, quando sentii tre colpi al finestrino. Era il conducente
dell’altra
auto.
«Mi dispiace, ero
distratto, avrei dovuto darvi la
precedenza, è colpa mia. L’importante è
che non ci sia stato un incidente.
State tutti bene?».
Sentivo la voce
dell’uomo, concitata, molto lontana,
eppure ero ben riuscita a distinguere una parola. Incidente.
Impossibile. Esattamente impossibile che Edward potesse
distrarsi a tal punto da rischiare un incidente.
«…vi posso
accompagnare in ospedale se c’è bisogno,
possiamo chiamare un’ambulanza…».
«No, non si preoccupi, la
ringrazio». Gli occhi di
Edward si posarono su di me, ansiosi, non appena l’uomo si fu
allontanato. «Bella».
«Sto bene»
interruppi le sue parole, puntando i miei
occhi nei suoi. Lo fissai, in attesa di una spiegazione plausibile, di
una illuminazione,
ora che la confusione aveva lasciato spazio allo sgomento. Lo fissai,
in attesa
che la saliva tornasse a bagnarmi la bocca.
Lui sostenne il mio sguardo con
preoccupazione e
angoscia. «Ti porto da Carlisle» disse infine.
«Cosa è
successo, Edward?» chiesi, ignorandolo,
ostinata. Non poteva far finta di niente. Mi ero perfettamente accorta
del suo
sguardo assente prima della frenata, e avrei messo la mano sul fuoco
sul fatto
che le due cose fossero collegate.
«Niente di cui tu ti
debba preoccupare. Ora andiamo».
«No» dissi, ferma, stringendo i pugni e
irrigidendo il
volto. Non avevo nessuna intenzione di far strabordare quelle dannate
lacrime. «Ho
detto che sto bene, Edward. Dimmi cos’è
successo».
Allo stesso modo contrasse la
mascella, un lampo nero
negli occhi. «Non importa. Tu ora non sai quello che
è meglio per te» mormorò,
girando la chiave nel quadro.
Perché mai insisteva
così tanto con quella storia di
Carlisle? «Edward, non mi sono fatta niente,
dannazione!» sbottai. Poi feci un
sospiro, ansiosa, pentita di essere stata troppo brusca, sentendo la
situazione
sfuggirmi di mano, ancora una volta. Lo accarezzai, agitata, in viso,
sfiorandogli i capelli. «Ti prego, ti prego» lo
supplicai, sull’orlo delle
lacrime «dimmi cos’hai. Te ne prego. Non dire che
non è niente, ti prego.
Dimmelo. Sono tua moglie. Ti prego…».
Sentii le sue braccia fredde sulle
mie, mentre finalmente
si faceva stringere nel mio abbraccio. Baciai i suoi capelli ramati,
ringraziando il fatto che non mi avesse ancora detto di no.
«Ti prego».
«Verrai da Carlisle,
dopo?» sussurrò atono.
Mi staccai velocemente, guardandolo
in viso, fin
troppo contenta e sorpresa di avere, finalmente, una sua concessione
per
curarmi della strana insistenza. «Sì.
Sì, certo» risposi repentina, prendendo
le sue mani fra le mie.
Distolse lo sguardo, perdendosi
nella pioggia. Poi
strinse le sottili labbra rosee. «Non… riesco
a…» deglutì. Posai lentamente una
mano sulla sua guancia, e lui fece lo stesso, intrappolandola nella sua
e
schiacciandola contro il suo viso perfetto. Si voltò verso
di me, tormentato. «Ogni
volta, ogni singola volta che vengo qui, con te. È una
tortura Bella» sorrise
beffardo «non hai idea della moltitudine di pensieri
che… tutti quanti,
fanno» fece una pausa «su te e… lui».
Sentii un singulto shockato nascere
dal petto e nel
tempo di due battiti del cuore lo ripresi fra le braccia, stringendolo
con
tutta la mia forza. Era quello, allora. «Amore, oh, mi
dispiace così tanto… Non
avrei mai…» strizzai gli occhi, maledicendomi per
non essere arrivata a capire
quello che poteva comportare per lui stare in mezzo a tutta quella
gente. Lo
strinsi, ancora più forte. «Non ti preoccupare, ci
sono io, qui, adesso. Sono
con te e non ho nessuna intenzione di lasciarti agli altri. Nessuna,
capito? Tu
sei solo mio e io sono solo tua. Non li ascoltare, ti prego, andiamo
via da
qui».
«Sì Bella.
Grazie, davvero, so di poter contare su di
te, ma non preoccuparti per me, è una cosa con cui posso
convivere» mormorò,
annuendo e baciandomi frettolosamente le labbra. «Ti
amo».
«Anch’io ti
amo, tanto» sussurrai, baciandolo a mia
volta e cercando, il quel gesto, di infondere tutto il mio amore.
«Ci penserò
io ora» dissi convita, ignorando le sue parole.
Sospirò.
«Andiamo da Carlisle».
Lo osservai, sistemandomi sul mio
sedile. Sembrava
ancora molto turbato, forse era preoccupato per me. Comunque, ora che
sapevo,
non avrei mai più permesso che qualcosa gli facesse
così male. «Edward, sto
davvero bene. Mi ha bloccato la cintura, e poi c’eri tu, non
mi sono fatta
male».
Mi lanciò
un’occhiata apprensiva. «Per favore. Non ci
vorrà tanto, dobbiamo…
andiamo».
Non riuscii a trovare la forza di
oppormi, malgrado
fosse esagerato e strano che insistesse tanto, così annuii,
tentando di non
creargli ancora alcun tipo di nuovo motivo d’angoscia.
Durante tutto il tragitto
ripercorsi con la mente
quante volte eravamo andati insieme a Forks. Ricordai Halloween,
qualche visita
a mio padre, alla farmacia e diverse al supermercato. Se
l’avessi saputo prima
non l’avrei mai costretto, e, soprattutto, avrei capito
benissimo i suoi
sguardi e i suoi silenzi. D’ora in poi avrei evitato in ogni
modo di
avvicinarmi alla cittadina, avrei mandato Alice a fare la spesa,
invitato mio
padre a casa mia piuttosto che andare da lui. Mi augurai di riuscire,
in un
modo o nell’altro, a lenire realmente il suo dolore. Potevo
farcela, potevo
aiutarlo. Immaginai delle possibili parole da potergli dire per
confortarlo.
Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi, per correggere i miei
sbagli.
«Come stai?».
«Sto bene, Edward,
davvero» risposi comprensiva,
sfilandomi la cintura e quella sorta d’imbracatura che
impediva di schiacciare
il bambino.
Lo fissai, sotto
l’ombrello. Fissai la sua mano tesa
verso di me per farmi alzare dal sedile. Allungai la mia per lasciargli
una
nuova carezza. «Vedrai che andrà tutto bene
ora» dissi convinta, provando a
convincere anche lui.
«Sì,
certo» rispose con voce controllata, mal celando
l’impazienza.
Feci un’altra pausa,
abbassando lo sguardo e
mordicchiandomi il labbro. Lo risollevai verso i suoi occhi.
«D’ora in poi mi
dirai sempre se qualcosa non va, non è
così?» chiesi, non riuscendo a contenere
la mia apprensione.
Strinse le labbra, distogliendo lo
sguardo. «Bella,
andiamo, per favore. Voglio che ti veda Carlisle» disse
impaziente, eludendo la
mia domanda con sfacciataggine.
Rimasi basita, silenziosa, mentre
sentivo la speranza,
che fino a pochi istanti prima mi aveva accompagnata, staccarsi da me.
Lasciai
che mi aiutasse ad alzarmi e mi avviai in casa, senza proferire una
sola
parola. Possibile che fosse così apprensivo e di conseguenza
così impaziente da
non rispondere ad una domanda tanto diretta quanto seria? Sperai che
fosse
così.
«Edward, Bella»
ci salutò Esme, aprendoci alla porta.
«non vi aspettavamo così presto,
accomodatevi» ci invitò, scostandosi su un
lato.
«Grazie»
mormorai, gli occhi bassi.
Edward mi strinse possessivamente
per il fianco. «Carlisle?»
chiese con sguardo assente.
Vidi, con la coda
dell’occhio, quello di Esme saettare
fra noi due. «È successo qualcosa?».
«Edward è
preoccupato per il nostro quasi
incidente» sospirai, alzando il
viso.
La sua espressione si fece
preoccupata per un istante
e si posò sulle mie mani, strette in grembo. «Stai
bene cara?».
«Sì Esme, mi
sento bene».
Rivolse un’occhiata di
rimprovero a Edward. «Sai che
non dovresti farla guidare, soprattutto con questa pioggia».
Non mi stupii che Esme fosse
sorpresa quanto me, tanto
da non immaginare neppure che potesse essere suo figlio ad avere il
volante in
mano. «Sono sicura che lo farà» risposi,
precedendo le parole di Edward.
Mi fissò per un secondo,
ma poi non disse nulla,
distratto dalla presenza di suo padre, comparso improvvisamente nella
stanza. «Carlisle»
gemette sofferente, lasciando cadere la maschera di cera posata sul suo
magnifico viso e stringendomi il fianco con più forza, con
tormento e
possessione.
Lui fece passare il suo sguardo da
me a Edward,
improvvisamente preoccupato.
Non ero una vampira, e questo era
certo. Non
pretendevo di rimanere dietro ai loro pensieri, ma di sicuro non ero
così stupida
da pensare che tutto fosse normale. Al più, il mio cervello
umano riusciva a
credere che Edward non mi avesse detto la verità, pochi
minuti prima, in auto.
O almeno, che non l’avesse racconta tutta, perché
di certo, in quegli sguardi,
c’era qualcosa che mi sfuggiva. Che sfuggiva a me e
Esme, e che probabilmente ci nascondevano.
Qualcosa che era la maggiore causa
di sofferenza di
mio marito. Qualcosa che aveva occupato la sua mente tanto da causare
quasi un incidente.
Carlisle mi volò accanto
in un istante. «Venite in
camera. Come stai Bella?» chiese, osservandomi attentamente.
Edward mi sostenne per le braccia,
come se pensasse
che sarei potuta crollare da un secondo all’altro,
irrigidendo la mascella,
angosciato. «Non ho niente» dissi, più
seccata di quanto avrei voluto,
riuscendo difficilmente a contrastare il senso di disagio e
l’angoscia che
sentivo dentro.
«Stai
tranquilla». Carlisle si chinò sulla sua borsa,
ai piedi del letto. «Come va la testa?».
«Bene» risposi
sicura, compostamente seduta sul
materasso, appena accanto ad un sempre più ansioso Edward.
Carlisle mi lanciò
un’occhiata eloquente. «Girava solo un
po’ e adesso non più» ammisi,
giustificandomi in fretta.
Mi puntò un laser negli
occhi. «Ricordi quello che è
successo?» chiese con più attenzione. Notai anche
lo sguardo di Edward,
impaziente, fisso su di me.
«Sì, lo
ricordo, certo» sospirai, innervosita
dall’assurdità della loro preoccupazione.
«Potresti dirmi quello
che ricordi, allora?».
Deglutii, sentendomi sotto
osservazione. «Io, non so. È
arrivata un’auto da sinistra, ma non ci siamo scontrati, la
macchina ha frenato
in tempo».
«Prima? Ricordi quello
che è successo prima?» chiese
Edward, facendo trapelare tutta la sua angoscia. Anche Carlisle, che
per un
attimo aveva spostato lo sguardo sul figlio lo posò
nuovamente su di me, carico
di aspettativa.
Lo fissai, confusa, disorientata.
Perché mi stavano
facendo tutte quelle domande? Portai una mano alla testa.
«Io… no. Guardavo il
finestrino» balbettai. Mi voltai verso mio marito, la sua
espressione sempre
più ansiosa, come se ci fosse qualcosa di più.
Qualcosa che non ricordavo.
«Guardavo te Edward,
guardavo il tuo riflesso e poi… è
successo velocemente. Io… non so cosa… non
c’è nient’altro» aggiunsi
velocemente.
Lanciò
un’occhiata ben distinguibile a Carlisle, che
rispose con lo stesso sguardo. Cosa stava accadendo? Fu lui a
riprendere per
primo il controllo. «Va bene Bella, va bene così.
Stenditi per favore».
Le domande seguenti rientrarono
nella normalità,
tuttavia l’inquietudine che divorava Edward non pareva
volerlo minimamente
abbandonare, anzi. L’ansia che avevo percepito fino a pochi
istanti prima si
era tramutata in pura disperazione, muta, spessa. Tanto spessa che
cadeva fra
noi come una nebbia fitta.
«La cintura ha stretto
l’addome?» mi chiese Carlisle mentre
mi visitava, tastandomi.
«No» risposi sicura, fissando il
soffitto della sua camera.
Annuì. «Ti fa
male? Senti formicolio?».
Scossi il capo, stringendo
più forte la mano di mio
marito con la necessità di sentirlo vicino, mentre sapevo
che la nebbia ci
divideva sempre più, addensandosi, mettendosi fra noi.
«Contrazioni?».
«Neppure». Feci
una pausa, poi aggiunsi «la pancia è
sempre stata rilassata, non è mai diventata dura nemmeno un
po’».
«Sei stressata
ultimamente?» mi chiese con più
interesse, mentre mi misurava la pressione.
Sussultai a quella domanda e non
risposi. Tuttavia
sentii, questa volta, la presa di mio marito farsi
più forte. «Forse. Un po’. Per
l’università, magari» balbettai.
Carlisle puntò i suoi
occhi su Edward. Sospirai, distogliendo
lo sguardo, imbarazzata per l’intimità della loro
conversazione di cui
sicuramente non dovevo far parte. Poi tornò a guardarmi.
«Bella, la tua visita
sarebbe stata fra due giorni, ti dispiace se la anticipiamo ad adesso?
So che
non è affatto piacevole, ma vorrei essere più
sicuro».
«C’è
qualcosa che non va?» chiesi, per la prima volta
preoccupata.
Edward mi baciò il capo,
ansioso di rassicurarmi. «No
amore, avevi ragione tu, non hai niente. Perdonami se sono stato
così apprensivo.
Ma che senso ha aspettare due soli giorni, potremmo essere
più sereni, no?».
Le sue parole e il tono suadente
con il quale le
pronunciò, mi convinsero, facendomi in parte
tranquillizzare. «Sì»
mormorai, stringendomi sulla sua spalla. «Però non
potremmo fare l’ecografia» dissi rattristata.
Aspettavo con ansia di usare quel
macchinario per sentire il cuore di mia figlia, tanto che non mi
accontentavo
mai di chiedergli quanto forte battesse.
Carlisle mi accarezzò
una guancia. «Non penso l’avrei
fatta, comunque. Se vuoi però ti faccio ascoltare con lo
stetoscopio, penso che
ormai si possa sentire piuttosto bene. Che ne dici?».
Accettai, ansiosa di sentirla.
Volli Edward accanto a
me e rimasi per tutto il tempo a guardare i suoi occhi, mentre lui
guardava i
miei. Come potevo pensare che quegli occhi ambrati mi avessero mentito?
Non
potevo. Aveva sofferto, e questo era evidente. Ma era anche evidente
che
continuava a soffrire, per qualcosa che non aveva nulla a che fare con
quello
che mi aveva raccontato. Qualcosa di cui non voleva rendermi partecipe.
«Stai rilassata Bella,
abbiamo quasi finito» mi
rassicurò Carlisle, notando, forse, una mia crescente
agitazione.
Edward mi fece un sorriso, e mi ci
aggrappai con tutte
le mie forze, pur sapendo che di autentico aveva ben poco. Ma non
riuscivo ad
ignorare ogni loro occhiata. Ogni singola volta che si guardavano, era
una
bugia. Era un segreto che avevano deciso di non dirmi.
Perché?
Carlisle mi assicurò che
la visita era andata al
meglio, che la bambina stava bene, fortunatamente, ma mi
raccomandò anche di
evitare ogni forma di ansia e stress. Eppure, Edward non pareva
più tranquillo.
«Ecco, dai a me, ora lo
trovo». Carlisle mi sorrise,
facendo scorrere la placca di metallo dello stetoscopio sulla mia
pancia. «Qui,
lo senti?».
Sentii le ciglia inumidirsi.
«Sì, sì. Lo sento»
balbettai emozionata. «Oh mio Dio Edward, è
bellissimo». Sorrisi, portandomi
una mano sulla bocca, sentendo la stessa emozione provenire dalla
bambina e
fondersi con la mia. Edward mi accarezzò, ma mi sembrava
assente.
«Bella, se vuoi puoi
rimanere ancora un po’, quanto
tempo vuoi. Quando hai finito raggiungici di là, va
bene?» fece Carlisle,
dirigendosi alla porta.
Anche Edward si alzò. Lo
fissai, confusa. Non voleva
rimanere? «Stai tranquilla, riposati un
po’» disse solo, atono, seguendo in un
lampo il padre.
Strinsi le labbra, ma non dissi
nulla, pur sentendo un
forte peso formarsi all’altezza del petto, schiacciandomi.
Non riuscii a non
sentirmi sola, quando la stanza fu vuota, mentre l’ansia mi
sommergeva
nuovamente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tentando di calmarmi
ascoltando
il piccolo cuore di mia figlia battere.
Tumtumtumtumtumtum. Non
gli
importava più di me? Allora perché aveva fatto
ferro e fuoco per portarmi di
suo padre? Perché continuava a nascondermi qualcosa che
invece a Carlisle aveva
detto, non mi credeva capace di aiutarlo? Perché quella mi
sembrava l’unica
risposta al fatto che non avesse ancora acconsentito a raccontarmi i
suoi
problemi. Non tutti, almeno.
Tumtumtumtumtumtum. Forse… forse gli
importava solo della bambina,
ormai… No. Non era e non poteva essere così. Non
potevo essere gelosa di mia
figlia, la dovevo smettere di auto-commiserarmi e fare quegli stupidi
capricci.
Semplicemente non ero abbastanza capace, non per aiutarlo, per aiutare
mio
marito come lui aveva fatto migliaia di volte con me.
Tumtumtumtumtumtum. Ma mi sentivo così
sola, così inutile. Che cosa mi
stavano nascondendo? Perché lo stavano facendo?
Mi accorsi di avere da ormai troppo
tempo le guance
cosparse di acqua salata. Mi strinsi maggiormente su me stessa, inerme,
quasi
incapace di muovermi. Pregai che non venisse nessuno a vedermi in
quello stato
pietoso. Ma i singhiozzi rompevano il mio respiro, rendendo il pianto
rumoroso.
Circondai il petto con le braccia, mentre mi sentivo sul punto di
esplodere.
Mentre sentivo il vuoto dentro me ingrandirsi e ingrossarsi, occupando
tutto lo
spazio. Troppo.
Sentii due braccia fredde
circondarmi da dietro e mi voltai
di scatto per osservare il viso del vampiro. «Bella,
cara» sussurrò Esme
dispiaciuta.
Non riuscii a trattenermi e mi
buttai fra le sue
braccia, bisognosa di conforto, riprendendo a singhiozzare senza sosta.
Mi
sentivo così triste, eppure così mortificata.
«Calma»
sussurrò piano, facendomi staccare da lei e
aiutandomi a mettermi seduta. Mi prese le mani fra le sue.
«Respira, piano,
così» disse, imitando il ritmo del respiro che
avrai dovuto seguire, onde
evitare di avere un attacco di panico in piena regola.
«Piano, piano». Posò una
mano sull’attaccatura della pancia, aiutandomi.
«Scusami per questa
intrusione» disse poi, mesta,
quando il mio respiro fu nuovamente regolare.
Mi asciugai gli occhi gonfi e
secchi con il
fazzolettino che mi aveva dato. «Figurati, Esme. È
la tua stanza» mormorai, la
voce arrochita dalle lacrime, guardando fisso il copriletto.
«Ti va di
parlarne?» mi chiese discreta.
Spostai lo sguardo su un altro
punto. «Dov’è Edward?».
Perché non era venuto lui? Gli importava così
poco ormai?
Esme mi fissò per un
istante, sospettosa. «Si è
allontanato con Carlisle, verso i boschi». Rimasi in
silenzio. «Bella».
Sollevai i miei occhi nei suoi. «Edward e Carlisle hanno
sempre avuto questo
tipo di rapporto. Si conoscono da quasi cento anni, ormai,
più di quanto non li
conosca io. Hanno condiviso i loro più oscuri e
inconfessabili segreti, hanno
condiviso il loro essere, hanno condiviso i loro pensieri. Sono molto
più di
quanto un padre e un figlio, due consanguinei, sarebbero».
Mi strinsi le mani sulla pancia,
non riuscendo più a
contenermi, non riuscendo più a tacere. «Esme, ho
così paura. Ho paura di
perdere mio marito, paura che non mi voglia più…
con sé» gemetti, portandomi
una mano sul viso e stringendo, con l’altra, più
forte la pancia, sentendomi
profondamente in colpa per le emozioni negative della bambina che mi
sferzavano
come una frusta.
«Oh
tesoro» esclamò
abbracciandomi, «calmati, stai calma. Non ti devi agitare
così, va bene? Quei
due mascalzoni non dovrebbero farti preoccupare così tanto.
Sei sempre così in
ansia ultimamente, non va bene, sai?» disse preoccupata.
La porta della stanza si
aprì, e subito mi ricomposi,
temendo che potesse essere Edward.
«Ho sentito»
disse Alice, entrando cauta «tutto
bene?».
«Alice»
sospirai, lasciandomi abbracciare.
«Sempre
Edward?» chiese lei, staccandosi da me e
scambiandosi un’occhiata con la madre. «Non ha
funzionato la tua idea del
pianoforte, ho visto. Ma non demordere, vacillerà».
«Non lo so Alice, non so
più se…» mi nascosi il volto
fra le mani, tentando di reprimere una nuova ondata di lacrime.
Aspettarono il
tempo necessario per farmi riacquisire il controllo di me stessa, poi
mi
fissarono dispiaciute, mentre mi asciugavo gli occhi.
Esme mi passò un altro clinex
«Bella. Ne parlerò con Edward, sono sicura che non
sta…».
«No!» presi un
respiro «no, ti prego Esme, ti prego,
non dirgli niente. Non voglio farlo preoccupare. Vi prego, vi prego,
non
fategli sapere niente di tutto questo, vi prego!» non volevo
fare stupidi
capricci, facendo intervenire sua madre, magari, facendolo sentire in
colpa. «Non
è colpa sua, in fondo, se…» deglutii
«non si fida più di me, se non mi vuole
più».
«Oh Bella».
«Non dire
così, cara».
Mi sentii incredibilmente
frustrata. «Mi ha mentito,
capite? Mi ha mentito. Siamo sposati, accidenti. Io lo amo, dice di
amarmi, ma…
mi ha mentito!» sbottai concitata. «O almeno, non
mi ha detto tutta la verità».
Alice mi strinse le mani fra le
sue, fissandomi negli
occhi. Lo stesso fece Esme. «Tesoro, se Edward si sta
comportando così, è proprio
perché ti ama, e in un modo o nell’altro sta
agendo per il tuo bene, ne sono
sicura».
Restai in silenzio, lasciando che
le parole
strisciassero nella mia coscienza e cominciassero a cozzare contro i
miei
dubbi. «Io… non so» biascicai, pur
convita che le parole della dolce vampira
avessero più che un fondo di verità.
«Bella»
ricominciò. «Osserva il comportamento di
Edward, con calma. Non è possibile che non ti ami, era
così preoccupato per te,
prima».
«Era preoccupato per la
bambina» dissi in un sussurro,
confessando i miei oscuri timori, vergognandomi delle mie stesse
parole.
«No, tesoro, no. Lui era
preoccupato per te. Non hai
visto come ti guardava?».
Fissai Esme, poi Alice. Infine
abbassai lo sguardo, ricordando l’espressione sul suo volto.
«Sì, è vero, mi
ama ancora» feci una pausa. «Ma mi ha anche
mentito, quando io gli ho chiesto
se ci fosse qualcosa che non andava, perché, evidentemente,
qualcosa che non va
c’è, e non ha quasi niente a che fare con quello
che mi ha risposto lui!»
esclamai, sempre più in ansia «Questo vuol dire
che è inutile che io tenti di
aiutarlo, perché lui già sa che non ci
riuscirò, che non sarò capace di farlo!
Per questo non si confida con me!».
«Oppure perché
non vuole farti soffrire» puntualizzò
Alice.
Sollevai di scatto la testa,
fissandola. «Tu sai?».
Sollevò entrambe le
braccia, in segno di difesa. «No,
no, io non so niente, mi dispiace!» si affrettò a
rispondere «ultimamente ho
anche troppi buchi neri. Ci ho provato, ma non ho visto
niente».
Sospirai, credendo alle sue parole
sincere.
Alice osservò per un
istante la madre, che si alzò dal
letto. «Hai fame cara? Che ne dici di mangiare qui? Sarai
così stanca».
Non avevo fame, anzi, sentivo la
classica inappetenza
da stress, ma lei non volle sentire ragioni e trasformò
quella che era una domanda
in un ordine, andando a cucinare per me.
La mia sorellina mi accarezzava i
capelli, scrutandomi
e rassicurandomi. Mi sentivo molto intontita per via delle lacrime, ma
provavo
a non piangere ancora per evitare che fosse troppo evidente a Edward.
Anche se
più di tanto non avrei potuto nasconderglielo.
Alice mi distrasse dai lenti
pensieri che scorrevano
nella mia testa, tutti volti a tentare di auto-convincermi delle parole
rassicuranti di Esme e Alice. «Ancora niente, con
Edward…?» chiese, lasciando
cadere la domanda.
Mi voltai a fissarla, stranita.
Negli ultimi tempi ci
avevo pensato molto, ma poi il problema della ragione della tristezza
di Edward
aveva prevalso nella mia mente rispetto al lato fisico. Abbassai
nuovamente il
capo, ancora nello sconforto. «No, niente. Vedi che ho motivo
di dire che…».
«No, no, aspetta. Esme ha
ragione, lui lo fa perché ti
ama, in ogni caso. Ma… insomma. Non si confida con te
perché ha paura di sarti
stare in ansia con i suoi problemi, anche se è uno zuccone e
non capisce che
così ti fa solo stare peggio. Ma pensaci» disse,
puntando il suo volto minuto e
luminoso nel mio. «Pensa, magari, se tu gli facessi capire
che sei abbastanza
forte da sopportare anche i suoi problemi… Insomma. Fagli
vedere che non hai
paura di nulla! Fagli vedere che tu sei serena e che può
confidarsi! Ricordagli
che lo ami. Offriti a lui» disse, facendomi
l’occhiolino, pur mantenendo la
massima serietà.
«Alice»
biascicai, accoccolandomi maggiormente su me
stessa. Era assurdo.
Vidi i suoi occhi grandi davanti ai
miei. «Pensaci.
L’amore fisico è qualcosa di importante,
soprattutto per i vampiri. Potrebbe
essere un solidissimo collante. A meno che…» mi
lanciò un’occhiata «non vada a
te».
Sorrisi, amaramente sarcastica.
«Vado a mangiare»
mormorai, ignorando le sue parole.
Dovetti mangiare tutto quello che
mi aveva preparato,
sia perché me lo aveva ordinato Esme, sia perché
sentivo un forte senso di
dovere nei confronti di mia figlia, che, povera vittima innocente,
doveva
sorbire ogni istante il mio pessimo umore e i miei assurdi pensieri
gelosi. E
poi… volevo arrivare al dessert. Ne avevo voglia, con una
proporzione diretta
alla negatività del mio stato d’animo.
Affondai il cucchiaio nel gelato
limone e fragola,
come se lo stessi accoltellando. Avevo incuneato il barattolino fra le
mie
gambe, piegate, e la mia pancia. Lo mangiai con gusto, tentando di
scacciare la
depressione. Gli zuccheri mi tiravano su e forse, forse, avrebbero
potuto farmi
riflettere.
Edward mi amava, ancora. Voleva
proteggermi da tutto,
ancora. Perché ancora pensava che fossi una piccola e
fragile umana. Sospirai, affondando
ancora il cucchiaio, dando un’altra pugnalata agli zuccheri.
Dovevo dimostrargli il contrario?
Sollevai gli occhi dal dolce,
portandomi il cucchiaio
alle labbra.
In quel istante incontrai gli occhi
ambrati di mio
marito, accovacciato appena davanti a me.
Dopo un secondo lo lasciai cadere
dalla mia mano,
lanciandomi con le braccia al suo collo e stringendolo con tutta la mia
forza.
Sollevai rapidamente gli occhi dal
libro, come se davvero
Edward non si potesse accorgere che lo stessi spiando.
Lui, dall’altra stanza,
ricominciò a parlare
velocemente al telefono. O meglio, sibilare. Aveva
un’espressione vacua e
neutra, come se stesse tentando di trattenersi. Ed era andato avanti
così per tre
giorni, dopo il nostro quasi incidente ancora inspiegabile.
Ma non demordevo.
Dopo un iniziale esitazione avevo
deciso di fare
qualcosa. Ero stata, ancora una volta, un’egoista, rimanendo
a compiangermi
senza aiutare in alcun modo Edward. Ero stata stupida, lasciando che
l’effetto
che mi facevano i suoi problemi prendesse il sopravvento sui problemi
stessi.
Mi ora avrei corretto i miei sbagli, e visto che sola non mi ero
dimostrata
capace di farlo sola mi ero completamente affidata ad Alice, che aveva
insistito tanto per chiedere consigli anche a Rosalie. Più
esperta in queste cose. Così aveva detto.
Così mi ero fatta
incastrare. Quello che non avevano previsto era che io non avevo nulla
a che
fare con… quel genere di
cose.
Mi mordicchiai le labbra,
abbassando lo sguardo e
sentendomi avvampare. La bambina era decisamente divertita dal mio
imbarazzo.
Piccola peste. L’avevo chiesto a Carlisle e lui aveva
risposto che era
impossibile che ridesse di me. Al più, reagiva
così perché era quello che mi
aspettavo che facesse.
Comunque stessero le cose, si era
molto divertita, in
quei giorni, a tutti i miei tentativi di sedurre Edward, che, anche se
non me
l’aveva mai detto espressamente, non poteva minimamente
pensare che non avessi
compreso che non voleva fare l’amore con me. Avevo cominciato
quasi
innocuamente, piegandomi con la schiena piuttosto che con le ginocchia
ogni
volta che mi chinavo, lanciando sguardi e occhiate, facendo allusioni.
Puntualmente, ogni volta, veniva da me e mi baciava con dolcezza,
faceva un
sorriso gentile, mi accarezzava la pancia. Io arrossivo, e lui svaniva.
I miei
tentativi andavano tutti in fumo, e tutto si condensava in una
vaschetta di
gelato e una nuova consulenza con le sorelle Cullen.
«Sì, questa
sera Carlisle, ho capito» sentii, mentre
sfrecciava a velocità vampiresca da una parte
all’altra della stanza,
camminando nervosamente.
Sospirai, perdendomi ancora nei
miei pensieri. La
seconda fase era stata ancor più imbarazzante, e decisamente
poteva essere
quasi definita un attentato, dal mio pudico punto di vista.
L’avevo chiamato,
nuda, sotto la doccia, con la scusa del sapone negli occhi. Era venuto
in un
istante, e mi aveva subito aiutata. E, di certo, non gli ero rimasta
indifferente. Tuttavia, dopo essersi accertato che tutto andasse bene
era scomparso
in un lampo, lasciandomi sotto il getto caldo della doccia e nuovamente
in
balia del gelato e delle sue sorelle.
Ma nulla sarebbe stato
più imbarazzante della terza
fase.
«Bella, tutto
bene?» chiese, facendomi sobbalzare.
Mi portai una mano alla pancia,
spostando gli occhi
lontano dal suo viso, facendoli saettare da un lato
all’altro, come un bambino
appena beccato con le mani nel barattolo di marmellata.
La sua espressione si fece confusa.
«Sei tutta rossa»
mormorò, poi posò una mano sulla mia fronte.
Scrollò le spalle, sorridendomi.
Forse la terza fase poteva essere
anticipata.
«Andremo a caccia, con
Carlisle, Esme, Rosalie e
Alice. Jasper e Emmett
rimangono con te».
«Ma Edward» mi
lamentai, querula, «non posso rimanere
sola? Mi prenderanno in giro tutta la sera». Non potevo
permettermi di avere
due vampiri tra i piedi. Soprattutto se uno dei due era
Emmett, questo sarebbe indubbiamente andato contro i miei piani!
«Sono sicuro che si
comporteranno bene» ribatté
tranquillo.
Misi il broncio, poggiando la testa
sui gomiti.
«Scommetteranno su qualsiasi cosa. Non possono rimanere Alice
e Rosalie?».
Sospirò, alzando gli
occhi scuri al cielo. «Alice ci
serve di più con noi. Jasper e
Emmett ti sapranno
proteggere meglio» spiegò gentile.
«Ma
io…» avrei dannatamente avuto bisogno di loro per
realizzare i miei piani, che non potevano più essere
rimandati!
«Ti prego Bella, non fare
così» disse lui, prendendomi
il viso fra le mani. «È già abbastanza
difficile separarsi da te per tutto
questo tempo» mi avvicinò, lasciandomi senza fiato
con un bacio tormentato,
come se in quello volesse imprimermi tutto il suo amore.
Mi sorrise, la sua fronte attaccata
alla mia, mentre
ancora mi riprendevo. «Facciamo così, li faccio
rimanere a distanza, okay?
Avrai tutta la casa per te. Mi raccomando, riposati, rilassati, e stai
tranquilla. Non ti addormentare…
stasera dobbiamo andare da Carlisle» pronunciò
lentamente, come se quella frase
avesse un immenso valore. «Mi raccomando»
rimarcò ancora.
«Sì,
certo» mormorai, toccando nuovamente le mie
labbra con le sue, stringendo i capelli nelle mie mani, avida di averlo
ancora
accanto, più vicino.
Dopo
qualche secondo si staccò, ansante,
come l’avesse appena attraversato
una scossa elettrica, lasciandomi il vuoto fra le mani, dove prima
c’era la sua
testa. Deglutì, senza staccare gli occhi da me.
«Vado» sussurrò, poi sparì.
Sospirai, guardando il vuoto
lasciato dalla sua
meravigliosa figura. Fui tentata di seguire la mia voglia e andare
ancora ad
attingere alle risorse di gelato, ma poi pensai che ingrassare sarebbe
stato
contro tutti i piani congeniati. Ma come avrei fatto, ora che non avevo
più il
supporto diretto di Alice e Rosalie? Magari avrei potuto posticipare la
cosiddetta “terza fase”. Ero già
imbarazzata solo al pensiero di dover…
Lo sguardo mi cadde su un dettaglio
che sino ad allora
non avevo notato. Era un biglietto, appeso alla spalliera del divano,
scritto
con la calligrafia di Alice. Diceva che avrei, per l’appunto,
dovuto cavarmela
da sola e che, entrambe, non ammettevano defezioni da parte mia.
Hai
tre ore di tempo,
mi raccomando, non sprecarle! Ti abbiamo lasciato tutto
nell’attico.
Buona
fortuna!
Sospirai, sentendomi
incredibilmente ridicola, ora che
ero sola, senza nessuno che mi spronasse a compiere quelle fesserie. Il
cameratismo mi aiutava a sopprimere l’imbarazzo. Sentii un
amalgama di sentimenti
e emozioni nascere dalla
bambina. «Oh, tesoro»
farfugliai, accarezzandomi la pancia. La determinazione crebbe pian
piano,
sopprimendo sempre più il senso di disagio e il rossore
sulla mia pelle. Dovevo
farlo, per lei.
Cominciai a darmi da fare, dandomi
coraggio. Nella grande
stanza avevano lasciato una miriade di pacchi e pacchetti, con un
grande foglio
e un bigliettino su ciascuno di essi che ne descriveva il contenuto.
Cominciai
a preparare le cose così come erano presentate
nell’elenco, tentando di non
soffermarmi troppo con la mente su quello che prendevo, toccavo,
spostavo.
Ero sicura che questo sarebbe
servito a Edward, per
questo lo stavo facendo, come dovere di moglie. Edward
cambierà idea, stasera sarà di nuovo con te.
Questo mi
ripetevo, e questo mi aiutava ad andare avanti nell’assurdo
piano. Lui non mi
avrebbe mai detto di no, ci saremmo amati, come non mai, e saremmo
stati di nuovo
felici, ancora una volta, affrontando insieme le
particolarità di questa
gravidanza.
Particolarità fuggevoli
e molteplici, così avevano
scoperto Emmett e Jasper, ricercando negli antichi testi e nelle
vecchie
leggende, dall’assurda rarità. Questo era quello
che ci avevano riferito, il
giorno del nostro quasi incidente. E anche se Carlisle non me
l’aveva ancora
detto, mi aveva chiaramente fatto capire che partorire mia figlia
normalmente
sarebbe stato quasi impossibile. Esternare il mio dispiacere era
inutile e
superfluo, soprattutto con tutti gli altri problemi che avevamo. Comunque la bambina sarebbe stata
bene, e io dovevo fare che
era meglio per lei e non creare nuovi motivi di tensioni. Sicuramente
per
Edward sarebbe stato meglio così.
Sistemai tutto
l’ambiente, creando l’atmosfera adatta
e accendendo al massimo i riscaldamenti. Mi sentivo stanca e accaldata,
eppure
continuavo a sistemare, in modo che ogni singola cosa fosse davvero
perfetta.
Quando tutta l’enorme stanza fu completamente circondata da
candele, quando il
letto a tre piazze e mezzo fu ricoperto da foulard e veli di ogni tipo,
quando
un aroma intenso e caldo riempiva l’aria, spessa di 30 gradi
di temperatura, mi
sedetti sul mio posto, in silenzio, prendendo un grosso respiro
nell’aria
ambrata.
Mi sentivo molto a disagio per
quello che stavo
facendo. Avevo immaginato da ragazzina, quando ancora vivevo con mia
madre, il
mio matrimonio. Avevo immaginato mio marito e pensato scherzosamente
che
l’avrei sedotto. Lo vedevo quasi come un dovere coniugale,
qualcosa di
divertente, qualcosa di possibile. Ma niente mi aveva preparata al
senso di
disagio che sentivo. Dopo i fatti accaduti con Jacob la mia mente si
era
automaticamente difesa. Era molto istintivo per me tentare di
proteggere il mio
corpo, me stessa, non incappare negli stessi meccanismi che mi avevano
quasi
portata alla violenza.
Sospirai. Edward non era Jacob.
Costrinsi le braccia a liberare le
gambe e i seni,
quasi completamente nudi. Presi un grosso respiro, prima che
l’aria mi mancasse
nei polmoni. Indossavo un succinto intimo di pizzo, nulla di volgare.
Nero.
Classico, sgambato al punto giusto. Avevo lavato e sciolto i capelli,
facendoli
cadere, morbidi, sulle spalle.
E mi costava molto fare tutto
quello anche perché sapevo
perfettamente che pur tentando di essere più bella e sexy,
non avrei mai potuto
neppure sperare di essere un decimo di quello che era lui.
Sospirai, muovendomi a disagio, e
mettendo le mani
sotto le gambe. Dannazione! Non stavo facendo nulla di male,
perché in fondo
Edward era mio marito, e tutto quello era lecito, e dovevo, dovevo
farlo. Non
potevo più commettere errori, non potevo più
temporeggiare! Non potevo più
fermarmi a compiangermi. Edward mi avrebbe detto tutta la
verità. Risolvere uno
dei nostri problemi sarebbe stato un passo avanti per risolverli tutti.
Guardai l’orologio appeso
sulla parete drappeggiata.
Erano passate due ore e mezza, e se Alice aveva
detto tre,
voleva dire che mancava appena mezz’ora. Un
improvviso, nuovo, ennesimo
dubbio mi balenò in mente: come e dove avrei dovuto farmi
trovare?
Stesa? Seduta?
Inginocchiata…?
Mi mordicchiai un labbro,
imbarazzata, nascondendo poi
il mio viso fra le mani. Mi mossi, velocemente, nervosa,
risollevandomi. Mi
sedetti su letto, premendo una mano sulla pancia e costringendomi quel
respiro
che tanto mi rimaneva bloccato nel petto. Accidenti, non era il caso di
farsi
venire una crisi poco prima dover sedurre il proprio marito.
Tentai di riconcentrarmi, di
assumere nuovamente il
controllo di me stessa. In fondo, non sarebbe accaduto nulla. Edward
sarebbe
tornato, mi avrebbe trovata nella stanza… tutta piena di
candele… vestita in un
intimo succinto…
Sentii il fiato tra i denti e un
bollore diffuso alle
guance. No, accidenti, dovevo pensare ad altro. Spostai lo sguardo
sulla
pancia, e naturalmente i miei pensieri confluirono verso il piccolo
amore che
c’era rinchiuso dentro. Era piccola, cinque mesi, appena
compiuti. Difatti
quella sera stessa Alice aveva insistito tanto perché
andassimo a trovarli per
festeggiarlo. Solo in una famiglia di vampiri potevano essere
festeggiate certe
ricorrenze! E questo mi faceva solo capire quanto le loro vite fossero
state
condizionate dal mio ingresso in famiglia e dalla scoperta della
gravidanza.
Era stato un magnifico imprevisto per loro, tanto che la loro vita
sembrava
ormai ruotare attorno a quella di mia figlia.
Sorrisi, ricordando
l’ultimo dialogo che avevo avuto
con Jasper. Gli avevo chiesto se avesse notato nulla di stano in
Edward, e lui
aveva risposto, sempre intento a giocare con le mie emozioni e quelle
della
bambina, che… «Edward?
Edward era
preoccupato, come al solito», il tutto accompagnato
da un tono poco
interessato e un impeto di anormale euforia per me.
«Bella».
Impallidii, ritornando
immediatamente con i piedi per
terra, quando sentii pronunciare il mio nome da quella che era
inequivocabilmente la voce di mio marito. Sgranai gli occhi,
guardandomi velocemente
attorno, nella vana ricerca di un posto e un modo per sistemarmi.
Sentivo il
cuore battere forsennato nel petto e sarebbe stato inutile tentare di
fermarlo,
perché di sicuro se n’era già accorto.
Mi voltai terrorizzata verso la
rampa di scale.
«Bella, sei qui su? Cosa
stai facendo…?». Quando la
sua figura fu completamente visibile, io mi ero già nascosta
dietro il
baldacchino del letto.
Avevo la schiena completamente
addossata ad uno dei
pilastri e una mano premuta sul petto nel tentativo di fermare i forti
sussulti
da cui era scosso. Non volevo neppure immaginare la sua espressione
alla vista
di tutte le candele e i foulard. Ero rossa, rossa come un pomodoro, e
avevo
imbarazzo e vergogna. Ma ormai era tutto fatto, non potevo permettermi
di temporeggiare.
Strizzai gli occhi, posando una
mano sulla pancia. Per Edward.
Trattenni il fiato, uscendo
dal mio nascondiglio e aprendo gli occhi.
Edward era immobile, in piedi al
centro della stanza,
ad appena cinque metri da me. Il suo viso era un imperturbabile
maschera di
cera.
Deglutii. Non se n’era
ancora andato, e questo era un
bene, decisamente. Forse potevo davvero avere una
possibilità.
Feci velocemente il tratto che ci
divideva,
bloccandomi a un metro da lui. Si mosse impercettibilmente, spostando
le iridi
dorate sul mio corpo e lasciando sfuggire un rantolo dalle labbra.
Non pensai neppure più,
compii l’ultimo gesto come se
fossi un’altra me stessa e stessi fantasticando su qualcosa
di impossibile.
«Edward»
mormorai, accorciando definitivamente le
distanze. La mia bocca fu sulla sua, veloce, impetuosa, passionale.
Allo stesso
modo le mie mani che vagavano tremanti sul suo corpo senza sosta,
toccandolo,
sfiorandolo, lambendolo. Volevo imprimere la perfezione, la durezza, il
freddo
della sua pelle, sui miei palmi. Volevo averlo con me, per me, in me.
Lo trascinai, con forza, sul letto.
Nonostante
rimanesse pressoché fermo, si lasciò trasportare
senza opporre alcuna resistenza.
«Edward, Edward» sussurrai, baciandogli la mascella
perfettamente squadrata. Lo
feci cadere sul letto, di schiena, e subito fui su di lui, senza
lasciargli il
tempo di un inutile respiro.
Mi staccai per un attimo, ansante,
seduta sul suo
bacino, osservando famelica il suo viso, sconvolto e sorpreso. Mi
spinsi su di
lui, perseverando nei baci con la stessa passione. Non riuscii a
trattenere un
sorriso quando lo sentii, finalmente, rispondere al bacio.
Tutta la passione che gli avevo
buttato addosso come
un fiume in piena stava pian piano facendo braccia fra i suoi argini.
Immaginare cosa sarebbe accaduto, una volta esplosa la diga, era un
lusso che
la mia mente si concedeva volentieri. Era timoroso, delicato, lambiva
il mio
labbro superiore con le labbra e la lingua ghiacciata, facendomi
vibrare dal
piacere, e lo sentivo, sotto di me, corrispondere la mia stessa
eccitazione.
Era da così tanto tempo
che non ero così speranzosa,
così serena, così felice.
Mosse le mani, finalmente. Mi
accarezzò le braccia e
salì fino a stringermi i polsi, le mani immerse fra i suoi
morbidissimi
capelli. Sentivo il tonfo sordo del mio cuore scontrarsi contro il
petto, quando
in un solo fluido movimento ribaltò le posizioni, trovandosi
su di me, senza
gravarmi col suo peso.
Sostenni il suo sguardo, fissandolo
coi miei occhi nei
suoi, liquidi di passione. «Bella»
esalò, roco, scendendo con esasperante
lentezza fino al mio viso. Spostò le mani dai miei polsi,
intrappolando il mio
viso e facendo scorrere la punta del suo naso sul mio.
Mi mancò quasi il
respiro quando mi accorsi che c’era
qualcosa che non andava.
Chiuse le palpebre, sofferente,
serrando la mascella e
tremando, tentando di bloccare ogni suo movimento. «Ti
prego» farfugliò,
attraverso le labbra frementi e tremanti «è
già abbastanza difficile… non…
rendere tutto più complicato…».
Scostò la testa di
scatto, gli occhi sempre serrati, e
in un unico gesto si sedette sul letto, a un metro da me, la testa fra
le mani.
Ero immobile, semplicemente
immobile e paradossalmente
rapita dal più pungente dei freddi. Perché questo
non veniva dall’esterno,
partiva direttamente dal cuore, congelandomi da dentro. Trovai una mano
posata
sulla bocca, non consapevole del gesto appena compiuto, a sfiorare le
labbra,
peccatrici. Il gelo imperversava in me, impedendomi ogni movimento,
impedendomi
di pensare, ma non impedendo al vento, artico, di soffiare nella mia
mente,
consolidando ciò che fino a quel momento era rimasto dubbio.
Lui non
mi
voleva.
Riuscii persino a sentire il mio
gemito sconvolto,
mentre i miei peggiori incubi diventavano realtà. Sentii il
ghiaccio esplodere
da dentro, formando mille schegge ghiacciate che si conficcavano nella
mia
carne, tagliavano la mia pelle, mi pungevano come spilli sottili e
velenosi.
Alzai la testa di scatto,
sollevandomi e correndo con
tutta la mia velocità umana verso le scale. Nascondendomi
con le braccia,
nascondendo imbarazzata il mio corpo.
Sentii una mano ghiacciata sulla
spalla.
«Edward»
gemetti in un sussurro, scrollandola, piano,
perché l’allontanasse, senza voltarmi a guadarlo
in faccia, ricominciando a
correre.
«Bella, ti
prego» disse, fermandomi nuovamente dopo
pochi gradini.
«Edward!»
sbottai più forte, la voce distorta dal
dolore, ricominciando a correre, allontanando tremante con una mano la
sua,
raggiungendo velocemente la nostra camera da letto.
«Bella ti prego,
fermati».
Mi voltai di scatto al centro della
stanza, guardandolo
finalmente in faccia, e costretta dalle sue parole gli feci vedere i
due
abbondanti rivoli di lacrime che scendevano dai miei occhi.
Trattenne un sussulto.
«Bella» disse addolorato,
facendo un passo nella mia direzione e posando il palmo sul mio viso.
Lo allontanai, riversando tutta la
mia angoscia, la
mia frustrazione, la mia rabbia. «Non mi toccare Edward, non
mi toccare!»
piansi, sprofondando nel mio dolore tanto quanto sapevo di causarne a
lui «Non
mi vuoi, allora perché mi tocchi? Cosa cerchi? Non
c’è niente che ti posso
dare!».
Strinse le labbra in
un’espressione sofferente,
vedendomi sgattaiolare verso la cabina armadio, ansiosa di celare la
mia nudità.
Indossai il primo paio di jeans che trovai, rischiando più
volte di cadere per
via delle lacrime che inondavano la mia visuale. Le asciugai
rapidamente con il
dorso della mano, tirando su col naso. Trovai una maglietta e la misi,
augurandomi di averla indossata nel verso giusto.
Inciampai quando tentai di mettere
le scarpe, e subito
ci furono le sue braccia a sorreggermi. «Non ti azzardare a
toccarmi!» sibilai,
liberandomi da lui e lasciando perdere quelle dannate scarpe.
«Bella, amore, ti prego!
Non è vero quello che dici,
non è così» fece, sofferente.
Mi voltai, rabbiosa, verso di lui.
«È anche questo
allora? Oltre al fatto che non mi vuoi più pensi anche che
io sia troppo
stupida per capire, Edward? Lo pensi?» sbottai, i pungi
stretti lungo i fianchi.
Sentivo un grossissimo peso sul petto, che mi impediva ogni respiro. Ma
era un
dolore peggiore di quello fisico. Mi comprimeva, e non lasciava
più spazio ai
miei dolorosi dubbi, che si condensavano in certezze e venivano
naturalmente
esternati, in dolorosissime parole. «È
più di un mese che mi respingi!».
Non mi rispose, fissandomi senza
dire nulla.
Abbassai gli occhi, pentendomi
delle mie parole. In
fondo che colpa aveva lui se non mi voleva più? Sentii le
lacrime ricominciare
a sgorgare senza sosta. «Ti prego Edward»
singhiozzai «lo so che non è colpa
tua, ma… mi sento già piuttosto…
umiliata… il fatto che tu cerchi di
giustificarti mi fa solo stare peggio».
All’ennesimo singhiozzo corsi via, in
cucina, chiudendomi dentro.
Posai la testa sulla porta,
lasciandomi scivolare con
la schiena lungo il legno bianco. Lo sentivo, avvertivo la sua presenza
ad
appena pochi centimetri da me. «Va via» rantolai.
«No, no. Ti prego, esci
di lì. Sai che non mi
costerebbe nulla entrare».
Sussultai. «Non farlo se
ritieni di dovermi almeno un
po’ di rispetto». Singhiozzai più forte,
sollevandomi, diretta verso il frigo. Aprii,
tremante, lo sportello bianco, ma non ci trovai nulla di quello che
volevo per
saziarmi, per sfogarmi, per tentare in qualche modo di non pensare e di
lenire
il mio corpo martoriato. Urlai, distrutta, quando non trovai niente di
ciò che
cercavo. Persino quello! Non bastava quello che avevo subito, persino
quel
piccolo, inutile, idiota dettaglio!
«Bella! Bella, cosa stai
facendo?».
Mi asciugai nuovamente le lacrime,
prendendo un grosso
respiro. Quando schizzai via lo trovai, come mi aspettavo, appena
dietro la
porta. Non lo degnai di uno sguardo, non potevo permettermi di
indugiare sulla
sofferenza del suo volto, sulla sua espressione affranta. Non potevo,
perché
sapevo che le schegge di ghiaccio infilzate nel mio cuore sarebbero
scese più in
profondità, senza alcuna pietà.
Riuscii a mettere le scarpe,
nonostante il tremore,
nonostante le lacrime. Infilai velocemente il primo giaccone che
trovai, e
scappai via verso l’ingresso, afferrando al volo le chiavi
della mia auto.
«Dove stai
andando?» chiese sbarrandomi la strada.
Presi un respiro, guardandolo,
sofferente. «Fammi
passare».
«No» ribatté, secco.
«Edward! Non puoi farmi
anche questo! Fammi passare
dannazione!» esclamai, tentando inutilmente di farlo.
«No» ribadì ancora,
spostandosi alla sua velocità a
seconda dei miei movimenti. Non era arrabbiato, non era determinato.
Solo
mortificato. «Dove stai andando?».
«Voglio solo»
feci un respiro secco, lasciando cadere
la braccia lungo i fianchi «voglio solo andare a
comprare… una cosa. Fammi
passare, non hai alcun diritto di tenermi qui» dissi dura,
cattiva. Volevo solo
andare via. Volevo solo sfogarmi e smettere, dannazione, smettere di
fargli del
male. Perché era la sola cosa che mi riusciva in quel
istante.
Come prevedibile rimase immobile,
consentendomi di
passare. Corsi in garage e mi chiusi nella mia macchina, respirando
affannosamente e facendo in pochi secondi appannare tutti i vetri.
Accesi gli
sbrinatori e misi in moto, premendo sull’acceleratore e
facendo girare il
motore a vuoto, rabbioso.
«Bella».
Sussultai sentendo la sua voce ovattata,
dall’altra parte del finestrino. «Ti prego, non
fare sciocchezze, non sei in
condizione di guidare».
Tirai giù tutte le
sicure, lasciando la frizione e
sgommando via. Era il crepuscolo, già buio lungo le strade
di Forks, e la
visibilità era molto scarsa a causa della pioggia
scrosciante. Così potevo
anche permettermi di non pensare a nulla, tranne che alla strada e alla
guida,
e allo sciame d’api che sembrava essermi entrato dentro.
Arrivai in poco tempo
al piccolo supermercato di Forks, parcheggiai la macchina, occupando
ben tre
dei pochi posti a disposizione, e mi fiondai all’esterno
sotto la pioggia.
A sbarrarmi la strada vidi la
figura di mio marito, i
capelli incollati all’addolorato viso angelico. Mi aveva
seguita, come
prevedibile. Con un grande sforzo lo ignorai, passandogli accanto e
sgattaiolando nel supermercato. Non era per me tutta quella bellezza.
I suoi passi sciaguattavano accanto
ai miei, molto più
rumorosi. Mi diressi, decisa, verso quello che cercavo. Sentivo la sua
presenza, bruciante, accanto a me, ma facevo finta di non vedere, di
non
sentire. Non volevo farlo. A che pro? Lui non mi voleva, semplice. Ogni
giustificazione sarebbe stata mortificante e dolorosa.
Mi avviai in silenzio verso la
cassa, sbuffando quando
notai la fila di gente che si era formata.
«Dai a me,
pesa».
«No» sibilai, stringendo al petto i
miei quattro chili di
gelato, presa da quell’inopportuna e fastidiosa voglia che mi
stava
scombussolando lo stomaco.
«Bella» disse,
in tono di rimprovero.
«No. No. No».
Le persone che stavano in fila
davanti a noi si
voltarono, guardandoci.
«Fate passare avanti
quella donna incinta» disse una
vecchina.
«Sì,
sì» concordarono gli altri.
Edward fece un gesto con un braccio
per farmi
camminare fra il varco che avevano creato. Strinsi la mascella,
fissandolo
arrabbiata. «No»
dissi testarda. «Non ce n’è
bisogno».
«Non essere
sciocca» ribatté lui «Grazie»
disse poi,
rivolto agli altri, spingendomi dolcemente in avanti.
Vedendo i visi e le espressioni
curiose delle persone
che mi guardavano fui costretta ad accettare, sempre più
arrabbiata, sempre più
innervosita, per evitare nuovamente di scoppiare a piangere davanti a
tutti. Pagai
velocemente quello che avevo preso e corsi via, sotto la pioggia,
lasciando
cadere le lacrime.
«Bella, ti prego. Non
puoi guidare così. Vuoi fare del
male a tutte e due?». La voce addolorata di mio marito mi
raggiunse alle
spalle. Era logico che si preoccupasse di sua figlia…
lei… lei non aveva
nessuna colpa. Lasciai che mi sfilasse le chiavi di mano e mi sedetti
sul
sedile del passeggero, in silenzio, stringendo il grosso sacco di
cartone al
petto e guadando fisso fuori dal finestrino.
Era la prima volta che litigavo con
Edward. Ed era
molto più doloroso di quanto mai avrei potuto immaginare. Ma
mi sentivo
tradita, mi sentivo umiliata, mi sentivo svuotata. Mi sentivo
maledettamente
arrabbiata.
«Non puoi mangiare tutto
quel gelato, ti sentirai male».
«Non importa».
«A me importa».
Feci scioccare la lingua.
«Certo» mormorai
a denti stretti.
Scattai fuori dall’auto,
entrando in casa non appena
ne ebbi l’opportunità. Edward continuava a
seguirmi, passo dopo passo, molto
più veloce di me. Mi voltai verso di lui, ad appena quattro
metri da me, non
riuscendo più a rimanere in silenzio. «Lasciami.
In. Pace!» esclamai, urlando.
«Bella, amore».
Lasciai cadere con un tanfo secco
il gelato sul tavolo
del soggiorno. «Che cosa vuoi ancora, che cosa vuoi?! Vuoi
che me ne vada io?!
Me ne vado!» sbottai, riprovando ad uscire.
«No» mormorò afflitto.
«Allora vattene, vattene
Edward! Vai via! Se non mi
vuoi più potevi almeno avere la decenza di trattarmi meglio,
potevi almeno
avere la decenza di non farmi sentire un maledetto schifo!».
«Non è vero
che non ti voglio più» scandì con tono
controllato, sconsolato.
Quelle parole mi fecero solo
infuriare di più. «E
allora che c’è? Eh? Che
c’è?».
Rimase in silenzio, a disagio.
«Certo. Io non sono
abbastanza per capire, non sono
abbastanza per comprendere, non posso pretendere di sapere niente, io!».
«Non è
così Bella, non hai capito».
«Infatti, è
proprio questo il punto! Lo vedi come
continui a ferirmi, lo vedi? Vai via Edward, vai via, voglio stare da
sola».
«No, Bella. Ti prego,
calmati. Non fare così, amore».
«Non chiamarmi
amore!» urlai, rossa in viso. Afferrai
il primo, stupido, suppellettile che trovai, senza neppure pensarci un
secondo,
scagliandoglielo addosso. «Con quale cazzo di coraggio mi
chiami amore, dove
sta l’amore?!».
«Bella, ti prego. Ti stai
agitando troppo» fece
timoroso, non tentando neppure di afferrare o schivare gli oggetti che
gli
lanciavo.
«Vai via!»
gridai con tutto il fiato che avevo in
corpo. Mi ritrovai, ansante, a fissarlo con disprezzo e disperazione.
La testa
era compressa in una morsa, pulsava, le mai mi formicolavano e sentivo
la gola
incendiata per le urla. Ma mentre la mia voce gridava quello, nella mia
testa
avevo tutt’altro tipo di frasi. «Non
mi
lasciare, non mi abbandonare. Ti prego, abbracciami e guarisci tutte le
ferite
che tu stesso hai causato» parole che non potevo
pronunciare, ma che mi
rimbombavano dentro come un’eco.
«Calmati»
ribadì ancora, sollevando le mani come in
segno di resa.
«Me lo dovevi dire prima
calmati, Edward! Non sono più
calma!» esclamai, indicandomi con una mano tremante, mentre
mi mordevo le
labbra per impedirmi di piangere ancora. Il fatto che si giustificasse,
che non
tentasse di difendersi, che pensava ancora a me, alla bambina, mi
faceva solo
sentire sempre peggio e sempre più arrabbiata.
«Io mi sono vestita
così per te, capisci, per te! Tu
non puoi sapere quanto mi sia costato tutto questo, non puoi!
Dannazione,
Edward! Volevo sedurti, semplicemente sedurti! Pensi che sia stata una
passeggiata? Sai quanto è difficile per me, dopo tutto
quello che ho passato,
dopo tutto quello che mi è stato fatto. Mi sono detta
“Bella, come fai a non capire, tuo
marito ha un problema, ha bisogno di
te! Sei stata stupida, non hai fatto abbastanza per lui!”.
Ti chiedevo,
ogni giorno, se ci fosse qualcosa che non andasse. Se ne volessi
parlare con me.
ma tu “No, va tutto bene!”»
sbraitai,
furente. Lui mi osservava colpevole, non cercando neppure di ammansirmi.
«E ancora, ancora mi sono
sentita in colpa! In colpa,
capisci? Mi sono sentita uno
schifo di moglie, un’incapace. Allora ho deciso di offrirti
l’unica cosa che mi
rimaneva, nonostante mi facesse soffrire, patire, il solo pensare di
dover offrire, di mia spontanea volontà, il mio corpo!
Ma tu ne te sei fregato!» urlai con tutto il fiato che
avevo, la testa che mi pulsava per il sangue che velocemente
l’aveva raggiunta,
lanciando l’ultimo oggetto che mi rimaneva a portata di mano.
Vidi le sue dita bianche bloccarlo
prima che si
frantumasse contro di lui come tutti gli altri oggetti.
«No, Bella, no,
accidenti!» sbraitò improvvisamente,
facendomi sgranare gli occhi. Non l’avevo mai sentito gridare
così. Non l’avevo
mai sentito arrabbiato. Non si era mai arrabbiato con me.
Respirava anche lui affannosamente,
malgrado non ce ne
fosse alcun bisogno. «Io lo so, lo perfettamente quello che
hai passato! Cosa
credi? C’ero anch’io a tuo fianco, e ti vedevo
soffrire. Ero lì oggi volta che
non mangiavi, che non parlavi, quando piangevi. Ero lì ad
ogni incubo e ad ogni
attacco di panico. E soffrivo, soffrivo con te, ti aiutavo a mettere
insieme i
cocci. Pensando ogni singolo giorno che tu non saresti stata, che non
sarai,
più mia! Io c’ero!».
Mi ripresi dallo stupore in pochi
istanti, e poi
subito risposi.
«E allora
perché ti comporti così?
Perché?». Il tono
delle nostre voci era lo stesso, ormai. «Pensi sul serio che
non ci sia più
nulla in me? Cosa vuoi, cosa c’è, cosa non va?
Tu non mi consideri tua moglie, mi consideri un mucchio di rottami da
aggiustare!».
«Ma ti rendi conto di
quello che dici Bella? Pensi
seriamente che sarei ancora qui se non t’amassi? Io ho solo
cercato di
proteggerti! Lo facevo, lo farò, e lo sto facendo,
ancora!».
«Da cosa? Proteggermi da
cosa?».
«Da
te stessa!»
urlò, irrigidito, fermo nella
sua posizione, tremante di rabbia.
Puntò i suoi occhi
fiammeggianti nei miei, stringendo
con forza titanica i pugni delle mani, lasciando scorrere fiumi di puro
dolore
fra le sue parole. «Io c’ero, e ci sono, accanto a
te. Ogni volta che ti
blocchi nel tuo oblio. Ogni volta
che
guardo i tuoi occhi vitrei, neri.
Ogni volta. Ogni volta che gridi, e
ti dimeni. Ogni volta che, preda
del
tormento, urli il nome di Jacob.
Io,
ci sono. Ogni volta, ogni singola, millesima volta, che chiudi gli
occhi, e li
riapri, il cuore che sembra voler scappare dal tuo petto, il respiro
troppo
corto per bastarti, la fronte imperlata di sudore. Non
ricordando nulla».
Chiuse gli occhi, poi li
riaprì, piano. «È così.
Quasi
ogni singola notte. E tre giorni fa è successo anche mentre
eri sveglia. È
così… da quasi due mesi, ormai»
biascicò atono.
Lo fissai, sconvolta,
improvvisamente azzittita,
mentre le urla lasciavano spazio al silenzio.
Ogni secondo il silenzio diventava
più denso, spesso.
Ogni secondo, i miei pensieri si facevano sempre più
confusi.
Lo sciame d’api che fino
a quel istante avevo sentito
nel petto, si era spostato nella mia testa. E, malgrado fosse sparso,
malgrado
avesse una miriade, un campo di fiori su cui vagare, malgrado
questo… tendeva
sempre a tornare ad un unico punto. Tendeva sempre a tornare
all’alveare.
Tendeva sempre, inesorabilmente, ad
un unico pensiero.
Il più facile da
comprendere, quello con cui poter lottare
più facilmente.
Edward mi aveva mentito. Mi aveva
mentito per due
interi mesi, su una cosa così importante.
Mi accorsi delle lacrime solo
quando ebbero raggiunto
la base del mento. Posai una mano, tremante, sconvolta, sulla pancia,
chiudendo
gli occhi e abbassandoli. Per quanto potesse sembrarmi assurda la
verità, per
quanto tutto sembrava tremare, e non essere più fermo, per
quanto ogni cosa
sembrasse… impossibile. Quello era un punto fermo. Un
doloroso paletto, una
certezza. Lo sentivo ben conficcato nel cuore.
Come potevo pensare, accettare, il
resto?
«Tu… tu mi hai
mentito» farfugliai, riaprendo gli
occhi e puntandoli nei suoi. «Tu mi hai mentito»
ripetei, pronunciando le
parole ad un volume accettabile. «Tu mi. Hai. Mentito!»
urlai.
Edward fece un sospiro secco,
portandosi una mano fra
i capelli, in difficoltà. «Bella! Cercavo solo di
proteggerti! Dannazione!»
esclamò infine.
«Ma io dovevo sapere, ti
rendi conto?! Dovevo sapere
una cosa del genere che… che stava capitando a me!» sbottai, la voce incrinata
dal pianto, indicandomi, tremante.
Mi fissò spiazzato.
«Ma tu non ricordavi nulla! Ho
sperato che ci fosse un modo, ma non c’era Bella, non
c’era un modo per
dirtelo!».
Singhiozzai, portandomi una mano
alla bocca. «E che
cosa speravi di fare Edward, cosa? Aspettare, ancora? Continuare a
mentirmi?».
«No Bella, no!»
fece concitato, mantenendo sempre le
distanze, non avvicinandosi neppure di un centimetro. «Te
l’avrei detto, te
l’avrei detto stasera! Eravamo d’accordo, con
Carlisle».
Mi voltai di scatto, sgranando gli
occhi. «Oh, sì»
sibilai senza fiato «perché lui sapeva, Carlisle
sapeva, non è così? Lui sapeva
tutto, tutto, e io no!».
Mi portai le mani alla testa, fra i
capelli, sentendola pulsare forte per il sangue che affluiva troppo
velocemente.
Mi sentivo… sconvolta… ogni mio muscolo tremava
come se fosse sotto l’effetto
di mille, piccole, minuscole scosse elettriche, dandomi
l’impressione di essere
senza forze, e, contemporaneamente, alimentata da una forza esterna.
Non
riuscivo più ad avvicinarmi a lui. Non riuscivo ad annullare
quella distanza di
appena quattro metri. Perché non era più una
distanza fisica. Eravamo noi,
distanti. Come non lo eravamo mai stati.
«Bella! Sii ragionevole!
Volevo solo proteggerti, volevo solo aiutarti!».
La voce di
Edward non era più arrabbiata, era addolorata,
ancora.
Sentii per un attimo lo sciame
diradarsi e
ricominciare a vagare lontano.
Edward era addolorato. Che cosa.
Cosa, cosa, cosa,
dannazione, cosa, stavo pensando?
Edward era addolorato. Semplicemente addolorato.
Perché ancora lui si
stava sacrificando, si stava
sentendo in colpa per quello che gli stavo rinfacciando. Sentii un
singulto nel
mio petto. Perché lui… era Edward, mio marito. E
si era sacrificato, e lo stava
ancora facendo. Gli era costata un’immensa parte di
sé stesso nascondermi tutto
quello, sicuramente. Per nascondermi quella verità che i
miei pensieri stavano
cominciando a comprendere, ma che non potevano accettare.
Ripensai a tutte le strane parole,
a tutte le strane
domande. Ripensai ad ogni volta che mi raccomandava di non
addormentarmi, di
non dormire troppo. Ripensai ad ogni sguardo, ogni singolo, fra Edward
e suo
padre, dandogli una nuova spiegazione. Ripensai a tre giorni
fa… all’incidente,
al ritmo già accelerato del mio cuore.
«Bella» mi
chiamò afflitto Edward, facendo come per
compiere un passo.
Sollevai una mano, bloccandolo. Non
riuscivo, non
potevo… permettere che si avvicinasse. Sentivo i battiti del
mio cuore,
distinti, nelle orecchie, e pensavo che per forza, per forza dovevano
essere
gli ultimi. Se si fosse avvicinato… Non avrei resistito
neppure un secondo. No,
avevo bisogno di quella distanza.
Perché Jacob non mi
aveva ancora abbandonata. Non era
finito, nulla. Non erano finite le mie pene. Non era finito il mio
dolore. Ma,
ancora peggio, non era finito il dolore che avrei causato a chi mi
stava
attorno. Non era finito il dolore che avrei ancora causato a Edward.
Mi sentii incredibilmente male.
Portai entrambe le braccia sulla
pancia,
proteggendola. Rantolai ma non riuscii neppure a gridare. Mi
risollevai,
fissando sconvolta mio marito
che ricambiò il mio
sguardo con immensa tristezza, gli occhi velati da un’ombra.
Non ce la facevo,
non ce l’avrei fatta.
Poi… lo
sentì.
In un secondo le mie mani furono su
entrambi i lati
del grembo, e Edward, davanti a me, inginocchiato all’altezza
della pancia,
aveva posato l’orecchio proprio in corrispondenza
dell’ombelico.
Puntò i suoi occhi,
vitrei, nei miei, e io nei suoi,
ansiosi. «L’ho sentita»
farfugliammo
insieme. Sgranai gli occhi, e lo stesso fece lui, osservando nuovamente
la
pancia. Era come se in un istante tutto il peso che sentivo di fosse
vaporizzato. Nessuna scossa, nessuna fatica, nessun pungolo. Tutto il
ghiaccio
che mi feriva e m’intrappolava… si era sciolto.
Lo sentii ancora.
Contemporaneamente i nostri occhi si
cercarono trovando la conferma l’uno nell’altro.
«Ed-Edward» balbettai, poi
deglutii «si è mossa. Ho sentito…
è così piccola! Era come un piccolo, piccolo
pesciolino che… si muoveva… è
piccola… tanto piccola, Edward».
I suoi occhi erano sgranati ed
emozionati come i miei.
Nonostante fosse un vampiro, anche la sua voce tremava. «Si. Si. Ha pensato!».
Ansimai, portandomi una mano alla
bocca. «Cosa?»
chiesi, stridula.
Lui annuì
frettolosamente, posando entrambe le mani,
accanto alle mie, sulla pancia. «Ha pensato! Lo ha fatto!
Solo per un istante
e… non era proprio un pensiero… ma… un
impulso. Però l’ho
sentita!».
Singhiozzai, lasciandomi scivolare,
in ginocchio, fra
le sue braccia. Mi prese al volo, stringendomi a sé con
quella così tanto poca
forza che imprimeva quando sapevo che voleva stringermi di
più.
E fu di nuovo perfetto. E fu di
nuovo magico, e fu di
nuovo noi, tre, uniti.
Mi staccai, prendendo solo un
attimo di fiato, per poi
incollare con forza le mie labbra alle sue. Rispose immediatamente al
bacio con
lo stesso vigore, la stessa forza, la stessa, identica, esigenza.
«Scusa. Scusa, scusami se
puoi» farfugliai, fra i
baci, facendo vagare, febbricitanti, le mie mani su di lui.
«Perdonami. Non
volevo dirti tutte quelle cose. Ho capito che non era colpa tua,
l’ho capito.
Scusami, scusami. Ti amo. Lo sai, che ti amo? Ti amo, ti amo, ti
amo».
Mi strinse con più
forza, buttandomi sulla moquette e
tuffandosi nuovamente sulle mie labbra. «No, no, è
colpa mia Bella. Avrei
dovuto dirtelo, mi dispiace non averlo fatto. Lo sai che ti amo
anch’io,
immensamente».
Infilai una mano sotto la sua
camicia, aprendola a
staccando tutti i bottoni in uno strappo. «Mi sei mancato
così tanto» mormorai
rapita.
Mi tolse, velocemente, il giaccone,
e con i piedi mi
sfilò le scarpe. «Non sai che pena dirti di no,
tutte quelle volte. Bella».
«Oh, Edward!»
esclamai, stringendo i suoi capelli e
baciandolo.
Si staccò da me,
ansante, fissandomi famelico. «Non
possiamo. Non possiamo Bella» disse roco, mentre si
contraddiceva con i gesti,
mentre con le mani esplorava, da sotto la maglietta, il mio corpo.
«Perché
no?» ansimai, mordicchiandogli il collo.
«Io… Io se
penso a quello che hai sotto Bella…
accidenti» ansimò. Mi strinse più
forte, poi si bloccò. Mi fermai anch’io. Mi
staccò da sé e mi prese fra le braccia, tenendomi
stretta contro il suo petto e
facendo regolarizzare i nostri respiri. Mi portò sul divano
a ci si sedette,
attaccato a me. Cominciò ad accarezzarmi i capelli,
lasciandomi una scia di
baci sulla fronte. Mi accoccolai su di lui, bisognosa come non mai di
sentirlo
accanto.
Mi prese le mani fra le sue,
stringendole e capii che
la spiegazione che per tanto tempo avevo atteso, finalmente, stava
arrivando. Solo
che ora non ero più certa di voler conoscere tutta la
verità. «Bella. Quello
che ti ho detto prima è… è una cosa
molto complessa» disse serio, fissandomi
negli occhi.
Deglutì, guardandomi le
mani e tornando a fissarlo. Pensai
a quando mi aveva chiesto di ricominciare a prendere gli antidepressivi
e gli
avevo detto di darmi una seconda possibilità. Forse se
l’avessi fatto gli avrei
risparmiato due mesi di sofferenza. «Mi
dispiace»
mormorai.
Sul suo viso passò un
lampo di sofferenza. «No Bella,
vedi, è questo il punto» mi fissò
agitato «non è colpa tua» riprese prima
che
potessi ribattere «io e… Carlisle. Abbiamo motivo
di pensare che non dipenda
affatto da te. Che dipenda dalla bambina».
«C-cosa?» feci
sgomenta. Appena mi aveva detto quelle
parole, il segreto celato per tanto tempo, avevo immediatamente dato
per
scontato che i miei incubi fossero ricomparsi, che di nuovo i fantasmi
del
passato fossero tornati a perseguitarmi.
Ora, quello che mi stava dicendo
cambiava tutto.
Mi accarezzò una
guancia, teneramente. «È cominciato
tutto in forma molto più… ridotta, di come
è adesso. Ti capitava, nel sonno, di
agitarti, di ansimare. È come se in quei momenti il tuo
corpo fosse sottoposto ad
uno sforzo notevole. Inizialmente ho pensato che fossero i soliti
incubi»
sollevò il viso, fissando lontano, gli occhi velati da un
profondo dolore. «Poi,
una notte, hai farfugliato il nome di Jacob, e mi sono spaventato,
perché
pensavo che non lo sognassi più.
Quella mattina ti ho chiesto, ma tu
mi hai risposto
che non ricordavi nulla, così io non ho voluto farlo.
Successe ancora, tre
volte. Ero molto dubbioso, ma pensavo che avessi scelto di non dirmelo,
e,
seppur a malincuore, rispettavo la tua decisione.
Poi, abbiamo fatto
l’amore. Da allora, ogni cosa è
peggiorata». Mi fissò negli occhi, addolorato.
«Ricordi? È successo anche
allora».
Feci mente locale, alcuni istanti,
e mi parve di
ricordare di aver sentito il batticuore appena dopo aver fatto
l’amore con lui.
Ma era… «Erano le emozioni della
bambina!».
Lui annuì.
«Sì, fu in quel instante che pensai che tu fossi
completamente estranea ai fatti, che non ricordassi nulla, che tutto
dipendesse
da lei. Le cose continuarono a peggiorare, sempre più. Ti
succedeva sempre più
spesso, quasi ogni notte, e ogni cosa avveniva in maniera sempre
più violenta.
Urlavi» fece una pausa, tremante «urli,
il suo nome».
«Ma allora non
può essere la bambina, lei non può
conoscerlo!» esclamai esterrefatta, tentando di stargli
dietro.
Annuì serio.
«È vero, è l’unica cosa che
va contro la
mia tesi, in effetti. È l’unico dettaglio che non
mi permette di capire. Forse
è una tua reazione, non saprei. Comunque, decisi di parlare
con Carlisle del
problema, non potevo tenerlo ancora per me. Anche lui fu immediatamente
d’accordo con me. Pensammo che tutto dipendesse dalla
bambina. Capimmo che ti
succedeva mentre lei sognava» notò la mia
espressione sgomenta «Sì, sembra
impossibile, ma è così. Si ipotizza che i feti
possano sognare dalle 23esima
settimana, e lei è in largo anticipo. E, se, bada
bene, se, sognano, sognano quello
che
possono avvertire con i sensi, mente questi sono sogni decisamente
più
complessi. Questo va aldilà di tutto, anche se si sapeva che
non potevano
aspettarci nulla di normale. Ne sono quasi del tutto persuaso. Lei sogna».
«Quindi»
mormorai confusa, sbattendo le palpebre «sono
i suoi sogni?».
Edward mi sorrise.
«Pensiamo sia così. E malgrado
dorma spesso, manifesta i suoi sogni solo quando tu glielo consenti.
Quando le
tue barriere sono così deboli da consentirlo. Quando dormi e
quando…».
«Quando facciamo
l’amore» mormorai, stringendo in un
pugno la sua camicia aperta.
«Sì, esatto.
Ed è per questo che tu non ricordi nulla.
Lei riversa su di te quello che dovrebbe capitare a lei. Lo sente, ma
tu lo
manifesti. Però i sogni sono suoi e tu non puoi ricordarlo,
perché sono nella
sua mente» finì di spiegare. «Mi
dispiace davvero non avertelo detto prima, ma
non ci riuscivo. Stasera l’avrei fatto, comunque, te lo
giuro» disse
dispiaciuto.
Scossi il capo lentamente.
«Non importa più Edward. Mi
chiedo solo come tu abbia fatto a sopportare in silenzio» lo
fissai negli
occhi, accarezzandogli una guancia «senza dirmi nulla, senza
poter condividere
o almeno esternare il tuo dolore».
Scosse il capo, e, insieme, la mia
mano. «Non è niente
rispetto a quello che…» deglutì
«succede alla bambina e te».
«È
così brutto? È così brutto quello che
accade alla
nostra bimba?» chiesi preoccupata.
«A voi
Bella, succede a voi».
«È
così brutto quello che ci accade?».
Sospirò, distogliendo lo
sguardo. Fu più che
eloquente. Pensai a tutte le volte che aveva dovuto sopportare quella
tortura,
tutte le volte che mi aveva dovuto sentire urlare. Immaginai di essere
al suo
posto e rabbrividii. «E…
adesso…».
«Adesso è
così, purtroppo. Tre giorni fa eri sveglia,
quindi è sempre peggio» strinse più
forte la mascella, tanto che se fosse stato
umano le sue labbra sarebbero sbiancate. «Apri…
gli occhi, anche mentre dormi.
E le tue iridi sono nere. Non c’è più
il cioccolato» si forzò a respirare,
mentre sentivo che il fiato stava mancando a me. «Come vedi,
non è una cosa
normale. Non sono sogni normali».
Strinsi con forza mi marito a me,
gettandogli le
braccia al collo e provando a riprendere a respirare regolarmente. Lui
mi
accarezzò velocemente i capelli, tentando di farmi calmare.
«Scusami, non
volevo farti agitare così. È per questo che non
te l’ho detto prima, non riesco
a vederti soffrire ancora, a mettere ancora in dubbio la tua
sanità mentale e
il tuo autocontrollo. E adesso, con la bambina in arrivo, volevo
proteggerti e evitare
che ti stressassi troppo. Ma sono stato uno
sciocco, come al solito, perché ho solo ottenuto
l’effetto contrario».
Lo strinsi più forte,
lasciando che il tremore mi
abbandonasse. «Non è così, Edward. Non
ti preoccupare» feci in un sussurro, la
voce ancora tremula «va bene».
Si staccò da me per
scrutarmi in volto. «Come ti
senti?» mi chiese apprensivo, posando una mano sulla mia
pancia.
«Va tutto bene»
deglutii, annuendo. Sentii le mie
guance farsi più rosse per l’imbarazzo e nascosi
il viso nell’incavo della sua
spalla. Pensai che continuare a tenere per me certe paure sarebbe stato
altamente controproducente. «È…
è solo per quello che non volevi più…
fare
l’amore con me?».
Immediatamente mi prese il viso fra
due dita, puntando
i suoi occhi nei miei, sinceri. «Sì Bella,
sì. Perché non potevo essere io a
causarti tutto quello, non potevo anche pensare che fosse colpa mia.
Perché
dopo ogni cosa è peggiorata, la crisi che hai avuto era
stata molto più marcata
delle precedenti, e quando sei sveglia è anche peggio. Molto, molto peggio. Per questo
l’ho fatto. Ma ti giuro» mormorò
roco «ti giuro che è stato un
supplizio… resistere».
Mi mordicchiai il labbro.
«Davvero?» chiesi insicura.
Avvicinò il suo viso al
mio, incollando le nostre fronti
e lasciandomi un lungo e passionale bacio. Quando si staccò
mi avvicinai
ancora, baciandolo frettolosamente per poi ritirarmi a fissarlo,
ansante.
Sussultai quando sentii nuovamente
la bambina
muoversi, e lo stesso fece lui. I nostri occhi si incontrarono e
sorridemmo. Incredibile
come con la sua sola presenza potesse farci stare meglio.
«È così speciale. Lo
so che ti fa paura, ma è una grazia così grande
che sono disposta a sopportare
qualunque cosa per lei» dissi convinta, accarezzando la
pancia.
Edward mi sorrise, sfiorandomi una
guancia. «È così
piccola» soffiò, posando lo sguardo dove sua
figlia cresceva.
Annuii. «Come
può soffrire così tanto?».
Sospirò, poi mi
abbracciò, stringendomi a sé. «Se solo
potessimo sapere quello che sogna».
«Edward!»
strillai, staccandomi da lui. Mi fissò
sgomento, preoccupato. «Noi, noi possiamo! Possiamo adesso,
possiamo!».
Sbatté velocemente le
palpebre, confuso, in un puro
riflesso umano.
Posai entrambe le mani sulle sue
spalle,
inginocchiandomi davanti a lui. «Tu puoi sentire i suoi
pensieri. Puoi sentire
i suoi pensieri, mentre sogna».
La sua bocca si aprì
dallo stupore. Piegò la testa di
lato pensandoci. «Beh, quello che dici tu è
corretto. Ma non sono sicuro di
poterlo fare. Finora ho sentito i suoi pensieri perché si
è mossa, per qualche
millesimo di secondo, ma non è la stessa cosa. Dovrebbe
essere qualcosa di
abbastanza forte da permettermi di percepire i suoi pensieri e
poi… dovremmo
aspettare. È successo la notte passata, non so se stanotte
avverrà ancora, ma
spero e credo non sia così».
Abbassai lo sguardo pensando solo
per pochi istanti. «E
se» mormorai, risollevando il viso. Edward attendeva ansioso
le mie parole, che
faticavano a uscire. «Io… mi chiedevo
se…».
Sollevò una mano, fino a
posarla sulla mia guancia,
strofinando il pollice contro lo zigomo e aspettando paziente.
«Tu hai detto che
è imprevedibile. Ma hai anche detto
che un modo per causarlo c’è».
S’irrigidì non appena comprese le mie parole.
«Edward, hai detto che dev’essere più
forte del solito e che quando sono
sveglia è molto più forte!» mi affettai
ad aggiungere.
«Bella,
no…» fece, contrariato, tentando di essere il
più delicato possibile.
«Ma io ormai so, e
voglio. So che non potresti farmi
mai nulla di male. So che non sei tu a causarmi nulla. Potremmo
scoprire cosa
succede a nostra figlia! È un piccolo sacrifico che faccio
per lei, è così
piccolo, Edward».
Lui continuava a scuotere il capo,
lentamente.
Lo abbracciai stretta, lasciandogli
alcuni piccoli
baci sulla pelle del petto scoperta e sentendolo fremere sotto di me.
«Io voglio. Voglio
e… ne ho bisogno, ne ho
tanto bisogno, Edward».
Mi bloccai, staccandomi da lui con
lo sguardo basso.
Lo stavo rifacendo. Stavo andando alla disperata ricerca di un rapporto
fisico
con lui, stavo tentando ancora di sedurlo. Com’era possibile?
Come potevo non
aver capito che tutto quello poteva causarmi solo sofferenza?
«Amore» mi
chiamò piano, prudente.
Strizzai gli occhi e mi sforzai di
sorridere. Non
volevo che mi compatisse, non volevo che lo facesse ancora.
«Sai che ti dico?
Ho fame» scherzai debolmente «sicuramente Esme mi
starà aspettando con uno dei
suoi meravigliosi piatti italiani. Magari non ha ancora esaurito le sue
risorse
di camomilla, le nostre sono miseramente ridotte» dissi
veloce. La sua
espressione non cambiava, perciò mi affrettai a riprendere.
Mi sollevai dal
divano, facendo qualche passo verso il mio giaccone, abbandonato a
terra. «Su
Edward veloce, non vorrai fare ritardo? Guidi tu, no? Sicuramente sei
più
affidabile» provai a sdrammatizzare, tentando di dare un tono
leggero alla mia
voce.
In qualche millesimo di secondo mi
ritrovai stesa a
terra, le sue labbra sulle mie, prepotenti, come mai lo erano state. Le
mani
intrecciate fra i miei capelli e vaganti sul mio corpo. «Sono
uno stupido, non
riesco mai a imparare dai miei sbagli» sibilò roco
sul mio collo, ricoprendolo
di baci.
«Oh, Edward.
Davvero… avevi ragione tu, è una pessima
idea» ansimai «davvero una cosa sconveniente che tu…» feci stridula,
sgranando gli occhi, mentre le sue mani si
facevano sempre più audaci sotto la mia maglietta.
«Oh, Edward!»
esclamai, corrispondendo allo stesso modo alle sue
carezze.
Mi avvinghiai stretta, lasciandogli
un debole quanto
inutile morso sulla spalla. Feci scontare il mio torace contro il suo e
tolsi
completamente la sua camicia quando pensai fosse di troppo. Mi
sollevò per i
fianchi e mi tenne stretta a lui. Fece pochi passi, sulle ginocchia, la
bocca
incollata alla mia, finché non lo costrinsi a stendersi
ancora indietro. Rotolò
su un fianco, portandosi su di me, e mi sollevò ancora,
mettendosi, questa
volta, in piedi.
«La maglietta…
Edward… toglila… toglila…»
gemetti, le
braccia avvinghiate ai suoi capelli, strusciandomi famelica su di lui.
In meno di un secondo
accontentò la mia richiesta,
strappandola via con un gesto secco, muovendo le mani sui miei seni
senza
l’intralcio della stoffa. «Ahh»
mormorai rapita.
Mi accorse qualche minuto in quel
mondo psichedelico
per capire che salivamo le scale. A rilento, molto, molto a rilento. La
schiena
di Edward sbatteva spesso e volentieri sul corrimano. «Dove,
cosa…?» ansimai,
per poi non resistere a tuffarmi nuovamente sulle sue labbra chiare.
Sentivo il suo fiato spesso accanto
al mio orecchio. «È
un peccato… sprecare tutto quel ben di Dio che hai
preparato».
In un istante, impaziente, Edward
mi portò
sull’attico, fino ad
adagiarmi con la schiena al
centro dell’immenso letto. Le mie mani vagarono sole, mentre
staccavo la cintura
e la zip dei suoi jeans, liberandolo da ogni indumento. Stessa fine,
fecero, in
poco tempo, i miei pantaloni.
«Sei bellissima,
bellissima» mormorava, ormai
completamente nudo su di me, lambendo ogni parte del mio corpo,
giocando con le
dita con mio intimo.
Averi volentieri ricambiato ogni
complimento se solo fossi
stata in grado di parlare coerentemente!
Slacciò il gancio del
reggiseno, liberandomi da ogni
costrizione. Strinse forte gli occhi, continuando a baciarmi il petto,
la
pancia, l’ombelico, scendendo sempre più
giù. «Ti voglio» mormorò
roco,
fissandomi famelico negli occhi.
Sentii un brivido partire dalla
spina dorsale e
fermarsi in basso, molto in basso.
Posò entrambe le mani
sull’elastico delle culottes. «Posso
averti?» chiese, continuando a guardarmi.
«Sì» ebbi solo la forza di pronunciare.
Lo ritrovai ben presto su di me,
pronto a farmi sua. «Sei
consapevole di quello che avverrà?»
soffiò sulla mia guancia.
«Dobbiamo…
scoprire… Ed…ward…»
ansimai, fissandolo negli occhi. Avrei fatto i conti con qualsiasi cosa
per
aiutare la mia bambina. In più, in quel momento sarebbe
stato impossibile
tirarsi indietro.
«Starai male».
«Starò peggio
se non mi fai tua!» esclamai, il petto
nudo che continuava inesorabilmente a cozzare contro il suo, seguendo i
battiti
accelerati del mio cuore. «Adesso!».
Non si fece pregare un altro
istante. Ancora, mi
sentii perfetta. Lasciai che ogni timore, ogni indecisione, ogni
preoccupazione, cadesse per un attimo nell’oblio della mia
memoria, mentre mi
sentivo di appartenere sempre più a Edward.
L’unico, meraviglioso,
contorno, era il suono dei
nostri gemiti, gli ansiti del nostro respiro, e lo schiocco dei nostri
baci.
Mi sollevò dal
materasso, stringendomi fra le sue
braccia, mentre il piacere si faceva strada fra noi.
«Ti amo»
mormorò, affaticato.
Mi strinse più forte, e,
mentre la stanchezza
sopraffaceva anche me, fu il buio.
La strinsi più forte a
me, in un disperato quanto
inutile tentativo di proteggerla da quello che presto sarebbe arrivato.
La liberai dal mio abbraccio fin
troppo stretto non
appena le sue palpebre tremolarono verso il basso e i suoi occhi si
rovesciarono
all’indietro. Mi ero già pentito di tutto. Le
baciai piano le labbra, serrando
le palpebre e aspettando.
Non potevo più tirarmi
indietro, in quell’istante
dovevo fare ciò che era meglio per lei. Ciò che
era meglio per la bambina. Ciò
che avevamo deciso di fare, nonostante le conseguenze delle nostre
azioni.
Il suo cuore iniziò ad
accelerare il suo ritmo,
proprio mentre sentivo il respiro farsi più affrettato e il
sangue nelle sue
vene pulsare contro la mia pelle immobile. Aprii gli occhi e la vidi. I
suoi
occhi neri, sbarrati, fissavano il vuoto, le pupille completamente
spalancate.
Sentii una fitta, troppo familiare
ormai, al cuore. Dovevo
stare calmo, rimanere concentrato e tentare di ascoltare i pensieri
della
bambina, altrimenti ogni cosa sarebbe stata inutile.
Rantolò e mentre si
tendeva come una corda di violino
la sua schiena si sollevò dal materasso. La strinsi fra le
braccia, disperato,
tentando di tenerla ferma. Un sibilo le uscì dalle labbra
ceree, dello stesso
pallido colore grigiastro del viso, già imperlato da una
miriade di piccole
gocce di sudore.
«Bella… Bella,
amore, sono qui…». Malgrado la mia
testa avesse uno spazio immenso dove far scorrere i pensieri, ora
c’era solo
lei, e non riuscii ad impedire alle parole soffocate di uscire dalla
mia gola.
Serrai gli occhi, abbandonando la
testa sul suo petto,
stringendola ed evitando che si dibattesse. La facilità con
un la immobilizzavo
mi faceva male. Pensavo quanto fosse fragile e vulnerabile.
Dovevo concentrarmi. Glielo dovevo.
Abbassai il capo sul suo ventre,
fino a percepire con
estrema chiarezza il battito costante della nostra bambina
addormentata. Rimasi
immobile, come solo un vampiro poteva fare, e nonostante le urla di mia
moglie
mi stessero penetrando senza remore imponevo al mio essere di portare
avanti il
mio compito.
«Jacob…»
un rantolo sputato fra i denti «Jacob!».
Sentivo che la crisi era quasi
all’apice e ancora non
avevo sentito nulla. Come previsto, ogni cosa sarebbe stata vana. Tutto
quel
dolore, inutile.
Ruppi la mia statuarietà,
sollevando il capo e fissando addolorato di mia moglie.
«Bella, amore mio, sono
qui. Sono qui Bella» la chiamai disperato, conscio del fatto
che non mi avrebbe
ascoltato. Come
potevo aver acconsentito
a quello scempio? Come potevo io stesso esserne stato fautore?
Abbassai nuovamente il viso sul suo
ventre pieno,
sentendo il mio corpo marmoreo scosso da pesanti singulti.
«Basta amore. Basta,
basta». La baciai, proprio
dove la
sua pelle era più fredda e chiara appena sotto la
superficie. «Basta».
In un attimo, come una stoccata, i
miei pensieri
furono attraversati da una cometa bianca. Ansimai, osservando mia
moglie. Si
stava agitando, anche più violentemente di prima, mordendo
l’aria davanti al
viso.
Ancora una volta. Bianco.
Chiusi gli occhi, tentando di
concentrarmi. E fu
allora che lo vidi, attingendo direttamente ai pensieri della bambina.
Vagavo,
fluttuando in uno sfondo completamente bianco. Quello che mi sorprese
fu che
avvertivo il mio corpo come una massa perfettamente incorporea. Cercai
di
registrare tutti i dettagli, e fu così che mi accorsi di
quello che sentivo.
Ricerca. Stavo cercando qualcosa. Cercavo disperatamente e velocemente
qualcosa.
Ma cosa? I pensieri della bambina
non erano così forti
da permettermi di comprenderlo, e avevo paura che tutto sarebbe finito
troppo
presto.
Ancora,
sentii un altro desiderio. Dovevo avvicinarmi… Dovevo andare
più vicino in modo
da poter…
Tutto scivolò via, e
tentare di riprendere quei
pensieri sarebbe stato come tentare di afferrare l’acqua.
Impossibile anche per
me.
Sollevai gli occhi sul viso di mia
moglie, proprio
mentre lei chiudeva i suoi. Mi sollevai, andandole accanto e
abbracciandola,
accarezzandole il viso mentre il sangue, spinto forzatamente dal suo
cuore,
tornava prepotente sulle sue guance lasciandole un innaturale contrasto
con le
labbra, ancora bianche.
Tentai di concentrarmi sul calore
irradiato dal suo
piccolo corpicino, rannicchiato fra le mie braccia, per calmarmi io
stesso e
dare una priorità a tutta la miriade di pensieri confusi che
mi occupavano la
mente.
«E-Ed…ward…»
farfugliò poco
coerentemente fra gli ansiti. Solo grazie al mio udito
riuscì a comprendere il
mio nome.
Le baciai la fronte umida,
inspirando il suo forte
odore. «Sono qui amore, sono qui».
Sbatté le palpebre
velocemente e poi lo fece ancora,
con maggiore lentezza. Vidi immediatamente i suoi occhi marrone fuso e
tutte le
pagliuzze imperfette della sua iride, mentre mi guardava spaesata. Mi
rasserenai.
Portò in un gesto
automatico la mano, tremante, al
petto, tentando di arrestare la sua folle corsa. Sentii il suo cuore
rallentare
il ritmo con tonfi sordi e umidi.
Le accarezzai il viso, scostandole
i capelli che erano
rimasti incollati alla fronte, con la mano che non era impegnata a
stringerla
forte contro la mia pelle nuda, come la sua.
Le lasciai tutto il tempo di fare
mente locale. Notai
persino la sua tenera espressione imbronciata, e quasi non mi
sfuggì un sorriso
sulle labbra. Peccato che l’impulso fu troppo debole fra i
pressanti pensieri
per riuscire a farlo realmente.
Tremò, e si strinse
più forte a me in cerca di un
calore che non potevo darle. Mi sollevai di poco, tenendola fra le mie
braccia,
e tirai via le coperte dal letto, avvolgendola nel piumone caldo. Mi
sedetti
sul letto e la portai sulle mie gambe, abbracciandola.
Mi fissò, disorientata
dalla velocità dei miei
movimenti. Poi fece una smorfia, comprendendo ogni cosa. Questa volta
non
riuscii a rattenere il leggero ghigno. Anche lei, come me, avrebbe
voluto
rimanere a contatto col mio corpo. Peccato che per lungo tempo ci
sarebbe stato
ancora precluso.
«Edward» la sua
voce tremante permise a larga parte
della mia mente di concentrarmi su di lei. Si schiarii la gola, in un
vano
tentativo di apparire meno provata. «Sei
riuscito…?». Lasciò cadere la domanda,
certa che avrei compreso.
Ma la parte di me che molto spesso
emergeva, e che
desiderava in ogni modo proteggerla ebbe la meglio. «Stai
bene?» chiesi osservando
il suo incarnato pallido e tutti i segni di pronunciata astenia.
Le sue labbra si contrassero in una
posa stizzita. Non
amava che le facessi quel genere di domande, ma le trovavo di vitale
importanza. Accertarmi del suo benessere, della sua salute, rientrava
nel mio
istinto di auto-conservazione. Perché la sua vita era la
mia, e se non ci fosse
stata lei, non ci sarei potuto essere neppure io.
Eppure mi rendevo conto che per lei
era importante
conoscere la verità, era importante sentire come mi fidassi
di lei, come la
considerassi tanto acuta e intelligente da poter comprendere,
così le rivelai
quello che ero riuscito a leggere, tentando di essere il più
possibile
delicato.
Per tutto quel tempo avevo tentato
di proteggere la
sua fragile esistenza umana. Avevo cercato di evitarle ogni forma di
ansia o
stress. Carlisle, durante il primo trimestre di gravidanza, mi aveva
chiaramente detto che Bella era uno dei pazienti più
sensibili ed emotivi che
avesse mai avuto e che dovevo fare molta attenzione in questo
particolare
periodo, soprattutto per la natura ignota del feto. Ma poi era stato
lui stesso
a consigliarmi, anzi, ordinarmi, di rivelarle tutto. Proprio quando
ciò che
stavo cercando di evitarle la stava opprimendo.
«Tu…
hai… idea di quello che possa significare?»
chiese debolmente, arrancando con le braccia fra la coperta,
infastidita
dall’eccessivo calore.
Soffiai leggermente fra i suoi
capelli il mio fiato
freddo. Al contrario di quanto mi sarei aspettato, non avevo trovato
nulla nei
suoi pensieri che mi riportasse al terrore, all’angoscia,
alla paura che mi
aspettavo di trovarci. C’erano sensazioni intense, forti, ma
nulla di tutto
quello.
Dopo qualche secondo parlai.
«No, ci stavo pensando.
Ma l’unica conclusione a cui mi sembra di arrivare
è che la bambina non soffre,
sta sostanzialmente bene. Il resto mi rimane oscuro» mi
costrinsi a sorridere e
aggiunsi a suo beneficio, con la massima sincerità
«sono certo che con la tua
perspicacia arriverai alla verità molto prima di
me».
Lei abbassò lo sguardo,
distogliendolo da me.
Il suo gesto mi ferì,
facendomi comprendere quanto
l’avessi fatta soffrire, calpestando il suo orgoglio.
«Mi aspetto cose
eccezionali da te, amore. So che saprai sorprendermi, ne sono
certo» dissi, col
mo miglior tono persuasivo.
Si portò, piano,
entrambe le mani al ventre
arrotondato. Poi si voltò, fino a immergere il viso sul mio
petto. Aprì bocca,
come se volesse parlare, poi la richiuse. Aspettai paziente che dicesse
qualcosa, e quando pensai che non avrebbe più parlato mi
preparai a farlo io.
«Davvero?»
chiese piano, interrompendo le mie parole
sul nascere. «Davvero hai questa alta considerazione di
me?».
Chiusi gli occhi, dandomi mille
volte dell’idiota per
aver minato, per tutto quel tempo, la sua fragile insicurezza.
«Sai» cominciai,
modulando il mio tono in modo tranquillo e sicuro «non puoi
immaginare come mi
senta sollevato, ora che conosci tutta la verità.
Ovviamente» precisai «avrei
voluto che lo venissi a sapere in modo più…
tranquillo. Ma… nascondertelo… per
tutto questo tempo, è stato orribile» confessai
amareggiato.
Ripensai a poche ore prima, a
quando tutto l’universo
sembrava stesse per crollarmi addosso. Pensavo impossibile che tutto lo
spazio
infinito della mia mente fosse occupato da un solo pensiero, eppure era
stato
così, sempre più, per ben due mesi. Mi ero
paradossalmente sentito invecchiare,
corrompere dal tempo e dal male. Ero stato costretto a fingere, creare
infinite
maschere, che si assottigliavano man mano che lo spazio diminuiva,
evidenziando
agli occhi di mia moglie il mio tormento.
«Bella» dissi
carezzevole, convinto «tu sei stata la
prima, la sola, ad accorgerti che qualcosa non andasse in me. Neppure
Esme, o
Jasper, o ancora di più, Alice, sono riusciti a notarlo.
Questo dimostra quanto
tu sia perspicace» la fissai adorante, mentre i suoi occhi
ricambiavano
sorpresi il mio sguardo. «Sei stata una moglie
perfetta».
Mi avvicinai, posando le labbra
sulle sue, piano,
modellando il morbido contorno della sua bocca, «Davvero,
davvero perfetta»
mormorai roco, facendola arrossire.
Sorrisi, tentando di trovare
qualcosa che
l’allontanasse da quegli assurdi ed erronei pensieri.
«Anche quando mi tiravi
dietro le cose» feci divertito.
Si ricosse, e subito il sangue le
imporporò le guance.
«Oh, mi dispiace. L’ho già detto che mi
dispiace tanto? Mi dispiace Edward»
fece una pausa tra il fiume di parole «ti… sei
fatto male?» chiese,
torturandosi con i denti il labbro inferiore.
Scoppiai in una risata allegra e
ben presto anche la
sua, dolce e meravigliosamente imperfetta, mi raggiunse.
«Sul serio, mi dispiace
per aver urlato così» aggiunge
mortificata, accarezzando concentrata un lembo della mia pelle.
«Non so che mi
è preso» disse arrossendo.
Rabbrividii e i suoi occhi
tornarono nei miei. Le
accarezzai una guancia, ripensando a quando, mentre urlava, si era
macchiata di
vampate rosso sangue, insieme all’arteria sulla sua tempia
che non smetteva di
pulsare, insistente. «Non ti dovrei scusare per questo. Mi
hai fatto
preoccupare, non oso immaginare a che livelli possa essere salita la
tua
pressione e avevo il terrore che ti sentissi male da un secondo
all’altro».
Sorrise furba.
«Però Alice aveva ragione, quando ti
arrabbi dici sempre la verit…
Oh» esclamò d’un
tratto, sussultando e portandosi una mano alla pancia. Sentii
anch’io,
contemporaneamente, un accenno di pensiero provenire da mia figlia.
Quello che
era un primario input di movimento.
Portai una mano accanto a quella di
mia moglie, sulla pancia.
Confrontai questo semplicissimo pensiero con quello del sogno. Il primo
era un
basilare e semplice impulso, che raramente avvertivo nei pensieri di
altri
esseri, mischiato ad altri molto più complessi pensieri.
Quelli che sembravano
costituire ciò che avevo avvertito durante il sogno.
Decisamente, sembravano
due cose molto differenti.
Percepii un movimento ai bordi del
mio campo visivo e
il colore di una piccola mano sulla guancia. La strinsi a me,
sollevandomi in
piedi e tenendo il suo corpo fra le braccia. «Andiamo da
Carlisle. Ci
aspettano».
Feci rapidamente tre passi, poi mi
bloccai, osservando
il suo viso. Sembrava stanca e provata. «Te la
senti?» chiesi osservandola
«possono venire qui, se vuoi». Non volevo che mi
mentisse sulle sue condizioni,
ed era difficile controllare la mia parte apprensiva.
Sussultò, stranita.
«Sono sicura di farcela» fece
convinta, poi sorrise «e poi… Alice era tanto
contenta di festeggiare i cinque
mesi». Sembrava sincera, anche perché non sarebbe
mai stata capace di mentire
adeguatamente, così decisi di fidarmi.
Impiegai molto meno tempo di lei a
cambiarmi, e ne
approfittai per sistemare ogni cosa al piano superiore e pulire i cocci
rotti
degli oggetti che mi aveva lanciato addosso. Notai il gelato,
già mezzo sciolto,
sul tavolo, e sorrisi, sistemando tutto.
Ora che l’opprimente
inquietudine di dover mentire a
mia moglie mi aveva abbandonato, rimaneva quella dettata
dall’ignota causa del
malessere della bambina e suo.
«Edward» il
gemito stizzito di Bella mi costrinse a
correre da lei. La ritrovai incantevolmente vestita di un abito di
velluto blu,
un paio di calze pesanti avorio a fasciare le sue gambe snelle.
«Aiutami»
sbottò innervosita, saltellando e tentando di afferrare il
gancetto della
cerniera che chiudeva l’abito lungo la schiena.
«Aspetta»
mormorai delicato, intrappolando nelle mie
le sue mani frenetiche. Non appena le lasciai andare fece con le mani
una coda
dei suoi lunghissimi capelli, facendo arrivare una folata del suo
profumo
meraviglioso direttamente alle mie narici. Sollevai con
facilità la zip, e le
sfilai i capelli dalla mano, facendoli ricadere morbidi lungo la
schiena.
Sorrisi, poggiando il mento sulla sua spalla e le mani sulla piccola
pancia. Era
molto magra nel complesso, me ne accorgevo dalle braccia e dalle gambe
sottili,
oltre che dal viso magro. Aveva acquisito un discreto volume sui glutei
e sul
seno, che la rendevano ancora più desiderabile del solito.
Il pancione non era
eccessivo, anzi, leggermente piccolo per la sua età
gestazionale. Il secondo
trimestre l’aveva resa una piccola, tenera, incantevole dea
della fertilità.
«L’ho messo per
Alice» borbottò arrossendo «il
vestito. Sarà meno arrabbiata per il nostro
ritardo» i suoi occhi incontrarono
i miei e le mani corsero sul ventre, accanto alle mie.
Capii che voleva iniziare un altro
genere di discorso,
riferito a ciò che di più caro avevamo al mondo,
lo vedevo dallo sguardo
adorante con cui parlava di ciò che era rinchiuso dentro
sé. «Voglio che sia
tranquilla e che non corra alcun rischio, anche se ora so che non
soffre. Lo so
che per un po’ non potremmo
più…» arrossì «stare
insieme. Ma l’importate è saperlo. Lo
sopporterò per lei».
«Certo amore,
sì» asserii, comprendendo ancora una
volta quanto dovesse essere stato doloroso tutto quello per lei.
«Ti prego di
perdonarmi. Per tutte le volte che ti ho mentito» supplicai
afflitto, sapendo
al contempo di non meritare il suo perdono.
«Non importa»
si affettò ad aggiungere, ansiosa. «Ma
d’ora in poi mi dirai la verità Edward,
vero?» chiese voltandosi e prendendomi
il viso fra le mani.
«Te lo giuro»
affermai sincero. «Te lo giuro»
ripetei, avvicinandomi a baciandole la fronte rosea e
vellutata.
Durante il percorso in auto fu
piuttosto silenziosa.
«Edward» mi chiamò ad un certo punto.
Sentire il mio nome sulle sue labbra era
sempre una maraviglia. Mi inchiodò con il suo sguardo dolce.
«Ci hai ripensato
riguardo alla questione del… del pianoforte, delle
esibizioni?» chiese
titubante.
Sospirai, tentando di non
dimostrare la mia
irritazione. Non che il pensiero di suonare non mi allettasse, ma non
mi
attraeva particolarmente esibirmi davanti ad una platea di umani. E
decisamente
non mi sarebbe piaciuto separarmi da mia moglie. Decisi di rimanere
calmo. In
fondo, potevo ancora temporeggiare per molto. «Conosci le mie
motivazioni».
«Sì,
ma…» riprese, come se avesse trovato qualcosa che
potesse persuadermi «pensa a quanto sarei contenta vedendoti
suonare all’opera,
in smoking nero, con tutto il tuo splendore. Applaudirti insieme al
pubblico»
tratteggiò il ritratto incantevole, contemplandolo e
tentando di convincermi «e
poi, pensa ai miei. Dovrò pur dirgli che il loro genero si
sta cimentando in
qualcosa, no?».
Scossi il capo, con un sorriso
divertito, pur
riconoscendo la giustificazione delle sue parole.
Lei sospirò, lasciandosi
andare con la schiena sul
sedile e voltandosi verso il finestrino. Era per quello che era rimasta
taciturna? Per congeniare un piano per incastrarmi? Avevo ragione a
pensare che
fosse intelligente, considerando che ogni suo attacco si faceva
più marcato.
«Pensa»
sussurrò a bassa voce «pensa a quanto ne
sarebbe orgogliosa tua figlia».
Sentii un fremito di piacere a quel
pensiero, eppure
non mi concessi di pensarci troppo a lungo. Due
secondi dopo feci per contraddirla in
qualche modo, ma capii che non sarebbe stato necessario quando la
sentii
respirare lentamente nel sonno. Evidentemente il silenzio, oltre che
alla riflessione,
era dovuto alla stanchezza. Molto probabilmente la crisi di poco prima
le aveva
portato via molte energie.
Accesi il riscaldamento,
considerando che era
addormentata e che non avrebbe potuto lamentarsi del caldo, come faceva
di
solito. Ancora non riuscivo a capire come non si ammalasse mai, pur
stando così
tanto tempo a contatto con il freddo, da lei tanto amato. Scossi la
testa,
sorridendo. Poi la osservai, distesa sul sedile, per nulla offuscata ai
miei
sensi dall’oscurità della sera.
Immediatamente le immagini di tre
giorni fa
riaffiorarono nella mia vivida memoria.
Avevo seguito con attenzione i suoi
movimenti finché
la mia mente non era stata occupata dai pensieri altrui. Come al solito
avevo
tentato di scacciare quelle congetture che riuscivano a causarmi solo
dolore e
di non dimostrare la mia lotta interiore. Proprio in
quell’istante mi ero reso
conto che qualcosa non andasse in Bella.
«Bella? Amore?»
l’avevo chiamata, tentando di farla
voltare verso di me, sentendo il suo cuore battere veloce nel petto e
il
respiro farsi sempre più corto. Il terribile sospetto si era
già insinuato in
me. «Ti senti male? Bella?», quando il suo volto fu
davanti al mio ne ottenni
la conferma. I suoi occhi erano neri.
«Dannazione»
avevo imprecato fra i denti, sentendomi
incredibilmente morire all’idea di quello che stava
accadendo. Era sveglia,
accidenti! «Bella, Bella, sono qui, mi senti?»
avevo chiesto frenetico,
stringendola a me con un braccio, appena aveva iniziato a rantolare.
Quello andava ben oltre
ciò che avrei potuto
accettare. Ben oltre ciò che la mia mente vampira potesse
contenere.
Mi accorsi dell’auto solo
quando ci fu quasi addosso.
Guardai il viso di mia moglie
disteso nel sonno.
Eravamo arrivati, ma non sarei riuscito a svegliarla, non ancora, non
quando
dormiva così dolcemente. Non quando le gote le si
imporporavano di un lieve e
profumato rosato ad ogni respiro, ritmato dal movimento delle sue
piccole e
sbilanciate labbra umide.
Negli ultimi tempi era stata molto
in ansia, e non
potevo far finta di credere che non fosse stato a causa mia. Ero
pentito di
averle nascosto la verità, di avergliela rivelata in maniera
così brutale…
Sospirai. Lei era stata un angelo, invece. Un angelo che non meritavo.
Carlisle aveva immediatamente
notato il suo stato di
forte tensione, non appena l’avevo portata da lui per avere
la conferma che
fosse avvenuto quello che immaginavo, e che sia Bella che la bambina
stessero
bene.
«Edward,
voglio
controllare» aveva pensato, e mi ero spaventato
ancor di più avvertendo il
tono teso persino nella sua voce «tutto
questo le sta causando molto stress, e ho paura che
l’andamento della
gravidanza possa risentirne. Voglio anticipare la visita».
Dentro di me era nata una nuova,
forte, tensione.
Avrei voluto sapere come stesse, ma avevo anche bisogno di parlare con
Carlisle, solo, per valutare l’evolversi della tragica
situazione. Mi si era
spezzato il cuore quando avevo dovuto lasciarla sola, e avevo sperato
con tutte
e forze che la bambina colmasse un po’ di quel vuoto.
«Edward» mi
aveva rimproverato mio padre con tono
deciso «non puoi tenerle ancora nascosta la
verità, ne sta soffrendo molto. Più
di quanto ne soffrirebbe se la conoscesse», poi aveva
aggiunto, in tono più
mite «devi dirglielo figliolo, per il vostro bene».
«Lo so» avevo
mormorato.
Scesi velocemente
dall’auto, ritrovandomi in un
diciottesimo di secondo davanti alla portiera destra. L’aprii
senza far rumore
e slacciai piano la cintura di sicurezza, attento a non svegliarla.
Valutai la
differenza di temperatura con l’ambiente esterno e decisi di
prendere una delle
coperte che stavano sul sedile posteriore, sollevandola fra le braccia
e
avvolgendola completamente dentro.
Strinsi con una mano la sua testa
sulla mia spalla,
chiudendo con facilità la portiera e avviandomi verso il
vialetto, beandomi del
tepore del suo corpo sul mio, rassicurante. Sentivo già i
pensieri dei miei
familiari, piuttosto distinti fra loro, tutti trepidanti del nostro
arrivo.
Avvertivo ancora molta tensione,
considerando che
stavo per rivelare qualcosa di sconcertante alle persone a me care. Ma
lo
scoglio più difficile era stato superato, ora Bella sapeva
tutto, e non c’era
nulla che potessi temere così tanto.
La sentii mugugnare qualcosa, e la
sua mano strinse il
mio maglione. «Edward» biascicò, aprendo
gli occhi «ho caldo…». Sbatté
le
palpebre, guardandosi intorno per quando riuscisse con
l’impedimento della
coperta. «Dove siamo?».
Capii che una risposta non era
necessaria quando mise
a fuoco il portone della casa.
«Fammi
scendere» sussurrò solo.
«Sei sicura?».
Annuì e subito
l’accontentai, mettendole una mano
sulla vita. Si stropicciò gli occhi, sbadigliò, e
mi sorrise, con gli occhi
lucidi.
Sorrisi anch’io,
baciandole la fronte.
«Edward, Bella»
ci salutò Esme, venendo ad aprirci
alla porta. «Entra cara, fuori fa freddo».
Prima ancora delle parole, mi
giunsero i pensieri
infuriati di Alice. «Traditori! Avete fatto un ritardo
terribile!» ci additò,
correndo a sedersi accanto a suo marito, sull’ultimo gradino
delle scale. Eppure,
nella sua mente, vorticava anche la preoccupazione. Aveva intuito,
grazie alle
sue visioni incomplete, che fosse accaduto qualcosa di strano.
«Mi dispiace, scusa. Non
era nostra intenzione»
sussurrò Bella, posando la testa sul mio fianco, non appena
Emmett smise di divertirsi
con la sua pancia.
Carlisle si mise in piedi, facendo
passare lo sguardo
da me a lei. «È successo
ancora?»
pensò, osservando allarmato il pallore sul volto di mia
moglie, decisamente
marcato per l’attenzione di un vampiro, soprattutto per un
medico.
Esitai, incerto su come rispondere,
e fu allora che
notai gli occhi attenti di mia moglie su di me. «Edward,
posso…» avvicinò la
sua mano alla mia in un gesto inequivocabile, così
intrecciai le dita. «Posso
raccontarlo io se vuoi».
Mentre tutti i vampiri prestavano
attenzione alle parole
di Bella, curiosi, Carlisle la fissò sorpreso, poi
capì. «Ben fatto, figliolo»
pensò soddisfatto.
Lasciai che cominciasse a spiegare
a tutti, mentre la
guardavo, orgoglioso della sua determinazione. Riuscii man mano ad
inserirmi
nel discorso e a prendere in mano la situazione. Vedevo le facce
sgomente della
mia famiglia, leggevo, addirittura, i loro pensieri, ma continuavo a
raccontare, perché sapevo che era la cosa giusta da fare.
Perché Bella era lì,
seduta accanto a me, a sostenermi.
«Ma vuol dire che la
bambina riesce a influenzare
Bella in questo modo? E cosa c’entra Jacob? E
perché soffre?».
«Rosalie, tempera la tua
audacia» rispose Carlisle
«credo che queste domande siano ancora irrisolte anche per
loro».
«Non è proprio
così Carlisle. In realtà sappiamo più
di quanto tu non sappia già» i suoi occhi si
spostarono su di me e si chiusero
in due fessure, curiosi, così come i suoi pensieri.
«Tutto è cambiato, dopo che
Bella è riuscita a sentirla» dissi soddisfatto,
accarezzandole la pancia.
Sentii un attimo di vuoto nella
mente di Rosalie.
«L’hai sentita muoversi?»
chiese a
Bella.
Lei mi lanciò
un’occhiata, stringendosi a me e
arrossendo. «Beh, in realtà l’abbiamo
sentita. Anche Edward» gli occhi e i pensieri di tutti si
spostarono su di me
«lui ha sentito i suoi pensieri».
«Oh ma è
meraviglioso!» esclamò Esme adorante,
abbracciandola. Poi si ritirò, guardandoci addolorata.
«Ma ragazzi, cosa
intendete fare ora con il problema della bambina
e…» assottigliò lo sguardo su
di me, pensando a come e perché avessi deciso di rivelare a
Bella la cosa dopo
tanto silenzio, considerando che avevo omesso la nostra piccola
discussione, «è
questo che ci tenevi nascosto?» il suo viso saettò
inevitabilmente verso suo
marito. Leggevo nei suoi pensieri che aveva chiaramente intuito quanto
fosse
coinvolto.
Lui stesso le prese una mano fra le
sue, stringendola,
e si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole qualcosa.
Distolsi l’attenzione
per qualche istante, attento a non invadere la loro privacy.
Jasper stava tentando
disperatamente di trovare un
collegamento, nelle nostre parole, fra i movimenti della bambina e i
suoi
sogni.
«Bella ha avuto un
interessante intuizione» dissi,
rispondendo ai suoi pensieri e facendo nuovamente tornare
l’attenzione di tutti
su di me. «Sono riuscito a leggere i pensieri della bambina
durante uno dei
sogni».
«Oh… oh… che
cosa interessante!» esclamò Alice, leggendo
nell’immediato futuro.
«Già, lo
è» mormorò Bella, accarezzandosi la
pancia
«non è fantastico che pensi a queste cose? E poi,
Edward dice che non soffre»
aggiunse concitata, fissando i miei occhi per cercare la
verità, «che non sono
pensieri tristi. Così… così va
bene» disse annuendo a sé stessa
«possiamo
capire tutto con calma» sentii la sua voce vibrare in punti
strani.
Presi il suo viso fra le mie mani e
lo strinsi,
tentando di comprenderla. «Ma… soffri
tu» dissi piano, sollevando un
sopracciglio.
Sussultò distogliendo lo
sguardo, lievemente
attraversato da una patina lucida. «Non importa visto che non
ricordo nulla»
disse velocemente, mordendosi il labbro, nervosa.
Feci per rispondere, ma fui
interrotto dalla pressante
curiosità degli altri. «Cosa hai
sentito?» chiese Rosalie.
Sospirai, accingendomi a raccontare
ogni cosa come già
avevo fatto con Bella. Tutti iniziarono a ipotizzare possibili
spiegazioni, ma
neppure una riusciva a convincermi. Lei stava sostanzialmente in
silenzio,
probabilmente ancora molto stanca.
«Ma i sogni non
potrebbero semplicemente appartenere
alla bambina e alla sua natura? In
fondo
il nome pronunciato da Bella potrebbe dipendere unicamente da lei e
dalle
emozioni che sente» propose Alice.
«In effetti, abbiamo
già notato un processo simile
tempo fa, quando la bambina irruppe nei suoi pensieri, no?»
rimarcò Rosalie.
Jasper annuì.
«È vero, la bambina sfrutta le emozioni
di Bella in maniera singolare!».
Tutti, dopo aver appreso la
notizia, si stavano dando
da fare per scoprire la verità. Avevo letto nei loro
pensieri un certo
rimprovero nei miei confronti, più che per non aver rivelato
la verità a loro,
per non averlo fatto a Bella. Subito dopo avevo letto la comprensione,
l’immedesimazione, nel caso che una cosa del genere fosse
avvenuta al loro
rispettivo compagno; infine il senso di colpa per non aver capito tutto
prima.
«Pensate che non possa
più stare in pubblico, insomma,
se le accadesse mentre è fra gli umani?»
continuò Jasper.
Bella, accanto a me,
sussultò, stropicciandosi gli
occhi e riprendendosi dal torpore.
«È
un’ipotesi a cui abbiamo pensato, con Edward in
queste settimane» intervenne Carlisle «ritengo che
Bella, ora che sa quello che
potrebbe accadere, sarà molto più vigile.
Inoltre, penso che dipenda anche in
larga parte dalla vicinanza di Edward, quindi non penso che sia
necessario. Possiamo
sempre prendere una decisone in base a quello che succederà,
ma tenerla
segregata potrebbe peggiorare il suo stato emotivo al punto da rendere
queste crisi
più gravi e frequenti».
Bella gli sorrise, timida e grata,
accovacciandosi
nuovamente contro di me, assonnata.
«Edward, forse
è davvero arrivato il momento di
riprendere gli antidepressivi» pensò
Rosalie preoccupata, guardando Bella,
«potrebbero aiutarla».
Lei si accorse del suo sguardo e di
come io la fissavo
di rimando. Non disse nulla, si voltò, addolorata. Aveva
capito che stavamo
parlando di lei e non voleva entrare in quella conversazione
silenziosa.
«Tesoro» la
chiamai dolcemente.
Battè le palpebre, frastornata,
voltandosi lentamente verso
di me. Avrebbe ascoltato e forse accettato qualunque cosa le avrei
chiesto. Mi
aveva promesso che se ce ne fosse stato nuovamente bisogno avrebbe
ricominciato
a prendere i farmaci. I suoi occhi assonnati ma luminosi e attenti mi
fissavano, aspettando che parlassi. Chinò il capo di lato,
studiandomi. La sua
mente era muta e avrei dato tutto me stesso per capire cosa stesse
pensando.
Dovevo parlare, prima che le sue ipotesi la conducessero a della
conclusioni sbagliate.
«Rosalie
pensava» iniziai molto cautamente, piano «che
potrebbe essere un’idea quella di riprendere la tua terapia
anti-depressiva».
Non riuscì a trattenere
un sussulto, e ai bordi delle
ciglia si addensarono delle minuscole goccioline. Però
annuì, quieta, senza
distogliere lo sguardo da me.
Sospirai. Gli antidepressivi la
facevano stare
piuttosto bene, avevamo trovato un dosaggio ottimale per lei. Le
toglievano un
po’ di appetito e a volte la facevano dormire un
po’ troppo. Lei diceva di
sentirsi rallentata, ma tutto sommato per gli effetti benefici che le
davano
erano ottimi per lei. Ma lo stato mentale in cui si metteva
all’idea di aver
bisogno di un aiuto farmacologico per stare meglio era per lei
deprimente.
Sentiva come di aver fallito.
Rosalie si fece avanti, sorpresa
che avessi voluto
dirglielo. «Potrebbero aiutarti a controllare le
manifestazioni che ti danno
queste crisi».
Annuì, non riuscendo a
mascherare la sua tristezza. Mi
fissò di sottecchi, cercando di farsi forza. Sapevo anche
senza leggerle i
pensieri che non si stava preoccupando per lei. Non voleva che io
la
vedessi durante le crisi. «Va bene, lo
farò» acconsentì mestamente, con un
minuscolo forzato sorriso sulle labbra.
Scossi il capo, stringendola a me.
Non volevo che lo facesse
per quella motivazione.
«Se posso»
intervenne Jasper «penso che il tono
dell’umore e la stabilizzazione emotiva di Bella siano molto
migliorate
nell’ultimo mese. Sta andando molto meglio con gli esercizi.
Dobbiamo ancora
lavorare molto dal punto di vista dell’ansia e del
panico» aggiunse senza mezzi
termini, con la schietta sincerità da cui era caratterizzato
«ma personalmente
penso di poter continuare a gestire la cosa. Non l’hai
riscontrato anche tu?»
domandò a Rosalie.
Annuì.
«È come ha detto lui. Sono
l’ansia e il
panico che mi preoccupano, però. Possiamo ancora aspettare.
So che lei pensa
che sia un fallimento riprendere la farmacoterapia»
aggiunse nei suoi
pensieri, poi sorrise a Bella «Ci lavoreremo ancora. Non
iniziamo subito, ma
non scartiamo nessuna delle ipotesi, va bene?».
Ma mia moglie non rispose. Si
voltò verso di me,
ansiosa, come se avesse bisogno del mio permesso.
Le carezzai i capelli e le sorrisi,
cercando di
infonderle coraggio. «Penso che aspettare ancora sia la
scelta più saggia».
Prese un minuscolo respiro,
abbracciandomi e
lasciandosi andare con il capo, stanca, contro il mio petto.
La carezzai, sentendo il ritmo del
suo cuore
rallentare pian piano fino a calmarsi.
«Edward,
le
porto qualcosa da mangiare, non va bene che salti la cena…
preferisci la sala
da pranzo?» i pensieri di Esme mi distolsero dalle
loro congetture.
Mi voltai verso mia moglie,
sistemandole una ciocca
ribelle di capelli. «Ti va di mangiare?».
Sospirò, stringendo in
un pugno il vestito
sull’ombelico.
Fu come una scintilla accesa in una
camera a gas. Mi girai
di scatto verso Esme quando i suoi pensieri mi arrivarono veloci come
flash,
tutti riferiti a tre giorni prima. «Esme
ti prego, non ho fame… Lo so che devo mangiare, ma non mi
va… Per la bambina, sì…
- un singhiozzo, un’altra stanza, quella di Esme e Carlisle -
Edward non mi
vuole più… Non so cosa fare…
È così… Non è vero che mi
ama ancora, non sono
capace di aiutarlo… - parole annaspate fra le lacrime e gli
ansiti, occhi
tristi e spenti» sentii una morsa stringermi lo
stomaco e un bruciore,
molto più forte di quello della sete, pervadermi la gola.
Esme sussultò,
rendendosi conto del suo piccolo errore
«No, no, ti prego! Non dire nulla a
Edward, no… Non potrei sopportare di vederlo soffrire a
causa mia…». Mia
madre scosse la testa, correndo via e tentando di cancellare i suoi
pensieri «Mi
dispiace» mormorò afflitta.
Era accaduto tutto così
velocemente che Bella non
aveva avuto il tempo di accorgersi di nulla. Per quanto già
sapessi del dolore
che le avevo causato mantenendo il silenzio, non mi sarei mai aspettato
che fosse
arrivato a quei livelli. Ero sbigottito, ancora non riuscivo a
riprendermi
dall’angoscia.
«Sì, mangio. O
penso che mi addormenterò da un secondo
all’altro» scherzò debolmente,
sollevando il viso dalla pancia. Rabbrividì
quando vide i miei occhi. Guardai la mia espressione attraverso i
pensieri dei
miei familiari e ci vidi tanta tristezza.
Mi imposi un respiro e mi sollevai
cauto, porgendole
una mano per aiutare a fare lo stesso. L’afferrò,
tremante, continuando a
guardarmi. La condussi fino in sala da pranzo e mi sedetti su una
sedia,
facendola sistemare su di me.
Intrecciai le mie dita nei suoi
capelli e tirai la sua
testa verso di me, inspirando il suo odore dissetante. Lei rimaneva in
silenzio, tremante, e dovetti parlare quando mi accorsi che la stavo
spaventando.
«Bella»
cominciai piano, addolorato «penso di meritare
ben più insulti di quanti ne sappia io stesso formulare.
Sono stato un
terribile idiota. Uno sciagurato. Un empio. Meschino, misero,
disgraziato…».
«Edward» mi
richiamò sorpresa «non dire così, te ne
prego. Sei quanto di più bello c’è nel
mio mondo».
Scossi il capo, sorridendo
amaramente. «Ti ho fatto
del male. Ti ho nascosto tutto, per tutto questo tempo».
«Non mi va che ci pensi
ancora, Edward» mi fissò, e
nei suoi occhi vidi ancora dolore, eco del mio. Prese un respiro corto
fra le
piccole labbra. «Dimmi che non ci penserai più,
è tutto passato ora, ti prego».
Valutai nuovamente la situazione,
con calma, scrutando
i suoi occhi. Esternando il mio pentimento la stavo facendo ancora
soffrire. E
non era, di certo, quello che volevo. Ma come avevo fatto ad essere
così… così…
Chiusi gli occhi, facendo toccare la mia fronte con la sua, pensando
che non
potevo più far nulla per correggere i miei errori. Sarei
vissuto con il rimorso
per l’eternità, probabilmente. Ma almeno, ora,
dovevo tentare di non farne di
nuovi. «Ti amo» mormorai solo.
Lei fremette, e finalmente capii di
aver fatto la cosa
giusta, per una volta. Quanto avesse bisogno di nuove certezze, di
sentire
ancora forte il mio amore. «Me lo puoi dire
ancora?» chiese, come se stesse
confessando un delitto.
«Ti amo» dissi
semplicemente, aprendo gli occhi e guardandola.
Si avvicinò, lasciando
un bacio sulle mie labbra. «Ti
amo anch’io».
Pensai che sarebbe stato inutile
continuare a
discutere di quello che era stato. Volevo d’ora in poi
aiutarla a costruire
nuove certezze, farla sentire amata, protetta, desiderata.
Bella e splendente, proprio come appariva ai miei
occhi. Una dea. «Sei bellissima» sussurrai,
osservando lo scintillio brillare
nei suoi occhi vispi. «Bellissima, intelligente, amorevole.
Delicata… così
preziosa» sorrisi, infondendole tutto il mio amore.
Arrossì, aprendo le
labbra ma non emettendo alcun
suono.
La baciai piano, sentendo il suo
cuore aumentare di
battiti. Sentii che la bambina si era mossa e sorrisi sulle sue labbra,
e lo
stesso fece lei.
L’amavo, oh, se
l’amavo.
In quel momento i pensieri di Alice
si fecero
incredibilmente bui. Due secondi più tardi il telefono
squillò.
«Cosa succede?»
chiese Bella, preoccupata, notando la
mia rigidità e staccandosi da me.
Sputai la parola fra i denti.
«I licantropi».
Ultimamente si erano avvicinati sul
limitare del
bosco, facendo incerti e tesi avanti e indietro. Volevano parlare con
Bella e
volevano che non ci fosse nessun altro oltre a lei. Leggevo nei loro
pensieri
che non vi era alcuna minaccia, così non me ne ero
preoccupato più di tanto, ma
non l’avrei mai lasciata sola con loro. Ringhiai. Sarebbero
dovuti passare
sulle mie ceneri.
Lei, senza dire nulla, si
sollevò, correndo verso il
soggiorno, dove c’era la mia famiglia e il telefono, da dove
proveniva il
suono. In un secondo le fui accanto.
Posò una mano su quella
di mio padre, tesa per
rispondere. «Fate parlare me» disse concitata.
La guardammo tutti straniti.
Ricambiò il nostro
sguardo, supplice. «Vi prego. Non
mi potranno fare nulla di male per telefono. E magari potremmo chiarire
una
volta per tutte questa seccatura, almeno questo!»
pregò, mordendosi il labbro
inferiore.
Carlisle si voltò verso
di me, incerto se lasciare che
Bella afferrasse la cornetta. «Ha
ragione».
Sbuffai, seccato. Non mi andava che
lo facesse. Non
volevo che le dicessero qualcosa che potesse urtare la sua
sensibilità. E poi,
perché chiamare con un telefono? Mi pareva un mezzo
così poco ortodosso per una
comunicazione fra creature leggendarie. Perché tutta quella
insistenza?
«Edward» mi
supplicò Bella. Strinsi le labbra, ma
annuii. Veloce, per la sua velocità umana, si
affrettò a rispondere, non appena
mio padre le ebbe lasciato spazio libero.
«Pronto?» fece
tremante.
«Bella,
sei tu?»
era la voce potente di Sam Uley,
l’alfa.
«Sì,
sì, sono io. Cosa… che
c’è?» chiese, guardandomi
per trovare una sorta di conferma. Mi avvicinai, stringendole una mano
e
rassicurandola.
«Vogliamo
parlare, solo parlare, con te. Decidi tu, quando e dove. Dì
ai tuoi… vampiri»
non mi sfuggì la naturale nota di disprezzo con cui ci aveva
nominati «di rimanere lontani».
Un ringhio basso mi salì
dalla gola.
«Se lo
scordano!» sbottò Emmett, dall’altra
parte
della stanza.
Bella mi fissò tremante,
incerta. «Edward…» cominciò.
«No» scandii solo. Presi un respiro,
pensando di essere
stato troppo duro. «Non credo sia affatto una buona
idea» le misi una mano
sulla pancia e lei sussultò «naturalmente spetta
anche a te decidere».
Sospirò, poi
annuì, riluttante, comprendendo le mie
parole. «Non puoi dirmi qui quello che mi devi
dire?» soffiò nella cornetta.
«No» disse decisa la voce
dall’altra parte. «Se vuoi
sapere dovrai incontrarci. Vuoi
sapere?».
Sospirò, nuovamente
incerta. Passò in rassegna tutti i
volti degli altri vampiri nella stanza. Poi posò una sua
mano sulla mia, sulla
pancia, appoggiandosi a me. «No».
«Bene,
in tal
caso giuro sul mio branco che non vi disturberemo più. Bella»
salutò.
Due istanti dopo la conversazione
era muta.
*
Bella
Sospirai, seccata, intrecciando le
gambe. «Questa
è una bella seccatura» sibilai,
rivolta a mio marito.
Lui era seduto e perfettamente
composto con la schiena
diritta e le gambe incrociate sul tappetino blu. Sorrise. «Mi
sembra che tu me
l’abbia già detto».
Feci schioccare la lingua, seccata,
ricomponendomi non
appena l’istruttrice, passandoci accanto, mi
lanciò un’occhiataccia.
Ero stata obbligata a frequentare
un assurdo corso
“pre-parto simil yoga”. Beh, quasi
obbligata. I patti erano che io sarei andata al corso insieme a Edward
- e non
avrei ricominciato a prendere gli antidepressivi -, e lui avrebbe
accettato di
esibirsi all’opera. Aveva diminuito la frequenza delle
esibizioni rispetto allo
standard, ma aveva già inviato alcuni suoi Demo musicali.
Ovviamente, accecata
dall’entusiasmo per il suo consenso, non avevo adeguatamente
riflettuto sulle
implicazioni di un corso pre-parto.
Tuta vuol dire palestra, che vuol
dire ginnastica, che
vuol dire avere l’equilibrio che non avevo. Come avevo potuto
non pensarci
prima? Forse perché la mia mente era affollata da mille
altri pensieri…
Le parole
dell’istruttrice volteggiarono melliflue,
senza disturbare l’atmosfera zen. «Inspirate
l’aria con lentezza ed espirate
con la bocca, spingendo con il diaframma. Il dolore è in
gran parte
suggestione. La contrazione passerà presto, continuate a
ripetervelo».
«Ma io non ho le
contrazioni! Perché devo pensare di
non averle se in effetti non le ho! È assurdo»
mormorai, inclinandomi
leggermente verso l’orecchio di Edward.
Si lasciò sfuggire un
sorriso divertito. «Bella, sta
tranquilla e rilassati»
l’ultima
parola fu come una nenia, una nenia che avevo sentito troppo spesso
nell’ultimo
periodo.
«Oh
certo. Dovrò anche fare
un cesareo, mi spieghi a che serve un preparto?» sbottai
infastidita, sentendo
la curiosità provenire da mia figlia.
Aprì bocca per
ribattere, accigliato, ma poi si voltò
a guardare l’istruttrice che ci fissava adirata. Arrossii, e
ricominciai
stupidamente a respirare.
Il fatto principale per cui non
volevo fare il corso,
oltre all’umiliazione che sentivo di arrecare alla mia
persona, era che secondo
me avevamo altri problemi più impellenti di cui
preoccuparci. Ma tutti
sostenevano il contrario! Rosalie era convinta che il corso sarebbe
stata
un’esperienza stupenda. Jasper diceva che fare yoga era
ottimo per imparare a dominare
le emozioni della bambina e non farmi controllare dai suoi sogni.
Carlisle,
persino, sosteneva che avessi bisogno di essere preparata al parto.
Tutti erano sereni, ostentavano
tranquillità.
Bisognava risolvere il problema dei sogni? Bene, si poteva fare
tranquillamente. In fondo, erano i sogni della bambina! Edward aveva
rivisto
infatti le stesse immagini, anche se meno nitide, durante il mio sonno,
e poco
ci mancava che replicassimo l’esperienza… induttiva.
Infatti, da parte di entrambi, contenersi diventava sempre
più complesso. Nonostante
questo notavo come anche lui fosse sempre più
tranquillo e rilassato. Magari, il senso di ricerca che avvertiva nella
bambina
era insito nella sua giovane natura, così aveva detto.
Io invece vedevo tanti problemi. E
l’esempio più
eclatante, il problema di licantropi, che per tutti sembrava superato,
io
cominciavo ad avvertirlo come una spina nel fianco. E
l’università! Oh. C’erano
così tanti esami da fare e così poco tempo. Era
vero, non c’erano
preoccupazioni impellenti per la bambina. Lei stava bene,
l’avevo riconosciuto
io stessa.
Ma proprio fare questo corso mi
pareva totalmente
inutile! Una colossale perdita di tempo.
Inoltre avevo maturato una certa naturale
ritrosia a dormire,
pensando a quello che sarebbe avvenuto durante il sonno, e la frequente
insonnia aumentava il mio già incredibile nervosismo. Jasper
mi aveva ripetuto
che così non andava bene, che presto le emozioni della
bambina sarebbero potute
sfuggire al mio controllo e così anche Edward aveva iniziato
ad insistere per
il corso preparto. Non mi avrebbe fatto di certo male, aveva detto.
«Intrecciate le braccia e
spingete dolcemente sulle
ginocchia. In questo modo eserciteremo i muscoli del bacino…
no signora Cullen,
così non va bene». Oh, ecco
un’umiliazione in arrivo.
L’istruttrice mi si
avvicinò, squadrandomi, mettendosi
le mani sui fianchi. «Sbaglia la posizione delle mani, il
ritmo è troppo
veloce, i gesti troppo bruschi e non allena i muscoli giusti. In questo
modo
non sta tendendo nulla, anzi, rischia uno stiramento
muscolare!».
Arrossii, sentendo gli occhi di
tutte le altre
gestanti e dei loro mariti su di me. M’imbronciai, sollevando
le mani dalle
ginocchia, sentendo un colpetto provenire da mia figlia. Mi voltai a
guardare
Edward, che mi rivolse un piccolo sorriso d’incoraggiamento.
L’istruttrice si
piegò sui talloni, posando le mani
calde sulle mie gambe, infastidendomi per quel contatto così
ravvicinato. «Così,
deve fare una lieve pressione verso l’esterno. La sente ora?
Sente i muscoli
allungarsi? Nota la differenza con quello che stava facendo
lei?».
«Sì,
noto» borbottai, mordicchiandomi il labbro
inferiore, sentendo l’irritazione crescere e mischiarsi con
quella della
bambina, mentre continuava a toccarmi.
Le altre clienti si voltarono e
ricominciarono a
seguire le parole di un’altra istruttrice, mentre la bruna
che parlava con me
mi guardava negli occhi con convinzione. «Se non esercita
questi muscoli non
riuscirà a fare spinte abbastanza forti al momento del
parto». Non c’era più
rimprovero nella sua voce, solo attenzione e
professionalità. Eppure
continuava a toccarmi.
Appena mi sfiorò la
pancia mi ritrassi, facendo
accidentalmente scivolare una sua mano più in alto sulla
gamba.
«Ahi» sussultai, stringendo le gambe,
non appena sentii una
piccola fitta ai muscoli della coscia.
«Bella?» chiese
Edward allarmato, stringendomi una
mano.
Gli occhi tondi
dell’istruttrice si addolcirono. «Mi
dispiace, le ho fatto male?» chiese mortificata.
Mi passai una mano fra i capelli,
scuotendo la testa.
«Non fa niente» mormorai tesa «non
è colpa sua».
«Tutto bene?»
incalzò Edward.
Annuii, ricominciando a seguire la
lezione, solo per
avere un pretesto per allontanare l’attenzione da me e dal
mio comportamento. Mi
fissò per un istante ancora teso, poi mi
assecondò.
«Rilassati» mi
sussurrò ad un orecchio, entrambe le
mani posate sul mio ventre.
Dopo il piccolo incidente con
l’istruttrice, le cose
erano andate decisamente migliorando. Forse semplicemente per evitare
che
qualcun altro si avvicinasse a toccarmi la pancia con le sue mani
fastidiosamente calde mi ero prefissa di impegnarmi maggiormente in
quello che
facevo. Man mano ero riuscita a dare sempre più ascolto ai
consigli di Edward,
estraniarmi da quelli che reputavo problemi, e concentrarmi su di lui.
Odiavo
ammetterlo, ma l’esercizio che stavamo svolgendo attualmente
mi piaceva
moltissimo. Edward stava dietro di me, seduto sul tappetino, ed io ero
seduta
fra le sue gambe. Lasciavo che mi toccasse la pancia e facevo anche gli
stupidi
movimenti con le mani.
«Così, sei
bravissima» sospirò, baciandomi il collo.
«Edward» lo
rimproverai, divertita, pur godendomi
senza ritegno le sue carezze «ci guardano tutti, non vorrai
dare spettacolo?».
«Visto che non era
così male?». Sentii il suo sorriso
sulla mia pelle. «Stai sorridendo, ed è questo
l’importante. L’importante è che
le mie due principesse stiano bene, siano tranquille, serene,
amate…».
«Così, bravi,
espirate piano. Perfetto, per ora basta
con gli esercizi! Passiamo nella sala bianca in cui potremmo discutere
serenamente, potrete conoscervi, e fugare ogni vostro dubbio sulla
gestazione e
sul parto, seguiteci» l’istruttrice bruna, che
avevo scoperto chiamarsi Karen,
procedette verso una porta a vetri, ampia e luminosa, facendo
svolazzare il suo
saio verde smeraldo.
Tutte le coppie si sollevarono dai
rispettivi
tappetini della grande sala ampia, luminosa, calpestando il parquet e
continuando a rimirare le decorazioni di fiori di pesco sulle pareti.
Mi voltai verso Edward, baciandolo
assetata sulle
labbra fresche. Rispose al mio bacio con la stessa audacia,
intrappolandomi fra
le sue braccia e facendo entrare le dita da sotto la felpa.
«Ci… ci dobbiamo
fermare» ansimai, baciandogli e mordicchiandogli
ripetutamente la mascella. Mi
strinse più forte immergendo nuovamente le labbra sulle mie.
Non potevamo permetterci di farci
prendere nuovamente
da un impeto di passione, anche se la cosa era così
dannatamente affascinante! Ma
ci eravamo già troppe volte avvicinati a quello che sarebbe
stato un punto di
non ritorno per entrambi. Dovevamo stare più attenti. Anche
perché, se quella
mano fosse scesa più in basso…
«Basta»
farfugliai, riaprendo gli occhi e bloccandomi.
Anche lui fece cessare i suoi movimenti, senza fiato come me. I nostri
petti si
scontravano veloci.
Mi sorrise, sistemandomi i capelli
che lui stesso
aveva spettinato. Mi feci scivolare accanto a lui, in modo che potesse
abbracciarmi senza fare del male alla bambina. Chiusi gli occhi e mi
imposi di
non baciarlo ancora, poggiando la testa sul suo petto. Ogni volta
diventava più
difficile e non sapevo quanto ancora saremmo stati capaci di fermarci.
«Dobbiamo andare. Gli
altri ci aspetteranno» mormorò
quando entrambi i nostri respiri si furono regolarizzati.
«Mmm,
non mi va. Voglio
rimanere qui con te» protestai sul suo petto.
«Stavo così bene».
Non si lasciò sfuggire
l’occasione di rispondermi.
«Visto che il corso non è così
male?».
Sbuffai, staccandomi da lui e
sollevandomi lentamente,
ancora intontita per il nostro momento di debolezza. «Edward
io non dico che è
brutto, solo» sospirai, seccata «mi pare di perdere
così tanto tempo!».
Si sollevò agevolmente
da terra, avviandosi al mio
fianco verso la porta a vetri. «Non c’è
nulla di più importante da fare»
ribatté tranquillo.
«Sì
invece!» protestai a bassa voce, stringendo i
pugni. «Per esempio, dobbiamo trovare il motivo di questi
strani sogni»
affermai, indicandomi la pancia «per esempio, dobbiamo capire
cosa vogliono i
licantropi! Oppure, in ogni caso, potrei studiare! Sai che sono
indietro col
programma».
Scosse la testa, sorridendo
benevolo. «Sai che stanno
già investigando gli altri. I licantropi non vorranno niente
più che illustrarti
una stupida leggenda, e proprio ieri hai dato tre esami».
«Ma ci sono tante altre
cose che…».
«Bella»
m’interruppe, voltandosi e prendendomi la
testa fra e mani. Mi fissò negli occhi, serio. «Se
non abbiamo tempo da perdere
vuol dire che non dovrei neppure fare quelle esibizioni
all’opera?» chiese,
inarcando un sopracciglio.
M’imbronciai alla sua
logica di ferro. Non era giusto.
«No»
borbottai di malavoglia.
«Bene!»
esclamò leggero, baciandomi la fronte. «Quanto
mi piaci quando sei così testarda!»
ammiccò.
Sospirai, secca, marciandogli
accanto. Quando sentii
la sua risatina sommessa arrossii.
Oltre la porta a vetri
c’era una graziosa sala bianca,
quasi un giardino d’inverno, con le sedie in vimini e i
tavolini per il thè. Le
donne si erano naturalmente disposte da un lato, verso i tavolini,
mentre gli
uomini chiacchieravano sui divanetti in fondo alla sala.
Entrai quasi nel panico quando non
vidi Edward. Sentii
una mano fredda sfiorare la mia e tirai un sospiro di sollievo.
«Rilassati
Bella, sei solo molto nervosa. Perchè non vai di
là a parlare con quelle
signore?» mi sussurrò ad un orecchio.
Mi voltai ad abbracciarlo.
«Non sei più arrabbiata con
me?» chiese divertito.
Elusi la sua seconda domanda.
«Non mi va di stare sola
con loro» sussurrai ad un suo orecchio, colta da un nuovo,
improvviso,
problema. Magari volevo solo dare una giustificazione al mio umore
nero. «Sono
tutte così… snob…
perché non siamo
venuti ad un corso per persone normali?».
Si staccò per guardarmi
in faccia con serietà col suo
viso da angelo. «Perdonami, non pensavo che la cosa ti
potesse creare fastidio.
È in miglior corso nel Washington state».
Sospirai, voltandomi a guardare le
donne e i loro
abiti firmati, i loro rossetti costosi, i loro modi da classe abbiente.
Dovetti
ammettere che anch’io indossavo un completo che avevo deciso,
per la mia salute
mentale, non chiedere quanto costasse. Incredibile quanto crescesse di
prezzo
un pezzo di maglina con un logo particolare stampato su. Ma come modi,
no, come
modi non avevo niente a che fare con quelle persone. Poi,
però, osservai un
particolare, estremamente rilevante, che mi era precedentemente
sfuggito.
Erano tutte incinta, proprio come
me. Cosa potevano
avere di così diverso, mentre condividevano la gioia di
portare un figlio in
grembo?
Mi voltai verso Edward e annuii.
«Va bene» dissi, «ci
vado». Gli sorrisi debolmente e mi allontanai, lasciando che
mi osservasse,
titubante.
Le cose furono più
positive di quanto avessi
preventivato. Ogni tanto lanciavo uno sguardo a Edward e mi stupivo di
vederlo
così a suo agio fra gli umani. Anche se non vidi mai i suoi
occhi su di me, ero
certa che mi stesse controllando attraverso una delle menti delle donne
che
erano sedute al mio tavolo. Confrontarmi con i loro dubbi e trovare che
i miei
non erano poi così distanti, mi confortava non poco.
Inoltre, fu indubbio il
fatto che avessi trovato l’occasione adatta per divertirmi.
«…e poi lavoro
molto a maglia. Christine, la mia
cameriera, ha la dieta che mi ha dato il ginecologo e mi prepara tutte
quelle
cose assurde. Beh, un po’ mi scoccio, Richard è
quasi sempre fuori e mi annoio
a stare sola a casa. Pensa che l’ho dovuto obbligare a venire
qui oggi!» la
bionda ridacchiò, ammiccando a tutte, che la seguirono.
«Come ti
capisco» confermò un’altra donna, sui
trent’anni, al suo fianco. «Anch’io sono
sempre sola a casa, a non fare nulla».
Le altre annuirono, sorseggiando compostamente il thè.
Quasi mi scappò una
risata a quell’affermazione. Tutte
si voltarono nella mia direzione.
«Tu, ragazza»
chiese la donna «non hai anche tu questo
genere di problemi?».
Arrossii, notando tutti quegli
occhi puntati su di me.
«Beh»
balbettai «non proprio, diciamo. Ecco» mi morsi
un labbro «per quanto mio marito mi aiuti quasi in tutto,
passando molto tempo
con me quindi, cerco di fare molte cose anche sola».
Continuai, vedendo i loro
volti interessati «cucino, pulisco, lavo, stiro. E poi
studio, soprattutto
quello».
«Tu… fai tutte
queste cose?» chiese una donna rossiccia
al mio fianco, sorpresa.
«Beh,
sì».
«Sembri molto
giovane» affermò la bionda, curiosa
«quanti anni hai?».
Sollevai un sopracciglio
«Diciannove, quanti ne ha mio
marito. Ci siamo sposati a diciotto, e sono rimasta subito
incinta».
La questione si
stemperò, e fortunatamente
l’attenzione fu spostata via da me. Odiavo sentirmi al centro
di tutto. Come
avevo immaginato, a parte la loro inettitudine, quelle donne erano
proprio come
me. Anche l’istruttrice si avvicinò, dandoci
suggerimenti e fornendoci
spiegazioni. Iniziarono a raccontarmi interessanti dettagli e Ashley,
la più
grande, mi diede alcuni consigli. Sua sorella aveva avuto un figlio da
poco e si
era molto documentata.
«Oh, ecco il mio
David» esclamò d’un’tratto,
sollevandosi dalla sedia e avviandosi verso una donna con in braccio un
neonato. Dovevano venire dalla nursery. «Eccolo, questo
è il mio nipotino, non
è un amore?» chiese, prendendolo dalle braccia di
quella che doveva essere sua
sorella. Lo cullò con delicatezza, facendosi afferrare un
dito dalla sua
piccola mano. Anche le altre si alzarono, andandogli intorno e
cominciando a
fargli moine.
«Isabella» mi
chiamò - aveva insistito sul fatto che
il mio nome completo fosse più signorile - «vieni
a vederlo».
Mi sollevai, imbarazzata,
mettendomi accanto a lei.
Era… un neonato. Era carino. «Sì,
vedo» borbottai.
«Avanti,
prendilo!» fece entusiasta, porgendomelo.
Arrossii. «Oh, io. Non ne
sono capace, non credo di
esserlo» farfugliai.
Lei ridacchiò.
«Ma lo sei, certo che lo sei! È
impossibile non esserlo».
«Certo piccola»
confermò Juliet, la donna bionda. «Si
chiama istinto materno».
Anche le altre annuirono,
incoraggiandomi. Ashley mi
spiegò come mettere le braccia e me lo mise su, nonostante i
miei timori e le
mie proteste. Anche la madre sembrava volermi dare fiducia.
Sentendolo fra le braccia mi
appariva come un
fagottino, molto più leggero di quanto mi sarei aspettata,
morbido ed
estremamente fragile. Emanava calore. Iniziò a muovere e
braccia velocemente,
mentre ruotava la testa da una parte all’altra.
«È… io non so…».
«Stai andando
benissimo» m’incoraggiò la madre.
Eppure il bambino continuava ad agitarsi.
«Io…mmm…» tentai
di cullarlo per riuscire a calmarlo, ma pareva che a ogni mio movimento
si
agitasse di più. Iniziò a frignare, e mi
allarmai, non sapendo come farlo
smettere. «Si sta agitando» dissi preoccupata.
«Ma no, sta’
tranquilla».
Ogni mi tentativo di farlo smettere
fu inutile. Tentai
di imitare il comportamento che avevo visto usare dalle altre donne.
«Piccolo,
sta’ calmo» biascicai nervosa «su, su,
avanti, calmati». Tutta la serenità che
ero riuscita a racimolare con gli esercizi di yoga precedentemente
svolti stava
scomparendo come una meteora di giorno. Lo cullai con più
decisione, e a quel
punto iniziò a strillare.
Tutte scattarono allarmate,
tendendo le braccia verso
il bimbo.
«Oh, è strano,
ma che succede?».
«Dai a me cara, non fa
nulla».
«Ecco,
così».
In pochi secondi il mio petto fu
liberato da quel
piccolo peso, e tutta l’attenzione si concentrò un
metro più avanti, intorno al
bambino che smise quasi immediatamente di piangere.
Fissai tutte quelle donne in
silenzio, sentendo un
pungente fastidio invadermi e spingere dal diaframma verso
l’alto, verso i
polmoni, comprimendoli e impedendomi di respirare.
Mi volsi ed andai via, velocemente,
prima che
potessero distogliere l’attenzione dal fagotto e accorgersi
di me. Attraversai rapidamente
la sala con tutti i tappetini blu, fiondandomi negli spogliatoi. Mi
lasciai
cadere sulla panchina e intrecciai le braccia sotto al seno, premendo
sul petto.
Contai solo pochi secondi.
«Bella» un
sussurro strozzato, quasi affannato, di
Edward.
Velocemente mi asciugai i lacrimoni
ai bordi degli
occhi, sperando che non li vedesse, ostinandomi a guardare nella
direzione
opposta alla sua.
«Bella» mi
chiamò ancora, camminando fino a trovarsi di
fronte a me. Indugiò, indeciso su cosa dirmi. Stringevo le
labbra per evitare
di scoppiare in un pianto a dirotto. «Tutto bene?»
mi chiese cauto,
inginocchiandosi di fronte a me e accarezzandomi una guancia con la sua
mano
fredda.
«No» singhiozzai, serrando gli occhi.
Li riaprii,
fissandolo nei suoi, preoccupati, e lasciando scendere qualche lacrima.
Presi
due respiri profondi, portandomi una mano all’attaccatura
della pancia. «Voglio
uscire di qui. Ti prego, fammi uscire. Mi manca
l’aria».
Non insistette, non
parlò. Capì che avevo solo bisogno
di stare in silenzio. Mi mise una mano sul fianco, aiutandomi ad
alzarmi. L’aria
fresca del giardino mi fece subito riacquistare un minimo di
lucidità. Mi fece
sedere su una panchina, inginocchiandosi di fronte a me e prendendomi
una mano
fra le sue, mentre tenevo l’altra ostinatamente premuta
contro il ventre.
Non volevo parlare, e non volevo
che lo facesse lui.
Mi avrebbe confortata, spiegato e dimostrato, in qualche modo, che non
era
colpa mia. Che non avevo ragione di sentirmi
così… inadatta. Ma invece era il
contrario, e lo sapevo perfettamente. Perché solo ora, solo
ora che il vento
freddo usciva irregolare dai miei polmoni, raggelandomi, avevo la
lucidità per
comprendere.
Mi resi conto di come mi fossi
caricata delle
aspettative delle persone che mi erano attorno, della mia famiglia
vampira e di
Edward. Dall’assurda idea di potermi impegnare sempre di
più per non deluderli
ed insieme di forzarmi di essere una persona migliore, di aiutarli, di
essere
una buona moglie e di diventare una buona madre.
Eppure ogni cosa che accadeva mi faceva
sentire come se non
fossi all’altezza. Come dopo quello che Jacob mi aveva fatto
mi fossi spezzata
e qualunque mio tentativo di rimettermi in sesto fosse inutile.
E mi sentivo così in
colpa del nervosismo e
dell’agitazione che sentivo e con cui stavo inondando
ripetutamente mia figlia non
ancora nata. Sarebbe bastato così poco. Una o due pillole al
giorno.
«Non mi guardare
così, Edward. Non mi guardare così»
mormorai, cancellandomi le lacrime che erano scese con le mie parole.
Non
volevo i suoi occhi apprensivi su di me. Evidenziavano semplicemente il
mio
ennesimo fallimento. Distolsi lo sguardo, sollevando la mano fino
all’attaccatura della pancia e premendo alternativamente per
aiutarmi a fare
respiri che mi parevano impossibili.
«Bella, ti
prego» fece una pausa, scegliendo, nel suo
vasto vocabolario, le parole più adatte. «Respira,
sta tranquilla» disse
infine, cambiando probabilmente il senso della sua frase.
«Ce la faccio»
mormorai togliendomi la mano dal petto
e allontanando con un gesto la sua. L’aria che mi usciva
dalla bocca si
condensava in piccole nuvolette e le ciglia bagnate ghiacciavano,
dandomi
l’impressione di avere delle piccole schegge negli occhi. Eppure
non volevo parlare, solo continuare a rimanere in silenzio.
Edward però si risolse a
dirmi qualcosa. «Amore»,
strinse la mia mano «non fare così. Tu sarai una
madre stup…».
Scattai, bloccandolo.
«Non dirlo Edward, non dirlo
perché non è così»
singhiozzai «e non riuscirai a convincermi, in alcun modo.
L’hai
detto anche tu prima quanto dannatamente sia testarda. Ma non avevo
capito
quanto fosse sbagliato finché non ho fallito per
l’ennesima volta come moglie e
madre» vidi la sua espressione angosciata e sfilai la mano
dalle sue,
coprendomi gli occhi pieni di lacrime «mentre avevi ragione
tu sin dall’inizio
e sarebbe bastato solo prendere dei dannatissimi
antidepressivi!» esclamai fra
i singhiozzi.
S’irrigidì,
sconvolto. «Bella» sussurrò senza fiato.
Strinsi le labbra, fissando il suo
viso, addolorata.
«Dimmi che non è vero» dissi con un filo
di voce.
Si perse con lo sguardo nel vuoto,
silenzioso.
Deglutì, e spostò di nuovo i suoi occhi nei miei.
«Siamo insieme in questa
cosa, lo sai? Ricordi quando eri catatonica a letto, senza mangiare?
È stato
uno dei momenti più brutti della mia vita, perché
non sapevo quando e se ti
saresti ripresa» disse, angosciato al solo ricordo
«ma lo hai fatto,
sorprendendo tutti» aggiunse con un piccolissimo sorriso
«poi hai scoperto
della gravidanza, e non hai pensato per un secondo a quello che la
bambina
avrebbe potuto farti. Sei stata così coraggiosa da mettere
il suo bene davanti
al tuo anche quando io non ci riuscivo. Questo secondo me è
ciò che farebbe
un’ottima madre» continuò con estrema
dolcezza.
Tirai su con il naso.
Mi sorrise, scrutandomi cauto.
«E poi io avevo così
tanta paura di fare l’amore con te, dopo Jacob. Mi sembravi
più fragile e
vulnerabile di prima e fosse stato per me non mi sarei avvicinato mai
più. Ma
tu» fece, sorridendomi «oh, tu. Sei stata
così amorevole, naturale, dolce. Ti
sei affidata a me completamente, con tutto il tuo cuore, facendomi
credere che
ogni cosa fosse possibile e scaldando il mio cuore di ghiaccio. Ho
pensato che
se mia moglie, un’umana così fragile, aveva
sopportato così tanto e con così
tanto amore anch’io mi dovevo impegnare per farlo.
Bella» concluse con estremo
amore e sincerità «tu mi hai fatto tornare in
vita».
Fremetti, scacciando un ennesimo
singhiozzo. «Piango
sempre» biascicai fra le labbra, commossa e un po’
stordita dalle sue parole «e
odio piangere. Non faccio altro che piangere, e tu sei sempre qui a
consolarmi
e non vorrei farlo! Eppure
continuo a farlo senza
poterci fare nulla. E ti faccio soffrire, e faccio soffrire la
bambina».
«Bella»
sospirò, sollevandosi dai talloni e sedendosi
sulla panchina, accanto a me, sfregandomi le mani contro le braccia
nell’inutile tentativo di infondermi calore. «Hai
ragione, sai. Hai
perfettamente ragione» commentò, facendomi
sobbalzare e abbassare lo sguardo. «Hai
un difetto orribile» riprese «quello di non essere
per niente consapevole delle
tue capacità».
Feci per protestare, ma mi
interruppe, posandomi un
dito sulle labbra.
«Da cosa pensi che
dipenda questa tua insicurezza?»
chiese, come se la risposta fosse più che palese.
«Cosa, se non quello che io
stesso ti ho lasciato credere? Ti prego, dici di non essere una buona
moglie,
ma se mi ami, ti prego, ascoltami» mi prese il viso fra le
mani, fissandomi «tu
sei tutto ciò di cui ho bisogno. Tu e la bambina. Vuoi
essere una buona moglie?
Amami. È solo questo che importa. O forse non mi ami
più?».
«Certo»
balbettai «certo che ti amo. Ma questo non fa
di me una buona moglie».
Sorrise amaramente, scuotendo il
capo. «E di certo,
non provare a contraddirmi, quello che ho combinato non fa di me un
buon marito.
Oh, accidenti, siamo proprio due pessimi coniugi!» mi sorrise
«cosa ci importa?
Io sto bene con te e tu con me».
«Ti stancherai».
«Puoi far decidere me?
Sai, non credo che lo farò
tanto presto, almeno per…
l’eternità?».
Sospirai, appoggiandomi sul suo
petto. «Sono stata
davvero pessima» borbottai vergognosa.
«Oh Bella, è
normale quello che è accaduto, visto che
non avevi mai preso in braccio un bambino».
«Invece no!»
protestai «le altre donne lo sapevano
fare benissimo. Non prendermi in giro».
Scosse il capo benevolo.
«Imparerai. I bambini sentono
le nostre emozioni, e tu eri molto nervosa. Ti si resa conto di quanto
lo sei,
nell’ultimo periodo?» chiese serio «sei
incinta, Bella. Ti assicuro che è
normalissimo sentirsi così. Il tuo corpo cambia, la tua vita
cambia, hai tanti
ormoni impazziti dentro di te, e di tanto in tanto è normale
sentirsi un po’
sfasate» sorrise teneramente «Cosa che non sarebbe
accaduta se ti avessi dato
l’amore di cui hai bisogno, ma comunque» aggiunse
velocemente «tu non mi credi.
Ma stai a sentire una cosa, e poi sarai libera di non cambiare idea,
okay?».
Sbuffai, incrociando le braccia.
Feci passare qualche
istante nel silenzio. «Okay» concessi debolmente,
fissando la ghiaia del
vialetto. Dopotutto, pur non volendolo, avevo così bisogno
di sentirgli
dimostrare il contrario. Di sentirgli dire quanto mi apprezzasse,
quanto mi
amasse. Di sapere quanto valessi per lui.
«Tutte quelle
donne» cominciò piano «erano
incredibilmente invidiose di te».
«Oh, certo»
commentai, delusa dal fatto che non avesse
trovato un’argomentazione migliore «tutte
vorrebbero averti per marito».
Sospirò, prendendomi il
viso fra le mani,
costringendomi a guardarlo. Mi lasciò senza fiato per
l’irruenza del gesto.
«Bella. Come fai a non vederti? Come fai a non vedere le tue
possibilità?» esclamò
infervorato. Fece una pausa, modulando il tono in maniera
più gentile. Ero
ancora troppo shockata per reagire. «Erano invidiose per
quello che sei, per
quello che riesci a fare. Hai una vita frenetica e splendida. Lotti per
quello
che vuoi ottenere. Ti sacrifichi per gli altri, ami appassionatamente.
E hai
soli diciannove anni! Hai idea di quanto volessero sentirsi realizzate
almeno
un decimo di quanto lo sei tu?» concluse dolcemente,
accarezzandomi la guancia.
Sentii il mio labbro inferiore
tremolare, fin troppo
vicino al suo. «Io, io…» balbettai,
sentendo gli occhi pungermi, mentre il
freddo ghiacciato condensava le nuove lacrime. «Mi
dispiace» dissi infine. Tirai
su col naso, poi lasciai andare il volto sulla sua camicia.
Risi, con ancora le guance bagnate
d’acqua, quando
sentii la bambina muoversi. Lui mi sorrise, fissandomi adorante. Presi
la sua
mano e la portai sulla pancia, facendogli sentire sua figlia mentre si
muoveva.
«Pensa»
sussurrò, «quanto siamo fortunati ad avere
questo legame con nostra figlia».
Mi asciugai le nuove lacrime.
«Tanto. Troppo»
mormorai.
Appena le mie condizioni tornarono
accettabili
rientrammo nella grande sala dove si facevano gli esercizi per finire
la prima
seduta del corso. Le altre donne non mi fecero particolari domande,
così non mi
giustificai. Trassi nuovo beneficio da quegli esercizi che solo poche
ore prima
credevo stupidi, forse perché avevo una nuova disposizione
d’animo, o forse perché,
semplicemente, avevo Edward accanto a me. E lui mi faceva sentire
amata, ma
soprattutto in grado di amare. Per lui ero intelligente, perspicace,
bella. E
sapevo quanto fosse convinto di quello che mi diceva.
«Oh, credo di aver
bisogno di una doccia!» esclamai,
lasciando cadere il mio borsone con la tuta sul divano. Sbadigliai,
accarezzandomi lo stomaco gorgogliante e voltandomi ad osservare Edward
che
portava in casa il suo borsone e due grosse scatole marroni. Cielo, era
così
sexy anche quando non faceva praticamente nulla! Anche quando mi
sembrava un
bravo marito, un bravo papà, non potevo fare a meno di
aggiungere al commento l’aggettivo
“sexy”. Magari eravamo due novelli sposi, di cui
uno un vampiro, che avevano
bisogno di smaltire la loro energia attrattiva ma che proprio non
sapevano come
fare. Sospirai, distogliendo i miei pensieri non appena lo vidi
sfrecciare
velocemente per sistemare ogni cosa.
«Credo che prima
mangerò qualcosa» dissi a mezza voce,
ancora concentrata sulle sue magnifiche gambe fasciate dalla
tuta… Andai in
cucina, alla ricerca di qualcosa di appetitoso.
Aprii il frigo e mi trovai di
fronte ad un’ampia
scelta. «Ho voglia di… di…»
sussurrai, scorrendo con lo sguardo sulle mensole
trasparenti. Mi chinai ad osservare in basso, sull’ultimo
ripiano.
Improvvisamente mi sentii afferrare
sui fianchi da due
mani fredde, inconfondibili. Una decisa pacca sul sedere, mi fece
ansimare,
stupita. «Io ho voglia di te»
mormorò
roco al mio orecchio.
Quello che accadde successivamente
infranse la
promessa che entrambi, solo pochi giorni prima, ci eravamo fatta.
Ma cosa potevamo farci?
Eravamo entrambi troppo masochisti
per non godere l’un
dell’altra.
Sollevò il capo dalla
mia pancia, tornando a sedere
sulla sedia accanto alla mia non appena la bambina smise di muoversi.
Aveva
cominciato ad avvertire nuovi brevi pensieri. Diceva che erano tutti
come
piccoli impulsi, di movimento, molte volte
“sbagliati”. Perché, come mi aveva
spiegato, i bambini ne avevano molti, e cominciavano a discernere gli
impulsi e
gli istinti giusti da quelli sbagliati relazionandosi con il mondo
esterno. Tuttavia,
né durate il mio sonno, né in altre occasioni era
riuscito a trovare la chiave
di risoluzione dei pensieri della bimba. La maggior parte delle volte,
appena
prima di arrivare a pensare all’oggetto della ricerca, i
sogni s’interrompevano.
«Sì Amber, ti
porto tutto quanto prima, ho quasi
finito. No, no, ho fatto tutto ieri… beh sì, ci
ho impiegato quattro ore…
l’importante è aver finito». Posai la
mano su quella di Edward, a palmo in su
sul bracciolo della scomoda sedia di plastica della sala
d’aspetto. Stavo parlando
al cellulare con la mia amica, informandola del lavoro svolto per una
delle
tante vicine sessioni d’esame. Ultimamente studiavo davvero
molto, fino a
tardi, e dipingevo spesso, anche. Magari, lo facevo con così
tanto impegno
perché mi aiutava a distrarmi.
Edward strinse delicatamente la
presa sulla mia mano,
sorridendomi. Distrarmi da lui, soprattutto. Infatti, per
un’intera settimana,
non avevamo fatto altro che provocarci reciprocamente, fino ad arrivare
più
volte a fare quello che ci eravamo ripromessi di negarci. Forse
perché eravamo
una coppia di novelli sposi. Forse perché era un vampiro. O
magari, perché fare
qualcosa di proibito e contro le regole ci eccitava decisamente di
più…
«Sei stanca?»
mi chiese tranquillo, osservandomi.
Scossi il capo con sicurezza. Se
era vero che
nell’ultimo periodo le mie attività di studio e
strappo alle regole erano state
incrementate, era vero anche che probabilmente proprio
quest’ultima mi dava il
lusso di concedermi di dormire serenamente. Da questo derivava una
nuova
tranquillità e lucidità.
«Cosa dobbiamo fare?
Credo di dover passare a casa di
Amber entro le sei, facciamo in tempo?».
Annuì, mentre gli occhi
dorati e vigili ispezionavano
velocemente la sala. «Sì, quasi certamente.
Carlisle vorrebbe comunicarmi il
risultato di una sua ricerca e ha detto che devi essere presente anche
tu.
Considerando che siamo già a Seattle non dovremmo impiegarci
troppo a
raggiungere la casa della tua amica».
Dopo mangiato mi aveva
letteralmente messa in
macchina, senza spiegarmi il perché. Alle mie continue
richieste aveva risposto
che avevo già studiato abbastanza, che mi sarei dovuta
riposare in ogni caso, e
che saremmo andati a trovare Carlisle. Ora comprendevo. Venire a
conoscenza di
nuovi misteri, di nuove assurde caratteristiche sovrannaturali di mia
figlia,
mi metteva sempre una certa ansia.
Mi sentii toccare la mano,
intrecciata alla sua, con
più decisione. «Vedrai, andrà tutto
bene. Devi solo stare tranquilla e fidarti
di noi» mi disse serio.
Posai una mano sulla pancia,
accanto alla sua, potendo
sentire la bambina muoversi da dentro e da fuori. In effetti, le sue
rassicurazioni sui licantropi erano state sincere, considerando che
nonostante
i miei dubbi su quello che volessero comunicarci non si erano
più fatti
sentire.
«Edward, Bella»
la voce familiare di Carlisle mi
distolse dai miei pensieri. Avanzò nell’asettico
corridoio della clinica, fino
a raggiungerci.
Mi sollevai, prendendo sotto un
braccio il cappotto
che avevo depositato sulle gambe, imitando lo stesso movimento di mio
marito.
«Seguitemi»
disse, a voce alta per far capire anche a
me, «andiamo in un luogo più appartato».
Ci guidò in un piccolo ambulatorio sul
corridoio parallelo a quello in cui eravamo. Non somigliava per niente
al suo
confortevole e caldo studio dell’ospedale di Forks.
A far tornare la mia mente verso
l’impellente
rivelazione fu lo sguardo serio di Carlisle. Timorosa, mi voltai verso
Edward,
seduto su una sedia simile alla mia, tentando di leggere sul suo volto
qualcosa
in più rispetto a quanto non dicesse quello di suo padre.
Eppure, pareva
impaziente e curioso; probabilmente Carlisle aveva deciso di farci
conoscere la
verità insieme.
«Ho effettuato molta
ricerca» cominciò pacato
«sperimentalmente. Questo ospedale ha attrezzature molto
più avanzate rispetto
a quello di Forks. Purtroppo
non ho ottenuto i
risultati che speravo» affermò desolato, portando
una mano, stretta a pugno,
sotto il mento, e poggiandovi la testa.
Edward sospirò.
«Di che si
tratta?» chiesi velocemente, facendo
passare il mio sguardo fra i due.
Carlisle mi sorrise rassicurante,
riacquisendo la sua
solita compostezza. «Credo che andando avanti in questa
gravidanza sia
fondamentale avere delle anche piccole informazioni sul bambino. La
settimana
scorsa hai avuto di nuovo un pochino di anemia, niente di preoccupante
rispetto
alla prima volta, e un po’ di ferro in vena ti ha fatto stare
subito meglio»
fece con un sorriso.
Annuì, sfregandomi
l’incavo dell’avambraccio. Carlisle
monitorizzava costantemente la mia emoglobina variando la mia terapia
in modo
precauzionale, così da non far scendere i miei valori sotto
una determinata
soglia.
«Il punto è
che se succedesse ancora, o se
succedessero altre cose non saprei cosa fare. L’esame che ti
ho fatto fare
prima si chiama Risonanza Magnetica Fetale» disse,
riferendosi al grosso tubo
rumoroso in cui mi aveva ficcata. «Ma purtroppo ha dato
più o meno gli stessi
esiti dell’ecografia, così non farci vedere quasi
nulla».
Sospirai. «Pensi che
possa essere un serio problema?».
Scrollò le spalle.
«Non ti nascondo che ogni piccola
informazione potrebbe esserci utile. Se solo…»
sussurrò, distogliendo lo
sguardo, pensieroso.
«Cosa?»
domandai, pronta a qualunque cosa per
rendergli il lavoro più facile.
Scosse il capo con un sorriso
mesto. «Niente, non è
praticabile».
Edward mi strinse la mano, e mi
volsi a guardarlo.
«Pensava di riuscire a
prendere un campione di liquido
amniotico o di sangue fetale» mi spiegò con calma.
Spalancai la bocca, sorpresa.
«Pensavo che avessimo
accantonato questa ipotesi».
«È
così» mi spiegò mio suocero
«ma ho studiato in
letteratura un approccio un po’ differente, magari
transplacentare in un punto
di minore resistenza. Il problema sarebbe un esame piuttosto invasivo
con una
reale, seppure piccola percentuale di rischio. Inoltre, tutto potrebbe
rivelarsi un inutile buco nell’acqua»
dichiarò serio, esponendomi sinceramente
la realtà dei fatti.
Strinsi la mano libera sul maglione
largo e caldo,
all’altezza della pancia. Non mi piaceva che si parlasse
della bambina e
insieme di rischi. Era una cosa che difficilmente potevo accettare. Ma
se tutto
fosse servito per aiutarla? Che cosa avrei dovuto scegliere? Cosa ne
pensava
Edward?
«Bella» mi
chiamò. Avvicinò una mano al mio viso,
sfiorandomi una guancia, facendomi arrossire per la presenza di suo
padre. «Non
essere in ansia, non si farà alcun esame».
Sussultai. Dunque
quella era la sua scelta?
Carlisle rispose alla mia domanda.
«Nonostante le mie
ricerche credo che sia pressoché impossibile. Dalla
risonanza fatto oggi pare
che la tua placenta sia nella parete posteriore dell’utero.
Non riuscirei a
raggiungerla con nessun tipo di ago».
Cacciai un fremito dalle labbra
tremanti.
Edward captò velocemente
il mo timore. «Non è il caso
di farsi impressionare», mi prese il volto fra le mani,
costringendomi a
guardarlo «non si farà alcun esame».
Annuii, catturata dai suoi occhi
magnetici, stordita.
Quando le sue labbra si piegarono
in un sorriso e un
piccolo oggetto metallico comparve nel mio capo visivo, non capii bene
cosa
stesse accadendo. «Rispondi» mi esortò,
e a quel punto mi resi conto che fra le
sue mani c’era il mio cellulare, che vibrava ritmicamente
producendo un basso
ronzio.
Mi riscossi. Lo afferrai con una
mano, portandomelo
all’orecchio e facendo grattare la sedia di leggero alluminio
contro il
pavimento, mentre mi alzavo per allontanarmi di qualche passo. Cosa
inutile,
considerando il loro super udito, ma che compii come un abituale gesto
umano di
cortesia.
«Bella,
ci sei?
Va tutto bene? Perché ci hai impiegato così tanto
a rispondere?».
La voce di Amber mi travolse e mi
ci volle qualche
istante per rispondere, riprendendomi definitivamente dal timore e
dalla
confusione che mi avevano causato le parole di Carlisle.
«Tutto bene» mi
schiarii la voce. «Problemi?» osservai
l’orologio al mio polso «posso passare
anche fra poco se vuoi, credo di aver finito». Mi voltai a
cercare la conferma
che mi diede Edward, annuendo, interrompendo per un attimo il
tranquillo
dialogo col padre.
«No,
no, anzi!
Ti volevo avvisare che il professor Danbaster ha modificato il
programma per
l’esame di lunedì».
Ebbi uno strano brivido sentendo
quel nome. Dopo la
nostra chiacchierata nello studio non avevo più incontrato
il professore così…
“privatamente”. Avevo seguito le sue lezioni e
l’avevo visto di sfuggita nei
corridoi, troppo poco tempo per fermarlo e chiedergli spiegazioni su
quella
strana storia che, nonostante tutto, continuava ad assillarmi.
Richiedeva una
spiegazione che non riuscivo a dare.
«Dobbiamo
integrare lo studio delle opere straniere con quelle tedesche e guarda,
sul
serio, sono talmente tante che io…».
«Germania?»
chiesi, stranita e stupita,
interrompendola.
«Sì,
Germania»
ripeté tranquilla. «Il
professor
Danbaster ha una fissa con i tedeschi, non lo sapevi?»
chiese come se fosse
ovvio.
«No» balbettai, ricordando facilmente
che la nazionalità
del misterioso marito di Caterina Barbarigo
era
tedesca. Un giovane tedesco.
Così
aveva detto.
«Ma
certo! È
così perché il professore è di origine
tedesca. Davvero non lo sapevi? Oh
Bella… Hai proprio la testa fra le nuvole. Il suo nome
non ti dice nulla? È così cacofonico».
Ero immobile, paralizzata dalle sue
prime parole. Di origine tedesca.
Come una saetta
scoccata con precisione da un esperto arciere, un’intuizione
mi colpì,
centrando la verità.
Philip era lui. Era il personaggio
della sua storia,
il marito della bella Caterina, ne ero così certa! Questo
spiegava la sua
partecipazione al racconto, spiegava la presenza di quel quadro, e
spiegava,
soprattutto, perché Caterina e Kate, sua figlia, fossero
descritte così
accuratamente, mentre il suo personaggio così sommariamente
tratteggiato. Era
così chiaro che mi chiesi come avessi fatto a non pensarci
prima.
Tuttavia questo ancora non spiegava come
fosse possibile il
fatto che avesse avuto a che fare con personaggi appartenenti ad
un’altra
epoca. A meno che…
«Bella? Bella?»
mi sentii scuotere con forza le spalle
e in un istante mi resi conto di non avere più il piccolo
cellulare in mano. Realizzai
di avere le mani di Edward a sorreggermi previdentemente per i gomiti,
mentre
quelle che mi scuotevano le spalle erano di Carlisle.
Osservai ancora come in trance i
loro volti. Carlisle
aveva una maschera professionale, Edward pareva preoccupato. I miei
occhi
caddero sul triste pavimento bianco e sul cellulare, staccato in due
pezzi. Mi
era caduto?
«È…
non può essere lui… lui stava…
lui… beveva… sì…»
i
balbettii sconnessi giunsero perfino alle mie orecchie ovattate. La mia
confusione era amplificata, mischiata con quella della bambina.
La stessa confusione che
imperversava sul volto di mio
marito. «Chi non
può essere?» mi
chiese deciso.
Ripresi fiato, mordendomi le labbra
per evitare di
continuare a pronunciare parole senza senso. Avevo chiaramente visto il
professor Philip tossire violentemente, avanzare col suo passo poco
aggraziato,
avevo guardato a lungo i suoi occhietti celesti. E come se questo non
bastasse,
l’avevo visto bere, proprio davanti ai me! Che senso avrebbe
avuto fingere,
tanto più del necessario?
Mi voltai verso Carlisle, serio e
risoluto. No, non
era un vampiro. Almeno, non lui.
«Chi
è» scandii piano, ansiosa di farmi comprendere
«Caterina Barbarigo?».
Carlisle mi guardò,
tentando di comprendere, forse, il
significato di quella mia domanda apparentemente senza senso.
«È una nobile
del Settecento, veneziana. È famosa per
il ritratto che le è stato fatto da Rosalba
Carriera» rispose Edward,
titubante. «Bella» mi chiamò poi
«cosa succede?». Dal suo tono era palese
quanto il non poter leggere nei miei pensieri lo facesse andare fuori
di testa.
Ma intanto, Carlisle continuava ad
osservarmi. E così
capii che la mia intuizione non doveva essere affatto sbagliata.
«Come la
conosci?» chiese interessato, facendo spostare
l’attenzione del figlio su di
lui. Strinse le labbra, esitò. «È una
delle più famose immortali».
Ansimai, sorreggendomi a Edward per
non cadere. Allora
avevo ragione.
La seguente ora la passai intenta a
spiegare a Edward
e Carlisle ogni cosa. Il suo studio, quello che avevo visto, quello che
mi
aveva detto. Dovetti ripetere molte volte le stesse cose,
perché spesso le mie
frasi rimanevano spezzate e sconnesse.
Ero molto, molto agitata. Ma in
fondo l’avevo
avvertito sin da subito che ci fosse qualcosa di strano in
quell’uomo. Lui era…
lui! Era suo marito! Era marito di
una vampira, era entrato a conoscenza del mondo sovrannaturale. Era
come me.
«Caterina era
un’immortale annoiata. E, come tutti gli
immortali annoiati, aveva deciso di venire allo scoperto, nel XVIII
secolo» mi
spiegò Carlisle, invitandomi a bere un altro sorso
dell’acqua che, tremante,
reggevo fra le mani. Edward mi accarezzò i capelli,
stringendomi di più a sé. «Non
l’ho mai conosciuta personalmente, ma so che ebbe un
importante ruolo nella
seconda guerra mondiale».
«La seconda guerra
mondiale?» chiesi confusa.
Annuì.
«Esattamente, proprio quella. In quel periodo
lei era lì. Saprai certamente che ebbe il suo epicentro in
Germania. Quello che
non sai, Bella, è che alla base di quella guerra, come molte
altre avvenute nel
mondo umano, non ci sono gli uomini, ma il mondo
sovrannaturale».
Strabuzzai gli occhi, sorpresa.
Quanto ancora avrei
dovuto scoprire di questo mondo, di cui ormai facevo parte? Dovevo
continuare a
stupirmi?
«La seconda guerra mondiale
fu uno dei conflitti più accesi, e scoppiò per
un’azione repressiva, mossa da Caius
in persona contro i licantropi, i veri
licantropi. Caterina era molto
affiliata, amica dei Volturi, apertamente ostile ai lupi e in seguito
ad
innumerevoli provocazioni fu catturata e giustiziata. Fu la scintilla
che face
scoppiare la guerra».
Mi passai una mano fra i capelli,
stupita, confusa da
tutta la mole di notizie che mi era giunta in poco tempo. Anche a
questo avrei
probabilmente dovuto essere abituata. Fino a quell’istante
avevo pensato, quasi
dato per scontato, per una classica e umana divisione, che il professor
Philip,
pur avendo questi impensabili segreti facesse parte di una sorta di
schiera di
“buoni”. Dopotutto, mi aveva anche offerto il suo
aiuto. Ora, invece, venivo a
sapere che sua moglie era addirittura amica dei Volturi, che avevo
sempre
considerato negativamente. Dare un giudizio su di lui, ora, mi pareva
così complicato.
Cosa avremmo fatto adesso? Come ci
saremmo comportati
nei suoi confronti? Avrei dovuto far finta di nulla? Potevo
semplicemente…
ignorarlo?
«Dobbiamo andare da
lui!» esclamai, improvvisamente
colta da un altro ricordo, saltando giù dal lettino su cui
ero seduta.
«Bella» mi
chiamò Edward titubante, eseguendo il mio
stesso gesto con grazia, calma, e singolare eleganza,
«perché vorresti? Magari
sarebbe meglio pensarci con più calma. Non sappiamo che tipo
di problemi ci
potrebbe portare tutto questo con i Volturi».
Scossi il capo con determinazione,
indossando
velocemente il cappotto. «No Edward. Lui ci serve. Lui sa» presi un respiro, provando
a placare la mia fretta,
ricordandomi che dovevo ancora renderli partecipi di quella parte della
storia.
Li guardai negli occhi. «Lui aveva
una
figlia. Kate. Lui sa»
ribadii.
Entrambi furono stupiti dalla mia
rivelazione. Il
primo a riprendere il contegno fu Carlisle, e lo notai dalle piccole
fossettine
che comparivano sulle tempie quando la sua espressione si faceva
pensosa. «Mi
pare impossibile, considerando che il corpo delle donne immortali non
può
mutare».
Strinsi i pugni, serrano le labbra.
«Per questo
dobbiamo andare da lui».
Gli occhi di Edward si
concentrarono nuovamente su di
me. Sospirò, lanciando una breve e fugace, quando ben
visibile, occhiata a suo
padre. Anche lui doveva essere d’accordo con me.
«Andiamo» disse riluttante
dopo pochi istanti.
Riuscii ad ottenere informazioni
sull’abitazione del
professore tramite Amber, dopo averla rassicurata almeno un milione di
volte
sulle mie ottime condizioni di salute e averla convinta con una
dichiarazione
diretta di Edward. Sapevo che non avrebbe mai obbiettato a qualcosa
detto da
lui, era una persona timida in fondo, e mio marito la metteva spesso e
volentieri in soggezione.
Ci stavamo dirigendo, dunque, a Sequim,
cittadina a metà strada fra Seattle e Port Angeles.
Comprendevo da chi avesse
preso Edward l’amore per la velocità, vedendo
guidare Carlisle. Anche se
decisamente la sua guida era meno spericolata ed
“acrobatica”.
«Non è
necessario che venga anche tu» mi disse Edward
ad un tratto, giocando distrattamente con le mie dita.
Lo fissai stupita. Diceva sul
serio? «È il mio professore.
Voi per lui siete due sconosciuti».
Strinse le labbra, contrariato,
continuando a fissare
il vuoto e parlando con finta disinvoltura. «Magari potremmo
aspettare una
visione di Alice, o chiedere a Jasper qual è il modo
più adatto per…».
«Non
c’è un modo più adatto».
«Perché fare
così di fretta?».
«Perché
aspettare?». Lo guardai in viso. «Edward, stai
tranquillo. Perché fai così?».
Prese un breve respiro, prendendomi
per i fianchi e
stringendomi a sé. «Perché ho paura di
perderti, visto che ho rischiato già
troppe volte di farlo».
Sospirai, immedesimandomi in lui e
comprendendo il suo
tormento. «Pensa che forse finalmente riusciremo a scoprire
qualcosa su questa
gravidanza! La mia anemia, i sogni strani, le emozioni. Potremmo capire
come
farla crescere e cosa aspettarci da lei» feci una pausa,
contemplando con le
mani i suoi zigomi squadrati «è solo un umano. Non
potrà fare del male a
nessuno di noi, neppure se volesse».
Annuì, stringendomi
più forte e baciandomi la fronte. «Non
so come farei senza te».
Arrivammo a destinazione dopo
appena un’ora. Appena
uscii dall’auto rimasi stupita. Subito dopo mi diedi della
sciocca. In fondo,
cosa mi sarei dovuta aspettare, se non quello che vedevo?
Un ampio cancello e delle siepi
incorniciavano il
giardino della villa. La costruzione al centro era in mattoni scuri,
come
grigi, quello del fumo che colora il bordo del camino. Pareva una
costruzione a
metà fra una fortificazione e un castello incantato. Tutto
rigorosamente in
miniatura.
Fu Carlisle a suonare il
campanello, esteticamente
sullo stesso stile medievale. S’illuminò un
piccolo display, e decisi di farmi
avanti per essere visibile alla telecamera. La serratura del cancello
scattò
poco dopo con uno schiocco secco, ma nessuno si fece vivo,
né venne ad aprirci.
Edward mi strinse un braccio
intorno alla vita, e
Carlisle fu ben presto sull’altro lato, mentre ci avviavamo
silenziosi sul
vialetto. Mi chiedevo perché non ci avesse risposto alcuna
voce di cortesia, o
perché non si fosse ancora fatto vivo nessuno, tuttavia i
miei pensieri erano
ancora troppo occupati a pensare a ciò che solo poche ore
prima avevo scoperto.
Assurdo. Fatti che non mi sarei mai
aspettata e che mi
facevano, ancora una volta, vedere le cose in modo diverso.
Mi bastò
un’occhiata per fermare Edward, appena
sull’ingresso. Spinsi il grosso portone di legno scuro, che
per quanto avesse
l’aspetto di essere molto pesante, si aprì con
notevole facilità.
Immediatamente sentii un suono
alieno a quel luogo e
quella situazione. Un lento applauso. Subito dopo, mentre ai miei occhi
si
rivelava il lussuoso interno dell’abitazione, vidi la figura
del professore,
piegata, sulle scale. «Isabella»
esclamò, e la sua voce fu quasi un’eco
nell’ambiente ampio. «Ce ne hai messo di
tempo».
Aggrottai le sopracciglia, confusa,
ma prima che
potessi chiedere spiegazioni fu Carlisle a parlare, cortese.
«Ci scusi per
questa intrusione, e mi permetta di presentarmi. Sono
Ca…».
«Carlisle Cullen, sì»
continuò con un sorriso furbo, cominciando a scendere i
gradini, aggrappandosi
al passamano curvo. «Vampiro di origine inglese, nato nel
1640 e trasformato,
se non vado errato, nel 1663. Lui invece è tuo figlio, uno
dei tanti, come dire
“adottati”. Edward Cullen,
strappato dalla spagnola
ad appena diciassette anni. Che pena!» esclamò
sarcasticamente, ormai giunto
sull’ultimo gradino.
Ero raggelata e avvertivo la stessa
sorpresa essere
emanata da Edward e Carlisle. Evidentemente sapeva. Anche molto
più di quanto
potessimo immaginare.
Tossì violentemente a
pochi passi da me, e infastidito
cacciò un fazzoletto di stoffa dalla tasca, asciugandosi la
bocca. «Ah, che
seccatura» sollevò lo sguardo, fino a guardarmi
negli occhi, ignorando
completamente i due vampiri ai miei lati, che si strinsero maggiormente
su di
me, protettivi, mentre avanzava di un altro passo. «Dicevo
cara, ora che le
formalità sono state assolte, ce ne hai messo di tempo!
Speravo che potessi
essere più intuitiva» sorrise, e notai con
facilità la sua breve e fuggente
occhiata alla mia pancia.
Sentii il mio senso di disagio
mescolarsi con quello
della bambina, e portai una mano alla pancia per acquietarla.
Sbuffò, alzando gli
occhi al cielo, quando un altro
accesso di tosse lo colpì. «Su, su, veloci,
accomodatevi di là» mugugnò,
facendo un ampio gesto con la mano. Entrambi i vampiri temporeggiarono,
trattenendosi, ancora sorpresi dal modo con cui si era presentato, con
tutte
quelle informazioni, così dettagliate, su di loro.
«Non volevate sapere
qualcosa, o sbaglio? Avanti, cosa potrebbe fare un sol uomo contro due
vampiri?» chiese, borbottando.
Notai Carlisle lanciare
un’occhiata a Edward, e poco
dopo mi ritrovai a camminare senza sapere neppure come.
Ci guidò, traballante,
verso una piccola saletta. Ogni
cosa sembrava riprodurre lo stesso stile del suo studio
all’università: ovunque
erano sparsi oggetti che a prima vista potevano parere tutte
cianfrusaglie
d’egual valore.
«Prego,
accomodati» mi disse, parlandomi con
gentilezza e indicandomi un largo divano coperto da vari strati di una
pesante
coperta rossa «non vogliamo far rimanere in piedi una donna
in dolce attesa,
vero?». Mi sedetti, arrossendo per la cortesia dimostratami,
e lo stesso fecero
Edward e Carlisle, sedendosi ai miei lati. Con passo incerto
zoppicò fino a
lasciarsi cadere su una poltrona di pelle, di fronte.
«Dicevamo»
cominciò, non appena ci fummo accomodati, «cosa
volete chiedermi?» chiese impaziente, andando subito al sodo
della questione. Dava
per scontato che avessimo un quesito da porgli?
Con la coda dell’occhio,
distogliendo il viso dal
piccolo e acuto viso magro del professore, vidi qualcosa di strano in
Edward.
Aveva un’espressione seria e concentrata, fissa sul suo
volto. «Philip, lei ci
deve delle spiegazioni. Come fa a conoscerci, per esempio,
oppure…». Le sue parole
furono interrotte da un suo gesto secco.
«Oh
sì» borbottò, e parve
alquanto infastidito, «avevo dimenticato queste stupide ovvietà. Beh, vi basti
sapere che vi conosco. Chiedete,
avanti. Non abbiamo tempo da perdere».
«Mio figlio ha
ragione» ribadì Carlisle, osservandolo,
cauto e attento. Era molto pacato e cortese, come al solito. Pensai che
fra
tutti i vampiri che avrebbero potuto accompagnarci, sarebbe comunque
stato lui
quello più adatto.
Il professore sbuffò,
contrariato. «Che inutile
perdita di tempo. Isabella» mi chiamò, e i suoi
occhi si addolcirono mentre
pronunciava il mio nome «Hai scoperto la mia storia, non
è così? Sei a
conoscenza del fatto che mia moglie era una vampira?».
Sussultai, dirizzandomi sul posto. Moglie. E così avevo avuto
ragione. Una
geniale intuizione. Annuii.
Sorrise, un sorriso piccolo e
storto. «Bene, hai
sbagliato. Mia moglie in realtà era proprio come tua
figlia».
«Cosa?»
esclamò Edward sgomento e il professore parve
contrariato dell’interruzione. Eppure, anch’io ero
stupita quanto lui.
«Oh certo»
sibilò, come se fosse ovvio «pensate forse
che una vampira possa procreare?!».
«Quindi non è
la prima volta che accade?» chiese
Carlisle, pacato.
«No. Affatto»
ribadì Philip «ci sono almeno ventitrè
casi attestati. Tua figlia è il ventiquattresimo».
Automaticamente mi potrai entrambe
le mani alla
pancia, proteggendo il ventre. Così mia figlia non era
affatto unica. Da un
lato mi consolava notevolmente, dandomi la speranza di scoprire su di
lei di
più. Di poterla comprendere e magari poterle essere
d’aiuto. Dall’altro sentivo
uno strano senso… avevo sempre dato per scontato che fosse
unica. Tuttavia, nel
turbino dei miei pensieri, un’altra questione aveva la
precedenza. «Come fa a
sapere tutto questo?» sussurrai piano, guardandolo con
insistenza negli occhi.
Mi fissò di rimando
senza battere ciglio. «Bene»
asserì dopo pochi secondi «credo che dovremmo
rimandare le domande, visto che hai
bisogno di una spiegazione». Estrasse dalla giacca un
contenitore rettangolare
e schiacciato, di colore argentato, quello che normalmente si usa per
contenere
i liquori. Ne mandò giù un lungo sorso, e non mi
sfuggì per niente l’occhiata
che nel frattempo gli rivolse Carlisle. Anche lui, notandola
sicuramente, la
ignorò, cominciando a spiegare. «Spero di dover
ovviare il fatto che mia moglie
fosse molto in simpatia dei Volturi» annuii, così
continuò, concentrato «bene.
Ho già spiegato che era una vampira solo per
metà, così avemmo una figlia,
Kate, anche lei, vampira esattamente per metà. E spero di
non dover intavolare
una discussione scientifica, ma si tratta puramente di genetica
mendeliana.
Sono due alleli codominanti.
Il dottore mi
comprenderà» disse, lanciando
un’occhiata a Carlisle «così, quello che
già sai,
è che mia moglie fu fatta prigioniera e uccisa. Anche Kate
fu catturata, ma
piste attendibili mi riferiscono che è ancora in vita. Ora,
per quanto sia
interessate tutto il resto, la farò breve. I Volturi vennero
a sapere di me, un
umano a conoscenza del loro mondo. Per questo motivo sono a conoscenza
di tutto sui vampiri e il mondo
sovrannaturale».
Lo fissai, perplessa.
L’unico pensiero che avevo era che
a quel punto per la legge dei Volturi sarebbe
dovuto
essere già morto. Come me, d’altronde.
«Spiegati» fece
Edward, asciutto, confuso quanto me.
Mi chiesi perché fosse così disorientato.
Sospirò, seccato di
dover continuare a spiegare. «I
Volturi hanno deciso di affidare tutti i loro segreti ad un unico uomo
che li
conservi, li custodisca, e non li riveli a nessuno. Data la loro
amicizia con
mia moglie il privilegio è spettato a me».
«Perché non
sappiamo nulla di questo?» chiese
Carlisle.
Philip fece sbattere le mani contro
i braccioli della
poltrona. «Non è certo una cosa che vanno a
raccontare in giro. Come pensi la
prenderebbero gli altri immortali? Ci sono cose che neppure i Volturi
stessi
conoscono, e che devono continuare a rimanere celate».
Carlisle irrigidì la
mascella. Sapevo quanto fosse
difficile per lui, assetato com’era di conoscenza, venire a
sapere di quello
che avrebbe sicuramente definito uno “spreco”.
Notai lo sguardo del professore,
perso e concentrato
sul mio grembo pieno. Edward mi strinse una mano sulla pancia, come a
proteggere nostra figlia. In effetti quel contatto mi faceva sentire
molto più
sicura e protetta. Inoltre
dava alla bambina la
possibilità di provare la tranquillità che le
dava il contatto col padre, in
contrasto con l’indecisione e la confusione che avvertivo io
in quel momento.
«Perché hanno
scelto un umano?» incalzò Edward.
Si riscosse, sollevando lo sguardo
fino ai suoi occhi.
«Perché gli umani muoiono ragazzo. Pensavo fossi
più sveglio. Non hanno
intenzione di concentrare tutto il potere nelle mani di un immortale.
Ora, se
le domande sono finite…».
«Hai detto che sono segreti, e che non dovrebbero essere
svelati. Perché allora sei
disposto a dirceli?» continuò imperterrito mio
marito.
Philip gli scoccò
un’occhiata furente. Sembrava che
quella domanda l’avesse punto sul vivo. «I Volturi
non verranno a saperlo».
Edward affinò lo
sguardo, guardandolo fisso. «Aro
legge nel pensiero».
Sospirò, lasciandosi
andare sulla poltrona e prendendo
un altro sorso di liquore. Spostò lo sguardo lontano,
facendolo perdere nel
vuoto. Il rintocco lento dell’orologio a pendolo scandiva
ritmicamente il
silenzio.
«Faremo un
patto» asserì poi, guardando i due vampiri
e concentrando infine gli occhi su di me. «Io vi
dirò quello che volete sapere
e voi mi riporterete mia figlia».
«Carlisle» chiamò pacato,
non interrompendo il contatto con i miei occhi
Ansimai,
boccheggiando, osservando le ciocche ribelli dei capelli rossicci
ondeggiare
lentamente. Mi strinsi di più a lui, avvinghiandomi
completamente al suo corpo
e stringendo forte fra le mani la sua chioma bronzea.
«Ti amo»
mormorai
sulla sua guancia, tremando, sentendo il mio corpo scosso da forti
tremiti. Lo
baciai con passione, togliendogli, avida, l’inutile respiro.
«Bella»
sospirò roco,
lasciandosi andare su di me e stringendomi a sua volta, senza gravare
con il
suo peso su di me.
Sorrisi, chiudendo gli
occhi e lasciando che mi baciasse la fronte. Li aprii e presi un
profondo
respiro, osservando i suoi, ambrati, e aspettando pazientemente che
avvenisse
l’inevitabile.
Quando ebbi nuovamente
coscienza del mio corpo mi trovai avvolta in una comoda e calda
coperta,
spartendo il poco spazio a disposizione sul divano bianco con Edward,
le gambe
intrecciate alle sue.
Scrutai i suoi occhi,
con il fiato ancora corto, cercando di scoprire se stavolta avesse
scoperto
qualcosa di importante. «Come… come sono andata
stavolta?» chiesi
mordicchiandomi il labbro, tentando di ironizzare nonostante la
stanchezza che
mi sentivo addosso.
Mi sistemò una ciocca
di capelli che si era appiccicata alla fronte. Sorrise.
«Penso che essendone
consapevole tu riesca ad avere un miglior controllo di te. Direi che va
meglio».
«Oh» feci, quasi imbronciata,
«quindi non sei riuscito a
scoprire di più».
«Bella» mi
rimproverò
con la sua proverbiale melodrammaticità «lo sai
che non sopporto vederti…».
«Non sopporti vedermi
soffrire. Sì, me l’hai ripetuto diverse
volte» affermai, divincolandomi dal suo
abbraccio e alzandomi con la coperta avvolta intorno al corpo, in cerca
della
mia biancheria sparsa qua e là, piegandomi per raccoglierla.
Mi sollevai,
respirando piano per compensare la fatica di quel gesto, «oh,
guarda! Abbiamo
risparmiato: un reggiseno e tre quarti di slip, questa
volta!» lo presi in
giro, sventolando i pezzi superstiti e spostando via
l’attenzione da me, dalla
mia stanchezza, dalla mia sofferenza… cose di cui non mi
andava assolutamente di
parlare.
In un istante mi
sentii afferrare alle spalle, mentre le sue labbra si posavano sul mio
collo.
«Vorrei ben vedere; se tu fossi un vampiro non rimarrebbe
nulla dei miei
abiti».
Arrossii
violentemente, memore della mia focosità.
Mi schiarii la voce,
dirigendomi in camera, in cerca di qualcosa di pulito e integro
da
indossare. «In ogni caso» esordii, riprendendo il
discorso interrotto dal mio
banale appunto, con l’intento di far valere almeno per una
volta le mie ragioni
senza che il discorso fosse dirottato direttamente su di me,
«lo sai che voglio
solo capire. È tutto qui. Dobbiamo cercare di scoprire il
più possibile su
questa bambina. Questi strani sogni non mi turbano più di
tanto» sottolineai
sicura, indossando dei nuovi vestiti.
Lo sentii protestare
qualcosa, ma non tanto alacremente da spingermi a tacere.
«Infatti» indugiai, indossando un largo
maglione «sono
dell’avviso che non avremmo bisogno di accettare il patto
proposto dal
professor Philip; mi sembra molto più un ricatto».
«Ne abbiamo
discusso»
ribatté tranquillo, sicuramente già vestito di
tutto punto. Ero quasi certa che
non me l’avrebbe mai data vinta, era una discussione persa in
partenza, ma non
potevo fare a meno, ancora una volta, di tentare.
Alzai gli occhi al
cielo, indossando dei comodi fuseaux e saltellando per farli scorrere
lungo le
gambe. «Ne abbiamo discusso, dicendo che lo avremmo fatto
ancora. Edward, sono
più i contro che i pro, e lo sai meglio di me».
Sbucò nella cabina
armadio, venendomi incontro e facendo al mio posto un piccolo fiocco
sul
davanti, appena sulla pancia. «Abbiamo bisogno di tutto
l’aiuto possibile per
proteggere te e la bambina. Perché non accettare quello che
ci ha offerto
lui?».
Dopo la sua proposta,
Edward aveva sin da subito detto di voler accettare il patto del
professore,
nonostante il fatto che continuasse a non sopportarlo. Avrebbe fatto
qualunque
cosa per avere qualche certezza sulla gravidanza. Non gli avevamo
ancora dato
una risposta, rimanendo in accordo che quella sera stessa, dopo esserci
consultati con gli altri, gliel’avremmo fatto sapere. Lui non
aveva aggiunto
nient’altro sul suo conto, né risposto a qualsiasi
altro nostro quesito. Io non
avevo più parlato, rimanendo a osservarlo in silenzio e a
disagio.
Sospirai, vedendo mio
marito così tranquillo e risoluto.
«Perché se lo scoprissero i Volturi ci
potrebbero essere mille problemi, perché non mi va che vi
arrischiate in un’impresa
che non sappiamo quanto possa essere pericolosa, e perché
non mi fido di lui.
Punto». Protestai, mettendo il broncio e incrociando le
braccia sul petto.
Mi guardò, e fui certa
che nei suoi occhi ci fosse un immenso divertimento. Oh, sì,
ridiamo pure di
Bella: la patetica donna incinta! Sentii il consueto divertimento
provenire
anche dalla bambina. «Amore» mi chiamò
calmo «i Volturi non potranno mai
punirci per qualcosa che è stato infranto da lui, non con il
rischio che c’è
che andassimo a raccontare che esiste».
«Ma non voglio che voi
rischiate tutto questo per me» ribadii convinta.
«Non rischiamo proprio
niente. Philip sa esattamente quello che fa, e a lui, che è
un umano, non è
successo ancora nulla, fino ad oggi. E per quanto riguarda
te» mi precedette,
prima che potessi aggiungere qualcosa «vedrai che imparerai a
fidarti di lui».
Pensai ai suoi
occhietti chiari sulla mia figura e al senso di disagio che ogni volta
ne
scaturiva. «Certo, lui non fissa te. Fissa me. Fissa
continuamente me»
brontolai. «Non mi fido. Mi spighi come fai?» gli
chiesi, guardandolo torva e
pensando a quanto fosse brusco il professore nei suoi confronti.
Assurdo. «Lo
sopporti meno di me e non riesci neppure a leggergli nel
pensiero!» sbottai,
pensando alla sconcertante rivelazione, che più di tutte mi
aveva convinta a
non fidarmi di quell’uomo.
Avevamo infatti
scoperto che la fede che si portava al dito non fosse altro che un
potente
scudo, fisico e mentale, che con il tempo era andato molto
affievolendosi. Era
stato creato dalla sua stessa moglie, che aveva il potere di trasferire
questo
tipo di potere in un oggetto. Non più di tre
contemporaneamente, comunque. Il
piccolo anello nero l’aveva protetto da molti attacchi del
mondo
sovrannaturale, e riusciva parzialmente a schermare i suoi pensieri.
Con questo
mi spiegai il perché la bella Caterina fosse tanto amata dai
Volturi.
«Perché so che
non
avere nessuna informazione sulla gravidanza quando possiamo averle
è una
follia. La settimana scorsa Carlisle ha dovuto farti un altro ciclo di
terapia
endovenosa per l’anemia. Se succedesse di nuovo e non avessi
fatto nulla per
contrastarlo? Se i sogni della bambina aumentassero tanto da farti
stare
peggio? Non possiamo rischiare» fece con logica
inoppugnabile. «E poi
nonostante non lo sopporti mi fido di lui, e so che non ci, ma
soprattutto, ti,
farebbe mai del male. Abbiamo votato, e il discorso è
chiuso» mi liquidò,
afferrando le chiavi dell’auto.
Sospirai, certa che
non sarei riuscita a fargli cambiare idea. Né a lui,
né ai Cullen, tutti
estremamente entusiasti della possibilità di avere notizie e
di fare nuove
scoperte. Evviva!
Presi un bicchiere
d’acqua e lo bevvi in un sorso, tentando di non pensarci; non
potevo fare nulla
per fargli cambiare idea. Sistemai la mia trousse e il mio vestito,
ricoperto
dalla grande fodera.
Quella sera, infatti,
Edward si sarebbe esibito al “Pantages
Theatre”. Ci voleva un bel vestito da sera,
così aveva detto Alice, e non
mi aveva permesso di obiettare. Avrei passato il pomeriggio a casa
loro, con la
scusa che presto o tardi sarei finita nelle sue grinfie. Cosa
più importante,
sarei stata un intero pomeriggio senza Edward.
Mi avviai verso la
porta d’ingresso, sbilanciata un po’ dalla piccola
pancia in crescita un po’ dall’eccessivo
ingombro degli oggetti che portavo.
«Fermo lì, ce
la
faccio» lo minacciai, brandendo il mio carico sul vialetto
della nostra casa,
nel breve tragitto fino all’auto.
«Come vuoi»
disse,
appoggiandosi alla portiera dell’auto con la schiena.
Intrecciò le braccia sul
petto e aspettò, con un sopracciglio alzato e uno sguardo
sarcastico, che
m’ingegnassi per scendere i due unici gradini che mi
separavano da lui, senza
cadere e senza guardarmi i piedi.
Ondeggiai da un lato,
appoggiandomi con un fianco alla siepe accanto. Mi morsi il labbro,
titubante,
su come avrei dovuto affrontare il secondo e valutando il peso sulle
due
braccia. Decisi di avanzare con in piede destro, appoggiandomi al lato
sinistro, ma non trovai il terreno sotto i piedi.
«Fin troppo
aggraziata. Mi dispiace amore, ma non abbiamo il tempo di fare una
visita al
pronto soccorso oggi». Spavaldo mi depositò in
auto con la sua forza sovrumana,
sistemando in un battibaleno tutte le mie cianfrusaglie nel vano
posteriore.
«Molto divertente
Edward, davvero molto divertente» sibilai sarcastica
«sei peggio di un bambino»
lo rimproverai, scuotendo il capo e massaggiandomi la piccola pancia.
«Sorellina! Ti vedo
radiosa… Vi siete dati da fare, eh?»
insinuò Emmett, sollevandomi e facendomi
compiere una mezza giravolta.
Arrossii
violentemente, pensando alle possibili orecchie indiscrete presenti in
quella
casa e soprattutto vergognandomi della possibilità che una
cosa del genere mi
si leggesse in faccia. «Emmett» borbottai, in vago
tono di rimprovero.
«Sì, Emmett,
lasciala
in pace» riprese Edward, trucidando il fratello con lo
sguardo.
Lui rise, strafottente
come al solito.
Mio marito scosse il
capo, contrariato, depositando il mio vestito e la mia roba sul divano
più
vicino. Lo osservavo fare ogni cosa, in silenzio. Quando ebbe finito
venne
vicino a me, e mi prese le mani con la sua, grande, posando
l’altra sulla
pancia.
Mi mancherai. Ce l’avevo sulla punta
della lingua, eppure non
osavo dirlo. Ero stata io a convincerlo, a spingerlo a buttarsi in
quell’impresa. Avevo sognato solo un po’ di
normalità nella vita della nostra
bambina. C’erano tante altre cose a cui non avevo pensato,
come, ad esempio,
questa.
«Mi mancherai»
disse al mio posto, risparmiandomi ogni cosa. Ci eravamo più
volte separati,
per colpa dei miei studi, per colpa della sua natura. Eppure
non potevamo fare a meno, di volta in volta, di soffrire anche se solo
per un
minimo distacco.
Mi gettai con le
braccia al suo collo, stringendolo con tutta la forza che pensavo di
possedere.
«Sarai perfetto stasera» dissi sicura, lasciandogli
un bacio sulla fredda
guancia. Si scostò baciandomi nuovamente, a sua volta,
facendo toccare le
nostre labbra.
Poi si staccò,
osservandomi con un luccichio negli occhi. Strinse le labbra. Mi pareva
assorto. «Carlisle» chiamò infine,
pacato, non interrompendo il contatto con i
miei occhi.
Non ebbi il tempo di
chiedergli perché lo stesse chiamando, né di
pensarlo seriamente, che la figura
carismatica di mio suocero comparve accanto a noi.
«Sì, Edward?» chiese
attento, con un sorriso, facendo passare lo sguardo fra me e lui.
Lo fissò un istante
attentamente e suo padre fece un passo, avvicinandosi ancor di
più a noi.
«Carlisle, lo sai che mi fido di te e sai quanto vale la mia
stima nei tuoi
confronti. Mia moglie stasera, a teatro, sarà sola, e vorrei
che ti occupassi
di lei e che accompagnassi anche lei, oltre a Esme».
Arrossii
violentemente, comprendendo le sue intenzioni, mentre Edward posava la
mia mano
che aveva fra le sue su quella di Carlisle.
«Ed-Edward» balbettai sgomenta.
Come gli veniva in mente una cosa simile? Mi sentivo più o
meno come in uno di
quei film pieni di lunghi abiti vaporosi e ore e ore di estenuanti
balli.
Eppure, quando
Carlisle gli rispose, sembrava estremamente serio. «Certo
Edward, accompagnerò
io Bella stasera».
«M-ma…
io…» farfugliai
a disagio, completamente rossa in viso.
«Povera
ragazza»
commentò la voce di Esme, sulla porta del soggiorno,
«non vi accorgete quanto
la mettete in difficoltà con queste cose d’altri
tempi? Oh, cara. Non ti curare
di questi schiocchini»
affermò venendomi accanto in
un secondo e prendendomi per le spalle, trascinandomi con sé
«vieni con me.
Sono sicura che non hai mangiato abbastanza! Ti preparo dei dolci, ne
vuoi?».
Circa due ore più
tardi, dopo essermi adeguatamente salutata con Edward, avevo preso il
mio posto
sul deserto tavolo da pranzo, impegnata con un libro per i prossimi
esami. Molte
volte ebbi l’impressione di sentire lo sguardo di Carlisle su
di me, seduto sul
divano alle mie spalle.
Di certo la storia
dell’ufficialità per la ricerca del mio
accompagnatore mi aveva a dir poco
lasciata basita. Poi però, mentre le parole del grosso tomo
sotto i miei occhi
continuavano a scorrere senza senso, avevo riflettuto. Per quanto
Edward
dimostrasse di essere in tutto e per tutto umano, non poteva rinnegare
la sua
natura. Era un vampiro, un vampiro con un secolo
d’età. Rabbrividii, quando
pensai a quella di Carlisle.
«Hai freddo?»
mi
chiese gentile la sua voce, facendomi tornare con i pensieri al
presente.
Mi voltai verso di
lui, togliendomi la matita con cui stavo giocherellando dalla bocca.
«No, sto
bene… credo» cincischiai. Fui certa che in
quell’istante qualcuno, in casa,
stesse accendendo i riscaldamenti.
Mi sorrise, ritornando
con lo sguardo su un grosso libro consunto che reggeva con compostezza
fra le
mani.
Sbuffai, passando
nervosamente le mani fra i capelli, e fermandoli in una crocchia
asimmetrica
con una penna. Mi stropicciai gli occhi. Mi sentivo assonnata,
probabilmente a
causa del controllo che la bambina aveva su di me con i suoi sogni.
«Qualcosa non
va?» mi
chiese Carlisle, con la sua solita discrezione. Faceva parte del patto
che
aveva fatto con Edward?
A passo umano,
decisamente a mio beneficio, venne a sedersi sulla sedia accanto alla
mia. «No»
borbottai. Presi un respiro, incerta se continuare.
«Sono solo stanca» dissi infine, abbassando lo
sguardo.
«Forse dovresti
rallentare un po’ il ritmo. In questi giorni ti stai
impegnando molto per
l’università» buttò
lì serenamente.
Mi misi una mano sulla
pancia, sentendo la bambina muoversi. «Non mi va di essere
discriminata solo
perché sono incinta» affermai convinta, sollevando
i miei occhi sui suoi con
determinazione.
Mi sorrise
teneramente. «Non lo dico perché sei incinta. A
mio parere sarebbe un ritmo
troppo veloce anche per una qualsiasi ragazza»
ribatté sincero.
«Devo solo finire
questo» chiarii «devo fare tre esami, tutti lo
stesso giorno, appena dopo Natale.
E poi sarò libera fino a giugno; devo affrontare quella
sessione d’esame prima
di poter dare la prima tesi, e siccome non so quanto mi
occuperà la nascita
della bambina, devo cercare di anticipare quanto più
posso».
«Vedo che hai pianificato
tutto quanto. Ma Bella, non darti fretta. Avrai
un’eternità per fare tutto, e
adesso sei molto stanca». Il suo non sembrava un ordine,
un’ammonizione, ma
molto più un consiglio da padre.
Cercai di
dissimularlo, conscia che presto, come spesso mia accadeva, avrei
nuovamente
acquisito appieno le forze. «Ce la faccio, sul serio. Posso
controllare quello
che succede alla bambina, non è un problema».
«Bene»
mormorò con un
sorriso, ritornando al suo divano e al suo libro.
Dopo un’altra ora
passata sui libri pensai che chiaramente qualcuno avesse acceso i
riscaldamenti. Lasciai cadere la matita mangiucchiata sul tavolo e
vagai verso
la cucina alla ricerca di un rinfrescante bicchiere d’acqua.
Lì trovai Esme
intenta a cucinare dolci per me. Un’immagine decisamente
incantevole, quasi
uscita da una fiaba. Mi sedetti sulla penisola della cucina,
sorseggiando la
mia acqua e massaggiando la pancia nel tentativo di far cessare le
capriole
della bambina. Si agitava sempre, quando sentivo caldo.
«Tutto bene
cara?»
chiese, lanciandomi una rapida occhiata fra un biscotto e
l’altro.
Annuii.
«Perché Edward
ha chiesto a Carlisle di accompagnarmi?» chiesi curiosa,
cambiando discorso.
Rise brevemente, una
piccola delizia per l’udito. «Beh. È
così che si usa fra gentiluomini. Non
voleva che andassi a teatro non accompagnata. È sconveniente
per una donna.
Soprattutto se questa è in dolce attesa».
«Capisco»
cincischiai,
saltando giù dallo sgabello. «Oh, Esme. Puoi
spegnere i riscaldamenti?» chiesi
con voluta leggerezza, tentando di non dare a vedere quanto quel calore
mi
turbasse.
«Ma certo»
sorrise,
scomparendo e riapparendo in un attimo. «Ecco. Alice
arriverà fra mezz’ora, per
prepararti» mi informò pacata, pulendosi le mani
dalla farina, strofinandole
una contro l’altra. Le resi un’occhiata che doveva
essere piuttosto eloquente,
tanto da spingerla a deliziarmi ancora con una sua risata.
Mi trascinai fino alla
sala da pranzo, con l’intento di raccogliere i miei libri,
facendomi aria con
una mano contro la calura. Non appena arrivai allo stipite della porta,
però,
sentii un’accentuata sensazione di leggerezza alla testa e
per un attimo il
piano del pavimento s’inclinò da un lato. Sbattei
le palpebre, strizzando gli
occhi e appoggiandomi alla porta con una mano.
«Tutto bene?»
alla
voce di Carlisle fu accompagnato un notevole sostegno sotto le mie
braccia.
«Si…
è solo… un po’ la
testa…» mormorai, sentendomi guidare verso il
divano. Sentii la sua mano fredda
sulla fronte, e dopo pochi secondi la vista tornò piuttosto
nitida, tanto da
permettermi di mettere a fuoco i suoi occhi chiari. Spostò
la mano con cui mi
stava sorreggendo sul polso.
«Sei un po’
ipotesa.
Stai meglio?» mi chiese scrutandomi.
Piuttosto che muovere
la testa e rischiare di scatenare una nuova ondata di vertigini
preferii
mormorare un flebile assenso.
Annuì.
«Esme» chiamò
pacato «per favore porta un succo o una limonata per
Bella» poi si rivolse a
me, poggiando la mano fredda sulla mia guancia. «Anche se non
sei più anemica
come prima hai ancora l’emoglobina un po’ bassa.
Magari per la settimana
prossima valutiamo l’ipotesi di un altro ciclo di terapia in
vena, ve bene?»
fece cortese, studiandomi.
«Mi sento già
meglio».
Mi sorrise. «Bene. Hai
sempre avuto la pressione un po’ bassa, potresti essere
soggetta spesso a questi
episodi, in questo periodo della gestazione sono più
frequenti».
Esme mi portò un
bicchiere di spremuta e un piattino con un pezzo di torta.
«Grazie» le disse
Carlisle, accompagnando la sua dolcezza verso la moglie con lo sguardo
«se ti
dovesse capitare voglio
che bevi possibilmente
qualcosa di zuccherato, che stai tranquilla, e se ne senti la
necessità ti stendi.
Evita i luoghi caldi e portati delle caramelle in borsa, va
bene?».
«Sì, grazie
Carlisle»
mormorai, prendendo un lungo sorso di aranciata.
Mi guardò a lungo,
silenzioso. «Edward ha ragione, lo sai. Quando avremo
più informazioni saremo
senza dubbio più tranquilli».
Sospirai, riconoscendo
la verità nelle sue parole. «La decisione
è stata presa, ormai».
Il resto del
pomeriggio lo passai con Alice, e aldilà di tutto, mi
concessi di riflettere su
quello che presto sarebbe avvenuto. Subito dopo l’esibizione
di Edward, a cui
il professor Philip avrebbe presenziato, gli avremmo comunicato la nostra
decisione.
Sapevo che era la
scelta giusta, ma avevo paura. Paura per loro, paura per Edward, paura
per la
bambina. Mi rendevo conto che accettare, sarebbe andato a svantaggio di
tutti
men che mio. Non farlo, invece, sarebbe andato solo a mio svantaggio.
Perfetto!
Perché non potevano accettarlo in pace? Ce la saremmo
cavata, da soli, senza
problemi.
Già non sopportavo di
sapere Emmett, Rosalie, Alice e Jasper lontani da casa, per la maggior
parte
del tempo, per cercare l’origine di chissà quale
leggenda su dei mezzi vampiri
che avevo scoperto esistere realmente. Figuriamoci accettare che
affrontassero
un’impresa come quella di ricercare una mezza vampira
sperduta chissà dove e in
compagnia di chissà chi. L’unica fortuna era che
Edward sarebbe rimasto con me.
Ero egoista, infinitamente egoista, lo sapevo. Eppure
sapevo anche quanto avrei sofferto nel caso in cui mi sarei dovuta
separare da
lui.
Il viaggio in auto verso
il “Pantages
Theatre” di Tracoma durò
all’incirca due ore e fu per lo più silenzioso. Mi
diede un’altra eccellente
occasione per rimanere a pensare. Arrivai alla conclusione che potevo
fare
davvero ben poco per far cambiare idea a Edward o a uno qualsiasi degli
altri
Cullen.
Cominciai a pensare,
però, a quale melodia avesse deciso di suonare. Non mi aveva
voluto svelare
questo segreto fino alla fine. Mi avrebbe sorpreso, ne ero certa. E di
sicuro
la sua esibizione sarebbe stata perfetta… tanto da
costringerlo a inserire
alcune imperfezioni.
«Signore»
mormorò
Carlisle in cima all’ampia scalinata.
Un ragazzo in frac
prese i nostri soprabiti, lasciando vedere la linea lunga e flessuosa
che il
mio vestito argentato disegnava sulla pancia. Quando ero a casa,
davanti a uno
specchio magari, mi ero più volte fermata ad osservarla
mettendomi di profilo e
stando ore a contemplare la mia immagine. Tuttavia, molto
più spesso mi
capitava di abbassare appena il collo, e vedere appena, oltre quella
piccola
collina, la punta dei piedi.
«Siete
incantevoli»
commentò Carlisle, facendo il baciamano a entrambe. Ero
sicura che Esme sarebbe
diventata, se ne avesse avuto l’opportunità, del
mio stesso color rosso acceso.
Impallidii, quando
comparai mentalmente l’altezza dei miei tacchi e il numero di
gradini che avrei
dovuto scendere. Carlisle mi sorrise rassicurante, accompagnando con un
braccio
sua moglie, e con altro, forte, me.
«Sei nervosa?»
mi
chiese Carlisle a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio ma non
voltandosi verso
di me. Lo spettacolo era sul punto di cominciare, e a illuminare
l’immensa sala
c’erano delle grandi luci circolari di colore giallo, poste a
intervallo fra i
palchi, quella sera sgombri.
Deglutii, osservando i
pezzettini che rimanevano del mio depliant. Dovetti fermare
l’impulso di
passarmi una mano fra i capelli, ricordandomi che così
facendo avrei rovinato
una complicata acconciatura piena di fermagli luccicanti.
«Solo un po’» ammisi
riluttante. Presi un respiro, ricordandomi di una cosa. «Gli
altri?» chiesi
ansiosa.
«Sono passati a
prendere tuo padre. Arriveranno a momenti. Rilassati, Bella»
disse, fermando
con la sua le mie mani, intente a tagliuzzare la carta.
Presi un grosso
respiro, facendo calmare, insieme a me, la bambina. Come previsto gli
altri
arrivarono pochi minuti più tardi, appena in tempo per
l’inizio dello
spettacolo. Edward, come nuovo artista, sarebbe stato uno dei primi a
esibirsi,
in una serata dedicata alternativamente al balletto e al piano.
Mio padre era
indiscutibilmente più nervoso di me, non tanto
perché fosse fuori luogo, quanto
più per quanto si sentisse
un pesce
fur d’acqua.
Sentivo il cuore
sussultare ogni volta che m’immaginavo che dai quei pesanti
drappi bordeaux
sarebbe comparso un meraviglioso sorriso e una splendida chioma
rossiccia.
Al contrario di quanto
mi sarei aspettata, però, il cuore rallentò i
suoi battiti e ogni ansia sparì,
quando realmente lo vidi comparire sul palco. Era lui, Edward, mio
marito, e
sarebbe stato perfetto, ne ero certa.
E così fu.
Così,
seguii la sua immagine mentre con carisma ed eleganza si spostava lungo
il
palco, andandosi a sedere sullo sgabello nero e imbottito.
Così, vidi le sue
mani e le sue dita posarsi sui tasti neri e avorio e suonare una
meravigliosa
melodia. Sapevo che ogni cosa sarebbe stata perfetta, l’avevo
immaginato, mille
volte, nella mia mente. Sapevo perfettamente quanto la bambina avrebbe
apprezzato quelle note così dolci e musicali.
Fu come quando sei
piccola, e aspetti per un intero mese il giorno del tuo compleanno,
aspettando
i giorni che mancano. E poi c’è la festa, ci sono
i tuoi piccoli amici, la
torta e tanta panna. E quel giorno ti sembra di non viverlo mai
totalmente
appieno, di non sfruttarlo abbastanza. Ti senti piena e vuota, ma
capisci, alla
fine, che tutto è andato proprio come doveva andare.
Il forte applauso delle
persone accanto a me ruppe quasi la mia bolla, e mi sollevai
fluidamente,
insieme agli altri, applaudendo ancora e osservando fisso negli occhi
mio
marito, che a sua vota non guardava che me.
«Bella, eri uno
spasso, non la smettevi di piangere» ridacchiò
Emmett, schernendomi ancora.
«No, invece»
ruggii,
tirando su col naso e cercando di cancellarmi le ultime tracce delle
lacrime
infami dagli occhi.
Jasper, che camminava
nei lunghi corridoi circolari accanto a me, mi posò una mano
sulla spalla,
infondendomi un po’ di serenità. Alice gli prese
la mano, continuando a
camminare al mio passo. Ero giusto un po’ lenta, solo
perché non volevo
rischiare di inciampare e rompermi l’osso del collo su quegli
esorbitanti
tacchi. Gli altri avevano già raggiunto Edward nel suo
camerino, mentre loro e
Emmett, che era rimasto con me solo per prendermi in giro,
erano rimasti con me.
Alice lanciò
un’occhiata veloce a suo marito, e poi schizzò in
avanti, insieme a Emmett.
Sbuffai. «Sono troppo
lenta anche per lei, ora?» chiesi massaggiandomi la pancia.
La bambina si era
piuttosto agitata durante l’esibizione del padre. Causa mia,
anche.
Jasper mi sorrise,
carismatico, e sentii un altro po’ di tranquillità
fluire in me. «Ha avuto una
visione. Il professor Philip ci raggiungerà fra dieci
minuti, è andata a dirlo
agli altri».
«Capisco»
commentai, e
sentii in un angolo della coscienza un certo fastidio per non poter
essere
realmente infastidita.
«Amore» mi
chiamò
Edward non appena entrai nel suo camerino, dove già era
presente il resto della
famiglia.
Jasper staccò la mano
dalla mia spalla, e ringraziai mille volte il fatto che non fossi
più
sottoposta al suo potere. «Edward» lo chiamai, e
lasciai che annullasse la
distanza fra di noi, poggiando le labbra sulle mie. Si
staccò un attimo, ma lo
rincorsi, strappandogli altri due veloci baci.
Mi osservò, adorante,
facendomi imporporare le guance. «Sei stupenda»
soffiò, posando una mano sulla
pancia e muovendola piano, circolarmente. Presi un respiro, posando la
fronte
sul suo petto, quando la bimba iniziò a muoversi
impetuosamente.
Spostai il capo di
lato. «Dov’è mio padre?».
«È andato
via» ripose
Rose «sembrava… che fosse urgente»
disse, contenendo un piccolo sorriso.
Sorrisi anch’io, al
pensiero del disagio di mio padre. Un sorriso che durò ben
poco, considerando
quanto velocemente la porta di aprì, rivelando
un’immagine che riusciva in ogni
caso a mettermi a disagio.
«Buonasera» salutò pacato, per
niente disturbato dalla presenza
di tutti quei vampiri.
Carlisle si fece
avanti, salutandolo a sua volta a nome della famiglia. Sentii la presa
di
Edward farsi più forte intorno alle mie spalle proprio
mentre gli occhi cerulei
del professore si posavano su me.
«Mi risparmi i
convenevoli» affermò brusco, fermando le cortesi
parole di Carlisle, e
spostando finalmente lo sguardo su di lui «cosa avete
deciso?».
Carlisle aspettò un
secondo, poi parlò. «Accettiamo» disse
solo.
«Oh, ma bene»
affermò
il professore, zoppicando verso il centro della stanza.
«Spero non ci mettiate
così tanto tempo anche a mettervi all’opera per
cominciare a cercare mia figlia;
tutte queste baggianate, puah» fece disgustato, lasciandosi
cadere sulla sedia rossa,
imbottita, accanto alla scrivania. «Da dove vogliamo
cominciare?» chiese, aggrottando
le bianche sopracciglia.
Tutti attesero in
silenzio, destabilizzati forse dalla sua fretta.
«Mia figlia si trova
di sicuro in America. Le sue ultime tracce erano in Messico. Ha
viaggiato sola,
è stata a volte catturata dai licantropi, fugge da loro. Ha
la dote della
ricerca e della fuga, per questo è così difficile
individuarla. Non
spaventatela. La riconoscerete perché sarà lei a
farsi riconoscere. Ha quasi
settant’anni anni, ne dimostra quindici. Questo, per ora, vi
basterà. Domani vi
porterò una mappa con i luoghi da perlustrare».
Tutti i vampiri
rimasero in silenzio, soppesando le sue parole. Anch’io,
nella mia mente,
pensavo a quello che aveva detto. Sua figlia dimostrava molti meno anni
di
quelli che aveva? Allora sarebbe stato lo stesso anche per la mia. Non
ero mai
stata brava in matematica, e con qualche sforzo feci un calcolo
mentale: un
anno dimostrato corrispondeva a circa quattro anni e mezzo effettivi?
La mia
bambina sarebbe cresciuta così lentamente? E poi?
Jasper ruppe per primo
il silenzio. «Forse dovrebbe darci più
informazioni sui mezzi vampiri, anche
per agevolare la ricerca, come d’altronde era
d’accordo» dichiarò sicuro,
avanzando di un passo.
Philip rise,
stiracchiando le rughe ai lati della sua bocca. «Withlock,
non è così? Beh… andiamoci piano. Le
cose devono essere ben commisurate».
«Non ci tireremo
indietro dal nostro impegno, può fidarsi di noi»
affermò Carlisle «vogliamo
solo avere più spiegazioni possibile, almeno sulla
gravidanza, per essere
preparati prima che accada qualcosa».
Gli occhi del
professore saettarono su di me, facendomi violentemente arrossire e
battere
forte il cuore. Mi rintanai con il viso sul petto di Edward, a disagio,
e
sentii le sue mani fredde accarezzarmi i capelli.
«Ahh»
brontolò acido. «Come posso sperare che mi
aiutiate, se non capite neppure le
cose più semplici?».
«Si spieghi
meglio»
disse fredda Rose.
Sbuffò. «Non
vi siete
resi conto, pur essendo dei vampiri, di quello che è
accaduto a Isabella».
Sollevai nuovamente il
volto, scontrandomi con i suoi occhi. Edward mi accarezzò
una guancia, e quelli
del professore si spostarono verso il suo viso.
«La bambina
nascerà in
nove mesi. Per ora è lei che ha subito un notevole
rallentamento della
crescita».
Spalancai la bocca,
sconvolta come il resto dei vampiri. Cosa voleva dire?
«Non ci basta»
replicò
Edward, facendo un passo in avanti.
Il volto del
professore si indurì. «Vi dirò il resto
dopo che avrete iniziato le ricerche».
Mio marito scosse il
capo, muovendosi appena di lato per coprirmi, come se volesse farmi
scudo con
il suo corpo. «Ci serve adesso. Bella ha avuto una crisi di
grave anemia al
terzo mese di gestazione. L’ha superata con grande
difficoltà e un supporto
farmacologico non indifferente, ma ha rischiato la vita».
Gli occhietti cerulei
del professore saettarono sul mio volto.
Tremai.
«Adesso sta
meglio»
sibilò stentoreo, teso nella sua posizione.
Carlisle lo guardò,
serio. «Il trend
dell’emoglobina è di nuovo in
discesa. La richiesta sta progressivamente diventando maggiore della
capacità
dell’organismo di Bella di produrne di nuovo».
Il professore mi
guardò ancora, per lungo tempo, serissimo.
Mi portai una mano
alla pancia, distogliendo la sguardo. Sentii un movimento ed un
colpetto. Forse
era un piedino. La bambina stava diventando sempre più
forte.
Edward allungò una
mano indietro, accarezzandomi un fianco e rassicurandomi.
Jasper gli fece un
cenno, ma lui lo bloccò. Non voleva che usasse il suo potere
su di me, non
ancora.
«E va bene!»
esclamò
il professore spazientito, sollevando le mani in cielo.
Ringhiò, inquieto.
«Come fate a non arrivarci?» esclamò
arrabbiato, facendo passare rapidamente lo
sguardo su tutti noi. «Dovete darle ciò di cui ha
bisogno: sangue!».
«Carlisle glielo ha
dato» ribatté Rosalie a denti stretti
«è stato impossibile fare una
trasfusione».
Serrò i denti,
sbuffando. Prese dei respiri veloci, contrariato. Poi puntò
i suoi occhi nei
miei, inchiodandomi con il suo sguardo. «Non una trasfusione.
Lo deve bere».
Presi un respiro,
sentendomi improvvisamente senza fiato.
«Oh Dio, grazie di
aver inventato i dolci. Voglio mangiare solo dolci per il resto della
mia vita».
«Sembra
gradire»
commentò Edward, seduto davanti a me, accarezzandomi la
piccola pancia.
«Sì,
sì, lo sento. Me
lo sta dicendo in ogni modo possibile… Oh»
m’interruppi, riflettendo sulle sue
parole «non si stai muovendo. La senti lo stesso?»
chiesi curiosa.
Annuì, sorridente.
«Un
po’».
Sorrisi anch’io,
prendendo un altro morso del mio cornetto al cioccolato, lasciando che
continuasse ad accarezzare sua figlia. Stava maturando sempre
più con i suoi
pensieri ed io e Edward ne eravamo davvero orgogliosi.
«Allora»
esordì
Carlisle, rientrando nel suo studio. Mi ricomposi leggermente sul
lettino,
pulendomi le briciole ai lati della bocca e arrossendo. «La
analisi del sangue
vanno piuttosto bene» asserì, fermandosi composto
e in piedi al centro della
stanza.
«Piuttosto?»
domandai
un po’ spaventata.
«Finisci il tuo
cornetto al cioccolato» mi rassicurò Edward
notando la mia espressione nauseata
«non dovrai bere nessun bicchiere di sangue».
Mi veniva da vomitare
solo all’idea. «Per oggi» balbettai,
allontanando quello che rimaneva della mia
colazione. La rivelazione del professor Philip ci aveva sconvolto
notevolmente,
ma Carlisle mi aveva rassicurato che avremmo considerato
quell’ipotesi solo nel
caso in cui non avessimo avuto altre alternative.
«Bella, le donne di
cui parla Philip non avevano a disposizione la terapia farmacologica
che stiamo
dando a te» mi rassicurò mio suocero con un
sorriso «sei sempre anemica, è
vero, ma lo sono anche molte altre gestanti con gravidanze
meno… speciali».
Edward mi lasciò un
bacio sui capelli. «Affronteremo ogni cosa quando ce ne
sarà bisogno, ve
bene?».
Annuii, accarezzandomi
la pancia. Per quanto l’idea mi repellesse avrei fatto
qualunque cosa per mia
figlia, anche bere del sangue mentre ero ancora umana. Speravo solo non
ce ne
fosse bisogno.
«Non lo vuoi
più?» mi
chiese Edward, distraendomi dai miei pensieri e indicando il pezzettino
di
brioche che avevo lasciato.
Feci una smorfia. «Non
mi va».
Ridacchiò, buttandolo
via. «Non volevi mangiare solo dolci per il resto della tua
vita?».
Sollevai gli occhi al
cielo, lasciando dondolare i miei piedi, liberi di muoversi sul bordo
del
lettino su cui ero seduta. «Possiamo andare?»
chiesi speranzosa. Era stata
un’estenuante mattinata in ospedale. Considerando quanto poco
amassi quel luogo
e tutti i trattamenti a cui ero stata sottoposta, non vedevo
l’ora di fuggire.
Avevo preso seriamente in considerazione l’idea che Edward
avesse deciso di
comprarmi quei dolci solo per tapparmi in qualche modo la bocca. Ma mi
diedi
subito della sciocca, capendo che l’aveva fatto solo per il
mio benessere, per
farmi distrarre e stare meglio.
Eppure, a parte l’idea
del sangue, mi sentivo davvero bene.
Alle mie parole
l’espressione di Carlisle si contrasse di dispiacere.
«Vorrei solo fare
un’ultima cosa».
Sospirai, desolata.
«Deve solo controllare
quanto stai crescendo» mi sussurrò lievemente
Edward «non ci vorrà molto e non
ti darà fastidio».
Annuii, seppur
riluttante. «Certo, va bene».
Anche l’altra
rivelazione del professore era stata piuttosto sconcertante. Pensavo
spesso
alla bambina, a come sarebbe cresciuta lentamente, e a come io stessa
non mi
fossi resa conto dei cambiamenti del mio corpo. O meglio, non
cambiamenti.
Carlisle prese
delicatamente le mie mani fra le sue, osservando le mie unghie.
Passò ai
capelli, misurò l’altezza, le proporzioni del mio
corpo. Disse che in effetti,
come Philip ci aveva informati, stavo crescendo più
lentamente del solito. Era
stato difficile, quasi del tutto impossibile notarlo, per le strane
variazioni
che ha «l’organismo umano»
- sue parole - e per le fasi alternanti di
crescita. L’importante era che andasse tutto bene, anche solo
per sentire
Edward sereno.
Arrossii lievemente
quando dovetti salire sulla bilancia. Mi morsi il labbro inferiore,
mentre sia
Carlisle che Edward osservavano l’infame numeretto rosso sul
display. «Prometto
che non mangerò più così tanti dolci.
O sì, e prometto che non mi farò
abbindolare dai manicaretti di Esme…»
pensai velocemente, invocando Dio ed
alzando gli occhi al cielo.
«Hai preso due chili e
mezzo» disse Carlisle sorridendo divertito alla mia
espressione eloquente.
Arrossii.
«È anche fin
troppo
poco. Andiamo… puoi mangiare quanti dolci vuoi» mi
disse Edward intuendo i miei
pensieri, sollevandomi con un braccio e facendomi scendere dalla
bilancia.
«Andiamo via?»
chiesi
entusiasta.
«Esatto» mi
rispose
con un sorriso. «Dobbiamo andare in un posto».
«Andate pure. Rinnovo
le mie raccomandazioni Bella, non ti stancare troppo».
Carlisle si fece
improvvisamente più serio. «Come va con i
sogni?».
Prima che Edward
potesse aprire bocca, risposi io. «Bene» dissi, con
forse troppa enfasi, arrossendo
subito dopo per la possibile duplice interpretazione delle mie parole.
«Va…
tutto bene… considerando che sono cosciente di quello che mi
accade riesco a
controllare la situazione». Nell’ultimo periodo in
effetti, grazie anche allo
yoga - dovevo ammetterlo - ero riuscita a scoprire di poter acquisire
un nuovo
ed imprevedibile controllo di me stessa. Per quanto i sogni della
bambina mi
stancassero notevolmente, l’importante era che lei stesse
bene. Tutto andava
per il meglio.
La porta marroncina si
spalancò di botto. «Dottor Cullen!»
esclamò Mark,
entrando di corsa nello studio. Era lo specializzando di ginecologia,
il
migliore del suo corso, che avrebbe dovuto assistere al mio parto. Mi
chiedevo
se ci fosse una persona più paziente di Carlisle in grado di
stargli dietro.
Avanzò nello studio frettolosamente. «Stavo
registrando i dati sulla cartella e
mi sono accorto che forse la VES è troppo bassa!».
Carlisle sorrise
composto, scuotendo il capo e offrendogli delucidazioni. Mark era un
ragazzo
dolcissimo, e con infinita voglia di imparare. Ma anche così
maledettamente
curioso! Mi sfregai il braccio, ancora dolorante per il prelievo che mi
ero
lasciata fare da lui per dissuaderlo dalla storia
dell’ecografia. Assurdo.
«Ciao
Carlisle!» lo
salutai, uscendo dall’ambulatorio accanto a mio marito,
«ciao Mark, mi
raccomando, non lavorare troppo» ironizzai con un sorrisino.
«Oh, no, no»
rispose
serio «ma Bella, già te ne vai?» chiese,
e mi sembrò tanto di vedere un bimbo a
cui hanno appena tolto il gioco nuovo.
Ridacchiai,
lasciandomi trascinare via da Edward. In fondo, come Carlisle mi aveva
spiegato, per uno specializzando era una grande soddisfazione poter
seguire
personalmente un caso e avere tutto lo spazio che gli stava offrendo.
Con la
sua curiosità e la sua inesperienza, manipolarlo sarebbe
stato più semplice, e
Carlisle avrebbe avuto un paio di mani in più su cui
contare.
«Oddio, Edward, dove
mi hai portata?» esclamai, osservando il grande recinto,
pieno di abeti di ogni
misura, tutti innevati. Scesi velocemente dall’auto,
osservando lo spettacolo
di lucine di fronte ai miei occhi. La neve che cadeva giù
dal cielo rendeva
tutto il quadro decisamente più pittoresco.
Sentii le sue mani
fredde sulla vita, e l’euforia della bambina si
unì alla mia, mentre l’aria
fredda entrava nella mia bocca, aperta per lo stupore. «Puoi
scegliere quello
che vuoi» mormorò al mio orecchio mio marito, con
la sua voce carezzevole.
«Attento, così
urterai
al muro» lo chiamai, guidandolo.
Rise. «Bella, credi
forse che abbia difficoltà a trasportare un
abete?».
Borbottai, sfilandomi
i guanti e sfregando le mani una contro l’altra, per impedire
che si
congelassero definitivamente. Lo osservai mentre lasciava ondeggiare
l’albero,
senza sfiorare alcuna parete o oggetto d’arredamento.
Era davvero un
bell’albero. Non troppo alto, anche se Edward aveva voluto
che sfiorasse il
basso soffitto del salotto. Io, dal canto mio, avevo preteso che avesse
una
chioma ampia e fitta, e che le foglie fossero verde smeraldo. Era un
bell’albero. Il nostro primo albero.
Lo mise in piedi,
tenendolo dritto con un braccio ed emergendo dalla folta chioma.
«Dove lo
vuoi?» chiese con un sorriso contento da ragazzino. Sembrava
davvero felice.
Sorrisi anch’io.
«Aspetta» mormorai, scomparendo dalla stanza, per
poi ritornare con un grosso
vaso e un sacco di terra. Lo trascinai sul pavimento, tirandolo.
«Bella» mi
sgridò.
«Ce la faccio»
mormorai, continuando a trascinare il vaso fino all’angolo
opposto al camino.
Lo avrei posizionato in modo che i nostri inesistenti vicini potessero
vederlo
dall’esterno, dalla grande vetrata. Nella notte, con tutte le
lucine accese,
avrebbe scintillato nell’oscurità, e magari
avrebbero potuto vederlo anche gli
animali della foresta. Era il nostro albero, il nostro primo albero, ma
ogni
anno, come ogni famiglia, avrei preteso di addobbarlo sempre nello
stesso
punto. Stavamo creando la nostra prima consuetudine, di quelle che ti
scaldano
il cuore ogni volta che le ripeti. Di quelle che ti fanno sentire una famiglia.
«Lascia» disse
Edward,
togliendomi il sacco di terra dalle mani e posando l’albero
al centro esatto
del vaso.
Mi pulii le mani, una
contro l’altra. «Vorrei fare dei
biscotti», dissi a mezza voce, confessando la
mia idea e arrossendo un po’, timorosa del fatto che potesse
trovarla banale o
stupida, «che ne dici? Mi dispiace che vadano buttati, magari
li mangerei solo
io…».
Mi sorrise. «Potremmo
chiamare tuo padre e la mia famiglia stasera. Ti va?» mi
baciò la fronte,
stringendomi una mano con la sua.
Annuii, radiosa.
«Certo». Era sempre attento ad ogni mia richiesta,
premuroso, e felice di farmi
felice, in qualsiasi modo. L’amavo tantissimo, e pensavo che
ben presto mi
potesse mancare il respiro dalla felicità.
Mi dedicai alla
cucina, cercando fra le vecchie ricette che avevo portato con me da
Phoenix,
lasciando mio marito a occuparsi della sistemazione
dell’albero. Canticchiai,
leggera, allegra, impastando la soffice pasta, trasmettendo la stessa
allegria
alla bambina. Chissà, mi chiesi, se una volta nata avei
potuto cucinare per
lei, se ci fosse stato qualcuno in grado di apprezzare la mia cucina.
L’avrei
amata in ogni caso ma speravo di non dover allattare mia figlia con dei
biberon
pieni di… sangue.
Avremmo potuto
risolvere chiedendo semplicemente al professore, eppure lui si ostinava
a
rimanere in silenzio. Che arroganza! Eppure Rosalie ed Emmett erano via
da una
settimana, solo per aiutare lui!
«Hai finito?»
la voce
di Edward, alle mie spalle, mi fece sussultare. Mi abbracciò
da dietro, posando
la testa sulla mia spalla.
Coprii la ciotola con
l’impasto con un canovaccio, spingendolo in avanti sul
ripiano della cucina. Mi
voltai tanto da poterlo baciare liberamente. Ben presto,
però, le sue mani
furono sul mio viso, le mie fra i suoi capelli, e la stanza fu riempita
di gemiti.
«Edward»
mormorai
ansante «dobbiamo finire l’albero».
Cacciai un urletto quando mi strinse le
natiche con le mani.
«Dobbiamo…»
mormorò
roco baciandomi ripetutamente il collo, tenendomi la testa bloccata e
reclinata
da un lato.
«Dobbiamo»
esalai,
lasciandomi andare sul suo petto sconvolta, il cuore che mi batteva
dirompente
nelle vene, «andiamo».
Aveva fatto un lavoro
eccellente, come al solito, piantando l’albero. Pretesi che
non utilizzasse, o
che almeno tentasse di frenare, le sue doti da vampiro mentre lo
addobbavamo.
Avevamo comprato tante di quelle decorazioni che a stento si sarebbe
visto il
verde dei rami sottostanti! Ma Edward non aveva una misura, e non
appena aveva
visto i miei occhi posarsi su una o su un’altra cosa
l’aveva presa. Avremmo deciso
più tardi se utilizzarla, così aveva detto.
Voleva sempre accontentarmi in
tutto, eppure questa volta mi pareva ci fosse qualcosa in
più. Mi pareva che
anche lui fosse piuttosto preso dalla storia dell’albero.
«Da dove
cominciamo?»
chiese entusiasta, osservando i rami ancora spogli.
«Dalle luci»
risposi,
come se fosse ovvio, «dobbiamo metterle intorno».
«Oh…
Bene».
«Edward» chiesi
perplessa «non sai come si fa un albero? Credevo che sapessi
tutto, ormai»
dissi ridendo.
Si passò una mano fra
i capelli, come imbarazzato. «Se ne sono occupate sempre Esme
e Rosalie. Non
ricordo molto dell’ultimo albero che ho fatto»
mormorò «sono passati tantissimi
anni. Allora non c’erano le luci elettriche, suppongo di
averlo decorato con
mia madre, con delle candele. Avrò avuto
all’incirca otto o nove anni».
Mi parve di scorgere
un velo di malinconia fra le sue parole. Mi avvicinai, prendendo le sue
mani
fra le mie, dandomi ella stupida per la mia leggerezza. «Non
ti preoccupare, ti
insegno io».
Mi sorrise, accarezzandomi
i capelli e baciandomi la fronte.
Rispettò il patto, e
non usò nessun potere da vampiro. Sistemammo tutte le lucine
colorate, e le
palline di vetro, e gli addobbi. I nastri, le ghirlande, i fiocchi.
Cominciavo
a decorare dal basso, e lasciavo che lui si occupasse della parte
più alta, un
sorriso euforico stampato sul suo volto da ragazzino smaliziato. Sentii
più
volte la bambina muoversi, e ogni volta lui sollevava il capo e mi
osservava,
felice.
«È
bellissimo» disse
infine, osservando il nostro lavoro. Era ricco di addobbi, ma era
speciale e
nostro. Esprimeva la nostra armonia. Mi piaceva tanto,
eppure…
Portai le mani sui
fianchi. Immediatamente vidi una delle tante decorazioni avanzate sul
tavolo.
«Mettilo su, mettilo lassù quel fiocco!»
esclamai porgendoglielo. Mancava
ancora qualche ritocco. Mi sollevò per i fianchi, facendomi
sedere sulle sue
spalle. «Oddio, Edward, sei troppo
alto…» risi, agitando le braccia.
«Non ti muovere, metti
quel fiocco» mi rispose divertito. Non appena
l’ebbi sistemato mi afferrò per i
fianchi per farmi scendere.
«No, aspetta»
dissi
stringendomi con le gambe, fasciate dalle calde calze chiare e morbide.
«Voglio
mettere il puntale!».
«Dove l’hai
messo?»
chiese, volgendo una rapida occhiata alla stanza e facendomi girare
velocemente.
Mi aggrappai con le
mani alle sue spalle, facendolo fermare. «Non lo so,
l’hai preso tu!».
Mi fece scendere,
mettendosi di fronte a me. «Beh, no, pensavo
l’avessi preso tu. Ne faremo a
meno» mormorò, facendo spallucce, come se fosse
una cosa assolutamente normale.
«Beh» mormorai
perplessa. «Solitamente il puntale è
necessario».
Inarcò un
sopracciglio. «Ne sei sicura? Il nostro albero è
bellissimo anche così».
«Già»
ammisi,
osservandolo. Non mi curavo poi tanto di essere tradizionalista. Si
poteva dire
che il nostro albero non seguisse alcuna tradizione, con
l’eclettismo dei suoi
addobbi. Sorrisi, facendomi abbracciare e ricordando le parole di mia
madre.
«Un Natale il nostro puntale si ruppe. Mia madre
impazzì, ribadendo
l’importanza di quello stupido oggetto. Tutti i negozi erano
ormai chiusi,
vagammo per tutta la città in cerca di un puntale.
Camminavamo fra la neve
fredda, congelate, ma le si ostinava a ripetere:
“È una questione di principio,
il puntale è la parte più importante
dell’albero! È così, e basta. Si
può fare
un albero anche senza nessun addobbo, solo con un puntale, sarebbe
stupendo. Il
contrario sarebbe una cosa orrenda!”» risi,
ricordando la febbre del giorno
dopo. Avevamo il nostro albero col puntale, ma dovemmo godercelo
entrambe a
letto.
Edward strinse le
labbra, sollevando entrambe le sopracciglia. «Non credevo
fosse così importante.
Sicura che non sia necessario?».
Feci spallucce, ma
vidi nei suoi occhi una strana scintilla. Già, era il suo
primo albero dopo
tantissimo tempo. Il nostro primo come famiglia. Era comprensibile che
volesse
fare tutto quello che andava fatto. «Vado a prenderlo e
torno, va bene?» mi
chiese, quasi come se volesse il mio permesso.
Annuii, sorridendo.
«Certo». Mi sorrise, baciandomi la fronte.
«Riordino» dissi osservando lo
scempio attorno a noi, «torna presto».
Quando fu scomparso
dalla mia vista mi concessi di iniziare a sistemare quel putiferio.
C’erano
buste di cartone e addobbi in ogni dove. Eravamo stati proprio dei
bambini!
Sorrisi, invece, ripensando all’espressione contenta sul viso
di mio marito.
Chissà, magari, una volta tornato a casa, dopo aver messo il
puntale… per
cuocere i biscotti ci voleva un’ora, era più che
sufficiente, potevamo
riprendere da dove avevamo lasciato…
Il telefono di casa
squillò, così mi affrettai lesta a rispondere,
rossa in viso. Scavalcai poco
agevolmente il divano, afferrando la cornetta.
«Pronto?» feci trafelata.
«Ci sono
così tanti
tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi
tutti…».
Risi alla voce
divertita di mio marito. Mi sollevai dal divano, andando verso la
vetrata.
«Dimmi come sono» feci comprensiva, capendo quanto
fosse importante per lui.
Osservai il cielo ghiacciato e crepuscolare, e gli alti alberi
ricoperti di
neve. Il giorno stava quasi volgendo al suo termine. «Credo
che quello dorato
sia perfetto» mormorai alla cornetta, posando una mano sul
vetro trasparente.
«Bene,
prenderò
questo allora. Hai fatto una magnifica scelta».
Non feci a tempo ad
arrossire, che una macchia inconsueta richiamò la mia
attenzione. «Ma… cosa…»
farfugliai, stringendo gli occhi per vedere meglio in mezzo al bianco
accecante
della neve.
Solo dopo alcuni
istanti riuscii a realizzare che un grosso lupo dal folto pelo
marroncino stava
correndo velocemente proprio verso di me. Seth!
Edward richiamava la
mia attenzione, chiamandomi. «Bella, Bella!».
Fissai il lupo in
silenzio, completamente paralizzata da quello che stava avvenendo. Era
vicino
non più di dieci metri, i grandi occhi concentrati su di me.
Lasciai cadere il
telefono.
Le orecchie del lupo
si appiattirono e le sue zampe anteriori si stirarono frenando
bruscamente
sulla neve. Era come se un’immensa forza invisibile lo stesse
frenando,
schiacciandolo. Ululò.
Contemporaneamente, un
fischio acutissimo stridette nella mia testa, facendomi vibrare. Urlai,
portandomi le mani fra i capelli. Gemetti, mentre il dolore diventava
sempre
più martellante e una gabbia invisibile
m’imprigionava, pervadendomi da dentro.
Edward
Avevo trascorso una
magnifica giornata con mia moglie. Carlisle mi aveva rassicurato su
ogni cosa.
Prima della visita avevo avuto una certa ansia riguardo
all’andamento della
gravidanza, riguardo alla sua anemia e alla possibilità che
dovesse modificare
la sua… dieta. E ancor di
più, paura condivisa da mio padre, ero
preoccupato riguardo al possibile stress di cui mia moglie avrebbe
potuto
risentire a quella rivelazione.
«Non
l’ho mai vista
così serena» mi aveva rassicurato mio
padre subito dopo la visita, «sta
benissimo. È una donna forte e molto coraggiosa, non avere
paura per lei,
Edward». E l’aveva guardata con affetto,
accarezzandole e capelli e
sorridendo per il rossore sulle sue guance.
Così mi ero concesso
di essere tranquillo, felice, estraniato dal mondo, dai problemi, e dal
sovrannaturale. Almeno per un giorno.
La mia Bella. Era un
amore, mentre sgambettava trascinandosi dietro il grande vaso. Era un
amore,
mentre cucinava con il grembiulino giallo, che le metteva in evidenza
la
piccola pancia. Era un amore, mentre dirigeva i lavori per la
costruzione del
nostro albero, il nostro primo albero.
Lei era il mio amore,
e noi eravamo una famiglia. Ero semplicemente troppo contento. Non che
non mi
fossi mai sentito parte di una famiglia, avevo ricevuto tantissimo
affetto. Da
Carlisle, Esme, da ogni mio fratello. Ma con Bella e la nostra bambina
tutto
era diverso. Le amavo immensamente, tanto da lasciarmi andare spesso e
volentieri in comportamenti che con la freddezza di qualche anno
addietro avrei
giudicato stupidi e superficiali, ma di cui ora non avrei potuto fare a
meno.
Ignorai con un sorriso
sarcastico l’occhiata che le donne, giovani e non, mi
rivolsero non appena misi
piede nel piccolo supermercato di Forks. Ignorai i loro pensieri,
quelli
rivolti a me, e quelli rivolti a mia moglie, scorrendo veloce verso il
reparto
che stavo cercando.
Quando mi trovai di
fronte all’immensa varietà di addobbi e puntali
rimasi allibito. Possibile che
in una cittadina con Forks, in cui mancavano cosa fondamentali, come ad
esempio
una libreria, si desse così tanto spazio alla
superficialità?
Composi velocemente il
numero di casa. «Pronto?» mi
rispose Bella al settimo squillo. Sentivo
il suo respiro pesante dall’altro lato della cornetta.
Sorrisi, immaginandola
destreggiarsi fra la confusione che avevamo creato. Sarei presto
tornato da
lei, per aiutarla a sistemare.
«Ci sono così
tanti
tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi
tutti» affermai
sarcastico, godendomi subito dopo il suono della sua risata allegra.
Sentii il
fruscio della stoffa e il rumore dei suoi passi, inconfondibili, una
musica per
le mie orecchie. Immaginai le sue gambe snelle ondeggiare,
meravigliosamente
perfette.
«Dimmi come sono»,
disse serena.
Osservai lo scaffale delle
decorazioni di fronte a me, e mi lanciai in una minuziosa descrizione.
Volevo
che scegliesse lei, che tutto fosse come voleva lei. Vederla contenta e
felice
valeva più di qualsiasi cosa al mondo. Vetro, metallo, forme
e dimensioni.
Immaginai il nostro eclettico albero, dubbioso. Quale sarebbe stato
quello
giusto?
«Credo che
quello
dorato sia perfetto» m’interrupe mia
moglie.
«Bene,
prenderò questo
allora. Hai fatto una magnifica scelta». Sulla mia bocca
spuntò un sorriso. Era
mia moglie, era Bella, sapevo che mi avrebbe sorpreso, come sempre.
Afferrai
l’oggetto e mi diressi alla cassa, ansioso di ritornare a
casa.
«Ma…
cosa…»
sentii le parole sconclusionate di mia moglie e un suono strano
scalpiccio come
sottofondo. Una terribile sensazione s’impossessò
di me.
«Bella? Bella?»
la
chiamai ripetutamente. Non raccolsi il resto, afferrai la mia busta e
mi
diressi verso l’auto a grandi falcate. Delle terribili
prospettive si stavano
affacciando alla mia mente. Cos’era successo, cosa stava
succedendo? Stava
male?
Sentii il tonfo sordo
del telefono, mentre cadeva a terra. «Bella!
Bella!» continuai a chiamarla,
spingendo a fondo l’acceleratore, sempre più
perplesso e preoccupato.
L’angoscia mi stava divorando.
Due suoni contemporanei
e sovrapposti, eppure ben distinguibili al mio udito da vampiro, mi
lasciarono
spiazzato. Un ululato, e l’urlo di mia moglie.
«Bella!» gridai agghiacciato.
Dei gemiti bassi e doloranti. Cosa stava accadendo?!
Lasciai l’auto sul
vialetto e corsi molto più velocemente dentro casa. Mia
moglie era lì, in
piedi, di fronte alla vetrata. Avanzai rapidamente verso di lei, e
quello che
vidi mi lasciò senza fiato.
La sua pelle, pallida.
La sua espressione, vacua. I suoi occhi, spalancati, neri.
Sentii un trotterellare
veloce, e distinsi con perfezione la figura di un lupo correre via, fra
gli
alberi. Lo avrei seguito sicuramente, se solo non avessi avuto il viso
pallido
di mia moglie fra le mani, se solo le sue labbra non si fossero mosse
per chiamarmi.
«Edward».
Non si agitava. E
sarei stato molto meno preoccupato se, come di consueto,
l’avesse fatto. Se,
come era sempre accaduto, non fosse stata affatto cosciente.
«Bella» la
chiamai, passando le dita fra le lunghe ciocche scure dei suoi capelli,
«Bella,
amore. Sono qui… Mi senti?» sussurrai agitato,
tentando in qualche modo di
farla rinvenire.
Fece un breve e
piccolo movimento con il capo, e mi parve come se stesse annuendo.
Mi imposi di mantenere
la calma, di pensare lucidamente e razionalmente per aiutarla. La
scossi per le
spalle, le baciai la fronte, il naso, la bocca. Immobile, era
terrorizzata e
immobile. La sollevai di peso, prendendola fra le braccia, agitato,
preoccupato. «Amore, amore, rispondimi» la chiamai,
accarezzandole
freneticamente la fronte nivea. Se sue labbra si mossero, ma non ne
uscì alcun
suono. L’adagiai, facendola sedere sul divano e chinandomi di
fronte a lei,
continuando a chiamarla, continuando ad accarezzarla.
Un lampo bianco mi
colpì gli occhi. Rimasi esterrefatto.
Normalmente dovevo notevolmente concentrarmi per poter vedere qualcosa.
Questo
pensiero mi aveva colpito all’improvviso. Poi di
nuovo, la luce. Bella
era rigida, immobile. Strinsi le sue mani fra le mie, avvicinandomi
alla
pancia, tremante, tentando di porre fine a quella tortura.
La luce mi accecò
completamente, riempiendomi gli occhi. Era bianca e iridescente.
Tuttavia,
sentii una sensazione inconsueta. Freddo. Era allo stesso tempo
così piacevole
e spiacevole. All’improvviso, mentre i miei occhi
osservavano, attenti, capii.
Era neve. Un’immensa distesa di neve. La sensazione di
ricerca, la solita e
consueta, crebbe a dismisura dentro di me. Mi aspettai che tutto
finisse, come
al solito. Invece, questa volta, la mia ricerca fu soddisfatta. Avevo
coscienza
di me.
Avevo trovato me
stesso.
«Ahhh!»
l’urlo di mia moglie mi fece tornare alla realtà.
Si dimenò, agitandosi,
roteando gli occhi, tornati del suo intenso marrone naturale.
«Bella!»
esclamai
angosciato, vedendola agitarsi dolorante, bloccandole le braccia per
impedirle
di farsi alcun male.
Si prese la testa fra
le mani, gemendo, dondolando avanti e indietro come una forsennata. I
denti
stretti. Gli occhi, nocciola, sgranati.
«Amore, amore»
la
chiamai, stringendo il suo piccolo e fragile corpo fra le mie braccia e
costringendola a fermarsi, attento a non farle del male.
Ansimò, prendendo dei
respiri profondi e veloci, come se fosse appena uscita
dall’apnea. Artigliò le
mani al mio maglione, stringendomi, aggrappandosi, graffiandomi, come
se fossi
uno scoglio in un fiume.
«Shh,
shh. È tutto
finito» la rassicurai, sorpreso dalla
sua reazione. La strinsi più forte, attento a non farle
male, facendo calmare
il battito del suo cuore. Continuava a gemere, a mezza voce.
L’allontanai,
aspettandomi di trovare i suoi occhi appannati di lacrime. Ma non ce
n’erano.
C’era solo tanto terrore.
«Edward»
esalò, stringendosi
sofferente al mio corpo, allacciandosi con forza, tanta da tremare, con
le
braccia e le gambe. Era bollente. Sentivo tutto il
suo calore irradiarsi
dal suo corpo verso il mio.
Ero spaventato,
sopraffatto dalla veloce successione degli eventi. L’agonia,
il sogno, il
terrore. Troppe cose persino per una mente spaziosa come la mia. Troppi
quesiti
irrisolti, troppi i possibili risvolti e collegamenti. Ma ora
c’era decisamente
una priorità: rassicurare mia moglie.
Mi imposi di avere un
tono calmo e pacato, di trasmetterle sicurezza.
«Amore» la chiamai dolcemente
«è tutto finito. Cosa succede?». Ero
preoccupato. Ogni volta lei sminuiva il
suo stato, faceva di tutto per nascondermi la sua stanchezza. Ogni
volta,
ironizzava sulla sua condizione, su quello che le era accaduto. Era
convinta di
poter tenere tutto perfettamente sottocontrollo.
Ma questa volta era
stato evidentemente diverso.
Si strinse con più
forza a me, continuando a tremare. Feci per alzarmi, per farla stendere
sul
divano, o farla mettere in una posizione più comoda. Fare
qualsiasi cosa che mi
consentisse di aiutarla. Sussultò, cantilenando un no.
Posai una mano
sulla sua fronte, sul suo collo, trovandoli certamente più
caldi di quanto
avrebbero dovuto essere. Si appoggiò al mio palmo, rimanendo
tremante e
silenziosa.
Pochi istanti dopo
aver sentito i pensieri dei miei familiari, la porta di casa si
aprì.
«Cos’è
successo?».
I pensieri di Alice, allarmati, furono i primi a giungermi. Si era
bloccata a
pochi metri da noi, una mano alla bocca. Jasper le fu subito accanto,
stringendola.
«Edward»
i
pensieri di mio padre mi costrinsero a voltarmi verso di lui, al mio
fianco.
Bella sussultò,
gemendo, stringendo le gambe attorno a me, spaventata, sentendo
l’inaspettato
contatto con la mano di Esme. Continuava a tremare, gli occhi gradi e
fissi nel
vuoto. Le accarezzai la schiena, acquietandola. «Shh.
Calma».
«Sono entrambe
disorientate,
destabilizzate» disse Jasper con delicatezza, osservando mia
moglie e
percependo la gravità della situazione, «Bella
è terrorizzata. Cosa diamine
è successo?» pensò sgomento.
Sentii i deboli
pensieri della bambina, disturbata dal calore. «È
calda» dissi conciso,
voltandomi verso Carlisle.
Mio padre ricambiò il
mio sguardo, allungando una mano verso il viso di mia moglie, attento a
farsi
guardare e non compiere movimenti bruschi. Non fece una piega quando la
mano si
posò sulla sua fronte. Subito i suoi pensieri confermarono i
miei, la sua
temperatura era decisamente più elevata di come avrebbe
dovuto essere. «Aspetta»
pensò, resosi conto del mio stato d’angoscia
«Aspettiamo, forse ora si
abbassa».
Lo guardai
preoccupato, tentando di leggere nei suoi pensieri quanto fosse sincero
e
convinto della sua affermazione.
«Cos’è
successo,
Bella?» chiese Alice preoccupata, avvicinandosi a colei che
considerava a tutti
gli effetti sua sorella. S’inginocchiò accanto a
me, sfiorandole una mano.
Levò un lamento lieve,
portando lentamente un palmo aperto sulla tempia e gemendo.
«La testa…»
mormorò, «la testa…». Mio
Dio, cosa le stava accadendo? Cosa le era successo?
La mente di mia
sorella fu invasa da una serie di immagini, velocissime, tutte con
Bella
protagonista. Poi si concentrarono su un altro tipo
d’immagine. Non era una
visione, era un ricordo. Era Alice, da umana. Una camicia lunga e
bianca,
sporca. Delle bruciature, un forte dolore alla testa.
Ansimò, spalancando gli
occhi e guardando Bella.
Jasper venne
immediatamente accanto a sua moglie, sollevandola e portandola lontano.
In quel momento notai
che il tremore di Bella era cambiato. Si mosse, velocemente, tossendo.
«Edward…
I…» farfugliò, guardando la porta del
bagno.
Capii. La sollevai
velocemente e la portai nella stanza, sorreggendola, tenendole la
fronte e i
capelli. Ci seguì solo Carlisle, chiudendosi la porta alle
spalle. «È sotto
shock» pensò, osservandola. Mi
passò un asciugamano. «Il dolore alla
testa potrebbe essere dovuto alla temperatura elevata».
Le asciugai il sudore
sulla fronte, le pulii le labbra, sollevandola fra le braccia. Vederla
così
indifesa mi annientava. Il coraggio che aveva sempre dimostrato mi
aveva
aiutato ad andare avanti. Era vero, capivo perfettamente quanto
minimizzasse,
ma lei mi sorrideva, mi guardava tranquilla, mi accarezzava i capelli,
dicendomi che tutto andava bene. Come se fossi io quello da
rassicurare. Ed era
vero, solo ora lo capivo, l’aveva sempre fatto.
«Ti viene ancora da
vomitare?». Le scostai una ciocca dal viso.
Scosse il capo, e feci
un piccolo sospiro di sollievo, quando mi resi conto che stava
riacquistando
lucidità. La portai in camera, adagiandola sul copriletto.
Le tenni le dita
strette alle mie, comprendendo quanto ne avesse ancora bisogno.
Mio padre le sfiorò la
fronte, costatando con serenità che la temperatura stata
tornando normale. Lo
ringraziai della sua rassicurazione. Bella sbatté le
palpebre, chiudendole per
alcuni secondi, stanca, portandosi una mia mano sulla guancia.
«È tutto
finito» le
ripetei, ansioso di farla stare meglio.
«Cos’è
successo?»
chiese Carlisle alle mie spalle. «Alice ha avuto una visione,
non molto
differente da quello che abbiamo trovato appena siamo arrivati.
Cos’è
accaduto?» chiese calmo, avvicinandosi a Bella e facendole
comprendere le sue
intenzioni. Lei annuì. Sollevò con cautela il suo
vestito, fin sull’ombelico,
tastandole l’addome.
Mi scostai leggermente
per agevolargli i movimenti. «È tutto troppo
complesso. Ci sono i licantropi di
mezzo, e non capisco come possano centrare. Per il resto, la bambina ha
fatto
il suo solito sogno» osservai mia moglie, mentre ricambiava
attenta il mo
sguardo, «Sono riuscito a seguirlo tutto.
Ma…» deglutii, e Bella
strofinò il suo pollice contro la mia guancia
«Bella era lucida, e cosciente»
rivelai.
I pensieri di mio
padre si bloccarono, così come i suoi movimenti. Lei chiuse
gli occhi, e mi
aspettai che delle lacrime scendessero dalle sue ciglia fitte. Ma non
fu così.
Si sollevò, prese il
bicchiere che Carlisle le aveva porto e ingoiò in un sorso
la compressa. Non
chiese perché, non chiese cosa fosse. Tocolitici,
mi aveva spiegato, a
scopo preventivo per le contrazioni.
Ci lasciò soli non
appena la temperatura di Bella fu di nuovo vicina alla
normalità. Mi stesi
accanto a lei, avvolgendola in una coperta. «Va
meglio?» chiesi, accarezzandole
il fianco destro.
«Sì»
mormorò
abbracciandomi.
Le baciai la fronte,
morbida e vellutata come la buccia di una pesca. «Mi vuoi
dire cosa è
successo?» chiesi delicatamente, attento a non turbarla,
«anche solo
approssimativamente se vuoi».
Strinse le labbra,
posando la testa sul mio petto. «La testa…
mi… faceva male. Era Seth, il lupo.
Era Seth. Ma non si è avvicinato. Si è bloccato,
ha ululato, è andato via».
Chiuse le palpebre, ancora una volta, stanca.
L’accarezzai.
«Riposa»
sussurrai a mezza voce.
Rimase in silenzio per
molti minuti, ma non si addormentò. Riaprì gli
occhi e mi guardò in silenzio,
forse titubante. «Sta bene?» chiese infine, a voce
appena udibile. Mi resi
conto che stesse parlando della bambina, ma mi colpì il tono
che aveva usato.
«Sì, sta bene,
non ti
preoccupare. Non accadrà niente, è tutto passato.
Riposa» ripetei, premurandomi
di rassicurandola.
Chiuse gli occhi.
«Edward» mi chiamò, vibrando nel
silenzio.
«Sì?».
Scosse il capo sul mio
petto. La strinsi più forte, accarezzandola.
«Hai paura?»
chiesi,
aspettandomi una risposta negativa.
Mi affaccendai con il lenzuolo
bianco, sistemandolo e
lisciando le pieghe.
Ogni gesto che compivo mi costava
un certo sforzo, e
la fiacchezza gravava inesorabilmente su di me. Rifare il letto era
vitale,
però. Significava impedire a mio marito ad esortarmi a
riposare, ancora una
volta, apprensivo e preoccupato per la piega che stavano prendendo le
cose.
Scoccai un’occhiata alla
porta della camera e la
trovai chiusa, esattamente come l’avevo lasciata. Sapeva
quali erano i miei
spazi. Sapeva che se l’avevo fatto era perché
avevo bisogno di stare sola.
Distolsi l’attenzione, trascinandomi stancamente nel bagno,
bisognosa di lavare
via il velo di sudore che mi aveva man mano ricoperta durante la notte.
Il mio ritratto allo specchio non
mentì. Le mie occhiaie
parlavano da sole. In due interi giorni passati da quando… era successo, avevo dormito in totale non
più di quattro ore.
Mi spagliai lentamente del pigiama,
facendo scomparire
la maglietta. Non mi soffermai, come di solito avevo sempre fatto,
sulla mia
pancia.
Ero una madre orribile.
Non dormivo più,
perché non potevo rivivere quello che
mi era successo. Perché non potevo, non potevo,
addormentarmi e lasciarmi
andare ancora in balia del dolore. In balia del tormento, in balia del
terrore.
Mi ficcai sotto il getto caldo,
lasciando che
m’inondasse completamente il viso e concedendomi, la prima
volta dopo due
giorni, un silenzioso pianto.
Ero una
madre
orribile.
Ero una madre orribile,
perché da ben due giorni i
miei occhi non si soffermavano sul mio ventre. Perché le mie
mani non l’avevano
più accarezzato, perché le mie emozioni non
avevano più sfiorato la mia
creatura.
Perché, da quando il
vuoto si era impossessato in un
istante di me, da quando il terrore mi aveva sommersa e rinchiusa, da
quando il
più crudo dolore mi aveva fatto sperare la morte, da quando,
quel giorno
affatto lontano, la bambina aveva preso il sopravvento su di me,
imprigionando
la mia mente ancora cosciente, avevo paura.
Avevo
paura
di mia figlia.
Singhiozzai, e subito dopo mi misi
a tacere,
mordendomi un labbro e appoggiando una mano alla superficie appannata
della
parete di vetro. Edward non lo doveva sapere, mai. Mi disgustavo
orribilmente
della mia persona, per quegli orribili pensieri. E poi… per
lui sarebbe stato
un tormento, sapere che uno degli oggetti del suo amore era la causa
del
terrore dell’altro.
Per questo manifestavo il meno
possibile le mie
emozioni. Per questo non piangevo. Per questo, mentre ero stesa fra le
sue
braccia, fingevo di dormire.
Ero troppo terrorizzata per farlo
realmente…
Si era creata in me una distorta
immagine di mia
figlia. Era più esatto dire che si fosse sdoppiata,
duplicata. Avevo letto che
una donna incinta tende ad idealizzare, immaginare, costruirsi nella
mente
l’idea del proprio bambino. Io ne avevo costruite due. Una,
era la mia piccola
bambina, dolce, indifesa, che amavo e continuavo ad amare con tutto il
mio
cuore. Dell’altra avevo solo e semplicemente paura.
Quando mi ritrovai davanti allo
specchio osservai con
attenzione i miei occhi. Non sapevo cosa avrebbe rilevato
l’attenzione di un
vampiro. Il sonno o un accidentale incidente con del sapone sarebbero
bastati
per non farmi scoprire?
Mi portai una mano alla fronte
quando per alcuni
secondi la mia vista turbinò, facendomi perdere
l’equilibrio. Riacquisii
velocemente il controllo di me stessa, sbattendo velocemente le
palpebre.
Dovevo mangiare. Il mancato sonno
mi toglieva gran
parte delle forze, e obbligatoriamente dovevo cercare di recuperarle
con il
cibo.
«Bella?».
Sussultai quando sentii Edward aldilà della
porta del bagno.
Mi dovette richiamare ancora una
volta per
costringermi a rispondere. «Eccomi» mormorai piano,
nascondendo qualsiasi sottointeso
con il basso volume della voce.
Lo ritrovai di fronte a me, gli
occhi appositamente tranquilli
fissi sulla mia persona. Si avvicinò con un passo elegante,
lasciandomi un
breve bacio sulle labbra. Mosse una mano, accarezzandomi il ventre. Era
così
abitale per lui, che mi ricordava quanto lo fosse stato anche per me.
Mi
ricordava la brusca interruzione di quell’abitudine, la
nascita del secondo
bambino.
Lo abbracciai, sorridendo piano,
puramente a suo
beneficio, posando la testa sul suo petto ampio. Continuò ad
accarezzarmi, ma
la bambina non si mosse. Era così strano che non lo facesse.
Era assurdo che
non si muovesse da ben due giorni.
Ero in uno strano modo consapevole
di essere molto
preoccupata, e speravo e sapevo che Edward se ne sarebbe accorto,
riferendolo
possibilmente a Carlisle. Lo speravo, ma proprio non ce la facevo a
parlare di
lei, a pormi volontariamente il problema, ad affrontarlo. Era troppo,
troppo.
Ed ero convinta che mi sarei
sacrificata per lei, che
avrei silenziosamente sopportato il dolore, che il mio amore nei suoi
confronti
sarebbe potuto solo crescere.
Ma come si fa a non aver paura
davanti al terrore? Al
dolore? Alla morte?
Mi ero scherzosamente professata
masochista, mi
sbagliavo. Avevo e continuavo inesorabilmente ad avere paura.
Notai i suoi occhi titubanti nei
miei. «Hai sentito…
Qualcosa di strano?» mi chiese, sistemandomi una ciocca
ribelle di capelli.
Sembrava un po’ preoccupato. Avevo imparato a conoscere i
suoi occhi sotto la
sua bella maschera da vampiro.
«Strano?» gli
chiesi, fissandolo di rimando, tentando
di individuare a cosa si stesse riferendo.
Sospirò, posando
nuovamente una mano sulla mia pancia.
«Intendo, riguardo alla bambina. Io ero un po’
indeciso» si bloccò, spostando i
suoi occhi fra il grembo e me, incerto se continuare. «Si sta
muovendo poco?»
chiese infine, con delicatezza.
Probabilmente non me
l’aveva fatto presente
precedentemente per non turbarmi. Fui sollevata dal fatto che me
l’avesse
chiesto. Annuii, mentre sospiravo dentro me.
«Sì» mormorai appena. Lasciai che
la preoccupazione prendesse per un istante il sopravvento su di me, che
la
bambina diventasse una sola, il mio piccolo amore.
«Molto… poco…» mormorai e
poi deglutii, ingoiando ancora una volta le lacrime, sentendomi in
colpa.
Lui annuì, sorridendomi
dolcemente. Mi baciò la fronte
e mi rassicurò.
Quando l’ennesimo
capogiro m’investì decisi che non
potevo più indugiare sul petto di Edward, malgrado adorassi
quel contatto.
Contatto massimo avuto, in quei due giorni. Non sapevo quanto avesse
capito del
mio comportamento, speravo ben poco. Ma non ero così sciocca
da credere che non
si fosse accorto quanto fossi rimasta segnata da quello che era
avvenuto. Così
non mi aveva fatto alcun genere di pressione, e io non ero andata a
cercare
nessun contatto che fosse più intimo di un bacio.
Spalmai con solerzia la marmellata
sul pancarré,
ascoltando le sue parole disinteressate.
«Esme ha comprato la
confettura alle ciliegie e dice
che se vuoi potrebbe anche imparare a farla. E poi ci sono i
mirtilli…».
«Devo imparare a fare la
salsa di mirtilli freschi»
m’imposi d’interromperlo, per dimostrare il mio
interessamento in realtà
inesistente.
Le sue sopracciglia si arcuarono un
attimo, sorprese.
Mi parlava per un tacito accordo di apparente serenità,
probabilmente non si
aspettava che gli rispondessi con qualcosa di diverso da un “mm-mm”.
«Certo. Non so se Esme ne sia capace, ma sono certo che tu
imparerai alla
perfezione».
Mi venne accanto, sedendosi su un
alto sgabello, di
lato al mio. Il nostro rapporto era stato perlopiù
taciturno, ma molto solido e
unito. Edward si era molto adoperato per me, mi era sempre stato
accanto,
supportandomi, condividendo la mia paura. Mi aveva rassicurata,
dicendomi che
avremmo capito tutto, che non sarebbe accaduto più. Non
rispondevo, mi limitavo
al più ad annuire, consapevole. Sapevo che anche lui era
spaventato. Perché entrambi
sapevamo che prima o poi sarebbe potuto succedere ancora, anche mentre
ero
cosciente, che non eravamo venuti ancora a capo di nulla di tutte
quelle strane
coincidenze. E se fosse stato ancora di
quell’intensità, o addirittura
maggiore… Non sapevo. Non avevo idea di quello che avrei
fatto. Finii di masticare
il mio boccone, passando automaticamente una mano per stropicciarmi gli
occhi.
«Hai dormito?»
mi chiese di punto in bianco, neutro,
non smettendo di osservare il mio viso.
Sussultai, e mi affrettai ad
annuire. Presi il mio
piatto e animata come da un istinto di fuga mi spostai sul divano del
soggiorno. Insisteva sempre perché dormissi. Sapeva che il
mio organismo ne
risentiva molto, e in una notte passata assieme non potevo fingere per
più di
due ore, solo per rassicurarlo in qualche modo delle mie condizioni. Ma
sapeva
quanto non potessi né riuscissi a prendere sonno.
«Sei stanca»
mormorò, improvvisamente comparso al mio
fianco.
Finii di trangugiare una delle
fette di pane,
affrettandomi per fare spallucce e accendere la Tv, disinteressata. Non
smise
di guardarmi per tutto il tempo, mentre finivo di mangiare, sottoposta
ai suoi
occhi, la mia merenda. Furono molte le volte in cui virai al rosso.
Molte di
più quelle in cui impallidii, stanca.
«Bella, io penso
che…».
«Scusa» lo
interruppi, spostando il piatto vuoto dal
un lato e facendo per alzarmi «devo sistemare la camera per
mia madre e… non ho
fatto ancora nulla». Non lo fissi negli occhi. Vagai con lo
sguardo, ferendomi
il labbro con i denti.
Rimase due secondi in silenzio, poi
si sollevò,
posandomi una mano sulla spalla per impedirmi di fare lo stesso. Mi
sorrise,
guardandomi negli occhi. «Lo faccio io, va bene?».
«Ma» provai ad
obbiettare in ogni modo, inventando
scuse inutili «mia madre… lei…
è allergica alla seta e…».
«Vuol dire che non la
userò».
«Ma… devo
rassettare, pulire…». Qualunque cosa per
evadere e soprattutto, evitare di dormire.
Si abbassò, baciandomi
le labbra. «Ci metterò
pochissimo». E così scomparve in un istante.
Mi lasciai andare sullo schienale,
respirando
rumorosamente, una smorfia sul viso. Il seme che cresceva in me, la
vita
collegata miracolosamente alla mia stessa vita, mi faceva de male.
Perché?
Avvicinai una mano in grembo, fino quasi a sfiorarlo, animata
dall’amore. Ma
poi… la ritirai, spaurita.
Sospirai. La mia piccola non si
muoveva… La paura che
provavo per lei, per l’immagine dell’incantevole
bambina, stava soppiantando
rapidamente quella che provavo per me, tanto che fui sul punto di
chiamare
Edward, di piangere, spaventata, per la sorte della nostra bambina,
come ogni
madre avrebbe fatto, esageratamente preoccupata, desiderosa di essere
rassicurata. Ma ancora una volta non lo feci. Non ce la facevo. Dovevo
combattere con l’altra,
l’altra
bambina. Strinsi le gambe e ingoiai il magone, alzando al massimo il
volume
della televisione.
Un
ronzio
nella testa, man mano sempre maggiore. Si trasformò in un
fischio, e divenne
tanto stridente da farmi impazzire. Provai a muovere le braccia,
portandole
alla testa in un gesto istintivo, provando a contenere quello che ormai
stava
diventando dolore. Ma non riuscivo a muovermi. Ero imprigionata,
legata,
stretta, rinchiusa. E stavo impazzendo, stavo impazzendo
perché l’ansia si
faceva strada in me, la testa pulsava, forte. E sapevo che il cuore
sarebbe
dovuto impazzire, sapevo che il petto si sarebbe dovuto muovere,
veloce,
rincorrendo il fiato che sembrava mancarmi, e mi faceva morire il fatto
che non
lo facesse. Mille aghi mi perforavano il cervello, pervaso come da una
fortissima scossa elettrica. Volevo urlare, urlare, urlare alla figura
di mio
marito, davanti ai miei occhi, di salvarmi o di uccidermi per porre
fine a
quello strazio. Ma non potevo.
Mi sollevai di soprassalto, il
cuore velocissimo nel
petto. Ansimai, osservando intorno a me la penombra, tentando di
mettere a
fuoco qualcosa. Ero sudata, causa la coperta che mi era stata con amore
e cura
sistemata addosso. Probabilmente senza quella non mi sarei svegliata.
Mi portai le mani fra i capelli,
osservandomi intorno.
I lustri delle finestre si aprirono, facendo passare la luce. Strizzai
gli
occhi, abituandomi all’improvviso chiarore.
«Mi…
mi… sono…» balbettai, non appena Edward
comparve
accanto a me.
«Avresti potuto dormire
di più. Sono passate appena
tre ore» disse apprensivo, avvolgendomi nuovamente nella
coperta e stringendomi
a sé. Mi accarezzò la schiena con la mano,
desideroso di sentirmi tranquilla.
Sospirai, umettandomi le labbra
secche.
Presi un bicchiere
d’acqua, sciogliendo l’arsura della
gola. Aveva ragione Edward, avrei avuto bisogno di dormire di
più. Suonarono
alla porta, e dopo pochi istanti sentii l’inconfondibile voce
di mio suocero. Il
motivo della sua visita fu in leggero dubbio finché la
presenza della sua
familiare borsa di cuoio non lo fugò. Ero sollevata dal
fatto che Edward
l’avesse chiamato.
Non parlai, rimasi in silenzio per
tutta la durata
della visita. Non avevo mai visto Carlisle così concentrato
e chiedermi cosa
gli passasse per la testa era… impossibile. Edward stringeva
costantemente la
mia mano fra le sue, pensando sicuramente a quanto fossi preoccupata
per la
bambina. E lo ero. Una parte di me lo era realmente. Per il resto mi
sentivo
completamente svuotata, in balia di
qualcosa che non mi apparteneva.
Carlisle sospirò piano,
una tipica abitudine umana.
Era così abituato a dimostrarsi uomo fra gli uomini. Una
persona dotata di
infinita forza di volontà e coraggio. Di certo, lui non
avrebbe mai temuto di
uno dei suoi figli. Tutt’al più
l’avrebbe fatto per i
suoi figli.
Distolsi lo sguardo, afflitta.
Forse non avrei mai
potuto essere una madre.
«Non posso dire niente
con precisione». La sua voce mi
arrivò come lontana, registrata. «Sapevo che prima
o poi l’avrei detto, ma
speravo non fosse così. La membrana mi impedisce di sapere
qualunque cosa in
più». Temporeggiò, afflitto, notando
che non mi voltavo nella sua direzione.
Edward si chinò su di
me, abbracciandomi silenzioso.
Era preoccupato, era un padre davvero preoccupato, eppure si premurava
di
rassicurare me, perché pensava quanto stessi soffrendo per
la nostra bambina. Strinsi
le braccia attorno al suo collo, silenziosa, voltandomi appena per
posare la
testa sulla sua spalla.
«La nota positiva
è che il battito è buono» mi
rassicurò Carlisle, «ma… non lo so.
Dovremmo valutare l’ipotesi di un ricovero
entro domani».
Rimasi ferma, silenziosa. Le parole
mi arrivavano
addosso prive di significato.
«Potresti dirmi con
più precisione quali sono stati i
suoi movimenti?» mi chiese cortese.
Mi morsi un labbro, senza
scompormi. Mi presi molto
tempo per rispondere. «Si è mossa…
poco… pochissimo…» distolsi lo sguardo,
chiusi gli occhi, afflitta dalla vaghezza delle mie indicazioni.
Edward rispose per me, dando a
Carlisle delle
informazioni più precise. «…e nelle
ultime tre ore l’ho sentita solo tre volte,
ma non erano movimenti significativi…».
Improvvisamente s’interruppe,
irrigidendosi.
Sentii un sibilo e immediatamente
mi staccai, guardando
negli occhi mio marito.
«Stai tranquilla,
Bella» mi rassicurò, veloce. Saettò
con lo sguardo su Carlisle. «Perché è
venuto? Non doveva aspettare che
andassimo noi?».
Carlisle strinse le labbra.
«Non lo so, Edward. Ci
conviene parlargli, ora, subito. La situazione ci sta sfuggendo di
mano, e
abbiamo bisogno di aiuto».
I miei occhi passavano veloci da
uno all’altro, senza
fermarsi. Non erano preoccupati. Più che altro infastiditi e
sull’attenti. Edward
si voltò verso di me, scrutandomi. «Vai»
disse a suo padre, che scomparve in un
istante. Passò una mano sotto la mia nuca, guardandomi
intensamente. «Per
affrontare questa cosa abbiamo bisogno di aiuto Bella. Ti prometto che
tutto
passerà, tutto si sistemerà»
sospirò, stringendo le labbra lisce «dobbiamo
fidarci del professor Philip,
adesso».
Sapevo che l’avrebbe
detto. Aspettavo solo il momento
in cui l’avrebbe fatto. D’altra parte, avevamo
stretto un patto con quell’uomo,
e in questo momento il nostro stato di difficoltà era
palese. In realtà, per quanto
riluttante fossi all’idea di farmi aiutare da lui, avevo
segretamente
cominciato a sperare che le cose potessero davvero aggiustarsi. Che
avrebbe
trovato una soluzione per il mio snaturato istinto di madre.
Per questo motivo
l’accolsi nel mio soggiorno, e non
feci neppure una grinza mentre lo osservavo ascoltare quello che Edward
e
Carlisle gli stavano raccontando. Sorseggiava lentamente il Whisky che
io
stessa ero andata a versargli. Tutto, pur di allontanarmi anche solo un
secondo
dai quei piccoli occhi cerulei che non smettevano di fissarmi. Edward
aveva
intuito il mio stato di tensione, sedendosi accanto a me sul divano,
tenendomi
stretta con un braccio.
Avevo maturato un occhio critico
nei confronti di
quell’uomo, tanto da accorgermi che c’era una
sottile differenza nel suo
comportamento, nei suoi modi, nei suoi sguardi, fra quelli burberi e
bruschi
che rivolgeva al resto del mondo, e quelli che invece rivolgeva a me.
«La strana convergenza
dei licantropi, quello che ha
fatto la bambina, quello che è successo a Bella…
sembrano cose troppo
eterogenee per stare assieme. Non riusciamo ad individuarne la
causa», spiegò,
concludendo, Carlisle.
I suoi occhi fiammeggiarono. Si
strinsero, si
allargarono. La fronte si corrugò e poi si distese. Mi
chiesi quali pensieri
potessero passare in quella mente. «Non vi dirò
niente» sancì infine, dopo un
maturato ragionamento.
La testa di Edward
scattò immediatamente verso di lui.
«Cosa?».
Sembrava tranquillo per aver
stuzzicato pesantemente
un vampiro. «Questo non ha niente a che fare con la natura
della bambina e la
gravidanza. Non rientra affatto nel patto».
La mascella di Edward si
serrò, ne sentii lo schiocco
secco. «Cosa intende dire?».
«Niente di più
di quello che ho detto. Non vi dirò
nulla».
Ansimai, scossa. Mio marito
scattò in piedi,
avvicinandosi in due ampie falcate a quell’uomo. «I miei fratelli sono in giro per il modo
a cercare sua figlia, e Dio solo sa
quanto sia
doloroso per loro essere strappati dalla propria famiglia».
Il suo tono era
pedante e sibilante «Non mi appello alla sua coscienza, alla
sua integrità di
uomo. Non me lo aspetto» aggiunse con disprezzo,
«Ma non mi interessa quanto
quello che le ho chiesto competa o meno l’ambito del
contratto. Lei. Ora. Mi dirà
quello che voglio sapere».
Era tanto vicino da scoprire i
denti a meno di un
metro dal suo collo. Ma Philip non si mosse, non batté
ciglio. Carlisle avanzò
appena di un passo, certamente consapevole di quanto potesse essere
pericoloso
un vampiro fuori controllo.
«No» rispose
semplicemente.
Edward ringhiò, forte,
tanto da far rabbrividire anche
me. Era un vero vampiro e faceva paura. «Che cosa vuole? Che
cosa c’è ancora?
Vuole denaro? Lo prenda pure, anche
tutto quello che ho, ma lei mi deve dire quello che succede a mia
moglie, ora!».
«Edward» lo
richiamò Carlisle, osservando attento la
scena, pronto ad intervenire.
I muscoli del suo avambraccio si
muovevano
convulsamente, pulsando. Le mani erano serrate in due pugni stretti, e
ogni
parte del suo corpo era rigida a tesa. Come se stesse resistendo
all’istinto di
ammazzarlo. Probabilmente era davvero così.
Neppure questa volta il professore
si mosse,
sostenendo il suo sguardo.
Quanto a me, non riuscivo a
distogliere lo sguardo da
nessuno dei due. Sentivo la fiammella della speranza, quella flebile e
dispersa
in me, spegnersi mentre ci soffiavano cinicamente sopra.
«Potrei ammazzarla, se
solo volessi» pronunciò con un
tono di spettrale neutralità gli occhi fiammeggianti fissi
nei suoi.
L’altro sguardo fu
altrettanto deciso e gelido. «Non
avresti le informazioni che cerchi. Nessuna».
Proprio quando vidi Edward
ringhiare, proprio in
quell’istante in cui sentii che aveva perso il controllo e
che più nulla
l’avrebbe trattenuto, decisi di agire. «Edward! Ti
prego!» gridai, scattando in
piedi. «Ti prego!» urlai, in preda al terrore.
Immediatamente mi ritrovai fra le
sue braccia,
sostenuta dal suo abbraccio freddo. Mi mise seduta sul divano, stretta
a lui.
Gli accarezzai i capelli, velocemente, rassicurandolo. «Non
importa Edward. Non
importa…» mormoravo atona «non lo puoi
obbligare. Non lo puoi obbligare…»
ansimavo, sentendo quanto le mie parole stridessero con quello che
provavo. Non
c’era più alcuna speranza, nessuna.
«Io… io…» farfugliai.
Edward mi prese il viso fra le
mani, osservandomi,
fissandomi addolorato. Si capiva così tanto quanto stessi
soffrendo? Mi riprese
fra le sue braccia, ricominciando a stringermi.
Con la testa posata sulla sua
spalla vidi
l’espressione di Philip, stranamente crucciata. Deglutii
quando mosse un passo
per avvicinarsi, cominciando a tremare.
Ma improvvisamente, con un
movimento fluido, Edward si
staccò da me, tenendomi per le braccia e osservando in
silenzio oltre la vetrata.
Il suo sguardo era attento e concentrato. «Carlisle, dei
pensieri. Vado a
controllare, rimani con Bella».
Tanto furono un limpido mormorio
che non avrei mai
potuto comprendere quelle parole se le sue labbra non fossero state a
pochi
centimetri dalle mie. Non passò un secondo che davanti a me
lo spazio fu
incredibilmente vuoto.
Ero a dir poco spiazzata da quello
che era appena
accaduto. Non tanto da impedirmi di capire, seppure con qualche secondo
di
ritardo, quello che era passato per la sua testa. I
licantropi. Erano loro? Avrei sofferto ancora?
Non mi importava. In
quell’istante una preoccupazione
molto maggiore si stava facendo strada in me.
«Carlisle» chiamai decisa,
sollevandomi e guardandolo negli occhi «va con lui»
mormorai certa.
L’indecisione
passò nel suo sguardo, che saettò
immediatamente nella direzione del professore. Certo, non volevano
lasciarmi
sola con lui. «Bella».
Ansimai, preoccupata, arrabbiata, spaventata. «Vai. Ti prego.
Se davvero sono i licantropi sai perfettamente anche tu quanto possa
essere
pericoloso. Vai».
La sua fronte perfetta
s’increspò, e i suoi occhi
gialli s’incatenarono ai miei. Stavo per pregarlo ancora,
quando si mosse. Mi
mise una mano sulla spalla, spingendomi verso la porta della mia
camera.
«Veloce, entra qui dentro. È la stanza
più protetta. Chiuditi a chiave e»
guardò ancora il professor Philip, che ci stava seguendo
«stai attenta
Bella».
Prima che potesse scomparire,
chiudendo la porta,
presi una mano fra le mie. «State attenti voi».
Mi baciò la fronte e in
un istante fui sola. Chiusi la
porta a doppia mandata e mi assicurai di avere la chiave ben stretta in
pugno.
Camminai come un fantasma, andandomi a sedere sul bordo del mio letto.
I pensieri, l’angoscia,
la preoccupazione, erano
mischiati in me, alimentati in ogni modo. C’era una parte
della mia mente che
immaginava quello che sarebbe potuto accadere in un confronto fra
Edward,
Carlisle, e quei giganteschi lupi.
L’altra, era
l’istinto di auto-conservazione.
Alimentata da due cause tanto distinte e autonome quanto fonte di certa
paura.
L’ultima volta quel pazzesco dolore si era verificato in
presenza di un lupo, e
la mia mente sperava che non fosse quello il meccanismo di innesto di
quella
tortura. L’altra causa mi faceva tremare come una foglia,
più imminente e vicina.
«Isabella».
Sussultai, mettendo a tacere i miei
fremiti. Pareva anche
lui crucciato, preoccupato. Non l’avevo mai visto
così. Probabilmente era la
vicinanza ai licantropi a sortirgli quell’effetto. Avrei
potuto dirgli di
sedersi, di accomodarsi. Avrei potuto essere gentile e cortese. Ad
impedirmelo
era il senso di soggezione che mi suscitava.
Mi fissò negli occhi con
sicurezza. «Non soffrite così
tanto» si avvicinò ancora, piegando per un attimo
la testa di lato. Pareva come
se… mi volesse rassicurare. «Non vi
accadrà più, ve lo giuro».
Aprii la bocca, stupita, mentre i
miei pensieri
continuavano a ripetere continuamente quella frase, senza cavarne nulla
di
sensato.
Continuò a parlare,
certo che non avessi compreso.
«Quello che è successo l’altra volta. Il
buio, la confusione, il dolore».
Rabbrividii. «Non accadrà più. Era la
fine. È passato».
Sentivo il mio respiro pesante e
lento, mentre provavo
a capacitarmi delle sue parole, arrivando persino a cercare di
ricordare quando
fossi svenuta, magari stremata dalle poche ore di sonno. Eppure mi
sembrava
così vero quello che il mio cervello cercava in ogni modo di
negare. Per quale
motivo non aveva detto nulla, prima? Per quale motivo ora mi stava
confessando
tutto questo?
«Non poso dirvi di
più» aggiunse addolorato,
spiazzandomi. Non mi sarei aspettata, mai, di vederlo così,
un giorno,
specialmente dopo la brutalità e la misantropia con cui
aveva respinto le
mozioni di Edward pochi minuti prima. «Non posso e,
credetemi, è meglio per
voi. Ma vi ho detto quello che volevate sapere, Isabella».
Con lentezza elaborai quello che
avevo appreso. Niente
più dolore, niente più buio, nessun pensiero
latente, nessuna paura di chiudere
gli occhi e abbandonarsi al mondo dei sogni. Non sapevo come crederci.
Fece un passo verso di me,
trovandosi a meno di due
metri di distanza. Sgranai gli occhi preoccupata. Mi guardava
intensamente,
come se anche con lo sguardo volesse comunicarmi qualcosa.
«Vi ho osservata.
Siete una persona che affronta i problemi, temeraria in genere. Avete
poca
considerazione del senso del pericolo. Eppure, osservandovi ancora,
oggi, non
ho potuto fare a meno di notare i vostri occhi bassi» disse,
ormai troppo
vicino a me, quasi sfiorandomi con la sua fragile pelle «la
vostra espressione
afflitta e inanimata» si chinò, il viso vicino al
mio.
Tremai, chinandomi automaticamente
indietro.
«Ma soprattutto, le
vostre mani, i vostri occhi, che mai
si sono posati sul vostro grembo.
Voi avete paura» asserì convinto, spiazzandomi.
Ansimai velocemente, agitata,
turbata.
«Anche mia moglie aveva
paura. Ne sono convinto. Voi
avete paura di vostra figlia».
Strizzai gli occhi e scossi il
capo, tentando in ogni
modo di negare l’evidenza, negare ciò che se
pronunciato ad alta voce, ammesso,
assodato, mi avrebbe portato alla pazzia. No, no, no!
Sussultai quando sentii la sua
mano, ruvida, sulla mia
guancia. Rabbrividii.
«Non devi aver paura di
lei» mi rassicurò «Isabella,
non devi averne. Non è stata lei a procurarvi quello che
avete sentito. Non ne
ha la volontà, né il potere. Non è
stata lei».
Il mio respiro pesante era rotto da
fremiti. Non
riuscivo più a comprendere, nulla.
Non era la mia bambina la fonte di
tutto quel dolore…
Non era lei… Eppure ne eravamo stati convinti, a lungo,
com’era possibile?
Come?
«Lei…
lei… Sono i suoi sogni… sono i sogni della
bambina… cosa… cosa…»
farfugliai.
La sua mano si mosse sua mia
guancia, tesa a
rassicurarmi. «Voi avete sentito ciò che era
destinato a lei, percependolo in
maniera assai distorta. Lei ha solo fatto da tramite. È
vero, sono pensieri che
scorrono nella sua mente, ma non ha nessuna colpa».
Mi lasciò libera,
allontanando la mano da me, e
proprio in quell’istante scoppiai a piangere, singhiozzando,
gemendo.
Non era lei, non era colpa sua.
Immediatamente le due
bambine che avevo immaginato in quei giorni diventarono
un’unica figura, unita
e perfetta. La bambina che non avevo mai smesso di amare. Che mi voleva
bene
esattamente quanto io a lei. Singhiozzai forte, senza sosta, senza
desiderio di
fermarmi.
Non badai alle mani che mi
sfilavano la chiave dalle
mani, ai successivi rumori.
«Bella!»
esclamò Edward, allarmato, entrando di corsa
nella stanza.
Non avevo pianto, per due giorni,
non avevo pianto. E
ora mi stavo sfogando di tutte le lacrime che non avevo versato. Ora,
mentre
tutto tornava al suo posto, e mi sentivo ancora disposta ad affrontare
la vita.
Era come se il torpore, la paura, l’angoscia di quei giorni,
fossero stata
spazzati, e mi sentivo incredibilmente leggera, come quando da bambina,
in
primavera, rimanevo ferma nei grandi campi, sentendo il fruscio del
vento
passarmi accanto, accarezzarmi. Chiudevo gli occhi e ogni cosa mi
sembrava
essere tornata alla perfezione.
Edward mi strinse fra le sue
braccia, e immediatamente
ricambiai, stringendolo, baciandogli il viso. «Bella,
cos’hai? Cosa succede?
Cosa ti ha fatto?».
Scossi il capo, tirandomi indietro
per permettergli di
guardarmi in viso. Mi portai, silenziosa, una mano al ventre,
sentendomi ancora
una volta nella vita perfetta e completa. Si mosse. Un movimento
deciso, lungo
e prolungato, e la sentii dentro me, viva.
Risi, risi, risi. Risi gioendo di
quella vita, risi,
divertita dall’espressione confusa di mio marito.
Nell’ora successiva
spiegai sia a lui che a Carlisle
quello che il professore mi aveva detto prima di scomparire. Non parlai
della
mia paura, non dissi nulla. Non ero ancora pronta per farlo. Ma fui
davvero
felice di sentire perfettamente i movimenti della piccola, che non
smise un
secondo di agitarsi.
Fortunatamente i pensieri percepiti
da Edward non
provenivano da quelli che mi veniva sempre più naturale
chiamare nemici, ormai.
Mi sorrideva, contento di vedermi più serena. Magari avrei
dovuto dire grazie
al professor Philip. Magari. Avevo ancora troppi dubbi sul suo conto,
tanti
quanti ne aveva lasciati non dandoci delle spiegazioni concrete.
Ma non riuscivo ancora a pensarci.
Ero accecata
dall’idea che nulla di male sarebbe più accaduto,
e che la mia piccolina non mi
aveva mai fatto, né voluto fare del male. Ci speravo davvero.
Un quesito ancora rimaneva
irrisolto: chi o cosa era
entrato a contatto con la piccola?
Non importava. Avrei avuto il tempo
e la forza di scoprirlo.
«Edward» lo
chiamai quella sera, stanca, ma serena,
contenta di andare a dormire e riposarmi. Osservai il pacchetto sul
tavolo del
soggiorno «dobbiamo finire qualcosa».
Mi sorrise, stringendomi per i
fianchi. Mi sollevò
senza alcuno sforzo, quel tanto che bastava per permettermi di
sistemare il
puntale e finire l’albero.
Scesi le scale con attenzione,
sorreggendomi al
passamano, attenta a non perdere l’equilibrio per il vassoio
che portavo
nell’altra. Ormai ero alla fine del quinto mese e far passare
inosservata la
pancia era piuttosto difficile, data la mia corporatura esile.
Affrontai anche l’ultimo
gradino senza cadere, e mi
affrettai a lavare i piatti sporchi che portavo sul vassoio. Mancava
appena una
settimana a Natale, e mia madre, insieme a Phil, sarebbe arrivata il
giorno
stesso. In quel periodo Carlisle era stato sommerso di lavoro, causa
l’epidemia
di raffreddore e influenza che aveva colpito Forks, e anche il suo
invincibile
sceriffo, mio padre.
Quando suonarono alla porta andai
ad aprire, certa di
trovarvi mio marito.
«Come sta?» mi
chiese baciandomi, indicando il piano
superiore.
Ero stata per tutto il pomeriggio a
casa di mio padre,
per dargli una mano, cucinargli qualcosa di buono e caldo, e tenere
pulita la
casa in vista delle feste, senza badare a nessuna delle sue proteste.
«Bene, si
è addormentato dopo mangiato» sorrisi
«l’ho sentito russare».
Mio marito rispose con la stessa
espressione complice
sull’amabile viso da giovanotto che si ritrovava.
Rassettai le ultime cose in cucina.
Da tanto tempo
ormai, tanto da far persistere un’espressione contenta e
serena sul mio viso,
ogni cosa andava piuttosto bene. Avevo scoperto un rinnovato rapporto
con mia
figlia, preceduto da una breve fase di senso di colpa per la paura che
avevo
provato nei suoi confronti. Passavo molto tempo, ormai, sola con lei, a
dirle
quanto le volessi bene, a comunicarle emozioni positive, il mio amore
nei suoi
confronti. Avevo sviluppato un forte senso d’orgoglio per
lei, trasformando
quello di cui avevo paura in un motivo di felicità.
Edward aveva certamente avvertito
un certo mutamento al
riguardo, ma non aveva fatto alcuna esplicita considerazione,
preferendo rimanere
in silenzio ad osservarci, suonarci una melodia, o cullarci fino a
tardi, la
sera, in una tacita e muta promessa di comprensione.
Tutto procedeva con il ritmo delle
feste natalizie,
appena iniziate. Emmett e Rose erano da poco tornati per festeggiare il
Natale
in famiglia, e presto Jasper e Alice sarebbero partiti al loro posto.
Forse quello era l’unico
pensiero fonte di una leggera
ansia. Alice aveva avuto dei ricordi del passato, di uno dei suoi
periodi più
tristi. Vedere me in quello stato le aveva ricordato il periodo in cui
l’aveva
subito anche lei quel dolore, a causa dell’elettroshock,
tecnica frequentemente
utilizzata nei manicomi del periodo.
«A che pensi?»
mi chiese Edward, facendomi voltare e
scontrare i suoi occhi chiarissimi con i miei. Era appena andato a
caccia.
Sospirai, scrollando le spalle,
legando le braccia al
suo collo. Lo baciai con tenerezza, prendendo il suo labbro inferiore
fra i
denti e provando a torturarlo, senza fargli alcunché. Si
trasformò in qualcosa
di molto meno tenero quando mi strinse con le mani i capelli, traendomi
a sé.
«Edward» gemetti, confusa ed eccitata.
In poco tempo mi ritrovai seduta
sul ripiano della
cucina appena pulito. «Mi sei mancata…»
mormorò, baciandomi il collo,
accarezzandomi le gambe, fasciate dai fuseaux.
Ormai era diventata
un’abitudine farci sorprendere
dalla passione nei posti più strani e inusitati, amarci con
foga e passione più
e più volte, senza stanchezza, senza calma, ma con la
frenesia di appartenere
l’uno all’altro sempre più.
«Edward»
gemetti «a casa di mio padre…».
Continuò imperterrito a
stuzzicarmi. «Sta dormendo,
l’hai detto anche tu» mormorò roco.
Feci roteare il capo, presa dal
piacere, il rimbombo del
cuore nelle orecchie. «Sulla sua
cucina…».
Sentii le sue labbra piegarsi in un
sorriso, e il
suono di una risata sommessa, maliziosa. «La nostra
l’abbiamo provata anche
troppo, ormai».
Arrossii alla verità di
quella affermazione, e dalla
mia bocca non uscirono più parole. Almeno, non che avessero
un proprio senso
compiuto.
Nella seguente settimana mi
applicai molto per rendere
tutto perfetto. Pulire, sistemare la casa, preparare quello che sarebbe
stato
il nostro pranzo.
La fonte di distrazione principale
era costituita da
Edward. E che distrazione! Mi facevo distrarre molto, spesso e
volentieri, per
tempo breve o lungo, sempre pronta ad adattarmi a lui, a sentirmi una
sua
stessa parte. E in quei momenti mi sentivo perfettamente completa. Lui,
la
bambina, i miei amori più grandi dentro di me, uniti a me.
Meraviglioso e
perfetto.
L’altra fonte di
distrazione era la gravidanza e la
bambina. Se da un lato mi incentivava a fare, creare, sistemare, ogni
tanto mi
capitava di essere stanca o di dover fare alcuni respiri più
profondi del
solito dopo un piccolo sforzo. Avevo avuto ancora qualche problema a
causa
della perenne anemia e dell’ipotensione, niente che non si
fosse sistemato con
uno spuntino extra e con tante coccole di Edward.
«Hai preso la carne,
Edward? Il tacchino dev’essere
grande ma non esagerato, se non è proporzionato mia madre ci
farà un sermone
sulla fame nel mondo. Sta seguendo un nuovo corso New Age»
sospirai, alzando
gli occhi al cielo e finendo di sistemare gli ultimi oggetti che
avevamo
acquistato nella cameretta della bambina.
Sussultai spaventata quando sentii
le sue braccia
stringermi improvvisamente da dietro. «Certo, come mi hai
detto. È tutto
sistemato secondo i tuoi piani?» chiese attento e
disponibile, baciandomi una
guancia.
Gli accarezzai i morbidi capelli
con una mano,
osservando con lui i nostri nuovi acquisti. Il fasciatoio, con alcuni
piccoli
pannolini e salviettine, la culletta, il baby-monitor, e tanti altri
piccoli
oggetti. Molto pochi, mi dicevo, rispetto a quelli che la bambina
avrebbe avuto
dopo Natale. Avevo deciso di organizzare tutte queste cose, di
dedicarmi a lei,
ora che avevo la forza e il tempo di farlo. Le lezioni erano sospese,
io ero
quasi totalmente pronta per gli imminenti ed ultimi esami della
sessione, e
potevo dedicarmi a lei.
«Vorrà sapere
il suo nome» borbottai, riferendomi a
mia madre, gli occhi sempre fissi sulla cameretta.
Edward ridacchiò,
facendomi voltare. «Tutti lo
vogliono sapere ormai».
Sospirai. Ci avevamo discusso a
lungo, ma ancora non
avevamo trovato il nome giusto, quello adatto a lei. Quello che mi
convincesse
davvero. Era stata un’impresa ardua quella di convincere
Emmett a non incidere
“Lilla” sulla
culla.
«Bella, devi decidere
solo tu. Non farti condizionare»
mi disse serio, prendendomi il mento fra le mani.
In quel periodo svolgevo
assiduamente i miei esercizi
yoga, con gli attrezzi che Alice aveva fatto pervenire appositamente a
casa. La
folla iniziale che si era presentata a casa mia, Alice, Jasper, Emmett,
Rosalie, tutti pronti a farmi da insegnanti, mi aveva fatto alterare,
tanto che
Edward aveva fatto appena in tempo a mandarli via. Non ero disposta a
sopportare più di un insegnante, punto. Sapeva quanto fossi
suscettibile sulla
questione della ginnastica.
E come Emmett aveva intuito,
borbottando imbronciato
«Tu vuoi solo lui sorellina. Chissà
perché», l’insegnante che volevo era
proprio Edward.
Ero arrossita violentemente, causa
il modo in cui
quegli attrezzi, quelle strana palla su cui mantenere
l’equilibrio, e bel
tappetino blu, fossero entrati nelle mie grazie in maniera molto poco
ortodossa, in un estenuante pomeriggio di esercizi.
Ero così stanca, e
soprattutto scocciata, che non la
smettevo di lamentarmi. E avevo continuato a farlo fino a quando i
pantaloni
blu scuro della tuta di Edward non erano entrati nel mio campo visivo.
La mia
mente, al pensiero di quella stoffa morbida e soffice, custode di
qualcosa di
molto più duro e sodo, aveva fatto le capriole e i salti di
gioia, obbligando
le mani ad agire di conseguenza. E l’incidente
dell’acqua, portata con solerzia
da Edward per rinfrescarmi, finita accidentalmente sulla mia maglietta
sottile
non aveva affatto aiutato, così che, entrambi con un
autocontrollo pari a zero,
ci eravamo lasciati andare.
Così mi aveva insegnato
quanto interessanti potessero
essere quei comunissimi oggetti.
Pochi giorni prima, dopo aver
saputo che la gravidanza
avrebbe avuto una durata normale di nove mesi, avevamo programmato la
data del taglio
cesareo. Avevo una certa paura che non manifestavo, nascosta dalla
rassegnazione per non poter avere un parto naturale. Sarebbe stato il
24 aprile,
ed oltre a Mark Green, lo specializzando, mi avrebbe assistito
un’ostetrica, la
dottoressa Emily, donna matura e saggia. Forse un po’
taciturna, ma con me
sempre gentile.
Ero sempre stata contenta di poter
avere una
gravidanza piuttosto normale, tuttavia man mano che il tempo passava
notavo
sempre più differenze. Il parto era solo la prima di una
lunga serie. Il più
recente punto di difficoltà era
stata la prevista -
dalla cara e gentile Alice - insistente voglia di mia madre di vedere
l’ecografia della bambina.
Probabilmente lo sapeva solo Esme,
o al più Rosalie,
ma ci ero rimasta davvero molto male quando aveva sancito che
l’unica soluzione
sarebbe stata farle vedere l’ecografia di un altro bambino.
Non ero
strettamente legata a questo genere di cose, eppure, anche se per poco,
non
avevo potuto fare a meno di soffrire.
Tuttavia man mano che il giorno di Natale
di avvicinava ero
sempre più attiva e agitata, troppo, per curarmi di questi
problemi. Dovevo
preparare, sistemare, perfezionare tutto. Avevo comprato dei regali
insieme a
Edward, sperando che fossero quelli giusti. Avevo fatto un piccolo
pensiero
anche a lui. Niente di che, ma speravo gli piacesse. Volevo che tutto
fosse
pronto, sistemato e perfetto.
Passai, la notte di Natale, una
magnifica serata
insieme a tutti i Cullen e a mio padre, appena rimessosi
dall’influenza. I
regali per la bambina, come avevo sospettato, furono davvero
tantissimi, tanto
che mi chiesi se la sua cameretta sarebbe stata abbastanza grande da
contenerli.
«Tieni, spero le
piacerà» mi aveva detto Alice con un
sorriso, dandomi un pacchetto giallo e verde. Tuttavia
l’espressione sul suo volto non mi convinceva. Non era
presente la comune
euforia che dominava i suoi dolci tratti.
«Stanca di non poter
vedere il futuro?» azzardai,
scartando il dono.
Scosse la testa facendo spallucce.
Abbassò il viso e
poi lo risollevò, guardandomi negli occhi. «Mi
dispiace per quello che hai
provato Bella, so quanto fa male». Sussultai alla sua
affermazione improvvisa. Nei
suoi occhi passò una luce strana. «Perdonami, non
te l’ho detto prima perché
non volevo fartelo ricordare. Scusami, tu dovresti solo dimenticare
queste cose
e non stare a sentire me che ti…».
«Alice» la
interruppi, prendendole le mani fra le mie
«dispiace anche a me che tu abbia provato quello che ho
provato io».
Mi fissò per alcuni
secondi, con gli occhi che le
brillavano, poi mi abbracciò stretta, facendo cadere
entrambe dal divano su cui
eravamo sedute. Ridemmo.
Jasper venne in nostro gentile
soccorso, aiutando
soprattutto me a rimettermi in piedi. Alice lo prese amorevolmente per
mano,
guardandolo. «Jasper mi sta aiutando»
abbassò il viso, «non sono cose belle, ma
fanno parte del mio passato, l’unico che ho» si
voltò verso il marito,
guardandolo con adorazione devozione, «non so come farei
senza lui».
Sorrisi, contenta, e subito dopo mi
trovai stretta
nell’abbraccio di mio marito. La serata passò
piacevolmente, fra le risate e le
chiacchiere. Fu molto divertente e sereno.
Tuttavia il vero Natale iniziò
la mattina successiva.
Mi svegliai di buon’ora,
mettendomi immediatamente ai
fornelli, armata di tanta forza di volontà, rimboccandomi le
maniche e
legandomi i capelli in una bella coda alta.
«Ehi. Sei già
qui» mormorò Edward venendomi incontro
con i capelli ancora umidi. Era appena uscito dalla doccia.
Mi strofinai la fronte con un
braccio, le mani
impegnate a tenere una mela e il coltello. «Devo riuscire a
finire presto, il
tacchino deve cuocere quattro ore» sospirai, «mi
passi quel coltello?» chiesi,
indicandone uno più piccolo.
Fece come gli avevo chiesto,
fissandomi scettico. «Non
vorrei che ti stancassi troppo. Perché non ti fai aiutare da
Esme, lei non deve
cucinare per nessuno oggi».
Scossi vigorosamente il capo,
continuando a sbucciare
con solerzia le mie mele. «No, voglio farlo io. Ce la
faccio».
Mi posò le mani sulle
spalle, costringendomi a
fermarmi. «Bella, è da una settimana che lavori
tutto il tempo per rendere
tutto perfetto e preciso. E lo sarà. Ma perché
oggi non ti fai aiutare?».
Mi voltai verso di lui, sospirando.
Mi fissai, per
quando riuscissi, le punte dei piedi, rossa in viso.
Mise due dita fredde sotto il mio
mento,
costringendomi a guardarlo negli occhi. «Bella»
mormorò crucciato. Questo
doveva essere uno di quei momenti in cui avrebbe certamente voluto
leggermi nel
pensiero.
Presi un profondo respiro, e parlai
con tutta la
tranquillità di cui ero dotata. «È solo
che» deglutii «è la prima volta che
faccio
una cosa del genere, okay? Il Natale, il pranzo in famiglia. Noi, siamo
una
famiglia, io, te, e la nostra bambina. E vorrei che noi riuscissimo a
farlo, da
soli» ammisi, sentendomi stupida. «Vorrei che mi
capissi». Balbettai.
Mi accarezzò una
guancia, fissandomi serio. «Quindi
dici che varrebbe lo stesso se ti aiutassi io, visto che faccio parte
della famiglia?». Un
sorriso divertito e
sghembo era comparso sulle sue labbra.
Pochi minuti dopo anche lui era al
lavoro, col suo bel
grembiule bordeaux. Mi pelava le patate, tagliava la carne. Diceva che
io ero
il suo chef. Certamente, avevo compreso, avrebbe fatto di tutto pur di
farmi
sentire appagata nel nuovo ruolo che stavo man mano scoprendo. E se
come madre
dovevo ancora fare i conti con mille problemi, secondo la sua opinione
come
moglie ero semplicemente fantastica. Ma Edward aveva una visione
piuttosto
distorta della realtà per quanto riguardava la mia persona.
«Edward, ti
prego!» esclamai d’un tratto,
strappandogli il tagliere dalle mani. Lo portai velocemente dalla mia
parte,
facendolo scivolare sul ripiano di marmo.
«Che cosa succede? Ehi,
calmati» disse, vedendomi
ansante per la paura appena provata.
«Non ti
avvicinare» lo minacciai. Poi, silenziosa,
afferrai ciò che stava per tagliare e gli restituii il
tagliere con delle mele.
«Taglia quelle» borbottai, triturando io stessa
l’aglio.
Non passarono che pochi secondi, e
la sua risata
argentina mi raggiunse. Arrossii profondamente, ma continuai
imperterrita la
mia opera, senza alzare il viso.
«Bella?» mi
chiamò. Non riposi, come non risposi a
nessuna delle sue successive chiamate. Sentii le sue braccia fredde
intorno
alla mia larga vita. Mi baciò una guancia. «Sai
che da quando aspetti la
bambina hai sviluppato uno strano istinto materno anche nei miei
confronti?»
chiese ironico.
Mi mordicchiai il labbro,
arrossendo. «Può darsi».
Speravo davvero che in qualche
parte dentro di me ci
fosse quell’istinto fantomatico di cui tutti parlavano. Avevo
solo diciannove
anni, non avrei mai pensato di diventare madre così presto e
nonostante spesso
mi sentissi più matura dei ragazzi della mia età
sentivo che c’erano moltissime
cose in cui ancora dovevo crescere. E poi quella gravidanza
così particolare,
quello strano rapporto con mia figlia, la possibilità di
sentire le sue
emozioni, la paura di comunicarle le emozioni sbagliate.
Non era ancora nata e ne avevamo
già passate così
tante.
Teoricamente mi ripetevo come avrei
dovuto educare,
sostenere, far crescere o non crescere mia figlia. Pensavo a quello che
non
avrei mai voluto fare, né ottenere, e a quello che invece
volevo perseguire.
Inevitabilmente mi ritrovai a
pensare a me stessa. Volevo
che mi figlia diventasse come me? Volevo semplicemente che prendesse i
miei
pregi e che evitasse il più possibile i miei difetti.
Come fare allora per perseguire il
mio scopo?
L’educazione impartitami da mia madre era stata a dir poco
eccentrica. Per
quanto le volessi infinitamente bene dovevo ammettere che spesso io
stessa mi
ero ritrovata a farle da madre, e non volevo che lo stesso avvenisse
con mia
figlia. Volevo dunque essere migliore di lei? Oppure volevo
semplicemente
dimostrarle di essere anch’io, per conto mio, capace di
portare avanti la mia
famiglia?
Sistemai con minuzia il
centrotavola, rendendo
perfetto anche quell’ultimo particolare. La tavola imbandita,
gli addobbi, il
profumo d’arrosto, cannella e vischio nell’aria. Mi
ero molto applicata per il
mio scopo. Forse anche un po’ stancata, ma di sicuro ne
sarebbe valsa la pena.
Presi un profondo respiro quando
sentii un movimento
veloce della piccola. Accarezzai la pancia con un sorriso, comunicando
tanto
amore alla mia piccola bambina.
Il tacchino fu presto tirato fuori
dal forno,
sistemato sul suo piatto da portata, pronto per essere servito;
così potei dedicarmi
a me stessa, mentre Edward aveva deciso di andare a prendere da solo
Phil e
mamma all’aeroporto. Mi aveva invitato a rilassarmi e
riposarmi, e prendermi
tutto il tempo per diventare ancora più bella di quanto
già non fossi. Il
solito adulatore.
Non appena sentii lo stipite della
porta cigolare e la
risata allegra da ragazzina adulta, posseduta dal timbro inconfondibile
di mia
madre, nulla m’impedì di farmi nuovamente
sommergere dall’ansia e
dall’agitazione. Una sorta di subdola euforia mista ad
angoscia.
«Bella!»
esclamò non appena mi vide, in piedi davanti
al divano e allargò le braccia, osservandomi contenta.
In pochi secondi riuscii a notare
dei cambiamenti sul suo
volto. Fu una stretta al cuore, sapere di aver perso quel tempo con
lei. Ma Reneè
era giovane dentro, uno spirito libero, e io sapevo che lei stava bene,
che era
giusto così. «Mamma» singhiozzai,
vergognandomi delle mie stesse lacrime e
della parola che avevo appena usato.
Corse da me, stringendomi forte fra
le braccia,
accarezzandomi i capelli e baciandomi la testa.
Stavo bene, stavo così
bene fra le braccia di mia
madre. E forse avrei voluto sentirmi ancora semplicemente una
ragazzina,
protetta da lei, stretta nel suo abbraccio. In quel momento non
riuscivo a
pensare al fatto che dentro di me un’altra vita, che sarebbe
fra poco nata,
avrebbe avuto ogni diritto di pretendere lo stesso da me.
«Mi sei
mancata» mormorai, stringendola più forte,
zittendo i singhiozzi.
«Anche tu amore mio,
anche tu mi sei mancata»
sussurrò, continuando ad accarezzarmi la schiena.
Mi lasciò tutto il tempo
di cui avevo bisogno. Infine
decisi di staccarmi dalla sua spalla, lasciandomi osservare.
Avevo indossato il vestito di velluto rosso, lungo fino al ginocchio,
che la
sera prima Edward mi aveva regalato.
«Sei un
incanto!» esclamò con un’espressione
dolce,
soffermandosi ad osservare la pancia. «Oh, guarda! Sei non
fossi così esile
neppure si vedrebbe questa pancina così piccola! Falla
mangiare Edward, mi
raccomando!».
Mio marito mi fu subito accanto,
prendendomi una mano
fra le sue. «Certo Reneè, non
mancherò».
Ma mia madre stava già
andando avanti, osservandomi e
palpeggiandomi. «Oh, se ci penso! C’è la
mia nipotina lì dentro?».
Annuii, asciugandomi gli ultimi
residui di lacrime,
contenta di non essermi truccata in volto.
Sentii la piccola fare una capriola
quando mia madre
posò una mano sul ventre tondo. Sussultai, prendendo un
respiro profondo,
mentre un effluvio di curiosità mi raggiungeva da dentro.
«Cosa
succede?». Gli occhi chiari di mia madre
saettarono dal ventre tondo a me.
Scossi il capo. «Si
è mossa».
Edward sorrise, piegandosi sulle
ginocchia. «È la
nonna. L’altra nonna. Reneè. Curiosona».
Mi scappò un risolino
quando si mosse ancora,
facendomi il solletico. Anche Phil mi salutò, cordiale. E
ricevetti un bacio
anche da mio padre, timido e a disagio. L’agitazione
momentanea, la sete di
perfezione, scemarono pian piano, mentre il clima si faceva tranquillo
e
sereno, e mentre, discorrendo con mia madre, potei ritrovare la Reneè
di sempre.
Apprensiva obbiettò per
il fatto che fossi
continuamente in movimento, dalla cucina al soggiorno, senza
permetterle di
aiutarmi. Edward la rassicurò, spiegandole, convincendola,
che ero
perfettamente in grado di fare tutto. Per quanto sapessi quanto fosse
di parte
la sua osservazione, non potei fare a meno di esserne lusingata.
Come quando fui orgogliosa di mio
marito, quando
tagliò le fette perfette del tacchino, o quando abbassai il
capo, arrossendo,
quando si complimentarono per la cucina.
«E quando aspettavo te,
Bella, non stavi ferma un
attimo, eri davvero impossibile, una bambina super attiva, tanto che
Charlie
dovette, una notte, andare a prendere la valeriana a Port Angeles. Oh,
Charlie,
raccontaglielo!».
Mio padre arrossì per
essere stato tirato al centro
dell’attenzione. «Beh»
borbottò «non riusciva a
dormire per i calci che le tiravi, e l’unica cosa che ti
faceva calmare era la
valeriana. Ma a quanto pare avevamo esaurito le scorte di
Forks».
«Certo!» lo
interruppe Reneè, ansiosa di dare il suo
contributo al racconto «quindi lui andò, alle due
di notte, a prendere la
valeriana a Port Angeles» e rise.
«Non potevo essere
così iperattiva».
«Magari eri un
po’ scoordinata già nella mia pancia,
chissà» buttò lì mia madre.
«Reneè»
la riprese Phil.
Arrossii, accarezzandomi il grembo.
«Lei per ora è
tranquilla» dissi, sorridendo.
«Oh
tesoro, io avevo sempre
la nausea, la pressione bassa, e dormire era una tortura. Per non
parlare poi
delle gambe gonfie».
«Gambe gonfie?»
chiesi allarmata.
Phil rise. «La stai
facendo spaventare».
Edward mi accarezzò una
spalla, baciandomi una
guancia. «Ci vuole ben altro».
Ben presto si gettò in
una discussione con Phil e
Charlie, lasciando a me mia madre, gestendo perfettamente la
situazione. Non
avevo ancora appurato che genere di relazione intercorresse fra mio
padre e il
nuovo marito di mia madre, così li osservai a lungo, in
silenzio. Per quanto
inizialmente Charlie mi fosse apparso timido e silenzioso, non appena
era stata
aperta una discussione sullo sport avevano entrambi trovato un punto di
intesa,
aprendosi vicendevolmente.
Avevo raggiunto il mio scopo, ma
non era quello a
farmi felice. Mi sentivo contenta per il clima leggero, le battute, la
serenità, che aleggiava nella mia casa. Perché
era proprio in questo clima
sereno e familiare che avrei voluto far nascere mia figlia.
«Tesoro, come mai non
abbiamo pranzato anche con la
famiglia di Edward?».
Rimasi lievemente stupita dalla
domanda di mia madre,
ed ebbi un attimo di esitazione, poco avvezza com’ero a
mentire.
Edward mi salvò
immediatamente. «Rosalie e Emmett sono
appena tornati da un viaggio di studio, e hanno pensato di aver bisogno
di
intimità, volendo concedere lo stesso a noi; in ogni caso ci
incontreremo nel
pomeriggio, verranno senz’altro a farci visita».
In realtà avevo voluto
risparmiargli la tortura di
mangiare tutto quello che avevo preparato, tortura che, ahimé,
doveva invece subire Edward.
«Come stai?»
sussurrai al suo orecchio.
«A cosa ti
riferisci?» rispose col mio stesso tono.
Gettai uno sguardo eloquente al cibo, a cui rispose con un sorriso.
«Istinto
materno» sillabò, ironico.
Impulsivamente lo colpii con una
gomitata. «Ahi»
esclamai subito dopo. Tutti si voltarono verso di me.
«Ho… mmm… sbattuto con la gamba al
piede del tavolo…» mormorai, rossa in viso.
Mio padre rise. «Tipico
di te. Mi sorprende che tu non
sia ancora finita in ospedale, Edward deve averti marcata a
uomo». E tutti
risero.
«Tu sei pazza»
sussurrò divertito al mio orecchio,
massaggiandomi il gomito.
Con tranquillità
passammo al dopo pranzo, appena dopo
aver mangiato la mia gelatina all’arancia. Mia madre mi fece
i complimenti,
richiedendomi la ricetta di quella prelibatezza, che lei avrebbe
riprodotto in
modo certamente assai più buffo. Ridemmo, ricordando il
nostro pudding ai
pennarelli a cera! Mi aveva lasciato così tante
libertà da bambina, che farmi
mettere dei colori in un dolce non le era parso poi così
tanto strano.
«Tesoro, devi farti
aiutare, ti prego. I piatti li
lavo io».
«Ma no mamma. Devo solo
metterli in lavastoviglie, non
ti preoccupare. Mi aiuterà Edward».
Mio padre corrugò le
sopracciglia. «Edward deve
accompagnarmi a casa. La mia auto ha deciso di prendere le vacanze di
Natale».
La brillante soluzione venne da
Phil, che propose a
Reneè di accompagnare Charlie a casa. Gli fui grata per
l’occasione che in
realtà gli stava regalando. Non erano molto in contatto, pur
mantenendo un
rapporto amichevole. Fu molto gentile da parte sua.
«Edward mi porti i
bicchieri per favore? Non posso»
riuscii a programmare la lavastoviglie «ecco. Grazie, mettili
nel lavandino».
«Sistemo quello che
è rimasto» disse, scomparendo
nuovamente nel soggiorno.
Annuii, voltandomi verso Phil,
offertosi anche lui di
dare una mano. «Dobbiamo solo mettere i bicchieri, e
asciugare quei piatti.
Abbiamo finito» lo informai soddisfatta.
«Bene» mi
rispose gentile, aiutandomi a caricare la
lavastoviglie.
L’imprevisto avvenne
proprio in quell’istante. Un
bicchiere bagnato mi scivolò dalla mano, e non sarebbe
accaduto nulla di grave
se Phil non avesse tentato di afferrarlo. Inutile fu il mio tentativo
di
bloccarlo, di deviarne la traiettoria. Cadde sul suo polso, con forza,
frantumandosi.
«Oh,
dannazione» imprecò fra i denti, ritraendo il
braccio.
In pochi istanti il copioso odore
nauseabondo mi
raggiunse. La testa cominciò a girarmi violentemente, e le
gambe mi tremarono,
mentre vedevo il sangue cremisi colare dalla ferita.
Quasi inconsapevolmente mi portai
una mano alla
pancia, retrocedendo, tremante, disorientata. Tutto girava. Volevo
concentrarmi
su Phil, sulle sue parole, aiutarlo magari, ma non comprendevo nulla di
quello
che stava accadendo. I contorni della mia cucina erano sempre
più sfocati e
distorti.
Prima che potessi crollare mi
sentii sorreggere dalla
vita da due mani fredde e decise. Mi voltò verso di
sé, guardandomi negli
occhi. «Bella? Bella, mi senti?».
Mi sentii in dovere di parlare, di
dire qualcosa. «Io…
Ed… Edward…» lo chiamai sconnessamente,
agitata, desiderosa di mettere a fuoco
la sua immagine sfocata. Gli volevo dire di non pensare a me, di
aiutare Phil,
volevo comprendere cosa stesse accadendo, valutare
l’entità del danno.
«Edward, devi…
aiutare Phil» riuscii a farfugliare,
stringendogli il volto fra le mani.
Mi occorsero pochi istanti per
comprendere il mio
errore.
Gli stessi istanti in cui,
tremante, volsi le mie dita
verso i miei occhi.
Completamente sporche di sangue.
Lo stesso sangue con cui avevo
macchiato il viso rigido
e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue
guance, sulle sue labbra.
Non mi aspettai
null’altro che vedere i suoi occhi
neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.
«Edward,
devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare,
stringendogli il volto fra le mani.
Mi
occorsero
pochi istanti per comprendere il mio errore.
Gli
stessi
istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.
Completamente
sporche di sangue.
Lo
stesso
sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward,
lo
stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.
Non mi
aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il
ringhio cupo del
suo petto.
«Edward». Il
mormorio inconsapevole e sgomento,
prodotto dalle mie labbra, mi giunse flebile e ovattato.
La pelle perfetta e bianca della
sua guancia si tese,
mentre le labbra scoprivano una fila perfetta di denti,
l’arma letale pronta ad
uccidere.
Sentii che l’adrenalina
che in pochissimi istanti era
stata spinta con forza nelle mie vene, aveva cancellato ogni
annebbiamento e
stordimento, rendendomi perfettamente lucida. Fin troppo cosciente
della
situazione. «Edward, Edward, ti prego» sussurrai a
voce bassa, attenta a non
farmi sentire da Phil.
Ma gli occhi di mio marito
guardavano più avanti, alle
mie spalle, fissi e neri. Mi rendevo conto dello sforzo in cui si
stavano
impegnando i suoi muscoli in quel momento. Se non avesse avuto
l’autocontrollo
che aveva, in quell’istante i miei palmi aperti avrebbero
premuto contro il
vuoto, mentre ai miei occhi si sarebbe offerto uno spettacolo mostruoso
e
orripilante.
Mi voltai per un istante, timorosa
di perdere il
contatto visivo con Edward, eppure convinta della necessità
di tenere
sottocontrollo la situazione. Phil si teneva il braccio con una mano,
che aveva
ragionevolmente messo nel lavandino. Un battito di ciglia, e notai il
sangue.
Per terra, nel lavandino, sul braccio. Era tanto.
Resistetti, deglutendo, al pugno
che mi arrivò allo
stomaco. Mi voltai ancora immediatamente verso mio marito, guardandolo
negli
occhi stregati e cercando di catturare il suo sguardo.
«Edward, guardami, ti
prego, guardami» continuai a voce bassa, sollevandomi sulle
punte dei piedi per
avvicinarmi al suo viso.
Le mani, aperte, spingevano contro
il suo maglione
chiaro. Sentii il suo petto premere contro i miei palmi. Si stava
muovendo,
stava vacillando. «Ti prego!» sussurrai con un tono
leggermente più alto,
sentendo il cuore incespicare e balbettare nel petto. Ancora una volta,
fulmineamente, mi voltai a controllare dietro. Phil era troppo
impegnato a
bloccare il sangue e imprecare per accorgersi del pericolo che stava
correndo.
Nuovamente gli occhi di mio marito
si scontrarono con
i miei. «Amore» provai, addolcendo il tono
«amore, ti prego, ti prego. Torna in
te…» lo supplicai, spingendolo con tutte le forze.
Era come tentare di smuovere
una piramide. «Ti prego, va via. Vai Edward, vai fuori, ti
prego…».
Sentivo la pulsazione del mio cuore
persino nelle
dita, tese ad allontanarlo. «Amore, tu puoi farlo, puoi
resistere se vuoi. Ti
prego, ti prego, ce la fai Edward, puoi farlo». Speravo che
le mie parole
agitate fossero in qualche modo catturate dalla sua immensa mente, ma i
suoi
occhi continuavano ad essere lontani, e il suo petto tremava e vibrava
sotto il
suono dei ringhi.
«Edward!»
provai più forte, serrando forte le palpebre
e spingendo ancora con le mani, stringendo il suo maglione chiaro fra
le dita,
nei pugni.
Si piegò quasi
impercettibilmente sulle ginocchia. Era
pronto. Era pronto all’attacco, pronto ad uccidere,
più nulla l’avrebbe
fermato. Sentii una scossa elettrica estremamente dolorosa pervadere
per tutta
la sua lunghezza la mia spina dorsale. L’imminenza della
catastrofe mi lasciava
l’impronta dell’impossibilità nel corpo.
Come se in realtà tutto quello fosse
troppo assurdo per avvenire, come se fossi altro al di fuori di me, e
stessi
osservando la surreale scena.
La fine era vicina.
Tanto che quella parte al di fuori
di me, quel
dispettoso pezzettino d’anima, alzò un
sopracciglio, incuriosito, quando
accadde realmente l’impensabile.
Sotto i miei palmi aperti e tesi,
c’erano diversi
millimetri di vuoto, tanto di permettermi di notare
l’impronta rossa che con le
mani avevo lasciato sul cotone bianco.
Muovendomi istintivamente spinsi i
palmi in avanti, e
paradossalmente non fui quasi per nulla sorpresa comprendendo
l’estrema
facilità con cui riuscivo ad allontanare il suo petto, senza
neppure realmente
toccarlo, come se lo stessi spingendo con un invisibile cuscinetto
d’aria.
E lo sentivo davvero sotto le mie
dita, consistente,
irradiarsi da dentro me.
Destabilizzata, sollevai lentamente
lo sguardo verso
il viso di mio marito. Mi stava guardando fisso negli occhi, e sul suo
viso potei
leggere la mia stessa espressione vuota e smarrita.
«Devi andare
via» dissi neutra, automaticamente, senza
pensarci. Non passò neppure un battito di ciglia, e sotto i
miei palmi non vi
fu più nulla. Voltai le mani ancora macchiate, tremanti,
verso i miei occhi,
osservandole sconvolta.
Dalla mia bocca uscì un
respiro secco e veloce.
Poi, mi voltai rapidamente verso
Phil, decisa. Afferrai
un canovaccio e lo legai sul suo avambraccio, appena sopra la ferita,
senza
pensare al rosso, senza pensare all’odore, senza pensare al
sangue. Valutai in
un attimo la situazione. Era pallido. Serrai i denti, trattenni il
respiro,
guardai il polso. Non avevo certo una laurea in medicina, e nessuno
sciocco
attestato, ma la mia esperienza personale poteva bastare per decretare
la
serietà del taglio. Ci sarebbero voluti i punti, subito.
Phil mi parlava, mi
diceva qualcosa, ma decisi di escludere le sue parole recependo
automaticamente
che non si stava lamentando per il dolore, né mi stava dando
informazioni utili
per aiutarlo.
«Carlisle»
dissi asciutta, non appena rispose al
telefono. Mi bastarono poche parole per descrivere brevemente la
situazione.
Non far venire nessun altro. Manda Emmett e Jasper da Edward.
M’irrigidì
quando Phil mi chiese di lui. Ovviamente
aveva notato qualcosa, non era tanto annebbiato da non farlo.
«È sensibile al
sangue» risposi, in un tono tanto glaciale che non
azzardò altre constatazioni.
Lo aiutai a sedersi su una sedia. Gli sollevai le gambe e gli feci
tenere il
braccio alzato. Quando mi accertai di non poter fare nulla di
più per lui afferrai
il flacone della candeggina e la gettai direttamente sul pavimento e
nel
lavandino, coprendo l’odore nauseabondo. Pulii risoluta con
uno straccio,
attenta a non lasciare traccia di sangue.
Dopo aver riposto gli oggetti mi
voltai ad osservare
Phil. Mi fissava silenzioso. Sembrava, nonostante tutto, che se la
cavasse
piuttosto bene. Il carnato era chiaro, gli occhi un po’
disorientati, ma
tuttavia attenti. La cucina era pulita. Ispezionai
l’ambiente, facendo saettare
gli occhi in tutti gli angoli, retrocedendo sempre più per
ampliare il campo
visivo.
Cozzai contro qualcosa. Il frigo.
Mi lasciai scivolare
con la schiena contro la superficie liscia, lasciando le gambe piegate
e
divaricate. Mi osservai la punta della pancia, la parte più
alta, non pensando
sostanzialmente a niente.
Quando Carlisle arrivò
aveva un’espressione attenta,
preparata, pronta ad affrontare la situazione.
«Bella?».
Automaticamente indicai Phil, e la
sua testa si volse
verso di lui. Sentii solo la prima parte del loro discorso. Vidi
Carlisle
sedersi sulla sedia di fronte a quella di Phil, e aprire la sua borsa.
Poi i
miei occhi tornarono ad essere poco attenti, e la mia mente ancora
vuota.
La prima cosa da cui la mia
attenzione fu nuovamente
catturata fu il battito del mio cuore. Mi accorsi che il battito stava
cambiando, più debole e tranquillo. Non che prima avesse
battuto veloce,
piuttosto vigorosamente. Subito dopo sentii come se una patina di
lucidità
invisibile, che in quegli ultimi minuti mi aveva ricoperta, si stesse
man mano
ritirando, lasciandomi intorpidita. Sentii le dita delle mani
addormentate, poi
i piedi, la braccia, le gambe, finché il formicolio non si
trasformò in un
tremito.
In quel momento nacque
l’urgenza di comprendere quello
che era appena accaduto. Ma per quanto ne sentissi
l’esigenza, mi risultava impossibile
pensare coerentemente.
«Sì, me la
cavo, mi sento solo un po’ debole.
Piuttosto… Bella… sembra… strana».
Il mio viso schizzò in
un attimo nella direzione di
Phil, e Carlisle fece lo stesso, mandandomi un’occhiata
consapevole, per poi
ritornare immediatamente al suo lavoro di ago e filo. «Bella,
stai bene?».
«Sì» mormorai, incapace in ogni caso di
muovermi da
quell’innaturale posizione che avevo assunto. Le ginocchia
piegate e strette,
almeno quanto lo permetteva la piccola pancia.
«Perché non ti
vai a stendere un po’ di là, nel
soggiorno?».
Non risposi, deglutii. Le mani,
l’impronta, il vuoto.
L’avevo spinto via. Spinto via senza toccarlo, con le mani,
lasciando
l’impronta. I miei pensieri erano stretti in un dedalo assai
contorto, senza
nessun filo d’Arianna capace di farmene venire a capo.
«…Ho trovato
la porta aperta e… ehi, ma cos’è
quest’odore?! Phil!».
Mia madre si
precipitò accanto al marito, prendendogli la mano illesa fra
le sue. «Cos’è
successo?» chiese allarmata.
Carlisle la rassicurò,
risoluto. «Devo solo finire il
bendaggio, si è tagliato con un bicchiere, va tutto bene.
Dopo andrà al pronto
soccorso. Non è niente di troppo grave, ha perso un
po’ di sangue, ma
fortunatamente non ha reciso l’arteria e non ci sono danni
permanenti».
Vedevo le cose come un pesce rosso
rinchiuso nella sua
boccia. Le parole rimbombavano, le immagini erano distorte. Ripensai al
flusso
di energia che pochi minuti prima si era irradiato dal mio ventre alle
mani.
Gli occhi di mia madre
temporeggiarono, preoccupati,
passando dal marito a Carlisle. Era stato sufficientemente convincente.
«Sto bene
tesoro». Phil sorrise, a suffragio di quanto
appena detto dal medico.
Poi, lo sguardo di Reneè
saettò su di me, e proprio in
quel momento si accorse della mia presenza.
«Bella!» esclamò, venendomi subito
accanto. «Piccola, va tutto bene?» chiese,
accarezzandomi il viso, ma non
rompendo la bolla in cui ero rinchiusa.
«Accompagnala nel
soggiorno Reneè, falla stendere»
suggerì Carlisle.
Mia madre mi guardò
apprensiva, mettendomi un braccio
attorno alla schiena e aiutandomi ad alzarmi. Sentivo il calore della
sua
pelle, l’odore del profumo di fiori, sensazioni sensoriali
futili che mi
distraevano completamente da qualsiasi altro pensiero. Il formicolio
non aveva
smesso di pervadere i miei muscoli, tanto meno quando il sangue
tornò a
circolare liberamente nelle gambe, e prepotentemente verso la testa,
facendomi
perdere l’equilibrio appena dopo due passi.
«Bella,
tesoro!» esclamò Reneè, affaticata
dallo
sforzo di tenermi stretta a sé.
Durò pochi secondi, e
Carlisle venne subito in suo
soccorso. «Porta Phil in ospedale, lo sapranno aiutare. Ci
penso io a lei» tono
caldo, rassicurante. Sentii le parole tremanti di mia madre, un grazie.
Carlisle mi sollevò,
prendendomi fra le braccia e
portandomi sul letto. La testa mi girava un po’, e tutti i
muscoli delle
braccia, delle gambe, non avevano smesso di tremare.
Mi depose sul copriletto,
osservandomi, passandomi una
mano fredda sulla testa. Mi lamentai della testa che girava, del
tremore alle
mani.
Eppure, non potevo fare a meno di
pensare a quella
singolare sensazione che avevo provato. L’irradiarsi
dell’energia, il controllo
di qualcosa di invisibile.
«Respira tranquilla. Apri
e chiudi le mani, ci
riesci?».
Annuii, respirando piano,
rispondendo alle mani di
Carlisle, strette alle mie. Sbattei le palpebre, nell’ultimo
tentativo di
smettere di pensare a quell’affascinante effluvio di potere.
«Devo parlarti».
Edward
Era successo tutto così
velocemente che ne avevo
ancora in mente la precisa traccia. Saltai agevolmente da un ramo a
quello più
basso, lasciando andare l’ennesima carcassa. Ero abbastanza
controllato, ormai.
«Vuoi
tornare?».
Annuii ai pensieri di Emmett, e
ricominciai a correre
velocemente fra i rami e gli alberi, in direzione di casa, verso Bella,
verso
la bambina.
Ripensai ancora una volta a quello
che era accaduto.
Avevo immediatamente avvertito che qualcosa non andava, prima ancora di
percepire il sentore di sangue. Bella era spaventata, e certamente
indebolita
dalla presenza di quella sostanza che per me era come un nettare.
Chiusi gli occhi, scuotendo il
capo. Non mi serviva la
vista per continuare a correre senza incappare in alcun ostacolo. Ero
stato sul
punto di ucciderlo. Il mio autocontrollo non mi aveva mai tradito, ma
era
bastata una sola goccia di sangue, sentire il suo sapore dopo tanto
tempo,
osservare il suo colore provocante, la voluttuosa
umidità…
Jasper mi fu subito accanto,
percependo il mutamento
nel mio stato d’animo. «Edward,
sei
sicuro di voler tornare?».
«Sì».
E poi, tutto il resto. Una
distrazione, tanto grande
da farmi distogliere lo sguardo, ascoltare e dar retta alle parole di
mia
moglie, le uniche che potevano avermi fatto temporeggiare e che
continuavano a
rimbombarmi nella testa. Lo avevo letto nei suoi occhi grandi e
smarriti, non
sapeva neppure lei cosa stava accedendo. Avevo sentito qualcosa di
diverso nei
pensieri della piccola, un’esplosione potente e un senso di
beato potere.
Quando arrivai in casa, mio padre
stava uscendo dalla
nostra camera da letto, il suo
odore
proveniva da lì. Lo osservai allarmato, preoccupato di
quello che poteva essere
accaduto a mia moglie. «Sta
tranquillo,
sta bene» mi rassicurò immediatamente.
«Si è solo agitata molto, Esme è con
lei, sta bene» ribadì, informando anche Alice e
Rosalie, in piedi alle mie
spalle. Mi guardò comprensivo, mettendomi una mano sulla
spalla. Sapeva che
sarei voluto andare immediatamente da lei. «Permettimi
di rubarti due minuti figliolo» pensò,
guidandomi nello studio.
A malincuore lo seguì,
fidandomi di lui.
«Come sta?»
chiesi, ansioso di avere ben più profonde
rassicurazioni.
«È stata molto
brava, mi ha chiamato, ha aiutato Phil.
Anche lui sta bene. Si è spaventata molto, anche, ma
è stata all’altezza della
situazione. L’agitazione non giova certo al suo
stato».
Abbassai il capo, pensando a come,
al contrario, non
fossi stato all’altezza della situazione. Non riuscivo a
guardare mio padre
senza pensare di averlo deluso. Meritavo la comprensione di un essere
così
compassionevole?
«Edward»
sussurrò, venendomi accanto in un istante,
abbastanza da far percepire tutti i suoi spostamenti ai miei occhi,
«sei stato
bravo. Sei stato un ottimo figlio per me».
Corrugai le sopracciglia,
irrigidendo la mascella.
Gli occhi di Carlisle cercarono i
miei. «Ricorda, non
importa che tu abbia vacillato. L’importante è che
tu sia riuscito a temperare
te stesso. La prossima volta sarai più forte… In
pochi avrebbero resistito ad
una tentazione del genere».
Scossi il capo, afflitto.
«Mi dispiace».
Mi posò una mano sulla
spalla, e sentii nei suoi
pensieri l’esplicito e sincero desiderio di confortarmi, di
farmi comprendere
quanto fosse orgoglioso e nient’affatto deluso da me.
«Pensi
che
stia bene?». Si morse le labbra. «E se Emmett e
Jasper non l’avessero
trovato?». I pensieri di mia madre
arrivarono contemporanei al suono delle parole di Bella.
«Mia moglie ha bisogno di
me».
Carlisle annuì,
fissandomi serio. «Certo, vai,
parleremo dopo di quello che è
accaduto» compresi che Bella doveva avergli parlato
di come era riuscita a
spingermi via. «Philip
dovrà darci delle
risposte questa volta. Lo farà».
Già, il professor
Philip. Quell’uomo doveva restare
ancora in fondo ai miei
pensieri.
Mi avvicinai alla porta.
Temporeggiai, volgendomi
verso Carlisle, sentendomi in dovere di pronunciare
quell’ultima parola.
«Grazie».
Fece un cenno con la testa,
aprendosi in un piccolo
sorriso. «Di nulla figliolo, di nulla».
Aprii la porta della camera,
attento a causare il
minimo rumore. La trovai stesa sul letto, la schiena poggiata su un
muro di
diversi cuscini, addossati alla testiera. Era avvolta in una coperta,
lo
sguardo lontano, in un’altra direzione. Aveva quegli
adorabili nastrini rossi a
sollevarle i capelli da ambo i lati, facendoli poi ricrede lunghi sulle
spalle,
sul petto.
Sussultò, quando si
accorse di me, quando entrai nel
suo campo visivo. «Edward» mormorò
sollevata, e le guance le si colorarono
appena di un rosso tenue.
Le presi le manine piccole e
bianche fra le mie, ora
completamente terse e linde, portandole alle labbra e baciandone le
piccole
dita. Seguì i miei movimenti con i suoi occhi liquidi, la
piccola bocca rossa
lievemente dischiusa. «Come stai?» le chiesi,
fissandola negli occhi.
Annuì, sfiorandomi lo
zigomo con il palmo della mano.
«Va tutto bene?». La capacità di
preoccuparsi per gli altri oltre ogni misura,
e fare l’esatto contrario per sé stessa, era
qualcosa di radicato profondamente
in lei.
«Certo, va tutto
bene» la rassicurai. Stronfiò le
gambe, coperte dalle calze avorio, trapuntate, l’una contro
l’altra. Avvolsi
anche quelle nella coperta, proteggendola dal freddo, e insinuai una
mano sul
suo grembo, posando il capo sul suo petto florido. Avvertii nei
pensieri della
bambina un movimento.
Ero titubante e mi muovevo con
cautela, saggiando lo
stato d’animo di mia moglie. Avevo paura che questo potesse
essere un altro
destabilizzante colpo al suo fragile equilibrio. La strinsi a me,
accarezzandola. Morbida, calda…
«Non l’ho solo
immaginato, vero, Edward?» chiese,
continuando ad accarezzarmi i capelli.
Il suo tono, pur controllato,
pareva tranquillo.
Scossi il capo sul suo petto, sollevando poi il capo e guardandola
negli occhi.
Mi stesi accanto a lei, stringendola a me. Volevo necessariamente
sapere
qualcosa di più, ma stavo camminando su un mucchio di
cristallo. Poche volte mi
ero trovato così in difficoltà con mia moglie.
«Come… come è stato?» chiesi,
tremante, attento a commisurare con delicatezza le parole. Abbassai il
tono,
rendendolo istintivamente suadente. «Ti ha fatto
male?».
Scosse velocemente la testa,
facendo ricadere le
piccole ciocche di capelli qua e là. Era arrossita.
«No, Edward, te lo giuro»
disse velocemente, ansiosa, lo sapevo, di convincermi.
Le credetti, non perché
mi fidassi del suo stoicismo,
ma perché sapevo perfettamente che Bella non era in grado di
mentire. Non a me,
a maggior ragione. Tentai di comprendere in che misura potesse averla
turbata
tutto quello che era successo.
Ma prima che potessi parlare, mi
precedette. «Perché
l’ha fatto?» chiese curiosa,
«intendo… secondo te, perché la bambina
lo ha
fatto? Perché è stata lei, ne sono
certa» mormorò, accarezzandosi il ventre
gonfio.
Misi la mia mano sulla sua, e la
accarezzai anch’io. «È
vero. Ho sentito i suoi pensieri».
«Davvero?»
chiese, voltandosi di scatto nella mia
direzione e smettendo di accarezzare. Boccheggiò lievemente,
poi deglutì e
riprese. «Io… anch’io l’ho
sentita, sai? Ho sentito lei, e poi… tutta
quell’energia…».
Aspettai che concludesse la frase,
osservandola
attento. Non sembrava particolarmente scossa, più che altro
sembrava quasi…
orgogliosa. Come la madre che osserva il bambino pronunciare la sua
prima
parola.
«È stata
brava» aggiunse fiera, confermando la mia
teoria, «ci ha aiutato. Ha sentito che eravamo in pericolo e
ci ha aiutato. Se
non ci fosse stata lei…».
M’irrigidì,
colpito.
Anche lei si bloccò,
pentita forse delle sue parole.
«Edward, io, mi dispiace» farfugliò,
rossa in viso, «tu sei così bravo che io tendo
a dimenticare la tua natura e» deglutì
«oh, se non fossi stata così avventata,
se non ti avessi toccato».
Le misi un dito sulle labbra. Come
poteva, come,
sentirsi in colpa di una cosa di cui io ero l’unico reo?
«Eri completamente
frastornata. Se non fosse stato per colpa mia, non sarebbe mai accaduto
nulla.
Bella. Ti prego. Non fare quella faccia» dissi serio,
commentando la sua
occhiata scocciata. Distolsi lo sguardo. Avevo la paura costante, non
ancora
abbandonata, delle ripercussioni che quell’evento avrebbero
potuto portare
sull’andamento sereno delle nostre vite.
«Edward» mi
chiamò, distogliendomi dal rapido corso
dei miei pensieri «non essere così
apprensivo» affermò, e mi sorprese
l’intuito
con cui aveva percepito le mie intenzioni. Prese la mia mano fra le
sue,
intrecciandole. «Voglio che affrontiamo questa cosa insieme,
con calma. Non può
essere così terribile, no?». Mi sorrise, timida,
fiduciosa.
Le sorrisi di rimando, ancora
attento.
«Abbiamo affrontato di
peggio. Dobbiamo solo capire
cosa accade e perché. Ce la possiamo fare» il
fervore con cui pronunciava le
parole non scaturiva solo dal valore auto-persuasivo che avevano.
Doveva averci
rimuginato a lungo.
La strinsi a me, accarezzandole i
capelli. «Il
professor Philip ci aiuterà».
La sentii rabbrividire. Strinse le
mani sulla mia
camicia, unico indumento che ancora rimaneva a coprirmi, dopo che avevo
buttato
via il maglione sporco. Non che sentissi freddo. Strofinò il
viso sul mio
petto, così la strinsi di più a me. Sapevo che
odiava quell’uomo. Non volevo
metterla continuamente in questo genere di difficoltà, ma
diventava ogni giorno
più necessario.
«Sì» mormorò, infine,
«credo
proprio che lo farà».
Le sorrisi di rimando,
ringraziandola, perché per
l’ennesima volta era stata lei a rassicurare me.
Phil e Reneè tornarono
un’ora dopo, e fortunatamente
in buona salute. Non mi allarmai particolarmente per i pensieri di
Phil, tutti
piuttosto tranquilli, e mai sospettosi nei miei confronti. Era
abbastanza
persuaso del fatto di essere molto confuso, quindi evitò di
fare e porsi
domande.
Ero stato così vicino a
far scoprire il nostro
segreto…
Fui contento del fatto che Bella
fosse riuscita a
reinstaurare quel magnifico rapporto che aveva sempre avuto con la
madre.
Quella sera stessa, prima di andare
a dormire, mi
aveva chiamato, prendendo le mie mani fra le sue e guardandomi piena di
determinazione. Mi faceva così tanta tenerezza in quei
momenti, in cui la sua
espressione diventava crucciata e dolcemente buffa. «Edward,
ho pensato ad una
cosa» cominciò seria, in piedi davanti a me. Mi
aveva fatto sedere sul bordo
del letto. «Dobbiamo giocarci bene la carta del professor
Philip, è la nostra
unica opportunità, lo sai».
Annuii, seppur riluttante. Non
aveva limiti la
sfacciataggine di quell’uomo. Ma era la nostra unica fonte di
conoscenza,
l’unico modo per tenere sotto controllo la bambina e la
gravidanza. Eppure fui
sorpreso di sentire quelle parole pronunciate da
mia moglie.
Bella portò la mano che
avevo intrecciato alla sua
sulla pancia. Potevo sentire la sensazione fredda della membrana che
avvolgeva
la placenta, appena sotto la bella sottana di cotone bianco, che cadeva
liscia
sulle sue forme, accentuandole. Avevamo ridotto il problema di sua
madre, che
pure non si era astenuta in carezze nei confronti della piccola, con
l’uso di
stoffe spesse e pancere protettive.
«Edward» mi
richiamò, arrossendo lievemente «ci ho
riflettuto. Penso che abbiamo un’unica
opportunità. Dovrò parlargli io»
affermò
convinta.
Fui stupito da
quell’affermazione. Doveva averci
pensato a lungo. Così il suo strano atteggiamento non era
dovuto solo al timore
che provava per Philip, ma anche da quel ragionamento che stava
maturando.
Avevo sempre ritenuto che mia moglie possedesse spiccate
capacità di
perspicacia.
Per tutta la notte ebbi
l’occasione di osservarla,
pensando a quello che era accaduto, pensando a quello che mi aveva
detto. Ne
accarezzai i capelli bruni, il ventre gonfio, e strofinai il dorso
delle mani
perlacee. Era riuscita a spingermi via con le mani senza neppure
toccarmi.
Necessariamente doveva essere qualcosa che derivava dalla bambina, o al
più
dalla gravidanza, ma mille interrogativi imperversavano nella mia
mente, e
contemporaneamente mille ipotesi e teorie si sviluppavano.
C’era un solo modo per
scoprire la verità. Aveva
ragione Bella, lei era l’unica che poteva farsela rivelare.
Lo sapevo, perché
l’avevo letto nei pensieri di quell’uomo.
Bella
Guardai senza paura
l’uomo che mi era di fronte.
Quella mattina mi ero alzata carica
di energie, e
soprattutto ben decisa e determinata. Mi ero guardata allo specchio,
esaminato
la pancia in continua crescita, e avevo imposto a me stessa di fare
senza
remore quello che stavo facendo.
«Quindi vorrei che mi
dicesse quello che è successo. E
vorrei che me lo spiegasse, e che lo spiegasse anche a mio marito, e ai
presenti». Il cuore batté più forte, ma
io lo ignorai.
Il professor Philip
arcuò un sopracciglio, perplesso e
stranamente titubante. E non lo era perché cinque vampiri
erano insieme a noi
nella mia camera da letto, affatto. Semplicemente perché
avevo deciso che non
potevo più aspettare e cadere ancora una volta sotto il suo
ascendente. Ero
sicura, tranquilla. L’ansia che provavo nei suoi confronti
chiusa in un casettino,
seppur rumoroso, della mia mente, con una chiave
che indicava “per mia figlia”.
Mi ero alzata determinata, dunque,
e subito dopo aver
mandato via mia madre e Phil, in bella compagnia di Esme e Rosalie,
avevo fatto
chiamare il professore. E poiché sapevo che una richiesta da
parte di Edward o
un qualsiasi altro vampiro non sarebbe stata fruttifera, avevo deciso
di
intervenire personalmente, come avevo chiesto la sera prima a mio
marito.
«Certo,
Isabella».
Non potei evitare di emettere un
piccolo sospiro di
sollievo, sollievo palese su tutti i volti dei vampiri al mio fianco,
in
particolar modo di Jasper, che da subito aveva appoggiato la mia idea.
Malgrado
la determinazione con cui mi ero presentata, non ero del tutto certa
che le mie
parole potessero avere alcun effetto. Ci speravo però, ci
speravo ardentemente.
Diverso era per Edward, che sembrava, seppur riluttante ad attuarlo,
convinto
dell’efficacia del mio piano.
«La bambina ha
semplicemente manifestato i suoi
poteri. È normale che inizi a farlo in questo
periodo».
Lo ascoltai attenta, e come me
anche Edward, appena al
mio fianco. Dovevo immaginare che come tutti gli altri vampiri, e
mezzi, dato
quanto sapevo di Caterina Barbarigo,
anche mia figlia
avesse delle doti extra. In effetti era stata una delle possibili
ipotesi che
avevo vagliato. L’interessante era rendermi conto che la
bambina riuscisse a
manifestare il suo potere anche attraverso me.
«Cosa
comporterà?» chiese Jasper. Il mio sguardo
saettò fra lui e il professor Philip, che
s’irrigidì in un istante.
Ci furono alcuni secondi di
silenzio, in cui pensai
che non avrebbe mai risposto. Poi, però, si voltò
nuovamente verso di me. «Hai
un esame con me fra due settimane, non è così,
Isabella?».
Annuii.
«In
quell’occasione ti consegnerò un tomo in cui
potrete avere tutte le informazioni che cercate, senza chiamarmi per
ogni
singola, insignificante scoperta» fece schioccare la lingua
con disprezzo,
fissando i vampiri.
Presi un piccolo respiro, strinsi
convulsamente la
mano di Edward, stretta alla mia. «Che
cos’è questo potere?».
Il professore mi fissò
cauto, tranquillo. «Cosa ha
fatto, di preciso?» chiese attento, assottigliando lo
sguardo.
Mi concessi di fare un passo
avanti, rilassata, sicura
di lasciare mio marito appena dietro di me, e rispiegai con
più attenzione
quello che era avvenuto il giorno precedente.
Esitò, titubante.
Abbassò lo sguardo, e lo sollevò
nuovamente su di me, sorridendo sardonico.
Sussultai, così mosse un
passo nella mia direzione,
senza dire nulla, fissandomi in modo sinistro. Cacciò dalla
tasca dei pantaloni
un piccolo oggetto di legno, che identificai solo quando si
dispiegò in una
lama.
Respirai profondamente, sentendo
l’ansia crescere, e
la forzata tranquillità diradarsi velocemente. I suoi occhi
rimasero fissi nei
miei, mentre avanzava ancora, facendomi retrocedere. Il mio sguardo
saettò
nella stanza, mentre sentivo che il mio autocontrollo stava
deliberatamente
cedendo. Tutti i vampiri erano immobili. Persino Edward non pareva
particolarmente agitato, più che altro infastidito. Respirai
velocemente,
sentendo il fiato mancarmi. «Cosa… cosa sta
facendo…?» mormorai, attonita.
Si avvicinò ancora,
incedendo spavaldo, la lama
stretta nella mano.
Deglutii.
Che cosa aveva intenzione di fare?
Mi pareva assurdo e
surreale il repentino cambiamento del suo atteggiamento.
Mi volsi a Edward, sgomenta,
spaventata. Perché non mi
aiutava? Perché rimaneva fermo a fissarmi dispiaciuto?
Urtai con le gambe al materasso,
cadendo indietro con
la schiena, sollevandomi sugli avambracci per tentare di scappare. Mi
sembrava
di essere in dei miei peggiori incubi.
«Su Isabella, ti
farò male».
Angosciata, intrappolata, sollevai
istintivamente le
mani per proteggermi, mentre il suo braccio caricava il coltellino in
direzione
della mia pancia, e mentre la disperazione s’impossessava di
me.
Passarono diversi secondi, ma
l’inevitabile dolore che
mi aspettavo non arrivò. Sentii piuttosto una discreta
sensazione di
consistenza nelle mani. Aprii gli occhi, chiusi istintivamente di
fronte al
pericolo, e osservai attenta lo scenario che mi si presentò
dinanzi.
Philip era bloccato a mezzo metro
da me, fermo, col
braccio ancora alto, come se una bolla invisibile fosse frapposta fra
me e lui.
L’aveva fatto apposta. Mi aveva deliberatamente provocata per
scatenare una mia
reazione. E Edward lo sapeva.
Mi venne accanto in un istante,
abbracciandomi, riservandomi
un’occhiata di scuse.
Il professore si ricompose,
richiudendo con cura il
coltellino e allontanandomi.
Ancora agitata, scossa dalla paura
appena provata, chiusi
i palmi i due pugni e la bolla scomparve, non senza opporre una
discreta
resistenza.
«Interessante»
mormorò «è un resistente scudo
magnetico. Molto interessante».
Mi sollevai fra le coperte, il respiro corto, scossa da
quello stranissimo sogno
Mi sollevai fra le coperte, il
respiro corto, gli
occhi pieni di immagini che stavano già svanendo. Mi passai
una mano sul viso,
realizzando di essere finalmente sveglia e cancellando il sudore che mi
ricopriva la fronte.
Regolarizzando il battito del mio
cuore mi voltai
sulla sinistra, il posto in cui Edward solitamente si sdraiava accanto
a me
quando dormivo. Ovviamente, era vuoto. Sospirai, ricadendo con la
schiena sul
materasso.
Era andato a cacciare molto lontano
da Forks, con i
suoi fratelli, per evitare di dare troppo nell’occhio nelle
vicinanze. Avevo
insistito io stessa. Sinceramente appena sveglia, a quell’ora
del mattino, ero
piuttosto pentita di averlo fatto, ma in fondo sapevo che era meglio
così.
Nelle settimane passate gli impegni natalizi e la presenza di mia madre
mi
avevano notevolmente distolta dallo studio, e non avrei potuto essere
molto di
compagnia, dovendo recuperare tutto il tempo perduto in vista degli
esami di
domani.
Tre, esami. Sbuffai, facendo ricadere
malamente le
coperte e dirigendomi a passo svelto, a piedi nudi, in bagno. Mi legai
i
capelli in una coda alta, mi lavai la faccia con dell’acqua
fredda. Mi infastidiva
notevolmente dover perdere quel tempo e sprecare così tanto
impegno per lo
studio, ma purtroppo quegli esami erano necessari per potermi laureare
entro
l’anno, considerando quanto fossi indietro con il programma.
Ben più pressante era
invece la questione dei poteri
della bambina. Dovevo ancora abituarmi all’idea. Avevo fatto
alcuni esercizi,
con Jasper, che mi erano serviti per capire come funzionasse
più o meno lo
scudo. Più che altro eravamo riusciti a capire che non era
la bambina ad
attivarlo volontariamente. Ero io, che comunicandole la mia paura,
facevo
attivare istintivamente lo scudo.
Lasciai cadere l’elastico
per i capelli sul bordo del
lavandino e mi decisi per una doccia veloce.
La giornata di domani sarebbe stata
importante più di
ogni altra cosa perché finalmente avrei avuto il libro con
tutte le
informazioni sulla bambina. Ero rimasta piuttosto compiaciuta e
piacevolmente
sorpresa dell’accondiscendenza con cui il professore aveva
accettato le mie
richieste.
Quel libro avrebbe significato
avere certezza sui
mille interrogativi che ancora non erano stati chiariti. Non sapevamo
cosa
aspettarci realmente dalla bambina, quali sarebbero state le sue
caratteristiche. Volevamo scoprire qualcosa di più sul suo
potere. E nessuno di
noi si era dimenticato dei suoi sogni, anzi.
Quella era la questione
più spinosa, che incombeva su
di noi senza che potessimo farci nulla. Nessuno era riuscito a dare un
motivo
allo strano sogno e nessuno ne parlava, consapevole che il problema
avrebbe
portato solo ansia e sofferenza. Eravamo piuttosto rassicurati dal
fatto che
non si sarebbe più verificato nulla di simile, ma
perfettamente coscienti che
quel libro ci avrebbe potuto dire qualcosa di più. Qualcosa
di non
perfettamente piacevole, magari.
Mi rigirai svogliatamente la matita
fra le mani,
distolta dallo studio dai miei pensieri turbinosi. Avevo pensato,
immaginato,
accettato, eventuali e disparate caratteristiche della bambina. E mi
ritenevo
pronta, mentalmente, ad affrontare un esserino molto più
simile a Edward che a
me. Ma un conto era accettarlo teoricamente, un altro venire a sapere
immediatamente tutto, senza possibilità di dubbio. Sapevo
quali erano state le
conseguenze che avevo subito dai non chiari collegamenti che la piccola
aveva
avuto con me. Scoprire quale fosse il motivo di tali conseguenze mi
gettava
nell’angoscia. Sospirai, fissando le pagine fittamente
scritte del libro
davanti ai miei occhi. Non mi potevo permettere di farmi tormentare da
quei
pensieri.
Presi un foglio pulito e tracciai
con la matita una
tabella, organizzando il lavoro in modo da evitare distrazioni e
inutili
angosce. Studio, pranzo, studio - fino alle quattro del pomeriggio,
tavola di
disegno tecnico.
Il terzo esame sarebbe stato un
ritratto estemporaneo,
nella materia del professor Philip. Momento in cui mi avrebbe
consegnato il
libro…
Presi un respiro, fermai il cuore.
Studiare, dovevo
studiare. Mi armai di coraggio e buona volontà, pianificando
tutto per il
meglio. «Fa la brava» mormorai, accarezzandomi il
ventre gonfio e ormai più che
evidente. L’indomani nasconderlo sarebbe stato quasi
impossibile. Pazienza.
Il mio programma perfetto
cominciò a scricchiolare
quando la bambina, al contrario delle mie raccomandazioni,
iniziò a farsi
sentire notevolmente, assestandomi un calcio al fegato. Mi portai una
mano
sulla pancia, respirando piano, indolenzita. Tuttavia
non fu l’ultima delle ribellioni della piccola.
Iniziò ad agitarsi e muoversi
velocemente, senza concedermi la tregua necessaria per studiare.
Lo sapevo, era molto intelligente,
e per questo
sospettavo che sentisse l’assenza del padre. Così
decisi di interrompere i miei
studi fin troppo movimentati e prendere una camomilla, sperando di
calmarla
indirettamente. Anche quello funzionò relativamente,
così quando Edward, a
pranzo, mi chiamò, approfittai della sua voce.
«Potresti parlarle un
po’?» chiesi, rossa in viso ma
determinata a calmarla. Volevo misurare le parole ed evitare che si
precipitasse da me, abbandonando tutto e tutti. «Si
è un po’ agitata, credo che
le manchi…».
Ci fu qualche momento di silenzio.
Probabilmente stava
ponderando l’informazione. «Si è
agitata?» chiese sospettoso, «Va tutto
bene?».
Sospirai, trascinando con me il
libro e stendendomi
sul divano. «Sì, Edward. Non vuoi
parlarle?» chiesi, sapendo di essere un po’
egoista giocando quella carta.
«Certo, certo che
voglio».
«Okay» lo
interruppi prima che aggiungesse
qualcos’altro, portandomi il cellulare sulla pancia e
lasciandolo parlare,
mentre finalmente ritornavo al mio libro.
In effetti la bambina si
calmò parecchio, ma non feci
in tempo a bearmi di quella pace che divenne troppa e, complice la
camomilla,
caddi in un profondo sonno.
Quando mi svegliai erano le tre e
mezza e i miei
programmi erano andati decisamente
a
rotoli. Farmi bocciare non rientrava decisamente nei miei piani.
Ricominciai a
studiare meticolosamente, senza perdere un attimo di tempo. Alle nove,
il cielo
buio e gli occhi stanchi, senza neppure aver cenato, mi misi a
disegnare. Ero
così stanca che non riuscivo a distinguere la moltitudine di
linee, e più volte
dovetti cancellare e tornare indietro sui miei passi.
Andai a dormire tardi, pentita di
non aver chiesto a
Edward di rimanere con me. Chissà, magari sarebbe stato
meglio. Sbadigliai,
rivoltandomi nel letto. Dormire equivaleva avvicinarsi
inconsapevolmente al
domani. Alla certezza. Chiusi gli occhi e contai i battiti del mio
cuore.
L’indomani mi svegliai
piuttosto agitata. Distrarmi
aveva funzionato fino al giorno precedente, ma ora che la
realtà mi veniva
incontro non potevo far finta di non vederla. Cacciai un respiro secco,
saltando giù dal letto. Dovevo solo stare tranquilla, avevo
affrontato di
peggio.
Incontrai Edward sul vialetto di
casa nostra,
incrociandolo con la mia Mercedes. Lo salutai, mi feci baciare la
fronte. Non
feci parola sul fatto di essere tanto nervosa da aver fatto finire la
colazione
nel water, e declinai il suo invito ad accompagnarmi. «Ti
prego, la casa è un
disastro, potresti mettere un po’
d’ordine?».
Mi sorrise. Avrebbe potuto dirmi di
no? «Certo, non
c’è problema».
«Mi dispiace».
«Vai».
«Grazie»
sussurrai, accennando un sorriso teso e
ripartendo velocemente. Non era contento all’idea di
lasciarmi sola con il
professore. Eppure
sapevo che se non avesse avuto un buon
motivo non mi avrebbe mai lasciata andare.
Dovevo consegnare la mia tavola di
disegno tecnico, e
c’era talmente tanta fila che corsi il rischio di arrivare
tardi al secondo
esame, orale. Il brusio degli alunni mi teneva impegnata la mente, ma
in modo quasi
fastidioso. Mi sistemai i capelli dietro le orecchie, facendomi aria
con una
mano; mi sentivo stanca e agitata, un po’ disorientata.
«Le posso mettere 24. I
contenuti erano abbastanza
buoni, ma l’esposizione incerta…».
«Certo, grazie»
mormorai, sbattendo le palpebre e
portandomi una mano sul viso. Per quanto mi riguardava, avrei preso
anche un
18.
Il peggio stava per arrivare.
Afferrai il mio libretto
e la mia borsa e corsi via alla seguente sessione d’esame.
Camminavo piano,
quasi spaurita, sul pavimento di marmo del corridoio. Il rumore
cadenzato dei
miei passi, gli stessi movimenti, mi consentivano di cadere in una
situazione
simile a quella del torpore. Tuttavia
non potevano
modificare il mio stato d’animo, sempre più teso,
né la causa di tale stato.
Mi fermai davanti alla porta aperta
dell’aula. Il
cuore mi batteva forte, e sentivo delle strane palpitazioni in tutto il
corpo.
Mi strinsi più forte i libri al petto, socchiusi le
palpebre, e feci quel passo
che mi separava dall’ingresso.
Le gradinate larghe
dell’aula erano disseminate di
cavalletti, e molti studenti avevano già preso posto. Dal
centro più o meno,
Amber mi salutò con una mano.
Mi voltai, col cuore in gola, per
individuare la
figura del professore, ma inaspettatamente non la trovai. La sua
assistente
sollevò gli occhi dalla cattedra e mi guardò,
ferma davanti a lei, come se si
aspettasse che le chiedessi qualcosa. Arrossii, scuotendo il capo e
dileguandomi velocemente, raggiungendo la mia amica.
«Ciao» la
salutai, guardandola e guardandomi intorno.
«Il… professore?» chiesi cauta.
Mi sorrise calorosamente, come solo
lei sapeva fare.
«Non lo so, non si è ancora visto…
spero di non fare tardi!».
Dopo pochi minuti,
l’assistente ci diede le direttive
per cominciare. Nessuno fece domande, tutti erano concentrati
sull’esame. Nessuno
d’altronde, tranne me, aspettava quell’incontro con
tale impazienza. La sua
assenza mi sorprese e mi preoccupò. Perché non si
era presentato? Cos’era
accaduto? Il pensiero che potesse aver cambiato idea mi
colpì all’improvviso.
«Bella, comincia o non
riuscirai a finire» mi sussurrò
accorata Amber.
Sbattei le palpebre, fino a quel
momento rivolte verso
il vuoto.
L’espressione della mia
amica si fece pensosa.
Allontanò la sua tavolozza dalla tavola, fissandomi
intensamente. «Tutto
bene?».
«Sì» presi un respiro, veloce, e
annuii. «Sì». Ingoiai il
groppo che avevo in gola e presi ad imbrattare distrattamente la mia
tela.
Lanciavo di tanto in tanto occhiate in basso, agitata, aspettandomi che
comparisse nell’aula.
La bambina si mosse, facendo una
capriola. Nella
frenesia dell’esame, nessuno aveva notato la mia pancia,
seppur evidente,
coperta comunque da una larga felpa nera che in quel momento mi stava
dando un
certo fastidio per il calore che irradiava.
«Cosa succede?»
mi chiese Amber, intercettando una mia
ennesima occhiata verso il basso.
«Niente,
niente» borbottai, riprendendo a dipingere,
non sapendo che fare se non aspettare che la sua figura comparisse
prima o poi.
Chiusi e aprii i palmi delle mani, sudati. Innanzitutto, dovevo in ogni
modo
evitare di insospettire Amber circa un mio legame con il professore.
Era stato chiaro su questo punto.
Non voleva che
nessuno lo venisse a sapere.
Ma il pensiero della sua assenza
continuava
impertinente ad occuparmi la mente. I motivi potevano essere vari.
Aveva deciso
di non farmi avere più quell’importante
manoscritto? Magari voleva venire meno
al patto… E se… Il pensiero arrivò
come un fulmine a ciel’ sereno. Se fossero
stati i Volturi ad intercettarlo?
«Bella».
Scossi il capo, distogliendomi
forzatamente dai miei
pensieri e riprendendo a respirare. Mi passai una mano sulla fronte
sudata. Sicuramente
sarebbe arrivato alla fine dell’esame, dovevo solo aspettare.
Sicuramente…
Amber mi fissò perplessa
e tornò sul suo dipinto. Dovevo
avere un’espressione orrenda agli occhi della mia amica.
Guardai la mia tela,
pressoché bianca, e le poche
linee che avevo disegnato si sdoppiarono. Presi un respiro profondo.
Cosa mi
succedeva?
L’annebbiamento e il
senso di disorientamento crebbero
man mano. Deglutii. Spostai il peso da un piede all’altro,
finché i miei occhi
appannati non si volsero a guardare il grande orologio sopra la
cattedra. Mancava
poco meno di un’ora alla fine dell’esame. Avrei
dovuto aspettare che il
professore mi raggiungesse, e nel frattempo calmarmi, ad ogni costo.
Per quando esercitassi su me stessa
una notevole
pressione psicologica, però, l’ansia che mi
attanagliava sembrava radicata nel
mio stato. Un capogiro m’investì e dovetti
appoggiarmi al cavalletto per non
cadere.
«Bella, stai bene? Sei
pallida».
Annuii, sollevando una mano e
socchiudendo gli occhi.
No, non stavo affatto bene. E immaginavo anche, con una certa
precisione,
quello che mi stava accadendo, considerando che non era la prima volta
che
accadeva.
Resistere più di dieci
minuti fu impensabile. Non mi
ero mai sentita così male, dovevo chiamare Edward prima di
far correre rischi
alla bambina. L’incontro con il professore avrebbe aspettato.
Sentivo il cuore battere con
affannosa insistenza nel
petto. Presi la mia borsa e le mie cose, lasciando la mia tela, quasi
completamente bianca, abbandonata sul cavalletto. Dopo due larghi
gradini, però,
dovetti appoggiarmi alla parete. La mia mente era in preda alle
vertigini e i
miei occhi riuscirono a captare solo poche immagini frammentate e senza
senso,
prima di avere un doloroso contatto col pavimento.
«Ragazza, svegliati.
Avanti, fai un piccolo sforzo».
Gemetti, confusa. Tremavo, eppure
sentivo su di me una
coperta. Qualcuno mi aveva sollevato le gambe. Sentivo degli
schiaffetti in
volto, tanto forti da farmi emergere dal mio stato di torpore.
Aprii gli occhi, non senza una
certa difficoltà. Vidi l’immagine
sdoppiata di due giovani in divisa arancione che mi osservavano.
«Sapresti dirmi come ti
chiami?». Sbattei le palpebre
confusa, cercando di mettere a fuoco qualcosa. «Ricordi qual
è il tuo nome?»
ripeté con più calma.
«I…Isabella…
Cullen» balbettai, colpita da una nuova
ondata di vertigini.
«È al sesto
mese, non lo so a che settimana è!» nella
confusione individuai la voce della mia amica.
Qualcuno mi puntò un
laser negli occhi, costringendomi
a riaprirli. Qualcun altro mi sollevò la manica della
maglietta, infilando la
striscia fredda e liscia di stoffa.
«Edward»
riuscii a sussurrare. Dovevano chiamarlo,
dirgli quello che era successo. Avrebbe dovuto incontrare il
professore, lui…
avrebbe dovuto…
«A che settimana di
gravidanza sei?».
Presi un respiro, sforzandomi di
venire a capo di
tutta quella confusione. «V-ventitrè»
balbettai,
portandomi automaticamente una mano alla pancia. «Mio
marito… per favore…
chiamate… chiamate m-mio marito…».
Sentii delle parole veloci e risolute, la
voce della mia amica. «Edward».
«Lo stanno chiamando
Isabella, non ti preoccupare»,
sentii una carezza in viso, ma quando voltai lo sguardo fu troppo tardi
per
vedere la mano.
Sentii una fitta al dito.
«Ottanta-quaranta». «È
ipoglicemica». Subito dopo l’odore distinto di
sangue mi raggiunse, facendomi
perdere nuovamente i sensi, fin troppo annebbiati.
«Piccola, apri gli occhi.
Su». Era un po’ diverso,
questa volta. La coperta che avevo addosso era piacevolmente ruvida, e
sapeva
di pulito e fresco. Ero appoggiata sul fianco sinistro, e la voce che
mi
parlava era dolce e femminile.
Aprii le palpebre, sbattendole
velocemente. Riuscii a
mettere più velocemente a fuoco l’immagine che mi
stava davanti. Una giovane
donna dall’espressione dolce con indosso un camice bianco.
Gemetti, osservando
l’ago infilato sul dorso della mano, sottopelle.
«È normale che
tu sia confusa piccolina, non ti
preoccupare. Va meglio, ora?».
Corrugai le sopracciglia, incerta.
Presi un breve
respiro e annuii, silenziosa.
Mi sorrise delicatamente.
«Hai avuto un collasso,
perlopiù causato e aggravato dall’ipoglicemia.
Avevi pochi zuccheri nel sangue,
poche energie. Soffrivi già di pressione bassa?».
Annuii, ancora.
«Quando hai mangiato
l’ultima volta?».
Mi occorse qualche secondo per fare
mente locale.
«Ieri» mormorai. Mi schiarii la voce, sottile,
roca. «Ieri, a pranzo».
«Capisco. Ora sei
all’ospedale di Seattle, presto starai
meglio. Ti abbiamo mandato degli esami del sangue, giusto per
controllo. Sono
la dottoressa Albertine».
Mi portai la mano libera,
lentamente, al ventre,
mettendo insieme le informazioni e cercando di venire in qualche modo a
capo.
«La bambina» farfugliai,
«cosa… come sta? Sta bene?» chiesi,
agitandomi
rapidamente.
Mi accarezzò la fronte.
«Shh,
tranquilla. Sono una ginecologa. Sicuramente starà bene, ma
dobbiamo essere
sicuri che quando sei svenuta non gli sia arrivato poco ossigeno. Ora
ti
visito, e vediamo come sta, ma adesso devi rimanere calma, va
bene?».
Annuii, il respiro ancora
accelerato.
Mi rassicurò ancora,
dicendomi che mio marito era
stato avvertito dalla mia amica, e che stava arrivando. Quella notizia
mi
scaldò il cuore, tranquillizzandomi notevolmente, ma non
feci in tempo ad
ordinare i miei pensieri, ancora troppo confusi, che altre parole
spazzarono
via ogni cosa.
«…farò
la visita, poi faremo il tracciato e
l’ecografia, va bene? Sei contenta? Su piccola, sta
tranquilla, vado a ritirare
un attimo i risultati delle analisi».
Raggelai, e capii immediatamente di
dover dire
qualcosa. «Ma… ma io…»
balbettai, tentando di bloccarla, dissuaderla da quell’idea.
Avevamo provato una sola volta, in un disperato tentativo di vederla.
Ma la
membrana dura e rigida che avvolgeva la bambina impediva chiaramente
qualsiasi
ecografia.
«Non ti
preoccupare» ripeté la dottoressa sulla porta.
Ansimai, angosciata, sollevandomi
seduta sul letto. Sapevo
che dovevo impedire la cosa ad ogni costo. Sarebbe risultata palese la
presenza
di qualcosa di molto strano. «La prego». Ma non
feci in tempo a terminare la
frase che era già scomparsa, con un sorriso comprensivo.
Pensava forse che
fossi ancora agitata, e che l’ecografia sarebbe stato un
giusto mezzo di
consolazione?
I miei pensieri si fecero caotici e
confusi, e
portarono in me un diffuso stato di tensione e agitazione. Il
professore, il
mancamento, l’ecografia… Mi misi le mani fra i
capelli, piegando le ginocchia
al petto. Portai una mano sulla pancia, respirando piano.
Mi resi conto, in
quell’istante, di indossare un
ruvido camice bianco. Voltai di scatto il capo, guardandomi a destra e
a manca.
Sul comodino erano piegati i miei vestiti. Accanto, la mia borsa e il
mio
cellulare. Scattai in piedi, afferrando quello che un tempo avevo
definito uno
stupido aggeggio elettronico, un modello fin troppo accessoriato per
l’uso che
ne avrei fatto.
Composi velocemente il numero, il
cuore in gola. Rimasi
a fissarlo per un istante, sedendomi sul bordo del letto, voltandomi
poi a
lanciare una rapida occhiata alla porta, chiusa. Tornai con lo sguardo
suo
display, presi due respiri, veloci, e lo chiamai.
Dopo
alcuni secondi sentii il suono della chiamata
aperta. «Edward?»
chiamai velocemente.
«Bella?»
la
voce gli tremò un istante. «Stai
bene?»
chiese poi, con un misurato tono distaccato.
Dovevo essere concisa, e arrivare
subito al punto,
prima che la dottoressa tornasse. Ma sentire la sua voce mi aveva fatto
immediatamente sentire meglio. «Sì, sì,
certo, sto bene ora» mormorai piuttosto
lentamente. «Non è stato nulla. Una sciocchezza,
sto bene, davvero».
Un respiro, misurato. «Amber non mi ha detto così».
M’irrigidì.
«Amber…? Cosa… Edward, davvero. Sto
bene»
tentai di rassicurarlo velocemente, cercando di guadagnare tempo
prezioso.
«Ha
detto che
sei svenuta. Che eri pallida e debole, che stavi male. Almeno, questo
è quello
che sono riuscito a comprendere».
Alzai gli occhi al cielo, agitata.
Sapevo che la mia
amica tendeva a farsi prendere così tanto la mano, in certi
momenti. Ero
disperata per aver fatto preoccupare Edward così.
«Mi dispiace Edward… io, non
volevo che tu ti preoccupassi tanto».
«Cos’hai
allora?»
m’interruppe, piuttosto preoccupato. «Ti
hanno già fatto un emocromo?
L’emoglobina è scesa ancora?».
Stava dando di matto, lo sapevo.
La porta della mia stanza si
aprì. Mi portai una mano
in petto, il cuore in gola. Entrò un infermiere, osservando
la mia figura in
silenzio, con un’espressione contrariata. Mi
indicò un cartello appeso alla
parete bianca. “Niente telefono, Grazie”.
Presi un breve respiro angosciato.
«La prego» mimai
con le labbra,
supplicandolo con gli occhi.
Indugiò due secondi.
Strinse le labbra, e si chiuse la
porta dietro.
«Bella?
Cosa
succede, cosa è successo?».
Sospirai, stanca. «Il
professor Philip non si è
presentato. Edward, ascoltami. C’è Carlisle? Sei
in auto? C’è Carlisle lì con
te?».
«Perché
vuoi
parlare con lui?» chiese disorientato, troppo lento
per i miei gusti.
«Ti prego, ho pochissimo
tempo. Ti prego, fidati» lo
supplicai, sperando che il suo buon senso e la sua risolutezza avessero
la
meglio sulla sua apprensione.
«Bella?»
chiese la voce di mio suocero pochi secondi dopo.
Presi un veloce respiro.
«Carlisle, ho avuto un
collasso». Pensai velocemente, riportando alla mente i
termini usati dalla
dottoressa, quelli che potevano essergli utili
«ero… ipoglicemica. Hanno fatto
delle analisi ma non conoscono ancora i risultati. Adesso devono vedere
se la
bambina sta bene e devo fare la visita, il tracciato,
l’ecografia… come faccio?».
Deglutii, cercando
disperatamente di far scendere il groppo che avevo in gola.
Passarono pochi secondi di
silenzio. «Non puoi fare
l’ecografia, e neppure il
tracciato. Non rivelerebbe il battito fetale. Dì che non
vuoi. Se non vogliono
dimetterti temporeggia, fa’ la visita prima. Se devi
scegliere fra i due fai
l’ecografia. Siamo lì fra mezz’ora, stai
tranquilla».
«Sì» sussurrai
«sì, va bene, sì». Lanciai
nuovamente
un’occhiata alla porta sentendo dei passi in avvicinamento.
«Digli che sto
bene, ti prego» sussurrai, richiudendo velocemente lo
sportellino del cellulare.
La dottoressa parve molto sorpresa
dal fatto che non
volessi fare né l’ecografia, né il
tracciato. Disse che non voleva, né poteva
assumersi quella responsabilità. Poi mi fissò, a
lungo, e pensai che dovevo
sembrare davvero scossa, perché parve credere che le mie
richieste scaturissero
dalla paura o dall’agitazione.
«Non
c’è problema, facciamo prima la visita,
tranquilla».
Sospirai, rassicurata, almeno in
parte e per il
momento.
Sentii la quiescente sensazione di
silenzioso tormento
espandersi pian piano dentro di me. Ero sinceramente rammaricata per la
preoccupazione a cui avevo costretto Edward. Sapevo che se i ruoli
fossero
stati invertiti sarei impazzita. Eppure, non potevo decisamente dare la
colpa
alla mia amica, che aveva solo tentato di aiutarmi.
No, era molto più giusto
dire che la causa di tutto
fossi io. Sia dello stato di angoscia fatto provare a Edward, sia di
quello che
era successo. Non curarmi di me stessa era sempre andato bene, sempre
stato
insito nella mia natura. Ma adesso, adesso che sarei diventata madre,
non mi
sarei potuta permettere una cosa del genere.
Sospirai, sull’orlo delle
lacrime, rischiando di
richiamare l’attenzione della dottoressa. Deglutii. Non era
il caso, né il
momento, con tutti i problemi che c’erano in quel momento, di
pensare a quello.
Di pensare a me.
«Possiamo fare il
tracciato?».
Scossi velocemente la testa,
ridestandomi dai miei
pensieri. Lanciai un’occhiata all’orologio: erano
passati venti minuti. «Senta,
io vorrei andare…».
Mi sorrise comprensiva.
«Bella, è una cosa importante.
Non posso lasciarti andare così. Non me la sentirei, neppure
se ti facessi
assumere tutte le responsabilità. Se ci fosse qualcuno ad
accompagnarti ti
farei andare». Sospirò. «Facciamo
così, adesso ti faccio vedere la tua bambina,
va bene? Prendiamo giusto il battito. Poi vediamo il resto»,
disse, voltandosi
verso l’ecografo.
«Ma io…
non…» presi un respiro tremante. Dovevo
inventare qualcosa, temporeggiare qualche minuto.
«Voglio… vorrei aspettare mio
marito» mormorai, mordicchiandomi il labbro.
«Non possiamo aspettare.
Se il bambino sta soffrendo
dobbiamo saperlo subito» disse gentile, sollevando il camice
bianco fin sulla
pancia.
Sentivo il cuore battermi veloce
nel petto. «La prego…
Mi faccia andare via, me ne assumerò le
responsabilità».
«Quando verrà
il papà di questa bambina la rifaremo,
promesso. Ora sta tranquilla e non ti agitare», disse,
facendo cadere un abbondante
strato di gel sulla pancia.
Potevo scappare? Quanto tempo ci
avrebbero messo a
riacciuffarmi, una donna incinta, con solo uno stupido camice addosso?
Respirai velocemente, agitata,
pensando ad una
possibile scusa con rapidità. Chiusi gli occhi, mentre la
sonda si posava sulla
mia pancia, muovendosi con leggerezza.
Contai i secondi, mentre la mia
mente, sovraffollata
di pensieri, non riusciva a seguirne coerentemente neppure uno.
«Oh, non si
vede… molto bene… ci sono degli artefatti.
Che strana ecogenicità…».
Il respiro si bloccò in
gola, mentre il cuore perdeva
un battito. Decisamente, mi sarei aspettata solo la prima parte della
frase. Sorpresa,
aprii gli occhi, fissando immediatamente il monitor.
Rimasi completamente senza fiato,
quando, immerso nel
grigio, distinsi qualche punto bianco e nero. Cercai affannosamente
qualcosa,
un appiglio che mi facesse capire che genere di immagine fosse, ma il
monitor
si spense.
I miei occhi saettarono
istintivamente sulla
dottoressa. «Scusa, questa sonda deve essere rotta, vado a
prenderne un’altra,
torno subito».
Ancora senza fiato, scossa, annuii
velocemente,
silenziosa, lasciandola scomparire dietro la porta. Quando fu via non
aspettai
un secondo più. Balzai giù dal letto, pulendo
velocemente la pancia. Mi infilai
i pantaloni, rapidamente, facendoli scorrere lungo le gambe.
Raggelai, voltandomi di scatto,
quando la porta si
aprì.
Il sospiro che ne seguì
fu meravigliosamente
liberatorio. «Edward» sussurrai.
In un istante mi venne accanto,
prendendomi fra le
braccia. Lo strinsi con tutta la poca forza che avevo, felice di
riaverlo
accanto. Si scostò in un attimo, guardandomi negli occhi,
trepidante. «Stai
bene?» chiese risoluto.
«Sì» ansimai, sentendo le parole
premere per uscire dalla
bocca. Le bloccai. «Dobbiamo andare» biascicai,
rimandando il discorso a dopo.
Mise una mano fredda sulla mia
guancia. Si avvicinò e
mi baciò con forza sulla fronte, stringendomi i capelli. Mi
sentii mancare un
battito, realizzando, ancora una volta, la paura che dovevo avergli
fatto
provare.
Mi aiutò a rivestirmi
con precisione e dolcezza,
staccò dalla mano l’ago della flebo.
«Carlisle sta preparando le carte per la
dimissione» m’informò, guidandomi fuori
dalla porta, la mano stretta alla mia.
Mi tenne accanto a lui, abbracciandomi, scorrendo velocemente nel
corridoio.
Guardava fisso davanti a sé, camminando con passo sostenuto.
Sentivo che la sua presenza,
accanto a me, emanava un
meraviglioso senso liberatorio, di pace. Come se avendolo accanto
avessi potuto
affrontare ogni cosa, senza alcuna paura. La serenità
m’invase, e strinsi più
forte la sua mano, avvicinandomi ancor di più.
«Edward» le
parole divennero urgenza «si vedeva, la
bambina». Immediatamente si voltò verso di me,
continuando a camminare. «Un po’,
ma si vedeva».
Corrugò le sopracciglia,
e tornò a guardare dinanzi a
sé, svoltando velocemente verso un altro corridoio lungo e
stretto. Ad un
tratto rallentò, silenzioso, fino a fermarsi del tutto.
«Siediti qui» mormorò,
indicando una sedia.
Feci come mi diceva, osservandolo
in silenzio mentre
lo vedevo compiere lo stesso gesto. Mi pareva strano che non avesse
fatto
subito un commento, il suo comportamento mi pareva strano. Pensai che
dovesse
essere ancora turbato. «Mi dispiace» dissi quasi
subito «mi dispiace di averti
fatto preoccupare così».
Scosse la testa, prendendo una mia
mano fra le sue.
«Non importa, Bella. Credo che la tua emoglobina sia scesa
ancora un po’, ma ce
ne accerteremo dopo. Ricordi cosa mi hai detto al telefono?»
chiese,
osservandomi da dietro le fitte ciglia «Che il professore non
si è
presentato?».
Annuii, confusa dal veloce cambio
di argomento. Era
quello il motivo del suo comportamento?
Sollevò il viso,
osservando la porta di fronte a noi. «Aspetta
qualche secondo».
Pochi istanti dopo la porta venne
leggermente aperta,
rivelando un lieve brusio. Si aprì maggiormente, e subito
riconobbi la persona
che si celava dietro. «Oh, Isabella» mi
salutò il professor Philip.
«Professore»
balbettai disorientata. Mi chiesi
immediatamente il motivo della sua presenza in quel luogo.
Il suo sguardo passò da
Edward a me. «Così siete
venuti a trovarmi per avere quello che cercavate»
affermò, sorridendo
sardonico.
«Ma, non è
così» balbettai.
«Bella è stata
poco bene. È una mera casualità»
rispose più concisamente Edward.
Il professore sospirò,
abbassando lo sguardo verso la
sua borsa con aria stanca. Ne prelevò un grosso tomo
consunto, che mi porse con
mano tremante. Lo afferrai, come se fosse la più sacra delle
reliquie,
risollevando poi velocemente lo sguardo sul suo viso. «Qui
c’è quello che
cerchi».
Lo avvicinai lentamente a me,
stringendolo al mio
petto. «Grazie infinite».
Mi fece un cenno col capo, e senza
neppure guardare
Edward si avviò in silenzio, con passo trascinato, lungo il
corridoio.
Sentivo il battito sordo del cuore
nel petto. Abbassai
gli occhi sul libro, osservandone la copertina, rilegata in cuoio.
“Livre duSang-Mêlé”
c’era scritto con calligrafia dorata. “Il
libro dei mezzosangue”, poteva essere una giusta traduzione.
Avevo finalmente
fra le mani tutto quello che fino a quel giorno avevo sempre cercato.
Ma ero
anche consapevole che quello che avrei potuto trovare non erano solo
cose
piacevoli o positive, affatto.
Sollevai il viso, incontrando lo
sguardo di mio
marito. Presi la sua mano, e la feci aderire sulla copertina.
«Abbiamo quello
che cercavamo, non è così?».
Strinse le labbra, non rispose.
Potevo immaginare
quanto il suo stato d’animo fosse affine al mio. Mi prese fra
le braccia e mi
strinse, inspirando l’odore dei miei capelli.
Sorrisi. Era una fortuna,
indubbiamente una fortuna.
Ignorare il male non serve ad evitarlo. Conoscerlo, può
prevenirlo e rendere in
grado di affrontarlo.
«Riusciremo a crescere
nostra figlia al meglio» mormorai,
baciandogli il petto. Mi accarezzò i capelli, stringendomi
più forte, senza
farmi male. Posò una mano sul pancione. «Adesso
sarà più facile. Niente
sorprese spaventose Edward… Niente
sorprese…».
«Sì. Niente
sorprese» concordò. Si staccò da me e
mi
sorrise, rasserenandomi immediatamente.
«Dobbiamo ringraziarlo,
il professor Philip»
biascicai. Arrossii leggermente, incespicando con le parole.
«In fondo, è stato
bravo con noi. Ci ha aiutati tanto».
«Bella»
mormorò, in un tono che mi parve contrariato.
«Lo-lo so che a te non
sta simpatico. E neanche a me
prima, ma… ma ora non puoi mettere in dubbio che in
fondo…».
«Bella»
ripeté, fermando il flusso inconsistente delle
mie parole. Mi prese il viso fra le mani, accarezzandomi, guardandomi
con
serietà. «Voglio essere sincero, con te. Non
voglio che tu soffra» mi fissò con
dolcezza, indugiando ancora un attimo, «mi dispiace, il suo
tempo è quasi
scaduto. Non gli resta molto da vivere».
Non provavo nessuna forma
d’affetto per quell’uomo.
Allora perché calde
lacrime scendevano dal mio viso?
Posai il palmo della mano, aperto,
sul suo petto nudo,
e con un dito tracciai la forma di un cuore, servendomi della schiuma
bianca
che aleggiava nella cabina della doccia.
Avevo la mente ancora un
po’ appannata. La sera
precedente, mentre tornavamo dall’ospedale di Seattle, ero
stata zitta e
pensierosa, rimuginando sulle parole di mio marito e sulla mia
reazione.
Forse si dà ogni cosa
per scontata finché non la si
perde. Forse l’affetto che si offre è spesso muto
e silenzioso. Forse, è nella
natura e nella morale umana provare pietà.
Mi feci baciare le labbra,
lasciando che le sue mani
sciogliessero i miei pensieri insieme al getto caldo
dell’acqua.
Ringraziai ancora una volta il
cielo di avere accanto
a me un angelo come Edward, che tacitamente mi aveva supportata e
aiutata in
ogni istante, senza essere mai troppo invasivo.
Mi lasciai dondolare sulla sedia di
legno, accanto al
camino, accarezzandomi la pancia. Fortunatamente pareva che la bambina
stesse
bene e che non avesse riportato nessuna conseguenza in seguito allo
svenimento.
Non me lo sarei di certo perdonato.
Per un attimo il mio sguardo si
posò sul libro, in
bella mostra sul tavolo del soggiorno. Sapevo che sia Carlisle, sia
Edward,
erano già a conoscenza di molte cose racchiuse in quel
libro. Era passata una
notte, tempo più che sufficiente per leggerlo completamente,
ma sapevo che
avevano tutta l’intenzione di comprenderlo a fondo e
analizzare ogni parte con
molta calma.
Io, invece, non l’avevo
ancora neppure aperto. Molto
probabilmente per leggerlo ci avrei impiegato quantomeno tre o quattro
anni,
considerando che era perlopiù scritto in lingua straniera e
antica.
Esercitava su di me uno stranissimo
fascino. Un
fascino così particolare da rendermi prudente. Tuttavia
ero piuttosto certa che fosse giunto il momento adatto per cominciare a
sfogliarlo, e magari decifrarlo.
Sollevai la schiena, intenzionata
ad alzarmi, e sentii
due mani fredde afferrarmi per i fianchi e farmi scivolare sopra un
corpo fin
troppo conosciuto. Mi voltai a guardare mio marito con aria
interrogativa. I
suoi lineamenti erano dolci e delicati, come al solito, eppure ero
certa di
scorgervi una certa serietà.
«Devo parlarti».
«Si tratta
dell’ecografia?» corrugai le sopracciglia
«avete scoperto qualcosa?».
Scosse brevemente il capo,
lasciando gli occhi fissi
nei miei e ricominciando a dondolare. «Sì, abbiamo
scoperto qualcosa. Molto, a
dir la verità, ma no, non ti voglio parlare di
questo» fece con un sorriso
appena pronunciato.
Lo osservai alcuni secondi. Aveva
un’aria davvero
strana. «Avete scoperto qualcosa di brutto?»
chiesi, trattenendo immediatamente
il fiato.
«No, no»
rispose velocemente, prendendomi il viso fra
le mani, «non si tratta di questo. È una cosa di
cui averi voluto parlarti
ieri». Stetti in silenzio, aspettando ansiosa che
continuasse. «Bella, ieri è
successa una cosa di cui ho sempre avuto timore, e che non avrei mai
voluto che
accadesse. Sono serio, non sono arrabbiato»
precisò, con tono calmo «non voglio
che tu trascuri te stessa. Non voglio che tu stia male
perché non hai mangiato
o perché non hai dormito, e sei così adulta e
matura da essere consapevole di
quello che fai».
Arrossii, abbassando il capo e
mordicchiandomi il
labbro. E così mi stavo beccando una bella ramanzina;
dopotutto me la meritavo.
«Mi dispiace» farfugliai «ho…
fatto correre rischi inutili alla bambina e…».
Mi sollevò nuovamente il
viso. «Non è per la bambina
che lo dico, non solo, e comunque, non voglio che tu pensi
questo» mi fissò
crucciato. Poi sospirò, distendendo la fronte
«ieri quando Amber mi ha chiamato
ho avuto paura che la tua emoglobina fosse scesa troppo, che non avrei
fatto in
tempo, o che ti avrebbero fatto una trasfusione. Ho avuto paura e mi
sono
sentito impotente. So che per la bambina faresti ogni cosa, ma prima di
tutto
voglio che tu lo faccia per te stessa. Siamo
d’accordo?».
Annuii. «Non era mia
intenzione farti preoccupare»
biascicai, il viso premuto contro il suo petto.
Sentì il fiato freddo
sui miei capelli. «Sempre la
solita» borbottò. «Come ti
senti?».
Scrollai le spalle. «Un
po’ fiacca, ma sto bene. Non
mi sento più svenire».
«Bene. Carlisle vuole
fare almeno un paio di cicli di
terapia questa settimana, dato che l’emoglobina è
scesa ancora».
«Le mie povere
vene» borbottai, stringendomi l’incavo
del gomito.
«Non credo tu preferisca
l’alternativa».
Rabbrividii, nauseata.
«No».
Si alzò dalla sedia,
facendo sollevare anche me.
«Vestiti, andiamo in ospedale» disse, prima di
scomparire in un istante.
Non feci a tempo a rielaborare le
sue parole che i
miei occhi caddero nuovamente sul grosso tomo consunto. Mossi due passi
verso
il tavolo, posai le dita sulla copertina spessa, osservandola ancora
una volta.
«Bella, sbrigati, ti devo
spiegare tante cose».
Sobbalzai, lasciando il libro a
malincuore
abbandonato.
«Così riguarda
la composizione della membrana che la
protegge?» chiesi, ancora fin troppo disorientata.
Svoltò con precisione,
imboccando il parcheggio
dell’ospedale. «Sì, esattamente. Sai che
ogni organo del corpo umano è formato
da tessuti e quindi da cellule?». Annuii, invitandolo a
continuare. Parcheggiò
l’auto e poi riprese, voltandosi verso di me.
«Anche la placenta, questa
membrana, un organo a tutti gli effetti, è formata da tante
cellule. Ecco, fino
ad ora le cellule erano state in tutto e per tutto identiche alle
mie».
«Perfette, spesse,
indistruttibili, fredde».
«Esatto. E di certo non
sarebbe stato possibile vedere
quello che tu hai visto ieri se fossero ancora
così».
«Cos’è
successo allora?» chiesi perplessa.
Sorrise, comparendo in un istante
al mio fianco, la
portiera aperta. «Credo che questo sarà felice di
spiegartelo Carlisle. Ci sono
mille cose di dirti, così tante che non ho idea di dove
cominciare».
Mio suocero aveva l’aria
di un bambino il giorno di Natale.
Sì, il suo meraviglioso contegno si scioglieva come neve al
sole di fronte ad
una scoperta scientifica. Dopotutto, ognuno di noi aveva un punto
debole.
«Le cellule che finora
hanno formato la placenta sono
un patrimonio importantissimo» mi spiegò,
concentrato a tracciare delle linee
su un foglio di carta «non possono aumentare di numero, come
non lo può fare
alcuna altra cellula che forma il mio corpo, o quello di Edward. La
bambina ne
ha altre, molte, dentro di sé, che servono per costituire
parti fondamentali di
alcuni organi, come per esempio il cuore, il fegato, delle cellule
nervose,
parte del cervello» sollevò il viso su di me,
lasciando cadere la penna sulla
scrivania, «perdonami, questo è un altro discorso,
non voglio confonderti».
Accennai un sorriso, scuotendo il
capo.
«Dunque» riprese «queste cellule,
sostituite da altre cellule umane,
si stanno staccando dalla placenta,
finendo nel liquido amniotico, fino ad andare a
formare…» mi porse il foglietto
su cui aveva disegnato «ecco, fino ad andare ad unirsi a
quelle della pelle
della bambina».
Fissai il disegno sconcertata,
analizzando con
precisione le varie fasi e rielaborando le sue parole.
«Quindi…» balbettai.
«Quindi alla fine della
quaranta settimane la placenta
sarà identica a quella di qualsiasi altro essere
umano».
«E la pelle della
bambina, seppur mista e per questo
in grado di crescere, molto più simile alla mia»
completò Edward, con un
sorriso.
Li osservai in silenzio, facendo
scorrere lo sguardo
fra loro al foglietto che avevo fra le mani. Mi portai una mano al
ventre,
sentendo la bambina muoversi e provando ad interiorizzare quello che
avevo
appena ascoltato. Era difficile pensare che tutto quello stesse
avvenendo
dentro di me.
«Dubbi,
perplessità? Domande?».
Sollevai il viso verso quello di
Carlisle. «Quindi»
feci, cauta «non c’è bisogno che io
faccia un taglio cesareo?».
Sorrise. «Beh, non vorrei
essere troppo affrettato, ma
credo di poterti dire con una certa sicurezza…
sì. Potrai partorire tua figlia»
concluse smagliante.
«Amore, sta
ferma» mi ammonì dolcemente Edward. Ero
stesa sul lettino e intenzionata a non perdermi nessuna delle immagini
che la
sonda avrebbe captato durante l’ecografia. Sospirai,
riabbassandomi con la
testa sulla carta ruvida, attendendo silenziosa e cercando in ogni caso
di
sbirciare il monitor.
«Non sarà
facile vederla, ma dobbiamo approfittarne
ora, perché adesso riuscirò ad analizzare al
meglio anche i suoi organi interni»
spiegò Carlisle, gli occhi puntati sul monitor
pressoché nero.
Edward si voltò verso di
me al mio ennesimo movimento.
«Guardami» mi ordinò «non
appena si vedrà guarderemo insieme, va bene?».
Annuii, guardandolo negli occhi e
lasciandomi
accarezzare le mani, nelle sue. Eppure
mi sentivo
incredibilmente emozionata, spiritata, quasi. Sì, certamente
quella sarebbe
stata la descrizione più adatta.
«Ecco». La voce
di mio suocero mi fece voltare la
testa di scatto verso il monitor. «Ecco qui…
c’è la testa, sì, la vedi
Bella?».
Annuii frettolosamente, le lacrime
che cadevano giù
incontrollate. Sentii la presa di Edward farsi più forte
sulle mani, fino quasi
a farmi male, ma non me ne curai.
«Vediamo se
riesco… sì. Questo è un braccio, lo ha
piegato sotto il mento. Mi dispiace che non si veda per intero, ma qui
si vede
anche una gambina, è in una posizione molto buffa».
Mi voltai velocemente verso mio
marito, senza vederlo
per le lacrime che mi offuscavano gli occhi. Le asciugò
velocemente, baciandomi
gli occhi, le palpebre, la bocca. «È
magnifica» sussurrai, la voce strozzata
dal pianto «somiglierà a te».
«Sarà un
perfetto punto d’incontro».
Scossi il capo, testarda.
«Somiglierà a te».
Mi lasciai torturare la pancia di
buon grado per un
tempo che parve troppo breve per i miei gusti. Era il primo contatto
visivo che
avevo con la piccola, ed era davvero stupendo. Immaginai le mille donne
stese
su quel lettino a contemplare l’immagine del nascituro. Cosa
c’è di più bello di
una vita che viene alla luce? Cosa c’è di
più bello dell’amore che si
concretizza in un essere animato? Lasciar creare la vita dentro
sé stessi… la
meraviglia e lo stupore del mondo.
«La sua testa
è qui» disse Carlisle, indicandomi un
punto poco superiore all’ombelico «qui
c’è la schiena» fece, facendo scorrere
due dita verso destra, «e qui i piedi. Sicuramente facendo
attenzione riuscirai
ad individuarne la posizione anche tu».
«È normale che
stia così?» chiesi titubante,
arrossendo imbarazzata per la possibile ingenuità della
domanda.
«Intendi con i piedi in
basso?» chiese con un sorriso
«Non ti preoccupare Bella, ha ancora tanto tempo per girarsi.
Si muoverà
parecchio adesso».
Sorrisi anch’io,
saettando con lo sguardo sul viso
sorridente di Edward «La sento».
Nell’ultimo periodo, infatti, i suoi movimenti
erano più decisi e amplificati, e decisamente superiori di
numero. Era davvero
molto attiva.
«Bella» mi
richiamò un attimo mio suocero, con uno
strano tono piuttosto controllato.
«Sì».
«Dovrei prendere le
dimensioni». Mi sorrise, prendendo
il metro e iniziando a misurare.
Mi girai verso Edward, fissando il
suo volto. Mi
pareva normale, tranquillo. Mi accarezzò il viso e mi
baciò il naso. Sorrisi.
Quando finì di misurare,
sentii il rumore delle
rotelle della sedia che strisciavano contro il pavimento, e mi voltai a
fissare
Carlisle. Guardò prima Edward e poi me. «Volevo
avere la conferma» sollevò le
sopracciglia «è un po’
piccola».
Sentii immediatamente
l’impeto di rossore sulle
guance, causato dal cuore che aveva aumentato i suoi battiti.
«Piccola?»
chiesi, la bocca secca. Edward mi prese le mani fra le sue,
stringendole, ma io
continuai ostinatamente a fissare Carlisle.
Rispondeva al mio sguardo, con
tranquillità e
pacatezza. «Non ho mai potuto fare un’ecografia e
per questo confrontare, ma
Bella, ascoltami. Non ti agitare. Innanzitutto, per le misurazioni che
ho preso
in precedenza, la pancia è sempre cresciuta in maniera
costante. In secondo
luogo, e questo è quello che ti deve rassicurare
maggiormente, la bambina è ben
proporzionata. Terzo, ho detto “un
po’”.
Molto probabilmente è solo costituzionalmente
piccola».
Continuavo a guardarlo in silenzio,
e ben presto i
miei occhi sempre fermi, si trovarono a fissare un imprecisato punto
vuoto.
Sentivo un peso sul petto, razionalmente inesistente. Respirai piano,
provando
a scacciarlo via.
«…faremo delle
analisi e due visite al mese d’ora in
poi».
«Carlisle»
domandai un po’ preoccupata «pensi che
possa dipendere dal fatto che non sto…» deglutii
«bevendo il sangue?».
Si scambiò uno sguardo
con mio marito e mi agitai.
«È
così?» domandai, portandomi una mano alla pancia.
Era sempre stata un po’ piccola, lo immaginavo. Ma averne la
certezza mi preoccupava
molto.
Fu Edward a rispondermi.
«Nel libro non c’è scritto
nulla di esplicito riguardo a questo perché tutte le donne
che…» sospirò,
guardando in basso «sono sopravvissute, hanno bevuto il
sangue almeno due o tre
volte durante la gravidanza».
«Oh Dio»
sussurrai «l’altra volta è cresciuta
molto
dopo la mia anemia. È cresciuta dopo che ha usato il mio
sangue» feci
preoccupata. Mi sentivo in colpa, perché pensavo di non aver
fatto tutto il
possibile per mia figlia.
«Bella». Mi
voltai verso mio marito. «Stai tranquilla,
la bambina sta crescendo, si vede dalla tua pancia» disse, e
mi sorrise,
accarezzandomi il pancione. Sembrava tranquillo, e mi chiesi come
potesse
esserlo.
«L’importante»
riprese Carlisle, sollevandosi dalla
sua sedia «è che tu stia tranquilla, e cerchi di
agitarti il meno possibile. Mi
rendo conto che molte cose che sono successe in questi mesi possano
averti
portato in uno stato d’ansia frequente, ma ai bambini non
piace l’adrenalina. Ti
prometto che dalla nostra parte ti daremo tutto il supporto
farmacologico possibile
per garantire alla bambina il nutrimento necessario. Anzi, iniziamo
adesso un
ciclo di terapia, e lo ripetiamo fra due giorni. E se
l’emoglobina non
risalirà… allora agiremo di
conseguenza» finì con un sorriso «Va
bene?».
Annuii malvolentieri, lasciando che
facesse il
necessario per somministrarmi la terapia di cui avevamo bisogno.
«Ripetimi quanto era la
mia emoglobina oggi» dissi,
uscendo dalla porta dell’ospedale mano nella mano con Edward.
Stava per sospirare, ma si
trattenne pazientemente.
Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni. «8.7.
È bassa, ma sai che è scesa
anche molto di più l’altra volta. Possiamo
aspettare».
Sollevai lo sguardo sul parcheggio,
pensierosa. «Lo
so. Mi chiedo se sia giusto farlo».
«Bella» mi
chiamò, facendomi voltare nella sua
direzione «non voglio che tu lo faccia se non è
strettamente necessario. Non mi
va che ti esponga a questa cosa mentre sei ancora umana».
Deglutii, preoccupata.
«Tu stai male quando hai sete,
quando non vai a caccia per tanto tempo. Se per lei fosse lo stesso? Se
fosse
sempre assetata?».
Posò una mano sul
pancino che tendeva i bottoni del
giaccone in cui ero avvolta. «Sento i suoi pensieri e sta
bene, e tu senti le
sue emozioni, ed è tranquilla e felice. Secondo me dovremmo
aspettare, ma se tu
non ce la fai, se pensi che sia arrivato il tempo, organizzeremo tutto.
Voglio
che tu sia serena».
Mi mordicchiai il labbro,
combattuta. «Va bene» mi
arresi infine «aspettiamo».
Sorrise, contento della mia
decisione. «Bene. Sai, la
dieta di nostra figlia sarà mista, a base di cibo umano per
i primi tempi, a
cui aggiungerà pian piano anche il sangue. Penso che adesso
dovremmo nutrire
te. Vuoi mangiare?» chiese guidandomi nel parchetto adiacente
all’ospedale.
«Non lo so, non ho molta
fame, mi sento un po’
scombussolata».
«Scombussolata?» chiese
perplesso, arcuando un
sopracciglio.
«Sì» annuii, «sono
preoccupata, ma sono anche felice di
aver finalmente visto la bambina» balbettai, emozionandomi al
ricordo.
La sua espressione si
addolcì. «È stato molto bello.
Ma non hai mangiato niente stamattina, e malgrado non sia ancora ora di
pranzo
non vorrei replicare l’esperienza di ieri».
Esitai, temporeggiando e tenendolo
sulle spine. «Pizza?»
chiesi sorridente, «lo dice la bambina» mi
giustificai.
Sorrise, stando al gioco.
«Pizza sia. Mi aspetti
qui?».
Mi strofinai la punta del naso,
congelata per il
freddo di gennaio. «Vado in macchina» dissi,
tendendo il palmo della mano aperto.
Ci fece cadere le chiavi e mi
baciò le labbra.
Me ne stetti in auto ad aspettare.
Piuttosto che
accedere i riscaldamenti preferii stringermi nel mio giaccone,
strofinando le
mani una contro l’altra. Il freddo poteva diventare pungente
e fastidioso, il
caldo decisamente insopportabile. Accarezzai sbadatamente la pancia,
distratta dai
miei pensieri. Mi dovevo fidare di mio marito e di mio suocero, che da
sempre
si erano presi cura di me. Ma loro ragionavano lucidamente, valutando i
rischi
per me e per la bambina e pensando più che altro al mio
benessere. Quello
strano istinto materno che stava crescendo sempre di più mi
spingeva solo a
considerare i rischi per la bambina.
Rabbrividii, e decisi che accendere
i riscaldamenti
non sarebbe stata un’idea così assurda, poi,
considerando che non era solo per
mio piacere che dovevo farlo. Edward aveva ragione, avrei dovuto essere
più
attenta.
Notai, appena sotto il sedile, la
mia borsa. Sospirai,
sollevando un sopracciglio. Avevo portato il libro con me.
Una
crescita variabile, rallenterà sempre
più. La sua pelle morbida come la
pesca e resistente come il diamante. In grado di correre come una
gazzella
senza perdere fiato. Forte tanto da stupire ogni mortale. Ogni bellezza
e
qualità sboccerà crescendo col tempo. Una
creatura decisamente molto potente,
con un ascendente incredibile. Ammaliante. Affascinante.
L’imperfezione nella
perfezione.
Queste erano solo poche delle
qualità descritte da
Carlisle, qualità che la mia bambina, come ogni altro
mezzo-sangue, avrebbe
avuto una volta nata.
Era stupefacente, e meraviglioso,
sapere che tutto
quello era rinchiuso in me. Mi aspettavo di scoprire ancora molto, su
di lei.
Mi aspettavo di scoprire qualcosa di non perfettamente positivo, anche.
Come
l’origine dei suoi strani sogni.
E se… quanto avrei
dovuto aspettare? Mi morsi un
labbro, tesi le dita verso la copertina di cuoio, sentendo una certa
forte
emozione crescere in me, e mischiarsi con la confusione della piccola.
Sollevai il viso, cauta, lanciando
un’occhiata intorno
a me per verificare che nessuno mi stesse osservando. Un pick-up blu,
molto
simile al mio vecchio modello ormai abbandonato, passava a
velocità sostenuta
sulla strada ghiacciata.
Un altro dettaglio
catturò la mia attenzione. Era una
ragazzina con un cono gelato ed un vestitino estivo con i fiorellini.
Stava
attraversando la strada, concentrata sul suo gelato.
Scattai immediatamente in mezzo
alla strada,
repentina, prendendola fra le braccia e stringendola a me.
Sentii il suono stridente dei freni
e immediatamente
mi voltai a fissare, attonita, il paraurti dell’auto. Si
bloccò, cozzando
contro il mio scudo invisibile, scivolando con le ruote sul ghiaccio.
Rilasciai il respiro che fino ad
allora avevo
trattenuto. Mi sentivo intontita per tutto il potere che era uscito
velocemente
da me.
E mi resi conto, agghiacciata, di
quello che avevo
appena fatto.
Quando mi voltai la ragazzina mi
restituì lo stesso
sguardo sconvolto.
Strinsi debolmente una mano sulla
pelle nuda delle sue
braccia. Era così fredda… come Edward. Ma quando
sollevai lo sguardo sui suoi
occhi non erano rossi o ambrati. Erano azzurri, chiarissimi, e mi
studiarono
per un lunghissimo tempo. Poi si abbassarono sulla mia pancia e se
possibile la
sua espressione si fece ancor più sorpresa.
Deglutii, staccandomi da lei e
cadendo indietro con il
sedere sul manto stradale ghiacciato.
Mentre il suono delle voci che si
avvicinavano a noi
si fece sempre più forte saltò in piedi,
voltandosi per fuggire.
«Aspetta!» le
dissi preoccupata, tendendole una mano. Tremavo,
e mi sentivo fiacca.
Si voltò, combattuta.
«Perché vai
via? Io so chi sei! Tuo padre ti cerca» le
dissi preoccupata.
Strinse le labbra perfette,
imbronciate, da bellissima
quindicenne. Aveva i capelli castani, morbidi e lunghi e le guance
rosee ancora
piene della giovinezza. «Fai attenzione»
mormorò con la sua dolce voce
melodiosa «Anche loro inizieranno a cercarti. Il tuo bambino
mi ha chiamato
qui. Credo che volesse avvertirti».
Fremetti, inquieta.
«Avvertirmi su cosa?» mormorai spaventata,
ma non ci fu più il tempo. Iniziò a correre ed
improvvisamente mi trovai
circondata da persone.
Il conducente dell’auto
mi parlava concitatamente.
Volevo alzarmi e correre da lei, ma mi sentivo spossata. Sentivo tutto
il mio
corpo irradiare il potere che avevo appena usato. La bambina fece una
capriola
nella mia pancia, il movimento più lungo che le avessi mai
sentito fare, e mi
lasciò quasi senza fiato. Mi portai una mano al ventre,
respirando e sentendomi
improvvisamente più debole. Era preoccupata. «Non
è successo nulla» dissi con
dolcezza, «va tutto bene».
Mi sentii strattonare con decisione
verso l’alto. Fissai
disorientata gli uomini con il camice turchese, usciti
dall’ospedale.
«Signora, sta
bene?».
Non mi voltai a controllare
l’origine di quella voce.
La persona che ora mi stava stringendo il braccio, probabilmente. Il
mio
sguardo cadde sul cono gelato, ora schiacciato contro
l’asfalto.
«Bella!».
Edward.
«Sto bene»
risposi a entrambi. Mi volsi verso mio
marito, che capì subito che qualcosa non andava. Mi feci
stringere al suo
petto. «Era lei, Edward» mormorai a mezza voce
«era Kate, la figlia del
professore».
Mi guardò stupito.
Annuii piano. «Vai a
cercarla» sussurrai, sentendomi
sempre più affannata «non può essere
andata lontano».
«Sei gelata» mi
disse preoccupato, sfregandomi le mani
e la guancia.
Le mie palpebre insisterono per
abbassarsi più volte,
nonostante i miei sforzi per tenerle aperte. «Lei…
sa… sa qualcosa» balbettai
sfinita. Mi strinsi più forte sul suo petto.
«Stai bene?»
domandò preoccupato, stringendomi il capo
con una mano.
«Abbiamo una barella. La
portiamo dentro al caldo»
disse un uomo alle sue spalle.
L’autista si
avvicinò ancora. «Cos’è
successo? È
incinta? Oh, Dio, è la figlia del capo Swan. Se non avesse
spostato quella
ragazzina…».
«Il potere… mi
sento senza forze» biascicai contro il
suo petto.
Edward mi prese fra la braccia,
sollevandosi e
parlando con la piccola folla intorno a noi. «Bisognerebbe
andare a cercare la
ragazza, forse è ferita. Bella sta bene, è solo
molto scossa. La porterò a casa
a riposarsi».
«Edward, sei sicuro di
non volerla far controllare?»
gli domandò il medico alle sue spalle.
Annuì.
«Sì dottor Taylor. I luoghi affollati la fanno
stare peggio. Mia moglie è molto… delicata. La
farò controllare da mio padre a
casa più tardi. Grazie per il suo aiuto» disse con
cortesia.
«Capisco» disse
l’uomo, dando indicazioni alla sua
squadra di ritirarsi.
Mi sistemò in auto e
chiamò i suoi fratelli, dando
loro istruzioni per cercare Kate. Accese i riscaldamenti ed
iniziò a guidare
verso casa.
Nonostante il passare del tempo
continuavo a sentirmi
debole ed il battito del mio cuore era accelerato.
«È scesa ancora, vero?»
domandai consapevole.
Strinse le mani sul volante ed
annuì. «7.5. Non so
come sia potuto accadere così rapidamente».
Sospirai, rintanandomi sul sedile e
chiudendo gli
occhi. «È stato il potere della bambina.
Kate… ha detto che la piccola voleva
avvertirmi. Che qualcuno inizierà a cercarci»
mormorai spaventata. «Ha detto di
stare attenta».
Mio marito serrò la
mascella. «Non ho sentito i suoi
pensieri, solo dei frammenti. Aveva un forte istinto di ricerca, e la
spingeva
dritta verso nostra figlia».
Mugolai, stanca, lasciandomi andare
contro il sedile.
Sentii la sua mano carezzarmi la
guancia. «Resisti,
siamo quasi a casa».
Edward, Jasper, Alice e Rosalie
andarono partirono in
cerca di Kate e la cercarono ininterrottamente per ben una settimana.
Carlisle
continuò a somministrarmi flebo di ferro e vitamine e
farmaci per stimolare il
mio corpo a produrre più sangue, ma la mia emoglobina non
saliva. Era ferma a
sette da ormai cinque giorni e tutti noi sapevamo che stavamo
procrastinando
l’inevitabile.
Mi guardai allo specchio del bagno,
osservando la
pelle pallida e le occhiaie.
«Stai bene?» mi
domandò Esme. «Hai bisogno di aiuto?»
fece, circondandomi con un braccio e guidandomi verso la camera da
letto.
«Grazie» dissi
soltanto, sedendomi sul bordo del letto
e stringendomi le mani sulla pancia gonfia.
Edward e Carlisle entrarono nella
stanza.
«Hanno
chiamato?» domandai ansiosa.
Edward scosse il capo, venendomi
subito accanto. «Non
ancora».
«Mi chiedo
chi… chi è che deve venire a cercarci»
ansimai preoccupata. Avevamo vagliato tantissime ipotesi. I Volturi?
Altri
mezzo-sangue? I lincantropi?
I veri licantropi?
Qualcun altro? E mi chiedevo ancora, in continuazione, chiunque fosse,
se
saremmo stati in grado di affrontarlo.
Mi carezzò i capelli.
«Chiameranno appena la
troveranno».
Deglutii. «Non la
troveranno» dissi convinta «così
come è riuscita a trovare la bambina ha l’istinto
di fuggire da loro» presi un
respiro, affaticata «ha paura».
Mio marito sfiorò le mie
mani con la sua. «Non ti
stancare».
Sollevai lo sguardo su mio suocero.
«Carlisle» lo
chiamai affannata «temo che sia arrivato quel momento. Non lo
possiamo più
rimandare».
Mi guardò concentrato.
«Non vuoi aspettare un altro
paio di giorni? Stiamo pensando al modo migliore per farlo».
La bambina si mosse, facendomi
quasi il solletico. Era
debole, si muoveva appena. Scossi il capo, abbandonando poi la testa
sulla
spalla di Edward, troppo stanca per tenerla su. «È
debole. Sta male, ma non
vuole prendere il mio sangue perché…».
«…sa che sta
male anche Bella» concluse mio marito,
lasciandomi un bacio sulla fronte. Sospirò, spostando lo
sguardo sul padre. «È
arrivato il momento» commentò teso.
Carlisle tentennò,
preoccupato.
Esme si avvicinò al suo
fianco, abbracciandolo. «Bella
riuscirà a farlo. La bambina è tutto per lei
adesso. Ci riuscirà» disse al suo
orecchio.
Annuì, voltandosi a
guardare fiduciosamente la moglie.
«Proviamoci, se è quello che vuoi».
Edward insistette per farlo in
camera. Non voleva
farlo in soggiorno perché odiava che lo collegassi
all’idea del cibo.
«Dovremmo farlo con il
sangue umano, va bene?» mi
domandò, pesando le parole, attento a non turbarmi.
Ma per quanto fossi motivata la
cosa mi turbava
eccome. «Non c’è altro modo?»
domandai scossa.
Carlisle si avvicinò con
calma. «Nel libro sono
descritte entrambe le tipologie di diete, ma le donne che hanno bevuto
sangue
animale hanno dovuto farlo per molte più volte. Se decidi di
bere il sangue
umano» continuò cautamente «potrebbe
bastarne solo una».
Edward mise una mano sulla mia.
«La decisione spetta a
te. Sarà il sangue di un donatore».
Deglutii, mandando giù i
succhi gastrici. Sarebbe
stato tremendamente difficile. «Va bene» mormorai
piano, stringendo la mano di
mio marito. «Facciamolo così, come lo avevate
pensato».
Esme decise di allontanarsi, non
sentendosi confidente
ad essere vicina a così tanto sangue umano. Carlisle
andò a prepararlo,
dicendomi che sarebbe stato più facile se fosse stato
più caldo. Mi venne da
vomitare, ma repressi il conato.
«Di cosa sa?»
domandai a mio marito.
Si bloccò, spiazzato
dalla mia domanda.
Presi un respiro.
«Intendo… l’odore del sangue mi ha
sempre disgustato e fatto sentire male, ma per voi non
dev’essere così,
immagino. Credo che debba essere buono».
Mi guardò di sottecchi
da sotto un ciuffo di capelli
bronzei. «Cambia un po’ in base al tipo di preda.
Quello… dei carnivori è più
buono» mi spiegò con calma, studiando le mie
reazioni parola dopo parola.
Dovette vedere qualcosa che lo spinse a continuare. «Non lo
so paragonare al
sapore del cibo umano» fece, perdendosi con lo sguardo nel
vuoto «ma è
delizioso. È saporito, e quando lo senti in gola
è come burro caldo che lenisce
all’istante ogni bruciore» fece, e potevo vedere
dalla sua espressione come
nella sua mente stesse contemplando l’idea di un pasto.
S’interruppe, spostando
lo sguardo su di me, teso. «Scusami, ti ho
turbato?».
Sorrisi dolcemente, carezzandogli
la guancia. «No»
mormorai fiacca «grazie. Cercherò di immaginarmelo
così».
Mi sorrise a sua volta, posando la
sua fronte sulla
mia. «Sei la persona più coraggiosa che
conosca».
Carlisle entrò nella
stanza con un bicchiere di
plastica opaco ed una cannuccia.
Sospirai. «Aspetta a
dirlo» mormorai già nauseata.
Mio suocero mi porse il bicchiere,
ma fu Edward a
prenderlo, trattenendolo nella sua mano. «Possiamo farlo
anche in un altro
modo» disse apprensivo «Carlisle può
metterti un sondino naso-gastrico. Il
tubicino dà un po’ fastidio, ma possiamo metterlo
direttamente nel tuo stomaco
in modo che tu non ne senta il sapore».
Scossi il capo, ancor
più nauseata all’idea. Sentii la
bambina carezzarmi la pancia da dentro. Portai una mano a coprirla
«È curiosa.
Vuole sentirne il sapore».
Edward sospirò.
«Facciamolo e basta» disse,
porgendomelo.
Lo presi dalla sua mano e chiusi
gli occhi. Sentivo il
contenitore tiepido fra le mani. Non volevo vedere il rosso del sangue
avvicinarsi alle mie labbra attraverso la cannuccia. Deglutii
più volte,
tentando di bloccare la mia salivazione.
«Prediti il tempo che ti
serve» disse cortese
Carlisle.
Annuii. Dovevo farlo a basta. Feci
per prendere un
sorso, ma quando il sangue salì fino a metà
cannuccia feci l’errore di aprire
gli occhi e l’odore mi arrivò alle narici. Mi
piegai oltre il bordo del letto a
vomitare.
«Mi dispiace»
mormorai fra le braccia di Edward che mi
sostenevano.
«Shh,
non essere
dispiaciuta. Non è colpa tua. Non avresti mai dovuto fare
una cosa del genere»
mi consolò.
«Ti prego, lasciami
riprovare» lo implorai.
«Bella»
ansimò, spiazzato. Gli sembrava come di dover
corrompere la mia natura umana, come di dovermi fare un maleficio. Lo
faceva
soffrire enormemente vedermi così, in lotta contro me
stessa, contro la mia
parte più pura e santa.
«Sai che non
c’è altro modo» ansimai stanca.
Chiuse gli occhi, addolorato e
combattuto fra l’amore
che aveva per me e quello che aveva per la bambina. «Lo
so».
Mezz’ora più
tardi ci riprovai per la seconda volta.
Insistetti per avere accanto a me una bacinella per poter vomitare se
ne avessi
avuto bisogno. Cercai di calmarmi per impedire alle mie emozioni di
prendere il
sopravvento.
Guardai mio marito e lui
annuì, infondendomi coraggio.
Chiusi gli occhi e mi ripromisi di
non aprirli per
alcuna ragione al mondo.
Quando tirai su il primo sorso
l’odore sgradevole mi
sorprese ancora, ma deglutii il sangue, mandandolo giù
insieme ad un conato.
Era caldo e Carlisle aveva avuto ragione. Era più
tollerabile. Non appena
sentii il liquido caldo scendere nello stomaco sentii
l’emozione più forte che
avessi mai percepito da mia figlia: puro piacere.
Mi staccai dalla cannuccia, aprendo
le palpebre,
sconvolta.
«Bella?» mi
chiamò ansioso mio marito «tutto bene?».
Annuii, ancora frastornata.
«Lei… le piace» mormorai
sconvolta, carezzandomi la pancia.
Bettè le palpebre,
concentrandosi sui suoi pensieri.
«Sì. Le piace molto» commentò
quando la bambina si mosse, dandomi un calcetto.
Presi coraggio e feci un altro
lungo sorso. Il sapore
e l’odore erano quelli del sangue e mi disgustarono. Respirai
con il naso,
sofferente, e lasciai che la bambina mi inondasse con le sue emozioni.
Mi
interruppi ancora, cercando di controllare la mia nausea. Se volevo
farcela
dovevo lasciare che il suo istinto prendesse il sopravvento su di me.
Così
mandai giù sorso dopo sorso, provando a non pensarci,
concentrandomi solo sul
piacere che mi dava e non sul sapore rivoltante che mi faceva vomitare.
Continuai finché incredibilmente non sentii il suono di un
risucchio: era
finito.
Mi lasciai andare con un respiro
affannoso sulle
coperte, ancora vinta dall’istinto di mia figlia. Sentivo
ancora il sapore del
sangue sulla lingua.
Mi strinsi in posizione fetale,
proteggendo la pancia
con le braccia e dondolandomi piano avanti e indietro. Ero pallida e
sudata e
tremavo, cercando con tutta me stessa di non vomitare. Sarebbe stato
tutto
inutile.
«Le prendo
dell’acqua» disse Carlisle, scomparendo
immediatamente alla mia vista.
«Sei stata bravissima,
davvero bravissima» mormorò al
mio orecchio mio marito, carezzandomi la schiena madida di sudore.
Chiusi le palpebre, cercando di
calmarmi. Più e più
volte mi trovai a reprimere un conato. Bevvi un po’
d’acqua e mi feci coraggio
per masticare un po’ di mollica di pane, sperando che
cancellasse il sapore che
avevo in bocca.
«Oh» esclamai, piegandomi su me stessa.
Era il calcio più
forte che la bambina mi avesse mai dato. Mi strinsi sulla pancia il
punto dove
aveva colpito. «È più forte»
dissi speranzosa, guardando mio suocero che mi
scrutava, attento.
Mi sorrise.
«Sì, lo sentiamo anche dal suo battito.
Stai bene?».
Sospirai, stanca. «Mi
viene ancora un po’ da
vomitare».
Mi venne incontro, posando il dorso
della mano sulla
mia fronte e studiandomi con i suoi occhi gentili. «Posso
darti un farmaco per
farti stare un po’ meglio».
Annuii. C’era stato
già abbastanza eroismo per quel
giorno.
Edward mi aiutò a
lavarmi e a mettermi un pigiama
asciutto e pulito. Mi strinse a sé, cullando me e la bambina
mentre la flebo
faceva il suo effetto ed io mi sentivo sempre meglio.
Con le dita carezzai il suo petto,
persa nei miei
pensieri. «Ti ha turbato?» sussurrai a mezza voce.
Lo sentii stringermi più
forte per qualche secondo, e
per me fu una risposta.
Sospirai, pensando
all’immagine che doveva avere di me
in quel momento. «Mi dispiace…».
«No» mi bloccò, continuando
a cullarmi ed accarezzare il
pancione. Parlava piano nella penombra della stanza. «Pensavo
che mi avrebbe
turbato, ma non lo ha fatto. Pensavo che avrebbe distrutto la tua
purezza, la
tua umanità, la tua sacralità» disse
piano «ma tutto quello che ho visto era
una madre che si sacrificava per suo figlio. E non
c’è niente di più puro al
mondo».
Mi rilassai, accucciandomi sul suo
petto, stanca e
sollevata. «Grazie di essermi sempre rimasto accanto. Non
l’ho mai dato per
scontato» mormorai assonnata.
«Era il mio
posto» sussurrò al mio orecchio,
cullandomi ancora finché non mi addormentai.
L’indomani mi sentii
decisamente meglio. Mi svegliai
da sola e fui contenta di fare una normale colazione umana. Per tutto
il tempo
la bambina si mosse tantissimo, agitandosi e dandomi pugni e calci.
Ero seduta all’isola
della cucina, disegnando con la
mia matita morbida, quando Edward si avvicinò.
«Come sta la nostra
mammina preferita?» mormorò al mio
orecchio, abbracciandomi il pancione da dietro.
Mi voltai con un sorriso a
lasciargli un bacio sulle
labbra. Mi sentivo meglio, e Carlisle mi aveva detto che la mia
emoglobina era
già salita. «Sto bene» lo rassicurai.
Esme entrò in casa,
posando un vaso con un bel mazzo
di fiori in soggiorno. «Posso?» fece, gentilmente.
«Come stai tesoro? Ti vedo
meglio» disse con un sorriso felice, carezzandomi dolcemente
la pancia.
La bimba le restituì un
calcetto. Aprì la bocca,
sorpresa. «L’ho sentita» disse contenta.
Ridacchiai.
«Sì, si è mossa un sacco. Mi sento
tutta
la pancia indolenzita e la pelle tesa come se mi stessero facendo un
lifting».
I suoi occhi dorati si
concentrarono sul pancione. Si
volse verso Edward con un sorriso. «È
cresciuta».
Mio marito, alle mie spalle,
annuì. «Sì, è
cresciuta».
Sorrisi, accarezzandola a mia
volta. «Bene».
Esme indicò il disegno
sul ripiano di marmo. «Pensavo
che volessi prenderti una pausa dagli studi».
Scrollai le spalle. «Non
è per studio» dissi,
riprendendo in mano la matita e sistemando un dettaglio degli occhi
«volevo
fare un disegno di Kate in modo che fosse più facile
trovarla».
Edward si bloccò,
sorpreso.
«Amore, tutto
bene?» domandai preoccupata, voltandomi
a carezzargli il viso.
Crucciò le sopracciglia,
un’espressione seria in viso
e lo sguardo fisso sul mio disegno. «È
lei» mi disse, voltando lo sguardo su di
me «la donna che era in mare, quella che tuo padre ha cercato
di salvare. Ha
già tentato di avvicinarsi a noi».
Sgranai gli occhi, sorpresa.
«Credi che Philip lo
sapesse?».
Scosse il capo, pensieroso.
«L’ho chiamato, prima. Gli
ho detto che non siamo riusciti a trovarla e che i miei fratelli stanno
tornando a casa. Si è molto infuriato».
«Oh, Edward»
sospirai. Per quello che ne sapevo non
l’avremmo mai trovata se lei stessa non si fosse fatta
trovare.
Più tardi, quella sera,
massaggiai il pancione, stesa
sul letto di camera mia, accanto a Edward, stanca.
«Credo che dovremmo
andare avanti proprio come abbiamo
fatto. La bambina crescerà meglio ora, sfruttando il sangue
che le hai dato, e
anche tu starai meglio. In merito a Kate… Dobbiamo solo
aspettare. Ma per ora
prometti che ti rilasserai?» chiese, e sentivo una maggiore
serenità anche
nella sua voce.
Chiusi gli occhi e sorrisi, striracchiandomi.
«Non ti dirò di sì» feci,
impertinente. «Oh»
li
spalancai, mettendomi seduta e portandomi le mani al ventre.
«Che calcio»
borbottai.
Edward tolse dolcemente le mie
mani, massaggiandomi il
punto esatto in cui mi aveva colpita. «Eì
d’accordo
con me» dichiarò tranquillo. Scese con il viso a
baciarmi il ventre scoperto.
«Facciamo rilassare la mamma» mormorò
con un sorriso, lasciandomi piccoli baci,
«deve riposarsi».
Sorrisi. Era sempre
così, non dovevo stupirmi di
amarlo. «Proverò a rilassarmi, lo prometto. Ma non
è facile, lo so» gli
accarezzai distrattamente i capelli, ripensando a tutto
l’incidente, ad ogni
problema, «Edward» mormorai «pensavo, che
forse potremmo scoprire qualcosa che
riguarda… i sogni. Della bambina. Da quel libro,
intendo».
Strofinò la punta del
naso sul ventre. «Non abbiamo
letto ancora nulla a riguardo. Forse, a breve troveremo
qualcosa» sollevò il
viso, parlando con leggero astio «magari se il profes…».
«No» lo interruppi,
«è estremamente turbato dalla storia
di Kate, ed ha già fatto molto, per noi. Non avercela con
lui». Pensare a
quell’uomo mi causava un certo doloroso languore nel petto,
sempre. Mi pentivo
di averlo odiato così tanto.
Edward serrò la
mascella, squadrandomi. «Ci proverò»
mormorò infine. Distese la fronte e posò il capo
sul mio grembo.
«Magari troveremo
qualcosa» sussurrai, riprendendo ad
accarezzare la sua chioma.
«Rilassati Bella.
Rilassati. Tutto a tempo debito»
mormorò, gli occhi chiusi, il viso rilassato. Se non avessi
saputo con certezza
della sua natura avrei detto che si sarebbe ben presto addormentato.
Passarono alcuni minuti,
silenziosi, in cui rimuginai
e fantasticai su quello che avremmo potuto trovare, e sul se, avremmo
trovato
qualcosa. «Chissà, forse,
se…».
Si sollevò, aprendo gli
occhi di scatto e spostandosi
velocemente. Mi ritrovai con il respiro corto, la schiena contro il suo
petto,
il fiato sul mio collo. «Chissà, forse,
se… Bella, che ne dici di una
distrazione migliore?». Mi baciò audacemente,
risalendo con la mano sotto la
maglietta, verso l’alto.
Deglutii. «Magari
sì» farfugliai, abbandonandomi al
suo corpo.
Mi rigirai fra le coperte, tentando invano di prendere
sonno
Mi rigirai fra le coperte, tentando
invano
di prendere sonno. Edward si adattò silenziosamente alla mia
nuova, ennesima,
posizione, senza fare commenti di alcuna sorta.
Sospirai, massaggiandomi il
pancione e
sistemando meglio il cuscino fra le gambe. Sbuffai, alzandomi
finalmente dal
letto, costretta a svuotare quella sembrava divenire sempre un
più piccola
vescica.
La verità era che non
potevo asserire di
essere tranquilla, convincermi di esserlo, quando poi la
realtà dei fatti era
un’altra.
«Bella, per favore. Non
dovremmo discutere
anche di questo».
«No, Edward, infatti. Non
ho alcuna voglia
di farlo».
Proprio quella mattina ci eravamo
ritrovati per concludere la lettura del libro e cercare quelle
informazioni
tanto preziose. Quelle relative agli strani sogni della bambina. La
procedura andava
avanti un po’ a rilento, dato che ogni nuova scoperta
decifrata doveva essere
poi spiegata a me. Tuttavia la cosa sembrava non pesare a nessuno.
La scoperta più
importante e degna di
nota, era stata quella relativa all’alimentazione della
piccola. Sia cibo
umano, che sangue, con una decisa e naturale inclinazione per
quest’ultimo, e
nei primi mesi per il latte materno.
Il tomo riportava anche
l’esperienza delle
altre donne, e il cesareo non era neppure menzionato. Era piuttosto
chiaro,
anche se Carlisle non si era perfettamente sbilanciato, il normale
svolgimento
che avrebbe seguito il mio parto.
Da quello era scaturita la
discussione con
mio marito.
«Non ho nessuna
intenzione di farmi
infilare un ago di quindici centimetri nella spina dorsale»
sibilai, sperando
di mettere fine al battibecco.
Alzò gli occhi al cielo,
provando a
mantenersi calmo. Non amava farmi agitare, andava contro la sua natura.
«Invece
vorresti provare quanto più dolore possibile, per paura di
un solo ago…»
bofonchiò.
Strinsi i pugni sulle ginocchia.
Portai
piano una mano ad accarezzarmi la pancia. «Non voglio fare
l’epidurale. Per te
può essere un solo ago, ma io ho paura!».
«Oh vi prego, smettetela,
entrambi» sbuffò
Rose, alzandosi dalla sedia e venendoci incontro, verso il divano.
«Siete
terribilmente testardi. Bella. Credimi, non provare dolore è
una vera manna dal
cielo. Edward. Primo, stai facendo agitare mia nipote. Secondo, non la
puoi
obbligare».
«Non ho intenzione di
parlarne ancora»
mormorai, abbassando lo sguardo e mordicchiandomi un labbro. Ero
testarda.
Ma lui lo era almeno quanto me.
Sospirò,
abbracciandomi. Mi feci prendere fra le braccia, rimanendo silenziosa.
«Si
vedrà a momento debito».
Feci per ribattere, ma la voce di
mio
suocero, ancora piegato sul libro, mi fece desistere.
«Nulla»
dichiarò, sollevandosi. Guardò i
presenti nella stanza, dando a tutti il tempo di orientarsi verso le
sue
parole. «Non c’è nulla, neppure un
accenno, a quello che è successo. Parla dei
collegamenti fra la madre e il bambino. Ma c’è
scritto anche che i sogni si
sviluppano a partire dall’ottavo mese di
gestazione, che sono semplici
e basilari pensieri e impulsi. E non accenna
affatto a nessuna
delle conseguenze alle quali noi siamo venuti incontro. Non so come
spiegarlo,
mi dispiace…».
Sospirai, lasciandomi cadere seduta
sul
bordo del materasso. Non sarei mai riuscita a dormire.
Le mani fredde di mio marito mi
avvolsero
da dietro, mentre le labbra fredde si posavano sul collo.
«Che hai?» sussurrò
nel silenzio.
«Mmm… la
pancia dura» biascicai, e la sue
mani andarono subito ad accarezzarmi il pancione.
«Da quanto?»
chiese serio, posando il
mento sulla mia spalla «ti fa male?».
Scossi il capo. «Non
è niente… Carlisle ha
detto che è normale, un po’. É successo
un paio di minuti fa» sospirai «Sono
tranquilla, lo giuro». Fissai il buio davanti a me.
«Non devi dire
così» le sue mani
scivolarono sulle mie spalle, massaggiandole. «É
inutile che tu ti sforzi di
esserlo se non lo sei. Dimmi cosa ti turba, e starai meglio. Quantomeno
potrò
aiutarti».
Sapevo che non conoscere i miei
pensieri
lo mandava in agonia, e capii che non era più momento di
tenerli per me.
«Ho…
pensato… al fatto che nel libro non
ci sia nulla sugli strani sogni della bambina» feci una
pausa, appositamente
studiata, per fargli metabolizzare il nuovo discorso. «E ho
unito questo a
quello che…» tremai; deglutii «che ha
detto Philip».
Mi accarezzò i capelli,
mi fece voltare
verso di lui. Potevo scorgere appena i suoi lineamenti servendomi della
gialla
luce dell’abat-juor.
Il fatto sul libro non avessimo
trovato
nulla sui sogni, mi aveva dato la conferma di un dubbio che covavo da
tempo:
non avevano nulla a che vedere con la sua natura. Nulla a che
vedere con lei.
«Ha detto che quelli che erano pensieri che scorrevano nella
mente della
bambina. Non ha detto che fossero i suoi…».
Le sopracciglia di mio marito si
strinsero
un attimo in una flessuosa linea. «Certo. Non lo ha detto. E,
in effetti, non
sono per niente simili ai pensieri che percepisco solitamente. Il
problema è…
chi vorrebbe comunicare con lei? E perché a te»
posò una mano sulla mia guancia
«è successo quello che è
successo?».
Mi girai su un fianco, posando la
testa
sul suo petto, sotto il suo mento. Sentivo il suo odore e ad ogni
respiro,
mentre lo inalavo, mi faceva sentire tranquilla e in pace.
«Ho pensato…
ai licantropi. Così, riesco a
spiegare la presenza di Seth. Loro sono coinvolti in questo.
Così, riesco a
spiegare quello che ho percepito io…
perché…» deglutì, ritornando
a fissare il
volto di Edward, «magari, la sensazione dei licantropi poteva
evocare ricordi… non
piacevoli».
Sfregò il mento sulla
mia fronte,
stringendomi nuovamente a sé, pensando. «Pensavo
già che saresti stata tu a
scoprire qualcosa di interessante» sentii il suo sorriso su
di me «forse non
così presto. Eppure… ancora non riesco a
concepire nessun motivo di
collegamento fra i licantropi e nostra figlia. Non riesco, ancora, a
spiegarmi
lo strano comportamento di Seth…».
Lo guardai, gli occhi luccicanti e
colpevoli, lievemente lusingati.
Sollevò entrambe le
sopracciglia,
sorpreso.
«L’hai
capito». Non era una domanda.
Arrossii, scuotendo il capo.
«Beh, non
riesco a trovare in alcun modo nessun collegamento fra i licantropi e
la
bambina, ma…» mi morsi un labbro, fissandolo,
«Seth. É stato completamente
bloccato, in un istante. Io…» biascicai
«ricordo…». Chiusi lievemente le
palpebre, facendo scorrere nella mia mente le immagini della mia
camera, delle
parole mozzate, i gesti spezzati, di colui che consideravo un vero
amico.
«Ricordo quali erano gli effetti di un comando alfa».
S’irrigidì.
«Pensi che Seth stesse
trasgredendo alle regole?».
Lo fissai, eloquente, soddisfatta
nel
vederlo approdare alle mie stesse conclusioni. Non dovevano poi essere
così tanto
affrettate. «Ci ha sempre voluto bene…».
«Stava cercando di
avvertirci, di darci un
ultimo e disperato monito…».
«Su quello che i
licantropi volevano
dirci, e che noi abbiamo rifiutato di sentire…».
Gli occhi chiari di Edward
scintillarono.
«Il collegamento con la bambina. Era di
questo che volevano informarci,
era questo che Seth voleva dirci, prima di essere bloccato dal comando
dell’alfa, prima che, per l’ultima volta,
comunicassero con la bambina».
Sorrisi, abbandonandomi alle sue
braccia.
Ero felice che mi credesse, che non ritenesse le mie ipotesi assurde.
Ero
felice di averne finalmente parlato con lui. Aveva avuto ragione,
renderlo
partecipe mi aveva reso indubbiamente più serena.
Sbadigliai, stropicciandomi
gli occhi e massaggiandomi la pancia.
«Dovresti dormire
più che pensare, lo
sai?».
«Lo so»
biascicai, ironica, un sorriso
appena accennato sulle labbra.
«Sono le tre di
notte» mi accarezzò i
capelli, dolcemente «credo che una bella dormita sia
più che meritata».
Anche il resto della famiglia
sembrò
avallare le mie ipotesi. Sembravano tutti molto soddisfatti e
incuriositi dalla
vicenda. Certo, le mie rimanevano pur sempre supposizioni, ma tutti ora
si
sentivano pienamente liberi di concentrarsi su un unico punto: cosa
volevano i
licantropi da mia figlia?
Questo rimaneva ancora troppo,
decisamente, inspiegabile. E le sole due fonti di verità,
rimanevano entrambe
off-limits. I licantropi non ci avrebbero mai detto cosa volevamo
sapere. No di
certo, se la mia supposizione su Seth fosse stata esatta. E…
l’altra fonte… era
il professore.
«No» biascicai,
la bocca impastata
«aspetti».
La figura del professore,
riprodotta
fedelmente nel mio sogno, mi guardò tristemente, prima di
voltarsi e andarsene.
Mi sentivo incredibilmente in
colpa. In
colpa, perché dopo averlo odiato, temuto, allontanato,
persino, per lungo
tempo, mi rendevo conto di aver solo sbagliato. Non ero stata capace di
comprenderlo realmente. Aveva sofferto, nella sua esistenza, la
scomparsa della
moglie, la perdita della figlia.
Se fossi stata al suo posto, non
avrei
potuto reagire al suo stesso modo, sarei stata semplicemente annullata.
E ora, ora che finalmente avrebbe
potuto
riabbracciare sua figlia, neppure quello gli sarebbe stato concesso,
visto che
l’orologio della sua vita scoccava i suoi ultimi rintocchi.
Mi svegliai di soprassalto,
mettendomi
seduta sul divano. Ansimai lievemente, socchiudendo le palpebre e
lasciandomi
andare con la schiena, sudata, sul cuscino. Accarezzai il ventre
gonfio,
facendo calmare la piccola.
Alice si avvicinò,
scendendo dalle scale,
scivolando tranquilla e silenziosa sul pavimento. Era tornata da appena
due
giorni, per sistemare ogni cosa per la festa che ci sarebbe stata.
Festa per il
prossimo arrivo della bambina. Non avevo potuto rifiutare,
semplicemente perché
non mi aveva chiesto alcun permesso. «La festa non
è per te». Queste le
sue parole.
Feci per alzarmi, per mettermi
seduta, ma
me lo impedì con un gesto. «Tutto bene?»
chiese placidamente.
Annuii, un sorriso forzato e appena
accennato.
Mi studiò attentamente
prima di lasciarsi
scivolare, seduta, sul tappeto davanti a me. Posò una manina
sulla pancia,
accarezzandola. «La tua piccola, a differenza di te, non mi
mente, e non lo fa
neppure male. Se si è agitata c’è un
motivo» dedusse logicamente.
Sospirai. «Non avete
trovato nessuna
traccia di Kate? La figlia di… di Philip?».
I suoi occhi vispi guizzarono nei
miei,
mentre tentava di capire la vera natura della mia domanda.
«No, nulla. Solo una
traccia, troppo remota. É brava a scappare, a rifugiarsi.
Deve essere nascosta
da qualche parte…».
Annuii, sconsolata. «Mi
dispiace…». Feci
una pausa. Arrossii, imbarazzata. «Ti spiacerebbe…
aggiungere…» sollevai il
viso, mordendomi violentemente le labbra «un
invitato?».
I suoi occhi si velarono, e subito
sorrise.
Le visioni che aveva su di me e sul bambino erano decisamente ridotte,
tuttavia
ancora persistevano in alcuni momenti, soprattutto nel futuro
imminente.
«Nessun problema Bella». Un’espressione
buffa, quasi disgustata, comparve sul
suo visino. «Lo aggiungerò, ma sappi che quel
professore non mi piace…».
Alzai gli occhi al cielo,
sconsolata,
mettendomi a sedere finalmente sul divano. «Ti prego,
Alice…».
«Certo, certo, come vuoi.
La pietà è
umana…».
La fissai torva, vedendola
scomparire
nuovamente in cima alle scale. Non provavo pietà.
Quell’uomo era degno di
qualcosa di meglio dell’umana pietà. La mia
gratitudine. Le mie scuse per non
essere stata corretta nei suoi confronti. Il mio conforto,
forse…
Avrei dato tanto per poterlo vedere
e
poter chiarire mille cose con lui. Ma sapevo che con ogni
probabilità non si
sarebbe presentato.
«Ancora
contrazioni?». Edward mi fissò di
sottecchi, continuando a sparecchiare alla sua velocità
inumana.
Scossi il capo, continuando a
sbadigliare.
«Sta premendo un piede proprio sotto l’ombelico. Ma
che birbona…» mormorai
sarcastica, «non la senti?» gli chiesi.
Mi venne vicino, posando una mano
proprio
dove sua figlia insisteva con il piedino.
«Carlisle dice che
è perché l’utero cresce
rapidamente, e perché la bambina si diverte a lasciare le
sue “impronte”».
Sorrisi.
«Ha detto anche che se ne
senti molte
dovremmo avvisarlo» buttò lì con
leggerezza.
Affondai le mani fra i suoi
capelli, a
portata della mia altezza, sorridendo. «La visita
sarà pochi giorni dopo la
festa. Così potremmo vedere se la piccola è
cresciuta».
Sorrise anche lui. «La
pancia è cresciuta,
a vista d’occhio direi» dichiarò,
osservandola con ammirazione. Anche le sue
mani, perfettamente aperte sulla pancia, non riuscivano a ricoprirla
del tutto.
Era cresciuta molto, in effetti.
«Non ho ancora trovato
nulla da indossare
per la festa. E,» precisai «non sono
così masochista da chiederlo da Alice.
Rovisterò nell’armadio che mi ha fornito. Un terzo
delle cose che ci sono non
le ho mai messe, un altro terzo non le ho mai viste».
«Sarai
stupenda» disse sicuro.
Abbassai il capo, continuando ad
accarezzarlo, senza dire nulla. Mi sentivo un po’ in colpa
per avergli taciuto
alcuni particolari della festa, come la lista degli invitati.
Come… un
invitato, in particolare.
La sua non più durevole
pazienza pose fine
al silenzio. «Cosa c’è?».
«Volevo
dirti…». Non avevo alcuna
intenzione di farlo suonare come un permesso. Non avevo,
d’altro canto, alcuna
intenzione di evidenziarla come una menzogna. Mi schiarii la voce.
«Ho invitato
il professore. Il professor Philip. Spero che non ti
dispiaccia…».
Liberò il capo dalle mie
mani, tornando a
guardarmi.
Avere i suoi occhi su di me mi
faceva
decisamente essere più vile.
«Io…» sospirai «vorrei
solo… solo parlargli, un
po’… solo…».
Le sue parole furono placide. Non
era
adirato con me per l’invito, si stava preoccupando del motivo
di questo. «Non
puoi fare niente per lui».
Contrassi il volto.
«Io…».
Mi accarezzò una
guancia, sollevandosi da
terra. «Non voglio che tu soffra. Ma… la nascita.
La morte. Fanno parte
della natura umana».
Scossi il capo, nascondendo il viso
fra le
mani. «É così ingiusto… La
sua vita mi sembra così semplicemente
ingiusta…»
mormorai flebile.
Mi prese fra le braccia, traendomi
a sé,
lasciandomi impercettibilmente tremare contro il suo petto.
«Mi dispiace amore,
mi dispiace così tanto…»
cantilenò, cullandomi.
«Se solo potessi
parlargli» sussurrai, con
voce fioca, «anche solo una volta».
«Mi
dispiace…» ripeté. Per quanto il
professore non fosse fra le sue simpatie, sapevo che mi stava dicendo
la
verità.
La cosa che più odiava
al mondo era
vedermi soffrire, e per quanto potessi ignorare quello che avevo da
poco
appreso, stavo soffrendo, tacitamente, ogni giorno. Per quanto la mia
vita
potesse essere perfettamente serena e tranquilla, non riuscivo ad
ignorare il
dolore di un uomo che mi era stato così d’aiuto.
Eppure, sapevo che non avrei
potuto realmente fare nulla.
La festa doveva essere,
ufficialmente,
cominciata dieci minuti fa. Alla fine, persa nella mia stessa cabina
armadio,
ero stata costretta a farmi aiutare a scegliere da Alice, che ne aveva
estratto
un elegante abito bianco, lungo fino al ginocchio, stile impero, con
tanti
volant impalpabili. I miei sospetti che l’abito fosse stato
acquistato per l’occasione,
piuttosto che “sempre stato nell’armadio”
come si ostinava a ripetere lei, non
avevano motivo di rimanere solo sospetti.
«Sei tanto
bella… Stupenda…».
Arrossii, lasciandomi baciare il
collo, la
testa posata sulla sua spalla. Sempre, da sempre, si era profuso in
complimenti
per me. Come poteva adorarmi così tanto, quando era lui il
vero angelo?
«Dobbiamo
andare» farfugliò, ancora
stretto a me.
Lo trattenni prima che si
allontanasse.
«Alice ha detto che non è la mia festa, quindi
posso anche non andarci»,
sussurrai, pretendendo un bacio. Un bacio vero.
Si staccò, fissandomi
furbo. «Non credo
che la prenderebbe bene, sai? Credo che tu veicoli il soggetto a cui la
festa è
dedicata», sghignazzò.
Sbuffai. «Non mi va di
sentirmi come
un’incubatrice ambulante. Ci saranno decine di persone che mi
toccheranno la
pancia. La bambina sentirà caldo, si innervosirà,
non smetterà di tirarmi
calci…» borbottai.
Mi tese la mano, sollevandosi dal
letto. Aveva
il suo mezzo sorriso sulle labbra. «Andiamo?».
«Si, andiamo»
biascicai riluttante.
L’immensa sala
dell’attico era stata
riempita da palloncini, veli, tulle, enormi tavoli imbanditi, e
altrettanto
enormi pieni zeppi di regali. Mi calmai leggermente quando notai che il
numero
degli invitati non superava le mie, alquanto ingigantite, previsioni.
Malgrado il chiacchiericcio tutti
si
voltarono, zittendosi, verso me e Edward, quando poco aggraziatamente
raggiunsi
la cima delle scale. Mezza Forks mi osservava attentamente.
Arrossii immediatamente, senza
poter
nascondere in alcun modo il mio disagio. La gravidanza aveva ampliato
in modo
imbarazzante quel fenomeno.
Edward lasciò la mia
mano e passò il
braccio dietro al mio busto, stringendomi. In quei secondi, pochi
istanti di
paralisi immobile, in cui il mio cuore scandiva i suoi forti battiti,
perlustrai l’intera sala. Amici di scuola, mio padre, amici
di mio padre, la
mia famiglia di vampiri. Non il professore.
«…siamo lieti
quindi di avervi qui» virò
tiepido Edward, con un tono ammaliante e coinvolgente.
«Bella! Come stai? Che
bello vederti…» i
miei amici di scuola, Angela, Jessica, Ben, Mike, furono i primi a
farsi
avanti. Li avevo visti molto poco, causa i loro impegni universitari.
Ogni
tanto Angela era venuta a trovarmi, però. Ogni volta che era
tornata a Forks.
Mentre sentivo le parole dei miei
amici,
continuavo a setacciare incessantemente la stanza. Mi era difficile
concentrarmi unicamente su di loro, concentrarmi sugli ospiti, che pure
volevano con insistenza parlare con me. Edward mi salvò
nella maggior parte dei
casi, cancellando il mio imbarazzo.
«Scusa, non ho
sentito?» chiesi, fissando
il viso di Jessica e accorgendomi del fatto che doveva avermi posto una
domanda. Dopo aver salutato più o meno tutti gli invitati,
almeno quelli che
conoscevo, mi ero rifugiata in un angolo coi divanetti con Edward, che
non mi
aveva lasciata sola neppure per un istante. Ovviamente,
però, la gente
continuava a venire a cercarmi.
«Quanto manca al
parto?».
Mi portai una mano sulla pancia,
appena
tiepida. La mutazione della placenta stava portando anche quel
cambiamento.
«Sono alla ventiseiesima settimana, sesto mese, quasi
settimo», sorrisi,
guardando la mano di Edward, appena accanto alla mia. In tutto quel
disordine,
ero contenta di aver rivisto i miei amici. Era una parte di me che mi
era
mancata un bel po’. Non che avessi rimpianti. Mi andava
benissimo avere
diciannove anni e fare la madre. Ma… le giovani amicizie
erano state
un’esperienza umana relativamente piacevole.
«Posso
toccarti?» chiese genuinamente
Mike.
Edward
s’irrigidì impercettibilmente.
Arrossii. «Si, certo» mormorai a disagio. Sempre
stata troppo vile per dire di No.
Posò il palmo sulla
pancia, toccandola con
attenzione. La bambina era stata dapprima infastidita da tutti quei
caldi
contatti che aveva avvertito quella sera. Poi però, il suo
fastidio era mutato
in confusione e in curiosità. Non era mai avvenuto un evento
simile, tante mani
diverse a calde, tutte a toccarla. Tuttavia, dopo pochi istanti, la
bimba
decise di compiere una completa capriola, assestandomi un calcio
diritto al
fegato.
Gemetti debolmente, sostituendo la
mano di
Mike alla mia, accarezzandola. «Scusa, è
agitata».
Sentii la mano di Edward stringesi
protettivamente sul fianco. «Tutto bene?».
Annuii, silenziosa.
Gli occhi di Mike lampeggiarono di
uno
strano guizzo, ma non disse nulla, si limitò a fissarmi,
ancora, in silenzio.
Jessica catturò la sua attenzione, trascinandolo via, verso
altri ragazzi da me
sconosciuti.
Notai la postura rigida e ferma di
Edward.
Un’improbabile gelosia gli bruciava negli occhi. Mi lasciai
andare su di lui,
sorridendo e non potendo fare a meno di osservare ancora una volta
l’intera
stanza.
Mi accarezzò i capelli,
intuendo i miei
pensieri, diretti dove era diretto il mio sguardo.
«Verrà».
Sospirai, incerta.
La festa fu relativamente
tranquilla.
Ringraziai ogni componente uomo della famiglia Cullen per avermi
monopolizzata
nel ballo e avermi esonerata da eventuali figure fin troppo
imbarazzanti. Solo
con mio padre ballare fu d’obbligo, ma, fortunatamente, si
stancò molto presto
anche lui.
«Mia cara Bella, lo
chiffon ti dona,
sai?».
Emmett mi fece volteggiare, ancora,
velocemente, ed arrossire. Fortunatamente Jasper mi rapì
prima che potesse
finire di strapazzarmi. Fortuna che non avevo mangiato nulla: il mio
stomaco era
fin troppo chiuso.
«Come va la
serata?» chiese discretamente.
Osservai la gente allegra attorno a
me.
«Credo che tutti si stiano divertendo. Lo sai meglio di me,
tua moglie è un
mago in queste cose», finsi di non capire.
«Non intendevo
questo» sorrise lievemente.
Sospirai. «Non credo che
userò
accidentalmente il potere della bambina».
«Tieni le mani
strette» ridacchiò,
alludendo al potere sprigionato dalle mie mani.
Jasper, impeccabile colonnello
tutto d’un
pezzo, si era naturalmente posto il problema dell’uso
improvviso e improprio
dei poteri della bambina, soprattutto il pubblico. Così
avevamo fatto diverse
prove, e avevo maturato un certo controllo. Più che altro
avrei dovuto gestire
le mie emozioni.
Cosa che in quel momento mi veniva
molto
difficile, visto che i miei occhi non riuscivano a non guardare verso
le scale,
aspettandosi di veder comparire chi non c’era.
«Potrei riavere mia
moglie?» chiese
Edward, venendomi a reclamare. Lo guardai placidamente, le guance
arrossate per
il caldo e il ballo. Mi posò una mano fredda sul viso.
«Vuoi sederti un po’?».
Annuii, lasciandomi trasportare
verso il
divanetto, un suo braccio e sorreggermi la schiena. Non feci in tempo a
sedermi
che per Alice fu già il momento di scartare i regali.
Sorridevo, ringraziavo,
mi entusiasmavo alla minima spilla. Non doveva non
essere la mia festa?
Odiavo ricevere regali.
«Oh Bella! Vorrei venire
a trovarti più
spesso! Anche solo per vedere questa pancia crescere!»
esclamò sincera Angela,
osservandomi.
«Mi siete mancati anche
voi ragazzi»
risposi sinceramente, guardando ognuno di loro. Angela, Jessica, Mike,
Ben.
«Sapete che potete venire a trovarmi ogni volta che
vorrete».
Ben si sporse, per guardarmi oltre
la sua
ragazza. «La prossima volta la piccola sarà
già nata?».
Risuonò la risata di
Edward, argentea e
cristallina. Solo io sentii la nota di nervosismo. Mi
abbracciò
protettivamente. «Speriamo di no. Vorresti farla nascere
prima?» scherzò.
L’idea di un parto prematuro doveva terrorizzarlo.
Ben s’irrigidì
lievemente, a disagio,
prima di ridere anche lui.
Osservai distrattamente i ragazzi,
lasciandomi andare sullo schienale e spostando impercettibilmente gli
occhi
verso le scale, ancora.
Il magone mi chiuse la gola. Due
ore,
erano passate. Non era venuto.
Mi sollevai dal mio posto,
liberandomi
dalle braccia di Edward. Mi guardò interrogativo, ma quando
puntai in direzione
delle scale, arrossendo, rimase con i miei amici e non
replicò, intuendo la mia
meta.
In quel momento adoravo il mio
bagno.
Insieme alla camera, blocco di cui faceva parte, era l’unica
stanza
insonorizzata della casa. Il silenzio che vi regnava mi
consentì di riposare la
mia mente esausta. Portai le mani al pancione, osservandolo, vacua.
Mi dovevo rassegnare
all’idea che,
comunque, non avrei potuto fare nulla per lui. Nulla.
Vidi la maniglia della porta
abbassarsi e
mi ricomposi. Feci un sospiro, e girai la chiave nella toppa.
«Tutto bene?».
Annuii a mio marito, pur
sapendo di non poterlo ingannare. Mi prese fra le braccia a mi strinse
a sé.
Sembrava, eppure, stranamente tranquillo. «Se vuoi possiamo
rimanere qui. Non
c’è bisogno di risalire, dirò ad Alice
che sei stanca». Non parlai, continuando
ad immergere il viso nel suo petto. Sapeva che il problema non era
affatto la
mia stanchezza. «Avresti dovuto mangiare
qualcosa…».
Sospirai. Feci un piccolo, mezzo,
forzato
sorriso, a cui rispose con uno molto più pieno e sincero.
Senza dire una parola
presi la sua mano e lo trascinai con me, ancora una vota, in mezzo alla
gente.
Quando arrivai in cima alle scale,
però,
sentii il cuore immobilizzarsi. Fra tutta la folla, distinsi la sagoma
che per
tutta la sera avevo cercato e che non speravo più di vedere.
Era solo, il viso
pallido e stanco, fra le mani un bastone. Era seduto in un angolo buio
e remoto
della stanza. Mi sorrise, ghignante, e le rughe rivendicarono la
propria
presenza sul volto.
Ansimai, voltandomi di scatto verso
Edward. Il suo sorriso era caldo e profondo, incoraggiante.
«Va da lui». Mi
accarezzò una guancia, mi baciò la fronte,
lasciando la mano che avevo
intrecciato alla sua.
Lo fissai ancora, saettando con lo
sguardo
fra lui e il professore, e intanto facendo muovere inconsciamente i
piedi.
Deglutii, voltandomi definitivamente verso Philip, incedendo,
timidamente. Mi
sbagliavo, il suo sguardo attento non aveva mai smesso di mettermi in
soggezione.
«Isabella». La
voce era più fioca,
profonda, antica, di quanto la ricordassi.
Il cuore batté forte nel
petto, la bambina
si fece sentire. «P-professore… Professor
Philip…». I suoi occhi indicarono la
sedia accanto alla sua, così mi sedetti, non smettendo di
guardarlo.
Il suo sguardo, perso, si
allontanò,
osservando tutta la sala. «Devi ringraziare tuo marito se
sono qui» borbottò,
piuttosto contrariato.
Edward. Edward l’aveva
chiamato, pur non
sopportando la sua presenza, l’aveva chiamato per me.
I miei occhi
saettarono nella sala, ma non trovarono traccia di mio marito.
«Edward…»
farfugliai.
«Già
Edward» bofonchiò, «ti ama. Mi odia,
eppure mi chiama, in casa sua, per farmi parlare con te».
Sembrava scocciato
dalla questione, come se la reputasse nettamente seccante.
Presi un breve respiro.
«Lui non… non vi
odia…» mi sentii in dovere di difenderlo.
Sghignazzò, rise, amaro,
e ben presto le
risate si tramutarono in lunghi e prolungati accessi di tosse. Mi
allarmai,
tesi le mani per aiutarlo, per contenere i suoi spasmi, ma non riuscii
a
toccarlo. Si portò un fazzoletto alle labbra,
ricomponendosi. «Oh si, mi odia
invece» gracchiò «Ed ha ogni ragione di
farlo. Ho armi micidiali, persino per i
vampiri, create dagli stessi Volturi, capaci di uccidere ogni vampiro
in un
istante. E le ho usate, oh, se le ho usate, più di una
volta. Senza remore né
scrupoli. Non sono mosso dalla tua stessa…» i suoi
occhi cerulei mi
squadrarono, assottigliandosi «pietà».
Il respiro accelerò nel
mio petto. Lo
avevo, davanti ai miei occhi, finalmente. Ma mai quanto prima riuscivo
a
rendermi conto della vanità della mia persona. Lui era
cinico, sprezzante,
totalmente arrogante… pericoloso. Da
fare paura anche a Edward. Da
costringerlo ad odiarlo per chissà quali cattiverie compiute
a cuor leggero in
chissà quale tempo.
Eppure, con il tempo, avevo
imparato che mai,
nulla, è solo come la
si vede. E io riuscivo a vedere anche altro,
oltre a questo.
Ma cosa avrei potuto fare? Avevo
davanti
agli occhi una persona a cui riservavo immensa gratitudine, una persona
a cui
dovevo qualcosa. Qualcosa che non sarei riuscita a dargli. Non in
tempo.
«Io…
io… volevo solo dire… mi dispiace»
affermai, mordendomi contemporaneamente le labbra.
Si lasciò andare ad una
risata più
contenuta. «Ti dispiace?».
Arrossii. Mi guardai le mani,
inermi,
piegate in grembo. «Io… avrei voluto essere
più… cortese».
Sorrise. Le labbra sottili e
consunte si
tesero. «Non hai fatto nulla di scortese Isabella»
mi lanciò un’occhiata
eloquente «tuo marito aveva detto che avevi
necessità di parlarmi. Diciamo che
ha espresso il concetto con molta solerzia, pensavo che avessi bisogno
di dirmi
qualcosa di più importante. Sappi che non ti devi
dispiacere, né scusare.
Quindi, se la questione è chiusa» fece, facendo
leva sulle braccia «direi che
posso andare. Non lasciarti andare in rimpianti per un povero vecchio.
Hai la
tua vita giovane e bella davanti».
«No, aspetti!»
lo bloccai prima che
potesse andarsene. Ero infinitamente grata, a Edward, per averlo
chiamato. Ma
sapevo che Philip era una persona che non badava molto a quello che gli
veniva
chiesto, soprattutto quando la richiesta proveniva da un vampiro.
Perché,
allora, era venuto da me? Ci doveva essere qualcosa di più.
«Io… Io… volevo…
volevo solo…».
Mi liquidò con una mano.
«Non ti
preoccupare» i suoi occhi, seri, trovarono i miei.
Esitò, tormentato. C’era
dolcezza, forse, nel suo sguardo? «Non essere in pena. So che
fare di ciò che
resta della mia vita. Non avrai più nessun problema
Isabella, lo giuro. Né te,
né la tua… bambina» socchiuse gli
occhi, gli riaprì «ti libererò dai tuoi
demoni, ci penserò io. Non chiedermi cosa,
non chiedermi perché. Vivi
la vita che io non ho vissuto, vivi la gioia che io non
potrò vivere.
Edward mi ha detto… Hai
capito di Seth.
Hai capito dei licantropi. Fermati, qui, adesso. Prima che sia troppo
tardi. La
conoscenza porta alla sofferenza in una maniera
inimmaginabile».
I suoi occhi ardevano di seria
preoccupazione. Il suo monito non scaturiva dal potere, non era un
ordine.
Voleva il mio bene. Si stava preoccupando per me, occupando di me,
andando,
anche, incontro a chissà quali pericoli, per me.
Perché?
«Perché?»
chiesi, disperatamente «Perché
fa questo per me?».
Abbassò lo sguardo, come
se si stesse vergognando
di un’infamia. Non l’avevo mai visto
così. Così… debole. Quando lo
risollevò ci
vidi la stessa occhiata che mille volte mi aveva riservato.
L’occhiata che mi
faceva rabbrividire, angosciare, palpitare. Solo allora,
capì perché.
Mentre il ghiaccio dei suoi occhi
diventava turchese, mentre le mie labbra erano spalancate per lo
stupore, capì.
Mi stava guardando dentro. Con ammirazione,
devozione, rispetto. Con affetto.
Quasi senza accorgermene presi un
respiro,
lungo, affrettato. Ero immobilizzata.
«Isabella» mi
parlò, il cuore il mano,
«guardo te, e vedo mia moglie. Guardo te,
e vedo mia figlia.
Ricordo quando ammiravo l’amore della mia giovinezza. La
pelle chiara, i
capelli mori, le labbra rosee, le mani sulla pancia.
Ma mia moglie era…
sfacciata, smaliziata,
licenziosa. Aveva alte ambizioni… no»
tratteggiò dolcemente, come se con le
parole dipingesse un quadro, impresso nei suoi occhi vitrei
«tu sei com’era il
mio piccolo amore. Timida, riflessiva, eppure anche così
amorevole e
coraggiosa». Mi guardò, mi
ammirò. «Sei la figlia che vorrei Kate
fosse
diventata».
Il mio petto si alzava e si
abbassava al
ritmo del mio respiro cadenzato. Guardavo l’uomo che mi era
di fronte con una
luce nuova, completamente diversa. Come avevo potuto non comprendere
prima la
natura dei suoi sguardi troppo intensi?
Ero stata troppo impegnata a
nascondere il
viso, celandone il rossore.
Il suo sguardo divenne malinconico,
nostalgico. Tentennava. «Non mi resta molto, lo sai. Mi sono
rassegnato
all’idea di non rivedere la mia Kate. Ma, se
potessi…» allungò una mano,
tramante, pallida.
Vidi le dita di cui seguivo
immobile il
tragitto stringersi in un pugno e ritirarsi. «No,
perdonami…» mormorò
voltandosi.
«Aspetti!»
malgrado l’esclamazione, la
voce mi uscì sottile. «La
prego…».
Si girò nuovamente verso
di me. Mi guardò,
ancora, in viso, il suo sguardo profondo e indagatore.
Saettò sul mio grembo, a
cui riservò una carezzevole occhiata.
«Posso?» mormorò tremante, allungando
nuovamente la mano, ma ancora non toccando il ventre pieno, come se
avesse
paura di profanare un santuario.
Non risposi, i miei occhi parlarono
per
me.
Quando le sue dita, fresche per la
vecchiaia, si posarono su di me, sentii un brivido irradiarsi in tutto
il
corpo. La bambina si mosse.
Un altro fremito, molto
più forte, lo
sentii quando, risollevando il viso, vidi la debolezza di un uomo che
aveva
perso ogni cosa, ma che gioiva, estatico, di quel poco che gli avevo
donato.
Lacrime.
Prima di
ogni cosa, vorrei precisare che questo capitolo è dedicato
al professore, al
mio professor Philip.
Perché
si
indaghi e si comprenda la mente umana. Perché il buono e il
cattivo cessino di
essere parametri universali.
Bene. Mie
adorate, miei lettori. In questo capitolo, ho voluto consegnarvi le
ultime,
sparse, informazioni. Il prossimo, ho deciso, si ripiegherà
un po’ sui nostri
protagonisti, esalterà il loro amore con pace e
tranquillità, dolcezza, prima
che la storia si espanda notevolmente.
Beh,
inutile ripetere che presto le diremo addio. Presto = 6 - 7 capitoli.
:) Non
nascondo che penso piangerò per una settimana intera. Che ci
posso fare se ho i
dotti lacrimali deboli?! :P
Vorrei,
se me lo concedete, non come un peccato, ma come un gesto di sincero
apprezzamento, segnalarvi la storia “Once
upon a
time in Forks...”, della
bravissimaCassandraLeben.
Sono
felice di aggiungervi su twitter, il mio nick è @Keska92.
Lì inserirò anche
link, del mio blog, sul quale pubblico spoiler e informazioni sugli
aggiornamenti.
Ancora,
un grazie, per l’apprezzamento che avete dimostrato per il
Professore. Grazie.
Grazie,
mie adorate (e magari anche adorati :P) lettrici. :*
patu4ever
Grazie
tesoro! E si, sta nube non poteva rimanere dove stava ancora un
po’?! :P Tutto
per avere qualche giorno in più di vacanza, eh?! Come ti
capisco! :P Grazie
infinite per la segnalazione che hai fatto! Tesoro, mia carissima
vagabonda!
*.* Mi hai fatto felicissima! Sai perfettamente quanto ci tenga al
personaggio
del professore, e sapere che piace tanto anche a te mi fa letteralmente
piangere di gioia! Grazie tesoro! :**
StruppiWaa!
*urla e tifo da
stadio* Waa! Complimenti vivissimi! Non è affatto semplice
leggere la bellezza
di 63 capitoli in due giorni! O.o Ovviamente, se quello che ci accomuna
è
l’odio per Jacob, la cosa non può essere che
giustificata. Farei di tutto per
questa causa. Comunque *clapclap*, complimenti. E, scherzi a parte :P,
un
grazie, grazie, grazie. :) Sei stata molto carina. Grazie!
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstateGrazie!
É vero,
Edward è proprio un vero amore, una amore stupendo! Infatti
dedicherò un
intero, prossimo, capitolo, proprio all’amore fra i due
sposi. Un momento di
raccolta, piccola dichiarazione d’affetto nel loro universo
magnifico. :D Ci
tengo molto al professore! Questo, è un capitolo dedicato a
lui. Un po’ triste,
forse, ma dovuto. :) Un bacio. :*
luisinaOh, darling!
Accidenti! Mi hai lasciato tutte queste magnifiche recensioni *.*
Grazie!!! Uno
degli impegni che mi sono prefissa era proprio quello di creare
interessanti,
strane, bislacche caratteristiche della bambina, proprio
perché, in fondo, la
fantasia è proprio l’unica cosa che non mi manca,
allora perché non sfruttarla?
Perché non divertirsi a creare assurde assurdità?
:P Per il discorso del
professore, mi potrai capire se ti dico che ci tengo particolarmente a
questo
personaggio. Insomma, è una creazione della mia mente,
completamente mio. E ne
percepisco tutta la poliedricità, tutta
l’umanità, tutta la psiche. Per questo
gli sto dedicando così tanto spazio, compreso questo
capitolo, possiamo dire… :P
Ci tengo a precisare che sono stata molto combattuta
sull’età da assegnare al
bambino dello scorso capitolo. Ho una cuginetta di due anni, che
è estremamente
intelligente, e sapevo che non sarebbe stato troppo strano se si fosse
comportata così! Ora, però, non posso assicurare
nulla su questo bimbo! :P Ti
ringrazio per tutti i bellissimi complimenti! *.* Oh, tesoro, sei stata
davvero
dolcissima! Conosci la mia passione solo perché è
così simile alla tua,
immensa. Grazie. :*
endifCarissima! :)
Dunque. Preciso che
in questo capitolo ho fatto un’opera di auto-bloccaggio e
convincimento a
inserire più informazioni possibili! In fondo, fra neppure
due capitoli, il
mistero verrà completamente svelato, e per ora,
ciò che era rivelabile, è stato
rivelato. Spero che si capisca qualcosa in più! *.* Mi sono
davvero
ingarbugliata tanto, ma per fortuna - almeno io che sono la scrittrice
:P - le
idee le avevo piuttosto chiare, quindi non è stato troppo
complicato anticipare
qualcosa. Ho deciso, prossimo capitolo, PAUSA. Pausa in carattere
maiuscolo,
perché è necessario un capitolo per raccogliere
le idee, senza stranezze,
problemi, pensieri, prima di impazzire definitivamente. u.u A presto my
dear!
Grazie. Sai quanto ci tenga infinitamente alle tue recensioni. :*
Ely_11Ciao!
Che bello sentire
nuovi pareri! *.* Grazie mille, sei stata fantastica! Ci provo a
pubblicare più
veloce che posso, ma spesso mi perdo per ricorreggere mille volte il
capitolo!
:) Spero la storia continui a piacerti! Un bacio.
Luna
Renesmee Lilian
CullenOh,
come ti capisco! É una cosa orribile quando ci si mettono i
genitori! Ma non capiscono che il computer può solo farci
del bene?! *.* Ehh…
Vabbè. Sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto! Beh,
penso che dopo tutto
quello che ho fatto passare alla nostra protagonista in qualche modo
dovesse
riscattarsi prima o poi! La faccenda della placenta è stato
un altro,
assordissimo, colpo di testa non programmato! Oramai devo solo seguire
quello
che mi dice la mia mente! :P Spero di sentirti presto! Un bacione
tesoro,
grazie! :*
mazza Ohhh! My
dear! Mon Cher!
Piccoletta del mio cuore! *.* Ogni volta sei tu quella che mi fa
piangere,
sommergendomi di complimenti! Viva i fazzoletti Tempo! Altrimenti ora
saremmo
entrambe annegate in un mare di lacrime. Lo so che mi segui da quando
la bimba
era solo
°,‘*L’EVENTO*’,°,
-muahahah - e ancor prima, direi! Nessuno ha mai
seguito le mie storie con così tanta dedizione, rimettendosi
perfino a
rileggere tutti i capitoli che le mancavano per rimettersi in pari!
Accidenti
che tenacia piccoletta! Questa storia continuerà ancora un
po’… sette capitoli,
ma sono certa di sforare almeno di due… mi
lascerà un bel segno, anche alla
fine… Ma come ho già detto, si va avanti,
così ho una nuova storia in cantiere…
La mia testolina non smette mai di fantasticare, soprattutto per
meritare i
tuoi bellissimi complimenti! *.* Grazie piccoletta gamma. Sei nel mio
cuore
sempre e per sempre. :***
AriRockCiao!!!
Infinite grazie,
davvero! Mi hai lasciato una recensione bellissima, era davvero tanto
tempo che
non ne ricevevo una così! É vero che a volte sono
un po’ cattiva con Bella, ma
altrimenti non ci sarebbe azione, narrazione, dolore, e neppure il
tanto
sospirato romanticismo! In effetti, scrivo questa storia con la testa
proprio
fra le nuvole! Non mi sforzo di essere né reale,
né realistica, ma diciamo che
faccio volare la fantasia. Certo, che molto spesso segue il
clichè della bella
innamorata salvata dal suo principe, forse non sarebbe così
originale da essere
pubblicata in un libro! Ma mi fa comunque felicissima vedere
l’entusiasmo con
cui la seguite, e l’entusiasmo che, ti ringrazio, mi hai
dimostrato scrivendomi
questa bellissima recensione! La mia storia è su due gruppi
di fanfiction su
facebook, ed in entrambi, in effetti, è un po’
indietro. Ma di solito leggo
tutti i commenti che mi lasciate, qual è il tuo nick su
facebook? Grazie,
grazie, grazie. Con la speranza di continuare a sorprenderti, sempre. :*
LudoCullen96Ciao
carissima! :) Sono contenta
che quella parte col bambino ti sia piaciuta! Quando scrivo cerco
sempre di
essere originale e mai conforme a nulla, e beh, con quella parte
è stata una
bella gatta da pelare! :P Ti ringrazio tantissimo! Alla prossima! :*
Sognatrice85Accidenti!
Grazie! Non ho proprio
ben capito cosa intendessi con la storia della naturalezza,
ma… beh, grazie. :)
Ho cominciato a risolvere un po’ di quesiti irrisolti, direi
che era d’obbligo!
Presto svelerò anche il resto. Spero di non deluderti!
Grazie, grazie, grazie.
elysa
172Ohh,
bene! Sono
contenta di aver trovato qualcun altro a cui piace il professore! Man
mano che
vado avanti riesco a portare sempre più persone dalla mia
parte! Bene, bene.
Questo capitolo è uno di quelli, in effetti! Grazie infinite
per i complimenti,
sei stata dolcissima! *.* Grazie!
WindCarissima! Eh,
mi mancheranno
davvero tanto anche i tuoi commenti. Non facciamoci prendere dalla
nostalgia
pre-tempo! Sono sicura di sforare di almeno uno o due capitoli!
Ahahahah… Sarò
anche sadica, ma sono dettagliata e puntigliosa! E quando mi esprimo,
faccio
del mio meglio per essere compresa! u.u ;D
congyOhh,
grazie Federica! ^^ Beh,
l’idea mi è venuta proprio come tutte le altre
idee di cui è popolata questa
storia! Nella quiescenza del dormiveglia, quando la mia
attività celebrale è
maniacalmente sopra la media giornaliera! Ahahah… Sono
contenta che l’idea ti
piaccia! Edward non aveva ancora letto tutto il libro,
perché, pur essendo un
vampiro, le cose non sono poi scritte così chiaramente, e
soprattutto doveva
darsi il tempo di interiorizzarle e aspettare sua moglie! Un bacione
immenso
carissima! Non smetterò, comunque, di scrivere! :*
Nessie93 Lo so!
Anch’io la penso come te,
ci vuole un po’ di tranquillità! Così
ho deciso di scrivere il prossimo
capitolo con tutta la dolcezza di Edward che ti piace tanto, con la
presenza di
Carlisle che adori quanto me, e con un po’ di sana, vera,
tranquillità! Grazie
cher :*
DarkViolet92Certo! Si
discuterà sulla sua
trasformazione! Mi rendo conto che magari a te, che il professor Philip
piace,
questo capitolo possa essere parso triste! Beh, volevo solo mettere un
po’ di
realtà nella mia storia poco reale! Grazie carissima! Un
bacio. :*
chi61Concordo
perfettamente! La pizza è
davvero insostituibile. Niente è come la pizza. Mi rendo
conto che Bella si sia
trovata un po’ nei panni della supereroina, diciamo che non
ho lasciato nessuna
coincidenza al caso! Quello che non c’era nel libro era una
spiegazione sui
sogni della piccola. In questo modo Bella ha potuto formulare e
avanzare le sue
ipotesi! Non volevo rendere l’ecografia un clichè,
ma mi rendo pur conto che la
gioia di ogni donna su quel lettino deve essere tale e ripetuta, se
necessario,
infinite volte. Ogni donna merita quella felicità. Non
volevo davvero rendere
Carlisle un folletto! Cielo! Non riesco a immaginarmelo in certi panni!
É il
mio personaggio di Twilight preferito, ci tengo incredibilmente a lui.
A presto
carissima, a presto, con un’altra delle tue fantastiche
recensioni, spero! Grazie.
silvia16595Carissima
Silvietta! ^^ Non ti preoccupare, la punizione senza pc è
una gran, gran,
brutta cosa! Fai bene a provare pena per il professore! Guarda, questo
capitolo
è costruito ad arte per questo, se qualcun altro non prova
pena, io non so più
che pensare! Ci vuole! É nella natura umana (sta scritto
anche nel capitolo). É
solo che ci tengo davvero tanto, tanto al suo personaggio, tutto qui!
Se hai in
mente qualcosa da scrivere, buttati! Solo un consiglio: non forzarti,
ma
immagina! L’ispirazione verrà da sé, te
lo assicuro! :) Un bacio. :*
KatyCullenohh, grazie!
Anch’io sono davvero
tanto sdolcinata, lo sai?! Non vedo l’ora che nasca la
piccina! *.* E, credimi,
se ti dico che nel frattempo ho immaginato di tutto! Inizialmente la
storia
doveva concludersi con la sua nascita… Ora si
concluderà, a grande richiesta
(diciamo anche obbligo :P) un paio di capitoli dopo. :D Un grazie
grazie
ancora! :*
Lau_twilight Grazie
mille. Grazie, e te lo dico
ogni volta, sempre più, con il cuore, davvero. Grazie,
perché non ti stanchi
mai di prodigarti in complimenti per me! Non pensi mai che siano
abbastanza, e
hai ragione! Non ne ho mai, mai, abbastanza! Anch’io adoro
Carlisle! Si è
notato?! Solo un po’?! No, in effetti, provo una sorta di
venerazione per
quell’uomo. Ha scoperto tante cose, e anche che Bella
potrà partorire! Lo sai
che vi siete allarmate tutte quante?! Neanche fossi davvero sadica!
Ahahah… Mi
conoscete troppo bene ormai. Ma io dico che non
c’è bisogno di allarmarsi più
del necessario. Concludo con un altro grazie, e non ricordo quale sia,
ma
ricorda che te ne devo altri mille!!! :*
GiovaneStellaBeh,
beh, converrai che
anche questo capitolo è tranquillo…
relativamente, tranquillo, diciamo. In
fondo anche qui si danno delle informazioni senza che venga qualche
fatto
straordinario o straordinariamente spiacevole, in linea con quello che
faccio
accadere di solito. Se così non fosse, sappi che il prossimo
capitolo davvero,
sarà tranquillo. ^^ É una promessa. E, fidati,
sono io a doverti ringraziare.
Non è da tutti scrivere le emozioni che si provano. Ti
ringrazio quindi, per
aver continuato sempre a farlo.
frafruOhh!
Mia cara, cara,
cara. Sei davvero molto attenta, direi! Mi stupisci sempre
più. Esattamente,
quello che è rimasto da chiarire, è il
collegamento fra i licantropi e la
bambina. Spero di star conducendo la storia con più
linearità! Ricordo che mi
dicesti che mi ero un po’ persa! Spero davvero di essermi
ripresa, ce l’ho messa
tutta per non essere in alcun modo troppo dispersiva. Sono davvero
contenta che
lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Anche se magari c’era un
po’ di pausa e non
era propriamente attivo. :) Hai compreso perfettamente tutto quello che
volevo
comunicare con il piccolo incontro fra il bambino e Bella. Grazie,
grazie, sei
stata una preziosa lettrice e una preziosa commentatrice.
ste87ciao!
Grazie! Non
pensavo tanta ammirazione! ^^ Mi fa sempre piacere ricevere pararei da
persone
nuove, grazie. :)
Ros_RosGrazie
infinite!!! *.* Ohh,
carissima! Sono contenta che cominci ad apprezzare il professore!
Questo
capitolo è stato un po’ dedicato a lui…
Mi rendo conto dello spazio che sta
acquisendo, ma non posso fare a meno di dargliene! Grazie. :*
manuelitasciao!
Ohh! Presto o
tardi non importa, mi fa un immenso piacere il fatto che tu abbia
deciso di non
essere più “silenziosa”. Grazie! Mi
applico davvero tanto in questa storia, non
posso che essere felice di fare contenta ogni singolo lettore, di fare
contenta
te. Grazie, grazie, grazie. Mi hai reso davvero felice.
ledyangTesoro,
suvvia, calma. Lo prometto
solennemente, il prossimo capitolo è tranquillo, tranquillo,
di quelli che
adori! E non è che io pensi che quello che scrivo faccia
sempre schifo! É solo
che sono diventata molto scrupolosa, tutto qui. Quindi, prima di
postare, mi
pace ri-correggere come minimo una decina di volte, per non pentirmene
poi, una
volta che il danno è stato fatto! Niente fiaccolate! Sii
buona, e renditi conto
che sono sadica! u.u Già scappo! :S
titty88Oh! Non ti
preoccupare, l’ultimo
capitolo l’ho postato molto, molto velocemente! ^^ Ti
regalerò tanti capitoli
di “apnea” fra un po’! Di quelli
“sadici of course” :P Quindi, il prossimo,
concediamolo tranquillo alle altre lettrici! ;)
frate87Si!
Un capitolo di pace
te lo assicuro, mano sul cuore. :) Anche in questo mi sono sforzata
tanto per
chiarire un po’ di dubbi riguardo ai licantropi e ai problemi
vari e generali
:) Spero che per quando ogni cosa sarà risolta sarete tutte
pronte! :P Un
grazie, immenso, e un bacio. :*
DreamerchanGrazie
mille! É proprio
la dolcezza la caratteristica che più immagino propria di
una donna incinta,
anche se magari la cosa è un po’ idealizzata e non
sempre come la penso io :P
Ma comunque, la mia Bella non può che essere dolce e tenera.
Non manca troppo
al parto, don’t worry.
«Bella, amore»
la richiamai dolcemente, con
riluttanza.
Non ero per niente convinto di
quello che avevamo
deciso di fare, e tenerla addormentata fra le mie braccia, beatamente
rilassata, nel più profondo
dei sonni, alimentava la
parte di me più incline a desistere.
Ma come avrei potuto? Non mi avrebbe
mai più perdonato.
«Bella, avanti, sveglia.
È ora di partire».
Mugugnò un gemito in
risposta, obbligandosi ad aprire gli occhi. Mi fissò, stanca
e disorientata.
Evidentemente la sua forza di volontà, meglio definita come
testardaggine,
vinceva perfino il sonno e la stanchezza. «Che
ore sono?»
biascicò, e potei sentire tutti gli accenti impastati della
sua voce.
«Le
quattro e mezza del
mattino. Devi cambiarti, gli altri
arriveranno a
momenti».
Vidi, attraverso le espressioni che
passavano sul suo
viso, la sua mente farsi
più chiara e meno confusa.
Fece per ribattere, ma si morse subito la lingua. Non voleva darmi
nessun
pretesto per farmi cambiare idea. Quasi mi scappò un sorriso
alla sua
espressione buffa.
«Vado a cambiarmi,
allora» mormorò infine, avviandosi,
gli occhi ancora non perfettamente aperti, verso il bagno.
Scossi il capo, osservandola. Non
sarebbe mai
cambiata. Eppure, dovevo dire
che questa volta,
malgrado la mia apprensione nei suoi confronti, non potevo dirle di no. La sua era stata
l’idea migliore, come sempre, e
malgrado non mi piacesse, dovevo riconoscerlo.
Pochi giorni prima Alice aveva
avuto una visione.
Kate, la figlia del professor Philip, sarebbe entrata
dall’Oregon nello stato
di Washington, comparendo per un po’ nella foresta di GiffordPinchot.
Sapevo quanto per Bella
l’argomento fosse
delicato. Solo pochi giorni prima
era riuscita ad accettare la prossima dipartita del professore, a
trovare una, quanto per
me fastidiosa, sintonia con lui. Purtroppo,
però, sapevamo perfettamente che le speranze di ritrovare
Kate prima della
morte del professore erano a dir poco
minime. Alice
non riusciva ad avere visioni che durassero
più di
pochi secondi. E lei era fuggevole, estremamente
fuggevole. Nascondersi era il suo dono migliore.
La bella
idea di mia moglie
era sorta proprio in quel momento. «Edward, se ci andassi tu
sentiresti i suoi
pensieri!» aveva esclamato contenta. Mi ero immediatamente
stupito delle sue
parole. L’idea di lasciarmi, anche solo per pochi giorni, la
tormentava quanto
quella per me di allontanarmi da lei. In
risposta alla
mia espressione sbigottita, aveva chiarito ogni cosa, con il rossore
sulle
guance e le parole balbettate. «Io… Io…
verrei con te. Insomma» aveva abbassato
lo sguardo sul pancione «penso che avremmo molte
più possibilità, se venissi.
Kate potrebbe incuriosirsi per la presenza di un’umana fra i
vampiri. Oppure, sapere
che c’è un altro essere come lei» si
sfiorò
la pancia «potrebbe convincerla a venire fuori».
Non erano servite a nulla le mie
opposizioni. Soprattutto quando la
mia famiglia si era schierata dalla sua parte.
«Edward» mi
aveva chiamato
mentalmente Alice, facendomi vedere alcuni scorci delle sue visioni.
Era Bella,
sorridente, spensierata, felice in mezzo al verde. «Starà bene».
Non ero riuscito a resistere quando
mia moglie mi aveva preso le mani fra le sue, e guardandomi negli occhi
con i
suoi, grandi e lucidi, mi aveva sussurrato. «Abbiamo una vita
perfetta, una
famiglia perfetta. Non
posso non concedere questo ultimo
piacere anche a lui. Dobbiamo fare di tutto amore, ti prego».
Sospirai, finendo di sistemare ogni
cosa nel grande
zaino e nei vari borsoni, premurandomi di prendere ogni cosa che sarebbe potuta servire in una
baita in montagna. Perché
continuare con quel malumore? Mi forzai ad un
sorriso. «Andiamo in gita!»
aveva
esclamato divertita Bella, burlandosi della mia espressione. Alice
aveva
ragione, si sarebbe indubbiamente divertita, ed evitarle lo stress
almeno in
questi ultimi mesi di gestazione era la cosa in cui mi impegnavo
maggiormente.
Andai a controllare in camera, e la
trovai stesa sul
letto, addormentata. Era crollata dal sonno, ancora avvolta
nell’asciugamano
bianco. Sorrisi, prendendole i vestiti del cassettone e cominciando a
vestirla.
Si lamentò non più di un paio di volte,
mugugnando. Non era abbastanza
cosciente per protestare
realmente. Feci
attenzione a scegliere gli abiti più comodi, confortevoli, e
adatti. Le calze
elastiche, i fuseaux, la
pancerina.
Ero attento e controllato nei movimenti, e non volevo che il contatto
con le
mie mani ghiacciate contro la sua pelle calda e morbida le causasse
fastidio. Ma come mi
aveva più volte rammentato, per
lei era il contrario. Eredità inconscia di uno dei momenti
meno piacevoli della sua
vita…
«Edward»
sbadigliò, rendendosi conto di quello che
stavo facendo. «Finisco io, non ti preoccupare»
mormorò, infilandosi la maglietta,
gli occhi ancora chiusi.
La aiutai comunque.
Aprii debolmente le palpebre,
stropicciando gli occhi.
«Stanotte è stata bravissima»
biascicò orgogliosa, accarezzandosi il pancione.
«Non si è agitata quasi per niente» la
sua testa andò a posarsi automaticamente
sul mio petto, troppo stanca per sorreggersi da sola.
Le baciai il capo, accarezzandola.
«In teoria sarebbe
ancora notte».
«Mmm»
non rispose, stanca.
Non avevo nessuna
intenzione
di uccidere il suo entusiasmo, ma ero piuttosto preoccupato di quello
che
sarebbe stato. In fondo, sapevamo con un certo margine di sicurezza che
Kate
aveva buone intenzioni, non voleva far del male a nessuno. Per lei,
eravamo noi
i predatori da cui nascondersi. La maggior parte della mia inquietudine
risiedeva nel viaggio stesso. Per una donna in stato avanzato di
gravidanza non era affatto
consigliabile intraprendere un viaggio di
tale durata, così faticoso. E
ci saremmo ritrovati ben
presto isolati, lontani da un ospedale, se malauguratamente fosse
accaduto
qualcosa. Per questo motivo avevo perentoriamente preteso la presenza
di
Carlisle.
Sistemai le ultime cose, aiutando
Bella a fare lo
stesso. Per un po’, la stanchezza scomparve scacciata
dall’entusiasmo per il
viaggio, e la vidi
scorazzare qua e là trasportando
oggetti che avrebbe voluto portare. Quando
ritenne di
aver finito, la stavo osservando a braccia conserte sullo stipite della
porta.
«Sicuro che non abbiamo
dimenticato nulla?» chiese,
nella voce una macchia d’ansia.
Sorrisi. Era così umana
a volte. «Non dimenticheremo
nostro figlio a casa come in uno stupido film».
I suoi occhi furono
per un attimo
angosciati, poi portò le mani alla pancia,
rilassandosi.
Trattenni a stento una risata.
Quello, rivelava quanto
la sua mente fosse ancora annebbiata.
Era così
dolcemente assurda.
«Dovremmo
andare» le rammentai, appena in
tempo prima che mi ammonisse. «Gli altri ci
stanno aspettando
qui fuori».
Corse immediatamente a prendere il
suo giaccone, e non
persi tempo per recuperare tutti i nostri bagagli. Il resto della mia
famiglia
aspettava all’esterno, ancora indaffarata con le ultime cose.
Il cielo era ancora scuro, ma la
luce cominciava a
filtrare attraverso i rami della foresta. Era l’aurora.
«Metti tutto nella Volvo,
Edward, la
Mercedes
di Carlisle è
piena di bagagli» mi guidò Emmett. Si
stava chiedendo come fosse
possibile che un’umana necessitasse
di meno valigie di
una vampira. Non aveva fatto i conti con la personalità di Alice
e Rosalie.
Quando l’odore di Bella
arrivò chiaro e distinto
mi voltai verso l’ingresso di casa. Oscillava sulle
gambe, la schiena inarcata, procedendo in quegli ultimi passi. Si
fermò, le
mani sul pancione, indecisa su come affrontare i pochi gradini che la
separavano da me. I miei familiari la salutarono cortesemente. Rispose,
e dopo
aver trovato il coraggio fece per muovere un passo in direzione delle
scale.
Andai ad aiutarla, mettendole
discretamente un braccio
intorno al busto.
«Grazie»
biascicò, lasciandosi trascinare verso
l’esterno, verso l’aria frizzante ed estremamente
umida della prima mattina. L’euforia era scomparsa quasi del
tutto, scalzata da
una più pressante stanchezza, tanto che non protestò
neppure quando la sollevai di peso adagiandola sul sedile posteriore
della Volvo, il capo
sulle mie gambe.
Bella
Mugolai, infastidita, rigirandomi
su un lato. Ben presto più
di un fastidio si fece sentire. Ci saremmo
dovuti fermare spesso, temevo. Essere l’unica
umana
ed avere certi bisogni, amplificati dalla fase terminale della
gravidanza, era
a dir poco imbarazzante. Sbadigliai, riaprendo gli occhi.
Edward mi fissava con un piccolo
sorriso.
Mi tirai a sedere con
difficoltà, aiutata dalle sue
braccia. Cercai di sistemarmi i
capelli, dovevano
essere pessimi. Provai a schiarirmi la gola, imbarazzata, prima di
parlare.
Edward continuava a guardarmi con serenità. Jasper guidava
fluidamente e neppure troppo velocemente per gli standard dei Cullen.
L’unica decisamente
più attiva dell’abitacolo era
Alice. Mi fissava con un gran sorrisone.
Sbirciai fuori
dai
finestrini, tentando invano di intuire la nostra posizione.
«Siamo in viaggio da
appena un’ora e mezza, il viaggio
durerà ancora un bel po’» fece Edward
intuendo i miei pensieri. Mi strinse a
lui, facendo posare la testa sulla sua spalla. «Se
vuoi puoi tornare a dormire, sono appena le sette».
Scossi il capo, sentendo il mio
volto bollire dal
caldo. Ero imbarazzata. Prima che
Edward potesse intuire il mio
stato mi fiondai sulle
sue labbra, lasciando che mi
accarezzasse il viso. Era dolce e delicato, ma anche tanto
preso dal
bacio. Adoravo quando mi
faceva sentire così. Quando
mi dimostrava quanto mi volesse.
Ci dedicammo un lungo e sincero
sorriso. Avevo gli
occhi lucidi e il battito accelerato. Quando
eravamo a
casa, un po’ per gli impegni, un po’ per i miei
crucci, per il mio umore
variabile, non avevamo l’occasione di dedicarci certi momenti
solo per noi. Non
quanto volessi.
«Sei felice?»
sussurrai, sfiorandogli il naso col mio.
Mi sentivo una ragazzina.
«Certo» mi
regalò il suo meraviglioso sorriso obliquo.
«Deduco dai tuoi occhi che lo sei anche tu»
sghignazzò. Si, una ragazzina non
sarebbe stata mai euforica quanto
me. Dovevo avere gli
occhi lucidi dall’eccitazione.
«Jasper, fermati alla
prossima stazione di servizio».
Jasper fece un cenno di assenso
al fratello, tranquillo.
Mi sentii lievemente a disagio.
Dopotutto, ero l’unica
umana in un viaggio con sette vampiri, fermarsi ad una stazione di
servizio
aveva uno scopo utile solo per me. Ma, nonostante
l’imbarazzo, non potei
controbattere alle parole di Edward.
Mi limitai a
nascondere il volto rosso fra le pieghe della mia camicia, e sentire
Alice
ridere senza ritegno.
Appena scesa dall’auto ispirai
a pieni polmoni l’aria pulita. La Mercedes
scura si fermò appena dopo
di noi. Rosalie trascinò
Emmett in un piccolo
negozietto del complesso, e Esme e Carlisle si offrirono di prendermi
la
colazione. Sapevo che tutti lo stavano facendo per non farmi
sembrare che mi stessero solo aspettando. Come se anche loro avessero
qualcosa
da fare.
«Vuoi che ti
accompagni?», mi chiese apprensivamente
Edward, dopo avermi scortata fino ai bagni. «Può
venire Alice, se vuoi».
«Devo giusto dare una
ritoccata al trucco» fece al
volo lei. «Andiamo, Bella,
non vorrai perderti»
scherzò, scimmiottando il fratello.
Sbocconcellonai un cornetto al
cioccolato, lasciando
il resto della colazione intatto. Solitamente, ero
abituata a
mangiare ad un orario più tardo. Inoltre la
novità del viaggio e
l’alzataccia mi avevano un po’ chiuso lo stomaco.
Non pensavo di
essere ancora
stanca, ma evidentemente mi sbagliavo, perché non appena
rientrai in macchina,
sui sedili morbidi e con la testa sulle gambe di Edward, non
addormentarsi fu
impossibile. Tuttavia, appena mezz’ora dopo, mi svegliai,
accaldata e
infastidita.
«Chi
ha dato il premesso ad Alice di
guidare?» mugugnai, gli occhi ancora chiusi.
Sentii un piccolo ringhio, e la
piacevole risata di
Jasper invase l’abitacolo.
Aprii gli occhi, liberandomi
immediatamente della
coperta che Edward mi aveva messo addosso. Sospirai, accarezzando il
pancione.
Mi tirò
sulle sue gambe, facendomi
sedere con il viso rivolto verso il suo. «Si
è agitata molto».
Come
se non la sentissi. Presi dei respiri profondi,
tentando di racimolare
tutta la calma che mi serviva e acquietare la piccola. Il pancione era
a
stretto contatto con il corpo fresco di
Edward, e lo
stava massaggiando sui lati con le mani. Posai la testa sul suo petto,
lasciandomi beatamente cullare.
I miei occhi incrociarono il verde
che sfrecciava
fulmineo all’esterno. «Alice, rallenta, ti
prego».
Una mano di
Edward si spostò
ad accarezzarmi la schiena. «Fa’ come ti
dice».
Sentii delle lievi proteste, ma con
mio gran sollievo
la macchina rallentò di un po’. Alice aveva una
guida a dir poco spericolata.
Non smise di borbottare su quanto dovesse
andare lenta, così, facendo la seconda sosta decidemmo di
cambiare auto e di
andare con Carlisle e Esme sulla Mercedes.
Lui aveva
una guida molto più
fluida e tranquilla. Ringraziai il
cielo di trovarmi, anche solo per dieci minuti, con i piedi su un suolo
fisso.
Sorrisi senza pensarci. Era sempre
così affettuosa. «Si.
Si è solo agitata un po’ per il caldo, prima. Ora
è tutto passato». Sospirai,
sfregando la fronte sul braccio di Edward
in cerca di
sollievo.
«Tutto bene?».
Annuii, sorridendo. «Mi
sento la testa un po’ leggera.
Dormire in auto mi fa sempre questo effetto.
Mi sento scombussolata».
Gli occhi di Carlisle mi
osservarono dallo specchietto
retrovisore. «Possiamo fermarci ancora se vuoi, non
c’è problema, non abbiamo
fretta».
«No, no, va bene
così. Prima arriviamo
meglio è». I motivi della mia fretta
erano due. Agognavo ad un letto o
un divano comodo, e… la vera causa
che mi aveva spinto
ad intraprendere questo viaggio era pressante nella mia mente.
Ritrovare Kate. Ritrovarla prima che fosse
troppo tardi.
«Alice ha avuto delle
visioni di alcuni
luoghi che conosco» fece Carlisle, attirando nuovamente la
mia attenzione. «La
cosa si svolgerà così: dobbiamo farci vedere il
più possibile
mentre ci comportiamo come umani, e soprattutto in tua
presenza. Appena
arriveremo al margine attraverseremo la foresta fino
alla baita».
Edward guardava il padre. Vidi le
sue labbra muoversi velocemente
e sussurrare qualcosa di ineffabile.
Il padre rispose risoluto.
«Quaranta chilometri.
Potremmo farne tre quarti con l’auto. Per il resto dovremmo
proseguire a piedi».
L’espressione di Edward si fece
sinceramente perplessa e preoccupata. «Dieci chilometri a
piedi?». Sentii la
sua mano stringersi intorno al mio fianco.
«Non li deve percorrere
tutti a piedi» ci rassicurò
Carlisle «Bella, basta che
tu faccia i primi tre, se te la
senti. Jasper ritiene che sarebbe un buon modo per farla
incuriosire e
venire allo scoperto, e soprattutto giustificare normalmente la nostra
presenza.
Pensa che ci possano essere umani nei paraggi. Ma
se
non vuoi, sicuramente non ne risentirà più di
tanto, troveremo il modo di…».
«No, no, va
bene». Mi sollevai leggermente dalla presa
di Edward in cui ero
stretta. «Non c’è problema. L’importate è ritrovare
Kate, davvero. E
poi, non vedo l’ora di sgranchirmi le gambe e rimettere i
piedi a terra»
sospirai.
Dopo due ore di macchina, all’ora
di pranzo, ci fermammo per una lunga pausa. Avevo la nausea a causa del
tempo
trascorso nell’auto.
«Sicura di non voler
mangiare?».
Gemetti, gli occhi chiusi, la testa
abbandonata sulle
sue gambe. Non volevo che si pentisse di aver acconsentito al mio
piano. Eppure, non
potevo mentire davanti all’evidenza dei fatti. «Ora
ho la nausea…» ammisi quindi.
Sospirò.
«Aspettiamo», disse, e non aggiunse nulla di
quello che mi sarei aspettato.
«Non sembri
arrabbiato» constatai in un sussurro,
saggiando le sue reazioni.
«Dovrei?»
chiese. Era forse ironia quella che
percepivo?
Mi arrischiai ad aprire le
palpebre. Si, il suo viso,
al contrario rispetto al mio, stava sorridendo. Ero
stasa
su una panca, all’aperto. Sospirai. «Mi
dispiace» biascicai «mi sono stancata
tanto e sono passate appena poche ore. Me l’avevi detto
che sarebbe stato faticoso…».
Inaspettatamente sentii le sue
labbra sulla mia
fronte. «Non importa, Bella».
Riaprii gli occhi, osservando le
ciocche ramate
ondeggiare vicine al mio viso. «Non importa?».
Scosse lentamente il capo, e
vederlo muoversi mi causò
una nuova ondata di vertigini. Meglio tenere gli occhi chiusi.
«Ogni giorno che
passa mi ritengo l’uomo più fortunato di questa terra,
per averti sposato. Il mio pensiero di diventare padre era per me come
il
desiderio per un uomo di diventare immortale, semplicemente impossibile
e irraggiungibile»
fece, amaramente sarcastico. «Eppure,
tu hai permesso
che si realizzasse. E mi
hai reso l’uomo più felice al
mondo. Perdonami, se il mio animo non è così
puro, generoso, così sentibile
come il tuo, ma l’ho capito».
Ero disorientata e commossa. Il
lieve appannamento mi impediva
di osservare perfettamente i suoi occhi,
luminosi e chiari.
«Ho
capito.
Per me perdere te o nostra figlia sarebbe una sofferenza atroce. E non giustifico Philip con
questo, perché lui e sua moglie
hanno fatto delle cose orribili. Perché,
nonostante
tutto, non vuole ancora renderci partecipi di tutto quello che
sa» strinse la
mascella «ma credo che mai nessun uomo dovrebbe essere
privato dell’amore dei
suoi affetti più cari. E,
Kate, è innocente. É
giusto che ritrovi suo padre».
«Oh, Edward»
sussurrai. Ero commossa. Sinceramente
commossa della fiducia che mi accorgevo
mio marito
riponeva in me. Per l’ammirazione con cui mi osservava, per
l’amore cieco con
cui acconsentiva ad ogni mia richiesta. «Ti amo
tanto».
«Non sai quanto ti adori,
con tutto me stesso».
Sorrise.
Mi sollevai dalle sue gambe, e mi
aiutò con
gentilezza, sostenendomi. La testa girava ancora un po’.
«Ti vanno dei
cracker?».
Lo fissai sorpresa. «Hai
portato i cracker?».
Ridacchiò
leggermente,
meravigliosamente su quel viso d’angelo. «Credi forse che non avessi previsto tutto
questo?».
Lo abbracciai stretto, baciandogli
le labbra. Avrebbe
fatto ogni cosa, per me. «Grazie».
Il viaggio proseguì per
altre due ore e mezza. Finché
fossi rimasta in auto, la nausea non sarebbe
ritornata. Avevo paura del dopo. Cercai di distrarmi, ascoltando il cd
che Esme
aveva inserito. Non era molto il nostro genere, quello che io e Edward
ascoltavamo solitamente, ma era divertente. Divertente vederla
canticchiare, un
sorriso ricambiato rivolto al marito.
Addentrandoci nella foresta ebbi
l’occasione di
osservare attentamente l’ambiente circostante. Non che
sperassi di trovarci
qualcosa che non potesse scorgere la vista di un vampiro, certo, ma in
ogni
caso non intendevo desistere. Chiesi più volte a Edward se percepisse
qualcosa.
«No, ancora nulla, mi
dispiace».
Quando ci fermammo, nel cuore del
verde, godetti
placidamente del venticello fresco che mi sfiorava il viso
mentre Edward scaricava i bagagli dall’auto.
Ero attenta ad ogni movimento, attenta
ad ogni radice, e al contempo tentavo di osservare ogni cosa attorno a
me,
nella speranza di distinguere due occhi turchesi simili a quelli del
professore. Edward mi aiutava in ogni passo, sorreggendomi
tempestivamente per
la schiena.
Passai velocemente da avere i
muscoli intorpiditi per
la lunga permanenza in auto, ad averli infiammati per il cammino.
«Vuoi che ci fermiamo un
po’?». Mi strinse per il
busto, sostenendomi.
Scossi il capo in segno di diniego.
Gli altri erano già molto
più avanti rispetto a noi, non mi andava di
farli aspettare ancora. Sentii una fitta di pochi secondi alla testa.
Ci
mancava solo quello.
«Okay,
fermiamoci un po’»
risposi riluttante all’occhiata perplessa di mio marito.
Sospirai, lasciandomi andare su un
tronco di un albero
caduto. Edward mi accarezzò la schiena, massaggiandomi
lì dove ero indolenzita.
Il resto dei Cullen era seduto
davanti a me,
apparentemente preso da chissà quali importanti chiacchiere,
godendo
del momento di ristoro.
Sospirai. «Mi
dispiace…». Non riuscii a finire la
frase che fui investita
di parole che sminuivano
l’attesa, volte a confortarmi e non farmi sentire a disagio.
Rosalie si materializzò
al
mio fianco. «Non ti preoccupare cara, è normale
che tu abbia bisogno di un po’
di riposo».
«Non essere in pena, noi
ti capiamo» aggiunse Alice,
procedendo nella mia direzione alla stessa velocità.
Jasper si avvicinò a
piccoli passi, con calma. «Se vi
fate vedere il brillante piano di Bella
va a rotoli.
Così la fate spaventare» mormorò a
bassa voce, circospetto.
Rosalie sbuffò.
«Mi pare
improbabile che si faccia vedere. Per me è tempo
sprecato».
«Rosalie» la
riprese Edward, dietro di me. Posò le
mani sulle mie spalle, accarezzandomi.
Gli occhi sinceri della vampira si
posarono nei miei.
«Ho solo detto
la verità, non era mia intenzione
ferirti».
Scossi il capo, serena. «No,
davvero» sorrisi, abbassando gli occhi sul fogliame e sul
muschio verde.
«So che non ci sono molte possibilità. Ma voglio
provare lo stesso… Tentar non nuoce» abbozzai,
risollevando lo sguardo.
Mi sorrisero. «No,
certo» rispose Esme.
«Quanto tempo dobbiamo stare
qui?» chiese Emmett, osservandosi intorno. «Non potremmo… non
so… mettere una specie di trappola?
Un’esca?».
«Non stiamo parlando di
un’animale, Emmett» lo rimbeccò
Alice.
Sbuffò, seccato.
«Mi sembra la caccia al topo…».
Carlisle diradò la
questione. «Organizzeremo dei
piccoli turni, uscendo a gruppi. L’importante»
abbassò il tono già modesto
della voce «l’importante, è che
riusciamo per quanto possibile a farla entrare
in contatto con Bella».
Jasper annuì.
«Pensiamo che possa avvertire la
presenza della bambina. Ma
non si deve spaventare per
noi, questo è importante».
«Non ci tratterremo
più di quindici giorni, comunque»,
fece, alzandosi, Carlisle. Tese la mano alla
moglie in un puro gesto cavalleresco, invitandola a fare lo stesso.
«Quindici
giorni?» chiese curioso Emmett.
Carlisle annuì, nello
stesso istante in cui le braccia
di Edward smisero di
massaggiarmi, avvolgendosi a me. Mi
osservò. «Non possiamo rischiare che per Bella
diventi troppo tardi».
Sospirai, posando una mano in
grembo.
Ci rimettemmo a camminare dopo un
po’. Fermarsi era
stato necessario, eppure faceva sembrare quel che rimaneva
del percorso un ostacolo insormontabile.
Sbattei le palpebre.
Sentivo una strana eppur conosciuta
sensazione
crescere dentro di me.
«Edward, per favore» biascicai.
Avevo serrato le mani in due pugni.
Mi
imposi
di parlare lentamente. «Prendi le mani, per
favore».
Non aspettò un secondo
di più e fece come gli dicevo,
fissandomi trepidante, ansioso. Presi profondi respiri, scacciando
quella
sensazione e calmando la bambina. Jasper fu il primo ad avvicinarsi, in
un solo
secondo. Posò il palmo aperto sulla pancia, e dopo pochi
istanti sentii la calma
invadere anche me.
«Ho sentito il suo
potere» sussurrai, lasciandomi
cadere col viso sul petto di Edward.
Le mie mani erano
ancora strette nelle sue. «L’ho sentito
arrivare».
Non disse nulla. Mi
fissò, in apprensione.
«Non mi sono
agitata» mi giustificai frettolosamente,
provando ad intuire i suoi pensieri.
«No, ha ragione» confermò
Jasper «è
stata la bambina».
Edward mi lasciò andare
le mani e mi accarezzò
i capelli. «Va tutto bene, adesso?». Il resto dei
Cullen ci aveva raggiunti
e ci fissavano, silenziosi.
Annuii, ancora un po’
scossa. «Ho avuto paura di farti
male. Era forte».
Continuò ad
accarezzarmi, rassicurandomi. «Va tutto
bene, non mi avresti fatto male».
«Pensi che la bambina sia
sviluppando coscienza di
sé?» chiese Carlisle, sia a Jasper che a Edward.
«Può
darsi» fece Jasper. Era perplesso. «Tu non hai
sentito nulla di strano?».
Edward strinse le labbra,
meditabondo. Lo stava
fissando negli occhi. Scosse lentamente la testa. «No,
nulla».
Insistette per farmi portare da lui
per il resto del
percorso. Aveva paura che fossi
tanto stanca da non
poter far fronte neppure alla bambina. Non potei
dirgli di no. Avevo
i muscoli intorpiditi e la schiena a
pezzi. Avevo già fatto abbastanza quel giorno.
Non ricordo quasi nulla di quello
che avvenne dopo.
Quasi certamente, quella sera crollai nel sonno fra le braccia di Edward. Nella baita faceva
molto freddo. Nulla a che vedere con
la casa di Forks con
i riscaldamenti al massimo.
A risvegliarmi, quindi, fu proprio
il crepitio del
fuoco. C’era un camino nella camera dal letto.
L’ambiente era caldo, i colori
scuri, le pareti con le travi a vivo. In un angolo c’era una
porta, che
istintivamente identificai come quella del bagno.
Provai consciamente un senso di
disagio. Quella stanza
somigliava troppo ad un’altra baita in montagna, intrisa di
ricordi più che
spiacevoli.
«Ti sei
svegliata» la voce soffice e cristallina mi
arrivò all’orecchio destro.
Mi voltai. Vederlo così,
appena sveglia, era
meraviglioso. Sorrisi, rannicchiandomi su me stessa e stringendomi a
lui.
«Fa
freddo, ti raffredderai».
Scossi il capo sul suo petto.
«No, sto bene». Avevo
un pigiama di flanella, e oltre al piumone, ero
avvolta in una spessa coperta. Ero fin troppo calda.
Mi accorsi di non avere ancora una
perfetta percezione
dello spazio e del tempo. Mi sollevai seduta.
«Credo… che ore sono?».
Edward ripeté il mio
movimento. «É mattina. Dovrebbero
essere circa le otto».
Sbadigliai, lasciandomi andare su
di lui. «Dove sono gli altri?».
«Tutti in giro. Hanno
organizzato dei gruppetti».
Annuii, voltandomi per baciargli il
petto. Aveva una
maglietta morbida, piuttosto leggera. Stregata dal suo aroma allontanai
leggermente il colletto tondo per poter baciare la sua pelle nuda.
«Mi piace
l’odore della tua pelle» confessai imbarazzata.
Mi sollevò per i
fianchi, facendomi sedere su di lui.
Mi lasciò baci lievi sulla fronte, la tempia, il mento, le
labbra. «Sei stanca?»
soffiò lieve sul mio viso, accarezzandomi i
capelli.
Scossi il capo, la mente confusa
dalla vicinanza. «La
testa non gira più. Tutto bene… credo»
biascicai, mentre le labbra vagavano sul mio collo.
Le mani scesero dai fianchi alla
cosce, stringendomi dolcemente. Le mie braccia erano
strette in una presa
ferrea attorno al suo collo.
Si assicurò di stringere
bene la coperta attorno a me,
mentre mi spogliava. «Sotto le coperte?».
Mugolai, baciandogli il collo.
Ansimavo. «Non credo
che potrei sentire freddo».
Quando facevamo l’amore,
soprattutto negli ultimi tempi, era
delicatissimo. A causa dell’ingombro del pancione i miei
movimenti erano
limitati. Ma lui, lui
era davvero tanto tenero. Mi
accarezzava continuamente, venerando
ogni rotondità
del mio corpo. Mi faceva sentire bella, amata. Era dolce, molto dolce.
Mi strinse di più a
sé, baciandomi la spalla. La mia
schiena era contro il suo petto. «Stai bene?».
Le
sua mani
si strinsero sul pancione, accarezzandolo.
Fremetti al suo tocco gelido.
«Non vedo l’ora di vedervi»
mormorai, chiudendo gli occhi e immaginando.
«Vederci?».
Annuii,
gli occhi ancora chiusi,
serena.
«Vedere te, e la nostra
bambina fra le tue braccia. Sarà bellissima. Voi sarete
bellissimi».
Posò il volto
nell’incavo del mio collo, e le mie
mani andarono automaticamente ad accarezzargli i
capelli. «Non vedo l’ora di tenerla in
braccio». Sembrava rilassato, e…
sollevato, anche.
Mi voltai, facendo coincidere le
nostre labbra e
baciandolo, ancora.
«Dobbiamo andare.
Fa’ colazione, e poi potremmo
cominciare a fare qualche piccola ricerca. Gli
altri stanno arrivando».
Sul mio viso comparve una smorfia. Portai
una mano alla fronte, evidentemente il mal di testa non era
passato. Era
di nuovo una fitta.
A Edward non sfuggì.
«Tutto bene?».
Sorrisi, annuii. Era già
completamente passato. «Solo
un lieve mal di testa. Andiamo».
Ciao a
tutti. :)
So che
questo capitolo può esservi sembrato strano, visto che gli
ultimi in confronto
sono stati decisamente
più movimentati.
Beh, ho
pensato che vi potesse servire immagazzinare questa calma per il
futuro. Quindi, anche se
potrebbe sembrare il contrario, questo
capitolo ha per me un ruolo importantissimo.
Ci sono
disseminati degli indizi, qui e là, e sono sicura che li avrete
compresi. Io ho già iniziato a preparare i
vestiti dal mio armadio e i
biglietti per la partenza.
Bene,
dicevamo. Capitolo tranquillo, amore reciproco. Non
c’è molto da dire. ^^
Forse
però era un po’ che non mi concentravo sui piccioncini
:D
Boh,
basta. Riaffermo che Twitter
mi accoglie, con notizie
su aggiornamenti e quant’altro,
con il nick @keska92,
che tra l’altro rimanda direttamente al blog qui sotto citato.
Bene. Mi
eclisso.
Un bacio
a tutte, tutti!
PS.
Ringrazio ancora, un’ultima volta, chi avesse
espresso
la propria preferenza per Philip! Grazie. :*
PPS.
Nessuno mi uccida per il ritardo (a buon intenditor…)
ale03Grazie tesoro!
Grazie di continuare a commentare e leggere questa storia nonostante
tutto il
tempo che è passato! So che qualcuno dev’essersi
stancato, non lo biasimo! :P
ma ormai siamo alle
battute finali, è giusto così. Sono contenta che
tu abbia potuto apprezzare la
sensibilità di Bella, l’amore e la dedizione
reciproca che c’è fra la
fantastica coppia. Grazie, tesoro, grazie di tutto. :)
manuelitasEhh,
beh, penso che forse piangerò anch’io!
Non farmi pensare alla fine, mi viene il magone!
Spero
che il capitolo abbia soddisfatto le aspettative.
Avevo detto amore e dolcezza, ci volevo mettere qualcosa che non
c’entrava poi
tanto, così ho
cambiato la mia idea originale, spero,
conservando però l’idea del sentimento. Lo so, la vita del
professore non è stata delle più
rosee. Volevo solo inserire un po’ di
realismo in questa storia, visto che ne scarseggia…
non che mi dispiaccia tanto. Diciamo, che questa è la storia
che scrivo per
immaginare e sognare. Non chiedo di meglio. Le sorprese ci saranno,
anche
piuttosto concentrate! Direi
che saranno sei capitoli
di fuoco! :P Spero che
la risoluzione di questa storia
sia all’altezza di ogni fantastica lettrice che fino ad ora
mi ha seguito.
Grazie.
AriRockOhhh!
Non mi aspettavo un’altra dose di complimenti del genere! Figurati, per me è stato un vero
piacere, come lo è sempre per
recensioni così belle, rispondere alla tua.
Spero davvero di riuscire,
come dici, a continuare questa storia al meglio! Già,
è lunghissima! E se
ritornassi indietro di sicuro
non riuscirei a farla
così lunga! Ma,
d’altronde, è anche questo che la
caratterizza. La lunghezza infinita. Questa storia mi è
servita per crescere.
Sono sicura, ora, di poter scrivere altro in maniera molto più
consapevole. Grazie, grazie, grazie ancora! Sei
stata un
vero tesoro! (Ho letto
le tue recensione negli altri
capitoli, scusa se non l’ho fatto prima, ma ti voglio
ringraziare anche per
quelle! Grazie mille!)
NoemixBeh, sono
contenta
che ci siano diversi livelli di apprezzamento
per il
professore! É giusto così, è giusto
che ad alcuni piaccia, ad altri meno, mi fa
piacere la cosa ancor di
più! :D
Gli interrogativi sono davvero tanti, direi! Vi ho fatte stancare, eh?!:P
beh, giuro che la verità di
tutto è sul serio vicinissima, non dovrai attendere molto
altro! Promesso.
DarkViolet92Ciao! :D
Dunque. Non è che
Edward voglia far fare un cesareo a
Bella. L’epidurale
è un tipo di anestesia
utilizzata in un parto Cesareo, è vero, ma si usa anche
durante la fase
terminale del travaglio per un parto naturale, come anestetico. Passa
l’ago,
l’anestetico va in circolo, il dolore va via :P dura
solo pochi secondi, e fanno l’anestesia per
l’anestesia, figurati! ^^
É normale che Edward voglia preservare del dolore a Bella.
:D Grazie tesoro per la
recensione. :)
A presto.
congyCiao
Federica! Beh, si, molte mamme si pongono il problema
dell’epidurale,
ma di solito le altre, seppur forse
con paura, vogliono farla! Ma
Bella (e noi ne sappia
qualcosa) è stoica – nel senso lato del termine
– e inoltre, piuttosto che
entrare in contatto con un ago qualsiasi, patirebbe qualunque dolore,
direi.
Cosa c’entrano i licantropi con la bambina?! É qui è
che sta il grandissimo mistero! E chi lo sa?!:P Forse io. Ma credo che bisogna
attendere ancora. :P Non
molto ahahahah.
Penso che alla fine sarete sconvolte. Uahuahuah!
Grazie mia carissima, a presto! ;)
patu4ever
Tesoro. Hai una comprensione della natura umana molto vasta e matura
per la tua
età. Si, in realtà niente è perfetto,
per questo adoriamo leggere ciò che, come
noi, non lo è. Davvero
grazie, ancora, perché i tuoi
complimenti per il mio personaggio sono stati meravigliosi e
graditissimi.
Non credo di meritare tanto. Ma mi fa
infinitamente felice
riceverli perché ci tengo infinitamente al professore.
É un personaggio
mio, completamente mio, quindi la responsabilità completa
delle sue azioni
ricade su di me. Quindi, mio tesoro, grazie. Grazie gioia. :*
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstateAhahah, ma no, no, non
vuol dire affatto che lo scorso fosse l’ultimo
capitolo con il
professore. Volevi togliertelo dalle scatole?!Ahahah. No, no, non ho
forse detto, in un tempo lontano,
che ogni cosa era collegata? É collegata? Mmm, no. :P Quindi, aspettati di tutto,
dai prossimi capitoli e dal futuro. Anche se saranno gli ultimi
ti posso garantire, comunque, che saranno davvero molto intensi. Spero
saranno di tuo gradimento carissima!
Un bacione-one-one.
:*
WindAhahahah, beh,
capisco. :P
Meglio così, meglio che ci sia qualcuno che ancora odia il
professore. ù.ù
il mondo è bello perché è vario,
d’altronde, no?!
Non ti preoccupare, che prima della fine ti faccio
prendere un bel colpo (ma anche due o tre). Ahahah,
ebbene si, ho concentrato gli infarti (nonché
la mia sadicità)
tutti alla fine! u.u Aspettati di
TUTTO. u.u
Sognatrice85É
vero, Edward è perfetto come
sempre. D’altronde, è un vampiro. In questo
capitolo, se possibile, lo trovo
ancora più dolce, visto che lo ritroviamo
ad agire, e
parlare, direttamente. Ho voluto rendere il professore molto umano. So
che non
l’ho fatto per gli altri personaggi, che d’altronde
erano vampiri, ma avendone
completa fantasia e padronanza, ho potuto inventare di tutto, su di
lui. :) Grazie, quindi.
Un bacio. :*
KStewLover
Ciao Cristina! :D Non ti
preoccupare, ti perdono volentierissimo,
soprattutto dopo questa bellissima recensione! Lo so, Alice si
trasformerà in
una spiritata-assatanata
della bambina, con un
sorriso-paralisi facciale costante, praticamente.
Sono
contenta che tu abbia carpito gli elementi di Bella e Edward che volevo mettere in risalto nello
scorso capitolo. La
sensibilità estrema di lei, l’amore e la devozione
verso la
moglie, di lui. Beh, poi, in questo ho lasciato un
po’ di spazio solo
per il loro amore. :)
Grazie mille per tutto!!! :*
asialea Ciao! Grazie
mille! Non puoi immaginare quanto tu
mi faccia felice! Lo so, questa
storia
rimarrà nel mio cuore quanto nel vostro. Ma
deve finire anche questa, no? Spero che tutto quello che mi sono
inventata per
questi ultimi capitoli non ti deluda! Davvero, a volte la mia fantasia
è
esagerata. Spero vada tutto bene,
sento già l’ansia.
:S
TatydanzaAhahah,
si, è vero! Per questo non dovresti mai smettere di fare
ipotesi. E poi, ti ricordo, non ho mai detto, né si,
né no. :) Solo che devo essere
reticente, altrimenti ti indirizzo
troppo sul futuro, svelandoti la trama. Grazie di recensire, sempre e comunque. So che può
essere un periodo con tanti impegni,
sono contenta che tu lo
faccia comunque. Grazie.
Ros_RosOh, cielo! *.*
Grazie! Non pensavo di poter far piangere qualcuno! Anche se, confesso,
iostessa mi sono
commossa scrivendo. Ma,
beh, questo è un altro paio di
maniche, visto che scrivendo le emozioni derivano direttamente dal
cuore. Sono
davvero felicissima di aver rivalutato ai tuoi occhi la figura del
prof! Ci
tenevo tanto.
Lau_twilightOh! Grazie!
Si, devo confessare che
io stessa prova immensa stima
per il mio personaggio
del professore. Insomma, questa storia ha fatto un po’ il suo
corso, e
guardandola per intero direi
che l’apprezzo
tantissimo, ma diciamo pure che non sia proprio
oggettivamente… “perfetta”. Ahahah, anzi. Però mi
è servita tanto come
“palestra”, per crescere e migliorare. Ecco, il
professore si
inserisce in tutto questo. É un mio nuovo, uno
dei tanti, esperimenti. Direi
che le atroci attese e i confusi misteri, hanno fatto
il loro corso. Ebbene
si, la verità è vicina. ;)
Grazie, ancora, carissima. Per tutto. :*
Luna RenesmeeLilian CullenCerto,
certo,
fammi sapere se creerai un indirizzo msn.
:) Mi farebbe molto
piacere parlare con te, di sicuro. In
effetti questa storia del computer è un
problema. I miei
sanno che scrivo, e lo vanno pure a dire in giro, pensa te!
É proprio una cosa
assurda. Mi fanno sentire in imbarazzo. Sono davvero contenta che il
professore
ti piaccia! Ho voluto dedicargli un capitolo, lo so, sta prendendo una spazio determinante nella
storia, ma sentivo di avere il
bisogno di dargli quel ruolo. Mi piace esaltare le sensazioni, gli
istinti più
immediati, e di sicuro mi sono lasciata andare nello scorso capitolo,
in questo
senso. Non lo facevo da un po’. :)
Grazie di ogni
parola! Con affetto e sincera gratitudine. :*
elysa
172Carissima!
^^ Si! Il
professore, anche lui, è umano! Uahahahah!
:P Ovviamente, Alice non
sarebbe tale se non fosse un po’
festaiola. Serve un po’ della sua energia. E in questo
capitolo ho voluto far tornare in campo i Cullen, visto che li avevo
trascurati! :D Grazie,
grazie, grazie, dolcissima,
come sempre.
ste87Ahahah,
e beh, ma la fine ci sarà lo stesso, volenti o nolenti!
C’è sempre una
fine. u.u
E io mi ci sto
inesorabilmente avvicinando, con questa storia. :P
Grazie per la recensione ;)
chi61Tesoro!
Aspetto le tue recensioni come un’osai
nel deserto. Le
adoro. Innanzitutto,
grazie, perché mi fai sentire
lusingata, e fai tantissimo bene al mio ego. Grazie. Sono contenta di
riuscire
ancora ad emozionare ed emozionarti.
Sono stupita
dalla tua sensibilità capace di cogliere gli elementi
essenziali e più
importanti del capitolo. Credo, si,
che presto scopriremo
anche noi le conseguenze del dialogo fra il professore e Bella.
Tutte le
frasi a metà, i significati celati, verranno
svelati. Spero che alla fine questo
capitolo sia venuto abbastanza
tranquillo, come avevo in mente. Ovviamente,
se ho
avvisato che ci sarebbe stato un capitolo tranquillo, è
perché è un episodio
isolato a cui seguirà nuovamente la normalità.
Il problema è: qual è la
normalità per me? La cosa dovrebbe fare paura…
Nessie93 Ah, beh, si,
la mia fantasia più
che illimitata direi che
è spropositata! Proprio
esagerata, ecco! Diciamo
che ho messo in mezzo fin
troppe cose, in questa storia! :P
Ma, in ogni caso,
per la cosa più importante, lo so che è assurdo
da dire, non ci ho messo della
mia fantasia. Ho solo preso in prestito qualcosa dalla Meyer!
:P Pensaci che ci arrivi
:D
ledyangAhahahah, si, mooolto
presto! Beh, spero che ti sia piaciuto! In fondo, non è
super-dolce?!:P Mi spiace, ma più
tranquillo
di così, non so proprio farmelo venire, sai?! Orami, credo
di averci preso la
mano a farli un po’ più movimentati! :P
StruppiSi!
*.* In realtà, il professore racchiude un
tenerissimo cuore al caramello! Chi l’avrebbe mai detto, eh?!:D Beh, Edward
è tenerissimo! Mi perdo a contemplarlo
anch’io! Questo capitolo, infatti, l’ho voluto
dedicare proprio alla sua
dolcezza! Spero ti sia piaciuto! ^^ Un bacio, a presto. :)
DreamerchanOhh!
Si, direi che la penso
esattamente come te. Primo, non esiste il
buono e il cattivo, ma tutto è
molto, troppo,
relativo. Secondo, non spetta a nessun uomo giudicare
l’altro. Non bisogna,
mai, giudicare nessuno. La vita è un bene così
prezioso che solo chi la conduce
può decidere come viverla. La storia mancherà
anche a me, credo. :) me
ne farò una ragione ;)
Lizzie95eheheh, che ne dici,
la quiete prima
della tempesta? :P
Chissà… :P Sono contenta di essere
riuscita a farti piacere il professore alla fine. Direi
che non è stata un’impresa semplice, farvelo prima
amare e poi rivalutare… ahahahah…
Ma la sono scelta solo questa strada, direi. Beh,
ogni cosa ha una fine. E anche se ho ancora miliardi, te lo garantisco,
di idee per questa
storia, sento ora il bisogno di
“staccare”. Di scegliere le idee migliori, le
più attinenti, di concludere
tutto al meglio delle mia potenzialità, e di
“crescere”. Per crescere e maturare come scrittrice
ho bisogno di scrivere
qualcos’altro, qualcosa di più mio. Non credo che
per questo dovrò per forza
trattare di temi più impegnati, o con termini più
aulici. Vuol dire conservare
la dolcezza, il romanticismo, l’amore, la passione, che credo
mi accompagneranno per
sempre, ma formularli personalmente e
consapevolmente. :)
Scusa se ti ho annoiata! A presto,
lo prometto. Francesca. :*
titty88Ohhh! *.* E io
non posso fare a meno di ringraziarti ogni volta per tutti questi
complimenti!
Anche a me non piacciono le cose che finiscono, ma temo
che ogni cosa debba farlo, purtroppo! ^^ Mi
inventerò
qualcos’altro, non temere :P
silvia16595Ciao mia Silvietta! :* Hai dato un’occhiata
a “Once upon
a time in Forks”?!
Io penso che sia davvero stupenda! *.* La adoro! Sono contenta che il
capitolo
ti sia piaciuto! Si, fra un po’ arriverà il
pargoletto, ma non correre sai?!
I due piccioncini
devono ancora
affrontare di tutto. E
con “di tutto”, intendo proprio
TUTTO! Ahahahah, sono
certa che dovrò cambiare
residenza! Ahahahah…
Un bacio tesoro. :) A
presto, eh?! :***
LudoCullen96Bene, grazie! :D
Sono contenta che il professore ti sia finalmente simpatico! :P
certo, la strada per farvelo piacere è stata davvero lunga,
eh?! :P Così
stai iniziando a leggere “Once upon
a time in Forks”?!
Io penso sinceramente che sia
stupenda. Ogni volta che leggo un capitolo mi emoziono, piango, mi
sento
completamente partecipe dei sentimenti di Bella. É una
storia meravigliosa,
davvero. :)
Ely_11Ohh!
Grazie! *.* Sono
contenta di essere riuscita a commuoverti! Ho pensato che un dialogo
fra il
professore e Bella, una pacificazione, la comprensione dei limiti umani
e del
bene e del male presenti in ogni uomo, ho
pensato che
dovessero venire fuori. Ci
è voluto un capitolo, ma ne
è valsa la pena :)
KatyCullenCerto! E ci saranno un paio di capitoli
dopo la sua nascita, in cui
mi dedicherò completamente a loro. E poi, concluderò,
come si deve, la storia. Sono contenta che il professore sia entrato
anche solo
per un po’ nella tue grazie.
:)
Grazie della recensione! Grazie! *.*
ANNALISACULLEN
Ciao carissima! Grazie, ti sono infinitamente grata, per tutte le tue
parole. Lo so che quasi settanta capitoli sono davvero tanti per una
storia del
genere, ma sapere che
c’è ancora qualcuno che continua
ad emozionarsi per questa storia mi riempie il cuore di gioia. Dentro
di me, ho
dedicato un po’ di spazio anche al professore. Mi pareva
giusto. :) Ma ora,
meglio ritornare ai Cullen. Entrambe le storie si
chiuderanno presto.
frafruGrazie!
Due volte
grazie, allora. Grazie per aver apprezzato così
tanto
il capitolo, in particolare per aver rivalutato la figura del
professore. Mi è
molto caro. Mi rendo conto che ha molti il personaggio potrebbe risultare marginale e
irrilevante, ma io ne percepisco tutta
l’emozione, perché lui è proprio
“mio”, quindi, qualunque cosa sia e faccia,
non posso fare a meno di comprenderlo nella sua psiche e nella sua
interezza.
Grazie anche, per avermi fatto evidente la questione delle
“dispersioni”! Senza
il tuo consiglio non sarei mai riuscita a ridimensionare il fenomeno.
Mi stoimpegnando per non
commettere nient’altro del genere. :)
Spero di
riuscirci! A presto, mia carissima. Un bacio. :*
Barcollai sulle scale della piccola
entrata,
appoggiandomi alla ringhiera per riuscire a salire. Il peso del
pancione mi
sbilanciava in avanti, precludendomi la vista dei piedi. Sollevai lo
sguardo,
leggermente ansante, fissando la pittoresca baita racchiusa nel muschio
e nel
verde.
Il un istante sentii una folata di
vento e l’appoggio
delle mie braccia venne triplicato da due mani forti. Edward
osservò
contrariato il mio viso accaldato, soffiandomi piacevolmente sul collo
col suo
fiato freddo. Ringraziando il cielo.
Deglutii, intenta a dissimulare la
mia stanchezza, e
mi arrampicai su quegli ultimi scalini.
Tornavamo dall’ultima
delle tante escursioni
organizzate appositamente per far cadere Kate nella nostra trappola.
Per farla
venire allo scoperto. Ormai era più di una settimana che
eravamo lì, eppure non
avevamo ottenuto alcun risultato concreto. Edward credeva di aver
percepito i
suoi pensieri un paio di volte, tuttavia in luoghi troppo distanti e
per tempi
troppo brevi. Il tempo passava, e ormai sapevo di non poter tirare
troppo la
corda, né con Edward, né con Carlisle.
Portare in giro per i boschi un
pancione del settimo
mese di gravidanza non era una brillante idea. Anche perché,
con la prossima
settimana, si sarebbe concluso anche questo.
La mia prima meta era il divano.
«Vorrei farmi una
doccia» mormorai stiracchiandomi sui cuscini,
«stasera potremmo uscire un altro
po’, siamo stati via appena venti minuti».
Sospirai, cercando di farmi vento
con una mano.
Esme mi salutò passando
da una stanza all’altra. Gli
altri, esclusi Emmett e Jasper, dovevano essere lì
in giro per casa. Mi sfilai
le scarpe e incrociai le gambe sul poggiapiedi. Che sollievo.
«Accendo lo scaldabagno e
ti vado a prendere qualcosa
da mangiare» mormorò Edward, evitando di
rispondere alla mia seconda richiesta.
Decisi di desistere per ora.
L’avrei convinto più
tardi. «Grazie». Sorrisi, accarezzandomi il
pancione, dall’alto verso il basso.
La bambina era stata un po’ strana in quella settimana.
Niente che non potesse
aver rimedio con le coccole del papà, o - non
l’avrei mai detto a Edward - con
una serata al freddo. La sentivo semplicemente irrequieta, tesa. Eppure
io ero
così rilassata.
Mi portai una mano alla testa, non
potendo nascondere
una smorfia. La fitta durò abbastanza perché
qualcuno potesse accorgersene.
«Tutto bene?»
chiese Carlisle, avvicinandosi con
cautela.
Annuii, già libera dal
dolore. «É solo un po’ di mal
di testa. Mi capita ogni tanto, dura solo pochi secondi».
Non mi ero quasi accorta della
presenza di Edward nella
stanza. Mi scrutava con ansia.
Carlisle aveva
un’espressione serena, atta a
rassicurarmi rispetto a quella di mio marito. Si avvicinò
con passo fermo. «Da
quanto hai questo mal di testa?».
«Da…»
mormorai, torcendomi le dita «da quando siamo
arrivati qui, più o meno. Sento solo delle brevi
fitte».
Carlisle mi sorrise avvicinando le
dita alle mie
tempie. «Posso?».
Annuii, lanciando una breve
occhiata a Edward.
Sembrava più sereno. Si venne a sedere accanto a me e mi
prese la mano. «Ti sei
raffreddata. Tutto questo freddo non ti fa bene» mi
ammonì, facendomi arrossire
all’idea che probabilmente sapeva quanto lo desiderassi.
«Si»
confermò Carlisle, «probabilmente è
stato causato
dagli sbalzi di temperatura. Dovrebbe essere una nevralgia. Prendi
mezza
aspirina e evita lo stress». Feci per ribattere, preoccupata
dell’effetto che i
farmaci avrebbero potuto avere sulla bambina. Ma lui era già
scomparso e
ritornato con un bicchiere d’acqua e la mezza compressa.
«Non le farà male.
Questo serve a te». Il tono, ovviamente, non ammetteva
repliche.
«Grazie».
Sospirai, mandandola giù.
Mangiai qualcosa e feci la doccia
con Edward. Qualcosa
di molto casto, naturalmente. Con tutti gli altri, specialmente Emmett,
nella
vicinanze, non potevamo permetterci nulla più.
«Mmm… grazie
mille…» gemetti, inarcando la schiena.
Le mani di mio marito scesero
sapientemente a
massaggiarmi proprio dov’ero più dolorante, alla
base della spina dorsale. Non
aveva mai smesso di coccolarmi un attimo, mai, in tutto quel tempo. Si
prendeva
cura di me, faceva tutto quello che non doveva fare per se stesso.
Era sempre
cauto, attento a non ferire il mio orgoglio, eppure anche
così dolce,
premuroso, così presente. Mi bastava chiudere gli occhi per
immaginare il
nostro magnifico futuro, nostra figlia fra le sue braccia, un sorriso,
dei
versetti buffi. E quella sensazione magnifica, quell’armonia
meravigliosa,
quella sensazione che contemplavo e desideravo e che mi sentivo
crescere nel
petto, pieno fino a scoppiare di gioia.
Speravo solo di poterla estendere a
qualcun altro,
oltre che tenerla egoisticamente per me. Avrei fatto di tutto, per
donarla con
pari emozione a Philip.
«Adesso dormi. Devi
recuperare le energie».
Mi tirai a sedere sul letto,
fissandolo negli occhi
liquidi. «Ma dobbiamo andare, Edward…».
«Shh». Mi mise
un dito sulle labbra. La sua
espressione era serena. Era sicuro di sé. «Io
vado. Tu rimani qui e ti riposi».
Fermò un mio nuovo tentativo di ribattere con
un’occhiata ammonitrice «e, dopo,
usciamo di nuovo. Io e te».
«Io e te?».
Sorrise, nella penombra della
stanza. «Certo». Mi
strinse fra le braccia, baciandomi i capelli ancora umidi.
«Ma la bambina ha
bisogno di riposarsi un po’, non credi?».
«É
così agitata» bisbigliai, appoggiandomi al suo
petto, la bocca sul suo cuore.
«Lo sento» fece
scorrere la punta delle dita lungo le
mie braccia, accarezzandomi. Chiusi gli occhi, tremando al suo tocco.
«Non
capisco perché…» continuò
perplesso.
Presi una sua mano e la portai al
pancione. La gioia
contemplativa di cui ero pervasa non mi aveva abbandonata.
«Ma c’è papà»
mormorai «e la mamma» continuai, portando anche la
mia mano sotto la sua.
Dopo pochi secondi sospirammo
insieme, in un unico
corpo, un flessuoso movimento, io e Edward. Era rilassata.
Sorrisi. «Le basta per
stare bene».
Nel pomeriggio riuscii a dormire
per un’oretta, prima
di svegliarmi, accaldata e disorientata. Evidentemente, era tutto
dovuto
all’assenza di Edward, che altrimenti mi avrebbe certamente
tenuta con sé, al
fresco, e all’effetto di quei medicinali che mi facevano
accalorare come non
mai.
Presi un profondo respiro, provando
a girarmi su un
fianco per contrastare quel senso di affannamento che mi causavano il
caldo e
il pancione ingombrante. Mugolai, tirandomi - non senza
difficoltà - a sedere.
Riuscii a malapena a infilarmi una maglietta decente e un paio di
scarpe da
ginnastica, non riuscendo comunque a rinunciare ai pantaloni della
tuta.
Barcollavo, ondeggiando sulle
anche, e prendevo dei
grossi respiri. Acqua. Ci voleva un bel bicchiere d’acqua
fresca. Chiusi il
frigo con uno strattone e bevvi con avidità, dissetandomi.
Sospirai, posando
una mano all’attaccatura della pancia e riprendendo a
respirare.
Rosalie venne da me. «Ti
sei svegliata». Sorrise.
Annuii, prendendo un altro lungo
sorso d’acqua e
ricominciando a respirare con calma. Rosalie era sempre stata piuttosto
perplessa sulla possibilità di ritrovare Kate. Eppure, si
era dimostrata
un’ottima amica nell’accettare di fare un
tentativo, ancora, per me e per la
famiglia. D’altronde era stato chiaro fin da subito, fin da
quando l’avevo
conosciuta, quanto fosse per lei importante.
Inclinò il capo da un
lato, osservandomi.
Mi passai un braccio sulla fronte,
e tentando di
distogliere l’attenzione dissi: «Sono tutti
fuori?».
I suoi occhi meravigliosamente
perfetti si strinsero.
«No. Carlisle e Esme sono rimasti. Stai bene?».
Arrossii. «Si.
É solo il caldo, mi sento soffocare».
La flessuosa linea delle sue labbra
vibrò, e i suoi
profondi occhi, ambra intenso, non si staccarono da me.
Prima che potesse dire qualsivoglia
cosa, decisi di
intervenire. «Possiamo andare a fare due passi qui
vicino?». Poiché non parlava
e continuava a scrutarmi, aggiunsi: «Vorrei prendere un
po’ d’aria fresca».
La sua espressione divenne
sorpresa, poi serena.
Annuì. «Andiamo».
Appena immersa nell’aria
fredda, il sollievo fu
palpabile. Era freddo, umido, e si infilava tra i vestiti
ghiacciandoli. Si
posava sulla pelle, scivolava addosso e pian piano penetrava dentro,
nella
carne e nelle ossa.
«Va meglio?».
«Certo».
Guardai, per quanto possibile, i piedi,
attenta ad evitare le redici.
Rosalie mi aiutò con
discrezione, un piccolo sorriso a
incresparle le labbra. La ringraziai, arrossendo. «Presto
dovremmo levare le
tende, eh?» scherzò, guardando il pancione.
Mi mordicchiai il labbro.
«Spero di rimanere il più
possibile» borbottai.
La sua risata cristallina
tintinnò fra gli alberi, fra
l’aria tersa e i pulviscoli illuminati dalla luce bianca che
filtrava tra i
rami. «Non vorrai che ti si rompano le acque in mezzo al
bosco».
Raggelai all’idea.
«No, no, decisamente no» dichiarai
stridula, immaginandomi la scena imbarazzante e spaventosa.
Rise, con maggior enfasi,
aiutandomi a superare un
ramo. «Mi dispiace di averti terrorizzata»
guardò dinanzi a sé, «non
allontaniamoci troppo».
«Sediamoci»
proposi, indicando un tronco orizzontale.
M’irrigidì pensando che l’unica che
avesse bisogno di sedersi fra le due fossi
io. Ma lei mi tolse dall’imbarazzo, sedendosi prima di me.
Fu piacevole chiacchierarci. Non
eravamo mai state
meravigliose amiche, ma dopo le mie disavventure ci eravamo ritrovate
unite in
una maniera perfetta. Rosalie era schietta e sempre sincera, ma,
dopotutto, aveva
un carattere dedito e leale.
«Allora, ancora nessuna
decisione sul nome?».
Scossi il capo. «Nessuna.
Credo che alla fine costringerò
Edward a decidere per entrambi…».
«Fai bene a fidarti di
lui. Ha un gusto eccellente…»
fece, ammiccando. L’allusione mi fece evidentemente
arrossire. Per me, Isabella
Swan in Cullen, donna di poco conto, ricevere un complimento da Rosalie
Hale,
dea, Venere fatta persona, non era neppure contemplato.
«Grazie»
borbottai imbarazzata.
Guardai oltre gli alberi, tentando
di indovinare
quanto tempo fosse passato dalla poca luce che filtrava
dall’alto. Tutto
attorno pareva così… chiaro. Un chiaro quasi
sbiadito. Un moto d’ansia stava risalendo
dal basso verso di me. Edward sarebbe tornato a breve.
Mi voltai. Rosalie
ricambiò affannata e sorpresa il
mio sguardo.
«Forse è
meglio tornare». La voce mi uscì
incredibilmente tremula e soffocata, facendomi rendere conto, ancor di
più,
dell’angoscia che mi stava turbinando dentro,
attorcigliandosi come edera edace
al mio interno e stringendomi e soffocandomi in un abbraccio mortale.
Mi voltai. Ansimai. Spalancai le
palpebre.
Celere preda del terrore.
E nello stesso istante in cui i
miei occhi si facevano
di ghiaccio, cacciai un urlo straziante, soffocato nella gola dal
dolore.
Edward
Era già trascorsa una
settimana, eppure non avevamo
trovato nulla di quello che stavamo cercando. Non nutrivo alcuna
migliore speranza,
ma pur, la mia coscienza, sperava segretamente di averne una.
Fissai meditabondo
l’orizzonte e il cielo, sempre più
bianco prima del crepuscolo. Non riuscivo ad abbandonare
l’idea che ci fosse
qualcosa di strano.
«Edward, sentito
niente?». Alice venne al mio
fianco, sfiorandomi quasi con le dita il dorso della mia mano,
abbandonata
lungo il fianco.
Non c’erano mai stati
segreti con lei. Lo sentivo e lo
percepivo dai suoi pensieri, anche mia sorella avvertiva quella
tensione. Il
movimento del mio capo fu quasi impercettibile.
«Tu?».
I suoi occhi si persero nel vuoto,
nella stessa
direzione dei miei, e il suo corpo vibrò per la
rigidità. «Mai avuto un buco
nero così vasto» ammise agghiacciata.
Sospirai, e feci scorrere
l’aria fredda nei miei
polmoni con un fruscio. Chiusi gli occhi e allargai la mia mente.
Silenzio, e i
pensieri dei miei fratelli più vicini. Silenzioso silenzio.
La mente di questa creatura era
costruita come quella
di mia figlia. Imperturbabile a volte. Semplicemente accessibile,
altre. Per
lei, che malgrado gli anni che dimostrava, aveva raggiunto
un’età adulta, dipendeva
dalla sua volontà. E per ora non aveva avuto voglia di farsi
trovare da me. Da
noi.
Improvvisamente, però,
qualcosa cambiò. Era mia
figlia.
Delle foglie, foglie in rapido
movimento occupavano la
mia visuale. Viste
da una prospettiva
persino più alta della mia altezza. Correvo da un
ramo all’altro, da una
albero all’altro. Da dove provenivano quelle
immagini? Foglie verdi,
gialle, rosse. Una baita! Era la nostra, baita.
Sussultai, il cuore in gola. Cosa
diamine stava
accadendo? Che razza di immagini stavano scorrendo nella mente di mia
figlia?! Ancora?
Ancora? No! Non potevano essere ancora quelli orrendi pensieri!
Alice provò a parlarmi.
Mi portai le mani alla testa,
accecato da nuove immagini. Sento il suo odore, sento il suo
richiamo. Sentii
la voce di mia moglie, la sua risata allegra, filtrata attraverso quei
pensieri
oscuri. Sentii perfino il suo stesso odore.
Fremetti di terrore.
Mia,
mia.
É qui, vicino, finalmente. MIA.
Scossi il capo violentemente, mi
accasciai a terra,
provando a liberarmene, ansimando. Era lei, seduta su un tronco, rossa
in viso.
I suoi occhi si sollevarono, grandi, spalancati. I suoi occhi
incontrano i
miei. Non mi sfuggirai più, frutto del peccato. La morte ti
porterà con me.
Avevo le mani fra i capelli, gli
occhi spalancati.
Mia. Iridi
nere. Un urlo.
Bella
Il dolore era comparso in un
fulmineo palpito,
penetrato con forza nella mia testa, imprigionandomi completamente
nella sua morsa,
totalizzandomi e nichilizzandomi.
Se solo non fosse stato per la
vibrante immobilità del
mio corpo, per quei resistenti, taglienti, invisibili fili che mi
penetravano e
tendevano da parte a parte, i miei occhi innaturalmente spalancati non
avrebbero visto ciò che più ancora mi faceva
cadere nel terrore. Attraverso una
strana prospettiva e visuale, per quanto distorta ai bordi
così nitida al suo
centro, non potevo non vedere quel volto.
Così sconosciuto e
abnorme quanto angosciosamente
familiare.
Un così tondo viso
d’ebano, quasi incastonato nel
fogliame avanzò ondeggiando nella mia direzione. E mentre
scopriva i denti
eburnei mi accorsi degli altri dettagli lattacei sulla sua pelle. Quei
marchi
dalla forme strane che apparivano come curiose incisioni solcate e fuse
nella cute.
Quasi mi accorsi, mentre il mio
corpo esalava un
profondo respiro, del dolore che lasciava il posto ad un acuto fischio
nelle
orecchie. Perché vacillai in avanti, e di certo sarei
crollata in terra se le
braccia di Rosalie non mi avessero raccolta.
«Bella, Bella».
Mi arrivò alle orecchie la sua voce
preoccupata. Tremavo come un fuscello quando mi voltai ad incontrare i
suoi
occhi. Era preoccupata, spaventata, e sorpresa almeno quanto me.
Così, in quel momento,
mi accorsi di quanto il dolore
fosse mostruosamente simile a quello che avevo provato quel
giorno,
quell’orribile e orrendo giorno. Le mie urla, il dolore,
bruciante, alla testa,
l’immagini di un grosso lupo che mi correva incontro. Non era
un semplice mal
di testa. No. No. Non lo era…
Mi voltai ancora, osservando la
figura che incedeva
nella mia direzione, con una maggiore lucidità. Era
gigantesco, altissimo.
Nero, uniforme, in tutta la pelle. I muscoli massicci e tondi
imprigionati un
cotone bianco resistente, strappato sul lato sinistro del petto.
Lì, dove un
altro longilineo inciso lattaceo svettava fiero. Come una cicatrice.
Socchiusi le palpebre, ancora
confusa e intontita dal
dolore. Era così assurdamente impossibile quella sua
espressione.
«Bella». Una
voce calda e vibrante. Quella che non
poteva essere. L’unica.
Il palpitare frenetico del mio
cuore si arrestò.
Stavo sognando. Quello era uno
degli incubi che non
facevo da tanto tempo. Ma mi sarei svegliata, fra le braccia di mio
marito. Mi
sarei svegliata, e mi avrebbe cullata e rassicurata, dicendomi che ero
il suo
amore, il suo tesoro, e che avevamo lì la prova concreta del
nostro bene,
nostra figlia, la nostra piccola, adorata, bambina, e tutto era
così
assurdamente meraviglioso per noi…
La sua bocca si dischiuse, e la
lingua - nera
anch’essa - umettò le sua labbra.
«Sono io Bella. Sono
io».
E, malgrado l’apparenza
fosse assolutamente
contrastante con quello che era la persona che mi stava dinanzi, non
potevo,
straziata, negare quello che una parte di me aveva istintivamente
scoperto fin
dal primo istante.
Tutti i muscoli del mio corpo, a
partire dalla gola,
si contrassero su se stessi. Mi sentii soffocare.
«Jacob».
«Io». Il suo
compenetrante sguardo si fissò su un
punto ben preciso del mio corpo, e capii che in realtà era
sempre lì che aveva
guardato.
Lei. Mia figlia.
Il mio mondo distorto, la ragione
nella mia mente,
erano cristallizzate dinanzi a quell’assurda
verità. Il dolore lacerante non
c’era, non ancora. Lo aspettavo, attendevo. Ma ero realmente
troppo sbalordita
per provarlo realmente.
Ero immobile e tremante, sulle
gambe malferme. La
vista ancora appannata dal dolore che ancora non mi aveva del tutto
abbandonata.
Bloccata, spaventata, esterrefatta,
impaurita.
Sentivo l’esigenza di
gridare e urlare di paura, e
ancor di più sentivo l’assurda follia di non
poterlo fare. Perché sapevo,
sapevo, che dalla mia gola non sarebbe venuto fuori il minimo udibile
suono. Niente
più di un flebile rantolo soffocato e sputato fra i muscoli
contratti e la gola
secca, chiusa, muta.
E, ancora, come nel peggiore degli
incubi sapevo di
voler correre, scappare, rifugiarmi, ovunque. Ma le mie gambe erano
bloccate,
lì, ferme, con il compito assurdo e impossibile di
sorreggermi e impedirmi di
crollare su me stessa, annientata.
Il mio corpo immobilizzato dal
terrore.
Avanzò di un passo.
«Si, trema».
Pronunciò le
parole con odio. «Ti strapperò tua figlia
dal ventre davanti ai tuoi occhi».
Prima che potessi realmente urlare,
rantolare, tentare
in ogni modo di concretizzare quell’assurdo terrore, sentii
un feroce ringhio
accanto a me.
Poi, tutto accade così
velocemente da non darmi il
tempo di un respiro, il tempo di pensare.
Rosalie si accucciò in
un istante, effimero momento
non percepibile per un umano, e gli balzò addosso, felina e
letale.
Ma, ancora, prima che alcun suono
potesse giungermi
alle orecchie, prima che qualunque terribile immagine potesse
concretizzarsi
dinanzi ai miei occhi, Rosalie era a dieci metri da me, a terra,
distesa,
gemente.
Non il tempo per voltarmi, non il
tempo per capire, un
altro ringhio giunse alle mie orecchie. Più feroce,
più assassino, più
spaventoso.
«Tu, ancora tu»
sputò con odio Jacob.
I miei occhi saettarono da Rosalie,
ancora stesa e
immobile, alla figura apparsa al limitare della piccola radura.
Il professore. Era lì,
era lui. Aveva uno strano
oggetto in mano.
Spalancai le palpebre, sorpresa,
shockata,
destabilizzata. Era stato lui, era stato lui a bloccare Rose.
«L’avrebbe
uccisa» mormorò risoluto, saettando col suo
sguardo immediatamente su Jacob, ancora. In un interminabile attimo, i
miei
sensi ancora bloccati e slegati dalla mia mente, mi accorsi quanto
apparisse
diverso dall’ultima volta che l’avevo visto.
Più energico, più giovane,
più… in
vita.
Ero terrorizzata, mentre assistevo
a tutto quello che
stava avvenendo così confusamente, così
velocemente. Ero così preda
dall’angoscia e così poco della
razionalità. Philip si mise davanti a me, in un
chiaro moto di difesa. Jacob ricambiava il suo sguardo con
ostilità.
«Perdonami»
mormorò il professore, e la voce tremò.
Vidi i suoi occhi dirigersi sul lungo segno bianco sulla parte sinistra
del
petto nero. «Non sono riuscito a fermarlo».
Avevo avuto ragione. Era una
cicatrice.
E così, ecco quello che
mi aveva tenuto nascosto.
Quello di cui aveva deciso di occuparsi al mio posto. Jacob.
Lui lo sapeva.
Pensai straziata.
Due figure fecero familiari
immediatamente la loro
apparizione nello spiazzo. Carlisle si diresse immediatamente a
Rosalie, Esme,
un’espressione ombra opaca e specchio della mia, mi
circondò nel suo abbraccio,
sorreggendomi.
Facendomi riscuotere quel tanto che
bastava per far,
lentamente, ritornare la mia razionalità. «Tu
non» provai, ma come avevo
pensato, il movimento delle labbra non produsse alcun suono udibile, se
non un
dolore, una fitta bruciante alla gola. Ci riprovai, non staccando i
miei occhi
da quelli di quell’essere oscuro. «Non sei reale.
Non sei… tu non… non esisti
davvero…».
La sua espressione
s’indurì. «Esisto Bella. Sono
sempre esistito» disse con fermezza.
E la sua voce vibrava, e arrivava
alle mie orecchie. E
i suoi occhi, nero su bianco, guardavano me. E il suo corpo,
lì, fermo,
minaccioso, era a pochi metri dal mio. Per quanto, ancora, avrei potuto
mentire
a me stessa per non cadere preda di un impossibile tormento?
«Purtroppo,
però, tu hai sempre avuto un’assurda
inclinazione al ricordo delle leggende su questi schifosi succiasangue,
piuttosto
che quella che ti avrebbe, sempre, assicurata della
mia esistenza».
Le braccia di Esme mi strinsero con
più forza, e capii
che stavo crollando sulle mie ginocchia.
Chiuse gli occhi, li
riaprì, rinnovando il suo odio
nei miei. «Anche quella sera, davanti al falò, non
sei stata abbastanza
attenta. Non ricordi il principio di quelle leggende, Bella? Hai
dimenticato la
mia natura?».
Sussultai.
«Eravamo spiriti
guerrieri. Spiriti, Bella. E
anche se questa nostra caratteristica, la nostra magia, era stata
abbandonata
per sempre, non è mai scomparsa.
«Per quanto il mio corpo
stesse morendo, l’odio mi ha
consentito di ricordare quello che ero realmente, di riacquisire il mio
potere
originario, il potere che per ultimo aveva usato Taha Aki.
Così, rinunciai al
mio corpo, allontanandomi come spirito, scampando in un
ultimo anelito al
sonno eterno. La morte del mio corpo non determinava la morte della mia
anima.
Era stato così per Utalpa, che aveva sgozzato il suo corpo
per impadronirsi di
quello di Taha Aki.
«Vivere come spirito non
è affatto semplice. Il
desiderio umano di essere corpo è radicato nella nostra
mente, e non riuscivo a
liberarmene. Il regno degli spiriti non è affatto bello.
Così Bells, così, ho
vagato confuso, disorientato, senza una meta, pentendomi perfino della
mia
scelta, per sempre destinato all’esilio, bandito dal sonno
della morte e dal
mondo. Ho vagato, solo, per tutto quel tempo.
«Ma poi, qualcosa,
qualcosa è cambiato, in un mondo in
cui si può interagire con gli spiriti.
«Così,
lentamente, sono riuscito a ricordare la cosa
più materiale che avessi. Tutto quello che mi rimaneva. La
rabbia, il desiderio
folle di vendetta. L’odio.
Così. Così ho ritrovato me stesso. Era
successo anche all’ultimo degli Spiriti Supremi.».
«Taha Aki»
sussurrai «l’incarnazione terrena del
suo spirito».
«Esatto, un corpo. Il mio
corpo. Specchio reale della
mia anima. Ecco, cosa sono».
E così, quello non era
altro che il suo vero io. E
così, quello che mi aveva detto era reale, era sempre
vissuto, sempre
sopravvissuto. Ansimai, senza aria nei polmoni.
Carlisle si acquattò,
nascondendo e proteggendo su
figlia, ancora dolorante e confusa, seduta in terra. Lo stesso fece
Esme, al
mio fianco, pronta all’attacco.
«No, fermi!»
li bloccò Philip. «Non lo potete
toccare, il suo sangue vi ucciderà».
Sangue? Subito compresi. Certo. I
segni bianchi, le
cicatrici. Sangue…
Carlisle saettò con lo
sguardo verso di lui, ancora
indeciso. Contrasse la mascella e rimase fermo, non senza abbandonare
la sua
posizione. Stava pensando.
E a me? Chi avrebbe dato a me il
tempo per pensare?
Chi la facoltà di farlo, in tutta la paura e il terrore?
Jacob rise, ignorando tutti e
tutto. Rise, breve e
amaro. «E così non ricordavi nulla, Bella.
Peccato. Pensavo che quella sera,
accanto al fuoco del falò, fra le mie braccia, avessi
apprezzato non solo il
calore».
«Lo odio»
farfugliai, prossima a cadere in pezzi,
aggrappandomi a tutto quello che mi rimaneva. Concedendomi di
manifestargli il
mio odio. «Noi», mormorai, la
voce distorta, portandomi una mano, per
quanto tremante, al ventre «lo odiamo».
Il suo sguardo corse serio e
silenzioso al mio grembo.
«Già, sembra proprio così. Quella
piccola impertinente…».
«Non parlare di mia
figlia!» urlai, isterica. «Tu non
sai niente di lei! Non ti permettere di pronunciare un sola parola, non
ti
permettere!» singhiozzai asciutta, senza fiato, ingoiando le
parole. Non mi rimaneva
più nulla. Lacerata e straziata, ecco, com’ero. E
rimpiansi e piansi,
disperata, tutti quei momenti in cui desideravo non averlo ucciso. I
giorni, le
notti, le ore, trascorse nella sofferenza, bruciante, corrodente, mia,
e di mio
marito.
Le sue labbra si piegarono in un
sorriso sardonico. «Ancora
non hai capito?» mormorò derisorio.
«É lei. É lei che voglio, per prima.
É lei
la causa e il principio di tutto. Lei è il mio imprinting,
Bella».
Ansimai, senza fiato, tenendomi a
Esme per non cadere.
No. Non questo. Non anche, questo.
No.
«No… Lei
è mia figlia… no… non la
toccare!» sibilai,
il respiro corto.
«Che cosa le stai facendo
creatura, che cosa le
stai facendo?» sussurrò Esme senza fiato.
Vidi con la coda
dell’occhio Carlisle rivolgere una fugace
occhiata a Rosalie. Si stava rialzando. «Scappate, porta via
Bella, Esme,
veloci». Le parole erano volate melliflue fino a noi.
Lei sussultò, e
tentennò, straziata, per un istante,
guardando il marito.
Si voleva sacrificare, per noi.
«No»
singhiozzai.
E quell’istante
bastò perché Jacob potesse spostarsi
alle nostre spalle e precluderci la più efficace via di
fuga, in un movimento
che causò una spostamento d’aria tale da sferzarmi
il viso e frustarmi con i
miei stessi capelli. Calda. Calda da far male. Era arrivata
velocemente. Troppo,
velocemente, anche per un vampiro.
«Tranquilla,
Bella» dichiarò con astio «non ho
intenzione di amarla. Dopotutto, lei mi ha ucciso, per salvare
te».
Un nuovo singulto fece tremare il
mio corpo.
«Credevi forse che la tua
forza sarebbe stata
sufficiente a farmi questo?» chiese, indicando un ora ben
visibile taglio netto
sulla gola. «Ma devo esserle grato, sai. In tutti questi mesi
i suoi pensieri
mi hanno fatto compagnia.
«É stata lei,
Bella. É stato lo spirito che ho trovato,
che ho riconosciuto, il centro e l’orientamento del mio
mondo. Lei. Oh, lei è stato
il punto fisso e costante, l’unico che mi teneva ancora
ancorato qui. É stata
lei a farmi ritrovare me stesso».
Carlisle e Rosalie, ancora confusa,
si mossero, venendo
più vicino a noi, serrando i ranghi dinanzi a me. Ero io il
punto debole. Era
me che voleva, la mia bambina.
La confusione, lo shock che
dominavano i miei
pensieri, mi facevano impazzire, alimentati dal terrore e dal dolore.
Tutti quegli strani sogni, tutta
quella confusione,
quel dolore, dei mesi passati, stavano assumendo un senso. E pensare
che la
mente pura di mia figlia era entrata in contatto con quella di
quell’essere
immondo era semplicemente orripilante. E così, ogni casella
rientrava nella giusta
prospettiva. In quel modo riuscivo a giustificare la mia istintiva e
terrificante reazione al contatto con quella creatura abominevole.
Avevo avuto ragione,
c’era un collegamento. Ma, avevo
sbagliato, non erano i licantropi. «Il
branco…».
«Si, si. Il branco
sentiva i miei pensieri, avvertiva
la mia presenza. Ha cercato di avvisarti. Sciocchi»
mormorò con
risentimento. «Ma l’unico modo per sbarazzarti di
me prima che la mia anima
trovasse un corpo, era sbarazzarti di lei»,
fece, alludendo alla bimba.
«Non ne saresti stata entusiasta, ne erano consapevoli, tutti
rischiavano a
rendertene partecipe… così… Seth, si
è offerto come volontario, aveva deciso di
esporsi. Pensava che a lui non avreste fatto del male. Ha cercato di
avvertirti
lo stesso, quel giorno di Dicembre, quell’ultimo giorno, poco
prima che
riuscissi a ritrovare me stesso, in un ultimo tentativo e
monito». I suoi occhi
saettarono sul professore.
«Qualcun altro non
l’ha fatto» sputò risentita Rosalie,
la voce ancora opaca, rispetto al consueto tintinnio.
Il capo del professor Philip si
spostò di scatto verso
di lei. «L’avevo quasi ucciso, sciocca ragazzina. E
se non foste venuti qui,
l’avrei fatto. Volevo solo risparmiarvi l’angoscia
e il dolore. E la poco più
che certa morte» sibilò duro.
Carlisle sollevò
entrambe le mani. «Non è tempo di
discussioni» mormorò, fermo, eppure con una strano
tremolio nella voce. Lo
sentiva anche lui, l’aveva capito. Tutti noi eravamo in
pericolo.
E dopo pochi istanti, ne fui ancor
più certa.
Tutti.
Edward comparve al limitare della
radura, tutti i suoi
fratelli, in un istante invisibile, accanto a lui.
I miei occhi si appannarono
completamente di lacrime.
Eravamo tutti spacciati. «Edward…».
«Bella»
la sua voce flebile era il calco della
mia. Aveva sentito tutto. Improvvisamente le sue braccia mi strinsero,
mentre
la radura si faceva più affollata, e i ranghi ancor
più serrati.
Tutti, contro
quell’orribile mostro.
L’amore
contro l’odio. L’eterna
battaglia che non aveva mai avuto vincitore e vinto. Due essenze
così fuse, in
sé, che erano una la degenerazione e la morte
dell’altra.
Di nuovo, quel ringhio pauroso e
spaventoso riempì
completamente lo spazio circostante. Scoprì i denti bianchi
sulle labbra nere.
«Vi osserverete
morire l’un l’altro, senza poterci
fare nulla. Ti strapperò tua figlia dal ventre, e
più nessuno vi salverà».
Calma…
shh… tranquille… buone… Shh…
Guardate
la spirale, guardatela attentamente. Fissate il centro.
Così, da brave…
*voi non
ricordate niente*
*voi non
ricordate assolutamente niente*
*va tutto
bene*
*tutto
è
tranquillo*
Bene,
addio… Io andrei…
Dunque,
scherzi a parte. Tremo come una fogliolina. Insomma, questo
è IL capitolo.
Quello che tutte stavate aspettando, l’enigma che vi ha tolto
il sonno per
tanto tempo, il pezzo mancante del puzzle… E non tremo solo
per i danni fisici
che potreste arrecare alla mia persona. Tremo
perché… e se non vi piacesse? Se
tutto questo vi sembrasse TROPPO folle?
Se
così
fosse, potrei buttare in un cestino tutto quello che ho scritto finora.
Quindi
sono qui, e mangio con foga la unghie.
Siccome
la storia è già scritta nella mia testa,
comunque, vi consiglio di trattenere
in respiro per un po’, e anche quando vi sembrerà
di poter riprendere fiato,
affettatevi a farlo, perché da ora alla fine della storia vi
darò pochissima
tregua.
Spero di
avervi trasmesso tutte le sensazioni ed emozioni che avevo in mente.
Spero che
non sia tutto troppo assurdo. Spero che abbiate apprezzato il
riferimento al
libro della saga. Per comprendere meglio, vi lascio un breve riassunto
di
quelle che era la leggenda ideata dalla Meyer, e i punti che ho
sfruttato.
“[…]
Poi arrivò l'ultimo Spirito Supremo,
Taha Aki. Era celebre per la sua saggezza e la sua indole pacifica. La
gente
viveva felice e serena sotto la sua protezione. Ma c'era un uomo,
Utlapa, che
non era sereno».
[…] Utlapa
ricevette l'ordine di
lasciare la tribù e di non usare mai più il suo
spirito. Utlapa era un uomo
forte, ma i guerrieri del Supremo erano in gran numero. Non ebbe altra
scelta
che andarsene. Furioso, l'uomo si nascose nella foresta vicina, in
attesa
dell'occasione per vendicarsi sul Supremo. Anche in tempo di pace, lo
Spirito
Supremo vigilava per proteggere la sua gente. Spesso andava in un luogo
segreto
fra le montagne. Lasciava il suo corpo lì e scendeva
attraverso le foreste e
lungo la costa, per allontanare le minacce. Un giorno che Taha Aki
partì per
compiere il suo dovere, Utlapa lo seguì. […]
Taha Aki
lasciò il suo corpo nel
luogo segreto e volò con il vento per vegliare sulla sua
gente. Utlapa aspettò,
finché non fu sicuro che lo spirito del Supremo si fosse
allontanato
abbastanza. Quando Utlapa lo raggiunse nel mondo degli spiriti, Taha
Aki se ne
accorse subito e intuì anche il suo piano omicida.
Tornò rapido al luogo
segreto, ma neanche i venti furono così veloci da salvarlo. Al
suo arrivo, il suo corpo era già sparito. Il
corpo di Utlapa giaceva abbandonato, ma Utlapa non aveva lasciato a
Taha Aki
vie di fuga: aveva sgozzato il proprio corpo con le mani di Taha Aki.
[nda In forma di Spirito più sopravvivere anche
senza corpo].
Taha Aki
seguì il suo corpo
lungo la montagna. Urlò a Utlapa, ma Utlapa lo
ignorò, come se fosse il vento.
Disperato, Taha Aki vide Utlapa prendere il suo posto come capo dei
Quileute. […]
Divenne un parassita, pretese privilegi che Taha Aki non aveva mai
reclamato,
si rifiutò di lavorare con i suoi guerrieri, ebbe una
seconda moglie, più
giovane di lui, e poi una terza, malgrado la prima fosse ancora viva,
cosa
inaudita per la tribù. Taha Aki osservava, furioso ma
impotente. Alla fine,
Taha Aki provò a uccidere il proprio corpo per salvare la
tribù dagli eccessi
di Utlapa. Fece scendere un lupo feroce dalle montagne, ma Utlapa si
nascose
dietro i suoi guerrieri. Quando il lupo uccise un giovane che cercava
di proteggere
il capo impostore, Taha Aki si sentì devastare dal dolore.
Ordinò al lupo di andarsene.
Le storie narrano che
non era
facile essere spirito guerriero. Liberarsi del proprio corpo era
più spaventoso
che esaltante. Ecco perché quel potere veniva usato solo in
caso di necessità.
I viaggi solitari di perlustrazione del capotribù erano uno
sforzo e un
sacrificio. Essere senza corpo turbava; era scomodo, orribile. Taha Aki
era
stato lontano dal suo corpo così a lungo che ormai viveva
nei tormenti. Si sentiva
condannato: non avrebbe mai potuto attraversare l'Ultima Terra, dove i
suoi
antenati lo aspettavano. Sarebbe rimasto bloccato per sempre nello
strazio di
quel nulla. Il grande lupo seguì lo spirito di Taha Aki nei
boschi, mentre si
contorceva fra i tormenti. Il lupo era molto grande per la sua razza, e
bellissimo. All'improvviso Taha Aki si sentì invidioso
dell'animale. Non sapeva
parlare, ma almeno aveva un corpo. Una vita. Persino vivere da animale
sarebbe
stato meglio di quell'orribile coscienza incorporea. Così
Taha Aki ebbe l'idea
che ha cambiato il destino di tutti noi. Chiese al grande lupo di
fargli spazio
nel suo corpo, di dividerlo con lui. Il lupo acconsentì.
Taha Aki entrò nel
corpo del lupo con sollievo e gratitudine. Non era il suo corpo umano,
ma era
meglio del vuoto del mondo degli spiriti.
Ormai divenuti una
cosa sola,
l'uomo e il lupo tornarono al villaggio sul golfo. […] I
guerrieri iniziarono a
capire che quel lupo non era un animale qualunque, che era sotto
l'influenza di
uno spirito. Uno dei guerrieri più anziani, un uomo di nome
Yut, decise di
disobbedire all'ordine del capo impostore e provò a
comunicare con il lupo. Non
appena Yut ebbe fatto ingresso nel mondo degli spiriti, Taha Aki
lasciò il
lupo, in docile attesa del suo ritorno, per parlare con lui. In un
attimo Yut
comprese la verità e salutò il ritorno del suo
vero Capo Supremo. In quel
momento arrivò Utlapa, per vedere se il lupo era stato
sconfitto. Quando vide
il corpo di Yut giacere a terra senza vita, protetto dagli altri
guerrieri,
capì cos'era accaduto. Sfoderò il coltello e si
affrettò a uccidere Yut prima
che potesse tornare al suo corpo.
"Traditore",
gridò,
mentre i guerrieri non sapevano cosa fare. Il capo aveva stabilito che
era
proibito tornare nel mondo degli spiriti, e spettava a lui decidere
come punire
i trasgressori. […] Yut non ebbe il tempo di dire neanche
una parola per
avvisare gli altri, perché Utlapa lo ridusse per sempre al
silenzio. […]
Provò
una grande rabbia, più intensa di qualsiasi sensazione
avesse mai provato.
Entrò di nuovo nel corpo del grande lupo, deciso a sgozzare
Utlapa. Ma, non
appena fu di nuovo dentro al lupo, avvenne la grande magia.
La
rabbia di Taha Aki era la rabbia di un uomo. L'amore che provava per la
sua
gente e l'odio contro il suo oppressore erano troppo vasti, troppo
umani per il
corpo del lupo. Il lupo iniziò a tremare e, davanti agli
occhi sconvolti dei
guerrieri e di Utlapa, si trasformò in uomo. Il nuovo uomo
non somigliava a
Taha Aki. Era molto più grande. Era l'incarnazione terrena
dello spirito di
Taha Aki. [nda Lo stesso accade a Jacob con il
suo odio, e si
trasforma nella sua vera incarnazione] […]”
Aspetto,
qui, impaziente.
Grazie,
grazie, grazie, a tutti.
Scusate
il ritardo, sarò più celere. :*
Cercatemi
su twitter (@Keska92), per leggere le mie CaSSate e notizie sugli
aggiornamenti, lasciate nel blog qui sotto.
edwardina4eGrazie
mille! *.* Sei
stata buonissima! Grazie, grazie! Sapere che la mia storia ti piace
così tanto
non può che farmi gioire! :) Scusa per il
ritardo… purtroppo è un periodo
intenso con la scuola. :)
mikvampireCielo!
Grazie! Questi
complimenti mi fanno piangere di gioia. :) Scrivo, e devo ringraziare
questo
sito per consentirmi di farlo, per consentirmi di confrontarmi e
migliorarmi.
Grazie perché, in poche parole, non hai dimenticato di
essere così buona con
me.
Lau_twilight Ciao
tesoro! Grazie! :) beh, in
effetti edward non ha mai negato niente a Bella. Questo è un
lato del suo carattere
che mi è rimasto impresso in Breaking Down e come ho fatto
con tante altre cose
volevo riprodurlo anche nella mia storia per non farlo disperdere del
tutto. La
verità, finalmente, è arrivata. Che ne dici?
Tutti gli indizi, i capitoli di
questi mesi, tutti gli enigmi, tutto doveva puntare a questo, tutto a
questo
capitolo. Diciamo che è la sintesi del mio lavoro mentale di
questi mesi, il
fatto in cui ho detto tutto si sarebbe condensato. I tuoi complimenti
sono
sempre fantastici e sicuramente ben accetti, sei sempre precisa e
scrupolosa
nelle tue recensioni, e per questo non smetterò mai di
ringraziarti. Ma, se
dopo questo capitolo avessi anche critiche da farmi, sono ben accette
:) A
presto, un grazie, un bacio. :*
StruppiEmh.
Si… *si nasconde*
mi dispiace… di… emm… averti
dimostrato il contrario… *ora della supplica* ti
prego, non farmi del male! Guarda questa faccia triste, questi occhi
che
t’implorano! *.* Dopotutto, c’è scritto
lieto fine, no? Lieto fine, lieto fine,
lieto fine… pensaci, e guarda
l’aspirale… e poi, hai detto che ti piacciono i
casini con la pace dopo! Pace, pace, promesso, giuro! u.u
manuelitasOhhh!
Grazie a te, che
mi lusinghi con questi complimenti così generosi! Sono
contenta che lo scorso
capitolo ti sia piaciuto. So che apprezzate gli Edward’s POV,
ma mi devono
venire piuttosto spontanei perché possa
scriverli… E poi, penso che nessuna di
noi si stancherebbe mai di vederlo così dolce, tenero, e
premuroso… Siamo delle
eterne romanticone, non è così? :)
Luna
Renesmee Lilian
CullenOhh,
finalmente la mamma ti ha ridato il cavo! Ahahah, ma davvero,
sono pessimi questi genitori quando ci si mettono. Dunque. Il mio
indirizzo msn
è (francino_92@yahoo.it), spero che dopo questo capitolo
vorrai ancora parlarmi
o che non userai il contatto per offese verbali e minacce ahahahah Si,
così, ho
in cantiere un’atra storia. Sarà un bel
po’ diversa da quelle che ho scritto
fino ad ora, ma non credo di abbandonare il romanticismo, né
lo farò mai! :)
Grazie, per le tue splendide parole. Un bacio e a presto carissima.
lisa76Grazie mille.
:) Allora, le tue
considerazioni sono state fertili? :P Sei riuscita a mettere insieme
gli
indizi? Spero che questo capitolo sia stato all’altezza delle
tue aspettative.
Grazie mille, ancora, per i complimenti.
FUNNiCiao!
Sono contenta che
lo scorso capitolo ti sia piaciuto, volevo proprio lasciarvi una
boccata d’aria
e di leggerezza prima di questo. Che dici, ho fatto bene? :P Eh si,
Bella ormai
è quasi all’ottavo mese, trascinarsi in giro con
un pancione non credo sia
semplice, soprattutto se si decide di fare delle escursioni nelle
foreste! Che
cattiva sono :P Grazie della recensione, davvero!
DarkViolet92Bene. Ora
tremo. Tremo in questo
capitolo perché so che nel prossimo ti vedrò come
capofila della massa per il
linciaggio della mia persona. *deglutisce* Calma, ricordati sempre di
mantenere
la calma e guardare la spirale! :P Sono contenta di averti dato
delucidazioni!
Quelle sul parto sono tutte cose che ho letto qua e là in
giro. :) Mi piace
documentarmi :P
GiovaneStellaOhh!
Grazie! Grazie di
avermi recensita persino dall’ufficio di tuo padre, non sai
quanto l’ho
apprezzato! :D So che con i pc ci sono sempre problemi, il mio
è il primo.
Infatti, presto, scriverò un capitolo che è una
vera e proprio ode alla rottura
dei pc. Ahahah Sono contenta che ti siano piaciuti gli scorsi capitoli!
Philip
è un mio personaggio, e come tale ci tengo davvero molto a
lui. Kate? Chissà
come andrà a finire la storia. Dopo questo capitolo,
aspettati di tutto!
Nessie93 Grazie *.*
Si, direi che qualcosa
di giusto c’era nel tuo discorso! Ma non perdere fiducia, non
ora, che siamo
alla fine! Allora. La bambina usa il potere quando avverte paura e
pericolo. Ha
avvertito la presenza del qui resuscitato, e quindi ha usato lo scudo.
Così
come, (l’altro indizio), il mal di testa, dovuto alla
costante sua presenza.
Sei stata molto gentile! Grazie di recensire sempre la mia storia,
spero anche
dopo questo capitolo! Ahahahah
tsukinoshippoMa chi
sarà mai questa sconosciuta
che decide di lasciarmi una recensione? :O Ahahahah, tesoro,
l’ho già detto. Tu
fai così tanto, tutto, per me, che decisamente non posso che
dirti che tutto
questo non è necessario, lo sai. Sento il tuo affetto, e
penso che sia una
parte importantissima per me, per continuare a scrivere. Mi dai
fiducia, e mi
conforti quando sono disorientata, o preoccupata. Mi dai consigli e mi
guidi
sempre sulla strada migliore, quando perdo la bussola. E parlo solo di
quello
che fai per me in relazione a questa storia, ovviamente ;)
Però, però, non
posso che dirti grazie, per aver sentito l’esigenza, aver
provato il piacere,
di regalarmi queste belle parole. Di non darlo per scontato, insomma.
Grazie.
Un bacio vero, ai. :*
mineCielo, grazie!
Mi viene una
malinconia pensando a quando scrivevo quei primi capitoli…
Quel piacere
disincantato di scrivere, così, di getto, solo per il puro
gusto di farlo! Non
che ora non sia così. Ma di sicuro diciamo che faccio una
scrittura più
“consapevole”, ecco. E questo richiede
più impegno da parte mia. Il capitolo in
cui Bella si ubriaca, comunque, rimarrà per sempre nel mio
cuore! Ahahahah…
Poco ma sicuro. Ed ora, eccoci qui, con lui di nuovo fra noi. Roba da
non
crederci, non è così? :P Il professore
riuscirà ad avere il suo lieto fine?
Questione scottante, direi… Dico solo che…
Aspettati di tutto. ;) Grazie, di
continuare a recensire, ancora, sempre, dopo tutto questo tempo.
Grazie. :*
ste87ohh,
grazie a te! Non
ringraziarmi. Sei stata molto gentile a lasciarmi una recensione. Spero
che
questo capitolo sia stato di tuo gradimento, non potrei chiedere di
meglio :)
silvia16595Ciao
carissima! Dunque, lo so, vi ho fatto pensare, disperare, aspettare,
scervellare, per capitoli e capitoli. Ma ora, infine, ecco la
verità! Non mi
puoi rimproverare nulla, se non proprio l’argomento della
verità! Ahahahah… Mi
rendo conto della possibile rabbia-istinto omicida che io stessa ho
evocato nei
miei confronti! Che dici, scappo? :P
Lizzie95Grazie mille
tesoro! :) Sempre
gentilissima. Spero quindi che ti possa piace anche quello che ho in
mente per
la mia prossima nuova storia! Non devi pensare alla brutte figure, io
voglio
sapere! Ormai, il dado è tratto, perché le cose
sono successe, ma puoi sempre
dirmi se ci avevi preso, no? Non riesco davvero a rendermi conto della
vostra
possibile reazione a quello che ho scritto. Non riesco a immaginare se
vi
aspettavate un ritorno del genere, oppure la vostra attenzione era
focalizzata
più che altro sui licantropi! Quindi, sono curiosissima di
raccogliere tutte le
vostre impressioni. Don’t Worry, ma la
“benedetta” (ahahahah) Kate, ci farà
ancora compagnia! :)
Sognatrice85Ohhh *.* Che
frase magnifica hai scritto!
Mi hai fatto venire la pelle d’oca! Grazie a te, per stare
qui a leggere questa
loro vita, inventata e sviluppata in questa testa pazza. Grazie. Vivo
con i
miei personaggi, come fanno tutti, qui, credo, con i loro e…
è un piacere. É un
piacere immenso, ricevere questi complimenti. :)
ale03Ciao tesoro!
É vero, Edward e Bella
sono dolcissimi insieme! Promesso che i prossimi capitolo saranno tutti
incentrati su di loro, giurin giurello! :* Cerco di caratterizzare i
personaggi
attenendomi quanto più possibile agli originali, e
così ho cercato di fare con
Esme, con Rosalie, ma soprattutto con Carlisle *.* Lo so lo nomino
troppo, lo
so. Taccio. :X
ledyangMa no che non
mi rompi… In fondo…
ahahahah… No, dai, non mi rompi, tanto alla fine posto
sempre quando dico io :P
Dunque, con i licantropi ci hai mezzo azzeccato, ma tu fai pronostici
tipo
Rosalie?! Ahahah, la facciamo partorì là, in
mezzo al fogliame? Uahuahuah…
Povera Bella… :P Grazie di tutto ;)
KatyCullenEhh
si… In questo capitolo ci sono
stati un po’ di sogni ad occhi aperti, con tanto di quadretti
immaginari con
Edward, Bella, e la bambina! Cosa sono quelle fitte alla testa? Ahahah,
magari
non ti sarebbe piaciuto saperlo! :P Mi spiace! Grazie mille, grazie,
grazie,
per non dimenticare mai di essere così buona con me.
endifDarling :) E
così, la matassa di
sciolse… Beh, quantomeno, dopo questo capitolo, niente
più indizi, niente più
enigmi, perché, finalmente, la grande questione da cui TUTTO
era originato, è
stata definitivamente sciolta. Certo, ovviamente, ci sono tante, tante
cose da
sciogliere, non potevo rendere il capitolo un lezione
scolastica… E,
ovviamente, questo capitolo… diciamo che ancora non
è concluso, e comunque
porterà delle significative conseguenze. Sono curiosa di
scoprire cosa ne
pensi. Sono stata scontata? Ripetitiva? Ti aspettavi una svolta del
genere?
Sono stata troppo lenta, o affrettata? Mi, raccomando, non
risparmiarti, dimmi
tutto quello che pensi. Son qui, e attendo. :) Un bacio affettuoso.
chi61Bene,
e ora iniziano le note
dolenti. Ecco, questo, è il capitolo che tutti aspettavano,
quello “critico”,
il punto di snodo di tutta la confusione e i problemi, i piccoli
indizi, creati
nei capitoli precedenti. Ecco, da questo deriva la mia angoscia, da
questo
deriva il fatto che io ci abbia messo così tanto a
pubblicarlo. Fallito questo,
fallisce tutto quello che c’è stato prima. Spero
che le mie idee, le mie
giustificazioni, non siano state troppo banali o scontate, e
soprattutto
ripetitive. Mi sto praticamente tuffando nel vuoto. Per rispondere alle
tue
domande, ti dico che la capacità di Alice di vedere mezzi
vampiri dipende dal
livello di conoscenza e famigliarità con la creatura che
vuole vedere. Con la
bambina non ci riesce bene, ancora, perché non ne
è ancora nata. Con Kate, non
ci riesce perché non è ancora entrata in contatto
diretto con lei. Questo,
comunque, non preclude totalmente la possibilità di avere
visioni, dato che per
metà questi esseri sono vampiri. Spero di essere stata
esaustiva. :) Un
abbraccio, un bacio, un grazie, immenso, a te.
titty88Si! Ho una
nuova storia in
cantiere… Ora concludo queste due che ho ancora in corso, e
comincio subito con
quella, non temere! :) Vedrai, spero davvero che i prossimi capitoli
possano
essere di tuo gradimento, da quanto mi dissi, tempo fa, credo di si.
Chissà ;)
Ros_RosAhahahah, non
preoccuparti! Non
devi affatto essere terrorizzata dai complimenti
“troppo” abbondanti! Figurati
se non accetto tutto con il massimo senso di lusinga! E spero che,
nonostante
questo capitolo non sia tranquillo come il precedente… beh,
spero di non uscire
completamente dalle tue grazie, in un lampo! Ahahahah…
Grazie davvero… :)
DreamerchanCiao!
Beh, spero che il
seguito sia stato di tuo gradimento, e gli indizi ben evidenti! Ahahah,
magari
ti saresti aspettata qualcosa di decisamente meno terrificante e
scandaloso, ma
purtroppo, come dicono i Romantici, la fantasia non ha freni ;P Grazie
:*
WindAhahah, non
preoccuparti, non c’è
pericolo di arrivare addirittura a quota cento! Ahahahah…
Beh, che te ne pare
del “movimento”?! Hai detto tu stessa che un
po’ di movimento ci vuole sempre!
Allora, non aspettarti tregua da qui alla fine della storia,
perché non ve ne
darò! Muahahah… Hai chiesto tu u.u…
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstateGrazie mille!
*.*
É vero, avevi ragione sulla “calma prima della
tempesta” ahahahah… In effetti
speravo di farvi percepire questa cosa, che vedo ha toccato gli animi
più
sensibili ;) Hai avuto ragione, le fitte alla testa, decisamente, non
erano un
dato casuale. Anch’io ho esperienza con i viaggi in auto e
nausee connesse… Lo
so, è una vera tortura! Senti tutto il giorno come se fossi
ancora in macchina…
che brutta sensazione…
Ely_11Grazie
mille carissima!
Sei davvero tanto gentilissima, lo sai? :) Mi fai venire i brividi.
Allora,
adoro ricevere domande! :P Dunque. Ho diciott’anni, forse per
questo ti
“sballo” un po’, perché
diciamo che non sono né troppo giovane, né troppo
“vecchia”, passami il termine. Perché
scrivo su EFP anziché scrivere un libro
mio, pubblicato da case editrici? Perché, in primis, non
sono ancora abbastanza
brava per scrivere un libro mio, quando lo farò voglio
essere al massimo delle
mie potenzialità. In secondo luogo, ti dirò, ho
già in mente una forma per un
libro. Poi, scrivere una fan fiction mi dà la
possibilità di farmi leggere
direttamente e di confrontarmi immediatamente con un pubblico, e questo
alimenta molto la mia passione e la mia voglia di farlo. Infine,
scrivere un
libro al giorno d’oggi è come avventurasi in una
giungla di case editrici
pronte a sfruttarti all’osso, traendone il massimo profitto,
e lasciandoti…
senza niente in mano. :D Spero di essere stata esaustiva.
LudoCullen96Ahahah,
chissà, chissà come sarà
Kate. Un po’ l’ho descritta, credo (?!), nel
capitolo in cui ne raccontava il
professore. Ovviamente, all’epoca era come una bambina, ma di
sicuro è molto
bella. Somigliante alla madre, ma con delle caratteristiche del padre
;) Grazie
per i bellissimi complimenti, sei sempre un tesoro, molto gentile con
me.
Grazie.
frafruMi
spiace! Aveva
ragione, non ho potuto fare a meno di inserire un “colpo di
scena”, IL colpo di
scena, direi, visto che in istante ha distorto l’equilibrio
generale! Ti
ringrazio, per tutte le tue bellissime parole! Sono contenta di leggere
che la
mia storia ti sia entrata tanto dentro! *.* Anche per me
sarà un po’ come se
una parte di me morisse. Insomma, tu scrivi, lo sai come vanno queste
cose. I
personaggi vivono con noi, e noi li facciamo crescere, li alleviamo, e
li
conduciamo a quella che per loro è la morte. Non so come
farò per colmare il
vuoto che mi lascerà questa storia… Non
c’è modo, forse :)
ANNALISACULLEN
Beh, diciamo che non hai
dovuto aspettare molto per capire la natura delle fitte! Diciamo che il
capitolo precedente, più sulla coppia, più sulla
dolcezza di Edward e Bella,
l’ho usato, lo confesso, per ingraziarmi il vostro favore,
per la folle paura
che mi farete dopo aver letto questo! Per quanto riguarda il progetto
di
riunire padre-figlia… vedrai, presto… Dammi
giusto il tempo per correre ai
ripari! Ahahahah
congyEbbene,
sei contenta di averci
preso stavolta? Beh, più o meno… Ma forse saresti
stata più contenta se ti
fossi sbagliata, visto come stanno andando le cose… Non
troppo bene, diciamo :P
I fuochi d’artificio ci sono stati, ci sono, ci
saranno… ma ricordati, che
ancora, non siamo alla fine. Mancano un pochino di capitoli, e ti dico
solo che
mi sbizzarrirò totalmente con la fantasia, senza risparmiare
nessuno! :P A
presto cara ;)
«Vi osserverete morire l’un
l’altro, senza poterci fare nulla
«Vi osserverete
morire l’un l’altro, senza poterci
fare nulla. Ti strapperò tua figlia dal ventre, e
più nessuno vi salverà».
Dal petto di Edward si
levò un ringhio brutale,
specchio del suo. La sua mano, velocissima, corse al ventre gonfio,
protettiva.
La nostra bambina, pensai, tremando.
Eppure, quell’orrida
creatura non ne parve minimamente
scalfita.
Dopotutto, come poteva il suo
sguardo d’odio essere
ancora peggio di così?
Ero pervasa dal terrore. Per me,
per tutte quelle
persone che mi volevano bene. Per Edward, il mio Edward. Per la
bambina, dolce
creatura innocente, ancora rinchiusa nel mio grembo.
Sentivo dolore alle mani, alle
dita, strette e
incuneate sui fianchi del mio amore, in un inutile e disperato
tentativo di
tenerlo a me, di preservare la sua vita e quella della nostra piccola,
stretta
fra i nostri corpi stretti.
I suoi occhi si specchiarono nei
miei. Bruciavano
d’odio e desiderio di vendetta. No, non mi ero sbagliata.
Sarebbe stata una
battaglia fra odio e amore, di sicuro. L’odio che leggevo nei
suoi occhi
agghiacciati. L’amore per me e per sua figlia, per il quale
avrebbe dato
l’esistenza.
Lo sentii. Sentii quell’attimo,
in cui mi parve
che la sua mano fredda mi sfiorasse il viso, dandomi un improbabile
sollievo.
Sentii l’attimo prima che tutto avesse
inizio.
Cominciò come una danza
mortale.
Edward fu il primo ad attaccare,
balzando in avanti,
letale. Se solo avesse sfiorato uno di quei segni bianchi di cui il
corpo di
quell’abominevole creatura era bardata sarebbe morto, morto
per sempre.
«No!»
urlai, sentendomi mancare. Troppo tardi,
troppo, troppo tardi. Ormai, tutto era cominciato.
Edward gli si avvicinò e
rimbalzò all’indietro,
fermandosi a qualche metro da me. Sembrava che niente fosse cambiato.
Si era
toccati? Chi era stato colpito?
Un istante dopo che i suoi piedi
ebbero toccato
nuovamente il terreno, tutti i vampiri, tutti e sette i vampiri davanti
a me,
attaccarono contemporaneamente ripetendo lo stesso movimento, avanti,
indietro.
Un aggraziato movimento letale.
Eppure, Jacob non pareva
minimamente scalfito. Eppure,
nessuno dei Cullen abbandonava la sua posizione, la sua espressione
concentrata.
Terrorizzata, angustiata, fissavo
attonita la scena,
le mani angosciosamente sul grembo.
Avanti, indietro. In un secondo il
disegno mutò. Jacob
sempre al centro. Attaccavano a intervalli, ora.
Lo stavano accerchiando. Erano in
parità. Jacob, col
vantaggio di non poter essere toccato. I Cullen, con quello di essere
sette
contro uno.
Delle altre braccia mi strinsero,
facendomi arretrare.
Il professore. Tremavo, tremavo, e pregavo perché tutto
quello potesse avere
fine, perché potessi svegliarmi e credere realmente che
tutto fosse solo e
solamente un sogno, un brutto incubo da cui mi sarei certamente
svegliata,
presto.
Edward!
La
bambina, la mia bambina! No!
Come poteva tutto essersi realmente
infranto così,
distruggendo i meravigliosi sogni di vita insieme!?
Annaspai, provando a liberarmi da
quella stretta che
mi teneva ferma, provando a fare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse
essere
d’aiuto.
Il professore mi strinse
più forte e mi fissò con
severità. «No» fece deciso.
Sciocca ragazza che ero. Cosa mai
avrei potuto fare?
Cosa, se non allontanarmi il più possibile e fare
l’unica cosa che mi era
concessa, salvare la nostra bambina? Non lottai più. Feci
cadere le braccia, i
pugni chiusi, lungo i fianchi. I miei occhi invasi i lacrime fissarono
la scena
agghiacciante, impotenti, mentre il mio animo si spezzava
angosciosamente sotto
il peso del mio dolore.
All’ennesima scarica di
adrenalina annaspai, mentre
tutto, in me, persino il dolore, si congelava. Perché i miei
occhi vacui
l’avevano visto: qualcosa era cambiato. Nonostante non
riuscissi minimamente a
scorgere i movimenti della lotta incalzante, ne avevo, fin dal primo
istante,
percepito la perfezione, scaturita dalla parità. Ma in quel
momento, qualcosa
era cambiato.
Il sollievo provato per la smorfia
sul viso di Jacob
non fu niente, rispetto al terrore dello schianto fragoroso del corpo
di Esme su
un albero. Immediatamente rimbalzò e si risollevò
sui talloni, ricominciando a
lottare.
Ma qualcosa non andava, la danza
aveva perso il suo
ritmo, tutto era fuori fase.
Singhiozzai, e le mie ginocchia
tremarono, piegandosi
l’una contro l’altra per impedirmi di cadere. Le
lacrime scorrevano fluide
lungo il viso, incontrollate. Stavo perdendo tutto. Tutto in un attimo,
e non
potevo fare niente.
Il professore puntò
quello strano oggetto che aveva
fra le mani - identificabile come forma solo come una rivoltella -
proprio in
direzione della battaglia.
Ci furono altri schianti, altri
rimbalzi. La lotta
stava prendendo una piega, l’ago della bilancia si era
spostato verso qualcuno,
constatai sgomenta. Verso Jacob.
Il professore caricò
l’arma, mentre la paura mi
assaliva. E se avesse accidentalmente ferito gli altri? La mia
famiglia,
Edward? Non poteva rischiare di farlo. Come poteva, con la sua vista
umana,
evitarli?
Poi, capì.
Esattamente quando riuscii a
distinguere le dita
bianche di Edward posarsi esattamente sulla spalla nera di Jacob, uno
degli
unici punti privo di cicatrici stranamente sanguinanti. Jasper, fece lo
stesso
con la gamba. Emmett, il fianco. Carlisle, la testa.
Era tutto pronto. Pronto per
finirlo, pronto per
ucciderlo. Il professore doveva assestargli il colpo fatale. Il mio
cuore
sussultò, infinitesimamente rincuorato eppure agghiacciato
alla scena cui brave
avrei assistito. Non tutto era perso, non tutto, non ancora. Le
lacrime,
immobili, si ghiacciarono sulle mie guance, spinte dal leggero
venticello.
Un attimo dopo, tutto era perso.
Jacob si sbarazzò di
tutti in attimo, con un urlò
feroce e sofferente. I loro corpi volarono lontano, immobili. In un
attimo si
proiettò in avanti. Lo percepii di fronte a me prima di
sentire l’aria calda,
lo spostamento. E in un secondo, il professore non era più
davanti a me.
La sua arma, la nostra ultima
speranza, in terra,
distrutta. Jacob, al suo posto. Troppo vicino a me. Un solo movimento,
e la sua
profezia si sarebbe avverata. I suoi occhi, così bianchi sul
viso così nero, si
fissarono insistenti e rabbiosi sul mio corpo. La sua mole spaventosa
mi
sovrastava completamente, oscurandomi dalla già flebile luce
che filtrava fra
gli alberi.
Io, Edward, la bambina. Tutti i
miei affetti più cari,
me stessa, spazzati lontano.
Non ebbi la forza, né il
tempo, di aprire bocca e
urlare.
Il dolore, il panico,
l’assurda paura. L’oblio dei
sensi, la fine dell’esistenza, la morte di ogni cosa,
pervasero così tanto di
terrore le corde della mia anima, che mi sentii vibrare da dentro
qualcosa di
così grande, così incontrollabile,
così potente, che non riuscii in alcun modo
a trattenere.
Esplose, da dentro a fuori di me.
Attraversandomi,
tendendomi e trapassandomi. Tutto il mio corpo spiegato in quel
potentissimo moto,
permeato del potere che lo faceva fremere, incontenibile.
Sentii come se stesse trapassando
la mia pelle,
uscendo fuori da me, con una forza distruttiva immensa, attraversando
la carne
e le ossa. Ma non faceva male. Era… puro e denso potere.
Perfettamente cosciente, anche se
non padrona del mio corpo,
vidi tutto quello che accadde.
La mano di Jacob, lì,
vicina al mio grembo, pronta a
strappare dal mio corpo la vita di mia figlia. La sua faccia, intrisa e
pervasa
di rabbia a furia. I suoi muscoli contratti nell’atto di
compiere l’empietà.
E poi, l’immensa onda
d’urto. E tutta quell’aria
spostata, che lasciava il vuoto rarefatto intorno a me. Il palmo nero
si
allontanò con una velocità così
elevata e fu scaraventata via con una forza tale
da non consentirmi di vedere nulla, nulla altro che quella, e una nera
macchia
indistinta scagliata lontano, oltre gli alberi piegati, sulla roccia,
con un
fragore mostruoso e violento.
Rimbombò con forza fino
a me, agghiacciandomi,
facendomi vibrare e battere violentemente i denti. Tutta la mia pelle,
mi
accorsi, era pervasa da un tremolio e un formicolio costanti.
Ansimai, lasciando che ai miei
sensi arrivarono le più
futili percezioni. Il tempo rallentò nella mia mente,
scandito dallo svolazzare
di un paio d’ali nere; un corvo che, spaventato, volava da
una albero al
diametralmente opposto, gracchiando.
Il potere scaturito da dentro di
me, mi aveva
abbandonata, espandendosi all’esterno, lasciandomi
incredibilmente… vuota.
Mentre il cerchio di alberi
piegati, tutto intorno,
sembrava incredibilmente ruotare, sentii le mie gambe cedere, e il
pavimento
ruvido e freddo mi venne dolorosamente incontro.
Riaprii gli occhi carica di
tensione e angoscia. Mi
tirai automaticamente a sedere, agitata, scrutandomi ansiosamente
attorno.
Gli occhi di Edward, preoccupati,
incontrarono i miei.
«Amore, tranquilla, tranquilla. Sei al sicuro adesso. Siete
al sicuro»
mi rassicurò velocemente, posando entrambe le mani sulle mie
spalle.
Mentre con un movimento repentino
scrutavo l’ambiente
attorno a me, mi accorsi di essere a casa, nel letto della baita. I
miei
respiri veloci impedirono alle parole, bloccate nella mia mente, di
venir
fuori. Cosa era accaduto? Perché ci trovavamo lì?
Cosa era successo? Lui
dov’era?
Le braccia forti di mio marito mi
strinsero, e non
potei non sentirmi per un attimo in pace. Avevo avuto la folle paura di
non
poterlo mai più sentire così. Mi fece stendere
fra le lenzuola, mi prese la
mano fra le sue. Cercavo, non potendo parlare, di capire il
più possibile dal
suo sguardo. Se eravamo lì voleva dire che eravamo fuggiti,
che era stato
sconfitto? Voleva dire che tutto era andato per il meglio, non era
così?
Perché, allora, i suoi occhi erano così
terribilmente angosciati?
«Edward»
chiamai stridula «ti prego» lo
implorai, in una richiesta che andava ben oltre la voglia di conoscere,
arrivando alla disperata speranza.
Le sue labbra si contrassero in una
smorfia, come se
stesse per singhiozzare. Si aprirono, tremanti, e presero un respiro.
Mi
accarezzò i capelli con infinita dolcezza, avvicinando il
viso al mio. «É fuggito»
mormorò solo, e potei sentire tutta la sua disperazione.
Chiusi gli occhi, strinsi le
labbra, sentendo l’eco di
quelle parole nella mia mente così piena e paradossalmente
vuota. Era finita.
Per ora, ma era finita. Ringraziai il cielo di avere ancora la mia
piccola in
grembo e le mani di Edward sul mio corpo. Le mie membra si distesero
tutte
contemporaneamente, allentando la sordida tensione. Era finita.
Eppure…
Passarono diversi attimi, nei quali
mi prese fra le
braccia e mi strinse a sé. Stava soffrendo, lo sentivo. Mi
accarezzò il viso,
le palpebre. Poi scese sul pancione. Le sue parole volarono leggere
come ali di
farfalla sulla mia pelle: «Siete al sicuro con me, ve lo
prometto».
Riaprii gli occhi, guardando la sua
espressione
afflitta. Gli accarezzai i capelli, gli zigomi. Ma ancora non trovavo
le labbra
per parlare, ancora non riuscivo ad emettere alcun suono.
Perché,
perché non potevo crederci? Perché questa, a
differenza di tutte le altre volte che mi aveva rassicurata, sempre,
attraverso
le mille disgrazie che eravamo stati costretti a subire, era diversa.
Perché
leggevo, nella sua espressione, qualcosa di nuovo e strano che mi
bloccava il
respiro, persino peggiore della consapevolezza della sorte che ci stava
attendendo.
Interpretò il mio
silenzio come terrore. «Te lo giuro,
Bella, lo sconfiggeremo. Ora lo sappiamo, sappiamo come fare, non ci
faremo
cogliere impreparati. Non sarete più in pericolo, mai
più…».
Le sue parole erano venute fuori
con desiderio di
persuasione. Eppure, erano venute fuori anche con estrema angoscia.
D’un
tratto, fui colta da una paura immensa.
Mi irrigidii. «Dove sono
gli altri?» chiesi affannata.
«Shh, shh,
tranquilla» mi cullò, accarezzandomi i
capelli. I suoi occhi erano lontani, vacui. «Adesso viene
Carlisle a visitarti,
ci hai fatto prendere una brutta paura. Non ti devi agitare, devi solo
riposare».
Il mio respiro accelerò
velocemente. Dov’era Carlisle?
Se non era già qui voleva dire che qualcuno stava male? Lui
stesso?
Scalciai, frenetica, provando a
liberarmi dalla sua
presa per guardarlo negli occhi. Le lacrime traboccarono nel mo
tentativo di
parlare «Dove sono gli altri?» provai a gridare
«cos’è successo, Edward, dove
sono gli altri?» chiesi, la voce sottile.
I suoi occhi si riempirono di
scuse, ma non parlò. Il
mio respiro pesante passava fra i nostri volti.
La porta si aprì,
entrò Carlisle. Lo fissai
terrorizzata. Chi? Chi era? Da chi era stato?
«Bella» mormorò, e mi venne
subito accanto. Fece un cenno a suo figlio, che mi ripose fra le
coperte.
Mi adirai. «Ditemi che
sta succedendo! Ditemelo,
adesso! Non potete farmi questo, vi prego, vi prego!» gridai,
agitandomi,
stringendo il mio fiato fra i respiri frammezzati dai rapidi
singhiozzi.
Edward mi tenne le mani sulle
braccia, bloccandomi.
«Bella, ti supplico! Non fare così! Pensa alla
bambina…».
«No!» gridai,
stringendo gli occhi gonfi, pesanti di
pianto «devo sapere, ho il diritto di sapere!».
Carlisle raddoppiò la
presa del figlio su di me. Lo
guardò, un istante, e i suoi occhi tornarono sul mio viso.
«Sono stato da
Philip».
Smisi di dibattermi, fissando la
sua espressione
impassibile, con terrore. Allentò la presa su di me e si
sollevò, andando verso
la porticina del bagno, lasciandomi nelle mani di mio marito. Il mio
sguardo,
vuoto, si posò su di lui. Perché sentivo tutto
sgretolarsi, attorno a me? «Lui»
pigolai «lui non…».
Serrò la mascella. Fece
un rapido movimento di diniego
con le labbra. «Mi dispiace, amore».
Lo fissai supplicante.
«Non ce la
farà…».
«No…»
sillabai, opponendomi strenuamente
all’evidente verità. I singhiozzi mi scossero,
senza pietà, facendomi
annaspare. Avevo passato tanto di quel tempo, nei mesi addietro,
cercando di
abituarmi a quell’idea. E ora, così, per causa mia
la sua vita doveva aver
fine? Senza la possibilità di rivedere un’ultima
volta sua figlia?
«Bella, Bella,
rispondimi, ti prego!». La voce mi mio
marito m’implorava, lontana. Quasi non mi ero accorta di
essere nuovamente
scivolata in quella starna incoscienza. «Amore, mi senti?
Sono qui, sono qui
accanto a te!».
La voce pacata di mio suocero ci
raggiunse. «Calmati,
figliolo. Lasciale il tempo per elaborare la
cosa…».
La presa delle dita fredde e forti
aumentò, seppur
delicatamente, e mi sfiorò il dorso della mano con il
pollice.
Edward mi guidò
silenzioso lungo il corridoio. Mi
guardava con apprensione, ma sapeva quanto fosse per meglio per me il
silenzio,
in quel momento. La sua presenza, la sua mano sul mio fianco, sarebbero
valse
più di qualsiasi altra parola di conforto.
Avevo un peso sul cuore, sul petto,
che non mi
abbandonava.
Quando entrai nella stanza in cui
avevano sistemato
Philip lo sentii triplicare, e le lacrime, ineluttabili, scesero sul
mio volto.
«Bella»
sussurrò Edward, stringendomi forte fra le
braccia.
Mi concessi un momento per
singhiozzare liberamente,
sapendo comunque di non poter smettere tanto presto di piangere.
Nascosi il
viso sul suo petto, mentre l’immagine del professore, pallido
ed emaciato, rimaneva
vivida nella mia mente. Aveva gli occhi chiusi, e il respiro pesante
gli
scuoteva il petto: non doveva essersi accorto della nostra presenza.
Non appena mi ripresi posai un
palmo sul suo petto,
sollevando la testa per guardarlo negli occhi. «Vai,
Edward…» mormorai, e
repressi un singhiozzo mordendomi il labbro «devo…
devo rimanere con lui…» biascicai.
I suoi occhi luccicarono, mentre
stringeva le labbra,
preoccupato. Non disse nulla, conducendomi fino alla sedia vicino al
letto. Si
piegò sulle ginocchia e mi baciò la fonte,
sistemandomi i capelli scompigliati
dietro le orecchie. «Torno fra mezz’ora»
sussurrò.
Annuii, e lo lasciai andare con un
bacio.
Sospirai, osservando la figura
davanti ai miei occhi.
Misi le mani in grembo, cercando di trovare la forza per affrontare
quello che
stava venendo. Tremante, mi allungai fino a toccare le increspature di
quella
mano che, pallida e fredda, giaceva sul copriletto. Sentii un brivido
quando la
presi fra le mie.
Lente le sue palpebre si aprirono,
scoprendo i suoi
occhi cerulei. «Isabella».
Il sapore bagnato e salato sulle
mie labbra aumentò
d’intensità. Annuii, veloce. «Sono
qui».
Sospirò, e le linee
irregolari delle sue labbra si
piagarono in una smorfia che doveva somigliare a un sorriso.
«Mi dispiace che
tu debba essere qui» la sua voce era così debole
che a stento distinguevo le
parole «ma sono contento che… tu ci sia».
Mi affrettai a placare i singhiozzi
per poter parlare
chiaramente. «Non la lascerò, glielo prometto.
Resterò qui, tutto il tempo che
vuole».
«Tutto il tempo che mi
rimane» affermò, un sorriso
ironico disegnato sul volto.
«La prego, non dica
così» affermai, querula. La mia
mente non si era ancora rassegnata. «La prego, la prego, deve
trovare la forza
di vivere. Tutto quello che vuole». Ricordai quella sera, la
festa della
bambina, e i suoi desideri nascosti. Strinsi più forte la
sua mano fra le mie,
e la portai al mio viso, ne baciai il palmo, la strinsi fra le mie e la
posai
sulla pancia. «La prego».
Abbandonò le palpebre e
prese un lungo respiro.
«Grazie, Isabella. Grazie di quest’ultimo regalo.
Un povero vecchio non avrebbe
potuto chiedere di meglio».
«No»
singhiozzai, e mi abbandonai col capo sul
copriletto, sopraffatta dal pianto, sussurrando e biascicando, fra i
singhiozzi, quel monosillabo. L’avevo sempre saputo che prima
o poi sarebbe
arrivato un giorno simile. Ma in quell’istante non riuscivo
proprio, malgrado
ci provassi, ad accettarlo. Perché, avevo pensato, prima di
vederlo morire
l’avrei visto ricongiunto con sua figlia. Perché
avrebbe così avuto la sua
ultima gioia, e il sonno della morte sarebbe stato meno duro, se
quell’affetto
così caro gli avesse tenuto la mano mentre esalava il suo
ultimo respiro.
Sollevai la testa, di scatto,
spaventata, quando
sentii forti accessi di tosse scuoterlo nel profondo.
Feci per chiamare aiuto, ma
l’attacco sembrò cessare
così com’era arrivato, mentre il suo palmo si
posava sulla mia bocca aperta,
impedendomi le parole.
«Isabella,
ascoltami» mormorò, e mi affannai ad
avvicinarmi, per non perdere nessuna di quelle che, con terrore,
pensavo
potessero essere le sue ultime parole. «Ti prego una sola
cosa. Sii felice.
Metti al mondo la tua bambina, costruisci la tua famiglia, e
preservala… per
sempre… per…» affannò. Gli
posai una mano sulla fronte, sembrava così freddo.
«per l’eternità».
Venni folgorata. Improvvisamente, i
miei occhi umidi
si strinsero, facendo traboccare altre lacrime. Le spazzai velocemente
con il
dorso della mano, animata da una nuova speranza. «la prego,
mi ascolti. Noi,
noi possiamo trasformala. Darle l’eternità.
Potrà trovare sua figlia e vivere
per sempre con lei! Si, si, perché non ci ho pensato
prima!» esclamai tremante,
portandomi le dita sulle labbra per nascondere quello che stava
fiorendo come
un sorriso.
«No, Isabella»
disse, e il suo tono fu così fermo,
malgrado la sua debolezza, da farmi raggelare.
«Perché no?
Perché? Non vuole rivedere sua figlia? Non
vuole sopravvivere?».
«Isabella,
Isabella» mi richiamò, e il suo sforzo su
così grande che pensai non ce l’avrebbe fatta a
continuare. «Quello è il tuo
destino. Vivi Isabella, promettimi di farlo. Non posso vivere
un’eternità, e
rischiare di rimanere per sempre isolato dai miei affetti
più cari. Comprendimi
Isabella, te ne prego. So che hai un cuore grande e riuscirai a
farlo…».
Il tempo fu distorto, e il passare
delle ore lento e
asfissiante.
Edward mi accarezzò i
capelli, tenendomi stretta in
braccio, seduti entrambi su quella sedia vicina al capezzale. Mi
accarezzò la
pancia, cullandomi.
I miei occhi erano rossi e gonfi,
immobili. Nella mia
mente il tempo si era fermato.
Mi baciò la mascella e
la guancia, risalendo con il
fiato fino all’orecchio. «Stai bene?»
sussurrò piano.
Socchiusi le palpebre e sospirai,
voltandomi per
baciargli la bocca. Avevo un estremo bisogno di sentire il mio amore
vicino a
me, e gli succhiavo la forza delle labbra, sperando mi bastasse per
andare
avanti.
Carlisle ci interruppe gentilmente,
fissando prima Edward
e poi me. Mio marito annuì.
«Bella» fece
mio suocero, piagandosi in avanti e
posando una mano sulla mia guancia umida e fredda. Chissà
quante volte,
pesai frastornata, ha dovuto fare quello che sta facendo ora.
Dopotutto
era medico da oltre due secoli, e dare brutte notizie, avere tatto,
delicatezza, e la giusta partecipazione, faceva parte del suo lavoro e
della
sua moralità. «Mi dispiace… manca
poco».
Tremai, fra le braccia di Edward.
Lui mi strinse più
forte, spaventato, accarezzandomi il grembo. Poche ore prima tutto
andava bene,
e mio marito contemplava il mio pancione per il puro piacere di farlo,
felice,
libero, contento.
Un lamento si levò dal
professore. Mi preoccupai,
sobbalzando fra le braccia di Edward.
I suoi occhi cerulei vagarono senza
meta per la
stanza, prima di fissarsi nei miei. «Oh, sei qui»
sussurrò «sei qui, sei qui,
finalmente».
Mi sollevai, lasciandomi cadere
sulla ginocchia, la
mano stretta alla sua, sempre più fredda. «Si, si,
sono qui» biascicai
velocemente «non me ne sono mai andata… Sono
qui…».
I suoi occhi luccicarono, e le
labbra si tesero, prima
che pronunciasse la frase che mi fece gelare il cuore. «Kate…
sei
tornata…».
M’irrigidii, sgomenta, e
subito Edward venne da me,
stringendomi la spalla.
«Kate, Kate, figlia
mia… Ti ho ritrovata…».
Edward provò a
sollevarmi da terra, ma mi volsi veloce
verso di lui, le lacrime agli occhi, scuotendo il capo, piano. I miei
occhi
ritornarono su Philip, sul suo viso fiducioso, sui suoi occhi pieni
d’amore.
Le labbra mi tremarono.
«Si… Sono qui». Singhiozzai.
«Ti voglio bene… padre»
biascicai, piangendo, disperata.
Le sue membra si rilassarono sul
letto. Prese la mia
mano e la portò al suo petto, sul cuore. Per quanto le sue
mani fossero fredde,
il suo corpo era incredibilmente e innaturalmente caldo. «Ti
amo, figlia mia»,
tossì, e odiai quegli accessi, che osteggiavano persino
l’ultimo soffio di vita
«la morte è meno dolorosa, con te
accanto».
Tremante, prese la mia mano fra le
sue. Se la portò
alle labbra e la baciò, con l’ultimo sospiro della
sua vita. Poi, silenzioso,
spirò, mentre le dita abbandonavano la presa sulla mia mano.
Le mie urla, il mio piato
disperato, riusuonarono per
la casa, per tutta la notte. Sentivo voci, volti, ma non riuscivo a
concentrarmi su niente. Non fui in me per diverso tempo, e quando
riacquisii il
minimo controllo, mi sentii estremamente spossata.
Quando mi svegliai,
l’indomani, dei raggi chiari mi
ferivano il viso, poggiato, con le guance bagnate, su quello che
immediatamente
riconobbi come il petto di mio marito.
Sollevai gli occhi, tristi, gonfi,
sul suo viso.
Era stato con me tutto il giorno
precedente. Una
condizione necessaria per me, che altrimenti non sarei mai riuscita ad
affrontare nulla. Mi era stato semplicemente, amorevolmente, accanto.
Come solo
lui avrebbe potuto fare.
Lo vedevo, il tormento che
l’attanagliava. Riuscivo a
riconoscerlo. Nei suoi occhi chiari, i suoi amorevoli lineamenti,
vedevo la sua
sofferenza. Aveva paura, una folle paura, che la mia instabile
emotività
potesse essere scossa ancora. Potevo farlo soffrire in quel modo?
Mi obbligai a fare un cenno di
quello che doveva
essere un sorriso, e la sua espressione si fece ancor più
angosciata.
Pensava ora che non ricordassi
nulla? O che stessi per
scoppiare ancora a piangere?
Portai una mano al suo viso, e una
al pancione.
Sbattei le palpebre, e non mi obbligai più a muovere in
qualsivoglia innaturale
modo i muscoli facciali. E così, la vita di Philip aveva
avuto la sua fine. La
mia testa, intorpidita da quello che doveva essere stato un lunghissimo
pianto,
riuscì a comprenderlo.
«Dovresti dire ad Alice
di procurarmi un abito nero,
per piacere» dissi, atona, malgrado la voce grattasse contro
la gola secca. «I
funerali saranno domani? Oppure dovremmo aspettare?»
biascicai senza forze,
dirigendo il mio sguardo nel suo.
Tentennò, ponderando le
mie parole e la mia reazione.
«Carlisle si è occupato della documentazione, non
sarà necessaria un’autopsia» fece,
cauto. «Esme sta organizzando il resto. Pensava ad una
piccola cerimonia a
Sequim… cosa ne pensi?» chiese con discrezione.
Stava vagliando la mia
reazione, aspettandosi qualsiasi cosa da un momento
all’altro.
Ma io sapevo cosa fare, me
l’aveva chiesto lui.
Era giusto che avessi la mia vita con Edward e con la bambina. Per
Edward, per
la bambina, e per me. Vedevo la strada davanti a
me. Dovevo solo
sbarazzarmi di quelle ortiche che mi tenevano ancora ancorata, prima di
percorrerla.
Senza fretta, senza ferocia.
Lasciando il tempo al
dolore di fare il suo corso.
«Sono convinta che Esme
sappia cosa fare. E…»
deglutii, massaggiandomi le tempie «Non conosco nessuno fra i
suoi parenti, ma
sono convinta che alcuni suoi alunni vorrebbero
presenziare…» mormorai.
«Certo, va
bene» acconsentì immediatamente
«provvederà
a tutto, vedrai» fece accorato, stringendomi fra le braccia,
ansioso e
desideroso di rassicurarmi.
Gli accarezzai i capelli, gli
baciai la scapola. «Va
tutto bene… Edward» mormorai infine.
Si staccò da me per
guardarmi negli occhi.
«So quello che
è accaduto. Lo aspettavo da tanto. Ma…
ma io ho te. E ho nostra figlia, qui, in grembo, che cresce e scalcia,
e mi fa
sentire la sua forza e la sua vita. E, malgrado tutto, Philip
è morto… con sua figlia
accanto. Va tutto bene. Riuscirò a guardare avanti a questo,
e lo supererò,
riprendendo le redini della mia vita, come è giusto che sia.
E dobbiamo farlo,
perché dobbiamo affrontare ancora tutto quello che ci
attende, e… non sarà il
più roseo dei futuri».
L’oro dei suoi occhi
scintillò fino ai miei.
«Solo, Amore»
sussurrai, mentre la gola si stringeva
«adesso, devi ricordarmi come si fa a respirare».
Portai la sua mano sulla
pelle scoperta del mio collo. «Ricordami come si fa a
respirare, perché,
davvero, non ci riesco…».
Mi strinse velocemente fra le
braccia, forte,
cullandomi. «Non lo ricordo più nemmeno
io…» mormorò «ma…
possiamo provare
insieme» disse, e mi baciò, soffiandomi aria nei
polmoni e concedendomi di fare
lo stesso.
Rimasi ad osservare il bosco, sulla
soglia di casa.
Gli altri stavano sistemando tutto per la partenza, e entro poche ore
sarebbe
arrivata un’ambulanza. Non avere più un motivo per
restare mi faceva avvertire
un indicibile senso di vuoto.
Il cielo era coperto da un manto
leggero di nubi.
Guardavo gli alberi, e pensavo che il giorno prima c’ero
stata io fra quegli
alberi, rischiando di perdere la vita e quanto di più caro
avevo avuto al
mondo. Pensai che il giorno prima fra quegli alberi c’era
stato anche il
professor Philip. Dov’era finita, ora, la sua essenza?
A testa alta sfidai
l’orizzonte nascosto. Incredibile
come la mia immensa felicità potesse essere mutata
così, nel giro di poche ore.
«Hai sbagliato»
dissi, con voce ferma. «Hai lasciato
che il dolore ti consumasse. Ti sei fermata a rimpiangere il passato.
Hai fatto
l’errore più grande che potessi commettere. Hai
affogato l’affetto, e l’amore,
sotto un mare di paura». I miei occhi ondeggiarono fra le
foglie. «Hai
sbagliato, Kate. E ormai non importa più
nulla, perché più nulla potrà
cambiare. Hai perso la tua occasione, per colpa della tua sciocca
paura».
Voltai le spalle la bosco, stringendomi nel giaccone e salendo le
scale. «Addio
per sempre, Kate».
Mio marito mi accolse
sull’uscio, baciandomi le
palpebre.
I miei occhi rossi e mesti
ricambiavano il mio sguardo
sulla specchiera.
«Edward»
sussurrai, sentendo la gola stringersi.
Sapevo che quello che stavo per dirgli non gli sarebbe affatto
piaciuto, almeno
quanto non piaceva a me, ma speravo che mi comprendesse. Avevo preso la
mia amara
decisione quella stessa notte, passata a piangere silenziosamente fra
le
lenzuola.
Mi fece voltare, piegandosi sulle
ginocchia per
arrivare alla mia stessa altezza col viso. Si fidava di me, e mi amava.
Avrebbe
accattato di tutto.
«Non possiamo
permetterci» mormorai, e sentii già la
gola stringersi. Presi un respiro, schiarendomi la gola,
perché altrimenti non
sarei mai riuscita a continuare, a dire quello che mai una madre
dovrebbe dire.
«Dobbiamo proteggere nostra figlia» dissi, la voce
incrinata.
Le sue sopracciglia si alzarono, e
la sua mano corse
al mio pancione, sul vestito nero. «Bella, amore mio, noi
faremo…».
Scossi il capo, lentamente, e la
nausea mi pervase per
quello che stavo per dire. «Dopo il parto»
farfugliai «dobbiamo…» presi un
respiro, ma, malgrado tutto, un singhiozzo sfuggì dalle mie
labbra, «dobbiamo
nasconderla Edward… dobbiamo… allontanarla
da noi» piansi.
Non contai le lacrime, che pur
scorsero, libere e
abbondanti, sulle mie guance. Quale modo migliore per sbarazzarsi del
dolore,
se non l’oblio dei sensi? Non potevo essere più
dilaniata di così. Neppure
quando Edward mi aveva lasciata, avevo provato tanto dolore. Neppure in
seguito
al mio primo incontro ravvicinato con Jacob. Era troppo, troppo.
Rimasi così tanto tempo
a fissare il continuo scorrere
del paesaggio davanti a me, che credetti davvero che nella mia testa il
tempo
potesse essersi fermato sotto il velo dei miei occhi gonfi. I cadenzati
raggi
di luce filtrati dai vetri oscurati, la mano di Edward che accarezzava
il
velluto nero sulla mia pancia, il dondolio dei nastrini di raso nero
fra i miei
capelli, i sospiri di Esme, le rassicurazioni sussurrate da Carlisle.
«É
lì fuori» mormorai, rompendo
l’immobilità generale.
La mia voce era adatta al luogo in cui ci stavamo dirigendo. Ruotai il
capo,
molto lentamente, in direzione di mio marito. I suoi occhi mi
squadravano
attenti e preoccupati.
La decisione, io, l’avevo
già presa. Edward aveva
detto di no, che l’avremmo sconfitto, che ci saremmo
riusciti. Ma io, per
quanto potesse per me essere terrificante l’idea di
strapparmi dal seno mia
figlia, sapevo ciò che dovevo fare, per lei. Mi sarei
lacerata l’anima
piuttosto che vederla morta.
«Hai paura?»
chiesi, nuovamente senza alcuna
inflessione nella voce.
Portò una mano sulla mia
guancia, sotto la nuca,
accarezzandomi i capelli. «Non devi temere nulla. Non ti
farà del male, né a te
né alla bambina, sta tranquilla. Abbiamo la situazione sotto
controllo» si
affrettò a rassicurarmi. «Non ci sarà
bisogno di fare nulla, vedrai…».
«No» mormorai,
e presi un respiro, cercando di
schiarire la mente annebbiata. «Non è quello che
ti ho chiesto». Lo fissai
nuovamente ed insistentemente. «Hai paura?».
Le sue palpebre si socchiusero.
«Bella…».
Mi lasciai andare sul suo petto.
«La nostra vita era
stupenda due giorni fa. Ma la felicità non dura mai
così a lungo. Sapevo che
dovevamo attenderci tutto questo… Ma… non
possiamo permettere alla paura di
fare questo. Dobbiamo prendere la decisione
migliore…». Il mio lento lamento
era venuto fuori impastato, tra le mie labbra. Tutta la mia
meravigliosa vita
mi stava crollando addosso, inghiottita dal buio. Tutto quello che
avevo sempre
creduto passato non stava che aspettando per farmi più male
possibile.
Edward mi strinse forte al suo
petto, baciandomi con
foga le labbra tumide. «Non dobbiamo consentire alla paura di
rovinare la
nostra vita…» mormorò, ripentendo le
stesse parole che solo il giorno prima
avevo urlato al vento. «E non consentiremo al
coraggio di fare lo stesso».
Il verde smeraldo riprendeva il
motivo di un prato
inglese, e pensavo davvero, stupendomi di quel mio pensiero assurdo
nella mente
annebbiata, che sarei potuta essere a Londra, visto come la pioggia
cadeva giù
dal cielo.
Quando arrivammo al grande spiazzo
verde, circondato
dagli alti aghifoglie, la funzione aveva già avuto inizio.
C’era un piccolo
gruppetto di ragazzi, professori, e conoscenti forse. Non era da
considerarsi
una folla, ma avrebbero fatto onore alla memoria
dell’eccentrico professore.
Al suo pensiero e alla vista di
quel legno scuro
dov’era celato il suo corpo, non potei impedire alle lacrime
di trovare il loro
percorso sulle mie guance.
Edward strinse un braccio al mio
busto, sorreggendo
l’ombrello, tanto grande da coprirci entrambi, con
l’altra mano. Non riuscivo
bene a focalizzare tutti i dettagli attorno a me, ero così
confusa. A malapena
riuscii ad accorgermi dell’uomo che mi cedeva il posto sulla
sedia di legno.
Rimasi tutto il tempo a piangere,
credendo che solo
quello avrei potuto fare in quel momento. E se solo pensavo al fatto
che non
avrei più rivisto quel paio di occhi cerulei, o che
l’orrore ci aspettava, lì,
da qualche parte, o il futuro che incombeva su di noi, i miei
singhiozzi si
facevano più fitti e forti.
Mio marito si abbassò
sui talloni, guardandomi negli
occhi. Riuscii ad accorgermi che la funzione era al termine, ormai, e
che tutti
stavano dando l’ultimo commiato, intrattenendosi con i
reciproci ricordi.
«Vuoi andare?»
mi chiese con gentilezza.
Mi guardai attorno, frastornata, e
mi diede tutto il
tempo di ritornare coi pensieri al presente. Mi asciugai gli occhi con
il
fazzoletto che mi trovavo fra le mani e annuii, sollevandomi. Insieme
alle
lacrime, speravo di lasciare su quell’erba verde anche quella
paura che avevo
rimproverato a Kate, ma sapevo perfettamente provare io stessa.
Davvero sarei stata capace da
spingermi così oltre,
tanto da sacrificare il mio amore, parte della mia anima, di me stessa,
per
salvare mia figlia?
Cominciai a contare le settimane
che mi sarebbero
rimaste fino al parto…
«Stiamo andando a
casa?» chiesi tremante, camminando
sul prato bagnato.
«Si, amore. Puoi fare un
bagno caldo e riposarti un
po’, se vuoi…» mi rassicurò
Edward, sorridendomi appena.
Sospirai, e i miei occhi spenti si
dispersero nel
vuoto. «Si… Credo che dormirò un
po’» farfugliai.
Mio marito mi sorrise ancora,
baciandomi le guance e
le labbra, cercando di comunicarmi tutto l’affetto possibile.
Anche gli altri stavano venendo
via, verso il
marciapiede. Carlisle e Esme si sarebbero fermati per concludere le
formalità.
Edward si voltò, sempre attento a tenere
l’ombrello sopra di noi, aprendo con
l’altra mano l’auto, le cui luci lampeggiarono per
un istante,
contemporaneamente.
Sbattei le palpebre, cacciando un
respiro fra i denti.
«Edward» mormorai, e immediatamente si
voltò verso di me, preoccupato. «Non…
mi
sento bene…» farfugliai, prima di crollare su me
stessa.
Lasciò andare
l’ombrello, afferrandomi con entrambe le
mani. «Bella!» gridò allarmato, vedendo
le forze abbandonarmi completamente.
E un corvo gracchiò,
nella mia testa.
Mi
dispiace per il ritardo, e mi dispiace perché quasi
certamente questo non è
quello che molte di voi si aspettavano.
Ma questo
passa il convento…
Non
temete, e ricordate quello che ho scritto “lieto
fine”. Non troppo pazzo,
spero.
Confido
in illuminate e illuminanti riflessioni. Confido in voi. ;)
Nei
prossimi capitoli l’incomprensibile sarà capito.
Lo spero. Mi sto applicando
per rendere tutto comprensibile ^^
GRAZIE.
Siete state davvero meravigliose con me.
Sono
felice di aggiungervi su twitter, @Keska92, dove potrete conoscermi un
po’ e
trovare notizie su aggiornamenti e quant’altro.
Luna
Renesmee Lilian
CullenGiorgina
cara! Ciao. :) Ti ringrazio tantissimo, sono davvero
contenta che ti sia piaciuto! Era un capitolo importante,
l’avrai certamente
capito, ero preoccupata per l’esito che avrebbe potuto
avere… Vedrai, che un
modo mi inventerò per sconfiggere Jacob! Dopotutto ho
scritto “lieto fine”,
no?! Ogni promessa è debito. Sono davvero contenta che ti
piaccia la mia
Rosalie. Ovviamente non si può dire sia il mio personaggio
preferito (quel
posto è occupato da Carlisle), ma occupa un dignitoso posto
nella mia scala.
Per quanto riguarda il suo comportamento in BD, vedi, ti posso
rispondere solo
questo. Ogni scrittore scrive e pensa ritenendo che il personaggio si
comporti
in un determinato modo per dei motivi. Evidentemente, se non lo
specifica,
vuole lasciare al lettore la possibilità di immaginare
ciò che più gli aggrada.
Ma, se chiedessi a me se Rosalie si comporta così per
aiutare Bella o per avere
il bambino per se, nella mia opinione ti posso dire entrambe. Nessuno
è un
moralista e ha solo luce in sé, per quanto voglia.
Può magari anche rendersi
conto dei proprio sbagli, ma non riuscire o volere cambiare. Ecco
quello che
penso. :) Grazie di tutto tesoro. :*
bambolina9988Ciao!
Grazie infinite!
Sono davvero contenta di avere una nuova lettrice! Vedrai che ogni cosa
si
capirà. So che questi sono capitoli con un ritmo un
po’ pedante, però, vedrai,
ho intenzione di dedicare quelli che verranno esclusivamente alla
comprensione
di quello che è accaduto. :) Grazie ancora…
mazza Ahahah, si,
è vero tesoro, ogni
tanto ridacchio leggendo quello che mi scrivete. Ogni tanto il cuore
batte, un
po’ per agitazione e paura, un po’ per riconoscenza
e orgoglio. Ma mi sento
sempre molto, molto bene, in qualsiasi caso, leggendo le recensioni.
Grazie mia
carissima piccoletta gamma, di essere qui dopo ben 66 estenuanti
capitoli!
Ahahah… è vero, riparte la maratona di insulti al
cane, ma come avresti potuto
pensare che avrei potuto lasciarlo da parte, perdendo
l’intero obbiettivo della
mia fan fiction?! Ucciderlo una sola volta, evidentemente, non era
sufficiente!
Dovevo approfonditamente vendicarmi di tutte le libertà
concessegli dalla
Meyer. In realtà inizialmente non avevo in mente nulla di
quello che ho
scritto! Pensavo più che altro di mantenerlo come amico,
facendolo soffrire u.u
ma poi, tutto ha preso sta piega… Ehh… sempre
detto che devo sistemare i primi
capitoli! Prima o poi lo farò! ^^ A presto cara, e grazie,
infinite! :*
endifGrazie. Spero
davvero che possa esserti
piaciuto, per questo e per i capitoli a venire non trovare remore a
esprimere
quello che pensi. Il ritorno di Jacob, e la leggenda, sono sempre stati
i punti
fissi nella mia testa, più o meno da quando ho concepito
questa storia. É tutto
ciò che è passato in mezzo, i vari indizi e
intrecci, i dettagli, sono stati
aggiunti in seguito. Siccome le assurdità non sono finite, e
ovviamente, ancora
niente è concluso, tremo ancora come una fogliolina, ma
voglio davvero
conoscere i tuoi pensieri a riguardo, di qualsiasi genere. :) Grazie
davvero
per esserci sempre. :*
cloe
cullenCiao tesoro!
Non ti preoccupare,
figurati. So che questo è un periodo denso di esami! Pensa a
scrivere, che ci
mancano le tue storie. :) A presto :*
BiaaCiao!
Scommetto che te
le devo davvero queste ore di sonno! Non dev’essere affatto
semplice leggere
una storia di ben 66 capitoli in soli pochi giorni! Chapeau a te!
Grazie
infinite per tutti i complimenti. Il desiderio di intrecciare quanto
più
possibile una trama, e l’idea che una storia debba essere
zeppa di sorprese per
essere entusiasmante, beh, direi che sono i principali motivi che ho in
mente
mentre scrivo! Talmente tanto, forse, da tralasciare tutto il resto!
Beh, mi
diverto scrivendo, è già questo è
tanto importante. Poi è ovviamente
lusinghiero ricevere recensioni e commenti, e sapere di essere riusciti
ad
entusiasmare anche il lettore è quanto di meglio si possa
immaginare. Mi ha
fatto davvero tanto piacere ricevere la tua attenta e gentile
recensione.
Onorata di avere una compagna nella lotta anti-Jacob ;) Sangue?!
Più o meno…
Spero bene :S
giulia_cullen_96Eh,
altrimenti Renesmee
dove nasce?! Ahahahah, no, dai non ti preoccupare, che ci penso io a
farla
nascere la bimba, che NON si chiamerà Renesmee,
però… u.u Beh, “a volte
ritornano”, si dice così, non è vero?!
Ed è tornato anche Jacob, come è giusto
che sia. In effetti, la prima volta che l’avevo tolto di
mezzo, sembrava in
tutto e per tutto morto! XD Grazie per la recensione! A
presto…
StruppiAhahah,
si, ormai siete
tutti fissati a chiamare la bimba Lilla! Anzi, direi che
c’è un team Lilla, e
uno anti-Lilla! Chissà come andrà a finire, alla
fine confonderete anche me! Va
bene, questo è un maga casino, te lo concedo. Ma, pensaci.
Mega casino = mega
pace dopo, mica male, no?! Ecco, a presto con la mega pace! ^^ (Grazie
di
tutto, gentilissima! :*)
Lau_twilight Ciao,
e grazie tesoro! Sei sempre,
te l’avrò detto un miliardo di volte ormai,
gentilissima con me. É colpa del
fatto che ripenso quasi 24 ore su 24 a questa storia, se poi mi vengono
in
mente tutti questi intrecci fitti, fitti! Ho avuto molte volte paura di
perdermi e di non riuscire a organizzare tutte le storie e svilupparle
in
parallelo. Spero che quello che accadrà in seguito continui
a sembrarti ben
collegato, e non troppo assurdo o folle! Ti giuro che sto morendo di
paura! Ma
tutto è già scritto, è troppo tardi
per tirarsi indietro, purtroppo :S
manuelitasGrazie
infinite! Sono
contenta che “tutti i tasselli siano tornati
apposto”. Allora, per quanto
riguarda il professore, la questione è più
semplice, e verrà affrontata in
seguito nei capitoli, ma ti preannuncio già che è
stato per una questione di
riflessione “personale”, ecco. Per quanto riguarda
i licantropi, la cosa è più
controversa, ma pure verrà affrontata! Non ti resta che
aspettare un po’, il
tempo di farmi raccogliere le idee e inserirle nel capitolo ;) Grazie
ancora.
svampy1996Okay, grazie!
Dire che non ho notato il tuo entusiasmo sarebbe fin
troppo ironico! Sono davvero contenta che la mia storia ti piaccia! E
tutti i
punti esclamativi e le esclamazioni sono state molto lusinghiere,
direi… Grazie
^^
silvia16595Silvietta
mia! Eh… qui, direi che le cose non stanno andando
precisamente come sperato.
Ma non disperare, c’è ancora un po’ di
tempo per aggiustare il tiro, no?! Il
professore è un personaggio dinamico. Credo che anche questo
capitolo non ti
abbia lasciato a bocca asciutta nei suoi riguardi! Dimmi cosa ne pensi.
Grazie
cara, grazie per le tue bellissime parole. :*
ale03Grazie!!! Mi
dispiace tantissimo di
averti shockata! Però, suvvia, cos’è la
vita senza un po’ d’emozione?!
Bisognerebbe dirlo a Bella e Edward, che, poveretti, si ritrovano in
queste
condizioni. Il personaggio del professore mi ha dato davvero tantissimo
spazio
per esprimermi, e credo che anche tu avrai la possibilità di
offrirmi un nuovo
giudizio dopo questo capitolo! Comunque, non disperare,
perchè Lieto fine
rimane sempre scritto lì. Sono io che mi sto disperando,
perché questi capitoli
sono davvero super pazzi, e ho paura di quello che sto scrivendo, in
tutta
sincerità! :S Speriamo bene… Grazie per tutto!
NoemixChi
è questa figura nera?! O.o Non
comprendo l’allusione!!! O.o Chissà… Mi
spiegherai… Comunque, ti sembra modo di
iniziare una recensione! Prima mi chiami “cuore” e
poi mi dici che mi ammazzi!
Mi fai prendere un coccolone! Cielo! I miei nervi fragili! =.=
comunque, non è
mica colpa della bimba, anzi. Lei non c’entra proprio
niente… povera, non sono
che le è toccato quel cane con l’imprinting, pure
le offese u.u :P Bacio cara.
:*
FUNNiAdulatrice!
*.*
*diventa tutta rossa e si nasconde il viso* Cielo! Di questo passo il
mio ego
non sarà rintracciabile nei confini terrestri! Quando scrivo
i dettagli non mi
sembrano davvero mai abbastanza. Ho l’idea nella mente di
dover evocare
un’immagine o una sensazione vivida nella mente del lettore.
Questa è una cosa
di cui non posso fare a meno! Per quanto riguarda Jacob, hai
perfettamente
ragione, ucciderlo per ben 2 volte, è molto più
soddisfacente. Insomma… Non si
erano vendicati abbastanza, vero?! Però, però,
c’è sempre l’altra faccia della
medaglia, e direi che non è che Bella e Edward se la stiano
cavando proprio
benissimo, ecco… Spero non ti manchi la fiducia in me, e
nelle parole “lieto
fine”. ;) Grazie ancora, a parte scherzi, sei stata stupenda.
Grazie davvero.
GiovaneStella*^*
Paura! :S Ti ho
deluso?! Beh… diciamo che non avevo in mente proprio una
vera battaglia, solo
un piccolo scontro… ed evidentemente, i fatti non si sono
conclusi… Spero tu
abbia ancora un po’ di fiducia in questa testa pazza, e che i
prossimi
collegamenti, quelli si, non ti sembrino troppo azzardati. Nel
frattempo, non
posso far altro che ringraziarti. Grazie.
lisa76Ciao! No, no,
in effetti il
capitolo era molto complesso e poco comprensibile. Ho cercato di
semplificare
il discorso, inserendo anche in chiosa la leggenda, ma evidentemente
una cosa è
tenere i pensieri nella mia testa e un’altra esprimerli.
Dunque. Per quanto
riguarda la storia dei pensieri, è una cosa che si
vedrà in seguito, come anche
tanti piccoli dettagli. Jacob è scampato alla morte del suo
corpo
trasformandosi in spirito, staccandosene. Era perso e disorientato nel
mondo
degli spiriti. Ha ritrovato la strada per tornare, un punto fisso,
nella
bambina. In questo caso, un punto fisso da odiare. L’odio per
la piccola, per
Bella, per Edward, hanno condensato il suo Spirito in un corpo. Ecco,
spero di
essere stata più chiara… Se così non
fosse, dimmelo senza problemi. Scusa se non
lo sono stata nel testo…
RenEsmee_Carlie_CullenGrazie a te!!!
Si, si, non ti
preoccupare, e non ti fare shockare da questo capitolo! Il bene trionfa
sempre
sul male! Sono contenta che il mio collegamento folle ti sia piaciuto!
Grazie
infinite! ;)
Mapi
Ciao! Sei stata
davvero gentile, sono contenta che la mia storia ti piaccia. Non
ricordo
neppure il giorno in cui collegai gli indizi, è passato
così tanto tempo ormai!
Questa storia è stata una continua scoperta, e tanti pezzi,
per mia fortuna,
hanno deciso di incastrarsi da soli, non so come avrei potuto fare
altrimenti!
Lo so che questo capitolo è un po’
così… ma… abbi fede. “Lieto
fine” ;)
mikvampireGrazie,
grazie, grazie!
Mi sono sempre chiesta come avreste presto la notizia, pensando ci
potessero
essere dei sospetti in giro, o, al contrario, che nessuno temesse
nulla. Non
posso che essere contenta per come avete appreso la notizia, e spero
che questo
capitolo non peggiori ancora la tua ansia. A presto con il prossimo!
rodneyCerto, un
trasloco è sempre un bel
problema! Stare senza internet, poi… :S Non riuscirei
proprio a pensarci!
Comprendo le tue imprecazioni! Beh, in teoria lo scopo era quello di
sorprendervi, sono contenta di esserci riuscita. Penso proprio che tu
abbia
ragione, una delle cose peggiori di tutta la faccenda è
proprio il contatto che
la piccola ha avuto e sta avendo con quell’essere
assolutamente immondo! É
veramente una cosa orribile… ma non potevo scrivere di
meglio, ho cercato di
attenuare gli aspetti più negativi! Che ne dici di Philip in
questo capitolo?! Ehh…
Purtroppo, mai nulla è come sembra… ;) Grazie di
tutto.
Nessie93 No,
sacrificare Carlisle sarebbe
praticamente come l’amputazione di un arto per me, sta
tranquilla, non lo
sacrificherei mai e poi mai! Sono davvero contenta che tu non abbia
alcuna
intenzione di abbandonarmi! Beh, sapevo che sarebbe stata una
verità
sconvolgente, e speravo che vi avrebbe sconvolto in positivo. :) Grazie
mille,
sei stata gentilissima! A presto! :* Ps. Con Edward, tutto è
possibile! :D
_zafry_Oh, bene,
allora direi che su un
punto siamo più che d’accordo, perché
lo odio tantissimo anch’io! :P Vedrai,
presto: Vendetta. ;) Grazie! ;)
patu4ever
Grazieeee!
Grazie, grazie, mille! Mi rendo conto di star scrivendo capitoli
impegnativi,
che sia difficile starmi dietro in mezzo a tutte queste cose nuove (e
il
prossimo capitolo sarà ancora peggio), ma confidavo al
massimo nella vostra,
nella tua, capacità di analisi e lettura. É vero,
è un bel paradosso che la
bambina sia contemporaneamente la cosa più bella che possa
essere capitata ai
Cullen, ma anche fonte, anche se totalmente indiretta, di questa
disgrazia.
Sinceramente non ricordo neppure come mi sia venuto in mente di
collegare la
leggenda Quelites a tutto questo! Sarà stata una delle tante
volte in cui
rileggevo il libro pensando a Cullen’s Love…
(anche se in genere la parte delle
leggende la salto sempre, sai che noia! :P). Bene. Non posso che
aspettare un
altro tuo magnifico commento. Adoro la tua capacità di
analisi! *.* Ps. Non mi
minacciare, plissS! *.*
LudoCullen96bene! Prego,
per me puoi anche
entrare nella storia e farlo fuori. Sai, devo dire la
verità. Scrivendo questa
storia mi sono liberata di molto di quell’odio che avevo per
Jacob. Non so…
Magari è che la vendetta si è ormai
compiuta… magari è perché è
qualche mesetto
che non riprendo in mano Eclipse! Penso che ora che vedrò il
film comincerò a
ripensarla diversamente! Sono davvero contenta che ti sia piaciuto
quello che
ho scritto! *.* Avevo una paura matta, e ho spesso pensato di aver
scritto
assurdità! Ahahah, meglio così! Grazie! ;)
Ros_RosOh, si, grazie
mille! :P beh, non
ti preoccupare, non è solo perché hai il
“cervello scollegato” che non riesci a
dare risposta alle domande che mi hai posto. Diciamo che cono gli
“enigmi” a
cui ancora non ho dato risposta, ma che l’avranno molto
presto… In ogni caso,
direi che ho risolto la parte principale di tutta la
“matassa”, no?! Con la
comparsa di Jacob dovrebbero essere scomparsi (permettimi il gioco di
parole)
parecchi interrogativi davvero! Per quanto riguarda il professore, come
hai
potuto notare, si è affrettato a fare la sua parte, ma
purtroppo, non hanno
fatto i conti con la forza che pure ha questo nuovo jacob, e la
minaccia del
suo sangue! ^^ presto una soluzione a tutto, promesso! :)
congyCara!
(anch’io in questo capitolo
ci ho messo, non volendo, una semi-citazione di Foscolo - É
forse la morte men
dura..? - qualcosa del genere ahahahah). Si, hai indovinato, per una
volta!
Facciamo partire la fanfara! Che cosa succederà a Jacobino
caro?! Chissà.
Chissà, perché questo capitolo non promette nulla
di buono, vero?! Ehh… vedremo
cosa accadrà. Aspettati di tutto dalla mia testolina, da me
completamente
indipendente! u.u
ichigo15Ohh! No,
direi che potrei fare proprio di tutto, tranne offendermi, se mi dici
che
potrei trarne un libro. Magari, se non fosse una fan fiction ci
penserei sul
serio! Per ora però devo ancora migliorare e imparare tanto.
Forse, un giorno,
chissà… Potrei anche scrivere qualcosa di mio.
Grazie, un pensiero davvero
carino. :)
Sognatrice85Grazie!!! In
effetti, con Jacob non
era finita. Mi sono spesso chiesta cosa potesse immaginare chi leggeva
quello
che ho scritto. Se pensavate che Jacob sarebbe tornato, come, se era in
qualche
modo nei vostri pensieri, o se sarebbe stata una cosa del tutto
inaspettata!
Hai ragione, Bella ha sofferto e sta soffrendo moltissimo, anche ora.
Sono
davvero contenta che ti sia piaciuta la scena in cui si ritrovano, con
Edward
al limitare del bosco. É… Mi sono immaginata
questi sussurri nel silenzio e nel
terrore generale, ecco. :) Grazie ancora, una bellissima recensione.
blu_ice Ciao! Grazie
infinite! In effetti,
si, è una bella svolta! Che però stavo covando da
un bel po’ di tempo… Aspetta
e vedrai, cosa ho in serbo ancora! ^^
RoxisnotdiedOh! Grazie,
grazie mille! *.* Lo so che da questo capitolo sembra solo che le cose
stiano
andando peggio, ma, fiducia! Datemi un po’ di fiducia e tutto
si sistemerà, lo
prometto! Grazie infinite per la tua gentilezza!
DarkViolet92Oh bene! Sono
contenta che tu sia
riuscita a placare i tuoi istinti omicidi nei miei confronti! ^^
Allora,
domande legittimissime quelle che hai fatto, e ti prometto che molto
presto
avranno tutte quante una soluzione. :) Diciamo che sono gli ultimi
enigmi
ancora non risolti! Aspetta a vedrai, con la speranza che quello che
leggerai
ti piaccia!
rei__Ahahah, beh,
mi
spiace che non sia ancora morto. Ho detto “ancora”?
:P Ti giuro che non so
davvero io come ho fatto a collegare un’idea del genere, con
tutto quello che
viene prima e con quello che verrà. Moltissimi sono stati i
colpi di fortuna, i
lampi di genio estemporanei, e senza questi niente avrebbe avuto senso
o
veridicità. Sono davvero contenta che nonostante la
lunghezza ti sia risultato
scorrevole! Spero sia lo stesso con questo, che è di ben 9
pagine di word! ^^
Grazie mille per tutto, sei stata molto gentile. :)
KatyCullen:D Grazie
allora! Bene, sono
contenta che tutti i pezzettini, gli indizi, gli enigni irrisolti,
siano andati
al loro posto e abbiano avuto la loro soluzione. Come vedi, per ora, la
risoluzione del problema non c’è! Ma stai con gli
occhi aperti e aspettati di
tutto, mi raccomando! Grazie, grazie! :*
ledyangDavvero non
è servita la spirale?!
Sicura di no essere ancora sotto ipnosi?! Ahahahah Io non ci
giurerei… E non
sono sadica, suvvia, non hai ancora visto niente, rispetto a quello che
ho
intenzione di fare! Muahahah! Si! Ti voglio fare morire
d’infartoooo!
Muahahahah! A presto! É una minaccia!!! :P
DreamerchanCarissima!
Allora.
Premettendo che adoro le domande - che creatura è diventata
Jacob? É un umano
molto poco umano. Ha tutte le fattezze di un umano, testa, corpo,
braccia,
gambe. Però, ha la pelle nera, nera, è imponente,
massiccio, i muscoli turgidi
e gonfi, e, cosa più importante, è ricoperto di
cicatrici, bianche. Perché, il
suo sangue è bianco. Ci tengo a precisare che è
corporeo e non spirituale. Ecco
cos’è ^^ In effetti, la lotta
c’è stata, ma… direi che non
è stata quella la
soluzione… :P Grazie ;)
ANNALISACULLEN
Eheh, si, non ti fare
impressionare da questo capitolo, ti prego! Che già prima ti
vedevo piuttosto
aggressiva, non so cosa aspettarmi dopo questo, ammetto che mi sento
colpevole
^^ ma si, ricordati che ho scritto che sarà una storia a
lieto fine, e fidati
di me, che sono l’autrice - si fa per dire ahahahah - e tutto
si aggiusterà,
prima a o poi! :P
Luna
ViolaCarissima! Eh,
si, della serie “a
volte ritornano” e “chi non muore si
rivede”, sei ritornata non solo tu, ma
pure Jacob! Scherzi a parte, mi fa davvero piacere che tu abbia deciso
di
lasciarmi un’altra recensione! Grazie mille. Lo so,
anch’io soffrirò le pene
dell’inferno ora che questa storia finirà. Sto
già pensando a scrivere qualcosa
di diverso, ma i miei pensieri tornano sempre qua, con nuove idee che
però non
potranno vedere luce. Sono davvero contentissima che tu abbia potuto
apprezzare
il mio “colpo di scena”, con tutte le maiuscole,
come hai detto giustamente. É
vero, è orripilante! Mi hanno detto che sembra sbucato da un
film dell’orrore!
Ahahahah Ti ringrazio infinitamente per gli apprezzamenti ai
personaggi. Gli ho
sempre ritenuti il mio tallone d’Achille. In particolare,
grazie per quello che
hai detto del mio professore. É stato il mio primo
esperimento di personaggio
principale! Ma quelli della storie che hanno partecipato al concorso
erano
davvero caratterizzati benissimo. :)
patrizia
61Ciao!
Grazie infinite!
Si, si, il modo per liberarsi del “sacco di pulci”,
ovviamente, c’è, nella mia
testa ben custodito. Se non ci fosse non mi sarei mai permessa di
scrivere
nell’introduzione “lieto fine”. Tuttavia,
almeno ora, non è una soluzione
evidente, né scontata. Ma sarà la giusta
soluzione. :) Lo spero, almeno!
ste87Oh!
*.* Mi pare inutile
oppormi ai tuoi ringraziamenti, visto che continui a dispensarne!
(Potrei
farlo, ma sinceramente mi sento troppo lusingata). Sono davvero
contentissima
che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Era importante. :)
frafruAhahah,
si, ma direi
che è stato inevitabile come colpo di scena, e ti giuro, non
in reazione alla
tua richiesta, ma molto, molto premeditato! Ahahahah ;) beh, ci vuole
un po’ di
movimento, non è così? Anzi, ho trascinato indizi
e enigmi, come giustamente mi
facesti notare, anche per troppi capitoli. Era ora, finalmente di
conoscere la
verità, quale che essa sia, no?! :P Okay. Non mi ammazzare
nemmeno per questo
“colpo di scena”. La mia storia è poco
ortodossa, ho condotto il tutto in
maniera tale, ma, ricordati, “lieto fine” rimane
sempre. Quale che sia la
sempre poco ortodossa soluzione! :) Spero di tuo gradimento. A presto!
damaristichCiao e grazie!
Sono davvero
contenta di rivederti! Allora, rispondo con piacere alle tue domande.
Allora,
si è una specie di horcrux, senza l’oggetto, solo
per il fatto che l’anima
sopravvive e il corpo no. Jacob non è Taha Aki,
semplicemente costui era un suo
antenato, il suo capostipite, e aveva il potere di essere una spirito
guerriero. Ora. Il fatto che Taha Aki si diventato lupo, non vuol dire
che ha
penso la possibilità di diventare anche lui, a suo
piacimento, Spirito. Non
l’ha fatto solo per la pericolosità della cosa.
Oer quanto riguarda il
professore… :P beh, lui seguiva Jacob, perché
voleva ucciderlo. I dettagli li
conoscerai molto presto, e tutto ti sarà più
chiaro ;)
chi61Grazie
mille. Aspettavo la tua
recensione con ansia. Sono davvero molto contenta che tutti i tuoi
dubbi e le
tue perplessità siano stati chiariti. Riguardo al problema
dei licantropi, in particolare,
ho pensato che Edward non sarebbe riuscito a fidarsi di loro, non dopo
come si
erano comportati in seguito alla morte di Jacob. E il fatto che il
messaggio
che veicolavano e il modo in cui avevano intenzione di risolverlo,
sarebbero
potuti essere causa di un acceso incontro, ha bloccato i licantropi
dall’altro
lato. Ricordo perfettamente di aver scritto che la storia è
a lieto fine :)
manterrò la promessa, lo giuro. E spero di non essere ancora
più folle di
quanto io non sia stata ora nella soluzione del problema. Mi
raccomando, occhi
aperti, confido in te. Grazie per tutto. Grazie per la recensione. Non
esitare
a dirmi cosa non va.
Lizzie95Accidenti.
É una recensione davvero
bellissima. Ho sentito tutta la tua felicità, e carica,
e… è stato stupendo.
Sono davvero contenta che il capitolo possa esserti piaciuto
così tanto. Sono
davvero, davvero, davvero, commossa, per il fatto che la mia storia ti
piaccia
così tanto. Mi sono prefissata obbiettivi fuori dalla mia
portata, e adesso sto
tracciando i miei limiti, e ho tutta l’intenzione di
superarli. Mi diverte
tantissimo scrivere questa storia, e aspettare le vostre reazioni,
sperando che
siano proprio simili a quelle che io stessa ho provato, ideando i
capitolo e
fantasticando sui personaggi. Scrivere è divertente,
è emozionate, è anche
stancante a volte, e a volte diventa persino impegnativo,
però… per ricevere
recensioni come quella che mi hai lasciato tu, si, in questo caso penso
ne
valga proprio la pena. :) Che creatura orgogliosa sono, non
è così?! Me ne farò
una ragione… ;)
mony
cullenCiao!
Grazie mille!
Sono contenta che tu abbia deciso di lasciarmi una recensione! Il
problema
dell’imprinting verrà affrontato nel prossimo
capitolo. ma ti posso già
annunciare che non si tratta di qualcosa di perfettamente
convenzionale, ecco.
Non sussiste, nel mio caso, il problema che ti ponevi
nell’ottica della bimba
:) Spero che ogni tuo dubbio possa essere fugato molto presto!
titty88Ohh! O.o Mi
dispiace per averti
shockata! *.* Sono contenta che rileggendo la mia storia ( *.* ), ti
sia venuta
in mente l’idea che Jacob potesse essere non definitivamente
morto, diciamo… E
si, è proprio una brutta cosa che Jacob abbia avuto
l’imprinting con la
piccola… una cosa davvero obbrobriosa che la bambina debba
essere stata in
contatto con la mente di quell’orribile mostro. Non vi voglio
morte, lo giuro!
(anche se da questo capitolo non sembrerebbe), ma se voi moriste, chi
leggerebbe la mia storia?! u.u non si può…
AriRockAhahah!
Ho seminato
panico! Spero che la cioccolata non ti sia andata di traverso in questo
capitolo ahahahah Mi spiace che Philip non possa essere proprio la
soluzione
dei problemi. ^^ Grazie, grazie, per tutti i fantasticissimi
complimenti. Ho
sempre cercato di scrivere una storia che fosse in qualche modo
parallela a
quella della Meyer, e ho pensato che prendere spunto direttamente da
una sua
leggenda, potesse dare molta più veridicità anche
alla mia storia. So che hai
fame di SAPERE, fidati di me, non dovrai aspettare ancora molto. Tutti
i dettagli
verranno chiariti molto ma molto presto! Grazie, grazie, ancora.
Stupenda *.*
00Stella00Grazie!!! Beh,
si, avevo immaginato
che qualcuno avesse intuito il ritorno di Jacob ;) forse arrivare a
pensare a
qualcosa di così assurdo come la leggenda era davvero
troppo! Anche perché,
sinceramente, proprio non ricordo come possa essermi venuto in mente!
Non ho
fatto morire nessun Cullen (anche se l’intenzione
c’era, devo ammetterlo, ma
l’idea della folla inferocita proprio mi ha dissuasa), e per
ora, coma la
Triste Mietitrice, mi sono accontentata di prendermi l’anima
di Philip… E di
fare altri danni… Fiducia, comunque. Sono certa che vorrai
riporla in me
(sembra molto una supplica), anche in vista di quello che ho scritto
nell’introduzione della storia ---> Lieto Fine.
Ely_11*.*
Non mi dire così,
che divento un pomodornino peggio di Bella *.* Grazie! Sono
contentissima che
la mia storia ti piaccia, ancora più contenta che apprezzi
tanto il mio modo di
scrivere! É molto importante questo per me,
perché mi da le basi e la fiducia
per poter migliorare! Non si smette mai di imparare quando si scrive,
per noi
che siamo all’inizio a maggior ragione, vero?! Ci vuole solo
tanta pratica,
tanta lettura, tanto mettersi in gioco, non stancarsi mai di migliorare
e… mmm…
forse anche saper gettare la spugna quando e se viene il momento?
Chissà…
(speculazione personali - fine). Dunque. Non posso che essere felice
per il
fatto che a mia idea folle non sia troppo folle! Il nostro odio per
Jacob è una
buona base su cui fondare un’alleanza. Qua la mano. u.u
mineGrazie,
grazie, grazie! Tutti i tuoi
complimenti mi faranno impazzire! *.* Si, non ho mezze misure, in
effetti.
Credo, se vogliamo rivolgerci all’oroscopo, che dipenda dal
fatto che sono un
acquario. :P Sono cattiva, e sono stata molto, molto in questo
capitolo. Ma se
sono cattiva, è sia per soddisfare la mia indole romantica,
sia per dare un bel
po’ di movimento alla storia. Vorrei non averti shockato
ancora con questo
capitolo, con questa fine così… sospesa?! Vorrei
davvero avere una foto della
tua faccia durante la lettura! Chissà se è come
consegnare il tema di italiano
e vedere la faccia che fa la prof mentre lo corregge…
ahahahah Grazie ancora ;)
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstateGrazieee! *.*
Lo
scorso capitolo era fondamentale, quello su cui tutta la storia aveva
sempre
ruotato! Morivo e muoio tuttora di paura, perchè penso che
sia un’idea davvero
assurda! E non sarei mai riuscita a mettere tutto insieme senza un
pizzico di
fortuna. Tutto si sistemerà, mi pare superfluo dirlo, visto
che io stessa ho
scritto che sarebbe stata una storia a lieto fine. Come? Beh, non
aspettarti
nulla di troppo convenzionale. ;) E, vedrai che le cose che non ti sono
ancora
chiare le metterò in luce fra poco davvero, dammi un
po’ di tempo!
tamy79Wow!
Anch’io, team Edward forever! (non
so se si era capito, anche nel mio caso ;P). Sono
davvero contenta che la mia storia ti piaccia, grazie mille! Mi sono
messa in
testa di organizzare e scrivere tutte le idee che mi passavano per la
mente in
una forma che potesse essere accattivante, piena di dinamismo, e
strutturata.
Chi vuole leggere una storia che porta tanti fatti slegati, senza una
trama?
Non io, mi sono detta. Per questo mi sto impegnando per riuscire a
creare una
storia e una trama. Senza pretese, con il gusto di farlo. :)
WindCarissima :P
Beh, si, speravo che
qualcuno fosse tanto furbo da accorgersi che non avevo tolto
l’avviso! Volevo
scrivere una fan fiction anti-Jacob, e sono andata fino in fondo. Oh,
comunque,
sono contenta di non essermi ri-guadagnata il titolo di sadica, ma anzi
che tu
abbia apprezzato il “movimento”. Anche
perché, ne avremo ancora per un bel
po’…
:P A presto, e grazie.
prudence_78Ciao!
Sono davvero
onorata di ricevere i tuoi complimenti! Spero che questo capitolo non
abbia
contribuito al secondo mezzo infarto, non vorrei mai. :) Ovviamente, la
storia
sarà a lieto fine… Quindi ci vuole solo un
po’ di fiducia nell’autrice (sarei
io, anche se il titolo non mi compete appieno) e un po’ di
fortuna ;)
Sbattei le palpebre, cacciando un respiro fra i denti
Sbattei
le
palpebre, cacciando un respiro fra i denti.
«Edward» mormorai, e immediatamente
si voltò verso di me, preoccupato.
«Non… mi sento bene…»
farfugliai, prima di
crollare su me stessa.
Lasciò
andare l’ombrello, afferrandomi con entrambe le mani.
«Bella!» gridò allarmato,
vedendo le forze abbandonarmi completamente.
Per secoli e millenni gli uomini
hanno tentato di
comprendere cosa davvero sia l’uomo in grado di conoscere.
Gli ultimi di una
lunga serie sono empirismo, razionalismo, necessità del
mondo fenomenico,
idealismo, relativismo. Il punto, per l’uomo, è
sempre stato questo, in fondo.
Cosa ci è dato conoscere? Cosa, invece, è solo
illusione dei sensi, tanto
vivida da apparire reale?
«Bella, amore,
rispondimi, ti prego!».
Le sue mani mi scossero, e fui
certa, sopra ogni cosa,
che fossero proprio le sue. Su quello non mi sarei mai potuta
ingannare.
Ma sulla pioggia che
m’inondava il viso, appiccicando
fredda capelli e nastrini sulla fronte? E sul cielo chiaro, coperto da
nubi
sporche? Sulla voce della donna che urlò, allarmata
«Chiamate un medico!»,
o sullo spiazzo, verde smeraldo, che mi circondava?
Cosa potevo dire, su quello? Avevo
forse la certezza
che fossero reali?
Perché quando i miei
occhi furono costretti da
aprirsi, sotto il pungolo dei deboli colpetti sulla guancia, un diverso
fotogramma, per quanto simile, eppure reale e passato, mi apparve
davanti al
viso.
«Bella!» mi
chiamò qualcun altro, e per quanto distinsi
quella voce come quella di Carlisle, certamente, non potei fare a meno
di
sentirne l’eco sovrapposto.
Edward mi scostò i
capelli, che dovevano essere
bagnati, dal viso, chiamandomi a sé. Eppure, un istante
dopo, i miei capelli
non mi parvero affatto bagnati.
E la sua voce preoccupata mi
chiamava, insieme a
quella di Carlisle, e qualcuno mi tirava dei colpetti sul viso, come
pure
qualcun altro mi scuoteva.
Ma perché il cielo mi
parve molto più scuro, e
circondato da grandissime conifere? E perché abiti,
circostanze, suoni, persino
la stessa percezione sensoriale di me stessa, cambiarono?
«Che cos’ha,
Carlisle? Che cos’ha?» chiese Edward
angosciato, stringendomi più forte fra le braccia. I suoi
capelli bronzei
dovevano essere scuriti dalla pioggia, eppure, mi apparvero chiari e
scintillanti.
Scossi il capo, velocemente,
cercando di metter fine
alla confusione, padrona della mia mente.
E
sentii
un corvo, spaventato, gracchiare dal suo trespolo, su un albero.
E fu così, esattamente
come ci si risveglia da un sogno,
che capii dove mi trovassi e cosa stesse accadendo, distinguendo la
realtà
dall’immaginazione.
Gemetti, sentendo il corpo e la
pelle bruciare, il
respiro bloccarsi in gola e uscire come un affanno.
Edward mi scrutò,
ansioso. «Bella, amore, cos’hai?».
Alle mie orecchie giunse un altro
rantolo,
perfettamente speculare al mio, ma di un corpo che giaceva a metri di
distanza,
dal timbro cupo.
«Che cosa sta
succedendo?» gridò Edward, mentre lo
fissavo attonita, incapace di proferir parola.
«Isabella, mi senti? Non
risponde agli stimoli…»
constatò il professore, in piedi fra me
e la creatura, al centro dello
spiazzo che avevo creato con lo scudo della bambina.
Di
un
giorno la mia mente aveva viaggiato. Ma il tempo si era fermato in
quello
spiazzo, proprio lì, dove avevo scagliato lontano Jacob,
perdendo i sensi.
Insieme al consueto e immenso
dolore alla testa sentii
una fitta insostenibile al petto, e mi piegai in avanti, urlando. Il
medesimo
urlo provenne dal suo corpo.
Edward, attonito, mi
fissò, sofferente, voltandosi poi
a ringhiare verso Jacob.
«Perché,
perché sei tornato?!» urlò rabbioso.
Poche
volte l’avevo visto così…
così… così vampiro. Annaspai.
«Te ne sei andato,
prendendoti tutti quello che avevo! Hai distrutto,
nell’anima, il bene che
avevo più caro! E quando, finalmente»
girdò, tremando e stringendomi con più
forza «riesco a rimettere insieme ciò che avevi
ucciso, e la mia vita viene
premiata da un miracolo… tu decidi di strapparmela ancora
una volta via» urlò,
rabbioso e angosciato.
Annaspai, e per un attimo
allentò la mano sulla mia
schiena, come se volesse lasciarmi.
«Mai!»
ringhiò, cupo.
«No, Edward, sta
fermo!» lo fermò il professore, prima
che potesse finirlo. «Tieni tua moglie fra le braccia, e
proteggila. Siamo
nelle sue mani, adesso. La mia arma è
andata distrutta, e nessuno di voi
può ucciderlo. É lei, che lo
deve fare».
Annaspai, ricercando la sguardo del
mio amore. Mi
sentivo comprimere il fiato, e la mia fronte era madida di sudore.
Nella mia
testa c’erano mille aghi. Mi lamentai ancora, provando a
piegarmi su me stessa.
Le mani forti di Carlisle mi bloccarono, ma non avvenne lo stesso per
Jacob,
che si piegò, ringhiando.
I miei occhi erano appannati, e le
immagini ruotavano
asimmetricamente, ma riuscii a distinguere le figure di Emmett, Rosalie
e
Jasper, accanto al corpo di Jacob. Tutti gli altri erano vicini a me.
Muovevo la testa, per quanto mi
fosse possibile, e gli
occhi di Philip trovarono i miei, carichi di mal celata apprensione.
«I loro
spiriti sono entrati in contatto, prima, con l’uso dello
scudo. Stanno lottando
entrambi fra la vita e la morte. Uno dei due sopravvivrà,
Jacob o…».
Singhiozzai, dolorante.
La fronte di Edward si
appiattì. «La bambina».
Urlai, contorcendomi, quando il
peso al petto si
trasformò in dolore.
«Non solo Isabella sta
riproducendo quello che succede
alla piccola» fece Philip, accorato. «Sta lottando
anche lei».
Avrei voluto esprimere la
disperazione, l’angoscia per
la bambina, il terrore, per la mia e la sua vita, ma non ci riuscivo.
Perché il
dolore mi stava annientando.
«Bella, calmati. Stringi
i denti, siamo tutti qui» la
voce gentile e accorata di Alice mi raggiunse. Lei sapeva cosa stavo
passando.
Così simile a quello che aveva provato lei.
Mi lamentai, urlando, scuotendo la
testa, pervasa da
spasmi convulsi.
«Amore, amore, sta
tranquilla, sta calma…» Neppure la
voce di Edward riusciva in qualche modo a darmi sollievo.
Perché lottavo col
fiato per riuscire a respirare, perché un dolore acutissimo
mi stava
squarciando il petto.
«Il cuore!»
strillai, senza riuscire, per un
istante, a vedere nulla che non fosse rosso.
«…Fa qualcosa,
ti prego Carlisle, fa qualcosa…».
«…Non posso
fare niente, Edward, il suo cuore non ha
niente!».
Gridai ancora, con tutta la forza
che avevo nei
polmoni. Quando riaprii le palpebre, serrate per il dolore, vidi lo
sguardo
disperato di Edward.
Sentii la voce del professore, alle
sue spalle. «Non
credo potrai trovare qualcosa adesso! Bisogna solo aspettare, sperando
che
riesca a sopravvivere a…».
«No!»
gridò, e i suoi lineamenti s’indurirono
d’un
colpo. «Come pensa che possa aspettare e vedere mia figlia e
mia moglie morire
fra le mie braccia, mentre urla di dolore?»
ringhiò «se l’è dimenticato
cos’era
per lei?!» gridò, sofferente.
Il silenzio aleggiò
nello spiazzo, finché sia io che
Jacob non ci ritrovammo nuovamente a urlare, poco dopo esserci ripresi
dai
rantoli.
«Amore, sono qui, sono
qui» mi chiamò Edward,
stringendomi a sé e cullandomi convulsamente.
Avevo gli occhi spalancati, e il
respiro mi usciva
interrotto, come ansiti e rantoli. Mi sentivo così male che
non riuscivo a
trovare un modo per ragionare e vincere il terrore che mi attanagliava.
«Tienila stretta a te,
povero tesoro» sussurrò Esme,
sfilandomi le scarpe e i calzini e raffreddandomi le caviglie, fermando
il loro
movimento inconsulto.
«Perché non
ammazziamo il cane?» la voce tagliente di
Rosalie mi arrivò alle orecchie.
«Perché non
potete!» sputò Philip.
Sentii dei ringhi furiosi.
«Rosalie, calmati» le
intimò la voce di Emmett.
Disperata, provai a sollevare le
braccia, accarezzare
il viso di Edward, forse per l’ultima volta. Ma erano morte e
abbandonate
accanto al mio corpo, senza forze. Provai a sentire mia figlia, ma
qualcosa
bloccava ogni contatto con lei.
Lui lesse nei miei occhi la mia
disperazione e mi
prese una mano fra le sue, baciandola. Poi la portò alla mia
pancia,
stringendola con le sue dita.
Strinsi con tutta la mia forza la
mano sul pancione. «Edward…»
biascicai senza forze «mi sento
morire…». Le labbra mi tremavano, mentre
pronunciavo
le parole.
«No, no, shh, non ti
preoccupare» mormorò, continuando
disperatamente a cullarmi. «Ci sono io qui con te, non ti
lascio. E nemmeno tu
mi lasci, vedrai, ora passa tutto, ora troviamo un modo
per…».
Tremavo, fra le sua braccia,
animata da scosse simili
a piccole convulsioni.
«Ed…ward…» gemetti.
«Ti amo, Bella, ti
amo» sussurrò baciandomi le guance.
«Non mi lasciare amore! Ti supplico!».
«Si…»
farfugliai in un sospiro. «Si… ti
amo…»
singhiozzai, prima di stringere i denti e urlare per un dolore che mai
avrei
creduto poter provare.
Edward
Pensavo di aver visto di tutto,
ormai, nella mia lunga
esistenza. Ma ero un vampiro, e come tale non potevo pretendere che il
mondo
fosse tanto benevolo con me da non stupirmi ancora.
Bella, il viso pallido, le labbra
esangui aperte per
cacciare quell’ultimo urlo, si contorceva fra le mie braccia.
Fui pervaso dal terrore, mentre la
voce le moriva in
gola in un sibilo. Le sue palpebre spalancate si abbassarono
lentamente, la
bocca si chiuse.
Stavo perdendo i miei due amori
più grandi. Il filo
del mio destino si era incrinato spaventosamente, sotto il suono delle
urla di
dolore di mia moglie, più taglienti di qualsiasi dente di
vampiro. Stavo
perdendo la mia anima e me stesso.
Quasi la mia mente non
registrò i miei gesti
istintivi, mentre la scuotevo tentando di farla ritornare in
sé, di far passare
quel respiro intrappolato.
Le sue iridi spente mi fissavano
ancora, assenti,
morte. Ed era così che mi sentivo, morto.
Non respira.
Il pensiero mi raggelò.
Mi voltai terrorizzato verso mio
padre, che mi rispose
con un’occhiata seria, fredda. Mi fece posare quanto di
più prezioso avessi,
mia moglie e mia figlia, sul terriccio umido. Posò una mano
sul diaframma,
appena sopra il pancione.
Non respira.
Il tempo si fermò per
pochi millesimi di secondo. Mi
voltai, registrando mio malgrado in quei pochissimi frammenti di
istanti, tutti
gli infinitesimi dettagli degli alberi, della foglie, dei rami,
finché non fissai,
pieno di terrore e angoscia, il corpo informe alle mie spalle,
ponendomi la
domanda che mi stava risuonando in testa come un eco sorda: era vivo?
Non un suo pensiero proveniva da
lui. Non un pensiero
era mai provenuto da quella creatura che sentivo di odiare nel
più profondo
dell’anima, così intensamente da far male e
risvegliare tutta la mia natura più
crudele. I miei occhi si concentrarono sul suo torace, per captarne un
movimento. Il battito fangoso del cuore.
E tutto riaccelerò,
nello stesso lasso di tempo in cui
si era bloccato.
«Ahh…»
il debole gemito della mia Bella, insieme ad un
seppur minimo impulso proveniente dalla mente dalla piccola, mi fece
immediatamente voltare nella loro direzione.
Non c’era alcun battito,
in quella creatura. La lotta
era finita, la mia bambina aveva vinto.
«É tutto
finito» sussurrai, stentando io stesso a
credere alle mie parole. La mia bocca era vicino al suo orecchio, e mi
ricordai
di utilizzare un volume tale da essere udibile alle sue orecchie umane.
«É
tutto finito amore mio, è tutto
finito…» dissi, e non potei nascondere il
sorriso spontaneo che era sorto sulle mie labbra.
Fu come liberarsi da un peso
orribile. Essere arrivato
su un ciglio di un burrone, guardare il vuoto sotto i piedi, e
ritornare
indietro, al sicuro, ancora preda delle vertigini.
«Edward…»
mi chiamò debolmente, senza fiato «Lui…
lui
è…».
Fui sorpreso di sentire, nei
pensieri di Alice e
Jasper, che Philip si stava avvicinando alla creatura, intimando ai
vampiri di
non fare lo stesso. Trattenni il fiato, colpito dalla sua audacia. Si
abbassò,
posando due dita sulla carotide. «Morto».
Cacciai un seppur inutile sospiro
di sollievo. «É
finita Bella, è finita. É morto, per
sempre» la rassicurai, velocemente,
sentendo la mia voce ritornare melliflua e rassicurante, piena
d’emozione.
Le sue palpebre tremolarono.
«Per sempre…»
soffiò, prima che i suoi occhi si rovesciassero
all’indietro. Svenne fra le mie
braccia.
Carlisle fu rapido e risoluto.
«Jasper, Alice, Emmett.
Occupatevi di lui, ma fate attenzione. Rosalie, vieni con noi. Esme,
porta
Philip. Io vado con loro» mio padre osservò
attento Bella per alcuni istanti. «Portiamola
in casa, Edward».
Annuii, senza smettere di
osservarla, sollevandola fra
le mie braccia con delicatezza. Ricordavo la sua espressione felice,
risposta
della mia, euforica, che avevo quando correvo alla mia
velocità sovrumana.
Avevo un motivo in più per concedermi di essere, nel
più profondo, estatico. Il
suo corpo morbido e delicato, protezione di uno ancor più
piccolo e fragile,
fra le mie braccia.
«Mettila sul
letto» fece velocemente Carlisle,
sollevando le lenzuola, «bisogna toglierle i vestiti
e provare a farle
abbassare la temperatura».
L’adagiai con delicatezza
sul materasso, accompagnandole
la testa sul cuscino. Resisti solo un altro po’,
amore mio. Le sfilai i
pantaloni e la maglietta, rivelando il ventre gonfio. Le presi i polsi
fra le
mie mani. Le baciai la fronte bollente, attento a determinare una
temperatura. Quaranta
gradi, forse?
«Quaranta e due»
pensò più precisamente mio
padre, procedendo ad una rapida visita, aiutato da Rosalie.
Bella si agitava, calda, paonazza,
sotto le mie mani. Quando
mi ero reso conto di quello che stava accedendo, arrivato nello
spiazzo, era
anche subito stato chiaro come mi sarei dovuto comportare. Malgrado
tutto,
malgrado faticassi a fidarmi ancora di quell’uomo, sapevo che
avrei dovuto fare
come diceva Philip. Trattenerlo per dargli modo di ucciderlo.
Chi si sarebbe mai aspettato di
vedere proprio mia
figlia come nostra unica speranza, quando pensavo che la mia vita
sarebbe
andata persa insieme alla sua? Un attimo prima che Jacob compisse
l’empietà,
aveva usato il suo potere, stordendolo.
Eppure, simile angoscia provai
quando mia moglie cadde
senza forze in mezzo al prato. Ben maggiore, quando, pochi minuti dopo,
cominciò a urlare di dolore.
«Salvo la
temperatura alta non ha niente, la
bambina dovrebbe stare bene» rassicurò
tutti Carlisle, appena fuori dalla
stanza. Aveva un tono di voce abbastanza basso da non disturbare il
sonno di
Bella, abbastanza alto per farsi udire da ogni ascoltatore.
«Aspettiamo
che la febbre si abbassi…».
Mia moglie gemette, scuotendo il
capo. La mia mano si
stava riscaldando sulla sua fronte. Posai una guancia. «Esme,
potresti portare
un po’ di ghiaccio?» sussurrai velocemente.
Passò tutta la notte con
la febbre alta, senza
svegliarsi. Parlò molto nel sono, tra i deliri della febbre,
agitandosi fra le
lenzuola. Sentivo un peso al petto vedendola così, ma aveva
bisogno che mi
dedicassi a lei, adesso.
Mormorai un melodia, tentando di
rassicurarla, cambiando
il panno umido sulla sua fronte.
«Edward»
sussurrò.
Lasciai cadere la pezza nella
bacinella e mi voltai
verso di lei. I suoi occhi grandi, lucidi, mi fissavano smarriti.
Sorrisi, solo per il piacere di
rassicurarla. «Va
tutto bene Bella, è tutto finito» mormorai cauto.
Il suo respiro sussultò
nel suo petto, e provò a
sollevarsi, agitata. «Il professore,
dov’è Philip?! Cosa è successo?
Dov’è
Jacob, è fuggito?» sussultò,
spalancando gli occhi «la bambina» fece querula,
portandosi una mano al ventre. «La
bambina…» singhiozzò, accarezzandosi la
pancia.
La presi fra le braccia prima che
ricadesse fra i
cuscini, preoccupato dalla sua reazione. La strinsi a me, cullandola.
«Va tutto
bene amore, te lo giuro. Va tutto bene…».
Accompagnai con una mano la sua testa
sul mio petto.
Singhiozzò.
«Phi-Philip era morto e… Jacob era andato
via» disse, respirando a fatica «e…
e… la nostra bambina…» le sue parole
affogarono nel pianto.
Le presi il mento fra le mani,
provando a comprendere
le sue parole. «Amore, te lo giuro. Era solo un sogno, un
brutto sogno. É
passato…» dissi, e cercai di imprimere tutta la
mia dolcezza nella parole.
I suoi singhiozzi parvero scemare.
«Era un sogno»
bisbigliò, come se lo stesse ricordando, prendendone
coscienza.
«Hai la febbre alta,
deliravi. Non ti preoccupare, non
era reale…».
«No»
biascicò stanca. «Non l’ho sognato
adesso.
Prima…» sussurrò
«quando… ero nello spiazzo, dopo aver usato il
potere della
bambina. Ho visto… cose orribili…».
Mi stupii della sua memoria, e
malgrado la mia
curiosità mi stesse rodendo, per capire cosa, di preciso,
avesse visto, non
osai chiederlo, vedendo quanto la cosa la turbasse.
Prese fiato in modo ansioso, poi si
aggrappò alle mie
spalle, e mi spaventai, pensando che stesse avendo un’altra
crisi. Ma lei mi
strinse il collo, i capelli, sollevandosi quanto più
possibile e incollando
avidamente e febbrilmente le labbra alle mie.
«Ho visto la nostra vita
distruggesi Edward… Tutto
distruggesi…» singhiozzò, disperata.
La baciai ancora, preoccupato,
ansioso di consolarla. Lo
so, avrei voluto dirle, l’ho vista
anch’io. É stato atroce. Il
ritorno di Jacob. La minaccia agli affetti più cari. Tutti
ciò che avevo
gelosamente costruito e ricostruito, con i cocci che mi aveva lasciato
di mia
moglie…
Tentai di asciugarle le lacrime
sulle guance, e posai
una mano sul suo ventre gonfio, consapevole che se fossi riuscito a
rassicurare
la piccola avrei ottenuto lo stesso con lei. Ero terrorizzato
dall’idea che
quell’incontro potesse averla distrutta ancora. Non
l’averi sopportato, sarei
impazzito di dolore.
Singhiozzò, stringendosi
la pancia. «Giura che non
tornerà più» biascicò fra le
lacrime.
La fissai serio, addolorato,
prendendole il mento fra
le mani. «Te lo giuro. La… bambina. L’ha
allontanato per sempre…».
I suoi occhi si strinsero, per
l’angoscia e il dolore.
«É così piccola»
farfugliò. «Come può… povera
piccola… la nostra bambina… come
può Edward, come può?!»
mormorò disperata.
Sospirai, addolorato. Non sapevo
che risponderle.
Pensare che mia figlia fosse entrata in contatto con
quell’essere. Pensare che
fosse stata lei a… eliminarlo. Avevo paura, e pensavo alle
ripercussioni che
tutto questo avrebbe potuto avere su di lei. Come poteva una bambina
non ancora
nata aver vissuto questo orrore?
Accarezzai la guancia di mia
moglie, con dolcezza.
«Lei ha la sua mamma» le dissi, prendendo la sua
mano, e posandola sul suo
pancione. «E il suo papà» mormorai,
ripetendo le stesse parole che lei stessa
mi aveva detto il giorno precedente, quando tutto era perfetto.
Tremò, abbassando gli
occhi umidi. Era attonita,
spaventata. Non riusciva ancora a capacitarsi di quello che era
successo. Chi
poteva?
La strinsi fra le braccia,
baciandole i capelli. «Hai
paura?».
Le sue lacrime si fecero
più dense, i suoi respiri più
smorzati. Mi spaventai terribilmente. Cosa mai potevo averle detto? Non
feci in
tempo a capire, incollò nuovamente le labbra alle mie,
baciandomi. Non dissi
più nulla, la cullai e rassicurai finché non si
calmò.
«Preferisco
averne» mormorò a voce bassissima,
esausta, sul mio collo.
Non riuscii a chiederle il senso
delle sua parole, che
era già addormentata. In seguito, dissimulò
tutto, negando la sua risposta.
Preferii non insistere, per non turbarla ulteriormente, tuttavia non
potei fare
a meno di intuire che fosse qualcosa attinente a quello che aveva visto
nel suo
lungo e tormentato sogno.
Il professore le spiegò
quello che era successo.
Quando la bambina aveva usato il suo potere, aveva esteso la sua
essenza fino a
Jacob. E malgrado ora avesse un corpo, era quanto di più
simile ci fosse allo
spirito. Così, erano entrati in contatto, innescando una
lotta fra la vita e la
morte.
Era naturale, aveva detto, che la
bambina inviasse a
Bella sensazioni tali da farle vedere ciò che aveva visto. Cose
orribili.
Mi aveva chiesto, malgrado la
febbre non fosse ancora
passata, di portarla un po’ nel soggiorno per parlare con gli
altri. Voleva
sapere, far luce su quello che ancora, a tutti noi, appariva troppo
irreale, e
io non me la sentivo di farla rimanere troppo sola a rimuginare. Non
osavo neppure
immaginare quello che lo stress di quei giorni poteva aver portato
all’andamento
della gravidanza. Carlisle diceva che sembrava essere tutto apposto, ma
appena
tornati a casa, appena fosse stata meglio, avremmo fatto dei controlli,
sicuramente.
Bella sospirò, posando
la fronte sul mio petto in
cerca di sollievo. «É ancora tutto molto
assurdo» farfugliò. «Mi fa male la
testa».
«Tesoro,
forse…» cominciai preoccupato, ma
m’interruppe.
«No» si
lamentò. «Alice» mormorò,
indicando il
bicchiere d’acqua posato sul tavolino davanti al divano.
Più mani si tesero
contemporaneamente per passarglielo. Arrossì, prendendolo
dalle mani della
sorella. «Grazie».
Posai una mano sulla sua fronte e
sospirai, sentendola
ancora così calda. «Com’è
possibile?» sibilai amareggiato, una volume non
udibile dalle sue orecchie umane.
Carlisle mi lanciò
un’occhiata. «Edward, non è
stato facile per lei. Non sembra affatto che le cose che ha visto siano
state
piacevoli. Il corpo umano non è una macchina perfetta, dalle
tempo…».
«Quello che sta dicendo
Philip» fece Jasper, con tono
diffidente «potrebbe essere la causa della febbre?
Questo… “incontro fra gli
spiriti”?».
Tutti noi eravamo poco fiduciosi
nei confronti del
professore, dopo aver scoperto quello che ci aveva tenuto nascosto. Ed
ero
estremamente ed intimamente curioso di scoprire come
l’avrebbe presa Bella, che
ancora non aveva in alcun modo manifestato le sue inclinazioni in tal
senso.
Il professore restituì
l’occhiataccia. «Hanno tentato
vicendevolmente di annullarsi, e non solo sul piano psichico. Ciascuno
ha
scatenato ciò che più avrebbe potuto indebolire
l’altro. Il mostro» come
di consueto aveva preso a chiamarlo «l’ha fatto con
il calore, indirettamente
con il sogno di Bella. La bambina…
chissà… bisognerebbe
chiederglielo…» fece
sarcastico.
Bella tremò.
L’idea che nostra figlia e quell’essere
fossero entrati in contatto le piaceva quanto piaceva a me.
«E quando le
passerà?» chiese preoccupata Esme.
«Non lo so! ma chi volete
che sia, un indovino?!»
sbottò.
Ringhiai e prima che potessi dire
qualsiasi cosa,
lasciando mia moglie sola sul divano e facendole assistere ad uno
spettacolo
che certamente non le sarebbe piaciuto, intervenne Rosalie.
Si alzò dalla sua
poltrona, incedendo minacciosamente
verso di lui. «Senta, lei. Ci ha tenuto nascoste fin troppe
cose. Ora. Non mi
interessa per niente se alla fine di tutto questo dovrò
aggiungere un'altra
unità al numero di uomini che ho ucciso», fece,
puntandogli minacciosamente un
dito contro «ma adesso ci dice tutto quello che sa,
oppure…».
«Rosalie» la
richiamò Carlisle.
Prima che mi sorella potesse
riprendere la sua
arringa, la voce debole e fioca di mia moglie la interruppe.
«Perché non me
l’ha detto?» chiese, e pensai che la sua voce fosse
molto più delusa che
arrabbiata. «Pensavo di avere il diritto di
saperlo…».
Il professore la guardò,
scrutandola. M’irrigidì,
quando sentii nei suoi pensieri quanto temesse di aver perso la fiducia
di
Bella. «Perché non volevo che avessi una vita come
la mia. Persa alla ricerca
di qualcosa. Perché non avevo niente da perdere»
prese un respiro, e distolse
lo sguardo, amareggiato per essersi dovuto esporre così
tanto di fronte ai
vampiri. «E sareste morti tutti nel tentativo di ucciderlo, e
a te, Isabella,
non avrebbe fatto piacere».
«Perché dice
così?» incalzò Jasper,
«perché ci ha
detto che il suo sangue ci avrebbe ucciso?».
Il professore abbassò il
capo per un istante. «Cos’era
lui? Ci avete pensato? L’incarnazione della sua anima. Da
cos’era costituita la
sua anima, se non dall’odio per voi?!» la
sollevò in un cenno secco «l’ambrosia
di cui vi nutrite vi avrebbe portato la morte.
Semplice…».
Mia moglie tremò
leggermente fra le mie mani,
sforzandosi di non darlo a vedere. Gli occhi di Philip tornarono su di
lei. «Sarei
riuscito ad ucciderlo molto tempo fa, se…»,
tossì, «Se non fosse per questo».
«Mi deve dire come ha
fatto, allora» incalzò Bella,
decisa. Mi voltai a guardarla. I suoi occhi bruciavano di
determinazione.
«A fare cosa?»
chiese il professore, ma anche il suo
sguardo era fermo e serio.
Lei fece un cenno col capo.
«Il suo corpo. Prima.
Sembrava diverso. Sembrava guarito… Mi deve dire come ha
fatto».
Rimasi fermo, meravigliato, ad
osservarla. Se ne era
accorta anche lei? Era così evidente anche per degli occhi
umani?
No. Avevo sempre sostenuto che le
sua qualità e virtù andassero
oltre i confini umani.
Il professore batté le
palpebre, rilassandosi sullo
schienale. Sospirò, fissando sempre la mia Bella negli
occhi. Poi estrasse la
sua fiaschetta argentata per alcolici e la posò sul tavolino
fra di noi,
ritirandosi a sedere.
Bella ruppe la sua
immobilità, fissandola confusa.
«Cos’è?»
domandò Alice.
«Aprila»
m’invitò il professore con i suoi
pensieri. I pochi che mi concedeva udire.
La presi fra le dita, valutandone
immediatamente il
peso. Il liquido contenuto era molto poco, eppure doveva essere
più denso
dell’alcool o dell’acqua. Lanciai
un’occhiata breve e fugace a tutti vampiri in
attesa, per ultimo a mia moglie, che mi fissava attenta.
Svitai il tappo e la prima cosa di
cui mi accorsi fu
l’odore.
Così nuovo eppure
così familiare…
Ciao a
tutti! Sono stata breve, vero?
Forse per
farmi perdonare di avervi sì sconvolte. Mi spiace.
Sinceramente… no,
sinceramente no. Ma mi spiace ^^
Spero cha
sia stato tutto comprensibile e che non sia risultato troppo folle.
*paura*
Volevo
farvi dare un’occhiata a quello che sarebbe stato se anche
solo una cosa fosse
andata storta. Naturalmente, ciò che non è, ha
ripercussioni su ciò che è.
E,
naturalmente, non è finita qui. ^^
Cioè,
Jacob non tornerà più, ma non è finita
qui. Fidatevi stavolta. :P
Spero che
abbiate gradito la presenza di Edward. Questo capitolo è
stato diviso a metà
(nella mia mente era un unico), e la seconda parte
continuerà a chiarire
misteri.
Se
qualcosa non è chiara, dite pure.
Un grazie
alla mia titolatonos inventa titoli. :P --> Camilla. *clap clap*
[titoli
eccellenti u.u (lo so che ti sfrutto *^*) :P - ma tu trovi sempre
“l’essenza”]
Bene.
Come al solito, il mio twitter non è cambiato -->
@Keska92. E il blog qui
sotto vi aspetta sempre. ^^
Grazie
infinite per tutto il sostegno che mi date! Grazie *.*
Notate
nello scorso capitolo, il 67, la duplice presenza del corvo.
Appena
dopo che Bella usa i poteri della bambina:
Ansimai,
lasciando che ai miei sensi arrivarono le più futili
percezioni. Il tempo
rallentò nella mia mente, scandito dallo svolazzare di un
paio d’ali nere; un
corvo che, spaventato, volava da una albero al diametralmente opposto,
gracchiando.
Il potere scaturito da dentro di
me, mi aveva
abbandonata, espandendosi all’esterno, lasciandomi
incredibilmente… vuota.
Mentre il
cerchio di alberi piegati, tutto intorno, sembrava incredibilmente
ruotare,
sentii le mie gambe cedere, e il pavimento ruvido e freddo mi venne
dolorosamente incontro.
E in fine
capitolo, quando nuovamente perde i sensi:
Sbattei
le
palpebre, cacciando un respiro fra i denti.
«Edward» mormorai, e immediatamente
si voltò verso di me, preoccupato.
«Non… mi sento bene…»
farfugliai, prima di
crollare su me stessa.
Lasciò
andare
l’ombrello, afferrandomi con entrambe le mani.
«Bella!» gridò allarmato,
vedendo le forze abbandonarmi completamente.
E
un corvo
gracchiò, nella mia testa.
Ecco. Il
corvo perché c’è due volte?
Perché in realtà Bella sviene e si risveglia dopo
pochi minuti, lì, nella radura.
Tutto
quello che accade fra i due pezzi che vi ho riportato, era solo un
sogno di
Bella. Il professore non è mai morto. Jacob non è
mai fuggito.
La
bambina lancia lo scudo e Jacob perde i sensi insieme a Bella. Pochi
minuti
dopo si ritrova ad urlare.
Il corvo
è un elemento stilistico per facilitare la comprensione di
quello che è
accaduto.
Quando
Bella inizia a urlare, dall’inizio di questo capitolo in poi,
è tutto realtà.
Non sono
particolarmente gaia per questo edit, speravo tanto di essere stata
più
comprensibile.
ale03efrafru,
perdonatemi, vi
risponderò quanto prima. Grazie infinite nel frattempo.
_Ara_Volturi_Grazie!!
ç.ç Oh cielo,
così mi fai piangere! Non posso sopportare tutti questi
complimenti in una
volta, sei troppo buona con me! Spero di non farti piangere ancora
troppo! ç.ç
Grazie, grazie, grazie mille. *.*
NessieGiuliaCiao
Giulia! Ti ringrazio
infinitamente. Concordo per tutto quanto tu abbia detto contro quel
cane. Non
lo sopporto un po’ neanche io. Con questa storia del cane, la
Meyer ci ha rovinato la perfetta storia d’amore, e ancor di
più lo sta facendo Slade e la Rosemberg con Eclipse, che a
quanto pare avrà come fulcro il triangolo che neppure
esiste!
Che rabbia. Ti assicuro che nei capitoli successivi al 9 Edward rimane
sempre
quanto di più romantico ci possa essere… Che ci
posso fare? Sono fatta così…
Grazie ancora.
italyvampires
Grazie mille! Eh si, è
proprio contro le lupacchiotte. ^^ Mi spiace, ma se vuoi puoi pensare
che
questo Jacob non ha niente a che fare con quello della Meyer, e
considerarlo
come se fosse un’altra persona. ^^ Grazie per i complimenti.
:*
sivyb
Grazie mille! É vero.
Mi sento davvero particolarmente vicina ai capitoli più
malinconici. Credo di
scatenare tutta una parte di me più nascosta, e di dare
tutto quello che ho al
testo. Le mani scorrono da sole, ed è più facile
scrivere tutto. :) Sono
davvero contenta ed entusiasta che la mia storia ti piaccia. Grazie, se
un
grazie più bastare.
mazza Tesoro! Sono
contenta. Per quanto
certamente inizialmente le critiche possano non fare piacere, danno
un’ottima
spinta per migliorare, una volta dimenticata la delusione per le parole
ricevute. Almeno, per me è inevitabile soffrire un
po’, all’inizio. Però poi
capisco sempre che ogni recensione, anche la più dura,
sfacciata, e sincera,
può farti migliorare. Direttamente, dandoti consigli, e
forse ancor di più
indirettamente, dandoti la spinta a fare meglio. Come non ringraziarti,
dunque,
ancora, di questa dolcissima recensione? Sei stata un angelo, come
sempre.
Scoprire la vera storia dietro i fazzoletti Tempo mi ha fatto tanto
ridere! Io
piango sul serio, però. Ho la lacrima facile forse, ma a
volte le lacrime mi
arrivano sotto il mento, e sul collo, e i singhiozzi mi scuotono
così tanto che
devo smettere di leggere. :) Facciamo giungere tutto
all’apoteosi de
“L’evento”?! Direi che
c’è da aspettare ancora giusto un pochino. ;) Un
grazie
immenso. Sei sempre stata colei che mi ha supportato per più
tempo, non
abbandonandomi mai, in tutti questi 68 capitoli. Grazie. :*
WindEheh, no dai,
niente zampino
sadico! Per ora rimettiamo a posto i cocci di quello che ho rotto. Per
poco,
troppo poco, ovviamente. Hai ragione, il sapore della fine lo sento
anch’io.
Non è lontanissima… Spero di non esagerare, con
il numero dei capitoli. :S Lo
spero tanto. Perché come eventi siamo alla fine. ^^
manuelitasCara,
ti giuro, ci
tengo tantissimo la vostra psiche! *.* Infatti, non potevo far morire
il
professore senza prima farlo ricongiungere con sua figlia, dovrei
averlo
promesso da qualche parte, quindi credo proprio che lo farò!
Sono contenta che
ti sia piaciuta quella frase. Bella chiede a Edward come si fa a
respirare,
perché è proprio quello che succede a me, quando
sono triste o accade qualcosa
di brutto. Sento la gola stringersi incredibilmente ed è
proprio come se mi
sentissi soffocare, come se non riuscissi più a respirare.
:) Grazie per ogni
singolo complimento, sei sempre troppo buona e generosa con me. Grazie.
Ros_RosEh, intatti!
:P Su che non ti
voglio morta, il corvo serviva solo come indizio per individuare il
periodo di
“sonno” e sogno di Bella. :) Non dovevate farvi
impressionare così tanto! Ora
sembra che tutto stia andando verso il lieto fine (sembra). Ma quello
che
scrivo non è mai come sembra! Ahahahah, si, sono troppo
contorta, lo so. =.=
Lau_twilight E
proprio quando sembrava che
tutto precipitasse e che non ci fosse più scampo…
ci voleva un bel colpo di
scena! Spero che non sia un colpo troppo colpo! In realtà,
sto tremando ancora
una volta di paura per quello che ho combinato. Volevo solo far vedere,
al
lettore a e Bella, come sarebbe potuta essere disastrosa la sua vita,
se anche
una singola cosa fosse andata storta. Sono contenta che il capitolo ti
abbia
emozionata così tanto! Non so perché, ma mi sento
particolarmente vicina alle
parti malinconiche, pur non essendo tale caratterialmente. Almeno
credo. Ti
ringrazio carissima per tutto. Sempre un immenso piacere leggere le tue
recensioni.
Ne sono lusingata.
Luna
Renesmee Lilian
CullenCiao
Giorgia! Sono davvero contenta che ti sia piaciuto. Beh, la
seppur momentanea dipartita del professore era necessaria. Insomma,
tutti gli
inizi portavano al fatto che sarebbe morto. Non potevo darvi questa
delusione,
facendolo rimanere in vita. u.u Fila il discorso, vero? Cielo. Questo
capitolo
non mi piace poi tanto. Avevo in mente di scriverlo con un bel
po’ di pathos in
più, mi dispiace che sia venuto appena
così… Eppure adesso ho tanti tanti
piccoli fili da riallacciare, distendere, e far chiarire. Ormai siamo
arrivati
alla fine de “la matassa”, e spero solo di riuscire
a sciogliere al meglio gli
ultimi nodi. Grazie tesoro, per tutto l’affetto, il supporto,
e il sostegno.
Grazie. :*
ledyangMa dai, le
zanzare mi perseguitano
da una vita, quelle non valgono come vendetta. u.u Sta buona, oppure
dovrò
togliere anche il capitolo felice che ti ho promesso, e…
è davvero felice, e mi
dispiacerebbe mooolto, toglierlo! :P no dai, non sono così
cattiva. Però lo
sai, ti farò penare ancora un po’. *sadicainside*
Muahahah
GiovaneStellaOh,
grazie! Beh, lo so
che il professore ti piace, e piace tanto anche a me, non lo potevo far
morire
così, senza essersi ricongiunto con la figlia. Eppure, Bella
doveva essere
consapevole di quello che sarebbe potuto accadere. Un’idea
assurda, lo so,
quella di allontanare la figlia. Sicuramente dettata da shock, e
estremo atto
di quello che Bella riteneva fosse coraggio. A volte, nella vita,
è anche
giusto essere egoisti per vivere felici. Che vita è
altrimenti, se fatta solo
di sacrificio? :)
grazianaarena
Ohh! Che piacere
vederti qui. Grazie mille. :) Beh, direi che questa storia si
è trasformata man
mano col tempo, mentre si trasformava anche il mio modo di scrivere,
spero, spero,
di essere un po’ migliorata. Nonostante questo, sono contenta
che apprezzi
alcuni dei miei primi capitoli. Sempre onorata. :)
DreamerchanCiao!
Grazie mille. Si,
in effetti è proprio come se, da un lato, quello fisico
possiamo dire, Bella
avesse una sorta di protezione da parte della bambina. Sul lato degli
affetti,
dei sentimenti, sul lato “mentale”, è
proprio il contrario. É Bella che con il
suo amore, insieme a quello di Bella, protegge la bambina, dandole
anche la
forza di fare quello che ha fatto. Spero che questo folle capitolo ti
sia
piaciuto. Con gratitudine, a presto.
patrizia
61Grazie!
*.* Beh, si, ho
cercato di alleggerire in ogni modo la sua morte, anche se ovviamente
ci
sarebbe da fare tutta una riflessione morale sul fatto che la presenza
di un
proprio caro in quel momento possa veramente portare
sollievo… magari, chissà,
forse si. Purtroppo non si posso dare aiuti metaletterari, ma direi che
la
piccola se l’è cavata piuttosto bene! :P Grazie
per tutti i meravigliosi
complimenti! Grazie!
StruppiNooo!
Non astenerti,
t’imploro! ç.ç Okay, dopotutto dovrei
in un certo qual modo essermi fatta
perdonare con questo capitolo! E nonostante vi abbia giocato un brutto
tiro con
lo scorso capitolo, con questo dovrei aver sistemato tutto, no?! :D
Beh, lo
spero ^^
Sognatrice85Oh, cielo,
grazie! Sento che
scrivere situazioni tristi o malinconiche mi è
più facile. Mi sento
particolarmente vicina ai protagonisti in questi momenti, pur non
essendo una
persona triste o cupa… Sono contenta di ogni singola
emozione che posso averti
regalato, e ti ringrazio infinitamente per ogni singola parola che tu,
mi hai
regalato. Neppure io posso pensare a qualcuno che possa far del male a
due
persone come Edward e Bella… Forse, semplicemente,
è l’egoismo di Jacob che lo
acceca. Vorrebbe tutto quello che Edward ha per sé.
É così, l’uomo è egoista
per natura…
Nessie93 Mah, magari
avevo paura per i
risvolti che ci sarebbero stati in questo capitolo… Eppure,
il professore non è
morto alla fine, e Bella non ha più idee malsane…
Eppure, sono spaventata
proprio per questo, perché potreste uccidermi per avervi
giocato questo brutto
tiro… Grazie per tutti i complimenti, davvero. ^^
Lizzie95Bene, vedi?
Tutto sta virando verso
un lieto fine (per ora). É vero, penso che ha volte
l’amore di una madre possa
portare a dei gesti estremi come questo, per esempio. Ma…
sono anche giusti? A
volte nella vita non bisogna anche essere un po’ egoisti?
Boh, chi lo sa. Ora
invero sono un po’ dispiaciuta di averti fatto soffrire tanto
per la morte del
professore. In fondo volevo solo far vedere a Bella e a voi
ciò se sarebbe
potuto essere se fosse accaduto il contrario, se Jacob avesse sconfitto
loro.
Tuttavia, non potevo neppure far morire il professore senza farlo
ricongiungere
veramente con la figlia, non trovi?! :) beh, grazie ancora, per tutti i
complimenti. Mi fa davvero piacere ricevere le tue recensioni, una
gioia per la
mia mente. A presto carissima! Grazie.
mikvampireStai
scherzando vero,
con la storia del topo morto?! Cielo, che schifo. Bene, io odio questo
gran
cagnaccio in maniera inestimabile, quindi, credo di aver perfettamente
espresso
e ribadito più volte il mio odio per lui… Grazie
mille, per tutti i
complimenti. Ora devo solo convincerti che è veramente
morto, e di sicuro lo
farò… Beh, dopo la respirazione bocca a bocca al
topo morto non dovrebbe farti
paura niente :)
lisa76Ciao! No, non
sarebbe stata una
cosa impensabile il parto prematuro, ma meglio evitare, per
adesso… É ancora un
po’ troppo presto, solo fine settimo mese. Spero che questo
capitolo non sia
stata una scelta troppo azzardata, e che sia stato più
facile comprenderlo. Il
corvo, ahimé, doveva avere proprio la funzione di far
apparire il collegamento
più semplice. Grazie davvero per la recensione.
silvia16595Ma
no, che non la faccio partorire in mezzo al cimitero cara. Hai ragione
tu, non
è il posto adatto. Ne troverò uno molto
più adatto per il parto (non è vero,
scherzo - lo so, sono crudele muahahah). Comunque, sono contenta che
per un
breve lasso di tempo ti sia dispiaciuto per il professore, per quanto
breve,
meglio di niente, no?! Spero che un po’ ti dispiaccia acora
dopo questo e il
prossimo capitolo. Grazie per tutti i complimenti Silvia, sono davvero
tanto
contenta di riceverli da te, di sapere che sto migliorando. Grazie. :*
bambolina9988Ohh!
Una lupacchiotta?!
Non ti conviene venire allo scoperto qui, sono tutte team Edward fan
sfegatate!
Sei la prima team Jacob che incontro. Spiegami il tuo punto di vista, e
chissà,
magari proverò a capire. :) Si, ho scritto lieto fine e un
lieto fine vi ho
dato, con tanto di morte di Jacob. Non sono stata abbastanza esplicita?
Lo
sarò. ;) Grazie per tutto.
FUNNiNiente
complimenti?! :O
Sono sinceramente scandalizzata mia cara, ma come, non lo sai che
predico bene
e razzolo male? Eh u.u Non ti risparmiare la prossima volta, se ne
senti
l’esigenza :P beh, si, direi che il capitolo precedente
è stato un po’
catastrofico, ma speravo davvero di aver raddrizzato il tiro con
questo! Lilla!
Si chiamerà davvero Lilla?! Ahahahah, ormai questo nome
è inflazionato… E
comunque, sappi che mi diverto, non io, ma qualcun altro che sta alle
mie
spalle :P a inventare titoli ingannevoli! Uahuahuah Grazie mille
carissima, a
parte scherzi. ;) Grazie.
KatyCullenNo, no, nessun
film horror! Ahahahah,
il corvo serviva per far capire, con la sua duplice presenza, il
momento in cui
Bella si sarebbe addormentata e quello in cui si sarebbe
risvegliata… Tutto qui
^^ In effetti ho scelto il corvo perché è
abbastanza inquietante… Grazie mille
per tutti i complimenti! Vedrò che posso fare per non fare
ancora del male a
Bella!
BiaaAhahah,
sembra proprio
che Edward abbia accolto il tuo appello! Ahahah, mi ha fatto morire dal
ridere
leggerlo, perché l’avevo già scritto.
:P Sappilo, l’inanellarsi delle sventure
di Bella non finirà mai! L’ho trovata io, ed
è una catena circolare da
percorrere all’infinito! :P Sono davvero, davvero, contenta
che tu ti sia
accorta della duplice presenza del corvo! In effetti, non era
propriamente una
scelta stilistica, non per il motivo che hai detto tu, ma forse sarebbe
stato
troppo pazzo indovinare quello che avevo in mente io! Kate,
Kate… Direi che
sarà ancora con noi indirettamente… Non ti
preoccupare, nessuno allontanerà
nessuno da nessuno, anzi! Guarda un po’ come si comporta
Bella… Direi tutto il
contrario, no?! Diciamo che è rinsavita. Grazie per la tua
recensione, bella e
divertente. A presto cara! ;)
LudoCullen96Ohh! Esatto,
il mio intento è
proprio quello, scrivere l’incomprensibile e fare avverare
l’incomprensibile,
entrambe le cose. Beh, spero davvero che tutto questo non sia davvero
troppo
pazzo, e dammi un paio di capitoli di tempo per risistemare il tutto in
vista
del gran finale. Spero che tutto sia degno della vostra attenzione. :S
Come al
solito muoio di paura quando scrivo queste cose folli o pazze, prima o
poi mi
ci manderete, a quel paese. Grazie di tutto. ^^
KStewLover
Oh, non ti
preoccupare, anch’io sono stata impegnata con lo studio, ti
capisco
perfettamente. Beh, diciamo che la cosa che mi piace di più
è descrivere le
emozioni tristi e malinconiche, sono un po’ emo inside.
Ahahah, no, vabbè, non
esageriamo. Dunque, ho trovato questo espediente sia per lasciarmi
andare con
un po’ di buone e sane emozioni emo, sia per far vedere come
sarebbe stata la
vita se solo Jacob fosse sopravvissuto e la bambina no. Spero sia stato
tutto
di tuo gradimento! Un grazie immenso!
mistica88Ciao!
Beh, gli sbocchi,
magari, non si vedono, ma sono lì, da qualche parte,
nascosti. ^^ Per esempio
il corvo ripetuto due volte il capitolo, avrebbe quantomeno dovuto
destare la
vostra attenzione… Non è stato proprio come
speravo, ma io ho la mente un po’
contorta, quindi ^^ Non credo che farò nascere la piccolina
tanto presto,
facciamo godere qualche altra settimana in santa pace, per
così dire, alla
povera Bella. Grazie di ogni complimento. A presto.
RenEsmee_Carlie_CullenAh beh, se si
fosse dato fuoco da
solo, direi che si sarebbero tolti di mezzo un bel problema mooolto
velocemente. No, non facciamo partorire Bella troppo in fretta, per
quello c’è
tempo *si sfrega le mani* Spero di non averti fatta piangere anche in
questo
capitolo, e non posso fare a meno di ringraziarti per tutti i
complimenti!
Grazie!
ste87Eh,
adesso?! Ahahah…
Beh, suvvia, sono stata fin troppo buona ^^
chi61Ciao!
Spero che quello che il
convento passa sta volta non sia davvero troppo folle. Okay,
è forse solo un
tantino assurdo. Troppo assurdo, magari. Volevo solo veicolare il
messaggio
“ehi, guarda cosa sarebbe potuto accadere, guarda cosa
avresti potuto perdere”.
In ogni caso, per quanto riguarda la “scelta” di
Bella di allontanare sua
figlia, posso dire in primo luogo che non fosse una scelta propriamente
razionale, visto che stava “sognando” e in un sogno
di razionale c’è ben poco.
In secondo luogo, la soluzione che è rimasta intrappolata
nella mia testa era
questa: la bambina affidata alle Amazzoni, al clan di Denali, meglio
ancora, ai
Volturi. Credi che Aro potrebbe mai far mettere in pericolo quello che
diventerebbe il suo gioiello più prezioso? Ecco, questa
è stata la mia idea.
Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, grazie per tutto.
titty88Ahahahah,
grazie a te! Ma che mi
ringrazi?! ^^ E si, non sono contenta se non do la sua razione a Bella
^^ Un
po’ sadica… :P
Ely_11Grazie
ancora! *.* Non
puoi dire tutto questo di me, ti giuro che non lo reggo! Non posso
ammettere di
aver tirato un brutto colpo, perché in realtà ho
risolto tutto… magari un colpo
basso, per come l’ho fatto… :P Non ti preoccupare,
non abbandoneranno la loro
figliola… Ma temo che Bella debba pensare un po’
alle conseguenze della scelta
che ha preso, sebbene nel suo sogno, e tutto ciò che
l’aveva portata a
prenderla… Su, non farmi del male, faccio cosa posso per
aggiornare il più in
fretta e il meglio possibile! ^^ E poi, con questo caldo, scrivere e
stare
davanti al pc non è affatto semplice, te lo giuro!
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstateGrazieee! Non
mi dire
così, troppo velocemente, tutto in una recensione! Non fa
bene al mio ego!!!
Allora… Ovviamente c’era un motivo per la
narrazione accelerata, doveva tutto
dare l’idea del sogno, per quella mente geniale che avrebbe
dovuto accorgersi
della duplice presenza del corvo nel capitolo. ^^ Per informazione,
Bella si
trova alla fine del settimo mese, inizio ottavo in questo capitolo, non
ti
preoccupare, non te le faccio partorire ora! Troppo scontato, troppo
comodo.
u.u Avevo immaginato che la bambina potesse essere fatta rifugiare
dalle
Amazzoni, dai Denali, o dai Volturi… pensi che lì
l’avrebbe trovata? Mh…
chissà…
ANNALISACULLEN
Grazie mille! Non sai
quanto significhi per me sentirmi dire che sto migliorando,
è importantissimo!
Mi spiace averti fatto stare così in pena! Un po’
mi sono pentita di quello che
ho combinato. Ho solo provato a predicare ancora una volta la mia
morale: la
sofferenza prima porta più felicità poi. Concordo
perfettamente con te, la
fantasia è qualcosa di meraviglioso in cui non smetterei mai
di rifugiarmi.
Leggere un libro, vedere un film, fantasticare, creano inevitabilmente
nella
mente dell’uomo una realtà che non per forza deve
sottostare a quella “vera”.
Magari è semplicemente per questo che scriviamo e leggiamo,
no? Per immaginare
qualcosa di migliore di quello che è. :) Grazie ancora cara,
a presto.
DarkViolet92Fiduciaaa! Ma
su, potevo farlo
morire così, senza fargli vedere la figlia, dopo anche
avervi promesso di
fargliela riabbracciare?! Giammai. Ho detto che il tema della sua
trasformazione sarebbe stato discusso, e così è
stato, e così sarà… :) Spero
che questo scherzetto durato un capitolo non mi sia costato la pelle ^^
prudence_78Ahahah,
il polpettone
sarebbe Taylor?! Concordo appieno, non lo sopporto proprio neppure io!
Allora,
prendo appunti: morto (direi che ci siamo), stecchito (pure), per la
sepoltura,
ci sarà anche quella, come coronamento del mio odio per
Jacob. Non dovrai
davvero attendere a lungo! Ora è arrivato l’altro
mezzo infarto?! Se non arriva
ora ho un altro po’ di capitoli in serbo per farlo arrivare!
Ahahahah…
Svitai il tappo e la prima cosa di cui mi accorsi fu
l’odore
Bella
La testa mi pulsava dolorosamente,
proprio lì, alla
base della nuca. Ma questo non era il male peggiore, affatto. Il calore
opprimente e nauseante confondeva i miei pensieri, amplificava la mia
angoscia,
mi rendeva schiava della confusione.
Osservai attentamente i gesti di
mio marito, mentre
sollevava la fiaschetta argentata. Era lì la risposta ad uno
dei miei mille
quesiti? Come aveva potuto il professore cambiare in quel modo il suo
corpo?
Eppure, ora pareva essere ritornato proprio come l’avevo
sempre ricordato…
Sul viso di Edward comparve una
smorfia. Il naso
accostato al collo della fiaschetta di arricciò.
Lo fissai, confusa, tentando di
comprendere cosa
avesse scoperto. Pareva essere disorientato anche lui. Mi voltai
velocemente a
scrutare il professor Philip.
«Cos’è?».
Strinse le labbra, guardandomi.
Sollevò le
sopracciglia e diresse lo sguardo nel vuoto. «Sai cosa
succede se il veleno di
voi vampiri entra in contatto con del sangue umano?» chiese
pacato.
Mi portai una mano alla tempia,
deglutendo. «L’umano
si trasforma» dissi, evidenziando l’ovvio.
Scosse lentamente il capo,
fermandosi per fissarmi.
«Non ho detto nel caso in cui il vampiro morde
l’umano. Se il veleno di
vampiro entra in contatto con del sangue umano,
fuori da un corpo, si
ottiene ciò che è contenuto in quella
boccetta».
Edward
s’irrigidì sotto di me, stringendola.
Carlisle fissò Philip, a
dir poco sorpreso. Di certo
la sua mente lucida funzionava più velocemente della mia.
«Vuole dire che si è
iniettato questo composto?».
Sobbalzai, fissando Philip a bocca
aperta.
Annuì con riluttanza.
«É un antidito, testato da
diversi secoli».
«Non si sarebbe dovuto
trasformare, a questo punto?!»
sbottò Emmett, stringendo Rosalie a sé.
«No, affatto»
sputò il professore. «Pensavo che almeno
dei vampiri fossero più svegli»
borbottò, e dovette ringraziare il fatto che
Rosalie fosse ben imprigionata fra le braccia di suo marito.
Mi portai entrambe le mani sul
pancione, sospirando
confusa. «Io… non capisco…».
Philip alleggerì la sua
espressione. «Ho usato del
veleno di vampiro che avevo, un dono di tanto tempo fa»
mormorò, perso con gli
occhi nel vuoto degli anni «bisogna mescolarci il sangue
della persona a cui si
intende iniettarlo. Tutto il veleno deve reagire con questo sangue, e
se ne
ottiene questo composto, un sangue più forte, trasformato.
Quello che viene
iniettato è inerte, non reagisce con l’atro
sangue, tuttavia conserva la sua
proprietà di guarire i tessuti. Rimane in circolo per pochi
giorni, massimo una
settimana».
Sussultai, e sentii le braccia di
Edward stringermi a
sé. Mi accarezzò la fronte calda. Mi voltai verso
di lui, osservando la sua
espressione. Sembrava sorpreso quanto me, pur sforzandosi di non darlo
a
vedere.
«É come un
vaccino?» chiese Alice.
Philip si voltò verso di
lei. «In senso molto lato, ma
si. Neutralizza la funzione primaria, mantenendo quella secondaria, o
indiretta. Ovviamente non mancano gli aspetti negativi».
«Aspetti
negativi?» chiese ancora Carlisle,
estremamente attento.
«Li può
facilmente immaginare, dottore. L’effetto è
solo temporaneo, finché il sangue non viene smaltito. E
bisogna avere una
perfetta precisione nelle dosi, per evitare di avere effetti
indesiderati. Produce…
conseguenze estremamente imprevedibili. E malgrado
guarisca alcuni
organi e tessuti, ne danneggia altri. Fegato, milza,
reni…».
Gli occhi di mio suocero si
strinsero. «Certo,
capisco» fece compassato.
Come avrei voluto dire lo stesso
anch’io. Capisco,
certo, è tutto chiaro. Niente, niente era chiaro nella mia
testa in quel
momento. Fosse stata solo una la domanda senza risposta, solo uno il
problema
non risolto.
Mi accarezzai il pancione, stanca e
confusa.
Edward mi strinse più
forte da dietro la schiena.
«Vuoi andare a riposare?».
«No» mormorai,
voltandomi e stringendomi a lui. Avevo
la nausea, e un senso di bruciore alla gola. Sicuramente stare coricata
non
avrebbe giovato, affatto, e finché non avessi chiarito ogni
cosa non sarei mai
stata in pace. Volevo sapere, tutto.
Quello che il professore aveva
sempre saputo e aveva
scelto di non dirmi. Non lo biasimavo, non totalmente,
perché sapevo e sentivo
che l’aveva fatto con le migliori intenzioni. Ma come avevo
potuto rimanere allo
scuro di tutto quello che succedeva? Di tutto quello che stava vivendo
mia
figlia?
Mi strinsi le mani alla pancia,
sentendo la piccola
muoversi. Non osavo neppure pensarlo. Avevo rischiato di
perderla. Lo
stavo scegliendo io stessa.
Gli occhi chiari di mio marito mi
fissarono, in
apprensione. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso.
«Sei sicura? Forse la
febbre sta risalendo ancora» mormorò, fissandomi
con preoccupazione. Potei solo
provare ad indovinare quale potesse essere l’espressione del
mio viso. Non
sapeva nulla della parte più dolorosa del mio sogno, non
riuscivo ad aprire
bocca…
Scossi il capo, voltandomi
nuovamente verso Philip.
«Mi deve dire» sussurrai agitata «mi deve
dire come faceva a sapere tutto!
Perché noi non sapevamo niente, e lei si! Non lo conosceva
neppure quel… quel… Jacob»
gemetti, mordendomi il labbro.
Mio marito provò a
placare la mia ansia. «Bella» fece
rassicurante.
«No Edward, no»
mormorai querula, «io devo capire.
Devo capire prima di impazzire… Non ce la faccio
altrimenti…».
La voce del professore interruppe
il mio balbettare
frenetico. «Stai calma Isabella. Ti dirò tutto
quello che vuoi sapere» disse
con serietà. «Calmati, ora. Non è il
caso di agitarsi ancora».
Presi dei respiri, lasciando che
fosse Edward a occuparsi
di accarezzare il pancione.
«Tutto»
deglutii, seria «voglio sapere tutto».
Ci fu una brevissima battaglia di
sguardi, da cui uscì
fiaccamente sconfitto. Non gli piaceva lasciarsi andare così
davanti ai
vampiri. E pensare, che avevo immaginato fosse morto… I miei
sentimenti erano
così confusi e contrastanti in quel momento.
«Ricordi la leggenda che
ha citato il mostro?» non
aveva problemi a chiamarlo tranquillamente così.
«I suoi antenati avevano la
possibilità di separare il corpo dall’anima e di
andare in un’altra dimensione,
in cui tutti riescono a comunicare con la mente, perché sono
solo spiriti e non
conoscono i confini del corpo. Questa dimensione non è
completamente spopolata
Isabella. Non c’era solo lo spirito del
mostro…» disse, con una punta di dolore
negli occhi.
«Chi altro?».
«I discendenti degli
altri spiriti guerrieri, per
esempio. Il mondo sovrannaturale è molto più
ricco di quanto tu possa
immaginare, e ci sono altri tipi di anime lì»
mormorò, rigirandosi la fede al
dito, lo sguardo basso. Lo sollevò su me. «Prima,
ho parlato di conseguenze
imprevedibili… l’afflusso dell’antidoto
al cervello porta una di queste. Per
me».
Aggrottai le sopracciglia.
Mi sorrise con mestizia, sollevando
la mano bianca e
indicandomi la vera nera al dito. «Ti ricordi? Lei ha messo i
suoi poteri qui
dentro, la sua essenza. Il veleno che ho usato per
creare l’antidoto era
il suo. La sua anima non se n’è mai andata
Isabella… Lo spirito di mia moglie è
sempre rimasto con me» mormorò fissando il
cerchietto nero «Il suo veleno e il
mio sangue, insieme, ci permettono di comunicare. É lei che
mi ha detto di
Jacob, è lei che mi aiuta a trovare la nostra
Kate…».
Portai una mano alle labbra,
stringendomi a Edward.
L’ansia e la confusione
non scemarono affatto con
quella rivelazione. Ad una prima schiarita seguirono una serie di
dubbi,
incertezze, turbamenti. Cedetti a mio marito, decidendo che basta, ne
avevo
avuto abbastanza per un po’, almeno per un giorno.
«Shh…
Tranquilla» mi sussurrò, massaggiandomi la
schiena con delicatezza. «Cerca di dormire… Hai
bisogno di un altro cuscino?».
Gemetti, voltandomi verso di lui e
stringendomi al suo
petto. Era tutto così strano e impossibile, ancora. Avevo
accavallato quello
che avevo visto nel sogno con la realtà, tanto che ora anche
questa mi pareva
assurda e estremamente improbabile.
Non riuscivo ad accettare veramente
l’idea della
celere comparsa e definitiva morte di Jacob. Non riuscivo ad accettare
il ruolo
che mia figlia aveva avuto in tutto questo. Non riuscivo e non potevo
capire
come avessi potuto decidere, seppure in un sogno, di separarla da me,
anche se
per il suo bene.
Mi faceva male solo il pensiero.
«Credo»
sussurrai, accarezzandomi il grembo, «di aver
bisogno di Carlisle» socchiusi le palpebre «ho un
po’ male alla pancia».
Mio suocero mi raggiunse
immediatamente, richiamato da
Edward. Non volevo allarmare tutti, ma io stessa, spaventata, sentivo
un peso
al cuore. Ero terribilmente angosciata, oltremisura…
«Calma Bella, va tutto
bene» mi rassicurò mio marito
vedendomi in quello stato angoscioso. Mi baciò il capo,
cullandomi fra le sue
braccia. «Ti devi rilassare… É tutto
finito, va bene? Non c’è motivo di essere
così agitati».
«Sono solo delle piccole
contrazioni» mi rassicurò da
parte sua Carlisle, «ora ti do qualcosa e quasi certamente
andranno via». La
sua espressione era comprensiva. Sapeva che tutto questo, questa ansia,
era qualcosa
di incontrollabile per me. «Prova a dormire, ti potrebbe fare
bene».
Edward mise fra di noi una coperta,
e mi cullò
silenzioso fra le sue braccia. Ero stanca e intorpidita per via della
febbre,
eppure l’ansia che mi attanagliava
m’impedì di scivolare completamente nel
sonno, anche dopo molto tempo.
«Cosa facciamo? Volete
tornare a casa?».
«No, Rosalie, non
è prudente spostarla in queste
condizioni. Con la febbre e il resto rischieremmo di aggravare
notevolmente la
situazione». La seconda voce era di Carlisle.
Le braccia di mio marito ripresero
a cullarmi. Forse
avevo detto qualcosa nel sonno. «Desiderava trovarla. Eppure,
per come è
evoluta la circostanza, converrà anche lei che la scelta
migliore sia quella di
andarsene. É all’ottavo mese, ormai, non possiamo
più aspettare che Kate spunti
fuori» il suo tono si abbassò «e non mi
va che resti qui, corriamo troppi rischi»
la sua voce s’incupì a quella parola, ma il mio
cervello annebbiato non riuscì
ad andare oltre quella stranezza.
«Aspettiamo che la
situazione diventi stabile e che la
febbre le passi. Appena ne avremmo l’occasione torneremo a
casa».
La mattina seguente, con gran
fortuna, le contrazioni sembravano
scomparse. Ripetei la terapia della sera precedente, e provai a fidarmi
di
Carlisle quando mi disse che se fossi stata tranquilla non sarebbero
ricomparse.
«La febbre è
scesa, hai solo qualche linea. Per
qualsiasi cosa mi puoi chiamare, sono di là. Ma per oggi
riposati, va bene?» mi
sorrise, accarezzandomi una guancia.
Annuii brevemente, silenziosa.
Dopo pranzo chiesi a mio marito di
fermarci nel
soggiorno, più arieggiato e soleggiato della nostra
stanzetta buia. Ci eravamo
sistemati su una di quelle sdraio di vimini che mi piacevano tanto, che
Esme
non aveva potuto fare a meno di inserire nel pittoresco arredamento.
Ero così
allegra e spensierata, quando, arrivata, glielo feci notare, litigando
con
Emmett per chi dovesse avere la precedenza. Il pancione me la garantiva
su
molte sedie e divani…
Sospirai, fissando la grande
vetrata che dava sul bosco,
appena davanti a noi.
Edward, sotto di me, giocherellava
con le dita della
mia mano. Lo fissai, posando con calma il capo sulla sua spalla,
osservando il
suo gioco. «Sai, ieri ho pensato una cosa assurda»
esordii, continuando a
fissare le nostre mani.
«Che cosa?». Il
suo tono era calmo, come il mio,
eppure non mi era sfuggito il brevissimo sussulto delle sue dita.
Temeva
l’argomento di cui avrei voluto parlare.
«La bambina»
dissi, «e… Jacob.
Erano… erano
legati dall’imprinting. Eppure lui voleva ucciderla, e
lei…» deglutii «l’ha
fatto. Com’è possibile?».
La sua mano si fermò,
intrecciando le dita alle mie. «Non
so cosa lui ti abbia detto
sull’imprinting. Ma i licantropi danno per
scontato che siccome la donna riceve tutte le più perfette
attenzioni che possa
mai avere da un uomo, automaticamente lo ami», fece, aspro.
Annuii, comprensiva. Non sapevo
come comportarmi di
fronte a quella chiarificazione. Ero egoisticamente sollevata,
perché non
riuscivo a pensare che mia figlia potesse amarlo. Ed ero felice
perché non era
stata costretta a compiere del male verso colui che amava,
ma… in questo modo,
dovevo accettare l’idea che fosse entrata in contatto con
quell’essere che le aveva
riservato solo odio.
«La nostra
piccola…» sussurrai, sentendo gli occhi bagnarsi
«come può averla odiata tanto? Come può
averle fatto questo?» piagnucolai.
Mi prese il viso fra le mani,
facendomi voltare verso
di lui e baciandomi. «Shh… Calma amore, sta
calma…» disse, accarezzandomi il
ventre.
Strinsi i capelli morbidi fra le
mani, nascondendo il
viso sulla sua scapola.
Mi baciò il capo.
«L’imprinting è una forza
incredibile e ineluttabile, a cui nessuno può sottrarsi.
Ma… quanto è breve la
distanza fra odio e amore?» sussurrò con
gentilezza, abbassando il capo per
guardarmi negli occhi. «Sono così
vicini…».
Annuii debolmente sulla sua spalla.
«Si…» sospirai,
«si». Il destino di quel mostro era odiare con
tutto se stesso mia figlia. Mia
figlia, che ancora non era neppure nata. Che non aveva mai visto la
luce del
giorno…
«Come è
possibile?» chiesi ancora «che fossero
così…»
deglutii «legati? Lui non l’ha mai
vista…».
Si guardò attorno nella
stanza, in cerca di qualcosa o
qualcuno. Poi, piegò il capo, guardando
in basso, verso la piccola. Posò
un dito sul pancione, premendo con delicatezza. «Penso che
dipenda da quello
che ha detto Philip».
Mi voltai per guardarlo negli
occhi, appositamente per
valutare la sua reazione in relazione a quel nome. Non
l’avrei biasimato se ce
l’avesse avuta con lui. Eppure io potevo comprendere
Philip…
Ma il suo sguardo era indecifrabile
persino ai miei
occhi. «Mentre lui era spirito, non c’era nessun
ostacolo a impedirgli di
entrare in contatto con lei».
«Ma lei
non…» borbottai.
«É
univoco» mi accarezzò la guancia, alleggerendo il
tono «ricordati che è univoco».
Sospirai, annuendo. Mi portai
entrambe le mani al
pancione, su quelle di mio marito, tornando a fissare il verde davanti
ai miei
occhi. «Ti fa male?» chiese. Scossi il capo,
continuando ad accarezzarlo. Posò
il mento sulla mia spalla, consentendomi di continuare ad accarezzargli
i
capelli. «Non riesco a vederti così»
farfugliò, e soffrii io stessa sentendo la
sua disperazione. «É tutto finito, dobbiamo andare
avanti…».
«Mi dispiace»
singhiozzai sorda, cercando di
trattenermi, «non… non riesco a
immaginare… la nostra bambina…».
Mi strinse a sé, come lo
faceva sempre quando voleva
comunicarmi tutto il suo affetto, le braccia così strette
eppure così timorose
di farmi del male. «Le faremo dimenticare tutto questo. Lo
giuro Bella, farò di
tutto per fare come se non fosse mai esistito… Ci
sarò io per lei, per
entrambe».
Mi voltai a posargli una mano sulla
mascella. Mi baciò
il palmo della mano, guardandomi negli occhi. «No»
mormorai. «Per lei. Anch’io
ci sono per lei… E…» sospirai
«non sai quanto possa essere felice del fatto che
abbia te come padre. Lo so, io già lo so. Sarà la
bambina più fortunata del
mondo, solo per questo» dichiarai commossa.
Se non avessi avuto Edward accanto
a me, non avrei
neppure osato dare uno sguardo a quel futuro che ora pareva
terrorizzarmi. La
mia forza d’animo e il mio coraggio si erano forse consumati
come una cometa?
Malgrado fossi confusa il
disorientamento si stava
diradando, portando man mano con sé un angoscioso senso di
vuoto. Non riuscivo
neppure a riconoscere ciò a cui il mio animo stava agognando.
Carlisle mi aveva rassicurato sulla
gravidanza, e le
contrazioni sembravano essere andate via. Eppure, Edward era
preoccupato. Lo
sapevo, lo leggeva nei miei occhi il tormento che ci legava.
La febbre bruciò ancora
la mia testa e le mie membra,
per vari giorni. Ancora non sapevamo nulla del rapporto che Jacob aveva
con i
licantropi, e ben presto capii che questa era la seconda reale fonte di
preoccupazione per Edward. Temevo non volesse rendermi partecipe del
pericolo per
paura di farmi agitare. Eppure, l’unica volta che avevo
provato a parlargliene,
avevo visto nei suoi occhi il dolore, che mi aveva subito fatta
desistere. Si
sentiva in colpa per non aver accattato il loro aiuto.
«Credo che dovreste
preoccuparvi del branco di La Push» disse il professore,
preparando i bagagli per partire. Era debole e ancora malato, e
Carlisle gli aveva giustamente consigliato di approfittare del suo
momentaneo
buono stato per intraprendere il viaggio di ritorno. «Mi
sorprende che non siano
intervenuti, né da un lato, né
dall’altro».
«Prenderemo le opportune
precauzioni e ci metteremo in
contatto quanto prima» ribatté Jasper, sempre
restio a fidarsi delle sue
parole.
Edward richiamò alla mia
mente le stesse parole che
Jacob, in un tempo molto lontano, mi aveva riferito. Lui era di diritto
l’alfa
del branco, e non potevamo sapere quanto e come questo ne fosse stato
influenzato. Comunque, ora che lui era scomparso per sempre, non
c’era nulla di
cui preoccuparsi seriamente. Così aveva liquidato le mie
domande, deciso a non
riaprire l’argomento, almeno non con me.
Barcollai sulle gambe,
trascinandomi il pancione dal
bagno verso la camera da letto. Sospirai, accarezzandolo in tutta la
sua
rotondità. Mi concessi un piccolo e breve sorriso, e un
po’ di quiete
interiore, atta a rassicurare la piccola.
Il suo peso mi gravava sulla
schiena inarcata e sulla
base della pancia, facendomi presto stancare mentre ero in piedi.
«Bella» mi
chiamò la voce di Alice, aldilà della porta
«posso entrare?».
Mi strinsi nella vestaglietta sul
pigiama, muovendomi
verso il bordo del letto. «Si, entra».
Si richiuse dolcemente la porta
alle spalle, venendo presto
ad aiutarmi a sedere. Mi sentivo a disagio a stendermi davanti a lei,
eppure i
polpacci erano così doloranti che non riuscivo a rinunciare
all’idea di farli
riposare sul materasso. Vedendo la mia incertezza mi ordinò
perentoriamente di
stendermi, e non volle sentire alcuna scusa, né io fui tanto
brava da
fornirgliene.
Eppure, mentre accarezzava il
pancione guardandolo
fisso, mi pareva ci fosse qualcosa di strano nella sua espressione.
Temevo che
avesse visto qualcosa.
«Questo pigiama ti sta
d’incanto, sono davvero
contenta che ti piaccia» mormorò, continuando
silenziosa a sfiorarmi con le
punte delle dita.
Sussultai leggermente, portando una
mano a
stropicciare il morbido cotone chiaro sulla pancia.
La sua testa scattò
verso l’alto, velocemente. «Tutto
bene?» chiese, scrutandomi preoccupata.
Scossi lievemente il capo.
«Solo un calcio… mi fai il
solletico» mormorai, riappoggiando la schiena sui cuscini,
posati sulla
testiera del letto. Eppure, quell’espressione non aveva
abbandonato il viso di
mia sorella. «Hai visto qualcosa?» chiesi, senza
nascondere il mio turbamento,
guardandole fisso il viso per cercare di leggervi qualsiasi cosa.
«La…
bambina?».
Si affrettò a scuotere
il capo. «No, no. Sai, ora che…
lui non c’è più… vi vedo
più chiaramente. Eppure, niente parto in vista almeno
per un mese. Stai tranquilla» mi rassicurò,
prendendomi le dita con le sue,
sottili.
Sospirai, troppo stanca,
lasciandomi andare sul
materasso. Chiusi gli occhi. «Niente coperte Alice, te ne
prego». Odiavo il
fatto che ovunque mi addormentassi ci fosse qualcuno pronto a coprirmi.
Stavo
già per cadere nel sonno, stremata…
Eppure, le sue dita si erano
irrigidite sulle mie.
Aprii gli occhi, e incontrai i suoi, persi nel vuoto. Due istanti
più tardi,
Edward entrò velocemente in camera, venendo accanto a me.
«Che cosa ha
visto?» chiesi agitata.
Alice sbatté le
palpebre, fissando il fratello. Lui indugiò
solo un attimo prima di stringermi. «Torneremo presto a casa.
Fra tre giorni».
Lo guardai con ansia, deglutendo.
Aveva davvero visto
quello? Solo quello?
Mi prese il viso fra le mani,
accarezzandomi la
guancia con il pollice. «Ehi, tranquilla… Stavi
per addormentarti, vero?
Rimango con te…». Mi rassicurò,
sedendosi sul letto e prendendomi fra le
braccia.
«Vado a dirlo agli
altri» disse velocemente Alice. I
suoi occhi erano sinceri, non mi pareva che stesse mentendo.
Annuii con riluttanza, posando il
capo sul petto di
Edward. «Va bene» sussurrai, e quando chiusi gli
occhi fu davvero difficile
resistere al sonno, con i sussurri di mio marito all’orecchio
e i suoi baci
lasciati sul viso.
Ma non appena i miei sensi furono
abbastanza
annebbiati da consentirmi di scorgere immagini irreali e abbastanza
irrazionali, ai miei occhi comparve ciò che non avrei voluto
vedere.
Ero sola, ed ero a casa, a Forks.
Avevo paura. Sentivo
quel consueto senso di vuoto, irrequietezza, agitazione, che mi aveva
accompagnato
negli ultimi giorni. Quando guardai in basso, scoprii di essere meno
sola di
quanto avessi immaginato.
La mia pancia era piatta, ma fra le
mie braccia si
celava un piccolo fagottino. Non appena un ringhio mostruoso ci
raggiunse,
cominciai a scappare correndo da una stanza all’altra,
cercando di proteggere
in ogni modo la bambina. Ma non ci riuscivo, i miei passi erano troppo
lenti e
sapevo che lui era alle mie spalle, ci stava raggiungendo. Caddi a
terra. Ci
avrebbe trovate, ci avrebbe prese. Mi raggomitolai su mia figlia,
provando a
proteggerla.
Immediatamente, mentre ero
lì, tremante, a terra, capii
il motivo della mia paura, del mio senso di vuoto.
Avevo paura che potesse tornare da
un momento
all’altro. Sempre. Mi sentivo minacciata. E per quanto
potessi credere alle
parole di mio marito, non riuscivo ancora a realizzare quello che era
successo
troppo velocemente.
Quando l’angoscia si fece
folle e sentii il tocco di
una mano pur consciamente inesistente, mi svegliai, urlando.
Lo lessi facilmente negli occhi
consapevoli di mio
marito che era proprio quello, che solo pochi minuti prima era stato
visto da
Alice. Quantomeno, niente di più preoccupante. Dovetti fare
pressione su me
stessa e esercitare tutto il controllo che pensavo di poter possedere
per
riuscire a calmarmi e regolarizzare il respiro.
«Va tutto bene»
ripeté ancora Edward, stringendomi la
mano fra le sue.
Mossi il capo di lato, sul cuscino,
gli occhi ancora
chiusi. E pregai perché le lacrime rimanessero lì
intrappolate fra le ciglia.
«Non va tutto bene Edward» dissi a bassa voce per
cercare di mantenere il
controllo del mio timbro.
Subito si agitò,
tentando di convincermi. «Si, invece,
non c’è niente di cui ti debba
preoccupare!» affermò concitato, baciandomi le
punte delle dita. «I licantropi non sono un problema,
davvero. Non c’è niente
che possa mettervi in pericolo, niente…».
Riuscii a posare un dito sulle sue
labbra, e aprii gli
occhi. L’ultima cosa che avrei desiderato vedere era la
tristezza e l’angoscia
che albergava nei suoi. Spostai la mano al lato del suo viso,
accarezzandogli
la guancia. Volevo fargli capire quello che sentivo, quello che davvero
stavo
provando. «Edward… É successo tutto
così velocemente. Io…» sospirai
«sono così
confusa… Ho visto tutte quelle cose, e credevo realmente che
fossero vere. E…
poi è scomparso. Di nuovo, così
velocemente» spiegai cauta.
Aggrottò la fronte,
fissandomi crucciato.
«Tu me lo ripeti sempre.
É tutto finito. Se n’è
andato. Non tornerà più. Ma anche prima. Anche
prima Edward, non sarebbe dovuto
più ritornare. Posso credere a te. Ma come faccio a credere
a me stessa?».
Sospirò, desolato,
prendendomi fra le braccia e
stringendomi a sé. Sospirò, ma non
parlò. Cominciò ad accarezzarmi i capelli,
calmandomi e calmandosi. Pensai che stesse scegliendo le parole
migliori, o
che, addirittura, non sapesse cosa dirmi. Sperai tuttavia che avesse
compreso
il mio stato d’animo.
«Lo so. Lo so quello che
vuoi dire. Ma io come
faccio?» mormorò agitato.
M’irrigidì, colpita. Attese un secondo, e la sua
voce
ritornò calma e melliflua. «Posso fare tutto,
tutto, per te. E voglio, fare
ogni cosa che posso per farti stare meglio. Ma… questa
volta… posso dirti solo
che non tornerà più…».
Il cuore mi batteva forte quando mi
ritrassi per
guardarlo negli occhi. Indirizzai nel mio sguardo tutta la mia maggiore
forza
persuasiva, e tutto il sentimento che in quell’istante mi
dominava. «C’è
qualcosa che puoi fare» mormorai.
Quando gli esposi la mia richiesta
fu immediatamente
sconvolto. Vederlo, vedere il suo immondo corpo esanime. Come lui aveva
potuto
fare, come tutti gli altri avevano potuto fare. Quello era
ciò che mi serviva
per accettare ogni cosa.
«Come puoi chiedermi una
cosa del genere?!» chiese
nervoso, sollevandosi e cominciando a camminare troppo velocemente per
la stanza.
«Ti rendi conto? Puoi solo immaginare quello che mi stai
chiedendo?!». Aveva le
mani fra i capelli.
Abbassai il capo sul copriletto.
«Tu mi hai chiesto…
cosa… io…».
La porta della camera si
aprì, rivelando la figura di
Jasper. Entrò velocemente, fissandoci circospetto. Gli occhi
angosciati di
Edward erano ancora su di me.
«Cosa succede?»
chiese cauto suo fratello. Subito dopo
sentii il torpore e la calma avvolgermi.
Lui scosse velocemente il capo,
come se stesse
tentando di sbarazzarsi dell’ipnotico potere del fratello. Lo
guardò con astio,
e Jasper rispose con un’occhiata decisa.
Edward strinse i denti e
sibilò con rabbia: «Non è una
cosa per un umano. Non è una cosa per una donna. Non
è una cosa per una donna
incinta. Non è una cosa per Bella. Lei non lo
vedrà» dichiarò con fermezza.
Gli occhi dispiaciuti di Jasper
incontrarono i miei, e
subito voltai il capo per nascondere le mie lacrime. Mi raggomitolai su
me
stessa, proteggendo il pancione fra le braccia.
Altre persone entrarono in camera,
cominciando a
discutere. Non volevo che succedesse tutto questo, non volevo creare
tanta
tensione, soprattutto con mio marito. Eppure… non riuscivo a
pensare all’idea
di una vita nel terrore e nell’angoscia. Volevo provare,
provare a stare
meglio…
Mi sentii prendere fra le braccia
di colei che subito
riconobbi e accettai come Esme. Mi rassicurò, dicendomi di
stare calma.
Accettai quello che mi portò alle labbra senza protestare.
«É
un’idea assurda! Sono l’unico ad avere ancora del
buon senso qui?» la voce di Edward era nervosa, ansiosa. Mi
faceva male
sentirlo così.
«No, sei
l’unico ad essere cieco. Lo sai benissimo che
accettare la morte di qualcuno non è un processo psicologico
immediato. Entrare
in contatto con il defunto è fondamentale».
«Non mi fare la lezione
di psicologia su mia moglie
Rosalie» gridò alterato «non te lo
permetto. Dovresti sapere, quando la metti
in questi termini, quanto possa essere traumatico… questo.
Non lo permetterò. É
una follia».
«Edward, nessuno vuole
dire niente qui» cercò di rabbonirlo
suo padre. «Dobbiamo solo cercare di capire qual è
la scelta migliore per lei,
possiamo discuterne con calma».
Sentii un ringhio, sicuro preludio
di un’altra
esclamazione di mio marito, eppure un’altra voce, tranquilla,
squillante, lo
interruppe. «É la sua la scelta
migliore» disse tintinnante e serena,
«l’hai
sempre detto. E se non fossi così annebbiato lo diresti
ancora. Lei prende
sempre la scelta migliore».
Non sentii la voce di mio marito,
così mi asciugai le
lacrime, osservando la scena davanti ai miei occhi. La guardava in
cagnesco, la
fronte aggrottata, e lei sosteneva con la massima
tranquillità il suo sguardo,
altrettanto seria.
Chiuse gli occhi e
sospirò. Quelli di Edward si spalancarono,
sorpresi.
Presi un respiro, affrettandomi a
sostenere il
pancione per sollevarmi velocemente dal letto. Corsi da mio marito,
fermandomi
a meno di mezzo metro da lui. Passarono pochissimi secondi di silenzio,
e i
suoi occhi passarono da Alice, alle mie spalle, a me, mettendomi a
fuoco.
Sollevò la mano,
posandola sulla mia guancia. Non
c’era ira, furia, o rabbia nei suoi occhi. Solo desolazione e
tristezza.
Avanzai un passo verso di lui, posando due dita sulle sue labbra. Mi
bastava
leggere nei suoi occhi per sentirmi meglio. Per sentire la mia pelle
accarezzata
da brividi delicati.
Sospirò, spostando la
mano dalla guancia alla nuca,
accarezzandomi i capelli. Si avvicinò ancora, posando le
labbra sulla mia
fronte.
«Non è un
bello spettacolo».
«Lo so».
«Quell’immagine
potrebbe albergare nei tuoi incubi per
molto tempo».
«Meglio che vivere per
sempre nell’angoscia».
«Devo
decidere».
«Cosa?».
«Qual è la
cosa peggiore».
«Più
aspetteremo peggio sarà».
La sua mano aumentò la
presa sui miei capelli, e si
allontanò con il viso per guardarmi negli occhi, sofferente.
Si strinsero in due fessure e
scattarono di nuovo alle
mie spalle. «Ho capito Alice, basta»
mormorò, la mascella serrata.
Mi voltai a guardare mia sorella,
perplessa. Il suo
viso non tradiva nessuna emozione. E neppure, voltandomi, ne lessi
alcuna in
quello di Edward.
Mi prese il viso fra le mani,
attirandomi a sé e
baciandomi senza indugi. «Io lo faccio per
te…» soffiò sulle labbra.
«Cosa ha
visto?» chiesi, tremante.
I suoi occhi si congelarono nei
miei. «La mia scelta»
sussurrò, chiudendo le palpebre.
Un’ora e mezza
più tardi, protetta dal vento freddo
che spirava fra gli alberi del bosco da più e più
strati di maglieria pesante,
aspettavo tremante e con un nodo allo stomaco. Ovviamente, tutte le
preoccupazioni di Edward non potevano non essere anche le mie. Ma
volevo farmi
coraggio e essere forte. Liberarmi per sempre dei miei demoni.
E speravo che questa volta per
sempre fosse davvero per
sempre.
I miei occhi caddero sulla figura
taciturna di Esme.
Anche lei, come Edward, vedeva più gli aspetti negativi che
quelli positivi di
quello che stavo per fare. Non voleva imporre un suo pensiero sulla mia
scelta,
ma, apprensivamente, non riusciva ad approvarla.
«Ascoltami» mi
chiamò Edward, stringendo più forte la
mano che aveva fra le sue, «in qualsiasi momento volessi
tirarti indietro, puoi
farlo. Hai tutto il tempo che vuoi, mi basta un cenno, e ci
fermiamo».
Jasper venne da noi in un lampo.
Più avanti i ragazzi
stavano preparando tutto. Presi un respiro cauto.
«É tutto pronto, Edward» fece
interrompendolo «è tutto apposto» disse,
scambiandosi col fratello un’occhiata
densa di significati. «La temperatura è stata
bassa questa settimana, e
l’avevamo isolato con l’erba secca». Si
accorse della mia ansia e preferì
procedere con una comunicazione mentale.
Mi strinsi più forte a
Edward e guardai senza vedere
nulla alle spalle di Jasper. Era lì. Dovevo farlo, dovevo
rendermi conto,
accertarmi io stessa.
«Bella» mi
richiamò ancora mio marito. Mi prese il
capo fra le sue mani, sistemandomi le ciocche di capelli dietro le
orecchie e
aggiustandomi il cappellino di lana. Mi guardò negli occhi.
«Se ti senti male o
hai la nausea devi dirmelo, va bene?» chiese serio.
Annuii.
Sospirò.
«Tappati il naso».
Ci avvicinammo con cautela, nel
silenzio più assoluto
delle persone circostanti. Sentivo i loro occhi puntati addosso,
compresi
quelli di Edward, stretto dietro di me. I miei occhi erano concentrati
sulla
figura scura posata sul fogliame, ancora a qualche metro da me.
Così
concentrati, che l’odore acre mi raggiunse improvvisamente.
Dovetti irrigidirmi,
perché immediatamente la mano di
Edward corse davanti alla mia bocca, facendo quello che non avevo
ancora fatto.
Deglutii, e mi ritrovai con le orecchie tappate. Ci eravamo fermati.
«Vuoi
smettere?». La voce mi giunse chiara e
persuasiva all’orecchio destro.
Scossi maldestramente il capo,
imponendo io stessa
alle mie gambe tremanti di andare avanti. Mi mossi per alcuni metri,
rassicurata dalla costante presenza di mio marito a contatto con la mia
schiena.
Serrai gli occhi quando fui troppo
vicina. Un pugno mi
aveva colpito lo stomaco, facendo risalire un sapore acido lungo la
gola. Il
cuore mi batteva fortissimo. Avevo paura. E lui lo sentiva. Tutti, lo
sentivano. Probabilmente più che il battito forsennato
sarebbe bastato il mio
tremolio o il certo odore di adrenalina che doveva aleggiare nello
spiazzo
insieme a quel tanfo…
Mi strinse più forte,
posando una mano sul pancione e
accarezzandolo. «Bella… Possiamo ancora tornare
indietro…». Mia figlia era
stata forte, e aveva fatto tutto, tutto per me e per noi. Era stata
l’unica con
il potere di salvarci. Non potevo essere meno forte di lei.
Aprii gli occhi e osservai la
figura davanti a me. Era
lui, lo stesso mostro che mi aveva perseguitata nella radura. In pochi,
rapidi e
profondi battiti di cuore, registrai i dettagli.
La pelle nera velata di uno strato
biancastro, la
rigidità, il gonfiore delle pelle.
Era morto. Morto. Per
sempre.
Agitata, mi voltai verso Edward
lanciandomi fra le sue
braccia e stringendomi a lui convulsamente, respirando in modo
affannoso.
Mi accarezzò i capelli,
traendomi a sé e
indietreggiando notevolmente, con velocità. Mi
cullò fra le sue braccia,
ansioso. L’immagine era ancora troppo vivida nella mia mente
perché potessi in
qualsiasi modo sminuire il mio stato.
Fare quello che avevo fatto sarebbe
potuta sembrare
una follia, solo una pazzia. Non avevo nessun gusto per il macabro.
Nessun
interesse a vedere un cadavere. Nessuno, ancora, a vedere quello che
era stato
un amico e che si era poi rivelato il mio peggior nemico,
così, ridotto in
quello stato.
Repressi un altro conato di vomito.
«Tutto bene?»
chiese mio marito, guardandomi in volto.
Annuii con cautela, una mano alla
bocca.
Le sue labbra si strinsero. Era
pentito di avermi
permesso di farlo, glielo leggevo in faccia. Eppure, non osava dirmelo.
Alice
doveva avergli mostrato quanto peggio sarebbe stato non
farlo. «Ti viene
da vomitare?».
Feci una smorfia ma non dissi
nulla. Mentre tutti gli
altri si erano affollati verso il luogo della riesumazione, Carlisle e
Alice
vennero verso di noi, appena in tempo perché potessi
piegarmi sulle gambe, in
preda ai conati.
Quando le mani di Edward che mi
sorreggevano strette
mi consentirono di sollevare il viso mi accorsi degli sguardi che si
scambiava
con Alice. Carlisle mi distrasse, passandomi un fazzoletto pulito e
chiedendomi
come stessi.
Edward sospirò,
concentrandosi nuovamente su di me e stringendomi
fra le braccia. «É tutto finito» disse,
e pareva piuttosto tranquillo quando mi
baciò la tempia.
Fare quello che avevo fatto sarebbe
potuta sembrare
una follia, solo una pazzia.
«Si» dissi,
convinta «è tutto finito».
Una follia che mi aveva per sempre
liberata dai miei
demoni.
‘Giorno.
Perdono
per il ritardo.
Ecco,
spero solo non abbiate trovato il capitolo troppo macabro. Per
scriverlo ho
dovuto leggere un testo sulla decomposizione, e persino io, che per
queste cose
ho “lo stomaco forte”, dico che non è
stato bello. No, affatto. :S
Comunque,
spero vivamente di non aver offeso né disgustato nessuno,
volevo solo fare
intendere quanto fosse importante per Bella fare quello che ha fatto. E
non
voglio giudicare, in qualsiasi caso, il comportamento di una persona di
fronte
ad una problematica del genere. Perché qualsiasi scelta
porta i suoi lati
negativi. (Io sarei probabilmente scappata via).
Però
Bella è una persona forte, e ho pensato giusto che prendesse
la decisione che
ha preso. Non vuol dire che l’abbia presa a cuor leggero, o
che non le abbia
fatto o le faccia male.
Bene.
Posso dire a occhio e croce che manchino quattro capitoli alla fine
della mia
storia. Tutto dipende con che agevolezza e velocità
riuscirò a superare
l’ultimo ostacolo, per ora non riesco a fare una stima
più precisa.
Per
quanto riguarda lo scorso capitolo e la scelta di presentare il tutto
come
un’illusione.
É
stata
una scelta azzardata, e ne sono perfettamente consapevole. So della
scelta che
ho fatto, e me ne assumo le responsabilità. Vi è
piaciuta? Sono contenta. Non
vi è piaciuta? Mi va bene anche così,
è giusto anche che me l’abbiate detto (GiovaneStella
non ti preoccupare, apprezzo la tua sincerità).
E, non
vorrei che dal mio edit fosse emerso qualcosa di diverso da quello che
volevo
comunicare. Non sono “arrabbiata” o
“delusa” se non avete capito. Non voglio
turbare la vostra attenzione più di quanto non sia lecito,
più di quanto non mi
sia consentito richiedervi.
Evidentemente,
se non avete capito, era poco comprensibile. Punto. Inutile girarci
intorno.
Dovete
scusarmi se non rispondo alle vostre bellissime recensioni. Ho avuto
dei
problemi, ultimamente, che mi costringono a scrivere il meno possibile,
pur
avendo davvero tanto da scrivere. Mi dispiace, ma vi ringrazio
sinceramente una
ad una.
Rispondo
in breve alle questioni che avete sollevato:
|-_Jacob
è morto per sempre (spero di averlo fatto sufficientemente
capire) e non tornerà più!
|-_Il
professore ha scambiato Bella per Kate perché era fra i
deliri
della febbre, prima della morte.
|-_Per
chi non avesse ancora capito la questione del sogno, rimando
all’edit del precedente capitolo, e se ancora ci fossero
dubbi, chiedete pure.
Ma: il professore non è mai morto, Jacob non è
mai scappato.
|-_«l’ambrosia di cui
vi nutrite vi avrebbe
portato la morte. Semplice…». É il
sangue di Jacob la cosa più pericolosa per i
vampiri. La cosa che li attrae di più sarebbe stata quella
che li avrebbe
uccisi, perché la sua essenza cos’era? Puro odio
verso di loro.
|-_Il corvo è uno, e c’è solo una
volta, in
realtà. Poco dopo che Bella ha usato il potere della
bambina. Lui si trova lì,
nello spiazzo. Quando Bella si risveglia, il corvo è
lì. É solo un elemento
narrativo, usato per rendere più semplice il salto temporale.
|-_Il sogno di Bella è dovuto alla battaglia
che la bambina e Jacob combattono, e le sensazioni che la piccola invia
alla
madre. Il dolore di Bella, e le sue reazioni, sono in parte
ciò che anche la
piccola prova, in parte invece cioè che Bella riceve come
sensazioni dalla
bambina.
|-_Flavour of Love è stata terminata. :)
Come
sempre il mio nick su twitter è: @Keska92. Aggiungetemi se
vi va.
PS.
Grazie Ely_11
per BRAINORI, mi hai fatto morire di risate ;)
Edward accarezzò il
punto in cui la piccola aveva
puntellato il palmo della mano. In tutta l’ingombranza delle
trentotto
settimane, me ne stavo finalmente a riposare sul divano, esausta. Il
pancione
non era propriamente immenso rispetto a quello delle altre mamme, ma
decisamente di una grandezza non trascurabile.
La gita nel parco naturale era
ormai un lontano
ricordo. L’unica cosa di cui mi rammaricavo era non aver
trovato Kate, la
figlia del professore. Eppure ero così certa che fosse stata
così poco distante
da noi…
Per il resto, la mia mente aveva
assorbito la notizia,
attutito il colpo, e avevo avuto sufficiente tempo per assimilare la
cosa. E per
quanto, soprattutto nei primi tempi, la paura e il ricordo costante di
ciò che
di terribile era successo, mi avesse tormentato nel profondo, ora
riuscivo a
stare bene. Abbastanza bene.
Ora, tutta la mia attenzione si era
spostata sulla
piccola che mi cresceva in grembo, che mi faceva stancare ad ogni
movimento,
che mi faceva correre in bagno fin troppo spesso. Sorrisi. Era la mia
piccola,
adorabile, bambina.
«Vuoi mangiare
qualcosa?».
Scossi il capo.
«No» mormorai, arrancando per tirarmi
seduta. «Sbaglio, o gli altri ci aspettano?».
Edward mi offrì una mano
per aiutarmi ad alzarmi. «Non
sbagli». Posai la testa sulla sua spalla, sbadigliando e
stropicciandomi gli
occhi. «Ma se sei troppo stanca possiamo rimanere».
«No, mi voglio divertire
un po’» biascicai, la bocca
impastata.
Non osò ribattere.
Dopotutto, era ancora infinitamente
preoccupato per le possibili ripercussioni che la nostra disavventura
poteva
aver portato su di me. Vegliava sui miei sogni, stava attento ai miei e
ai suoi
gesti. Si prendeva cura di me. Io, dal canto mio, mi limitavo a
preoccuparmi
dei disagi della bambina e dalla questione del branco, rimasta ancora
irrisolta.
Quando arrivammo a casa Cullen
c’era il solito
silenzioso fermento. Ognuno impegnato nella propria
attività, ognuno pronto a
lasciarla per fare due chiacchiere o divertirsi.
Jasper aggiornò Edward
sui licantropi. «Non riusciamo
a metterci in contatto. Carlisle vuole evitare di valicare il confine
per
entrare a La Push, determinerebbe un attacco di guerra. Ma allo stato
attuale
non sappiamo nulla…».
Mi massaggiai circolarmente il
pancione. «E quindi
come faremo?» chiesi, fissando ansiosamente lui e mio marito.
Alice mi piombò addosso,
distogliendomi forzatamente
dal discorso. Jasper mi assicurò che non ci fosse
nient’altro su cui discutere,
che mi avrebbero tenuta aggiornata, e con il beneplacito di Edward mi
trascinò
su per le scale. Mi lasciai dolcemente coccolare dalla sue cure. Creme,
manicure, pedicure, ceretta… Persino a quel punto mi lasciai
torturare senza
proteste.
«Va tutto bene
Bella?» chiese, vedendomi silenziosa.
«Si» sospirai
«si, sono solo stanca. Credo che se non
mi avessi chiamato mi sarei addormentata. Questa peste si muove in
continuazione, ogni tanto mi sento un po’
indolenzita».
Mi sorrise, lasciando un leggera
carezza sulla pancia.
«Eh si, è proprio una peste».
«Di solito appena mi
sveglio la mattina è calma. É verso
l’ora di pranzo che comincia a scalpitare, e se non la calmo
con un cd di
musica o una fiaba non la smette. Devo cercare di dormire quanto
più possibile
a pomeriggio, perché la notte tira calci a non finire. Si
sente sempre e
costantemente curiosa, dovresti sentire come me lo fa
presente!».
Un’espressione tenera
comparve sul suo viso, ma non
disse nulla.
«Che
c’è?» chiesi perplessa.
«Beh, è
evidente che ci sia uno spesso legame fra voi.
Vi… amate. Siete madre e figlia». Troppo
interdetta per le sue parole,
sussultai quando mi si precipitò addosso. «Oh
Bella, sono così contenta per
te».
Sorrisi, contenta. Era vero, stavo
così maledettamente
bene con mia figlia. Avevo basato la mia felicità sulla sua
presenza. L’avevo
fatto la prima volta per emergere dalla depressione che mi aveva
causato Jacob,
per combattere i miei e i suoi problemi, e per andare avanti adesso,
dopo tutto
quello che, ancora, era successo. Mi sentivo bene.
Appena due giorni prima avevo fatto
l’ennesima visita
con Carlisle. «La testa è ancora alta»
aveva detto, tastandomi l’addome, e
aveva concluso «il collo dell’utero è
ancora lungo e chiuso. A quanto pare la
piccola si farà attendere».
Sorrisi, come avevo sorriso in quel
momento a Edward,
e mi lasciai andare nella vasca, coccolata dai massaggi della mia
sorellina.
Ovunque andassi, specialmente
quando mi trovavo a casa
Cullen, c’era sempre qualcuno pronto ad offrirmi un braccio o
un gomito su cui
appigliarmi per non cadere. Dopotutto, ero stata goffa da sempre, e non
poter
vedere i miei piedi, dover camminare con le gambe larghe e piegate, non
era
propriamente un aiuto al mio equilibrio.
«Ce la faccio, ce la
faccio» biascicai, abbarbicandomi
alla ringhiera della scala per non cadere. Edward mi guidò
con una mano sul
bacino all’ultimo gradino.
«Oh…
Perché la tua pancia non è tonda, Bella? Ci sei
caduta su e l’hai ammaccata?».
Ansimai, con uno sbuffo. Mi portai
una mano alla schiena
dolorante. «No, Emmett. La bambina non sta ferma,
sai?» ribattei piccata.
Accarezzai il pancione. «Magari ci
stesse…» feci con una smorfia contrariata.
Rose mi venne accanto, passandomi
una mano sotto il
braccio. Vederla muoversi così sinuosamente mi faceva
rabbrividire. «Carlisle è
in ospedale. Esme ti ha preparato qualcosa da mangiare ed è
uscita. Torneranno
stasera per il dopocena… Hai fame?».
Qualsiasi cosa purché mi
potessi sedere. Mangiai con
gusto il piatto cucinato da mia suocera. Nell’ultimo periodo
avevamo passato
così, io e Edward, i nostri pomeriggi. O soli a coccolarci e
coccolare la
bambina, o con la sua famiglia, a divertirci, talvolta con la presenza
di mio
padre.
Facevano di tutto per farmi stare
tranquilla e serena
in vista delle ultime settimane di gestazione, e, contro tutte le mie
proteste,
evitavano di informarmi spesso e volentieri sui progressi che facevano
sulla
questione La Push. Dovevo cavare la parole di bocca a Edward,
facendogli
presente quanto peggio sarebbe stata l’angoscia di non
conoscere con precisione
come procedesse la situazione.
Attualmente, avevamo semplicemente
considerato che pur
essendo stati presumibilmente sotto il controllo di Jacob, non erano
intervenuti durante lo scontro, e che lui era ormai morto.
«Tranquillizzati»
mi diceva Edward, con un sorriso «è
tutto sotto controllo». Eppure, per quanto il suo tono fosse
persuasivo e
disinvolto, conoscevo fin troppo bene la sua capacità
recitativa per fidarmi
pienamente di lui.
Decise, dopo pranzo, di suonare un
po’ il piano. Non
lo usava da tempo e a Esme avrebbe fatto piacere, una volta tornata,
trovarlo
accordato. Io mi misi sul divano ad ascoltarlo. A noi si unì
Jasper. E a Jasper
Alice. La calma e la tranquillità fu rotta quando Emmett
decise di “ravvivare
l’atmosfera”.
Un momento più tardi,
Rosalie suonava un allegro.
«Avanti, vieni a ballare
con me» insistette,
prendendomi la mano.
Fui seriamente tentata di fargli la
linguaccia. «Se
riesci a farmi alzare da qui» feci, facendo spallucce.
Mi scappò un risolino,
quando, ghignante, mi sollevò
di peso da divano, prendendomi fra le braccia e facendomi ruotare. Gli
tirai
dei deboli colpetti sulla spalla. «Emmett, smettila! Mi farai
vomitare tutto il
pranzo così!» esclamai giocosa, finché
non mi lasciò andare. Per fortuna,
chissà per quale momento di assenamento, si
limitò a farci dondolare qua e là.
Anche Alice e Jasper si
divertirono, e ben presto
Edward venne a reclamarmi. Aveva un sorriso appena accennato sulle
labbra. «Non
avevi detto che avresti ballato solo con me?».
Arrossii, abbassando il capo.
Decisamente, ballare con
lui era molto più romantico e piacevole. Gorgogliai qualcosa
di incomprensibile
sulla sua spalla, sollevandomi sulle punte dei piedi per stringergli le
braccia
al collo. Ridacchiò, e mi accarezzò i capelli.
Passò poco tempo, e,
stanca, mi dovetti andare a
sedere sul divano. Edward diede un po’ il cambio a Rose, per
permetterle di
ballare con Emmett, ma presto si stancarono del genere decisamente
più
tranquillo prediletto da mio marito, e fu felice di ri-cedere il suo
posto e
venire a sedersi accanto a me.
Emmett faceva il cretino con Alice,
ballando con lei e
divertendosi a provare a scompigliarle i capelli. Ero felice. Risi,
battendo le
mani, quando lei si liberò dalla sua persa, saltandogli
sulle spalle.
Improvvisamente, però,
mi bloccai. Sentivo un crampo
alla parte bassa della pancia. Sollevai lo sguardo, la bocca
spalancata.
Nessuno si era accorto di nulla. Con una mano mi aggrappai alla manica
della
camicia di Edward, l’altra al ventre.
Si voltò verso di me, e
subito il sorriso gli morì
sulle labbra. «Cos’hai?», chiese
velocemente, inginocchiandosi davanti a me.
«Ah…»
mi lamentai senza fiato, stringendo più forte la
sua camicia e la mia maglietta, sulla pancia. Tutti si erano fermati e
mi
stavano osservando, nel silenzio più assoluto.
Appena il dolore passò
mi lasciai andare sui cuscini,
prendendo dei respiri affannosi. Rose venne in un istante al mio
fianco. Edward
mi tastò il grembo. «Contrazioni?»
chiese, scrutandomi il viso.
Non feci in tempo ad annuire, che
mi ritrovai a
sorreggermi ancora la pancia, gli occhi serrati. «Che
male…» mi lamentai, in
preda al dolore. Edward aumentò la presa sulla mia mano.
«Senti dolore alla
schiena? Alla pancia? Eri
indolenzita?» chiese Rose, posandomi una mano sul pancione.
Ma io non riuscivo a parlare. Alice
mi venne più
vicino. «Prima ha detto che aveva la pancia
indolenzita».
«Quando
prima?».
«Tre ore fa».
Edward mi accarezzò il
viso, aspettando trepidante che
il dolore scemasse. Non appena potei respirare si scambiò
un’occhiata seria con
Rose.
«Potrebbe metterci meno
del previsto» fece lei,
accarezzandomi la pancia. «É meglio se andiamo in
ospedale. É il momento».
Una doccia fredda mi
calò addosso. É il momento.
Mio maritò
annuì, procedendo velocemente. «Rose, il
suo borsone è a casa nostra, prendilo e torna. Emmett, vai a
preparare l’auto.
Alice, avvisa Carlisle che stiamo andando. Jasper»
s’interruppe, stringendo le
labbra. Tutti gli altri fratelli erano già scomparsi in un
secondo dalla stanza.
«Allontanati» disse solo.
Avevamo deciso… Per non
rischiare. Quando mi si
fossero rotte le acque… per il sangue. Non adesso,
pensai confusa. É
il momento. No.
Mio marito mi prese le mani fra le
sue, guardandomi
con dolcezza. «Andiamo amore…».
«No»
sillabai. Gli occhi spalancati, stupita.
Mi sentivo congelata, bloccata. Mi sentivo semplicemente terrorizzata.
Mi fissò perplesso,
alzandosi in piedi. «Bella…».
«No» ripetei,
irrigidendomi sul divano e tirandomi
indietro, spaventata. «No. Non
è il momento» feci ansiosa
«chiama
Emmett, digli di tornare qua, subito, e… e Rose…
deve suonare, stavano
ballando… ci… ci stavamo divertendo…
stavano ballando… Non è il moment…
ah…» sussultai, serrando gli occhi e portandomi
una mano alla pancia.
Si accovacciò accanto a
me, parlandomi con gentilezza.
«Piano, prendi dei respiri. Stai calma Bella, è
tutto normale. Stai solo per
partorire».
Se possibile, sbiancai ancora di
più, la bocca aperta
per lo stupore oltre che per il dolore. Partorire.
Preferivo ‘il
momento’. «No» mormorai
stridula, appena fui in condizione di parlare. «No,
no, no… Non sto partorendo. Non devo partorire. Non devo
respirare. No!»
esclamai, tentando di ignorare l’indolenzimento alla pancia.
Era confuso, stupito. Era
preoccupato. «Bella, non
fare così. Avanti, vieni…» fece,
provando a farmi passare un braccio dietro la
schiena per farmi alzare.
«No!» mi
ribellai, provando ad oppormi alla sua presa.
Mi avvinghiai al cuscino del divano, tremando di paura. Non poteva. Non
poteva
nascere. «No, no, non voglio! Carlisle ha detto che mancava
ancora tanto! Che
c’era tempo! Non sto per partorire, no!».
Leggevo sul suo volto tutto il suo
smarrimento. Non si
sarebbe mai aspettato una tale reazione da parte mia, e neppure io,
consciamente, l’avrei fatto. Ma ero stata calma, ero stata
tranquilla, avevo
goduto di tutti i momenti con mia figlia. Nel mio grembo.
Provò a farmi ragionare.
«Ma amore, hai le doglie.
Stai male. Andiamo in ospedale e vediamo che…».
«No! No!».
Quello era un incubo. Un incubo che mi si
stava precipitando addosso. La mia mente si stava ribellando a quello
che stava
accadendo al mio corpo.
«Edward!»
esclamò Rosalie apparendo nella stanza.
«Siete ancora qui?». A differenza del fratello non
volle sentire ragioni, e
all’ennesima contrazione lo obbligò a caricarmi di
peso e trascinarmi in
macchina, prima che lo facesse lei stessa.
Avevo paura, e non ero pronta.
Avevo pensato che tutto
fosse perfetto, e adesso la nascita della bambina non era qualcosa di
positivo.
Avrei sopportato i fastidi, il mal di schiena, l’assenza di
sonno. Ogni cosa
era migliore della separazione.
Carlisle aveva detto che avevamo
tempo. Questo non era
tempo! Erano passati solo due giorni, dannazione!
«Calmati, calmati,
respira» mio marito provava a farmi
calmare, massaggiandomi le spalle e imitando il ritmo del respiro che
avrei
dovuto seguire.
Non volevo credere alla
realtà, non potevo credere che
tutto quello si stesse realizzando. Così presto. Eppure,
sentivo il dolore.
Sentivo le contrazioni. Eppure, quella dannata automobile mi stava
portando in
ospedale.
Non appena l’ennesima
fitta scemò mi abbandonai per
tutta la lunghezza del sedile, per quanto la presenza di Edward, ai
miei piedi,
me lo consentisse. Scoppiai in lacrime. «Non potete farmi
questo! Non voglio,
non voglio venire!» piansi.
Lui sembrava rammaricato.
Provò a chinarsi su di me. «Amore,
mi dispiace. Ma andrà tutto bene, davvero… La
bambina starà bene…».
«No!» urlai, in
preda al dolore. Fu facile per lui
stringermi a sé. Troppo facile tentarmi con il suo abbraccio
rassicurante. «Lei
è piccola… Mancano ancora due settimane. Ha
paura… Non può nascere adesso… Sta
tanto bene dentro di me, nella mia pancia… Non me la potete
portare via…»
singhiozzai, inondandogli la camicia di lacrime.
Mi accarezzò i capelli,
ansioso. Non comprendeva tutta
la mia paura, non era a conoscenza di tutte le mie
paure. «Nessuno te la
vuole portare via Bella. La bambina sta solo
nascendo…».
«No… Carlisle
ha detto… ha detto… ah…»
singhiozzai,
ripiegandomi sul pancione, «fa male…».
Mi cullò, stringendomi.
Sembrava nervoso, si muoveva a
scatti. «Amore, non è tardi. Potremmo provare con
l’epidu…».
Il mio grido lo fece ammutolire.
«Non ci provare
Edward! Non ci provare, non mentre sto morendo di dolore!».
Sembrò prendere sul
serio il mio avvertimento, perché
non ne fece una sola parola. Emmett parcheggiò direttamente
davanti al pronto
soccorso, e Rosalie scese dall’auto per andare a trovare
Carlisle.
«Bella,
amore…» fece, a metà fra un sospiro e
una
supplica.
«No! No, non voglio
scendere! Riportatemi indietro!
Emmett, riportami indietro subito! Non ci voglio stare
qua…» singhiozzai
querula. Mi opponevo alle realtà. Mi opponevo alla
realtà per paura di andare
incontro a quello che era stato solo un sogno. Un bruttissimo sogno.
Edward aprì la portiera,
e mi prese per le braccia,
invitandomi a scendere. Mi opposi con tutta la mia debole forza umana.
«No… Non mi
puoi costringere… Non te ne puoi
approfittare solo perché sono debole e…
ah… in preda al dolore…» biascicai fra
i denti, stringendomi la pancia.
Sospirò,
inginocchiandosi di fronte a me con
determinazione. «Respira. Amore, guardami» disse,
fissandomi con aria seria.
Presi un respiro fra le labbra bagnate. «Se rimani in
macchina, corri rischi
per te e per la bambina. Rischi che stia male, e tu non lo vuoi,
vero?» chiese,
costringendomi a diniegare col capo, eppure senza smettere di piangere.
«Ascoltami.
Ho capito che adesso hai paura, e vorresti che questo non stesse
succedendo. Ma
lo senti anche tu il dolore» fece afflitto, posando una mano
sul pancione, «e
sei consapevole di quello che succederà. Vieni con
me» disse, tendendomi la
mano «ti prometto che starai meglio».
Singhiozzai più forte,
sentendo il peso della logica
dei suoi pensieri. Non potevo più oppormi. Stava succedendo,
io e la bambina ci
saremmo dovute separare, e non potevo farci nulla, per quanto terribile
fosse
quel pensiero. Non ti separerai da lei,
provò a rassicurarmi la parte
più razionale della mia mente, non riusciresti mai
a separartene. Era
solo un brutto sogno, niente più.
Allungai la mano, tremante, a
prendere la sua. Vidi i
muscoli dell’avambraccio rilassarsi. Ma un attimo prima che
si toccassero la
strinsi in un pugno.
«Bella» fece,
scattando con la testa verso l’alto.
«Devi
promettermi…» mugugnai, tirando su col naso.
«Tutto quello che
vuoi» mormorò agitato,
accarezzandomi il viso, pronto ad accontentarmi.
Deglutii. «Devi
promettermi che sarai sempre con me» feci,
la voce arrochita per il pianto, «che non mi lascerai
mai».
La sua espressione si
addolcì teneramente. Mi accarezzò
una guancia. «Certo, si» fece, ansioso di
soddisfare ogni mia richiesta. «Non
ti lascerò mai. Sarò sempre accanto a te, ti
terrò la mano nella mia, te lo
prometto».
Incoraggiata e solo lievemente
rassicurata dalle sue
parole presi un respiro profondo, ricominciando a parlare.
«Devi promettermi
che… che non insisterai più con la storia
dell’epidurale…».
Parve preso in contropiede.
«Bella…».
«Promettilo!».
«Si, lo
prometto» concesse riluttante. «Andiamo
adesso», fece, tenendo il braccio per aiutarmi a tirarmi su.
«Ah» gemetti,
piegandomi «ti prego» dissi fra i denti,
lasciandomi avvolgere nel suo abbraccio. Mi accarezzò la
schiena con la mano.
«Promettimi…» dissi fra gli ansiti
«promettimi che potrò urlare!»
Ridacchiò, nervoso,
stringendomi più forte e
cullandomi, finché anche quella contrazione non ebbe il suo
corso. «Ti prometto
tutto, potrai urlare quanto vuoi» mi guardò con
dolcezza, «adesso andiamo.
Riesci a camminare?».
Afferrai, tremante, la sua mano. Lo
guardai con il
viso rosso, inondato di lacrime. Un’espressione mista fra
terrore e angosciosa
rassegnazione. «Non mi sento le gambe…»
farfugliai querula, terrorizzata, lasciando
che mi prendesse fra le braccia.
Nove ore e mezza più
tardi, quasi notte ormai,
addentai il mio panino felicemente seduta sul sedile anteriore della
Volvo. Non
protestavo per i riscaldamenti accesi, era una delle fredde e pazze
giornate di
fine Aprile, e avevo già abbastanza urtato i nervi di mio
marito, che ora
guidava, silenzioso, al mio fianco.
Con paura e
un’espressione triste e sconsolata, le
lacrime ancora agli angoli degli occhi, mi ero lasciata andare al mio
destino.
Eppure, quando Carlisle era venuto a visitarmi aveva ripetuto
esattamente le
stesse parole dei due giorni precedenti: niente faceva pensare che il
parto
fosse vicino. Mi ero calmata, sorpresa e sollevata, e le fitte erano
man mano
scemate in intensità e numero. Finché, con mia
somma gioia, non avevano deciso
di lasciarmi andare a casa, per ritornare quando fosse realmente stato il
momento. «Può succedere»,
aveva detto mio suocero con un sorriso.
«Bella. Dobbiamo
parlare». La mano di mio marito si
strinse sul volante.
Affondai con la bocca nel mio
panino, solo per avere
una scusa adatta per temporeggiare. «Sto bene
adesso» mugugnai a bocca piena,
fingendo di non capire «Carlisle ha detto di tornare quando
sentirò di nuovo
dolore…».
«Bella».
Sussultai, ingoiando il boccone. «Non pensi
che dovremmo discutere di qualcosa?».
Lo fissai di sottecchi, decisa a
evitare la questione.
«Non credo che… no. Non penso. Va tutto
bene…» mormorai.
Si voltò verso di me con
un’espressione estremamente
seria. Da fare paura.
Distolsi lo sguardo,
mordicchiandomi il labbro. Allontanai
il resto della mia cena, investita improvvisamente dalla nausea.
«Non mi va,
sono stanca» feci, accarezzandomi il pancione.
Sentì lo schiocco della
sua mascella, mentre si
serrava, e il suo sguardo si spostò sulla strada. Un attimo
più tardi la
portiera dell’auto si aprì, e mi tese una mano per
farmi uscire dall’abitacolo.
«Finisci il tuo panino» fece, un tono che non
ammetteva repliche.
Lo spiluccai in silenzio sul tavolo
della cucina.
Avevo il suo sguardo addosso e non osavo sostenerlo. Troppo nauseata
per finire
realmente di mangiare lasciai la mia cena, abbassando il capo sulla
pancia. «Mi
dispiace» farfugliai, quando l’increscioso silenzio
divenne insostenibile.
Sentii il palmo della mano sulla
mia guancia.
«Guardami» fece, costringendomi a voltarmi senza
sforzo. «Non voglio che tu mi
dica questo. Voglio che mi spieghi cos’è successo
Bella, perché io non ho mica
capito, sai?».
Le mie labbra tremarono.
«Mi dispiace» ripetei,
sentendomi in colpa per tutto quello che dovevo avergli fatto passare
nelle
ultime ore. Presi la sua mano libera fra le mie, ansiosa.
Corrugò la fronte,
fissandomi con attenzione, cercando
di capirmi. «Bella, tu eri tranquilla, eri serena. Lo sei
sempre stata nelle
ultime settimane, non pensavo che la nascita della bambina
rappresentasse un
problema. Ma… oggi…» la sua espressione
si fece crucciata «cos’è successo?
Spiegami».
«Ho avuto
paura…» balbettai.
«E gli altri giorni?
Prima? Non avevi paura, sapendo
quello che inevitabilmente sarebbe
successo?». Parlava con calma, la
voce piena della logica e della razionalità che mi erano
mancate.
Abbassai il capo.
«Pensavo di avere tempo» ammisi
riluttante. «Ma il dolore è arrivato
all’improvviso, e Carlisle aveva detto che
mancava ancora molto, e ci sono ancora due settimane, e…
io… non credevo che…».
«Cosa non
credevi?» chiese, abbassando il viso per
cercare i miei occhi. «Spiegami, di cosa hai
paura?».
Lasciai che il suo sguardo mi
scrutasse, appena per
qualche istante, cercando un modo per dirgli cosa pensavo, o un modo
per
evadere dalla verità. Gli buttai le braccia al collo,
destabilizzandolo. «Avevo
paura, faceva male, e… La bambina non è pronta
Edward, è tanto piccina, e sta
così bene qui con me, nella mia pancia. Lei è
protetta con me, è protetta…».
Provò dolcemente a
staccarsi dalla mia presa, ma
infine rinunciò, sospirando e sollevandomi fra la braccia,
fino a condurmi in
camera da letto. «Amore» mi chiamò,
accarezzandomi i capelli e invitandomi a
sollevare la testa dalla sua spalla, «quando sarà
nata, sarà stupendo» parlò
piano, con gentilezza «noi ci occuperemo di lei, la faremo
crescere nel
migliore dei modi. E noi la proteggeremo, come la stai proteggendo tu,
adesso,
con il tuo corpo. Nessuno ce la porterà via».
Sospirai, abbassando il capo. Se
nessuno l’avesse
portata via da noi, chi poteva garantirmi che niente mi avrebbe
convinto a
farlo io stessa? No, avrei detto, in quel preciso
momento, se qualcuno
me l’avesse chiesto. Non potresti mai allontanare
tua figlia da te. Eppure
in preda al terrore l’avevo già fatto.
Edward
I miei soli e costanti desideri in
quei giorni erano
stati la salute e il benessere di Bella e della bambina. Mia moglie si
stava
riprendendo adeguatamente da tutto quello che era successo nelle ultime
settimane, e la bambina cresceva sana e serena, coccolata dai suoi
genitori.
Avevo il controllo di quello che mi
stava attorno.
Sorreggevo, accudivo silenziosamente, mi beavo dei momenti
più dolci. Dopotutto,
non sembrava andare tanto male.
Dopotutto, a quanto pareva, avevo
fatto male i conti.
Sentendomi tirare la manica della
camicia e vedendo
l’espressione dolorante e terrorizzata di Bella, avevo
sentito una scarica di
quella che non poteva essere adrenalina. Mancavano due settimane, era
vero, ma
sapevo benissimo quanto fosse comune nelle primipare anticipare la data
del
parto. E quando Rosalie aveva pensato, ansiosa «Le
contrazioni sembrano
piuttosto lunghe e dolorose. Era già indolenzita prima,
Edward. Non è prudente
rimanere qui». Avevo capito che stava succedendo
davvero, mi figlia stava
per venire al mondo.
E mi ero sentito angosciato,
agitato, nervoso, entusiasmato,
elettrizzato. E avevo prontamente represso tutto con quel sangue freddo
che,
ironicamente e non, non poteva mancare.
Ma Bella! Niente mi avrebbe mai
preparato alla sua
reazione. Lei era solo e semplicemente terrorizzata.
Sospirai, cercando di prestare
seria attenzione al
discorso che mio padre mi stava facendo sul branco di La Push.
Concordavo perfettamente con lui. Non potevamo lasciare nulla al caso,
dovevamo forzatamente
ristabilire il patto, e trovare un modo per metterci pacificamente in
contatto
con loro, dal momento che rifiutavano ogni tentativo da parte nostra di
farlo.
«É il
tuo telefono» pensò Carlisle, unendo
questo
al flusso dei suoi pensieri.
Sussultai, mettendomi una mano in
tasca. Mio padre
strinse gli occhi, perplesso per il mio comportamento. Stavo andando
fuori di
testa con questa storia dei licantropi e di… Bella.
«Pronto?»
risposi al cellulare, modulando la voce il
modo che anche l’udito umano la potesse percepire. Avevo
lasciato Bella a casa
con Jasper, sperando che il suo potere riuscisse a calmarla.
«Edward devi venire
subito». Jasper. Il sempre calmo e
carismatico Jasper era nervoso. Poteva voler dire solo una cosa.
Feci un cenno secco a Carlisle, e
prima ancora di
aspettarlo saltai dalla finestra, alla volta di casa. «Da
quanto?» chiesi
velocemente. Non era la prima volta che si ripeteva. Bella aveva avuto
ancora
contrazioni.
Quando arrivai da lei era agitata,
le labbra strette e
le lacrime agli angoli degli occhi. Provava a non farsi prendere dal
panico. Perché?,
mi chiedevo, struggendomi al pensiero, perché deve
andare nel panico, quando
sta succedendo quella che considero la cosa più bella che
possa capitarci?
La strinsi a me, facendole morire
il gemito di dolore
in un bacio. «Shh, tranquilla. Andrà tutto
bene» la rassicurai prontamente.
Strinse i denti e annuì.
Terrorizzata.
A chi la dava a bere? Era terrorizzata. Dopo averle parlato, ogni volta
che
aveva una contrazione non si ribellava più, non piangeva
più, non gridava,
nemmeno, più. Ma come non notare il terrore nascosto dai
suoi lineamenti
tremanti, dagli occhi rossi, o dalle labbra strette per fermarne il
tremito?
Ora negava.
Negava ogni sorta di paura.
«Ah…»
si lamentò, irrigidendosi fra i cuscini. Mio
padre che si dava da fare per controllare la situazione. Si strinse
forte con
le braccia a me, cercando conforto. Osservavo attento i movimenti di
Carlisle,
ascoltavo i suoi pensieri metodici, ma non glielo negai. Modulai la
voce,
addolcii il tono. «Sta tranquilla Bella, è il
primo figlio il più difficile,
poi gli altri verranno da sé».
S’irrigidì fra
le mie braccia, e quando mi voltai a
scrutare il suo volto era semplicemente… senza parole.
Serrai i denti,
silenzioso. Ci avevo pensato. Non l’avevo ancora, prima
d’ora, resa partecipe.
Non osai immaginare cosa si celasse
realmente dietro
quell’espressione, che si piegò senza fiato sul
pancione, dolorante.
Mi voltai celermente verso
Carlisle. «Mi dispiace
ragazzi» fece, scuotendo il capo, «ancora non ci
siamo».
La mia espressione diceva tutto
quello che ancora non
avevano detto le parole. «Com’è
possibile che soffra tanto?».
Carlisle si sfilò i
guanti, fissando Bella con un
sorriso per non farle intendere nulla. «Edward, sta
tranquillo. Sai che per
ogni donna è diverso. E lei si fa prendere dal panico, e
sente l’agitazione e
il dolore. Quando saranno quelle vere noterà la differenza».
L’aiutò a
risistemarsi sui cuscini, consigliandole di
cambiare posizione per alleviare il dolore. Come previsto da mio padre,
procedendo irregolarmente e a singhiozzi, man mano le contrazioni
scomparvero. La
rassicurai in ogni istante, tenendole la mano stretta alla mia, proprio
come
avevo promesso. Ad ogni contrazione più corta, ad ogni
intervallo più lungo, i
suoi occhi, che non facevano altro che muoversi a scatti per la stanza,
rallentavano sempre più il loro frenetico andare.
«Lo so»
rispondeva ormai, in un sussurro, alle mie
rassicurazioni.
Quando fu fatta notte,
crollò addormentata, stremata,
fra le mie braccia.
Poteva un vampiro avere mal di
testa? Socchiusi la
porta della stanza, così che se mi avesse chiamato o avesse
avuto bisogno di
aiuto sarei potuto andare velocemente da lei.
«Sta bene?»
chiese cortesemente Esme, seduta sulla
penisola della cucina a mano a mano con Carlisle.
Mi passai una mano fra i capelli.
«Si, si è
addormentata da poco». Mi sedetti su uno sgabello dalla parte
opposta della
penisola, appoggiando i gomiti sul tavolo e la testa sui pugni.
«Sta
tranquillo» mi rassicurò mio padre, «sta
bene.
Tutto questo è estremamente comune, il suo corpo si sta
preparando al parto. Mi
sarei aspettato una qualche risposta, invero, ma il progesterone che le
abbiamo
dato qualche settimana fa deve aver rallentato le cose».
Sollevai un sopracciglio, piegando
il capo sulle mani
per guardarlo in faccia.
Sembrava serio. «Se le
cose non procedono naturalmente
dovremmo indurre il parto, Edward…»
cambiò tono quando mi vide scuotere il capo,
un sorriso amaro sulle labbra, «ci sono diversi metodi, anche
indiretti.
Lasciale più spazio per occuparsi di sé, della
casa, dalle motivo di stancarsi.
Non deve compire sforzi eccessivi, ma questo non mi sembra
impossibile…» si
fermò di fronte al mio continuo dissenso. E infine aggiunse:
«aspettare troppo
significa correre rischi. Per ora la bambina è abbastanza
piccola, e ci
possiamo permettere di temporeggiare, ma quando non lo sarà
più ci sarà poco
fra cui scegliere».
«Tu non
capisci» dissi, lasciando cadere le braccia
sul ripiano e drizzandomi finalmente a guardarlo.
«É terrorizzata anche per
tutti i più piccoli crampi, per ogni dolorino. E non
è nella natura di mia
moglie, lo sai. Prima le dovevo leggere le labbra per trovare un gemito
soffocato, dovevo osservare ogni gesto per cercare di capire quando,
con
dolore, si portava una mano alla pancia. Ma ora non è
così. Lei non
vuole che nasca. E io comprendo l’ansia, comprendo la paura,
ma Bella non è
così. Lei è terrorizzata».
«L’ansia da
parto è comune, Edward».
Diniegai col capo e mia madre
allungò le mani sul
tavolo, prendendo le mie fra le sue. «Figlio mio, io lo so
cosa pensa Bella»
disse, con tutto il suo tatto e la sua gentilezza
«anch’io ero felice, pensando
di poter avere il mio piccino fra le braccia. Eppure, quando fu il
momento del
parto, provai anch’io tanta paura». Quasi
inconsciamente si portò una mano a
quello che per sempre sarebbe stato un ventre piatto. «Un
po’ per il dolore, un
po’ per il disagio. Un po’ per la paura e
l’inadeguatezza che sentivo. Ma
soprattutto, per la paura di separarmi da lui. Vedi Edward, quando lo
senti
crescere dentro di te, lo nutri, lo proteggi, lo senti come una parte
di te
stessa. E sai che niente potrebbe fargli del male, perché
prima, tu stessa, lo
proteggeresti con il tuo stesso corpo».
Sospirai, abbassando il capo.
«Ma lei è così
terribilmente afflitta…».
«Bella ha un legame
speciale con sua figlia. Per nove
mesi sono state in stretto contatto. Non è facile
rinunciarvi» finì, e si
ritirò sul suo sgabello, lasciando che Carlisle le
accarezzasse con discrezione
le spalle.
Sentii dei movimenti provenire
dalla camera, e attesi
qualche istante, finché non udii la porta del bagno aprirsi.
«Scusatemi» dissi,
alzandomi e procedendo a passo umano verso la camera.
Quando entrai mi chiusi la porta
alle spalle, e attesi
finché Bella non riaprì la porta. Andai ad
aiutarla.
«Ehi… sei
qui» mormorò, appoggiandosi al mio corpo.
Insistetti affinché dormisse ancora, ma lei si oppose tanto
che alla fine
lasciai che si sedesse, la schiena contro la testiera del letto.
«Vuoi che mi stenda un
po’ io con te?». Certamente non
avevo bisogno di dormire, ma avevo preso l’abitudine di farle
compagnia la
notte, stendendomi al suo fianco e tenendola fra le braccia.
Abbassò gli occhi,
evasiva. Temporeggiò. «Carlisle è
ancora qui?» chiese infine, ma pensai che non fosse realmente
ciò che intendeva
dirmi. Tuttavia risposi, fingendo di non accorgermene. Allora
sollevò timidamente
lo sguardo. «Cosa» fece, e si interruppe con una
smorfia, «prima. Hai detto una
cosa su… altri figli».
M’irrigidii, presi in
contropiede. Certamente, la
mente di mia moglie non smetteva di stupirmi. Rilassai le spalle,
scrutandola
in viso per cercare di intuire i suoi pensieri. Non era affatto
semplice. «Si»
risposi cauto.
Lei annuì
frettolosamente, spostando imbarazzata lo
sguardo. Non avrei voluto che l’argomento venisse fuori
così, e il fatto che mi
fossi lasciato sfuggire quella frase testimoniava quanto la mia mente
fosse
assurdamente presa dai problemi che incombevano.
Sospirai, deciso ormai a parlarne
seriamente. «Ci ho
pensato. E sinceramente pensavo che inizialmente non avresti mai
acconsentito.
Ma considerando ora che durante la gravidanza la tua crescita rallenta,
non
dovresti porti problemi sulla tua età. Naturalmente
è una decisione che
dobbiamo prendere insieme».
Mi fissò in silenzio, e
si morse un labbro.
«Sinceramente…» mormorò
«non ci avevo pensato. Ma… si» fece con
un sorriso
appena accennato «penso che la gioia di avere un figlio sia
immensa… perché
non quella di averne altri? Avremmo
un’eternità davanti, e ora che sono
umana, sarebbe giusto… cogliere
l’attimo» fece, sostenendo debolmente le sue
parole con un rossore sulle guance.
Le sorrisi, sinceramente colpito e
rinfrancato dalla
piega che stava prendendo il discorso. Parlare ancora delle sue paure e
dei
suoi timori, temevo, non avrebbe fatto altro che accrescerli. E non
potei
essere più felice quando anche lei mi sorrise, serena come
non mi sembrava da
tanto. «Spero non ti dispiacerà doverti abituare
per un po’ al pancione» fece,
accarezzandosi la pancia.
Mi avvicinai al suo viso,
baciandole appassionatamente
le labbra. «Non credo, mai. Avremmo tantissimi
figli».
Rise, divertita.
«Tantissimi? Non esagerare, Edward».
«Almeno dieci»
feci, con un tono dispettoso che
nascondeva una certa verità.
Mi fissò, scandalizzata
e sorpresa. «Dieci! Ma per chi
mi hai preso? Magari tre potrebbero bastare».
«Tre? Tre sono pochi. Non
dimenticare l’epoca da cui
provengo…».
«Ma smettila»
mi interruppe con un risolino, dandomi
una leggera pacca sulla spalla. E mi beai di vederla così
spensierata. «Tu eri
figlio unico Edward».
Le sorrisi, avvicinandomi al suo
viso e godendo al
sentire il suo cuore accelerare la sua corsa. «Ne avremmo
quanti ne verranno.
Con felicità e gioia». Mi sorrise, e la baciai.
«Pronto?».
La voce di Sam Uley dall’altro capo
del telefono.
Bella mi scoccò
un’occhiata timorosa, e le strinsi la
mano, facendole un cenno col capo. «Sam, sono Bella. Isabella
Cullen» precisò,
utilizzando il mio cognome.
Non rispondendo a nessuna delle
nostre chiamate o
tentativi di metterci in contatto, avevamo pensato che Bella sarebbe
stato
l’unico ponte percorribile.
Ci fu solo qualche attimo di
esitazione. «Bella»
fece, premurandosi di non aggiungere altro.
Mia moglie prese un respiro, e
sentii il suo cuore
battere veloce. Portai la mano libera sulla sua pancia. Avevamo
ripetuto mille
volte, tutti, cosa avrebbe dovuto dire. Ma trovarsi con sette vampiri
immobili
e silenziosi a fissarti, carichi di aspettativa, e un licantropo
dall’altra
parte del telefono, non doveva essere semplice. La accarezzai, mimando
con le
labbra ‘stai andando bene’.
«Sam» face, e
si interruppe per schiarirsi la voce
«alla luce degli ultimi avvenimenti, pensiamo che sia
necessario ristabilire e
riconfermare il patto che ci consente di vivere serenamente. Per questo
vorremmo incontrarci» ripeté, con un tono deciso
per quanto tremante.
Le sue labbra vibrarono mentre il
silenzio dall’altro
lato si faceva sempre più lungo.
«Non
c’è niente da ristabilire».
La linea cadde.
Con la cornetta ancora in mano,
Bella mi guardò
angosciata.
Ciao a
tutte!
Ho fatto
una bella vacanza, lì da mia sorella, a Pavia. Sono mancata
tredici giorni, e
ora eccomi con l’aggiornamento, perdonatemi il ritardo.
Molto
presto (si spera :P) aggiungerò anche il prologo della nuova
storia che da un
po’ di tempo mi sta frullando nella testa, dal titolo
“Diamante”.
Allora.
Bella dà un po’ di matto. Perché?
Perché Bella, dannazione, non si è accorta
prima della sua paura, com’è possibile che abbia
avuto questa reazione?
Ecco,
secondo me reazioni del genere non si posso prevedere, non
consciamente. É la
paura, il terrore di quell’attimo, a far scattare
“la molla” ed individuare le
cause.
Spero
abbiate apprezzato l’Edward POV. La cosa in cui mi diletto
maggiormente quando
scrivo dal suo punto di vista, è la totale dedizione e
ammirazione che ha nei
confronti di sua moglie. Questo spasmodico desiderio di capirla e
amarla.
Cosa
accadrà, ancora, cosa ci farà questa sadica e
cattiva scrittrice, mai puntuale,
e così lunatica? Vi chiederete.
Lo so,
sono pessima. Ma state all’erta, i guai non sono finiti.
(Credo si capisca
dalle ultime righe).
Ringrazio
tutti. Preferiti, seguiti.
E tutti,
tutti quelli che commentano facendomi ridere, facendomi commuovere,
facendomi
increspare le labbra o sghignazzare. (Faccio tutto questo). Leggo ogni
singolo
commento con gioia, ballando sulla mia poltroncina rossa. Grazie,
grazie, grazie.
PS. In
questi giorni ho pubblicato una shot, di nome
“Lussuria”,
che ha partecipato al
contest di erzsi.
Troverete tutti i link nel capitolo, se vi va di
leggerlo.
Ovviamente, invito a farlo solo ai maggiorenni, visto che, come si
sarà capito,
è a rating rosso.
PPS. Scusate
per la lunghezza di questo e dei prossimi capitoli. Scusate, ma sono
gli
ultimi!!!
Silenziosa, mi mossi da una stanza
all’altra,
sistemando quello che mi capitava a tiro.
Ero turbata. Incredibilmente
turbata per il nostro
rapporto con i licantropi.
«Non
c’è niente da ristabilire».
Cosa dovevo farmene di quella
frase? C’era, eccome,
qualcosa da ristabilire. E se loro fossero stati in buoni e sereni
rapporti con
noi, non avrebbero opposto alcuna resistenza. Ma era solo
l’astio per la morte
di Jacob?
Proprio quello che stavo cercando
di evitare, una vita
nell’angoscia, mi stava ora perseguitando.
Quando passai davanti a Edward, con
il carico di
biancheria fra le braccia posato appena sull’enorme pancione,
sussultò. Mi
fissò, e strinse le labbra. Ma dovette reputare che quel
carico non fosse
abbastanza eccessivo per dovermi venire ad aiutare.
Quattro giorni. Erano passati
quattro giorni dalla
presunta data del termine, ma ancora niente faceva presagire che il
parto fosse
vicino. «La testa della bambina non ha ancora impegnato il
bacino, e non c’è
dilatazione». Queste le parole di Carlisle, che accompagnate
da un’occhiata
appena velata, dicevano: “Se continua
così dovremmo indurre il parto”.
Ma io non ce la facevo. Non potevo
pensare
contemporaneamente alla questione dei licantropi e a quella di mia
figlia.
Dovevo necessariamente affrontare una cosa per volta. Sussultai a un
dolorino,
portandomi una mano alla pancia e sorreggendomi al cassettone. Presi un
respiro
profondo, e il dolore sparì.
Questo genere di cose mi avevano
disturbata
abbastanza, in quegli ultimi giorni. E sempre vedevo
l’espressione inquieta di
Edward, non potendo fare a meno di sentirmi in colpa. Dopotutto, se non
fosse
stato per la mia reazione, non si sarebbe mai sentito così
nervoso. Quindi
tacevo, nascondevo il dolore, e lasciavo morire l’ansia e la
paura dentro di me.
Quando tornai nel soggiorno,
però, mi sedetti stremata
sul divano. Non riuscivo a stare in piedi così a lungo, mi
dolevano le gambe,
la schiena, e l’enorme pancione indolenzito. Sospirai. Il
pranzo era passato,
ma avevo mangiato appena mezzo sandwich, lo stomaco fin troppo pieno,
in quel
momento. Adesso, invece, a due ore di distanza, morivo di fame. Ma
avrei doluto
prepararmi da mangiare se avessi desiderato sfamarmi.
Edward, però, non
osò obbiettare al mio sguardo
stanco. Dopotutto, evitare di assistermi e coccolarmi non aveva mai
fatto parte
della sua natura.
Mi lasciai andare con un sospiro
fra i cuscini del
divano; tuttavia, troppo presto, qualcosa mi costrinse ad alzarmi. Il
telefono
che squillava. Sapevo quasi certamente la chiamata sarebbe provenuta da
Jasper
o Emmett, con quelle che erano le scarse notizie sui licantropi.
Tutti rimandavano una decisiva
scelta in merito a dopo
la nascita della piccola. Per ora, eravamo in stato
d’allerta. Ma la decisione
che avremmo dovuto prendere, appena accennata da Jasper, era una:
partire. Loro
cominciavano a dover dimostrare un’età sempre
maggiore di quella consentitagli,
e prima o poi sarebbe successo.
Ma mi ero abituata alla mia casa.
Alla cittadina. A…
mio padre.
Eppure, prima o poi avrei dovuto
rinunciarvi.
«Pronto?»
risposi in un sospiro.
«Isabella».
Mi drizzai, portandomi una mano
dietro la schiena. «Professor
Philip» lo chiamai, sorpresa di sentire la sua voce. Ancor di
più di sentirla
con quel tono.
«Isabella»
borbottò, e sembrava stanco,
affaticato, agitato «devi venire qui, subito».
Sbattei le palpebre, confusa, e
Edward mi apparve
immediatamente dinanzi. «Cosa… cosa
succede?».
Ci furono degli ansiti, dei
sospiri, che non fecero
altro che farmi agitare di più. «Isabella,
ti prego, vieni qui» fece, con
quello che sembrava il tono di un angosciosa supplica.
«Io…
io…» balbettai, fissando il volto imperturbabile
di mio marito. Fece un cenno per farsi passare il telefono, ma
diniegai,
stringendo più forte le dita sulla cornetta.
«Ti prego
Isabella, ti prego. Vieni… a casa mia… da
sola» disse, e la voce tremò di uno
stranissimo tono. Poi la chiamata fu
interrotta.
Lasciai che Edward mi sfilasse la
cornetta di mano,
troppo interdetta per farlo io stessa.
Deglutii, angosciata, e sollevai lo
sguardo per incontrare
quello di mio marito, inintelligibile.
«Edward…» farfugliai.
Serrò la mascella.
«Non se ne parla».
Sospirai, sentendo le labbra
tremare. «Lui ci ha
aiutati…».
«Anche
ingannati».
«Edward…»
lo richiamai, portando le mie mani al suo
volto. «Non posso lasciarlo così. E se stesse
male?» soffiai, a delle immagini
mi passarono alla mente. Le immagini del mio sogno, di lui, morente. Mi
morsi
violentemente il labbro, sentendo il dolore spostarsi dal cuore alla
pancia.
Mi scrutò, attento,
osservando la mia espressione. «Manderemo
qualcun altro» fece infine.
«Ti prego, Edward,
lui… voleva me…» feci, abbassando
la sguardo. Ancora le immagini imperversarono nella mia mente. La sua
voce
debole che mi chiamava col nome di sua figlia.
Portai una mano alla bocca, quasi
sull’orlo delle
lacrime, e mi defilai immediatamente, avanzando verso
l’ingresso e afferrando
il cappotto. Quando allungai la mano per afferrare le chiavi della mia
auto,
nella ciotola, mi sentii stringere fermamente il polso.
Mi voltai verso mio marito,
un’espressione mista fra
supplica e determinazione. «Lasciami andare. Ti
prego…».
Mi fissò silenzioso, in
una battaglia di sguardi.
Infine abbassò il viso, e prendendo le chiavi dalla ciotola
mi lasciò andare il
polso. Afferrò il suo giaccone e aprì il portone,
tenendolo aperto e facendosi
da parte per farmi passare.
«Edward»
sospirai, abbassando le spalle.
«Non credere che ti
faccia andare sola, al termine
della gravidanza, così lontana da casa, da
quell’uomo meschino e…»
indurì
l’espressione, rivelando la sua paura «con i
licantropi in giro».
Esitai, ma ben presto capii che
quello era già il
massimo di quello che mi avrebbe potuto concedere.
Assecondando la mia ansia,
guidò alla sua massima
velocità sulla strada per Sequim. Io provavo insistentemente
a richiamare il
professore, ma ogni tentativo cadeva nel vuoto di continui bip.
Sospirai,
lasciando cadere il cellulare nel portaoggetti del cruscotto.
«Calmati» fece
Edward, portando una sua mano sulla
mia, «stiamo andando da lui, e capiremo cosa succede. Non
manca più di
mezz’ora. Chiama Emmett, piuttosto, e digli dove siamo. Non
erano previsti
nostri movimenti».
Ripresi il cellulare e composi il
numero. «Cosa vuoi
dire? Non erano previsti?» chiesi perplessa.
Sospirò, e rispose in
modo evasivo. «Dobbiamo
avvisarli per fargli tenere la situazione sottocontrollo».
Dovetti lasciare cadere il discorso
per poter avvisare
Emmett di quello che mi aveva appena detto Edward. Ma quando mi chiese
le coordinate
della nostra posizione passai il cellulare a lui, lasciando che fosse
più
veloce e preciso di me.
Mi lasciai andare sul sedile, e
sentii un fastidioso
formicolio avere principio dai reni e dalla sommità della
pancia, fino a
spandersi verso il basso e le gambe, intensificandosi in dolore.
Sospirai,
socchiudendo gli occhi.
«Tutto bene?»
chiese, e capii avesse chiuso la
chiamata.
«Che cosa vuol dire che i
nostri movimenti non erano
previsti?» incalzai, eludendo la sua domanda.
Si voltò, restio a
rispondere. «Che per essere
maggiormente sicuri sulla questione dei licantropi abbiamo organizzato
un
sistema di sicurezza, tutto qui…».
Sospirai, cercando di ignorare il
dolore. «Sempre
l’ultima a sapere le cos…» strinsi i
denti, sussultando, sentendolo incalzare
sempre più.
«Bella?» mi
chiamò preoccupato Edward «Bella, hai le
contrazioni?».
Appena il dolore scemò
mi piegai su me stessa,
cacciando un respiro. «É tutto sottocontrollo. Ce
la faccio. Carlisle ha detto
che mi accorgerò quando saranno quelle vere. Adesso cambio
un attimo posizione
e… ah» sussultai, quando, benché mi
fossi girata su un fianco, il dolore restò
immutato.
«Bella» fece
Edward ansioso, guardando più me che la
strada pressoché deserta delle due di pomeriggio,
«io non credo che in queste
condizioni potremmo andare da qualsivoglia parte. Adesso torniamo a
casa»
s’interruppe, sentendo il mio gemito sofferente «o
direttamente in ospedale».
Presi fiato, e proprio in quel
momento il mio
cellulare squillò. «É il
professore» farfugliai, afferrandolo con mani
tremanti. Scoccai immediatamente un occhiata a Edward «un
attimo» feci, «un
attimo, lasciami parlare», e immediatamente risposi.
«Isabella»
il suo tono apparve se possibile più
angosciato di prima.
«Professore…»
iniziai, ma immediatamente m’interruppe.
«Isabella,
ascoltami» fece in fretta «devi
andartene, scappa, riparati dai tuoi vampiri». Mi
voltai a guardare Edward,
confusa, angosciata, dolorante.
Indurì la sua presa sul
volante, e pochi istanti dopo
un’espressione di terrore si dipinse sul suo volto.
«Edward» lo
chiamai, stridula e confusa per quello che
stava accadendo troppo velocemente.
«Isabella, i
licantropi vi stanno cercando! Mi
dispiace, mi dispiace! Ho dovuto farlo! Hanno preso la mia Kate! Mi
dispiace
così tanto!».
Ansimai, voltandomi terrorizzata
verso Edward. Odio e
terrore erano dipinti sul suo volto. Mi aveva chiamata sotto ricatto
dei
licantropi. Era una trappola. Mi aveva ingannata.
Eppure, le parole che seguirono
cambiarono ogni cosa.
«L’hanno
presa…Hanno detto che la
uccideranno… Ma… io non ho potuto»
fece, l’afflizione peggiore che si possa
provare, quella di essere così vicini a ritrovare un figlio
e perderlo per
sempre. «Sei ancora in tempo, vattene»
disse, e la sua voce scomparve,
isolandosi nel suo dolore.
Ci aveva avvisati… pur
sapendo… che avrebbe perso sua
figlia per sempre.
«Maledizione!»
esclamò Edward, perdendo per un istante
il suo terribile controllo. La sua gamba si muoveva a vuoto sul pedale.
Ci
aveva avvisati, potevamo salvarci, allora perché…
Mi portai una mano alla pancia,
ansimando spaventata.
«Che succede?» chiesi stridula.
«I freni, non
funzionano» disse asciutto. Subito dopo
fece passare un braccio oltre le mie spalle, traendomi a sé.
Serrai gli occhi
quando tirò il freno a mano, ma neppure in quel caso
l’auto si arrestò.
Serrò con più
forza la presa, guardandosi velocemente
intorno e dietro. «Dannazione».
Mi bastarono fugaci e veloci
occhiate agli specchietti
retrovisori. Eravamo chiusi. Dietro di noi, un’auto da rally.
Di lato e
davanti, tre lupi immensi.
Edward sterzò
bruscamente, provando a perdere velocità
urtando la fiancata contro il guardrail. Strinse i denti, scoccandomi
un’occhiata, quando i nostri inseguitori serrarono lo spazio
intorno a noi.
«Tieniti a me, forte».
Gli gettai le braccia al collo,
stringendomi a lui con
tutta la mia forza. Subito dopo, sentii il rumore delle cinture di
sicurezza
che si laceravano. Tremai, chiudendo gli occhi, e altri frastuoni
giunsero alle
mie orecchie. La presa di Edward sul mio corpo
s’intensificò, e sentii uno strattone
e uno spostamento d’aria.
Pochi secondi più tardi,
ansimante, realizzai di
essere sulla terraferma. Il sibilo impazzito del motore si
allontanò,
affievolendosi. Feci appena in tempo a sbirciare oltre la spalla di
Edward, che
vidi l’auto andare fuoristrada, fermandosi contro un albero.
Mi voltai verso mio marito, le mani
ancora in
un’assurda presa sul suo collo, ansimando spaventata. Il suo
volto immobile mi
fissava, teso. Gemetti, piegandomi sulla sua spalla, quando un dolore
improvviso mi colse impreparata. Era decisamente intenso, diffuso
dall’alto al
basso in tutta l’estensione dell’addome.
«Edward…» mi lamentai terrorizzata
«sono quelle vere…».
Non feci in tempo a dirlo, che mi
trovai fra le sue
braccia, delle immagini verdi e sfocate intorno a noi.
Tutto stava succedendo
così in fretta e così precipitosamente
da non darmi il tempo di pensare. Il professore si era sbagliato, non
eravamo più in tempo. E malgrado il puro moto
d’odio e biasimo che avevo
provato nei suoi confronti nel primo istante, ora non poteva che
stringermisi
il cuore per il suo vano sacrificio.
Sentivo i loro ringhi, ci stavano
raggiungendo.
Improvvisamente Edward
cambiò direzione, scartando due
alberi e saltando su un ramo, tenendomi facilmente fra le braccia,
stretta e
protetta. Pochi secondi ancora, e scattò di nuovo, deviando.
I suoi movimenti
si fecero più discontinui e veloci, intermittenti, nervosi.
Il cuore mi batteva forte contro il
petto marmoreo di
mio marito, e la paura e il dolore domavano ogni altra emozione,
facendomi
pensare di stare vivendo un incubo. Solo un altro incubo.
Edward si arrestò. Si
arrestò fra due file di alberi,
ruotando velocemente su se stesso e ringhiando. Non avevo la sua vista,
e i
nostri sensi non erano neppure paragonabili. Ma lo percepivo. Eravamo
circondati.
Si voltò a guardarmi, mi
strinse più forte, con
un’espressione mista fra concentrazione e rabbia, e
muovendosi più velocemente
di quanto non avesse fatto finora, corse per circa dieci metri, tanto
da
riuscire a darsi lo slancio per scattare contro il tronco di un albero
e
saltare, in alto, nella direzione opposta.
In quel momento accadde la cosa
peggiore che potesse
succedere. Percepii un colpo, filtrato attraverso Edward, e sentii la
presa
delle sue mani venire letteralmente strappata dal mio corpo.
Ci separarono.
Dopo un volo di circa cinque metri,
completamente
priva d’equilibrio, venni bloccata, sospesa con i piedi e
pochi centimetri dal
terreno. Due mani caldissime sulle braccia, e un petto altrettanto
caldo contro
la schiena. Sentii il frastuono, una serie di ringhi, e nella posizione
in cui
mi trovavo non potei non vedere cosa stava accedendo.
Edward era steso per terra, quattro
enormi lupi su di
lui.
«No!» urlai con
tutta la mia forza, provando a
divincolarmi dalla morsa che mi costringeva con assoluta
facilità le braccia. «Edward!».
«Basta!»
decretò una voce che immediatamente collegai
con quella di Sam. Fra me e mio marito, a pochi metri di distanza
l’uno
dall’altra, comparve la figura del capo branco, in forma
umana.
Arrestai i miei movimenti, e i
licantropi fecero lo
stesso. Lo vidi. Edward era a terra, e le loro zampe, le unghie
affilate, lo
costringevano al suolo, impedendogli di muoversi. Si dibatteva
seccamente,
ringhiando.
Il panico che sentivo doveva essere
immotivato,
scaturito da una reazione angosciosa al loro comportamento. Ci doveva
essere un
motivo. Non potevano volerci fare del male. Non potevano.
Ma mentre leggevo il terrore, la
rabbia, l’odio sul
volto di mio marito, del mio eterno amore, e l’espressione
neutra e fissa di
Sam, il panico crebbe impazzendo nel mio corpo.
«No…
Lascia-telo» ansimai, e mi ritrovai senza fiato per
il dolore. Le braccia che mi imprigionavano mi strinsero con
più forza,
sostenendomi.
«Bella!»
gridò Edward, provando a sollevare la testa.
«Lasciatela! Lasciatela andare!». Ripresi un
respiro non appena la contrazione
passò.
Sam fece un passo, poi si
bloccò. Una smorfia si
dipinse sul suo viso. «Voi» fece, e parve quasi che
le parole gli si mozzassero
in gola.
Panico. Puro panico.
Perché malgrado il dolore,
malgrado il terrore, c’era una parte della mia mente,
istintiva o non, che non
poteva credere che non ci fosse qualcosa di terribile in agguato per
noi. Non
ci avrebbero presi. Non ci avrebbero trattenuti. Accerchiati, fermati,
inseguiti.
Non c’è niente
da ristabilire.
Perché per loro il patto
era già irreparabilmente
rotto.
Sam ringhiò, e scosse la
testa violentemente. «É stato
deciso… dovete…»
s’interruppe, e tremò «morire.
Uno di fronte all’altra…
senza potervi… toccare… ma… per
leggere il dolore… negli occhi…
dell’altro»
fece, digrignando i denti e arrancando con le parole fino alla fine.
Lasciai un ansito sconvolto, non
riuscendo né a
muovermi né a parlare.
Sam si fissò una mano
tremante, e i suoi occhi neri
furono in uno scatto secco nei miei. «Jacob» disse,
strozzando il suo nome fra
i denti «ce lo ha ordinato».
Sentii il mio corpo pulsare. La
nuca, la gola, le
braccia, dove la presa di faceva più forte.
Edward. La
bambina.
«Ah…»
ansimai, e non opposi alcuna resistenza quando
il mio corpo si piegò in un movimento convulso sul pancione.
«Bella, no!»
gridò sbracciandosi, provando a
sollevarsi. I suoi occhi chiari ardevano di terrore. Il suo viso era
tirato.
«Lasciatela andare, sta male! Lasciatela andare!
Bella!».
«Edward…»
farfugliai, stentando a rimettermi in piedi.
Devastata. Psicologicamente e
fisicamente.
Tutti i licantropi erano immobili.
Il ragazzone che mi
bloccava, non ancora identificato, non si muoveva, come loro. Stavano
solo
aspettando l’ordine per mettere in atto l’omicidio.
Ma come poteva essere
possibile?
Jacob era morto. L’avevo
visto con i miei occhi.
Il tono di voce di mio marito si
abbassò, diventando
mellifluo e suadente. «Lasciatela stare, lasciatela andare.
Cosa ve ne fate di
lei? Sono io il vostro nemico naturale, sono un vampiro, uno stupido
succhiasangue» le teste dei licantropi scattarono nella sua
direzione,
facendomi tremare dal terrore «lasciatela andare»
incalzò, suadente «lei è
umana, voi dovete proteggere gli umani da quelli come me, come avete
sempre
fatto» un lupo dal colore bruno piegò il capo,
lasciando un respiro secco.
Tremai, angosciata. Non poteva
farlo. Non poteva
dirlo. Mi sentii stringere la gola, come se stessi per soffocare, ma
capii
essere solo il terrore.
Stavo per perdere l’amore
della mia vita.
I quattro licantropi si piegarono
su di lui.
Ringhiarono. Uno, dal pelo color sabbia, guaì. Seth.
«Si, si, è
così. Voi dovete proteggerla» continuò
Edward,
suadente «come avete sempre fatto. É me che
volete, lei sta male, non può stare
male. É me che volete…».
«No…
no…» balbettai.
I lupi ringhiarono inferociti,
avvicinandosi a lui,
dimenticandosi quasi della mia presenza. Uno diede una zampata a vuoto,
vicino
alla sua faccia, facendola morire nel terreno.
Non poteva, lui non poteva farmi
questo. «No…» feci,
in un sospiro, la bocca aperta per il terrore e lo stupore.
Fra i ringhi e i denti scoperti,
fra il pelo
infeltrito e arruffato, Edward si sollevò appena.
Stava per morire. Un sorriso di
scuse a nascondere la
naturale paura della morte. «Usa il tuo scudo. Vai
via» le sue parole
veleggiarono fino a me. Dolci. Affettuose.
«No!» urlai,
gli occhi pungenti di lacrime, sbracciandomi
con tutta la mia forza, provando a divincolarmi dalla presa che mi
costringeva
per correre da mio marito. Si stava sacrificando. Si stava sacrificando
per
noi, per proteggerci.
Lo scudo. Lo scudo. Dovevo usare lo
scudo. Usarlo, e
salvare tutti e tre.
I musi dei lupi si avvicinarono a
Edward. I denti
furono scoperti. Ringhiarono.
Le lacrime rotolarono sulle guance.
Ci provai. Tentai. Con tutte le mie
forze, con tutti i
miei pensieri. Ma non accadde nulla. Non avevo un perfetto controllo
sul potere
di mia figlia, ma quello andava ben oltre. Avevo paura, terrore. Lo
scudo si
sarebbe dovuto attivare.
Gemetti, un’altra
contrazione. Io e la bambina ci
stavamo separando.
«Basta
così» sibilò la voce di Sam. Tutti i
lupi si
bloccarono. Edward ringhiò, sbattendo un braccio
imprigionato contro il
terreno. Io tremavo, ferma, spaurita, le lacrime che cadevano
silenziose
inondandomi il volto.
Chiuse gli occhi, e la bocca
vibrò, come se stentasse
a trattenere un ringhio. Una smorfia comparve sul suo viso, e la spalla
si
contrasse.
Riaprì gli occhi.
«Uccideteli».
Edward ringhiò, e una
fila di denti, una tagliola, gli
si avvicinò alla gola, mentre gli altri lupi lo
imprigionavano al suolo. Non mi
ero neppure resa conto della mano scura che con la stessa mossa si era
avvicinata alla mia, di gola, avvolgendola con fermezza.
Aveva avuto ragione Jacob. Era la
cosa peggiore che
potessi immaginare, morire, vedendo la morte negli occhi di Edward.
Cosa l’aveva mai portato
a questo? A condannarci a
questa sorte orribile?
Gli occhi del mio eterno amore
brillarono. Odio,
rabbia, paura, amore. I suoi lineamenti tesi e la sua bocca stretta. La
sua
espressione contratta. Questo, i miei occhi avrebbero visto come ultima
cosa.
Non di migliore prospettiva poteva sicuramente godere sul mio volto.
E il nostro piccolo, piccolo amore
non ancora nato,
sarebbe stato trascinato nella morte proprio quando stava per venire
alla luce.
Che mondo crudele.
«Bella…»
sussurrò Edward, le labbra mosse appena.
Le mie tremarono, e non emisero
alcun suono. Forse la
mano che mi stringeva. Forse il panico che mi mozzava il respiro,
impedendomi
persino di pronunciare le mie ultime parole. Forse, il dolore che stava
arrivando,
inondandomi il grembo.
Urlai, e riuscii a portarmi le
braccia, ora libere, al
ventre.
Poi, sentii un ringhio rompere il
brutale silenzio.
Non era di Edward.
Edward
La mia mente era completamente
aperta ad ogni pensiero
circostante. Tutti i licantropi erano forzati, spezzati, confusi. Sam,
in
particolare, sentiva la sua coscienza latente e il peso
dell’ordine ricevuto,
che gli impediva di prendere una decisione diversa da quello che aveva
appena
decretato.
«Uccideteli».
Chi l’avrebbe detto, solo
pochi anni addietro, che la
mia fine, la fine di un essere dannato, mi sarebbe costata tanto dolore?
Forse perché
accompagnata alla morte dei due esseri
più cari, gli unici, capaci di redimermi.
Vedevo il volto di mia moglie
congelato nel terrore.
Le guance umide e pallide, completamente bagnate di quelle
inconsapevoli
lacrime che compivano il loro cammino. La labbra esangui lievemente
aperte,
tanto da soffiare gli ultimi respiri. Tremanti.
Era la nostra fine.
Mi sentii incredibilmente
soffocare, quando, in preda
ad uno spasmo di dolore, si tenne con le mani il grosso pancione,
urlando.
Voleva nascere. Nostra figlia voleva nascere, e doveva morire insieme a
noi.
E pensare che proprio lei,
l’oggetto dell’imprinting,
manteneva ancora vivo l’altrimenti decaduto ordine di Jacob,
morto. E lui lo
sapeva, l’aveva sempre saputo.
Improvvisamente, però,
dei pensieri si mossero
impazziti. Mi voltai verso il lupo color sabbia.
«La
più sacra di tutte le leggi del branco è che
nessun lupo può uccidere per nessun motivo
l’oggetto dell’imprinting di un
altro lupo… La bambina… il suo
imprinting…». Ringhiò. Un
bagliore e una
schiarita accompagnarono i pensieri di Seth, e non appena la sua presa
si
annullò sulla parte sinistra del mio corpo, fui tanto forte
da divincolarmi da
quella degli altri lupi, scattando in avanti.
Pochi, pochissimi momenti di
esitazione. Sam non fece
in tempo a trasformarsi, che lo colpii velocemente, spezzandogli il
costato e
il bacino. Non avrei mai voluto fargli del male. Ma dovevo, dovevo, per
poter
scappare.
Otto decimi di secondo. Raggiunsi
Jared, carceriere di
mia moglie, e gli riservai la stessa sorte. Seth era balzato davanti a
me,
proteggendomi dai suoi compagni, ancora stregati dall’ordine
di Jacob. Bella
era terrorizzata. Cercava la mia figura, non capiva, non vedeva. Era
successo
tutto così velocemente per i suoi occhi umani.
La presi fra le braccia, e scappai.
Seth ci aveva salvati
con il suo escamotage.
Strinsi il corpo di mia moglie, il
corpo di mia
figlia, al mio. Prima di separarci ancora avrebbero dovuto farmi a
pezzi.
Concentrai tutta la mia forza nelle gambe e corsi via, alla massima
velocità
che potevo permettermi.
Con istinto e facilità
la mia mente scartava gli
alberi e decideva la direzione da percorrere. Ci eravamo mossi molto a
sud-est.
Ora stavo risalendo verso ovest, il cuore della foresta nazionale della
penisola. Tutto il resto era concentrato sui pensieri dei licantropi.
Sam e Jared erano fuori
combattimento. Seth stava
cercando di trattenere i suoi compagni, ma era solo contro tre lupi. Il
fatto
che non intendessero fargli del male giocava dalla sua parte, ma non li
avrebbe
fermati ancora per molto.
Scattai, saltando su una roccia e
dandomi la
necessaria spinta per saltare sul ramo più alto di un
albero. Cercavo di
confondere la nostra scia.
Sentii mia moglie tremare fra le
mie braccia. Mi
concessi con facilità di abbassare il viso solo per
constatare che in realtà il
tremore non erano altro che singhiozzi che scuotevano convulsamente il
suo
corpo. Aveva una mano stretta alla mia maglietta. Una sul suo vestito,
sulla
pancia.
Sta male,
pensai angosciato, sta male e io non posso fermarmi.
Immediatamente alla mia vista si
rivelò un dettaglio
del sottobosco. Clathrus cancellatus. Mi lasciai
cadere verso il basso e
afferrai lo strano fungo rossiccio. Fungo proverbiale per
l’olezzo che emanava.
Lo sfaldai velocemente con la mano, non smettendo di correre,
passandomelo sui
vestiti e sulle mani. Dovevamo coprire il nostro odore.
«Sta
tranquilla» sussurrai a mia moglie, desideroso di
far cessare i suoi singhiozzi convulsi «non ci
prenderanno».
Ma il suo pianto crebbe, e con
più forza strinse la
mano alla mia maglietta. «Come hai potuto… come
hai potuto…» farfugliò fra le
lacrime, lasciandomi interdetto.
«Mi volevi
lasciare sola… con tua figlia… non
avrei mai potuto… mai… vivere senza di
te…» mormorò, con intenso dolore.
Distolsi lo sguardo, stringendola
più forte a me.
Avevo dovuto. E sarei morto mille volte per salvarle, e sarebbe
certamente
stato un più che giusto sacrificio. Un accenno di amaro
sorriso comparve sulle
mie labbra. Ci ero anche quasi riuscito.
Ma non dissi nulla di tutto questo
a mia moglie. La
strinsi più forte fra le braccia e la rassicurai.
«Ma non è successo, non è
successo amore, sta tranquilla. Adesso ci salveremo».
Serrò la sua presa,
stringendo un braccio oltre la mia
spalla. Aveva paura. Aveva temuto di perdermi per sempre.
«Non mi lasciare, non
mi lasciare ma… ah!» esclamò, serrando
gli occhi.
Un attimo più tardi,
sentii i pensieri di due
licantropi. Erano riusciti a sfuggire a Seth. Con la morte nel cuore
portai una
mano sulla bocca di mia moglie, soffocandole il gemito. Ci avrebbero
trovati,
altrimenti. «Ti prego» mormorai, abbassando quanto
più possibile la voce «ci
sentiranno».
Con gli occhi sgranati per il mio
gesto, ancora rossi
e umidi, tremò, zittendosi.
Avevo appena infranto una delle mie
promesse.
I suoi occhi esprimevano eppure
tutta la sua paura e
confusione. Non capiva cosa fosse successo, come fosse potuto
succedere, e
presto, presto mi ripromisi, le avrei chiarito tutto con più
di qualche vana
parola di rassicurazione. Più di quanto fosse, allo stato
attuale, chiaro a me.
Chi avrebbe detto che ancora una
volta nostra figlia
ci avrebbe condannati e salvati?
Solo la sua esistenza poteva aver
tenuto vivo l’ordine
di Jacob. Finché l’oggetto
dell’imprinting di un capo alfa fosse vissuto,
così
sarebbero sopravvissuti a lui i suoi ordini. Questa la
verità che avevo letto
nei pensieri di Sam.
Mai tormentati quanto quelli di
Seth. Non si
rassegnava all’idea del destino a cui dovevamo andare
incontro. Ci voleva bene
in fondo, con naturalezza e ingenuità. Ma l’ordine
lasciato da Jacob e
propagato e rafforzato da Sam lo aveva tenuto sottocontrollo
finché con immensa
astuzia non era riuscito a sfuggirgli.
«La
più sacra di tutte le leggi del branco è che
nessun lupo può uccidere per nessun motivo
l’oggetto dell’imprinting di un
altro lupo…».
Questo, gli aveva impedito di
attuare nella sua
interezza l’ordine. Una legge di lupo è
più radicata e importante in un vero lupo
che non vuole attuare l’ordine che gli è stato
dato. Uccidendo me e Bella,
Bella in particolare, avrebbe ucciso anche la bambina. Inconcepibile.
Contro la
più sacra di tutte le leggi.
Alla successiva contrazione Bella
si piegò si di me,
ma strinse così forte i denti che non un solo suono
uscì dalle sua labbra. Le
baciai la tempia. Un velo di sudore stava cominciando a coprirle il
corpo.
Dovevo muovermi, uscire dalla foresta e andare in un ospedale, o
chiamare
Carlisle.
Ma la prima cosa da fare sarebbe
dovuta essere
seminare i licantropi. Ero veloce, ma loro erano in due, e non avevo
sufficientemente disperso la traccia. Ad un tratto, però,
sentii il rumore di
un fiume, e deviai istantaneamente.
Temporeggiai solo un secondo alla
riva. «Stai bene?»
chiesi con preoccupazione. Non riuscivo quasi più a sentire
i pensieri dei
lupi.
Aveva le guance striate di rosso.
«Ce la faccio»
soffiò, stringendosi a me.
In un istante afferrai il cellulare
dalla tasca dei
jeans, mettendolo in una chiusura protetta del cappotto. Speravo non si
bagnasse. Mi voltai verso il mio amore tremante fra le mie braccia.
«Mi
dispiace, dobbiamo andare nel fiume. L’acqua sarà
fredda…».
«Vai Edward, vai, non ti
preoccupare» mormorò
stringendosi.
«Tieniti forte, chiudi la
bocca» dissi, proteggendole
la testa con una mano.
M’immersi velocemente,
sapendo che provare a tenerla
all’asciutto avrebbe solo aumentato il rischio di rendere
inefficace
l’espediente. Eppure, provai a nuotare velocemente,
riemergendo il più spesso
possibile per farle prendere aria.
Andai avanti a nord-ovest per un
tratto sufficiente,
nuotando per circa un quarto d’ora. I pensieri dei licantropi
non si
ripresentarono, e la mia angoscia si affievolì col passare
dei minuti. Speravo
che Seth fosse riuscito a portarli dalla sua parte. Avrei voluto essere
più
sicuro, ma non potevo rischiare di tenere con me Bella ancora in acqua.
«Tutto bene?»
chiesi, riemergendo alla riva.
Tossì un po’
d’acqua, annuendo silenziosamente. Aveva
i capelli incollati al viso, e il volto pallido. Dovevo trovare un
luogo
isolato e riparato in cui fermarmi per gestire la situazione.
Strinsi le labbra, provando a
concentrarmi
sull’ambiente circostante, camminando lentamente. Il vento
s’infrangeva su ogni
cosa in modo diverso. Alberi, rocce. Un pertugio. Un grotta non sarebbe
andata
bene, mi serviva un ambiente secco in cui fare asciugare i nostri
vestiti.
Mi bloccai. Avevo percepito
qualcosa di estremamente
diverso da quello che avevo finora sentito. Perfetto.
Immediatamente scattai,
ricominciando a correre alla
mia velocità. Mia moglie si lamentò fra le mie
braccia, non facendomi capire
altro che non fosse: corri più veloce. Quando arrivai fui
pienamente
soddisfatto della mia meta. Una cascina.
Bella gemette, e appena
realizzò quello che stavo
facendo s’irrigidì.
«Edward…».
«Non ti preoccupare,
è certamente disabitata adesso.
La usano dei cacciatori in altri periodi, l’ho vista tempo
fa, quando sono
venuto da queste parti».
«Ma…».
«Non ti
preoccupare».
Mugugnò, stringendo gli
occhi e una mano sulla pancia,
dolorante.
Aprii la porta con
facilità, senza neppure lasciare
segni evidenti di effrazione, ansioso di trovare un modo per darle
sollievo.
Fui ancora più soddisfatto dell’ambiente interno,
era asciutta e accogliente.
Non era particolarmente arredata, ma c’era lo stretto
necessario. Un divano, un
camino, una credenza, una cassapanca, e una porticina per il bagno.
Immediatamente adagiai Bella sul
divano,
accarezzandole i capelli bagnati. «Come stai?»
chiesi, stringendole le mani.
Si morse un labbro, contraendo il
viso in una smorfia.
«Fa un po’ male…»
mugugnò, ansimando lievemente. Sembrava essere tornata la
Bella di sempre, quella che abbassava gli occhi per non farvi leggere
il dolore che, così
poco esperta com’era a mentire, sarebbe trapelato.
Mi chiesi quanto la consueta paura
che l’aveva presa
negli ultimi giorni stesse adesso occupando la sua mente, in tutta la
confusione che si era creata. Non riuscivo a farmene un’idea
precisa, ma più
che altro mi sembrava intenta a contenere il dolore.
Tremò.
«Tranquilla,
tranquilla» provai a rassicurarla «ora
risolviamo tutto». Speravo davvero di poterlo fare.
Decisi innanzitutto toglierle gli
abiti bagnati e
farla riscaldare. Sistemai tre grossi ceppi di legna nel camino,
aggiungendo
dell’erba secca a cui diedi immediatamente fuoco. Mi sfilai
il cappotto, la
maglietta, le scarpe e i pantaloni, sistemandoli su una sedia affianco
al
camino.
Tornai rapidamente da mia moglie,
spostando il divano
finché non fu sistemato esattamente davanti al fuoco. Le
tolsi le scarpe e le
calze, e, sostenendola a me, le sfilai il vestito su per le braccia.
«Ah…
ah…» si lamentò, portando le braccia a
proteggere
il pancione scoperto. «Ahi…»
mormorò, stentando a trattenere il dolore. «Ci
prenderanno…» mormorò spaventata,
scrutandomi in viso.
La tenni fra le braccia, aiutandola
ad adagiarsi fra i
cuscini. «Shh… No, non ci prenderanno, siamo al
sicuro qui. Li ho seminati, non
riusciranno a trovarci. Tranquilla, respira, ora
passa…» la rassicurai,
accarezzandole un fianco. Dopo pochi secondi si rilassò sul
divano, chiudendo
gli occhi per nascondervi la paura.
Sistemai anche i suoi vestiti su
una sedia, e presi
una coperta dalla cassapanca per coprirla, e un’asciugamani
dal bagno per
asciugarle i capelli.
Avevo deciso di fermarmi per paura
che muovendomi i
licantropi potessero intercettare la nostra scia, e per tenere con
più facilità
sottocontrollo la situazione di Bella. Ora dovevo chiamare gli altri e
avvisarli,
cercando di farci salvare.
Sussultò. Soffrivo a
vedere il suo volto concentrato,
così contratto per evitare di lasciarsi sfuggire anche un
solo gemito. Sapevo,
solo per gli studi che avevo fatto, quanto in quel momento il dolore
stesse
incalzando, contrazioni o non. Cominciò a gemere, forse
senza neppure
rendersene conto, dondolandosi piano avanti e indietro con la testa.
«Calma, sta
tranquilla» la rassicurai, prendendola fra
le braccia. Pensavo che cambiando posizione potesse stare meglio. Aveva
funzionato i giorni precedenti. Ma evidentemente aveva ragione lei,
queste
erano quelle vere, probabilmente era già in travaglio
avanzato.
«Mi voglio
sollevare» mi disse, staccandosi debolmente
per guardarmi negli occhi. «Devo… devo stare in
piedi… rischio di impazzire…»
fece, con una punta di tormentato sarcasmo.
La aiutai a sollevarsi, tenendola a
me con una mano su
un fianco e una nella sua. Ne approfittai per recuperare il cellulare
nel
cappotto, e ringraziai il cielo che non si fosse particolarmente
bagnato.
Funzionava ancora.
Ne osservai il display, e mi
guardai intorno nella
camera.
«Cosa
c’è?» chiese Bella, il respiro
lievemente
affannoso. Il peso del suo corpo era completamente su di me.
«Devo chiamare Carlisle,
ma non prende» spiegai
velocemente.
Con un gemito si
aggrappò con entrambe le braccia alla
sedia. «Muoviti, spostati» mormorò fra i
denti.
«Bella…».
«Ce la faccio. Faccio la
spola da qua al divano, due
metri. Per quanto non mi senta le gambe a quanto pare
funzionano» fece, con
accennata ironia. «Vai».
Lasciai gradualmente la presa, e
quando fui certo che
fosse in equilibrio, mi mossi velocemente verso la porta, poi verso la
credenza, provando a intercettare un campo elettromagnetico. Non appena
ci
riuscii composi immediatamente il numero.
«Carlisle?».
«Edward!»
mi rispose la voce di mio padre,
sollevata.
Mi affrettai a spiegare
velocemente, un’occhiata al
viso contratto di mia moglie. «I licantropi ci hanno
bloccato. Volevano farci
del male. Philip ha chiamato Bella, ma si è rivelata tutta
una trappola.
L’hanno ricattato tenendo in ostaggio sua figlia,
l’hanno catturata durante lo
scontro con Jacob» dissi, accompagnando le ultime parole
all’odio che provavo.
Ci furono solo pochissimi istanti
di silenzio. «Lo
so, Edward. Philip ci ha appena avvisati. É intervenuto
nello scontro, aiutando
Seth. Quil e Embry sono stati fermati, ma Paul è ancora
fuori controllo».
Sospirai, in parte sollevato per la
piega che stavano
prendendo le cose, sopprimendo solo di poco quella sensazione di ansia
e
nervosismo che mi stava attanagliando. «É
intervenuto?» chiesi, scuro in volto.
Non pensavo che Philip si sarebbe esposto così, non dopo
quello che ci aveva
fatto.
«Si,
è intervenuto. Ma di sua figlia nessuna
traccia. Tu ne sai niente?».
Ripensai all’immagine che
avevo letto nelle loro
menti. La ragazzina dagli occhi celesti. «L’hanno
catturata. Ma non so dove sia
o che fine abbia fatto».
«Mh…».
La mia testa scattò in alto al lamento di mia
moglie. Si teneva al bracciolo del divano, sostenendo il pancione con
l’altra
mano.
«Bella è in
travaglio, questo te l’ha detto?» chiesi,
nervoso, stringendo i denti.
I due secondi di silenzio che
seguirono furono densi
dello stupore che non potevo leggere sul suo volto. «Le
cose si complicano»
osservò mio padre. «Non potete spostarvi
adesso, è troppo pericoloso, con
Paul in giro e con quello che mi hai appena detto. Non puoi rischiare
che vi
trovi. É più conveniente che veniamo noi stessi a
controllare la situazione
fino a lì, e spero di non impiegarci più di
tre-quattro ore. Vi siete spinti a
sud».
«Non passerà
troppo tempo?» chiesi angosciato,
osservando mia moglie e la sua espressione sofferente.
«Da quanto
è cominciato il travaglio? Ogni quanto
sono le contrazioni?».
Feci rapidi e semplici calcoli.
«Due ore fa,
all’incirca. Le contrazioni sono ogni dieci minuti. Durano
venticinque
secondi».
«Si sono
già rotte le acque?».
«No».
Sussultai, raggelato, voltandomi
verso mia moglie.
«Edward…» mi chiamò tremando,
terrorizzata, una mano sul pancione, gli occhi
sul pavimento.
«Si».
Buondì.
Sono
distrutta, sfiancata, molto poco lucida e appena
tornata da mare. Non sono responsabile di quello che sto per scrivere.
Dunque. Cosa
dire?
Prima di
tutto, evitate di ledere alla mia persona.
Dopotutto, (solo perché la storia è praticamente
finita), questa è l’ultima che
vi faccio. Il finale sarà più soft (si spera, sto
cercando di evitare altre
catastrofi).
Il capitolo
era molto lungo, e spero che nessuno sia
arrivato alla fine con la barba bianca. Il prossimo, ahimé,
è diventato “i
prossimi”. Ebbene sì, ho dovuto dividere il
capitolo in due e aggiungerne uno
in più al numero totale, perché
l’edward pov voleva essere partorito dalla mia
mente.
Questa…
“La
più sacra di tutte le leggi del branco è che
nessun lupo può uccidere per
nessun motivo l’oggetto dell’imprinting di un altro
lupo…”
…è
una frase presa da Breaking Down.
E la
giustificazione del comportamento di Seth è presa,
ovviamente, da questo.
Alcune di
voi comprendono Bella, altre, giustamente, no. Io dico che è
una cosa che può
variare per ogni donna.
Vi siete
rammaricate e arrabbiate per i licantropi, e ora, alla luce di quanto
avete
appena letto, vorrei conoscere la vostra opinione.
Sono
davvero contenta che l’Edward pov vi sia piaciuto
così tanto, proverò a
scrivere, fra gli extra, qualcosa dal suo punto di vista!
Edward e
Bella sono pazzi a volere altri figli?! Ahahahah… susu, non
dite così. A questo
proposito, ho notato che qualcuno era confuso riguardo
all’invecchiamento di
Bella. Semplicemente, durante la gravidanza rimane immutata, non
invecchia. :)
Grazie
per gli auguri di buone vacanze, li ricambio con piacere!
Oh…
se
Bella ha una gestazione da elefante, avrà un parto degno.
ù.ù
E per
ultimo, ringrazio Maria Luisa per avermi fatto notare i miei errori
riguardo ai
sintomi di Bella e il tempo per cui è stata trattenuta in
ospedale. Eccessivi
entrambi. :P Ci tenevo ad essere precisa a dirvelo, non voglio
dispensarvi
false notizie. ù.ù
Che dire
altro, se non grazie, grazie, grazie. Grazie a chi mi segue
praticamente da
sempre, a chi mi conosce da poco, grazie a chi mi fa ridere, grazie a
chi mi fa
piangere, grazie per le vostre ricche, belle, lunghe, meravigliose e
stupende
recensioni.
Grazie.
PS. La
volta scorsa mi avete chiesto di leggere alcune delle vostre storie! Lo
farò
senz’altro appena potrò! :)
Sono
sempre su twitter --> @Keska92. E sul mio blog, qui
giù.
Una pressione alla pancia, e una
strana
sensazione, aggiunta al fastidio e alla tensione che mi costringeva
schiena a
addome. Fui lenta, in quegli istanti, a collegare tutto a quello che
sentii
dopo. Una sensazione di bagnato fra le gambe, e una piccola pozza ai
miei
piedi.
Immediatamente sentii il sostegno
delle
braccia di Edward intorno al corpo. Sollevai il viso, e notai il
cellulare
ancora contro il suo orecchio. Sentii il suo nome ripetersi, e capii
che io
stessa lo stavo chiamando, terrorizzata. «Edward…
ho paura… ho paura…» mi
lamentai spaventata.
«Calma, calma»
mi rassicurò, cancellandomi
quelle lacrime che non mi ero neppure accorta fossero scese.
Mi feci aiutare a stendermi,
dolorante,
confusa, spaventata. Tutto stava andando storto, tutto. I licantropi,
il parto,
la paura. E non riuscivo più a tenere quel contegno che mi
ero imposta per
rendere tutto più facile a mio marito e me. «Si
sono rotte le acque…»
farfugliai piangendo, in preda alla disperazione.
E sebbene capissi che questo non
doveva
essere il primo problema di cui preoccuparmi, visto che eravamo appena
scampati
alla morte, per chissà quanto, non potevo non pensare che
mia figlia stava per
nascere nel bosco. In una cascina di chissà chi. Senza
Carlisle.
Il viso di mio marito
tornò a
rassicurarmi. Mi accarezzò la fronte. «Bella,
amore, ascolta. Carlisle vuole
parlare con te, io devo controllare la… situazione.
Non ti farò male. Ti
fidi di me?» chiese ansioso, accarezzandomi le braccia.
Mossi il capo irrazionalmente sul
cuscino,
spaventata. «Ho paura…» singhiozzai,
rivelando effettivamente l’unica cosa a
cui riuscissi a pensare in quel momento.
Vidi Edward muoversi, serio e
concentrato,
e dopo alcuni secondi la voce di mio suocero si diffuse nella stanza.
Aveva
messo il vivavoce. Arrivò a scatti per alcuni secondi, ma
dopo poco il segnale
si stabilizzò tanto da consentirmi di capire. «Bella,
stai calma. Mi senti?
Andrà tutto bene. Devi lasciare che Edward si occupi di
te…».
Singhiozzai più forte,
portandomi le mani
al viso. «Non può nascere qui… Non
può…» piansi. Il panico era
incontrollato.
Non avrei voluto aggravare la situazione, capivo quanto fosse
importante
rimanere ludici in momenti simili, e mi fidavo di mio marito. Ma come
potevo
non volere un vero medico accanto?
«No, no Bella.
Ti prometto che non sarà
così. Arriverò presto, è solo un
controllo. Se adesso lasci che Edward si
occupi di te potremmo decidere come agire, e troveremo un modo per fare
andare
tutto nel migliore dei modi» mi
assicurò.
Levai le mani dal viso, osservando
l’espressione preoccupata di mio marito.
«Farò tutto quello che farebbe
Carlisle, mi dirà lui» fece prontamente,
accarezzandomi una guancia, «andrà
tutto apposto, va bene?» fece, con una punta
d’ansia.
Sentii il dolore crescere e
investirmi.
Un’altra contrazione. Mi lasciai andare fra i cuscini e
annuii, silenziosa e
arrendevole. Dopo un bacio freddo sulla fronte sentii la mani di mio
marito
sulle gambe. La voce di Carlisle mi rassicurava dall’altro
capo del telefono,
invitandomi a respirare.
Sentivo la testa pulsare, e una
sensazione
di calore avvolgermi. La pancia, ma soprattutto la schiena e le gambe,
erano
spossate da una fastidiosa sensazione di dolore, costante e continuato.
Mi
sentivo semplicemente male.
«É a tre
centimetri» fece Edward, avvolgendomi
con la coperta marroncina, «in effetti, si sono rotto il
tappo. Come vuoi
fare?» chiese, rivolgendosi evidentemente a Carlisle.
«Penso che ci
servirà del tempo, e
spero di averlo. Adesso che si sono rotte le acque il travaglio
dovrebbe
accellerare, ma controlla ogni tanto la situazione e avvertimi sia se
velocizza
troppo, sia se rallenta. Noi raggiungeremo il confine sud-est, come ti
avevo
detto, e dobbiamo esaminare lo stato dei lupi e mettere tutto
sottocontrollo.
Se ogni cosa andrà bene, dovremmo farcela in tre-quattro
ore, e se il travaglio
procederà come penso, avremmo tempo di raggiungervi».
Rabbrividii, turbata,
all’idea che potesse
passare così tanto tempo. Ansimai lievemente, mi passai una
mano sulla fronte
sudata e accaldata, ma proprio quando feci per chiedere, per mettere
fine alla
mia confusione sulla questione dei licantropi, sentii la nausea
avvolgermi.
Non feci in tempo a dire anche una
sola
parola che mi piegai oltre il divano, in preda ai conati. Male. Mi
sentivo
febbrilmente male.
«Bella?!» mi
chiamò preoccupato Edward,
accorrendo a sostenermi e sollevarmi i capelli. Appena potei mi lasciai
andare
sul cuscino del divano, sentendo la testa girare.
Non risposi ai suoi richiami,
stanca e
stremata, in balia della sofferenza. Avevo gli occhi chiusi per provare
a
controllarmi. Sentii Carlisle rassicurarlo, dicendogli quanto fosse
normale per
via degli ormoni e del… dolore. Si, i miei pensieri non
potevano che essere
d’accordo con quest’ultima affermazione.
«Lasciala
mettersi come preferisce, camminare,
accovacciarsi, stendersi. Posso consigliare di provare a farla stendere
su un
fianco, con un cuscino fra le gambe. Devo andare. Sarò
sempre reperibile per
ogni inconveniente, a più tardi…».
Pochi minuti più tardi
sentii le mani di
mio marito ad accarezzarmi il viso. Sembrava turbato, preoccupato.
Provai ad
essere più recettiva alle sue domande. «Come ti
senti?».
Socchiusi gli occhi. «Mi
gira la testa»
dissi, distogliendo l’attenzione dall’assurdo
dolore al pancione, schiena e
gambe. Sentii quasi come se stessi alzando la testa dal cuscino, ma
capii solo
essere un capogiro più forte degli altri.
S’inginocchiò
accanto ai piedi del divano,
e con una rapidissima e fugace occhiata notai il pavimento ripulito.
Prese il
viso fra le mie mani e lo baciò, rinfrescandolo.
«Va meglio? Hai ancora
nausea?».
«Un
po’…» mormorai, gemendo subito dopo
per una contrazione più forte delle precedenti.
Portò una mano alla schiena,
accarezzandola con movimenti circolari. «Edward» lo
chiamai, sospirando
lievemente, intontita e confusa.
«Si?» rispose
subito.
«Spiegami…
spiegami cos’è successo con i
licantropi…» biascicai.
Sentii la sua guancia a contatto
con la
mia. «Non ti devi preoccupare di questo».
Sospirai, riaprendo gli occhi.
Aveva
un’espressione seria a turbata, non doveva essere semplice
gestire tutto, e mi
dispiaceva che Edward si fosse ritrovato in questa situazione.
«Ti… prego»
sospirai «ho bisogno di sapere, schiarirmi le idee. E se mi
parli… mi aiuti a
distrarmi… dal dolore. Ti prego…».
Sospirò, non resistette
un solo attimo e
mi spiegò ogni cosa con trepidazione, accarezzandomi il viso
e il corpo e
fermandosi ogni volta che era interrotto da una contrazione. Alla fine
del
racconto, mi sentii decisamente sollevata. C’era una parte di
me che
ringraziava infinitamente l’affetto di Seth, una dispiaciuta
per la sorte dei
licantropi, e una contemporaneamente arrabbiata e affranta per quella
di
Philip.
«Ti vuoi
sollevare?» chiese Edward,
leggendo la smorfia sul mio viso e il mio tentativo di fare leva sulle
braccia.
Senza neppure aspettare una risposta mi aiutò a mettermi
seduta, facendomi
poggiare il capo sulla sua spalla. «Va meglio?»
chiese, e forse ci sperava
davvero.
Con un mezzo sorriso, muovendomi
leggermente per contrastare l’insopportabile fastidio,
mormorai una mezza
verità. «Meno confusa. Spero davvero che tutta la
situazione con i licantropi
si possa risolvere, e… beh… questa nascita possa
avvenire senza turbamenti»
mormorai stanca, facendo uscire le parole con il desiderio di
rassicurarlo.
Sentii sotto la guancia la sua
spalla
sussultare lievemente. Seguirono alcuni istanti di silenzio, e sentii
il suo
viso voltarsi nella mia direzione. Stavo per chiedergli se ci fosse
qualcosa
che non andasse, ma prima mi chiese. «Non hai
paura?».
Sussultai, sollevando lo sguardo
per
fissarlo in viso. Accarezzai il grembo. «Mi…
dispiace per prima» iniziai
perplessa, parlando con lentezza per via del fastidio e
l’intontimento che
sentivo, «è solo un po’ preoccupante
dover far nascere la bambina qui, senza un
medico, fuori da un ospedale… ma Carlisle ha promesso che
verrà e…».
Le mie parole si affievolirono
davanti
alla sua espressione impassibile e seria. Cosa stava mai pensando?
Sussultò,
rendendosi conto dell’insistenza del suo sguardo, ma
tentennò per qualche
secondo, indeciso se rendermi o meno partecipe dei suoi veri pensieri.
Infine
si arrese. «Mi riferivo a tutti i giorni passati, alla paura
che hai avuto in
queste ultime settimane» ammise, e distolse lo sguardo, fin
troppo serio.
Deglutii, lasciandomi andare sulla
spalliera
del divano con dolore, fisico e emotivo. Mi rammaricavo di averlo fatto
stare
così male. E sapevo che aveva davvero sofferto. Eppure, mi
era stato accanto,
continuando ad aiutarmi e consolarmi, senza insistere troppo per
conoscere la
vera natura della mia paura.
Paura che in quel momento era
sepolta
sotto altre paure più pressanti, sotto il dolore, e sotto la
preoccupazione.
Allungai una mano per accarezzare i capelli di mio marito.
«Mi dispiace,
Edward…» mormorai con sincerità.
Sospirò. «Va
bene, non fa niente» fece,
accarezzandomi la pancia «stai tranquilla, non ti
stressare».
Aprii gli occhi e incontrai i suoi.
«Non
sono pazza» mormorai, cercando velocemente sollievo sulla sua
spalla contro il
calore del fuoco. Sospirai fra i denti, dolorante.
«C’è un motivo per tutto. E…
mi dispiace non averti reso partecipe prima. Ma avevo paura. E non
sapevo come
comportarmi, io… era tutto così
confuso… quello che è successo… il
dolore che
ho provato… mi vergognavo…»
confessai frettolosamente, faticando persino
a respirare.
«Ehi calma,
calma» mi richiamò Edward,
facendomi staccare da lui e prendendomi il viso fra le mani
«calma» disse, e
attese finché il mio respiro non si regolarizzò,
accarezzandomi i capelli. Mi
prese fra le braccia, con dolcezza, e mi accarezzò.
«Stai tranquilla, ed andrà
tutto bene. Fra poco dovrò controllarti di nuovo, e potremmo
chiamare a
Carlisle» disse, parlando con la calma che non
c’era stata nelle mie ultime
parole. Lasciai, silenziosa, che mi rassicurasse e mi cullasse. Mi fu
di sostegno
ad ogni fitta, pensieroso e taciturno, almeno quanto me, per qualche
minuto.
Poi decise che era tempo di
parlare. «Sai
che non c’è niente di cui ti debba
vergognare» fece cauto.
Arrossii, prendendo dei respiri, e
pensai
che, vedendomi così dolorante, si fosse pentito di aver
parlato, così subito
risposi. «Dammi… dammi un
attimo…» feci, cercando di controllare il dolore.
Mi
accarezzò i capelli, paziente e preoccupato, in attesa che
gli confessassi le
mie paure. E lo feci. Gli raccontai del sogno, di tutto quello che
avevo visto,
della paura che avevo provato, della scelta scellerata che avevo fatto.
Allontanare mia figlia da me. Che assurdità.
«Non ce ne
sarà bisogno, Bella» fece con
serietà «non dovremmo mai farlo, te lo
prometto».
Mi morsi un labbro.
«Guarda oggi. Guarda i
licantropi. E poi i Volturi, e tutto questo mondo. Non potremmo mai
stare
tranquilli, non ci potremmo mai fidare di nessuno…
è…» gemetti «è
così, lo
so…».
Mi strinse forte a sé,
bisognoso di
esprimere tutta la sua vicinanza, affetto, amore. «Non lo
faremo mai. Mai. Te
lo giuro. Mai. Nostra figlia sarà sempre con noi»
si distanziò un po’ da me,
solo per prendermi il viso con fervore fra le mani «ti giuro
che m’impegnerò
con tutto me stesso a mantenere la mia promessa. Non verremo mai
separati da
nostra figlia, mai…».
«Ma se…
io…».
«Te lo
impedirò» incalzò, stringendo
ancora più forte sulle guance. «Mai».
Gemetti, portandomi le mani sul
pancione.
Ritirò le mani come scottato, stringendo il mio corpo con
più delicatezza.
Malgrado il dolore, mi sentii solo un po’ meglio, protetta,
fra le sue braccia.
Non perché mi avesse assicurato che si sarebbe impegnato con
tanta veemenza, o
forse solo in parte. Tuttavia la maggior parte della mia
serenità derivava dal
fatto di aver condiviso la mia paura con mio marito, e avere il suo
amore con
cui spartirne il peso.
Le contrazioni incalzarono senza
sosta, e
quando pensavo che non potessero essere più dolorose, la
successiva mi
smentiva. Il continuo fastidio alla pancia, alla schiena, era il
più
insopportabile. Potevo sopportare un acuto e breve dolore, ma come fare
con uno
moderato e ininterrotto?
Edward chiamò Carlisle
dopo due ore,
quando, per molto tempo, la dilatazione si era fermata a quattro
centimetri, e
la durata e la vicinanza delle contrazioni sembrava essersi
stabilizzata.
Respirai piano, beandomi solo della
sua
mano sulla mia fronte. Parlò lentamente, con un tono che
sfiorava il silenzio,
preoccupato di turbarmi. «Tranquilla, andrà tutto
bene. Carlisle dice che
l’aveva previsto. Loro sono quasi arrivati, e presto si
risolverà tutto. Se… la
situazione non si smuove e ne ha la possibilità
proverà a staccarsi dal gruppo
portarci l’ossitocina, per velocizzare il parto».
Mi lamentai debolmente,
scuotendo il capo. Non volevo che rischiassero per me. «Vuoi
sollevarti?» mi
chiese, ansioso. Annuii, lasciandomi guidare dalle sue braccia.
Mi fece fare qualche passo per la
stanza,
sorreggendomi silenzioso. Mi muovevo, alla deriva, cercando
assurdamente
sollievo. Posai le mani sul muro, sorreggendomi, lasciando che mi
accarezzasse
la schiena. Mi accovacciai a terra, respirando affannosamente, muovendo
il capo
in modo sconnesso. Sollevai le gambe, le piegai, arrancai verso il
bagno per
vomitare, ancora una volta, ciò che il mio stomaco non
conteneva. Era
un’odissea, una terribile odissea.
Mossi velocemente le braccia verso
Edward,
stringendolo a me. Stesa sul tappeto davanti al camino, non potendo
fare a meno
di sentirlo così vicino a me. «Basta…
basta…» sussurrai, pur sapendo
consciamente che non poteva fare nulla, per fermare ogni cosa. Chiedevo
solo
qualche minuto d’oblio. Pochi, insignificanti, momenti di
sonno per dimenticare
il dolore.
«Shh…
shh… così… così…
va meglio così?»
chiese, accarezzandomi la pancia con intensità. Piegai
convulsamente le gambe
al pancione. Dove passavano le sue mani avevo un attimo di sollievo,
solo per
essere raggiunto dal dolore non appena si spostavano. Annuii.
«Ecco, andrà
tutto bene, vedrai…» mormorò, posandomi
baci sulla fronte.
«Edward» lo
chiamai, spalancando gli occhi,
colta improvvisamente da un ennesimo attacco di paura «e se
Carlisle non
venisse in tempo? E se ci fossero problemi con la bambina?»
feci stridula.
Mi sorrise appena. Un sorriso che
celava
nervosismo, ne ero certa. «Sono sicuro di poter mantenere
tutte e tre le
promesse che ti ho fatto».
«Che…
ah…» sussultai, sentendo una forte
fitta alla pancia. Strinsi gli occhi, dolorante, aspettando trepidante
che
passasse. «Che promesse Edward? Che promesse?»
chiesi a denti stretti,
desiderosa di farmi distrarre.
Mi scostò i capelli,
arruffati, dal viso,
baciandomi ancora la fronte. «Sono qui con te, e ti posso
stringere la mano»
fece, prendendomela fra le sue «ed evidentemente, mi risulta
un po’ difficile
insistere perché tu ti faccia anestetizzare, visto che non
ho un ago da
quindici né un analgesico qui con me. L’unica
preghiera te la faccio
sull’ultima promessa» si fermò,
sollevandomi il mento «per ora, almeno».
Feci comparire un brevissimo
sorriso.
Eravamo turbati, entrambi. le cose non stavano andando come volevamo, e
il
fatto che così presto si fossero rotte le acque
rappresentava un grosso
rischio. Non avevamo Carlisle con noi, eravamo miglia lontani da un
ospedale, e
la presenza oscura di Paul incombeva su noi, là, fuori da
quella cascina.
«Sembra che non ti turbi il fatto che siamo in una cascina,
senza un medico,
durante il travaglio, potenzialmente inseguiti e
ricercati…».
Scrollò le spalle, con
calcolata
indifferenza. «Cerco di guardare il lato positivo».
«Non l’hai mai
fatto».
Serrò le labbra, messo
alle strette.
«Cerco di farlo per te».
Mi lamentai all’ennesima
contrazione,
piegandomi sulla pancia. Volli spostarmi contro il muro, e dopo aver
lasciato
per qualche istante ancora il ruolo di medico improvvisato a mio
marito, mi
aiutò a rivestirmi.
Eravamo uno accanto all'altra,
scaldati
debolmente dalla luce e dal tepore del fuoco, e stretti per rincuorarci
a
vicenda. Con la schiena poggiata contro il muro, accovacciata per
terra,
l'ennesima contrazione sopraggiunse inaspettatamente dolorosa.
«Ahh!» gridai,
piagandomi convulsamente sul pancione.
Improvvisamente e inavvertitamente
le mani
di Edward mi serrarono il fiato in gola, facendomi raggelare.
Era fermo, irrigidito,
sull'attenti. Le
pupille dilatate, lo sguardo sgomento, lo fissai in volto,
terrorizzata.
Ci avevano trovato?
Il dolore incalzò, non
dandomi neppure la
forza per pensare. Serrai gli occhi. Edward, velocemente,
spostò le sue dita
per scambiarle con le labbra. «Shh... resisti, ti
prego» soffiò appena,
baciandomi, sofferente, racchiudendo il dolore e il terrore nelle
nostre
bocche.
Strinse forte la mia mano,
infondendomi
tutto il coraggio che le vili lacrime che macchiavano il mio e il suo
volto
stavano cancellando. Eravamo lì, soli, spaventati, fra il
calore e il ghiaccio.
E stavamo soffrendo insieme quel dolore che in ogni modo cercava di
spartire
con me. Restiti, Bella, mi dissi, fallo
per tuo marito, fallo per tua
figlia. Spostai una mano sui suoi capelli, e strinsi forte,
serrando
stretti gli occhi e sospirando il dolore nella sua bocca. Ti
amo, pensai
ancora, e sperai che quel pensiero mi desse abbastanza forza per andare
avanti,
ancora, per sopravvivere a qualunque altro pericolo.
Dopo alcuni, interminabili,
dolorosi
secondi, si staccò, lasciandomi riprendere fiato. Tremavo.
Mi fece posare la
testa sulla sua spalla, cullandomi ed accarezzandomi il capo.
«Shh, va tutto
bene» mormorò «va tutto bene, non so chi
fosse, era lontano, non sentivo bene i
pensieri. Si è fermato solo un attimo, è andato
via. Non credo fosse Paul, sta
tranquilla, siete al sicuro» mi rassicurò,
tenendomi più stretta a sé.
Le sue rassicurazioni furono
confermate
dalla chimata di Carlisle, a due ore di distanza dall’ultima,
che confermò le
supposizioni di Edward, togliendomi un peso dal cuore: chiunque fosse,
non era
Paul. «Si, il travaglio procede, si sta velocizzando di
nuovo» fece,
accarezzandomi intanto la mia schiena oltre la stoffa pesante del
vestito, «non
saprei, è dolorante… si… credo sia
normale…» fece con una smorfia. «Quando
ci
puoi raggiungere?».
Mi lamentai, stanca, volgendo la
testa
contro il pavimento. Il parto. Era una tortura. Dolore acuto, dolore
continuato, nausea, giramenti di testa. Tutto per allontanare per
sempre il
proprio figlio dal proprio corpo. Che visione assurda della cosa. Avrei
dovuto
pensare al fatto che presto avrei potuto conoscere la mia bambina,
amarla,
crescerla, educarla. Vivere con lei momenti magici della mia vita. Ma
perché
soffrire così tanto per poterlo fare?
«Cielo…
perché… perché… basta.
Voglio che
smetta! Smettila piccola peste! La mamma ti vuole tanto bene, e tu non
puoi
farle questo…» mi lamentai, conscia
dell’insensatezza delle mie parole, ma così
ebbra di dolore da non riuscire neppure a ragionare.
Sentii le braccia di Edward
stringermi da
dietro. Rimase silenzioso.
Tremai, stremata, stentando a
voltarmi.
«Cosa succede?» sospirai, un'ombra di paura nell
voce.
Mi sistemò i capelli
dietro l’orecchio.
«Hanno finito. Ci stanno raggiungendo con l’auto, e
dovremmo poter andare in
ospedale. Andrà tutto bene…».
Misi una mano sulla sua guancia,
ansimando
lievemente. Arcuai un sopracciglio. «Hanno…
risolto tutto, non è vero?» chiesi
preoccupata.
La sua espressione rimase seria, ma
parlò
con tranquillità. «Si. A quanto pare anche Quil e
Embry sono passati dalla
nostra parte. Con l’aiuto di Jasper e degli altri hanno
ritrovato Paul e
l’hanno riportato a La Push, insieme a Sam e Jared. Sono
tutti sotto
sorveglianza stretta, non ci saranno problemi».
Sospirai, sollevata, solo per poter
cacciare un gemito più forte quando un’ennesima
contrazione arrivò. «Ahi… che
male…» mi lamentai.
Nessuna reazione simile alla
precedente.
Edward mi strinse con dolcezza la mano con la sua. «Respira,
calma…» fece,
accarezzandomi i capelli. Ma sembrava distante, un po’
turbato.
Sollevai lo sguardo, facendo come
mi
diceva, ancora troppo dolorante per poter parlare. «Va tutto
bene Edward?»
chiesi fra i denti, «stanno tutti bene?».
Mi accarezzò con
insistenza la guancia,
finché il dolore non scemò. Poi parlò
con calma calcolata e freddezza. «Philip
è intervenuto nello scontro, ed ha aiutato Seth. Ho letto
nella mente dei
licantropi che avevano catturato Kate, e l’ho vista, nelle
loro menti,
rinchiusa. Ma…» prese un respiro «non
sanno ancora perfettamente come sia
andata la questione, ma non hanno trovato altro che cenere».
«Oh…».
Sollevai entrambe le sopracciglia.
«Oh» ripetei sorpresa, portandomi una mano alla
bocca. Sentii il cuore battermi
forte nel petto. Mi dispiaceva. Mi dispiaceva così tanto.
Era tutto… così
confuso. Il fatto che ci avesse condannati e poi aiutati. Il fatto che
per
questo avesse perso per sempre sua figlia, la sua unica ragione di
vita. Sentii
un respiro mancarmi.
Senza rendermene conto, mi trovai
fra le
braccia di Edward, scossa da singhiozzi. Sapevo che avrei dovuto
odiarlo per
quello che ci aveva fatto, che questa era tutta colpa sua, che ci
trovavamo in
queste condizioni per sua causa, ma… non ce la facevo.
Allontanai il mio viso da quello di
mio
marito, rosso di lacrime. Risalii con lo sguardo dal mento fino ai suoi
occhi,
poggiando l’indice sulle sue labbra.
«Se…» mormorai, la voce roca
«Lo so che ha
fatto una cosa ignobile. Ma se minacciassero la tua unica ragione di
vita…
forse…».
«Non devi dire
così» m’interruppe Edward.
Sospirò, e mi aprì il suo cuore con
sincerità, parlando con delicatezza e
trasporto. «Sinceramente, pensavo fosse molto più
egoista di così.
Sinceramente, pensavo che non avrebbe indugiato un attimo e salvato sua
figlia,
gettandoci in pasto ai lupi». Posò una mano sul
mio viso, con un’espressione
afflitta e sincera. «Invece ci ha aiutato, mettendo noi
davanti a se stesso. É
stato molto migliore di quanto avrei mai pensato. Molto migliore di
quanto io
sarei potuto essere».
Sospirai, commossa e addolorata,
stringendomi a lui. Edward aveva una mente razionale, una
capacità di giudizio
sopra il comune, e, malgrado la testardaggine, l’ottima
qualità di ammettere le
proprie colpe. «Gli dobbiamo tanto» sussurrai solo,
sinceramente turbata.
La mia ansia, il mio turbamento,
passarono
forzatamente e velocemente in un altro strato della mia mente, spinte
dall’incalzante dolore. E Edward fece appena in tempo
pianificare ogni cosa,
che dovemmo, forzatamente, darci una mossa. Le contrazioni avevano
accelerato
il ritmo, e “dolore davanti al calore e alla luce del fuoco,
confortata dal
proprio marito”, divenne “dolore atroce da non
capire niente di quello che mi
accadeva”.
«Ah…
ah… uhh… si, si, respiro, respiro,
respiro… ah…» gemetti, stringendo i
denti e una mano sulla pancia.
Il parto stava procedendo
velocemente,
nell’ultima fase. Molto, velocemente. Troppo, velocemente.
Così decisero di
cambiare i programmi. «Si, dobbiamo incontrarci, subito. Non
possiamo aspettare
ancora, è già a otto centimetri, Carlisle, devo
venirti incontro» farfugliava
nervoso nel telefono, concentrato per non farsi distrarre dalle mie
grida e dai
miei lamenti.
Mi venne subito accanto. Mi avvolse
il suo
cappotto intorno al corpo, sul mio, con attenzione, come se avesse
paura di
farmi del male. «Manca poco amore, abbiamo deciso che adesso
ti porterò da
Carlisle, ci incontreremo sul confine ovest».
Non gli risposi neppure,
continuando a
lamentarmi e cominciando a piangere. Avrei voluto dirgli: «Andiamocene,
ti
prego, basta che ce ne andiamo… Smettila di parlare!»
ma per nessun motivo
avrei voluto ferirlo, sapendo quanto stesse soffrendo in quel momento
ad ogni
mio gemito. Zittirmi completamente sarebbe stato fuori discussione, ma,
per
adesso, sarebbe stato meglio evitare insulti e volgarità.
In men che non si dica mi ritrovai
fra il
vento degli alberi, più intontita di prima. Avevo freddo, ma
il freddo era
cancellato dal dolore e dal buon odore che sentivo sul cappotto che mi
era
stato messo, con tanto affetto, a mo’ di coperta. Fra le urla
e il pianto ero
quasi assuefatta alle rassicurazioni di Edward. «Ah! Ah!
Voglio andare a casa!»
gridai, tremando contro il suo corpo, solo per singhiozzare subito dopo
«basta,
basta…».
Non mi resi conto di quello che
aveva
fatto, finché non sentii la voce di mio suocero. «Bella,
calmati, ascoltami…».
«No! Non voglio sentire
la tua voce, ti
voglio qui, qui, adesso. Sono più di sette ore che sono in
queste condizioni!
Ah!» mi lamentai ancora, scalpitando fra le braccia di mio
marito.
«Bella, amore. Prendi il
cellulare in
mano, avanti. Parla un po’ con Carlisle, magari riesci a
stare un po’ meglio…».
L’avrei ammazzato in quel
momento, magari
strangolato. Invece strinsi i senti, e soffocai un altro grido. Arriveremo
presto, arriveremo presto, sarà tutto finito. Era
il mio mantra.
«Carlisle, accidenti,
come faccio?! É
tardi, è troppo tardi» fece agitato Edward,
nervoso, intensificando la presa.
«Stai calmo,
abbiamo ancora un po’ di
tempo. Possiamo non andare in ospedale, Esme sta cercando di trovare
una
sistemazione più vicino. La bambina nascerà e
starà bene…».
«No, no»
farfugliai terrorizzata,
lamentandomi «sta nascendo, non nascerà.
Sta nascendo…».
«Bella, sentimi.
Devi respirare, e
stare tranquilla. Se ti fai prendere dal panico senti solo
più dolore. Senti
l’impulso di spingere?».
L’urlo che ne
seguì fu piuttosto eloquente.
Mi strinsi a Edward e resistetti all’istinto di mordergli la
spalla, solo
perché sapevo che l’unica a farsi del male sarei
stata io, e che certamente mio
marito non era un cuscino.
«Calma, stai
calma. Non devi fare
niente. Non spingere. Rilassati, e fai un respiro, avanti, fammi
sentire mentre
prendi un respiro».
Strinsi i denti e fra le labbra
cacciai un
respiro appena accennato, rotto in un ennesimo urlo. Edward si
portò il
cellulare all’orecchio, chiudendo la conversazione con veloci
sospiri. Mi sollevò
tanto da farmi posare la testa sulla sua spalla, coprendomi
accuratamente con
il suo cappotto.
Mi baciò la guancia, non
avendo,
probabilmente, più parole da dire. Mi dispiaceva che fosse
così teso, che si
sentisse, lo sapevo, così impotente. Eppure, aveva ragione
lui. Aveva tenuto
fede a tutte le mie promesse, e di quello, per ora, dovevo
accontentarmi.
«Edward»
singhiozzai «sono contenta che
sei qui… che ci sei tu…».
«Te l’ho
promesso. Sarò con te. Ma magari
se ci fosse stato Carlisle…».
Serrai un grido fra le labbra.
«No tu, tu»
ripetei convulsamente «volevo te accanto a me, per tutto
questo tempo. Non mi
importa che non sei un medico… volevo te…
ah!».
Mi accarezzò i capelli,
e sentii
l’impronta di un sorriso tirato sulla guancia.
Respirare seriamente, mantenere il
controllo, era ormai fuori discussione. Il tempo procedeva su due
binari
separati. Uno, per i miei gusti, troppo veloce, quello che faceva
incalzare le
contrazioni. Un altro, al contrario, troppo lento, che non ci faceva
mai
arrivare da Carlisle. Non riuscivo neppure a prendere fiato, che una
contrazione dopo l’altra giocava a mozzarmelo in gola.
Quando sentii un altro paio di mani
fredde
sul corpo, stentai a credere a quello che vedevo. «Non sei un
miraggio… un
delirio da parto o qualcosa del genere…» mormorai
roca, le lacrime sul viso.
Carlisle mi sorrise, posando le
dita
fredde sul polso e sulla fronte. «No» fece,
aiutando Edward a sollevarmi dal
suo petto, dove mi ero rannicchiata, spossata, per sistemarmi sul
sedile
posteriore dell’auto. «Sta tranquilla Bella,
andrà tutto bene adesso».
Mio marito mi fece posare la
schiena
contro il suo petto, baciandomi la tempia sudata. Sui sedili anteriori
Emmett e
Esme. Carlisle si chiuse la portiera alle spalle, sistemandosi ai miei
piedi.
«Vai Emmett, sbrigati». Mi sorrise, rassicurante.
Per un istante mi stupii della
silenziosa
razionalità di Emmett, e per il fatto che non avesse ancora
aperto bocca.
Subito dopo inarcai la schiena, stringendo i denti e sibilando un
gemito,
mentre una contrazione mi lacerava il ventre. Edward mi
accarezzò i capelli, e
prese le mie mani, abbandonate sul mio corpo, fra le sue. Presi appena
un
respiro.
Carlisle lo osservò un
attimo, e subito
tornò a concentrarsi su di me. Sentivo le sue mani esperte
sul mio corpo.
Dalla mia bocca non uscivano che
deboli
lamenti e quelli che erano residui di singhiozzi. Esme si
voltò, con un piccolo
sorriso appena accennato, sfiorandomi una guancia con le dita.
«Tieni duro
tesoro». Le risposi con un basso mormorio sconnesso, prima di
stringere i denti
e lamentarmi più forte, lasciando andare la testa
all’indietro, sulla spalla di
Edward. Mi sentivo il corpo febbricitante, coperto di sudore. I capelli
incollati al viso, il respiro pesante e frenetico.
Carlisle sollevò il viso
e mi guardò negli
occhi. Sentii la presa di Edward più salda intorno al mio
corpo. Poi mio
suocero si voltò verso Emmett. «Emmett, vai in
ospedale».
«Ma ci
impiegherò il doppio del tempo…»
protestò debolmente.
«Non importa»
ribatté Carlisle, con
fermezza.
Sentii le mie labbra tremare.
«Cosa
succede?» chiesi terrorizzata, gli occhi sgranati. Edward
fece scontrare la sua
guancia fredda contro la mia. Provai a dibattermi, voltarmi e guardarlo
negli
occhi. «Cosa succede?» ripetei col fiatone,
arrendendomi a fissare mio suocero.
«Bella»
iniziò con calma «bisogna andare
in ospedale, e fare un cesareo. Sei troppo stanca, dopo un travaglio
così lungo
e senza assistenza medica, non ce la puoi fare, non hai abbastanza
forza.
Respiri e parli a malapena».
Aprii la bocca, stupefatta.
«No»
farfugliai «no, no, no… Non puoi farmi questo
Carlisle…».
«Amore, andrà
tutto bene» provò a
rassicurarmi Edward.
«No!»
protestai. «No. Ho sofferto per
tutto questo tempo, non potete fare così, no! Chi lo dice
che non ce la
faccio?» singhiozzai, trovando nuove lacrime per piangere.
«Vi prego… non
potete fare così… ah!» quasi urlai,
piegandomi su me stessa.
«Shh…
shh…» mi sussurrò
all’orecchio
Edward «calmati. Calmati Bella…».
«No…»
continuai a singhiozzare, piangendo
fra le urla di dolore.
Carlisle mi rassicurò,
mortificato.
«Bella, bisogna solo fare ciò che è
meglio per te e la bambina».
Presi la sua mano fredda, sporca
del mio
sangue, con la mia «ti prego…
Carlisle…» mormorai piangendo «ti
prego…».
Sospirò. Strinse le
labbra e si voltò
nuovamente verso Emmett, confuso sulla meta da prendere. «Vai
in ospedale,
Emmett».
Tremendamente afflitta, lasciai
andare la
presa della mia mano sulla sua, ma lui la intensificò, e mi
guardò negli occhi.
«Proviamo Bella. Possiamo provare, ma dobbiamo avere tutta
l’assistenza che ci
serve. Appena mi accorgo che non ce la fai andiamo in sala
operatoria…».
Deglutii, sorpresa, e annuii
velocemente,
pronta ad accettare qualsiasi compromesso.
«Carlisle» si
ritrovò a protestare
debolmente Edward. Suo padre rispose con un’occhiata e lui si
arrese con un
sospiro, baciandomi la guancia.
Quando arrivammo in ospedale
Carlisle fu
il primo a uscire, andando velocemente verso il pronto-soccorso.
«Come ti
senti?» mi chiese Edward,
sfilandomi con lentezza e accortezza dall’auto.
Il cielo era grigio, scuro
nell’ombra
delle nuvole e della notte. Dovevano essere le undici, più o
meno.
Presi dei respiri, troppo veloci
perché mi
fossero davvero utili. «Come una che sta
partorendo» spuntai fra i denti, in
preda al dolore.
Sollevò lo sguardo, e
vidi una barella
bianca e alcuni paramedici in azzurro, insieme a Carlisle, venire verso
di noi.
«Datele
l’ossitocina, soluzione glucosata
e portatela in sala parto» fece, voltandosi verso
l’ostetrica. «Tenete pronta
una sala operatoria».
Mi lasciai trasportare, pensando
solo a
stringere la mano di mio marito ed ascoltare le sue parole dolci al mio
orecchio. Dovette separarsi da me, e lo fissai terrorizzata
finché non mi disse
che doveva solo indossare il camice sterile, e sarebbe subito tornato a
prendermi la mano fra le sue. L’ostetrica mi aiutò
a cambiarmi e prepararmi per
quello che di lì a poco sarebbe successo, e andò
a vedere a che punto fosse
Carlisle. Per la prima volta dopo tanto tempo, per una manciata di
minuti, mi
trovai sola.
Il cuore mi batteva veloce. E non
era solo
per la paura, il dolore, o l’imbarazzo. Stavo per conoscere
una parte di me.
Una parte di me e di Edward, formata e creata direttamente da noi. Una
parte di
noi che era cresciuta dentro di me per nove mesi, tenendomi sveglia con
i suoi
precisi calcetti la notte, facendomi ridere di solletico per il suo
singhiozzo,
facendomi innamorare del suo navigare nella mia pancia. Rendendo
speciale e
unico il nostro contatto.
«Ti voglio bene»
pensai,
accarezzandomi il pancione. Per molto tempo, quasi tutto il travaglio,
non
avevo sentito nulla provenire da mia figlia, ma in quel secondo mi
arrivò la
più densa e distinta emozione che mi avesse mai fatto
sentire. Amore.
Intensa quanto breve.
Buongiorno.
Lo so.
Stiamo ancora in alto mare. Lo so. É tutto troppo lungo. Ma
questa è la mia
storia, e si fa come dico io. ù.ù
In
realtà
il capitolo era leggermente più lunghetto, ma non aveva
l’Edward POV, che
invece ho aggiunto dividendo il capitolo a metà.
É che mi mancava la
prospettiva del papà, non potevo farne a meno, mi capite?! *.*
In questo
capitolo ci sono dei dettagli abbastanza tecnici. Ora. Mi sono affidata
ai
discorsi e racconti da mamme (compresa la mia). Ma se ci sono errori,
non
esitate a farmelo presente.
Wind,
chi61.
Siete
un po’ stupite per l’
“ingenuità”
di Bella. Ma mettetevi nei suoi panni. Lei pensava che fosse successo
qualcosa
di brutto al professore. Perché mai avrebbe dovuto pensare
che fosse una
trappola? E, se vi riferite al fatto che se va vada a zonzo oltre il
termine di
gravidanza, credetemi, ho visto cose che mi fanno ritenere che QUESTO
non può
fermare una donna incinta. O.O (Mammi rulez ù.ù).
Se invece vi riferite ai
licantropi in giro… okay. Un po’ condivido,
è stata ingenuotta. ù.ù
Dreamerchan,
frafru[arringa
geniale ahahah].Sono
contenta che abbiate apprezzato l’intervento di Seth in
quanto tale! ^^ Anche a
me è il cagnolino è sempre stato simpatico.
(L’unico).
SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate,Ros_RosEravate tutte
convinte (a volte
turbate, e lo sarei stata anch’io o.o) che Edward aiutasse
Bella a scodellare
la bimba. Ahahahah. Invece no! Non potevo far mancare questa a Carly!
*-* Mi
spiace, sarà per un'altra volta!
Noemixscusa,
sono indietro con gli aggiornamenti! Recupererò presto!
Promesso >.<
lisa76no
cara, mi spiace… l’illuminazione di Seth
è stata di Seth :S Lui ha solo
aiutato… dopo, ecco ^^ Grazie, in ogni caso!
patu4eversei
sempre la solita vagabonda! ;) (perdonatissima, se verrò di
nuovo a Pavia te lo
farò sapere).
luisinate
sei pazza a commentare tutti i capitoli!!! Grazie tesoro! Grazie per
tutto! :*
endifspero
che il tuo cuoricino possa stare meglio, grazie, non esitare a farmi
presente
ogni cosa. Un abbraccio grande, grande! :*
Scusate
per avervi fatto morire d’ansia ledyang[grazie
per esser così],Luna
Renesmee Lilian Cullen[al prossimo scoprirai il
nome ;) ],ANNALISACULLEN[le
cose andranno bene, promesso, e non sto incrociando le dita!
ù.ù] e Sognatrice85[hai
ragione col tuo pensiero sui licantropi!].
Tutto stava andando
precipitosamente.
Avevo avuto paura, sentendo mia moglie tremare, urlare e piangere fra
le mie
braccia. Mi faceva stringere il cuore vederla così
sofferente. E sentivo il
suo, a stretto contatto con il mio petto, battere forsennato, mentre
correvo
nella foresta.
Aveva il corpo madido di sudore, il
vestito e i capelli attaccati alla pelle.
E per quanto avere Carlisle accanto
mi
avesse confortato immediatamente, i suoi pensieri mi avevano fatto
preoccupare.
«E’
troppo stanca, Edward. Il travaglio
l’ha sfiancata, non è in grado di affrontare un
parto».
Strinsi il corpo di mia moglie
più forte a
me. Aveva una mano sul pancione enorme, dolorante, e malgrado fosse
pallida, le
guance erano rosse per lo sforzo e il dolore. I respiri troppo veloci
per poter
compensare la mancanza d’ossigeno, le membra troppo stremate
per potersi tirare
su ad ogni contrazione.
Carlisle aveva ragione, eppure
Bella non
si rassegnò a quello che le aveva detto. Potevo pensare,
dopo quello che mi
aveva confessato, che la separazione da sua figlia scandisse qualcosa
di
preoccupante per lei, troppo, per non poterlo vivere appieno.
Per questo, quando mio padre mi
rassicurò,
non potei protestare. «Possiamo provare, saremmo in
ospedale e se qualsiasi
cosa andasse storta potremmo operare. Non è troppo rischioso
provare, possiamo
farlo, ma dobbiamo andare in ospedale».
Accarezzai i capelli di mia moglie,
tenendo salda la sua presa sulla mia mano, mentre un’altra
contrazione le
lacerava il ventre. «Facciamo in tempo?» chiesi
preoccupato, osservandola.
Carlisle posò una mano
sul suo ventre,
ascoltando il battito cardiaco della bambina con attenzione. «La
bambina sta
bene. Abbiamo ancora un po’ di tempo».
Sentivo che la piccola stava bene.
Sentivo
i suoi pensieri, che andavano fra il curioso al rilassato. Non capiva
cosa
stesse accadendo, ma se ne stava buona e ferma, aspettando il suo turno
di
venire al mondo.
Persi la mano a mia moglie,
tirandola
verso di me e aiutandola a venire fuori dall’auto. Le feci
passare un braccio
dietro la schiena, e l’altro sotto le gambe. Era
leggerissima, morbida. In
quell’istante aveva gli occhi chiusi per contrastare il
dolore, e subito,
quando la presi con me, serrò una mano sulla mia camicia.
La adagiai delicatamente sul
lettino che
avevano portato, non lasciandole mai la mano che aveva preso nella mia.
Si
lasciò andare sul cuscino, stremata, e anche un
po’ confortata, sperai, di
avere finalmente un letto comodo. La coprirono immediatamente con una
coperta,
trascinandola all’interno dell’ospedale.
«Sono qui, sono qui
accanto a te» la
rassicurai, quando i suoi occhi marroni, umidi e preoccupati, vagarono
in cerca
della mia figura.
Le baciai le nocche della mano,
provando
ad alleviare il suo dolore, mentre stringeva il labbro con forza fra i
denti
per non pensare all’ago della flebo. Sicuramente, in tutto
quel dolore, quello
sarebbe dovuto essere l’ultimo dei suoi problemi. Avrei
dovuto insistere
maggiormente per l’epidurale, ma attualmente non volevo farla
stressare ancor
di più, era troppo testarda, non sarebbe servito a niente.
«Edward, vieni con me. Se
vuoi entrare in
sala parto devi indossare il camice» fece Carlisle, facendomi
un cenno con una
mano. «Lascia che l’ostetrica si occupi di Bella
per qualche istante e che la
prepari».
Annuii, e mi chinai a baciare il
capo di
mia moglie, restio a staccarmi da lei. Mi guardò
disorientata quando allentai
la presa sulla sua mano, e sgranò gli occhi, terrorizzata.
«Cosa… ahh! Edward…»
singhiozzò, le labbra tremanti.
Immediatamente le presi il viso fra
le
mani. «Ehi, ehi… Non ti lascio, non ti lascio.
Devo solo mettere il camice,
qualche istante» feci, ripetendo le parole di Carlisle cui
evidentemente, in
preda al dolore, non aveva fatto caso. «Torno
subito» soffiai, baciandole
l’angolo della bocca, spaventato di poterle togliere quella
poca aria che
sembrava rimanere nei suoi polmoni baciandole le labbra.
Lei annuì, stringendo
gli occhi,
afferrando la prima mano che un’infermiera volenterosa le
aveva offerto. «Ahh…»
si lamentò, provando a resistere.
La lasciai, deciso a seguirla
proprio
attraverso la mente di quell’infermiera, e mi avviai
velocemente per
l’ospedale, seguendo mio padre.
Una cosa prettamente umana,
scontata,
banale, semplice per un umano, e a maggior ragione per un vampiro,
stava diventando
impossibile. Indossare un camice. Avevo quasi paura che le mani
potessero
tremarmi per il nervosismo.
Bella era stata appena spostata su
un
letto, e le avevano fatto indossare un camice.
«Andrà tutto
bene, Edward» mi rassicurò
mio padre, stringendomi appena un braccio e facendomi scongelare dalla
mia
posizione rigida.
Deglutii, abbassando il capo,
deciso a
mettere quell’indumento. «Mi sento
come…» m’interruppi, guardando mio padre
«mia figlia sta nascendo…» dissi,
semi-trasognato, provando quasi ad auto-convincermene.
Un piccolo sorriso, che riusciva a
nascondere quello invece ben più ampio celato nella sua
mente, comparve sul
viso di mio padre. «Sta nascendo».
Sussultai quando sentii, attraverso
pensieri e non, l’urlo di mia moglie. L’infermiera
la teneva sollevata, le sue
braccia erano avvolte attorno al suo busto, e l’ostetrica le
stava fissando sul
pancione la fascia per il monitoraggio delle contrazioni e del battito
fetale.
Sentii, attraverso i pensieri dell’infermiera, che le sue
braccia si stavano
stringendo con più forza al suo busto. Stava soffrendo.
«Carlisle…»
feci, sofferente e
preoccupato, rivelando tutta la mia frustrazione.
«Sta tranquillo,
è l'ossitocina che le
fa sentire più dolore, ma almeno avremo più
possibilità che ce la faccia».
Sarebbe andato tutto meglio se si
fosse
fatta anestetizzare. «Non si può fare
l’epidurale?».
«Lo sai che dipende da
Bella, non la posso
costringere» disse subito, finendo di lavarsi le braccia fino
ai gomiti e
facendosi aiutare da un assistente per indossare camice e guanti.
«E comunque,
adesso è troppo tardi per l’epidurale. Va da lei,
confortala, e bada a non
farla agitare» mi posò una mano sulla spalla.
«Hai fatto un buon lavoro
figliolo» pensò orgoglioso.
Gli rivolsi una breve occhiata, e
ancora
fibrillante raggiunsi mia moglie in sala parto. Sentivo i pensieri
della mia
famiglia, del padre di Bella, che aspettavano nei corridoi.
Quando entrai la vidi stesa sul
lettino
ginecologico, un lenzuolo dalle gambe in giù, che le
lasciava nudo il ventre.
Il seno coperto dal camice, piegato. Le guance bollenti, i capelli, in
ciocche,
incollati al viso da sotto la cuffietta verde.
Mia moglie urlò ancora.
Mia figlia stava
per nascere, e io ne sentivo i pensieri. Era euforica.
Bella
Edward comparve immediatamente al
mio
fianco, prendendomi la mano con la sua, accarezzandomi con
l’altra i capelli
bagnati, appiccicati alla fronte madida, sistemandomeli dietro la
cuffietta
verde che mi aveva fatto indossare un’infermiera.
«Al prossimo
figlio» biascicai spossata
«per favore, evitiamo tutto questo casino!»
esclamai, troppo dolorante perché
potesse passare come una battuta.
Rise debolmente, baciandomi una
tempia.
«Direi che è difficile uguagliare una situazione
simile».
«Si» convenni,
mordendomi un labbro per
non urlare ancora, «speriamo».
Carlisle mi raggiunse subito.
«Direi che
ci siamo» disse, strofinando con una mano la mia coscia
scoperta, un gesto di
affettuoso conforto. «Quando ti dico di spingere devi
esercitare forza sui
muscoli bassi dell’addome. E devi continuare a spingere
finché te lo dico.
Possiamo cominciare?».
Annuii, stringendo con
più forza la mano
di mio marito.
«Spingi,
adesso» fece, e aiutata da più di
un paio di braccia mi piegai su me stessa, in preda al dolore,
stringendo
forsennata la mano di Edward. «Vai, brava, continua
così» disse calmo, non
dandomi ancora il permesso per smettere. Al suo
«Basta» mi lasciai andare sul
lettino, col fiatone. Ma non passarono che pochi secondi quando mi
invitò a
spingere ancora, non appena il dolore sopraggiunse ancora.
«Brava, brava, così.
Devi spingere per dieci secondi, ce la fai. Sette,
otto…».
«Conta più
veloce» sbottai fra i denti, le
labbra serrate e il viso rosso per lo sforzo e il dolore. Quando pensai
che un
altro secondo ancora mi avrebbe uccisa mi lasciò smettere.
Presi velocemente
aria, ma fu troppo presto quando arrivò la successiva
contrazione e la
richiesta di spingere ancora. «Ahh…»
gridai, e mi parve davvero che Carlisle
contasse troppo, troppo lentamente. Al sei lo supplicai di smettere.
«Stai andando benissimo
Bella, la bambina
sta nascendo, mi servono solo altre tre, quattro spinte. Dai, basta
così» mi
concesse, e immediatamente mi lasciai andare sulla carta ruvida, contro
il
braccio di Edward, sempre teso oltre la mia schiena.
Respirai, stanca.
«No… no… aspetta… non ce
la faccio» mi lamentai, in preda al panico, quando, non
dandomi abbastanza
tempo per riprendermi, mi invitò a spingere ancora. I miei
respiri erano corti,
e malgrado il dolore sapevo di non avere un grammo di forza in
quell’istante.
«Va bene, non ti
preoccupare» fece,
osservandomi attentamente, «aspettiamo qualche
secondo» e lanciò una breve
occhiata all’orologio alla parete.
Cercai in ogni modo di evitare le
lacrime,
che non avrebbero fatto altro che togliermi la poca aria che mi
rimaneva, ma
non potei fare a meno di farmi scuotere da alcuni singhiozzi. Avevo
paura che
Carlisle avesse avuto ragione, che non avessi davvero abbastanza forza.
«Amore, ce la
fai» mi rassicurò dolcemente
Edward, baciandomi la guancia. Mi colpì sentirlo
così fiducioso, proprio quando
anch’io stavo per arrendermi per la sala operatoria. I suoi
occhi ambra mi
guardarono amorevoli, e con le labbra mi baciò una tempia
sudata «ce la fai.
Stai andando benissimo, e fra poco la bambina nascerà. Ce la
fai» disse, aumentando
la presa sul braccio che aveva portato oltre la mia spalla.
La mia attenzione fu richiamata da
Carlisle. «Bella, devi spingere. Ce la fai?». Non
feci in tempo ad annuire che
subito mi disse «Vai» costringendomi un ennesimo
grido di dolore nella gola.
Serrai gli occhi e strinsi le
labbra,
aiutata da Edward a sollevarmi, mentre mi sentivo lacerare e cercavo
dentro di
me qualcosa che mi aiutasse a far nascere mia figlia.
«Brava, brava, continua
così» fece Edward
al mio orecchio, lasciando che gli strapazzassi la mano con la mia,
dandomi da
fare con tutta la mia forza.
«Okay, basta. La prossima
volta devi
spingere un po’ più forte Bella, va bene? Come
stavi facendo prima. Su…».
«Ah…»
mi lamentai, senza alcuna intenzione
né possibilità di rispondergli. «Mi
sento scoppiare…» biascicai, stringendo
forte la dita dei piedi. Come potevo spingere più forte?
Spingere ancora? Come
potevo fare qualcosa che non fosse limitarsi a respirare o urlare?
Alla mia occhiata terrorizzata mio
marito
mi accarezzò la fronte, lanciandomi uno sguardo dolce e
amorevole. «Ce la fai
Bella, sono qui con te, avanti».
«Sono le ultime spinte.
Vai» m’incitò
Carlisle. Urlai, finalmente urlai non provando neppure a contenere il
grido
nella gola, dando sfogo al fiato che troppo velocemente entrava e
usciva dai
polmoni. «Bravissima, così. Vedo la testa. Brava,
sei brava Bella, avanti…».
Pensai, mentre la mia mente vagava nel non-raziocinio, quanto dovessero
essere
solleciti i medici a riempire di complimenti i propri pazienti in certe
circostanze.
Non appena mi accasciai stremata
sul
lettino, pervasa da ogni dolore, distrutta e stremata, Carlisle
m’invitò a
spingere ancora, e allora non ci fu più spazio per nessun
altro pensiero. Non
potevo. «Edward… non ce la faccio»
biascicai, arrendendomi al dolore.
Mi accarezzò la fronte
sudata,
asciugandomi velocemente le lacrime dal viso. «Si che ce la
fai. Avanti amore,
ce la fai… Sta nascendo, Bella» mi
rassicurò prontamente.
Carlisle mi rivolse
un’occhiata. «Solo
un’altra spinta».
Con un respiro disperato raccolsi
tutte le
mie forze per assecondare quel dolore che mi stava dilaniando, ma
quando mi
lasciai andare l’ennesima volta sul lettino non ero
più in grado di fare
niente. Annaspavo, e vedevo dei puntini luminosi ai bordi del mio campo
visivo.
Mi sentivo squarciare, e non avevo più un grammo di forza
nel corpo. Né un
grammo d’aria.
«Bella?
Bella?!» sentii la voce agitata di
mio marito chiamarmi, e subito dopo sentii una mascherina sul viso.
«Edward…»
sussurrai. I neon mi accecavano
e la mia vista, in quell’istante, per le lacrime e il dolore,
era imperfetta.
Il viso di mio suocero apparve fra
la
nebbia. «Solo un’altra spinta Bella, solo una. Ce
la fai?».
Mi stava offrendo una scelta. Il
mio corpo
reclamava pace. Pace che non poteva avere. Sentii le labbra di mio
marito sulle
dita. Solo un’altra spinta.
Annuii.
La mano che me la teneva ferma sul
viso
spostò per un attimo la mascherina.
«Spingi» sentii. Non ero perfettamente
cosciente di me stessa. Mi piegai e urlai, lasciando scorrere le
lacrime sul
volto, la strada spianata dalle precedenti, fino al mento. Pensai di
poter
morire di dolore, in quell’istante, pensai di poter morire
davvero. Invece
sentii una sensazione incredibilmente umida fra le gambe, e la pancia
stringesi
in uno spasmo. E poi, mi sentii incredibilmente vuota.
«É
nata» mi sussurrò, emozionato,
Edward. Malgrado le lacrime e la confusione provai disperatamente a
scorgere un
piccolo fagottino, ovunque fosse. Ma prima che i miei sensi potessero
raggiungerla, lei stessa rivelò la sua presenza, urlando la
sua vita con tutta
l’aria che aveva nei polmoni.
Tutto il mio corpo formicolava,
teso,
ancora incredibilmente dolorante. E uno dei miei battiti incalzanti e
affannosi
mancò, quando la bambina mi venne posata sul petto.
I miei occhi erano puntati su
quelli
liquidi di Edward, la mia mente ancora troppo lenta e turbata, quando,
seguendo
la direzione del suo braccio, trovai le sue dita ad accarezzare con
assoluta
devozione e delicatezza la leggerissima peluria che copriva la testa di
sua
figlia. Nostra figlia. Fra le mie braccia.
Un esserino così minuto,
buffo, e strano,
che si agitava sul mio petto, dotato di vita propria. La vita che io e
Edward
gli avevamo dato. Era nostra. Era proprio nostra,
pensai velocemente,
allentando inconsciamente la disperata presa sulla mano di Edward,
cedendo al
buio.
Edward
Avevo aiutato, assecondato ogni
movimento,
sostenuto, in ogni istante. Controllai ancora una volta, velocemente, i
parametri di Bella e della bambina, sul piccolo schermo.
«Edward… non
ce la faccio». Il mormorio
disperato di mia moglie mi costrinse a voltarmi verso di lei. Il viso
era
inondato di lacrime, rosso sulle guance per lo sforzo. Sapevo che se
non
l’avessi tirata su io per la schiena non sarebbe mai riuscita
neppure a sollevarsi
dal lettino.
Ma non potevo dirle semplicemente
quello
che volevo io per lei. La bambina stava bene, avevamo ancora un
po’ di tempo, e
non era questo che dovevo fare per il bene di mia moglie. Per quanto
adesso si
fosse arresa, lei voleva la sua bambina, e la voleva così. E
sapevo che dovevo
farle fare ciò di cui non si sarebbe pentita. «Si
che ce la fai. Avanti amore,
ce la fai… Sta nascendo, Bella».
«Sta andando
bene, la bambina sta
nascendo. Ma se è troppo stanca non la possiamo forzare»
pensò mio padre,
analizzando attentamente la situazione. M’imposi, come avevo
promesso a mia
moglie, di non leggere più del necessario i pensieri di mio
padre. Voleva che
restassi al suo fianco durante il parto, ed era contraria e imbarazzata
all’idea che potessi sbirciare. Quando le avevo fatto
presente le mie lauree in
medicina e la nostra vita intima, mi aveva risposto, le guance rosse.
“Non
voglio che tu mi veda in modo diverso”.
Quando mio padre la
invitò a fare un'altra
spinta, la mano che aveva nella mia, che non aveva mai, mai lasciato da
quando
ero entrato in sala parto, si strinse più forte. Accompagnai
verso l’alto il
suo corpo, caldo, debole e stanco, e le baciai una guancia. Dolorante,
serrò i
denti. Mentre i secondi passavano vedevo la mascella contrarsi sempre
più, le
lacrime sbocciare dagli occhi, e la mano stringersi alla mia tanto che
pensavo
che prima o poi sarei riuscito a sentire la sua presa.
«Basta» la
bloccò Carlisle.
Immediatamente i suoi muscoli
irrigiditi
si rilassarono, abbandonandosi. La condussi con la schiena sul lettino,
per
farle riuscire ad avere pochi secondi di sollievo. La bambina era
euforica,
curiosa. «Ci siamo quasi» pensò
velocemente mio padre.
Ma c’era qualcosa che non
andava. Sentii
il respiro troppo agitato di mia moglie, e la prima cosa che vidi,
quando mi
voltai, furono i suoi occhi assenti sul volto pallido.
«Bella? Bella?!» la
chiamai agitato, spaventato.
Carlisle venne immediatamente al
mio
fianco, ordinando all’infermiera di prendere la mascherina
dell’ossigeno.
Quando ne fu in grado biascicò il mio nome. Le palpebre si
alzarono e si
abbassarono un paio di volte. La mano strinse inconsciamente
più forte la mia.
Il fiato appannava al ritmo del respiro la mascherina che per
metà viso le
copriva la faccia.
Ce la poteva fare. Ce la doveva
fare.
Timoroso, la portai alle labbra e ne baciai le nocche, con devozione,
una ad
una.
Prese un respiro più
profondo, e sentii la
presa della sua mano intensificarsi. Con amore le baciai la tempia,
chiudendo
gli occhi per non farmi distrarre dal suono agghiacciante del suo urlo.
E poi lo sentii. Sentii
l’aria sulla
pelle, i colori e le luci troppo forti, il contatto con delle cose
troppo
fredde. E un immenso fastidio. Fastidio contrastato con tutta la forza,
tanto
da riuscire a gonfiare i polmoni, far fruire l’aria, e respirare.
Il
primo respiro.
Mia figlia era nata.
Il vagito riempiva la stanza.
«Sembra
stare bene. E’ forte, il pianto squillante»
pensò mio padre, lasciando che
pulissero appena la piccola, e la avvolgessero in un lenzuolino verde.
Me la
passò fra le braccia con un sorriso, e per pochissimi
istanti non vidi che il
suo volto. Il volto di mia figlia.
Non credevo, davvero, potesse
esistere
qualcosa di più perfetto. Si dimenò, gemendo, e
mi sentii fibrillante vedendola
così, vedendola viva. Come potevo io, un
essere morto per sempre, averle
donato la vita?
Mi forzai a staccarla dalle mie
braccia,
solo per depositarla sul petto caldo, ancora pervaso da un movimento
frenetico,
di mia moglie. Dopo quello che aveva sofferto meritava di averla con
sé.
Strinsi la sua mano, che non avevo mai, mai lasciato, e con
l’altra accarezzai
la peluria chiara dei capelli di mia figlia.
Gli occhi di Bella si riempirono di
lacrime, che, aggiungendosi a quelle che già da tempo le
bagnavano le guance,
impedivano la vista di quello che ormai per noi era il bene
più importante del
mondo.
Si sentì bene a contatto
col corpo caldo
della mamma, e fermò per qualche istante il suo dimenarsi.
Una faccia
minuscola, arrossata e umida. Due occhi lineiformi, ancora chiusi. Ci
aveva
riconosciuti. Aveva riconosciuto chi le aveva donato la vita.
In quell’istante la forte
presa della mano
di mia moglie sulla mia si allentò, fino ad annullarsi. Mi
voltai appena in
tempo per vedere i suoi occhi sollevarsi e le palpebre abbassarsi.
«Carlisle!»
chiamai subito, ansioso.
L’infermiera
sollevò la bambina dal suo
petto, lasciando spazio a mio padre. La controllò
velocemente, analizzando i
suoi parametri, e provò a svegliarla. «Bella, mi
senti?».
«Bella?» la
chiamai anch’io, terrorizzato.
Era pallida.
Mugugnò qualcosa, e le
palpebre si
sollevarono un attimo.
Carlisle le accarezzò i
capelli. «E’
esausta. Datele di nuovo l’ossigeno e procedete con
il secondamento. Sta
bene Edward, non ti preoccupare». Doveva occuparsi
della bambina, lo
sapevo, e sapevo anche che si fidava dell’equipe che aveva
costituito per mia
moglie, altrimenti non l’avrebbe mai lasciata.
Io però, rimasi con
Bella. Mia figlia in
quell’istante era in buone mani, per quanto il mio amore e la
mia curiosità
tendessero verso di lei. Non rimase sempre incosciente, e dopo il
secondamento
l’ostetrica decise di farla rimanere per un po’ in
sala parto prima di portarla
nella sua camera. Voleva che riprendesse un po’ di forze per
provare a farla
camminare.
«Edward…»
biascicò ad un certo punto «la
bambina… non sappiamo come sta. Vai…»
soffiò, esausta, chiudendo per un attimo
gli occhi bagnati.
«Sta bene. Posso andarci
dopo» mormorai,
mentre attentamente controllavo i pensieri di mio padre e della
piccola.
Era spossata, le palpebre si
tenevano
appena aperte sul viso pallido, imperlato di goccioline di sudore.
Scosse
debolmente il capo. «Vai, e poi… torna.
Vai…».
Sospirai, baciandole le labbra,
bianche
quanto il viso.
Non appena uscì dalla
sala parto, però, la
mia famiglia mi bloccò, e si avvicinarono rapidamente a me.
M’irrigidii,
rigirando la cuffietta verde di Bella fra le mani. Jasper e Rosalie
erano
rimasti con Seth, per tenere sotto stretto controllo la situazione.
Lessi
velocemente i pensieri dei miei familiari per cercare nuove
informazioni, ma le
loro parole mi bloccarono.
«Come stanno?»
chiese subito mia madre.
Sospirai. «La bambina sta
bene. E’ nata a
mezzanotte e ventitré. E’ bellissima»
dissi, non potendo fare a meno di
tratteggiare le parole con emozione «Adesso Carlisle la sta
visitando. Bella è…
molto stanca. E’ stata dura. Ora che finiscono con lei la
accompagneremo nella
sua camera. Deve riposare».
Tutti furono immediatamente
euforici. Esme
mi chiese ancora di Bella. Charlie, più indietro rispetto
agli altri, si affaccendò
a nascondere le lacrime. Alice insistette per sapere più
dettagli sulla
bambina. E per quanto potessi davvero stare per ore a parlare dei miei
due
amori più grandi, non desideravo altro che vederne uno e
correre subito
dall'altro, sperando di avere abbastanza forza da farlo.
«Stavo andando dalla
bambina, fatemi
passare, e presto, forse, lo saprete» dissi, divincolandomi e
procedendo sicuro
nei corridoi.
Raggiunsi mio padre, trovandolo
indaffarato sulla piccola. Era contento, orgoglioso, felice. La bambina
stava
bene.
«Le da fastidio la
luce» dissi piano, come
se avessi paura di turbarla, osservando il suo movimento e vedendola
dibattersi
sulla carta chiara della bilancia.
Mio padre accennò un
sorriso. «Ho sempre
pensato che interagendo con dei neonati avresti potuto dare un
importante
contributo alla scienza».
Mi avvicinai a mia figlia, con un
piccolo
sorriso sulle labbra. Carlisle le aveva messo indosso una tutina rosa,
calda.
«Ha ancora gli occhi chiusi» constatai, sfiorandole
la guancia. Sussultò
istintivamente, ritraendosi, ma poi si avvicinò al contatto
freddo della mia
mano. Le piaceva.
«E’ normale,
presto li aprirà. Questione
di minuti o ore. Come sta Bella?».
«Sembra bene. Ha perso
ancora i sensi, e
il tuo specializzando le ha messo dei punti» feci,
trattenendo a stento una
smorfia, concentrato ad accarezzare mia figlia
«l’ostetrica vuole provare a
farla camminare. Ora devo tornare da lei, non mi va di lasciarla
sola».
«Si, va bene. Dopo
verrò a visitarla, non
ti preoccupare. E’ stata brava, forte. Ad un certo punto ho
pensato di dover
ricorrere seriamente alla sala operatoria. Ma Bella è sempre
così. E direi che
questa piccolina ha preso da lei» fece, quando la bambina
strinse le sue
piccole dita attorno al mio mignolo.
Era bella. Aveva preso i tratti
dolci di
mia moglie, ma il mio taglio di occhi. I capelli, invece, erano ancora
marrone
chiaro. Una partita aperta per le scommesse dei miei fratelli. Ma non
importava
a chi somigliasse. Era bella. Tremendamente bella.
Sentii la mano di mio padre sulla
mia
spalla. «Prendila, tienila in braccio. Per cinque minuti, e
non di più, direi
che me la puoi requisire. Dopotutto, è tua».
Mia. Sorrisi, grato, contento di
poterla sentire a contatto col mio corpo.
Gemette debolmente quando la presi fra le braccia, preoccupato come
solo con
Bella ero stato di farle del male. Fragile. Ecco com’era
tutto il mio amore,
fragile.
Si accoccolò sul mio
petto, strofinandoci
la guancia. Non il freddo. Io. Le piacevo io,
pensai commosso.
Bella
Mi svegliai nella stanza
d’ospedale nella
quale, dopo il secondamento, mi avevano trascinata. Non ero
propriamente certa
che quell’ultima fase fosse realmente avvenuta,
perché oltre il peso di un
corpicino sulla mia pelle, stentavo a ricordare molte cose.
«Ben svegliata»
mi disse mio marito,
accarezzandomi il dorso della mano. Sembrava come un condottiero,
esausto per
la guerra, ma vittorioso.
Realizzai di avere ancora la
mascherina
d’ossigeno sul viso. Edward, intuendo la mia espressione, mi
aiutò a spostarla.
«L’hanno lasciata per sicurezza. Eri molto stanca,
per questo hai perso i
sensi». Mi sorrise. «Sei stata bravissima.
Nonostante tutto, ce l'hai fatta.
Sono orgoglioso di te...».
Sospirai appena. Del parto avevo un
vago e
annebbiato ricordo, sepolto solo sotto la cosapevolezza del dolore
provato. Era
come se uno strato di confusione, tenerezza, torpore, mi avvolgesse
completamente. «Se non ci fossi stato tu... Grazie... per
essrmi sempre stato
accanto».
Mi accarezzò una guancia
con la mano,
guardandomi teneramente. «Non dirlo neanche per scherzo, era
quello il mio
posto. Come ti senti?».
«Debole»
biascicai, muovendomi appena fra
le lenzuola. Oltre le coperte, dove qualche ora prima c’era
stato un degno e
fiero pancione, ora c’era solo una piccola collina. Se me
l’avessero staccato a
coltellate avrei probabilmente sofferto meno. Feci una piccola smorfia
di
dolore. A parte la spossatezza mi sentivo estremamente dolorante.
«Ah» mi
lamentai, sentendo una fitta.
«Tranquilla» mi
rassicurò, accarezzandomi
i capelli. «Ti hanno messo alcuni punti. Ora viene Carlisle a
controllarti».
«Quanto»
mormorai disorientata, notando il
buio oltre i lustri della finestra «quanto tempo è
passato?» mi feci coraggio,
e, tremante, aggiunsi «Avete notizie dalla
riserva?».
«Jasper e Rosalie hanno
tutto
sottocontrollo. Abbiamo Seth, Quil e Embry dalla nostra parte, e gli
altri sono
imprigionati o fuori combattimento. Non ti preoccupare, va tutto bene.
Siete al
sicuro adesso». Sorrise, rassicurante. «E' passata
appena un’ora dal parto.
Carlisle sta visitando la bambina, ha dovuto occuparsene di
persona» fece, e la
sua espressione mi fece quasi scappare un sorriso. Avrebbe voluto che
ci
fossero certamente due Carlisle, uno per me e uno per la bambina.
Povero
suocero. Ma quando i suoi occhi s’illuminarono non ci fu
spazio per le battute.
«Pesa tre chili e duecentoquaranta grammi, alta quarantanove
centimetri e
sette. Sta bene, ed è in salute ed ottima forma. E,
naturalmente, è
bellissima…».
Sorrisi, stanca ma emozionata, e
subito
dopo sentii qualcuno bussare alla porta. Sussultai quando fra le
braccia di
Carlisle riconobbi mia figlia. Stentavo ancora a
crederci. Era lei quel
frugoletto che mi era cresciuto nella pancia per nove mesi,
accompagnandomi nel
dolore e nella gioia, sostenendo battaglie immensamente più
grandi del suo
piccolo corpicino?
Nonostante la stanchezza, tesi
immediatamente le braccia quando Carlisle si avvicinò.
Quando l’ebbi sul petto
rimasi ancora incantata. Aveva la pelle morbidissima, con una leggera
patina
bianca, ma rosso vivo sulle guance e fra le pieghette delle manine,
minuscole.
Gli occhi erano due linee chiuse, e i capelli di un indistinto
marroncino
chiaro. Non capivo bene come, in che modo, ma eravamo io e Edward
lì. Eravamo
lì insieme nel suo corpo.
Ero stata semplicemente stupida ad
avere
paura. Non avrei, mai, potuto separarmi da lei.
L’amavo troppo.
Mi accorsi che la bambina stava
vagendo,
rivelando il palato rosa e scuotendo le braccia. Probabilmente fra
qualche
notte non l’avrei pensata così, ma ora il suo
pianto mi sembrava un suono
meraviglioso, tanto da far piangere anche me.
Provai ad accarezzarla un
po’ con un
braccio, asciugandomi gli occhi con l’altra mano.
«Perché piange?» chiesi,
voltandomi velocemente verso mio marito, incantato quanto me.
«Ha fame» mi
rispose.
«Ho provato a darle del
latte in polvere,
ma per adesso non lo vuole. Prima di insistere vorresti provare ad
allattarla?».
Mi voltai velocemente verso
Carlisle,
mordendomi un labbro. «Si» mormorai insicura.
Mi sorrise, e suggerendomi di
lasciare per
un attimo la bambina in braccio a Edward, più che contento
di farlo, mi aiutò a
sollevarmi fra i cuscini e mettermi in una posizione abbastanza comoda
e poco
fastidiosa. Mi chiese cortesemente se non preferissi avere con me la
puericultrice, ma preferii affidarmi a lui, incerta per il possibile
comportamento di mia figlia.
«Avvicina la bambina al
seno, e guidalo
nella bocca. Non devi darle solo il capezzolo, altrimenti tu rischi
un’irritazione e la bambina non riesce a suggere il
latte» mi spiegò
cortesemente «prendilo fra l’indice e il medio e
dalle tutta l’areola, la
bambina non si affoga» fece con un sorriso alla mia occhiata
«e così riesce a
prendere il latte. Prova» disse, lasciandomi tentare.
Mi sentii abbastanza impacciata nei
movimenti, ma sollevai la bambina, provando a fare esattamente come mi
aveva
detto. La piccola non fece complimenti, e immediatamente, a contatto
col mio
seno, mosse le labbra in un gesto istintivo. Ma io non sentii niente
oltre il
dolore.
Alzai il capo, preoccupata di aver
fatto qualcosa
di sbagliato.
«Tranquilla» mi
rassicurò Edward, «aspetta
un po’».
Lo stesso disse Carlisle, e dopo
qualche
minuto, mentre la mia tensione aumentava e la bambina si
staccò, insoddisfatta,
per vagire, mi consigliò di provare a cambiare seno.
«É normale che sia così,
tranquilla. Adesso aspettiamo un po’. Non tenerla mai
più di dieci minuti allo
stesso seno».
Osservai mia figlia, e mi
arrischiai a
tenerla con un solo braccio portando la mia mano alla sua. Aveva la
pelle così
morbida. Mi strinse le dita contro il mio, poi aprì la
manina a la posò
casualmente sul seno, chiusa in un pugnetto.
Spalancai la bocca, sorpresa,
quando
sentii la bambina succhiare con avidità di latte. Sorrisi, e
appena pochi
secondi dopo sentii un crampo alla pancia. Chiusi gli occhi, una
smorfia sul
viso.
«É normale
sentire ancora contrazioni, si
intensificano durante l’allattamento» mi
spiegò Carlisle, posandomi una mano
sulla fronte. «Hai un po’ di febbre, vengo a
controllarti fra poco» disse,
lasciandoci soli e con un po’ di privacy.
Edward mi passò un
braccio dietro al
busto, baciando me e osservando nostra figlia.
La mia attenzione cadde sul
minuscolo
braccialetto, così simile al mio, che la piccola aveva al
polso. Sul suo c’era
scritto, a stampatello, “Isabella Cullen”. Sul mio,
invece, dopo i due punti,
c’era un rigo vuoto.
«Ho lottato contro la
puericultrice per
farmi dare un po’ di tempo».
«Dobbiamo darle il
nome» dissi, voltandomi
verso Edward.
Mi sorrise appena.
«Senti» fece,
accarezzandomi la guancia con la punta del naso. «Io avrei in
mente un’idea. Un
nome che non stona per niente con gli altri presenti in famiglia, ma
che per me
è sempre stupendo, in qualsiasi epoca, e denso di
significato» disse con
gentilezza, e mi pareva che in quel sorriso appena accennato ci fosse
quasi
sarcasmo.
Mi fidavo del gusto di mio marito,
eppure
pensavo che avrei dovuto lottare per farmi dire la sua idea.
«Che nome?» chiesi
sorpresa.
«Kate» disse,
con un sorriso sfacciato.
«Katherine Cullen. Non suona bene, dici?».
«Oh, Edward!»
sussurrai commossa, e gli
avrei gettato le braccia al collo se non avessi avuto nostra figlia fra
le
braccia. «Kate» la chiamai «Kate,
Katherine, ti piace il tuo nome, si?» chiesi,
aspettandomi stupidamente un qualsiasi segno da mia figlia che potessi
individuare
come un’inclinazione affermativa.
Mi voltai verso mio marito, e
sorridemmo
come due ragazzini, commossi e felici. E mi baciò.
E in quell’istante mia
figlia non poté che
partecipare alla nostra felicità, aprendo gli occhi e
rivelando le sue iridi
chiare, e il suo sguardo, astuto e attento.
*sospira*
E
così…
Questo è il penultimo capitolo, ma, in fondo, questo
è IL capitolo. Ciò che da
tempo io e voi stavamo aspettando.
Vi ha
deluso? Ha superato le vostre aspettative?
Io posso
dire che è andato via da me, perché immaginarlo
non è come averlo scritto, e
avendolo scritto non lo si può più immaginare.
Questa
storia è cresciuta con me e… non devo piangere
né fare questi discorsi perché
c’è ancora un capitolo.
Mi rendo
conto che alcuni si sono un po’ persi per la lunghezza dello
scritto (grazie di
avermelo fatto presente -.-), ma comunque, un
po’, ogni tanto, mi sono
persa anch’io :P.
Bando
alle ciance.
Kate (si
chiama cusì e voglio che cusì la chiamiate ù.ù),
è nata! Che
meravigliosa frugoletta! :D ^^
L’ultimo
capitolo arriverà molto probabilmente in ritardo
perché, a differenza di
questi, non l’ho ancora scritto.
Spero
vivamentissimamente di non aver scritto caSSate nemmeno stavolta. (coccinella86, endif
- grazie
per il tuo racconto, stupendo ;) - e lisa76,
e tutte
quante con esperienza “filiali” mi affido a voi ;)
).
mikvampire
(nemmeno un figlio,
tante paranoie xD) Hanairoh,
ale03,mine(grazie
grazie grazie), ANNALISACULLEN(grazie dei complimenti, da piangere *.*) Sono contenta che
abbiate apprezzato
così tanto il travaglio! Mi sono data da fare, affidandomi a
dolori personali e
fantasia, oltre a tutti i racconti che le varie mamme hanno gentilmente
condiviso su internet, e quelli a volte non desiderati di mammi -.- .
Perché
non è Edward ad aiutare Bella a partorire? Perché
1. Edward
è solo laureato in medicina, il che non lo rende decisamente
un medico). 2. In
BD quando Bella sta male Edward non si mette a fare diagnosi, anzi
propone di
portarla da un medico. 3. Pur essendo laureato in medicina non lo
è in
ginecologia, e non è un tuttologo come Carlisle. 4. Se no
Carlisle che ci sta a
fare?! ù.ù Dreamerchan
:D spero di essere stata esaustiva. :D
Rosy_Cullen (grazie di
apprezzare il mio
sadismo)erzsi
, ste87(evviva
le amiche
partorienti!), congy.
Non
sono sadica. ù.ù
É inutile che continuate a ripeterlo, e se qualcuno scrive
nelle recensioni la
parola “sadica”, giuro che invece di scrivere la
versione attuale del finale ne
scrivo un’altra che avevo in mente. è.é
(sì, è una minaccia).
Ros_Ros,luisina(Carly
the doctor :P),Luna
Renesmee Lilian Cullen, prudence_78(mi
dispiace non riuscire a farti apprezzare il prof, ma sono contenta che
tu abbia
una tua idea :) ) Avete
festeggiato per l’arrivo di Carlisle! ;)
ledyanglo
so
tesoro, e non posso che ringraziarti, ma quando mi fai gli occhini del
gatto
sei terribile! :P
Noemixti
autorizzo a prendere a calci questo sederino se non
riprenderò in mano la tua
storia quanto prima. Scusa. ç.ç
Gattino
Biancociao!
Anche se ormai siamo in fine storia, grazie sinceramente di
averla letta. É un piacere (lo è ancor di
più dopo aver letto le tue
fantastiche recensioni :P). Grazie.
silvia16595non
dirò più che i capitoli sono lunghi :P
ma… sono lunghi! Ahahahah
Lau_twilight(grazie!),Nessie93,
KatyCullen(te
li sei recensiti tutti!!! *-*) Grazie per aver recuperato tutti i
capitoli e
non avermi abbandonata al mio destino! ;P
Grazie,
grazie, grazie, per tutti i meravigliosi complimenti, e
per il fatto di rimpiangere la fine di questa lunghissima storia! (Ely_11,
pomeriggio,
Struppi,
chi61,
LudoCullen96)
Vi
ringrazio, ora, di vero cuore, tutte. Mi avete recensita, letta,
commentata e
accompagnata. Grazie grazie grazie, a tutte voi,
«Mh…» mi lamentai
lievemente, tirandomi a sedere sul divano
«Mh…»
mi lamentai lievemente, tirandomi a sedere sul
divano. L’intera stanza era avvolta nella penombra. Sentivo
il corpo pesante e pervaso
dal torpore che segue a un sonno poco comodo. «Mi sono
addormentata?». La
domanda mi uscì con un tono impastato, diretta al vuoto
dinanzi a me.
Sentii subito dopo l’eco
di alcuni passi sul
pavimento, e le finestre furono subito aperte. «Avresti
potuto dormire ancora».
La voce di Edward, il viso lievemente accigliato.
Sospirai, raddrizzando le gambe e
poggiandomi contro
lo schienale del divano. Magari sì, avrei potuto dormire
ancora. Non dicevo di
non essere completamente esausta. Ma in quel momento la mia mente aveva
qualcosa di meglio a cui pensare.
Non appena Edward mi raggiunse,
sedendosi al mio
fianco, intrecciai le dita con le sue in un gesto di automatica ricerca
di
forza e conforto. Era così. Sentirlo accanto, fisicamente e
non, era la
necessità della mia vita.
«Andrà tutto
bene, vero?» chiesi insicura.
Annuì, silenzioso,
scendendo con le labbra fredde a
lambirmi una guancia, lasciando sulla mia pelle l’impronta
perfetta.
Eravamo entrambi preoccupati, ed
entrambi sapevamo
quanto inevitabile fosse quello che stava per accadere. Non potevamo
continuare
più a lungo in queste condizioni.
«Katie?»
chiesi, senza riuscire a nascondere il
tremore nella voce.
Edward mi accarezzò i
capelli. «Era con i nonni.
Stanno per arrivare», si voltò a guardarmi con un
sorriso appena accennato,
rigirandosi una mia ciocca sul dito. L’aria era densa
d’attesa. «Vuoi mangiare
qualcosa?».
Scossi il capo, sollevandomi
goffamente dal mio posto.
«Credo di avere lo stomaco chiuso».
Non feci a tempo a finire la frase
che la porta di
casa si aprì, sbattendo, rompendo l’attesa e
inviandomi immediatamente una
scarica lungo la spina dorsale. «Mammi!»
gridò, sgambettando, la mia piccola
bambina.
«Tesoro» la
chiamai con un sorriso. Ogni volta, ogni
volta che la vedevo mi rendevo conto della meraviglia che avevamo
creato. Era
un vero amore. Dolce, così riflessiva. Così
intelligente…
Corse verso di me e si
fermò, appena un passo prima. I
suoi vispi occhi verdi cercarono immediatamente il padre, come se si
aspettasse
un rimprovero, come se fosse perfettamente cosciente che quella che
stava per
fare era una marachella.
«Kate, non saltare in
braccio alla mamma» la riprese
bonariamente, come c’era da aspettarsi.
Ridacchiai, cercando di mascherare
tutto il mio
nervosismo, accovacciandomi goffamente a terra nonostante il grosso
pancione.
«Vieni qui tesoro» dissi, aprendo le braccia e
stringendomela al petto. I suoi
capelli si erano man mano scuriti, fino a diventare dello stesso color
mogano
dei miei. Mori, morbidi, profumati.
Si strinse a me, strofinando la
guancia soffice e rosa
contro la mia. Aveva appena un anno e mezzo, capacità
intellettive decisamente
più sviluppate, e si dimostrava appena più minuta
per la sua età.
Fortunatamente, la crescita sarebbe rallentata sempre più
nel corso degli anni,
senza far apparire troppo forte il contrasto fra
l’età del suo corpo e quella
della sua mente.
Edward la sollevò dalle
mie braccia, facendole fare
una mezza giravolta, e riempiendo la stanza del suono della sua risata
fanciullesca. «Ti sei divertita con i nonni?»
chiese, baciandole la fronte.
«Ti, papà!
Ancola, ancola!» chiese, saltellando
impaziente fra le sue braccia.
Edward spalancò la bocca
con fare teatrale. «Ancora?
Sei sicura?». E contemporaneamente la fece volteggiare
ancora, lanciandola in
aria e facendola ridere.
Sospirai, con un sorriso. Mi tirai
a sedere per
sistemarmi sul divano, un nugolo in petto. Era sempre stata una bambina
allegra
e serena, fin da quando era nata. Vederla così, ancora,
ancora oggi, mi
rincuorava e mi destabilizzava enormemente.
E non riuscivo a non pensare,
mentre il cuore mi
batteva sordo nel petto, che quello che stavamo per fare era un grosso
errore,
la scelta più sbagliata per la nostra bambina.
«Bella» mi
salutò Esme, entrando in casa affiancata da
Carlisle. Feci per alzarmi, ma immediatamente mi raggiunse, posandomi
una mano
sulla spalla. «Stai seduta, cara» mi
ammonì, baciandomi una guancia.
Edward si lasciò cadere,
fintamente esausto, sul
divano accanto a me. «Basta… Papà
è stanchissimo…». Trascinò
la bambina fra le
sue braccia, prima di lasciarla andare fra me e lui. La
verità era che non si
sarebbe mai stancato di giocare con lei. Ogni volta che la guardava
leggevo una
tale devozione nei suoi occhi… pari solo a quella che, mi
rendevo conto, aveva
quando guardava me.
«Dai papà,
ancola, ancola!» protestò. Poi volse lo
sguardo verso di me, e la bocca si aprì in un sorriso pieno
di minuscoli
dentini. «Atellino! Papà! Atellino!».
Edward ridacchiò,
accarezzandole una guancia. «E come
vuoi giocare col fratellino? É ancora troppo piccolo. Quando
nascerà potrai
giocarci» disse, con uno sguardo affettuoso. Mi sorrise, un
sorriso pieno
d’amore e devozione, d’affetto per me, per sua
figlia, per quel piccolo che
stava per venire. Per tutta la famiglia. Posò la mano alla
base del pancione,
facendomi rabbrividire.
La bambina seguì il
movimento e puntò i suoi grandi
occhioni verdi nei miei. Le sopracciglia si piegarono leggermente, e le
guanciotte si gonfiarono, dandole una buffa aria pensierosa.
«Mammi… bascio».
Prima che potessi accontentarla le
mani di Edward la
tirarono indietro, facendola voltare verso di lui. «Come ho
detto che si dice? Bacio.
Ba-cio» fece, scandendo con le labbra le parole.
Sollevai gli occhi al cielo. Edward
aveva la fissa di
insegnarle a pronunciare correttamente le parole che usava
più spesso. Ma per
quanto fosse strano da dire, non mi piaceva l’idea che mia
figlia imparasse a
parlare così bene. Insomma… era già
strano che parlasse, che lo facesse così
tanto e così scioltamente. Non mi piaceva insegnarle
qualcosa e poi chiederle
di non farla. E poi, imparava sempre così presto…
«Scio. Scio.
Papà, no!» strinse le piccole
labbra in un buffissimo sforzo, mentre sbatteva i piccoli pugnetti sul
suo
vestitino. «Bacio». I suoi occhioni si allargarono,
liquidi, soddisfatti,
appagati. Felici, come solo un bambino può esserlo.
«Cio!» esclamò
contenta,
ridendo a battendo le mani.
Edward, contento, orgoglioso, la
prese fra le braccia
e cominciò a tempestarle il viso di baci, appagando
l’ilarità di Kate.
Sentii l’esigenza di
distogliere lo sguardo da mia
figlia e mio marito, per evitare che il fastidio pungente agli occhi si
trasformasse in lacrime. «É stata
brava?» chiesi, quasi sottovoce, accarezzandole
distrattamente i capelli.
«Certo Bella. Tua figlia
è sempre un amore» rispose
con piacere Esme, seduta sul divano davanti al nostro, accanto a
Carlisle.
Non potevo essere propriamente
d’accordo con la sua
affermazione. Mia figlia aveva… molta voglia di vivere, e
molta curiosità.
Appena nata mi aveva tenuta sveglia per più di una notte.
Avere un marito
vampiro senza bisogno di dormire era stata una benedizione, ma
all’ora della
pappa nessuno poteva convincere mia figlia a preferire un biberon al
mio seno.
Ed ero lusingata, in un certo
senso, di questo suo
attaccamento a me. Mi mancava il contatto speciale che avevamo avuto
quando era
nella mia pancia, tutta quell’armonia, quello scambio
costante di emozioni. E
sapere di non aver perso completamente quel nostro legame non poteva
che farmi
felice.
Carlisle sorrise, stringendo la
mano sul ginocchio di
sua moglie. «É stata a casa per
un’oretta, e ha fatto la merenda. Volevi che si
distraesse un po’, così…»
fece, con un sorriso appena accennato.
«Non dirmelo»
esalai, un misto di bonaria
esasperazione.
Kate scivolò sulle
gambine, giù dal divano, correndo
verso Carlisle. «Nonno ha portato Kate al lavolo!»
gridò entusiasta, afferrando
la sua mano e saltellando. «Lavolo! Lavolo!».
Mia figlia… che adorava
andare a lavoro in ospedale
con Carlisle. Questa sì che era una cosa che di certo non
poteva aver ereditato
da me.
Sulla mia fronte comparve una ruga
d’apprensione. «Non
hai parlato Katie, vero? Ricordi quello che ti hanno detto mamma e
papà?».
Inclinò lievemente la
testa per guardarmi di
sottecchi, portandosi un dito sulle labbra umide. «No,
mammi» dichiarò sincera.
Carlisle sorrise, accarezzandole i
capelli. «É stata
brava. Si è limitata ai monosillabi e a
“nonno”». Esme la prese fra le braccia
e se la tirò a sé, parlandole intensamente.
«É una bambina intelligente, Bella»
continuò rivolto a me, e sapevo che le sue parole non si
riferivano solo a
quanto gli avevo chiesto. «Lei capisce, capisce
tutto» disse eloquentemente. Poi
sospirò, «si è comportata molto bene,
è un piacere per noi tenerla, lo sai».
Annuii, e ringraziai. Se non fosse
stato per l’aiuto
su cui sapevo di poter contare, su tutta la famiglia di Edward, non mi
sarei mai
lasciata convincere ad avere un altro figlio, non così
presto.
Accarezzai il grosso pancione con
una mano, l’altra
stretta costantemente a quella di mio marito.
«Emmett dice che ci
aspettano per le sei di stasera.
Al crepuscolo» ci informò Carlisle, acquisendo un
tono estremamente serio.
Rabbrividii, e mi lasciai andare
con la testa
nell’incavo del collo di Edward.
«Andrà tutto
bene» mi rassicurò, accarezzandomi
dolcemente il fianco. Le dita scorrevano sul vestito leggero, senza
quasi
toccarmi. Sentivo la rigidità del suo corpo e il suo
nervosismo, specchio del
mio.
«Mammi, mammi!»
gridò Katie, distogliendomi
improvvisamente dai miei pensieri. Mi liberai da Edward per prestare
attenzione
a mia figlia, che sgambettava verso di me col suo zainetto rosa - dono
di zia
Alice. «Mammi! Uarda cosa mi hanno legalato nonno e
nonna!» disse contenta.
Mi ripresi in fretta, scacciando
ogni traccia d’ansia
dal mio viso. «Oh, nonno e nonna ti viziano
incredibilmente» dissi, scuotendo
il capo con un’occhiata affettuosa. «Fammi vedere
tesoro».
Posò lo zainetto a
terra, attenta a non sbilanciarsi,
e subito dopo si lasciò cautamente cadere a terra col
sedere. Sbirciò nello
zainetto e vi infilò una manina, tirando fuori
l’oggetto che stava cercando. «Uarda,
mammi!» disse, mostrandomi quello che aveva tutta
l’aria di essere un camice in
miniatura… rosa. «Uesto me l’ha regalato
nonna» fece seriamente, posandolo con
precisione accanto a sé, sul pavimento. Il sorriso si
allargò, birichino,
quando dallo zainetto afferrò l’altro oggetto.
Mi portai le mani alla bocca,
guardandola con tutta la
sorpresa che si aspettava di ricevere.
«Setoscopo!»
disse, dimenando la mano con l’oggetto in
questione. «E uarda mammi, è osa, osa!».
Scossi il capo, lanciando
un’occhiata a mio suocero.
Volevo che mia figlia capisse il valore delle cose che aveva in mano.
Una cosa
erano oggetti con cui giocare, un’altra era prendere uno
strumento medico e
consegnarlo in mano a una creatura che non volevo rinunciare a chiamare
piccola
bambina.
«Katherine, non lo
rompere. Uno stetoscopio non è una
cosa con cui giocare. Anche se è rosa…»
dissi, alzando gli occhi al cielo.
Smise di agitarlo e dimenarsi, e
fece peso su una mano
per alzarsi. Camminò con un visino serio, tendendo
l’oggetto verso di me, fino
a posarlo sul pancione. «No, mammi. Uesto è per
sentile atellino. Katie no
rompe». Alzò lo sguardo, e mi fissò
intensamente e seriamente. Mi guardò, e i
suoi occhi verdi incontrarono i miei, ripristinando ancora una volta
quel
legame che da sempre ci aveva unite.
Mi lasciai sfuggire un sorriso
appena accennato, quasi
un rantolo. Per poco non mi scivolò una lacrima dagli occhi.
«Va bene»
mormorai, accarezzandole la testa, «non lo rompere
tesoro».
Scosse il capo, facendo ricadere
qua e là le ciocche
scomposte. Tese le braccia e provò a circondare il pancione
in un abbraccio.
«Basc…» strinse gli occhi, sforzandosi
«Bacio» sussurrò soddisfatta, posando le
labbra sulla pancia.
Ero un misto di tenerezza, ansia,
paura, senso di
colpa. Sospirai, tremante. Mi asciugai velocemente le guance, provando
a
chinarmi per baciarle il capo.
Esme saettò da una parte
all’altra della cucina,
facendo scomparire i nostri piatti vuoti. «Non ti preoccupare
tesoro, ci penso
io a sparecchiare».
Sospirai, accarezzandomi il ventre
pieno. Kate era
intenta a mangiare la sua pappa, serena rispetto a quello che di
lì a poco sarebbe
successo.
Mi chiedevo, con una fitta nel
petto, se quella
serenità derivasse dall’innocenza dei suoi anni o
semplicemente dalla sua
indole. Non capivo. E il suo atteggiamento non faceva che allarmarmi
ancor di
più.
Trasalii quando sentii il tocco di
una mano fredda
sulla spalla. Carlisle si chinò, fissandomi attentamente.
«Vieni di là in
camera? Ieri avevi il controllo, anche se è
saltato» mi spiegò con un sorriso
gentile «Edward ha detto che hai avuto delle
contrazioni».
Annuii, lasciando che mi aiutasse a
sollevarmi dalla
sedia.
Quando fummo in camera Edward
chiuse velocemente la
porta, e corse da me per guidarmi sul copriletto. Sapevamo entrambi
della
nostra ansia, e entrambi stavamo cercando di distrarci.
«Credo che questo
piccolo nascerà prima, rispetto a Katie»
buttò lì con leggerezza, la voce
tenue. Accarezzò il pancione.
Carlisle posò le mani
sul mio ventre scoperto,
misurandone le dimensioni. «In effetti il piccolo Mark
è più grosso rispetto a
Kate. Penso e spero che fra qualche giorno ti aspetterà la
sala parto».
Mi lasciai andare sul cuscino,
chiudendo gli occhi.
«Sembra strano da dire, ma per adesso è
l’ultimo dei miei pensieri» confessai
nervosamente.
Edward mi accarezzò i
capelli. «Andrà tutto bene…
vedrai. Nostra figlia è davvero forte, e credo che ce lo
dimostri giorno dopo
giorno. Affronterà anche questo, e sarà per
sempre al sicuro».
Lui aveva un forte legame con la
piccola. Non sempre,
ma quando era più vulnerabile poteva sentirne i pensieri.
Dovevo affidarmi a
lui, quando mi diceva quanto fosse forte nostra figlia, per non dare di
matto
per quello che stava per accadere.
Jared, Sam e Paul erano ancora
sotto l’“incantesimo”
di Jacob, sotto il suo ordine di uccidere me e Edward.
L’unico modo per rompere
quel laccio invisibile che li soggiogava, era far revocare
l’ordine dall’unica
persona che fosse in grado di farlo. L’unica che lo tenesse
ancora in vita.
Mia figlia.
Dopo la sua nascita ero stata una
madre angosciata e
attenta, pronta a cogliere ogni segnale che quello che aveva vissuto
quando era
solo nella mia pancia venisse a galla. Ma in nessun modo, niente, era
stato
manifestato.
«É
così piccola, Edward. Chi ti dice che tutto questo
non la farà tornare indietro a tutto quello che è
successo? Che non la farà
stare male? Sembra così spensierata
adesso…» mormorai ansiosa, portandomi una
mano sugli occhi.
Mi accarezzò il volto,
prendendolo fra le mani e
costringendomi ad aprirli. «Ti posso assicurare che lei sa,
in fondo al suo
cuore ricorda. Ieri, quando le abbiamo spiegato quello che avrebbe
dovuto fare,
ho sentito qualcosa dentro di lei. Andrà bene»
sussurrò persuasivo, verso me e
lui stesso.
«Emmett, Rose e Jasper
sono a La Push. É tutto pronto, l’incontro
avverrà nella massima sicurezza» intervenne
Carlisle.
Alternativamente i vampiri si erano
dati da fare per
mantenere sottocontrollo la situazione. Ma tenere bloccati tre
licantropi non
era facile, anzi, stava diventando un’impresa via via
più complicata.
Perché semplicemente non
avevano potuto comprendere,
trovare un escamotage come tutti gli altri? Non sempre,
mi aveva
spiegato Seth, le leggi delle tribù erano radicate
allo stesso modo in un
individuo.
«Mammi» mi
chiamò debolmente Kate, sbirciando nella
stanza. Esme le aveva fatto indossare il suo camice, e dalla tasca
destra
sbucava lo stetoscopio.
«Vieni qui»
mormorai in un sospiro, lasciando che
sgambettasse fino a me. Edward la aiutò ad issarsi sul
materasso. Volevo
tenerla vicina, e stare attenta a captare ogni minimo segnale
d’ansia. Se solo
mi fossi accorta del suo pur minimo turbamento avrei fermato ogni cosa.
«Atellino».
Kate indicò la mia pancia e tirò fuori lo
stetoscopio dalla tasca.
Carlisle ci lasciò soli,
e Edward aiutò la piccola a
cercare il punto in cui avrebbe potuto sentire il cuore del fratello.
Cercai di
rilassarmi, mentre osservavo quella piccola grande personcina,
così serena,
dimostrare e regalare tanto affetto e amore con dei gesti
così semplici.
Sentivo un brivido partire dal
punto in cui Edward e
Kate tenevano la mano sul pancione, così vicini a me e a
quel bambino non
ancora venuto al mondo, ma a cui già volevano bene.
«Come fa il cuore di
Mark?» chiese affettuosamente Edward,
accarezzandole i capelli.
«Mak!». La
piccola strofinò la mano sul mio ventre
pieno, poi sollevò lo sguardo su di noi. «Tum
tum tum tum» mimò, facendo
muovere le labbra umide.
I suoi occhi risplendettero in
quelli della figlia,
verde nel verde. «Si tesoro, fa proprio
così» disse soddisfatto, guardandola
con orgoglio.
Non potei fare a meno di sorridere.
«Papà»
fece, sollevando lo sguardo su di lui.
«Dimmi».
I suoi occhi ardevano di
curiosità. Si posò una manina
sul petto. «Mammi fa tum tum. Io faccio tum
tum. Perché tu no tum
tum? E nonno? E zii?».
Mi mancò un respiro,
presa in contropiede da quella
domanda. Non era la prima volta che si rendeva conto delle differenze
che
c’erano fra di noi, e ogni volta, pazientemente, Edward e io
le rivelavamo una
parte della verità.
Così fece quella volta.
Sospirò, le prese fra le
braccia, la mise fra noi. Cominciò a spiegarle la
differenza. Tuttavia, la
piega che stava prendendo il suo discorso era fin troppo scientifica, e
man
mano notai quanto mio marito fosse turbato e stranamente a corto di
parole.
Presi la mano di Kate, facendola
accoccolare sul mio
petto. Le accarezzai una guancia. «Tesoro, il nostro cuore fa
tum tum,
ed è un suono bellissimo. É bello
perché significa “vita”. Ma ti ricordi
quanto
ti dissi com’è bello essere unici e speciali, che
ognuno di noi lo è?».
La piccola annuì,
guardandomi attentamente.
Intrecciai le dita con quelle di
Edward, racchiudendo
Kate nel nostro abbraccio. «Papà è
speciale. Il suo cuore è un grande
cristallo, luminoso e bellissimo, e brilla, incastonato nel suo
petto» spiegai
con un sorriso.
Strinse le labbra - un movimento
ereditato dal padre -
e spostò lo sguardo sul mio polso. «Come
blaccialetto?».
Sorrisi sinceramente, baciandole la
fronte. «Si
tesoro, come il cuore del mio braccialetto». La strinsi a me,
abbracciandola.
Gli occhi di Edward, brillanti, si specchiarono nei miei, pieni
d’amore e
gratitudine.
«Ti amo»
sussurrò, muovendo le punte delle dita sui
miei capelli.
Socchiusi gli occhi e sospirai,
sulla testa di nostra
figlia. «Ti amo anch’io».
«Vieni tesoro, infila il
braccio» mormorai,
sistemandole addosso il cappotto. Una parte della mia coscienza rideva
di me.
La stavo proteggendo dal freddo dell’inverno, dalle
intemperie. I suoi occhi,
pieni di fiducia, il suo corpo e la sua mente affidati a me.
Perché si fidava,
perché mi avrebbe dato la sua piccola vita.
E io. Io la stavo per portare
davanti a quelli che
erano stati i suoi incubi peggiori.
Sentii la porta della cameretta
aprirsi, e quando mi
voltai il viso di mio marito si rabbuiò immediatamente. In
un attimo era ad un
centimetro da me. Baciò le guance, appena sotto le palpebre,
catturando con le
labbra le mie lacrime salate.
Mi strinse la testa sulla sua
spalla, fissando la
piccola Kate. «Sei bellissima» le disse, con un
tono apparentemente tranquillo.
Le sue parole vibrarono nel suo torace fino al mio.
Lacrime silenziose non avevano
smesso di scendere
sulle mie guance. Ero riluttante. Riluttante e turbata di fronte
all’inevitabile.
«Ricordi cosa devi fare
amore mio?» le chiese
attentamente.
«Si
papà» scandì attentamente.
«Me lo vuoi
dire?».
Mi liberai dalla presa di mio
marito, facendo un passo
lontano da loro. “Pensa attentamente che sono
liberi. Pensa che ogni ordine
è sciolto. Pensa anche solo a quanto vuoi bene a mamma e
papà, e a quanto vuoi
tenerli con te”. Già ieri le avevamo
spiegato tutto. Già ieri aveva
annuito, ci aveva guardato negli occhi, fiduciosa, pronta a fare
qualsiasi cosa
per noi.
Presi un respiro, posando un
braccio fra il seno e il
pancione. Con la punta delle dita mi asciugai le ultime lacrime, e mi
voltai
verso Kate con un sorriso forzato.
Edward la stava accarezzando.
«Hai paura tesoro? Vuoi
farlo?» le chiese piano, dandole possibilità di
rispondere. Ma era così
piccola. Cosa poteva aspettarsi, se non fare tutto quello che le
chiedevamo?!
Ma lei annuì,
un’espressione estremamente seria sul
volto. «Katie no paura».
“Un
uomo cattivo, consumato dall’odio e dalla
gelosia, voleva farci del male. A me, alla mamma, a tutti noi. Ma tu,
tesoro,
con l’amore che provavi per noi, l’hai mandato via.
E adesso è scomparso, non
c’è più piccola. Ma
c’è ancora qualcosa in sospeso. Devi pensare a
quanto vuoi
bene alla mamma e a papà, e andrà via per sempre”.
Le parole del giorno
precedente risuonavano ancora nella mia mente.
Mi avvicinai di un passo,
prendendola fra le braccia e
lasciando che Edward mi avvolgesse da dietro.
Mentre la mia Mercedes scura
scivolava sull’asfalto,
noi eravamo ancora rinchiusi nella nostra bolla. Carlisle e Esme sui
sedili
anteriori. Io, Edward e Katie, stretti in abbraccio.
E in quel momento pensavo a quanto
fosse stata bella
la nostra vita in quell’anno e mezzo, non potendo fare a meno
di distrarmi con
quei pensieri. Ogni giorno era stato una gioia, una scoperta. Anche
quando ero
stremata, anche quando avevo dovuto sgridarla, anche quando non tutto
era
andato bene, conservavo un ricordo estremamente positivo del tempo
passato.
Vedevo luce, luce e amore nella mia vita. Vedevo gli abbracci, i baci
di mio
marito e di mia figlia. Vedevo le loro e le mie risate spensierate. Le
prime
parole, i primi passi, i giochi. Il tempo passato ad osservarla anche
solo
dormire, troppo bella, troppo un miracolo per non poter godere il
magnifico
spettacolo del suo innocente sonno.
E se da un lato avevo paura per
quello che stavo per
fare, paura di compromettere la felicità di mia figlia, il
lato più impavido di
me bramava nuovi momenti come quelli vissuti, pieni fino in fondo di
felicità e
serenità, per l’eternità.
Un futuro per me, Edward, Kate, il
piccolo che doveva
ancora venire e ognuno che sarebbe venuto.
Kate ci osservava, stretta fra me e
Edward,
silenziosa. I suoi occhi erano grandi e liquidi. La pelle chiara per il
freddo
faceva risaltare il contrasto con le labbra carnose, rosse e umide. Era
così
bella. Somigliava così tanto a Edward, se non fosse stato
per il taglio degli
occhi e i capelli…
Edward scivolò fuori
dall’auto. Prese Kate da sotto le
braccia, stringendole il cappotto al corpo in modo che non sentisse
freddo. Mi
trascinai fuori, barcollando, e raddrizzandomi sui piedi aiutata dal
supporto
della mano di mio marito.
Il vento soffiò, al
limitare fra i nostri e i loro
territori. In lontananza, fra gli alberi, il crepuscolo ci
accompagnava.
Rabbrividii, ma non per il freddo. Troppo questi alti alberi mi
ricordavano
scenari terribilmente familiari.
Il giorno in cui incontrai Edward,
mai avrei previsto
che la mia vita prendesse questa inaspettata piega. Eppure, non potevo
fare a
meno di pensare che mi avrebbe regalato tanto male quanto puro e
sincero amore.
E l’amore è sempre qualcosa per cui vale la pena
soffrire e lottare.
Sapevo che dovevo fare questo.
Sapevo che non era
giusto tenere Sam, Jared e Paul imprigionati. Sapevo che non avremmo
potuto
vivere tutta la vita come profughi, rischiando per noi e i nostri
figli.
Speravo solo ci fosse
un’altra soluzione.
Mossi i miei passi, stretta a
Edward e a Kate. Una
fila schierata di licantropi, di cui solo tre si dimenavano, rabbiosi.
Una fila
di vampiri.
Ogni passo risuonava nella mia
mente. Ogni passo ero
più incerta e insicura di quello precedente. Ogni passo, la
presa sul corpo di
mia figlia, fra le braccia di mio marito, si rafforzava.
Guardava attentamente, con un
espressione neutra, i
licantropi davanti a noi.
Un rantolo mi sfuggì di
bocca. La piccola si voltò
verso di me, scrutandomi.
«Vieni qui»
mormorai, tendendo le braccia. Katie si
sporse verso di me, e Edward la trattenne abbastanza per riservarmi
un’occhiata. «Ho bisogno di averla con
me» mimai con le labbra, sollevandola
dalle sue braccia per stringermela la petto.
Mio marito rafforzò la
presa sulle mie spalle,
guidandomi, ancora, avanti. Il lupi ringhiavano, così vicini
a noi, trattenuti
dalla forza degli altri lupi.
Il vento soffiò.
Feci un passo, incerta. Al seguente
mi bloccai, tremante,
facendo voltare Edward nella mia direzione.
«Bella-»
protestò debolmente.
Sentii tirarmi una ciocca di
capelli, e allentai la
presa sul corpo di mia figlia. Mi posò una mano sul petto,
guardandomi negli
occhi, confusa. «Mamma, erché hai
paura?».
La fissai negli occhi, scrutandola.
I suoi splendevano
d’affetto e amore.
«Katie vi uole
bene» disse, facendo stringere il mio
cuore nel petto.
Le sorrisi, stringendomela al seno,
senza parole e
senza fiato. Edward la sollevò dalle mie braccia, baciandole
la fronte e
tirandomi con lei.
Feci ancora un passo, e la bambina
strinse i pugni sul
giaccone di Edward e il mio, chiudendo forte gli occhi.
Pochi istanti più tardi,
ad uno ad uno, i licantropi
smisero di dimenarsi. Per ultimo Sam, si lasciò andare sul
terreno, innocuo.
E mentre il suono del vento e del
battito del mio
cuore riempiva le mie orecchie, mia figlia aprì gli occhi,
sorridendomi serena.
Era, davvero, tutto finito.
«Andrà tutto
bene, vero?» chiesi. E alla stessa
domanda, il tremolio che solo poche ore fa l’aveva distorta
era scomparso.
Edward fece passare le braccia da
dietro la mia
schiena, avvolgendomi in un abbraccio. Posò il mento sulla
mia spalla,
dondolando piano avanti e indietro. «É
già andato tutto bene».
Sentivo, vicino
all’orecchio, l’odore dolce del suo
respiro fresco. Le sue labbra, ci avrei giurato, piegate in un sorriso.
Mi accarezzò il grembo,
con lenti movimenti circolari.
«Non vedo l’ora di conoscerlo».
Le mie labbra si piegarono in una
smorfia. «Io un po’
meno, permettimelo» scherzai debolmente, sollevando un
braccio per
accarezzargli i capelli. «Spero che sia un piccolo Edward in
miniatura, proprio
come te. Però… può aspettare ancora un
paio di giorni» mormorai ironicamente.
«Ma guarda»
sussurrò, indicando il lettino con le
sbarre in legno.
Dentro, nostra figlia, in uno dei
suoi sonni più
beati. Me e Edward, lì, intrecciati nei suoi lineamenti. Gli
occhi socchiusi,
le palpebre tremolanti. Le labbra, piccole, carnose, bagnate, aperte e
dischiuse ad ogni respiro che le gonfiava il piccolo petto. Il suo
profumo,
profumo di buono, di pulito, profumo di bambino. Il sorriso e
l’aria beata del
suo volto. Ed era là, la creatura più dolce e
pacifica del mio universo.
Avvicinò le labbra fino
a sfiorare l’orecchio. «Non ne
vuoi un altro così?» chiese, suadente.
Sospirai, completamente
destabilizzata da quella
vista. «Mi hai convinto così ad avere Mark, non
è vero?» chiesi, torcendomi per
guardarlo in viso. «Ricordamelo quando non dormirò
la notte. Quando dovrò
allattarlo, quando riempirà le tutine di vomito e bave,
quando strillerà ad
ogni ora e ci subisserà di domande, richiedendo tutta la
nostra forza e le
nostre attenzioni. Oh, ricordamelo soprattutto mentre sto
partorendo».
Ridacchiò, con tono
mite, a pochi centimetri del mio
volto.
Sospirai, voltandomi ancora verso
Kate. «Sta bene,
vero?». Mi liberai dalla presa di mio marito, chinandomi su
di lei. Le
accarezzai la guancia.
La sua mano raggiunse la mia,
vezzeggiando la pelle
color crema.
Mi voltai a guardarlo.
«Benissimo».
Annuì, sistemandole le
coperte e accarezzandole i
capelli. «Ci vuole bene…» sussurrai, un
misto di agitazione e affetto.
Restai lì, ad osservarla
nel sonno, lasciando che
l’idea di serenità che emanava penetrasse pian
piano dentro di me. Mi dovevo
abituare a quella nuova idea di pace, di armonia, cancellare per sempre
le
tracce di quello che era stato.
La mia mente era come la sabbia
bagnata in riva al
mare, gli ultimi flutti stavano cancellando, onda dopo onda, ogni
traccia di
quello che era passato.
«Edward?»
sussurrai, smettendo di accarezzare nostra
figlia per posarle una mano sulla guancia.
Si voltò a guardarmi.
Sollevai lo sguardo per incontrare
il suo. Le mie
labbra si piegarono in un sorriso.
Il vento soffiò nella vasta radura, sui miei
lineamenti incorruttibili e perfetti, sulla mia pelle fredda e fra i
miei capelli setosi
Il vento soffiò nella
vasta radura, sui miei
lineamenti incorruttibili e perfetti, sulla mia pelle fredda e fra i
miei
capelli setosi. Il cielo, minaccioso, mostrò un lampo di
luce fra le nuvole
plumbee.
«Corri, Kate!
Corri!» la incitò suo padre, bello e sorridente
come non mai, vestito impeccabilmente di una costosissima divisa da
baseball.
Mia figlia aumentò il
veloce e aggraziato ritmo delle
sue gambe, che ora, grazie alla mia nuova natura, potevo cogliere
perfettamente.
Ma Mark era già sbucato
dalla foresta, con un perfetto
sorriso di dentini e la palla in mano. «Yeah!»
esclamò Emmett contento «dammi
il cinque ragazzo!». Mio figlio rise, orgoglioso, ricevendo
un occhiolino da
parte di Edward.
Katie non era dello stesso umore.
Corse verso il
padre, con un broncio stampato in viso.
«Papà» mugugnò, tendendo le
braccia
verso di lui.
La sollevò velocemente,
sfiorandole il naso con un
dito. «Non ti preoccupare mon petitechampion,
ci rifaremo al prossimo
inning».
Mia
figlia Kate non amava gli
sport, ma adorava suo padre e le sue coccole, e soprattutto era
estremamente
intelligente. Così non si era lasciata sfuggire
l’occasione di stare con lui e
fra le sue braccia.
Mark
invece era un tornado.
Adorava la sua sorellina più grande, muoversi e giocare.
Venne fin da me per
avere il bacio della vittoria, che con un saluto caloroso gli concessi,
baciandolo sulla guancia sporca.
Sospirai,
osservandolo
allontanarsi per il campo con un senso di deja-vù.
Dopotutto, in un certo
senso, la mia avventura era cominciata proprio lì, su quel
campo e fra quegli
alberi. Era lì che avevo fatto il mio primo vero passo nel
mondo dei vampiri,
mettendo concretamente in gioco la mia vita.
La
prima delle mille volte.
Ma
non rimpiangevo niente
pensando agli ultimi sei anni passati con i miei figli, né
tutti quelli che
erano venuti prima.
Dopo
Kate Mark, dopo Mark…
«Mammiii!»
«Ammii!» chiamarono
insieme le mie gemelline, vestite di candidi e graziosi abitini
bianchi, sedute
in compagnia delle zie sulla tovaglia scozzese del pic-nick.
Anne
e Juliet erano le nostre
piccole principessine. E apprendendo la notizia delle gravidanza
gemellare avevo
guardando sconvolta Edward, accusandolo di avermi in infilato qualcosa
nel caffè;
finché Carlisle non mi aveva spiegato che le bambine erano
identiche, nate da
un’unica placenta, una situazione puramente casuale e
rarissima. Omozigoti,
così aveva detto Carlisle, mentre ancora non mi ero del
tutto ripresa dalla
notizia.
Allargare
la famiglia da quattro
a sei, con dei bambini così piccoli, era stato tutto il
contrario di quello che
si potrebbe definire “una passeggiata”.
«A-elli!
A-elli!». «Uadda ammi!»
mi chiamarono, mostrando i nastrini che con tanto entusiasmo Alice e
Rosalie le
avevano infilato nei capelli.
Non
solo tre gravidanze e
relativi parti non erano stati facili da gestire, la presenza di
quattro
bambini in casa era terrorizzante. E malgrado andassero spessamente
d’accordo e
si divertissero insieme, capitava che avessero umori o esigenze
diverse, o che
litigassero fra di loro.
Se
non fosse stato per tutti i
vampiri, per i Cullen e per Edward, che non avevano quasi nulla da fare
e
un’infinità di tempo a disposizione, probabilmente
non sarei riuscita a
sopravvivere agli ultimi anni, pensai scherzosamente.
In
ogni caso, avevo voluto
comunque dare tutta me stessa ai miei figli, dedicando a ciascuno tutto
il
tempo che avevo a disposizione, abbandonando gli studi e ogni svago.
La
notizia che mi aveva
sconvolta era stata quella della quarta, estenuante, gravidanza. E
malgrado
inizialmente si fosse prospettata molto più tranquilla delle
precedenti -
niente nausee e ormoni impazziti - causa l’eccessivo sforzo
esercitato sul mio
corpo era finita in maniera preoccupante e tragica.
Distacco
della placenta.
Emorragia. Diminuzione del battito fetale.
Quando
pensavo di essere morta,
di non poter più rivedere i miei figli e mio marito e mai il
piccolo nato, il
veleno, l’essenza di vampiro di mio marito, era entrato in
circolo nelle mie
vene, salvandomi e trasformandomi in quella che ero diventata.
Una
vampira.
«Prendila,
Kate!» esclamò Esme,
dopo che Emmett ebbe colpito la palla con la mazza. Mia figlia si
lanciò di
corsa fra gli alberi.
Edward
era felicissimo dei
bambini, e la mia trasformazione aveva interferito con quello che mi
rendevo
conto essere un suo reale progetto: avere quanti più figli
possibile. Aveva un
sorriso perennemente stampato in volto, un viso diametralmente opposto
a quello
che vagheggiava sui suoi lineamenti nei periodi più cupi
della sua esistenza.
Adorava i suoi figli e adorava me, come io amavo lui e loro.
Alice
si sollevò, mettendo giù
Juliet e guardando fra gli alberi, dove poco prima era scomparsa mia
figlia.
«Kate!» gridò, indicando quel punto.
Volsi
il capo in quella
direzione, osservando ciò che avvenne poco dopo.
Philip
e sua figlia Kate
passarono fra gli alberi, con mia figlia fra le braccia, entrambi
immortali.
«Zia Katherine!» la salutò mia figlia,
baciandole una guancia.
Poco
dopo aver sistemato ogni
cosa con i licantropi Kate si era fatta avanti e finalmente ricongiunta
a suo
padre, appagando il suo cuore. Così aveva deciso di
trasformarlo in vampiro,
mentre viaggiavano come profughi lontano da Aro, protetti dal loro
anello
magico.
Mi
aveva aiutata
psicologicamente, permettendomi fin dai miei primi giorni di vampira di
entrare
in contatto con gli umani e i miei figli. Era un uomo nuovo, forte e
rinvigorito. Ed ero certa che ad essere guarito non fosse il suo corpo,
ma la
sua anima.
«Volevamo
salutarvi prima che
andaste via» disse pacatamente, rivolgendomi
un’occhiata.
Da
troppo tempo nessuno di noi
non mutava aspetto, e questo, alla radura, era l’ultimo
nostro giorno a Forks.
L’ultimo mio giorno da umana, o quasi. L’ultimo
giorno prima di separarmi da
mio padre e dalla mia vita passata.
Li
salutai cordialmente, con
tutta la disposizione d’animo che sentivo di avere.
Un
fulmine e un lampo
squarciarono il cielo.
La
nostra vita era meravigliosa.
Mille volte i miei figli mi avevano fatta entusiasmare e commuovere,
con
piccoli gesti che con occhi luccicanti o un sorriso innocente
diventavano la
gioia della mia vita.
E
la dura lotta che avevo fatto
e facevo ogni giorno per conquistare la mia felicità non era
che un puntino
buio in un mare di luce.
E
mentre i bambini salutavano
Katherine e Philip, Edward mi venne incontro, un beato sorriso sulle
labbra.
«Ehi» mormorò, sedendosi con grazia
acconto a me e circondandomi le spalle con
un braccio. Mi guardò con serietà, con i suoi
occhi limpidi. «Ti amo, lo sai?».
«A
cosa devo questo scoppio
d’affetto?» sussurrai, fingendo di non essere
colpita dalle sue parole.
Scrollò
le spalle e mi sorrise
con sincerità e senza ombra di imbarazzo, posando la testa
sulla mia e
contemplando insieme a me i nostri figli, beandosi dei loro gridolini
estasiati, dei loro sorrisi e dei loro bronci.
Strinsi fra le braccia il piccolo
fagottino caldo,
avvolto in una coperta. La mia più piccola bambina vi
giaceva, vagendo
timidamente. Due occhi grandi, le guanciotte morbide, e un piccolo naso
all’insù.
La sollevai, per darle modo di
guardare la mia, la
sua, la nostra famiglia. Ridacchiò, contenta. Mi avvicinai
con la mia alla sua
morbidissima guancia, per la gioia di scatenarle un altro versetto.
«Ti piace,
Camille?» domandai emozionata. «É tutto
tuo».
Con la coda dell’occhio
vidi il sorriso sul volto di
Edward allargarsi, e mentre una mano si posava sul capo di nostra
figlia, le
sue dita incontrarono le mie, la stessa temperatura, la stessa
morbidezza, intrecciandosi
sul terreno.
«Ti amo».
Fine.
Piccole
risposte: Kate non ha
ucciso i licantropi; mi piace SMODATAMENTE far
fare figli a Bella e Edward; (Ely_11, per il programma ti mando una
mail).
Comunicazioni
di servizio: gli extra
di questa storia
verranno pubblicati non su EFP ma sul mio blog, semplicemente per il
fatto che
non ritengo facciano parte della storia.
Compatibilmente
con quello che ho in mente vi invito a
chiedermi qualsiasi cosa, in varietà di POV, tempi e
situazioni.
Comunicazioni
per il futuro: Ho postato
una nuova storia, Diamante,
di cui segue l’introduzione e la copertina.
Quando,
all'inizio
del XIX secolo, neo-classicismo e pre-romanticismo si incontrarono... "Un viaggio per cercare un marito,
un naufragio per trovare l'amore"
...lo fecero anche una dama e un gentiluomo, mettendo in discussione
quelle che
sembravano certezze, per condividere la magia
dell'Amore.
E
così, così, si conclude questa storia.
Devo dire
talmente tante cose che cominciare mi sembra
difficile.
Questa storia
è stata un sogno, partorita da un sogno, e
frutto della mia più fervida immaginazione. Mi sono
divertita a idealizzare e
estremizzare la felicità, anche attraverso il dolore magari,
di una coppia non
reale, forse realistica.
Mi pare
evidente che per quanto abbia provato a descrivere
i personaggi esattamente com’erano nella mente
dell’autrice della saga, una
parte di me non ha potuto fare a meno di andare a fare parte di loro.
Prima di
tutto, scrivere questa storia è stata una gioia.
Non c’è mai stato un capitolo che non mi andasse
di scrivere, o una pagina che
non volesse saperne di venire formulata. In alti e bassi, scrivere
è sempre
stato un piacere.
75 capitoli e
un anno e mezzo mi hanno accompagnata non
solo nella scrittura, ma anche nella mia vita, nella mia testa, e nei
miei
fantasiosi dormiveglia.
Sono
cresciuta, sono cresciuta tanto con e per mezzo di
questa storia, e malgrado mi renda conto che a volte avrei potuto fare
di più o
prendere un’altra scelta narrativa, non rimpiango nulla di
quello che ho
scritto. Ogni parola, ogni decisione, anche
“sbagliata” è Cullen’s Love, e
mi
ha resa quella che sono.
Veniamo
all’importante. Siete stati voi, proprio voi, a
rendere Cullen’s Love la storia che è stata. A
dare questa meravigliosa
risposta, a scegliere di leggere la mia storia, a spronarmi e esaltarmi
così
tanto, facendola entrare ancor di più nel mio cuore.
Ci sono state
volte in cui ho pianto, commossa,
emozionata, per le vostre recensioni.
Avete
scherzato, avete analizzato criticamente, vi siete
emozionati, mi avete ricoperta (e vi ringrazio) di mille, infiniti,
bellissimi
complimenti.
Grazie. A chi
mi segue dall’inizio di questa avventura,
non perdendosi neppure un capitolo o un aggiornamento.
Grazie. A chi
mi ha confortata nei periodi peggiori,
tirandomi su.
Grazie. A chi
insistentemente e incessantemente mi
chiedeva di aggiornare.
Grazie, anche
ha chi mi ha fatto notare i miei errori.
Senza di voi, non sarei mai potuta crescere.
Grazie.
Grazie. Grazie.
(Perdonatemi
se non faccio nomi, ci sono mille di voi che
dovrei baciare da capo a piedi).
Oggi, 28
Settembre, è un giorno importante.
Oggi si
conclude la mia storia. Oggi, come un anno fa’, la
mia vita cambiava.
Grazie, a chi
saprà leggere il mio amore fra le righe di
questo epilogo.