Algoritmi

di pseudomors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Algoritmi



1
"Tu guarda se hai i numeri e poi calcola i tuoi rischi"

 
Quei graffi sulla schiena, memorie di una notte all'apice del masochismo, stavano lì, fermi, a bruciare, a ricordargli che la vita era quella e sarebbe rimasta tale, con tutta probabilità non avrebbe avuto mutamenti nemmeno minimi e questo perché non sarebbe stato più tutto così abitudinario se solo avessero fatto un solo passo falso. Erano sempre lì, avevano bisogno l'uno dell'altro, ma non si ascoltavano, né l'avevano mai fatto, non si scambiavano parole di conforto, non s'impicciavano negli affari dell'altro. Però ci tenevano e avevano raggiunto la consapevolezza di dipendere dal modo che avevano di estirparsi il dolore a vicenda, nel classico modo definito sbagliato, nel solito ritrovarsi sotto le lenzuola a baciarsi, con violenza dal principio, mostrando il bisogno che avevano di dimenticarsi tutto, di scambiarsi i dolori per un po' e alleviarli portando la mente altrove, verso il piacere. E adesso lui stava lì, lei sparita, come tutte le notti; lui si addormentava, stanco, lei si rollava una sigaretta, fumava; poi un'altra, fumava anche quella e qualche istante dopo lui teneva gli occhi chiusi e lei si sollevava piano dal materasso vecchio e morbido, si rivestiva senza far uscire suono dai movimenti, come se fosse un fantasma e stesse recuperando frammenti di ricordi dispersi per la stanza. Alla fine abbassava la maniglia, usciva, poi l'altra, chiudeva e quel cancello fuori faceva un dannato cigolio. E lui sentiva solo quel rumore, stringeva le palpebre un po' di più e sapeva che da quel momento in poi sarebbe sparita, per tornare forse in quella settimana, forse nella prossima, forse un mese dopo, basandosi sui giorni storti.  
Però quella notte, come non era mai successo prima d'allora, lui si era fermato. Per un attimo, aveva staccato le labbra dalle sue, aveva bloccato le mani che continuavano a stringerle la schiena, prima di toccarla altrove; aveva aperto gli occhi, l'aveva guardata e l'aveva fatto davvero, come la prima volta che, sbronzo, le era finito addosso nel tentativo di uscire dalla stanza troppo affolata in quello stupido pub che, lentamente, gli aveva prosciugato la vita, fino all'ultima goccia, nello stesso modo in cui lui svuotava bottiglie di alcool come se fossero colme solo d'acqua; e poi aveva pure il coraggio di chiedersi perché per due volte nell'arco di un anno aveva quasi sfiorato il coma etilico. L'aveva guardata, sul serio, non ricordava di che colore fossero i suoi occhi e nella poca luce della stanza scorse quel nero che più volte l'aveva spaventato: se gli occhi sono lo specchio dell'anima, com'era ridotta la sua persona, lì dove nessuno poteva scorgerla? Non ricordava di che colore fossero i suoi capelli e scoprì di vederli più naturali degli inizi, più sul rosso sbiadito dalle troppe docce. L'aveva guardata e l'aveva fatto davvero. Lei corrugò le sopracciglia, abbassò lo sguardo, si allontanò un po'. E restarono in silenzio, come capitava spesso, lui che non sapeva cosa dirle, lei che aveva sempre parlato poco e non era capace di tirar fuori argomenti. Qualche minuto dopo lui la baciò di nuovo, e tornò tutto normale; le cose non potevano cambiare e non l'avrebbero mai fatto. 

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Capitolo 2
*** 2 ***


2
“Perché stanotte il buio saprà parlare”
 
Il torpore notturno l’avvolgeva, un delicato richiamo al gelo, un fischio di vento fra un attimo e l’altro; i camini avevano smesso di fumare e su per il cielo albergavano grossi pennacchi scuri, smog, roba che ti fotte i polmoni ma la colpa va sempre al pacchetto rettangolare che ti porti in tasca, colmo di sigarette o di tabacco, a volte anche di qualche gioia che la giornata ha permesso, grammi nelle borse a ricordare che la felicità la trovi in pochi modi ma uno dei primi ce l’hai proprio lì o forse più nascosto, perché il proibizionismo è il centro di tutto. Lei, di roba in borsa ne aveva anche troppa fino a qualche ora prima… poi, la bustina si era ritrovata da piena a vuota e la sua testa si era riempita di pensieri, meccanismi, il suo organismo continuava ad asciugare la saliva e a farle brontolare lo stomaco per la fame chimica; forse sfamarsi sarebbe stata la prima soluzione a quello stato comatoso, ma aveva troppo alcool in corpo e la sensazione di dover vomitare perenne. Non si lamentava comunque, era consapevole di essersi ridotta uno straccio e di dover tornare a casa; ma non ne aveva voglia. Da una parte, il bisogno di trovare un letto era troppo intenso; dall’altra, aveva troppo dolore nascosto e annebbiato dalle sostanze e se solo si fosse fermata un attimo, fra le coperte, a pensare, non l’avrebbe smessa più e insonne avrebbe odiato quelle ore pronte a correre, correre, correre. Non sapeva nemmeno perché si era ritrovata priva di amici, tutti le avevano dato buca e si erano rifugiati in casa con qualche birra e del vino e lei sarebbe stata troppo tranquilla con una coperta addosso, a ripagare i vestiti umidi per la pioggia e la brina un po’ ovunque, con in mano troppe sigarette e il fumo passivo in circolazione per la stanza chiusa. Quindi si era ritrovata in quello che poteva definire il ‘pub di fiducia’, lo gestiva Joe, un amico di mezza età e che ormai aveva perso quasi tutti i capelli, a eccezione del ciuffetto in mezzo, e caratterizzato da perenni occhiaie e una pancia da troppa birra notevole. Tuttavia, l’abito non fa il monaco e lei, in Joe, ci vedeva il padre che non aveva mai davvero sentito di avere, nonostante fosse con lei e cercasse di parlarne quando era in casa, provando a non spezzare quei rapporti che, sotto finzioni e bugie, erano già distrutti dal tempo. Aveva sedici anni, lei, i capelli rossi sbiaditi, una cresta che un giorno stava più su, quello dopo troppo giù, un po’ di mascara e una riga di matita nera a incupirle lo sguardo da bambina. Dei vestiti troppo scuri, troppo larghi, felpe a nasconderle qualsiasi forma, ciondoli con troppi significati a suscitare dubbi. E una mente così buia, così persa.
Alla fine quella sera si erano avvicinati quattro ragazzi e una ragazza, sempre frequentatori abitudinari del pub di Joe, e a caso si erano uniti e avevano passato quella notte insieme e chi aveva del buon fumo, chi un paio di birre, chi qualche centesimo per sfamare la fame, a volte andava tutto bene e un po’ di gioia con gli amici -anche se improvvisati- non era sgradita. Anche se stava male, anche se cercava di seguire i discorsi e rendersi produttiva quando avrebbe voluto solo smettere di negarsi le consapevolezze e sprofondare nel dolore, per l’ennesima volta, star male, bere fino a vomitare e ritrovarsi in casa una settimana a gestire dei postumi atroci; qualcuno a tenerle la fronte, chissà chi; gli alcolisti non si rifiutano mai di vedere del sano vomito pur di aiutare un compagno, che può sempre essere totalmente improvvisato, magari sconosciuto. Ci si aiuta, fra drogati; ci si capisce. C’è un’empatia che ti fa stare bene subito, c’è uno scambio di emozioni che aiuta a trovare la calma assente. Ed era quello il modo in cui loro avevano iniziato, sbagliando, a fidarsi, a dipendere dall’altro.
Si era fermata, in piedi, appoggiata al muro di un palazzo qualunque alle cinque del mattino, gli occhi abbassati a osservare le mattonelle e la mente a perdersi fra l’infinità di problemi.
“Va tutto bene?”
Era stata la prima volta che lui si era preoccupato delle sue condizioni, e anche la prima volta che la vedeva, che si perdeva a fissarla, la prima volta che in ogni suo gesto ci vedeva qualcosa che gli piaceva terribilmente, che bramava, perché tutto quel dolore, tutto quel mistero, tutte quelle stranezze che aveva notato in lei in quelle poche ore le voleva, da puro masochista, senza un vero senso logico. A volte si va a intuiti, a volte si seguono gli istinti e basta, perché è giusto così, perché in un mondo come questo non puoi permetterti di essere razionale se vuoi restare te stesso, se non vuoi perderti fra le possibilità, le opzioni che circondano qualsiasi cosa, fra i pareri degli altri pronti a farti cambiare le idee.
Lei non aveva risposto. Aveva socchiuso le labbra, per parlare, ma poi era tornata normale, si era stretta nella felpa troppo grande, le arrivava quasi alle ginocchia e questo la faceva star bene con se stessa, la faceva a sentire a suo agio con un corpo troppo femminile per quella che sentiva di essere.
Però no, non stava bene. E non sapeva se il suo dolore fosse interno o esterno. Non sapeva se stesse male più per le parole che le si scandivano in mente insieme ai ricordi, o per il mal di testa, la gola, il sonno. 

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