Six Degrees of Separation di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Shock ***
Capitolo 2: *** II. Rabbia ***
Capitolo 3: *** III. Delusione ***
Capitolo 4: *** IV. Paura ***
Capitolo 5: *** V. Rassegnazione ***
Capitolo 6: *** VI. Sollievo ***
Capitolo 1 *** I. Shock ***
Allora,
due paroline di introduzione prima di lasciarvi alla lettura.
Ciao, questa è la mia prima fanfiction in assoluto su Hawaii
Five-0 e fino a due settimane fa avevo guardato la serie solo come
passatempo occasionale. Non so cosa sia scattato di preciso nel mio
cervello, ma tutto d'un tratto ho avuto l'irrefrenabile impulso di
dover guardare ogni singolo episodio, dall'inizio alla fine, e ne sono
diventata dipendente. Bene, ora che mi sono ricoperta di vergogna
possiamo andare avanti.
Si tratta di una McDanno pre-slash formata dall'insieme di diverse
missing-scenes ambientate durante le puntate 2x20 e 2x21 (inclusa la
seconda parte del crossover con NCIS). Per non influenzare le mie
stesse idee, mi sono fermata di proposito a questi episodi ed
è stata durissima resistere, perciò... per
favore, no spoilers!
La
storia è formata da sei capitoli ed è conclusa,
quindi aggiornerò abbastanza velocemente.
Il titolo è per forza di cose ispirato dalla canzone omonima
dei The Script. (Se non l'avete mai sentita fatelo, tipo, ora).
Nota: I personaggi non mi appartengono e questo scritto non ha alcuno
scopo di lucro.
Spero
non sia una totale idiozia e che, anche se lo fosse, siate
così gentili da farmelo sapere.
Grazie e buona lettura! :)
Vostra,
_Pulse_
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SIX DEGREES OF SEPARATION
I
SHOCK
Quella
mattina, svegliandosi, aveva subito intuito che non sarebbe stata una
giornata come le altre.
Aveva avvertito lo stesso brivido che gli correva sotto la pelle quando
ancora Steve non era un libro aperto per lui e lo vedeva dirigersi a
passo sicuro verso un sospettato oppure verso il baule
dell’auto, terrorizzato dall’idea folle appena
partorita dalla sua mente.
Per prima cosa, aveva notato che nessuno lo aveva svegliato prima
dell’orario in cui nessun essere umano avrebbe dovuto
– per legge – essere fuori dal letto. Inusuale, ma
non così allarmante.
Il secondo indizio che gli aveva fatto drizzare le antenne del
sospetto, era stato il silenzio radio da parte di Steve. Di solito lo
chiamava al cellulare (anche prima che si fosse svegliato, per
l’appunto) per avvisarlo che c’era un caso ed era
già sulla strada di casa sua, o solo per chiedergli a che
ora passasse a prenderlo con la Camaro che poi, puntualmente, avrebbe
preteso di guidare fino alla base operativa. Quella mattina, niente di
niente. Strano, ma doveva pur esserci una spiegazione logica.
Terzo, al quartier generale non aveva visto il pick-up del SEAL
parcheggiato al suo solito posto. Certo, poteva essere arrivato prima
di lui, ma era una circostanza così rara ed improbabile che
gli faceva sempre venire la pelle d’oca. E così
fu, elevata alla millesima potenza, quando entrò nella sede
dei Five-0 e non scorse la figura del partner né al tavolo
touch-screen né nel proprio ufficio.
Pessimo, pessimo segno.
Non incontrò nessuno che potesse fornirgli qualche
spiegazione – impossibile a dirsi, era arrivato davvero per
primo – perciò si infilò nel proprio
ufficio e fece il giro della scrivania per sprofondare nella poltrona e
preparare l’interrogatorio a cui avrebbe sottoposto
l’amico, ma ci volle qualche altro secondo prima che potesse
effettivamente accomodarsi: il suo sguardo, infatti, era stato
catturato da una busta bianca posata al centro della scrivania, e tutto
il resto era svanito. Sulla busta, in una calligrafia sorprendentemente
delicata per appartenere ad un marinaio, c’era solo una
parola: Danno.
Sentì il cuore accartocciarsi, stretto da una mano
invisibile, fredda come il ghiaccio e al contempo bollente come lava, e
senza sprecare altro tempo si sedette, forse per paura di avere un
mancamento, ed estrasse il contenuto della busta. Perché se
Steve gli aveva lasciato una lettera, allora era matematicamente sicuro
che le ragioni per cui avere un mancamento – e senza alcuna
vergogna – c’erano tutte.
Non vi trovò scritto nulla di nuovo, in realtà:
Steve aveva bisogno di risposte circa la morte dei suoi genitori e
sarebbe andato ad indagare su Shelburne. Ciò che lo
scioccò, fu il fatto che avesse deciso di partire
così, di punto in bianco, senza metterlo minimamente a
conoscenza delle sue intenzioni.
«Sì, mahalo»,
ribatté alle ultime parole della lettera
prima di sospirare e schioccare leggermente le labbra.
Non se lo aspettava davvero, proprio lui che ormai avrebbe dovuto
almeno sapere come reagire di fronte al lato imprevedibile del suo
carattere, e il dolore che lentamente iniziò ad insinuarsi
dentro di lui fu così forte che fu quasi grato a Kamekona di
aver fatto irruzione nel suo ufficio, distogliendo la sua attenzione
dall’improvvisa ed ingombrante mancanza di quel pazzo.
«Ok, immagino che tu lo sappia: la nostra squadra si occupa
di crimini gravi, non di furgoni di gamberi scomparsi»,
cercò di tagliare corto ad un certo punto, decisamente poco
dell’umore.
Avrebbe voluto dirgli che era Steve il capo, di andare ad annoiare lui
con quella storia, ma il suo cuore venne nuovamente stritolato
dall’interno e fu costretto al silenzio.
«Crimini gravi. Questo è un crimine super-grave!
Tutte le mie ricette segrete sono lì dentro!».
Il botta e risposta continuò fino a quando il biondo non fu
costretto a cedere, giusto un momento prima che il suo cellulare
iniziasse a suonare. La sua mano corse a recuperarlo,
nell’illusoria speranza che Steve avesse cambiato idea e
avesse bisogno che Danny corresse a prenderlo all’aeroporto.
Bastò non riconoscere il numero sul display per rendere
atona la sua voce.
I Five-0 avevano una nuova indagine di cui occuparsi ed era tutto
ciò che gli serviva per superare lo shock.
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Capitolo 2 *** II. Rabbia ***
II
RABBIA
Contrariamente
a ciò che aveva sperato, il caso non lo stava affatto
aiutando a non pensare a
Steve e alla sua maledetta lettera che gli aveva rovinato la giornata.
Diamine,
ormai si era così abituato a vederselo intorno che andare in
giro da solo,
specialmente se doveva far visita ai familiari della vittima, gli
risultava una
vera e propria tortura.
Continuava a cercarlo con lo sguardo, ad aspettare che
lui esprimesse a voce i suoi pensieri, che traesse le sue stesse
conclusioni,
oppure, semplicemente, che lo sostenesse con la sua sola presenza.
Era
appena stato dalla madre della ragazza uccisa e, avendo lui stesso una
figlia
che amava più della propria vita, era stata dura rimanere
professionale. Di
solito Steve era in grado di gestire quelle situazioni –
lui che era il più
controllato e freddo dei due –
e sapeva esattamente quando doveva intervenire in
suo aiuto.
Di
fronte a quella donna in lacrime, disperata, Danny aveva avuto la forte
tentazione di lasciar perdere tutto, di correre dalla sua Grace per
stringerla
a sé e non lasciarla più, ma alla fine aveva
trovato un modo più proficuo di
utilizzare la rabbia che gli bruciava nelle vene ed era riuscito a
sorreggere
il peso che gli schiacciava le spalle, ogni secondo meno sopportabile.
Era
arrabbiato con Steve, tanto che avrebbe voluto sparargli o lanciargli
tra le
braccia una delle sue care granate, e riteneva fosse solamente colpa
sua se ora
si sentiva in quel modo, così smarrito e cedevole. Lui
avrebbe dovuto
guardargli le spalle, come ogni partner che si rispetti, invece
l’aveva
abbandonato a se stesso da un giorno all’altro, cogliendolo
del tutto
impreparato.
Solo
il pensiero che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare gli
permise di uscire da
quella casa a testa alta e di tornare alla sua auto per raggiungere
Chin e
Kono, già al quartier generale.
Da
solo nella Camaro argentata, notò con disappunto che Steve
era riuscito a
rovinargli anche il piacere di guidare in pace: quell’auto
non gli era mai
sembrata così vuota e silenziosa senza il marinaio al suo
fianco. Avrebbe così
tanto voluto che fosse lì con lui, e non chissà
dove alla ricerca di risposte,
che gli avrebbe persino permesso di guidare come un pazzo mentre
ascoltavano la
peggiore delle canzoni mai scritte, una di quelle in grado di scatenare
l’istinto
omicida nelle persone normali.
Alla
fine si rese conto di stringere così forte il volante che
frenò bruscamente sul
ciglio della strada e tirò fuori il cellulare per inoltrare
l’ennesima
chiamata. Sapeva che non avrebbe risposto nemmeno quella volta, ma ora
era
pronto a parlargli.
Aspettò
il segnale acustico della segreteria telefonica ed attaccò:
«Ti dispiace, eh?
Ti dispiace di essere stato un codardo egoista per non avermelo detto
in
faccia, per avermi nascosto le tue intenzioni? Sai che cosa me ne
faccio, del
tuo dispiacere? Un bel niente, Steven!
E non venirmi a dire – se solo rispondessi a questo maledetto
telefono – che
non mi hai avvisato perché era necessario che io rimanessi a
capo della
squadra, perché non me la bevo. È solo una scusa,
a cui ti sei aggrappato per
giustificare il fatto che in realtà non mi vuoi tra i piedi.
Okay, bastava
dirlo! Dov’è andata a finire tutta la tua
onestà, uh? Si vede che io non la
merito, dopotutto. Ma va bene così, era tutto troppo bello
per essere vero. Sei
solo un bastardo». Fece una pausa a causa del fiatone dovuto
a quel fiume di
parole che non era riuscito né aveva voluto arginare.
Ascoltando
il silenzio dall’altra parte, ascoltando il suo stesso
respiro, si massaggiò le
palpebre con due dita per poi concludere: «Comunque,
qualsiasi sia il motto di
voi SEAL, scommetto che non è: “Parti da solo e
avvisa il tuo partner con una
letterina”. Spero che tu ti diverta».
Chiuse
la conversazione e guardò di fronte a sé,
soddisfatto, fino a quando non sentì
il collo andare a fuoco per l’imbarazzo, proprio come se
Steve fosse al suo
fianco, con quel suo ghigno sardonico stampato sulla faccia.
Sentì persino la
sua voce risuonare chiara e limpida nella sua mente: «Senti
già la mia
mancanza, Danno?».
Il
biondo non riuscì a resistere e colpì con forza
il volante con entrambe le
mani, trattenendo a stento un urlo frustrato.
______________________________________________________________________________
Che
dire, grazie a chi ha letto lo scorso capitolo, dandomi una
possibilità ;)
Un ringraziamento speciale a Benny868
e alla mia bellissima Biagina68
per aver messo questa storia tra le seguite/preferite!
A
domani sera per la terza parte, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 3 *** III. Delusione ***
III
DELUSIONE
Danny
non ne aveva avuto abbastanza evidentemente, perché
ogniqualvolta avesse un minuto libero provava e riprovava a contattare
Steve, lasciandogli vari messaggi – alcuni in cui aveva
cercato di ragionare e altri invece grazie ai quali avrebbe di certo
ottenuto una scomunica se il Papa fosse stato nei paraggi. Ad ogni
modo, il risultato era sempre stato lo stesso: una conversazione a
senso unico.
A fine giornata era talmente stanco di avercela con Steve che non
riuscì nemmeno a sentirsi soddisfatto di aver condotto
un’indagine di cui, se fosse stato pienamente in
sé, si sarebbe vantato davanti a diversi giri di alcolici.
Chin e Kono gliel’avevano anche proposto, assicurando che
avrebbero offerto loro, ma aveva rifiutato. Era davvero a pezzi.
Prima di tornare a casa si fermò in un piccolo supermercato
aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e comprò da
mangiare e, come ricompensa per aver catturato un serial killer attivo
dagli anni ’80, una confezione di birra da sei.
Con la spesa sui sedili posteriori e la birra accanto a sé,
lì dove avrebbe dovuto esserci Steve, guidò piano
per le strade illuminate dai lampioni e dalle stelle sparpagliate nel
cielo scuro. Venne distratto dalla suoneria del proprio cellulare e
senza nemmeno guardare il display se lo portò
all’orecchio, esclamando con foga:
«Steve!».
«No… Sono Gabby».
Il biondo si spalmò una mano sulla faccia e
ridacchiò per stemperare la tensione. «Ciao Gabby.
Perdonami, non ho guardato chi fosse».
«Ho notato. Ehm… Dove sei?».
«In macchina, sto andando a casa».
«Oh».
Danny aprì la bocca per chiederle se fosse successo
qualcosa, se stesse bene, quando improvvisamente si ricordò
che la sera prima si erano messi d’accordo che sarebbero
dovuti uscire a cena… un’ora prima.
«Gabby, io… Mi dispiace, mi sono completamente
dimenticato. È stata una giornata intensa e
poi…». Avrebbe voluto dire che Steve se
n’era andato, raccontarle tutto, sfogarsi con lei come aveva
fatto altre volte quando il collega lo mandava fuori dai gangheri, ma
quella volta no.
«Va tutto bene?», gli chiese la dottoressa,
percependo qualcosa di strano nel suo tono di voce.
«Sì, tutto bene. Sono solo molto stanco, ecco.
Possiamo… possiamo fare un’altra volta? Ti
prometto che mi farò perdonare».
«Ma certo, non ti preoccupare».
«Mi dispiace tanto, davvero».
«Danny, non è successo nulla di male.
Solo…».
«Sì?».
«Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, io ci sono. Hai
capito?».
Danny non poté evitare di sorridere lievemente, nonostante
sapesse che non poteva vederlo. Le avrebbe risposto, se solo non avesse
rischiato di strozzarsi con la sua stessa saliva: udendo la sirena di
un’ambulanza, infatti, aveva sollevato lo sguardo sullo
specchietto retrovisore per guardare da che direzione provenisse e la
sua mente annebbiata dalla stanchezza gli aveva fatto scorgere Steve al
volante del pick-up nero dietro di lui.
«Danny? Danny, ci sei?».
La voce di Gabrielle lo riportò alla realtà e
grazie ad una vigorosa strizzata d’occhi vide il vero volto
dell’uomo alla guida del pick-up, quello di un completo
sconosciuto.
«Sì, sono qui. Grazie, Gabby».
Si salutarono e Danny continuò a guidare, senza nemmeno
pensare alle svolte che doveva prendere, fino a quando non si
ritrovò di fronte alla villetta di Steve. Non sapeva come ci
era arrivato e non se lo chiese, certo che avrebbe solamente aggravato
la situazione se si fosse posto troppe domande.
Tirò giù dall’auto la borsa e le birre
e aprì la porta con la copia delle chiavi che Steve non gli
aveva mai chiesto indietro da quando l’aveva ospitato a casa
sua per via dello sfratto.
Senza nemmeno accendere le luci si diresse a passo sicuro verso la
cucina, dove sistemò ciò che aveva comprato. Non
sapeva nemmeno perché avesse fatto la
spesa, dato che il cibo era l’ultimo dei suoi pensieri.
Con la cassa di birre sottobraccio tornò in salotto. Aveva
tutta l’intenzione di accamparsi sul divano fino alla mattina
successiva, ma ciò che vide gli fece venire voglia di
prendere il muro a testate. Posata in bella vista tra i cuscini
c’era una busta bianca con sopra il nomignolo che in teoria
avrebbe dovuto usare solo sua figlia ma che, in realtà,
usciva sempre più spesso dalle labbra del partner.
Posò le birre sul tavolino ed afferrò la busta
per stracciarla con gli ultimi rimasugli di rabbia che ancora gli
circolavano in corpo, come le ultime gocce di un veleno non del tutto
debellato dall’antidoto.
Due minuti dopo era a terra, intento a raccogliere ogni pezzo della
lettera per rimetterla insieme come un puzzle.
Haloa Danno,
sapevo che prima o poi saresti venuto qui.
Puoi lasciare la TV accesa anche tutta la notte, se ti va. Ma
niente frittate, per favore.
Starò attento, te lo prometto.
Steve
Danny
scosse il capo lentamente di fronte a quelle parole, troppo stanco per
ribattere in qualsiasi modo. Che speranze aveva contro un ninja
telepatico, comunque?
Una cosa però volle dirla ad alta voce, per quanto assurdo
potesse essere: «Ti odio».
Quasi come se lo avesse fatto apposta, da bravo autolesionista qual
era, aspettò la risposta che la sua mente gli propose,
puntuale e concisa: «Ma se mi adori!».
__________________________________________________________________
Ecco
come promesso il terzo capitolo... Spero vi sia piaciuto :)
Un grazie a tutti coloro che hanno letto fino a qui e un grazie
speciale a Red lady
che a lasciato un commento allo scorso capitolo.
Ci vediamo domani per la quarta parte, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 4 *** IV. Paura ***
IV
PAURA
«Sergente Danny Williams, finalmente ci conosciamo».
Il biondo sentì ancora una volta quella mano gelida
afferrarlo da dentro, dolorosa come una tagliola.
«Chi parla?», chiese alla voce misteriosa che lo
aveva svegliato nel cuore della notte.
Si era addormentato ancora vestito – cravatta compresa
– sul divano di Steve, con la TV accesa a sovrastare il
respiro dell’oceano, il tavolino cosparso di bottiglie di
birra vuote e il cellulare stretto in mano, come se fosse in attesa di
una telefonata importante. E lo era.
«Ma come, non mi riconosce? Eppure l’ha visto anche
lei il video che ha scagionato McGarrett».
«Wo Fat», mormorò, impallidendo.
«È un piacere anche per me».
Danny avvistò il cordless di Steve e continuando a parlare
digitò a memoria il numero della scientifica: dovevano
assolutamente rintracciare la chiamata.
«Che cosa vuoi?», gli chiese digrignando i denti.
Per quanto ci provasse, non riusciva a prendere la linea, come se non
ci fosse campo.
«Non sprechi il suo tempo, detective. Nessuno
correrà in vostro aiuto, questa volta».
Il sudore ormai gli imperlava la fronte e gli appiccicava il cotone
leggero della camicia alla schiena. Lanciò il cordless tra i
cuscini del divano e si passò una mano tra i capelli, teso
come una corda di violino.
«In nostro aiuto? Di che cosa stai
parlando?».
«Oh, giusto. C’è qui una persona che
vorrebbe tanto salutarla...».
Danny rimase in silenzio, col fiato sospeso, fino a quando non
sentì un respiro rantolante e la voce fuori campo di Wo Fat
dire: «Coraggio Steve, parla. Nelle ultime tre ore insieme
non hai fatto altro che dire il suo nome… Sei diventato
timido?».
«Adesso basta!», urlò il detective,
nonostante la paura gli avesse ghiacciato il sangue nelle vene.
«Vuoi solo spaventarmi, Steve non è lì
con te. Lo saprei, se...».
«Danno...». Nonostante la voce strozzata di Steve
lo avesse raggiunto a malapena, il biondo sentì il proprio
cuore sprofondare in una voragine senza fondo.
«Steve? Steve, dove sei? Cosa ti ha fatto quel figlio di
puttana?».
«Danno, mi dispiace... Mi dispiace davvero...».
«Sistemeremo tutto, okay? Tieni duro, ti prego. Dimmi solo
dove sei».
Il silenzio che ottenne in risposta non fu per nulla rassicurante e
Danny iniziò a chiamarlo, alzando così tanto la
voce che temette di spezzarsi le corde vocali. Alla fine fu di nuovo Wo
Fat a parlare, con tono pacato e quasi gentile: «Spero vi
siate detti addio, sergente».
«Non ti azzardare a toccarlo. Toccalo e sei morto»,
ringhiò, sentendo le lacrime premergli contro le ciglia.
Wo Fat schioccò la lingua contro il palato e rispose:
«Se l’è cercata».
Ci fu un lunghissimo istante di silenzio, che Danny non
riuscì a spezzare a causa del nodo d’angoscia che
gli aveva stretto la gola, e poi un fragoroso scoppio che gli fece
cedere le ginocchia.
Si svegliò di soprassalto, il cuore che gli martellava nel
petto e la camicia incollata alla pelle.
Ai suoi piedi, i cocci di una delle bottiglie di birra che aveva
abbandonato sul tavolino. Agitandosi doveva averla fatta cadere.
Aveva letto da qualche parte che spesso i sogni venivano influenzati
dall’ambiente circostante: quando nella realtà la
bottiglia si era infranta sul pavimento, nel suo incubo Wo Fat aveva
sparato a Steve.
Si alzò, facendo attenzione a non pestare i pezzi di vetro,
e si diresse verso le porte finestre. Aveva decisamente bisogno di un
po’ d’aria fresca, in grado di schiarirgli i
pensieri e tranquillizzarlo.
Si sedette su una delle sdraio della spiaggetta privata e allentandosi
il nodo della cravatta respirò a fondo l’aria
intrisa di salsedine, gli occhi fissati sull’orizzonte e
sulla grande luna il cui riflesso illuminava di scaglie argentate la
superficie dell’oceano.
Quando si fu calmato a sufficienza, tirò fuori dalla tasca
dei pantaloni il cellulare e lo chiamò per
l’ennesima volta.
«Ciao. Sono io, di nuovo. Ho perso il conto ormai delle volte
in cui ho provato a contattarti, ma non mi arrenderò, hai
capito? Non ti libererai di me così facilmente, non dopo
tutto quello che abbiamo passato insieme.
«È solo che non capisco... Perché te ne
sei andato via così? Perché da solo?
Pensavo che l’esperienza in Corea del Nord ti avesse
insegnato qualcosa in merito al non imbarcarsi in missioni folli senza
supporto. Non voglio rivederti in quello stato, non voglio recuperarti
per il rotto della cuffia. Ma lo sai che lo farei se solo me lo
chiedessi, farei di tutto per te».
Danny era troppo sbronzo, troppo spossato e preoccupato, per rendersi
conto del vero e più profondo significato delle sue parole.
Il mattino seguente se ne sarebbe pentito forse, ma non in quel momento.
Si passò nuovamente una mano tra i capelli, un po’
appiattiti da un lato per via del cuscino, e riprese:
«Ciò che mi manda fuori di testa è che
non so nemmeno dove sei, Steve... Come faccio a sapere se stai bene, se
non mi rispondi? Nella lettera che mi hai lasciato in ufficio mi hai
scritto che ti saresti tenuto in contatto. Scherzavi? No,
perché se era solo uno scherzo avresti dovuto scriverlo tra
parentesi, amico».
Sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sdraio per
guardare le stelle.
La fresca brezza notturna fece rabbrividire la sua pelle ancora sudata
a causa dell’incubo e decise di alzarsi per tornare in casa.
Prima di dare le spalle all’oceano però,
mormorò dentro il microfono: «Non so che cosa
farei, se tu morissi».
___________________________________________________________________
Questo
è uno dei capitoli che ho scritto con più
trasporto e spero vi sia piaciuto!
Grazie a chi ha letto fin'ora e a Red
lady per aver commentato.
A domani sera, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
|
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Capitolo 5 *** V. Rassegnazione ***
V
RASSEGNAZIONE
Abbandonato
contro la morbida pelle del sedile della sua auto, Danny tamburellava
le dita sul volante, immerso nei propri pensieri.
Non riusciva a togliersi dalla testa ciò che si erano detti
lui e Chin Ho a pranzo da Kamekona, il giorno dopo aver catturato Lo
Spazzino.
«Non l’hai sentito, vero?».
«No, lui... non risponde alle telefonate».
«Preoccupato?».
«Un po’», scosse le spalle per fingere
noncuranza, tenendo le mani intrecciate sul tavolo, mentre cercava di
trovare qualcos’altro di abbastanza “alla
Danny” da dire.
Era già stato sufficientemente difficile ridurre il suo
livello di ansia a quelle due parole e per una volta era profondamente
grato al sole accecante delle Hawaii che, costringendolo a tenere gli
occhi stretti in due fessure, aveva impedito al collega di leggervi
riflessa la verità.
Alla fine arricciò gli angoli della bocca in un piccolissimo
sorriso e aggiunse: «Come un padre al primo ballo della
figlia».
«Beh, ovunque sia, McGarrett vuole cavarsela da solo.
Altrimenti avrebbe chiesto il nostro aiuto», dedusse Chin con
la sua solita calma.
Danny non era d’accordo, in parte perché conosceva
il suo pollo e in parte perché quella notte, a causa
dell’incubo che gli aveva impedito di riaddormentarsi, aveva
avuto un sacco di tempo per pensarci su.
Dondolò la testa e si concesse un respiro profondo prima di
condividere la propria illuminazione: «Vuole proteggerci. Non
vuole che corriamo dei rischi».
Steve aveva tanti difetti – il totale rifiuto delle
regole civili, l'imprevedibilità, la monotonia nel vestire e
il pessimo gusto nel cibo – ma non ci si poteva assolutamente
lamentare della sua lealtà. Per le persone a cui teneva si
sarebbe gettato pure nel fuoco, e Danny odiava quel lato del suo
carattere tanto quanto lo stimava.
Odiava che avesse preferito tenerlo al sicuro piuttosto che al suo
fianco e allo stesso tempo gli era debitore, perché non
avrebbe mai sopportato di rendere orfana di padre la sua scimmietta.
Steve lo sapeva e Danny per questo si sentiva in colpa,
perciò lo odiava. Era un maledetto circolo vizioso, con lui.
Stava giusto per allungare la mano verso il cruscotto per recuperare il
cellulare e fare l’ennesimo tentativo, quando la campanella
della scuola trillò e tutti i genitori si avvicinarono alla
scalinata in pietra per attendere la mandria di bambini che di
lì a poco sarebbe corsa fuori dall’edificio.
Anche Danny scese dalla Camaro per appoggiarsi al cofano ormai tiepido
e decise di non pensarci più: voleva occuparsi solo della
sua Grace, godere di ogni attimo della sua compagnia prima che partisse
per il continente, e farle credere che andasse tutto bene.
«Ehi, scimmietta!».
La figlia lo avvistò dall’altro lato della strada
e scese di corsa la scalinata per raggiungerlo nel più breve
tempo possibile, quindi gli gettò le braccia al collo e si
fece sollevare da terra per fare un mezzo girotondo insieme.
«Mi sei mancata tanto», le sussurrò
Danny nell’orecchio, prima di posarle un bacio sulla tempia.
«Anche tu. Dove andiamo?».
«Dove vuoi».
«In spiaggia?», gli chiese con gli occhioni
spalancati per l’eccitazione.
Il biondo le aprì la portiera al lato del passeggero e le
rivolse un mezzo inchino prima di farla salire sull’auto.
«Ogni suo desiderio è un ordine,
principessa».
La bambina sorrise contenta e una volta agganciata al sedile
aspettò che il suo papà facesse di nuovo il giro
per mettersi al volante.
Aveva appena acceso il motore, quando esclamò:
«È da un po’ che non vedo lo zio Steve,
gli chiedi se vuole venire con noi?».
La sorpresa fu tanta che nel giro di tre secondi rivisse nuovamente
tutto ciò che aveva provato il giorno in cui – una
settimana prima, ormai – aveva scoperto che Steve se
n’era andato. Lo shock, la rabbia, la delusione, la
paura… Tutte quelle sensazioni lo travolsero con la stessa
potenza devastante di un’onda anomala, impedendogli di
rispondere prontamente a sua figlia. Dovette sforzarsi per recuperare
il controllo di sé, per ristabilire quel precario equilibrio
che aveva impiegato giorni a trovare.
«No piccola», rispose alla fine, schiarendosi la
gola. «Steve è partito».
«È andato in vacanza?».
Aveva immaginato mille possibili scenari, chiedendosi cosa stesse
facendo, quali strade stesse percorrendo, quale brezza gli stesse
scompigliando i capelli corti, e mai, mai gli era venuto in mente di
raccontarsi una bugia simile. Forse perché conosceva troppo
bene Steve ed era sicuro al cento percento che il marinaio non sapesse
nemmeno il significato del termine “vacanza”. Non
si sarebbe stupito affatto se per lui gli addestramenti sulle navi, le
missioni sotto copertura e gli accampamenti nel deserto fossero
sinonimi di vacanza, e di lusso per giunta.
L’idea di Grace era così bella e normale
che vi si aggrappò con tutte le sue forze, cercando di
auto-convincersene. I risultati non furono dei migliori, ma perlomeno
riuscì a stirare un sorriso e a rispondere: «Una
specie».
Passarono all’appartamento di Danny solo per lasciare
giù lo zainetto di scuola ed infilarsi i costumi da bagno,
poi parcheggiarono l’auto vicino al furgone giallo di
Kamekona e mano nella mano raggiunsero il gigante hawaiano per un
saluto.
«Haloa, fratello!», lo
salutò quest’ultimo, posandosi le mani sui vasti
fianchi.
«Kamekona», ricambiò con un cenno del
capo. «Tutto bene con il furgone? Hai imparato la
lezione?».
«Sì, grazie tante haole».
Gli diede una pacca sulla schiena con cui quasi gli fece sputare un
polmone e poi si piegò un poco verso Grace per sorriderle e
far danzare le proprie sopracciglia: «La vuoi una granita al
gusto gamberi?».
La bambina, di solito molto posata e gentile con tutti, non
riuscì a nascondere una smorfia di disgusto e
sollevò lo sguardo implorante verso il padre, il quale aveva
già allungato una mano verso l’hawaiano per
tenerlo lontano dalla sua piccolina.
«Cos’è, hai per caso intenzione di
avvelenarla?».
«È una nuova specialità!».
«Non la prenderemmo nemmeno se fosse gratis, Kamekona. Roba
da matti».
Danny alzò gli occhi al cielo e fece cenno a Grace di
andare, ma il venditore ambulante lo trattenne, chiedendogli senza giri
di parole: «Ancora nessuna notizia di McGarrett?».
Con le labbra strette tra loro, il detective si limitò a
scuotere la testa in segno di diniego.
«Sono sicura che zio Steve sta bene»,
esclamò Grace, stringendo più forte la sua mano.
Danny sorrise e le accarezzò la testa, aggiungendo:
«Sì, probabilmente si sta divertendo
così tanto che si è dimenticato di chiamare. Gli
faremo una bella ramanzina quando tornerà, sei
d’accordo?».
Grace annuì ricambiando il sorriso e poi salutò
Kamekona per trascinare suo padre verso la spiaggia, affollata come
sempre da centinaia di bagnanti tra turisti e surfisti con le loro
tavole dai mille colori.
Quel
pomeriggio costruirono il più brutto e triste castello di
sabbia che avesse mai visto, fecero un bagno a riva e raccolsero un
sacchetto di conchiglie da portare ai nonni materni di Grace.
Era riuscito a distrarsi con la figlia accanto, perciò
quando gli chiese se poteva andare a giocare con delle sue compagne di
scuola esitò prima di lasciarla andare, certo che la
malinconia sarebbe caduta di nuovo su di lui come una coperta bagnata.
Grace era solo a qualche metro di distanza, che rideva spensierata con
le sue amichette mentre cercavano di imitare i sensuali movimento di
bacino di una qualche popstar a lui sconosciuta ma che da quel giorno
in poi avrebbe odiato a morte per ovvie ragioni, e la spiaggia era
così affollata che bisognava essere atleti di un certo
livello per crearsi un varco verso il mare, eppure si sentiva solo al
mondo, senza alcuno scopo. E lo sapeva che aveva promesso di non
pensarci almeno per un po’, di dedicare ogni neurone del suo
cervello e ogni fibra del suo corpo a Grace, ma non poté
fare a meno di ripescare il cellulare dalla tasca dei pantaloni per
portarselo all’orecchio e immaginare Steve
dall’altra parte, pronto ad accogliere ogni suo sfogo con il
suo irritante sorrisino sul volto.
«Ehi, senti, lo so che non è il tuo primo ballo,
okay? Anche se non ne vuoi parlare, lo so che come SEAL hai preso parte
a missioni più pericolose e che hai sfidato la morte
centinaia di volte, ma la verità è che sono
preoccupato per te. Non sei Terminator! Anche se ti piacerebbe.
«Ho capito che ci hai tenuto fuori da questa storia
perché vuoi tenerci al sicuro, perché credi che
noi abbiamo molto più da perdere di te. Ti ringrazio per il
pensiero, ma come al solito ti sbagli. Tu... tu non sei solo, Steve,
né sei sacrificabile per la causa. Hai tua sorella, Chin,
Kono... hai me. E Grace».
Come se lo avesse sentito, la bambina si voltò verso di lui
ed interruppe il proprio balletto per salutarlo con una mano. Danny
ricambiò, abbozzando un sorriso.
«Mi ha chiesto di te oggi, lo sai? Voleva che venissi con noi
in spiaggia. E anche io». Respirò profondamente,
tirandosi indietro una ciocca di capelli ancora umidi che gli era
scivolata sul volto, e concluse la telefonata: «So
già che non cambierai idea, cocciuto come sei, ma almeno
richiamami. Per favore, richiamami».
__________________________________________________________________________
Ormai
ci siamo quasi... questo è il penultimo capitolo! Spero vi
sia piaciuto ;)
Grazie a chi ha letto e a Red
lady che assidua continua a commentare! Grazie infinite *^*
A domani sera per l'ultima parte!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 6 *** VI. Sollievo ***
VI
SOLLIEVO
Dopo
l’ennesima estenuante indagine portata a termine con successo
dai Five-0 – grazie alla quale aveva anche collezionato una
nuova cicatrice sulla fronte – Danny era così
cotto che l’unica cosa che desiderava era un letto, un
divano, una brandina oppure, spinto dalla disperazione, persino un
sacco a pelo.
Chiamò Rachel per chiederle se per lei andava bene che il
giorno seguente passasse a prendere Grace intorno alle dieci e dopo
aver ritirato in tintoria un paio di camicie andò
direttamente a casa McGarrett. Era anche casa sua ormai, dato che nelle
ultime settimane aveva trascorso più tempo lì che
nel proprio squallido appartamento.
Percorse il vialetto per quella che gli sembrò
un’eternità, come se la porta non fosse altro che
un miraggio, e quando finalmente ci arrivò infilò
le chiavi nella toppa. Girò e rigirò, ma non
sentì mai la serratura scattare: con un brivido
realizzò che era aperta.
In un attimo tutti i suoi riflessi si ridestarono e lasciò
cadere a terra gli ometti con le camicie per estrarre la pistola dalla
fondina. Si spostò di lato per avere la copertura migliore e
con un piede spinse avanti la porta, poi si palesò
nell’ingresso con le braccia tese e gli occhi vigili. Non
notando nulla di strano, avanzò come se si trattasse di una
normale perquisizione, angolo dopo angolo, fino a quando non si rese
conto che le porte finestre che davano sulla spiaggia privata di Steve
erano aperte. Era certo di averle chiuse prima di uscire quella
mattina, e come per la porta d’ingresso non c’erano
segni di scasso.
Un movimento improvviso gli fece rialzare la pistola verso
l’oceano, ma quasi non gli scivolò dalle dita
quando scorse una mano penzolare dal bracciolo della sdraio. Saldamente
ancorata a quella mano c’era una bottiglia di birra mezza
vuota, la cui ombra si allungava sulla sabbia tinta
dell’arancione del tramonto.
Uscì con cautela sul lanai e i suoi passi attirarono
l’attenzione della persona seduta sulla sdraio. Danny aveva
la pistola abbassata, già conscio che non si trattasse di
una minaccia; o, meglio, che non l’avrebbe ucciso in quel
momento.
Sentì il proprio cuore fare un triplo salto mortale quando
l’uomo si alzò per andargli incontro e allo stesso
tempo le sue dita strinsero più forte il calcio della
pistola. Si trovava ad un bivio: non riusciva a decidere se voleva
sparargli per fargliela pagare oppure aspettare che fosse abbastanza
vicino per afferrarlo per la nuca e baciarlo. Proprio così, baciarlo.
«Ciao, Danno», lo salutò dolcemente
Steve, gli occhi sorridenti tanto quanto le sue labbra.
Non era mai stato così combattuto in tutta la sua vita.
*
Aveva
avuto modo di pensare molto in quelle lunghe cinque settimane senza
Steve e aveva raggiunto conclusioni a dir poco inaspettate.
Finalmente aveva realizzato in che misura il SEAL avesse influenzato il
suo modo di vivere e quanto la sua presenza fosse ormai indispensabile
per la propria serenità. Semplicemente troppo, rispetto a
quello che avrebbe dovuto essere.
Insomma, erano partner sul lavoro, amici fuori... Okay, più
che amici – quasi fratelli. Ma ciò che si era
scoperto a provare prima che la squadra si imbattesse in Dracul
Comescu, quando si era voluto togliere un sassolino che si teneva
dentro la scarpa da un po’, andava ben oltre il legame che
così faticosamente aveva cercato di delimitare da quando
l’aveva conosciuto. Le emozioni che sentiva ogniqualvolta
pensasse al capitano sconfinavano di diverse miglia e temeva di non
avere tanto nastro giallo – proprio quello delle scene del
crimine – per contenerle.
«Posso chiederti una cosa, scimmietta?».
Grace sollevò gli occhi dalla propria tazza di macedonia ed
annuì col capo, facendo dondolare i codini che le aveva
fatto quando erano tornati dalla spiaggia.
«Perché lo chiami zio
Steve?».
Ecco, gliel’aveva chiesto. Danny si alzò fingendo
di dover mettere a bagno i piatti della cena, quando in
realtà non voleva farle capire che era arrossito,
imbarazzato dalla sua stessa domanda.
«Me l’ha detto lui che potevo», rispose
la bambina, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«E quando sarebbe successo, esattamente?».
«Non mi ricordo, papà. Però una volta
ho sentito che ti chiamava fratello e ho pensato
che allora avrei dovuto chiamarlo zio, come zio Matt».
«Tesoro, anche Kamekona mi chiama fratello
– lo fanno quasi tutti, su quest’isola –
eppure non lo chiami di certo zio!».
«Mmh, tu e Kamekona non sembrate fratelli».
Danny si voltò di scatto, fregandosene del calore che
sentiva salirgli su per il collo. «Stai dicendo che invece io
e Steve sembriamo fratelli?».
Grace si strinse nelle spalle ed annuì ancora una volta, per
poi spiegare candidamente: «Voi due siete sempre insieme e vi
guardate in un modo…».
«In un modo? Che modo?»,
domandò nervosamente, la voce fuori controllo che si era
alzata di qualche ottava.
«Si capisce che vi volete bene, che c’è
qualcosa di speciale tra voi».
Il detective si ritrovò a bocca aperta, insolitamente
incapace di articolare una qualsiasi frase di senso compiuto. Proprio
lui, senza parole. Se solo Steve l’avesse visto…
«Allora ho chiesto a Steve se potevo chiamarlo zio
e lui ha detto di sì. Ha detto che io e te facciamo parte
della sua ohana».
Grace sorrideva contenta, tanto che se solo avesse avuto una coda
avrebbe iniziato a scodinzolare.
Danny non rispose, si limitò a ringraziare la bambina per
avergli tolto quella curiosità, poi le diede il permesso di
alzarsi da tavola per andare a guardare la TV.
Aveva continuato a rimuginarci su per parecchio tempo, anche dopo che
Stan e Rachel erano passati a prendere Grace perché
salissero sull’aereo che li avrebbe portati sul continente,
fino a quando non aveva cercato di allontanare i pensieri scomodi che
gli affollavano il cervello. E quale modo migliore, se non scervellarsi
sugli indizi che il padre di Steve gli aveva lasciato in
eredità?
Aveva avuto giusto il tempo di capire che probabilmente Steve era
andato in Giappone per cercare Shelburne e avvisare Chin della
scoperta, quando aveva ricevuto la chiamata del Governatore, quella che
aveva dato il via al caso che se non fosse stato risolto in fretta
avrebbe avuto la conseguenza forse più disastrosa che
avessero mai affrontato: un’epidemia di vaiolo emorragico in
grado di sterminare la maggior parte della popolazione terrestre.
Ovviamente aveva tenuto informato Steve, aggiornandolo sugli sviluppi
dell’indagine ogni volta che poteva. Aveva avuto persino la
prontezza di spirito di fare qualche battuta, quando aveva scoperto che
doveva una bistecca all’agente Hanna del NCIS – «Ecco
perché ti sei dato alla macchia, sei il solito
tirchio!», gli aveva detto.
Ma niente, nemmeno il fatto che aveva rischiato di venire infettato dal
virus più di una volta lo aveva convinto a richiamarlo.
Una sola, maledetta chiamata. Era tutto ciò che chiedeva.
Era già stato beccato due volte a telefono con
Grace dall’agente Blye e dall’agente Deeks,
perciò quella volta andò a farsi una passeggiata
sul molo. Nonostante l’impazienza, aspettò che si
attivasse la segreteria e poi iniziò a parlare a raffica,
infervorato: «Dannazione, Steve, ti sembra il modo? Non solo
sparisci dalla faccia della terra senza dire niente a nessuno, ma
addirittura non ti interessi minimamente di quelli che sono rimasti
indietro e stanno rischiando la pelle! Saremmo io e Chin, per la
cronaca».
Riprese fiato e si guardò le scarpe per trovare il coraggio
di confessargli ciò che voleva dirgli. Ora o mai
più, si disse.
«Se questo è il mio ultimo giorno, voglio che tu
sappia la verità. Sto parlando seriamente, perciò
quando ascolterai questo messaggio – se mai lo ascolterai
– voglio che tu non rida, né sorrida,
né faccia una delle tue facce. Ci siamo capiti?
Bene».
Si umettò le labbra e socchiuse gli occhi, respirando
profondamente un’ultima volta.
Ne era davvero sicuro? continuava a chiedersi. Non sarebbe
più potuto tornare indietro, una volta fatto quel passo.
Sapeva la risposta: le circostanze erano drammatiche, non poteva
sottrarsi.
«Grace mi ha raccontato di quello che le hai detto, che io e
lei facciamo parte della tua ohana. Anche tu fai
parte della mia, mi dispiace di non avertelo mai detto prima. Tu hai
ridato un senso alla mia vita, mi hai tirato fuori dal buco che mi ero
scavato con le mie stesse mani, mi hai ricordato cosa vuol dire gioire
delle piccole cose. Hai reso sopportabili le Hawaii! E non ti ho mai
ringraziato a dovere per questo. Grazie, Steve. Chissà dove
sarei, se non ti avessi incontrato. Quello che so per certo
è che non ti chiamerò mai fratello.
Tu sei… Dio, ho già fatto una conversazione
simile ad una segreteria telefonica e ti posso assicurare che
è una sensazione orribile». Sospirò,
passandosi di nuovo la lingua tra le labbra. «Steve,
io…».
«Ehi, Danny!».
Il detective si voltò di scatto, trasalendo, e vide Chin
accennare una corsetta per raggiungerlo.
«Che c’è?», gli chiese
posandosi il cellulare sullo sterno.
«Ci sono novità, devi venire».
«Okay, un secondo!».
Aspettò che il collega si fosse voltato e si
riportò il telefono all’orecchio: «Devo
andare, devo impedire la fine del mondo. Se dovesse succedermi
qualcosa, voglio che ti occupi di Grace come se fosse tua figlia,
intesi? Devi promettermelo, Steve. Prendo il tuo silenzio come un
sì».
Stava per chiudere la conversazione, quando ci ripensò e
aggiunse frettolosamente, sentendosi avvampare: «Mi
manchi».
*
«Beh,
non dici niente?».
Danny stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di
sparargli. Almeno si sarebbe tolto una soddisfazione.
«Perché stai sorridendo? C’è
qualcosa di divertente? Ti è appena venuta in mente una
barzelletta, per caso?», gli domandò a raffica col
suo tono di voce più serio, il viso accartocciato in
un’espressione astiosa. Tutto ciò convinse Steve a
far sparire quel mezzo ghigno che era così tanto mancato a
Danny.
Senza dargli il tempo di rispondere, il biondo sollevò un
dito per intimargli di fare silenzio e gli chiese ancora:
«Perché sei tornato?».
Quella domanda ebbe il potere di sorprendere il SEAL, un evento
più unico che raro che Danny avrebbe dovuto filmare per i
posteri.
Steve aprì la bocca, ma non emise un suono, come se stesse
prendendo tempo. Alla fine si schiarì la gola e con la
stessa serietà del biondo rispose: «Ho capito che
ti stavo perdendo, che stavo cercando le risposte sbagliate. Mio padre
è morto e trovare Shelburne non cambierà le
cose».
Preso alla sprovvista, Danny balbettò: «Tu
hai… hai ascoltato i miei messaggi?».
Ed eccolo lì, il sorrisino di McGarrett, quello tanto
irritante e al contempo capace di fargli mancare un battito.
«Quali messaggi?», gli domandò,
avanzando di un passo.
Ora erano così vicini che Danny riusciva a sentire il suo
profumo e a scorgere la scintilla di malizia dentro i suoi occhi
cangianti per via della luce del sole: a volte erano blu, a volte
verdi, ma sempre e comunque mozzafiato.
Il detective sapeva che cosa stava facendo, ma non
gliel’avrebbe data vinta: non gli avrebbe ripetuto in faccia
ciò che nel corso di quelle settimane aveva lasciato
intendere più volte, non avrebbe concluso la frase che era
rimasta in sospeso prima che andasse a salvare il mondo
dall’epidemia di vaiolo. Non ancora, perlomeno.
Si era sentito sollevato di non averlo fatto, quando tutto era finito e
la popolazione mondiale non era più a rischio
d’estinzione, e si era pentito di essersi lasciato sfuggire
altre cose: aveva avuto paura di aver messo a rischio il loro delicato
rapporto, di aver tratto conclusioni frettolose e dalle conseguenze
possibilmente catastrofiche – rimanendo in tema.
Se ciò che provava per Steve andava davvero oltre
all’amicizia, al bene fraterno, come avrebbe fatto a
spiegarlo a Grace, a Rachel, a Gabby? Come avrebbe fatto a guardare in
faccia Chin e Kono senza sentirsi giudicato? Come avrebbe fatto a
lavorare ancora al suo fianco con la costante paura di perderlo?
«Perciò hai semplicemente abbandonato la missione
e sei tornato qui?», gli chiese alla fine, ignorandolo.
Steve si portò le mani sui fianchi e scrollò
leggermente le spalle, guardando di lato. «Quando hai smesso
di chiamarmi, una settimana fa, ho realizzato che ti stavi dimenticando
di me. Non potevo di certo permettere che accadesse, no?».
Danny trattenne a stento una risata e non collegò il
cervello alla lingua prima di dire: «Se dovessi prendere una
botta in testa tanto forte da farmi perdere la memoria –
anche una auto-inflitta – sono sicuro che con la fortuna che
ho tu saresti l’unica persona di cui mi ricorderei».
Quando si accorse di aver fatto l’ennesimo passo fuori dal
nastro giallo era ormai troppo tardi. Steve lo stava guardando con
dolcezza, ma quella volta non c’era alcuna traccia di
derisione nei suoi occhi sorridenti.
Danny deglutì nervosamente quando lo vide alzare una mano
per posargliela al lato del viso ed accarezzargli il cerotto sulla
fronte. A quel tocco gentile il detective chiuse gli occhi,
abbandonandosi ad un sospiro di sollievo: non era un sogno, Steve era
davvero lì con lui. Spinto dal desiderio di accertarsene al
cento percento, annullò la distanza tra di loro per
stringerlo in un abbraccio.
Il marinaio impiegò qualche secondo per ricambiare, colto
forse alla sprovvista (due volte nel giro di pochi minuti!), e quando
gli avvolse le forti braccia intorno alla schiena Danny
sentì il proprio cuore scalpitare nella gabbia toracica,
come se fosse ben determinato ad uscirgli dal petto per fondersi con
quello di Steve.
«Mi sei mancato anche tu», gli sussurrò
McGarrett all’orecchio e quella fu la scossa che
servì al detective per tornare lucido e scostarsi, mostrando
un autocontrollo di cui si stupì lui stesso. La
verità era che, se solo avesse potuto, sarebbe rimasto tutto
il giorno nell’abbraccio rassicurante del collega.
Col volto in fiamme, si schiarì la gola cercando di evitare
lo sguardo ancora intriso di dolcezza di Steve.
«Bene, ora che sei tornato puoi riprendere il tuo ruolo di
capo dispotico nella task-force. Non pensavo che l’avrei mai
detto, ma non potrei esserne più felice». Gli
diede una pacca sulla spalla e si voltò per tornare in
salotto, ma il SEAL gli chiese con un velo di preoccupazione sul viso:
«Che cosa vorresti dire?».
Danny si girò di tre quarti per rivolgergli un ghigno
divertito. «Ti consiglio solo di arrivare in anticipo,
lunedì. Cinque settimane di scartoffie arretrate non si
compilano da sole».
«Pensavo te ne fossi occupato tu!», urlò
il capitano, sconvolto dalla notizia.
Danny scosse il capo, schioccando più volte le labbra.
«Non sono mica la tua segretaria, Steven».
Il marinaio lo guardò attraversare il salotto per dirigersi
verso la porta d’ingresso e non poté evitare di
sorridere. Dopotutto gliel’aveva detto chiaro e tondo,
più volte, che gliel’avrebbe fatta pagare per
essere partito lasciandosi dietro solo una lettera.
Pensava che fosse già uscito, quando lo sentì
gridare: «Un’ultima cosa, Steve!».
«Dimmi».
«Domani mattina io e Grace andiamo in spiaggia. Le ho detto
che eri in vacanza, perciò assicurati di portarle un
souvenir».
Danny sentì il SEAL ridere sommessamente mentre gli
assicurava che avrebbe provveduto e con riluttanza si chiuse la porta
alle spalle.
Mentre attraversava il vialetto per tornare alla Camaro, il detective
non poté fare a meno di sentirsi sollevato che, nonostante
fosse riuscito ad aspettarlo per cinque settimane, quella volta avrebbe
dovuto attendere solo la durata di una notte prima di rivederlo. Ma che
senso aveva aspettare, se poteva averlo al suo fianco sin da subito?
Tornò indietro e non fece in tempo ad afferrare il pomello
che Steve aprì la porta, sorridendo soddisfatto.
«Dato che tutto ciò che c’è
in frigorifero l’ho pagato di tasca mia, ti dispiace se
rimango?», gli domandò, conoscendo già
la sua risposta. Steve si limitò a spostarsi e a fargli
cenno di entrare.
«Mi sono persino abituato al rumore delle onde,
sai?».
Il SEAL lo lasciò parlare a ruota libera, senza confessargli
che invece lui non si era affatto abituato al silenzio della sua
assenza; al contrario, se non avesse intasato di messaggi la sua
segreteria telefonica sarebbe come minimo impazzito. Danny
l’aveva salvato tanto quanto lui – se non di
più – e avevano tutto il tempo del mondo per
dimostrarselo.
THE END
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Ebbene,
siamo giunti alla conclusione!
Mi è piaciuto davvero molto scrivere questa FF e temo
proprio - per voi, si intende - che non sarà l'ultima in
questo fandom! *^*
Spero che vi sia piaciuta, che i personaggi siano rimasti abbastanza IC
e che vi abbiano trasmesso qualcosina.
Un grazie a tutti coloro che hanno letto e a Red lady che ha
commentato ogni singolo capitolo, rendendomi molto felice :)
Un bacio e alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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