Un giorno, per caso

di Naco
(/viewuser.php?uid=50)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I ***


Una premessa, prima di iniziare…
Salve a tutti. Quella che vi apprestate a leggere è una fanfiction. Non nel senso che ci sono personaggi creati da altri (altrimenti non starebbe in questa sezione, no?), ma una storia fantastica che non ha alcuna pretesa se non quella di far sognare me e tutti coloro che come me, amano il Sol Levante e sognano di incontrare il proprio attore/cantante con gli occhi a mandorla preferito. Sì perché, mi sono accorta, di Notting Hill et similia ce ne sono tanti, ma pochi pensano a noi che abbiamo gusti un po’ più particolari.
Ed è da questo presupposto che nasce questa storia. Probabilmente, non avrà chissà che spunti originali e infatti non vuol certo essere un’opera con sì alte pretese; l’unico mio desiderio è che questa storia possa divertire voi, lettori, come ha divertito me, mentre la scrivevo.
Se avete visto il film da cui ho tratto il titolo, state tranquilli: con quell’opera, non c’entra assolutamente niente; anzi, io non l’ho nemmeno mai visto! XD Quindi se trovate qualche riferimento è assolutamente casuale e non voluto. Il perché l’ho scelto, non posso dirvelo però: leggete e capirete. ^^
Ah, un’ultima cosa, prima di smetterla di scocciarvi: i luoghi qui presenti, le materie qui insegnate esistono veramente; non però i personaggi, che non c’entrano assolutamente nulla con quelli reali. Quindi, non prendetevela con me, se ritrovate qualcuno che conoscete sul serio, ok? XD
Bene, credo sia ora di piantarla con queste introduzioni inutili: buona lettura!


Si ricorda che questa storia è protetta da .

UN GIORNO, PER CASO

I

Non avevo mai creduto a concetti come il destino e robe simili. Fin dall’infanzia, ero sempre stata convinta che tutto è semplicemente frutto del caso e che il destino non esiste. Se un giorno incontro qualcuno che ho sognato la notte precedente, non è colpa del destino; è solo un caso. Se sto pensando a qualcosa, è questo si avvera dopo poco, il destino non c’entra assolutamente niente; è semplicemente un caso. C’è chi dice che un evento può essere casuale, ma quando le coincidenze iniziano ad essere troppe, non possiamo più parlare di accidentalità. Sciocchezze. Due coincidenze sono due coincidenze; tre coincidenze sono tre coincidenze. Non esiste alcuna mano che guida le nostre azioni, né esiste alcun Dio che agisce dall’alto. Ne ero sempre stata convinta, e avrei continuato ad esserlo.

Fu quindi soltanto un caso se, proprio quella mattina, il telefono avesse iniziato a squillare con una certa insistenza.
“Si può sapere chi è che rompe le palle fin dal primo mattino?” sbraitai a nessuno in particolare, mentre buttavo via le lenzuola e correvo alla ricerca della mia borsa che conteneva ancora il mio cellulare acceso dalla sera precedente. Mentalmente mi maledii: ero solita spegnerlo, prima di andare a letto per evitare sgradevoli risvegli, esattamente come era avvenuto quel giorno, e qualcuno aveva pensato bene di cogliere al volo l’unica occasione che gli sarebbe mai capitata, proprio quando, più del solito, non avevo voglia di sentire nessuno.
“Pronto?” chiesi, la voce ancora impastata dal sonno.
“Oh, Stella, finalmente! Ma quanto ci metti a rispondere?”
Stella. Odiavo essere chiamata con quell’assurdo soprannome da mia madre. L’avevo sempre detestato e, a ventiquattro anni suonati, cominciava a risultare assolutamente irritante.
“Mamma, dormivo. Si può sapere che c’è a quest’ora?”
“Ma se sono le otto!”
Peccato che per me le otto è presto, pensai, soprattutto quando sei riuscita ad addormentarti meno di tre ore prima, ma preferii tenere questo pensiero per me e troncare la discussione sul nascere.
“Allora, cosa dovevi dirmi di così urgente?”
“Ehm… Stella mia, ho saputo di quello che è successo ieri. Mi dispiace tanto, Stella mia, ma vedrai che presto…”
Click.
Stizzita, chiusi la chiamata e spensi il cellulare. Certo che le voci corrono in fretta, pensai, nonostante ci separassero quasi duecento chilometri. Dovevo fare i complimenti a mia madre: avrebbe potuto fare concorrenza alla CIA, indubbiamente. Se era già a conoscenza di quello che era accaduto neanche dodici ore prima, sicuramente c’era lo zampino di Ilaria, che quanto a pettegolezzi e a complotti era seconda solo alla mia genitrice; del resto, era lei l’unica persona che oltre a mia madre sapeva.
Scossi la testa con forza. No, non era quello il momento di rimuginarci. Dovevo cercare di allontanare quel pensiero che si era affacciato alla mia mente, e in fretta anche. Se ci avessi ripensato, probabilmente non mi sarei più ripresa. E non era quello il momento di crollare. Non me lo potevo permettere. Assolutamente.


Avevo pensato di evitare di andare all’università, quel giorno. Non ero proprio dell’umore adatto per seguire le lezioni e vedere i miei compagni di corso e certamente il mio comportamento ne avrebbe risentito, portando gli altri a chiedermi cosa mi fosse successo. Tuttavia, l’idea di andare in ateneo, che la sera prima mi era sembrata così improponibile, in quel momento mi solleticava non poco: forse, seguire sarebbe stato più salutare che restare chiusa fra quelle quattro mura con quello spettro che avrebbe continuato a tormentare i miei pensieri per tutto il giorno e anche dopo.
Oddio. Non è che l’aria di una città dove c’erano più automobili che essere umani possa essere definita così buona da mettermi in sesto, ma probabilmente avevo così bisogno di vedere vita intorno a me che persino lo smog cittadino avrebbe potuto essere un ottimo toccasana. Dovevo stare davvero male, accidenti.
“Buon giorno, signorina.”
La voce di Marcello, il portinaio, mi fece sobbalzare. All’inizio, ero stata tentata di far finta di non averlo visto e di tirare dritto; ma dato che quell’uomo era stato sempre così buono e disponibile con me fin da quando mi ero trasferita lì dal mio paesino dell’entroterra per completare gli studi, che un simile comportamento mi sembrò una cattiveria gratuita. E poi, non ero stata proprio io a voler uscire di casa perché volevo vedere gente?
“Buon giorno, signor Marcello.”
“Va’ a lezione, vedo”, disse indicando la mia borsa sorridendo.
Risposi al sorriso e la mia mente corse alla prima volta che l’avevo incontrato. Ero appena rientrata dall’università, la borsa di Hello Kitty che mi avevano regalato per la maturità i miei amici, piena di libri appena acquistati in una mano, la spesa nell’altra. Ero talmente immersa nei miei calcoli su quanto avessi speso, che non mi ero minimamente resa conto di aver appoggiato la mia borsa sul piede di una persona, una volta entrata in ascensore.
“Ahia!” si lamentò infatti una voce accanto a me.
Mi voltai e dei capelli brizzolati e un paio di baffi dello stesso colore mi sorrisero divertiti: la mia faccia rossa per la vergogna doveva essere un vero spettacolo a vedersi.
“Mi scusi tanto!” biascicai, spostando velocemente il mio pesante bagaglio.
“Non si preoccupi, signorina. Tuttavia, sarei curioso di sapere cosa contiene: un paio di mattoni?”
Risi. “No, sono solo alcuni libri dell’università.”
“Oh, allora dunque è lei la studentessa universitaria che si è trasferita qui da poco!”
Annuii. “Sì, mi chiamo Mara Facchetti, lieta di fare la sua conoscenza.”
L’uomo si piegò in avanti, in un maldestro tentativo di inchino, reso ancora più incerto dall’abitacolo troppo stretto dell’ascensore: “Io sono Marcello, il portinaio. Per qualsiasi problema, non esiti a rivolgersi a me o a mia moglie. Abitiamo al primo piano”.
Era iniziata così la mia amicizia con il signor Marcello e con sua moglie: ogni domenica, nei primi mesi dopo il mio trasferimento, i coniugi mi avevano invitato a pranzo da loro e mi avevano reso partecipe della storia di tutti gli abitanti del palazzo e della loro famiglia; ogni tanto, quando la signora preparava qualche pietanza particolarmente ricercata o che magari sapeva non avevo mai assaggiato, me ne portava una porzione e io cercavo di ricambiare così tanta gentilezza come potevo, con qualche faccenda di casa o facendo la spesa anche per lei.
“Sì, ho lezione alle nove.”
“Allora buona lezione.” mi disse a mo’ di saluto e si allontanò verso il suo posto di lavoro.
“Ah, signorina…?”
Sarei mai riuscita a fargli capire che poteva anche darmi del tu, come faceva sua moglie?
“Mi dica.”
Abbassò un po’ lo sguardo, imbarazzato. “Lucia… mia moglie stasera per cena ha intenzione di preparare il polpettone. So che le piace molto, perciò, se le va…”
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che già aveva aperto il gabbiotto e si era posizionato su quella sedia che ormai occupava da più di trent’anni. Il cuore mi si strinse. Anche se non avevo raccontato niente di cosa mi fosse capitato, aveva capito subito che qualcosa era successo; tuttavia, invece di fare domande indiscrete, che sapeva potevano infastidirmi, come invece aveva fatto mia madre, preferiva lasciarmi il tempo di metabolizzare il tutto e di scegliere da sola il momento in cui avessi voluto parlare – se avessi voluto; il tutto semplicemente standomi accanto e facendomi sentire sempre la benvenuta da loro.
Era stato sempre così. Quanto ero stata bocciata ad un esame particolarmente difficile, quando avevo litigato con Ilaria… chissà come, la signora, proprio quella sera, avrebbe cucinato qualche mia pietanza preferita.
“Grazie” dissi a bassa voce, ma non ero sicura che l’avesse sentito.

Sin da piccola, ho sempre amato i treni.
Viaggiare in un vagone, a contatto con gente sconosciuta che, per una, due, tre ore della sua vita intreccia la sua esistenza con la tua, ha un che di meraviglioso: guardare il paesaggio che ti scorre accanto, mentre tu sei seduta intenta a leggere, ad ascoltare musica, o semplicemente ad origliare le conversazioni di quel vicino di posto che probabilmente non incontrerai mai più, ma che forse ha una storia così simile alla tua, che più volte ti viene la tentazione di interrompere il suo cicaleccio per guardarlo negli occhi e dire “Anche io mi sento così. La capisco perfettamente.”…
Erano queste le piccole cose che rendevano ogni mio viaggio in treno un piacevole diversivo. Per fortuna però mia madre non l'aveva ancora capito, altrimenti si sarebbe chiesta come mai non tornassi a casa più spesso, visto che per me un viaggio lungo non è un peso così grande da sopportare. E infatti era convinta che la mia decisione di vivere in un paese, lontano dalla città venti minuti di treno, fosse più dovuto a una sorta di agorafobia più che ad altro. Non che avesse tutti i torti, e io lasciai che rimanesse con questa convinzione.
C'era un solo lato negativo nel viaggiare in treno. I ritardi. E io odiavo i ritardi. Per fortuna avevo sempre un buon libro con me, a farmi compagnia. Così, diciamo, quello spiacevole inconveniente poteva essere tollerato.
Tuttavia quel giorno, il mio livello di sopportazione doveva essere ai minimi storici, perché, dopo cinque minuti dacché il treno si era fermato, avevo iniziato a tamburellare sul libro che avevo in mano, impaziente.
“Qual è il problema?” non riuscii a trattenermi dal chiedere appena intercettai un controllore.
“Pare che ci siano delle manifestazioni, oggi, e alcuni dimostranti hanno bloccato i binari a qualche chilometro da qui.” ci spiegò l'uomo.
Ovvio. Che domande stupida avevo fatto. Mancavano pochi chilometri alla stazione centrale, ed eravamo ormai in città. C'era un solo binario, quindi non era un problema di coincidenze; perciò o qualcuno aveva deciso di porre fine alla propria vita in quel tratto, o qualche cretino aveva deciso di bloccare il binario per chissà quale altra stupida ragione. Quanto a me, avrei preferito il suicidio: al massimo, la polizia poteva spostare il corpo da qualche altra parte, senza tanti problemi, mentre in questo caso avrebbe dovuto convincere delle persone a cambiare i propri piani. E se uno sta scioperando per qualcosa, non credo che si affretti a seguire una simile direttiva, no?
Mi fermai un attimo. Davvero speravo che qualcuno fosse morto piuttosto che aspettare una soluzione che non contemplasse necessariamente la dipartita di una persona? Da quando ero diventata così cinica?
Scossi la testa. Non era il momento di pensarci.
“E non potremmo scendere qui?” chiesi, già sapendo la risposta. E infatti: “Mi spiace signorina, ma è vietato. Se dovesse succedere qualcosa ai passeggeri, la responsabilità sarebbe comunque nostra.”
“Allora riportateci alla fermata precedente e fateci scendere lì, no?” propose un altro signore.
“Ma noi...”
Un altro ma e l'avrei fatto fuori. Così decisi di improvvisare.
“Senta.” lo fissai gelida, gli sguardi di tutti fissi su di me “Io ho un esame importante a cui devo necessariamente presentarmi puntuale. Qui c'è gente che lavora e che ha un orario in cui deve presentarsi in ufficio. Sappiamo tutti benissimo che in questo tratto c'è solo un binario e che quindi nessun treno può passare se noi siamo fermi qui. Se torna indietro, quindi, non c'è alcun pericolo. Il treno successivo dovrebbe essere qui solo fra un'ora – sempre se ci sarà -, perciò non vedo dove sia il problema.”
Il mio ragionamento non faceva una grinza, e tutti lo sapevano. Il controllore distolse lo sguardo e si diresse verso la sala macchina “Vedrò che posso fare” concluse.

Dieci minuti dopo, il treno si fermò in stazione. Non era la nostra fermata, ma bastava farsi una camminata di una decina di minuti per arrivare al capolinea; in alternativa, si poteva sempre prendere un pullman cittadino e ridurre quel tempo ad appena tre minuti. Tuttavia, quel giorno decisi di scegliere la prima possibilità: non avevo voglia di dover dirottare un pullman per poter arrivare finalmente a lezione. E qualcosa mi diceva che avrei davvero corso quel rischio.
Mi guardai intorno: la zona del policlinico non era lontana dall'ateneo, eppure mi sembrava di mancarci da anni: le vetrine dei negozi erano già tutte addobbate a festa e i fiorai mostravano orgogliosi i frutti del proprio lavoro a coloro che dovevano scegliere il mazzo più idoneo per il proprio laureato.
Da quanto tempo non facevo una passeggiata come quella, fermandomi davanti alle vetrine dei negozi? Mesi, probabilmente. Avevo avuto troppo da studiare, tra lezioni, esami e lavoro e ed era arrivato novembre senza che me ne fossi resa conto. La mia vita mi scorreva davanti senza che io riuscissi a fermarla per un attimo e chiedermi se valesse davvero la pena darsi così tanto da fare. Non lo sapevo, e avevo paura che la risposta sarebbe stata negativa.
Mi fermai davanti ad un negozio di articoli per la casa e mi soffermai sugli oggetti esposti senza prestare veramente attenzione a quello che avevo davanti. I miei occhi incontrarono quelli della ragazza riflessa nella vetrina e per un attimo mi chiesi se fossi davvero io: avevo lo sguardo perso nel vuoto, come se non sapessi neanche chi fossi ed ero più pallida del solito. In quel momento, mi chiesi se davvero fosse la cosa giusta andare a lezione in quello stato. Avrei sicuramente fatto preoccupare tutti.
Staccai gli occhi da una tazza raffigurante un Winnie the Pooh che sembrava chiedermi che diavolo stessi facendo, e ripresi il mio cammino, questa volta un po' più speditamente: mancavano dieci minuti all'inizio delle lezioni e non era mia abitudine arrivare in ritardo.

Ancora oggi mi chiedo se quel giorno non fossero successe troppe coincidenze perché potessi continuare a considerarle tali. E, soprattutto, se più che caso, non dovessi iniziare a chiamarla sfiga.
“Ciao Mara.”
“Che succede?” chiesi, senza neanche salutare. Ero tre minuti in ritardo e i ragazzi erano ancora fuori dall'aula. Il professor Giacobelli era un maniaco della puntualità e tre minuti, per lui, erano equivalenti a un ritardo di un'ora per una persona comune.
“Pare che oggi non ci siano lezioni”, mi rispose Luca.
No. Stavo sognando. Doveva essere un incubo. Assolutamente.
“Sembra che anche gli insegnanti abbiano deciso di partecipare alla manifestazione di oggi”.
La manifestazione che aveva bloccato il treno. Che stupida, come avevo fatto a non pensarci? Eppure ne avevano parlato anche i telegiornali da almeno una settimana.
“Ma i docenti non avevano detto che loro non partecipavano?” chiese un'altra.
“Pare che ieri ci sia stato un Consiglio di Facoltà del Senato Accademico e l'abbiano deciso all'ultimo momento.”
Fantastico.
“E quindi tutte le lezioni di oggi sono sospese?”
“Così sembra”.
Luca era sempre portatore di buone notizie, indubbiamente.
Ci guardammo senza sapere bene cosa fare: alcuni decisero di scegliersi un luogo tranquillo per studiare in pace; altri preferirono riprendere il treno per tornare a casa. Io, invece, non ero né dello spirito giusto per mettermi a studiare, né tanto meno potevo tornare a casa, visto quel che era successo in stazione. E poi, che figura ci avrei fatto se quel controllore mi avesse riconosciuta? La soluzione più giusta sarebbe stata farmi un giro in centro.
All'improvviso mi venne in mente che quella sera ero stata invitata a cena dal signor Marcello e pensai sarebbe stato carino presentarmi da loro con un piccolo regalo come ringraziamento per tanto disturbo. Probabilmente, l'attesa non sarebbe stata vana.

Forse è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere, mi trovai a pensare mentre entravo in quel negozio di articoli per la casa che avevo visto appena una mezz'ora prima. Non che non conoscessi altri luoghi più vicini all'università per poter cercare qualcosa di veramente carino, ma, mentre mi dirigevo fuori dall'ateneo, pensando a qualche negozio dove poter trovare quello che cercavo, la mia memoria era corsa veloce a quello che avevo visto in vetrina e a cui, in quel momento, non avevo prestato molta attenzione; tuttavia, il mio cervello doveva aver registrato inconsciamente quel particolare perché mi tornò subito in mente.
Senza ulteriore indugio mi diressi verso la cassa e chiesi se potevano mostrarmi quel set di tazze per il caffé in esposizione.
Non dovevano essere molte le ragazze della mia età che si recavano in quel negozio, decisi quando la commessa mi squadrò da capo a piedi, prima di decidersi a prendere ciò che le avevo chiesto.
“E' un regalo?” mi chiese.
“Sì. Per favore, potrebbe farmi un pacchetto?”
La donna annuì, ma continuò a fissarmi di sottecchi. Che diavolo avevo di tanto strano? Sì, forse non ero nella mia forma migliore, ma non era molto educato farmelo notare in quel modo!
“Scusi, signorina...”
“Sì?”
La signora mi guardò ancora un attimo, prima di trovare il coraggio di pormi la domanda fatidica “Ma lei è passata già di qui una mezz'oretta fa?”
Arrossì: dunque mi aveva notata?
“Ehm... sì. Mi ero fermata un attimo a guardare questa vetrina, perché queste tazzine mi avevano colpito molto.”
“Ah, ecco. Sa, aveva un'aria così strana che stavo per chiederle se non si sentisse bene, ma è andata via prima che potessi farle alcuna domanda.”
Oh. Prima il signor Marcello, poi questa signora. Per un attimo pensai che anche il controllore avesse eseguito la mia richiesta perché gli facevo una sorta di pena. Molto confortante.
“Capisco. La ringrazio molto, ma sto benissimo. Ero solo, ehm... soprappensiero.”
La signora sogghignò e mi si avvicinò, come se dovesse svelarmi un segreto importantissimo: “Scommetto che c'entra un ragazzo. Deve incontrare i genitori del suo ragazzo e non sa come fare!” decise, sicura di aver indovinato. Non sapevo se ridere o sentirmi offesa.
“E cosa glielo fa pensare, scusi?”
“E' raro che una ragazza della sua età venga in un negozio del genere. Di solito, si tratta sempre di giovani che devono fare un regalo a qualche suocera, o ai genitori.”
“E perché ha pensato subito ai suoceri allora?”
“Beh, perché di solito quando una ragazza viene accompagnata da un ragazzo, il regalo è sempre per i suoceri...”
Ragazzo? Quale ragazzo? Nella mia vita, se c'era un problema che non avevo, erano appunto i ragazzi. Non ne avevo, e non ne volevo, almeno per il momento.
“Quale ragazzo, scusi?”
La signora arrossì e parve finalmente rendersi conto della gaffe che aveva fatto. “Oh, mi scusi. Pensavo che... ecco... c'è quel ragazzo, lì fuori che ha l'aria di aspettare qualcuno e pensavo stesse aspettando lei...”
Mi voltai seguendo il suo indice e per un attimo non seppi che dire: davanti ai miei occhi, c'era la copia esatta di Matsumoto Shin’ichi, cantante e doppiatore giapponese.


Nota dell’autrice
Ovviamente io non conosco nessun Matsumoto Shin’ichi che sia attore o doppiatore; anzi, ho fatto una ricerca su internet, proprio per evitare di beccare qualcuno che si chiamasse davvero così. XD La scelta del nome del personaggio non è comunque casuale: Shin’ichi è un nome che io adoro (Nodame Cantabile vi dice niente? XD) e Matsumoto è il cognome di uno dei componenti degli Arashi, Matsumoto Jun, appunto, cantante e attore di dorama.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


II

C'erano due cose di cui ero assolutamente certa. Una era che quel ragazzo era Matsumoto. E l'altra che quello non poteva assolutamente esserlo. Ragionandoci un momento, avrei anche potuto pensare che potesse trattarsi di lui, se ci fossimo trovati a Milano, a Roma, o in qualche altra grande città che avrebbe potuto essere meta turistica o lavorativa per un cantante, per di più giapponese. Ma io ero a Bari. Una città abbastanza anonima, da quel punto di vista. Persino mia madre, quando le avevo detto che volevo studiare lì, mi aveva ribattuto che avrei potuto puntare a qualche altra città che offrisse qualche possibilità in più – nonostante Bari fosse la più vicina al mio paese natio. Non avevo mai visto un turista giapponese aggirarsi da quelle parti, e sicuramente non mi sarebbe capitato tanto facilmente neanche in seguito; San Nicola attirava per lo più russi, e il castello Svevo tedeschi, non certo persone provenienti da una zona così remota.
E poi, io sapevo che i personaggi famosi erano accompagnati da guardie del corpo, e non se ne andavano in giro da soli. Non che a Bari ne avesse così bisogno, visto che, in tutta la città, potevano contarsi sulle dita di una mano le persone che sapevano chi fosse Matsumoto Shin’ichi in patria; ragion per cui, effettivamente, la scorta non aveva alcun senso.
Anche io, del resto, facevo parte di quell’esigua minoranza solo per puro caso. Avevo trovato una sua foto navigando in internet alla ricerca di qualche CD di musica giapponese da regalare ad Ilaria per il suo compleanno, visto che anche lei aveva la mia stessa passione. Ricordavo di aver pensato che era davvero un gran bel ragazzo e che non sembrava essere un abitante del Sol Levante. Mi ero quasi dimenticata di lui, quando un giorno, notando l’elenco dei doppiatori di una serie che mi era particolarmente piaciuta e su cui stavo cercando del materiale, mi era balzato all’occhio il suo nome e l’avevo ricollegato alla foto vista in precedenza; così, più incuriosita che realmente interessata alla persona, avevo ascoltato alcune canzoni, scoprendo che mi piacevano molto; e da allora, ero diventata una sua ammiratrice.
In ogni caso, la signora aveva visto giusto: che fosse Matsumoto o meno, quella persona aveva tutta l'aria di cercare qualcuno, dato che si guardava in giro spaurita, come se non sapesse bene cosa fare, e mi fece una gran pena.
Pagai in fretta il mio regalo e uscii dal negozio. Ovviamente non ero io la persona che attendeva, perché non mi degnò di uno sguardo. In cuor mio, sperai che la signora avesse assistito alla scena e avesse capito che era meglio evitare di saltare subito a conclusioni affrettate – soprattutto quando poi risultano essere sbagliate.
Gettai ancora una volta un'occhiata verso il giovane e per un attimo i nostri sguardi si incontrarono. Perché, perché gli somigliava così tanto?
“Ehm… can I help you?”
Da dove mi era uscita quella domanda? Perché stavo parlando in una lingua che odiavo con un ragazzo che non conoscevo e che mi stava fissando come per dire: “Ma questa qua, cosa vuole?”
“Parlo italiano.”
Ecco, appunto. La mia prima discussione con un vero giapponese cominciava proprio bene.
“Ehm… scusa, credevo fossi un turista…” E in generale i turisti giapponesi parlano solo inglese, volevo aggiungere, ma mi fermai in tempo.
“E infatti sono un turista.”
Quel tizio cominciava a farmi innervosire. Decisamente era ora di andare e di smettere di fare una figura tanto stupida.
“Oh. Beh, scusami. Ti guardavi intorno e pensavo avessi bisogno di un aiuto. Scusami ancora.” ripetei, prima di voltarmi verso la stazione, decisa a dimenticarmi una buona volta di lui.
“Aspetta. Scusami, io… sì, cerco qualcosa. Sai dov’è l’università?”
Oh. Ecco che tutto si spiegava. Uno studente Erasmus. Ecco cosa ci faceva un giapponese a Bari. No, forse era anche più assurdo.
“Ah, sì. Vengo proprio da lì. C’è qualche facoltà in particolare che cerchi?”
“Non lo so. Cerco il professor Amani.”
Amani, Amani… dove avevo già sentito questo cognome? Chiusi gli occhi ed all’improvviso mi vidi davanti il professore di letteratura inglese che mi aveva firmato il verbale dell’esame, quasi tre anni prima. Ecco chi era.
“Ho capito, insegna inglese. Se vuoi, posso accompagnarti da lui.”
Il giapponese sgranò gli occhi incredulo: “Davvero? Non ti disturbo?”
“Non preoccuparti, mi è saltata una lezione, oggi.” tagliai corto: non era il caso di spiegargli che non aveva senso provare a riprendere il treno tanto presto, visto che era giornata di manifestazioni in tutta la città. “Solo che non so se lo troverai, dato che oggi non ci sono lezioni.”
“Non ti preoccupare. Mi sta aspettando.” rispose con una tale risoluzione nella voce, che non ebbi il coraggio di obiettare. Lo sguardo mi cadde sulla vetrina del negozio dove ero appena stata e non mi sorpresi nel notare che la proprietaria mi stava guardando con uno strano sorriso complice sul viso. Sbuffai: probabilmente stava pensando che, qualunque conclusione sbagliata avesse avuto in precedenza, la sua previsione era stata esatta.

Percorremmo i primi metri di corso Italia completamente in silenzio. Mentre camminavamo l’uno accanto all’altra, provai a studiarlo un po’ di sottecchi: più gli stavo accanto, più mi sembrava che la somiglianza con Matsumoto fosse sempre più marcata; nonostante ad un primo sguardo sembrasse il tipico giapponese – occhi a mandorla e capelli lisci e scuri – bastava osservarlo meglio in volto per notare un paio di bellissimi occhi verde scuro. Ma non era solo questo: c’era qualcosa, nella conformazione del viso, nel colore della pelle, in qualcosa, insomma, anche se non sapevo spiegarmi bene cosa, che mi portava a pensare che dovesse avere una qualche origine occidentale. Che, naturalmente, era la stessa constatazione che avevo fatto quando avevo visto Matsumoto per la prima volta. Inoltre, era più alto di me di almeno dieci centimetri e mi ricordai che, da quanto avevo letto in giro su internet, Matsumoto doveva avere più o meno quell’altezza. Ero tentata di chiedergli se non fosse davvero lui, ma qualcosa mi trattenne: sicuramente avrebbe pensato che mi ero interessata a lui e lo stessi aiutando non tanto per altruismo, quanto per farmelo amico per avere un autografo o qualcosa del genere. E, se non fosse stato lui, come era più probabile, che figura avrei fatto? Meglio evitare di pensarci.
“Sei uno studente Erasmus?” chiesi per rompere il ghiaccio. Dopotutto, era una domanda giustificata, no? Stava andando da un professore universitario, del resto.
“Erasmus? Cos’è?”
Decisamente avevo preso una cantonata.
“Studenti che decidono di studiare all’estero per un anno a cui vengono convalidati gli esami e le prove che fanno. Pensavo che lo fossi, visto che parli molto bene l’italiano e cerchi un professore universitario.”
Lui scosse la testa. “Niente di simile. Sono venuto qui semplicemente in vacanza.”
“Venire in vacanza a Bari? E cosa pensi di trovare?” chiesi.
Mi pentii subito della domanda: sapevo quanto i giapponesi fossero discreti, quindi immaginai che la mia constatazione dovesse averlo infastidito parecchio. Per un po’ non disse niente e stavo già per scusarmi con lui, quando riprese a parlare: “C’è… c’è una persona che conosco. Il professore Amani sa dove posso trovarla.”
“Ah.”
Mi astenni da ulteriori commenti, onde evitare di dire qualcosa che avrebbe potuto offenderlo.
“Conosco bene l’italiano perché l’ho studiato fin da piccolo.”
“Oh. Sapevo che in Giappone amano molto il nostro Paese, ma non credevo fino a questo punto!” scherzai.
“Beh, ci sono molti italiani in Giappone.”
Annuii distrattamente, mentre gettavo lo sguardo verso la piazza di fronte alla stazione centrale, ancora piena di manifestanti. Sospirai: non sarei tornata tanto presto a casa, quel giorno. Forse dovevo avvertire il signor Marcello…
Solo allora ricordai che, da quando avevo chiuso la chiamata in faccia a mia madre, quella mattina, non avevo più riacceso il cellulare. La tentazione di tenerlo ancora spento era forte, ma poi mi resi conto che quell’avventura inaspettata mi aveva completamente distolto dai miei problemi e che, forse, sarei stata anche in grado di sopportare una conversazione con lei su quell’argomento. Forse, eh.
Accesi il telefono e un secondo dopo me ne pentii: in meno di due minuti squillò almeno sette volte.
“Sei abbastanza cercata, noto.”
“Già.” non ero proprio in vena di scherzare: c’erano tre chiamate di mia madre, due suoi messaggi in cui mi chiedeva che fine avessi fatto e altre due telefonate di Ilaria. Esattamente le due persone che non volevo sentire. Tutta la simpatia nei confronti della mia genitrice era improvvisamente scomparsa.
“Qualcosa non va?”
“No, tutto bene.” Mentii.
Non finii neanche di parlare che il Canone di Pachelbel iniziò a riecheggiare nella strada. Lessi il nome sul display e sospirai:
“Pronto.” dissi rassegnata.
“Oh, finalmente, Stella! Dove sei? Perché hai il cellulare spento?”
“Sono all’università, mamma. Ho lezione. O pensi che devo tenere il telefono acceso anche quando seguo?”
“No, certo che no, solo che… ero preoccupata per te, cara.”
Sbuffai.
“Sto benissimo, mamma. Sono ancora viva, sono giovane e ho tutta la vita davanti. Posso provarci ancora.”
“Ma hai faticato così tanto! Mi… mi dispiace, ecco. Vorrei essere lì a consolarti…”
“Non ce n’è bisogno, te l’ho detto. Sto benissimo. E ora scusami, sta per ricominciare la lezione.” Chiusi, senza darle neanche il tempo di replicare.
Sentivo che mi stava guardando senza darlo a vedere, ma non mi fece domande e io gliene fui molto grata; tuttavia mi resi conto che avrei dovuto dire qualcosa: “Scusa per la brutta scena a cui hai assistito. Mia madre sa sempre cogliere il momento sbagliato per fare domande.”
Sorrise e un angolo del mio cervello registrò che anche Matsumoto, nelle foto, sorrideva in quel modo, ma non volli badarci. “Non ti preoccupare. Ti capisco perfettamente.”
Risposi al sorriso: probabilmente, la vita dei figli era uguale in qualsiasi parte del mondo.
Neanche due secondi dopo, il cellulare squillò di nuovo; guardai ancora una volta il display.
“Ciao, Ilaria.” Risposi con voce piatta.
“Mara, finalmente! E’ da stamattina che ti cerco!”
No, eh! Ancora un’altra allusione alla sera precedente e avrei iniziato ad urlare come un’ossessa, poco importa che la gente per strada mi avesse preso per una pazza sclerotica.
“Ilaria, sto bene, ok? Dateci un taglio, per favore! Non è successo niente di irreparabile, ci proverò ancora e ancora. E se non andrà bene, vorrà dire che non è la strada giusta per me, ok? Ma piantatela, per favore!”
Le parole mi erano uscite come un fiume in piena ed ero conscia di aver iniziato ad urlare. Non mi importava. Non mi interessava neanche che lui mi prendesse per psicopatica.
“Ehm… Mara, veramente… volevo solo chiederti se sai se domani c’è lezione.”
In un secondo, la mia furia si placò del tutto: “Eh?”
“Oggi,” proseguì lei, come se stesse parlando con una bambina di cinque anni a cui le cose andavano spiegate più volte “sapendo dello sciopero, non ho neanche tentato di raggiungere l’ateneo, ma Enrico mi ha detto di averti vista.”
“S… sì…”
“Perciò volevo sapere se si sa niente per domani.”
“Ehm… no… cioè… credo che domani estetica ci sia. Lo sciopero è solo oggi, no?”
“Saggia constatazione, Watson. Allora ci vediamo domani, ok?”
“S… sì”
Avevo bisogno di una vacanza, questo era certo.
“Mara?”
“Sì?”
“Va tutto bene. Non ti preoccupare di niente, ok?”
“Sì, hai ragione. Ci vediamo domani, allora.”
Chiusi la comunicazione e spensi il telefono: meglio evitare altre figuracce assurde per un po’.

Il dipartimento del professor Amani era al primo piano dell’ateneo, dalla parte opposta rispetto alle segreterie degli studenti. Non ero molto pratica di quella zona, visto che le aule e i dipartimenti che mi interessavano si trovavano per lo più al secondo piano; tuttavia, quello di lingue e culture europee era forse l’unico che interessava tutte le facoltà e per questo era anche molto frequentato dagli studenti che ponevano mille e più domande ai docenti.
Perciò, mentre percorrevo i corridoi che ci conducevano verso la stanza del professore, mi stupii non poco nel trovarlo quasi deserto; un secondo dopo, il pensiero che la manifestazione avesse attirato a sé anche molti studenti fu un motivo sufficiente per farmi ammettere che, in fondo, anche quel male non era del tutto nocivo.
“Siamo quasi arrivati.” Dissi. Da quando avevamo raggiunto l’università, qualcosa in lui era cambiato: non che prima fosse stato molto comunicativo, ma, all’improvviso, avevo avvertito una certa tensione nell’aria, il presentimento che qualcosa di molto importante, per lui, stesse per accadere. Probabilmente anche l’idea di avere accanto una possibile malata di mente non doveva essergli di molto conforto, ma feci finta di non pensarci.
Fu quando finalmente ci trovammo all’imboccatura del corridoio dove si trovavano i dipartimenti degli insegnanti di lingue che sentii qualcosa di caldo stringermi la mano con forza, quasi avesse paura di quello che sarebbe accaduto.
Sul momento, però, non ci badai più di tanto, perché a pochi metri da noi avevo intravisto il motivo per cui eravamo lì.
“Benedetta, perché sei qui?” stava dicendo il professor Amani ad una donna di fronte a lui, che ci dava le spalle “Ti ho già detto che te l’avrei portato, non potevi…”
“No, Saverio, non potevo. Non capisco perché non sia venuto direttamente da me, invece di chiamare te.”
“Non lo so. Ma se cerca me, non sarebbe meglio che tu l’aspettassi da un’altra parte?”
“Eccolo.” gli indicai l’uomo “Quell’uomo in giacca e cravatta è il professor Amani!”
Ma lui non parve prestare ascolto alle mie parole: era impallidito all’improvviso e fissava le due persone di fronte a noi come se avesse appena visto un fantasma.
“Haha-ue…”

Nello stesso istante in cui stavo per chiedere se avessi capito bene quello che aveva detto, o se piuttosto non fosse stato frutto della mia fantasia, la donna si voltò e ci vide.
Non ci fu bisogno di alcuna risposta: quegli occhi verde scuro, quella strana luce che vi si accese quando il suo sguardo cadde su di noi, quelle lacrime che affiorarono immediatamente, e quella tristezza velata di malinconia e di stupore furono più eloquenti di mille spiegazioni.
“Hiroshi…”
Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio, carico di cose non dette che nessuno, oltre loro due, avrebbe mai potuto capire. Istintivamente, cercai di fare qualche passo indietro, per lasciarli soli, ma qualcosa mi bloccò: abbassai lo sguardo e i miei occhi caddero sulle mie dita che venivano strinte dalle sue.
“Sei cresciuto…” stava dicendo la donna “E’… è tanto tempo che non ci vediamo.”
Hiroshi non disse niente. La sua mano strinse ancora un po’ la mia, ma senza farmi male, lo sguardo immobile e duro come il ghiaccio.
“Come stai?”
Ancora una volta il silenzio cadde tra di noi. Il professor Amani non distoglieva l’attenzione dalla donna neanche per un istante e io mi sentii sempre più fuori luogo. Dovevo andarmene. Ma come?
“Bene.”
Ancora silenzio.
Vi è mai capitato di trovarvi in una situazione alquanto imbarazzante e l’unica cosa che desiderate è che si apra una voragine che vi ingoi e vi faccia sparire da lì? Ecco, mi sentivo nello stesso modo.
Gli occhi della donna, ancora velati di lacrime, caddero su di me e si illuminarono per un attimo: “E questa ragazza chi è? La tua fidanzata?”
Sentii le mie guance diventare calde, troppo calde. “No, ecco, veramente io…”
“E’ solo una mia amica.”
Silenzio. Ancora. Nonostante fossero già passati parecchi minuti, la tensione era ancora palpabile. Troppo.
“Hiroshi, Benedetta, perché non andiamo tutti insieme a prenderci un caffè per parlare un po’? Se vuole unirsi anche la tua amica…” la proposta gli era uscita con foga, troppa. Solo in quel momento compresi quanto quella situazione fosse imbarazzante anche per lui.
“Non ora, Saverio. Ero solo venuto a dirti che, se mi cerchi, alloggio al solito albergo, più o meno fino alla settimana prossima. Adesso sono stanco e vorrei solo riposare.”
Detto questo, finalmente mi lasciò la mano e si allontanò senza aggiungere altro.


Nota dell’autrice
Ovviamente, nonostante cerchi in tutti i modi di eliminare gli errori di battitura, chissà perché, questi spuntano come funghi (e spesso ci si mette anche Word che non collabora). Un grazie speciale va quindi a Maja per avermi fatto notare alcune sviste che ho tempestivamente corretto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


III

Ero libera. Finalmente potevo andarmene e far finta che non fosse successo niente, che non avessi ascoltato nulla, che la mia vita potesse riprendere esattamente dal momento in cui ero uscita da quel negozio maledetto e che i miei piedi mi avrebbero riportato in stazione; lì, avrei aspettato che i treni fossero in grado di ripartire, e, finalmente, sarei potuta ritornare a casa e andare a cena dal signor Marcello.
Ero libera. Dovevo essere contenta. No?
Sì, dovevo esserlo; eppure, nonostante potessi andarmene di corsa da quel luogo, i miei piedi non riuscivano a muoversi. Avevo assistito a una conversazione privata, che non mi riguardava, su gente che neanche conoscevo e che invece pensava ci fossi dentro fino al collo. Dovevo scusarmi, assolutamente, spiegare la mia versione, dire qualcosa, insomma.
Ero assorta in questi pensieri e non mi resi conto che qualcuno mi si era avvicinato e mi aveva posato una mano sulla spalla.
“Ti chiedo scusa per la scena pietosa a cui hai dovuto assistere.” mi disse la signora Benedetta.
Alzai lo sguardo e incontrai i suoi occhi. Ancora una volta, rimasi stupita da quanto somigliassero a quelli del figlio e di Matsumoto. ‘Mi scusi, suo figlio è un cantante?’ avrei voluto chiedere, e a stento riuscii a reprimere l’impulso.
“No… non si deve preoccupare, signora. Sono io ad essere stata fuori luogo, non avrei dovuto ascoltare la vostra conversazione.”
“Sei la sua fidanzata?”
Anche quella volta arrossii: “No… è solo un conoscente… l’ho accompagnato qui perché non sapeva dove fosse il dipartimento del professo-” quasi mi strozzai da sola.
“Ho capito. Scusami doppiamente per la sceneggiata, allora. E’ da tanto tempo che mio figlio non mi racconta niente di sé e così pensavo…”
La voce le si spense e mi resi conto che non era il caso di restare ancora lì, visto che ormai avevo spiegato tutta la situazione.
“Credo… credo sia meglio che vada, signora. Spero che le cose con suo figlio si sistemino presto.”
La donna sorrise. Il suo stesso sorriso. “Ti ringrazio tanto. Spero di rivederti presto.”
“Lo spero anche io.” Risposi, ben sapendo che probabilmente non l’avrei mai più incontrata.

‘Sono a casa’
Ogni volta che entravo nell’appartamento dei signori Saracino era quello il primo pensiero che mi si affacciava alla mente. Che mi recassi lì per qualche commissione, che fossi ospite da loro, che li incontrassi sul pianerottolo per puro caso, sempre, quando ero in loro compagnia, pensavo che quella fosse la mia casa: l’odore dello stufato in cucina, il calore che proveniva dal riscaldamento centralizzato, il sottofondo delle voci in televisione, sempre accesa, ma quasi mai realmente vista. E il sorriso della signora Lucia, sempre così dolce e luminoso, ogni volta che mi apriva la porta o si affacciava allo stipite della cucina. Era quello il calore di una casa, quello che ormai non mi capitava più di sentire da tanto, troppo tempo, quando ero in quella che avrebbe dovuto essere la mia vera casa, ma che invece, con il passar degli anni, era diventata sempre di più il luogo in cui non volevo più tornare.
“E’ permesso? Posso entrare?”
Era una domanda retorica, e lo sapevo. Con gli anni, la signora Lucia aveva smesso di rimproverarmi per quel mio volermi sentire a tutti i costi un’ospite, quando ormai ero di famiglia, e aveva lasciato che quel mio per lei superfluo modo di fare diventasse una sorta di rito divertente.
“Vieni avanti, cara. Stavo proprio per mettere il polpettone in forno.”
“Allora io preparo l’insalata.” Esclamai posando con noncuranza il sacchetto bianco sul tavolo.
Raggiunsi la donna ai fornelli, ignorando il suo sguardo curioso che guardava il ripiano del tavolo di sottecchi.
“Cos’è?”
Gettai un’occhiata distratta alla busta e tornai ad estrarre i pomodori fuori dal frigorifero.
“Uh, quella? Niente di speciale.”
“Niente di speciale, eh?” la risata del signor Marcello riempì l’aria di buonumore. Mi ci voleva, dopo quello che mi era capitato quel giorno.
Mentre imperturbabile continuavo ad occuparmi dei pomodori, sentii la plastica che frusciava tra le sue dita e dei passi che si allontanavano da me. Ci fu un attimo di silenzio, prima che un’esclamazione di sorpresa prorompesse dalla signora Lucia.
“Ma… Mara, sono bellissime! Perché tanto disturbo?”
Le sorrisi: “Nessun disturbo. Oggi siamo scesi a Quintino Sella perché in centro ci sono stati problemi a causa dello sciopero e ho visto quelle tazzine nella vetrina di un negozio. Ho pensato che sarebbero state perfette nella vostra credenza.”
“Ci sono stati disordini, dunque?” mi chiese invece preoccupato il signor Marcello.
“Non proprio disordini. Disagi più che altro. Tra l’altro neanche i professori hanno fatto lezione, oggi.” minimizzai, decisa a tenere per me la mia avventura sul treno.
“Sì, avevo letto che alcuni atenei partecipavano. Ma non mi pareva che citassero l’università di Bari.”
“E infatti è stata una decisione presa soltanto ieri.”
Finii di condire l’insalata, mentre la signora Lucia borbottava contro questi tempi così assurdi che non garantivano nemmeno agli studenti la presenza dei docenti. Mi piaceva quel clima familiare: a loro sentivo di poter raccontare tutto, più di quanto riuscissi a fare con Ilaria.
“Quindi è tornata subito a casa?” chiese invece il signor Marcello per cambiare argomento.
“No, non potevo, visto che i binari erano ancora occupati dai manifestanti.” Mi pentii all’istante di quelle parole: la signora Lucia stava già per lanciarsi in una dissertazione di come non si potesse più stare tranquilli, che una povera ragazza come me aveva rischiato di restare bloccata a Bari e di non poter tornare a casa; così, prima che riuscisse a dire qualcosa “Sapete? Oggi ho fatto un incontro particolare.” dissi.
Il mio tentativo di dissuaderla era andato a buon fine: la signora mi guardò come per dire che aveva già capito tutto, si sedette e non si perse in chiacchiere.
“Racconta.”

“Non c’è molto da dire.” Iniziai minimizzando: non mi andava di raccontare questioni che non mi riguardavano, anche se si trattava di loro. “Quando sono uscita dal negozio in cui ho acquistato le tazzine, ho visto un ragazzo che sembrava cercare qualcuno. Così gli ho chiesto se avesse bisogno di aiuto e lui mi ha detto che doveva andare dal professore Amani. Siccome io lo conosco e non avevo niente da fare, l’ho accompagnato. Però lì la situazione è degenerata: senza sapere come, mi sono ritrovata in una discussione privata da cui non potevo andar via, e così ho dovuto sentire tutto. Vi assicuro che è stato piuttosto imbarazzante.”
“E poi?”
“Beh, poi lui è andato via abbastanza stizzito e la signora con cui ha avuto la discussione mi ha chiesto scusa.”
“Uhm. Deve essere stata un dialogo piuttosto acceso, se ti ha sconvolta tanto…”
“No, più che altro è stato molto freddo. Direi glaciale. Quei due probabilmente non si vedevano da anni, eppure lui si è comportato come se si trovasse di fronte a una perfetta sconosciuta, invece che a sua madre…”
“Sua madre?!” la signora Lucia, ormai dimentica della cena, pendeva dalle mie labbra, neanche le stessi raccontando la trama di un Harmony molto avvincente.
“Beh, credo di sì. Cioè, si somigliavano troppo per non essere madre e figlio. Avevano gli stessi occhi, lo stesso sorriso… no, non poteva essere una coincidenza. E poi l’ha detto anche lui, anche se non sono sicura di aver capito bene, visto che ha parlato in giapponese.”
“In giapponese? Mara, buon Dio, mi farai impazzire! Il ragazzo era giapponese?”
Risi: “Perché quella faccia così sconvolta? Va bene che Bari non è una meta turistica così rinomata, ma anche loro possono farci una capatina, ogni tanto.”
La signora Lucia fece una strana risatina che lì per lì non riuscii a comprendere: “Oh, ma non è per quello, cara. E’ che mi sembrava strano che tu fermassi un giovanotto, anche se aveva bisogno di aiuto. Ora mi è tutto chiaro.”
Tutto chiaro?
La mia espressione sconcertata doveva essere più che palese, perché i due scoppiarono a ridere contemporaneamente. “Avanti, Mara! Lo sappiamo benissimo che hai un debole per gli orientali, tu!”
Arrossi violentemente senza sapere cosa dire. Non che volessi tenere nascosta al mondo la mia passione per il Paese del Sol Levante e per la sua produzione animata e cinematografica, ci mancherebbe altro; tuttavia, non ero mai andata in giro a sbandierarla ai quattro venti, ecco, sapendo quanto particolare dovesse risultare il mio hobby per delle persone anziane.
“Ma voi come facevate a saperlo?”
I due continuarono a sogghignare, orgogliosi di essere riusciti, per una volta, a sorprendere me, invece che il contrario. “La conosciamo da tanto, ormai, Mara, quindi era logico che prima o poi ce ne saremmo accorti.” Spiegò il signor Marcello.
“Ogni tanto,” rincarò la moglie “quando mi aiuti con le pulizie, canticchi in una strana lingua e non ci è voluto molto per capire che doveva essere cinese, o qualcosa di simile. In un’altra occasione, invece, ti stavi mettendo d’accordo con la tua amica Ilaria su una cena giapponese, o qualcosa del genere. Non ci è voluto molto per fare due più due.”
Se possibile, il mio rossore si fece ancora più forte.
“Io… io… scusate. Non volevo tenervelo nascosto. E’ solo che…”
Non sapevo cosa dire e forse era meglio non dire niente.
“Oh, cara, ma non c’è bisogno di scusarsi. Ognuno ha le sue passioni, anche se non sempre sono condivise da tutti. Perciò, non ti preoccupare di nulla.”
La signora Lucia mi sorrise ancora una volta. Com’era diversa da mia madre, pensai. Lei, quando aveva scoperto che preferivo spendere i miei soldi in manga e giornali di cui non capiva la lingua, piuttosto che in vestiti di marca e accessori alla moda, mi aveva guardata come se fossi un’appestata, liquidando la questione con un “Ah, beh, se piace a te!” di circostanza.
Avrei tanto voluto avere loro come genitori. O come nonni. Se avessero avuto dei figli, probabilmente, li avrei invidiati tantissimo.
“Comunque, Mara, fossi in te non mi preoccuperei tanto. Probabilmente sarà solo un diverbio familiare e presto tutto si aggiusterà.”
Annuii poco convinta. Ma, in fondo, erano questioni che non mi riguardavano e quindi non aveva neanche senso pensarci.

Nonostante avessi deciso di smettere di pensare a lui, pareva proprio destino che non ci sarei riuscita. Suonava strano per me invocare qualcosa come il fato, ma era l’unica cosa che potesse spiegare tante coincidenze proprio quel giorno e proprio nella mia vita.
Dopo il mio racconto, la cena con i signori Saracino proseguì tranquillamente e la discussone verté su tutt’altri argomenti. Il signor Marcello mi informò che non avrei dovuto avere grossi problemi il giorno dopo, perché lo sciopero non avrebbe interessato altre giornate, ma che, nelle settimane seguenti, probabilmente ce ne sarebbero stati altri e mi consigliava di dare un’occhiata al sito delle ferrovie per essere certa di non avere altri problemi. Dopodiché, la signora Lucia si lanciò nel racconto appassionato di ciò che le aveva raccontato la signora del piano superiore, a proposito del marito della figlia che era stata scoperta in flagrante adulterio.
“Queste cose ai nostri tempi non c’erano.” Fu la classica frase con cui concludeva ogni volta questi racconti.
“Ma per favore, Lucia, non dire fesserie. Anche ai nostri tempi c’erano, solo che era tutto nascosto e tutti sapevano senza veramente sapere.”
“Marcello, non dire queste cose davanti a Mara.”
“Lucia, la signorina Mara ha ormai ventiquattro anni. Ti pare che si scandalizzi per una cosa del genere? E poi sei tu che hai iniziato a raccontare, non io.”
“Ma è diverso. Io stavo dicendo che una ragazza l’aveva fatto, mentre detto da te sembrava che anche noi avessimo fatto una cosa del genere!”
“Ne hai di fantasia! Signorina Mara,” il signor Marcello si voltò verso di me e io dovetti fare uno sforzo immane per evitarmi di mettermi a ridere: li adoravo quando battibebcavano in quel modo “lei che è giornalista. Secondo lei, io cosa ho detto veramente?”
“Io non sono giornalista.” Puntualizzai, anche se ormai avevo capito che per loro questo dettaglio non era importante “Però, uhm. Signora Lucia non si preoccupi: ho capito perfettamente cosa ha voluto dire suo marito...”
Il signor Marcello guardò sua moglie con un trionfale “Te l’avevo detto!” scritto a caratteri cubitali in volto e la donna mi parve un po’ rammaricata, così “Ma la ringrazio comunque per la premura: magari, se non fosse intervenuta con quel commento chiarificatore, avrei potuto interpretare male le parole di suo marito.” Mi corressi.
Stavolta fu lei a fare cenno di vittoria verso il marito. Il signor Marcello sospirò e ci scambiammo un segno d’intesa che la signora fortunatamente non vide.
“Bah. Comunque i tempi sono cambiati,” per la signora, probabilmente, il discorso non era ancora chiuso “prima di certe cose non si parlava così tanto: si sapeva, e basta. Adesso invece si urlano ai quattro venti, come se fosse una cosa positiva. Forse perché quelli in televisione cambiano marito ogni giorno e la gente vuole somigliare a loro.”
“Oh, ma il loro è solo un modo per attirare l’attenzione dei mass media. Avete notato che spesso i protagonisti del gossip sono persone o sull’onda del successo o che non si sentono nominare da un bel po’?”
“Dici?”
“Io penso di sì. Ovviamente non tutti, sia chiaro: alcuni veramente cambiano compagno ogni cinque minuti come tante persone sconosciute, ma di loro si ha notizia solo perché sono famose; magari, se la figlia della signora Fazi fosse un’attrice famosa, anche la sua storia apparirebbe sui giornali.”
“La penso come la signorina. In fondo anche loro sono persone come noi, solo che i giornalisti li inseguono dappertutto perché vogliono notizie succulente. A volte sono anche loro che si fanno scoprire in certi atteggiamenti per essere al centro dell’attenzione della gente.”
La signora annuii, anche se non sapevo se convinta dalle nostre motivazioni, oppure dalle nostre opinioni coincidenti.
“Te la immagini Clara famosa, caro? Come la Guaccero?*”
“Certo, come no. Fra qualche decina di migliaia di anni, magari…”
“Oh, come sei cattivo!”
Già, perché no? In fondo anche a me era capitato di incontrare qualche personaggio famoso che era nato in quelle zone, quindi perché non poteva trattarsi proprio di Matsumoto? Perché non potevo aver avuto quella fortuna? In fondo, come avevo detto io stessa pochi minuti prima, anche gli attori hanno una vita privata; anche loro nascono, crescono, vivono e hanno sentimenti. Perché non poteva essere lo stesso anche per lui? Avevo scoperto che il suo nome era diverso, ma non significava niente: poteva trattarsi benissimo di uno pseudonimo e non sarebbe stato certo un caso raro. Del resto, quanti giapponesi avevano gli occhi verdi e tratti somatici europei? Probabilmente era solo una coincidenza, ma poteva anche non esserlo. Mi sarebbe bastata una rapida ricerca su internet per controllare. Di solito la vita privata dei personaggi famosi non mi riguardava e i gossip non facevano per me; ma quella sera, mi ripromisi, avrei fatto un’eccezione.
“Mara, e tu cosa ne pensi?”
La conversazione intanto era proseguita e non ci avevo fatto neppure caso.
“Cosa? Scusate, ero soprappensiero.”
“Dicevo, secondo te Clara potrebbe mai diventare un’attrice?”
“Non saprei… Forse, se si impegnasse potrebbe anche riuscirci. Ma perché, vuole studiare recitazione?”
Era palese che non avevo sentito una parola della conversazione, infatti i due si guardarono e scossero la testa.

Per tutto il resto della serata, nonostante non volessi ammetterlo, il mio pensiero corse sempre più spesso a quel ragazzo. Probabilmente, se la signora avesse smesso di spettegolare sui personaggi famosi e di chiedersi se Pinco Pallino sarebbe potuto diventare un divo di Hollywood, ci sarei riuscita anche meglio. Chissà perché la lingua batte sempre dove duole il dente. Che poi il dente non era neanche cariato, ma era giusto una mia fissazione, beh, questo era un altro discorso.
Comunque, per la prima volta in vita mia da quando frequentavo quella famiglia, non vedevo l’ora di andarmene, per tornare nel mio appartamento e fare tutte le ricerche che volevo. Ma perché non ci avevo pensato prima?
Aiutai la signora a lavare i piatti e poi, con la scusa che era stata una giornata molto pesante, mi defilai piuttosto in fretta; probabilmente avevano capito anche loro che stavo pensando ad altro, per questo non mi chiesero di restare un altro po’, come facevano invece di solito. Sicuramente avevano pensato che i miei pensieri fossero corsi a quello che era avvenuto la sera precedente, e io glielo lasciai credere.
Entrai in casa mia e subito il silenzio di un appartamento vuoto, che nulla aveva a vedere con l’atmosfera calorosa di quello dei signori Saracino, mi colpì come uno schiaffo. La solitudine non mi aveva mai spaventata – altrimenti non avrei deciso di vivere da sola, ovviamente – ma quando rincasavo da una giornata in loro compagnia, non potevo fare a meno di rabbrividire per il troppo silenzio.
Accesi il computer e cercai su Google il nome di Matsumoto; un secondo dopo la ricerca mi restituì almeno dieci pagine di risultati. Sbuffai: da un certo punto di vista era positivo avere tanto materiale su cui cercare, ma dall’altra parte mi sentivo come una ladra che stava spiando la vita privata di una persona sconosciuta. Scacciai questo pensiero: se le notizie erano lì, su internet, alla portata di tutti, significava che la persona in questione sapeva che potevano essere di dominio pubblico.
Cliccai sul primo link e riconobbi subito il mappamondo di Wikipedia: probabilmente la mia ricerca sarebbe stata molto più veloce di quel che avessi previsto.
Due secondi dopo, ne ebbi l’assoluta certezza.

Profilo:
Nome (romaji): Matsumoto Shin’ichi
Nome reale (romanji): Matsuda Hiroshi
Professione: doppiatore e cantante
Data di nascita: 1981-05-05
Luogo di nascita: Tokyo. Giappone
Altezza: 180 cm
Peso: 60 kg
Segno zodiacale: toro
Gruppo sanguigno: 0
Agenzia: X

Pochi sono i dettagli della sua vita privata a noi conosciuti. Il cantante ha mantenuto sempre il più stretto riserbo sulla propria famiglia e sulle proprie attività esterne alla sua professione.
Si sa poco dei suoi genitori, a parte che suo padre è un insegnante alla prestigiosa università di Tokyo e ha origini italiane da parte materna. Ed è forse questo il motivo per cui è stato scelto per doppiare il protagonista di Nihongo no hoshi**, film animato che racconta appunto le vicissitudini di un ragazzo italo-giapponese che divenne un eroe nella seconda guerra mondiale.
Il film, che non riscosse molto successo, gli valse comunque ruoli successivi anche di notevole prestigio. Le sue abilità canore lo hanno altresì portato a incidere alcuni dischi che riscontrano un certo successo tra il pubblico giapponese.
Animazione:


Scorsi velocemente la lista dei personaggi cui aveva prestato la voce, senza prestarvi molta attenzione: la mia mente si era fermata molto prima. Matsuda Hiroshi. Non era Hiroshi che la donna l’aveva chiamato? Non potevo aver capito male anche quello. E sua madre aveva origini italiane, proprio come la signora che avevo visto in ateneo quel giorno.
Feci un rapido dietro-front e tornai su Google, scegliendo questa volta la voce immagini. Erano tutte lì, le sue foto. No, quella non poteva essere semplice somiglianza.
Io avevo incontrato Matsumoto Shin’ichi. E di questo, ormai, ero completamente certa.




* Bianca Guaccero è un’attrice italiana nata a Bitonto (paese in provincia di Bari); ecco il motivo per cui i due coniugi citano proprio lei.
* Non mi risulta che esista un film del genere, né la storia di un simile eroe. XD Perdonate l’invenzione! XD

Note dell’autrice
Ok, dai, sicuramente l’avete capito tutti: come Matsumoto Shin’ichi, anche Matsuda Hiroshi non è un nome scelto a caso: per il cognome ho preso in prestito quello di Matsuda Shota, attore giapponese che ha recitato in alcuni dorama come Hana yori dango e Liar Game; per il nome, ho scelto Hiroshi, sia perché mi piace molto, sia in onore di Tamaki Hiroshi, il cantante/attore che ha impersonato Chiaki Shin’ichi in Nodame Cantabile, le cui canzoni mi hanno accompagnato durante la stesura dell’intero racconto. Ecco, diciamo pure che mi ha ispirato il personaggio di Hiroshi! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


IV

Avrei giurato che quella notte non avrei chiuso occhio: dopotutto, quanta gente incontra per caso uno dei propri cantanti preferiti per strada, gli ruba un pezzetto di vita privata, senza essere certo di chi questi sia, per scoprire poi di non aver preso una cantonata?
Invece, inaspettatamente, la scoperta mi aveva lasciato del tutto indifferente. Nel preciso istante in cui avevo realizzato che la mia fissazione era giusta e che quel ragazzo era realmente Matsumoto, paradossalmente, mi ero reso conta di quanto poco mi importasse: probabilmente, il mio pensiero fisso era solo dovuto a una specie di sfida contro me stessa e, adesso che l’avevo vinta, che il mio fiuto di fan e di donna aveva avuto la meglio sulle statistiche, il mio ego e la mia curiosità potevano ritenersi soddisfatti. Del resto, io non ero una persona che correva dietro al proprio idolo e che si impicciava della sua vita privata; probabilmente, un vero fan mi avrebbe guardata dall’alto in basso, liquidandomi con uno sguardo di sufficienza. Se fossi stata una vera fanatica, forse mi sarei disperata per aver perso l’occasione di chiedergli un autografo o una foto; ma io non lo ero, e mi accontentavo di avergli parlato; anzi, senza volerlo, avevo scoperto qualcosa della sua vita che, probabilmente, nessun altro ammiratore avrebbe mai conosciuto. Del resto, che senso avrebbe avuto pensarci ancora? Tanto, con tutta probabilità, non l’avrei mai più rivisto.

Quella volta arrivai davanti all’aula II un quarto d’ora prima che la lezione iniziasse. Fu con una certa soddisfazione che mi accomodai al mio posto, in seconda fila, proprio dietro Luca e accanto ad Ilaria. Non c’era un motivo particolare per cui mi sedessi proprio lì; semplicemente, da quando avevamo stretto amicizia, durante il primo anno della triennale, il nostro posto era stato sempre quello, semplicemente.
“Mi auguro che la lezione oggi ci sia.” mi disse appunto Luca a mo’ di saluto; annuii anche se mi dava le spalle.
“C’è. L’ho visto che stava facendo delle fotocopie. Chissà se sono per noi.”
“Ciao Ilaria.”
Ci guardammo e le mille parole non dette che aleggiavano nell’aria, in pochi secondi, colmarono il silenzio che si era creato tra noi negli ultimi giorni. Nelle sue iridi c’era la preoccupazione, la curiosità di sapere come stessi, ma anche la consapevolezza che tutto, lo sapeva e lo sapevo anche io, si sarebbe sistemato per il meglio.
“Ciao Mara, Luca… Allora, cosa mi sono persa ieri?”
Luca fece spallucce: “Una mandria di ragazzi inferociti per l’interruzione delle lezioni, ma per il resto, niente di speciale.”
“Se aveste preso il treno con me, ieri, avreste visto come sono riuscita a far ripartire un treno fermo per la manifestazione con la sola forza delle mie parole.”
Dalle loro facce, capii che pensavano stessi scherzando, ma ci misero poco a rendersi conto che era tutto vero.
“Come diavolo hai fatto?”
Feci loro un occhiolino: “Avercela con il mondo, può avere anche i suoi vantaggi, ogni tanto.” E così mi ritrovai a raccontare la mia avventura della mattina precedente. Luca scoppiò a ridere, attirando l’attenzione di altri ragazzi in aula; Ilaria invece non la finiva più di blaterare “avrei voluto tanto vederti”.
“Cavoli, se l’avessi saputo ti avrei dato volentieri un passaggio, dato che sono venuto in macchina. Però sarebbe piaciuto anche a me vederti all’opera!”
“Già. Peccato che alla fine sia stata tutta fatica sprecata.”
“Non direi. Un uccellino mi ha detto di averti vista con un ragazzo ieri mattina.”
Arrossii al ricordo dell’avventura del giorno precedente e del suo protagonista principale.
“Cosa? E questo chi sarebbe?”
Ovviamente per poco Ilaria non mi saltò al collo per avere tutti i dettagli del caso, pensando chissà cosa.
“Ma niente, solo un ragazzo che voleva un’informazione.”
“Davvero tutto qui?” sembrava delusa, ovviamente.
“Perché, cosa credevi?”
“Sei sempre la solita, Mara. Tu per i ragazzi, proprio…”
Le feci una linguaccia scherzosa. Non era la prima volta che Ilaria mi lanciava allusioni di quel genere, ma non aveva ancora avuto la soddisfazione di vedermi capitolare.
“Eppure da quanto mi hanno raccontato, era proprio un bel ragazzo. Sei proprio sicura che non sia successo niente?”
“Spiacenti di deludervi, ma…”
Non riuscii a terminare la mia arringa, perché qualcuno entrò di corsa nell’aula per puntarmi in faccia due occhi azzurri dall’aria indagatrice.
“Ciao Enrico. Cosa succede?” chiesi, per nulla preoccupata dal suo comportamento.
“Dimmi chi è.”
“Chi è chi?”
“Avanti, Mara, non prendermi in giro. C’è un gran bel figo fuori dall’aula che ti cerca. Voglio sapere chi è.”
Un gran bel figo che cercava me?
“Ma di chi stai parlando, scusa?”
Enrico parve risentito: “E che ne so io? Mi ha chiesto se conoscessi una ragazza che frequenta estetica, con i capelli ricci e una borsa di Hello Kitty. Ne conosci altre?”
“Ma chi può essere?”
“Forse è il ragazzo che hai aiutato ieri!” scherzò Ilaria.
La guardai torva e allungai lo sguardo verso l’entrata, cercando di capire chi fosse lo sconosciuto. E fra i tanti studenti che attendevano il professore sulla soglia, intenti nelle proprio conversazioni, capii a chi si stava riferendo Enrico.
Lì, ad aspettarmi, c’era lui.

Probabilmente la sorpresa mi tolse la parola per qualche minuto, perché gli altri si affrettarono a seguire il mio sguardo. Ilaria mi agitò il braccio con foga: “Oh mio Dio, ma quello è…”
La incenerì con una sola occhiata. “Non dire niente. Ti racconto dopo.” sibilai alzandomi e dirigendomi verso di lui.
“Per una volta, sono d’accordo con te, Enrico: è davvero un bel ragazzo.” Stava commentando Luca e io non potevo dargli torto: nel cono di luce in cui si trovava, i suoi occhi risplendevano come smeraldi, mentre un sorriso incerto gli riempiva il viso.
“Ciao.”
“Ciao.”
Abbassò lo sguardo, imbarazzato.
“Come mi hai trovata?” chiesi, con un pizzico di curiosità.
Un lieve rossore gli imporporò le guance: “Ieri… mentre parlavi al telefono… non volevo origliare, ma… hai nominato la lezione di estetica, così ho chiesto in giro e ho saputo l’orario e l’aula.
“Oh…”
“Mi dispiace, non avrei dovuto…”
Scossi la testa. “No, non ti preoccupare. Scusami ancora per aver…”
“No, no…” fu il suo turno di scuotere la testa con veemenza “Sono io a dovermi scusare con te per la scenata di ieri e per essermene andato così.”
“Non è successo nien…”
“Invece no. Volevo anche ringraziarti per avermi aiutato ieri. Volevo offrirti qualcosa per sdebitarmi.”
“Ma non è necessario!”
“Per favore!” i suoi occhi verdi erano quasi imploranti.
“D… d’accordo. Però ora ho lezione. Finisco per le dodici. Ti va bene lo stesso?”
Sorrise raggiante. “Perfetto! Allora ti aspetto qui fuori, ok?”

Ovviamente della lezione di estetica non capii una parola. Avevo ripetuto in continuazione a me stessa che tutta quella agitazione non era dovuta al fatto che stessi per pranzare con Matsumoto in persona, quanto alla reazione che avevano avuto i miei tre amici una volta che ero tornata al mio posto: Luca aveva continuato a lanciarmi occhiate preoccupate anche durante la lezione, mentre Enrico sembrava che volesse strapparmi dalla mente l’identità dello sconosciuto; Ilaria, invece, mi guardava di sottecchi, le sue labbra che fremevano dal desiderio malcelato di conoscere la verità. Perché lei, a differenza degli altri due, sapeva perfettamente chi fosse quel ragazzo; anzi, era stata proprio questa nostra comunanza di interessi a farci stringere amicizia, durante il primo anno di università; un’amicizia che, tra alti e bassi, durava ormai da ben quattro anni.
“Si può sapere come hai fatto a conoscere quello lì?” mi chiese alla fine, senza farsi notare dal docente.
“Te l’ho detto!” bisbigliai, continuando a guardare il professore “Ho solo dato una mano a uno straniero che sembrava in difficoltà. Tutto qui.”
“Suppongo sia stato solo un caso se quello straniero fosse proprio…”
“E’ stato un caso, Ila,” tagliai corto, stufa di quelle domande “che tu ci creda oppure no.”
“Ma che diavolo può cercare una star giapponese a Bari?”
“Che vuoi che ne sappia, io?” mentii, tornando a prestare attenzione alla lezione in corso, decretando la fine del discorso, per quanto mi riguardava.

Appena l’ora di estetica terminò, mi precipitai fuori senza neanche aspettare che il professore uscisse dall’aula, non tanto perché avessi così tanta fretta di raggiungerlo, quanto per evitare i soliti commenti stupidi dei miei amici; ovviamente, loro dovevano aver capito esattamente il contrario, perché sentii un “Divertiti e poi raccontaci tutto, Mara!” urlato da Enrico. Non mi voltai neanche per rispondergli, ma mi ripromisi di fargliela pagare quanto prima.
Lui mi stava aspettando sulla soglia. Da quella distanza, doveva aver per forza sentito il commento del mio amico, infatti aveva uno strano sorriso dipinto sul volto.
“Allora, Mara. Dove vuoi andare di bello?”
Tossicchiai imbarazzata: “Scusalo, per favore. Se non spara fesserie, Enrico non è contento.
Rise. “Tranquilla. Tutto il mondo è paese.”
Ignorai gli sguardi degli altri e aumentai la velocità per guadagnare l’uscita il più velocemente possibile: potevano anche non sapere chi fosse, ma un giapponese dagli occhi verdi non passava assolutamente inosservato, soprattutto in un ateneo a prevalenza femminile.
“Allora, dove vuoi andare?” mi chiese nuovamente, una volta fuori dall’ateneo.
“Per me è indifferente. Non dovevi neanche preoccuparti, se è per questo.”
“Allora decido io. Ma poi non lamentarti, ok?”
Annuii, anche se poco convinta: ero sicura che sarebbe stato comunque troppo.

E ovviamente non mi ero sbagliata: dove avrebbe potuto portarmi una persona che guadagnava tanti soldi quanti io non ne avrei mai visto in dieci vite, se non in un ristorante lussuosissimo come quello in cui stavamo entrando? Non c’era neanche bisogno di guardare il menù per sapere che lì una pietanza costava più di un intero pranzo in un qualsiasi posto normale. Non era necessario neanche entrarci, per rendersene conto: basta osservare, tramite la porta a vetri, il candelabro in oro massiccio, per comprendere che in quel posto era meglio non mettere piede.
“Non conosci nessun posto più… ehm…”
“Avevi detto che non ti saresti lamentata qualunque cosa avessi scelto.” puntualizzò lui.
“Ma questo ristorante è troppo! Non ho neanche un abito decente!” protestai, indicando i miei jeans, le scarpe da ginnastica, il giubbotto nero e i ricci castani legati in una coda neanche ben acconciata…
“Matsuda-san!”
Ci voltammo simultaneamente, mentre un uomo di mezza età, chiaramente giapponese, ci veniva incontro sorridendo.
“Hoshino-san! Konnichi wa!”
I due uomini si inchinarono, ma io non mi mossi, onde evitare di fare qualche gaffe: sapevo perfettamente che ogni inchino ha un’angolazione diversa a seconda della situazione e della persona a cui ci si rivolgeva, e non avevo intenzione di far fare una figuraccia al mio accompagnatore.
“Questo signore è Hoshino-san, il proprietario del ristorante, ed è un mio grande amico.”
“Salve. E’ un piacere conoscerla, jou-san*.” Mi tese gentilmente la mano.
“Il piacere è tutto mio, signor Hoshino.” Risposi.
“Quindi, come vedi…” mi spinse gentilmente verso l’interno “Non hai nulla di cui preoccuparti.”

Non ricordo cosa diavolo ci fosse nel mio piatto: ero troppo frastornata per chiedermi che cosa stessi mangiando. Una parte del mio cervello registrò che era cibo giapponese che avevo visto tante volte negli anime, ma che non avevo mai assaggiato; l’altra, invece, era entrata in loop e non faceva altro che ripetere sono seduta in un ristorante giapponese costosissimo e sto pranzando con Matsumoto Shin’ichi.
“Vedo che te la cavi con le bacchette.”
Solo in quel momento mi resi conto che mi stava fissando; arrossii.
“Sì. Mi piace la cucina cinese e qualche volta io e i miei amici andiamo a pranzo al sushi bar vicino all’università.”
“Oh. Quindi ti piace la cucina giapponese?” mi chiese stupito “E io che volevo farti provare qualcosa di diverso!”
“Ma infatti è qualcosa di diverso: al sushi-bar preparano solo sushi, maki, zuppe di miso e sashimi.”
“Ah però!”
“Ovviamente non è che possiamo permetterci di andare troppo spesso, visto quanto costa, Diciamo che è il luogo delle occasioni speciali, come lauree o compleanni. Una volta, provammo a preparare del sushi a casa:” risi al ricordo “ci mettemmo cinque ore e alla fine faceva schifo.”
Rise anche lui.
“Se vuoi, chiedo al mio amico di spiegarti come si prepara.”
“Credi davvero uno chef spiegherebbe a me i suoi segreti? Sarebbe un suicida, visto che perderebbe possibili clienti.”
Rise ancora. Mi piaceva la sua risata, mi faceva sentire a casa. “Forse hai ragione.”
“Sai? Una volta Enrico provò a sedurre il cameriere per farsi rivelare la ricetta. L’unico risultato fu che il poveretto chiese a un collega di sostituirlo.”
“Enrico?”
“Il ragazzo a cui hai chiesto di me. E’ omosessuale.”
“Ma il cameriere probabilmente non lo era.”
“O forse era fidanzato. Fatto sta che da allora, ogni volta che lo vede, si defila sempre, il poverino!”
“Non gli do torto, sinceramente. E tutto per imparare a cucinare il sushi?”
“Beh…” abbassai lo sguardo, imbarazzata “Forse a te che sei giapponese non dovrei dirlo, ma il mio sogno e quello della mia amica Ilaria è quello di conoscere un vero giapponese che ci insegni la lingua e a preparare il sushi.”
“Allora è per questo che mi hai aiutato ieri?” scherzò lui “Devo deluderti, però: al massimo potrei insegnarvi il giapponese, perché il sushi lo mangi soltanto.”
“Pazienza. La prossima volta sarò più fortunata.”
“Piuttosto…” il sorriso scomparve dal suo volto e mi guardò dritto negli occhi “Ti devo delle spiegazioni per quel che è successo ieri.”
“Non serve. Ad ognuno i suoi segreti. Ero io a non dover ascoltare, quindi la colpa è mia.”
“No. Sono io che ti ho impedito di andar via. Me ne rendo conto e mi scuso profondamente. Immagino che dev’essere stato imbarazzate.”
Cadde il silenzio. Forse stava solo riordinando le idee, oppure, semplicemente, aspettava una mia domanda.
“Però… è stato strano. Quando ho sentito la tua conversazione con tua madre, ho capito che io e te eravamo simili e che potevi capire quello che stavo provando. Per questo, quando mi sono trovato faccia a faccia con mia madre, mi sono sentito sperduto e, istintivamente, mi sono aggrappato all’unica persona che in quel momento sapevo essere più simile a me.”
“Ho capito…”
“Ed è per questo che voglio sdebitarmi con te raccontandoti tutto quanto.”


* jou-san significa signorina.

Note dell’autrice
Prima che qualcuno me lo chieda: non mi risulta che a Bari ci sia davvero un ristorante giapponese così costoso; sì, è possibile trovare sushi bar vari (più o meno costosi), ma nessuno ai livelli del ristorante di Hoshino-san! XD
Un immenso grazie a Lorusgra per avermi fatto notare un’incoerenza che inizialmente non avevo notato. Arigatou!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V ***


V

"Here's a story about a little guy that lives in a blue world."
(Blue – Eiffel 65)


Nella stanza era calato un silenzio carico di tensione. Non mi ero neanche accorta che eravamo soli, finché non l’avevo avvertito avvolgermi completamente.
“Mio padre è giapponese, come avrai intuito, e mia madre è italiana. Si sono conosciuti quando lui era venuto in Italia per migliorare la conoscenza della lingua. Per arrotondare, riuscì a trovare lavoro in una pizzeria della zona. Mia madre era la figlia del proprietario.
Si innamorarono, così decise di seguire mio padre in Giappone, nonostante i suoi genitori non fossero assolutamente d’accordo: cosa avrebbe potuto fare lei, in una terra sconosciuta, senza sapere neanche la lingua? Ma mia madre non ascoltò il consiglio dei suoi genitori e mollò tutto per andarsene con lui.”
“E’ difficile per un italiano vivere in Giappone” mi trovai a commentare mio malgrado “c’è una mentalità completamente diversa dalla nostra.”
Un istante dopo me ne pentii: “Scusa, non volevo…”
Lui scosse la testa: “Vedo che del mio Paese tu sai più di quanto pensassi. Sì, mia madre si rese subito conto che la vita per lei non sarebbe stata così semplice: era uno spirito libero e non avrebbe mai potuto comprendere il modo di vivere di una classica casalinga giapponese. Provò anche a cercarsi un lavoro, ma lei non era abituata ai ritmi giapponesi, così dovette rinunciare.”
Sbuffai. L’avevo sempre pensato che noi italiani avremmo dovuto imparare un po’ dai giapponesi, quanto ad applicazione e dedizione al lavoro. Non che pensassi al Giappone come un’isola felice dove tutto è perfetto, ci mancherebbe altro: erano tanti i lati di quel Paese che, da occidentale, non avrei mai potuto comprendere né accettare.
“Probabilmente mia madre sarebbe tornata subito indietro, se non fosse rimasta incinta di me. Allora capì che doveva restare per dare una vera famiglia a suo figlio. Eppure, lei non dimenticò mai le sue origini e per questo mi educò come un vero sangue misto: mi fece imparare l’italiano fin da piccolo, mi inculcò la mentalità occidentale e mi fece assaggiare la cucina italiana. Contemporaneamente, lasciò che mio padre mi insegnasse ad essere un vero giapponese. ‘Non dimenticare mai le tue origini, Hiroshi’ mi diceva ‘Così potrai essere felice ovunque andrai’.
“Da piccolo, non riuscivo a capire il perché di tutto questo: assorbivo quello che mia madre mi diceva senza realmente rendermene conto. Poi, crescendo, ho imparato a capire cosa provava veramente e, in un certo senso, l’ho odiata.”
“L’hai odiata? E perché?”
“Vedi, non è facile essere un sangue misto: non sei mai accettato completamente dai tuoi compagni di scuola e i bambini, quando venivo in Italia dai nonni, mi guardavano con sospetto. Inoltre, quando ero piccolo, non riuscivo a capire perfettamente cosa fare e cosa no: a volte, davo un bacio a una bambina che mi stava particolarmente simpatica, senza sapere che non potevo, oppure mi inchinavo se un amichetto italiano mi prestava qualcosa o mi salutava, suscitando la sua ilarità. Una volta, un bambino si aggrappò alla gonna della mamma e mi indicò dicendo ‘Quel bambino è strano’.”
“I bambini sanno essere davvero crudeli, a volte.”
“E’ per questo quindi che, quando compresi perché mia madre mi aveva insegnato quelle cose, cominciai ad odiarla: ero un bambino strano per tutti. A volte sentivo di non appartenere a un mondo ben preciso e pensavo che nessuno mi volesse bene. Così mi chiudevo nella mia stanza e piangevo. L’Italia e il Giappone sono più simili di quel che si crede, in fondo: in Giappone lo strano è visto con sospetto; qui anche, ma non viene ammesso pubblicamente.”
Annuii: aveva ragione, la pensavo esattamente come lui.
“Beh, ma poi sei cresciuto. Penso che questo risentimento verso tua madre sia passato… no?”
“Forse. Non ero ancora troppo maturo quando se ne andò e mi lasciò con mio padre.”
Rimasi con le bacchette a mezz’aria e la bocca spalancata. “Come?”
“Mio padre insegna italiano all’università. Un giorno, forse per far contenta mia madre, portò a casa un suo collega che insegnava inglese. Era italiano, ma non ricordo perché, venne ad insegnare in Giappone per alcuni anni.”
“Quindi…”
“Sì, hai capito bene. Quell’uomo era Amani. Mia madre aveva finalmente trovato qualcuno come lei, con cui parlare dell’Italia e in italiano, con la sua mentalità e che conosceva le tradizioni di questo Paese. Era logico che se ne innamorasse, e lo capisco. Ma…
Avevo dodici anni quando, una mattina, mi alzai da letto e non la trovai più. C’era solo un biglietto al suo posto. E questo non potrò mai perdonarglielo.”
Tacque, e io con lui. Era più che logico che odiasse sua madre e che non volesse più saperne di lei. Anche io, in fondo, detestavo la mia genitrice perché era stata poco madre e poco moglie, troppo presa dalla sua carriera di stilista per badare a me e a mio padre. Eppure lei non mi aveva lasciata; era stato mio padre, quello che mi aveva abbandonata. Ma lui non aveva potuto fare altrimenti,
Scacciai quel pensiero: non ero lì per parlare di me e dei miei rapporti con i miei genitori.
“Mio padre nel frattempo si è risposato e ha una famiglia felice. Non ha mai odiato la mamma per quello che ha fatto, forse in cuor suo sapeva che sarebbe finita così; anzi credo che si sia sentito più leggero, quando lei è andata via: anche lui avvertiva la sua sofferenza e si sentiva in colpa per non essere stato capace di aiutarla né di capire subito quello che sarebbe successo. E forse anche per questo ho continuato a detestare la mamma per tutto questo tempo: aveva reso infelice l’uomo e il figlio che aveva detto di amare.”
“Davvero non l’hai più vista fino ad oggi?”
“Più o meno. Con la famiglia di mia madre ho mantenuto sempre buoni rapporti. Sono venuto spesso in Italia a trovare i nonni e, anche dopo che lei è scappata, mio padre mi ha portato qui in Italia: anche lui in fondo era molto legato a loro. Ora che posso viaggiare da solo, vengo quando ho un po’ di tempo. Così è capitato qualche volta che ci incrociassimo, sia quando venivo con mio padre che adesso, ma non ci siamo mai detti molto. Un po’ come ieri, in fondo.”
“Come mai cercavi l’ateneo, allora?”
“E’ stato Saverio a chiedermi di passare da lui; probabilmente mi voleva parlare della mamma; sicuramente gliel’ha detto il nonno: loro due hanno sempre cercato di farmi riappacificare con lei, in tutti questi anni. Deve averlo scoperto ed è venuta a cercarmi.”
Annuii: capivo perfettamente come si sentisse. Non esagerava quando diceva che sentiva una strana sintonia tra noi due, perché la percepivo anche io. E tuttavia, nonostante lo comprendessi più di quanto lui potesse credere, mi rendevo conto che quella donna amava veramente suo figlio: l’avevo intuito dai suoi occhi, dalla gioia che aveva provato incontrandolo e dal dolore che vi avevo letto nel momento in cui lui era scappato via, lasciandoci soli. Sì: quella donna era stata egoista e si era comportata da pessima madre, ma amava incondizionatamente il suo bambino.
“Eppure, io credo che tua madre ti voglia davvero bene.” Azzardai.
“Dici?” il suo sorriso era ironico, stavolta. “Non come ama il suo Paese, però. Hai notato che mi ha parlato direttamente in italiano? Così come ha sempre fatto anche quando ero piccolo e papà non c’era. No, mia madre non mi ama; può provare dell’affetto per me, ma non certo come si dovrebbe voler bene al proprio figlio.”
Il suo sorriso si fece ancora più triste e un lampo di amarezza attraversò il suo sguardo.
No, lui non odiava sua madre, mi resi conto in quel momento, ma quello che lui era per colpa di quella donna, il suo essere sangue misto, quella lingua che parlava, quel Paese che gli aveva rubato la sua famiglia, nonostante gli fosse in un certo qual modo figlio. Ecco perché mi aveva portato in un ristorante giapponese e non in un semplice locale italiano. Era solo l’amore che provava verso i suoi nonni che lo avevano spinto a tornare in quella Terra tanto odiata.
Cosa potevo dirgli? Nulla, perché io ero come lui. Continuai a mangiare un’altra anonima pietanza, senza aggiungere altro.
Probabilmente aveva compreso come mi sentissi, perché, dopo un buon minuto di silenzio “Scusami” mi disse “Non avrei dovuto raccontarti queste cose. Sicuramente, ti sarai solo annoiata. Gomen nasai." Concluse, inchinandosi leggermente verso di me.
“Non mi sono annoiata” Anzi, non mi sarei mai aspettata che anche le star avessero un passato così complicato, aggiunsi a me stessa. Aveva ragione il signor Marcello nel dire che anche loro, in fondo, erano persone come noi, soltanto con qualche milione di euro in più nel conto in banca.
“Però?”
“Perché dovrebbe esserci un però? A volte si è così presi dai propri problemi, che ci si dimentica che anche lo sconosciuto che ti passa accanto, o che è seduto di fronte a te nel treno, può averne, forse anche più gravi dei tuoi.”
“Anche tu hai un problema che non vuoi rivelare a nessuno.”
Non era una domanda, ma una constatazione.
Non risposi. Come mi diceva sempre Ilaria, io ero brava a capire gli altri, ma quando si trattava di affrontare le mie paure, ero proprio una frana. E lui dovette averlo intuito, perché cambiò argomento: “Allora, cosa fai di bello nella vita?”
“Studio editoria e giornalismo.”
“Oh. Quindi vuoi fare la giornalista?” chiese. Ero paranoica io, o avevo visto davvero un che di allarmato nel suo sguardo?
“No. In realtà a me piace la critica.”
“Critica?”
“Sì, per esempio consigliare un romanzo, oppure dire la mia su uno spettacolo teatrale… preferisco l’ambito culturale.”
“Oh, bello!” Era ancora una mia impressione quel rilassamento dei muscoli che mi era parso di avvertire?
“Scrivere mi piace. Ogni tanto collaboro con un periodico locale per mettere qualcosa da parte.”
“E cosa scrivi?”
“Recensioni, racconti, favole… la cronaca ed i pettegolezzi non mi interessano.”
“Una scrittrice, insomma!”
“Seh, magari!”
“Ma ti piacerebbe.”
Annuii: sì, per il mio sogno, ma probabilmente sarebbe rimasto tale per sempre.
“Perché non provi ad inviare qualche racconto a qualche casa editrice?”
Boccheggiai. Come aveva fatto quel ragazzo a raggiungere quella parte del mio cuore a cui avevo concesso di accedere a pochissime, fidate, persone, senza che me ne fossi resa conto? Perché, nel giro di due domande, era riuscito a portarmi su quegli argomenti di cui non volevo assolutamente parlare?
Anche questa volta comprese il mio disagio e non disse nulla; si alzò e “Torno subito” aggiunse.

“Possiamo andare.”
Non l’avevo sentito arrivare, persa com’ero nei miei pensieri; solo quando me lo trovai davanti, mi resi conto che avevano già sparecchiato.
“Uh?”
“Vuoi restare qui fino a stasera?”
Arrossii e lo seguii velocemente fuori da locale. Il signor Hoshino ci salutò con un inchino e mi rivolse un sorriso che forse voleva dire qualcos’altro, ma che non riuscii a interpretare.
Fuori faceva freddo; le nuvole avevano ricoperto il cielo e si era alzato il vento. Nascosi il viso nella sciarpa e non parlammo più, ognuno perso nei propri pensieri sulle verità rivelate e su quelle che invece avevamo lasciato nel nostro cuore, mentre le folate di vento ci schiaffeggiavano con violenza.
“Fa freddo.” Commentai.
“Ma no. Tokyo è molto più fredda in questo periodo.”
“Eh già. La famosa neve a Natale.”
Rise: “Non pensavo che gli anime fossero così educativi.”
“Oh, invece lo sono molto.”
“Davvero? Non ne sono un appassionato, veramente.”
“Oh. Allora cosa fai nel tuo tempo libero?”
“Leggo.”
Mi fermai. “Leggi?”
“Perché sei così sorpresa? Pensi che io sia un ignorante?”
“No, no…non hai la faccia di un lettore, ecco.” E soprattutto un cantante che legge non riesco ad immaginarmelo.
“Ah sì? E che faccia avrei?”
Di un cantante. “Non so… di un giocatore di tennis, per esempio.”
“Mi spiace deluderti, ma non conosco neanche le regole del gioco.”
“Peccato.” Mi finsi contrariata.
Eravamo arrivati davanti alla stazione senza neanche accorgercene. Mi fermai e lui mi imitò.
“Io sono arrivata.”
“Ah. Dunque non sei di qui?”
“Per la verità no. Sono una studentessa fuori sede e abito in un paese nelle vicinanze.”
“Capisco. Quindi… devi andare?”
Estrassi il cellulare dalla tasca e guardai l’ora sul display. “Sì. Il mio treno parte fra dieci minuti.”
Lui indicò il telefono nella mia mano. “Posso?”
Glielo tesi senza capire e digitò qualcosa: “So che non dovrei, dato che non ci conosciamo molto, però… se magari hai voglia di parlare un po’, o vuoi che ti insegni un po’ di giapponese,” ridemmo “sappi che puoi contare su di me. Non potrò mai ringraziarti abbastanza.”
“Non ho fatto niente…”
Non rispose, ma mi restituì il cellulare prima di voltarsi e allontanarsi verso il traffico cittadino. Guardai lo schermo e vi lessi una serie di cifre che rappresentavano il suo numero di telefono.

Quindici minuti dopo il mio rientro a casa, il Canone di Pachelbel allietò il mio appartamento. Non guardai neanche per sapere chi fosse: solo una persona poteva chiamarmi a quell’ora, proprio quel giorno.
“Mara, devi raccontarmi tutto!” esplose la voce della mia amica, distruggendomi un timpano, non appena aprii la chiamata.
“Ciao Ila.”
“Smettila di essere così tranquilla, Mara! Non ti sopporto quando fai così! Allora, dimmi tutto!”
“Tutto cosa?” decisi di tenerla sulle spine ancora per un po’.
“Insomma, Mara! Matsumoto Shin’ichi si presenta all’ateneo di Bari per parlare con te, ti porta fuori da qualche parte, e tu mi chiedi tutto cosa?”
Ok, era arrivato il momento di smetterla di giocare, decisi.
“Non è successo nulla di particolare: mi ha soltanto offerto un pranzo per ringraziarmi per l’aiuto che gli ho fornito ieri.” Decisi di non sbottonarmi più di tanto.
“Ok, ok. Ammettiamo pure che ti ha solo invitato a pranzo. Avete parlato, no? Di cosa?”
Della sua vita privata. “Di niente in particolare: dei miei studi e delle differenze tra il clima nostro e quello di Tokyo.”
“Gli hai parlato dei tuoi studi? Gli hai detto che sei una giornalista?” sembrava sconvolta.
“Tanto per cominciare, non sono una giornalista, e tu dovresti saperlo meglio di me. E comunque, sì, gliel’ho detto.”
“E lui come ha reagito?”
Secondo me ci è rimasto, ma quando gli ho detto che preferisco scrivere racconti si è rilassato subito. O almeno, a me è parso così. “Non ha detto niente.”
“Come niente?! Hai idea di quante ragazze avrebbero fatto carte false per essere al tuo posto e quante si sarebbero già fiondate in redazione?!”
“Non io. Per me era solo un turista.”
“Oh. Vuoi forse dire che non vi rivedrete più?”
“Boh…” il mio pensiero corse al nuovo numero in rubrica “Non lo so. Però mi ha lasciato il suo numero.”
Dall’altro capo del telefono ci fu un silenzio troppo prolungato, tanto che pensai che fosse caduta la linea.
“Ila…?”
“TI HA LASCIATO IL SUO NUMERO DI TELEFONO?!”
Allontanai il cellulare dall’orecchio e feci un balzo per lo spavento: “Ila, cavolo, non urlare!”
“Mara, ma sei scema? Matsumoto Shin’ichi ti dà il suo numero di telefono e tu ti comporti come se non fosse successo niente?!”
Non mi comportavo come se non fosse successo niente, solo che lei non poteva saperlo. Per tutta la durata del viaggio, e anche dopo, mi ero chiesta che significato avesse avuto per lui quel gesto e mi ero convinta che fosse stato solo un segno di gratitudine nei miei confronti.
Intanto, la mia amica stava continuando a sproloquiare al telefono: “Non ci posso credere! Davvero non capisci cosa significa? Sei una giornalista, eppure ti ha lasciato il suo numero di telefono: gli piaci!”
E come al solito saltava subito alle conclusioni.
“Ila, adesso non incominciare…”
“Non incomincio un bel niente. Lui si è fidato di te, non te ne rendi conto?”
“Ila, forse non hai capito: lui non sa che io so.”
Silenzio. Ancora.
“Come?”
“Lui. Non. Sa. Che. Io. So. Chi. E’.” scandii bene.
“Scusa, fammi capire bene: tu non gli hai detto che sai che è un cantante e un doppiatore?”
“Sì.”
“E perché?”
Come perché? Perché non c’era stato modo di dirglielo, e poi, anche se ci fosse stato, non ne avrei mai avuto il coraggio, dopo aver ascoltato la sua storia.
“Perché non è capitato, Ila. Mica potevo dirgli ‘Ah, so che sei un personaggio famoso’. Se lui non ha voluto dirmelo, avrà avuto le sue buone ragioni, no?”
Ilaria mugugnò qualcosa che sembrava un sì.
“Comunque, tu cosa hai intenzione di fare? Lo richiamerai?”
“Non lo so. Ci penserò.”
Era vero.

Avrei dovuto capire subito che la questione non sarebbe finita lì. Se ci avessi pensato prima, avrei evitato di andare all’università, il giorno dopo. Tuttavia, mentre facevo finta di non notare gli sguardi curiosi delle ragazze che erano state presenti ad estetica del giorno precedente, scossi la testa: per me, andare a lezione, era più di un dovere che facevo verso me stessa, per non avere poi problemi quando mi sarebbe toccato studiare; era un piacere. Ero capace di presentarmi in aula con la tosse e una febbre da cavallo, figuriamoci per una ragione talmente stupida.
“Mara!” Enrico mi venne incontro raggiante “Devi dirmi tutto!”
“Eccone un altro” pensai mio malgrado. Se non fosse stato omosessuale, avrei giurato che lui e Ilaria sarebbero stati una coppia perfetta, dato che erano così simili.
“Lasciala un po’ in pace, dai!” Luca gli fu subito accanto per trascinarselo via. Gliene fui grata: dal pomeriggio precedente, non ero ancora riuscita a togliermi dalla testa la domanda di Ilaria. Cosa avrei dovuto fare? Chiamarlo? E per dirgli cosa, poi?
“Ragazzi…”
Luca ed Enrico, che stavano ancora battibeccando circa il racconto della mia presunta giornata romantica, si bloccarono e si voltarono verso di me.
Deglutii: probabilmente, stavo facendo il più grande errore della mia vita.
“Se voi aveste ricevuto il numero di una persona che vi ha offerto il pranzo… cosa fareste?”
I due si guardarono per un attimo, poi tornarono a concentrarsi su di me.
“Lo chiamerei, ovvio.” Enrico si era lanciato su di me, pronto a riempirmi di buoni consigli.
“Enrico, io non correrei così tanto.” Come al solito, Luca aveva il compito di spegnere l’animosità dell’amico.
“Sei il solito guastafeste, Luca. Se le piace, lo deve chiamare.”
“Appunto. Se le piace.”
“Ti piace?”
Enrico non aveva peli sulla lingua, indubbiamente.
“Non è questione di piacermi o meno. E’ questione che mi sembra parecchio maleducato non farmi più sentire, dopo che lui mi ha invitata a pranzo.”
“Allora, se è tutto qui, puoi chiamarlo, no?” Luca sembrava voler dire qualcosa, ma Enrico l’aveva battuto sul tempo.
“Ma cosa dovrei dirgli?”
“Digli che vuoi sdebitarti con lui per il pranzo e lo inviti fuori tu!”
“Ma no! Così sembra che ci stia provando lei!”
“E che c’è di male?!”
“Sei il solito idiota!”
“Sei tu che pensi sempre troppo, Luca.”
Lo sapevo che non avrei dovuto contare su di loro. Non su tutti e due quando erano insieme, almeno.
“Ragazzi, fatela finita! Sembrate una coppietta sposata!”
Immediatamente, ci fu silenzio.
“Il punto” proseguii prima che riprendessero a litigare tra loro “è che lui voleva sdebitarsi con me, per averlo accompagnato in ateneo. Quindi non ha senso la scusa dello sdebitarsi.”
“Oh.”
I due si persero nei loro pensieri, alla ricerca di una soluzione per il mio problema.
“Quindi, capite? Non voglio che pensi chissà cosa, ma non voglio neanche sembrare una maleducata.”
“Il punto, secondo me, è un altro.”
Luca mi guardò negli occhi e all’improvviso ebbi paura: a differenza di Enrico, lui era un ragazzo riflessivo e ponderato, che non dava mai giudizi affrettati e che preferiva vagliare bene il problema, prima di dare la propria opinione. Ogni suo commento era frutto di riflessioni accurate; e, soprattutto, centrava sempre il problema. “Al di là dell’educazione… tu vuoi rivederlo, oppure no?”
“Ragazzi! La sapete la grande novità?” l’arrivo di Ylenia mi aveva impedito di rispondere a una domanda di cui neanche io sapevo bene la risposta.
“Ciao. Che succede?”
“Non avete idea di quello che sto per dirvi!”
“Beh, dubito che ce l’avremo, se non parli…”
Il commento di Enrico fu soffocato da una gomitata di Ilaria, appena arrivata; in ogni caso, Ylenia parve non averlo notato.
“Dai, racconta, siamo curiosi!” la incitò lei.
Ylenia le sorrise, grata per l’interessamento. Non la conosceva abbastanza per capire che stava soltanto cercando un modo carino per togliersela dai piedi il prima possibile, probabilmente per lanciarsi in una sua personale arringa contro la mia stupidità.
“Avete presente Stefano?”
Ci guardammo un attimo, mentre lei aspettava una nostra risposta positiva.
“Ehm… Stefano Giannoccari?” propose a caso Enrico, ben sapendo che non conoscevamo nessuno con quel nome. Non era la prima volta che utilizzava quel trucco e avevo scoperto quanto fosse ottimo per evitare figuracce; come quella, appunto.
Ylenia sbuffò: “Ma che Giannoccari! Parlo di mio fratello Stefano!”
“Ah.”
Ci guardammo ancora una volta e capimmo che nessuno di noi aveva la più pallida idea di chi fosse quella persona e che, probabilmente, nessuno sapeva neanche che lei avesse un fratello.
“Oggi esce il suo film!”
“Il suo film?”
Eravamo colleghi della sorella di una star e non lo sapevamo?
“Sì! Beh, naturalmente lui non è ancora così famoso da avere un ruolo molto ampio, ma è fantastico! Verrete a vederlo, vero?”
Restammo un attimo in silenzio, ponderando i pro e i contro della situazione.
“Ma certo, Ylenia. Non ci perderemmo mai il debutto cinematografico di tuo fratello.” Rispose Luca affabilmente: mi ero sempre chiesta se un ragazzo buono e disponibile come lui sarebbe mai stato capace di dire di no a qualcuno, almeno una volta nella sua vita.
“Fantastico! Allora ci troviamo davanti al cinema alle venti, ok?”
Annuimmo senza aggiungere una parola e la seguimmo con lo sguardo, finché non raggiunse un altro gruppo a cui avrebbe raccontato la stessa storia.
“Mara?” la voce di Luca ruppe per l’ennesima volta il silenzio “Credo che tu abbia risolto il problema che ti affliggeva.


Note dell’autrice:
Questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni. In questa storia, ho inteso il termine “blue” non con il significato di “blu”, ma come “triste”, riferito appunto al passato di Hiroshi, la cui condizione di sangue misto non era per lui certamente fonte di gioia.

Dunque! *_* Mi ero ripromessa di farlo a fine storia, ma credo che i ringraziamenti, adesso, siano più che dovuti. Ringrazio infinitamente Maja, Gra, Sol e Ahiunpodilui per i commenti che mi hanno lasciato finora. Quindi ho deciso di postare questo capitolo un po’ prima di quanto avrei dovuto come ringraziamento. Davvero, ragazzi, non avrei mai pensato che avrei potuto creare mostri! XDD Ogni allusioni a chi sono io sono puramente casuali! U_U

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI ***


VI

"Io che in tutto quel che faccio ci metto l'anima."
(Un amore da favola – Giorgia)

Lo vidi arrivare dall’altra parte della piazza, ma feci finta di non averlo notato, prima che arrivasse a pochi metri da me e mi sorridesse: dal cappotto si intravedeva un maglione beige che faceva risaltare ancora di più il colore dei suoi occhi.
“Ciao. Sono in ritardo?”
La puntualità era una caratteristica dei giapponesi che adoravo. “No, sono io in anticipo. Il treno è arrivato qualche minuto fa.”
“Oh bene.” Sorrise rincuorato. “Allora, dove andiamo?”
Indicai la strada alla nostra sinistra: “Proprio qui vicino. Il cinema è a due passi.”
“Mi hai detto che recita un tuo amico.” Si aggiornò mentre ci incamminavamo.
“Non esattamente. Recita il fratello di una mia compagna di corso. Praticamente, ci ha costretti ad andare.”
“Ma di che cosa parla?”
“Ah, non ne abbiamo idea!”
“Vai a vedere un film senza conoscerne la trama?”
“Beh, so che se non ci andassimo, se la prenderebbe tantissimo. Quindi, tra i due, preferisco il film.”
“Uh. E’ così spaventosa?”
“Spaventosa è anche poco.” Commentò una voce alle nostre spalle, ed Enrico si materializzò tra noi. “Mara è stata davvero un mostro a farti questo! Comunque… piacere, Enrico. Sono il suo fratello maggiore.”
“Ma se hai sette mesi meno di me!”
Enrico scosse un dito davanti al mio naso. “No, no, cara. E’ il cervello che conta. Io sono molto più maturo di te, e tu sei solo una povera ragazza indifesa.”
“Non farci caso, lui è fatto così.” Spiegò Luca, tendendogli la mano. “Io sono Luca, piacere.”
“Io sono Hiroshi. Onorato di conoscervi.” A pensarci bene, era la prima volta che pronunciava il suo nome.
“E lei è la mia migliore amica Ilaria.” Terminai le presentazioni io.
“E’ un vero piacere conoscerti, Hiroshi. Hai suscitato parecchio scalpore ieri in ateneo.”
Mi guardò sorpreso: “Davvero?”
“Eh sì. Non è cosa di tutti i giorni vedere un giapponese all’università, soprattutto così carino.”
Arrossì e io mi sentii in imbarazzo per lui: non doveva essere poi così abituato alla schiettezza italiana, nonostante gli insegnamenti materni.
“Piantala, Enrico.” Luca si trascinò il nostro amico verso il cinema, lasciandoci indietro di qualche passo.
Ilaria mi si avvicinò, con aria circospetta. “Mara, è solo la mia impressione, oppure Luca è un po’ strano ultimamente?”
“L’ho notato anche io, veramente.”
Quando arrivammo, trovammo Ylenia ad attenderci con un gruppo di ragazzi dall’aria piuttosto familiare. Quando ci intravide, agitò la mano nella nostra direzione, facendoci cenno di raggiungerla.
“Oggi il cinema sembra il ritrovo della facoltà di lettere!”
Il commento di Enrico non era poi così esagerato, se si teneva conto che conoscevamo tutti i presenti, almeno di vista.
“Ragazzi, sono contenta che siate venuti! Vi assicuro che mio fratello è bravissimo! Ho pianto tantissimo!”
“Ma come…” la domanda sorse spontanea “Non avevi detto che il film è uscito oggi?”
“Certo! Io sono già stata al primo e al secondo spettacolo. Vedrete, vi piacerà sicuramente!”
“Che dite, andiamo a comprare il biglietto?”
La proposta di Ilaria fu immediatamente accettata da tutti, così ci defilammo dai ragazzi il più velocemente possibile.
“Sai,” Hiroshi si abbassò alla mia altezza “credo di aver capito perché avete accettato…”

Naturalmente fu solo un caso se trovammo posto il più distante possibile da Ylenia. Normalmente non avremmo potuto avere così tanta fortuna, visto che le poltrone venivano assegnate a caso dalla cassiera, al momento dell’emissione del biglietto; tuttavia, avere un amico impiccione e senza peli sulla lingua, a volte, poteva essere utile, quindi non tentammo neanche di fermarlo quando si avvicinò alla ragazza con sguardo seducente e le fece un occhiolino mentre le chiedeva i biglietti.
“Senta, signorina…” allungò lo sguardo per leggere il suo nome sul cartellino “… Angelica. Posso chiederle un grande, enorme, favore?”
La ragazza era sul punto di ridere, ma si trattenne: “Mi dica.”
“Senta…” le si avvicinò ancora di più, come se volesse rivelarle un importante segreto che nessuno doveva assolutamente conoscere, i suoi occhi azzurri fissi in quelli castani di lei “La vede quella ragazza là fuori… quella che pare abbia visto già i due spettacoli precedenti?”
“Ah, sì, ho capito benissimo. Ebbene?”
“Ebbene, gentilmente…” il suo sorriso si fece, se possibile, ancora più ampio “Siccome noi siamo persone che amiamo gustarci un film in completo silenzio e lei, la conosciamo, è una ragazza un po’… come dire? Esuberante? Non è che, per caso, potrebbe…”
Questa volta non resistette e scoppiò a ridere.
“Ok, ho capito. Lasciate fare a me.”
Entrammo in sala che ancora ridevamo.
“Ma tu non sei gay? Come fai a conquistare anche le donne?”
“Elementare, mia cara Ila! Sono un genio della seduzione, non lo sapevi? Uomo o donna che sia, ci metto sempre l’anima, io, per conquistare qualcuno. Se vuoi, posso darti qualche lezione, ma che rie!”
“Ma smettila!” lo canzonò lei, venendo a sedersi accanto a me.
“Magari potrei dare ripetizioni anche a Luca, così si trova una ragazza!”
Il mio amico lo ignorò e indicò la poltrona accanto ad Hiroshi: “Posso sedermi qui?”
Hiroshi annuii e scalammo di un posto. Enrico, che ci era rimasto un po’ male per aver potuto continuare il suo gioco, si sedette al proprio posto senza aprire più bocca.
Inutile dire che il film fu di una noia terribile. Era da quando avevo avuto la brillante idea di andare a vedere Troy, anni prima, più per vedere se il film facesse così schifo come mi avevano detto gli altri che per un reale interesse verso questo, che non rimpiangevo i miei soldi in quel modo.
Il film, nella più classica delle tragedie italiane pseudostoriche, narrava la storia di una ragazza madre, ebrea, per giunta, e delle difficoltà che aveva dovuto superare per poter mantenere il proprio bambino. Era l’epoca della seconda guerra mondiale, quindi il mondo non era ancora pronto ad accettare una giovane senza marito, con un figlio a carico, da crescere da sola, senza un soldo e con un disperato bisogno di lavorare. La ragazza finiva per trovare un impiego in un ospedale, come infermiera e ritrovava per caso il padre del piccolo; lui, ovviamente, non l‘aveva mai dimenticata, ma era stato costretto a lasciarla perché la sua famiglia – ricca, benestante e razzista – non accettava la loro unione. Eravamo quasi convinti che ci sarebbe stato un lieto fine, quando, inaspettatamente, l’uomo venne ucciso perché aveva aiutato i partigiani nella loro lotta; tuttavia, aveva fatto in tempo a lasciare tutti i propri averi alla donna che aveva amato e al loro bambino.
Come trama, avrebbe anche potuto essere carina, se gli attori si fossero impegnati un po’ di più e non avessero voluto mantenere quel tono da tragedia greca tanto amato nelle produzioni italiane e da me altrettanto odiato.
Il famoso Stefano, la causa per cui eravamo stati costretti a vedere uno spettacolo che non avremmo calcolato neanche per sbaglio, apparve nell’ultima scena del film e impersonava l’importantissimo ed essenziale cameriere – che non pronunciava neanche il classico “Prego” di circostanza - che portava una tazza di caffé alla protagonista che, a casa dei suoceri, ormai persuasi ad accettarla come madre dell’unico ricordo che era rimasto loro del figlio perduto, scopriva di essere diventata ricchissima.
“Praticamente se Ylenia non si fosse messa ad urlare come una ossessa, non l’avremmo neanche notato.” Stava appunto commentando Enrico, una volta terminato il film e usciti dalla sala.
“Ma dai, Enrico! Voglio vedere se avesse recitato una persona a te cara, se non avresti avuto una reazione simile! Conoscendoti, ti saresti comportato anche peggio.”
“Luca, non vorrai dirmi che quella cosa ti è piaciuta?!”
L’espressione di Enrico era di autentico disgusto.
“No, assolutamente. Ma ti pare? Stavo solo dicendo che, per quanto il film faccia schifo, capisco i sentimenti di Ylenia.”
“La penso come Luca.” Lo difesi prima che Enrico se ne uscisse con qualche battutaccia. “Anche se il film faceva veramente pena: la trama era troppo deprimente e gli attori assolutamente negati. Saprei recitare meglio io, e ho detto tutto.”
“Inoltre, storicamente parlando, corre troppo. Se una persona non conoscesse bene il periodo per conto proprio, non ci capirebbe niente.”
“Insomma, abbiamo buttato i soldi.” Sospirai “Mi spiace, Hiroshi. Non avrei mai pensato che facesse così schifo.”
Rise: “Non ti preoccupare: i film noiosi non sono un problema, per me. In Giappone molti sono così, tristi e lenti. E poi è stato interessante per vedere come l’avete vissuta voi la guerra.”
A questo dettaglio, non avevo pensato.
“Piuttosto, che ne dite di andare a mangiare qualcosa?” propose invece Ilaria. L’approvazione fu unanime, sicuri che almeno, in quel modo, avremmo potuto salvare la serata, o almeno quel che ne restava.
“Andiamo a prenderci una pizza? Così facciamo assaggiare ad Hiroshi la nostra cucina!”
Impallidii: non aveva detto che suo nonno era proprietario di una pizzeria? E se avessimo beccato proprio quella? Perché non mi ero fatta dire qual era?
“Mio nonno ha una pizzeria, perciò l’ho mangiata molte volte, quindi non preoccupatevi per me, ma grazie per il pensiero.”
“Oh…” l’entusiasmo di Enrico si spense “Allora… uhm…”
“Perché non andiamo al cinese? E’ da un sacco di tempo che ci manchiamo!” proposi io “Per te va bene, Hiroshi?”
“Sì. Non c’è problema.”

Quando la signora Xiang ci vide entrare, il solito sorriso riservato ai clienti si allargò ancora di più.
“Benvenuti!”
Rispondemmo al suo saluto con gioia: da più di tre anni, eravamo clienti più che abituali di quel ristorante. L’aveva scoperto Ilaria, quando ci era andata con il suo ragazzo di allora e in poco tempo era diventato il nostro ritrovo preferito. La signora ormai ci conosceva bene e spesso ci fermavamo a chiacchierare con lei e suo marito.
“Un nuovo amico?”
“Sì. Lui è Hiroshi, un mio amico giapponese.”
I due si salutarono secondo il loro costume.
“Il solito tavolo allora no. Venite.” Ci guidò verso l’angolo più appartato della sala.
“Vi va bene?”
“Perfetto!” esclamai con più esaltazione del solito. Era stato solo un caso, oppure anche lei lo aveva riconosciuto e per questo motivo ci aveva sistemati proprio lì? Scossi la testa: non aveva importanza e soprattutto dovevo smetterla di farmi problemi inutili.
Ci lasciò i menù e si allontanò verso un altro tavolo.
“E’ bello questo posto.” Commentò guardandosi intorno.
“Ti piace?” seguii il suo sguardo che si soffermava sugli enormi vasi cinesi che riempivano la sala e sui quadri, anch’essi di chiara origine orientale, appesi alle pareti “Questa ormai è una seconda casa per noi. Ci veniamo spesso.”
“L’avevo capito…”
“Già. Questo posto è pieno di bei ricordi per noi.”
“Belli e brutti.” Puntualizzò Ilaria.
“Più belli che brutti.” Specificò allora Enrico.
“Non direi, visto che quella sera c’eri anche tu quando beccai Antonio con un’altra.”
“Ops… touchè. Dai, però, devi ammettere che fosti fantastica!”
Me lo ricordavo anche io quel giorno. Era successo la prima volta che ci aveva portati lì: appena entrati, li avevamo visti, in atteggiamenti che non lasciavano adito a dubbi. La mia amica non si scompose: andò al banco, chiese una bottiglia d’acqua e, con molta calma, andò da lui e gliela versò in testa. “Possiamo metterla sul conto, vero?” ci chiese.
“Mi ricordo che la signora mi incenerì con lo sguardo e iniziò a scusarsi con quel disgraziato; poi, quando le raccontai il perché, non solo si scusò con me, ma non mi fece neanche pagare la bottiglia!”
Ridemmo: “Non riesco a credere che siano trascorsi già tre anni. Come vola il tempo! Ne sono successe di cose, vero?”
Eccome se ne erano successe. Era stato lì che avevo festeggiato la mia laurea, l’anno precedente; era lì che Ilaria mi aveva portato dopo il mio primo insuccesso; era lì che aveva conosciuto il suo fidanzato quasi ufficiale, ed era sempre lì che ci aveva rivelato che l’aveva lasciato; era lì che Enrico ci aveva descritto, con dovizia di particolari per giunta, la sua prima volta, in una discussione talmente imbarazzante che avevamo temuto di essere cacciati dal locale; era lì che avevo portato mia madre la prima volta che era stata a Bari, ed era stata sempre in quell’occasione che aveva conosciuto Ilaria, restandone folgorata.
“Allora, volete ordinare?” ci chiese la signora Xiang, distogliendomi dai miei pensieri.
“Il solito!” ci trovammo a ripetere all’unisono, mentre Hiroshi scelse riso al curry e pollo alle mandorle.
“Arrivano subito.”
La signora Xiang stava già per allontanarsi, quando Enrico la fermò: “Signora, e Li Hon? Non lo vedo in giro…”
Li Hon era il ragazzo che lavorava lì come cameriere ed era diventato il “giocattolo” di Enrico: non che lui ci provasse, ma si divertiva a farsi raccontare i dispiaceri, le delusioni amorose e i dolori del ragazzo per dispensarlo di buoni consigli; per fortuna era un ragazzo buono e alla mano, che non se la prendeva troppo, e anzi, finiva davvero per raccontarci le sue avventure: che fossero reali o meno, sia lui che Enrico si divertivano un mondo, ed era questo che contava davvero.
La signora parve a disagio: “E’ dovuto tornare in Cina per un po’. Ha avuto dei problemi di famiglia.”
“Oh.”
Il silenzio che ne seguì aveva un che di imbarazzante, ma ci pensò subito Enrico a risollevare la situazione.
“Peccato! Volevo sapere se gli era andata bene con quella ragazza.”
“Non credo ti avrebbe risposto. Dopotutto, sono affari suoi!”
“Che c’entra? Ormai siamo amici!”
“Enrico, non tutti sono come te. Magari a qualcuno interessa ancora mantenere un certo riserbo sulla propria vita privata.”
Enrico sbuffò all’uscita di Luca.
“Che palle, Luca.”
“Invece ha ragione.” Intervenni io “Solo perché Li Hon è gentile, non significa che non sia timido. Vorrei ricordarti che gli orientali non sono come noi, non raccontano i propri problemi al mondo intero.”
“Uff, sempre con ‘sta storia! Hiroshi!” Il mio amico si voltò verso di lui; il suo sguardo non prometteva niente di buono. “Tu che sei giapponese, è vero quello che Mara-so-tutto-del-Giappone dice?”
“Beh… sì.”
“Però tu non mi sembri il classico giapponese. Parli benissimo l’italiano!”
“Mia madre è italiana, quindi lo parlo da quando ero piccolo. Sono venuto a trovare i miei nonni.”
“Oh, adesso capisco! E cosa fai nella vita?”
Trattenni il respiro senza osare alzare lo sguardo su di lui.
“Sono un traduttore. Mio padre è professore di italiano all’università, quindi mi ha trasmesso l’amore per le traduzioni. Traduco romanzi in giapponese dall’italiano.”
La sua voce era calma, troppo. Per un attimo mi chiesi se non mi fossi immaginata tutto. Con la scusa di prendere la bottiglia d’acqua, gli lanciai uno sguardo e tornai sui miei passi: no, era lui, ne ero sicura. Complimenti, si vedeva che in fondo era un attore: ci stavo cascando anche io!
“Bello. E ti piacciono anche le ragazze italiane?”
E lo sapevo che sarebbe andato a parare lì!
“Beh…” Hiroshi lanciò un’occhiata veloce a me e ad Ilaria “Sì… Sono diverse dalle giapponesi.”
“Ah sì?” era davvero molto interessato e la cosa non mi piaceva per niente “Dai, dai, raccontami come mai!”
Hiroshi sembrava imbarazzato da quel trovarsi all’improvviso al centro dell’attenzione “Le ragazze, ma anche i ragazzi, giapponesi sono molto meno… espansivi di quelli italiani. Quello che dicevano Mara e Luca prima è vero: per noi è difficile parlare di noi stessi con qualcuno che non conosciamo bene.”
“Ma tu non mi sembri tanto timido.” si intromise Ilaria.
“E’ perché mia madre mi ha insegnato ad essere sia giapponese che italiano.”
“Ha fatto bene.”
Avrei voluto andarmene di là e trascinarmi via Hiroshi. Era più che ovvio che gli avrebbero posto quelle domande, e io ero stata così stupida da non pensarci. Tuttavia, non potevo fare nulla per aiutarlo, altrimenti avrei mostrato di sapere qualcosa.
“No, no, aspetta Ila!” Enrico tornò alla carica e per una volta gliene fui quasi grata. “Fammi parlare con Hiroshi di cose serie!”
“E quali sarebbero queste cose serie?”
“Allora… visto che sei così… poliedrico, diciamo… Dimmi: secondo te, sono migliori le italiane o le straniere.”
Tutta la mia gratitudine scomparve all’istante.
“Sono… diverse. Non si può fare un paragone!”
“Anche gli uomini?”
“Sì…”
“Anche da quel punto di vista?”
“ENRICO?!” saltai su. Questo era troppo.
“Ok ok, non ti arrabbiare, era solo per chiedere!”
“Dai, non ti preoccupare!” Non so dove, Hiroshi trovò la forza di difenderlo “Ehm... non penso di poter rispondere alla tua domanda, mi dispiace. Non ho interesse per i ragazzi.”
“Oh, peccato.” Non capivo se stesse scherzando o parlando sul serio; in ogni caso, alla prima occasione, me l’avrebbe pagata cara. “Sei proprio sicuro?”
“Dacci un taglio, Enrico. Non vedi che lo stai mettendo in imbarazzo?” intervenne Luca, che fino a quel momento era rimasto in disparte ad assistere alla scena.
“Dacci un taglio tu. Ti comporti come una mogliettina rompiscatole!”
“Enrico. Basta.”
Si voltò verso di me sbuffando: “Sempre a dargli ragione, Mara!”
“Perché ha ragione.”
“Per te lui ha sempre ragione.” Aggiunse tra i denti.
“Non…”
“Ecco, visto? Sembrate tanto un papà e una mamma che rimproverano un figlio stupido. Perché non vi mettete insieme? E’ da un po’ che ci penso, formereste una splendida coppia di rompipalle!”
Il suono della mano che colpiva con violenza la guancia di Enrico non fu così forte, eppure si udì chiaramente.
“Luca, ti ha dato di volta il…”
“Tu sei un completo cretino, Enrico. Pensavo lo facessi apposta, ma a quanto pare sei veramente idiota!”
Non avevo mai visto Luca così arrabbiato. No, a pensarci bene, non l’avevo mai visto perdere le staffe in generale. La sua voce, dura e tagliente, contrastava nettamente con l’espressione ferita dei suoi occhi castani.
“Scusate, ragazzi, mi è passata la fame. Vado a fare un giro.”
Si alzò e, senza aspettare una nostra risposta, si avvicinò alla signora Xiang per dirle qualcosa; la donna annuii e si diresse verso il nostro tavolo con le nostre ordinazioni, ma noi non ce ne accorgemmo neanche, mentre guardavamo il nostro amico uscire sbattendo la porta con violenza.

Note dell’autrice
Questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni. Il prompt si riferisce alla frase che Enrico dice parlando delle proprie abilità nel conquistare sia uomini che donne con il suo savoir faire. Lo so che non è il massimo, ma è l’unica idea che mi è balenata in testa! XD
Si ringrazia Solarial per aver rinfrescato il mio francese (che, per fortuna, non stava messo così male! XD)!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII ***


VII

Enrico non aprì bocca. Iniziò a mangiare quel che aveva nel piatto, tenendo la testa bassa ed ignorandoci.
Lo guardai per un po’, finché lui, sentendosi osservato, alzò gli occhi e incrociò il mio sguardo severo.
“Beh? Che hai da fissarmi così?”
“Non ti sembra di aver esagerato questa volta?”
“Mara, risparmiati queste paternali da mammina. Non è il caso, credimi.”
“Invece te la meriti.” Ilaria di solito si teneva fuori da quelle scaramucce, ma quella volta inaspettatamente intervenne anche lei.
“Ti ci metti anche tu adesso?”
“Ma non ti senti in colpa?”
“E perché dovrei, scusate? Veramente quello che le ha prese sono io, non lui.” Il suo sguardo passava da me a Ilaria, cercando una risposta che da solo non riusciva a trovare.
Un attimo. E se…?
“Enrico. Dimmi la verità. Ma davvero tu non te ne sei accorto?”
“Insomma! Accorto di cosa?”
Io e Ilaria ci guardammo un attimo.
Davvero non ti sei accorto che Luca è come te?”
Mi lanciò un’occhiata tagliente. “Mah, guarda, a me pare più simile a te, sinceramente…”
“Enrico,” Ilaria parlava come una maestra che cerca di spiegare una cosa piuttosto ovvia a un bambino particolarmente lento “quello che Mara intende dire è… non ti sei mai accorto che Luca è innamorato di te?”
Le bacchette gli caddero nel piatto, ma lui non se ne curò; guardò ora me, ora Ilaria incredulo.
“Mi state dicendo che Luca è gay?”
“Ha ragione lui a dire che sei un cretino.”
Ilaria, quando voleva, sapeva essere davvero implacabile.
“Ma lui non mi ha mai detto niente!”
“Non l’ha mai detto a nessuno, veramente.”
“E allora come facevo a capirlo io?” tentò di difendersi.
Sospirai pensando che è proprio vero che chi è amato non si accorge mai di chi lo ama, a meno che non gli venga detto apertamente. Perché, beh, che Luca fosse omosessuale, l’avevamo capito tutti fin da subito. Non servivano conferme per esserne certi: bastava notare come guardava Enrico, come ruotava la testa appena lo vedeva provarci con qualche ragazzo, come, appena entrava in aula, lo cercava… E lui aveva capito che noi sapevamo. Non c’era stato bisogno di ulteriori parole.
In realtà, non ne avevamo mai parlato esplicitamente forse proprio per rispetto al riserbo che su quella questione aveva il nostro amico; ed ovviamente il discorso non era mai capitato neanche con Enrico, anche perché credevamo che pure lui ne fosse al corrente e che, semplicemente, lo trattasse come un amico perché non era interessato a lui da quel punto di vista; e probabilmente, l’aveva pensato anche Luca.
Enrico continuava a far vagare lo sguardo da me ad Ilaria, incerto.
“E’ assurdo! Mi avete tenuto all’oscuro di tutto!”
“Non ti abbiamo taciuto niente, che tu ci creda o no. Era talmente palese che pensavamo lo sapessi.”
“Palese un corno!” si voltò verso Hiroshi, che fino a quel momento aveva continuato a mangiare il suo curry, apparentemente senza curarsi della nostra conversazione. ”Se così fosse, anche tu l’avresti capito, no?”
Hiroshi guardò me e Ilaria, esitante: “Ecco… veramente io pensavo che voi due stavate insieme!”
La rivelazione, se possibile, lo sconvolse ancora di più.
“Te l’ha detto lei, vero?”
“Gli ho solo detto di te, vista la bella figura che stavi facendo!” controbattei.
Enrico finalmente si arrese all’evidenza e tornò a fissare il proprio piatto.
“Allora sono veramente uno stupido.”

Continuammo a mangiare in silenzio. Ogni tanto lanciavo un’occhiata ad Hiroshi per scusarmi di tutto, ma lui faceva finta di niente, come se tutto quello fosse una cosa normalissima.
“Accidenti!” fu Enrico a rompere il silenzio, guardando per l’ennesima volta il posto vuoto accanto al proprio “Dove si sarà cacciato quel cretino?”
“Lascialo stare. Ha solo bisogno di stare da solo per un po’. Non dev’essere così facile per lui rendersi conto che la persona che ama è un cretino totale.”
“Ehi, Mara, non ti sembra di esagerare adesso?”
“No.”
Ancora silenzio. In realtà non avevo voluto essere così dura, ma ero troppo arrabbiata per lasciarmi sfuggire quella frecciatina velenosa. Non potevo perdonargli il fatto che avesse fatto soffrire un ragazzo come Luca.
In realtà, sapevo perfettamente anche io che Enrico aveva ragione, quando diceva che io e Luca eravamo uguali, e forse era stata proprio questa caratteristica ad unirci così tanto, un po’ come era accaduto tra lui e Ilaria. Oltretutto, spesso capitava che, quando uscivamo tutti insieme, come in quella occasione, lui mi offrisse di accompagnarmi a casa senza che anche io prendessi la mia auto. “E’ inutile prendere due macchine se abitiamo a pochi chilometri di distanza, no? E poi non mi fido a lasciarti guidare da sola, la notte, con i pazzi che girano!” mi diceva ogni volta che io tentavo di rifiutare o di ricambiare il favore. Era per questo motivo che spesso avevo ascoltato strani commenti alle nostre spalle su una presunta relazione sentimentale fra noi, anche dallo stesso Enrico, ma non ci avevamo mai prestato troppa attenzione, visto che non avevamo niente da nascondere.
Guardai l’orologio e iniziai anche io ad avvertire uno strano senso di inquietudine: erano le undici passate, che fine poteva aver fatto?
“Vado a cercarlo.” Decisi alzandomi.
“Vengo anche…”
“No.” Ilaria lo bloccò prima che anche Enrico potesse alzarsi da tavola. “Tu saresti l’ultima persona che vorrebbe vedere.”
“Però è troppo pericoloso per te girare da sola a quest’ora. Ti accompagno io.” Si offrì immediatamente Hiroshi.
“E’ un’ottima idea. Noi vi aspettiamo qui.”

L’aria era fresca, quella sera, ma io non me ne accorsi neanche, troppo impegnata a cercare il mio amico tra i volti di coloro che a quell’ora affollavano ancora le vie della città. Mi ero persino dimenticata della presenza di Hiroshi accanto a me, finché non mi toccò una spalla.
“Sta’ tranquilla. Il tuo amico dev’essere qui intorno.”
Il suono della sua voce, così tranquilla, fece crollare tutte le mie certezze e la sicurezza che avevo dimostrato al ristorante, come un castello di sabbia.
“Io… io non credevo che Enrico potesse essere così stupido! Va bene essere esuberanti e allegri, ma c’è un limite a tutto! Non riesco a crederci: non se ne era accorto!”
“Forse in realtà lo ha sempre saputo, ma non se ne è mai reso conto.”
“Cosa intendi dire?”
“Voglio dire che quei due sono troppo legati l’uno all’altro, c’è una strana sintonia tra loro. Non mentivo quando ho detto che all’inizio avevo pensato che stessero insieme.”
Annuii: capivo benissimo cosa intendesse, perché l’avevo notato anche io, ma avevo pensato che fosse semplice amicizia.
“Pensaci: Enrico non sa che Luca è come lui, quindi capisce in cuor suo che interessarsi a lui è tabù; però il suo cuore non riesce ad accettarlo, per questo non riesce a stargli lontano e lo punzecchia sempre.”
La spiegazione era più che logica e psicologicamente ineccepibile.
“Per averlo incontrato solo oggi, l’hai capito meglio di noi che lo conosciamo da tanti anni.” Commentai.
Lui si fermò e io lo imitai. “Forse voi non l’avete intuito proprio per questo motivo: sapendo la verità, non ci avete mai fatto caso.”
“Resta il fatto che, per essere un ragazzo, sei molto intuitivo!”
“Vedo che hai un’alta opinione di noi!”
Risi, imbarazzata.
“Non è questione di intuito, credimi. Studiare un personaggio, in fondo fa parte del mio lavoro.” Si bloccò, come se all’improvviso si fosse reso conto di qualcosa di importante “Voglio dire… anche per tradurre un romanzo bisogna capire un personaggio, no?”
Annuii e riprendemmo a camminare. Anche se non volevo, quella bugia mi fece più male di quanto volessi ammettere a me stessa.

Lo trovammo dopo pochi minuti: era seduto su una panchina di piazza Umberto, proprio di fronte all’entrata dell’università. Non si mosse e non diede minimamente segno di averci visti.
“Luca…”
“Lo sa?” chiese senza alzare lo sguardo su di noi.
Adesso lo sa.” Risposi.
Alzò le gambe e se le rannicchiò al petto nascondendo il volto, come un bambino piccolo. “Voglio morire.”
Lo raggiunsi. Non l’avevo mai visto in quello stato e mi faceva davvero tanta, troppa tenerezza.
“Dai, Luca, non fare così!”
“Mi prenderà in giro per tutta la vita. Mi odierà a morte. Oddio, ma perché l’ho fatto? Perché?” continuò a chiedersi scuotendo la testa.
“Luca, dai, torniamo indietro. Non hai mangiato niente!”
“Meglio, così potrò morire prima!”
“Avanti, non dire sciocchezze.” Gli toccai un braccio, ma lui si chiuse ancora di più nel suo riccio “Non voglio andare da lui. Non ce la farei, adesso.”
Sospirai: “D’accordo, allora torniamo a casa, ok? Guido io.”
Annuii e finalmente si mosse dalla sua posizione fetale. Quando sollevò la testa e vide Hiroshi accanto a me, sorrise in imbarazzo.
“Ti assicuro che non tutti gli italiani sono così piagnucoloni.”
“Ti assicuro che anche in Giappone gli uomini piangono quando soffrono.” E gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento, mentre io digitavo un SMS per Ilaria.
Ci mettemmo meno di dieci minuti per raggiungere il sottopassaggio e la stradina in cui Luca aveva parcheggiato la propria auto.
“Sei sicuro che non vuoi un passaggio?” chiesi ad Hiroshi indicando l’auto del mio amico “E’ la prima volta che Luca mi permette di guidare. Non voglio che questo giorno finisca così presto.”
I due risero.
“No, grazie. Il mio albergo è qui vicino e farò una passeggiata.”
“Ok. Mi disp…”
Scosse la testa, prima ancora che finissi di parlare: “Non dirlo neanche per scherzo. I tuoi amici sono simpatici e mi sono trovato bene con loro. Prima di partire, mi piacerebbe rivederli ancora.”
“Allora…” aprii la portella del conducente, mentre Luca si accomodava sul sedile accanto al mio “… ci sentiamo. Buona notte!”
“Buona notte.” Rispose lui, chiudendo cavallerescamente la mia portiera.
“State benissimo insieme.” Luca lanciò uno sguardo indietro, nel punto in cui, lo vedevo dallo specchietto retrovisore, Hiroshi era ancora fermo, in attesa che la nostra auto scomparisse all’orizzonte.
“Non farti strane idee anche tu. E’ solo un amico.”
“Un amico che è ancora lì, ad aspettare che la sua principessa torni a casa. Secondo me, ti telefonerà per sapere se sei arrivata sana e salva.”
“Non lo farà.”
“Quanto ci scommetti?”
“Ti odio.”
Rise e poi tacque. Abbandonammo il centro, ognuno immerso nei propri pensieri.
“Sono stato un cretino.” Commentò appena ci immettemmo sulla tangenziale.
“Veramente io pensavo che saresti esploso molto prima.”
“Davvero? Era così lampante?”
“Hiroshi pensava che voi stavate già insieme,”
“Oddio!” esclamò con una risata amara. “Però è stato più forte di me.”
Feci cenno di sì con il capo: “E’ il sogno di tutte le donne avere un amico che se la prende se gli viene detto che formerebbero una bella coppia.”
Rise: “Ancora adesso mi chiedo perché, tra tanti uomini, io mi sia innamorato proprio di un idiota del genere.”
“E’ la domanda che milioni di persone si pongono ogni giorno e a cui, in altrettanti milioni di anni, nessuno ha mai trovato una risposta.”
“Solo che… l’ha fatta grossa, ecco. Tu e Hiroshi avreste dovuto vedere le vostre facce: tu eri sul punto di saltargli al collo, mentre lui pareva desiderare di essere ovunque, tranne che lì. Mi chiedo ancora dove abbia trovato il sangue freddo per rispondergli. Non si accorge di niente, neanche se una persona glielo fa notare. Io… ero convinto che, come te e Ilaria, anche lui avesse capito e che continuasse a trattarmi come al solito perché mi considerava un amico e niente di più.”
“Era quello che pensavamo anche noi. Chi se lo sarebbe immaginato?”
“Già. E oggi, prima al cinema, poi al ristorante, quando continuava a insistere sul fatto che mi comportavo come suo padre o tuo marito, mi sono convinto che lo stesse facendo per indispettirmi. E così…”
Nascose il volto tra le mani. “E’ stato solo quando ho visto la sua faccia da pesce lesso guardarmi come se davvero non stesse capendo una parola di quel che stava accadendo che ho capito: lui non sapeva niente e io, come il cretino, mi ero fatto scoprire da solo.”
“In realtà non è andata proprio così. Lui ha continuato a non capire, finché io e Ilaria non gliel’abbiamo praticamente detto.”
“Stai scherzando?”
Mi guardò non sapendo se ridere o piangere.
“Ti pare?”
“Allora è proprio uno zuccone.”
“A quanto pare…”
“Dio mio... se solo non fossi scappato via così, sarebbe rimasto tutto come prima e non avrebbe saputo nulla.”
“Mi dispiace se ho parlato. Però mi ha fatto saltare i nervi, perché si guardava intorno chiedendosi cosa avesse fatto di male, così gliel’ho detto.”
“No, non ti scusare. In fondo è meglio così. E’ come se mi fossi tolto un peso dal cuore, anche se non avrò più il coraggio di guardarlo in faccia.”
“Su, dai.” gli diedi un’amichevole pacca sulla testa “Io non la vedo così tragica. Era preoccupato per te, sai? Voleva venire con me a cercarti.”
“Aveva solo la coscienza sporca.”
“Io non credo.” Mi tornarono in mente le parole di Hiroshi. “Sei un suo amico, dopotutto. Magari non ti vuole bene come gliene vuoi tu, ma te ne vuole, stanne certo. Non smetterò di esserti amico per questo, fidati.”
“Spero che tu abbia ragione.” Commentò prima di rinchiudersi nei suoi pensieri ancora una volta.
Arrivammo a casa mia senza proferire altro: stava cercando di metabolizzare il tutto e io rispettai il suo silenzio.
“Te la senti davvero di proseguire fino a casa tua?”
Terlizzi distava solo pochi chilometri, ma io ero ugualmente preoccupata e non ero tanto certa che fosse nelle condizioni adatte per mettersi alla guida.
“Sì, tranquilla, adesso sto bene.”
“Davvero? Se vuoi, posso ospitarti io, per stanotte!”
“Ma no, non ce n’è bisogno, ma grazie comunque. Chissà poi cosa penserebbero i tuoi vicini!”
“La stessa cosa che pensano tutti, ma che poi capiscono non essere vera, suppongo.”
Scoppiammo a ridere.
Mi abbracciò come se volesse aggrapparsi a me. “Grazie di tutto, Mara. Se non fossi stato omosessuale, mi sarebbe piaciuto innamorarmi di te.”
Sentii le mie guance diventare più calde. “Anche a me non sarebbe dispiaciuto avere un ragazzo come te.” Ebbi infine la forza di dire.

Salii le scale, completamente distrutta. Appena chiusi la porta di casa alle mie spalle, al buio, cercai la mia camera da letto e mi lanciai sul materasso a peso morto. Chiusi gli occhi e lasciai la mente libera di vagare, un po’ come quando, nel dormiveglia, tutte le immagini della giornata iniziano a scorrerti davanti e i pensieri si intrecciano tra loro nei modi più assurdi, guidandoti per mano verso il mondo dei sogni.
Lo squillo del telefono giunse inaspettato e mi fece sobbalzare; a tentoni, cercai il cellulare nella tasca del cappotto che ancora indossavo.
“Pronto?” mugugnai, senza leggere neanche il nome sul display.
“Stavi dormendo? Scusa, non volevo svegliarti.”
La voce di Hiroshi, dall’altro capo del telefono, mi svegliò completamente.
“Secondo me, ti telefonerà per sapere se sei arrivata sana e salva.”
Scossi la testa, cercando di scacciare quel pensiero.
“Ciao. No, no. Sono appena rientrata.”
“Volevo chiederti… come è andato il ritorno? Tutto bene?”
“Sì…” il mio sguardo vagò nella stanza buia e, per un attimo, mi chiesi cosa ci facessi lì: la sua voce era così vicina che sembrava fosse a pochi metri da me. “Ero preoccupata, ma mi ha assicurato che riusciva a tornare a casa da solo.”
“Sta meglio?”
“Dice di sì.”
“Ma tu non ne sei convinta.”
“No. Non l’ho mai visto in quello stato. Così… indifeso. E’ stato un brutto colpo, per lui.”
“Sì, lo immagino.”
Tacemmo. Sentivo il suo respiro dall’altro capo del telefono e per un attimo mi chiesi se non stesse pensando di dirmi qualcos’altro oppure no.
“In ogni caso, ti chiedo ancora scusa. Lo so che hai detto che non importa, però… prima un film orrendo, poi la scenata al ristorante. Enrico è stato piuttosto imbarazzante.”
“Non posso dire di no, ma mi sono divertito.”
Sorrisi alle tenebre intorno a me. “A te è andato tutto bene?”
“Sì. Te l’avevo detto che l’albergo era a pochi passi. Comunque grazie del pensiero.”
Ancora silenzio. Perché di nuovo quella strana sensazione, come se volesse dirmi altro, senza trovare il coraggio di farlo?
“Sarai stanca. Buona notte.”
“Buona notte anche a te.”
Quando la comunicazione si chiuse, mi resi conto che non avevamo detto niente di più di quanto non ci fossimo detti prima. Luca aveva avuto ragione: mi aveva chiamata solo perché era preoccupato e per assicurarsi che fossi tornata a casa sana e salva.
Il mio cuore prese a battere velocemente e mi sorprese quanto trovassi piacevole quella sensazione.

Nota dell'autrice
Aggiornamento anticipato a causa di "tre persone a caso"! XD Però mi fa piacere notare che questa storia piace così tanto! *_*
Ringrazio ancora Ahiunpodilui per i suoi commenti: mi spiace che Hiroshi non ti piaccia proprio perché troppo giapponese, ma in un certo senso sono contenta: vuol dire che sono riuscita a creare un giapponese credibile! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII ***


VIII

Anche quella mattina fu il telefono a svegliarmi. Dov’era finita la mia buona abitudine di spegnere quel dannato apparecchio la sera, prima di andare a dormire? Mi chiesi mentre arrancavo alla ricerca del cellulare.
“Pronto?”
“Mara, sei tu?”
Non riuscivo ancora a capire bene di chi fosse la voce, ma in un barlume di lucidità constatai che non poteva essere mia madre, visto che aveva usato il mio nome e non quello stupido appellativo.
“Sono Giovanna, dal giornale.”
Oh. Ecco chi era. Non l’avevo riconosciuta perché non avevo mai avuto l’onore di ricevere una telefonata dalla direttrice in persona.
“Sì. Buongiorno.”
“Ti ho svegliata? Scusami tanto, ma avevo bisogno di parlarti con urgenza.”
Parlare con me, che scrivevo racconti d’appendice e qualche articoletto senza pretese di cultura locale, ogni tanto?
“Cosa è successo?”
“Puoi passare dalla redazione il prima possibile? E’ troppo lungo da spiegare al telefono.”
Oddio. Cominciavo ad essere davvero preoccupata.
“Arrivo.” E chiusi senza neanche attendere la sua risposta.
Mi preparai così in fretta che, dieci minuti dopo, ero già per le scale e mi stavo fondando giù, troppo agitata per aspettare l’ascensore. Cosa poteva essere accaduto di così grave da richiedere la mia presenza? A giudicare dal timbro di voce della direttrice doveva essere successo qualcosa di piuttosto serio. Avevo commesso qualche errore? Ne dubitavo, visto che il mio apporto alla rivista era davvero minimo.
“Buongiorno, signorina.”
La voce di Marcello mi arrivò improvvisa e mi fermai di colpo. Mi voltai verso l’uomo per rispondere al saluto e notai che aveva in mano un sacchetto piuttosto grande.
“Ha fatto già spese?” chiesi, indicandolo.
Lui abbassò lo sguardo: “Ah, questo? Sono per mia moglie. Non si è sentita molto bene, ieri, e il medico le ha prescritto queste medicine.”
“Ma… non è niente di grave, vero?” chiesi, senza lasciarmi ingannare dal suo tono tranquillo.
“Sì. Non si preoccupi, signorina!”
Lo osservai ancora un po’, per convincermi che non mi stesse nascondendo nulla; poi, un po’ più tranquilla, gli sorrisi: “Sto andando al giornale.”
“Così presto?”
Alzai le spalle: “La direttrice ha detto che vuole vedermi. Non so neanche io il perché.”
“Allora vada senza preoccuparsi di niente.” Mi incoraggiò lui, sorridendomi ancora.
Quasi abbastanza rincuorata, ripresi la mia corsa verso la redazione, con il cuore che accelerava i battiti man mano che mi avvicinavo alla meta.
Arrivai trafelata e mi fermai un attimo sulla soglia per riprendere fiato; la segretaria accorse veloce al mio fianco, preoccupata. “Oddio, Mara! Stai bene?”
“Sì, sì. Sono solo venuta di corsa e non ho fatto neanche colazione.”
Lei sgranò gli occhi: “E’ successo qualcosa?”
“Non lo so. La direttrice…”
La porta si aprì proprio in quel momento e mi ritrovai la signora Giovanna davanti.
“Mio Dio, Mara, ma che hai combinato? Hai una faccia!”
“B… Buongiorno, signora. Mi ha detto di fare in fretta, così sono venuta qui il prima possibile.”
Rise: “Ma non c’era bisogno di ridurti in questo stato! Dai, entra. Lidia, per favore, potresti andare al bar a prenderle qualcosa?”
Mi accomodai in ufficio, mentre le due donne alle mie spalle decidevano quale sarebbe stata la mia colazione. Non me ne importava niente, francamente: tutte le mie ansie e le mie preoccupazioni si facevano più forti di minuto in minuto.
“Allora…” la direttrice si era seduta di fronte a me, al proprio posto. Non era una stanza grande, quella, a mala pena c’era la sua scrivania e due poltrone di fronte; però, quando quella donna si accomodava, tutto, in lei, trasmetteva l’autorevolezza che solo una persona carismatica poteva avere e, persino quelle quattro mura spoglie, sembravano assumere tutt’altra fisionomia.
“Cos’è successo?” la interruppi.
“Mara, calmati. Non è successo nulla di grave.”
“Ma se al telefono mi ha detto di fare il più in fretta possibile!”
“Oh, quello?” sghignazzò “Beh, sì, ammetto di essere stata un po’ criptica. Però volevo darti subito la notizia.”
“Quale notizia?”
La signora Giovanna non rispose, ma mi passò un foglio di carta, invitandomi a leggere. Man mano che i miei occhi scorrevano la lettera e tutto il peso di quelle parole raggiungeva il mio cervello, una parte di me si convinceva che era soltanto uno stupido scherzo. Perché, assolutamente, quello che c’era scritto lì sopra non poteva essere vero.
Alzai la testa; la donna mi guardava al settimo cielo.
“E’ uno scherzo.” Spiegai.
Lei ci rimase male. “Certo che no! Ho controllato personalmente: la casa editrice esiste veramente. Certo, è un po’ piccola, ma ho scoperto che è abbastanza conosciuta e che alcuni autori da loro pubblicati hanno raggiunto anche una certa notorietà.”
“Mi sta dicendo che sul serio qualcuno ha letto i miei racconti sul giornale e vuole pubblicarli in un volume che dovrebbe essere messo in vendita?”
“Beh, sì, Mara. Ai libri di solito questo succede. Hai presente, quei negozi chiamati librerie? Servono a questo.”
Continuai a fissarla incredula, ma lei era troppo raggiante per poter comprendere il mio scetticismo. “Ho già contattato la casa editrice, e mi hanno lasciato un numero telefonico per te, a cui chiamare per chiedere tutte le informazioni che desideri. Adesso, sta a te decidere.” E mi porse un pezzo di carta con un numero mai visto. “Prenditi pure tutto il tempo che vuoi.”
Rilessi almeno una decina di volte la lettera che avevo in mano. Neanche una settimana prima, un’altra casa editrice – la terza a cui avevo mandato un manoscritto – rifiutava il mio romanzo, senza darmi uno straccio di spiegazione sul perché di questa scelta; adesso, invece, un’altra mi chiedeva se volevo pubblicare i miei racconti presso di loro.
Avrei voluto dire subito di sì; avrei voluto tornare subito a casa e spulciare nel mio computer per trovare qualcosa di bello da poter inviare. Eppure, avevo paura. E se alla fine mi avessero rifiutato? Se avessero cambiato idea, oppure notato che si erano sbagliati? Ero sempre stata dell’idea che non bisogna mai arrendersi alla prima avversità e che tutte le strade andavano battute; ciò nonostante, adesso che il mio sogno rischiava di diventare realtà, la paura di non essere capace mi coglieva con forza.

La lezione era alle 12.30, eppure, quella mattina, arrivai in facoltà un’ora prima. Anche dopo aver messo finalmente qualcosa nello stomaco, non mi ero sentita affatto meglio, e così ero andata a lezione senza neanche passare da casa. E infatti fu soltanto quando mi trovai sul treno che mi resi conto di non avere né i libri né i miei quaderni, ma solo il block notes che portavo sempre con me. Per tutta la durata del viaggio, continuai a pensare a cosa avrei dovuto fare, senza che le due parti contrapposte del mio cervello si decidessero a trovare una soluzione comune.
In quel momento, avevo bisogno di parlare con Ilaria e chiederle un consiglio: era l’unica che fosse a conoscenza dei miei tentativi falliti, oltre a mia madre, ma, a differenza della mia genitrice, sapeva darmi dei consigli in proposito.
Quando invece arrivai davanti all’aula, ovviamente ancora occupata dalla lezione precedente, ad accogliermi ci fu solo Enrico, a capo chino.
Vederlo in quello stato mi fece male: lui era un ragazzo allegro e solare, sempre pronto a fare battute, magari un po’ troppo dirette, a volte, ma mai con il desiderio di ferire qualcuno volontariamente.
Allora, finalmente, il mio cervello si convinse a smetterla di litigare con se stesso per preoccuparsi di qualcosa di molto più urgente. Senza neanche chiamarlo, mi diressi verso il distributore di bevande per prendere una cioccolata calda per entrambi.
La folla che si riversava verso i distributori alla fine delle lezioni era sempre immensa, ma io non avevo fretta, così mi feci da parte e attesi che la coda si riducesse. Osservai i ragazzi, per la maggior parte della triennale, che discutevano di esami che io avevo già dato e mi ritrovai a sorridere: anche io, alla loro età, avevo discusso degli stessi argomenti con i miei amici, con la stessa passione e preoccupazione.
Poi, tra tanti visi giovani e ignoti, notai i capelli brizzolati e il volto maturo di un uomo sulla cinquantina; lui si accorse di me e mi venne incontro, affabile.
“Sbaglio, o lei è la ragazza che l’altro giorno era con Hiroshi?” mi chiese.
“Sì. Buongiorno, professore. Sono Mara Facchetti.”
Lui annuì pensieroso; poi si guardò intorno e si avvicinò a me. “Le spiace se parliamo un po’?”
Ci avvicinammo alla finestra che dava sul cortile interno; accese una sigaretta e iniziò a fumare, forse per legittimare la nostra presenza lì: chiunque ci avesse visto, ci avrebbe potuto prendere benissimo per un’allieva che chiedeva consigli al suo docente, magari per la tesi; tuttavia, nessuno parve fare caso a noi.
“Io… so che non dovrei farlo.” Cominciò. Come premessa, non era molto felice. “Però ho sentito delle voci, in giro. Sa com’è, la facoltà è piccola e Hiroshi non è certo un ragazzo che passa inosservato.”
Capivo perfettamente. L’avevo sperimentata io stessa quella sensazione, stando accanto a lui.
“Ho saputo che è venuto a cercarla qui in ateneo.”
“Voleva solo ringraziarmi per averlo condotto da lei.” Misi le mani avanti, prima che iniziasse a sospettare qualcosa che non c’era.
“Non si preoccupi, non voglio indagare sul perché sia venuto. Hiroshi è abbastanza grande da decidere da solo della sua vita privata e io sono l’ultima persona che potrebbe dargli dei consigli. Intendevo… senza girarci intorno, lei sa che questo luogo non è esattamente adatto per lui, presumo.”
Oh. Lui credeva che io sapessi. E non poteva certo sapere che io, in verità, non avrei dovuto. Mi stava venendo mal di testa.
Feci cenno di sì con la testa, impercettibilmente.
“Lui non ci pensa, perché è convinto che qui in Italia nessuno lo conosca. Forse ha ragione, ma sono preoccupato ugualmente. Oltretutto, essendo, diciamo, particolare, attira comunque l’attenzione, che si sappia chi sia o meno.
“Insomma, diciamo pure che l’ateneo è l’ultimo posto in cui verrebbe di sua spontanea volontà, e non solo perché qui potrebbe incontrare me.”
C’era un che di amaro, nella sua voce, che colsi subito.
“Sì, ma non capisco…”
“Quel che intendo dire è che, se è venuto qui, di sua spontanea volontà, significa che lei per lui significa qualcosa: vi hanno visti anche in giro ieri sera, quindi tra voi due un legame di qualche tipo c’è.”
“Beh, non è che ci conosciamo così bene…”
“Non importa. Hiroshi è venuto qui per lei ed è uscito con lei. Lui non esce mai con ragazze, qui in Italia; quindi significa che, in un certo senso, tiene a lei.”
“Secondo me, ti telefonerà per sapere se sei tornata a casa sana e salva.”
Le parole di Luca continuavano a tormentarmi, ma in quel momento io le ricacciai indietro.
“Ed è per questo che posso chiederlo soltanto a lei.”
“Chiedermi cosa?”
“La prego” questa volta, il professore mi guardò dritto negli occhi “Benedetta ama suo figlio. Certo, so che ha sbagliato, e io ho sbagliato a portarla indietro nonostante avesse un bambino di cui occuparsi. Ma allora io ero un giovane innamorato e lei aveva così tanto bisogno di tornare a casa… la prego.” La persona che in quel momento mi stava parlando non era il professore che mi aveva verbalizzato l’esame sul libretto, ma un uomo come tanti, innamorato di una donna e preoccupato per lei “… lo convinca a parlare con sua madre. Lo convinca a perdonarla. Lei sa che ha sbagliato e si strugge di dolore. Ogni notte la sento piangere e non so come aiutarla. Ci provi, per favore.”
Non sapevo cosa dirgli. Come potevo spiegargli che non potevo aiutarlo perché io, Hiroshi, lo capivo? Che anche mia madre non aveva mai pensato a me e a mio padre, ma solo alla sua attività? Che ci lasciava per giorni, perché doveva preparare l’abito per questo o quella attrice? Che, quando mio padre si era sentito male, ero stata io a chiamare l’ambulanza ed ero rimasta con lui da sola, senza sapere bene cosa fare? Che erano stati gli zii, il giorno dopo, a venirlo a trovare in ospedale e non lei, che era irreperibile? Come potevo aiutarla, io?
“Io… non credo che ce la farei, professore. Lo conosco così poco…”
“Ascolti. Se riuscisse anche soltanto a convincerlo a incontrarla, sarebbe già tanto. Le chiedo solo di provarci.”
La fila al distributore si era finalmente diradata e anche il professore, con un cenno del capo, si allontanò verso le scale.

Quando tornai da Enrico, con i due bicchieri di cioccolata calda, lo trovai nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato. Lo raggiunsi e gli misi la bevanda davanti, in modo che potesse vederla anche da quella posizione.
“Un po’ di zucchero fa sempre bene.” Lo salutai.
Enrico alzò la testa e prese la bevanda, annuendo a mo’ di ringraziamento. Mi accomodai accanto a lui, bevendo la mia a piccoli sorsi.
“Non è venuto.”
Non c’era bisogno di esplicitare il soggetto.
Guardai l’orologio: “Beh, Enrico, è ancora presto. Vedrai che arriverà.”
“Stamattina avevamo un’altra lezione e né tu né lui vi siete fatti vivi. Credevo che anche tu ce l’avessi con me.”
Oh. Mi ero così preoccupata per la chiamata della signora Giovanna che me ne ero completamente dimenticata.
“E Ilaria?”
“C’è, ma è andata in segreteria a fare non ho capito cosa. Mi ha chiesto di accompagnarla, ma non ne avevo voglia.”
Accidenti.
“Mara, ti chiedo scusa.” La veemenza con cui si voltò verso di me mi fece quasi perdere l’equilibrio “Sì, insomma, per come mi sono comportato ieri. Non è vero che sei noiosa.”
“No, Enrico, non ti preoccupare. Hai ragione, invece.” Era un rimprovero che anche mia madre mi aveva sempre fatto, quello, ma io a lei non avevo mai dato retta. Sentito da un amico, come sempre, assumeva un significato profondamente diverso. “Non è a me che devi chiedere scusa.”
“Lo so. E’ solo che… ho paura.”
Lo guardai sconcertata: “Hai paura? Di Luca?”
“Beh, sì. Probabilmente adesso lui mi odia e non riuscirei a sopportarlo.”
C’era un significato particolare in quelle parole che però non ero sicura fosse quello giusto; o forse, era semplicemente lui a non averlo notato.
“Ma no che non ti odia, anzi, è esattamente il contrario. E’ lui che pensa che tu lo odi.”
“E perché scusa? Perché è come me?”
“Magari perché non ti ha mai detto niente. O perché ti ha dato dell’idiota. O magari per tutte e due le cose.”
“Che io sia stato uno stupido, lo penso anche io, in questo momento.”
“Lo pensiamo un po’ tutti, veramente.” Scherzai.
“Ma pensa sul serio che potrei odiarlo? E’ un mio amico, cavolo! Posso capirlo benissimo: anche io ci ho messo del tempo prima di accettare la mia diversità; poi, quando mi sono reso conto che non c’era nulla di male, sono riuscito anche ad ammetterlo di fronte agli altri e mi sono sentito libero di essere me stesso.”
Era la prima volta che Enrico si apriva in questo modo con me, e ne rimasi sorpresa.
“Perché non le dici anche a lui queste cose?”
“E tu credi che mi darà ascolto?”
“Sì, se gli parlerai con il cuore.”
Scosse la testa: “La fai troppo facile, tu.”
“E’ facile. Te lo garantisco.”
Era facile, sì. Perché in quel momento, bastava chiudere il cervello e lasciare che fosse il cuore a parlare. E il cuore dell’altro avrebbe capito. Un po’ come quando, leggendo le opinioni altrui su un romanzo, ti trovi a pensare che anche tu le hai provate, quelle sensazioni, e che, allora, l’autore era davvero riuscito a trasmettere al lettore quello che voleva dire.
Anche per la signora Benedetta doveva essere la stessa cosa, pensai. Lo avevo avvertito io stessa, quel giorno; me l’avevano detto i suoi occhi, lo avevo sentito dalla sua voce rotta dall’emozione. Le serviva solo un’occasione, quella giusta, per poter esprimere quello che aveva dentro. E il cuore di Hiroshi, lo sapevo, l’avrebbe sicuramente ascoltata.
“Enrico, mi scusi un attimo? Vado un attimo via, torno subito!”
Lui annuì meccanicamente, anche se non ero sicura che avesse sentito davvero. Non aveva importanza: anche lui aveva bisogno di stare un po’ da solo per riflettere su quello che provava veramente, mi resi conto mentre mi dirigevo verso le scale che conducevano al primo piano.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX ***


IX

L’ora di pranzo era forse il momento migliore per trovare un posto a Catullo; quel bar di fronte alla stazione, quindi comodo per le mie esigenze, era un vero e proprio rifugio per me e Ilaria, quando volevamo chiacchierare un po’ tra noi. Ci sedevamo in fondo, lì dove la luce era più soffusa e, incuranti delle coppiette intorno a noi, ci raccontavamo piccoli e grandi segreti. Essendo poi il proprietario cugino diretto della mia amica, spesso ci intrattenevamo anche parecchie ore, perdendoci nei nostri discorsi. Una volta era arrivata la mezzanotte senza che noi due ce ne fossimo minimamente accorte e così il proprietario era stato costretto lui stesso ad accompagnarci a casa di Ilaria, che mi aveva ospitata per quella sera, perché non avevo più treni per il ritorno.
L’avevo invitata io lì, quel giorno. Era bastato che le inviassi un messaggio lapidario, con la sola parola ‘Catullo’ per farle comprendere che si trattava di una questione veramente urgente.
“Allora, Mara, che ti è successo?” mi chiese a bruciapelo, senza neanche accomodarsi o togliersi il cappotto.
Ignorai la domanda. “Eri ancora in segreteria? Ma non chiude alle dodici?”
“Uh. Sì. Però mi sono dimenticata di pagare un bollettino e così sono dovuta andare di corsa alla posta, così lo porto oggi pomeriggio.”
“Oggi pomeriggio?” c’era qualcosa che non quadrava “Ma scusa, oggi la segreteria di pomeriggio è chiusa al pubblico, o sbaglio?”
Lei mi fece un cenno di intesa, mentre legava i lunghi capelli castani in una coda più pratica. “In teoria, sì. Ma quando riesci a corrompere un segretario giovane e carino…”
“Ila!” Inutile, nonostante le batoste ricevute, non imparava mai. Però in fondo invidiavo la sua tenacia e la sua faccia tosta.
“Beh? Gli uomini sono stupidi, e meritano di essere trattati per quello che sono.”
“Dai, adesso non esagerare…”
“Non esagero affatto. Scommetto, per esempio, che il tuo Hiroshi non ti ha ancora detto niente, ho ragione?”
Colpita. Abbassai la testa in segno di resa. “No.”
“E cosa aspetta quello stupido?”
“Non ne ho idea. Magari non si fida di me.”
Non ne ero convinta neanche io. Mi aveva raccontato il suo passato, mi aveva detto, perché sentiva che potevo capirlo; quindi perché non raccontarmi semplicemente tutta la verità? Era una domanda a cui non riuscivo a trovare una risposta, e forse non mi importava neanche farlo.
“Certo come no, Mara. Quello lì è cotto di te, te lo dico io. Tra un’idiozia e l’altra di Enrico, l’ho osservato bene.”
“A proposito di Enrico,” colsi la palla al volo per cambiare discorso “prima era a lezione.”
“Sì. Beh, gli sta bene. Certo, pure Luca dovrebbe sapere come è fatto, quel cretino. A proposito, come sta?”
“Luca, dici? Oggi non l’ho sentito, ma quando mi ha lasciata a casa sembrava stesse meglio. Ma… non so… è convinto che Enrico lo odi.”
“Che sciocchezza. Enrico farebbe qualsiasi cosa per lui, anche se, idiota com’è, non se n’è ancora accorto.”
Sgranai gli occhi: “Allora l’hai intuito anche tu!”
“Certo. Lo conosco molto meglio di te, cara. Hai visto anche tu che faccia ha fatto, quando ha scoperto cosa ha combinato?”
Le raccontai quello che era accaduto prima della lezione.
“Visto? Spero che questo gli faccia capire un po’ di cose.”
Hiroshi aveva avuto ragione: fino ad allora, Enrico aveva sempre fatto finta di niente, perché convinto che il suo amico non avrebbe mai potuto ricambiarlo; adesso che conosceva la verità, invece, quelle barriere avevano iniziato a cadere senza che lui stesso se ne fosse reso ancora conto.
“Ma era di questo che volevi parlarmi con tanta urgenza?”
“Ah, me ne stavo dimenticando. E’ successo che…”
Le raccontai quel che mi era successo quella mattina e, con un certo divertimento, durante il racconto, vidi gli occhi di Ilaria allargarsi sempre di più e la bocca spalancarsi in un sorriso sempre più ampio.
“Fammi capire bene, Mara. Tu verrai pubblicata?”
Qualcuno vicino a noi si voltò nella nostra direzione.
“Abbassa la voce, Ila! Non ho ancora accettato.”
La mia amica mi fulminò con un’occhiata. “Tu sei cretina. L’altro giorno eri depressa perché il tuo manoscritto era stato rifiutato, e adesso che puoi avere la tua rivincita, ti tiri indietro?”
“Sì, lo so anche io. E infatti vorrei accettare al volo, però…”
“Però?”
“E se poi leggono gli altri miei racconti e li rifiutano? Se mi dicono che si sono sbagliati e che non sono adatta ad essere pubblicata, perché pensavano fossi più brava?”
Alzò le spalle: “In quel caso riproverai di nuovo. E chiedi loro di assumerti, come danni morali!”
“Smettila di scherzare.”
“Ok, scusa. Però, dai, se ti rifiutano, cosa importa? Riprova. Significa comunque che qualcuno ha notato quel che scrivi. E’ già un passo avanti, non trovi?”
Aveva ragione, lo sapevo. Eppure, quella strana sensazione non voleva andarsene.
“Allora lunedì li richiamo.”
“Brava!” mi accarezzò i capelli, come si fa con i bambini piccoli; di solito mi dava fastidio, ma quella volta la lasciai fare. Lanciai un’occhiata alla parete di fronte a me: l’orologio segnava le due e trenta.
“Bene, io devo andare. Grazie di tutto.”
Mi guardò sorpresa: “Come, te ne vai di già? Pensavo saresti venuta con me in segreteria, per vedere il famoso ragazzo.”
“Non oggi. Dopo ho un appuntamento.”
Vidi chiaramente le sue antenne rizzarsi sulla testa: “Ah sì? Hiroshi, scommetto.”
Feci un cenno affermativo, sperando di non essere arrossita.
“Divertiti allora, e cerca di scoprire perché fa tanto il misterioso.”
“Ci proverò.” Le promisi, anche se sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di farlo davvero.

Questa volta, quando arrivai, era già ad aspettarmi di fronte alla stazione. Non mi vide, mentre io, come il giorno precedente, lo avevo notato subito.
Fermai l’auto proprio davanti a lui.
“Posso offrirle un passaggio?” chiesi scherzosamente.
“Come mai questo onore?”
“Visto che volevo farti una sorpresa, ti ho chiesto di aspettarmi direttamente qui.”
“Oh, beh, ci sei riuscita. Non sapevo avessi la macchina.”
“Beh, sì. Mia madre me l’ha regalata perché dice che è più comoda; io la trovo una grande seccatura, invece.” Secondo la mia genitrice, avere l’automobile aveva il grande vantaggio che potevo andare dovunque volessi senza problemi; il ché, era vero e risultava comodo la sera, o quando il luogo che dovevo raggiungere non permetteva di farlo con i mezzi pubblici. Tuttavia, non essendo una persona amante dei mezzi a quattro ruote, e potendo contare sulla gentilezza di Luca, non la prendevo praticamente mai.
“Allora,” si allacciò la cintura, mentre io ingranavo la marcia “dove mi porti di bello? Hai detto che è un posto particolare.”
“Beh, visto che la serata di ieri è stata piuttosto disastrosa, avevo pensato a qualcos’altro: al cinese ci siamo stati, al giapponese anche, tuo nonno ha una pizzeria… quindi ho deciso di portarti a mangiare un po’ di sana carne.”
“Carne?”
“Da quanto ne so io, la carne in Giappone costa; quindi, quale luogo migliore per portare una persona appena arrivata dal Giappone?”
“Uhm, l’idea non è male, ma non hai pensato che anche in albergo la preparano.”
“Ovvio. Ma io ti sto portando in un posto dove la cucinano in un modo molto speciale.”
La norcineria in cui lo condussi era un luogo molto conosciuto nella zona, tanto da essere difficoltoso persino trovare posto in settimana. Come il suo nome suggeriva, la specialità della casa erano gli affettati di Norcia: piadine, panini, tutti a base di formaggi e salumi provenienti da quella zona d’Italia; niente pizze, ovviamente, il che mi andava più che bene. Era il classico luogo adatto a tutte le tasche e a tutte le età.
L’unico vero problema era trovare parcheggio, ma, visto che era venerdì, la ricerca fu meno ardua del previsto e trovai posto in una stradina sul lungomare, non lontano dal centro storico.
Per arrivare al locale, scelsi una strada più lunga, ma che costeggiava quel tratto di mare dove c’era un porticciolo di barche. Non c’era vento ed era piacevole camminare baciati dall’aria fresca, ma non troppo, della sera, ammirando le luci color dell’arancio che si riflettevano sulle acque, regalando una suggestiva atmosfera che aveva un che di medievale.
“E’ bello qui.” Commentò infatti ammirando il campanile.
“Non c’eri mai stato?”
“No, a dire il vero.”
“Allora sono contenta di averti portato.”
Continuammo a camminare in silenzio; la gente che ci passava accanto per lo più ci ignorava, considerandoci una coppietta come tante altre.
Entrammo nel centro storico che non avevamo ancora proferito parola; attraversammo la piazza antistante la cattedrale e gli raccontai quel po’ di storia che ricordavo in proposito dalle spiegazioni di Luca.
“E’ simile ad una chiesa che ho visto a Bari.”
“Beh, il periodo in cui è stata costruita è più o meno quello. Ottima osservazione!”
“Me l’ha spiegato una mia cugina quando una volta mi portò a San Nicola. Disse che ogni turista che si rispetti deve vederla almeno una volta.”
Risi: era la stessa frase che Ilaria ed Enrico dissero a me quando mi portarono a vederla. “Ti è piaciuta?”
“Oh sì! Da noi non c’è niente di simile!”
“Lo so. Non per niente, qui in Italia i tuoi connazionali sono sempre in giro con la macchina fotografica in mano!”
“Giapponesi e nikon, eh?”
“Proprio così.”
Arrivammo qualche secondo dopo. Scendemmo gli scalini che ci portavano nella sala, più in basso rispetto all’entrata; l’illuminazione era piuttosto scarsa, visto che le uniche fonti di luce erano le candele poste al centro di ogni tavola, ma abbastanza da conferire all’ambiente un’atmosfera decisamente rustica.
Hiroshi si guardò in giro, mentre io chiedevo al cameriere notizie del tavolo che avevo prenotato.
“Hai prenotato? E perché?” mi chiese mentre ci accomodavamo.
Controllai l’orologio. “Aspetta una ventina di minuti e lo capirai tu stesso.”
“E’ così buono?”
Gli passai il menù. “Decidi tu.”
Alla luce della candela, lo osservai leggere la carta molto attentamente, mentre la sua espressione diventata man mano sempre più dubbiosa. Alla fine, sconsolato, alzò lo sguardo su di me. “Non ho idea di cosa prendere. Questi nomi non mi dicono niente.”
“Allora lascia fare a me. Piadina o panino?”
“Piadina? Non l’ho mai…”
“Piadina, allora. Piccante o no?”
“No.”
“Come stai messo con l’alcol?”
“Alcol?”
“Sì, intendo, vino o birra?”
“Come preferisci, li bevo tutti e due. Abbiamo anche noi la birra, comunque.”
“La vostra birra fa schifo. Senza offesa.”
Alzò le mani. “Decidi tu, allora. Mi fido.”
“Birra, dai. Così assaggi un po’ com’è la vera birra.”
Ordinai due Heineken e due piadine con prosciutto crudo di Norcia e salame.
“Ma tu non devi guidare?”
“Una birra non mi farà male, vedrai. Una passeggiata sul lungomare e sarà tutto ok.”
Le nostre ordinazioni arrivarono mentre era in corso un’interessante disquisizione sulle mete turistiche italiane: il mio podio vedeva Roma vincitrice, il suo Venezia.
“Venezia è bella, ma non ci vivrei mai. Roma è… Roma! La patria dell’arte, la capitale dell’Impero Romano…”
“A me ha dato l’impressione di essere troppo caotica. E a me i luoghi caotici non piacciono molto.”
“Mah, non è che con tutti i turisti che ci sono, non è che Venezia sia così tranquilla…”
“Sempre meno di Roma, sicuramente. E’ più piccola, e poi non circolano automobili. Basta allontanarsi da piazza San Marco che si riesce a trovare la tranquillità, fidati.”
“Certo che sentir dare della caotica a Roma, da uno che vive a Tokyo!”
“Appunto. Vengo in Italia in vacanza, quindi preferisco i luoghi tranquilli.”
“Allora adori Bari! Non c’è niente!”
“A me piace.”
Non ero convinta: “Io preferisco Roma. Anche Bari mi piace molto, sì, ma la Capitale è la Capitale! La sua storia…”
“Meglio Venezia. Le sue gondole…”
“… la sua arte…”
“… il ponte dei sospiri…”
“Il ponte dei sospiri ha una storia tristissima: pare che i sospiri fossero quelli dei prigionieri che venivano condotti in carcere, da cui non uscivano più.”
La sua espressione mi fece capire di aver distrutto un sogno.
“Ma non è tradizione baciarsi quando si passa sul ponte?”
“Beh, sì, ma solo perché Venezia è considerata la città dell’amore, anche se, personalmente, io tutto questo romanticismo non lo vedo. Spiacente di aver distrutto il tuo sogno romantico.”
Effettivamente, era più deluso di quel che mi aspettassi.
“Già… chissà come la prenderebbe Yoko-chan, se lo sapesse…”
“Yoko sarebbe la tua fidanzata?” chiesi.
“E’ stata… qualcosa del genere, sì.”
“Capisco.”
Mentalmente mi diedi della stupida: perché il mio cuore stava battendo così forte? In fondo l’avevo conosciuto solo pochi giorni prima e ignoravo la sua vita privata, a parte la storia di sua madre. Se avessi seguito un po’ di più il gossip, avrei di certo saputo chi era stata Yoko per lui; tuttavia in quel momento mi resi conto di essere felice di non esserne a conoscenza.
“Allora,” cambiai argomento prima che lui stesso decidesse di aggiornarmi in proposito “com’è?”
Tagliò il primo pezzo, guardandolo di sottecchi, come chi si trova di fronte a qualcosa che vede per la prima volta, e lo assaggiò; la sua espressione era un misto inscindibile di curiosità e sorpresa.
“Ha un sapore strano, ma mi piace.”
“Strano? In che senso?”
“Sconosciuto.”
Lo capivo: era la stessa sensazione che avevo provato io la prima volta che avevo assaggiato la cucina giapponese.
“Eppure il prosciutto l’ho mangiato.”
“Beh, quello di Norcia è… speciale!”
“E’ buono.”
Indicai la folla intorno a noi: “Non siamo gli unici a pensarlo, a quanto pare.”
“Adesso capisco perché hai dovuto prenotare.”
Guardai l’orologio; era ancora presto, così decisi di improvvisare: “Stranamente, non sono ancora soddisfatta. Che ne dici di un bel gelato?”
Hiroshi spalancò gli occhi. “Hai ancora fame?!”
Lo guardai torva: “Sai, mentre tu pranzavi nel tuo albergo, io consumavo le mie energie seguendo delle noiosissime lezioni. Ho mangiato un panino e bevuto un misero caffé.”
“Ok, ok. Allora ti faccio compagnia anche io.”
Chiamai il cameriere e ordinai due tartufi al cioccolato.
“L’hai mai assaggiato?”
“Non ricordo. Sicuramente, in Giappone no.”
“I vostri dolci sono diversi, ma non sono male. Ho assaggiato i daifuku* e mi sono piaciuti.”
“Mi fa piacere. Piacciono anche a me.”
Il cameriere arrivò con i due dolci e io mi tuffai sul mio con foga. Quando alzai lo sguardo, il dolce era scomparso dal mio piatto, mentre in quello di Hiroshi era ancora intatto.
“Non ti piace?”
Rise: “Stavo ammirando il modo in cui te lo stavi gustando.”
Arrossii, rendendomi conto della figuraccia che avevo appena fatto. Tossicchiai. “Ehm… mi piace molto, lo ammetto.”
“L’avevo intuito.”
“Adesso mangia il tuo, però, altrimenti mi sentirò ancora più in imbarazzo.” Commentai per chiudere la questione e portarlo a interessarsi di altro. Anche questa volta, il suo parere fu positivo e ne fui soddisfatta: significava che qualcosa in comune, in fondo, l’avevamo.
Con un movimento che voleva essere il più naturale possibile, lanciai un’occhiata all’orologio che segnava le undici precise. “Che dici, ci avviamo?” proposi.

Un momento che detestavo, alla fine di una cena, era quello in cui si chiedeva il conto. Perché, quando si era ospiti di qualche particolare festeggiamento, o si era deciso in anticipo che ognuno dovesse pagare per sé, allora non c’erano problemi; ma quando nessuna decisione era stata presa, la lite su chi dovesse pagare cosa, era un digestivo che mal sopportavo, soprattutto perché tendevo quasi sempre a perdere contro il mio contendente.
Fu con un certo desiderio di rivalsa che quella sera mi preparai allo scontro. Avevo già intuito che non l’avrei spuntata tanto facilmente, quando lo vidi estrarre il portafoglio, in un tentativo piuttosto maldestro di precedermi alla cassa.
“Dove stai andando?”
La mia voce tagliente lo sorprese.
“Beh, dopo aver mangiato, credo che si paghi. Funziona ancora così in Italia, no?”
“Funziona ancora così. Tranne quando si è ospiti di qualcuno.”
“Ospite?”
“Certo. L’altro giorno mi offristi tu il pranzo, o ricordo male?” domandai, cercando un varco verso la cassa.
“Non sbagli, ma” fece una falcata più lunga e mi bloccò “mi pare di essere stato tuo ospite anche ieri.”
“Ieri tu eri nostro ospite. O meglio, alla fine lo siamo stati tutti di Enrico, che si è sentito così in colpa da voler offrire per tutti.”
La notizia lo sorprese a tal punto che riuscii a scavalcarlo e a lanciarmi verso la cassa; la proprietaria mi sorrise e sentii qualche risata alle mie spalle: di sicuro, il nostro spettacolo improvvisato aveva divertito più di una persona.
“Cosa? Enrico…?”
Mi voltai, sbuffando: “Insomma. Ti ho invitato io, no? Quindi adesso va’ fuori, e aspettami lì!”
Il mio sguardo più che eloquente e il “Le donne quando vogliono qualcosa, sanno come ottenerlo!” di un cliente che sicuramente aveva assistito a tutta la scena lo convinsero finalmente ad accettare il mio consiglio.
“Sta’ tranquilla, non finisce qui.” Commentò però prima di uscire finalmente dal locale.
Che non sarebbe finita lì, lo sapevo meglio di chiunque altro. Guardai ancora una volta l’orologio, mentre distrattamente aspettavo che la cassiera mi desse il resto, persa nei miei pensieri.
“Signorina, il resto.” Mi disse infatti la donna; presi le monete e le intascai senza neanche contarle.
Non riuscivo a staccare gli occhi dall’entrata. Davvero sarebbe andato tutto bene? Hiroshi avrebbe capito che era stato tutto organizzato da noi, oppure avrebbe davvero creduto che l’incontro era casuale? Eppure, io e il professore Amani avevamo programmato tutto perché sembrasse davvero così. O meglio, avevamo progettato così poco che era anche alta la possibilità che non ci saremmo mai incontrati.
“Cercherò di farlo uscire dal locale intorno alle undici” gli avevo spiegato “e poi gli proporrò una passeggiata sul lungomare. Se riusciranno ad incontrarsi, allora vedremo cosa accadrà. E soprattutto, non lo dica a sua moglie: dev’essere un incontro casuale anche per lei!”
Ci eravamo salutati neanche noi troppo convinti che funzionasse; tuttavia, come gli avevo già spiegato, più di quello io non potevo fare: era Hiroshi che doveva decidere della sua vita, non noi due.
Mi avvicinai all’ingresso con estrema lentezza, ben sapendo che ormai non potevo più farlo aspettare, altrimenti si sarebbe insospettito. Solo quando mi ritrovai sulla soglia, mi resi conto che potevo accantonare le mie preoccupazioni: madre e figlio erano uno di fronte all’altra.


* il daifuku è un dolce giapponese composto da un piccolo mochi (dolce di riso glutinoso) farcito di ripieno dolce, di solito “anko”, pasta di fagioli rossi dolcificata a base di fagioli rossi azuki (Per la cronaca, li ho mangiati davvero e sono buonissimi! Si ringrazia comunque Wikipedia per la definizione).


Note dell’autrice
Finalmente siamo entrando nella fase cruciale della storia! Mi auguro che questo capitolo non sia risultato troppo noioso, visto che ho continuato a rivederlo, perché non mi soddisfala pienamente.
La parte della conversazione riguardante Venezia è la rielaborazione di una discussione che avemmo con una guida, proprio quando questa ci raccontò la storia del ponte dei Sospiri: praticamente, noi ci restammo male esattamente come Hiroshi! XD Quanto alla scoperta della tranquillità delle zone distanti dal centro, la devo principalmente al fatto che io e le mie amiche, in quella stessa gita, ci perdemmo per la città. XD Quando si dice che non tutto il male viene per nuocere! XD
In ogni caso, onde evitare fraintendimenti: non è che a Bari non ci sia proprio niente: sia la città che i paesi limitrofi ha luoghi molto belli e dalla storia plurisecolare; tuttavia, il paragone con Roma e Venezia non reggerebbe assolutamente. E poi, ricordiamolo, un luogo, per chi ci vive, è sempre peggiore di altri, a prescindere! XD
Quanto ai locali citati (la norcineria e il bar Catullo sono luoghi realmente esistenti (anche se il proprietario del bar non è parente né mio, né di persone a me conosciute! XD)
Mi ripeterò, ma ancora grazie a tutti per i bellissimi commenti che mi avete lasciato finora. Spero che i prossimi capitoli non vi deludano e che vi piacciano come i precedenti.
Ancora, grazie a tutti, e di cuore!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X ***


X

"Do you still play the same moves now?"
(Hedonism – Skunk Anansie)

Per un attimo, mi sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a quella mattina in cui tutto era iniziato, davanti alla stanza del professor Amani; perché, se era vero che ci trovavamo in un luogo diverso, l’atmosfera che si respirava era la stessa.
“Che cosa ci fate qui?” chiese Hiroshi. Il suo tono era accusatorio, proprio come la volta precedente: il ragazzo simpatico e alla mano, con cui avevo condiviso le due ore precedenti, era completamente scomparso. “Avete iniziato a seguirmi, per caso?”
“Niente affatto.” La risposta del professor Amani era tranquilla “Per la verità, veniamo a Giovinazzo molto spesso. Nel centro storico ci sono ottime pizzerie e il panorama che si gode è splendido.”
“Mi stai dicendo che stavate semplicemente facendo una passeggiata?” Hiroshi non sembrava per nulla convinto.
“Pensala come ti pare, Hiroshi. Buona serata. Arrivederci anche a lei, signorina.” Il professor Amani allungò il passo, deciso a superarci e a proseguire per la propria strada.
La signora guardò ancora una volta suo figlio, indecisa se seguire il marito, oppure proseguire la conversazione; alla fine, provò a trovare una soluzione di compromesso: “Perché non andiamo a prenderci un caffè tutti insieme? Ne potremmo approfittare per parlare un po’…”
Dallo sguardo freddo e distaccato di Hiroshi, intuii subito la risposta che stava per darle, così intervenni prima che fosse troppo tardi: “Perché no? Non ci stavamo giusto andando anche noi?”
I tre si voltarono nella mia direzione: la signora mi sorrise raggiante, mentre il marito aveva un’espressione imperscrutabile; Hiroshi invece, apriva e chiudeva la bocca senza sapere esattamente cosa dire. Come se non lo sapessi da me.
Voltò la testa verso sua madre, poi tornò a guardare me: “Ti va davvero un caffè?”
“Vuoi che mi addormenti alla guida?”
Sospirò, lanciandomi un’occhiata fugace: “D’accordo, allora.”

Avevo intuito in quale bar il professore ci stesse conducendo dal fatto che avevamo preso una strada che ci allontanava dal mare. Per le vie, non c’era quasi nessuno: a quell’ora, la temperatura era scesa ancora e la gente preferiva fare un giro nella piazza centrale, piuttosto che prendersi l’umidità del mare.
Procedevamo in silenzio, il signor Amani e la moglie che ci precedevano di qualche passo. Sentivo lo sguardo di Hiroshi fisso su di me; sapevo che non avrei potuto evitare di rispondere alle sue domande ancora per molto, così mi fermai all’improvviso e mi chinai, come se dovessi allacciarmi una scarpa; Hiroshi si fermò immediatamente al mio fianco, mentre i due continuavano a camminare.
Aspettò con calma che mi rialzassi e finalmente esplose: “Ma che fai?”
“Mi allaccio una scarpa.” Risposi, calma.
“Non intendevo questo.” Gettò un’occhiata eloquente nella direzione dei due che, nel frattempo, avevano notato la nostra assenza e si erano fermati per constatare cosa fosse successo, probabilmente attratti dalle nostre voci. “Allora?”
“Allora,” stavolta fu il mio turno di assumere un’espressione glaciale “credo che sia giunto il momento di finirla. Io non credo nel destino né nel caso, Hiroshi, ma penso che certe occasioni bisogna coglierle al volo. Quella donna soffre per te, glielo si legge in faccia. Ti chiedo soltanto di parlarle, per una volta. Tutto qui.”
“Ti rendi conto che ti stai immischiando in qualcosa che non ti riguarda?”
“Ti rendi conto che, se ci sono finita, è solo colpa tua?” ribattei, mettendolo a tacere. “Ti sta chiedendo solo un caffè. Concediglielo. Concedimelo. Prendila come… un modo per ripagarmi la cena, ecco.”
“D’accordo. Ma la prossima volta pago io.” Capitolò infine.
Le nostre risate, trasportate dal vento, si persero nelle acque del mare, mentre, a passo più sostenuto, raggiungevamo i due coniugi.

“Allora, cosa prendete?” chiese il professor Amani con un tono insolitamente allegro.
Indugiai ancora un istante sul menù, facendo finta di scegliere qualcosa di interessante. Anche se avevo detto che avrei voluto prendere un caffè, una volta entrata, mi ero accorta di avere lo stomaco chiuso. Forse quel dolce non avrei dovuto mangiarlo, pensai.
“Per me un caffè.” Decisi comunque alla fine, più per digerire che per coerenza.
“Anche per me.”
“Allora due caffè, un tè e un digestivo.” Ricapitolò andando ad ordinare.
Mi guardai intorno: come avevo immaginato, il locale era semivuoto e non certo a causa dell’orario. Si trattava di un bar un po’ fuori mano, carino, ma non propriamente centrale e che quindi i ragazzi per lo più non frequentavano: l’ideale per avere una tranquilla conversazione senza essere disturbati.
I miei due compagni non sembravano intenzionati a iniziare una chiacchierata, l’uno facendo finta che l’altro non ci fosse; l’altra cercando una qualsiasi scusa per instaurare un minimo di dialogo, senza sembrare invadente.
“Allora… Mara, vero?” provò, scegliendo me come oggetto della conversazione; non che non me lo aspettassi, ma la cosa mi mise piuttosto a disagio. “Studi anche tu all’ateneo?”
“Sì. Sto frequentando la specialistica in editoria.”
“Vuoi diventare giornalista, allora?”
“Sì e no. Diciamo che mi piace scrivere, ma non mi interesso molto di politica e cronaca, preferisco i romanzi e la critica.”
“Sogni di diventare scrittrice, quindi?”
Curioso, quella conversazione aveva un che di già visto.
“Diciamo che mi piacerebbe. Per adesso, pubblico qualche racconto su un quotidiano locale.”
“Davvero? Sembra interessante. Spero che un giorno tu possa sfondare.”
Farfugliai qualcosa come ringraziamento, mentre Hiroshi continuava a tacere.
“E a te come va il lavoro, Hiroshi?”
Lo sentii muoversi accanto a me, ma non lo guardai. “Be… bene.”
“Hai già stipulato un nuovo contratto, oppure no?”
“No… non ancora. Devo decidere.”
Avvertivo il suo imbarazzo e per un attimo fui tentata di rivelargli la verità; tuttavia, l’arrivo del professore mise fine alla discussione e ai miei dubbi.
“Allora, Hiroshi. Quanto tempo resterai ancora in Italia?” chiese invece lui.
“Non so di preciso.” Improvvisamente, l’atmosfera si fece molto più leggera “Il nonno mi ha detto che mi ospiterebbe volentieri, se decidessi di restare più a lungo, ma credo che partirò la settimana prossima, visto che ho degli impegni in Giappone.”
Il caffè mi andò di traverso e cominciai a tossire con violenza.
“Ehi! Tutto bene?”
Annuii e cercai con lo sguardo la toilette. Non mi scusai neanche, perché il bruciore non mi permetteva di parlare. Continuai a tossire ancora per un po’, e solo quando, una volta in bagno, alzai lo sguardo e incontrai la me nello specchio, mi resi conto che avevo le lacrime agli occhi, mentre qualcosa di pesante mi opprimeva il petto. Appoggiai le mani sul lavabo, nel vano tentativo di calmare il battito cardiaco che si era fatto tutt’a un tratto più veloce.
Che cosa mi era preso? Era stato il calore troppo forte della bevanda, ne ero sicura. E quelle lacrime, il battito accelerato, solo una conseguenza. Sì, doveva essere così, nonostante qualcosa dentro di me non fosse molto d’accordo.
Mi sciacquai la faccia, decisa a ritornare dagli altri prima che fossero venuti a cercarmi e mi avessero trovato in quello stato. Non mi resi neanche conto di quanto tempo fosse effettivamente trascorso, e solo in un secondo momento mi accorsi che li avevo lasciati soli.
Mentre tornavo indietro, pregai che non fosse andato tutto bene e che Hiroshi non avesse deciso nuovamente di piantarli in asso; mi consolò il pensiero che, anche se avesse voluto farlo, non sarebbe potuto andare da nessuna parte, visto che non conosceva il posto e che, senza di me, difficilmente sarebbe potuto tornare a Bari.
Con mia grande sorpresa, i tre erano intenti in una fitta conversazione, tanto che non si erano resi subito conto del mio arrivo. Fu Hiroshi il primo a notarmi e mi venne subito accanto.
“Stai bene?” mi chiese preoccupato.
“Sì. Scusate…”
“Ma no, cara, figurati. Hiroshi ci stava raccontando la trama del film che avete visto ieri.”
“Oh.” fu il mio unico commento, non sapendo cosa dire. Hiroshi mi sorrise, per indicarmi che andava tutto bene.
“Dev’essere stato noiosissimo. La recensione che ho letto l’ha stroncato con un bel due.”
Alzai le spalle: “Purtroppo una collega ci ha quasi costretti, ma, fortunatamente, ci ha risparmiato il peggio.” E mi lanciai nel racconto dell’impresa di Enrico.
“Enrico Moretti, vero?”
Lo fissai, incredula. “Non credevo che i professori conoscessero il nome dei propri studenti.”
“Infatti non li conosco. Il signor Moretti è venuto da me per chiedermi la tesi.”
“Come?!” ero semplicemente sconcertata.
“Non lo sapeva? La sua idea era quella di parlare dell’omosessualità nella letteratura inglese dell’Ottocento.”
“Però! Non mi aspettavo che stesse già pensando alla tesi.”
“A quanto pare, sì. E’ un ragazzo particolare, ma molto sveglio, e sa quel che vuole dalla vita.”
Pensai ad Enrico e mi resi conto che, in fondo, del nostro amico conoscevo davvero poco. Probabilmente Luca, invece, era riuscito a vedere al di là delle apparenze, e forse era stata proprio quella verità nascosta ad averlo fatto innamorare. Ripensai ai miei amici e mi chiesi se si fossero già chiariti o se lo stessero facendo in quel momento.
“Già, è un ragazzo in gamba.”
“Bene, ragazzi,” il professor Amani consultò il suo orologio “per noi si è fatto tardi. Non siamo più giovani come voi, quindi ce ne andiamo e vi lasciamo proseguire la serata.” Concluse, ammiccando nella nostra direzione.
“No.” Hiroshi si alzò contemporaneamente a lui “Anche noi stiamo andando. E, visto che si sta facendo tardi e tu devi guidare, sarà meglio che torniamo anche noi.”
Guardai anche io l’orologio e mi accorsi che mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Aveva ragione: facendo un paio di calcoli, sarei tornata a casa più o meno verso l’una.
“Come volete. Noi abbiamo parcheggiato qui vicino, nell’interno.”
“Noi invece sul lungomare, quindi mi sa che ci salutiamo qui.”
Ci fu un attimo di silenzio, come sempre accade quando due persone devono lasciarsi e non sanno come farlo; probabilmente, la signora avrebbe voluto trascorrere ancora un po’ di tempo con suo figlio, ma capiva che non era il caso di forzare le cose.
“Arrivederci, ragazzi.” Il professore mi tese la mano e io gliela strinsi con forza.
“Arrivederci professore. Signora…”
La donna mi salutò distrattamente, mentre lo sguardo correva già verso Hiroshi.
“Allora… ciao, Hiroshi.”
“Ciao, mamma.” Rispose e, inaspettatamente, si chinò verso di lei per darle un bacio sulla guancia. La donna sgranò gli occhi e si toccò il volto, temendo di star sognando.
“Hi… Hiroshi…”
“Con questo, mamma, non vuol dire che ti abbia perdonato. Tu non potrai mai capire come mi sia sentito io, abbandonato da mia madre proprio quando avevo più bisogno di lei.”
Gli occhi le si riempirono di lacrime “Io…”
“Però…” Hiroshi proseguì ignorandola “capisco la tua scelta. Non la condivido, ovviamente, ma la capisco. Ti ho vista serena, oggi, come non lo sei mai stata con con papà. E questo, come figlio, mi fa male, ma allo stesso tempo sono contento. Quando tornerò a casa, dirò a papà che, come desiderava, anche tu adesso sei felice.”
La signora Benedetta scoppiò in lacrime e suo marito le cinse le spalle protettivo, mentre Hiroshi usciva dal locale. Lanciai un ultimo sguardo verso il professore, ma lui era troppo preoccupato per sua moglie per accorgersene, così seguì Hiroshi all’esterno.
“Sono fiera di te.” Commentai, con un sorriso.
“Andiamo, dai.” Mi esortò invece, senza guardarmi.
Continuammo a camminare in silenzio per un po’. Eravamo quasi arrivati alla mia macchina, quando finalmente si voltò verso di me.
“Cosa c’è?”
“Tu lo sapevi che sarebbe finita così, vero?”
“No, ma ci speravo. Quando hai accettato la proposta di tua madre, avresti potuto benissimo rifiutarla, ma non lo hai fatto.”
“Forse ho agito così semplicemente perché me l’hai chiesto tu.”
“No. Altrimenti nel locale non avresti aperto bocca. La verità è che avevi bisogno solo di una piccola spinta.”
Mi sorrise, come mai aveva fatto. Era un sorriso dolce, tenero, malinconico. Bellissimo.
Ti prego, non guardarmi in quel modo, altrimenti finirò davvero per innamorarmi di te…
“Grazie.” Si abbassò verso di me e poggiò la sua fronte contro la mia. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio e il mio cuore aveva di nuovo preso a battermi all’impazzata.
“Pre…”
Il suono insistente del telefono mi riportò alla realtà; l’impatto fu peggiore di quel che pensassi e mi ritrovai istintivamente a voltargli le spalle.
Era il signor Marcello. Un brivido mi percorse la schiena: cosa poteva volere a quell’ora da me? Doveva essere accaduto sicuramente qualcosa.
“Signor Marcello, che succede?” chiesi.
Il silenzio che seguì, dall’altro capo del telefono, mi spaventò ancora di più.
“Signorina… mi spiace disturbarla a quest’ora, però…”
Aveva la voce rotta. In meno di un secondo, mi ritornò in mente il particolare delle medicine che stringeva in mano.
“Cosa è successo?” ripetei quasi urlando.
“Mia moglie… mia moglie si è sentita male. Ho chiamato l’ambulanza… adesso sono all’ospedale…”


Note dell’autrice:
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni. Ho tradotto la frase in questione con “Hai ancora gli stessi atteggiamenti, ora?” e ovviamente la domanda si riferisce ad Hiroshi e al suo rapporto con la madre. Oddio, forse le due cose c’entrano solo nella mia testa! XDD

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI ***


XI

Devo tornare.
Era questo l’unico pensiero che mi martellava nella mente. Dovevo andare da lei, da loro. Cosa era successo? Eppure, fino a due giorni prima, la signora stava bene; però, era anche vero che in quei due giorni non avevo avuto tempo di andare a trovarli, troppo presa dai miei problemi.
Egoista. Stupida egoista.
“Cosa succede?”
La voce di Hiroshi mi giunse come un’eco lontana; quando mi girai verso di lui, a stento mi ricordai chi fosse e dove ci trovassimo. La mia espressione doveva essere molto simile a quella di una persona che ha appena visto un fantasma, perché mi guardò preoccupato.
“Tutto bene?”
“Devo andare. Devo tornare.” Continuavo a ripetere come in trance.
“Calmati…” mi prese per le spalle. “Dove devi andare?”
“Devo andare da lei. Come, come ho potuto essere così cieca? Se dovesse succederle qualcosa, io…”
“Calmati!” mi ripeté ancora una volta, abbracciandomi. Mi scostai velocemente da lui, troppo sconvolta per poter apprezzare la sua gentilezza.
“Andiamo, ti accompagno.”
“Vuoi scherzare?” mi prese le chiavi dalla mano. “Non sei in grado di guidare in questo stato. Ti accompagno io.”
“Tu sei abituato alla giuda giapponese. Sono più pratica io, per quanto possa essere sconvolta.”
Per un attimo non rispose, ma alla fine mi consegnò le chiavi, nonostante fosse piuttosto evidente che non era affatto convinto di quella decisione.
“D’accordo, ma ti accompagno. Non mi fido a lasciarti sola in questo stato.”
“Secondo me, ti telefonerà per sapere se sei tornata a casa sana e salva.”
Con rabbia, scacciai quell’assurdo pensiero dalla testa. Non era il momento, quello.

In genere, io non amavo l’alta velocità; anzi, avevo sempre criticato aspramente coloro che utilizzavano la strada come una pista di Formula Uno, che erano la causa di incidenti stradali, o che morivano per la propria stupidità. Eppure, in quel momento, tutti quei pensieri moralistici erano andati a farsi benedire assieme alla mia razionalità: il contachilometri segnava 130Km/h e, quando la strada era completamente libera, raggiungeva anche i 150.
“Mara… capisco che tu sia sconvolta… ma in ospedale ci vuoi arrivare con i tuoi piedi, o portata con una barella?”
Non risposi, troppo concentrata per poter prestare minimamente attenzione a quel che mi stava dicendo.
Sorpassai un paio di automobili, che per il mio personale senso della velocità erano troppo piano, e per poco non finii contro un’altra autovettura che giungeva dalla direzione opposta; tornai in corsia giusto in tempo, mentre l’uomo mi lanciava come regalo un suono prolungato di clacson, a cui aveva sicuramente accompagnato bestemmie di ogni genere, ma io lo ignorai senza troppe cerimonie; Hiroshi, al mio fianco, blaterava qualcosa, forse una preghiera.
“Mara,” la sua voce era gentile, ma si avvertiva un certo timore “Credi davvero che la tua amica sarà contenta di sapere che siamo morti cercando di raggiungerla?”
La sua mano si posò sulla mia, ancora sulle marce, invitandomi gentilmente a rallentare, e quindi a scalare.
Quel tocco gentile e delicato servì a restituirmi la lucidità necessaria per farmi rendere conto di quel che stavo facendo e di quanto avesse ragione: anche se a me in quel momento di morire non importava niente, non avevo il diritto di portare con me anche una persona innocente, che aveva avuto l’unica colpa di preoccuparsi per me e di causare sofferenza a chi mi stava aspettando.
Rallentai, ma solo quando il contachilometri raggiunse la più modica cifra di 80 km/h Hiroshi tirò un sospiro di sollievo; tuttavia, la sua preoccupazione non sarebbe comunque durata a lungo, visto che eravamo già alle porte della città.
Sicuro che, in un centro abitato, non avrei fatto sciocchezze – almeno per evitare di uccidere qualche eventuale, ignaro passante, suppongo – mi lasciò la mano. Sentii l’aria fredda sostituire il suo calore e per un attimo una parte del mio cervello registrò che quel distacco non l’aveva molto gradito.
“Siamo arrivati.” Gli comunicai dopo pochi minuti.
“Te la prendi se ti dico che, quando sei sconvolta, sarebbe meglio tu evitassi di guidare qualsiasi mezzo di trasporto, fosse pure una bicicletta?”
“Andiamo.” Dissi invece, evitando di rispondergli, ma sentendo il cuore un po’ più leggero.

Trovare il reparto in cui la signora Lucia era ricoverata non fu difficile: quella sera non c’erano state altre emergenze, perciò l’infermiera non ebbe problemi nell’indicarmi il signor Marcello, seduto su una panchina, le mani tra i capelli, in attesa di non sapevo bene cosa, ma sperai non dell’irreparabile.
“Signor Marcello…”
L’uomo alzò lo sguardo e il suo volto si illuminò. “Mara! Mio Dio, Grazie!”
Andai da lui e lo tenni fra le braccia finché non sentii le sue spalle rilassarsi. “Come sta?” chiesi.
Scosse la testa. “Non lo so. I medici le stanno facendo delle analisi, ma non hanno voluto dirmi nulla per non darmi falsi timori.”
O false speranze.
Mi sedetti accanto a lui, in silenzio. Solo quando una mano si posò sulla mia spalla, mi ricordai che Hiroshi era rimasto lì con me per tutto il tempo.
“Arrivando qui, ho notato un distributore. Vado a prenderti qualcosa.”
Annuii distrattamente. “Grazie.”
Lo guardai allontanarsi. Perché era così gentile con me? Forse tutti i giapponesi lo erano, o forse si sentiva in debito con me per qualcosa che, in fondo, avevo già dimenticato. Perché non potevano esserci altre ragioni: l’avevo sentito io stessa, no? La settimana successiva sarebbe ripartito e sarebbe ritornato alla sua vita di sempre e si sarebbe dimenticato di quella ragazza italiana che aveva incontrato in uno dei suoi tanti viaggi in quella terra che tanto aveva odiato.
“E’ quello il famoso ragazzo, vero?”
Il signor Marcello aveva l’aria di chi ha capito tutto e vuole divertirsi un po’; lo ammirai tantissimo per la forza che stava dimostrando in quel momento.
“Sì.”
“Allora non è un semplice conoscente…”
“Ha solo voluto sdebitarsi per l’aiuto che gli ho dato l’altro giorno.”
“Lo crede davvero?”
Annuii con convinzione. Lui lasciò andare la testa contro la parete. “Mia moglie direbbe che ha ancora da imparare sul cuore degli uomini.”
“Sua moglie avrebbe ragione, ma non in questo caso, mi creda.”
Ci zittimmo non appena lo vedemmo arrivare con due bicchieri di caffè caldo. “Non sapevo cosa prendervi, così ho optato per il caffè. Spero vada bene.”
A quanto pareva, quel giorno era proprio destino che mi imbottissi di caffè. E qualcosa mi diceva che quello non sarebbe stato l’ultimo.

Dovevo essermi appisolata un attimo, perché, quando sentii la porta aprirsi, balzai su spaventata. Il signor Marcello corse subito dal medico; Hiroshi, accanto a me, mi strinse la mano, mentre anche noi ci avvicinavamo a lui.
“Allora, dottore? Come sta mia moglie?”
“Beh…” l’uomo si pulì gli occhiali prendendo tempo, sperai non per trovare le parole giuste per darci qualche brutta notizia. “Sua moglie non è più una ragazzina e ha ormai una certa età. Abbiamo fatto tutti gli accertamenti possibili e, mi creda, non è risultato niente di anormale; probabilmente, si è trattato solo di stanchezza. Comunque, la terremo qui per qualche giorno in osservazione.”
“Sia ringraziato il cielo!”
Il signor Marcello proruppe in un singhiozzo di sollievo. Fu troppo anche per me: la vista mi si annebbiò e un istante dopo mi ritrovai tra le braccia di Hiroshi che piangevo disperata, mentre le sue mani mi accarezzavano dolcemente i capelli.
“Sta’ tranquilla, è tutto finito.” Continuava a bisbigliarmi, ma io non riuscivo a smettere di singhiozzare come una bambina.
“Posso vederla?”
“Meglio di no, signore, sua moglie in questo momento sta dormendo; anzi, consiglio anche a voi di riposarvi un po’. E ora, se volete scusarmi…”
Raggiunsi il signor Marcello. “Il dottore ha ragione. Vada, resterò qui io per un po’. Se ci sono problemi…”
“No. Io… non so davvero come ringraziarvi per essere venuti qui, non sapevo chi chiamare… ma adesso che so che mia moglie sta bene, voglio che anche voi andiate a riposarvi.”
“Ma…”
“Niente ma.” Si voltò verso Hiroshi, quasi implorante. “La prego, cerchi di convincerla lei.”
Ero troppo stanca per combattere contro due persone, così mi lasciai guidare fuori da Hiroshi. L’aria fredda della notte mi fece rabbrividire.
“Adesso guido io, e non ammetto repliche. Dimmi solo dove devo andare.” La voce di Hiroshi era calma, ma perentoria.
“Non sei stanco anche tu?”
“Meno di te sicuramente. Perciò, sali.”
Dovevo essere davvero distrutta, perché non ricordo assolutamente il tragitto che seguimmo per arrivare a casa mia; eppure, per ritrovarmi sotto casa, significava che dovevo averlo per forza guidato io.
“Credo che siamo arrivati.” Precisò infatti.
“Hiroshi, io…” mi voltai verso di lui “Non so come ringraziarti. Davvero. Per tutto. Se non fosse stato per te…”
“Non dirlo più. Ricordati che sono in debito con te.”
Scossi la testa: “Non mi riferivo solo a questa sera, ma anche a ieri. Sono io ad essere in debito con te!”
“Allora mi sa che l’abbiamo estinto a vicenda.”
Sorrisi: “Dai, sali su.”
Lui si agitò sul sedile in imbarazzo. “Ma… non so se…”
“Dove pensi di andare a quest’ora della notte, scusa?”
Alzò le spalle. “Mah, ci sarà un treno, no?”
Guardai l’orologio: “Alle quattro del mattino? Scherzi? Su, scendi.”

Non potevo definirmi una casalinga perfetta, ma almeno la mia abitazione poteva essere considerata un luogo vivibile: detestavo il disordine e questo mi aveva salvato dalle incursioni dell’ultimo secondo dei miei amici.
Hiroshi mi seguiva con circospezione, come un pesce fuor d’acqua; gli indicai il divano, facendogli segno di accomodarsi.
“E’ carino qui.” Commentò.
“Grazie.”
“Vivi da sola?”
“Sì. Ho le mie abitudini, e quindi non riesco a vivere con altra gente, così ho optato per una sistemazione diversa, non a Bari, ma tutta per me.”
“Non ti senti sola?”
“No, la solitudine non mi spaventa. E poi il signor Marcello e la signora Lucia cercano di starmi vicini il più possibile.”
“Per questo sei così affezionata a loro?”
“Sì. Con loro mi sento molto più a casa che con mia madre.”
“L’avevo capito.”
“Sempre da quella telefonata?”
“Sì. Il tuo timbro di voce era molto diverso.”
Appoggiai la testa sullo schienale del divano. “Mio padre se ne è andato quando avevo quindici anni, in un incidente stradale. E’ stato quattro mesi in coma, prima di morire. Mia madre è una stilista, quindi stava fuori spesso, così io e mio padre vivevamo praticamente da soli per la maggior parte del tempo. Quella sera, mamma gli chiese di andarla a prendere all’aeroporto. Io volevo accompagnarlo, ma mi disse che era meglio che fossi rimasta a casa, visto che era tardi, ché il giorno dopo dovevo andare a scuola. Fu un pirata a tagliargli la strada, facendolo sbandare.
“Se adesso io sono qui, lo devo a lui. Ma allora la sentii come una colpa, e non potei perdonare a mia madre di averlo fatto andare fin lì, nel cuore della notte.”
“Ma non era colpa sua.”
“Lo so. Però, quel che veramente non le perdonai, e non le perdono tuttora, fu che riprese a lavorare come se nulla fosse successo, mentre io continuavo ad andare a scuola ed ogni pomeriggio passavo a trovare mio padre. Ero sempre lì, tanto che gli infermieri spesso mi lasciavano restare anche oltre l’orario dovuto: facevo i compiti con lui, gli raccontavo la mia giornata… speravo che in questo modo tutto tornasse come prima, ma così non è stato. Ragion per cui, appena ho potuto, me ne sono andata da quella casa. Credo sia stato un bene anche per mia madre, senza una figlia di cui doversi occupare.”
Hiroshi mi strinse la mano. “Mi dispiace.”
“Ormai sono trascorsi quasi dieci anni. Non importa più, ormai.”
“Non intendo questo. Mi spiace aver riversato su di te anche i miei problemi. Sono stato un egoista.”
Lo guardai. “Beh, trova il lato positivo: grazie a me, hai potuto vedere un splendido film, assaggiato una piadina…”
“… e fatto pace con mia madre.”
“Già.”
La sua mano non aveva ancora abbandonato la mia. Restammo in silenzio a guardarci, abbandonati con la testa sul divano. Mi piacevano tanto i suoi occhi, decisi, più di quanto avrei voluto ammettere e in quell’istante mi resi conto che stavo superando un confine che non avrei dovuto oltrepassare. Eppure, lo capii solo allora, era ormai troppo tardi.
Fu lui il primo a muoversi. Così, con semplicità, come se fosse stato un gesto assolutamente naturale e logico, si allungò verso di me e mi baciò. Un attimo. Se non avessi sentito il suo calore ancora sulle mie labbra, avrei anche potuto credere di aver sognato tutto.
“Va’ a dormire. Sei distrutta.”
“Non ti sentirai solo?” chiesi.
Sorrise sornione. “Cos’è, una proposta indecente?”
“Forse.”
In condizioni normali, completamente sveglia e senza litri di caffè che mi scorrevano nelle vene neanche fosse stato alcol o una qualche strana droga, senza tutte quelle lacrime versate e da versare, senza la sua mano nella mia e il suo calore così vicino, probabilmente non l’avrei neanche pensata, quella parola, e sicuramente non detta. Eppure, quando quelle due sillabe uscirono dalla mia bocca, le trovai perfettamente logiche e normali, come il bacio di poco prima.
Non ricordo da chi partì l’iniziativa, stavolta, non ricordo neanche se rispose, o se, semplicemente, non disse nulla. Forse non ce ne fu bisogno, forse i nostri corpi parlavano abbastanza da soli. Però ricordo bene il suo sapore nella mia bocca e le sue mani, che prima mi accarezzavano lentamente, quasi con timore, ma che via via si facevano sempre più audaci e sicure.
Non ricordo neanche come finimmo in camera mia. Quando prestai attenzione a cosa stava accadendo intorno a me, eravamo ormai completamente nudi, l’uno di fronte all’altra. Le sue mani non mi avevano mai abbandonata e le sue labbra mi avevano esplorata completamente, fermandosi laddove, lo sentiva, il mio respiro si faceva più veloce. Fu quando avvertii le sue mani sulla mia femminilità che mi resi veramente conto di quel che stava accadendo.
La mia prima volta. E con una persona di cui, fino a pochi giorni prima, avevo amato solo la voce e desiderato di poter incontrare, anche solo per un attimo.
Se è un sogno, vi prego, non svegliatemi! Pregai a nessuno in particolare, mentre, lentamente, entrava in me. Istintivamente mi aggrappai a lui e serrai gli occhi per non urlare.
“Gomen…” si scusò, fermandosi.
Scossi la testa con forza, perché sapevo che, se avessi provato a parlare, non sarei stata credibile; lui però capì e proseguì più lentamente. Come faceva a leggere così bene nella mia mente e nel mio cuore? Mi chiesi ancora una volta, senza trovare una risposta.
Soltanto quando il dolore scomparve, diedi libero sfogo alla mia voce. E’ possibile provare una felicità così intensa da star male? Mi chiesi. E’ possibile sentirsi così felici, appagati, completi? Fino a poche ore prima, non l’avrei mai detto. Avevo sentito tanti racconti, da parte di Ilaria ed Enrico, ma viverlo, in prima persona, con la persona che, in quel momento, desideri più di ogni altra cosa, è completamente diverso.
Crollammo insieme e, probabilmente, anche il sonno ci raggiunse nello stesso istante.


Note dell’autrice
Ok, smettetela di guardami così. Sono io la prima a vergognarmi da morire per quello che ho scritto! XD Però dalla mia ho il fatto che NON E’ COLPA MIA! Hanno fatto tutto loro due! Io ho solo scritto! U.U *annuisce*.
Oddio, ditemi che non ho scritto schifezze, vi prego! T_T E se l’ho fatto, fustigatemi pure! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII ***


XII

“Lasciateci spiegare, possiamo rimediare”
(Ci chiamano bambine – Paola e Chiara)


La luce del sole colpì le mie iridi addormentate con violenza. Aprii gli occhi e per un istante mi chiesi perché fossi stata così cretina da lasciare le persiane aperte e mi voltai dall’altra parte, con il proposito di riaddormentarmi. Fu in quel momento che me ne accorsi.
Da quando dormivo nuda?
In un secondo, tutto quello che era accaduto la notte precedente mi tornò in mente come un fiume in piena. Balzai a sedere nel letto e mi raggomitolai su me stessa, gli occhi spalancati e completamente sveglia.
Oddio.
In pochi secondi, ricordai tutto quello che era successo. Non potevo crederci. No, dovevo aver sognato tutto. Mi guardai intorno e i miei vestiti buttati per terra alla rinfusa accanto alla mia biancheria dicevano esattamente il contrario.
Lasciai il mio sguardo vagare ancora nella stanza e finalmente il particolare che non riuscivo a focalizzare mi venne in mente: Hiroshi non c’era. Che fine aveva fatto?
Da qualche parte, un cellulare aveva iniziato a suonare. Riconobbi a stento la mia suoneria e inizialmente mi balenò in mente l’idea di ignorare completamente l’apparecchio; tuttavia, il pensiero che potesse trattarsi del signor Marcello, che mi informava di qualche cambiamento nello stato di salute della moglie, mi spinse a cercare la prima cosa indossabile e a correre alla ricerca del telefono.
“Che succede?” chiesi appena riuscii a trovare la mia borsa, senza neanche curarmi di guardare il nome di chi mi stava chiamando.
“Niente, Mara. O meglio, dovrei essere io a chiederlo a te, visto che questa è la terza volta che provo a chiamarti da stamattina e il cellulare continua a squillare a vuoto.”
Senza volerlo tirai un sospiro di sollievo: fortunatamente, andava tutto bene.
“E’ una lunga storia, Ila. Ieri sera…”
“Ecco, appunto, era questo che volevo sapere. Come è andata ieri sera? Te l’ha detto?”
“No, ma il punto non è questo. Ieri sera…”
Ma la mia amica era troppo su di giri per interessarsi a quello che stavo cercando di dirle.
“E tu non gliel'hai chiesto?”
“No.”
“Ma sei scema? Sarebbe stata un'ottima occasione!”
“Ila, il punto non è Hiroshi!”
“Certo che è lui, Mara!”
Oh, basta. Mi stava facendo perdere la pazienza. “Insomma, Ila, mi vuoi ascoltare sì o no?”
“Ok, ok. Cosa è successo ieri sera?”
“Ieri sera la signora Lucia è stata ricoverata in ospedale.”
“Oh, cazzo. Come sta?”
Qualche volta, Ilaria era venuta a dormire a casa mia, così aveva avuto modo di conoscere i coniugi Saracino. Una volta, i due ci avevano invitate a pranzo e da allora non c’era giorno che non mi chiedessero notizie della mia amica.
“Bene. Pare che si tratti di semplice stanchezza, ma ci siamo presi un colpo!”
“E immagino. Deduco quindi che non hai ancora chiamato per quella cosa.”
“No. Mi sono svegliata adesso, ti pare che abbia avuto tempo di pensare al giornale e a roba simile?”
“Ma hai intenzione di chiamare, no? Non che cambi idea, vero?”
“No che non cambio idea, tranquilla. Te lo dissi ieri, lunedì chiamerò. Sperando che vada bene…”
“Certo che andrà bene, vedrai!”
Mugugnai qualcosa, senza troppa convinzione: con tutto quello che era accaduto, il resto era passato in secondo piano.
“La tua direttrice ti ha fatto sapere più nulla? Qualche altra informazione…?”
“No, non mi ha detto nulla.”
“E Hiroshi?”
“Hiroshi? Non sa niente, veramente.”
“Scusa, e perché?! Sono sicura che ne sarà contenta anche lui!”
“No, Ila. E’ un segreto tra me e te per adesso e non lo deve sapere nessun altro. Se mi pubblicheranno, allora lo vedrà lui stesso.”
Sì, Ilaria aveva ragione quando affermava che Hroshi sarebbe stato contento della novità, forse più di me; eppure, forse proprio perché temevo di deludere lui più di tutti, uno strano terrore mi impediva anche solo di pensare di potergli comunicare una simile notizia.
“Contenta tu.”
“E a te come è andata con il tizio della segreteria?” chiesi, per cambiare argomento.
“Uh! Bene bene, poi ti racconto! Adesso vado, ma la prossima volta che ci vediamo, anche tu mi devi raccontare tutto, ok?”
“Ok, d’accordo. Ciao, Ila.” Tagliai corto, prima che ricominciasse a farmi domande sulla serata precedente.
“Che cos’è che devi dirmi?”
Mi voltai, spaventata dal suono improvviso della sua voce: era sulla soglia, già completamente vestito.
“Ah, eccoti! Dove eri finito? Mi hai fatto prender…” le parole mi morirono in gola: perché mi stava guardando in quel modo così freddo?
“Che cosa succede?” chiesi, ingoiando a vuoto. Perché mi fissava così? Dov’era finito quello sguardo così dolce che mi aveva riservato la sera precedente?
“Da quanto lo sai?” mi chiese invece.
Sgranai gli occhi e quello gli diede la certezza che avevo capito di che cosa stesse parlando. Fece un passo avanti e istintivamente io arretrai.
“Da quanto tu e la tua amica sapete chi sono?”
“Da… da un po’.”
“Ma certo, adesso sì che è tutto chiaro. Ecco perché ti sei avvicinata a me, quel giorno. E adesso capisco anche perché non mi hai mai chiesto che cosa facessi nella vita, visto che già lo sapevi!”
Sì, in parte era vero, ma se glielo avessi detto, sarebbe subito saltato a conclusioni sbagliate. “Perché non mi hai detto niente?” gli chiedi invece di rispondere.
“E tu? Perché non mi hai mai chiesto niente? Speravi che non lo scoprissi per poter così pubblicare tranquillamente un articolo su di me?”
Eh? Di che stava parlando?
“Ma che diavolo…?”
“Mi avevi detto che fare la giornalista non ti interessava, che preferisci scrivere racconti e occuparti di cultura. Bugiarda. Quello che ti interessa è fare uno scoop su di me, e magari rivenderlo! Immagino che la mia triste storia farà gola ai tuoi lettori!”
Scossi la testa. “Che diavolo dici? Non mi è mai passato neanche per la testa di scrivere un articolo su di te!”
“Pensi davvero che possa crederti?”
“Qualunque cosa tu abbia sentito, hai frainteso tutto!”
“Certo, dite tutte così!”
Tutte? Aveva sentito la mia conversazione con Ilaria, traendo conclusioni sbagliate, perché gli era già capitato in passato?
“Quindi è questo che pensi di me?”
“Perché non mi hai mai detto che lo sapevi?”
“E tu perché mi hai detto che sei un traduttore, quando non è vero? Non ti fidavi di me?”
“A questo punto, avevo ragione!”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ciò che in quei giorni avevo continuato ad ignorare, adesso mi appariva davanti con estrema chiarezza: lui non si fidava di me. Non al punto da rivelarmi la sua vera identità.
“Non è come pensi. Io…”
“Non importa.” Si voltò, con il chiaro intento di andarsene. Lo seguii: se fosse uscito da quella casa, non avrei avuto più modo di spiegargli la verità.
“Aspet…” cercai di fermarlo, ma lui mi ignorò e aprì la porta, con decisione.
Rimase un attimo fermo sulla soglia, immobile, al punto che, per un attimo, pensai avesse cambiato idea e si fosse deciso di ascoltare la mia versione dei fatti; fu quando si spostò di lato, che vidi la figura di fronte a lui.
Mamma.
Oh, cazzo.
“Ehm… credo di essere arrivata nel momento sbagliato.”
“Non credo. Stavo andando via. Arrivederci.” La salutò, scartando quel poco che gli bastava per uscire.
Mia madre chiuse la porta dietro di sé e continuò a fissarmi per qualche secondo, tra il sorpreso e lo sconvolto; probabilmente, la mia espressione doveva essere più o meno la stessa, perché in pochi attimi me la ritrovai accanto.
“Stella, ma cos’è successo?”
Non avrei mai immaginato che il solo sentire la sua voce mi avrebbe fatto così bene. Quelle poche parole ebbero il potere di sciogliere ogni mia reticenza e, un secondo dopo, scoppiai in lacrime.
“Mamma… mamma!”
Lei mi circondò con le braccia e lasciò che mi sfogassi, proprio come, la sera precedente, aveva fatto lui.
“Perché, perché?”
“Cos’è successo?”
“Mamma… ho fatto un casino!”
“Oddio!” mia madre mi scostò per guardarmi in faccia “Sei incinta!”
“Cosa? Ma come ti salta in mente?!”
“Beh, scusa: arrivo, trovo un ragazzo nel tuo appartamento, con te in lacrime e mezza nuda. Cosa dovrei pensare, secondo te?”
Sospirai: inutile, mia madre era sempre la solita.
“Sta’ tranquilla: non avrai così presto dei nipotini dalla sottoscritta!”
“Oh, che peccato. Sai, mi ci stavo già affezionando! Quel ragazzo non mi sembrava male, quindi ho subito pensato che il piccolo sarebbe stato molto carino, visti i genitori. L’avrei proposto anche come modello, sì…”
“Mamma…”
“Ok, ok, ho capito. Ma adesso va’ a vestirti, che intanto io ti preparo la colazione.”

“Fammi capire bene:tu stai per pubblicare un libro, il tuo ragazzo è una star, e io, che sono tua madre, non so niente?”
Sedute una di fronte all’altra, io e mia madre stavamo aspettando che l’acqua bollisse per calare la pasta; l’idea della colazione era stata accantonata appena avevo notato che erano già le due passate.
“Mamma, quello non è il mio ragazzo e non è sicuro che mi pubblichino.”
“D’accordo. Potresti essere pubblicata e hai passato la notte con una star.”
Quando c’era da indorare la piccola, mia madre era la migliore.
“Diciamo che hai inquadrato la situazione.”
“Cavoli. Non credevo che venendo qui, avrei avuto tutte queste notizie sconvolgenti.”
“A proposito,” solo in quel momento ci feci realmente caso “ma tu cosa ci fai qui?”
“Beh…” mia madre mise a cucinare gli spaghetti e tornò a sedersi “stamattina il signor Marcello mi ha telefonata.”
Come? “Hai il numero del signor Marcello?”
Rise. “Cara, ma secondo te, perché non sono sempre qui a vedere come stai? Quei due signori ti vogliono davvero bene. La prima volta che ci siamo conosciuti, sono stati proprio loro a darmi il loro numero. ‘Così, per qualsiasi emergenza, potremo contattarla’, mi dissero e io qualche volta li ho chiamati per chiedere tue notizie.”
Ero così sconvolta che non sapevo cosa dire. “Non ne sapevo niente…”
“Ovvio. Non ho voluto dirti niente apposta.”
“Ma perché ti ha chiamata oggi?”
“Mi ha spiegato che sua moglie è stata ricoverata. Era preoccupato per te: ti aveva vista sconvolta.”
Ebbi un tuffo al cuore al pensiero di quell’uomo che si preoccupava tanto per me; sentii alcune lacrime di commozione bussare ai miei occhi per poter uscire, ma ero troppo abituata a reprimerle per lasciarle fluire liberamente.
“Così mi sono messa in macchina e sono venuta.”
“Non era necessario, mamma. Sto bene.”
Lei mi lanciò un’occhiata eloquente. “Oh, sì. Ho notato.”
D’accordo, aveva vinto.
Mangiammo in silenzio: non ero abituata a pranzare in compagnia, quando ero a casa, così per un po’ mi dimenticai della donna seduta di fronte a me, persa nei miei pensieri. Le immagini di quel che era accaduto si ripetevano senza sosta nella mia mente. Quante cose avrei potuto dire e fare in mia difesa? Tante, eppure non avevo detto niente. Perché ero sconvolta, certo; ma non solo: ero anche troppo arrabbiata e delusa e il mio inconscio aveva voluto vendicarsi in questo modo. Peccato che, alla fine, l’unica a rimetterci, ero stata comunque io.
“Mara?”
“Sì?” era rarissimo che mia madre mi chiamasse con il mio nome, e questo significava che stava per dirmi qualcosa di importante.
“Dimmi la verità… ti dà fastidio che io sia venuta a trovarti?”
Improvvisamente, il mio piatto ormai mezzo vuoto mi parve la cosa più interessante del mondo.
“No… se non ci fossi stata tu, non so cosa avrei fatto, prima.”
“Quindi, anche una mamma come me, ogni tanto può servire a qualcosa…”
Non dissi niente. La sua non era una domanda, ma una constatazione che stava facendo verso se stessa. D’un tratto, il volto della madre di Hiroshi si sovrappose a quello della mia genitrice; avevano lo stesso sguardo, in quel momento, e solo allora mi resi conto che non era la prima volta che lo intravedevo sul suo volto; ero stata io, la sciocca, a non volerlo realmente vedere?
“Perché non sei stata presente anche quando papà è stato male, come adesso?”
Mia madre posò la forchetta nel piatto e si pulì le labbra con il tovagliolo.
“Perché me l’aveva chiesto lui.”
Balzai in piedi: “Come può essere? Papà non si è mai risvegliato dal coma!”
“No, non parlo di allora.”
Continuavo a non capire.
“Ti ricordi quella volta che tuo padre si sentì male e che io non c’ero?”
Feci cenno di sì con il capo, cercando di reprimere l’ondata di odio che mi aveva colpita ricordando quell’avvenimento.
“Quel giorno io non potetti sapere subito cosa fosse successo, perché all’ultimo minuto ci cambiarono di sede e quindi non feci in tempo a dare il numero a tuo padre. Allora i cellulari non erano ancora così diffusi come lo sono oggi.” Sorrise amaramente. “Quando poi riuscì a sapere cosa successe, corsi subito lì e tuo padre mi disse: ‘Quello che è successo oggi, mi ha fatto capire che la vita non è così lunga come può sembrare. Credevo di non farcela e ho avuto paura. Non per me, ma per te e Mara, che è ancora così piccola, perché vi avrei lasciate sole. Non voglio che le vostre vite siano rovinate per colpa mia, Laura.’ mi disse ‘Qualunque cosa dovesse succedermi, va’ avanti. Per me, per te e per Mara.’”
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. “Perché non mi hai mai detto niente?” chiesi.
“Perché eri troppo piccola per capire.”
“Quella volta, forse. Ma quando morì papà, avevo quindici anni. Le ragazze di quell’età non sono così stupide da non capire una cosa simile.”
“Pensi davvero che mi avresti creduto, allora, se ti avessi detto una cosa del genere?”
Tacqui. No, naturalmente. L'avevo detestata con tutte le forze, perché non c’era mai stata per noi, quindi sarei sicuramente saltata alla conclusione che si stava inventando tutto.
“Hai preferito che ti odiassi, che me ne andassi, pur di non confidarti con me, anche dopo che papà è morto. Sono così inaffidabile?”
“Non è questo, Mara. Tu eri il mio punto fermo. Così indipendente e forte, nonostante tutto. E dopo, non aveva più importanza.”
“Certo che ce l’aveva!” mi alzai e la raggiunsi “Avrei potuto starti vicina, avremmo potuto affrontare diversamente la scomparsa di papà!”
Ormai urlavo e piangevo. “Perdonami, mamma…” riuscii infine a dire, tra i singhiozzi.
Lei scosse la testa e dal movimento delle sue spalle, capii che anche lei stava piangendo. ”No, Mara. Sei tu che devi perdonare questa stupida mamma che ti ritrovi!”
E, per la seconda volta in poche ore, ci ritrovammo una tra le braccia dell’altra in lacrime.

Nota dell’autrice:
Come da sottotitolo,anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni.
In realtà, questa frase non fa parte del set che mi è stato fornito, ma ho effettuato una sostituzione (permessa dal regolamento). Questo perché, quando ho letto il testo di Paola e Chiara l’ho trovato adattissimo per descrivere Mara adolescente. Ma non è soltanto questo: la frase che ho scelto, ho pensato di riferirla sia alla situazione che viene a crearsi tra Hiroshi e Mara, sia quella, appunto, tra la ragazza e sua madre: basta avere modo di spiegarsi, che alla fine tutto si sistema per il meglio.
Quanto al capitolo in sé, voi non potete immaginare che parto sia stato. XD Spero di non essere stata troppo scontata e che non vi deluda troppo; in quel caso, commenti e critiche, ricordatelo, sono sempre ben accetti!

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII ***


XIII

"Ti prego, per un giorno trovami irresistibile!"
(Il matrimonio del mio migliore amico)


Quando entrammo nella sua stanza, la signora Lucia era seduta a letto, le guance rosse e paffute come gliele avevo sempre viste. Anche se avevo saputo già dalla sera precedente che non c’era nulla da temere, solo in quel momento riuscii veramente a tirare un sospiro di sollievo.
“Mara, cara!” quando mi vide, un sorriso radioso le illuminò il volto. “Buongiorno, signora.”
“Buongiorno, come sta? Suo marito mi ha detto che non è nulla di grave.”
“Quell’uomo” indicò un punto dietro di noi “si preoccupa sempre troppo.”
“Quest’uomo ti ha visto svenire davanti ai propri occhi. Hai idea di che colpo mi sono preso?” rispose il signor Marcello, appena apparso alle nostre spalle.
Mosse la mano, come per dire che non aveva importanza. “Sicuramente ti avrà spaventata, povera cara. Siete state gentilissime a passare, però, come vedete, sto benissimo. Il medico mi ha detto che lunedì mi dimetteranno.”
“Oh, bene!”
“Mara…” mi avvicinai a lei e prese le mie mani tra le sue “mio marito mi ha raccontato che sei rimasta qui tutta la notte. Non dovevi, davvero.”
“Non lo dica neanche per scherzo. Sono io che mi devo scusare con lei e suo marito: in questi giorni vi ho trascurati e ho pensato solo a me stessa. Se solo fossi stata più presente, forse…”
Lei rise: “Oh, ma i giovani non devono stare a perder tempo con noi vecchi!”
“Ma che dice!”
La signora sogghignò e mi fece cenno di avvicinarmi ancora di più. “Mio marito mi ha detto che eri con un ragazzo” aggiunse a bassa voce per non farsi sentire da nessun altro; mia madre, per educazione, si allontanò di qualche passo.
Annuii, incapace di parlare.
“Quando lo rivedi, potresti ringraziarlo da parte mia?”
Feci cenno di sì con la testa, ancora una volta. Se l’avessi rivisto. E non sarebbe successo, questa era la verità. Mi allontanai, in modo che non potesse scorgere il mio turbamento.
“Cara, hai bisogno di qualcosa?” chiese il signor Marcello.
“Un po’ d’acqua, se non ti dispiace.”
“Vado a prenderla io!” mi intromisi e, prima che potessero obiettare, mi dileguai. Giusto in tempo: non ero neanche fuori, che già le lacrime avevano iniziato pericolosamente ad offuscarmi la vista. No, non dovevo piangere. No, no…
“Oddio, Mara! Stai bene?”
La voce di Ilaria e le braccia che mi cinsero prima che perdessi l’equilibrio e cadessi mi raggiunsero contemporaneamente.
Alzai la testa e vidi i miei amici fissarmi preoccupati.
“Enrico, Ila. Come mai siete qui?”
“Sai, ci avevano detto che l’ospedale di qui era molto carino e allora… cretina, per venire a trovare la signora Lucia, mi pare ovvio! Mi hai detto proprio tu che era stata ricoverata!”
“Ah, giusto.”
“Sei sicura di star bene?” solo in quel momento mi ricordai delle braccia che mi avevano sorretta; ne cercai il proprietario e non potei trattenere un’esclamazione di gioia.
“Luca!” Lo abbracciai: “Sono contenta di vederti.”
“Anche io…” ricambiò il mio gesto, protettivo.
“Bene, mentre voi due pomiciate, io ed Enrico andiamo a vedere come sta la signora.” Scherzò e, senza tanti complimenti, mi diede le spalle ed entrò nella stanza.
“Vuoi venire con me, Luca? Sto andando a prendere qualcosa da bere.”
“Certo. Non mi fido a lasciarti sola, hai una faccia che…”
D’accordo, ma ti accompagno. Non mi fido a lasciarti sola in questo stato.” Ignorai le voci nel mio cervello, scotendo la testa per scacciarle.
“C’è tempo per parlare di me. Piuttosto, dimmi di te. Come va?”
Si toccò la nuca, imbarazzato, scoppiando a ridere. “Donne, tutte uguali!”
“Se non vuoi parlarmene, non c’è problema.”
“No, non è questo. E’ che da quando ci siamo incontrati, Ilaria mi guarda come se volesse saltarmi al collo, pur di sapere tutto.”
Ci avrei scommesso, pensai.
“Quindi è tutto ok?” chiesi, fermandomi davanti al distributore. Feci finta di non sapere chi era stato lì, per prendermi qualcosa da bere, proprio poche ore prima, e mi concentrai su Luca.
“Beh, sì. Non me lo sarei mai aspettato, davvero. Ieri sera mi ha chiamato sul cellulare da un numero che non conoscevo e mi ha intimato di spicciarmi a scendere che stava letteralmente morendo di freddo.”
“Ma… ieri sera non è che facesse caldo, ma neanche così freddo da lamentarsene in quel modo…”
“E’ quello che ho pensato anche io, infatti mi è venuta subito in mente l’idea che mi stesse prendendo in giro. Comunque, ero curioso, così sono sceso e me lo sono ritrovato davanti in pantaloncini e maglietta.”
“Oh mio…”
I suoi occhi brillarono al ricordo: “’Beh, che ti guardi? Non avevi detto che volevi imparare a giocare a calcio? Su, va’ a cambiarti, e spicciati!’ mi disse.”
Scoppiai a ridere; qualcuno si voltò nella nostra direzione, ma lo ignorammo. Ricordavo anche io quel giorno: c’era una partita dei mondiali, non ricordo neanche più contro chi stessimo giocando, visto che a me il calcio non è mai interessato, e utilizzavamo quelle occasioni solo come una scusa per stare insieme. Enrico stava commentando un’azione non molto brillante della nostra nazionale con Ilaria, e Luca si era intromesso, dicendo che non c’era bisogno di agitarsi tanto, in fondo, per una partita neanche troppo importante.
“Tu non capisci niente di calcio, Luca.”
“Infatti non mi interessa, il calcio.”
Enrico l’aveva guardato stranito. “Vuoi forse dirmi che da bambino non hai mai giocato a pallone con i tuoi amichetti?”
Alla risposta negativa del nostro amico, Enrico aveva alzato su il mento con aria baldanzosa. “Beh, allora capisco. Vuol dire che un giorno ti insegnerò io a giocare a calcio.” Gli aveva promesso.
“Non è possibile! Quanti anni sono passati da quel giorno? E se lo ricorda ancora?”
“A quanto pare…”
“Ti ha insegnato davvero a giocare?”
“Macché, fa più schifo di me! Infatti abbiamo smesso dopo dieci minuti: due bambini ci hanno detto senza mezzi termini che facevamo pena e che avremmo fatto miglior figura a lasciare loro il campo. Visto che stava morendo di freddo, l’ho fatto salire e gli ho prestato qualcosa di mio. E ovviamente la prima cosa che ha notato salendo in camera mia è stata: ‘Devi ancora buttarlo questo computer dell’archeozoico?’”
“Che cretino.” Commentai affettuosamente.
“Già.”
“Ma quindi siete tornati amici come prima, no?”
“Sì… credo. Ancora mi vergogno, se penso che sa cosa provo per lui, ma sono contento che abbia ripreso a trattarmi come al solito.”
“Anche io.”
Tornammo indietro e per un po’ nessuno parlò.
“Mara,” mi fermò prima che rientrassimo nella camera della signora Lucia; dalla nostra posizione, udivamo distintamente le voci dei nostri amici nella stanza “davvero non mi odiate per non avervene mai apertamente parlato?”
Gli diedi un pizzicotto sul braccio.
“Ahia! Mi fai male! Ma che fai?”
“Punisco il bambino cattivo che dice cose stupide.”
Mi sorrise e insieme raggiungemmo gli altri.

“No, aspetta. Ricapitola bene dall’inizio, che non ho capito niente.”
Era la terza volta che Enrico mi diceva la stessa frase, ed era la terza volta che io gli ripetevo il racconto. Eravamo a casa mia, su quello stesso divano che, la sera prima, aveva ospitato me e Hiroshi.
“Enrico, questa è la terza volta. O sei cretino, o mi stai prendendo in giro!”
Enrico fece un’espressione offesa. “Ma scusa: in dieci minuti tu mi dici che hai baciato e sei andata a letto con un vip, per cui un terzo delle donne giapponesi farebbero carte false e che pubblicherai un libro! Lasciami il tempo di metabolizzare il tutto!”
“Sì, sì, va bene. Tra te e mia madre è la quarta volta che racconto questa storia; quindi, o hai capito, o fattelo spiegare da qualcun altro.”
Ilaria non disse niente. Non capivo se perché fosse arrabbiata per il fatto che non gliene avessi parlato subito, oppure perché troppo sconvolta dalla notizia.
“Quello che non capisco è: perché ci ha mentito? Perché dirci che è un traduttore?”
“Non lo so, Enrico.” Scossi la testa, per scacciare le lacrime che, ancora una volta, si affacciavano prepotenti.
“Per me è un cretino. Pensa davvero che faresti una cosa del genere? Ma se non l’hai detto neanche a noi!”
“Beh, ragazzi…” finalmente anche Luca intervenne “mettetevi nei suoi panni, per un po’. E’ un personaggio famoso, in Giappone, quindi abituato ad essere avvicinato da tutti per quello che appare. Cosa sarebbe successo se noi avessimo saputo chi è veramente? Se tu” indicò Enrico “l’avessi saputo?”
“Ehi! Non starai dicendo che è colpa mia, adesso!” si difese.
“No. Però, conoscendoti, so che l’avresti bombardato di domande anche più indecenti di quelle che gli hai fatto. Oddio, non oso pensarci.” Scosse teatralmente la testa.
“Luca, la pianti?!”
“Non puoi semplicemente farti un piccolo esame di coscienza e ammettere che ho ragione?”
Eh sì: le cose tra loro erano tornate esattamente come prima. Anche troppo, per i miei gusti.
“Comunque,” Luca tornò a concentrarsi su di me, dimenticandosi di Enrico “capite cosa voglio dire? In noi aveva trovato delle persone che erano con lui per quello che era, non per il lavoro che faceva.”
Luca era davvero un asso, nel capire le persone. Se gliene avessi parlato prima, forse tutto sarebbe andato in modo diverso.
“Quindi, la colpa sarebbe di Mara che non gli ha detto niente?”
“No, Ila, anche perché non le ha dato neanche il tempo di spiegarsi. Però, ecco, dal suo punto di vista, non lo condanno.”
Avevo capito cosa intendesse dire e aveva ragione. “Certo, dite tutte così!” mi aveva apostrofato Hiroshi; e questa la diceva lunga sulla tipologia di persone che aveva incontrato sul suo cammino. Eppure, una parte di me non riusciva ad accettarlo. “Resta il fatto che non si è fidato di me.”
“Però ti ha parlato della sua storia.”
Tacqui, non sapendo come replicare. Aveva ragione. Allora, ero stata io a sbagliare tutto? Non sapevo più cosa pensare.
“Ragazzi,” decisi “non ci pensiamo più. Quel che è stato, è stato. Adesso voglio solo concentrarmi sullo studio e sulla pubblicazione. Sempre se mi pubblicheranno.”
“Ancora con questa storia?”
“D’accordo, d’accordo. In previsione della pubblicazione.”
“Ma hai già chiamato?” si informò Luca.
“No. Lo farò direttamente lunedì.”
Enrico mi raggiunse e mi strinse a sé: “Vedrai, Mara, ce la farai. E quando il tuo libro verrà pubblicato in tutto il mondo, gli dimostrerai quanto sia stato stupido.”
Risi delle sue manie di grandezza, nonostante non ne fossi molto convinta.
“Ah, Enrico.” Dissi per stemperare la tensione. “Ho saputo che hai chiesto già la tesi al professor Amani!”
Si scostò allibito. “E tu che cosa ne sai?”
“Me l’ha detto lui, dopo che gli ho raccontato della tua performance al cinema.”
“Oddio…”
“Cosa cosa?!” sia Ilaria che Luca sembravano molto interessati “Tu hai già chiesto la tesi?”
Enrico era imbarazzatissimo, evento molto raro, per quanto lo riguardava. “Beh, sì. Cosa credete? Anche io sono uno studente, anche se non lo dimostro.”
“Meno male che lo ammetti tu stesso!”
“Ah ah! Divertente Luca!”
Le pizze arrivarono mentre i due continuavano a battibeccare sulle capacità intellettuali di Enrico; corsi ad aprire ed Ilaria, forse per evitare di ascoltare ancora quei due, mi raggiunse.
“Mara, sei sicura che ti va bene così?” mi chiese a bruciapelo.
“A cosa ti riferisci?” chiesi, mentre aprivo la porta e contavo per l’ennesima volta i soldi che avevo in mano.
“Ad Hiroshi. Non vorrei che per colpa mia…”
“Ila,” mi voltai verso di lei, decisa “non è colpa tua. La prossima settimana, magari domani stesso, lui tornerà in Giappone e io non lo vedrò mai più. Ci metterà meno di due secondi a dimenticarsi della sottoscritta, o forse mi ha già rimossa dalla sua mente. C’è stato un equivoco, ma lui ha pensato subito al peggio, senza ascoltare la mia spiegazione, quindi il problema non si pone neanche.” Tagliai corso, prestando attenzione al fattorino che, nel frattempo, era arrivato con la nostra cena.
“Come vuoi.” Credo avesse bisbigliato, ma non ne ero così sicura.

Ovviamente, io stessa mi rendevo conto che non sarebbe stato così semplice. Certo, io e Hiroshi non è che ci conoscessimo così tanto e che avessimo trascorso così tanto tempo insieme da poter dire che mi mancava terribilmente, perciò ero convinta che ci avrei messo davvero poco tempo a lasciarmi tutto alle spalle e a far finta che non fosse mai entrato nella mia vita.
Eppure, quella notte, non chiusi occhio. Guardavo al buio il soffitto della stanza, facendo attenzione a non muovermi troppo, onde evitare di svegliare anche mia madre e farla preoccupare inutilmente. Non riuscivo a togliermi dalla testa che, in quel letto, la notte precedente, aveva dormito un’altra persona, con me. In quel letto, ci eravamo amati. Ricordavo ancora troppo bene quella sensazione di completezza che avevo provato, quella consapevolezza che tutto sarebbe andato per il meglio.
Illusa.
Mi ero comportata come una ragazzina alla sua prima cotta che crede davvero che il suo amore durerà per sempre. E, come lei, mi accorgevo che la vita non va così.
Cretina, cretina, cretina…
Una lacrima mi bagnò una guancia ed entrai in panico: non dovevo piangere. Non gli avrei dato questa soddisfazione. No, no…
Mi alzai e, con circospezione, andai in cucina; l’orologio segnava le 3.30, ma io non avevo sonno, così decisi di rendere quelle ore più produttive, dedicandomi a quello che sapevo fare meglio: scrivere.
Accesi il computer e diedi una rapida occhiata a quei racconti che avevo già pubblicato sul giornale e a quelli ancora inediti; il puntatore corse veloce verso quella cartella che conteneva il romanzo che avevo inviato alla casa editrice e che mi era stato rifiutato. Chissà se un giorno loro me l’avrebbero accettato, oppure se faceva davvero così schifo da meritarsi solo un “canc”. Non era quello il momento di pensarci, decisi, ma di concentrarmi sui miei racconti brevi.
“Cosa ci fai qui a quest’ora?”
La voce di mia madre mi fece sobbalzare; istintivamente, chiusi la cartella.
“Stavo… ehm… non riuscivo a dormire, così mi sono riletta un po’ di racconti che ho pubblicato sul giornale, per cercare qualcosa di interessante.”
Mia madre mi venne accanto e lesse i titoli di alcuni file. Era così strano averla così vicina, pensai. Quanti anni erano che non succedeva? Così tanti che non me lo ricordavo neanche più, oppure, semplicemente, non c’erano mai stati?
“Non ci pensare troppo, Mara. Porta tutto e basta. Vieni a dormire, dai.”
“Non ho sonno.”
Appoggiò una mano sulla mia spalla: “Sei sicura che si tratti solo della pubblicazione?”
No.
“Sì. E’ tutto a posto, mamma, non ti preoccupare. Io mi metto un po’ a scrivere e poi vengo a dormire.”
Non so se la convinsi davvero, ma non insisté più di tanto.
“Ok.” Capitolò infine e mi schioccò un bacio sulla guancia, prima di tornare in camera.

“Mara, ma sei ancora qui?”
“Cosa?” alzai lo sguardo dal monitor e incrociai quello perplesso di mia madre.
“Sei ancora qui a scrivere?”
“Mamma, non ti avevo detto di andare a dormire e di non preoccuparti?”
“Infatti io ci sono andata.” Indicò l’orologio alle mie spalle e trasalii: erano le 7.10.
“Oh. Non me ne sono accorta.”
“Ho notato. Adesso chiudi quell’aggeggio, che ti preparo la colazione.”
“Aspetta, fammi finire qui!” protestai, tornando a concentrarmi sul monitor. Avevo scoperto che questo era un ottimo modo per esorcizzare il dolore e i pensieri negativi: immergermi a tal punto nel mondo dei miei personaggi, da dimenticare il mio. Non era la prima volta che mi capitava di tuffarmi così tanto nella scrittura da scordarmi persino di mangiare e dormire; a mia madre, ovviamente, non l’avevo mai detto e speravo che non venisse mai a scoprirlo.
“Adesso basta.” Senza troppe cerimonie, chiuse il portatile.
La guardai storto: non ero più abituata a convivere con qualcuno, decisamente. “Ti rendi conto che, se non avessi salvato, avrei perso il lavoro di ore?”
Alzò le spalle: “E quindi? Potevi sempre riscriverlo, no?”
Sospirai, lasciando correre: mia madre non avrebbe mai capito.
“Come mai sei già sveglia? E’ domenica.” Mi informai, invece.
“Ho dei programmi per oggi, per noi due.”
Per noi due?
“Mamma, ho da fare: devo studiare, scrivere e poi vorrei passare dalla signora Lucia.”
“Per una volta che tua madre viene a trovarti, tu vuoi relegarti in casa? Scordatelo. Lo studio può aspettare e, per quanto mi riguarda, hai scritto anche troppo.”
“Ok,” spostai il computer per darle retta. “E dove vorresti andare, visto che i negozi sono tutti chiusi?”
“Tutti?”
“Tutti.”
“Ma non esistono anche qui gli ipermercati aperti di domenica?”
Oh. Sì che c’erano e ci ero stata io stessa molte volte. “Sì…”
“Allora visto che non è tutto chiuso? Dai, muoviti, preparati!”
“Perché proprio un ipermercato? Potrei portarti in altri posti più interessarti, mostrarti qualcosa di bello, andare al mare…”
“I monumenti e il mare non scappano; il tuo guardaroba e il tuo frigorifero, invece, piangono.”
“Hai frugato nella mia roba?”
“Non ho frugato; l’ho vista per caso, ed è orribile...”
Perché dovevo avere una madre così fissata per la moda?
“Mamma, a me va bene così. E poi il mio frigorifero non è vuoto. Ci sono solo io, qui dentro, e spesso neanche pranzo a casa: perché dovrei riempirlo?”
Ma lei, come al solito, non mi ascoltò neanche
“… e poi, stai per avere un colloquio con una casa editrice e pretendo che tu abbia un abito decente.”
I miei occhi divennero due fessure. “Quindi, secondo te, finora mi hanno rifiutata per come mi vesto?”
“Ma no, non dico questo! Però, cara, anche l’immagine è importante. Quindi, basta parlare e va’ a prepararti.”
“Mamma, sono solo le otto del mattino! Dove vuoi andare a quest’ora?”
“Non avevi detto che prima volevi passare a trovare la signora Lucia?”
Sospirai rassegnata: la mia giornata tranquilla poteva dirsi conclusa ancor prima di cominciare.

Mentre passavamo di negozio in negozio, provando e riprovando vestiti e tailleur che puntualmente rifiutavo, schifata e inorridita, notai quanto io e mia madre fossimo diverse; non che non lo sapessi, ma solo in quel momento mi resi conto che, se non fosse stato per mio padre, io e lei probabilmente avremmo comunque sempre litigato per tutt’altri motivi.
“Mamma, mi hai già comprato un tailleur e una gonna che non metterò mai. Basta, adesso!” la implorai quasi, sperando che quella tortura finisse.
“Un cappotto! Ti prego, un cappotto! Uno solo!” supplicò lei, per tutta risposta.
Avrei voluto scappare e lasciarla lì, con gli acquisti; invece, con mia grande sorpresa “Che sia l’ultimo!” dissi.
“Evviva!” esultò come una bambina cui hanno appena regalato un giocattolo che desiderava da tanto; sorrisi, nonostante tutto: se bastava davvero così poco, per renderla felice…

Un’ora e mezza dopo, uscimmo dal negozio ancora più cariche: un altro tailleur, una maglia con una scollatura improponibile, per i miei gusti – per conquistare qualsiasi uomo, diceva lei; per sembrare una poco di buono, pensavo invece io, ma mi guardai bene dal farglielo presente -, un cappotto e un paio di scarpe con almeno venti centimetri di tacco; il tutto pagato da lei, ovviamente.
“Uh! E’ già l’una! Che ne dici, ci fermiamo a mangiare al MacDonald?”
Solo quando me lo fece notare, sentii un brontolio allo stomaco, molto più eloquente di qualsiasi risposta.
Come avevamo immaginato, il locale era pieno, visto che tutti avevano avvertito la nostra stessa esigenza, così decidemmo di ordinare e mangiare sul prato, come avevano fatto altri ragazzi.
“E’ una vita che non pranzo su un prato inglese!” commentò, ancora più felice di prima.
“Davvero l’hai fatto anche tu?” Non riuscivo ad immaginarmela, mia madre, sempre così impeccabile e precisa, i capelli fissati con litri di lacca, pranzare su un comunissimo e poco igienico prato inglese.
“Certo! Cosa credi, anche io sono stata giovane!”
“Non riesco ad immaginarti.” Ammisi.
“E invece devi crederci: fu così che io e tuo padre ci conoscemmo.”
La mia mano che stava per prendere una patatina si fermò a mezz’aria. Cosa?
“Dai, racconta. Come vi siete conosciuti tu e papà?” in quel momento ero io a comportarmi come una bambina che sta scoprendo come va il mondo.
“Uhm… era il Sessantanove, mi pare. Insomma, quegli anni lì. A quell’epoca, i giovani erano convinti di poter cambiare davvero il mondo.”
“Ferma, ferma! Tu una sessantottina?”
“Io? No. Io ero la classica figlia di papà e i moti non mi interessavano neanche. Era tuo padre l’attivista.”
“Già, posso immaginarmelo.”
Mio padre era una persona che credeva fermamente nel prossimo e nel mondo in generale; diceva che non era questo ad essere sbagliato, ma che solo chi lo viveva lo considerava tale; i nostri figli avrebbero detto che il passato era un’oasi in cui si stava bene e avrebbero parlato male dei loro tempi. Era così, e lo sarebbe stato per sempre.
“Un giorno, c’era occupazione. I miei non mi permettevano di dormire a scuola la notte, ma avevo il fidanzato e andavo a scuola principalmente per stare con lui. Quel giorno eravamo in giardino e ci stavamo baciando, quand’ecco che questo tipo si presentò davanti a noi e ‘Se siete qui per fare i comodi vostri, andatevene’. Ci rimasi talmente male, che gli mollai un ceffone e me ne andai.
“Non avrei mai creduto che il suo comportamento mi avrebbe dato tanto fastidio: nessun ragazzo mi aveva mai trattata in quel modo e così, come spesso succede, mi interessai a lui e a quel che faceva.”
“Ovviamente.”
“Qualche giorno dopo quell’episodio, andai da lui e, senza mezzi termini, gli dissi: ‘Se vuoi che ti perdoni per quello che mi hai detto l’altro giorno, devi uscire con me’. E lui accettò.”
“Io ti avrei mandato male.” Confessai.
“Beh, ma tuo padre era già innamorato di me. Mi disse che si era ingelosito nel vedermi con quel ragazzo e che aveva sperato di attirare la mia attenzione, almeno per una volta.”
Scoppiai a ridere. “Beh, ci era riuscito, dopotutto!”
Rise anche lei, lo sguardo perso tra quei ricordi lontani. “Solo che non me lo disse subito. Per la verità, ci misi un po’ a capire che ero innamorata di lui, così lo lasciai sulle spine per un sacco di tempo. Ancora oggi me ne vergogno.”
“E cosa ti fece capire che lo amavi?”
“Me ne resi conto quando mi disse che voleva trasferirsi per trovare lavoro. Pensai che non l’avrei rivisto mai più e non riuscii a sopportarlo.”
Tipico. Solo nel momento in cui perdi una persona, comprendi quanto per te questa sia importante: l’aveva capito Enrico, e lo avevo imparato anche io, a mie spese.
“Chissà perché papà non mi ha mai detto niente!”
“Forse perché si vergognava. A volte per gli uomini è difficile esprimere quello che sentono.”
Restammo un po’ in silenzio, le nostre menti che tornavano a quella persona che ambedue avevamo amato tanto, con uguale intensità, seppur in modo diverso.
“Bene!” esclamò all’improvviso alzandosi in piedi. “Coraggio, la nostra missione non si è ancora conclusa. Riprendiamo?”
La imitai. “Ok.”

“Mamma…” osservai il carrello davanti a me piuttosto perplessa “… cosa credi che me ne farò di tutta questa roba?”
“Ma è mica così tanta!”
“Ah no?” Dieci chili di patate, latte, carne e verdure di ogni tipo, tre buste piene di arance e mandarini. “Butterò un sacco di roba.”
“Tu non ti nutri abbastanza.” Mi rimbeccò. “Da domani voglio che, regolarmente, tu mangi almeno tre volte al giorno. E chiederò alla signora Lucia di controllare.”
“Adesso non ti sembra di esagerare?”
“Niente affatto. E ti telefonerò per sapere se hai seguito le mie istruzioni.”
C’era qualcosa che non andava in quella frase. “Telefonarmi? Riparti?”
“Beh, sì, tesoro. Domani è lunedì, quindi devo andare al lavoro.”
Oh, già. Non ci avevo pensato. “Riparti stasera?”
“Ehi, non guardarmi con quella faccia da ‘Finalmente questa si toglie dalle scatole!’”
“Non lo stavo pensando!”
Ci guardammo per un attimo.
“Ok, lo stavo pensando.”
Scoppiammo a ridere, mentre finalmente arrivava il nostro turno alla cassa. Non osai guardare il conto che aumentava sempre di più e mi limitai a mettere gli acquisti nei sacchetti.
Arrivammo a casa che era pomeriggio inoltrato. Mia madre mi aiutò a sistemare tutto quello che avevamo comprato e, con un po’ di sadismo malcelato, le feci notare che lo spazio nel frigorifero non bastava per tutti quegli acquisti.
“Dovresti prenderne un altro.”
“Come no. Portati qualcosa per la cena di stasera.”
“Uhm… quasi quasi…”
“Ti aiuto a preparare il borsone?”
“Non occorre, l’ho preparato stamattina mentre ti vestivi. E per fortuna: abbiamo fatto più tardi di quel che pensassi.”
Capii che era arrivato il momento dei saluti e il cuore mi si strinse. Ero davvero pronta a restare di nuovo sola, in quella casa?
“Allora, è già ora?” chiesi, cercando di essere il più naturale possibile.
“Sì, altrimenti poi si fa troppo buio e io ho paura a guidare di notte.”
L’aiutai a caricare in auto la borsa e le provviste che l’avevo convinta a portarsi; non che il frigorifero avesse avuto un po’ più di respiro, in questo modo. Chiuse il portabagagli e si voltò verso di me, preoccupata.
“Pensavo… Stella, non è che vuoi venire con me? Mi farebbe piacere stare un altro po’ con te.”
“Non posso, mamma. Ho un sacco di cose da fare e devo occuparmi della signora Lucia. Andrà tutto bene.”
Non sembrava molto convinta, nonostante cercassi tutti i modi per dimostrarglielo.
“Davvero?”
“Sì, tranquilla.”
“Beh, salutami i tuoi amici, d’accordo? Di’ loro che mi farebbe davvero piacere se un giorno vorrete venire a trovarmi tutti insieme.”
“D’accordo.”
Mi abbracciò e ricambiai il gesto. “Andrà tutto bene, vedrai. Abbi fiducia in te, mi raccomando.”
“Ci proverò.” Promisi, staccandomi da lei.
Mise in moto e la vidi sfrecciare via. Ero di nuovo sola.
Salii in casa di mala voglia: non avevo mai pensato che la mia abitazione potesse apparirmi così vuota e silenziosa e mi chiesi se sarei riuscita a sopportarlo. Mi sedetti sul divano e chiusi gli occhi, distrutta. Pochi secondi dopo ero già sprofondata in un sonno senza sogni.


Note dell’autrice
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporalmente, indetta da Criticoni e ho pensato che sarebbe stato carino riferirlo ai genitori di Mara, il cui rapporto mi piace da morire. Quindi, ho voluto dare al prompt un’interpretazione meno letterale: il poveretto spera soltanto di poter attirare, almeno per un attimo, l’attenzione della sua bella, senza sapere che alla fine quell’attimo avrebbe cambiato per sempre le loro vite! XD
Un grazie enorme a Gra e Maja per aver letto in anteprima questo capitolo e per avermi dato la loro preziosissima opinione e il betaggio!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV ***


XIV

Mi svegliai che era già mattina. Erano anni che non dormivo così a lungo, nonostante la posizione non fosse delle più comode: a quanto pareva, piangere così tanto e non dormire per una notte intera potevano rivelarsi utili, ogni tanto.
Guardai l’orologio e giudicai che avrei fatto in tempo a farmi una bella doccia prima di telefonare alla casa editrice e di uscire.
Ignorando il ben di Dio presente nel mio frigo, presi un budino per colazione e meditai su come liberarmi di tutta quella roba: ne avrei portato un po’ ai signori Saracino, ovviamente, e probabilmente avrei organizzato una cena con i miei amici; tutto, pur di non restare da sola per qualche giorno.
Controllai l’orario e presi il numero telefonico che la direttrice mi aveva dato il venerdì precedente; sì, decisamente era ora di fare quel passo.
Il telefono squillò a vuoto per qualche secondo prima che una voce maschile mi rispondesse,
“Ehm… Parlo con la casa editrice Grandi Sogni?” provai titubante.
“Lei è la signorina Mara Facchetti?”
“Sì…” Ero spiazzata: aspettava forse una mia chiamata?
“Salve. Sono Andrea Berardi. Sono io che l’ho cercata, per conto della casa editrice.”
“Oh…” Andrea Berardi: dove avevo già sentito questo nome?
“Senta, lei è una studentessa universitaria, vero?”
“Sì.”
“Le andrebbe di venire a trovarmi all’università? Il mio dipartimento è al terzo piano dell’ateneo. Ha presente?”
“Sì, ho capito.”
“Le chiedo scusa se non posso essere più preciso al telefono, ma, sa, ho lezione fra pochi minuti.”
Lezione?
“Ma certo. Devo venire in ateneo oggi perché anche io ho lezione.”
“Perfetto! Che ne dice per le 11.30? Le va bene?”
“Sì, certo.”
“Allora, la saluto. A dopo.”
Chiuse velocemente la comunicazione e io mi ritrovai a fissare il display del mio cellulare, disorientata.
Andrea Berardi. Era un nome che avevo sentito da qualche parte, ne ero sicura, anche se non ricordavo in quale occasione. Se doveva tenere una lezione, significava che era un docente, oppure un assistente; sì, ma di quale materia? Non una delle mie, indubbiamente, né della facoltà di lettere in generale, visto che, bene o male, li conoscevo quasi tutti, almeno di fama; del resto, se aveva il dipartimento all’ultimo piano, era davvero improbabile che frequentasse i nostri dipartimenti.
Troppo curiosa per resistere, mi collegai un attimo al sito dell’università, e ci misi pochi minuti per venire a capo del mistero: insegnava letteratura per l'infanzia. Immediatamente, tutto mi fu chiaro: c’erano molti miei colleghi che, per i crediti a scelta, avevano deciso di dare quell’esame, proprio perché la materia era piuttosto interessante e per nulla difficile. Mi venne la tentazione di spulciare la sua pagina, magari per cercare di carpire qualche informazione in più, ma era tardi, così decisi di rimandare.
Uscii di casa che ero ancora preda delle mie riflessioni, quando mi trovai davanti la signora Lucia; cacciai un urlo di gioia.
“Signora! Ma allora è già uscita? Stavo pensando di venirla a prendere io, con la macchina!”
La signora mi abbracciò: “Ma no, cara, non ce n’era bisogno. Marcello mi ha detto di non dirti niente proprio per non disturbarti inutilmente.”
“Ma non è un disturbo!” protestai io.
“Lo so, cara, ma tu hai così tante cose da fare! Non preoccuparti per me.”
“D’accordo. Però mi permette di invitare lei e suo marito a cena stasera, da me? Mia madre mi ha costretta a fare la spesa per cento persone e nel frigorifero non entra più niente!”
La signora sghignazzò: ero contenta di vederla fuori dall’ospedale, gioviale e allegra come al solito.
“Lo so. Mi ha detto che, secondo lei, tu non mangi abbastanza.”
“La ignori. Lei lo sa che io mangio.”
“Certo che lo so, cara. Ma, io… ecco… non vorremmo disturbarti troppo…”
Non accettavo un no come risposta. “La prego! Finora lei si è sempre presa cura di me e adesso vorrei ripagarla in qualche modo: mi dica cosa vuole mangiare, e gliela preparerò.”
La donna mi fissò: c’era uno strano luccichio nei suoi occhi che non mi convinceva per niente. Non è che stava per mettersi a piangere, vero?
“Va bene, cara, hai vinto. Marcello!” l’uomo apparve dietro di lei con il borsone della moglie “Mara ci ha invitato a cena stasera e non ammette rifiuti.”
“Sia mai che noi offendiamo una gentile signorina rifiutando il suo cortese invito!” commentò con un inchino “Siamo onorati di essere da lei per cena, signorina.”

Il “terzo piano” era chiamato così, non tanto per distinguerlo topograficamente dagli altri due, quanto per le attività che vi si svolgevano: il primo piano era quello destinato alle segreterie; il fatto che vi fossero anche vari dipartimenti – come quello del professor Amani, per esempio – era un dettaglio trascurabile: era lì che gli studenti di tutte le facoltà dovevano recarsi per richiedere un certificato o immatricolarsi e il terribile pensiero delle file interminabili che si era costretti a fare aveva portato tutti gli studenti a dimenticare l’esistenza di altre attività in quella zona. Il secondo piano era nostro, ossia degli studenti di lettere e filosofia e quelli di scienze storiche; in verità, anche qui c’erano dei dipartimenti non attinenti alle nostre materie, ma il fatto che ci fossero lì anche le aule in cui si tenevano le lezioni a cui ogni giorno assistevamo ci faceva provare uno strano sentimento di possessività.
Il terzo piano, invece, era il regno di scienze della comunicazione, della formazione e dell’educazione, con le loro aule e i loro dipartimenti; beninteso, non che gli studenti facessero lezione solo lì, visto che non era neanche così grande, ma nell’immaginario collettivo era il luogo dedicato alle materie psicologiche.
A me, quel piano non era mai piaciuto: i corridoi troppo stretti, con il soffitto troppo basso, sembravano dei cunicoli senza uscita; ci ero stata un paio di volte e mi ero ripromessa di non metterci più piede.
Il dipartimento del professore era esattamente in uno di quei corridoi che tanto odiavo. Quando arrivai, la porta era aperta e non c’era nessuno.
Cominciamo proprio bene, mi trovai mio malgrado a pensare.
“La signorina Facchetti?” mi chiese all’improvviso una voce che riconobbi subito essere quella che mi aveva risposto al telefono.
“Sì.”
“Molto piacere,” disse tenendomi la mano “sono lietissimo di incontrarla, signorina. Vuole accomodarsi?”
Lo anticipai, mentre lui chiudeva la porta alle nostre spalle. Si sedette di fronte a me, affabile: aveva un volto simpatico, decisi, gli occhi scuri, in contrasto con il bianco dei suoi capelli; doveva essere una persona molto attiva, pensai.
“Allora arrivo subito al dunque, signorina. Lei non lo sa, ma io sono un suo compaesano.”
“Davvero?”
“Sì. Ho letto i suoi racconti sul giornale e sono rimasto favorevolmente impressionato.”
Pensai che, per il momento, non avrei distrutto il suo sogno e avrei evitato di rivelargli che, in realtà, io lì ci vivevo soltanto da quando studiavo all’università, quindi per motivi di studio.
“Grazie.”
“Io, come immagino saprà, insegno letteratura per l’infanzia. Ho pubblicato vari libri, oltre a saggi di vario genere sull’argomento, perciò sono rimasto molto colpito dai suoi scritti. Recentemente,” si sistemò meglio sulla poltrona “ho deciso di non pubblicare raccolte mie, ma sponsorizzare autori emergenti, come lei, che affluiscono comunque ai miei interessi.”
Annuii, per dimostrargli che stavo seguendo il discorso.
“Quindi… cosa ne pensa?”
“Beh, sarebbe un sogno che si avvera.” Ammisi. “Però, per esperienza, so che i sogni possono anche trasformarsi in incubi.”
Rise: “Bella metafora, mi piace! Capisco cosa intende lei: chi mi assicura, lei sta pensando, che questo qui non si prende le mie storie spacciandole per sue?”
Non ero stata così diretta, e non lo sarei mai stata, però, sì, il pensiero era stato proprio quello: non ero così sprovveduta da non conoscere anche questi risvolti.
“Non mi guardi così, signorina. Lei ha perfettamente ragione a non fidarsi di tutti indistintamente. Avevo pensato di incominciare con la pubblicazione dei suoi racconti già pubblicati, magari con l’aggiunta di qualcuno inedito, in modo tale che nessuno possa prendere alcunché; poi, se avrà successo, e ne sono certo, potremo continuare con la pubblicazione di storie completamente inedite.”
Non riuscivo ancora a capacitarmi che stesse accadendo proprio a me.
“Ma… scusi se insisto, però… crede veramente che qualcuno spenderebbe i propri soldi per i miei lavori?”
Il professore scoppiò quasi a ridermi in faccia: “Vedo che ha tantissima fiducia in se stessa! Beh, ovviamente la certezza assoluta non potremo mai averla prima di averci provato, ma secondo me, non ci saranno problemi di sorta.”
Arrossii: era un difetto che tutti mi criticavano, quello, ma io non riuscivo a farne a meno.
“Bene,” si alzò, segno che la discussione era terminata “Che ne dice di vederci fra qualche giorno direttamente in casa editrice? Magari, porti qualche racconto inedito, così potremo decidere insieme quale inserire nella raccolta.” Mi esortò aprendomi la porta molto cavallerescamente.
“Oh!”
L’esclamazione attirò la mia attenzione e mi ritrovai faccia a faccia con il professor Amani; non proprio la persona che sognavo di incontrare in quel momento.
“Buongiorno, professore.”
“Buongiorno. Come mai al terzo piano?”
“Ma come, vi conoscete?”
“In un certo senso…”
“Saverio, ti avevo detto che avevo deciso di curare la pubblicazione di un’autrice emergente, no? Beh, si tratta proprio della signorina!”
Il professore sgranò gli occhi: “Congratulazioni, allora!”
“Grazie. E lei come mai è qui, professore?”
“Andrea mi ha chiesto aiuto per la traduzione di un articolo dall’inglese.”
“Capisco.”
“Signorina,” mi prese da parte, mentre il professor Berardi veniva fermato da alcuni ragazzi che probabilmente volevano chiedergli qualche informazione sull’esame. “Volevo ringraziarla per quello che ha fatto per mia moglie. Non sa quanto gliene sono grato.”
Lo sapevo che saremmo finiti su quell’argomento.
“Non mi deve ringraziare, professore. In verità, Hiroshi ha fatto tutto da solo: gli serviva solo una spinta.”
“Può darsi. Lo sa che ieri ci ha chiamati per salutarci e dirci che oggi sarebbe partito?”
Mi bloccai. Cosa?
“Cosa? Parte oggi?”
Mi guardò stupito: evidentemente, pensava lo sapessi. “Ma come, non le ha detto niente? Parte questo pomeriggio, per le sei. In realtà non mi aspettavo che se ne andasse così presto, ma ha detto che doveva tornare urgentemente in Giappone per lavoro. Strano non l’abbia avvisata.”
“Sarà stata un’emergenza e non ci ha pensato.” Cercai di rispondere con noncuranza.
“Lo penso anche io. Buona giornata e grazie di tutto!”
Sorrisi, o almeno, provai ad atteggiare la bocca ad un sorriso, ma non dissi nulla.
Partiva.
Sapevo che sarebbe successo: dopotutto, lui era giapponese e aveva un lavoro. E nel giro di poche ore, sarebbe ritornato alla sua vita di sempre; eppure, dal sapere vagamente che questa eventualità era possibile al sentirsi dire che sarebbe partito entro poche ore, ce ne correva. Non l’avrei rivisto mai più; non avrei potuto più spiegarmi; sarebbe andato via senza sapere la verità.
Mi ritrovai al secondo piano senza ricordarmi come ci fossi arrivata. Dovevo avere davvero un’espressione strana, perché più di una persona mi lanciava occhiate preoccupate e curiose al tempo stesso.
“Mara!” riconobbi la voce di Luca e me lo trovai accanto.
“Ciao, Luca.”
“Mio Dio, Mara, ma che è successo?”
Scossi la testa, ma non parlai: se solo avessi aperto bocca, sarei scoppiata a piangere davanti a tutti.
“E’ successo qualcosa con Hiroshi?”
Perché quel ragazzo era così perspicace?
“Parte. Oggi.”
“Ma come lo hai saputo?”
“Me l’ha detto il professor Amani.”
“Ah…” tacque, non sapendo cosa dire; non che ce ne fosse bisogno, ovviamente.
“Senti,” sentivo il peso sul cuore farsi sempre più pesante “io me ne torno a casa. Non ce la faccio a seguire una lezione. Salutami gli altri, ok?”
“Sicura che non vuoi che ti accompagni almeno in stazione?”
Mi scostai da lui con una manata: “No. Ho bisogno… ho bisogno di stare un po’ da sola, per favore.”
Acconsentì di malavoglia; lo avvertii chiaramente dal suo sguardo preoccupato, dalle sue labbra che fremevano, desiderose di insistere, nonostante il mio rifiuto. Mi allontanai prima che riuscisse a farmi cambiare idea e mi diressi verso la stazione; da qualche parte, dietro di me, sentii la voce di Enrico che arrivava proprio in quel momento.
Capivo l’ansia di Luca e me ne rendevo conto anche io; eppure, non me ne importava niente: anche se in quel momento un treno mi avesse investito, io non me ne sarei neanche accorta.

Quando aprii la porta di casa e mi ritrovai di nuovo nel mio appartamento, mi accorsi dell’enorme stupidaggine che avevo commesso nel tornare indietro: avevo cercato qualsiasi appiglio, pur di non restare sola fra quelle mura, e invece io mi ci ero buttata come un suicida si lancia contro una macchina in corsa. Fu solo quando avvertii qualcosa di bagnato sulle guance, che compresi quanto nel mio inconscio avessi desiderato essere finalmente lì: restare da sola per un po’ e sfogare il dolore e la rabbia piangendo. Perché, quelle lacrime che ormai bagnavano completamente le mie guance e quei singhiozzi che riempivano le mie orecchie non erano gli stessi di quando mi ero sfogata con mia madre: non ero abituata a mostrare a tutti il mio dolore e per questo, solo in quel momento, libera persino di urlare se avessi voluto, capii quanto quel pianto, in completa solitudine, fosse davvero liberatorio per me.
Pensai che, se fossi stata meno stupida, le cose sarebbero andate molto diversamente e avrei potuto spiegarmi e chiedere spiegazioni. Come un’idiota, mi resi conto di non sapere neanche in quale albergo alloggiasse e non avevo neanche voglia di chiederlo al professor Amani: in quel caso, avrei dovuto coinvolgere lui e sua moglie in una questione che riguardava solo me e Hiroshi e non volevo che il fragile rapporto instauratosi tra loro, per questo, potesse uscirne ancora una volta incrinato.
Non so quanto tempo rimasi in quel limbo prima di riprendermi: ormai era fatta, cercai di convincere me stessa, avevo trascorso dei bei giorni, con lui, e, nonostante tutto, non rimpiangevo il nostro incontro. A che cosa serviva deprimermi ancora?
Mi alzai e andai in bagno a sciacquarmi il viso; mi guardai allo specchio e per poco non gettai un urlo: capivo perfettamente la preoccupazione di Luca e di tutti coloro che avevo incrociato sul mio cammino. Non potevo permettere che anche la signora Lucia mi vedesse in quello stato, altrimenti rischiavo seriamente di doverla riaccompagnare all’ospedale, prospettiva che, ovviamente, non mi allettava per nulla.
Corsi in cucina, accesi il computer e feci una ricerca veloce su cosa avrei potuto preparare.
Il campanello squillò proprio mentre posizionavo gli ingredienti sul tavolo.
“Sì?”
“Sono il signor Marcello.”
Merda. Aprii, nonostante tutto.
“Sì?”
Il signor Marcello mi squadrò un attimo. “Tutto bene?”
“Sì.” La mia voce era più sicura “Stavo pulendo le cipolle.” Era la scusa più vecchia del mondo, ma, visto che stavo cucinando, era in fondo una mezza verità.
“Ah, capisco.” Non sembrò avere nulla da ridire sulla mia versione. “A proposito di questo, non ci ha detto che per ora dovremmo venire.”
“Uhm… verso le otto, va bene?”
“Perfetto!”
“C’è qualcosa che sua moglie preferisce o che il medico le ha consigliato?”
Ci pensò su. “Verdure.”
Registrai il dato, nonostante avessi già in mente di preparare un piatto simile.
Ci mettemmo d’accordo per gli ultimi dettagli e mi ritrovai di nuovo sola. La voce era tornata quella di sempre e le mie guance erano di nuovo asciutte; una serata con loro mi avrebbe fatto bene, ne ero sicura.
Tornai in cucina molto più di buon umore, e mi diedi da fare. Non ero una cuoca provetta, ma sapevo arrangiarmi egregiamente, così preparai una zuppa di verdure e una frittata di zucchine.
Quando guardai nuovamente l’orario, l’orologio segnava le sette. Visto che avevo finito di preparare tutto quanto, cercai qualcos’altro da fare: se mi fossi fermata un attimo, avrei ricominciato a pensare e non mi andava. Decisi di continuare a scrivere il racconto che avevo iniziato il giorno prima per far scorrere più in fretta il tempo; il ticchettio solitario delle mie dita sui tasti mi mise allegria.
Quando lanciai un’occhiata sul datario del computer, l’orologio segnava le 7.30: il professore aveva detto che l’aereo di Hiroshi sarebbe partito alle sei del pomeriggio; quindi, in quel momento, doveva già essere arrivato a Roma, oppure essere ancora in viaggio a causa di qualche ritardo; mi chiesi se stesse facendo direttamente il check in, oppure avesse deciso di fermarsi a Roma almeno per una notte. No, cambiai idea all’ultimo secondo, a lui Roma non piaceva, perché odiava i luoghi troppo caotici, mi aveva detto, quindi probabilmente sarebbe ripartito subito. Lui preferiva Venezia.
Ormai i pensieri correvano più veloci e avevano seminato da un pezzo la mia volontà di fermarli; ritornai con la mente a quella sera, così piena di avvenimenti da sembrare che fosse durata una vita.
La vista ricominciò a farmi brutti scherzi e capii che stavo nuovamente per scoppiare in lacrime. No, protestai contro me stessa, non potevo farlo. Non in quel momento. Loro non dovevano vedermi così. Dovevo essere allegra, parlare del mio incontro con il professore, della casa editrice, di quello che la vita mi stava mettendo davanti…
Il citofonò squillò, strappandomi nuovamente da questi pensieri; guardai l’orologio che segnava le 7.45 e, senza neanche chiedere chi fosse, aprii.
“Eccovi finalmen…!”
Le parole mi morirono in gola: davanti a me, c’era Hiroshi.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV ***


XV

"And they will assist us 'cause we're asking for help."
(Homogenic – Björk)

Inizialmente considerai seriamente l’idea di essere impazzita: avevo pensato a lui così intensamente e per così tante volte, che, alla fine, immaginavo persino di averlo davanti? Poi, per fortuna, la ragione aveva avuto la meglio e mi ero convinta che fosse davvero lui.
Avrei voluto porgli tante, tantissime domande; avrei voluto dirgli la mia verità prima che lui se ne andasse un’altra volta, ma, al contempo, avrei voluto chiudergli la porta in faccia e intimargli di non farsi più vedere; tuttavia, non mi mossi e continuai a fissarlo.
“Ciao.”
Non avrei mai creduto di poter ancora sentire la sua voce; non dal vivo, almeno.
Rimasi sulla soglia in attesa, senza parlare; lui abbassò la testa, non sapendo bene come proseguire.
“Posso entrare?”
“Come mai sei qui? Non dovevi partire oggi?” riuscii infine a chiedere, il tono più tagliente di quanto volessi.
“Sì. Però alla fine ho cambiato idea. Sono… sono successe un po’ di cose.”
“Ah.”
Ci fu di nuovo silenzio. La mia mente era vuota e non sapevo se attuare il mio proposito, oppure soddisfare la mia curiosità e chiedergli il perché di quel cambio repentino di programma.
“Mara…” la sua espressione sofferente mi colpì nonostante tutto “per favore… posso entrare?”
Mi scostai per lasciarlo accomodare; chiusi la porta e mi voltai in attesa; lui si fermò al centro della stanza e annusò l’aria.
“Hai ospiti?”
“Sì. Ho invitato la signora Lucia e suo marito a cena, visto che la signora è appena uscita dall’ospedale.”
“Sono contento.”
Gli credetti.
“Ti ho… ti ho portato una cosa. Prima l’ho vista in una vetrina, venendo qui, e così mi sono ricordato che ti piace.”
Mi porse un sacchetto. Per un attimo, lo guardai interdetta, indecisa se accettare o meno quel dono; alla fine, lo presi. Non ci fu bisogno di aprirlo: l’odore del cacao in polvere colpì subito le mie narici.
“Gr… grazie.”
“Prego.”
Ancora silenzio. All’improvviso, si inginocchiò ai miei piedi, facendomi quasi indietreggiare per lo spavento.
“Che diavolo stai facendo?!”
“Io… Mara, ti devo chiedere scusa. Davvero. Di tutto. Non avrei dovuto dirti e neanche lontanamente pensare quelle cose. Perdonami.”
Mi sentii a disagio: quella teatralità tutta giapponese era una caratteristica che non riuscivo proprio a sopportare. “Oh, per favore, alzati! Mi stai mettendo in imbarazzo!”
Obbedì, ma rimase a capo chino, colpevole. Una parte di me avrebbe voluto buttargli le braccia al collo e dimenticarsi di tutta quella brutta storia; un’altra, la più razionale e orgogliosa, non era disposta a perdonare così facilmente.
“Perché mi hai detto che sei un traduttore quando invece non è vero?”
“Ti sbagli, non ho mentito, ma ho solo detto una mezza verità. Mio padre traduce davvero romanzi dall’italiano e io a volte gli do una mano, visto che conosco la lingua meglio di lui.” Mi si avvicinò “Credimi, non è che volessi tenerti nascosta la mia identità; semplicemente, ero contento di conoscere persone che mi volevano bene non per quello che facevo, ma per quello che ero.”
Ripensai alle parole di Luca che, ancora una volta, si erano rivelate profetiche.
“Per questo, quando ho scoperto che lo sapevi, mi sono sentito tradito.”
“Non avevo alcuna intenzione di rivelare niente a nessuno. E’ vero, ti ho riconosciuto subito, ma solo per puro caso; e comunque, all’inizio non ero neanche sicura che fossi tu, anzi, mi sembrava impossibile. Quanti personaggi famosi, e per di più giapponesi, se ne vanno in giro per Bari come se nulla fosse? Solo dopo ho capito di aver indovinato, ma, visto che non mi avevi detto niente, avevo intuito che dovevi avere qualche valido motivo per non parlarne.”
“Lo so.”
“No che non lo sai.” Ribattei. “Cosa credi, che mi facesse piacere sapere e far finta di niente? Quando ci hai detto che eri un traduttore, mi sono sentita malissimo. Non ti fidavi di me?”
“Non è così, lo sai.”
Adesso so che non è così. Ma prima, cosa potevo saperne?”
“Ti ho raccontato una parte importante della mia vita. Secondo te, è qualcosa che vado a dire in giro?”
Però ti ha parlato della sua storia.” Di nuovo, Luca aveva centrato la questione.
“Però hai subito pensato che volessi vendere la tua storia.” Controbattei, pronta.
Colpito e affondato: abbassò ancora una volta la testa e si mise a guardare con estremo interesse le proprie scarpe.
“Io… ho sbagliato, lo so. Ho sentito solo quello che volevo sentire, traendo le mie conclusioni.”
“Sbagliate.”
“Sbagliate.”
Ci fu ancora silenzio; la tensione si era un po’ alleggerita, ma il fatto che non avessi ancora accettato né rifiutato le sue scuse lasciava che quelle parole non dette aleggiassero comunque nell’aria.
“Io capisco che tu sia arrabbiata e delusa,” continuò “quindi non mi aspetto che tu mi perdoni, ma non volevo andarmene senza averti chiesto scusa e averti augurato tanta fortuna per il tuo libro.”
Lo guardai sorpresa: “Cosa ne sai del mio libro? Hai sentito il professor Amani? E’ stato lui a dirtelo?”
“Beh, diciamo di sì…”
“Che vuol dire ‘diciamo di sì’?”
Arrossì e capii che c’era qualcos’altro sotto.
“Che vuol dire ‘diciamo di sì’?” ripetei.
“Non…” indietreggiò “mi ha fatto promettere di non dirti nulla.”
“E che motivo avrebbe il professore di non farmelo sapere?”
Il suo imbarazzo era più che evidente, ma io non ero intenzionata a lasciar perdere.
“Che vuol dire ‘diciamo di sì’?” chiesi ancora, testarda.
“Non è stato lui,” capitolò infine “ma il tuo amico Luca.”
Sgranai gli occhi: “Luca?!”

In breve, seppi da Hiroshi quella sera e poi me lo confermò lo stesso Luca qualche giorno dopo, tutto era accaduto quando ero andata via dall’università per tornare a casa, completamente distrutta. Luca, che non era riuscito a sopportare il fatto di vedermi in quello stato per colpa di “un cretino che non capiva un cazzo” – avevo mai sentito parole del genere uscire dalla sua bocca? Mi chiesi quando Enrico tenne a precisare, con una punta di sadismo, quel piccolo particolare. Forse uno spirito maligno era entrato nel corpo del mio amico con qualche strana magia a me ignota -, quando si era trovato davanti Enrico, l’aveva preso per la giacca e gli aveva intimato, senza tanti complimenti, di dargli il numero di telefono del professor Amani visto che ‘lui doveva averlo per forza, dato che era un suo tesista’.
Enrico, più sconvolto per il comportamento dell’amico che perché avesse effettivamente capito qualcosa di quel che stava accadendo, glielo aveva dato subito e i due avevano chiamato il professore che, fortunatamente, aveva il cellulare con sé.
“Era dal professor Berardi.” Spiegai, mentre ancora non riuscivo a capacitarmi di quello che le mie orecchie stavano sentendo: non riuscivo ad immaginarmi Luca tanto arrabbiato e, se non avessi avuto Hiroshi lì, davanti a me, probabilmente non ci avrei mai creduto.
“Professore, sono Moretti. Devo parlarle con assoluta urgenza, immediatamente. E’ questione di vita o di morte. L’aspetto al suo dipartimento.” Gli aveva detto.
“Immagina Saverio come si è spaventato. E’ corso nella sua stanza e lì Enrico e Luca gli hanno domandato il mio numero telefonico e il nome dell’albergo in cui alloggiavo. Ovviamente, lui non era così disposto a fornire questi dati ai primi venuti.”
Così, Luca gli aveva chiesto almeno di chiamare Hiroshi e di impedirgli di partire; il perché, gliel’avrebbero spiegato mentre andavano da lui.
“Sono venuti da te?”
Annuì: “Ho ricevuto la sua chiamata mentre stavo preparando le valigie: mi ha detto che c’era un’emergenza e che la mamma si era sentita male…”
Questa doveva essere stata un’idea di Enrico, pensai.
“… e che sarebbe passato a prendermi per spiegarmi tutto. Così, ho lasciato perdere le valigie e l’ho aspettato nella hall. Sono arrivati una decina di minuti dopo.”
Rise al pensiero: “I tuoi amici ti vogliono davvero bene, sai?”
Impallidii: “Che cosa hanno combinato?”
“C’erano tutti. Anche la tua amica, Ilaria, se non ricordo male. Appena Luca mi ha visto, mi ha riempito di insulti e per un attimo ho temuto che mi avrebbe anche picchiato. ‘Non ti permetto di far star male Mara in quel modo, visto che non ha fatto niente!’ credo mi abbia detto, mentre Enrico tentava di fermarlo. Eravamo tutti un po’ nervosi, ma per fortuna è intervenuto Saverio a calmare gli animi e a spiegarmi la situazione.”
E ovviamente, il professore aveva creduto subito alla storia di Luca ed Enrico, visto che mi aveva incontrata proprio poche ore dal professor Berardi. In quel momento, avevo capito perché Luca era stato così intransigente sulla presenza del professore: sicuramente, se fossero andati senza di lui, Hiroshi non li avrebbe mai ascoltati, figuriamoci se avrebbe creduto alle loro parole; mettendo in mezzo il professore, che in quella storia non c’entrava niente e non conosceva neanche i miei amici, sarebbe stato tutto diverso.
Sorrisi al pensiero di quell’incontro fortuito che prima mi aveva gettato nella disperazione e che poi mi aveva riscattata agli occhi di Hiroshi. Luca doveva avermi vista davvero sconvolta, se aveva avuto una reazione così esagerata, tanto da comportarsi in un modo così strano. Cosa sarebbe successo se non l’avessi visto, di fronte a quell’aula? Cosa sarebbe accaduto se il professor Berardi non mi avesse dato appuntamento proprio quella mattina, a quell’ora, in quel luogo?
Pensai che un po’ tutta quella storia era stata il frutto di una serie di coincidenze un po’ troppo poco casuali per essere considerate tali e, per la prima volta nella mia vita, mi chiesi se, dietro tutte quelle combinazioni, non ci fosse qualcos’altro.
“Inoltre,” il suo sguardo si addolcì “dopo che i tuoi amici sono andati via, Saverio mi ha rimproverato come neanche mio padre ha mai fatto e mi ha raccontato dell’altro giorno.”
Non capii.
“Sì, insomma, di quando li abbiamo incontrati per caso. Che poi non è stato tanto per caso. Mi ha spiegato che ti ha chiesto di aiutarlo e che tu all’inizio eri reticente, ma poi sei andata da lui e gli hai detto ‘Non ho intenzione di costringere Hiroshi a fare qualcosa che non vuole; facciamo in modo che sia un incontro casuale, per tutti e due. Se dovrà succedere qualcosa, accadrà da sé.’”
Ero contrariata: “Mi aveva promesso di non dirti nulla.”
“E invece ha fatto benissimo. Se parlo con mia madre, lo devo soltanto a te che, nonostante abbia anche tu dei problemi con la tua, hai deciso di aiutarmi. Io… io non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quanto!”
Scossi la testa. In fondo, me ne rendevo conto solo allora, l’avevo fatto anche per me stessa: anche io avevo sempre voluto parlare con mia madre e aspettavo solo qualcuno che creasse l’occasione giusta perché questo avvenisse. Era buffo pensare che, senza volerlo, era stato proprio lui a presentarmela davanti.
“Non mi devi ringraziare. E’ stato solo grazie a te che anche io e mia madre abbiamo ricominciato a parlare.” E gli raccontai brevemente l’accaduto.
“Quindi quella donna era davvero…” non riuscì a terminare la frase “Oddio, chissà che cosa ha pensato in quel momento!”
“Che ero incinta.”
Impallidì: “Cosa?”
“Lascia perdere. Quella donna non ha il senso della misura.” Commentai, ripensando al mio armadio e al mio povero frigorifero.
Fu in quel momento che mi resi conto che c’era qualcosa che non andava; alzai lo sguardo e notai che il quadrante dell’orologio segnava le nove. Sobbalzai: perché i due coniugi non erano ancora arrivati? Parlando con Hiroshi, avevo perso la cognizione del tempo e non mi ero accorta del ritardo. Che fosse accaduto qualcosa alla signora? Si era nuovamente sentita male?
Mi lanciai alla ricerca del cellulare e li chiamai, ignorando completamente Hiroshi; il signor Marcello rispose al secondo squillo.
“Pronto?”
“Signor Marcello? Ma che fine avete fatto? Mi stavo preoccupando!”
“Oh, signorina Mara, è lei? Beh, noi stavamo uscendo di casa, quando abbiamo visto quel giovane che l’altro giorno era con lei in ospedale salire le scale con un tale impeto che abbiamo capito che… insomma, l’abbiamo vista un po’ a terra in questi giorni, quindi abbiamo pensato di lasciarvi soli per un po’.”
Le lacrime mi salirono agli occhi, ma stavolta, non per dolore o paura: avevano capito tutto. Anche se io avevo tentato di apparire sempre la stessa, loro si erano resi conto che c’era qualcosa che non andava; mi conoscevano troppo bene, per riuscire a imbrogliarli. Provai un’ondata di affetto smisurato nei loro confronti.
“Beh, perché non venite adesso? Abbiamo… sì, abbiamo chiarito.”
Sentii la sua classica risata da ‘so che c’è altro, anche se non me lo dici’ al telefono: “Mia cara signorina, noi non siamo giovani come voi. Mia moglie ha mangiucchiato qualcosa ed è andata a letto e anche io stavo per andare a dormire. Quindi, perché non ne approfitta per conquistare il suo amico con la sua buona cucina?”
Immaginai il suo viso che mi faceva l’occhiolino e risi.
“E’ successo qualcosa?” chiese Hiroshi, quando riagganciai.
“No, niente di grave. Mi stavo solo chiedendo… se non hai altro da fare, ti andrebbe di assaggiare quel che ho preparato? Così possiamo mangiarci anche il tiramisù che mi hai portato! Non ho cucinato nulla di particolare, visto che la signora Lucia deve seguire la dieta del medico, ma…”
Non riuscii a terminare la frase perché lui aveva posato le sue labbra sulle mie, dandomi una più che esaustiva risposta.


Note dell’autrice
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni.
Chi sono quelli che aiutano e chi quelli che vengono aiutati è difficile dirlo: ci sono Luca ed Enrico, che chiedono aiuto al professor Amani; c’è lo stesso professore che chiede aiuto a Mara e insieme si prodigano verso la signora Benedetta e suo figlio; c’è la stessa Mara che, senza saperlo, riceve lei stessa un aiuto fondamentale proprio dai Hiroshi per salvare il rapporto con sua madre. Oserei dire, quindi, che questo prompt è riferito a un po’ tutta la storia. Ho deciso di inserirlo solo in questo penultimo capitolo perché è qui che Hiroshi e Mara finalmente vengono a conoscenza di quello che è accaduto alle loro spalle o si rendono conto di tante cose.
E’ anche in questo capitolo che finalmente si capisce il senso del titolo: è l’Hitsusen, l’inevitabilità, direbbe Yuuko-san di xxxHolic, che governa tutta la storia e i rapporti tra i personaggi. Chissà se la Strega delle Dimensioni approverebbe! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Epilogo ***


XVI
Epilogo

 

"È meglio aver amato e perso che non aver amato mai."
(Men in Black)

 

In realtà sapevamo entrambi che tutto quello non sarebbe durato per sempre. Non ne avevamo mai discusso prima, e non ne parlammo neanche nei quattro giorni successivi. In cuor mio ero convinta che, facendolo, avremmo finito per concretizzare una situazione che volevamo vedere ancora lontana, infinita, distante.
Solo una volta mi era capitato di avvicinarmi troppo a quella realtà: dovevamo incontrare gli altri per andare tutti insieme al cinema – un film decente, stavolta, aveva assicurato Luca, e io del suo giudizio mi fidavo ciecamente – però noi ci eravamo visti prima, perché lui voleva sapere come si era svolto il mio incontro con l’editore.
Era stato in quel momento che il suo telefono aveva squillato. Quando il suo sguardo si era soffermato sul nome apparso sul display, uno strano guizzo aveva attraversato i suoi occhi verdi, ma era stato troppo veloce per riconoscervi alcunché. Mi ero allontanata un po’, per rispettare la sua privacy: non che se avessi ascoltato, ci avrei capito qualcosa, visto che parlavano troppo velocemente per le mie capacità linguistiche; però, ad un certo punto, forse perché spazientito, aveva alzato il timbro della voce e “Non ti preoccupare, tornerò presto!” mi era parso di sentire. Decisi che avevo capito male e, per questo, quando chiuse la chiamata non gli chiesi niente, né lui mi diede spiegazioni.
Quella sera facemmo l’amore in modo diverso; lo capii da come mi baciava e mi stringeva che qualcosa sarebbe successo di lì a poco: il suo era quasi un bisogno disperato, come se sapesse già che quella era l’ultima volta che potevamo stare insieme, e voleva viverla il più possibile.
“Dunque è arrivato il momento?” gli chiesi mentre eravamo ancora abbracciati, in silenzio; avevo intuito subito che c’era qualcosa che desiderava dirmi, anche se non riusciva a trovare il coraggio di farlo.
“L’avevi capito, vero?”
“Sì.”
Istintivamente, mi strinsi di più a lui: “Quando?”
“Domani. Ho tentato di rimandare la partenza più che ho potuto, ma hanno bisogno di me.”
“Lo so.”
Non dissi più niente: l’unica cosa che desideravo, allora, era restare accanto a lui il più possibile.
“Posso darti un passaggio fino all’aeroporto?” gli chiesi infine “Potrai avere il taxi gratis per un giorno: approfittane!”
Rise: “Ci speravo, ma non osavo chiedertelo.”
Non parlammo più. Non ero triste, almeno in quel momento: avrei avuto tutto il tempo per piangere e stare male, poi. Del resto, sapevamo troppo bene tutti e due, e lui più di me, che per noi non c’era futuro: lui aveva la sua vita, in Giappone, mentre io, in Italia, la mia. Tuttavia, il futuro, in quel momento, non mi faceva paura: nonostante sapessi che avrei sofferto tanto, avevo anche la salda consapevolezza che non avrei rimpianto tutto quello che era accaduto tra noi. Ero felice di averlo conosciuto, di averlo amato, di avergli donato il mio corpo e la mia anima e di aver condiviso con lui attimi importanti della mia vita, e neanche la schiacciante coscienza del domani senza di lui riusciva a farmi cambiare idea in proposito.
Il giorno successivo, passai a prenderlo per le tre, visto che era andato a salutare suo nonno e sua madre. A quanto pareva, i rapporti tra i due erano diventati molto più calorosi rispetto a quanto lui stesso avesse pensato inizialmente. Ne fui felice: un piccolo pezzetto di me sarebbe rimasto con lui anche in quel modo, e lui con me, per le stesse ragioni.
All’aeroporto erano tutti ad attenderci; me lo aspettavo, visto che ero stata proprio io a dare agli altri la notizia, quella mattina; Hiroshi, invece, ne fu sorpreso.
“Siete venuti a salutarmi?” chiese stupito
“In verità siamo qui solo perché l’altro giorno mi ero dimenticato di chiederti di portarci qualcosa di buono dal Giappone, la prossima volta che tornerai in Italia.” Scherzò Enrico.
“Lo farò, puoi contarci.”
Si strinsero la mano e scoppiarono a ridere, come due grandi amici.
“Sei il solito ingordo, Enrico. Grazie per averlo sopportato!”
“Figurati, Luca. Sono contento di avervi conosciuto, davvero. Mi sono divertito moltissimo con voi. Grazie… di tutto.” Lanciò un’occhiata nella mia direzione e capii subito a cosa si riferisse.
“Ma non farlo mai più, ok?” Ilaria gli diede un colpetto sulla spalla, a mo’ di scherzoso avvertimento.
Alzammo gli occhi sul tabellone e capimmo che il momento dell’addio si stava avvicinando. Hiroshi si voltò verso di me; cercai gli altri con lo sguardo, ma loro si erano già silenziosamente dileguati.
“Allora… io vado.”
Gli sorrisi: non volevo che mi vedesse triste. “Non è che adesso ti tuffi nel lavoro, come voi giapponesi siete soliti fare, e ti dimentichi di noi? Guarda che Enrico non ti perdonerà mai, se non gli porterai qualcosa la prossima volta!”
“Lo so. Ma secondo me avrà altro a cui pensare nel frattempo.” Sogghignò, facendomi l’occhiolino. Non capii, ma non me ne curai: avrei chiesto spiegazioni in un secondo momento.
“Seguirò le notizie sulla tua carriera, quindi non deludermi, ok?” la voce alla fine mi si ruppe, ma sperai che non se ne fosse accorto.
“Anche io voglio sapere del libro.”
“Te ne manderò una copia, quando uscirà.”
“E io convincerò mio padre a tradurlo in giapponese, così sarai conosciuta anche da noi e verrai a presentarlo a Tokyo.”
Risi, pensando a quanto fosse molto improbabile quella eventualità. “Perché no?”
“Ovviamente, ti ospiterò io.”
“Ovviamente.”
La voce registrata richiamò i passeggeri del volo per Roma Fiumicino. L’abbracciai un’ultima volta, un po’ più a lungo. La gente cominciava a muoversi verso il gate. Ci staccammo e lui raggiunse gli altri passeggeri. Rimasi lì, fino a che non lo vidi scomparire completamente, inghiottito dalla folla. Solo allora una mano si posò sulla mia spalla; di chiunque fosse, bastò quel contatto a far crollare l’ultimo residuo di autocontrollo che mi era rimasto.

*

Avevo la testa china sul libro che stavo leggendo, e per questo non lo notai subito; probabilmente non mi sarei neanche accorta della sua presenza, se, all’improvviso, la pagina non fosse stata coperta da un oggetto che me ne nascose le parole.
Per un attimo, rimasi interdetta a fissare quello strano tomo che era caduto tra le mie mani come dal cielo: inizialmente, non me ne resi conto perché non ero ancora così pratica con il giapponese da riconoscere gli ideogrammi al primo sguardo; quando poi la mia attenzione cadde sulle due parole scritte in katakana, nella parte superiore della copertina, gettai un urlo. Quello era il mio nome. E quello che avevo davanti era il mio libro. Quello che, quattro anni prima, una casa editrice non aveva voluto pubblicare e che invece, due anni dopo, la stessa aveva accettato dopo aver notato che il mio curriculum vantava, oltre a una laurea di secondo livello di editoria e giornalismo, anche la pubblicazioni di due raccolte di favole, ambedue presentate dal professor Andrea Berardi.
Ci volle solo un nanosecondo per capire chi fosse l’artefice di quell’inaspettato regalo. Non conoscevo poi tanti giapponesi, io, ed erano ancora meno quelli che erano disposti a prendere almeno due aerei e spendere quasi una giornata di volo per vedere la sottoscritta.
Balzai in piedi e lo abbracciai.
“Non mi avevi detto che saresti tornato così presto.” Dissi. L’ultima volta che ci eravamo visti, mi aveva spiegato che, purtroppo, non avrebbe avuto più un minuto libero per i successivi sei mesi e che, forse, solo per Natale sarebbe riuscito a raggiungermi.
“Ho voluto farti una sorpresa. Sei contenta?”
Dietro di noi qualcuno tossicchiò, ma lo ignorammo.
“Come sapevi che ero qui?” chiesi.
“Io so sempre dove sei.” Mi indicò il professor Berardi alle sue spalle.
Risi, capendo al volo: il professore non aveva soltanto curato le due presentazioni alle miei raccolte, ma, con il tempo, era nata anche una grande amicizia e una salda collaborazione; era appunto quello il motivo per cui mi trovavo fuori dal suo studio, quel giorno, in attesa che terminasse la lezione.
“E questo?” gli indicai la copia che avevo in mano.
“Ti piace? Ho chiesto a mio padre di tradurlo e l’ho fatto leggere a un suo amico editore. Gli è piaciuto molto e mi ha chiesto di portarti da lui, perché vuole conoscerti. Ho già chiesto anche al professore e lui ha detto che non ci sono problemi.”
Sgranai gli occhi, confusa: “Mi stai prendendo in giro?”
“Certo che no e questa è l’unica copia che esiste. Me l’ha fatto come favore personale.”
Lo fissai, ancora sconvolta. “Non ci posso credere.”
“Lo so. Quella volta, quattro anni fa, tu pensavi che stessi scherzando, quando ti promisi una cosa del genere. E, invece, come vedi, io parlavo sul serio.”
Rigirai il libro tra le mani. “E’ bello.” Commentai.
“Sono contento che ti piaccia. Aprilo, c’è qualcosa per te.”
Obbedii, curiosa. Mi bloccai: all’interno, c’era un biglietto di sola andata per Tokyo.
Lo guardai non sapendo bene come interpretare quel gesto. Si trattava solo dell’editore, o c’era qualcos’altro sotto? Lui mi sorrise radioso e allora capii che il significato era proprio quello che speravo, ma che al contempo temevo.
“Ne sei sicuro?” chiesi. Fino ad allora, avevamo continuato a sentirci spesso, tramite email, telefono e chattate agli orari più impensabili e a vederci ogni tanto, quando capitava che lui tornasse dai suoi parenti, una volta ogni sei mesi. In verità non avevamo mai parlato del futuro, ma prendevamo quegli incontri come un qualcosa che, finché c’era, durava, sicuri che la distanza era davvero troppa e che quel rapporto poteva seriamente finire da un momento all’altro.
Tuttavia, quel biglietto significava uno stravolgimento totale di quello strano equilibrio che c’era tra noi.
“Ne sei davvero sicuro? Non sarebbe meglio che tu trovassi una ragazza giapponese come te e che mi lasciassi perdere?”
Lui mi guardò dritto negli occhi. “Io non sono come gli altri giapponesi, e lo sai. Una ragazza giapponese non fa per me. Quella che io voglio accanto a me, sei tu e nessun altra. Possiamo provare, che ne dici?”
Guardai ancora il biglietto fra le pagine. Allora non sapevo se me ne sarei pentita, un giorno, o sarei stata felice di aver fatto quella scelta; sapevo soltanto che volevo provarci. E che, se non l’avessi fatto, l’avrei rimpianto per tutta la vita.
“Quando hai detto che vorrebbe vedermi, il tuo amico editore?”
“Il prima possibile.”
“E ovviamente mi ospiterai tu?”
“Ovviamente.”


FINE

Note dell’autrice
Come da sottotitolo, anche questo capitolo partecipa alla sfida Temporal-mente, indetta da Criticoni.


Io ve lo giuro: non doveva finire così. Da quando ho iniziato la stesura di questa storia (e ancora lui doveva essere un attore e lei un’aspirante attrice di teatro, rifiutata ad un provino – lo so, faceva schifo l’idea), la mia unica certezza è sempre stata che doveva finire male. E, fino a due secondi prima di iniziare a scrivere la parte finale, ne ero stata convinta: avevo iniziato a immaginarmi lei sposata con figli che lo rincontrava dopo anni, oppure lui occupato e lei che presentava il proprio libro in Giappone… insomma, tutt’altro finale. Perché io, a un finale del genere, non credo.
Poi, però, ho capito che non era questo ciò che loro desideravano; così, come sempre, li ho lasciati fare. E sì, devo dire che come finale, mi piace. Del resto, è una storia inventata, quindi non ha senso farsi tanti scrupoli; mi piacerebbe del resto pensare che simili storie d’amore possano esistere. E sognare non costa nulla, no?
Quindi, spero che questo finale, che ve lo aspettaste o meno, vi sia piaciuto. Grazie a tutti coloro che hanno seguito le vicende dei protagonisti, a chi ha commentato, a chi ha solo letto, a chi è riuscito a beccare refusi che nessuno aveva notato e a chi mi ha dato dei consigli e soprattutto alle mie tre amate fangirl – Maja, Sol e Gra – perché senza il vostro supporto non sarebbe stata la stessa cosa. Sono affezionatissima a tutti i personaggi di questa storia e spero tanto che una parte di loro possa rimanere anche con voi.
Un grazie particolare, va a Tamaki Hiroshi, attore e cantante giapponese, (anche se probabilmente non lo saprà mai! XD) per avermi ispirato il personaggio di Hiroshi (oddio, forse non sarebbe così contento di sapere che gli ho creato un passato tanto tragico! XD) e per le sue canzoni, che mi hanno accompagnata durante la stesura di questa storia. Senza di lui, forse, questa storia non avrebbe mai visto la luce.
Arigatou minna-san!

 

Per tutte le fan di Luca e Enrico: non vi preoccupate, non mi sono dimenticata di loro! Andate qui, se non ci credete!
A presto!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=330100