Life interrupted

di Nana_EvilRegal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Death. ***
Capitolo 2: *** Hospital. ***
Capitolo 3: *** Violence. ***
Capitolo 4: *** Suicide. ***
Capitolo 5: *** Her. ***
Capitolo 6: *** Rivelation. ***
Capitolo 7: *** Funeral. ***
Capitolo 8: *** Decision. ***
Capitolo 9: *** After all. ***
Capitolo 10: *** The ring. ***
Capitolo 11: *** Ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana. ***



Capitolo 1
*** Death. ***


~~Death.

Per tutte le persone che ho perso;
per tutte quelle che ho trovato.
Per chi ha rinunciato a tutto per vedermi felice;
per chi si è arreso davanti alla mia vita.
Per chi ha pensato che non ce la facessi;
per chi ha creduto in me fino alla fine.
Per tutte le persone che ho incontrato.
Perché, in qualche modo, tutte mi hanno cambiata;
perché senza ognuno di loro non sarei chi sono oggi.

Ero ferma dietro quelle tende che mi separavano dalla sala principale dove mi avrebbero guardata tutti e avrebbero provato a toccarmi. Quella parrucca rosa mi infastidiva. Avrei voluto buttarla a terra e andarmene. Mandare tutto a quel paese.
- Nana hai ancora dieci minuti- mi voltai verso Lily. Diceva che quello era il suo nome, ma ero certa che non lo fosse. Come, d’altronde, il mio non era Laura. Eppure per poter anche solo aspirare a quel lavoro avevo dovuto procurarmi documenti falsi. Era stato semplice. Thomas sapeva esattamente a chi rivolgersi. La ragazza mora mi guardò qualche istante poi mi allontanai, presi la mia borsa e andai in bagno.
Sempre la solita storia.
Il pensiero di uscire e spogliarmi davanti a tutti da lucida mi spaventava e mi facevo prendere dagli attacchi di panico. La siringa era pronta da qualche minuto. Era passata Anna a lasciarmela. Mi guardai allo specchio e fissai la siringa per qualche secondo prima di sentire l’ago pungere la base del collo. Lo spinsi sentendolo entrare nella pelle. Feci scendere lo stantuffo e anche solo la consapevolezza mi rilassò. In meno di un minuto mi sarei resa conto davvero di cosa mi era andato in circolo e avrei dovuto sedermi per almeno un minuto. La “botta” nell’immediato era sempre forte. Mi catapultai fuori dal bagno scivolando sulla prima sedia che vidi. Qualche ciocca del carré rosa che non sopportavo mi scivolò davanti alla faccia, ma appena me ne accorsi. Ero scivolata in una fase di trance e tutto intorno sembrava muoversi quasi a rallentatore.
- Nana, cazzo, se continui così non arrivi a domani porca puttana-
- Pinky non rompere il cazzo- il vero effetto della cocaina iniziava a farsi sentire. Mi alzai di scatto quasi buttando la mia amica sul pavimento. Ovviamente Pinky era il suo nome lì dentro. Era l’unica che sapeva il mio nome e l’unica di cui, probabilmente, sapevo il vero nome. Come lei mi chiamava Nana, però, io la chiamavo Pinky.  Quel nome d'arte derivava dal suo immancabile reggiseno rosa in lattex. Potevano metterle addosso qualsiasi cosa, ma guai a toglierle quello.
- Dove stai questa notte? Non dirmi che dormi di nuovo nella macchina di Lily- sbuffai annoiata da tutta quella preoccupazione nei miei confronti. Non dovevano essere problemi suoi dove stavo, come passavo la notte o quanto mi facevo. Avrebbe dovuto pensare a se stessa.
- No, sto da Tommi-
- E domani mattina? Ti porta lui a scuola?- sentii le note del mio pezzo. La spinsi di lato e mi buttai sul palco. Come al solito una volta lì sopra ritrovai la grazia e la posa che venivano richieste a una ballerina/spogliarellista come me. Vedevo intorno ai miei fianchi quella piccola gonnellina di fili argentati muoversi e alzarsi lasciando il mio sedere scoperto davanti a tutti. Scivolai lungo il palo e alzandomi feci cadere quella poca stoffa che copriva il mio completino argentato a terra. Odiavo quel perizoma. Era l'unico a darmi problemi. Non dovevo pensarci.
Sorriso.
Sensualità.
Scioltezza nei movimenti.
Rimandi continui al sesso.
Non dovevo fare altro. Potevo anche non avere una coreografia pronta. Sapevo come muovermi. Sapevo esattamente cosa fare.
Nei miei sedici anni appena compiuti non ero più quel dolce bocciolo che cresce che ogni genitore vorrebbe vedere in sua figlia. Ero un fiore in decadimento, appassito, senza nessuna voglia di rialzarsi.
Sarei stata la vergogna della mia famiglia.
Se solo avessero saputo.
Scesi dal palco, come tutte le sere, ritrovandomi in mezzo a quegli uomini che sembravano solo voler allungare le mani e voler toccare quel corpo al cui pensiero quella notte si sarebbero masturbati.
Mi facevano schifo.
Tutti quanti.
- Allora prima ti ha salvato il pezzo, ma ora dimmi: domani ti porta lui a scuola?-
- Che palle con questa scuola. Non farmi da mamma eh...- Pinky aveva venticinque anni e si comportava davvero come una madre. Certo, una madre spogliarellista, un po' puttana e sempre un po' ubriaca, ma era sempre attenta. Quasi più della mia vera madre.
Sicuramente più della mia vera madre.
- Cazzo Nana non ti faccio da mamma. Era solo una domanda-
- Sì, mi porta lui a scuola domani. Abita lì vicino potrei anche andarci da sola. Ora dammi da bere- le sfilai il suo solito cocktail dalle mani attaccandomi alla cannuccia e tirandone su un bel sorso.

Mi bastò fare uno squillo perché il mio fidanzato aprisse la porta di casa. Non feci in tempo ad entrare in quel buco disordinato che le sue mani erano nei miei capelli e la sua lingua nella mia bocca. Lo spinsi leggermente lontano da me.
- Amore sono le quattro passate, tra meno di quattro ore devo essere in classe- mi venne da ridere mentre sentivo quelle parole uscire dalla mia bocca. Anche lui rise per qualche istante prima di essermi di nuovo addosso. Aveva ventidue anni e abitava solo. I soldi alla sua famiglia non mancavano e appena era stato maggiorenne si erano levati il peso del figlio in casa prendendogli un piccolo appartamento in affitto. Quasi sollevandomi dal pavimento mi portò nella camera da letto. Sul mobile c'erano due piccole strisce bianche pronte. Mi lasciò andare per dedicarsi a farne sparire una.
- Muoviti- disse lasciandomi il posto. Rifiutai. Era raro che lo facessi. Quella sera volevo essere leggermente più lucida del solito e ricordarmi quello che sarebbe successo. Mi sfilai i vestiti e mi buttai sul letto. Non ero stanca, ma sapevo che dovevo dormire. Iniziavo ad essere quasi lucida ed ero consapevole che se non avessi dormito quelle tre ore e dieci che mi restavano a scuola ci sarei dovuta andare più fatta del solito. Chiusi gli occhi sperando che Thomas si stendesse lì accanto e decidesse di riposare. Lo conoscevo. Sapevo che non sarebbe stato così. Non dopo la dose di eroina che aveva tirato su. Mi mise una mano su una spalla voltandomi con la schiena appoggiata al materasso. Mi ritrovai la sua bocca sulla mia per poi sentirla scendere sul mio corpo.
Ok, non avrei dormito.
Si alzò e uscì dalla stanza. Capii immediatamente quello che sarebbe successo. Mi misi a sedere con le ginocchia al petto aspettando di vederlo rientrare. Quando ricomparve era senza maglia. Percorsi con gli occhi il suo corpo esile e quelle braccia ricoperte da numerosi lividi. Li avevo avuti anche io le prime volte. Quando non trovavo subito la vena. Si avvicinò e provai a sfiorargli anche solo un lembo di pelle, ma mi diede uno schiaffo ad una mano e mi spinse stesa. Prima che me ne rendessi conto mi aveva legato insieme le braccia con le solite manette di ferro che odiavo. Mi lasciavano i segni sulla pelle. Mi legò anche le gambe al letto.
Non ero un'amante di quel tipo di sesso.
Non con lui.
Non quando si era fatto una dose.
Non sapeva mai quando fermarsi.
Potevo urlare quanto volevo, ma non se ne rendeva conto.
Eppure non mi lamentavo.
Lo amavo.
Pensavo di amarlo.
Mi fece calare una benda sugli occhi poi mi sentii sfilare gli slip. Le sue dita iniziarono a toccarmi le cicatrici dei tagli sull'inguine. Mi faceva innervosire e lui lo sapeva benissimo. Odiavo l'importanza che gli dava. Mi rendevano più vera. Diceva. Dopo un tempo infinito in cui non aveva fatto altro che sfiorarmi ogni angolo di pelle si decise. Lo sentii entrare dentro di me. Sussultai. Non potevo vederlo e la cosa rendeva il tutto più eccitante, ma, allo stesso tempo, mi spaventava. Iniziò a muoversi sopra di me.
Avanti, indietro.
Avanti, indietro.
La sua bocca sulla mia. Entrambi col respiro mozzato. Venne. Dentro di me. Sperai si fosse ricordato il preservativo. Non potevo permettermi un figlio a sedici anni in quelle condizioni. Finalmente avrei potuto dormire. Dovevo ammetterlo, nelle ultime settimane il sesso con lui non mi piaceva più. O mi annoiava o mi spaventava. Non pensava a soddisfarmi, non più. Si alzò lasciandomi lì bendata.
- Cazzo slegami-
- Non ho finito- il suo tono gelido mi fece rabbrividire. Che cosa poteva volere ancora? Mi sfiorò una gamba con qualcosa di freddo, metallico. Le sue intenzioni mi erano chiare e iniziai ad avere davvero paura. Ne avevo sempre quando si fissava con quella storia.
- Ricordati dove lavoro- dissi a voce bassa continuando a sentirmi percorrere l'oggetto sulla pelle. Arrivò all'inguine. Mi sfiorò l'ombelico e scese di qualche centimetro. Non più di due. Fece pressione e la mia pelle si aprì. Proseguì con quel taglio per cinque, forse dieci centimetri poi buttò la presumibile lametta a terra lasciandomi sanguinare sulle lenzuola azzurre. Mi slegò e la prima cosa istintiva che feci fu portare una mano sul taglio. La guardai sporca di sangue poi mi voltai verso l'artefice.
- Visto che l'hai fatta così in alto ora ci pensi tu a disinfettarla e fasciarla- alzò lo sguardo al cielo, ma non disse nulla ed eseguì. Non mi faceva male. Praticamente non sentivo la ferita. Ero solo scocciata dal dover pensare a curare anche quella oltre a tutte quelle che mi ero procurata io.

La sveglia suonò meno di due ore dopo da quando mi ero addormentata. Ovviamente Thomas non si mosse. Mi alzai e andai in bagno. Levai la fasciatura ormai rossa e la cambiai. Presi dei vestiti dalla borsa e mi passai un leggerissimo velo di trucco. Ero tornata ad indossare la pelle della brava ragazza che andava a scuola e prendeva bei voti. Una facciata che avevo imparato a tenere quasi tutto il giorno. Aprii la finestra e mi fumai la prima canna della giornata.
La prima di tante, probabilmente.
Presi lo zaino e tornai in camera da letto per salutare il ragazzo che ancora se ne stava steso sul letto. Mi avvicinai per dargli un piccolo bacio.
Era bianco.
Freddo.
Lasciai cadere tutto quello che avevo in mano, cellulare compreso, e gli fui subito addosso urlando. Tutto sembrava muoversi a rallentatore. Non poteva essere successo davvero.
Non poteva essere morto.
Suonò il campanello. Quasi per riflesso andai ad aprire. Nei movimenti veloci mi si riaprì la ferita della sera prima, ma neanche me ne accorsi. Alla porta c'era una donna. Sembrava arrabbiata.
- Sono le sette e mezza cosa avere da urlare?- era la vicina. Non avevo tempo di risponderle, le chiusi semplicemente la porta in faccia. Tornai accanto a quel corpo freddo, raccolsi il cellulare. Cosa dovevo fare? Chi dovevo chiamare? Composi il numero dell’ambulanza e subito dopo quello della polizia d'istinto. Presi quelle poche dosi di droga che erano ancora in casa e le buttai nel water. In pochi minuti quel piccolo appartamento si era riempito di gente. Continuavo a ripetere che dovevo andare a scuola. Era l'unica cosa che riuscivo a dire.
Alle nove e mezza fui di nuovo sola. Lasciai quella casa e non ci tornai più.

- Qualsiasi cosa hai vedi di fartela passare- mi voltai guardando così male quella ragazza che si fingeva mia amica che avrei potuto incenerirla. Non era nessuno per dirmi cosa fare. Nella mia immaginazione presi le forbici dall’astuccio e gliele piantai nel collo, ma non mi mossi. Non risposi mordendomi la lingua e continuando ad annegare nelle mie lacrime. Uscii andandomi a nascondere in mezzo alle macchine parcheggiate nel giardino interno e scivolai a terra continuando a singhiozzare. Estrassi dal pacchetto di sigarette quella che di certo non era una sigaretta e la accesi. Presi una prima boccata e subito una seconda. Non avevo mai fumato così velocemente. Uscii da quella specie di nascondiglio pochi istanti prima che suonasse la campanella. Non rientrai in aula, ma mi fiondai in bagno. Mi guardai allo specchio. Dire che il trucco arrivava al collo era dir poco. Non avevo preso nulla per metterlo a posto per cui tornai in classe. La prof stava parlando. Mi andai a sedere sempre in quel posto che mi era stato dato come punizione per “le oscenità che combina là in fondo”.
- Oggi abbiamo un panda in classe- finsi di non sentire quelle parole stupide che erano uscite dalla bocca di una donna altrettanto stupida e appoggiai il cellulare sul banco. Appoggiai una mano sulla fasciatura in vita. Immagini di quei mesi passati con il ragazzo che avevo visto morto mi passarono davanti agli occhi che iniziarono di nuovo a riempirsi di lacrime.
Dovevo andare avanti.
Dovevo dimenticare quello che era successo.
Feci pressione su quella ferita ancora fresca e scosse di dolore percorsero il mio corpo. Chiesi di andare in bagno. Presi il cellulare e un piccolo sacchettino di stoffa. Percorsi il corridoio lentamente poi mi chiusi dentro. Chiamai mia madre e la avvisai che per qualche giorno non sarei passata da casa. In quei momenti amavo il fatto che mi lasciassero così libera e che, probabilmente, nemmeno gli interessasse quello che facevo. Aprii il sacchetto e mi feci scivolare in mano la solita lametta. Aveva visto così tanto sangue eppure sembrava quasi nuova. L’avevo cambiata da pochi giorni, ma mi sembravano passate settimane. Abbassai i jeans e tornai a tagliare dove c’erano già le cicatrici. Passai all’interno coscia.
Sarebbe uscito più sangue.
Più lo vedevo scorrere più mi sembrava di star meglio.
La testa divenne sempre più leggera.
Presi una boccata d’aria, mi pulii dal sangue colato e applicai cerotti su ogni singolo taglio poi ripercorsi il corridoio appoggiandomi al muro sia per la debolezza che per il dolore. Tornai a sedermi.
- Sei stata fuori più di venti minuti che hai?- la solita vicina di banco che voleva infilarsi nella mia vita.
- Non mi rompere- sibilai con tono acido. Infilai il sacchetto con la lametta che avevo ripulito nello zaino. Appoggiai la testa su una mano e iniziai a scrivere sul banco. Nulla di sensato. Più che altro numeri.
La data e l’ora.
15/04/2012.
7.26.
Bussarono alla porta e tornai alla realtà. Sbuffai. Nuove circolari, sicuro. I passi del bidello si fermarono accanto a me. Mi voltai con un’espressione piuttosto confusa. Mi guardava con una faccia quasi sconvolta. Si avvicinò e sussurrò.
- C’è la polizia. Chiedono di te- panico. Erano le undici passate. Li avevo visti due ore prima non avrei sopportato di vederli ancora. Eppure, dovevo. Mi alzai dalla sedia e mi trascinai fino alla porta.
- Dove credi di andare?- quella professoressa che mi odiava ogni secondo di più mi guardò con aria di sfida. Spostai lo sguardo sul bidello e annuii. Non aveva senso tenerlo nascosto. Qualcuno sarebbe uscito e mi avrebbe vista. Conoscevo i miei compagni di classe. Avevo le lacrime agli occhi e scoppiai in una serie interminabile di singhiozzi nel momento in cui sentii ripetere che la polizia aveva chiesto di me a voce alta. Avrebbero tutti pensato che avessi fatto chissà cosa. Il silenzio più totale calò nella stanza e io dovetti uscire per non sentirmi oppressa dagli sguardi che si erano posati su di me.
- Prima non siamo riusciti a chiederti nulla. Abbiamo bisogno di farti alcune domande-
- Sì certo… Io però… Non posso uscire- mi ritrovai con un fazzoletto in mano senza sapere chi me l’avesse dato. Asciugai gli occhi e cercai di concentrarmi su quello che stava succedendo, ma il corpo bianco e freddo di Thomas aveva completamente invaso la mia mente.
- Non c’è problema andiamo in un’aula vuota- mi venne detto di entrare nell’aula di lingue. Mi incamminai lungo il corridoio. Mi sentivo sempre più debole, probabilmente per colpa di tutti di quei tagli nella mia palle.
Lui avrebbe capito.
Lui avrebbe approvato.
Lui avrebbe apprezzato.
Quelle parole mi risuonavano nella mente come un mantra. Mi misi a sedere il più velocemente possibile nella prima sedia vuota che vidi. Avevo paura di svenire. Non potevo permettermi di andare in ospedale.
- Come sono andate le cose? Cosa ricordi?-
- Io… Non lo so… Stamattina l’ho trovato così-
- Avevate preso qualcosa?-
- No. Oddio sì- ero completamente andata nel pallone ed era solo la seconda domanda. – Io no, ma lui… si era fatto una striscia. Credo solo quello, ma non lo so. Io mi sono addormentata-
- Va bene. Tranquilla dobbiamo chiederti ancora almeno una cosa, vuoi bere o aspettare un attimo?- annuii e chiesi di andare in bagno. Uno dei due mi accompagnò fino alla porta. Mi chiusi dentro e mi abbassai i pantaloni. Ero messa male. Dovevo assolutamente cambiare una parte dei cerotti. Lo feci il più velocemente possibile poi sfiorai la garza sopra al taglio di quella notte. Sapevo che mi avrebbero chiesto delle lenzuola sporche di sangue. Cosa dovevo dirgli? Sicuramente sarebbe stato meglio essere sincera. Ma la prospettiva di dire “facevamo sesso e mi ha tagliata. Ogni tanto lo faceva” mi ispirava davvero poco. Avrei mentito.
- Abbiamo visto del sangue sulle lenzuola, ci sai dire cos’è successo?- eccola, l’inevitabile domanda. Annuii prima di aprire la bocca e parlare.
- È colpa mia… Io… Insomma mi è venuto il ciclo una settimana in anticipo e non me lo aspettavo ovviamente quindi…- l’uomo che mi stava davanti arrossì.
- Sì, certo. Ora dovrei chiederti di raccontarmi quello che è successo ieri sera e questa mattina. So che è molto dura per una ragazzina come te, ma, purtroppo, è necessario- deglutii. Non ero decisamente pronta ad una domanda simile. Annuii, ma rimasi in silenzio. Presi un numero indefinito di respiri così profondi da farmi girare la testa. La mia mente iniziò a vagare nei ricordi. Sentii il cellulare vibrare. Mi scusai dicendo che probabilmente era mia madre e dovevo assolutamente leggere. Estrassi dalla tasca il piccolo cellulare bianco NGM e lo aprii in modo da vedere la tastiera. Era Pinky.
Tesoro mi sa che dobbiamo parlare
Le risposi nell’immediato.
Cosa sai? Ora non posso parlare ci sentiamo dopo
Tornai a guardare i due uomini che aspettavano una mia risposta. Sospirai. Sentii la campanella suonare e voci affollare il corridoio.
- Abbiamo cenato con una pizza seduti sul divano mentre guardavamo un telefilm. Sa, siamo… eravamo tutti e due appassionati di Buffy l’ammazzavampiri e abbiamo continuato a guardarlo fino alle quattro più o meno. Poi visto che io dovevo venire a scuola ho detto che andavo a letto e in quel momento lui si è fatto una striscia. Mi ha chiesto se ne volevo una anche io. Gli ho detto di no come tutte le volte. Nell’ultimo periodo aveva iniziato a farsi più spesso e anche se la cosa mi infastidiva non potevo dirgli nulla. Avevo paura che diventasse violento. Una volta mi aveva picchiata, ma non so cosa avesse preso. Comunque è stato mesi e mesi fa. Dopo io sono andata a letto e lui si è steso lì accanto. Io mi sono addormentata praticamente subito per cui non so cosa abbia fatto dopo. Stamattina quando ha suonato la sveglia lui non si è svegliato, ma era abbastanza normale per cui mi sono preparata per uscire e quando sono tornata in camera a dirgli che uscivo mi sono accorta che era…- non riuscivo ancora a dirla quella parola. Dirlo l’avrebbe fatto diventare reale e non poteva essere così.
Non poteva avermi lasciata sola.
Cosa aveva fatto in quelle ore in cui era rimasto solo?
- Morto- concluse uno dei due. Annuii sentendo lacrime silenziose lungo le guance. Sperai che avessero finito. Non avrei sopportato una altra domanda. Si alzarono e, forse per la prima volta, fui felice di tornare in classe. Non avevo valutato che tutti sapevano con chi ero stata e nessuno era a conoscenza del motivo. Non una persona mi parlò fino a fine mattinata. Da una parte ero contenta, ma, allo stesso tempo, non sopportavo quel silenzio. Non osavo immaginare cosa avevano pensato.

NdA: questa storia è nata dalla necessità di scrivere qualcosa di diverso da una fan fiction.
Qualcosa che, per certi versi, sento molto vicino a me e alla mia vita.
Qualcosa per cui ho sofferto mentre scrivevo.
Mi tenevo questa idea dentro da molto tempo incerta se metterlo o meno sulla carta. Alla fine mi sono decisa e sono contenta di averlo fatto.
Ringrazio sophiejworld per il sostegno e l’appoggio nei momenti in cui sto male. Nei momenti in cui mi sento soffocare.
Ringrazio lana_parrila per essermi stata vicina mentre scrivevo tutto questo.
Grazie a theyaremyworld perché, in qualche modo, mi ha dato la spinta finale per decidere di pubblicare tutto questo.

Cercherò di aggiornare una volta a settimana, ma nonostante sia estate ho vari impegni per cui, forse, a volte, sarò in ritardo.

Per qualsiasi domanda, informazione, richiesta (sia come autrice che come beta) mi trovate qui: https://twitter.com/Nana_Fangirl?s=09

 

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Capitolo 2
*** Hospital. ***


~~ Hospital.
 
Mi ritrovai a camminare per strada senza sapere davvero dove andare. Avevo detto ai miei che prima di due giorni non sarei rientrata, ma non sapevo più dove andare. Di rientrare a casa di Tommi non se ne parlava. Avevo portato via tutta la mia roba e mi stavo trascinando per la città due borse. Il trucco mi segnava ancora tutta la faccia. Alla fine mi decisi. Mi incamminai verso la casa dell’unica persona che, forse, non mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Suonai il campanello un paio di volte, ma nessuno mi aprì. Mi sedetti sui gradini aspettando che la mia amica rientrasse.
- Ho bisogno di un buco dove dormire per una notte. Non ti sarò in mezzo, giuro. Va bene anche il pavimento- la bionda sorrise.
- Cretina se me l’avessi detto subito mi sarei fatta trovare qui. Quanto cazzo è che aspetti?-
- Tranquilla, saranno venti minuti, anche meno. Da chi l’hai saputo?- cercai di sembrare meno giù di morale possibile davanti a colei che mi avrebbe dovuto sopportare per due giorni. Aprì la porta ed entrammo in quella casa che, nonostante, non ci avessi mai passato più di qualche ora, mi sembrò familiare. Abbandonai tutte le borse sul pavimento e mi fissai negli occhi azzurri della ragazza. Lei fissava il pavimento quasi fosse spaventata dall’incrocio coi miei occhi così scuri da sembrare quasi neri.
- Mi ha chiamata Elli stamattina. Non so lei da chi l’abbia saputo, ma stai bene?- mi si avvicinò e mi sfiorò una spalla. Mi allontanai di un paio di passi. Non volevo la sua compassione. Non volevo che tutti mi guardassero come “la poverina che si è ritrovata il fidanzato morto nel letto”. Quello era esattamente lo sguardo che mi stava rivolgendo.
- Porca puttana smettila di guardarmi così e di trattarmi come se stessi per morire. Fammi vedere dove devo dormire così porto lì tutta quella roba- dissi dopo un minuto di imbarazzante e teso silenzio. Odiavo quei silenzi, quelle situazioni scomode in cui tutti pensano a cosa poter dire o a cosa gli altri diranno. Tutti pensano a come rompere quell’orrendo silenzio e nessuno lo fa forse per paura di dire la cosa sbagliata o di offendere chi si ritrovano davanti. Non ottenni una risposta e non dissi nient’altro. Mi limitai a seguire quei capelli biondi fino ad una stanza con un letto singolo e poco altro. Buttai tutto a terra. Presi il telefono dalla tasca e ci attaccai le cuffie. Mi misi ad ascoltare la musica e iniziai a prepararmi per un’iniezione di eroina. Avevo bisogno di pace e naturalmente non l’avrei trovata, ne ero più che certa. Non avendo voglia di alzarmi cercai una vena nel braccio e feci scivolare l’ago al suo interno. Appena sfilato sentii, come sempre, tutti i muscoli tendersi per qualche istante poi mi stesi sul letto e rimasi per un tempo indefinito in quella posizione. Guardando il soffitto come se fosse stata la cosa più bella che avessi mai visto. Fui interrotta dalla proprietaria di casa che mi avvisava che sarebbe uscita. Non essendo entrata nella stanza non si accorse dello stato in cui mi trovavo. Quando decisi che sarei riuscita a stare in piedi andai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Mi ritrovai davanti alla porta della camera e mi vennero le vertigini, iniziò a girarmi la testa. Il bicchiere mi scivolò dalla mano frantumandosi. Corsi a prendere una scopa e una paletta. Mi chinai verso il disastro che avevo combinato per raccogliere i pezzi più grandi. Alcune schegge penetrarono nel palmo della mia mano facendo scorrere rivoli di sangue che finivano in gocce che cadevano sul pavimento. Rimasi immobile per un attimo a guardare la pozza rossa espandersi. Spostai improvvisamente lo sguardo sentendo conati di vomito salirmi fino in gola e uscire dalla mia bocca. La casa era piombata nel silenzio. Con la mano pulita presi il cellulare e misi la musica col volume più alto possibile in modo che si espandesse in tutte le stanze. Andai in bagno e mi sciacquai la bocca poi tornai a raccogliere i pezzi di vetro nonostante l’odore del vomito mi facesse salire altri conati. Altre schegge penetrarono nella mia mano. Sempre la stessa. Non facevano male, anzi, lo scorrere del sangue caldo sulla pelle era rilassante e mi faceva sentire in pace. Il sangue continuava a cadere sul pavimento mischiandosi all’acqua e al vomito creando un disegno orrendo sul pavimento. Mi alzai e strinsi la scopa fra la mani. Le schegge entrarono più in profondità. Feci una smorfia nel vedere che dalla mano scendevano rivoli di sangue che percorrevano l’intero bastone della scopa. Avevo paura. Mi guardai le mani. Mi inginocchiai sul pavimento e appoggiai la mano ferita allo stipite della porta. L’impronta sul legno mi fece rabbrividire e altri conati salirono fino alla mia bocca senza che io riuscissi a controllarli e prima che me ne rendessi conto erano sul pavimento. Serrai i pugni. Le schegge penetrarono quei pochi tessuti che erano ancora intatti e sentii la mano riempirsi di sangue. Le lacrime mi macchiarono il volto. Il puzzo che veniva dalla pozza sul pavimento era nauseante e le gocce di sangue che si stavano depositando sopra al vomito fresco formarono una texture orribile. Spostai lo sguardo cercando di cancellare le immagini di quella mattina che continuavano a popolarmi la mente. Non avevo idea di quanto fosse passato da quando mi ero fatta quella dose, ma quei pensieri mi fecero credere che, forse, era giunta l’ora di farne un’altra. Non riuscii a muovermi.  Mi passai la mano destra sul viso per asciugare le lacrime senza pensare al fatto che fosse quella ferita, ma il risultato non fu quello sperato. Mi alzai stringendo i pugni e facendo fuoriuscire dai tagli più sangue del dovuto andai verso la cucina lasciando sulle piastrelle una scia di sangue. Mi sentivo il sapore del vomito ancora in bocca e sapevo che se Pinky mi avesse ritrovato con tutto il sangue che avevo sparso sul viso e sulla maglia l’avrei fatta preoccupare più del dovuto. Le lacrime continuavano a rigarmi il viso come se volessero pulirlo dal sangue che gli aveva lasciato la mia mano. Mi sorpresi appena mi resi conto che la sinistra non aveva nulla poi ricordai di non averla usata, ma di averla sempre tenuta appoggiata al muro per non cadere in mezzo a quell’orribile disastro che avevo lasciato sul pavimento. Mi guardai indietro. Tante piccole macchie erano rimaste dov’ero passata. Dei conati di vomito salirono fino alla gola, ma li spinsi dov’erano venuti. Mi chiedevo cosa ci fosse ancora da espellere dal mio corpo. Forse solo gli organi, se ce n’era rimasto qualcuno. Arrivai al lavello e aprii la mano dalla quale uscì un pugno di sangue poi aprii l’acqua e la feci scorrere sopra ai tagli. Sentii un urlo morirmi in gola. L’acqua bruciava sulle ferite. Guardai la mano quasi pulita. Avrei dovuto togliere tutte le schegge e dovevo anche pensare a quello che avevo lasciato per terra. Dovevo fare tutto prima che tornasse la bionda. Tornai nella mia piccola camera e dall’astuccio estrassi delle piccole pinze. Mi allontanai dal letto e andai a sedermi accanto a tutto quello che il mio corpo aveva rigettato. Cercando di non urlare e di concentrarmi sulla musica che usciva dal mio telefono iniziai ad estrarre le schegge con quelle pinzette ed un ago. Non riuscii a toglierle tutte. Le più piccole rimasero all’interno della mano rischiando di tagliare quei vasi ancora intatti. Fasciai la mano meglio che potei poi iniziai a pulire il pavimento. Appena finito aprii la finestra. Lasciai che l’odore di vomito svanisse e mi ritrovai a fumare l’ennesima canna. Guardai l’orologio. Erano le cinque passate. Mandai un messaggio alla mia ospite dicendo che uscivo e non avevo idea di quando sarei rientrata poi presi la borsa e mi diressi verso l’ospedale.
 
La mattina dopo mi svegliati in una stanza bianca su un letto scomodo. Ero stanca. Il materasso di quel letto era duro e così sottile da farmi sentire la rete che lo sosteneva. Avevo dormito forse un paio d'ore. Guardai l'orologio. Non erano neanche le sette. Pian piano mi resi conto di dove mi trovavo.
Ospedale.
Reparto di neuropsichiatria.
Avevano visto i tagli.
Avevo saltato il lavoro.
Fui scossa da un istante di panico cercando di ricordare esattamente cosa fosse successo il giorno prima. Poi i ricordi riaffiorarono la mente.
Il corpo senza vita di Tommi.
La polizia.
La scuola.
Pinky.
Il bicchiere.
L'ospedale.
Avevo bisogno di fumare.
Uscii dalla stanza e incrociai un infermiere. Gli chiesi dove potessi fumare una sigaretta e il suo sguardo fu tra lo stupito e l'incredulità. Entrò nella mia stanza e lo seguii.
- Direi che puoi uscire su quel terrazzo, ma qualcuno dovrebbe controllarti- cazzo. Dentro di me imprecai come mi ero ritrovata a fare poche volte. Non potevo farmi vedere in crisi d'astinenza o non mi avrebbero più fatta uscire, ma non potevo nemmeno uscire in pace e fumare o iniettarmi qualcosa.
Dovevo uscire.
Dovevo trovare un modo.
- Grazie- risposi titubante. Presi il solito pacchetto di sigarette nel quale tenevo di tutto fuorché tabacco e mi incamminai verso il balcone di cui aveva parlato. Uscii e per mia fortuna lui rimase dall'altra parte della vetrata fissandomi. Mi voltai verso l'esterno. Estrassi la canna e la accesi. Fumai velocemente terrorizzata dall'idea che mi scoprisse. Rimasi lì guardando la città ancora qualche minuto poi, quasi certa che l'odore fosse scomparso, rientrai. Il ragazzo mi guardò tornare in camera senza dire nulla. Tornai a stendermi e presi il cellulare in mano. Avevo più di venti messaggi. Decisi di rispondere solo a quelli di colei che avrebbe dovuto ospitarmi quella notte e le spiegai velocemente la situazione.
Scusami davvero, mi dispiace di averti fatto preoccupare e per tutte le scuse che hai dovuto inventare per coprirmi il culo. Non ricordo nulla di ieri sera, ma ieri pomeriggio ti ho rotto un bicchiere e sono dovuta venire in ospedale perché alcune schegge erano entrate troppo nella mano per farle uscire. Mi hanno messo nel reparto di neuropsichiatria. Appena mi fanno uscire ti raggiungo a casa.
Non lessi la risposta. Mi stesi nel letto voltata verso la porta e rimasi a fissare le persone che passavano nel corridoio. La maggior parte camminava guardandosi intorno come dispersa. Come se non capisse dove fosse e il motivo per cui si trovava lì. Dopo qualche ora decisi che non potevo permettermi di stare troppo tempo lì dentro. Per cui, dopo aver chiesto ad un medico che passava davanti alla mia stanza, presi quella difficile decisione che fu chiamare i miei genitori per venire a firmare i permessi di andarmene contro la volontà dei medici. Che altro potevo fare? Io non avevo bisogno di stare lì dentro. E anche se ne avessi avuto bisogno non potevo permettermi che mi trasformassero in uno zombie dipendente dai farmaci. Come dipendenze mi bastavano quelle che già avevo. Non volevo che degli stupidi medici venissero lì a rendere ancora più concreti tutti i miei problemi.
Dovevo andarmene.
Dovetti aspettare poco più di mezz’ora prima di vedere i miei genitori entrare nella mia stanza. Avevano un’espressione cupa sul viso. Un’espressione che non avrei potuto dimenticare mai più. Sembravano così delusi dalla figlia che si trovavano davanti da non poterla nemmeno degnare di uno sguardo. Cercai di incrociare i loro occhi. Solo loro e Tommi riuscivo a guardare dritti negli occhi senza sentirmi male. Lui non c’era più e loro… adesso erano loro a non volermi più guardare. Non parlarono nemmeno. Mi vestii velocemente, presi la borsa e scappai. Corsi fuori dall’ospedale. Avevo bisogno di aria. Ad ogni respiro sembrava mancare sempre di più e ad ogni respiro ne avevo più bisogno. Non mi fermai. Le mie gambe continuarono a correre fino a quando non mi trovai davanti alla porta di Pinky. La aprii con la chiave che mi aveva lasciato e mi buttai all’interno. Dopo quegli sguardi vuoti avevo capito che non mi avrebbero cercata e non mi avrebbero seguita. Non sarei potuta tornare a casa per più tempo del previsto. Mi buttai sul letto e piansi.
Piansi fino a finire le lacrime.
Piansi finché non mi fece male il viso.
Piansi per ogni secondo che qualcosa era andato male.
Piansi per ore. Instancabilmente.
Mi ritrovai a pensare che quello sarebbe stato un pianto eterno, che non mi sarei mai più ripresa.
Sarei potuta annegare in quelle lacrime che continuavano imperterrite a solcarmi il viso.
Non mi interessava più niente.
Sentii la serratura scattare, mi alzai dal letto e corsi in bagno. Consapevole di avere un aspetto terribile mi guardai allo specchio e cercai di eliminare ogni traccia di pianto. Ovviamente, per quanto potessi lavarmi il volto, quella era un’operazione impossibile allora decisi di uscire.
- Nana, cazzo, mi hai spaventata-
- Scusami- tenni gli occhi sul pavimento, la voce mi uscii così bassa da non sentirla nemmeno. Lei si abbassò cercando di guardarmi in viso, mi voltai.
- Che hai? Stai bene?-
- No, non sto bene. Come pensi che possa stare porca troia? È morto e i miei mi odiano. Ora dimmi: tu staresti bene? Saresti felice dopo aver trovato il tuo fidanzato morto, essere stata internata e nemmeno te lo ricordi e dopo aver visto quanto i tuoi genitori ti odino? No perché se tu staresti bene ti faccio i miei complimenti. Io mi sento morire. Porca puttana- la bionda fece due passi indietro e si appoggiò al muro. Aveva quella bambina in casa e la stava vedendo uccidersi ogni secondo di più e si sentiva impotente. Non poteva mandarla via. Le voleva bene quasi come fosse una figlia.
- Cosa posso fare per aiutarti?- mi disse dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
- Puoi fare in modo che i miei tornino a vedermi come prima?- di nuovo silenzio. Mi rendevo conto che la mia voce suonava quasi infantile. Certo, avevo sedici anni, non mi si poteva certo considerare adulta, ma era tanto tempo che non la sentivo così. Ero sempre stata una di quelle “cresciute in fretta”. Una di quelle ragazze che fanno le cose prima degli altri e che vengono guardate quasi con paura dai suoi coetanei e considerate come “già abbastanza matura” dagli adulti. Così ero finita in quel giro. Tutta quella libertà che mi era improvvisamente caduta addosso a quattordici anni mi aveva lasciato il modo per vivere la mia vita come se ne avessi avuti già venti se non di più. Un’esperienza che, forse, sarebbe stato meglio tardare di qualche anno. Non avevo idea di come le ragazze della mia età passassero il tempo. Vedevo le mie compagne di classe vedersi di pomeriggio e fare i compiti insieme. Scherzare e, persino, giocare insieme. Io avevo passato due anni della mia vita completamente sola e i successivi erano stati un susseguirsi di eventi più grandi di me che mi avevano spalancato le porte di quel mondo.
Un mondo che avrei fatto meglio a ignorare.
Un mondo in cui potevi ritenerti fortunato se ti svegliavi la mattina dopo.
Un mondo in cui ogni giorno rischiavi il carcere.
Un mondo poco adatto agli adulti e sicuramente non adatto a bambini come ero io quando ne avevo varcato le porte.
Razionalmente sapevo di rischiare tantissimo, ma non mi rendevo davvero conto di quanti possibili capi d’accusa pendevano sulla mia testa. Forse nessuno se ne rendeva davvero conto.
- No, ma tua sorella? Insomma con lei come va?-
- Lei mi odia. Io non sono mai in casa e non ha idea di quale sia la mia vita. Lei è piccola e vorrei che la sua vita restasse quella che è anche se devo passare per la pessima sorella maggiore-
- Quanti anni ha adesso?-
- Tredici-
- Lo sai che quella è stata l’età dell’inizio della tua fine vero?-
- Non ricordarmelo- mi presi la testa fra le mani e mi buttai a sedere sul pavimento. Avevano ragione i miei genitori: ero una persona orribile. Non meritavo l’affetto di nessuno. Tantomeno quello della bionda che si avvicinò a me per abbracciarmi. Mi lasciai stringere tra le sue braccia.
- Passerà, ti prometto che arriveranno giorni in cui ricorderai tutto questo schifo e penserai “per fortuna è passato”. Un giorno ti innamorerai di nuovo e quell’amore ti cambierà la vita. Arriverà il momento in cui ti affaccerai alla vita con un approccio diverso, magari ora non sei ancora pronta, ma te lo prometto: tutto questo succederà- mi sentii un groppo alla gola, ma non una sola lacrima uscì dai miei occhi. Pensai di averle finite davvero.
- E tu ci sarai?- sussurrai. Avevo bisogno di sapere che quella ragazza col carré biondo e gli occhi chiari mi sarebbe stata vicina anche quando sarei stata diversa.
- Sì, ci sarò. Ci sarò finche tu lo vorrai e magari anche dopo- adesso era lei ad avere le lacrime agli occhi. Mi sciolsi da quell’abbraccio e le asciugai una piccola lacrima che le stava giungendo alla bocca. Avevo una decisione da prendere e dovevo essere veloce a prenderla. L’ennesima decisione da adulta che per qualsiasi ragazza di sedici anni sarebbe sembrata un macigno, ma per me era ordinaria amministrazione.
- Posso restare? Non voglio tornare a casa. Se domani mattina potessi accompagnarmi a prendere un po’ di cose da casa mia verrei a stare da te per un po’- gli occhi azzurri della ragazza si posarono su di me qualche istante. Era titubante. Avere una coinquilina sedicenne non doveva sembrarle l’idea migliore. Alla fine sospirò.
- Va bene, ma devi dirlo ai tuoi- annuii. Avrei trovato il modo. La ringraziai poi cambiammo argomento. Decisi di saltare anche quella sera il lavoro. Starmene in casa mi avrebbe calmata un po’ e avrei avuto tempo per stabilirmi in quella che sarebbe diventata la mia nuova camera.
 
Guardai l’orologio. Erano le quattro e un quarto. Pinky era rientrata da poco e io non avevo ancora chiuso occhio. Per quante canne potessi fumare non mi sentivo tranquilla e non mi veniva sonno. Continuavo a pensare a come poter dire ai miei genitori la decisione che avevo preso. Alla fine decisi. Presi carta e penna e iniziai a scrivere. Le lettere che venivano impresse sul foglio avevano un tratto incerto. Lo avrebbero attribuito alla fatica di scrivere quelle parole, non certo alla quantità di droga che circolava nel mio corpo.
Mamma, papà,
non è la lettera più facile che io abbia mai scritto. Anzi, è decisamente difficile, a quest’ora di notte, dirvi quello che nella mia testa sembra semplice. So di avervi dato tanti pensieri in questi anni. So di non essere stata la figlia che avreste voluto. So che siete delusi e che anche mia sorella non potrà mai perdonarmi per quello che sto per dirvi. Vi ho visti in ospedale. Ho visto che non riuscivate a guardarmi. Il mio corpo e la mia età potranno anche dirvi che sono ancora piccola, la vostra figlia che col tempo tornerà ad essere quella bimba bionda che correva per casa. Quella col sorriso un po’ storto. Non tornerò così. Io me ne sono resa conto e l’ho accettato tempo fa, vi prego, accettatelo anche voi. Mi ha fatto soffrire vedervi così come immagino che voi abbiate sofferto quando avete ricevuto la mia telefonata. Il reparto di neuropsichiatria. L’ennesima conferma delle mie pessime scelte di vita. Scappare non è stata sicuramente la scelta migliore che potessi fare, me ne rendo conto. Vorrei spiegarvi che non è colpa mia. Cioè, sì, è colpa mia, ma non è quello che volevo. Sono successe così tante cose in due giorni che non riesco a rendermene conto. Parto dall’inizio. È morto il mio fidanzato. Sì, quello che non vi ho mai fatto conoscere, ma che odiavate ugualmente. Quello a cui avete dato la colpa per la mia vita così incasinata. Non era colpa sua, ma so che difenderlo qui non farà cambiare la vostra opinione su di lui. L’ho trovato io. Il cadavere. È morto nel sonno accanto a me. Immagino che già abbiate capito com’è morto, ma ve lo confermo: overdose. Lui era così, ma non aveva mai esagerato. Non so cosa gli sia preso quella notte. Io dormivo. Comunque ovviamente ora non sono a casa sua. Non riuscirei mai a rientrare lì. Sono da una mia amica. Ieri pomeriggio mi si è rotto un bicchiere e le schegge mi sono entrate nella mano, da sola non riuscivo a toglierle. Sono andata in ospedale e immagino che il resto già lo sappiate quindi non starò qui a scriverlo. Comunque ho deciso. Non riuscirei a tornare a casa. Resterò qui per un po’ non so quanto, sono passata solo a prendere le mie cose. Tornerò questo non lo metto in dubbio, ma non so quando. Vi chiedo, per favore, di non cercarmi e di lasciarmi quella libertà che mi avete concesso in questi anni. Ne ho bisogno. Ho bisogno di avere un po’ di tempo per pensare e capire cosa voglio davvero. Ho bisogno di uscire da questo periodo che sto vivendo e per farlo ho bisogno di allontanarmi da tutto e da tutti e per farlo non posso restare a casa. E poi, ammettiamolo, non sopporterei di vedervi ancora così.
Per quanto vale… vi voglio bene.
Appoggiai la penna sul tavolo e, finalmente, mi addormentai.
 
Erano ormai mesi che vivevo con Pinky e le giornate si erano fatte pian piano sempre più monotone. Lei era poco a casa e mi lasciava fare tutto quello che volevo. Anche il nostro rapporto, pian piano, da una semplice amicizia si era trasformato in qualcosa di più. Non eravamo fidanzate o almeno così dicevamo, ma era come se lo fossimo. Ero stata anche in vacanza con i miei genitori, ma non ero ancora pronta per tornare a casa. Avevo scoperto alcune cose in quelle due settimane insieme che mi avevano travolto ancora di più. Avevo acconsentito ad andare con loro per stare con mia sorella. Lei non meritava niente di tutto quello che stava succedendo. Due settimane in Calabria che erano filate piuttosto bene. Io e lei eravamo finalmente state un po’ insieme e lei sembrava non odiarmi più. Forse non mi aveva neanche mai davvero odiato. Le ero mancata in quei mesi che avevo passato lontana. Erano quasi tre mesi, in fondo. Probabilmente, sicuramente, ero mancata anche ai miei, ma non dissero nulla. Il viaggio d’andata era stato monotono e triste. Non volevo lasciare tutto quello che mi ero costruita da sola per stare con chi non mi voleva davvero. Poi, giorno dopo giorno, le cose sembravano cambiare. Andare sempre un pochino meglio. Finché non avevo scoperto il grande segreto di mio babbo. Mi sentii così male quando ne venni a conoscenza da volerlo quasi uccidere. Nei momenti in cui ero completamente in balia delle droghe ci avevo anche pensato, ma poi non avevo fatto nulla. In fondo cosa interessava a me? Potevo benissimo farmi i fatti miei senza pensare che aveva l’amante.
Io non vivevo con loro.
Non mi sembrava neanche fare più parte di quella famiglia. Se non fosse stato per mia sorella non sarei mai andata con loro. Nonostante tutto in quella vacanza mi ero divertita. Rientrai a casa di Pinky, che ormai era diventata anche casa mia, nel pomeriggio il 7 luglio del 2012. Mi aveva chiesto se mi sentivo pronta a tornare dai miei genitori e, inizialmente, avevo pensato di dirle di sì poi mi resi conto che per quanto quelle due settimane fossero state belle a casa sarebbe stato tutt’altro. Non avevamo mai parlato della mia vita e della mia decisione e mi rendevo conto che se fossi rimasta quello sarebbe stato il primo argomento. Avremo discusso e io me ne sarei andata di nuovo.
No, meglio andarsene subito.
Mi scaricarono a meno di un chilometro da casa sua poi proseguì per quella strada a piedi con le mie due valigie e la borsa. Gli avevo detto che era più vicina. Non volevo sapessero davvero dove mi ero creata il mio piccolo mondo. Il mio cellulare iniziò a suonare. Lo maledissi. Lasciai le valigie e iniziai a frugare nella borsa. Cliccai il tasto per la risposta della prima sim. Chiarissimo segno che avrei dovuto essere semplicemente me stessa. Per la seconda sim mi chiamavo Laura e avevo diciannove anni. I documenti falsi erano ormai diventati essenziali per me e non solo a lavoro pensavano che quella fosse la mia identità per cui mi ero trovata costretta a prendere due sim e farmi due diversi profili Facebook.
- Chiara da quando mi chiami?- posizionai il telefono tra l’orecchio e la spalla e tornai a trascinarmi le valigie dietro andando verso casa.
- Stasera ti va di venire alla sagra ad Albereto?-
- Perché dovrei? Fino a prova contraria odi la mia vita e mi ritieni un’idiota- sapevo che la mia voce era dura e immaginavo che si sarebbe offesa per la mia reazione, ma non mi importava.
- Ci conosciamo da tanto e… non ho voglia di stare sola. Dovrebbero esserci i tuoi cugini-
- Così dovrei spiegare a tutti perché non vivo più con i miei. Col cazzo che vengo-
- Volevo solo cercare di conoscerti meglio. Ci conosciamo dalla terza elementare e non ti ho mai vista star bene. Mi ero preoccupata, ma va bene fai come ti pare- quelle parole sciolsero un nodo che erano anni che mi premeva sul petto.
- Va bene. Chiedo alla mia coinquilina se può portarmi poi ti mando un messaggio- chiusi la telefonata di fretta mentre vedevo avvicinarsi sempre di più la meta.
 
NdA: ciaaao. Sono tornata con un nuovo capitolo. Spero sia piaciuto e spero con tutta me stessa che questa storia vi piaccia.
Nello scorso capitolo mi sono dimenticata di ringraziare un paio di persone per cui lo faccio ora:

Grazie a G. per essere stata (essere e probabilmente continuare in futuro ad essere) la persona più importante della mia vita. Senza di lei non starei facendo quello che faccio ora e, sicuramente, non sarei chi sono oggi.
Grazie alla mia parabatai perché c’è sempre. Qualsiasi cosa mi succeda so che posso contare su di lei.
E poi grazie a M. perché, nonostante tutto, ha creduto in me e mi ha aiutata ad avvicinarmi anche solo di qualche passo a realizzare il mio sogno.
Per qualsiasi cosa (sia come autrice che come beta) mi trovate su twitter come @Nana_Fangirl.

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Capitolo 3
*** Violence. ***


~~Violence.

Quella sera alle otto ero davanti all’ingresso di quella sagra. Sapevo che avrei rivisto persone di cui non avrei voluto sapere più nulla. Presi un respiro prima di fare quegli ultimi tre passi per entrare. Pinky era accanto a me. I suoi capelli biondo platino si erano allungati e ora le arrivavano poco sotto le spalle. Diceva sempre che sarebbe andata a tagliarli, ma io sapevo che le piacevano così. Mi accompagnò fino al punto in cui avrei dovuto vedere quella ragazza con cui avrei dovuto passare la serata. Non era ancora arrivata. Ci mettemmo sedute su una panchina. Mano nella mano. I ragazzi lì intorno ci guardavano in modo strano, ma nessuna delle due sembrava farci caso.
- Ti conoscono vero?- mi voltai verso di loro. Conoscevo i loro nomi uno ad uno.
- Sì, non ho mai avuto un buon rapporto con nessuno di loro. No, lui era il mio fidanzato. Una storia strana, ma la conosci già- lei sorrise e annuì.
- E quindi era lui… Hai migliorato i tuoi gusti nel frattempo- non riuscii a soffocare una risata. Non riuscivo a ricordare quando era stata l’ultima volta che avevo riso così.
- Questo lo so- dissi sorridendole e appoggiando le labbra sulle sue. Non mi importava cosa avrebbero detto tutti quelli che avevo davanti. Quella era la mia vita. Non avevano il diritto di dire nulla. Sentii qualcuno toccarmi la spalla. Sobbalzai e la bionda che era ancora appoggiata alle mie labbra si staccò di colpo.
- Che cazzo…?- si fermò vedendo che mi ero immediatamente voltata verso chi mi aveva toccata ed ero rimasta pietrificata. Era mia cugina. Ecco, perfetto. Come le avrei spiegato tutto?
- Ciao- dissi come in un sospiro. Lei continuava a sorridere. Mi salutò e si sedette per terra davanti a noi. Io appoggiai una mano al ginocchio della bionda accanto a me. Avevo bisogno di lei. Non avevo davvero idea di come poter affrontare un qualunque argomento con lei.
- Sei venuta a vederci?-
- Sì, sto aspettando una mia amica…- la parola amica era usata più per comodità che per il vero rapporto che c’era tra me e la ragazza con cui avrei passato la serata.
- Ah bene. Tu sei la sua coinquilina?- disse sempre col sorriso in viso distogliendo l’attenzione da me.
- Sì, cioè, in realtà sono quasi tre mesi che si è stanziata a casa mia. Non so se chiamarla coinquilina, sfruttatrice, ospite o cosa- mia cugina si lasciò sfuggire una risata.
- Se sono tre mesi direi che non ti dà poi così fastidio-
- Non ho mai detto questo- la voce di Pinky fino a qualche secondo prima era dolce. In quella risposta era diventata un po’ più dura. Quella parente che speravo di non incontrare neanche se ne accorse. Ci salutò di fretta e se ne andò. Restammo in silenzio per quel minuto in cui aspettammo Chiara. Mi salutò che era ancora lontana con la mano e un sorriso stampato in faccia, ma appena vide al ragazza che tenevo per mano si incupì. Infantile. Pensai, ma non dissi nulla. Prima di salutarmi la ragazza che mi aveva accompagnato mi tirò da una parte.
- Sei sicura di voler restare? Ti conosco e so che non sei a tuo agio-
- Tranquilla sono sicura. Ti chiamo quando posso o mi faccio portare a lavoro?-
- Chiamami, esco io-
- Va bene allora ci vediamo dopo- nonostante i tacchi dovetti alzarmi ancora un po’ per lasciarle un veloce bacio sulle labbra. La guardai allontanarsi poi andai da quella ragazza leggermente in sovrappeso che mi aspettava.

- Allora ti diverti?- una mano mi chiuse la bocca e mi sentii tirare indietro. Sbattei la testa contro il muro e per un attimo tutto intorno a me diventò nero. Ero appena uscita dal bagno per la mia dose di cocaina di tutte le sere. Ero intontita da tutto e non mi rendevo bene conto di quello che stava succedendo. Mi sembrava che le sue mani fossero ovunque. Mi sentii scivolare di dosso i pantaloni e il perizoma li seguì poco dopo. Quello che sentii dopo fu solo dolore. Un dolore così forte da farmi urlare, ma una mano sulla mia bocca me lo impedì. Mi estraniai completamente da quella scena. Chiusi gli occhi e portai la mia coscienza e con lei ogni sensazione fuori dal mio corpo.
- Vedi di non dirlo a nessuno o dovrai vedertela con me- quelle parole segnarono la fine di quella violenza sul mio corpo. Lo vidi allontanarsi. Mi rivestii e me ne andai.

Dovetti aspettare qualche settimana per scoprire cosa intendeva quella voce con “o dovrai vedertela con me”. Io non ne avevo parlato. Avevo passato i giorni successivi chiusa nel bagno con una lametta in mano a tagliarmi nella zona dell’inguine continuando a ripetermi come un mantra le parole di Tommi “ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana”. Umana o no tutto quel sangue che mi scorreva nella zona del mio sesso mi sembrava l’unica cosa che poteva lavar via quell’orribile sensazione che dal 7 luglio non mi abbandonava. Pinky non riusciva più a guardarmi senza provare un velo di compassione e io non sapevo più come fare. Odiavo quegli sguardi. Non riusciva nemmeno più a sfiorarmi. Qualunque cosa ci fosse stata prima di tutto quello era completamente svanita. Stavo camminando vicino alla strada dove lavorava mio padre. A volte mi piaceva passare di lì. Restavo qualche minuto a guardare la finestra del suo ufficio poi me ne andavo. Di solito lo facevo verso l’ora di pranzo dopo la scuola in modo da essere sicura di non incontrarlo neanche per sbaglio. La scuola sarebbe iniziata nel giro di un paio di giorni. Avevo bisogno di schiarirmi le idee sia per quello che nell’ultimo periodo ero tornata a sentire per la mia coinquilina sia per quello che iniziavo a provare per una ragazza molto più piccola di me. Mi sentivo confusa e le mie gambe camminavano da sole. Mi portarono in quella strada. Lo vidi da lontano e pensai di scappare. Andarmene e non voltarmi indietro. In fondo in quello ero brava.
Era più o meno la storia della mia vita: scappa e non guardare il passato.
Era così che avevo affrontato ogni cosa. Spesso, però, il passato bussava alla mia porta e quando non potevo proprio più evitare di lasciargli l’ingresso sbarrato mi buttavo su ogni dipendenza che avevo rischiando tutto.
Rischiando la mia vita.
Lo vidi sorridere e camminare verso di me. Per quanto il mio cervello mi dicesse di andarmene le mie gambe non collaborarono e mi trovai di fronte a lui.
- Allora, l’hai detto a qualcuno?- pensai a Pinky. Non glielo avevo detto, ma lo sapeva. L’aveva capito dal mio comportamento sia in casa, ma, soprattutto, al lavoro. Ero diventata più schiva e se qualcuno alzava una mano per toccarmi facevo sempre uno scatto indietro anche se non avrei dovuto.
- No- sussurrai.
- Non mi mentire- il primo pugno dritto nello stomaco. Sentii i conati di vomito salirmi lungo la gola. Li buttai indietro. Mi rialzai e lo guardai. Cercai di nascondere la mia sofferenza fisica e la mia insicurezza. Mi prese per una spalla così forte da farmi piegare di lato poi mi diede un altro pugno nel fianco.
- Che cazzo vuoi? Ti ho detto che sono stata zitta. Vaffanculo…- mi bloccò dandomi un ultimo pugno sul viso. Se ne andò e io tornai a casa come se niente fosse successo.

Il primo giorno di scuola la mia sveglia suonò alle sei di mattina. La bionda era già sveglia. Entrò nella mia camera meno di dieci minuti dopo e mi trovò con indosso solo un paio di mutande di pizzo.
- Nana io li vedo- mi voltai di scatto. Non mi ero nemmeno accorta che fosse sulla porta.
- Cosa?-
- Tutti quei tagli. So che cerchi di nasconderti, ma conosco e te conosco il tuo corpo. Li vedo e sono aumentati in maniera spaventosa. Inoltre ora non puoi dirmi che tutti quel lividi te li sei fatta per caso. Io ti aiuto tutti i giorni a nascondere quello sull’occhio, ma viviamo insieme e anche se ti sei presa una settimana di vacanza dal lavoro per l’inizio della scuola io in intimo ti vedo comunque e vedo che ne hai uno sulla spalla e uno nel fianco. Vuoi dirmi che succede?-
- Non posso- sbuffò, ma non disse nulla. Prese i soliti trucchi e aspettò che fossi pronta per farmi coprire quel livido che mi teneva una parte della guancia sinistra.
- Grazie- le dissi dandole un piccolo bacio sulle labbra prima di uscire. Nonostante avessi iniziato ad uscire con Giulia e mi stessi innamorando pian piano di lei quell’abitudine con la mia coinquilina non riuscivo a cambiarla. Sapevo che per nessuna delle due significava più nulla, ma anche lei quando usciva mi salutava così. Nessuna delle due avrebbe davvero saputo spiegare il motivo. Era così e basta. Mi incamminai verso la scuola. Un altro anno lì dentro. La mia voglia di stare lì era diminuita sempre di più inoltre non mi interessava più davvero di niente da qualche mese. Sapevo che era cambiato tutto dopo quel fottutissimo 7 luglio, ma fingevo di non accorgermene. Entrai in classe e mi infilai nell’unico banco libero. In prima fila. Accanto ad una persona che detestavo. Poco male, tanto non ero lì per fare amicizia con lei. Le poche persone con cui avevo stretto amicizia mi salutarono, ma io, come se non me ne fossi accorta, andai direttamente in bagno.
Uno, due, tre tagli.
Lo sguardo su quel sangue che mi macchiava l’inguine mi rilassò più di qualsiasi altra cosa. Uscii dal bagno e mi diressi verso l’uscita d’emergenza. Mi ritrovai nel cortile interno sotto la scala d’emergenza per il piano superiore. Accesi quella canna a cui pensavo ormai da una decina di minuti. Una volta finita rientrai in classe. La prof non era ancora arrivata. Presi posto e con il cellulare in mano iniziai a scrivere a quelle poche persone a cui sarebbe importato sentirmi. Quando tutti andarono a sedersi la mia vicina di banco mi toccò il braccio per salutarmi. La fulminai con lo sguardo poi tornai al mio cellulare. Giulia era l’unica con cui riuscivo a parlare intere giornate ormai e mi trovavo ad aspettare i suoi messaggi con sempre più ansia. La professoressa entrò e io finsi di non accorgermene. Non cercai di nascondermi. Sul banco di tutti c’erano diario e astuccio. Sul mio un foglio, una penna, il cellulare, le cuffie, la lametta nel suo solito sacchetto di plastica trasparente, un paio di cerotti, i fazzoletti. Le parole della donna che era entrata mi scivolavano addosso. Nessuno mi disse nulla e io continuai a fare quello che volevo. A fine ora, però, me la trovai dietro.
- Avrei piacere di parlarti- era già arrivato il momento? Sbuffai, ma mi alzai dalla sedia. Che altro potevo fare? La seguii in corridoio. In mano stringevo la lametta. Ero riuscita a sfilarla dal sacchetto e sentivo la sua lama tagliarmi il palmo. Era una sensazione che mi dava un’assuefazione tale da farmi pensare che non potesse esistere nulla di più bello. Ci fermammo davanti alla cattedra dai bidelli. Senza farmi troppi problemi mi ci sedetti sopra. Lei sorrise scuotendo la testa.
- Allora?- strinsi ancora di più la lama.
- Lo scorso anno non ci hai detto nulla, ma… oh per la miseria apri quella mano che stai gocciolando il pavimento- guardai per terra e vidi un paio di gocce del mio sangue. Mi guardai la mano. Era più di quando pensassi. Scivolava tra le mie dita. Risi. Mi alzai e andai in bagno sapendo di essere seguita da una professoressa. Non potei fare a meno di ridere di quella situazione.
- Allora, stava dicendo? E beh… non le conviene guardare- la fissai per qualche istante poi, constatando che non aveva assolutamente intenzione di distogliere lo sguardo, spostai gli occhi sul quel pugno da cui continuava a gocciolare sangue e lo aprii. Il lavandino si macchiò del mio sangue. La sentii fare una smorfia vedendo che la lametta restava lì conficcata.
- Dicevo… l’anno scorso non ci hai detto nulla e io, personalmente, non avevo idea di cosa fosse successo. Ne abbiamo parlato e possiamo anche tenere un occhio di riguardo, ma non possiamo chiudere completamente gli occhi e…-
- Non mi aspetto che lo facciate- mentre lo dissi misi due dita attorno sul pezzo di ferro piantato nel mio palmo e tirai. Feci una smorfia appena la sentii uscire. Un altro “fiume” di sangue mi scorse lungo le dita. Il suo viso si dipinse quasi di stupore.
- Quello che mi risulta un po’ strano è che sono passati mesi e…-
- Dio è successo il 15 aprile. Basta con questa storia- aprii l’acqua e passai la mano sotto il getto. Un’altra smorfia mi dipinse il viso e aspettai che la ferita si pulisse.
- E allora dimmi: cosa è successo?-
- Ma porca puttana non sono mai stata bene. Mi avete mai visto “normale”? Vi rendete conto che ho trovato il cadavere del mio fidanzato quasi un anno dopo e fingete di non vedere tutto il resto. Prendete tutti i provvedimenti che vi pare io quest’anno sono così- rimase interdetta. Io presi la garza e il cerotto a nastro che tenevo in tasca e iniziai a fasciarmi la mano.
- Attrezzata quindi...- non risposi continuando il mio lavoro. Strappai il cerotto coi denti poi uscii lasciandola sola con le parole che le avevo detto.

Nonostante i mesi passassero tranquilli e fossi tornata alla mia routine sveglia-scuola-compiti-fidanzata-lavoro-letto continuavo a girare per strada sempre timorosa e avevo ancora una certa quantità di paura ad uscire da sola. Da luglio non avevo più visto nessuno della mia famiglia ed era quasi gennaio. Mancavano, in realtà, pochissimi giorni a Natale. Con Giulia le cose andavano sempre peggio e sapevo che prima della fine dell’anno si sarebbe definitivamente trasferita a Milano. Non c’era bisogno di parole. Sapevamo entrambe che in quel momento sarebbe finita. Avevo promesso a mia sorella, mentre eravamo ancora in vacanza, che avrei passato quel Natale in famiglia. Non avevo nessuna voglia di fare la solita lunghissima cena con lo scambio di regali finale, ma anche mia cugina continuava ad assillarmi. I miei diciassette anni erano passati da più di un mese, ma non avevo festeggiato con loro e si erano tutti un po’ offesi. Il 20 dicembre alla fine mi decisi a fare quell’indecente proposta alla ragazza che, una volta, era stata bionda con cui vivevo.
- Senti per Natale tu hai dei progetti?- i suoi occhi azzurri si fissarono sul mio viso, ma senza mai incrociare il mio sguardo. Era abituata al mio rifiuto di un contatto visivo e non la infastidiva più. Le mie pupille erano fisse su quei capelli dal rinnovato taglio carré. Poche settimane prima aveva deciso che il biondo platino quasi bianco dei suoi capelli non le piaceva più così era passata ad un rosa chiarissimo. Le donavano molto.
- Immagino che tu ne abbia e che non voglia andare sola- abbassai lo sguardo. Aveva colpito nel segno.
- Ti avevo già detto che il 23 sono a casa di un’amica, ma la sera di Natale mi avrebbero chiesto di andare alla solita cena di famiglia. Hai ragione a dire che non voglio andare sola, ma se mia cugina porta il suo fidanzato perché io non dovrei portare te?-
- Perché noi non siamo fidanzate-
- Sei la cosa più vicina ad una fidanzata che io abbia- rimase immobile.
- Scusa e Giulia dove la metti?- alzai le spalle come se di lei non mi importasse nulla. Non era così, lo sapevamo entrambe, ma non avrei sopportato di passare del tempo a parlare di quella ragazzina di cui ero mortalmente innamorata. Almeno quello era il sentimento che mi sembrava di provare.
- Con lei è finita e non voglio portarmi dietro una bambina dell’età di mia sorella. Poi, comunque, cosa ti costa accompagnarmi?- sbuffò poi accettò. Quello stesso pomeriggio andai, in autobus, fino al centro commerciale. Visto che sarei andata avrei dovuto trovare regali per me stessa da spacciare per comprati da qualcun altro. Lo sapevamo tutti come funzionava eppure quella facciata di falso buonismo permeava così tanto la mia famiglia che tutti fingevano di credere che fosse davvero un regalo da parte di qualcun altro.

Guardavo tutte quelle cose inutili che mi sarei fatta regalare. Non potevo farmi dare in regalo ciò di cui avevo davvero bisogno: una parrucca bionda, una blu, un completo intimo di pizzo nero, uno dorato e corsetto nero. Avrei avuto bisogno anche di un paio di scarpe col tacco alto argentate, ma quelle me le sarei fatta prestare. No, con la mia famiglia dovevo sembrare una qualunque diciassettenne. Mi ero fatta consigliare da quelle poche mie compagne di classe che ancora mi sopportavano. Alla fine ne ero uscita con dei cd e dei libri. Meglio di niente. Posai di nuovo tutto nella sporta. Feci per alzarmi dalla panchina, ma una mano sulla spalla mi bloccò. Mi voltai di scatto.
Lui.
- Io te l’avevo detto di stare zitta- un brivido mi percorse la schiena.
- Così è stato- risposi con voce ferma. Qualcosa in me era più calmo di quanto pensassi e quel qualcosa mi diede la forza di alzarmi in piedi e mettermi a un paio di passi da lui.
- Sempre con queste bugie-
- Cosa vorresti farmi? Anche se avessi parlato, e così non è, cosa pensi di potermi fare? Vuoi menarmi di nuovo? Qui? Davanti a tutti? Non credo che ti convenga sai?- il mio tono era così fermo da farmi quasi spaventare. Tornai col pensiero a quello che avevo fatto poco prima. Eroina. Ecco cos’era. La sentivo quasi muoversi nelle mie vene. Sorrisi al pensiero di quella sostanza e alla calma che mi stava dando in quel momento di panico.
- Non ho bisogno di menarti. Posso fare molto peggio. Io so cose di te che non vorresti che si sapessero in giro- il sangue mi si gelò nelle vene e con lui anche quella sostanza che ci avevo iniettato una decina di minuti prima. Come potessi essere in grado di parlare e di reagire così dopo che era passato così poco tempo dal momento in cui lo stantuffo era sceso lungo la siringa restava, per me, un mistero. Cosa poteva sapere quel ragazzo di me? Ok, sapeva tante cose, ma tutte di un passato che, se all’epoca mi aveva fatto soffrire, ora mi sembrava un quadretto idilliaco della mia vita.
- Tu non sai proprio niente. Se pensi che queste minacce funzionino con me ti sbagli- solo in quel momento mi resi conto che vicino a noi si erano fermate due donne. Mi guardavano. Le guardai. Le conoscevo. Due professoresse che non sarebbero dovute essere lì. Cercai di scacciare l’ulteriore panico che mi attanagliò il cuore. Niente attacchi di panico. Non in quel momento. Dovevo restare il più concentrata possibile su quello che sarebbe uscito dalla bocca del ragazzo.
- Ti sei dimenticata di tutto quello che facevi alle medie? Andare a casa prima fingendoti malata, le risse…- risi.
Una risata che spaventò persino me.
Una risata di cui avevo estremamente bisogno.
Una risata che mi graffiò la gola.
Tornai a guardarlo. Era interdetto. Non si aspettava di certo una reazione simile. Mi dimenticai delle persone che si erano fermate intorno a noi.
- E a chi pensi di dirlo? Ai miei genitori? Sai che paura. Neanche vivo più con loro- presi tutta la mia roba e me ne andai di corsa lasciando tutti lì con quella verità sospesa davanti ai loro volti.

Mi bastò aspettare la fine della prima ora il giorno successivo per sentirmi ripetere quelle parole che sapevo sarebbero arrivate di nuovo: avrei piacere di parlarti. Di nuovo con la lametta in mano e una siringa sempre pronta nella tasca della felpa. Ne avrei avuto bisogno dopo aver parlato. Lo sapevo. Uscii dalla classe mentre gli occhi di tutti tornarono a posarsi su di me. Sapevo di non poter tener nascosto quello che era successo anche se ci avrei provato.
- So che non dovrei entrare nella tua vita, ma vedo quanto influisca qui quindi non posso nemmeno restare zitta. Cosa è successo?- sbuffai.
- Niente- davanti alla mia voce dura in molti si sarebbero arresi soprattutto conoscendomi e sapendo che non cambiavo facilmente idea.
- Ti ho vista ieri- non aveva bisogno di altre parole per farmi capire che non avrebbe accettato un altro no come risposta.
- Beh ho avuto dei problemi con quel ragazzo ok?-
- Sì questo l’ho notato, ma cos’è successo e davvero non vivi con i tuoi genitori?-
- Ma porca Madonna perché nessuno si fa mai i cazzi suoi? Mi ha violentato ok? E sì, non vivo con i miei genitori da aprile dell’anno scorso. Sempre in ritardo, buongiorno- strinsi la lametta nella mano e sentii la pelle lacerarsi, ma allentai subito la presa per non ripetere la scena di qualche mese prima.

NdA: facendo qualche corsa e tardando a qualche appuntamento sono puntuale a pubblicare anche questo capitolo. Non è stato un capitolo facile da scrivere, ma, in fondo, quale lo è? Grazie per la pazienza e per aver avuto la pazienza di leggere. Grazie a chi mi fa la recensione e a chi legge e basta. Insomma, grazie a tutti.
Per qualsiasi cosa, o anche solo per vedermi fangirlizzare come una matta mi trovate su twitter come @Nana_Fangirl.

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Capitolo 4
*** Suicide. ***


~~ Suicide.
 
Chiusi la porta della mia stanza quel pomeriggio di gennaio. La finestra aperta e l’aria gelida entrava nella stanza. Ero in reggiseno lì davanti. Non sentivo l’aria che mi pungeva la pelle. Non mi rendevo neanche conto di avere la pelle d’oca. Come avrei potuto? Era già un miracolo che riuscissi a stare in piedi.
Ma forse non ero neanche in piedi.
Forse era solo una sensazione.
Avevo in mano una sigaretta accesa. Non potevo permettermi di fumare altro in quelle condizioni. Almeno di questo me ne rendevo conto. Fortunatamente.
- Nana devo uscire- non risposi. Poteva anche non essere reale la voce che avevo sentito. Magari era solo una mia invenzione.
Magari tutta la mia vita era una mia invenzione.
Magari avevo un’esistenza perfetta.
Niente droga.
Niente alcol.
Niente spogliarelli.
Niente violenze.
Nulla di nulla.
Tutto frutto della mia immaginazione.
Mi sentii prendere per una spalla e fu come essere trascinata di nuovo nel mondo reale. La speranza che tutto quello fosse un incubo svanì e mi ritrovai in quella stanza in cui vivevo da mesi ormai.
- Che c’è?- strizzai gli occhi cercando di guardare in faccia Pinky che mi stava davanti. Sul suo viso si era dipinta una smorfia. Sembrava dolore, delusione, paura, rabbia. Tutto insieme. Forse mi sbagliavo. Speravo di sbagliarmi. Odiavo vederla così.
- Ho detto che devo uscire, ma… che cazzo hai fatto tu?- evidentemente su qualcosa non mi ero sbagliata: era arrabbiata.
Arrabbiata con me.
Con la ragazzina che aveva accolto nella sua casa sapendo tutti i problemi che la accompagnavano.
- Nulla- sussurrai guardando la stanza. Ma a chi volevo darla a bere? Mi conosceva. Sapeva che quello non era “non aver fatto nulla”. Poi mica potevo negare l’evidenza con una siringa sul pavimento, il posacenere pieno e la lametta sporca su un pezzo di plastica. Però qualcosa nella mia testa mi diceva che, davvero, non avevo fatto nulla. Forse la stessa cosa che poco prima mi convinceva di avere una vita idilliaca.
- Nulla un cazzo. Ora chiamo Anna e non esco. Se rimani da sola come minimo ti ritrovo morta, non se ne parla-
- So come evitarlo- risposi secca. Per una volta sapevo quello che stavo dicendo. Lei mi guardò scettica.
- No, non esco- la vidi tirare fuori il cellulare e mandare un messaggio. Non dissi nulla tornando a guardare la città fuori dalla finestra. La gente che camminava per la strada con il giubbotto e aveva comunque freddo. Gli ombrelli che riparavano da quella pioggia sottile che stava cadendo. Cercai di soffocare una risata che mi nasceva in gola. Non ci riuscii. Mi ritrovai con un paio di occhi azzurri puntati contro. Era preoccupata. Lo vedevo chiaramente.
- Non ho nulla- dissi di riflesso. Ovviamente non era vero.
- Meglio che tu stia zitta. Avrei voglia di tirarti un ceffone, ma non lo farò- uscì dalla stanza, solo per un istante. In quell’istante mi sedetti sulla finestra. Le gambe verso la strada come se fossi pronta a lanciarmi di sotto. “Non lo farei mai” continuavo a ripetermelo quasi fosse un mantra. Sapevo benissimo che la realtà era un’altra. Per cosa sarei dovuta rimanere lì? In fondo, non era quello che facevo già ogni giorno?
Cercare di annullarmi.
Di arrivare al punto di non esistere per gli altri e non rendermi conto della mia esistenza. Sentii la reazione di Pinky appena mi vide e quasi me ne compiacqui. Non potevo vederla, ma l’avevo sentita trattenere il respiro e quello valeva più di qualsiasi espressione. Sapevo che lei teneva a me, ma quella conferma mi diede il motivo per voltarmi verso di lei. Le sorrisi. In un paio di passi mi fu accanto.
- Ciao- le dissi appoggiandomi alla sua spalla.
- Che cazzo hai nel cervello? Segatura? Dio santo scendi da quella finestra- la guardai continuando a sorridere tranquilla. Io ero in pace.
Lì, su quella finestra, imbottita come, forse, non ero mai stata.
Lì, rischiando davvero di morire.
Io stavo bene.
Sentivo che potevo finalmente respirare a pieni polmoni.
Mi cullai in quella sensazione abbandonandomi quasi a quella.
- Vieni qui anche tu- dissi prendendole la mano. Lei scattò indietro quasi trascinandomi. Sapevo che non l’avrebbe fatto. Sapevo che riteneva tutto quello una pazzia. Io non sapevo cosa pensassi davvero di quello che stavo facendo. Lo facevo e basta. Tornai a voltarmi verso il cielo. Mi incantai guardandolo. Era grigio, nuvole ovunque lo oscuravano e impedivano che i raggi del sole penetrassero e illuminassero la giornata. Piccole gocce sottili bagnavano il cemento, le pareti, le finestre e i tetti delle case, gli ombrelli, i cappucci e la testa delle persone a cui semplicemente non importava. Bagnavano anche le mie gambe. Quel tempo che a molti metteva tristezza a me apriva il cuore. Mi dava il permesso di respirare.
Mi dava il permesso di vivere.
Due braccia mi avvolsero la vita e mi sentii tirare indietro. Mi ritrovai sul pavimento della mia stanza con la mia coinquilina accanto. Mi avvolsi in posizione fetale.
Lacrime.
Ecco di cosa avevo bisogno.
Per quanto potessi desiderarle, ambirle, cercare di farle uscire dai miei occhi non solcarono le mie guancie. Nemmeno un accenno. La ragazza dagli occhi azzurri come il cielo estivo non si mosse. Restò lì, accanto a me. Non mi strinse. Sapeva che avevo bisogno dei miei spazi. Mi sfiorò solo il viso per togliere i capelli che mi erano finiti davanti agli occhi. Non me n’ero nemmeno accorta. Mi alzai, dopo un tempo infinito. Lei ancora lì mi guardava. Cercava di capire quale fosse il mio stato. Era dura, a parole. Quando era preoccupata in particolar modo, ma era sempre lì. Quando fui in piedi vidi il mondo intorno a me girare. Mi sentii cadere, non lo feci. Feci un paio di passi. Pinky se ne accorse prima di me, prima ancora che succedesse. Mi prese i capelli e li raccolse dietro la nuca poi mi tenne una mano sulla schiena. Mi chinai e vomitai tutto quello che avevo dentro.
 
Da quel giorno la mia coinquilina mi lasciava sola sempre meno. Cercava in tutti i modi di essere con me. A volte mi ritrovavo a suoi appuntamenti senza essere stata invitata. Solo perché lei aveva deciso che dovevo esserci. Solo perché non voleva perdermi di vista. Forse aveva ragione ad aver paura. O forse no. In fondo avrei potuto uccidermi in qualsiasi secondo anche con lei accanto. Un pomeriggio poche settimane dopo, un paio, mi ritrovai sola. Chiusa nella mia stanza stavo fumando. Nulla di nuovo. Avrei dovuto studiare, ma non lo facevo. Non lo facevo quasi mai a dire la verità. I libri erano lì, su quella sottospecie di scrivania. Uno era anche aperto. Avrebbe potuto essere in quella posizione anche da un paio di giorni. Non lo sapevo. Chiusi la finestra. Era freddo. Avevo una semplice canottiera e quel giorno il freddo sulla mia pelle lo sentivo. Era solo pigrizia il motivo per cui non mi mettevo qualcosa di più pesante addosso. Mi diressi verso il bagno, tranquilla, come sempre. Mi guardai allo specchio e quasi stentai a riconoscere quella ragazza con le occhiaie, i capelli malmessi, senza un filo di trucco che si rifletteva. Non avevo mai tirato via il mio aspetto in quel modo. I capelli corti neri e rossi erano in disordine e avevano decisamente bisogno di essere lavati, ma con tutto quello che mi stava succedendo chi aveva voglia di farlo? Quel 7 luglio ancora mi sopprimeva. Peggio di qualsiasi altra cosa. Peggio del 15 aprile. Era quel giorno d’estate che aveva davvero segnato la mia fine.
Non tutto quello che già facevo.
Non tutto quello che era già successo.
“Non è passato nemmeno un anno, è normale”, “prima o poi ci passerò sopra”. Erano quelle le frasi che più spesso mi ripetevo cercando di convincermi che sarei stata meglio. Il giorno in cui stavo meglio però non arrivava mai. Volevo che mi travolgesse, che mi raggiungesse senza che provassi davvero a capire quello che mi era successo. Doveva passarmi e basta. Mi lavai il viso e riguardai.
Niente.
Quella ragazza non potevo essere io.
Io non ero così.
Eppure sì, ero io.
Sapevo benissimo di non avere l’aspetto migliore che ci si potesse aspettare. Me l’ero sentita dire spesso in quel periodo. “La prima cosa che trascura una ragazza quando sta male è il suo aspetto. Vuoi dirmi che succede?” Quella era una frase che sentivo troppo spesso.
“Niente. Fatevi i cazzi vostri e non venite a parlarmi.”
Era quello che avrei voluto urlare in faccia a tutti. Invece me ne stavo zitta e me ne andavo.
Dovevo cambiare.
Mi sfilai quei pochi vestiti che avevo addosso e mi infilai sotto la doccia. Lasciai che l’acqua lavasse via ogni cosa e per qualche istante finsi persino che quello che mi scorreva in viso fosse una quantità indefinibile di lacrime. Quelle lacrime salate di cui mi mancava tremendamente il sapore.
Il sapore dello sfogo e della successiva pace.
Più di mezz’ora dopo uscii. Mi sentivo fresca. Mi sentivo un’altra. Una bella sensazione che durò pochi istanti.
Ero sempre io.
Erano sempre i miei problemi a pervadermi la mente.
Mi asciugai lentamente i capelli con il phon poi coprii le occhiaie con fondotinta e correttore come avevo imparato a fare fin troppo bene. Mi guardai. Sì, quella mi assomigliava più della ragazza precedente. Una pura illusione. Sapevo che ero esattamente come prima solo con un aspetto meno trasandato, ma cercai di convincermi che non fosse così. Mi vestii poi tornai in camera. Se ero una ragazza diversa potevo anche fare cose che in genere non facevo per cui scostai la sedia dalla scrivania e mi chinai sui libri.
Parole, parole, nient’altro che parole.
Se ne stavano lì davanti a me. Come a volermi sfidare. Come se non avessi potuto capire il loro significato.
Solo parole.
Niente che potesse darmi la conferma di essere un’altra. Le trovavo inutili, come sempre.
Cosa avevano da offrirmi?
Non c'era lì la soluzione al casino che avevo in testa.
Chiusi tutto poi, come presa da una trance presi un foglio.
Pinky,
Tu sai cosa siamo? Amiche? Fidanzate? Qualcosa di indefinibile? Probabilmente l'ultima. In fondo, non solo il nostro rapporto non è inquadrabile in un posto preciso. Nemmeno noi lo siamo. Una venticinquenne forse ancora troppo giovane e una diciassettenne decisamente troppo vecchia. Siamo quelle persone che il mondo rifiuta. Quelle da cui tutti vogliono scappare. Quelle di cui tutti hanno paura. Quel mondo invisibile che distrugge una vita dietro l'altra. Ecco dove viviamo noi due. Un mondo che se non vivi sulla tua pelle non capisci. Un mondo in cui un giorno stai bene e il giorno dopo vuoi morire. O ti trovi qualcuno morto nel letto. Sai, oggi è uno di quei giorni per me. Ho pensato che, in fondo,  ci uccidiamo un po' tutti i giorni. La mia droga. Il tuo alcol. Il mio autolesionismo. Non sono tutti modi per avvicinarci ogni istante di più alla morte? Non sono un modo per sentire quel brivido, quell'adrenalina, che solo la vicinanza con la morte ti dà? Non sono forse un modo per farci dimenticare dal mondo e magari anche da noi stessi? E il mondo è bravo sai, a dimenticare. Ci mette meno di un secondo. È bravo lui e sono brave le persone che fingono. Quelle false che dicono “non ti lascerò” e poi sono le prime ad abbandonarti. Ma tu no, tu non dimentichi. Perché tu sei come me. Nemmeno io dimentico. Per cui, ti prego. Da ora in poi ricorda anche per me. Ricorda le persone che abbiamo perso entrambe non solo con i tuoi ricordi, ma anche con i miei. E, soprattutto, ricorda di quella bambina troppo cresciuta che ha bussato alla tua porta e che hai accolto. Ricordami per ogni istante che abbiamo passato insieme. Bello o brutto. Quando sono venuta a stare qui mi hai detto delle cose. Mi hai detto che avrei superato tutto, che avrei trovato un amore che mi avrebbe cambiato la vita. Ci credevo, davvero. In fondo ancora ci credo. Solo che non credo di voler aspettare. Credo di aver vissuto troppo. Magari troppo poco tempo, ma ho visto troppe cose. Fatto troppe cose. Io non spero più. La speranza non è l'ultima a morire. È la prima.
Ti voglio bene.
O ti amo.
Non lo so.
Nana.
Chiusi in due parti quella lettera e la portai sul letto della mia coinquilina. Ogni movimento era dettato da qualcosa che non capivo. Qualcosa che, forse, era più grande di me. O forse ero io e non me ne rendevo conto. Uscii dall'appartamento con le chiavi in tasca. Era abitudine, nient'altro. Salii le scale fino in cima. Fino a quella piccola botola che portava al tetto. La aprii e salii la scale. Lentamente. Ormai nella mia testa era tutto deciso. Perché non godermi quei momenti di pace?
Quegli istanti che mi separavano dal mio addio a quel mondo.
Quei pochi minuti in cui essere me stessa non faceva paura.
Quei momenti in cui potevo respirare a pieni polmoni senza sentirmi male.
No, volevo godermeli.
Mi alzai in piedi sulle tegole del tetto spiovente. Non avrei dovuto farlo. Non mi interessava.
Il vento freddo mi scalfiva la carne quasi potesse levigarla. Cambiarmi forma e magari persino anima. Rimasi immobile godendomi quella sensazione di pace. Feci qualche passo incerto poi mi chinai. Mi sedetti sul bordo del tetto e guardai in basso. La strada era lontana. Non ero mai stata lì e me lo aspettavo meno alto. Meglio così. L'adrenalina mi inebriò in un istante. Godetti della sensazione di benessere che mi pervadeva il corpo.
Eccolo il fine ultimo.
La morte.
La liberazione da ogni cosa.
La soluzione ad ogni problema.
Scivolai leggermente indietro. Giusto per avere lo spazio per tornare in piedi, fare un passo avanti e buttarmi.
Facile.
Nessun rimpianto.
Solo sicurezza.
Sorrisi.
Ero felice.
Una mano mi afferrò il braccio tirandomi indietro e tutta quella pace mi venne strappata via. Sapevo chi era. Aveva trovato la lettera. Da quanto tempo ero lì?
- Lasciami. È quello il mio posto. È la cosa giusta da fare-
- Nana rientra. Lo sai che non è così. Sai benissimo che quel benessere è un'illusione- cercai di divincolarmi, ma non feci altro che cadere seduta sulle tegole.
- Non è così. È reale e io voglio farlo. Non costringermi a restare-
- E tu non costringermi a vivere senza di te- solo con quella frase ebbi il coraggio di voltarmi e guardarla.
Piangeva.
Non l'avevo mai vista così sconvolta. La seguii e scesi dal tetto abbracciandola. Mi fece promettere di non farlo mai più. Glielo giurai anche se poi non mantenne la parola.
 
NdA: ed ecco anche il quarto capitolo. Non ho molti commenti da fare su tutto questo. Solo spero vi sia piaciuto esattamente come lo spero per i precedenti e per i prossimi.
Grazie a tutti quelli che seguono questa e le altre mie storie. Per quanto possa sembrare stupido per me è davvero importante.
Per chi in recensione mi ha detto che gli viene da piangere in ogni capitolo (o per chi me l'ha scritto in chat privata): prometto che dal prossimo capitolo le cose migliorano.
Mi trovate su Twitter come @Nana_Fangirl

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Capitolo 5
*** Her. ***


~~ Her.
 
Dopo un incasinato Natale e due mesi successivi in continua ansia io e Pinky sembravamo andare sempre meno d’accordo. C’erano tante divergenze e lei diceva di voler andare via. Dopo l’ennesimo pomeriggio passato a parlare della sua voglia di cambiare aria io decisi che era ora, per me, di tornare a respirare l’aria di campagna e quella tensione classica dei miei genitori. Sapevo che erano successe parecchie cose e non mi sarei mai aspettata di poter rientrare in casa come se nulla fosse.
Nessuna domanda.
Nessuna risposta.
Niente litigi.
A marzo, per il compleanno di mia sorella, avevo finito di riportare tutte le mie cose in quella che tornava ad essere la mia casa.
 
Passarono pochi giorni dal mio definitivo trasloco e quella che era la mia coinquilina mi chiese di raggiungerla a casa sua. Mi aveva fatto strano leggere quel messaggio: fai un salto a casa mia. Erano bastati pochi secondi per trasformare quella casa da nostra a sua. In fondo era sempre stata casa sua. Io ero sempre stata un’ospite che era rimasta lì quasi un anno. Mentre camminavo verso casa sua sentii per l’ennesima volta qualcuno appoggiarmi al muro. Il dolore alla spalla che veniva stretta si faceva ogni secondo più insopportabile. Non avevo bisogno di guardare in faccia quella persona. Sapevo benissimo che si trattava sempre di lui.
- Cazzo lasciami- lui rise e io ebbi l’impulso di tirargli un pugno in faccia. Mi lasciò andare e io mi abbassai. Nella tasca della giacca avevo una siringa di cocaina pronta. Avevo iniziato a girare con qualcosa sempre pronto. In pochi secondi me la iniettai e tornai in piedi cercando di non abbassarmi ai primi effetti che solitamente mi buttavano a terra per poi darmi la carica poco dopo.
- Stavolta lo so. So che l’hai detto davvero a qualcuno. Smetti di fingerti innocente-
- Basta. Ti ho già detto che non puoi farmi niente. Ringraziami perché non ti ho denunciato e non farti più vedere. Se proprio lo vuoi sapere sì, ora qualcuno lo sa, ma non per colpa mia. Sei stato tu. Quella sceneggiata al centro commerciale. Molto teatrale, sì, te lo devo concedere. Peccato che gli spettatori mi conoscessero e non ho più potuto nascondere tutto a lungo- mentre pronunciavo quelle parole a piccoli passi mi spostai mettendo lui con le spalle al muro. Gli effetti sempre più travolgenti di quella droga mi chiamavano a gran voce. Li avrei ascoltati. Il suo viso sembrava preoccupato per quello che gli avevo detto.
- Tu putta…- non riuscì a finire la parola che si trovò la schiena attaccata al muro e la mia lametta al collo che iniziava leggermente a tagliargli la pelle. Sapevo quanta pressione fare per lacerarla, ero decisamente abituata.
- Ora tu te ne vai e non ti fai più vedere-
- Ok ma vedi di calmarti cazzo- mi diede un ultimo pugno e io gli lasciai un piccolo taglio lungo il braccio.
 
Ero fiera di come avevo affrontato la situazione, ma avevo ricominciato a drogarmi sempre più pesantemente e frequentemente. Nel giro di tre giorni mi ero ritrovata tutti i professori, che ormai sapevano cosa mi era successo, addosso. Domande su domande. Io continuavo a non rispondere. “Cosa c’è che non va?”
“Ma che hai fatto?”
“Così non può andare avanti”
“Ancora quel tipo?”
“Senti è inutile che dici che non c’è niente”
“Va beh vedo che non ne vale la pena”
“Se vuoi parlare lo sai che puoi farlo”
Al quarto giorno mi stancai di quella situazione. Avrei risposto malissimo a chiunque mi avrebbe fatto una sola domanda. Poi l’illuminazione. Una donna così bassa da sembrarmi più o meno della mia stessa altezza, coi capelli tagliati corti e un vestito al ginocchio blu scuro. Era magra, più di quanto io avessi mai sognato e io mi ero sempre ritenuta magra. Sapevo di esserlo. Era leggermente truccata. Doveva avere una cinquantina d’anni. La trovai bellissima. La seguii con lo sguardo fino alla cattedra quasi incantata. Quando iniziò a parlare non mi soffermai sulle parole. Quella voce che a tutti sembrava quasi fastidiosa per le mie orecchie suonava meglio di qualsiasi altra musica. Sapevo chi era. Ne avevo sentito parlare come avvocato e come grandissima amica di un'altra mia professoressa. Ci faceva una supplenza. Quando mi guardava, per la prima volta da più di un anno, non mi sentivo a disagio e il bisogno di spostare lo sguardo non era più così impellente. Ci disse che potevamo fare quello che volevamo a patto che nessuno facesse troppo rumore e che se avevamo bisogno lei poteva aiutarci o che almeno ci avrebbe provato. Tutti iniziarono a studiare o a parlare a bassa voce. Io no. Io con il cellulare in mano mi fingevo impegnata quando, in realtà, non facevo altro che guardarla. Dal primo banco non avevo di certo problemi a studiarne ogni singolo particolare. Ogni tanto alzava lo sguardo e ci guardava, ma a me sembrava vedesse solo me. A momenti mi sembrava quasi di arrossire. Sentii la ragazzina, ancora presente dentro di me anche se ben nascosta, esultare e farsi sentire dopo circa tre anni che sembrava morta. Con nessuno prima mi ero mai sentita arrossire così senza un vero motivo. E soprattutto non mi era mai successo con qualcuno che non aveva neanche idea della mia esistenza. Le stavo davanti, ma ero solo una delle tante ragazze in quella classe che non era nemmeno la sua.
Non aveva idea di quale fosse il mio nome.
Non aveva idea che io mi sentissi così.
Non aveva idea di quale fosse la mia vita.
Quell’ultima considerazione mi scaldò quel piccolo cuore atrofizzato che avevo nel petto, ma che da tanto aveva smesso di battere per qualcosa.
Come poteva una donna qualsiasi, assolutamente sconosciuta, a farmi sentire quelle cose di cui in tanti parlavano e che pensavo non esistere davvero?
A quel punto presi una delle decisioni più difficili di tutta la mia vita.
Una decisione stupida per chiunque alla mia età.
Una montagna invalicabile per me.
- Eeem scusi?- dissi avvicinandomi alla cattedra. Mi maledissi guardando quello che avevo addosso. Quel paio di vecchi jeans e la maglia probabilmente troppo scollata. I capelli che andavano dove volevano senza un mezzo verso. Neanche un filo di trucco a coprire tutte le innumerevoli imperfezioni della mia pelle. Dal lato della maglietta nella spalla si vedeva anche quel livido che mi era stato procurato quattro giorni prima. Almeno non era in faccia. Tutte preoccupazioni che svanirono nel momento stesso in cui alzò gli occhi e mi sorrise.
- Dimmi, hai bisogno per qualche materia?-
- Ecco… no… è più un problema personale- il sorriso se ne andò per qualche istante e io mi sentii quasi seppellire. Non avrei dovuto. Cosa interessava a lei della stupida vita di una studentessa qualunque?
- Come mai vuoi parlarne con me?- bellissima domanda. Nemmeno io lo sapevo.
- Perché vorrei denunciare una persona, ma non ho la più pallida idea di come…- mi fermai a metà frase. L’avevo detto in un sussurro e velocemente. Sapevo che in tanti in classe si erano voltati a guardarmi nel momento stesso in cui mi ero alzata, ma, come sempre, non mi interessava. Era il suo sguardo all’improvviso preoccupato a darmi qualche pensiero. Non avrei saputo dire davvero il motivo, ma qualcosa dentro di me mi diceva di fermarmi. Avrei voluto dirle che non doveva stare in pensiero per quella che era la mia storia, che io me la cavavo benissimo. Rimasi in silenzio. Lei anche. Mi guardò ancora un po’ poi alzò una mano e spostò leggermente la spalla della maglia. Mi sentii arrossire e il mio cuore iniziò a battere così forte che pensai volesse uscirmi dal petto. Le sue dita fredde si appoggiarono al mio livido e io feci una smorfia. Anche solo sfiorandolo mi faceva male. Feci un passo indietro e mi ricoprii velocemente.
- Forse è meglio se ci vediamo da sole oggi pomeriggio. Ora non c’è abbastanza tempo- annuii cercando di sembrare il più calma possibile quando, in realtà, avrei voluto sorridere come non sorridevo più da tanto. Mi diede appuntamento per le tre del pomeriggio nel bar accanto alla scuola.
 
Ero seduta sul muretto della loggia da quasi mezz’ora. Fumavo canne e sigarette alternate. Una dopo l’altra. Non mi lasciavo neanche mezzo secondo per respirare l’aria che mi stava intorno. Ero agitata. Lo ero così tanto da non riuscire a svuotare la mente. Appoggiata con la schiena alla colonna dietro di me avevo le gambe piegate vicine al petto. Ricordavo quella mattina e le sensazioni che avevano preso praticamente il controllo su di me. Non pensavo che sarei riuscita ad andare avanti con quel discorso. Non con lei. Mi sembrava di star mandando a puttane l’unica cosa bella che mi era successa da tre/quattro anni a quel momento.
No, dovevo andarmene.
Non potevo restare lì a rovinare anche lei.
Non potevo buttare addosso tutte le mie cose a quella donna che mi aveva fatta sentire finalmente viva e di nuovo bene.
Non poteva esserci nulla di tutto quello che mi ero immaginata e che avevo sperato tra di noi.
Dovevo davvero smettere anche solo di pensarci.
Da quando mi stavo trasformando in una bambina stupida? Sapevo benissimo che tutto quello era sbagliato eppure non riuscivo a fare a meno di sperarci. Alla fine la parte razionale di me prese il sopravvento. Mi alzai e mi allontanai. Mi infilai nella tabaccheria di fronte e comprai filtri e cartine. Niente tabacco. Non mi sarebbe servito. Non volevo farmi delle sigarette. Uscii cercando di non guardare il portico sotto il quale avrei dovuto vederla. Ci passai accanto quasi correndo. Un rumore di tacchi dietro di me mi fece venire i brividi. Alla fine mi fermai e mi voltai con la sigaretta in bocca. Presi una boccata di fumo.
- Avevi cambiato idea vero? Potevo aspettarmelo- non ero più preoccupata per trucco, capelli e vestiti. Ero passata a casa di Pinky a mettermi a posto e a cambiarmi. Avevo preso un paio di pantacalze nere e sopra avevo un vestito viola che avevo comprato quando vivevo lì e avevo dimenticato. “La casa è così vuota ora e poi qui ci sono sempre le tue cose per il lavoro lo sai vero?” mi aveva detto la mia amica quando me n’ero andata. “Lo so. Sono tornata dai miei, è vero, ma questo non vuol dire che ti lascerò sola” avevo risposto. Potevo capirla. Anche a me mancava stare lì, era poco più di una settimana che me n’ero andata e non ero per niente convinta della mia scelta. La calma dei primi due giorni era terminata e ora avevo di fronte così tanti problemi che avrei voluto scappare di nuovo, ma non lo facevo.
- Sì, non posso…- non riuscii a finire la frase. Erano tante le cose che non potevo fare. Non avrei saputo nemmeno come continuarla. La mia mente era un grumo confuso di pensieri. Mi sfiorò il braccio e dentro di me sussultai. All’esterno rimasi impassibile.
- Almeno ti offro un caffè- rimasi immobile.
- Va bene- sorrisi. Un sorriso innaturale. Ci incamminammo verso l’interno del bar. Io davanti a lei. Mi fermai per finire di fumare. Lei entrò. Cercai di finire il più velocemente possibile poi buttai il mozzicone vicino al muro. Entrai anche io e feci per sedermi al primo tavolino. Lei era lì accanto, in piedi.
- No, andiamo dietro. Possiamo parlare tranquillamente lì- il cuore batteva sempre di più mentre mi allontanavo da tutta la gente presente nel bar. Entrammo nella zona ristorante. Era assolutamente vuota. Ci sedemmo in un tavolino leggermente nascosto. Io di fronte a lei. Un ragazzo arrivò praticamente subito. Presi un caffè macchiato e lei un semplice caffè. Rimasi in silenzio guardando il suo viso e studiandone ogni singola espressione. Più la guardavo più mi sembrava bella.
- Hai davvero cambiato idea? Guarda che se il tuo ragazzo ti picchia faresti bene a denunciarlo- arrossii.
- Non è il mio ragazzo e, sì, sono sicura. Sono l'ultima persona che dovrebbe denunciarne un'altra e poi... anche lui avrebbe ottimi capi d’accusa contro di me- si bloccò. Probabilmente non si aspettava una risposta simile. Anche io rimasi un attimo interdetta da quello che era uscito dalle mie labbra. Non avrei mai pensato di dirle quelle cose.
- Cioè?- entrò il ragazzo di poco prima quindi non fiatai. Avevo bisogno di avere poca gente intorno per poter parlare di quell’argomento. Il respiro si fece un tantino pesante. Chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi sul suo controllo. Appena tornai a sentirmi tranquilla riaprii gli occhi e mi trovai riflessa in quegli occhi scuri che mi scrutavano. Ebbi la sensazione che stesse studiando ogni singolo lembo della mia pelle. Si fermò sul braccio destro. C’era una cicatrice piuttosto grande e ben visibile. Era stata fatta quasi un anno prima. Dopo la morte di Tommi. In uno di quei pomeriggi in cui le sue parole (ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana) risuonavano nella mia mente e mi costringevano a prendere la lametta e guardare il sangue colarmi sulla pelle bianca come il latte. Con uno scatto portai il braccio sotto il tavolo. Per una volta fu lei ad arrossire e ad abbassare lo sguardo come se si fosse sentita di troppo guardando quello che era il mio passato e, dovevo ammetterlo, il mio presente.
- L’ho minacciato… Gli ho detto che l’avrei ucciso se mi avesse fatto del male un’altra volta e, giuro, che lo farei. Senza farmi troppi problemi. Nessun rimpianto. Mi toglierei addosso un peso enorme se gli tagliassi il collo o gli infilassi un coltello in pieno petto. Solitamente, però, questi sono solo miei pensieri. Quel giorno… che poi è stato quattro giorni fa… gliel’ho detto. Mi ero appena iniettata una dose di cocaina. Direi che è normale che io gliel’abbia detto- mi alzai di scatto prima di dire altro. Mi morsi la lingua mentre a passi veloci raggiungevo il bagno. Non potevo continuare a parlare. Sentivo il bisogno impellente di estraniarmi da tutto quello. Appena fui in bagno mi appoggiai al piano accanto al lavandino. Sfilai dalla borsa un sacchettino con un fondo di polvere bianca. Ne feci scivolare una parte sul foglio. Non troppa. Dovevo essere in grado di parlare una volta uscita da lì e poi avevo paura a sniffarla dopo la morte di Tommi. In ogni caso, in quel momento, non avevo tempo per preparare l’iniezione. Mi chinai e con un pezzo da dieci euro arrotolati inalai quella sostanza. La testa iniziò a girarmi e dovetti appoggiarmi al muro. Presi tutta la mia roba e mi voltai. Sobbalzai vedendo che non ero sola. Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata e le mie mani iniziarono a tremare. Gli occhi quasi neri, così simili ai miei, mi scrutavano con uno sguardo severo, ma comunque dolce.
- Da quanto sei lì?- con la calma che mi procurava la sostanza avevo iniziato a darle del tu senza nemmeno accorgermene. Lei lo fece e ne fu compiaciuta. Non capii il motivo per cui il sorriso iniziò a solcarle il viso.
- Abbastanza- rispose alla fine. Mi sentii sprofondare. Anche l’ultima speranza di non farle completamente schifo come persona sfumò davanti ai miei occhi. Chissà per quale motivo avevo voglia di piangere, ma dalla morte di Tommi non ci riuscivo. Ero sempre convinta di aver finito tutte le lacrime a mia disposizione. Scivolai lungo il muro fino a trovarmi seduta sul pavimento. Sentii i suoi passi e pensai se ne fosse andata.
Invece no.
La sua mano prese la mia e il mio cuore iniziò a battere così velocemente e forte che pensai potesse sentirne il rumore. Mi alzai guardandola.
- Scusa… di solito io…- non sapevo cosa dire. “Non reagisco così a questa droga?” non era certo la cosa migliore da dire. “Non provo niente per nessuno per cui non sono abituata a deludere la gente?” no, nemmeno quella sembrava la cosa giusta.
- Non devi scusarti di niente- disse avvicinandosi di un altro passo a me. Mi si mozzò il fiato e dovetti farmi forza e appellarmi a tutto il mio autocontrollo per non sporgermi di quei pochi centimetri che c'erano tra noi e baciarla.
- Io... Non sono una ragazza come le altre... Ho la mania di deludere tutti quelli che mi vogliono bene- anche quella frase uscì dalle mie labbra sfuggendo al mio controllo. Che mi stava facendo quella donna? Fu lei ad avvicinarsi e a coprire quel poco che ci separava.
Le sue labbra sopra le mie.
Le mie labbra sopra le sue.
Era un piccolo innocente bacio che in pochi istanti si trasformò in qualcosa di più carnale e sentimentale. Il mio cuore impazziva nel mio petto e sembrava fare i salti mortali dentro di me. Mi sentivo lo stomaco sottosopra. La tristezza di poco prima completamente scomparsa aveva lasciato posto a una felicità che non credevo esistere.
- Non ho mai pensato fossi una ragazza come lei altre. Non ho mai voluto conoscere una ragazza come le altre. Volevo conoscere te. Quella ragazza che questa mattina mi ha guardata coi suoi grandi occhi scuri e mi ha fatto dimenticare quello che avrei dovuto farvi fare. Quella che si è avvicinata titubante ed è riuscita a spiazzarmi con due sole parole. Capisci quello che sto dicendo?- non ero certa di capire davvero, ma il mio cuore non riusciva a fare a meno di battere sempre più velocemente. Avrei voluto passare il resto della mia vita così. Tra le sue braccia. Respirando il suo profumo e condividendo la stessa aria.
 
NdA: per quanto tenga a questa storia (o forse proprio per quello) pubblicare ogni singolo capitolo mi spaventa. Ogni volta mentre scrivo le note subito prima di iniziare tutta la trafila per pubblicare mi riempio di domande. Se è davvero il caso di andare avanti, se ogni singolo capitolo è abbastanza buono per essere messo online, se me la sento davvero.
Comunque ogni settimana butto tutte queste domande in un angolo remoto del mio cervello e mi convinco a pubblicare per cui, eccomi qui, di nuovo.
Cosa dire? Io spero vi sia piaciuto e continui a piacervi tutto questo.
Ancora grazie a tutti quanti.
Nana.
 
Se vi interessa mi trovate su twitter come @Nana_Fangirl.

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Capitolo 6
*** Rivelation. ***


~~Rivelation.
 
- Che ti sta succedendo?- la ragazza coi capelli color zucchero filato mi guardava sorridendo dietro le quinte. Pensai che fosse fortunata. Lei non doveva mettere tutte quelle parrucche di cui ero ormai dipendente. Sapevo che io ero la più stravagante di tutte le ragazze che lavoravano lì. Ero l’unica a cui facevano indossare completi veramente improbabili e parrucche dai colori dell’arcobaleno. Inizialmente mi piaceva. Non solo ero Laura, ma ero anche totalmente diversa da quello che era il mio solito aspetto. Solo una persona che mi conosceva veramente bene sarebbe riuscita a riconoscermi dietro quelle parrucche e quei chili di trucco. Essere Nana mi piaceva più di quanto volessi ammettere. C’era qualcosa che rendeva magico quel lavoro per cui chiunque avrebbe storto il naso. Era quel qualcosa che mi aveva davvero spinto a rimanere lì per tutti quegli anni. All’inizio dicevo che quello era un impiego temporaneo, “solo finché non trovo altro”. Quell’altro, però, non l’avevo mai neanche cercato. Ora tutte quelle parrucche mi avevano stancata. Quella azzurra che avevo addosso la sentivo troppo lunga. Tutti dicevano che andava bene, ma a me sembrava che fosse sempre in mezzo. Ero abituata ai capelli corti e averli fino a metà schiena mi agitava.
- Niente- mi stavo infilando le scarpe argentate. Le odiavo. Mi facevano male, ma per quanto dolore potessi provare sul palco dovevo mostrarmi sempre sorridente.
Come se fossi nuda.
Era quello che dicevamo tutte alle nuove arrivate. Erano pochi mesi che Lily ed Elli se n’erano andate. Al loro posto si erano presentate due ragazze alte, more di cui non avevo nemmeno imparato i nomi. Credevano di essere le padrone di tutto. Io e Pinky eravamo le due che avevano resistito di più lì dentro. Io quasi tre anni, lei ormai quattro. Avevo quattordici anni quando ero entrata in quel mondo.
- Lo sai che ti conosco e quello non è uno sguardo da nulla-
- Ho conosciuto una persona- lei mi corse addosso e, quasi travolgendomi, mi abbracciò. Lei era fidanzata da quasi cinque mesi e mi continuava a ripetere che prima o poi sarebbe successo anche a me di trovare una persona così che mi avrebbe accettata per quello che sono. Non ci avevo sperato. In fondo lei, a parte esagerare con l’alcol, non faceva nulla di male. Ci lasciammo un minuscolo bacio a stampo di quelli che erano routine e le due ragazze nuove risero. Noi ci guardammo, alzammo le spalle e tornammo alle nostre vite.
- Mi sembri più… lucida-
- Lo sono, sto cercando di diminuire un pochino perché stavo davvero esagerando, ma un giorno ci riesco e quello dopo sto peggio per cui non so se ce la farò-
- Ti servirà solo un po’ di tempo… cosa che ora non hai, corri che tocca te- le sorrisi e uscii. Mi ritrovai sul palco e la mia mente si svuotò completamente. Presa dalla musica iniziai a muovermi come tutte le sere. Conoscevo bene quel pezzo, erano mesi che lo facevo, più di quanto avessi mai utilizzato una coreografia. Nessuno si lamentava. Io non la cambiavo. Il dolore ai piedi scemò e lasciò il posto a movimenti fluidi. Seduta sulla sedia alla fine della passerella che componeva quel piccolo palco ormai familiare slacciai il fiocco che teneva chiuso quel corsetto di pizzo nero. Quasi completamente trasparente lasciava già vedere il reggiseno dorato che c’era sotto. Mi alzai lasciandolo scivolare. Feci il solito giro intorno alla sedia fino a trovarmi dietro lo schienale. I movimenti erano sempre quelli. Dovevo abbassarmi e rialzarmi piuttosto velocemente, trascinarmi dietro la sedia fino quasi alle tende che segnavano la fine del palco per poi spingerla a terra. E così avrei finito anche quello.
Tutto fluido.
Tutto perfetto.
Avevo trenta secondi per cambiarmi. Dovevo muovermi per finire la serata col pezzo di gruppo. Facevo coppia con Pinky, ovviamente, ed eravamo le ultime ad entrare in qualità di veterane. Entravamo in ordine di arrivo per cui ero la penultima. Ero sempre io ad avere a disposizione quei trenta secondi per cambiarmi mentre tutte le altre avevano minimo tre minuti. Mi sfilai il completo dorato. Sotto le mutande era già pronto il perizoma. Mi infilai a tempo di record il reggiseno mentre la mia compagna mi cambiava parrucca. Le autoreggenti in pizzo nere erano già lì dal pezzo precedente. Dovevo solo infilarmi le scarpe. I tacchi più alti che indossassi dall’inizio alla fine della serata. Bellissime. Nere con le rifiniture argento. Mi voltai verso lo specchio. Tutto a posto e in tempo. Come ci riuscissi non lo sapevo nemmeno io. Uscimmo sul palco facendo il nostro solito pezzo in coppia. Le due ragazze dai capelli rosa. Entrambe con quel carré di cui io ero mortalmente stanca. Non potevo chiedere di cambiarlo. Mi avrebbero detto che avrei dovuto pagare interamente io e quelli erano soldi che non potevo permettermi di spendere. Sempre sorridente per la posa finale stesa prona sul pavimento del palco con le gambe verso l’alto e la mia compagna seduta sopra il fondo delle mie scarpe. Le andava bene che ero bassa a differenza di lei che arrivava poco sopra il metro e settanta. Ogni volta che uscivamo in strada si lamentava di quella stupidissima posa per cui io dovevo tutti i giorni lavare il completo e lei aveva sempre male al sedere per essere stata sopra i miei tacchi a spillo. Aveva ragione. Era stupida, ma non l’avevamo scelta noi e non potevamo cambiarla.
 
- Puoi venire un attimo fuori?- mattina successiva. Intervallo. Ero appena rientrata in classe ed ero stanca. Ogni sabato mattina ero stanca. Prima delle quattro e mezza non ero in casa e alle sette e venti dovevo uscire di casa per andare a scuola. Per mia fortuna tutti i venerdì sera tornavo a stare dalla mia ex coinquilina. Non sarei riuscita a mantenere quel ritmo dovendo andare a casa dai miei genitori. Tutti gli altri giorni che finivamo alle due sì, ma venerdì, sabato e domenica chiudendo alle quattro restavo sempre da lei. Tornavo a casa tutti i pomeriggi, però. Annuii davanti agli occhi scuri della donna che nelle ultime cinque settimane mi era stata vicina. Mancava circa un mese alla fine della scuola e iniziavo ad aver paura per quello che sarebbe successo dopo. In quegli intervalli di inizio maggio nessuno restava mai in classe. Dopo che avevo fumato c’ero solo io che mi appoggiavo al banco e quasi mi addormentavo. Come al solito era impossibile trovare un posto in cui poter parlare tranquillamente. Entrò in aula professori come se nulla fosse. Anche lì non c’era nessuno. Mi guardai intorno, solitamente erano tutti lì dentro a parlare tra loro.
- Sono tutti in classe o fuori. Abbiamo tempo tanto chi deve andare in classe per la prossima ora c’è già e chi alla prossima è libero sta fuori- me lo disse quasi leggendo i miei pensieri.
- Ok, di cosa volevi parlare?- ero sempre tranquilla quando si trattava di lei. Sapeva ancora pochissimo di me, ma ogni cosa che scopriva non sembrava infastidirla, anzi. Più si addentrava nella mia vita più sembrava decisa a restarmi accanto.
- Ieri sera ero con delle mie amiche e…- non aveva bisogno di continuare. Avevo già capito. La interruppi per finire da sola la frase in un sussurro che comunicava tutta la disperazione e la paura che provavo in quel momento.
- Mi hai vista- lei si limitò ad annuire. Restammo in silenzio. Non sapevo che dire. Il suono della campanella interruppe quel momento imbarazzante e teso. Sospirai quasi sollevata sapendo che sarei dovuta rientrare in classe. Improvvisamente un’ora di latino mi sembrava una prospettiva stupenda. Per la prima volta qualcosa in me esultò sapendo che avrei passato le successive due ore impegnata in quella materia che odiavo con tutta me stessa. Mi voltai.
- No aspetta, la tua prof sa che sei con me-
- Cosa?- dovetti trattenermi per non far uscire quell’unica parola con un urlo.
- Mica le ho detto nulla. Lei sa cos’è successo a luglio dell’anno scorso e le ho detto solo che mi avevi chiesto un consiglio e ti avevo dato quest’ora disponibile- sospirai. Quella risposta mi aveva calmata, ma allo stesso tempo mi preoccupava. Sarebbe stato quello il mio futuro con lei? Bugie su bugie con tutte le persone che entravano in contatto con me? Niente di nuovo, in realtà, ma improvvisamente quella prospettiva non mi piaceva più. Mentire sul mio lavoro e i tre quarti della mia vita mi andava bene, ma mentire sulla mia situazione sentimentale, mentire su di lei, no. Non mi piaceva quell’idea.
- Va bene- di nuovo la mia voce era un sussurro. Non sapevo cosa dire. Mi rendevo conto che quella sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. Chi la voleva una deficiente come me? Chi poteva incasinarsi la vita con me?
- Potevi dirmelo. Avrei evitato di rimanere bloccata come un'idiota quando ti ho vista-
- Cosa dovevo dirti? Pensi che sia semplice per me dire una cosa simile? L'ultima persona che l'ha saputo...- mi interruppi rendendomi conto che con lei avevo sempre cercato di evitare il discorso Tommi.
- Vai avanti.. Dio, odio quando ti interrompi- alzai gli occhi al cielo. Avrei voluto risponderle che io odiavo quando mi forzava, ma evitai.
- Non ho niente da dire... È una cosa che avevo tenuto per me, ora lo sai- alzai le spalle come se non importasse. Come se il fatto che ero una spogliarellista non fosse importante. Sapevo che non era così, ma dovevo almeno fingere che lo fosse per non impazzire. Il suo arrivo stava completamente travolgendo la mia vita.
- Ok quindi sei una spogliarellista e quindi io dovrei accettarlo così, come se mi stessi dicendo che non ti piace la cioccolata?-
- No, la cioccolata mi piace- aveva ragione: pretendeva troppo. Ne ero consapevole eppure non volevo ammetterlo. Volevo che lei fosse quella persona che mi avrebbe accettata senza volermi cambiare. Probabilmente era una delle tante eccessive pretese. Lei sbuffò, ma un sorriso le sfuggì dalle labbra.
Quell'unico sorriso mi scaldò il cuore.
Forse non era ancora tutto perduto.
- Immagino che Nana derivi da lì vero?- in quelle settimane anche lei, come tutti, aveva iniziato a chiamarmi così. Io per prima mi presentavo come Nana ormai da anni. Il mio nome mi suonava estraneo.
- Sì- nonostante la sicurezza nella mia voce temevo per quello che mi avrebbe detto.
- Ottimo, non aspettarti che io continui a chiamarti così- immaginavo che quella sarebbe stata la sua decisione finale. Sbuffai.
- Perché no? Quello è il mio nome... Tutti mi chiamano così e io lo adoro. Nana è quello che sono. Io sono Nana. Sono quella che hai visto ieri sera, non la ragazza indifesa che forse a volte ti sembra di vedere- la mia voce ferma in quel momento, con quel discorso mi fece tremare.
- Perché no. Non posso pensare di chiamarti come una spogliarellista-
- Cazzo, quella fottuta spogliarellista sono io- abbassò gli occhi e si morse la lingua. Avevo imparato a conoscere in fretta le persone e sapevo benissimo com'era lei. Mi erano bastati pochi minuti dopo che mi aveva baciata la prima volta per capirla e più la conoscevo più ogni sfumatura della sua personalità mi veniva confermata. Si spostò e andò a chiudere la porta. Girò la chiave e chiuse la finestra. Qualsiasi cosa avesse in mente non poteva farla o dirla rischiando che qualcuno la sentisse.
- Non ci riesco. Io... Cazzo, ieri sera quando hanno detto Nana non avevo minimamente pensato all'eventualità che fossi tu, ma appena ti ho vista lì sopra con quella stupida parrucca bionda non ho più avuto dubbi. Mi dispiace, ma io non ce la faccio-
- Non riesci a far cosa? A capire che quella è la mia vita? Lavoro in quel posto da quando ho quattordici anni. Non puoi arrivare tu e pretendere che io cambi tutta la mia vita- mi morsi la lingua quando mi accorsi di aver detto a voce alta l'età in cui avevo iniziato. Quattordici anni. Decisamente sotto l'età minima per lavorare. Un lavoro del genere poi...
- Come hai fatto?- scivolò su una sedia prendendosi la testa tra le mani. Mi misi accanto a lei. Una mano appoggiata al suo braccio. Non lo facevo per lei. Lo facevo per me. Ero io la prima ad aver bisogno di quel contatto. A quel punto non potevo tenerglieli nascosti. Infilai una mano nella tasca della mia felpa. C'erano così tante cose lì dentro. Presi tutto in un pugno e lo svuotai sul tavolo.
Una lametta.
Dei cerotti.
Delle salviettine monouso di disinfettante.
Una siringa vuota.
Un accendino.
Una bustina trasparente con della polvere bianca.
Una busta bianca.
Aprii quest'ultima con cautela e ne estrassi quei documenti secondo cui avevo vent'anni. Glieli passai lentamente sul tavolo. Li prese e li aprì. Non le servì più di mezzo secondo per capire cos'erano.
- Fantastico- il tono a dir poco sarcastico mi colpì come un pugno allo stomaco.
- Cosa c'è?- le acque tra noi sembravano essersi calmate.
- Nana eh...- disse quasi in un sospiro.
- L'energica ed eclettica Nana- dissi ricordando a memoria la presentazione che veniva fatta di me durante la coreografia con cui aprivamo la serata. La mia voce era sarcastica con un piccolo accenno di fierezza per quella presentazione. Me le ero guadagnate con sudore quelle parole.
- Comunque io non ti chiamerò Nana. Mi rifiuto di chiamarti così-
- Non riesci ad accettare la mia vita vero?-
- Non è questo. Cazzo. Se solo fossi una ragazza qualunque a quest'ora me ne sarei già andata da un pezzo- sorrisi e arrossii. Presi in mano quello che avevo rovesciato sul tavolo e con cura riposi ogni cosa al suo posto. Tenevo ad ogni singolo oggetto lì dentro molto più che a molte altre cose. Vedevo come lei invece li stesse guardando. Le facevano male e io non volevo farla soffrire più di quanto non stesse già facendo. In quei piccoli oggetti, però, era racchiusa tutta la mia vita.
- Se fossi una ragazza come tutte le altre rabbrividirei al pensiero di noi due insieme- fu un sussurro quella frase che conteneva abbastanza verità da farmi rabbrividire sul serio.
- Prima ho detto che non sarei più riuscita a chiamarti Nana. È vero. Non posso farlo. Sapere che quello è il tuo nome da spogliarellista… Tu hai detto che tu sei Nana, ma non è vero, sei molto di più. Probabilmente Nana è la tua parte più forte, quella che cerca di difendere te e le altre parti che ti compongono, ma tu non sei solo lei. Quello che io non riesco ad accettare non è la tua vita, ma il fatto che in cinque fottutissime settimane io mi sia innamorata di una spogliarellista drogata e autolesionista- sorrisi con uno dei pochi sorrisi sinceri e spontanei di tutta la mia vita poi mi avvicinai a lei e mi abbandonai in un dolce bacio.
- Hai dimenticato un tantino alcolizzata- entrambe iniziammo a ridere, ma sapevamo che era la verità.
 
Nei primi giorni di giugno andare a scuola iniziava ad essere pesante. Ormai riuscivo a vederla anche fuori da lì piuttosto regolarmente. Il suo doppio lavoro non ci pesava e nemmeno il mio lavoro era più un problema. Non ne era certo entusiasta, ma aveva capito che non avrei lasciato. Non per una storia appena iniziata e non in quel momento in cui avevo ancora bisogno di parecchi soldi per procurarmi le droghe. Avevo anche accettato che quella restasse una relazione segreta al punto di non poterlo nemmeno dire alle mie migliori amiche. Era necessario e lo sapevo benissimo. Non avevo problemi a tenere segreti anche se dovevo ammettere che quello mi pesava abbastanza. Era la prima volta che tenevo nascosto qualcosa a Pinky. Non sarei riuscita a tenere la bocca chiusa a lungo. Stesa nel letto in quel sabato pomeriggio pensavo a quanti giorni mancassero ai due mesi con quella donna stupenda. Due giorni. Avrei voluto organizzare qualcosa, ma di lunedì era sempre un problema. Il cellulare iniziò improvvisamente a squillare. Non avevo idea di dove fosse. Mi catapultai giù dal letto a castello rischiando di cadere dalle scale. Appena lo trovai risposi senza nemmeno leggere chi fosse.
- Pronto?- tornai a stendermi sul letto col computer davanti al viso.
- Elli...- quel tono lo conoscevo, non c'era bisogno che la ragazza dai capelli rosa dicesse altro.
- Quando?-
- Ieri pomeriggio. L'hanno trovata pochi minuti fa-
- Come?-
- Solito- sospirai. In quei pochi anni avevo ricevuto troppe telefonate simili. Poteva una ragazza di diciassette anni prendere la morte quasi come routine? Ci si poteva davvero abituare così alla morte? Si poteva continuare a guardarla in faccia e scamparla tutte le volte?  Erano tutte domande che in quel momento popolavano la mia mente restando senza risposta. Non ne avrebbero mai avuta una. Sebbene Elli fosse la seconda persona vicina a me a morire avevo assistito ad una decina di funerali  di altri ragazzi e ragazze della mia età o poco più grandi. Alcuni li conoscevo. Altri non li avevo nemmeno mai visti, ma andavo comunque.
Un po' per solidarietà.
Un po' per ringraziare che non fosse toccato a me a quel giro.
Un po' come accompagnatrice di conoscenti.
- Tra quanto il funerale?- il mio tono mi disgustò. Stavo davvero parlando di una mia amica morta come se stessi discutendo del pranzo?
- Lunedì-
- Cazzo-
- Sei impegnata?-
- No va beh tranquilla mi libero sicuro. Non posso mancare- fantastico. Avrei festeggiato due mesi di fidanzamento al funerale di una mia amica. Sicuramente era un metodo alternativo. Salutai la ragazza dall'altra parte della linea e buttai il telefono in un angolo del letto. Spensi il computer, mi raggomitolai in posizione fetale e rimasi così convinta che prima o poi avrei pianto. Quel momento, però, non arrivò mai.
 
NdA: eccomi di nuovo. Sesto capitolo ormai e spero star mantenendo la promessa che avevo fatto a qualcuno: questo e i prossimi capitoli saranno più “tranquilli”. Comunque stanno migliorando dai. Il prossimo, forse, non sarà proprio leggero, ma in fondo nessuno è particolarmente leggero fino ad ora.
Chiedo perdono a Naomi per averle spoilerato i titoli dei prossimi capitoli uccidendola. Io ti voglio bene, non odiarmi.
Grazie ancora a chi leggere e… alla prossima settimana.
 
Mi trovate su twitter come Nana_Fangirl.

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Capitolo 7
*** Funeral. ***


~~Funeral.
 
- Ti va di uscire a cena?- ero a casa sua da poco più di un'ora e ancora non ero riuscita a dirle che non avremo potuto passare quello stupido mesiversario insieme. In fondo che cos'erano due mesi? Niente paragonati al per sempre che aveva avvolto prima Tommi poi Elli.
- No, credo che domani non dovremo vederci. Ho molto da fare- rimase immobile e mi guardò dall'altra parte del divano. Quel giorno avevo mantenuto una certa distanza e lei non aveva cercato di cambiare le cose. Aveva imparato a conoscermi giorno per giorno e sapeva che se facevo qualcosa non era per semplice capriccio, ma per necessità. Mi rispettava più di quanto avrei mai potuto pensare. Non cercava di forzarmi a cambiare nonostante io sapessi benissimo quanto lo desiderasse. Mi ero ripromessa che un giorno mi avrebbe finalmente vista come mi voleva, ma più andavamo avanti più quel giorno mi sembrava lontano.
- È successo qualcosa vero?- anche lei aveva accettato il fatto che non la guardassi mai negli occhi quindi quando, per la prima volta, fui io a cercare di incrociare i nostri sguardi rimase un attimo colpita. Nonostante la sorpresa non scostò lo sguardo, anzi, accolse i miei occhi nei suoi con un'aria calda e confortevole. Pensai che, forse, avevo trovato la persona giusta per sentire di nuovo la sensazione dei miei occhi persi in quelli della persona amata.
- Domani... C'è il funerale di una mia amica- quelle parole uscirono così velocemente dalla mia bocca che sembrarono una sola. Lei si passò una mano tra i capelli poi sospirò.
- Vuoi che ti accompagni? Posso prendermi il pomeriggio libero se hai bisogno- sorrisi. Un sorriso dolce, ma allo stesso tempo malinconico e un po' amaro.
- No tranquilla, vado con Pinky-
- Immaginavo. Mi dici tu quando vuoi che ci vediamo ok? Prenditi il tempo che vuoi- ecco quello che apprezzavo di lei, una delle tante cose, sapeva darmi i miei spazi. Accettava com'ero, o almeno ci provava, e lasciava che sbagliassi se lo ritenevo opportuno.
- Non è che io non voglia vederti domani è che... Non so fino a che ora andrà avanti il funerale e poi
facciamo il solito ritrovo dopo. Certo siamo sempre meno, ma è un aiuto per affrontare l'ennesima perdita. Mi sono già persa l'incontro per… lui… perché non me la sentivo. Questa volta vorrei andare. Dopo quello ti assicuro che non sarò nelle condizioni di uscire e la sera devo lavorare- avrei potuto fare a meno di dirle quella fila di cose. Avrebbe capito anche senza tutto quello eppure mi sentivo in dovere di scusarmi.
- Va bene tranquilla, nel caso basta davvero una telefonata-
 
Passai il lunedì mattina davanti all’armadio pensando di non avere nulla di adatto. Eppure qualsiasi cosa nel mio armadio sarebbe stato adatta. Alla fine presi una canottiera e un paio di jeans. Me ne andai quasi di corsa senza fermarmi da mia nonna che mi chiamava. La macchina della ragazza con cui sarei andata al funerale era fuori dal cancello e io non avevo né tempo né voglia di stare a parlare. L’umore in macchina, come si poteva immaginare, non era certo dei migliori. Nonostante fossimo piuttosto abituate a situazioni simili non era mai semplice. Nessuna delle due conosceva Elli poi così bene. Avevamo lavorato insieme per circa un anno e qualche volta ci eravamo viste fuori, ma senza mai parlare della nostre vite. Non sapevamo praticamente nulla di lei come lei conosceva poco noi. Probabilmente sapeva più cose di me che di Pinky, ma semplicemente perché era amica di Tommi. Dopo la sua morte ci eravamo allontanate molto. In quel momento, per la prima volta dall’accaduto, mi dispiaceva per quell’improvviso distacco. Per tutto il funerale io e la ragazza coi capelli rosa restammo in disparte. Qualche amico in comune ci salutava, ma, come quasi tutti gli amici della defunta, eravamo malviste dalla famiglia. A momenti sembrava di sentirsi di troppo. Per tutto il tempo risuonava nelle mie orecchie il discorso che i genitori di Tommi mi avevano chiesto di tenere al suo funerale.
Non vorrei essere qui a parlare oggi. Vorrei essere nella mia stanza o a casa di Tommi con lui. Non riesco ancora a capire come sia potuto succedere. Eppure lo so, ho sempre saputo che questa sarebbe stata un’eventualità. Una delle tante cose a cui andavamo incontro procedendo per la strada che ci eravamo scelti. Io non sono qui oggi per dire che quello che per quattro mesi è stato il mio fidanzato e il mio unico vero amico fosse un santo. Non lo era. Non era un bravissimo ragazzo di cui tutti ricorderanno solo cose belle. Io per prima non ho solo bei ricordi legati a lui. Lui era un ragazzo come tanti altri. Uguale alla maggior parte dei ragazzi che riconosco e vedo qui presenti. Aveva i suoi problemi e li scaricava in modo probabilmente sbagliato. Non sono nemmeno qui per giudicarlo perché sono io la prima ad essere uguale a lui. Quello che vi chiedo io è quello di cui tante volte io e lui avevamo parlato perché, sì, noi avevamo discusso di questa possibilità. Lui mi aveva chiesto di andare avanti senza guardarmi indietro e di essere me stessa senza limiti. Aveva anche espresso il desiderio di far sapere a tutti quelli che gli volevano bene di non rendere il ricordo di lui un ideale perfetto. Voleva essere ricordato anche per il male che aveva fatto a tutti noi.
Ci trovammo nel solito angolo del cimitero dopo la cerimonia. Quando avevamo iniziato quegli incontri eravamo circa venti, dopo due anni e mezzo eravamo rimasti la metà. Ero andata a tutti i funerali di chi non c’era più. Nessuno che avesse deciso di cambiare vita e quindi se ne fosse andato. Come tutte le volte ci guardavamo e ci preparavamo la striscia di eroina che ci avrebbe accompagnato per il resto dell’incontro. Appena tutti l’avemmo sniffata un ragazzo moro iniziò a parlare. Era sempre la stessa cosa. Si faceva il punto della situazione come prima cosa poi tutti dicevamo qualcosa su chiunque fosse morto. Ci conoscevamo più o meno tutti. Da quei momenti non uscivano quasi mai frasi scontate. Era anche per quello che mi faceva piacere prenderne parte. Si scoprivano sempre cose della persona persa che in altro modo sarebbero potute andare perse nella memoria di un’unica vulnerabile persona probabilmente prossima alla morte.
- Intanto mi dispiace di non essere stata presente per la morte di Tommi, non l’avevo detto le scorse volte, ma proprio non me la sentivo. Detto questo sto seriamente prendendo in considerazione di pulirmi quindi se dovessi riuscirci non potrei più partecipare- visi stupiti mi guardavano e io arrossii. Non ne avevo ancora parlato con nessuno di questa mia intenzione. Subito i ragazzi che mi circondavano mi sorrisero e mi fecero silenziosi complimenti per la scelta. Nessuno lo disse ad alta voce, ma tutti gli sguardi che si erano posati su di me parlarono per qualche istante di una chiara speranza di prendere la stessa decisione con forza, un giorno. Non ascoltai il punto della situazione di nessun altro. Le parole uscivano a stento dalla bocca di tutti. Era l’effetto di quella droga che iniziava a prendere possesso del nostro corpo. C’era chi si era fatto una dose più pesante di altri. La mia era probabilmente la più piccola sia per avvicinarmi a quel sogno di pulizia del mio corpo sia per la paura che mi attanagliava tutte le volte che dovevo sniffare dalla morte di Tommi. Tutta quella situazione mi rendeva impossibile non pensarci. Quando arrivò il momento di esprimere ognuno un pensiero sulla ragazza che era stata seppellita poco prima cercai di concentrarmi di più. Ascoltai ogni parola uscita dalla bocca degli altri. Quando fu il mio turno dovetti cercare di ricordare qualcosa di non detto della ragazza, ma sembrava che nulla mi venisse in mente. Dopo qualche istante di silenzio presi parola.
- La conoscevo poco. Eravamo colleghe e amiche prima della morte di Tommi. Non ho davvero molto da dire su di lei perché non sapevo neanche il suo vero nome prima di oggi. Nemmeno lei sapeva il mio, almeno credo. Tutto quello che potrei raccontare su di lei per mia memoria è che era davvero una brava ballerina e una ragazza simpatica. Mi sono divertita con lei quelle poche volte che siamo uscite sole, ma è successo di rado. La consideravo comunque un’amica e solo oggi mi sono davvero accorta di quanto mi sia dispiaciuto il totale distacco che c’è stato tra noi dopo la morte di Tommi più di un anno fa. Quello che posso ricordare di lei sono le parole che usava lui quando me ne parlava. Diceva che era una ragazza come se ne conoscevano poche, entrata in questo mondo per sua decisione e non perché ci era scivolata dentro come la maggior parte delle persone. La descriveva come una ragazza snob e a primo impatto antipatica perché sembrava sempre voler sapere tutto, ma che conoscendola poteva risultare semplicemente insicura di sé. Nonostante tutto accettava le critiche che le venivano mosse senza fare troppe storie- finito quel giro di parole ci trovammo tutti stesi sull’erba a guardare il cielo che sembrava quasi prendere in giro i nostri sentimenti tristi. Alcuni dei presenti piansero. Io, come al solito, sentivo di esserci vicina, ma nessuna lacrima finiva per macchiarmi il viso. Fumammo e restammo insieme per circa un’ora poi uscimmo dal cimitero tornando ognuno alle proprie incasinate vite con la silenziosa promessa di essere pronti a ritrovarci al funerale successivo. Non salii in macchina con la ragazza che mi aveva accompagnato. L’avrei raggiunta a casa sua a piedi.
Avevo bisogno di stare sola.
Ne avevamo bisogno tutti.
La guardai allontanarsi. Mi voltai e rientrai nel cimitero. Nel silenzio di quel posto mi sembrava quasi di riuscire a rilassarmi e di potermi sentire di nuovo me stessa. I miei passi risuonavano chiari. Vagai nel tempo in cui riuscii nuovamente a fumare per poi dirigermi di nuovo verso l’uscita e raggiungere Pinky.
 
- Scusa, non sono riuscita a lasciarti completamente sola- la donna davanti a me guardava il cemento. Io a malapena capivo cosa stesse succedendo. Sapevo che dovevo andare da Pinky per prepararmi al lavoro. Dovevo ancora preparare la borsa con le parrucche che il giorno prima mi ero portata dietro per metterle a posto. La guardai, ma il mio sguardo sembrava passarle oltre. Barcollavo. Avevo bisogno di sedermi. Gliel’avevo detto che non sarei stata in grado di vederla dopo quel pomeriggio.
- Cosa cazzo ci fai qui?- scivolai sul cemento del marciapiede. Lei mi prese per un braccio e mi tirò in piedi. Camminammo fino ad una panchina vicina.
- Ti senti bene?-
- Ti avevo detto che era meglio non vederci oggi- sbottai lasciandola a bocca aperta. La vidi chiudere gli occhi e deglutire. Si stava controllando. Non mi aveva mai vista in situazioni simili, ma sapeva che potevo diventare intrattabile facilmente.
- Lo so e io non ti ho ascoltato. Ora cosa vuoi fare?-
- Devo andare a casa di Pinky- mi alzai di scatto e mi girò spaventosamente la testa. Mi appoggiai alla sua spalla per non cadere.
- Non sei nelle condizioni di camminare fino lì. Vieni da me, lo sai che abito più vicino poi ti accompagno io da lei appena stai meglio-
- No, devo raggiungerla- iniziai a camminare, ma nella direzione opposta. Entrai di nuovo nel cimitero. Sentivo i suoi passi dietro di me. Teneva una certa distanza e non avrei saputo dire se per paura di quello che avrei potuto fare o se per lasciarmi spazio. Dovetti appoggiarmi un paio di volte alle lapidi sul muro per non cadere. Camminai per quelli che mi sembrarono infiniti minuti. Mi era presa peggio di qualsiasi altro momento. Non ricordavo di essere mai stata tanto male e in fondo ero felice che lei fosse con me. Le ero davvero riconoscente, solo che avevo bisogno più di qualsiasi altra cosa di stare sola. Improvvisamente mi fermai e mi lasciai cadere. Chiunque mi avesse vista avrebbe pensato che fossi caduta in un posto a caso viste le mie condizioni, ma io sapevo che non era così. Lei mi corse incontro. Il rumore dei passi sui tacchi si fece più veloce finché non mi sfiorò una spalla. Si allontanò di pochi passi quando si rese conto che non ero lì a terra perché stavo male o, almeno, non solo per quello. Tenevo una mano su una delle piccole lapidi bianche che ricoprivano il muro. Il nome che si leggeva a caratteri cubitali la fece indietreggiare.
THOMAS.
Non aveva bisogno di altre spiegazioni. Mi lasciò stare, guardandomi a qualche passo di distanza mentre io, immobile, senza versare una lacrima, restavo davanti a quella lapide. Mi sentii completamente svuotata e solo a quel punto mi alzai. La affiancai e in silenzio le presi la mano. Uscimmo e mi accompagnò fino a casa di Pinky. Sempre restando zitta presi la chiave di casa che era ancora nel mio mazzo ed entrammo.
- Tesoro sono qui. Vado in camera a preparare le mie cose-
- Sì dopo devo dirti una cosa- la voce veniva dalla cucina. Mi sembrava ancora di conoscere quella casa come fosse la mia. Probabilmente la consideravo ancora casa mia.
- Va bene, sappi che ho compagnia- la sentii ridere.
- Ok, busserò alla porta prima di entrare, ma ricordati che tra due ore circa mangiamo- presi la donna che mi aveva accompagnato per mano e la trascinai nella mia stanza.
- Non ceno stasera- chiusi la porta abbastanza rumorosamente da farle capire che la conversazione era finita. Mi buttai sul letto e chiusi gli occhi mentre la mia ospite mi guardava spaesata. Iniziai a ridere senza un vero motivo, solo perché ne avevo bisogno poi mi rialzai. Guardai l’orologio. Erano le sei e un quarto. Alle nove dovevamo uscire per andare a lavorare. Quella sera proprio non ne avevo voglia. Almeno mi sentivo decisamente meglio.
- Scusa, ma… questa non è casa della tua amica?-
- Sì- mi alzai dal letto e aprii l’armadio iniziando a tirar fuori tutto quello che avrei dovuto portare al locale quella sera. Iniziai a lanciare sul letto parrucche, corsetti, reggicalze e un completo intimo. Lei continuò a guardarmi come se si aspettasse che dicessi qualcosa poi iniziò a guardarsi intorno. C’erano piccoli quadretti in giro con foto mie insieme ad altre persone. Tommi, Pinky e poche altre. Si vedeva che quella era la mia stanza.
- Se è casa sua perché ci sono più cose tue che sue?-
- Oh ma perché questa è camera mia- quel discorso a me sembrava così ovvio che non capivo come non lo fosse per tutti gli altri. O, almeno, per lei. Lei che mi conosceva quasi meglio di chi era a contatto con me da anni. L’unica persona che ne sapeva più di lei era quella che era stata la mia coinquilina nel periodo più difficile della mia vita.
- No, giuro, questa non l’ho capita- iniziai a ridere prendendo il borsone nero che tenevo in fondo all’armadio e iniziai a mettere dentro tutto quello che popolava il letto. Lasciai fuori solo le parrucche che dovevano essere pettinate prima di essere riposte in ordine all’interno della borsa.
- Fino a marzo abitavo qui- lo dissi spontaneamente come se il fatto che una ragazza di sedici/diciassette anni abitasse lontana dai suoi genitori fosse normale.
- Questo particolare lo avevi omesso- si sedette sul letto spostando con poca grazia la parrucca rosa che usavo da troppo tempo per i miei gusti. Fu la prima che presi in mano. Iniziai a spazzolarla. Il suo sguardo sembrava divertito da quella scena.
- Non posso mica sempre ricordarmi tutto- risposi sorridendo.
- Lo sai che odio tutte queste… cose?-
- Lo so, ma ami me quindi amerai anche loro- riposi la prima parrucca nella borsa, la baciai e continuai quell’operazione. Una dopo l’altra vennero messe tutte al loro posto. Pronte per essere usate qualche ora dopo. Andai a sedermi accanto alla donna che era rimasta in silenzio guardandomi per tutto il tempo. La borsa era davanti alla porta. Avevo girato la chiave per essere più che sicura che la proprietaria di casa non entrasse senza avvisare.
- Guarda che me ne sono accorta- spostai gli occhi verso il soffitto poi sorrisi per sembrare quasi innocente. Non lo ero mai stata, ancora meno in quel momento.
- Di cosa?- mi avvicinai leggermente a lei. Eravamo così vicine da poterci leggere dentro con un solo sguardo.
Così vicine da sembrare nude anche con tutti i vestiti addosso.
Non rispose. Si limitò a eliminare quei pochi centimetri di distanza appoggiando le labbra sulle mie.
 
NdA: in realtà dopo questo credo davvero di non avere più nulla da dire. Sono piuttosto convinta che il testo parli da solo. Comunque davvero grazie a chi ha la pazienza di leggere ogni capitolo e dedicare qualche minuto del suo tempo a me e alla mia storia.

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Capitolo 8
*** Decision. ***


~~Decision.
 
Ad agosto Pinky aveva ufficialmente lasciato il lavoro. Diceva di essere troppo vecchia e di dover trovare un lavoro serio. “Ho quasi trent’anni e devo davvero mettere la testa a posto. Non sono così dipendente da nulla per cui non sarà poi così complicato. Scusami se ti lascio sola lì dentro, ma devo davvero farlo.” Erano quelle le sue parole tutte le volte che ne avevamo parlato. Io non la incolpavo di nulla, anzi. Faceva bene. Aveva ragione a volersene andare. Anche io iniziavo ad avere qualche dubbio. In fondo avevo limitato in modo drastico il mio uso di sostanze e non ci spendevo più molto. Certo, un’entrata mensile era più che comoda, ma ormai ne potevo davvero fare a meno. Inoltre quel lavoro era sempre centro di enormi litigi con colei che potevo definire la mia fidanzata di ormai otto mesi. A inizio ottobre presi quella decisione. Da qualche parte avrei dovuto iniziare se volevo davvero cambiare. Quello era un ottimo punto di inizio. Così dopo averne discusso con la ragazza che era tornata bionda decisi che probabilmente era la scelta migliore. Dopo che avevo portato la mia fidanzata a casa sua lei era diventata l’unica a conoscenza di ogni cosa. Non poteva essere diversamente, me n’ero resa conto fin da subito.
- Dobbiamo parlare- dissi un pomeriggio a quegli occhi scuri che avevo imparato a guardare.
- Non mi piace particolarmente come frase lo sai?-
- Ti piacerà quello che devo dirti per cui sorridi e rispondimi con un “dimmi tutto amore”- lei rise. Adoravo ascoltare la sua risata. Mi faceva pensare che, forse, non tutto nella mia vita era sbagliato. Probabilmente lei era la prima scelta davvero giusta che avevo preso. L’unica scelta che avevo preso ascoltando la voce della ragazzina dentro di me. Quelle prese da adulta, però, mi avevano permesso di essere ancora viva per cui ero grata pure a quelle. Da un mese circa era diventata una mia professoressa per cui la nostra relazione si era fatta ancora più incasinata. Ora era più che indispensabile che nessuno lo sapesse. Quella situazione non era piaciuta a nessuna delle due, ma l’avevamo accettata e ci convivevamo.
- Non ho intenzione di dirtelo. Parla- anche io sorrisi e per un istante mi sembrò di vedere i suoi occhi illuminarsi.
Quella donna mi amava.
Io la amavo.
La amavo così tanto da star male.
- Entro fine mese lascio il lavoro. Da quando se n'è andata Pinky non è più la stessa cosa e io ti ho giurato che avrei provato a migliorare per te, per noi, e non ho ancora fatto nulla. Credo che sia...- mi interruppe saltandomi al collo, prendendomi il viso tra le mani e lasciandomi un infinito bacio sulle labbra.
- Sei sicura? Insomma non voglio che lo fai solo perché te l'ho chiesto io o perché abbiamo discusso spesso per questa cosa. Non voglio che poi tu ci stia male. Se questo lavoro ti fa davvero star bene e ne sei contenta a me va bene, lo sai-
- Amore adesso basta. Calmati. Non lo faccio per te, non solo almeno. Lo faccio perché mi sento pronta. Perché voglio davvero cambiare per poter vivere una vita normale-
- Una vita normale non comprende una fidanzata cinquantenne- spostò lo sguardo verso il pavimento e improvvisamente non avere più quel contatto mi fece soffrire. Le alzai il volto con due dita e le sorrisi.
- Sai cosa volevo dire. Sai benissimo che non ti escluderei. Comunque parlerò con Paolo e vedrai che entro fine mese non dovrò più lavorare lì. I miei quattro anni di lavoro si sono chiusi a metà settembre-
- Avevi ancora tredici anni, non quattordici come dicevi...-
- Lo so, ma ti prego parliamo di altro- così si chiuse il discorso. Come deciso la sera stessa mi licenziai, ma rimasi per un'altra settimana in attesa che mi sostituissero con qualcun altro. Lasciai lì tutte le scarpe e le parrucche che potevano essere riutilizzate portandomi a casa solo i completi intimi.
 
Nonostante non ci vedessimo più tutti i giorni ero rimasta così legata alla ragazza che mi aveva fatto vivere a casa sua che spesso nel weekend mi fermavo a dormire da lei. Tutto sembrava tornare ai giorni in cui io stavo male al punto da essere scappata di casa. I nostri ritmi erano rimasti gli stessi di quando lavoravamo insieme. Lei continuava a cercare lavoro e io a fingere di essere una brava studentessa interessata al voto di maturità. Avevo da poco compiuto i diciotto anni quando mi ero resa conto di dover davvero impegnarmi se volevo migliorare prima della fine dell’anno scolastico. I miei genitori spingevano per mandarmi all’università e, in particolare, a giurisprudenza. L’idea dell’università mi piaceva, ma non ero convinta sull’indirizzo. Probabilmente avrei preferito qualcosa più sullo scientifico che non mettermi a studiare del diritto dalla mattina alla sera. Ormai quasi tutti i mesi andavo al cimitero. Non sempre per vedere le lapidi di quelli che un tempo erano stati miei amici. A volte camminavo solo in mezzo a tutte quelle tombe. Mi sentivo diversa quando ero lì. Come se appartenessi a quel posto. Avevo cercato così tanto la morte che faticavo a credere di non essere sotto quegli strati di terra.
Tutte le volte che esageravo con una dose sapendo di esagerare.
Quando guardavo la finestra sognando di volare di sotto.
Quando salivo sul tetto e mi sedevo sul ciglio sperando tutte le volte che qualcosa mi spingesse a cadere.
Avevo visto così tante volte la morte in faccia in quattro anni che non avevo più paura di lei. Mi dava un leggero sollievo e mi faceva sorridere. Tutte le volte che ci andavo vicina sentivo l’adrenalina salirmi in corpo e improvvisamente stavo bene. Negli anni ero diventata dipendente da quella sensazione di benessere che solo lo sfiorare la morte sapeva darmi. Era anche per quello che i miei tagli si erano fatti ogni giorno più fondi. Non erano sempre grandi, anzi tendevo a non farli più grandi di tre o quattro centimetri, ma ogni giorno che passava andavano sempre più in profondità. Da quando non lavoravo più non mi ero limitata solo all’inguine. Ero passata all’interno coscia, le caviglie, la pancia e, infine, nel più scontato dei posti. Le braccia.
- Quanti anni sono?- la domanda mi strappò dai miei pensieri pieni di sangue che colava dal mio corpo e siringhe. Da quando avevo dato un freno alle droghe il bisogno dello scorrere del sangue era sempre più impellente. Avevo sempre una lametta a portata di mano. Spesso nella tasca dei jeans o nel reggiseno. Tenute dentro un sacchetto di plastica trasparente raramente mi ferivano anche perché sapevo come muovermi per non farmi più male di quanto volessi. Era lei a procurarsi ogni tanto dei piccoli tagli nelle dita quando dimenticavo di averla addosso.
- Cosa?- chiesi rimanendo stesa nel letto guardando il soffitto.
- Queste- le sue dita stavano percorrendo alcuni degli ultimi tagli nei fianchi e nell’interno coscia. Non me n’ero nemmeno accorta.
- Otto anni. Ho iniziato per caso quando ne avevo dieci o undici. In realtà non lo so nemmeno io esattamente quanti anni siano. Ero in prima media comunque-
- Eri così…-
- Non dire piccola. Non lo sono mai stata- la interruppi con un tono particolarmente duro. Non si meritava di essere trattata così, ma non potevo farne a meno quando mi ricordava quanto velocemente fossi cresciuta. Lo sapevo benissimo. Me ne rendevo conto da sola e ci facevo i conti ogni singolo giorno. Non avevo bisogno che me lo facesse presente.
- Lo so scusa- disse come se potesse leggermi nel pensiero prima di appoggiare le sue labbra sulle mie.
- L’anno scorso a marzo sono tornata a casa dai miei e il mese prossimo è anche il compleanno di mia sorella. Io credo che sia giunto il momento di stare davvero male- si alzò guardandomi come se non capisse cosa le stavo dicendo.
- No scusa? Non credo di aver capito- sorrisi. Mi misi a sedere  sul letto coprendomi fino alla vita più per il freddo che per altro.
- Voglio arrivare a questa dannata crisi d’astinenza. Sono mesi che dico che smetto e poi non lo faccio mai. Sì, ho diminuito e ci sto provando a non stare più male come prima, ma ne sento davvero il bisogno e finché non sarò completamente pulita so che cederò come ho ceduto in questi giorni. Mi hai vista, a malapena mi reggevo in piedi. Oggi è il primo giorno che sto più o meno bene di tutta la settimana, ed è domenica. Vado a stare da Pinky per qualche giorno. Finché non mi passa-
- Non se ne parla proprio. Per quanto vi vogliate bene e io la apprezzi lei è nella tua stessa situazione. Non ho intenzione di farti venire una crisi d’astinenza in una casa dove di droghe ne girano sempre. Se devi stare così male almeno fallo definitivamente. Non sei stupida, lo capisci da sola che se lo facessi lì saresti di nuovo dentro nel giro di poche ore. Io  capisco che tu ti fidi di lei e so che è stata l’unica persona a starti vicina nonostante sapesse tutta la verità, ma questa volta no- abbassai lo sguardo. Lo sapevo. Ci avevo pensato, ma non avevo trovato altra soluzione. Che potevo fare per evitare quella situazione? Tutte le persone da cui sarei potuta stare in quei giorni erano ridotti come me se non peggio.
- Che altro posso fare? Dove posso andare? Mica posso farlo a casa mia. Già tra me e i miei genitori non scorre buon sangue se poi ci metti questa addio proprio. Poi in casa ci sono già abbastanza problemi senza che gliene aggiunga io. E ci pensi a mia sorella? Lei non sa davvero niente di questa storia. No, non se ne parla- mi ero alzata di scatto dal letto e avevo anche iniziato a rivestirmi. Sapevo che da un lato aveva ragione, ma io non riuscivo davvero a trovare una soluzione migliore di quella che le avevo proposto.
- Non ho mai detto di farlo a casa tua-
- E allora dove? Cazzo-
- Qui-
- A casa tua? Tu lavori e io sarei sempre sola. Non posso stare sola in quei giorni e lo sai. Mi conosci, sai che troverei un modo per aver qualcosa con cui calmarmi se sono sola-
- Lo so. Sto a casa, posso permettermi di prendere una settimana di permesso e gli orari in ufficio li faccio io. Se tengo chiuso una settimana non succede nulla-
- Non voglio che tu mi veda così-
- Ti ho vista in situazioni orribili e tra noi non è cambiato nulla, non sarà questo a farmi cambiare idea, anzi. Ogni volta che ti guardo mi rendo conto di quanto tu possa essere forte, di quanto stia cambiando davanti ai miei occhi e non potrei essere più fiera di te- non risposi. Mi limitai a sedermi sul letto accanto a lei e a riflettere su quello che mi aveva detto.
 
La settimana dopo mi ritrovai chiusa in una stanza di casa sua. Era così piccola da tenere appena un vecchio divano e un mobile. La borsa con tutte le mie cose l’avevo lasciata a lei. Eravamo d’accordo che sarebbe entrata il meno possibile perché non volevo che mi vedesse star troppo male. Conoscevo una sola persona che era riuscita a superare la crisi d’astinenza senza ricadere nel giro subito dopo. Avevo parlato con lui pochi giorni prima e l’aveva descritta come: “un’esperienza che ti cambia decisamente la vita. Non sono mai stato così male in vita mia. Desideravo morire più di quanto non avessi mai fatto”. Quella conversazione non mi aveva di certo calmata, anzi. Per un minuscolo momento avevo pensato di rinunciare. Poi però ricordavo i motivi per cui ero decisa a farlo. Valevano tutti abbastanza per poter superare quelle torture alle quali il mio corpo mi avrebbe sottoposto. Quella mattina, prima di andare da lei, avevo fumato. Non potevo permettermi di star male per strada o in macchina con i miei genitori che mi avevano accompagnata lì vicino. Le avevo lasciato anche il mio cellulare. Mi ero resa conto solo in quella prima ora che ero chiusa dentro quella stanza che non avevo impostato nessuna password. Poco male. Non c’era praticamente nulla per cui avremo potuto litigare anche se fosse andata a vedere. Mi stesi sul divano guardando il soffitto quasi aspettando con ansia di star male.
Prima sarebbe iniziato prima sarebbe finito.
Mi addormentai.
Mi svegliai qualche ora dopo con un bisogno di vomitare che mi prendeva lo stomaco e mi faceva venir voglia di urlare. Rimasi in silenzio consapevole che la mia ospite non avrebbe sopportato sentirmi star così male. Non dopo così poco tempo. Scesi dal divano e mi andai a sedere in un angolo della stanza. Il primo pensiero che arrivò alla mia mente fu tutta quella droga che mi ero vista passare in mano in quegli anni. Averne anche solo una minuscola parte mi avrebbe fatto star meglio. A quei pensieri il mio stomaco continuava a ribellarsi e io continuavo a ribellarmi a lui. Non volevo buttar fuori così tanto e così presto. Lottavo contro me stessa. Come se tenermi dentro quello che voleva uscire mi desse la possibilità di sentirmi meglio. Mi sembrarono momenti infiniti quelli che trascorsero prima di aprir la bocca e lasciar uscire una prima piccolissima parte dello schifo che avevo dentro. Cercai di alzarmi e di tornare su quel divano in cui ero stata fino a poco prima, ma le gambe non mi reggevano. Tremavano come non le avevo mai viste prima.
Avevo paura.
Avevo una paura folle.
Avevo voglia di urlare.
Rimasi in silenzio guardano le mie braccia e le mie gambe tremare. Non avrei saputo dire quanto tempo era passato da quanto ero lì dentro. Non avevo idea di quanto ci mettesse quell’insieme di sostanze di cui ero dipendente a produrmi tutti quei sintomi. Potevano essere due ore come potevano essere otto, dodici o ventiquattro. Per me, dentro quella stanza, il tempo sembrava non passare mai. Avevo chiuso la finestra perché la luce mi infastidiva per cui non sapevo nemmeno se fosse giorno o notte. Avevo sempre sonno, sbadigliavo fino quasi a farmi male, ma allo stesso tempo avevo paura di dormire e il mio cuore batteva così forte da impedirmelo. Dopo un tempo indefinito, ma comunque lungo, mi addormentai. Quando mi risvegliai mi trovai stesa a terra.
Ero sporca.
Così sporca da puzzare e da farmi schifo.
Non avrei saputo dire quanto avevo dormito. Continuavo a sentire un richiamo irrefrenabile alla droga e per quanto potessi cercarne lì intorno non ne trovai. Arrivai a rompere un cuscino pensando che, forse, dentro, qualcosa ci fosse. Non sapevo nemmeno più dov’ero. Dopo quell’improvviso slancio di adrenalina ricominciai a tremare e a voler dormire. Vomitavo così spesso che ormai non si riusciva nemmeno più a camminare ed ero convinta di aver fatto anche pipì o, forse, peggio. Qualsiasi cosa avessi fatto l’avevo fatto lì perché sapevo di non essere mai uscita per andare in bagno. Cercai di aprire la finestra. Dopo qualche tentativo ci riuscii. La luce del giorno mi ferì gli occhi. Dovevo far uscire quella puzza che veniva da tutto ciò che il mio corpo buttava fuori. Vidi Tommi e in quel momento urlai.
Urlai perché ero felice di averlo lì.
Urlai perché una parte di me ancora sapeva che lui era morto.
Urlai pensando di essere morta anche io.
Mi buttai sul divano e mi addormentai di nuovo. Quando riaprii gli occhi era buio fuori. Potevo vedere il cielo nero con qualche piccola stella. In qualsiasi altro momento avrei adorato quello spettacolo. In quello che stavo vivendo, però, l’unica cosa che riuscivo a sentire erano i dolori che mi attanagliavano ovunque. Non c’era una sola parte del mio corpo che non mi facesse male.
Avrei voluto staccarmi a pezzi.
Dito dopo dito.
Arto dopo arto.
Restare solo un piccolo cumulo di pezzi umani.
Le mani continuavano a tremare, ma le gambe sembravano più stabili. Forse iniziavo a stare meglio. Mi guardai intorno. Era tutto pulito. Nel delirio di quei giorni non riuscii a capire chi potesse essere stato. Mi guardai. Così magra da far davvero schifo. Non ricordavo di aver né mangiato né bevuto in tutto quel tempo, ma, forse, l’avevo fatto. Anche il mio corpo sembrava pulito e quello che avevo addosso non mi sembrava lo stesso che avevo prima di addormentarmi, ma avrei potuto sbagliarmi. Le voci che mi avevano popolato la testa tutto il tempo sembravano essersi affievolite.
Sì, me lo sentivo, stavo meglio.
Nonostante il dolore e il tremore alle mani.
Stavo meglio.
Ce la stavo facendo.
Con quella consapevolezza aspettai qualche ora in cui mi riaddormentai di un sonno leggero, ma tormentato poi decisi di uscire. Quando mi ero risvegliata anche il dolore sembrava essersi calmato un po’. Mi ritrovai immersa nelle luci della casa che improvvisamente mi sembrava enorme. Feci qualche passo incerto su quelle gambe di cui non sapevo più se fidarmi. Ricordavo pochissimo di quello che era successo e non avevo davvero idea di quanto fosse passato. In tutte quelle stanze che vedevo non c’era quella puzza che mi aveva accompagnato nel tempo in cui la crisi era forte. Quell’odore che non avrei mai potuto dimenticare. Forse una delle poche cose che avrei davvero ricordato per com’erano. Senza allucinazioni o percezioni distorte.
Forse.
Vidi la proprietaria di casa in bagno. Guardava davanti al lavandino dove sapevo esserci uno specchio. Sembrava aver appena pianto. Mi avvicinai a piccoli passi così silenziosi da spaventare anche me. Le toccai una spalla e sobbalzò. Si voltò verso di me. Mi guardò come se stesse guardando un fantasma.
Forse lo ero.
Forse ero davvero morta.
Le passai accanto, ma senza fermarmi e arrivai davanti al water.
- Come stai?- la guardai di nuovo restando in silenzio. Quegli occhi lucidi e gonfi non sembravano più tanto tristi mentre mi guardava. Mi voltai di scatto abbassandomi sulla tazza e vomitando per l’ennesima volta. Tirai l’acqua sentendo la mia gola bruciare poi mi avvicinai al lavandino e mi sciacquai la bocca.
- Ora meglio. Quanto sono rimasta dentro?- la mia voce era roca. Non me la ricordavo nemmeno più, ma ero certa che non dovesse essere così. Presi quello che riconobbi come il mio spazzolino e mi lavai i denti.
- Con oggi sei giorni, ma per quanto ho visto hai dormito quasi sempre- abbassò gli occhi. Sembrava non volerne parlare e io ero più che d’accordo. L’ultima cosa che volevo era ricordare quello che avevo passato, come mi ero sentita e quello che avevo fatto in quei giorni.
- Che ore sono?-
- Le quattro di pomeriggio, più o meno. Hai fame o sete? Non hai toccato cibo né acqua in questi giorni-
- Sì, vorrei bere, ma credo di non essere ancora pronta per mangiare- cercai di sorridere, ma non ero certa che fosse la cosa migliore da fare. Lei non sembrava aver voglia di ridere. Non immaginavo minimamente cosa aveva dovuto vivere e vedere. Io però ero contenta e fiera di me.
Stavo bene.
Il tremore alle mani sarebbe passato. I dolori sembravano scomparsi. La nausea pure.
Stavo bene.
Ed ero pulita.
 
NdA: sono tornataaaa! So che sono in un immenso ritardo, ma mi sono trasferita e sono senza wifi. Dopo settimane di università in cui avrei solo voluto seppellire la testa sotto la sabbia al posto che in mezzo ai libri sono riuscita a ritagliarmi qualche minuto per pubblicare.
Qualcuno mi spiega perché cazzo ho deciso di fare l’università di matematica?

Detto questo spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto.
Per farmi perdonare (se riesco) pubblico subito il prossimo capitolo.

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Capitolo 9
*** After all. ***


~~ After all.
 
Era una settimana che non toccavo il mondo in cui avevo vissuto per anni. Non era semplice. Per niente. Girare per strada per me non era come per tutti. Era una continua tentazione. Sapevo esattamente dove andare e come muovermi per tornare indietro. Vedevo ovunque la possibilità di annullare quella sofferenza che mi attanagliava il cuore e l’anima. Era quello il motivo per cui non uscivo mai sola.
Mai.
Non ci riuscivo.
Ogni volta che ci avevo provato mi ero sentita sprofondare nell’asfalto e morire lì sotto senza che nessuno se ne rendesse nemmeno conto.
Quel pomeriggio però dovevo.
Feci un passo oltre il portone della scuola.
Il cuore iniziò a battere, battere e battere.
Il respiro corto.
Non riuscivo a scendere quei tre gradini bianchi.
Nana, cazzo respira.
Continuavo a ripetermi quelle parole mentre le gambe iniziavano a cedere. Mi appoggiai al muro ormai sicura di cadere. Mi piegai lentamente decisa a mettermi seduta.
Davanti a me quello che sarebbe dovuto essere un muro giallo, quasi marrone, iniziò a diventare nero. Fare due più due fu abbastanza semplice. Stavo avendo un attacco di panico. Sarei svenuta in pochissimo tempo.
Un tonfo.
Nero.
 
Aprii gli occhi senza capire dove fossi o cosa fosse successo. Il soffitto alto era bianco. Con la coda dell'occhio vedevo un muro dello stesso colore poco lontano da me e di nuovo mi sentii mancare il respiro.
Ospedale.
No, non di nuovo.
Una voce indistinta, lontana.
Non capii le parole, ma subito una donna dal viso noto mi si parò davanti. Parlava, probabilmente rivolta a me, ma io non sentivo neanche una parola. Continuavo a chiedermi dove mai fossi finita. Non ricordavo nulla di quello che era successo poco prima. Cercai di leggere il labbiale, ma nulla. Il respiro tornò normale e la donna sembrò calmarsi.
Dovevo ancora essere a scuola. Dove altro avrei potuto vederla? Pian piano i ricordi iniziarono a riaffiorare.
Il portone.
Le scale.
Il mio cuore.
Il nero che mi circondava.
Mi alzai in piedi di scatto e la testa iniziò a girarmi.
- Stai giù- l'urlo della professoressa giunse chiaro alle mie orecchie. Non ascoltai. C'era mai stata una volta in cui avevo ascoltato quello che mi veniva detto?
- Io... Devo andare- dissi velocemente. Senza aggiungere altro presi la mia borsa a terra e tornai alla porta. Mi bloccai.
- Hai bisogno di qualcosa?- una mano si posò sulla mia spalla e sobbalzai.
- No... Io...- non sapevo davvero cosa dire. Era ovvio che avessi bisogno. Non l'avrei mai ammesso. Soprattutto non con lei, non con chi in quel momento mi stava guardando. Cercai di non pensare a quello che stavo per fare.
Non è niente. L'hai fatto tante volte.
Nemmeno io ci credevo, ma provavo a convincermene. Nessuno sembrava davvero credere che sarei stata bene una volta fuori. Loro non sapevano quale fosse il problema, probabilmente non avevo ancora ripreso colore dopo essere svenuta.
- Da che parte devi andare? Sto uscendo anche io magari facciamo un pezzo di strada insieme- una voce di una persona che non vedevo, ma conoscevo interruppe il silenzio. Ogni mio tentativo di autoconvinzione si sgretolò. Mi voltai ed ebbi la conferma che la mia professoressa di psicologia aveva parlato.
- Vado dalla stazione delle corriere- sussurrai. Mi stupii sperando che mi accompagnasse fino lì. Da quando avevo piacere a stare in giro con persone che mi avrebbero riempito di domande? Non mi seppi dare una risposta. Probabilmente perché non c'era una risposta. Non mi piaceva stare con lei, semplicemente non volevo stare sola per strada.
Avevo troppa paura.
- Va bene, allungo un po' la strada, ma ok- chiusi gli occhi e iniziai a ridere. Senza un motivo. Ridevo e basta.
Solo la settimana prima mi sarei sparata volentieri al posto di ritrovarli in quella situazione. Sospirai poi tornai a fissare la donna che aveva parlato. Per una volta non avevo idea di cosa potesse pensare. In genere ero brava a capire quelle cose. Alla fine annuii sperando di non pentirmi di quella scelta nell'immediato. Mi passò davanti e aprì la porta lasciandomi passare. Io rimasi immobile, non avevo intenzione di uscire per prima. Continuai a fissarla finché non decise di passare. La seguii in silenzio e così continuammo per i primi due o forse tre minuti.
Il mio cuore aveva il battito accelerato. Il respiro non era regolare. Le mani mi tremavano, ma dopo l'incidente col bicchiere era la normalità, capitava di rado che fossero ferme.
Ne chiusi una a pugno sentendo la carne cedere leggermente sotto la pressione delle unghie troppo lunghe.
“Lost between Elvis and suicide
Ever since the day we die well
I've got nothing left to lose”
Il ritornello di Nothing Left To Lose interruppe il nostro silenzio. La mia mano corse alla tasca della felpa dove l'avevo riposto. Risposi mentre quel “lose" cadeva tra di noi. Mentre la donna accanto a me mi stava guardando quasi con aria triste.
- Amore dimmi- bastarono quelle due parole perché quello sguardo cambiasse. Improvvisamente sembrò sorridere. Scostai lo sguardo da lei al cemento mordendomi un labbro.
- Oggi pomeriggio passi da me?- istantaneamente sorrisi e mi inumidii il labbro inferiore con la punta della lingua prima di tornare a morderlo leggermente.
- Se lo scooter è libero sì-
- Vuoi che passi a prenderti?- sapeva fin troppo bene quanto mi spaventasse stare sola.
- No, prima o poi dovrò uscire da sola. Oggi non ce l'ho fatta, ma posso riprovare nel pomeriggio- la sentii sussultare.
- Dove sei?- nella sua voce c'era un senso d'urgenza che da un lato mi faceva sorridere e dall'altro mi rendeva impossibile non amarla più di ogni altra cosa.
- Sono quasi in piazza ne parliamo oggi da te ok?-
- Va bene, se hai bisogno chiamami- chiuse la telefonata prima che potessi dirle altro. Finivano sempre così ormai. Non avevamo bisogno di dirci chissà cosa, passavamo talmente tanto tempo insieme che non servivano parole.
Ci capivamo senza parlare.
Bastava uno sguardo.
Un respiro.
Un gesto.
Un sospiro.
Eravamo come una persona unica. Finalmente non sentivo quel vuoto totale e invadente che aveva pervaso il mio cuore per tutta la vita.
Quel vuoto che mi aveva divorata ogni giorno di più.
Rimisi il cellulare nella tasca sperando di continuare quel po' di strada in silenzio come prima. Ovviamente non fu così.
- Mi sembravi diversa- disse la donna quasi in un sussurro. Sorrisi.
- Sono diversa- probabilmente ci riferivamo a cose diverse. O forse alla stessa cosa, ma con motivazioni diverse. Per quanto lei potesse immaginare  non avrebbe mai nemmeno sfiorato la realtà dei fatti.
- Da quanto?-
- Sono diversa o sono fidanzata?-
- Entrambe- di nuovo un sussurro. Sembrava quasi aver paura della mia reazione. In effetti non aveva tutti i torti.
- Una settimana e ormai un anno- solo quando quelle parole fuggirono dal bordo delle mie labbra mi resi conto della grandezza di ogni cosa in quella conversazione.
Guardai la donna lì accanto e mi resi conto che era quasi stupita dalle mie risposte. Quasi si aspettasse di essere congedata con parole sicuramente poco carine.
- Cosa vuol dire “prima o poi dovrò uscire da sola”? In che senso oggi non ce l'hai fatta?- quella era una domanda a cui non avrei di certo risposto. Rimasi in silenzio, ma lei restò in attesa. Improvvisamente l'aria intorno a noi si era fatta pesante e difficile da respirare.
- E poi? Vuole anche sapere quante volte faccio sesso?- ecco. La risposta che mi ero aspettata di dare fin da subito e quella che lei si era aspettata di ricevere. Restammo in silenzio finché io non mi allontanai da lei dirigendosi verso la macchina che mi stava aspettando.
- Ciao- disse piano chiaramente senza aspettarsi una risposta. La accontentati. Non ne ricevette una.
 
I trucchi sparsi sul tavolo che avrei dovuto sistemare. Lo specchio rifletteva il solito viso truccato senza sorriso. In ogni poro si leggeva chiaramente la mia paura. Ogni cosa tradiva la falsa sicurezza che avevo innalzato. Di nuovo il telefono suonò e io mi spaventai.
- Pinky hai bisogno?-
- No, volevo solo sapere come stai e cosa fai oggi-
- Sto bene e in teoria dovrei uscire-
- Hai ancora paura?-
- Non so cosa sia esattamente- mi alzai dalla sedia e iniziai a portare i trucchi nell'anta dell'armadio dove erano sempre stati. Ero sola in casa quel pomeriggio. In un giorno come un altro avrei tenuto la musica piuttosto alta. Non in quel giorno. Quelle poche parole che avevo scambiato con la donna che mi aveva accompagnata mi risuonavano in testa.
Avevo detto la verità.
L'avevo fatto con una persona qualunque.
- Sono vicina a casa tua, passo io- qualcosa dentro di me esultò. Qualcosa dentro di me si preoccupò. Non l'avevo ancora vista dopo l'astinenza.
- Va bene-
 
Aprii la portiera della macchina e mi sedetti accanto alla mia amica. Mi sorrise, ricambiai. Non riuscii a dire nulla, nemmeno lei. Eravamo tese entrambe per quella situazione. Tra di noi non c’erano mai stati momenti più imbarazzanti. Nemmeno il momento in cui avevamo fatto amicizia.
 
Ero chiusa in un bagno per i dipendenti del locale. Con me Marco, il mio fidanzato dell’epoca. Erano due giorni che lavoravo lì. Mi aveva portato le solite cose. Apparentemente niente di ché, in realtà la droga che mi sarebbe bastata per finire la serata. Era anche poco che ero in quel mondo, meno di un anno, non mi serviva molto. Quella sera intanto che era lì ne avevamo approfittato. Mancava ancora un po’ all’inizio della serata. Lui si stava rivestendo, io ero seduta ancora nuda. Non c’era abbastanza posto per rivestirci entrambi.
- È tutto dentro la borsa, ci vediamo domani sera giusto?-
- No, ci vediamo stanotte. Dormo da te perché Noe non può- alzò lo sguardo al cielo.
- Vuoi dire che mi trovo la tua roba al solito posto?-
- Sì- uscì senza dire altro. Era già un po’ che dormivo poco a casa e a seconda di dove stavo lasciavo la borsa con le mie cose dentro in giro. Quando andavo da lui la lasciavo accanto all’ingresso del garage dove i suoi lasciavano parcheggiata la macchina. Avevo fatto una copia della chiave senza che nessuno se ne fosse accorto. Appoggiai la testa contro il muro e sbuffai. Dovevo rivestirmi. Non ne avevo voglia. Mi sentivo male in quella relazione, non sapevo nemmeno perché continuavo a stare con lui.
Forse per noia.
Forse per convenienza.
- Cazzo- la voce leggermente acuta di una ragazza mi fece sobbalzare. Alzai lo sguardo e i miei occhi incrociarono per un secondo quelli azzurri di quella che aveva aperto la porta. La scrutai velocemente. Capelli lunghi biondi, occhi fin troppo chiari, magra, alta. L’ideale di bellezza di chiunque. Mi resi conto solo in un secondo momento di essere nuda. Mi chinai prendendo i miei vestiti dal pavimento mentre lei usciva e io iniziavo a ridere.
- Scusa per… beh come mi hai vista- dissi appena fuori.
- Mettiamola così: non potrò mai vederti in situazioni più imbarazzanti. Sembra un ottimo inizio. Piacere io sono Pinky, tu sei Nana giusto?-
- Sì-
- Ti ho vista ieri sera, sei brava, ma se vuoi posso darti una mano a migliorare-
 
Così era iniziato tutto e fino alla settimana prima il nostro rapporto era sempre stato ottimo. Non era pensabile che nel momento in cui una delle due stesse cercando di migliorarsi le cose tra noi peggiorassero sensibilmente. Le volevo troppo bene perché quello succedesse.
Era la mia migliore amica.
- No, basta. Non dovremo essere felici se l’altra fa dei passi avanti? È successa la stessa cosa quando tu hai smesso di bere e le cose sono tornate a posto quando hai cominciato. Non ho assolutamente intenzione di ricominciare, ma ho bisogno di te capisci? Non ti provare nemmeno a pensare alla possibilità di lasciarmi andare per la mia strada. Non se ne parla. Pinky sei la mia migliore amica. Tu ci sei sempre stata e mi hai promesso di esserci sempre-
- Adesso sembra che tu abbia bisogno solo di lei-
- Lei è la mia fidanzata, tu la mia migliore amica. Siete due persone diverse. Con te posso parlare di qualsiasi cosa. Posso lamentarmi di lei, parlare del mio passato sapendo che mi capisci e che c’eri per cui conosci bene la situazione, ridere e scherzare su cose che per lei sono fin troppo serie. Lei me la porto a letto. Mi sento a mio agio e posso fidarmi. Lei mi è rimasta accanto in ogni momento, ma non toglie nulla a ciò che hai fatto tu, anzi-
- Non sembra così-
- Però è così-
- Va bene. Dimentica tutto, amiche come prima- scesi dalla macchina lasciandole un piccolo bacio sulle labbra. Sempre la solita abitudine che non voleva andarsene.
Entrai in casa con la chiave. Sapevo che a quell’ora non era ancora rientrata. Mi stesi sul letto e mi addormentai.
 
Mi svegliò il rumore della porta che si chiudeva qualche ora dopo. Evidentemente era rientrata. La sentii sussultare entrando nella camera da letto. Avevo ancora gli occhi chiusi quando mi resi conto che era salita sul letto e si era stesa accanto a me abbracciandomi.
- Ciao Panda- mi disse appena aprii un occhio.
- Buonasera Angelo- erano i nomi con cui avevamo salvato i numeri sul cellulare. A volte era divertente usarli. Lei mi chiamava spesso così. Mi misi a sedere e lei accanto a me.
- Come sei venuta qui?-
- Mi ha accompagnata Pinky-
- Va tutto bene con lei?- sapeva che era una settimana che non parlavamo se non lo stretto necessario. Sorrisi.
- Sì abbiamo parlato. Tra le varie cose a quanto pare era gelosa di te. Ha detto che le sembra di essere ininfluente nella mia vita però abbiamo chiarito- la donna sul letto mi sorrise. Potevo benissimo vedere che stava cercando le parole per dirmi qualcosa. Sapevo anche cosa. Non sapeva come entrare in argomento.
Voleva sapere come procedeva quella strada che avevo deciso di prendere.
Ero ancora pulita?
Le mentivo?
Quanta fatica facevo ancora?
Non la aiutai. Lasciai che trovasse un modo che le piacesse per chiedermi tutto quello. Un modo per cui le avrei risposto senza aggirare il vero argomento.
Mi conosceva. Sapeva che era un mio vizio.
Evitare di rispondere a ciò che non mi piaceva.
- Come sta andando? Stai bene? Ti stai riprendendo dopo la settimana scorsa?- alla fine non l'aveva trovato un modo. Aveva provato e basta. Io, però, volevo parlarne con lei.
Volevo che fosse partecipe dei miei successi e, eventualmente, delle mie cadute.
- Sta andando bene. È difficile, non lo nego. Pensavo che coi giorni migliorasse, in realtà al momento sta solo peggiorando la situazione, ma sapevo che non sarebbe stato facile. Credo di essere pronta per sopportare tutto- i suoi occhi si velarono leggermente e mi resi conto che era sul punto di piangere.
Piangeva per me.
Per le mie difficoltà.
La mia forza.
Le mie debolezze.
La mia voglia di proseguire.
La mia paura di sbagliare.
Piangeva anche per se stessa.
La sua paura del mio cambiamento.
La sua paura di sbagliare.
Nessuna delle due sapeva esattamente cosa fare, cosa fosse giusto e cosa no. Entrambe volevamo la stessa cosa e cercavamo in un modo o nell'altro di ottenerla.
Non volevo vederla piangere. Le presi il viso tra le mani e mi soffermai a guardare il suo viso. Ogni piccola imperfezione della pelle che la rendeva la donna che amavo. Appoggiai leggermente le mie labbra sulle sue chiudendo gli occhi. Non avevo bisogno di altro se non di quel piccolo tocco per sentirmi meglio. Nessuna delle due lo fece diventare qualcosa di più. Un semplice bacio quasi troppo casto per noi. Per me. Quando la guardai i suoi occhi erano ancora tristi. Non avrei mai pensato di vederla così, non dopo tutto quello che era successo.
- Bene- aveva la voce rotta e, alla fine, una lacrima le percorse una guancia. La asciugai con un dito.
- Perché piangi?- la mia era la voce di una bambina che non capiva.
Quella bambina che era rimasta nascosta e che ogni tanto faceva capolino.
Quella bambina che a tredici anni avevo pensato di aver soppresso.
- Non lo so- constatò sorridendomi. Era un sorriso triste e, davvero, quella volta non capivo il motivo.
Avrei voluto abbracciarla, ma non mi mossi.
Avrei voluto dire qualcosa che potesse farla sorridere, ma non lo feci.
- Sai che tra pochi giorni è il nostro anniversario?- esordii alla fine cambiando completamente discorso sperando di cancellare dal suo viso quell’espressione.
- Sì e a quanto ho letto stamattina quel giorno dovrei interrogarti- una piccola risata soffocata mi sfuggì dalle labbra.
- Guarda che sei tu che inizi a interrogare quel giorno-
- Potevi sempre organizzarti per venire i giorni dopo- alzò lo sguardo come se tutto quello che stesse dicendo fosse logico e semplice.
- Meglio che io non stia a spiegarti gli accordi tra me e i miei compagni- fu il suo turno di ridere. Si morse un labbro ed ebbi l’impulso di baciarla, ma rimasi immobile.
- Sicuramente hai ragione- rispose poco dopo continuando a sorridermi.
- Perché mi hai fatta venire qui oggi?-
- Avevo solo voglia di vederti- si morse di nuovo il labbro e guardò in basso. Non mi trattenni di nuovo e lasciai che le mie labbra trovassero le sue.
 
NdA: come promesso eccolo qui pubblicato sempre oggi nella speranza di farmi perdonare questo clamoroso ritardo. In caso contrario vado a nascondermi per evitare le possibili pietre o pomodori che volete lanciarmi.
Ho una personcina da ringraziare che, per motivi ovvi, non ho potuto ringraziare prima. La mia amica fangirl Flavia con cui posso sclerare senza che mi ritenga una pazza psicopatica (almeno in parte). La ragazza da cui copio gli appunti perché sono cieca dura nonché colei con cui mi sento libera di parlare senza essere troppo giudicata. Per cui, grazie.
Alla prossima settimana (spero).
 
Al solito, mi trovate su Twitter come @Nana_Fangirl

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Capitolo 10
*** The ring. ***


~~ The ring.
 
Tre giorni dopo alla fine dell'ultima ora mi prolungai nel riordinare tutte le mie cose sul banco. Rimasi sola in aula, ero in attesa. Mi sedetti sulla cattedra, lo zaino sotto i piedi. Non aspettai più di due minuti, la porta si chiuse dietro le sue spalle. Mi arrivò davanti prima che me ne rendessi conto e mi baciò.
- Buon anniversario Panda- scesi dalla cattedra e presi lo zaino. Uscimmo da scuola senza che nessuno ci vedesse e camminammo in silenzio verso casa sua. Non le avevo risposto. Non sapevo davvero cosa risponderle. Era stupido non saperlo, non era difficile. Eppure non avevo detto nulla. Qualcosa mi bloccava e non mi permetteva di dirle nulla di sensato.
Dio, se avessi le mie cose non avrei problemi.
Cercai di scacciare quel pensiero prima ancora che potesse farsi concreto e tangibile. Non ci riuscii. Era sempre così difficile sapere che fino a pochi giorni prima la soluzione era semplice e in quel momento non lo era più. Per un istante pensai che forse l'idea di sprofondare nel cemento non era poi così male. Quasi sperati che fosse possibile e che mi succedesse in quel preciso istante.
- Com'è andata oggi?- le parole uscirono dalle mie labbra prima che potessi controllarle. Dovevo concentrarmi su altro. Non potevo continuare a sperare di morire prima di arrivare a casa sua. Mi guardò quasi stranita, ma non ribatté. Si limitò a rispondere calma come sempre.
- Al solito. Solo che ho dovuto interrogare la mia fidanzata-
- Ah sì? E com'è andata?- un piccolo sorriso le si disegnò sul viso. Cercai di convincermi che, forse, non se l'era preso per la mia innata e solita freddezza. Non sapevo esprimermi a parole.
Le parole facevano male.
Il loro utilizzo era sinonimo di sicura distruzione di ogni cosa.
Le parole avevano il potere di rendere tutto più reale.
E se tutto era reale tutto poteva  sgretolarsi.
Non volevo vedere le macerie di quella relazione.
- Bene, come al solito- provai a sorridere, ma ci riuscii a fatica. Entrammo in casa e di nuovo un silenzio teso si mise tra di noi.
- Mangiamo?- dissi in un sussurro sperando che la situazione si calmasse un attimo e che l’aria tornasse respirabile intorno a noi. Mi sentivo opprimere da quella pressione e sapevo benissimo che era lì per colpa mia.
Perché non sapevo dire due semplici parole.
Perché l’idea di rendere così reale che tra noi fosse passato un anno mi spaventava.
Perché in fondo tutto quanto mi spaventava.
Perché stare bene mi spaventava ed essere felice mi faceva tremare le gambe più di ogni altra cosa.
- Certo- rispose andando in cucina senza nemmeno guardarmi. Avrei voluto urlare, dirle che, sì, era stupido il modo in cui mi stavo comportando, ma non per questo lei doveva fingere che non esistessi, ma non dissi nulla. Mi limitai a seguirla incerta su cosa fare o cosa dire. Cercando di trattenere le lacrime e l’impulso di scappare e tornare a rifugiarmi nel mio vecchio mondo.
Diglielo, cazzo. Qual è il tuo problema? Sei stupida per caso? Cosa ci vuole a dire “buon anniversario”? Apri quella fottuta bocca e dille quelle due parole. Se la ami davvero dove sta il problema.
- Non ci riesco cazzo- urlai più a me che alla donna che stava sparecchiando il tavolo. Durante tutto il pranzo quell’odiosa voce che avevo sempre messo a tacere con le droghe mi aveva tormentata facendomi sentire malissimo. Sapevo che aveva ragione e volevo solo piangere. Dopo un primo istante di silenzio e sgomento la donna mi appoggiò una mano sul braccio. L’istinto mi urlò di spostarmi, non lo feci.
- Non ce n’è bisogno. Va bene, ci sono rimasta un po’ male, ma va bene così. Tranquilla-
No.
Non andava bene così.
Niente andava bene.
Mi alzai di scatto con la sensazione che avrei pianto da un momento all’altro, non successe. Lei era sempre così disposta a capire e perdonare tutto, io non mi meritavo tanto. Non mi meritavo quel trattamento e, soprattutto, non meritavo lei. Non meritavo niente di tutte le cose positive che mi stavano accadendo. A passo veloce andai nella stanza accanto dove avevo abbandonato lo zaino. Sentii i suoi passi dietro di me, ma si fermò non appena mi vide china sulla borsa. Dovetti frugare un po’ in mezzo ai libri. Ero in grado di tenere in disordine anche la cartella. Alla fine trovai quel foglio mal piegato e un po’ rovinato. Quando l’avevo scritto non avevo pensato di darglielo davvero invece, eccomi lì, ferma a fissare il pavimento che glielo porgevo.
- Cos’è?-
- Prendilo e basta- il mio tono era leggermente più duro di quanto avessi voluto. Non se lo fece ripetere due volte. Lasciai l’angolo che tenevo tra le dita quando sentii le sue serrarsi dall’altra parte. Alzai lo sguardo e la vidi andarsi a sedere sul divano. Andai accanto a lei con le gambe incrociate guardandola. Sapevo a memoria le parole che avevo tracciato durante l’ora di inglese.
 
Mi sto annoiando sai? Teoricamente dovrei fare inglese, ma non ne ho voglia. Come se andassi così bene da potermi permettere di fare altro eh… Ok, fai stare zitta la tua mentalità da professoressa e focalizzati sulla mia da studente più che svogliata con un odio per la materia e decisamente distratta. Distratta da tutto quanto. Da me, da te, dal mio cuore che batte, dal mio cervello che non riesce a stare zitto, dalla mia vicina di banco che cerca di parlarmi. Ogni singolo respiro di chiunque è una distrazione per me. Questo mi infastidisce per cui provo a concentrarmi qui. Su questo foglio bianco e questa penna nera che non è nemmeno mia. Sembra facile, ma non lo è. Sai non so cosa scrivere. Cosa posso dirti che tu non sappia già? Ormai mi conosci, capisci cosa penso e cosa voglio prima ancora che lo possa capire io.
Un anno. Ma ti rendi conto? È un anno che siamo fidanzate. Io non me ne rendo conto. Un anno, uno solo eppure ogni singola cosa per me è cambiata. Sei stata in grado di modificare ogni mio comportamento e anche molti miei pensieri. Hai modificato il mio modo di comportarmi e, per una volta, questo mi piace. Mi hai reso una persona migliore e io non vivrò mai abbastanza per ringraziarti. Non troverò mai le parole per dirti quanto ti sia grata e non riuscirò mai nemmeno a dimostrartelo.
Nel mio piccolo posso dire solo che spero davvero che quest’anno sia solo il primo. Posso dirti che non mi allontanerò, cercherò di fare meno cazzate e proverò a rendere questo rapporto più equilibrato. Cercherò di esserci il più possibile per te come tu ci sei stata per me.
Proverò a dimostrarti quanto ti amo e prima o poi riuscirò persino a dirlo a voce.
Buon anniversario Angelo mio.
 
Alzò lo sguardo prima che potessi rendermene conto e mi abbracciò. Quando riuscii a vederla in viso notai che aveva gli occhi lucidi. Avrei voluto poter dire la stessa cosa di me, ma non era così.
- È meglio di qualsiasi cosa avessi potuto dire-
- Mi sento così stupida- dissi portandomi le mani in mezzo ai capelli. Sbuffai. Era vero. Mi sentivo stupida. Davvero molto stupida.
- Perché?- mi prese un braccio facendomelo abbassare e prendendo la mia mano tra le sue. Rimasi zitta a fissare le nostre dita intrecciate. Chiusi gli occhi e sospirai prima di trovare le parole con cui rispondere.
- Perché non so dire due parole obiettivamente semplici-
- Va bene. Non riesci a dirle, sarebbe strano il contrario dopo tutto quello che hai passato-
- Perché fai sembrare ogni cosa normale e bella? Non lo è. Io dovrei saperti dire quello che provo e dire quant’è che stiamo insieme senza sentirmi male. L’altro giorno l’ho detto, perché oggi non ci riesco? Vorrei poterti dire tutte le cose che ti ho scritto. Vorrei poterti fare un regalo senza sentirmi svenire. Vorrei poter uscire di casa senza farmi venire attacchi di panico. Vorrei semplicemente avere una vita normale. Quella che ogni ragazza dovrebbe avere a diciotto anni-
- Questo include considerarmi una professoressa, magari stronza- alzai gli occhi al cielo.
- Sai cosa voglio dire-
- Lo so, ma se tu non avessi passato quello che hai passato non saremo qui- si alzò velocemente senza darmi il tempo di risponderle. Non aveva tutti i torti.
Se fossi stata una ragazza qualunque di diciassette anni quando l’avevo conosciuta non mi sarei trovata lì in quel momento.
Se fossi stata una ragazza qualunque lei non mi avrebbe nemmeno vista.
Se fossi stata una ragazza qualunque sarei stata fuori con le mie amiche o chiusa nella mia stanza a fare chissà cosa.
Invece ero lì e non ero una ragazza qualunque. Non lo ero mai stata e non lo sarei mai diventata. Ero una sopravvissuta.
La vidi rientrare nella stanza con un sorriso stampato in viso. In un paio di passi fu di nuovo al suo posto, accanto a me. La guardai immobile quasi spaventata dal suo sguardo sovraeccitato. Guardava da tutte le parti e contemporaneamente da nessuna. Scrutava ogni singolo particolare mentre sembrava non notare nulla. I suoi occhi sembravano correre ovunque nella stanza e al tempo stesso rimanere fermi su di me.
- Cos’hai?- la mia voce tremava e non ero nemmeno certa di voler ricevere una risposta.
L’avevo vista felice, triste, distrutta a causa mia, preoccupata, ma mai così.
Le venne da ridere, ma cercò di trattenersi con un risultato strano.
- Tieni- disse in un sussurro, quasi un sospiro. Aveva un piccolo pacchetto in mano. Non mi mossi.
- Io…- non sapevo cosa dire e non avevo ancora nemmeno sfiorato la scatola incartata. Inclinò leggermente la testa poi sorrise.
- Non ti sto chiedendo di sposarmi. Aprila e basta- allungai un mano. Tremavo. Tremavo più di quanto fosse per me normale. Afferrai il pacchetto blu con due dita e lo avvicinai al mio petto. Mi bastò un piccolo movimento con un dito per far cadere la carta sulle mie ginocchia. Dentro c’era davvero una scatola per gioielli e il mio cuore iniziò a battere. La guardai. Sembrava non vedere l’ora che sollevassi il coperchio. Io non ero certa di volerlo fare. Non le avevo preso nulla di troppo costoso, non avevo la disponibilità per farlo. Chiusi gli occhi per un istante poi alzai il coperchio. Li riaprii e il mio cuore sembrò sprofondare e saltellare allo stesso tempo. Avrei voluto essere in grado di piangere.
Piangere di gioia.
Piangere perché quello che avevo davanti era la cosa più bella che potessi immaginare.
Piangere perché ero davvero felice.
Senza filtri. Senza menzogne.
Ero felice.
Le mie pupille non riuscivano a separarsi da quei due anelli d’argento. Esattamente identici e perfetti. Due mani, un cuore, una corona. Conoscevo nei minimi dettagli ogni cosa riguardante quegli anelli. L’anello Claddagh*. Ne desideravo uno da così tanti anni che nemmeno me lo ricordavo.
- Avevo imparato a memoria anche tutto il discorso, ma ora non me lo ricordo più- la sua voce era bassa e sembrava quasi che si vergognasse di ammettere quel piccolo particolare. Io sorrisi, ma non ero poi così certa che fosse importante. Ne presi uno e lo indossai poi presi l’altro tra le dita e strinsi la sua mano.
- La mia gente, se ancora posso chiamarla così, si scambiava questo anello in segno di devozione: la corono significa fedeltà, le mani amicizia e il cuore… beh lo sai… mettilo con la punta del cuore rivolta verso di te, vuol dire che appartieni a qualcuno. Così…- le infilai l’anello al dito e sorrisi. Avevo appena citato a memoria una battuta di Buffy l’ammazzavampiri come se fosse una cosa normale. Come se venisse direttamente da me, ma nessuna di quelle parole era mia. Una parte le sentivo mie, alcune le avevo sentite così tante volte da farle diventare mie, ma altre non centravano nulla con me. Eppure mi sembrò che ogni respiro e ogni suono provenisse da me. La guardai. Anche lei sorrideva.
- Allora… ti piace?- non avevo più parole. Non sapevo neanche come fossi riuscita a fare tutta quella citazione. I miei occhi non riuscivano a smettere di spostarsi dal suo viso agli anelli. Potevo sentire il metallo ancora freddo sulla mia pelle e il mio cuore non sembrava voler rallentare il battito.
- Ti amo- nel momento stesso in cui dalle mie labbra uscirono quelle due parole mi portai una mano davanti alla bocca. Lei sgranò gli occhi e rimase in silenzio un istante.
- Ti amo anche io, ma… ce l’hai fatta. Dicevi sempre di sentirti in colpa perché non riuscivi a dire a parola nulla. L’hai detto- non riuscivo nemmeno più a capire cosa stesse davvero succedendo. Avevo detto quelle due parole. Avevo reso tutto reale, tangibile. Ce l’avevo fatta. Chiusi gli occhi e iniziai a ridere. Se ci fossi riuscita avrei pianto.
Mi alzai per darle quel piccolo pensiero che le avevo preso io. In confronto a tutto quello che stava succedendo non era nulla, ma non mi interessava. Presi il pacchetto dallo zaino e glielo appoggiai sulle ginocchia.
- È solo un pensiero e in confronto…-
- Qualsiasi cosa sia non mi interessa. Quello che importa è che siamo qui, noi due- non ero certa che quelle parole mi convincessero e mi facessero stare meglio, ma non dissi nulla. La guardai togliere la carta con calma per svelare la copertina di quel libro di cui parlavo fin troppo spesso. Lo prese in mano poi sfiorò la cornice che comparve sotto. In un anno che stavamo insieme di foto ne avevamo fatte davvero poche e una ora era lì, incorniciata.
- So che…-
- Smettila. È perfetto e finalmente lo leggo anche io- prese in mano la copia di “Nessun luogo è lontano” e iniziò a sfogliarlo. Rimasi a guardarla finchè non finì poi le presi il viso tra le mani e finalmente la baciai. 


 
 
NdA: eccomi di nuovo.. Con un giorno in anticipo anche (mi stupisco di me stessa). A questo punto non so davvero più cosa dire se non ringraziarvi, come sempre, per il tempo che riservate per leggere questa mia storia.
Grazie, davvero.
Ah… per tutti quelli che continuano a dire che li uccido ad ogni capitolo perché sono pesanti spero vi siaate goduti questo piccolo scenario quasi idilliaco.
Alla prossima settimana con l'ultimo capitolo.

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Capitolo 11
*** Ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana. ***


~~ Ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana.
 
Passati altri due mesi stavo ancora bene. In giro tra chi avevo frequentato per anni si era sparsa la voce che ero pulita e l’unica persona del giro che continuavo a vedere regolarmente era Pinky. Era sempre difficile. Lo era stato almeno le prime volte. Lei si tratteneva. Faceva di tutto per non far nulla davanti a me, ma non potevo biasimarla quelle volte che non ci riusciva. Non gliene facevo mai una colpa. Sapevo cosa passava e non avrei fatto nulla per forzarla e farla arrivare alla mia stessa conclusione. Ognuno aveva bisogno dei suoi tempi e, nonostante, la mia fosse una lotta quotidiana ero certa che non avrei ricominciato. I, grazie al cielo, pochi effetti collaterali che le droghe avevano avuto sulla mia pelle sembravano ogni giorno meno evidenti. Qualche giorno dopo la crisi avevo ripreso a mangiare regolarmente e gli ultimi sintomi erano passati. Era rimasto solo l’autolesionismo da controllare e stavo cercando di farlo. Avevo rinunciato alla lametta nei giorni di crisi e nella settimana successiva, poi avevo ricominciato. Non riuscivo mai davvero a togliermi le parole di Tommi dalla mente.
Ogni taglio ti rende più bella, ti rende più umana.
Più si avvicinava la fine della scuola più i professori si facevano insistenti facendomi sentire in colpa per quell’ultima debolezza che non riuscivo a superare.
- Cazzo, fai in modo che smettano. Io non ne posso più. Ogni fottutissimo giorno mi dicono che devo smettere. Mi dicono di essere forte. Fino a tre settimane fa non importava niente a nessuno e poi? Cos’è si sono resi conto solo ora che all’esame ci saranno commissari esterni? Hanno paura di far vedere che c’è un’autolesionista a scuola? Porca troia io non li sopporto più- sbottai un pomeriggio all’improvviso in casa della mia fidanzata. Era più di un anno che stavamo insieme e per la prima volta avevo parlato dei miei professori come suoi colleghi. Di solito nemmeno parlavamo della scuola. Era sempre assurdo pensare che lei fosse una di loro, come mi sembrava assurdo doverle dare del lei in classe. Trattenermi ogni volta che mi parlava. A volte lei sembrava non provare neanche a tenere la nostra relazione nascosta. Non capitava di rado che si rivolgesse a me chiamandomi per nome e non per cognome come con quasi tutti i miei compagni e non era nemmeno raro che si mettesse a spiegare appoggiata al mio banco che, sì, era in prima fila, ma non era nemmeno l’unico. Lei alzò gli occhi dai fogli che stava leggendo e li mise da parte sapendo che quella conversazione non sarebbe di certo durata poco.
- Ti ho già detto che ne abbiamo parlato anche all’ultimo consiglio. Abbiamo passato venti minuti a discutere di questa situazione e, sì, sono preoccupati anche per l’esame, ma io più che dire che a me personalmente la loro reazione sembra esagerata non so che fare. Mica posso mettermi a dire “sentite sono fidanzata con lei da un anno e due mesi e ormai al posto di fare sesso discutiamo di questa cosa. Quindi, visto che preferisco di gran lunga la possibilità di averla nel mio letto, smettetela di romperle le palle”-
- Non è vero. L’abbiamo fatto anche mezz’ora fa. Comunque capisco cosa vuoi dire e, ok, non puoi farci molto, ma io sono stanca di questa situazione- sbuffò.
- E allora smettila. Io capisco il discorso che mi hai fatto l’altro giorno sul tuo ex e tutto quello che vuoi, ma le possibilità sono due: o smetti definitivamente o smetti di farlo davanti ai loro occhi. Hai ragione a dire che esagerano. Danno fastidio anche a me, ma tu potresti davvero evitare di tagliarti in classe durante le lezioni-
- Ok, su questo devo darti ragione- abbassai lo sguardo di nuovo sul libro di italiano da cui avrei dovuto studiare per l’interrogazione del giorno successivo. Ne avevo davvero poca voglia, ma non potevo saltarla. Mi avevano fatto pesare quella settimana di marzo in cui ero “rimasta a casa” perché c’erano varie interrogazioni. Tutti convinti che non fossi andata per saltarle. Nessuno aveva realmente pensato che, forse, stavo davvero male.
- Senti, cosa mi chiedi all’esame?- la donna seduta accanto a me iniziò a ridere.
- Studia e stai zitta- cercai di concentrarmi sul libro, ma niente di quello che c’era scritto mi entrava davvero in testa. Ci passai sopra tre ore buone senza imparare una sola parola poi mi alzai ed estrassi quel sacchetto trasparente dalla tasca. Amavo il suo contenuto, ma non potevo più permettermi di tenerla con me.
L’ennesima, difficile ed inevitabile decisione.
Continuai a fissarla per qualche minuto senza che l’altra se ne accorse poi gliela feci scivolare accanto al braccio. Non servivano parole. La prese e non la vidi più.
Arrivata a casa eliminai qualsiasi cosa da cui potessi ricavare anche qualcosa di simile ad una lametta dai posti in cui passavo la maggior parte del tempo e, così, smisi anche di tagliarmi.
 
Il rumore del telefono svegliò entrambe. Guardai l’orario. Erano le quattro di mattina. Chiunque mi stesse chiamando non avrebbe portato buone notizie. Era agosto ed era stranamente caldo per quell’estate così piovosa. Presi il telefono senza nemmeno guardare il numero e risposi più per farlo smettere di suonare che per vera curiosità di scoprire quale ennesima notizia mi avrebbe rovinato la giornata.
- Pinky- la voce dall’altra parte era stata più veloce della mia. Solo in quel momento lessi il nome del numero che mi stava chiamando. Lily. Era dal funerale di Elli che non parlavo con lei.
- Come?- come al solito la mia reazione fu fredda e controllata. Sempre quel segno che, in fondo, la morte non mi faceva l’effetto che avrebbe dovuto fare ad una persona della mia età. I miei diciannove anni continuavano ad avvicinarsi e quella era la terza persona importante che perdevo.
Che vita del cazzo.
Mi ritrovai a pensare mentre l’altra iniziava a parlare.
- Un incidente. Eravamo fuori insieme e lei aveva bevuto. Ha insistito per tornare a casa da sola. Ha fatto pochi metri e ha tirato dritto al semaforo quando era rosso-
 
Il giorno del funerale arrivò così in fretta da non lasciarmi nemmeno il tempo di rendermi conto di quello che era successo. Avevo rivisto i suoi genitori dopo anni e sua madre mi aveva chiesto se volevo essere io a dire qualcosa per lei. “Parlava sempre così bene di te. Eri l’unica persona di cui si fidava davvero. Non posso pensare a nessun altro che parli da parte dei suoi amici”. Ero stata contenta di quelle parole, di quell’onore, ma non sapevo davvero cosa dire. Quello fu il primo funerale che affrontai senza avere lei come accompagnatrice. La prima cosa davvero importante che mi ritrovavo ad affrontare senza di lei.
La prima di tante.
Quando arrivò il mio momento avrei voluto piangere, ma non ci riuscii. Ne sentivo davvero il bisogno, ma per quanto potessi provarci il mio viso non fu percorso da nessuna lacrima. Erano ormai più di tre anni che non piangevo e la cosa non sembrava voler cambiare. Mi ritrovai davanti al microfono quasi senza accorgermene.
- Ecco io… Davvero non so cosa dire. Devo ancora davvero capire che non c’è più. Lei è stata unica per me. L’unica persona in grado di capirmi anche senza parlare. Quando avevo bisogno sapevo di poter sempre contare su di lei. Era un’amica fantastica. Lei è stata quella che nel momento in cui stavo davvero male mi è stata vicina e mi ha accolto in casa sua. Una volta, tre anni fa, mi disse una cosa che ancora non riesco a dimenticare. Usò esattamente queste parole. Le ricordo come se me le stesse dicendo in questo momento. Passerà, ti prometto che arriveranno giorni in cui ricorderai tutto questo schifo e penserai “per fortuna è passato”. Un giorno ti innamorerai di nuovo e quell’amore ti cambierà la vita. Arriverà il momento in cui ti affaccerai alla vita con un approccio diverso, magari ora non sei ancora pronta, ma te lo prometto: tutto questo succederà. Io personalmente devo ringraziarla per queste parole. Perché senza di lei non avrei mai pensato di avere ancora una possibilità. Credo che queste parole racchiudano anche quello che era lei. Lei sperava e sognava sempre che le cose sarebbero migliorate e andate bene e so che quello che ha detto a me lei lo ha provato sulla sua pelle. Lo stava provando anche nel momento in cui se n’è andata. Io la voglio ricordare così-
 
NdA: e così finisce anche tutto questo. Spero davvero che abbiate apprezzato perché per me è davvero, davvero importante tutto questo.
Grazie ancora per tutto.
Nana.

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