Six Degrees of Separation

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Shock ***
Capitolo 2: *** II. Rabbia ***
Capitolo 3: *** III. Delusione ***
Capitolo 4: *** IV. Paura ***
Capitolo 5: *** V. Rassegnazione ***
Capitolo 6: *** VI. Sollievo ***



Capitolo 1
*** I. Shock ***


Allora, due paroline di introduzione prima di lasciarvi alla lettura.
Ciao, questa è la mia prima fanfiction in assoluto su Hawaii Five-0 e fino a due settimane fa avevo guardato la serie solo come passatempo occasionale. Non so cosa sia scattato di preciso nel mio cervello, ma tutto d'un tratto ho avuto l'irrefrenabile impulso di dover guardare ogni singolo episodio, dall'inizio alla fine, e ne sono diventata dipendente. Bene, ora che mi sono ricoperta di vergogna possiamo andare avanti.
Si tratta di una McDanno pre-slash formata dall'insieme di diverse missing-scenes ambientate durante le puntate 2x20 e 2x21 (inclusa la seconda parte del crossover con NCIS). Per non influenzare le mie stesse idee, mi sono fermata di proposito a questi episodi ed è stata durissima resistere, perciò... per favore, no spoilers!

La storia è formata da sei capitoli ed è conclusa, quindi aggiornerò abbastanza velocemente. 
Il titolo è per forza di cose ispirato dalla canzone omonima dei The Script. (Se non l'avete mai sentita fatelo, tipo, ora).


Nota: I personaggi non mi appartengono e questo scritto non ha alcuno scopo di lucro.

Spero non sia una totale idiozia e che, anche se lo fosse, siate così gentili da farmelo sapere.
Grazie e buona lettura! :)

Vostra,

_Pulse_

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SIX DEGREES OF SEPARATION

 

I

SHOCK

 

Quella mattina, svegliandosi, aveva subito intuito che non sarebbe stata una giornata come le altre.
Aveva avvertito lo stesso brivido che gli correva sotto la pelle quando ancora Steve non era un libro aperto per lui e lo vedeva dirigersi a passo sicuro verso un sospettato oppure verso il baule dell’auto, terrorizzato dall’idea folle appena partorita dalla sua mente.
Per prima cosa, aveva notato che nessuno lo aveva svegliato prima dell’orario in cui nessun essere umano avrebbe dovuto – per legge – essere fuori dal letto. Inusuale, ma non così allarmante.
Il secondo indizio che gli aveva fatto drizzare le antenne del sospetto, era stato il silenzio radio da parte di Steve. Di solito lo chiamava al cellulare (anche prima che si fosse svegliato, per l’appunto) per avvisarlo che c’era un caso ed era già sulla strada di casa sua, o solo per chiedergli a che ora passasse a prenderlo con la Camaro che poi, puntualmente, avrebbe preteso di guidare fino alla base operativa. Quella mattina, niente di niente. Strano, ma doveva pur esserci una spiegazione logica.
Terzo, al quartier generale non aveva visto il pick-up del SEAL parcheggiato al suo solito posto. Certo, poteva essere arrivato prima di lui, ma era una circostanza così rara ed improbabile che gli faceva sempre venire la pelle d’oca. E così fu, elevata alla millesima potenza, quando entrò nella sede dei Five-0 e non scorse la figura del partner né al tavolo touch-screen né nel proprio ufficio.
Pessimo, pessimo segno.
Non incontrò nessuno che potesse fornirgli qualche spiegazione – impossibile a dirsi, era arrivato davvero per primo – perciò si infilò nel proprio ufficio e fece il giro della scrivania per sprofondare nella poltrona e preparare l’interrogatorio a cui avrebbe sottoposto l’amico, ma ci volle qualche altro secondo prima che potesse effettivamente accomodarsi: il suo sguardo, infatti, era stato catturato da una busta bianca posata al centro della scrivania, e tutto il resto era svanito. Sulla busta, in una calligrafia sorprendentemente delicata per appartenere ad un marinaio, c’era solo una parola: Danno.
Sentì il cuore accartocciarsi, stretto da una mano invisibile, fredda come il ghiaccio e al contempo bollente come lava, e senza sprecare altro tempo si sedette, forse per paura di avere un mancamento, ed estrasse il contenuto della busta. Perché se Steve gli aveva lasciato una lettera, allora era matematicamente sicuro che le ragioni per cui avere un mancamento – e senza alcuna vergogna – c’erano tutte.
Non vi trovò scritto nulla di nuovo, in realtà: Steve aveva bisogno di risposte circa la morte dei suoi genitori e sarebbe andato ad indagare su Shelburne. Ciò che lo scioccò, fu il fatto che avesse deciso di partire così, di punto in bianco, senza metterlo minimamente a conoscenza delle sue intenzioni.
«Sì, mahalo», ribatté alle ultime parole della lettera  prima di sospirare e schioccare leggermente le labbra.
Non se lo aspettava davvero, proprio lui che ormai avrebbe dovuto almeno sapere come reagire di fronte al lato imprevedibile del suo carattere, e il dolore che lentamente iniziò ad insinuarsi dentro di lui fu così forte che fu quasi grato a Kamekona di aver fatto irruzione nel suo ufficio, distogliendo la sua attenzione dall’improvvisa ed ingombrante mancanza di quel pazzo.
«Ok, immagino che tu lo sappia: la nostra squadra si occupa di crimini gravi, non di furgoni di gamberi scomparsi», cercò di tagliare corto ad un certo punto, decisamente poco dell’umore. 
Avrebbe voluto dirgli che era Steve il capo, di andare ad annoiare lui con quella storia, ma il suo cuore venne nuovamente stritolato dall’interno e fu costretto al silenzio.
«Crimini gravi. Questo è un crimine super-grave! Tutte le mie ricette segrete sono lì dentro!».
Il botta e risposta continuò fino a quando il biondo non fu costretto a cedere, giusto un momento prima che il suo cellulare iniziasse a suonare. La sua mano corse a recuperarlo, nell’illusoria speranza che Steve avesse cambiato idea e avesse bisogno che Danny corresse a prenderlo all’aeroporto. Bastò non riconoscere il numero sul display per rendere atona la sua voce.
I Five-0 avevano una nuova indagine di cui occuparsi ed era tutto ciò che gli serviva per superare lo shock.

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Capitolo 2
*** II. Rabbia ***


II

RABBIA

 

Contrariamente a ciò che aveva sperato, il caso non lo stava affatto aiutando a non pensare a Steve e alla sua maledetta lettera che gli aveva rovinato la giornata.
Diamine, ormai si era così abituato a vederselo intorno che andare in giro da solo, specialmente se doveva far visita ai familiari della vittima, gli risultava una vera e propria tortura. 
Continuava a cercarlo con lo sguardo, ad aspettare che lui esprimesse a voce i suoi pensieri, che traesse le sue stesse conclusioni, oppure, semplicemente, che lo sostenesse con la sua sola presenza.
Era appena stato dalla madre della ragazza uccisa e, avendo lui stesso una figlia che amava più della propria vita, era stata dura rimanere professionale. Di solito Steve era in grado di gestire quelle situazioni  lui che era il più controllato e freddo dei due  e sapeva esattamente quando doveva intervenire in suo aiuto.
Di fronte a quella donna in lacrime, disperata, Danny aveva avuto la forte tentazione di lasciar perdere tutto, di correre dalla sua Grace per stringerla a sé e non lasciarla più, ma alla fine aveva trovato un modo più proficuo di utilizzare la rabbia che gli bruciava nelle vene ed era riuscito a sorreggere il peso che gli schiacciava le spalle, ogni secondo meno sopportabile.
Era arrabbiato con Steve, tanto che avrebbe voluto sparargli o lanciargli tra le braccia una delle sue care granate, e riteneva fosse solamente colpa sua se ora si sentiva in quel modo, così smarrito e cedevole. Lui avrebbe dovuto guardargli le spalle, come ogni partner che si rispetti, invece l’aveva abbandonato a se stesso da un giorno all’altro, cogliendolo del tutto impreparato.
Solo il pensiero che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare gli permise di uscire da quella casa a testa alta e di tornare alla sua auto per raggiungere Chin e Kono, già al quartier generale.
Da solo nella Camaro argentata, notò con disappunto che Steve era riuscito a rovinargli anche il piacere di guidare in pace: quell’auto non gli era mai sembrata così vuota e silenziosa senza il marinaio al suo fianco. Avrebbe così tanto voluto che fosse lì con lui, e non chissà dove alla ricerca di risposte, che gli avrebbe persino permesso di guidare come un pazzo mentre ascoltavano la peggiore delle canzoni mai scritte, una di quelle in grado di scatenare l’istinto omicida nelle persone normali.
Alla fine si rese conto di stringere così forte il volante che frenò bruscamente sul ciglio della strada e tirò fuori il cellulare per inoltrare l’ennesima chiamata. Sapeva che non avrebbe risposto nemmeno quella volta, ma ora era pronto a parlargli.
Aspettò il segnale acustico della segreteria telefonica ed attaccò: «Ti dispiace, eh? Ti dispiace di essere stato un codardo egoista per non avermelo detto in faccia, per avermi nascosto le tue intenzioni? Sai che cosa me ne faccio, del tuo dispiacere? Un bel niente, Steven! E non venirmi a dire – se solo rispondessi a questo maledetto telefono – che non mi hai avvisato perché era necessario che io rimanessi a capo della squadra, perché non me la bevo. È solo una scusa, a cui ti sei aggrappato per giustificare il fatto che in realtà non mi vuoi tra i piedi. Okay, bastava dirlo! Dov’è andata a finire tutta la tua onestà, uh? Si vede che io non la merito, dopotutto. Ma va bene così, era tutto troppo bello per essere vero. Sei solo un bastardo». Fece una pausa a causa del fiatone dovuto a quel fiume di parole che non era riuscito né aveva voluto arginare.
Ascoltando il silenzio dall’altra parte, ascoltando il suo stesso respiro, si massaggiò le palpebre con due dita per poi concludere: «Comunque, qualsiasi sia il motto di voi SEAL, scommetto che non è: “Parti da solo e avvisa il tuo partner con una letterina”. Spero che tu ti diverta».
Chiuse la conversazione e guardò di fronte a sé, soddisfatto, fino a quando non sentì il collo andare a fuoco per l’imbarazzo, proprio come se Steve fosse al suo fianco, con quel suo ghigno sardonico stampato sulla faccia. Sentì persino la sua voce risuonare chiara e limpida nella sua mente: «Senti già la mia mancanza, Danno?».
Il biondo non riuscì a resistere e colpì con forza il volante con entrambe le mani, trattenendo a stento un urlo frustrato.

 

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Che dire, grazie a chi ha letto lo scorso capitolo, dandomi una possibilità ;)
Un ringraziamento speciale a Benny868 e alla mia bellissima Biagina68 per aver messo questa storia tra le seguite/preferite! 

A domani sera per la terza parte, un bacio! 

Vostra,
_Pulse_

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Capitolo 3
*** III. Delusione ***


III

DELUSIONE

 

Danny non ne aveva avuto abbastanza evidentemente, perché ogniqualvolta avesse un minuto libero provava e riprovava a contattare Steve, lasciandogli vari messaggi – alcuni in cui aveva cercato di ragionare e altri invece grazie ai quali avrebbe di certo ottenuto una scomunica se il Papa fosse stato nei paraggi. Ad ogni modo, il risultato era sempre stato lo stesso: una conversazione a senso unico.
A fine giornata era talmente stanco di avercela con Steve che non riuscì nemmeno a sentirsi soddisfatto di aver condotto un’indagine di cui, se fosse stato pienamente in sé, si sarebbe vantato davanti a diversi giri di alcolici. Chin e Kono gliel’avevano anche proposto, assicurando che avrebbero offerto loro, ma aveva rifiutato. Era davvero a pezzi.
Prima di tornare a casa si fermò in un piccolo supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e comprò da mangiare e, come ricompensa per aver catturato un serial killer attivo dagli anni ’80, una confezione di birra da sei.
Con la spesa sui sedili posteriori e la birra accanto a sé, lì dove avrebbe dovuto esserci Steve, guidò piano per le strade illuminate dai lampioni e dalle stelle sparpagliate nel cielo scuro. Venne distratto dalla suoneria del proprio cellulare e senza nemmeno guardare il display se lo portò all’orecchio, esclamando con foga: «Steve!».
«No… Sono Gabby».
Il biondo si spalmò una mano sulla faccia e ridacchiò per stemperare la tensione. «Ciao Gabby.  Perdonami, non ho guardato chi fosse».
«Ho notato. Ehm… Dove sei?».
«In macchina, sto andando a casa».
«Oh».
Danny aprì la bocca per chiederle se fosse successo qualcosa, se stesse bene, quando improvvisamente si ricordò che la sera prima si erano messi d’accordo che sarebbero dovuti uscire a cena… un’ora prima.
«Gabby, io… Mi dispiace, mi sono completamente dimenticato. È stata una giornata intensa e poi…». Avrebbe voluto dire che Steve se n’era andato, raccontarle tutto, sfogarsi con lei come aveva fatto altre volte quando il collega lo mandava fuori dai gangheri, ma quella volta no.
«Va tutto bene?», gli chiese la dottoressa, percependo qualcosa di strano nel suo tono di voce.
«Sì, tutto bene. Sono solo molto stanco, ecco. Possiamo… possiamo fare un’altra volta? Ti prometto che mi farò perdonare».
«Ma certo, non ti preoccupare».
«Mi dispiace tanto, davvero».
«Danny, non è successo nulla di male. Solo…».
«Sì?».
«Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, io ci sono. Hai capito?».
Danny non poté evitare di sorridere lievemente, nonostante sapesse che non poteva vederlo. Le avrebbe risposto, se solo non avesse rischiato di strozzarsi con la sua stessa saliva: udendo la sirena di un’ambulanza, infatti, aveva sollevato lo sguardo sullo specchietto retrovisore per guardare da che direzione provenisse e la sua mente annebbiata dalla stanchezza gli aveva fatto scorgere Steve al volante del pick-up nero dietro di lui.
«Danny? Danny, ci sei?».
La voce di Gabrielle lo riportò alla realtà e grazie ad una vigorosa strizzata d’occhi vide il vero volto dell’uomo alla guida del pick-up, quello di un completo sconosciuto.
«Sì, sono qui. Grazie, Gabby».
Si salutarono e Danny continuò a guidare, senza nemmeno pensare alle svolte che doveva prendere, fino a quando non si ritrovò di fronte alla villetta di Steve. Non sapeva come ci era arrivato e non se lo chiese, certo che avrebbe solamente aggravato la situazione se si fosse posto troppe domande.
Tirò giù dall’auto la borsa e le birre e aprì la porta con la copia delle chiavi che Steve non gli aveva mai chiesto indietro da quando l’aveva ospitato a casa sua per via dello sfratto.
Senza nemmeno accendere le luci si diresse a passo sicuro verso la cucina, dove sistemò ciò che aveva comprato. Non sapeva nemmeno perché avesse fatto la spesa, dato che il cibo era l’ultimo dei suoi pensieri.
Con la cassa di birre sottobraccio tornò in salotto. Aveva tutta l’intenzione di accamparsi sul divano fino alla mattina successiva, ma ciò che vide gli fece venire voglia di prendere il muro a testate. Posata in bella vista tra i cuscini c’era una busta bianca con sopra il nomignolo che in teoria avrebbe dovuto usare solo sua figlia ma che, in realtà, usciva sempre più spesso dalle labbra del partner.
Posò le birre sul tavolino ed afferrò la busta per stracciarla con gli ultimi rimasugli di rabbia che ancora gli circolavano in corpo, come le ultime gocce di un veleno non del tutto debellato dall’antidoto. 
Due minuti dopo era a terra, intento a raccogliere ogni pezzo della lettera per rimetterla insieme come un puzzle.

 

Haloa Danno,
sapevo che prima o poi saresti venuto qui.
Puoi lasciare la TV accesa anche tutta la notte, se ti va. Ma niente frittate, per favore.
Starò attento, te lo prometto.
 

                                                                                                                      Steve   

 

Danny scosse il capo lentamente di fronte a quelle parole, troppo stanco per ribattere in qualsiasi modo. Che speranze aveva contro un ninja telepatico, comunque?
Una cosa però volle dirla ad alta voce, per quanto assurdo potesse essere: «Ti odio».
Quasi come se lo avesse fatto apposta, da bravo autolesionista qual era, aspettò la risposta che la sua mente gli propose, puntuale e concisa: «Ma se mi adori!».

 


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Ecco come promesso il terzo capitolo... Spero vi sia piaciuto :)
Un grazie a tutti coloro che hanno letto fino a qui e un grazie speciale a Red lady che a lasciato un commento allo scorso capitolo.
Ci vediamo domani per la quarta parte, un bacio!

Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 4
*** IV. Paura ***


IV

PAURA

 
«Sergente Danny Williams, finalmente ci conosciamo».
Il biondo sentì ancora una volta quella mano gelida afferrarlo da dentro, dolorosa come una tagliola.
«Chi parla?», chiese alla voce misteriosa che lo aveva svegliato nel cuore della notte.
Si era addormentato ancora vestito – cravatta compresa – sul divano di Steve, con la TV accesa a sovrastare il respiro dell’oceano, il tavolino cosparso di bottiglie di birra vuote e il cellulare stretto in mano, come se fosse in attesa di una telefonata importante. E lo era.
«Ma come, non mi riconosce? Eppure l’ha visto anche lei il video che ha scagionato McGarrett».
«Wo Fat», mormorò, impallidendo.
«È un piacere anche per me».
Danny avvistò il cordless di Steve e continuando a parlare digitò a memoria il numero della scientifica: dovevano assolutamente rintracciare la chiamata.
«Che cosa vuoi?», gli chiese digrignando i denti. Per quanto ci provasse, non riusciva a prendere la linea, come se non ci fosse campo.
«Non sprechi il suo tempo, detective. Nessuno correrà in vostro aiuto, questa volta».
Il sudore ormai gli imperlava la fronte e gli appiccicava il cotone leggero della camicia alla schiena. Lanciò il cordless tra i cuscini del divano e si passò una mano tra i capelli, teso come una corda di violino.
«In nostro aiuto? Di che cosa stai parlando?».
«Oh, giusto. C’è qui una persona che vorrebbe tanto salutarla...».
Danny rimase in silenzio, col fiato sospeso, fino a quando non sentì un respiro rantolante e la voce fuori campo di Wo Fat dire: «Coraggio Steve, parla. Nelle ultime tre ore insieme non hai fatto altro che dire il suo nome… Sei diventato timido?».
«Adesso basta!», urlò il detective, nonostante la paura gli avesse ghiacciato il sangue nelle vene. «Vuoi solo spaventarmi, Steve non è lì con te. Lo saprei, se...».
«Danno...». Nonostante la voce strozzata di Steve lo avesse raggiunto a malapena, il biondo sentì il proprio cuore sprofondare in una voragine senza fondo.
«Steve? Steve, dove sei? Cosa ti ha fatto quel figlio di puttana?».
«Danno, mi dispiace... Mi dispiace davvero...».
«Sistemeremo tutto, okay? Tieni duro, ti prego. Dimmi solo dove sei».
Il silenzio che ottenne in risposta non fu per nulla rassicurante e Danny iniziò a chiamarlo, alzando così tanto la voce che temette di spezzarsi le corde vocali. Alla fine fu di nuovo Wo Fat a parlare, con tono pacato e quasi gentile: «Spero vi siate detti addio, sergente».
«Non ti azzardare a toccarlo. Toccalo e sei morto», ringhiò, sentendo le lacrime premergli contro le ciglia.
Wo Fat schioccò la lingua contro il palato e rispose: «Se l’è cercata».
Ci fu un lunghissimo istante di silenzio, che Danny non riuscì a spezzare a causa del nodo d’angoscia che gli aveva stretto la gola, e poi un fragoroso scoppio che gli fece cedere le ginocchia.

 
Si svegliò di soprassalto, il cuore che gli martellava nel petto e la camicia incollata alla pelle.
Ai suoi piedi, i cocci di una delle bottiglie di birra che aveva abbandonato sul tavolino. Agitandosi doveva averla fatta cadere.
Aveva letto da qualche parte che spesso i sogni venivano influenzati dall’ambiente circostante: quando nella realtà la bottiglia si era infranta sul pavimento, nel suo incubo Wo Fat aveva sparato a Steve.
Si alzò, facendo attenzione a non pestare i pezzi di vetro, e si diresse verso le porte finestre. Aveva decisamente bisogno di un po’ d’aria fresca, in grado di schiarirgli i pensieri e tranquillizzarlo.
Si sedette su una delle sdraio della spiaggetta privata e allentandosi il nodo della cravatta respirò a fondo l’aria intrisa di salsedine, gli occhi fissati sull’orizzonte e sulla grande luna il cui riflesso illuminava di scaglie argentate la superficie dell’oceano.
Quando si fu calmato a sufficienza, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare e lo chiamò per l’ennesima volta.
«Ciao. Sono io, di nuovo. Ho perso il conto ormai delle volte in cui ho provato a contattarti, ma non mi arrenderò, hai capito? Non ti libererai di me così facilmente, non dopo tutto quello che abbiamo passato insieme.
«È solo che non capisco... Perché te ne sei andato via così? Perché da solo? Pensavo che l’esperienza in Corea del Nord ti avesse insegnato qualcosa in merito al non imbarcarsi in missioni folli senza supporto. Non voglio rivederti in quello stato, non voglio recuperarti per il rotto della cuffia. Ma lo sai che lo farei se solo me lo chiedessi, farei di tutto per te».
Danny era troppo sbronzo, troppo spossato e preoccupato, per rendersi conto del vero e più profondo significato delle sue parole. Il mattino seguente se ne sarebbe pentito forse, ma non in quel momento.
Si passò nuovamente una mano tra i capelli, un po’ appiattiti da un lato per via del cuscino, e riprese: «Ciò che mi manda fuori di testa è che non so nemmeno dove sei, Steve... Come faccio a sapere se stai bene, se non mi rispondi? Nella lettera che mi hai lasciato in ufficio mi hai scritto che ti saresti tenuto in contatto. Scherzavi? No, perché se era solo uno scherzo avresti dovuto scriverlo tra parentesi, amico».
Sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sdraio per guardare le stelle. 
La fresca brezza notturna fece rabbrividire la sua pelle ancora sudata a causa dell’incubo e decise di alzarsi per tornare in casa. Prima di dare le spalle all’oceano però, mormorò dentro il microfono: «Non so che cosa farei, se tu morissi». 

 

 

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Questo è uno dei capitoli che ho scritto con più trasporto e spero vi sia piaciuto!
Grazie a chi ha letto fin'ora e a Red lady per aver commentato.
A domani sera, un bacio!

Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 5
*** V. Rassegnazione ***


V

RASSEGNAZIONE

 

Abbandonato contro la morbida pelle del sedile della sua auto, Danny tamburellava le dita sul volante, immerso nei propri pensieri. 
Non riusciva a togliersi dalla testa ciò che si erano detti lui e Chin Ho a pranzo da Kamekona, il giorno dopo aver catturato Lo Spazzino.


«Non l’hai sentito, vero?».
«No, lui... non risponde alle telefonate».
«Preoccupato?».
«Un po’», scosse le spalle per fingere noncuranza, tenendo le mani intrecciate sul tavolo, mentre cercava di trovare qualcos’altro di abbastanza “alla Danny” da dire.
Era già stato sufficientemente difficile ridurre il suo livello di ansia a quelle due parole e per una volta era profondamente grato al sole accecante delle Hawaii che, costringendolo a tenere gli occhi stretti in due fessure, aveva impedito al collega di leggervi riflessa la verità.
Alla fine arricciò gli angoli della bocca in un piccolissimo sorriso e aggiunse: «Come un padre al primo ballo della figlia».
«Beh, ovunque sia, McGarrett vuole cavarsela da solo. Altrimenti avrebbe chiesto il nostro aiuto», dedusse Chin con la sua solita calma.
Danny non era d’accordo, in parte perché conosceva il suo pollo e in parte perché quella notte, a causa dell’incubo che gli aveva impedito di riaddormentarsi, aveva avuto un sacco di tempo per pensarci su.
Dondolò la testa e si concesse un respiro profondo prima di condividere la propria illuminazione: «Vuole proteggerci. Non vuole che corriamo dei rischi».

 
Steve aveva tanti difetti – il totale rifiuto delle regole civili, l'imprevedibilità, la monotonia nel vestire e il pessimo gusto nel cibo – ma non ci si poteva assolutamente lamentare della sua lealtà. Per le persone a cui teneva si sarebbe gettato pure nel fuoco, e Danny odiava quel lato del suo carattere tanto quanto lo stimava.
Odiava che avesse preferito tenerlo al sicuro piuttosto che al suo fianco e allo stesso tempo gli era debitore, perché non avrebbe mai sopportato di rendere orfana di padre la sua scimmietta. Steve lo sapeva e Danny per questo si sentiva in colpa, perciò lo odiava. Era un maledetto circolo vizioso, con lui.
Stava giusto per allungare la mano verso il cruscotto per recuperare il cellulare e fare l’ennesimo tentativo, quando la campanella della scuola trillò e tutti i genitori si avvicinarono alla scalinata in pietra per attendere la mandria di bambini che di lì a poco sarebbe corsa fuori dall’edificio.
Anche Danny scese dalla Camaro per appoggiarsi al cofano ormai tiepido e decise di non pensarci più: voleva occuparsi solo della sua Grace, godere di ogni attimo della sua compagnia prima che partisse per il continente, e farle credere che andasse tutto bene.
«Ehi, scimmietta!».
La figlia lo avvistò dall’altro lato della strada e scese di corsa la scalinata per raggiungerlo nel più breve tempo possibile, quindi gli gettò le braccia al collo e si fece sollevare da terra per fare un mezzo girotondo insieme.
«Mi sei mancata tanto», le sussurrò Danny nell’orecchio, prima di posarle un bacio sulla tempia.
«Anche tu. Dove andiamo?».
«Dove vuoi».
«In spiaggia?», gli chiese con gli occhioni spalancati per l’eccitazione.
Il biondo le aprì la portiera al lato del passeggero e le rivolse un mezzo inchino prima di farla salire sull’auto. «Ogni suo desiderio è un ordine, principessa».
La bambina sorrise contenta e una volta agganciata al sedile aspettò che il suo papà facesse di nuovo il giro per mettersi al volante. 
Aveva appena acceso il motore, quando esclamò: «È da un po’ che non vedo lo zio Steve, gli chiedi se vuole venire con noi?».
La sorpresa fu tanta che nel giro di tre secondi rivisse nuovamente tutto ciò che aveva provato il giorno in cui – una settimana prima, ormai – aveva scoperto che Steve se n’era andato. Lo shock, la rabbia, la delusione, la paura… Tutte quelle sensazioni lo travolsero con la stessa potenza devastante di un’onda anomala, impedendogli di rispondere prontamente a sua figlia. Dovette sforzarsi per recuperare il controllo di sé, per ristabilire quel precario equilibrio che aveva impiegato giorni a trovare.
«No piccola», rispose alla fine, schiarendosi la gola. «Steve è partito».
«È andato in vacanza?».
Aveva immaginato mille possibili scenari, chiedendosi cosa stesse facendo, quali strade stesse percorrendo, quale brezza gli stesse scompigliando i capelli corti, e mai, mai gli era venuto in mente di raccontarsi una bugia simile. Forse perché conosceva troppo bene Steve ed era sicuro al cento percento che il marinaio non sapesse nemmeno il significato del termine “vacanza”. Non si sarebbe stupito affatto se per lui gli addestramenti sulle navi, le missioni sotto copertura e gli accampamenti nel deserto fossero sinonimi di vacanza, e di lusso per giunta.
L’idea di Grace era così bella e normale che vi si aggrappò con tutte le sue forze, cercando di auto-convincersene. I risultati non furono dei migliori, ma perlomeno riuscì a stirare un sorriso e a rispondere: «Una specie».
Passarono all’appartamento di Danny solo per lasciare giù lo zainetto di scuola ed infilarsi i costumi da bagno, poi parcheggiarono l’auto vicino al furgone giallo di Kamekona e mano nella mano raggiunsero il gigante hawaiano per un saluto.
«Haloa, fratello!», lo salutò quest’ultimo, posandosi le mani sui vasti fianchi.
«Kamekona», ricambiò con un cenno del capo. «Tutto bene con il furgone? Hai imparato la lezione?».
«Sì, grazie tante haole». Gli diede una pacca sulla schiena con cui quasi gli fece sputare un polmone e poi si piegò un poco verso Grace per sorriderle e far danzare le proprie sopracciglia: «La vuoi una granita al gusto gamberi?».
La bambina, di solito molto posata e gentile con tutti, non riuscì a nascondere una smorfia di disgusto e sollevò lo sguardo implorante verso il padre, il quale aveva già allungato una mano verso l’hawaiano per tenerlo lontano dalla sua piccolina.
«Cos’è, hai per caso intenzione di avvelenarla?».
«È una nuova specialità!».
«Non la prenderemmo nemmeno se fosse gratis, Kamekona. Roba da matti».
Danny alzò gli occhi al cielo e fece cenno a Grace di andare, ma il venditore ambulante lo trattenne, chiedendogli senza giri di parole: «Ancora nessuna notizia di McGarrett?».
Con le labbra strette tra loro, il detective si limitò a scuotere la testa in segno di diniego.
«Sono sicura che zio Steve sta bene», esclamò Grace, stringendo più forte la sua mano.
Danny sorrise e le accarezzò la testa, aggiungendo: «Sì, probabilmente si sta divertendo così tanto che si è dimenticato di chiamare. Gli faremo una bella ramanzina quando tornerà, sei d’accordo?».
Grace annuì ricambiando il sorriso e poi salutò Kamekona per trascinare suo padre verso la spiaggia, affollata come sempre da centinaia di bagnanti tra turisti e surfisti con le loro tavole dai mille colori.
 

Quel pomeriggio costruirono il più brutto e triste castello di sabbia che avesse mai visto, fecero un bagno a riva e raccolsero un sacchetto di conchiglie da portare ai nonni materni di Grace.
Era riuscito a distrarsi con la figlia accanto, perciò quando gli chiese se poteva andare a giocare con delle sue compagne di scuola esitò prima di lasciarla andare, certo che la malinconia sarebbe caduta di nuovo su di lui come una coperta bagnata.
Grace era solo a qualche metro di distanza, che rideva spensierata con le sue amichette mentre cercavano di imitare i sensuali movimento di bacino di una qualche popstar a lui sconosciuta ma che da quel giorno in poi avrebbe odiato a morte per ovvie ragioni, e la spiaggia era così affollata che bisognava essere atleti di un certo livello per crearsi un varco verso il mare, eppure si sentiva solo al mondo, senza alcuno scopo. E lo sapeva che aveva promesso di non pensarci almeno per un po’, di dedicare ogni neurone del suo cervello e ogni fibra del suo corpo a Grace, ma non poté fare a meno di ripescare il cellulare dalla tasca dei pantaloni per portarselo all’orecchio e immaginare Steve dall’altra parte, pronto ad accogliere ogni suo sfogo con il suo irritante sorrisino sul volto.
«Ehi, senti, lo so che non è il tuo primo ballo, okay? Anche se non ne vuoi parlare, lo so che come SEAL hai preso parte a missioni più pericolose e che hai sfidato la morte centinaia di volte, ma la verità è che sono preoccupato per te. Non sei Terminator! Anche se ti piacerebbe.
«Ho capito che ci hai tenuto fuori da questa storia perché vuoi tenerci al sicuro, perché credi che noi abbiamo molto più da perdere di te. Ti ringrazio per il pensiero, ma come al solito ti sbagli. Tu... tu non sei solo, Steve, né sei sacrificabile per la causa. Hai tua sorella, Chin, Kono... hai me. E Grace».
Come se lo avesse sentito, la bambina si voltò verso di lui ed interruppe il proprio balletto per salutarlo con una mano. Danny ricambiò, abbozzando un sorriso.
«Mi ha chiesto di te oggi, lo sai? Voleva che venissi con noi in spiaggia. E anche io». Respirò profondamente, tirandosi indietro una ciocca di capelli ancora umidi che gli era scivolata sul volto, e concluse la telefonata: «So già che non cambierai idea, cocciuto come sei, ma almeno richiamami. Per favore, richiamami».

 

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Ormai ci siamo quasi... questo è il penultimo capitolo! Spero vi sia piaciuto ;)
Grazie a chi ha letto e a Red lady che assidua continua a commentare! Grazie infinite *^*
A domani sera per l'ultima parte!

Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 6
*** VI. Sollievo ***


VI

SOLLIEVO

 

Dopo l’ennesima estenuante indagine portata a termine con successo dai Five-0 – grazie alla quale aveva anche collezionato una nuova cicatrice sulla fronte – Danny era così cotto che l’unica cosa che desiderava era un letto, un divano, una brandina oppure, spinto dalla disperazione, persino un sacco a pelo.
Chiamò Rachel per chiederle se per lei andava bene che il giorno seguente passasse a prendere Grace intorno alle dieci e dopo aver ritirato in tintoria un paio di camicie andò direttamente a casa McGarrett. Era anche casa sua ormai, dato che nelle ultime settimane aveva trascorso più tempo lì che nel proprio squallido appartamento.
Percorse il vialetto per quella che gli sembrò un’eternità, come se la porta non fosse altro che un miraggio, e quando finalmente ci arrivò infilò le chiavi nella toppa. Girò e rigirò, ma non sentì mai la serratura scattare: con un brivido realizzò che era aperta.
In un attimo tutti i suoi riflessi si ridestarono e lasciò cadere a terra gli ometti con le camicie per estrarre la pistola dalla fondina. Si spostò di lato per avere la copertura migliore e con un piede spinse avanti la porta, poi si palesò nell’ingresso con le braccia tese e gli occhi vigili. Non notando nulla di strano, avanzò come se si trattasse di una normale perquisizione, angolo dopo angolo, fino a quando non si rese conto che le porte finestre che davano sulla spiaggia privata di Steve erano aperte. Era certo di averle chiuse prima di uscire quella mattina, e come per la porta d’ingresso non c’erano segni di scasso.
Un movimento improvviso gli fece rialzare la pistola verso l’oceano, ma quasi non gli scivolò dalle dita quando scorse una mano penzolare dal bracciolo della sdraio. Saldamente ancorata a quella mano c’era una bottiglia di birra mezza vuota, la cui ombra si allungava sulla sabbia tinta dell’arancione del tramonto.
Uscì con cautela sul lanai e i suoi passi attirarono l’attenzione della persona seduta sulla sdraio. Danny aveva la pistola abbassata, già conscio che non si trattasse di una minaccia; o, meglio, che non l’avrebbe ucciso in quel momento.
Sentì il proprio cuore fare un triplo salto mortale quando l’uomo si alzò per andargli incontro e allo stesso tempo le sue dita strinsero più forte il calcio della pistola. Si trovava ad un bivio: non riusciva a decidere se voleva sparargli per fargliela pagare oppure aspettare che fosse abbastanza vicino per afferrarlo per la nuca e baciarlo. Proprio così, baciarlo.
«Ciao, Danno», lo salutò dolcemente Steve, gli occhi sorridenti tanto quanto le sue labbra.
Non era mai stato così combattuto in tutta la sua vita.

 

*

 

Aveva avuto modo di pensare molto in quelle lunghe cinque settimane senza Steve e aveva raggiunto conclusioni a dir poco inaspettate.
Finalmente aveva realizzato in che misura il SEAL avesse influenzato il suo modo di vivere e quanto la sua presenza fosse ormai indispensabile per la propria serenità. Semplicemente troppo, rispetto a quello che avrebbe dovuto essere.
Insomma, erano partner sul lavoro, amici fuori... Okay, più che amici – quasi fratelli. Ma ciò che si era scoperto a provare prima che la squadra si imbattesse in Dracul Comescu, quando si era voluto togliere un sassolino che si teneva dentro la scarpa da un po’, andava ben oltre il legame che così faticosamente aveva cercato di delimitare da quando l’aveva conosciuto. Le emozioni che sentiva ogniqualvolta pensasse al capitano sconfinavano di diverse miglia e temeva di non avere tanto nastro giallo – proprio quello delle scene del crimine – per contenerle.

 
«Posso chiederti una cosa, scimmietta?».
Grace sollevò gli occhi dalla propria tazza di macedonia ed annuì col capo, facendo dondolare i codini che le aveva fatto quando erano tornati dalla spiaggia.
«Perché lo chiami
zio Steve?».
Ecco, gliel’aveva chiesto. Danny si alzò fingendo di dover mettere a bagno i piatti della cena, quando in realtà non voleva farle capire che era arrossito, imbarazzato dalla sua stessa domanda.
«Me l’ha detto lui che potevo», rispose la bambina, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«E quando sarebbe successo, esattamente?».
«Non mi ricordo, papà. Però una volta ho sentito che ti chiamava
fratello e ho pensato che allora avrei dovuto chiamarlo zio, come zio Matt».
«Tesoro, anche Kamekona mi chiama
fratello – lo fanno quasi tutti, su quest’isola – eppure non lo chiami di certo zio!».
«Mmh, tu e Kamekona non sembrate fratelli».
Danny si voltò di scatto, fregandosene del calore che sentiva salirgli su per il collo. «Stai dicendo che invece io e Steve sembriamo fratelli?».
Grace si strinse nelle spalle ed annuì ancora una volta, per poi spiegare candidamente: «Voi due siete sempre insieme e vi guardate in un modo…».
«
In un modo? Che modo?», domandò nervosamente, la voce fuori controllo che si era alzata di qualche ottava.
«Si capisce che vi volete bene, che c’è qualcosa di speciale tra voi».
Il detective si ritrovò a bocca aperta, insolitamente incapace di articolare una qualsiasi frase di senso compiuto. Proprio lui, senza parole. Se solo Steve l’avesse visto…
«Allora ho chiesto a Steve se potevo chiamarlo
zio e lui ha detto di sì. Ha detto che io e te facciamo parte della sua ohana».
Grace sorrideva contenta, tanto che se solo avesse avuto una coda avrebbe iniziato a scodinzolare.
Danny non rispose, si limitò a ringraziare la bambina per avergli tolto quella curiosità, poi le diede il permesso di alzarsi da tavola per andare a guardare la TV.

 
Aveva continuato a rimuginarci su per parecchio tempo, anche dopo che Stan e Rachel erano passati a prendere Grace perché salissero sull’aereo che li avrebbe portati sul continente, fino a quando non aveva cercato di allontanare i pensieri scomodi che gli affollavano il cervello. E quale modo migliore, se non scervellarsi sugli indizi che il padre di Steve gli aveva lasciato in eredità?
Aveva avuto giusto il tempo di capire che probabilmente Steve era andato in Giappone per cercare Shelburne e avvisare Chin della scoperta, quando aveva ricevuto la chiamata del Governatore, quella che aveva dato il via al caso che se non fosse stato risolto in fretta avrebbe avuto la conseguenza forse più disastrosa che avessero mai affrontato: un’epidemia di vaiolo emorragico in grado di sterminare la maggior parte della popolazione terrestre.
Ovviamente aveva tenuto informato Steve, aggiornandolo sugli sviluppi dell’indagine ogni volta che poteva. Aveva avuto persino la prontezza di spirito di fare qualche battuta, quando aveva scoperto che doveva una bistecca all’agente Hanna del NCIS – «Ecco perché ti sei dato alla macchia, sei il solito tirchio!», gli aveva detto.
Ma niente, nemmeno il fatto che aveva rischiato di venire infettato dal virus più di una volta lo aveva convinto a richiamarlo.
Una sola, maledetta chiamata. Era tutto ciò che chiedeva.

 
Era già stato beccato due volte a telefono con Grace dall’agente Blye e dall’agente Deeks, perciò quella volta andò a farsi una passeggiata sul molo. Nonostante l’impazienza, aspettò che si attivasse la segreteria e poi iniziò a parlare a raffica, infervorato: «Dannazione, Steve, ti sembra il modo? Non solo sparisci dalla faccia della terra senza dire niente a nessuno, ma addirittura non ti interessi minimamente di quelli che sono rimasti indietro e stanno rischiando la pelle! Saremmo io e Chin, per la cronaca».
Riprese fiato e si guardò le scarpe per trovare il coraggio di confessargli ciò che voleva dirgli.
Ora o mai più, si disse.
«Se questo è il mio ultimo giorno, voglio che tu sappia la verità. Sto parlando seriamente, perciò quando ascolterai questo messaggio – se mai lo ascolterai – voglio che tu non rida, né sorrida, né faccia una delle tue facce. Ci siamo capiti? Bene».
Si umettò le labbra e socchiuse gli occhi, respirando profondamente un’ultima volta.
Ne era davvero sicuro? continuava a chiedersi. Non sarebbe più potuto tornare indietro, una volta fatto quel passo. Sapeva la risposta: le circostanze erano drammatiche, non poteva sottrarsi.
«Grace mi ha raccontato di quello che le hai detto, che io e lei facciamo parte della tua
ohana. Anche tu fai parte della mia, mi dispiace di non avertelo mai detto prima. Tu hai ridato un senso alla mia vita, mi hai tirato fuori dal buco che mi ero scavato con le mie stesse mani, mi hai ricordato cosa vuol dire gioire delle piccole cose. Hai reso sopportabili le Hawaii! E non ti ho mai ringraziato a dovere per questo. Grazie, Steve. Chissà dove sarei, se non ti avessi incontrato. Quello che so per certo è che non ti chiamerò mai fratello. Tu sei… Dio, ho già fatto una conversazione simile ad una segreteria telefonica e ti posso assicurare che è una sensazione orribile». Sospirò, passandosi di nuovo la lingua tra le labbra. «Steve, io…».
«Ehi, Danny!».
Il detective si voltò di scatto, trasalendo, e vide Chin accennare una corsetta per raggiungerlo.
«Che c’è?», gli chiese posandosi il cellulare sullo sterno.
«Ci sono novità, devi venire».
«Okay, un secondo!».
Aspettò che il collega si fosse voltato e si riportò il telefono all’orecchio: «Devo andare, devo impedire la fine del mondo. Se dovesse succedermi qualcosa, voglio che ti occupi di Grace come se fosse tua figlia, intesi? Devi promettermelo, Steve. Prendo il tuo silenzio come un sì».
Stava per chiudere la conversazione, quando ci ripensò e aggiunse frettolosamente, sentendosi avvampare: «Mi manchi».

 

*

 

«Beh, non dici niente?».
Danny stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di sparargli. Almeno si sarebbe tolto una soddisfazione.
«Perché stai sorridendo? C’è qualcosa di divertente? Ti è appena venuta in mente una barzelletta, per caso?», gli domandò a raffica col suo tono di voce più serio, il viso accartocciato in un’espressione astiosa. Tutto ciò convinse Steve a far sparire quel mezzo ghigno che era così tanto mancato a Danny.
Senza dargli il tempo di rispondere, il biondo sollevò un dito per intimargli di fare silenzio e gli chiese ancora: «Perché sei tornato?».
Quella domanda ebbe il potere di sorprendere il SEAL, un evento più unico che raro che Danny avrebbe dovuto filmare per i posteri.
Steve aprì la bocca, ma non emise un suono, come se stesse prendendo tempo. Alla fine si schiarì la gola e con la stessa serietà del biondo rispose: «Ho capito che ti stavo perdendo, che stavo cercando le risposte sbagliate. Mio padre è morto e trovare Shelburne non cambierà le cose».
Preso alla sprovvista, Danny balbettò: «Tu hai… hai ascoltato i miei messaggi?».
Ed eccolo lì, il sorrisino di McGarrett, quello tanto irritante e al contempo capace di fargli mancare un battito.
«Quali messaggi?», gli domandò, avanzando di un passo.
Ora erano così vicini che Danny riusciva a sentire il suo profumo e a scorgere la scintilla di malizia dentro i suoi occhi cangianti per via della luce del sole: a volte erano blu, a volte verdi, ma sempre e comunque mozzafiato.
Il detective sapeva che cosa stava facendo, ma non gliel’avrebbe data vinta: non gli avrebbe ripetuto in faccia ciò che nel corso di quelle settimane aveva lasciato intendere più volte, non avrebbe concluso la frase che era rimasta in sospeso prima che andasse a salvare il mondo dall’epidemia di vaiolo. Non ancora, perlomeno.
Si era sentito sollevato di non averlo fatto, quando tutto era finito e la popolazione mondiale non era più a rischio d’estinzione, e si era pentito di essersi lasciato sfuggire altre cose: aveva avuto paura di aver messo a rischio il loro delicato rapporto, di aver tratto conclusioni frettolose e dalle conseguenze possibilmente catastrofiche – rimanendo in tema.
Se ciò che provava per Steve andava davvero oltre all’amicizia, al bene fraterno, come avrebbe fatto a spiegarlo a Grace, a Rachel, a Gabby? Come avrebbe fatto a guardare in faccia Chin e Kono senza sentirsi giudicato? Come avrebbe fatto a lavorare ancora al suo fianco con la costante paura di perderlo?
«Perciò hai semplicemente abbandonato la missione e sei tornato qui?», gli chiese alla fine, ignorandolo.
Steve si portò le mani sui fianchi e scrollò leggermente le spalle, guardando di lato. «Quando hai smesso di chiamarmi, una settimana fa, ho realizzato che ti stavi dimenticando di me. Non potevo di certo permettere che accadesse, no?».
Danny trattenne a stento una risata e non collegò il cervello alla lingua prima di dire: «Se dovessi prendere una botta in testa tanto forte da farmi perdere la memoria – anche una auto-inflitta – sono sicuro che con la fortuna che ho tu saresti l’unica persona di cui mi ricorderei».
Quando si accorse di aver fatto l’ennesimo passo fuori dal nastro giallo era ormai troppo tardi. Steve lo stava guardando con dolcezza, ma quella volta non c’era alcuna traccia di derisione nei suoi occhi sorridenti.
Danny deglutì nervosamente quando lo vide alzare una mano per posargliela al lato del viso ed accarezzargli il cerotto sulla fronte. A quel tocco gentile il detective chiuse gli occhi, abbandonandosi ad un sospiro di sollievo: non era un sogno, Steve era davvero lì con lui. Spinto dal desiderio di accertarsene al cento percento, annullò la distanza tra di loro per stringerlo in un abbraccio.
Il marinaio impiegò qualche secondo per ricambiare, colto forse alla sprovvista (due volte nel giro di pochi minuti!), e quando gli avvolse le forti braccia intorno alla schiena Danny sentì il proprio cuore scalpitare nella gabbia toracica, come se fosse ben determinato ad uscirgli dal petto per fondersi con quello di Steve.
«Mi sei mancato anche tu», gli sussurrò McGarrett all’orecchio e quella fu la scossa che servì al detective per tornare lucido e scostarsi, mostrando un autocontrollo di cui si stupì lui stesso. La verità era che, se solo avesse potuto, sarebbe rimasto tutto il giorno nell’abbraccio rassicurante del collega.
Col volto in fiamme, si schiarì la gola cercando di evitare lo sguardo ancora intriso di dolcezza di Steve.
«Bene, ora che sei tornato puoi riprendere il tuo ruolo di capo dispotico nella task-force. Non pensavo che l’avrei mai detto, ma non potrei esserne più felice». Gli diede una pacca sulla spalla e si voltò per tornare in salotto, ma il SEAL gli chiese con un velo di preoccupazione sul viso: «Che cosa vorresti dire?».
Danny si girò di tre quarti per rivolgergli un ghigno divertito. «Ti consiglio solo di arrivare in anticipo, lunedì. Cinque settimane di scartoffie arretrate non si compilano da sole».
«Pensavo te ne fossi occupato tu!», urlò il capitano, sconvolto dalla notizia.
Danny scosse il capo, schioccando più volte le labbra. «Non sono mica la tua segretaria, Steven».
Il marinaio lo guardò attraversare il salotto per dirigersi verso la porta d’ingresso e non poté evitare di sorridere. Dopotutto gliel’aveva detto chiaro e tondo, più volte, che gliel’avrebbe fatta pagare per essere partito lasciandosi dietro solo una lettera.
Pensava che fosse già uscito, quando lo sentì gridare: «Un’ultima cosa, Steve!».
«Dimmi».
«Domani mattina io e Grace andiamo in spiaggia. Le ho detto che eri in vacanza, perciò assicurati di portarle un souvenir».
Danny sentì il SEAL ridere sommessamente mentre gli assicurava che avrebbe provveduto e con riluttanza si chiuse la porta alle spalle.
Mentre attraversava il vialetto per tornare alla Camaro, il detective non poté fare a meno di sentirsi sollevato che, nonostante fosse riuscito ad aspettarlo per cinque settimane, quella volta avrebbe dovuto attendere solo la durata di una notte prima di rivederlo. Ma che senso aveva aspettare, se poteva averlo al suo fianco sin da subito?
Tornò indietro e non fece in tempo ad afferrare il pomello che Steve aprì la porta, sorridendo soddisfatto.
«Dato che tutto ciò che c’è in frigorifero l’ho pagato di tasca mia, ti dispiace se rimango?», gli domandò, conoscendo già la sua risposta. Steve si limitò a spostarsi e a fargli cenno di entrare.
«Mi sono persino abituato al rumore delle onde, sai?».
Il SEAL lo lasciò parlare a ruota libera, senza confessargli che invece lui non si era affatto abituato al silenzio della sua assenza; al contrario, se non avesse intasato di messaggi la sua segreteria telefonica sarebbe come minimo impazzito. Danny l’aveva salvato tanto quanto lui – se non di più – e avevano tutto il tempo del mondo per dimostrarselo.

 

 

THE END

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Ebbene, siamo giunti alla conclusione!
Mi è piaciuto davvero molto scrivere questa FF e temo proprio - per voi, si intende - che non sarà l'ultima in questo fandom! *^*
Spero che vi sia piaciuta, che i personaggi siano rimasti abbastanza IC e che vi abbiano trasmesso qualcosina.
Un grazie a tutti coloro che hanno letto e a Red lady che ha commentato ogni singolo capitolo, rendendomi molto felice :)
Un bacio e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

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