Nel ricordo di Ambrose

di albelia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi ***
Capitolo 2: *** Sotto i ponti ***
Capitolo 3: *** L'Aramis ***
Capitolo 4: *** Sprofondati in faccende burocratiche e labirinti ***
Capitolo 5: *** Presentazioni ***



Capitolo 1
*** Ricordi ***


Era una giornata come tante altre. anche la città, anche la città era come tante altre. tutti erano tristemente sprofondati in un senso di banalità e monotonia assurdo. non vedevo volti, ma solo cappelli sospesi, scarpe animate da demoni silenti che si spostavano saltellando qua e là, biciclette che si trascinavano lontano con stridore di freni, occhiali strabici che riflettevano il sole. mi muovo in mezzo alla folla di oggetti magici e cadaveri cospiratori, i pali della luce sorridono al mio passaggio e le colonne smangiate dei portici si inchinano. è tutto così chiaro e confuso, così confusamente chiaro o chiaramente confuso. non saprei dire. non mi ricordo in che modo sono arrivato fino qui, ma ai fini della storia non penso abbia una grande importanza. mi ricordo solo di stracci di frasi, tovaglioli di discussioni usate, un "devi andartene di qui", "non possiamo più vederci", "non puoi più vederci", "non posso più vederti". non so se quel rossetto parlante si stesse riferendo a una qualche storia d'amore passata, qualche casa diroccata in cui avevamo trascorso una parte dimenticabile della nostra vita, magari un figlio o due in comune. non saprei dire. oltre al rossetto mi ricordo una camicia di un colore acceso, una collana di perle, una gran calma apparente. a pensarci bene, ecco che appare un occhio affetto da strabismo di venere, di uno sfavillante e sconvolgente azzurro cupo. ecco, ecco cosa ho sempre amato di lei. gliel'ho sempre detto, in fondo. "di te amo gli occhi". e lei, maliziosa, "solo gli occhi?". e io, ingenuo e troppo sincero, "è la sola cosa bella che hai, se permetti". e lei, scagliando in aria tavolini e cuscini appena rammendati, mi urlava che dovevo sempre rovinare tutto, "con questa tua assurda e scocciante mania della verità. a nessuno importa della verità, a nessuno al mondo". ecco, su questo punto mi aveva un po' sconvolto. ero stato cresciuto con certi valori, se così si può dire. qualsiasi cosa siano, questi valori, io ne ero a conoscenza e ne ero soprattutto proprietario. nell'elenco, la parola 'sincerità' era sempre presente. stretta in mezzo, non so, a 'pulizia', 'puntualità', 'lealtà'. mio papà me lo diceva sempre. era un tipo come si deve, mio papà, un tipo rispettabile. tutti lo guardavano con deferenza, gli parlavano con rispetto. era un uomo importante, "un uomo di governo", diceva la mamma. e cosa fosse mai, essere un 'uomo di governo' nessuno me lo ha mai spiegato. solo una volta, Rossana, mi disse qualcosa in proposito. Rossana lavorava in casa nostra, in casa dei miei genitori. si occupava di me, della casa, delle finestre macchiate di pioggia. con me si comportava bene, mi faceva un sacco di moine, mi parlava del suo paese e del suo grande amore perduto, un certo Maximilien, un francese, un soldato. "dovevi proprio vederlo, dovevi proprio. un ragazzo bello come lui, non si è mai più visto nell'intera Europa occidentale. me lo invidiavano tutte. tutte, ti dico. si chiedevano che cosa ci facesse uno bello come lui con una come me. lo vedi da te, caro mio, che io non sono affatto bella. affatto". a pensarci a posteriori, forse mi diceva tutte queste cose per sentirsi dire che non era vero, che non era vero per niente, che lei era bellissima, che doveva solo annaffiare un po' la sua autostima appassita. ma all'epoca avevo solo nove, dieci, undici anni. non sapevo come ci si comporta come una donna (non che lo sappia adesso, sia chiaro). quindi rimanevo imbambolato a guardarla, a perdermi nei suoi capelli di paglia fina e secca, al suo seno ingombrante. ecco, il bello di lei era proprio il seno. avrei tanto voluto toccarlo. ma non l'ho mai fatto. se mio papà avesse saputo una cosa simile! figuriamoci! ma appunto, tornando a mio papà. tornando a Rossana che mi parla di lui. dopo aver chiuso la storia del suo Maximilien, che era partito per la Russia e nessuno l'aveva mai più visto, aveva accennato qualcosa a questo misterioso lavoro. "che cosa fa tuo papà?" mi avevano chiesto i suoi occhi scuri. "ebbene, tuo papà fa parte di quel gruppo di persone fortunate che si tengono tutto per sè senza dare niente agli altri. affama la povera gente, ecco cosa. mentre lui e la sua famiglia, quindi anche tu, non guardarmi così, vivono nel lusso. un gran delinquente, ecco cos'è". dopo quella conversazione, che Rossana mi lanciò addosso con disprezzo e di cui io non capii un bel nulla, le cose per lei si misero male. l'ho già detto, avevo nemmeno dieci anni, non sapevo ancora come dovesse andare il mondo. non sapevo che quelle cose fossero 'riservate', che non avrei mai dovuto ripeterle ad anima viva. Rossana non mi fece raccomandazioni di nessun genere (chissà se le cose sarebbero andate diversamente, se lei mi avesse detto di starmene zitto e dimenticarmi di tutta la faccenda), da parte sua. quindi una sera, a cena, me lo ricordo come se fosse adesso. fuori nevicava. una nevicata leggera e impalpabile, uno sfarfallio nel buio della sera, sul nostro giardino trascurato (come tutto il resto, come anche me), sugli scalini, sulla casetta degli attrezzi. papà stava raccontando qualcosa alla mamma, io mi facevo gli affari miei costruendo un pupazzo di neve con la mollica del pane. questo, dopo un po', attirò l'attenzione dei miei genitori. mia madre mi rivolse uno sguardo di stupita curiosità, con quell'espressione che ricordo così bene, che le ho visto così tante volte quando si rivolgeva a me. gli occhi leggermente sbarrati, le labbra leggermente socchiuse e a forma di O, le sopracciglia leggermente inarcate. stupita curiosità, appunto. ho sempre pensato di non starle molto simpatico, di esserle piuttosto indifferente in realtà. era come se si ricordasse di me solo quando mi aveva sotto gli occhi. per il resto, vivevamo due vite completamente separate. se la cosa mi facesse stare male, da piccolo, non saprei dire. non credo di essere mai "stato male" per qualcosa o qualcuno. fa parte di me. da sempre e per sempre. in quel momento mi aveva osservato come per dire "toh, chi si vede. questo bambino era proprio l'ultima cosa che mi sarei aspettata di vedere stasera a tavola. qualcuno sa dirmi, di grazia, come ci è arrivato? e chi l'ha fatto entrare?". mio papà, dal canto suo, di me si ricordava sempre fin troppo bene. non faceva altro che rimproverarmi per niente. mi faceva sempre sentire abbastanza fuori posto. in quel momento mi incenerì con uno sguardo, credetti quasi di vedere i suoi baffi fremere dall'indignazione per quelli che non esitò a definire 'giochi puerili'. disse proprio così: "guarda te se io devo avere un figlio che rovina il cibo con questi suoi giochi puerili". io non ero abituato a rispondergli, solitamente me ne stavo zitto a testa china, pensando agli affari miei. ma quella sera ero così sorpreso da quella frase, che non potei trattenermi: io non stavo facendo niente di male, proprio niente di male. e poi, non era forse lui a dirmi che dovevo sviluppare le mie doti artistiche (o almeno, provare a cercarle nei ritagli di tempo)? quindi, candidamente, gli risposi "papà, tu affami la gente. sei un gran delinquente". non mi era chiaro il significato di quelle parole. non ne avevo che una vaga, vaghissima idea. a pensarci ora, ricordo che mi ero ripetuto quelle parole nel letto dopo la chiacchierata con Rossana. me le ero arrotolate sulla lingua. avevano un bel suono. mi piacevano. soprattutto 'affamare'. mi dava l'idea di un leone sparuto e smagrito nel deserto, che mendicava un ossicino di gazzella da un leone maestoso e bellissimo poco lontano. fu come se l'aria si ghiacciasse. Artù, il cameriere, si fermò con le posate del secondo piatto a mezz'aria. non mi guardò e non diede segno di avermi sentito, ma aveva arricciato il naso e aveva aspettato che scoppiasse la tempesta. "che cosa hai detto?" aveva balbettato mia mamma, tutta arrossita. l'angolo destro della bocca era lievemente arricciato, come il naso di Artù. pensai di aver detto una cosa divertente, e che lei non vedesse l'ora di scoppiare a ridere. "ho detto che papà è un gran delinquente!" ripetei tutto felice. fu un attimo. mio padre si alzò, venne verso di me e mi tirò uno schiaffo. "non osare mai più dire una cosa simile, piccolo disgraziato!" mi urlò. mi arrivarono due sputi. uno sul naso e uno sulla guancia sinistra. ci rimasi molto male. davvero molto male. anche perché non aveva mai fatto una cosa del genere, almeno non con me. sforzando un po' la memoria, riesco a tornare a un'assolata mattina di aprile, una domenica. eravamo usciti tutti e tre, mamma papà ed io, cosa rarissima a dir poco, e lui aveva sbraitato a un mendicante di lasciarci passare e di non importunare sua moglie. che, se avesse osato continuare o seguirli, avrebbe chiamato le forze dell'ordine e lo avrebbe fatto gettare in prigione. probabilmente avevo assunto la stessa espressione attonita e spaventata di quel mendicante. anche mia mamma si era alzata, aveva posato una mano aggraziata sulla spalla di papà e aveva detto "non esagerare, caro. il bambino non ne può nulla. probabilmente lo ha sentito dire da qualcuno e lo ha ripetuto. non sa nemmeno cosa vuol dire. non è così, caro?", e io mi ero affrettato ad annuire. poi, senza pensarci, dissi che me l'aveva detto Rossana. papà mi aveva dato un buffetto sulla guancia ancora dolorante, e aveva borbottato "farò finta che non sia successo niente". senza chiedermi scusa, senza chiedermi scusa. io non avevo più toccato cibo e la sera, a letto, mi ero convinto di non essere più un bambino con dei genitori. fu forse quella la notte in cui cominciai a considerarmi un orfano. e il giorno dopo, Rossana era sparita. sparita, sparita nel nulla. nella mia immensa ingenuità non collegai le due cose. mi dissero che aveva dovuto partire per il suo paese. pensai che fosse tornato Maximilien dalla Russia, e che lei stesse correndo da lui. mi sentii felice per lei. poi molto triste, perché non questo avrebbe significato non vederla mai più. a lungo sperai di ricevere una sua lettera, magari un invito ad andarla a trovare, una foto dei suoi bellissimi figli metà francesi. ma di lei non seppi mai più nulla. fu sostituita da una signora arcigna che mi appariva terribilmente vecchia. probabilmente non doveva avere più di quarant'anni. era secca secca, piatta come una tavola e vestita sempre di grigio. i capelli di paglia di Rossana furono sostituiti da uno chignon strettissimo color ferro che le tirava sulle tempie e le faceva sembrare gli occhi da cinese. aveva l'alito cattivo e non mi chiamava mai per nome. mi dava anche lezioni: il martedì pomeriggio, pianoforte. il venerdì dopocena, matematica e geometria. se ci penso ora, mi viene proprio da pensare che fosse il personaggio cattivo di un libro ambientato nelle piovose campagne inglesi. proprio così. un maledettissimo stereotipo che mi riempiva di scapellotti se non risolvevo il problema nella maniera corretta o se sbagliavo un accordo. anche lei non durò molto in casa, comunque. nemmeno un anno dopo diede le sue dimissioni. in una serata tempestosa come il suo vestito. a quel punto, i miei pensarono che fosse finito il tempo di una balia per me (e pensare che io non ne ero nemmeno al corrente! di avere una balia, intendo), perciò mi lasciarono a me stesso. mia madre continuò con quelle che mio papà definiva "frivole mondanità"; mio papà continuò a fare del suo meglio per affamare tutte le persone possibili. e io crescevo in un mondo sterile e solitario. fu forse questa, la storia che propinai a quel rossetto opaco. ma niente, lui non volle starmi a sentire. "non mi interessano i racconti tragici di un'infanzia infelice. sei un maledetto bastardo, e niente di quello che mi dirai potrà farmi cambiare idea. maledetto bastardo. maledetto bastardo!" mi aveva ripetuto spingendomi in strada. i passanti ci vedevano e mi indicavano, sorridevano sotto i baffi. avevo radunato le mie poche cose, i miei vestiti sparsi per il marciapiede, la mia valigia vecchissima, le mie scarpe, e me ne ero andato per la mia strada. se avessi guardato in su, forse avrei visto due bambini magri che mi guardavano anch'essi con stupita curiosità. "chissà papà dove sta andando", "chissà se torna". ma no, non mi ricordai di guardare su. non mi ricordai di loro, o non volli ricordarmi. me ne sono andato.

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Capitolo 2
*** Sotto i ponti ***


girovagai senza meta per un po', prima di trovare l'Aramis. come ho detto, non ero mai stato prima in quella città. tutto era nuovo e spaventosamente vuoto. non mi ricordava niente in particolare. e pensare che io vivo di ricordi, vivo di analogie. osservai ogni angolo sporco, ogni cortile polveroso, ogni bambino. forse cercavo qualcuno. ma in quei momenti, purtroppo o per fortuna, non mi ricordavo di chi. chissà, forse se il mio cervello fosse stato più allenato sarei corso indietro a reclamare i miei diritti, o qualcosa del genere. non incontrai nessuno che conoscevo. solo, una sera, a un certo punto, era successa una cosa che mi aveva fatto per un attimo perdere la mia calma proverbiale. camminavo in un vicolo, rasente il muro. era come se strisciassi pur essendo in piedi. cercavo qualche traccia, qualche segnale, ma niente. mai niente. mi ritrovai d'un tratto il passo sbarrato da un'insegna luminosa, che in realtà era molto più in alto di me, ma che mi abbagliò a tal punto da farmi dimenticare dov'ero e dove dovevo andare. mi spaventai a morte. mi raggiunsero contemporaneamente una serie disordinata di suoni sgradevoli: della musica, delle risate sguaiate. mi sporsi un po' per vedere dentro chi c'era. forse quel rossetto opaco con l'occhio strabico. forse con qualcuno. la cosa mi sarebbe spiaciuta? non saprei dire, magari sì. anche se non sono mai stato un tipo geloso. però mi avrebbe dato fastidio, sì, sicuramente. il locale era fumoso e illuminato male, pieno di figure in controluce che scuotevano le loro teste nere e muovevano la mandibola per scambiarsi chissà quali segreti di stato. c'era una bella atmosfera. come se fossero tutti amici. avrei voluto entrare e far finta di essere parte di quel gruppo scombinato. ovviamente non entrai. li osservai per un po', ma non c'era nessuno che attirò più di tanto la mia attenzione. mi venne solo molta tristezza quando notai, seduto su una poltroncina verde, una figurina meno nera delle altre, ma sicuramente più sola. teneva stretto tra le mani un boccale di birra scura, e fissava il liquido ambrato come a volercisi perdere dentro. era vestito male, un po' come me, e aveva i capelli tutti scompigliati. immaginai fosse un altro emarginato, un po' come me. che aveva voluto imbucarsi in quella festa di estranei sperando di riuscire a diventare un membro della famiglia. solo per una sera, solo per una sera. ciò non era successo, e ora lui meditava silenziosamente di annegarsi dentro il suo bicchiere sbeccato. sì, provai davvero pena per lui. poi mi congratulai con me stesso per non aver fatto lo stesso terribile errore. una cosa è essere soli, un'altra è farlo sapere in giro. certe cose è meglio tenersele per sè, anche perché non sono in molti quelli capaci di capire che - capaci di capire. quella sera dormii sotto un ponte. fa ridere, detta così. ormai è diventata un'espressione d'uso comune, lo dicono tutti. nessuno però lo fa mai davvero. forse perché non si trovano più molti ponti per andarci ad abitare. in realtà era un posto carino, quasi accogliente, benché un po' troppo umido. la mattina dopo mi svegliai con un terribile mal di schiena che mi portai dietro per giorni. sul momento, però, mi era sembrato di essere un personaggio letterario, scapestrato e interessante. avevo radunato le mie poche cose, fuori portata dall'acqua che mi lambiva dolcemente i piedi. non era stato possibile accendere un fuoco. avevo guardato il fiume che scivolava placido sotto quella notte piena di lampioni e strade deserte. c'era stata una grande tranquillità, una grande tranquillità tutt'intorno. avevo persino scritto qualcosa, non saprei dire cosa. forse una storia, mi girava in testa da un po', ma non avevo mai avuto il tempo di sedermi alla scrivania e cominciare a darle una forma. avevo lavorato per quasi due ore, scribacchiando furiosamente alla luce raffreddata che mi arrivava dai negozi e da fari lontani. all'alba mi ero addormentato, sprofondato in un sonno fradicio e senza sogni. alla mattina, tutti i miei fogli erano spariti. senza nemmeno due righe di scuse. ci rimasi davvero male. erano sicuramente volati via, o rapiti dalla corrente. poteva succedere, ed era successo. colpa mia che non li avevo messi al sicuro, colpa mia che non li avevo chiusi nella valigia. colpa mia. affrontai quella perdita con stoicismo e poche lacrime. avrei riscritto tutto daccapo appena ce ne fosse stato il tempo. lo giurai a me stesso e a tutti i sassolini caduti dal ponte. poi mi rimisi in cammino. avevo il terribile dubbio di girare sempre in tondo, perché avevo la sensazione spiacevole di non aver ancora visto niente di nuovo. questo, fin dal momento in cui ero arrivato in quella città. la cosa strana è che lì non ci avevo messo piedi, perciò tutto avrebbe dovuto sembrarmi nuovo e magnifico, nuovo e terrificante. e invece niente. era come camminare in un incubo, o magari semplicemente un sogno fatto centinaia di volte. come un deja-vù. avevo anche fermato dei passanti, ma nessuno si era mai mostrato molto comprensivo. lo credo bene. alla sera, dopo aver fatto niente in particolare, di nuovo, finalmente arrivai all'Aramis.

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Capitolo 3
*** L'Aramis ***


l'Aramis era una locanda. fu il mio primo non-deja-vu di quel periodo. era un edificio basso, appollaiato al di là del parco. in agguato. uno degli ultimi edifici prima della periferia, della campagna, delle stradine tortuose per altre città poco lontane. il nome mi piacque subito. lo avevo già sentito, ovviamente, ma non mi ricordavo dove o perché. pensai solamente alla Balia di Ferro. chissà come mai. non ero sicuro di poter entrare. non avevo un soldo. dubitavo che qualunque barbone potesse alloggiare lì senza pagare; non avendo tante altre possibilità, dal momento che il ponte ormai era perso a chilometri da me, e che la serata era notevolmente più fredda della precedente, decisi di spingere la pesante porta d'entrata, per tuffarmi senza indugio nel mondo di Aramis. venni accolto da un forte odore di cavolo bollito, fumo di sigaro, tappeti. un po' come una casa di riposo. mi tranquillizzò. pensai che nessuna figura abitante in quell'odore potesse essere animata da cattive intenzioni (e mai pensiero da me formulato fu più assurdo). la sala d'ingresso era ben illuminata e oserei dire soffocante: straripava di quadri, pitture, fotografie, armadi, console, soprammobili, lampade, luci a gas, piatti, vasi, centrini, scacchiere, penne d'oca, ventagli, cuscini, foulard, libri, fogli, sgabelli, tavolini, sedie. sembrava di essere in un mercatino dell'usato. l'effetto era opprimente, davvero. pensai a tutta la polvere, a tutti i ragni appostati tra un volume di prosa cinquecentesca e una poltroncina stile impero. perso nei meandri di quel labirinto, avevo indietreggiato di qualche centimetro, pronto a fuggire nell'aria limpida della notte. ero sul punto di - quando sentii un colpo di tosse. ero sicuro che non fosse opera di un comodino di legno laccato, perciò mi guardai intorno, sperando di scorgere qualche essere animato.
"Desidera?"
"Scusi, non la vedo"
"Mi perdoni"
da una pila di volumi rilegati in pelle spuntò una donna, polverosa quasi quanto il tappeto persiano su cui poggiavo i piedi. rassomigliava vagamente a un fil di fumo: esile, il volto bianco, i capelli incolori sparsi in una nuvola incerta sulle spalle. aveva un'età indefinibile, gli occhi pallidi e le mani affusolate e grinzose. mi osservò per un lungo istante, curiosa. mi fece una paura terribile, perché era la copia sputata di come pensavo dovessero essere i fantasmi quando ero bambino.
"Desidera?" mi domandò di nuovo. aveva una voce fragile e pacata. provai la tentazione, fortissima, di darle uno spintone, vederla sparire sotto i suoi cumuli di roba, e sparire. mi appellai alla mia parte razionale e raziocinante.
"Mi chiedevo, ecco, se aveste un posto per la notte"
"Sì" .
la conversazione sarebbe potuta finire lì, ovviamente. lei mi avrebbe dato in consegna una chiave di ottone dal peso netto di qualche chilo, io l'avrei seguita studiando l'ambiente, lei mi avrebbe lasciato davanti a una porta di legno scuro e io sarei stato libero di cercare la via di fuga più vicina. mi sentii però in dovere di chiarire una cosa.
"Non ho soldi per pagare"
"Lo immaginavo"
"Mi chiedevo se fosse possibile rimanere lo stesso"
"Vedremo cosa si può fare"
"Intanto...intanto mi fermo?"
"Sì, intanto".
forse era un'allusione. una velata illusione alla mia prossima cacciata dalla locanda tra il pubblico ludibrio. non mi meritavo niente di meno. pensai che avrei potuto benissimo riposarmi qualche ora, e poi scappare da una qualche porta secondaria senza creare tanto scompiglio. non avrei dato fastidio a nessuno, probabilmente.
"Mi segua"
Si fece largo tra cumuli di oggetti antichi, orologi, pendoli, anche cose mai viste prime, che respiravano piano nella penombra. riuscii a non distruggere niente nella traversata, e mi congratulai con me stesso. rimasi incollato al suo passo leggero e felpato, nel terrore di distogliere un attimo lo sguardo e perderla per sempre di vista. rimanere incastrato lì per sempre. la mia claustrofobia non ne avrebbe giovato. arrivammo infine di fronte a un enorme tabellone di legno chiaro. era enorme davvero, non scherzo. alto quasi quanto me, largo due se non tre volte, era punteggiato da migliaia di chiodi arrugginiti piantati nella più completa casualità. da ognuno pendeva, chi più che meno storta, una chiave dorata. che visione mirabile. mi incantai a guardare le stradine tracciate da quelle minuscole chiavi. mai vista una cosa del genere. mirabile, davvero mirabile.
"Desidera un numero in particolare?" mi domandò il fantasma.
"Ehm. Non ci avevo pensato". a dire la verità era una buona idea. la cosa mi mise addosso una tremenda agitazione. c'erano centinaia e centinaia di numeri tra cui scegliere. e il fantasma voleva una risposta subito. rimasi paralizzato dall'indecisione.
"Un 151?" disse poi.
"Penso che vada bene" mi accontentai, grato che mi avesse tirato fuori da quella situazione sgradevole. lei abbozzò un sorriso, mi porse il mio numero, ricominciò il viaggio della speranza. pensai d'improvviso che no, in realtà non era davvero il 151 il numero che volevo. avrei voluto, non so, qualcosa di più esotico, di più misterioso. un 666, magari. un 743. ecco, il 743 mi diede un'impressione stupenda. me ne beai per un attimo. era un numero bellissimo, bellissimo. mi ricordò una spiaggia deserta. deserto eccetto una palma in riva al mare. sentii sulla lingua il sapore di frutti caraibici. ananas, mango, papaya.
"Scusi, è mica disponibile il 743?" mi feci coraggio. il fantasma mi aveva condotto all'inizio di un lungo corridoio semibuio. nemmeno una candela a farci da sostegno. capii che lei era così avvezza a quel luogo che non aveva bisogno di guide luminose. ma io? come avrei fatto io a ritrovare la strada? provai a ricordarmi: ingresso, sala satura di cose, tabella, porta a destra, sinistra, corridoio, destra...niente, vuoto totale.
"Il 743? Mi faccia pensare". in realtà no, sembrava non stesse pensando affatto. non si fermò mica a pensare, no. non diede il minimo accenno di voler tornare indietro per portarmi la mia chiave. perché non ci avevo pensato prima?
arrivammo alla stanza 151. il numero era graffiato sulla porta. niente medaglioni, niente targhette, niente di niente. respirai profondamente. mi sentivo braccato. mi ricordai di quel giorno a caccia. mio padre aveva preteso che io lo seguissi una domenica mattina, insieme a due suoi amici che non facevano che prendersi gioco di me. per i primi cinque minuti, almeno. non mi sono mai scordato gli occhi sbarrati di quel coniglio grigio. da una parte, la sua tana mezza crollata. dall'altra, due cani che digrignavano i denti. in un baleno comprese il suo destino, con uno sprizzo di intelligenza che non pensavo potesse appartenere a un animale del sottobosco. si arrese senza lottare. senza tentare un'ultima disperata fuga. niente. si consegnò docilmente ai suoi assassini. avrei voluto urlare e correre a salvarlo, ma non ne ebbi il coraggio. avrò avuto tredici, quattordici anni. ero ancora un ragazzino tutto gomiti e ginocchia, senza la minima idea di chi fossi o del perché stavo al mondo. rimasi impalato a guardare quel brutale assassinio. la cosa che mi addolorò di più fu vedere mio padre e i due amici voltati dall'altra parte, a fumare tranquillamente una sigaretta. la verità era che non gli importava niente, di quel coniglio, della caccia in generale. non ne avevano certo bisogno per vivere. lo scopo della giornata era farsi un giro del bosco dopo una settimana di lavoro d'ufficio, farsi due risate. e se qualcosa fosse stato effettivamente cacciato, tanto meglio. altrimenti, amen. non c'erano altre spiegazioni, altre giustificazioni. quel coniglio era morto invano. lo chiamai Amen, e il suo ricordo rimase con me per molto tempo. ecco, per farla breve, mi ero sentito proprio così. mi aspettavo che, da un momento all'altro, un boia armato di ascia spuntasse dal buio per tagliarmi la testa. il fantasma, invece, era la tranquillità in persona. aprì la porta, mi fece entrare.
"Pensandoci bene, temo proprio che la 743 sia stata presa giusto oggi o giusto ieri. Mi dispiace. Ma non le cambierà poi molto, glielo assicuro".
"Questo lo pensa lei", ribattei. così piano che lei nemmeno mi sentì.
"La cena sarà servita tra un'ora. Farà conoscenza con il resto dei clienti e con la mia famiglia. Ci occuperemo più tardi delle faccende burocratiche". un ultimo sorriso e sprangò la porta.

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Capitolo 4
*** Sprofondati in faccende burocratiche e labirinti ***


piombai nel buio. questo, in concomitanza con l'espressione 'faccende burocratiche' (per non parlare di 'farà conoscenza con' e 'famiglia') mi gettarono in un penoso stato di agitazione. probabilmente era una casa maledetta. non mi ero mai sentito tanto male come in quella manciata di minuti trascorsi nell'Aramis. c'era decisamente qualcosa che non andava. insomma, cose burocratiche? al momento avevo una qualche difficoltà a ricordare il mio nome e la mia storia, figurarsi sostenere una conversazione ufficiale o ufficiosa per stabilire la mia identità e il mio metodo di pagamento. per alloggiare in quella casa stregata, per di più. no, mi decisi. se le cose si fossero messe male sarei andato via. senza se e senza ma. e poi, chi diavolo voleva conoscere gli altri clienti? la sua famiglia? andiamo. i fantasmi non hanno famiglia. tanto meno clienti. forse era tutta una trappola. forse l'Aramis era un oscuro luogo teatro di sacrifici umani, e io ero capitato giusto in tempo per la prima luna piena del mese, o qualcosa del genere. che razza di situazione. cominciai a spargere le mie poche cose in giro, in preda a un qualche attacco isterico o nervoso. la stanza era semplicissima, tra parentesi: un letto basso, delle tende spesse lunghe fino a terra, di un colore indefinibile in quella schifosa penombra, un comodino con due cassetti, una vecchia lampada. chissà dov'era il bagno. forse non esisteva proprio, e i clienti erano invitati a espletare i loro bisogni nel cortile, o in un fiume poco lontano. che razza di situazione. scusate se mi ripeto, ma che razza di situazione. un incubo. crollai sul letto e sprofondai in un dormiveglia assolutamente inutile. fui svegliato da un chiacchiericcio ovattato al piano di sotto, immaginai che fosse l'ora di cena. decisi di affrontare il mio destino. mi diedi una rassettata veloce nello specchio arrugginito e uscii. seguii le voci, mi persi, presi la strada sbagliata, mi persi di nuovo, mi ritrovai in due corridoi perfettamente uguali al mio (o forse era sempre lo stesso, che raggiungevo da punti diversi, non saprei), mi persi ancora, scesi e salii delle scale, feci cadere una cassettiera che aveva l'aria di essere molto antica, e infine mi trovai accanto alla tavola delle chiavi. tirai un sospiro di sollievo. non avevo idea di dove fosse la sala da pranzo. mi limitai a seguire le voci, ancora. trascinato dalla corrente. finalmente sbucai in una stanza illuminata al limite del fastidioso. rimasi per un attimo stordito, sulla soglia. sbattei le palpebre e mi aggrappai allo stipite della porta per non cadere. quando i miei occhi si abituarono a quella cascata d'oro, misi a fuoco un tavolo, rotondo, proprio al centro. una decina di persone si azzittirono all'istante quando mi videro, spegnendo all'improvviso il loro allegro chiacchiericcio. mi domandai se, a causa mia e del mio arrivo inopportuno, qualche altro ritardatario e sfortunato cliente fosse condannato all'oblio perpetuo in un'ala lontana dell'edificio.
"Il signore è arrivato oggi. E' un nuovo cliente" riconobbi la voce del fantasma. le fui grato una seconda volta. poi mi invitò a dire a tutti il mio nome, per la qual cosa le fui un po' meno grato. non sapendo cosa rispondere, presi l'istantanea decisione di inventarmene uno. ho sempre sognato farlo, sempre. a sette anni, una volta, sostenni fieramente che il mio nome non mi piaceva, e che da quel momento in poi mi sarei fatto chiamare Mary. mio papà, comprensibilmente, non ne fu affatto entusiasta. mi diede due legnate sulle ginocchia e mi spedì in camera mia senza cena. ma ora, ora quella gloriosa possibilità era proprio lì davanti a me. il problema era che non avevo la minima idea di cosa dire. il vuoto totale. totale. non si può scegliere un nome, un nome che presubilmente mi sarei portato dietro per tutto il soggiorno e forse anche per tutta la vita, in un due secondi. non si può. ma non sta neanche bene esitare così a lungo dopo una domanda così semplice. perciò parlai. sputai fuori, in realtà.
"Aram"
senza sapere da dove mi fosse uscito. probabilmente era un nome biblico. o forse no. avevo vaghi ricordi di cose poco importanti strizzate in quella minuscola scrittura del libro di Rossana. Aram. suonava bene, ma era così estraneo. mi era così estraneo. era come se un ospite qualsiasi si fosse presentato al mio posto. ero sul punto di protestare per quell'improvvisa interruzione sgradita, quando il fantasma mi sorrise:
"Benvenuto, Aram. Siediti pure là", e capii che non poteva che rivolgersi a me. mi venne la curiosità di sapere come diavolo si chiamasse quella donna trasparente. immaginai che lo avrei scoperto presto.

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Capitolo 5
*** Presentazioni ***


"Io mi chiamo Neem" e non avrei saputo darle un nome migliore. davvero. non avrei proprio saputo darle un nome migliore.
ad uno ad uno, anche tutti gli altri si presentarono. erano tutti nomi mitologici. o latini. o greci. o egizi. antichi. ebbi la strana sensazione che fosse la prassi, una volta entrati lì, inventarsi un nome nuovo. tutte quelle persone mi sembrava facessero parte di un gruppo, di una setta, qualcosa.
"Elissa"
"Minea"
"Nerone"
"Socrate"
"Ramses"
"Niobe"
"Brutus"
"Murena"
mi soffermai a guardare ognuno di loro. non mi capitava mai. nessuno attirava mai la mia attenzione a tal punto. mi limitavo a sguardi sfuggenti e distratti. in fondo, erano tutti fatti uguale. due occhi, una bocca che si muoveva indesiderata anche troppe volte, due sopracciglia, un naso più o meno bello, due guance, un mento. non c'era assolutamente niente di bello, nel volto umano. nessuna grazia, nessuna eleganza. solo tratti sgraziati di un artista indecentemente poco dotato. con me, con me per primo, aveva combinato un disastro. tutto sproporzionato. ma insomma, amen. Amen. non mi era mai importato del mio aspetto, esattamente perché non era mai interessato a nessuno. ma quella sera, forse era l'atmosfera strana che aleggiava nella polvere lì intorno. li osservai. li osservai. nel corso della serata presero e persero tutti la parola. si rivolgevano sempre a me. era come essere l'ospite speciale. tutti volevano farmi sapere chi erano, da dove venivano, perché erano lì. ascoltai poco. non lo facevo apposta, ma ero proprio fatto così. poi mi venne in mente con vergogna che forse si erano sentiti presi in giro. "Aram", "Aramis". avevo copiato il nome della locanda. ecco lì. altro che colpo di genio, altro che, proprio niente. non ero nemmeno stato in grado di crearmi un nome dal nulla. a dire la verità, però, quel nome si intonava con tutti gli altri. mi era balenata l'idea di presentarmi come Mary. sicuramente non l'avrebbero trovato strano. ne avrebbero solo preso atto. ma ringraziai per non averlo fatto. avevo il dubbio che fosse un nome da donna. probabilmente lo avevo sempre saputo, ma non avevo mai voluto ammettere che mio padre aveva avuto ragione, a punirmi in quel modo.
Elissa era una donna alta e filiforme, quasi quanto Neem. forse era lei, la sua famiglia. forse erano madre e figlia. cercai in lei qualche tratto conosciuto, ma niente affiorò in superficie. aveva lunghi capelli di rame e le mani piccole. mi sembrò subito una persona silenziosa e riservata. non disse molto di sè, forse per timore di annoiare tutti coloro che già la conoscevano. si era persa un giorno tanti anni prima, nevicava e aveva smarrito la strada. aveva trovato l'Aramis, e non se n'era più andata. ecco. tutto qua. la trovai deliziosa, dico davvero. non sono molte, le persone che reputo 'deliziose'. per quanto questo aggettivo mi faccia rabbrividire. quel suo modo di guardarsi le mani mentre parlava, tutta quella timidezza fuori luogo. deliziosa, davvero. mi guardò molto poco. io, per contro, lei lanciai qualche occhiata per tutta la sera. sperando di farmi notare. ebbene, non mi notò.
Minea era un donnone alto e imponente. non era grassa, era solo imponente. probabilmente era più alta di me. avrei sempre cercato di starle alla larga, da quel momento. non potevo accettare che una donna fosse più alta di me. anche se, a essere sinceri, era la più alta di tutti. aveva un viso che sembrava scolpito nella pietra, era regale. i suoi capelli erano corti e castano chiari, gli occhi piccoli e azzurri, la bocca larga e i denti bianchi, gli zigomi alti, il naso schiacciato. benché i singoli elementi non fossero un granché belli, insieme erano armoniosi. perfino le rughe d'espressione, perfino il collo tozzo. dava l'idea di una donna altezzosa, ma in realtà si rivolse a me con gran cortesia. parlò di una figlia perduta tanti anni prima, di un padre vagabondo, una casa arrampicata in una collina battuta dal vento ogni giorno e ogni notte. l'avevano portata lì con l'inganno, ma non si dilungò in altre spiegazioni. non ebbi il coraggio di chiedere quale fosse stato, quest'inganno. se fosse stato quello, il motivo della perdita di sua figlia. se fosse stato quello. chi lo sa.
Nerone era poco più che un ragazzo. pensai che quel nome non gli si addiceva, non gli si addiceva affatto. avrebbe avuto bisogno di un nome corto e nervoso. esattamente come lui. altezza normale, corporatura normale, occhi verdi, capelli e baffi biondo sporco. era un notevole esemplare di essere umano, posso anche ammetterlo, ma non è mia natura sproloquiare a proposito di creature del mio stesso sesso. mi ispirano ancor meno curiosità delle donne brutte e inguardabili. di lui si notavano i tic nervosi, le mani che si torcevano, il piede che non la smetteva un attimo di grattare il pavimento. ammise che scriveva poesie che non leggeva mai nessuno, era arrivato sin lì per scrivere la sua grande opera prima, ma non aveva ancora combinato niente di buono. un po' come me. forse non eravamo così diversi.
Socrate emanava un'aurea di maestosa grandezza. al contrario di Nerone, il suo nome gli calzava a pennello. tremendamente scontato e banale. aveva una voce lenta e monocorde, una lunga barba bianca e un bastone da passeggio notevolmente istoriato. parlò di viaggi alla ricerca di sè stessi, di nuovi spazi geografici e mentali, lo ascoltai molto poco. avrei voluto saltare sulla sedia e implorarlo di tacere, che nessuno aveva richiesto una lezione universitaria a proposito di deliri metafisici.
Ramses era un tipo strano. di certo io non dovrei parlare, di certo proprio. mi disse subito che lui era un artista e che avrei letto di lui, presto o tardi. aveva i capelli infuocati e il volto cosparso di lentiggini. gli occhi scattavano rapidi da una parte all'altra della stanza, come a voler catturare ogni particolare di chi gli stava accanto. portava una sciarpa colorata e gesticolava un sacco. anche troppo. faceva venire il mal di mare. era lì per cogliere l'essenza di qualcosa che non ho capito. qualcosa da buttare alla rinfusa in un suo quadro e volare in America per far fortuna.
Niobe era poco più che una bambina. mi innamorai del suo nome. mi ricordava quello di una nuvola, di una Nube. Niobe. aveva due grandissimi occhi polari, due occhi freddi e grigi, le labbra sottili e una treccia di capelli nerissimi che spariva sotto il tavolo. aveva un sacco di strati addosso, che la facevano sembrare un pulcino appena nato soffocato da chili e chili di coperte. avrei voluto alzarmi e andare ad abbracciarla, dirle che lì era al sicuro. anche se, probabilmente, non c'era posto meno sicuro di quella dannatissima locanda. raccontò titubante di un fratello più grande partito per la guerra, di una famiglia distrutta, cose così. probabilmente questa era diventata la sua casa. da chissà quanto tempo. che posto triste in cui vivere, in cui crescere. mi augurai per lei che le rimasse almeno qualche ricordo, di questa sua adolescenza. i miei, di ricordi, erano stati soffiati via al primo sbarluffo di vento.
e poi, chi altro.
Brutus. capii subito che avrei dovuto girargli al largo. me lo aveva già anticipato il suo nome. era alto e massiccio, non saprei dire se grasso o meno. definiamolo massiccio. il suo volto era duro e imperscrutabile. non propriamente bello. non particolarmente brutto. immaginai che avesse avuto decine e decine di donne, per quel suo aspetto da assassino. immaginai anche che dovesse avere un sacco di amici importanti, e un sacco di nemici striscianti. nel dubbio, avrei cercato di relazionarmi a lui il meno possibile. non volevo guai, non volevo niente di niente. fui contento di non sentire nessuna storia, da lui. meglio così. meno sapevo, meglio sarei stato.
e infine.
infine Murena. stimai che avesse all'incirca la mia età. o forse, tra i trenta e i quaranta. chi può dirlo. aveva un volto affilato, i capelli ricci e spettinati, un seno ingombrante quasi quanto quello di Rossana. non mi fece una bella impressione. benchè i suoi occhi fossero due pozze viola scuro, non aveva niente di attraente. poteva piacere come no, mettiamola così. a me non piaceva affatto. giudicai che non ci fosse niente di cui fidarsi in lei. un'impressione pessima, davvero. quasi quanto Brutus. anche lei fu molto scarna di dettagli. un marinaio scappato lontano, un figlio che non aveva mai avuto, eccetera eccetera.
poi, finito quell'interminabile elenco di volti più o meno indelebili e storie cancellabili, tutti si voltarono verso di me. era il mio turno. il turno di Aram, lo straniero. come fare, come fare a dire loro che non avevo nessuna storia da raccontare. qualche ricordo infranto di quando ero bambino, sì, qualche avventura sconsiderata da ragazzo, qualche viaggio poco lontano da adulto. ma poi? poi che altro? cercai di rassicurarmi. nessuno aveva tirato fuori delle storie avvincenti. erano tutte persone noiose, in realtà. non avrei dovuto preoccuparmi. anche se. anche se ero appena arrivato, ero 'quello nuovo', e volevo disperatamente fare colpo su di loro. specialmente su Elissa. volevo che pensassero cose belle di me. chissà, chissà cosa avevano pensato quando mi avevano visto per la prima volta. sicuramente che ero magro e sporco. forse qualcuno mi aveva già visto sotto il ponte. forse Brutus mi sarebbe venuto a picchiare nel cuore della notte. alla fine mi risolsi. borbottai qualcosa su viaggi interminabili in giro per il mondo sconosciuto, fiumi di persone incrociate per una notte o un tramonto, poi mi spensi nel buio, come un cerino alla fine della cena. mi domandai cosa si facesse, tutto il giorno lì. era come una casa di riposo. mangiai in silenzio per il resto della serata, ascoltando con un orecchio solo i loro discorsi campati per aria. forse mi sarebbero anche interessati. non dico. dipingevano con parole poetiche tutte le albe di cui erano stati spettatori, tutti i libri letti, le poesie ricordate a memoria, il volto gentile dei genitori, le forme antiche delle nuvole. mi sembravano tutte persone a posto, a posto. normali. con interessi normali, vite normali. mi chiesi perché si fossero chiusi in quella prigione, mi chiesi perchè Neem il fantasma non avesse ancora mandato all'aria tutte le ipocrisie e non avesse ancora messo le sbarre alle finestre, com'era giusto che fosse. insomma, me ne pensavo agli affari miei, o forse non pensavo affatto, quando venni agguantato per i piedi e ritrascinato per terra.

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