Romeo is bleeding ~ I had a family. They killed me.

di Slits
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Dawn ***
Capitolo 2: *** 2. Secrets and Prohibitions ***
Capitolo 3: *** 3. Snow and Cats ***
Capitolo 4: *** 4. Bendages and Names ***
Capitolo 5: *** 5. Smells and Memories ***
Capitolo 6: *** 6. White and Gray ***
Capitolo 7: *** 7. Apples and Normality ***
Capitolo 8: *** 8. Broken ***
Capitolo 9: *** 9. You know... ***
Capitolo 10: *** 10. My place ***
Capitolo 11: *** 11. Freedom ***
Capitolo 12: *** 12. Livin' on a prayer ***
Capitolo 13: *** 13. Last drop falls ***
Capitolo 14: *** 14. Dead man ***
Capitolo 15: *** 15. Catch me ***
Capitolo 16: *** 16. Hazel eyes ***
Capitolo 17: *** 17. Silent tears ***
Capitolo 18: *** 18. Feelings ***
Capitolo 19: *** 19. Lost my way ***
Capitolo 20: *** 20. What do you fight for? ***
Capitolo 21: *** 21. Old regret, new fears ***
Capitolo 22: *** 22. Let the flower of death bloom in me ***
Capitolo 23: *** 23. Only hope ***
Capitolo 24: *** 24. Overcome the mind control ***
Capitolo 25: *** 25. Reflection ***
Capitolo 26: *** 26. Memories wear out ***
Capitolo 27: *** 27. Life is just a game ***
Capitolo 28: *** 28. Prelude to battle ***
Capitolo 29: *** 29. Romeo is bleeding ***



Capitolo 1
*** 1. Dawn ***


Covers.
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# 15. Catch me
# 22. Let the flower of death bloom in me
# 25. Overcome the mind control



1. Dawn
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Le stelle cedettero il posto alla foschia, la luna ad un’impercettibile brezza e la notte al giorno incombente.
Caldo. Dannatamente caldo.
Una nuova mattina aveva appena fatto il proprio, esaltante ingresso nelle vie ancora assopite di Miohy, sorprendendo nel sonno la gran parte degli ignari abitanti.
Nelle vie deserte risuonava unicamente il richiamo di un vento smorzato, chiamato con ogni probabilità ad annunciare una quasi imminente tempesta.
Non importava cosa gli altri ne potessero pensare; lui certe cose le sapeva forse ancor prima che Madre Natura avesse modo di pianificarle e mostrarle nella propria potenza. E la tempesta prossima a quell’alba avrebbe lasciato ben poche imbarcazioni intatte.
Sapere anche questo rientrava fra le sue doti.
Strinse al petto la sottile busta di carta e, sorridendo beffardo alla brezza, rallentò ulteriormente la propria andatura. Seppur apparentemente incomprensibile, quello era il suo modo di sfidare ancora una volta la fatale l’imprevedibilità del Grande Blu.
Quando le pareti spoglie del rifugio si chiusero attorno alle sue spalle, allentò la presa lasciandosi sfuggire un ghigno sottile. Così abilmente nascosto fra gli zigomi alti e le profonde rughe della pelle, era ben più che certo che nessuno sarebbe mai stato poi così accorto da farci caso.
- Sempre di buon umore, eh Garp? - nessuno, eccetto lei ovviamente.
- Se la giornata mi da un buon incentivo per esserlo, non capisco perché negarle questa opportunità. – fu la sua laconica risposta.
Sorrise nuovamente e prese posto su una delle tante poltrone di velluto che circondavano un tavolo decisamente fin troppo avaro in quanto a suppellettili.
- Vada per il farsi attendere, ma questa volta il tuo proverbiale ritardo ha decisamente superato i limiti consentiti. –  un’ombra snella lo raggiunse con poche falcate, sedendosi a capo del gruppo e chiudendo così le righe di un’assemblea indetta con pochissime ore di preavviso. Lasciar correre su un ritardo di qualche minuto sarebbe stato il minimo richiesto.
Sempre a patto che tre ore potessero considerarsi un semplice ritardo e non dimenticanza, e che la proverbiale “ Giustizia Assoluta " di Sengoku non contribuisse a farle apparire come una mancanza degna dei più indicibili castighi. Garp si limitò a far spallucce, sfoderando uno dei suoi sorrisi più innocenti.
- Se avete avuto la pazienza di aspettarmi così a lungo, sono certo che riuscirete a sorvolare anche su questo, Signore. – la pacatezza con cui accentuò quell’ultima parola contribuì a far ribollire il sangue nelle vene del grande ammiraglio.
Se non fosse dipeso dal fatto che il tratto prossimo alla città di Water Seven fosse ancora un baluardo sicuro per la marina unicamente per merito suo, probabilmente adesso il Viceammiraglio sarebbe stato ben lontano da quella tavolata, segregato in qualche base dispersa chi lo sa dove sulla rotta della Grand Line.
Sengoku strinse i pugni e, facendo appello al proprio autocontrollo, si sforzò di ignorare quell’ultima affermazione.
- Per lo meno, da quanto posso notare, sei stato informato del progetto. Me ne compiaccio. -
- Progetto? Che progetto? – il viso smarrito dell’anziano lo fece quasi sorridere. Tutto questo ovviamente prima che avesse modo di realizzare che avrebbe dovuto perdere altro tempo per illustrargli i dettagli di una missione per cui probabilmente sarebbe stato incaricato come unico intermediario.
- Quello che ti è stato spedito ieri sera, e che tuttora ti ostini e tenere stretto in braccio. – si limitò a risponder, piatto.
Fu solo in quell’istante che Garp si rese conto di non aver ancora lasciato la busta, ormai poco più spessa di un plico di fogli a causa della pressione esercitata dalla sua stretta. La poggiò sul tavolo dove, aprendola lentamente, estrasse una ciambella sotto lo sguardo di un attonito di Sengoku e di una divertita Tsuru. Poi le diede un primo morso.
- Sarebbe stato uno spreco lasciarle a marcire sulla nave. – esclamò con la bocca ancora impastata di caramello.
- E’ alla crema pasticcera – aggiunse, come se specificare la composizione del dolce avesse potuto in qualche modo placare l’ira del proprio superiore.
E fu unicamente in quel preciso istante, pochi istanti prima che le labbra di Sengoku avessero modo di aprirsi per lasciar trapelare parole decisamente non proprie ad un uomo del suo livello, che l’intervento dell’anziana donna riuscì a riportare una parvenza di ordine fra le righe della marina.
Con la freddezza e la lucidità tipiche di chi detiene i vertici del comando richiamò rapidamente l’attenzione di Garp su alcuni fascicoli abbandonati ai bordi del legno finemente intarsiato del tavolo.
- Da dopo gli eventi di Enies Lobby abbiamo ritenuto fermarli come una delle massime priorità.
Quelli che ora stai leggendo sono i progetti di un piano di contrattacco chiamato non unicamente ad indebolirli, ma come potrai ben notare – aggiunse lanciando un’occhiata piatta al viceammiraglio – ad incrementare notevolmente la potenza nelle nostre schiere. -
Sull’espressione severa di Garp si dipinse una smorfia di disgusto mentre, porgendo il plico di fogli all’Ammiraglio, tornava ad inchiodare con lo sguardo il volto imperscrutabile di Tsuru.
- Non credevo che ci saremmo mai potuti abbassare a tanto - sussurrò amaramente.
- Siamo in guerra, Garp. Aperta. –
- Cosa volete da me? – tagliò corto, probabilmente sperando che dalla durata di quella conversazione sarebbe anche dipeso l’esito della missione. Era evidente che il proprio canone di giustizia non si rispecchiasse nel modo di vedere il mondo da parte di chi lo avrebbe dovuto governare e che, a dispetto di tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento, ancora non fosse riuscito ad accettare i fatti per come stavano.
 - Unicamente identificare il soggetto più idoneo allo scopo, nient’altro. –



Il sole sorse, ed un’alba di ghiaccio prese forma nell’impercettibile nevischio.
Prolungata fino oltre la linea immaginaria dell’orizzonte e pungente di un gelo sottile e secco.
Il giorno arrivò così, repentino come un cacciatore affamato e pronto ad affondare nuovamente i propri artigli nel corpo inerme della preda. Dalla coffa un ragazzo socchiuse gli occhi, come a voler così dare il proprio tacito assenso all’addio della sempre più impercettibile oscurità.
E mentre nell’aria l’odore forte del tabacco si univa alla prima brezza del mattino, dalla cucina una voce acuta chiamava implorante il suo nome.
- Arrivo. -
Una nuova alba, nessun cambiamento.


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Capitolo 2
*** 2. Secrets and Prohibitions ***


2. Secrets and Prohibitions
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Clunk.
Il rumore della lama scagliata contro pavimento riecheggiò sulle pareti della nave. Con occhi stanchi, Sanji si ritrovò a fissare la propria anima scagliata senza troppi preamboli ai suoi piedi, ancora in bilico su di un’ asse quasi come in attesa che qualcuno la cogliesse.
Strinse i denti attorno al filtro di una sigaretta e tornò a sedersi sul divanetto ai piedi del tavolo.
Maledizione.
Un’imprecazione impercettibile, destinata a perdersi nel silenzio denso della camera. Socchiuse gli occhi, mentre sul pavimento piccole gocce scure incominciavano a disegnare una figura impossibile.
Era accaduto. Ancora.
Serrò maggiormente la presa attorno al mozzicone alzandosi nuovamente, nel vano tentativo di concludere un lavoro iniziato oramai da quasi mezz’ora.
- Noo? Ma davvero?! E poi? Poi cosa è accaduto?
- Be', ho guardato quel manigoldo negli occhi e senza esitazione gli ho detto : Sen.. – l’ennesima storia del cecchino venne lasciata così, morta sul nascere da uno sguardo imperscrutabile del cuoco.
Usopp si ritrovò, senza quasi accorgersene, a sorridere agli occhi stanchi di un Sanji seduto ora a pochi metri di distanza da lui.
- Be' cosa gli hai detto? Dai voglio sapere! –
- Be' ecco.. niente di importante. Sì, insomma.. –
- Avanti, diglielo Usop. Digli cosa hai detto e già che ci sei.. -  le mani del biondo affondarono pesantemente nelle tasche del grembiule mentre, con passi cadenzati, le proprie gambe si avvicinavano pericolosamente al volto di Usop.
- Dimmi che diavolo siete venuti a fare nella mia cucina, armati di tronchesi e sacchi, e per di più vestiti come un gruppo di ladruncoli di bassa legha! –
- Spesa! – fu la risposta del capitano che, forse ancora sin troppo preso dal racconto del cecchino, neanche era riuscito ad accorgersi dell’aura sinistra alle spalle del cuoco.
Inutile dire che, nel giro di pochi istanti, una sagoma stranamente somigliante ad uno dei maggiori ricercati della Rotta Maggiore si ritrovò scagliata contro la prua della nave.
- Avvisami quando è pronto! – fu l’ultima cosa che il Capitano riuscì ad urlare prima di esser travolto dalla furia di un Usop ora più che mai deciso a prender la testa del famigerato Monkey D. Rufy.
Sorridendo soddisfatto il cuoco rientrò in cucina, forse sin troppo concentrato sulle imprecazioni del cecchino per accorgersi dello sguardo cupo dello spadaccino, seduto ad appena pochi metri dalla cambusa.

La luna alta disegnò il proprio arco nel cielo notturno, unendosi in un impercettibile bagliore allo specchio di luci e riflessi stancamente cullati dal moto del mare.
Nella cucina della Going Merry il rumore dei piatti sovrapposti l’uno sull’altro si mischiava al ruggito delle voci degli occupanti della camera. Urla, schiamazzi ed imprecazioni si rincorrevano nell’aria, trovandosi per pochi istanti per poi ricominciare a vagare nell’eco della stanza.
 - Sei un maledetto ingordo! Ti dovremmo vendere alla marina unicamente per far analizzare quel tunnel montano che ti ritrovi per stomaco! – inutile specificare l’identità dell’interlocutore alle prese con la furia della giovane cartografa.
- Ma non è mica colpa mia se ho sempre fame!Come il mio corpo, anche il mio stomaco può allungarsi.. giusto Chopper? – Rufy cercò il sostegno del medico di bordo, sperando che per lo meno il suo parere riuscisse a frenare la rabbia di Nami. Ma il bagliore appena nato nello sguardo della giovane renna unito ad un oltremodo acuto “ Davvero? “ distrusse anche quest’ultima aspettativa. Un po' dispiaciuto, si volse nuovamente verso Nami, esibendo un sorriso da cucciolo ferito.
- Taci pozzo senza fondo! – tuttavia, perfino il cucciolo potè fare ben poco contro il pugno che incontrò la sua faccia e Rufy, nel giro di pochi istanti, si ritrovò ai piedi della tavolata, con la testa incastrata in un’asse del pavimento.
Sanji osservò annoiato il teatrino che ogni sera trovava la sua massima espressione sul ponte della nave, illuminato dai colori cupi della notte. Sorrise allo sguardo severo della navigatrice per poi negare abilmente il proprio con un repentino scatto della nuca.
Aspirò lentamente dalla sigaretta mentre nella sua mente domande su domande si intrecciavano, creando matasse indistricabili di questioni.
A capeggiare maestosamente sulle altre, con una naturalezza rasente lo sfacciato, ve n’era tuttavia un’unica, sola e ripetitiva: perché?
Perché fosse ridotto in quello stato, in bilico fra il comatoso e l’indisponente era una ragione che gli era ancora del tutto oscura.
Un sottile sorriso si delineò lungo l’arco delle sue labbra.
Arrivare a mentire persino a se stesso. Non credeva che stupidi sentimentalismi lo avrebbero potuto portare anche a questo..
- Sanji quindi è deciso? Te ne occupi tu? – senza neanche sforzarsi di capire la domanda appena posta dal Capitano, si limitò ad annuire disinvolto.
- Tranquillo Rufy. – rispose pacatamente.
- Bene, allora è deciso! – esclamò un esultante capitano, seguito a breve distanza dal resto della ciurma.
- I turni di guardia nei prossimi tre giorni sono tutti tuoi, Sanji- kun – aggiunse Nami, con l’espressione distesa di chi sa di aver appena lasciato ogni problema alle proprie spalle.
Ed in quel particolare tratto di mare, con l’arrivo quasi imminente di un’isola invernale ed un clima rasente l’artico, persino una semplice veglia sarebbe potuta apparire come un ostacolo insormontabile.
Sanji sorrise svogliatamente mentre, alle sue spalle,  la porta della cambusa veniva chiusa da una folata di vento.
- Ai tuoi ordini, Nami- San – 



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Capitolo 3
*** 3. Snow and Cats ***


3.  Snow and Cats
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Il profilo lontano della costa settentrionale prese forma fra i sottili fiocchi del primo nevischio mattutino. Un cristallo sottile sfiorò la pelle cerea del cuoco di bordo, carezzando le dita affusolate per poi spegnersi sulle magre gambe del giovane.
Stringendosi ancora una volta attorno alla coperta portatagli la sera prima dal medico di bordo, Sanji si ritrovò ad imprecare quasi inconsciamente.
Odiava la neve.
Odiava l’ambiguità che quell’elemento portasse quasi come dote innata dentro di se. Fredda e mortale come un’arma, ma fragile a tal punto da poter morire se stretta in un poco più di un pugno.
Ed allora schivava abilmente qualsiasi ostacolo, lasciandosi lambire dal vento senza fermarsi mai.
Evitando qualsiasi contatto, cosciente che una stretta più forte di quella della semplice aria potesse semplicemente ucciderla.
Sanji odiava la nave, perché da qualsiasi punto di vista la osservasse non riusciva a veder nient’altro che il ritratto di una gatta schiva, dalle movenze furtive.
Una gatta che avevano catturato, ma che non di certo per questo si era lasciata addomesticare.
Sorrise, sbuffando una sottile nuvola di fumo. In quella situazione in sin dei conti, l’unico che si fosse lasciato domare senza alcuna fatica adesso si trovava sulla coffa della nave, intento a fumare una sigaretta pur di riuscire a distogliere la propria attenzione dal gelo del mattino.
E dalla neve.


- Allora? –  un sottile cristallo di ghiaccio seguì la figura snella del cecchino sin dentro la camera. Sospinto da un’innaturale brezza sfiorò le spalle del ragazzo per poi posarsi sulla chioma corvina e scompigliata dal vento. Usop scosse leggermente la zazzera scura, prendendo poi posto di fianco al medico di bordo.
- E’ seduto poco distante dal campo di Nami. Da solo. –
Usop aveva sempre visto la solitudine come qualcosa di inevitabile nella vita di un uomo. Un elemento che non si può controllare, semplice come la nascita o la stessa morte.
Tutti prima o poi finiamo con l’esser soli. Per alcuni minuti, per giorni interi o a volte persino per tutta la vita.
Nel vi è nulla di male o estraneo nella solitudine.
Eppure in quella forzatamente impostasi da Sanji vi era un elemento di troppo. Qualcosa che con il corso naturale degli eventi sembrava non avere nulla a che vedere.
E non era la neve o il gelo che lambivano il corpo del giovane cuoco. Non erano i suoi continui silenzi o le ferite di cui ormai le sue mani erano colme.
Vi era dell’altro che ancora non era riuscito a cogliere, e che nonostante tutto ancora non riusciva ad ignorare. Né lui, né tantomeno i compagni ora seduti al suo fianco.
- Magari ha semplicemente fame e non vuole ammetterlo! -
Rufy in particolar modo.
- Io non capisco... perché comportarsi in questo modo? – la voce di Chopper si strinse in un suono soffocato, mentre a fatica raggiungeva le menti degli altri. Difficilmente avrebbe ammesso di non arrivare a comprendere qualcosa.
Ma per quanto si possa trattare di un organo, il cuore delle persone è forse la cosa più difficile da interpretare per un dottore.
Un laureato ne carpisce unicamente il funzionamento. Valvole, battito. Frequenza.
Che questa aumenti in presenza di particolari avvenimenti o persone, è un fattore che in molti ancora vorrebbero capire. E che Chopper per primo, anni prima, si era ripromesso di riuscire a curare.
- Forse è ancora arrabbiato per la nostra ultima incursione in cucina. – propose speranzoso Rufy.
Un’ipotesi plausibile... per i primi cinque minuti susseguiti all’avvenimento forse.
Sanji non era mai stato conosciuto per aver peccato di rancore del resto, non vi era motivo per cui avrebbe dovuto incominciare proprio in quel momento.
- Comunque stiano le cose... – concluse Chopper alzandosi e poggiando lo zoccolo sottile sulla maniglia della cabina – non può rimanere ancora fuori con la tormenta che c’è in corso. Vado a prenderlo. -
- Torna a sedere, dottore. – la voce roca ed atona dello spadaccino, pose fine alla piccola marcia della giovane renna. Con espressione vuota, il medico di bordo si voltò verso di lui.
Lo odiava a volte. Odiava il suo modo di essere e la sua incoerenza.
Diceva sempre di detestare quel cuoco, di disprezzarlo a tal punto da volerne la fine. Ma la sera, quando nessuno lo vedeva, rimaneva sempre a controllarne i movimenti.
In battaglia gli copriva le spalle come un fratello particolarmente apprensivo, per poi provare l’impagabile piacere di rinfacciargli ogni cosa, alla prima occasione. Una sera, durante un controllo medico dopo l’ennesimo scontro era riuscito persino a confessarlo.
A spiegare all’ingenuo dottore il motivo per il quale avesse incassato l’ennesima ferita volendosi far carico dell’ultimo nemico che non gli era toccato di diritto, ma che volentieri aveva strappato dalle gambe magre e provate del cuoco.

-    Tu forse non avresti dato la vita per tuo fratello?

Eppure adesso continuava a fissarlo con quelli occhi neri come la notte e spenti come se in quel cielo non vi fosse più alcun astro a schiarirne i contorni.
No. Non l’avrebbe mai potuto capire.
- Sono il suo medico. Non lo lascerò andare così alla deriva! -
- Ho detto di tornartene a sedere. – la voce calda dello spadaccino si irrigidì sino a tramutarsi in un imperioso comando.
No.
Se il piccolo avesse trovato la forza di parlare, probabilmente avrebbe sussurrato nient’altro che questa innocente obiezione. Ma le sue labbra rimasero sigillate, mentre lo zoccolo si stringeva con forza crescente attorno al legno della porta.
Non lo avrebbe lasciato da solo. Non gli avrebbe permesso di dannarsi esattamente come aveva voluto fare lui stesso anni prima.
Non era solo e lo avrebbe dovuto capire.
- Lui lo sa, Chopper. Sa che ci siamo e forse è proprio per questo che preferisce la solitudine. – Zoro plasmò il proprio tono sino a portarlo ad un impercettibile sussurro.
Diamine, perché doveva esser sempre tutto così dannatamente difficile?
- Dagli modo di accettare se stesso, prima ancora di imporgli la nostra presenza. – il medico masticò a fatica quelle parole, prima di dar modo alla propria mente di accettarne il senso.
Se Zoro avesse avuto ragione, se il ragazzo fosse realmente cambiato chi fra di loro sarebbe riuscito ad accettarlo?
Probabilmente nessuno. O quasi.
Probabilmente sarebbero arrivati a mutare essi stessi pur di non riconoscere il suo cambiamento.
Quasi.


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Capitolo 4
*** 4. Bendages and Names ***


4. Bendages and Names
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- Non sono ancora del tutto convinto di questo piano, Rufy... – facendo scorrere lentamente il morbido profilo del proprio naso lungo le pareti dell’agrumeto della nave, il cecchino tirò l’ennesimo sospiro.
Chopper non potè far a meno di constatare che si trattasse del sesto in quasi mezz’ora. Poi lo avrebbe visitato; la carenza di ossigeno, si sa, non è mai un buon sintomo.
- Eddai Usop, è divertente. E’ dai tempi di Enies che non rischiamo tanto! – ridacchiando sommessamente il capitano lanciò l’ultimo mandarino nel mucchio retto dalla renna. Con quello, era certo di aver superato la ventina.
- Ma lì si trattava solo del Governo Mondiale. Non di... – deglutì silenziosamente,facendo il possibile pur scacciare dalla mente le immagini irate della splendida navigatrice di bordo, oramai sin troppo frequenti fra i suoi pensieri. – ...Nami. – concluse a fatica.
Rufy si limitò a stringersi nelle spalle, incapace, o ancor più probabilmente timoroso, di dar risposta. Aveva una possibilità di far sorridere quel cuoco, e di certo non l’avrebbe gettata via per la paura di qualche ramanzina.
Sorrise quasi inconsciamente.
Il suo ottimismo lo aveva sempre portato a veder il lato migliore delle cose, ma forse sperare in una semplice sgridata da parte di Nami sarebbe stato sin troppo anche per lui. Prese un frutto dalle mani ancora tremanti di Usop, portandoselo avidamente alle labbra.
Ma in sin dei conti sperare non gli sarebbe costato nulla.

Il tessuto sottile della benda incontrò le sue labbra appena socchiuse, scivolando con grazia lungo la pelle diafana a causa del freddo. Stringendo avidamente i canini attorno alla garza, Sanji tentò ancora una volta di chiudere i lembi di quella maledettissima fasciatura.
E per la quinta volta si dovette arrendere nell’osservare il volo leggero del cotone lungo le sue gambe.
Aveva dimenticato quanto potesse esser difficile medicarsi da solo.
- Hai bisogno di aiuto, signor cuoco? – con occhi stanchi si trovò costretto ad incrociare lo sguardo divertito di Nico Robin. Lasciando che il silenzio parlasse per entrambi, tornò ad occuparsi della propria medicazione.
- No, grazie. – poche parole che scivolarono impetuose nell’oscurità della stanza, giungendo alla mente dell’archeologa quasi come un respiro forzato.
Nonostante conoscesse ben poco di quel ragazzo, non dovette faticare eccessivamente per capire che si trattasse dell’ennesimo gesto di galanteria forzatamente imposto dal proprio modus vivendi. Nulla che fosse partito dal suo cuore.
Unicamente un lento processo di assimilazione della sua presenza, portato a compimento con quelle deboli parole. Non vi era sentimento nella sua voce, stranamente atona.
Né espressioni su quel volto che in ogni situazione riusciva sempre a portar alla luce ciò che il suo spirito provasse.
Quello non era nient’altro che un semplice manichino, riflesso vuoto del Sanji che aveva imparato a conoscere. E ad apprezzare per un’ indole che raramente in un pirata era riuscita a scorgere.
Un predone gentiluomo. Tst.
Se ai tempi della sua convivenza forzata con Crocodile le avessero anche solamente accennato di un personaggio simile, probabilmente non avrebbe esitato a rider in faccia allo sfortunato avventore.
I pirati non sanno amare. Sono nati per depredare, non per provare sciocchi sentimentalismi.
Era una lezione che ancor prima di apprendere dalle semplici dicerie popolari era riuscita ad imparare sulla propria pelle.
Un predone gentiluomo.
Eccolo seduto al suo fianco, seppur abbandonato ad interiezioni verbali non proprie ad una persona del suo stampo.
- Mi farebbe piacere poterti aiutare. Davvero – aggiunse osservando lo sguardo vacuo del cuoco.
- Lascia perdere Robin. Rischieresti di sporcare di sangue le tue splendide mani -
- Non sarebbe di certo la prima volta. – e probabilmente, in quel particolare frangente di mare, dove anche la vita è una lotta quotidiana, neanche l’ultima.
Prendendo con grazia la mano affusolata del cuoco fra le sue, la portò in grembo, staccando poi lentamente alcune strisce sottili di cotone. Delicatamente le sue dita incontrarono le nocche bianche e quasi febbricitanti del ragazzo, risvegliandole con tocchi leggeri.
- Sei teso. - osservò, passando le bende attorno alle vene in rilievo del suo palmo.
- Non sopporto l’idea di doverti scomodare per un’inezia come questa. Una donna non dovrebbe conoscere il calore del sangue o il suo odore. –
- E la pelle di un cuoco la lama del proprio coltello... –
Uno a zero.
In un’ammissione quasi implicita, Sanji si ritrovò a constatare di aver già perso contro la perspicacia dell’archeologa. Del resto non avrebbe potuto far altrimenti.
Fedele ai propri principi sino alla fine.
- C’è sempre la prima volta, lo sai. Un giorno anche tu magari potresti smetterla di chiamarmi cuoco e pronunciare il mio vero nome, no? - la donna sorrise.
Pari.
Comprendere il motivo del suo comportamento e del proprio distacco quasi forzato era da sempre stato uno degli obiettivi principali della ciurma. Il motivo per cui si ostinasse a chiamarli usando semplici appellativi, poi, il punto d’orgoglio del loro capitano.
In una famiglia certe cose non dovrebbero esistere. E loro erano una famiglia.
Creata dal nulla e plasmata su trascorsi spesso indecorosi, ma una famiglia.
La sua famiglia.
Formalità simili le avrebbe dovute lasciare ancorate al proprio passato. Così come gli altri, per il benessere comune, erano riusciti a metter a tacere fantasmi che oramai erano arrivati ad urlare sin troppo violentemente.
- Stai dirottando il punto della conversazione, signor cuoco... -
- E tu ignorandone la causa. – si limitò a replicare pacatamente, nascondendo a fatica una sottile espressione di vittoria fra i bei zigomi del volto.
Rimasero in silenzio, interrotti unicamente dal rumore delle garze mosse attorno al polso del ragazzo.
- Cosa ti sta accadendo, Sanji? – chiese infine, sussurrando a fatica un nome che sin troppo spesso era stato pronunciato in quelli ultimi tempi sulla nave. Sempre di nascosto, quasi come se il semplice dirlo portasse con se una propria maledizione.
Il cuoco sorrise.
Un suono freddo, viscido. Sofferente e malinconico, che di gaudio conservava unicamente una semplice astrazione. Affondò pesantemente le mani nelle tasche, quasi come se il nasconderle avesse potuto rendere il suo intero organismo immune allo sguardo penetrante di lei.
- Nulla. – sussurrò infine.
- Nulla di importante... – lasciò muovere le dita affusolate lungo una chioma lasciata indomata da tempo oramai immemore.
Ciò che provava non era importante, lo avrebbe dovuto capire.
Ed accettare.
Ma allora perché?
Perché gli risultava così dannatamente difficile comprenderlo?
Ed ammetterlo.
- Ognuno di noi ha un talento, signor cuoco. Non sta bene cercarne altri che non ci appartengano. – la porta della cucina si aprì con un suono lento, mentre la figura esile della ragazza veniva richiamata dalla tormenta sul ponte della nave.
- Ed il saper mentire rientra fra le doti del cecchino, non di certo fra le tue. –
- E cosa saprei mai fare io? –
- Ciò che più di ogni altra cosa temi, Sanji : amare. –
Tre ad uno.


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Capitolo 5
*** 5. Smells and Memories ***


5. Smells and Memories
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Sfere immobili di brina riflessero il movimento felino del suo polso lungo il vetro della camera. Stringendosi istintivamente nell’abbraccio di calore portato dal cappotto che aveva indosso, Nami levò pensierosa lo sguardo al cielo.
Un’altra bufera, di impeto ben maggiore di quella affrontata solamente pochi giorni prima, a breve li avrebbe raggiunti. Sarebbe stata unicamente questione di tempo.
Tempo.
La sola cosa che in quel momento non avessero.
Continuava a scorrere inesorabile, segnando di giorno in giorno il lento trascorrere delle loro esistenze e portando, al passare di ogni singolo istante, mutamenti che raramente in passato avrebbero accettato.
Ed aggiungendo pesi sempre maggiori ad un cuore che a fatica ne avrebbe sopportati altri.
- Avresti odiato questo tempo. Io lo so. –  chiuse il coperchio minuto della penna mentre nell’aria l’odore acre dell’inchiostro incominciava a prender forma, delineando nella stanza una linea astratta di fragranze più o meno cariche di alcol.
Inspirò parte di quel profumo unito al sapore amaro del tabacco appena bruciato. Ne sentì il volo leggero sulla pelle contratta del volto, portato dal vento freddo proveniente dal nord.
- E’ rilassante, vero? – rabbrividì al suono distaccato della voce del cuoco.
Apatico come il suo modo di essere e di scorgere la realtà. E gelido come uno spirito domato oramai da tempo immemore.
Qualcosa che lei non avrebbe mai potuto possedere.
- Cosa? -
- Il suo odore. –  quasi inconsciamente si ritrovò a pregare pur di non incrociare uno sguardo erede oramai della sua morte interiore. Non lo avrebbe potuto sopportare ancora.
Perché oramai ne era certa, Sanji era morto.
Di un dolore innaturale, scaturito da cause che nessuna medicina avrebbe più potuto risanare. E che forse neanche lei avrebbe mai potuto comprendere.
Ed accettare.
- Si, lo è. –  le sorrise, aspirando l’ennesima boccata del sottile gas grigio scaturito dalla fiamma della sigaretta.
Presto lo avrebbe ucciso, di questo oramai ne conservava l’assoluta certezza, ma non avrebbe potuto farci ugualmente nulla. In sin dei conti il fumo non era l’unica dipendenza destinata a portarlo ad una lenta agonia.
La più evidente forse, ma non la sola.
- Fra poco è pronta la cena. Credo che ti convenga muoverti, prima che Rufy decida di dar fondo alle intere provviste. Ne abbiamo solamente per due mesi, non ci dovrebbe impiegare molto... – spense la sigaretta con il tacco della scarpa, roteando impercettibilmente sulla gamba sinistra. A segnarne il movimento un’espressione di fastidio abilmente celata dagli alti zigomi del volto.
Nonostante tutto, ancora quella maledetta spina continuava a dolergli. Rimase immobile, speranzoso di poter esser apparso poco più che un’ immobile entità allo sguardo della navigatrice.
Pregando di dover evitare spiegazioni. Dolorose.
E di non intravedere le sue lacrime di rimorso per aver scoperto di esser l’unica fautrice di una menomazione destinata probabilmente a segnarlo per sempre. Sin nel profondo.
- Hai il suo stesso profumo, sai? – rallentò il proprio passo sino a tramutarlo in un silenzioso sussulto lungo il legno del pavimento, amplificato dall’eco della camera.

Questo non lo avresti dovuto dire, Nami. Non lo avresti dovuto ricordare, ragazza.

Continuò a fissarla immobile.

I solitari non sono nati per vivere in coppia. Non sono stati messi su questo mondo per rievocare ricordi di un passato che preferirebbero cancellare.

Le dita affusolate incontrarono il tessuto madreperlato del completo, scivolando con grazia nelle tasche dei pantaloni.

Di un’infanzia tua, di cui loro hanno persino dimenticato il veloce trascorrere.
Qualcosa di cui ora la tua coscienza sente un’innaturale bisogno, pregando quasi pur di riaverlo indietro.
O anche solo pur di riuscire a scorgerlo in tratti che riescano a rifletterne seppur in parte, la bellezza ormai dimenticata
.

La fiamma dell’accendino corteggiò dolcemente la carta della sigaretta. La prese con se, illuminandone i bordi sottili.
Ed offuscandone la vista con una nube leggera.

I solitari non hanno passato, ragazza. La loro mente ha preferito eliminarne il ricordo.
Ed il proprio corpo cancellarne i segni
.

- Non cercare di colmare il vuoto portato dalla scomparsa di Bellemere con me, Nami. Poche paglie e l’aroma di qualche mandarino sulla pelle non mi rendono come lei. –

Fallendo. E pregando pur di non dover incontrare altri affetti da dover presto bandire dai propri ricordi.

- Non fanno di me il tuo protettore. –

E dal proprio cuore.

La porta si chiuse, carezzando gentilmente le spalle magre del cuoco.
- Famiglia... basta.
Non ne posso più di averne una. –

 I solitari non hanno origini, sono nati dal vento.
O da una burrasca. Ma tu tutto questo lo ignori, 
figlia mia.
Vedi solo un ragazzo, come te e ritratto di molti altri. Vedi la sua ambizione e scorgi chiare le sue intenzioni.
Non percepisci la goccia abbandonata dalla furia della tempesta. Lasciata indietro dalla propria famiglia.
Non senti la voce di un nomade, ma unicamente il suono fluido generato dalle labbra del tuo giovane spasimante.
Non intravedi un solitario, ma il Sanji di sempre.
Ignorando che in realtà si tratti della stessa persona
.



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Capitolo 6
*** 6. White and Gray ***


6. White and Gray
________

La vita di un intrepido guerriero del mare è scandita da attimi cruciali, prestabiliti da un codice che di certo non necessita di esser scritto. Si nasce chiamati dall’odore dell’oceano e non appena la mente diviene abbastanza matura da saper distinguere il nord dal sud ed una polena da una mappa si intraprende un percorso segnato già tempo nel proprio codice genetico.
Poi è un semplice susseguirsi di avvenimenti.
Ed Usop sapeva che la morte non fosse nient’altro che il degno lieto fine di un’esistenza donata alla brezza dell’oceano. Lo aveva accettato, seppur inconsciamente.
Non credeva semplicemente che potesse giungere così in fretta.
- Gomu Gomu No Piiiiistooool! -
E soprattutto per mano del proprio capitano.
Flesse i tendini delle gambe preparandosi a schivare il colpo. Ma lo slancio dato alla scarica di pugni fu ben più rapido dei muscoli intorpiditi del letargico cecchino.
Ed allora fu un volo lineare, perfettamente perpendicolare alla parete della nave. La sua conclusione non fluida quanto il lancio aveva lasciato immaginare.
- Acc... è successo ancora una volta! Mi dispiace, Usop! – ovattate dal rifascio di legno contro cui il capo del ragazzo era andato a scontrarsi, queste scarne parole fecero scivolare le scuse di un elettrizzato capitano.
- Dannato pezzo di idiota! Volevi farmi secco?! Ci è mancato tanto così! – scuotendo il capo nel vano tentativo di liberarsi di ciò che di integro era rimasto della prua, il cecchino fece il proprio ingresso in cucina.
Sporco di fuliggine e segatura, con probabili fratture interne e da un’entrata che non era data dalla porta della Sunny. Ma integro.
Ed era questo ciò che contava. Bè, per lo meno ciò che contasse per Rufy.
- Ti ho già chiesto scusa, no? E poi non è di certo colpa mia... –  socchiudendo gli occhi volse lo sguardo verso la zona antistante la cucina della nave, crivellata da colpi di ciò che a prima vista sarebbero potute apparire come cannonate sparate senza troppa precisione. – non avevo mai avuto a che fare con nulla di più resistente di questa cosa. – aggiunse infine, facendosi strada a fatica nel polverone di farina e fumo portato alla luce dai colpi scagliati poco prima.
- Effettivamente... – Usop prese l’oggetto, soppesandolo accuratamente.
Le dita si strinsero avidamente attorno al bordo annerito, cercando di spezzarne i contorni. Ma la sola cosa che quel gesto riuscì ad incidere furono le unghia del cecchino. E neanche sin troppo teneramente.
- Cosa ne facciamo? -
- Cosa ne vorresti fare, Rufy? – ribattè il giovane, tramutando abilmente un’espressione di pura sofferenza nello sguardo di un uomo di mare, che su dolori simili aveva ramificato le proprie conoscenze.
- E’ inutilizzabile. – concluse infine, alzando le spalle in segno di resa.
- E quindi? –
- Quindi prendi dell’altra farina, ci tocca fare un’altra torta. E questa volta... – si soffermò, rivolgendo al proprio capitano uno sguardo impenetrabile – ...augurati di non bruciarla. Io a Nami mandarini non ne rubo più! -


La brezza scostante della sera si fece spazio tra le lussureggianti fronde degli alberi. Penetrò sino in profondità fra le foglie portandone allo scoperto un odore acre e vagamente amarostico.
Ne inspirò il profumo, inebriandosene la mente.
- Questo mese abbiamo avuto una splendida fioritura. – le dita affusolate sfiorarono amorevolmente alcuni boccioli appena schiusi, quasi come se in attesa che qualcuno ne aprisse la corolla. Si soffermarono a lungo sul gambo sottile, valutandone l’ampiezza e la profondità. Era da lui che sarebbe dipeso il benessere del frutto.
Sapere anche questo faceva parte del suo compito.
Una scorza gelida, appena percepibile fra i tanti petali della pianta la fece sussultare istintivamente. La prese fra le mani, assaporandone un profumo oramai sin troppo familiare.
Il primo mandarino della stagione.
- Ho detto fuori di qui! – già duramente indebolita dai trascorsi di quel pomeriggio, la porta della cucina non riuscì a resistere ulteriormente alla pressione inferta dal colpo del cuoco.
Staccandosi con un suono roco e sofferente finì catapultata contro la polena della nave, ammortizzata in parte dai corpi semisvenuti del capitano e del cecchino di bordo, messi probabilmente non molto meglio del sottile pezzo di legno.
Alzandosi e trascinando il compagno per il lungo naso, Rufy salutò allegramente la navigatrice.
- Ennesimo colpo sventato? –  chiese pigramente.
- Come sempre! – scosse la testa, reprimendo a fatica un sorriso di pura comprensione.
In sin dei conti non aveva alcuna intenzione di incoraggiarli in insegnamenti che potessero mettere a repentaglio le loro vite, e mettersi contro un cuoco in mare, come Sanji si ostinava sempre a ribadire, equivaleva a tentare il suicidio. Una prospettiva che per il futuro re dei pirati non sarebbe neanche dovuta esser annoverata fra le possibili scelte.
- Pozzi senza fondo, ecco cosa sono! Buchi neri con le gambe! Piraña con le orecchie! – il suono smorzato del vento non permise alla navigatrice di ascoltare l’ultima sentenza destinata a concludere l’accurata descrizione anatomica dei due compagni di viaggio.
Ma un appena percettibile – teste di... – sembrò lasciare ben poco spazio all’inventiva.
Scese dal campo con un salto aggraziato, scivolando furtiva nella cucina di bordo. Anni passati in strada le avevano insegnato a render il proprio corpo impalpabile quasi quanto la brezza e rapido come il respiro di un animale.
Non temeva di poter far rumore, conosceva oramai sin troppo bene il silenzio per credere che la potesse più tradire. In passato era stato il suo amico più fidato.
L’unico che non l’avesse mai abbandonata.
Le dita si strinsero attorno alla buccia del frutto appena colto, graffiandone appena la dura pelle.
Dio se gli era mancato.
Non credeva che il suo spirito potesse desiderare così ardentemente di veder qualcosa sino a quando non scorse Sanji immobile fra i curati fornelli di ceramica.
Aveva quasi dimenticato la sicurezza di quei gesti, ripetitivi nel loro susseguirsi ma pur sempre colmi di una passione che mai più avrebbe pensato di poter più percepire ardere nel suo sguardo. Lei la sentiva.
Vibrare attorno al suo corpo e rapirne mente ed animo. Farlo danzare assieme alla fiamme, sussurrarne quasi al calore.
Lei riusciva a percepirlo.
- La cena non è ancora pronta, Nami-San. Mi dispiace ma temo che ci vorrà ancora mezz’ora. -  lo sentì sussurrare appena quelle parole, quasi temendo che il loro fluire potesse rovinare la bellezza di quelli attimi.
La dolcezza usata nell’accentuare il suo nome le fece intuire quanto la rabbia mostrata poche ore prima non fosse stata nient’altro che una sfuriata fittizia, chiamata probabilmente a coprire molto più che semplice nervosismo.
- Come hai capito che ero io? –
- Dal tuo profumo. – fu la laconica risposta del ragazzo – Odori sempre di terra ed un cuoco certi sapori sa riconoscerli a pelle – le sorrise, nascondendo parte di quel gesto sotto un ciuffo paglierino e leggermente bruciacchiato.
- Per difendersi Usop ha provato ad usare un dial riscaldatore... – asserì, distogliendo gli occhi da uno sguardo che di interrogativo non conservava unicamente più la semplice allusione – ...l’illuso. – aggiunse infine non senza una punta di sarcasmo.
Le mani affusolate della ragazza si posarono sulla ciocca annerita, cercandone i fili attorcigliati dal calore.
- Devo ammettere che il grigio ti dona! – le sue labbra si incurvarono impercettibilmente, portando alla luce un sorriso indesiderato e maledettamente naturale su quel volto disteso.
La guardò ancora una volta negli occhi, cercandone la forza pur di riuscire a parlarle come una volta senza temere più nulla dal proprio spirito. Sperando di riuscire a metterlo definitivamente a tacere in una battaglia che sin’ora aveva sempre vissuto come eterno sconfitto.
- Nami, per questo pomeriggio mi dispiace, io... – lasciò che le parole gli morissero sulla pelle, schiacciate appena dal dito della navigatrice ora premuto contro la sua bocca.
- Non devi dire niente. Va tutto bene... – un sospiro delicato, impercettibile quasi come la brezza.
- No che non va bene. Io ti ho trattata malissimo, non ti ho saputa... –
- Sanji–kun ti ho detto che non ti devi preoccupare. –
- Mi conosci, sai che non riuscirei. Anche se a dirmelo fossi tu. –
- Non devi. – le mani si strinsero attorno alle sue spalle, cingendole in una morsa leggera.
Gli occhi del ragazzo si chiusero, cogliendo come ultimo frammento di realtà l’immagine sorridente della navigatrice, ora stretta a lui.
Poi fu tutto sin troppo fulmineo perché riuscisse ad accorgersi del mutamento attorno a se.
Il rumore sordo di qualcosa rotto violentemente ed una nube scura attorno a se. Un intenso odore dolciastro nell’aria ed infine una risata.
Cristallina come l’acqua.
- Le scuse erano ben più che superflue, Sanji–Kun. Ma ti ringrazio ugualmente per avermele fatte! – scosse la testa nel vano tentativo di liberare la chioma dalla fitta coltre di farina ora sparsa lungo i capelli sottili. Alcuni granuli scivolarono sul completo scuro, macchiandone il cotone con aloni bianchi e filamentosi.
Guardò con rabbia la ragazza con ancora in mano la prova del delitto.
- Era l’ultima confezione. Nella prossima isola dovremo far rifornimento... -
- Tu! –
- Te lo ha mai detto nessuno che anche il bianco ti dona? –
- Tu! – ripetè nuovamente, scrollando la zazzera chiara dagli ultimi residui di polvere.
- Tu. Sei. Morta. – fu l’ultima cosa che riuscì a dire prima di venire travolto dal proprio capitano, attratto dall’odore inconfondibile della farina appena sparsa.
Si rialzò con grazia, facendo scivolare le mani nel completo oramai ridotto a poco più di uno straccio, e portandone fuori una paglia piegata dalla pressione.
La portò alle labbra, accendendola con un gesto meccanico della mano.
- Maledetto ingordo. – sussurrò, non senza una punta di quell’affetto fraterno che aveva sempre caratterizzato il suo modo di fare nei confronti di Rufy.
Sorrise.
In sin dei conti anche il fratricidio è un crimine, e probabilmente gliel’avrebbero fatta pagare anche per quello sul plotone di esecuzione.
Si strinse nelle spalle.
La marina avrebbe dovuto lavorare ben più duramente di quanto stesse facendo per ottenere la sua testa, certe cose in fondo poteva ancora permettersele.
Sorrise ancora una volta.
Adesso la strage avrebbe potuto avere finalmente inizio.


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Capitolo 7
*** 7. Apples and Normality ***


7. Apples and Normality
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- Bene... -
- Bene. – ed il silenzio potè riprendere tranquillamente le redini della conversazione.
In condizioni normali lo avrebbe persino potuto accettare benevolmente, in sin dei conti non gli era mai dispiaciuto. Ma al cuoco bastarono pochi indizi per capire che quelle non si trattavano di certo di condizioni di pura normalità.
Del resto quale folle avrebbe dato questo appellativo allo status di due uomini chiusi da soli in una stiva, al buio ed oltretutto con secchi e manici di scopa a render lo spazio vivibile ancor più esiguo?
Probabilmente nessuno. O quasi.
Infatti, nonostante tutto, Sanji si ritrovò piacevolmente sorpreso nell’udire che per Usop quella situazione non era nient’altro che – uno spiraglio di vita vissuta - , e quindi perfettamente rientrante nei suoi assurdi canoni di quotidianità.
- Spiegami che diamine ci facciamo qui. – e il qui era il luogo prestabilito dal resto della ciurma dove attirare Sanji e tenerlo occupato sino alla fine dei preparativi. Qualsiasi posto sarebbe potuto andar bene.
Ovviamente qualsiasi luogo lontano dalla cucina, dalle camere dei ragazzi,  dal salone, dal bagno e dall’infermeria.
Con Rufy a dirigere tutto avevano preferito esser previdenti.
Le scelte rimaste al cecchino si erano ridotte notevolmente. Praticamente dimezzate.
E così alla fine si era ritrovato costretto ad optare per una camera angusta, stretta e colma di polvere da sparo. Piccolo particolare che precludeva al cuoco l’unica possibilità di distendere i nervi e distogliere la propria attenzione dal volto del compagno.
E soprattutto dall’invitante pensiero di renderlo irriconoscibile a suon di calci.
Si passò una mano lungo la barba ispida del mento, sforzandosi di tramutare l’ennesimo ghigno di odio represso in un sorriso benevolo.
E fallendo ancora una volta a giudicare dall’espressione dipinta sul volto dell’amico.
Sbuffò.
Peggio di così le cose non si sarebbero proprio potute mettere.
- Volevo parlarti. Di noi. -
All’orrore evidentemente non vi è mai un limite. Possibile che in quasi diciannove anni questa sottile legge non fosse ancora riuscita ad insinuarsi nella sua mente?
Le sue labbra si schiusero leggermente facendo cadere una sigaretta tenuta in bilico sino a quel momento, quasi come nella spasmodica attesa che qualcuno gli desse il libero via per accenderla. Cosa che, su quella nave perlomeno, rasentava il limite dell’impossibile.
Perché Sanji sapeva bene che se c’era qualcosa che i suoi compagni odiassero ancor più dei suoi siparietti dinanzi ad una bella ragazza, era la quantità di tabacco mosso da tutto quel turbinio di cuori.
E loro detestavano i suoi siparietti.
- Scusa, probabilmente l’eco non mi ha permesso di capire bene la domanda. Potresti ripetere? -
- Vorrei parlarti di noi. –  con voce sicura il cecchino ribadì un concetto che sin troppo chiaramente aveva trovato spazio nella mente del cuoco.
Doveva tergiversare, era la situazione a richiederlo ancor prima che la sua stessa indole. E lui aveva oramai abbracciato la nobile causa che i suoi compagni gli avevano senza alcuna esitazione affidato.
Era un guerriero, diamine. Ed un combattente a simili tattiche è più che avvezzo.
Solo quando le suole zigrinate di Sanji incontrarono il profilo tondeggiante del proprio naso si rese conto che probabilmente, almeno in sua presenza, simili astuzie sarebbero dovute esser messe da parte.
- Nhn... gh... ‘ndi... tu. – osò controbattere, mentre le labbra si piegavano incurvate dalla pressione della scarpa.
- Non mi interessa che non è questo ciò che intendevi!! Non lo avresti dovuto dire e basta! Dannato maniaco di un naso lungo!! – in condizioni normali avrebbe ammirato l’ardore di un uomo nel riaversi da un trauma di così grande portata in un lasso di tempo praticamente nullo. Ma con il piede del compagno conficcato lungo la trachea ed i polmoni schiacciati dalle mani del giovane, Usop si ritrovò a constatare che quella situazione di normale non conservava neanche la semplice astrazione.
Come tutto quell’assurdo piano del resto.
- Dannazione, Sanji. Mi stavi quasi per fare secco! Dovresti moderare un po’ di più la tua forza ragazzo mio, almeno con i tuoi compagni! – finalmente libero dalla morsa del ragazzo potè tornare con lo sguardo ad ispezionare la nave.
Doveva pure esserci qualcosa da fare lì dentro. Qualsiasi cosa in grado di tenerli occupati mentre il resto della ciurma finiva quei maledettissimi preparativi.
Un gruppo ben organizzato in sin dei conti non ci avrebbe impiegato più di mezz’ora. Collaborando e seguendo una rigida tabella di marcia il lavoro sarebbe poi venuto da se.
Persino un branco di scimmie non ci avrebbe messo più di tanto.
Perché allora dopo quasi due ore e mezza nessuno si fosse fatto sentire era un dettaglio che la sua mente aveva voluto forzatamente rimuovere. Prima o poi avrebbero finito.
Probabilmente molto più poi che prima, ma lo avrebbero fatto.
- Ciò di cui ti volevo parlare era... ecco, vedi... - il tempo incombeva, ed Usop sapeva che non avrebbe potuto più trattenerlo senza niente da offrirgli.
- Si? –
- L’universo femminile! – Sparò infine, senza pensarci troppo. -  So che sei un massimo esperto e speravo che magari potessi darmi qualche dritta. – una storia plausibile e sufficientemente umiliante sul perché l’avesse voluto convocare, in privato, in quello maledetto sgabuzzino. Nulla di meglio per tenerlo inchiodato in quella dannata camera ancora abbastanza a lungo.
Difficilmente sarebbe potuto risalire alla realtà, era un attore nato.
Lo sapeva.
- Tutto qui? – si sentì chiedere infine, in un tono stranamente apatico per un personaggio come Sanji.
Deglutì nervosamente, preparandosi al peggio. In sin dei conti anche ai grandi attori capita di sbagliare.
Seppur con conseguenze decisamente meno disastrose.
Chiuse gli occhi preparandosi al peggio.
- Avresti anche potuto dirmelo prima, amico. Su avanti, siediti che cominciamo la lezione! -
Usop ne era certo, prima o poi quelli avrebbero finito.
- Il bacio alla francese si chiama così perché trova la sua massima interpretazione in Francia, la patria dell’amour... -
Ed allora gliel’avrebbe fatta pagare cara. Molto cara.

- Dai, cosa ti costa? -
- Credo la mia vita sia un prezzo ragionevole, Rufy. –
- Ma almeno un assaggino... ci abbiamo messo così tanto a farla! –
- Per l’ultima volta: no. – nuovamente le mani della navigatrice cercarono di distanziare la composizione così gentilmente offerta dal proprio capitano. Una ricetta innovativa che, se non fosse stato per l’esistenza di quella sottile pecca dell’uomo chiamata "buon gusto" , avrebbe persino potuto riscuotere un discreto successo fra i compagni.
- E’ per via del colore vero? – un acceso verde mela marcia che, dati gli ingredienti oramai sopraccitati dalla ricetta, ancora sfuggiva per provenienza e locazione.
- Oppure è per l’odore? –  di cui la mela gli aveva donato unicamente il semplice marciume.
- O per la consistenza? Chi ti dice che magari non si possa anche solidificare, eh!? –  e con quest’ultima affermazione della mela non rimase che un anziano ricordo.
Stancamente Nami prese posto dinanzi a ciò che rimaneva di un fallito esperimento culinario. Un ammasso informe, prevalentemente gelatinoso ricambiò il suo sguardo scivolando ulteriormente lungo i bordi della teglia, e sistemandosi alla meglio sul tavolo marmoreo della cucina.
A sancirne la fine dei movimento un biascicato blob, appena nato fra i rivoli verdognoli.
- Cosa dovrebbe essere? –  chiese infine.
- Una torta ai mandarini. – parte del composto cadde sul pavimento corrodendo qualche asse ed innalzando un sinistro polverone ambrato.
- Rufy... – rimase in silenzio per alcuni istanti – ...dai il cambio ad Usop. Alla torta ci penso io. – .
Noi, fece eco un’impercettibile pensiero nella sua mente.
- Come una volta, Bellemere. – sussurrò rivolta all’ indistinto silenzio della camera.



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Capitolo 8
*** 8. Broken ***


8. Broken
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La notte insorse fiera, portando sul proprio trono di stelle una luna opaca e nascosta in parte dalla luce degli astri circostanti. L’ennesimo giorno era giunto a termine, e con lui anche parte della malinconia che la prospettiva di un nuovo mattino faceva scaturire, con una naturalezza rasente lo sfacciato, nel cuore della giovane navigatrice.
Presto le tenebre avrebbero preso il sopravvento sulla nave, e con loro anche una pace che raramente a bordo della Sunny sarebbe potuta esser scorta.
Probabilmente era anche questo il motivo per cui anni prima aveva deciso di intraprendere quell’assurdo viaggio in mare con Rufy e gli altri.
Lei odiava la pace.
Portava con se, in dono a chiunque ne volesse fare largo uso, un silenzio che difficilmente il suo animo avrebbe più sopportato. Qualcosa che, nonostante lo scorrere del tempo, ancora riuscisse a ferirla con una semplicità disarmante.
Lo stesso silenzio che era succeduto alla morte di Bellemere ed al fragore dello sparo.
Lo stesso che l’aveva accompagnata durante il proprio ritorno a Coconut Village e che adesso, leggiadro ed aggraziato come ogni altra volta, la stava avvolgendo nell’immensità di quella cucina.
Lei odiava il silenzio. Non poteva farci nulla, era qualcosa che ancora non riusciva a controllare.
- Farina. – scandì quel suono con un tono innaturalmente alto per esser pronunciato come semplice annotazione personale. Ignorando che probabilmente anche quel semplice nome facesse parte della strategia elaborata dalla propria mente pur di non tornare nuovamente vittima della pace.
E delle proprie riflessioni.
Pensieri facilmente riconducibili ad un unico volto, ora segnato da sempre più frequenti espressioni di fastidio. Perché Nami sapeva anche questo, nonostante quel dannato cuoco avesse fatto il possibile pur di riuscire a tenerglielo nascosto.
I suoi passi erano divenuti sin troppo pesanti per sperare di non esser uditi. Ed allora non aveva potuto più far nulla.
I suoi occhi erano finiti irrimediabilmente con il posarsi sulle gambe del ragazzo e su un movimento di rotazione che alternativamente erano costrette a compiere pur di riuscire a garantirgli una perfetta aderenza al terreno. Qualcosa che da dopo lo scontro con Jyabura era divenuto sempre più evidente.

- Mi serve della farina. –

Aveva usato il polpaccio per parare un colpo destinato a lei ed al cecchino, salvandoli nuovamente da una fine che per troppe volte avevano sfiorato.
Come a Skypiea.

- Dove l’ho messa?

Come a Drum, luogo che aveva sancito irrimediabilmente la lesione alle articolazioni del giovane.
La forza immane della valanga lo aveva travolto sommergendolo interamente.

- Dov’è?

Lo aveva portato contro quella maledetta scarpata, facendo così incontrare i delicati tendini della colonna e delle gambe con le rocce acuminate della vetta.
Aveva rischiato la paralisi per salvarle la vita.

- Dov’è dannazione?!

Ed ora ciò che erano riusciti a rimandare per così a lungo avrebbe finalmente toccato il proprio culmine, annientandolo. E la sua anima con lui.
Non lo avrebbe potuto accettare, ma quel silenzio non le lasciava scampo. Avrebbe dovuto arrendersi al suo corso e lasciarsi nuovamente condurre da mani che non erano le sue.
- Ti muovi con troppa irruenza. – dita che adesso avevano incontrato i suoi polsi, guidandoli dolcemente lungo la superficie marmorea del tavolo.
Sorrise alzando il capo, ed incontrando i suoi occhi chiusi. Lo faceva sempre quando era concentrato.
O semplicemente quando il battito del proprio cuore diveniva sin troppo veloce per esser controllato da un semplice riflesso incondizionato della mente.
E Nami riusciva quasi a sentirlo premere contro la sua schiena, ormai lo percepiva indistintamente.
Aiutava ad infrangere le barriere sempre meno spesse di quel maledetto silenzio.
- Non dovresti essere qui... – sapeva di dover essere arrabbiata, forse ancor prima con quelle due zucche vuote che con il ragazzo, ma non vi riuscì ugualmente.
Ed allora si limitò a sorridere, abbandonandosi ad un gesto che unicamente in sua presenza conservava l’assoluta certezza di poter compiere senza alcuna fatica.
Sorridere di cuore.
Era la sola condizione che Genzo aveva imposto a quella banda di scalmanati pur di lasciarla partire con loro. E con il cuoco così vicino Nami riusciva sin troppo bene a tener fede a quella promessa.
- Neanche tu se per questo. Il tuo rapporto con i fornelli non è mai stato particolarmente idilliaco, dico bene? -  l’odore acre della carne bruciata era stato difficile da togliere dai suoi completi.
Per le macchie d’olio invece non vi era stato più nulla da fare.
- Qualche pranzo bruciato non ti consente di criticare il mio talento culinario! –
- Io credo che cinque siano sufficienti per esprimere un giudizio. -  ancora ricordava con affetto quei vestiti.
- Dovresti smetterla di criticare gli altri, dannato perfezionista di un damerino. – lo criticò aspramente, seppur faticando pur di riuscire a tenere a bada l’ennesimo gesto involontario delle proprie labbra.
Ed allora fu un movimento fluido verso l’alto, ben delineato sui morbidi zigomi del volto. Qualcosa che penetrò nel cuore di quel ragazzo, facendolo sobbalzare quasi inconsciamente.
La sua marmellatina.
Non aveva in sin dei conti tutti i torti ad ostinarsi a chiamarla con quello stucchevole appellativo.
- E tu di frequentare bifolchi del calibro di quel dannato marimo. Un tempo non avresti assalito un povero panetto di burro con una tale ferocia. E soprattutto... – e su quella parola si soffermò qualche istante, il tempo necessario di far scivolare la lama del coltello dalle mani della navigatrice alle proprie – ...non mi avresti mai chiamato con quel nome. – concluse stringendo amorevolmente l’impugnatura del manico fra le lunghe dita.
Fu un gesto quasi convulso, improvviso.
Le labbra si piegarono verso l’alto, mentre un sottile sospiro di sofferenza uscì dalla bocca leggermente aperta. Un attimo.
Una frazione di secondo antecedente all’inferno.
La mano si aprì sul marmo del tavolo, lasciando scivolare l’acciaio dell’utensile lungo la ciotola in ceramica. E mentre le bende venivano sfiorate dalla pelle vellutata di lei, pensieri si rincorrevano funesti nella sua mente.
Avrebbe visto quei tagli, naturale che le domande sarebbero poi sorte da sole. Come... quando... perché... le solite poche parole in grado di annientarlo.
Ed allora avrebbe dovuto rispondere. Perché lui avrebbe risposto, lo sapeva sin troppo bene oramai.
Era ciò che sarebbe susseguito a quelle questioni che ignorava. E che riusciva a terrorizzarlo.
Ritrasse la mano dal suo palmo, portandosela avidamente in tasca.
Non avrebbe dovuto sapere.
- Sanji-kun... – la sentì sussurrare infine.
Chinò il capo, distanziandosi dal calore di quel corpo. Fautore della sua condanna e della propria salvezza.
Forte come una tempesta e fragile a tal punto da poter finire inesorabilmente spezzato se stretto con forza. Qualcosa che lui non aveva.
O che, ancor più semplicemente, lei gli aveva portato via con un semplice sguardo.
- Anche ai migliori capita di sbagliare. – una scusa effimera, dannatamente mal recitata.
- Quelli non sono degli errori di calcolo, lo sai. –  
- Non puoi saperlo, Nami-San – ma per quanto mediocre, un attore non getta mai la propria maschera.
E lui era un commediante, seppur oramai alla fine.
- Smettila di prendermi in giro! –
- E tu di vedere tragedie dove non ve ne sono. Va tutto bene! Mi sono semplicemente tagliato mentre lavoravo ad un piatto, non è in sin dei conti la fine del mondo. Può capitare a chiunque! –
- Cazzo Sanji, finiscila! – fu un attimo.
Un maledetto secondo che la vide scagliata contro il suo corpo, cancellando in un unico colpo l’affetto ed i buoni sentimenti che una semplice stretta era riuscita a portare allo scoperto.
- Credi che sia realmente così ingenua? Eh?! – una spinta.
- Pensi di potermi mentire come fai con gli altri?Pensi davvero che io non riesca a leggerti dentro? – un’altra ancora che lo fece quasi cadere lungo il ripiano del tavolo. Era la sua rabbia.
Erano le sue frustrazioni che venivano finalmente allo scoperto, tutte insieme, muovendosi quasi con il terrore che viaggiando da sole non lo avessero potuto ferire sufficientemente.
Ma si sbagliavano. Di gran lunga.
Ognuna di quelle parole lo colpiva. Molto più dei pugni o delle ferite, ancor più di quello sguardo che adesso gli stava quasi trapassando l’anima.
- Cosa ne vuoi sapere tu di me, Nami? – chiese infine.
Le difese si erano finalmente innalzate, proteggendolo da quel sentimento che lentamente lo stava uccidendo. Ed allora fu un attacco improvviso, violento.
- Credi che basti guardarmi per capire cosa provi? -
Distruttivo.
- Io credo che in una famiglia basti molto meno per comprendere i sentimenti dell’altro. – e loro erano una famiglia.
La sua famiglia.
Qualcosa che non aveva mai posseduto e che ora la vita le stava offrendo come un premio silenzioso a tutti gli ostacoli superati. Molto più importante di un misero tesoro, impalpabile come la brezza.
E sua.
- Devi smetterla Nami, te l’ho già detto. –  non avrebbe potuto sopportare oltre, possibile che ancora non fosse sufficientemente chiaro?
Lui era un nomade, non ammetteva alcun legame. Se si era unito a Rufy era stato unicamente per poter realizzare il proprio sogno. Non aveva preteso nient’altro da quel ragazzo che un posto dove stare ed una cucina dove lavorare.
Ma poi le cose erano precipitate.
Ed ora la sua mente aveva quasi dimenticato cosa significasse vagare senza una meta. Il sapore della solitudine sembrava qualcosa di ancora sin troppo lontano. Irraggiungibile.
Gli sembrava di essere tornato bambino.
E Sanji sapeva che questo non lo avrebbe più potuto accettare. Non avrebbe più avuto la forza per rivivere quei momenti.
- Il vivere insieme non fa di noi una famiglia. Non puoi paragonarci a qualcosa che non hai mai avuto, di cui non conosci neanche l’essenza. – fortunatamente.
- Io avevo una famiglia! –
- Tu avevi una casa dove stare e qualcuno che ti accudisse. Ma quella donna non ti aveva messo al mondo, non aveva percepito i tuoi movimenti dentro di se.
Non era la tua vera madre! -  riuscì quasi a sentirlo.
Il rumore del suo respiro spezzato infrangere il silenzio della camera e penetrare ancor più in profondità dentro di se. L’aveva uccisa seppur inconsciamente.
Ma lui non sapeva cosa il suo dolore fosse realmente, la propria mente aveva fatto il possibile per eliminarne il ricordo. Soffrire per la famiglia era qualcosa che il suo spirito era riuscito a comprimere talmente tanto da rendere quasi invisibile.
E come lui, sperava che anche per gli altri ciò fosse qualcosa di normale.
- Nami... – non lo era.
Per chi come la navigatrice sul ricordo di una madre aveva pianificato un’intera esistenza in sin dei conti non sarebbe mai potuto esserlo.
Ma ormai era troppo tardi per rimediare allo sbaglio commesso. Probabilmente anche solo per accertarsene.
- Io non intendevo... non era  questo ciò che... -
- Vai da Chopper per far vedere quella mano, poi sparisci dalla mia vista. – morta.
L’aveva uccisa.
- Dopo Arlong credevo che più nessuno mi avrebbe potuto ferire, ma mi sbagliavo. Mi sono sbagliata ancora una volta. – e lui adesso non avrebbe potuto far nient’altro che accettarlo.


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Capitolo 9
*** 9. You know... ***


9. You Know...
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Le dita scivolarono elegantemente lungo il tessuto della cravatta, allentandone il nodo perfetto. In un volo delicato osservò il cotone della striscia cadere ai suoi piedi, per poi morire soffocato dal tacco della scarpa.
Ennesima vittima sacrificata per placare la propria ira. Ultima di una lista che probabilmente aveva smesso di enumerare da svariate ore. Non ve ne sarebbe stato alcun bisogno del resto.
Nella stanza non era rimasto nient’altro che ne avrebbe potuto più far parte, ovviamente a patto che la distruzione non fosse inclusa fra gli oggetti di facile rottura.
In quel caso forse un po’ di posto sarebbe stato facilmente trovato.
Con un movimento felino delle scarpe liberò un’esigua parte del pavimento dai residui ambrati lasciati dalle schegge del tavolo. Forse sin troppo fragile per essere di legno massiccio.
Gli altri lo avrebbero persino potuto ringraziare per averli liberati da un acquisto così fallimentare.
Calcò maggiormente la presa dei canini attorno alla carta della sigaretta, tagliandone parte del filtro.
Idiota. Lo sapeva.
Sapeva che non era il legno ad esser malleabile, ma i suoi muscoli a possedere una forza sovrumana. Sapeva che non lo avrebbero mai ringraziato, ma unicamente rimproverato.
Ed infine sapeva che si sarebbero arrestati non appena il medico avrebbe trovato gli antidolorifici abilmente celati nella seta delle sue tasche. Lo sapeva, ma si sforzava pur di riuscire ad ignorarlo.
Ed allora continuava a premere quelle dannate pillole sempre più in fondo, sperando quasi di farle scomparire fra le pieghe del completo. E con loro parte della distruzione che aveva portato alla luce pur di riuscire a trovarle.
Inutilmente.
Chopper non si era neanche preso la premura di nascondergliele. Si fidava sin troppo di lui per temere che ne potesse fare un cattivo uso.
Si sbagliava.
Tutti avevano commesso questo fatale errore con lui. Quasi.
In sin dei conti quell’idiota di un marimo l’aveva sempre detto di esser capitato in squadra con un emerito imbecille. Peccato solo che nessuno era mai stato così perspicace da crederci.
Adesso forse avrebbero finalmente trovato la forza di farlo. Ma conservava l’assoluta certezza che non gliene sarebbe potuto importare più di tanto, a certe cose infondo era sempre stato avvezzo.
Quando viveva con quel vecchiaccio del resto non vi era mai stata una frase che non fosse accompagnata da qualche bassa interiezione contro di lui, o il tragico errore commesso nell’averlo voluto salvare. Adesso, con loro, avrebbe semplicemente dovuto ritrovare la sana abitudine di prestare poca attenzione alle parole del proprio interlocutore.
Tutore o compagno che fosse.
- Che diavolo è successo qui dentro? – parole strane se messe in bocca ad una renna, per di più ancora minorenne. Dunque sarebbe stato lui il primo da affrontare?
- Nulla. –  


- Nulla? Questo trovi il coraggio di chiamarlo nulla? -
- Avevo bisogno di distrarmi. –
- E per farlo era proprio necessario distruggere il mio studio!? Io qui ci lavoro! – non sgridarlo, Chopper, non lo ha fatto per ferirti. Sai che non ne sarebbe capace.
- Mi dispiace. – ti sento mentire, so che lo stai facendo nonostante il tuo volto sia nascosto dal legno della porta. La tua voce si incrina sempre quando lo fai.
Ed allora il suo tono diviene più leggero, quasi come canzonatorio. I tuoi occhi si abbassano, ed il viso si trasforma in una bella maschera.
Riesci a mantenere quell’espressione aristocratica, seppur dentro ti senti poco più che un pezzente. Elemosini sicurezza, la chiedi in prestito a chi ti è vicino. E nonostante il rifiuto continui a sorridere, sprezzante.
O semplicemente terrorizzato.
A volte vorrei sapere come fai, mi piacerebbe venirne a conoscenza. Ma il tuo bel volto riesce a negarmela quasi sempre questa risposta.
- Dove sono? – la voce del nostro si medico si inasprisce, e sarei quasi pronta a giurare che i tuoi occhi abbiano incontrato ancor più vicino la pavimentazione della nave. Cosa hai fatto Sanji?
Cosa devi nascondere questa volta?
- Dove le hai messe? – le mani si stringono, portano le unghie quasi sin dentro la carne. Sento il rumore secco del tuo accendino, vecchio probabilmente quanto la nostra amicizia. Fumi.
Affoghi la paura in una sottile gabbia di nicotina. Troppo debole per trattenerla oltre, alla fine ti ritrovi costretto a mandarla fuori con una nuvola di vapore, grigia e gelida come i tuoi occhi.
Chopper arretra, lo ha notato. I suoi zoccoli sfiorano delicatamente le assi della nave, la sua voce trema leggermente mentre ti ripone la stessa domanda.
Silenzio.
Lo stai guardando, vero Sanji? Speri di spaventarlo sino a farlo fuggire.
Non lo farà, lo sai stupido cuoco. Ed allora dovrai affrontarlo, come hai fatto con me. Lo ferirai probabilmente.
Come hai fatto con me.
- Mi servono, lo sai. – rispondi ermetico. Cosa ti auguri di ottenere?Il suo consenso?
Credi realmente che ti possa lasciare andare, magari complimentandosi per la tua giusta scelta? Ci speri forse.
- Per cosa? La tua mano è guarita quasi del tutto, mancano solo pochi punti da... – la sua voce si spezza, ed adesso sono i tuoi passi ad arretrare. Di uno o due centimetri, ma quelle dannate suole che ti ostini a voler sempre indossare bastano per riuscire a farmi percepire il loro movimento.
Vuoi scappare?
- Sanji, per cosa ti servono? – timbro roco, tono perentorio.
È il medico a parlare adesso, non più l’amico infuriato per l’ennesima cazzata fatta. Aspiri ancora dell’altra nicotina, facendo scivolare la scarpa lungo il legno della camera.
Fuggirai ancora una volta, io lo so.
- Impara il tuo mestiere, piccolo Chopper. Ancora ne hai di strada da fare prima di poterti definire un medico. – gli volti elegantemente le spalle. Sento le mani affondare nelle tasche preziose del tuo completo, ed una sfiorare con rabbia la tua gamba sinistra.
Il suo tocco non basterà a metter a tacere il dolore, lo sai. Ma preferisci ignorarlo.
- Sanji! – ti chiudi la porta dietro di te.
E scappi con la classe che ti ha sempre contraddistinto.

- E poi se n’è andato. -  trattenendo a fatica l’ennesimo singhiozzo, la giovane renna concluse magistralmente il racconto del pomeriggio appena trascorso.
A trovarlo seduto sul ponte della nave, in lacrime, era stato un Usop ancora tramortito dalle percosse del cuoco. Inutile dire quanto la prospettiva di poter spettegolare un po’ alle spalle del ragazzo l’avesse allettato, ma allora ancora ignorava la gravità della situazione.
Ora avrebbe voluto semplicemente poter dimenticare ogni cosa e tornare con gli altri alla leggerezza dei giorni trascorsi.
A quando i colpi dell’amico non erano così dolorosi e brutali. A quando la sera il ponte della Sunny diveniva uno strano incrocio fra un consultorio ed un bordello, con Nami e Robin intente a dialogare come due nobildonne ed i ragazzi a far baldoria per la minima idiozia.
Era la loro normalità. E per quanto strano potesse apparire, gli mancava.
Immensamente.
- Hai idea di cosa fossero quelle pillole, signor dottore? – la voce posata di Robin tentò di porre fine ad un silenzio che su quella nave era sempre stato considerato all’uguale di un fastidioso tabù. Diverse paia di sguardi, attenti o leggermente più assonnati, si posarono stancamente su di lei.
E data l’ora in sin dei conti non avrebbe potuto dargli torto.
- Antidolorifici. – la sua voce si incrinò al suono di quella parola. Si considerava un medico, avrebbe dovuto accorgersene prima ancora di coglierlo in flagrante. Probabilmente non sarebbero arrivati sino a questo punto.
- Non è colpa tua, Chopper. Nessuno di noi era riuscito a notarlo. –
- Usop ha ragione. E se poi Sanji non ci ha detto nulla, non capisco perché preoccuparcene. Vuol dire che sta bene! – con un intervento non propriamente decisivo, anche il capitano decise di prender parte alla discussione.
Portandola decisamente ad un livello ancor più scadente di quello appena sfiorato.
- Rufy hai idea di cosa significhi mentire? -  riportando a fatica il pugno nelle tasche della propria blusa, il cecchino tentò disperatamente di far ragionare l’amico. Se era il loro capitano, un motivo ci doveva pur essere.
- E’ quando dici una cosa ma ne pensi un’altra, no? – si limitò a rispondere, cercando con lo sguardo l’assenso dell’archeologa. Un sorriso di incoraggiamento lo convinse ad aver dato la giusta sentenza.
- Ma tutto questo cosa c’entra con Sanji? – una seconda mano raggiunse rapidamente la prima nel tessuto della maglia. A debita distanza dall’ingenuo volto della propria guida.
Per quale assurda ragione poi, era ancora tutto da decidere.
- C’entra perché è quello che sta facendo con noi adesso! -
- Allora ci sta prendendo in giro! Ci ha traditi! Ora vado e gliene dico quattro a quel fumoso di un cuoco!! – in un tripudio di braccia e mani la furia del cecchino e del proprio capitano vennero stroncate sul nascere.
- Non credo che sia questo il motivo del suo silenzio, Rufy... – fu la semplice risposta ad uno sguardo che oltre a gridare vendetta pretendeva, seppur in modo decisamente più pacato, spiegazioni.
- Penso che abbia voluto difenderci agendo in questo modo. –
- Quindi non ci ha traditi, che fortuna! – abbandonandosi ad un sorriso di certa vittoria, il ragazzo tornò al cosciotto abbandonato appena pochi minuti prima. La carne fredda fa male.
Ed inoltre ha quasi sempre un pessimo sapore.
Ragion per cui quella sera si era ripromesso di consumarla tutta entro un prestabilito lasso di tempo. Gli altri lo avrebbero unicamente dovuto ringraziare per il servizio svolto. Bè, quasi.
- Qualcuno dovrebbe andare a parlargli. – concluse infine la donna, facendo scivolare con grazia quest’ultima affermazione nelle menti dei propri compagni. Ed esattamente come previsto, riuscendo ad acquietare persino gli spiriti più bollenti.
Tutti, seppur in proporzioni diverse, temevano un possibile dialogo con il cuoco.
Per quello che ne sarebbe potuto venir alla luce. Per offese che senza neanche pensare si sarebbero potuti facilmente scambiare.
Ed in sin dei conti, anche per la potenza dei calci che le avrebbero potute accompagnare.
Usop sospirò. A trattenerlo, nel suo caso, erano solamente quelli.
- Dopo il dibattito di questo pomeriggio, dubito che voglia parlarmi. - chinando mestamente il capo, la giovane renna si limitò a battere su un ferro che ancora era sin troppo caldo.
- Bè, credo che l’aver passato un’intera mattinata chiuso con me nello sgabuzzino gli abbia precluso ogni intenzione di volermi rivedere prima di qualche secolo. – per Usop oramai bollente.
- Per non parlare della torta che gli ho fatto. Gli è quasi costata una mandibola! Secondo voi ora vorrebbe vedermi? – con Rufy oltrepassante di qualche centigrado il livello della liquefazione.
Si guardarono per alcuni istanti, rimanendo in silenzio.
All’appello mancava ancora una persona.
- Zoro non è che potresti andare tu a parlarci? -  propose titubante il cecchino. Che fra lui ed il cuoco non scorresse buon sangue era un fatto risaputo ormai.
Scosse la testa, correggendosi senza quasi rendersene conto.
Di sangue tra loro ne scorreva, ed anche a sufficienza. Forse non era buono abbastanza, ecco.
- Zoro? – lo chiamò ancora una volta il capitano.
Sprecando fiato ed anche parte dell’attenzione di una ciurma ora rivolta ad osservare la porta della cucina. Ancora mossa, seppur impercettibilmente, dalla folata di vento che lo spadaccino uscendo era riuscito a sollevare.


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Capitolo 10
*** 10. My place ***


10. My Place
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La fiamma si levò verso l’alto, lambita dalla brezza della notte. Con sguardo stanco ne seguì i movimenti oscillatori, per poi carpirne la morte nelle tenebre della sera.
Socchiuse gli occhi, portandosi una mano fra la chioma paglierina ora scossa dal vento. Per arrivare a celebrare la fine di un accendino, il suo animo doveva essere davvero distrutto.
Non gli ci era poi voluto così tanto per capirlo.
Era stato unicamente necessario incrinare il rapporto con l’intera ciurma, perdere la fiducia della persona che maggiormente aveva significato per lui in quelli ultimi due anni, ed infine rischiare una polmonite ostinandosi a voler rimanere sul ponte a notte ormai inoltrata.
Una sottile nube di nicotina sfiorò delicatamente i muscoli tesi delle sue braccia.
No, non gli ci era voluto molto.
Fece scorrere le dita un’ultima volta lungo il meccanismo di scatto dell’oggetto, sentendo indistintamente il rumore secco dell’ennesimo colpo andato a vuoto. Cinque con quello.
- Era prevedibile che con te facesse quella fine. –  anticipato dal suono cadenzale dei propri passi, lo vide arrivare lentamente. La mano destra poggiata con sicurezza alle spade, l’altra, se possibile con ancora maggiore destrezza, serrata attorno ad una bottiglia semivuota di sake.
Le sue labbra si piegarono quasi involontariamente verso l’alto, schioccando in un impercettibile movimento. Non lui.
Non avrebbe sopportato una discussione persino con quella testa color ramarro, per quanto strana la cosa potesse apparire. Litigare del resto faceva parte del loro codice genetico.
Gli si addiceva bene quasi quanto le spade o il fumo. Ma non quella sera.
Non in quel momento, quando di lotte sembravano già esser sufficienti quelle del suo io.
Ormai distrutto dalla chiamata alle armi.
Lo guardò un’ultima volta, reprimendo una smorfia di disgusto alla vista dell’etichetta sul contenitore dell’alcolico. La riserva speciale della vecchia Kokoro.
Pensare a qualcosa di ancora più potente di quella miscela, sarebbe equivalso a sintetizzare la forza distruttiva di un paio di Buster Call in una bottiglia da un litro e mezzo.
Tre nel caso dello spadaccino.
- Con tutta quella roba è un miracolo che il tuo fegato non abbia già fatto i bagagli. –  la semplice risposta del ragazzo si tramutò un sorriso smorto, splendidamente nascosto dai riflessi verdognoli del vetro.
Non era da lui elargirne di così gentili. Soprattutto nei suoi confronti.
- La prospettiva ti fa sorridere? -
- No, cuoco. -  si limitò ad asserire, faticando pur di riuscire a reprimere l’ennesimo movimento spontaneo delle labbra. Gesto che, seppur abilmente celato dal buio della nave, non sfuggì allo sguardo attento del cuoco di bordo.
Ubriaco fu l’ermetica soluzione a quella somma di singolari fattori nel comportamento atipico dell’amico.
- E’ il fatto che a farmi la paternale sia uno come te, che mi spinge a sorridere. -  scattò in piedi, colpendo con forza le assi del ponte. Accettare di esser definito uno "sbagliato" da qualcuno ancor più mediocre di lui era l’ultima cosa che quella notte avrebbe potuto sopportare. Specialmente se quel qualcuno prendeva il nome di Roronoa Zoro.
- Oi fa’ un po’ più d’attenzione, damerino. Le riparazioni costano! –
- Uno come me!? Chi sarebbe come me, Roronoa? –  sorrise nuovamente.
La rabbia non era di certo un’espressione che ben si addiceva a quel viso aristocratico, ma in un’ammissione quasi implicita, si ritrovò a constatare che gli donava. Forse ancor più di quelli assurdi completi che si ostinava ad indossare con una naturalezza rasente lo sfacciato.
Gli si avvicinò ancora, sino a far riflettere l’odio del suo sguardo nelle iridi grigie delle sue pupille. Era questo il Sanji che aveva sempre sperato di poter fronteggiare un giorno.
Non il cuoco, né tantomeno l’adulatore.
Era questo ciò che per quasi due anni era riuscito a sfuggirgli, nascondendosi dietro un moccioso sin troppo cresciuto. Ora lo aveva dinanzi.
- Un codardo. – disse infine, scandendo quel suono quasi come temendo che non fosse sufficientemente udibile. E sorrise ancora, contemplando quel volto ora livido di rabbia.
Poi uno strattone che riuscì quasi a sollevarlo da terra. Cazzo se ne aveva di forza quel pivellino!
Si ritrovò a fissarlo silenziosamente negli occhi, mentre sentiva le lunghe dita affusolate affilarsi lungo la carne del suo petto e premere con forza contro lo sterno. Non se ne curò, limitandosi a lasciare l’espressione divertita invariata come se nulla stesse accadendo.
- Tu sei ubriaco... – sussurrò a fior di labbra, lasciando cadere la frase come valida scusante a tutto il male che lo spadaccino era riuscito ad estirpare dal proprio corpo con così poche parole.
Non aveva colpe, era ubriaco. E lui doveva capirlo.
E saperlo ignorare.
Gli diede le spalle, dirigendosi a coffa.
- Scappi, codardo? – i passi rallentarono sino a divenire un flebile battito nel torpore della notte. Rimase di schiena, in quella posa che tanto sapeva riuscire ad infastidirlo.
- E se anche fosse? Ti dispiacerebbe? – la bottiglia scintillò nuovamente alla luce della luna, mentre le labbra si preparavano ad accoglierne la scheggiata imboccatura. Lo sentì buttare giù un sorso. Poi un altro ed un altro ancora, sino a quando racchiuse nel vetro non rimasero che poche gocce di liquido rossastro.
Si pulì la bocca con un movimento sgraziato del polso, commentando qualcosa riguardo la bontà del sake della vecchia Kokoro. Infine i suoi occhi tornarono fissi sul cuoco, sorridendogli beffardi.
- Affatto. Non mi dispiace mai aver ragione su qualcosa. -
- Lieto per te. –
- Tuttavia... – si interruppe poggiando con garbo l’oggetto sul manto erboso della nave - .. mal sopporto l’idea che qualcun altro possa tradire la fiducia di Rufy. –
- Sai che non lo farei mai. I miei problemi saranno sempre ben lontani dal resto della ciurma. –
- Come stasera? – rimase in silenzio, mentre l’eco assordante di quella parole si univa al suono pesante dei passi dello spadaccino lungo il ponte della nave. Allora era lì che mirava ad arrivare e colpire?
Temeva realmente che li avrebbe potuto tradire come nulla fosse, unicamente per degli stupidi sentimentalismi?
- Mi chiedo quanto affidamento potrà mai darci chi non conosce neanche se stesso. – per una frazione di secondo l’aria sembrò piegarsi sotto di lui ed inghiottirlo. Un maledetto istante che lo vide trascinato contro la parte inferiore della nave, incrinandola in parte con il proprio peso.
Il boato che seguì a quel colpo fu assordante, ma nessuno parve riuscire ad udirlo.
Si rialzò dal cumulo indistinto di assi e cordame, scrollandosi leggermente il terriccio dalle spalle. Ad osservarlo dalla parte opposta della Sunny, vi era ciò che rimaneva della coscienza di Sanji.
Teneva le mani ancora in tasca e la sigaretta, benché fosse spenta, riposava poggiata contro le sue labbra come prima di qualsiasi scontro. Una gamba, la sola che gli permettesse ancora simili slanci, attendeva tesa il contrattacco dello spadaccino.
Qualcosa che ancor prima di poter essere formulato venne piacevolmente accolto dalla mente del ragazzo.
Si lanciò contro l’altro sguainando entrambe le spade, e stringendo la terza fra i denti.
Stupido cuoco. Era davvero la lotta a volere?
- Sei come un randagio; ancora devi trovare un posto a cui appartenere. – il fendente attraversò l’aria, arrivando a curvare in un’onda la brezza della notte. Scansò il colpo, flettendo il tendine sino a sentirlo quasi strapparsi sotto la pressione del muscolo.
Strinse i denti per non urlare dal dolore mentre l’ennesimo affondo di Zoro lo mancava di pochi centimetri.
Fu un attimo, ma riuscì a percepirlo come se lo qualcuno lo avesse appena ritratto.
- Io so a chi appartengo! – la gamba tremò imprigionata dalla potenza scaturita dal colpo. Sempre più rapidamente quel fottuto corpo lo stava abbandonando.
Rimase in silenzio, pronto a parare l’ennesimo fendente destinato a sfiorarlo a malapena. Con quel merdoso era sempre così del resto.
Faticava a prender un loro scontro seriamente. Ed allora alleggeriva i colpi, li rendeva fragili e leggeri quasi come la brezza. Le spade oscillavano, mancavano il bersaglio.
Soffrivano ad esser trattate come merce di seconda classe,  Zoro lo sapeva bene. Ma sembrava quasi riuscire ad ignorarle.
Poi però le loro urla divenivano sin troppo forti per non essere udite, ed insopportabili lo obbligavano a smettere. E con loro l’intera lotta.
Finiva sempre così. O quasi.
Quella notte evidentemente no.
Una folata di vento gelido lo avvolse, rendendo il suo respiro affaticato e debole. Non ancora.
Si voltò verso il compagno sin troppo assorto dal furore della lotta per riuscire ad accorgersi della seconda presenza che silenziosa li stava osservando. I suoi occhi si alzarono verso il pennone della nave, dove leggeri alcuni fiocchi stavano attraversando quieti le tenebre della notte.
Le labbra si aprirono appena, ed una sottile nube di vapore uscì da ciò che i polmoni erano a fatica riusciti a portare alla luce. Dei cristalli di ghiaccio si formarono lungo la barba ispida del mento, seguendo i contorni morbidi del suo viso.
E mentre l’amico cadeva al suolo, trascinato da membra gelide ormai non più in grado di sostenerlo, una voce lo chiamò indistinta dalla prua della nave.
- Ti aspettavo da tempo, Sanji Gamba Nera... –


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Capitolo 11
*** 11. Freedom ***


11. Freedom
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Era il rimorso a spingermi a lottare quella notte, talmente forte da indurmi quasi a credere che sotto il suo controllo lo avrei potuto fare per sempre. Non la paura, né tantomeno il coraggio.
Ma unicamente una flebile sensazione pulsante in ciò che la mano di quel maledetto ammiraglio non era ancora riuscita a congelare. Sentivo il cuore spingere nel petto e colmare con il proprio battito il respiro oramai vuoto dei miei polmoni.
L’aria attorno a me era ghiacciata, così come l’intero ponte della Sunny. L’erba sotto i miei piedi si incrinava ad ogni passo, crepitando intensamente alle tenebre della notte.
Quell’inferno di ghiaccio sarebbe stata la nostra tomba, ed in sin dei conti non avremmo mai potuto sperare in un posto migliore. Morire nel luogo della propria rinascita conservava un significato quasi karmico. Rinfrancante.
- E’ lo stesso tipo che ha quasi fatto fuori Robin... – la voce di Zoro mi giunse con la stessa frequenza di un sospiro sofferto. Mi voltai verso di lui, scorgendolo appena nella culla di neve riservatagli da Aokiji. Ormai la sola cosa che si riuscisse a scorgere del suo corpo era rappresentata da un pallido riflesso attraverso le lastre di ghiaccio che ne ricoprivano la forma. Non si riusciva ad intravedere nient’altro.
Di questo passo sarebbe stato lui il primo a cedere. Poi sarebbe toccato a me.
Infine al resto della ciurma. E a lei.
Le mie labbra si strinsero ancora una volta lungo i contorni induriti del mozzicone, scheggiandone i bordi. Sentì la carne della lingua aprirsi sotto una lama di carta, ed il sapore ferreo del sangue invadermi lentamente la bocca sino a risalire alle narici. Contrassi i muscoli del volto in una letargica espressione di fastidio, tossendo a fatica.
E così anche l’ultimo desiderio si ritrovò ad andarsene a puttane.
- Me ne sono accorto da solo, idiota! – rimasi in silenzio, attendendo la sua voce richiamarmi ai miei doveri assecondata da qualche debita imprecazione. Ma il rumore affaticato del mio respiro fu la sola cosa che quel gesto riuscì a riportare alla mente.
Non un fiato, non un sospiro. Non un singolo, doveroso insulto.
- Siete curiosi, voi pirati. Preferite stuzzicarvi piuttosto che combattere... curiosi davvero. – solo il suono assonnato di quel fottuto ammiraglio mi venne in risposta. E fu peggio che udire il silenzio dello spadaccino.
Rimasi immobile, mentre l’uomo continuava ad osservarmi incuriosito. Sembrava quasi un bambino portato per la prima volta allo zoo, e lasciato libero di vagare fra le gabbie.
Con l’insignificante differenza che la bestia ero io.
- La cosa ti diverte? -  il mio sguardo si assottigliò sino a tramutarsi in un cristallo fra i tanti del mio volto. Sentivo il gelo della brina invadere le pelle delle gote e penetrare sin dentro i muscoli. Le sillabe uscivano a fatica dalla gola, trascinate nella trachea dalla neve.
- Abbastanza... -  un sorriso mellifluo accompagnò quelle scarne parole, ferendomi ancor più della stessa brezza con cui stava trapassando i polmoni. Rimase ad osservarmi divertito dal pennone della nave, giocando distrattamente con un avviso di taglia.
Dalla foto tutt’altro che discutibile riconobbi che si trattava del mio. Dalle pieghe che ne avvolgevano i bordi la quantità di volte che doveva esser stato usato. Chi al governo poteva mai desiderarmi tanto ardentemente da mandare addirittura un ammiraglio a reclamare la mia testa?
- Sanji Gamba Nera... – lesse ad alta voce. – ...ho sentito tante cose sul tuo conto. –  il suo tono era calmo, il suo sguardo pacifico. Vedendolo per la prima volta nessuno avrebbe avuto dubbi sulle sue intenzioni, e conoscendo il nostro capitano probabilmente non mi sarei meravigliato se per quella sera avessi dovuto cucinare per una persona in più. Avrei avuto ben poco da ridire.
Eppure in quelli occhi riuscì a scorgere l’odio. Lo stesso che generava quell’acqua così diversa da ciò che la natura partoriva quotidianamente, qualcosa di ben più aspro.
Qualcosa da temere ancor prima che da assaporare dolcemente.
- So che è per merito tuo se adesso Enies Lobby è stata distrutta dalle nostre stesse forze. –  ogni singola parola portava una coltre sempre più fitta di neve e brina lungo il ponte della nave. Era la sua rabbia che veniva allo scoperto.
Erano le sue frustrazioni che scatenavano la propria furia, libere per la prima volta. Io riuscì a sentirle.
Battere una per una contro le assi del ponte,e scontrarsi con il mio corpo per poi tornare a viaggiare libere nell’aria.
Faticavano a colpirmi, trattenute probabilmente da ordini superiori persino al suo stesso volere. Ed allora si riversavano altrove. Colpendo, ghiacciando.
Uccidendo.
Nessuno le avrebbe più potute arrestare. A breve neanche io.
- So che sei uno stratega, seppur ancora dannatamente umano per riuscire ad esprimere al meglio le tue capacità. –
- Cosa vuoi da me? –  avvicinai la gamba a Zoro, portando il tallone quasi sin dentro l’incavo delle sue braccia e sperando che quell’idiota si decidesse a sciogliersi prima che il mio corpo stramazzasse al suolo privo di vita.
Sarebbe stato imbarazzante farsi trovare morto addosso a lui.
- Proporti uno scambio. La tua libertà per la salvezza dell’intera ciurma, nient’altro. Ci stai? -  rimasi immobile, mosso unicamente dalla brezza generata dal suo respiro. La mia libertà.
Sino a che punto mi sarei potuto spingere prima di affermare di possederne realmente una?
Io che avevo incominciato a vivere proprio grazie a loro, non avrei saputo ugualmente cosa farmene una volta privato del loro affetto. Allontanato per sempre dal suo sguardo.
La mia libertà prendeva vita dove la loro incominciava a vacillare. Serviva a sostenerli, e ad infondergli coraggio pur di riuscire a portare a compimento quelli strani sogni di cui tanto amavano riempirsi la bocca.
La mia libertà sarebbe stata poter decidere di morire per loro. E di prendere finalmente il giusto posto, fra le tante schiere della ciurma.
- Verrò con te, ma ad un’unica condizione. – le sue labbra si piegarono verso l’alto, inclinandosi in un sorriso leggiadro. Qualcosa che su quella bocca sottile apparve alla stregua di un giglio appassito su di un grazioso bouquet.
- Qualsiasi cosa. –  lasciai scorrere un’ultima volta le dita sulla superficie marmorea dell’accendino, sfiorandolo con affetto.
In quel misero gesto ero certo di esser riuscito a raccogliere ogni mio buon sentimento verso quell’inutile banda di scapestrati. Sperando quasi che riuscissero a portarlo con se, custodendolo come quell’inutile pezzo di plastica aveva preservato per così tanti anni la fiamma che ancora mi permetteva di rimanere in vita.
Socchiusi gli occhi portando le mani fra quelle gelide dello spadaccino, e lasciandovi come pegno del mio affetto fraterno quella stupida macchia nera.
Non avevo nient’altro che questo.
- Scongela quel dannato marimo. -
Non potevo fare nient’altro che questo.



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Capitolo 12
*** 12. Livin' on a prayer ***


12. Livin’ on a Prayer
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Le preghiere di un dannato sono destinate a morire accompagnate dalla sua anima. Non pretendono nient’altro che questo nel loro breve viaggio verso la libertà.
Le proprie giacevano ancora accasciate dinanzi al suo corpo, irrequiete al pensiero di poterlo lasciare.
Eppure non aveva sperato altro che questo durante i brevi istanti di lucidità della sua prigionia. Vederle spiccare il volo oltre le pareti di quella cella, e portare il proprio spirito con se.
Lo avrebbero unicamente salvato uccidendolo. Un paradosso, ma probabilmente il solo pensiero che ancora lo tenesse saldamente aggrappato alla realtà.
La sua mente era riuscita ad allontanarsene da tempo oramai. Forse da quando le ore erano divenute sin troppo assillanti per sperare di poter più essere enumerate.
Ed allora i giorni avevano preso il sopravvento e con loro, seppur in esiguo numero, i mesi.
Perché Sanji lo sapeva bene oramai, il governo lo teneva con se da ben più di poche settimane.
Continuava a divertirsi nel giocare a fare il Dio con il suo corpo. Qualcosa di cui ormai percepiva unicamente un flebile battito contro le catene di quella camera.
Non evitava più il loro tintinnare, ora non lo infastidiva più.
A volte si sforzava pur di riuscire ad indurre il metallo a curvarsi contro i muscoli delle spalle, portandolo a generare quell’acuto pling che per così lunghi giorni gli era stato come unico compagno. Il solo che non lo avesse ancora lasciato.
Ma adesso i suoi tendini di forza non ne conservavano più. Ed anche quel fedele alleato era stato così costretto ad abbandonarlo.
Un sottile raggio penetrò da quell’apertura impropria della parete che i suoi carcerieri continuavano ostinatamente a chiamare finestra. Non lo era.
Ma induceva la luce del giorno a raggiungerlo, sebbene per poche ore, permettendogli ancora una netta distinzione fra alba e tramonto. Ed anche per questo forse quell’inadeguato appellativo sarebbe stato ben disposto a concederglielo.
I suoi occhi si chiusero, gentilmente accompagnati da una ciocca annerita dal sangue.

-    Devo ammettere che il grigio ti dona. –

La ferita inferta da quel ricordo lo trafisse al pari di un’arma. Affondò il colpo, tramutando l’espressione di dolore lungo i lineamenti gentili del suo volto in ciò che molti avrebbero amato definire un sorriso.
Ma non vi era armonia in quel gesto, né tantomeno serenità. Era unicamente l’ennesimo stratagemma pur di non finire nuovamente una facile preda del silenzio.
E riuscì quasi a sentirlo quel suono aumentare. Crescere alimentato dalle proprie paure sino ad arrivare a squarciare la pace di quella fottuta cella.
Infine ardere talmente tanto nell’esofago da costringerlo a chinare il capo per il dolore.
Si lasciò scivolare lungo la superficie arida della parete, percependo il sapore aspro di quel gelo entrargli dentro sino a sfiorare le viscere.
Le catene vibrarono ancora una volta, e con loro persino il suo cuore riuscì a prender un battito.
Ed allora fu un calore dolce lungo la pelle diafana delle guance. Un’impercettibile lacrima che lo accompagnò durante l’intero trascorrere di quell’inferno.
Non riuscì a coglierne la fragranza, una non fu sufficiente. Ma in fondo al proprio animo sperava che riuscisse a conservare intatto il gusto amaro del suo corpo.
L’avrebbe aiutato ad averla vicina ancora una volta. Per l’ultima volta.
- Viceammiraglio Garp, signore. -  le porte della prigione si spalancarono con un suono sofferto, morendo lentamente contro la pietra dell’entrata. Con occhi stanchi ne seguì il lento oscillare, sino a coglierne il flebile bagliore richiamato alla luce dal riflesso della luna.
Sorrise.
Non avrebbe più sperato di riuscire a scorgere sfumature simili in quell’inferno di tenebre.
- Ben svegliato, Gamba Nera.-  le sue labbra si aprirono appena, spinte dalla forza delle preghiere che ancora prepotentemente avevano deciso di rimaner salde al suo fianco.
Un sospiro.
Quelle sorde parole non gli permisero nulla più.
Gli ultimi momenti di un condannato sarebbero stati scanditi da quel suono. Non una sillaba.
Non una maledetta frase.
Solo il silenzio generato dai suoi respiri e dai battiti sempre più lenti del proprio cuore.
- E’ lui? -  deboli quasi quanto le dita di colui che ora ne detenevano l’assoluto dominio.
Le sentì muoversi lungo il suo corpo scortate da un impercettibile tepore, per infine fermarsi sui contorni diafani del volto. Non di certo per il gelo, né tantomeno per inganno.
Forse per decretare unicamente la sua inerme resa o ancor più semplicemente perché morti con lui.
Questo ancora non gli era dato saperlo.
Li sfiorò con grazia, lasciando ad ogni impronta un candido alone bianco.
Ed allora si limitò a rimanere immobile, permettendo ancora una volta a mani sconosciute di distruggere quell’inutile pezzo di carne in grado di tenerlo ancorato alla propria realtà. Ad un’esistenza di cui sempre più indistintamente riusciva a percepire il battito.
Sorrise nuovamente, senza paura.
Senza inutili timori.
- Ehi... grand’uomo... giù le zampe. –  martoriata dalla potenza delle percosse, la sua voce non dovette giungere che un impercettibile sussurro alla mente dell’uomo seduto ora al suo fianco. Un alito di vento che riuscì a spingerlo ad un sorriso arcaico, magistralmente nascosto da una chioma corvina ed indomata da tempo oramai immemore.
Chinò il capo, rivolgendo al viceammiraglio uno sguardo enigmatico.
- E’ lui. Puoi procedere, Kuma. -  un attimo.
Un insignificante secondo colmo di un silenzio malvissuto, sofferto probabilmente per entrambe le fazioni.
E le porte degli inferi parvero aprirsi per condurlo con se.
- Perdonami... -
Dove non vi era più luce o dolore.
- Perdonami... Nami. -  dove persino il ricordo di quel nome non avrebbe potuto far altro che render la propria condanna ancor più aspra.



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Capitolo 13
*** 13. Last drop falls ***


13. Last Drop Falls
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Cadde. Simile ad una foglia partorita dalla tempesta, veloce e fugace come la brezza.
Cullato da un tiepido sole estivo e condotto giù nell’oblio dalle proprie ferite. Le sentiva percorrere ininterrottamente ogni singolo muscolo per ripercuotersi infine sulla pelle, sino ad arrivare quasi a spezzarla.
Il destino a volte conserva un modo realmente infido di giocare. Ma per lo meno, poteva esser rassicurato dal pensiero che non lasciasse mai nulla a metà.
Un animo piegato dal dolore in sin dei conti non gli sarebbe mai potuto bastare. Meglio aggiungervi anche un corpo martoriato dalle percosse.
Meglio per il proprio spirito ferito, adesso non più solo. Molto, molto meglio.
Cadde su quel ponte, a pochi passi dal rifugio che due semplici anni gli avevano già dato modo di chiamare casa. Sotto il suo sguardo severo, reso ancor più tagliente dalla sofferenza.
Tanta, sin troppa forse per una semplice mocciosa. Ma non se ne curò.
Quell’odio intrinseco di cui il suo animo era arrivato oramai a nutrirsi gli rendeva impossibile anche questo.
Si limitò a rialzarsi barcollante, stordito ancor più dai propri sensi che dal sangue gettato via come veleno asprigno, e ad andarsene.
Silenzioso, incauto. Solo.
Ma non se ne curò. Non avrebbe avuto più alcun motivo per farlo del resto.
Se era arrivato sino a quel punto era stato unicamente per merito, o colpa che si voglia intendere, suo. Sfogare sugli altri le proprie frustrazioni non lo avrebbe potuto portare ugualmente a niente.
Le dita sfiorarono con rabbia i lembi strappati della propria bandana. Sporca di sangue altrui.
E di una morte che difficilmente poche macchie d’acqua avrebbero potuto spazzare via.
Sorrise quasi inconsciamente. Bugiardo.
Il non avere le palle di prendersela con i propri compagni non lo rendeva certamente migliore. Incoraggiava semplicemente il proprio istinto a riversare quel maledetto odio su gente che con lui, sino a quel momento, non aveva mai avuto a che fare. Ferendola, uccidendola.
Ed a volte riuscendo persino a farsi punire per errori compiuti in un passato non troppo lontano.
Combattere era il solo modo con cui la vita gli avesse insegnato ad esprimere le proprie sensazioni, nascondendo con la medesima abilità paure che difficilmente avrebbe portato allo scoperto.
Quel maledetto tempo non era riuscito a lasciargli nient’altro che questo. Scortato, quasi come con il terrore che non fosse sufficiente, da tre lame che gridavano sempre più veementemente sangue.
Proclamandone l’odore, esaltandone l’oscura bellezza.
E rendendo il proprio io sempre più voglioso di assecondare i loro sublimi desideri.
Sentì la porta aprirsi, e poi quel passo inconfondibile. L’avrebbe riconosciuto fra mille.
Era da due anni che lo percepiva aleggiare nell’aria, accompagnato da quell’ingannevole profumo amarostico.
Crudele come il suo modo di giocare con i sentimenti altrui, e profondo quasi quanto il silenzio che quieto era riuscito a succedergli. Rimase immobile, protetto ancora una volta da quella fitta barriera di sentimenti che il suo spirito in così poco tempo era riuscito ad erigere.
- Quanti questa volta? –  le mani affondarono ancor più pesantemente nelle pieghe del cotone, squarciandone i bordi. Quanti.
Come se fosse facile contarli, come se ognuno di quei volti la notte non lo braccasse persino nel sonno più leggero. Quanti?
Dieci, quindici forse.
Quanti...
- Dovresti smetterla, Zoro... -  ma la sua voce tradiva quell’insicurezza di cui tanto aveva amato parlar male allo spadaccino. La lasciava sfuggire ad ogni parola, facendola scivolare dolcemente sulle bende adesso strette fra le dita sottili. Ed allora il tono si inarcava ancora, divenendo aspro.
Gli occhi si chiudevano e con loro persino lo spiraglio lasciato aperto fra le sottili mura del proprio cuore.
Oramai cinte per chiunque volesse provare a penetrarvi. Serrate come i suoi pensieri, e tutto il dolore che avrebbero potuto riversare su di lei.
- Il tuo corpo è al limite. – i polpastrelli sfiorarono con grazia un livido amaro lasciato sullo sterno del ragazzo. La sola cosa di lui, che oltre quel dannato accendino gli fosse rimasta come ricordo perpetuo.
Lo portava ancora tatuato sulla pelle, a ricordargli costantemente la propria debolezza.
- Chopper dice che probabilmente la bruciatura potrebbe lasciarti qualche segno... non è sicuro di esser riuscito ad intervenire sufficientemente in fretta. – con occhi stanchi seguì la macchia opaca lungo i muscoli delineati dell’addome, cogliendone la fine appena prima della cicatrice infertagli da colui che sino a quel momento aveva considerato come il suo unico nemico.
Ma si sbagliava, e di grosso anche. La sua mente non aveva ancora considerato una persona, probabilmente la peggiore di tutte.
Escludendo se stesso era riuscito a cadere facilmente preda delle proprie paure. Ed a trascinare Sanji inesorabilmente con se.
- Non importa. -
- Non aveva altra scelta, lo sai. Saresti morto se non fosse intervenuto. -  morire?Cos’era la morte?
Credeva davvero che gliene sarebbe potuto importare qualcosa dopo che la consapevolezza di non esser neanche in grado di proteggere le persone che amava lo aveva fatto proprio?Povera, piccola Nami.
Ancora di lui non sapeva nulla allora.
- Sarebbe stato meglio così. -  le labbra della navigatrice si aprirono, spinte da una leggera pressione all’altezza dell’esofago. Conosceva dannatamente bene quella sensazione, sapeva cosa a breve le sarebbe succeduto.
Deglutì con forza, spingendo le lacrime ancora una volta nel profondo. Facendole scavare dentro di se, sino a colmare con il loro gelo ogni singola, fottuta paura.
Era troppo presto per abbandonarsi al loro corso. Troppo presto per piangere chi ancora era in vita, accanto a lei.
Seppur desiderando ardentemente di esser sepolto qualche metro più in basso, sotto svariate zolle arginali di terra. Troppo, troppo presto per commemorare l’anima di quell’idiota di uno spadaccino.
- Lui non avrebbe voluto questo. -
- Credi realmente che l’avermi salvato da quell’inferno con uno dei suoi calci, adesso gli dia la possibilità di decidere della mia vita, Nami? – le unghie affondarono con rabbia nella carne del costato. Passarono sopra la ferita, intaccando parte della bruciatura lasciata dal Diable Jambe scagliatogli contro dall’amico.
La sola cosa in grado di liquefare quel maledetto ghiaccio. Il solo modo pur di riuscire a liberarlo da una fine giunta sin troppo vicina.
Che gli fosse costato parte della mobilità dell’arto sembrava quasi non riuscire più a contare, lui lo aveva sentito.
Penetrare con forza le lastre d’acqua per sentirle infrangersi sotto il calore del colpo. Infine soffermarsi lungo il suo corpo sino a riuscire a liberarlo del tutto.
Lo aveva sentito rinunciare a tutto per lui, e non lo avrebbe mai potuto accettare.
Né tantomeno perdonare.
- Credi che il sapere che si sia sacrificato per me, non bruci quanto questa fottuta ferita!? -  riuscì quasi a sentirlo. L’eco di quelle grida ripercuotersi lungo l’intera superficie della camera, giungendo alla mente dell’amica come un acuto sospiro di sofferenza.
Riuscì quasi a sentirle, le sue mani. Sfiorare dolcemente i tratti rigidi del suo busto sino a cingersi in un silenzioso abbraccio.
- Credi davvero che possa andare ugualmente avanti, senza di lui? – riuscì a sentirle, quelle lacrime.
Amare, profonde. Infide.
Lui riuscì a sentirle e, per la prima volta dopo tanto tempo, con loro persino la vita ritornare a scorrere dentro di se.


La fiamma si levò alta fra le sue mani, lambendo con grazia la carta ruvida della sigaretta.
Con fare voglioso la strinse fra le labbra sottili, inarcando l’espressione del volto in un delicato sorriso. Qualcosa destinato a morire ben presto soffocato da un incolto ciuffo paglierino, lasciato libero fra le spirali della brezza notturna.
In un movimento fluido condusse le mani lungo il liscio metallo della targhetta adesso poggiata contro i nudi pettorali.
La sollevò con grazia, portandola ancora una volta sotto lo sguardo indagatore del proprio viso.
- Trevor. – si limitò a ripetere, cogliendo nella sfumatura della propria voce un’impercettibile nota di disgusto alla pronuncia di quel nome.
Qualcosa che ancora non sapeva spiegarsi.
- Trevor... – qualcosa a cui ben presto non avrebbe più prestato alcuna attenzione.



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Capitolo 14
*** 14. Dead man ***


14. Dead Man
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- Se potessi tornare indietro, eviteresti tutto questo? -  il mio viso si distese in un sorriso gentile al suono di quella domanda. Tornare indietro? No, Hige.
Non fa parte del mio stile, oramai dovresti saperlo. Esitare è qualcosa che contraddistingue la feccia che ci circonda, e che tutt’ora tu esiti ad eliminare quasi come il terrore che ti si possa ritorcere contro.
Li temi forse, ragazzino?
- No. – una sottile chimera di fumo prese rapidamente il posto di quel sussurro, circondando con grazia i nostri corpi. E qualche altro che con noi non sembrava più avere nulla a che vedere.
- Apprezzo la forza d’animo... – ancora aggrappato a quell’insulsa esistenza destinata a trasformarlo lentamente in una parassita, o pirata che si voglia preferire. In sin dei conti la differenza non sarebbe poi stata così abissale.
- Ma detesto dovermi ripetere due volte. – inarcai maggiormente le spalle, portandole quasi sino a sfiorare la pelle opaca dell’uomo ora schiacciato dal peso delle mie gambe. Ridotto ad un semplice poggiapiedi per due avventurieri delle coste.
Andarsene in silenzio sarebbe stato il minimo richiesto per dar un minimo di risalto al proprio onore.
- E tu sei un uomo morto. – sussurrai infine, lasciando aleggiare nell’aria il sapore amaro di quelle parole.
Condotto in un balletto di morte dal tocco gelido della polvere da sparo, riuscì a penetrare ancora una volta la fitta coltre dei miei pensieri. Qualcosa che oramai ero arrivato a considerare alla stregua di una solida barriera ardente per quanto insormontabile.
- Non avresti dovuto farlo, Trevor. Quel tipo ci serviva, Garp te lo aveva detto. –  il metallo ancora caldo scivolò lentamente fra le dita, incontrando ben presto la seta lavorata del mio completo. Lo lasciai cadere in una tasca, rabbrividendo impercettibilmente al tocco aspro dell’arma.
Il mio corpo sembrava quasi non esservi più abituato, così come le mie mani. Lo brandivano con violenza, temendolo come il peggiore dei mali.
Come se sino a quel momento non ne avessero mai conosciuto il sapore.
- Quel dannato vecchiaccio può dire quel che meglio gli aggrada, ma dei suoi ordini di merda non ho mai saputo cosa farmene. Credevo che oramai il concetto ti fosse chiaro. -  
- A volte sembri quasi uno di loro, piuttosto che un marine. Dovresti migliorare i tuoi rapporti sociali, sai? – lo sentì sorridere al suono di quelle parole, ed inevitabilmente mi ritrovai a seguirlo in silenzio.
Per un paragone impossibile, eppure nella mia mente non sin troppo distante dalla realtà. Per qualcosa che ancora aleggiava possente nell’aria urlando risposte che mai nessuno gli avrebbe dato.
- Fottiti, Hige. – per un ricordo di cui ormai non conservavo neanche più l’essenza.



Luci lontane imposero il proprio dominio sulla notte.
Stringendosi nell’abbraccio di calore portato dalla lana ruvida sulle proprie spalle, si sorprese a sorrider distrattamente a quell’insolita unione di ombre e contrasti. La sola che oramai sembrasse riuscire ad osservarlo senza emettere alcuna sentenza.
Senza ricordargli di esser vivo a discapito di un’altra vita. Senza nascondere ad ogni sguardo una gelida ventata di compassione verso la propria condizione, senza più doverlo temere.
La notte gli era sempre stata amica, un sorriso sarebbe stato il minimo richiestogli come pegno per il proprio affetto. In sin dei conti non avrebbe potuto darle ugualmente nient’altro.
Il suo cuore adesso sembrava incapace di provare alcun sentimento che non appartenesse ad un odio profondo. Che non derivasse dall’ennesimo affetto strappatogli con la forza dalle forti braccia, e lasciato libero di vagare in un mondo in cui più nessuno sarebbe potuto entrare.
Nella morte di Sanji aveva trovato la propria rinascita. Ed una nuova esistenza che senza appello stava lasciandosi sfuggire nuovamente fra le dita.
Semplicemente indegna di esser vissuta poichè generata dal sangue altrui. Dal suo sangue.
E questo sapeva che non sarebbe mai riuscito a perdonarselo.

- E’ ancora lì? -
- Come sempre. Ormai mi stupirei del contrario. – socchiudendo gentilmente il vetro della camera, il cecchino tornò a sedersi al posto lasciato da poco vacante. Di fianco ad un altro che da mesi invece sembrava esser destinato a rimaner vuoto per sempre.
Le sue mani sfiorarono con affetto il cotone della sedia, cadendo infine lungo il bracciolo opaco del rivestimento in legno. Ancora gli sembrava tutto così strano.
Strano come l’insolito silenzio che sovrastava potente su ogni oggetto della nave. Strano come la figura di Robin che si muoveva impacciata fra i lacci di un grembiule sin troppo grande per il suo esile corpo.
Strano quasi come lo sguardo perennemente arrossato di Nami. Alzò gli occhi incontrando quelli stanchi della navigatrice di bordo.
A quel particolare era arrivato quasi a farci un’insolita abitudine. Purtroppo.
- Credete che ci eviterà anche questa sera? – la voce di Chopper lo raggiunse tramutandosi in un impercettibile sussulto dell’aria. Non vi badò più di tanto, sapendo che persino quel singolare fattore rientrava nella loro attuale normalità.
- E’ probabile, signor dottore. – ovattate dal rumore dei tegami lungo il ripiano in marmo del tavolo, le parole di Robin scivolarono con grazia nelle menti dei propri compagni. Non avrebbe potuto far nient’altro per aiutarli del resto.
- Vuol dire che come sempre gli lascerò qualcosa in frigo. – si limitò ad aggiungere, ponendo l’ennesima padella a riposo sotto una cascata di acqua gelida.
Usop si limitò ad osservarla in silenzio, nascondendo abilmente dietro una ciocca ribelle il proprio disappunto per movimenti che con il cuoco non avevano mai generato il minimo suono. Con lui nessuna pentola aveva mai vibrato contro la fiamma, nessun coltello era stato curvato sotto la pressione del tagliere.
Conosceva i propri strumenti quasi come il cecchino credeva di saper leggere nello sguardo di ognuno dei propri compagni. E forse addirittura meglio.
Per Robin non era così, nonostante la propria bravura.
In sua presenza gli utensili stridevano, soffrivano. Si sfioravano sin troppo rapidamente per credere che potessero più raggiungere l’armonia che unicamente Sanji sembrava riuscire ad infondergli.
Quasi inconsciamente si ritrovò a scuotere il capo.
Arrivare a dare una vita propria a dei semplici coltelli in sin dei conti sarebbe stato sin troppo anche per lui. Persino la fantasia a volte necessita di esser tenuta stretta alla realtà.
- Usop dove stai andando? – socchiuse gli occhi, ritrovandosi con la maniglia della cucina ancora stretta fra le lunghe dita. Non si era neanche accorto di essersi alzato.
- A chiamare Zoro, credo. La cena è quasi pronta... – una risposta goffa, confusa.
Abilmente nascosta dall’insolito tono canzonatorio che da mesi oramai era divenuto un’innaturale costante nella sua voce. Qualcosa che ancora disperatamente tentava di risollevare le sorti della ciurma. Inutilmente.
E di farli sorridere ancora una volta, come in un tempo in cui il dolore sembrava essergli estraneo.
Inspirò profondamente, contando in silenzio i secondi destinati a dividerlo dal gelo della notte. Infine lasciò che il suono stridente dei cardini prendesse il posto di quell’insolito torpore.
Il suo respiro si piegò inconsciamente in un verso smorzato, mentre le labbra lasciarono scivolare silenziosamente un nome che mai più avrebbe pensato di poter pronunciare senza temere di finire ancora una volta vittima delle proprie paure.
- Sanji... – sussurrò cauto, arretrando di pochi passi al sapore amaro della nicotina lungo la pelle gelida delle braccia. E generando un innaturale sorriso sugli zigomi alti del biondo.
Qualcosa che su quel viso diafano apparve forte come uno spettro oscuro.
- Sbagliato, pirata di merda. – un colpo.
- Il mio nome è Trevor, ma dubito che avrai abbastanza fiato in gola per pronunciarlo quando me ne sarò andato via di qui. -  
Un unico, misero colpo che lo fece ritrovare scagliato dalla parte opposta della cucina, travolto dalla pavimentazione della nave. Riuscì a rimaner cosciente il tempo necessario per vedere l’espressione del ragazzo mutare ancora una volta, sino a divenire una maschera racchiudente rabbia e dolore.
Sentimenti che raramente avrebbe pensato di poter scorgere aleggiare attorno a se.
- Meno uno. – lo sentì sussurrare.
- Ne mancano ancora sei. -


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Inizio le note con un piccolo chiarimento temporale, per volerci intendere.
Nonostante il capitolo sia diviso in tre parti, come penso ormai tutti avrete potuto notare, quelle distanti per spazi di tempo sono unicamente due. La parte di “ Trevor “ ( antecedente alla scena di Zoro e della nave) e per ultima ovviamente la scena conclusiva.

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Capitolo 15
*** 15. Catch me ***


15. Catch Me
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Lo chiamavano il cacciatore, aggiungendo spesso alla pronuncia di quel nome epiteti difficilmente riconducibili alla furia di un unico uomo. Non avrebbero avuto alcun modo di capacitarsene, ancor prima che poterli accettare del resto.
Carpire il voluttuoso piacere nascosto alle spalle di ogni assassinio era qualcosa che quello sguardo ancora riuscisse a negarli con estrema abilità, nascondendosi spesso dietro una splendida maschera. Apatica.
Ed ingannevolmente camuffata in un’espressione aristocratica e gentile.
Eppure loro sapevano, o per lo meno la loro mente era riuscita ad indirizzarli più volte verso una verità impercettibile. Vedevano e capivano.
Coglievano scorci di quel ragazzo temendolo, ma sforzandosi pur di riuscire ad andare avanti senza provare più alcuna paura. Era il loro superiore, non ne avrebbero avuto alcun motivo.
Lui si limitava ad ignorarli il più delle volte, lasciando trapelare la propria ira dietro ordini perentori. Non gli importava cosa potessero pensare di lui.
I loro giudizi non avrebbero potuto in ogni caso minimamente rientrare a far parte degli oggetti degni della sua attenzione. Lo pagavano per eliminare quella feccia, ed in sin dei conti il suo spirito ferito non avrebbe potuto chiedere di meglio. Il resto non sarebbe dovuto importare.
Lo chiamavano il cacciatore, ma in realtà era un bracconiere.
Agiva spalleggiato dalla legge per compiere ingiustizie, viveva dell’ombra per cibarsi poi delle luci della ribalta. Uccideva per diletto ancor prima che per dovere.
Semplicemente si divertiva nel farlo.
I volti attoniti dei pirati lo facevano sorridere, ennesima prova della debolezza umana. Tanto forti con una pistola in mano e poi ridotti ad esser semplici agnelli supplicanti quando la parte del cane cambiava improvvisamente direzione.
Erano feccia. Ed il suo compito era di eliminarne quanta il più possibile.
Si ritrovò inconsciamente a sorridere quando le voci spezzate della ciurma raccolta attorno a se lo ricondussero violentemente alla realtà. Si ostinavano a chiamarlo ancora con quel nome insulso, derivato dallo scherzo di cattivo gusto di qualche matematico.
- Si può sapere che diavolo ti è preso!? -  spesso accompagnati da interiezioni di dubbia provenienza.
- Sanji... – un batuffolo caldo di pelliccia sfiorò lentamente il suo polpaccio. Chinò lo sguardo, incontrando quello smarrito di ciò che a prima vista sarebbe potuto apparire come un buffo animale domestico.
Con la sola differenza di una voce squillante al posto del monotono verso ed un delizioso cappello rosa a guarnire il tutto. Le sue labbra si dischiusero in un’espressione di disgusto.
Ed ancor prima che la giovane renna avesse avuto modo di accorgersi del movimento felino attorno a lui, il suo corpo si ritrovò scagliato a parecchi metri di distanza dalla prua. Infrangendola al proprio passaggio.
- Detesto i procioni. – fu il laconico commento ad un gesto che riuscì a risvegliare l’intera ciurma dall’apparente stato di torpore in cui sembrava esser improvvisamente sprofondata.
Continuavano ad osservarlo senza capire, o forse si sforzavano pur di potere ignorare la realtà dei fatti.
Era tornato, finalmente.
- Si è rotto subito, che peccato... –
Per ucciderli.
- Io non so chi tu sia... – la voce di Rufy lo raggiunse in un urlo agghiacciante. Ma sapeva che non era paura a guidare le parole del giovane ricercato, né tantomeno ad intaccarne il suono.
Era la rabbia a muovere le redini di quel gioco fatto di sguardi e silenzi. Solo semplice furia, nascosta per sin troppo tempo per temere di non poter più esplodere.
- ...ma giuro che ti spaccherò il culo a calci per aver fatto questo ad un mio compagno! -  in una nube di polvere e detriti lo vide arrivare, ovattato dal suono oscuro della notte. Sorrise, limitandosi a portare una sigaretta fra le labbra sottili.
Non avrebbe potuto chieder di meglio.
- Soru. -  il suo corpo scomparve fra le tenebre della nave, per infine riapparire in perfetto equilibrio lungo il braccio del ragazzo. Si lasciò condurre dal movimento di rientranza dell’arto, attendendo unicamente il momento propizio per colpire.
- Veau Shoot! – ed allora l’impatto fu assordante.
Lo vide crollare sotto un semplice colpo, ai suoi piedi, come se sino a quel momento fosse stato tenuto insieme da un’ingarbugliata matassa di fili. Le travi si spezzarono all’impatto della gamba con la pavimentazione, distruggendosi in centinaia di minuscoli frammenti.
Una pioggia che avvolse entrambi i duellanti, ricoprendone però unicamente uno solo con il proprio manto.
Il capitano. Sconfitto.
Scostò il piede lungo le assi del ponte, preparandosi a sferrare il colpo di grazia. Ma un insieme confuso di braccia lo bloccò in una mossa improvvisa.
Si scoprì a sorridere, stringendone distrattamente uno fra le lunghe dita.
- Nico Robin. – sussurrò in un tono appena percettibile. – so tutto di te, demone. -  in un gesto fluido le sue labbra incontrarono la flebile fiamma della sigaretta, passandola avidamente lungo la pelle.
- So ogni cosa del tuo potere. – la mano si strinse attorno al polso della ragazza, portandolo all’indietro con uno scatto secco. Un urlo di dolore, infine centinaia di petali cadere con grazia attorno al suo viso.
- Basta ferirne uno di questi per provocare danni all’originale, no? – e persino dell’espressione gentile lungo i contorni diafani della splendida archeologa non rimase che un semplice riflesso.
- Mi deludi, ragazza. È in questo modo che credi di portare alto l’onore del mitico popolo di Ohara? -  rimase in silenzio dopo che l’ennesima lancia ebbe avuto modo di trapassare il cuore ferito dei suoi compagni.
Qualcosa ancora mancava all’appello. Era il suo istinto a gridarglielo.
I suoi occhi si alzarono lentamente verso le ampie nubi notturne, sperando quasi di riuscire a scorgervi quel qualcosa passarvi attraverso. Sapeva che sarebbe giunto dall’alto, quasi come una punizione divina a tutto il male compiuto sino a quel momento.
Ma la notte si limitò a sorridergli beffarda ancora una volta, carezzando con la propria brezza la chioma ribelle di una ragazza ora in piedi dinanzi a lui. Lo fronteggiava brandendo un semplice bastone, come se da quell’oggetto fosse dipesa la salvezza dell’intera ciurma.
Tremava, cosciente che probabilmente avrebbe preferito vederli morire uno ad uno piuttosto che attaccarlo.
- Bel souvenir! Ci appendi le tendine in bagno? -  le si avvicinò lentamente, sorridendo beffardo alle sue paure. Le riusciva a sentire.
Nitide aleggiare attorno a loro e circondarli in una fitta nube. Prenderla in disparte e scuoterla sino a farla cadere ai suoi piedi. Belle come il profumo che la sua pelle portava con se, come una dote innata.
Profonde come il respiro contro quel petto adesso agitato dal contatto con le sue mani.
- Fai bene, ladra. Qualcuno potrebbe anche eccitarsi vedendoti senza nulla addosso, sai? – scoppiò in una risata roca, destinata a conservare del gaudio unicamente una semplice astrazione. La sua condizione non gli aveva lasciato nient’altro che questo.
- Non guardarmi così, navigatore! Sono venuto unicamente per cortesia questa sera! – in un balzo impercettibile si spostò lungo il pennone della nave, osservando soddisfatto l’operato della propria distruzione dall’alto. Nessuno sembrava esser in condizioni di poterlo udire, ma poco contava.
In sin dei conti a chi rivolgersi se non all’esperto di viaggi dell’intera ciurma?
- Questo... – disse lanciandole un eternal pose scheggiato dalle lunghe intemperie – ...punta verso una piccola isola situata poco più a nord della vostra rotta. È una base della marina. -  flesse i tendini delle gambe preparandosi a sparire nuovamente fra le tenebre della notte. I suoi occhi si tinsero di un piacere intrinseco prima di dar modo alle labbra di pronunciare quelle ultime parole.
Il motivo che quella notte lo avesse spinto sino a loro.
- Per riavere Gamba Nera non avrete altra scelta che approdare su quelle coste. -   lo chiamavano il cacciatore.
Ma ben presto sarebbe divenuto la tanto agognata preda.



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Capitolo 16
*** 16. Hazel eyes ***


16. Hazel Eyes
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Tump, tump, tump.
Il suo tempo veniva scandito dalla frequenza di quel rumore. Non aveva la benché minima idea da quanto stesse lavorando a quella maledetta riparazione, ma dal numero dei colpi inferti alla prua poteva benissimo dedurre che ormai fossero trascorse più di due ore.
Ed allora tump, tump, tump.
Lo aiutava a non pensare, nonostante ormai scindere i ragionamenti dai movimenti del proprio corpo gli venisse naturale quasi quanto l’ascoltare quell’odioso ticchettio.
Era snervante ritrovarsi segregato in un misero angolo della nave, quando a pochi metri da lui le uniche persone a cui fosse riuscito a donare quel poco di fiducia necessaria ad una sana convivenza, si ritrovavano riunite ad elaborare sottili strategie d’attacco.
O di difesa che si voglia meglio intendere. Sapeva di non doversela prendere più di tanto, non le avrebbe ascoltate comunque.
Per ovvi motivi, certo.
Il non esser mai stato un tipo dedito a particolari piani sarebbe stata probabilmente una delle cause più evidenti. In sin dei conti non vi era problema che non si potesse risolvere con un paio di affondi decisi.
Peccato che gli altri non la pensassero come lui.
E poi qualcuno avrebbe pur dovuto riparare quelle falle. E fra un’archeologa con il polso contuso, una renna dolorante ed un cecchino ancora impaurito le scelte non è che fossero poi così ampie.
Meglio così. Avrebbe avuto meno interferenze a cui prestar ascolto.
Si fermò il tempo necessario per osservare l’ennesima trave scivolare con grazia dal cumulo poggiato contro la parete della nave e cadere in acqua con un tonfo secco. La quinta forse?
No, la sesta. O forse qualcuna di più.
Le sue mani raggiunsero distrattamente un ciuffo abbandonato all’aspra brezza marina, stringendolo con forza. Stava perdendo nuovamente la concentrazione, e con lei persino quel briciolo di autocontrollo che ancora fosse riuscito a tenerlo legato a quella merda di imbarcazione.
Perché Zoro sapeva, o se lo sapeva bene, che se non fosse dipeso da quell’insignificante parte del proprio cervello che si accendeva miracolosamente nei momenti di pericolo, a quest’ora difficilmente la ciurma avrebbe avuto un carpentiere improvvisato a prua. Anzi, con ogni probabilità, si sarebbe ritrovata costretta a cercare due compagni piuttosto che uno solo.
E di certo non lo avrebbe ritrovato nel luogo indicato da Sanji, o come diavolo adesso si ostinava a farsi chiamare, intento a prenderlo a calci nel culo; ma in qualche arcipelago sperduto, a parecchie miglia dalla destinazione data dall’eternal pose. Con l’orientamento aveva sempre avuto qualche difficoltà del resto.
Non gliene avevano mai fatto una grave colpa.
Ed allora tump, tump, tump. Lontano dalla realtà e da quei fottuti pensieri.
Non chiedeva nient’altro. Solo poter dimenticare per poche ore la sua propria vita ed ogni singolo, dannato dolore derivato dal suo corso.
Ma quel Dio di cui tanto amava diffamare il nome non aveva mai prestato particolare attenzione alle preghiere di un dannato. Ed una semplice sofferenza non sarebbe mai stata sufficiente per le sue forti spalle.
Avrebbero potuto sopportare molto di più.
- Stai sanguinando, buffo. -  ma sarebbero state talmente possenti da riuscire a sorreggere persino la debolezza del proprio capitano?
Il suo capo rimase volutamente chino sui rifasci della nave, deciso a non incontrare lo sguardo di Rufy. In passato aveva già commesso questo fatale errore, e ciò che non vi aveva scorto non gli era piaciuto per niente. Ovviamente questo parlando in chiave eufemistica.
Nella realtà più vicina era riuscito a condurre ogni suo buon sentimento verso quel dannato damerino al diavolo. E con lui persino parte di quell’umanità che a fatica la vicinanza con la ciurma era riuscita ad estrapolare dal suo corpo.
Adesso non avrebbe più ceduto alle proprie emozioni. E quel fottuto cuore che ancora gli gridava di osservare lo spirito spezzato del proprio amico sarebbe benissimo potuto andare a quel paese accompagnato dalla propria parte razionale.
Ne aveva abbastanza.
- Perché mai? -  i ruoli si erano invertiti, e la spiacevole sensazione di esser stato mandato a fanculo dal suo stesso io lo spinse a sorridere quasi inconsciamente. Non credeva che avrebbe potuto cedere così facilmente.
- Sei stato il solo a non averlo affrontarlo ieri notte. -  
- Ma in compenso mi è toccato far fronte alla squadra di pivellini che si era portato con se. – o per meglio voler specificare, grazie alle informazioni carpite fra un’imprecazione ed un urlo di dolore, alla flotta aggiuntiva che Garp aveva mandato per controllare il risultato del proprio operato. E che Sanji stesso aveva tentato di far fuori ancor prima di salire a bordo della Sunny.
Dannato cuoco, non sarebbe mai cambiato. Sempre a voler fare la parte dell’eroe solitario.
- Capisco... -  rimase in silenzio, attendendo quel timbro odioso richiamarlo ancora una volta accompagnato da qualche debita idiozia. Ma unicamente il suono smorzato del vento gli giunse in risposta.
E fu peggio che dover esser costretto a seguire il fiume dei propri pensieri.
- Dovresti andar a far controllare quel livido.. non mi piace affatto. –
- Secondo te... – il suo tono soffocato scandì le pulsazioni di quella voce adesso ridotta ad un flebile battito.
Si strinse nelle spalle sperando di riuscire a trovar la forza pur di riuscire ad incassare persino quel maledetto colpo. Non ne aveva, questo lo aveva sempre saputo.
Ma sperava che il proprio animo riuscisse ad infondergli parte di quell’indifferenza che per quasi diciannove anni aveva alimentato il suo spirito incrinato.
- Secondo te stiamo facendo la cosa giusta, Zoro? -  illuso. Ci credevi ancora Roronoa?
- Cosa intendi dire? –
- Volendo andare a prenderlo. Stiamo facendo la scelta migliore? -  non lo aveva mai visto vacillare. Semplicemente gli eventi trascorsi lo avevano portato a credere che il suo cuore fosse incapace di provare un simile sentimento.
Ma per quanto strano, imprevedibile e flessibile il loro capitano era pur sempre un essere umano. Un ragazzino per voler entrare ancor più nello specifico.
E gli adolescenti vivono arrancando a fatica nelle proprie perplessità. Il fatto che difficilmente riescano ad esternarle non li rende più forti.
Ma solo vulnerabili. E Rufy era un debole fra così tanta forza.
- Non è la prima volta che uno di noi ci tradisca. -  
- Lo so. –
- E qual è la differenza adesso? –  era l’odio.
Il suo, il loro. E quello di una terza presenza che sino ad allora non aveva mai avuto modo di mostrarsi nella propria potenza.
Lui sapeva oramai, riusciva a sentirlo indistintamente pulsare nelle spesse vene della sua mano. Voglia di distruzione, desiderio di vendetta.
Quel dannato damerino non li aveva mai volutamente ignorati, quei sentimenti, faticando pur di riuscire a metterli a tacere anche per un singolo istante. Ma il loro grido era divenuto sin troppo straziante per sperare di non poter esser udito.
Ed alla fine si era ritrovato costretto a cedere.
- I suoi occhi. -  ed a morire stritolato nella loro morsa.
- Pretendevano sangue. Il nostro, Zoro. –
Di un dolore lento, che nessun Dio avrebbe mai potuto placare.
A breve, neanche il loro.


Passi pesanti riecheggiavano fra le lamine di quelle pareti.
Scintillanti ne seguivano il delicato corso, riflettendone il suono in echi precisi e possenti. Stancamente ne colse l’ennesimo battito giungergli di rimando, in parte ovattato dal rumore secco del proprio accendino.
Un’intensa boccata grigia sfiorò i suoi polmoni, spingendolo ad un roco sospiro.
Era stanco. Maledettamente stanco.
Si muoveva più per inerzia che per dovere impostogli dalla propria mente, e la cosa sino a quel momento era riuscita ad andargli più che bene. Ma per quanto ancora sarebbe riuscito ad andare avanti con quella messinscena?
Aveva bisogno di dormire. Scosse il capo, elaborando meglio un pensiero giunto sin troppo rapidamente.
Aveva necessità di metter ordine nella propria testa, ancor prima che nel sonno.
E di dare senso ad un caos divenuto ormai sua semplice proprietà.
I suoi occhi si alzarono lentamente alla sensazione dell’ennesimo corpo scagliato contro le sue esili gambe. Strinse con maggior veemenza la presa della sigaretta contro le labbra, lasciandosi sfuggire una mezza imprecazione.
Ancora quel dannato armadio in mezzo ai piedi.
- Oi, grand’uomo. Guarda dove metti i piedi piuttosto che leggere sempre testi sacri. -  aspirò l’ennesima nube opaca di nicotina, trattenendo a stento un sorriso soddisfatto.
- Non credi di esserti spinto un po’ sin troppo oltre per sperare di poter più raggiungere la luce eterna? – può apparir strano sentire parlare un demone di paradiso.
Ma se in quel diavolo vive ancora un po’ di luce, allora il paragone non diviene poi così paradossale. Capirlo sarebbe stato il solo modo pur di riuscire a riportarla fuori da quella morte apparente.
E dall’oblio forzatamente impostogli dall’uomo dei Sette.


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Capitolo 17
*** 17. Silent tears ***


17. Silent Tears
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L’aria torbida della notte continuava a sospingere le onde verso riva, inducendole ad incresparsi in un lamento sofferto. Socchiuse gli occhi, lasciando che quel sussurro ininterrotto plasmasse i propri pensieri.
Nonostante avesse trascorso l’intera infanzia cullata da quel battito fremente, non era tutt’ora certa di avervi prestato la dovuta attenzione. Grave errore, ladra.
Grave, grave errore.
Perché il mare è infido e tu lo hai sempre saputo, pur volendo ostinatamente ignorare il suo richiamo. In una battaglia continua, in cui sei sempre stata delineata come eterna sconfitta.
Il tuo capo si reclina dolcemente mentre un paio di dita infastidite trovano posto fra i lobi pallidi delle tempie. Non sei ancora del tutto sicura di poter farci l’abitudine a questo genere di rumore.
E’ un suono di cui tutt’ora conservi un ricordo lontano, abilmente nascosto da un intenso profumo aggrumato. Non è fatto di storie, ma di semplici attimi.
Sono pensieri di festa quelli che adesso stai rivivendo con affetto, io lo so ladra, in sin dei conti in questi anni non ho sperato che in un loro ritorno. Chiudi gli occhi infastidita, e le tue mani si trovano a sfiorare lentamente il legno posto dinanzi alle tue gambe minute.
Da quando le sue schegge sono penetrate in quell’arido terreno, persino le tue ossa sembrano esser riuscite ad incurvarsi sotto il loro peso. Troppo incombente per una bambina portata a piangere raramente alla lapide materna.
Ed allora ti trovavi costretta a corrervi segretamente, a quella tomba. Versavi lacrime che per nascondere dovevi celare dietro torvi sguardi d’odio, tramutando spesso i singhiozzi in cupe imprecazioni.
Ma questa notte sei libera, ladra. Con lei.
Perché non piangi?
Le tue labbra incontrano l’aspra brezza della sera, la ricevono aprendosi lentamente. Non tremano.
Non si muovono, se non per salutare in un sordo sbuffo l’arrivo di passi pesanti alle tue spalle.
Non le devi biasimare, anni passati a rimaner chiuse per non attirare l’attenzione altrui le hanno ridotte a mal sopportare qualsiasi presenza. Dovresti saperlo, ladra.
Rimani immobile mentre, in un volo leggero, percepisci il cotone di una giacca cadere con grazia sulle tue spalle. Le dita si muovono con rabbia contro il tessuto; sai che la tua pelle non potrebbe accettare un simile affronto.
In sin dei conti carità ed orgoglio non sono stati fatti per coesistere insieme, e tu hai sempre detestato la prima di quell’insignificante lista. Ma non te ne sei mai fatta un’eccessiva colpa.
Inspiri un po’ di quell’aria amarostica, ed in un pensiero quasi inconscio ti ritrovi a stringer con maggior fermezza la presa attorno a quell’inutile pezzo di stoffa. Ha un buon odore, vero ladra?
Il tuo odio, la tua insofferenza.. È realmente bastato un piccolo profumo per farle dissolvere?
Si.
Ma non lo ammetterai mai.
Farlo significherebbe rimaner ancorata a quel passato che per così a lungo hai provato a distanziare. Ti renderebbe debole, e tu non lo sei.
Perché i deboli piangono, e tu non ne sei più capace.
- Mi dispiace. Per chiunque fosse. -  ascolti il suono di quella voce cullarti ancora un po’, assecondato dal brusio delle onde. Non è un timbro particolare, eppure ti scava dentro aprendo qualcosa che sino a quel momento avevi sperato non esservi.
È estraneo, e giudice. Ecco cosa ti frena, ladra.
Ed allora tieni ferma la lingua, ti ritrovi quasi ad imprecarle contro pur di non farla parlare. Non vuoi far sapere nulla di te a quel sussurro che ancora continua a sospirare aria calda contro le tue mani diafane.
- Era mia madre. -  e come ogni altra volta ti ritrovi ad inneggiare silenziosamente alla tua stupidità.
- Ognuno ha i propri demoni da rimpiangere... – il suo battito si inclina, diviene scheggiato come il legno che la tua pelle continua a stringere avidamente fra le dita. Non lo temi.
Senti unicamente il vuoto generato dal suo arrivo aumentare lentamente dentro di te e rapirti. Ne provi compassione.
E persino il tuo animo ti grida di incontrarne lo sguardo.
In passato tante persone sono riuscite a tradirti con semplici parole, ma a te era sempre bastato osservarle negli occhi per coglierne le reali intenzioni.
Che poi più volte abbia preferito lasciarti ingannare piuttosto che farlo tu stessa, è tutt’altra storia.
Il tuo viso si alza lentamente ed un sorriso gentile incontra le iridi profonde di quel volto. Ti fermi.
Lo osservi ancor più in profondità. Dimmi, cosa vedi ladra?
- Ed i tuoi sono ben più che un semplice genitore, dico bene? -  le sue labbra si inarcano in un sorriso aristocratico, ed una maschera opaca nasconde persino quell’ultima espressione di sofferenza.
- Ormai non importa più. -  affondi le dita nel legno della croce. Ne stacchi parte, osservandola scivolare dolcemente fra la terra ancora smossa.
Non è così, e lo sai.
- Il passato non si può cancellare, fa parte di noi. -
- Ma ferisce come se volesse uscirne... -  scuoti la testa, decisa.
Non è il passato a ferire, ma i ricordi che lo accompagnano ad ucciderti. E tu oramai sei morta così tante di quelle volte da averne perso il conto.
Provi una sorta di voluttuoso piacere nell’affogare fra le memorie dei tuoi pensieri, per poi risorgerne miracolosamente fortificata. Per quanto ancora riuscirai ad andare avanti così?
Le mani si stringono sulle schegge, ne vengono graffiate dai bordi. Ma non importa.
Il sangue cade a piccole gocce lungo i contorni morbidi della tua pelle, macchiandone il delicato colore. La ferita si allarga, viene dilaniata dal gelo del legno.
In cuor tuo speri che si possa spalancare così tanto da permettere a tutto quel dolore che ti porti dentro di fluire via, scortato dal sapore amaro dei tuoi tagli.
Ma i tuoi occhi si stringono, impedendo a quei pensieri di abbandonarti per sempre.
Si chiudono così tanto da lacrimare per lo sforzo. Ed allora le labbra si scostano, in cerca di una seconda via di fuga.
Ma tremiti le riempiono sin troppo velocemente, affogando le tue paure in un sordo singhiozzo. Poi un altro, ed un altro ancora.
Pur di non lasciare andar via quel passato cosa sei disposta a dare, ladra?Oltre l’anima ovviamente.
Quella l’hai già barattata da tempo con la tua libertà.
Ed adesso guardati.
Piangi come una bambina, e per cosa poi?
Per non lasciar scappare il solo ricordo che ancora ti tenga legata a quella donna. Per il terrore di vederlo andare via forse?
Lo ami ed allo stesso tempo lo vorresti vedere sparire per sempre. Ne fai forza per il tuo cammino, maledicendolo ad ogni passo.
Vorresti dimenticare, ricordandoti però ogni giorno un dettaglio accurato.
Senti un calore estraneo avvicinarti a se, e te ne distacchi. Ma la tua spinta è debole, la tua volontà sublimata dal desiderio di poter finalmente sfogarti cullata dal tiepido tepore di un abbraccio.
Ed allora vacilli. Rimani immobile, ancora distanziata dal corpo fragile di quel ragazzo.
Un altro singhiozzo ti scuote, facendoti tremare contro il suo petto. Percepisci il suo respiro delicato viaggiare lungo i lineamenti del tuo corpo, riscaldandoti ancora una volta.
- Shhh... – non dice nient’altro.
Nessuna parola inutile, nessun discorso di circostanza. Sa che non basterebbe a colmare quel fottuto vuoto.
Probabilmente non ne toccherebbe neanche il bordo cadendovi.
Le sue dita sono aliti di vento contro il tuo viso, non pretendono nient’altro che asciugarne la pelle bagnata.
Cedi, ladra. Fallo una volta per tutte.
- Sfogati. –  senti la sua voce giungerti come un sospiro lontano, ed affondi il volto nell’incavo della sua spalla. Non vuoi che ti veda così.
Non vuoi che il mondo ti possa scorgere vittima di qualcosa che credevi di aver debellato per sempre.
- Io sono Sanji. –  lo percepisci appena, quel nome, ladra.
La tua mente lo allontana brutalmente dai pensieri, spiazzata ancora una volta da quell’odore di tabacco così tanto familiare. E dal profumo inconsueto di casa.

I suoi occhi si aprirono lentamente alla luce di un nuovo giorno. Sporchi ed umidi come ogni altra mattina, ma di lacrime giunte quasi inconsciamente.
In un sogno che l’aveva vista ancora una volta ferma protagonista del proprio passato. Del loro passato, si corresse amaramente.
E che tutt’ora faticava a lasciarla, come ogni altro, dannato, ricordo destinato a trascinarla dentro quel vortice che unicamente la sua presenza era riuscita a colmare.
Le dita incontrarono la pelle inclinata del proprio palmo, stringendosi con forza attorno alla sola cicatrice che sino a quel momento fosse riuscita a rimarginare.
Ma che ben presto, scortata da quelle paure in grado di farla ancora respirare, avrebbe ripreso a sanguinare.
Senza più nessun abbraccio a colmarne l’arcano gelo.
Senza più il suo respiro a cullarne il sordo pulsare. Sola, come sempre era stata.
E come ben presto, il destino l’avrebbe ricondotta.


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Capitolo 18
*** 18. Feelings ***


18. Feelings
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Notte di veglia, luna paziente.
La pergamena si incrinò silenziosamente al tocco veloce della penna, scivolando sulla superficie di marmo. Con occhi stanchi si ritrovò ad osservare l’ennesima linea di china brillare scomposta alla luce della camera, abilmente celata da alcune lettere mal fatte.
Notte di veglia, luna paziente.
Le sua labbra si aprirono ancora una volta pronte a recitare l’ammonizione che dal calar del sole l’aveva accompagnata in quell’esilio forzato. Una prigionia nata fra l’odore aspro dell’inchiostro, chiamato giudice a testimoniare la propria redenzione.
Sin troppo rapida per poter anche solamente pensare che le potesse già appartenere, ma sua.
E di questo non avrebbe potuto che essergli grata; era anche per quel motivo che aveva deciso di scrivergli.
Poche righe, nulla di estremamente impegnativo.
Perché allora da quasi tre ore fosse china su quella scrivania, cullata dal sapore intenso della carta, era qualcosa che i suoi pensieri stessero volutamente ignorando.
L’ennesimo foglio finì inesorabilmente accartocciato fra le sue dita sottili, crepitando al tocco della fiamma contro i bordi ricurvi. La punta acuminata della sfera vibrò pazientemente al contatto con l’ultimo risma, lasciando sporadiche scaglie d’inchiostro lungo il proprio scorrere.

- Cyborg-san -  

-    C’è sempre la prima volta, lo sai. Un giorno anche tu magari potresti smetterla di chiamarmi cuoco e pronunciare il mio vero nome, no?

Il ricordo di quelle parole affondò il colpo fra la carne già martoriata del proprio spirito.
Lo sentì dilaniare ogni buon sentimento che la rinascita portata da quei ragazzi era riuscita a far sorgere in lei, deturparlo con l’odore aspro del sangue. Infine uscirne intatto così come era entrato.

- Franky-san... -  

Non ne sarebbe divenuta l’ennesima vittima, non gliene avrebbe più dato il potere.
Più nessun altro sarebbe penetrato così tanto nel proprio cuore da bruciarne i battiti. Più nessuno l’avrebbe fatta soffrire per un affetto donato al vento.
Non era più una bambina adesso; la solitudine avrebbe potuto bussare più volte alla sua porta. Avrebbe trovato sette avversari da affrontare prima di arrivare a lei.

- Ti scrivo quest’ultima lettera prima dello sbarco... –

Ed una donna finalmente libera come ultimo ostacolo.



- Perfetto!Il mio capolavoro è finalmente ultimato! – un urlo acuto irruppe fra le spesse pareti della cucina, risvegliando dal proprio sonno gran parte dei suoi occupanti. Sguardi più o meno interessati incontrarono la figura ricurva del cecchino, ancora piegata sul piano d’appoggio del laboratorio di Usop.
O come Sanji aveva spesso amato definirlo – il centro di raccolta di tutte le merdate della nave - . Ed in sin dei conti, non in molti avrebbero trovato il coraggio di dargli torto.
Quell’insieme di tavole malamente ammassate avrebbe potuto realmente contenere tutte le stranezze della Sunny; dall’ultimo paio di slip da urlo di Franky alle ossa spolpate di Rufy. Eppure quella notte sembrava riuscire a serbare ancora una sorpresa ai propri, ignari, critici.
- Davvero Usop? E che cos’è? Cos’è? -  salvo le dovute eccezioni ovviamente.
- Una delle creazioni migliori di questi ultimi anni, mio fido Chopper! –
- Davveeero? –
- Certo! -  portandosi una mano al petto, il cecchino fece sfoggio di uno dei suoi sorrisi più enigmatici. Sin troppo ben evidenziato lungo i contorni scuri della propria pelle per poter anche solo sperare di passare inosservato. Vivo, bello. Felice.
Come da mesi sul ponte silenzioso della nave non ve ne si vedevano più.
Di tanto in tanto capitava che distrattamente qualche membro dell’equipaggio si abbandonasse a quell’insignificante gesto, inconsciamente ed in una forma ancora ben distante dal farlo apparire come qualcosa proveniente dall’animo. Spinto da un ricordo, una battuta. O anche una semplice immagine.
Ma poi inevitabilmente il suo sguardo si trovava a ricadere sulla cucina, o sull’odore acre del mare e del fumo che per così a lungo avevano caratterizzato la sua presenza. Ed allora ogni segno finiva irrimediabilmente con il dissolversi.
Le labbra si piegavano, ed il viso tornava ad assumere quell’apatia di cui, bene o male, tutti su quella nave avevano finito con il nutrirsi.
- E cosa avrebbe mai potuto creare uno squattrinato senza fondi come te? – ma non quel giorno. Non in quel momento quando di dubbi bastavano quelli creati dal profilo sempre più vicino della piccola Mihoy.
Sporgendosi dal liscio oblò della cucina era percepibile persino ad occhio nudo. Sarebbe bastato aguzzare la vista ed osservare l’indistinta macchia di terra oltre le onde burrascose di quel tratto.
Ma Nami sapeva che nessuno avrebbe mai osato tanto. Ed allora meglio portar su una splendida maschera, sufficientemente grande da ricoprire ogni loro, singola, fottuta paura. Meglio.
Molto, molto meglio.
- Un’arma a dir poco eccezionale! -  le sue dita si strinsero lungo le gambe minute, arrivando quasi ad intaccarne la pelle. Un’arma.
Era arrivato realmente a credere che ve ne sarebbe stato bisogno pur di riavere Sanji al loro fianco?
Si, come tutti gli altri del resto.
Il fatto che difficilmente lo avrebbero ammesso non cambiava di certo le cose.
- Una pistola Usop? – lo sguardo del piccolo Chopper incontrò il pelo ancora arruffato del proprio petto. In sin dei conti aveva sempre ritenuto necessario un ulteriore supporto da dopo l’attacco di poche notti prima.
Allora perché quelle lettere avevano un sapore così strano se accompagnate al nome di Sanji? Perchè le sue labbra tremavano al solo pensiero di poter rivolgere il cane della pistola contro l’assassino che aveva tentato di eliminarlo?
- Oi Chopper! Vieni ad aiutarmi con questo dannato aggeggio! – perché quell’insignificante batuffolo ancora tiene a lui. Ecco la risposta ad ogni tua perplessità Roronoa.
Riesce a provare nei confronti di quell’inutile damerino un affetto che il tuo animo ha forzatamente cancellato dai propri ricordi. E ne soffre.
Ma tu questo non puoi capirlo, lo allontani brutalmente da te. E speri di riuscire a fare altrettanto con la vostra piccola provvista di scorta chiamandolo sul ponte, ad una sufficiente distanza da quella barra di metallo.
E dall’odio che un suo semplice scatto potrebbe riportare miracolosamente alla luce.
- E’ in questo modo che conti di riportarlo sano e salvo fra di noi? -  il suono sofferente della porta ovattò parte di quella frase, rendendola ancor più leggera di quanto la sua voce avesse voluto far scandire.
Eppure per lo sguardo del cecchino fu sufficiente.
Lo vide chinare il capo e portare una mano fra la chioma corvina, scompigliandola ancor più di quanto la natura le avesse concesso di essere.
- Da dopo quella notte Nami, noi... -
- Noi cosa, Usop? Non abbiamo scelta? Non abbiamo speranze? -  lo vide stringere gli occhi talmente tanto da credere di vederli sparire lentamente fra gli zigomi opachi. E per un attimo desiderò che persino il suo spirito potesse fare altrettanto.
Invece quel maledetto rimaneva ancora unito ai suoi pensieri, pronto a lottare in nome di un sentimento a cui tutt’ora faticava a dare un nome. Affetto forse?
Suvvia, ladra, non farmi ridere. Sai che di poter pensare molto più in grande!
- Noi non sappiamo più chi quel ragazzo sia. -
Sciaf.
Le tue dita ci mettono a tacere entrambi con quell’insignificante gesto. E sarei pronta a giurare che persino il pavido orgoglio del nostro cecchino abbia vibrato sotto lo scacco di quello schiaffo.
- Lui è nostro amico! -  non mentire. È qualcosa che hai dimenticato da tempo, non provare più a simularla con un tono che non ti appartiene più oramai.
- Non lo lascerò andare così... – brava, ladra.
Finalmente hai capito.
- Anche a costo di lasciarti uccidere dalla sua stessa furia? -
- Anche a costo di portarvi tutti all’inferno con me. –
Ma sarai sufficiente forte da sopportare persino quest’ultima verità?


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Capitolo 19
*** 19. Lost my way ***


19. Lost my way
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Le fronde incrinate dell’ ennesimo albero finirono con lo spezzarsi inesorabilmente contro la prua della nave. Facendone scivolare un’ultima parte contro il passamano, la navigatrice si ritrovò a sbuffare quasi inconsciamente.
Possibile che dopo quasi due anni trascorsi fra le onde increspate ed oramai loro gemelle, ancora quel dannato spadaccino non riuscisse a gettar l’ancora senza distruggere buona parte dell’isola?
Il suo sguardo si posò stancamente sul viso apatico di Zoro, incontrandone l’ espressione tagliente che da settimane oramai sembrava esser divenuta la nuova costante lungo i tratti rudi della sua pelle. Lo vide chinare il capo e masticare a fatica qualche imprecazione contro una costa sin troppo vicina.
- A terra gente! Si sbarca! – era il solo che di quella situazione sembrasse non accusare il minimo fastidio. Non un dubbio, non una singola, dovuta paura. Ma Nami sapeva che non era così.
Non sarebbe mai potuto esserlo del resto.
Non quando la persona che hai imparato a considerare più vicina a l’aver un fratello ti conficca un coltello poco sotto il cuore, divertendosi a farlo scorrere contro la tua pelle. Plagiandone le pulsazioni, ed assecondandole.
Vivendo della tua rabbia sino a sentirla scoppiare dentro di se, e solo allora lasciandola libera di uscire.
Quell’arma aveva lasciato la propria cicatrice nell’animo di quell’idiota di uno squattrinato. E nessuna medicina ne avrebbe più potuto riunire i lembi, adesso che il solo che sembrasse averne tutte le facoltà aveva deciso di lasciarli.
Amaramente si ritrovò a scuotere il capo, correggendosi. Non li aveva lasciati; li aveva invitati a giocare.
Con la sua vita e qualche altra che ben volentieri avrebbe lasciato questo mondo anche solo per prolungarne di un solo istante il battito.
Possibile che non fosse ancora riuscita a rendersene conto?
No.
Ma non l’avrebbe mai ammesso. Né lei, né tantomeno quell’inutile testa di verza intenta a cercare ancora la via più breve per raggiungere il paese.
- Diminuisco il tempo di altri dieci minuti ed aggiungo cinquanta berry di puntata. -
- Io invece mi limito ad incrementare di venti. Ho la vittoria in mano, non avrebbe senso aggiungere altri soldi! –
- Davvero Usop? –
- Ma certamente, mio fido Chopper. Anzi! Ti ho mai raccontato di quella volta in cui... – le ultime parole del cecchino si persero in un lamento sommesso, in parte ovattate da quelle, seppur meno gentili, di Nami.
- Siamo appena sbarcati su un’isola sconosciuta, possibile base della marina. Non abbiamo uno straccio di indicazione, non sappiamo da dove incominciare a muoverci. Si può sapere... – e qui il suo tono si ritrovò ad abbassarsi nuovamente, sino a divenire un pacato sussurro – si può mai sapere che diavolo state facendo!? –
- Scommesse! – fu la laconica ed oltremodo acuta risposta di un capitano a cui probabilmente l’entità della situazione non fosse ancor del tutto chiara.
- Scommesse... –
- Esatto! Usop dice che Zoro sarebbe capace di perdersi in dieci minuti, ma io sono fermamente convinto che questo non sia possibile! –
- Almeno questo. - dedita probabilmente al volere di qualche misterioso Dio, la ragazza si ritrovò a rispondere monocorde all’affermazione dell’amico.
Strano per un corpo il cui cervello da quasi due giorni imponeva di far piazza pulita di quell’inutile cozzaglia di gente più comunemente definita con il nome di compagni.
Per quale assurdo motivo poi, era ancora tutto da decidere.
- Non gliene do più di tre! - non lo aveva fatto quando li aveva traditi per la prima volta.
Non lo aveva neanche pensato nel momento in cui si era ritrovata costretta a giocare con i sentimenti altrui pur di non ferire più i propri; ma adesso Nami provava l’insostenibile voglia di rannicchiarsi in un angolo e piangere.
Almeno avrebbe riempito la propria mente di utili singhiozzi piuttosto che delle loro cazzate.
- Fatela finita una buona volta! – la discussione incontrò la propria fine scontrandosi contro le sue nocche gelide. Ed anche parte dello stato di coscienza dei due amici, parve riuscire a seguire parte di quel percorso.
- Non credi di aver esagerato navigatore? – con occhi stanchi si ritrovò ad incontrare lo sguardo pacato di Robin, sorridendole mestamente. Dopo quasi un anno trascorso a lottare con degli emeriti idioti era stato bello trovare finalmente qualcuno che riuscisse a capirla.
- Affatto. Piuttosto, dove diavolo è andato a cacciarsi Zoro? –


Non si era perso, di questo ne era fermamente convinto.
I suoi passi lo avevano solo condotto a scegliere un percorso alternativo per raggiungere quella dannata base. Un ameno angolo di paradiso immerso in una fresca culla di verde e sapori decisi, a cavallo fra la costa e l’entroterra.
Una pianura dimenticata persino da Dio, si limitò a constatare, lasciando ben poco spazio all’immaginazione ed alla poesia.
Una fottuta pianura, aggiunse quasi inconsciamente.
I suoi occhi incontrarono gli ampi spazi di cielo, intervallati da nubi sporadiche. Il volo continuo dei gabbiani gli concesse di abbandonarsi ad un silenzioso sorriso.
Non si era allontanato poi così tanto dalla costa allora. Forse avrebbe potuto ancora sperare di tornare in tempo ed esser abbastanza cauto da riuscire a sfuggire al controllo serrato di quella strega.
In un movimento felino riuscì a percepire la pressione delle proprie unghie scavare contro la pelle ferma della mano, lasciandone impercettibili solchi sulla carne.
Non poteva essere. Non lì, non in quel momento.
Eppure i suoi sensi non avevano esitato a sbattergliela in faccia quella dannata allucinazione. E loro, erano probabilmente i soli che sino a quel momento non lo avessero ancora tradito.
Inconsciamente si scoprì di indietreggiare alla vista di quel demone lungo il suo cammino, respingendo a fatica un roco sussurro fra le pareti immobili della propria gola.
Rimase immobile, caricatura di una prudenza nella quale sembrava non aver mai avuto eccessiva fiducia.
Ed alla fine lo vide. E gli parve quasi di morire accompagnato dalla dannazione di quello sguardo.
Non lui, ovviamente. Aveva ancora un obiettivo da portare a termine prima di affidarsi alle amorevoli cure della nera signora a cui sino a quel momento era riuscito a sfuggire.
Ma la persona che scomparve dentro il suo spirito, sembrò trascinare persino parte di quell’ambizione con se. Uccidendola al proprio passaggio.
- Roronoa Zoro... - e divertendosi ancora ed ancora nel vederla scomparire fra quelle mani di pianista, diafane come il riverbero di un sole che non smetteva di scivolare lento contro i loro corpi.
Unico testimone di un odio covato sin troppo a lungo per poter sperare di non esser più portato allo scoperto.
- Ricordo indistintamente di aver udito il termine demone associato al tuo nome. - le sue labbra si spezzarono in un sorriso sghembo, curvandosi gentilmente lungo gli alti zigomi. Non lo aveva mai temuto.
Quel ragazzo, quella dannatissima ciurma; non era mai riuscito a provare alcun sentimento verso di loro che non fosse semplice odio. Astrazione di qualcosa che oramai credeva di aver dimenticato da tempo.
Il suo spirito continuava a provare quel voluttuoso piacere nell’incontrarli lungo il proprio cammino, ferendoli ad ogni passo. La loro vicinanza lo faceva sentir bene.
Il loro dolore quasi appagato.
Si ritrovava bene in quella situazione. Stranamente bene.
- Il fatto che ad incoronarti fosse una pianta di marimo sin troppo cresciuta deve essermi evidentemente sfuggito. - fu un attimo. Un singolo, fottuto attimo.
Ed il suo sguardo riuscì a cogliere a malapena lo spostamento d’aria portato alla luce dai suoi movimenti, le sue gambe ne scartarono per pochi istanti la traiettoria.
- Non osare pronunciare mai più quel nome!Non ne hai alcun diritto! - si ritrovarono così, l’uno dinanzi l’altro, nel loro primo, vero combattimento. Inconsciamente complici di un sentimento che ben presto avrebbe preteso molto più di semplice disprezzo pur di continuare a vivere.
Chinati al volere di un odio appagato unicamente dal sapore ferreo del sangue. E dal tocco arido della morte che ben presto vi sarebbe susseguita.


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Capitolo 20
*** 20. What do you fight for? ***


20. What do you fight for?
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- Sensei, può una spada provare sofferenza? -
- In un certo senso... -  le iridi antrace del giovane si ritrovarono proiettate nella distesa ambrata del proprio maestro. Inconsciamente si scoprì ad osservarlo in silenzio, ingannato da un colore che per troppe volte aveva finito con il tingersi del sangue dei propri avversari.
Eppure il suo corpo sembrava non riportare alcun segno. Le sue mani si muovevano delicate sulle lame, invitandole in una danza cordiale. Quell’uomo era bravo a nascondere la propria essenza.
Esser un demone a volte riesce a portare anche a questo.
- Colpiscimi. –  i suoi occhi si spalancarono, riuscendo così a trovar via di scampo da quell’oceano color miele nel quale sembravano esser stati imprigionati. Con un feroce colpo di reni si portò in piedi, fronteggiando, seppur in minima parte, la maestosa altezza del proprio mentore.
- Ma sensei... io non... –
- Colpisci, Zoro. Avanti. – non aveva mai ferito un avversario. Non volutamente, almeno.
Le braccia, sin troppo gracili per sperare di riuscire a conservare la forza necessaria ad un semplice affondo, si inarcarono contro l’elsa della spada. Strinse le palpebre, le fece lacrimare.
Infine liberò il colpo.
Il suono acuto del metallo si ripercosse sull’aria, curvandola lentamente. A miglia di distanza, oltre i monti chiamati a confine del Dojo, un freddo vento di tramontana sibilò prepotente nell’etere; ma la sua mente non riuscì a percepirne il sordo richiamo. Forse sin troppo impegnata nella ricerca di qualcosa che non era avvenuto.
Ritrasse la katana, limpida alla luce del sole.
- Io ci ho provato, davvero. Ve lo posso giurare, sensei. -  la sua voce si contrasse in un flebile sussurro, schiacciata da quella vergogna che lentamente stava sentendo crescere dentro il suo esile corpo.
Presto ne avrebbe assunto il completo dominio, ed allora sarebbe stato troppo tardi persino per un semplice sguardo. Meglio parlare in quel momento, sperando, pregando pur di riuscire a metterla a tacere.
- Questo lo so, ragazzo. -
- Ma allora... io non... io non capisco. – le lunghe dita dell’uomo trovarono rifugio fra i riflessi argentati della lama. Le vide scorrere lentamente contro la fodera, sfiorarla con un affetto ritenuto oramai fraterno.
Solo infine ritrarsi con grazia, nascondendosi fra le pieghe vermiglio del proprio kimono.
- Cosa ha frenato il tuo attacco? -
- La mia volontà, sensei. – un sorriso limpido prese parte fra gli zigomi delicati del suo volto.
- L’anima della spada ed il volere di colui che ne detiene il controllo sono legate indissolubilmente, Zoro. Non puoi pretendere che una spada soffra, se non è capriccio di chi la impugna a voler così. –


Non aveva mai guardato al proprio passato. Era qualcosa che sino a quel momento era riuscito a sfuggirgli sempre abilmente, in parte nascosto dal desiderio di volgersi verso l’avvenire.
Ma in quel momento, intrappolato da una sottile cortina di fumo e dai colpi feroci del proprio avversario, la sua mente non riuscì a pensare a nient’altro. Cercava risposte che difficilmente una concezione reale avrebbe potuto darle, rifugiandosi fra ricordi sbiaditi.
Ed allora il loro ritorno fu improvviso. Veloce, sgradevole.
Forte come la consapevolezza di non poter agire se non andando contro il volere della propria lama. Perché Zoro sapeva oramai.
I suoi pensieri gliel’avevano mostrata sin troppo chiaramente quella verità per sperare che potesse sfuggirgli ancora una volta.
Lui non l’avrebbe attaccato.
Era la sola condizione che quella fottuta Katana gli avesse imposto per non soffrire nuovamente; non macchiarsi di sangue fraterno. Non l’aveva preteso quando, poco più che bambino, faticava anche solo per riuscire a sorreggerla.
Adesso semplicemente si limitava ad urlarglielo, con quella voce impastata dal vento e dal metallo che tutt’ora ne scuotevano le lame.
- Stare con la feccia ti ha portato al suo livello, Roronoa? –  i muscoli del braccio si ritrovarono a guizzare rapidamente sotto la pelle mentre, con un movimento felino del bacino, le forti mani lo portarono a fronteggiare l’ennesima verticale. Ma la voluta mancanza di forza di quell’affondo lo fece indietreggiare, infastidito. Ridicolo, semplicemente ridicolo.
E si ritrovò così a fronteggiarlo nuovamente, arrivando quasi a scrutarvi l’anima per mezzo di uno sguardo.
- Ti diverti a prendermi per il culo, spadaccino di merda? –  le labbra calcarono con forza la presa attorno a ciò che rimaneva di uno scheggiato mozzicone, tranciandone i bordi. Lo vide osservarlo truce e reprimere a stento un ghigno compiaciuto.
Si stava persino divertendo, il bastardo.
- Non sarebbe la prima volta. –  il ricordo di poche notti trascorse riprese a farsi strada fra i suoi pensieri. Continuava a rivivere frammenti di quel passato, lasciando ad ogni sosta un dubbio sempre più grande.
Adesso si sarebbe dovuto unicamente limitare ad aggiungerne un ultimo a quell’insignificante lista destinata a crescere con la sua coscienza. Non gli avrebbe dovuto più dar alcun peso.
Era un marine, un soldato. Un assassino per voler entrare ancor più nello specifico.
Simili inezie sarebbero state destinate a lasciare il proprio corso durante il suo cammino, nulla più.
- Allora è per quel pezzente che mi stai affrontando?Per tenere vivo il ricordo di Gamba Nera? – illuso.
Credeva realmente che una semplice somiglianza fisica e qualche affondo indegno persino di esser chiamato con questo nome, lo avrebbero potuto riportare a quel tanto agognato passato?Agli scontri con quel dannato ricercato da settantasette milioni?
- E’ per ciò che sino ad ora lo ha mantenuto in vita che sto combattendo. –  i flebili bagliori del sole vennero catturati da un’informe massa di nuvole opache. Alzò gli occhi verso il cielo, colto dalla stessa sensazione che lo aveva raggiunto in così poco tempo sul ponte di quella nave.
La stessa che aveva preceduto la sua comparsa, scortata da un’impercettibile brezza. Quasi come con il terrore che un semplice bastone non fosse sufficiente a preservarne la salvezza.
Che l’odore acre di mandarini non fosse percepibile anche senza il suo sostegno.  
Il riflesso spaventato di quello sguardo lo colse di sorpresa, spingendolo a sorridere quasi inconsciamente. Allora era per lei che stava combattendo? Per una mocciosa stupidamente innamorata?
- Parli di pel di carota, vero Roronoa? E’ lei che vuoi difendere, non quel cuoco di quarta lega. – lo vide sbarrare gli occhi confuso ed indietreggiare. Bingo.
- Quindi è per amore che sei disposto a morire? Patetico. –  comprendere cosa un cuore sanguinante potesse far provare ad un’anima era qualcosa che il suo corpo aveva cancellato prepotemente. Lo aveva rimosso senza appello, stanco di provarne il dolore derivato dallo scorrere di quel liquido caldo.
Ed adesso la mente si ritrovava a fronteggiare quel vuoto senza nulla in grado di saziarne la voglia di conoscenza, incapace di mostrargli sensazioni che altrimenti non avrebbe saputo come spiegare.
Amare è consapevolezza, ancor prima che devozione. E lui la propria l’aveva persa oramai da anni.
- E’ per preservare ciò che è giusto. Ma tu questo non puoi capirlo... – le sue mani si strinsero contro lo sterno dello spadaccino, arrivando quasi a graffiarne la carne.
Lo vide sorridere ancora una volta, plasmato dal piacere di star rivivendo una scena già accaduta. Dannato damerino, non sarebbe mai cambiato in sin dei conti.
- Cosa ne può mai sapere uno sporco di pirata di giustizia? Come potete anche solo riempirvi la bocca di queste parole, dopo che le violentate ogni giorno con le vostre azioni? -
- Ma che bel discorso, i miei complimenti. Improvvisato o preparato da casa? -  il rumore smorzato del suo respiro si tramutò in un sordo ringhio. Lo sentì crescere lentamente sino a divenire un urlo di rabbia, estrapolato a forza da un cuore oramai annientato dalle troppe ferite.
Fu un attimo, ma Zoro riuscì a percepirlo come se qualcuno lo avesse appena ritratto. E la frustrazione che da quel semplice gesto riuscì a venir allo scoperto parve riuscire a travolgerlo, unita alla furia irrazionale dei colpi.
Un calcio, un altro ancora talmente forte da farlo piegare sulle ginocchia. Si ritrovò a sputare sangue, macchiando suole che sino a quel momento erano riuscite a sfiorarlo a malapena.
Adesso quei colpi lo marcavano con forza, spezzandone le ossa.
- Non accetto che un mercenario mi parli di ideali ed amore, Roronoa! So sin troppo bene cosa significhino, so quanto possano ferire! – quelle parole lo inseguivano, annebbiandone la mente.
- Tu non puoi proteggere un bel nulla, ancora non l’hai capito!? Un pirata certe cose è unicamente capace di distruggerle, fottuto idiota! – riuscì a sentirli, quelli insulti entrargli dentro sino a sfiorargli l’anima.
- Tieniti ancor stretto quell’amore di cui tanto ami riempirti la bocca. Perché strappartelo sarà il solo obiettivo che mi spingerà ad osservarti senza provare disgusto, pirata di merda. –
E nel buio che ben presto lo raggiunse, gli parve quasi di sentirne l’odio cercarlo fra le tenebre. E catturarlo, facendone preda per un cacciatore nato dalle ceneri di un sentimento stroncato.


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Capitolo 21
*** 21. Old regret, new fears ***


21. Old Regret, New Fears
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Le luci confuse della città continuavano a sfrecciarli attorno. Li investivano, travolgevano. Annientavano.
Unicamente nell’esatto momento in cui percepivano i loro corpi crollare sotto la potenza di quelle percosse sembravano riuscire a distaccarsene, per infine tornare al proprio stato originale.
Con occhi stanchi si riscoprì a cercarne l’ennesimo bagliore fra i tanti di una notte senza stelle, riflesso vuoto di pensieri che non l’avevano mai lasciata. Sorrise mestamente, chinando il capo un’ultima volta.
Sin troppe volte in quei giorni le sue iridi ambrate avevano incontrato la gelida pavimentazione del suolo, carezzandola amorevolmente con lo sguardo; ed adesso, Nami, era stanca.
Di doversi nascondere, di dover fuggire al minimo movimento. Erano pirati, ma in quel momento sembravano quasi nomadi senza casa e rifugio.
Si muovevano la notte, scortati dalla luna. Strisciavano lungo vicoli bui per infine ritrovarsi in luride taverne.
Ed allora dovevano sopportare i commenti di clienti sin troppo ospitali. Accompagnati, sempre più spesso, da gesti non propriamente galanti.
- E tutto per quel dannato idiota! – muovendosi in testa al piccolo gruppo, sapeva di non aver un interlocutore preciso a cui potersi rivolgere. Ma le sue parole erano semplici sussurri, borbottii fra i tanti delle tenebre; nessuno in ogni caso vi avrebbe prestato la benché minima attenzione.
Ed allora continuava a snocciolare pazientemente quella serie di insulti. Attribuiti ad uno spadaccino idiota, un cuoco nullafacente e, seppur in minima parte, a se stessa.
Non che fosse stata sua colpa esser finiti in una città grande quanto l’intera isola giudiziaria di Enies e fornita di uno svariato numero di guardie in più, ma attribuirsi parte del merito della fuga di Sanji conservava un qualcosa di stranamente appagante. Consolatorio quasi.
- Naaaamiii! – quasi quanto il desiderio di poter scatenare ogni singolo frammento della propria furia sulla zucca vuota dell’ingenuo capitano.
- Che c’è? –
- Ho fame! – presto appagata dal suono indistinto di un colpo contro la chioma opaca del moro. Lo sentì lamentarsi insoddisfatto, per infine tornare a chiudere i ranghi di quell’assurda marcia.
- Ma almeno fermarci per uno spuntino.. piccolo, piccolo. – aggiunse, come se quantificare le dosi con cui il suo stomaco avrebbe potuto saziarsi, avesse in qualche modo potuto addolcire l’animo della bella cartografa.
- Per l’ultima volta: no. –  continuava ad osservarli senza capire. Ignorando volutamente qualcosa che sino a non molti anni prima aveva fatto parte della sua esistenza, guidandolo pazientemente.
Per una volta avrebbe voluto poterli lasciare andare, tenendo finalmente a bada quel potere sin troppo maestoso per un corpo fragile come il suo. Ma il Governo non avrebbe mai potuto perdonargli l’ennesimo fallimento; lo avrebbe eliminato. Come aveva fatto con gli altri.
Privato dell’unico scopo che ancora gli permettesse di osservare il proprio riflesso senza provare la sorda nota di disgusto comune a tutti gli altri. Qualcosa cui persino Trevor non era riuscito a fuggire.
Qualcosa che sempre più rapidamente sentiva crescere dentro di se, rapendolo con grazia.
Ed allora si ritrovò ancora una volta proiettato in scena, dinanzi ai loro sguardi confusi. Affinò il proprio, lo rese tagliente come l’acciaio, ma tutto ciò che da quel corpo riuscì ad estrapolare fu l’immagine della sua morte interiore. Forse sin troppo evidente per sperare di non esser percepita.
Li vide fermarsi indispettiti e studiarlo con attenzione. Cosa avrebbero mai potuto vedere?
Un ragazzo dinoccolato, vagamente interessato all’universo in rapido movimento attorno a se. Probabilmente i loro occhi li avrebbero portati su quella cicatrice destinata a spezzare in due il suo splendido sorriso. Forse l’avrebbero ignorata, ancor più facilmente additata.
La differenza non sarebbe ugualmente poter esser scorta dal suo animo. Non l’avrebbe dovuta scorgere.
Erano pirati.
Feccia continuava ad urlargli una voce fra i pensieri, simile al tono gelido del proprio superiore.
Indegna persino di respirare.
- Si? -  si scoprì ad osservarli immobile, in parte offuscato dal gelo della notte. Le sue labbra si curvarono in un sorriso gentile, ed in qualche modo maledettamente vero.
Lo lasciò scivolare lentamente sotto i loro sguardi confusi, sino a vederli indietreggiare. I loro precedenti li avevano sempre insegnato al ben guardarsi da chiunque ostentasse una tale sicurezza.
La Grand Line non aveva mai lasciato grande spazio ai bluff, e la fermezza era un bene riservato a pochi eletti. Quasi sempre nemici, per giunta.
- La base mi ha mandato per scortarvi sino alle celle. Gradirei che mi seguiste senza opporre resistenza. – il suo tono era calmo, la sua voce di adolescente plasmata da una pace quasi interiorizzata.
Nessuno osservandolo avrebbe potuto attribuirgli avvenimenti difficilmente riconducibili ai trascorsi di un unico uomo. Nessuno osservandolo sarebbe mai stato in grado di scorgere al di sotto di uno sguardo limpido le vesti di un agente governativo.
Di un assassino, come Hige stesso aveva sempre preferito definirsi.
E quei ragazzi, quei pirati per primi, di certo non ne avrebbero avuto alcun diritto.
- Usop prestami la tua fionda... – a parlare fu un’ombra dai riflessi rossastri. Almeno questo, fu ciò che la tenue luce di un lampione gli permise di scorgere fra le tenebre opache della notte.
La sentì rivolgersi al probabile cecchino del gruppo, ostentando la medesima sicurezza che per sin troppe volte aveva visto aleggiare nello sguardo di Trevor. Rimase immobile, in attesa che quelle mani lo conducessero ancora una volta per una strada che non gli era mai appartenuta.
E che difficilmente avrebbe mai potuto farsi calzare.
- Ma è solo un ragazzino. –
- Sciocchezze!Il Governo non avrebbe mai mandato un pivellino ad accoglierci, non dopo Enies per lo meno. -  si ritrovò così a divenire un goffo bersaglio per un cannoniere altrettanto maldestro.
Lo poteva sentire indistintamente dal tremore lungo le sue mani, dal battito continuo dell’elastico contro il proiettile. Era ancora una bambina, nonostante tutto.
Una mocciosa poco più grande di lui di qualche anno.
Ed uccidere a quell’età, anche il solo pensarlo, è qualcosa che il proprio animo rigetta via come veleno asprigno. Lui lo sapeva; lo aveva imparato oramai.
Perché quella ragazza allora sembrava voler fare di tutto pur di riuscire a nasconderlo?
- Non serve spararmi. Ed in ogni caso con quella non mi faresti granché. -  le dita affondarono timidamente nelle tasche sformate del completo, sfilando una lunga barra di metallo. Una pistola per voler entrare nello specifico, ma lui detestava quel nome.
Gli ricordava l’odore indistinto della morte, e lui non l’aveva mai potuto tollerare.
La puntò contro le tempie diafane della fronte, tramutando il proprio sorriso in un abbraccio incorporeo. Silenzio. Infine il fragore indistinto del colpo.
Un urlo. Ed urla di dolore che mai più avrebbe pensato di poter sentire rivivere su di se.
Percepì i getti di vapore aleggiare attorno alla sua fronte, per infine ricomporsi in una scomposta massa corvina. Si limitò a sorridere, mentre con occhi sbarrati li sguardi dell’intera ciurma lo percorrevano in un unico tratto.
- Rogia. -  fu l’ermetico commento di una seconda voce, placida come il suo spirito.
- Qualcosa di molto simile al frutto ingerito da Smoker, se non erro. -  inconsciamente si scoprì ad annuire al tatto impalpabile di quel suono. Non credeva che più nessuno lo avesse potuto riconoscere così facilmente.
- Mi dispiacerebbe doverlo usare contro di voi, quindi vi prego vivamente di seguirmi. –
- No. – ancora una volta i suoi pensieri registrarono di malgrado l’intervento inopportuno di quella ragazzina. Per cosa stesse lottando così ardentemente era qualcosa che un animo ferito non avrebbe mai più potuto permettergli di comprendere. Ed allora meglio agire.
Tagliare il problema alla radice, senza inutili frustrazioni.

- Perché no, Nami-san? – le mani si aprirono lentamente, liberando dalla propria stretta l’arma dell’amico. Sentì il suono indistinto del metallo curvare il terreno, ma la sua mente riuscì a fatica a coglierlo aleggiare nell’aria. Era sovrastato da qualcosa che in sin dei conti non avrebbe più potuto respingere.
- E’ così facile, no?Vieni con me. – nuovamente il tono morbido di quella voce la raggiunse con grazia, sino a farla rabbrividire. Lo percepì pulsare contro la pelle diafana delle labbra, sfiorarla prepotemente con la propria potenza. Infine scivolarle addosso, come una fresca pioggia estiva.
- Tu non sei lui.. – non l’avrebbe mai violentata in questo modo. I suoi occhi non sarebbero mai stati in grado di scavare così in fondo nel suo animo inclinato.


- Nami, che ti succede? Nami!? –

- Sono io, non mi riconosci più? – affondò i pugni contro il suo petto, li fece scorrere con rabbia sui muscoli palpitanti sotto la carne.
- Tu non sei lui!Ti prego, basta.. – le percepì dure, quelle lacrime. Fredde come mai aveva pensato di poterle sentir scorrere su di se. Erano generate dal rimorso di averlo perso.
Dall’aver voluto distanziare a forza quell’amore incompreso, rivestendolo di insulti taglienti.
- Ti scongiuro.. – le sentì vive, quelle lacrime.
E per un attimo le parve quasi che potessero costringerla a tal punto da farla soffocare.


- Frutto mira- mira. -  si ritrovò così, inginocchiata sul terreno bagnato dal suo stesso pianto, ad udire quella voce per la prima volta limpida nella notte.
- E’ un particolare rogia derivato da un gas allucinogeno. Basta semplicemente aspirarne l’odore per veder proiettate le proprie paure... – i suoi occhi incontrarono il capo ancora chino della navigatrice, scosso da tremori impercettibili. Cosa, di quella visione, aveva potuto penetrare così tanto nella sua coscienza?
- O le proprie passioni. –  concluse infine, trattenendo a fatica un sospiro lungo la pelle diafana delle gote.
- Inibisce l’avversario ed al contempo ti permette di plasmarlo come meglio credi, esatto? – il sorriso gentile di una seconda donna lo raggiunse fra il torpore delle tenebre. Ricambiò titubante, prima di avvicinarsi alla ragazza ancora seduta ai suoi piedi.
- Non esattamente. Non sono io a decidere cosa la sua mente possa vedere; diciamo che mando semplicemente il segnale. Poi è il suo subconscio ad elaborare l’onda e trasmetterla successivamente agli impulsi nervosi. –  aveva sperato di non scorgere più il terrore nel suo sguardo. Ma quel Dio che così a lungo aveva abilmente evitato, non gli aveva mai prestato particolare ascolto.
Ed allora si era ritrovato ad osservare l’ennesimo viso riempirsi lentamente di lacrime, sino a farle sgorgare lungo i muscoli tesi delle spalle. Adesso ne percepiva unicamente i flebili tremori vibrare contro il corpo raggomitolato. Scuoterlo sino a farlo cadere.
- Non ti farò del male. Te lo prometto. – lasciò viaggiare il sapore amaro di quelle labbra contro le sue, inarcandole appena al gelo della sera. Lo sguardo spaventato della navigatrice si addolcì sino a divenire un pallido riflesso del proprio spirito; vuoto ed in parte incolume.
Lo vide spegnersi lentamente, vinto da un torpore partorito dal tocco caldo del gas lungo i contorno dilaniati della propria trachea. E cadde così, come una bambina cullata da una dolce litania materna.
Fra le braccia di un estraneo in cui per un attimo era riuscita a scorgere lo spirito pulsante di Sanji. E la vita tornare a scorrere, sebbene per brevi istanti, fra i battiti aridi del proprio cuore.


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Capitolo 22
*** 22. Let the flower of death bloom in me ***


22. Let the Flower of death bloom in me
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Sbalzi opachi in granito si curvarono alla pressione del suo tacco. Percependone indistintamente il sordo crepitare lungo il terreno arido della cella, aspirò l’ennesima boccata di nicotina.
Odiava i tempi morti.
Quando le giornate sembravano sin troppo lunghe per sperare di esser anche solo considerate, e le ore così assillanti da riuscire a sfuggire persino alla più serrata numerazione. Ed allora i minuti si trovavano a scorrere lenti, in quella base. La sua vita passava così, imprigionata in qualcosa che sin in dei conti non gli era mai calzato alla perfezione.
Lo sentiva costringerlo lentamente, senza un motivo preciso. Quasi come se dotato di volontà propria avesse improvvisamente deciso di ucciderlo. Non con rabbia, come il suo corpo gli imponeva di fare.
Senza passione o sentimento. Così, per sfogo.
- La... lasciami. Ti scongiuro... -
Trevor odiava i tempi morti, perché inconsciamente sentiva la sua stessa anima lasciarsi uccidere con loro. Ed allora le sue mani si trovavano a stringersi attorno a gole ancora pulsanti, decise a trascinar persino quei flebili respiri nel proprio inferno.
- Dimmi perché dovrei mai dar ascolto ad un pezzente come te. -  sentendole dibattersi pur di sfuggire ad una fine sin troppo vicina. Negando il proprio sguardo ad occhi oramai riflesso vuoto di un cuore altrettanto arido.
- H- ho due figlie... mia moglie mi a – aspetta... – le sue labbra si inclinarono in un sorriso leggero. Percepì i muscoli delle braccia guizzare timidamente sotto la pelle, innalzando parte del tessuto di un completo oramai logoro. Il suo fu un movimento felino, appena visibile fra le tenebre dure di quella prigione. Ma agli occhi dell’uomo apparve alla stregua di un atto finale.
E fu peggio che udire i passi delicati della morte, aleggiare appena alle proprie spalle.
- Tre splendidi fiori, immagino. Non temere, mi occuperò personalmente di loro. – un tremore improvviso lo fece sussultare di piacere. Sciocchi pirati.
Spinti da un futile coraggio divengono fratelli inconsci di un mare traditore. Ed incoraggiati da un cuore altrettanto labile si lasciano trascinare da passioni e sentimenti. Non importa chi sia a guidarli; sanno che non sarà mai il proprio volere.
Se dai venti o dal proprio spirito devono esser pronti ad accettare di buon grado gli ordini impartiti.
Non conta ciò che sia la mente a volere, dovrà sempre sottostare.
- No! Ti dirò ogni cosa, lo giuro! – per quanto un corpo possa esser forte, sarà sempre destinato a cadere sotto le urla incessanti di un’anima sanguinante. Che fossero quelle le voci che da mesi lo inseguivano?
- Ti prego... – che il flebile sussurro destinato a ritrovarlo ogni notte perso fra i propri incubi, pronto a guidarlo, fosse generato da quei sospiri sempre più forti?
- No. – il mondo tacque ed ossa oramai in frantumi si mossero candidamente sotto la sua pelle. Vide il corpo di quell’uomo scivolare cauto ai suoi piedi, per infine adagiarsi contro il duro metallo delle catene.
Il capo, ridotto ad una grottesca maschera di sangue, giacque riverso sulle spalle. Il collo, spezzato, ebbe un ultimo sussulto. Poi semplice, futile silenzio.
Mosse i primi passi all’esterno di quella cella, trattenendo a fatica un sorriso compiaciuto. Finalmente libero.
- Allora? -
- Ho provato in ogni modo a farlo parlare, ma ha resistito sino alla fine. Il bastardo. -  senza più costrizioni ed inutili sensazioni.
- Mi chiedo se le sue due perle siano in grado di dirci ciò che il padre ci ha voluto negare. – libero.
E destinato a vivere ancora una volta cibandosi di un tempo morto che da dopo quella notte finalmente avrebbe potuto ricominciare a scorrere.


Non aveva mai avuto un rapporto particolarmente idilliaco con l’acqua. E, differenziandosi da qualsiasi altra persona con un potere del diavolo libero fra i rivoli sanguigni delle vene, il suo scontento si ritrovava a crescere gradualmente a contatto con qualsiasi tipo di liquido.
Che fosse salato come l’oceano, o dolce e limpido come le gocce che il quel momento continuavano a scivolare lungo le superfici marmoree della cella, sembrasse quasi non contare.
Una mano si mosse felina sulle labbra diafane della ragazza ora sdraiata al suo fianco, portandolo quasi a chiedersi se anche per lei quell’odio fosse così radicato. Il suo nome continuava ad urlargliela, quella verità.
Ed in sin dei conti anche un istinto che per troppo tempo aveva tenuto recluso non faceva che ripetergliela; ad uno o all’altro avrebbe dovuto prestare ascolto. Prima o poi.
- Toccami ancora una volta e mi dovrai pagare un risarcimento pari al prezzo di tutta questa baracca. – il suono assonnato di quella voce irruppe timidamente fra le pareti della prigione.
Si scoprì ad indietreggiare nervoso, biascicando una serie di scuse e vaghe imprecazioni. Contro se stesso, quell’istinto di merda ed anche un non meglio specificato superiore.
Niente da dire, davvero uno splendido inizio.
- E’ una minaccia forse? -
- E quelle di prima sarebbero imprecazioni? – che vi fosse qualcosa in quella situazione che non tornasse, non era mai stato un grande mistero. Lo aveva intuito dal mondo in cui gli altri si erano spontaneamente offerti di essere condotti a quella base, dalla calma nel loro sguardo ed in parte persino dall’incubo che lentamente aveva preso forma nella mente di quella mocciosa.
Era persino riuscito ad abituarsi a quell’insensata normalità. Bè, in parte almeno.
Ma il veder le carte ribaltarsi ancora una volta in tavola era un fattore tutt’ora in grado di sconvolgerlo. E la leggerezza con cui quel tono lo stesse fronteggiando qualcosa in grado di mandarlo semplicemente fuori di testa.
Possibile che fosse il solo ad essersi reso conto di militare in una base della marina e non in un fottuto parco giochi?
- Bada a come parli, ragazzina. -
- Altrimenti? -  la vide sollevarsi su quel letto di amianto e trattenere a fatica una smorfia di dolore. Passare la nottata su una gelida lastra di metallo difficilmente avrebbe potuto lasciare altra espressione su quelle labbra carnose. Sorrise soddisfatto, incrociando le braccia a benestare.
Era ora che qualcuno, o qualcosa per meglio voler specificare, ridimensionasse l’ego spropositato di quella ragazzina. Un altro po’ ed avrebbero dovuto ampliare la cella per farli entrare insieme!
- Mi hai già visto una volta all’opera. Cosa ci guadagneresti da un secondo round? – le mani di Nami si ritrovarono a stringersi contro le catene della brandina.
La possibilità di rivederlo ancora una volta, ecco cosa quell’animo ferito avrebbe potuto donarle. Una visione dannatamente reale, tangibile a tal punto da farla rabbrividire.
Socchiuse gli occhi, tormentandosi con i denti il labbro inferiore. Fottuta debolezza.
- Ciò che vuoi, non è così? -  rimase in silenzio, in attesa di una risposta che da quel petto diafano sapeva non sarebbe mai giunta. Si ostinava semplicemente a scorgervi sentimenti taglienti, sperando, pregando che potessero essere sufficientemente forti da sorreggerla durante quel dannato Torneo.
- Lo hai già fatto, cosa ti frena? – il suo tono sembrava quasi una pacata supplica. Cercava il solo appiglio che ancora potesse legarla alla propria realtà, lontano da quelle mura sporche ed una luce rarefatta dalla polvere.
Lui lo sapeva, con una certezza rasente lo sfacciato. Lo aveva vissuto ed il suo corpo, benché formato, ne riportava ancora i segni.
Sulla pelle, nelle ossa. Ed a volte gli sembrava quasi di riuscirne a sentire le cicatrici graffiargli l’anima.
Quei segni non avrebbero mai smesso di bruciare; era riuscito a farsene una ragione. Oramai.
- Il poter ucciderti. – aveva visto sin troppe vite crollare lentamente sotto i suoi colpi. Dibattersi ai suoi piedi, implorare minacce inesistenti di lasciarle libere. Infine tacere, improvvisamente, come se qualcuno avesse spento un interruttore invisibile.
Ed allora si era accanito contro quei cadaveri, li aveva scossi, sollevati. Lasciati cadere inermi.
- E’ il tuo lavoro. -
- E’ la mia condanna. –
Inutilmente. Sapeva che non si sarebbero mai svegliati.

- Hige muovi quel culo di merda e raggiungimi nel salone centrale. Sengoku ci vuole vedere prima dello scontro.

La voce atona di Trevor pose fine allo scorrere dei propri pensieri.
Si scoprì ad accarezzare ancora una volta il viso contratto della navigatrice, mentre le parole dell’amico coglievano finalmente il giusto spazio nella sua mente.
- Sii forte, piccola mocciosa. – sciolse la presa di quelle catene, facendola scivolare con grazia contro le pareti ruvide della cella. Adesso il peggio sarebbe arrivato, e nulla lo avrebbe più potuto arrestare nella propria avanzata.
- Perché per uscire da qui le tue candide mani dovranno tingersi del sangue delle tue visioni. –
Facendo sbocciare, come ogni anno, candidi Iris lungo le coste argentate della pacifica Mihoy.


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Capitolo 23
*** 23. Only hope ***


23. Only hope
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L’impercettibile scuotersi di quelle catene riportava in vita passi altrimenti spenti.
Continuava a sentirli riecheggiare fra quelle mura d’amianto, rimbalzando senza alcuna remora contro corpi oramai vuoti, o prossimi a veder persino l’ultima speranza di un futuro volar lontano da loro.
A volte capitava che la sua mente non riuscisse più a coglierne il lento sfrigolio, ovattato in parte da sottili rivoli di sangue. Ed allora quasi inconsciamente si scopriva a strofinare quei polsi contro la pelle del busto, impregnandola dell’odore ferreo ed acido delle proprie ferite.
Non importava quanto potessero esser profonde; ora non le sentiva quasi più. Se per assuefazione al dolore o semplice intervento caritatevole di Hige sembrava quasi non contare, prima o poi anche quella sensazione sarebbe passata.

- Ho sempre desiderato che le mie mani restassero incolumi da qualsiasi colpo.
E quando qualcuno si ritrovava a chiedermi il perché, io mi limitavo a rispondere che era per esigenza; che un cuoco non può permettersi di rovinarle con sporche ferite. E a volte arrivavo a crederci anche io a quest’inutile risposta.. –
- Mentivi? –
- Anche con le peggiori contusioni una mano può stringere amorevolmente il manico di un coltello. Il gelo della lama sarà sufficiente a metter a tacere il dolore, ed il profumo amaro del legno ingannerà la mente il tempo necessario da permetterti di finire il piatto. Ma con una carezza.. con una carezza le ferite sembrano quasi riacquisire una propria volontà.
I calli divengono improvvisamente taglienti e le piaghe tornano a sanguinare. Senza remora o timore.
Ed ancor prima che tu possa accorgertene un semplice gesto d’affetto diviene fastidioso come quello stesso dolore. Io non volevo che Nami potesse soffrire vicino a me.
Non volevo che il mio tocco potesse farla sussultare di paura. Ma adesso, guardando queste deboli mani, mi rendo conto di quanto ogni mio sacrificio sia stato inutilmente sprecato.. –


La sua prigionia era trascorsa così, fra dialoghi malamente accennati con quel ragazzo ed il sapore inconsistente del sangue a scandire i loro giorni. Ed adesso, guardando con occhi stanchi il profilo ambrato della navigatrice, gli sembrava quasi di poter percepire le sue parole continuare ad aleggiargli intorno. Amare e forti esattamente come le ricordava.
Non sapeva niente di quella ciurma, eppure il semplice bagliore che guizzava nello sguardo di Sanji ogni volta che le sue secche labbra si ritrovavano a parlare dei suoi compagni era stato sufficiente a farlo entrare furtivamente nel loro mondo. Aveva imparato così a riconoscere le bugie di un cecchino non troppo accurato, o semplicemente a carpire ogni emozione nascosta nello sguardo silenzioso della splendida archeologa.
E ad amare. Provare qualcosa che ancor prima di incontrare quel cuoco aveva creduto di aver debellato per sempre, nascondendolo con grazia fra i risvolti eleganti della sua divisa di capitano.
Eppure, con Sanji, ogni cosa sembrava esser ritornata al giusto posto. La speranza, la voglia di vivere.
La ragione.
Sebbene prigioniero era riuscito ad insegnarli molto più di quanto qualsiasi maestro libero potesse mai anche semplicemente ambire.
Ma poi ogni cosa era cambiata, ed ora tutto ciò che di quel ragazzo gli fosse rimasto era uno sporco riflesso fra così tanta durezza. E l’ unica speranza in grado ancora di tenerlo ancorato alle propria realtà da salvare.
Nient’altro che questo.
- Quanti? -  una perspicace speranza, si ritrovò quasi inconsciamente ad aggiungere.
- Prego? –
- Quanti ne dovrò sconfiggere per poter uscire di qui? –
Non aveva mai creduto che qualcuno potesse anche semplicemente esser capace quanto lui di leggere le situazioni. Ma il sentire quell’affermazione sussurrata a mezze labbra, con la coscienza di star chiedendo informazioni sulla propria fine, lo costrinse a ricredersi su pressoché l’intera linea.
Si limitò a stringer maggiormente la propria presa contro il bastone della ragazza, lanciandole di sottecchi uno sguardo gentile. Dannati sentimentalismi.
Proprio in quel momento dovevano decidere di riaffiorare?
- La parte est dell’isola è una concava. Ed il tufo con cui i rivestimenti della prigione sono stati ricoperti è un ottimo materiale costruttore, adatto particolarmente a grandi edifici.
Anche nell’assurdo caso in cui mi avessi voluto uccidere, sono certa che i tuoi superiori non si sarebbero neanche presi la briga di far un’esecuzione in grande stile. In sin dei conti sono il pesce piccolo, io.
E poi portar con voi la mia arma non avrebbe in ogni caso avuto grande senso.
È logico quindi pensare che adesso mi stiate portando in uno spazio sufficientemente grande dove poter affrontare qualcuno. Uno stadio, o un’arena forse.
Quindi a questo punto la sola domanda che mi possa sorgere spontanea è : quanti ne dovrò fronteggiare per poterne venir fuori? -   il suo tono era calmo, la voce costante.
Se non fosse probabilmente dipeso dal fatto che fosse sicuro di trovarsi davanti ad una prigioniera di guerra, Hige non avrebbe esitato a scambiare quella ragazza per una delle tante studentesse universitarie dall’isola.
Indole glaciale, sguardo fiero. Era realmente per quei sentimenti che Sanji avrebbe dato tutto se stesso?
Oppure vi era dell’altro? Qualcosa che neanche il dolore era riuscito ad estrapolare da quel corpo minuto?
Rimase il silenzio, valutando accuratamente la situazione.
- Sono tre le regole che devi sapere per poter anche solo sperare di sopravvivere in quell’inferno. -
E rimanendo nonostante tutto piacevolmente colpito dal proprio, futile, attaccamento a quell’inutile esistenza. Qualcosa che per tornar a respirare avrebbe presto necessitato di scorgere la vita negli occhi di chi gli era accanto.
- Stammi bene a sentire, perché nessuno una volta lì fuori sarà più così volenteroso di rispiegartelo. –
Ed in quello sguardo ambrato era certo che il suo flebile bagliore non avesse mai smesso di scorrere.

Non era del tutto sicuro di esser uscito incolume dallo scontro con quel dannato cuoco; per lo meno per quanto riguardasse il proprio stato di salute mentale.
Il suo sguardo si incontrò ben presto con quello altrettanto sconcertato di un tremante cecchino, e fu solo in quell’istante che comprese, fortunatamente, di non esser divenuto completamente pazzo.
Non che la cosa potesse dispiacergli; spesso una sana dose di follia sa esser molto meno fastidiosa di una ferma razionalità, ma lo scorgere una renna intenta a leccargli insistentemente i piedi non era di certo il massimo a cui uno spadaccino potesse ambire. Ed allora si scoprì a fissare nuovamente l’amico, così, tanto per esser sicuro di non aver dato l’addio definitivo alla propria ragione.
- Ditemi che non è ciò che penso. -
- No, Zoro. Non è una bottiglia di sake. -  un roco ringhio proveniente dalla parte inferiore della trachea fu ben più che sufficiente a metter a tacere l’insidiosa vena umoristica del compagno. Ed allora fu semplice silenzio.
Fastidioso, inutile e oltremodo futile silenzio. Interrotto unicamente dal rumore di qualcosa di molto secco schiacciato fra due pesi.
Stridio sarebbe probabilmente stata la definizione più corretta.
- Bramito. – forse la sola con cui la scienza riconoscesse il verso insopportabile di una renna.
- Curioso. Generalmente così forte è proprio unicamente dei maschi in calore. –
Se vi era qualcosa in cui la colta Nico Robin sembrasse ancora difettare, era la mancanza di tatto. Non che fra guerrieri, conquistatori e mercenari fosse necessariamente richiesta, per carità.
Ma quando questi mestieri venivano svolti con accurato scrupolo da ragazzi poco più che diciannovenni, allora le cose si ritrovavano a mutare leggermente. Non di molto, in ogni caso.
Quel tanto che fosse sufficiente a lanciarsi una serie di sguardi più o meno preoccupati ed a stringersi in una cella la cui vivibilità fosse già delle più esigue. Trattenendo spesso a fatica risatine e commenti non del tutto appropriati alla situazione.
- Deve esser il fascino tenebroso del cacciatore di taglie ad averlo attratto. -
- Dici davvero, Usop? Fantastico! Era ora che le cose incominciassero a migliorare! –  
- E poi Zoro ha sempre nutrito una certa simpatia per Chopper... –  e soprattutto ai protagonisti di tali narrazioni.
Inutile specificare la velocità con cui, in pochissimo tempo, cecchino e capitano si ritrovarono malamente sbattuti contro le solide pareti della prigione. Divenendo così un improvvisato giaciglio per un altrettanto improvvisato animale da compagnia.
- Non credevo che della semplice algamatolite potesse avere effetti così devastanti sulla nostra provvista di scorta. -
- Derivando ogni sua abilità dal frutto del diavolo, presumo che questa fosse la sola reazione plausibile. – lasciandosi scivolare leggermente contro le sbarre della cella, Robin si scoprì così ad accarezzare affettuosamente il muso arcuato della giovane renna. Una testata, insolitamente delicata, fu la candida risposta dell’animale. Nonostante tutto, ancora legato a quell’insulsa massa di umani.
Così diversi dal branco che lo aveva rifiutato, forse perché ripudiati fra gli eletti. O ancor più semplicemente perché neanche appartenenti ad un determinato branco.
Questo Chopper ancora non lo poteva sapere, era un animale dopotutto.
Ma quell’istinto di cui tanto i suoi simili amavano vantarsi gli suggeriva di rimanere legato a quell’insolito clan. Molto più vivo di qualsiasi altro quadrupede che sino a quel momento gli avesse mai prestato ascolto.

- Non guardarlo negli occhi. Soffrirai molto meno al momento di dargli il colpo di grazia. -
Continuava a gridarglielo nonostante oramai le porte si fossero già chiuse alle sue spalle. Continuava perché non aveva altro; non sperava in altro.
Che tutto finisse il prima possibile, che il vincitore non fosse uno sconfitto interiore come ogni altra volta.

-    Nami Gatta Ladra, in quanto ricercata dal marina e dal Governo sei stata ammessa a partecipare agli scontri all’interno dell’ Iris Stadium. Congratulazioni. –

Che l’ennesima anima spezzata non crollasse sotto la certezza di aver pagato a caro prezzo la propria libertà.
- I miei omaggi, Nami-san. – ma sapeva che nessuna di queste esili speranze sarebbe mai stata udita.
Perché l’arena non l’avrebbe mai permesso, ed i fiori delle coste non sarebbero potuti sbocciare se non irrogati dal tiepido profumo del sangue.
- E le mie più sentite condoglianze. -
Perché per poter tornare a riaprirsi quelle porte avrebbero preteso semplicemente la morte di uno dei due sfidanti. E lui sapeva, che ben presto, una nuova luce avrebbe illuminato quello stadio.
Sorreggendo unicamente un corpo ancora pulsante di vita. Quello del vincitore.


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Capitolo 24
*** 24. Overcome the mind control ***


24. Overcome the mind control
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Gli edifici circostanti l’arena si tingevano di un bianco pallido.
Un colore schifosamente immacolato per pensare di poter anche solo appartenere ad uno dei più grandi plotoni d’esecuzione dell’intera fascia ovest della Grand Line.
Potevano mascherarne la forma con complicati intrecci di colonnati, avrebbero persino potuto abbatterla per ricostruirla interamente; non sarebbe cambiato di certo niente. L’odore di sangue e morte di cui ormai le sue pareti traspiravano non avrebbe lasciato il proprio dominio con così tanta leggerezza. Ed i miei sensi in sin dei conti non avrebbero potuto che essergli grati per questo.
Continuavano a respirare quell’aria pesante, muovendo la gabbia toracica in sospiri sempre più profondi. Era un profumo piacevole in fondo, il solo con cui ancora fossi in grado di dare un significato reale al termine appartenenza. Perché quello era il mio mondo, e volente o nolente avrei dovuto imparare ad accettarlo.
Non ammetteva nient’altro che quel sapore amaro, ed era piacevole.
In fondo.
- I miei omaggi, Nami-san. -  
Non avevo mai trattato una preda con così tanta gentilezza.
Perché quelli occhi era semplicemente questo ciò che sarebbero stati un animo che sempre più veementemente gridava sangue; una preda delicata, ancora dai tratti di bambina. Ma con uno sguardo in grado di perforare persino l’amianto.
Adesso tuttavia ingabbiato in una sottile tela di rabbia e paura, lasciata trapelare senza alcuna remora da un’espressione imperscrutabile del volto. Solo un leggero tic al labbro sembrava tradirla.
Qualcosa che se probabilmente non avessi già incontrato in passato sul mio cammino, avrei faticato a riconoscere. Eppure quell’insolito istinto che unicamente in sua presenza sembrava affinarsi, non aveva esitato a sbattermele in faccia quelle sensazioni. Quasi gridandomi di colpirla sino a quando fossero state in grado di offuscare i miei movimenti.
Cosciente che altrimenti non avrei avuto nessun altro modo di attaccare.
- E le mie più sentite condoglianze. -  continuai ad osservarla, voglioso di trovare una spiegazione sufficientemente plausibile al gran numero di informazioni che sentivo scorrere dentro di me.
Tutto di lei sembrava già appartenermi. Quel movimento delle gambe prima di un attacco, quello sguardo tagliente come il vetro; preludio di un balletto di guerra.
Conoscevo ogni sua mossa, e per la prima volta non dovetti attendere di carpirne le movenze per decidere di attaccare. Fu sufficiente il tempo che il filtro oramai consumato della sigaretta impiegò a raggiungere il suolo e le mie suole già avevano sfiorato dolcemente i tratti delicati del suo volto.
Rimasi immobile, con la gamba ancora tesa in attesa di un contrattacco, ad osservarla tremare.
Ma la sua non era paura.
Ne avevo scorto sin troppa nello sguardo dei miei avversari per non imparare a riconoscerla ad una prima occhiata; e ciò che in quel momento la stesse scuotendo con così tanta forza da farla quasi cadere al suolo non era quel volubile sentimento. Ripensandoci tutt’ora non era niente che sino a quel momento avessi mai avuto occasione di vedere.
Per lo meno rivolto a me.
Questo perché nessuno avrebbe mai provato compassione per un assassino, ed il suo sguardo proclamava con ferma fierezza quel sentimento. Con quell’impercettibile nota di malinconia che solo un cuore ferito potrebbe faticare così tanto a mascherare.
- Cosa ti hanno fatto? –  
Il sangue di cui oramai il suo volto era ricoperto non riuscì a soffocare quella sorda domanda. L’accompagnò semplicemente, scortandola con il sapore ferreo delle ferite.
Bruciavano.
Come l’alcol con cui senza troppa cura i medici avevano deciso di trattarmi.
Come il fuoco che in passato aveva dilaniato la mia vita. Bruciavano talmente tanto da scuoterla in un volubile abbraccio, facendola vacillare.
- Non so di cosa tu stia parlando, ragazzina. – avrei potuto approfittare di quell’istante per mettere definitivamente la parola fine a quel fottuto scontro.
Avrei potuto ucciderla, senza tergiversare ulteriormente.
Ma quell’istinto di cui in passato tanto avevo amato farmi vanto mi impedì persino quest’ultima possibilità. Ed allora mi ritrovai immobile, come ogni altra volta, a fissarla sfiorarmi senza alcuna remora. Così, come se la pelle di un assassino sarebbe potuta essere calda come la sua. Come se già la potesse conoscere.
E qualcosa nella sua espressione sembrava gridare realmente quell’assurda verità.
- Cosa ti hanno fatto? – mi scivolò addosso, quella domanda.
Cosa il mondo in passato avesse deciso di sperimentare sul mio corpo non era nulla che avrebbe in benché minima parte potuto interessare uno sporco pirata. Uomo o donna che fosse.
Mi risvegliò, quella domanda. Come se sino a quel momento un altro me avesse voluto prendere il sopravvento su quell’inutile essere, plagiandomi.
Lo sentì lottare sino alla fine per rimanere aggrappato al tocco caldo della sua pelle, pregando quasi di potersene nutrire nuovamente. Ed infine maledirmi.
Con un voluttuoso astio per averlo portato ancora una volta lontano dal suo prezioso ossigeno.
La ignorai, quella domanda, mettendola a tacere con un singolo colpo.
E con il grido di dolore che quella labbra ancora insanguinate riuscirono a sussurrare prima di spegnersi in una supplica silenziosa. Chiedendo aiuto ad un Sanji che mai sarebbe potuto andare in loro aiuto.
Perché quell’inutile ragazzo era morto, e più nulla l’avrebbe potuto riportare indietro.
Perché il governo aveva deciso di giocare sporco con le loro menti, portandoli a fronteggiarmi per una battaglia che mai avrebbero potuto vincere. Ovviamente a patto che la morte non potesse decidere di tornare sui propri passi.
E liberare dalla propria stretta la sola persona ancora in grado di salvarli.
Uccidendomi una volta per tutte.


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Capitolo 25
*** 25. Reflection ***


25. Reflection
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Era rimasta a lungo inginocchiata sul gelido terriccio di quell’arena.
Immobile, a cercare qualcosa di cui ormai credeva di aver unicamente immaginato l’esistenza. Continuava a scrutare negli occhi languidi di quel ragazzo, sforzandosi pur di riuscire ad oltrepassare la fredda barriera di odio in cui sembravano aver trovato riparo. Era una speranza la sua, la sola cosa che ancora le avesse permesso di tener a debita distanza le proprie mani dal metallo della sua arma.
Eppure più lo osservava, più provava a leggere dentro quei laghi ghiacciati e più la realtà le veniva incontro in un unico, grande passo. Travolgendola senza troppi riguardi.
E la sola certezza che in quel momento il suo mondo le offrisse era che niente sarebbe mai più stato come prima. Che nulla probabilmente di ciò che avevano passato era mai appartenuto a quella realtà.
Aveva vissuto bene nella sua culla di menzogne, era arrivata a cucirsele addosso come una seconda pelle pur di non lasciar trapelare niente di se. Ed adesso, messa a nudo nuovamente, sentiva freddo per la prima volta.
Nonostante il sangue caldo lungo la sua pelle, nonostante il calore delle proprie ferite.
Le sollevo' il viso in modo che potesse guardarlo negli occhi, poi le afferro' i capelli tirandoli con forza.
- Continui a parlare di affetto, di ideali… mi chiedo come la tua lingua non si sia ancora attorcigliata da sola per il disgusto. –  
La alzò da terra afferrandola da un braccio e la colpi' con una ginocchiata in pieno stomaco. La senti' piegarsi in due dal dolore e mugugnare qualcosa che non riusci' a comprendere. Abbandono' la presa lasciando che si sdraiasse per terra e si rannicchiasse su se stessa.
Ed allora sorrise, Trevor.
Sorrise incurante di quella voce che dentro di se aveva incominciato ad urlare.
Sorrise mentre la sentiva dilaniare ancora una volta il suo petto ed aumentare il battito oramai inesistente del suo cuore. Sorrise e sorrise ancora una volta.
Non era mai stato così bene, non si era mai sentito così vivo come in quelli istanti.
- Sei ancora viva? Bene! Allora posso congratularmi con te, Nami-san! – ancora quel nome pronunciato come se fosse intriso di puro veleno. Ancora quello sguardo di fuoco, mal celato da una grottesca espressione aristocratica.
Ancora quella voce che la spinse ad alzarsi e andargli incontro.
Il solito sguardo basso, il solito passo incerto. Ogni passo che muoveva verso di lui, del resto, sapeva essere un passo verso la morte.
Una morte solo apparente perche' quando riapriva gli occhi, si rendeva conto di essere ancora viva e l'unica cosa che riusciva a fare era rimpiangere di non essere morta per mano dell'uomo che amava con tutta e stessa. Ormai quella le sembrava l'unica soluzione possibile, non trovava niente che le desse la forza di andare avanti...prima era lui a dargliela, ora l'unica cosa che le dava era dolore.
Si, voleva morire per mano sua, voleva che fosse lui a farlo perche' il suo volto era l'ultima cosa che voleva vedere prima di chiudere per sempre gli occhi. Voleva semplicemente portarsi dietro il ricordo dell'unica persona che avesse mai amato in vita sua.
Il suo inizio e la sua fine.
- Facciamo un nuovo gioco, ti va? – chiuse gli occhi e si preparò all’ennesimo colpo inferto al cuore, uno di una lunga lista che non sarebbe mai finita.
Ma ciò che ricevette fu un semplice schiaffo così forte da farla cadere per terra. Sentì il sangue uscirle dal naso e la guancia bruciare. E in quel preciso momento capì che per quella volta sarebbe stato diverso, che non vi sarebbe stata alcuna violenza psicologica. Ma solo puro piacere nel farle del male.
- Giochiamo al gioco del massacro e vediamo quanto resisti prima di implorare la mia pietà! -  la colpì con un calcio preoccupandosi di caricare con tutta la forza di cui era capace il colpo. Doveva soffrire, il più possibile, doveva arrivare ad un passo dalla morte.
- Non ti sto sentendo implorare, quindi deduco che posso continuare, no? - e poi colpì ancora, ancora e ancora. Sempre più forte, sempre più ferocemente. Qualsiasi parte del suo corpo era un possibile bersaglio per lui, ogni centimetro della sua pelle doveva diventare un livido.
Non aveva nessuna intenzione di fermasi, lo capì lui e lo capì lei.
- Che resistenza! Non ti ho ancora sentito dire nemmeno una parola, devo impegnarmi di piu' per caso? -  la sollevò di nuovo sbattendola contro la parete più volte. Ogni colpo ricevuto sperava scioccamente che fosse l'ultimo, ma non era così. Sapeva che ce ne sarebbero stati altri, lo sentiva dalle mani di lui. Ormai non aveva più la forza nemmeno di aprire gli occhi nè di guardarlo. Quello non era il suo Sanji, era uno sconosciuto. Era una persona che non riconosceva e che non voleva guardare.
- Beh? Posso continuare all'infinito, sai? – una spinta che la portò contro la ghiaia del terreno. Urlò dal dolore, il primo vero urlo da quando lui aveva iniziato a giocare.
Ed allora si fermò. Ma non era clemenza la sua, semplicemente voglia di contemplare il risultato dei propri sforzi dalla miglior angolazione possibile.
Si tolse la giacca e si sfilò la pistola dalla cinta. In quel momento non gli serviva.
Si allontanò con il suo solito passo prima di accendersi una sigaretta e rimanere immobile, a godere della vista di tutto quel dolore. Lo faceva sentire bene, per lui era come una pura boccata d’ossigeno.
- Mi sei simpatica, sai? Voglio darti un’ultima soddisfazione prima di eliminarti una volta per tutte. – Quando le missioni toccavano a lui era solito restare in silenzio e godere della paura impressa sul volto delle proprie vittime. Gli piaceva vederla crescere sino a divenire un’entità compatta, ancor più nera della notte stessa.
Sapeva che erano i suoi occhi ad alimentarla. Sapeva che in quello sguardo limpido come il più azzurro dei cieli il riflesso della morte fosse vivido come se marchiato a fuoco, e ne godeva. Fino a smetter quasi di respirare ed anche più.
- Voglio vedere quanto quella gruccia per abiti che ti porti sempre dietro sia effettivamente pericolosa. Colpiscimi. – lo sussurrò come se fosse la cosa più naturale al mondo.
E forse per lui non sarebbe potuto esser altrimenti. Era stato cresciuto nel dolore, la sua anima nera aveva imparato a vivere bene in quella culla di risentimento.
Era il solo modo in cui riuscisse a portare alla luce quel vuoto che sentiva aleggiare dentro di se. Con rabbia, con crescente frustrazione.
Vi erano altre vie probabilmente, ma non per lui.
Era un dannato e più nulla lo avrebbe potuto salvare, era questa la cruda realtà dei fatti. E lentamente aveva imparato ad accettarla, quella consapevolezza. Ora non bruciava quasi più.
- Colpiscimi, puttana! – lo gridò con rabbia, avvicinandosi con estrema lentezza. Ogni cosa in lui era un paradosso; ogni singolo movimento.
Dalla voce al portamento, dalla rabbia alla gentilezza. Tutto lo attraversava senza colpirlo realmente.
Aveva preferito lasciarsi scivolare addosso qualsiasi emozione, come la pioggia acida che da mesi oramai non squarciava più quel cielo così insolitamente terso.
Dentro di lui invece vi era sempre stato il diluvio. E quell’acqua alla fine lo aveva corroso, annientato riuscendo quasi a trarne la propria ninfa vitale.
Lui si era semplicemente lasciato plasmare da quella tormenta, incurante di qualsiasi altro detrito avrebbe potuto trascinare con se. Rabbia, dolore, pace. Amore.
Inutili costanti di un’esistenza priva di alcun significato. E come costanti destinate a variare al mutare di quelle stagioni dentro di se. Di quell’inverno perenne.
La sollevò con un movimento fluido del polso, stringendo incurante la presa contro i contorni rigidi della sua trachea.
Senza rispetto, senza sentimento. Come un automa costruito per adempiere ad un singolo ordine.
- Colpiscimi! – strinse talmente tanto da sentire le unghie affondare teneramente nella sua carne e sollevarne i lembi. Ed allora cadde.
A piccole gocce su quelle dita di pianista. Vischioso ed infido come solo il sangue può essere, ed in parte offuscato dal sapore aggrumato della sua pelle.
- Cosa ti frena, puttana? L’orgoglio? La paura? -  sorrise al suono del suo ennesimo rantolo affaticato.
- Cos’altro sei disposta a perdere in nome di stupidi sentimentalismi? –
- E’ per amore che adesso sto lottando, e per difenderlo dal tuo sporco riflesso ... –
- Appunto. Stupidi sentimentalismi. – si lasciò trapassare come una bambolina di poco conto.
Sentiva la propria fine vicina, sentiva ogni parte del suo corpo farle male. Ma una parte di lei era ancora intera, salva da quella violenza che stava subendo. Era il suo cuore.
- Lo senti il vuoto che c’è qui, Sanji? È talmente forte che i tuoi colpi rimbombano nell’aria… eppure io non riesco a sentirli. Perché non ci sono, perché non esistono più…
Perché è bastato il calore di una famiglia a farli dissolvere… credi… credi saremo forti abbastanza da riuscire più a sentirlo sulla pelle? – le sue parole lo colpirono facendolo fermare improvvisamente.
Qualcosa di familiare aveva solleticato le sue orecchie, aveva sfiorato la sua mente. Qualcosa in quelle parole aveva suscitato un brivido che non aveva saputo controllare.
E delle immagini improvvise si affacciarono fra i suoi pensieri.
Un uomo ed una donna… una cucina, risate, gioia. Amore.
Giocavano con un pacco malfermo di farina. Lei glielo lanciava addosso e lui la pregava di fermarsi perché non resisteva più. Ed intanto rideva.
Una risata così bella da far risplendere quel viso, quelli occhi.
Lei era Nami, lui… lui chi era?
Un viso sfocato, dei lineamenti indefiniti. Occhi da non poterne capire il colore.
Chi poteva essere quel ragazzo insieme a lei?Non riusciva a capirlo, il viso era troppo confuso.
Ma di una cosa era sicuro; quei due erano felici, quei due erano innamorati.
Scosse la testa cercando di mandare via quelle immagini confuse, aveva cose più importanti di cui occuparsi.
La guardò un’ultima volta ed in quel preciso istante decise di fermarsi.
La lezione le sarebbe bastata, per quella volta. E poi lui non uccideva le donne.
Lo considerava al pari di mostrare le proprie debolezze, senza troppe remore o timori. Accanirsi con qualcuno ancor più debole non avrebbe mai dato la stessa soddisfazione che fronteggiare un avversario degno di questo nome.
Le voltò le spalle ed incominciò ad incamminarsi verso l’uscita di quell’arena.
Chiuse gli occhi per respirarne a pieno l’aria; quando era toccato a lui stare lì non ne aveva mai avuta l’occasione.
Era un luogo di morte, ma incredibilmente trasmetteva quiete. La sentiva, la percepiva. Avrebbe voluto farne parte. Ma dentro di lui regnava un tornando invece.
Un colpo squarciò il silenzio.
- Allora visto che sei capace di colpire, ragazzina? – si voltò e la scena che vide lo pietrificò.
- Perché? – chiese semplicemente.
- Perché non era adatta. –
- Avevi detto che sarebbe stata una buona avversaria. – rise, Carlos.
Rise facendosi vanto del proprio ruolo e della propria forza. Rise da dietro quella bolla d’aria che si ostinava a calcare a forza sopra i capelli, come a volersi nascondere dalla crudeltà del mondo. Quella stessa crudeltà che lui stesso amava alimentare ed acquietare subito dopo.
Con l’odore del sangue. Con il sapore amaro della morte.
- Si, l’avevo detto. Ma si lamentava troppo, non intratteneva e soprattutto non mi divertiva come avrei voluto. Ripensandoci poteva diventare un’ottima esca per i miei piraña! –
- Anch’io mi lamentavo. Qual è la differenza? –
- Tu mi servivi, lei no. –
- E’ vero. Noi siamo solo oggetti, macchine a tua completa disposizione. –
- Bravo ragazzo, non mi deludi mai. Torna pure alla base, il tuo compito qui è finito. – lo vide allontanarsi.
Passò accanto a quel corpo che giaceva a terra privo di vita e lo sfiorò un’ultima volta con la punta della propria scarpa.
Buffo come stesse sanguinando come la sua stessa anima…


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Capitolo 26
*** 26. Memories wear out ***


26. Memories wear out
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Le molle del letto si piegarono un’ultima volta, soffocando appena un gemito metallico.
Fissava ancora il punto dove era scomparso Carlos. Avrebbe voluto sfogare tutta la rabbia che sentiva scorrere dentro di lui.
Si, proprio rabbia.
Rabbia per non aver potuto far niente per quella ragazza, rabbia per aver permesso a quel fottuto Drago Celeste di entrare ancora una volta nella sua esistenza e prendersi quel poco che gli era dovuto.
Rabbia contro se stesso perché stava provando sensazioni che non avrebbe nemmeno dovuto conoscere.
Ed alla rabbia si univa il dolore.
Una macchia ingiustificata in fondo, lui quella ragazza nemmeno la conosceva. Eppure la sentiva lo stesso dentro di se, crescere prepotentemente e soffocarlo.
Si alzò e spalancò le tende della stanza; l’aria stava divenendo irrespirabile lì dentro. Con lo sguardo accarezzò ancora una volta le mura immacolate dell’arena, reprimendo a fatica una smorfia di puro disgusto.
Per proteggere e servire. Certo.
Era per questo che lo avevano creato, plasmandolo dal fango in cui le loro stesse armi lo avevano gettato. Ma più guardava quel cerchio imperfetto, curvilineo e malleabile come i criteri di giustizia che lui stesso si era ripromesso di servire, e più risentiva quell’antica rabbia fiorire dentro di se e ricominciare ad annusare l’aria. Speranzosa.
Ed adesso l’insostenibile bisogno di sfogarsi, lasciarla andare una volta per tutte nella speranza di non scorgerla più, era divenuto un desiderio sfrenato. Aveva bisogno di gridarlo, di gettarlo fuori da se.
Altrimenti sarebbe certamente impazzito.
Richiuse il cotone marcio delle tende, accartocciandolo su se stesso. Persino la luce lo infastidiva.
Doveva impedire alla sua mente di pensare, ai ricordi di affiorare. Impedire al suo cuore di non battere solo ed esclusivamente per tenerlo in vita; era la prima regola che lì dentro fosse riuscito ad imporsi.
Si scostò dalla parete e con passi ignari, sebbene sempre più veloci, tornò a sedersi sul letto. La rete malandata del materasso non mancò a sottolineare il proprio disappunto al suo peso bilanciato, abbandonandosi all’ennesimo stridulo richiamo.
La ignorò, indirizzando lo sguardo al vetro sbeccato che adesso stringeva avidamente fra le dita. Lasciò indagare ancora un po’ i suoi occhi scuri nel diamante fuso dello wiskey, cogliendone la minima increspatura fra i rivoli perfetti. Poi mandò giù il primo sorso.
Un secondo ed un terzo gli succedettero a distanza di pochi istanti.
Rimase immobile, in attesa che l’alcol incominciasse a fare effetto e la testa divenisse più leggera.
Iniziò a scavare dentro la sua mente riportando i ricordi indietro nel tempo. Voleva arrivare all’inizio di tutto, alla genesi di quel dolore. Da dove era partito e dove l’aveva portato. Ogni giorno se ne aggiungeva altro, sempre più forte. Ma lui doveva trovare l’inizio di tutto.
E quando l’immagine si presentò chiara davanti ai suoi occhi, la sua mente iniziò a rivivere quella scena come se fosse reale. Credeva di aver dimenticato tutto, invece ricordava anche il piu’ minimo particolare. Scosse la testa per cercare di mandare via tutto quello che aveva dentro. Ma sapeva perfettamente che quella sarebbe rimasta solo una sua stupida illusione.
Si rimise a sedere nella vana, ed oltremodo stupida speranza, di riuscire a trovare un equilibrio fra i frammenti di quel pomeriggio. Inutilmente.
Aveva sperato di poter cancellare ogni cosa, di vanificare ogni attimo di dolore con pochi colpi decisi. Ma quella macchia informe dentro di se non aveva smesso un singolo attimo di pulsare, allargandosi dal cuore e ramificandosi ovunque, pronta ad esplodere.
E da dolore inconscio era divenuta un sordo pulsare, in continuo movimento lungo l’intero fascio di nervi della gamba. La sentiva scivolare lungo i muscoli del polpaccio, insinuandosi come un cancro malizioso fra i tendini della coscia. Era una cicatrice vecchia, la sua.
Un errore di calcolo che nell’assalto dell’ennesima nave pirata gli era quasi costato la vita. Questo almeno gli avevano detto quando risvegliandosi, fra una bestemmia ed un’imprecazione, era persino riuscito a mormorare qualche debole domanda. Ma non ci aveva mai creduto davvero, lui.
Quel segno era troppo profondo per poter anche solo pensare di esser generato da un proiettile; probabilmente neanche una palla di cannone avrebbe potuto causare un simile danno.
La pelle era bruciata, le cicatrici appena pronunciate fra i rivoli di sangue. Eppure quella ferita era vecchia.
Eppure gli avevano voluto far credere così.
Scosse la testa, deciso ad ignorare l’ennesimo dubbio destinato a far da contorno amaro alla sua vita.
Si trascinò a fatica sino ad un tavolinetto di cristallo a cui lui solo aveva l’accesso, aprendone un’anta con un movimento impaziente del polso. Aveva bisogno di qualcosa per mettere a tacere il dolore, e soprattutto di un disinfettante forte a sufficienza da camuffare l’odore amarostico del sangue. Lo sentiva viaggiare nell’aria e circondarlo del suo sapore metallico.
Non lo sopportava, avrebbe fatto di tutto pur di allontanarlo da se.
Ma tutto ciò che quelle ante furono in grado di offrirgli, oltre ad un’invidiabile scorta di alcolici, fu il semplice manico intarsiato di una rivoltella. O qualcosa di vagamente somigliante a questa.
La prese, soppesandola accuratamente.
Un mandarino, un cappello, tre spade ed una fionda. Un fiore, un petalo di ciliegio ed un ultimo simbolo.
Cancellato.
Trevor socchiuse gli occhi nel vano tentativo di riuscire a scorgere fra le fenditure del metallo i tratti appena abbozzati di ciò che ad un primo sguardo sarebbe potuto apparire come un lumino appena acceso. Ma lì dove i punti sembravano congiungersi, una fiamma aveva deciso di cancellarne i contorni, fondendo fra loro linee morbide e schizzi graffianti.

- Una pistola, Usop? E da quando in qua saresti in grado di fabbricarne una? -
- Sai qual è il tuo problema, Sanji? Confidi troppo poco nelle abilità dei tuoi nakama. –
- Io credo in voi… - si limitò a risponder atono - … è nel progetto di un’arma in cui manca persino il cane che dubito. –  lo sguardo di Usop assunse un’espressione ferita.
- Anche senza cane può funzionare. – aggiunse piatto.
- Non sparerà. –
- Sì invece. –


Cambiò improvvisamente espressione. Le pupille dilatate, il petto che si gonfiava ed abbassava velocemente, il corpo scosso da fremiti incontrollabili.
Si alzò scaraventando quello che incontrava lungo il suo cammino per terra. Raggiunse la finestra e ne spalancò le ante.
Più le apriva e più si sentiva soffocare, come se l’aria non circolasse più dentro di lui. Non riusciva a spiegarsi come mai sino a qualche secondo prima stesse bene e adesso sentisse quel blocco dentro il suo petto.
Provò a calmarsi, ma più i secondi scorrevano, più si sentiva male. Quel dolore al petto vicino al cuore che stringeva sempre di più, le mura che sembravano stringersi attorno a lui in una morsa senza via di uscita, le mani che tremavano, la fronte imperlata di sudore.
Gli sembrava di sentire la morte vicina, gli sembrava quasi di toccarla. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe chiuso gli occhi per sempre.
E invece non li chiuse. La morte avrebbe dovuto aspettare ancora prima che lui la raggiungesse. Tornò a respirare regolarmente e il tremore abbandonò il suo corpo.
Come se non fosse successo niente, come se appena qualche minuto prima lui fosse stato sol uno spettatore. Si appoggiò alla parete e prese un lungo respiro. In mano stringeva ancora la pistola.
Una nuova fitta gli fece allentare la presa. Si piego’ leggermente su se stesso mentre con una mano si reggeva al muro. Respirava a fatica, aveva bisogno di riprendere fiato, ma il tempo giocava contro di lui.
Fece la sola cosa che in quel momento il suo spirito avrebbe potuto concepire; prese la mira e sparò.
Ma nessun colpo si infranse contro la specchiera, nessun eco riecheggiò nella camera.
Rimase immobile, nel vano tentativo di fermare le fitte che incontrollabili solcavano ogni singolo capillare.

- Non sparerà. –
- Sì invece. –


Non aveva sparato, e questo lui lo sapeva sebbene i suoi occhi si fossero posati per la prima volta su quell’arma. Lo aveva saputo dal primo istante in cui l’aveva stretta fra le lunghe dita.
Si abbottonò la camicia ed uscì dalla camerata.
- Capitano! Capitano, dove stai andando? – la voce di Hige gli giunse come un sospiro ovattato.
Sollevò una mano come per zittirlo e continuò imperterrito la propria marcia verso le prigioni della base.
Quei pirati di merda gli avrebbero dovuto un bel po’ di spiegazioni…


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Capitolo 27
*** 27. Life is just a game ***


27. Life is just a game
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I suoi passi erano fermi, le falcate ampie.
Continuava a camminare nonostante il coprifuoco fosse scoccato già da alcuni minuti e la base, immersa in un insolito silenzio, non fosse illuminata che da pochi faretti strategici. Di tanto in tanto un ronzio più forte degli altri lo costringeva a fermarsi ed aguzzare l’udito, in allerta.
Era convinto che da un momento all’altro qualcosa avesse potuto sfiorare la sua spalla ed obbligarlo ad arrestare la propria marcia. Forse la mano fredda di uno spirito suicida.
Ma no, era solo intonaco caduto e polvere, come sempre.
Si fermò e forse per la prima volta si impose di prestare attenzione a ciò che aveva intorno. I suoi occhi si alzarono, in parte indispettiti, verso l’ampia volta che faceva da tetto all’insolita arena. I suoi contorni erano sporchi, le pietre sgretolate.
Ogni cosa di quel luogo stava cadendo lentamente in pezzi, segno, si riscoprì a pensare Trevor, che persino l’insondabile giustizia assoluta così a lungo proclamata fra le costrizioni di quei luoghi prima o poi sarebbe stata destinata a finire ribaltata. Sbriciolata come una di quelle tante pietre adesso traboccanti di acqua ristagnante e maleodorante.
Le tubature scoperte correvano lungo l’intero fascio di travi al di sopra di quel cunicolo, intersecandosi per metri e metri di gallerie sconfinate. Un reticolo talmente complesso e profondo che persino un marine esperto come lui avrebbe fatto fatica a ricordare una volta fuori di lì.
Gettò la sigaretta, suo unico faro nell’oscurità di quelle grotte, a terra e la spense con un colpo deciso di tacco. I lamenti continui portati in eco dal granito delle pareti furono il segno inequivocabile che era arrivato.
Un’ insolita fitta gli attraversò i lobi da parte a parte, costringendolo all’ennesima sosta forzata. Si fermò, più spazientito che realmente preoccupato, e si appoggiò ad una delle tante travi a sostegno della cupola.
Dal primo sintomo di insofferenza erano passati diversi giorni oramai e Trevor, con lo scorrere delle ore, era sempre più convinto che di normale in quelle vertigini non vi fosse che la semplice allusione. Oltre che una pura denominazione scientifica.
Un’altra parte di se, più recalcitrante e con decisamente meno voce in capitolo, gli aveva persino suggerito che la presenza di quei pirati fosse la possibile chiave di tutto. Non l’aveva mai ascoltata veramente, si ripetè convinto un’ultima volta, l’esser lì non era la prova che alla fine si fosse voluto arrendere a quel brusio interiore.
Era un marine, ed in quanto tale era suo preciso dovere custodire i prigionieri ed attentare quanto il più possibile alla loro incolumità. Il fatto che in una mano si fosse ritrovato a stringere una katana malamente intaccata e nell’altra poche fasce di bende, poi, non voleva di certo dire che fosse preoccupato per loro.
Ma cercava delle risposte, oh Dio se le poteva cercare, e quella feccia rappresentava il solo appiglio a cui avrebbe potuto aggrapparsi pur di non scivolare e cadere un’altra volta. Il suo corpo non avrebbe sopportato ancora a lungo i segni di quei continui passi malfermi.
Ed il dolore, su questo ci avrebbe scommesso sino all’ultimo, merdoso berry, non era che un semplice segnale chiamato a marcare quella linea di confine che per troppe volte, troppo a lungo era riuscito ad oltrepassare. Raggiunto il suo climax sarebbe scemato poco a poco, lasciando spazio infine al nulla.
Ricordava ancora delle dicerie che Hige si era riproposto di raccontargli durante i primi giorni d’addestramento, pronto a tutto pur di non lasciarlo andare. Non vi aveva mai prestato davvero attenzione, un po’ come a quella voce dentro di se, eppure qualcosa, pur non ascoltando veramente, il suo udito era riuscito a captarla.
I pensieri l’avevano prontamente accantonata, ritenendola un peso persino inutile da sopportare e trascinare, ma qualcosa dentro di se gli aveva imposto di metterla da parte ed attendere, in attesa di giorni migliori in cui poterla riportare alla luce. Ed adesso quei sintomi, quella situazione e persino quello stesso dolore sembravano esser stati sufficienti a scorgerla fra la polvere e liberare una volta per tutte.
Scosse la testa e si riportò in piedi, decidendo che per quel giorno ne aveva sprecato sin troppo di tempo per autocommiserarsi. Farlo non avrebbe portato via tutto quel dolore del resto, né tantomeno gli avrebbe dato una mano a scaricarne un po’ nel vano tentativo di tornare a respirare aria pura.
Era saturo e niente avrebbe più potuto cambiare la realtà dei fatti.
Ignorò l’ennesimo crampo, dato quasi come un avvertimento sentenzioso da parte del proprio organismo, e con un movimento bilanciato del polso spalancò l’entrata della cella. Il momento era finalmente arrivato.
L’aria all’interno della stanza era gravida di odori, maleodorante. Il pavimento, di granito come il soffitto e le pareti di sostegno, faceva vanto dell’incuria con cui i carcerieri sembravano quasi provare un voluttuoso piacere nel volerlo lasciare.
Appese agli spigoli in pietra, in bella vista poco al di sotto delle finestre minuscole chiamate a portar luce lì dentro, facevano bella mostra catene e manette dei più svariati generi.
Trevor si meravigliò, o per meglio voler dire, tentò di simulare un’espressione meravigliata, quando scoprì che ad esserne occupate erano semplicemente due. Le altre, rilucenti sinistramente ai primi bagliori del mattino, si limitavano a penzolare distratte, oscillando quando a destra e quando a sinistra.
A stabilirne l’esatto momento vi era ciò che ad un primo sguardo, l’attento marine,  non esitò a scambiare per un cadavere in avanzato stato di putrefazione. Si fece forte della propria convinzione anche quando gli occhi di quel ragazzo si spalancarono e rimasero a fissarlo a lungo, privi di espressione.
Tutto ciò che sembrava tenerli ancora in vita, che aiutava quella flebile speranza a non spegnersi del tutto e bruciarlo ancora, seppure con minore intensità, erano i tentativi di raggiungere l’ombra accasciata al suo fianco. Ed allora tendeva il busto, protendeva il corpo verso quella ragazza come se con questo gesto potesse riuscire, in qualche maniera, a sentire anche lui, dentro di se, il suo respiro.
Come se farlo gli avesse potuto dimostrare che ciò che da giorni stava tentando di sfiorare, logorando la carne contro la ruggine di quelle catene, non era un cadavere e che lui, quindi, non era stato un cattivo vice capitano. Ma per quanto si sforzasse, per quanto i suoi tendini potessero urlare di dolore e le ferite dilaniarsi, solo una volta era riuscito a sentire la sua schiena premere sulle dita. E gelarle quasi per quanto fosse fredda.
Trevor rimase immobile, ad osservare quanto la disperazione, il dolore e la sconfitta potessero portare un uomo in fondo. Fargli sfiorare le viscere della terra e catapultarlo ancora più giù, fra le crepe del proprio animo.
Si chiese se anche lui, se anche quelle cicatrici che in bella mostra alleggerivano i suoi polsi, fossero passati attraverso tutto questo in un passato non troppo lontano. La risposta, il suo eco, furono troppo assordanti per poter essere anche solo ascoltate.
Si limitò ad accantonarle e tornare con lo sguardo a quel ragazzo.
Un ringhio profondo, più vicino al ruggito di un maschio dominante che al respiro di un essere umano, lo mise in guardia quando le sue mani si avvicinarono troppo alla pelle di quella sconosciuta. Le ritrasse e sorridendo comprensivo decise che dedicarsi prima a lui sarebbe stato, senza alcun alone di dubbio, la cosa più prudente.
- Non ti muovere. – più che un ordine, la sua risuonò come un’insolita supplica.
La pelle del ragazzo sussultò quando le sue mani sfiorarono il primo dei due legacci che lo tenevano in costante simbiosi con il granito della cella. Cadde con un primo strato di croste, lasciando spazio ad una carne viva ed insolitamente bluastra per credere di esser destinata a non seccarsi al primo movimento di torsione.
Trattenne stoicamente un gemito, decidendo ancora una volta di imporsi un limite che difficilmente avrebbe superato.
- Per… perché…? – le sue labbra secche, impastate dal sangue e dalle ferite, resero quella domanda un legittimo sussurro. Trevor dovette valutare a lungo la frequenza di quel sospiro, scandirne le pause poco alla volta prima di riuscire a capire cosa gli avesse chiesto realmente. Lasciò cadere il braccio sinistro a terra, senza curarsi particolarmente della forza con cui l’arto sfiorò infine il suolo e si limitò a rispondere :
- Le mani sono il bene più prezioso per uno spadaccino. Non ci si può permettere di insozzarle con stupide ferite. –  assaporò piano quelle parole, passandosele sulla lingua come un sapore già sentito ed accantonato da tempo. Zoro sbarrò gli occhi.
- E la katana è la sua anima, un estraneo non la deve sfiorare neanche con un dito. Se oggi te l’ho portata è semplicemente perché credo che sia giusto che a custodirla sia il suo proprietario, anche se feccia.
Anche se meriterebbe di morire. –
L’ultima frase venne pronunciata come se fosse intrisa di puro veleno.
Dovette trattenere il respiro ed ingoiare svariate volte pur di non vomitare, quando la sua attenzione tornò finalmente allo squarcio della ragazza. L’odore di carne in decomposizione, divenuto oramai insopportabile, si propagava lungo l’intera ferita. Il foro d’entrata era divenuto, in parte persino in merito alla continua tensione posta dalle catene, un taglio perpendicolare sulla pelle putrida della schiena e la solcava liberamente, percorrendola da destra a sinistra.
Si portò le mani alle labbra per trattenere un’imprecazione e si adoperò per estrarre per lo meno il proiettile. Senza la presenza di un corpo estraneo le probabilità che l’infezione continuasse a propagarsi sarebbero davvero state ridotte al minimo.
- Non è morta, non ancora almeno. – una sua semplice riflessione diede voce ai pensiero dello spadaccino.
- Nessuno di voi lo è. –
- Come fai a saperlo? –
- Lo so e basta. – la mano di Zoro si strinse istintivamente lungo la mina della Wado.
Farlo lo riportò indietro nel tempo, a ricordi che oramai credeva di aver dimenticato per sempre.
Non era stato un preludio di battaglia il suo e questo oramai, ne conservava l’assoluta certezza, lo sapevano entrambi. Il loro era un gioco vecchio del resto, nato probabilmente insieme alla sua passione per il fumo e la propria devozione alle spade.
Si divertivano nell’arruffare il pelo, gonfiare le loro code perfette sino a renderle vaporose e soffiare semplice aria. Ma i denti non li avevano mai mostrati veramente e le unghie le avevano sempre tenute, quasi come con il terrore che potessero colpire persino per errore, in devota reclusione poco sotto i cuscinetti.
Come gatti si provocavano, studiavano ed annusavano.
Come amici e fratelli non sarebbero mai andati oltre questo.
- Chi siete veramente? -  le sue labbra si incresparono in ciò che in un altro luogo, tempo e pensiero qualcuno avrebbe amato definire un sorriso. Alla sua bocca secca ricordava invece tanto un’increspatura, uno spacco indifferente che lo attraversava da un lembo all’altro della pelle.
Non aveva mai dato molta importanza lui, a quello sbreco.  
- Siamo pirati. -  rispose semplicemente.
- Chi siete veramente? – ripose la stessa domanda, ma il suo tono parve esser in grado di frantumare persino la pietra. Zoro rimase immobile, perplesso, e con lo sguardo tornò a scrutare gli occhi languidi del biondo.
Quel chi sei? avrebbe voluto gridarglielo in faccia. Urlarlo talmente forte da rimanere senza voce e lasciarlo intontito sino al ritorno del suo capitano.
Avrebbe voluto prenderlo per le spalle e sbatterlo contro quella pietra sino a farlo rinsavire; tirare a forza le lacrime fuori dalla sua splendida maschera di creta. Spaccarne le incrinature a pugni, scavare nelle crepe sino a renderle fori maestosi.
Avrebbe voluto tante cose Zoro, troppe forse. Eppure tutto ciò che riuscì a fare fu dare una risposta scontata, talmente insulsa da ferire la sua stessa lingua prima ancora di vedere la luce di quel giorno.
- Siamo fratelli di madri diverse… - si limitò a dire - … e siamo venuti qui per riprenderci il maltolto. -
Vide Sanji sorridere beffardo e stringere distrattamente fra le braccia il corpo martoriato di Nami.
Qualcosa di familiare aveva solleticato le sue orecchie, penetrando talmente in fondo da aprire uno squarcio che sino a poco prima aveva creduto non esserci. Qualcosa che non aveva calcolato e mai si sarebbe potuto perdonare per aver fatto. Si accese una sigaretta e poggiando delicatamente il capo della navigatrice sul suo ventre, tornò con lo sguardo allo spadaccino.
- Sentimentalismi, sogni, vaneggiamenti… sembra quasi che vi abbiano fatto tutti con lo stesso stampo. Ma non cambiate mai repertorio? -
- E’ possibile cambiare qualcosa di profondo come una cicatrice? – questa volta toccò a lui sbarrare gli occhi stupito. Sfiorò con il palmo sinistro la propria gamba e sentì la risata beffarda di Zoro raggiungerlo subito dopo. Inutile, quel fottuto damerino non sarebbe mai cambiato.
Sempre a nascondere le proprie, di ferite. Esattamente come per quel dannato ciuffo.
Ci fu una pausa momentanea in cui entrambi si soffermarono ad osservare Nami che diceva qualcosa di incomprensibile nel sonno.
Trevor si limitò a stringerle la mano ed a sussurrare un appena vibrato – sono qui. –
- Sanji-kun… - ripetè un’ultima volta, ricambiando la stretta con la stessa forza di un bambino febbricitante. Sembrava quasi una bambolina di porcellana per quanto la malattia l’avesse ridotta allo stremo, fragile sino a creder di potere cadere in pezzi da un momento all’altro.
Si chiese se da un momento all’altro gli si potesse davvero sgretolare fra le braccia, spargendosi come polvere su quel pavimento lurido.

- Davvero non hai paura di niente, Sanji? –
- Certo che non ho paura, niente può spaventarmi. E tu? Tu di cosa hai paura, Nami? –
- Della morte. Perché quando arriva non la si può combattere… devi solo arrenderti ed aspettare che ti porti via… -


Oh si che aveva paura! La stava provando in quel preciso istante. Il suo corpo ne era pervaso in ogni sua parte. Forte, prepotente. Lo scuoteva talmente forte da lasciargli poi addosso una sensazione di vuoto troppo incolmabile.
La paura è un sentimento troppo grande per essere affrontato e in quel momento lo stava capendo chiaramente.
Ma doveva fare qualcosa.
La strinse ancor più a se,  quasi con il timore che potesse scomparirgli davvero fra le braccia.
- Sono qui. –  si stupì lui stesso di quanta delicatezza stesse usando.
Ma quella ragazza era quanto di più innocente quelle mura potessero anche soltanto sperare di custodire, non doveva morire. Nessuna donna lo avrebbe più dovuto fare fra le sue braccia.
Le sue mani non avrebbero più dovuto stringere nessun altro corpo gelido, impregnarsene dell’odore sino ad arrivare a spellarsi pur di toglierselo di dosso.
Mai, mai più.
- Perché le hai mentito? -  
Zoro volle aspettare che la compagna chiudesse gli occhi prima di porre quella domanda. Non era di certo sua intenzione ferirla quanto più quell’arena ed il governo avessero già fatto.
E se l’illusione di avere Sanji di nuovo con se l’avesse potuta far stare meglio, anche soltanto per trarre respiri più profondi, lui l’avrebbe accettata. Di annullarsi con questa non gliene sarebbe dovuto importare.
- Prego? –
- Tu non sei Sanji, sai di non esserlo. Perché le hai fatto credere il contrario? –
- Perché il ricordo di Gambanera è la sola cosa che ancora la tenga aggrappata alla realtà ed alla vita. Non voglio che muoia, lei non ha colpe qui dentro. – lo spadaccino lanciò uno sguardo indecifrabile alla compagna prima di tornare ad osservare il marine. Sebbene osservare con ogni probabilità non sarebbe stato il termine più esatto da usare.
Fissare, senza provare alcuna sensazione, sarebbe stato di certo quello che meglio gli si sarebbe potuto avvicinare.
- Nell’arena sembravi pensarla diversamente. -
- The show must go on. – rispose atono, prima di voltargli le spalle ed incamminarsi verso l’uscita.
- Il motivo per cui so con certezza che siete ancora tutti vivi, è legato ai cancelli di questo posto di merda. Sino a quando rimarranno chiusi allora nessuno di voi sarà veramente in pericolo. – il silenzio dello spadaccino lo convinse a dare ulterior spessore alla propria spiegazione circa il funzionamento dell’arena.
- E’ giusto credere, visto lo stato in cui le tue braccia sono ridotte, che tu non te ne sia neanche accorto… - fece una pausa ad effetto ed infine continuò - …ma legato al polso di ognuno di voi vi è un bracciale. Il suo compito è di registrare costantemente le vostre funzioni vitali e trasmetterle al database dell’Iris.
Se malauguratamente uno di voi dovesse come dire… spirare, le porte si aprirebbero all’istante e voi, o ciò che ne è rimasto, sareste liberi di andarvene. –
- Uno per tutti quindi... -  la voce dello spadaccino parve assumere per la prima volta un’espressione di puro disgusto. Trevor sorrise.
- Disgraziatamente il tutti per uno non sembrava esser incluso nell’offerta. –
Rimasero in silenzio a fissarsi per alcuni secondi. Poi Zoro parlò :
- Non c’è nessun’altra soluzione, vero? – l’ennesimo ghigno serafico increspò le labbra del marine, insolitamente compiaciuto.
- Non ti facevo così sveglio! I miei complimenti, Roronoa! Davvero! – si fermò il tempo necessario a spegner la paglia con il tacco e ruotare sulla gamba sufficientemente in fretta da non dare il pietoso spettacolo del proprio dolore.
Di certo non sarebbe stato il grado di sopportare la sua ennesima massima sul benessere dello spirito e l’annullamento del piacere fisico.
- No, non c’è altra soluzione.
Se volete davvero salvare questa ragazza la dovrete sottoporre alle migliori cure mediche, lontano da questo buco di fogna… -
- E per farlo al prossimo combattimento uno dei due sfidanti dovrà lasciarci la pelle. Facile. – si stupì nel sentire come la sua voce non conservasse neanche un pacato accenno di sarcasmo. Doveva essere davvero un ottimo vice capitano.
- Chi saranno i prossimi sfidanti? – chiese semplicemente.
Trevor si slacciò il polsino della camicia e fece sfoggio dello stesso bracciale che, seppur intriso di sangue e croste, spiccava insolitamente sulla pelle d’ebano dello spadaccino.
- Noi. – rispose con altrettanto velato divertimento.


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Capitolo 28
*** 28. Prelude to battle ***


28. Prelude to battle
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Quando la pioggia incominciò a tamburellare allegramente sul legno della sua barca, un monumento in miniatura costruito per l’occasione, gli occhi scuri del cyborg si erano appena chiusi.
Aveva passato le ultime ventiquattro ore nel vano tentativo di rimettere insieme i frammenti di vita, passata e non, che l’archeologa gli aveva così minuziosamente voluto descrivere nelle sue missive.
Regolari come l’abbonamento ad una delle tante riviste della vecchia Kokoro, ogni settimana piccoli scorci della vita a bordo della Sunny lo raggiungevano puntualmente, facendolo ridere, piangere e sospirare. Non trascurava niente, quella strana donna, ogni particolare era un tassello fondamentale della sua narrazione.
Estranea a tutti e tutti, insondabile per quanto oggettiva e distaccata.
La prima volta che i suoi occhi si erano posati su una di quelle epistole, le labbra del cyborg non avevano mancato a schioccare indisposte, insolitamente stupite da quanto il suo modo di essere fosse rimasto distaccato nonostante tutto. Ancora non sapeva leggere.
Ancora ignorava i segnali lasciati dall’inchiostro dell’archeologa, come briciole per ritrovare la strada.
Ma con il tempo il suo talento si era affinato, il proprio istinto nello scorgere le emozioni spogliato e rivestito nuovamente. Ed allora aveva imparato a leggere nel sorriso di Rufy anche quello silenzioso della donna, nella rabbia di Nami la sua espressione divertita e nello sguardo di Sanji a scorgere il dolore di entrambi.
Le sue descrizioni erano sempre le più difficili, lo capiva lui e lo sapeva lei ad ogni rigo cancellato con poche linee di inchiostro.
Le ultime sapevano di pianto, come quelle increspature d’acqua che inarcavano gli angoli della busta. Gli aveva parlato anche del suo tradimento, con una frustrazione che mai avrebbe creduto di poter leggere direttamente dalle sue mani.
Raccontava di una Nami ferita e di una nave distrutta, di un demone che non aveva più niente a che fare con loro. Erano occhi acerbi quelli che aveva incontrato e che a fatica era riuscito a trasportare su carta, occhi che lasciavano l’odio libero di scorrer attraverso come diamante fuso.
Occhi che, Franky lo sapeva bene oramai, avevano ferito se stessi ancor prima del mondo intero.
Perché avrebbe preferito morire piuttosto che lasciare andare anche soltanto uno dei suoi compagni, persino quello strano incrocio di alce e vitello. Glielo aveva gridato il suo sguardo e se n’erano fatte forti le sue mani su quel treno marino.
Per cadere così in basso, per sfiorare il fango e rialzarsene subito dopo, qualcuno doveva averlo manipolato. Come in passato avevano mosso i fili che tenevano insieme i respiri dell’archeologa e quelli di Tom, come avevano reciso gli stessi fili che tenevano unita la sua, di esistenza.
- Resisti, fratello. Resisti solo un altro po’… - e lui, in quanto costruttore, aveva il preciso dovere di riunire quei frammenti ed edificarci qualcosa di straordinario. - … il tuo super carpentiere sta arrivando per salvarti il culo. -

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- Il mio genio salverà i fondoschiena di tutti questa volta! – peccare di orgoglio non era mai stato un limite agli occhi del cecchino di bordo. Non quando si è sicuri, forti di una convinzione apparentemente indistruttibile, che nulla potrà mai essere sufficientemente forte da distruggere un piano ideato in una notte, tre ore e quarantasette minuti.
Ed il suo progetto di evasione era talmente semplice e ben congegnato da rasentare il ridicolo.
Archeologa e capitano si scambiarono uno sguardo fugace, ben lontano dallo sfiorare il complice. Questo perché se una poteva ritenersi titubante quel tanto che fosse sufficiente da sospirare silenziosamente, l’altro invece continuava a scorgere in quell’idea uno dei migliori modi di evasione mai escogitati da mente umana. Ed allora esultava, saltava e, con un tono di voce insolitamente alto per tre futuri evasi ed una renna, continuava ad innalzare il nome del compagno, come quello di un’assurda divinità.
Usop, dal suo canto, sembrava non curarsi eccessivamente della possibilità, per altro imminente, di poter essere scoperti. Troppo impegnato a spogliare i complimenti del capitano e farne un ottimo input per la narrazione di qualche sua nuova avventura.
Robin sospirò appena più forte. Il capitano in risposta lanciò un urlo in grado di risvegliare persino l’anima oramai defunta di Odr.
- Usop sei un mito! Del resto con una ciurma di ottomila uomini alle spalle non sarebbe potuto esser altrimenti! Sei un mito!! – ribadì come se sino a quel momento urlarlo non fosse stato sufficiente.
Il cecchino si strinse nella spalle, forse per non gongolare troppo, e con lo sguardo tornò fisso sugli occhi straniti della renna. La loro unica salvezza in quelle prigioni dimenticate persino da Dio.
Ci aveva pensato a lungo, fatto calcoli con il poco materiale a sua disposizione, qualche molla dipanata ed uno straccio ricavato dal letto, ed alla fine era giunto a ciò che, ai suoi occhi, era parso come il solo modo per poter uscire da quel posto.
- Mi hai capito, Chopper? Devi uscire di qui, prendere quella chiave e portarcela, ok? E, santo cielo, smettila di masticarmi la blusa! Non sono un piatto d’insalata, e che diamine! – lo sguardo dell’animale si assottigliò ancora. Possibile che quelli strani esseri a due zampe non sapessero far nient’altro che urlare per la minima inezia? Quando brucavano, quando dormivano, persino mentre respiravano, non facevano nient’altro che aprire il muso e lanciare quelli assordanti richiami.
Ed adesso gli impedivano persino di finire decentemente un pasto. Avesse avuto la forza si sarebbe messo lui ad urlare fra poco.
Ma qualcosa dentro di se lo faceva sentire continuamente debole, come forse si era sentito una volta soltanto dopo che nel bosco un uomo lo aveva atterrato con un’arma rumorosissima. Tutto ciò che quello stato riuscì ad imporgli fu un bramito di poco superiore alla media.
- Sono lieto che tu abbia capito! Del resto sei un mio fedele discepolo! – ed un altro urlo dopo quel verso, stavolta spezzettato in una serie di – ah - di intensità più o meno uguale. Il suo povero udito aveva raggiunto veramente il limite.
Un altro po’ lì dentro e con ogni probabilità avrebbe rinnegato la sua natura di vegetariano.
Per sua fortuna i tronchi di quell’insolito recinto parvero essere di poco più grandi rispetto alla media. Con appena un accenno di sforzo fu fuori.
- Bravo, Chopper! Ed adesso la chiave, mi hai capito? Portami la chiave! – ma non aveva bisogno di respirare quello lì?
Si guardò intorno confuso alla ricerca di una traccia, qualsiasi odore, in grado di condurlo fuori da quel posto. Ma i suoi sensi erano insolitamente intorpiditi, la vista appannata persino dal semplice movimento delle zampe nel tentativo di camminare. Si accasciò contro una parete dopo pochi passi.
Era l’algamatolite che lo rendeva inerme, ma questo una renna non lo avrebbe potuto sapere di certo.
- Le chiavi! Sopra di te! Guarda sopra di te! – d’altro canto quell’assurda creatura sembrava stare decisamente meglio di lui. Continuava a gesticolare, puntando le zampe verso il cielo ed urlando come forse mai in vita sua. Chopper alzò lo sguardo e l’ultima cosa che vide prima di accasciarsi al suolo fu un mazzo scintillante di lunghe lastre di metallo.
Cadde senza un verso.

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- Lo spettacolo sta per incominciare. Non vieni, Garp? – seduto dietro il maestoso intarsio della propria scrivania, il viceammiraglio non mancò a sospirare spazientito. Un respiro di poco più forte della media, impercettibile ad orecchio umano.
- Dovresti smetterla di crogiolarti nel tuo disappunto. – ma Tsuru con il tempo aveva dimostrato di avere ben più di una marcia in più. Lo aveva capito dalla prima volta che l’aveva incontrata, anni prima in una missione di ricognizione, e da allora quel pensiero aveva fatto il possibile pur di non abbandonare la sua mente anticonformista. Era terapeutico sapere di non esser solo a voler poratre avanti la vera giustizia.
Karmico quasi.
- Fare uccidere due compagni fra di loro non è spettacolo. È il gioco del massacro. –
- Lo hai detto anche tu, no? Sono pirati, è il loro sport preferito. –
- Sono solo ragazzi poco più sconsiderati di altri. E voi di uno avete preferito farne il vostro burattino personale. – l’anziana storse le labbra in un gesto di disappunto.
Quei canoni non rispecchiavano i suoi ideali, probabilmente non vi si riflettevano neanche cadendo. Ma la giustizia, quella assoluta così fermamente proclamata da Sengoku ed Akainu, era la sola via con cui il mondo potesse continuare a respirare aria limpida, libera da quelle scorie meglio conosciute con il nome di pirati.
Non contava come si potessero mettere a tacere, il bene e la pace erano un diritto del popolo ed un dovere dei marine. Rinnegarli per stupidi sentimentalismi non l’avrebbe portata a nulla.
- Il comandante Trevor è un ottimo capo di divisione. – si limitò a risponder atona.
- Quel comandante è un ragazzo spaurito a cui avete fatto il lavaggio del cervello. Lo state facendo combattere contro i suoi stessi compagni, gli state facendo sporcare le mani di sangue fraterno.
Questa non è giustizia, è ciò che ci rende inferiore alla stessa feccia. –
- E’ un semplice spettacolo per intrattenere il pubblico. -
- E’ la dimostrazione di quanto la marina sia caduta in basso… - l’anziana aprì ancora una volta le labbra.
Boccheggiò per alcuni secondi prima di richiuderle con un sonoro schiocco, incapace di rispondere.
Erano davvero scivolati così tanto?

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Fu il rumore assordante di quelle urla a farlo risvegliare.
Gridavano. Gridavano sempre.
Eppure in quelle voci per la prima volta riuscì a cogliere una nota diversa, quasi come di sommessa disperazione. Aprì lentamente gli occhi e venne investito dalla luce del giorno.
Quanto aveva dormito?
Attorno a lui il terreno era rimasto immutato, le chiavi pigramente penzolavano lungo la sua pelliccia ed il pavimento si era ricoperto di un’impercettibile peluria. Doveva aver riposato davvero tanto.
Da oltre la staccionata quelli strani esseri continuavano ad urlare, chiamandolo per nome. O almeno per ciò che lui ormai credeva che fosse.
- Chopper! Chopper, stai bene?! – scosse il muso, ondeggiando di poco verso sinistra. Il senso di nausea lo aveva abbandonato almeno in parte e le urla di quelli umani sembravano essersi misteriosamente attenuate.
Si riportò in piedi, stringendo la presa dei denti contro il mazzo.
- Portale qui! Per favore… - il cecchino parve volerlo supplicare con lo sguardo. Dietro di lui, nascosta dalla penombra, la terza due gambe si limitava a fissarlo con quelli occhi profondi. Non gli erano mai piaciuti.
Si ricordò di quando una volta fra le lande gli capitò di incontrare un lupo ferito a morte da una pallottola. Inerme si era limitato ad osservarlo mentre esalava l’ultimo respiro.
Quella donna non assomigliava ad un lupo, non aveva la pelliccia e non puzzava di sangue, eppure quello sguardo gli faceva rivedere la sofferenza del predatore. Sembrava quasi che potesse stramazzare al suolo da un momento all’altro.
Possibile che nessuno del branco fosse forte a sufficienza da sostenerla? Eppure i due maschi gli sembravano possenti.
Nella sua ingenuità di animale, di certo più sviluppato della media grazie ai poteri del frutto ingerito, non gli era dato di distinguere la differenza fra sofferenza fisica ed distruzione interiore. Vedeva un unico volto e si limitava ad orientarsi su quello. E quel viso implorava sostegno.
Senza neanche rendersene conto si ritrovò nuovamente dentro la cella, spinto da passi che mai avrebbe creduto di poter muovere verso un umano. Un assassino forse.
Le diede una testata impercettibile, lasciando libero un ultimo bramito insolitamente colmo di pacata preoccupazione.
Robin sorrise e prendendo il mazzo dalla sua bocca si limitò a strofinargli la testa, come una madre sin troppo premurosa nei confronti dell’ultimo arrivato in famiglia.
- Possiamo andare. – aggiunse infine.
- Ma come? Di già? – sussultarono tutti, nessuno escluso, quando il viso sorridente del comandante in seconda si presentò vivido nell’oscurità di quei corridoi.
- Hige… - sussurrò il cecchino.
- Per servirvi, miei condannati a morte. –

---

L’erba secca crepitò impercettibilmente sotto i suoi piedi.
Persino la natura doveva aver smesso di curarsi di quel luogo, lasciando al sangue il compito di bagnare la terra arida dell’arena. Ed avvelenarne ogni respiro, rendendolo inerme come la brezza che ora stava sfiorando impaziente i loro corpi.
Alzò lo sguardo incontrando il viso rilassato del proprio sfidante.
- Le tue spade sono già sguainate. -
- Mi sono sempre chiesto che sapore avesse il sangue di un traditore... - le labbra del biondo si spezzarono in un ghigno insolitamente compiaciuto prima di aprirsi e parlare ancora una volta. Persino l’aria sembrò incrinarsi al suono di quelle ultime parole.
- Puro veleno. Ti andrebbe di morire nel tentativo di spillarne una goccia, spadaccino? –
Persino lei non riuscì a non inchinarsi al richiamo dell’imminente battaglia…


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Ho ritenuto necessario fare un piccolo riepilogo della situazione prima di avviarmi allo scontro finale. Ho quindi dato la posizione di Franky, degli altri prigionieri e persino di Garp, levandomi così uno bello sfizio personale ù____ù

Come molti di voi avranno già potuto notare ho voluto fare alcune modifiche alla storia, cambiando la struttura dei capitoli. Oltretutto ho ritenuto giusto riunire tutte le cover in un unico post, al primo capitolo.

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Capitolo 29
*** 29. Romeo is bleeding ***


29. Romeo is bleeding
________

- Per cosa saresti disposto a morire? -
- Per salvare anche uno solo di voi. –



- Ho ancora qualcosa di sin troppo importante da fare prima di lasciarmi uccidere da uno come te. – quella risposta arrivò come un sibilo nell’aria.
Le labbra dello spadaccino si erano mosse in uno schiocco secco, quasi severo, eppure il suo viso parve riuscire a mantenere invariata l’espressione, quel ghigno feroce, come un taglio indifferente. Sanji sorrise.
Sentiva l’eccitazione di quelli attimi pervaderlo in un brivido inebriante e circondare l’arena in silenzio. Era un battito invisibile destinato a soverchiare la pace di quelle mura.
La percepiva, la respirava. In passato avrebbe forse persino voluto farne parte per quanto leggera.
- Ma davvero, spadaccino? – si portò una mano in tasca, estraendovi un accendino. La fiamma si liberò in alto con uno sbuffo annoiato ed incontrò la paglia stretta dalle sue labbra.
Buffo quindi, si ritrovò a pensare, come di tutti quei buoni sentimenti di cui tanto i suoi superiori amassero riempirsi la bocca ben presto, in quell’arena, non ne sarebbe rimasto che un cumulo indistinto di cenere.
- Allora vedo che abbiamo entrambi delle ottime motivazioni per restare in vita. – si accese la sigaretta e dopo aver sospirato il fumo sino a farlo entrare nella parte più profonda di se, lo gettò fuori guardando fisso l’avversario.
In condizioni normali qualcuno avrebbe probabilmente prestato attenzione a quel suono soffocato. Eppure, in tutto lo stadio, nessuno parve quasi accorgersi del sottile mozzicone calcato malamente a terra, intrappolato fra le suole dei due sfidanti.
Il loro movimento era stato così rapido che persino gli occhi più esperti ed avvezzi a simili situazioni si erano ritrovati in difficoltà. Nell’esatto momento in cui la carta oramai in fiamme aveva sfiorato il suolo, il traditore, perché era questo oramai ciò che Sanji ad occhi di compagni e sottoposti sarebbe potuto apparire, inutile girarvi attorno, aveva caricato l’intero peso del corpo sul sinistro.
Lo slancio conferito a quella spinta era stato talmente potente che quando lo spadaccino si era ritrovato a parare il colpo incrociando le spade, entrambi erano avanzati per forza di inerzia per alcuni metri.
Ed adesso fermi, occhi negli occhi, continuavano a scrutarsi come due cacciatori affamati, l’uno preda dell’altro. Chiunque si fosse ritrovato a seguirli per la prima volta non avrebbe esitato a mettere in dubbio l’odio reciproco che sembrasse alimentare la loro furia.
Poco sembrava contare se poi, un tempo, quei due erano stati vicini come fratelli. Poco contava se mentre l’uno facesse il possibile per alleggerire i colpi, l’altro si trovasse quasi eccitato al semplice pensiero di poter calcare i propri. Erano sfidanti ed era questo ciò che contava.
- Sai, spadaccino… - la frase si spezzò nell’attimo in cui il biondo balzò indietro, riportandosi in posizione d’attacco - … per un momento mi ero illuso che volessi salvarla. Evidentemente mi ero sbagliato. -  lui sapeva.
Sapeva che il demone li stava osservando da dentro quel ragazzo; sapeva che stava risvegliando in lui l’antica rabbia. E non si fermava, continuava, tutto in funzione di lui e di quella furia ben presto destinata ad esplodere.
- Quella piccola illusa… -  era sicuro che se solamente si fosse voltato, l’avrebbe trovato ad un passo da se con una lama puntata all’altezza del cuore.
- …destinata a morire per un vostro sbaglio. Per l’ errore di uno di voi talmente debole da farsi catturare come niente. – provò a sfidarlo, si voltò per incrociare le iridi impenetrabili del suo avversario e deriderle un’ultima volta. Farle divenire grigie come quel fumo che lentamente aveva preso possesso di se e fargli capire che era pronto a tutto pur di smuovere qualcosa dentro di lui.
Ma ciò che vide lo lasciò stupito.
Non stava reagendo, non stava facendo niente per impedirgli di vivere al posto di quella ragazza ed inquinare ancora il loro mondo. Lui era semplicemente immobile.
Continuava a fissarlo con quelli occhi sbarrati che più di una volta in quei giorni gli avevano ricordato quelli di un bambino spaurito. Ed allora si era ritrovato a chiedersi ancora ed ancora cosa ne fosse stato del cacciatore di taglie, di quel demone dell’est che tutti bene o male in quella base avevano finito con il temere.
Avesse avuto coscienza di se, Trevor, avrebbe scorto il terrore in quello sguardo, trovandovi probabilmente da solo la risposta. E capendo, forse per la prima volta, che non era mai stato il timore di perdere la propria vita a scuotere l’animo del compagno sino a farlo vacillare.
- Meglio sacrificarla per il bene comune allora? Che gesto di nobile carità, spadaccino… – pronunciò quell’ultimo epiteto come se fosse intriso di puro veleno.
Doveva per forza essere una questione di attimi, lui lo conosceva e sapeva di cosa quel demonio potesse esser capace. Lui sapeva, come una storia raccontata talmente tante di quelle volte da divenire una nenia prolissa, che Zoro poteva diventare una delle persone più pericolose che avesse mai visto in vita sua.
- Credevo che sapessi tirare fuori le palle al momento del bisogno… evidentemente sei in grado di farlo solo quando devi sbattertela, quella puttana. –
In un attimo lo vide ad un passo dal suo viso.
Erano talmente vicini che uno si rifletteva negli occhi dell’altro. Sorrise soddisfatto.
Era riuscito nel suo intento.
Alla fine l’istinto aveva tirato fuori quella macchina per uccidere che il compagno era sempre stato.
- Taci. – non era un’affermazione, non era una richiesta. Solo un ordine.
Voce fredda e sguardo di ghiaccio.
- E non mi punti lo spadone contro? Avanti, idiota! Hai dimenticato persino come si fa? -
- Vuoi la katana? Ti accontento subito. – in un attimo la spada bianca, quella che in nome dell’amore Zoro non aveva mai voluto stringere in mani che fossero intrise di sangue nemico, si ritrovò a seguire la linea morbida del collo avversario.
Trevor la guardò con calma, troppa per uno che aveva una lama puntata contro pronta ad ucciderlo.
- Adesso si che ti riconosco! – il suo tono si sporcò di puro piacere nell’attimo in cui, caricando il calcio, sentì la punta della Wado Ichimonji sfiorare i lembi della sua pelle sollevandoli.
E quell’eccitazione, quei brividi di cui così tanto si era voluto fare scudo nei secondi antecedenti allo scontro parvero insozzarsi ancora una volta.
- Ben fatto, spadaccino! - provò ad incitarlo a parlare, ma in quel momento non sarebbe stato capace di dire nulla.
Aveva lottato così tanto per liberare il demonio che unicamente nel momento in cui lo sentì scalciare alle spalle di quel ragazzo e scalpitare pur di prenderne il controllo, Trevor, capì che oramai era troppo tardi.
L’aria gelida di Mihoy lo colpì in pieno in viso mentre in una corsa sfrenata si lanciava contro le mura dell’Iris. Gli sembrò quasi di vederla per la prima volta e scosse la testa come se non fosse abituato ad anni ed anni di quel freddo pungente.
Era strano come quella sensazione di nuova vita non l’avesse ancora abbandonato…
- Soru. – le sue mani si strinsero con rabbia contro uno dei tanti pilastri esterni dell’arena. Con un rapido movimento di reni si portò in alto, sino a sfiorarne con il bacino la cima.
La prima crepa si fece largo fra il marmo della torre, divellendolo ad ogni centimetro guadagnato. La pietra si sgretolò rapidamente, come un castello di carte al primo colpo di vento, e cadde su se stessa accartocciandosi in un suono sofferto.
- Dannato, idiota! Stai distruggendo tutto! – una decina di metri più in basso lo spadaccino scagliò un colpo contro la seconda colonna portante.
Nulla di quel luogo sarebbe dovuto rimanere in piedi, non una sola pietra sopravvivere ed osservare compiaciuta lo spettacolo del loro massacro.
Il Governo aveva stabilito il proprio declino nello stesso momento in cui li aveva schierati l’uno contro l’altro. E se nella morte avrebbe trovato il proprio appagamento, lui gliel’avrebbe fatta sputare a sangue, quella vittoria.
- Taglio della grande statua di Buddha! – un terzo ed un quarto pilastro crollarono su se stessi, lasciando alle proprie spalle unicamente una pallida nube di fumo. Zoro abbassò le spade e rimase immobile, in attesa.
Sapeva che quei miseri colpi non sarebbero mai stati sufficienti anche solo a rallentarlo. Lo sentiva nell’aria ancor prima che nel fondo delle proprie memorie, così scarne ed atrofizzate oramai da esser costretto a scavarvi con forza pur di riuscire ad estrapolarne anche solo un ricordo piacevole.
Sorrise compiaciuto quando da quell’insieme di detriti e polvere un’ombra parve levarsi maestosa.
I suoi passi erano lenti, calcolati. Le falcate, quasi impossibili da scorgere aldilà di quella tempesta di sabbia, si scoprirono ad aumentare impercettibilmente, in un movimento ignaro sebbene sempre più veloce.
- Tutto questo casino… - lo scatto nervoso dell’accendino si frappose fra il sussurro del biondo ed i propri pensieri. La sua fiamma, unico lumino in quell’inferno di terra, si impadronì senza alcun rispetto della paglia accartocciata tenuta a stento dalle labbra tremanti di Trevor.
Lo spadaccino lo vide scuotersi ancora una volta, come un grosso cane, e portarsi una mano alla spalla.
- …ed alla fine mi hai rotto solo il braccio. Che scocciatura. -  il suo sguardo cadde sulla mano del marine.
La testa di uno dei tanti metacarpali aveva perforato la pelle, dando fieramente mostra di se da oltre quella coltre di sangue e polvere. La carne era rovinata, tesa sino allo spasmo.
- Mi toccherà farmi  la sgualdrina con una mano sola a quanto sembra. – non lo vide neanche arrivare.
La velocità era sempre stata un suo marchio indistinguibile del resto. Era il segno, il sigillo su quei corpi che abbandonavano la vita in fretta. Uccideva sempre così, amava il suono che produceva la katana quando penetrava nella carne di un avversario, squarciandolo. Era un rumore privo di senso, ma a lui piaceva.
- Che bastardo… -  eppure vi erano state volte in cui quel suono aveva finito con l’esser stato soverchiato da altro. Un sibilo soffocato scaturito dal dolore delle proprie vittime.
Erano state poche, forse unicamente due, le volte in cui Zoro non aveva conferito alla potenza del suo primo colpo anche la forza dell’ultimo dato. La prima era stata con il suo maestro, quando in nome del ricordo di Kuina, non era riuscito a trovare la forza di finirlo. Non l’aveva mai considerato un disonore.
La seconda era invece ancora immobile fra le sue mani, intrappolata fra una parete lurida ed il suo corpo. Sentì un osso, forse una costola, spezzarsi all’interno del torace del compagno e piegarsi in un suono sofferto. Sanji urlò.
Un urlo disumano, disperato.
Cadde su se stesso quando la spada uscì da quel ventre oramai sfregiato dai tagli, sibilando prepotente nell’aria. Chiuse gli occhi rimanendo sospeso a mezz’aria, in bilico unicamente grazie alla mano dello spadaccino.
- Non hai palle a sufficienza… pe… per fare tutto in un unico colpo? -  raramente aveva provato in tutta la sua vita un dolore così atroce. Lo sentiva dentro di se, lo sentiva suo mentre il respiro spezzato gli ricordava di essere ancora lucido. Eppure a muoverlo ancora una volta, come un motore altisonante, sentiva quell’odio sovrastare su ogni cosa e soverchiarla.
Farlo parlare e mettergli in bocca parole ancor più acide del suo stesso sguardo.
- Smettila di dire stronzate. -  le dita dello spadaccino soppesarono con cura l’impugnatura della spada stretta nell’altra mano. Con la coda dell’occhio scorse la lama brillare di luce riflessa, al di sopra delle loro teste e riflettere i cancelli dell’Iris.
Rimase immobile quando, oltre quella fitta coltre di algamatolite e terra bruciata, riuscì a scorgere parte del molo, fuori dagli scarni confini dell’arena.
- Sanji-kun!! -
Da lontano un grido parve riuscire a spezzare il cielo.
Il ghigno sulle labbra del biondo si spezzò lentamente quando quella voce entrò prepotentemente dentro la sua testa. Sentiva la sua presenza accanto a lui, la percepiva anche se lontana, ma era difficile anche solo parlare. Cercò di alzarsi, ma una nuova fitta lo costrinse ad inginocchiarsi su se stesso.
- Dovete andare… - mai una voce era stata cosi’ carica di disperazione, mai un dolore era stato urlato cosi’ forte.
- No. -
Poi silenzio, un silenzio denso e compatto. Tagliente.
- Non senza di te. - un silenzio rotto improvvisamente dal suono di un’arma appena puntata.
Quella di Usopp.
Rimasero a scrutarsi, a guardarsi negli occhi per cercare di leggersi dentro. Non era mai successo, non si erano mai guardati in quel modo. Semplicemente loro non si guardavano affatto.
Ma quello che si chiama istinto fraterno alla fine aveva prevalso su di loro, spingendoli a scrutarsi come mai avevano fatto in passato.
Sapevano che era tutto inutile, le loro intenzioni non sarebbero di certo vacillate così facilmente. Ma si facevano ancora forti di quei sentimenti, di quel dolore che sembrava averli spinti sino a quel punto e condannati.
- Non lo ripeterò di nuovo: andatevene. – lo scatto del grilletto marcò quelle ultime sillabe.
Era stato addestrato ad uccidere sempre e comunque, in qualsiasi situazione senza nessuna differenza e nessuna possibilità di sbagliare. Ed alla fine era cresciuto bene in quella culla di cinismo, lo aveva indossato facendosene un vanto come una seconda pelle.
Capire quando le sue intenzioni sarebbero state veritiere e quando invece semplici menzogne era una battaglia a cui i suoi compagni avevano giocato spesso. E persino adesso, con un’arma di poco più pericolosa di un giocattolo in mano, Sanji capì che, alla fine, quella sfida ricorrente l’aveva vinta ancora una volta lui.
Come sempre del resto.
- Non mi ucciderai. – sorrise come un bambino quando le parole dello spadaccino lo raggiunsero in un unico sibilo, colpendolo sino a sfiorargli le viscere.
Nonostante ne facesse la propria forza, non vi era sicurezza in quella voce; nonostante i suoi occhi gridassero l’esatto contrario, la presa attorno al suo collo si era scoperta ad aumentare, nel vano tentativo di bloccarne qualsiasi movimento.
Nonostante avesse pronunciato ancora ed ancora il suo nome, nello sguardo del biondo non aveva scorto nient’altro che mal celato disinteresse.
Un’ apatia sin troppo ben evidenziata per pensare di poter anche solo appartenere al cuoco.
Al loro cuoco.
- Hai ragione, non ti ucciderò. – lo vide sbarrare gli occhi confuso quando la canna della pistola cambiò improvvisamente direzione.
- Una macchina per uccidere come te potrà sempre esser utile a portare quella ragazza fuori di qui. Tuttavia… - le dita si alzarono pigramente verso il grilletto in un movimento fluido - … mi chiedo se quell’idiota di un cecchino potrà mai esservi d’intralcio durante la fuga. -  vide per attimo nello sguardo di Zoro il riflesso della paura.
- Non sparerai. – la risata del biondo echeggiò il tutta l’arena che in quel momento era immersa nel silenzio più totale. Una risata, un ghigno indifferente, che probabilmente serviva a nascondere lo stato d’animo che aveva in quel momento.
- Non lo farò dici? Tutto ciò che voglio è salvare quella ragazza, non mi importa in che modo. Non mi importa al prezzo di quale vita. -
- Menti. Stai mentendo a te stesso, pezzo d’idiota! – Urlò. Ma sapeva che le sue parole servivano solo a farlo stare peggio, a sentirsi sempre più solo ed incredibilmente vicino alla fine.
L’eco della sua voce si perse nell’ennesimo riso di scherno del biondo, ridestandolo. Lasciò entrare quel suono nella sua mente, quasi come se magicamente avesse potuto portare assieme al rumore anche un po’ di ordine fra i suoi pensieri. Ma nonostante tutto quel caos restava lì, fermo. In attesa di qualcosa che sembrasse non volere mai giungere.
- Paura, spadaccino? Tenerla nascosta non servirà di certo a salvarli, lo sai… -
- Stai giocando con qualcosa più grande di te. –
- Tre… -  
- Fermati! - ordinò con un tono duro e scostante. Voleva sembrare forte, ma non ci riusciva. Aveva paura, troppa paura.
Per la prima volta ebbe paura della morte.
- Due… - lo guardò ancora una volta negli occhi.
Sperava ancora ingenuamente di riuscirvi a scorgere un bagliore di lucidità fra così tanta follia. Forse voleva trovare semplicemente il più piccolo particolare che gli facesse rivedere anche per un solo attimo quel ragazzo che così tanto si era divertito a denigrare in passato per le proprie debolezze. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa che gli impedisse di sprofondare nelle tenebre più nere.
Quelle stesse che così tanto gli aveva rimproverato e che adesso sentiva tirarlo a se. Le sentiva, le poteva scorgere nitidamente in quelli occhi neri come la pece e determinati, esattamente come i suoi.
Se vi era qualcosa per cui si sarebbero potuti contraddistinguere era il vuoto lasciato da una preghiera che altrimenti, in quelli dello spadaccino, avrebbe urlato ancora ed ancora.
- Fermati… -
- Uno… - continuava a ripetergli che era sbagliato, che nessuno di loro avrebbe meritato una cosa simile.
Neanche il cecchino che su una storia simile non avrebbe esitato un solo attimo a ricamarsi un ruolo da eroe, per poi sminuirli nella prima taverna di turno. Nessuno, nessuno di loro sarebbe dovuto morire.
Avesse avuto coscienza di se, Zoro, glielo avrebbe urlato sino allo stremo. Lo avrebbe preso per quelle spalle sporche di sangue e strattonato sino a fargli perdere i sensi. E neanche allora qualcuno sarebbe riuscito a fermarlo ed impedire alle sue suole di sanguinare tanta la forza con cui lo avrebbe colpito.
Neanche quel Dio che così tanto in passato aveva amato diffamare e che adesso, dalla propria culla di pace, stava ridendo di se.
- Hai fatto la tua scelta. -
Il colpo venne caricato in canna con uno scatto secco.
- Fermati! – ma nessun proiettile parve esser in grado di partire.
Sanji non riuscì semplicemente a farlo perché il suo ventre venne squarciato.
Le sue urla sembravano disumane e più urlava, più Zoro affondava la lama. Non vi era esitazione nel suo affondo, non vi era nient'altro che non fosse una rabbia talmente sorda da riuscire ad ottenebrare persino il proprio animo. Uccidere il proprio fratello è qualcosa destinata ad andare per principio contro natura.
E' una cosa piu' grande di te, semplicemente non ci riesci. La tua mente forse potrebbe permettertelo, ma il cuore fermerebbe la tua mano ancora prima che te ne rendessi conto.
Ma Zoro oramai era cosciente che di compagno, in quel ragazzo, non vi era rimasto altro che un pallido riflesso. Talmente vacuo da non permettergli quasi di riconoscerlo più.
Ed il suo spirito lo aveva accettato infine. Si era fatto forte di quel peso sino a sentire le ossa spezzarsi ed ogni parte di, persino la più esigua, tendersi sino allo stremo e maledirlo dal profondo.
Lo aveva accettato nello stesso attimo in cui aveva deciso di ucciderlo.
- Spadaccino… -  esattamente come per il suo maestro sapeva di non dover avere rimpianti.
- Risparmia il fiato. –   
Si allontanò con il suo solito passo mentre qualcosa dentro di se aveva incominciato a gemere.
Lo poteva sentire indistintamente nonostante il caos dell’arena; lo poteva sentire graffiare dentro il suo petto e bruciarlo sin nel profondo.
Avesse potuto si sarebbe ben più che volentieri strappato quel fottuto cuore e lanciatolo a chilometri lontano da se. Quello stesso organo che batteva solo per ricordargli che era ancora vivo. Di aver ucciso ed essere sopravvissuto.
- Marimo di merda… vuoi fermarti…? - i suoi passi si arrestarono involontariamente.
Qualcosa di familiare aveva solleticato le sue orecchie. Qualcosa che per troppo a lungo aveva voluto dimenticare per concentrarsi sul proprio, di dolore.
- No… - eppure era sempre stato tutto così chiaro.
La verità l’aveva avuta in ogni singolo istante sotto gli occhi, era stato solamente così cieco da non volerla scorgere. Ad ogni insulto sussurrato a mezze labbra, ad ogni offesa, ad ogni provocazione… vi era un abile burattinaio a muovere i fili delle loro esistenze decidendo di volta in volta di intrecciarli.
Vi era Sanji a condurre i passi incerti di Trevor ed il marine, a sua volta, a dirigere i suoi in un balletto di guerra.
- Sanji! - lo chiamò, ma sapeva che sarebbe stato inutile.
Ora sarebbe voluto tornare indietro e sistemare tutte le faccende lasciate in sospeso, tornare indietro e non commettere gli stessi errori.
Ma era troppo tardi, troppo tardi per tutto anche per pregare. Troppo tardi anche soltanto per rivolgersi a quel dio, maledicendolo per non aver osato fermare la sua mano.
- Hai fatto la tua scelta...- le sue ultime parole si persero in un vuoto troppo grande per poter anche solo esser contenuto. Sfiorarono appena una pergamena stretta fra le dita del biondo, lasciandovi un simbolico alito di vita in memoria di se.
E mentre quel foglietto veniva stretto da mani rabbiose, mani assassine perché ancora sporche di sangue fraterno, alle sue spalle i bianchi cancelli dell’Iris erano oramai stati aperti…



- Per cosa saresti disposto a morire, Sanji? -
- Per salvare anche uno solo di voi. –




Il sangue non significa nulla, conta meno di niente in questo mondo.
Persino adesso che i miei vestiti ne sono intrisi ed il mio corpo svuotato, riesco ancora a pensare a voi come una famiglia. Sto sanguinando e vi ho salvati. Sto sanguinando e ti amo ancora.
Avevi ragione, Nami-san: in questa vita non potrebbe esistere niente di più solido di questo. 



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