Always Changing - Il passato nel presente

di cartacciabianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, andata e ritorno ***
Capitolo 2: *** Sintomi... ***
Capitolo 3: *** Preludio ***
Capitolo 4: *** L'assassino ***
Capitolo 5: *** Disperazione ***
Capitolo 6: *** Caricamento ***
Capitolo 7: *** Un forte bisogno ***
Capitolo 8: *** Questo è il futuro ***
Capitolo 9: *** Il kebab newyorchese ***
Capitolo 10: *** Un pugno chiuso ***
Capitolo 11: *** Sogno di tempesta ***
Capitolo 12: *** Il non ritorno ***
Capitolo 13: *** Patti chiari, amicizia lunga ***
Capitolo 14: *** In fuga da tutto, parte 1° ***
Capitolo 15: *** Tentativi ***
Capitolo 16: *** Incontri ***
Capitolo 17: *** Ospiti ***
Capitolo 18: *** Nel suo corpo, e nella sua mente ***
Capitolo 19: *** Dubbi di un'amara verità ***
Capitolo 20: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 21: *** Pazzia ***
Capitolo 22: *** Il piano ***
Capitolo 23: *** In fuga da tutto, parte 2° ***
Capitolo 24: *** Prigionia di promesse ***
Capitolo 25: *** Epilogo, Dolci Quadri ***



Capitolo 1
*** Prologo, andata e ritorno ***


Andata e ritorno












Il sole entrava dalla finestra violento, ignorando le tende che mi ero dimenticata di arrotolare per bene. Il silenzio di quella stanza era diventato fastidioso, ma a rallegrarmi giunse alle mie orecchie il miagolio di Finger. Il gatto nero si lamentava affamato strusciandosi contro la porta accostata della camera da letto. Guardai all’orologio sul comodino che segnava le 8 di mattina e sorrisi.
Mi stiracchiai tra le coperte, allungando un braccio nel vuoto alla mia destra. Accarezzai le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino senza pieghe, strinsi il piumone tra le dita. Da lì a poche ore non avrei più sofferto: mi eri mancato tanto. Mi erano mancati il tuo sorriso, la tua allegria, le tue battutine la mattina e il tuo orribile caffè. Da lì a poche saresti tornato da me, tra le mie braccia, e avrei rivisto il tuo corpo perfetto riflettersi nello specchio del bagno, mentre ti facevi la barba. Dio, mi ero sentita dilaniare in quegli ultimi mesi. Parlare con i nostri amici e sentirmi chiedere come stavi, o dove fossi finito. Ma io non potevo rispondergli.
Mi sollevai col busto, sedendo a gambe incrociate sotto le coperte. Guardai il cielo azzurro fuori dalla finestra, ammirai il panorama di New York e contai i suoi mille grattacieli luminescenti.
Quale sarebbe stata la tua espressione nello scrutare la strada chiassosa sulla quale affacciava il nostro appartamento?
Chissà se ti saresti ancora lamentato di quanto il materasso fosse duro, ma l’avevamo scelto insieme, tu mi avevi assecondata nel dirti che lo preferivo così; e il mio animo spartano ti era sempre piaciuto. Tu mi amavi, tu eri il mio piccolo grande eroe, il mio barista preferito, la nocciola caduta nel cioccolato della mia vita.
-Miao- piagnucolò Finger, e subito dopo balzò sul letto infilandosi tra le mie gambe accavallate.
Lo accarezzai fino alla punta della coda. Era il nostro gatto. Si chiamava Finger perché mia zia aveva chiamato suo fratello James Bond. Gold Finger era suo fratellino minore, ora il nostro gatto nominato Finger per approssimazione. Una grattata dietro le orecchie: il pelo lucido e nero, i baffi stirati e lucidi, gli occhi giallo elettrico e le sue fusa infinite. Soffriva anche d’asma ogni tanto, e mi ricordavo bene di come ti piacesse prenderlo a calci quando tossiva palle di pelo nella stanza da letto. Nella nostra stanza da letto.
Strinsi il gatto a me e scivolai sul bordo del letto. Poggiai i piedi scalzi a terra e mi sollevai sulle mie gambe con la bestiaccia poggiata su una spalla.
Finger si divincolò dalla stretta e si lanciò sul pavimento di legno chiaro, scappando verso il salotto.
Sospirai, osservando il mio riflesso sul vetro della grande finestra.
I capelli ondulati, castano scuro, mi cadevano sulla schiena. Non erano molto lunghi, ed eri stato tu a suggerirmi di tagliarmeli. Sì, me li ero tagliati, ma otto mesi prima… ora erano ricresciuti. Le mie labbra chiare e allungate in un sorriso malinconico, i miei occhi stanchi che ti immaginavano lì al mio fianco, che mi stringevi a te. Mi mancavi tanto… poche ore, mi ripetevo, potevo resistere.
Il mio corpo sentiva la tua mancanza peggio del mio animo. Sì, scommetto che lo senti anche tu, pensai: le tue carezze timide sul mio collo, le tue labbra sulle mie. Ragazzo, quanto mi mancavi! Lo gridai in me tante volte, l’avevo gridato tante volte. Ma tu non potevi sentirmi, chiuso nella stanza in cui ti tenevano prigioniero.
Andai in bagno. La tavoletta del gabinetto era abbassata. Risi, perché ricordavo ti piacesse indispettirmi lasciandola apposta alzata. I tuoi asciugamani erano rimasti gli stessi e dove li avevi lasciati senza utilizzarli per otto mesi, raggruppati sulla mensola in modo casuale e disordinato.  Un’occhiata alla doccia. Potevo sentirla scrosciare di quando c’eri tu dentro ed io ti preparavo la cena in cucina. Mi ricordai di quanto ti piacesse girare per casa con solo l’asciugamano allacciato alla vita a coprirti. Ti vantavi dei tuoi muscoli e mi ronzavi attorno come se stessi tentando di abbordarmi come la prima volta. Che stupido, ero stata io a sudare per farmi notare da te, che prima d’incontrarmi eri così altezzoso e con la testa tra le nuvole, sognando roba da ragazzini come una macchina lussuosa e tante donne. Io ero la tua unica donna, la tua ragazza preferita, e tu con me avevi condiviso tutto, ogni parte di te e di quello che la tua ignota famiglia ti aveva lasciato. Io, in cambio, ti avevo trascinato in casa un gatto che scattava al miagolio sulla mezza notte circa.
Finger saltò sul lavandino e cominciò a fissarmi con le sue pupille sottili. M’implorava di dargli da mangiare, ma non si aspettava che lo facessi: ero molto stronza, a riguardo. Eppure, ero certa che la sua ciotola in cucina fosse ancora piena di croccantini. E l’umido costava un botto di soldi.
C’era il tuo spazzolino accanto al mio, e avevi la mania di usare il mio stesso dentifricio costringendomi ad usare il tuo quando il nostro prediletto finiva. Quanto eri stupido, ed erano i tuoi atteggiamenti trasandati e ottusi che mi facevano impazzire di te. Mi mancavi.
Perché non riuscivo a sentirti vicino quando sapevo che tu percepivi lo stesso di me? Perché le nostre menti erano così distanti, nonostante entrambe fossero in astinenza dall’altra? Eravamo come i gemelli.
Cominciai a spogliarmi della canottiera nera e dei pantaloni bianchi del pigiama, ripiegando tutto per bene.
Entrai nella doccia… l’acqua calda chiamava il dolce ricordo di quando l’avevamo fatto in quello stretto spazio chiuso da due pareti di plastica. La violenza del getto mi pungeva la pelle, la condensa oscurò lo specchio e Finger scappò nel corridoio di corsa.
Terminato il lavaggio, mi avvolsi nell’asciugamano bianco e raggiunsi la cucina.
Misi l’acqua calda sul fuoco, preparai la tavola per uno afferrando una tazza dagli scaffali in alto, accanto ai fornelli. Quando il bollitore prese a fischiare, mi stavo asciugando i capelli col phon nella nostra stanza da letto. Staccai la spina poco soddisfatta della pettinatura, e corsi a prepararmi il the.
Immersi la bustina nell’acqua calda che avevo versato nella tazza e accompagnai la colazione con alcuni biscotti.
Finger balzò sul tavolo, avvicinandosi al biscotto vicino al mio gomito. Annusò con cautela prima di allungare la lingua, ma lo fermai in tempo gridando: -Micio! No!-.
Il gatto fuggì dietro al divano del salone.
Che silenzio assurdo. Avevo voglia della tua presenza, un gatto o un cane non mi bastavano! Era come desiderare un videogioco nuovo…
Mi guardai attorno. Ti desideravo seduto su uno dei due divani sistemati ad U accanto alle vetrate e davanti alla televisione. Oppure a giocare alla play station tranquillo e sorridente. Ed io avrei voluto essere lì a sfidarti a Resistence. Erano otto mesi che non toccavo joistik, spazzavo regolarmente le ragnatele, ma quando fossi tornato avrei dovuto regalarti l’ultima uscita Sony. Ormai la nostra console sapeva di vecchio.
L’ingresso, oltre il quale erano passati pochi corpi incluso il mio. Avevo cercato di consolarmi invitando quanti più conoscenti abitavano ancora questo distretto della città. Ero finita per deprimermi al meglio, perché senza di te non c’era mai stata la vera festa. Anche quando organizzavi dei party al pub e tu eri quello che si era sentito male la sera prima. Io ti restavo accanto, come un’infermiera, ma ricevevo chiamate continue dei nostri amici che si lamentavano di quanto il servizio al bar fosse scadente senza di te. Loro ci scherzavano, ci ridevano quando ti portavano i loro saluti mentre tu eri sdraiato a letto con la febbre. Sì, mio caro, sapevamo bene entrambi che ti piaceva uscire con indosso solo il tuo giubbotto anche a –20°. Eri un folle, eri la mia pazzia.
Che tristezza mi facevano quei quadri della mia famiglia. Guardarli senza i tuoi commenti sfacciati sul volto del mio trisavolo era come fissare il vuoto dell’oceano. Mi ci perdevo, negli occhi della mia famiglia, come mi perdevo nelle foto sui mobili. Mi arrampicavo su di esse scivolando da un ricordo ad un altro della nostra adolescenza che non sarebbe mai finita. In quelle foto, dove c’eravamo solo io e te, amavo perdermi, ma con te affianco. Eri un tipo superficiale, non davi certo ascolto alle mie parole di scrittrice di romanzo quando rovesciavo dalla prosa la nostra vita. Amavo rinfacciarti l’aspetto poetico del nostro amore e tu, come tuo solito, sbuffavi; per poi abbracciarmi e baciarmi con voracità.
Avevo voglia dei tuoi baci, dei tuoi tocchi rabbiosi su di me quando ti facevo arrabbiare. Sì, sì. Era deciso: non appena fossi tornato a casa, ti avrei fatto incazzare di brutto. tu mi avresti gridato contro, ma saremmo comunque finiti a farlo sul tappeto del corridoio.
Terminata la silenziosa bevuta e la raccolta della mia vita, mi alzai, gettando la tazza nel lavandino e allungandomi verso la nostra stanza.
Mi vestii in fretta, notando che tirando un pensiero dopo l’altro si erano già fatte le 11 di mattina.
Ripiegai il letto con cura. Quella notte mi sarei addormentata su di te, cosa che in quegli ultimi otto mesi non avevo fatto altro che sognare.
Sbattei i cuscini e spiegai per bene il copri letto, accertandomi che non ci fosse alcuna piega se non quelle che causò Finger accoccolandosi sul tuo cuscino.
Corse letteralmente nel corridoio. Una volta all’ingresso, mi avvolsi del mio cappottino nero e presi le chiavi di casa cacciandomele nella tasca dei jeans scuri assieme al cellulare.
Quante volte avevo provato a chiamarti ma non mi era stato concesso parlarti? E perché? Oggi avrei saputo la verità su di te e su cosa ti era successo, giurando sulla mia fedina penale e la mia stessa vita che non avrei rivelato nulla a nessuno.
C’era un biglietto di cartoncino bianco sopra la posta. Conoscevo bene quel biglietto, e anche il marchio argentato che vi era sopra.
Lo strinsi tra le dita, girandolo.



02/04/2013
Ore 12.30
Freedom Way (NY)
Ti ridaremo il ragazzo



Ero spaventata.
Freedom Way, davanti a Liberty Island. C’era un parcheggio, l’avevo visto su google maps. Era piuttosto lontano, ma mi ero studiata per bene la strada di andata e ritorno.
Uscii di casa, battendomi nervosamente il cartoncino sulla coscia.
Quei pazzi mi avrebbero ridato il mio Desmond.

Mi parcheggia attenta tra le strisce bianche. Arrestai il motore, e fui certa che anche il mio cuore aveva perso un colpo.
C’era un’auto nera parcheggiata lontano da tutte le altre vetture, compresa dalla mia. Era una 4x4 spaziosa dai finestrini oscurati.
Scesi e chiusi la portiera nel più silenzio possibile. Il cartoncino nella tasca dei pantaloni mi pareva stesse prendendo fuoco per quanto ero terrorizzata.
Mossi i primi passi in quella direzione, sotto il sole cocente del mezzogiorno. Dei bambini facevano il giro del quartiere in bicicletta, un gruppo di adulti si stavano fumando una sigaretta ciascuno appoggiati al muro dell’edificio alle spalle mie spalle.
Per te avrei fatto qualunque cosa, anche puntare contro ai tuoi rapitori un’arma. Perché non ci avevo pensato prima?! C’era una 9 millimetri nel cassetto del comodino accanto al tuo lato del letto. Desmond, sto venendo a prenderti, a mani nude, ma sto venendo e vorrò sapere tutto quello che ti è successo, così da far bollire in me il doppio della rabbia che ho tenuto dentro in tutti questi mesi.
La porta del passeggero della jeep si aprì, ne uscì un uomo in giacca e cravatta nera che venne verso di me con una valigetta stretta nella mano.
Indietreggiai, spaurita.
L’uomo indossava degli occhiali da sole, le scarpe linde ed impeccabili. Mi porse la valigetta e io l’afferrai tremante. –Alex Viego?- domandai in un sussurro.
L’uomo annuì, e mi strinse l’altra mano. –Nella valigia troverà i suoi effetti personali. Desmond Miles è stato utile al Paese, Signorina Forks- sorrise.
-Dov’è?- lanciai un’occhiata alle spalle di Alexander.
-Oh, il mio assistente gli sta illustrando le ultime novità- disse. –Pazienti ancora qualche istante-.
Non diedi ascolto alle sue parole, piuttosto feci scattare le serrature della valigia.
Dentro il piccolo bagaglio c’erano dei quaderni, dei libri, qualche penna e dei fogli scarabocchiati. Se il mio Desmond si era messo a leggere, voleva solo dire che si era annoiato parecchio.
C’era una foto che riconobbi bene, buttata lì come gli altri oggetti e stropicciata. Eravamo noi sull’ingresso del tuo bar, con i nostri amici attorno. Tu sorridevi stringendomi sotto braccio. A quel tempo non stavamo ancora insieme, ma eravamo grandi amici. I migliori amici…
Mi vennero le lacrime, ma cercai di trattenermi, richiudendo la valigia di fretta.
Voltandomi, mi luccicarono gli occhi.
Eri tu, che venivi verso di me e il signor Viego con il tuo solito passo neutrale. Il tuo viso scuro, il tuo mento perfetto e il naso che più volte aveva sfiorato il mio si avvicinavano. Oh, Desmond, vederti sorridere nel notarmi mi fece fare un tuffo in Paradiso. Indossavi gli abiti con cui ti avevo visto l’ultima volta: la felpa bianca, candida e i tuoi soliti jeans. Per otto mesi con gli stessi vestiti, non m’importava quanto avrei dovuto strofinarti la schiena per farti tornare pulito!
Mi lasciai scivolare di mano la valigia e ti corsi incontro trattenendo il fiato.
A pochi passi da te, spiccai un balzo e mi appiccicai al tuo collo.
Colto alla sprovvista, facesti un passo indietro riacquistando l’equilibrio.
Sospirai quando le tue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi e le tue mani mi accarezzarono la schiena. Mi erano mancate quelle mani.
Profumavi, e mi avvinghiai con più forza a te facendo aderire completamente il mio corpo al tuo. Immersi il viso accaldato nell’incavo del tuo collo, inspirando a fondo l’odore della tua pelle. –Desmond…- sussurrai il tuo nome nelle lacrime, affondando le unghie nella stoffa della felpa. Riuscii a crederci a stento.
-Ciao, piccola- dicesti tu, spingendo la tua guancia contro la mia fonte. –Mi sei mancata- aggiungesti, e ascoltai la tua voce tremare dalla commozione almeno quanto la mia.
-Anche tu!- e a quel punto scoppiai a piangere, davanti a te e a quel certo Alex Viego che si allontanava verso la macchina. L’uomo rimontò in sella e la 4x4 scomparve su Freedom Way. Già… la via della libertà.
-Sono libero!- gioisti tu guardandomi negli occhi. –E… voglio raccontarti ogni cosa- t’incamminasti e raccolsi la valigia con i tuoi effetti personali.
Mi passai la manica della giacca sul volto, asciugando l’acqua che calava sul mio volto. –Sì, lo vorrei tanto!- sbottai in un misto di divertimento e paura.
Tu mi stringesti ancora, fin quando non ci accertammo entrambi che quello non fosse un sogno.
Mi tenesti sottobraccio nel raggiungere la mia macchina, e ti accomodasti al volante.
-Otto mesi di merda- borbottasti, ed io pensai la stessa identica cosa nel guardarti mettere in moto.
I tuoi occhi incontrarono ancora i miei, ma avevi un atteggiamento diverso, uno sguardo che non seppi decifrare. Cosa volevi intendere fissandomi così? Perché durante tutto il tragitto verso casa non mi rivolgesti più la parola? Stavi forse mettendo in ordine le idee? Come avrei potuto aiutarti? Desmond, io volevo sapere cosa ti era capitato! Ma soprattutto, sapevo che dopo quello che ti era successo saresti radicalmente cambiato. Nonostante ciò, avrei lottato con le unghie per riaverti come ti ricordavo e come ti avevo amato. Desmond, non voglio allontanarmi da te a causa di questo ignoto Progetto Animus di cui so poco e niente. Desmond, raccontami! Ma tu non dicesti nulla, neppure quando salimmo nel nostro appartamento e tu ti guardasti attorno come non riconoscendo dove ti trovavi.
Sperduto come un bambino che cammina per la prima volta, ti aggiravi per la casa tentando di riacquistare familiarità coi sapori di dolcezza che avevamo passato assieme tra quelle mura.
Io ti osservai in silenzio, appoggiata alla parete del corridoio con  le chiavi e il cellulare ancora nella tasca dei pantaloni, ripensando al cartoncino che il giorno seguente avrei bruciato per strada.
Finger venne a strusciarsi sulla tua gamba, e tu lo issasti tra le tue braccia. Lo accarezzasti poco e lo riappoggiasti a terra.
-Ti prego- ti venni vicino. –Ora devi dirmi tutto. La notte non chiudevo occhio e ogni giorno, pesandoti lontano quando il sole brillava nel cielo, la mia paura cresceva. La gente implicata in queste storie non ne esce mai viva!- balbettai, e la mia pena ti fece avvicinare a me, così che il tuo corpo avvolse ancora una volta il mio.
-Fai bene ad avere paura di questa gente- mi sussurrasti all’orecchio. –Per tornare qui ho dovuto… fare quello che non credevo possibile-.
Io mi scansai da te lentamente, colpendoti col mio sguardo confuso.
Tu proseguisti: - Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’anno fatto. Al posto della mia vita, li ho messo nelle mani quella di qualcuno più importante. Una spia infiltrata nel progetto. Lavorava come segretaria all’uomo che si occupava di me e di quello a cui servivo. Si chiamava Lucy. Lei non aveva nessuno, io avevo te. Raccontando che Lucy era il pezzo grosso di un’associazione… clandestina, quelli del progetto l’hanno presa e sbattuta chissà dove se non ammazzata. È stata lei a chiedermelo, è stata lei ad offrirmi la libertà. Le dobbiamo tutto questo entrambi…- dicesti serio.
Restammo in silenzio, perché non c’era molto da dire. Forse domandare oltre non era una buona idea, mi dissi, perché il mio ragazzo mi sembrava stanco.
-Ora scusa, davvero…- mi dicesti sfiorandomi la guancia appena. –Non… mi sento… bene- andasti verso la stanza da letto, muovesti dei passi verso le lenzuola e ci crollasti sopra di schiena. Ti sfuggì un sospiro di sollievo, come se le tue giovani gambe da bambino non fossero più in grado di portarti oltre. Desmond, avrei voluto che mi dicesti di più, ma potevo capirti bene. Eravamo sconvolti, entrambi, e questo avrebbe pesato per sempre sulla nostra vita che non sarebbe più stata la stessa.
-Vuoi- mi appoggiai all’ingresso della camera, e tu sollevasti poco il viso verso di me.
-Hmm?- domandasti con gli occhi.
-Vuoi che ti prepari qualcosa da magiare? O un the… insomma, ti vedo… sciupato- ti confessai e tu, per mia sorpresa, annuisti, dandomi l’ordine di andare in cucina e lasciarti da solo.
Eri alla mia portata, e non volevo di già allontanarmi da te! Desmond, eri davvero capace di farmi questo? Non mi leggevi nel corpo e nell’animo che avevo bisogno di molto di più! Ed io, egoista, non avevo pietà di nessuno di noi. Ti prego, perdona la mia impazienza, ma da lì a poche ore sarebbe accaduto molto altro.

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Capitolo 2
*** Sintomi... ***


Sintomi...








Ti portai il the su un piccolo vassoio di legno, ma entrando nella stanza e cercando di essere il meno rumorosa possibile, mi accorsi che ti eri appisolato in silenzio, curvo in una posa innaturale e forzata. Avevi un braccio sotto il cuscino, il volto girato di lato e la schiena contorta.
Poggiai il vassoio sul comodino, ti guardai allungo dall’alto mentre le tue palpebre chiuse sussultavano per il sogno tormentato che stavi facendo. Ero in pena per te, Desmond, e mi sentivo in colpa per come avevo pensato solo a me stessa e ai miei dolori in questi ultimi mesi. Mi dispiaceva davvero vederti in quello stato, ma cosa potevo fare per farti sentire meglio se preferivi dormire rinnegando la mia compagnia?
Stavo per voltarmi e uscire dalla camera, avendo altro cui dedicare del tempo, quando ti movesti appena, facendo scivolare le lenzuola e io tornai a guardarti, sorridendo nell’accorgermi che i tuoi occhi mandorlati mi stavano squadrando dal basso all’alto.
Ti girasti verso il comodino, sopra il quale era poggiato il the fumante e, allungando le tue labbra scure in un sorriso, mi donasti la tua gratitudine.
-Come ti senti?- ti chiesi, torturandomi la pellicina del pollice destro.
Tu ti sollevasti di poco, poggiando la schiena al muro, sedendo tra i due cuscini, disfacendo il letto ulteriormente. Avevi indosso ancora le scarpe, e sapevi bene quanto la mia mania della pulizia ordinasse l’esatto contrario.
Notasti la mia espressione contorta e avvilita, decifrasti i miei occhi che ti rimproveravano e ti tolsi le Adidas bianche e nere lasciandole cadere a terra. –Vieni qui- mi dicesti, spalancando le braccia.
Accolsi l’invito, ne fui avida, e una volta al tuo fianco, mi adagiai completamente sulla tua spalla, nonostante fossi tu quello che più bisognava di sostegno.
Stringesti la mia nella tua mano, avvolgendomi come fossi un orsacchiotto da stringere. Ed io adoravo quando tu mi possedevi in quel modo così protettivo. Eri tornato, ed io non ti avrei più permesso di partire.
Chiudendo gli occhi, passai le labbra sul tuo collo, risalendo il tuo profilo perfetto. Però tu restavi rigido, duro anche quando raggiunsi l’angolo della tua bocca e tu non accompagnasti i miei gesti. Mi stavi forse rifiutando? Desmond, così mi facevi male…
-Che ti prende?- domandai facendo scivolare una mano sul suo petto, accarezzandolo.
Tu neppure mi guardavi. Avevi piantato lo sguardo dritto davanti a te e avevi aggrottato la fronte, sulla quale erano comparse delle goccioline di sudore. Non credevo di farti quell’effetto…
-Qualcosa- mormorasti tu tremando. –La testa… mi pulsa- aggiungesti spaventato.
Alzai il braccio e stesi il palmo sulla tua fronte. Eri bollente. –scotti- ti dissi, e la tua reazione fu la solita.
-Allora accetto il the… e ti sarei grato se…- non riuscisti a terminare la frase, che ti piegasti da dolore premendoti le tempie.
A quel punto scattai in piedi. –Desmond!- ti gridai, cercando di alleviare il dolore che neppure potevo immaginare tu stessi patendo. –Desmond, chiamo un medico- disse, ma tu mi fermasti afferrandomi per il polso.
-No!- sbottasti. –è una delle condizioni al mio… rilascio. Niente medici… hanno detto così!-.
Ero nel panico, e vedere delle vene bluastre pulsare sul tuo collo mi agitava. Avevo modo di vederti così solo quando ti arrabbiavi, ma ora non eri arrabbiato. Desmond, che cosa ti hanno fatto?
Era sull’orlo tra pianto isterico e andare a caccia del telefono più vicino, ma i tuoi lamenti cessarono all’improvviso e vidi il tuo corpo tornare tranquillo e la tua presa sul mio polso allentarsi.
-Scusa, non ho idea di cosa… mi sia preso- borbottasti in maniera confusa.
Mi adagia di nuovo accanto a te. –Ti prego, lascia che chiami qualcuno almeno…- ti supplicai terribilmente persa nel mio e nel tuo dolore.
Tu scuotesti la testa prendendomi per le braccia e issandomi sopra di te. –Lascia stare… ora sto bene- mi dicesti tranquillo, e sul tuo volto comparve un sorriso sereno.
Ero a cavalcioni sul tuo basso ventre, e tu m’inchiodasti con un bacio esattamente in quella posa. La tua lingua si fece largo sfiorando la mia, le tue labbra dilaniarono la mia bocca.
Allentasti la stretta sulle braccia e facesti scorrere le tue mani fino alla maglietta che indossavo. Ne sollevasti i lembi e in breve mi spogliasti del tutto, lasciandomi solo col reggiseno bianco.
Avevo paura che ti potesse succedere di nuovo quello appena avvenuto. Cosa ti era capitato? Avresti voluto che scendessi a comprarti un moment, oppure qualcosa di più efficace o specifico? Se i signori che ti hanno scagionato non vogliono che tu ti sottoponga ad alcuna visita medica, allora sei malato di qualcosa che vogliono nascondere, pensai. E finalmente riuscii a sfilarti la felpa e la maglietta assieme.
Mi accarezzasti nostalgico le braccia nude, facendo correre le dita anche sul mio pancino, atto che mi provocò un solletico assurdo. Sussultai, e tu te n’accorsi.
Arrestasti il bacio senza che nessuno te l’avesse chiesto e prendesti a fissarmi. –Quanto tempo- sorridesti malizioso.
Io mi lanciai di nuovo su di te, avvolgendoti il collo con un abbraccio. –Otto mesi di merda- ti mormorai all’orecchio.
Mi stringesti con più vigore, percependo i miei seni poggiati sul tuo petto nudo. Ti dovevo essere mancata da morire, perché capovolgesti la situazione con un gemito.
Riprendesti a baciarmi con passione, gettando in quell’approccio tutti i tuoi ricordi delle nostre ultime notti assieme. Era un po’, dopo tutto, che non facevamo pratica. T’infilasti tra le mie gambe e mi scappò un sospiro nel sentirti di nuovo così vivo su di me.
Le tue labbra si spostarono al mio collo e andarono a divorarmi pezzo per pezzo fino a raggiungere la sfaccettatura del seno. Ma non ti fermasti, scendesti ancora cogliendo tra i tuoi baci il mio ombelico e la pelle chiara dei miei fianchi.
Io ti guardavo commossa, con gli occhi lucidi. –Desmond- sussurrai il tuo nome, e tu mi sfilasti i pantaloni in pochi secondi.
-Che c’è?- tornasti all’altezza del mio viso percorrendo la tessa strada dell’andata.
Io ero troppo preoccupata per te, non potevo lasciar correre, capisci?
I tuoi occhi mi scioglievano come un ghiacciolo al sole, e le tue dita mi accarezzavano la cosca nuda.
-Dimmi che stai bene…- ti sussurrai, e tu notasti di stupore le lacrime che mi salivano agli occhi.
Mi guardavi sperduto in chissà quale bosco dei tuoi ricordi, ripensando a chissà quale sostanza o corrente elettrica era passata da parte a parte del tuo bel corpo mentre sostavi al tuo dovere di cavia. Il bello era che non volevi accettare l’evidenza, schierandoti nel campo di coloro che ti avevano fatto del male. Mi deludevi…
-Di cosa hai paura, scusa? Non ho mica preso l’AIDS- ridesti, ma era una battuta bastarda dentro e già mi avevi fatto passare la voglia.
-No, scemo!- mi sollevai, sedendomi alla tua stessa altezza. Mi strinsi le ginocchia al petto. –Non negare che poco fa… non eri in te- ti dissi.
Tu, di fatti, non negasti. –Hai ragione, ma è uno dei… sintomi al trattamento. Vedrai, col tempo sene manifesteranno altri ma saranno temporanei e andranno a diradarsi più sto lontano da quel posto- ti allungasti verso di me, mi stringesti ancora ed io mi adagiai a te. –Non preoccuparti, non ce n’è motivo…- mormorasti soave, e la tua bocca trovò la mia nonostante io l’avessi nascosta nell’incavo del tuo collo.
Non riuscii ad avvicinare le mani al tuo corpo, perché ti sentivo e ti percepivo cambiato, così ti sfilasti da solo i pantaloni. Fu inevitabili che ti chiedesti come mai non avevo osato, ebbene eccoti la risposta: mi stavi mentendo. Sapevo che questo fatto ti avrebbe tinto dal rosso al blu, ed io non avrei apprezzato questo cambiamento. Malgrado mi stessi preparando a subirne le conseguenze, quali una possibile “pausa di riflessione”, il nuovo colore che percepivo in te era una tonalità tutta nuova di ombre chiaro scure. Una presenza lontana, come distante. Un’ombra del tuo passato che sta aspettando quieta in un angolo del tuo corpo. Desmond, prima che questo vada avanti, vorrei perlomeno avvertirti di questo, ma sono certa che tu non mi crederesti. Eppure, mi avevi promesso di parlarmi di tutto, di raccontarmi con precisione cosa ti avevano fatto e perché. Desmond, non voglio segreti con te, quindi ti supplico, mi concederò a te solo se saprai rispondere alla mia domanda… la mia forza di volontà fu minima e insufficiente.

Non ci amammo quella notte, ti ricordi? Io ero distrutta e mi accontentavo di dormirti al fianco come facevamo tutte le notti da prima che sparissi. E tu altrettanto, dicesti ridendo che era stato divertente solo levarmi di dosso i vestiti. Così mi ero adagiata tra le tue braccia che mi tenevano salda e avevo incrociato una mia con una tua gamba. Entrambi eravamo con indosso solo la biancheria, ma infondo faceva un gran caldo. L’inverno se n’era andato da poco, marzo portava la sua primavera moderata, e io non avrei mai scordato quella data per tutta la mia vita. Né il giorno della tua scomparsa né quello della tua ricomparsa. Eppure, durante il sonno dovetti allontanarmi da te diverse volte, perché ti agitavi come un forsennato. Ti sbattevi a sinistra e a destra del letto costringendomi a piccoli spazi sul bordo; spesso ti avvolgevi a me come cercando di tranquillizzarmi e per una o due ore c’era silenzio. Poi riprendevi a lamentarti nel sonno, parlavi, dicevi cose senza senso e mi parve pure di cogliere un accento arabo e riconoscere alcune parole prese dalla lingua palestinese. Poi citazioni della Bibbia e anche nomi che non ti avevo mai sentito nominare. La mia mente sana registrò ogni tuo spasmo e gemito, raccogliendo tutto in un’unica maledetta cartella chiamata col nome di “Progetto Animus”. Era colpa loro, chiunque fossero. Desmond, ammettilo! Ti hanno fatto qualcosa di orribile senza calcolarne gli effetti collaterali. Ma io voglio sapere cosa! Anche se non ho studiato in un liceo scientifico, saprò darti qualche aiuto. Io ti amo, e non voglio perderti senza combattere, anche se i brutti presentimenti compongono il mio animo pessimista.

Il sole mi colpì all’improvviso, perché eri stato tu a scansare le tende d’un tratto.
Mi voltai dall’altra parte del letto nascondendomi ai raggi dell’immenso, ma tu ti chinasti su di me e cominciasti a farmi il solletico.
-No! Fermo! Ti prego!- ridevo a crepapelle scalciando come una matta e sbraitando per la fastidiosa sensazione. La peggiore di tutte le torture!
Tu ridevi, assieme a me, sfiorandomi con violenza sotto le ascelle e nell’incavo del collo. –Sveglia, sveglia dormigliona- mi dicevi. –Sai che ore sono?- ti fermasti all’improvviso, ed io riuscii ad aprire gli occhi lentamente.
-No- confessai voltandomi a guardare la sveglia che segnava le 9.27 del mattino.
-L’ora di prepararmi la colazione, no?- ti beffasti di me baciandomi una guancia.
Stavo vivendo un sogno. Quello era il buon, vecchio e altezzoso Desmond che amavo.
-Ehi! Lasciami!- stavo per alzarmi, ma tu avevi ricominciato a solleticarmi ovunque. –Piantala! Ho capito!- quasi  ti presi a schiaffi, ma continuavo a ridere senza fermarmi.
Quando ti fermasti sul serio, ti guardai commossa andare verso il bagno e chiuderti la porta alle spalle. Ti ascoltai lasciar scorrere l’acqua della doccia e ti immaginai sotto il getto cristallino. Mi morsi un labbro per averlo solo pensato. Mi alzai, mi avvicinai alla parte di armadio che ti apparteneva e aprii uno dei tuoi cassetti. Presi la prima larga maglietta che mi capitò tra le mani e la indossai come mi piaceva fare il sabato mattina.
Avviandomi in cucina, sorpresi Finger sul ripiano nel centro della stanza che muoveva la coda nervoso. Lanciai un’occhiata alla ciotola e la beccai vuota di croccantini. Sbuffai, mi chinai a prendere nello scaffale sotto i fornelli la busta con la sua colazione, e la versai nella ciotola. Finger si avventò con voracità e fece pulizia in pochi minuti.
Accesi i fornelli, vi poggiai la padella cospargendola di burro e presi dal frigo due uova. Le spaccai nella pentola aggiungendo del latte e del sale. Lasciando formarsi la prima cottura, volai al tostapane e vi infilai quattro fette di pane in cassetta. Bruciacchiato, pensai, come piaceva ad entrambi.
Tornai alle uova e, dopo averle sbattute per bene, apparecchiai due posti al tavolo. Giravo scalza per la casa ma non sentivo per niente freddo, anzi, percepivo ancora il tuo calore come una specie di stufa portatile.
Ed eccoti lì, magnifico come ti ricordavo. Ti aggirasti per il salone guardandoti attorno con indosso solo quel bianco e candido asciugamano, stretto a vita bassa sui fianchi. I capelli corti tuoi erano ancora bagnati, e sulla tua schiena scolpita come nel marmo viaggiavano alcune restanti goccioline d’acqua. Ti avvicinasti al televisore e ti chinasti poco più in basso, dove era tenuta la play. –Non ci credo- dicesti. –Non l’hai toccata per tutto questo tempo- sembravi deluso.
Io sorrisi, perché mi era parsa una battuta divertente. –Non aveva senso giocare senza di te- ti confessai e tu mi lanciasti un’occhiata dolce, commossa che io accolsi con soddisfazione.
-Mi spiace che tu sia stata tanto male- mi venisti incontro, stringendomi a te mentre versavo le uova nei piatti. –Non riesco a credere di averti causato tanto dolore-.
Quelle parole me ne causarono altro. –Non darti pena, piuttosto… stavo pensando che dovremmo avvertire qualcuno dei nostri amici, non credi?- ti osservai sederti al tavolo e gettarti sulla colazione.
-No- rispondesti scherzoso. –Voglio passare del tempo con te, fin quando non avrò rimediato a questi otto mesi di merda, come li chiamiamo noi- mi sorridesti.
Mi sedetti accanto a te e consumammo il pasto in silenzio. Una quiete carica di domande per me e di dolori per te, mio Desmond, perché ti sentivo gemere impercettibilmente e masticare nervosamente il toast.
-Non lo trovo affatto giusto!- sbottai d’un tratto, e tu sobbalzasti.
-Giògiò…- mormorasti il mio soprannome perché quella mia reazione sembrava averti turbato. Mi guardavi spaventato. –Giorgia, cosa…- le tue parole ti morirono in gola e i tuoi occhi presero un colore differente, sfumandosi appena. Ma che dico, era la tua pupilla che andava ad ingrandirsi.
-Basta, Desmond. Questo pomeriggio chiamo Nik e Oliver e usciamo insieme. Anche William era in pensiero per te. Hanno atteso anche loro otto mesi per riavere indietro il loro barista preferito!- continuai.
-Chi sei?- fece una voce.
-Non voglio mettere in dubbio il fatto che… anche io vorrei tanto stare con te… un po’… di tempo- mi bloccai dov’ero, terrorizzata.
Guardai verso di te, ma seduto su quella sedia non c’eri tu, Desmond. Cioè, sì… eri tu, con il tuo accappatoio, il tuo volto. Ma poteva quella voce provenire da te?
-Dove sono?- le tue labbra si mossero ancora, mentre i tuoi occhi color nocciola mi fissavano senza tradire emozioni. Poi ti toccasti il petto nudo con un’espressione in viso che non ti apparteneva, amore mio. Quella voce così cupa, austera aveva parlato di nuovo!
Scattai in piedi, e la sedia cadde a terra rumorosamente.
Il tuo corpo mi imitò, allontanandosi dal tavolo. –Dove sono?!- ripeté con più vigore la voce che veniva dalla tua bocca.
Ero sul punto di svenire, ma il mio volto tornò sereno in breve tempo. –Avanti, lo so che è uno scherzo, scemo…- borbottai chinandomi a raccogliere la sedia.
Nel rialzarla da terra, lo schienale di questa mi sfuggì nuovamente di mano.
Perché mi avevi afferrata per un braccio e mi avevi voltata di spalle facendomi male? Perché mi puntavi il coltello da tavola alla gola? Perché mi avevi spinta contro la parete e mi minacciavi con frasi del tipo: -Dimmi dove mi trovo, e ti lascerò vivere!-. Ma Desmond, quella non era il timbro della tua voce. L’uomo mi stringeva al muro e minacciava di tagliarmi la gola con un pezzo del set di coltelli di IKEA, impugnandolo con una certa maestria che mi lasciò sorpresa oltre che tremante dalla paura.
-No! Desmond, fermati! Che stai facendo?!- provai a sciogliermi dalla sua presa, ma il tuo corpo era rigido e mi soffiava sul collo il fiatone.
-Di cosa stai parlando?!- sbottò la voce.
Eri impazzito, poteva essere l’unica soluzione. Avevi dato di matto, un blocco alla memoria, un cancro… amore, cosa ti avevano fatto?…
Scoppiai in lacrime. –Desmond…- piansi.
Sentii la presa sulla mia schiena affievolirsi e la spinta della lama sulla mia gola allentarsi. In fine, il tonfo di un corpo senza vita e mi voltai.
Eri steso a terra, precipitato nella perdita di tutti i sensi.
Ti poggiai due dita alla gola e al polso, ti sistemai al meglio e portai l’orecchio sul tuo petto nudo. Eri vivo, Desmond, ma perché tutto quello… cosa ti era successo?


___________________________________

Apro piccola parentesi: (Desmond è stordito, certo, ma non ancora totalmente scambiato con la mente del suo antenato!) ^__^ tutto qui.

Apro seconda piccola parentesi: (il primo manifesto della coscienza di Altair nel corpo di Desmond, il quale però ha perso fortunatamente i sensi, o Giògiò avrebbe fatto una brutta fine)
In fine, ringraziamento speciale ai seguenti utenti:

Saphyra87
Goku94
Lilyina_93.


RECENSITE!


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Capitolo 3
*** Preludio ***


Preludio








Mi tremavano le mani.
Avevo i gomiti poggiati sulle ginocchia piegate a novanta gradi, perché ero seduta su una di quelle basse seggiole di plastica che sono attaccate le une alle altre a file di cinque sei. Fissavo le mie dita mosse da spasmi continui e stringevo i pugni tentando di riprendermi. Non sembrava funzionare, poiché ogni qual volta sentivo le unghie affondare nella carne dei miei palmi chiari, perdevo le speranze che a quella successiva sarebbe cambiato qualcosa. Sembravo un’indemoniata comportandomi così, seduta nella sala d’attesa dell’ospedale nel quale ti avevano portato.
Sai, Desmond, erano più di un paio d’ore che i medici ti tenevano lontano da me. Forse si trattava di una forma virale? Allora sì, potevo considerarmi contagiata: sul mio palmo destro si aprì un taglietto appena visibile e il lembo di pelle era rimasto sotto la mia unghia.
Dovevo calmarmi.
Quante volte avevo guardato quell’orologio? Forse un centinaio negli ultimi cinque minuti, e mancavano cinque minuti alle quattro del pomeriggio. Una nuova lunga giornata che mi ricordava le serate trascorse a rimpiangere la tua presenza assente. Perché te ne stavi andando proprio ora che eri tornato? Dio è ingiusto, l’avevo capito molto tempo prima di rinnegare i miei genitori nel volermi battezzare all’età di otto anni. Ero una ragazzina sveglia in quei primi anni della mia vita, moderavo le mie scelte, anche le risposte al compito di matematica, fidandomi sempre e solo di me stessa. Quest’istinto bastardo mi aveva trascinata nella sala d’attesa di un ospedale.
C’era una porta socchiusa che dava sul corridoio ampio che collegava le diverse stanze del piano. Le infermiere apparivano e scomparivano e io speravo tanto che una di loro si avvicinasse a me e mi dicesse che potevo finalmente vederti. Solo… vederti… vivo, magari… ma vederti.
Che cosa avevo pensato in quelle ultime ore al di fuori di te e tutto ciò che ti riguardasse? Nulla, ecco. Stavo architettando un modo per scoprire chi ti aveva fatto tutto quello e come. Avevo tentato di distrarmi leggendo, scrivendo, disegnando, parlando al telefono con mia madre. Le avevo nascosto tutto perché tu mi avevi chiesto con gli occhi di passare del tempo solo con me e, conoscendo mia madre, lei avrebbe chiamato mio fratello che avrebbe avvertito Nicolas prima di William, e a catena la voce sarebbe arrivata persino a Marty e Lily.
Desmond, se puoi sentirmi e ti trovi sotto i ferri della sala operatoria, svegliati! Non m’importa se sei sotto anestesia e ancora con gli occhi chiusi da quando crollasti nel salone di casa, ti prego… otto mesi sono un conto, tutta la vita un altro…
Mi presi il volto tra le mani, singhiozzavo, ma avevo finito le lacrime tempo addietro.
-Signorina Forks?-.
Quale voce melodiosa?!
Balzai in piedi e vidi un uomo che mi guardava dall’ingresso della saletta. Il cartellino sul petto, il camice bianco e una cartellina in mano.
-Sì- balbettai asciugandomi gli occhi.
-Venga- mi disse e lo seguii, abbandonando la mia roba lì com’era. Cellulare in bella vista sul tavolino d’attesa, accanto alle riviste, e le chiavi della macchina lì vicino.
Mi condusse in una delle stanze al piano superiore. Insomma ti avevano spostato senza chiedermi il permesso, senza dirmi nulla.
Non me ne curai, perché il tuo dottore mi aprì la porta ed entrammo silenziosi nella camera.
Ti stavi infilando la felpa quando i miei occhi salutarono i tuoi.
-Ciao- mi dicesti finendo di vestirti. Sembravi turbato, ma allo stesso tempo felice di vedermi.
Ed io altrettanto di cogliere un nuovo sorriso sul tuo volto. Eri seduto sul letto con indosso già i pantaloni che ti avevo portato da casa, sperando tanto di vederti in quello stato: sano.
Mi ero appena avvicinata quando mi afferrasti per i fianchi e mi stringesti a te.
-Perché continui a mentirmi?- domandai in un sussurro, e come risposta ottenni da te solo un gran sospiro, mentre le tue braccia rafforzavano la presa attorno al mio corpo.
-Ora no…- mormorasti, e il medico alle nostre spalle si schiarì la gola.
-Che cos’ho, doc?- alzasti un sopracciglio allontanandomi da te.
L’uomo lanciò un’occhiata alla cartella medica che aveva in mano, poi afferrò una penna e cominciò a scriverci sopra. –Tendo a sottolineare che il suo non è un caso anomalo, ma alquanto raro, signor Miles- disse.
-Si spieghi meglio- digrignai stringendo la tua nella mia mano.
Il medico si avvicinò e poggiò la cartella sul comodino accanto al letto. –Guardate coi vostri occhi-.
Io afferrai i fogli e li mostrai anche a te, che parevi sempre più confuso.
-Abbiamo fermato il signor Miles in ospedale così allungo solo perché abbiamo dovuto ripetere diverse volte gli esami. Il diagramma che potete vedere su quel referto, indica con precisione un caso raro di sdoppiamento di personalità-.
-Cosa?- chiesi io, e tu, dietro di me, curvasti le spalle rassegnato.
Il dottore incrociò le braccia al petto. –L’esami delle funzioni celebrali cui abbiamo sottoposto il pazienta prevedevano due fasi contemporanee. La prima, l’analisi completa delle funzioni basilari, come quella cardiaca, respiratoria ecc. La seconda, il confronto più che altro mnemonico delle funzioni. Insolitamente, abbiamo riconosciuto, in questa seconda fase, due differenti attività del cervello. Per dirla in parole povere, il signor Miles è quindi affetto da sdoppiamento di personalità. Ma più sinceramente, il suo caso è estraneo e particolare a tutti gli altri. Come quel diagramma mostra chiaramente, durante l’analisi abbiamo riscontrato non un’attività sincronizzata e successiva, ma contemporanea. Se Guarda con attenzione, vede chiaramente che due diagrammi su due sono in constante movimento, l’uno perfettamente allineato all’altro…- l’uomo le indicò i due disegni sul referto.
C’erano due linee chiare e sottili parallele. Entrambe erano zigzagate, smosse e regolari. Ma una più dell’altra. Lessi con attenzione che il secondo diagramma era più calmo, cauto del primo. Sopra quest’ultimo scarabocchio di macchina era appuntato a penna: referto secondo.
Sbiancai.
Il dottore si riprese la cartella medica e indietreggiò. –Il primo riscontro appartiene alla personalità standar del paziente, ovvero l’uomo che lei ha di fronte, signorina Forks. Ma il secondo referto non abbiamo avuto modo di confrontarlo a nulla. Quello che più ci mette in allarme, però, è il fatto che inaspettatamente la seconda personalità ha il predominio sulla prima e viceversa. Questo sintomo inverso può verificarsi all’una di notte come all’ora di pranzo di domani. Non abbiamo modo di stabilire con chiarezza quando il signor Miles verrà di nuovo colpito da questo affetto, ma vorremmo tenerlo qui in ospedale per analizzare i suoi comportamenti durante questa fase. Ovviamente…-.
-No- sbottasti tu ad un tratto.
Io mi voltai a guardarti, stupita di quella piccola parolina tanto antipatica e inaspettata. –Perché? Voglio capire cosa ti sta succedendo e perché! Il dottore mi ha spiegato cos’hai e io voglio che tu resti qui- ti dissi, ma tu non mi ascoltasti.
Scesi dal letto e ti avviasti all’uscita della stanza. –Sto bene- dicesti non curandoti dello sguardo attonito del medico lì presente. –non ho bisogno di nessun altra analisi, avanti, andiamo…- uscisti e ti seguii con gli occhi fin quando non raggiungesti l’ascensore.
-Non possiamo certo trattenerlo qui con la forza- proferì il medico raggiungendomi fuori dalla camera. –Ma prenda questo- mi porse un foglio. –Gli ho prescritto alcuni calmanti specifici, spero solo che lei riesca a nasconderli nei pasti se crede di stare bene- e poi mi lasciò.
Ripiegai la ricetta nella tasca dei pantaloni e ti raggiunsi.
Eri con le braccia stese lungo i fianchi che fissavi come imbambolato le porte dell’ascensore.
-Desmond- ti chiamai, ma tu neppure ti girasti.
-Te l’ho detto, sto bene. Devi solo lasciarmi un po’ di tempo, e poi…- abbassasti il tono e i tuoi occhi incontrarono i miei per pochi secondi. –E poi non possiamo parlarne qui- sbottasti cupo.
Mi stavi uccidendo con quelle parole, sentivo che da un momento all’altro mi sarei accasciata a terra. Eravamo in un ospedale, nessuno avrebbe tardato a salvarmi la vita in tempo. Dio! Desmond, se ne avessi avuto la forza ti avrei afferrato per la felpa e ti avrei gridato in faccia che non sopportavo quando tra di noi c’erano segreti. Soprattutto se la posta in gioco eri tu, che sottovalutavi il problema.
Trattenei la mia collera fin quando non fummo di nuovo a casa, anche se io avevo insistito per portarti a mangiare qualcosa.
Entrammo in salotto e ti piazzasti sul divano portandoti le mani al viso, massaggiandoti le tempie, cercando di mantenere in mano la situazione assurda che stava coinvolgendo te prima di chiunque altro.
Mi sedetti al tuo fianco, lentamente, e mi feci più vicina a te.
-Comunque sei un vero imbecille- sbottai.
Tu mi lanciasti un’occhiata stupita. –Ah, davvero?- ridesti.
Io annuii. –Sì, sì. Ho trovato il termine giusto. Imbecille, sento che sarei capace di ripetertelo per tutto il resto della giornata. Posso sapere se hai per caso qualcosa contro i medici, gli ospedali o i medicinali stessi? Insomma, la gente che lavorava lì sapeva come prendere la cosa per il verso giusto, ma tu hai fatto: “no, lasciatemi stare, brutti bastardi!”- risi.
La allegria ti mise gioia. –Più o meno il senso era quello, ma ne ho abbastanza di gente che si fa chiamare “dottore”…- borbottasti.
-Perché? Centra qualcosa con il Progetto Animus?-.
Sospirasti. –Anche troppo- mi inchiodasti con lo sguardo, che vagava dallo sconforto al timore.
-Voglio sapere- le mie parole spezzarono quel silenzio assurdo. –Tutto- aggiunsi.
-Io… capisci che non posso? Già è un miracolo che mi abbiano lasciato andare! Non capisci?! Quelli mi ammazzano se i fatti arrivano alla stampa o solo circolano fuori da questa casa!- ruggisti indignato.
-Allora a mio rischio e pericolo- dissi seriosa.
-Già, perché probabilmente ammazzerebbero anche te. Giògiò, questa è gente che a breve avrà in mano il mondo, te capì?- domandasti.
-Non sei l’unico che ha paura, Desmond, ma come ti ho detto, a mio rischio e pericolo. Se mi dovesse scappare di bocca la verità a qualcuno di estraneo a questa casa, saprò accettare il fatto di essere stata una cogliona e di averti perso per sempre! Ma ti prego, tu devi… devi dirmi che cosa ti sta succedendo…- mormorai vinta dalla mia stessa avidità di sapere. Perché ero certa che non sapere mi avrebbe causato meno dolore, ma avrebbe aggravato il tuo. Volevo condividere i tuoi tormenti, Desmond, e aiutarti in questo.
Ti vidi rilassare i muscoli del collo e quelli delle braccia, una delle quali mi cinse le spalle.
Appoggiai la guancia al tuo petto, ascoltando il ritmo del tuo cuore così calmo.
-Otto mesi fa venni strappato dalla mia vita e condotto in un luogo dove non intendo certo tornare. Si trattava di un’azienda farmaceutica di nome Abstergo. Al suo interno non ho idea di cosa si lavorasse di preciso, all’inizio. Ero chiamato il soggetto 17 perché prima di me l’Abstergo aveva sequestrato in totale silenzio già altri. Il progetto Animus era destinato al ritrovo di un oggetto di nome Frutto dell’Eden, il Tesoro dei Templari, per riassumere parecchi sottintesi. Gli uomini e le donne che l’Abstergo rapiva non erano certo scelte a caso. Devi sapere che la casa farmaceutica aveva brevettato una macchina chiamata per l’appunto Animus, la quale trovava nella mente del soggetto, del paziente, i ricordi risalenti al suo più lontano e scelto antenato. La mia così detta memoria genetica, era quello che l’Abstergo cercava. I miei ricordi erano quelli di un membro della famigerata setta degli assassini che adoperava in Terra Santa durante la Terza Crociata. L’Animus aveva un processo lento e complicato che influiva parecchio sui comportamenti sia miei che del mio antenato. Quest’ultimo era possibile controllarlo attraverso dei comandi, ecco, simili a quelli per la play- ridesti, ma io mi stavo perdendo il senso delle tue parole.
Proseguisti. –Quando il mio antenato Altair trovò quello che l’Abstergo cercava, ovvero il Frutto dell’Eden, ebbe fine il mio lavoro. Non servivo più, eppure fu Lucy ad insistere che restassi altri mesi lì perché quando l’Abstergo parlava di “rilasciare” in verità intendeva “uccidere” il soggetto. Così, un giorno di dicembre, Lucy volle barattare la mia libertà in cambio della sua vita, perché come ti ho già accennato, ella era un’infiltrata, anzi, ora che lo sai, è meglio definirla un’assassina. Ed oggi eccomi qui, con il voto al silenzio e questi effetti collaterali al trattamento- tacesti, ed io con te non sapevo che altro dire.
Mi allontanai da te, mi alzai e tu mi guardati andare verso la cucina. Mi appoggiai al ripiano, perché mi mancava l’aria. –Ed è colpa… dell’Animus se… se ti stai… sdoppiando?!- sbottai trattenendo le lacrime.
Tu mi raggiungesti e mi abbracciasti senza avviso.
Mi avvinghiai a te piantando le unghie nella tua felpa, percossa dalla rabbia e dal terrore.
-Il giorno in cui l’azienda mi lasciò andare, Warren Vidic, il dottore che si occupava del progetto ed era sempre presente assieme a Lucy, mi avvertì di questi effetti che sarebbero potuti peggiorare o migliorare. Egli mi disse che se fossi rimasto nell’Abstergo loro avrebbero potuto tenerlo sotto controllo; ma io decisi di tornare lo stesso, a mio rischio e pericolo…- mormorasti al mio orecchio.
-Tenerlo… sotto controllo?- domandai alzando il viso alla tua altezza, guardando i tuoi occhi neri.
Mi accarezzasti il collo dolcemente. –Quando il medico parlò di doppia personalità capii al volo di cosa si trattava…- mi strinse con più forza. –Sai l’assassino di cui ti parlavo, il mio antenato?-.
Annuii poco convinta, singhiozzando.
-Giògiò, è lui… non so come sia possibile, ma nei momenti in cui mi vedi diverso, quando assumo quei comportamenti che posso solo immaginare quali siano, in quei momenti la mia coscienza fa a cambio con quella del mio antenato. Giògiò, quello che hai di fronte nel mio corpo è un assassino proveniente dal XII secolo… è assurdo, lo so, ma Lucy non ha avuto tempo di darmi altre spiegazioni e quelli dell’Abstergo volevano solo sbarazzarsi al più presto di me, che non servivo più ai loro scopi di dominio del mondo-.
-Non posso crederci…- balbettai scansandomi. –hai ragione, è assurdo! La macchina per tornare indietro nel tempo non esiste! È assurdo! Non ci credo!- diedi di matto, più o meno come aveva fatto Altair nel tuo corpo quella mattina.
Da una parte, però, ci credevo, perché l’uomo era capace di arrivare dovunque. Come un tempo aveva inventato gli aerei, un giorno avrebbe scoperto il modo per viaggiare nello spazio e nel tempo di ciascun individuo. Insomma, ero una di quelle persone che credeva agli UFO e a Mago Merlino, quindi perché no?
-Devi crederci, perché non ho altro da dirti se non… mi dispiace- le tue braccia tornarono a stringermi, e mi lascia avvolgere dal tuo calore.
-Spiegami perché è colpa tua? Non sono mica arrabbiata con te…- sorrisi dolce.
Mi baciasti inaspettatamente, lasciandomi senza fiato. Restai ancora più sorpresa quando mi sollevasti e mi feci sedere sul tavolo della cucina, mentre le tue labbra divoravano le mie.
Ti staccasti da me solo un istante. –Mi spiace, perché ora dovremo rimediare agli otto mesi di astinenza…- mormorasti soave.
Soffocai una risata. –Già, è stata dura…-.
I nostri baci ripresero, più agitati e colmi dell’amore che avevamo accumulato entrambi in quel lungo lasso di tempo.
Alzai una gamba e ti cinsi il fianco avvicinandoti a me. Come risposta la tua bocca si spostò al mio collo rigido.
Eh, non ero più abituata, pensai.
Adesso che ero certa di sapere tutto, come avrei affrontato il futuro? Se in quello stesso istante il tuo antenato avesse deciso di emergere, come avrei reagito io, e come un assassino del XII secolo si sarebbe comportato? Be’, contando che la prima volta che avevo visto i tuoi occhi avvalersi della luce di quelli di Altair, riconoscendoli estranei, la situazione non era andata molto bene… insomma, mi aveva puntato il coltello da tavolo alla gola, minacciando di uccidermi.
-Ma aspetta…- disse e tu ti scansasti.
-Cosa?- mi guardasti torvo, insoddisfatto.
-Se il tuo antenato è qui…- e ti sfiorai il petto con le mani. –Allora tu sei… lì?- alzai un sopracciglio.
Tu scoppiasti in una risata fragorosa, e vederti così allegro mi trasmise quella gioia. –Sì, anche se l’ultima volta che è successo è durato troppo poco e non mi sono neppure reso conto di dove mi trovavo- dicesti tranquillo.
-Ed io… cosa posso fare per…- mi bloccasti le parole in gola perché avevi ripreso a mangiarmi la bocca.
-Nulla, non devi fare nulla…- sussurrasti cominciando a spogliarmi.


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Capitolo 4
*** L'assassino ***


L’assassino








Allungai un braccio e ti accarezzai i capelli.
Stavi dormendo col sorriso stampato sul volto tranquillo. Ed io ti ero accanto, avvinghiata a te che eri così caldo. La coperta mi cadeva sulle gambe nude e ci copriva entrambi dai fianchi in giù. Il buio della notte che andava ad affievolirsi, mentre tutto assumeva i suoi chiari colori.
L’alba sorgeva su New York in un muto silenzio, sbattendo i suoi raggi sui vetri della nostra stanza. Attraversava le tende e rischiarava il pavimento e le pareti. Poi si posava sui nostri corpi l’uno attaccato all’altro e dava alla tua pelle più scura della mia una patina bronzea irresistibile.
Se ti fossi svegliato ti avrei domandato se volevi farlo di nuovo, ma la tua risposta, in quel momento, poteva avere mille sfumature…
Mi liberai della tua stretta sulla mia vita e mi avvicinai al bordo del letto. Una volta coi piedi a terra, andai verso l’armadio e afferrai i primi vestiti che mi capitarono.
Tu potevi pure essere abituato al mondo virtuale dell’Animus e a tollerarlo anche per più di 12 ore, ma io stavo morendo di fame e il mio pancino brontolava.
Così mi diressi in cucina, accostando la porta della stanza.
Camminai scalza sul pavimento freddo della cucina dimenandomi nel trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Avrei potuto direttamente preparare la colazione, o il pranzo… e valutai la cosa l’azione più intelligente.
Mi commossi… era passato così tanto tempo che non mi ricordavo neppure cosa era nostra abitudine fare la domenica. Chissà se la tua era migliore della mia memoria.
Misi l’acqua a bollire sul fuoco e apparecchiai disordinatamente per la colazione, versai i croccantini nella ciotola di Finger.
L’acqua ancora bolliva sul fuoco quando mi avvicinai all’ingresso di casa e presi il cellulare che avevo lasciato lì la sera prima.
Composi il numero che sapevo a memoria e la chiamai.
-Giògiò, non chiami da una settimana! Che ti è successo? Sai che cominciavo a preoccuparmi…- borbottò Marty distrattamente dall’altro capo della cornetta.
-Mi spiace, ma ho avuto delle cose… da fare- lanciai un’occhiata alla porta della nostra stanza socchiusa, e sul mio viso stanco comparve un sorriso luminoso.
-Però… mi metti curiosità. Quindi ci sono novità? Insomma, di solito chiami per qualcosa di totalmente inutile, lo so, ma dai! Voglio sapere come stai. Tutto bene?- mi domandò.
Io mi schiarii la voce tornando ai fornelli. Spensi i fuochi e afferrai l’acqua calda con una presina di pezza. La rovesciai in due tazze tenendo il cellulare appoggiato su una spalle. –veramente- mormorai. –ci sono grandi novità-. Mi avevi chiesto di non dirlo a nessuno, Desmond, ma i nostri più fidati amici potevano sapere che eri tornato. Avrei detto loro una bugia per tenere lontano la questione macchina del tempo e tutto il resto.
-Sto aspettando- cantilenò la ragazza.
Sorrisi. –Desmond è tornato-.
Non seppi se Marty aveva attaccato oppure stava semplicemente prendendosi tempo per scandire nella sua testolina di persona assurda le mie parole. –RAGAZZA! QUESTA POI!- disse ad un tratto, e dovetti allontanare il telefono dall’orecchio.
-Marty…- provai a calmarla poggiando il bollitore sui fornelli spenti.
-Ti sembra il modo di dirmelo!? Così, come fosse nulla?! Cavoletti…- parve prendere un respiro profondo. –Quando, ieri? E dimmi che l’avete fatto per inaugurare il tutto! Dimmelo!-.
Risi, passando da una tazza all’altra le busti di the. –Sì… è tornato… ieri sera- balbettai commossa.
Percepii il sorisetto malizioso della mia amica anche attraverso la rete nazionale. –Ti ha detto perché se n’è andato?-.
-No- sbottai scherzosa afferrando dei biscotti dalla dispensa. –La sua bocca era piuttosto occupata e anche la mia-.
-Mi stai facendo impazzire! Dio, quindi torni a vivere, eh?-.
-Sì- mi sedetti poggiando un gomito sul tavolo. Osservai i fumi caldi dissolversi nell’aria sopra le tazze e ascoltai come la mia amica mi riempiva la testa della sua voce.
-Ok, a questo punto pretendo che lo sappiano anche gli altri. Anzi, perché non gli organizziamo una bella festicciola da Nik? Casa sua è grande. Oppure al pub, ah ecco, ti volevo dire che se il tuo Desmonduccio non si fa vedere, William gli ruba il posto giù in centro. Te capì? Cristo, otto mesi sono una vita, ragazza!-.
-Lo so…- ed io rischiavo di perderlo di nuovo.
-Allora, vada per la festa da Nik?!- domandò entusiasta.
-Non so … non so se è una buona idea- mi alzai e guardai fuori dalle vetrate.
-Come vuoi. Quindi volete stare un po’ da soli, eh??? Davvero mi fai così stupida? Davvero, non pensavo di sembrarlo… vabbé, io filo. Oggi alzataccia per l’Università- disse.
-Fammi sapere, ciao- mormorai e terminai la conversazione.
Lasciai il cellulare sul tavolo e misi le due tazze di the su un vassoio assieme ai biscotti. Preparai una spremuta d’arancia, un toast e della frutta tagliata a pezzi. Quanto mi piaceva coccolarti in quel modo, anche se nelle coppie normali sarebbe dovuto essere il contrario… vabbé.
Presi il tutto e m’incamminai verso la camera.
Sobbalzai: la porta era spalancata.
Quando mi avvicinai all’uscio e mi affacciai all’interno, il mio cuore ebbe un nuovo gemito. Eri scomparso, le coperte erano scansate tutte da un lato e le federe stropicciate. I cuscini rovesciati a terra. L’unica parte del letto che sembrava mancare all’appello era il copriletto.
Il vassoio mi cadde di mano, e le tazze rovesciarono il loro contenuto sul pavimento della stanza.
Mi sentii mancare l’aria quando il corpo alle mie spalle mi afferrò per la gola e, in un lasso di secondo, mi costrinse con le spalle alla parete del corridoio.
I tuoi occhi vuoti mi fissavano, il tuo pugno chiuso era alzato a minacciarmi e dal tessuto del copriletto che ti eri gettato addosso con disordine spiccava il tuo braccio che riconobbi più muscoloso del solito. Il tuo volto era sconvolto e spaurito, ma allo stesso tempo sapeva mettermi paura. L’altra tua mano mi teneva per la gola, e strine con le mie quel braccio possente che mi teneva sollevata da terra.
Aprivo e chiudevo la bocca senza riuscire a proferire parola, così fu Altair a parlare.
-Dove sono?…- domandò in un sibilo. –è un sogno?!- sbottò con più convinzione.
Desmond, te n’eri andato senza avvertire ancora una volta e al tuo posto era atterrato nella mia vita un uomo che tentava di ammazzarmi dal nostro ultimo incontro.
-Che cosa ci faccio qui? Dimmi come me ne vado! Dimmelo! - gridò l’assassino.
-Ti… prego… la…. Lascia… lasciami… io… Altair!… Fermati!- la vista mi si annebbiò, ma i miei occhi incrociarono quelli dell’uomo, manifestando tutta la loro innocenza.
Altair allentò la presa e i miei piedi toccarono il pavimento del corridoio.
Ero sul punto di crollare al suolo, quando da offensiva, la sua stretta divenne di sostegno. Mi appoggiai a lui che mi guardava in un modo con cui si guarda un film horror.
-Come sai il mio nome?- sussurrò lui facendomi inginocchiare.
Mi passai le mani sul collo, che mi pulsava dolorosamente. Avvertivo la forza mancarmi nelle vene del cervello, perché realizzai in minima parte. –Tu…- balbettai. –potresti… potresti smetterla di cercare di uccidermi… per favore…- tentai di risollevarmi e, quando ci riuscii, l’assassino indietreggiò.
Sì, avevo visto bene: si era coperto una spalla e dai fianchi in giù col solo utilizzo della stoffa del copri letto. Notai subito che non solo la sua voce, e la sua mente medievale avevano sostituito la tua, ma Altair si era trascinato dal suo tempo anche alcuni dettagli del suo corpo. Quali i muscoli da balestrato e le diverse cicatrici che gli attraversavano la pelle ramata.
Si fece più distante da me. –Sto sognando- mormorò.
-No, no!- feci andandogli incontro –non stai sognando, tu…-  ma l’uomo si allontanò ulteriormente, sfociando nel salone luminoso di casa.
Lo vidi guardarsi attorno mentre lentamente sbiancava e le mani cominciavano a tremargli, constatando che fosse tutto troppo reale e chiaro per assumere quel contorno sfocato che avevano i sogni.
I suoi occhi sperduti, che saltavano da un mobile all’altro della camera, mi parvero quelli di un cucciolo prima nascosto in uno scatolone e poi liberato in uno sgabuzzino.
Desmond, perché non mi avevi avvertito su come comportarmi se fosse successo?
-Chi siete voi?- chiese ad un tratto, moderando lo stupore. –Se sto sognando, voglio sapere con chi ho a che fare, dato che non vi ho mai incontrata…-.
Arrossii, perché ora gli occhi dell’assassino si spostavano su di me, analizzando il mio buffo modo di vestirmi. Indossavo un paio di jeans e una camicetta bianca, manco a dire un giubbetto di pelle e un paio di scarpe firmate… insomma, mi feci una vaga idea a cosa potesse essere abituato un uomo del XII secolo, ma dovette comunque trovare assurdo quello che indossavo.
-Per tutti i lumi, vuoi rispondere ad almeno una delle mie domande?!-.
Sobbalzai. –Scusa, ma stento anche io a crederci… è… complicato…- dentro di me gridai il tuo nome, perché forse tu avresti potuto avere un’intesa migliore col tuo antenato. Non volevo fare il lavoro sporco… avrei dovuto dire a quell’uomo che era uscito dal suo tempo e atterrato nel futuro? Ne sarei stata capace, dato che prima di convincere Altair, dovevo esserne sicura io? Ed io non ne ero sicura… ero io quella che credeva di essere entrata in un orribile incubo, uno di quelli che non hanno senso né all’inizio né alla fine, dai quali non puoi svegliarti e non hai neppure la forza per provare a farlo.
Il ragazzo riprese a guardarsi attorno, avvicinandosi alle finestre.
-Oh, be’…- come potevo dirgli che si trovava in America?! Ai suoi tempi si conosceva a mala pena l’India… -Questo è… è il… tu sei… nel… ecco… nel, insomma…-.
-Nel futuro?- domandò voltandosi.
Mi si rizzarono i capelli. –Come fai a saperlo?!- curvai le spalle.
Lui non si curò della mia domanda e seguì il profilo delle tende, scansandone un lembo lentamente. Forse la luce dell’esterno gli fece male agli occhi, perché l’assassino indietreggiò tornando dov’era.
-Tutto bene?- domandai, ma che domanda stupida. Era ovvio che non stava affatto bene!
Ero terrorizzata, io più di lui. Non riuscivo a contenere la mia follia, perché ad ogni suo movimento, ogni suo passo sul tappeto di casa nostra, mi sentivo svenire, realizzando che doveva sempre succedere tutto a me!
-Che domanda stupida…- mi disse quasi sorridendo.
Aveva sorriso! Aveva sorriso!
Altair camminò verso la cucina ed io gli andai dietro tenendomi alla giusta distanza di sicurezza.
-Sì, sei nel futuro- balbettai osservandolo.
L’uomo passò la mano sul tavolo della cucina e anche sul ripiano. Si fermò accanto al tostapane e la sua espressione si fece davvero assurda.
-È questo il futuro?- ripeté più per se stesso che a me. –tanti oggetti di metallo- indicò il tostapane. –e vestiti assurdi?- indicò me.
-Senti, l’unico vestito in un modo assurdo qui sei tu!- gli gridai contro, e quello sarebbe stato il nostro primo litigio, me lo sentivo. Le situazioni assurde cominciavano con azioni assurde. Quale miglior modo per aggravare le cose se non cominciare a rinfacciargli quanto la civiltà del futuro fosse migliore di quella del passato? Sapevo che in molti testi medievali il “futuro” sarebbe stato interrotto dall’anno dell’apocalisse, quindi poteva Altair stupirsi che la razza umana fosse ancora viva?
Lui s’incupì visibilmente. –In che anno sono finito?-.
-Benvenuto a New York! Anno 2013 e splende alto il sole!- imitai una di quelle radio sveglie che fanno venire i cinque minuti già la mattina, con tono arrogante.
-Se sono un peso per te, allora dimmi come faccio ad andarmene. Ci leviamo il pensiero tutti e due…- proruppe nervoso.
-È questo il problema…- piagnucolai. –non ho idea di come aiutarti!- alla fine non riuscii a contenermi e dovetti voltarmi per nascondergli il pianto. –scusami… io… non ce la faccio- mi allontanai sparendo dietro l’angolo del corridoio. Mi rannicchiai in un angolo dell’ingresso, accanto al portaombrelli e alla porta. Le ginocchi al petto e gli occhi colmi di lacrime.
Non solo non mi sentivo abbastanza emotivamente forte per reggere tutte quelle assurdità, ma nella mia mente balzavano continue immagini di te, il mio ragazzo, che avresti dovuto cavartela col sangue fino al collo. Desmond, se il tuo antenato era qui, tu dovevi per forza essere lì, tra la guerra, tra le lance e gli scudi. Tra le frecce e le balestre…
Ti pregai di tornare il prima possibile, invocai Dio affinché quella notte non fosse stata l’ultima, poiché lo scambio tra di voi non era mai stato così lungo! Mai così durevole! Volevo poterti vedere di nuovo, avrei potuto sopportare i vostri mutamenti che speravo tanto si sarebbe diradati nel tempo, come mi dicesti tu una volta.
Altair mi raggiunse con pochi passi. Si chinò al mio fianco e mi porse una mano. –Quello in lacrime dovrei essere io, non credete?-.
Afferrai la sua mano e mi aiutò a tirarmi su.
-Qual è il vostro nome, visto che voi sembrate conoscere tanto bene il mio e al più presto vorrò intendere delle spiegazioni a questo…- la sua voce aveva dei tratti simili alla tua, sai? Ma era così adulta eppure dovevate avere entrambi la stessa età.
-Giorgia - mi allontanai appena da lui. –sai- cominciai e l’assassino si fece attento. –di solito a questo punto tu… dovresti essertene già andato, è strano…- borbottai asciugandomi gli occhi.
-Come fate a dirlo?- mi lanciò un’occhiata confusa.
-Ecco… la verità è che tu sei qui e il mio ragazzo è nel tuo tempo- dissi d’un fiato.
-Questo sì che è buffo- commentò. –Credevo che fosse stata tutta colpa del Frutto…- pensò ad alta voce.
Io mi schiarii la voce. –Parli del Tesoro dei Templari?- chiesi, ricordandomi quello che mi avevi detto tu, Desmond.
-Sì…- lui alzò lo sguardo. –quando sono apparso qui la prima volta- tremò al solo pronunciare quella frase. –stavo provando a controllarne alcuni dei poteri più insignificanti, quale sollevare gli oggetti- disse.
-Allora quel coso esiste, ed è la causa di tutto questa merda!- strinsi i denti.
-Calmatevi, dev’esserci un modo per risistemare le cose e non è certo quello che stiamo facendo noi ora- affermò serioso.
Aggrottai la fronte. –Hai qualche idea?- incrociai le braccia sbuffando.
-Certamente- sorrise lui. –posso osare chiedendovi se in questo tempo è stata inventato un Cavallo del Tempo?- chiese, ma mi parve uno scherzo e cominciai a ridere.
-Intendi una macchina del tempo?- domandai esilarata.
-Macchina?- fece lui disorientato.
-Oh, giusto. Sì, esiste, ma non potete portare con voi il corpo del mio ragazzo! Quello mi serve!- gli intimai contro.
Lui tacque.
Io sbuffai, di nuovo. Desmond, torna qui, ti prego…
-Stavo pensando…- sussurrai così da attirare su di me un ulteriore occhiata dell’assassino.
-Quel Frutto dell’Eden… so che alcuni uomini del mio tempo sanno dove si trova. Forse, se…-.
-Lady Giorgia…- assentì l’assassino –intendete dire che il Frutto non è stato distrutto?- domandò sconvolto.
-No, da quanto mi ha detto Desmond, no…-.
-Chi è costui?-.
-Il mio ragazzo-.
-Come fa lui a saperlo?-.
-Qui arriva la parte complicata…- borbottai.
-Sarebbe?-
Esitai, mi serviva del tempo per pensare a cosa e a come dirglielo. –Seguimi, non posso vederti vestito così-.
Se proprio dovevo arrendermi al fatto che Desmond non sarebbe tornato per parecchio tempo, tanto valeva far sentire Altair a suo agio.
Mi avvia nella stanza da letto, ma non sentii Altair venirmi dietro. Mi voltai, ma me lo trovai a pochi centimetri di distanza.
-Ci sono problemi?- chiese facendo un passo indietro.
Incredibile… non l’avevo avvertito seguirmi, i suoi passi non si sentivano sul pavimento. Sembrava così robusto ed invece era silenzioso come un gatto. D’altro canto, era un assassino…
Ripresi ad attraversare il corridoio cercando di non badare a quella sensazione di essere come pedinata ed entrai nella camera, spostandomi poi svelta verso l’armadio.
Aprii i tuoi cassetti e cercai qualcosa che potesse infilarsi senza troppe difficoltà.
Altair prese a curiosare per la camera guardandosi da ciascuna novità che quel tempo gli riservava. Pareva sorprendersi nel vedere la sveglia che segnava le 11 del mattino, poi la moderna mobilia che faceva parte della camera da letto, del bagno e delle altre stanze.
Ecco, notai che l’assassino era entrato nel bagno e si stava guardando allo specchio.
Chissà quale effetto gli procurò non riconoscersi nel proprio corpo, chissà quale paura e sconforto, il tutto accompagnato dall’imbarazzo.
Trovai una maglietta a maniche lunghe grigia e dei jeans. Però rimasi incerta sul da farsi: se gli avessi dato un paio di boxer Altair avrebbe capito di cosa si trattavano?
L’assassino ricomparve nella stanza da letto e rimase a guardarmi, perché ero immobile davanti ai cassettoni chiusi senza muovere un muscolo o battere ciglio.
-Ebbene?- gli sentii dire alle mie spalle.
Mi voltai di colpo, porgendogli i vestiti.
Lui li afferrò e se li guardò sospettoso. –Perché ho ancora l’impressione che sia solo un sogno davvero assurdo?…- disse.
-A chi lo dici…-.
Hmm. Forse un assassino del XII secolo e una newyorchese ventenne, qualcosa in comune potevano avere, pensai.
-Puoi… andare lì… se vuoi- gli indicai il bagno.
Lui non disse nulla, andando dove gli avevo detto. Accostò la porta e contai solo qualche decimo di minuto prima che tornasse nella camera.
Aveva ripiegato il copriletto e me lo diede.
I tuoi vestiti gli stavano a pennello, era una tua esatta copia e in parte sentivo di non stupirmene. Desmond, l’unica differenza era che il tuo antenato non aveva ricordo degli ultimi 19 secoli, sennò avrei potuto quasi far finta che fossi tu. Eravate identici, e quell’uguaglianza mi metteva a disagio allo stesso modo di come mi consolava.
Rimasi in silenzio per parecchio tempo mentre l’assassino girovagava per la nostra casa esattamente come avevi fatto tu il giorno in cui ti avevo riportato a casa.
Altair si fermò davanti al televisore, si chinò ad osservare la Play e, chissà, magari aveva una dote genetica come la tua e sarebbe stato in grado di confrontarsi con me. Poi l’assassino tornò a guardare fuori dalle finestre e il fatto che io lo seguissi ovunque non sembrava turbarlo. Così proseguì il suo giretto turistico anche in cucina, passò lo sguardo sulla libreria e sostò parecchio su di essa. Trasse uno dei volumi e cominciò a sfogliargli.
A quel punto mi chiesi se sapesse leggere l’inglese… e un dubbio mi avvolse: ma in Terra Santa come all’interno della setta degli assassini, non si parlava l’arabo o un suo dialetto? Com’era possibile che Altair conoscesse alla perfezione l’inglese?
Non ne potei più, così lasciai che vagasse da solo per casa.
Mi diressi di nuovo nella stanza da letto e cominciai ad occuparmi del casino che avevamo lasciato io e te quella notte… alzai i cuscini da terra e cambiai le federe del materasso. Feci tutto con lentezza, come volessi impiegare tutta la giornata a fare qualcosa che non fosse pensare a te o al tuo trisavolo. Mi toccò pulire il bel casino che avevo fatto nella camera da letto con il the, così impiegai gran parte della mattinata.
Quand’ebbi finito, tornai in salone e trovai l’assassino che leggeva seduto sul divano.
Era seduto composto con la schiena contro i cuscini, e allungando l’occhiata, scorsi cosa l’aveva attirato tanto: la Divina Commedia che mi aveva regalato mio padre quando studiai Dante alle medie. Era scritta in lingua originale, ovvero il dialetto Fiorentino del grande Alighieri.
Lo guardai assorta che sfogliava una pagina dopo l’altra.
Era voltato quasi di tre quarti, quindi ero l’unica tra i due che potesse vedere l’altro. Ovviamente sapevo che si fosse accorto di me già da parecchio.
-Hai fame?- domandai ad un tratto.
Invece mi ero sbagliata: non si era per niente accorto di me, perché si era voltato colto di sorpresa. –Io?- domandò.
Sorrisi sarcastica. –No, guarda…- sbuffai.
-Certo che ho fame- si alzò e mi venne vicino. –Ma è soprattutto curiosità…- disse.
Io m’irrigidii. Forse non era una buona idea istruire un uomo del passato così approfonditamente sulle attività del mondo futuristico. Se mai un giorno fosse tornato nel suo tempo, avrebbe lasciato un segno nella storia e forse sarebbe stato capace di inventare lui stesso la lampadina. No, mi dissi che sarebbe stato meglio chiuderlo in uno stanzino e buttare la chiave fin quando non fossi tornato tu.
Eppure non lo feci. –Va bene…- andai verso i fornelli e, quando accesi il fuoco, avvertii un sibilo si sorpresa da parte dell’assassino.
-Impressionante- fece lui.
-Eh, già…- cominciai a scaldare dell’acqua in una pentola, con l’intenzione di servire ad entrambi della roba semplice come un piatto di pasta.
Dopo poco Altair parve annoiarsi perché tornò a sfogliare la Commedia che aveva lasciato sul divano.
Mi dissi che leggere qualcosa che riguardasse il suo tempo sarebbe stata la sua unica consolazione, il modo per distrarsi e per avvicinarsi al mondo da quale era stato strappato via. Ma infondo se l’era cercata provando a controllare i poteri del Frutto. Ma andiamo, le leggende del Tesoro dell’Eden narrano che solo una mente superiore è in grado di moderarne i poteri; si sapeva sia prima che dopo l’anno 1000.
Ad un tratto scorsi Finger stiracchiarsi nel mezzo del corridoio, poi cominciò a slinguazzarsi il pelo.
Sorrisi: ne avrei viste delle belle.
Il gatto si avvicinò al divano sinuosamente, prima guardò me, poi spostò i suoi occhioni gialli sull’estraneo che non si era accorto di lui.
Finger fece il giro del divano con la coda alzata.
-Hai un gatto?- domandò Altair seguendo Finger con lo sguardo, e l’animale balzò sul divano rannicchiandosi accanto a lui.
Finger era noto per il suo socievole fare con gli estranei.
Le fusa della bestiola giunsero fino a me, perché Altair aveva cominciato ad accarezzarlo e a grattargli dietro l’orecchio.
-Sì, ho un gatto- dissi rovesciando la pasta nell’acqua calda. –Si chiama Finger-.
-Dito?- fece lui riprendendo a leggere.
Mi chiesi se dirgli che si chiamava così in onore di James Bond non avrebbe avuto senso, tanto meno parlargli dicendo che aveva il nome di un film. Doveva essere una palla vivere nel medioevo… senza James Bond.
D’un tratto mi spiccasti tu in mente, e un cupo pensiero mi fece cambiare atteggiamento. Il mio sorriso si spense lentamente, perché sapevo che tu eri in pericolo là mentre il tuo antenato oziava qua. Ero avvilita di quello… non perché lo trovassi ingiusto, ma perché il mestiere di un assassino doveva essere pieno di rischi. Poteva accaderti qualunque cosa da un momento all’altro ed io non l’avrei mai saputo…
-Cristo, no!!!- ti sentii gridare.
Mi sfuggì di mano il piatto che cadde a terra e si ruppe in centinaia di pezzi.
Finger si lanciò lontano dal tuo corpo scappando col pelo rizzato nel corridoio.
-Desmond!- saltai il casino che avevo fatto e mi avvicinai a te che eri seduto sul divano dove prima  c’era stato il tuo antenato.
Tenevi le braccia davanti al volto, come a pararti da qualcosa e forse la tua coscienza era tornata nel giusto corpo in un momento fatale.
-Desmond, Desmond sono io! Desmond!- ti abbracciai chinandomi su di te e tu, tremante, ti strinsi a me tirandomi sul divano.
-Giorgia…- avevi il fiato corto e il respiro irregolare, il tuo cuore batteva senza rallentare la sua corsa ed eri sudato. –Giorgia…- mormorasti.
-Sei tornato…- ti sussurrai sul collo, e tu scoppiasti a ridere.
Era una risata isterica, lo sentivo, perché dalla gioia comparvero dal nulla le lacrime.
Ti baciai io, interrompendo il tuo pianto adulto. Come sollevato da un peso, ricambiasti alla svelta quel contatto, ma dopo poco mi staccai dalle tue labbra per tornare a stringerti.
-Sei tornato…- ripetei.
-E non è stata una cosa semplice- eri esausto, e il tuo corpo debole da troppo sforzo.



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Dopo questo nuovo chappo non ho molto da aggiungere. Passo ai ringraziamenti, magari mi salta qualcosa in mente da dirvi mentre scrivo i nomi dei migliori utenti di questo sito!

Saphira87
Lilyna_93
Goku94
Sparrow

P.S.
Sììì, mi è saltato in mente come speravo: che pena, mi faccio pena. Questo capitolo non mi è piaciuto, insomma… non ho saputo simulare al meglio le reazioni di entrambi i personaggi (Giorgia e Altair) e d’altro canto ho dovuto “toppare” la situazione con il ritorno di Desmond! Non dico di aver scritto forzatamente questo ultimo capitolo, ma diciamo che più o meno è andata così… ero a corto di idee per il vero e proprio primo incontro tra Giògiò e Alty e piena zeppa d’ispirazione per quello che verrà dopo! Insomma, sono giorni che penso ad alcune scenette… (non quello che state pensando XD XD anche se… O.O Uh, mi sorprendo di me stessa…).

X goku94 & Sparrow: ci avevo pensato ad Altair che sbuca dal nulla in “quel” momento… O.O


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Capitolo 5
*** Disperazione ***


Disperazione









Ti accarezzai la schiena nuda con una mano, arrivando a sfiorare il tuo collo che sotto il mio tocco s’irrigidì. Eri seduto sul bordo del letto, fissavi la parete davanti a te e mi davi le spalle.
Ero sdraiata con la testa sul cuscino, un braccio sotto ad esso e l’altro allungato a toccarti. Non distinguevo bene le ombre, perché erano notte fonda e il calore del tuo corpo si era da poco allontanato dal mio, ancora avvolto dal tepore del sonno.
Quando notai che non davi segni di vita,  che rimanevi immobile seduto senza rispondere alle mie carezze, mi sollevai e mi sedetti accanto a te. Ti scrutai allungo, ma tu fissavi il vuoto della parete e non ricambiavi le mie ansie.
Non ti avevo mai visto così serio, e mai quell’espressione così turbata e manifesto di dolore aveva attraversato il tuo volto giovane e bello. E il buio della notte ti rendeva così affascinante, avvolgendo il tuo fisico. Stavo esagerando: ti avevo desiderato tanto in quegli otto mesi, ed ora mi sentivo a tal punto mancare la tua presenza che in te vedevo persino la perfezione. Ma tu avevi bisogno di me in altro senso, ed era questo che non riuscivo a concepire. Era il mio tormento come il tuo: non poterci godere il fatto che fossimo di nuovo assieme a causa delle tue condizioni.
-Come ti senti?- domandai un sussurro.
Mi fulminasti coi tuoi occhi scuri, ed io mi sciolsi ancora a quello sguardo accattivante e magnifico.
-Cosa ti è successo?- ti chiesi, perché da quando eri tornato, scambiandoti col tuo antenato sul divano del salotto, non avevi voluto raccontarmi nulla. Mi avevi risposto, stringendomi a te, che non avrei voluto saperlo e il peggio era passato, ma non per Altair.
Tu esitasti, ma ti ostinavi nel tuo silenzio. Nel nero delle tue pupille intravidi un leggero bagliore, una supplica, come se aprir bocca ti costasse troppa fatica.
-Ti prego, Desmond… non credere che raccontarmi mi farà star peggio… anzi- mi poggiai le mani in grembo, sconfitta dalla tua prepotenza che pur di tenermi al sicuro, si dilettava nel delimitare un confine preciso tra quello che potevo sapere o no. Chi eri tu per giudicare se ne fossi all’altezza o meno? Ero abbastanza adulta da poter condividere ogni tuo problema, e tu abbastanza grande da potermi confidare ogni tuo peccato senza temere che ti rimproverassi. Ma sapevo che era proprio di quello che avevi paura. Forse volevi apparire forte nei miei confronti, sovrastarmi e gettarmi davanti al naso menzogne invece che raccontarmi la verità, tutta la verità.
Parlasti, e la tua voce suonò come il canto dei violini alle mie orecchie: -Ho ucciso- dicesti.
-Quando?-.
-Mentre ero là… nel passato. Ho ucciso un uomo, un soldato-.
In un tempo di guerra come quello, era normale che le vite venissero spezzate come stuzzicadenti dai più forti. E Altair, nel passato, era il più forte. Ma come avevi trovato la forza di agire? E in che modo avevi ammazzato quell’uomo se tu, Desmond, non avevi abbastanza esperienza con le spade e neppure da piccolo ti era mai piaciuto giocarci… come era stato possibile?
-Come è successo?- mi limitai a chiedere.
-L’ho gettato giù…- ingoiasti il groppo che avevi in gola, e ti sentii cacciare via anche le lacrime. –L’ho gettato giù da un tetto… mi puntava contro una freccia incoccata… non sapevo che fare- tirasti su col naso e appoggiasti i gomiti sulle ginocchia, curvando la schiena e lasciando che la tua testa cadesse in avanti. –Ma poi sono arrivati gli altri… gli altri cavalieri, con quella croce nera sul petto… mi hanno accerchiato, ed io ero da solo. Il mio antenato era da solo. Avevano delle spade e le utilizzavano con quella maestria che neppure nei cartoni animati!- ridesti con gli occhi arrossati, sollevando appena il viso per incontrare i miei. – Non ho avuto neppure il tempo di sfoderare la mia che mi hanno colpito, due volte… sento ancora… il sangue!- digrignasti, e forse il dolore di quelle ferite ti aveva raggiunto di nuovo.
Feci per avvicinarmi a te, ma tu proseguisti, bloccandomi dov’ero.
Con più rabbia, stringendo i pugni furiosamente, dicesti: –Giuro che se ci fosse un modo per dar fine a tutto questo, non esiterei! Ma loro mi avevano avvertito che sarebbe successo! Mi avevano detto che se mi fossi allontanato dall’Abstergo, non sarei stato capace di moderare questi sintomi senza i loro farmaci! Dissero che alcuni pazienti erano morti, tentando quello che sto provando io. Dissero che la follia aveva indotto alla morte gli uomini del passato che si erano trovati in questo futuro di merda! Lucy mi disse che il soggetto 16 prima di me aveva scritto col suo stesso sangue sui muri della stanza in cui mi hanno fatto stare! E prima ancora, altri e tanti altri si sono tagliati le vene per scrivere sui quelle pareti come fosse il diario della loro apocalisse personale!- mi facevi paura, mi tenevo a distanza, perché la tua mascella era contratta e serrata. La tua furia riecheggiava nella nostra stanza e faceva tremare tutto quello che mi circondava. Non ti avevo mai visto così, non avrei mai voluto vederti così…
-Ed ora non riesco a chiudere occhio… pensando che ne prenderanno altri, altri poveri innocenti che vivevano la loro vita belli tranquilli come me prima di tutta questa merda! Non sono sazi dell’unico Frutto dell’Eden che li ho portato…- ti calmasti, abbassando la voce e rilassando i muscoli. Ti passasti le mani sul viso, sbollentando le tue furie, e ti voltasti a guardarmi.
-Col sangue… sui muri?- balbettai.
I tuoi occhi da cucciolo passarono svelti sul mio corpo, fermandosi all’altezza dei miei. –Quelli del progetto non avevano cure a certi effetti collaterali del trattamento. Mi dissero che se Altair si fosse impadronito di me e non avesse accettato le cognizioni di cosa stava succedendo, il passo tra realtà e follia sarebbe stato breve anche per me dall’altra parte della linea del tempo. I precedenti soggetti subirono grossi danni celebrali a causa del trattamento prolungato, e chi ne risentiva di più erano per l’appunto gli antenati, non le cavie. È tutta roba complicata che speravo mi sarei lasciato alle spalle, una volta tornato qui, perché mi avevano assicurato che con la lontananza dalle radiazioni dell’Animus, “forse”, le cose si sarebbero aggiustate col tempo…- sospirasti, serrando i pugni. –ma non è successo. Altair potrebbe non tornare più come restare nel mio corpo per sempre…-.
Io sobbalzai, portandomi la mano davanti alla bocca. Non potevo credere a quelle tue parole, amore mio. Mi stavi dicendo che poteva non esistere una speranza che qualcosa sarebbe andato per il verso giusto? Erano maggiori le probabilità che le vostre due memorie restassero scambiate per sempre? È questo che avevi paura di dirmi? Temevi la mia reazione? E quale fu la mia reazione se non sgranare gli occhi e realizzare al meglio ciò che ti era successo, così da comprendere cosa e come fare per aiutarti.
Mi avvicinai a te, ti sfiorai la spalla nuda con le dita. –Se c’è qualcosa che posso fare…-.
A quel tocco ti scansasti, ed io tremai.
Perché l’avevi fatto?
Temevo che Altair fosse tornato, e indietreggiai anche io. Non volevo che ci sorprendesse in quel momento, perché finalmente stavo capendo, e volevo capire. Erano trascorse dodici ore e più da quando era successo l’ultima volta e avrei voluto che non tornasse mai.
-Desmond?…- ti chiamai, e se non ti fossi voltato avrei temuto il peggio.
E il tuo sguardo cagnesco si stampò nel mio cuore. Era quello sguardo… diverso, ed imprevedibile.
Sorridesti dicendomi: -Scherzetto- e sulla tua bocca affiorò un ghigno malizioso.
-Brutto…- digrignai, ma tu non mi desti il tempo di aggiungere niente d’altro.
Le tue mani si strinsero sui miei polsi e le tue braccia mi tirarono verso di te, issandomi poi a cavalcioni sul tuo corpo.
La tua carezza sulla mia guancia divenne una presa sul mio collo, e di seguito, senza lasciarmi il tempo di oppormi (cosa che non avrei comunque fatto) mi baciasti.
In quel bacio sfogasti tutta la tua rabbia, e in me crebbe la voglia di averti di nuovo, anche se di avventura ne avevamo passata una giusto la notte scorsa…
All’improvviso, mi privai di quel contatto e, con le labbra ancora arrossate e avide di te, trovai la forza per oppormi e dirti: -E se…-.
-Che sia- portasti le tue mani sulla mia schiena, attirandomi con più forza contro il tuo petto. –E se questa fosse l’ultima volta?- mormorasti, e il tuo fiato bollente s’infranse sulla pelle del mio collo.
-Ultima…- pronunciai confusamente.
-Credi che non ne soffra anche io?-.
-Tanto per te non è un problema- sussurrai mentre i tuoi baci smaniosi si spostavano più in basso, dall’angolo della mia bocca fino alla sfaccettatura del seno.
-Hai azzeccato in pieno- dolcemente mi privasti di quello che era il mio pigiama, facendo cadere a terra prima la canottiera e poi il resto della biancheria.
Ero totalmente nuda quando anche tu ti degnasti di spogliarti dell’ultimo indumento che avevi: i tuoi boxer andarono a farsi benedire, raggiungendo le mie mutande accanto alla canottiera.
Una volta sotto le coperte, il tempo corse velocemente.
Mi strinsi a te poggiando il mio seno sul tuo petto scolpito. Ti avvolsi in un abbraccio violento e le mie unghie penetrarono nella tua carne. –Resta!- digrignai. –Posso trovare… quella cura! Se è un fatto mentale, i medici sapranno curarlo!- aggiunsi tra le lacrime.
Tu, mestamente, mi accarezzasti la schiena nuda e il tuo tocco docile, come il colpo inferto da una lama rovente, tracciò una lunga linea che avrebbe bruciato in eterno sulla mia pelle.
Ero sopra di te, ti stringevo come una bambina viziata abbraccia la sua bambola preferita. –Ti prego…- piansi. –Dimmi che un modo c’è…-.
-Tornare da loro- anche la tua voce angelica, in quel momento, era piegata da un’immensa tristezza. –Solo l’Abstergo possiede quei farmaci-.
Mi sollevai appena, giusto per guardarti negli occhi. –Perché non hanno permesso che ne portassi qualcuno con te? Perché un atto tanto disumano?!- strillai.
La tua mano passò tra i miei capelli e percorse il profilo del mio viso afflitto ma tutt’altro che rassegnato. –In un modo o nell’altro, volevano che morissi-.
Non potei credere di averti sentito dire una cosa del genere. –Ma noi- balbettai. –Potremmo assumere un avvocato, potremmo vincere una causa… non possono passarla liscia…- andai a rovesciare le mie lacrime nell’incavo del tuo collo, abbracciandoti disperatamente disperata.
Ricambiasti quell’abbraccio con altrettanta disperazione, poiché quella fosse la parola giusta per descrivere il modo assurdo in cui ci venivano presentate le cose, che di per sé erano assurde.
-Perché tu sembri accettare tanto comodamente quello che ti sta succedendo ed io no? Sei così tranquillo solo all’idea…- singhiozzai.
-Un uomo deve nascondere certe debolezze- rispondesti allegro.
A quel punto, pur di farti aprire gli occhi su quanto fossi spaurita di quella tua reazione, ti colpii con uno schiaffo.
La tua mano che era sulla mia schiena la spostasti a massaggiarti la guancia. –Perché l’hai fatto?!- sbottasti sorpreso.
-Perché stai sottovalutando la cosa!- subito mi pentii di quello che avevo fatto, scoppiando in un mare di lacrime.
-Scusami, ti prego, perdonami… se me ne lasciasti l’opportunità, tenterei il suicidio- dicesti in modo grave.
-Infatti, fai bene a dirlo. Non te lo permetterei- ti sorpresi ancora di più quando ti presi il volto tra le mani e ti baciai chinandomi su di te.
Il tocco delle tue dita percorse il mio braccio dal polso fino alla spalla, sul collo che afferrasti con violenza.
Senza darmi scampo, capovolgesti i nostri corpi.
Il nostro bacio proseguiva, intenso, magnifico, disperato… quello sarebbe stato l’ultimo?
La conferma alla mia domanda arrivò nel bel mezzo della notte, quando ormai ci eravamo addormentati per… ecco, lo sforzo.
Dalla stanchezza, di rivestirsi non se ne parlava, ed era nato un accordo silenzioso tra di noi che diceva: “come mamma c’ha fatto” fino alla fine…
E la fine stava arrivando, anche tu lo sapevi.
Io lo avvertii vagamente, ancora avvolta dalla nube bianca e pacata dei sogni. Stretta al tuo petto, le tue braccia attorno ai miei fianchi, le tue gambe intrecciate alle mie. Immobili, come statue, in attesa.
Tu calato nel tuo dolore muto, nel tentativo di posticipare lo scambio.
Ed io, inconsapevole, che ti dormivo appiccicata.
Un tremito, un sussulto del tuo corpo, impercettibile quasi… fosse un’allucinazione.
-Giorgia…- mormorasti il mio nome, e quella fu l’ultima parola della tua voce.
Ti eri arreso, e nella tua mente stava facendo irruzione quella del tuo antenato. Entrambe le vostre coscienze venivano risucchiate da una corrente anomala e paranormale che vi catapultava dalla parte opposta della linea del tempo, ognuno nei ricordi dell’altro. Parlasti di memoria genetica, ebbene le mie ipotesi erano quelle che come tu potevi avere le memorie del tuo passato, Altair possedeva quelle del suo futuro. Assurda, delirante, disperata ipotesi.
L’assassino trattenne il respiro.
Oh… oh.
-Ah!- urlai a squarcia gola scansandomi da lui e balzando fuori dal letto, trascinando con me il piumino a coprirmi.
Altair fece altrettanto, portando con sé il cuscino che sistemò ad impedire la mia vista tra le sue gambe.
-Ma che diavolo!- sbottò lui.
-Aaaaah!…- il mio grido si affievolì fino a divenire un gemito, e tra di noi cadde la quiete della notte, mentre i nostri occhi si fissavano spaventati e sbigottiti.


____________________________



Elika95 accorcia questo angolo d’autore poiché, come suo solito, si ostina a posare i capitolo intorno alle 2-3 del mattino.
Un grazie strepitoso a:

Saphira87
Lilyna_93
Goku94
Sparrow
LevitheBookman

X Sparrow e goku94: visto??? Altair salta fuori lì, o nelle vicinanze a quel momento…
X Saphi: ecco qua, che gran fatica scrivere certe scene e certi particolari quando non si ha esperienza!!! Comunque sì, Desmond stava per essere colpito quando lui e Altair si sono scambiati di nuovo, e all’assassino toccherà la peggio… spoiler, spoiler, spoiler!!! Ma quando imparerò a starmi zitta?!?!?
X Lilyna (se mai dovesse leggere questo appunto): prego perché i tuoi siano più comprensivi in futuro… o perché tu possa andare meglio a scuola. Più probabile la prima… XD XD scherzo, avanti ce la puoi fare!!!

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Capitolo 6
*** Caricamento ***


Caricamento





***


Desmond atterrò col fondoschiena su qualcosa di duro, e chiuse gli occhi dal dolore, mentre un gemito gli sfuggiva di bocca. –Ahio!- sbraitò, e la suo onomatopea rimbombò una decina di volte.
Il ragazzo si alzò lentamente, aiutandosi con le braccia.
Possibile che i suoi piedi toccassero terra ma che terra non vi era?
Era tutto come al solito, o meglio, come capitava di solito. Una nube bianca e soffusa avvolgeva il raggio d’azione della sua vista. Era come viaggiare attraverso le nebbia che era dappertutto: una patina brillante che lo circondava. A chiazze, come le nuvole del cielo, galleggiavano simboli matematici, lettere greche e anche numeri senza un ordine apparentemente logico.
Era così che Lucy la chiamava: la sala d’attesa, il “caricamento”. Desmond era passato di lì tutte le volte in cui l’Animus doveva prendersi del tempo per caricare il ricordo. Una stanza senza pareti, senza soffitti, senza pavimenti. Il vuoto e il pieno che si concentrano in un unico punto: quella stanza che stanza non era. Sembrava uno di quei buffi disegni, come per esempio le scale infinite di quel famoso artista… sì, quello lì, avanti! Quel tizio disegnava le scale che andavano a destra e a manca, contorcendosi sul soffitto e sul pavimento scambiandoli di posto. Una cosa assurda.
Desmond attese, paziente e in silenzio, mentre attorno a lui riecheggiava il suono indistinto di campanelli e clangori metallici. Era il richiamo al passato, alla guerra con le spade e gli scudi, a cavallo e con la lancia in mano.
Aveva sempre odiato il medioevo, soprattutto alle medie.
Desmond si voltò, e i suoi occhi tristi vagarono nella nebbia, cercando di scorgere una particella una di quello che era il suo vero tempo, la sua vita. Allungò una mano, che poggiò su una superficie invisibile come la lastra di un vetro. Quello era il confine che gli era vietato passare: quella lastra di vetro si allungava all’infinito in tutte le direzioni e solo Altair poteva passare dall’altra parte, mentre a lui toccava camminare verso il passato.
La linea del tempo… pensò. Quella stessa stanza d’attesa prendeva quel nome, perché in quella nebbia chiara e soffusa ci si poteva perdere, finendo nel diciottesimo secolo o nel futuro. All’epoca dei dinosauri o a fare un saluto a Giulio Cesare. Le “nebbie” del tempo…
-Giògiò…- mormorò accarezzando il vetro che gli impediva di tornare dalla sua ragazza.
-Non credere che sia tanto facile anche per me- sbottò Altair.
Desmond si girò adagio, sospirando, e si trovò davanti il suo antenato.
L’assassino indossava le sue vesti della confraternita, le mille armi legate alla cintura e i lacci di cuoio che passavano da una spalla all’altra. Le braccia lungo i fianchi, il portamento fiero e il volto celato dal cappuccio.
-No- rispose Desmond abbassando lo sguardo. –Non l’ho mai pensato- mormorò.
-Vuoi che glielo dica?- fece Altair con tono pacato, tranquillo.
-Di cosa?- chiese afflitto, contenendo a stento la rabbia.
-Di noi, qui, adesso. Di questo luogo!- Altair alzò le mani al cielo (che non c’era).
-Sì, spiegale tutto. Come io ho spiegato tutto a te…- sussurrò. –A proposito- alzò gli occhi incrociando quelli identici del suo antenato. –Ecco!…- rise passandosi una mano tra i capelli corti.
-Che cosa hai combinato?- Altair fece un passo avanti. –Desmond!?- gli puntò il dito contro.
Il ragazzo del futuro indietreggiò, poggiando la schiena sul vetro invisibile del confine tra l’anno “zero” e il futuro per lui ormai fuori portata. –L’abbiamo fatto, mi spiace, ma volevo dirle addio!- strinse i pugni.
Altair celò il suo stupore nell’ombra del cappuccio. –cosa?- si costrinse a chiedere moderando il tono scioccato.
-Non farla sentire in imbarazzo, ti prego- disse Desmond, sollevando il mento. –è stata una mia idea, se vuoi arrabbiarti con qualcuno prendimi a pugni, qui, adesso! In questo luogo!- ripeté.
-Credi che riuscirei a trattenermi da questo?!- digrignò l’assassino. – Ti prenderei volentieri a pugni, nipotino! Infondo è colpa tua! Tu hai voluto lasciare quei signori! Tu non sei voluto restare con loro quando erano gli unici che avrebbero impedito tutto questo!- lo rimproverò agitato.
Desmond tacque.
-E guardami negli occhi quando ti parlo, ragazzo!- gridò.
Desmond alzò il viso. –Sì, nonno?- rise sarcasticamente rassegnato.
Altair serrò i denti. –Piantala, non mi sembra il momento. Il sarcasmo di voi del futuro non lo sopporto!- sbottò irritato.
-E perché?- Desmond sogghignò. –Credi che mi piaccia fare quello che fai tu nel passato?!- si strine nelle spalle.
-Ovvio che no! Ma almeno potresti renderti utile! A cominciare dal fatto di non accettare incarichi! Il tuo ultimo scherzetto mi è costato un bendaggio per un mese!-.
-Non sapevo che fare, ero terrorizzato! Quel tuo vecchio maestro ha cominciato a riempirmi di congratulazioni ed io annuivo! Come un deficiente, ma annuivo!- rispose Desmond.
-Se tu lo vuoi- Altair parve calmarsi. –farò di tutto perché questo finisca. Con l’aiuto della tua promessa, spiegandole quello che tu hai spiegato a me potrei trovare un modo per guarirci- disse serio.
-Ne sei in grado?- domandò alzando un sopracciglio, e nei suoi occhi balenò una luce di fiducia.
Altair annuì. -Qualsiasi cosa. Non me ne starò con le mani in mano, nipote-.
-Ok, ma piantala di chiamarmi così! O giuro che la prossima volta ti chiamo nonno senza darti tregua- proferì il giovane del futuro incrociando le braccia.
Altair soffocò una risata. –Come vuoi- sospirò.
Su di loro cadde un silenzio pieno di sottintesi. C’erano tanti punti da chiarire, tante domande da farsi prima di abbandonare le proprie speranze nelle mani altrui.
Desmond dipendeva da Altair e Altair dipendeva da Desmond. Ognuno nel tempo dell’altro, se la sarebbero vista con i problemi quotidiani di due vite l’una molto differente dall’altra.
-E così- rise Altair. –Me la ritrovo nuda, la tua ragazza…- bofonchiò.
Desmond sorrise. –Qualcosa mi dice che non ti dispiace affatto!-.
L’assassino condivise la sua gioia. –Vedrò di… trattenermi- fece malizioso.
-Guarda che io ho gli occhi anche qui!- Desmond si batté una pacca sulla nuca. –Non provocarmi, se non sbaglio ho preso da te!-.
-Certo, come no- farfugliò l’uomo del passato.
-Chi è la mia bis, bis, bis, bis nonna?- domandò ad un tratto il giovane.
Altair alzò gli occhi al cielo (che non c’era). –Qualsiasi cosa pur di posticipare, vero?- pronunciò risentito.
Desmond annuì.
-Non lo so…- rispose Altair alla domanda.
Desmond sobbalzò. –Come non lo sai?! Nel senso… non lo sai ancora, o non lo sai perché…-.
Altair lo fulminò con un’occhiataccia. –Smettila, ragazzino. Non lo so perché non ho mai osato… per ora-.
-Perfetto!- Desmond si passò una mano sul volto.
-Che c’è?-.
-Sai questo che vuol dire?!- Desmond avanzò verso di lui.
-No- rispose il suo avo.
Desmond tacque un istante. –Stupido, se resto nel tuo tempo troppo allungo e non mi faccio nessuna per conto tuo, tu, cioè io potrei scomparire! Te capì?- sgranò gli occhi.
Altair ci pensò allungo. –Questo affretta solo le cose, quindi cammina- Altair fece un passo avanti con un balzo. –Accorciamo l’attesa, avanti- allungò una mano.
Desmond indietreggiò. –Aspetta, non ancora!- si ritrasse.
-Che cosa c’è ancora?!-.
Il ragazzino indietreggiò, fino a poggiare le spalle contro la parete invisibile.
-Allora?- fece lui impaziente.
-Le ho già detto qualcosa, ma non tutto… ti prego, è una ragazza suscettibile, debole… lei scrive, ha già pubblicato un romanzo e ha tirato avanti così, da sola, per questi otto mesi che non ci sono stato. Se volete mettervi a cercare una cura, qualcuno… che possa aiutarci, bene è meglio, ma devi prenderti cura di lei… ti scongiuro- disse con un filo di voce.
-Altro?- l’assassino addolcì il tono. –Altro da dirle o che devo fare?-.
-C’è un tipo… si chiama Nikolas. Prima che ci conoscessimo Giorgia stava con lui. Tieniglielo lontano, ok? Non è uno affidabile. Certo, tra loro è finita, ma continuo a vederlo di malocchio. Lui si ostina a dire che sono solo amici, ma sarebbe capace di metterle le mani addosso. Potresti anche scoprire se l’ha fatto in questi otto mesi? Così, sai… per curiosità, tanto non avrai un cazzo da fare tutto il giorno…- borbottò.
Altair era rimasto impalato ad ascoltare. –Hai finito?- domandò quieto.
-No, poi c’è il lavoro-.
-Desmond-.
-Che c’è?-.
Altair lo guardò serio. –Il tempo corre-.
-Sì. Lo so, lo so. Hai ragione…-.
Desmond si staccò dalla parete invisibile e gli andò affianco. –Prenditi cura di lei…- mormorò guardandosi i piedi.
Altair gli cinse una spalla. –Tu pensa solo a sopravvivere, chiaro? Non sottovalutare le naturalezze del mio tempo… lì la vita è più dura di quel che credi, e non solo per il fatto che non sai usare una spada- gli disse, ed Desmond annuì.
-Pronto?- chiese ancora Altair.
Il ragazzo poggiò la sua mano su quella del suo trisavolo e a quel contatto una luce accecante li avvolse entrambi.
Pochi secondi e il bagliore scomparve.
Desmond si ammirò sconfortato. Avevano fatto a cambio di abiti: il suo trisavolo, alla sua destra, indossava una felpa bianca e un paio di jeans, mentre su di lui pesavano i chili di armi e lacci di cuoio.
I due si scambiarono un’ultima occhiata, poi Altair mosse i primi passi avanti e, attraversata la parete che c’era solo per Desmond, la sua figura si dissolse come la sabbia sollevata dal vento.
Desmond strinse l’elsa della spada e avanzò con fierezza verso il suo passato.


***


L’assassino trattenne il respiro.


Oh… oh.
-Ah!- urlai a squarcia gola scansandomi da lui e balzando fuori dal letto, trascinando con me il piumino a coprirmi.
Altair fece altrettanto, portando con sé il cuscino che sistemò ad impedire la mia vista tra le sue gambe.
-Ma che diavolo!- sbottò lui.
-Aaaaah!…- il mio grido si affievolì fino a divenire un gemito, e tra di noi cadde la quiete della notte, mentre i nostri occhi si fissavano spaventati e sbigottiti.
-L’avevo avvertito! L’avevo avvertito, ma mi avesse dato retta!- strillò l’assassino, ed io rabbrividii.
-Cosa?- balbettai. –Tu… Stai parlando di Desmond?! Tu gli hai parlato?- chiesi, sbigottita.
Altair sgranò gli occhi. –Non te l’ha detto? Buffo, avevo capito il contrario…-.
Quella situazione era assurda, ma speravo tanto che un giorno avrei potuto raccontarlo a qualcuno! Tornando a noi… Di cosa stava parlando Altair? Possibile che tu e lui vi foste incontrati? Insomma: sembrava essere arrabbiato perché ti aveva avvertito che saremmo potuti cadere, io e il tuo antenato, in quel genere di merda fino al collo. Intendiamoci, Desmond, poteva anche essere il tuo pro, pro, pro, pro nonno, ma mi vergognavo comunque di farmi vedere nuda da lui! E forse Altair provava lo stesso…
-Scusa tanto ma ora non mi sembra il momento più adatto!- sbottò l’assassino.
-Sei tu che hai accennato all’argomento, mica sono io quella che vengo dal passato!- ribattei con voce altrettanto alta. E se i vicini avessero sentito?
-Ma ormai ci siamo, e vedi di fartene una ragione!- fece lui, che teneva il cuscino tra le gambe.
Del tuo antenato vedevo solo i pettorali scolpiti in un marmo di cioccolato e le braccia incredibilmente muscolose. Era rigido come un palo di legno, ma la paura e lo sconforto lo facevano tremare. Eppure… mi parve da un lato… tranquillo. Che contro senso assurdo, pensai.
Strinsi il piumino tra le dita con più forza. –Ebbene…- borbottai, attirando la sua attenzione su di me, ma vidi i suoi occhi cercare di scorgere anche oltre. –abbiamo intenzione di restare così per sempre?- alzai le spalle, e un brivido mi percorse la schiena.
-Ovviamente no- fece lui distogliendo lo sguardo.
Io mi sistemai meglio il piumino attorno al corpo e, coperta per bene da tutte le parti, mi avviai all’armadio. Aprii i cassetti e tirai fuori la prima cosa che trovai.
Lanciai la maglietta e i pantaloni nel bagno, chiusi i cassetti. –Bene, ora mi giro, ma tu lasci il cuscino sul letto, vai in bagno e ti vesti, tutto chiaro?- farfugliai confusamente.
Lui annuì, io mi voltai a guardare fuori dalla finestra e rimasi con gli occhi al cielo stellato fin quando non sentii la porta del bagno chiudersi.
Con un immenso sospiro di sollievo mi gettai sul letto.
Dopo poco Altair tornò nella nostra stanza con indosso i tuoi vestiti. –Fatto, ora…- l’assassino s’interruppe, fissandomi.
Mi ero addormentata, perché dalla stanchezza i miei occhi si erano chiusi dolcemente come le tende del teatro. Un assassino del passato girava per casa mia e solo io potevo cadere tra le braccia di Morfeo in quel momento.
Nel mio sonno agitato, il piumino era scivolato dalle mie gambe, una delle quali era ben in vista fuori dalla coperta.
Il ragazzo alzò un sopracciglio, ma si riscosse e lasciò la camera avviandosi nel salone.
Colsi i suoni confusi che provenivano dalla cucina: sportelli che si aprivano e cassetti delle posate che sbattevano silenziosamente. Poi l’assassino curiosò anche nel frigo e colsi confusamente il suono del contatore del microonde che fece “tìn!”.
Alla fine cedetti, e il buio mi avvolse prima di cogliere il miagolio affamato della mezzanotte di Finger.

La suoneria del mio cellulare mi fece traballare.
Non seppi che ore erano, ma sollevai una mano verso il comodino e afferrai il portatile.
-Pronto?- disse con voce rauca.
-Ciao Giògiò! Sono Nikolas-.


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Elika 95 si è addormentata sulla tastiera e, dopo questo capitolo tanto atteso ma, secondo me, mal riuscito, ringrazia con il cuore:

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman


X Saphi: sono una vera demente se pensavo di poter posare questo chappo con solo la parte scritta in corsivo. Stupida, stupida, stupida me! La tua pazienza su msn, nonostante sei disperata e non trovi la song, mi ha fatto tornare il sorriso e la carica giusta per mettermi a scrivere per bene tutto il “risveglio” di Alty nel presente.


X Tutti gli altri: non ci sono avvisi particolari, per ora… qualsiasi dubbio, il mio contatto msn è sul mio profilo, più in basso alla mia immagine.

P.S.
Recensite… non mi sembra di avere nulla da aggiungere… uhhhaaa (sbadiglia). Fatemi sapere la vostra, vi adoro! Se state leggendo questa o la mia altra ff vi adoro… comunque volevo dire che questo capitolo ha divertito più me scriverlo che sicuramente voi leggerlo… insomma, a parte il fatto che Giògiò e Altair si trovano in quella situazione e se ne escono semplicemente vestendosi… mi sembra piuttosto banale, lo so, ma mi sembra di averlo accennato: non sono brava a simulare certi avvenimenti paranormali.
Hmm. Scherzi a parte, come avete trovato “la sala d’attesa”? Per chi ha provato il gioco, mi sono ispirata molto a come si svolge il caricamento, ovvero con quella nebbiolina chiara e soffusa… a dirla breve, vi ci siete ritrovato? Insomma, volevo che quella parte del chappo somigliasse molto a quando si svolge il caricamento nel gioco, ecco perché si chiama “caricamento” il capitolo. Ebbene, pace a tutti… Qui Elika che vi passa la linea… grazie, grazie!!!



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Capitolo 7
*** Un forte bisogno ***


Un forte bisogno





-Nik… ciao- mi passai una mano sul viso a stropicciarmi gli occhi. Di seguito sbadigliai.
La luce del sole penetrava dalle finestre chiamando a sé il nuovo giorno. Tutto attorno a me taceva, ma bastava la presenza di quel bastardo attaccato al mio orecchio per farmi innervosire.
-Ciao a te, bellezza-.
M’irrigidii. –Che cosa vuoi?- guardai la sveglia e notai con stupore che erano le 11 passate. Scattai in piedi e avvertii un certo freschetto…
Ad un tratto sentii la voce di Altair farsi più vicina dicendo: -Sono felice che tu ti sia svegliata, volevo parlarti… di alcune… cose e…- ero ancora nuda quando il tuo antenato entrò in camera e si fermò sull’ingresso, ma subito dopo si voltò mentre io lasciavo cadere il cellulare a terra e mi coprivo quello che le mie esili braccia potevano coprire.
-Merda! Vattene!- afferrai un cuscino e lo lanciai addosso ad Altair, che uscì di corsa dalla stanza accostando la porta.
Il ragazzone non disse nulla, restando con le spalle alla parete del corridoio, poiché evidentemente qualcosa aveva fatto in tempo a vedere.
Lanciai un’occhiata oltre la fessura della porta e mi chinai a raccogliere il cellulare.  –Scusa Nik, ci sentiamo dopo, ora non posso!!!- digrignai attaccandogli in faccia, e corsi a raccogliere i vestiti che avevo gettato a terra quella notte quando… era successo quello che era successo.
Corsi nel bagno e, poggiando il cellulare accanto al lavandino, mi chiusi a chiave.
Un gran sospiro, qualche secondo per riprendermi e sbollentare il rossore non solo delle mie guance. E solo allora mi rivestii col pigiama.
Mi sollevai lentamente, sia per la stanchezza sia perché la corsa verso il bagno mi aveva indolenzito la schiena. Diedi una svista al tuo spazzolino e mi chiesi se sarei stata in grado di lasciare che l’inquilino del tuo corpo lo usasse. Mi aggiustai i capelli, fissando la mia brutta immagine nello specchio sopra il lavandino. I miei brutti occhi verdi, il mio brutto mento e le mie brutte labbra che non ti avrebbero più… sfiorato.
Poggiai due dita su quelle labbra.
Ero triste, immensamente triste… il massimo grado della tristezza, ero depressa. Desmond, c’era un modo per farti tornare ed erano quei farmaci. Ma c’era una speranza che quello non fosse stato l’ultimo scambio. O meglio, io era l’unica e sola ad avere quella speranza. Tu me l’avevi indirettamente detto mentre facevamo l’amore che non ci sarebbe stata una prossima volta. Ed io avevo annuito in silenzio, come una deficiente, ma avevo annuito.
Dovetti appoggiarmi al lavandino, contro cui sbattei le ossa delle mani sonoramente. Mi ero fatta male, ma quel dolore era nulla in confronto al vuoto che sentivo crescermi dentro. E senza accorgermene cominciai a piangere, rovesciando le mie lacrime sulla bianca porcellana del lavabo. I miei gemiti divennero grida, le mie grida divennero parole, ma più precisamente gridavo il tuo nome e imploravo Dio di essere clemente.
Qualcuno bussò alla porta chiusa, e quel qualcuno mi aveva vista nuda e mi avrebbe presentato le sue scuse. Invece Altair aveva ascoltato il mio pianto tacendo, fuori dal bagno. –Tutto bene?- lo sentii chiedere; la sua voce così dannatamente differente dalla tua.
-Sì!- strillai, ma pronunciare quel monosillabo mi portò ancora più in basso, costringendomi con le spalle alla porta; scivolai giù fino a toccare terra con le mani. Avevo bisogno di realizzare la merda in cui ero finita, avevo bisogno di gridare e avevo bisogno che i vicini chiamassero il pronto soccorso per il semplice fatto che Altair non aveva idea di come si usasse un telefono.
Il cellulare sul lavandino riprese a squillare, e il vibratore lo spostava ad ogni squillo di qualche centimetro verso il bordo della mensola accanto al lavandino.
Lo guardai cadere tra le mie gambe e continuare a vibrare. Il volo non era stato abbastanza alto, per far tacere l’arroganza di Nikolas degli ultimi mesi avrei dovuto cambiare numero. Poi ripensai alla chiamata di Marty, e a come la ragazza aveva proposto quell’assurda festa di rientro per Desmond.
I miei singhiozzi si erano calmati mentre tra le mani stringevo il portatile che continuava a vibrare, diffondendo quella suoneria assurda per tutta la stanza toilette.
Con violenza lo scagliai alla parete davanti a me, e questo si rovesciò sulle mattonelle frantumato in due pezzi: batteria e coperchio da una parte, tastiera e scheda dall’altra. Tutto taceva.
Silenzio amato, ristoratore e calmante. Fungeva da anti-depressivo, era una cura preziosa e ringraziai il Signore per avermi dato la forza necessaria per azzittire quel cazzo di cellulare.
-Appena te la senti, sono qui fuori. Volevo parlarti… di Desmond- disse Altair. –Però sbrigati, che sono anche piuttosto affamato…- borbottò.
Mi era parso divertente, così risi a quelle parole. Un assassino del XII secolo venuto dal passato possedendo il corpo del mio ragazzo chiedeva cibo in casa mia. Perché no, infondo gli asini hanno radunato un fondo cassa per comprarsi i jet pack della N.A.S.A. e hanno imparato a volare!
Restai nel bagno una decina di minuti, che divenne in fretta una mezz’ora mentre ripassavo i particolari di quella notte. Che gran maniaca che ero, pensai alzandomi lentamente.
Fissai la porta davanti a me alcuni istante.
Ce la potevo fare: quel pianto mi aveva fatto bene ed ero pronta a varcare quella soglia, oltre la quale iniziava una nuova, e che sia maledetta, avventura.
Allungai una mano, strinsi la maniglia e aprii la porta con calma
Altair si alzò dal bordo del letto e venne verso di me. –Tutto bene?- chiese ancora.
-Mi aspettavo che come minimo chiedessi scusa- bofonchiai e lui mi sorrise divertito. Io ci trovavo poco e niente di divertente.
-Allora chiedo perdono, ma non immaginavo che… scusa- disse pasticciando con le parole, ma alla fine trovò quella giusta.
-Perdonato- gli arrisi.
Lui fece un gran sospiro. –Che cosa hai spaccato quando eri lì dentro?- domandò ridendo indicando il bagno.
Io alzai le spalle e mi apprestai a chiudere la porta, prima che si accorgesse del cellulare violentato sul pavimento. –Nulla- mi schiarii la voce. –Dicevamo. Non dovevi parlarmi di… Desmond? O meglio, sbaglio ho mi hai detto di averci scambiato una chiacchierata? Com’è possibile? Quando?- lo tempestai di domande, e l’assassino indietreggiò.
Indosso aveva ancora quello che gli avevo distrattamente dato pur di vestirlo con qualcosa.
-Sì- disse lui. –Infatti, è così. Sembra assurdo, ma la prima volta che ci accadde mi spiegò lui di cosa si trattava. Ebbene, questa notte…- si fermò, pensando a chissà che cosa.
-Continua!- gli intimai.
-Non è semplice- sbottò severo. –Credi che non sia preoccupato quanto te?!-.
-Stai sempre a preoccuparti di te! Potresti pensare agli altri, ogni tanto?! Scommetto che sei così stronzo anche nel tuo tempo- evitai il suo sguardo, allontanandomi da lui e apprestandomi a mettere ordine nella stanza, cominciando dal letto.
Lui parve irritarsi. –Non ti permetto di parlarmi così- strinse i pugni.
-Altrettanto, perché di merda mia ce n’ho già abbastanza, e non mi va proprio di badare anche al tuo pannolone!- strillai.
I vicini! Qualcuno chiami i vicini! O direttamente l’ambulanza! Portatemi via… voglio restare in coma per qualche anno. Si disse schietta.
Altair allargò le braccia, scioccato. –Non ho idea che cosa “stronzo” voglia dire, ma ti assicuro che Desmond avrebbe voluto che collaborassimo, poiché io ti servo vivo per farlo tornare!-.
Sbattei il piumino con violenza e gli lanciai un’occhiataccia.
Lui proseguì: -E per restare vivo, ho bisogno di cibo- rise.
Con quelle sue battutine credeva di tirarmi su il morale, e ci stava riuscendo.
–Va bene- mi arresi, tranquillizzando il mio animo stressato. –Ti preparerò qualcosa da mangiare, ma voglio andare in fondo a questa storia-.
-Concordo pienamente, Lady Giorgia- annuì soddisfatto.
-E piantala di chiamarmi così!- urlai togliendo le fodere dai cuscini.
Lui allungò il suo sorriso.
-Mi fa sentire… vecchia- dissi avviandomi a prendere delle nuove lenzuola dall’armadio.
-Il tuo ragazzo mi chiama nonno; suppongo di avere il diritto di rifarmi con qualcuno- sogghignò.
Mi bloccai, ma ci sarebbe stato tempo per altri quesiti. Ora ero impegnata a rifare il letto e mettere ordine nella stanza. Tanto valeva non perdere buone mansioni per tenere occupata la mente.
Mi chinai a cambiare il copri materasso, e il giovane assassino mi diede una mano. Afferrò i due angoli opposti del lenzuolo e seguì i miei movimenti come fosse il mio specchio.
Tanta somiglianza… poteva essere anche solo un brutto scherzo, ma non sarebbe durato così allungo.
In breve completammo l’opera, e il letto fu rifatto.
Mi voltai, inciampando in quelli che erano stati i pezzi del tuo pigiama prima che ci amammo. Mi chinai a raccogliere i tuoi pantaloni e i tuoi boxer, che strinsi con avidità.
Altair mi fissava, ma io gli davo le spalle e probabilmente non capì che cosa avevo in mano.
Lanciai tutto nel cesto della biancheria sporca nel bagno, ma giurai a me stessa che non appena fossi tornato, avrei fatto bruciare ogni singolo abito che portava il tuo odore di quell’ultima notte.
Avrei cancellato dalla mia vita il ricordo della parola “addio” mentre le tue mani accarezzavano il mio corpo.
Lasciai la stanza avviandomi in cucina. Per l’assassino preparai di fretta delle uova sbattute, non avendo idea se sapesse cosa fossero, ma almeno aveva assistito alla rottura dell’uovo.
Altair sedette a tavola ed io con lui, dopo essermi preparata non un the, ma una camomilla.
Mi tremavano le mani.
Quali erano state le tue ultime parole? Cosa avevi detto al tuo antenato affinché lui lo dicesse a me? Avevo compreso da quelle poche e sfuggenti informazioni cui mi aveva rivolto Altair che voi due vi eravate parlati. Ebbene, ora non indugiai, andai dritta al sodo intingendo il biscotto di pasta frolla nella tisana.
-Dimmi tutto!- dissi.
Altair guardava quella zappetta gialla che aveva davanti al naso con ripugno. Aggrottò la fronte e domandò: -Sicura che siano uova? Oppure nel futuro mettete questa buffa sostanza gialla e bianca, appiccicosa…- lo vidi insicuro anche su quell’arnese chiamato forchetta che aveva affianco al piatto.
-Tu parla, la mamma ti insegna più tardi a mangiare come gli adulti- disse irritata.
E lui se n’accorse. La sua espressione divenne silente, i suoi occhi scuri mi fissarono allungo con fastidio, mentre la sua schiena sempre composta si adagiava sullo schienale della sedia. –Grazie tante- si lamentò. –Pensavo avessi capito come mi sento- aggiunse avvilito.
-Senti, non farmi la predica!- buttai giù un sorso di camomilla. –Sei tu quello che ha causato tutti questi problemi. Se te ne fossi stato buono e alla larga dal coso dell’Eden, ora non saresti qui, lo sai?-.
-Non avevo scelta!- rispose lui, e i nostri litigi si sarebbero moltiplicati nell’arco di qualche secondo, entrando in particolari inaspettati. Per esempio, avrebbe sicuramente contestato che doveva tenere la forchetta con la mano destra!
Poggiai la tazza sul sotto bicchiere e mi passai le mani sul volto, stirando la pelle. –Dio!- assentii.
-A chi lo dici, ma non funziona invocare quel genere di aiuti. Ci ho provato tante volte…- sussurrò.
Quell’uomo che avevo davanti aveva ucciso, e tentato di ammazzare anche me. Se era così turbato allora perché non provava a sfogare tutto il suo tormento in quello che sapeva fare bene? Insomma, a me veniva tanto comodo piangere! Potevo lasciarlo girare per il quartiere e aspettare che la polizia lo arrestasse, ma con un coltello sarebbe stato in grado di tornare in questa casa con qualche distintivo delle forze dell’ordine da appendere al muro come trofeo. Quella sarebbe stata la nostra vita felice se al più presto non cercavo di convincerlo a parlare, a darmi notizie di te.
-Ti prego! Ti prego!- lo implorai e presi una sua mano tra le mie. –Dimmi cosa ti ha detto! Dimmelo, e farò tutto quello che vuoi! Tutto, qualunque cosa!- agli occhi mi stavano tornando le lacrime, eppure credevo di averle esaurite tutte nel bagno, assieme alla voce.
-Io voglio solo andarmene, e non rivedere te e questo tempo mai più per il resto dei miei giorni- sibilò.
-Oh, allora siamo d’accordo su qualcosa!- mi avvicinai a lui scalando di un posto.
Ci fu un certo silenzio, mentre le mie dita stringevano le sue, che non mi piacque. Mi chiesi cosa ci trovava di tanto interessante nel fissarmi così, pensando chissà cosa nella sua testolina medievale.
Ad un tratto il calore del suo abbandonò il mio gelido e pallido palmo.
L’assassino si mise a braccia conserte e si grattò un istante dietro la testa. –è difficile spiegare dove, o quando, ci siamo incontrati. Da quanto mi ha detto, il luogo in cui le nostre coscienze si scambiando è un buco nello spazio, un vuoto immaginario che galleggia sulla linea del tempo-.
Ascoltai, completamente assorta e allungata verso di lui. Volevo assimilare al meglio ciascuna sillaba delle vostre parole.
Altair proseguì. –Mi ha parlato dei signori dell’Abstergo e dell’operato che fecero su di lui. Però ha insistito che ti dicessi che io e lui ci eravamo scambiati già, anche prima che lui tornasse in questa casa-.
Novella nuova, pensai, ma perché non avevi voluto dirmelo? Non m’importava, ormai ad aprirmi gli occhi sulla verità c’era il tuo antenato.
-Già scambiati?- ripetei sorpresa.
Lui annuì. –Questi storici del progetto cui mio nipote era schiavo lo sottoposero a degli esami mentre io ero nel suo corpo e lui nel mio. Volevano testare se saremmo sopravvissuti ad un cambio radicale, o meglio… Desmond voleva saperlo-.
-Cosa?!- sobbalzai.
Lui si fece ancor più serio. –Quelli dell’Abstergo potevano tenere buoni i sintomi, attenuare questo nostro scambio e mantenerlo sotto controllo, gestirlo. Desmond voleva tornare da te, voleva vederti un’ultima volta, ma i signori del progetto non volevano che la loro cavia girasse libera sapendo quello che era successo. Ovviamente, non sapevano che per pochi istanti io e lui potevamo parlarci, così lui disse tutto a me ed io dissi tutto a te. A questi signori bastava solamente che Desmond tacesse, e ormai non ci tengono neppure più sotto sorveglianza. Veri stolti, perché ora possiamo fermarli. Il succo della questione è che Desmond sapeva che sarebbe successo e che nulla avrebbe impedito che noi due ci scambiassimo, ma il tuo ragazzo ti ha desiderata troppo allungo per non meritarti almeno una notte- ridacchiò.
-Ehi! Non ti è permesso entrare in certi dettagli!- lo guardai torva.
Lui trovò nella mia espressione un pretesto per allargare il suo sorriso.
Io tornai a sguardo basso. –Tutto qui?- chiesi torturandomi un’unghia. –Voleva solo fare sesso con me e poi scappare in un altro tempo?- brontolai.
Altair soffocò la sua gioia. –Ovvio che no- disse, e i miei occhi verdi incontrarono le sue pupille nere.
-E allora? Mi sento più confusa di prima-.
-È normale- fece lui afferrando la forchetta in un modo esperto che mi stupì. –Mi aveva avvertito che saresti stata più ottusa di me, a riguardo-.
Sorrisi. Desmond, avevi sempre amato prendere in giro la mia stupidità e la mia ottusaggine. Quelle erano di certo parole tue.
-C’è altro?- domandai mesta.
-Sì-.
Sollevai il viso, sorprendendomi delle poca distanza che c’era con quello del tuo antenato. –Sarebbe?- mormorai.
-Devo prendermi cura di te- annunciò come se l’avessero appena fatto salire di rango.
Io inarcai un sopracciglio. –Ma se sono io quella che sa guidare una macchina, accendere i fornelli e tenere una forchetta!- sbottai.
Altair alzò la mano che stringeva educatamente la posata. –Non ci sperare- disse divertito, cominciando a mangiare le uova.
Non riuscii a trattenere un medesimo sorriso. Quell’uomo dimostrava un tale coraggio che neppure nei film d’azione mi sarei aspettata. Se veniva dal passato, dovevo sorprendermi e allontanarmi dai suoi comportamenti. Eppure, forse quella specie di addestramento trascorso nell’Abstergo a testare lo scambio con te gli avevano fatto bene. Qualcuno gli aveva insegnato a tenere una forchetta in mano, e qualcuno gli aveva spiegato con sacrosante parole che avevo bisogno del suo aiuto per tirare avanti.

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Capitolo 8
*** Questo è il futuro ***


Questo è il futuro





Non mangiavo: la fame era una sensazione non conosciuta dallo stomaco, un fastidio che la mia mente era capace di isolare dal resto del corpo e immagazzinare. Quella era la priorità del giorno: cominciavo a preoccuparmi che se fosse andata a vanti così sarei potuta diventare anoressica. Fortunatamente c’era Altair che ogni tanto mi domandava: -Hai fame?- ma non aveva senso, dato che io rispondevo: -No, grazie-.
Lui ribatteva: -Sei sicura? Ti vedo pallida-.
Ed io: -è il mio colorito abituale-.
Eravamo seduti sul divano, l’uno affianco all’altra, immobili come statue. Il silenzio raramente interrotto dalle sue domande cui io non rispondevo sinceramente, perché sapevo bene di non avere nulla apposto dentro di me e di sentirmi uno straccio.
Ero rimasta in pigiama tutta la mattina, cosa che non facevo mai.
La solitudine mi faceva male, non avevo motivo di sprecare le mie ore a pettinarmi e a vestirmi se lì non c’era nessun altro se non qualcuno che non doveva esserci. Era assurdo concepire che Altair fosse una persona. Per chiarire meglio la questione, non mi riusciva vederlo come un essere umano con cui scambiare interessi e qualche parola, insomma… una chiacchierata tra amici. Lui non era un amico. Lui era un estraneo che si era sostituito a te e che indossava i tuoi vestiti e il tuo corpo, come fosse una stupida maschera di carnevale.
Erano ore che non intraprendevamo qualcosa di utile al mondo o solo a noi stessi, come pensare ad un modo per uscire da quella merda. Un modo, in poche parole, di rubare all’Abstergo i farmaci che avrebbero curato la vostra malattia mentale.
Ebbi modo così di pensare che avrei commesso un reato, il primo in tutta la mia vita dopo uno dei tanti furti di caramelle ai miei fratelli minori. Fedina penale sporca, mi dissi, perché no? Tanto ormai la mia vita aveva preso pieghe ben più assurde e anomale!
Mi voltai a guardare il ragazzo che sedeva alla mia sinistra, ma tornai in breve a fissare fuori dalla finestra. Mi scappò un sospiro spezzato dalla malinconia che si annidava in me, e Altair se n’accorse.
-Ehi, non mi morire di depressione- disse –…Desmond non me lo perdonerebbe- sorrise divertito.
Io chiusi gli occhi e poggiai la testa all’indietro. –Non è quello- proferii in un sussurro.
-Ah, no?- fece lui.
Il mio petto si alzava e si abbassava con regolarità, nel tentativo di mantenere il battito del cuore costante e di non avere un arresto per pressione troppo bassa: mi sentivo svenire. –Come ci procureremo quei farmaci? Se basta qualche moment a farvi tornare in voi, possiamo chiedere aiuto a qualche medico-.
L’assassino incrociò le braccia al petto. –Magari fosse così semplice- mormorò. –L’Abstergo aveva avvertito Desmond di non rivolgersi a nessun medico privato o di pubblico impiego. Appena sapranno che stiamo tentando di “chiedere aiuto” faranno di tutto per sbarazzarsi definitivamente del problema - sbottò calmo.
Sobbalzai. -Da quanto ho capito è gente grossa, e non possiamo pretendere di entrare lì con qualche pistola alla mano dicendo: “Fermi tutti! Questa è una rapina!”. Se sono così ben attrezzati per quanto riguarda intercettazioni e agganci col governo, allora siamo spacciati. Desmond non tornerà mai e tu dovrai restare qui per sempre! Tanto vale darmi fuoco ora prima che lo faccia qualcun altro…- borbottai.
Altair inarcò un sopracciglio, guardandomi con fare sbigottito. –Ti assicurò che manterrò abbastanza la calma da non prendere certe iniziative!- rise.
Mi ricordai di come mi avevi parlato degli effetti mentali che la trasfusione di coscienza poteva arrecare agli antenati portati nel presente: follia, ipocrisia, staticità, irruenza, mania, rabbia, e ancora follia. Mi avevi detto che alcuni dei soggetti prima di te, dopo aver scambiato la loro coscienza con quella del loro antenato, si erano messi a scrivere sui muri della tua stanza col sangue. Rabbrividii, e Altair se ne accorse.
-Ti ha detto del sangue- proferì annuendo. –Sapevo che ne saresti rimasta scioccata. Lo avevo avvertito “anche” di questo- disse serio.
-Perché?- sorrisi io. –Di che altro lo avevi avvertito?- diventai maliziosa tutt’un tratto, avvicinandomi a lui.
Sapevo a cosa si stava riferendo.
-Se sei tanto sicura di saperlo, perché me lo domandi?- proruppe irritato.
Scoppiai una fragorosa risata e pensai che forse un minimo di dialogo tra di noi ci sarebbe stato. minimo, quel poco che un assassino del XII secolo traumatizzato appena uscito dalla macchina del tempo e una newyorchese potevano avere in comune.

Mi annoiavo: venne sera e non avevamo fatto altro che parlare su quel divano mentre mi riempivo di calmante naturale, ovvero di camomilla. Lui mi raccontava del suo tempo, della setta degli assassini, della Terza Crociate ed io annuivo. Ma mi annoiavo. Sbadigliavo spesso, perdevo molte volte il filo del discorso e Altair sembrava piuttosto bravo ad accorgersi quando la persona che aveva davanti era in procinto di addormentarsi. Insomma, alla fine tagliò corto col suo passato e cominciò a chiedere di me.
Forse raccontare qualcosa della mia vita, ripensando a cosa di giusto e di dannatamente sbagliato avevo fatto avrebbe migliorato le cose. O forse cercavamo semplicemente qualcosa da fare. Ebbene, non esitai neppure un istante. Partii dalle mie elementari a Philadelfia fino ai viaggio coi miei genitori a Los Angeles, dove i miei fratelli minori, Gabriel e Luigi avevano scelto di vivere. Gli raccontai che la mia passione per la scrittura era nata al college, dove mia madre aveva insistito che andassi. Lì avevo passato i giorni peggiori della mia vita (mai peggiori quanto queste ultime 48 ore a parte piccoli piaceri precisi… eheh). In quel college conobbi Nikolas, lì ci fidanzammo e passammo felicemente assieme tre anni della nostra vita. Per motivi familiari fui costretta a spostarmi a New York per assistere mio padre che stava per niente bene, poiché i miei avessero appena divorziato, e lui si fosse lasciato parecchio andare. Nikolas mi seguì a New York, nella casa in cui vivo ora passò anche lui, disse ad Altair che era interessato più di quanto non lo fossi stata io ad ascoltare lui. Gli raccontai che io e te, Desmond, ci eravamo conosciti al bar nel quale lavoravi, circa un annetto fa. Mi servisti da bere ed io avevo una di quelle facce sconvolte che riuscii ad attirare la tua attenzione. Ubriaca di un paio di giri di birra, cominciai a raccontarti tutti i malesseri della mia famiglia: Gabriel e Luigi che si menavano per strada appena si vedevano, rimuginando l’infanzia passata a bisticciarsi il Game Boy, mio padre in fin di vita e il divorzio dei miei genitori, assieme alla carriera di mia madre nell’industria della moda. Robaccia che a me non era mai piaciuta, ma lei e mia nonna si erano tramandate una vecchia catena di negozi nel centro di Roma.
Ecco la mia vita di merda che prendeva una piega inaspettata, una medesima mazzata. L’equilibrio del mio circolo vizioso era stato rotto da un anello comparso dal nulla… non dal nulla, dal passato.
-Tra te e questo… Nikolas- ripeté lui. –Non c’è niente, vero?- mi chiese.
Io scoppiai a ridere, non riuscendo a trattenermi. –è Desmond che te l’ha chiesto?- domandai col viso rosso dalla risata.
-Chiesto cosa?-.
-Tra me e Nik c’è una porta chiusa ormai. Ho imparato a difendermi da quelli come lui- pronunciai ricordando certi brutti momenti.
-Perché dici questo? Cosa ti ha fatto di tanto orribile?-.
-Lui voleva solo i miei soldi. Scaricava sul suo conto dalla mia carta di credito che veniva perennemente riempita da mia madre tramite un codice che gli avevo azzardatamene svelato. Bastardo figlio di puttana- digrignai.
-Uh uh- fece lui portandosi le mani dietro la testa e sistemandosi più comodo tra i cuscini del divano. –Per “carta di credito” intendi denaro, non è così?- mi interrogò.
Annuii.
-Nel mio tempo un matrimonio si basa solo su questo-.
-Il tuo tempo è un mondo di barbarie e tanta crudeltà- sbottai.
-Hai ragione, l’ho sempre pensato anch’io…- mormorò.
*Punto in comune numero uno: entrambi volevamo mettere fine a quella merda che cadeva dal cielo.
* Punto in comune numero due: entrambi avevamo le stesse idee su quanto il mondo fosse ingiusto sia nel passato che nel presente o futuro che sia.
* Punto in comune numero tre: si stavamo annoiando entrambi da morire.
-Ti andrebbe…- cominciai io interrompendo il silenzio.
Lui si voltò a guardarmi e nei suoi occhi balenò una luce speranzosa. Di cosa, poi…
-Ti andrebbe di uscire?- gli chiesi.
-In città? Lì fuori?- indicò le finestre, e le sue labbra si contorsero in un ghigno di solo stupore.
-Che male c’è?- feci io alzandomi e stiracchiandomi. –è tutto il giorno che stai chiuso qui, avanti. Se mi resti vicino, nessuno ti farà del male, te lo prometto!- mi beffai di lui, che subito scattò tirandosi su dal divano.
-So badare a me stesso- mi disse dall’alto, ed io mi sentii piccola piccola sotto il suo sguardo severo e sicuro di sé.
-Ottimo- balbettai scansandomi da lui e avviandomi nella stanza da letto. –Mi butto qualcosa addosso e poi usciamo; non ce la faccio più…- brontolai. L’aria di chiuso di casa mi aveva dato alla testa, facendomela pulsare. –Smog o no, almeno c’è il sole!- continuai e mi accorsi che il tuo antenato mi aveva seguito silenziosamente. Come faceva ad essere così inudibile? Avvertivo a mala pena la sua presenza alle mie spalle!
Non stavo scherzando: la prima cosa che trovai me la gettai addosso, ovvero un jeans che non vedevo da un paio di mesi e un maglione grigio di lana leggera a collo alto.
-Sono proprio curioso di vedere cosa sono quelle cose…- disse Altair guardando fuori dalla finestra della camera. –sembrano… carrozze-.
Impiegai poco a realizzare che si stesse riferendo alle automobili. Ecco, forse un giorno gli avrei insegnato a guidare, o chi mi avrebbe riportata a casa ubriaca fino al midollo se mai mi fosse presa una crisi di pianto isterico davanti al bar nel quale lavoravi? C’erano molte evenienze sgradevoli da calcolare, poiché non avessi ancora smaltito tutta la depressione per il tuo allontanamento da questo mondo, Desmond.
-Si chiamano macchine- dissi io dal bagno mentre mi spazzolavo i denti. –Servono per spostarci più velocemente da una parte all’altra della città- aggiunsi.
Lo sentii tacere e mi sporse appena dalla porta con lo spazzolino ancora in mano.
Lo vidi di fronte alle vetrate che scrutava in basso, le strade e si compiaceva turbato di quanto la civiltà umana si fosse evoluta. Ed io lasciai che si stupefacesse da solo, così tornai ai miei denti.
Quasi distrattamente lanciai un’occhiata ai pezzi del mio cellulare per terra. Mi stupii di quanto fossi capace di arrabbiarmi in alcuni momenti. Sospirai, mi chinai a raccogliere i frammenti e mi apprestai a rimontarlo.
Dannatamente… funzionava ancora, ma se mia madre non aveva conferma che io respirassi almeno ogni settimana, sarebbe venuta qui dall’Italia col primo aereo. Non potevo rischiare.
Non appena riuscii ad assestarne tutti i pezzi, me lo misi in tasca e uscii dal bagno.
Altair era seduto sul letto coi gomiti poggiati sulle ginocchia. Lo sguardo severo che ancora si perdeva oltre i vetri, oltre i grattacieli e oltre le nuvole. Taceva, ma nel suo silenzio c’era tanto turbamento.
Strappato dalla sua vita, cui non mi aveva raccontato nient’altro al di fuori della confraternita. Non strappato dalla “sua” vita, che ammazzando gente non aveva mai avuto, ma strappato alla vita. Un forte senso di compassione mi avvolse e ne fui preda: -C’è qualcosa che non va? Stai bene?- domandai avvicinandomi a lui che, non essendosi accorto di me, balzò in piedi.
-Sì, sì- proferì composto.
Un’occhiataccia per niente convinta affiorò sul mio volto. –Davvero?-.
Il ragazzo socchiuse gli occhi. –Ho solo… paura- disse, e mi lasciò senza fiato.
-Di cosa?-.
-Del futuro, questo futuro- si voltò e indicò con la testa la finestra.
-Perché?- domandai.
-È questa la visione che ha portato i precedenti uomini del passato alla follia, è questa visione che li spinse a scrivere sui muri! Come a lasciare una testimonianza di quale apocalisse li era capitata!- sbottò quasi gridando, ed ebbi paura.
Indietreggiai, d’un tratto mi sembrava in vena di brutti scherzi.
-Forse dovresti chiudermi in uno stanzino e far blindare la porta, e trovare da te quei farmaci- borbottò cupo.
-Ci avevo pensato- confessai timorosa della sua reazione. Cosa potevo aspettarmi da lui se non che mi picchiasse a sangue e finissimo entrambi sotto processo con la nostra cartella che diceva: caso di coppia in crisi. Gli uomini del passato, cavalieri o assassini, avevano un modo insolito di confessare i loro timori: mostravano i denti. Come animali.
-Se non ti va di uscire, va bene- dissi e, onestamente, aveva fatto passare la voglia anche a me.
Lui tacque, sconvolto da chissà quali pensieri.
-No- sbottò d’un tratto. –Sei tu che hai bisogno di cambiare aria e distrarti, non posso lasciarti marcire come una pera nella dispensa- dichiarò.
-Be’- feci spallucce avanzando verso di lui. –Allora sbrigati a prendere una decisione. Potrei anche lasciarti qui e fare un giro per conto mio, ma mi sembrerebbe ingiusto, perché poi la pera a marcire nella dispensa diventeresti tu!- li colpii il petto solido con l’indice.
A quel tocco m’irrigidii più io di lui.
Conoscevo bene la forma del tuo corpo, e fui certa che i muscoli che il mio dito aveva sfiorato non fossero i tuoi. All’inizio mi era parso impossibile che il transito mentale comportasse anche le caratteristiche fisiche.
-Ma dimmi una cosa- mormorai.
-Cioè?-.
-Tu pensi di essere nel tuo… corpo?- domandai con un filo di voce.
Lui aggrottò la fronte. –Desmond non te l’ha detto? Si è scordato anche questo?- fece seccato.
-Non so di cosa parli!- gli risposi in tutta sincerità.
Il ragazzo alzò il braccio e poggiò il palmo sinistro aperto sopra il suo petto.
Indietreggiai con un salto anomalo che per poco non caddi all’indietro. –Che cosa?!?! Che cos’è quello?!?!- strillai.
Gli mancava un dito. Alla mano del mio ragazzo mancava un dito!
-Perché!?!?- continuai sconvolta, ma di più! –Perché l’hai fatto?!?!-
Lui scoppiò in una possente risata. –Credi che me lo sia fatto qui?- non la piantava di ridere, ma c’era poco e niente di divertente.
Mi sentii svenire. –Perché hai tagliato un dito della mano del mio ragazzo? Che motivo ne avevi?- pensai che i sintomi di follia di cui mi avevi parlato stessero cominciando a manifestarsi e, che a breve, Altair avrebbe iniziato a scuoiarsi vivo, tranciandosi chissà che altro.
Il dito mancante, ebbi coraggio di constatare, era l’anulare.
-Smettila di ridere!- mi percepii in dovere di dargli uno schiaffo, e lo feci, non riuscendoci.
Fermò la mia mano all’altezza del polso, ma le mie dita potevano sfiorare appena la sottile barba.
-Non me lo sono tagliato in questo tempo. Il dito mancante è la prova che dal passato qualcosa del mio corpo è arrivato fin qui- dichiarò tornando serio.
-Ma… ma com’è possibile?- sbottai.
-E lo vieni a chiedere a me?- fece schivo.
-Ok, va bene… mi serve del tempo per… pensare, quindi andiamo- dicendo così mi avviai all’ingresso e presi sia le chiavi della macchina che quelle di casa.
Altair mi venne dietro e si affacciò dalle scale mentre chiudevo la porta serrando tutte le serrature possibili. Ero nervosa, agitata, irritata. Avevo una scritta in fronte che diceva: statemi alla larga.
Dunque il tuo antenato ti somigliava, o era completamente identico a te. Feci una lista dei componenti differenti che Altair si era portato dal passato mentre scendevamo in ascensore.
I muscoli, soprattutto delle braccia, perché gli avevo dato come giacca il tuo giubbotto senza maniche di piumino. Nonostante gli abiti buffi, sembrava si sentisse a suo agio, e la cosa non poteva che rassicurarmi.
Ma aveva anche lui nel passato quella cicatrice sul labbro? Avrei osato chiederglielo in un altro momento.
La voce, il portamento, lo sguardo. Tutte quelle differenze erano come artigli che ogni istante in più che passavo a classificarle mi dilaniavano lo stomaco.
Come un bambino, il tuo antenato si guardava attorno con in volto un’espressione mista tra stupore e meraviglia nel guardare fuori dai vetri della cabina. Non seppi se tutti quegli oggetti strabilianti lo sconvolsero positivamente o negativamente, e confidai nel fatto che non ci saremmo avvicinati mai abbastanza per condividere quei timori.
Mi aveva detto di avere paura: era già un passo avanti, e per ora mi bastava sapere soltanto quello, ovvero star certa che le sue reazioni alle scioccanti novità del mondo odierno non sarebbero state differenti da quelle di un criceto che vaga per un laboratorio di chimica nucleare.
Una volta nell’atrio, lo vidi restare immobile davanti alle porte di vetro del palazzo.
-‘Giorno Desmond, salve Giògiò - ci salutò il portiere.
L’unica a ricambiare quella cortesia di saluto fui io, perché Altair probabilmente non era abituato a farsi chiamare Desmond e quindi a riconoscersi quel nome.
Gli diedi una gomitata e il ragazzo si riscosse.
-Salve- disse titubante, ma dopo pochissimi i suoi occhi neri tornarono al mondo nuovo ed estraneo che era la strada.
Per strada intendevo dire parecchie cose: grattacieli alti che ci osservano dall’alto, gente a fiumi che passeggia come un torrente in piena per i marciapiedi, i clacson delle auto e le auto stesse che scivolavano sulla strada e schizzavano in due direzioni precise.
Lo strinsi per mano e lo tirai con me verso l’esterno.
Come avesse messo il freno, Altair inchiodò sul tappeto rosso che copriva il marmo del pavimento.
-Avanti!- gli sussurrai dolce.
Aveva paura: il bambino voleva tornare sotto le coperte perché il temporale tuonava fulmini e saette nel cielo, che era effettivamente sereno quella mattina.
Il portiere, un omuncolo grasso seduto dietro ad una scrivania, ci fissava entrambi.
Mi accostai al tuo antenato e tentai di spingerlo con forza senza che l’omuncolo si accorgesse del mio comportamento insolito. –Cammina!- digrignai.
Una volta fuori dal palazzo, non so lui, ma io inspirai a pieni polmoni la brezza fresca che mi scompigliò i capelli.
Invece Altair cominciò a tossire, piegandosi sulle ginocchia. –Che cos’è questa puzza?- domandò arricciando il naso e appoggiandosi alle cosce.
-Smog, anche se negli ultimi anni è nettamente diminuito- gli dissi aiutandolo a tirarsi su.
L’uomo si portò le mani alla bocca. –Smog?!- sbottò. –e che roba è?!-.
-Lo smog è quello che producono le macchine bruciando carburante, benzina- lo presi sotto braccio e cominciammo ad incamminarci, gettandoci tra la folla dei marciapiedi.
Il suo sguardo vagava da una parte all’altra della strada, svoltando svelto dalle macchine ai cartelloni pubblicitari sulle pareti dei grattacieli luminescenti.
-E perché usate le macchine, allora?! Questa roba è irrespirabile!- gridò, ed io non riuscii a biasimarlo.
-Ormai il mondo ha preso una piega oscura per quanto riguarda questo punto di vista. Si era pensato alle auto ad aria compressa, ma vallo a dire alle multinazionali!-.
-Multi cosa?!-.
Basta lo stavo confondendo. –Non sei abituato, ma presto questa puzza non ti darà più fastidio, vedrai…- mormorai.
-Ma per allora sarò gravemente malato!-.
Io mi arrestai di colpo. Non era vaccinato, niente. Pensai che un raffreddore potesse ucciderlo, che una polmonite riuscisse a stenderlo per sempre sul tappeto di casa, ma scacciai quei pensieri. Non era vaccinato con l’antitetanica, ma i farmaci di oggi potevano sconfiggere qualunque malattia.
La crudeltà dell’Abstergo si vedeva anche in questo.
Gli cinsi il braccio con più forza mentre ci fermavamo accanto al semaforo. La folla di gente in procinto di attraversare la strada si radunò alle nostre spalle.
-Che fai?!- domandò lui stupito.
-Ho parcheggiato dall’altra parte della strada. Attraversiamo- risi guardandolo.
Lui si sconvolse ulteriormente. –Ma non vedi che queste cose arrivano a tutta velocità?!- indicò le macchine che schizzavano a pochi metri dai nostri nasi.
-Fidati di me- ridacchiai.
Lui tacque, ed io feci fede a quel famoso proverbio: chi tace acconsente.
Il semaforo scattò in rosso per le auto e in verde per i pedoni.
Altair rimase a bocca aperta nel vedere le macchine che si fermavano ai nostri lati mentre noi attraversavamo belli tranquilli.
-Come… vi hanno letto nel pensiero?- chiese.
-No, questi si chiamano semafori e indicano quando puoi passare e quando no. Quando è rosso no e quando è verde sì- dissi, come se stessi parlando a mio nipote che aveva appena due anni.
Il suo silenzio divenne il mio pane quotidiano finché non raggiungemmo la macchina che era parcheggiata dietro l’angolo della strada, davanti all’ingresso per il supermercato.
Tirai fuori le chiavi e disattivai l’allarme. Aprii la portiera del passeggero e gli feci cenno di salire.
-La sua carrozza, signore- gli dissi sorridendo.
-Certe volte credo solo che sia un… orribile sogno- fece lui chinandosi per guardare l’interno dell’abitacolo.
-Non ti preoccupare, tutto questo è solo una piccola parte del mio mondo- ridacchiai.
Lui mi lanciò un’occhiataccia.
Io allungai il mio sorriso. –Questo è il futuro- dichiarai fiera.



______________________________________________


Bene, ottimo, ci siamo. Non ho ancora ben in mente dove Giò abbia intenzione di portare il nostro assassino preferito. Ho inventato la cosa della macchina sul momento, quando volevo che i due facessero solo una piccola passeggiata, tanto per far adattare Alty allo smog della metropoli! Ehehe.

Un ringraziamento speciale ai seguenti utenti:

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman

… un giorno di questi imparerò come si mettono i Link direttamente ai vostri accaunt…


X Saphi: *Ho appena aggiornato la pagina web di EFP e mi sono accorta in questo istante che hai recensito chappo precedente! Nel momento in cui stavo scrivendo i ringraziamenti! Che Telepatic Time. Ebbene, mi sembra di non averti dato tregua per quanto riguarda questa ff! Muhahahah! Quanto sono stronza! (dolce vendetta hihihi). Scommetto che ti sei accorta di questo aggiornamento dopo aver letto il nuovo chappo dell’altra ff! Dio, sono un mostro… quanto scrivo?!?! E mi detesto per questo, quando mi prende l’ispirazione non c’è nulla da fare… non riesco a fermarmi e i miei genitori non riescono a staccarmi dal pc! Spero vivamente che quest’aggiornamento inatteso e così… fulmineo ti sia piciuto! Fatti sentire su msn, ovviamente appena puoi. Ciao.

Taglio corto perché mi debbo gettare nei compiti che mi sono lasciata all’ultimo momento: grammatica (da non credere) e storia (al rogo il libro!). Un saluto a tutti, qui Elika che passa la linea alle vostre meravigliose recensioni e vi attende calorosi al proximo chappo! Ciau simpatici!

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Capitolo 9
*** Il kebab newyorchese ***


Il kebab newyorchese





Aprii il finestrino e i suoni della città invasero l’abitacolo della macchina. Presi una boccata d’aria ascoltandoli tutti: i clacson, le chiacchiere della gente che camminava sui marciapiedi, il canto degli uccellini sugli alberi ai lati della strada. Senza scordare le grida dei tassisti incazzati.
Eravamo bloccati a qual semaforo rosso da cinque minuti minimo, ma stavano facendo dei lavori più avanti e avevano rallentato il corso di entrambe le carreggiate.
L’ombra dei grattacieli si allungava sull’asfalto avvolgendo i passanti e le auto in fila di quella mattina. Più in alto, dove il sole riusciva a colpire le finestre dei piani superiori delle palazzine, questo giocava con la luce proiettando bizzarri riflessi.
Poggiai entrambe le mani sul volante, e tamburellai con le dita la pelle sintetica. Presi a canticchiare un motivetto assurdo che ricordava tanto una canzoncina sentita alla radio poche settimane prima ma che era passata fuori dalle classifiche immediatamente. Una song vecchia di parecchi anni, ma che ricordavo fosse del mio gruppo preferito di quando andavo a liceo. Mi aveva colpito così tanto riascoltarla dopo tanto tempo, che ora riuscivo a ricordarmene alcune strofe.
Intonai il ritornello senza parole, e di seguito cominciai a cantare:


-…Can't you see that you're smothering me
Holding too tightly afraid to lose control
Cause everything that you thought I would be
Has fallen apart right in front of you
    di sottofondo si sente: (Caught in the undertow just caught in the undertow)
Every step that I take is another mistake to you
    di nuovo:                    (Caught in the undertow just caught in the undertow)
And every second I waste is more than I can take…-


La mia voce suonava ottusa, poiché le pareti di una macchina non fossero ben insonorizzate. Le note che riuscivo ad esibire nel canto erano come tagliate, corte e punteggiate. Eppure mi ero lasciata prendere la mano, perché cantare quelle strofe, o solo il fatto di cantare e concentrare la mia mente ottusa su qualcos’altro, mi fece bene. Ecco il ritornello che avevo imitato precedentemente senza parole, che scovai nei meandri dei miei ricordi.


-…I've become so numb I can't feel you there
I've become so tired so much more aware
I'm becoming this all I want to do
Is be more like me and be less like you…-


Mi presi del tempo per pensare a quello che avevo detto e a quale fosse il titolo di tale stupefacente canzone, dedicata più che altro all’uomo che mi sedeva affianco.
Mi voltai a guardare il tuo antenato scoprendo che mi aveva fissato per tutto il tempo coi suoi occhi incredibilmente scuri e spaventati, ora terribilmente sbigottiti.
- Che c’è?- feci spallucce voltandomi dalla parte opposta.
- Cos’era… quella musica?- domandò assorto.
- Una canzone, musica… credo che al tuo tempo l’avessero già inventato lo spartito- sbottai tornando a guardarlo.
-Infatti- mormorò. –Ma quelle parole… le hai inventate tu?- chiese ancora.
-No- risposi con lo stesso tono mesto. –Una canzone ha delle parole, l’ha scritte l’autore… è una poesia accompagnata dalla musica!- lo informai.
Lui si sistemò meglio di lato. –E voi ricordavate tutte le esatte parole? Come mai?-.
Cominciava a darmi sui nervi, ma mi diedi una contegno. –I Linkin Park- sussurrai gustandomi quel nome. –Erano il mio gruppo preferito al liceo… quando facevo la scuola dei grandi- risi, ripensando alle volte che avevo ascoltato e cantato un centinaio di volte assieme alla mia compagna di stanza, saltando sui letti.
Mi girai verso il tuo antenato che mi fissava curioso di sapere altro. –Poesia con la musica- ripeté colpito, tornando a scrutare il vuoto di fronte a sé.
-Chissà perché ti ha colpito tanto!- gioii io che nel frattempo avevo estrapolato il significato di quelle poche strofe.
-Già, chissà- sospirò lui.
Gli lanciai un’occhiata e notai che sembrava alquanto rilassato. Mi aspettavo che il giretto in macchina lo spaventasse, ma fortunatamente non avevamo superato i sessanta chilometro orari camminando a passo d’uomo nel traffico.
-A che vi servono le auto se si fa prima a piedi?- aveva chiesto quando eravamo usciti dalla stradina di condominio e ci eravamo gettati nella caotica New York.
Io avevo riso. –Se lo chiede anche mia madre!-.
Da allora il viaggio era proseguito tranquillo. Volevo che Altair si adattasse ai ritmi del futuro ed ero entusiasta discoprire quali sarebbero state le sue reazioni. Era quasi ora di pranzo avevo cominciato a stufarmi di stare in macchina, e mi si addormentavano i piedi sui pedali.
Raggiungemmo Broadway in dieci minuti di fila nel traffico, feci un sospiro di sollevo e beccammo per un pelo l’onda verde.
Al primo semaforo rosso, quando notai i vigili che parlottavano sereni sul ciglio del marciapiede, mi accorsi dell’incredibile svista.
Mi allungai verso il tuo antenato e afferrai la cintura di sicurezza appoggiandomi su una sua coscia.
-Che cosa stai facendo?- domandò lui alzando un sopracciglio, e lo percepii irrigidirsi quando i mio petto sfiorò appena il suo.
Tirai la cintura e l’allacciai al suo fianco.
–Scusa, ma non mi va che ci rimetti prima che Desmond ritorni- ripresi fiato tornando al mio posto e stringendo le mani sul volante.
-In che senso?- parlottò.
-Se succede un incidente, l’assicurazione non paga gli antenati del passato- lo derisi.
-Ah, bene!- rise. –Quindi non solo la macchine inquinano e ci si cammina a passo d’uomo! Ma si rischia anche di morire!? Non capirò mai questo mondo…-.
Lo ignorai, pensando che avrebbe reagito in quel modo più di una volta al giorno.
Avevo in mente una destinazione da non appena eravamo partiti, ed era lì che avrei portato il tuo antenato. Lontano dallo smog, coi rumori della natura attorno. Il verde infinito di un piccolo campo da golf, un lago dall’acqua scura e un sentiero nella foresta. M’immaginai che Central Park potesse occupare gran parte del pomeriggio di quella gita divertente. Un eco sistema nel bel mezzo di New York, capi da baseball e un mucchio di gente con in mano… no, avrei lasciato che fosse una sorpresa.
Non appena giungemmo sulla rotonda di Colombo, svoltai a destra e intrapresi la strada che costeggiava il lato sud del parco. Poi imboccai la via che si avventurava nel verde e la percorsi ad appena quaranta chilometri.
Quella velocità era la stessa di un cavallo in corsa, quindi Altair non poté trattenere lo stupore.
Feci ruggire il motore della macchina e il ragazzo sobbalzò.
-A passo d’uomo?- sorrisi maliziosa, e lo osservai sprofondare lentamente nel sedile.
Era una foresta luminosa che brillava alla luce del sole, e scorreva ai lati della macchina. Certo, proseguivamo lentamente dato che più di tanto l’accelerazione non era permessa lì.
-Ci sono delle strisce, per terra…- aveva commentato.
Come fossi all’esame di guida, gli disse a cosa servivano quelle interrotte e le linee continue. Accennai anche al passaggio pedonale e al semaforo arancione che lampeggia.
Mentre fermavo la macchina nel piazzale di parcheggio, il cellulare squillò.
-Scusa, un attimo- gli dissi leggendo sullo schermo del portatile. –Intanto scendi- aggiunsi aprendo la portiera e alzandomi dal mio posto.
-Ah!- rise lui guardando l’incastro della cintura di sicurezza. –Vediamo un po’…- borbottò.
Una volta all’aria aperta, mi stanziai appena dall’auto e mi portai il telefono all’orecchio, lanciando un’occhiata ad Altair che aveva problemi con l’aggancio della cintura.
Risi, ma la mia gioia si estinse alla svelta. –Che vuoi, Nikolas?- sbottai.
Dall’altra parte della linea lo sentii ridere. –Marty mi ha chiamato per la festa- rispose lui cauto. –Volevo dirti solo che si può fare, ma notizia bomba: i miei hanno comprato quella casa in campagna che volevano regalarci al nostro anniversario! Ti ricordi?-.
Curvai le spalle, passandomi una mano sul viso. –Sì, ma ora è tutta tua, ricordi?- lo canzonai.
-Sì, ricordo- sospirò. –Ma un po’ di rispetto, dato che in questa festa di merda mi ci butto anche io, chiaro?-.
Scoppiai a ridere. –Sempre il solito, mai pronto ad aiutare il prossimo!-.
-Non sei divertente, ragazza!- digrignò scherzoso.
-Non vale la pena essere divertente con te- ridacchiai.
-Va bene, qui non ho da aggiungere altro. La festa si fa alla villa, e devi fare la tua parte con gli inviti-.
-No problema, cocco- feci una smorfia quando i raggi del sole mi colpirono negli occhi e dovetti voltarmi.
Notai che il tuo antenato si stava guardando attorno sorridente, in piedi accanto alla macchina.
-Tutto qui?- domandai, e non riuscii a trattenere un sorriso gioioso quando gli occhi di Altair incontrarono i miei.
-Sì, è tutto… ti rammento che mio fratello ha chiesto di festeggiare il suo compleanno tutti insieme al bar, questo sabato- mormorò Nikolas affranto.
Io ci pensai su, accorgendomi di essermene totalmente dimenticata. –Scusa, me l’ero scordata! Me l’avevi detto un paio di giorni fa, ma non c’ero con la testa…-.
-Posso immaginare, ed ora che Desmy è tornato ci sarai ancora meno!-.
Se fosse stato lì davanti a me, gli avrei lasciato un bell’occhio gonfio. –Sì, hai ragione, ma verrò e porterò anche Desmond-.
-Ha perso il lavoro, lo sai? Non si è più fatto vedere e il capo l’ha sostituito con William al banco cocktail- sembrava… contento.
-Se ne troverà un altro, anche se credo che starà a casa per un po’…- sibilai.
-Ti ostini a coccolarlo, eh?-.
-Piantala Nik, deve riprendersi da… ecco, dal viaggio-.
-Dov’è stato, si può sapere?-.
-Non ti riguarda, ora devo andare. Ci vediamo sabato-.
-Sabato, va bene-.
Chiusi la telefonata gustandomi il momento in cui il mio pollice schiacciò il pulsante rosso. –Sollievo, immenso sollievo-. Solo la voce di Nik mi dava sui nervi, riportandomi a tutte le volte in cui mi aveva mentito durante il nostro rapporto. Bastardo, giusto termine per definire quelli come lui.
Mi avvicinai all’auto e tolsi le chiavi dal posto del guidatore, chiusi la portiera e, mentre Altair mi fissava, mi avviai.
-Cammina, ho fame!- dissi andando verso la strada, dall’altra parte della quale si allungava il verde magnifico del prato infinito.
-Aspettami!- fece lui correndomi dietro.
Mi voltai fermandomi e attivai l’allarme dell’auto, facendo balenare i fari.
-Dove stiamo andando? Perché mi hai portato qui?- mi tempestò di domande mentre attraversavamo.
-Ho pensato- cominciai io –che un po’ di verde potesse farti bene- risposi in tutta sincerità.
-Sì, apprezzo molto, grazie- mi sorrise mesto.
Lo presi per mano quando attraversammo, accompagnandolo come un bambino dall’altra parte. Il prato infinito si stagliava fino alle rive del lago al centro del parco, le cui acque scure erano ornare da alcune fontane che apparivano appena per la lontananza.
Perché mi sentivo la sua babysitter? Era imbarazzante, anche se di coppie felicemente spensierate che si tenevano per mano se ne vedevano soprattutto di quei giorni soleggiati.
E lui si lasciava guidare da me, affidandosi completamente alla mia esperienza, che a conti fatti non poteva essere chiamata esperienza sapersi muovere sulle strisce pedonali.
Quel posto gli piacque, e ne fui sollevata.
Lo vidi rilassato più che mai, mentre sul suo volto sempre composto e rigido andava delinearsi il sorriso gioioso di chi ha appena messo piedi fuori dall’ospedale, dopo una convalescenza di mesi.
Passeggiammo in lungo e in largo sul prato, il sole mi riscaldava le guance e brillava alto nel cielo azzurro.
Ripensai a quando fosse stata esattamente l’ultima volta che eravamo stati in quel modo io e te, Desmond. Ma non riuscii a descrivere quanto mi sentissi affitta: non avevo ricordi di quel genere, perché il dolore e l’agonia degli ultimi otto mesi avevano cancellato tutte le mie più dolci esperienze, lasciandomi un vuoto nero e buio dentro che non avevo idea di che cosa avrei colmato.
Central Park era quasi desolato il lunedì mattina. I bambini erano impegnati nelle attività scolastiche e gli adulti lavoravano fino ad una certa ora. Per il parco incontrammo solo qualche corridore che si teneva in esercizio con l’iPod alle orecchie e le donne di servizio che portavano a spasso il cane.
L’uno affianco all’altra, avevamo intrapreso da poco un viale di pietra che si contorceva nel boschetto d’alberi. Faceva un fresco piacevole e tirava un venticello che faceva gemer i rami, rovesciando sul sentiero alcune delle foglie appena sbocciate.
L’inverno se n’era andato in fretta, pensavo mettendomi le mani nelle tasche dei pantaloni. Ricordavo che i giorni trascorsi nel nostro appartamento a guardare la neve cadere sui grattacieli senza di te era stata una delle peggiori torture. A Natale avevo preferito stare per conto mio, ma la mamma aveva insistito fino all’ultimo con le sue ramanzine che non hanno mai fine al telefono. Nulla mi aveva staccato dalla televisione in quei tempi. Adoravo che il freddo pungente mi lacerasse la carne pur di concentrare il mio dolore su qualcosa che non fosse la tua assenza. Così avevo spento il riscaldamento, tartassandomi oltremodo.
E ora tornava la primavera, colle sue belle giornate e il canto degli uccellini. E con essa, era arrivato un certo qualcuno…
Mi voltai di lato ridendo, ma mi accorsi troppo tardi che Altair stava fissandomi già da tempo.
Così m’incupii. –Che succede?- domandai.
-Cosa stiamo facendo qui?- mi chiese lui quieto.
-Oh, be’…- esitai fermandomi, e l’assassino fece altrettanto.
-Dove stiamo andando? Non avevate fame? – aggiunse guardandosi attorno.
Mi battei una mano in fronte, e guardai l’orologio che avevo al polso. Questo segnava le tre e mezza del pomeriggio. Possibile che due ore fossero trascorse belle e buone così? –Dio, hai ragione! Scusa, mi sono distratta!- mi lamentai.
-Non c’è bisogno che vi scusate, devo ammettere che un posto del genere ha fatto perdere la cognizione del tempo anche a me- mi arrise.
Lo ringraziai con lo sguardo di quella comprensione, ma mi apprestai a prendergli la mano e a tirarlo con me verso la biforcazione del sentiero. Le indicazioni non mi servivano, sapevo dov’ero diretta e perché.
C’era una piazza soleggiata di pietra con una fontana al centro. L’acqua chiara sfavillava e si rovesciava nel bacino di roccia e da esso partivano innumerevoli schizzi. In quel piazzale, che si allungava fino ad una scalinata che portava ad una vecchia villa ormai sede di un museo, il quartiere organizzava spesso i magnifici concerti cui avevo assistito troppe poche volte.
-Due, grazie- tirai fuori cinque dollari dal portafogli e li porse al ragazzo del piccolo bar mobile.
-Senape o Maionese?- domandò quello.
-Uno ketchup…- e mi voltai, ma Altair mi guardava terribilmente spaesato.
Ok… pensai, un orientale del XII secolo, nato e cresciuto con la cultura araba… hmm…
Il ragazzo teneva in mano un paio di pinze d’acciaio e aveva aperto uno portellone dal carretto degli Hot Dogs. –Allora?-.
Altair piegò la testa da un lato. –Che cosa…-.
Mi girai dalla parte del venditore e ribadii convinta: –Uno ketchup e l’altro senape-.
Altair mi cinse le spalle e mi tirò indietro. –Che cosa stai facendo?- domandò curioso lanciando un’occhiata al buffo giovane che stava mettendo su un lungo pezzo di pane un lungo pezzo di carne che sembrava un…
Mi schiarii la voce. –Fidati; o ti caccio fuori di casa se non ti piace!- scherzai.
-Grazie- dissi.
-Grazie a lei!- ripeté il ragazzo porgendomi i due hot dogs belli fumanti.
Ne diedi uno al tuo antenato.
-Sai i kebab?- gli chiesi mentre riprendevamo la camminata.
Altair si guardava da quel buffo panino. –Sì…- mormorò assorto nella contemplazione. Tentava di capire se si dovesse mangiare oppure fosse cibo per i piccioni che andavano ad accumularsi avidi attorno a noi.
Scoppiai a ridere. –Ecco, questo è il kebab di New York!-.
-Si mangia? Ma sembra… duro. E questa è una specie di… salsa?- domandò.
-Sì- gli risposi addentando con voracità il mio panino. –Si chiama senape, bon apetìt!-.
Fece una smorfia ascoltando il mio francese accademico, ma lo guardai ridendo mentre assaggiava il nostro pranzo.
C’era qualcosa di dannatamente divertente nel suo viso quando mi disse: -Ma è orribile!- con boccone pieno.
E allora non riuscii più a trattenere le risate. Addirittura il ragazzo del bar stava sogghignando alle nostre spalle.
-Posso darlo ai piccioni?- balbettò come se stesse per sputare tutto a terra.
Mi piegai dal ridere –se vuoi!- cercai di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscii.
Altair stava davvero per poggiare il panino al suolo, ma lo fermai. –Ma che fai?!- risi.
-Ma hai detto che…-.
Mi si arrossarono le guance. –Stavo scherzando, non si può!- disse togliendoglielo di mano.
-È stata una bella esperienza, ma da non ripetere- lo sentii borbottare.
Mi allontanai verso il cesto più vicino e lo gettai lì. Il mio palato non gioiva al gusto della senape, sennò l’avrei mangiato io con molto piacere.
-Andiamo, viziato!- presi il tuo antenato sottobraccio e riprendemmo la nostra passeggiata.



____________________________


Finito di scrivere il più presto del solito. Elika ora deve scappare: nonna e zia a casa, non sono certa di poter stare al PC fino a tardi! Ç__Ç .
Ringraziamento speciale a chi segue con tanto amore la mia ff!!!

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy   (averti tra i miei lettori è un onoreee, e mi riferisco alle tue recensioni megagalattiche! XD)

Non ho nulla di particolare da dire a ciascuno di voi, miei cari lettori, e R.E. (Radio Elika) vi da appuntamento alla proxima puntata di questa meravigliosa ff che sta uscendo (se posso) meglio di quell’altra. Zizi. Notte a tutti, e recensite come sapete fare solo voiiiii!!! Ciauuu!!!


P.S.
La songa che Giògiò canta in macchina è NUMB dei LINKIN PARK!!! Azzeccatissima per quanto riguarda Altair e Desmond in questa fan fiction...

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Capitolo 10
*** Un pugno chiuso ***


Un pugno chiuso








***


Desmond si svegliò di soprassalto, ed un dolore immenso e senza pari gli pulsava alle tempie. Era qualcosa di assolutamente inconcepibile, che batteva come un martello sull’incudine, e la sua testa era l’incudine. Desmond si alzò dal letto, andò verso il bagno e si appoggiò al lavandino. I suoi pugni serrati si strinsero oltremodo sui bordi del lavabo, mentre con immensa fatica riusciva a tener dritto il collo per potersi guardare allo specchio. Qualcosa nel suo volto stava cambiando, esso diventava più severo e contenuto, mentre ogni centimetro quadrato della sua pelle si faceva poco poco più scura. In fine, accompagnato da un suo urlo straziante, il suo Antenato venne a lui e si sostituì alla sua mente per la prima volta.
Lucy l’aveva avvertito che sarebbe stato doloroso, e di fatti…

Aveva gli occhi arrossati, mentre la coscienza di quel dolore dilaniante veniva meno troppo lentamente.
Dove si trovava?
Che posto era quello?
Stava forse sognando?
O poteva essere chiamato incubo?
C’era una porta grigia al suo fianco, ma le sue mani erano strette involontarie attorno al lavandino di un bagno, forse. Si voltò più volte attorno, una buffa cella fatta di vetro, una stramba costruzione di ceramica grigia con un buco al centro e poi quel lavandino, sopra il quale c’era uno specchio che non raffigurava lui, ma qualcuno che in quel momento stava ancora stringendo le mani a quel lavandino.
Indumenti… strani… una maglia… bianca, col solito cappuccio… ma dov’erano le sue armi? Dov’era la sua veste, la sua cintura e la sua spada? E la sua veste?!?! Ora indossava solo un misero paio di pantaloni piuttosto stretti e scomodi, e quelle scarpe… dov’erano i suoi stivali?!?! Terrorizzato, Altair tentò di aprire la porta ma non vi vide alcuna maniglia. Essa, magicamente, si spalancò da sola. Doveva essere un sogno, un sogno assurdo che metteva una grande paura. Eppure, era tutto così reale. I colori di quel luogo ingannavano, forse? Proiettando una visione distorta della realtà? Ma quella non era la realtà! La realtà era la Dimora di Acri dalla quale era stato strappato via durante il sonno, e qualche cavaliere Teutonico doveva avergli fatto un brutto scherzo… temé che la setta fosse in pericolo… che il covo degli assassini ad Acri fosse stato scoperto, lui catturato! Quale tragedia, e la miglior cosa da fare era tornare lì! Nella sua realtà.
Buffi mobili bianchi, una stanza con un grande letto sfatto e un armadio lucido… c’era una porta, che si aprì anch’essa da sola.
Qualcuno entrò in quella stanza, qualcuno che indossava un camice bianco ed era piuttosto vecchio. Qualcuno che somigliava ad Al Mualim, si disse, e quel qualcuno lo prese sottobraccio.
Altair si ritrasse con un balzo, ma il vecchio insistette parlandogli con una voce nuova e utilizzando dei vocaboli che non capiva… (all’inizio non avrebbe capito).
C’era una donna dai capelli biondi nell’altra stanza. Era molto bella, le sue mani si muovevano agili su qualcosa sul quale ella puntava gli occhi, come stesse leggendo…La donna gli sorrise, ed Altair lasciò la stanza da letto.
In fine, un terzo uomo, che ridacchiava divertito.
Il vecchio alle sue spalle lasciò la presa attorno alle sue spalle, ed Altair fu libero di guardarsi attorno. C’era tanta luce, sia che venisse da fuori che da dentro, assieme ad un frastuono di sottofondo dovuto a qualcosa che era in continuo movimento… come il rumore del mare, solo più costante e sempre uguale…
…Quale stregoneria?…
-Ben venuto nel futuro- il terzo uomo vestito di una camicia bianca e di pantaloni neri gli porse una mano.
Altair lo sguardo su di lui, lo squadrò allungo poi, senza pensarci due volte, strinse un pugno e gli mollò un cazzotto in pieno volto, colpendolo al naso.
Alex Viego si piegò dal dolore, e Altair si diresse di corsa verso la luce dell’esterno.
Non l’avrebbero avuto certo vivo!
Corse ed evitò che il vecchio e la donna riuscissero a fermarlo, si calò il cappuccio sul volto, piegò le gambe e…
Sbatté il viso sul vetro delle finestre. Perché quelle erano finestre. A stento poté crederci, ma quelle erano finestre, e nel tentativo di fuggire buttandosi di sotto, era andato a sbattere contro un vetro così pulito che non gli era apparso.
L’assassino si voltò spaventato, mentre alle sue spalle gli si avvicinavano un gruppo di uomini vestiti di nero…


***


Fuori il cielo sereno e stellato appena visibile, poiché bastassero i fanali delle macchine ad aumentare a tal punto la luminosità che sembrava giorno. I grattacieli brillanti di fronte e le strade mute attraverso i vetri delle finestre. Una notte come un’altra, mi dicevo sospirando, e a quella se ne sarebbero susseguite di infinite.
Seduta a gambe incrociate sul letto, immersa nel più totale silenzio accompagnato dallo scrosciare della doccia accesa del bagno, nel quale il tuo antenato si era da poco recato.
Certo, insegnargli ad usare la cabina era stata una bella avventura…
Avevo bisogno di parlare con qualcuno, di chiamare qualcuno.
Proprio per questo mio assurdo bisogno tenevo il telefono in mano, il pugno stretto attorno ad esso e il pollice che accarezzava i tasti.
Non era una richiesta d’aiuto, non sentivo mancarmi né affetto né compagnia. Anzi, di quella ce n’era e anche troppa! Che cosa potevo fare? Desmond, mi avevi chiesto di non parlare con nessuno di quello che era successo, ma cos’altro potevo fare? In quale altro modo se non cercare aiuto avrei potuto tirarci fuori da quella situazione? Forse avrei potuto confidare tutto ad uno psicologo e aspettare che mi sbattesse in una casa di ricovero per matti. Se avevo capito bene, l’Abstergo si spacciava per una normale casa farmaceutica, nascondendo allo stesso Governo Americano i crimini che si commettevano in quei laboratori. Nessuna tutela ai diritti del cittadino, mi dicevo ripesando al modo in cui ti avevano strappato via da me e dalla nostra vita. E per cosa? Solo per arricchire il loro profitto e comandare il mondo a bacchetta con quei cosi luminosi a forma di palline da tennis… non solo! I signorotti non si erano accontentati di rovinare a “noi” la vita, ma anche al povero innocente che  ora si sbatteva nel tuo corpo girovagando mio tempo.
Altair era stato poco chiaro sul motivo per cui avevano rimandato indietro il tuo corpo senza le cure necessarie per tenere a bada la “doppia personalità”. Ultimamente questa malattia si era dimostrata sviluppata anche da un punto di vista fisico, dato che più tempo passavo affianco al tuo antenato e più mi rendevo conto di quanto foste diversi, a partire dal viso. Potevate avere la stessa età? Lui sembrava molto più vecchio di te! Senza offesa, ma anche i suoi atteggiamenti sempre così composti e altezzosi, come se fosse ancora nel suo tempo, mi mettevano a disagio! Senza contare la sua perenne ignoranza sul mondo in cui si trovava ora… ovviamente non potevo pretendere che sapesse come si usasse un asciuga capelli, ovvio, ma per lo meno… mah, non sapevo più cosa pensare. Ero ufficialmente fuori di testa, e la mia coscienza teneva alto il cartello con su scritto: psicologo a 100 m da casa! Eheh. In tutta sincerità ci trovavo poco e niente da ridere, ma la situazione era a la punto assurda che anche il mio gatto sarebbe scoppiato dalle risate pur non comprendendo la lingua umana! Forse, per far scorrere meglio le cose tra me e il tuo antenato, avrei dovuto fare delle ricerche sostanziali sul suo tempo, così da capire se questo Frutto dell’Eden che i signori dell’Abstergo custodivano potesse o no esserci utile. Stavo impazzendo! Come potevo solo pensare che quel coso esistesse davvero?! Erano leggende metropolitane nate lì dove dovevano restare, ovvero in Palestina, tra le guerre e i kamikaze!… mi diedi della stupida. Ero coinvolta fino al collo in quella merda che ancora mi ostinavo a reputare “assurda” quando la cosa migliore da fare sarebbe stato giungere ad un compromesso con gli anonimi del progetto Animus. A tutti i costi avrei ottenuto quelle pasticche o pillole che erano! Non avrei lasciato certo correre le cose, aspettando che si sistemassero da sole! Desmond, mi avevi chiesto di fare tutto ciò che era in mio potere pur di riavere indietro la nostra vita, ebbene… non mi sarei arresa tanto facilmente! Ah! A quelli dell’Abstergo ridevo in faccia! Ah! E ancora ah!
Pazzi furiosi, maledetti bastardi! Pensai stringendo ancora una volta i denti, e la presa sul telefono s’irrobustì oltremodo.
Era giunto il momento di agire. La persona che dovevo rintracciare aveva un nome: Lucy Stilman.
Infiltrata nel progetto e tua compagna durante la permanenza nei laboratori di quel posto, mi sarebbe stata di grande aiuto! Forse aveva un numero di casa, un numero di carta di credito! Avrei lottato con le stesse armi che avevano usato loro per rintracciare te, e non li avrei lasciato la possibilità di riaverti di nuovo! Avrei potuto denunciare tutto al commissariato più vicino, ma Altair mi aveva avvertito che in qualsiasi momento sarebbero potuti piombare in casa mia, e forse uno dei loro era ancora appostato fuori dall’edificio sulla sua belle porche nera! Ah, al Diavolo! Che brucino all’Inferno! Gente del genere dovrebbe raggiungere Lucifero nei meandri della Divina Commedia!
-Basta, basta, basta!- mi strinsi le tempie, affondai la schiena tra i cuscini, e finii per guardare il soffitto. –Basta!- sibilai di nuovo.
Il gatto balzò sul letto e si strofinò contro le mie gambe.
Mi bastava un elenco telefonico, qualcosa con cui cercare qualcuno che potesse darmi una mano senza far nascere sospetti ai bastardi che mi pedinavano. O meglio, che pedinavano sia me che il tuo antenato.
Spie, microcamere, microfoni e cimici chissà dove! Mi dissi allungando il braccio alla mia destra, dove un tempo dormivi tu.
Accarezzai le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino senza pieghe, strinsi il piumone tra le dita. Scena familiare, pensai malinconica, poiché una stessa sensazione di mancanza e vuoto l’avevo percepita la mattina in cui speravo che finalmente nulla più ci avrebbe divisi. La mattina in cui ti avevano portato a Freedom Way in quella macchina nera, il giorno in cui avevo conosciuto chi si era occupato della tua saluta quand’eri nei loro laboratori, ovvero Alex Viego.
Girai appena il volto di lato, correndo con lo sguardo al comodino dalla tua parte del letto. Mi allungai e aprii appena il cassetto che suonò vuoto e leggero. Vi misi la mano libera e trovai una scatolina grande quanto solo il mio palmo. La strinsi tra le dita e la tirai fuori, alla luce della lampada accesa alla mia sinistra. Quando tornai dritta stesa sul letto, l’agitai cautamente accorgendomi che al suo interno vi sbatteva l’ultimo preservativo.
Sentivo Finger fare le fusa strusciandosi sulle mie caviglie, quando pensai che tanto valeva buttare quell’ultima piccola scorta.
-Non biasimarti, non è colpa tua-.
Mi sollevai all’improvviso, nascosi la scatola dietro la schiena tornando seduta com’ero, e il gatto saltò giù dal materasso scappando verso il corridoio.
Possibile che anche Finger riconoscesse Altair, così simile al suo padrone, come un estraneo? Eppure mi era parso che il nostro gatto non fosse tanto sveglio da cogliere le sottili diversità tra i due.
Mi luccicarono gli occhi, e non potei negare l’evidenza: Dio quant’eravate diversi!
Altair era in piedi davanti alla porta del bagno, l’asciugamano legato alla vita e lo sguardo volto verso di me. Sembrava allegro, ma non me n’accorsi più di tanto.
Primo dettaglio fu la muscolatura dannatamente meravigliosa: il fisico sottoposto ai duri allenamenti della setta mostrava i suoi frutti sul petto scolpito e sulle braccia. La pelle incredibilmente ramata, traversata dalle restanti goccioline del dopo doccia.
Dovetti trattenermi per non cominciare a sbavare.
Piuttosto mi girai tutt’altra parte, e per l’imbarazzo avevo pigiato con troppa forza uno dei tasti del telefono, attivando così l’ultima chiamata.
Sobbalzai, e mi affrettai ad annullare il numero che era comparso automaticamente sullo screen.
-Biasimarmi?- balbettai fingendomi distratta.
L’assassino sorrise mesto. –Che cosa nascondi?- domandò avvicinandosi.
-Ah, nulla!- feci la vaga andando a nascondere la scatola sotto il cuscino alle mie spalle.
-Che cos’era?- chiese ancora, ma in modo malizioso.
Tipica situazione imbarazzante alla Giògiò, mi dissi. –Uno dei tanti giochetti di Finger, sai… gli piace seminarli per casa!- sbottai d’un tratto, e ringraziai Dio per avermi posato la mano sulla testa almeno quella volta.
Mi scappò una risatina acuta che diede poco filo da torcere al ragazzo che, nonostante avesse capito gli nascondessi qualcosa, alzò le spalle e si guardò attorno.
Mi presi altro tempo per ammirarlo, approfittando che non si fosse accorto del modo in cui lo guardavo.
Perché mostravo tanto interesse? Mi chiesi. Era un bel ragazzo come un altro. Anzi, meglio dire un bell’uomo come un altro.
-Ah, scusa…- mi alzai dal letto e andai verso l’armadio.
Il sorriso sul suo volto si allargò oltremodo mentre gli porgevo qualcosa da mettersi.
-Bene…- dissi richiudendo l’armadio. –Ora ti vesti e… se ti viene fame, fammi sapere- mormorai e feci per avviarmi per il corridoio.
Altair mi arrestò stringendomi per il polso.
-E tu?- chiese.
Alzai un sopracciglio. –Io cosa?-.
-Non mangi nulla?- aveva tutta l’aria di un rimprovero.
Curvai le spalle affranta. –Non proprio-.
-Ascolta- proferì lasciandomi il braccio. –Sono giorni che non tocchi cibo, e l’unico momento in cui ti ho vista addentare qualcosa è stato questo pomeriggio in quel parco. Magra come sei potrebbe anche bastarti, ma non è questo il punto- era serio, tanto serio.
Così serio che mi fece quasi paura.
-E qual è il punto?- feci spallucce.
-Non si tratta solo di colazione, pranzo e cena! Ne vale la tua salute, e Desmond non vorrebbe mica vederti in questo stato- dichiarò.
Presi fiato. –Non ho bisogno che ti preoccupi per me… davvero, apprezzo il gesto, ma l’unico che ha bisogno di conforto sei tu- ridacchiai.
-Conforto?- aggrottò la fronte. –Non è per il conforto che ti dico questo-.
-Lo so!- alzai gli occhi al cielo. –Credi che non abbia capito? Ormai ti sei a tal punto ambientato che persino il gatto fa le fusa quando ti vede! Me ne sono accorta che già dopo pochi giorni ti sei sentito come a casa tua, e questo è un immenso sollievo! Dato che molti dei precedenti pazienti del passato sono morti di follia cronica venendo in questo tempo, è il minimo che possa fare!- mi lamentai.
Lui mi lanciò un’occhiata confusa, spostando il peso sull’altra gamba. Sottobraccio aveva i pantaloni e la felpa che gli avevo dato, assieme a quel poco di biancheria intima che portavano i maschi.
-Lascia stare…- brontolai voltandomi e andando verso la cucina.
-Giorgia- mi sentii chiamare.
Ferma sull’ingresso della stanza, mi girai. –Che c’è?- sospirai.
L’assassino avanzò di un passo. –Grazie- disse calmo.
Abbozzai un sorriso, non riuscendo a trattenere la presa allo stomaco che avevo nel vederlo in quello stato. –E di cosa?- mormorai, e il mio sguardo indugiò ancora sul suo fisico.
-Capisco che genere di pazienza porti- rispose lui soave.
Poggiai le mani sui fianchi. –Ah, davvero?- sogghignai, e il tuo antenato si fece più vicino.
-Ovviamente- proferì –nel mio mestiere non sempre si è pronti a colpire la preda-.
-Ah…- rabbrividii al solo pensare che l’uomo che avevo davanti, a torso nudo, avesse stroncato centinaia di vite umane. –Che intendi?-.
-Un giorno mi piacerebbe mostrarti di cosa sono capace- sorrise.
Un brivido mi corse lungo la schiena. –Cosa? Sei impazzito? Ammazzare qualcuno solo per farmi vedere che tipo di lavoro fai? Ma neppure alla giornata dei genitori delle elementari, ma smettila!- eruppi.
Altair scoppiò in una fragorosa risata, mostrando la dentatura perfetta.
-Non sei divertente- digrignai uscendo dalla camera e accostando la porta.

Finger era seduto sul davanzale della finestra che dava sul quartiere. Le strade buie e senza lampioni, i vicoli con le auto parcheggiate. Il gatto nero si confondeva in quello spettacolo di poca luce data sola dal brillare delle stelle e della luna. Qualche bagliore di macchine lontane che svoltavano agli incroci e i rossi e verdi indistinti dei semafori alla fine del viale.
Finger era un gatto tranquillo e molto pigro, e raramente qualcosa lo innervosiva. Per questo motivo mi trovai a credere che fosse alquanto strano che stesse muovendo la coda già da qualche minuto. Incessantemente e a scatti, il salsicciotto peloso sbatteva contro i vetri della finestra e sul legno del davanzale. I suoi occhi gialli si perdevano nelle ombre, e le sue orecchie si voltavano da parte a parte captando i suoni della città.
-Che c’è, piccolino?- sussurrai con vocina striminzita accarezzandolo, e lui non si mosse. Fissava l’orizzonte davanti a sé, voltava appena le orecchie per ascoltare cosa dicevo, ma tornava presto a concentrarsi su altro.
Feci una smorfia. –Non hai mangiato niente- sentenziai vedendo la ciotola piena di croccantini. –Che ti è preso?- aggiunsi.
Mi affacciai alla finestra e presi una boccata d’aria fresca, mentre un venticello gelido mi agitava i capelli sciolti sulle spalle.
Distrattamente, colsi un auto che non avevo mai visto parcheggiata accanto a quella dei vicini. Era nera, di media grandezza e a quattro posti. I vetri poco oscurati, e l’unico posto occupato era quello del passeggero.
L’uomo che doveva aver guidato la macchina fin lì era dietro ad essa e cercava qualcosa nel portabagagli.  Non mi era possibile capire cosa stesse facendo quello seduto in macchina, ma dedussi dalla posizione delle braccia che stesse parlando al telefono. Indossava degli abiti scuri, forse un cappotto, mah… non saprei, mi dissi. Di gente strana ne passava per quelle strade, ma era forse quello l’oggetto di tanta attenzione da parte di Finger?
Gli animali, si sa, hanno un istinto superiore ed un sesto senso micidiale.
Il gatto balzò giù dal davanzale spaventandomi, e l’osservai correre nel corridoio e sparire confondendosi tra le ombre dei mobili.
Strano, pensai, e tornando a guardare fuori dal balcone, mi accorsi che i due uomini erano spariti.
Mi stanziai dalla finestra indietreggiando di alcuni passi, mi appoggiai al tavolo della cucina, e notai che Altair mi fissava sorpreso.
-Qualcosa non va?- domandò avvicinandosi, e seguì il mio sguardo che era ancora incollato alla macchina nera nel vialetto.
-Non credo…- mormorai.
-Vieni- mi disse ad un tratto, prendendomi per mano. –Dobbiamo parlare di una cosa-.
Lo seguii fino in salone, dove mi fece accomodare sul divano.
L’assassino sedette accanto a me.
-Che succede?- chiesi sperduta.
Lui mi fissò allungo. –So che è inutile che te lo chieda- cominciò –ma tu vuoi che Desmond ritorni, giusto?- mi sorrise, ed io ricambiai.
-Certo- proferii serena.
-Ottimo- riprese lui, e si allungò ulteriormente verso di me. –Ci sono due modi per far sì che questo succeda: il primo, sconsigliato e più rischioso, rubiamo ai signori dell’Abstergo il Frutto del Peccato. Il secondo, meno rischioso e più consigliato, troviamo un modo…- avvicinò le labbra al mio orecchio, ed improvvisamente m’irrigidii. –troviamo un modo per giungere a quei farmaci che i signori dell’Abstergo hanno- disse.
-Hmm. Ci stavo giusto pensando-.
-Non ho idea da dove possiamo cominciare, tanto vale cercare qualcuno che può aiutarci- proferì.
Mi voltai appena per guardarlo negli occhi. –Ma loro… non sospettano che…- provai a dire.
-Forse, ma vale la pena tentare- tornò a sedersi dritto e incrociò le braccia al petto.
Mi passai le mani in volto. –Potrebbero piombare qui da un momento all’altro, le coincidenze in queste ultime settimane sono state assurde e…- non riuscii a terminare che qualcuno bussò alla porta di casa.
C’era il campanello, e il citofono! Perché bussare?! Mi chiesi alzandomi.
Arrivata alla porta, sentii il gatto soffiare, ma non me ne curai.
-Chi è?- chiesi tenendo lo sguardo al pavimento.
Non rispose nessuno; uno stupido motivo in più per aprire. Ecco a che cosa serviva un padre che ti dicesse di non aprire la porta agli sconosciuti! A quelli della pizza sì, ma non agli uomini vestiti in smoking che, appena aperta la porta, ti puntano una calibro 9 contro.
Non avevo parole, e il mio cuore perse un colpo quando Alex Viego entrò in casa mia e mi afferrò un braccio, facendomi voltare e storcendomi l’arto dietro la schiena. Contemporaneamente mi puntò la pistola alla testa e chiuse la porta.
Finger era un gatto tranquillo, non si scaldava mai senza un vero motivo.
C’erano due uomini vestiti allo stesso modo di Alexander che tenevano a bada il tuo antenato, entrambi erano armati, ed uno di loro indossava… un cappotto nero.
Per l’appartamento comparvero un’altra dozzina di agenti che si aggiravano per le stanze, ed uno di loro mollò un bel calcio nel didietro al mio gatto.
-Bastardi!- gridai, ma Alex dietro di me premé con più forza la canna della pistola sulla mia tempia.
-Stia calma, signorina, e nessuno vi farà del male- sibilò quello.
Lanciai un’occhiata all’assassino e lo vidi nel panico. –‘sta calmo- mossi le labbra, ma lui parve o non capirmi o ignorarmi.
-Che cosa state cercando?!- sbottò Altair guardandosi attorno, mentre gli agenti andavano cercare nei cassetti dei mobili, nell’armadio, tra i piatti, vicino al porta chiavi all’ingresso. Setacciarono tra le riviste sul tavolo, anche in mezzo ai DVD e blue-ray accanto alla play, in cucina tra le posate e nella stanza da letto sotto i cuscini.
Eheh… sotto i cuscini…
-Martin!- chiamò Viego, e uno dei poliziotti che giravano per casa si avvicinò a noi.
-Prendi- con uno strattone, Alex Viego mi lanciò tra le braccia di questo Martin, che invece di fare il galantuomo, si apprestò a farmi inginocchiare a terra e a puntarmi nuovamente l’arma alla testa. Martin puzzava di fumo, e in bocca aveva una Philips Morris One.
Alex camminò con passo spedito verso il tuo antenato, che i due poliziotti alle sue spalle avevano fatto mettere in ginocchio esattamente come me. Uno di loro lo minacciava dall’alto con la pistola, mentre l’altro ridacchiava.
Alex si arrestò di fronte ad Altair.
-Tu…- sibilò l’antenato con disprezzo e stupore.
Viego levò il pugno e gli mollò un cazzotto ben piazzato in faccia. –Già, io!- digrignò soddisfatto.
Altair piegò la testa di lato, ed ammirai spaventata come un fiotto di sangue prese a colargli dal naso, al quale si portò una mano.
Gli occhi sconvolti dell’assassino si fermarono un istante su di me, che senza dire alcuna parola, mi alzai e corsi verso di lui.
Alex, che era indietreggiato con un sorriso maligno in volto, non mi fermò, e potei raggiungere Altair chinandomi accanto a lui.
-Sto bene, ma dai a questi signori quello che vogliono…- mormorò lui guardandomi.
Io, nel panico, balbettai: -Di cosa parli? Sapevi che sarebbero venuti?- gli poggiai una mano sul collo.
-No- rispose lui, e sgranai gli occhi quando le sue braccia si strinsero attorno al mio corpo.
A quell’abbraccio improvviso bisognava dir presto basta, poiché Viego venne di nuovo al mio fianco e mi strappò dal tuo antenato.
-Allora, dicci dov’è che l’ha messo! Quando avremo quello che ci serve, ce ne andremo! È come dice Altair!- gridò Alex facendomi sedere sul divano.
-Non so di cosa parliate!- strillai in tutta sincerità.
-Cammina!- uno dei due scagnozzi fece alzare Altair da terra e lo condussero nel corridoio, sparendo alla mia vista.
Io ed Alex eravamo soli nel salotto, e il mio cuore assieme al mio fiato corto, erano maggior segnale che qualcosa stava andando ancora peggio.
-Parla o lo ammazziamo!- alzò la mano con la pistola.
Tentai di sollevarmi, ma Viego mi spinse nuovamente giù. –Rispondi! Dov’è!?- caricò l’arma.
-La smetta, la prego- mormorai trattenendo a stento le lacrime.
-Il cellulare! Dimmi dov’è!-.
-Cellulare?!? Il mio cellulare?!?- balbettai.
-No, stupida!- sbuffò lui. –Quello di Desmond, dimmi dov’è e tornerà tutto tranquillo…- ridacchiò.
Il terrore mi attanagliò le viscere. E che ne sapevo io dov’era il cellulare di Desmond?! Era possibile che se lo fosse portato con sé nel passato?! E perché quelli dell’Abstergo lo stavano cercando ed erano piombati in casa mia per un samsung?!?

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Capitolo 11
*** Sogno di tempesta ***


Sogno di tempesta



"La fugacità di un sogno scivola via all’ultimo momento.
Nell’istante in cui ci sentiamo più pronti ad andare avanti
questo si interrompe senza preavviso,
abbandonandoci ad un immenso senso di incompletezza..."



Aprii lentamente i miei occhi verdi, e la nebbia del mio sguardo si dissolse nel tepore della lampada accesa sul comodino. Era notte fonda, me ne resi conto subito sollevando la testa dal cuscino e guardando fuori dalla finestra. Non solo, ma sui vetri si abbattevano violenti i goccioloni della tormenta più nera, e il cielo era una compatta massa grigia. Le luci dei grattacieli si perdevano nel buio della sera mentre dalle strade proveniva la confusione abituale dei clacson del traffico notturno.
Avevo un braccio stretto sotto il cuscino, il mio corpo era dolcemente adagiato sul copriletto in parte venuto via dall’angolo del materasso, nella parte superiore del quale erano ben visibili il lenzuolo bianco e le federe stropicciate.
Un tuono squassò l’aria fredda e silenziosa dell’appartamento, e il ticchettio della pioggia sulle finestre mi metteva una certa ansia.
Possibile, mi chiesi guardandomi attorno, che fosse stato tutto solo un sogno?
La mia stanza era avvolta dal buio, la porta del bagno era chiusa e quella che affacciava sul corridoio appena accostata.
Con la vista ancora appannata, guardai la radiosveglia sul comodino e impiegai parecchio prima di mettere a fuoco i numeri. Questa, mi accorsi con stupore, segnava la mezzanotte passata da ventitré minuti.
Affondai la faccia nel cuscino senza pensarci ancora e soffocai un gemito su di esso quando un immenso senso di spossatezza si fece largo a spintoni nella mia testa. Questa cominciò a pulsarmi per via del movimento brusco, ed io mi girai di fianco con il viso che guardava la parete della stanza. Strizzai gli occhi cercando di recuperare al meglio la vista, ma l’appannamento delle pupille insisteva ancora, e mi dava un gran fastidio.
La pioggia sui vetri era diventata una litania insopportabile, e mi sentivo la capa come colpita incessantemente e con un ritmo costante da un martello. Ero sull’orlo di scoppiare a gridare un bel “BASTA!”, ma un rumore proveniente dalla cucina mi fece sobbalzare.
Per terra cadde qualcosa di metallico, una pentola forse. E poi delle posate, assieme ad alcuni piatti che si frantumarono in centinaia di pezzi.
Mi alzai e sedetti con le gambe fuori dal letto. Alcune ciocche di capelli mi caddero sulle spalle, altre a coprirmi il viso, ma nel complesso la mia chioma era ordinariamente arruffata.
Poggiai i piedi a terra, sorprendendomi di essere scalza con neppure i calzini. Indossavo i miei soliti jeans e la camicetta con le maniche arrotolate che avevo scelto dall’armadio quella mattina. Alcuni bottoni di questa erano slacciati per via del sonno agitato dal quale venivo, quindi era visibile anche parte del reggiseno che portavo. Non me ne curai e feci un passo verso la porta del corridoio.
Lanciai un’occhiata fuori dalla stanza e riuscii a scorgere solo le ombre dei mobili mentre altre portate e oggetti si rovesciavano a terra senza ritegno.
Gli agenti dell’Abstergo stavano ancora cercando quel cellulare? Fui felice che la mia mente stesse cominciando a riaffiorare, ma l’appannamento agli occhi insisteva e la spossatezza non mi lasciava camminare composta.
Una volta nel corridoio, lo percorsi tutto guardandomi alle spalle più volte. Una svista alla porta d’ingresso che notai chiusa, e poi mi affacciai in cucina, restando ben nascosta dietro la parete. Il buio giocava a mio vantaggio, e da lì avevo un’ottima visuale anche sul salotto.
Acanto al divano, nel bel mezzo della moquette, c’era una delle sedie da tavolo vuota e alquanto inquietante, e mi chiesi cosa ci facesse lì. Ai piedi del seggio c’era una fune abbandonata a terra.
L’atmosfera lugubre e da film horror che aveva in quel momento casa mia mi fece sudar freddo e, sporgendomi verso la cucina, vidi qualcuno che si sbatteva da una dispensa all’altra come un pazzo. Rovesciava a terra posate dai cassetti e al suolo finì anche il tostapane. Era una figura mal delineata dalla mia vista che ingannava, e sembrava cercare qualcosa nei cassetti delle posate con foga, quasi avesse una pistola puntata alla testa e fosse preda del terrore.
I miei occhi soffocati non mi permisero di riconoscerlo subito o di coglierne i particolari, ma questo si voltò spaventato verso di me.
Io indietreggiai, sperando che le ombre del corridoio facessero la loro parte e mi celassero al meglio, e di fatti ascoltai sollevata l’uomo che gettava a terra altri oggetti.
Mi feci coraggio uscendo nuovamente allo scoperto, presi un gran respiro e aprii la bocca per dire solo: -Cosa…-.
L’uomo si voltò, ed io ebbi un tuffo nel cuore.
Era bendato, aveva le mani legate ed era lui, solo ed unico che condividesse con me ormai la mia vita.
-Altair!- gli andai incontro e rimossi lo scotch che aveva dalla bocca. Lo strappo fu sonoro e, per lui, doloroso.
Il ragazzo soffocò un gemito ed io mi apprestai a togliergli il bendaggio dagli occhi.
Non persi altro tempo e guardai in basso: le mani gli erano state legate con delle manette. Ecco perché aveva trovato tanto difficoltà a liberarsene, mi dissi.
-Aspetta…- mormorai andando a cercare nel cassetto giusto. Trovai quello che cercavo e, con un’espressione seria in volto, strinsi con forza l’impugnatura del martello.
Senza che gli dicessi nulla, Altair poggiò entrambe le mani sul tavolo della cucina mettendo in bella vista la catena solida delle manette. Mi lanciò un’occhiata con i suoi occhi scuri che mi fulminarono, ed io sollevai il martello. Con violenza e rabbia, stringendo i denti, lo calai in un impatto potente sulla catena, che si frantumò al primo colpo. Sorrisi soddisfatta e lo aiutai a liberarsi dei bracciali ad entrambi i polsi.
Quand’ebbi finito, i nostri sguardi l’uno più terrorizzato dell’altro s’incrociarono di nuovo.
Gli presi il volto tra le mani, cercando di consolarlo con la sola forza dei miei occhi pentiti. Infondo era colpa mia se quelli dell’Abstergo l’avevano trattato in quel modo, e mi chiesi che cosa gli avessero fatto di tanto orribile per essere così sudato, teso e agitato; ma quando accarezzai la cicatrice sul labbro con il pollice, parve rilassarsi, e il suo respiro calmarsi. Piegò la testa da un lato accogliendo la mia mano sulla sua guancia.
-Mi dispiace; che cosa ti hanno fatto…- bisbigliai, e mi gettai dolcemente al suo collo facendo aderire completamente il mio corpo al suo.
Le sue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi, e sentii il suo cuore rallentare i battiti così vicino al mio, terribilmente spaventato.
-Diciamo che…- rispose lui al mio orecchio. –Diciamo che ho opposto resistenza- sibilò, rimuginando sui ricordi delle ultime ore.
-Mi spiace, mi spiace davvero…- continuai affondando il viso nell’incavo del suo collo, e lo sentii stringersi con più forza a me.
-Non è stata colpa vostra, smettetela- fece serio. –A voi hanno preferito addormentarvi, mentre a me hanno chiesto quello che volevano sapere-.
Sollevai appena il volto, sorprendendomi dell’incredibile vicinanza dei nostri nasi. –Il cellulare…- sussurrai sulle sue labbra.
Lui annuì.
-Perché lo cercavano? E come facevi a sapere dov’era?- mi stanziai ancora un po’, e finalmente la mia vista si stava riavendo a pieno.
L’assassino aggrottò la fronte. –In quel cellulare c’era il numero dell’unica persona che avrebbe potuto aiutarci. Desmond memorizzò il suo numero quando ancora era prigioniero nel laboratorio. Come sai, e come il tuo promesso ti disse a suo tempo, Lucy Stilman è sotto la sorveglianza di quelgi agenti- disse.
-Sì, mi ricordo che mi ha detto qualcosa a riguardo- farfugliai alludendo alle tue novelle di quando eri sotto torchio in quel laboratorio. –Desmond mi disse di aver barattato la sua libertà con la condanna di Lucy agli arresti domiciliari- proferii incerta.
Il tuo antenato mi fissò allungo, in attesa.
Io inarcai d’un tratto un sopracciglio, spalancando gli occhi e staccandomi da lui. –Era il suo numero? Il numero di cellulare di Lucy Stilman che quelli dell’Abstergo volevano? E Desmond l’aveva memorizzato in quel cellulare senza dirmi nulla? Perché?!- eruppi tutto d’un fiato, spaventata e sbigottita.
-Non fare pregiudizi- intervenne Altair contenuto. –Era troppo rischioso che Desmond ve ne parlasse quando in questa casa era possibile ci fossero ancora le telecamere. Voleva attendere di avere conferma da Lucy stessa che le avessero tolte tutte, ma questo non è successo. Quando Desmond è tornato qui, avrebbe voluto dirvelo, ma riuscite a comprendere che c’era in ballo la vita di tutti e quattro?- formulò nervoso.
-Sì, ho capito…- mormorai cercando il tavolo dietro di me e appoggiandomi ad esso. –E ora?- chiesi guardandolo.
Lui assunse un’espressione confusa.
-E ora non ci stanno guardando?- aggiunsi con un filo di voce.
-No, ora no- dichiarò lui calmandosi. –Hanno tolto ogni cosa quando se ne sono andati. Ci hanno lasciati a mani vuote. Lucy, anche agli arresti domiciliari, avrebbe potuto fornirci quei medicinali. Ora è davvero finita- sospirò affranto.
Non riuscii a crederci. Eravamo ad un passo così dal farti tornare, quando Alex Viego e i suoi avevano deciso di fare bella comparsa sottraendoci tutto il necessario. Eravamo a mani vuote, come aveva detto il tuo antenato, dannatamente vuote.
-E ora?- gli domandai ancora, mentre percepivo la vista tornare appannata, ma quella volta per via delle lacrime.
Una di queste mi attraversò la guancia di gran corsa, giunse sul mento e si rovesciò al suolo.
Altair mi venne vicino e mi cinse ancora tra le sue braccia, e fu inevitabile che io mi stringessi a lui soffocando il mio pianto sulla sua maglia.
Basta: dopo quell’ultima rivelazione non avevo motivo di vivere. Avrei preso il martello, che era lì, sul tavolo, e l’avrei alzato per poi colpirmi con violenza la testa. Non avevo la forza di continuare, non c’era etica nelle mie azioni, non c’era morale. Non valeva la pena combattere, fare un altro respiro o muovere un altro passo forte della sola convinzione che non ti avrei ma più rivisto. La vita era ingiusta, ma la mia esistenza era un caso particolare: la mia era un’assurda vita ingiusta.

Non ricordavo cosa era successo dopo. Avevo immagini confuse, e come avessero tagliato alcune parti di un film, comparivano delle scene senza un preciso ordine logico.
Vedevo Alex Viego, alle mie spalle, che mi stringeva con forza un braccio e me lo torceva dietro la schiena. Poi due uomini che tenevano il tuo antenato in ginocchio. Un agente vestito di nero che frugava nei miei cassetti della biancheria, e un altro che fumava una sigaretta puntandomi alla tempia una calibro 9.
Queste erano le diapositive presenti costantemente nella mia testa, come a rammentarmi l’ultimo episodio della mia soap-opera preferita, anche se odiavo qualsiasi fiction, mi sembrava l’esempio più ovvio. Solo le scene più toccanti, e poi il buio, il vuoto, l’amnesia fusa ad un incredibile ed insopportabile senso di mancanza. Era il sogno della realtà che si era interrotto nel momento più cruciale, quello durante il quale si era giocata l’ultima battaglia, si era spesa l’ultima monetina nella giostra col braccio meccanico. In quel momento, se qualcuno non mi avesse bucato la pelle, come mi raccontò Altair, e mi avesse addormentato con una comoda siringa, avrei trovato il vigore per provare a reagire. Forse avrei vinto, forse avrei perso, ma sicuramente sarebbe stato meno doloroso prendere parte a quella battaglia invece di perdere coscienza e sonnecchiare stesa al pavimento.
Mi scottai nel tentativo di prepara un the caldo, che ormai era diventata la mia droga personale, e in qualche modo stavo convertendo anche l’assassino del XII secolo ai miei infusi del futuro.
Eravamo seduti al tavolo della cucina, sul quale c’erano ancora i resti delle manette e il martello col quale mi sarei dovuta togliere la vita.
Mi disse che aveva fatto di tutto pur di respingere le loro intimidazioni, ma quando gli agenti ed Alex Viego compreso avevano minacciato di uccidermi, aveva vuotato il sacco, confessando ciò che Desmond gli aveva detto durante uno dei loro incontri nel caricamento.
-Dov’era?- chiesi stringendo la tazza fumante tra le mani. Il calore passò attraverso la porcellana e arrivò fino al sangue.
-Cosa?- domandò lui a sguardo basso, fissando affranto il fiotto di fumo che si levava dal suo the.
-Il cellulare- sorrisi quando alzò lo sguardo incontrando i miei occhi. –Dove l’aveva nascosto?- aggiunsi altrettanto allegra.
Il tuo antenato condivise la mia gioia, tornando a guardare il liquido scuro contenuto nella tazza, come specchiandosi in esso. –Sei sicura di volerlo sapere?- proferì divertito.
Mi feci più vicina a lui. -Avanti, vuota il sacco- lo minacciai con un’occhiataccia.
L’assassino buttò giù un sorso bollente e, quando poggiò delicatamente la tazza sul sottobicchiere, mi guardò ridendo.
-Che c’è?- curvai la testa da un lato, confusa e temendo di sapere la risposta.
-Nel cassetto della biancheria-.
-Mia o sua?-.
-Tua-.
-Ah, bene!- brontolai.
Sulle sue labbra comparve un sorriso gioioso. –Sapeva che ti saresti arrabbiata- ancora rideva.
-Mi conosce bene, a quanto pare- gioii.

L’effetto del the arrivò inatteso, e come mi fossi appena svegliata, l’immaginabile spossatezza mi attanagliò di nuovo.
Stavo finendo di preparare il divano del salotto per il tuo antenato, foderando di bianco candido il cuscino, quando mi scappò uno sbadiglio che sembrava non avere fine. Mi portai una mano alla bocca, lasciando scivolare il piumino sul divano.
-Avete intenzione di crollare sul pavimento?- sentii ridere il tuo antenato alle mie spalle.
Mi voltai lentamente, che ancora sbadigliavo. –No, no… adesso me ne vado…- bisbigliai. –Solo un momento…- le gambe mi cedettero e crollai seduta sul divano senza che potessi muovere un altro muscolo.
Altair soffocò una risata e si sedette al mio fianco.
-Grazie, non dovevate. Avrei potuto fare da me- disse guardandomi.
Io gli lanciai un’occhiata, ma più che altro gli occhi mi si chiudevano da soli. –Potresti farmi un favore?- trattenei a stento un nuovo sbadiglio.
-Certamente- sorrise lui.
-Smettila di darmi del voi, chiaro?- sbottai improvvisamente seria. –Ormai siamo tra amici…- aggiunsi.
-Va bene- rispose amichevole. –Scusa-.
-Bene…- mormorai voltandomi verso di lui. –Non è che mi dia fastidio- cominciai. –è solo che… da questa parte della linea del tempo si usa poco, capisci?-.
Lui annuì distratto, e osservai che con una mano si stava massaggiando la mascella nel punto in cui, ricordavo bene, Alex l’aveva colpito in quel modo violento.
-Ti ho già detto che mi dispiace?- chiesi.
Il tuo antenato si rallegrò. –Ho avuto modo di riscattarmi, non preoccuparti-.
-Che intendi?-.
-Quel tizio se l’è cercata-.
Rabbrividii. Era un peccato che mi fossi persa tutta la scena alla “film giapponese”. Avrei voluto vedere di che pasta era fatto l’assassino che mi sedeva accanto. Infondo, era stato lui a dirmi che un giorno mi avrebbe mostrato di cosa era capace. Non faceva riferimento solo alle incredibili capacità da uomo ragno, vero?
-Te le hanno suonate, non è così?-.
-Sì, ma avresti dovuto avvertirmi che quelli strani oggetti che impugnavano potevano colpirmi anche a distanza- proruppe scocciato.
Io sobbalzai. –Ti hanno sparato?!-.
-Mi hanno cosa?- sgranò gli occhi.
-Quelle si chiamano “pistole”! Sono armi da fuoco! Quando qualcuno te ne punta una contro, non puoi farci nulla! Sei spacciato!- strillai. –Quindi o stai fermo e implori di non premere il “grilletto” oppure vai all’altro mondo!- aggiunsi; non lo facevo così stupido. O almeno speravo che quelli dell’Abstergo, durante il periodo di prova nel laboratorio, gli avessero mostrato una pistola.
-Però non sono riusciti a colpirmi. Piuttosto, quel quadro in corridoio…- fece il vago.
Gli presi il mento tra le mani e lo girai verso di me. –Scherzi, vero?- digrignai.
-Valeva tanto?-.
Stavo per alzarmi, quando il tuo antenato mi strinse per il polso e mi fece tornare dov’ero, sprofondando nel piumino accanto a lui.
-Mi dispiace, va bene?- dichiarò serio. –Se mi sparavano addosso loro, dovevo rispondere con qualcosa io, no?-.
-Gli hai lanciato il quadro?!- ero sbigottita, stupita di una tale ingenuità.
-Lo sapevo! Ma come fai ad essere così egoista? Quelli mi sparano dietro con un’arma che non ho mai visto, e ti lamenti pure che abbia tentato di difendermi!- alzò gli occhi al cielo.
-Va bene, scusa, calmati!- mormorai attirando la sua attenzione su di me. –Hai ragione, sono un’egoista, termine giusto, e mi dispiace! Al diavolo il quadro, è già incredibile che tu sia vivo. Ma aspetta…- abbassai lo sguardo. –perché ti hanno legato alla sedia, imbavagliato e bendato se hanno tentato di ucciderti?- chiesi confusa.
-Non volevano uccidermi. Miravano alle gambe, e credo di avere una ferita di striscio da qualche parte… e comunque non gli avevo ancora detto dov’era che Desmond teneva il cellulare. Quindi gli servivo vivo-.
Tornai seduta composta e guardai dritto davanti a me.
Rimanemmo in silenzio, ascoltando la pioggia che batteva sui vetri per una frazione di minuti che mi parve incredibilmente lunga ma rilassante. Ebbi modo di chiudere gli occhi e, come avvolta dalla foschia verosimile di un sogno, la mia bocca si aprì da sola.
-Credi che Desmond se la caverà?- chiesi in un sussurro.
L’assassino sospirò. –Il mio non è certo un mondo facile- disse tristemente.
-Non lo nego. Insomma… prevedo che la situazione resterà ferma per un po’- omisi.
L’uomo si girò su un fianco, e schioccò d’un tratto le dita davanti al mio naso.
Io sobbalzai.
-Devo portarti in braccio?- chiese. –Arrivi da sola fino alla tua stanza?- ridacchiò.
-Mi stai prendendo in giro?- dissi con una smorfia.
Di tutta risposta Altair si alzò in piedi. –No-.
-Va bene- sorrisi come una deficiente.
Ovviamente il tuo antenato interpretò le mie parole come un assenso, non un peccaminoso gioco di sarcasmo. Si chinò su di me, mi strinse sotto le ginocchi e dietro la schiena, ed io m’irrigidii, cercando in tutti i modi di restare seduta dov’ero.
-Dai!- risi, ma Altair mi sollevò con leggerezza e andò verso il corridoio.
-Smettila, mettimi giù, stupido- trovai quella situazione alquanto divertente, ma anche piacevole.
Senza il minimo sforzo e dir nulla, Altair attraversò tutta casa giungendo fino nella mia camera, ed io, per istinto, mi ero stretta al suo collo, dimenticandomi però di lasciare la presa mentre mi metteva giù, adagiandomi dolcemente sul letto.
Le mie braccia ancora avvinghiate al suo collo, ed i nostri visi così vicini l’uno all’altro. Potevo sentire il suo respiro per niente affannato infrangersi sul mio naso, mentre i suoi occhi scuri cercavano i miei, che invece si chiudevano stanchi.
Da una parte era un totale estraneo che faceva il grosso quando si trattava di menare i Men in Black della situazione, ma dall’altra era il tuo trisavolo, incredibilmente somigliante a te e magnificamente dolce e affascinante. Sentivo il suo profumo e me ne gonfiavo i polmoni.
Perché rimaneva impalato lì in quel modo? Avrebbe dovuto staccarsi da me e tornare in salone, dove aveva preparato la sua cuccetta per la notte. Invece non lo fece, piuttosto sentii le sue mani risalire delle mie ginocchia fino ai miei fianchi e stringermi più a lui in un abbraccio.
-‘Notte…- mi mormorò all’orecchio, e quando si scansò dolcemente da me, lasciando che le mie braccia scivolassero via dal suo collo, lo guardai allontanarsi verso il corridoio
-Sicuro…- sibilai, e lui si voltò.
Distolsi lo sguardo dalla sua figura composta. –Sicuro che non ti serve niente?- chiesi, facendo riferimento al bagno e varie.
Il ragazzo scosse la testa e mi scoccò un nuovo luminoso sorrido che parve irradiare la stanza. –Pensa solo a riposare, ora. Da domani, ci metteremo all’opera per trovare un modo di uscire da questa storia- proferì soave. Fece pochi passi all’indietro e lo ammirai mentre chiudeva la porta.
Mi sollevai sedendo con le gambe incrociate. Poggiai una mano sulla mia guancia e la sentii ardere dell’imbarazzo che sembrava aver fatto radici sul mio volto. Sorrisi, ma un istante dopo un tuono spaventoso squassò il silenzio della camera, facendomi sobbalzare.
Mi guardai attorno, e lentamente andai a svestirmi in bagno lavandomi poi i denti e preparandomi per la notte.
Una volta sotto le coperte, mi ci volle pochissimo perché il buio facesse capolino nella mia mente, attraversando ogni angolo restante della mia coscienza, esplorando ogni mia emozione, e trascinandomi nel lugubre mondo dei sogni e degli incubi.



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Grazie, grazie, grazie!
Lo ammetto, all’inizio credevo di voler proseguire la scena dell’irruzione dei Men in Black in casa di giò, ma poi mi sono rigirata a mio favore le circostante per far continuare la storia in un periodo tranquillo. All’epoca, quando pensai quella scena, una delle prime che mi balzò in mente, credevo che avrei fatto fuggire Giorgia e Altair prima che Alex e & potessero sfondare la porta di casa, fuggendo col famoso cellulare… ora basta, o qui vi racconto tutta la storia. Insomma, l’Abstergo company se l’è svignata con l’ultima possibilità di fare tornare Desmond a casuccia. Ma onestamente, conoscendo bene i nostri eroi, le faccende resteranno ferme per poco. Che dire dell’amicizia che sta crescendo tra i due? Mi confesso dicendovi che, immaginando questo chappo, avevo pensato di farlo finire con una scenetta moooolto più interessante, che avrebbe sicuramente fatto piacere a molti dei miei lettori! XD Ma me molto bastarda e me limitato tutto ad un “abbraccio” XD XD Insomma, la mia coscienza dice che da una parte sono troppo piccola per certe cose!!! Ma il diavoletto sulla spalla sinistra manda un gran vaff al compagno sulla spalla destra! XD Ecco i miei due “io” che fanno ancora a botte. A proposito di botte… no, non mi viene in mente niente. Ah, sì, ecco. Piccolo chiarimento: Altair, mentre la nostra protagonista sonnecchiava sotto sonnifero, ha provato a fare fuori qualche agente della compagnia! Alex c’ha rimesso il naso! Ops… dannato spoiler, ma più avanti si vedrà… hmm, che altro? Be’, niente. Passo ai ringraziamenti e alle eventuali risposte alle vostre recensioni!!! Ciauuu!!!

Un grazie speciale a:

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy  

X goku94: sì, anche io sbavavo senza ritegno quando ho descritto Altair semi nudo nel vecchio chappo. *ç* E ancora, e ancora e ancora quando ci ripenso… vabbé… confermo, neppure l’autrice sa come andrà a finire!!! XD Desmond o Alty, be’… si vedrà, anche io non vedo l’ora di arrivare alla fine di questa storiaaaa!!! Passando oltre… continua a seguire e recensire come un grande!!! Spero che questo chappo sia stato di tuo e di gradimento ad altri! Alla poxima puntata!

X Spahi: O_O Non ho idea di cosa sia Fulm Metal Panic, ma da come mi hai raccontato riconoscendo la scena del chappo in questo modo, mi sembra di capire che la deficienza del personaggio è la stessa di Giògiò! XD Or dunque… Felice che il regalino ti sia piaciuto!!! Anche a me!!! XD (Faccio riferimento ad Alty che esce dalla doccia XD)  Vero, vero! Frase equivoca, lo ammetto, ma divertenteee!!! XD –un giorno mi piacerebbe mostrarti di cosa sono capace-. Ed eccone un’altra!!! à “Non faceva riferimento solo alle incredibili capacità da uomo ragno, vero?…” XD, insomma, spero che questo nuovo chappo ti sia piaciuto, attendo con avidità il seguito della TUA ff!!! Aggiorna prestooo!!! Ciau!

X Paccy: recensisci chilometricamente come sai fare solo tuuuuu!!!

X Carty_Sbaut (detta Lilyna_93): aspetto con ansia le tue impressioni!

X LeviTheBookman: non stavi seguendo anche tu la mia ff? Mah… mi pareva di aver letto una tua rece da qualche parte in qualche capitolo precedente… fatti sentireeee!

Ringrazio tutti gli utenti che hanno recensito appassionatamente i capitoli precedenti, e Radio Elika vi da appuntamento alla prossima puntata! Ciao a tutti! :D

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Capitolo 12
*** Il non ritorno ***


Il non ritorno





La confusione della città era attorno a noi. Le macchine che sfrecciavano sulla strada e la gente che passeggiava sui marciapiedi. Noi seduti ad uno dei tavoli esterni del bar; io col mio caffè extra dark e lui col suo “bicchiere ‘acqua”. Il sole brillava alto nel cielo azzurro e senza nuvole, mentre sprecavo un nuovo giorno a spremermi le meningi pur di entrare in possesso di quei dannati farmaci! Il tutto, accompagnato da un venticello primaverile che mi ondeggiava i capelli.
-Potrei contattare un Acher professionista. Se facciamo saltare la loro sorveglianza, potresti intrufolarti nei loro laboratori e trovare quei medicinali. Facile ed efficace. No, facile no, lo ammetto, ma potrebbe funzionare. Conosco qualcuno che potrebbe aiutarci, e sono sicura che non esiterebbe. Scommetto che all’interno dei cassetti dell’Abstergo c’è anche qualche conto e numero di carta di credito!- ridacchiai grattando la lamina del tavolo con un unghia.
-Non possiamo sottovalutarli. Hanno tutto il diritto di sbatterci dietro le sbarre se qualcosa va male. Ma… cos’è un Acher?- sibilò lui allungandosi verso di me.
-Alieni, gente di altri mondi! Io ci scrivo solo sui computer, quelli risalgono al tuo migliore amico contando le cifre del tuo numero di cellulare!- sbottai.
-Eh?-.
-Lascia stare-.
-Se ne sei tanto sicura, perché non ci hai pensato prima?- chiese guardandomi.
Sospira. -La situazione non sembrava tanto critica…-.
Lui inarcò un sopracciglio. -… mi nascondi qualcosa?-.
Lo fissai allungo, in silenzio. -Effettivamente c’è qualcuno che potrebbe aiutarci. Un contatto veloce, un amico di un nemico- brontolai.
-Sarebbe?-.
-Il fratello di Nikolas. William è specializzato in studio e progettazione di software. Lo so per certo dato che ero alla sua cerimonia del diploma quando io e Nik eravamo fidanzati-.
-Ah! Scherzi, vero? Ma perché quel tizio capita sempre tra i piedi?!-.
-Calmati, non siamo obbligati! Posso qualificarmi in computer in un paio di mesi, vedrai… e la rete dell’Abstergo te la violo io- ironizzai.
-Davvero?-.
-No. Mi ci vorrebbero otto vite!-.
-Non mi sembra il momento di scherzare- fece serio.
-Hai ragione, scusa- mi passai una mano in fronte, stressata.
-Forse…- si schiarì lui la voce. –Forse sarebbe bene per la salute di noi maschietti lasciare la situazione com’è- disse, alzando appena lo sguardo nel mio.
Mi persi nei suoi occhi neri, ma mi riscossi alla svelta. –Cosa?-.
-Intendo- si sistemò meglio sulla sedia. –Potremmo lasciar correre le cose. In fondo ci rimane l’ultima speranza che tutto si aggiusti da solo, senza l’intervento di quei farmaci-.
-Perché dici questo?- mormorai.
Lui si mise a braccia conserte. –Non è ovvio?- il sole gli irradiava il volto donandogli un colorito ramato.
Si era affezionato a me?! Ma dai! Scossi la testa, allontanando la tazza di caffè ormai vuota dal bordo del tavolo. –No, non capisco di cosa stai parlando- confessai.
-Non abbiamo uno straccio di idea! E se pretendi di poter danneggiare i loro aggeggi con l’aiuto di uno topo di biblioteca che sembra intendersene, allora ti sbagli di grosso, Giorgia! Quei tizi hanno i mezzi necessari per ammazzarci anche adesso- digrignò fissandomi.
-Non nego che ci possano essere dei cecchini a puntarci contro! Non dico questo, ma come fai ad essere così schietto? Io amo Desmond, e darei la mia vita per riportarlo indietro! Non sai forse che vuol dire amare, assassino?- sbottai alzandomi e m’incamminai verso l’interno del bar.
Altair mi seguì sbuffando. –Speravo che non reagissi così, ma guarda in faccia la realtà! È stata una scelta di Desmond esporsi a questo rischio, e io assieme a lui ho saputo accettarlo!- mi afferrò per un braccio prima che potessi avvicinarmi al bancone e mi voltò.
Vedevo il mio volto arrabbiato specchiarsi nelle sue pupille nere mentre la sua mano si stringeva con forza attorno alle mie ossa. –Sapeva a cosa andava incontro, e ci si è buttata a capofitto senza pensarci. Nonostante ciò, non puoi prendertela con nessuno di noi! Io me ne sto facendo una ragione lentamente che questa storia andrà avanti ben oltre qualche mese, ma tu? Tu rinunceresti così alla possibilità di continuare a vivere?-.
Lo guardai con rabbia.
Il solo fatto che mi stesse gridando contro in un luogo pubblico mi metteva a disagio, ricordandomi le storie che aveva fatto Nikolas il giorno in cui gli avevo detto addio. Trovai la situazione piuttosto simile dato che eravamo all’ingresso di un cinema, quella volta.
La sua presa sul mio braccio si allentò piano, fin quando Altair non fece anche un passo indietro. –Scusa, hai ragione. Non posso capire come ti senti-.
-Altrettanto, quindi scusami tu- mi girai e mostrai lo scontrino alla cassa. Pagai e lasciammo il locale senza dirci nient’altro.
Una volta di fronte al portone di casa, indugiai sull’ingresso fermandomi davanti ai vetri delle porte.
-Che c’è?- mi chiese lui alle mie spalle, ma un istante dopo si posizionò di fronte a me. –Tutto bene?- aggiunse.
-Sì, scusa- mi riscossi cacciandomi una mano nella tasca dei pantaloni. –Tieni- disse porgendogli le chiavi.
Lui se le rigirò tra le dita. –Perché?- alzò un sopracciglio.
-Torna dentro- abbassai lo sguardo. –Io faccio un giro. Vuoi venire con me?- gli domandai, ma lo supplicai con gli occhi.
-No, va bene così- proferì tranquillo.
-Non fare casino, chiaro? Ho appena messo ordine in casa- sorrisi, e lui fece altrettanto.
–Ti ricordi il piano?-.
-Sì-.
-Sai come si risponde al telefono?-.
-Al cosa?-.
Risi, anche se era un bel problema. –Se senti qualcosa suonare non toccare quell’oggetto. Tu non ci devi essere, chiaro?-.
Lui annuì e si avviò sulle scale.
Quando si fu allontanato, mi voltai e salutai il portiere che era rimasto sbigottito della nostra conversazione, come se avessi appena parlato a mio nipote di due anni.
Stringendomi nelle spalle lasciai l’ingresso dell’edificio e camminai sul marciapiede con le mani nelle tasche della giacca.
Avevo un’intera mattinata davanti, e non avevo idea di perché avessi scelto di starmene per i fatti miei quando la compagnia era ciò di cui avevo più bisogno.
Avevo già percorso una gran fetta di strada nel momento in cui il mio cellulare squillò.
Sull’interfaccia vidi il suo nome e risposi alla chiamata col sorriso. –Marty- dissi.
-Felice di sentirti felice, ragazzuola!-.
-Le tue telefonate non sono mai a vuoto, avanti, parla- ridacchiai.
-Mi conosci bene. Quindi vado al sodo: la festa, si fa o non si fa?-.
-Questo sabato c’è il compleanno di William- thò, che coincidenza, pensai.
-Lo so, e porti Desmy, vero?-.
-Non credo-.
-Ti zappo le mani, chiaro?!?! Tu DEVI portarlo, sennò mica ci credo che è tornato. Potrei pensare che hai solo una crisi d’astinenza da sesso e te lo sei immaginato!-.
-Non ho nessuno crisi d’astinenza! E non me lo sono immaginato… ecco, vedi… lui è… cambiato, e parecchio-.
-Così mi fai luccicare gli occhi. In meglio o peggio, intanto-.
-In peggio- mi era scappato, non avrei dovuto dirlo.
-Cristo, e? Che cosa gli è successo? Dov’è stato?! E che bestia sarà mai diventato per farti stare così giù? Insomma, cara, ti sento sciapa. Perché non fai un salto qui? Io e il cane ci annoiamo da una settimana e passa-.
-Non è una buona idea- mormorai.
-Primo, parla più forte, e secondo: perché?! Che cosa ti ho fatto di male?- la sentii tirare su col naso.
Tacqui.
-Va bene, se non vuoi parlare a me, vorrà dire che lo farai davanti a tutti noi alla festicciola di Willy, e con questo chiudo! Ciao!-.
-Cia…- non ebbi modo di terminare che la telefonata s’interruppe all’istante. Sbuffai, ma un momento dopo sospirai mettendo il telefono in tasca. Mi guardai attorno, e non riuscii minimamente ad immaginare cosa sarebbe potuto succedere se avessi portato Altair di fronte i nostri amici. Chissà quali assurdità sarebbero uscite dalla mia bocca pur di nascondere cosa era davvero successo.
Mi stavo tormentando inutilmente, lo sapevo, ma prima o poi la realtà dei fatti mi sarebbe piombata addosso. O forse era già successo: Desmond, non saresti tornato mai più.


______________________________________


Lo so! Lo so!
Capitolo cortissimo, ma devo interrompere qui e sospendere questa ff proprio ora! Scusatemi!!! Ma mi sto impiccando e sto attraversando un momento troppo clue dell’altra mia storia di AC! Se non mi do una svelta ad aggiustare alcune cose lì, finisco per fare una cagata anche qui!!! Perdono!!! Ma vi prometto un aggiornamento prima di 15 giorni sicuro!!! Forse anche il prossimo week end… chissà, vabbé… insomma… scusatemi!…


X sparrow: scusa, scusaaaa!!! Mi sono dimenticata di ringraziare solo te, nel chappo precedente!!! E mi dispiace, ma non ci ho davvero fatto caso!!! Spero che accorrendo qui, a implorare il tuo perdono, ti abbia messo l’anima in pace!!! Scusaa!!! Ancora!!! Ragazzi come corro!!! Ciao!!!

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Capitolo 13
*** Patti chiari, amicizia lunga ***


Patti chiari, amicizia lunga






-Ma allora ce l’hai col tostapane!- sbottai allegra poggiando le chiavi sul mobile all’ingresso.
Dall’altra stanza sentii il tuo antenato ridacchiare. –Mi ha provocato!-.
Raggiunsi la cucina spogliandomi del cappotto e lanciandolo sul divano. –Dimmi che non hai fatto tu questo casino!- mi lamentai arrestandomi nel centro della stanza, poggiai le mani sui fianchi.
Altair si guardò attorno. –Ecco…-.
Inarcai un sopracciglio.
Le dispense era aperte, il frigo spalancato e sul tavolo erano rovesciate le buste di pane in cassetta e di biscotti. –Se avevi fame potevi pure trattenerti- ero alquanto stupita che avesse messo così in disordine solo perché non sarebbe stato in grado di attendere che facessi ritorno. Be’, dopotutto avevo impiegato parecchio tempo fuori casa. Era sera tarda, l’orologio sopra la cappa indicava quasi le otto.
-Non ero io quello affamato!- mi ringhiò contro, e detto questo, per le pareti della casa risuonò l’acuto miagolio di Finger. –Avresti dovuto dirmi dove tieni la roba per quella bestia!- aggiunse irritato, indicando il gatto che comparve dal corridoio. Sedette accanto al muro e cominciò a leccarsi tra i polpastrelli della zampa anteriore.
Scoppiai in una fragorosa risata. –Scusa, hai ragione, ma era il minimo che ti potesse succedere!- ridacchiai apprestandomi a rimettere ordine.
Sui miei movimenti scattanti da una parte all’altra della cucina cadeva spesso l’occhio attento di Altair che con il suo continuo fissarmi iniziava a mettermi fastidio.
Quando finii di risanare la cucina, trassi dal cassetto in basso a destra sotto i fornelli la busta di croccantini del gatto e l’agitai davanti al volto del tuo antenato.
Altair si strinse nelle spalle. –Non potevo sapere che fosse lì- brontolò.
Allungai le labbra in un sorriso chinandomi a riempire la ciotolina del gatto, e Finger accorse affamato dopo poco.
-Dove sei stata?- domandò il ragazzo.
Richiusi il cassetto e mi sollevai lentamente. –Ho ricevuto un paio di telefonate- risposi.
-Chi ti ha chiamata?-.
Ignorai la domanda. –Piuttosto, ha chiamato qualcuno qui?-.
L’assassino si fece da parte e mi lasciò passare, ed io mi diressi in salotto.
-Sinceramente qualcosa ha cominciato a suonare, ad un certo punto- confessò.
Mi avvicinai al telefono sul tavolo del salotto e feci per afferrarlo, quando la mia mano si arrestò a mezz’aria. Restai in quella posa all’ungo, chissà pensando a che cosa, ma di sicuro non avevo voglia di scoprire chi mi avesse cercata in quelle ultime ore. Più che altro, dovevo parlare ad Altair di alcune cose.
Mi voltai trovandomi a pochi passi da lui e puntai il mio sguardo serio nel suo alquanto sorpreso.
-Che succede?- chiese.
Schiusi gli occhi sospirando. –Ho detto ad una mia amica che Desmond era tornato, ma già parlandone con Nikolas ho fatto un grande errore. Da oggi a domani tutti gli amici miei e del tuo nipotino sapranno che Desmond è qui, ma effettivamente lui non è qui! Insomma… Marty vuole che ti porti ad una festa, e pensare che avrebbe voluto organizzarne una in tuo onore! E poi fa così tante domande, ed io ho paura di uscire con loro! Potrebbe scapparmi la verità, e quelli dell’Abstergo me la farebbero pagare cara. Non so che fare, Altair; questa non è più vivere. Sono costantemente sotto torchio, e non siamo neppur certi che quei bastardi abbiano tolto tutte le micro spie da casa!- dissi d’un fiato, sopraffatta dalle mie stesse parole, quasi piangendo.
Quale poteva essere la mia unica consolazione? Desmond non sarebbe forse mai tornato, e se avessi lasciato correre troppo, sarebbe stato possibile che, infedeli ai patti, gli uomini di Alex Viego ti portassero ancor più lontano da me, magari portandosi via il tuo antenato e tutto il tuo corpo.
Ero immensamente triste di quello e altro, ma la mia più grande paura era quella di perdere tutti i miei amici per i miei piccoli timori. Avrei potuto istruire Altair su tutto ciò che potesse capitare in una conversazione tra te e i nostri amici, avrei potuto raccontargli di cosa avevamo passato assieme (dettagli a parte) così da rimpiazzare la sua mente alla tua, così da modellare nella sua testa una seconda coscienza, un secondo te che mi sarebbe servito solo a tirare avanti nei rapporti con gli altri. Desmond, eri celebre per i tuoi tropicali da bancone e se il tuo capo di lavoro ti avesse rivisto, non avrebbe esitato a rimetterti a lavorare nel bar. Ma dubitavo fortemente che un assassino del XII secolo sapesse cos’è un Martini. In tutta sincerità, fosse stato per me, sola ed egoista, sarei rimasta a marcire in casa mia dandomi dispersa anche alla mia famiglia. Non avevo motivo di vivere; quello che avevo passato era stato troppo, troppo assurdo per una come me che a mala pena credeva alla pecora clonata. Per me la genetica non era niente, il vuoto nella mia e nella mente di chi mi stava attorno. Pagine vuote di quaderni sprecati all’università nel tentativo di far carriera scientifica, ma alla fine la mia laurea era bastata in studio della lingua classica e latina. Un diploma inutile, che era servito solo a farmi campare otto mesi coi miei romanzi. Un diploma inutile per una vita inutile di una ragazza inutile. Non potendo far nulla, impotente di fronte all’alta Industria Abstergo mi sentivo la nullità della scuola, quella che tutti prendevano in giro, la vittima del più vandalico atto di bullismo. Debole, stanca di sopportare tale pressione e stress, mi divincolai da quella conversazione con un gesto di stizza.
-Scusami, faccio discorsi stupidi!- sibilai andando verso la stanza da letto.
-No, aspetta- mi bloccò stringendomi una spalla.
Sbuffai. –Non ho nulla da aggiungere. Questa è la mia vita ora: triste e solitaria. Me ne sono fatta una ragione solo adesso, e ti chiedo scusa per averti infastidito quando scommetto che persino tu hai tanto altro per la testa!-.
La sua presa sulla mia spalla si fece più salda, e avvertii un certo dolore che piegò i miei zigomi in una smorfia.
-Non ti chiedo di sorridere ed essere sprizzante di felicità per quello che è successo, ma almeno accetta con meno ripugno la realtà. Desmond non avrebbe mai voluto vederti così-.
-Ma Desmond non c’è più!- strillai. –Quindi non conta! Non m’importa se ti ha chiesto di consolarmi! Non m’importa se ti ha ordinato di proteggermi! Non m’importa, hai capito? Non m’imp…!!!-.
Lo schiaffò arrivò violento, improvviso e mi lasciò… traballante sulle mie stesse gambe. Avevo involontariamente chinato la testa di lato mentre mi portavo lentamente una mano alla guancia lesa. –…perché l’hai fatto?- provai a dire, ma dalle mie labbra venne solo un flebile sussurro privo di autorità.
Altair squadrò serio la mia espressione contorta, le sue dita stringevano ancora la mia spalla. –Andremo a quella festa- disse.
Sobbalzai. –Forse non ti è chiaro, ma…-.
-Ho capito benissimo. Ho la soluzione al problema, e in una settimana ce la faremo- dichiarò pacato.
La sua tranquillità mi metteva a disagio. –Non posso raccontarti due anni della relazione mia e di Desmond così! E non posso pretendere che tu sappia ricordarti di tutte le estati che abbiamo passato con loro! Quando i nostri amici ti chiederanno delle elementari che abbiamo fatto assieme, non saprai rispondergli, non sono certa! C’è da sottolineare il fatto che dovresti imparare i loro nomi, ma non solo! Hai dei modi di dire, di fare che sono totalmente diversi da come si comporterebbe Desmond! E di questo se ne accorgono subito, te lo dico io!…-.
Forse si stava domandando se darmi un secondo ceffone avrebbe migliorato la situazione, perché continuavo a gridargli contro che non c’era modo di non far nascere dei sospetti in tutte le mie conoscenze.
Lo vidi alzare gli occhi al cielo. –Ti prego, smettila di lamentarti di quanto la vita faccia schifo-.
-Non dico questo- borbottai.
-Ma lo stai pensando. Da molto tempo ormai-.
Abbassai lo sguardo affranta. –Sì, hai ragione-.
La sua mano cominciava a pesare sulla mia spalla, e la sua presa sempre salda e costantemente severa temevo mi stesse bloccando la circolazione.
D’un tratto le sue dita si sciolsero da attorno le ossa della mia clavicola e si spostarono sul mio collo. Mi nascose una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sentii il suo tocco accarezzarmi la guancia arrossata.
Era tutto così triste. Non riuscii a provare un minimo di compassione, gioia e conforto nella sua mano poggiata sulla mia pelle. Non era mica quello il genere di consolazione di cui avevo bisogno. Nessun contatto fisico mi avrebbe aiutata, ne ero sicura al cento per cento, anche se più di una volta tentavo di convincermi che la compagnia non poteva che farmi bene.
Eppure, restava tutto così triste, avvolto in un alone di malinconia che in quel momento Altair condivideva con me e col mio gatto.
Finger saltò sul divano e si sedette su uno dei cuscini leccandosi i baffi.
-Comportarsi in questo modo non aiuta nessuno dei due-.
Sollevai gli occhi e li rivolsi in quelli del tuo antenato.
Lui proseguì, inchiodandomi col suo sguardo severo nonostante mi stesse ancora carezzando dolcemente la guancia. –Credi di non poterti fidare di uno che ha visto la morte e gli ha fatto lo sgambetto?-.
-Che intendi?- mormorai senza voce.
In realtà sapevo si stesse riferendo alle centinaia di omicidi che gli erano stati affidati da… Al Mualim, se non sbaglio, nel passato.
-Centinaia di vite mi pesano sulla coscienza anche da questa parte del tempo, sai?- ridacchiò.
Sorrisi e ci fissammo allungo in silenzio, mentre la sua mano mi accarezzava il viso come le docili congratulazioni di mio padre il giorno del diploma. Mi ero falsamente illusa pensando che l’affetto gentile di Altair che, più di altri mi capiva, era prettamente legato allo sconforto che provavamo entrambi. L’uomo che avevo di fronte aveva passato forse i mali peggiori; prima di lui veniva Desmond a qualunque costo e rischio, in cuor mio non ci sarebbe stato spazio per nessun altro. Eppure… era bello credere e sperare che nulla di quei momenti sarebbe cambiato. Era a mala pena una settimana che vivevamo assieme e già eravamo così legati che gli permettevo di toccarmi? Ma sì, che male poteva fare. Un sguardo, un abbraccio, una carezza. Avevo condiviso i miei pi “tormentati” risvegli, soprattutto il primo dei primi con Altair quindi tra noi c’era un nulla di confine che poteva essere varcato da un momento all’altro, ora o tra un minuto, oggi o l’anno prossimo. Desmond, non saresti mai tornato, ma mi avresti permesso quello che stavo per fare?
Poggiai una mano sulla sua, avvicinandomi a lui che fece lo stesso, con molta calma.
Socchiusi gli occhi nel sentire il suo respiro sfiorarmi le labbra e la sua carezza diventare una presa sul mio collo.
Il mondo tacque, e nel suo silenzio meraviglioso, prima che potesse succedere dell’altro, uno squillo spruzzò acqua sul fuoco della magia, che si estinse in una marea di coriandoli rossi di imbarazzo.
Il telefono alle mie spalle mi fece sobbalzare una, due tre volte fin quando non mi voltai e lo afferrai dal tavolo portandomelo all’orecchio.
Odiata salvezza, pensai.
-Ciao mamma!- strinsi i denti.
Altair mi guardò costretto in un afflitto mutismo.
Mi allontanai dal salotto, non potendo tollerare oltre quella situazione che sarebbe potuta peggiorare.

-Non capirò mai perché mia madre non va in pensione- mormorai riportando il telefono senza fili al suo posto.
L’assassino si scansò dalla finestra. –Che cosa voleva?- chiese con tono pacato, tranquillo ma lo capii subito che era parecchio turbato.
Cominciai a martoriarmi l’unghia del pollice. –Le solite cose che è permesso domandarsi ad una madre: come stai, sei stanca, quanti figli hai… quel genere di domande- mi gettai pesantemente sul divano, sprofondando tra i cuscini.
Respirai lentamente, avvalendomi dei ricordi degli ultimi minuti prima che chiamasse mia madre.
Sì, stavo davvero per… sono la persona più crudele ed ingiusta di questa terra, mi dissi. Desmond, mi spiace averci solo provato a fare quello che avrei fatto se la mamma non fosse intervenuta! Mi sentivo uno schifo, la ragazza cassonetto dell’angolo della strada. Non meritavo quella casa e il divano sul quale ero seduta, oggetti che avevamo guadagnato con le faticacce passate assieme. Mi chiesi cosa mi fosse passato per la testa in quel momento, cosa mi avesse spinto tanto oltre, ma forse sarebbe stato saggio ignorare tutto quanto e tornare a… respirare. Quasi me ne ero dimenticata.
-Ti ha chiesto di Desmond?- domandò composto.
Annuii distrattamente.
-E cosa gli hai detto?-.
-La verità-.
La sua pacata espressione cambiò radicalmente. –Che cosa?!- ruggì.
Io scoppiai in una fragorosa risata. –Ma che hai capito? Le ho solo raccontato che era tornato e di come stanno le cose. Non ho accennato sillaba alla questione top secret- strizzai un occhio.
L’assassino ritornò a guardare fuori dalla finestra. –Quella che ci rimette sei soltanto tu- sibilò. –Non è un mio problema se ci ammazzano tutti e due. Il massimo che può succedere è che si riprendano il corpo del tuo ragazzo e ci facciano brutti esperimenti. Magari sarebbero pure capaci di eliminare solo la mia coscienza e far tornare Desmond nel suo tempo per sempre, ma questo influirebbe troppo sui loro interessi. Ai signori dell’Abstergo servo vivo, non gli importa in quale tempo e dimensione dello spazio- parlottò furioso.
Se lui detestava che dessi di matto, io detestavo come mi faceva pesare sulla coscienza il fatto che fosse lì. Dopotutto, se Desmond non avesse insistito di esser rilasciato, la sua cura sarebbe continuata all’interno dei laboratori della società, e di conseguenza Altair non sarebbe qui. Era colpa mia, che mi ero innamorata della persona sbagliata, di nuovo. Ma questo eri il turno in cui non sarei riuscita a cambiare le cose. Desmond sarebbe rimasto per me sempre l’unico e solo nel mio cuore, ed io mi sentivo così male di questo… c’era un qualcosa che mi dava fastidio in tutta quella storia. Le relazioni a distanza non durano, era risaputo, a meno ché non si è sposati, maritati e defunti per poi sepolti in due cimiteri diversi. Ecco, in quel certe storie durano in eterno, altre come la mia, di Desmond e di Altair erano entrate a far parte di un meccanismo che era cambiato per l’ultima volta. E sarebbe rimasto così… per sempre.
Fui per accendere la televisione quando, improvvisamente, la mia mente parve illuminarsi mentre il mio sguardo gioioso cercava quello che andava cercare.
Altair mi guardò spaesato. –Che cos’hai? Cosa stai cercando?-.
Balzai di corsa fino nella mia stanza e mi piegai a guardare sotto il letto.
Il ragazzo che mi aveva seguito sempre più interdetto, si appoggiò al cornicione della porta. –Cosa…-.
Trovai la valigetta cercando alla cieca tra buio e polvere. Un giorno di quelli avrei dovuto pulire.
-Era da un po’ che volevo mostrarti alcune cose- dissi poggiando la valigia sul materasso.
L’assassino si avvicinò a me, ma io mi alzai e tornai in salotto con la borsa alla mano.
-Cioè?- chiese confuso.
Dalla valigia trassi il portatile sul quale lavoravo e lo adagiai sul tavolino basso accanto al divano, sedendomi alla cinese su uno dei cuscini enormi che trascinai sotto le mie ginocchia. –Vieni- dissi, sperando che fosse rimasto un minimo di batteria.
Per mera fortuna quando lo accesi mi ricordai di non averlo usato da lì ad un mese ormai, quindi non poteva che essere carico.
Altair si sistemò accanto a me appoggiando i gomiti sul tavolo.
Inserii la password e non mi curai neppure della faccia meravigliata dell’uomo del passato che mi sedeva vicino; così avviai subito internet e corsi su google.
-Vediamo, vediamo, vediamo…- borbottai cercando alla voce: “assassini terza crociata”.
Sarebbe stato interessante, dopotutto, e avrei voluto vedere quante delle cavolate dei libri di storia sono vere confrontandole con la fonte che avevo in casa!
-Che cosa diavolo è?- domandò lui impressionato.
-Si chiama personal computer. La gente del futuro ci fa molte cose. Ti ricordi questa mattina, quando ti ho parlato degli Hakcer?- lo interrogai sfogliando con il mouse i vari link che mi dava google nella pagina home.
-Sì, e allora?-.
-Quella gente è in grado di fare tante brutte e belle cose con uno di questi. La maggior parte delle volte quello che fanno e perché e come lo fanno è illegale, ma sono troppe poche le volte invece quando qualcuno riesce a fermarli- lo informai.
-Non mi dirai che hai intenzione di… agire adesso!-.
-No, stupido, non ho idea di come si faccia quello che loro sanno fare tanto bene- finalmente intercettai la pagina web di wikipedia e ci ciccai sopra aprendola in una nuova finestra.
L’immagine che subito comparve fu quella di una mappa politica dettagliata della Palestina all’epoca della Terza Crociata. E a quel punto fu troppo: ero curiosa di vedere quale fosse la sua faccia, così mi voltai.
-Ho capito dove vuoi andare a parare- sogghignò il ragazzo.
-Avanti! Io leggo e te confermi, d’accordo? Quando ero piccola desideravo tanto fare due chiacchiere con Giulio Cesare e chiedergli se fossero state 41 o 43 coltellate!- sorrisi.
-Non fare la stupida. Sappiamo entrambi che non posso farlo- proferì calmo e schietto.
-Fare cosa?- sussurrai, e lui s’irrigidì.
-Durante le nostre chiacchiere mi sono promesso di parecchie cose con tuo ragazzo!- disse alzandosi.
Aggrottai la fronte. –Cioè?- feci maliziosa.
-Desmond non andrà mica in giro a raccontare del futuro, ed io non andrò a passeggio a raccontare del passato! Cambierebbe troppo il presente, non possiamo permetterlo. Giocare col tempo è rischioso- pronunciò serio.
Sbattei le palpebre diverse volte. -Va bene, va bene- sbuffai. –Forse non dovrei approfittarmi di te così- uscii dal web e spensi tutto. Rimisi il PC al suo posto e mi mandai a quel paese. Perché mi comportavo come una ragazzina che gioca col suo giocattolo nuovo? Potevo davvero sembrare così infantile di fronte a ciò che mi sarebbe piaciuto conoscere meglio?
Era inutile negare che dopo quella telefonata di mia madre, non ne avrei ricevute delle altre.
-Ne sei sicuro?-.
Lui annuì.
-Perché?-.
-Gliel’ho promesso-.
-Non gli hai promesso di accompagnarmi ad una festa!-.
-Ma gli ho promesso di non farti soffrire; e se non andrai a quella festa ti farò soffrire di brutto…-.
-C-c-che cosa?- balbettai spaurita.
-Avanti, avverti i tuoi compagni di scuola- ridacchiò.
Prima avevo parlato con Marty, dicendole che avrei portato il presunto “Desmond” alla festa di compleanno di William, e poi contattai direttamente Nikolas e suo fratello.

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Un grazie speciale ai recensori dei capitoli precedenti, con un particolare “scusa” a sparrow per non aver risposto al suo commento qualche chappo fa! XD

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy  


P.S spero che codesto chappo vi sia piaciuto e… sìsì, stava per succedere, ma le mamme sono sempre tra le scatole nel momento sbagliato al posto sbagliato!!!  Insomma, è bene delimitare alcuni confini adesso e magari farglieli infrangere più in là! *me fa vaga* XD Allora al prossimo capitolo, che prevedo sarà molto… movimentato!!! :D ciauuuu a tutti!!! E a voi la parola!

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Capitolo 14
*** In fuga da tutto, parte 1° ***


In fuga da tutto, parte 1°




Seduta sul divano immaginavo le prossime ore.
Musica assordante, tanta gente, tanta gente che chiedeva di te, dov’eri stato e cosa avevi fatto. E tanta altra gente che chiedeva a me le stesse… identiche… cose.
Questo era il mio ideale di festa da quando te n’eri andato strappato alla mia vita dai tizi dell’Abstergo. Da quel momento ad oggi non c’erano mai stati veri sorrisi e versi “spassi”. Il divertimento non andavo neppure a cercarlo troppo lontano; ogni tanto il televisore, ogni tanto un libro nuovo, ma niente aveva cancellato i ricordi e i divertimenti che avevamo passato assieme tu ed io. Ed ora, consapevole che da lì a breve avrei dovuto mentire, raccontare che l’uomo che avevo affianco fossi tu riapriva in me quella ferita che avevo ricucito con tanta fatica il giorno in cui ci eravamo detti addio, il giorno in cui mi avevi spiegato ogni cosa e non hai voluto lasciarmi fiato per oppormi. E tu insistevi, dicendo che era meglio così. Ed io negavo, alludendo che gli asini avessero acquistato i jet pack dalla N.A.S.A.
Sopra New York incombevano le nuvole di un cielo grigio e nero che aveva tenuto quel colore questi tutto il pomeriggio, ma senza mai accennare ad una tempesta. Né un lampo, né una goccia di pioggia aveva scalfito il nostro mondo e la mia città, così non avevo avuto scuse per rimandare quell’uscita, magari rimpiangendo il fatto che i tuoi mi mettessero terribilmente a disagio. Ma se fosse andata così, Altair avrebbe insistito lo stesso per accompagnarmi alla festa di William? A quel poveraccio non gli avevo comprato neppure un regalo, e quando avevo contatto Nik per dirgli che sarei venuta al compleanno di suo fratello giù al bar, qual’era stata la sua reazione? Facile, ricordavo come fosse ieri.
-Va bene- aveva detto dall’altra parte della linea.
-Sicuro? Nessuno rimpianto, nessuna ripicca?-.
Nikolas aveva sospirato. –Scherzi a parte, voglio proprio sapere con che coraggio Desmond ti ha lasciata così! E sono curioso anche di avere spiegazioni da te! Insomma, lui fugge via per otto mesi e hai la pazienza di tollerarlo; mentre quando…- e da lì aveva elencato una serie di vicende alle quali non avevo voluto ascoltare spiegazione. Nikolas non era certo stato la rovina dei miei giorni, ma era colpa sua e di suo fratello se ora ero costretta ad andare a quella stupida festa.
Mi sollevai dai cuscini e raggiunsi l’ingresso di casa.
Controllai di avere le chiavi della macchina in tasca e misi nella giacca anche quelle della macchina. Presi il telefono, il portafoglio e verificai al suo interno che ci fosse qualcosa.
Fortunatamente conati qualche banconota da cinque dollari e una da cinquanta. Non credevo di girare spesso con così tanti soldi, ma quella sera non mi sarebbe servita granché quella somma di denaro.
Ero sola nel corridoio, ferma all’ingresso di casa quando mi guardai attorno.
-Altair!- chiamai, ma non ricevetti nessuna risposta. –Ci sei? Io sono pronta- aggiunsi, ma ancora silenzio.
C’era una tenebrosa ombra nera che avvolgeva casa mia quella sera, poiché avessi spento tutte luci. -Altair, siamo già in ritardo- disse, probabilmente parlando da sola, andando a chiudere le finestre. Allungai un’occhiata in salotto, che trovai vuoto del tuo antenato. Così mi diressi verso le altre stanze.
-Altair- ripetei guardando in cucina.
-Altair!- mi affacciai in camera da letto.
Il tuo antenato sembrava essersi volatilizzato. Tentai un’ultima volta girando l’angolo del corridoio e tornando in salone. –Altair!- strillai.
Qualcuno bussò alla porta d’ingresso ed io sobbalzai.
-Che stupido- ridacchiai andando ad aprire. Era rimasto chiuso fuori, ma non potei evitare di chiedermi… come e quando fosse uscito.
Spalancai la porta e fui per richiudermela alle spalle senza neppure guardare chi avesse bussato. –Avanti, o faremo tardi- sospirai apprestandomi a chiudere casa con le chiavi.
-Va’ da qualche parte, signorina?- qualcuno fermò la porta prima che potessi chiuderla.
Il mio cuore perse un colpo, le chiavi mi caddero dalle mani e un brivido mi percorse la schiena.
-Alex- mormorai, ed un istante dopo mi voltai.
Gli scagnozzi di Viego mi sorpassarono entrando armati nel mio appartamento. Subito sentii alle mie spalle le porte delle stanze che sbattevano.
Serrai i denti. –Cosa volete ancora?- domandai seria.
-Spero che potremo risolvere la questione diplomaticamente- arrise.
-Cosa?- balbettai. –Avete il cellulare! Cosa ci fate qui?!- gridai, e sperai che i vicini della porta accanto sentissero ogni cosa.
L’uomo di fronte a me scansò un lembo della giacca nera e mostrò la pistola infilata nell’elastico dei pantaloni. –Diplomaticamente, Giorgia- ribadì serio.
Lo fissai allungo, cercando di comprendere quali fossero le sue intenzioni: ammazzarmi, addormentarmi oppure stuprarmi. Non c’era molta scelta, ma cercai di non scoppiare a ridere per aver solo pensato all’ultima opzione.
Con grande stupore notai un piccolo cerotto sul naso del ragazzo, e mi ricordai dell’ultima volta che erano venuti a rompermi le scatole. Quella sera Altair, ricordai, era riuscito a rompergli in naso al bastardo, chissà che oggi sarebbe successo qualcos’altro…
-Cosa… state cercando?- chiesi voltandomi a guardare le attività movimentate dei suoi scagnozzi all’interno dell’appartamento.
Ben presto mi accorsi che, con la pistola alla mano, gli uomini di viego stavano sicuramente cercando qualcuno e non qualcosa. Cauti, si spostavano per il corridoio separati l’uno dall’altro e setacciavano ogni angolo buio di casa senza neppure accendere la luce.
Alex mi prese sottobraccio e mi accompagnò dentro. –Oh, niente di particolare. Siamo qui per riprenderci ciò che ci appartiene- ridacchiò e la sua stretta attorno alle mie spalle si fece più salda.
Sobbalzai. –Altair- sibilarono le mie labbra.
Viego si guardò attorno. –Cercate fuori dalle finestre!- ordinò ai suoi uomini.
-Perché?!- tentai di divincolarmi e ci riuscii, stanziandomi da lui.
Alex tornò al mio fianco tranquillamente, mentre i miei occhi spaventati saettavano da una parte all’altra delle stanza sperando che non trovassero mai il tuo antenato che neppure io avevo idea dove fosse.
-I piani della nostra azienda non sono cambiati dall’ultima volta che portammo Desmond nel laboratorio- sbottò Alex irritato. -Le loro menti potrebbero esserci ancora utili- sorrise fiero.
-No! No!- gemei andandogli in contro. Lo afferrai per il colletto della cravatta. –Avete rovinato le loro vite già abbastanza! Lasciateli in pace!-.
Ovviamente ci riferivamo entrambi a Desmond e Altair che, chi da una parte e chi dall’altra della linea del tempo, avevano subito sfruttamento e violenza al livello psicofisico allo stesso modo.
-Siete dei mostri!- gli gridai in faccia, ma improvvisamente due braccia mi tirarono lontano da quel maledetto bastardo che aveva osato disfare la mia vita. –Non siete esseri umani! Siete voi gli unici assassini!- insistei e due degli uomini di Viego mi tennero a distanza mentre scalciavo come una forsennata. –Lasciatemi!- uno di loro mi tirò su la manica sinistra della manica e avvicinò una siringa al mio braccio preda di spasmi continui.
-No, fermi!- strillai ancora.
Alex Viego sorrideva divertito nell’osservare come i suoi scagnozzi mi pungevano la pelle. La stessa che mi aveva addormentata la volta precedente, e probabilmente conteneva il medesimo sonnifero.
-Capo! Qui non c’è!- uno scagnozzo corse in salone abbassando l’arma, e il sorriso malizioso di Alex divenne una smorfia di rabbia. –Abbiamo cercato dappertutto, crediamo sia scappato- aggiunse Martin, che in bocca aveva la solita sigaretta.
Viego aggrottò la fronte e si volse verso di me. –Dov’è andato?!- mi chiese furioso. –Dove l’hai nascosto?!- disse traendo la sua pistola dai pantaloni e con un gesto della mano fermò l’iniezione che stavano per farmi.
Il ragazzo non esitò a puntarmi la canna dell’arma contro, pur da distanza di sicurezza. Infilò il silenziatore e mi fissò allungo. –Dove l’hai mandato?- digrignò.
Non avevo colpa, non avevo certo ordinato io ad Altair di allontanarsi da casa! Non era colpa mia, e quei tizi volevano farmi fuori accusandomi con delle prove infondate. Dovevo agire anticipando la pallottola che mi avrebbe traforato la testa.
-Non lo so!- supplicai scoppiando in un mare di lacrime. –Dovevamo uscire questa sera con degli amici, volevo solo tornare alla mia vita di tutti i giorni! Vi prego, non ho idea di dove possa esser fuggito!- piansi, ma il sostegno dei due che mi erano alle spalle non mi permise di cadere in ginocchio, perché le mie gambe non raggiavano ormai il mio peso.
Alex Viego abbassò la calibro nove e si voltò. –Procedete- mormorò e Martin lo seguì verso l’ingresso di casa.
L’ago penetrò nella mia carne senza preavviso e con un immenso dolore forò le mie vene, ma prima che una goccia di troppo mi entrasse in circolo nel sangue, si udì un grido: -Eccolo, è qui! Fermatelo!-.
Alex e Martin si precipitarono nel corridoio e sparirono nel buio della stanza da letto con le armi alla mano.
Una leggera nebbiolina mi comparve davanti agli occhi e i due uomini che avevo alle spalle mi adagiarono a terra accorrendo in aiuto del loro capo.

Altair si issò sul cornicione della finestra e balzò nella stanza agilmente silenzioso.
Gli uomini dell’Abstergo stavano controllando in bagno ed erano in tre: uno all’ingresso della camera da letto che guardava verso il corridoio, il secondo si aggirava nello stanzino accanto e il terzo era in piedi accanto al letto.
-Non lo so!- sentì gridare Giorgia. –Dovevamo uscire questa sera con degli amici, volevo solo tornare alla mia vita di tutti i giorni! Vi prego, non ho idea di dove possa esser fuggito!- ascoltò la ragazza scoppiare in lacrime, mentre la sua si confondeva alle ombre dei mobili.
-Procedete- assentì un uomo che l’assassino riconobbe come Alex Viego, ovvero il bastardo che era a capo della sorveglianza segreta dei laboratori dell’Abstergo.
Altair irrigidì i muscoli e scattò in avanti. Spinse uno degli uomini nel bagno e questo andò a cadere addosso all’altro scagnozzo. L’assassino estrasse la chiave dalla serratura e chiuse la porta segregandovi all’interno i due uomini di Alex.
Il terzo nella stanza di voltò. –Eccolo, è qui! Fermatelo!- gridò sparando tre colpi alla cieca.
Altair rotolò a terra nascondendosi dietro l’armadio e i proiettili forarono la superficie del mobile.
Nel frattempo, i due ragazzoni segregati nel bagno fecero saltare la serratura della porta con un solo e ben piazzato colpo di pistola, e poi fu il caos.
Altair saltò fuori dal suo nascondiglio e si gettò addosso al terzo uomo spingendolo fuori dalla stanza. Questo si rovesciò sul pavimento del corridoio lasciando che l’arma gli scivolasse di mano.
Alle sue spalle, i due restanti scagnozzi gli puntarono contro, ma prima che potessero infierire un solo colpo, Altair si piegò e afferrò l’arma abbandonata dall’uomo a terra.
Impacciato, l’assassino infilò l’indice sul grilletto e puntò la canna alla testa del povero finito al suolo.
-Impari in fretta!- ridacchiò Alex aggiungendosi armato al gruppo di uomini, e assieme a lui comparve Martin con la sigaretta alla bocca.
-Getta via quell’arma!- sbottò il fumato.
-Non la sa usare!- rise un altro.
Altair abbandonò la presa sull’arma gettandola di lato e, fulmineo, scomparve in salotto.
-Non giocare all’animale braccato, Altair!- aggiunse Alex che pareva tanto in vena di scherzi, e con un gesto della mano indirizzò i suoi uomini alla caccia. –Se verrai con noi, ti riporteremo nel tuo tempo- aggiunse con malizia.
Altair si chinò su di me e mise un mio braccio attorno alle sue spalle. –Dobbiamo andarcene- mormorò tirandomi su.
Annui debolmente sostenendomi a mala pena con quelle mie poche forze restanti.
Il buio di casa giocava a nostro vantaggio, e Altair riuscì a trascinarmi fino in cucina senza essere visti.
L’assassino allertò i sensi al minimo rumore di passi, lo sentii irrigidire e tendere i muscoli nel tentativo di portarci entrambi vivi fuori di lì.
Il sonnifero stava facendo effetto e ben presto persi la completa sensibilità dai fianchi in giù. Se riuscivo ancora a muovere le gambe era per il semplice fatto che avessi la sensazione di vivere un sogno. Tutto attorno a me assumeva quella sfumatura irreale del risveglio da un sonno profondo, e il buio che avvolgeva casa non migliorava la mia semicoscienza.
-Ti uccideranno- sussurrai. –Ricordati…-.
-Sì, lo so, lo so!- mi azzittì poggiandomi una mano sulla bocca. –Sta’ zitta. Piuttosto, c’è una finestra in fondo al corridoio o è una mia immaginazione?- mi chiese con tono di voce impercettibile a qualcuno che stesse dieci centimetri più lontano da noi.
-Eccoli!- uno sparo, e il proiettile perforò lo sportello della dispensa. Martin aveva sparato da una distanza di appena dieci metri, precisamente dall’ingresso di casa. –Li ho sentiti! Sono lì, dietro il tavolo della cucina!- proruppe.
Era tutto assurdo. Perché tentavano di ammazzarci se volevano il tuo antenato vivo per riprendere gli esperimenti?
Altair mi strinse a sé ed io mi avvinghiai a lui, che con un salto emerse dal nostro nascondiglio e raggiunse il corridoio.
-Non devono sfuggirci!- sbraitò Alex in preda alla collera.
Effettivamente c’era una finestra in fondo al buio corridoio di casa mia, e Altair corse in quella direzione con me in braccio.
-Reggiti!- con il pugno chiuso, ruppe il vetro in centinaia di pezzi e si aggrappò al cornicione.
-Presto, fermateli!- gridò Martin.
Con la sola forza delle braccia mi ressi al suo collo cercando di non strozzarlo e Altair si arrampicò sul muro dell’edificio.
Il freddo della notte m’investì crudelmente strappandomi quel poco di sonnifero che correva nelle vene. –Ah!- strillai guardando la strada trafficata sotto i miei piedi che galleggiavano nel vuoto.
Il mio petto premeva sulla sua schiena rigida dei muscoli tesi nello sforzo di arrampicarsi col solo uso delle poche sporgenze che un palazzo del XXI secolo poteva avere.
Ci fu un tuono, e dai nuvoloni del cielo cominciò a cadere la pioggia.
-Fantastico!- gemé Altair lasciando la presa dal cornicione e precipitammo per qualche metro verso terra, ma improvvisamente atterrò su un piccolo terrazzo del piano inferiore.
Mi scappò un urlo di terrore quando dalla finestra dalla quale ci eravamo gettati si affacciarono i volti rabbiosi di Alex e Martin.
Quest’ultimo indicò verso di noi, e a quel punto Altair mi issò meglio sulle sue spalle.
-Ci sei?- chiese.
-Sì!- balbettai.
E l’ascesa proseguì: con un salto, il tuo antenato si aggrappò alla grondaia vicino e scivolò giù da essa.
Ero terrorizzata, afflitta, priva di forze. La presa attorno al suo collo s’indebolì d’un tratto e avvertii il vuoto risucchiarmi verso il suolo. Gridai, ma il mio urlo fu interrotto da un movimento rapidissimo del braccio del tuo antenato, che mi afferrò per il polso prima che accadesse qualcosa di spiacevole.
-Mi avevi detto che c’eri!- sbottò lui, mentre i goccioloni della tormenta ci violentavano entrambi. –reggiti, avanti!- aggiunse tirandomi a sé ed io mi avvinghiai al suo petto.
Aveva un forza incredibile, ed ogni suo movimento restava fluido ed elegante nonostante la situazione nel quale eravamo caduti.
-Dove hai visto quella macchina, l’ultima volta?- domandò Altair calandosi giù dalla grondaia e afferrando il cornicione della finestra vicina. L’interno del piano era luminoso, e le tende scostate, così la vecchietta che guardava la televisione ci vide entrambi.
Altair scomparve dopo il boato di un tuono lasciandosi cadere sulla balconata sottostante.
-La loro macchina?- mormorai e la pioggia violenta mi entrò in bocca.
-Sì! Dimmi da quale parte non dobbiamo andare!- eruppe lui.
-Il vialetto qui sotto!- confessai.
Altair s’irrigidì ulteriormente. –Cosa?!- fece incredulo voltando a guardare me, che ero adagiata sulla sua schiena e stretta attorno alle sue spalle.
Effettivamente, l’auto nera era parcheggiata proprio sotto di noi, accanto al marciapiede allagato sul quale camminava la ragazza peruviana che portava a spasso il cane dei vicini. La donna era riparata sotto un ombrello rosa e succhiava allegramente un lecca lecca. Il bassotto nero che portava al guinzaglio si chiama Doodle, e mi ricordai di tutte quelle volte che Finger gli aveva graffiato il muso al piccoletto.
-Finger!- strillai.
-Non c’è tempo!- con un balzo, Altair toccò saldamente terra ed io, subendo il contraccolpo, saltai tra le sue braccia.
-Tutto bene?- si preoccupò facendomi scivolare giù.
La dog sitter dei vicini ci fissò allungo sbigottita e il suo bassotto cominciò ad abbaiarci contro.
Tremante e infreddolita, mi strinsi a lui. –Sì, ma…-.
Il ragazzo alzò il mento. –Dobbiamo andarcene, dove si trova la tua auto?- chiese prendendomi per mano e cominciammo a correre, ma a mala pena mi reggevo in piedi.
-Poco lontano! Di là!- dissi indicando la strada che dava sul corso principale del quartiere.
Sotto i miei vestiti sentivo la pioggia graffiarmi la pelle, e ogni nostro respiro affannato si perdeva nel rombo della tempesta.
-Eccoli!-.
Mi voltai, ma con uno strattone Altair mi tirò nuovamente al suo fianco. –Continua a correre!- sibilò.
Alex Viego e Martin salirono nell’auto nera parcheggiata nel vialetto e gli altri scagnozzi ci mirarono addosso coi silenziatori alle pistole.
Quando la dog sitter azzardò un’occhiata alle armi, scappò via terrorizzata prendendo in braccio il bassotto dei vicini.
Prima che potesse accaderci qualcosa, sbucammo fuori dal vicolo di casa e fui io a guidare Altair fino al parcheggio della mia auto.
Cercai spaventata le chiavi in ogni tasca del cappotto e le trovai nell’ultima che setacciai.
Nell’istante in cui fui per aprire la portiera, Altair mi cinse in un abbraccio improvviso allontanandomi dall’auto.
Sobbalzai, osservando attonita come i mille frammenti di vetro si rovesciavano al suolo, ascoltando il mio cuore accelerare impazzito. Se l’assassino non avesse preveduto quel colpo, probabilmente mi sarei ritrovata una pallottola tra le costole.
–Lascia stare la macchina!- digrignò.
Le sue dita s’intrecciarono di nuovo alle mie e mi tirò con violenza verso il vicolo più vicino.
Una volta celati dalle ombre dei palazzi, la nostra corsa forsennata non ebbe fine fin quando non fummo certi di averli seminati. Ci eravamo allontanati da casa di parecchi isolati, ma la nostra fuga proseguiva per vicoli e strade che non avevano nomi.
Sbucciamo nuovamente sul corso principale, ma durante il tragitto inciampai più di una volta su pozzanghere e rilievi dell’asfalto.
-Ti prego… fermiamoci!- gemei debolmente.
-Un luogo pubblico! Ci fermeremo solo dove non potranno spararci!-.
-Lì… andiamo là…- indicai il mini market all’angolo della strada ed entrammo nel negozio.
Una volta nel locale, crollai letteralmente al suolo, e Altair si chinò al mio fianco.
-Giorgia…- mormorò stupito.
-Chiamo un l’ambulanza!- si offrì il cassiere del mini market, e una ristretta folla di acquirenti si radunò attorno ai due.
Altair si guardò attorno sperduto, poi lanciò un’occhiata oltre le vetrine della sala.
L’auto nera di Alex Viego era parcheggiata accanto al marciapiede di fronte, il finestrino era abbassato e il suo sguardo truce ed intimidatorio arrivava fin lì.
L’assassino serrò i denti e strinse i pugni. -Bastardo- sibilò.
Nel frattempo, chiusi gli occhi e in quell’istante i miei sensi si appannarono del tutto, privandomi di quel poco di veglia che mi era rimasta; e tutto divenne terribilmente buio.

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Su questo chappo non ho molto da dire. Mi sono divertita a scriverlo, è vero, ma c’erano tante di quelle frasi spoiler interessanti che avrei potuto scrivere una sequenza a parte! XD Ovviamente parto con i ringraziamenti e se mi viene qualcosa in mente durante il tragitto… vi farò sapere.

Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy  

Ecco, qualcosa mi è saltato in testa proprio ora: sono una stupida. Sapete che in questo chappo avrei voluto descrivere una tranquilla festicciola? Ebbene, ho cambiato idea quando una mattina mi sono svegliata e ho deciso di voler accorciare le cose per sostituire la quotidianità della vita di Giò e Alty all’azione pura! Alex e la sua truppa si faranno vedere presto, ancora e ancora, ma ovviamente c’è da chiedersi cosa faranno i due picciotti senza casa e con solo qualche soldo. Per di più… non stava per nascere qualcosa nel chappo precedente? E Lucy Stilman agli arresti domiciliari? Eheheh… quanti spoiler! XD Dannata boccaccia. Spero che, nonostante la brevità e la “bruttezza” del capitolo (il mio modo di scrittura va peggiorando, aiuto) questo vi sia piaciuto e abbia saputo tenervi col fiato sospeso. Povero Finger, chi baderà a lui ora che Alex farà appostare gente attorno a casetta di Giorgia? Ormai siamo entrati nel vivo della storia, che ruoterà molto attorno a “fughe” e “sparatorie”. A proposito, mi spiace di non aver fatto agire il nostro assassino preferito più di tanto per quanto riguarda scazzottate e varie, ma… sapete che sono particolarmente stronza a riguardo! XD No, sul serio, scherzi a parte, ho scritto questo capitolo con la testa in tutt’altro luogo. E pensare che non si sarebbe neppure dovuto interrompere qui. Avevo in mente altre cose interessanti che riguardano parecchi nuovi e “vecchi” personaggi… insomma, riassunto della questione: continuate a seguirmi e… a voi la parola!!! Ciau!

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Capitolo 15
*** Tentativi ***


Tentativi





Mi svegliai di soprassalto, richiamata al mondo dall’esplosione di un tuono.
Mi sollevai seduta sul letto e mi guardai attorno spaventata.
Era la buia stanza di un pronto soccorso, accanto alla mia branda ce n’erano altre e i macchinari che contavano i battiti del mio cuore sembravano impazziti, suonando allarmati.
Nella camera fecero irruzione il dottore della sezione con una cartella in mano e la sua infermiera. Non lasciai correre ulteriormente le cose, non ero in me ed iniziai a staccarmi con violenza i tubicini che mi percorrevano il braccio. Scivolai via dalle coperte e toccai il pavimento freddo coi piedi scalzi, scattai verso la porta della stanza e mi gettai nel corridoio.
-Fermatela!- sentii gridare alle mie spalle il medico.
Il pigiama a pallini dell’ospedale mi copriva a malapena fin sopra le ginocchia, avevo i capelli ancora inumiditi di pioggia, ma in me circolava una certa quantità assurda di adrenalina, che in quel momento mi stava riempiendo gli occhi di terrore e paura.
Mi fermai, immobile d’un tratto tra la gente che affollava i corridoi del pronto soccorso e lo vidi.
Era seduto su una delle seggiole d’attesa, i gomiti poggiati sulle gambe e le mani a reggersi il viso, sul quale compariva un’espressione dolente e preoccupata. Si alzò di colpo quando i suoi occhi incontrarono i miei, ed io mi diressi di corsa verso di lui.
Lo abbracciai con foga, facendo aderire completamente il mio corpo al suo, e lui mi strinse con forza a sé. Sentii le sue mani fredde sfiorarmi la schiena e nell’incavo del suo collo cominciai a soffocare una manciata di singhiozzi.
-Signorina…- mi sentii chiamare e lentamente mi allontanai dal tuo antenato.
Dietro di me c’erano il dottore di sala e la sua infermiera che mi prese sottobraccio e mi esortò al ritorno nella mia stanza.
Avevo fatto il mio dovere, ovvero rassicurare Altair sul fatto che fossi viva e viceversa.

Mi fecero una miriade di esami, soprattutto prelievi, ma quella stessa mattina mi diedero la convalida della mia salute. Assieme ai prelievi avevano fatto su di me centinaia di iniezioni periodiche ad ogni ora. Se guardavo il mio braccio sinistro sembravo una bucata di droga. Lasciai la camera nella quale ero stata ricoverata dopo un sonno leggerissimo e turbato dalla quantità di farmaci che mi avevano iniettato. Non volli neppure chiedere che cosa mi fosse successo, il mio unico desiderio era lasciare quell’ala dell’ospedale e respirare aria pulita che i miei polmoni imploravano.
Trovai Altair dove l’avevo lasciato, seduto su una delle seggiole che erano attaccate alla parete del lungo corridoio. Si alzò sorridendomi e mi affiancai a lui per far passare una barella con un ragazzo da una gamba ingessata.
-Come stai?- mi chiese.
-Bene, grazie- mormorai.
Addosso avevamo entrambi gli stessi abiti della scorsa notte, che era trascorsa nelle eventualità più memorabili. Supplicai me stessa pur di non scoppiare a piangere ripensando agli avvenimenti passati e fortunatamente funzionò.
-Hai fame?- gli domanda mentre c’incamminavamo.
-No, e tu?- mi guardò premuroso.
-Un caffè mi farà bene- ridacchiai ed insieme raggiungemmo la caffetteria dell’ospedale. Sedemmo ad uno dei tavolini della terrazza esterna e presi a guardarmi attorno.
Splendeva una giornata chiara e luminosa; il cielo era azzurro macchiato di alcune tozze nuvole gonfie. E pensare che la sera prima aveva diluviato come Dio solo lo sa! Ma Alex e i suoi non potevano aspettare che facesse bel tempo? Così ora non avrei sentito la fronte bollente e il naso tappato.
Da quella sera avevo il costante terrore che Alex e i suoi uomini sbucassero all’improvviso e mi allontanassero dalla mia unica protezione, quello che rimaneva della mia vita.
Altair probabilmente notò la mia smorfia terrorizzata e allungò le labbra in un sorriso divertito. –Non preoccuparti, qui siamo al sicuro-.
-Scusa- scossi la testa abbassando lo sguardo sul mio cappuccino. –è solo tutto così… non ho parole per definirlo- sibilai.
-Ne usciremo, vedrai, ma c’è una cosa che… forse non è il momento adatto- divagò lui guardando altrove.
Alzai il viso e lo fulminai con un’occhiata afflitta. –Che stai blaterando?- chiesi, come se i segreti dell’Abstergo non mi bastassero. Pretendevo che almeno tra me e lui non ci fossero ulteriori silenzi, e in un momento come questo non ci era permesso.
-Altair- lo chiamai e lui si voltò.
-Cosa?-.
Tacqui. Sapeva benissimo a cosa mi riferissi.
L’assassino sospirò. –Non era sonnifero- sussurrò.
Qualcosa si fermò nel mio petto, qualcosa non batteva più. Quel qualcosa era il mio cuore che non sopportava quello sforzo tanto grande di credere a tali parole.
-L’Abstergo ti voleva fuori dai piedi. La sostanza che ti hanno iniettato gli uomini di Viego avrebbe dovuto farti tacere per sempre- proferì serio, contenendo a stento la collera, e il fatto che si stesse preoccupando per me in quel modo mi sciolse come un ghiacciolo al sole.
Presi una delle salviettine dal tavolino e mi ci soffiai il naso. –Non poso crederci…- gemei e una lacrima mi solcò la guancia.
Altair si passò le mani in volto. –Tra un paio di giorni saranno di nuovo sulle nostre tracce, e per allora avranno ciò che gli serve, cioè me. Ci deve esserci un modo per fermarli, potremmo…- s’interruppe nell’osservare la mia reazione a quel discorso.
-Che cosa c’è?- domandò stupito. –Cos’è quella faccia?- aggiunse avvicinando la sedia alla mia.
Con un gesto a rilento allontanai il caffè da me e mi girai verso di lui, così da guardarlo negli occhi.
Sospirai prendendo fiato. –So bene che se andassi con loro, avresti la possibilità di tornare nel tuo tempo- dissi schietta, e parecchio seria.
Il ragazzo che avevo di fronte distolse lo sguardo. –Ma cosa otterresti tu in cambio? Nulla, e se adesso sono qui è perché Desmond credeva che insieme avremmo potuto interrompere la catena- dichiarò fiero, ma la sua sicurezza durò ben poco.
-Non sei stato tu a dirmi che non c’è modo di cambiare le cose?- mormorai commossa.
-Sì, hai ragione…- fece distratto.
Gli presi il viso tra le mani chissà con quale coraggio. –L’unica che si deve rassegnare sono io. Se è te che vogliono, e se riportarti in laboratorio fosse l’unico modo per restituirti al tuo tempo, cosa stiamo aspettando?- gli rinfacciai, scocciata di essere pedinata, controllata e continuamente sotto torchio per colpa vostra. Magari avrei ricominciato a respirare se entrambi voi, tu e il tuo antenato, vi foste allontanati da me. Avrei dimenticato in breve tempo, avrei implorato quelli dell’Abstergo di darmi una nuova possibilità, di risparmiarsi la fatica di ammazzarmi perché me ne sarei stata per i fatti miei! Alla tua lontananza mi ero abituata, e presto non averi più avuto bisogno della compagnia di Altair.
Non riuscii a credere di aver pensato della roba simile!
Altair strinse le sue dita attorno alle mie e allontanò il mio palmo dal suo volto. –Mi è stata affidata una missione, non posso certo trasgredire gli ordini- sorrise malizioso.
Aggrottai la fronte. -Ti fai dettare ordini da Desmond?! Questa, poi!- alzai gli occhi al cielo, e l’assassino di fronte a me scoppiò in una risata.
-So scegliermi gli incarichi più interessanti- proferì divertito, ma nel suo tono di voce colsi una nota profetica, un sottinteso.
Mi irrigidii, incrociando le braccia sul tavolo. –Bene, allora che si fa?- mi schiarii la gola e misi nel caffè due cucchiaini di zucchero.
Altair mi osservò allungo in silenzio, ma ad un tratto parve illuminarsi. –Aspetta, tieni- si cacciò una mano nella tasca dei pantaloni. –Ha suonato diverse volte- disse poggiando accanto al mio gomito il cellulare.
Inarcai un sopracciglio. –Non oso chiedermi chi possa essere…- borbottai ignorando l’oggetto e mescolando lo zucchero al cappuccino col cucchiaio.
Il ragazzo sbuffò. –Ascolta, ho imparato a sopportare io le sue telefonate, potresti farlo anche tu!- ironizzò.
-Tu non lo conosci! Nikolas trova buona ogni scusa, ogni momento della mia giornata per rinfacciarmi quello che per lui è stato il più grande “errore” della mia vita, cioè lasciarlo! Vuole solo farmi pesare sulla coscienza quei pochi ricordi felici che ho di lui! Riassunto della questione: perché quelli dell’Abstergo non se la prendono con lui?!- mi sfogai.
Altair rise di nuovo. –Ti ricordo che suo fratello è l’unica persona che può aiutarci- proferì gioioso e spinse il cellulare più vicino a me. –Parlaci-.
-No. Potrebbero intercettare la telefonata. Anzi, non potrebbero; possono!- digrignai e buttai giù tutto d’un sorso il caffè.
-Va bene, ci rinuncio!- Altair si alzò scostando rumorosamente la sedia. –Fa’ come meglio credi, lascia che mi trovino! Ma non venire a piangere da loro quando avrai cambiato idea! Ma per allora sarà troppo tardi- eruppe.
Lo tirai per la manica e lo rimisi a sedere. –Ascolta bene razza di…- mi bloccai nell’istante in cui il vibratore del mio portatile prese a guizzare.
-Lupus in fabula- ridacchiò l’assassino.
M’imbronciai curvano le spalle. -Stronzo- sibilai.
-Sii il più naturale possibile, d’accordo?- mi avvertì.
Annuii. –Il nostro destino è in buone mani- dissi strizzando un occhio.
Guardai sull’interfaccia del cellulare e non rimasi per niente sorpresa di leggervi sopra il suo nome. Dovevo risolvere la questione il più in fretta possibile, o me la sarei trascinata dietro in momenti anche peggiori.
-Pronto- bofonchiai portandomi il telefono all’orecchio.
Guardai verso di Altair che si sollevò dalla sedia. –Vado a cercare un bagno- mimarono le sue labbra e lo guardai allontanarsi via dalla terrazza della caffetteria.
Nel frattempo il mio ex non mi diede tregua.
-Eravate lì lì per uscire quando ha cominciato a spogliarti?- sogghignò Nikolas. –E così avete fatto sega. Willy c’è rimasto male, ragazza, non si fa così-.
-Sì, è come dici tu. Ma sai la novità!…- e in quell’istante mi bloccai, le parole mi erano morte in gola, soffocate da una forza maggiore che si chiamava buon senso.
-Certo, certo, come no. Il torto non dovevi farlo a lui, ma a me. Tieni mio fratello lontano dalla nostra storia- dichiarò severo lui.
-Nik, sei un bastardo. L’unico che tira in ballo William sei tu. E comunque ieri ho avuto… dei problemi, mi spiace- mi passai una mano in volto.
-Di che genere? Vorrei una spiegazione plausibile questa volta- il suo sarcasmo si era spento come la fiammella di una candela al vento.
-Nik, io…- assentii confusamente, incerta su cosa dire e come dirlo.
-Sto aspettando- eruppe arrogante.
-Ti richiamo- e attaccai.
Mi alzai dal tavolo, lasciai la mancia e abbandonai la caffetteria.
Io e Altair c’incrociammo sul corridoio del piano e raggiungemmo assieme la reseption del pronto soccorso.
-Che cosa ti ha detto?- domandò mentre camminavamo l’uno affianco all’altra.
-Il solito, ma i aspettavo una reazione peggiore- blaterai scocciata.
-Quindi non c’è bisogno che gli spacchi la faccia-.
Lanciai un’occhiataccia al tuo antenato che non esitò a sorridere. –No, per ora no, ma grazie lo stesso- scherzai.
Una volta nella Hall dell’ala pronto soccorso, ignorai il cellulare che squillava nella tasca dei jeans e mi diressi di corsa verso l’uscita.
-Giorgia, aspetta!- mi chiamò Altair seguendomi interdetto. Mi strinse il polso facendomi voltare.
-Rammenta che possono sapere dove siamo, e magari sono appostati qui fuori- indicò con un cenno del capo le porte scorrevoli della sala.
-Ti prego, lasciami fare. Ho visto abbastanza film d’azione, fidati- gli sorrisi e la sua presa attorno alle mie ossa si allentò.
Lasciammo l’edificio e il sole mi colpì in viso riscaldandomi la pelle; poi vennero anche il caos cittadino e i clacson delle auto, accompagnati alla puzza di smog per la quale Altair arricciò nuovamente il naso.
-Ancora non ti sei abituato?- gli domandai allegra traversando la strada e lui mi restò accollato come fosse la mia ombra. Mentre si guardava attorno vigile a controllare che non ci fosse nulla di sospetto nelle vicinanze, estrassi il telefono dalla tasca e andai sulla sezione rubrica.
Una volta dalla parte opposta della strada mi diressi con passo spedito fino alla prima cabina telefonica che cadde ai miei occhi.
-Cosa stai facendo?- chiese spaesato mentre inserivo degli spiccioli nella fessura e componevo il numero di Marty che avevo sull’interfaccia del cellulare.
-Se chiamassi dal mio portatile- gli spiegai portandomi la cornetta all’orecchio. –Se chiamassi dal mio portatile rintraccerebbero la telefonata. Chiederò ad una mia amica se possiamo stare da lei, e…-.
Tu. Tu. Tu. qualcuno aveva…
-Altair!- strillai voltandomi, e mi accorsi che il suo dito premeva sul tasto di reset della telefonata. –Perché l’hai fatto?!- gridai, ma frenai l’impulso di colpirlo con la cornetta.
-Se possono rintracciare il tuo telefono, indubbiamente tengono sotto controllo anche le cabine attorno all’ospedale. L’unico modo per confondergli e spostarci a piedi, velocemente e nell’anonimato- dichiarò serio e mi prese per mano, strattonandomi via.
Lo seguii di malavoglia, ancora sorpresa di quel suo fare prepotente e severo che mi metteva a disagio.
Camminammo allungo e con passo serrato e svelto, confusi tra la gente che affollava le strade. Mi trovai già stanca dopo pochi isolati, ed invidiai il lettuccio caldo nel quale sarei potuta rimanere in ospedale.
Su di noi vegliava un sole primaverile luminoso e un cielo azzurrissimo e colorato di chiazze bianche e piene. In una giornata del genere avrei preferito andarmene al parco, prendere il sole sulla spiaggia, fare un giro con il tettuccio abbassato… ma la mia vita aveva preso quella piega assurda dalla quale non sarei uscita per parecchio tempo. E invece che godermi la mia esistenza, quella stava diventando una primavera da dimenticare per sempre.
Che familiarità assurda mi affiorò alla mente. Di recente avevano trasmesso alla TV un film di nome the ISLAND. Bello, mi era piaciuto e qualche anno fa lo vidi al cinema. Ecco, la familiarità di cui parlavo era proprio quella chiara immagine che avevo dei due protagonisti della vicenda. Che si tengono per mano. Scappando da tutto e tutti. Lei si guarda attorno spaventata, e lui la trascina verso un luogo sicuro…
Per noi non c’era luogo sicuro. L’Abstergo, di lì a poco, avrebbe controllato il mondo. Ed io, Desmond e Altair avevamo contribuito a tutto questo.



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Capitolo 16
*** Incontri ***


Incontri





-Ti prego…- implorai. –fermiamoci- lo strattonai per la manica della felpa, ma Altair non si voltò continuando a camminare spedito e guardando dritto davanti a sé, come seguendo una retta immaginaria che solo lui vedeva. La gente che affollava i marciapiedi pareva un fiume in piena che al nostro passaggio si divideva, esattamente come aveva fatto Mosè con le acque d’Egitto. Molti dei passanti non facevano caso a noi, ma molti altri si giravano a guardarci: proprio noi che in viso avevamo terrore, sconforto e paura di chi pare aver visto un fantasma.
-Fermo, ti prego…- ansimai ormai esausta. Era tutta la mattina che correvamo senza una meta precisa che non fosse mai guardarsi alle spalle. Il sole andava già delimitarsi oltre i grattacieli della metropoli che, squarciata dei suoi mille raggi dorati, stava assumendo quel colorito arancio spettacolare tipico del tramonto. I negozi chiudevano, le strade si sfollavano, finché non si fece notte e tutto attorno a noi divennero solo ombre e silenzio.
Il miagolio acuto di un gatto mi fece sobbalzare, quando passammo accanto ad un vicolo, addentrandoci poi in esso e sparendo nel nero dei mattoni.
-Altair, è pericoloso qui…- sussurrai tremante. –Andiamocene…- ero terrorizzata, credevo di star vivendo solo un brutto incubo, e forse era effettivamente così…
L’assassino m’ignorò completamente addentrandosi ulteriormente tra le ombre dei cassonetti e i vecchi muri graffitati. Le nostre si confusero alle ombre della strada, i nostri passi accompagnarono il boato di un tuono che squarciò improvvisamente il cielo oscuro.
Mi stringeva per mano, intrecciando le sue dita calde alle mie fredde e intorpidite. Il calore della sua pelle a contatto con la mia era forse l’unica cosa che davvero mi pareva vera, consistente… era una realtà che non ero pronta ad accettare, lo sapevo. Quella situazione nella quale ero precipitata non mi aggradava, faceva male al mio animo logorandolo di quel poco coraggio che una come me poteva portare con sé.
Una volta alla fine del vicolo, stavamo per gettarci di corsa sulla strada, ma davanti a noi comparvero un gruppo di uomini in nero che riconobbi senza troppe difficoltà.
Altair si arrestò di colpo, fermando anche me e stringendomi tra le sue braccia come a proteggermi, e senza esitazione mi avvinghiai a lui guardando con insistenza e paura gli uomini dell’Abstergo.
Alex Viego, al centro di questi, impugnava un’arma con la canna puntata esattamente verso di noi. Ghignava malvagio; negli occhi scuri gli balenava una luce di vigore e fierezza.
-Scappa…- mi sussurrò il tuo antenato all’orecchio. –Ti prego, fuggi…- la sua voce era come musica per le mie orecchie. La sua voce che pareva far luce nel buio di quella notte senza stelle.
Non risposi, mi limitai a rimanere immobile e pregare di svegliarmi presto prima di…
Udii lo sparo che si mescolò al rombo di un tuono e, nell’istante in cui una goccia di pioggia mi cadde sulla guancia, percepii il corpo dell’assassino irrigidirsi vicino al mio.
Tutto accadde in pochi istanti.
Cominciai a piangere, senza tregua, disperatamente, piombai lentamente in ginocchio sul suolo bagnato del vicolo accompagnando l’incarnato del tuo antenato che si era accasciato su di me, sovrastandomi quasi. Piansi allungo nell’incavo del suo collo, percependo le sue labbra appena poggiate sul mio. Le braccia gli scivolarono lungo i fianchi, il suo respiro che mi riscaldava la pelle si consumò in un ultimo sospiro strozzato dal dolore che la pallottola nel fianco sinistro gli stava infondendo.
Sfiorai con una mano quel punto, e guardai il rosso del suo sangue bagnarmi le dita. Strinsi il pugno convulsamente avvinghiandomi a lui senza interrompere il mio pianto senza speranza di poter cambiare il corso delle cose.
Alex e i suoi uomini restavano immobili ad ammirarci come fossimo una scultura futurista in mostra in un museo. Egli fece un passo avanti avvicinandosi a me, continuando a sorridere in quel modo tanto soddisfatto di se stesso.
-Noi possiamo salvarlo- disse solo, e il suo era un tono scherzoso che mi diede subito sui nervi.
Eppure, non trovai la forza di oppormi, di allontanarmi piuttosto dal tuo antenato che ora aveva bisogno di me. Volevo a tutti i costi salvare la sua vita, e l’unico modo, lo sapevo, era consegnarlo all’Abstergo. Di conseguenza, avrebbero potuto scambiare le vostre coscienze con quei maledetti farmaci ed io, come avevo desiderato in ospedale quella mattina, seduta al bar con l’assassino ora morente tra le mie braccia, avrei ricominciato a vivere.
-Non…- singhiozzai. –Non ci credo- mai una cosa tanto stupida mi era uscita di bocca. Era stupido pensare che l’Abstergo avrebbe usufruito del tuo antenato senza tenerlo vivo, quindi… cosa diavolo mi frullava per la testa, eh??? La gravità della situazione aveva assuefatto i miei sensi, ero debole dinnanzi alle mie paure, impotente di fronte ai pericoli, e così stupida davanti alle occasioni che mi restavano per rimediare ai miei sbagli.
-Prometto- riprese Viego –che nessuno farà del male né a lui, né al suo ragazzo e né a lei, signorina- ridacchiò. –Sempre se è questo ciò che la preoccupa- arrise malizioso. –Ma non abbiamo altro da aspettare; forza…-.
Cosa aveva tanto da ridere, quel bastardo?!
Non risposi, mi limitai a distogliere lo sguardo e abbracciare Altair con più vigore di prima. Il mio pianto, i miei gemiti continuarono senza sosta tanto allungo che persi la cognizione del tempo.
-Bene- sbottò Viego ricaricando la sua arma con un gesto veloce, fulmineo. –Se il suo desiderio è quello di non collaborare con noi…- quella volta la canna della sua pistola la puntò dritta su di me.
Non feci nulla, non dissi nulla, sol arrestai le mie lacrime per pochi istanti, stringendo i denti e chiudendo gli occhi.

Mi risvegliai di colpo, ansimante e col respiro per nulla regolare, anzi… mi mancava l’aria, mi mancava la vista, perché attorno a me le figure presero forma poco a poco.
Era una stanza piccola, buia, sobria, con il niente per arredamento che non fossero un armadio e due comodini al lato del letto, nel quale ero sdraiata e spogliata di parte dei miei vestiti sotto le coperte. Presi coscienza della forma di una lampada spenta adagiata sul comodino davanti ai miei occhi. Un mazzo di due chiavi, poggiato vicino ad essa, e mi parve d’intravedere una porta chiusa incastonata nella parete di fronte a me sulla quale era inchiodato un minuto attaccapanni che ospitava una felpa grigia che riconobbi come la tua.
Solo allora avvertii il soffice candore e profumo delle lenzuola pulite poggiate sulle mie gambe, e mi girai dall’altra parte del materasso. Scorsi la figura di un uomo avvolto dalla penombra della stanza che guardava fuori dalla finestra, sul vetro della quale s’infrangevano le gocce leggere della pioggia. Il vento spirava su New York trascinando con sé le grosse nuvole nere; vi era un cielo senza stelle.
Avevo sognato tutto, ed un istante dopo aver solo pensato queste tre parole, l’uomo affacciato alla finestra si volse a guardarmi.
Sprofondai nel nero dei suoi occhi, affogai nell’incredibile rancore e tristezza che animava il suo viso teso. Per pochi attimi di secondi restai immobile, ascoltando il suono della pioggia sul vetro e quello del mio respiro tranquillo, così felice, invece, che lui fosse lì con me.
Abbassai lo sguardo poco oltre il confine del materasso, e vidi le mie scarpe sul pavimento. Sorrisi, allungando quella mia occhiata gioiosa anche all’assassino.
-Grazie- dissi sinceramente; tanta premura nei miei confronti non me la sarei mai aspettata, e tutto ciò mi rallegrava incredibilmente.
Altair accennò un sorriso sulle labbra, socchiudendo gli occhi e rilassandosi del tutto al suono di quelle parole, ma tornò svelto a guardare fuori dalla finestra, senza aggiungere altro per diversi minuti.
Assecondai il suo silenzio, sollevandomi su un gomito e guardandomi attorno.
Si trattava di una camera d’albergo, ne ero certa poiché ne avessi viste tante sia nella vita reale che nei film. Le pareti tappezzate dalla carta da parati colorata, ma che in quel momento, alla sola luce dei bagliori dei fulmini, pareva di un grigio spento.
Mi stiracchiai stendendo le braccia, dopodiché presi un gran respiro e feci per rimettermi a dormire, dato l’ora tarda segnata dalla vecchia sveglia messa sul secondo comodino.
Ero voltata dalla parte della finestra, fingendo di avere gli occhi chiusi, ammiravo invece il tuo antenato che, tanto spensierato, a sua volta ammirava la New York che non aveva avuto modo di gustarsi a pieno.
Effettivamente, il susseguirsi degli eventi non aveva lasciato tregua ad entrambi, ed ora eravamo braccati lì come bestie in fuga dal cacciatore.
Immaginai che situazioni simili non fossero nuove per il tuo antenato. Chissà quante volte era dovuto fuggire dai suoi assalitori, ma immaginarlo col cappuccio e i pugnali da lancio mi veniva piuttosto complicato. Era come pensare che tu, Desmond, sapessi fare della scherma. Insomma… assurdo, irrazionale.
Improvvisamente, Altair si avvicinò ulteriormente alla finestra aguzzando la vista fuori da essa, interessandosi forse a qualcosa… o qualcuno. Lo vidi irrigidirsi, ridurre gli occhi a due fessure, ma niente di plausibile per permettermi di pensare che si trattasse di Viego e i suoi uomini comparve sul suo volto.
-Che c’è?- chiesi in un sussurro, allungando un braccio sotto il cuscino e sollevandomi facendo leva su di esso.
Lui non rispose, e questo m’inquietò oltremodo.
Scansai le coperte dal mio corpo e scesi dal letto raggiungendolo alla finestra. Prima guardai lui che scambiò con me una fugace occhiata piena di sottintesi, poi spostammo entrambi la nostra tensione fuori dal vetro.
La strada inumidita dalla pioggia balenò di un nuovo tuono. Riconobbi il parcheggio dell’hotel e qualche auto ferma in questo, ma dal lato opposto delle due corsie di carreggiata vi era un piccolo supermercato col suo rispettivo piazzale privato.
Capii all’istante che la sua curiosità era calamitata dall’unico essere umano nell’arco di una trentina di metri. Era una donna che, appena uscita dal supermercato con una busta alla mano, si stava apprestando a rimontare nella sua auto. La capigliatura bionda tenuta in uno chignon poco ordinato, il viso giovane, tondo, e gli occhi di un grigio quasi azzurro. Indossava un cappottino nero sopra una gonna di media taglia e dei tacchi poco alti. Sotto al cappottino che la riparava nulla dalla pioggia, indossava una camicetta bianca.
-Buffo…- risi.
Altair si voltò a guardarmi. –Cosa?- chiese stupito.
-Non pensavo che uno come te potesse interessarsi alle biondine del nostro tempo- sorrisi mesta.
Ovviamente avevo frainteso parecchie cose, perché l’assassino si fece subito serio in viso. –No, quella donna… io…- mormorò assorto. –L’ho già vista da qualche parte…- aggiunse incerto.
Confusa, cercai di  guardarla meglio. –Mai vista prima- ammisi sotto tono.
L’uomo al mio fianco si volse di colpo verso di me; si era accesa una lampadina nei suoi occhi, e sorrisi chiedendo: -Allora?-.
-Forza, rivestiti. Brigati- mi comandò serio andando alla porta.
Spesata, restai immobile troppo allungo per i suoi gusti.
-Quella donna!- emise lui sbuffando. –Quella donna la riconoscerei anche a venti chilometri! Avanti, sbrigati!- digrignò.
-Dimmi di chi si tratta!- ribattei.
-Non c’è tempo- sbottò lui infilandosi la felpa.
Afferrai le mie scarpe e me le infilai all’istante. –Ora sì!- dissi.
Altair mi prese per mano, afferrò le chiavi dal comodino, e mi trascinò con passo scattante fuori dalla stanza.
-Altair!- gemei strattonandolo.
-Un solo nome- sibilò lui voltandosi, e i nostri visi furono l’uno poco distante dall’altro.
Ammutolii, in preda al panico.
Abbassi lo sguardo sulle sue labbra che si stirarono in un serio sorriso. –Lucy Stilman-.
Sobbalzai. –Impossibile, lei è…-.
-Non c’è tempo, vieni- corremmo giù dalle scale e raggiungemmo la reseption, sfuggendo all’occhiata del responsabile perché, effettivamente, eravamo un po’ a corto di soldi e, fortunatamente, lui non era lì.
Il tuo antenato lasciò le chiavi sul bancone e ci avviamo di corsa fuori dall’albergo.
La pioggia mi punse in viso, facendomi quasi male. Il freddo del vento si schiaffò sulla mia pelle mentre avvertivo i vestiti bagnarsi velocemente.
Altair mi portò con sé ad attraversare la strada, e la donna dal cappottino nero era ancora nel parcheggio dinnanzi al super mercato. La portiera dell’auto aperta, chiuse il porta bagagli e fece per montare al sedile del guidatore.
Altair le corse in contro prima che questa potesse mettere in moto. Mi accostai al tuo antenato che batté due colpi sul finestrino dell’auto, mentre io mi guardavo attorno nella speranza che Alex e i suoi non sbucassero dal nulla proprio quando qualcosa stava andando per il verso giusto.
Altair ci aveva visto bene, pensai, perché la donna restò incredula quando riconobbe l’uomo dall’altra parte del finestrino della sua auto.
Lucy smontò dalla macchina richiudendo la portiera. –Desmond?- balbettò.
Io e il tuo antenato indietreggiamo di un passo circa. –Veramente- cominciò lui. –Non proprio-.
Stilman, a quelle parole, dovette appoggiarsi al tettuccio dell’auto. –Impossibile- mormorò.
-Devi aiutarci- andò dritto al sodo.
Inghiotti il groppo che avevo alla gola e mi strinsi al braccio dell’assassino. –Salve…- ebbi solo il coraggio di dire.
La donna si guardò attorno circospetta, poi disse: -Non possiamo parlare qui- aprì la portiera dei posti dietro della sua auto. –Salite, presto-.
Altair mi poggiò una mano sul fianco spingendomi verso l’auto ed entrai all’istante sistemandomi dal lato opposto.
Quando tutti e tre fummo nella macchina, Lucy mise in moto e lasciò il parcheggiò di gran fretta.
La guardai attraverso lo specchietto retrovisore. Era nervosa, preoccupata, e guardava spesso alle spalle dell’auto.
Per parecchi minuti il tragitto proseguì silenzioso.
Altair, seduto al mio fianco, incontrò casualmente il mio sguardo ma si soffermò a guardarmi.
Sorrisi mestamente, respirando senza un ritmo costante. Desideravo che quella storia finisse il prima possibile, ma incontrare Lucy in quel parcheggio… dubitai che fosse opera di Viego, magari una trappola. Eppure, il tuo antenato non poteva non aver considerato quell’ipotesi, ed era nonostante ciò così tranquillo, sorridente…
Allungò una mano e strinse la mai nella sua. Inizialmente, le mie dita tremanti restarono immobile strette nelle sue, ma non appena ricacciai tutta quell’insicurezza, ricambiai a pieno annuendo finalmente più calma.
-Altair- chiamò d’un tratto l’altra donna.
-Hmm?-.
-E’ inutile dirvi che Viego è sulle vostre tracce, vero?-.
-Già- disse lui.
-Dove ci stai portando?- domandai.
-Nell’unico posto che l’Abstergo non ha il permesso di violare-.
-Ovvero?- intervenne Altair.
-Casa mia- rispose Lucy poco tranquilla.


Eccomi!  U.U

Eh, già… finalmente, dopo tanto tempo di silenzio, eccovi un piccolo aggiornamento di appena sei pagine stentate, ma credevo interessante interrompere in questo punto! Ovviamente, spero di avere l’ispirazione necessaria per postare il prossimo capitolo il prima possibile! Ok, gente, qui è tutto. Ora vi aspetto in tanti recensire! ^^'

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Capitolo 17
*** Ospiti ***


Ospiti






-Fate come foste a casa vostra- disse Lucy inserendo la chiave. –Ovviamente non ne farò parola con nessuno, dovete stare tranquilli di questo- aggiunse girando la chiave e facendo scattare la serratura. -Non c’è neppure bisogno che mi ringraziate, so quanto l’Abstergo stia facendo cazzate ultimamente- sbottò aprendo la porta. -Non si danno pace con la ricerca dei Frutti, ed ora che hanno scoperto che molti dei luoghi dove questi sono situati sono sbagliati, faranno di tutto per tornare a lavoro con più foga di prima!- poggiò le chiavi sul mobile dell’ingresso e si apprestò ad accendere le luci che balenarono in tutto il salone, rischiarando l’intera casa.
-Prego, entrate- assentì lei poggiando le buste della spesa a terra, spogliandosi del suo cappotto e lanciandolo alla svelta sul divano del salotto. –Vado un attimo in bagno, nel frattempo accomodatevi- i tacchi della donna risuonarono sul pavimento di legno e presto scomparve nel corridoio assieme al suono dei suoi passi, ora attutito dal tappeto che traversava quella zona della casa.
Udii una porta chiudersi e solo a quel punto decisi di muovere un muscolo, entrando completamente in salone.
Vi era un ampio ingresso che dava sul salotto. L’appartamento, sviluppato su un solo livello e situato, se ricordavo bene, al settimo piano dell’edificio, era ben arredato di mobili né troppo antichi né troppo moderni. Lucy Stilman aveva un buon gusto per l’arredamento, ma in quella casa sembrava non passare parecchio tempo poiché fosse davvero pulita e ordinata, come nuova. Alternativa a ciò c’era il fatto che fosse una di quelle donne maniacali dell’ordine.
Altair mi afferrò d’un tratto il polso trascinandomi nuovamente fuori dall’ingresso. –Aspetta- disse.
Lo osservai in silenzio alcuni istanti, giusto il tempo di assumere un’espressione confusa. –Che succede, ora?- domandai.
Il ragazzo allungò un’occhiata alle mie spalle, guardandosi attorno. –Non so se è una buona idea. Dovremo andarcene-.
Sbuffai. –Non uscirtene coi tuoi brutti presentimenti, adesso!- sibilai. –Scordatelo che ce ne andiamo! Lucy è l’unica che può aiutarci, l’hai detto anche tu, ricordi?!- sbraitai sotto tono, strattonandolo assieme a me nel centro della stanza.
Lui fece altrettanto, avvicinandomi ulteriormente contro il suo petto, guardandomi dall’alto al basso, trafiggendomi coi suoi occhi neri e infiniti. –Scusa tanto se solo adesso mi rendo conto che è stato tutto troppo facile…- mormorò. –Perché non cogli l’ironia di tutto questo?- mi chiese allegro, e i nostri nasi quasi si sfioravano.
Socchiusi gli occhi e aggrottai la fronte. –Ironia? Non capisco di cosa stai parlando…-.
-Ti prego- insistette lui chinandosi lentamente, e potei accorgermi del suo respiro lambirmi le labbra. –Ho sbagliato a portarti qui, ora dobbiamo filarcela!- fece per voltarsi portandomi con sé, ma io lo sorpassai alla svelta e richiusi la porta d’ingresso, così da sbarrargli la strada.
-Ascolta bene- mi avvicinai a lui facendolo indietreggiare. –Quella donna ha i contatti necessari all’interno dell’Abstergo per procurarci quei medicinali! Ti ricorda niente la parolina “cellulare”?- gli chiesi come fosse ovvio, e questa volta fu lui la vittima del mio sguardo.
L’uomo restò però imperturbabile e rigido come solo un assassino sapeva stare. –Ti comporti come una ragazzina; piantala di lagnarti e guarda in faccia la realtà- disse.
A quel punto fu troppo: stava scendendo in dettagli che non mi piacevano. –Quale realtà? Quella che Desmond potrebbe non tornare mai più?!- il mio tono di voce salì di un’ottava al minimo. Rimuginare su certi schiaccianti argomenti non mi rallegrava certo. Anzi, sentii qualcosa premermi all’altezza dello stomaco, come un’improvvisa vampata di tristezza che stava risalendo il mio intestino fino alla gola. I miei occhi s’inumidirono appena e fui costretta a voltarmi.
Altair mi osservò in silenzio mentre cercavo di darmi un poco di contegno.
-Ho già fatto i conti con quest’eventualità molto tempo fa…- singhiozzai. –E’ vero, hai ragione: Desmond non tornerà mai più! Sono pronta a ricostruirmi una vita, se questo sarà necessario… ma ormai siamo entrambi animali braccati, e questo potrebbe anche diventare, non so… eccitante!- mi girai di botto. –Ma che diamine! Non me ne andrò senza combattere!- gli puntai l’indice al petto. –E non sarai mica tu ad impedirmi di andare ad istinto! Sai dove mi ha portato il mio istinto? No? Bene, te lo dico subito: all’apice del successo, lontano dalla mia famiglia che odiavo, lontano dai debiti, lontano dalla droga, lontano dalla mafia, lontano dalla galera, dalla guerra! Mi fido del mio istinto più di quanto non confidi in Dio! E sono sicura che il mio istinto saprà anche tirarmi fuori da questo Giallo di merda! Quindi fammi un favore: se non sei dalla mia parte, allora schierati altrove!- urlai, ma se la mano di Altair non si fosse poggiata sulla mia bocca, avrei potuto proseguire in quel modo per altri dieci minuti, senza risparmiargli poi il fatto che di mezzo ci stavano andando certi sentimentalismi che mi davano sui nervi!
Ovviamente, non riuscii a non dare un ultimo tocco tragico a quella situazione già di per sé delirante, da folli.
I miei occhi si fecero ancor più sofferenti, e una lacrima mi colò sulla guancia andando a bagnare le dita dell’assassino che sfioravano le mie labbra. Mi lasciai cadere su di lui senza preavviso, affondando il viso nell’incavo del suo collo, accasciandomi tra le sue braccia, lasciandolo piuttosto interdetto ed, inizialmente, esitante su dove mettere le mani.
E fatto ciò: iniziai a piangere.
-Non ho mai detto di volerti abbandonare, mai…- mormorò lui al mio orecchio, e potei percepire il suo fiato caldo infrangersi contro la pelle sensibile di quel punto. –Mai, non lo farei mai, e lo sai. Sia perché l’ho promesso a Desmond e sia perché sarebbe sciocco, da irresponsabile e da veri stronzi, se permetti- ridacchiò carezzandomi la schiena, risalendo fino ai capelli sciolti che avevo sulle spalle. Iniziò a giocherellare con una mia ciocca nel mentre il mio corpo era smosso da singhiozzi continui e inarrestabili; ormai la soglia del pianto l’avevo varcata per bene, e mi ci sarebbero volute un paio d’ore prima di riprendermi del tutto.
-Quello che sto tentando di dirti è che ho sbagliato a portarti qui, solo adesso me ne rendo conto…-.
-Smettila di mentirmi. Tanto l’ho capito che ti sei affezionato troppo al mio tempo- sorrisi mestamente. –E stai facendo di tutto per non andartene…-.
Lo sentii ridere, ma quella sua allegria durò ben poco.
-Giorgia, quelli dell’Abstergo potrebbero aver contattato Lucy e averle chiesto di…- non terminò la frase che la donna ricomparve nel salone.
Parli del Diavolo, spuntano le corna… pensai.
Lucy restò immobile al suo posto. -È successo qualcosa?- domandò stupita di vederci così intimamente abbracciati.
L’assassino si allontanò subito da me, però accertandosi con premura che, in un modo o nell’altro, avessi comunque terminato di piangere.
-Niente di grave; piuttosto: devi scusarci, ma…- sapevo cosa avrebbe detto, ma prima che potesse scusarsi con Lucy di una nostra improvvisa fuga da casa sua, lo interruppi bruscamente sovrastando le sue parole:
-Ma siamo piuttosto affamati- tirai su col naso.
Altair mi fulminò con un’occhiataccia, ed io, abilmente, non gli diedi spago.
La donna allungò le labbra in un sorriso allegro. –Certo, venite. Stavo giusto per preparare la cena, ma poi sono dovuta uscire di corsa! Precisamente quando mi sono accorta di non avere nulla da mettere sotto i denti- disse lei dirigendosi nella saletta accanto.
Fui la prima a seguirla sino in cucina. –Ah, ecco spiegato cosa ci facevi in quel supermercato!- sorrisi.
Lucy si apprestò a mettere dell’acqua in una pentola, il tutto a bollire sul fuoco. Poi la guardai dirigersi in salotto e trascinare fino nella stanza dov’ero rimasta le buste della spesa appena portate in casa. Le poggiò sul bancone accanto al frigo e cominciò a svuotarle sistemando la roba nelle varie dispense. Prese un pacco di pasta e la versò per interno nell’acqua, non appena essa cominciò a fare bollicine.
Altair comparve al mio fianco senza scollarmi gli occhi di dosso, come cercando il mio sguardo pur di riuscire a convincermi che saremmo dovuti scappare alla svelta.
Eppure, il mio sesto senso dicevo che c’era da fidarsi.
Lucy era agli arresti domiciliari, ma le era comunque permesso di girare per la città andando a fare la spesa senza alcun controllo? Ecco, a quel punto qualche dubbio mi sorse eccome e, mentre la donna si dimenava coi preparativi, decisi di farle alcune domande:
-Sei un’assassina?- mi venne spontanea, e subito la ragazza assecondò la mia richiesta arrestando ogni suo movimento, voltandosi lentamente verso di me.
Annuì seria e tornò a girare la pasta. –E adesso l’Abstergo lo sa-.
-Perché non ti hanno uccisa?- domandò questa volta Altair, e mi stupii del fatto che si fosse interessato al discorso. –Come hanno fatto con gli altri, intendo. Perché lasciarti in vita?- insisté.
Di quell’argomento sapevo poco e niente, ma tu, Desmond, mi avevi raccontato degli assassini moderni accennando per di più allo sterminio della tua fattoria, la tenuta di campagna dove avevi vissuto la tua infanzia assieme a molti tuoi coetanei.
Lucy sospirò girandosi a guardarci. La sua espressione si fece pensosa, il suo sguardo molto più serio di quel che immaginassi. –Non appena riavranno quello che stanno cercando, verranno a chiamarmi perché ritorni a lavorare con loro al progetto- disse. –Per questo temo che casa mia possa essere un luogo poco sicuro per voi- aggiunse.
Con la coda dell’occhio, vidi l’uomo che avevo affianco fulminarmi con un’occhiataccia.
Lo ignorai del tutto: -Ma noi…- cominciai. –Noi possiamo fidarci di te, vero?-.
Lucy parve confusa. –In che senso?-.
Esitai, e ciò rallegrò il ragazzo che avevo accanto. –Possiamo star certi che è stato un caso incontrarti, giusto?-.
Lucy scoppiò in una fragorosa risata. –Credete che sia un burattino dell’Abstergo?- formulò dandoci le spalle e scolando la pasta nel lavandino.
-Ecco…- lo guardai e Altair mi fissò imperturbabile. –Sì, lo pensavamo…- dissi flebile.
-Ovviamente non ho mezzi per dimostrarvelo- fece lei rovesciando la pasta in un contenitore di ceramica bianco; mischiandovi poi del sugo di pomodoro. –Perciò se vi sentite in pericolo- sorrise divertita –quella è la porta- indicò l’ingresso di casa.

Stavo finendo di apparecchiare la tavola quando il tuo antenato comparve al mio fianco improvvisamente, guardandosi attorno spaesato.
-Che c’è ancora?- ridacchiai sistemando i bicchieri.
-Ah!- alzò gli occhi al cielo lui. –Davvero non capisci? Anch’io ho un certo istinto…- mi derise.
-Davvero?- chinai la testa da un lato, andando a mettere le forchette alla sinistra dei piatti.
Lui annuì compiaciuto. –Ridi, ridi…- borbottò. –Ma non venire a piangere da me se accadrà qualcosa di spiacevole-.
Sbattei con violenza una forchetta sul tavolo e mi voltai di colpo verso di lui. –Smettila- dissi.
I suoi occhi vuoti si fecero strada nei miei, ma non proferì parola.
-Smettila, chiaro?- proseguii. –Rilassati, va bene? Non ci accadrà nulla, vedrai…- tornai ad apparecchiare. –Ti prego, mi metti ansia- sibilai. –Quindi smettila, smettila, smettila!- ripetei.
-D’accordo, ma adesso smettila tu!- ridacchiò lui facendomi voltare. –Hai ragione, scusa- mormorò chinando lo sguardo. –Mi comporto da stupido, ma mi è stato insegnato a dubitare di tutti e fidarmi solo di me stesso e del mio giudizio, non posso farci nulla- fece rammaricato.
-Accetto le tue scuse, ma sappi che neppure io ho abbassato la guardia- gli sorrisi lanciando un’occhiata in cucina, dove Lucy stava raggruppando le portate per la cena. –E poi- ripresi guardandolo negli occhi. –Credi davvero che non me ne importo nulla? Credi davvero che ti metterei in pericolo consegnandoti così nelle mani nemiche?-.
Altair aggrottò la fronte, confuso. –Cos…-.
Lo abbracciai, lasciandolo piuttosto interdetto. –Scordatelo: l’Abstergo non ti avrà senza passare sul mio cadavere! E tanto meno, tu non te ne tornerai nel tuo tempo fin quando Desmond non sarà di nuovo tra noi!- dissi allegra.
-Apprezzo il coraggio- sottinse accarezzandomi i capelli. –Lo apprezzo tanto, e so quanto è stato ed è ancora dura per te. Se ho detto, fatto o solo pensato qualcosa che potesse ferirti, ti chiedo di perdonarmi-.
Soffocai una risata. –Come mai sei in vena di scuse, ‘sta sera?- domandai stanziandomi da lui di qualche passo, allungandomi verso la cucina.
Il tuo antenato mi seguì sospirando. –Forse sto cominciando a rilassarmi…-.
-Bene!- gioii attirando l’attenzione di Lucy, la quale filò subito in sala da pranzo portando con sé la caraffa d’acqua e il cesto del pane.
Afferrai il ciotolone con la pasta e lo portai in tavola; sedemmo all’istante e consumammo la cena piuttosto in silenzio. Giunti agli sgoccioli del buffet, attaccammo con un discorso che catturò subito la mia curiosità.
Lucy ci parlò del progetto in tutte le sue forme. Dalle riunioni sindacali al confronto dei risultati raggiunti coi clienti. Fece dei nomi che fui pronta a stamparmi bene nella testa affinché, un giorno, avrei potuto fare loro causa se mai avessi trovato il coraggio di prendermi un buon avvocato.
Restammo seduti parecchio allungo, discutendo dei dati raccolti dall’analisi dei tuoi ricordi, e durante tale conversazione avvertii nuovamente quella fastidiosa sensazione alla base dello stomaco.
Maledetta astinenza, pensai sbuffando senza farmi notare troppo.
Bastava che Lucy pronunciasse il tuo nome, e già mi sentivo svenire. Mi mancavi troppo, ora più di pochi giorni prima. Ora che le faccende stavano prendendo una piega sempre peggiore, mi mancavi, avevo bisogno di te, avevo bisogno di… qualcuno che mi ricordasse di te!
Istintivamente guardai verso di Altair, il quale ascoltava assorto le parole di Lucy, che parlava a raffica senza fermarsi.
I miei occhi si soffermarono nei suoi, assorti invece nell’intendere al meglio ciò che Stilman stava tentando di spiegare più a me (disattenta) che a lui, che quasi si prendeva degli appunti.
Giustamente, stava facendo di tutto per trovare un modo per tornarsene nel suo tempo, e forse sbagliavo ad avere questa visuale distorta di lui come uomo del passato che si è affezionato troppo a questo nuovo tempo. La verità era che eravamo entrambi così simili, costretti agli stessi dolore, che gli stessi sentimenti ci allontanavano delle volte l’uno dall’altra.
No.
No.
Ehi, no! E ancora no!
Non ero mica nata ieri. Mi accorgevo piuttosto alla svelta quando cominciavo a provare interesse per qualcuno, e questo era uno di quei momenti.
Lo guardavo troppo spesso, lo abbracciavo troppo spesso, parlavamo troppo vicini troppo spesso! Aaaaah! Stavo impazzendo, scossi la testa, distogliendomi dall’ammirare la sua figura composta seduta proprio affianco a me.
Lui, così simile a te…
Dovetti darmi un pizzico sul ginocchio per riprendermi da quegli assurdi pensieri, scacciandoli via con il gas antincendio.
-Giorgia- mi sentii chiamare, e all’istante mi volsi verso la voce di donna che in quel momento mi era parsa del tutto estranea.
Lucy mi osservava sbigottita. –Ti senti bene? Hai una faccia…- fece preoccupata.
Altair scostò la sedia. –E’ solo stanca- disse alzandosi. –Come ci sistemiamo per la notte? Così l’accompagno in camera prima che crolli sul pavimento- aggiunse guardandomi.
La donna soffocò una risata. –Ma dei due- cominciò allegra –chi si prende cura di chi?- spostò lo sguardo da me all’uomo e dall’uomo a me.
Battuta di poco gusto, pensai sbuffando.
Scattai in piedi. –No, no!- cominciai a sparecchiare. –Sto benissimo, nel pieno delle forze!- risi istericamente. –Potrei restare sveglia ancora delle ore, lo giuro…- sovrapposi al mio piatto quello di Lucy e del tuo antenato, portando il tutto in cucina.
-Molto sinceramente- intervenne lui versando dell’acqua nel suo bicchiere. –Mi accontento del divano- ridacchiò bevendo.
Lucy mi raggiunse in cucina posando sul bancone la ciotola vuota di pasta. Mi fermò prendendomi il polso prima che potessi cominciare a lavare i piatti. –Giorgia, lascia. Ci pensa domani la donna delle pulizie-.
Aggrottai la fronte allontanandomi dal lavandino. –Hai una donna delle pulizie?- chiesi.
Stilman annuì, e Altair comparve al mio fianco.
Entrambi ci soffermammo a guardare la ragazza che avevamo di fronte, mentre questa diceva:
-C’è una camera degli ospiti accanto alla mia- sorrise. –La camera degli ospiti ha un letto doppio. La mia camera ha un letto doppio e…- si mosse di qualche passo –e nel salotto c’è il divano con un posto singolo- allungò ulteriormente il suo sorriso.
-Scherziamo?- sobbalzai. –Sono solo le…- mi voltai più volte cercando un orologio da qualche parte e, quando lo trovai poggiato su una mensola del salone, vidi che dopotutto si era fatta una certa ora. –Le undici e… mezza- balbettai. –Ma!- provai a ribellarmi come facevo da bambina, ma le mani del tuo antenato si strinsero attorno alle mie spalle e mi spinsero verso il corridoio, uscendo dalla cucina.
-Passo più tardi a dare la buona notte?- domandò Lucy mentre ci allontanavamo.
-Non ce n’è bisogno, grazie!- rispose Altair, e già tale risposta m’insospettì non poco.
Le luci del salotto non arrivavano fin lì e, per un breve tratto, io e l’assassino camminammo avvolti dal buio, dirigendoci alla cieca verso quella che parve effettivamente la camera ospiti.
Fu lui ad aprirmi la porta, e fu lui a farmi strada nella stanza, accendendo la luce appena entrato.
-Vedo che ti abitui in fretta- sorrisi guardandomi attorno.
-In che senso?-.
-Ci vogliono certe capacità a trovare l’interruttore della luce, per uno venuto dal XII secolo come te- dissi sbadigliando e avvicinandomi al letto matrimoniale sistemato poco sotto la porta finestra, che dava su un piccolo terrazzino affacciato sul corso principale del quartiere.
Il cielo nero si stagliava infinito sopra i tetti dei palazzi, le vie asfaltate della città erano insolitamente silenziose e spopolate.
Mi avvicinai alla finestra e la aprii con un colpo secco, facendo entrare nella camera una ventata d’aria fresca che mi scompigliò appena i capelli.
D’un tratto, sentii la porta chiudersi e mi voltai, lentamente, avvolta da un brutto, brutto presentimento.
-Si è chiusa da sola- ridacchiò Altair nel centro della stanza. –Il vento, sai…- provò a dire passandosi una mano sul collo.
Sorrisi, muovendo un passo nel terrazzino. –E’ inutile che aspetti che mi addormenti. Non accadrà prima di un paio d’ore-.
Quando fui del tutto all’aperto, mi sporsi dal parapetto guardando di sotto, lasciando che i capelli volteggiassero a quella leggera brezza notturna intensa e magnifica.
Il tuo antenato mi raggiunse appoggiandosi alla ringhiera al mio fianco, girandosi a guardarmi. –Ah, davvero?- mi chiese, e certo non potei notare il colore ancor più intenso della tua… cioè della sua pelle alla luce della città attorno a noi. –E quello sbadiglio di poco fa?-.
Cercai di distogliere lo sguardo da lui, ma ciò mi fu pressoché impossibile. –Smettila di preoccuparti così tanto per me…- parlottai tornando in stanza.
Mi sedetti sul letto e andai giù con la schiena, fino a poter ammirare per bene il soffitto chiaro come fosse a pochi centimetri dal mio naso.
Improvvisamente, il viso del tuo antenato entrò nel mio capo visivo, quando invece avevo sperato che mi lasciasse un attimo in pace! Mi sentivo dilaniare da quello che stavo provando, dall’intollerabile dolore che mi ardeva dentro il petto e chiedeva qualcosa che non potevo dare, che non potevo avere, che non volevo avere.
Altair mi fissò allungo, in silenzio. –Sei stanca, eh?-.
Sbuffai, provocandogli un’allegra risata.
Afferrai il cuscino e gli sbattei sulla faccia senza neppure pensarci due volte. Di tutta risposta, il tuo antenato si sorbì il trattamento, ma giusto qualche istante più tardi tentò di vendicarsi nel modo più assurdo possibile.
Mi afferrò per i fianchi sollevandomi su una sua spalla, tenendomi in perfetto equilibrio su di essa. I miei piedi non toccavano terra, le mie ginocchia premevano contro il suo petto, mentre le mie braccia scivolavano a penzoloni lungo la sua schiena.
Mi aveva issata in braccio come un sacco di patate, pensai accorgendomi della massa di capelli che avevo davanti agli occhi e mi offuscavano la vista.
-Soffri il solletico, Giò?- mi chiese ridendo.
Sulle prime non capii dove volesse arrivare e, ovviamente come solo una deficiente stupida avrebbe fatto, annuii. –Sì, perché?-.
Lo sentii ridere ancora più sfacciatamente. –Quanto scommettiamo che tra pochi minuti sarai così stanca da non poterti più reggere in piedi?-.
Inarcai un sopracciglio. –E’ una minaccia?!- il mio tono di voce salì di un’ottava al minimo.
Detto ciò, sentii due dita del tuo antenato sfiorarmi il lembo di pelle scoperta all’altezza dei fianchi, e lì fu la mia fine.
Scoppiai a ridere all’istante, come una forsennata, dimenandomi nel peggiore dei modi; eppure, allo stesso modo di come mi parve un immenso fastidio, era piacevole. Mi aveva toccata appena, senza neppure prolungare troppo il contatto, ed io già gridavo come una matta. Fu una tortura che durò pochi minuti, giusto il tempo necessario per allertare Lucy, la quale bussò ad un tratto alla porta chiusa della stanza.
-Se posso- intervenne lei entrando nella camera. –Se posso chiedervi cosa…- arrestò le sue parole non appena il suo sguardo cadde su di noi.
I suoi occhi si addolcirono d’improvviso, scontrandosi prima coi miei, quasi lacrimanti dal ridere, e in seguito con quelli gioiosi e divertiti dell’assassino.
Ne approfittai per riprendere fiato e calmare il battito irregolare del mio cuore, il quale tamburellava con violenza contro la gabbia toracica provocandomi un leggero dolore.
-Spero di non aver interrotto nulla!- ridacchiò la donna. –Comunque, non so voi, ma la mia giornata termina qui. Altair: ho lasciato coperte e cuscini in salotto, sul divano. Giorgia: il letto è già fatto e se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, non esitare a chiedere, capito? La mia è la stanza accanto-.
Il tuo antenato mi mise giù sorridendo. –Grazie, a domani- disse.
-Sì, a domani…- brontolai io, tentando in vano di darmi alla fuga.
Non appena Lucy ebbe richiuso la porta, mi strattonai da lui cercando di darmela a gambe, ma il tuo antenato mi attirò nuovamente a sé senza il minimo sforzo.
Perché si stava comportando così? Dove credeva di arrivare facendomi sbraitare come una bambina, solleticandomi nei punti più sensibili e sfiorandomi con le sue dita che avvertivo scottare sulla mia pelle.
-Basta, ti prego, smettila!- digrignai trattenendo a stento le immense risate che mi salivano alla gola, sfociando come piccoli singhiozzi.
-Tutto ciò ha uno scopo ben preciso- lo sentii ridere.
-Non crollerò mai dal sonno!- ruggii vendicativa, pronta a non dargliela vinta così facilmente.
I miei bruschi movimenti lo sbilanciarono in avanti, ed entrambi cademmo avvinghiati sul materasso del letto. Non appena si accorse di essere completamente sdraiato sopra di me, il ragazzo si sollevò facendo leva su un braccio e mi guardò dall’alto, sorridendo per nulla benevolo. Mi porse una mano che osservai allungo.
-Bastardo- sibilai voltandomi, poggiando una guancia sul copriletto e riprendendo fiato.
-Divertente, non trovi?- perché era così… felice?!
-Hai vinto!- strillai esasperata. –Sono distrutta, ma ti supplico…- e lo supplicai per davvero, lanciandogli una di quelle occhiate che avrebbe impietosito mia suocera. –Basta solletico-.
L’assassino fece un gran sospiro e insistette col porgermi la mano.
Poggiando le mie dita delicatamente sulle sue, avvertii una certa e insolita scossa passarmi da parte a parte del corpo e, senza neppure che me ne accorsi, invece di lasciarmi aiutare da lui, lo tirai verso di me, ribaltando successivamente i nostri corpi; trovandomi improvvisamente a cavalcioni sul suo basso ventre.
Il mio cuore rallentò i battiti, fino a diventare quasi impercettibile persino a me stessa. Alcune ciocche dei miei capelli scivolarono da dietro le orecchie e andarono a solleticare il viso dell’uomo che aveva a pochi centimetri dal mio.
Il gioco si era trasformato in qualcosa di davvero allettante, pensai. Era lì, alla mia portata, mi dissi mordendomi un labbro. Una cosa rapida e indolore, aggiunse la parte di me che non sopportava certi caratteri di una tale astinenza.
Dio quanto avrei voluto baciarlo.
E lo feci.
Premetti flebilmente le mie labbra sulle sue, avvertendo il familiare pizzicorio della barba giovane, assieme a quell’irresistibile e leggendaria cicatrice sull’angolo destro delle vostre bocche.
Dopo neppure pochi secondi, quel bacio immobile si trasformò in ciò di cui avevo bisogno. Percepii la punta della sua lingua sfiorarmi i denti, accompagnando con una passione che non mi aspettavo ogni mio gesto.
Avevo involontariamente sollevato i bordi della sua maglia, ma, incredibile, lui aveva fatto lo stesso.
All’inizio ci rimasi di sasso, irrigidendo ogni parte di me; avevo anche tentato di allontanarmi da lui, ma Altair, non appena avvertite queste mie esitazioni, aveva di conseguenza preso le necessarie precauzioni: afferrandomi per i fianchi e con un movimento svelto mi aveva sollevato di poco da sé e sospinta assieme a lui verso il centro del letto.
Mentre le mie braccia si stringevano attorno al suo collo, mi accorsi del tocco sempre più presente delle sue mani sul mio corpo; una delle quali mi afferrò sotto un ginocchio e l’altra andò a stuzzicare la pelle sensibile della schiena, carezzandomi sotto la maglietta.
In tutta sincerità, attendevo fiduciosa che fosse lui a spogliarmi, cosa che però non fece.
Anzi.
Sospettai che la sua improvvisa rigidezza fosse dovuta al fatto che… stavamo per farlo, ma invece mi sbagliavo… c’era un motivo ben diverso del perché lo sentii bloccarsi d’un tratto, arrestando persino il suo respiro agitato.
Mi ero di poco sollevata, staccandomi da lui e interrompendo il nostro bacio; il tempo necessario per sfilarmi la maglietta, quando avvertii il suono di una voce vecchia ma nuova che chiamava il mio nome:
-…Giorgia- mormorasti tu.
Sgranai gli occhi. -…Desmond?- balbettai.

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Capitolo 18
*** Nel suo corpo, e nella sua mente ***


Nel suo corpo, e nella sua mente







-Desmond-.
-Che c’è?-.
Altaïr mi guardò serio. –Il tempo corre-.
-Sì. Lo so, lo so. Hai ragione…- sospirai staccandomi dalla parete invisibile alle mie spalle. Mossi alcuni passi nella sua direzione, fermandomi al suo fianco. Alzai di poco gli occhi da terra, puntandoli in quelli neri, severi e fieri del mio antenato, cogliendovi la stessa tristezza che fioriva nei miei.
-Prenditi cura di lei…- mormorai.
Altaïr mi cinse una spalla. –Tu pensa solo a sopravvivere, chiaro? Non sottovalutare le naturalezze del mio tempo… lì la vita è più dura di quel che credi, e non solo per il fatto che non sai usare una spada- mi disse, ed io lo ascoltai con la dovuta attenzione.
-Pronto?- chiese ancora l’assassino.
Annuii, poggiando la mia mano su quella del mio trisavolo, e a quel contatto una luce accecante ci avvolse entrambi.

Cercai di pensare ad altro, di distrarmi mentre la foschia che mi avvolgeva si diradava man a mano che i miei occhi si abituavano al chiarore intenso del luogo nel quale mi stavo dirigendo, senza però muovere un solo passo. Restai immobile, al mio posto, come una statua in attesa di esser conclusa dal suo artefice. Guardai quei numeri che volteggiavano accanto a me svanire lentamente, sfocandosi sempre più. Finché il sole non fu accecante a tal punto da ridurre la mia espressione in un ghigno malsano.
Strinsi con più convinzione l’elsa della spada al mio antenato concessa portare, pronto a qualsiasi evenienza, quando anche i suoni presero un loro tono e una loro sfaccettatura.
Udii il canto di alcuni uccellini, molto vicini a dove mi trovassi. Sentivo le loro note acute giungermi penetranti alle orecchie, irradiandomi di un medesimo senso di immenso fastidio.
Il cielo azzurro che si apriva sopra la mia testa si estendeva limpido, infinito oltre la linea dell’orizzonte. Le colline e i prati verdi e in fiore lo potevano quasi toccare, perché dove il verde dell’erba si specchiava nell’acqua del lago vicino, era lì che mi trovavo. Dove persino le montagne innevate si dipingevano sulla cresta dell’acqua, giocando dei buffi e limpidi riflessi di luce.
In piedi sulla costa di quella grande pozza di acqua cristallina, nella quale vidi specchiarsi la mia immagine riflessa e distorta da alcune leggere ondine dovute dalla brezza estiva.
Il cappuccio era abbassato sulle mie spalle, le spalle robuste e marcate sulle quali gravava il peso della lama corta tenuta nel fodero e cinque pugnali affilati riposti nei rispettivi astucci. La pezza rossa stretta al mio ventre sotto la cintura di cuoio risaltava il bianco candido del resto della mia uniforme. O meglio, avrei dovuto dire della sua uniforme. In quegli abiti non sembravo più io, perché quello non era più il mio tempo, non era più la mia casa, non era più la mia vita.
Mi era persino difficile accettare che quello riflesso nel lago fossi io. Poteva essere frutto della mia immaginazione, poteva essere tutto un orribile incubo e mi sarei presto svegliato da un momento all’altro.
Giorgia…
Sospirai riempiendomi i polmoni di quell’aria pura e sana che c’era da sognarsela nella mia epoca, e a quel punto mi guardai attorno sorridendo mestamente. Mi portai una mano sopra la fronte, a farmi ombra sugli occhi per poter guardare al meglio attraverso i raggio violenti del sole, il quale picchiava sulla terra dall’alto del firmamento.
Come avrei reagito ad un tale tragico cambiamento radicale? Non sarei forse mai più tornato indietro, e in questa nuova epoca non sapevo come comportarmi. Ero un totale incosciente, e rimpiansi di non aver studiato affondo storia alle elementari, dove forse il medioevo era il periodo antico sul quale ci si soffermava maggiormente nel programma scolastico.
Come prima cosa, però, mi chiesi come fossi arrivato in quel luogo.
Presi a studiare nei minimi dettagli il circondario, accorgendomi dell’alta scogliera che circondava tutto il bacino idrico naturale. Sulla roccia si rampicavano le radici degli alberi di boschi che crescevano sull’apice del crepaccio. Rampicanti, felci e arbusti erano la vegetazione che si mescolava alle pietre roventi del paesaggio.
I miei comodi stivali sprofondavano su un prato davvero verde, il quale terminava poco prima della sabbia palustre che gettava nelle acque del lago. Se aguzzavo la vista, vedevo con chiarezza i pesciolini rossi sguazzare poco sotto la superficie, balenare di quell’intenso colore arancio e risaltare assieme ai giocosi riflessi del sole.
Chissà, forse sarebbe stato piacevole. Era tutto da scoprire, ma avevo il forte desiderio di tornare da te, Giorgia, per poter vedere il sorriso immenso affiorare sulle tue labbra cento e passa volte.
Mi fidavo ciecamente della protezione che ti avrebbe offerto il mio antenato, ma sapevo bene che l’Abstergo avrebbe presto o tardi fatto di tutto pur di mettere di nuovo le mani in certe faccende. E poi, erano ben consci che avreste tentato, voi due, in un modo o nell’altro, di trovare un modo di portare le cose alla normalità. E un modo c’era: i farmaci.
Non avevo idea precisa di che medicinali si trattassero, perché quelle poche volte che l’Abstergo ne aveva fatto uso su di me, preferiva addormentarmi prima di una presunta iniezione. E meno male, sennò sai che dolore…
Non c’era modo di esprimere a parole il livello della mia sofferenza, quando sapendoti custodita da un altro uomo, seppur mio parente, sapevo diventare tanto, tanto geloso. E poi, c’era quel Nikolas che avevo pregato durante tutta la mia prigionia che non venisse mai a romperti le scatole, ma ora chi avrebbe badato alle tue telefonate se a mala pena Altaïr sapeva cosa era un tostapane?
Provai a non pensare in quale assurda situazione ti avevo appena lasciata.
Ti immaginai sotto le coperte, al caldo dei nostri corpi consumati dal nostro amore. Se chiudevo gli occhi, potevo vederti stretta all’incarnato che presto sarebbe divenuto solo il ridicolo contenitore dell’anima del mio antenato.
Le mie labbra si allungarono in mesto sorriso al solo pensiero che presto, mentre io ero qui e lui lì con te, avrei dovuto presto affrontare il fatto che un altro paio di mani avrebbero lambito il tuo corpo, che era appartenuto, giusto pochi minuti prima, a me.
C’erano questo e tanti altri fattori su cui riflettere, ma non me ne venne dato il tempo.
Vidi un cavallo dal manto nero e lucido brucare l’erba all’ombra della parete rocciosa. Era sellato, le briglie cadevano accanto agli zoccoli robusti e ben piantati nel terreno. Mi avvicinai all’animale con passo furtivo, temendo magari di spaventarlo perché non mi avrebbe (forse) riconosciuto.
Invece, non appena mi vide, lo stallone corse verso di me e con un trotterello sostenuto fu subito disponibile, porgendomi maestosamente un suo fianco.
Lo carezzai sul collo, e solo a quel punto mi accorsi di un dettaglio che avevo sempre tralasciato, fino ad allora.
La mia mano poggiata sul suo manto lucido, lo vidi con chiarezza, assentava di un dito.
Inizialmente provai rigetto, disgusto a quella vista. Muovevo tutte e quattro le dita restanti con naturalezza e scioltezza, ma il vuoto tra il mignolo e il dito medio mi dava una fastidiosa sensazione d’assenza, come se il dito in questione fosse solo addormentato. Allo stesso braccio era stretto un guanto dalle placche argentate, bello, regale, e ben dettagliato di diversi intarsi. Gravava sul mio gomito il meccanismo della lama che, prima della mia comparsa, mi chiesi quante vittime avesse mietuto.
Stesi bene il braccio e strinsi il pugno, sfiorando l’innesco della lama. Quando udii il ticchettio metallico, il mio cuore perse un colpo. Il filo tagliente d’acciaio passò esattamente, come fosse calcolato, nel vuoto tra le mie dita, allungandosi di dieci centimetri in poche frazioni di secondo.
Il mio palmo poggiava sull’acciaio lavorato e liscio della stessa, e avvertii così un brivido di freddo passarmi attraverso le articolazioni del polso. Pigiai nuovamente sull’innesco, e la lama si ritrasse nel minor tempo.
Avrei dovuto farci l’abitudine, mi dissi, perché le cose sarebbero rimaste in quel modo per parecchio tempo.
Mi avvicinai al cavallo e infilai un piede nella staffa, afferrando bene le estremità della sella, pronto ad issarmi su.
Spero sia come andare in moto…
Quand’era stata l’ultima che avevo preso lezione di equitazione? Ah, sì: forse all’asilo.
Saltellai con una gamba sola un paio di volte e, non appena presi bene lo slancio, mi tirai sulla groppa dell’animale soffocando un gemito. Per un attimo, credei di essermi sistemato al contrario, con il busto rivolto verso il posteriore dell’animale, ma fortunatamente, non appena questi sollevò la testa portando all’indietro le orecchie, mi accorsi di essere stato benvoluto da qualcuno.
Mi guardai attorno circospetto. Ero certo mancasse qualcosa, ma non sapevo precisamente dire cosa. Così mi voltai tutt’altra parte, cercando di osservare anche dietro di me ma, tornando dritto, il cavallo sgroppò infastidito.
-Buono!- gemetti chinandomi sulla sella e stringendomi al suo collo, ma nel gesto di aggrapparmi alla sua criniera, l’animale parve solo innervosirsi oltremodo.
-Oh, cazzo! Le redini!- mi ero appena accorto di cosa effettivamente avevo bisogno per stabilizzarmi, quando –Oh, oh… no, no… aaaah, non mi piaceee!!! Aaaaaah!!!- scivolai giù in un batti baleno, andando a cadere con la schiena nell’erba. Il dolore lancinante mi attanagliò dalle spalle al fondoschiena. Mi misi a sedere agonizzante, passandomi le mani sul punto leso e riducendo gli occhi a due fessure.
Bestemmiai una trentina di volte nell’arco di pochi secondi e, non appena avvertii il fastidio attenuarsi, tentai di sollevarmi appoggiandomi alla parete di roccia che, ci mancava poco, non facesse la sua parte nella caduta. Mi voltai a guardare il cavallo del tuo antenato che mi scrutava in modo confuso, quasi si stesse interrogando se fosse davvero un assassino quello che aveva davanti. Sbatteva la coda a destra e sinistra senza darsi tregua, sbuffando dalle grandi narici e spostando le orecchie in vari modi.
Non è affatto come andare in moto! E’ peggio! Molto peggio che andare in moto!
-Che ti guardi?!- sbraitai, ma a mo’ riposta il cavallo abbatté con violenza uno zoccolo al suolo.
Mi ritrassi all’istante, spaventato di tale reazione. –Buono, eh?- balbettai.
L’animale mi si avvicinò con pochi passi, puntando i suoi occhi grandi e neri nei miei, andando a sfiorare il mio naso col suo muso lungo. Mi soffiò in faccia, annusandomi subito dopo.
Chissà se stava chiedendosi se fossi ubriaco. Avrebbe immediatamente fiutato la puzza d’alcol e sarebbe stato in grado di riportarmi a Masyaf senza l’uso delle redini.
Dopo questa piccola analisi, parve solo più confuso. Indietreggiò, stanziandosi da me fino a potermi guardare in faccia per bene.
Tentando un ultimo approccio, alzai una mano avvicinandola alla sua guancia, che accarezzai con lentezza e tremando come una foglia. Di conseguenza al mio gesto, il cavallo si risistemò lateralmente porgendomi di nuovo il suo fianco, incitandomi a ritentare.
Sorrisi benevolo, posizionandomi con un piede nella staffa e uno a terra. Mi issai sulla sella con maggior convinzione, strinsi subito le ginocchia al cuoio lucido e mi chinai poco in avanti afferrando le redini. Una volta che il nastro di cuoio fu tra le mie dita, me lo avvolsi al polso per maggior sicurezza.
-Pronto?- domandai ingoiando il groppo che avevo in gola.
Il cavallo sbuffò dalle grandi narici e calpestò la terra sotto i suoi zoccoli.
Lo intesi come un sì e piantai i talloni nei suoi fianchi.
Seguii i suoi movimenti mentre dal passo acceleravo fino al trotto, giungendo poi ad un lento e sostenuto galoppo che ci portarono sino ad un sentiero scavato tra la roccia del crepaccio. Gesticolare con le redini non fu un grande problema, perché principalmente il cavallo sotto di me sapeva bene quale fosse la direzione e sembrava conoscere ottimamente le varie direzioni da prendere. Il sentiero saliva ripido la scogliera e giungeva fino ad un altopiano contornato di ulivi.
Giunti nella radura, tirai le redini al mio petto e fermai così l’animale, il quale, mentre mi apprestavo a riprendere fiato e riposare i muscoli delle gambe, si divorò quasi due dita di erba in cinque metri quadri di prato.
Riprendemmo il nostro viaggio tuffandoci nel bosco di ulivi, giungendo sino ad una strada sterrata che portava spianata ai piedi di una collina. Mi sentivo terribilmente stanco e affaticato, ma fortunatamente mancavano ancora pochi metri a destinazione.
Di fatti, la vista lontana e miracolosa della fortezza di Masyaf all’orizzonte fu una grazia per i miei occhi. Accelerai l’andatura del cavallo sino ad un galoppo svelto e ritmato, e così penetrammo nel villaggio contadino risalendo sveltissimi fino alla cima della collina, dopo aver sbaragliato le guardie e spaventato la folla che animava quelle strade.
-Uh! Frena!- ridacchiai divertito strattonando le redini, e il mio cavallo frenò di colpo sollevando una grossa nube di terra proprio davanti l’ingresso della fortezza, dove due assassini vestiti come me furono travolti dalla polvere.
Uno dei due tossì sonoramente. – Altaïr - chiamò rigido.
Respirando affannosamente ma col sorriso sulle labbra, risposi: -Sì?- il cavallo sotto le mie gambe si agitava forsennato dopo quell’eccitante corsetta. In quell’istante mi accorsi della mia voce bestialmente più giovane e differente da quella che c’era da aspettarsi dal mio antenato, così mi ricordai che in futuro avrei dovuto fare maggior attenzione a questo scomodo particolare.
-Il Maestro vuole vederti- disse l’altro, spolverandosi la veste con un ghigno indignato sul volto.
Il primo tra i due si sistemò meglio il cappuccio sulla testa. –Dove siete stato tutto questo tempo? Sono ore che vi stiamo cercando!- sbottò irritato.
Ma mai quanto il secondo uomo presente, che, compiendo un passo avanti, afferrò con violenza le redini strappandomele di mano. –Abbiamo dovuto rinunciare ad un nostro importante incarico per venirvi a cercare! Adesso pretendiamo delle spiegazioni! E molti come noi si stanno affannando in questo!- digrignò.
I due potevano avere la stessa età del mio antenato o più vecchi, ma poco importava: non avevano il diritto di trattare un loro superiore in quel modo, e se non avessi risposto con la dovuta coerenza a come avrebbe fatto Altaïr, avrei forse rovinato la reputazione al miglior assassino di tutti i tempi.
Smontai da cavallo e con un balzo mi avventai sul ragazzo, cingendogli la gola con una mano, sbattendolo alla parete dell’ingresso e minacciandolo con un pugno chiuso all’altezza dei suoi occhi. –Credi che me ne importi qualcosa?! Ho avuto da fare…- sibilai pungente.
L’altro ragazzo mosse un passo addietro, nascondendosi nella penombra della galleria.
-Non osare…- mormorò lo sfacciato che stava rischiando di brutto faccia a faccia col sottoscritto. –Non osare commettere lo stesso errore di una volta, Altaïr! Non ti è permesso fare di testa tua, ora!- ridacchiò cinicamente.
-Al Mualim è morto…- borbottai assorto, ma allo stesso tempo sorpreso che certa gente si permettesse di parlarmi così. –Credo di aver riacquistato tutto il mio rango, ora!- irrobustii la presa sul suo collo, ma il tizio proseguì.
-Ti sbagli!- serrò i denti, cercando di divincolarsi stringendomi il polso. –Ti sbagli di grosso! Qui dentro sei ancora nostro nemico!- con la mano libera lo vidi indicarsi il cuore. –Qui dentro…- ripeté.
- Altaïr!- mi canzonò l’altro, più adulto forse. –Smettila di fare il bambino e va’ dal Maestro, avanti…-.
Ritrasse il braccio di colpo, lasciando esterrefatto il ragazzo che aveva rischiato di scaturire la furia di Desmond! Liberai il suo collo dalle mie dita sbattendolo con violenza un’ultima volta contro la parete, per poi allontanarmi di due passi verso il più vecchio tra noi tre.
-Fatemi una cortesia- dissi spensierato mentre mi avviavo.
Il giovane si passò una mano sul collo, massaggiandosi i segni rossi che avevo lasciato su di esso. –Scordatelo, ma sono comunque curioso di sapere di cosa si tratta…- blaterò arrogante.
Quello più anziano si limitò a fissarmi risalire verso la fortezza.
Mi voltai di tre quarti fulminandolo con un’occhiata divertita. –Uno di voi due può riportarmi il cavallo nella stalla? Credo di essermi dimenticato dove si trovi…-.
Li lasciai entrambi sospesi su queste mie ultime parole, sparendo poi avvolto dalla penombra dell’ingresso della roccaforte.
Camminai tutta la sala, risalendo le scale fino allo studiolo contornato dagli scaffali e abbellito da quell’immensa e luminosa vetrata, che lasciava traspirare i raggi del sole, il quale diramava con colori allegri e sprizzanti sulle varie pergamene distese sulla scrivania.
Dietro di questa c’era un piccolo sgabello sul quale non sedeva però nessuno, quando invece mi ero aspettato di trovarvi il Maestro, chiunque esso sia.
Mi guardai attorno circospetto, sorprendendomi piuttosto dubbioso su chi fosse salito alla carica successivamente ad Al Mualim, ammazzato dal mio antenato che mi chiesi oltremodo cosa stesse facendo, alla mia Giorgia, proprio in quel momento.
Mi avvicinai con passi contati alle pergamene e le adocchiai curioso. Erano mappe, mappe ben dettagliate del circondario della stessa Masyaf. Mi allontanai dal tavolo sporgendomi a guardare fuori dalla vetrata, adocchiando un po’ in giro e contando gli arcieri sulle mura. Attesi forse una dozzina di minuti prima che accadesse qualcosa di interessante, trascorrendo quel tempo ad osservare il cielo azzurro infinito e le colombe spostarsi da un tetto all’altro.
- Altaïr - mi voltai di scatto, ma prima che potessi rendermi conto da dove provenisse quel suono, la stessa voce melodiosa e calda aggiunse: -Come mai sei qui? Ti stiamo cercando dappertutto da ore…-.
Mi si avvicinò una donna, che in grembo aveva alcuni antichi testi arabi. Vestiva di una lunga casacca scura sopra una veste bianca, come la mia, che le arrivava sino alle caviglie. Una fascia rossa le cingeva i fianchi, e portava i capelli neri, puliti in una treccia ben acconciata. Sul volto giovane e tipicamente medio-orientale, spiccavano due occhi del verde più intenso che avessi mai visto.
-Malik corre come un forsennato a destra e sinistra e tu te ne stai beato a guardare fuori dalla finestra?- ridacchiò la donna andando a posare i volumi pesanti sulla scrivania, ignorando del tutto le pergamene su di essa riposte.
La guardai meravigliato per alcuni istanti, sorprendendomi dell’incredibile familiarità e incanto che provavo solamente ammirandola da lontano.
-E non pensi a noi?- domandò ella abbassando il tono, sussurrando queste poche parole nel mentre si avvicinava a me, per poi cingermi il collo con le sue braccia.
Ingoiai a fatica. –Noi… io e te?- domandai interdetto.
-Veramente…- mormorò la donna avvicinandosi a me e poggiando le sue labbra carnose sul mio collo. –Siamo in tre…- ridacchiò allegramente.
-Adha…- dissi flebile, con gli occhi già spalancati dallo stupore.
La donna poggiò le sue mani calde sul mio petto, all’altezza del cuore. –Sono felice di sapere che ricordi il mio nome!- gioì spensierata. –Avanti, rispondimi: dove sei stato tutto questo tempo? Quando sei scomparso, l’altra notte, non ho fatto altro che cercarti. D’altro canto, credo di non aver mai visto Malik così arrabbiato!- un sorriso sereno comparve sulla sua bocca, mentre il mio sguardo si faceva sempre più contraddittorio ai suoi atteggiamenti nei miei confronti.
Ecco la tua donna, Altaïr! Pensai. Stretta a me mentre tu sei chissà dove a fotterti la mia! Eppure, ne ero certo. Il mio antenato non era tipo da prendersele tutte alla prima occasione. Mi aveva giurato che si sarebbe preso cura di te, Giògiò, senza però toccarti con un dito… pensare che quell’assassino avrebbe davvero potuto infrangere un tale giuramento di sangue, mi tornava stonato. Sapevo di poter contare su di lui meglio di chiunque altro, per tanto… potevo stare tranquillo che tra Giorgia e il mio trisavolo non sarebbe mai successo nulla di quello che, invece, stava accadendo a me.
Adha mi baciò, sigillando la mia esitazione sul suo corpo così come lei, capii all’istante, desiderava ancora il mio… cioè il suo… cioè quello di Altaïr! Insomma non me! Ecco.
Mi sentii oltraggiato, violato, ma allo stesso tempo fiero di conoscere la mia tris, tris, tris nonna! Ma il solo pensarci mi fece trasalire, portandomi ad allontanarmi da lei di colpo.
-Scusa- dissi, cercando di placare il suo animo senza però gravare sulla nostra, cioè la loro relazione…
Mi avvicinai nuovamente alle vetrate, tornando a guardare fuori di esse. Mi portai una mano al viso massaggiandomi la radice del naso. –Puoi lasciarmi… solo un momento?- domandai con un filo di voce, e questa volta somigliai davvero al mio antenato! Le mie corde vocali facevano un buon lavoro quando volevano, però senza il minimo sforzo.
-Che cos’hai?- temevo quella richiesta, ed Adha venne subito al mio fianco, carezzandomi la schiena dolcemente. –Perché non vuoi dirmi cosa ti è successo?- mormorò attirandomi nuovamente verso di sé.
-Piuttosto…- esultai. –Dimmi tu cos’è successo!- sbraitai.
Adha mi osservò interrogativa. –Non te lo ricordi più?- rise.
-Cosa?-.
Si avvicinò ulteriormente, facendo combaciare nuovamente i nostri corpi e afferrando le mie mani e accompagnandole sino al suo ventre, dove percepii una fonte di calore più presente del resto. –Non ti ricordi più quando sei entrato nella mia stanza, l’altra notte, e mi hai spogliata nel sonno…- sibilò al mio orecchio. - E’ stata quell’unica notte in cui l’abbiamo fatto davvero, in cui ho sentito il tuo seme di vita posarsi nel mio- la sua voce calda mi stuzzicava la pelle.
Mi schiarii la voce. –Ah, davvero…- sghignazzai.
Lei annuì. –E’ stata la stessa notte in cui sei scomparso, circa una settimana fa, per poi tornare all’improvviso e scomparire di nuovo! Dimmi cosa ti sta succedendo-.
Allontanai le mie mani da lei per poterle nascondere dietro la schiena. –Tutto ciò è…- bisbigliai.
-E’ cosa?- gli occhi della donna che avevo davanti si inumidirono.
I miei, invece, si levarono verso il cielo. –Bellissimo- dissi affranto, curvando di poco le spalle e perdendo la compostezza di sempre. –Sono felice, davvero- aggiunsi tornando a guardarla, e Adha si riempì di lacrime assecondando il mio sguardo.
-Oh, Altaïr!- esultò slanciandosi in avanti e abbracciandomi con foga. –Ti amo, ti amo tanto…-.
Le carezzai la nuca, cingendole la schiena con l’altro braccio. –Anch’io…- singhiozzai. –Anch’io ti amo tanto…- piansi, versando una sola lacrima sulla mia guancia, la quale ricadde sulla spalla della donna che era stretta al mio petto.
Anch’io ti amo tanto…
Ti amo tanto…
…Giorgia.

Fissavo il soffitto di legno, contando e ricontando le stesse tegole che lo componevano più e più volte. La stanza ampia nella quale mi trovavo era la sua, ed io ero sdraiato nel suo letto, mentre il buio mi faceva preda di immagini che mi correvano davanti agli occhi. Erano le immagini delle ultime ore.
Che cosa mi ero dovuto sorbire… era stata una tortura demoniaca, ma certo il mio fisico non ne risentiva quanto il mio animo. Ero prigioniero nel tempo del mio antenato e ora sdraiato (nudo) sotto le coperte del letto della sua amata. La notte e il suo silenzio mi tartassavano di pensieri sconnessi, volti che si sovrapponevano come quello di Adha e il tuo, Giorgia. Stavo cominciando a confondere la mia alla vita del suddetto trisavolo. Stavo cominciando ad odiarmi per aver acconsentito tutto questo, per non essermene restato nei loro maledetti laboratori invece di desiderarti ancora e sperare che col tempo si sarebbe aggiustata ogni cosa.
Il lenzuolo mi arrivava sino ai fianchi, lasciando che la brezza notturna lambisse la pelle scura del mio petto nudo, sul quale era poggiata una sua gracile mano.
Adha era sdraiata al mio fianco, infagottata sotto le coperte e stretta a me, intrecciando una sua gamba alla mia, mentre alcuni dei suoi lunghi capelli mi stuzzicavano il collo. Un mio braccio le cingeva il fianco, mentre le mie dita restavano immobili adagiate sulla sua pelle.
Quella notte, come era successo poco tempo prima e aveva avuto il coraggio di fare il mio antenato, ci eravamo amati. Chissà se si era accorta della mia mancata partecipazione, della mia mancata passione nel mentre la mia essenza si univa alla sua, per me totalmente estranea.
D’un tratto, avvertii un suo flebile movimento, e da lì capii che era ancora sveglia.
Però ne desideravo la conferma: -Sei sveglia?-.
-Hmm…- mugolò lei, sistemandosi meglio addossata al mio corpo.
-Bene…- sospirai. –Perché volevo chiederti una cosa-.
Adha aprì prima un occhio soltanto, sollevando un angolo della bocca. –Dimmi tutto, amore…- mormorò richiudendo le palpebre, e il suo fiato caldo s’infranse sulla mia pelle già di per sé bollente.
Mi presi alcuni istanti di silenzio. –Noti nulla di diverso?-.
-In che senso?…- sbadigliò.
-Di diverso in…- presi un gran respiro. –In me- dissi in fine.
Adha, assorta nel dormiveglia, rispose: -No, perché me lo chiedi?-.
-Così…- assentii, spostando la mia attenzione fuori dalle finestre, dove il cielo stellato luccicava dei suoi mille piccoli soli.
Fu un istante, e accadde tutto nel giro di pochi secondi:
Avvertii un brivido lungo la spina dorsale, e poi persi coscienza del calore che veniva dal corpo di Adha. Il buio della stanza divenne improvvisamente il bagliore accecante cui ero abituato sorbirmi improvvisamente, mentre i miei occhi si chiudevano e il mio cuore accelerava i battiti.
D’un tratto, rinvenni in me, dopo una lunga galleria fatta di tante lampade al neon puntante contro la mia faccia, e lo stesso calore che avevo provato steso affianco ad Adha, ora lo provai sopra di me, precisamente a poca distanza dal mio viso e dalla parte frontale del mio corpo.
Dal nulla, avvertii la morbidezza di un paio di labbra scontrarsi con le mie, assieme alla pelle calda e liscia sotto i polpastrelli.
Non potei fare nulla per diversi secondi, completamente sottomesso a quello che, capii bene, si trattava di un improvviso nuovo scambio di coscienza. Presi coscienza lentamente di cosa mi stesse succedendo, e di chi fossero quelle labbra che stavano diventando prigioniere delle mie, più affiatate.
La foschia e la nebbia si dissolsero non appena i miei occhi si spalancarono per mia volontà, esattamente quando l’anima del mio antenato ebbe abbandonato del tutto il mio corpo, permettendomi di entrare senza esitazione al controllo delle mie carni.
La vidi: Giorgia si sollevò di poco da me giusto la distanza necessaria per sfilarsi la maglietta, restando con indosso il suo reggiseno bianco, pulito che risaltava i suoi piccoli seni sodi.
I nostri sguardi s’intrecciarono, l’uno travolto dall’altro.
Non potendo credere a ciò che stavo effettivamente guardando, mormorai il suo nome: -…Giorgia-.

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Capitolo 19
*** Dubbi di un'amara verità ***


Dubbi di un’amara verità






Non poteva essere successo per caso.
Doveva esserci stato un innesco, qualcosa che aveva provocato ogni cosa. Come succede con l’interruttore della luce. Non potevo semplicemente credere al fatto che fosse un “caso” che tu fossi nuovamente davanti a me, o meglio dire… sotto di me.
Le mie ginocchia ti cingevano i fianchi, e dopo tanto tempo avvertivo finalmente il tuo calore a contatto con la mia pelle, traversata dalle tue dita che stavano immobili sulla mia schiena nuda, quasi all’altezza dell’allacciatura del reggiseno.
Il bello era pensare che non eri stato tu a spostarle in quel punto; il bello era pensare che qualcun altro le aveva spinte fin lì; il bello era pensare che presto ti saresti reso conto di cosa era successo davvero durante la tua assenza, e perché ci trovavamo in quella situazione l’uno colto in fragrante dall’altra.
I tuoi occhi carichi di sospetto e incredulità, in questo momento così simili ai miei che non si staccavano dal tuo viso per neppure una frazione di secondo. Potevano essere trascorsi ormai alcuni minuti mentre ci guardavamo entrambi spaventati ma felici. O quanto meno, io ero felice di riaverti da questa parte della linea del tempo, ma tu? Poteva essere quella che avevo davanti un’espressione di gioia quando invece si stava lentamente trasformando in… in… Non c’erano comunque parole per descrivere quanto mi sentissi imbarazzata, umiliata in quel momento. Cominciai a darmi della stupida, e m’immedesimai alla perfezione in un bambino di seconda elementare sorpreso a rubare la merenda al suo compagno di classe.
Colta con le mani nel sacco, riportata violentemente agli aspetti crudi della realtà, quando invece avevo desiderato per un solo istante di poter vivere in un sogno, trovando magari nel sesso un po’ di consolazione.
Mi ero sbagliata. Ma mi ero sbagliata di grosso! Eri tornato, mi avevi vista, immaginata stretta tra le braccia di un altro ed eri giunto da me per reclamare la tua vendetta. Era stato forse un presagio, un sensazione fastidiosa alla base dello stomaco ad avvertirti che qualcosa stava andando storto di’qua, e di fatti, eccoti!
Vidi le tue labbra contorcersi in una smorfia per nulla rassicurante, e la tua fronte si corrugò dallo stupore. -Giò- dicesti tremante, come stessi frenando un pianto che avrebbe drammatizzato ulteriormente la situazione; e questo, tu lo sapevi, non avrebbe giovato a nessuno dei due peggiorando i fatti.
-Desmy- ti chiamai col tuo nomignolo, alzando una mano dal tuo petto e carezzandoti una guancia, ma io, a differenza di te, non riuscii a trattenere quell’unica lacrima di autocommiserazione che mi traversò svelta il viso.
Mi abbracciasti, interrompendo il contorto filo di pensieri di entrambi. E nel mentre una tua mano risaliva svelta alla mia nuca, carezzandomi i capelli, mi avvinghiai a te nascondendo il naso nell’incavo del tuo collo, cominciando a singhiozzare in quel modo buffo che sapevo fare solo io.
Dopo poco, troppo poco che fummo restati in quella posa, ti allontanasti da me per guardarti attorno, sollevandoti sulle ginocchia e voltandoti da parte a parte analizzando il luogo nel quale ti trovavi.
-Dome siamo?- domandasti in un sussurro smontando dal letto e porgendomi una mano.
Io, arrossendo miseramente, accettai la presa salda e calda delle tue dita lasciandomi aiutare. Una volta in piedi, mi rimisi subito la maglietta, sotto il tuo sguardo neutro e vuoto che mi metteva ancor più in soggezione.
-Altaïr ed io…- inghiottii il groppo che avevo in gola, e lentamente abbassasti lo sguardo sul pavimento. –Siamo riusciti a rintracciare Lucy Stilman per puro caso. L’abbiamo incontrata per la strada mentre scappavamo braccati da quelli dell’Abstergo. Desmond- ti chiamai disperata, e finalmente ti degnasti di guardare me piuttosto che la moquette o le tue scarpe.
-Che c’è?- sibilasti distratto.
-Desmond, l’Abstergo rivuole il tuo corpo! Vogliono ricominciare da dove hanno interrotto, gli servi ancora in laboratorio, ed è solamente questo il motivo per il quale ci danno la caccia- dissi seria e follemente triste.
Annuisti poco convinto, avvicinandoti alla terrazza e scansando le tende, così da avere una visuale completa su tutto il quartiere. –Qui non verranno a disturbarci- dicesti, e sul mio volto comparve un che d’interrogativo.
Ti voltasti con un sorriso beffardo sulle labbra. –C’è una stazione della polizia, all’angolo della strada, e al minimo sospetto da parte della gente locale l’Abstergo ritira i suoi cagnacci!- ridacchiasti isterico allontanandoti dalle finestre e andando verso la porta della stanza.
Feci un saltello nella tua direzione, prendendoti un polso e fermandoti prima che la tua mano potesse solo sfiorare la maniglia della porto. –Aspetta- sussurrai.
Ti girasti lentamente, quasi incerto se darmi ascolto oppure no.
-Lucy sta dormendo, meglio non disturbarla adesso- dissi esitante.
Aggrottasti la fronte. -Giò, renditi conto che domani mattina potrei non essere qui! Devo parlarle, e subito-.
Irrigidii la presa senza permetterti di muoverti di un solo centimetro. –Parlarle riguardo a cosa?- i miei erano dubbi infondati, domande che non necessitavano mica di una risposta scandalosa, ma immaginai ci fosse dell’altro che mi stavi tenendo nascosto.
-Desmond- ti chiamai, di nuovo, così da riscontrare una maggiore partecipazione da parte tua.
Ti divincolasti dolcemente dalle mie dita, ed io non opposi ulteriore resistenza. Ti avvicinasti a me e poggiasti le tue mani sulle mie spalle, mentre il tuo sguardo vagava basso e assorto in chissà quali pensieri.
-Desmond…- mormorai. –Desmy, dimmi che sta succedendo… dimmi se c’è qualcosa che non so, ti prego… dimmelo- mi avvicinai a te affondando tra le tue braccia, accogliendo tutto il calore possibile del tuo petto.
Poggiasti una tua guancia contro i miei capelli, ed io avvertii il tuo respiro bollente infrangersi sulla pelle sensibile del mio orecchio. –A tutti capita di sbagliare, piccola… e ora forse capisco a pieno come ti senti-.
-Perché mi dici questo?-.
Ti sentii ridere, ma ciò mi inquietò oltremodo.
-Basta- dicesti ad un tratto, scostandoti da me e tornando verso la porta. Questa volta non ti impedii di aprirla e di incamminarti nel corridoio, sparendo tra le ombre dei mobili e dileguandoti nel buio.
Piuttosto preferii seguirti sino nel salotto, e poi fino in cucina, dove ti sorpresi con un bicchiere di vetro già in mano mentre ti avvicinavi al lavandino. Riempisti il bicchiere d’acqua e ti osservai in silenzio, mezza avvolta dall’ombra del salone, mentre lo buttavi giù tutto d’un fiato.
-Che cosa dirai a Lucy?- domandai flebile restando immobile sull’ingresso della cucina.
Poggiasti il bicchiere nel lavandino e restasti alcuni secondi a pensare. –La verità, ovvero che sono tornato ma non so per quanto tempo- sbottasti serio incamminandoti.
Non appena mi fosti accanto, ti fermai poggiandoti una mano sul petto. –Cosa è successo?- chiesi composta.
Mi fulminasti con un’occhiataccia. -… quando?-.
-Quando eri nel passato. Hai ammazzato qualcun altro? È successo qualcosa, te lo leggo negli occhi- dissi.
-Altrettanto…- sibilasti e al suono di quell’unica parola tutte le mie difese, anche quelle più potenti, crollarono come un muro di mattoni preso a cannonate dai nazisti.
Sapevi. Sapevi ogni cosa. Avevi capito ogni cosa e, nonostante facessi lo sforzo di far sembrare le cose come nulla fosse, tu sapevi. Eri conscio che in un modo o nell’altro, se non fosti intervenuto, sarei andata a letto col tuo antenato.
Ma anche io sapevo. Sapevo che era successo qualcosa che aveva cambiato radicalmente il tuo modo di pensare e agire nei miei confronti. Poteva essere un nervosismo passeggero dovuto ai fatti che effettivamente non erano accaduti ma sarebbero potuti accadere. Oppure poteva trattarsi di una forma di rigetto verso qualcosa o qualcuno che ti aveva particolarmente infastidito nel passato del tuo antenato.
Ti guardai allontanarti nel corridoio e bussare alla presunta porta della stanza di Lucy, che dopo una manciata di secondi comparve sull’uscio in vestaglia da notte.
Mi tenni in disparte, sparendo per metà avvolta dalle ombre delle pareti.
Lucy mosse un passo avanti, chiudendosi la porta alle spalle ed entrando completamente nel corridoio. -Altaïr, cosa…- mormorò la donna guardando prima te e spostando successivamente gli occhi chiari nei miei.
-Davvero la differenza non si nota così tanto?- ridacchiasti, ma Lucy ci impiegò diversi istanti ad accorgersi dell’improvviso e inaspettato cambio di voce.
Stilman si portò una mano aperta sul petto, aprendo bocca incredula. –Desmond!- esultò battendo le palpebre più volte.
Annuisti compiaciuto, voltandoti di tre quarti ad osservarmi.
-Come…- balbettò lei. –Com’è possibile?- domandò sbigottita.
Mi strinsi subito nelle spalle, non riuscendo a dare una risposta a quella richiesta.
-Sono venuto a chiedere una spiegazione a te, se puoi fornircela- dicesti seriamente.
Lucy ci pensò due secondi. –Bhé…- cominciò incrociando le braccia. –Una spiegazione c’è, ma non vorrei essere indiscreta- dicendo ciò, il suo sguardo cadde subito nel mio, ed io mossi alcuni passi addietro.
-Lucy- Desmond la fulminasti con una di quelle occhiatacce che avrebbero messo a tacere persino un cane da guardia.
La ragazza fece un cenno di dissenso con la mano. –No, dimentica ciò che ho detto. Piuttosto, siccome la frequenza di scambi tra te e Altaïr sta ancora subendo mutazioni, è probabile che questo possa essere un transito meno esposto-.
-Eh?!- t’irrigidisti.
Lucy sbuffò. –Immaginate una retta infinita fatta di tacche numerate-.
Feci cenno di aver capito, e tu altrettanto.
-Bene- riprese lei. –Ora pensate di dover sistemare un segnalino rosso ogni due tacche, ma di dover aggiungere un rapporto moltiplicato a ciascun quoziente. I segnalini rossi sono la frequenza con la quale tu e l’assassino vi scambiate di coscienza. E questi scambi vanno a diradarsi sempre più man a mano che si va avanti nel tempo! I sintomi del trattamento all’inizio si manifestano ogni due minuti, ma già una settimana più tardi questi compaiono una volta ogni tredici, quattordici ore!-.
-Ci stai dicendo- intervenne Desmond voltandosi a guardarmi. –Ci stai dicendo che il prossimo scambio avverrà abbastanza lontano da potermi permettere di passare tredici o quattordici qui? Ma è assurdo, non capisco…-.
-Lo so, è difficile come concetto, ma non a caso è richiesta una laurea specifica per fare il mio lavoro!- alzò gli occhi al cielo.
-Spiegati meglio, per favore- mi aggiunsi. –Voglio capire cosa sta succedendo, oggi una volta per tutte- annunciai schietta.
Lucy riprese la sua spiegazione: -Desmond, forse a te rimangono pochi minuti in quest’epoca o forse delle ore, questo dato è imprecisato, ma quello che possiamo calcolare è quando avverrà esattamente il prossimo scambio-.
-Come?- sbottasti serio.
-Rapportando la frequenza di scambi al numero di giorni trascorsi senza medicinali. Ma vi avverto-.
Ci facemmo entrambi più attenti.
La donna sospirò. –E’ probabile che Desmond, un giorno, possa effettuare un ultimo scambio perché il rapporto sarà cresciuto a tal punto da non permetterne un successivo, poiché…-.
-Va bene, va bene!- ti passasti una mano in volto. –Ho capito. Ci sarà un ultimo scambio perché quello successivo avverrebbe mentre sono nella tomba, giusto?- inarcasti uno sopracciglio.
-Esattamente- annuì Lucy.
-Adesso ho capito anch’io- dissi avanzando, affiancandomi a te che mi stringesti per un fianco.
Mi guardasti allungo con un’espressione indecifrabile, e nel frattempo Lucy pareva assorta in alcuni pensieri.
-Riesci a fare questo calcolo, Lucy?- domandasti tornando ad osservare lei.
La donna alzò gli occhi da terra. –Sì, ma dovrete darmi con esattezza le date e le ore di tutti gli scambi avvenuti fino adesso- mormorò grave.
-Merda!- sbraitasti stringendo i denti.
Già nel panico, presi subito posizione. –Ma non sappiamo con precisione quando…-.
-Va bene- intervenne lei. –Forse posso risalire ad alcune date entrando in rete, successivamente nei registri dell’Abstergo e trovando i file dove sono registrati gli scambi avvenuti in laboratorio. Possiamo partire da lì e fare un rapporto delle intere settimane, ma non so se… no, non funzionerebbe-.
-Perché?!- digrignasti.
-Desmond, per favore…- ti passai una mano sul petto, tentando invano di tranquillizzarti.
-Calma, non rendiamo le cose più complicate. Adesso lasciatemi lavorare; per domani mattina, se tutto va bene, avremo la data e l’ora che stiamo cercando. Buona notte- annuì la donna aprendo la porta e sparendo nella sua stanza.
Io e te restammo immobili alcuni minuti, il tempo necessario per accogliere il silenzio di ciascuno nel cuore dell’altro.
-Una volta che avremo il giorno e l’ora in cui avverrà il prossimo scambio cosa faremo?- domandai sollevando il mento e guardandoti dal basso.
La tua mano stretta su di me cominciò a percorrere la linea del mio fianco, risalendo svelta fino alla spalla. Sospirasti. –Non lo so…- queste tue parole furono un sussurro.
Ridacchiai, e ciò attirò la tua attenzione su di me.
-Che c’è?-.
-Oh, io so bene cosa sarebbe ottimale fare o non fare quel giorno…- mormorai.
Sulle tue labbra comparve un amaro sorriso. –Andiamo…- dicesti flebile accompagnandomi sino nella mia camera.
-E ora?- domandai scansandomi da te di alcuni passi, andando verso le specchio a due piedi sistemato in un angolo della stanza. -Che facciamo?- chiesi ammirando la mia figura riflettersi sulla superficie, cogliendo ora più che mai ogni particolare orrendo del mio corpo.
D’un tratto, senza neppure che me ne accorgessi, la tua immagine si addossò alla mia e percepii il calore del tuo corpo scontrarsi al mio, mentre le tue braccia mi cingevano in un forte abbraccio, lasciandomi sprofondare di schiena contro il tuo petto bollente.
-Io un’idea ce l’avrei…- mi sibilasti all’orecchio, con un certo che di malizia nella voce e un tono accattivante e sensuale che quasi non ti apparteneva.
Poggiai una mano sulla tua guancia, accarezzando il pizzicorio della barba e sfiorando con due dita la tua cicatrice. Il mio respiro si fece spezzato, interrotto nel cogliere l’irrimediabile piacere che mi procurarono le tue labbra sul mio collo, mentre mi stampavi una scia piccoli e ardenti bacetti che mi assopivano come una droga.
-Desmond, ti prego, sono stanca…- mormorai con un filo di voce.
Al suono di quelle parole mi afferrai per i gomiti facendomi voltare subito verso di te, con uno scatto che mi risvegliò del tutto dalla sensazione di annebbiamento che provavo.
-Stanca?- sorridesti maligno. –Rinunceresti a me perché ti senti… stanca?- domandasti come se la risposta fosse ovvio e, nel gesto di abbracciarmi di nuovo, avvertii una tua mano scivolare dalla mia nuca lungo la mia schiena, fino al bordo della maglietta, sotto la quale infilasti le dita senza farti troppi problemi.
Rabbrividii non appena riuscisti a denudarmi di quell’indumento, lasciando alla mercé del tuo avido sguardo la mia pelle chiara dei seni compatti nel reggiseno.
Istintivamente chiusi gli occhi, ma le mie guance, per la prima volta dopo tutte quelle passate, si colorarono di una tonalità più rosea sino ad assumere il tipico colorito della dolce verginella imbarazzata.
-Oddio, mi fai impazzire quando arrossisci mentre stiamo per farlo!- gioisti avvicinandomi con violenza contro di te, strattonandomi con quell’impazienza che davvero non mi aspettavo.
Per il contraccolpo cadesti sul letto trascinandomi con te, ed in breve ci ritrovammo nella posa che sapevo più ti infastidiva, ovvero io sopra e tu sotto.
Improvvisamente sentii le tue dita stringersi attorno ai miei fianchi nudi, e con una sola spinta capovolgesti i nostri corpi sovrastandomi di brutto. Prima che potessi proferire una sola parola, la tua bocca si avventò sulla mia con quella passione e quel trasporto che mi lasciarono paralizzata dalla sorpresa. Entrambe le tue mani mi tennero strette le braccia sopra la testa, e lentamente chiusi gli occhi nell’oblio nei sensi, gustandomi a pieno il sapore delle tue labbra sulle mie.
Allacciai le mie gambe attorno ai tuoi fianchi, sollevando di poco il bacino così da facilitarti nel gesto di sfilarmi i pantaloni. Di tutta risposta, trovai il semplice ed essenziale coraggio per privarti della tua maglietta, domandandomi allo stesso tempo perché stava succedendo tutto così in fretta.
Forse non ti eri accorto del fatto che non eravamo in casa nostra, oppure delle essenziali caratteristiche della situazione, ovvero che prima della tua comparsa improvvisa avevo rischiato di farmi il tuo trisavolo. Ciò che più mi lasciò interdetta, però, fu accorgermi che tutta la rabbia e la gelosia conscia che avevo letto sul suo volto poco prima, si stavano condensando nei gesti scattanti e prepotenti che avevi nello spogliarmi.
Stavi forse tentando di non pensarci? Era quello un tuo modo di compensare la realtà? Bhé, onestamente non potei far alto che rallegrarmene, dato che per me andava più che bene! Avremmo risolto le questioni burocratiche della faccenda a cose fatte. Ora dovevamo assolutamente pentirci entrambi dei nostri sbagli, coronare ancora una volta il nostro immenso amore e desiderarci l’un l’altra come non avevamo mai fatto.
Solo questo avrebbe potuto cancellare le nostre paure, i nostri timori, ed io continuavo a ripetermelo mentre le tue carezze diventavano graffi sulla mia pelle e i tuoi baci si tramutavano in morsi lungo il profilo del mio mento, sul collo, sulle spalle e, successivamente, sul mio petto nudo ora alla mercé dei tuoi denti bianchi e perfetti. Il tuo fiato caldo, affaticato, era come una fiamma ossidrica che lambiva il tratto di pelle preso di mira e lo corrodeva senza pietà. I tuoi occhi chiusi che ogni tanto si risvegliavano balenando di eccitazione nel buio della stanza incrociavano spesso e volentieri i miei, come a volermi rimproverare di quello che stavamo facendo, come a chiedermi se mi stessi pentendo di quello che sarebbe potuto succedere. E il tuo modo violento di penetrarmi, fu solo la conferma a tutto ciò che avevo fino ad allora solo pensato.
Mi odiavi.
Odiavi me e il fatto che avevo trovato vane scuse pur di farmi il tuo antenato, e con questo eri riuscito nell’intento di farmelo pesare sulla coscienza.
Per nessuno dei due fu una volta come le tante. Quella notte era stata diversa da tutte le precedenti, perché per la prima volta in assoluto mi avevi dimostrato di saper amare una donna per il semplice bisogno fisico. Non credevo che un ragazzo come te sarebbe potuto giungere ad una simile scemenza, o che una come me potesse davvero escogitare una conclusione simile, ma dovevo pur cogliere da qualche parte le mie buone ragioni per darmi finalmente della stupida come si deve, no?
Considerai allungo quello che era successo una sorta di punizione. Un castigo da una parte, lo ammetto, molto piacevole, ma dall’altro lato che stava già dando i suoi frutti: mi sentivo un verme.
Si era concluso tutto molto velocemente: mi ero trattenuta l’ultimo gemito di piacere avvertendo le tue membra allontanarsi dalle mie, e piano piano il tuo corpo si era disteso affianco al mio senza proferire una sola parola.
Ed io, invece di cercare ancora, avida, il tuo calore, mi ero stretta sotto le coperte e rannicchiata sul bordo del letto come un gattino malmenato.
Potevo sentire il tuo respiro sfalsato per lo sforzo dietro di me, percependo un mio fianco poggiato proprio dove il materasso era più caldo. Sul mio viso si stampò un sorriso mesto e terribilmente malinconico, e poco ci mancava che scoppiassi a piangere.
Nel più totale silenzio, non potevamo ancora permetterci il sonno, almeno fin quando parte dei nostri dubbi non fosse stata discussa.
Fosti tu a cominciare, precisamente con le parole: -Non sono uno stupido, Giorgia-.
M’irrigidii sotto le coperte, stringendo con più foga le lenzuola candide tra le dita.
La tua voce, ora così seria e dal tono grave, mi spaventava. –Non sono uno stupido, e se pensi che sia il contrario allora hai tutte le buone ragioni per non dirmi la verità-.
Quale verità?! D’un tratto temetti di non stare capendo di cosa stesti parlando, e questo mi portò nel pallone più totale. Cominciai a tremare impercettibilmente, quasi stessi singhiozzando ma non volessi darlo a vedere.
-Non so di cosa parli…- in quel momento era la cosa più stupida che potessi dire.
-Ah!- ridesti. –Questa è bella!- percepii il tuo corpo avvicinarsi al mio fin quando non mi accorsi che eri tornato completamente addossato a me, spingendomi quasi fuori dal letto. La tua voce era tanto vicina, il tuo respiro s’infrangeva contro la pelle sensibile del mio orecchio.
-Abbi almeno il coraggio di dirmelo in faccia, avanti-.
Soffocai un singhiozzo, ma dopo pochi e infiniti istanti di silenzio, ti dissi quello che volevi sentirti dire: -Sì, sì… va bene- piansi –scusami, ti prego perdonami!- mi voltai d’un tratto, affondando il viso nell’incavo del tuo collo, stringendomi a te con le unghie. –Perdonami, ti prego…-.
Consumai le mie lacrime sulla tua pelle.
Tutte.





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Capitolo 20
*** Faccia a faccia ***


Faccia a faccia




***

-Vieni qui, razza di…-.
Desmond aprì gli occhi di colpo, trovandosi davanti un rabbioso Altaïr che lo afferrò per la collottola dei vestiti, sbattendolo con violenza alla parete invisibile alle sue spalle. –Idiota, che cosa hai combinato?!- sbraitò collerico irrobustendo la presa sul giovane.
I piedi di Desmond, in compenso, non toccavano terra, e poteva giurare di sentirsi soffocare. –Aspetta… ti prego!- si lagnò il ragazzo. –Non so di cosa stai parlando…- aggiunse irrigidendo ogni fibra del suo corpo.
-No, scordatelo! Non aspetto! E sai benissimo a cosa mi riferisco!- lo scosse contro il vetro invisibile. –Perché?! Spiegamelo, avanti! Perché?!-.
-Altaïr, cazzo! Di cosa stai parlando!?!?- gridò l’altro.
Il nervoso sul viso dell’assassino si dissolse poco a poco, mentre l’ombra del cappuccio si allungava sempre più a coprire il luccicare dei suoi occhi d’oro nero. –Non ricordo di averti dato il permesso di lasciare in cinta la mia ragazza- digrignò.
Desmond restò incredulo a bocca aperta e terribilmente confuso. –Cosa…-.
-Idiota!- ribadì l’Antenato. –stupido ragazzino!- gridò poi scagliandolo a terra con una forza inaudita.
Desmond scivolò di faccia sul lucido pavimento, fin quando non si fermò sbattendo la testa contro qualcosa di solido e molto duro. Non disse nulla, ma gli sfuggì uno spezzato lamento di dolore.
-Ti ho solamente detto che non ero mai stato a letto con lei, ma rivelandoti ciò non ti ho mica chiesto di farmi certi favori!- ruggì cominciando a camminargli in circolo. –Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero! Non riesco a… dannazione, Desmond!- perse letteralmente le staffe. –Non te l’ha chiesto nessuno, hai preso l’iniziativa ed io… aaaaah!- gridò guardando in alto.
-Per favore, adesso calmati!- balbettò il ragazzo girandosi su un fianco, schiena a terra. Un dolore straziante gli lambiva il collo e la schiena per via della botta. –Ascolta, so che può essere difficile da capire, ma!…-.
-Non c’è nessun ma, idiota!- Altaïr si chinò su di lui e lo afferrò di nuovo per la felpa avvicinandogli il viso al suo. –Se non ti dispiace, credo di avere il puro diritto di ammazzarti di botte per quello che hai fatto! Credimi: sarebbe un grosso sbaglio trattenermi proprio adesso!- rise isterico l’assassino.
-No, deve esserci un malinteso! Ti prego, ascoltami!- Desmond alzò un braccio parandosi dietro di esso, mentre la sua mano era stretta attorno al polso del suo Antenato, nel tentativo di fargli lasciare la presa sulla sua felpa. –Ti prego!- ripeté un’ottava più alta. Tenne gli occhi chiusi e ben stretti, pronto a riceversi la sua fetta di torta!
Altaïr allentò piano la presa delle dita sulla maglietta del suo discendente. –Un malinteso, eh?… ma ti prego!- lo strattonò sollevandolo in piedi e spingendolo successivamente lontano da sé, come si fa con un vecchio straccio. –Suvvia, illuminami! Un malinteso, dici! Avanti, spiega le tue ragioni nella metà del tempo che ci impiego a spaccarti la faccia, ragazzo!-.
Non l’aveva mai visto così arrabbiato, pensò Desmond facendo uno, due passi indietro, traballante sulle sue stesse gambe. –Grazie…- si stupì.
-Avanti, sbrigati!- gli ringhiò contro.
-Va bene, va bene…- cominciò lui massaggiandosi il collo. –E’ cominciato tutto quando ci siamo scambiati, ricordi? Quando mi hai detto che tu e Adha non l’avevate mai fatto, ricordi?- domandò flebile, intimorito.
L’assassino voltò improvvisamente il viso dalla sua parte, fulminandolo con un’occhiataccia non gelida, ma di più! –Accorcia, ti rimangono poche ore di vita, stanne certo…- sibilò l’uomo del passato.
Desmond ingoiò il groppo che aveva alla gola. –Sì, ecco, vedi… neppure io ci capisco più tanto! Quello che sta succedendo è piuttosto confuso, io…-.
-Qui non si tratta di te!- fece un salto nella sua direzione, e il ragazzo indietreggiò di conseguenza. –Ciò che hai fatto è intollerabile! Un atto del genere nel mio tempo verrebbe punito con la morte!-.
-Ma tu sai che io non potevo saperlo! Insomma, tu mi hai detto che… Ehi! Ma almeno lasciami finire di spiegare! Ci tengo a dirti qualcosa che forse tu non sai! O meglio… che non sapevi fino a poco fa…- bofonchiò distratto.
-Desmond!- lo richiamò.
Il ragazzo sobbalzò. –Si tratta della tua donna, diamine! Quando sono tornato da lei nelle tue vesti mi ha detto che l’avevate già fatto! Che TU eri già stato con lei prima del nostro scambio! Ho assecondato le sue parole, credendole, ma non riuscendo comunque a dare una spiegazione logica al TUO comportamento! Insomma, mi avevi detto che eri vergine, Cristo Santo!- esplose, e con questo erano in due ad aver perso letteralmente la calma.
Altaïr ascoltò in silenzio a capo chino, fissandosi i piedi e restando immobile, come una statua, e ben eretto.
Desmond sospirò curvando le spalle. –Ma immagino che adesso sarai ancora più arrabbiato di prima…- borbottò.
-Perché dici questo?- chiese impassibile.
Il ragazzo sfociò in una buffa smorfia. –Come perché!? Cazzo, pur sapendo che tua moglie era già in cinta io ci sono andato a letto lo stesso!- ridacchiò isterico.
L’espressione sul viso dell’assassino, se pur celata dall’ombra del cappuccio, restò invariata per alcuni secondi.
-Io ti ammazzo…- disse solamente.
-Eh?- il cuore del ragazzo perse un colpo e, nel giro di pochi istanti, Desmond sbiancò come un cadavere.
-Hai sentito bene… io ti ammazzo- ripeté freddo Altaïr.
-Forse… eheh…- esitò. –Forse non avrei dovuto… dirtelo!- affermando ciò, il ragazzo del futuro girò i tacchi e cominciò una corsa folle all’insegna dell’infinito di quella sala d’attesa bianca e azzurrognola.
-Torna indietro!!!- ruggì l’assassino alle sue spalle, che con uno scatto dimezzò svelto la distanza che li separava.
Desmond vagò a gambe levate tra calcoli, equazioni e radici quadrate, cercando magari un posto dove nascondersi, oppure un angolo da svoltare seminando il suo inseguitore, ma si trattava di una distesa infinita di tempo e spazio, ed entrambi questi due aspetti della materia si erano interrotti per farli incontrare proprio nel peggiore dei momenti.
-Dimmi una cosa prima di morire!- rise l’assassino correndo senza troppa fatica addietro alla sua preda.
Desmond, che già ansimava senza fiato, si voltò più volte accorgendosi che l’incappucciato dietro di sé stava quasi per raggiungerlo! –Cioè?-.
-Scegli l’arma con la quale ti farò a pezzetti!- sbraitò piegando maggiormente le ginocchia e facendo più presa sul suolo, così da garantirsi uno scatto poderoso in avanti.
-AAAAAAAAAAH!- Desmond implorò le sue gambe di portarlo ad un’andatura più svelta, che lo tenesse in vita il tempo necessario perché ogni tassello del puzzle del tempo tornasse al suo posto. Non gli importava se sarebbe rinvenuto nel 1191 oppure nell’11 settembre del 2001 in uno degli uffici delle torri gemelle! L’importante era darsela via da lì e alla svelta perché il suo Antenato era ben determinato a squartarlo vivo! Manco a dire che stesse scherzando!
Tentò di concentrarsi, facendo appello ai suoi ultimi sfoghi mentali purché accadesse qualcosa, qualsiasi cosa che lo allontanasse da morte certa!
Improvvisamente, un vago ricordo, un’immagine ben precisa gli balenò in fronte, come il flash di una macchinetta fotografica.
Si fermò di colpo, inchiodando come avesse avuto i freni ai piedi. Voltandosi azzardò il gesto di sollevare un braccio e serrare il pungo, affondando poi tutte e quattro le nocche nel centro perfetto del petto del suo Antenato.
Altaïr subì il duro colpo preso totalmente alla sprovvista; indietreggiò con un saltello portandosi entrambe le mani al punto leso, mentre sul suo viso prendeva forma un’espressione mista tra dolore e stupore.
-Ah!- rise Desmond stanziandosi, prendendo le distanze di sicurezza dall’assassino. –Vogliamo parlare di come te la sei spassata tu in mia assenza! Avanti! Adesso tocca a te confessarti, assassino!- lo derise.
L’uomo del passato restò piegato su se stesso alcuni istanti, tenendosi un braccio attorno al basso ventre, dove la forza poderosa del suo nipotino ancora premeva dolorosamente. –Non so di cosa…-.
-Situazione familiare, non credi? È triste quando tutti ti si contorce contro, eh?!- sibilò pungente il ragazzo.
-… stupido- si sollevò lentamente. –Non so davvero di cosa tu stia parlando- sbottò serio tornando dritto e composto.
Desmond riprese fiato dopo la corsa, avvalendosi di quel tempo per formulare qualcosa di intelligente da dire. –Dimmi la verità- tornò rigido. –E’ stata lei a prendere l’iniziativa oppure sei stato tu?!- digrignò i denti, e sulla fronte gli colò un fiotto di sudore freddo.
Temeva che Altaïr, non lasciandosi intimorire dalle sue accuse, potesse in un modo o nell’altro farlo a pezzi comunque.
-Chi dei due, avanti!- aggiunse più sicuro.
L’assassino stette immobile, serioso in volto come non mai. –A che cosa ti riferisci, esattamente?- domandò.
-Non fare il finto tonto con me! Ma cosa avete tutti quanti?!-.
-Di che parli?!-.
-Anche Giorgia, quando le ho detto di sapere tutto quanto, ha fatto subito la para culo!-.
-Ah! Non hai tutti i torti, ragazzo…- rise sotto i baffi.
-Bene, ma  come mai lo pensi anche tu?!-.
-Perché non trovi una certa familiarità?! Rammenta il modo in cui stavi strisciando al suolo poco fa, continuando ad urlare: “Non so di cosa parli, non so di cosa parli!”- gli fece il verso. –Siamo tutti sulla stessa barca, idiota- sbottò in fine.
-D’accordo, lo ammetto! Ma smettila di chiamarmi così!- alzò gli occhi al cielo.
-Così come?-.
-Idiota! Smettila di chiamarmi idiota! O vuoi che trovi un appellativo felice anche per te?!-.
Altaïr tacque a quella stupida domanda e decise di rispondere ad una precedente: -E’ stata lei- disse.
Desmond sollevò il mento dal petto d’un tratto. –Come?- chiese conferma.
-Mi ha baciato, e poco dopo ero sotto le coperte assieme ad Adha…- mormorò flebile, pensoso.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli corti. –Ehi…- lo chiamò, e l’assassino tornò con lo sguardo nel suo. –Mi dispiace, va bene?- disse.
-Se lo sapevi…- sibilò l’uomo del passato. –Allora perché l’hai fatto? Non hai pensato che avrei potuto sentirmi così… così…-.
-Tradito?- suggerì Desmond.
-No!-.
-Fesso?-.
-No!-.
-Stupido? Geloso?-.
-No, niente di tutto questo… ma semplicemente e immensamente… arrabbiato, e… male, molto male- sospirò affranto.
-Quindi…- Desmond gli si avvicinò cauto. –Quindi mi perdoni? Non sei più… “arrabbiato”?- domandò mimando il gesto delle virgolette con le dita.
Altaïr, guardandolo, si lasciò sfuggire un sorriso. –No, non lo sono…-.
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo.
-Non lo sono come lo ero prima! Di più!- ruggì afferrandolo per la felpa e avvicinandolo a sé improvvisamente.
-Ehi! C’era un tacito accordo di pace, ma che diamine…- si lagnò Desmond.
-Scordatelo, perché pretendo le tue spiegazioni a riguardo! Su, parla!- lo minacciò avvicinando il meccanismo della lama nascosta al suo collo, e il ragazzo ingerì rumorosamente il groppo che aveva alla gola.
E ci risiamo… pensò Desmond ricominciando a sudare freddo.
-Allora?!- sbottò Altaïr dandogli uno scossone. –Sto aspettando!- i suoi profondissimi occhi neri lo trafissero senza pietà, e Desmond già avvertiva il freddo metallico della lama lacerargli la carne.
-Non lo so!- eruppe d’un tratto. –E’ stata lei, che appena ci siamo visti per la prima volta mi si è gettata al collo! E poi quella stessa sera, dopo l’incontro con il Maestro… a proposito, bella scelta…- divagò.
-Va’ al dunque!- lo riprese l’assassino, afferrandolo con entrambe le mani per la felpa.
-Mi ha trascinato nella sua stanza, ho tentato di… di ribellarmi, ma temevo di insorgerle dei dubbi se avessi rifiutato, se me ne fossi andato! Le donne sono sensibili a certe cose, lo sentono quando il loro compagno non necessita più di loro! Fidati, lo so per esperienza!- rise. –Basti pensare a quante volte ci siamo lasciati e poi abbiamo fatto sesso  io e Giorgia lo stesso giorno! Eheh…-.
-Cosa ci trovi di divertente?- lo schiaffò a terra di nuovo, e Desmond atterrò sul gelido e liscio pavimento di schiena. Una fitta lancinante gli percorse tutta la spina dorsale sino alle scapole.
Altaïr lo guardò allungo dall’alto, fin quando non si decise ad allontanarsi per sbollentare un pochino.
-C’è una cosa, che non capisco…- blaterò l’assassino.
Desmond si mise seduto massaggiandosi il fondo schiena. –Ah, bene; chissà… sentiamo- si offrì volontario ad ascoltare.
Il suo Antenato gli dava le spalle, mirando dritto davanti a sé e perdendo il suo sguardo nel vuoto della foschia biancastra che gli galleggiava davanti, dietro e ai lati. –Io…- cominciò pensoso. –Io non ho ricordi di una notte passata con lei, ecco- disse.
Desmond ci pensò su alcuni istanti.
L’assassino stava per ricominciare il suo discorso.
-Aspetta un attimo!…- intervenne sollevandosi da terra.
Altaïr si voltò di tre quarti. –Che c’è? Hai forse una spiegazione? Perché io, sinceramente, non ci capisco più nulla…-.
Il ragazzo gli si affiancò. –Quello che mi stai dicendo è impossibile. Insomma, pensavo che mi avessi mentito durante il nostro ultimo scambio, ma invece ti ostini sul fatto di non averla mai sfiorata con un dito… non ha senso! Qualcuno dei due sta raccontando balle, perché davvero! Non ha senso!- sbraitò.
L’assassino aggrottò la fronte. –Adha… lei ti ha detto di essere in cinta appena sei andato a Masyaf, giusto?-.
L’altro annuì.
-Quando invece io sono sicuro di non…-.
Desmond annuì di nuovo.
Altaïr tacque fissando imperscrutabile il suo discendente. –Mi ha mentito- dichiarò d’un tratto. –Adha, lei…- cominciò a respirare nervosamente e Desmond, per evitare ulteriori “complicazioni”, gli poggiò una mano sulla spalla.
-Ehi, sta’ tranquillo adesso-.
-Non posso crederci, lei non lo farebbe mai… perché raccontarmi che… perché?!- si chiese disperato l’assassino.
-Altaïr, guardami!- lo chiamò, e l’uomo si voltò completamente verso di lui.
Desmond prese un gran respiro profondo. –Lascia che me ne occupi io. Ho una certa esperienza di ragazze che mentono ai propri fidanzati, perciò una volta che sarò lì, saprò come risolvere la situazione. Ma quello che mi serve sapere è… cosa vuoi che faccia? Perché se non sbaglio, sembriamo aver capito tutti e due che qui qualcosa non quadra…- sorrise mestamente.
L’assassino annuì distratto. –Sì… qualcosa non quadra- ripeté.
-Devi dirmelo, Altaïr. Devi dirmi quello che vuoi io ripeta ad Adha. Lo farò, parola per parola, te lo prometto- dichiarò in fine.
-Grazie…- mormorò.
-Avanti, comincia-.
-Vedi di ricordartelo, va bene?- ridacchiò l’uomo del passato.
Sulle labbra di Desmond si stampò un allegro sorriso.
-Va bene- sospirò Altaïr. –Non c’è nulla in particolare che vorrei dirle, ma forse la cosa più giusta da fare è capire come e perché l’ha fatto… perché mi ha mentito dicendo che in cinta, intendo- disse serio.
-Va bene, quindi vuoi che indaghi un pochino?-.
-Esattamente… del resto… ci sarebbe anche l’amara eventualità che lei possa essere davvero in cinta…-.
-Già, ma questo vorrebbe dire che…- Desmond arrestò la frase con i puntini puntini accorgendosi dell’incredibile malinconia comparsa sul viso del suo Antenato.
-Eh, già. Mi sa che stiamo pensando la stessa cosa- assentì il ragazzo.
-Sono stato via troppo tempo…- cominciò Altaïr muovendosi avanti e indietro. –Prima quella missione che ti sei permesso di accettare per mio conto, e poi lamia fuga improvvisa. Qualcuno all’interno della fortezza deve aver approfittato delle sue debolezze e delle mie per attaccare bottone con lei. Qualcuno deve averla sostenuta, abbracciata e… fatta sentire amata durante la mia assenza…-.
-Hai già un idea su chi possa essere?- chiese Desmond alzando un sopracciglio.
-No. E scoprirlo è compito tuo- gli puntò l’indice al petto. –Me lo devi- aggiunse freddamente.
-S-s-sì! Stanne certo: non me ne andrò in giro per Masyaf a ciondolare, contaci!- rise nervoso il ragazzo.
-Bene…- l’assassino lo fulminò con l’ultima occhiataccia della giornata. –Ma c’è un’altra cosa- disse.
-Hmm?-.
-Ora tocca a me farti le mie scuse- sorrise triste l’assassino guardandolo dritto negli occhi.
Desmond incrociò le braccia al petto. -Ah, ma davvero?!- si beffò. –Non mi dire, e come mai? Anzi, meglio: “di cosa stai parlando?”- poggiando il peso su una sola gamba, sollevò il mento altezzosamente.
-Si tratta di Giorgia. È vero, ribadisco: è stata lei a baciarmi, ma com’è successo a te… credo di non essere stato forte abbastanza dal trattenermi. Mi dispiace Desmond, ma se tu non fossi balzato nel tuo corpo con quel tempismo, saresti potuto diventare padre molto facilmente!- rise mostrando la dentatura perfetta.
-Attento a come parli…- digrignò il ragazzo.
-Siamo simili, dopotutto- sorrise prendendo il nipote sotto braccio.
-Già, chissà perché!-.
-Ascolta- cominciò. –Una volta di là cercherò di far sì che certi atti non si ripetano, ma tu, in compenso, dei fare ciò che hai promesso. Ci stai?-.
-E me lo chiedi anche? Pf!- si stanziò dal suo Antenato posizionandoglisi di fronte. –Un gesto usuale che si usa nel mio tempo vale giusto la candela- disse allegro porgendogli la mano.
Altaïr acconsentì a stringergliela con vigore, e proprio nell’istante in cui le loro dita si sfiorarono, una luce accecante li fece prigionieri del suo barlume intenso e brillante.
Pochi secondi più tardi, Desmond poté ammirarsi con indosso le usuali vesti d’alto rango della Confraternita, mentre l’uomo che aveva davanti portava un jeans alla moda e una felpa bianca con cappuccio.
-Brrrr!- fece d’un tratto il ragazzo.
Altaïr lo guardò spaesato. –Che succede?-.
Desmond sollevò la mano sinistra e aprì il palmo, mostrando così il vuoto tra il dito medio ed il mignolo. –Non mi abituerò mai!- sbottò sarcastico.
L’assassino scoppiò in una fragorosa risata, la quale riecheggiò nell’immenso salone fin quando la sua figura composta ed eretta non si dissolse avvolta dalla foschia di cifre e simboli complessi.

***




«Questo speciale angolino d’autore lo dedico ad un utente in particolare.
Manu, o meglio conosciuto come Dark Dream o goku94 sul sito, mi ha fatto notare l’analogia che c’era nella storia e la mia “svista” alla trama, perché dovete sapere che si è trattato tutto di una “svista” alla quale, senza il suo aiuto, non avrei mai fatto caso. Grazie DD per il tuo sostegno sempre presente nelle mie piccole follie!»


Il problema di questo capitolo è stato risolvere la suddetta “analogia” che vi era nella trama.
Si tratta infatti, di una mancata attenzione agli ultimi capitoli da parte mia, nei quali parlo separatamente di un’Adha in cinta, un’Altair vergine e nessuno scambio per diverse settimane. Quindi, potete cortesemente spiegarmi come avrei potuto risolvere la situazione che si era creata in termini differenti da quelli adottati in questo aggiornamento??? Ovvio che siete senza parole in bocca, perché non ce ne sono!
E ancora ringrazio Manu per aver rimediato ad una mia medesima caz***a!
Grascie fratellon!

Ora i ringraziamenti vanno agli utenti che hanno aggiunto la fic nei loro preferiti:

comix
goku94 
Kasdeya
Lilyna_93
Paccy
renault
Saphira87
Sparrow

Agli utenti che hanno aggiunta la fic nelle storie seguite:

Sux Fans
cold ice
goku94
renault
Saphira87
Sparrow 

E in fine, agli utenti che hanno recensito con pazienza il capitolo precedente:

comix
renault
Saphira87
Sparrow
goku94

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Capitolo 21
*** Pazzia ***


Pazzia







La coperta mi arrivava sino ai fianchi, e dormivo profondamente a pancia in giù con un braccio nascosto sotto il cuscino e l’altro rannicchiato contro il mio petto. Una mia guancia premeva sulla federa bianca, mentre alcune ciocche di capelli scompigliati mi nascondevano gli occhi socchiusi, le palpebre l’una appena appoggiata sull’altra.
Fu un sospiro che provenne oltre le mie spalle a farmi intendere che era successo, di nuovo.
Nel silenzio della notte, nel buio della stanza i miei sensi si risvegliarono in minima parte, ma abbastanza da permettermi di muovere un braccio sotto le lenzuola e avvicinare la mia mano a quella del tuo antenato e, quando la trovai, intrecciai le mie dita alle sue avvertendo tutto il calore del suo palmo, rinchiudendolo nel mio.
Non seppi perché lo feci, e tanto meno non fui certa del fatto che fossi del tutto sveglia o che anche una minima parte di me rammentasse qualcosa degli avvenimenti passati, ma piuttosto continuavo a ripetermi che ciò c’era successo era successo e stava bene dove stava, ovvero nel passato dei miei e dei pensieri di chiunque avesse trascorso le mie stesse esperienze.
E quel qualcuno ne stava passando pure di peggiori, ma io me ne rendevo conto pienamente solo adesso.
Fui così soggetta di una terribile compassione per l’uomo che era appena ri-atterrato nel corpo che non era il suo, ed inaspettatamente sostituito il mio ragazzo.
Dopo di che, caddi in sonno; più profondamente di prima.

Quando un raggio di sole mi s’infranse sul viso, capii che era ora di alzarsi definitivamente. Schiusi gli occhi lentamente e ammirai il cielo azzurrissimo che era fuori dalla finestra aperta, dalla quale entrava un’arietta fresca e ristoratrice. Le tende erano state arrotolate per bene ai lati del balcone, la porta della stanza era appena accostata e c’era un tenue silenzio accompagnato dal frastuono di alcune stoviglie che veniva dal corridoio.
Mi sollevai su un gomito accorgendomi solo adesso di essere ancora nuda sotto le lenzuola, ed inizialmente mi spaventai; ma non appena la mia mente riaffiorò alle ultime 24 ore, ricordai ogni dettaglio, e i tasselli che mi erano sfuggiti riguardavano semplicemente il fatto che non ricordavo di essere riuscita ancora una volta ad incastrarmi in chissà quali imbarazzanti situazioni.
Mi guardai attorno come se quello fosse per me un posto, un luogo totalmente estraneo. Cosa che in realtà non era, dopotutto. Mi misi a sedere con le spalle appoggiate al muro dietro di me, stringendo le coperte attorno al mio corpo. Presi un gran respiro, e solo allora mi accorsi del vuoto che vi era sul letto al mio fianco.
Le lenzuola erano striate, scomposte e il cuscino un poco obliquo rispetto all’angolo del materasso. Dedussi che il tuo antenato fosse altrove e già vestito poiché, mi resi subito conto, fosse mezzo giorno passato.
Mi passai una mano sul viso, stirandomi le guance e le occhiaie che mi si erano formate sotto gli occhi.
Nonostante avessi dormito quasi dodici ore, mi sentivo parecchio stanca. Mi sarebbe piaciuto dormire ancora, ma chissà quali doveri assurdi ci sarebbero toccati oggi, pensai. Ma all’istante mi ricordai che effettivamente qualcosa d’importante da fare c’era e come: Lucy ci avrebbe annunciato le date esatte dei prossimi scambi, e su questi dati avremmo dovuto elaborare un piano o qualcosa di simile ad esso per abbandonare una volta per tutte il problema.
Guardandomi attorno mi accorsi che i miei abiti non erano dove ricordavo di averli lasciati (ovvero disordinatamente e casualmente sul pavimento) ma bensì ben ripiegati sulla superficie di un piccolo scrittoio presente in quella stanza. Mi alzai dal letto e sgattaiolai in quella direzione, afferrai la biancheria dal tavolo e i pantaloni dalla sedia, rivestendomi frettolosamente.
Non appena fui pronta uscii dalla stanza e mi affacciai in corridoio.
Udii delle voci che non mi fu affatto difficile riconoscere e restai ad ascoltare, per metà avvolta dall’ombra e senza farmi vedere.


-Quando sarà il prossimo scambio?- domandò serio Altaïr.
Lui e Stilman erano in cucina; il sole già alto fuori dalle finestrelle e il venticello fresco primaverile che faceva capolino nella stanza e in tutto l’appartamento. Il suono dei clacson che proveniva lontano dalla strada e il cinguettare degli uccelli che facevano il nido sul tetto dell’edificio.
La ragazza afferrò una scopa dallo sgabuzzino e cominciò a spazzare spensieratamente il pavimento. –Ho fatto dei calcoli piuttosto approssimativi, era molto tardi, ero stanca e…- parlottò.
-Lucy- la richiamò contegnoso. –Quando sarà il prossimo scambio?- insistette avvicinandosi a lei.
La donna appoggiò il bastono della scopa al tavolo nel centro della cucina. –Tredici giorni e ventuno ore- dichiarò in fine.
Il viso di Altaïr fu preda dello sconforto. –E’ troppo, non abbiamo tutto questo tempo, e lo sai- disse.
-Ah!- rise isterica Stilman. –Ne stai parlando come se fosse colpa mia! Guarda che è stato tuo nipote a fare tutto questo!- lo punzecchiò con un dito.
-Non ti sto accusando di quello che è successo, Lucy! Anzi, ti sto ringraziando del tuo aiuto, ma dobbiamo trovare un altro modo. Non possiamo aspettare due settimane senza che l’Abstergo riesca a stanarci, è impossibile!- eruppe. –Ma se anche fosse- riprese dopo una breve pausa. –Se anche riuscissimo ad aspettare fino ad allora, cosa potremmo fare con Desmond che non possiamo fare con me? È inutile che lui ritorni, ci vuole un piano più concreto, meno instabile…- pensò.
-Ecco…- mormorò flebile.
Altaïr la fulminò con un’occhiata gelida. –Hai scoperto qualcosa, non è così?- chiese composto.
Lucy annuì. –Ieri sera, mentre tentavo di violare la rete dell’Abstergo dal mio portatile di casa- disse –ho incontrato un firewall che mi ha dirottato l’accesso ad altre cartelle-.
-Non ho idea di cosa sia un “firewall”, ma continua, ti prego- fece interessato.
-Il mio accaunt era bloccato e hanno cambiato tutte le password, ma sono riuscita a passare il muro entrando nella rete dell’amministratore dei dati sanitari- pronunciò distratta, come stesse pensando ad altro o elaborando un modo per spiegarsi più semplicemente.
-Amministratore sanitario?- si sporse in avanti l’assassino.
-Si tratta del dirigente e coordinatore della sanità dei pazienti. È un innovazione che l’Abstergo ha proclamato solo dopo il fallimento dei soggetti 12 e 13. Si tratta di un medico che ha il compito di registrate le attività fisiche dei pazienti. Durante il trattamento del soggetto 17, Desmond Miles, si è deciso di abolire questi controlli poiché ci fosse una terribile possibilità che all’inizio del progetto non si volle neppure prendere in considerazione-.
-Cioè?-.
-La morte, Altaïr, la morte. Temevamo che l’eccessivo sforzo avrebbe ucciso tuo nipote in qualsiasi momento. Prendemmo delle precauzioni troppo tardi, perché come puoi ben vedere, gli effetti del trattamento si risentono anche adesso- lo indicò con un gesto della mano, e l’assassino annuì affranto.
-Perciò- proseguì la donna –quando sono entrata in quelle cartelle, ho trovato alcune informazioni sconcertanti. Erano dati registrati di cui ignoravo del tutto l’esistenza, poiché certe informazioni fossero occulte persino per una come me, che all’interno della casa farmaceutica aveva quel genere di fama!- ridacchiò.
-Lucy, ti prego- sbuffò lui. –Va’ al dunque…-.
-Sì, sì! Perdonami… quindi: la doppia personalità di cui soffrite tu e Desmond, da quanto ho saputo dalle cartelle del medico amministratore, è un effetto collaterale a breve durata-.
I neri occhi dell’assassino mandarono una scintilla di speranza. -Nel senso che…-.
-No, con “breve durata” non intendo la durata delle controversie, quindi degli scambi, ma del raggio d’azione che questi necessitano per manifestarsi-.
-Spiegati meglio, mi fai venire mal di testa-.
-Non è facile da capire, ma non voglio affatto che tu la prenda in considerazione-.
-Dimmi di che si tratta, avanti!- ruggì facendo un balzo in avanti.
Lucy si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. –E’ semplice, rischioso, azzardato, e stupido; forse non è il caso-.
-Lucy!- la richiamò.
La donna lo fulminò con un’occhiataccia gelida. –La sindrome di doppia personalità non può manifestarsi se non ci sono “due personalità” da scambiare. Ora capisce che intendo?- sbottò irritata.
Altaïr rimase a rifletterci alcuni istanti, fin quando come un tuono a ciel sereno la risposta a quella domanda lo colpì alla testa. -… Stai scherzando, vero?-.
Lucy puntò gli occhi nei suoi. –Ti sembra che stia scherzando?-.
L’assassino tacque ammutolito.
-No, perché se ti sembra che io stia scherzando, che mi stia divertendo, ti prego dimmelo!- ironizzò tutt’altro che allegra, anzi quasi furiosa.
-…No- assentì lui facendo un passo indietro, appoggiandosi al ripiano alle sue spalle.
-Bene- mormorò Stilman mettendosi a braccia conserte.
-Non posso crederci- parlottò lui. –E’ impossibile, inspiegabile una cosa del genere, non…-.
-Invece, se mi aveste lasciato più tempo, sarei giunta facilmente alla stessa conclusione. Le cartelle del direttore medico del progetto parlavano di un paziente che soffriva della vostra stessa sindrome. Siccome all’epoca non conoscevamo ancora quei farmaci, l’unico modo per salvaguardare la vita dell’antenato fu quella di ammazzare la coscienza, l’anima se possiamo chiamarla così, del suo discendente!- confermò. –Ma non deve essere una morte carnale, fisica, ma bensì nella mente… oggi giorno si muore di follia, di depressione, quindi non sarebbe difficile raggiungere tale obbiettivo. Il cervello deve come spegnersi, capisci? Entrate in pausa per poi riaccendersi con una sola unica fonte d’alimentazione: quella sopravvissuta- dichiarò.
-No, non ci credo…- sgranò gli occhi scettico. –Una soluzione così semplice…- rise insano. –E ce l’avevamo sotto il naso! Ah!- alzò gli occhi al cielo.
-Aspetta!- Lucy gli andò in contro e lo fece voltare verso di sé. –Non reagire così, perché questa non è l’unica possibilità che abbiamo!- lo scosse un poco. –Ti ho detto che è stupido e rischioso, perciò dimentica la conversazione e  non pensarci…- proferì più calma. –Troveremo un altro modo-.
-Non abbiamo tempo…- mormorò lui scostandosi e guardando fuori dalla finestra. –Dobbiamo parlarne con Giorgia, e prendere in considerazione la cosa assieme a lei. Sarebbe d’accordo- disse serio avviandosi verso il corridoio.
-No, fermo! Che idiota, vieni qui!- ridacchiò Lucy afferrandolo per il braccio e fermandolo in tempo. –Smettila di fare l’esagerato!- continuava a ridere dell’assurdità della situazione.
-Cosa ci trovi di tanto divertente?- sbottò l’assassino.
-Ti rendi conto di quello che hai detto?- lo rimproverò sghignazzando. –Sembravi un folle, così sicuro che avrebbe funzionato- lo rimproverò.
-Perché…- sorrise maligno. –Non è così?-.
Lucy esitò alcuni istanti. –Sì, funzionerebbe, ma prima ascolta l’altra possibilità che abbiamo, ti prego- lo guardò dritto negli occhi.
-Un’altra… possibilità?- domandò incredulo.
Lucy annuì. –Esattamente-.
-Parla…- si passò una mano in viso, sconvolto.
-Se ci consegnassimo all’Abstergo, una volta all’interno dei loro laboratori saprei cosa fare. Magari la mia tessera è ancora valida, magari qualcuno del personale mi deve un favore, non so…-.
-No- disse egli.
Ma Lucy proseguì: -Warren sono sicura che tiene bene a me come fossi sua figlia, perciò non esisterebbe a combattere per riavermi nel progetto, e…-.
-Ho detto no. Mai- ribadì l’assassino.
La ragazza lo fulminò con un’occhiataccia. –In tal caso, abbiamo toccato il fondo… non conosco altre vie d’uscita- pronunciò severa.

-La sindrome di doppia personalità non può manifestarsi se non ci sono “due personalità” da scambiare. Ora capisce che intendo?-.
Già a quelle parole capii a cosa si riferiva con precisione.
-Invece, se mi aveste lasciato più tempo, sarei giunta facilmente alla stessa conclusione. Le cartelle del direttore medico del progetto parlavano di un paziente che soffriva della vostra stessa sindrome. Siccome all’epoca non conoscevamo ancora quei farmaci, l’unico modo per salvaguardare la vita dell’antenato fu quella di ammazzare la coscienza, l’anima se possiamo chiamarla così, del suo discendente!-.
Tale conferma, come ascoltai, riaprì in me una vecchia ferita, una voragine nella quale ero precipitata. Come il tuo antenato, non potei inizialmente credere che fosse possibile. Ma dannatamente, due più due fa quattro…
-No, non ci credo… Una soluzione così semplice… E ce l’avevamo sotto il naso! Ah!-.
Se solo Altaïr non avesse detto queste parole…
Ascoltato tutto ciò, arrivata a quel punto del discorso, ero fuggita via, conscia del fatto che il giorno del prossimo scambio qualcuno avrebbe trovato il modo di ammazzarti, Desmond, così da riportare la pace nel corpo e nella mente di Altaïr, che sembrava essere entusiasta alla sola idea di sbarazzarsi del problema, di chiudere questa maledetto capitolo della sua esistenza.
Mi voltai lentamente, ripercorrendo i passi che avevo fatto uscendo dalla mia stanza, e lì ritornai.
Mi fermai esattamente nel centro della camera e rimasi immobile lì com’ero.
Assaporai ciascuna sfumatura della terribile malinconia che mi fece prigioniera. Avvertivo la tristezza mordermi le carni proprio come mi era successo quella volta che mi ero chiusa in bagno e avevo spaccato il cellulare, intollerante davanti all’irreltà delle cose…
E quella durevole sensazione era tornata a perseguitarmi, a tal punto più potente che non riuscii a controllare il mio corpo, così da lasciare che una lacrima mi solcasse la guancia senza che niente la fermasse.
Eccola, la sentivo: crisi di pianto in arrivo! Ed io non potei fare nulla per impedirlo.

-… Dev’esserci un altro modo- parlottò confusamente Altaïr.
-Sì, un altro modo esiste, ed è quello di cui ti ho parlato prima- rispose Lucy tirando fuori i piatti dalla lavastoviglie e sistemandoli ben impilati nella rispettiva dispensa.
-C’è qualcosa che ci fugge, un particolare che non abbiamo ancora preso in considerazione, ne sono certo…- proseguì l’uomo per i fatti suoi; a braccia incrociate, appoggiato al ripiano della cucina e con lo sguardo basso. –Ho questa sensazione anche durante il mio lavoro di assassino, perciò non contraddirmi-.
Lucy sbuffò. –Ascolta, non ti ho mai contraddetto, e mai lo farò!- disse avviandosi in sala da pranzo. -Ti sto solo dicendo che dobbiamo concentrarci sui dati che abbiamo, sulle risposte certe, e non su ipotesi o… sensazioni!- alzò gli occhi al cielo passando uno straccio sul tavolo.
Altaïr la seguì pochi secondi dopo. –Lo so, lo so, ma…-.
-Niente ma- controbatté la donna fulminandolo con un’occhiataccia. –Smettila di assillarti, e rifletti su ciò che ti ho detto-.
-Ho riflettuto- sorrise lui.
-E…?- domandò Stilman avviandosi in salotto e continuando a guardarlo di tanto in tanto. Si avvicinò al divano e cominciò a sbattere due cuscini l’uno contro l’altro.
-E…- cominciò il ragazzo raggiungendola. –E sarei disposto a farlo se fosse l’unico modo- dichiarò serio.
Lucy lasciò cadere i cuscini che aveva stretti tra le dita sul divano. -… davvero?- chiese stupita.
L’assassino annuì. –Sì, davvero- ribadì sorridendo mestamente.
-Non riesco a crederci. E perché mai, sentiamo!?- insisté avvicinandosi a lui. –La tua vita è più importante di quella di Desmond. Se lui torna di qua senza che nessuno venga sbattuto di là, addio passato, e di conseguenza presente e futuro!- sbottò.
Altaïr aggrottò la fronte. –Sei stata tu a darmi questa possibilità…- sibilò.
Lucy scosse la testa contrariata. –No, non ti ho detto che sarebbe stata la giusta decisione da prendere; ti ho solo esposto crudamente i fatti come stanno. Anzi, ti dirò di più: speravo che riuscissi ad arrivarci da solo a tale conclusione- sbuffò tornando in cucina.
Il ragazzo rimase parecchio confuso delle sue parole, ma Lucy non diede altre delucidazioni, piuttosto tagliò corto il discorso: –Adesso non pensarci, ci torneremo su quando anche Giorgia sarà sveglia- sospirò la donna volgendosi verso di lui. Sulle labbra accennò un mesto sorriso, dopodiché preferì trovarsi di meglio da fare.
-A proposito- intervenne Altaïr. –Non posso credere che stia ancora dormendo- commentò stupito.
-Ah- rise la donna. –Hai ragione, forse sarebbe meglio svegliarla-.
-Vado io- e detto ciò, l’assassino si avviò nel corridoio.
Una volta giunto dinnanzi alla porta accostata della camera dove si aspettava di trovare Giorgia ancora in sonno, si accorse di un suono ben distinto: singhiozzi e gemiti, accompagnati da qualche colpo di tosse e urletto soffocato.
-Giorgia…- s’irrigidì di colpo entrando nella stanza all’istante, sbattendo quasi la porta.

Tra la nebbia delle mie lacrime e i singhiozzi che mi salivano alla gola, l’immagine di Altaïr che veniva verso di me mi comparve lo stesso ben chiara.
L’assassino si chinò alla mia altezza, perché senza rendermene conto mi ero rannicchiata ai piedi del letto, sul pavimento, agonizzante del mio stesso interno dolore.
-Giorgia!- mi chiamò prendendomi il volto tra le mani, asciugando alcune delle mie lacrime che vennero presto rimpiazzate con delle nuove. –Giorgia, guardami: cos’è successo?- mi chiese nel panico, stringendomi in un forte abbraccio.
In un primo momento restai immobile, affondando il viso nella sua maglia, ma poi, improvvisamente e come un lampo, le parole detto da lui stesso mi tornarono alla mente ancor più vivide.
-Lasciami stare, mostro!- sbraitai divincolandomi da lui e trascinandomi il più lontano possibile. –Vattene! Sei un mostro! Tu e quella troia di là!- gridai.
Aspettai la sua reazione per diversi secondi, guardandolo con gli occhi gonfi, arrossati e i denti stretti. I pugni serrati a terra, le gambe che quasi non le sentivo più. Ogni parte del mio corpo era preda delle convulsioni, stavo letteralmente perdendo il senno.
L’assassino allungò una mano nella mia direzione. –Giorgia, cosa…- provò a dire, tentò di riavvicinarmi.
Di tutta risposta mi scansai ulteriormente, scattando in piedi come una molla. –Ho sentito di cosa stavate parlando! Tutto quanto! Al prossimo scambio volete ammazzare il mio Desmond; soffocargli il cervello, ha detto quella puttana! E tu tutto contento: “ce l’avevamo sotto il naso la soluzione!” come se non aspettassi altro che sbarazzarti di lui! Tanto che ti frega, il tuo dovere l’hai fatto! Rovinarmi la vita ti è riuscito coi fiocchi! Sei un mostro, Altaïr, non mi aspettavo che potessi abbassarti a tanto! Non credevo che un uomo come te potesse somigliare così tanto in cattiveria a quelli dell’Abstergo! Tra te e loro non so chi è peggio! Ti odio, vi odio tutti quanti! Maledetti… che siate maledetti…- gemei in fine, e le ginocchia mi cedettero.
Altaïr venne subito in mio soccorso, afferrandomi per la vita prima che potessi accasciarmi al suolo esattamente come mi aveva trovata poco prima.
Avvinghiandomi a lui che mi reggeva senza troppa fatica, affondai le unghie nel tessuto della sua maglietta. Lo colpii con dei leggeri e deboli pugnetti sulle spalle, ma i miei colpi non gli diedero alcun fastidio, mi parve. –Lasciami, mostro, lasciami subito!- strillai cominciando a dimenarmi tra le sue braccia. –Ti ammazzo! Lasciamo subito o io ti ammazzo!-.
-Giorgia, calmati, aspetta! Lascia che ti spieghi!- rispose così, sollevandomi con forza in braccio e per un istante i miei piedi non toccarono terra. Però, giusto un secondo dopo, non seppi come ma riuscii a sbilanciarlo in avanti, ed entrambi cademmo sul materasso del letto, e mi sentii subito schiacciata dal suo peso.
Certo questo non contribuì a calmarmi, anzi…
-Spostati! Vattene! Lasciami!!! Aaaaah!- di lì a breve i vicini avrebbero chiamato la sicurezza, raccontando chissà cosa alle autorità…
Altaïr si sollevò appena su un braccio. –Giorgia, per favore, ascoltami!-.
Le mie gambe erano incastrate tra le sue, e la stretta delle sue dita attorno ai miei polsi si fece così poderosa da farmi male.
-Idiota, mi fai male! Sei un mostro! Dovresti morire tu, non lui! Non il mio Desmond! Lucy dovrebbe soffocare la tua anima! Non quella di Desmond al prossimo scambio! Bastardo!-.
In quel momento entrò in stanza anche Lucy, che restò immobile e imperterrita sull’ingresso. –Cosa sta succedendo?-.
-Ha frainteso quello di cui abbiamo parlato!- digrignò Altaïr voltandosi un attimo verso di lei, e la sua presa sulle mie braccia persisteva, violenta e salda come se tutto il suo corpo fosse una catena attorno al mio. –Ehm, va’ pure, io ho la situazione sotto controllo!-.
-Scordatelo! Ah!- risi isterica col sangue negli occhi. –Se ti prendo… ti ammazzo!-.
Continuavo a piangere, gridare e gemere allo stesso tempo, scalciando come una forsennata sovrastata dal corpo del tuo antenato, che invece era parecchio tranquillo davanti allo spirito del diavolo che mi aveva posseduta. Una visione del genere avrebbe dovuto almeno scuoterlo un po’, invece pareva tranquillo e resistere ai miei calci e ai miei tentativi di fuga col sorriso.
Stilman fece un passo avanti. –Giorgia, non…- provò a dire.
-Ti ho detto che ho la situazione sotto controllo! Lucy, esci dalla stanza!- ordinò il tuo antenato.
La donna, incerta sul da farsi, restò a guardarci entrambi con il terrore in viso, ma non appena mostrai i primi segni di resa, (ovvero la frequenza con la quale tiravo calci) si decise a lasciare la camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Altaïr tornò lentamente a guardarmi, volgendomi una truce occhiata che bastò a farmi rallentare i battiti del cuore. Poco a poco soffocai ogni mio gesto, fin quando non restai del tutto immobile sotto di lui.
Socchiusi gli occhi distogliendo lo sguardo, ma come a volermi far sentire in colpa, l’assassino mi afferrò il mento con violenza e mi fece voltare nuovamente verso di sé. –Hai finito?- domandò irritato, e parecchio.
Annuii non molto convinta. –Sì…- sbuffai seccata, ma in me era ancora acceso qualche focolare di rabbia, e lo sentivo ribollire proprio ora che una mia mano era libera dalla sua.
-Bene- sorrise sornione il ragazzo. –Ora lascia che…-.
E invece non lasciai che terminasse. Lo allontanai da me con uno spintone, ma mi trascinò con sé fuori dal letto, facendoci cadere entrambi sul pavimento, ma il brutto della caduta lo subì lui sulla sua schiena.
-Dannazione, la vuoi piantare!- ruggì ribaltando i nostri corpi, e finii di nuovo sotto di lui, ma sta’ volta a gambe aperte, accogliendo il suo bacino tra le mie ginocchia.
Anche in quel frangente, quando avrei preferito prenderlo a calci lì, riuscii ad arrossire miseramente. –Io…- balbettai.
-Smettila, Giorgia, basta! Fammi parlare, ascoltami…- sibilò a denti stretti, avvicinando il suo viso al mio che quasi i nostri nasi si toccavano.
Ingoiai il groppo che avevo in gola e annuii con forza.
-Non vogliamo ammazzare nessuno, chiaro?!- sbottò.
Annuii di nuovo.
-Lucy mi stava solo illustrando i fatti, le possibilità. Ma sono contrario almeno quanto te ad ammazzare Desmond, ma comunque ne abbiamo discusso, e lei sembra essere indisposta a sbarazzarsi di nessuno dei due! Quindi cancella dalla tua stupida testolina tutto quello che hai sentivo, chiaro?!- disse.
-Va bene…- gemei. –Scusami se…- mi s’inumidirono gli occhi, e a quella vista Altaïr addolcì ogni suo gesto.
La stretta sui miei polsi si affievolì del tutto e mi lasciò libera, spostandosi successivamente in ginocchio al mio fianco. –Non devi scusarti; avrei reagito allo stesso modo, al tuo posto, credimi- ridacchiò.
Mi sollevai a sedere e appoggiai la schiena contro il bordo del letto, così da poterlo guardare negli occhi. I nostri sguardi s’incontrarono una frazione di secondo troppo breve, perché non riuscii a tollerare il fatto di essermi resa davvero così stupida ancora una volta.
-Ho detto delle cose orribili, mi dispiace…- tirai su col naso.
-Non eri in te-.
-Già…- sorrisi mesta. –Dillo che sembravo posseduta da chissà quale spirito malvagio!- guardai a terra, stuzzicando la moquette con un’unghia.
-Ehm…-  Altaïr si passò una mano sul collo. –Mi sa-.
Tenni per me una piccola risata. –Immaginavo…-.
-Mi sorprende piuttosto che tu abbia davvero pensato che potessi fare una cosa simile al tuo ragazzo- parlottò lui, cercando il mio sguardo che invece andò a nascondersi tutt’altra parte.
-Mi sento così fredda- dissi guardandomi le mani. –Così cattiva… quello che ho detto, io… quello che ho pensato di te… il modo in cui ho chiamato Lucy- singhiozzai. -Non so più cosa pensare di me…- piansi. –Sono diventata la persona che non sono mai stata!- mi portai i palmi a coprirmi gli occhi che, improvvisamente, tornarono a fare lacrime.
-Ehi, no, non ricominciare…- Altaïr si avvicinò accogliendomi di nuovo tra le sue braccia, e quella volta mi strinsi a lui cercando di cogliere tutta la dolcezza che il tuo antenato mise in quel gesto. Mi cibai golosa del suo calore, della sua premura, del suo conforto, del suo amore...
In quel momento non avevo bisogno d’altro.

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Capitolo 22
*** Il piano ***


Il piano






Quando uscimmo dalla stanza, Altaïr si richiuse la porta alle spalle e sfoderò un mesto sorriso.
-Ti senti meglio?- chiese.
Di tutta risposta mi strinsi nelle spalle. –Sì, grazie e… scusa, ancora-.
-Adesso dimenticare è la cosa fondamentale. Piuttosto, sarebbe bene tornare di là; Lucy sarà in pensiero- disse avviandosi, ed io lo seguii a ruota.
Entrai in cucina a capo chino, colpevole di aver arrecato ulteriore sconforto e fastidio a quella povera donna, che era in piedi vicino al lavandino.
Non riuscii neppure a guardarli in faccia, a nessuno dei due. Mi vergognavo a tal punto di me stessa, di quello che avevo fatto prima a loro e poi a me, il modo in cui mi ero comportata, da vera bambina frignona; era stato… imbarazzante, stupido, inutile, fatto sta che reagire in quel modo mi aveva lasciato a mani vuote, senza niente in cui credere più di quanto l’avessi prima. Mi sentivo più vuota, più sola… ecco, “sola” forse era la parola giusta. Perché come non ero in grado io di migliorare la situazione, nessuno era a tal punto disposto ad alleviare le mie sofferenze, che sarebbero rimaste tali in eterno, mi sembrò di capire.
-Che facciamo?- domandò Altaïr sistemandosi accanto a me e risvegliandomi dai miei monologhi. Dopodiché il suo sguardo serio, composto, adultero cadde su di Lucy.
La donna si riscosse altrettanto bruscamente dai suoi pensieri. –Di che parlavamo?- assentì.
L’assassino al mio fianco prese un gran respiro. –Stavamo dicendo che l’unica soluzione per far tornare Desmond senza quei farmaci, e senza ripiombare nei laboratori dell’Abstergo, ovviamente, sarebbe uccidermi- disse tranquillamente, con nient’altro in viso che non fosse quella totale sicurezza di se stesso e autocontrollo che solo uno come lui sapeva “sempre” portare con sé.
Come solo un assassino, di fronte alla morte, sapeva comportarsi: contegno, coraggio, dedizione.
Mi morsi un labbro, nel tentativo di trattenermi dal gridare: “MA SEI TUTTO SCEMO?!?!” o una cosa del genere. Fortunatamente non lo feci, o mi sarei sentita oltremodo un verme. Già mi facevo schifo per come avevo “reagito” poco prima, figuriamoci in che modo mi avrebbero guardato quei due se avessi detto una cosa simile.
La mia buona coscienza delle volte funziona, pensai.
Così dissi solamente: -Faresti questo…- attirai la sua attenzione su di me, e per un istante esitai su ciò che volevo dire. I suoi occhi incredibilmente scuri, densi di un oro nero meraviglioso e infiniti mi lasciarono in quello stato, quasi a bocca aperta. –Tu faresti questo per me?…- mi riscossi. –Cioè per Desmond?!- mi corressi.
Il ragazzo guardò a terra sospirando. –Sì-.
-No, Altaïr- Lucy scosse la testa. –Scordatelo, te l’ho detto, non puoi…-.
-Qualcuno ha già lasciato in cinta mia moglie, nel passato, perciò il mio compito è finito; puoi star certa che se accadesse, della mia morte non risentirebbe nessuno! Desmond non scomparirebbe e così tutta la famiglia alle mie spalle- ribatté il ragazzo interrompendola. –La mia permanenza in questo mondo o nell’altro non è più richiesta ormai…- mormorò chinando la testa da un lato.
Sobbalzai, irrigidendo ogni parte del mio corpo, e mi voltai lentamente verso di lui. –Tu… tu sei… tu hai una moglie?- balbettai, sconcertata.
L’assassino distolse lo sguardo da me per la prima volta da quando eravamo entrati in quella cucina. –Sì…- disprezzò le sue stesse parole.
Non potei crederci, e probabilmente in quel momento Lucy aveva la mia stessa espressione in viso.
Immediatamente, mi balzarono in mente quelle due uniche occasioni in cui i miei sentimenti e chissà che altro mi avevano spinta ad agire nel modo sbagliato, ovvero quando avevo “quasi” o, come nelle passate ventiquattro ore, baciato il tuo antenato.
La prima volta era successo nel nostro appartamento, e lì le nostre labbra si erano appena sfiorate.
La seconda, invece, era successo l’altra sera. Ricordavo benissimo di essermi spogliata per metà, ma proprio in quell’istante eri balzato nel tuo corpo reclamando il controllo!
E da lì, una serie di eventi che mi avevano portato sino alla follia di quella mattina…
Ma ciò che mi lasciava tanto di stucco, a bocca aperta, era il fatto che Altaïr avesse famiglia dall’altro capo del telefono. Insomma… una moglie, un figlio nel passato, e aveva acconsentito con così tanto trasporto che io lo… toccassi? Ero stata una stupida, ed ero tutt’ora una stupida. Per colpa mia e delle mie folli gesta quell’uomo stava dimenticando, forse, o trascurando ciò che invece aveva di più caro.
La sua vita.
Ed io ero la sua distrazione, la trappola nella quale eravamo caduti però entrambi.
Questi pensieri mi diedero un motivo in più per odiarmi, ma odiarmi a tal punto che…
Avevo bisogno di spaccare qualcosa! O qui ci andava di mezzo qualcuno…
-Cazzo, perché non me l’hai detto?!- e alla fine non resistetti: mi voltai verso di lui ed ebbi come l’impulso, il desiderio di picchiarlo.
Altaïr mi fissò allungo sconcertato. –Eh?-.
-Perché non me l’hai detto?! Perché nessuno mi dice mai niente, qui?!- gli ruggii in faccia. –Perché non mi hai detto che sei sposato?!-.
L’assassino inarcò un sopracciglio. –Non sono sposato- digrignò fissandomi. –E comunque… Perché dovrebbe importarti?- domandò senza malizia.
Restai spiazzata a quella richiesta. –Bhé…- e i miei bollenti spiriti si estinsero sotto una cascata di acqua gelida. –No, forse no…- brontolai allontanandomi con un saltello e incrociando le braccia al petto.
Lucy si poggiò le mani sui fianchi. –Spero che i vostri diverbi siano chiariti e che in casa mia non ci siano più segreti di questo genere. Altaïr, in seguito chiariremo questa storia di Adha. Giorgia, per adesso abbiamo troppi pochi dati per cominciare ad elaborare un piano: se vi serve una mano, posso entrare io nei computer dell’Abstergo, ma non violare la loro sicurezza interna e farci arrivare quei farmaci su un piatto d’argento. Le soluzioni sono due: o facciamo fuori qualcuno dei due- azzardò una pausa, guardandoci entrambi con serietà –oppure ci consegniamo tutti quanti nelle loro mani ed elaboriamo un piano una volta che saremo in laboratorio. La mia idea è…-.
-Ma!…- provai a controbattere.
-Fammi finire!- sbottò la donna, ed io tacqui all’istante. –Come stavo dicendo… la mia idea sarebbe quella di passare i loro controlli, dargli ciò che vogliono per un breve periodo, il tempo necessario perché io possa riguadagnare la loro fiducia e ricominciare a lavorare affianco a Warren Vidic. Una volta riottenute le password necessarie- alzò le spalle. –Stringere tra le mani quei farmaci sarà come chiedere un bicchier d’acqua- prese fiato. –Allora: cosa ne dite?-.
Il silenzio piombò nella stanza, e Lucy, notando la nostra reazione pressoché “sconvolta”, si apprestò a dire: -Venite, spostiamoci in salone-.
Non era un cattivo piano, pensai sedendomi sul divano. Altaïr si sistemò al mio fianco, continuando a tenere le dovute distanze ed un’ombra di rammarico in viso.
Sembrava dispiaciuto di avermi mentito, come se fosse tutta colpa sua. Ed io non tolleravo mica di vederlo in quello stato. Mi faceva sentire ancora più… in colpa, in odio con me stessa. La poca autostima che avevo di quel periodo era forse dovuta agli ultimi avvenimenti, e di ciò non potevo che biasimare me e me soltanto.
Tenni le braccia strette attorno al mio ventre, nel vano tentativo di trattenere qualsivoglia possibile disapprovazione. Avevo controbattuto abbastanza per la mia causa sbagliata, perciò ora dovevo starmene zitta e buona un paio d’ore, preferibilmente con le orecchie ben aperte.
Lucy si sistemò sulla poltroncina vicino al televisore. –Giorgia, prima hai avuto qualcosa da ridire ma ti ho chiesto di non interrompermi. Di cosa si trattava?-.
Alzai di poco il mento dal petto, sguainando uno sguardo tutt’altro che tranquillo e sereno. –Nulla, assolutamente nulla- preferii dire scuotendo la testa.
L’assassino seduto accanto a me si mise più comodo poggiando la schiena tra i cuscini alle sue spalle e un braccio sul bracciolo del divano. Sospirò sonoramente scocciato.
Cercai di ignorarlo, di pensare ad altro, ma non riuscii alla grande nel mio intento.
-Perfetto- ridacchiò Stilman. –Se nessuno di voi ha nulla da aggiungere, suppongo che apprezziate la mia idea- gioì.
-Non abbiamo detto questo- sbottò severo Altaïr.
-Allora non capisco dove volete andare a parare- ammise la donna, ma non vedendo in noi alcun tipo di reazione, aggiunse: -Per favore, mettete da parte i diverbi personali della faccenda e cercate di concentrarvi su cosa possiamo fare per uscire dalla situazione. So che può sembrare difficile, ma vi sto chiedendo un piccolo sforzo, piccolo davvero; si tratta del 20% di quello che potreste fare se le vostre menti fossero completamente impiegate nella faccenda, quindi vedete di collaborare con maggior presenza. Comportandovi in questo modo dimostrate entrambi che non ve ne frega nulla!- ci rimproverò, e aveva tutti i motivi per farlo.
Ci aveva offerto il suo aiuto, ed ora pretendevamo che facesse lei tutto il lavoro, standocene noi per i fatti nostri. La stavamo sfruttando, obbligando forse a trovare una soluzione ai nostri problemi. Al suo posto non avrei mica accettato così facilmente di aiutare una totale sconosciuta fuori di testa ed uno schizofrenico alla prima occasione. Fossi stata al suo posto avrei chiamato la polizia, sbattuto quei due al fresco di una cella psichiatrica e chi s’è visto s’è visto.
Invece Lucy questo non l’aveva fatto, e le dovevamo molto entrambi.
-Sentite- riprese la donna. –E’ probabile che ci stiano spiando anche adesso, quindi sarebbe meglio che ci dormissimo sopra per poi riprendere l’argomento dove le loro cimici non possono arrivare- disse.
-E cioè?- domandò il ragazzo.
-Una stazione radio fa da intermittenza, disturba i segnali dei microfoni e dei localizzatori. Ce n’è una sulla 47esima; andremo lì domani mattina per mettere su un piano, e…-.
-No- sbottai io.
I due si voltarono verso di me. –Come no?- fece Lucy stupita.
-Non possiamo allontanarci da qui, non possiamo spostarci in auto mobile e neppure coi mezzi pubblici. Siamo braccati, vi dico, e restando accanto alla stazione di polizia forse non ci faranno nulla per qualche giorno. Se è una stazione radio che disturba i segnali delle loro radioline portatili, allora accendiamo il digitale terrestre, attacchiamo la x box in rete!- ero esilarante, stavo letteralmente impazzendo.
Altaïr, che inizialmente non capì a cosa mi riferissi, spostò il suo sguardo severo da me alla donna, ma Lucy si trovò altrettanto spiazzata dalle mie parole.
Sbuffai. –E’ vero, lo ammetto: non possiamo vivere in questo modo per sempre, non possiamo lasciare le cose come stanno. Ed ecco… io sono d’accordo con te, Lucy- dissi, ma insicura di cosa stessi dicendo. –Per me si può fare: lasciarsi catturare e poi agire dall’interno è una mossa furba, e anche l’unica che ci è concessa…- mormorai gravemente.
Ci fu un minuto di silenzio che durò in eterno, ma durante tutto quel tempo non feci altro che aspettare un reazione accettabile dall’uomo che mi sedeva accanto, voltandomi spesso verso di lui.
Altaïr guardava tutt’altra parte. Avvolto dalla nube dei suoi pensieri, prigioniero nella tua mente così come io lo ero nella mia e Desmond nella sua.
-Va bene- parlò d’un tratto. –Ci sto- aggiunse posando i suoi occhi su di me.
M’irrigidii. –Come ci stai? Che vuol dire?!- la mia voce salì di un’ottava, incredula di fronte a ciò che aveva appena detto.
-Vuol dire che per me va bene. Il piano di Lucy è sensato, e come hai detto tu, l’unico che abbiamo-.
Restai ammutolita, sconvolta poiché non mi aspettassi che Altaïr avrebbe apprezzato e compreso così facilmente ciò che invece io avevo fatto fatica ad ammettere.

Di lì a qualche ora discutemmo del fatto che avrebbero potuto capire che si fosse trattato di un piano ben elaborato se ci fossimo consegnati a mo’ di pacchetto davanti una delle loro auto, perciò c’impegnammo a far sembrare tutto piuttosto casuale.
Complessivamente venne su un bel thriller poliziesco, ma dopotutto non c’era nessun altro modo, e avevamo tutti scosso e chinato la testa dinnanzi alla possibilità di ammazzare qualcuno.
Non appena fu tutto concordato (giorno e ora dell’inizio del piano) mi ritirai in camera da letto, puntando dritta verso il bagno. Feci una di quelle docce fredde che ti restano sullo stomaco e, guardandomi allo specchio, immaginai che il tuo antenato e Stilman erano ancora in salotto, a discutere di qualcosa che io non potevo sapere essendo un comune mortale che meno sa del passato e meglio è.
Ma mi fu facile capire che si trattava di Adha, e tutta la discendenza fino ad arrivare a te, Desmond. Di certe cose, comprendevo bene, non era ottimale parlarne con qualcuno (me) che non dovesse essere al corrente dell’esistenza dell’Abstergo, perciò mi considerai fortunata se ero ancora viva.
Dopotutto, il tizi in nero  volevano ancora ammazzarmi; avevano tentato di ammazzarmi, ma con scarsi risultati, e se avrebbero riprovato non me ne sarei affatto meravigliata. Perciò, tra tutti e quattro (tu, Lucy, Altaïr e me) io dovevo essere la più cauta, evitare crisi di pianto, di follia, di rabbia o isterismo in presenza di quella gente allo scopo di evitarmi una pallottola nel cranio.
Il fatto era che io non gli servivo. Ero inutile ai loro scopi e per questo avevano il diritto di farmi fuori come, dove e quando meglio credevano.
La mia vita era appesa ad un filo.
A quale film l’ho rubata ‘sta frase?
Sorrisi, uscii dalla doccia e mi avvolsi un asciugamano, che arrivava a mala pena fino a metà coscia,  attorno al corpo. I miei piedi scalzi scivolavano sul pavimento, ma ero ben intenzionata di non togliere il disturbo a quelli dell’Abstergo di ammazzarmi, perciò feci molta attenzione. Mi chinai a prendere un asciugamano più piccolo e ci strofinai i miei capelli castano scuro, che con il peso dell’acqua sembravano neri. Quand’ebbi finito, me lo sistemai a mo’ di turbante mi avvicinai allo specchio e scacciai i residui della condensa con una mano.
Non restai molto ad ammirare la mia immagine lì riflessa; dopo pochi minuti che tentati di levarmi quell’orribile punto nero dalla guancia, uscii dal bagno e percorsi quatta quatta il corridoio, giungendo in fine nella mia stanza.
Sobbalzai nel trovare il tuo antenato steso di fianco sul copriletto, girato verso la porta finestra che dava sul terrazzo esterno. Non stava dormendo, lo vidi bene, però aveva un gomito poggiato sul cuscino e la mano a sorreggergli la testa. I suoi neri e densi occhi si perdevano all’orizzonte, oltre il vetro della finestra. Non l’avevo mai visto così nervoso ma rilassato allo stesso tempo: stava sicuramente pensando, riflettendo sugli ultimi avvenimenti, ma a differenza di lui che forse s’immaginava al fianco della sua donna, la mia mente volò subito a quella sera, quando io, e sottolineo io, l’avevo baciato, e non il contrario.
Certi pensieri continuavano ad assillare me, perciò perché non poteva anche lui essere turbato parecchio di quello che era successo? Ed ora che sapevo persino che aveva qualcuno dall’altra parte del tempo, doveva sentirsi molto similmente a me.
Ovvero, proprio ciò che si prova quando si tradisce, si mente alla persona che hai sempre amato e che avresti dovuto amare per sempre. Ma questo mi faceva sentire ancora più confusa, perché uno sguardo, un sorriso, una carezza, un abbraccio potevano bastare ad innescare una nuova e terribile reazione del mio io. Sì, potevo dirlo ora molto sinceramente: ero pazza innamorata del tuo antenato.
Cosa avrei fatto per contrastare i miei sentimenti? Dopotutto eravate più o meno la stessa persona, no? Anche se lui aveva quel carattere prorompente, avversario, serioso, sempre composto e… affascinante che tu non avevi certo preso da lui. Ah! Affatto, da lui avevi ereditato solo la testa calda e l’ego sensibile, oltre, molto probabilmente simile anche quello, il corpo.
Mi morsi un labbro: chissà se ce l’avete grande uguale…
Mi sorpresi a pensare una cosa del genere, non mi facevo così perversa.
Purtroppo, prima che avessi potuto scoprirlo, eri balzato nel tuo corpo, quella sera, perciò… era meglio non pensarci.
Mi schiarii la voce, attirando l’attenzione del tuo antenato, che si voltò lentamente verso di me.
Non appena mi vide si mise a sedere più composto, e con le gambe fuori dal letto. –Ah, Giorgia, eccoti- chinò la testa poggiando i pugni chiusi sul materasso.
Mi avvicinai a lui cercando di capire perché mi stava cercando. –Che ci fai qui?- domandai tranquilla, ma in verità il mio cuore batteva cento al secondo.
E probabilmente anche il tuo antenato trovò qualche difficoltà nel mantenere la calma, dopotutto ero quasi nuda di fronte a lui, se quel misero asciugamano poteva considerarsi coprente su qualcosa.
L’assassino si sollevò in piedi tenendo le giuste distanze da me, quasi avesse paura di avvicinarsi troppo, e lo capivo. –Volevo parlarti di Adha- disse serio in viso, riuscendo finalmente a catturare il mio sguardo nei suoi occhi per alcuni istanti interminabili.
-Ah…- assentii continuando a fissarlo. –Va bene- aggiunsi con calma.
-Lucy non vorrebbe, perciò non dirle che te ne ho parlato, ok?-.
Annuii con forza.
-Bene- sospirò lui. -Non è come pensi: non sono affatto sposato con lei, che non è ancora mia moglie, ma quando sono tornato nel mio tempo l’ho trovata…- esitò. –In cinta senza che fossi stato io a lasciarle la gravidanza, capisci?-.
Aprii bocca, ma prima solo che potessi dire qualcosa, Altaïr si affrettò a precedermi.
-No, no!- ridacchiò. –Infatti, ti dicevo, non è come pensi!- sembrava istericamente allegro. –Non è stato Desmond, non preoccuparti, ma entrambi, io e lui, abbiamo motivo di credere che lei mi abbia tradito mentre mi tenevo lontano da Masyaf per evitare scambi improvvisi di personalità; ora capisci qual è il problema che mi assilla?-.
-E fammi indovinare- incrociai le braccia. –Hai lasciato a Desmond il compito di gestire i rapporti sentimentali nella tua vita privata?-.
-Esattamente-.
-Non sei in buone mani, Altaïr- sorrisi esasperata.
-Immaginavo…- mormorò lui.
-A mala pena sa pagare la bolletta della luce, non so se mi spiego…- brontolai.


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Piccolo angoletto d’autrice!
Eccomi tornata dall’Inghilterra, e neppure mi ricordavo di aver già in serbo quattro pagine del nuovo capitolo. Quello che so per certo è che le due settimane nell’UK mi hanno scombussolata del tutto e sfalsato i ritmi di scrittura!
Detto ciò, ringrazio velocemente gli utenti recensori del capitolo precedente e mi scuso ancora per la piccolezza del post! Un saluto e corro a nanna!
Nonostante questo, spero vi sia piaciuto lo stesso! ^^’
Elik.

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Capitolo 23
*** In fuga da tutto, parte 2° ***


In fuga da tutto, parte 2°


La permanenza a casa di Lucy si faceva estenuante.
Mattina e sera ciondolavo dalla camera da letto alla cucina, dalla cucina al salotto, dal salotto al corridoio, dal corridoio al bagno e dal bagno alla camera da letto. Un circolo vizioso che mi stava portando molto velocemente alla follia precoce, quella duratura anzi. Impazzivo, mi sentivo scoppiare: la pressione a mille, l’ansia, lo stress, e poi i miei sentimenti sovrastanti che a mala pena riuscivo a contenere. Le notti facevo sogni assurdi, la maggior parte delle volte riguardanti ciò che probabilmente stavi passando tu nel passato, nella vita del tuo antenato, ma in minor parte, non riuscendo a controllarmi, ritornavo a quella sera, a quel bacio con Altaïr e tutto il resto… e perdevo la cognizione del tempo, ritrovandomi delle volte in piedi davanti all’ingresso della cucina a fissare il vuoto davanti a me per ore.
Mi era successo più di una volta, e questo cominciò a preoccupare le persone che mi circolavano attorno. Ma la verità era che in me stava terribilmente cambiando qualcosa, qualcosa che non sarebbe mai cambiato se tutto questo gran casino con l’Abstergo e i loro maledetti farmaci non mi fosse mai successo. Un’altra triste verità era l’emerito fatto che non riuscivo a capire se ciò che stava cambiando mi stesse tramutando in meglio o… in peggio.
Non riuscendo a dare delle risposte alle mie domande, ed essendo certa che nessun altro avrebbe potuto farlo… passavo gran parte del tempo in silenzio, immobile, a guardare un punto indistinto davanti ai miei occhi sbarrati per delle ore. M’incantavo come fa la televisione con un DVD graffiato, o quando la play station non ne vuole più sapere di te e getta la spugna.
Aspettavo qualcosa… aspettavo il momento in cui la mia vita sarebbe stata travolta ancora da nuove emozioni e nuovi avventi. Certo, non era rassicurante starsene ore ed ore ad immaginarsi in che modo quei bastardi si sarebbero sbarazzati di me, che per loro ero inutile e sarei diventata solo un peso.
Mi consolava il pensiero che probabilmente, una volta rinchiusi come cani in quei laboratori, ti avrei rivisto, ma… neppure questo pensiero era più puro come lo era stato una volta. E lentamente comprendevo cos’era che cambiava di attimo in attimo la mia vita, cos’era che mi stava passo dopo passo accompagnando fianco a fianco fino alla meta. Mi facevo un’idea sempre più dettagliata, riuscendo quasi a definire quel mio stato di smarrimento e incertezza di fronte al futuro, di fronte alle scelte e di fronte ai pericoli della mia esistenza. Lentamente diventavo io il vero pericolo, che con certi monologhi mentali rischiavo davvero che qualcuno mi sbattesse in un manicomio prima del tempo.

La data fu fissata, il piano venne attuato, rivisto e rivisto dozzine di volte, fin quando quasi non conoscevamo a memoria le battute. E quella sera stessa (era un mercoledì) lasciammo l’appartamento tutti e tre. Guardando le scale, sentii Lucy chiudere le serrature della porta, mentre Altaïr mi venne vicino.
-C’è qualcosa che non va?- mi chiese preoccupato.
-No, nulla… perché?-.
-Ti vedo pallida- commentò lui. –E stai tremando- aggiunse squadrandomi dalla testa i piedi.
Piegai i gomiti e mi guardai le mani, che effettivamente stavano tutt’altro che ferme. Strinsi i pugni e mi voltai verso di lui con un falso sorriso. –Sto bene, davvero, sono solo un po’ stanca…-.
-Allora dovremmo rimandare- disse voltandosi. –Non vale la pena rischiare-.
-NO!- scattai in avanti e lo afferrai per un braccio. –Cioè…- indietreggiai, inciampai su uno scalino e mi sbilanciai troppo all’indietro. Sentii la terra mancarmi sotto le suole delle scarpe e il vuoto oltre le mie spalle, quando Altaïr, con un gesto fulmineo mi cinse la vita stringendomi a sé, e in quell’istante, aggrappandomi a lui ancora scioccata, percepii tutto il calore del suo incarnato.
-… sei anche parecchio fredda- mi sussurrò all’orecchio; il mio cuore batteva all’impazzata, i miei nervi tesi erano appena stati sconquassati da una scossa come quella di un terremoto; già rischiavo di impazzire per i miei vari monologhi mentali che mi stavano friggendo il cervello, e ora ci si mettevano pure certi banali incidenti che mi sarebbero costati la vita. Dovevo stare più attenta, e me lo disse anche il tuo antenato.
-Sta’ più attenta: non ammazzarti proprio adesso- ridacchiò sciogliendo la presa salda di un suo braccio attorno ai miei fianchi.
Lucy ci raggiunse sulla tromba delle scale.
-C’è qualche problema?- domandò.
-Giorgia non sta bene- la informò lui, e di tutta risposta gli lanciai un’occhiata cagnesca.
-Cos’hai?- Lucy mi guardò stupita.
-Nulla, avanti, andiamo- cominciai a scendere i gradini primi che qualcuno potesse avvicinarsi abbastanza da fermarmi.
Una volta all’ingresso dell’edificio aspettai che Altaïr e Lucy mi ebbero raggiunta; uscimmo dalla portineria e c’incamminammo sul marciapiede.
L’aria fresca della sera m’inebriò i polmoni dell’abituale smog cittadino. Le luci dei grattacieli attorno a quella zona della città erano quasi accecanti. Non ero più abituata a girare la notte, con tutto quel trambusto di motori e clacson che mi annebbiarono la mente. Rischiavo davvero di collassate, avvertii la nausea salirmi dalla bocca dello stomaco e risalire tutta la gola.
Stavo per morire. Era il minimo che mi sentissi così, no?
Altaïr ovviamente si accorse subito delle mie condizioni e accelerò il passo. Quando lo vidi comparire alla mia destra, sentii subito il calore del suo braccio, che mi circondò delicatamente le spalle. –Devi resistere, avanti…- mi mormorò serio, quasi preoccupato.  
Mi appoggiai a lui, camminandogli affianco debolmente. –Non ce la faccio… non me la sento-.
-Ah!- rise lui. –Un minuto fa eri così sicura di te- mi derise guardando dritto davanti a sé. Attraversammo sulle strisce e non appena fummo sul lato opposto della strada, mi strinsi maggiormente a lui.
-Tutto questo è strano…- sussurrai abbassando lievemente le palpebre. –È come se… come se non lo volessi-.
D’un tratto ci fermammo e  Altaïr mi fissò allungo negli occhi. –Come se non volessi cosa?- mi chiese. –Che Desmond torni? È questo che non vuoi?-.
Restai stupita del modo in cui lo disse, c’era qualcosa nella sua voce che lasciava intendere  che ne fosse felice all’ascoltatore. Ed io inizialmente non potei crederci che ad Altaïr potesse davvero far piacere rinunciare al suo mondo per poter restare nel mio. Credevo che quest’epoca non gli piacesse, che la detestasse, che sentiva non appartenergli… ma invece mi sbagliavo, perché il luccichio dei suoi occhi neri, infiniti, in quell’istante mi fece capire molte cose. Forse troppe, più di quante non ne avrei volute sapere.
-Perché vi siete fermati?- Lucy ci venne accanto. –Avanti, siamo quasi arrivati. Giorgia, tutto ok?- domandò.
Non risposi subito, continuando a guardare l’assassino che avevo davanti, quasi non mi fossi accorta che lei era lì, che ci scrutava ansiosa, preoccupata, in attesa di una mia… risposta.
Annuii debolmente, riscuotendomi dai miei pensieri, scostandomi dal tuo antenato e riprendendo a camminare da sola.
Qualche isolato più avanti, come Lucy aveva previsto, mi accorsi dell’auto nera parcheggiata davanti all’ingresso di una vecchia villa. Ne incontrammo altre lungo tutto il marciapiede, e all’inizio non pensai che potessero davvero essere tutte di loro proprietà.
D’un tratto colsi un movimento dal buio del vicolo alla mia sinistra e m’irrigidii. M’immobilizzai del tutto, e Lucy e il tuo antenato fecero lo stesso.
-Poco saggio girare di notte da queste parti…- disse una voce che riconobbi subito.
-Alex…- mormorai.
-Che memoria ammirevole, signorina- Alex emerse dell’ombra, mostrandosi alla luce del lampione lì vicino, e si fermò a pochi passi da me, guardandomi dritto negli occhi. –Mi lusinga sapere che si ricorda di me. Ah, Lucy, è un piacere rivederti così presto. Ti trovo in forma- sorrise.
-Zitto, cane!- fu la risposta della donna.
-Non sei cambiata di una virgola- commentò malizioso il signor Viego.
-Neppure i livelli del trattamento dei soggetti sono variati tanto, vedo!- eruppe Lucy, avanzando dalla sua posizione. –Li trattate come bestie, fregandovene della loro umanità. Sono contenta di non farne più parte-.
Un brivido mi scosse il corpo. Ma che diavolo stava facendo quella lì? Perché mai avrebbe dovuto dire una cosa del genere? Si sarebbe dovuta mostrare interessata al progetto, invece stava facendo la sua esatta controparte! Dannazione, Lucy stava mandando a puttane il nostro piano!
-È davvero questo quello che pensi, Stilman?- domandò stupito Alex. –Allora Warren si sbagliava rassicurandomi di aver avuto affianco un assistente sempre meritevole di tale incarico…- disse facendo un altro passo avanti.
-Adesso basta…- pronunciò Altaïr con calma, parandosi davanti a me e nascondendomi dietro la sua schiena. -Lasciaci in pace e nessuno si farà del male…-.
Alex soffocò una risata, mentre alle sue spalle comparivano altri due uomini vestiti di nero e avvolti in dei corvini e lunghi cappotti da pioggia. –Ma come? Mi sorprendi, assassino. La tua perspicacia diminuisce ogni ora che passi in quest’epoca- ridacchiò malvagio.
-Che intendi?!- ruggì Altaïr.
-Suvvia, lo sai benissimo di cosa sto parlando. Non è la ragazza che vogliamo, qui mettila da parte e lasciaci lavorare- sottinse Viego.
-Che cosa le farete?- domandò Lucy, come copione voleva e finalmente lo rispettava.
Alexander si strinse nelle spalle. –Assolutamente nulla- poco credibile. –verrà scortata in un luogo dal quale non potrà nuocere ai nostri scopi- mentiva.
-Bugiardo- ribatté il tuo antenato.
-Ops, sono stato smascherato!- Alex fece un passo avanti verso di noi. –Ma che peccato…- alzò gli occhi al cielo. –Non sono io che detto legge, qui. Se hai delle lamentele parlane coi nostri clienti o col sindacato, chiaro?!- sibilò. –Non possiamo abbassarci ai livelli di tutti. Abbiamo delle scadenze, dei piani da rispettare. Perciò, adesso, senza ulteriori “complicazioni”, consegnatevi- disse.
-Vi prego…- mormorai impaurita per davvero, stringendomi al braccio del tuo antenato.
Alex abbassò d’un tratto la guardia, guardando a terra. –Mi duole ammetterlo, ma… è come avete detto voi: di umanità ce n’è rimasta ben poca in noi, e questo non ci spaventa. Inoltre, frase conosciuta quella che dice: si vuole il sacrificio di pochi per il bene di molti…- mormorò profetico.
Altaïr s’irrigidì nell’ascoltare quelle parole che un tempo disse qualcuno che sembrava conoscere.
-D’altro canto…- riprese Viego. –Non credo che abbiate scelta-.
In quell’istante sentii la suoneria di un cellulare nokia e rimasi piuttosto spaesata. Vidi Alexander afferrare dalla sua giacca il portatile e avvicinarsi a me per passarmelo.
-E’ per lei…- sghignazzò porgendomi il telefonino; lo afferrai, me lo rigirai in mano e guardai sullo schermo il numero segnato come anonimo. Scambiai una fugace occhiata col tuo antenato che sembrava stupito, confuso almeno quanto me.
Ma in fine, risposi.
-Pronto…- balbettai.
La voce incerta e spaventata di una donna mi rispose: -… Giorgia, sei tu?-.
Sbiancai letteralmente, non riuscendo a crederci. –Mamma, che succede?!-.
La ragazza singhiozzò al telefono. –Giorgia, tu… tu devi dargli quello che vogliono… ti prego, piccola mia, fa’ quello che ti chiedono di fare…-.
-Mamma…- farfugliai. –Mamma, dove sei? Che è successo?!-.
-Ti voglio bene, piccola, ma questi ci ammazzano a me e tuo padre se non farai quello che ti chiedono!…- fece una pausa, ed io con lei, smettendo di respirare. –Giorgia, dimmi tu che sta succedendo, chi sono questi signori?-.
-Non lo so, mamma…- dissi guardando Viego dritto negli occhi. –Non lo so chi sono-.
La telefonata si estinse lì, e il tu-tu-tu del telefono mi rimbombò nell’orecchio.
-Stronzo!- sbottai lanciandogli addosso il telefono, ma Alexander lo afferrò al volo con un movimento fulmineo. –Bastardo, sei solo un mostro!- continuai rabbiosa, staccandomi dal tuo antenato e andandogli incontro con nient’altro in volto che non fosse rabbia. Il mio tentativo di avventarmi contro di lui venne soffocato da un paio di braccia che mi bloccarono a mezz’aria, tirandomi indietro con uno strattone.
Mi ritrovai addossata ad Altaïr, che mi tenne incollata a sé mentre mi dimenavo impazzita. –Giorgia, devi calmarti- mi sussurrò all’orecchio.
-No! Questa volta no, dannazione! No! Questa volta la pagherai, stronzo! Hai capito?! Questa volta morirai!- gridai, e finalmente riuscii ad allontanarmi dall’assassino, tornando alla carica verso il male della mia vita.
Alzai un pugno, stavo quasi per colpirlo, ma Viego fu più svelto di me…
Come la puntura di una zanzara, l’ago mi penetrò all’altezza del fianco, passando attraverso i vestiti e infilzandomi dolorosamente.
Mi sfuggì un gemito, chiusi gli occhi e fui inghiottita dall’oscurità.



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Capitolo 24
*** Prigionia di promesse ***


Prigionia di promesse


[…]
-Ora basta con queste iniezioni!…-.
Una voce familiare, arrabbiata.
-Non potete continuare a sedarla come un animale! La ucciderete!…-.
Sentivo dei passi, dei gesti, dell’aria che si muoveva attorno a me, ed io, sdraiata su qualcosa di soffice, ero rannicchiata per il dolore che come il sangue percepivo corrermi nelle vene e spostarsi da una parte all’altra del mio corpo mezzo assopito.
-Si sta risvegliando, dobbiamo…- provò a dire qualcun altro.
-Ho detto basta, stronzo! Levati dai coglioni!-.
-Abbiamo ricevuto l’ordine da Warren! Se hai lamentele, va’ da lui!- gridò un altro, quindi erano in tre nella mia stessa stanza, e dovunque fossi, su qualunque letto fossi stesa, la priorità andava al mio continuo mal di testa che pulsava sulle tempie. Aggrottai la fronte, lasciandomi sfuggire una smorfia di sopportazione.
-Fatti da parte, Desmond, avanti- intervenne una donna. –Lasciali fare; è per il suo bene, credimi- pronunciò lei cercando di rassicurarti, ma soprattutto di calmarti.
-Bene un cazzo, Lucy! Guarda in che stato sta! Scordatelo! Questi bastardi non la toccheranno di nuovo con un dito!-.
Ancora dei passi, qualcuno mi si avvicinò e sentii una presa salda, ferrea attorno al mio braccio.
-Allora non hai capito!- afferrasti l’uomo che aveva tentato di avvicinarsi a me per il camice e lo sbattesti al muro minacciandolo con un pugno chiuso. –Se tieni alla tua faccia da culo ti conviene uscire da qui, adesso!- sbraitò ancora il mio difensore, e lentamente il chiarore di una luce affiorò davanti alle serrande abbassate che erano i miei occhi, che adagio riaprii.
Vedevo tutto offuscato di una polverina bianca e soffusa, come una gigantesca nube di talco che avvolgeva me e i corpi che mi giravano attorno, mentre un vortice di colori, suoni e profumi del tutto nuovi mi danzavano nella testa aumentando il mio disagio.
-Ragazzi, potete uscire un secondo?- domandò la donna. –Ci penso io, dammi la siringa-.
-Lucy…- sibilò Desmond non appena la porta si fu chiusa. –Che cosa vuoi fare?-.
-Tu che cosa credi che voglia fare, Desmond?! Lo capisci che non sei nella condizione di dettare giudizi e ordini? Le possibilità sono due: o con la siringa, o con un colpo di postola! Non deve comunque svegliarsi, hai capito?- fece collerica.
-Lucy, ti prego…-.
-Non posso fare nulla, e lo sai- pronunciò seria. –Mi dispiace, mi dispiace davvero, Desmond. Perciò adesso fatti da parte-.
-Aspetta- portasti avanti una mano fermandola. –Solo per ‘sta sera, ti supplico- chiedesti tu abbassando la voce. –La terrò in stanza, non vedrà nulla di quello che c’è là fuori, e non le dirò niente! Ti prego Lucy, voglio solo parlarle…- sembravi disperato.
La bionda si allontanò da me e si voltò per guardarti negli occhi. –Desmond, non…-.
-Ti prego- insistesti tu restando immobile di fronte alla ragazza.
Stilman sollevò la mano che stringeva la siringa e te la porse, e tu l’afferrasti a rilento.
-Tanto sia te che lui le avete già raccontato abbastanza. Più di questo non potrebbe scoprire- ridacchiò la donna. -La dose deve riceverla comunque- disse lei. –Quando avrai finito di… “parlarle”- si lasciò scappare una risatina. -… Hai capito? Devi dargliela lo stesso- ti informò. –O Warren saprà a chi dare la colpa e Viego non vorrà ascoltare spiegazioni-.
-D’accordo-.
La donna sospirò. –Cerca di essere delicato, è parecchio stordita. Due giorni di iniezioni e sonno perenne indeboliscono, sai?-.
-Ma non mi dire…- borbottasti.
-Ci vediamo domani mattina, allora- sorrise lei avviandosi.
-Sì, a domani- fece un gesto col capo.
Ascoltai il rumore della porta che si chiudeva, e poi il silenzio, quello che odio di certe assurde situazioni. Sapevo che mi stavi guardando, sapevi che non aspettavi altro che il mio completo risveglio. Eri lì, immobile, in piedi al lato del letto a guardare me, stesa sulle lenzuola che ti avevano tenuto prigioniero per otto terribili mesi, senza nessuno accanto, e col costante desiderio di fuggire dai cinque metri quadri di cameretta che ti avevano dato.
Poggiasti la siringa che avevi in mano sulla scrivania lì di fianco a te, e senza distogliere i tuoi occhi affranti, distrutti dal dolore di vedermi in quello stato dalla mia esile figura rannicchiata come un gatto malmenato e costretto in angolo del marciapiede.
Ti sedesti sul bordo del letto e sollevasti una mano che corse lenta alla mia guancia, accarezzandola piano, con dolcezza e leggerezza che quasi mi fece il solletico.
Quel tocco fu la medicina a tutti i miei dolori, fu il moment per la mia emicrania costante; le mie sofferenze cessarono sostituite dal calore delle tue dita sulla mia pelle, e fu in quel momento che riaprii gli occhi e ti vidi finalmente per quello che eri. Mi lasciai sfuggire un sorriso appena accennato sulle labbra, e la tua voce dolce mi scaldò ancora una volta il cuore.
-Sei sveglia- dicesti sistemandomi una ciocca di capelli dietro le orecchie. –Una parte di me lo sapeva che stavi solo fingendo- ridacchiasti.
Trasmettesti la tua allegria anche a me, e ormai del tutto cosciente decisi di riprendere in mano le briglie del mio corpo.
Mi voltai sistemandomi a pancia all’aria e mi stiracchiai debolmente, ancora poco padrona delle mie forze complete. –Quanto…- feci per domandare.
-Solo due giorni- rispondesti prontamente.
Voltai la testa verso di te, e ti guardai sorridere in un modo che poche volte ti avevo visto fare. Scivolai indietro sul copriletto stropicciato e ti feci gesto di raggiungermi, battendo due colpetti sul materasso proprio accanto a me.
-E va bene- mi accontentasi allegro stendendoti al mio fianco sopra le coperte, accaldate in quel punto per quanto tempo ero rimasta addormentata nella stessa posa.
Mi avvicinai a te avvinghiandomi al tuo petto nascondendo il volto nell’incavo del tuo collo, e mi beai del tuo calore e del tuo profumo. Avvertii le tue braccia farmi tua ancora una volta, incatenandomi al tuo corpo proprio come volevo io.
-Mi sei mancata troppo- mormorasti.
-Finalmente ci siamo- sospirai.
-Che intendi?-.
-L’Abstergo… siamo dentro, non è così?-.
Annuisti stringendomi con maggior vigore. –Pare di sì…-.
-Avanti, raccontami…- sussurrai a fior di labbra con la tua pelle. –Cosa hai combinato di bello nel passato?- chiesi spensierata.
-Mah- sbuffasti. –Un paio di cose da sistemare, qualcuno da ammazzare. Le solite cose, capisci?- ridacchiasti.
-E Adha?- chiesi, e ammetto che fosse una domanda che avevo già pronta da farti non appena ti avessi rivisto.
Sospirasti. –E Adha, bhé…- facesti una pausa che stillò in me non pochi dubbi e presunzioni. –Diciamo pure che è andata a farsi un bel viaggetto all’estero, ti basta?-.
-Sì, mi basta- sorrisi stringendomi più a te. –Ma come hai risolto…-.
-Io non ho risolto un bel niente. Ha fatto tutto Altaïr in questi ultimi due giorni. Ero solo uno spettatore. Sembra che le cose non andassero bene perché si stavano creando parecchi disguidi nel passato, e questo non andava giù ai clienti. Mi sa che in qualche modo, sostituendomi ad Altaïr nella sua vita, nessuno abbia assicurato un “prole” alla famiglia, e diventava una faccenda pericolosa-.
-Immagino…-.
-L’Abstergo deve continuare alcune ricerche su un mio trisavolo in Italia, nell’epoca del Rinascimento. Sarà una cosa interessante- dicesti allegro. –Perciò credo che mi terranno qui ancora per un po’…-.
-E cosa ne faranno di me?- domandai confusa.
Esitasti, e questo era già un cattivo segno. –Non lo so, Giògiò. Ho chiesto a Warren se potevi restare, a costo che stesti all’oscuro di tutto, ma hanno rifiutato…- sbottasti affranto. –Dicono che sai già troppo, che hai creato abbastanza problemi e Viego sostiene che si tratti solo di una questione di tempo prima che…- ti fermasti.
Mi sollevai di colpo su un braccio, allontanandomi da te e guardandoti dall’alto, mentre i capelli mi ricadevano selvaggi davanti al viso. –Perché? Sembra così ovvio, scusa. Potrei starmene qui con te da brava e stare a guardare come fai il tuo lavoro! Farei anche meno casino che mai, ma… dannazione, Desmy, io voglio restare con te! Tanto  quelli o mi ammazzano e basta, o mi ammazzano a forza di sedativi- lagnai.
Ti mettesti seduto anche tu, continuando a guardarmi negli occhi colmo di rammarico. –Non so che cosa fare, che cosa dire a riguardo, piccola- mormorasti. –Non ho il potere, la forza di fare niente qui dentro!- digrignasti.
Stavi cominciando ad arroventarti come una padella che sta troppo sul fuoco, e prima che qualcosa volasse per aria avrei dovuto fermarti.
Così ti poggiai una mano sulla guancia, carezzandola dolcemente come tu avevi fatto con me. La sottile barba che ti era ricresciuta mi solleticava i polpastrelli, e lentamente con le dita andavo a lambire con delicatezza la parte sfregiata del tuo labbro; mi fermai in quel punto, e una morsa dolorosa di ricordi mi corsero davanti agli occhi come fotogrammi di un film.
Erano le chiare immagini di me e il tuo antenato insieme, nel modo che più mi aveva tormentato in tutte quelle settimane. Ma a costo di sopprimere quei ricordi, a costo di dimenticare il dolore e le sofferenze di quegli attimi trascorsi a cercare consolazione tra le braccia di un altro… pur di cancellare tutto questo, avrei dovuto fare quello che più il mio corpo, e la stanchezza che mi trascinavo dietro, mi imploravano di non fare.
Mi allungai verso di te e ti baciai, andando a sostituire la mia mano con le mie labbra. Accompagnasti il mio gesto ricambiando il bacio, anzi, completandolo con passione a soli pochi secondi dall’inizio. E mentre la tua lingua varcava il confine dei miei denti e i nostri nasi si sfioravano, mi misi in ginocchio davanti a te facilitandoti il compito di spogliarmi della mia maglietta. Accarezzasti con ardore la pelle dei miei fianchi, risalendo svelto fino alla giuntura del reggiseno, del quale mi liberasti con ancor più facilità.
Avvinghiandomi a te, ti spinsi lentamente giù, ma non appena la tua schiena affondò nei cuscini, capovolgesti i nostri corpi e ti sistemasti tra le mie gambe, ed io con un solo rapido gesto riuscii a spogliarti della felpa, e successivamente della maglietta.
Ti adagiasti sopra di me attento comunque a non schiacciarmi con il tuo peso, tenendoti di poco sollevato sulle braccia. Riuscivo perfettamente a sentire il mio seno premuto contro il tuo petto scolpito, e ciò mi procurava continue scosse di piacere che funsero solo come antipasto.
Lasciai che ti abbassasti un istante per togliermi le scarpe e slacciarmi i pantaloni, che sfilasti via dalle mie gambe anche col mio aiuto. Ti liberasti dei tuoi jeans velocemente, quasi di fretta, e non appena nella tua mano restò solamente una tua scarpa, la scagliasti con violenza contro la centralina elettrica scoperta della stanza, causando un corto circuito che ordinò lo spegnimento delle luci rimaste accese nella camera. Ti guardasti attorno soddisfatto, ma fu giusto un frammento di secondo, perché i tuoi occhi tornarono ancor più accesi di eccitazione e desiderio a specchiarsi nei miei. Tornasti a strofinarti sul mio corpo e riallacciasti la tua bocca alla mia. La tua presa salda mi afferrò sotto un ginocchio sollevandomi la gamba che mi portasti sopra il tuo fianco; e mentre sentivo crescere sempre più il desiderio di spingermi oltre il confine di ogni cosa, ascoltai la tua voce apparirmi come un sussurro.
-Ti amo…- il tuo fiato bollente s’infranse sulla pelle sensibile del mio orecchio, ma bastò quel poco tanto a farmi perdere la cognizione del tempo e del piacere, a tal punto che ogni tua spinta dentro di me tramutò nella folle promessa di restarti per sempre affianco, e che nulla, passato, presente o futuro, potesse mai più frapporsi fra noi.
Ti amo anch’io, Desmond…














*^* Sono tornataaaaa!!!
Finalmente riprendo tra le mani le redini di questa ff che davo dispersa o sospesa! Quattro paginette scribacchiate in Grecia alle due del mattino. Spero che siano state di vostro gradimento e… non mi viene in mente nulla da dire a parte le solite parole! XD Grazie ai recensori dei capitoli predenti e alla prossima puntata! ^^’’
Elik.

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Capitolo 25
*** Epilogo, Dolci Quadri ***


Epilogo, Dolci Quadri




.:}*{:.
 .:}*{:.  Masyaf   .:}*{:.
.:}*{:.   Dicembre 1193 d.C.  .:}*{:.  
.:}*{:.

La neve cadeva leggiadra sulla città, imbiancando i tetti delle case, le strade e le colline fuori dalla vetrata nella sala del Maestro. Alla vecchia scrivania sedeva un ragazzo il cui sguardo si perdeva oltre il candore e la brillantezza del cielo e della terra. Una leggendaria cicatrice sul suo labbro si mostrava, e gli occhi neri socchiusi, e la mente distante a giovani e futuri ricordi che allungo lo avevan tormentato. Egli vestiva di una casacca scura, lunga e abbastanza pesante che serbava in lui il calore necessario al suo cuore che ultimamente freddo era divenuto. Un gomito egli aveva poggiato sul ginocchio e l’altro adagiato sul tavolo ordinato di qualche antico libro e pergamena; la mano ospitava una piuma bianca il cui inchiostro ancora gocciolava dall’estremità, andando a macchiare un foglio di carta pregiata.
Linee sinuose e abili tratti precisi avevano disegnato su quel foglio la figura di una donna: i capelli castani e lunghi eran raccolti in una coda alta, dalla quale però sfuggivano alcuni piccoli ciuffi lisci che le ricadevano graziosi sul collo e sul viso bello. Ella aveva una mano che immortalata nel bel disegno mostrava lei che si portava una delle ciocche birichine dietro l’orecchio; un gesto abituale che lui, l’artista, le aveva visto fare tante volte e mai avrebbe dimenticato. La fanciulla sedeva su uno sgabello, e teneva le ginocchi strette, ma ciò che era davvero strano fu notare gli abiti diversi, di un’epoca che all’artista era differente. La magliettina e i pantaloni stretti, d’altri tempi davvero, lo facevano ridere al solo pensarci, e il ricordo di un buffo incontro nella mente del giovane cominciò a danzare; un ampio sorriso si stagliò sulle sue labbra, mentre metteva a riposo la penna e osservava commosso il suo operato.
Pareva solo uno schizzo, un abbozzo di quello che un giorno desiderava rincontrare e che già gli mancava; ora che i pezzi del puzzle erano tornati al loro posto, avvertiva un vuoto al cuore che giorno e notte lo faceva star male. Fare quel disegno, lavorarci ancora allungo, forse avrebbe acquietato il suo dolore, ma quanto ancora avrebbe dovuto aspettare per poter vedere di nuovo quella magnifica creatura nessuno poteva saperlo.
Sospirò il giovane, e lanciò un’ultima occhiata alla graziosa figura. Firmò il disegno con due nomi e due date, e in fine ripose tutto in un cassetto.
Si alzò dallo sgabello che sistemò sotto il tavolo e si avviò giù dalle scale; lasciò la sala, e camminò allungo per strade innevate e risa di bambini.

.:}+{:.
.:}+{:.   Firenze   .:}+{:.
.:}+{:.   Maggio 1486 d. C.   .:}+{:.
.:}+{:.

Il sole di una limpida primavera specchiava i suoi raggi sulla città madre dell’arte e della cultura italiana. I tetti di Firenze eran così pieni di piccioni che svolazzavano in grossi stormi per il cielo azzurro, solcando nuvole, comignoli spenti e ampie piazze. La gente in festa per le strade era chiassosa, i nitrii dei cavalli e i suoni di una città che nella domenica il silenzio dimenticava.
Sulle piastrelle del tetto di una vecchia casa s’issò con grazia un giovane dal volto coperto di bianco; la sua nobile veste dai colori sgargianti e dal tessuto pregiato si muoveva al vento che lassù tirava forte; sorrise il ragazzo, scivolando lesto sul balcone vicino. La finestra era aperta, ed egli entrò silenzioso nel buio della cantina, piegando le ginocchia e richiudendosi i vetri alle spalle. Prese un gran respiro e si calò il cappuccio via dal viso, finalmente al sicuro in casa di amici.
Si avviò giù per delle fragili scalette in legno e giunse in un ampio salone i cui profumi di olio e tempere riempivano i polmoni. D’un tratto una melodia fischiettata attirò la sua attenzione, ed egli congelò le labbra in un nuovo sorriso. Era un motivetto allegro che proveniva dallo stanzino tondo lì affianco. Mosse un passo avanti, guardandosi intorno circospetto e lanciando un’occhiata dentro il salottino.
-Leonardo- chiamò. –Siete in casa, Leonardo?- domandò avanzando ancora.
E il motivetto proseguì, almeno fin quando gli occhi neri del giovane non si fermarono sulla figura eretta di un buon uomo seduto su un alto sgabello. I capelli lunghetti e la barba lasciata crescere, era lui che fischiettava allegro mentre un suo braccio stava alzato e una sua mano impugnava delicatamente un fino pennello, la cui abilità stava tracciando le ombre di un dipinto.
Il vecchio interruppe il suo allegro fischiettar. –Ezio, vieni pure avanti- disse lui senza distoglier attenzione all’arte. –Attendevo la tua visita, ragazzo- pronunciò gioioso.
Ezio si avvicinò a Da Vinci con piccoli passi incerti. –Cosa ritraete, maestro? Questa d’opera vostra mi è nuova- commentò con un filo di voce.
-Dici bene, ragazzo mio- sospirò l’anziano smontando dall’alto sgabello. Ripose il pennello assieme agli altri lì di fianco, su un mobile, e s’asciugò le mani su uno straccio. –Vedi, la scorsa settimana lasciasti sbadato a me questo disegno, che cascò dalle tue tasche prima che te ne andasti, Ezio- disse egli afferrano un vecchio taglio di carta, che poi porse al giovane.
Auditore non ebbe neppure bisogno di guardare lo schizzo di donna che vi era ritratto sull’antico trancio di pergamena. –Ebbene?- domandò confuso.
-È mia intenzione rivisitare quel bel disegno- confessò Leonardo. –Guarda- esultò indicando la tela alle sue spalle.
Il volto dalla pelle chiara era di una ragazza giovane, dagli occhi verdi e graziosi. Il corpo snello e bello sedeva su una pila di grossi tomi dalle tante pagine; le ginocchia composte, un braccio stretto attorno al ventre e l’altro tenuto alto mentre la mano portava una ciocca dei lunghi capelli dietro l’orecchio. Le guance un poco arrossate, indossava un vestito leggero e delicato, con una spalla scoperta e di un tessuto bianco candido primaverile. Lo sfondo non era altro che il bianco della tela sulla quale era ritratta, ma solo una parte di un pavimento dalle grosse tegole di legno appariva attorno alla sua figura. La luce, si capiva bene, veniva dalle spalle di lei che lo sguardo basso tendeva.
-È una bellezza che incanta, maestro…- mormorò Ezio senza altre parole.
-Sì, questa era più o meno la reazione che mi aspettavo da te, mio giovane, o meglio: quella che mi aspetto da chiunque guardi quest’opera- ridacchiò Leonardo.
-… Che nome darete a quest’opera?- chiese colpito il ragazzo, mentre con le dita carezza la grezza pergamena di un antico schizzo.
Leonardo ci rifletté allungo. –Il disegno che hai tra le mani è molto rozzo, e sta sbiadendo. Voglio che questo dipinto resti integro e bello nel tempo, assicurando ad altri, magari i figli dei tuoi figlii, carissimo Ezio, di godere di tale bellezza così come oggi stai facendo tu- arrise. –Per quanto sta al nome che intendo darle, bhé… guardala tu stesso, e regalami il tuo primo pensiero- gli sorrise felice.
-Sono confuso, maestro… perché…- fece per chiedere.
-Consideralo come un dono per te da parte mia, Ezio- sorrise Leonardo incrociando le braccia. –Anche un ceco vedrebbe nei tuoi occhi quello che sto vedendo io- si beffò.
-E cioè?- domandò curioso il giovane ripiegando il vecchio schizzo e portandoselo in una tasca del pantalone.
-L’amore- disse il saggio Leo.
-Vi sbagliate, io…-.
-Ho come l’impressione che conosci già questa fanciulla, sai?- pronunciò pensoso Leonardo camminando attorno al ragazzo. –Come se l’avessi già incontrata da qualche parte, in qualche tempo…- blaterò.
-Sciocchezze. È solo molto bella, e come l’avete ritratta voi…- s’interruppe. –Lo è ancora di più-.
Leonardo si strinse nelle spalle. –Come preferite. Ma mi auguro che un giorno tu abbia l’occasione di rincontrarla-.
-È frutto della fantasia di un pazzo- sbottò Ezio voltandosi. –Quella donna non esiste- eruppe severo. –E il disegno non io lo feci. Non conosco questa donna-.
-Contento per te che ne sei così certo, vorrà dire che darò il quadro come pegno di fortuna a qualcun altro-.
-No!- si girò di colpo.
Leonardo inarcò un sopracciglio. –Dite- fece calmo.
-Il quadro, vi prego, datelo a me. Apprezzerei moltissimo- sorrise il ragazzo.
-Dammi il tempo di finirlo- prese fiato il vecchio tornando seduto. –E sarà tuo- dichiarò.
-Vi ringrazio- chinò la testa.
-Non ringraziare me- rise l’anziano. –Ma il pazzo che il disegno creò!-.
Ezio si avviò fuori dallo studio tondo. Ma una volta sulla porta, si fermò. –Mastro Leonardo- chiamò voltandosi.
-Dite- proferì disponibile, dando una nuova fina pennellata al quadro.
-Timidezza- disse Ezio.
Leonardo aggrottò la fronte. –Fate riferimento al dipinto?- chiese.
-Sì, maestro- sorrise lui. –Timidezza, ella trasmette timidezza, per parer mio-.
-E “Timidezza” sia, dunque- gioì il vecchio. –Fate posto sulla bianca parete della dimora vostra, Auditore-.
-Una tale rarità non andrebbe messa alla mercé di vani occhi, mio signore- ridacchiò il giovane calandosi il cappuccio sul volto.
-Ezio- chiamò prima che potesse mettere un solo piede fuori dall’uscio di casa.
-Sì?-.
-A voi questo dipinto non piace- eruppe l’anziano.
Il ragazzo stette interdetto. –Perché dite questo?…-.
-Voi ne siete del tutto innamorato!-.
-Vecchio pazzo…- borbottò Ezio lasciando lo studio e chiudendosi la porta alle spalle.
Da Vinci scoppiò allora in una fragorosa risata.
Il dipinto fu pronto pochi mesi più tardi, ma alla morte dell’artista, dopo che Ezio lo tenne con sé allungo, non venne più ritrovato.

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.:}*{:. THE .:}+{:.
.:}+{:.    END     .:}*{:.
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Quando immaginai questa storia (ovvero quando pensai a come e cosa avrebbe fatto e combinato Altair nel futuro come assassino e uomo medievale) pensavo di trarne qualcosa di comico e assolutamente meno sentimentale ed esplicito. Ma fin dai primi capitoli, ho riscontrato delle cosiddette difficoltà nel plasmare i due protagonisti delle vicende (Giorgia e Desmond) in modo meno romantico e serio, tramutandoli in qualcosa di più spiritoso. Alla fine non ci sono riuscita, ma non nego affatto che i risultati sarebbero stati dei migliori, anzi! Un’altra delle ff che mi hanno accompagnata nel terzo anno di medie volge al termine, e senza avvertire nessuno questa volta! X°°°°D Forse non sarei dovuta essere così crudele, chissà quanti di voi si aspettavano che sarebbe durata di più. Personalmente pur io immaginavo di poter continuare, di poter approfondire qualcosina sulla permanenza di Giorgia nei laboratori dell’Abstergo, ma come mio solito, mi è sembrato giusto terminare così, con un finale emozionante nel presente, ma ancora di più nel passato!
Sì, insomma…
<.<
Quanti di voi hanno capito che la ragazza che ritrae Altair è Giorgia? E quanti di voi hanno capito che il disegno si è tramandato nei secoli fino ad arrivare ad Ezio, così da poter sicuramente assicurare un sequel a questa ff? Quanti di voi, avanti? X°°°D
Il finale è davvero poco esplicito e romanzato al massimo, e questo mi duole, ma a parte il fatto che anche il ricordo di Altair che aveva per Giorgia si è tramandato fino ad Auditore de Firenze, bhé… Sembra un po’ assurdo, ma insomma, avanti, si è capito che Altair era innamorato di lei, no? Ecco.
Volevo chiarire questo punto soltanto, ammettendo le mie e le colpe dell’assassino OOC che ho creato: sì, lui l’amava, ma non l’avrebbe mai e poi mai strappata al suo pro-pro-pro nipote in un modo a tal punto egoista. Questo è il motivo per il quale questa storia si conclude così, ma ribadisco: il sequel ci sarà, e questa volta a creare pasticci non sarà niente popò di meno che…. Ooooooh! E vabbé, sì, lui, Ezio! XD
Quindi possiamo concludere dicendo che il finale lascia pensare a male!XD Molto male!
La mia fantasia già va avanti per conto suo da quando scrissi questo capitolo in Grecia, una 30 di giorni fa. La stessa sera dell’arrivo mi sono messa subito all’opera per questa storia, avendo già in mente di finirla in tale modo. Ovviamente me bastarda non ha detto nulla a nessuno! XD Ma meglio così.
Ora i ringraziamenti, e poi attenderò paziente le vostre recensioni, sperando che questi ultimi due capitoli siano stati (non esaurienti: 4 pagine ciascuno -.-‘) ma… belli, ecco.

È stato bello scrivere questa storia.
E sarà bello continuare a scriverne delle altre.
Un abbraccio a tutti!

  Elika95


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