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di fragileeillusion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Simon & Garfunkel ***
Capitolo 3: *** ? ***
Capitolo 4: *** chi sei stato? ***
Capitolo 5: *** té/tè. ***
Capitolo 6: *** ricordati dei campi di grano. ***
Capitolo 7: *** with a little help from my friends. ***
Capitolo 8: *** X ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Cosa fareste se, improvvisamente, vi dicessero che il mondo potrebbe finire entro il mese? Probabilmente pensereste che sono solo fandonie, storie per spaventare la gente. Ne sareste convinti, o ci sarebbe un briciolo di paura?
Non di morire.
Quella ce l’hanno tutti.
Paura di non essere soddisfatti, in pace con voi stessi per aver vissuto un'esistenza completa. Per avere avuto tutto.
Ecco cos’abbiamo fatto. Abbiamo fatto la lista di ciò che ci ha appagato nella nostra vita. Abbiamo ringraziato gli amici, i parenti, l’eventuale Dio. Poi, siamo fuggiti.
A fare ciò che andava fatto prima di morire.
Siamo andati incontro alla nostra vita.
Non abbiamo detto niente a nessuno, ed abbiamo lasciato la nostra casa. L’idea non è stata di nessuno e di tutti. L’abbiamo fatto e basta, insomma.
Di fronte ad infinite scelte, abbiamo preso la via dei codardi. E a volte, è la scelta più giusta.
A volte scappare è la cosa migliore. 
Prendere una pausa dai problemi.
Lasciarsi trasportare.
L’abbandonarsi a se stessi è la via più veloce da prendere se si è diretti verso l’autodistruzione,
o verso la Vita.
E non prendeteci per pazzi visionari. I veri pazzi non siamo noi.
Siete voi, che vi aggrappate al vostro lavoro, alla vostra casa. Voi, che vi costruite, al posto di lasciarvi costruire. Voi siete i pazzi che giudicano la nuova generazione, che fate di tutta l’erba un fascio.
Dovete sapere, che non siamo tutti uguali. E questo viaggio lo dimostra.
Se siete tra quelli a cui non importa se il mondo cade, l’importante è restare seduti sulla bella poltrona, ed avere la pensione; tra quelli che se gli altri cadono, non è un loro problema; allora non capirete nulla delle motivazioni di questa fuga. Né vi importa di ciò che pensiamo.
In effetti, avreste solo buttato via parte del vostro tempo.
Se, invece, siete tra quelli che vogliono fare la differenza, che vogliono capire in che mondo si ritroveranno a vivere, allora avete fatto centro.

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Capitolo 2
*** Simon & Garfunkel ***


«Ti sei mai chiesto perché siamo tutti così spaventati dall'esprimere i nostri sentimenti o i nostri pensieri su qualcuno? Insomma, perché diventa così difficile dichiarare ad una persona quanto le vogliamo bene, quanto ci piaccia parlare con lei e trascorrere insieme il tempo? Io, poi, sono dell'idea che si debbano esprimere i propri sentimenti alle persone guardandole negli occhi. Bisogna avere coraggio, ed il coraggio sta nel potersi dichiarare direttamente. Se non si ha questa forza, penso allora che le emozioni debbano rimanere segrete. Per questo rimango in silenzio troppo spesso».
Joyce aveva le sue dita tra le mani e ci giocava mentre fissava il soffitto di travi di legno. Erano sdraiati affianco al divano: non avevano neanche pensato di sedervisi, perché non sentivano il freddo del pavimento, o la sua scomodità.
C’erano lui e lei, ed i loro cuori erano caldi, e questo bastava.
Non che Joyce sia mai stata innamorata di Yorke.
Yorke si perse per qualche minuto nei vortici creati dai nodi del legno, poi rispose.
«Penso che sia perché gli esseri umani sono tali proprio a causa delle emozioni. 
Nessuno può conoscere i pensieri, o prevedere le reazioni degli altri e tutti abbiamo paura dell'ignoto. Se io dicessi a qualcuno quello che penso e provo seriamente, che sia amore o amicizia, non saprei come reagirebbe.
E se non la pensasse allo stesso modo?», si voltò verso di lei, e la guardò dritta negli occhi. Non appena Joyce si voltò a guardare i suoi, distolse lo sguardo e continuò.
«Sostanzialmente, siamo divorati dal timore delle conseguenze che potrebbero causare le dichiarazioni. E lo siamo, perché siamo umani. È la natura. Non ci sono molte spiegazioni. C'è chi lo è di più o di meno, ma non chi non lo è».
Joyce mollò la sua mano e si mise a sedere. Lo guardava dall'alto con un'espressione confusa.
«Chiaro, ma anche quando i nostri sentimenti sono palesi, a volte non riusciamo ad esprimerli. Non ti succede mai di essere sul punto di dire qualcosa, che vuoi più di ogni altra cosa condividere, e ci sei davvero, davvero quasi, ma alla fine non ci riesci? E magari questi piccoli segreti potrebbero cambiare tutto»
Yorke si soffermò ad osservare le sue ciglia lunghe.
Ci fu un lungo momento di silenzio, durante il quale si fissarono.
Nessuna parola. Solo il suono dei loro respiri e il rumore del fuoco che bruciava la legna nel camino.
«Per me è uno sforzo disumano».

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Capitolo 3
*** ? ***


Joyce era in ritardo, come sempre. Attraverso i finestrini della macchina di Yorke entrava l’aria primaverile della sera, che gli accarezzava i capelli. Yorke si accese la sigaretta con un fiammifero.
«Che scocciatura», disse, «Non possiamo neanche cominciare la nostra vita in orario».
Mise il braccio fuori dal finestrino, fece cadere la cenere e si voltò verso di me. Mi guardò per qualche istante. Guardò me e il mio stupido taccuino. Me e la mia stupida penna.
«Beh, in effetti ci siamo svegliati tutti tardi».
Me e la mia stupida bocca chiusa, «siamo come pulcini che non hanno voglia di uscire dal loro uovo».
Me e i miei stupidi occhi troppo aperti, «ed ora che stiamo tentando di uscire, siamo troppo stanchi per fare le cose fatte per bene».
Me e la mia stupida penna che scivola sul foglio bianco, «Stanchi per cosa? Non lo sappiamo neanche».
Lo guardai con i miei stupidi occhi persi.
Continuò a fissarmi, in silenzio. Poi lo ruppe: «ma tu non parli proprio mai?»
Joyce uscì finalmente di casa, trascinando un trolley, uno zaino, una tracolla e una borsa.
Yorke uscì dall'auto e la andò ad aiutare, mentre io continuavo a scrivere.
Riempirono il bagagliaio ed entrarono in macchina.
«Cristo santo, Joyce, quanta roba ti sei portata dietro?», gli chiese lui, mettendo in moto.
«Non sappiamo neanche quando torneremo!», rispose.
Yorke si voltò verso di lei, tenendo le mani sul volante.
«E chi vuole tornare?».
Abbassammo tutti i finestrini per farci sbattere in faccia dal vento il profumo del mondo.
Stavamo partendo per una destinazione sconosciuta. Anzi, forse la destinazione non esisteva proprio. Ma sentivamo che ci stavamo avvicinando a qualcosa. E magari questo qualcosa non era la solita vacanza al mare o in montagna, la casa di un amico o il prato del pic-nic dominicale. Magari quel qualcosa eravamo Noi stessi.
«Ciao Harris!», mi disse Joyce con un sorriso, accarezzandomi i capelli.
Le sorrisi anche io.
Queste due persone sono entrate nella mia vita, in un momento in cui io dalla vita non mi aspettavo niente. Si sono addentrate nei miei giorni in punta di piedi e li hanno capovolti. Questi casi clinici mi hanno portato alla realtà, mentre io cercavo la normalità. Mi hanno fatto capire che ciò che è normale è acqua sporca. Nociva. Ed ora cercavamo di sfuggire ad essa e di plasmare la realtà in qualcosa di migliore.
«Harris, mi passeresti il tuo taccuino, per favore?». Esitai. Il mio taccuino sono i miei occhi. Tutto ciò che vedo. E il mio cuore. Tutto ciò che provo. Io sono una marea di pagine in bianco e nero.
Dal sedile posteriore si sporse in avanti e mi sorrise.
«Joyce, stai indietro e mettiti la cintura», disse Yorke.
Si sporse ancora più in avanti, sfiorando il cambio dell'auto con le mani, «Dai, Harris. Il Taccuino!»
«Joyce, stai indietro e mettiti la cintura»
Si avvicinò e il suo naso toccò il mio.
Yorke frenò bruscamente, tutto d'un tratto. La schiena di Joyce finì contro il cruscotto.
«Stai indietro. Mettiti la cintura»
Le diedi il taccuino.
Fulminò Yorke con lo sguardo.
Poi mi prese la penna dalle mani e scrisse:

Destinazione:

Mi ripassò il tutto. Ed io completai:

?

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Capitolo 4
*** chi sei stato? ***


Viaggiammo per tutto il giorno. Parlarono delle loro vite allo scopo di cancellarle.
Ogni frase, ogni gesto che avevano compiuto, una volta espresso a parole, bruciava, e scompariva dalle loro menti.
Ora non esisteva un passato. C'era solo un istante, ed era il presente. Non importava se il passato li aveva resi quello che erano, perché noi non conoscevamo ancora noi stessi. Ci stavamo cercando.
Lei parlò di come avesse bruciato tutto ciò che aveva in camera prima di partire, a parte i bagagli.
Foto, diari, soprammobili. Tutto. Aveva lasciato solo dei mobili spogli, e il letto rifatto.
Non aveva lasciato traccia di sé.
Ed io prendevo appunti.
Ogni tanto Joyce cercava di leggere ciò che scrivevo e non ci riusciva mai.
Spiegò che i suoi genitori erano andati via senza neanche avvisarla.  Neanche un biglietto. Lei si era svegliata, e loro non c'erano più. Partiti. Ogni tanto lo facevano.
Li aveva sempre odiati per questo, ed ora lo stava facendo lei. Però lei almeno il biglietto l'aveva lasciato. Sul tavolo della cucina. Un post-it sul quale aveva disegnato un cuore.
Nessuno si sarebbe mai immaginato Joyce arrabbiata o triste. Solo serena, o addirittura felice, perché  con noi aveva sempre il sorriso stampato sulle labbra.
E invece bruciava le cose che potevano ricordarla. Bruciava fasi della sua vita. E rimaneva delusa dai genitori, perché non lasciavano un saluto e non inviavano cartoline.
Mi chiesi se erano sorrisi fatti per nascondere la tristezza, ma realizzai subito che Joyce non era solo solare, ma anche sincera, e che se non ci fosse motivo di sorridere, non sorriderebbe.
Quindi, arrivai alla conclusione che ci amasse. Che fossimo la sua medicina.
Poi lo disse: «Quando sono con voi non c'è bisogno di essere tristi. Anche volendo, non ci riuscirei».
Yorke sorrise. Io sorrisi.
Mi girai a cercare la mano di Joyce e gliela tenni.
Lui parlò di quando sua sorella si trasferì. Spiegava che sentiva solo tramite telefonate la persona che lo aveva cresciuto e che era cresciuta con lui, e che i telefoni sono una cazzata, perché non puoi abbracciare la persona dall'altro capo. Sua sorella rimase incinta, e lui non poté accarezzarle la pancia. Sua sorella partorì, e lui non poté tenere in braccio il bambino. Poteva farlo solo durante le feste. E così, gettò il suo cellulare, nonostante fosse l'unico modo per sentirla almeno un po' vicino. Lui non nominò i suoi genitori, e non parlò mai più dei suoi famigliari.
Ora non esistevano più.
«E tu?», mi chiese Yorke, «tu chi sei stato?»
Nessuno, pensai. Non sono mai stato nessuno. È questo il punto.
Mi limitai a non rispondere e a guardare fuori dal finestrino. Sorrisero.
«Ho bisogno di un altro caffé», disse Yorke.
 

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Capitolo 5
*** té/tè. ***


Joyce aprì il bagagliaio, e dalla valigia tirò fuori una scatola di rame ed un fornelletto.
Accese il fornelletto. Aprì la scatola.
Dentro c'erano un numero inquantificabile di bustine di tè.
Tè nero. Verde. Al limone. Ai frutti di bosco. Alla vaniglia. Alla liquirizia.
«Giusto per viaggiare leggeri», l'apostrofò Yorke, con tono sarcastico.
«Non vivo senza te», sorrise.
Lui forse non lo notò. Io sì.
Io, che sto sempre zitto, e che le parole le ascolto attentamente.
Io, che nel mio silenzio vedo tutto.
Aveva detto .
Non vivo senza té, Yorke.
Versai l'acqua da una bottiglia ad un pentolino e la misi sul fuoco.
«Scegli una bustina!», mi intimò lei.
Tè alla menta. Al caramello.
Presi quello all'ananas.
Una volta che il tè fu nelle tazze, Yorke mise sul fornelletto appoggiato sul cofano la sua caffettiera.
Versato anche il caffè nella tazzina, ci raggiunse sul tettuccio della macchina.
L'auto era parcheggiata su una strada sterrata, circondata da un enorme prato verde, sotto ad un cielo colmo di stelle.
Le stelle più luminose della mia vita.
Il tè più buono della mia vita.
Ed io scrivevo tutto. Tutto quanto.
Neanche gli altri ragazzi parlarono molto quella sera. Eravamo tutti troppo concentrati a guardare all'insù. Ad ascoltare il canto dei grilli. A sentirci piccoli.
A cercare le stelle cadenti, con la speranza che almeno una realizzasse un nostro desiderio.
Ci tenevamo per mano, sdraiati sul tetto.
Eravamo vicini e distanti anni luce.
Yorke sporcava la luna con il fumo della sua sigaretta.
Joyce mollò la sua mano e si girò verso di me.
«Come ti senti?», mi chiese.
Innamorato.
«Come ti senti, Harris?»
Innamorato di tutto.
«Harris?»
Di tutto ciò che i miei occhi vedono e le mie orecchie ascoltano.
Una folata di vento mi regalò l'odore del balsamo sui suoi capelli.
Di tutto ciò che il mio naso annusa.
Nella mia bocca, il gusto di ananas.
E che la mia lingua gusta.
Joyce cominciò a disegnare, con il suo indice, il contorno della mia mano. A delineare le linee sul mio palmo.
E che il tatto mi permette di sentire.
Yorke esalò il fumo dalla bocca.
Di colpo la vidi. Sopra di me. Una stella cadente.
Joyce si voltò. La vide anche lei. La indicò.
E Yorke sorrise.
Non seppi mai se e quale desiderio espressero.
Per quanto riguarda me, so che l'unico modo per rendere un desiderio reale è quello di alzarsi e farlo reale, ma lo espressi comunque, chiedendo aiuto alla stella.
Vorrei far provare a loro, ciò che loro fanno provare a me.

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Capitolo 6
*** ricordati dei campi di grano. ***


Joyce divise i suoi capelli in tre ciocche. Poi passò la ciocca laterale al centro.
Ed io prendevo appunti.
Appunti su tutte le cose belle che vedevo.
E la ciocca laterale diventava quella centrale.
«Qualcosa di dolce», disse.
«Zucchero filato», rispose Yorke.
Il mondo ci passava affianco, e sotto.
«Qualcosa di pauroso»
«Il buio, gli addii, le scelte»
E le nuvole nere ci seguivano senza fare rumore.
«Qualcosa di abbagliante»
«Questo bianco sole del cazzo»
Yorke rallentò e si mise gli occhiali.
Gli alberi non si fermavano. Le montagne tagliavano il cielo grigio.
E la ciocca laterale diventava quella centrale.
«Qualcosa di inutile»
«I perché»
Joyce tirò fuori dalla borsa appoggiata ai suoi piedi un astuccio.
Dall'astuccio, prese la matita e se la mise sotto agli occhi.
«In che senso?»
«Nel senso che le cose accadono e basta. A volte cercare un perché è inutile: molto probabilmente non esiste»
E io prendevo appunti.
Cominciò a pioviginare e le gocce a bagnare il parabrezza.
Una dopo l'altra.
Ora l'immagine dell'orizzonte era distorta dall'acqua sul vetro.
Joyce si mise il mascara.
Appunti su tutte le cose belle che vedevo.
«Al primo spiazzo che vedi, fermati», disse Joyce.
Yorke annuì e cominciò a rallentare.
Parcheggiò l'auto sul ciglio della strada che si affacciava su un campo di grano.
Stemmo chiusi in macchina, in silenzio, ad ascoltare il rumore delle gocce che si infrangevano toccando il suolo. Il suono dei nostri respiri.
Poi, Joyce uscì dall'auto. E Yorke la seguì.
Io stavo ancora scrivendo, quando aprirono la portiera del passeggero.
Quando Yorke mi prese per il braccio e mi tirò fuori.
Mi cadde il taccuino sotto al sedile e cercai di riprenderlo, ma Joyce me lo impedì.
Mi serve.
«Non vorrai mica bagnarlo!», chiuse la portiera lasciandoci fuori.
Allora aspetterò in macchina.
Appoggiai la mano sulla maniglia.
Lei appoggiò la sua fredda mano sulla mia.
Ci stiamo bagnando tutti.
Tenendola stretta, mi trascinò all'interno del campo.
Pioveva sempre di più.
Vidi la sua treccia diventare fradicia.
Una volta arrivati in un punto in cui la strada sembrava lontana, in cui eravamo sommersi dal grano, mi lasciò la mano e cominciò ad urlare al cielo.
E urlò anche Yorke.
Urlarono insieme e bevvero la pioggia e risero di me e di sé.
Danzarono tra le spighe. Danzarono attorno a me.
Vidi il mascara colarle sul viso, disegnando due grosse lacrime nere.
Cerchiamo sempre di rendere le cose migliori, senza renderci conto che sono già perfette.
Il suo trucco si stava sciogliendo, e lei splendeva più che mai.
E lui era più raggiante del sole a Ferragosto.
Ed io ero illuminato da tutto. Io ero una lucciola al sole, che aspetta la notte per brillare.
E aspetta. E aspetta.
E aspetta.

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Capitolo 7
*** with a little help from my friends. ***


«Harris, sei sveglio?»
Lo schienale del sedile di Joyce e quello di Yorke erano abbassati. Io ero sdraiato sul sedile posteriore. Non la vedevo in faccia, ma eravamo ad un soffio di distanza.
Guardavamo entrambi il cielo dell'auto.
La mia agenda era ancora sotto al sedile di Yorke.
Scrissi sul palmo della mano un semplice sì e la alzai sulla sua testa.
«Per favore», si bloccò un attimo, titubante, poi riprese, «per favore. Aiuta la mia mente. È in disordine»
Come fosse soffocata da
mille e mille fogli
piovuti dal cielo?

«Come fosse soffocata da mille e mille fogli, ricoperti da scritte sovrapposte e disegni confusi e tetri, piovuti dal cielo»
Cosa    posso    fare   ?
«Metti in ordine. Fai tutto ciò che è in tuo potere»
Potrei ascoltarti.
«Ne sarei felice»
Le sorrisi, anche se lei non poté vederlo.
«Non riesco a pensare, perché penso troppo».
Aspettai che continuasse. Cercò le parole. Le trovò.
«Siamo davanti ad una scelta che determinerà la nostra intera vita. Dovremmo accettarne tutte le conseguenze. Vorrei pensare al mio futuro, so che dovrei, ma appena ci provo, vengo investita, travolta da tutte le possibilità. Non riesco neanche a distinguere l'una dall'altra. Milioni e milioni di rami che crescono sul tronco del mio destino, e dai rami più possenti ne crescono altri più piccoli, e poi altri rami, più piccoli ancora, e dai rami nascono le foglie. Ma nel mio cuore sento l'autunno, e d'autunno le foglie perdono il colore, e si seccano, e muoiono, e cadono. Io non so quale ramo riuscirebbe a sostenere il mio peso, né quale sarà l'ultima foglia a cadere. Se provo a ragionare su tutto quello che potrei decidere di fare, e su tutto quello a cui, di conseguenza, sceglierei di rinunciare, mi si annebbiano i pensieri e comincio a scacciarli. Pensare non è mai stato così difficile-»
Yorke si mosse. Joyce abbassò ancora la voce.
«Puoi prendere tu una scelta per me?»
Non posso. Lo scrissi sul dorso della mano.
«Perché non puoi?»
Perché non è la mia vita. Perché non è così facile.
Perché non so prendere decisioni neanche per me stesso.

«E se facessi la scelta sbagliata?»
In mancanza di spazio, cominciai a scrivere sul braccio.
Non la farai.
«E se la facessi?»
Te ne faresti una ragione.
«E se non ci riuscissi?»
Allora ti aiuterei a trovare una soluzione.
«E come faresti?»
Troverei un modo. Se non ci fosse, lo inventerei.
«Harris?»
Rialzai la mano su cui avevo scritto , ed aggiunsi un punto di domanda.
«Se ti dicessi che ho Paura?»
Ti direi che ce l'ho anche io.
«Se ti dicessi che sono proprio nel Panico?»
Ti direi che ci sono anche io, e che i posti a sedere non sono neanche comodi.
«E se ti dicessi che sono Disperata?»

Ti abbraccerei.

«Mi abbracceresti»

Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti-

finii il mio braccio. Presi tra le mani il suo e continuai.

Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei Ti abbraccerei.

Poi, l'abbracciai.

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Capitolo 8
*** X ***


I miei appunti avevano già raggiunto tre quarti del taccuino, quando Yorke decise di accostare.
«Finalmente!», Joyce uscì saltellando dalla macchina,  «è almeno un'ora che me la tengo!»
Yorke si accese una sigaretta, «e perché non me l'hai detto prima?»
Aprii il bagagliaio, e vi appoggiai dentro il mio taccuino. Tirai fuori il fornelletto e la moka e feci del caffé.
Joyce si allontanò, cercando qualche cespuglio nel deserto dietro al quale nascondersi.
«Qui vedete?», urlò da lontano.
«Negativo!», rispose Yorke. Lo guardai di traverso.
Joyce fece bene a non fidarsi, ed avanzò fino al cespuglio più lontano.
«Come fai?», mi chiese lui.
Corrugai la fronte, scossi la testa.
«Come fai a farle aprire a te il suo cuore in questo modo?»
Continuai a fissarlo.
«Hai mai sentito la mancanza di qualcuno che sta proprio accanto a te?»
Dopo un attimo di esitazione, allungai la mano verso la penna appoggiata nel bagagliaio per poter scrivere la risposta sul mio braccio, ma prima che le mie dita potessero afferrarla, la mano di Yorke era già sulla mia.
«Non scriverlo. Voglio sentire il suono delle tue parole»
Rimasi pietrificato.
I suoi occhi erano tremendamente vicini ai miei. L'odore di fumo mi penetrò nelle narici. Le sue labbra scandivano le frasi davanti alla mia bocca serrata.
«Voglio sentire il suono delle tue parole», sussurrò.
Ma io non parlai. Provai, ma non riuscii.
Ci provai. Davvero.
Il caffé uscì dalla caffettiera, cadendo sul dorso della sua mano aperta sulla mia. Non cambiò espressione. Continuava a fissarmi.
Soffiò il fumo dentro la mia bocca ormai semiaperta.
«Ragazzi!», urlò Joyce, correndo verso di noi.
Yorke tolse la sua mano dalla mia, e si voltò rapidamente.
«Ragazzi! Guardate cos'ho trovato!», ci mise davanti agli occhi i resti di una cartina sporcata dalla sabbia. In alto a destra era stata tracciata una grande "X".
«A quanto pare abbiamo una meta», Yorke bevve la sua tazza di caffé, e tornò al volante.
 

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