DESCENDANT

di Deline
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non è reale ***
Capitolo 2: *** Il Risveglio ***
Capitolo 3: *** Lonewolf ***
Capitolo 4: *** La Tana del Bianconiglio ***
Capitolo 5: *** Registrazione 020216 ***
Capitolo 6: *** Madri e Padri ***
Capitolo 7: *** Intimità Violata ***
Capitolo 8: *** Gli occhi di Lone ***
Capitolo 9: *** Il vuoto di Eric ***



Capitolo 1
*** Non è reale ***


I tiepidi raggi del sole nascente accarezzavano le sagome scure di quello che restava degli imponenti grattacieli della città che, in un tempo lontano, prima della grande guerra, era stata tra le più influenti del mondo. Nulla era stato risparmiato dalla follia umana, nemmeno i suoi meravigliosi canali che, nei suoi anni d’oro, la rendevano simile a una moderna Venezia, dove però allo sfarzo di antichi palazzi era stata preferita l’imponenza di moderni grattacieli.
Una sorte simile era toccata anche al lago Michigan che per chilometri era stato coperto di terra e la palude che si formò era l’unica traccia che ricordava ai nuovi abitanti che un tempo c’era un lago talmente grande da sembrare un mare, ma dubito che essi sappiano che cosa sia il mare.
Gli abitanti dello spettro della Chicago che noi tutti conosciamo e amiamo, hanno vissuto per generazioni rinchiusi all’interno di una enorme recinzione convinti che fosse stata costruita per la loro sicurezza, per tenere fuori dalla loro città gli orrori di un mondo sconvolto dalla guerra. Erano ignari che quelle alte mura di cemento e acciaio in realtà non furono innalzate per non lasciar entrare, bensì per non lasciare uscire.
Da quando furono create le fazioni in pochi si avventurarono fuori dalla recinzione, spingendosi molto oltre i campi dei Pacifici, ma nessuno pare abbia mai fatto ritorno e i pochi che ci riuscirono sembravano in qualche modo cambiati.
All’interno della recinzione la persone vivevano divise in cinque gruppi chiamati fazioni. Le fazioni furono create per mantenere la pace e l’armonia, ma purtroppo un tale equilibrio non fa parte della natura umana. Il loro motto era “la fazione prima del sangue” affermazione assurda più che utopica: niente è mai stato e, mai sarà, più forte dell’inscindibile legame di sangue.
La fazione degli Eruditi era una grande sostenitrice di questo motto; i suoi membri perseguivano logica e conoscenza ma ben pochi di loro conoscevano la saggezza. Il più grande difetto degli Eruditi era la totale mancanza di umiltà, difficile averla quando si crede di essere i migliori, i più intelligenti.
La fazione degli Abneganti conosceva l’umiltà, grazie allo stile di vita semplice e altruista dei loro membri, che dedicavano la loro esistenza agli altri, aiutando anche chi non faceva parte di nessuna fazione: gli Esclusi. Essendo al servizio degli altri fu deciso di affidare loro il governo.
Dare il potere a chi non lo bramava era stata senza ombra di dubbio un’idea ottima, ma il potere è il più grande seduttore, anche il più puro di cuore prima o poi cederà alle sue lusinghe e lascerà che la sua anima venga divorata e corrotta.
Il potere sarebbe in grado di contaminare anche l’onestà dei Candidi e la gentilezza dei Pacifici, ancora peggio sarebbe se finisse nelle mani degli Intrepidi, conosciuti per il loro coraggio che spesso oltrepassa il confine dell’incoscienza. La fazione degli Intrepidi era incaricata di mantenere l’ordine, un piccolo esercito al quale manca però l’intelligenza per elaborare strategie di attacco e di difesa.
Fu così che la pace e l’armonia andarono perdute, lasciando questa Chicago, già ferita a morte, sull’orlo di una rivolta. Gli Eruditi, divorati dalla sete di potere, usarono gli Intrepidi per mettere in atto un colpo di stato. La loro intelligenza e l’addestramento degli Intrepidi contro gli inermi Abneganti.
Eppure, nel silenzio della tiepida mattina d’estate e nella pace delle vie deserte, sembrava ancora di essere al tempo in cui la tranquillità regnava sulle cinque fazioni.
Osservando il mondo esterno dalla cima della recinzione, non si vedevano altro che prati ingialliti dal sole estivo, che si estendevano a perdita d’occhio.
In uno di essi, poco distante dalla base della recinzione, c’era una giovane donna. Indossava abiti neri da Intrepida che quasi stonavano con la sua corporatura minuta e i lineamenti delicati del suo viso. Era stesa sull’erba e sopra di lei volava minaccioso uno stormo di corvi.
Improvvisamente, come nei peggiori incubi, nuvole scure inghiottirono il pallido sole del mattino e gocce di pioggia accarezzarono il viso della giovane Intrepida facendola destare dal suo sonno.
Si alzò di scatto e osservò i corvi che, in una lenta spirale, si stavano avvicinando a lei. Come richiamato dal suo sguardo, lo stormo piombò sopra di lei con una rapidità innaturale. La giovane iniziò a correre verso una baracca nel centro del prato, cercando di proteggersi il viso dai becchi aguzzi dei corvi, ma erano troppi, sembravano moltiplicarsi ad ogni passo che faceva.
A pochi metri dalla salvezza, apparvero davanti a lei alte ed eteree fiamme di un innaturale blu cobalto che, come attratte dal candore del suo viso, avanzavano lentamente verso di lei in un’insolita danza convulsa.
La giovane osservò il muro di fuoco e per un attimo pensò che se ci fosse saltata dentro tutto sarebbe finito. Fece qualche passo avanti, allungò una mano e sfiorò una fiamma con la punta delle dita. Come era accaduto per i corvi, il suo gesto scatenò l’ira del fuoco che scattò verso di lei inghiottendo e incenerendo i corvi.
La giovane Intrepida riprese a correre nell’unica direzione che il fuoco le concedeva: verso la recinzione. Un vicolo cieco, presto anche lei sarebbe stata incenerita all’istante.
Nella sua mente si fece di nuovo spazio il desiderio di farla finita, di abbandonarsi alle fiamme e porre fine alla sua sofferenza. Si lasciò cadere sulle ginocchia e chiuse gli occhi in attesa della fine. Le fiamme formarono un cerchio intorno alla giovane donna e il denso fumo invase la sua gola. Sentì la sua testa cominciare a girare e questo fu un sollievo per lei, forse non sarebbe morta bruciata, forse per lei la morte sarebbe arrivata più dolcemente, se fosse stata priva di coscienza mentre il fuoco divorava la sua carne.
Sentì il suo corpo diventare leggero, come se la gravità avesse cessato di esistere in quel piccolo cerchio di fuoco. Decise di lasciarsi andare e crollò su un fianco.
Nel buio e nel silenzio della sua mente esausta e rassegnata sentì una voce chiamare il suo nome.
«Tris…Tris, apri gli occhi, svegliati!»
La giovane riaprì gli occhi e davanti a lei non c’era più il muro di fiamme, non c’erano più neanche il prato e il cielo, non c’era più nulla, solo buio.
Lentamente si alzò e cominciò a camminare con le braccia tese davanti a se, alla ricerca di qualcosa che l’aiutasse a capire dove si trovava. Dopo qualche passo i palmi delle sue mani toccarono una superficie liscia e fredda. Lentamente si spostò di lato seguendo quella strana parete, ma dopo solo un passo la sua spalla andò a sbattere contro un’altra parete.
«No!» disse con un filo di voce mentre iniziò a singhiozzare.
Sapeva bene dove si trovava e quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Sopra di lei un grosso faro si accese e Tris riconobbe quello che aveva tanto sperato di non rivedere mai più.
Era all’interno di una scatola di vetro trasparente, sopra la sua testa una pesante lastra di vetro chiudeva la sua unica via di fuga e ai suoi piedi un grosso tubo iniziò a riversare acqua gelida in quella che stava per trasformarsi in una grande bara di cristallo.
Tris sapeva esattamente cosa doveva fare per avere una possibilità di salvezza.
Si tolse velocemente la giacca e si immerse nell’acqua gelida, che ormai le arrivava sopra le ginocchia e cercò di fermare il flusso dell’acqua usando la giacca per tappare il tubo, ma appena la spinse contro l’apertura si ritrovò a stringere tra le mani del fango.
Non doveva andare così” pensò allungandosi verso l’alto alla ricerca d’aria.
Ormai si stava rassegnando, sapeva che qualsiasi cosa lei facesse non sarebbe servita a salvarla. Sapeva che se avesse continuato a lottare non sarebbe morta affogata ma si sarebbe ritrovata in un nuovo orrore, perché è così che vanno le cose all’inferno: ci si libera da un tormento per passare a quello successivo.
Così erano sempre andate le cose per lei, ma ora Tris era stanca di tutto quel orrore e di quella sofferenza, pensava che se avesse deciso di voler morire forse tutto sarebbe finito. Così si lasciò andare, si abbandonò al freddo abbraccio dell’acqua mentre lacrime calde le scivolavano lungo le guance.
Ormai sommersa, guardò la sua immagine riflessa nella lastra di vetro, ma quella che vide non fu la sua immagine. Davanti a lei c’era un’esile donna con lunghi capelli bianchi e occhi così chiari da sembrare di ghiaccio. Indossava un lungo abito bianco e sembrava fluttuare nel nulla.
La donna la guardò e le sorrise dolcemente appoggiando le sue mani contro la lastra di vetro. Tris allungò le braccia e cercò di afferrare le mani della donna. Appena i palmi delle sue mani sfiorarono il vetro si sentì invadere da un calore buono e nella sua mente vide lentamente scorre delle immagini. Erano i ricordi della sua vita passata. La sua infanzia, la cerimonia della scelta, l’iniziazione negli Intrepidi, l’attacco agli Abneganti, la fuga dalla città, la grande casa di legno dei Pacifici e il quartier generale dei Candidi dove gli Intrepidi traditori l’attaccarono di sorpresa.
I ricordi si interruppero bruscamente. Tris capì che in qualche modo la sua mente e quella della diafana donna erano collegate ed era stata lei a far cessare il flusso dei ricordi.
«Perché?» chiese alla donna sperando che davvero potesse sentire i suoi pensieri.
«Perché non c’è altro da vedere» le rispose la donna sorridendole con una dolcezza che la fece sentire per un attimo protetta e al sicuro.
«Non è vero, so che c’è altro!» esclamò, ma quando cercò di pensare ai ricordi successivi non ci riuscì, la sua mente era completamente vuota.
«Tris, sai bene che ci sono cose che non sono reali»
La donna riattivò il flusso dei ricordi e le fece rivivere attimi del secondo modulo dell’iniziazione degli Intrepidi e, subito dopo, l’attacco al quartier generale dei Candidi.
Nella mente di Tris sembrava tutto reale. Le vetrate che andavano in frantumi, i frammenti di vetro che la ferivano, l’odore del gas, la gente che cadeva a terra, la sensazione di sentirsi mancare e l’oscurità che la avvolgeva lentamente.
Tris guardò incredula la donna.
«Sapevano già chi dovevano prendere, i Divergenti non sono immuni a tutto e...»
La donna interruppe bruscamente il loro contatto mentale e si guardò intorno spaventata.
Picchiettò con un dito sulla lastra di vetro e le disse: «Tris, non è reale, ricordi?» le sorrise ma prima di svanire aggiunse: «Svegliati!»
«Non è reale» ripeté più volte Tris e si accorse che l’acqua non le feriva i polmoni, era inconsistente, non era reale.
Tris guardò la lastra di vetro, picchiettò con la punta delle dita e vide formarsi piccole crepe. Sembravano tanti piccoli capillari che si allontanavano velocemente dalle vene principali per poi terminare la loro corsa sui bordi della bara di vetro. Per un attimo non accade nulla, ma poi il vetro si dissolse e con esso anche la stanza e il faro, fu come se tutto avesse cessato di esistere.
L’oscurità e il silenzio l’avvolsero di nuovo. 

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Capitolo 2
*** Il Risveglio ***


“L’oscurità mi conforta, l’oscurità mi protegge, se resto qui, sospesa in questo nulla, nessuno mi troverà e io sarò in pace.”
Ripeté, come una preghiera, la giovane Intrepida mentre, intorno a lei, sentiva deboli rumori e misteriosi sussurri. Non sapeva dire se fossero reali oppure solo frutto della sua mente logorata dalla paura e dalla sofferenza che le sembravano sue amanti da tempi immemorabili.
Nella sua mente si susseguivano idee e immagini raccapriccianti e senza senso, ricordi che non avevano né un luogo e né un tempo. Vita e morte. Lei sapeva di essere morta e si domandava perché in fondo, oltre la paura e la sofferenza, oltre i ricordi e la loro assenza, lei si sentiva ancora così viva. Tutto le sembrava reale, anche quelle creature pallide e senza volto, ma lei sapeva che non poteva essere così, quelle cose non potevano esistere nella realtà.
Persa negli infiniti labirinti della sua mente sentì una goccia calda scivolare sulla sua guancia e posarsi sulle sue labbra. La sfiorò con la sua lingua e assaporò qualcosa che sembrava appartenere a ricordi lontani e che credeva ormai perduti: il sapore di una lacrima.
Sentì la sua lingua pizzicare come trafitta da tanti piccoli spilli, come se quella minuscola goccia contenesse infiniti cristalli di sale.
Un’altra lacrima solcò il suo viso e di questa la catturò il calore e il brivido che le provocava scivolando lungo il suo collo.
In quel tempo infinito di incubi, aveva affrontato i becchi aguzzi dei corvi, muri di fuoco e tombe d’acqua, ma nessuno di questi le era sembrato doloroso e reale come le lacrime che continuavano a scendere velocemente sul suo viso.
Tris raccolse tutte le sue forze e si ordinò di aprire gli occhi ma, per quanto si sforzasse, sembrava che tutto il suo impegno non fosse sufficiente, le sue palpebre tremavano ma non si muovevano di un millimetro.
Esausta e disperata si lasciò scappare un grido, lo sentì salire dal suo diaframma e percorrerle la gola ma dalle sue labbra non uscì nulla. Scoraggiata decise di abbandonare la stupida illusione di essere davvero ancora viva e prigioniera in una oscura e ingestibile simulazione.
Si rilassò facendosi avvolgere dall’oscurità che ormai era diventata fedele come una compagna e dolce come una madre. Mentre si lasciava scivolare in quel rassicurante oblio sentì un debole suono uscire dalle sue labbra, come se il grido d’aiuto che aveva cercato di lanciare non si fosse dissolto nella sua bocca, ma vi si fosse solo fermato per riposare e trovare il vigore necessario per scivolare sulla sua lingua e uscire dalle sue labbra.
Era solo un rantolo, debole e quasi impercettibile, ma lei lo aveva seguito con attenzione da quando era nato nel suo petto e ricordava ogni sensazione che le aveva dato il suo viaggio verso la libertà.
Capì finalmente di che tipo di forza aveva bisogno per aprire i suoi occhi.
Ripercorse mentalmente più volte quello che le era sembrato uno sforzo immenso e decise che era il momento di riprovare.
Spingere con forza dalla mente e poi farlo con il corpo…dalla mente al corpo, dalla mente agli occhi, dalla mente alle palpebre”.
Tris finalmente aprì gli occhi. Le tenebre svanirono lasciando il posto a una luce accecante e sentì un insopportabile dolore agli occhi, ma non voleva chiuderli di nuovo, quel dolore era la prima cosa reale che sentiva da tanto tempo e non voleva abbandonarlo, non voleva tornare in quel limbo oscuro perché finalmente sentiva di essere davvero viva.
Socchiuse leggermente gli occhi in modo da proteggerli sperando di abituarsi presto a quella luce.
Sentiva nella sua bocca un sapore metallico e salato, si passò la lingua sulle labbra ma era come strofinare due pezzi di carta vetrata: aveva la bocca completamente secca.
Era sdraiata su qualcosa che subito riconobbe come la poltrona sulla quale fece il test attitudinale, le sembrò che fossero passate vite intere da quel giorno che cambiò per sempre la sua vita. Provò a muoversi ma polsi, vita e caviglie erano bloccate da qualcosa di rigido ma morbido: era stata legata.
Tris lo trovò paradossale e si lasciò scappare un debole sorriso che subito si spense quando sentì le sue labbra secche tendersi fino a spaccarsi, creando piccoli ma dolorosi tagli. Cercò di inumidirle con la poca saliva che stava ricominciando a formarsi nella sua bocca, ma l’unico risultato che ottenne fu stendere sulle sue labbra un macabro rossetto di sangue.
La sua testa era leggera e la sua mente stanca, non se ne stupì, aveva vissuto in una simulazione per chissà quanto tempo.
Ricordò le visioni che le aveva scatenato quella donna diafana che fluttuava nel nulla come un fantasma. Terminavano tutte con l’attacco allo Spietato Generale. La donna le disse che gli artefici sapevano già chi prendere. Eruditi, non potevano essere che loro e probabilmente ora lei si trovava in uno degli asettici laboratori del loro quartier generale.
Lei non era altro che una delle loro cavie. Stavano sicuramente conducendo degli esperimenti sui Divergenti e probabilmente quella serie infinita di simulazioni faceva parte dei loro test.
Anche se la sua mente era ancora annebbiata riusciva a vedere le cose più chiaramente, tutto iniziava ad avere un senso, tutto tranne la donna che le aveva parlato. Era di certo una visione generata dal computer ma a che scopo? Quello che le aveva detto e il modo in cui l’aveva fatto le avevano dato la forza per ribellarsi alla simulazione e svegliarsi. Gli Eruditi non avrebbero mai fermato un test, a meno che non lo avessero trovato inconcludente e quindi lei si era risvegliata da un incubo solo per essere ammazzata.
Il siero della morte, perché non avevano usato direttamente quello invece di svegliarla? Tris pensò che probabilmente anche quella donna era parte del test e che quindi per lei i test non erano ancora finiti, l’aspettava qualcos’altro di terribile, ne era certa.
La testa iniziava a farle male, un dolore acuto e pulsante ma che lei sentiva di amare, perché il dolore era la differenza tra la simulazione e la realtà.
I suoi occhi si stavano abituando alla luce e si guardò introno.
Era in una stanza bianca piena di armadietti e carrelli con su un’infinità di oggetti, da provette a strani macchinari.
Davanti a lei c’era una piccola telecamera montata su un treppiede.
Si bloccò immediatamente e socchiuse gli occhi sperando che nessuno si fosse accorto che non era più persa in una simulazione. Realizzò che quello che stava facendo non aveva senso, loro guardavano nella sua mente e ora la sua mente aveva terminato di trasmettere lo spettacolo delle simulazioni, presto sarebbero arrivati chissà quanti Eruditi nei loro abiti azzurri.
Continuò a guardarsi attorno cercando di acquisire più informazioni possibili.
Non era sola, c’erano altre persone su poltrone identiche alla sua, Divergenti come lei. Quando voltò la testa alla sua sinistra le si gelò il sangue e sentì un sentimento più profondo e violento della rabbia esplodere dentro di lei. Sulla poltrona a fianco alla sua c’era un bambino, indossava abiti da Candido e non poteva avere più di undici anni. Il suo volto era contratto in una smorfia di terrore e le sue piccole mani continuavano a stringersi a pugno e aprirsi come in cerca della sicurezza che solo la mano della madre avrebbe potuto dargli.
La sete di conoscenza degli Eruditi li stava spingendo a commettere crudeltà inimmaginabili. Si chiese con che cuore un essere umano potesse causare tanta sofferenza a un suo simile e soprattutto a una creatura innocente come quel bambino che tremava a pochi passi da lei.
Il fievole rumore di una porta scorrevole che si apriva la fece sobbalzare. Istintivamente si bloccò e chiuse di nuovo gli occhi, si morsicò l’interno della guancia per avere il controllo del dolore che le garantiva di non tornare in quel maledetto incubo dal quale si era appena svegliata.
Sentì un rumore di passi avvicinarsi a lei. Sapeva che ormai era stata scoperta ma non voleva dover affrontare quella massa di cervelloni e per un attimo desiderò di tornare nell’inferno dal quale era riuscita a scappare.
«Buongiorno Rigida, dormito bene?» sentì dire da una fastidiosa voce maschile.
La conosceva fin troppo bene e la odiava come non aveva mai odiato niente in vita sua.
Aprì di scatto gli occhi e fissò Eric con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Cercò di scattare verso di lui ma era legata.
Eric scoppiò a ridere.
Maledetto bastardo!” ringhiò nella sua mente.
«Siamo nervosette, fatto brutti sogni?» le domandò con voce fredda mentre la osservava con quel sorriso malvagio che lei aveva conosciuto fin troppo bene durante il periodo dell’iniziazione.
Di tutte le mostruosità che era stata costretta a vedere durante l’infernale simulazione, nessuna era disgustosa quanto l’uomo che ora la stava fissando come se lei fosse un’invitante torta di carne che lui desiderava minuziosamente sezionare per poi godere leccandosi via il suo sangue dalle dita. Era un deviato, in Eric non c’erano altro che brutalità e violenza, uniti purtroppo a un’intelligenza fuori dal comune e questo lo rendeva un predatore perfetto.
Tris non rispose alla domanda dell’uomo, mosse solo le labbra come se parlare le richiedesse uno sforzo enorme.
Lo guardò negli occhi, cercando di nascondere il disgusto che le provocava quel suo sguardo mellifluo e cercò di nuovo di dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscì solo un debole sussurro.
Guardò Eric con più insistenza, come se lo stesse implorando di avvicinarsi di più a lei.
«Cosa c’è, vuoi il bacio del buongiorno?» disse in tono lascivo chinandosi su di lei.
Tris gli sorrise come se fosse davvero ciò che desiderava da quell’uomo viscido e arrogante.
Lo guardò dritto negli occhi e gli sputò in faccia.
Vide l’espressione divertita di Eric trasformarsi in rabbia cieca. Lui la colpì al volto con uno schiaffo e Tris scoppiò a ridere. Questo fece infuriare di più Eric che la colpì di nuovo e con più forza, ma Tris non aveva la minima intenzione di cedere, avrebbe preferito farsi massacrare che smettere si ridere. Voleva fargli capire che per quanto fosse forte e potente non sarebbe mai riuscito a piegarla.
«Eric, smettila immediatamente!» sentì dire da una voce familiare, troppo familiare per non riconoscerla all’istante.
Jeanine Matthews stava richiamando il suo fido cagnolino.
Eric si fermò all’istante.
“Bravo, vai a scodinzolare dalla tua padrona” pensò Tris compiaciuta.
«Non sai quanto mi farà godere ammazzarti come la cagna che sei» le ringhiò Eric prima di indietreggiare e prendere il suo posto al fianco di Jeanine.
Tris sapeva di essere spacciata, presto o tardi Jeanine l’avrebbe fatta eliminare se non avesse trovato soddisfacenti i risultati dei test. L’unica cosa che l’avrebbe mantenuta in vita sarebbe stata la sua innata capacità di superare i test con estrema facilità, ma dopo quello che aveva passato iniziava a dubitare del suo potere. Doveva provarci comunque, le serviva tempo per trovare un modo per scappare da quella roccaforte di cervelloni ed energumeni. Doveva solo recuperare le forze ed escogitare un piano di fuga.
Fissò la telecamera davanti a lei come se in qualche modo potesse riuscire a comunicare al mondo che lei era viva e che aveva bisogno di aiuto. Si sentì stupida, dovunque arrivassero le immagini trasmesse da quella telecamera non c’erano altro che Eruditi.
 
 

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Capitolo 3
*** Lonewolf ***


 La piccola intercapedine tra il soffitto del magazzino e il pavimento della sala riunioni era illuminata solo dal debole fascio di luce di una piccola torcia elettrica e il monitor di un computer portatile. Su di esso scorrevano immagini di Eruditi impegnati ad esaminare dati e a scambiarsi opinioni eccitati come se avessero fatto una grande scoperta scientifica.
Il loro nuovo e infallibile siero era stato sconfitto dalla giovane Tris, che ora giaceva immobile sulla sedia, mentre altri Eruditi prendevano da lei campioni di sangue e subito correvano a infilarli nei sofisticati macchinari del laboratorio.
Sembravano automi guidati da una mente collettiva, si muovevano in modo armonico, come su binari invisibili e la loro sincronia era quasi inquietante. Nessuno di loro urtava un collega, anche se i loro occhi erano fissi su fascicoli e blocchi per gli appunti.
Una squadra di programmatori era già operativa per capire se ci fossero problemi con il programma usato dal computer per gestire le simulazioni. Parlottavano tra di loro continuando a indicare il monitor del computer scuotendo la testa increduli. Si poteva quasi immaginare i loro pensieri: una semplice macchina che osava ribellarsi ai suoi creatori, alla genialità dei loro cervelli di Eruditi, una cosa inaudita.
Nel laboratorio regnava un caos calmo, nessuno si scomponeva, sebbene erano visibilmente eccitati, tutti parevano tranquilli e si muovevano lentamente. Un branco di cervelloni rachitici, con enormi occhiali e capelli unti che avrebbero potuto andare avanti così all’infinito: analizzare il programma, le registrazioni e i fluidi corporei della giovane Intrepida, discutere i dati raccolti senza trovare il minimo errore e poi ricominciare tutto daccapo.
Tante piccole fedeli e industriose formichine che lavorano sotto lo sguardo attento della loro venerata regina Jeanine…quella stronza e i suoi schiavetti non scopriranno mai come sono entrata nel loro supercomputer” pensò Lonewolf mentre faceva ruotare dolcemente la testa per dare sollievo alla sue vertebre cervicali.
Aveva passato le ultime due ore sdraiata in quella minuscola e polverosa intercapedine per cercare un modo di inserirsi nel programma della simulazione, interagire con Tris e destarla dallo stato in cui era caduta dopo aver vissuto una settimana imprigionata in quel crudele gioco da Eruditi.
Lonewolf aveva provato a scuotere la giovane Intrepida manipolando gli ostacoli della simulazione, ma purtroppo la mente di Tris era ormai troppo provata per riuscire a reagire da sola e così decise di ignorare il protocollo e aggiungere alla simulazione qualcosa di creativo: se stessa.
Una scelta azzardata visto che tutte le visioni venivano registrate dal computer. Inserendo se stessa qualcuno l’avrebbe sicuramente riconosciuta. Erano passati otto anni dal suo ultimo incontro con Jeanine Matthews ma non era cambiata così tanto da non essere riconosciuta, soprattutto da quella donna con una memoria fuori dal comune.
Lonewolf pensò di mostrarsi a Tris come una specie di creatura a metà tra un angelo e una fata, scegliendo il candore e la purezza del bianco come colore predominante, non solo per la leggera tunica ma anche per occhi, capelli e tonalità della pelle. Nessuno l’avrebbe riconosciuta, neanche i suoi vecchi compagni di fazione.
Cercò di apparire rassicurante come una madre e di guidare i suoi pensieri fuori dalla simulazione, farle ricordare luoghi e avvenimenti vissuti, in modo che potesse cogliere la differenza tra realtà e sogno. Sebbene il nuovo siero era stato migliorato a tal punto da far sembrare reale la simulazione, non era in grado di far rievocare alla mente cose fondamentali per capire che quello che Tris stava vivendo non era reale. Il dolore, i sapori e gli odori erano evanescenti al confronto con la realtà. Il siero apriva molte porte, ma quella che rende vividi i ricordi restava impenetrabile, solo Tris avrebbe potuto accedervi, se solo si fosse fermata a ricordare la sua vita. L’obiettivo di Lonewolf era proprio questo, far aprire quella porta alla giovane Intrepida.
Quando, durante il primo contatto mentale, riuscì solo ad aprire in fessura quella porta, Lonewolf pensò che avrebbe fallito per l’ennesima volta, ma quando decise di spingersi oltre, di creare un dialogo con Tris, finalmente riuscì a spalancare quella porta e far svegliare la ragazza.
Adesso, per gli Eruditi, Tris era diventata la loro Divergente migliore, l’unica che era riuscita a sopravvivere una settimana attaccata a quella macchina infernale. Gli altri quindici Divergenti catturati insieme a lei durante l’irruzione allo Spietato Generale, erano tutti morti. I più deboli e anziani avevano ceduto nel giro di qualche giorno mentre gli altri erano durati al massimo cinque giorni. Solo il bambino era sopravvissuto quanto Tris ma solo grazie agli interventi di Lonewolf. Durante le pause si travestiva da Erudita e gli somministrava farmaci per aiutare il piccolo a sopravvivere. Adesso che gli Eruditi avevano occhi solo per Tris, Lonewolf si chiese cosa ne sarebbe stato di quel povero bambino, quanto quel piccolo cuoricino avrebbe resistito alla paura di vivere nei propri incubi peggiori. Doveva continuare a mantenerlo in vita fino al momento di mettere in atto il piano di fuga di Tris. In questo momento, con il laboratorio pieno di Eruditi, sarebbe stato inutile fare qualsiasi cosa, doveva attenersi al piano e sperare nella forza di quel bambino.
L’operazione “Sleeping Beauty” era andata finalmente a buon fine. Lonewolf doveva fare rapporto al generale Crowe, prima che il virus che creava errori di accesso alle registrazioni, fosse neutralizzato dall’esercito di cervelloni e che quindi trovassero le immagini della sua proiezione.
Avviò il programma per la videoconferenza e poco dopo sul monitor del suo computer apparve il volto di uomo dai lineamenti duri, non aveva più di quarantacinque anni, ma le profonde rughe attorno ai suoi occhi verdi, lo facevano sembrare molto più vecchio.
«Lone, ci sono novità?» disse in tono severo ma con sguardo dolce.
«Sì, generale Crowe. L’operazione “Sleeping Beauty” è stata conclusa con successo»
L’uomo nello schermo esultò stingendo il pugno e poi si rivolse a Lonewolf: «Complimenti, sapevo che ci saresti riuscita»
«Grazie generale Crowe» disse Lonewolf cercando di mostrasti più professionale possibile.
Dentro di lei era ancora vivo il ricordo del suo fallimento nell’impedire l’attacco agli Abneganti e il rammarico di aver dato una grossa delusione, non solo al Walter Crowe suo superiore, ma anche al signor Crowe che l’aveva accolta al Dipartimento e trattata come una figlia.
Il fatto che non fu del tutto colpa sua non le era né di aiuto né di conforto.
Il giorno dell’attacco avrebbe dovuto essere concentrata e prudente, era il momento più importante della missione, ma la sua debolezza umana prese il sopravvento sulla sua razionalità. Pensò che infondo rilassarsi prima della battaglia l’avrebbe resa più calma e lucida, avrebbe alleviato l’insopportabile agitazione che sentiva crescere dentro di lei nelle ore precedenti la simulazione. Accettò stupidamente uno dei giochi di Eric: farsi legare i polsi alla testiera del letto con delle corde.
Si maledisse per non aver capito subito le intenzioni dell’uomo: tenerla fuori dall’attacco. Eric non si era mai curato di prepararle neanche una tazza di caffè, ma quella mattina le preparò parecchie fette di pane tostato che lasciò accanto a lei, sul comodino, insieme ad acqua e frutta. Lonewolf pensò che fosse un comportamento insolito ma ormai la sua mente era offuscata dalla lussuria. Solo quando l’uomo si alzò, si rivestì e se ne andò senza liberarla, capì che era una trappola.
«Chiamami Walter, non siamo in un film di guerra» disse l’uomo sorridendole dolcemente. Lonewolf amava quel sorriso, era sempre stato il suo piccolo paradiso sin da quando scappò dall’esperimento di Chicago. Quell’uomo duro con il sorriso dolce fu la prima persona che vide quando, ormai stremata dalla lunga fuga, si accasciò davanti al cancello del Dipartimento. Fu Walter Crowe ad ospitarla nella sua casa e a starle vicino nei momenti difficili, non le diede solo un tetto e appoggio morale ma anche un ottimo addestramento militare che le permise di infiltrarsi con successo negli Intrepidi.
Lonewolf ignorava di essere il più grande successo del generale Crowe. Quell’uomo aveva trasformato una mite Pacifica in una vera guerriera, tecnicamente parlando, perché una buona parte del lavoro era stata fatta dalla determinazione e la forza d’animo di Lone.
Lone, così preferiva chiamarla Crowe. Anche se lei aveva scelto Lonewolf, lupo solitario, come suo nome in codice, per amore del suo mentore decise di presentarsi come Lone ad Eric, il capofazione degli Intrepidi, il primo giorno dell’iniziazione.
«Come procede l’operazione “MS-R41.3”?» le domandò Crowe.
«Non bene. Non ho riscontrato cambiamenti significativi purtroppo»
«Però hai notato cambiamenti, giusto?» chiese con una curiosità che la lasciò perplessa. Era una normale operazione che andava avanti da anni e che non era di grande importanza né per Crowe né per il Dipartimento, solo a lei importava davvero di quel progetto, eppure lui si era sempre mostrato molto più interessato del dovuto.
«Molto pochi e non sufficienti. Forse il dosaggio è ancora troppo alto. A mio parere dovremmo provare il PEA-121.18, so che è ancora in fase sperimentale ma…»
«No, è prematuro, dobbiamo aspettare ancora» la interruppe Crowe.
«Perché?» domandò Lone contrariata.
«Non conosciamo la reazione del soggetto. La città è sull’orlo di una rivolta, non possiamo permetterci lavoro extra. Dovrai aspettare che il Dipartimento intervenga e sistemi le cose come è già accaduto in passato»
Sul computer, nella finestra accanto a quella della videoconferenza, Lone vide apparire le immagini della donna diafana vestita di bianco che lei aveva usato come proiezione di se stessa per svegliare Tris.
Gli Eruditi finalmente avevano individuato l’intrusione e sapevano che chiunque si fosse inserito nel loro computer doveva trovarsi all’interno dell’edificio. Era arrivato il momento di scappare.
«Walter, hanno individuato il mio accesso al loro computer, devo andarmene di qui prima che mandino i loro gorilla a ispezionare l’edificio» disse Lone rimanendo calma.
«Va bene, vai, ci aggiorneremo quanto sarai in un posto sicuro»
«Ok. Qui Lonewolf, passo e chiudo» disse sorridendo.
«Come, come?» ribatté ridacchiando Crowe e avvicinò la mano all’orecchio come se non avesse sentito bene quello che la donna gli stava dicendo.
«Qui Lone, passo e chiudo, Walter» si corresse ridendo e poi chiuse il programma per la videoconferenza.
Prima di scollegarsi dal circuito di sorveglianza diede un ultimo sguardo al monitor del suo portatile.
Jeanine Matthews stava ordinando a Eric di far bloccare tutti gli ingressi e iniziare l’ispezione dell’edificio. Lone non si preoccupò molto, ora che parte della sua fazione si era unita con quella degli Eruditi nessuno avrebbe fatto caso a una Intrepida che camminava per i corridoi del loro quartier generale. In ogni caso doveva stare attenta, oltre a Jeanine c’erano altri Eruditi che avrebbero potuto riconoscerla e smascherarla.
Lone infilò il computer nella sua borsa e strisciò lungo il condotto di areazione, apprezzando per la prima volta la sua corporatura minuta che le rendeva semplice muoversi in quello spazio così stretto. Sbucò nella piccola sala riunioni che gli Eruditi avevano trasformato in un deposito armi dopo che la loro fazione si era unita con quello che restava degli Intrepidi.
Uscì tranquillamente e camminò lungo il corridoio, nessuno faceva caso a lei, era solo una della loro nuove guardie private. Ogni tanto incrociava lo sguardo di uno di quei fastidiosi topi da biblioteca, che la guardava dall’alto verso il basso, come a voler sottolineare le loro differenze. Lone faceva parte della fazione dei tanti muscoli e poco cervello mentre loro erano i geni assoluti, loro erano la mente e gli Intrepidi solo il braccio.
«Cosa ci fai qui?» sentì domandare da una voce alle sue spalle.
Si voltò, Eric era in piedi dietro di lei e la stava osservando con sguardo torvo.
«Ho sentito che la Rigida si è svegliata, ero curiosa di…»
«Hai scelto di essere assegnata alla sorveglianza degli Esclusi, non dovresti trovarti qui» la interruppe Eric.
Aveva ragione, sebbene si fosse classificata prima, lei aveva scelto una delle peggiori mansioni ed Eric non ne aveva mai compreso fino infondo il motivo. Pensò che fosse a causa della sua fazione di origine, gli Abneganti, ma lei non aveva un carattere da Rigida, sembrava nata per essere Intrepida e il suo test attitudinale lo confermava.
«Ha resistito una settimana e si è svegliata, è un avvenimento senza precedenti, non riuscivo ad aspettare la fine del turno per conoscere tutti i dettagli»
«Molti Divergenti si sono nascosti tra gli Esclusi e tu ora dovresti essere a dar loro la caccia invece di ficcanasare dove non devi» esclamò Eric rabbioso.
Lone sapeva che gran parte della rabbia era provocata da quello che aveva fatto poco prima Tris. Sputare in faccia a Eric, umiliarlo in quel modo l’aveva trovata una cosa divina, Tris si era conquistata tutta la sua stima, anche se purtroppo, quello che la giovane aveva fatto, sarebbe ricaduto sulle spalle di Lone. Conosceva bene Eric e sapeva che un tale affronto lo avrebbe reso intrattabile per parecchio tempo, non molto, quanto bastava perché fosse lei a pagarne le conseguenze.
«Chiedo scusa signore, non si ripeterà più» disse Lone abbassando lo sguardo mentre pensava a quello che avrebbe dovuto subire quella notte.
Lo sguardo di Eric si fece meno truce, si avvicinò a lei e le sollevò il mento con le dita.
«Hey dolcezza…»
«Non chiamarmi dolcezza, sai che lo odio. Non sono una scialba bambolina con un nome insulso come Harmony o Destiny o Melody!» sbottò furente Lone.
Eric scoppiò a ridere ripensando a tutte le volte che l’aveva chiamata con uno di quei nomi sciocchi, che anche lui detestava, solo per vederla andare su tutte le furie.
«Chi può dirlo, magari è davvero così che ti chiami. Non mi hai mai detto il tuo vero nome» 
«Mi sarei già buttata nello strapiombo se fosse stato tra quelli»
«Sono il tuo capofazione, potrei ordinarti di dirmelo»
«Potresti andartelo a cercare negli archivi, sei un ex Erudito, dovresti trovarti ancora a tuo agio tra le scartoffie»
«Ora sono un Intrepido, mia cara ex Rigida» disse Eric avvicinandosi di più a Lone.
«Dimmi, te ne sei andata di tua volontà o perché ti volevano cacciare?» le domandò palpeggiandole il sedere.
«Il mio test attitudinale ha dato come risultato Intrepida» rispose allontanando la mano di Eric che stava indugiando un po’ troppo sul suo fondoschiena.
«Non serviva un test, bastava scoparti per capire che non eri una Rigida» le sussurrò all’orecchio in tono lascivo.
«Devi farti la tua solita sveltina o posso tornare al mio lavoro?» gli chiese in tono quasi annoiato. Ormai si era abituata e rassegnata a compiacere i pruriti sessuali di Eric.
«Vai pure, ci divertiremo più tardi»
Eric la guardò andare via soffermandosi a osservare il suo sedere sodo e pregustando già quello che le avrebbe fatto alla fine del turno. Dopo che la Rigida l’aveva umiliato davanti a tutti, aveva bisogno di rilassarsi e non conosceva posto migliore per farlo se non tra le gambe di Lone.
 

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Capitolo 4
*** La Tana del Bianconiglio ***


L’edificio che era stato scelto come base operativa si trovava poco distante da quella che il generale Crowe chiamava “Tana del Bianconiglio”, che altro non era che un buco alla base della recinzione. Lone trovava buffi i nomi in codice inventati da Crowe e non capiva fino in fondo perché si ispirasse alle favole.
Lui era un militare e la sua casa ne era un esempio. Il modo in cui erano disposte tutte le cose, anche le più piccole, sembrava studiato e calcolato al millimetro, persino la distanza tra un abito e l’altro nel suo armadio. Se avesse avuto ancora i capelli, il loro taglio sarebbe stato impeccabile, come lo era la cura della sua divisa e i distintivi che l’uomo sistemava meticolosamente ogni volta che la indossava. Prima dell’arrivo di Lone tutto era ordine e rigore per il generale Crowe, ma l’arrivo della ragazza cambiò quasi radicalmente le sue abitudini.
Lone conosceva poco del passato di Crowe, sapeva che anche lui faceva parte dell’esperimento di Chicago e che la sua fazione di nascita era quella degli Intrepidi.
Pablo, l’anziano guardiano del deposito provviste, le raccontò che Crowe fu costretto a fuggire, proprio come era accaduto a lei e che, come lei, una parte del suo cuore era rimasta all’interno della recinzione. Quando lei chiese al guardiano più informazioni, lui sospirò e fissò la pancia di Lone, che iniziava a mostrare i primi segni della sua gravidanza. Lone era una ragazza sveglia e capì subito che cosa dovette abbandonare il generale Crowe, ma non ebbe mai il coraggio di chiedere all’uomo di raccontarle cosa lo spinse a fuggire senza portare con sé la sua famiglia.
Grazie ai racconti di Pablo, le fu più chiaro come, un rigido militare, si fosse trasformato in un uomo dolce e permissivo e del perché la trattasse come una figlia.
Molto spesso si trovava a fantasticare sul passato del generale Crowe e, durante la sua missione, osservava attentamente ogni persona per cercare una somiglianza con l’uomo. Pablo le disse che arrivò al Dipartimento sedici anni prima di lei e quindi, il figlio o la figlia, non potevano essere più giovani di lei. Crowe aveva ventuno anni quando scappò dall’esperimento di Chicago e Lone ipotizzò che al massimo, Crowe Jr, avrebbe potuto essere più grande di lei di cinque o sei anni. Purtroppo non trovò mai nessuno con i suoi splendidi occhi verdi e le labbra sottili ma, il fatto che Lone fosse poco fisionomista, rendeva l’impresa quasi impossibile.
La giovane donna aveva già trovato Crowe Jr ma, come spesso accade a chi è troppo ossessionato dalla ricerca di qualcosa, non si rese mai conto di aver avuto sotto il naso quella persona per molti anni.
Lone durante la sua permanenza all’interno della recinzione e durante i lunghi giorni di pattugliamento della zona a lei assegnata, strinse amicizia con molte persone, non solo Esclusi ma anche uomini e donne di tutte le fazioni e tra di essi c’era anche chi stava tanto cercando.
Il generale Crowe e Lone adoravano gli enigmi e molto spesso l’uomo ne inventava qualcuno per ingannare il tempo nelle calde serate estive. La ragazza era abile a risolverli e, le poche volte che non ci riusciva, Crowe le dava degli indizi usando personaggi o situazioni presi dalle fiabe.
Lone sapeva che lui era a conoscenza della sua curiosità riguardo al suo passato, ed era sicura che dietro l’utilizzo di determinati nomi per le missioni, potevano nascondersi indizi per svelare chi fosse Crowe Jr.
Mentre si incamminava verso la base operativa, Lone ripensò a tutti i nomi usati da Crowe ma, per l’ennesima volta, non riuscì a risolvere quello che considerava il più grande dei loro enigmi.
Il quadrante della città al quale Lone era assegnata era uno dei più distanti dal centro e che non aveva mai dato problemi. Sulle mappe degli Intrepidi era segnata come zona a basso rischio.
Fu Lone a proporsi di sorvegliare da sola quella zona e fu proprio il poco interesse suscitato da una zona così calma a convincere Eric che una sola persona poteva bastare. L’uomo pensò che era comunque uno spreco di risorse tenere monitorata quella parte della città, ma il pensiero che la sua donna trascorresse intere giornate insieme a un Intrepido maschio lo convinse ad assegnare a Lone quella zona.
Eric era molto geloso e possessivo e l’idea di lasciarla sola per troppo tempo con uomo dissoluto, come lo erano molti Intrepidi, lo innervosiva. Sapeva quanto fossero noiosi i pattugliamenti e quanti posti perfetti per appartarsi c’erano in quei palazzi mezzi abbandonati. L’idea che un altro uomo potesse mangiare nel suo piatto lo faceva infuriare.
Lone contava sulla morbosa gelosia di Eric, sapeva cosa pensava e lo usò a suo favore, riuscendo così ad ottenere l’assegnazione della zona perfetta per aprire un varco nella recinzione.
Lone entrò nello stretto vicolo che conduceva all’ingresso della base operativa.
Intorno a lei erano disseminati cartoni, bottiglie vuote, stracci e cumuli di sacchetti di plastica nera tenuti chiusi da corde improvvisate fatte con strisce di stoffa sudicia.
Nell’aria c’era odore di immondizia bruciata, ma era distante, arrivava da lontano, forse dalla parte del quadrante confinante con la zona più frequentata dagli Esclusi, ma nel vicolo l’aria era pulita, non c’erano odori sgradevoli. Lone pensò che la cosa avrebbe potuto apparire troppo sospetta. Il vicolo era pieno di sacchetti dell’immondizia e chiunque fosse passato di lì avrebbe trovato alquanto strano che non emanassero alcun cattivo odore. Lei ne conosceva il motivo, quei sacchetti in realtà contenevano stoffa e carta, erano solo elementi scenografici, ma un eccesso di segni distintivi dei quartieri occupati dagli Esclusi era peggio della loro totale assenza. Capì che il suo era eccesso di zelo, in fondo solo lei e gli alleati passavano in quella zona, ma non erano più in tempo di pace, la rivolta era imminente e presto non ci sarebbero più state zone a basso rischio.
«Hey bellezza!» sentì gridare da una voce sopra di lei.
Mise la mano sulla pistola e si tenne pronta ad estrarla.
Alzò lo sguardo e vide Quattro seduto su una delle scale antincendio con i piedi a penzoloni.
«Cretino, mi hai fatto prendere un colpo» esclamò Lone mentre lo osservò scivolare oltre il parapetto e poi lasciarsi cadere a pochi metri da lei.
L’uomo che stava camminando verso di lei sembrava il fantasma di Quattro.
Il suo passo non era rapido ed elegante come quello che aveva imparato a riconoscere nella penombra della residenza degli Intrepidi. I suoi penetranti occhi scuri, che per un periodo aveva trovato sensuali, adesso erano cerchiati da profonde occhiaie e avevano perso tutta la loro espressività. Dopo la cattura di Tris sembrava che la vita avesse abbandonato di colpo quegli splendidi occhi nocciola. In quel giovane uomo non c’era più traccia di passione e voglia di vivere, ma solo tormento e disperazione.
«Qualche novità?» le domandò Quattro.
«Non hai guardato i monitor?»
«No, non mi andava di stare in mezzo alla gente» le rispose sospirando.
Quattro aveva sempre amato la solitudine e anche una volta entrato negli Intrepidi aveva scelto di vivere in un appartamento da solo, quando la maggior parte dei compagni di fazione preferiva fare gruppo con amici e fidanzate.
Quattro era originario degli Abneganti, una fazione che aveva rigide regole di comportamento. Conducevano una vita semplice, le loro case avevano un arredamento spartano ed era concesso loro di tenere solo gli oggetti strettamente legati al loro umile stile di vita. Dedicavano la loro esistenza ad aiutare il prossimo e sin da piccoli imparavano a prendersi cura degli altri prima di se stessi.
Era molto raro che un Abnegante, compiuti i sedici anni, decidesse di abbandonare la propria fazione per unirsi a quella degli Intrepidi; la differenza tra le due fazioni era molto considerevole.
Gli Abneganti erano contro l’uso delle armi e della violenza e la fazione degli Intrepidi era a tutti gli effetti un vero e proprio esercito. Gli Abneganti avevano regole rigide mentre gli Intrepidi erano liberi, soprattutto per quanto riguardava la vita sociale e affettiva. Potevano fare tutto quello che volevano ma stando attenti a prendere le dovute precauzioni, mentre i corteggiamenti degli Abneganti erano lunghi e pieni di divieti, solo dopo il matrimonio era loro permesso di restare soli con il proprio partner, ma comunque, le effusioni in pubblico non erano viste di buon occhio. Negli Intrepidi ogni angolo buio della residenza era un buon luogo per appartarsi con un ragazzo o una ragazza appena conosciuti.
«Avresti dovuto. Tris si è svegliata»
Lo sguardo di Quattro recuperò in un attimo la scintilla di vita che sembrava fosse destinata a diventare un pallido ricordo. Le sue labbra si distesero in un sorriso.
«Sta bene?» domandò.
La sua mente era invasa da decine di domande ma la sue labbra riuscirono a pronunciare solo quelle due parole.
«Era un po’ stordita ma credo che sia l’effetto del siero, quando l’avrà smaltito starà meglio»
«L’hai vista? Intendo da vicino, sei sicura che non ci sia niente che non va?»
«Ho le registrazioni dei suoi parametri vitali ma è Vera quella che ne capisce di queste cose» disse Lone indicando l’ingresso dell’edificio.
«Era spaventata o triste o…»
«Appena ha visto Eric gli ha sputato un faccia» disse ridacchiando.
Quattro scoppiò a ridere e Lone riconobbe finalmente il suo amico, confidente, nonché  angelo custode durante l’iniziazione.
«É la mia Tris, non c’è dubbio!» esclamò continuando a ridere.
Dopo una settimana passata in quel vecchio palazzo ad osservare Tris prigioniera degli Eruditi e non poter fare assolutamente nulla, finalmente Quattro si sentì sollevato e sereno, c’era ancora speranza di rivederla viva.
«Quando andiamo a prenderla?» domandò impaziente.
Era stanco di aspettare gli ordini del Dipartimento, voleva agire il più presto possibile, non era da lui restarsene con le mani in mano.
«Calma, dobbiamo seguire il piano» disse Lone cercando di frenare l’entusiasmo dell’uomo. Anche lei amava l’azione ma sapeva che mettere in atto il piano della liberazione di Tris era impensabile.
«Ora è il nuovo centro dell’universo per gli Eruditi, non possiamo avvicinarci, ma non ti preoccupare, la terrò d’occhio» promise a Quattro pur sapendo che non era di grande conforto per lui.
Lone pensò che se al posto di Tris ci fosse stato Eric, lei avrebbe già fatto irruzione nell’edificio uccidendo chiunque le si parasse davanti per poi essere uccisa insieme al suo amato dagli Intrepidi traditori.
«Pensi che le faranno del male?» domandò preoccupato.
«Non credo, è la Divergente che ha sconfitto il loro siero, le faranno analisi e suppongo altri test»
Quattro la fissò con sguardo sornione e Lone intuì quello che l’uomo stava pensando: lei aveva un buon aggancio all’interno degli Eruditi.
«Non credo che Eric mi dirà molto, se è quello che stai pensando» disse Lone sospirando.
«Sono più di due settimane che vivete insieme, vi sarete detti qualcosa»
«Vedo Eric solo la sera, non parliamo molto e quando lo facciamo non mi dice nulla sui test»
«Mi pare che tu abbia ottimi argomenti per farlo parlare» disse Quattro strizzandole l’occhio.
«Conosci Eric, non si lascia abbindolare da un po’ di sesso»
«Non è cambiato molto con la convivenza, vero?»
«No, ora il suo buco caldo se lo trova nel letto ogni sera e non deve più andarselo a cercare»
«Non si è lasciato un po’ andare?» domandò avvicinandosi a lei e appoggiandole una mano sulla spalla.
«Non molto, sai com’è fatto…» rispose rattristata Lone abbassando lo sguardo.
Quattro non sopportava Eric e neanche tollerava il modo in cui trattava Lone, ma lei sembrava tenere molto a lui.
Conosceva Lone da sei anni, avevano passato molte serate in cima a una delle guglie a guardare il cielo stellato e a parlare dei loro sogni, speranze, guai e turbamenti, ma lei non gli diede mai una spiegazione convincente sul perché, una donna forte e indipendente, si lasciasse trattare quasi come un oggetto da Eric.
Quattro, anche nel suo essere un Rigido, sapeva bene che l’amore non ha logica, eppure le risposte di Lone non lo convincevano, aveva la sensazione che lei gli stesse nascondendo qualcosa.
Erano sempre stati sinceri l’uno con l’altra, si fidavano e si confidavano ogni più intimo segreto ma quando si trattava di Eric, lei sospirava e il suo allegro sorriso si spegneva. Il suo lato Abnegante gli faceva sempre accettare la sua scelta di non parlarne ma ora lui era cambiato, da quando Tris era entrata nella sua vita, il piccolo Rigido dentro di lui stava svanendo come un’ombra nella notte, lasciando il posto a un nuovo Quattro, a volte strano e incomprensibile, ma che trovava più maturo e completo di quello che aveva vissuto in lui per ventiquattro anni.
«Se sapessi come stanno le cose potrei aiutarti» disse Quattro sospirando. Prese Lone tra le sue braccia e fissandola dritta negli occhi aggiunse: «Niente segreti, ricordi il nostro motto, sorellina?»
«La fazione prima del sangue e noi due prima della fazione» rispose scandendo ogni parola.
Lone era stanca di mentire al suo migliore amico e sapeva che poteva fidarsi ciecamente di lui. Quattro non l’avrebbe mai tradita, avrebbe custodito il segreto insieme a lei e finalmente avrebbe capito il perché dei suoi strani comportamenti.
«Va bene, ma non qui, oltre la Tana del Bianconiglio» gli sussurrò all’orecchio.
Lo prese per mano e insieme si incamminarono verso la Tana del Bianconiglio che avrebbe condotto Quattro nel mondo segreto di Lone.

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Capitolo 5
*** Registrazione 020216 ***


Vera camminava nervosamente avanti e indietro per la sala di controllo del centro operativo. Molte cose la turbavano e neanche una mente brillante come la sua riusciva a trovare una connessione logica tra quello che aveva visto durante il controllo di routine delle telecamere istallate nei laboratori di ricerca e quello che aveva appreso durante gli anni passati a studiare gli Eruditi.
Era una donna con un’intelligenza sopra la media e, in tutti i suoi anni di servizio presso il Dipartimento, non le era mai sfuggito nessun dettaglio, neanche il più piccolo e insignificante.
Questa volta era diverso, si ritrovava con una sovrabbondanza di informazioni, per lo più inutili in quanto già note, ma aveva la sensazione che le fosse sfuggito qualcosa.
Tornò al suo computer per analizzare di nuovo tutti i filmati, evitando però quelli che contenevano il fattore di disturbo, un’azione che catalizzava l’attenzione nascondendo alla mente il dettaglio che stava cercando.
L’assurda scelta di Jeanine Matthews le rendeva difficile concentrarsi su quello che, ne era certa, sarebbe stato un problema ancora più grande. Doveva guardare oltre quella scelta illogica per riuscire a capire cosa avesse spinto quella donna a rompere i suoi rigidi schemi mentali e prendere quella decisone.
«Terra chiama Vera»
Si voltò e vide Lone e Quattro sorridenti dietro di lei.
Si alzò in piedi e riprese a camminare nervosamente per la stanza.
«Vera, che hai?» domandò Lone allarmata.
«Guarda tu stessa. Registrazione 020216» le rispose indicando il suo computer portatile.
Lone e Quattro si affrettarono a raggiungere il vecchio tavolo che Vera aveva trasformato in una funzionale postazione degna dell’ufficio di uno dei dirigenti del Dipartimento.
Lone avviò la riproduzione.
Era una registrazione della telecamera che lei stessa aveva istallato all’interno del laboratorio.
Il video mostrava quello che accadde dopo che lei abbandonò il quartier generale degli Eruditi.
Nel laboratorio, oltre ai Divergenti, erano rimasti solo Jeanine e i suoi tirapiedi preferiti: Eric e Damian, il viscido capo della sezione ricerca e sviluppo sieri.
Jeanine, da brava ape regina, stava dando ordini ai due uomini che l’ascoltavano con attenzione, guardandola come se fosse una Dea.
Lone cercò di concentrarsi su quello che stavano dicendo per non finire preda della gelosia.
Sapeva che Jeanine era molto importante per Eric e, più di una volta, si domandò se tra loro due ci fosse qualcosa di più di una semplice collaborazione.
Eric parlava di lei in continuazione, di quanto fosse intelligente e brillante, ma la cosa che la infastidiva di più era sentirsi dire che avrebbe dovuto prendere esempio da quella donna.
L’adorazione di Eric per Jeanine era uno dei più frequenti motivi di litigio tra di loro e Lone fu molte volte sul punto di rivelare ad Eric la verità su Jeanine.
Non sarebbe servito a nulla, lui non conosceva la vera Jeanine, ma solo la parte di lei che Damian aveva lasciato intatta nei suoi ricordi.
L’audio del filmato non era buono come sperava e dovette collegare gli auricolari al computer e dividerli con Quattro.
Sentì parlare Jeanine e Damian di noiosi dati per almeno una quindicina di minuti e poi finalmente arrivò la parte che preoccupava tanto Vera.
«Maledizione!» ringhiò a denti stretti Quattro strappandosi l’auricolare.
Si alzò di scatto e tirò un pugno al tramezzo di vetro opaco, che separava la sala di controllo dal corridoio, mandandolo in frantumi.
«Quattro calmati, ci servi intero per salvarla» disse Vera bloccandogli la mano che continuava a colpire con forza la struttura di legno del tramezzo.
«Calmarmi? Vuole torturarla e poi ammazzarla! Come cazzo posso restare calmo?»
«Non accadrà nulla di tutto questo, lo impediremo» cercò di rassicurarlo Vera.
Lone ignorò quello che stava accadendo nella stanza e riguardò il filmato.
Come era accaduto a Vera, anche lei trovò insolito il comportamento di Jeanine ma sentiva che c’era qualcosa che le sfuggiva. Si concentrò su quello che disse della donna.
Jeanine voleva ripetere il test attitudinale manipolando ogni singolo scenario, in modo da capire come Tris avrebbe reagito a diverse sequenze e scoprire esattamente quanti responsi era in grado di ricevere da ogni singolo test.
Non era questo a turbarla, ma quello che disse subito dopo.
Jeanine aveva intenzione di usare tutti i sieri creati, per vedere il tipo di risposta dell’organismo di Tris, compreso quello della morte. Nessuno era mai sopravvissuto a quel siero, neanche i Divergenti.
Jeanine era un’Erudita, perché uccidere la sua cavia migliore? Tris era molto giovane, il suo cervello doveva ancora finire di svilupparsi, ma era un soggetto interessante, oro puro per le sue ricerche, eppure aveva deciso di testare il siero della morte su di lei. Sapeva benissimo che neanche i Divergenti ne erano immuni, avevano solo una capacità di resistenza maggiore, ma senza la tempestiva somministrazione dell’antidoto, sarebbero morti in pochi minuti.
In ogni caso, le cose non si mettevano affatto bene. Tris sarebbe stata in un laboratorio tra gli Eruditi, protetti dagli Intrepidi, per gran parte del tempo e il piccolo esercito che Lone e Crowe avevano reclutato per la liberazione di Tris sarebbe stato annientato ancora prima di arrivare al laboratorio.
Il piano per la liberazione di Tris, poteva essere messo in atto solo se lei fosse stata trasferita nelle celle del seminterrato, poiché erano facilmente raggiungibili dall’entrata posteriore dell’edificio e soprattutto poco sorvegliate. Dopo la scoperta dell’intrusione,  avrebbero preso la decisione di tenere Tris in un luogo meno accessibile. Il guizzo creativo di Lone durante l’operazione Sleeping Beauty aveva peggiorato la situazione e forse mandato all’aria il piano per liberarla.
«Servono più soldati» pensò Lone ad alta voce.
Poteva farne arrivare abbastanza da mettere a ferro e fuoco l’intera città, ma serviva tempo, molto tempo, cosa che Tris non aveva.
Stimò che restavano al massimo sei giorni di vita alla ragazza, ma purtroppo, per radunare abbastanza uomini ben addestrati, avrebbe dovuto chiedere al generale Crowe di mobilitare i loro alleati a Washington.
«Vera, dobbiamo metterci in contatto con Crowe, immediatamente» ordinò Lone lanciandole una veloce occhiata.
«Ok, useremo il tuo portatile, è già impostato» disse mentre fermò la registrazione che Lone stava guardando.
La cosa la insospettì. C’era qualcosa che non la convinceva nel suo tono di voce e nella rapidità con la quale lasciò la mano di Quattro per correre a fermare il filmato. Le sembrò che stesse cercando di nasconderle qualcosa.
Spostò la mano di Vera dal computer, la fissò dritta negli occhi e fece ripartire il filmato.
«Lone, non c’è più niente di interessante da vedere»
«Stai mentendo»
«Fidati di me, non guardare il resto» le disse con un tono materno che la infastidì.
Lone la guardò per un attimo, si infilò gli auricolari e tornò a concentrarsi sul filmato.
Vide Jeanine parlare con Eric e ordinargli di far ispezionare più a fondo l’edificio, dopodiché aggiunse che anche lui avrebbe dovuto prendere parte all’ispezione, poiché riteneva che non aver trovato ancora nessuna traccia, era un suo fallimento nell’addestrare i suoi uomini.
Nel video, Jeanine riprendeva severamente Eric, ricordandogli che era ancora troppo giovane per aspirare a un posto fisso tra i leader e i suoi ultimi fallimenti non erano ben visti da chi doveva decidere se concedergli il potere di un capofazione o lasciarlo un semplice capo della sicurezza.
Le taglienti critiche che Jeanine stava rivolgendo a Eric e il comportamento di Tris lo avrebbero reso intrattabile.
Sarebbe tornato a casa nervoso e frustrato e avrebbe riversato tutta la sua rabbia su Lone. Lei avrebbe cercato di farlo parlare e sfogare, ma lui non era il tipo da riuscire a calmarsi solo a parole. Sarebbe andato a tirare qualche pugno al suo sacco da boxe e poi al suo ritorno avrebbe preteso di fare sesso. Non gli sarebbe importato se lei ne avesse avuto voglia o meno, l’avrebbe presa in modo violento, come faceva sempre quando era di cattivo umore. Aveva bisogno di sentirsi di nuovo potente, di dominare e lei doveva fingersi la sottomessa perfetta, solo così si sarebbe finalmente calmato.
Lone si preparò psicologicamente al ruolo che avrebbe dovuto interpretare quella sera, ma nel filmato veniva mostrato altro, qualcosa che avrebbe preferito non vedere.
Jeanine stava domandando ad Eric se fosse la sua compagna la causa delle sue disattenzioni sul lavoro.
La risposta di Eric mandò in pezzi il cuore di Lone.
Lo sentì dire a Jeanine che lui non aveva una compagna fissa, Lone gli serviva solo per rilassarsi dopo una giornata di lavoro e aveva deciso di dividere l’appartamento con lei per comodità, non doveva fare la fatica di andarla a cercare, la trovava già nel suo letto.
Le spiegava che per lui non era una grossa distrazione, infondo doveva sopportarla solo la sera e in ogni caso le aveva insegnato a stare al suo posto, a compiacerlo e a starsene buona quando non serviva.
Dunque era sempre stata solo un corpo caldo per Eric? Si domandò Lone cercando di non mostrare a Vera e Quattro quanto quella scoperta l’aveva ferita.
Lei ed Eric non avevano mai avuto una vera e propria relazione, semplicemente si cercavano quando avevano voglia di fare sesso. Non capitava spesso che si fermassero a parlare o a scherzare nelle nottate che passavano insieme nell’appartamento di uno dei due. Raramente Eric si fermava al Pozzo a bere qualcosa con lei senza l’intenzione di portarla in qualche angolo buio e togliersi le sue voglie.
«Mi dispiace» disse Vera appoggiandole le mani sulle spalle.
«Di cosa? É un bene, magari la smetto di farmi stupide illusioni» disse alzandosi dalla sedia per lasciare il posto a Vera.
«Non sono stupide illusioni, lo sai benissimo» disse Quattro guardandola dritta negli occhi.
«Mi stai dicendo di andare avanti a sperare? Proprio tu?» scoppiò a ridere.
«Dopo la nostra chiacchierata nella Tana del Bianconiglio ho cambiato idea su molte cose»
«Non era un campione di simpatia neanche prima, non farti illusioni»
«Non era perfetto, ma ti ha voluto bene e credo che, nel suo modo malato, ci tenga ancora a te»
«Esatto Quattro, in un modo malato, non c’è più sentimento in lui, sono solo un oggetto» disse uscendo dalla stanza sbattendo la porta.
«Cosa ti ha detto?» domandò Vera.
I suoi grandi occhi marroni scrutavano Quattro come se cercassero di leggergli nel pensiero. Sapeva quanto Lone fosse legata a lui, della stima e della fiducia che nutriva nei suoi confronti, ma non poteva credere che avesse davvero raccontato tutto a Quattro.
Sin da quando iniziò la sua collaborazione con Lone e il generale Crowe, aveva tenuto d’occhio Quattro, non solo per motivi legati alla missione, ma perché lo trovava affascinante. La sua condotta esemplare, il suo modo di pensare e la sua bellezza l’avevano conquistata e quando lo conobbe di persona le fu difficile resistere alla tentazione di sedurlo.
Sapeva che ormai il cuore di Quattro era già impegnato e che non era il tipo d’uomo da fugaci e torbidi incontri clandestini. Non lo era neanche lei, amava suo marito e non voleva distruggere il suo matrimonio per qualche attimo di passione con Quattro.
«Tutto quello che è accaduto prima che ci conoscessimo»
«Ti ha detto anche cosa accadrebbe se ti lasciassi sfuggire qualcosa?»
«Sì. Non ti preoccupare, neanche sotto tortura rivelerei il suo segreto. So cosa comporterebbe e non voglio che lei soffra» le rispose, indicando il palmare che Lone aveva lasciato sul tavolo.
Vera capì immediatamente a chi si riferisse e questo fece crescere di più la sua stima per Quattro ma, ringraziò il cielo, non risvegliò il desiderio di perdersi nei suoi grandi occhi scuri e baciare quelle labbra così perfette.
«Dobbiamo fare rapporto al generale Crowe. Vado a recuperare la nostra Alice prima che decida di scappare dal suo paese delle meraviglie» disse Vera uscendo dalla stanza.
  

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Capitolo 6
*** Madri e Padri ***


Lone sedeva sulle scale dell’androne di quello che, prima della guerra, doveva essere stato un palazzo signorile. Le scale erano in marmo chiaro con venature dorante, appena percettibili sotto lo strato di sporcizia che si era formata in anni di abbandono. La ringhiera alla quale Lone era appoggiata era in stile liberty, in ferro battuto con la struttura dipinta di nero e le decorazioni in oro. Restava ben poco dei motivi floreali e zoomorfi che caratterizzavano lo stile liberty, gran parte erano spezzate se non del tutto mancanti.
Vera le si avvicinò e si sedette accanto a lei.
«Lo sai com’è fatto davanti Jeanine. Io non credo che…»
«Lascia stare per favore, non sono una ragazzina, so bene con chi ho a che fare» la interruppe Lone.
«No, non è lui e lo sai benissimo»
«Se invece fosse davvero così. Intendo, se rimanesse così per sempre?» domandò con le lacrime agli occhi.
«Non rischia danni permanenti e non capisco perché David si opponga all’uso del PEA-121.18. Ormai è stabile»
Lone si domandò la stessa cosa.
Quando i tecnici di laboratorio del Dipartimento conclusero con successo l’ultima fase della sperimentazione del PEA-121.18, restava una bassa probabilità che producesse l’effetto contrario ma era talmente remota che i tecnici non la presero neanche in considerazione, solo David, il capo del Dipartimento, lo fece.
Lone non riusciva a capire come mai si opponesse all’uso di quel siero che avrebbe potuto risolvere tutti i problemi creati dal MS-R 41.3 e sistemare le cose una volta per tutte.
C’era qualcosa in David che non convinceva Lone, sembrava troppo coinvolto dagli equilibri politici all’interno della recinzione e aveva un morboso interesse per Quattro.
David era un fervente sostenitore della purezza genetica e di quanto fosse importante mantenere separati i Geneticamente Danneggiati dai Geneticamente Puri.
L’uomo sospettava che Quattro fosse un Geneticamente Puro, o come verrebbe definito all’interno della recinzione, un Divergente. Non ne aveva le prove, ma dopo aver visto i filmati dell’attacco agli Abneganti e la totale inefficacia del siero della simulazione su Quattro, pensò di avere la certezza che il giovane fosse un GP.
Fu proprio dopo l’attacco che il suo interesse per il rapporto tra Lone e Quattro diventò morboso. Lone era una GP e, secondo David, due individui del sesso opposto con i geni perfetti dovevano procreare per perpetuare la purezza genetica. Purtroppo Eric era un GD e quindi, secondo David, non era degno di lei.
«Forse perché Eric non è un GP, non ci avevi mai pensato?» domandò Lone.
«Questo non vuol dire nulla, ne hai le prove»
«Solo un caso»
«Il caso non esiste» disse sorridendo Vera mentre sfilò dalla tasca della sua giacca un foglio spiegazzato e lo passò a Lone.
Lei lo guardò e sorrise dolcemente, come se non esistesse niente di più bello al mondo. Era una lettera di Deline.
 
Cara mamma,
sono stata la più brava del mio corso al test di matematica e il mio progetto per l’esperimento di scienze è piaciuto molto alla mia insegnante.
Sto mangiando tutte le verdure, be’ non proprio tutte, i cavoletti non li voglio, hanno un sapore amaro che proprio non mi piace e Walter dice che posso non mangiarli.
Mi manchi mamma, quando torni?
Ti voglio bene,
Deline
PS: questa volta mi porterai il mio “regalo speciale”?
 
Lone si asciugò una lacrima, era fiera della sua bambina ma il suo post-scriptum la rattristò perché probabilmente, anche questa volta, sarebbe tornata a casa senza il “regalo speciale” che le prometteva da quando era stata abbastanza grande per capire certe cose.
Il pensiero che forse quel regalo avrebbe potuto non arrivare mai la fece scoppiare a piangere.
«Lone, ci riusciremo vedrai. Abbattersi non serve a nulla, devi essere forte» disse Vera massaggiandole la schiena per cercare di confortarla.
Aveva ragione, doveva mantenere la calma e chiudere fuori dalla sua mente tutti i pensieri negativi. Doveva fingere che quello che aveva appena visto sul computer di Vera era solamente un brutto sogno, non era reale, solo così avrebbe avuto la forza di portare a termine la missione che le stava tanto a cuore.
Lone si alzò, fece un profondo respiro e guardò Vera.
«Dobbiamo fare rapporto a Crowe» disse mentre entrò nel centro di controllo.
Quattro era seduto accanto alla postazione di Vera e Tori stava finendo di medicargli la mano.
«Ok ragazzi, ci mettiamo in contatto con il capo» disse sedendosi e avviando il programma per la videoconferenza.
«Crowe in ascolto. Ditemi tutto ragazze» disse il generale Crowe nascondendo alla webcam la ciambella che stava mangiando.
Lone e Vera ridacchiarono. Crowe non ne capì subito il motivo, ma dopo aver osservato la sua immagine nel riquadro dell’anteprima, notò che aveva gli angoli della bocca e la punta del naso pieni di zucchero a velo.
Si pulì velocemente con una mano, prese in mano la ciambella che aveva nascosto e la passò un paio di volte davanti alla webcam.
«Ridete pure ma lì queste ve le sognate. Lone, finisci di fare rapporto» ordinò a Lone, staccò con le dita un pezzo di ciambella e lo mangiò con gusto.
«Tris è sveglia e sta bene. Vera ti sta inviando i parametri vitali che ho copiato dal computer che gestisce le simulazioni»
«Hai anche le registrazione degli scenari?» domandò pulendosi le dita su un fazzoletto di carta che poi lanciò nel cestino atteggiandosi a grande giocatore di basket.
«Sì, Walter» disse Lone titubante e poi si affrettò ad aggiungere: «Solite cose, a parte fiamme blu cobalto. Niente di interessante.»
Crowe notò la sua iniziale esitazione e capì che gli stava malamente cercando di nascondere qualcosa. Guardò dritto nella webcam e Lone sentì gli occhi dell’uomo scrutare nei suoi come se si trovasse a pochi centimetri da lei e non nello schermo di un computer.
Walter era ben addestrato e in più conosceva Lone molto bene e non c’era stata una volta che lui non avesse scoperto una sua bugia.
«Lone, cos’hai combinato?» le domandò con voce ferma ma mantenendo un sorriso rassicurante.
«Ho…improvvisato…» rispose Lone con sguardo colpevole.
«Ovvero?»
«Walter, ho provato a seguire il protocollo ma ho inanellato un fallimento dietro l’altro e allora ho provato qualcosa di più creativo» disse Lone passando a Vera una chiavetta usb.
Restarono tutti in silenzio fissando il generale Crowe guardare i filmati massaggiandosi il mento con il pollice.
Lone cercò di decifrare la sua espressione ma l’uomo non lasciò trasparire nessun sentimento. Si mostrava interessato, ma era impossibile capire se approvava, o almeno tollerava, ciò che stava guardando oppure se Lone doveva aspettarsi l’ennesimo richiamo per aver infranto un protocollo.
«Molto teatrale ma efficace» disse Crowe più a se stesso che al suo piccolo pubblico.
«É stata una scelta ardita ma la proiezione mentale è ben elaborata, nessuno riuscirà a capire chi c’è dietro» aggiunse senza smettere di massaggiarsi il mento e a staccare gli occhi dall’immagine della donna diafana creata da Lone.
La trovava in qualche modo familiare e l’analizzò con più attenzione.
Il corpo era esile come quello di Lone, il colore dei capelli ricordava il biondo chiarissimo dei capelli di Deline nei suoi primi mesi di vita.
Osservò attentamente gli occhi e sentì una stretta al cuore. Erano azzurri come un cielo terso e la loro forma e l’intensità di quello sguardo lo portarono indietro nel tempo, a quando era ancora un giovane Intrepido, coraggioso, spavaldo e sognatore. Poco prima che la vita gli voltasse le spalle mostrandogli in che abissi era capace di far sprofondare un uomo e di quanto la smania di potere era in grado di cambiare le persone trasformandole in esseri privi di sentimenti e moralità.
Gli occhi che Lone aveva usato per la sua proiezione mentale erano quelli di suo figlio. Fece un respiro profondo e chiuse per un attimo gli occhi per poter rivedere di nuovo il volto del suo bambino.
Lo vide sdraiato nella culla dell’ospedale, aveva solo pochi giorni di vita, i suo occhi vispi e innocenti lo osservavano mentre stringeva il suo dito indice nella sua piccola manina. Quello era l’unico ricordo che aveva del figlio, un breve contatto, un solo scambio di sguardi che lo fece innamorare perdutamente di lui.
Erano passati ventiquattro anni ma Crowe non aveva mai smesso di amarlo, neanche per un secondo. Lo aveva sempre osservato da lontano, grazie alle telecamere istallate all’interno della recinzione. Vide i suoi primi passi e udì le sue prime parole, avrebbe venduto l’anima per essere al posto della coppia a cui venne affidato dalla madre.
Più di una volta fu sul punto di mandare al diavolo la sua carriera, entrare nella recinzione e portarlo via con sé, ma si trattenne sempre. Non voleva che il figlio scoprisse la verità sui suoi genitori biologici, soprattutto sulla madre.
«Generale Crowe?» la voce di Lone lo strappò ai suoi ricordi che neanche lui sapeva se definire dolci o amari.
«Bene…» disse con voce roca, diede qualche colpo di tosse per schiarirla e poi continuò: «Altre novità?»
«Purtroppo sì e non sono buone notizie» disse Vera mentre inviò a Crowe il filmato che avevano visto Lone e Quattro poco prima.
«Tris è in pericolo, dobbiamo ripianificare l’operazione…ehm…Raperonzolo» disse Lone con una punta di imbarazzo.
Lo trovava un nome buffo e associarlo a un’operazione militare lo trovava assurdo.
«Spiega. Il filmato lo guarderò dopo con calma»
«Jeanine vuole fare altri test. Inizialmente pare che la sottoporrà più volte a tutti i test attitudinali e poi passerà ai sieri» Lone lanciò una rapida occhiata a Quattro e aggiunse: «Tutti i sieri, anche a quello della morte»
Crowe spalancò gli occhi e la fissò attonito.
«É completamente fuori di testa!» esclamò sconvolto da quella decisione inaspettata.
Negli anni passati a collaborare con il Dipartimento, seguì ogni movimento di quella donna e spiò gran parte delle sue conversazioni, era certo di essere riuscito a entrare abbastanza in profondità nella sua mente da prevedere ogni sua mossa.
Jeanine Matthews, la sua vecchia compagna di scuola, aveva sempre avuto una mente brillante ma i suoi ragionamenti erano così lineari da essere facilmente prevedibili.
Crowe si chiese cosa l’avesse spinta a prendere una decisione del genere.
Tris era la migliore Divergente che avesse mai catturato e ucciderla non poteva essere una sua scelta. Oltre a non rappresentare un pericolo, quella ragazzina, era oro puro per la sete di conoscenza di Jeanine.
Crowe era certo che c’era altro dietro a quella decisione, qualcosa che era sfuggito alle telecamere e ai microfoni del Dipartimento e lui era determinato a scoprire di cosa si trattasse.
«Dobbiamo tenerci pronti all’azione. Vera, torna al Dipartimento a prendere le armi. Lone, cerca di scoprire tutto quello che puoi, dovrai fare rapporto almeno due volte al giorno anche se non ci sono novità» ordinò Crowe con la calma e la freddezza del ruolo che ricopriva.
I nuovi sviluppi lo preoccupavano, qualcosa era cambiato ed era certo che ci fosse qualcuno dietro alle decisioni di Jeanine, qualcuno che non faceva parte dell’esperimento. Chicago era la comunità più stabile e con la percentuale più alta di Geneticamente Puri, faceva gola a molti assumerne il controllo.
Questa era solo una delle ipotesi, forse la più ottimistica.
All’esterno della recinzione, i gruppi di ribelli Geneticamente Danneggiati stavano diventando un problema che non andava sottovalutato, non solo per l’aumento dei membri attivi ma anche per la pianificazione e la messa in atto dei sabotaggi. Non si limitavano più solo a piccoli atti dimostrativi ma stavano iniziando a creare veri e propri attacchi troppo ben coordinati per essere opera di dilettanti. Chiunque ci fosse dietro a Jeanine non stava manipolando solo lei ma anche i ribelli.
 
 

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Capitolo 7
*** Intimità Violata ***


Il piccolo appartamento che Lone divideva con Eric, nel quartier generale degli Eruditi, sembrava asettico quanto i laboratori tanto amati da quella fazione.
Pareti e pavimenti erano bianchi, come gran parte dell’arredamento. Solamente le superfici ricoperte da stoffa, le tende e i tappeti, erano blu, il colore scelto per rappresentare la fazione.
Lone era cresciuta tra i Pacifici, nel calore di una casa di legno immersa nella natura, ma ora si trovava nel centro di una città semidistrutta dalla guerra e in un appartamento dove gran parte delle superfici erano in fòrmica bianca.
Osservò il panorama da una delle grandi finestre della camera da letto mentre si pettinava i capelli ancora umidi.
Il sole ormai era tramontato e un tempo, ormai così lontano da sembrare appartenere a un’altra vita, questo l’avrebbe fatta sentire meglio, ma per lei gli anni delle fiabe erano finiti.
«Il tramonto porta via con sé il giorno con gioie e dolori. Le cose belle salgono su nel cielo e diventano le stelle che ci guidano verso il nuovo giorno, mentre le cose brutte si perdono nel buio della notte e non fanno più ritorno» sussurrò, nella vana speranza che le parole magiche di quando era bambina riuscissero a farla sentire meglio.
Non c’era sollievo per il suo nuovo tormento e sembrava quasi che la sua mente provasse un sadico piacere nel continuare a farle rivedere, in un infernale loop, le registrazioni delle telecamere del laboratorio dei test.
“Io non ho mai avuto una compagna fissa…Lone è una delle tante e ho scelto di tenermela in casa perché, da brava Rigida, sa stare al suo posto quando non serve…è stata dura insegnarle come far divertire un uomo…c’è in giro di meglio, ma per ora devo accontentarmi…”
Lone cercò di scacciare il ricordo di quella maledetta registrazione, ma più ci provava e più la sua mente lo arricchiva di particolari, arrivando ad aggiungere lei stessa in quel filmato. Si vide legata a una delle poltrone per le simulazioni, davanti a lei, Eric la osservava e, con un ghigno crudele, le ripeteva quelle frasi.
«Basta!» gridò lanciano la spazzola contro la parete.
Neanche quella era la parola magica che avrebbe fermato quei pensieri ossessivi, perché in realtà lei voleva continuare a rivivere quella scena e sentire le parole di Eric. Sapeva quanto fosse infantile e stupido quel comportamento, ma ne aveva bisogno.
Non poteva incolpare nessuno di tutti i fallimenti con il MS-R 41.3, neanche se stessa e la chimica non era un capro espiatorio soddisfacente. Le serviva un cattivo per abbandonarsi al ruolo di vittima e sfogarsi per sentirsi meglio. Le parole di Eric erano perfette, lei era la vittima di un uomo freddo e crudele e poco importava se la realtà fosse diversa; lei voleva solo una scusa per piangersi addosso, per lamentarsi di quello che lui le avrebbe fatto una volta tornato a casa. Avrebbe potuto ribellarsi e mandarlo in bianco, ma il suo sciocco desiderio di interpretare il ruolo della vittima era più forte. Voleva incolparlo per i suoi fallimenti con il MS-R 41.3 ma soprattutto per qualcosa che Eric dovette subire quando era ancora un ragazzino. Si sentì stupida a punire se stessa ed Eric per qualcosa di cui erano entrambi vittime, ma questo non bastò a convincerla a premere il tasto stop nella sua mente.
Decise che fare qualcosa era il miglior modo per tenere la mente occupata e avere qualche attimo di tregua da quel tormento.
Lanciò l’asciugamano sulla poltroncina vicino al letto e indossò una vecchia maglietta di Eric che usava come camicia da notte.
Andò in cucina e apparecchiò per due. Controllò la cottura della carne e aggiunse qualche spezia. Affettò con cura il pane e lo dispose in un piccolo cesto di vimini, allineando le fette con una precisione millimetrica. Fece la stessa cosa con il formaggio e gli affettati ma li dispose in un piatto cercando di riprodurre una margherita: nel centro il formaggio, tagliato a dischetti, formava un piccolo cerchio bianco e, intorno ad esso, il prosciutto creava morbidi petali rossi.
Pensò che avrebbe potuto fare una macedonia e creare anche con essa qualcosa di creativo, ma non ne ebbe il tempo.
Sentì la porta sbattere ed Eric entrare con passo pesante.
Capì dalla sua camminata che era arrabbiato e si preparò all’imminente discussone.
«Bentornato Eric, la cena è pronta» disse sforzandosi di sorridere.
«Non ho fame» sbuffò Eric.
Lone guardò il suo volto ed era scuro, non era arrabbiato, era furioso.
«Cosa è successo per metterti così di cattivo umore?» domandò cercando di essere una moglie perfetta.
In quel momento desiderava essere una moglie anni cinquanta, come quella che aveva visto sulla copertina di una vecchia rivista custodita nella biblioteca storica del Dipartimento. Lone non comprendeva fino in fondo cosa significasse, ma sapeva che le donne di quell’epoca erano considerate delle mogli perfette.
Eric non disse nulla, la guardò torvo e Lone abbassò lo sguardo.
Sapeva esattamente come doveva comportarsi quando lui era in queste condizioni. Doveva sembrare arrendevole e assecondarlo, senza però fargli capire che lo faceva solo per rabbonirlo, altrimenti si sarebbe sentito preso in giro e sarebbe andato su tutte le furie.
Restò immobile e tenne lo sguardo basso mentre Eric le passava accanto e sbirciava il contenuto delle pentole.
«Ho cucinato uno dei tuoi piatti preferiti, pensavo che…»
«Ok, mangerò qualcosa» disse Eric sedendosi a tavola.
Lone lo servì e riempì di vino rosso il suo bicchiere poi, in silenzio, mise qualche fetta di arrosto nel suo di piatto e si sedette accanto a lui.
Lo guardò mangiare rimanendo in silenzio ma lei non riuscì a mandare giù quasi niente. Il filmato continuava a tormentare la sua mente ed Eric, seduto davanti a lei, era come il tasto rewind, ogni volta che incrociava il suo sguardo faceva ricominciare tutto da capo.
Quando Eric ebbe finito di mangiare, lei prese il suo piatto, lo mise nel lavandino e portò in tavola la torta al cioccolato che aveva preparato seguendo la ricetta imparata negli Intrepidi. Ne tagliò una fetta e la mise nel piatto di Eric.
L’uomo le afferrò il braccio con tale forza che la fece sussultare.
«Che accidenti hai? Cos’è questa scenetta da mogliettina perfetta?»
«Non è una scenetta. Sei nervoso e volevo…»
«Cosa volevi? Farmi incazzare di più?» ringhiò Eric.
«Avevo altre scelte?» gli domandò stizzita fissandolo dritto negli occhi.
Eric finalmente riconobbe la vera Lone, quella che avrebbe preferito salire sul ring e combattere contro di lui piuttosto che piegarsi al suo volere. Era questo che gli piaceva di lei, il suo essere una continua sfida. Lone era la donna più caparbia e forte che avesse mai conosciuto, riuscire a domarla lo appagava più di quando avesse mai fatto il suo incarico di capofazione degli Intrepidi.
«Vuoi dirmi cosa è accaduto o posso tornare a leggere il mio libro?» gli domandò guardandolo dritto negli occhi come a voler sfidare la sua pazienza.
Eric le lasciò il polso, prese il coltello e tagliò un’altra fetta di torta.
«Almeno mangia questa» disse mettendola nel piatto di Lone.
«C’è stata un’intrusione» si versò altro vino e poi continuò: «Qualcuno si è inserito nel computer centrale e ha modificato la simulazione facendo svegliare la Rigida. Ho fatto rivoltare questo posto come un calzino, ma i miei uomini non hanno trovato nessuna traccia che indicasse da dove quel figlio di puttana si è inserito»
Lone non sapeva come intervenire nella conversazione senza rischiare di far innervosire di più Eric. Si limitò a fingere di essere sorpresa e indignata.
«Per colpa di Quattro e dei suoi stupidi amichetti, mi sono rimasti gli uomini più scadenti e, ovviamente, la colpa della loro inettitudine è ricaduta su di me» bevve un sorso di vino e si riempì nuovamente il bicchiere.
«Su di me, capisci? Jeanine se l’è presa con me! Per colpa di quegli idioti rischio di perdere il posto che mi spetta come capofazione»
«Non credo che questo piccolo incidente possa influire sul tuo rendimento, sei sempre stato impeccabile» disse Lone per cercare di calmarlo.
«Esatto! Pare che però ci sia qualcuno che non la pensa così. Qualcuno che vuole fermare la mia ascesa»
«Eric, forse la stai vedendo più brutta di quello che è in realtà e…»
«Più brutta di quello che è? Tu….tu non capisci la gravità della situazione!»
Lone si maledisse per non essere rimasta in silenzio. Eric si stava calmando ma la sua frase lo fece innervosire di nuovo.
Lo vide bere tutto d’un fiato il vino e riempire di nuovo il bicchiere.
Non andava bene, stava bevendo troppo. Il vino era considerato una bevanda pregiata, ne venivano prodotte solo poche bottiglie ed Eric non era abituato a berlo. Rischiava di ubriacarsi e diventare più violento di quanto era solito essere in quelle circostanze.
«Come potresti, tu non sai niente di giochi di potere, tu non conosci gli Eruditi, sei solo…»
«Solo cosa, eh? Dillo, dimmi cosa sono!» lo aggredì Lone.
Lei sapeva benissimo cosa c’era sotto, lo sapeva molto meglio di lui. Eric non sarebbe mai diventato un capofazione, Jeanine non avrebbe mai diviso il potere con nessuno, al massimo gli avrebbe concesso una carica speciale in modo da soddisfare il suo ego e tenerlo buono. A Eric non interessava essere al comando di una fazione ma l’esaltazione che traeva dal sentirsi potente, non era altro che un gradasso con un disperato bisogno di affermazione.
«Sei una stronza» disse rabbioso dopo aver vuotato di nuovo il bicchiere.
Lone prese la bottiglia e il cesto di pane sperando che Eric non si accorgesse che non stava iniziando a sparecchiare ma che voleva impedirgli di versarsi altro vino.
«Lascia la bottiglia»
«Eric, ce ne sono poche, se lo finisci tutto ora…»
«Ne posso avere quante ne voglio» riempì fino all’orlo i loro bicchieri e aggiunse: «É uno dei privilegi di stare con un capofazione. Bevi.» ordinò.
Lone era astemia, ma si concedeva qualche sorso di vino nelle rare serate che Eric considerava speciali. Molto spesso erano semplicemente momenti di buonumore dell’uomo, ma Lone non poté non notare che in sei anni c’era una data ricorrente: il giorno del loro primo incontro. Eric non ne era cosciente, quel ricordo gli era stato rimosso da Damian, ma in qualche modo lui percepiva il debole eco dei ricordi rubati e questo lo rendeva gentile e, a volte, quasi romantico. Forse erano semplici coincidenze, sei semplici coincidenze.
Purtroppo per Lone, non era una serata speciale, Eric non era sereno ma nervoso e lei aveva bisogno di qualcosa che l’aiutasse a sciogliersi per affrontare quello che avrebbe seguito la cena.
«Contento?» disse dopo aver vuotato il suo bicchiere.
Sentì la testa leggera, non era abituata all’alcol, non l’avrebbe fatta sciogliere, l’avrebbe fatta star male e lei non poteva permetterselo.
Eric le versò altro vino e le fece cenno di bere di nuovo.
Lone prese il bicchiere e lo spostò lontano da lei, un gesto che l’uomo interpretò come un atto ribellione, l’ennesima mancanza di rispetto della donna che aveva scelto come compagna ma che non sembrava mostrare un briciolo di rispetto e gratitudine nei suoi confronti.
«Dovresti sostenermi, sono il tuo uomo. Sarà grazie a me se avrai una vita agiata quando tutto questo sarà finito. Tu cosa fai per ringraziarmi? Niente!» esclamò alzandosi di scatto e battendo i pugni sul tavolo.
«Sono stufo dei tuoi infantili atti di ribellione. Sono io l’uomo, sono io quello che comanda, vedi di fartelo entrare in testa o te lo insegnerò a cinghiate!»
Eric era fuori di sé, le cose andavano di male in peggio e Lone sapeva che erano destinate a peggiorare ancora.
Cercò di allontanarsi ma Eric fu più veloce di lei, l’afferrò per i fianchi e la tirò a sé.
«Dovresti portarmi rispetto, essere più condiscendente» le sussurrò all’orecchio in tono lascivo.
Lone avrebbe preferito continuare a sentirlo gridare, sarebbe stato un modo per sfogare la sua rabbia, ma lui aveva già deciso che l’avrebbe sfogata in un’altra maniera.
«Adesso andiamo di là e tu farai la brava mogliettina» disse Eric portandola di peso in camera da letto.
Lone cercò disperatamente di sfuggire al loop infernale del video che, nella sua mente, non si era interrotto un attimo da quando era tornata a casa, quello era l’unico modo per non ritrovarsi la sua intimità gonfia e piena di abrasioni. Non ci riuscì. Il video e il modo in cui Eric la stava trattando la riempiva di rancore e frustrazione.
«Non sono tua moglie» disse con un filo di voce carico di rabbia.
Eric si fermò, la lasciò libera dalla sua stretta e la guardò furente.
«Cosa hai detto?» ringhiò.
Lone indietreggiò, le sue gambe incontrarono il letto, perse l’equilibrio e si lasciò cadere. Sapeva che ormai era in trappola e l’unica cosa che riuscì a pensare era dove fosse l’unguento lenitivo che sarebbe stata costretta ad applicare sulle sue parti intime nei giorni seguenti.
«Eric calmati, so che non vuoi farlo. So che sei una brava persona e non mi faresti mai del male» disse cercando di far leva sulla poca umanità rimasta in lui.
«Bambina, io non voglio farti male, noi due ora ci divertiremo insieme» disse con un sorriso grottesco.
«No, io…io non mi sento ancora pronta»
«Non ti preoccupare, a quello ci penserò io» disse mentre la raggiungeva nel centro del letto.
Le spalancò le gambe e iniziò ad accarezzare il suo sesso con la lingua.
Lone cercò di abbandonarsi all’abile lingua del compagno, ma lui si staccò da lei dopo solo pochi secondi. Non voleva perdere tempo in noiosi preliminari, voleva divertirsi subito.
Si allontanò da lei e si spogliò velocemente.
«Ora voltati, sai come mi piace» disse mentre si infilò il preservativo.
Lone indietreggiò fino a quando la sua schiena non finì contro la testiera del letto, ci si spinse contro quasi sperando di riuscire ad attraversarla o a fondersi con essa, in modo da evitare le attenzioni di Eric.
«Ho detto voltati!» ordinò l’uomo, afferrandola per una caviglia e trascinandola verso di sé.
«Eric, io…»
«Tu cosa?» tuonò.
Lone rimase in silenzio e tenne lo sguardo basso.
«Non mi dire…tu non ne hai voglia…chi è lui?» domandò collerico Eric.
«Non c’è nessun lui, lo sai benissimo»
«Certo che c’è e tu ti sei fatta sbattere da lui mentre io mi facevo il culo per farti avere un futuro migliore»
«Perché proprio un lui, magari è una lei…» disse Lone alzandosi in piedi di scatto.
Si avvicinò a lui e aggiunse: «Forse non sei l’unico a sbattersi Jeanine»
Eric scoppiò a ridere.
«Bambina, è questo che pensi?» le domandò divertito.
Si inginocchiò sul letto davanti a lei e fece scivolare una mano sulla sua gamba, dalla caviglia fino all’inguine.
«La mia bambina è gelosa» disse sollevandole la maglietta.
Sentì le sue labbra sfiorarle la pelle e la lingua indugiare sul suo capezzolo. Si strinse a lui sperando che l’uomo decidesse di dedicarle più tempo, ma nelle condizioni in cui era, le sarebbe servita l’intera serata per scaldarsi. Lui voleva averla subito, così Lone si rassegnò all’ennesima violenza di Eric.
Si lasciò cadere sulle ginocchia. Non poteva fermarlo ma poteva sperare che facesse in fretta, che si sfogasse e poi la lasciasse in pace.
«Brava così mi piaci. Ora voltati, non me lo fare ripetere di nuovo»
Lone si tolse la maglietta e si voltò mettendosi carponi.
Odiava quella posizione, quello era il modo in cui gli piaceva possederla tutte le volte che era nervoso e frustrato.
Chiuse gli occhi e pregò che Eric facesse in fretta, come era solito fare in quelle circostanze. Erano rare, normalmente Eric la lasciava in pace quando capiva che non ne aveva voglia, ma adesso era fuori di sé e rifiutarlo avrebbe causato giorni di litigate furiose.
Sentì Eric entrare dentro di lei con forza e si morse il labbro inferiore per non gridare dal dolore.
Sessanta secondi al massimo, non è mai durato di più in queste condizioni” pensò mentre cominciò a contare.
Cercò di rilassare i muscoli, ma il bruciore era insopportabile e ogni spinta di Eric faceva aumentare quel dolore pungente e infuocato, facendo sembrare interminabili quei sessanta secondi.
Purtroppo per Lone, non erano sessanta secondi, Eric aveva deciso di godersela fino in fondo.
«Che cazzo hai?» ringhiò Eric.
La tirò a sé costringendola a sedersi sopra di lui. Lone si lasciò scappare un lamento quando il membro dell’uomo entrò per intero dentro di lei, come una spada affilata che la lacerò fin nel profondo.
«Niente, è solo un crampo, di quelli che mi vengono ogni tanto sotto il piede. Adesso mi passa» mentì cercando di essere più convincente possibile. Eric non ci cascò.
«Mi credi stupido? Sei rigida e stretta da quanto ho iniziato» disse buttandola sul letto come se fosse una bambola di pezza.
Lone rimase immobile con gli occhi fissi in quelli dell’uomo che un tempo l’amava e la rispettava.
Eric la guardò. Il volto di Lone era pallido e aveva le labbra sporche di sangue.
Gli stava mentendo. Lei fingeva, lei lo aveva preso in giro, furono i suoi unici pensieri. Non si curò minimamente di domandarsi del perché la sua donna si comportasse in quel modo.
«Cagna ingrata» mormorò a denti stretti.
Sì alzò e andò via.
Lone si rannicchiò, strinse a sé uno dei cuscini e scoppiò in lacrime.
Era questo l’uomo che avrebbe portato con sé fuori dalla recinzione, era inutile illudersi, il ragazzo che aveva conosciuto e di cui si era innamorata non esisteva più, era perso per sempre a causa della sua curiosità.
Si maledisse per quello che avvenne il giorno prima della cerimonia della scelta. Quel maledetto giorno cambiò per sempre la sua esistenza e tutto quello che accadde a lei e ad Eric fu soltanto colpa sua.

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Capitolo 8
*** Gli occhi di Lone ***


Eric lasciò Lone a singhiozzare sdraiata sul letto e si chiuse nella sua palestra personale.
Era un semplice studio, molto comune nelle case degli Eruditi, al quale lui aveva aggiunto un sacco da boxe e qualche bilanciere, mantenendo però il computer e la piccola libreria.
Non aveva mai abbandonato la sua natura di Erudito, aveva solamente aggiunto una sfumatura di Intrepido al suo carattere, in modo da far credere alla sua nuova fazione di essere uno di loro, quando in realtà lui non aveva mai abbandonato gli Eruditi.
Eric non era altro che un Erudito travestito da Intrepido. I muscoli, i piercing e i tatuaggi miglioravano la sua copertura, anche se, col passare degli anni, aveva iniziato ad apprezzare il suo corpo massiccio e statuario. La vanità era uno dei suoi più grandi difetti insieme all'arroganza.
Si strappò il preservativo, lo lasciò cadere sul mobiletto accanto alla porta e iniziò a riversare la sua rabbia sul sacco da boxe.
La sua giornata non era iniziata nel migliore dei modi, la mancanza di rispetto di Tris lo aveva innervosito facendogli rimpiangere di non averla uccisa quando ne aveva l'opportunità, durante l'attacco agli Abneganti.
Aveva pianificato la sua morte molto prima di quell'avvenimento, si era ispirato a una delle paure di Tris: morire annegata. Era perfino riuscito a convincere Jeanine che sarebbe stato interessante studiare la reazione di un Divergente quando si fosse trovato ad affrontare nella realtà una situazione del suo scenario della paura. Aveva fatto costruire una vasca appositamente per Tris e installato una telecamera per potersi godere tranquillamente lo spettacolo, magari più di una volta.
Fu quello il suo errore, non essere presente nella stanza. Era certo che nessuno avrebbe cercato Tris in un seminterrato nella sede degli Abneganti, non durante il caos che avrebbe creato l'attacco a quella fazione.
Purtroppo le cose non andarono come aveva previsto, la madre della ragazza riuscì a trovarla e salvarla poco prima che annegasse. Se lui fosse stato in quella stanza, la telecamera avrebbe ripreso due Rigide con un buco in testa.
Eric pensò che sarebbe stato molto piacevole mostrare a Quattro la registrazione della morte della sua fidanzatina. Non sarebbe stata una grande rivincita per tutte le volte che quel Rigido l'aveva umiliato, ma gli avrebbe dato un piccola pausa dal fastidioso, e sempre vivo, ricordo di tutte le volte che Quattro era stato migliore di lui.
Funzionò, quel pensiero lo fece sentire meglio, ma purtroppo solo per breve un attimo, quel Rigido era stata la classica ciliegina sulla torta in quella giornata infernale.
Durante la perquisizione del quartier generale degli Eruditi, per cercare tracce lasciate dal traditore che si era inserito nel computer alterando la simulazione, casualmente sentì una conversazione tra due Intrepidi della sua squadra.
Stavano parlando di Lone e Quattro. Erano certi che Lone sapesse dove si nascondeva Quattro e che i suoi pattugliamenti non erano altro che una scusa per vedere quello che loro definivano il suo amante. Ridevano di una situazione che, secondo Eric, avrebbe dovuto indignarli. Il presunto tradimento della donna del loro capofazione li divertiva, non avevano il minimo rispetto per lui, anzi, sembravano godere del fatto che lei si facesse Quattro alle sue spalle e, come se non bastasse, meditavano di farsela pure loro solamente per il gusto di fare un torto a Eric.
«Maledetti bastardi, sarete i primi che ammazzerò quando salirò al potere. Voi e quella puttana di Lone» disse seguendo il ritmo dei suoi pugni che aumentava col crescere della sua rabbia.
Lui l'aveva voluta in casa con lei. L'aveva scelta come compagna di vita. Voleva sposarla. Quattro lo sapeva e portagliela via sarebbe stata la più grande delle sue vittorie. A Quattro non interessava Lone, voleva soltanto dimostrare, per l'ennesima volta, di essere meglio di lui, pensò Eric mentre colpiva con più forza il sacco da boxe.
Immaginò la sua donna e il Rigido che ci davano dentro in qualche angolo buio della residenza degli Intrepidi o su una delle guglie. Era lì che si incontravano la sera, finito il turno di lavoro, li aveva visti più di una volta, ma aveva sempre stupidamente creduto a quello che gli diceva Lone: non c'era assolutamente niente tra di loro, erano solo buoni amici.
Le aveva sempre creduto, perché lei era una delle poche persone di cui si fidava. Non riusciva a spiegarsi il motivo di tanta fiducia, aveva fatto ben poco per meritarla, eppure lui sentiva che poteva fidarsi di lei e anche adesso, dopo anni di dubbi su lei e Quattro e la conversazione dei due Intrepidi, una parte di lui era certa che fossero solo chiacchiere.
Forse non voleva ammettere che lei lo aveva tradito e, ora che Quattro era scappato con Tris, lei restava con lui solo per avere protezione e un buon futuro. Lui non era altro che un semplice ripiego e magari i due fedifraghi si vedevano ancora.
Forse erano solamente paranoie oppure scuse che si inventava per giustificare il tormento e la rabbia che accompagnavano ogni attimo della sua vita.
Sin da quando ne aveva memoria, sentiva un vuoto dentro di sé, come se qualcuno gli avesse scavato una voragine nel petto, strappandogli da dentro qualcosa che sentiva essere importante e insostituibile. Non sapeva cosa fosse ma ne sentiva disperatamente la mancanza.
Era qualcosa che riecheggiava nelle risate della gente o che si nascondeva nei loro occhi. Ogni volta che incrociava lo sguardo di qualcuno, per un attimo, un brevissimo attimo, riusciva intravederla, ma purtroppo sfumava via prima che la sua mente riuscisse a capire cosa fosse.
Eric odiava guardare negli occhi delle altre persone, perché sentiva quel vuoto farsi più grande e insopportabile, sguardo dopo sguardo, fino a quando incontrò gli occhi di Lone. Tutte le volte che li guardava, quel grande vuoto sembrava colmarsi donandogli momenti di sollievo. Erano solo brevi attimi, gocce nel mare, poi tutto tornava doloroso e frustrante, però sapeva come farli tornare: guardandola di nuovo negli occhi e stringendola a sé.
Si domandò cosa accadrebbe se davvero lei decidesse di lasciarlo. Chi l'avrebbe salvato dal grande vuoto? Chi avrebbe placato la rabbia e il dolore causati dalla sensazione di essere stato privato di qualcosa che sentiva essere più importante della sua stessa vita?
Niente e nessuno si rispose.
Ripensò alla loro storia e a quanto fosse cambiata in tutti quegli anni. All'inizio Lone era calda e passionale, se la intendevano bene quando ancora erano negli Intrepidi, ma poi ha iniziato ad essere più spenta e a volte gli sembrava infelice. Si domandò il motivo di quel cambiamento.
Forse, dopo tutti quegli anni, la passione si stava spegnendo. Il tempo, era quello il problema? Lei si stava stancando si lui? Forse era già stanca, magari a tal punto che presto lo avrebbe lasciato. No, non lo permetteva, o con lui o con nessun altro. Se lei se ne fosse andata lui l'avrebbe ammazzata.
Se prima lei non ammazza te. Suggerì una voce dentro di lui, facendogli ricordare la loro più grande litigata.
Tutto era iniziato dalla richiesta di un permesso per allontanarsi dalla residenza che lui le aveva negato. Non era la prima volta che accadeva, ma quel giorno Lone era molto nervosa e lui non ne capiva il motivo.
Lei ignorò il suo ordine. Eric la seguì fino all'uscita della residenza e la portò di peso nel suo appartamento. Lone gli si scagliò contro e iniziò a colpirlo, con una furia che Eric non aveva mai visto in lei. Cercò di bloccarla, ma lei iniziò a colpirlo con più forza.
Non voleva farle del male ma la sua ferocia e le parole pungenti che gli stava rivolgendo gli fecero perdere il controllo e iniziò a colpirla.
Lone era minuta ma veloce, aveva imparato bene a schivare i suoi colpi dopo anni di combattimenti simulati, ma Eric era molto più grosso e forte di lei e gli ci volle poco per avere la meglio: con un calcio riuscì a farla cadere a terra. Lei si fermò e lo osservò.
Eric era convinto di essere riuscito a farla tornare in sé, ma Lone scattò verso di lui con ferocia e, con tutta la forza che aveva in corpo, lo spinse contro la finestra che dava sul piccolo terrazzo, mandandola in frantumi.
Andarono avanti a lottare fino a quando Lone non scoppiò in lacrime. Finalmente la sua isteria si era placata ma era costata a Eric tre costole incrinate, una lussazione della spalla sinistra e tagli su tutto il corpo.
Alla fine, tra un singhiozzo e l'altro, Lone gli confessò che la sua sorellina era caduta arrampicandosi su un albero e aveva battuto la testa.
Era quello il motivo della sua richiesta: voleva raggiungere la sorellina Abnegante in ospedale. Se gli avesse detto sin dall'inizio che era quello il motivo della richiesta, Eric l'avrebbe lasciata andare, pur sapendo che era contro il regolamento mantenere stretti contatti con i membri della fazione di nascita.
Prese l'asciugamano sul mobiletto per asciugarsi il sudore e quando lo guardò notò che sul bianco candido spiccavano piccole macchie rosse.
Si guardò le mani e, sebbene avesse passato mezz'ora a colpire il sacco da boxe con tutta la forza che aveva in corpo, le sue mani erano arrossate ma non avevano neanche un graffio. Osservò con attenzione il suo corpo nudo riflesso nel grosso specchio appeso alla parete ma non vide nessun taglio. Studiò con attenzione il suo volto, il collo e le spalle. Fece scivolare il suo sguardo lungo i pettorali e gli addominali perfettamente scolpiti, scese lungo le gambe fino ad arrivare al piede che era ancora fasciato e dolorante dopo che Tris gli aveva sparato.
A terra, poco distante da lui, vide ciò che restava del preservativo che aveva buttato sul mobiletto.
Lo raccolse e capì da dove veniva quel sangue e che non era il suo sangue, ma quello di Lone.
Quando prese coscienza di quello che aveva fatto sentì la voragine allargarsi e inghiottirlo. Sentì che il dolore che gli causava quel vuoto era lo stesso che aveva fatto provare a Lone quella sera: la violenza di qualcosa di buono che veniva strappato via senza alcuna pietà. Eric non poteva ricordare cosa fosse realmente quel vuoto ma in qualche modo sentiva che era stato provocato da qualcuno di cui si fidava.
Cercò di giustificarsi ripensando a tutte le volte che Lone aveva fatto la preziosa ma poi si era lasciata andare, ma non gli fu di aiuto. Questa volta era diverso, lei era rigida e quasi urlò quando la tirò a sé. Il dolore che aveva provato era stato così intenso da mordersi le labbra fino a farle sanguinare.
Aveva fatto del male all'unica donna che non l'aveva mai abbandonato, che si era sempre presa cura di lui e che aveva sopportato le sue sfuriate senza mai spazientirsi o lamentarsi. Non c'erano scusanti per quello che le aveva appena fatto, la vergogna e il biasimo erano più grandi della voragine che continuava ad allargarsi nel suo petto.

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Capitolo 9
*** Il vuoto di Eric ***


Eric uscì dalla sua piccola palestra e raggiunse Lone nella camera da letto.
Lei era dove l'aveva lasciata, sdraiata nel centro del letto.
Si era infilata la maglietta e fissava un punto sulla parete di fronte a lei. I suoi occhi erano gonfi. Aveva pianto. Sentì gridare la voragine nel suo petto.
Si sedette accanto a lei e rimase in silenzio a fissare l'esile corpo della sua donna che si era rannicchiata e stava abbracciando un cuscino.
Si avvicinò a lei e vide delle macchie rosse sul copriletto. Non pensava di essere stato così brutale, ma lo era stato.
Premette dolcemente il piccolo asciugamano tra le cosce di Lone e lei ebbe un piccolo sussulto.
«Io...io non pensavo che ti facesse tanto male»
Lei rimase in silenzio continuando a fissare il vuoto.
«Non volevo farti del male. Non me ne sono reso conto» cercò di giustificarsi, ma questo lo fece sentire ancora peggio.
«Te ne sei accorto benissimo che non volevo» mormorò con voce carica di rabbia.
«Pensavo che volessi fare la preziosa, ogni tanto lo fai ma poi ti lasci andare»
«Quelle sono le volte in cui sono fortunata. Le altre finisce così» disse lanciandogli l'asciugamano che lui le aveva messo tra le gambe.
«Perché non mi hai fermato?»
«All'inizio ci ho provato, ma poi ho capito che alcune volte, quando sei arrabbiato o nervoso, è inutile e così ho dovuto sopportare»
Quell'affermazione lasciò Eric basito.
Quante volte aveva dovuto subire in silenzio? Quante volte lui non aveva capito che doveva fermarsi?
Alcune volte si era accorto che lei non ne aveva voglia e l'aveva lasciata in pace, ma non pensava che ci fossero state altre volte, volte in cui non aveva capito che lei non voleva ma che l'aveva presa comunque, contro il suo volere.
Contro il suo volere, pensò e si sentì un mostro.
Lei aveva sempre sopportato e non glielo aveva mai fatto pesare. Era rimasta cupa per qualche giorno e poi era tornata quella di sempre.
«Perché non hai reagito? Non è da te sopportare in silenzio» le domandò ricordando una loro lite che lo fece finire in ospedale.
«Perché tu non hai capito invece? Te lo dico io. Perché non ti importa niente di me» lo accusò Lone.
«Questo non è vero e lo sai bene.»
«Come potrei, non me lo hai mai dimostrato»
«In sei anni sono sempre stato con te, solo con te. Sono arrivato addirittura a infrangere delle regole, ho mentito, tradito la fazione e ora ho scelto di vivere con te.
Che altro devo fare per dimostrartelo?!»
«Mi hai sempre voluta come un oggetto e ora sono passata al livello successivo, quello di soprammobile»
«No, non è così, noi siamo una coppia»
«Non hai la minima idea di cosa voglia dire essere una coppia»
«Ok, visto che sei tanto brava, dimmelo tu»
«Sarebbe solo tempo sprecato»
«Senti, vuoi dirmi che diavolo hai questa sera?» domandò ormai sul punto di perdere la pazienza.
«Niente»
«Non mi pare visto che stai cercando un motivo per litigare»
«Almeno parliamo»
«Ancora con questa storia? Conosci la situazione delicata della città in questo momento. Sai che torno a casa stanco, stressato e l'unica cosa che voglio è mangiare qualcosa e andarmene a dormire»
«Però per scoparmi non sei stanco» obiettò Lone.
«Smettila, sai benissimo che non è sempre così. Stai esagerando come tuo solito»
Lone sbuffò e si infilò velocemente sotto le coperte.
Eric aveva ragione, spesso lei esagerava, cercava di farlo sentire in colpa, non per cattiveria ma perché voleva di più da lui e non semplici chiacchierate o del sesso. Era consapevole che Eric stava già dando il suo massimo e ne conosceva anche il motivo, ma questo non la fermava. Era impaziente, lo rivoleva come era un tempo, era stanca di aspettare. Dopo la scoperta del PEA-121.18, la sua impazienza cresceva di giorno in giorno e con essa la frustrazione di avere la cura giusta ma non il permesso di usarla, anche se in realtà era lei stessa ad avere paura di usarla. Temeva che potesse peggiorare la situazione, o peggio, far male a Eric, magari causargli uno shock mortale. Per questo motivo continuava a seguire il protocollo somministrandogli dosi sempre più basse del MS-R41.3, sopportando i suoi lunghi silenzi, gli sfoghi violenti e cercando di ignorare le atrocità che aveva commesso in quei sei lunghi anni.
Lone l'amava ancora e non aveva mai smesso di amarlo anche dopo aver visto con i suoi occhi quello che era diventato. Nel suo cuore era sempre rimasto quel ragazzino solitario che, seduto su un banco, osservava con uno sguardo meditativo e malinconico la pioggia cadere fitta fuori dalle grandi finestre della loro scuola.
Eric si alzò e andò verso il bagno.
Lone pensò che, come al solito, lui le avesse concesso il lusso di sfogarsi e che per quella sera aveva sopportato abbastanza i suoi piagnistei. Avrebbe fatto una doccia e poi si sarebbe infilato nel letto addormentandosi quasi all'istante, fregandosene di lei e di come si sentiva dopo quello che lui le aveva fatto.
Si stupì quando lo vide tornare dopo pochi minuti.
«Metti questa, dovrebbe aiutarti» disse mentre le diede la crema lenitiva.
Così sarò pronta più in fretta per la prossima scopata, non dovrai aspettare molto fu tentata di dire ma poi guardò Eric. La stava fissando rattristato e i suoi occhi chiari sembravano più limpidi di quelli del suo Eric, il ragazzino, arrogante con tutti ma gentile e affettuoso con lei.
Prese la crema e cercò di stenderla sulle piccole labbra, ma il bruciore era troppo forte, questa volta Eric era stato più violento del solito. Si ordinò di applicarla anche più in profondità ma il dolore era insopportabile, quella sera non sarebbe riuscita a infilare neanche il mignolo e quindi decise che ci avrebbe pensato l'indomani, sperando che non fosse troppo gonfia e dolorante.
Eric si infilò nel letto accanto a lei.
«Fa molto male?»
«Un po'»
«Mi dispiace, non accadrà più» disse dopo averla aiutata a pulirsi le dita unte di crema.
«Ok, vieni qui. Risolviamola» si avvicinò a lei, la prese tra le sue braccia e aggiunse: «Adesso mi dici cosa c'è che non va. Parliamo civilmente senza attaccarci o rinfacciarci nulla, ok?»
«Come mai così tanta bontà? Ti senti in colpa per aver abusato di me?» domandò in tono acido.
«Lone, smettila, sai benissimo che non mi hai fermato solo perché volevi una scusa per farmi sentire un mostro. Io ho sbagliato e mi assumo la mia parte di colpa, e tu?»
Lone sapeva benissimo che Eric aveva ragione, lei voleva solo una scusa per litigare e scaricare su qualcuno la rabbia e la frustrazione causate da tutti i fallimenti con il siero.
«Hai ragione» mormorò con sguardo colpevole.
«Come faccio a sapere se siamo una coppia o se sono solo il tuo riposo del guerriero?» domandò cercando di ignorare le parole e le immagini dell'infernale filmato che avevano ripreso a scorrere nella sua mente.
«Perché torno a casa ogni sera e torno da te, solo da te»
«Non è una gran risposta ma almeno finalmente facciamo quella cosa che eviti come la peste, parlare»
«Non è vero e poi...»
«Poi?»
«No, niente, non è il caso»
«Sì che lo è, hai detto parliamo e ora parli!»
«Ok. Quattro» si limitò a dire.
«Che c'entra Quattro?»
«Pensavi che non mi fossi accorto di tutte le serate che avete passato in cima a una delle guglie o al Pozzo?»
Eccolo che ricomincia pensò Lone.
Quattro era uno degli argomenti più frequenti nelle loro discussioni e, per quanto Lone gli assicurasse che erano solo amici, Eric continuava ad essere geloso a livelli quasi maniacali.
«Eric, parlavamo e basta, lui è solo un mio amico»
«Non so se crederti, ma in ogni caso parlavate per ore. Stavi sempre con lui anche al Pozzo e quando mi avvicinavo smettevate di colpo di parlare. Mi nascondevate qualcosa»
«Non ti nascondevamo niente, parlavamo di cose nostre, di cose da amici»
«Io sono più di un amico, non dovresti avere segreti con me»
«Non li ho, ma non posso raccontarti cose private di Quattro, non mi sembra giusto nei suoi confronti»
«Con me non hai mai passato ore a parlare»
«Perché sei molto poco loquace e poi...non credevo che ti interessasse, insomma...il nostro rapporto non è mai stato quello di una coppia normale»
«Lo so. Ho i miei limiti, ok? Non sono come gli altri» fece un profondo respiro e poi continuò: «Sono poco loquace, non sono sdolcinato e neanche perfetto come il tuo Quattro. Quindi se non ti vado bene così e preferisci lui, forse dovremmo lasciarci»
Pregò di non sentire Lone dargli ragione.
«So come sei fatto. Sono rimasta con te tutti questi anni e ho sopportato le cose che mi facevi quando eri arrabbiato, forse ti ho già accettato come sei»
«Magari speri in un mio cambiamento»
«La gente non cambia, l'unica cosa che spero è di vedere meno spesso la tua versione arrabbiata. So che è un momento difficile per te. Sto aspettando momenti migliori e non un Eric diverso» mentì.
Lei voleva un Eric diverso da quello che la stava stringendo tra le sue braccia. Lei voleva Eric di quando si erano conosciuti, ma purtroppo questo non era ancora possibile.
«Quindi non mi vuoi scaricare per Quattro?»
«Ma la vuoi smettere con questa storia di Quattro? É solo un amico, niente di più e ora non è neanche qui» disse accennando un sorriso.
Eric finalmente si rilassò e ricambiò il suo sorriso.
«Ti manca?»
«Un po', non so con chi confidarmi»
«Io non vado bene?»
«Non se sei tu l'argomento»
«Parlavi di me a Quattro?!»
«No, parlavo di noi a Quattro e non ho detto niente che potesse usare contro di te, cosa che comunque non avrebbe mai fatto per rispetto nei miei confronti»
«Lo immaginavo e la cosa non mi è mai piaciuta»
«Eric, avevo bisogno di un'amica con cui confidarmi e Quattro era l'unica persona che ero certa avrebbe tenuto la bocca chiusa»
Eric scoppiò a ridere.
«Perché ridi?» gli domandò cercando di trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Quattro. Amica.»
«É così che lo vedo, non gli farei mai le treccine ma non riesco a vederlo come un maschio»
«Questo mi piace»
«Non ne avevo dubbi» disse ridendo.
«Cosa gli dicevi su di me?»
«Molto poco, a lui non piacevi e non capiva cosa ci trovassi in te. Più che altro mi sfogavo quando le cose non andavano bene, quando io e te litigavamo»
«Non credi che avresti dovuto parlare con me se c'era qualcosa che facevo che ti infastidiva? Non è così che funziona in una coppia? Non mi sembri tanto esperta come dici»
«Infatti ne parlavo con te, alla fine abbiamo sempre chiarito tutto. Quattro era solo un...un'amica con cui sfogarmi» disse Lone ridacchiando.
Eric rise con lei. Si passò una mano tra i capelli scompigliandoli e imitò lo sguardo serio di Quattro. Lone rise più forte nel vedere Eric scimmiottare il suo eterno rivale.
«Ok, sono Quattro. Cosa mi confideresti?» domandò cercando di imitare la voce calda e profonda di Quattro.
«Niente. Lui mi guarderebbe e capirebbe che è stata la serata delle abrasioni e finiremmo col parlare per ore» cercò di tornare seria.
«Quindi sarei stato l'argomento della lunga serata?»
Lone lo guardò, aprì la bocca come per parlare ma poi cambiò idea. Eric lo notò.
«C'è altro»
«No è tutto» disse velocemente, come farebbe chi ha qualcosa da nascondere.
«Non era una domanda. Forse non sono il compagno perfetto, ma capisco benissimo quando qualcuno mente, o meglio, omette di dire qualcosa»
«Ok, l'altro argomento sarebbe stato Jeanine» confessò.
«Jeanine?»
«Sono passata a salutare quelli del centro di controllo e ho assistito a qualcosa di poco piacevole per me» disse fissandolo dritto negli occhi.
Il suo sguardo era triste ed Eric ne capì subito il motivo, aveva assistito alla conversazione con Jeanine.
«Mentivo. Non si stava mettendo bene per te... per noi. Sai che devo seguire i suoi ordini se voglio essere tra i leader. Dobbiamo sopportare per un po', tenere duro fino a quando non potrà più comandarmi a bacchetta»
«Mi ha ferita quello che ho sentito»
«Oh dai, non ci avrai creduto davvero? É per questo che questa sera...»
«Sì, è per questo che non è stata una delle sere fortunate ma la sera delle abrasioni»
«Senti, se fosse stato così, se davvero non provassi nulla, ti avrei fatto assegnare l'appartamento qui accanto» indicò la libreria che nascondeva la porta che separava il loro appartamento da quello attiguo.
«Ci avrebbe separato solo una porta. Sarebbe stato molto più comodo, una volta fatto quello che dovevo me ne sarei tornato di qui e non ti avrei avuto tra i piedi tutto il tempo»
Le accarezzò la guancia con le dita e sentì la voragine sparire portandosi via con sé tutti i suoi tormenti.
«Invece ho scelto di vivere con te, accettando i momenti buoni e quelli meno buoni. Sapevo che non sarebbe stato facile conoscendo il tuo carattere...» l'occhiataccia di Lone lo paralizzò.
«Ok, anche io non ho un bel carattere, lo ammetto, ma sto cercando di impegnarmi...»
Lone gli lanciò un'altra occhiataccia, più dura della precedente.
«Va bene, quello che ho fatto è imperdonabile, non ho scuse ma è un periodo terribile, mi va storto tutto. Sai che non sono sempre così» fece una pausa «e non lo sei neanche tu»
Lone ripensò alle due settimane dell'iniziazione, a quando lo vedeva ancora come il suo Eric. Col passare dei mesi capì quanto era cambiato in soli due anni e si aggrappò alla speranza che, con le cure adeguate, sarebbe tornato ad essere quello di un tempo.
Dopo molti anni quella speranza la stava lentamente abbandonando e lei pensò che probabilmente sarebbe rimasto così e che se voleva stare con lui doveva accettarlo.
Non ci riusciva, restava una debole speranza di poterlo portare con lei al Dipartimento, se non come era un tempo, almeno molto migliorato.
I miglioramenti, ottenuti in anni di somministrazioni del MS-R41.3, non erano sufficienti per portarlo con lei fuori dalla recinzione.
Eric perdeva la calma più raramente con lei, iniziava a mostrare dei sentimenti, era più paziente e aveva notato l'aumento di piccole attenzioni come prepararle la colazione, assisterla e aiutarla quando stava male. Tante piccole cose che però non erano sufficienti e costanti per avere la certezza che non ci sarebbero stati problemi a portarlo nella sua vera casa, non era certa che Deline fosse al sicuro con lui nei paraggi.
«Sei anni con te non sono una passeggiata. Speravo, non dico di vederti addolcito, ma almeno più coinvolto...meno violento con me almeno»
«Non ti ho mai fatto del male...almeno non intenzionalmente. Comunque lo sai che non è tutta colpa mia, è uno degli effetti delle medicine. Sai che non posso smettere di prenderle»
«Eric, sei sicuro di averne ancora bisogno?»
«Ho una carenza dovuta a un difetto genetico, se smetto rischio di morire. Posso provare a diminuire le dosi, saltare un giorno ogni tanto. Mi è capitato di dimenticarmi di prenderle per un giorno e non sono stato male»
Lone sapeva la verità sui farmaci che gli stavano dando, Eric non aveva la minima idea di che tipo di sostanza assumeva ogni mattina.
«Vuoi che provi a saltare una pillola ogni tanto?» domandò stringendola a sé.
«Vorrei vedere che cosa accade. Se le cose si mettono male puoi sempre fare l'iniezione» rispose appoggiando la testa sul suo petto.
«Insegnato a stare al suo posto. Mi chiedo come hai potuto credere che fosse la verità. In sei anni non sono riuscito a farti obbedire ai miei ordini neanche come capofazione. Seguivi solo quelli che volevi» disse Eric ridendo.
«Tipo cambiare lavoro e diventare la tua assistente? Sai bene che sarebbe stato complicato»
«Sì, non avresti potuto allontanarti per troppo tempo dalla residenza. Vedi, non sono poi così cattivo, ti ho coperta per tutti questi anni mentre andavi a trovare la tua sorellina dagli Abneganti. Sai che è contro le regole e che tutti e due rischiavamo di finire nei guai»
«Lo so. Grazie Eric» disse sfiorandogli le labbra con un bacio.
La sua sorellina Abnegante, era quella la scusa che usava per tornare a casa da sua figlia.
Eric aveva scoperto un bigliettino che Deline le aveva infilato nella borsa dopo uno dei suoi viaggi al Dipartimento e fu proprio lui a suggerirgli involontariamente quella scusa. L'uomo pensò che era il messaggio di qualcuno che conosceva bene e la sua mente logica pensò agli Abneganti, perché credeva che fosse quella la fazione di nascita di Lone. Visto il testo del messaggio, Lone inventò una sorellina.
Eric non fu felice di scoprire che lei passava del tempo con la sua vecchia fazione ma alla fine capì e accettò. Le disse che doveva fare attenzione e che se l'avessero scoperta lui non avrebbe potuto aiutarla.
«Sta bene dai Pacifici?» le domandò ricordando che fu proprio lui a dirle di portare la sua famiglia in salvo dai Pacifici prima dell'attacco agli Abneganti.
«Sì, ti saluta. Dice che quando sarà tutto a posto vuole conoscerti»
«É rompiscatole come te?»
«No, molto di più ed è anche caparbia e fiera» disse, omettendo però di menzionare la sua perspicacia e il suo altruismo.
«Un'altra Abnegante che passerà agli Intrepidi. Iniziate ad essere in molti»
«Sarà stata sedotta anche lei dal capofazione giovane e carino...» fece una pausa, scoppiò a ridere e aggiunse: «oh cielo! Ecco perché Quattro passava tanto tempo con me, voleva arrivare a te! Lui è innamorato di te e...oh mio Dio! Eric, cosa facevate quando sparivate insieme?»
«Sapessi...» disse sospirando per poi scoppiare a ridere un attimo dopo.
Risero e parlarono come non facevano da anni.
Lone pensò che era solo uno dei rari momenti buoni e che presto sarebbe svanito.
Decise di viverlo serenamente senza pensare a quello che sarebbe stato. Era un dono troppo prezioso per sprecarlo pensando a quanto poco sarebbe durato.

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