Possa la Fortuna essere sempre a vostro Favore

di Elisa Ristori
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-Prologo ***
Capitolo 2: *** 2. La Mietitura ***
Capitolo 3: *** 3. Questo è un arrivederci non un addio ***
Capitolo 4: *** 4. Non sarò una pedina dei loro giochi ***



Capitolo 1
*** 1-Prologo ***


“FELICI HUNGER GAMES E POSSA LA FORTUNA SEMPRE ESSERE A VOSTRO FAVORE”

 

Mi chiamo Diana Castro ho 15 anni e vivo nel Distretto 11. Pamen è lo stato che ci governa, Capital City la nostra capitale, ma anche il nostro incubo peggiore. Il mio Distretto l’11 è il distretto dell’approvvigionamento, siamo contadini e coltiviamo campi di grano, ortaggi e frutta, ma nulla di questo è destinato a noi. Tutto ciò che produciamo e destinato al benessere della capitale a noi va solo una piccola parte di quello. Siamo il Distretto più povero, se non contiamo il 12 nascere li è già una sfortuna in partenza, patisci la fame, il freddo e gli stenti, patisci le angherie dei Pacificatori che con noi non mostrano pietà, come se non bastassero già le torture che Capital City ci infligge. Nessuno vorrebbe nascere a Panem, nessuno sano di mente metterebbe al mondo un figlio nel nostro Paese, nessun genitore correrebbe questo rischio, perché su di noi incombe una maledizione: gli Hunger Games. I giochi della fame, ecco la nostra maledizione, una specie di reality all’ultimo sangue che Capital City ci spaccia come un evento straordinario, ma per noi non lo è affatto. E’ il prezzo che dobbiamo pagare per la ribellione dei nostri antenati e ora si ripercuote su noi: ogni anno, durante una giornata chiamata Mietitura, ogni distretto deve offrire come tributi un ragazzo e una ragazza dai 12 ai 18 anni che prenderanno parte ad un combattimento mortale dove il vincitore è solo uno. Ci trasformano nei più crudeli assassini per puro divertimento, cosi ci incutono paura e smorzano sul nascere ogni nostro tentativo di ribellione.

Vivo all’11 con la mia famiglia, sono figlia unica, vivo con mio padre e mia madre in una casupola di due piani, noi abitiamo sopra mentre sotto c’è la nostra bottega.. Mio padre è un fornaio abbiamo una piccola bottega attigua alla casa, mia madre lo aiuta, ma durante il periodo del racconto entrambi sono costretti come gli altri a lavorare nei campi. Mio padre per me ha sempre voluto il meglio non mi ha mai permesso di aiutarlo nel lavoro, sono una delle poche ragazze del mio Distretto a potermi permettere di andare a scuola. Eppure siamo una famiglia molto umile di lussi e agi non ce ne siamo mai potuti permettere e il cibo anche in casa scarseggia, cosi come i beni primari: l’acqua calda per lavarsi, il legname per il fuoco e talvolta anche i vestiti. Quando sono nata è stato un fulmine a ciel sereno i miei non volevano figli, non volevano fargli subire la maledizione dei giochi della fame, poi sono arrivata io e per loro è cambiato tutto. Mio padre ha scelto il nome Diana e quando un giorno gli ho chiesto cosa significasse mi ha risposto: “Diana è il nome di una divinità greca, significa splendente e celeste. Diana era la dea della caccia, della forza e del coraggio, era una divinità speciale, importante, simbolo di forza e coraggio! Una persona che porta questo nome è speciale, unica. Tu sei speciale e unica” Ero piccola all’epoca e forse non capivo a pieno le parole di mio padre, ma con il tempo ho capito tutto, crescendo ho capito cosa voleva dirmi: io dovevo essere forte, davvero forte, per vivere in quel mondo, per vivere a Panem. Chiunque ringrazierebbe per essere al mondo, la vita è un dono prezioso, ma io non ho nulla da ringraziare, l’essere venuta al mondo per me è una vera sfortuna, prima o poi la morte verrà a chiedermi il suo tornaconto. Ho vissuto un infanzia felice, l’amore i miei genitori non me l’hanno mai fatto mancare, io li adoro e loro adorano me. Sono la mia unica ragione di vita, mio padre poi è il mio migliore amico: quando la bottega è chiusa mi prende e mi porta nei boschi accanto al nostro distretto, ci portiamo dietro un panino e un po’ di frutta e passiamo la giornata a ridere, raccogliere more selvatiche e cacciare qualche animale. Mio padre è abilissimo a cacciare è fortissimo con l’arco e le frecce ed è bravissimo a piazzare trappole. Quando ero piccola restavo a guardarlo tutto concentrato, mi sembrava l’uomo più forte del mondo, il mio eroe. Poi quando ho compiuto 10 anni mi ha regalato il mio primo arco e mi ha insegnato ad usarlo. Da allora durante le nostre passeggiate nei boschi io e lui cacciavamo insieme, sono diventata sempre più brava e mi ha anche insegnato a piazzare le trappole per gli animali. E’ questo il nostro unico modo per portare a casa un po’ di carne e noi per sopravvivere dobbiamo fare di tutto. Quando papà è a lavoro io vado da sola nei boschi e torno sempre a casa con un po’ di selvaggina fresca, la mamma non vuole si arrabbia sempre perché ha paura che io possa farmi male, possa incappare in qualche Pacificatore e subire una punizione, perchè qui con noi sono parecchio crudeli, ma io voglio fare il possibile per aiutare la mia famiglia e poi cos’altro potrebbe succedermi, la vita non potrebbe essere peggio di quella che è! Da quando ho compiuto 12 anni sono diventata estraibile anche io per gli Hunger Games, beh come ho detto prima, se vivi a Panem prima o poi la morte viene a chiederti il tornaconto e non c’è mancato molto prima che accadesse anche con me.

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Capitolo 2
*** 2. La Mietitura ***


La Mietitura, quel giorno tanto odiato è arrivato!

Ormai erano 4 anni che quella storia si ripeteva, da quando ho compiuto 12 anni il mio destino è stato segnato per sempre. E’ questa la sfortuna se vivi a Panem, sai che non puoi sottrarti, sai che il tuo destino è segnato fin dalla tua nascita. Sono giorni che nella piazza della città davanti al palazzo di giustizia i Pacificatori guardano a vista operai del nostro distretto, costretti a costruire il palco, issare bandiere con lo stemma di Capital City, montare i megaschermi soliti da cui proietteranno i giochi una volta iniziati. Perché anche volendo, anche se non viene sorteggiato sei costretto a guardare quei poveri ragazzi ammazzarsi l’uno con l’altro, con la scusa di dover sostenere i tributi del proprio distretto. La fanno passare quasi come una festa, come il più grande degli eventi, ma in realtà lo è solo per i frivoli abitanti della città, per noi li dentro non c’è niente di divertente, solo morte e dolore. Per anni ho visto tornare al distretto i corpi dei nostri ragazzi chiusi in quelle bare di legno, ho visto la disperazione nei volti dei genitori e ho sempre pensato con paura che avrei potuto esserci io. Pensavo che non era assolutamente giusto, odiavo Capital City per tutto quello che ci faceva subire, per strapparci cosi giovani alle braccia dei genitori. Ogni volta che passo per la piazza una morsa mi stringe lo stomaco, ad ogni colpo di martello sento il cuore perdere un battito e lo stomaco fare un capitombolo indietro. Mi stringo la giacca al petto e aumento il passo correndo verso casa quando entro mi chiudo la porta alle spalle tirando un sospiro di sollievo. Ormai fuori è buio e un’altra giornata sta finendo, ma io penso già a domani ed ho paura, come ogni anno, tremo al solo pensiero che da quella boccia possa uscire il mio nome. Il caso ha voluto che per 4 anni di seguito l’estratta non fossi io, mia mamma ogni volta diceva che era una fortuna, che dovevo essere grata per questo, ma io mi sentivo solo miracolata per quella volta.

 

Non riesco a dormire, mi giro e mi rigiro nel letto senza riuscire a prendere sonno cosi alla fine decido di alzarmi. Scosto le coperte, tiro su la trapunta e me l’avvolgo intorno cammino un po’ per la stanza: è piccolina, lo spazio che basta per un letto, un vecchio armadio, un tavolino, una sedia sotto la finestra e una piccola libreria a muro che ospita i miei pochi libri, i miei tesori. Cammino per un po’ per la stanza cercando di mettere in ordine i miei pensieri, ma stanotte a farmi compagnia ci sono solo le mie paure, l’angoscia per quello che potrebbe accadermi. Mi fermo davanti alla finestra guardando fuori, il distretto è immerso nel buio e nel silenzio, le luci delle case sono tutte spente e la gente è tutta a dormire cercando di dimenticare forse quello che gli aspetta domani. Non so per quanto tempo sono rimasta li ferma a guardare fuori, forse passano ore perché mi sento le gambe intorpidite e la testa pesante, cosi decido di andare a letto, mi stendo e chiudo gli occhi piano piano il sonno prende il sopravvento. Quando mamma viene a svegliarmi mi sembra di essermi addormentata da appena due minuti e invece ormai il sole è sorto ed è tempo di alzarsi e affrontare la giornata. Vorrei poter rimanere li ad occhi chiusi, facendo finta che tutto quello sia solo un sogno, ma purtroppo la realtà mi chiama e non posso fare a meno di presentarmi. Mi alzo di malavoglia dal letto e vado a farmi un bagno sperando che possa rilassarmi e calmare un po’ quella stretta allo stomaco che ho da ieri sera. Mamma ha già riempito la tinozza che abbiamo come vasca, è cosi vecchia che ho paura che cada a pezzi mentre ci sono dentro ed è pure troppo piccola per me nonostante io sia piccolina e minuta di fisico, ma è tutto quello che possiamo permetterci in casa. Mamma mi ha lasciato una brocca di acqua che ha bollito per riscaldarla perché purtroppo non abbiamo neanche l’acqua calda in casa, ma ormai è diventata fredda anche quella e mi devo accontentare, per questo faccio in fretta prima che mi si paralizzino tutti i muscoli. Quando torno in camera per vestirmi vedo che la mamma mi ha preparato sul letto il “vestito buono”, un semplice vestitino di mussola azzurrino chiaro e pois bianchi, con il colletto di pizzo. Era suo lo ha cucito a mano la nonna anche lei lo indossava durante le sue mietiture e se è ancora li, dice lei, vuol dire che le ha portato fortuna e per questo vuole che lo indossi anche io. Sono pronta, mi lego in capelli in una treccia laterale lasciandola cadere morbidamente sulla spalla, liscio il vestito con le mani e mi guardo nel piccolo specchio dell’armadio, il meglio che posso ottenere è questo. Scendo di sotto raggiungendo i miei genitori che sono già a tavola per la colazione e prendo posto sulla sedia accanto a mio padre, mamma mi porge un bicchiere di latte e qualche fettina di mela. La guardo e lei accenna un sorriso bonario, non ho molta voglia di mangiare stamattina, ho lo stomaco chiuso e sento che se metto qualcosa in bocca potrei vomitarlo all’istante, però non voglio far preoccupare ulteriormente mamma, è una giornata difficile per tutti. Bevo il mio latte e sbocconcello la mela in silenzio, nessuno di noi ha molta voglia di parlare stamattina la paura e la tensione per oggi si è impossessata di noi anche se stiamo facendo di tutto per nascondercelo a vicenda, ma ogni volta che incontro i loro occhi, soprattutto quelli di mamma, li vedo che sono persi nel vuoto. Il tempo sembra esserci quasi sfuggito di mano perché ad un certo punto mamma ci fa segno che è ora, eccola di nuovo quella morsa che mi stringe lo stomaco, devo stringere i denti e respirare piano, mentre mi alzo dal tavolo e mi appresto ad uscire di casa, sento che la mia misera colazione sta per tornarmi su. L’aria fredda e pungente del mattino mi da un sollievo immediato tanto che per un secondo chiudo gli occhi e tiro indietro la testa espirando profondamente cosi che il senso di nausea passi del tutto. La strada è gremita di gente, una folla silenziosa composta di ragazzi e bambini che, come me, si avviano verso la piazza a testa bassa, gli sguardi schivi ed li che mi accodo anche io lasciando i miei indietro e dando loro il tempo di raggiungere la piazza. Una volta arrivata li devo mettermi in fila con le altre ragazze davanti ad un Pacificatore che senza troppe cerimonie mi tira la mano pungendomi il dito e prendendosi un po’ del mio sangue. Lo guardo in maniera fredda per poi allontanarmi all’istante e raggiungere il posto in mezzo ad altre ragazze. Mi scambio un sorriso veloce e tirato con le mie vicine o meglio rispondo un po’ forzatamente al loro sorriso, quasi che servisse a darci un po’ di coraggio. Poco dopo sentiamo dei passi, un ticchettio di tacchi che pestano sul legno del palco e alzo la testa, sapendo già chi mi troverò di fronte: Glenda, la donna mandata da Capital City che ogni anno viene a decretare la morte di due di noi. E’ ancora più stravagante che gli altri anni, una faccia eccessivamente truccata di un turchese scintillante che si abbina al resto dell’abbigliamento, turchese anche esso e anche esso coperto da un fastidioso scintillio. Con le dita ossute e le unghia perfettamente smaltate richiama la nostra attenzione, picchiettando sul microfono: << Benvenuti…..Benvenuti alla 75° edizione degli Hunger Games. Come tutti sapete gli Hunger Games hanno origine dalla ribellione dei tredici distretti contro Capitol City. Il tredicesimo venne definitivamente distrutto e ogni anno, per distretto, un giovane ragazzo e una giovane donna vengono estratti per poter partecipare a questi meravigliosi giochi. Ma prima di passare all’estrazione ecco a voi un bellissimo film direttamente da Capital City>> esordisce con il suo tono squillante e fintamente allegro, indicando poi gli schermi posti al suo lato.

Il silenzio regna sovrano in tutta la piazza tra noi ragazzi alita solo la paura che da quella maledetta boccia esca il bigliettino con il nostro nome, mentre sugli schermi scorrono le immagini abilmente montante da Capital City, che riassumo la ribellione dei distretti, la loro sconfitta e la successiva nascita degli Hunger Games come prezzo che tutti i distretti dovevano pagare per la ribellione. << Un applauso al nostro presidente!>> irrompe la voce squillante di Glenda alla fine del filmato, ma nella piazza continua a regnare il silenzio, nessuno di noi ha intenzione di applaudire all’artefice di tutto ciò, al presidente Snow che per noi è come il diavolo in personeGlenda si rende conto di essere la sola ad applaudire e risultare anche un po’ ridicola cosi riprende in mano la situazione stampandosi in volto l’ennesimo sorrido finto allegro. << E ora passiamo a sorteggiare il giovane uomo e la giovane donna che rappresenteranno il Distretto 11 ai 75° Hunger Games. Come sempre prima le donne...>> dice ticchettando ad ogni passo con i tacchi traballanti sul palco. Durante tutto il discorso e il filmato non avevo prestato attenzione a nulla di quello che era successo, mi ero di nuovo chiusa nella mia bolla protettiva lontano miliardi di anni luce dal pericolo imminente, per questo la voce di Glende e il suo “Prima le ragazze” mi fa quasi sobbalzare e tornare alla realtà. Vedo le mano ossuta entrare nella boccia, le sue unghia smaltate mescolare tra i mille biglietti li dentro contenuti e solo dopo vari secondo prenderne uno e tirarlo su. Sento i corpi delle compagne accanto a me irrigidirsi dalla paura, mentre Glenda ritorna al centro del palco davanti al microfono srotolando il bigliettino per leggere il nome della sfortunata. Per una di noi ormai il destino è segnato! << La giovane donna che rappresenterà il Distetto 11 agli Hunger Games è: Diana Castro!>>

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Capitolo 3
*** 3. Questo è un arrivederci non un addio ***


Sobbalzo di nuovo alle parole di Glenda, ma questa volta ho sentito bene ed è la paura che si è impossessata di me, che mi sconquassa le membra facendomi tremare: ha detto il mio nome, i miei peggiori incubi si sono materializzati davanti ai miei occhi diventando la mia realtà. Ho tutti gli occhi puntati addosso e il silenzio intorno a me è assordante tanto che posso sentire incessanti i battiti del mio cuore: << Diana Castro dove sei cara? Oh…eccoti vieni, sali qui sul palco in modo che tutti possano vederti!>> mi invita con quella vocetta squillante e fastidiosa, allungando le mani ossute e smaltate verso di me e facendomi cenno di salire. Deglutisco rumorosamente, sento alcune mani sfiorarmi la spalla quasi in segno di compassione, i miei piedi si muovono da soli, avanzo tra la folla che ha aperto un varco per farmi passare, altre mani si allungano e mi sfiorano, occhi tristi mi osservano in quel lungo percorso fino alle scalette del palco, le salgo una alla volta tenendo sempre lo sguardo fisso davanti a me senza guardare la folla silenziosa che osserva il mio cammino verso la mia triste sorte. E poi le sento in quel silenzio assordante, le sento quelle urla disperate che mi bloccano sulle scale e mi raggelano l’anima, le urla di mia madre, urla di dolore: << No Diana nooo! La mia Diana nooooo!>> E devo ricorrere a tutto il coraggio del mondo per impedirmi di voltarmi e correre verso di lei ed anche al terrore che mi incutono i Pacificatori con il fucile imbracciato che, con poca delicatezza, mi spingono su per le scale costringendomi a salire. Quando nella piazza torna il silenzio capisco che deve esser stato mio padre a farla tacere prima che fosse troppo tardi per loro e per me anche se ormai il mio destino è segnato. Quando arrivo sul palco Glenda mi viene incontro e mi prende dalla spalle spingendomi accanto a lei, guidandomi quasi fossi una bambina mi posiziona in modo che tutti possano vedermi e con quella sua voce trillante di entusiasmo che ti verrebbe voglia di puntargli contro tu stessa uno di quei fucili bianchi, si rivolge alla folla: <> dice per pochi ticchettare verso la boccia posta questa volta all’estrema sinistra, con lo stesso rituale immerge la mano all’interno dei foglietti e ne pesca uno tornando al centro del palco e posizionandosi di fronte al microfono e srotolando il foglietto: << Il giovane uomo che rappresenterà il distretto 11 agli Hunger Games è James Reed!>>Appena sento il suo nome alzo lo sguardo e lo sposto sulla folla pronta a vedere chi sarà il mio compagno di sventura, alleato o potenziale assassino che sia, vedo dalla parte dei ragazzi la folla aprirsi e un ragazzo che dimostra la mia età sennò pochi in più, con lo sguardo smarrito e pieno di terrore si fa largo avanzando verso il palco scortato dallo stesso piccolo plotone di Pacificatori che ha scortato me. Lo seguo con gli occhi, cerco nel suo viso qualcosa di familiare, mi pare di averlo visto venire in bottega qualche volta in quei rari pomeriggi in cui scendevo ad aiutare i miei genitori. Mentre lo osservo salire e mettersi dall’altra parte di fronte all’intera piazza mi fa pensare che sarà solo uno dei 23 da cui dovrò guardarmi se voglio uscire da li dentro salva o almeno se voglio provarci.

 

Bum…bum…bum. Sento solo i battiti del mio cuore che rimbombano nel mio petto, batteva cosi forte che sembrava quasi stesse per esplodere e avevo seriamente paura che lo facesse, che mi esplodesse in petto e mi lasciasse senza forza li inerme sul palco. E forse sarebbe stato meglio, cosi all’improvviso e non avrebbe fatto differenza anche se questo significava condannare qualcun altro alla mia stessa fine. Di fortuna io non ne avevo davvero mai avuto, ma questo era anche troppo, sembrava accanimento puro. Eppure era inevitabile e lo sapevo benissimo, l'avevo scampata per 4 anni ed era stato un vero e proprio miracolo che non poteva durare a lungo. E infatti era venuto a chiedere il tornaconto nel modo più brutale che ci fosse. In piedi sul palco osservo la folla del mio distretto ora che ha i suoi due tributi, osservo le espressioni sollevate di alcuni, c’è chi riesce a nasconderle anche malamente, c’è chi invece proprio non ce la fa e gli si legge in volto e negli occhi, ma come biasimarli lo sarei stata anche io sollevata se fossi stata al loro posto, salvandomi da una disgrazia simile. E poi commetto l’errore di puntare lo sguardo sulla folla degli adulti, incontrando quello dei miei genitori, mia madre stretta a mio padre, la disperazione nei loro volti, la consapevolezza che non ci rivedremo mai più, che quello per noi sarà l'ultimo abbraccio e in quel momento credo di rendermi definitivamente conto di quello che è successo, ma soprattutto del fatto che quella è davvero l’ultima volta che li vedrò. Ad un certo punto mi sento toccare la spalla e sobbalzo colto alla sprovvista, voltandomi di scatto, per accorgermi che era solo Glenda che mi spinge delicatamente al centro del palco davanti a tutti. Benissimo già comincio a stare all'erta e a vedere nemici ovunque e ancora non sono entrata nell'Arena. Non durerò un minuto di più li dentro sento già la morte alitarmi sul collo, ma non ho alcuna intenzione di dargliela vinta, non diventerò una loro pedina, non starò al loro sporco gioco. La donna a quel punto ci esorta a stringerci la mano in segno di reciproca solidarietà, dopo averci presentati quali tributi di quest’anno “come se questo potesse risparmiarci dal doverci massacrare a vicenda” mi viene da pensare. Ma poi se ci rifletto penso anche quel ragazzo potrebbe diventare il mio alleato, infondo anche agli scorsi giochi i due ragazzi dello stesso distretto erano alleati e poi hanno vinto insieme. Osservo il ragazzo e vedo che anche lui mi guarda in maniera strana, scrutandomi attentamente,forse sta pensando le mie stesse cose, allora allungo meccanicamente la mano verso di lui che fa la stessa cosa gliela stringo giusto qualche secondo per poi toglierla via, probabilmente ho stretto la mano al mio assassino o al mio alleato. << Bene…benissimo…ecco i due tributi del distretto 11, questi due ragazzi porteranno gloria e splendore al vostro….distretto! Felici Hunger Games e…possa la fortuna sempre essere a vostro favore!>> ci presenta Glenda alla piazza della città con eccessivo entusiasmo, come se fossimo degli eroi e non due poveri ragazzi che stanno per andare a morire, come se questo dovesse essere motivo di lustro per il Distretto e non gli ennesimi due giovani innocenti morti. Nella piazza regna un silenzio di tomba nessuno applaude e nessun osa fiatare non c’è motivo per tutto questo, tutti sanno che questa è una disgrazia infinita a cui purtroppo non possiamo sottrarci o ribellarci. Detto ciò fa segno a noi due di seguirla all’interno del palazzo le immense porta sono spalancate alle nostre spalle, muovo qualche passo anche se incerto prima di entrare volgo di nuovo lo sguardo alla folla cercando gli occhi dei miei genitori che però ormai sono spariti. Già il rito del saluto, l’avevo quasi dimenticato, tra un po’ potrò vederli e abbracciarli anche se per pochi minuti appena. Un Pacificatore mi spinge dentro senza troppa delicatezza e chiude il pesante portone alle mie spalle, gli lancio un occhiataccia cavolo potrebbe essere la mia ultima volta a casa mia potrò avere il tempo di salutare la gente del mio distretto. Senza troppe cerimonie mi obbliga ad entrare in una delle stanzette del palazzo di giustizia chiudendo la porta con un sonoro tonfo alle mie spalle. Una volta rimasta sola il momento di shock iniziale passa e la realtà mi travolge di colpo, mi rendo conto di quello che è veramente successo: la Mietitura è appena terminata, il mio nome è uscito da quella boccia e sono un tributo del Distretto 11. Un altro scatto della porta mi fa sobbalzare spaventata, mi volto di scatto e vedo i miei genitori sulla soglia scortati da un Pacificatore: << Avete 3 minuti di tempo!>> dice in modo brusco chiudendo la porta alle spalle. Vedo i loro occhi lucidi, mia madre con l’aria distrutta e non posso permettere che l’ultimo ricordo loro sia questo, voglio che siano forti e che sappiano quanto gli ho voluto bene. Corro incontro e mi perdo nel loro abbraccio, entrambi mi stringono forte e rimaniamo qualche secondo in silenzio, concedendoci quest’ultimo momento solo per noi, mi abbandono alla loro stretta cercando di cacciare indietro quell’enorme groppo che ho in gola, non voglio che mi vedano piangere questa volta devo essere io forte per far forza a loro. <> mi dice mio padre guardandomi dritto negli occhi, io annuisco e cerco di lasciarmi persuadere dalle sue parole come faccio sempre, mio papà riesce ad infondermi coraggio, lui crede in me e non posso deluderlo. <> gli dico a bassa voce sulle ultime frase volutamente cosi che mi senta solo lui. Mia madre non è forte come noi e lo dimostra la reazione che ha avuto quando ha sentito il mio nome uscire da quella boccia, questa cosa la distruggerà, non vedermi più tornare a casa anche se ho promesso di farlo. Io e papà ci scambiamo uno sguardo complice e poi abbraccio anche lei forte, la mia mamma, mi mancheranno moltissimo i suoi abbracci, i suoi consigli, fino ad ora è sempre stata la mia unica migliore amica. Loro sono il mio tutto e pensare di non rivederli mai più mi fa salire le lacrime agli occhi. Ti odio Capital City, odio te e i tuoi maledetti Hunger Games. << Didi promettimi che tornerai, promettimelo amore….io senza di te non ce la faccio!>> le parole di mia madre con la voce rotta dal pianto sono un pugno nello stomaco e sento che sto davvero per cedere. Lo sa anche lei che li dentro non ho neanche una possibilità io non sono come loro, i Favoriti macchine da guerra addestrati per ammazzare, è vero so usare l’arco grazie a mio padre, ma io uccido animali per non morire di fame, non persone. E poi parliamoci chiaro: una ragazzina proveniente dall’11 di una magrezza spaventosa, che a stento riesce a tenere in piedi la famiglia, non ha nessuna possibilità dentro un’arena piena della peggior specie di bestie umane e non. << Te lo prometto mamma….te lo prometto…tornerò da voi! Non piangere ti prego….ti voglio bene mamma…ti voglio bene!>> le dico io cercando di assumere un tono convincente anche se all’ultimo mi si incrina leggermente la voce. No Diana non puoi piangere non adesso. In quel momento si apre la porta ed è lo stesso Pacificatore di prima che senza troppi preamboli dice che il tempo è finito, un ultimo abbraccio con i miei ma me li strappa letteralmente dalle braccia e nulla servono le urla disperate di mia madre, mentre io per lo sconcerto e la paura resto paralizzata con una mano tesa in avanti come a cercare di tenerli con me. La porta si richiude con un tonfo sonoro lasciandomi li inerme, senza sapere cosa fare o cosa dire, in quella stanza spoglia e deserta che sembra riflettere lo stato del mio cuore: è cosi che mi sento, completamente svuotata come se ogni emozione, sentimento mi fosse stato portato via. Non provo niente, non sento dolore, non sento rabbia nulla, sono come intrappolata in una sorta di limbo che mi tiene lontana da tutto. Ora non mi resta che aspettare, aspettare li che qualcuno guidi le redini del mio destino…

 

SPAZIO AUTRICE: Salvee :) allora ringrazio in primis tutti quelli che hanno letto la mia storia, con la speranza che sia piaciuta e vi abbia interessato. Fatemi sapere cosa ne pensate, mi fa sempre piacere sia ricevere commenti che critiche, perchè aiutano tanto a migliorare. Mi scuso per l'enorme distanza di tempo con cui posto i capitoli, ma ho una connessione che fa abbastanza schifo quindi devo "sottostare" a quando decide lei di funzionare xD Questi primi capitoli sono un pò di passaggio o meglio introduttivi, dal prossimo vi prometto che saranno più interessanti e ci saranno succose sorprese :) Be non mi resta altro che salutarvi e lasciarvi alla lettura della mia storia.

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Capitolo 4
*** 4. Non sarò una pedina dei loro giochi ***


Tre minuti, solo tre minuti. Ecco tutto quello che mi era stato concesso con i miei genitori, probabilmente non gli avrei più rivisti e per salutarli avevo avuto solo tre dannatissimi minuti.

Quante cose avrei voluto dirgli: erano stati i genitori migliori del mondo, non ce l’avevo con loro per avermi messa al mondo e condannata ad una vita simile, perché mi avevano regalato la vita migliore che una ragazza potesse desiderare e a me era bastato il loro immenso amore per avere tutto.

Il pensiero di non rivederli più mi uccideva, che ne sarà di loro senza di me, mi dicevano sempre che ero la loro vita, la loro immensa gioia e ora gli ero stata strappata via senza che potessero farci nulla e senza che potessero impedirlo. Mi tornano davanti gli occhi smarriti e vuoti di mia madre, il suo pregarmi di tornare a casa viva, perché senza di me non ce l’avrebbe fatta, non avevo potuto dirgli di no, le avevo fatto quella promessa che io stessa sapevo di non poter mantenere.

E mio padre, lui era già consapevole di quello che sarebbe successo, era consapevole che non mi avrebbe più rivista, che quello era il nostro ultimo abbraccio, lo era stato quando gli avevo chiesto di stare vicino alla mamma perché lei non era forte come noi, lo avevo visto nei suoi occhi mentre mi prometteva che c’avrebbe pensato lui adesso.

Quei tre minuti erano stati gli ultimi della nostra vita insieme, l’ultimo abbraccio, gli ultimi sguardi e poi una porta e un Pacificatore ci avevano separati per sempre. Una lacrima scappa al mio controllo e mi scivola dagli occhi, unica e solitaria, perché ho imposto a me stessa di essere forte, di non piangere, il pianto è per le persone deboli e io non voglio essere una di loro. Mi passo una mano sul viso catturandola e togliendone ogni traccia quando sento la porta spalancarsi e alzo gli occhi: Glenda e la sua vocetta stridula mi esortano ad uscire e seguirla.

Lascio quella stanza spoglia e vuota e mi accodo dietro di lei, appena fuori incontro di nuovo il mio compagno, James e per la prima volta mi soffermo a guardarlo: alto, capelli scuri, occhi neri e profondi, pur avendo una corporatura esile ha le braccia forti, sembra quasi che possa alzarti con un braccio solo senza fare il minimo sforzo. Guardo il suo viso e la sua espressione, terrorizzata e smarrita, gli si legge chiara la paura di quello che sta per affrontare, ma ha la mia stessa fierezza nell’avere la testa alta e affrontare tutto con enorme dignità. Se c’è una cosa che abbiamo imparato nel nostro distretto è che non possiamo permetterci di essere deboli, dobbiamo sopravvivere a qualunque costo alle privazioni che Capital City ci impone.

Ci caricano su una macchina, Glenda al centro che non la smette di cinguettare con quella sua vocetta fastidiosa, decantando la magnificenza di tutto quello che ci aspetta da qui a due settimane, io ormai faccio finta di non ascoltarla e mi concentro sul paesaggio fuori dal finestrino: attraversiamo per intero il nostro Distretto per raggiungere la stazione e vedo quelle strade, quelle case e botteghe cosi familiari sfrecciarmi davanti l’ultima volta, questo è l’ultimo saluto alla mia casa.

Arrivati alla stazione c’è uno stuolo di gente che è venuta a darci l’ultimo saluto, ci fissano mentre passiamo in mezzo a loro, con i volti di tristezza e compassione, nessuno dice nulla, nessuno applaude, solo un silenzio assordante, un silenzio che vuol dire pieno rispetto. Glenda ci precede sul treno, noi la seguiamo, io resto fermo qualche secondo sulla soglia, un ultimo sguardo alla gente del mio distretto, un ultimo sguardo a casa mia, poi volto le spalle e l’enorme portellone si chiude con un tonfo sonoro. Seguo Glenda e James entrando nel primo vagone il treno ormai parte e sfreccia ad una velocità assurda, ma li dentro nulla si muove e tutto calmo e tranquillo che non ti rendi conto di star viaggiando.

Quello che mi colpisce appena entro è lo sfarzo, il lusso eccessivo tipico di Capital City: tavoli di legno pregiato, lampadari di cristallo che scendono dai soffitti, divani enormi e soffici di un bel blu elettrico e poi un enorme tavolata piena di ogni cibo possibile e immaginabile. Non ho mai visto tanto ben di Dio tutto insieme, a casa a malapena riuscivamo a mettere insieme un tozzo di pane portato dal forno e un po’ di selvaggina che prendevo nei boschi, quando mi andava bene. Qui non saprei cosa scegliere prima, l’istinto mi farebbe lanciare di volata sul tavolo e prendere il doppio di tutto, ma ovviamente non faccio nulla di tutto ciò, mi limito a seguire in silenzio il mio compagno e sedermi sulla poltrona blu di fianco a lui.

Glenda sparisce con la scusa di andare a cercare qualcuno di cui non capisco il nome e neanche mi interessa, cosi lascia me e James da soli. Tra noi regna il silenzio, io non ho ancora deciso se potrebbe essere un mio alleato o un possibile assassino e quindi tenermene alla larga, ma non sembra cosi male dal viso.

Sento ogni tanto il suo sguardo addosso, come se stesse pensando la stessa cosa, per un po’ nessuno dei due parla, ma il primo a rompere il ghiaccio e lui: << Hai…hai idea di chi possano essere i nostri mentori? Voglio dire, l’11 non ha un vincitore..l’ultimo in vita è morto!>> mi chiede, sento una leggera incertezza nella sua voce, quasi indecisione a rivolgermi o meno quella domanda. Io mi volto verso di lui e lo guardo attentamente prima che possa rispondere alla sua domanda, qualcosa nei suoi occhi puliti e sinceri, nella sua espressione di poco prima che riflette anche ora, me lo fa vedere come un potenziale alleato più che come un avversario e in quel momento decido che lo voglio al mio fianco, in qualsiasi cosa. Ho visto le edizioni precedenti, soprattutto l’ultima e ho imparato che un alleato può salvarti la vita, tanto quanto lo fanno gli sponsor e un mentore. << No…non ne ho idea, ma spero per noi che sia qualcuno che sappia darci saggi consigli e non un qualche squilibrato….voglio dire, non ho scelto io di venire qui….non…non voglio morire senza averci provato!>> gli rispondo non riuscendo a trattenere il mio pensiero finale, la mia paura più grande. Vedo che James annuisce piano abbassa gli occhi per poi distogliere lo sguardo da me: << Beh neanche io avrei voluto esserci qui….ma ormai è andata cosi e posso solo affrontarla, nel migliore dei modi!>> dice con la voce rassegnata, sembra quasi che anche lui abbia ceduto all’evidenza che non tornerà mai più a casa, ma mentre io sono decisa a lottare qualcosa nella sua voce mi fa vedere come una resa, come se avesse deciso di gettare la spugna senza neanche provarci.

Sto per rispondergli quando sento la porta del vagone aprirsi, entrambi ci voltiamo contemporaneamente per vedere chi sia ed entrambi rimaniamo sorpresi: Katniss Everdeen e Peeta Mallark, i vincitori degli ultimi Hunger Games, gli “Innamorati Sventurati”. << Ehi ragazzi, come va? Venite a sedervi cosi parliamo un po’..>> è Peeta il primo a prendere la parola, quando entrambi si sono avvicinati a noi e ci invitano a sederci sul divano. Riprendo il mio posto e mi scambio un occhiata veloce con James, entrambi stiamo pensando la stessa cosa: cosa ci fanno con noi Katniss e Peeta? << Ehm…come mai siete qui?>> James rompe il ghiaccio dando voce alla domanda di entrambi, Peeta e Katniss si scambiano uno sguardo e sorridono leggermente. << Beh ecco vedete ragazzi, noi siamo i vostri mentori! Non ne avevate uno e cosi….abbiamo deciso di venire ad aiutarvi….entrambi!>> ci spiega Peeta, che tra i due ricordo essere quello bravo con le parole. << E poi il nostro Distretto ha già Haymitch, che per quando possa sembrare…è un ottimo mentore!>> aggiunge Katniss.

Si ricordo perfettamente il loro mentore l’anno scorso e diciamo che aveva un po’ una cattiva fama che lo precedeva e che lui stesso, non rendendosene conto, spesso confermava: era un po’ troppo amico della bottiglia di liquore. Ma se era riuscito a portarsi a casa sani e salvi due vincitori per la prima volta nella storia degli Hunger Games, beh qualcosa di buono deve averla per forza. Io e James torniamo a guardarci di nuovo, nei nostri occhi si è come acceso un barlume di speranza, abbiamo Katniss e Peeta come mentori, abbiamo i vincitori dell’anno scorso, i primi due sopravvissuti della storia di quei giochi, forse allora non siamo cosi spacciati una chance possiamo avercela anche noi. << Ragazzi capisco perfettamente cosa state passando in questo momento, lo capiamo entrambi: l’anno scorso anche noi come voi eravamo su questo treno, l’anno scorso anche noi pensavamo di non farcela e di non uscire vivi da li dentro, di andare incontro alla morte e non rivedere mai più le nostre famiglie. Ma vedete siamo qui, noi ce l’abbiamo fatta e vi posso assicurare che faremo tutto il possibile per farvi uscire vivi da li dentro!>> Peeta ci guarda entrambi dritti negli occhi parlandoci con voce ferma e sicura, pienamente convinto di quello che dice e allo stesso modo vuole che siamo noi a lasciarci convincere dalle sue parole. James annuisce, io abbasso gli occhi, non sono poi cosi convinta, loro sono i migliori, ma andiamo basta guardarmi per capire che non ho neanche un briciolo di speranza di uscire viva da quel posto. << Ehi…..Diana giusto? Guardami un po’!>> adesso è Katniss che si è avvicinata a me, alzo il viso e i miei occhi incontrano i suoi, accenna un sorriso: << Ti ho visto alla mietitura sai? Ho visto il tuo sguardo, io lo so…tu sei forte, sei coraggiosa, sei una combattente nata! Ti fidi di me? Tu uscirai viva da li dentro!>> Nei suoi occhi vedo qualcosa, qualcosa che mi ricorda me…Katniss Everdeen non ti conosco eppure mi sembra di conoscerti da una vita. Il suo modo di parlarmi, come se conoscesse ogni singolo tratto del mio essere, mi ha ricordato le parole di mio padre: si io sono una guerriera, ho combattuto per anni contro la fame, contro le angherie dei Pacificatori e ho sempre vinto, non ho mai mollato e non lo farò proprio adesso. Solo che…. << Non…voglio diventare una pedina dei loro giochi! Non voglio diventare un assassina come loro, io non sono come loro! Io…io li odio e odio questi maledetti giochi!>> ammetto per la prima volta quello che penso seriamente. Vedo Peeta e Katniss scambiarsi un occhiata dopo le mie parole ed entrambi sorridere: << Beh ecco un’altra piccola Katniss…non poteva capitarci di meglio!>> scherza Peeta, tutti si lasciano andare ad una risata e in quel momento lo faccio anche io con loro.

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