Always Changing - Il passato nel presente di cartacciabianca (/viewuser.php?uid=64391)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo, andata e ritorno ***
Capitolo 2: *** Sintomi... ***
Capitolo 3: *** Preludio ***
Capitolo 4: *** L'assassino ***
Capitolo 5: *** Disperazione ***
Capitolo 6: *** Caricamento ***
Capitolo 7: *** Un forte bisogno ***
Capitolo 8: *** Questo è il futuro ***
Capitolo 9: *** Il kebab newyorchese ***
Capitolo 10: *** Un pugno chiuso ***
Capitolo 11: *** Sogno di tempesta ***
Capitolo 12: *** Il non ritorno ***
Capitolo 13: *** Patti chiari, amicizia lunga ***
Capitolo 14: *** In fuga da tutto, parte 1° ***
Capitolo 15: *** Tentativi ***
Capitolo 16: *** Incontri ***
Capitolo 17: *** Ospiti ***
Capitolo 18: *** Nel suo corpo, e nella sua mente ***
Capitolo 19: *** Dubbi di un'amara verità ***
Capitolo 20: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 21: *** Pazzia ***
Capitolo 22: *** Il piano ***
Capitolo 23: *** In fuga da tutto, parte 2° ***
Capitolo 24: *** Prigionia di promesse ***
Capitolo 25: *** Epilogo, Dolci Quadri ***
Capitolo 1 *** Prologo, andata e ritorno ***
Andata
e ritorno
Il
sole entrava dalla finestra violento, ignorando le tende che mi ero
dimenticata di arrotolare per bene. Il silenzio di quella stanza era
diventato fastidioso, ma a rallegrarmi giunse alle mie orecchie il
miagolio di Finger. Il gatto nero si lamentava affamato strusciandosi
contro la porta accostata della camera da letto. Guardai
all’orologio sul comodino che segnava le 8 di mattina e
sorrisi.
Mi
stiracchiai tra le coperte, allungando un braccio nel vuoto alla mia
destra. Accarezzai le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino
senza pieghe, strinsi il piumone tra le dita. Da lì a poche
ore non avrei più sofferto: mi eri mancato tanto. Mi erano
mancati il tuo sorriso, la tua allegria, le tue battutine la mattina e
il tuo orribile caffè. Da lì a poche saresti
tornato da me, tra le mie braccia, e avrei rivisto il tuo corpo
perfetto riflettersi nello specchio del bagno, mentre ti facevi la
barba. Dio, mi ero sentita dilaniare in quegli ultimi mesi. Parlare con
i nostri amici e sentirmi chiedere come stavi, o dove fossi finito. Ma
io non potevo rispondergli.
Mi
sollevai col busto, sedendo a gambe incrociate sotto le coperte.
Guardai il cielo azzurro fuori dalla finestra, ammirai il panorama di
New York e contai i suoi mille grattacieli luminescenti.
Quale
sarebbe stata la tua espressione nello scrutare la strada chiassosa
sulla quale affacciava il nostro appartamento?
Chissà
se ti saresti ancora lamentato di quanto il materasso fosse duro, ma
l’avevamo scelto insieme, tu mi avevi assecondata nel dirti
che lo preferivo così; e il mio animo spartano ti era sempre
piaciuto. Tu mi amavi, tu eri il mio piccolo grande eroe, il mio
barista preferito, la nocciola caduta nel cioccolato della mia vita.
-Miao-
piagnucolò Finger, e subito dopo balzò sul letto
infilandosi tra le mie gambe accavallate.
Lo
accarezzai fino alla punta della coda. Era il nostro gatto. Si chiamava
Finger perché mia zia aveva chiamato suo fratello James
Bond. Gold Finger era suo fratellino minore, ora il nostro gatto
nominato Finger per approssimazione. Una grattata dietro le orecchie:
il pelo lucido e nero, i baffi stirati e lucidi, gli occhi giallo
elettrico e le sue fusa infinite. Soffriva anche d’asma ogni
tanto, e mi ricordavo bene di come ti piacesse prenderlo a calci quando
tossiva palle di pelo nella stanza da letto. Nella nostra stanza da
letto.
Strinsi
il gatto a me e scivolai sul bordo del letto. Poggiai i piedi scalzi a
terra e mi sollevai sulle mie gambe con la bestiaccia poggiata su una
spalla.
Finger
si divincolò dalla stretta e si lanciò sul
pavimento di legno chiaro, scappando verso il salotto.
Sospirai,
osservando il mio riflesso sul vetro della grande finestra.
I
capelli ondulati, castano scuro, mi cadevano sulla schiena. Non erano
molto lunghi, ed eri stato tu a suggerirmi di tagliarmeli.
Sì, me li ero tagliati, ma otto mesi prima… ora
erano ricresciuti. Le mie labbra chiare e allungate in un sorriso
malinconico, i miei occhi stanchi che ti immaginavano lì al
mio fianco, che mi stringevi a te. Mi mancavi tanto… poche
ore, mi ripetevo, potevo resistere.
Il
mio corpo sentiva la tua mancanza peggio del mio animo. Sì,
scommetto che lo senti anche tu, pensai: le tue carezze timide sul mio
collo, le tue labbra sulle mie. Ragazzo, quanto mi mancavi! Lo gridai
in me tante volte, l’avevo gridato tante volte. Ma tu non
potevi sentirmi, chiuso nella stanza in cui ti tenevano prigioniero.
Andai
in bagno. La tavoletta del gabinetto era abbassata. Risi,
perché ricordavo ti piacesse indispettirmi lasciandola
apposta alzata. I tuoi asciugamani erano rimasti gli stessi e dove li
avevi lasciati senza utilizzarli per otto mesi, raggruppati sulla
mensola in modo casuale e disordinato. Un’occhiata
alla doccia. Potevo sentirla scrosciare di quando c’eri tu
dentro ed io ti preparavo la cena in cucina. Mi ricordai di quanto ti
piacesse girare per casa con solo l’asciugamano allacciato
alla vita a coprirti. Ti vantavi dei tuoi muscoli e mi ronzavi attorno
come se stessi tentando di abbordarmi come la prima volta. Che stupido,
ero stata io a sudare per farmi notare da te, che prima
d’incontrarmi eri così altezzoso e con la testa
tra le nuvole, sognando roba da ragazzini come una macchina lussuosa e
tante donne. Io ero la tua unica donna, la tua ragazza preferita, e tu
con me avevi condiviso tutto, ogni parte di te e di quello che la tua
ignota famiglia ti aveva lasciato. Io, in cambio, ti avevo trascinato
in casa un gatto che scattava al miagolio sulla mezza notte circa.
Finger
saltò sul lavandino e cominciò a fissarmi con le
sue pupille sottili. M’implorava di dargli da mangiare, ma
non si aspettava che lo facessi: ero molto stronza, a riguardo. Eppure,
ero certa che la sua ciotola in cucina fosse ancora piena di
croccantini. E l’umido costava un botto di soldi.
C’era
il tuo spazzolino accanto al mio, e avevi la mania di usare il mio
stesso dentifricio costringendomi ad usare il tuo quando il nostro
prediletto finiva. Quanto eri stupido, ed erano i tuoi atteggiamenti
trasandati e ottusi che mi facevano impazzire di te. Mi mancavi.
Perché
non riuscivo a sentirti vicino quando sapevo che tu percepivi lo stesso
di me? Perché le nostre menti erano così
distanti, nonostante entrambe fossero in astinenza
dall’altra? Eravamo come i gemelli.
Cominciai
a spogliarmi della canottiera nera e dei pantaloni bianchi del pigiama,
ripiegando tutto per bene.
Entrai
nella doccia… l’acqua calda chiamava il dolce
ricordo di quando l’avevamo fatto in quello stretto spazio
chiuso da due pareti di plastica. La violenza del getto mi pungeva la
pelle, la condensa oscurò lo specchio e Finger
scappò nel corridoio di corsa.
Terminato
il lavaggio, mi avvolsi nell’asciugamano bianco e raggiunsi
la cucina.
Misi
l’acqua calda sul fuoco, preparai la tavola per uno
afferrando una tazza dagli scaffali in alto, accanto ai fornelli.
Quando il bollitore prese a fischiare, mi stavo asciugando i capelli
col phon nella nostra stanza da letto. Staccai la spina poco
soddisfatta della pettinatura, e corsi a prepararmi il the.
Immersi
la bustina nell’acqua calda che avevo versato nella tazza e
accompagnai la colazione con alcuni biscotti.
Finger
balzò sul tavolo, avvicinandosi al biscotto vicino al mio
gomito. Annusò con cautela prima di allungare la lingua, ma
lo fermai in tempo gridando: -Micio! No!-.
Il
gatto fuggì dietro al divano del salone.
Che
silenzio assurdo. Avevo voglia della tua presenza, un gatto o un cane
non mi bastavano! Era come desiderare un videogioco nuovo…
Mi
guardai attorno. Ti desideravo seduto su uno dei due divani sistemati
ad U accanto alle vetrate e davanti alla televisione. Oppure a giocare
alla play station tranquillo e sorridente. Ed io avrei voluto essere
lì a sfidarti a Resistence. Erano otto mesi che non toccavo
joistik, spazzavo regolarmente le ragnatele, ma quando fossi tornato
avrei dovuto regalarti l’ultima uscita Sony. Ormai la nostra
console sapeva di vecchio.
L’ingresso,
oltre il quale erano passati pochi corpi incluso il mio. Avevo cercato
di consolarmi invitando quanti più conoscenti abitavano
ancora questo distretto della città. Ero finita per
deprimermi al meglio, perché senza di te non c’era
mai stata la vera festa. Anche quando organizzavi dei party al pub e tu
eri quello che si era sentito male la sera prima. Io ti restavo
accanto, come un’infermiera, ma ricevevo chiamate continue
dei nostri amici che si lamentavano di quanto il servizio al bar fosse
scadente senza di te. Loro ci scherzavano, ci ridevano quando ti
portavano i loro saluti mentre tu eri sdraiato a letto con la febbre.
Sì, mio caro, sapevamo bene entrambi che ti piaceva uscire
con indosso solo il tuo giubbotto anche a –20°. Eri
un folle, eri la mia pazzia.
Che
tristezza mi facevano quei quadri della mia famiglia. Guardarli senza i
tuoi commenti sfacciati sul volto del mio trisavolo era come fissare il
vuoto dell’oceano. Mi ci perdevo, negli occhi della mia
famiglia, come mi perdevo nelle foto sui mobili. Mi arrampicavo su di
esse scivolando da un ricordo ad un altro della nostra adolescenza che
non sarebbe mai finita. In quelle foto, dove c’eravamo solo
io e te, amavo perdermi, ma con te affianco. Eri un tipo superficiale,
non davi certo ascolto alle mie parole di scrittrice di romanzo quando
rovesciavo dalla prosa la nostra vita. Amavo rinfacciarti
l’aspetto poetico del nostro amore e tu, come tuo solito,
sbuffavi; per poi abbracciarmi e baciarmi con voracità.
Avevo
voglia dei tuoi baci, dei tuoi tocchi rabbiosi su di me quando ti
facevo arrabbiare. Sì, sì. Era deciso: non appena
fossi tornato a casa, ti avrei fatto incazzare di brutto. tu mi avresti
gridato contro, ma saremmo comunque finiti a farlo sul tappeto del
corridoio.
Terminata
la silenziosa bevuta e la raccolta della mia vita, mi alzai, gettando
la tazza nel lavandino e allungandomi verso la nostra stanza.
Mi
vestii in fretta, notando che tirando un pensiero dopo
l’altro si erano già fatte le 11 di mattina.
Ripiegai
il letto con cura. Quella notte mi sarei addormentata su di te, cosa
che in quegli ultimi otto mesi non avevo fatto altro che sognare.
Sbattei
i cuscini e spiegai per bene il copri letto, accertandomi che non ci
fosse alcuna piega se non quelle che causò Finger
accoccolandosi sul tuo cuscino.
Corse
letteralmente nel corridoio. Una volta all’ingresso, mi
avvolsi del mio cappottino nero e presi le chiavi di casa cacciandomele
nella tasca dei jeans scuri assieme al cellulare.
Quante
volte avevo provato a chiamarti ma non mi era stato concesso parlarti?
E perché? Oggi avrei saputo la verità su di te e
su cosa ti era successo, giurando sulla mia fedina penale e la mia
stessa vita che non avrei rivelato nulla a nessuno.
C’era
un biglietto di cartoncino bianco sopra la posta. Conoscevo bene quel
biglietto, e anche il marchio argentato che vi era sopra.
Lo
strinsi tra le dita, girandolo.
02/04/2013
Ore
12.30
Freedom
Way (NY)
Ti
ridaremo il ragazzo
Ero
spaventata.
Freedom
Way, davanti a Liberty Island. C’era un parcheggio,
l’avevo visto su google maps. Era piuttosto lontano, ma mi
ero studiata per bene la strada di andata e ritorno.
Uscii
di casa, battendomi nervosamente il cartoncino sulla coscia.
Quei
pazzi mi avrebbero ridato il mio Desmond.
Mi
parcheggia attenta tra le strisce bianche. Arrestai il motore, e fui
certa che anche il mio cuore aveva perso un colpo.
C’era
un’auto nera parcheggiata lontano da tutte le altre vetture,
compresa dalla mia. Era una 4x4 spaziosa dai finestrini oscurati.
Scesi
e chiusi la portiera nel più silenzio possibile. Il
cartoncino nella tasca dei pantaloni mi pareva stesse prendendo fuoco
per quanto ero terrorizzata.
Mossi
i primi passi in quella direzione, sotto il sole cocente del
mezzogiorno. Dei bambini facevano il giro del quartiere in bicicletta,
un gruppo di adulti si stavano fumando una sigaretta ciascuno
appoggiati al muro dell’edificio alle spalle mie spalle.
Per
te avrei fatto qualunque cosa, anche puntare contro ai tuoi rapitori
un’arma. Perché non ci avevo pensato prima?!
C’era una 9 millimetri nel cassetto del comodino accanto al
tuo lato del letto. Desmond, sto venendo a prenderti, a mani nude, ma
sto venendo e vorrò sapere tutto quello che ti è
successo, così da far bollire in me il doppio della rabbia
che ho tenuto dentro in tutti questi mesi.
La
porta del passeggero della jeep si aprì, ne uscì
un uomo in giacca e cravatta nera che venne verso di me con una
valigetta stretta nella mano.
Indietreggiai,
spaurita.
L’uomo
indossava degli occhiali da sole, le scarpe linde ed impeccabili. Mi
porse la valigetta e io l’afferrai tremante. –Alex
Viego?- domandai in un sussurro.
L’uomo
annuì, e mi strinse l’altra mano. –Nella
valigia troverà i suoi effetti personali. Desmond Miles
è stato utile al Paese, Signorina Forks- sorrise.
-Dov’è?-
lanciai un’occhiata alle spalle di Alexander.
-Oh,
il mio assistente gli sta illustrando le ultime novità-
disse. –Pazienti ancora qualche istante-.
Non
diedi ascolto alle sue parole, piuttosto feci scattare le serrature
della valigia.
Dentro
il piccolo bagaglio c’erano dei quaderni, dei libri, qualche
penna e dei fogli scarabocchiati. Se il mio Desmond si era messo a
leggere, voleva solo dire che si era annoiato parecchio.
C’era
una foto che riconobbi bene, buttata lì come gli altri
oggetti e stropicciata. Eravamo noi sull’ingresso del tuo
bar, con i nostri amici attorno. Tu sorridevi stringendomi sotto
braccio. A quel tempo non stavamo ancora insieme, ma eravamo grandi
amici. I migliori amici…
Mi
vennero le lacrime, ma cercai di trattenermi, richiudendo la valigia di
fretta.
Voltandomi,
mi luccicarono gli occhi.
Eri
tu, che venivi verso di me e il signor Viego con il tuo solito passo
neutrale. Il tuo viso scuro, il tuo mento perfetto e il naso che
più volte aveva sfiorato il mio si avvicinavano. Oh,
Desmond, vederti sorridere nel notarmi mi fece fare un tuffo in
Paradiso. Indossavi gli abiti con cui ti avevo visto l’ultima
volta: la felpa bianca, candida e i tuoi soliti jeans. Per otto mesi
con gli stessi vestiti, non m’importava quanto avrei dovuto
strofinarti la schiena per farti tornare pulito!
Mi
lasciai scivolare di mano la valigia e ti corsi incontro trattenendo il
fiato.
A
pochi passi da te, spiccai un balzo e mi appiccicai al tuo collo.
Colto
alla sprovvista, facesti un passo indietro riacquistando
l’equilibrio.
Sospirai
quando le tue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi e le tue
mani mi accarezzarono la schiena. Mi erano mancate quelle mani.
Profumavi,
e mi avvinghiai con più forza a te facendo aderire
completamente il mio corpo al tuo. Immersi il viso accaldato
nell’incavo del tuo collo, inspirando a fondo
l’odore della tua pelle. –Desmond…-
sussurrai il tuo nome nelle lacrime, affondando le unghie nella stoffa
della felpa. Riuscii a crederci a stento.
-Ciao,
piccola- dicesti tu, spingendo la tua guancia contro la mia fonte.
–Mi sei mancata- aggiungesti, e ascoltai la tua voce tremare
dalla commozione almeno quanto la mia.
-Anche
tu!- e a quel punto scoppiai a piangere, davanti a te e a quel certo
Alex Viego che si allontanava verso la macchina. L’uomo
rimontò in sella e la 4x4 scomparve su Freedom Way.
Già… la via della libertà.
-Sono
libero!- gioisti tu guardandomi negli occhi. –E…
voglio raccontarti ogni cosa- t’incamminasti e raccolsi la
valigia con i tuoi effetti personali.
Mi
passai la manica della giacca sul volto, asciugando l’acqua
che calava sul mio volto. –Sì, lo vorrei tanto!-
sbottai in un misto di divertimento e paura.
Tu
mi stringesti ancora, fin quando non ci accertammo entrambi che quello
non fosse un sogno.
Mi
tenesti sottobraccio nel raggiungere la mia macchina, e ti accomodasti
al volante.
-Otto
mesi di merda- borbottasti, ed io pensai la stessa identica cosa nel
guardarti mettere in moto.
I
tuoi occhi incontrarono ancora i miei, ma avevi un atteggiamento
diverso, uno sguardo che non seppi decifrare. Cosa volevi intendere
fissandomi così? Perché durante tutto il tragitto
verso casa non mi rivolgesti più la parola? Stavi forse
mettendo in ordine le idee? Come avrei potuto aiutarti? Desmond, io
volevo sapere cosa ti era capitato! Ma soprattutto, sapevo che dopo
quello che ti era successo saresti radicalmente cambiato. Nonostante
ciò, avrei lottato con le unghie per riaverti come ti
ricordavo e come ti avevo amato. Desmond, non voglio allontanarmi da te
a causa di questo ignoto Progetto Animus di cui so poco e niente.
Desmond, raccontami! Ma tu non dicesti nulla, neppure quando salimmo
nel nostro appartamento e tu ti guardasti attorno come non riconoscendo
dove ti trovavi.
Sperduto
come un bambino che cammina per la prima volta, ti aggiravi per la casa
tentando di riacquistare familiarità coi sapori di dolcezza
che avevamo passato assieme tra quelle mura.
Io
ti osservai in silenzio, appoggiata alla parete del corridoio
con le chiavi e il cellulare ancora nella tasca dei
pantaloni, ripensando al cartoncino che il giorno seguente avrei
bruciato per strada.
Finger
venne a strusciarsi sulla tua gamba, e tu lo issasti tra le tue
braccia. Lo accarezzasti poco e lo riappoggiasti a terra.
-Ti
prego- ti venni vicino. –Ora devi dirmi tutto. La notte non
chiudevo occhio e ogni giorno, pesandoti lontano quando il sole
brillava nel cielo, la mia paura cresceva. La gente implicata in queste
storie non ne esce mai viva!- balbettai, e la mia pena ti fece
avvicinare a me, così che il tuo corpo avvolse ancora una
volta il mio.
-Fai
bene ad avere paura di questa gente- mi sussurrasti
all’orecchio. –Per tornare qui ho
dovuto… fare quello che non credevo possibile-.
Io
mi scansai da te lentamente, colpendoti col mio sguardo confuso.
Tu
proseguisti: - Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’anno
fatto. Al posto della mia vita, li ho messo nelle mani quella di
qualcuno più importante. Una spia infiltrata nel progetto.
Lavorava come segretaria all’uomo che si occupava di me e di
quello a cui servivo. Si chiamava Lucy. Lei non aveva nessuno, io avevo
te. Raccontando che Lucy era il pezzo grosso di
un’associazione… clandestina, quelli del progetto
l’hanno presa e sbattuta chissà dove se non
ammazzata. È stata lei a chiedermelo, è stata lei
ad offrirmi la libertà. Le dobbiamo tutto questo
entrambi…- dicesti serio.
Restammo
in silenzio, perché non c’era molto da dire. Forse
domandare oltre non era una buona idea, mi dissi, perché il
mio ragazzo mi sembrava stanco.
-Ora
scusa, davvero…- mi dicesti sfiorandomi la guancia appena.
–Non… mi sento… bene- andasti verso la
stanza da letto, muovesti dei passi verso le lenzuola e ci crollasti
sopra di schiena. Ti sfuggì un sospiro di sollievo, come se
le tue giovani gambe da bambino non fossero più in grado di
portarti oltre. Desmond, avrei voluto che mi dicesti di più,
ma potevo capirti bene. Eravamo sconvolti, entrambi, e questo avrebbe
pesato per sempre sulla nostra vita che non sarebbe più
stata la stessa.
-Vuoi-
mi appoggiai all’ingresso della camera, e tu sollevasti poco
il viso verso di me.
-Hmm?-
domandasti con gli occhi.
-Vuoi
che ti prepari qualcosa da magiare? O un the… insomma, ti
vedo… sciupato- ti confessai e tu, per mia sorpresa,
annuisti, dandomi l’ordine di andare in cucina e lasciarti da
solo.
Eri
alla mia portata, e non volevo di già allontanarmi da te!
Desmond, eri davvero capace di farmi questo? Non mi leggevi nel corpo e
nell’animo che avevo bisogno di molto di più! Ed
io, egoista, non avevo pietà di nessuno di noi. Ti prego,
perdona la mia impazienza, ma da lì a poche ore sarebbe
accaduto molto altro.
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Capitolo 2 *** Sintomi... ***
Sintomi...
Ti
portai il the su un piccolo vassoio di legno, ma entrando nella stanza
e cercando di essere il meno rumorosa possibile, mi accorsi che ti eri
appisolato in silenzio, curvo in una posa innaturale e forzata. Avevi
un braccio sotto il cuscino, il volto girato di lato e la schiena
contorta.
Poggiai
il vassoio sul comodino, ti guardai allungo dall’alto mentre
le tue palpebre chiuse sussultavano per il sogno tormentato che stavi
facendo. Ero in pena per te, Desmond, e mi sentivo in colpa per come
avevo pensato solo a me stessa e ai miei dolori in questi ultimi mesi.
Mi dispiaceva davvero vederti in quello stato, ma cosa potevo fare per
farti sentire meglio se preferivi dormire rinnegando la mia compagnia?
Stavo
per voltarmi e uscire dalla camera, avendo altro cui dedicare del
tempo, quando ti movesti appena, facendo scivolare le lenzuola e io
tornai a guardarti, sorridendo nell’accorgermi che i tuoi
occhi mandorlati mi stavano squadrando dal basso all’alto.
Ti
girasti verso il comodino, sopra il quale era poggiato il the fumante
e, allungando le tue labbra scure in un sorriso, mi donasti la tua
gratitudine.
-Come
ti senti?- ti chiesi, torturandomi la pellicina del pollice destro.
Tu
ti sollevasti di poco, poggiando la schiena al muro, sedendo tra i due
cuscini, disfacendo il letto ulteriormente. Avevi indosso ancora le
scarpe, e sapevi bene quanto la mia mania della pulizia ordinasse
l’esatto contrario.
Notasti
la mia espressione contorta e avvilita, decifrasti i miei occhi che ti
rimproveravano e ti tolsi le Adidas bianche e nere lasciandole cadere a
terra. –Vieni qui- mi dicesti, spalancando le braccia.
Accolsi
l’invito, ne fui avida, e una volta al tuo fianco, mi adagiai
completamente sulla tua spalla, nonostante fossi tu quello che
più bisognava di sostegno.
Stringesti
la mia nella tua mano, avvolgendomi come fossi un orsacchiotto da
stringere. Ed io adoravo quando tu mi possedevi in quel modo
così protettivo. Eri tornato, ed io non ti avrei
più permesso di partire.
Chiudendo
gli occhi, passai le labbra sul tuo collo, risalendo il tuo profilo
perfetto. Però tu restavi rigido, duro anche quando
raggiunsi l’angolo della tua bocca e tu non accompagnasti i
miei gesti. Mi stavi forse rifiutando? Desmond, così mi
facevi male…
-Che
ti prende?- domandai facendo scivolare una mano sul suo petto,
accarezzandolo.
Tu
neppure mi guardavi. Avevi piantato lo sguardo dritto davanti a te e
avevi aggrottato la fronte, sulla quale erano comparse delle goccioline
di sudore. Non credevo di farti quell’effetto…
-Qualcosa-
mormorasti tu tremando. –La testa… mi pulsa-
aggiungesti spaventato.
Alzai
il braccio e stesi il palmo sulla tua fronte. Eri bollente.
–scotti- ti dissi, e la tua reazione fu la solita.
-Allora
accetto il the… e ti sarei grato se…- non
riuscisti a terminare la frase, che ti piegasti da dolore premendoti le
tempie.
A
quel punto scattai in piedi. –Desmond!- ti gridai, cercando
di alleviare il dolore che neppure potevo immaginare tu stessi patendo.
–Desmond, chiamo un medico- disse, ma tu mi fermasti
afferrandomi per il polso.
-No!-
sbottasti. –è una delle condizioni al
mio… rilascio. Niente medici… hanno detto
così!-.
Ero
nel panico, e vedere delle vene bluastre pulsare sul tuo collo mi
agitava. Avevo modo di vederti così solo quando ti
arrabbiavi, ma ora non eri arrabbiato. Desmond, che cosa ti hanno fatto?
Era
sull’orlo tra pianto isterico e andare a caccia del telefono
più vicino, ma i tuoi lamenti cessarono
all’improvviso e vidi il tuo corpo tornare tranquillo e la
tua presa sul mio polso allentarsi.
-Scusa,
non ho idea di cosa… mi sia preso- borbottasti in maniera
confusa.
Mi
adagia di nuovo accanto a te. –Ti prego, lascia che chiami
qualcuno almeno…- ti supplicai terribilmente persa nel mio e
nel tuo dolore.
Tu
scuotesti la testa prendendomi per le braccia e issandomi sopra di te.
–Lascia stare… ora sto bene- mi dicesti
tranquillo, e sul tuo volto comparve un sorriso sereno.
Ero
a cavalcioni sul tuo basso ventre, e tu m’inchiodasti con un
bacio esattamente in quella posa. La tua lingua si fece largo sfiorando
la mia, le tue labbra dilaniarono la mia bocca.
Allentasti
la stretta sulle braccia e facesti scorrere le tue mani fino alla
maglietta che indossavo. Ne sollevasti i lembi e in breve mi spogliasti
del tutto, lasciandomi solo col reggiseno bianco.
Avevo
paura che ti potesse succedere di nuovo quello appena avvenuto. Cosa ti
era capitato? Avresti voluto che scendessi a comprarti un moment,
oppure qualcosa di più efficace o specifico? Se i signori
che ti hanno scagionato non vogliono che tu ti sottoponga ad alcuna
visita medica, allora sei malato di qualcosa che vogliono nascondere,
pensai. E finalmente riuscii a sfilarti la felpa e la maglietta assieme.
Mi
accarezzasti nostalgico le braccia nude, facendo correre le dita anche
sul mio pancino, atto che mi provocò un solletico assurdo.
Sussultai, e tu te n’accorsi.
Arrestasti
il bacio senza che nessuno te l’avesse chiesto e prendesti a
fissarmi. –Quanto tempo- sorridesti malizioso.
Io
mi lanciai di nuovo su di te, avvolgendoti il collo con un abbraccio.
–Otto mesi di merda- ti mormorai all’orecchio.
Mi
stringesti con più vigore, percependo i miei seni poggiati
sul tuo petto nudo. Ti dovevo essere mancata da morire,
perché capovolgesti la situazione con un gemito.
Riprendesti
a baciarmi con passione, gettando in quell’approccio tutti i
tuoi ricordi delle nostre ultime notti assieme. Era un po’,
dopo tutto, che non facevamo pratica. T’infilasti tra le mie
gambe e mi scappò un sospiro nel sentirti di nuovo
così vivo su di me.
Le
tue labbra si spostarono al mio collo e andarono a divorarmi pezzo per
pezzo fino a raggiungere la sfaccettatura del seno. Ma non ti fermasti,
scendesti ancora cogliendo tra i tuoi baci il mio ombelico e la pelle
chiara dei miei fianchi.
Io
ti guardavo commossa, con gli occhi lucidi. –Desmond-
sussurrai il tuo nome, e tu mi sfilasti i pantaloni in pochi secondi.
-Che
c’è?- tornasti all’altezza del mio viso
percorrendo la tessa strada dell’andata.
Io
ero troppo preoccupata per te, non potevo lasciar correre, capisci?
I
tuoi occhi mi scioglievano come un ghiacciolo al sole, e le tue dita mi
accarezzavano la cosca nuda.
-Dimmi
che stai bene…- ti sussurrai, e tu notasti di stupore le
lacrime che mi salivano agli occhi.
Mi
guardavi sperduto in chissà quale bosco dei tuoi ricordi,
ripensando a chissà quale sostanza o corrente elettrica era
passata da parte a parte del tuo bel corpo mentre sostavi al tuo dovere
di cavia. Il bello era che non volevi accettare l’evidenza,
schierandoti nel campo di coloro che ti avevano fatto del male. Mi
deludevi…
-Di
cosa hai paura, scusa? Non ho mica preso l’AIDS- ridesti, ma
era una battuta bastarda dentro e già mi avevi fatto passare
la voglia.
-No,
scemo!- mi sollevai, sedendomi alla tua stessa altezza. Mi strinsi le
ginocchia al petto. –Non negare che poco fa… non
eri in te- ti dissi.
Tu,
di fatti, non negasti. –Hai ragione, ma è uno
dei… sintomi al trattamento. Vedrai, col tempo sene
manifesteranno altri ma saranno temporanei e andranno a diradarsi
più sto lontano da quel posto- ti allungasti verso di me, mi
stringesti ancora ed io mi adagiai a te. –Non preoccuparti,
non ce n’è motivo…- mormorasti soave, e
la tua bocca trovò la mia nonostante io l’avessi
nascosta nell’incavo del tuo collo.
Non
riuscii ad avvicinare le mani al tuo corpo, perché ti
sentivo e ti percepivo cambiato, così ti sfilasti da solo i
pantaloni. Fu inevitabili che ti chiedesti come mai non avevo osato,
ebbene eccoti la risposta: mi stavi mentendo. Sapevo che questo fatto
ti avrebbe tinto dal rosso al blu, ed io non avrei apprezzato questo
cambiamento. Malgrado mi stessi preparando a subirne le conseguenze,
quali una possibile “pausa di riflessione”, il
nuovo colore che percepivo in te era una tonalità tutta
nuova di ombre chiaro scure. Una presenza lontana, come distante.
Un’ombra del tuo passato che sta aspettando quieta in un
angolo del tuo corpo. Desmond, prima che questo vada avanti, vorrei
perlomeno avvertirti di questo, ma sono certa che tu non mi crederesti.
Eppure, mi avevi promesso di parlarmi di tutto, di raccontarmi con
precisione cosa ti avevano fatto e perché. Desmond, non
voglio segreti con te, quindi ti supplico, mi concederò a te
solo se saprai rispondere alla mia domanda… la mia forza di
volontà fu minima e insufficiente.
Non
ci amammo quella notte, ti ricordi? Io ero distrutta e mi accontentavo
di dormirti al fianco come facevamo tutte le notti da prima che
sparissi. E tu altrettanto, dicesti ridendo che era stato divertente
solo levarmi di dosso i vestiti. Così mi ero adagiata tra le
tue braccia che mi tenevano salda e avevo incrociato una mia con una
tua gamba. Entrambi eravamo con indosso solo la biancheria, ma infondo
faceva un gran caldo. L’inverno se n’era andato da
poco, marzo portava la sua primavera moderata, e io non avrei mai
scordato quella data per tutta la mia vita. Né il giorno
della tua scomparsa né quello della tua ricomparsa. Eppure,
durante il sonno dovetti allontanarmi da te diverse volte,
perché ti agitavi come un forsennato. Ti sbattevi a sinistra
e a destra del letto costringendomi a piccoli spazi sul bordo; spesso
ti avvolgevi a me come cercando di tranquillizzarmi e per una o due ore
c’era silenzio. Poi riprendevi a lamentarti nel sonno,
parlavi, dicevi cose senza senso e mi parve pure di cogliere un accento
arabo e riconoscere alcune parole prese dalla lingua palestinese. Poi
citazioni della Bibbia e anche nomi che non ti avevo mai sentito
nominare. La mia mente sana registrò ogni tuo spasmo e
gemito, raccogliendo tutto in un’unica maledetta cartella
chiamata col nome di “Progetto Animus”. Era colpa
loro, chiunque fossero. Desmond, ammettilo! Ti hanno fatto qualcosa di
orribile senza calcolarne gli effetti collaterali. Ma io voglio sapere
cosa! Anche se non ho studiato in un liceo scientifico,
saprò darti qualche aiuto. Io ti amo, e non voglio perderti
senza combattere, anche se i brutti presentimenti compongono il mio
animo pessimista.
Il
sole mi colpì all’improvviso, perché
eri stato tu a scansare le tende d’un tratto.
Mi
voltai dall’altra parte del letto nascondendomi ai raggi
dell’immenso, ma tu ti chinasti su di me e cominciasti a
farmi il solletico.
-No!
Fermo! Ti prego!- ridevo a crepapelle scalciando come una matta e
sbraitando per la fastidiosa sensazione. La peggiore di tutte le
torture!
Tu
ridevi, assieme a me, sfiorandomi con violenza sotto le ascelle e
nell’incavo del collo. –Sveglia, sveglia
dormigliona- mi dicevi. –Sai che ore sono?- ti fermasti
all’improvviso, ed io riuscii ad aprire gli occhi lentamente.
-No-
confessai voltandomi a guardare la sveglia che segnava le 9.27 del
mattino.
-L’ora
di prepararmi la colazione, no?- ti beffasti di me baciandomi una
guancia.
Stavo
vivendo un sogno. Quello era il buon, vecchio e altezzoso Desmond che
amavo.
-Ehi!
Lasciami!- stavo per alzarmi, ma tu avevi ricominciato a solleticarmi
ovunque. –Piantala! Ho capito!- quasi ti presi a
schiaffi, ma continuavo a ridere senza fermarmi.
Quando
ti fermasti sul serio, ti guardai commossa andare verso il bagno e
chiuderti la porta alle spalle. Ti ascoltai lasciar scorrere
l’acqua della doccia e ti immaginai sotto il getto
cristallino. Mi morsi un labbro per averlo solo pensato. Mi alzai, mi
avvicinai alla parte di armadio che ti apparteneva e aprii uno dei tuoi
cassetti. Presi la prima larga maglietta che mi capitò tra
le mani e la indossai come mi piaceva fare il sabato mattina.
Avviandomi
in cucina, sorpresi Finger sul ripiano nel centro della stanza che
muoveva la coda nervoso. Lanciai un’occhiata alla ciotola e
la beccai vuota di croccantini. Sbuffai, mi chinai a prendere nello
scaffale sotto i fornelli la busta con la sua colazione, e la versai
nella ciotola. Finger si avventò con voracità e
fece pulizia in pochi minuti.
Accesi
i fornelli, vi poggiai la padella cospargendola di burro e presi dal
frigo due uova. Le spaccai nella pentola aggiungendo del latte e del
sale. Lasciando formarsi la prima cottura, volai al tostapane e vi
infilai quattro fette di pane in cassetta. Bruciacchiato, pensai, come
piaceva ad entrambi.
Tornai
alle uova e, dopo averle sbattute per bene, apparecchiai due posti al
tavolo. Giravo scalza per la casa ma non sentivo per niente freddo,
anzi, percepivo ancora il tuo calore come una specie di stufa
portatile.
Ed
eccoti lì, magnifico come ti ricordavo. Ti aggirasti per il
salone guardandoti attorno con indosso solo quel bianco e candido
asciugamano, stretto a vita bassa sui fianchi. I capelli corti tuoi
erano ancora bagnati, e sulla tua schiena scolpita come nel marmo
viaggiavano alcune restanti goccioline d’acqua. Ti
avvicinasti al televisore e ti chinasti poco più in basso,
dove era tenuta la play. –Non ci credo- dicesti.
–Non l’hai toccata per tutto questo tempo- sembravi
deluso.
Io
sorrisi, perché mi era parsa una battuta divertente.
–Non aveva senso giocare senza di te- ti confessai e tu mi
lanciasti un’occhiata dolce, commossa che io accolsi con
soddisfazione.
-Mi
spiace che tu sia stata tanto male- mi venisti incontro, stringendomi a
te mentre versavo le uova nei piatti. –Non riesco a credere
di averti causato tanto dolore-.
Quelle
parole me ne causarono altro. –Non darti pena,
piuttosto… stavo pensando che dovremmo avvertire qualcuno
dei nostri amici, non credi?- ti osservai sederti al tavolo e gettarti
sulla colazione.
-No-
rispondesti scherzoso. –Voglio passare del tempo con te, fin
quando non avrò rimediato a questi otto mesi di merda, come
li chiamiamo noi- mi sorridesti.
Mi
sedetti accanto a te e consumammo il pasto in silenzio. Una quiete
carica di domande per me e di dolori per te, mio Desmond,
perché ti sentivo gemere impercettibilmente e masticare
nervosamente il toast.
-Non
lo trovo affatto giusto!- sbottai d’un tratto, e tu
sobbalzasti.
-Giògiò…-
mormorasti il mio soprannome perché quella mia reazione
sembrava averti turbato. Mi guardavi spaventato. –Giorgia,
cosa…- le tue parole ti morirono in gola e i tuoi occhi
presero un colore differente, sfumandosi appena. Ma che dico, era la
tua pupilla che andava ad ingrandirsi.
-Basta,
Desmond. Questo pomeriggio chiamo Nik e Oliver e usciamo insieme. Anche
William era in pensiero per te. Hanno atteso anche loro otto mesi per
riavere indietro il loro barista preferito!- continuai.
-Chi
sei?- fece una voce.
-Non
voglio mettere in dubbio il fatto che… anche io vorrei tanto
stare con te… un po’… di tempo- mi
bloccai dov’ero, terrorizzata.
Guardai
verso di te, ma seduto su quella sedia non c’eri tu, Desmond.
Cioè, sì… eri tu, con il tuo
accappatoio, il tuo volto. Ma poteva quella voce provenire da te?
-Dove
sono?- le tue labbra si mossero ancora, mentre i tuoi occhi color
nocciola mi fissavano senza tradire emozioni. Poi ti toccasti il petto
nudo con un’espressione in viso che non ti apparteneva, amore
mio. Quella voce così cupa, austera aveva parlato di nuovo!
Scattai
in piedi, e la sedia cadde a terra rumorosamente.
Il
tuo corpo mi imitò, allontanandosi dal tavolo.
–Dove sono?!- ripeté con più vigore la
voce che veniva dalla tua bocca.
Ero
sul punto di svenire, ma il mio volto tornò sereno in breve
tempo. –Avanti, lo so che è uno scherzo,
scemo…- borbottai chinandomi a raccogliere la sedia.
Nel
rialzarla da terra, lo schienale di questa mi sfuggì
nuovamente di mano.
Perché
mi avevi afferrata per un braccio e mi avevi voltata di spalle
facendomi male? Perché mi puntavi il coltello da tavola alla
gola? Perché mi avevi spinta contro la parete e mi
minacciavi con frasi del tipo: -Dimmi dove mi trovo, e ti
lascerò vivere!-. Ma Desmond, quella non era il timbro della
tua voce. L’uomo mi stringeva al muro e minacciava di
tagliarmi la gola con un pezzo del set di coltelli di IKEA,
impugnandolo con una certa maestria che mi lasciò sorpresa
oltre che tremante dalla paura.
-No!
Desmond, fermati! Che stai facendo?!- provai a sciogliermi dalla sua
presa, ma il tuo corpo era rigido e mi soffiava sul collo il fiatone.
-Di
cosa stai parlando?!- sbottò la voce.
Eri
impazzito, poteva essere l’unica soluzione. Avevi dato di
matto, un blocco alla memoria, un cancro… amore, cosa ti
avevano fatto?…
Scoppiai
in lacrime. –Desmond…- piansi.
Sentii
la presa sulla mia schiena affievolirsi e la spinta della lama sulla
mia gola allentarsi. In fine, il tonfo di un corpo senza vita e mi
voltai.
Eri
steso a terra, precipitato nella perdita di tutti i sensi.
Ti
poggiai due dita alla gola e al polso, ti sistemai al meglio e portai
l’orecchio sul tuo petto nudo. Eri vivo, Desmond, ma
perché tutto quello… cosa ti era successo?
___________________________________
Apro
piccola parentesi: (Desmond è stordito, certo, ma non ancora
totalmente scambiato con la mente del suo antenato!) ^__^ tutto qui.
Apro
seconda piccola parentesi: (il primo manifesto della coscienza di
Altair nel corpo di Desmond, il quale però ha perso
fortunatamente i sensi, o Giògiò avrebbe fatto
una brutta fine)
In fine, ringraziamento speciale ai seguenti utenti:
Saphyra87
Goku94
Lilyina_93.
RECENSITE!
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Capitolo 3 *** Preludio ***
Preludio
Mi
tremavano le mani.
Avevo
i gomiti poggiati sulle ginocchia piegate a novanta gradi,
perché ero seduta su una di quelle basse seggiole di
plastica che sono attaccate le une alle altre a file di cinque sei.
Fissavo le mie dita mosse da spasmi continui e stringevo i pugni
tentando di riprendermi. Non sembrava funzionare, poiché
ogni qual volta sentivo le unghie affondare nella carne dei miei palmi
chiari, perdevo le speranze che a quella successiva sarebbe cambiato
qualcosa. Sembravo un’indemoniata comportandomi
così, seduta nella sala d’attesa
dell’ospedale nel quale ti avevano portato.
Sai,
Desmond, erano più di un paio d’ore che i medici
ti tenevano lontano da me. Forse si trattava di una forma virale?
Allora sì, potevo considerarmi contagiata: sul mio palmo
destro si aprì un taglietto appena visibile e il lembo di
pelle era rimasto sotto la mia unghia.
Dovevo
calmarmi.
Quante
volte avevo guardato quell’orologio? Forse un centinaio negli
ultimi cinque minuti, e mancavano cinque minuti alle quattro del
pomeriggio. Una nuova lunga giornata che mi ricordava le serate
trascorse a rimpiangere la tua presenza assente. Perché te
ne stavi andando proprio ora che eri tornato? Dio è
ingiusto, l’avevo capito molto tempo prima di rinnegare i
miei genitori nel volermi battezzare all’età di
otto anni. Ero una ragazzina sveglia in quei primi anni della mia vita,
moderavo le mie scelte, anche le risposte al compito di matematica,
fidandomi sempre e solo di me stessa. Quest’istinto bastardo
mi aveva trascinata nella sala d’attesa di un ospedale.
C’era
una porta socchiusa che dava sul corridoio ampio che collegava le
diverse stanze del piano. Le infermiere apparivano e scomparivano e io
speravo tanto che una di loro si avvicinasse a me e mi dicesse che
potevo finalmente vederti. Solo… vederti… vivo,
magari… ma vederti.
Che
cosa avevo pensato in quelle ultime ore al di fuori di te e tutto
ciò che ti riguardasse? Nulla, ecco. Stavo architettando un
modo per scoprire chi ti aveva fatto tutto quello e come. Avevo tentato
di distrarmi leggendo, scrivendo, disegnando, parlando al telefono con
mia madre. Le avevo nascosto tutto perché tu mi avevi
chiesto con gli occhi di passare del tempo solo con me e, conoscendo
mia madre, lei avrebbe chiamato mio fratello che avrebbe avvertito
Nicolas prima di William, e a catena la voce sarebbe arrivata persino a
Marty e Lily.
Desmond,
se puoi sentirmi e ti trovi sotto i ferri della sala operatoria,
svegliati! Non m’importa se sei sotto anestesia e ancora con
gli occhi chiusi da quando crollasti nel salone di casa, ti
prego… otto mesi sono un conto, tutta la vita un
altro…
Mi
presi il volto tra le mani, singhiozzavo, ma avevo finito le lacrime
tempo addietro.
-Signorina
Forks?-.
Quale
voce melodiosa?!
Balzai
in piedi e vidi un uomo che mi guardava dall’ingresso della
saletta. Il cartellino sul petto, il camice bianco e una cartellina in
mano.
-Sì-
balbettai asciugandomi gli occhi.
-Venga-
mi disse e lo seguii, abbandonando la mia roba lì
com’era. Cellulare in bella vista sul tavolino
d’attesa, accanto alle riviste, e le chiavi della macchina
lì vicino.
Mi
condusse in una delle stanze al piano superiore. Insomma ti avevano
spostato senza chiedermi il permesso, senza dirmi nulla.
Non
me ne curai, perché il tuo dottore mi aprì la
porta ed entrammo silenziosi nella camera.
Ti
stavi infilando la felpa quando i miei occhi salutarono i tuoi.
-Ciao-
mi dicesti finendo di vestirti. Sembravi turbato, ma allo stesso tempo
felice di vedermi.
Ed
io altrettanto di cogliere un nuovo sorriso sul tuo volto. Eri seduto
sul letto con indosso già i pantaloni che ti avevo portato
da casa, sperando tanto di vederti in quello stato: sano.
Mi
ero appena avvicinata quando mi afferrasti per i fianchi e mi
stringesti a te.
-Perché
continui a mentirmi?- domandai in un sussurro, e come risposta ottenni
da te solo un gran sospiro, mentre le tue braccia rafforzavano la presa
attorno al mio corpo.
-Ora
no…- mormorasti, e il medico alle nostre spalle si
schiarì la gola.
-Che
cos’ho, doc?- alzasti un sopracciglio allontanandomi da te.
L’uomo
lanciò un’occhiata alla cartella medica che aveva
in mano, poi afferrò una penna e cominciò a
scriverci sopra. –Tendo a sottolineare che il suo non
è un caso anomalo, ma alquanto raro, signor Miles- disse.
-Si
spieghi meglio- digrignai stringendo la tua nella mia mano.
Il
medico si avvicinò e poggiò la cartella sul
comodino accanto al letto. –Guardate coi vostri occhi-.
Io
afferrai i fogli e li mostrai anche a te, che parevi sempre
più confuso.
-Abbiamo
fermato il signor Miles in ospedale così allungo solo
perché abbiamo dovuto ripetere diverse volte gli esami. Il
diagramma che potete vedere su quel referto, indica con precisione un
caso raro di sdoppiamento di personalità-.
-Cosa?-
chiesi io, e tu, dietro di me, curvasti le spalle rassegnato.
Il
dottore incrociò le braccia al petto.
–L’esami delle funzioni celebrali cui abbiamo
sottoposto il pazienta prevedevano due fasi contemporanee. La prima,
l’analisi completa delle funzioni basilari, come quella
cardiaca, respiratoria ecc. La seconda, il confronto più che
altro mnemonico delle funzioni. Insolitamente, abbiamo riconosciuto, in
questa seconda fase, due differenti attività del cervello.
Per dirla in parole povere, il signor Miles è quindi affetto
da sdoppiamento di personalità. Ma più
sinceramente, il suo caso è estraneo e particolare a tutti
gli altri. Come quel diagramma mostra chiaramente, durante
l’analisi abbiamo riscontrato non
un’attività sincronizzata e successiva, ma
contemporanea. Se Guarda con attenzione, vede chiaramente che due
diagrammi su due sono in constante movimento, l’uno
perfettamente allineato all’altro…-
l’uomo le indicò i due disegni sul referto.
C’erano
due linee chiare e sottili parallele. Entrambe erano zigzagate, smosse
e regolari. Ma una più dell’altra. Lessi con
attenzione che il secondo diagramma era più calmo, cauto del
primo. Sopra quest’ultimo scarabocchio di macchina era
appuntato a penna: referto secondo.
Sbiancai.
Il
dottore si riprese la cartella medica e indietreggiò.
–Il primo riscontro appartiene alla personalità
standar del paziente, ovvero l’uomo che lei ha di fronte,
signorina Forks. Ma il secondo referto non abbiamo avuto modo di
confrontarlo a nulla. Quello che più ci mette in allarme,
però, è il fatto che inaspettatamente la seconda
personalità ha il predominio sulla prima e viceversa. Questo
sintomo inverso può verificarsi all’una di notte
come all’ora di pranzo di domani. Non abbiamo modo di
stabilire con chiarezza quando il signor Miles verrà di
nuovo colpito da questo affetto, ma vorremmo tenerlo qui in ospedale
per analizzare i suoi comportamenti durante questa fase.
Ovviamente…-.
-No-
sbottasti tu ad un tratto.
Io
mi voltai a guardarti, stupita di quella piccola parolina tanto
antipatica e inaspettata. –Perché? Voglio capire
cosa ti sta succedendo e perché! Il dottore mi ha spiegato
cos’hai e io voglio che tu resti qui- ti dissi, ma tu non mi
ascoltasti.
Scesi
dal letto e ti avviasti all’uscita della stanza.
–Sto bene- dicesti non curandoti dello sguardo attonito del
medico lì presente. –non ho bisogno di nessun
altra analisi, avanti, andiamo…- uscisti e ti seguii con gli
occhi fin quando non raggiungesti l’ascensore.
-Non
possiamo certo trattenerlo qui con la forza- proferì il
medico raggiungendomi fuori dalla camera. –Ma prenda questo-
mi porse un foglio. –Gli ho prescritto alcuni calmanti
specifici, spero solo che lei riesca a nasconderli nei pasti se crede
di stare bene- e poi mi lasciò.
Ripiegai
la ricetta nella tasca dei pantaloni e ti raggiunsi.
Eri
con le braccia stese lungo i fianchi che fissavi come imbambolato le
porte dell’ascensore.
-Desmond-
ti chiamai, ma tu neppure ti girasti.
-Te
l’ho detto, sto bene. Devi solo lasciarmi un po’ di
tempo, e poi…- abbassasti il tono e i tuoi occhi
incontrarono i miei per pochi secondi. –E poi non possiamo
parlarne qui- sbottasti cupo.
Mi
stavi uccidendo con quelle parole, sentivo che da un momento
all’altro mi sarei accasciata a terra. Eravamo in un
ospedale, nessuno avrebbe tardato a salvarmi la vita in tempo. Dio!
Desmond, se ne avessi avuto la forza ti avrei afferrato per la felpa e
ti avrei gridato in faccia che non sopportavo quando tra di noi
c’erano segreti. Soprattutto se la posta in gioco eri tu, che
sottovalutavi il problema.
Trattenei
la mia collera fin quando non fummo di nuovo a casa, anche se io avevo
insistito per portarti a mangiare qualcosa.
Entrammo
in salotto e ti piazzasti sul divano portandoti le mani al viso,
massaggiandoti le tempie, cercando di mantenere in mano la situazione
assurda che stava coinvolgendo te prima di chiunque altro.
Mi
sedetti al tuo fianco, lentamente, e mi feci più vicina a te.
-Comunque
sei un vero imbecille- sbottai.
Tu
mi lanciasti un’occhiata stupita. –Ah, davvero?-
ridesti.
Io
annuii. –Sì, sì. Ho trovato il termine
giusto. Imbecille, sento che sarei capace di ripetertelo per tutto il
resto della giornata. Posso sapere se hai per caso qualcosa contro i
medici, gli ospedali o i medicinali stessi? Insomma, la gente che
lavorava lì sapeva come prendere la cosa per il verso
giusto, ma tu hai fatto: “no, lasciatemi stare, brutti
bastardi!”- risi.
La
allegria ti mise gioia. –Più o meno il senso era
quello, ma ne ho abbastanza di gente che si fa chiamare
“dottore”…- borbottasti.
-Perché?
Centra qualcosa con il Progetto Animus?-.
Sospirasti.
–Anche troppo- mi inchiodasti con lo sguardo, che vagava
dallo sconforto al timore.
-Voglio
sapere- le mie parole spezzarono quel silenzio assurdo.
–Tutto- aggiunsi.
-Io…
capisci che non posso? Già è un miracolo che mi
abbiano lasciato andare! Non capisci?! Quelli mi ammazzano se i fatti
arrivano alla stampa o solo circolano fuori da questa casa!- ruggisti
indignato.
-Allora
a mio rischio e pericolo- dissi seriosa.
-Già,
perché probabilmente ammazzerebbero anche te.
Giògiò, questa è gente che a breve
avrà in mano il mondo, te capì?- domandasti.
-Non
sei l’unico che ha paura, Desmond, ma come ti ho detto, a mio
rischio e pericolo. Se mi dovesse scappare di bocca la
verità a qualcuno di estraneo a questa casa,
saprò accettare il fatto di essere stata una cogliona e di
averti perso per sempre! Ma ti prego, tu devi… devi dirmi
che cosa ti sta succedendo…- mormorai vinta dalla mia stessa
avidità di sapere. Perché ero certa che non
sapere mi avrebbe causato meno dolore, ma avrebbe aggravato il tuo.
Volevo condividere i tuoi tormenti, Desmond, e aiutarti in questo.
Ti
vidi rilassare i muscoli del collo e quelli delle braccia, una delle
quali mi cinse le spalle.
Appoggiai
la guancia al tuo petto, ascoltando il ritmo del tuo cuore
così calmo.
-Otto
mesi fa venni strappato dalla mia vita e condotto in un luogo dove non
intendo certo tornare. Si trattava di un’azienda farmaceutica
di nome Abstergo. Al suo interno non ho idea di cosa si lavorasse di
preciso, all’inizio. Ero chiamato il soggetto 17
perché prima di me l’Abstergo aveva sequestrato in
totale silenzio già altri. Il progetto Animus era destinato
al ritrovo di un oggetto di nome Frutto dell’Eden, il Tesoro
dei Templari, per riassumere parecchi sottintesi. Gli uomini e le donne
che l’Abstergo rapiva non erano certo scelte a caso. Devi
sapere che la casa farmaceutica aveva brevettato una macchina chiamata
per l’appunto Animus, la quale trovava nella mente del
soggetto, del paziente, i ricordi risalenti al suo più
lontano e scelto antenato. La mia così detta memoria
genetica, era quello che l’Abstergo cercava. I miei ricordi
erano quelli di un membro della famigerata setta degli assassini che
adoperava in Terra Santa durante la Terza Crociata. L’Animus
aveva un processo lento e complicato che influiva parecchio sui
comportamenti sia miei che del mio antenato. Quest’ultimo era
possibile controllarlo attraverso dei comandi, ecco, simili a quelli
per la play- ridesti, ma io mi stavo perdendo il senso delle tue parole.
Proseguisti.
–Quando il mio antenato Altair trovò quello che
l’Abstergo cercava, ovvero il Frutto dell’Eden,
ebbe fine il mio lavoro. Non servivo più, eppure fu Lucy ad
insistere che restassi altri mesi lì perché
quando l’Abstergo parlava di “rilasciare”
in verità intendeva “uccidere” il
soggetto. Così, un giorno di dicembre, Lucy volle barattare
la mia libertà in cambio della sua vita, perché
come ti ho già accennato, ella era un’infiltrata,
anzi, ora che lo sai, è meglio definirla
un’assassina. Ed oggi eccomi qui, con il voto al silenzio e
questi effetti collaterali al trattamento- tacesti, ed io con te non
sapevo che altro dire.
Mi
allontanai da te, mi alzai e tu mi guardati andare verso la cucina. Mi
appoggiai al ripiano, perché mi mancava l’aria.
–Ed è colpa… dell’Animus
se… se ti stai… sdoppiando?!- sbottai trattenendo
le lacrime.
Tu
mi raggiungesti e mi abbracciasti senza avviso.
Mi
avvinghiai a te piantando le unghie nella tua felpa, percossa dalla
rabbia e dal terrore.
-Il
giorno in cui l’azienda mi lasciò andare, Warren
Vidic, il dottore che si occupava del progetto ed era sempre presente
assieme a Lucy, mi avvertì di questi effetti che sarebbero
potuti peggiorare o migliorare. Egli mi disse che se fossi rimasto
nell’Abstergo loro avrebbero potuto tenerlo sotto controllo;
ma io decisi di tornare lo stesso, a mio rischio e
pericolo…- mormorasti al mio orecchio.
-Tenerlo…
sotto controllo?- domandai alzando il viso alla tua altezza, guardando
i tuoi occhi neri.
Mi
accarezzasti il collo dolcemente. –Quando il medico
parlò di doppia personalità capii al volo di cosa
si trattava…- mi strinse con più forza.
–Sai l’assassino di cui ti parlavo, il mio
antenato?-.
Annuii
poco convinta, singhiozzando.
-Giògiò,
è lui… non so come sia possibile, ma nei momenti
in cui mi vedi diverso, quando assumo quei comportamenti che posso solo
immaginare quali siano, in quei momenti la mia coscienza fa a cambio
con quella del mio antenato. Giògiò, quello che
hai di fronte nel mio corpo è un assassino proveniente dal
XII secolo… è assurdo, lo so, ma Lucy non ha
avuto tempo di darmi altre spiegazioni e quelli dell’Abstergo
volevano solo sbarazzarsi al più presto di me, che non
servivo più ai loro scopi di dominio del mondo-.
-Non
posso crederci…- balbettai scansandomi. –hai
ragione, è assurdo! La macchina per tornare indietro nel
tempo non esiste! È assurdo! Non ci credo!- diedi di matto,
più o meno come aveva fatto Altair nel tuo corpo quella
mattina.
Da
una parte, però, ci credevo, perché
l’uomo era capace di arrivare dovunque. Come un tempo aveva
inventato gli aerei, un giorno avrebbe scoperto il modo per viaggiare
nello spazio e nel tempo di ciascun individuo. Insomma, ero una di
quelle persone che credeva agli UFO e a Mago Merlino, quindi
perché no?
-Devi
crederci, perché non ho altro da dirti se non… mi
dispiace- le tue braccia tornarono a stringermi, e mi lascia avvolgere
dal tuo calore.
-Spiegami
perché è colpa tua? Non sono mica arrabbiata con
te…- sorrisi dolce.
Mi
baciasti inaspettatamente, lasciandomi senza fiato. Restai ancora
più sorpresa quando mi sollevasti e mi feci sedere sul
tavolo della cucina, mentre le tue labbra divoravano le mie.
Ti
staccasti da me solo un istante. –Mi spiace,
perché ora dovremo rimediare agli otto mesi di
astinenza…- mormorasti soave.
Soffocai
una risata. –Già, è stata
dura…-.
I
nostri baci ripresero, più agitati e colmi
dell’amore che avevamo accumulato entrambi in quel lungo
lasso di tempo.
Alzai
una gamba e ti cinsi il fianco avvicinandoti a me. Come risposta la tua
bocca si spostò al mio collo rigido.
Eh,
non ero più abituata, pensai.
Adesso
che ero certa di sapere tutto, come avrei affrontato il futuro? Se in
quello stesso istante il tuo antenato avesse deciso di emergere, come
avrei reagito io, e come un assassino del XII secolo si sarebbe
comportato? Be’, contando che la prima volta che avevo visto
i tuoi occhi avvalersi della luce di quelli di Altair, riconoscendoli
estranei, la situazione non era andata molto bene… insomma,
mi aveva puntato il coltello da tavolo alla gola, minacciando di
uccidermi.
-Ma
aspetta…- disse e tu ti scansasti.
-Cosa?-
mi guardasti torvo, insoddisfatto.
-Se
il tuo antenato è qui…- e ti sfiorai il petto con
le mani. –Allora tu sei… lì?- alzai un
sopracciglio.
Tu
scoppiasti in una risata fragorosa, e vederti così allegro
mi trasmise quella gioia. –Sì, anche se
l’ultima volta che è successo è durato
troppo poco e non mi sono neppure reso conto di dove mi trovavo-
dicesti tranquillo.
-Ed
io… cosa posso fare per…- mi bloccasti le parole
in gola perché avevi ripreso a mangiarmi la bocca.
-Nulla,
non devi fare nulla…- sussurrasti cominciando a spogliarmi.
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Capitolo 4 *** L'assassino ***
L’assassino
Allungai
un braccio e ti accarezzai i capelli.
Stavi
dormendo col sorriso stampato sul volto tranquillo. Ed io ti ero
accanto, avvinghiata a te che eri così caldo. La coperta mi
cadeva sulle gambe nude e ci copriva entrambi dai fianchi in
giù. Il buio della notte che andava ad affievolirsi, mentre
tutto assumeva i suoi chiari colori.
L’alba
sorgeva su New York in un muto silenzio, sbattendo i suoi raggi sui
vetri della nostra stanza. Attraversava le tende e rischiarava il
pavimento e le pareti. Poi si posava sui nostri corpi l’uno
attaccato all’altro e dava alla tua pelle più
scura della mia una patina bronzea irresistibile.
Se
ti fossi svegliato ti avrei domandato se volevi farlo di nuovo, ma la
tua risposta, in quel momento, poteva avere mille sfumature…
Mi
liberai della tua stretta sulla mia vita e mi avvicinai al bordo del
letto. Una volta coi piedi a terra, andai verso l’armadio e
afferrai i primi vestiti che mi capitarono.
Tu
potevi pure essere abituato al mondo virtuale dell’Animus e a
tollerarlo anche per più di 12 ore, ma io stavo morendo di
fame e il mio pancino brontolava.
Così
mi diressi in cucina, accostando la porta della stanza.
Camminai
scalza sul pavimento freddo della cucina dimenandomi nel trovare
qualcosa da mettere sotto i denti. Avrei potuto direttamente preparare
la colazione, o il pranzo… e valutai la cosa
l’azione più intelligente.
Mi
commossi… era passato così tanto tempo che non mi
ricordavo neppure cosa era nostra abitudine fare la domenica.
Chissà se la tua era migliore della mia memoria.
Misi
l’acqua a bollire sul fuoco e apparecchiai disordinatamente
per la colazione, versai i croccantini nella ciotola di Finger.
L’acqua
ancora bolliva sul fuoco quando mi avvicinai all’ingresso di
casa e presi il cellulare che avevo lasciato lì la sera
prima.
Composi
il numero che sapevo a memoria e la chiamai.
-Giògiò,
non chiami da una settimana! Che ti è successo? Sai che
cominciavo a preoccuparmi…- borbottò Marty
distrattamente dall’altro capo della cornetta.
-Mi
spiace, ma ho avuto delle cose… da fare- lanciai
un’occhiata alla porta della nostra stanza socchiusa, e sul
mio viso stanco comparve un sorriso luminoso.
-Però…
mi metti curiosità. Quindi ci sono novità?
Insomma, di solito chiami per qualcosa di totalmente inutile, lo so, ma
dai! Voglio sapere come stai. Tutto bene?- mi domandò.
Io
mi schiarii la voce tornando ai fornelli. Spensi i fuochi e afferrai
l’acqua calda con una presina di pezza. La rovesciai in due
tazze tenendo il cellulare appoggiato su una spalle.
–veramente- mormorai. –ci sono grandi
novità-. Mi avevi chiesto di non dirlo a nessuno, Desmond,
ma i nostri più fidati amici potevano sapere che eri
tornato. Avrei detto loro una bugia per tenere lontano la questione
macchina del tempo e tutto il resto.
-Sto
aspettando- cantilenò la ragazza.
Sorrisi.
–Desmond è tornato-.
Non
seppi se Marty aveva attaccato oppure stava semplicemente prendendosi
tempo per scandire nella sua testolina di persona assurda le mie
parole. –RAGAZZA! QUESTA POI!- disse ad un tratto, e dovetti
allontanare il telefono dall’orecchio.
-Marty…-
provai a calmarla poggiando il bollitore sui fornelli spenti.
-Ti
sembra il modo di dirmelo!? Così, come fosse nulla?!
Cavoletti…- parve prendere un respiro profondo.
–Quando, ieri? E dimmi che l’avete fatto per
inaugurare il tutto! Dimmelo!-.
Risi,
passando da una tazza all’altra le busti di the.
–Sì… è tornato…
ieri sera- balbettai commossa.
Percepii
il sorisetto malizioso della mia amica anche attraverso la rete
nazionale. –Ti ha detto perché se
n’è andato?-.
-No-
sbottai scherzosa afferrando dei biscotti dalla dispensa. –La
sua bocca era piuttosto occupata e anche la mia-.
-Mi
stai facendo impazzire! Dio, quindi torni a vivere, eh?-.
-Sì-
mi sedetti poggiando un gomito sul tavolo. Osservai i fumi caldi
dissolversi nell’aria sopra le tazze e ascoltai come la mia
amica mi riempiva la testa della sua voce.
-Ok,
a questo punto pretendo che lo sappiano anche gli altri. Anzi,
perché non gli organizziamo una bella festicciola da Nik?
Casa sua è grande. Oppure al pub, ah ecco, ti volevo dire
che se il tuo Desmonduccio non si fa vedere, William gli ruba il posto
giù in centro. Te capì? Cristo, otto mesi sono
una vita, ragazza!-.
-Lo
so…- ed io rischiavo di perderlo di nuovo.
-Allora,
vada per la festa da Nik?!- domandò entusiasta.
-Non
so … non so se è una buona idea- mi alzai e
guardai fuori dalle vetrate.
-Come
vuoi. Quindi volete stare un po’ da soli, eh??? Davvero mi
fai così stupida? Davvero, non pensavo di
sembrarlo… vabbé, io filo. Oggi alzataccia per
l’Università- disse.
-Fammi
sapere, ciao- mormorai e terminai la conversazione.
Lasciai
il cellulare sul tavolo e misi le due tazze di the su un vassoio
assieme ai biscotti. Preparai una spremuta d’arancia, un
toast e della frutta tagliata a pezzi. Quanto mi piaceva coccolarti in
quel modo, anche se nelle coppie normali sarebbe dovuto essere il
contrario… vabbé.
Presi
il tutto e m’incamminai verso la camera.
Sobbalzai:
la porta era spalancata.
Quando
mi avvicinai all’uscio e mi affacciai all’interno,
il mio cuore ebbe un nuovo gemito. Eri scomparso, le coperte erano
scansate tutte da un lato e le federe stropicciate. I cuscini
rovesciati a terra. L’unica parte del letto che sembrava
mancare all’appello era il copriletto.
Il
vassoio mi cadde di mano, e le tazze rovesciarono il loro contenuto sul
pavimento della stanza.
Mi
sentii mancare l’aria quando il corpo alle mie spalle mi
afferrò per la gola e, in un lasso di secondo, mi costrinse
con le spalle alla parete del corridoio.
I
tuoi occhi vuoti mi fissavano, il tuo pugno chiuso era alzato a
minacciarmi e dal tessuto del copriletto che ti eri gettato addosso con
disordine spiccava il tuo braccio che riconobbi più
muscoloso del solito. Il tuo volto era sconvolto e spaurito, ma allo
stesso tempo sapeva mettermi paura. L’altra tua mano mi
teneva per la gola, e strine con le mie quel braccio possente che mi
teneva sollevata da terra.
Aprivo
e chiudevo la bocca senza riuscire a proferire parola, così
fu Altair a parlare.
-Dove
sono?…- domandò in un sibilo.
–è un sogno?!- sbottò con
più convinzione.
Desmond,
te n’eri andato senza avvertire ancora una volta e al tuo
posto era atterrato nella mia vita un uomo che tentava di ammazzarmi
dal nostro ultimo incontro.
-Che
cosa ci faccio qui? Dimmi come me ne vado! Dimmelo! - gridò
l’assassino.
-Ti…
prego… la…. Lascia…
lasciami… io… Altair!… Fermati!- la
vista mi si annebbiò, ma i miei occhi incrociarono quelli
dell’uomo, manifestando tutta la loro innocenza.
Altair
allentò la presa e i miei piedi toccarono il pavimento del
corridoio.
Ero
sul punto di crollare al suolo, quando da offensiva, la sua stretta
divenne di sostegno. Mi appoggiai a lui che mi guardava in un modo con
cui si guarda un film horror.
-Come
sai il mio nome?- sussurrò lui facendomi inginocchiare.
Mi
passai le mani sul collo, che mi pulsava dolorosamente. Avvertivo la
forza mancarmi nelle vene del cervello, perché realizzai in
minima parte. –Tu…- balbettai.
–potresti… potresti smetterla di cercare di
uccidermi… per favore…- tentai di risollevarmi e,
quando ci riuscii, l’assassino indietreggiò.
Sì,
avevo visto bene: si era coperto una spalla e dai fianchi in
giù col solo utilizzo della stoffa del copri letto. Notai
subito che non solo la sua voce, e la sua mente medievale avevano
sostituito la tua, ma Altair si era trascinato dal suo tempo anche
alcuni dettagli del suo corpo. Quali i muscoli da balestrato e le
diverse cicatrici che gli attraversavano la pelle ramata.
Si
fece più distante da me. –Sto sognando-
mormorò.
-No,
no!- feci andandogli incontro –non stai sognando,
tu…- ma l’uomo si allontanò
ulteriormente, sfociando nel salone luminoso di casa.
Lo
vidi guardarsi attorno mentre lentamente sbiancava e le mani
cominciavano a tremargli, constatando che fosse tutto troppo reale e
chiaro per assumere quel contorno sfocato che avevano i sogni.
I
suoi occhi sperduti, che saltavano da un mobile all’altro
della camera, mi parvero quelli di un cucciolo prima nascosto in uno
scatolone e poi liberato in uno sgabuzzino.
Desmond,
perché non mi avevi avvertito su come comportarmi se fosse
successo?
-Chi
siete voi?- chiese ad un tratto, moderando lo stupore. –Se
sto sognando, voglio sapere con chi ho a che fare, dato che non vi ho
mai incontrata…-.
Arrossii,
perché ora gli occhi dell’assassino si spostavano
su di me, analizzando il mio buffo modo di vestirmi. Indossavo un paio
di jeans e una camicetta bianca, manco a dire un giubbetto di pelle e
un paio di scarpe firmate… insomma, mi feci una vaga idea a
cosa potesse essere abituato un uomo del XII secolo, ma dovette
comunque trovare assurdo quello che indossavo.
-Per
tutti i lumi, vuoi rispondere ad almeno una delle mie domande?!-.
Sobbalzai.
–Scusa, ma stento anche io a crederci…
è… complicato…- dentro di me gridai il
tuo nome, perché forse tu avresti potuto avere
un’intesa migliore col tuo antenato. Non volevo fare il
lavoro sporco… avrei dovuto dire a quell’uomo che
era uscito dal suo tempo e atterrato nel futuro? Ne sarei stata capace,
dato che prima di convincere Altair, dovevo esserne sicura io? Ed io
non ne ero sicura… ero io quella che credeva di essere
entrata in un orribile incubo, uno di quelli che non hanno senso
né all’inizio né alla fine, dai quali
non puoi svegliarti e non hai neppure la forza per provare a farlo.
Il
ragazzo riprese a guardarsi attorno, avvicinandosi alle finestre.
-Oh,
be’…- come potevo dirgli che si trovava in
America?! Ai suoi tempi si conosceva a mala pena
l’India… -Questo è…
è il… tu sei… nel…
ecco… nel, insomma…-.
-Nel
futuro?- domandò voltandosi.
Mi
si rizzarono i capelli. –Come fai a saperlo?!- curvai le
spalle.
Lui
non si curò della mia domanda e seguì il profilo
delle tende, scansandone un lembo lentamente. Forse la luce
dell’esterno gli fece male agli occhi, perché
l’assassino indietreggiò tornando
dov’era.
-Tutto
bene?- domandai, ma che domanda stupida. Era ovvio che non stava
affatto bene!
Ero
terrorizzata, io più di lui. Non riuscivo a contenere la mia
follia, perché ad ogni suo movimento, ogni suo passo sul
tappeto di casa nostra, mi sentivo svenire, realizzando che doveva
sempre succedere tutto a me!
-Che
domanda stupida…- mi disse quasi sorridendo.
Aveva
sorriso! Aveva sorriso!
Altair
camminò verso la cucina ed io gli andai dietro tenendomi
alla giusta distanza di sicurezza.
-Sì,
sei nel futuro- balbettai osservandolo.
L’uomo
passò la mano sul tavolo della cucina e anche sul ripiano.
Si fermò accanto al tostapane e la sua espressione si fece
davvero assurda.
-È
questo il futuro?- ripeté più per se stesso che a
me. –tanti oggetti di metallo- indicò il
tostapane. –e vestiti assurdi?- indicò me.
-Senti,
l’unico vestito in un modo assurdo qui sei tu!- gli gridai
contro, e quello sarebbe stato il nostro primo litigio, me lo sentivo.
Le situazioni assurde cominciavano con azioni assurde. Quale miglior
modo per aggravare le cose se non cominciare a rinfacciargli quanto la
civiltà del futuro fosse migliore di quella del passato?
Sapevo che in molti testi medievali il “futuro”
sarebbe stato interrotto dall’anno dell’apocalisse,
quindi poteva Altair stupirsi che la razza umana fosse ancora viva?
Lui
s’incupì visibilmente. –In che anno sono
finito?-.
-Benvenuto
a New York! Anno 2013 e splende alto il sole!- imitai una di quelle
radio sveglie che fanno venire i cinque minuti già la
mattina, con tono arrogante.
-Se
sono un peso per te, allora dimmi come faccio ad andarmene. Ci leviamo
il pensiero tutti e due…- proruppe nervoso.
-È
questo il problema…- piagnucolai. –non ho idea di
come aiutarti!- alla fine non riuscii a contenermi e dovetti voltarmi
per nascondergli il pianto. –scusami…
io… non ce la faccio- mi allontanai sparendo dietro
l’angolo del corridoio. Mi rannicchiai in un angolo
dell’ingresso, accanto al portaombrelli e alla porta. Le
ginocchi al petto e gli occhi colmi di lacrime.
Non
solo non mi sentivo abbastanza emotivamente forte per reggere tutte
quelle assurdità, ma nella mia mente balzavano continue
immagini di te, il mio ragazzo, che avresti dovuto cavartela col sangue
fino al collo. Desmond, se il tuo antenato era qui, tu dovevi per forza
essere lì, tra la guerra, tra le lance e gli scudi. Tra le
frecce e le balestre…
Ti
pregai di tornare il prima possibile, invocai Dio affinché
quella notte non fosse stata l’ultima, poiché lo
scambio tra di voi non era mai stato così lungo! Mai
così durevole! Volevo poterti vedere di nuovo, avrei potuto
sopportare i vostri mutamenti che speravo tanto si sarebbe diradati nel
tempo, come mi dicesti tu una volta.
Altair
mi raggiunse con pochi passi. Si chinò al mio fianco e mi
porse una mano. –Quello in lacrime dovrei essere io, non
credete?-.
Afferrai
la sua mano e mi aiutò a tirarmi su.
-Qual
è il vostro nome, visto che voi sembrate conoscere tanto
bene il mio e al più presto vorrò intendere delle
spiegazioni a questo…- la sua voce aveva dei tratti simili
alla tua, sai? Ma era così adulta eppure dovevate avere
entrambi la stessa età.
-Giorgia
- mi allontanai appena da lui. –sai- cominciai e
l’assassino si fece attento. –di solito a questo
punto tu… dovresti essertene già andato,
è strano…- borbottai asciugandomi gli occhi.
-Come
fate a dirlo?- mi lanciò un’occhiata confusa.
-Ecco…
la verità è che tu sei qui e il mio ragazzo
è nel tuo tempo- dissi d’un fiato.
-Questo
sì che è buffo- commentò.
–Credevo che fosse stata tutta colpa del Frutto…-
pensò ad alta voce.
Io
mi schiarii la voce. –Parli del Tesoro dei Templari?- chiesi,
ricordandomi quello che mi avevi detto tu, Desmond.
-Sì…-
lui alzò lo sguardo. –quando sono apparso qui la
prima volta- tremò al solo pronunciare quella frase.
–stavo provando a controllarne alcuni dei poteri
più insignificanti, quale sollevare gli oggetti- disse.
-Allora
quel coso esiste, ed è la causa di tutto questa merda!-
strinsi i denti.
-Calmatevi,
dev’esserci un modo per risistemare le cose e non
è certo quello che stiamo facendo noi ora-
affermò serioso.
Aggrottai
la fronte. –Hai qualche idea?- incrociai le braccia sbuffando.
-Certamente-
sorrise lui. –posso osare chiedendovi se in questo tempo
è stata inventato un Cavallo del Tempo?- chiese, ma mi parve
uno scherzo e cominciai a ridere.
-Intendi
una macchina del tempo?- domandai esilarata.
-Macchina?-
fece lui disorientato.
-Oh,
giusto. Sì, esiste, ma non potete portare con voi il corpo
del mio ragazzo! Quello mi serve!- gli intimai contro.
Lui
tacque.
Io
sbuffai, di nuovo. Desmond, torna qui, ti prego…
-Stavo
pensando…- sussurrai così da attirare su di me un
ulteriore occhiata dell’assassino.
-Quel
Frutto dell’Eden… so che alcuni uomini del mio
tempo sanno dove si trova. Forse, se…-.
-Lady
Giorgia…- assentì l’assassino
–intendete dire che il Frutto non è stato
distrutto?- domandò sconvolto.
-No,
da quanto mi ha detto Desmond, no…-.
-Chi
è costui?-.
-Il
mio ragazzo-.
-Come
fa lui a saperlo?-.
-Qui
arriva la parte complicata…- borbottai.
-Sarebbe?-
Esitai,
mi serviva del tempo per pensare a cosa e a come dirglielo.
–Seguimi, non posso vederti vestito così-.
Se
proprio dovevo arrendermi al fatto che Desmond non sarebbe tornato per
parecchio tempo, tanto valeva far sentire Altair a suo agio.
Mi
avvia nella stanza da letto, ma non sentii Altair venirmi dietro. Mi
voltai, ma me lo trovai a pochi centimetri di distanza.
-Ci
sono problemi?- chiese facendo un passo indietro.
Incredibile…
non l’avevo avvertito seguirmi, i suoi passi non si sentivano
sul pavimento. Sembrava così robusto ed invece era
silenzioso come un gatto. D’altro canto, era un
assassino…
Ripresi
ad attraversare il corridoio cercando di non badare a quella sensazione
di essere come pedinata ed entrai nella camera, spostandomi poi svelta
verso l’armadio.
Aprii
i tuoi cassetti e cercai qualcosa che potesse infilarsi senza troppe
difficoltà.
Altair
prese a curiosare per la camera guardandosi da ciascuna
novità che quel tempo gli riservava. Pareva sorprendersi nel
vedere la sveglia che segnava le 11 del mattino, poi la moderna mobilia
che faceva parte della camera da letto, del bagno e delle altre stanze.
Ecco,
notai che l’assassino era entrato nel bagno e si stava
guardando allo specchio.
Chissà
quale effetto gli procurò non riconoscersi nel proprio
corpo, chissà quale paura e sconforto, il tutto accompagnato
dall’imbarazzo.
Trovai
una maglietta a maniche lunghe grigia e dei jeans. Però
rimasi incerta sul da farsi: se gli avessi dato un paio di boxer Altair
avrebbe capito di cosa si trattavano?
L’assassino
ricomparve nella stanza da letto e rimase a guardarmi,
perché ero immobile davanti ai cassettoni chiusi senza
muovere un muscolo o battere ciglio.
-Ebbene?-
gli sentii dire alle mie spalle.
Mi
voltai di colpo, porgendogli i vestiti.
Lui
li afferrò e se li guardò sospettoso.
–Perché ho ancora l’impressione che sia
solo un sogno davvero assurdo?…- disse.
-A
chi lo dici…-.
Hmm.
Forse un assassino del XII secolo e una newyorchese ventenne, qualcosa
in comune potevano avere, pensai.
-Puoi…
andare lì… se vuoi- gli indicai il bagno.
Lui
non disse nulla, andando dove gli avevo detto. Accostò la
porta e contai solo qualche decimo di minuto prima che tornasse nella
camera.
Aveva
ripiegato il copriletto e me lo diede.
I
tuoi vestiti gli stavano a pennello, era una tua esatta copia e in
parte sentivo di non stupirmene. Desmond, l’unica differenza
era che il tuo antenato non aveva ricordo degli ultimi 19 secoli,
sennò avrei potuto quasi far finta che fossi tu. Eravate
identici, e quell’uguaglianza mi metteva a disagio allo
stesso modo di come mi consolava.
Rimasi
in silenzio per parecchio tempo mentre l’assassino girovagava
per la nostra casa esattamente come avevi fatto tu il giorno in cui ti
avevo riportato a casa.
Altair
si fermò davanti al televisore, si chinò ad
osservare la Play e, chissà, magari aveva una dote genetica
come la tua e sarebbe stato in grado di confrontarsi con me. Poi
l’assassino tornò a guardare fuori dalle finestre
e il fatto che io lo seguissi ovunque non sembrava turbarlo.
Così proseguì il suo giretto turistico anche in
cucina, passò lo sguardo sulla libreria e sostò
parecchio su di essa. Trasse uno dei volumi e cominciò a
sfogliargli.
A
quel punto mi chiesi se sapesse leggere l’inglese…
e un dubbio mi avvolse: ma in Terra Santa come all’interno
della setta degli assassini, non si parlava l’arabo o un suo
dialetto? Com’era possibile che Altair conoscesse alla
perfezione l’inglese?
Non
ne potei più, così lasciai che vagasse da solo
per casa.
Mi
diressi di nuovo nella stanza da letto e cominciai ad occuparmi del
casino che avevamo lasciato io e te quella notte… alzai i
cuscini da terra e cambiai le federe del materasso. Feci tutto con
lentezza, come volessi impiegare tutta la giornata a fare qualcosa che
non fosse pensare a te o al tuo trisavolo. Mi toccò pulire
il bel casino che avevo fatto nella camera da letto con il the,
così impiegai gran parte della mattinata.
Quand’ebbi
finito, tornai in salone e trovai l’assassino che leggeva
seduto sul divano.
Era
seduto composto con la schiena contro i cuscini, e allungando
l’occhiata, scorsi cosa l’aveva attirato tanto: la
Divina Commedia che mi aveva regalato mio padre quando studiai Dante
alle medie. Era scritta in lingua originale, ovvero il dialetto
Fiorentino del grande Alighieri.
Lo
guardai assorta che sfogliava una pagina dopo l’altra.
Era
voltato quasi di tre quarti, quindi ero l’unica tra i due che
potesse vedere l’altro. Ovviamente sapevo che si fosse
accorto di me già da parecchio.
-Hai
fame?- domandai ad un tratto.
Invece
mi ero sbagliata: non si era per niente accorto di me,
perché si era voltato colto di sorpresa. –Io?-
domandò.
Sorrisi
sarcastica. –No, guarda…- sbuffai.
-Certo
che ho fame- si alzò e mi venne vicino. –Ma
è soprattutto curiosità…- disse.
Io
m’irrigidii. Forse non era una buona idea istruire un uomo
del passato così approfonditamente sulle attività
del mondo futuristico. Se mai un giorno fosse tornato nel suo tempo,
avrebbe lasciato un segno nella storia e forse sarebbe stato capace di
inventare lui stesso la lampadina. No, mi dissi che sarebbe stato
meglio chiuderlo in uno stanzino e buttare la chiave fin quando non
fossi tornato tu.
Eppure
non lo feci. –Va bene…- andai verso i fornelli e,
quando accesi il fuoco, avvertii un sibilo si sorpresa da parte
dell’assassino.
-Impressionante-
fece lui.
-Eh,
già…- cominciai a scaldare dell’acqua
in una pentola, con l’intenzione di servire ad entrambi della
roba semplice come un piatto di pasta.
Dopo
poco Altair parve annoiarsi perché tornò a
sfogliare la Commedia che aveva lasciato sul divano.
Mi
dissi che leggere qualcosa che riguardasse il suo tempo sarebbe stata
la sua unica consolazione, il modo per distrarsi e per avvicinarsi al
mondo da quale era stato strappato via. Ma infondo se l’era
cercata provando a controllare i poteri del Frutto. Ma andiamo, le
leggende del Tesoro dell’Eden narrano che solo una mente
superiore è in grado di moderarne i poteri; si sapeva sia
prima che dopo l’anno 1000.
Ad
un tratto scorsi Finger stiracchiarsi nel mezzo del corridoio, poi
cominciò a slinguazzarsi il pelo.
Sorrisi:
ne avrei viste delle belle.
Il
gatto si avvicinò al divano sinuosamente, prima
guardò me, poi spostò i suoi occhioni gialli
sull’estraneo che non si era accorto di lui.
Finger
fece il giro del divano con la coda alzata.
-Hai
un gatto?- domandò Altair seguendo Finger con lo sguardo, e
l’animale balzò sul divano rannicchiandosi accanto
a lui.
Finger
era noto per il suo socievole fare con gli estranei.
Le
fusa della bestiola giunsero fino a me, perché Altair aveva
cominciato ad accarezzarlo e a grattargli dietro l’orecchio.
-Sì,
ho un gatto- dissi rovesciando la pasta nell’acqua calda.
–Si chiama Finger-.
-Dito?-
fece lui riprendendo a leggere.
Mi
chiesi se dirgli che si chiamava così in onore di James Bond
non avrebbe avuto senso, tanto meno parlargli dicendo che aveva il nome
di un film. Doveva essere una palla vivere nel medioevo…
senza James Bond.
D’un
tratto mi spiccasti tu in mente, e un cupo pensiero mi fece cambiare
atteggiamento. Il mio sorriso si spense lentamente, perché
sapevo che tu eri in pericolo là mentre il tuo antenato
oziava qua. Ero avvilita di quello… non perché lo
trovassi ingiusto, ma perché il mestiere di un assassino
doveva essere pieno di rischi. Poteva accaderti qualunque cosa da un
momento all’altro ed io non l’avrei mai
saputo…
-Cristo,
no!!!- ti sentii gridare.
Mi
sfuggì di mano il piatto che cadde a terra e si ruppe in
centinaia di pezzi.
Finger
si lanciò lontano dal tuo corpo scappando col pelo rizzato
nel corridoio.
-Desmond!-
saltai il casino che avevo fatto e mi avvicinai a te che eri seduto sul
divano dove prima c’era stato il tuo antenato.
Tenevi
le braccia davanti al volto, come a pararti da qualcosa e forse la tua
coscienza era tornata nel giusto corpo in un momento fatale.
-Desmond,
Desmond sono io! Desmond!- ti abbracciai chinandomi su di te e tu,
tremante, ti strinsi a me tirandomi sul divano.
-Giorgia…-
avevi il fiato corto e il respiro irregolare, il tuo cuore batteva
senza rallentare la sua corsa ed eri sudato.
–Giorgia…- mormorasti.
-Sei
tornato…- ti sussurrai sul collo, e tu scoppiasti a ridere.
Era
una risata isterica, lo sentivo, perché dalla gioia
comparvero dal nulla le lacrime.
Ti
baciai io, interrompendo il tuo pianto adulto. Come sollevato da un
peso, ricambiasti alla svelta quel contatto, ma dopo poco mi staccai
dalle tue labbra per tornare a stringerti.
-Sei
tornato…- ripetei.
-E
non è stata una cosa semplice- eri esausto, e il tuo corpo
debole da troppo sforzo.
____________________________________________
Dopo
questo nuovo chappo non ho molto da aggiungere. Passo ai
ringraziamenti, magari mi salta qualcosa in mente da dirvi mentre
scrivo i nomi dei migliori utenti di questo sito!
Saphira87
Lilyna_93
Goku94
Sparrow
P.S.
Sììì,
mi è saltato in mente come speravo: che pena, mi faccio
pena. Questo capitolo non mi è piaciuto, insomma…
non ho saputo simulare al meglio le reazioni di entrambi i personaggi
(Giorgia e Altair) e d’altro canto ho dovuto
“toppare” la situazione con il ritorno di Desmond!
Non dico di aver scritto forzatamente questo ultimo capitolo, ma
diciamo che più o meno è andata
così… ero a corto di idee per il vero e proprio
primo incontro tra Giògiò e Alty e piena zeppa
d’ispirazione per quello che verrà dopo! Insomma,
sono giorni che penso ad alcune scenette… (non quello che
state pensando XD XD anche se… O.O Uh, mi sorprendo di me
stessa…).
X
goku94 & Sparrow: ci avevo pensato ad Altair che
sbuca dal nulla in “quel” momento… O.O
|
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Capitolo 5 *** Disperazione ***
Disperazione
Ti
accarezzai la schiena nuda con una mano, arrivando a sfiorare il tuo
collo che sotto il mio tocco s’irrigidì. Eri
seduto sul bordo del letto, fissavi la parete davanti a te e mi davi le
spalle.
Ero
sdraiata con la testa sul cuscino, un braccio sotto ad esso e
l’altro allungato a toccarti. Non distinguevo bene le ombre,
perché erano notte fonda e il calore del tuo corpo si era da
poco allontanato dal mio, ancora avvolto dal tepore del sonno.
Quando
notai che non davi segni di vita, che rimanevi immobile
seduto senza rispondere alle mie carezze, mi sollevai e mi sedetti
accanto a te. Ti scrutai allungo, ma tu fissavi il vuoto della parete e
non ricambiavi le mie ansie.
Non
ti avevo mai visto così serio, e mai
quell’espressione così turbata e manifesto di
dolore aveva attraversato il tuo volto giovane e bello. E il buio della
notte ti rendeva così affascinante, avvolgendo il tuo
fisico. Stavo esagerando: ti avevo desiderato tanto in quegli otto
mesi, ed ora mi sentivo a tal punto mancare la tua presenza che in te
vedevo persino la perfezione. Ma tu avevi bisogno di me in altro senso,
ed era questo che non riuscivo a concepire. Era il mio tormento come il
tuo: non poterci godere il fatto che fossimo di nuovo assieme a causa
delle tue condizioni.
-Come
ti senti?- domandai un sussurro.
Mi
fulminasti coi tuoi occhi scuri, ed io mi sciolsi ancora a quello
sguardo accattivante e magnifico.
-Cosa
ti è successo?- ti chiesi, perché da quando eri
tornato, scambiandoti col tuo antenato sul divano del salotto, non
avevi voluto raccontarmi nulla. Mi avevi risposto, stringendomi a te,
che non avrei voluto saperlo e il peggio era passato, ma non per Altair.
Tu
esitasti, ma ti ostinavi nel tuo silenzio. Nel nero delle tue pupille
intravidi un leggero bagliore, una supplica, come se aprir bocca ti
costasse troppa fatica.
-Ti
prego, Desmond… non credere che raccontarmi mi
farà star peggio… anzi- mi poggiai le mani in
grembo, sconfitta dalla tua prepotenza che pur di tenermi al sicuro, si
dilettava nel delimitare un confine preciso tra quello che potevo
sapere o no. Chi eri tu per giudicare se ne fossi all’altezza
o meno? Ero abbastanza adulta da poter condividere ogni tuo problema, e
tu abbastanza grande da potermi confidare ogni tuo peccato senza temere
che ti rimproverassi. Ma sapevo che era proprio di quello che avevi
paura. Forse volevi apparire forte nei miei confronti, sovrastarmi e
gettarmi davanti al naso menzogne invece che raccontarmi la
verità, tutta la verità.
Parlasti,
e la tua voce suonò come il canto dei violini alle mie
orecchie: -Ho ucciso- dicesti.
-Quando?-.
-Mentre
ero là… nel passato. Ho ucciso un uomo, un
soldato-.
In
un tempo di guerra come quello, era normale che le vite venissero
spezzate come stuzzicadenti dai più forti. E Altair, nel
passato, era il più forte. Ma come avevi trovato la forza di
agire? E in che modo avevi ammazzato quell’uomo se tu,
Desmond, non avevi abbastanza esperienza con le spade e neppure da
piccolo ti era mai piaciuto giocarci… come era stato
possibile?
-Come
è successo?- mi limitai a chiedere.
-L’ho
gettato giù…- ingoiasti il groppo che avevi in
gola, e ti sentii cacciare via anche le lacrime.
–L’ho gettato giù da un
tetto… mi puntava contro una freccia incoccata…
non sapevo che fare- tirasti su col naso e appoggiasti i gomiti sulle
ginocchia, curvando la schiena e lasciando che la tua testa cadesse in
avanti. –Ma poi sono arrivati gli altri… gli altri
cavalieri, con quella croce nera sul petto… mi hanno
accerchiato, ed io ero da solo. Il mio antenato era da solo. Avevano
delle spade e le utilizzavano con quella maestria che neppure nei
cartoni animati!- ridesti con gli occhi arrossati, sollevando appena il
viso per incontrare i miei. – Non ho avuto neppure il tempo
di sfoderare la mia che mi hanno colpito, due volte… sento
ancora… il sangue!- digrignasti, e forse il dolore di quelle
ferite ti aveva raggiunto di nuovo.
Feci
per avvicinarmi a te, ma tu proseguisti, bloccandomi dov’ero.
Con
più rabbia, stringendo i pugni furiosamente, dicesti:
–Giuro che se ci fosse un modo per dar fine a tutto questo,
non esiterei! Ma loro mi avevano avvertito che sarebbe successo! Mi
avevano detto che se mi fossi allontanato dall’Abstergo, non
sarei stato capace di moderare questi sintomi senza i loro farmaci!
Dissero che alcuni pazienti erano morti, tentando quello che sto
provando io. Dissero che la follia aveva indotto alla morte gli uomini
del passato che si erano trovati in questo futuro di merda! Lucy mi
disse che il soggetto 16 prima di me aveva scritto col suo stesso
sangue sui muri della stanza in cui mi hanno fatto stare! E prima
ancora, altri e tanti altri si sono tagliati le vene per scrivere sui
quelle pareti come fosse il diario della loro apocalisse personale!- mi
facevi paura, mi tenevo a distanza, perché la tua mascella
era contratta e serrata. La tua furia riecheggiava nella nostra stanza
e faceva tremare tutto quello che mi circondava. Non ti avevo mai visto
così, non avrei mai voluto vederti
così…
-Ed
ora non riesco a chiudere occhio… pensando che ne
prenderanno altri, altri poveri innocenti che vivevano la loro vita
belli tranquilli come me prima di tutta questa merda! Non sono sazi
dell’unico Frutto dell’Eden che li ho
portato…- ti calmasti, abbassando la voce e rilassando i
muscoli. Ti passasti le mani sul viso, sbollentando le tue furie, e ti
voltasti a guardarmi.
-Col
sangue… sui muri?- balbettai.
I
tuoi occhi da cucciolo passarono svelti sul mio corpo, fermandosi
all’altezza dei miei. –Quelli del progetto non
avevano cure a certi effetti collaterali del trattamento. Mi dissero
che se Altair si fosse impadronito di me e non avesse accettato le
cognizioni di cosa stava succedendo, il passo tra realtà e
follia sarebbe stato breve anche per me dall’altra parte
della linea del tempo. I precedenti soggetti subirono grossi danni
celebrali a causa del trattamento prolungato, e chi ne risentiva di
più erano per l’appunto gli antenati, non le
cavie. È tutta roba complicata che speravo mi sarei lasciato
alle spalle, una volta tornato qui, perché mi avevano
assicurato che con la lontananza dalle radiazioni
dell’Animus, “forse”, le cose si
sarebbero aggiustate col tempo…- sospirasti, serrando i
pugni. –ma non è successo. Altair potrebbe non
tornare più come restare nel mio corpo per
sempre…-.
Io
sobbalzai, portandomi la mano davanti alla bocca. Non potevo credere a
quelle tue parole, amore mio. Mi stavi dicendo che poteva non esistere
una speranza che qualcosa sarebbe andato per il verso giusto? Erano
maggiori le probabilità che le vostre due memorie restassero
scambiate per sempre? È questo che avevi paura di dirmi?
Temevi la mia reazione? E quale fu la mia reazione se non sgranare gli
occhi e realizzare al meglio ciò che ti era successo,
così da comprendere cosa e come fare per aiutarti.
Mi
avvicinai a te, ti sfiorai la spalla nuda con le dita. –Se
c’è qualcosa che posso fare…-.
A
quel tocco ti scansasti, ed io tremai.
Perché
l’avevi fatto?
Temevo
che Altair fosse tornato, e indietreggiai anche io. Non volevo che ci
sorprendesse in quel momento, perché finalmente stavo
capendo, e volevo capire. Erano trascorse dodici ore e più
da quando era successo l’ultima volta e avrei voluto che non
tornasse mai.
-Desmond?…-
ti chiamai, e se non ti fossi voltato avrei temuto il peggio.
E il
tuo sguardo cagnesco si stampò nel mio cuore. Era quello
sguardo… diverso, ed imprevedibile.
Sorridesti
dicendomi: -Scherzetto- e sulla tua bocca affiorò un ghigno
malizioso.
-Brutto…-
digrignai, ma tu non mi desti il tempo di aggiungere niente
d’altro.
Le
tue mani si strinsero sui miei polsi e le tue braccia mi tirarono verso
di te, issandomi poi a cavalcioni sul tuo corpo.
La
tua carezza sulla mia guancia divenne una presa sul mio collo, e di
seguito, senza lasciarmi il tempo di oppormi (cosa che non avrei
comunque fatto) mi baciasti.
In
quel bacio sfogasti tutta la tua rabbia, e in me crebbe la voglia di
averti di nuovo, anche se di avventura ne avevamo passata una giusto la
notte scorsa…
All’improvviso,
mi privai di quel contatto e, con le labbra ancora arrossate e avide di
te, trovai la forza per oppormi e dirti: -E se…-.
-Che
sia- portasti le tue mani sulla mia schiena, attirandomi con
più forza contro il tuo petto. –E se questa fosse
l’ultima volta?- mormorasti, e il tuo fiato bollente
s’infranse sulla pelle del mio collo.
-Ultima…-
pronunciai confusamente.
-Credi
che non ne soffra anche io?-.
-Tanto
per te non è un problema- sussurrai mentre i tuoi baci
smaniosi si spostavano più in basso, dall’angolo
della mia bocca fino alla sfaccettatura del seno.
-Hai
azzeccato in pieno- dolcemente mi privasti di quello che era il mio
pigiama, facendo cadere a terra prima la canottiera e poi il resto
della biancheria.
Ero
totalmente nuda quando anche tu ti degnasti di spogliarti
dell’ultimo indumento che avevi: i tuoi boxer andarono a
farsi benedire, raggiungendo le mie mutande accanto alla canottiera.
Una
volta sotto le coperte, il tempo corse velocemente.
Mi
strinsi a te poggiando il mio seno sul tuo petto scolpito. Ti avvolsi
in un abbraccio violento e le mie unghie penetrarono nella tua carne.
–Resta!- digrignai. –Posso trovare…
quella cura! Se è un fatto mentale, i medici sapranno
curarlo!- aggiunsi tra le lacrime.
Tu,
mestamente, mi accarezzasti la schiena nuda e il tuo tocco docile, come
il colpo inferto da una lama rovente, tracciò una lunga
linea che avrebbe bruciato in eterno sulla mia pelle.
Ero
sopra di te, ti stringevo come una bambina viziata abbraccia la sua
bambola preferita. –Ti prego…- piansi.
–Dimmi che un modo c’è…-.
-Tornare
da loro- anche la tua voce angelica, in quel momento, era piegata da
un’immensa tristezza. –Solo l’Abstergo
possiede quei farmaci-.
Mi
sollevai appena, giusto per guardarti negli occhi.
–Perché non hanno permesso che ne portassi
qualcuno con te? Perché un atto tanto disumano?!- strillai.
La
tua mano passò tra i miei capelli e percorse il profilo del
mio viso afflitto ma tutt’altro che rassegnato. –In
un modo o nell’altro, volevano che morissi-.
Non
potei credere di averti sentito dire una cosa del genere. –Ma
noi- balbettai. –Potremmo assumere un avvocato, potremmo
vincere una causa… non possono passarla liscia…-
andai a rovesciare le mie lacrime nell’incavo del tuo collo,
abbracciandoti disperatamente disperata.
Ricambiasti
quell’abbraccio con altrettanta disperazione,
poiché quella fosse la parola giusta per descrivere il modo
assurdo in cui ci venivano presentate le cose, che di per sé
erano assurde.
-Perché
tu sembri accettare tanto comodamente quello che ti sta succedendo ed
io no? Sei così tranquillo solo
all’idea…- singhiozzai.
-Un
uomo deve nascondere certe debolezze- rispondesti allegro.
A
quel punto, pur di farti aprire gli occhi su quanto fossi spaurita di
quella tua reazione, ti colpii con uno schiaffo.
La
tua mano che era sulla mia schiena la spostasti a massaggiarti la
guancia. –Perché l’hai fatto?!-
sbottasti sorpreso.
-Perché
stai sottovalutando la cosa!- subito mi pentii di quello che avevo
fatto, scoppiando in un mare di lacrime.
-Scusami,
ti prego, perdonami… se me ne lasciasti
l’opportunità, tenterei il suicidio- dicesti in
modo grave.
-Infatti,
fai bene a dirlo. Non te lo permetterei- ti sorpresi ancora di
più quando ti presi il volto tra le mani e ti baciai
chinandomi su di te.
Il
tocco delle tue dita percorse il mio braccio dal polso fino alla
spalla, sul collo che afferrasti con violenza.
Senza
darmi scampo, capovolgesti i nostri corpi.
Il
nostro bacio proseguiva, intenso, magnifico, disperato…
quello sarebbe stato l’ultimo?
La
conferma alla mia domanda arrivò nel bel mezzo della notte,
quando ormai ci eravamo addormentati per… ecco, lo sforzo.
Dalla
stanchezza, di rivestirsi non se ne parlava, ed era nato un accordo
silenzioso tra di noi che diceva: “come mamma c’ha
fatto” fino alla fine…
E la
fine stava arrivando, anche tu lo sapevi.
Io
lo avvertii vagamente, ancora avvolta dalla nube bianca e pacata dei
sogni. Stretta al tuo petto, le tue braccia attorno ai miei fianchi, le
tue gambe intrecciate alle mie. Immobili, come statue, in attesa.
Tu
calato nel tuo dolore muto, nel tentativo di posticipare lo scambio.
Ed
io, inconsapevole, che ti dormivo appiccicata.
Un
tremito, un sussulto del tuo corpo, impercettibile quasi…
fosse un’allucinazione.
-Giorgia…-
mormorasti il mio nome, e quella fu l’ultima parola della tua
voce.
Ti
eri arreso, e nella tua mente stava facendo irruzione quella del tuo
antenato. Entrambe le vostre coscienze venivano risucchiate da una
corrente anomala e paranormale che vi catapultava dalla parte opposta
della linea del tempo, ognuno nei ricordi dell’altro.
Parlasti di memoria genetica, ebbene le mie ipotesi erano quelle che
come tu potevi avere le memorie del tuo passato, Altair possedeva
quelle del suo futuro. Assurda, delirante, disperata ipotesi.
L’assassino
trattenne il respiro.
Oh…
oh.
-Ah!-
urlai a squarcia gola scansandomi da lui e balzando fuori dal letto,
trascinando con me il piumino a coprirmi.
Altair
fece altrettanto, portando con sé il cuscino che
sistemò ad impedire la mia vista tra le sue gambe.
-Ma
che diavolo!- sbottò lui.
-Aaaaah!…-
il mio grido si affievolì fino a divenire un gemito, e tra
di noi cadde la quiete della notte, mentre i nostri occhi si fissavano
spaventati e sbigottiti.
____________________________
Elika95 accorcia
questo angolo d’autore poiché, come suo solito, si
ostina a posare i capitolo intorno alle 2-3 del mattino.
Un
grazie strepitoso a:
Saphira87
Lilyna_93
Goku94
Sparrow
LevitheBookman
X
Sparrow e goku94: visto??? Altair salta fuori
lì, o nelle vicinanze a quel momento…
X
Saphi: ecco qua, che gran fatica scrivere certe scene e
certi particolari quando non si ha esperienza!!! Comunque
sì, Desmond stava per essere colpito quando lui e Altair si
sono scambiati di nuovo, e all’assassino toccherà
la peggio… spoiler, spoiler, spoiler!!! Ma quando
imparerò a starmi zitta?!?!?
X
Lilyna (se mai dovesse leggere questo appunto): prego
perché i tuoi siano più comprensivi in
futuro… o perché tu possa andare meglio a scuola.
Più probabile la prima… XD XD scherzo, avanti ce
la puoi fare!!!
|
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Capitolo 6 *** Caricamento ***
Caricamento
***
Desmond
atterrò col fondoschiena su qualcosa di duro, e chiuse gli
occhi dal dolore, mentre un gemito gli sfuggiva di bocca.
–Ahio!- sbraitò, e la suo onomatopea
rimbombò una decina di volte.
Il
ragazzo si alzò lentamente, aiutandosi con le braccia.
Possibile
che i suoi piedi toccassero terra ma che terra non vi era?
Era
tutto come al solito, o meglio, come capitava di solito. Una nube
bianca e soffusa avvolgeva il raggio d’azione della sua
vista. Era come viaggiare attraverso le nebbia che era dappertutto: una
patina brillante che lo circondava. A chiazze, come le nuvole del
cielo, galleggiavano simboli matematici, lettere greche e anche numeri
senza un ordine apparentemente logico.
Era
così che Lucy la chiamava: la sala d’attesa, il
“caricamento”. Desmond era passato di lì
tutte le volte in cui l’Animus doveva prendersi del tempo per
caricare il ricordo. Una stanza senza pareti, senza soffitti, senza
pavimenti. Il vuoto e il pieno che si concentrano in un unico punto:
quella stanza che stanza non era. Sembrava uno di quei buffi disegni,
come per esempio le scale infinite di quel famoso artista…
sì, quello lì, avanti! Quel tizio disegnava le
scale che andavano a destra e a manca, contorcendosi sul soffitto e sul
pavimento scambiandoli di posto. Una cosa assurda.
Desmond
attese, paziente e in silenzio, mentre attorno a lui riecheggiava il
suono indistinto di campanelli e clangori metallici. Era il richiamo al
passato, alla guerra con le spade e gli scudi, a cavallo e con la
lancia in mano.
Aveva
sempre odiato il medioevo, soprattutto alle medie.
Desmond
si voltò, e i suoi occhi tristi vagarono nella nebbia,
cercando di scorgere una particella una di quello che era il suo vero
tempo, la sua vita. Allungò una mano, che poggiò
su una superficie invisibile come la lastra di un vetro. Quello era il
confine che gli era vietato passare: quella lastra di vetro si
allungava all’infinito in tutte le direzioni e solo Altair
poteva passare dall’altra parte, mentre a lui toccava
camminare verso il passato.
La
linea del tempo… pensò. Quella stessa stanza
d’attesa prendeva quel nome, perché in quella
nebbia chiara e soffusa ci si poteva perdere, finendo nel diciottesimo
secolo o nel futuro. All’epoca dei dinosauri o a fare un
saluto a Giulio Cesare. Le “nebbie” del
tempo…
-Giògiò…-
mormorò accarezzando il vetro che gli impediva di tornare
dalla sua ragazza.
-Non
credere che sia tanto facile anche per me- sbottò Altair.
Desmond
si girò adagio, sospirando, e si trovò davanti il
suo antenato.
L’assassino
indossava le sue vesti della confraternita, le mille armi legate alla
cintura e i lacci di cuoio che passavano da una spalla
all’altra. Le braccia lungo i fianchi, il portamento fiero e
il volto celato dal cappuccio.
-No-
rispose Desmond abbassando lo sguardo. –Non l’ho
mai pensato- mormorò.
-Vuoi
che glielo dica?- fece Altair con tono pacato, tranquillo.
-Di
cosa?- chiese afflitto, contenendo a stento la rabbia.
-Di
noi, qui, adesso. Di questo luogo!- Altair alzò le mani al
cielo (che non c’era).
-Sì,
spiegale tutto. Come io ho spiegato tutto a te…-
sussurrò. –A proposito- alzò gli occhi
incrociando quelli identici del suo antenato.
–Ecco!…- rise passandosi una mano tra i capelli
corti.
-Che
cosa hai combinato?- Altair fece un passo avanti. –Desmond!?-
gli puntò il dito contro.
Il
ragazzo del futuro indietreggiò, poggiando la schiena sul
vetro invisibile del confine tra l’anno
“zero” e il futuro per lui ormai fuori portata.
–L’abbiamo fatto, mi spiace, ma volevo dirle
addio!- strinse i pugni.
Altair
celò il suo stupore nell’ombra del cappuccio.
–cosa?- si costrinse a chiedere moderando il tono scioccato.
-Non
farla sentire in imbarazzo, ti prego- disse Desmond, sollevando il
mento. –è stata una mia idea, se vuoi arrabbiarti
con qualcuno prendimi a pugni, qui, adesso! In questo luogo!-
ripeté.
-Credi
che riuscirei a trattenermi da questo?!- digrignò
l’assassino. – Ti prenderei volentieri a pugni,
nipotino! Infondo è colpa tua! Tu hai voluto lasciare quei
signori! Tu non sei voluto restare con loro quando erano gli unici che
avrebbero impedito tutto questo!- lo rimproverò agitato.
Desmond
tacque.
-E
guardami negli occhi quando ti parlo, ragazzo!- gridò.
Desmond
alzò il viso. –Sì, nonno?- rise
sarcasticamente rassegnato.
Altair
serrò i denti. –Piantala, non mi sembra il
momento. Il sarcasmo di voi del futuro non lo sopporto!-
sbottò irritato.
-E
perché?- Desmond sogghignò. –Credi che
mi piaccia fare quello che fai tu nel passato?!- si strine nelle spalle.
-Ovvio
che no! Ma almeno potresti renderti utile! A cominciare dal fatto di
non accettare incarichi! Il tuo ultimo scherzetto mi è
costato un bendaggio per un mese!-.
-Non
sapevo che fare, ero terrorizzato! Quel tuo vecchio maestro ha
cominciato a riempirmi di congratulazioni ed io annuivo! Come un
deficiente, ma annuivo!- rispose Desmond.
-Se
tu lo vuoi- Altair parve calmarsi. –farò di tutto
perché questo finisca. Con l’aiuto della tua
promessa, spiegandole quello che tu hai spiegato a me potrei trovare un
modo per guarirci- disse serio.
-Ne
sei in grado?- domandò alzando un sopracciglio, e nei suoi
occhi balenò una luce di fiducia.
Altair
annuì. -Qualsiasi cosa. Non me ne starò con le
mani in mano, nipote-.
-Ok,
ma piantala di chiamarmi così! O giuro che la prossima volta
ti chiamo nonno senza darti tregua- proferì il giovane del
futuro incrociando le braccia.
Altair
soffocò una risata. –Come vuoi- sospirò.
Su
di loro cadde un silenzio pieno di sottintesi. C’erano tanti
punti da chiarire, tante domande da farsi prima di abbandonare le
proprie speranze nelle mani altrui.
Desmond
dipendeva da Altair e Altair dipendeva da Desmond. Ognuno nel tempo
dell’altro, se la sarebbero vista con i problemi quotidiani
di due vite l’una molto differente dall’altra.
-E
così- rise Altair. –Me la ritrovo nuda, la tua
ragazza…- bofonchiò.
Desmond
sorrise. –Qualcosa mi dice che non ti dispiace affatto!-.
L’assassino
condivise la sua gioia. –Vedrò di…
trattenermi- fece malizioso.
-Guarda
che io ho gli occhi anche qui!- Desmond si batté una pacca
sulla nuca. –Non provocarmi, se non sbaglio ho preso da te!-.
-Certo,
come no- farfugliò l’uomo del passato.
-Chi
è la mia bis, bis, bis, bis nonna?- domandò ad un
tratto il giovane.
Altair
alzò gli occhi al cielo (che non c’era).
–Qualsiasi cosa pur di posticipare, vero?-
pronunciò risentito.
Desmond
annuì.
-Non
lo so…- rispose Altair alla domanda.
Desmond
sobbalzò. –Come non lo sai?! Nel senso…
non lo sai ancora, o non lo sai perché…-.
Altair
lo fulminò con un’occhiataccia.
–Smettila, ragazzino. Non lo so perché non ho mai
osato… per ora-.
-Perfetto!-
Desmond si passò una mano sul volto.
-Che
c’è?-.
-Sai
questo che vuol dire?!- Desmond avanzò verso di lui.
-No-
rispose il suo avo.
Desmond
tacque un istante. –Stupido, se resto nel tuo tempo troppo
allungo e non mi faccio nessuna per conto tuo, tu, cioè io
potrei scomparire! Te capì?- sgranò gli occhi.
Altair
ci pensò allungo. –Questo affretta solo le cose,
quindi cammina- Altair fece un passo avanti con un balzo.
–Accorciamo l’attesa, avanti- allungò
una mano.
Desmond
indietreggiò. –Aspetta, non ancora!- si ritrasse.
-Che
cosa c’è ancora?!-.
Il
ragazzino indietreggiò, fino a poggiare le spalle contro la
parete invisibile.
-Allora?-
fece lui impaziente.
-Le
ho già detto qualcosa, ma non tutto… ti prego,
è una ragazza suscettibile, debole… lei scrive,
ha già pubblicato un romanzo e ha tirato avanti
così, da sola, per questi otto mesi che non ci sono stato.
Se volete mettervi a cercare una cura, qualcuno… che possa
aiutarci, bene è meglio, ma devi prenderti cura di
lei… ti scongiuro- disse con un filo di voce.
-Altro?-
l’assassino addolcì il tono. –Altro da
dirle o che devo fare?-.
-C’è
un tipo… si chiama Nikolas. Prima che ci conoscessimo
Giorgia stava con lui. Tieniglielo lontano, ok? Non è uno
affidabile. Certo, tra loro è finita, ma continuo a vederlo
di malocchio. Lui si ostina a dire che sono solo amici, ma sarebbe
capace di metterle le mani addosso. Potresti anche scoprire se
l’ha fatto in questi otto mesi? Così,
sai… per curiosità, tanto non avrai un cazzo da
fare tutto il giorno…- borbottò.
Altair
era rimasto impalato ad ascoltare. –Hai finito?-
domandò quieto.
-No,
poi c’è il lavoro-.
-Desmond-.
-Che
c’è?-.
Altair
lo guardò serio. –Il tempo corre-.
-Sì.
Lo so, lo so. Hai ragione…-.
Desmond
si staccò dalla parete invisibile e gli andò
affianco. –Prenditi cura di lei…-
mormorò guardandosi i piedi.
Altair
gli cinse una spalla. –Tu pensa solo a sopravvivere, chiaro?
Non sottovalutare le naturalezze del mio tempo…
lì la vita è più dura di quel che
credi, e non solo per il fatto che non sai usare una spada- gli disse,
ed Desmond annuì.
-Pronto?-
chiese ancora Altair.
Il
ragazzo poggiò la sua mano su quella del suo trisavolo e a
quel contatto una luce accecante li avvolse entrambi.
Pochi
secondi e il bagliore scomparve.
Desmond
si ammirò sconfortato. Avevano fatto a cambio di abiti: il
suo trisavolo, alla sua destra, indossava una felpa bianca e un paio di
jeans, mentre su di lui pesavano i chili di armi e lacci di cuoio.
I
due si scambiarono un’ultima occhiata, poi Altair mosse i
primi passi avanti e, attraversata la parete che c’era solo
per Desmond, la sua figura si dissolse come la sabbia sollevata dal
vento.
Desmond
strinse l’elsa della spada e avanzò con fierezza
verso il suo passato.
***
L’assassino
trattenne il respiro.
Oh…
oh.
-Ah!-
urlai a squarcia gola scansandomi da lui e balzando fuori dal letto,
trascinando con me il piumino a coprirmi.
Altair
fece altrettanto, portando con sé il cuscino che
sistemò ad impedire la mia vista tra le sue gambe.
-Ma
che diavolo!- sbottò lui.
-Aaaaah!…-
il mio grido si affievolì fino a divenire un gemito, e tra
di noi cadde la quiete della notte, mentre i nostri occhi si fissavano
spaventati e sbigottiti.
-L’avevo
avvertito! L’avevo avvertito, ma mi avesse dato retta!-
strillò l’assassino, ed io rabbrividii.
-Cosa?-
balbettai. –Tu… Stai parlando di Desmond?! Tu gli
hai parlato?- chiesi, sbigottita.
Altair
sgranò gli occhi. –Non te l’ha detto?
Buffo, avevo capito il contrario…-.
Quella
situazione era assurda, ma speravo tanto che un giorno avrei potuto
raccontarlo a qualcuno! Tornando a noi… Di cosa stava
parlando Altair? Possibile che tu e lui vi foste incontrati? Insomma:
sembrava essere arrabbiato perché ti aveva avvertito che
saremmo potuti cadere, io e il tuo antenato, in quel genere di merda
fino al collo. Intendiamoci, Desmond, poteva anche essere il tuo pro,
pro, pro, pro nonno, ma mi vergognavo comunque di farmi vedere nuda da
lui! E forse Altair provava lo stesso…
-Scusa
tanto ma ora non mi sembra il momento più adatto!-
sbottò l’assassino.
-Sei
tu che hai accennato all’argomento, mica sono io quella che
vengo dal passato!- ribattei con voce altrettanto alta. E se i vicini
avessero sentito?
-Ma
ormai ci siamo, e vedi di fartene una ragione!- fece lui, che teneva il
cuscino tra le gambe.
Del
tuo antenato vedevo solo i pettorali scolpiti in un marmo di cioccolato
e le braccia incredibilmente muscolose. Era rigido come un palo di
legno, ma la paura e lo sconforto lo facevano tremare.
Eppure… mi parve da un lato… tranquillo. Che
contro senso assurdo, pensai.
Strinsi
il piumino tra le dita con più forza.
–Ebbene…- borbottai, attirando la sua attenzione
su di me, ma vidi i suoi occhi cercare di scorgere anche oltre.
–abbiamo intenzione di restare così per sempre?-
alzai le spalle, e un brivido mi percorse la schiena.
-Ovviamente
no- fece lui distogliendo lo sguardo.
Io
mi sistemai meglio il piumino attorno al corpo e, coperta per bene da
tutte le parti, mi avviai all’armadio. Aprii i cassetti e
tirai fuori la prima cosa che trovai.
Lanciai
la maglietta e i pantaloni nel bagno, chiusi i cassetti.
–Bene, ora mi giro, ma tu lasci il cuscino sul letto, vai in
bagno e ti vesti, tutto chiaro?- farfugliai confusamente.
Lui
annuì, io mi voltai a guardare fuori dalla finestra e rimasi
con gli occhi al cielo stellato fin quando non sentii la porta del
bagno chiudersi.
Con
un immenso sospiro di sollievo mi gettai sul letto.
Dopo
poco Altair tornò nella nostra stanza con indosso i tuoi
vestiti. –Fatto, ora…- l’assassino
s’interruppe, fissandomi.
Mi
ero addormentata, perché dalla stanchezza i miei occhi si
erano chiusi dolcemente come le tende del teatro. Un assassino del
passato girava per casa mia e solo io potevo cadere tra le braccia di
Morfeo in quel momento.
Nel
mio sonno agitato, il piumino era scivolato dalle mie gambe, una delle
quali era ben in vista fuori dalla coperta.
Il
ragazzo alzò un sopracciglio, ma si riscosse e
lasciò la camera avviandosi nel salone.
Colsi
i suoni confusi che provenivano dalla cucina: sportelli che si aprivano
e cassetti delle posate che sbattevano silenziosamente. Poi
l’assassino curiosò anche nel frigo e colsi
confusamente il suono del contatore del microonde che fece
“tìn!”.
Alla
fine cedetti, e il buio mi avvolse prima di cogliere il miagolio
affamato della mezzanotte di Finger.
La
suoneria del mio cellulare mi fece traballare.
Non
seppi che ore erano, ma sollevai una mano verso il comodino e afferrai
il portatile.
-Pronto?-
disse con voce rauca.
-Ciao
Giògiò! Sono Nikolas-.
_____________________________________
Elika
95 si è addormentata sulla tastiera e, dopo questo capitolo
tanto atteso ma, secondo me, mal riuscito, ringrazia con il cuore:
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
X
Saphi: sono una vera demente se pensavo di poter posare
questo chappo con solo la parte scritta in corsivo. Stupida, stupida,
stupida me! La tua pazienza su msn, nonostante sei disperata e non
trovi la song, mi ha fatto tornare il sorriso e la carica giusta per
mettermi a scrivere per bene tutto il “risveglio”
di Alty nel presente.
X
Tutti gli altri: non ci sono avvisi particolari, per
ora… qualsiasi dubbio, il mio contatto msn è sul
mio profilo, più in basso alla mia immagine.
P.S.
Recensite…
non mi sembra di avere nulla da aggiungere… uhhhaaa
(sbadiglia). Fatemi sapere la vostra, vi adoro! Se state leggendo
questa o la mia altra ff vi adoro… comunque volevo dire che
questo capitolo ha divertito più me scriverlo che
sicuramente voi leggerlo… insomma, a parte il fatto che
Giògiò e Altair si trovano in quella situazione e
se ne escono semplicemente vestendosi… mi sembra piuttosto
banale, lo so, ma mi sembra di averlo accennato: non sono brava a
simulare certi avvenimenti paranormali.
Hmm.
Scherzi a parte, come avete trovato “la sala
d’attesa”? Per chi ha provato il gioco, mi sono
ispirata molto a come si svolge il caricamento, ovvero con quella
nebbiolina chiara e soffusa… a dirla breve, vi ci siete
ritrovato? Insomma, volevo che quella parte del chappo somigliasse
molto a quando si svolge il caricamento nel gioco, ecco
perché si chiama “caricamento” il
capitolo. Ebbene, pace a tutti… Qui Elika che vi passa la
linea… grazie, grazie!!!
|
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Capitolo 7 *** Un forte bisogno ***
Un
forte bisogno
-Nik…
ciao- mi passai una mano sul viso a stropicciarmi gli occhi. Di seguito
sbadigliai.
La
luce del sole penetrava dalle finestre chiamando a sé il
nuovo giorno. Tutto attorno a me taceva, ma bastava la presenza di quel
bastardo attaccato al mio orecchio per farmi innervosire.
-Ciao
a te, bellezza-.
M’irrigidii.
–Che cosa vuoi?- guardai la sveglia e notai con stupore che
erano le 11 passate. Scattai in piedi e avvertii un certo
freschetto…
Ad
un tratto sentii la voce di Altair farsi più vicina dicendo:
-Sono felice che tu ti sia svegliata, volevo parlarti… di
alcune… cose e…- ero ancora nuda quando il tuo
antenato entrò in camera e si fermò
sull’ingresso, ma subito dopo si voltò mentre io
lasciavo cadere il cellulare a terra e mi coprivo quello che le mie
esili braccia potevano coprire.
-Merda!
Vattene!- afferrai un cuscino e lo lanciai addosso ad Altair, che
uscì di corsa dalla stanza accostando la porta.
Il
ragazzone non disse nulla, restando con le spalle alla parete del
corridoio, poiché evidentemente qualcosa aveva fatto in
tempo a vedere.
Lanciai
un’occhiata oltre la fessura della porta e mi chinai a
raccogliere il cellulare. –Scusa Nik, ci sentiamo
dopo, ora non posso!!!- digrignai attaccandogli in faccia, e corsi a
raccogliere i vestiti che avevo gettato a terra quella notte
quando… era successo quello che era successo.
Corsi
nel bagno e, poggiando il cellulare accanto al lavandino, mi chiusi a
chiave.
Un
gran sospiro, qualche secondo per riprendermi e sbollentare il rossore
non solo delle mie guance. E solo allora mi rivestii col pigiama.
Mi
sollevai lentamente, sia per la stanchezza sia perché la
corsa verso il bagno mi aveva indolenzito la schiena. Diedi una svista
al tuo spazzolino e mi chiesi se sarei stata in grado di lasciare che
l’inquilino del tuo corpo lo usasse. Mi aggiustai i capelli,
fissando la mia brutta immagine nello specchio sopra il lavandino. I
miei brutti occhi verdi, il mio brutto mento e le mie brutte labbra che
non ti avrebbero più… sfiorato.
Poggiai
due dita su quelle labbra.
Ero
triste, immensamente triste… il massimo grado della
tristezza, ero depressa. Desmond, c’era un modo per farti
tornare ed erano quei farmaci. Ma c’era una speranza che
quello non fosse stato l’ultimo scambio. O meglio, io era
l’unica e sola ad avere quella speranza. Tu me
l’avevi indirettamente detto mentre facevamo
l’amore che non ci sarebbe stata una prossima volta. Ed io
avevo annuito in silenzio, come una deficiente, ma avevo annuito.
Dovetti
appoggiarmi al lavandino, contro cui sbattei le ossa delle mani
sonoramente. Mi ero fatta male, ma quel dolore era nulla in confronto
al vuoto che sentivo crescermi dentro. E senza accorgermene cominciai a
piangere, rovesciando le mie lacrime sulla bianca porcellana del
lavabo. I miei gemiti divennero grida, le mie grida divennero parole,
ma più precisamente gridavo il tuo nome e imploravo Dio di
essere clemente.
Qualcuno
bussò alla porta chiusa, e quel qualcuno mi aveva vista nuda
e mi avrebbe presentato le sue scuse. Invece Altair aveva ascoltato il
mio pianto tacendo, fuori dal bagno. –Tutto bene?- lo sentii
chiedere; la sua voce così dannatamente differente dalla tua.
-Sì!-
strillai, ma pronunciare quel monosillabo mi portò ancora
più in basso, costringendomi con le spalle alla porta;
scivolai giù fino a toccare terra con le mani. Avevo bisogno
di realizzare la merda in cui ero finita, avevo bisogno di gridare e
avevo bisogno che i vicini chiamassero il pronto soccorso per il
semplice fatto che Altair non aveva idea di come si usasse un telefono.
Il
cellulare sul lavandino riprese a squillare, e il vibratore lo spostava
ad ogni squillo di qualche centimetro verso il bordo della mensola
accanto al lavandino.
Lo
guardai cadere tra le mie gambe e continuare a vibrare. Il volo non era
stato abbastanza alto, per far tacere l’arroganza di Nikolas
degli ultimi mesi avrei dovuto cambiare numero. Poi ripensai alla
chiamata di Marty, e a come la ragazza aveva proposto
quell’assurda festa di rientro per Desmond.
I
miei singhiozzi si erano calmati mentre tra le mani stringevo il
portatile che continuava a vibrare, diffondendo quella suoneria assurda
per tutta la stanza toilette.
Con
violenza lo scagliai alla parete davanti a me, e questo si
rovesciò sulle mattonelle frantumato in due pezzi: batteria
e coperchio da una parte, tastiera e scheda dall’altra. Tutto
taceva.
Silenzio
amato, ristoratore e calmante. Fungeva da anti-depressivo, era una cura
preziosa e ringraziai il Signore per avermi dato la forza necessaria
per azzittire quel cazzo di cellulare.
-Appena
te la senti, sono qui fuori. Volevo parlarti… di Desmond-
disse Altair. –Però sbrigati, che sono anche
piuttosto affamato…- borbottò.
Mi
era parso divertente, così risi a quelle parole. Un
assassino del XII secolo venuto dal passato possedendo il corpo del mio
ragazzo chiedeva cibo in casa mia. Perché no, infondo gli
asini hanno radunato un fondo cassa per comprarsi i jet pack della
N.A.S.A. e hanno imparato a volare!
Restai
nel bagno una decina di minuti, che divenne in fretta una
mezz’ora mentre ripassavo i particolari di quella notte. Che
gran maniaca che ero, pensai alzandomi lentamente.
Fissai
la porta davanti a me alcuni istante.
Ce
la potevo fare: quel pianto mi aveva fatto bene ed ero pronta a varcare
quella soglia, oltre la quale iniziava una nuova, e che sia maledetta,
avventura.
Allungai
una mano, strinsi la maniglia e aprii la porta con calma
Altair
si alzò dal bordo del letto e venne verso di me.
–Tutto bene?- chiese ancora.
-Mi
aspettavo che come minimo chiedessi scusa- bofonchiai e lui mi sorrise
divertito. Io ci trovavo poco e niente di divertente.
-Allora
chiedo perdono, ma non immaginavo che… scusa- disse
pasticciando con le parole, ma alla fine trovò quella giusta.
-Perdonato-
gli arrisi.
Lui
fece un gran sospiro. –Che cosa hai spaccato quando eri
lì dentro?- domandò ridendo indicando il bagno.
Io
alzai le spalle e mi apprestai a chiudere la porta, prima che si
accorgesse del cellulare violentato sul pavimento. –Nulla- mi
schiarii la voce. –Dicevamo. Non dovevi parlarmi
di… Desmond? O meglio, sbaglio ho mi hai detto di averci
scambiato una chiacchierata? Com’è possibile?
Quando?- lo tempestai di domande, e l’assassino
indietreggiò.
Indosso
aveva ancora quello che gli avevo distrattamente dato pur di vestirlo
con qualcosa.
-Sì-
disse lui. –Infatti, è così. Sembra
assurdo, ma la prima volta che ci accadde mi spiegò lui di
cosa si trattava. Ebbene, questa notte…- si
fermò, pensando a chissà che cosa.
-Continua!-
gli intimai.
-Non
è semplice- sbottò severo. –Credi che
non sia preoccupato quanto te?!-.
-Stai
sempre a preoccuparti di te! Potresti pensare agli altri, ogni tanto?!
Scommetto che sei così stronzo anche nel tuo tempo- evitai
il suo sguardo, allontanandomi da lui e apprestandomi a mettere ordine
nella stanza, cominciando dal letto.
Lui
parve irritarsi. –Non ti permetto di parlarmi
così- strinse i pugni.
-Altrettanto,
perché di merda mia ce n’ho già
abbastanza, e non mi va proprio di badare anche al tuo pannolone!-
strillai.
I
vicini! Qualcuno chiami i vicini! O direttamente l’ambulanza!
Portatemi via… voglio restare in coma per qualche anno. Si
disse schietta.
Altair
allargò le braccia, scioccato. –Non ho idea che
cosa “stronzo” voglia dire, ma ti assicuro che
Desmond avrebbe voluto che collaborassimo, poiché io ti
servo vivo per farlo tornare!-.
Sbattei
il piumino con violenza e gli lanciai un’occhiataccia.
Lui
proseguì: -E per restare vivo, ho bisogno di cibo- rise.
Con
quelle sue battutine credeva di tirarmi su il morale, e ci stava
riuscendo.
–Va
bene- mi arresi, tranquillizzando il mio animo stressato. –Ti
preparerò qualcosa da mangiare, ma voglio andare in fondo a
questa storia-.
-Concordo
pienamente, Lady Giorgia- annuì soddisfatto.
-E
piantala di chiamarmi così!- urlai togliendo le fodere dai
cuscini.
Lui
allungò il suo sorriso.
-Mi
fa sentire… vecchia- dissi avviandomi a prendere delle nuove
lenzuola dall’armadio.
-Il
tuo ragazzo mi chiama nonno; suppongo di avere il diritto di rifarmi
con qualcuno- sogghignò.
Mi
bloccai, ma ci sarebbe stato tempo per altri quesiti. Ora ero impegnata
a rifare il letto e mettere ordine nella stanza. Tanto valeva non
perdere buone mansioni per tenere occupata la mente.
Mi
chinai a cambiare il copri materasso, e il giovane assassino mi diede
una mano. Afferrò i due angoli opposti del lenzuolo e
seguì i miei movimenti come fosse il mio specchio.
Tanta
somiglianza… poteva essere anche solo un brutto scherzo, ma
non sarebbe durato così allungo.
In
breve completammo l’opera, e il letto fu rifatto.
Mi
voltai, inciampando in quelli che erano stati i pezzi del tuo pigiama
prima che ci amammo. Mi chinai a raccogliere i tuoi pantaloni e i tuoi
boxer, che strinsi con avidità.
Altair
mi fissava, ma io gli davo le spalle e probabilmente non
capì che cosa avevo in mano.
Lanciai
tutto nel cesto della biancheria sporca nel bagno, ma giurai a me
stessa che non appena fossi tornato, avrei fatto bruciare ogni singolo
abito che portava il tuo odore di quell’ultima notte.
Avrei
cancellato dalla mia vita il ricordo della parola
“addio” mentre le tue mani accarezzavano il mio
corpo.
Lasciai
la stanza avviandomi in cucina. Per l’assassino preparai di
fretta delle uova sbattute, non avendo idea se sapesse cosa fossero, ma
almeno aveva assistito alla rottura dell’uovo.
Altair
sedette a tavola ed io con lui, dopo essermi preparata non un the, ma
una camomilla.
Mi
tremavano le mani.
Quali
erano state le tue ultime parole? Cosa avevi detto al tuo antenato
affinché lui lo dicesse a me? Avevo compreso da quelle poche
e sfuggenti informazioni cui mi aveva rivolto Altair che voi due vi
eravate parlati. Ebbene, ora non indugiai, andai dritta al sodo
intingendo il biscotto di pasta frolla nella tisana.
-Dimmi
tutto!- dissi.
Altair
guardava quella zappetta gialla che aveva davanti al naso con ripugno.
Aggrottò la fronte e domandò: -Sicura che siano
uova? Oppure nel futuro mettete questa buffa sostanza gialla e bianca,
appiccicosa…- lo vidi insicuro anche su
quell’arnese chiamato forchetta che aveva affianco al piatto.
-Tu
parla, la mamma ti insegna più tardi a mangiare come gli
adulti- disse irritata.
E
lui se n’accorse. La sua espressione divenne silente, i suoi
occhi scuri mi fissarono allungo con fastidio, mentre la sua schiena
sempre composta si adagiava sullo schienale della sedia.
–Grazie tante- si lamentò. –Pensavo
avessi capito come mi sento- aggiunse avvilito.
-Senti,
non farmi la predica!- buttai giù un sorso di camomilla.
–Sei tu quello che ha causato tutti questi problemi. Se te ne
fossi stato buono e alla larga dal coso dell’Eden, ora non
saresti qui, lo sai?-.
-Non
avevo scelta!- rispose lui, e i nostri litigi si sarebbero moltiplicati
nell’arco di qualche secondo, entrando in particolari
inaspettati. Per esempio, avrebbe sicuramente contestato che doveva
tenere la forchetta con la mano destra!
Poggiai
la tazza sul sotto bicchiere e mi passai le mani sul volto, stirando la
pelle. –Dio!- assentii.
-A
chi lo dici, ma non funziona invocare quel genere di aiuti. Ci ho
provato tante volte…- sussurrò.
Quell’uomo
che avevo davanti aveva ucciso, e tentato di ammazzare anche me. Se era
così turbato allora perché non provava a sfogare
tutto il suo tormento in quello che sapeva fare bene? Insomma, a me
veniva tanto comodo piangere! Potevo lasciarlo girare per il quartiere
e aspettare che la polizia lo arrestasse, ma con un coltello sarebbe
stato in grado di tornare in questa casa con qualche distintivo delle
forze dell’ordine da appendere al muro come trofeo. Quella
sarebbe stata la nostra vita felice se al più presto non
cercavo di convincerlo a parlare, a darmi notizie di te.
-Ti
prego! Ti prego!- lo implorai e presi una sua mano tra le mie.
–Dimmi cosa ti ha detto! Dimmelo, e farò tutto
quello che vuoi! Tutto, qualunque cosa!- agli occhi mi stavano tornando
le lacrime, eppure credevo di averle esaurite tutte nel bagno, assieme
alla voce.
-Io
voglio solo andarmene, e non rivedere te e questo tempo mai
più per il resto dei miei giorni- sibilò.
-Oh,
allora siamo d’accordo su qualcosa!- mi avvicinai a lui
scalando di un posto.
Ci
fu un certo silenzio, mentre le mie dita stringevano le sue, che non mi
piacque. Mi chiesi cosa ci trovava di tanto interessante nel fissarmi
così, pensando chissà cosa nella sua testolina
medievale.
Ad
un tratto il calore del suo abbandonò il mio gelido e
pallido palmo.
L’assassino
si mise a braccia conserte e si grattò un istante dietro la
testa. –è difficile spiegare dove, o quando, ci
siamo incontrati. Da quanto mi ha detto, il luogo in cui le nostre
coscienze si scambiando è un buco nello spazio, un vuoto
immaginario che galleggia sulla linea del tempo-.
Ascoltai,
completamente assorta e allungata verso di lui. Volevo assimilare al
meglio ciascuna sillaba delle vostre parole.
Altair
proseguì. –Mi ha parlato dei signori
dell’Abstergo e dell’operato che fecero su di lui.
Però ha insistito che ti dicessi che io e lui ci eravamo
scambiati già, anche prima che lui tornasse in questa casa-.
Novella
nuova, pensai, ma perché non avevi voluto dirmelo? Non
m’importava, ormai ad aprirmi gli occhi sulla
verità c’era il tuo antenato.
-Già
scambiati?- ripetei sorpresa.
Lui
annuì. –Questi storici del progetto cui mio nipote
era schiavo lo sottoposero a degli esami mentre io ero nel suo corpo e
lui nel mio. Volevano testare se saremmo sopravvissuti ad un cambio
radicale, o meglio… Desmond voleva saperlo-.
-Cosa?!-
sobbalzai.
Lui
si fece ancor più serio. –Quelli
dell’Abstergo potevano tenere buoni i sintomi, attenuare
questo nostro scambio e mantenerlo sotto controllo, gestirlo. Desmond
voleva tornare da te, voleva vederti un’ultima volta, ma i
signori del progetto non volevano che la loro cavia girasse libera
sapendo quello che era successo. Ovviamente, non sapevano che per pochi
istanti io e lui potevamo parlarci, così lui disse tutto a
me ed io dissi tutto a te. A questi signori bastava solamente che
Desmond tacesse, e ormai non ci tengono neppure più sotto
sorveglianza. Veri stolti, perché ora possiamo fermarli. Il
succo della questione è che Desmond sapeva che sarebbe
successo e che nulla avrebbe impedito che noi due ci scambiassimo, ma
il tuo ragazzo ti ha desiderata troppo allungo per non meritarti almeno
una notte- ridacchiò.
-Ehi!
Non ti è permesso entrare in certi dettagli!- lo guardai
torva.
Lui
trovò nella mia espressione un pretesto per allargare il suo
sorriso.
Io
tornai a sguardo basso. –Tutto qui?- chiesi torturandomi
un’unghia. –Voleva solo fare sesso con me e poi
scappare in un altro tempo?- brontolai.
Altair
soffocò la sua gioia. –Ovvio che no- disse, e i
miei occhi verdi incontrarono le sue pupille nere.
-E
allora? Mi sento più confusa di prima-.
-È
normale- fece lui afferrando la forchetta in un modo esperto che mi
stupì. –Mi aveva avvertito che saresti stata
più ottusa di me, a riguardo-.
Sorrisi.
Desmond, avevi sempre amato prendere in giro la mia
stupidità e la mia ottusaggine. Quelle erano di certo parole
tue.
-C’è
altro?- domandai mesta.
-Sì-.
Sollevai
il viso, sorprendendomi delle poca distanza che c’era con
quello del tuo antenato. –Sarebbe?- mormorai.
-Devo
prendermi cura di te- annunciò come se l’avessero
appena fatto salire di rango.
Io
inarcai un sopracciglio. –Ma se sono io quella che sa guidare
una macchina, accendere i fornelli e tenere una forchetta!- sbottai.
Altair
alzò la mano che stringeva educatamente la posata.
–Non ci sperare- disse divertito, cominciando a mangiare le
uova.
Non
riuscii a trattenere un medesimo sorriso. Quell’uomo
dimostrava un tale coraggio che neppure nei film d’azione mi
sarei aspettata. Se veniva dal passato, dovevo sorprendermi e
allontanarmi dai suoi comportamenti. Eppure, forse quella specie di
addestramento trascorso nell’Abstergo a testare lo scambio
con te gli avevano fatto bene. Qualcuno gli aveva insegnato a tenere
una forchetta in mano, e qualcuno gli aveva spiegato con sacrosante
parole che avevo bisogno del suo aiuto per tirare avanti.
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Capitolo 8 *** Questo è il futuro ***
Questo
è il futuro
Non
mangiavo: la fame era una sensazione non conosciuta dallo stomaco, un
fastidio che la mia mente era capace di isolare dal resto del corpo e
immagazzinare. Quella era la priorità del giorno: cominciavo
a preoccuparmi che se fosse andata a vanti così sarei potuta
diventare anoressica. Fortunatamente c’era Altair che ogni
tanto mi domandava: -Hai fame?- ma non aveva senso, dato che io
rispondevo: -No, grazie-.
Lui
ribatteva: -Sei sicura? Ti vedo pallida-.
Ed
io: -è il mio colorito abituale-.
Eravamo
seduti sul divano, l’uno affianco all’altra,
immobili come statue. Il silenzio raramente interrotto dalle sue
domande cui io non rispondevo sinceramente, perché sapevo
bene di non avere nulla apposto dentro di me e di sentirmi uno
straccio.
Ero
rimasta in pigiama tutta la mattina, cosa che non facevo mai.
La
solitudine mi faceva male, non avevo motivo di sprecare le mie ore a
pettinarmi e a vestirmi se lì non c’era nessun
altro se non qualcuno che non doveva esserci. Era assurdo concepire che
Altair fosse una persona. Per chiarire meglio la questione, non mi
riusciva vederlo come un essere umano con cui scambiare interessi e
qualche parola, insomma… una chiacchierata tra amici. Lui
non era un amico. Lui era un estraneo che si era sostituito a te e che
indossava i tuoi vestiti e il tuo corpo, come fosse una stupida
maschera di carnevale.
Erano
ore che non intraprendevamo qualcosa di utile al mondo o solo a noi
stessi, come pensare ad un modo per uscire da quella merda. Un modo, in
poche parole, di rubare all’Abstergo i farmaci che avrebbero
curato la vostra malattia mentale.
Ebbi
modo così di pensare che avrei commesso un reato, il primo
in tutta la mia vita dopo uno dei tanti furti di caramelle ai miei
fratelli minori. Fedina penale sporca, mi dissi, perché no?
Tanto ormai la mia vita aveva preso pieghe ben più assurde e
anomale!
Mi
voltai a guardare il ragazzo che sedeva alla mia sinistra, ma tornai in
breve a fissare fuori dalla finestra. Mi scappò un sospiro
spezzato dalla malinconia che si annidava in me, e Altair se
n’accorse.
-Ehi,
non mi morire di depressione- disse –…Desmond non
me lo perdonerebbe- sorrise divertito.
Io
chiusi gli occhi e poggiai la testa all’indietro.
–Non è quello- proferii in un sussurro.
-Ah,
no?- fece lui.
Il
mio petto si alzava e si abbassava con regolarità, nel
tentativo di mantenere il battito del cuore costante e di non avere un
arresto per pressione troppo bassa: mi sentivo svenire. –Come
ci procureremo quei farmaci? Se basta qualche moment a farvi tornare in
voi, possiamo chiedere aiuto a qualche medico-.
L’assassino
incrociò le braccia al petto. –Magari fosse
così semplice- mormorò.
–L’Abstergo aveva avvertito Desmond di non
rivolgersi a nessun medico privato o di pubblico impiego. Appena
sapranno che stiamo tentando di “chiedere aiuto”
faranno di tutto per sbarazzarsi definitivamente del problema -
sbottò calmo.
Sobbalzai.
-Da quanto ho capito è gente grossa, e non possiamo
pretendere di entrare lì con qualche pistola alla mano
dicendo: “Fermi tutti! Questa è una
rapina!”. Se sono così ben attrezzati per quanto
riguarda intercettazioni e agganci col governo, allora siamo spacciati.
Desmond non tornerà mai e tu dovrai restare qui per sempre!
Tanto vale darmi fuoco ora prima che lo faccia qualcun
altro…- borbottai.
Altair
inarcò un sopracciglio, guardandomi con fare sbigottito.
–Ti assicurò che manterrò abbastanza la
calma da non prendere certe iniziative!- rise.
Mi
ricordai di come mi avevi parlato degli effetti mentali che la
trasfusione di coscienza poteva arrecare agli antenati portati nel
presente: follia, ipocrisia, staticità, irruenza, mania,
rabbia, e ancora follia. Mi avevi detto che alcuni dei soggetti prima
di te, dopo aver scambiato la loro coscienza con quella del loro
antenato, si erano messi a scrivere sui muri della tua stanza col
sangue. Rabbrividii, e Altair se ne accorse.
-Ti
ha detto del sangue- proferì annuendo. –Sapevo che
ne saresti rimasta scioccata. Lo avevo avvertito
“anche” di questo- disse serio.
-Perché?-
sorrisi io. –Di che altro lo avevi avvertito?- diventai
maliziosa tutt’un tratto, avvicinandomi a lui.
Sapevo
a cosa si stava riferendo.
-Se
sei tanto sicura di saperlo, perché me lo domandi?- proruppe
irritato.
Scoppiai
una fragorosa risata e pensai che forse un minimo di dialogo tra di noi
ci sarebbe stato. minimo, quel poco che un assassino del XII secolo
traumatizzato appena uscito dalla macchina del tempo e una newyorchese
potevano avere in comune.
Mi
annoiavo: venne sera e non avevamo fatto altro che parlare su quel
divano mentre mi riempivo di calmante naturale, ovvero di camomilla.
Lui mi raccontava del suo tempo, della setta degli assassini, della
Terza Crociate ed io annuivo. Ma mi annoiavo. Sbadigliavo spesso,
perdevo molte volte il filo del discorso e Altair sembrava piuttosto
bravo ad accorgersi quando la persona che aveva davanti era in procinto
di addormentarsi. Insomma, alla fine tagliò corto col suo
passato e cominciò a chiedere di me.
Forse
raccontare qualcosa della mia vita, ripensando a cosa di giusto e di
dannatamente sbagliato avevo fatto avrebbe migliorato le cose. O forse
cercavamo semplicemente qualcosa da fare. Ebbene, non esitai neppure un
istante. Partii dalle mie elementari a Philadelfia fino ai viaggio coi
miei genitori a Los Angeles, dove i miei fratelli minori, Gabriel e
Luigi avevano scelto di vivere. Gli raccontai che la mia passione per
la scrittura era nata al college, dove mia madre aveva insistito che
andassi. Lì avevo passato i giorni peggiori della mia vita
(mai peggiori quanto queste ultime 48 ore a parte piccoli piaceri
precisi… eheh). In quel college conobbi Nikolas,
lì ci fidanzammo e passammo felicemente assieme tre anni
della nostra vita. Per motivi familiari fui costretta a spostarmi a New
York per assistere mio padre che stava per niente bene,
poiché i miei avessero appena divorziato, e lui si fosse
lasciato parecchio andare. Nikolas mi seguì a New York,
nella casa in cui vivo ora passò anche lui, disse ad Altair
che era interessato più di quanto non lo fossi stata io ad
ascoltare lui. Gli raccontai che io e te, Desmond, ci eravamo conosciti
al bar nel quale lavoravi, circa un annetto fa. Mi servisti da bere ed
io avevo una di quelle facce sconvolte che riuscii ad attirare la tua
attenzione. Ubriaca di un paio di giri di birra, cominciai a
raccontarti tutti i malesseri della mia famiglia: Gabriel e Luigi che
si menavano per strada appena si vedevano, rimuginando
l’infanzia passata a bisticciarsi il Game Boy, mio padre in
fin di vita e il divorzio dei miei genitori, assieme alla carriera di
mia madre nell’industria della moda. Robaccia che a me non
era mai piaciuta, ma lei e mia nonna si erano tramandate una vecchia
catena di negozi nel centro di Roma.
Ecco
la mia vita di merda che prendeva una piega inaspettata, una medesima
mazzata. L’equilibrio del mio circolo vizioso era stato rotto
da un anello comparso dal nulla… non dal nulla, dal passato.
-Tra
te e questo… Nikolas- ripeté lui. –Non
c’è niente, vero?- mi chiese.
Io
scoppiai a ridere, non riuscendo a trattenermi. –è
Desmond che te l’ha chiesto?- domandai col viso rosso dalla
risata.
-Chiesto
cosa?-.
-Tra
me e Nik c’è una porta chiusa ormai. Ho imparato a
difendermi da quelli come lui- pronunciai ricordando certi brutti
momenti.
-Perché
dici questo? Cosa ti ha fatto di tanto orribile?-.
-Lui
voleva solo i miei soldi. Scaricava sul suo conto dalla mia carta di
credito che veniva perennemente riempita da mia madre tramite un codice
che gli avevo azzardatamene svelato. Bastardo figlio di puttana-
digrignai.
-Uh
uh- fece lui portandosi le mani dietro la testa e sistemandosi
più comodo tra i cuscini del divano. –Per
“carta di credito” intendi denaro, non è
così?- mi interrogò.
Annuii.
-Nel
mio tempo un matrimonio si basa solo su questo-.
-Il
tuo tempo è un mondo di barbarie e tanta
crudeltà- sbottai.
-Hai
ragione, l’ho sempre pensato anch’io…-
mormorò.
*Punto
in comune numero uno: entrambi volevamo mettere fine a quella merda che
cadeva dal cielo.
*
Punto in comune numero due: entrambi avevamo le stesse idee su quanto
il mondo fosse ingiusto sia nel passato che nel presente o futuro che
sia.
*
Punto in comune numero tre: si stavamo annoiando entrambi da morire.
-Ti
andrebbe…- cominciai io interrompendo il silenzio.
Lui
si voltò a guardarmi e nei suoi occhi balenò una
luce speranzosa. Di cosa, poi…
-Ti
andrebbe di uscire?- gli chiesi.
-In
città? Lì fuori?- indicò le finestre,
e le sue labbra si contorsero in un ghigno di solo stupore.
-Che
male c’è?- feci io alzandomi e stiracchiandomi.
–è tutto il giorno che stai chiuso qui, avanti. Se
mi resti vicino, nessuno ti farà del male, te lo prometto!-
mi beffai di lui, che subito scattò tirandosi su dal divano.
-So
badare a me stesso- mi disse dall’alto, ed io mi sentii
piccola piccola sotto il suo sguardo severo e sicuro di sé.
-Ottimo-
balbettai scansandomi da lui e avviandomi nella stanza da letto.
–Mi butto qualcosa addosso e poi usciamo; non ce la faccio
più…- brontolai. L’aria di chiuso di
casa mi aveva dato alla testa, facendomela pulsare. –Smog o
no, almeno c’è il sole!- continuai e mi accorsi
che il tuo antenato mi aveva seguito silenziosamente. Come faceva ad
essere così inudibile? Avvertivo a mala pena la sua presenza
alle mie spalle!
Non
stavo scherzando: la prima cosa che trovai me la gettai addosso, ovvero
un jeans che non vedevo da un paio di mesi e un maglione grigio di lana
leggera a collo alto.
-Sono
proprio curioso di vedere cosa sono quelle cose…- disse
Altair guardando fuori dalla finestra della camera.
–sembrano… carrozze-.
Impiegai
poco a realizzare che si stesse riferendo alle automobili. Ecco, forse
un giorno gli avrei insegnato a guidare, o chi mi avrebbe riportata a
casa ubriaca fino al midollo se mai mi fosse presa una crisi di pianto
isterico davanti al bar nel quale lavoravi? C’erano molte
evenienze sgradevoli da calcolare, poiché non avessi ancora
smaltito tutta la depressione per il tuo allontanamento da questo
mondo, Desmond.
-Si
chiamano macchine- dissi io dal bagno mentre mi spazzolavo i denti.
–Servono per spostarci più velocemente da una
parte all’altra della città- aggiunsi.
Lo
sentii tacere e mi sporse appena dalla porta con lo spazzolino ancora
in mano.
Lo
vidi di fronte alle vetrate che scrutava in basso, le strade e si
compiaceva turbato di quanto la civiltà umana si fosse
evoluta. Ed io lasciai che si stupefacesse da solo, così
tornai ai miei denti.
Quasi
distrattamente lanciai un’occhiata ai pezzi del mio cellulare
per terra. Mi stupii di quanto fossi capace di arrabbiarmi in alcuni
momenti. Sospirai, mi chinai a raccogliere i frammenti e mi apprestai a
rimontarlo.
Dannatamente…
funzionava ancora, ma se mia madre non aveva conferma che io respirassi
almeno ogni settimana, sarebbe venuta qui dall’Italia col
primo aereo. Non potevo rischiare.
Non
appena riuscii ad assestarne tutti i pezzi, me lo misi in tasca e uscii
dal bagno.
Altair
era seduto sul letto coi gomiti poggiati sulle ginocchia. Lo sguardo
severo che ancora si perdeva oltre i vetri, oltre i grattacieli e oltre
le nuvole. Taceva, ma nel suo silenzio c’era tanto turbamento.
Strappato
dalla sua vita, cui non mi aveva raccontato nient’altro al di
fuori della confraternita. Non strappato dalla
“sua” vita, che ammazzando gente non aveva mai
avuto, ma strappato alla vita. Un forte senso di compassione mi avvolse
e ne fui preda: -C’è qualcosa che non va? Stai
bene?- domandai avvicinandomi a lui che, non essendosi accorto di me,
balzò in piedi.
-Sì,
sì- proferì composto.
Un’occhiataccia
per niente convinta affiorò sul mio volto.
–Davvero?-.
Il
ragazzo socchiuse gli occhi. –Ho solo… paura-
disse, e mi lasciò senza fiato.
-Di
cosa?-.
-Del
futuro, questo futuro- si voltò e indicò con la
testa la finestra.
-Perché?-
domandai.
-È
questa la visione che ha portato i precedenti uomini del passato alla
follia, è questa visione che li spinse a scrivere sui muri!
Come a lasciare una testimonianza di quale apocalisse li era capitata!-
sbottò quasi gridando, ed ebbi paura.
Indietreggiai,
d’un tratto mi sembrava in vena di brutti scherzi.
-Forse
dovresti chiudermi in uno stanzino e far blindare la porta, e trovare
da te quei farmaci- borbottò cupo.
-Ci
avevo pensato- confessai timorosa della sua reazione. Cosa potevo
aspettarmi da lui se non che mi picchiasse a sangue e finissimo
entrambi sotto processo con la nostra cartella che diceva: caso di
coppia in crisi. Gli uomini del passato, cavalieri o assassini, avevano
un modo insolito di confessare i loro timori: mostravano i denti. Come
animali.
-Se
non ti va di uscire, va bene- dissi e, onestamente, aveva fatto passare
la voglia anche a me.
Lui
tacque, sconvolto da chissà quali pensieri.
-No-
sbottò d’un tratto. –Sei tu che hai
bisogno di cambiare aria e distrarti, non posso lasciarti marcire come
una pera nella dispensa- dichiarò.
-Be’-
feci spallucce avanzando verso di lui. –Allora sbrigati a
prendere una decisione. Potrei anche lasciarti qui e fare un giro per
conto mio, ma mi sembrerebbe ingiusto, perché poi la pera a
marcire nella dispensa diventeresti tu!- li colpii il petto solido con
l’indice.
A
quel tocco m’irrigidii più io di lui.
Conoscevo
bene la forma del tuo corpo, e fui certa che i muscoli che il mio dito
aveva sfiorato non fossero i tuoi. All’inizio mi era parso
impossibile che il transito mentale comportasse anche le
caratteristiche fisiche.
-Ma
dimmi una cosa- mormorai.
-Cioè?-.
-Tu
pensi di essere nel tuo… corpo?- domandai con un filo di
voce.
Lui
aggrottò la fronte. –Desmond non te l’ha
detto? Si è scordato anche questo?- fece seccato.
-Non
so di cosa parli!- gli risposi in tutta sincerità.
Il
ragazzo alzò il braccio e poggiò il palmo
sinistro aperto sopra il suo petto.
Indietreggiai
con un salto anomalo che per poco non caddi all’indietro.
–Che cosa?!?! Che cos’è quello?!?!-
strillai.
Gli
mancava un dito. Alla mano del mio ragazzo mancava un dito!
-Perché!?!?-
continuai sconvolta, ma di più! –Perché
l’hai fatto?!?!-
Lui
scoppiò in una possente risata. –Credi che me lo
sia fatto qui?- non la piantava di ridere, ma c’era poco e
niente di divertente.
Mi
sentii svenire. –Perché hai tagliato un dito della
mano del mio ragazzo? Che motivo ne avevi?- pensai che i sintomi di
follia di cui mi avevi parlato stessero cominciando a manifestarsi e,
che a breve, Altair avrebbe iniziato a scuoiarsi vivo, tranciandosi
chissà che altro.
Il
dito mancante, ebbi coraggio di constatare, era l’anulare.
-Smettila
di ridere!- mi percepii in dovere di dargli uno schiaffo, e lo feci,
non riuscendoci.
Fermò
la mia mano all’altezza del polso, ma le mie dita potevano
sfiorare appena la sottile barba.
-Non
me lo sono tagliato in questo tempo. Il dito mancante è la
prova che dal passato qualcosa del mio corpo è arrivato fin
qui- dichiarò tornando serio.
-Ma…
ma com’è possibile?- sbottai.
-E
lo vieni a chiedere a me?- fece schivo.
-Ok,
va bene… mi serve del tempo per… pensare, quindi
andiamo- dicendo così mi avviai all’ingresso e
presi sia le chiavi della macchina che quelle di casa.
Altair
mi venne dietro e si affacciò dalle scale mentre chiudevo la
porta serrando tutte le serrature possibili. Ero nervosa, agitata,
irritata. Avevo una scritta in fronte che diceva: statemi alla larga.
Dunque
il tuo antenato ti somigliava, o era completamente identico a te. Feci
una lista dei componenti differenti che Altair si era portato dal
passato mentre scendevamo in ascensore.
I
muscoli, soprattutto delle braccia, perché gli avevo dato
come giacca il tuo giubbotto senza maniche di piumino. Nonostante gli
abiti buffi, sembrava si sentisse a suo agio, e la cosa non poteva che
rassicurarmi.
Ma
aveva anche lui nel passato quella cicatrice sul labbro? Avrei osato
chiederglielo in un altro momento.
La
voce, il portamento, lo sguardo. Tutte quelle differenze erano come
artigli che ogni istante in più che passavo a classificarle
mi dilaniavano lo stomaco.
Come
un bambino, il tuo antenato si guardava attorno con in volto
un’espressione mista tra stupore e meraviglia nel guardare
fuori dai vetri della cabina. Non seppi se tutti quegli oggetti
strabilianti lo sconvolsero positivamente o negativamente, e confidai
nel fatto che non ci saremmo avvicinati mai abbastanza per condividere
quei timori.
Mi
aveva detto di avere paura: era già un passo avanti, e per
ora mi bastava sapere soltanto quello, ovvero star certa che le sue
reazioni alle scioccanti novità del mondo odierno non
sarebbero state differenti da quelle di un criceto che vaga per un
laboratorio di chimica nucleare.
Una
volta nell’atrio, lo vidi restare immobile davanti alle porte
di vetro del palazzo.
-‘Giorno
Desmond, salve Giògiò - ci salutò il
portiere.
L’unica
a ricambiare quella cortesia di saluto fui io, perché Altair
probabilmente non era abituato a farsi chiamare Desmond e quindi a
riconoscersi quel nome.
Gli
diedi una gomitata e il ragazzo si riscosse.
-Salve-
disse titubante, ma dopo pochissimi i suoi occhi neri tornarono al
mondo nuovo ed estraneo che era la strada.
Per
strada intendevo dire parecchie cose: grattacieli alti che ci osservano
dall’alto, gente a fiumi che passeggia come un torrente in
piena per i marciapiedi, i clacson delle auto e le auto stesse che
scivolavano sulla strada e schizzavano in due direzioni precise.
Lo
strinsi per mano e lo tirai con me verso l’esterno.
Come
avesse messo il freno, Altair inchiodò sul tappeto rosso che
copriva il marmo del pavimento.
-Avanti!-
gli sussurrai dolce.
Aveva
paura: il bambino voleva tornare sotto le coperte perché il
temporale tuonava fulmini e saette nel cielo, che era effettivamente
sereno quella mattina.
Il
portiere, un omuncolo grasso seduto dietro ad una scrivania, ci fissava
entrambi.
Mi
accostai al tuo antenato e tentai di spingerlo con forza senza che
l’omuncolo si accorgesse del mio comportamento insolito.
–Cammina!- digrignai.
Una
volta fuori dal palazzo, non so lui, ma io inspirai a pieni polmoni la
brezza fresca che mi scompigliò i capelli.
Invece
Altair cominciò a tossire, piegandosi sulle ginocchia.
–Che cos’è questa puzza?-
domandò arricciando il naso e appoggiandosi alle cosce.
-Smog,
anche se negli ultimi anni è nettamente diminuito- gli dissi
aiutandolo a tirarsi su.
L’uomo
si portò le mani alla bocca. –Smog?!-
sbottò. –e che roba è?!-.
-Lo
smog è quello che producono le macchine bruciando
carburante, benzina- lo presi sotto braccio e cominciammo ad
incamminarci, gettandoci tra la folla dei marciapiedi.
Il
suo sguardo vagava da una parte all’altra della strada,
svoltando svelto dalle macchine ai cartelloni pubblicitari sulle pareti
dei grattacieli luminescenti.
-E
perché usate le macchine, allora?! Questa roba è
irrespirabile!- gridò, ed io non riuscii a biasimarlo.
-Ormai
il mondo ha preso una piega oscura per quanto riguarda questo punto di
vista. Si era pensato alle auto ad aria compressa, ma vallo a dire alle
multinazionali!-.
-Multi
cosa?!-.
Basta
lo stavo confondendo. –Non sei abituato, ma presto questa
puzza non ti darà più fastidio,
vedrai…- mormorai.
-Ma
per allora sarò gravemente malato!-.
Io
mi arrestai di colpo. Non era vaccinato, niente. Pensai che un
raffreddore potesse ucciderlo, che una polmonite riuscisse a stenderlo
per sempre sul tappeto di casa, ma scacciai quei pensieri. Non era
vaccinato con l’antitetanica, ma i farmaci di oggi potevano
sconfiggere qualunque malattia.
La
crudeltà dell’Abstergo si vedeva anche in questo.
Gli
cinsi il braccio con più forza mentre ci fermavamo accanto
al semaforo. La folla di gente in procinto di attraversare la strada si
radunò alle nostre spalle.
-Che
fai?!- domandò lui stupito.
-Ho
parcheggiato dall’altra parte della strada. Attraversiamo-
risi guardandolo.
Lui
si sconvolse ulteriormente. –Ma non vedi che queste cose
arrivano a tutta velocità?!- indicò le macchine
che schizzavano a pochi metri dai nostri nasi.
-Fidati
di me- ridacchiai.
Lui
tacque, ed io feci fede a quel famoso proverbio: chi tace acconsente.
Il
semaforo scattò in rosso per le auto e in verde per i pedoni.
Altair
rimase a bocca aperta nel vedere le macchine che si fermavano ai nostri
lati mentre noi attraversavamo belli tranquilli.
-Come…
vi hanno letto nel pensiero?- chiese.
-No,
questi si chiamano semafori e indicano quando puoi passare e quando no.
Quando è rosso no e quando è verde sì-
dissi, come se stessi parlando a mio nipote che aveva appena due anni.
Il
suo silenzio divenne il mio pane quotidiano finché non
raggiungemmo la macchina che era parcheggiata dietro l’angolo
della strada, davanti all’ingresso per il supermercato.
Tirai
fuori le chiavi e disattivai l’allarme. Aprii la portiera del
passeggero e gli feci cenno di salire.
-La
sua carrozza, signore- gli dissi sorridendo.
-Certe
volte credo solo che sia un… orribile sogno- fece lui
chinandosi per guardare l’interno dell’abitacolo.
-Non
ti preoccupare, tutto questo è solo una piccola parte del
mio mondo- ridacchiai.
Lui
mi lanciò un’occhiataccia.
Io
allungai il mio sorriso. –Questo è il futuro-
dichiarai fiera.
______________________________________________
Bene,
ottimo, ci siamo. Non ho ancora ben in mente dove Giò abbia
intenzione di portare il nostro assassino preferito. Ho inventato la
cosa della macchina sul momento, quando volevo che i due facessero solo
una piccola passeggiata, tanto per far adattare Alty allo smog della
metropoli! Ehehe.
Un
ringraziamento speciale ai seguenti utenti:
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
…
un giorno di questi imparerò come si mettono i Link
direttamente ai vostri accaunt…
X
Saphi: *Ho appena aggiornato la pagina web di EFP e mi
sono accorta in questo istante che hai recensito chappo precedente! Nel
momento in cui stavo scrivendo i ringraziamenti! Che Telepatic Time.
Ebbene, mi sembra di non averti dato tregua per quanto riguarda questa
ff! Muhahahah! Quanto sono stronza! (dolce vendetta hihihi). Scommetto
che ti sei accorta di questo aggiornamento dopo aver letto il nuovo
chappo dell’altra ff! Dio, sono un mostro… quanto
scrivo?!?! E mi detesto per questo, quando mi prende
l’ispirazione non c’è nulla da
fare… non riesco a fermarmi e i miei genitori non riescono a
staccarmi dal pc! Spero vivamente che quest’aggiornamento
inatteso e così… fulmineo ti sia piciuto! Fatti
sentire su msn, ovviamente appena puoi. Ciao.
Taglio
corto perché mi debbo gettare nei compiti che mi sono
lasciata all’ultimo momento: grammatica (da non credere) e
storia (al rogo il libro!). Un saluto a tutti, qui Elika che passa la
linea alle vostre meravigliose recensioni e vi attende calorosi al
proximo chappo! Ciau simpatici!
|
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Capitolo 9 *** Il kebab newyorchese ***
Il kebab
newyorchese
Aprii
il finestrino e i suoni della città invasero
l’abitacolo della macchina. Presi una boccata
d’aria ascoltandoli tutti: i clacson, le chiacchiere della
gente che camminava sui marciapiedi, il canto degli uccellini sugli
alberi ai lati della strada. Senza scordare le grida dei tassisti
incazzati.
Eravamo
bloccati a qual semaforo rosso da cinque minuti minimo, ma stavano
facendo dei lavori più avanti e avevano rallentato il corso
di entrambe le carreggiate.
L’ombra
dei grattacieli si allungava sull’asfalto avvolgendo i
passanti e le auto in fila di quella mattina. Più in alto,
dove il sole riusciva a colpire le finestre dei piani superiori delle
palazzine, questo giocava con la luce proiettando bizzarri riflessi.
Poggiai
entrambe le mani sul volante, e tamburellai con le dita la pelle
sintetica. Presi a canticchiare un motivetto assurdo che ricordava
tanto una canzoncina sentita alla radio poche settimane prima ma che
era passata fuori dalle classifiche immediatamente. Una song vecchia di
parecchi anni, ma che ricordavo fosse del mio gruppo preferito di
quando andavo a liceo. Mi aveva colpito così tanto
riascoltarla dopo tanto tempo, che ora riuscivo a ricordarmene alcune
strofe.
Intonai
il ritornello senza parole, e di seguito cominciai a cantare:
-…Can't
you see that you're smothering me
Holding
too tightly afraid to lose control
Cause
everything that you thought I would be
Has
fallen apart right in front of you
di sottofondo si sente: (Caught in the undertow just caught in the
undertow)
Every
step that I take is another mistake to you
di
nuovo:
(Caught in the undertow just caught in the undertow)
And
every second I waste is more than I can take…-
La
mia voce suonava ottusa, poiché le pareti di una macchina
non fossero ben insonorizzate. Le note che riuscivo ad esibire nel
canto erano come tagliate, corte e punteggiate. Eppure mi ero lasciata
prendere la mano, perché cantare quelle strofe, o solo il
fatto di cantare e concentrare la mia mente ottusa su
qualcos’altro, mi fece bene. Ecco il ritornello che avevo
imitato precedentemente senza parole, che scovai nei meandri dei miei
ricordi.
-…I've
become so numb I can't feel you there
I've
become so tired so much more aware
I'm
becoming this all I want to do
Is
be more like me and be less like you…-
Mi
presi del tempo per pensare a quello che avevo detto e a quale fosse il
titolo di tale stupefacente canzone, dedicata più che altro
all’uomo che mi sedeva affianco.
Mi
voltai a guardare il tuo antenato scoprendo che mi aveva fissato per
tutto il tempo coi suoi occhi incredibilmente scuri e spaventati, ora
terribilmente sbigottiti.
-
Che c’è?- feci spallucce voltandomi dalla parte
opposta.
-
Cos’era… quella musica?- domandò
assorto.
-
Una canzone, musica… credo che al tuo tempo
l’avessero già inventato lo spartito- sbottai
tornando a guardarlo.
-Infatti-
mormorò. –Ma quelle parole… le hai
inventate tu?- chiese ancora.
-No-
risposi con lo stesso tono mesto. –Una canzone ha delle
parole, l’ha scritte l’autore…
è una poesia accompagnata dalla musica!- lo informai.
Lui
si sistemò meglio di lato. –E voi ricordavate
tutte le esatte parole? Come mai?-.
Cominciava
a darmi sui nervi, ma mi diedi una contegno. –I Linkin Park-
sussurrai gustandomi quel nome. –Erano il mio gruppo
preferito al liceo… quando facevo la scuola dei grandi-
risi, ripensando alle volte che avevo ascoltato e cantato un centinaio
di volte assieme alla mia compagna di stanza, saltando sui letti.
Mi
girai verso il tuo antenato che mi fissava curioso di sapere altro.
–Poesia con la musica- ripeté colpito, tornando a
scrutare il vuoto di fronte a sé.
-Chissà
perché ti ha colpito tanto!- gioii io che nel frattempo
avevo estrapolato il significato di quelle poche strofe.
-Già,
chissà- sospirò lui.
Gli
lanciai un’occhiata e notai che sembrava alquanto rilassato.
Mi aspettavo che il giretto in macchina lo spaventasse, ma
fortunatamente non avevamo superato i sessanta chilometro orari
camminando a passo d’uomo nel traffico.
-A
che vi servono le auto se si fa prima a piedi?- aveva chiesto quando
eravamo usciti dalla stradina di condominio e ci eravamo gettati nella
caotica New York.
Io
avevo riso. –Se lo chiede anche mia madre!-.
Da
allora il viaggio era proseguito tranquillo. Volevo che Altair si
adattasse ai ritmi del futuro ed ero entusiasta discoprire quali
sarebbero state le sue reazioni. Era quasi ora di pranzo avevo
cominciato a stufarmi di stare in macchina, e mi si addormentavano i
piedi sui pedali.
Raggiungemmo
Broadway in dieci minuti di fila nel traffico, feci un sospiro di
sollevo e beccammo per un pelo l’onda verde.
Al
primo semaforo rosso, quando notai i vigili che parlottavano sereni sul
ciglio del marciapiede, mi accorsi dell’incredibile svista.
Mi
allungai verso il tuo antenato e afferrai la cintura di sicurezza
appoggiandomi su una sua coscia.
-Che
cosa stai facendo?- domandò lui alzando un sopracciglio, e
lo percepii irrigidirsi quando i mio petto sfiorò appena il
suo.
Tirai
la cintura e l’allacciai al suo fianco.
–Scusa,
ma non mi va che ci rimetti prima che Desmond ritorni- ripresi fiato
tornando al mio posto e stringendo le mani sul volante.
-In
che senso?- parlottò.
-Se
succede un incidente, l’assicurazione non paga gli antenati
del passato- lo derisi.
-Ah,
bene!- rise. –Quindi non solo la macchine inquinano e ci si
cammina a passo d’uomo! Ma si rischia anche di morire!? Non
capirò mai questo mondo…-.
Lo
ignorai, pensando che avrebbe reagito in quel modo più di
una volta al giorno.
Avevo
in mente una destinazione da non appena eravamo partiti, ed era
lì che avrei portato il tuo antenato. Lontano dallo smog,
coi rumori della natura attorno. Il verde infinito di un piccolo campo
da golf, un lago dall’acqua scura e un sentiero nella
foresta. M’immaginai che Central Park potesse occupare gran
parte del pomeriggio di quella gita divertente. Un eco sistema nel bel
mezzo di New York, capi da baseball e un mucchio di gente con in
mano… no, avrei lasciato che fosse una sorpresa.
Non
appena giungemmo sulla rotonda di Colombo, svoltai a destra e
intrapresi la strada che costeggiava il lato sud del parco. Poi
imboccai la via che si avventurava nel verde e la percorsi ad appena
quaranta chilometri.
Quella
velocità era la stessa di un cavallo in corsa, quindi Altair
non poté trattenere lo stupore.
Feci
ruggire il motore della macchina e il ragazzo sobbalzò.
-A
passo d’uomo?- sorrisi maliziosa, e lo osservai sprofondare
lentamente nel sedile.
Era
una foresta luminosa che brillava alla luce del sole, e scorreva ai
lati della macchina. Certo, proseguivamo lentamente dato che
più di tanto l’accelerazione non era permessa
lì.
-Ci
sono delle strisce, per terra…- aveva commentato.
Come
fossi all’esame di guida, gli disse a cosa servivano quelle
interrotte e le linee continue. Accennai anche al passaggio pedonale e
al semaforo arancione che lampeggia.
Mentre
fermavo la macchina nel piazzale di parcheggio, il cellulare
squillò.
-Scusa,
un attimo- gli dissi leggendo sullo schermo del portatile.
–Intanto scendi- aggiunsi aprendo la portiera e alzandomi dal
mio posto.
-Ah!-
rise lui guardando l’incastro della cintura di sicurezza.
–Vediamo un po’…- borbottò.
Una
volta all’aria aperta, mi stanziai appena dall’auto
e mi portai il telefono all’orecchio, lanciando
un’occhiata ad Altair che aveva problemi con
l’aggancio della cintura.
Risi,
ma la mia gioia si estinse alla svelta. –Che vuoi, Nikolas?-
sbottai.
Dall’altra
parte della linea lo sentii ridere. –Marty mi ha chiamato per
la festa- rispose lui cauto. –Volevo dirti solo che si
può fare, ma notizia bomba: i miei hanno comprato quella
casa in campagna che volevano regalarci al nostro anniversario! Ti
ricordi?-.
Curvai
le spalle, passandomi una mano sul viso. –Sì, ma
ora è tutta tua, ricordi?- lo canzonai.
-Sì,
ricordo- sospirò. –Ma un po’ di
rispetto, dato che in questa festa di merda mi ci butto anche io,
chiaro?-.
Scoppiai
a ridere. –Sempre il solito, mai pronto ad aiutare il
prossimo!-.
-Non
sei divertente, ragazza!- digrignò scherzoso.
-Non
vale la pena essere divertente con te- ridacchiai.
-Va
bene, qui non ho da aggiungere altro. La festa si fa alla villa, e devi
fare la tua parte con gli inviti-.
-No
problema, cocco- feci una smorfia quando i raggi del sole mi colpirono
negli occhi e dovetti voltarmi.
Notai
che il tuo antenato si stava guardando attorno sorridente, in piedi
accanto alla macchina.
-Tutto
qui?- domandai, e non riuscii a trattenere un sorriso gioioso quando
gli occhi di Altair incontrarono i miei.
-Sì,
è tutto… ti rammento che mio fratello ha chiesto
di festeggiare il suo compleanno tutti insieme al bar, questo sabato-
mormorò Nikolas affranto.
Io
ci pensai su, accorgendomi di essermene totalmente dimenticata.
–Scusa, me l’ero scordata! Me l’avevi
detto un paio di giorni fa, ma non c’ero con la
testa…-.
-Posso
immaginare, ed ora che Desmy è tornato ci sarai ancora
meno!-.
Se
fosse stato lì davanti a me, gli avrei lasciato un
bell’occhio gonfio. –Sì, hai ragione, ma
verrò e porterò anche Desmond-.
-Ha
perso il lavoro, lo sai? Non si è più fatto
vedere e il capo l’ha sostituito con William al banco
cocktail- sembrava… contento.
-Se
ne troverà un altro, anche se credo che starà a
casa per un po’…- sibilai.
-Ti
ostini a coccolarlo, eh?-.
-Piantala
Nik, deve riprendersi da… ecco, dal viaggio-.
-Dov’è
stato, si può sapere?-.
-Non
ti riguarda, ora devo andare. Ci vediamo sabato-.
-Sabato,
va bene-.
Chiusi
la telefonata gustandomi il momento in cui il mio pollice
schiacciò il pulsante rosso. –Sollievo, immenso
sollievo-. Solo la voce di Nik mi dava sui nervi, riportandomi a tutte
le volte in cui mi aveva mentito durante il nostro rapporto. Bastardo,
giusto termine per definire quelli come lui.
Mi
avvicinai all’auto e tolsi le chiavi dal posto del guidatore,
chiusi la portiera e, mentre Altair mi fissava, mi avviai.
-Cammina,
ho fame!- dissi andando verso la strada, dall’altra parte
della quale si allungava il verde magnifico del prato infinito.
-Aspettami!-
fece lui correndomi dietro.
Mi
voltai fermandomi e attivai l’allarme dell’auto,
facendo balenare i fari.
-Dove
stiamo andando? Perché mi hai portato qui?- mi
tempestò di domande mentre attraversavamo.
-Ho
pensato- cominciai io –che un po’ di verde potesse
farti bene- risposi in tutta sincerità.
-Sì,
apprezzo molto, grazie- mi sorrise mesto.
Lo
presi per mano quando attraversammo, accompagnandolo come un bambino
dall’altra parte. Il prato infinito si stagliava fino alle
rive del lago al centro del parco, le cui acque scure erano ornare da
alcune fontane che apparivano appena per la lontananza.
Perché
mi sentivo la sua babysitter? Era imbarazzante, anche se di coppie
felicemente spensierate che si tenevano per mano se ne vedevano
soprattutto di quei giorni soleggiati.
E
lui si lasciava guidare da me, affidandosi completamente alla mia
esperienza, che a conti fatti non poteva essere chiamata esperienza
sapersi muovere sulle strisce pedonali.
Quel
posto gli piacque, e ne fui sollevata.
Lo
vidi rilassato più che mai, mentre sul suo volto sempre
composto e rigido andava delinearsi il sorriso gioioso di chi ha appena
messo piedi fuori dall’ospedale, dopo una convalescenza di
mesi.
Passeggiammo
in lungo e in largo sul prato, il sole mi riscaldava le guance e
brillava alto nel cielo azzurro.
Ripensai
a quando fosse stata esattamente l’ultima volta che eravamo
stati in quel modo io e te, Desmond. Ma non riuscii a descrivere quanto
mi sentissi affitta: non avevo ricordi di quel genere,
perché il dolore e l’agonia degli ultimi otto mesi
avevano cancellato tutte le mie più dolci esperienze,
lasciandomi un vuoto nero e buio dentro che non avevo idea di che cosa
avrei colmato.
Central
Park era quasi desolato il lunedì mattina. I bambini erano
impegnati nelle attività scolastiche e gli adulti lavoravano
fino ad una certa ora. Per il parco incontrammo solo qualche corridore
che si teneva in esercizio con l’iPod alle orecchie e le
donne di servizio che portavano a spasso il cane.
L’uno
affianco all’altra, avevamo intrapreso da poco un viale di
pietra che si contorceva nel boschetto d’alberi. Faceva un
fresco piacevole e tirava un venticello che faceva gemer i rami,
rovesciando sul sentiero alcune delle foglie appena sbocciate.
L’inverno
se n’era andato in fretta, pensavo mettendomi le mani nelle
tasche dei pantaloni. Ricordavo che i giorni trascorsi nel nostro
appartamento a guardare la neve cadere sui grattacieli senza di te era
stata una delle peggiori torture. A Natale avevo preferito stare per
conto mio, ma la mamma aveva insistito fino all’ultimo con le
sue ramanzine che non hanno mai fine al telefono. Nulla mi aveva
staccato dalla televisione in quei tempi. Adoravo che il freddo
pungente mi lacerasse la carne pur di concentrare il mio dolore su
qualcosa che non fosse la tua assenza. Così avevo spento il
riscaldamento, tartassandomi oltremodo.
E
ora tornava la primavera, colle sue belle giornate e il canto degli
uccellini. E con essa, era arrivato un certo qualcuno…
Mi
voltai di lato ridendo, ma mi accorsi troppo tardi che Altair stava
fissandomi già da tempo.
Così
m’incupii. –Che succede?- domandai.
-Cosa
stiamo facendo qui?- mi chiese lui quieto.
-Oh,
be’…- esitai fermandomi, e l’assassino
fece altrettanto.
-Dove
stiamo andando? Non avevate fame? – aggiunse guardandosi
attorno.
Mi
battei una mano in fronte, e guardai l’orologio che avevo al
polso. Questo segnava le tre e mezza del pomeriggio. Possibile che due
ore fossero trascorse belle e buone così? –Dio,
hai ragione! Scusa, mi sono distratta!- mi lamentai.
-Non
c’è bisogno che vi scusate, devo ammettere che un
posto del genere ha fatto perdere la cognizione del tempo anche a me-
mi arrise.
Lo
ringraziai con lo sguardo di quella comprensione, ma mi apprestai a
prendergli la mano e a tirarlo con me verso la biforcazione del
sentiero. Le indicazioni non mi servivano, sapevo dov’ero
diretta e perché.
C’era
una piazza soleggiata di pietra con una fontana al centro.
L’acqua chiara sfavillava e si rovesciava nel bacino di
roccia e da esso partivano innumerevoli schizzi. In quel piazzale, che
si allungava fino ad una scalinata che portava ad una vecchia villa
ormai sede di un museo, il quartiere organizzava spesso i magnifici
concerti cui avevo assistito troppe poche volte.
-Due,
grazie- tirai fuori cinque dollari dal portafogli e li porse al ragazzo
del piccolo bar mobile.
-Senape
o Maionese?- domandò quello.
-Uno
ketchup…- e mi voltai, ma Altair mi guardava terribilmente
spaesato.
Ok…
pensai, un orientale del XII secolo, nato e cresciuto con la cultura
araba… hmm…
Il
ragazzo teneva in mano un paio di pinze d’acciaio e aveva
aperto uno portellone dal carretto degli Hot Dogs. –Allora?-.
Altair
piegò la testa da un lato. –Che cosa…-.
Mi
girai dalla parte del venditore e ribadii convinta: –Uno
ketchup e l’altro senape-.
Altair
mi cinse le spalle e mi tirò indietro. –Che cosa
stai facendo?- domandò curioso lanciando
un’occhiata al buffo giovane che stava mettendo su un lungo
pezzo di pane un lungo pezzo di carne che sembrava un…
Mi
schiarii la voce. –Fidati; o ti caccio fuori di casa se non
ti piace!- scherzai.
-Grazie-
dissi.
-Grazie
a lei!- ripeté il ragazzo porgendomi i due hot dogs belli
fumanti.
Ne
diedi uno al tuo antenato.
-Sai
i kebab?- gli chiesi mentre riprendevamo la camminata.
Altair
si guardava da quel buffo panino. –Sì…-
mormorò assorto nella contemplazione. Tentava di capire se
si dovesse mangiare oppure fosse cibo per i piccioni che andavano ad
accumularsi avidi attorno a noi.
Scoppiai
a ridere. –Ecco, questo è il kebab di New York!-.
-Si
mangia? Ma sembra… duro. E questa è una specie
di… salsa?- domandò.
-Sì-
gli risposi addentando con voracità il mio panino.
–Si chiama senape, bon apetìt!-.
Fece
una smorfia ascoltando il mio francese accademico, ma lo guardai
ridendo mentre assaggiava il nostro pranzo.
C’era
qualcosa di dannatamente divertente nel suo viso quando mi disse: -Ma
è orribile!- con boccone pieno.
E
allora non riuscii più a trattenere le risate. Addirittura
il ragazzo del bar stava sogghignando alle nostre spalle.
-Posso
darlo ai piccioni?- balbettò come se stesse per sputare
tutto a terra.
Mi
piegai dal ridere –se vuoi!- cercai di distogliere lo
sguardo, ma non ci riuscii.
Altair
stava davvero per poggiare il panino al suolo, ma lo fermai.
–Ma che fai?!- risi.
-Ma
hai detto che…-.
Mi
si arrossarono le guance. –Stavo scherzando, non si
può!- disse togliendoglielo di mano.
-È
stata una bella esperienza, ma da non ripetere- lo sentii borbottare.
Mi
allontanai verso il cesto più vicino e lo gettai
lì. Il mio palato non gioiva al gusto della senape,
sennò l’avrei mangiato io con molto piacere.
-Andiamo,
viziato!- presi il tuo antenato sottobraccio e riprendemmo la nostra
passeggiata.
____________________________
Finito
di scrivere il più presto del solito. Elika ora deve
scappare: nonna e zia a casa, non sono certa di poter stare al PC fino
a tardi! Ç__Ç .
Ringraziamento
speciale a chi segue con tanto amore la mia ff!!!
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy
(averti tra i miei lettori è un onoreee, e mi riferisco alle
tue recensioni megagalattiche! XD)
Non
ho nulla di particolare da dire a ciascuno di voi, miei cari lettori, e
R.E. (Radio Elika) vi da appuntamento alla proxima puntata di questa
meravigliosa ff che sta uscendo (se posso) meglio di
quell’altra. Zizi. Notte a tutti, e recensite come sapete
fare solo voiiiii!!! Ciauuu!!!
P.S.
La
songa che Giògiò canta in macchina è
NUMB dei LINKIN PARK!!! Azzeccatissima per quanto riguarda Altair e
Desmond in questa fan fiction...
|
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Capitolo 10 *** Un pugno chiuso ***
Un pugno
chiuso
***
Desmond
si svegliò di soprassalto, ed un dolore immenso e senza pari
gli pulsava alle tempie. Era qualcosa di assolutamente inconcepibile,
che batteva come un martello sull’incudine, e la sua testa
era l’incudine. Desmond si alzò dal letto,
andò verso il bagno e si appoggiò al lavandino. I
suoi pugni serrati si strinsero oltremodo sui bordi del lavabo, mentre
con immensa fatica riusciva a tener dritto il collo per potersi
guardare allo specchio. Qualcosa nel suo volto stava cambiando, esso
diventava più severo e contenuto, mentre ogni centimetro
quadrato della sua pelle si faceva poco poco più scura. In
fine, accompagnato da un suo urlo straziante, il suo Antenato venne a
lui e si sostituì alla sua mente per la prima volta.
Lucy
l’aveva avvertito che sarebbe stato doloroso, e di
fatti…
Aveva
gli occhi arrossati, mentre la coscienza di quel dolore dilaniante
veniva meno troppo lentamente.
Dove
si trovava?
Che
posto era quello?
Stava
forse sognando?
O
poteva essere chiamato incubo?
C’era
una porta grigia al suo fianco, ma le sue mani erano strette
involontarie attorno al lavandino di un bagno, forse. Si
voltò più volte attorno, una buffa cella fatta di
vetro, una stramba costruzione di ceramica grigia con un buco al centro
e poi quel lavandino, sopra il quale c’era uno specchio che
non raffigurava lui, ma qualcuno che in quel momento stava ancora
stringendo le mani a quel lavandino.
Indumenti…
strani… una maglia… bianca, col solito
cappuccio… ma dov’erano le sue armi?
Dov’era la sua veste, la sua cintura e la sua spada? E la sua
veste?!?! Ora indossava solo un misero paio di pantaloni piuttosto
stretti e scomodi, e quelle scarpe… dov’erano i
suoi stivali?!?! Terrorizzato, Altair tentò di aprire la
porta ma non vi vide alcuna maniglia. Essa, magicamente, si
spalancò da sola. Doveva essere un sogno, un sogno assurdo
che metteva una grande paura. Eppure, era tutto così reale.
I colori di quel luogo ingannavano, forse? Proiettando una visione
distorta della realtà? Ma quella non era la
realtà! La realtà era la Dimora di Acri dalla
quale era stato strappato via durante il sonno, e qualche cavaliere
Teutonico doveva avergli fatto un brutto scherzo…
temé che la setta fosse in pericolo… che il covo
degli assassini ad Acri fosse stato scoperto, lui catturato! Quale
tragedia, e la miglior cosa da fare era tornare lì! Nella
sua realtà.
Buffi
mobili bianchi, una stanza con un grande letto sfatto e un armadio
lucido… c’era una porta, che si aprì
anch’essa da sola.
Qualcuno
entrò in quella stanza, qualcuno che indossava un camice
bianco ed era piuttosto vecchio. Qualcuno che somigliava ad Al Mualim,
si disse, e quel qualcuno lo prese sottobraccio.
Altair
si ritrasse con un balzo, ma il vecchio insistette parlandogli con una
voce nuova e utilizzando dei vocaboli che non capiva…
(all’inizio non avrebbe capito).
C’era
una donna dai capelli biondi nell’altra stanza. Era molto
bella, le sue mani si muovevano agili su qualcosa sul quale ella
puntava gli occhi, come stesse leggendo…La donna gli
sorrise, ed Altair lasciò la stanza da letto.
In
fine, un terzo uomo, che ridacchiava divertito.
Il
vecchio alle sue spalle lasciò la presa attorno alle sue
spalle, ed Altair fu libero di guardarsi attorno. C’era tanta
luce, sia che venisse da fuori che da dentro, assieme ad un frastuono
di sottofondo dovuto a qualcosa che era in continuo
movimento… come il rumore del mare, solo più
costante e sempre uguale…
…Quale
stregoneria?…
-Ben
venuto nel futuro- il terzo uomo vestito di una camicia bianca e di
pantaloni neri gli porse una mano.
Altair
lo sguardo su di lui, lo squadrò allungo poi, senza pensarci
due volte, strinse un pugno e gli mollò un cazzotto in pieno
volto, colpendolo al naso.
Alex
Viego si piegò dal dolore, e Altair si diresse di corsa
verso la luce dell’esterno.
Non
l’avrebbero avuto certo vivo!
Corse
ed evitò che il vecchio e la donna riuscissero a fermarlo,
si calò il cappuccio sul volto, piegò le gambe
e…
Sbatté
il viso sul vetro delle finestre. Perché quelle erano
finestre. A stento poté crederci, ma quelle erano finestre,
e nel tentativo di fuggire buttandosi di sotto, era andato a sbattere
contro un vetro così pulito che non gli era apparso.
L’assassino
si voltò spaventato, mentre alle sue spalle gli si
avvicinavano un gruppo di uomini vestiti di nero…
***
Fuori
il cielo sereno e stellato appena visibile, poiché
bastassero i fanali delle macchine ad aumentare a tal punto la
luminosità che sembrava giorno. I grattacieli brillanti di
fronte e le strade mute attraverso i vetri delle finestre. Una notte
come un’altra, mi dicevo sospirando, e a quella se ne
sarebbero susseguite di infinite.
Seduta
a gambe incrociate sul letto, immersa nel più totale
silenzio accompagnato dallo scrosciare della doccia accesa del bagno,
nel quale il tuo antenato si era da poco recato.
Certo,
insegnargli ad usare la cabina era stata una bella avventura…
Avevo
bisogno di parlare con qualcuno, di chiamare qualcuno.
Proprio
per questo mio assurdo bisogno tenevo il telefono in mano, il pugno
stretto attorno ad esso e il pollice che accarezzava i tasti.
Non
era una richiesta d’aiuto, non sentivo mancarmi né
affetto né compagnia. Anzi, di quella ce n’era e
anche troppa! Che cosa potevo fare? Desmond, mi avevi chiesto di non
parlare con nessuno di quello che era successo, ma cos’altro
potevo fare? In quale altro modo se non cercare aiuto avrei potuto
tirarci fuori da quella situazione? Forse avrei potuto confidare tutto
ad uno psicologo e aspettare che mi sbattesse in una casa di ricovero
per matti. Se avevo capito bene, l’Abstergo si spacciava per
una normale casa farmaceutica, nascondendo allo stesso Governo
Americano i crimini che si commettevano in quei laboratori. Nessuna
tutela ai diritti del cittadino, mi dicevo ripesando al modo in cui ti
avevano strappato via da me e dalla nostra vita. E per cosa? Solo per
arricchire il loro profitto e comandare il mondo a bacchetta con quei
cosi luminosi a forma di palline da tennis… non solo! I
signorotti non si erano accontentati di rovinare a
“noi” la vita, ma anche al povero innocente
che ora si sbatteva nel tuo corpo girovagando mio tempo.
Altair
era stato poco chiaro sul motivo per cui avevano rimandato indietro il
tuo corpo senza le cure necessarie per tenere a bada la
“doppia personalità”. Ultimamente questa
malattia si era dimostrata sviluppata anche da un punto di vista
fisico, dato che più tempo passavo affianco al tuo antenato
e più mi rendevo conto di quanto foste diversi, a partire
dal viso. Potevate avere la stessa età? Lui sembrava molto
più vecchio di te! Senza offesa, ma anche i suoi
atteggiamenti sempre così composti e altezzosi, come se
fosse ancora nel suo tempo, mi mettevano a disagio! Senza contare la
sua perenne ignoranza sul mondo in cui si trovava ora…
ovviamente non potevo pretendere che sapesse come si usasse un asciuga
capelli, ovvio, ma per lo meno… mah, non sapevo
più cosa pensare. Ero ufficialmente fuori di testa, e la mia
coscienza teneva alto il cartello con su scritto: psicologo a 100 m da
casa! Eheh. In tutta sincerità ci trovavo poco e niente da
ridere, ma la situazione era a la punto assurda che anche il mio gatto
sarebbe scoppiato dalle risate pur non comprendendo la lingua umana!
Forse, per far scorrere meglio le cose tra me e il tuo antenato, avrei
dovuto fare delle ricerche sostanziali sul suo tempo, così
da capire se questo Frutto dell’Eden che i signori
dell’Abstergo custodivano potesse o no esserci utile. Stavo
impazzendo! Come potevo solo pensare che quel coso esistesse davvero?!
Erano leggende metropolitane nate lì dove dovevano restare,
ovvero in Palestina, tra le guerre e i kamikaze!… mi diedi
della stupida. Ero coinvolta fino al collo in quella merda che ancora
mi ostinavo a reputare “assurda” quando la cosa
migliore da fare sarebbe stato giungere ad un compromesso con gli
anonimi del progetto Animus. A tutti i costi avrei ottenuto quelle
pasticche o pillole che erano! Non avrei lasciato certo correre le
cose, aspettando che si sistemassero da sole! Desmond, mi avevi chiesto
di fare tutto ciò che era in mio potere pur di riavere
indietro la nostra vita, ebbene… non mi sarei arresa tanto
facilmente! Ah! A quelli dell’Abstergo ridevo in faccia! Ah!
E ancora ah!
Pazzi
furiosi, maledetti bastardi! Pensai stringendo ancora una volta i
denti, e la presa sul telefono s’irrobustì
oltremodo.
Era
giunto il momento di agire. La persona che dovevo rintracciare aveva un
nome: Lucy Stilman.
Infiltrata
nel progetto e tua compagna durante la permanenza nei laboratori di
quel posto, mi sarebbe stata di grande aiuto! Forse aveva un numero di
casa, un numero di carta di credito! Avrei lottato con le stesse armi
che avevano usato loro per rintracciare te, e non li avrei lasciato la
possibilità di riaverti di nuovo! Avrei potuto denunciare
tutto al commissariato più vicino, ma Altair mi aveva
avvertito che in qualsiasi momento sarebbero potuti piombare in casa
mia, e forse uno dei loro era ancora appostato fuori
dall’edificio sulla sua belle porche nera! Ah, al Diavolo!
Che brucino all’Inferno! Gente del genere dovrebbe
raggiungere Lucifero nei meandri della Divina Commedia!
-Basta,
basta, basta!- mi strinsi le tempie, affondai la schiena tra i cuscini,
e finii per guardare il soffitto. –Basta!- sibilai di nuovo.
Il
gatto balzò sul letto e si strofinò contro le mie
gambe.
Mi
bastava un elenco telefonico, qualcosa con cui cercare qualcuno che
potesse darmi una mano senza far nascere sospetti ai bastardi che mi
pedinavano. O meglio, che pedinavano sia me che il tuo antenato.
Spie,
microcamere, microfoni e cimici chissà dove! Mi dissi
allungando il braccio alla mia destra, dove un tempo dormivi tu.
Accarezzai
le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino senza pieghe, strinsi
il piumone tra le dita. Scena familiare, pensai malinconica,
poiché una stessa sensazione di mancanza e vuoto
l’avevo percepita la mattina in cui speravo che finalmente
nulla più ci avrebbe divisi. La mattina in cui ti avevano
portato a Freedom Way in quella macchina nera, il giorno in cui avevo
conosciuto chi si era occupato della tua saluta quand’eri nei
loro laboratori, ovvero Alex Viego.
Girai
appena il volto di lato, correndo con lo sguardo al comodino dalla tua
parte del letto. Mi allungai e aprii appena il cassetto che
suonò vuoto e leggero. Vi misi la mano libera e trovai una
scatolina grande quanto solo il mio palmo. La strinsi tra le dita e la
tirai fuori, alla luce della lampada accesa alla mia sinistra. Quando
tornai dritta stesa sul letto, l’agitai cautamente
accorgendomi che al suo interno vi sbatteva l’ultimo
preservativo.
Sentivo
Finger fare le fusa strusciandosi sulle mie caviglie, quando pensai che
tanto valeva buttare quell’ultima piccola scorta.
-Non
biasimarti, non è colpa tua-.
Mi
sollevai all’improvviso, nascosi la scatola dietro la schiena
tornando seduta com’ero, e il gatto saltò
giù dal materasso scappando verso il corridoio.
Possibile
che anche Finger riconoscesse Altair, così simile al suo
padrone, come un estraneo? Eppure mi era parso che il nostro gatto non
fosse tanto sveglio da cogliere le sottili diversità tra i
due.
Mi
luccicarono gli occhi, e non potei negare l’evidenza: Dio
quant’eravate diversi!
Altair
era in piedi davanti alla porta del bagno, l’asciugamano
legato alla vita e lo sguardo volto verso di me. Sembrava allegro, ma
non me n’accorsi più di tanto.
Primo
dettaglio fu la muscolatura dannatamente meravigliosa: il fisico
sottoposto ai duri allenamenti della setta mostrava i suoi frutti sul
petto scolpito e sulle braccia. La pelle incredibilmente ramata,
traversata dalle restanti goccioline del dopo doccia.
Dovetti
trattenermi per non cominciare a sbavare.
Piuttosto
mi girai tutt’altra parte, e per l’imbarazzo avevo
pigiato con troppa forza uno dei tasti del telefono, attivando
così l’ultima chiamata.
Sobbalzai,
e mi affrettai ad annullare il numero che era comparso automaticamente
sullo screen.
-Biasimarmi?-
balbettai fingendomi distratta.
L’assassino
sorrise mesto. –Che cosa nascondi?- domandò
avvicinandosi.
-Ah,
nulla!- feci la vaga andando a nascondere la scatola sotto il cuscino
alle mie spalle.
-Che
cos’era?- chiese ancora, ma in modo malizioso.
Tipica
situazione imbarazzante alla Giògiò, mi dissi.
–Uno dei tanti giochetti di Finger, sai… gli piace
seminarli per casa!- sbottai d’un tratto, e ringraziai Dio
per avermi posato la mano sulla testa almeno quella volta.
Mi
scappò una risatina acuta che diede poco filo da torcere al
ragazzo che, nonostante avesse capito gli nascondessi qualcosa,
alzò le spalle e si guardò attorno.
Mi
presi altro tempo per ammirarlo, approfittando che non si fosse accorto
del modo in cui lo guardavo.
Perché
mostravo tanto interesse? Mi chiesi. Era un bel ragazzo come un altro.
Anzi, meglio dire un bell’uomo come un altro.
-Ah,
scusa…- mi alzai dal letto e andai verso l’armadio.
Il
sorriso sul suo volto si allargò oltremodo mentre gli
porgevo qualcosa da mettersi.
-Bene…-
dissi richiudendo l’armadio. –Ora ti vesti
e… se ti viene fame, fammi sapere- mormorai e feci per
avviarmi per il corridoio.
Altair
mi arrestò stringendomi per il polso.
-E
tu?- chiese.
Alzai
un sopracciglio. –Io cosa?-.
-Non
mangi nulla?- aveva tutta l’aria di un rimprovero.
Curvai
le spalle affranta. –Non proprio-.
-Ascolta-
proferì lasciandomi il braccio. –Sono giorni che
non tocchi cibo, e l’unico momento in cui ti ho vista
addentare qualcosa è stato questo pomeriggio in quel parco.
Magra come sei potrebbe anche bastarti, ma non è questo il
punto- era serio, tanto serio.
Così
serio che mi fece quasi paura.
-E
qual è il punto?- feci spallucce.
-Non
si tratta solo di colazione, pranzo e cena! Ne vale la tua salute, e
Desmond non vorrebbe mica vederti in questo stato- dichiarò.
Presi
fiato. –Non ho bisogno che ti preoccupi per me…
davvero, apprezzo il gesto, ma l’unico che ha bisogno di
conforto sei tu- ridacchiai.
-Conforto?-
aggrottò la fronte. –Non è per il
conforto che ti dico questo-.
-Lo
so!- alzai gli occhi al cielo. –Credi che non abbia capito?
Ormai ti sei a tal punto ambientato che persino il gatto fa le fusa
quando ti vede! Me ne sono accorta che già dopo pochi giorni
ti sei sentito come a casa tua, e questo è un immenso
sollievo! Dato che molti dei precedenti pazienti del passato sono morti
di follia cronica venendo in questo tempo, è il minimo che
possa fare!- mi lamentai.
Lui
mi lanciò un’occhiata confusa, spostando il peso
sull’altra gamba. Sottobraccio aveva i pantaloni e la felpa
che gli avevo dato, assieme a quel poco di biancheria intima che
portavano i maschi.
-Lascia
stare…- brontolai voltandomi e andando verso la cucina.
-Giorgia-
mi sentii chiamare.
Ferma
sull’ingresso della stanza, mi girai. –Che
c’è?- sospirai.
L’assassino
avanzò di un passo. –Grazie- disse calmo.
Abbozzai
un sorriso, non riuscendo a trattenere la presa allo stomaco che avevo
nel vederlo in quello stato. –E di cosa?- mormorai, e il mio
sguardo indugiò ancora sul suo fisico.
-Capisco
che genere di pazienza porti- rispose lui soave.
Poggiai
le mani sui fianchi. –Ah, davvero?- sogghignai, e il tuo
antenato si fece più vicino.
-Ovviamente-
proferì –nel mio mestiere non sempre si
è pronti a colpire la preda-.
-Ah…-
rabbrividii al solo pensare che l’uomo che avevo davanti, a
torso nudo, avesse stroncato centinaia di vite umane. –Che
intendi?-.
-Un
giorno mi piacerebbe mostrarti di cosa sono capace- sorrise.
Un
brivido mi corse lungo la schiena. –Cosa? Sei impazzito?
Ammazzare qualcuno solo per farmi vedere che tipo di lavoro fai? Ma
neppure alla giornata dei genitori delle elementari, ma smettila!-
eruppi.
Altair
scoppiò in una fragorosa risata, mostrando la dentatura
perfetta.
-Non
sei divertente- digrignai uscendo dalla camera e accostando la porta.
Finger
era seduto sul davanzale della finestra che dava sul quartiere. Le
strade buie e senza lampioni, i vicoli con le auto parcheggiate. Il
gatto nero si confondeva in quello spettacolo di poca luce data sola
dal brillare delle stelle e della luna. Qualche bagliore di macchine
lontane che svoltavano agli incroci e i rossi e verdi indistinti dei
semafori alla fine del viale.
Finger
era un gatto tranquillo e molto pigro, e raramente qualcosa lo
innervosiva. Per questo motivo mi trovai a credere che fosse alquanto
strano che stesse muovendo la coda già da qualche minuto.
Incessantemente e a scatti, il salsicciotto peloso sbatteva contro i
vetri della finestra e sul legno del davanzale. I suoi occhi gialli si
perdevano nelle ombre, e le sue orecchie si voltavano da parte a parte
captando i suoni della città.
-Che
c’è, piccolino?- sussurrai con vocina striminzita
accarezzandolo, e lui non si mosse. Fissava l’orizzonte
davanti a sé, voltava appena le orecchie per ascoltare cosa
dicevo, ma tornava presto a concentrarsi su altro.
Feci
una smorfia. –Non hai mangiato niente- sentenziai vedendo la
ciotola piena di croccantini. –Che ti è preso?-
aggiunsi.
Mi
affacciai alla finestra e presi una boccata d’aria fresca,
mentre un venticello gelido mi agitava i capelli sciolti sulle spalle.
Distrattamente,
colsi un auto che non avevo mai visto parcheggiata accanto a quella dei
vicini. Era nera, di media grandezza e a quattro posti. I vetri poco
oscurati, e l’unico posto occupato era quello del passeggero.
L’uomo
che doveva aver guidato la macchina fin lì era dietro ad
essa e cercava qualcosa nel portabagagli. Non mi era
possibile capire cosa stesse facendo quello seduto in macchina, ma
dedussi dalla posizione delle braccia che stesse parlando al telefono.
Indossava degli abiti scuri, forse un cappotto, mah… non
saprei, mi dissi. Di gente strana ne passava per quelle strade, ma era
forse quello l’oggetto di tanta attenzione da parte di Finger?
Gli
animali, si sa, hanno un istinto superiore ed un sesto senso micidiale.
Il
gatto balzò giù dal davanzale spaventandomi, e
l’osservai correre nel corridoio e sparire confondendosi tra
le ombre dei mobili.
Strano,
pensai, e tornando a guardare fuori dal balcone, mi accorsi che i due
uomini erano spariti.
Mi
stanziai dalla finestra indietreggiando di alcuni passi, mi appoggiai
al tavolo della cucina, e notai che Altair mi fissava sorpreso.
-Qualcosa
non va?- domandò avvicinandosi, e seguì il mio
sguardo che era ancora incollato alla macchina nera nel vialetto.
-Non
credo…- mormorai.
-Vieni-
mi disse ad un tratto, prendendomi per mano. –Dobbiamo
parlare di una cosa-.
Lo
seguii fino in salone, dove mi fece accomodare sul divano.
L’assassino
sedette accanto a me.
-Che
succede?- chiesi sperduta.
Lui
mi fissò allungo. –So che è inutile che
te lo chieda- cominciò –ma tu vuoi che Desmond
ritorni, giusto?- mi sorrise, ed io ricambiai.
-Certo-
proferii serena.
-Ottimo-
riprese lui, e si allungò ulteriormente verso di me.
–Ci sono due modi per far sì che questo succeda:
il primo, sconsigliato e più rischioso, rubiamo ai signori
dell’Abstergo il Frutto del Peccato. Il secondo, meno
rischioso e più consigliato, troviamo un modo…-
avvicinò le labbra al mio orecchio, ed improvvisamente
m’irrigidii. –troviamo un modo per giungere a quei
farmaci che i signori dell’Abstergo hanno- disse.
-Hmm.
Ci stavo giusto pensando-.
-Non
ho idea da dove possiamo cominciare, tanto vale cercare qualcuno che
può aiutarci- proferì.
Mi
voltai appena per guardarlo negli occhi. –Ma loro…
non sospettano che…- provai a dire.
-Forse,
ma vale la pena tentare- tornò a sedersi dritto e
incrociò le braccia al petto.
Mi
passai le mani in volto. –Potrebbero piombare qui da un
momento all’altro, le coincidenze in queste ultime settimane
sono state assurde e…- non riuscii a terminare che qualcuno
bussò alla porta di casa.
C’era
il campanello, e il citofono! Perché bussare?! Mi chiesi
alzandomi.
Arrivata
alla porta, sentii il gatto soffiare, ma non me ne curai.
-Chi
è?- chiesi tenendo lo sguardo al pavimento.
Non
rispose nessuno; uno stupido motivo in più per aprire. Ecco
a che cosa serviva un padre che ti dicesse di non aprire la porta agli
sconosciuti! A quelli della pizza sì, ma non agli uomini
vestiti in smoking che, appena aperta la porta, ti puntano una calibro
9 contro.
Non
avevo parole, e il mio cuore perse un colpo quando Alex Viego
entrò in casa mia e mi afferrò un braccio,
facendomi voltare e storcendomi l’arto dietro la schiena.
Contemporaneamente mi puntò la pistola alla testa e chiuse
la porta.
Finger
era un gatto tranquillo, non si scaldava mai senza un vero motivo.
C’erano
due uomini vestiti allo stesso modo di Alexander che tenevano a bada il
tuo antenato, entrambi erano armati, ed uno di loro
indossava… un cappotto nero.
Per
l’appartamento comparvero un’altra dozzina di
agenti che si aggiravano per le stanze, ed uno di loro mollò
un bel calcio nel didietro al mio gatto.
-Bastardi!-
gridai, ma Alex dietro di me premé con più forza
la canna della pistola sulla mia tempia.
-Stia
calma, signorina, e nessuno vi farà del male-
sibilò quello.
Lanciai
un’occhiata all’assassino e lo vidi nel panico.
–‘sta calmo- mossi le labbra, ma lui parve o non
capirmi o ignorarmi.
-Che
cosa state cercando?!- sbottò Altair guardandosi attorno,
mentre gli agenti andavano cercare nei cassetti dei mobili,
nell’armadio, tra i piatti, vicino al porta chiavi
all’ingresso. Setacciarono tra le riviste sul tavolo, anche
in mezzo ai DVD e blue-ray accanto alla play, in cucina tra le posate e
nella stanza da letto sotto i cuscini.
Eheh…
sotto i cuscini…
-Martin!-
chiamò Viego, e uno dei poliziotti che giravano per casa si
avvicinò a noi.
-Prendi-
con uno strattone, Alex Viego mi lanciò tra le braccia di
questo Martin, che invece di fare il galantuomo, si apprestò
a farmi inginocchiare a terra e a puntarmi nuovamente l’arma
alla testa. Martin puzzava di fumo, e in bocca aveva una Philips Morris
One.
Alex
camminò con passo spedito verso il tuo antenato, che i due
poliziotti alle sue spalle avevano fatto mettere in ginocchio
esattamente come me. Uno di loro lo minacciava dall’alto con
la pistola, mentre l’altro ridacchiava.
Alex
si arrestò di fronte ad Altair.
-Tu…-
sibilò l’antenato con disprezzo e stupore.
Viego
levò il pugno e gli mollò un cazzotto ben
piazzato in faccia. –Già, io!- digrignò
soddisfatto.
Altair
piegò la testa di lato, ed ammirai spaventata come un fiotto
di sangue prese a colargli dal naso, al quale si portò una
mano.
Gli
occhi sconvolti dell’assassino si fermarono un istante su di
me, che senza dire alcuna parola, mi alzai e corsi verso di lui.
Alex,
che era indietreggiato con un sorriso maligno in volto, non mi
fermò, e potei raggiungere Altair chinandomi accanto a lui.
-Sto
bene, ma dai a questi signori quello che vogliono…-
mormorò lui guardandomi.
Io,
nel panico, balbettai: -Di cosa parli? Sapevi che sarebbero venuti?-
gli poggiai una mano sul collo.
-No-
rispose lui, e sgranai gli occhi quando le sue braccia si strinsero
attorno al mio corpo.
A
quell’abbraccio improvviso bisognava dir presto basta,
poiché Viego venne di nuovo al mio fianco e mi
strappò dal tuo antenato.
-Allora,
dicci dov’è che l’ha messo! Quando
avremo quello che ci serve, ce ne andremo! È come dice
Altair!- gridò Alex facendomi sedere sul divano.
-Non
so di cosa parliate!- strillai in tutta sincerità.
-Cammina!-
uno dei due scagnozzi fece alzare Altair da terra e lo condussero nel
corridoio, sparendo alla mia vista.
Io
ed Alex eravamo soli nel salotto, e il mio cuore assieme al mio fiato
corto, erano maggior segnale che qualcosa stava andando ancora peggio.
-Parla
o lo ammazziamo!- alzò la mano con la pistola.
Tentai
di sollevarmi, ma Viego mi spinse nuovamente giù.
–Rispondi! Dov’è!?- caricò
l’arma.
-La
smetta, la prego- mormorai trattenendo a stento le lacrime.
-Il
cellulare! Dimmi dov’è!-.
-Cellulare?!?
Il mio cellulare?!?- balbettai.
-No,
stupida!- sbuffò lui. –Quello di Desmond, dimmi
dov’è e tornerà tutto
tranquillo…- ridacchiò.
Il
terrore mi attanagliò le viscere. E che ne sapevo io
dov’era il cellulare di Desmond?! Era possibile che se lo
fosse portato con sé nel passato?! E perché
quelli dell’Abstergo lo stavano cercando ed erano piombati in
casa mia per un samsung?!?
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Capitolo 11 *** Sogno di tempesta ***
Sogno
di tempesta
"La
fugacità di un sogno scivola via all’ultimo
momento.
Nell’istante
in cui ci sentiamo più pronti ad andare avanti
questo
si interrompe senza preavviso,
abbandonandoci
ad un immenso senso di incompletezza..."
Aprii
lentamente i miei occhi verdi, e la nebbia del mio sguardo si dissolse
nel tepore della lampada accesa sul comodino. Era notte fonda, me ne
resi conto subito sollevando la testa dal cuscino e guardando fuori
dalla finestra. Non solo, ma sui vetri si abbattevano violenti i
goccioloni della tormenta più nera, e il cielo era una
compatta massa grigia. Le luci dei grattacieli si perdevano nel buio
della sera mentre dalle strade proveniva la confusione abituale dei
clacson del traffico notturno.
Avevo
un braccio stretto sotto il cuscino, il mio corpo era dolcemente
adagiato sul copriletto in parte venuto via dall’angolo del
materasso, nella parte superiore del quale erano ben visibili il
lenzuolo bianco e le federe stropicciate.
Un
tuono squassò l’aria fredda e silenziosa
dell’appartamento, e il ticchettio della pioggia sulle
finestre mi metteva una certa ansia.
Possibile,
mi chiesi guardandomi attorno, che fosse stato tutto solo un sogno?
La
mia stanza era avvolta dal buio, la porta del bagno era chiusa e quella
che affacciava sul corridoio appena accostata.
Con
la vista ancora appannata, guardai la radiosveglia sul comodino e
impiegai parecchio prima di mettere a fuoco i numeri. Questa, mi
accorsi con stupore, segnava la mezzanotte passata da
ventitré minuti.
Affondai
la faccia nel cuscino senza pensarci ancora e soffocai un gemito su di
esso quando un immenso senso di spossatezza si fece largo a spintoni
nella mia testa. Questa cominciò a pulsarmi per via del
movimento brusco, ed io mi girai di fianco con il viso che guardava la
parete della stanza. Strizzai gli occhi cercando di recuperare al
meglio la vista, ma l’appannamento delle pupille insisteva
ancora, e mi dava un gran fastidio.
La
pioggia sui vetri era diventata una litania insopportabile, e mi
sentivo la capa come colpita incessantemente e con un ritmo costante da
un martello. Ero sull’orlo di scoppiare a gridare un bel
“BASTA!”, ma un rumore proveniente dalla cucina mi
fece sobbalzare.
Per
terra cadde qualcosa di metallico, una pentola forse. E poi delle
posate, assieme ad alcuni piatti che si frantumarono in centinaia di
pezzi.
Mi
alzai e sedetti con le gambe fuori dal letto. Alcune ciocche di capelli
mi caddero sulle spalle, altre a coprirmi il viso, ma nel complesso la
mia chioma era ordinariamente arruffata.
Poggiai
i piedi a terra, sorprendendomi di essere scalza con neppure i calzini.
Indossavo i miei soliti jeans e la camicetta con le maniche arrotolate
che avevo scelto dall’armadio quella mattina. Alcuni bottoni
di questa erano slacciati per via del sonno agitato dal quale venivo,
quindi era visibile anche parte del reggiseno che portavo. Non me ne
curai e feci un passo verso la porta del corridoio.
Lanciai
un’occhiata fuori dalla stanza e riuscii a scorgere solo le
ombre dei mobili mentre altre portate e oggetti si rovesciavano a terra
senza ritegno.
Gli
agenti dell’Abstergo stavano ancora cercando quel cellulare?
Fui felice che la mia mente stesse cominciando a riaffiorare, ma
l’appannamento agli occhi insisteva e la spossatezza non mi
lasciava camminare composta.
Una
volta nel corridoio, lo percorsi tutto guardandomi alle spalle
più volte. Una svista alla porta d’ingresso che
notai chiusa, e poi mi affacciai in cucina, restando ben nascosta
dietro la parete. Il buio giocava a mio vantaggio, e da lì
avevo un’ottima visuale anche sul salotto.
Acanto
al divano, nel bel mezzo della moquette, c’era una delle
sedie da tavolo vuota e alquanto inquietante, e mi chiesi cosa ci
facesse lì. Ai piedi del seggio c’era una fune
abbandonata a terra.
L’atmosfera
lugubre e da film horror che aveva in quel momento casa mia mi fece
sudar freddo e, sporgendomi verso la cucina, vidi qualcuno che si
sbatteva da una dispensa all’altra come un pazzo. Rovesciava
a terra posate dai cassetti e al suolo finì anche il
tostapane. Era una figura mal delineata dalla mia vista che ingannava,
e sembrava cercare qualcosa nei cassetti delle posate con foga, quasi
avesse una pistola puntata alla testa e fosse preda del terrore.
I
miei occhi soffocati non mi permisero di riconoscerlo subito o di
coglierne i particolari, ma questo si voltò spaventato verso
di me.
Io
indietreggiai, sperando che le ombre del corridoio facessero la loro
parte e mi celassero al meglio, e di fatti ascoltai sollevata
l’uomo che gettava a terra altri oggetti.
Mi
feci coraggio uscendo nuovamente allo scoperto, presi un gran respiro e
aprii la bocca per dire solo: -Cosa…-.
L’uomo
si voltò, ed io ebbi un tuffo nel cuore.
Era
bendato, aveva le mani legate ed era lui, solo ed unico che
condividesse con me ormai la mia vita.
-Altair!-
gli andai incontro e rimossi lo scotch che aveva dalla bocca. Lo
strappo fu sonoro e, per lui, doloroso.
Il
ragazzo soffocò un gemito ed io mi apprestai a togliergli il
bendaggio dagli occhi.
Non
persi altro tempo e guardai in basso: le mani gli erano state legate
con delle manette. Ecco perché aveva trovato tanto
difficoltà a liberarsene, mi dissi.
-Aspetta…-
mormorai andando a cercare nel cassetto giusto. Trovai quello che
cercavo e, con un’espressione seria in volto, strinsi con
forza l’impugnatura del martello.
Senza
che gli dicessi nulla, Altair poggiò entrambe le mani sul
tavolo della cucina mettendo in bella vista la catena solida delle
manette. Mi lanciò un’occhiata con i suoi occhi
scuri che mi fulminarono, ed io sollevai il martello. Con violenza e
rabbia, stringendo i denti, lo calai in un impatto potente sulla
catena, che si frantumò al primo colpo. Sorrisi soddisfatta
e lo aiutai a liberarsi dei bracciali ad entrambi i polsi.
Quand’ebbi
finito, i nostri sguardi l’uno più terrorizzato
dell’altro s’incrociarono di nuovo.
Gli
presi il volto tra le mani, cercando di consolarlo con la sola forza
dei miei occhi pentiti. Infondo era colpa mia se quelli
dell’Abstergo l’avevano trattato in quel modo, e mi
chiesi che cosa gli avessero fatto di tanto orribile per essere
così sudato, teso e agitato; ma quando accarezzai la
cicatrice sul labbro con il pollice, parve rilassarsi, e il suo respiro
calmarsi. Piegò la testa da un lato accogliendo la mia mano
sulla sua guancia.
-Mi
dispiace; che cosa ti hanno fatto…- bisbigliai, e mi gettai
dolcemente al suo collo facendo aderire completamente il mio corpo al
suo.
Le
sue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi, e sentii il suo cuore
rallentare i battiti così vicino al mio, terribilmente
spaventato.
-Diciamo
che…- rispose lui al mio orecchio. –Diciamo che ho
opposto resistenza- sibilò, rimuginando sui ricordi delle
ultime ore.
-Mi
spiace, mi spiace davvero…- continuai affondando il viso
nell’incavo del suo collo, e lo sentii stringersi con
più forza a me.
-Non
è stata colpa vostra, smettetela- fece serio. –A
voi hanno preferito addormentarvi, mentre a me hanno chiesto quello che
volevano sapere-.
Sollevai
appena il volto, sorprendendomi dell’incredibile vicinanza
dei nostri nasi. –Il cellulare…- sussurrai sulle
sue labbra.
Lui
annuì.
-Perché
lo cercavano? E come facevi a sapere dov’era?- mi stanziai
ancora un po’, e finalmente la mia vista si stava riavendo a
pieno.
L’assassino
aggrottò la fronte. –In quel cellulare
c’era il numero dell’unica persona che avrebbe
potuto aiutarci. Desmond memorizzò il suo numero quando
ancora era prigioniero nel laboratorio. Come sai, e come il tuo
promesso ti disse a suo tempo, Lucy Stilman è sotto la
sorveglianza di quelgi agenti- disse.
-Sì,
mi ricordo che mi ha detto qualcosa a riguardo- farfugliai alludendo
alle tue novelle di quando eri sotto torchio in quel laboratorio.
–Desmond mi disse di aver barattato la sua libertà
con la condanna di Lucy agli arresti domiciliari- proferii incerta.
Il
tuo antenato mi fissò allungo, in attesa.
Io
inarcai d’un tratto un sopracciglio, spalancando gli occhi e
staccandomi da lui. –Era il suo numero? Il numero di
cellulare di Lucy Stilman che quelli dell’Abstergo volevano?
E Desmond l’aveva memorizzato in quel cellulare senza dirmi
nulla? Perché?!- eruppi tutto d’un fiato,
spaventata e sbigottita.
-Non
fare pregiudizi- intervenne Altair contenuto. –Era troppo
rischioso che Desmond ve ne parlasse quando in questa casa era
possibile ci fossero ancora le telecamere. Voleva attendere di avere
conferma da Lucy stessa che le avessero tolte tutte, ma questo non
è successo. Quando Desmond è tornato qui, avrebbe
voluto dirvelo, ma riuscite a comprendere che c’era in ballo
la vita di tutti e quattro?- formulò nervoso.
-Sì,
ho capito…- mormorai cercando il tavolo dietro di me e
appoggiandomi ad esso. –E ora?- chiesi guardandolo.
Lui
assunse un’espressione confusa.
-E
ora non ci stanno guardando?- aggiunsi con un filo di voce.
-No,
ora no- dichiarò lui calmandosi. –Hanno tolto ogni
cosa quando se ne sono andati. Ci hanno lasciati a mani vuote. Lucy,
anche agli arresti domiciliari, avrebbe potuto fornirci quei
medicinali. Ora è davvero finita- sospirò
affranto.
Non
riuscii a crederci. Eravamo ad un passo così dal farti
tornare, quando Alex Viego e i suoi avevano deciso di fare bella
comparsa sottraendoci tutto il necessario. Eravamo a mani vuote, come
aveva detto il tuo antenato, dannatamente vuote.
-E
ora?- gli domandai ancora, mentre percepivo la vista tornare appannata,
ma quella volta per via delle lacrime.
Una
di queste mi attraversò la guancia di gran corsa, giunse sul
mento e si rovesciò al suolo.
Altair
mi venne vicino e mi cinse ancora tra le sue braccia, e fu inevitabile
che io mi stringessi a lui soffocando il mio pianto sulla sua maglia.
Basta:
dopo quell’ultima rivelazione non avevo motivo di vivere.
Avrei preso il martello, che era lì, sul tavolo, e
l’avrei alzato per poi colpirmi con violenza la testa. Non
avevo la forza di continuare, non c’era etica nelle mie
azioni, non c’era morale. Non valeva la pena combattere, fare
un altro respiro o muovere un altro passo forte della sola convinzione
che non ti avrei ma più rivisto. La vita era ingiusta, ma la
mia esistenza era un caso particolare: la mia era un’assurda
vita ingiusta.
Non
ricordavo cosa era successo dopo. Avevo immagini confuse, e come
avessero tagliato alcune parti di un film, comparivano delle scene
senza un preciso ordine logico.
Vedevo
Alex Viego, alle mie spalle, che mi stringeva con forza un braccio e me
lo torceva dietro la schiena. Poi due uomini che tenevano il tuo
antenato in ginocchio. Un agente vestito di nero che frugava nei miei
cassetti della biancheria, e un altro che fumava una sigaretta
puntandomi alla tempia una calibro 9.
Queste
erano le diapositive presenti costantemente nella mia testa, come a
rammentarmi l’ultimo episodio della mia soap-opera preferita,
anche se odiavo qualsiasi fiction, mi sembrava l’esempio
più ovvio. Solo le scene più toccanti, e poi il
buio, il vuoto, l’amnesia fusa ad un incredibile ed
insopportabile senso di mancanza. Era il sogno della realtà
che si era interrotto nel momento più cruciale, quello
durante il quale si era giocata l’ultima battaglia, si era
spesa l’ultima monetina nella giostra col braccio meccanico.
In quel momento, se qualcuno non mi avesse bucato la pelle, come mi
raccontò Altair, e mi avesse addormentato con una comoda
siringa, avrei trovato il vigore per provare a reagire. Forse avrei
vinto, forse avrei perso, ma sicuramente sarebbe stato meno doloroso
prendere parte a quella battaglia invece di perdere coscienza e
sonnecchiare stesa al pavimento.
Mi
scottai nel tentativo di prepara un the caldo, che ormai era diventata
la mia droga personale, e in qualche modo stavo convertendo anche
l’assassino del XII secolo ai miei infusi del futuro.
Eravamo
seduti al tavolo della cucina, sul quale c’erano ancora i
resti delle manette e il martello col quale mi sarei dovuta togliere la
vita.
Mi
disse che aveva fatto di tutto pur di respingere le loro intimidazioni,
ma quando gli agenti ed Alex Viego compreso avevano minacciato di
uccidermi, aveva vuotato il sacco, confessando ciò che
Desmond gli aveva detto durante uno dei loro incontri nel caricamento.
-Dov’era?-
chiesi stringendo la tazza fumante tra le mani. Il calore
passò attraverso la porcellana e arrivò fino al
sangue.
-Cosa?-
domandò lui a sguardo basso, fissando affranto il fiotto di
fumo che si levava dal suo the.
-Il
cellulare- sorrisi quando alzò lo sguardo incontrando i miei
occhi. –Dove l’aveva nascosto?- aggiunsi
altrettanto allegra.
Il
tuo antenato condivise la mia gioia, tornando a guardare il liquido
scuro contenuto nella tazza, come specchiandosi in esso. –Sei
sicura di volerlo sapere?- proferì divertito.
Mi
feci più vicina a lui. -Avanti, vuota il sacco- lo minacciai
con un’occhiataccia.
L’assassino
buttò giù un sorso bollente e, quando
poggiò delicatamente la tazza sul sottobicchiere, mi
guardò ridendo.
-Che
c’è?- curvai la testa da un lato, confusa e
temendo di sapere la risposta.
-Nel
cassetto della biancheria-.
-Mia
o sua?-.
-Tua-.
-Ah,
bene!- brontolai.
Sulle
sue labbra comparve un sorriso gioioso. –Sapeva che ti
saresti arrabbiata- ancora rideva.
-Mi
conosce bene, a quanto pare- gioii.
L’effetto
del the arrivò inatteso, e come mi fossi appena svegliata,
l’immaginabile spossatezza mi attanagliò di nuovo.
Stavo
finendo di preparare il divano del salotto per il tuo antenato,
foderando di bianco candido il cuscino, quando mi scappò uno
sbadiglio che sembrava non avere fine. Mi portai una mano alla bocca,
lasciando scivolare il piumino sul divano.
-Avete
intenzione di crollare sul pavimento?- sentii ridere il tuo antenato
alle mie spalle.
Mi
voltai lentamente, che ancora sbadigliavo. –No,
no… adesso me ne vado…- bisbigliai.
–Solo un momento…- le gambe mi cedettero e crollai
seduta sul divano senza che potessi muovere un altro muscolo.
Altair
soffocò una risata e si sedette al mio fianco.
-Grazie,
non dovevate. Avrei potuto fare da me- disse guardandomi.
Io
gli lanciai un’occhiata, ma più che altro gli
occhi mi si chiudevano da soli. –Potresti farmi un favore?-
trattenei a stento un nuovo sbadiglio.
-Certamente-
sorrise lui.
-Smettila
di darmi del voi, chiaro?- sbottai improvvisamente seria.
–Ormai siamo tra amici…- aggiunsi.
-Va
bene- rispose amichevole. –Scusa-.
-Bene…-
mormorai voltandomi verso di lui. –Non è che mi
dia fastidio- cominciai. –è solo che…
da questa parte della linea del tempo si usa poco, capisci?-.
Lui
annuì distratto, e osservai che con una mano si stava
massaggiando la mascella nel punto in cui, ricordavo bene, Alex
l’aveva colpito in quel modo violento.
-Ti
ho già detto che mi dispiace?- chiesi.
Il
tuo antenato si rallegrò. –Ho avuto modo di
riscattarmi, non preoccuparti-.
-Che
intendi?-.
-Quel
tizio se l’è cercata-.
Rabbrividii.
Era un peccato che mi fossi persa tutta la scena alla “film
giapponese”. Avrei voluto vedere di che pasta era fatto
l’assassino che mi sedeva accanto. Infondo, era stato lui a
dirmi che un giorno mi avrebbe mostrato di cosa era capace. Non faceva
riferimento solo alle incredibili capacità da uomo ragno,
vero?
-Te
le hanno suonate, non è così?-.
-Sì,
ma avresti dovuto avvertirmi che quelli strani oggetti che impugnavano
potevano colpirmi anche a distanza- proruppe scocciato.
Io
sobbalzai. –Ti hanno sparato?!-.
-Mi
hanno cosa?- sgranò gli occhi.
-Quelle
si chiamano “pistole”! Sono armi da fuoco! Quando
qualcuno te ne punta una contro, non puoi farci nulla! Sei spacciato!-
strillai. –Quindi o stai fermo e implori di non premere il
“grilletto” oppure vai all’altro mondo!-
aggiunsi; non lo facevo così stupido. O almeno speravo che
quelli dell’Abstergo, durante il periodo di prova nel
laboratorio, gli avessero mostrato una pistola.
-Però
non sono riusciti a colpirmi. Piuttosto, quel quadro in
corridoio…- fece il vago.
Gli
presi il mento tra le mani e lo girai verso di me. –Scherzi,
vero?- digrignai.
-Valeva
tanto?-.
Stavo
per alzarmi, quando il tuo antenato mi strinse per il polso e mi fece
tornare dov’ero, sprofondando nel piumino accanto a lui.
-Mi
dispiace, va bene?- dichiarò serio. –Se mi
sparavano addosso loro, dovevo rispondere con qualcosa io, no?-.
-Gli
hai lanciato il quadro?!- ero sbigottita, stupita di una tale
ingenuità.
-Lo
sapevo! Ma come fai ad essere così egoista? Quelli mi
sparano dietro con un’arma che non ho mai visto, e ti lamenti
pure che abbia tentato di difendermi!- alzò gli occhi al
cielo.
-Va
bene, scusa, calmati!- mormorai attirando la sua attenzione su di me.
–Hai ragione, sono un’egoista, termine giusto, e mi
dispiace! Al diavolo il quadro, è già incredibile
che tu sia vivo. Ma aspetta…- abbassai lo sguardo.
–perché ti hanno legato alla sedia, imbavagliato e
bendato se hanno tentato di ucciderti?- chiesi confusa.
-Non
volevano uccidermi. Miravano alle gambe, e credo di avere una ferita di
striscio da qualche parte… e comunque non gli avevo ancora
detto dov’era che Desmond teneva il cellulare. Quindi gli
servivo vivo-.
Tornai
seduta composta e guardai dritto davanti a me.
Rimanemmo
in silenzio, ascoltando la pioggia che batteva sui vetri per una
frazione di minuti che mi parve incredibilmente lunga ma rilassante.
Ebbi modo di chiudere gli occhi e, come avvolta dalla foschia
verosimile di un sogno, la mia bocca si aprì da sola.
-Credi
che Desmond se la caverà?- chiesi in un sussurro.
L’assassino
sospirò. –Il mio non è certo un mondo
facile- disse tristemente.
-Non
lo nego. Insomma… prevedo che la situazione
resterà ferma per un po’- omisi.
L’uomo
si girò su un fianco, e schioccò d’un
tratto le dita davanti al mio naso.
Io
sobbalzai.
-Devo
portarti in braccio?- chiese. –Arrivi da sola fino alla tua
stanza?- ridacchiò.
-Mi
stai prendendo in giro?- dissi con una smorfia.
Di
tutta risposta Altair si alzò in piedi. –No-.
-Va
bene- sorrisi come una deficiente.
Ovviamente
il tuo antenato interpretò le mie parole come un assenso,
non un peccaminoso gioco di sarcasmo. Si chinò su di me, mi
strinse sotto le ginocchi e dietro la schiena, ed io
m’irrigidii, cercando in tutti i modi di restare seduta
dov’ero.
-Dai!-
risi, ma Altair mi sollevò con leggerezza e andò
verso il corridoio.
-Smettila,
mettimi giù, stupido- trovai quella situazione alquanto
divertente, ma anche piacevole.
Senza
il minimo sforzo e dir nulla, Altair attraversò tutta casa
giungendo fino nella mia camera, ed io, per istinto, mi ero stretta al
suo collo, dimenticandomi però di lasciare la presa mentre
mi metteva giù, adagiandomi dolcemente sul letto.
Le
mie braccia ancora avvinghiate al suo collo, ed i nostri visi
così vicini l’uno all’altro. Potevo
sentire il suo respiro per niente affannato infrangersi sul mio naso,
mentre i suoi occhi scuri cercavano i miei, che invece si chiudevano
stanchi.
Da
una parte era un totale estraneo che faceva il grosso quando si
trattava di menare i Men in Black della situazione, ma
dall’altra era il tuo trisavolo, incredibilmente somigliante
a te e magnificamente dolce e affascinante. Sentivo il suo profumo e me
ne gonfiavo i polmoni.
Perché
rimaneva impalato lì in quel modo? Avrebbe dovuto staccarsi
da me e tornare in salone, dove aveva preparato la sua cuccetta per la
notte. Invece non lo fece, piuttosto sentii le sue mani risalire delle
mie ginocchia fino ai miei fianchi e stringermi più a lui in
un abbraccio.
-‘Notte…-
mi mormorò all’orecchio, e quando si
scansò dolcemente da me, lasciando che le mie braccia
scivolassero via dal suo collo, lo guardai allontanarsi verso il
corridoio
-Sicuro…-
sibilai, e lui si voltò.
Distolsi
lo sguardo dalla sua figura composta. –Sicuro che non ti
serve niente?- chiesi, facendo riferimento al bagno e varie.
Il
ragazzo scosse la testa e mi scoccò un nuovo luminoso
sorrido che parve irradiare la stanza. –Pensa solo a
riposare, ora. Da domani, ci metteremo all’opera per trovare
un modo di uscire da questa storia- proferì soave. Fece
pochi passi all’indietro e lo ammirai mentre chiudeva la
porta.
Mi
sollevai sedendo con le gambe incrociate. Poggiai una mano sulla mia
guancia e la sentii ardere dell’imbarazzo che sembrava aver
fatto radici sul mio volto. Sorrisi, ma un istante dopo un tuono
spaventoso squassò il silenzio della camera, facendomi
sobbalzare.
Mi
guardai attorno, e lentamente andai a svestirmi in bagno lavandomi poi
i denti e preparandomi per la notte.
Una
volta sotto le coperte, mi ci volle pochissimo perché il
buio facesse capolino nella mia mente, attraversando ogni angolo
restante della mia coscienza, esplorando ogni mia emozione, e
trascinandomi nel lugubre mondo dei sogni e degli incubi.
_____________________________________
Grazie,
grazie, grazie!
Lo
ammetto, all’inizio credevo di voler proseguire la scena
dell’irruzione dei Men in Black in casa di giò, ma
poi mi sono rigirata a mio favore le circostante per far continuare la
storia in un periodo tranquillo. All’epoca, quando pensai
quella scena, una delle prime che mi balzò in mente, credevo
che avrei fatto fuggire Giorgia e Altair prima che Alex e &
potessero sfondare la porta di casa, fuggendo col famoso
cellulare… ora basta, o qui vi racconto tutta la storia.
Insomma, l’Abstergo company se l’è
svignata con l’ultima possibilità di fare tornare
Desmond a casuccia. Ma onestamente, conoscendo bene i nostri eroi, le
faccende resteranno ferme per poco. Che dire dell’amicizia
che sta crescendo tra i due? Mi confesso dicendovi che, immaginando
questo chappo, avevo pensato di farlo finire con una scenetta moooolto
più interessante, che avrebbe sicuramente fatto piacere a
molti dei miei lettori! XD Ma me molto bastarda e me limitato tutto ad
un “abbraccio” XD XD Insomma, la mia coscienza dice
che da una parte sono troppo piccola per certe cose!!! Ma il diavoletto
sulla spalla sinistra manda un gran vaff al compagno sulla spalla
destra! XD Ecco i miei due “io” che fanno ancora a
botte. A proposito di botte… no, non mi viene in mente
niente. Ah, sì, ecco. Piccolo chiarimento: Altair, mentre la
nostra protagonista sonnecchiava sotto sonnifero, ha provato a fare
fuori qualche agente della compagnia! Alex c’ha rimesso il
naso! Ops… dannato spoiler, ma più avanti si
vedrà… hmm, che altro? Be’, niente.
Passo ai ringraziamenti e alle eventuali risposte alle vostre
recensioni!!! Ciauuu!!!
Un
grazie speciale a:
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy
X
goku94: sì, anche io sbavavo senza ritegno
quando ho descritto Altair semi nudo nel vecchio chappo. *ç*
E ancora, e ancora e ancora quando ci ripenso…
vabbé… confermo, neppure l’autrice sa
come andrà a finire!!! XD Desmond o Alty,
be’… si vedrà, anche io non vedo
l’ora di arrivare alla fine di questa storiaaaa!!! Passando
oltre… continua a seguire e recensire come un grande!!!
Spero che questo chappo sia stato di tuo e di gradimento ad altri! Alla
poxima puntata!
X
Spahi: O_O Non ho idea di cosa sia Fulm Metal Panic, ma da
come mi hai raccontato riconoscendo la scena del chappo in questo modo,
mi sembra di capire che la deficienza del personaggio è la
stessa di Giògiò! XD Or dunque… Felice
che il regalino ti sia piaciuto!!! Anche a me!!! XD (Faccio riferimento
ad Alty che esce dalla doccia XD) Vero, vero! Frase equivoca,
lo ammetto, ma divertenteee!!! XD –un giorno mi piacerebbe
mostrarti di cosa sono capace-. Ed eccone un’altra!!!
à “Non faceva riferimento solo alle incredibili
capacità da uomo ragno, vero?…” XD,
insomma, spero che questo nuovo chappo ti sia piaciuto, attendo con
avidità il seguito della TUA ff!!! Aggiorna prestooo!!! Ciau!
X
Paccy: recensisci chilometricamente come sai fare solo
tuuuuu!!!
X
Carty_Sbaut (detta Lilyna_93): aspetto con ansia le tue
impressioni!
X
LeviTheBookman: non stavi seguendo anche tu la mia ff?
Mah… mi pareva di aver letto una tua rece da qualche parte
in qualche capitolo precedente… fatti sentireeee!
Ringrazio
tutti gli utenti che hanno recensito appassionatamente i capitoli
precedenti, e Radio Elika vi da appuntamento alla prossima puntata!
Ciao a tutti! :D
|
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Capitolo 12 *** Il non ritorno ***
Il non
ritorno
La
confusione della città era attorno a noi. Le macchine che
sfrecciavano sulla strada e la gente che passeggiava sui marciapiedi.
Noi seduti ad uno dei tavoli esterni del bar; io col mio
caffè extra dark e lui col suo “bicchiere
‘acqua”. Il sole brillava alto nel cielo azzurro e
senza nuvole, mentre sprecavo un nuovo giorno a spremermi le meningi
pur di entrare in possesso di quei dannati farmaci! Il tutto,
accompagnato da un venticello primaverile che mi ondeggiava i capelli.
-Potrei
contattare un Acher professionista. Se facciamo saltare la loro
sorveglianza, potresti intrufolarti nei loro laboratori e trovare quei
medicinali. Facile ed efficace. No, facile no, lo ammetto, ma potrebbe
funzionare. Conosco qualcuno che potrebbe aiutarci, e sono sicura che
non esiterebbe. Scommetto che all’interno dei cassetti
dell’Abstergo c’è anche qualche conto e
numero di carta di credito!- ridacchiai grattando la lamina del tavolo
con un unghia.
-Non
possiamo sottovalutarli. Hanno tutto il diritto di sbatterci dietro le
sbarre se qualcosa va male. Ma… cos’è
un Acher?- sibilò lui allungandosi verso di me.
-Alieni,
gente di altri mondi! Io ci scrivo solo sui computer, quelli risalgono
al tuo migliore amico contando le cifre del tuo numero di cellulare!-
sbottai.
-Eh?-.
-Lascia
stare-.
-Se
ne sei tanto sicura, perché non ci hai pensato prima?-
chiese guardandomi.
Sospira.
-La situazione non sembrava tanto critica…-.
Lui
inarcò un sopracciglio. -… mi nascondi qualcosa?-.
Lo
fissai allungo, in silenzio. -Effettivamente c’è qualcuno che
potrebbe aiutarci. Un contatto veloce, un amico di un nemico- brontolai.
-Sarebbe?-.
-Il
fratello di Nikolas. William è specializzato in studio e
progettazione di software. Lo so per certo dato che ero alla sua
cerimonia del diploma quando io e Nik eravamo fidanzati-.
-Ah!
Scherzi, vero? Ma perché quel tizio capita sempre tra i
piedi?!-.
-Calmati,
non siamo obbligati! Posso qualificarmi in computer in un paio di mesi,
vedrai… e la rete dell’Abstergo te la violo io-
ironizzai.
-Davvero?-.
-No.
Mi ci vorrebbero otto vite!-.
-Non
mi sembra il momento di scherzare- fece serio.
-Hai
ragione, scusa- mi passai una mano in fronte, stressata.
-Forse…-
si schiarì lui la voce. –Forse sarebbe bene per la
salute di noi maschietti lasciare la situazione
com’è- disse, alzando appena lo sguardo nel mio.
Mi
persi nei suoi occhi neri, ma mi riscossi alla svelta.
–Cosa?-.
-Intendo-
si sistemò meglio sulla sedia. –Potremmo lasciar
correre le cose. In fondo ci rimane l’ultima speranza che
tutto si aggiusti da solo, senza l’intervento di quei
farmaci-.
-Perché
dici questo?- mormorai.
Lui
si mise a braccia conserte. –Non è ovvio?- il sole
gli irradiava il volto donandogli un colorito ramato.
Si
era affezionato a me?! Ma dai! Scossi la testa, allontanando la tazza
di caffè ormai vuota dal bordo del tavolo. –No,
non capisco di cosa stai parlando- confessai.
-Non
abbiamo uno straccio di idea! E se pretendi di poter danneggiare i loro
aggeggi con l’aiuto di uno topo di biblioteca che sembra
intendersene, allora ti sbagli di grosso, Giorgia! Quei tizi hanno i
mezzi necessari per ammazzarci anche adesso- digrignò
fissandomi.
-Non
nego che ci possano essere dei cecchini a puntarci contro! Non dico
questo, ma come fai ad essere così schietto? Io amo Desmond,
e darei la mia vita per riportarlo indietro! Non sai forse che vuol
dire amare, assassino?- sbottai alzandomi e m’incamminai
verso l’interno del bar.
Altair
mi seguì sbuffando. –Speravo che non reagissi
così, ma guarda in faccia la realtà! È
stata una scelta di Desmond esporsi a questo rischio, e io assieme a
lui ho saputo accettarlo!- mi afferrò per un braccio prima
che potessi avvicinarmi al bancone e mi voltò.
Vedevo
il mio volto arrabbiato specchiarsi nelle sue pupille nere mentre la
sua mano si stringeva con forza attorno alle mie ossa.
–Sapeva a cosa andava incontro, e ci si è buttata
a capofitto senza pensarci. Nonostante ciò, non puoi
prendertela con nessuno di noi! Io me ne sto facendo una ragione
lentamente che questa storia andrà avanti ben oltre qualche
mese, ma tu? Tu rinunceresti così alla
possibilità di continuare a vivere?-.
Lo
guardai con rabbia.
Il
solo fatto che mi stesse gridando contro in un luogo pubblico mi
metteva a disagio, ricordandomi le storie che aveva fatto Nikolas il
giorno in cui gli avevo detto addio. Trovai la situazione piuttosto
simile dato che eravamo all’ingresso di un cinema, quella
volta.
La
sua presa sul mio braccio si allentò piano, fin quando
Altair non fece anche un passo indietro. –Scusa, hai ragione.
Non posso capire come ti senti-.
-Altrettanto,
quindi scusami tu- mi girai e mostrai lo scontrino alla cassa. Pagai e
lasciammo il locale senza dirci nient’altro.
Una
volta di fronte al portone di casa, indugiai sull’ingresso
fermandomi davanti ai vetri delle porte.
-Che
c’è?- mi chiese lui alle mie spalle, ma un istante
dopo si posizionò di fronte a me. –Tutto bene?-
aggiunse.
-Sì,
scusa- mi riscossi cacciandomi una mano nella tasca dei pantaloni.
–Tieni- disse porgendogli le chiavi.
Lui
se le rigirò tra le dita. –Perché?-
alzò un sopracciglio.
-Torna
dentro- abbassai lo sguardo. –Io faccio un giro. Vuoi venire
con me?- gli domandai, ma lo supplicai con gli occhi.
-No,
va bene così- proferì tranquillo.
-Non
fare casino, chiaro? Ho appena messo ordine in casa- sorrisi, e lui
fece altrettanto.
–Ti
ricordi il piano?-.
-Sì-.
-Sai
come si risponde al telefono?-.
-Al
cosa?-.
Risi,
anche se era un bel problema. –Se senti qualcosa suonare non
toccare quell’oggetto. Tu non ci devi essere, chiaro?-.
Lui
annuì e si avviò sulle scale.
Quando
si fu allontanato, mi voltai e salutai il portiere che era rimasto
sbigottito della nostra conversazione, come se avessi appena parlato a
mio nipote di due anni.
Stringendomi
nelle spalle lasciai l’ingresso dell’edificio e
camminai sul marciapiede con le mani nelle tasche della giacca.
Avevo
un’intera mattinata davanti, e non avevo idea di
perché avessi scelto di starmene per i fatti miei quando la
compagnia era ciò di cui avevo più bisogno.
Avevo
già percorso una gran fetta di strada nel momento in cui il
mio cellulare squillò.
Sull’interfaccia
vidi il suo nome e risposi alla chiamata col sorriso. –Marty-
dissi.
-Felice
di sentirti felice, ragazzuola!-.
-Le
tue telefonate non sono mai a vuoto, avanti, parla- ridacchiai.
-Mi
conosci bene. Quindi vado al sodo: la festa, si fa o non si fa?-.
-Questo
sabato c’è il compleanno di William-
thò, che coincidenza, pensai.
-Lo
so, e porti Desmy, vero?-.
-Non
credo-.
-Ti
zappo le mani, chiaro?!?! Tu DEVI portarlo, sennò mica ci
credo che è tornato. Potrei pensare che hai solo una crisi
d’astinenza da sesso e te lo sei immaginato!-.
-Non
ho nessuno crisi d’astinenza! E non me lo sono
immaginato… ecco, vedi… lui
è… cambiato, e parecchio-.
-Così
mi fai luccicare gli occhi. In meglio o peggio, intanto-.
-In
peggio- mi era scappato, non avrei dovuto dirlo.
-Cristo,
e? Che cosa gli è successo? Dov’è
stato?! E che bestia sarà mai diventato per farti stare
così giù? Insomma, cara, ti sento sciapa.
Perché non fai un salto qui? Io e il cane ci annoiamo da una
settimana e passa-.
-Non
è una buona idea- mormorai.
-Primo,
parla più forte, e secondo: perché?! Che cosa ti
ho fatto di male?- la sentii tirare su col naso.
Tacqui.
-Va
bene, se non vuoi parlare a me, vorrà dire che lo farai
davanti a tutti noi alla festicciola di Willy, e con questo chiudo!
Ciao!-.
-Cia…-
non ebbi modo di terminare che la telefonata s’interruppe
all’istante. Sbuffai, ma un momento dopo sospirai mettendo il
telefono in tasca. Mi guardai attorno, e non riuscii minimamente ad
immaginare cosa sarebbe potuto succedere se avessi portato Altair di
fronte i nostri amici. Chissà quali assurdità
sarebbero uscite dalla mia bocca pur di nascondere cosa era davvero
successo.
Mi
stavo tormentando inutilmente, lo sapevo, ma prima o poi la
realtà dei fatti mi sarebbe piombata addosso. O forse era
già successo: Desmond, non saresti tornato mai
più.
______________________________________
Lo
so! Lo so!
Capitolo
cortissimo, ma devo interrompere qui e sospendere questa ff proprio
ora! Scusatemi!!! Ma mi sto impiccando e sto attraversando un momento
troppo clue dell’altra mia storia di AC! Se non mi do una
svelta ad aggiustare alcune cose lì, finisco per fare una
cagata anche qui!!! Perdono!!! Ma vi prometto un aggiornamento prima di
15 giorni sicuro!!! Forse anche il prossimo week end…
chissà, vabbé… insomma…
scusatemi!…
X
sparrow: scusa, scusaaaa!!! Mi sono dimenticata di
ringraziare solo te, nel chappo precedente!!! E mi dispiace, ma non ci
ho davvero fatto caso!!! Spero che accorrendo qui, a implorare il tuo
perdono, ti abbia messo l’anima in pace!!! Scusaa!!!
Ancora!!! Ragazzi come corro!!! Ciao!!!
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Capitolo 13 *** Patti chiari, amicizia lunga ***
Patti
chiari, amicizia lunga
-Ma
allora ce l’hai col tostapane!- sbottai allegra poggiando le
chiavi sul mobile all’ingresso.
Dall’altra
stanza sentii il tuo antenato ridacchiare. –Mi ha provocato!-.
Raggiunsi
la cucina spogliandomi del cappotto e lanciandolo sul divano.
–Dimmi che non hai fatto tu questo casino!- mi lamentai
arrestandomi nel centro della stanza, poggiai le mani sui fianchi.
Altair
si guardò attorno. –Ecco…-.
Inarcai
un sopracciglio.
Le
dispense era aperte, il frigo spalancato e sul tavolo erano rovesciate
le buste di pane in cassetta e di biscotti. –Se avevi fame
potevi pure trattenerti- ero alquanto stupita che avesse messo
così in disordine solo perché non sarebbe stato
in grado di attendere che facessi ritorno. Be’, dopotutto
avevo impiegato parecchio tempo fuori casa. Era sera tarda,
l’orologio sopra la cappa indicava quasi le otto.
-Non
ero io quello affamato!- mi ringhiò contro, e detto questo,
per le pareti della casa risuonò l’acuto miagolio
di Finger. –Avresti dovuto dirmi dove tieni la roba per
quella bestia!- aggiunse irritato, indicando il gatto che comparve dal
corridoio. Sedette accanto al muro e cominciò a leccarsi tra
i polpastrelli della zampa anteriore.
Scoppiai
in una fragorosa risata. –Scusa, hai ragione, ma era il
minimo che ti potesse succedere!- ridacchiai apprestandomi a rimettere
ordine.
Sui
miei movimenti scattanti da una parte all’altra della cucina
cadeva spesso l’occhio attento di Altair che con il suo
continuo fissarmi iniziava a mettermi fastidio.
Quando
finii di risanare la cucina, trassi dal cassetto in basso a destra
sotto i fornelli la busta di croccantini del gatto e l’agitai
davanti al volto del tuo antenato.
Altair
si strinse nelle spalle. –Non potevo sapere che fosse
lì- brontolò.
Allungai
le labbra in un sorriso chinandomi a riempire la ciotolina del gatto, e
Finger accorse affamato dopo poco.
-Dove
sei stata?- domandò il ragazzo.
Richiusi
il cassetto e mi sollevai lentamente. –Ho ricevuto un paio di
telefonate- risposi.
-Chi
ti ha chiamata?-.
Ignorai
la domanda. –Piuttosto, ha chiamato qualcuno qui?-.
L’assassino
si fece da parte e mi lasciò passare, ed io mi diressi in
salotto.
-Sinceramente
qualcosa ha cominciato a suonare, ad un certo punto-
confessò.
Mi
avvicinai al telefono sul tavolo del salotto e feci per afferrarlo,
quando la mia mano si arrestò a mezz’aria. Restai
in quella posa all’ungo, chissà pensando a che
cosa, ma di sicuro non avevo voglia di scoprire chi mi avesse cercata
in quelle ultime ore. Più che altro, dovevo parlare ad
Altair di alcune cose.
Mi
voltai trovandomi a pochi passi da lui e puntai il mio sguardo serio
nel suo alquanto sorpreso.
-Che
succede?- chiese.
Schiusi
gli occhi sospirando. –Ho detto ad una mia amica che Desmond
era tornato, ma già parlandone con Nikolas ho fatto un
grande errore. Da oggi a domani tutti gli amici miei e del tuo nipotino
sapranno che Desmond è qui, ma effettivamente lui non
è qui! Insomma… Marty vuole che ti porti ad una
festa, e pensare che avrebbe voluto organizzarne una in tuo onore! E
poi fa così tante domande, ed io ho paura di uscire con
loro! Potrebbe scapparmi la verità, e quelli
dell’Abstergo me la farebbero pagare cara. Non so che fare,
Altair; questa non è più vivere. Sono
costantemente sotto torchio, e non siamo neppur certi che quei bastardi
abbiano tolto tutte le micro spie da casa!- dissi d’un fiato,
sopraffatta dalle mie stesse parole, quasi piangendo.
Quale
poteva essere la mia unica consolazione? Desmond non sarebbe forse mai
tornato, e se avessi lasciato correre troppo, sarebbe stato possibile
che, infedeli ai patti, gli uomini di Alex Viego ti portassero ancor
più lontano da me, magari portandosi via il tuo antenato e
tutto il tuo corpo.
Ero
immensamente triste di quello e altro, ma la mia più grande
paura era quella di perdere tutti i miei amici per i miei piccoli
timori. Avrei potuto istruire Altair su tutto ciò che
potesse capitare in una conversazione tra te e i nostri amici, avrei
potuto raccontargli di cosa avevamo passato assieme (dettagli a parte)
così da rimpiazzare la sua mente alla tua, così
da modellare nella sua testa una seconda coscienza, un secondo te che
mi sarebbe servito solo a tirare avanti nei rapporti con gli altri.
Desmond, eri celebre per i tuoi tropicali da bancone e se il tuo capo
di lavoro ti avesse rivisto, non avrebbe esitato a rimetterti a
lavorare nel bar. Ma dubitavo fortemente che un assassino del XII
secolo sapesse cos’è un Martini. In tutta
sincerità, fosse stato per me, sola ed egoista, sarei
rimasta a marcire in casa mia dandomi dispersa anche alla mia famiglia.
Non avevo motivo di vivere; quello che avevo passato era stato troppo,
troppo assurdo per una come me che a mala pena credeva alla pecora
clonata. Per me la genetica non era niente, il vuoto nella mia e nella
mente di chi mi stava attorno. Pagine vuote di quaderni sprecati
all’università nel tentativo di far carriera
scientifica, ma alla fine la mia laurea era bastata in studio della
lingua classica e latina. Un diploma inutile, che era servito solo a
farmi campare otto mesi coi miei romanzi. Un diploma inutile per una
vita inutile di una ragazza inutile. Non potendo far nulla, impotente
di fronte all’alta Industria Abstergo mi sentivo la
nullità della scuola, quella che tutti prendevano in giro,
la vittima del più vandalico atto di bullismo. Debole,
stanca di sopportare tale pressione e stress, mi divincolai da quella
conversazione con un gesto di stizza.
-Scusami,
faccio discorsi stupidi!- sibilai andando verso la stanza da letto.
-No,
aspetta- mi bloccò stringendomi una spalla.
Sbuffai.
–Non ho nulla da aggiungere. Questa è la mia vita
ora: triste e solitaria. Me ne sono fatta una ragione solo adesso, e ti
chiedo scusa per averti infastidito quando scommetto che persino tu hai
tanto altro per la testa!-.
La
sua presa sulla mia spalla si fece più salda, e avvertii un
certo dolore che piegò i miei zigomi in una smorfia.
-Non
ti chiedo di sorridere ed essere sprizzante di felicità per
quello che è successo, ma almeno accetta con meno ripugno la
realtà. Desmond non avrebbe mai voluto vederti
così-.
-Ma
Desmond non c’è più!- strillai.
–Quindi non conta! Non m’importa se ti ha chiesto
di consolarmi! Non m’importa se ti ha ordinato di
proteggermi! Non m’importa, hai capito? Non
m’imp…!!!-.
Lo
schiaffò arrivò violento, improvviso e mi
lasciò… traballante sulle mie stesse gambe. Avevo
involontariamente chinato la testa di lato mentre mi portavo lentamente
una mano alla guancia lesa. –…perché
l’hai fatto?- provai a dire, ma dalle mie labbra venne solo
un flebile sussurro privo di autorità.
Altair
squadrò serio la mia espressione contorta, le sue dita
stringevano ancora la mia spalla. –Andremo a quella festa-
disse.
Sobbalzai.
–Forse non ti è chiaro, ma…-.
-Ho
capito benissimo. Ho la soluzione al problema, e in una settimana ce la
faremo- dichiarò pacato.
La
sua tranquillità mi metteva a disagio. –Non posso
raccontarti due anni della relazione mia e di Desmond così!
E non posso pretendere che tu sappia ricordarti di tutte le estati che
abbiamo passato con loro! Quando i nostri amici ti chiederanno delle
elementari che abbiamo fatto assieme, non saprai rispondergli, non sono
certa! C’è da sottolineare il fatto che dovresti
imparare i loro nomi, ma non solo! Hai dei modi di dire, di fare che
sono totalmente diversi da come si comporterebbe Desmond! E di questo
se ne accorgono subito, te lo dico io!…-.
Forse
si stava domandando se darmi un secondo ceffone avrebbe migliorato la
situazione, perché continuavo a gridargli contro che non
c’era modo di non far nascere dei sospetti in tutte le mie
conoscenze.
Lo
vidi alzare gli occhi al cielo. –Ti prego, smettila di
lamentarti di quanto la vita faccia schifo-.
-Non
dico questo- borbottai.
-Ma
lo stai pensando. Da molto tempo ormai-.
Abbassai
lo sguardo affranta. –Sì, hai ragione-.
La
sua mano cominciava a pesare sulla mia spalla, e la sua presa sempre
salda e costantemente severa temevo mi stesse bloccando la circolazione.
D’un
tratto le sue dita si sciolsero da attorno le ossa della mia clavicola
e si spostarono sul mio collo. Mi nascose una ciocca di capelli dietro
l’orecchio e sentii il suo tocco accarezzarmi la guancia
arrossata.
Era
tutto così triste. Non riuscii a provare un minimo di
compassione, gioia e conforto nella sua mano poggiata sulla mia pelle.
Non era mica quello il genere di consolazione di cui avevo bisogno.
Nessun contatto fisico mi avrebbe aiutata, ne ero sicura al cento per
cento, anche se più di una volta tentavo di convincermi che
la compagnia non poteva che farmi bene.
Eppure,
restava tutto così triste, avvolto in un alone di malinconia
che in quel momento Altair condivideva con me e col mio gatto.
Finger
saltò sul divano e si sedette su uno dei cuscini leccandosi
i baffi.
-Comportarsi
in questo modo non aiuta nessuno dei due-.
Sollevai
gli occhi e li rivolsi in quelli del tuo antenato.
Lui
proseguì, inchiodandomi col suo sguardo severo nonostante mi
stesse ancora carezzando dolcemente la guancia. –Credi di non
poterti fidare di uno che ha visto la morte e gli ha fatto lo
sgambetto?-.
-Che
intendi?- mormorai senza voce.
In
realtà sapevo si stesse riferendo alle centinaia di omicidi
che gli erano stati affidati da… Al Mualim, se non sbaglio,
nel passato.
-Centinaia
di vite mi pesano sulla coscienza anche da questa parte del tempo,
sai?- ridacchiò.
Sorrisi
e ci fissammo allungo in silenzio, mentre la sua mano mi accarezzava il
viso come le docili congratulazioni di mio padre il giorno del diploma.
Mi ero falsamente illusa pensando che l’affetto gentile di
Altair che, più di altri mi capiva, era prettamente legato
allo sconforto che provavamo entrambi. L’uomo che avevo di
fronte aveva passato forse i mali peggiori; prima di lui veniva Desmond
a qualunque costo e rischio, in cuor mio non ci sarebbe stato spazio
per nessun altro. Eppure… era bello credere e sperare che
nulla di quei momenti sarebbe cambiato. Era a mala pena una settimana
che vivevamo assieme e già eravamo così legati
che gli permettevo di toccarmi? Ma sì, che male poteva fare.
Un sguardo, un abbraccio, una carezza. Avevo condiviso i miei pi
“tormentati” risvegli, soprattutto il primo dei
primi con Altair quindi tra noi c’era un nulla di confine che
poteva essere varcato da un momento all’altro, ora o tra un
minuto, oggi o l’anno prossimo. Desmond, non saresti mai
tornato, ma mi avresti permesso quello che stavo per fare?
Poggiai
una mano sulla sua, avvicinandomi a lui che fece lo stesso, con molta
calma.
Socchiusi
gli occhi nel sentire il suo respiro sfiorarmi le labbra e la sua
carezza diventare una presa sul mio collo.
Il
mondo tacque, e nel suo silenzio meraviglioso, prima che potesse
succedere dell’altro, uno squillo spruzzò acqua
sul fuoco della magia, che si estinse in una marea di coriandoli rossi
di imbarazzo.
Il
telefono alle mie spalle mi fece sobbalzare una, due tre volte fin
quando non mi voltai e lo afferrai dal tavolo portandomelo
all’orecchio.
Odiata
salvezza, pensai.
-Ciao
mamma!- strinsi i denti.
Altair
mi guardò costretto in un afflitto mutismo.
Mi
allontanai dal salotto, non potendo tollerare oltre quella situazione
che sarebbe potuta peggiorare.
-Non
capirò mai perché mia madre non va in pensione-
mormorai riportando il telefono senza fili al suo posto.
L’assassino
si scansò dalla finestra. –Che cosa voleva?-
chiese con tono pacato, tranquillo ma lo capii subito che era parecchio
turbato.
Cominciai
a martoriarmi l’unghia del pollice. –Le solite cose
che è permesso domandarsi ad una madre: come stai, sei
stanca, quanti figli hai… quel genere di domande- mi gettai
pesantemente sul divano, sprofondando tra i cuscini.
Respirai
lentamente, avvalendomi dei ricordi degli ultimi minuti prima che
chiamasse mia madre.
Sì,
stavo davvero per… sono la persona più crudele ed
ingiusta di questa terra, mi dissi. Desmond, mi spiace averci solo
provato a fare quello che avrei fatto se la mamma non fosse
intervenuta! Mi sentivo uno schifo, la ragazza cassonetto
dell’angolo della strada. Non meritavo quella casa e il
divano sul quale ero seduta, oggetti che avevamo guadagnato con le
faticacce passate assieme. Mi chiesi cosa mi fosse passato per la testa
in quel momento, cosa mi avesse spinto tanto oltre, ma forse sarebbe
stato saggio ignorare tutto quanto e tornare a… respirare.
Quasi me ne ero dimenticata.
-Ti
ha chiesto di Desmond?- domandò composto.
Annuii
distrattamente.
-E
cosa gli hai detto?-.
-La
verità-.
La
sua pacata espressione cambiò radicalmente. –Che
cosa?!- ruggì.
Io
scoppiai in una fragorosa risata. –Ma che hai capito? Le ho
solo raccontato che era tornato e di come stanno le cose. Non ho
accennato sillaba alla questione top secret- strizzai un occhio.
L’assassino
ritornò a guardare fuori dalla finestra. –Quella
che ci rimette sei soltanto tu- sibilò. –Non
è un mio problema se ci ammazzano tutti e due. Il massimo
che può succedere è che si riprendano il corpo
del tuo ragazzo e ci facciano brutti esperimenti. Magari sarebbero pure
capaci di eliminare solo la mia coscienza e far tornare Desmond nel suo
tempo per sempre, ma questo influirebbe troppo sui loro interessi. Ai
signori dell’Abstergo servo vivo, non gli importa in quale
tempo e dimensione dello spazio- parlottò furioso.
Se
lui detestava che dessi di matto, io detestavo come mi faceva pesare
sulla coscienza il fatto che fosse lì. Dopotutto, se Desmond
non avesse insistito di esser rilasciato, la sua cura sarebbe
continuata all’interno dei laboratori della
società, e di conseguenza Altair non sarebbe qui. Era colpa
mia, che mi ero innamorata della persona sbagliata, di nuovo. Ma questo
eri il turno in cui non sarei riuscita a cambiare le cose. Desmond
sarebbe rimasto per me sempre l’unico e solo nel mio cuore,
ed io mi sentivo così male di questo…
c’era un qualcosa che mi dava fastidio in tutta quella
storia. Le relazioni a distanza non durano, era risaputo, a meno
ché non si è sposati, maritati e defunti per poi
sepolti in due cimiteri diversi. Ecco, in quel certe storie durano in
eterno, altre come la mia, di Desmond e di Altair erano entrate a far
parte di un meccanismo che era cambiato per l’ultima volta. E
sarebbe rimasto così… per sempre.
Fui
per accendere la televisione quando, improvvisamente, la mia mente
parve illuminarsi mentre il mio sguardo gioioso cercava quello che
andava cercare.
Altair
mi guardò spaesato. –Che cos’hai? Cosa
stai cercando?-.
Balzai
di corsa fino nella mia stanza e mi piegai a guardare sotto il letto.
Il
ragazzo che mi aveva seguito sempre più interdetto, si
appoggiò al cornicione della porta.
–Cosa…-.
Trovai
la valigetta cercando alla cieca tra buio e polvere. Un giorno di
quelli avrei dovuto pulire.
-Era
da un po’ che volevo mostrarti alcune cose- dissi poggiando
la valigia sul materasso.
L’assassino
si avvicinò a me, ma io mi alzai e tornai in salotto con la
borsa alla mano.
-Cioè?-
chiese confuso.
Dalla
valigia trassi il portatile sul quale lavoravo e lo adagiai sul
tavolino basso accanto al divano, sedendomi alla cinese su uno dei
cuscini enormi che trascinai sotto le mie ginocchia. –Vieni-
dissi, sperando che fosse rimasto un minimo di batteria.
Per
mera fortuna quando lo accesi mi ricordai di non averlo usato da
lì ad un mese ormai, quindi non poteva che essere carico.
Altair
si sistemò accanto a me appoggiando i gomiti sul tavolo.
Inserii
la password e non mi curai neppure della faccia meravigliata
dell’uomo del passato che mi sedeva vicino; così
avviai subito internet e corsi su google.
-Vediamo,
vediamo, vediamo…- borbottai cercando alla voce:
“assassini terza crociata”.
Sarebbe
stato interessante, dopotutto, e avrei voluto vedere quante delle
cavolate dei libri di storia sono vere confrontandole con la fonte che
avevo in casa!
-Che
cosa diavolo è?- domandò lui impressionato.
-Si
chiama personal computer. La gente del futuro ci fa molte cose. Ti
ricordi questa mattina, quando ti ho parlato degli Hakcer?- lo
interrogai sfogliando con il mouse i vari link che mi dava google nella
pagina home.
-Sì,
e allora?-.
-Quella
gente è in grado di fare tante brutte e belle cose con uno
di questi. La maggior parte delle volte quello che fanno e
perché e come lo fanno è illegale, ma sono troppe
poche le volte invece quando qualcuno riesce a fermarli- lo informai.
-Non
mi dirai che hai intenzione di… agire adesso!-.
-No,
stupido, non ho idea di come si faccia quello che loro sanno fare tanto
bene- finalmente intercettai la pagina web di wikipedia e ci ciccai
sopra aprendola in una nuova finestra.
L’immagine
che subito comparve fu quella di una mappa politica dettagliata della
Palestina all’epoca della Terza Crociata. E a quel punto fu
troppo: ero curiosa di vedere quale fosse la sua faccia,
così mi voltai.
-Ho
capito dove vuoi andare a parare- sogghignò il ragazzo.
-Avanti!
Io leggo e te confermi, d’accordo? Quando ero piccola
desideravo tanto fare due chiacchiere con Giulio Cesare e chiedergli se
fossero state 41 o 43 coltellate!- sorrisi.
-Non
fare la stupida. Sappiamo entrambi che non posso farlo-
proferì calmo e schietto.
-Fare
cosa?- sussurrai, e lui s’irrigidì.
-Durante
le nostre chiacchiere mi sono promesso di parecchie cose con tuo
ragazzo!- disse alzandosi.
Aggrottai
la fronte. –Cioè?- feci maliziosa.
-Desmond
non andrà mica in giro a raccontare del futuro, ed io non
andrò a passeggio a raccontare del passato! Cambierebbe
troppo il presente, non possiamo permetterlo. Giocare col tempo
è rischioso- pronunciò serio.
Sbattei
le palpebre diverse volte. -Va bene, va bene- sbuffai. –Forse
non dovrei approfittarmi di te così- uscii dal web e spensi
tutto. Rimisi il PC al suo posto e mi mandai a quel paese.
Perché mi comportavo come una ragazzina che gioca col suo
giocattolo nuovo? Potevo davvero sembrare così infantile di
fronte a ciò che mi sarebbe piaciuto conoscere meglio?
Era
inutile negare che dopo quella telefonata di mia madre, non ne avrei
ricevute delle altre.
-Ne
sei sicuro?-.
Lui
annuì.
-Perché?-.
-Gliel’ho
promesso-.
-Non
gli hai promesso di accompagnarmi ad una festa!-.
-Ma
gli ho promesso di non farti soffrire; e se non andrai a quella festa
ti farò soffrire di brutto…-.
-C-c-che
cosa?- balbettai spaurita.
-Avanti,
avverti i tuoi compagni di scuola- ridacchiò.
Prima
avevo parlato con Marty, dicendole che avrei portato il presunto
“Desmond” alla festa di compleanno di William, e
poi contattai direttamente Nikolas e suo fratello.
_______________________________________________
Un
grazie speciale ai recensori dei capitoli precedenti, con un
particolare “scusa” a sparrow per non aver risposto
al suo commento qualche chappo fa! XD
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy
P.S
spero che codesto chappo vi sia piaciuto e…
sìsì, stava per succedere, ma le mamme sono
sempre tra le scatole nel momento sbagliato al posto
sbagliato!!! Insomma, è bene delimitare alcuni
confini adesso e magari farglieli infrangere più in
là! *me fa vaga* XD Allora al prossimo capitolo, che prevedo
sarà molto… movimentato!!! :D ciauuuu a tutti!!!
E a voi la parola!
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Capitolo 14 *** In fuga da tutto, parte 1° ***
In fuga da tutto, parte
1°
Seduta sul divano immaginavo le prossime ore.
Musica assordante, tanta gente, tanta gente che chiedeva di te,
dov’eri stato e cosa avevi fatto. E tanta altra gente che
chiedeva a me le stesse… identiche… cose.
Questo era il mio ideale di festa da quando te n’eri andato
strappato alla mia vita dai tizi dell’Abstergo. Da quel
momento ad oggi non c’erano mai stati veri sorrisi e versi
“spassi”. Il divertimento non andavo neppure a
cercarlo troppo lontano; ogni tanto il televisore, ogni tanto un libro
nuovo, ma niente aveva cancellato i ricordi e i divertimenti che
avevamo passato assieme tu ed io. Ed ora, consapevole che da
lì a breve avrei dovuto mentire, raccontare che
l’uomo che avevo affianco fossi tu riapriva in me quella
ferita che avevo ricucito con tanta fatica il giorno in cui ci eravamo
detti addio, il giorno in cui mi avevi spiegato ogni cosa e non hai
voluto lasciarmi fiato per oppormi. E tu insistevi, dicendo che era
meglio così. Ed io negavo, alludendo che gli asini avessero
acquistato i jet pack dalla N.A.S.A.
Sopra New York incombevano le nuvole di un cielo grigio e nero che
aveva tenuto quel colore questi tutto il pomeriggio, ma senza mai
accennare ad una tempesta. Né un lampo, né una
goccia di pioggia aveva scalfito il nostro mondo e la mia
città, così non avevo avuto scuse per rimandare
quell’uscita, magari rimpiangendo il fatto che i tuoi mi
mettessero terribilmente a disagio. Ma se fosse andata così,
Altair avrebbe insistito lo stesso per accompagnarmi alla festa di
William? A quel poveraccio non gli avevo comprato neppure un regalo, e
quando avevo contatto Nik per dirgli che sarei venuta al compleanno di
suo fratello giù al bar, qual’era stata la sua
reazione? Facile, ricordavo come fosse ieri.
-Va bene- aveva detto dall’altra parte della linea.
-Sicuro? Nessuno rimpianto, nessuna ripicca?-.
Nikolas aveva sospirato. –Scherzi a parte, voglio proprio
sapere con che coraggio Desmond ti ha lasciata così! E sono
curioso anche di avere spiegazioni da te! Insomma, lui fugge via per
otto mesi e hai la pazienza di tollerarlo; mentre quando…- e
da lì aveva elencato una serie di vicende alle quali non
avevo voluto ascoltare spiegazione. Nikolas non era certo stato la
rovina dei miei giorni, ma era colpa sua e di suo fratello se ora ero
costretta ad andare a quella stupida festa.
Mi sollevai dai cuscini e raggiunsi l’ingresso di casa.
Controllai di avere le chiavi della macchina in tasca e misi nella
giacca anche quelle della macchina. Presi il telefono, il portafoglio e
verificai al suo interno che ci fosse qualcosa.
Fortunatamente conati qualche banconota da cinque dollari e una da
cinquanta. Non credevo di girare spesso con così tanti
soldi, ma quella sera non mi sarebbe servita granché quella
somma di denaro.
Ero sola nel corridoio, ferma all’ingresso di casa quando mi
guardai attorno.
-Altair!- chiamai, ma non ricevetti nessuna risposta. –Ci
sei? Io sono pronta- aggiunsi, ma ancora silenzio.
C’era una tenebrosa ombra nera che avvolgeva casa mia quella
sera, poiché avessi spento tutte luci. -Altair, siamo
già in ritardo- disse, probabilmente parlando da sola,
andando a chiudere le finestre. Allungai un’occhiata in
salotto, che trovai vuoto del tuo antenato. Così mi diressi
verso le altre stanze.
-Altair- ripetei guardando in cucina.
-Altair!- mi affacciai in camera da letto.
Il tuo antenato sembrava essersi volatilizzato. Tentai
un’ultima volta girando l’angolo del corridoio e
tornando in salone. –Altair!- strillai.
Qualcuno bussò alla porta d’ingresso ed io
sobbalzai.
-Che stupido- ridacchiai andando ad aprire. Era rimasto chiuso fuori,
ma non potei evitare di chiedermi… come e quando fosse
uscito.
Spalancai la porta e fui per richiudermela alle spalle senza neppure
guardare chi avesse bussato. –Avanti, o faremo tardi-
sospirai apprestandomi a chiudere casa con le chiavi.
-Va’ da qualche parte, signorina?- qualcuno fermò
la porta prima che potessi chiuderla.
Il mio cuore perse un colpo, le chiavi mi caddero dalle mani e un
brivido mi percorse la schiena.
-Alex- mormorai, ed un istante dopo mi voltai.
Gli scagnozzi di Viego mi sorpassarono entrando armati nel mio
appartamento. Subito sentii alle mie spalle le porte delle stanze che
sbattevano.
Serrai i denti. –Cosa volete ancora?- domandai seria.
-Spero che potremo risolvere la questione diplomaticamente- arrise.
-Cosa?- balbettai. –Avete il cellulare! Cosa ci fate qui?!-
gridai, e sperai che i vicini della porta accanto sentissero ogni cosa.
L’uomo di fronte a me scansò un lembo della giacca
nera e mostrò la pistola infilata nell’elastico
dei pantaloni. –Diplomaticamente, Giorgia- ribadì
serio.
Lo fissai allungo, cercando di comprendere quali fossero le sue
intenzioni: ammazzarmi, addormentarmi oppure stuprarmi. Non
c’era molta scelta, ma cercai di non scoppiare a ridere per
aver solo pensato all’ultima opzione.
Con grande stupore notai un piccolo cerotto sul naso del ragazzo, e mi
ricordai dell’ultima volta che erano venuti a rompermi le
scatole. Quella sera Altair, ricordai, era riuscito a rompergli in naso
al bastardo, chissà che oggi sarebbe successo
qualcos’altro…
-Cosa… state cercando?- chiesi voltandomi a guardare le
attività movimentate dei suoi scagnozzi
all’interno dell’appartamento.
Ben presto mi accorsi che, con la pistola alla mano, gli uomini di
viego stavano sicuramente cercando qualcuno e non qualcosa. Cauti, si
spostavano per il corridoio separati l’uno
dall’altro e setacciavano ogni angolo buio di casa senza
neppure accendere la luce.
Alex mi prese sottobraccio e mi accompagnò dentro.
–Oh, niente di particolare. Siamo qui per riprenderci
ciò che ci appartiene- ridacchiò e la sua stretta
attorno alle mie spalle si fece più salda.
Sobbalzai. –Altair- sibilarono le mie labbra.
Viego si guardò attorno. –Cercate fuori dalle
finestre!- ordinò ai suoi uomini.
-Perché?!- tentai di divincolarmi e ci riuscii, stanziandomi
da lui.
Alex tornò al mio fianco tranquillamente, mentre i miei
occhi spaventati saettavano da una parte all’altra delle
stanza sperando che non trovassero mai il tuo antenato che neppure io
avevo idea dove fosse.
-I piani della nostra azienda non sono cambiati dall’ultima
volta che portammo Desmond nel laboratorio- sbottò Alex
irritato. -Le loro menti potrebbero esserci ancora utili- sorrise
fiero.
-No! No!- gemei andandogli in contro. Lo afferrai per il colletto della
cravatta. –Avete rovinato le loro vite già
abbastanza! Lasciateli in pace!-.
Ovviamente ci riferivamo entrambi a Desmond e Altair che, chi da una
parte e chi dall’altra della linea del tempo, avevano subito
sfruttamento e violenza al livello psicofisico allo stesso modo.
-Siete dei mostri!- gli gridai in faccia, ma improvvisamente due
braccia mi tirarono lontano da quel maledetto bastardo che aveva osato
disfare la mia vita. –Non siete esseri umani! Siete voi gli
unici assassini!- insistei e due degli uomini di Viego mi tennero a
distanza mentre scalciavo come una forsennata. –Lasciatemi!-
uno di loro mi tirò su la manica sinistra della manica e
avvicinò una siringa al mio braccio preda di spasmi continui.
-No, fermi!- strillai ancora.
Alex Viego sorrideva divertito nell’osservare come i suoi
scagnozzi mi pungevano la pelle. La stessa che mi aveva addormentata la
volta precedente, e probabilmente conteneva il medesimo sonnifero.
-Capo! Qui non c’è!- uno scagnozzo corse in salone
abbassando l’arma, e il sorriso malizioso di Alex divenne una
smorfia di rabbia. –Abbiamo cercato dappertutto, crediamo sia
scappato- aggiunse Martin, che in bocca aveva la solita sigaretta.
Viego aggrottò la fronte e si volse verso di me.
–Dov’è andato?!- mi chiese furioso.
–Dove l’hai nascosto?!- disse traendo la sua
pistola dai pantaloni e con un gesto della mano fermò
l’iniezione che stavano per farmi.
Il ragazzo non esitò a puntarmi la canna dell’arma
contro, pur da distanza di sicurezza. Infilò il silenziatore
e mi fissò allungo. –Dove l’hai
mandato?- digrignò.
Non avevo colpa, non avevo certo ordinato io ad Altair di allontanarsi
da casa! Non era colpa mia, e quei tizi volevano farmi fuori
accusandomi con delle prove infondate. Dovevo agire anticipando la
pallottola che mi avrebbe traforato la testa.
-Non lo so!- supplicai scoppiando in un mare di lacrime.
–Dovevamo uscire questa sera con degli amici, volevo solo
tornare alla mia vita di tutti i giorni! Vi prego, non ho idea di dove
possa esser fuggito!- piansi, ma il sostegno dei due che mi erano alle
spalle non mi permise di cadere in ginocchio, perché le mie
gambe non raggiavano ormai il mio peso.
Alex Viego abbassò la calibro nove e si voltò.
–Procedete- mormorò e Martin lo seguì
verso l’ingresso di casa.
L’ago penetrò nella mia carne senza preavviso e
con un immenso dolore forò le mie vene, ma prima che una
goccia di troppo mi entrasse in circolo nel sangue, si udì
un grido: -Eccolo, è qui! Fermatelo!-.
Alex e Martin si precipitarono nel corridoio e sparirono nel buio della
stanza da letto con le armi alla mano.
Una leggera nebbiolina mi comparve davanti agli occhi e i due uomini
che avevo alle spalle mi adagiarono a terra accorrendo in aiuto del
loro capo.
Altair si issò sul cornicione della finestra e
balzò nella stanza agilmente silenzioso.
Gli uomini dell’Abstergo stavano controllando in bagno ed
erano in tre: uno all’ingresso della camera da letto che
guardava verso il corridoio, il secondo si aggirava nello stanzino
accanto e il terzo era in piedi accanto al letto.
-Non lo so!- sentì gridare Giorgia. –Dovevamo
uscire questa sera con degli amici, volevo solo tornare alla mia vita
di tutti i giorni! Vi prego, non ho idea di dove possa esser fuggito!-
ascoltò la ragazza scoppiare in lacrime, mentre la sua si
confondeva alle ombre dei mobili.
-Procedete- assentì un uomo che l’assassino
riconobbe come Alex Viego, ovvero il bastardo che era a capo della
sorveglianza segreta dei laboratori dell’Abstergo.
Altair irrigidì i muscoli e scattò in avanti.
Spinse uno degli uomini nel bagno e questo andò a cadere
addosso all’altro scagnozzo. L’assassino estrasse
la chiave dalla serratura e chiuse la porta segregandovi
all’interno i due uomini di Alex.
Il terzo nella stanza di voltò. –Eccolo,
è qui! Fermatelo!- gridò sparando tre colpi alla
cieca.
Altair rotolò a terra nascondendosi dietro
l’armadio e i proiettili forarono la superficie del mobile.
Nel frattempo, i due ragazzoni segregati nel bagno fecero saltare la
serratura della porta con un solo e ben piazzato colpo di pistola, e
poi fu il caos.
Altair saltò fuori dal suo nascondiglio e si
gettò addosso al terzo uomo spingendolo fuori dalla stanza.
Questo si rovesciò sul pavimento del corridoio lasciando che
l’arma gli scivolasse di mano.
Alle sue spalle, i due restanti scagnozzi gli puntarono contro, ma
prima che potessero infierire un solo colpo, Altair si piegò
e afferrò l’arma abbandonata dall’uomo a
terra.
Impacciato, l’assassino infilò l’indice
sul grilletto e puntò la canna alla testa del povero finito
al suolo.
-Impari in fretta!- ridacchiò Alex aggiungendosi armato al
gruppo di uomini, e assieme a lui comparve Martin con la sigaretta alla
bocca.
-Getta via quell’arma!- sbottò il fumato.
-Non la sa usare!- rise un altro.
Altair abbandonò la presa sull’arma gettandola di
lato e, fulmineo, scomparve in salotto.
-Non giocare all’animale braccato, Altair!- aggiunse Alex che
pareva tanto in vena di scherzi, e con un gesto della mano
indirizzò i suoi uomini alla caccia. –Se verrai
con noi, ti riporteremo nel tuo tempo- aggiunse con malizia.
Altair si chinò su di me e mise un mio braccio attorno alle
sue spalle. –Dobbiamo andarcene- mormorò tirandomi
su.
Annui debolmente sostenendomi a mala pena con quelle mie poche forze
restanti.
Il buio di casa giocava a nostro vantaggio, e Altair riuscì
a trascinarmi fino in cucina senza essere visti.
L’assassino allertò i sensi al minimo rumore di
passi, lo sentii irrigidire e tendere i muscoli nel tentativo di
portarci entrambi vivi fuori di lì.
Il sonnifero stava facendo effetto e ben presto persi la completa
sensibilità dai fianchi in giù. Se riuscivo
ancora a muovere le gambe era per il semplice fatto che avessi la
sensazione di vivere un sogno. Tutto attorno a me assumeva quella
sfumatura irreale del risveglio da un sonno profondo, e il buio che
avvolgeva casa non migliorava la mia semicoscienza.
-Ti uccideranno- sussurrai. –Ricordati…-.
-Sì, lo so, lo so!- mi azzittì poggiandomi una
mano sulla bocca. –Sta’ zitta. Piuttosto,
c’è una finestra in fondo al corridoio o
è una mia immaginazione?- mi chiese con tono di voce
impercettibile a qualcuno che stesse dieci centimetri più
lontano da noi.
-Eccoli!- uno sparo, e il proiettile perforò lo sportello
della dispensa. Martin aveva sparato da una distanza di appena dieci
metri, precisamente dall’ingresso di casa. –Li ho
sentiti! Sono lì, dietro il tavolo della cucina!- proruppe.
Era tutto assurdo. Perché tentavano di ammazzarci se
volevano il tuo antenato vivo per riprendere gli esperimenti?
Altair mi strinse a sé ed io mi avvinghiai a lui, che con un
salto emerse dal nostro nascondiglio e raggiunse il corridoio.
-Non devono sfuggirci!- sbraitò Alex in preda alla collera.
Effettivamente c’era una finestra in fondo al buio corridoio
di casa mia, e Altair corse in quella direzione con me in braccio.
-Reggiti!- con il pugno chiuso, ruppe il vetro in centinaia di pezzi e
si aggrappò al cornicione.
-Presto, fermateli!- gridò Martin.
Con la sola forza delle braccia mi ressi al suo collo cercando di non
strozzarlo e Altair si arrampicò sul muro
dell’edificio.
Il freddo della notte m’investì crudelmente
strappandomi quel poco di sonnifero che correva nelle vene.
–Ah!- strillai guardando la strada trafficata sotto i miei
piedi che galleggiavano nel vuoto.
Il mio petto premeva sulla sua schiena rigida dei muscoli tesi nello
sforzo di arrampicarsi col solo uso delle poche sporgenze che un
palazzo del XXI secolo poteva avere.
Ci fu un tuono, e dai nuvoloni del cielo cominciò a cadere
la pioggia.
-Fantastico!- gemé Altair lasciando la presa dal cornicione
e precipitammo per qualche metro verso terra, ma improvvisamente
atterrò su un piccolo terrazzo del piano inferiore.
Mi scappò un urlo di terrore quando dalla finestra dalla
quale ci eravamo gettati si affacciarono i volti rabbiosi di Alex e
Martin.
Quest’ultimo indicò verso di noi, e a quel punto
Altair mi issò meglio sulle sue spalle.
-Ci sei?- chiese.
-Sì!- balbettai.
E l’ascesa proseguì: con un salto, il tuo antenato
si aggrappò alla grondaia vicino e scivolò
giù da essa.
Ero terrorizzata, afflitta, priva di forze. La presa attorno al suo
collo s’indebolì d’un tratto e avvertii
il vuoto risucchiarmi verso il suolo. Gridai, ma il mio urlo fu
interrotto da un movimento rapidissimo del braccio del tuo antenato,
che mi afferrò per il polso prima che accadesse qualcosa di
spiacevole.
-Mi avevi detto che c’eri!- sbottò lui, mentre i
goccioloni della tormenta ci violentavano entrambi. –reggiti,
avanti!- aggiunse tirandomi a sé ed io mi avvinghiai al suo
petto.
Aveva un forza incredibile, ed ogni suo movimento restava fluido ed
elegante nonostante la situazione nel quale eravamo caduti.
-Dove hai visto quella macchina, l’ultima volta?-
domandò Altair calandosi giù dalla grondaia e
afferrando il cornicione della finestra vicina. L’interno del
piano era luminoso, e le tende scostate, così la vecchietta
che guardava la televisione ci vide entrambi.
Altair scomparve dopo il boato di un tuono lasciandosi cadere sulla
balconata sottostante.
-La loro macchina?- mormorai e la pioggia violenta mi entrò
in bocca.
-Sì! Dimmi da quale parte non dobbiamo andare!- eruppe lui.
-Il vialetto qui sotto!- confessai.
Altair s’irrigidì ulteriormente.
–Cosa?!- fece incredulo voltando a guardare me, che ero
adagiata sulla sua schiena e stretta attorno alle sue spalle.
Effettivamente, l’auto nera era parcheggiata proprio sotto di
noi, accanto al marciapiede allagato sul quale camminava la ragazza
peruviana che portava a spasso il cane dei vicini. La donna era
riparata sotto un ombrello rosa e succhiava allegramente un lecca
lecca. Il bassotto nero che portava al guinzaglio si chiama Doodle, e
mi ricordai di tutte quelle volte che Finger gli aveva graffiato il
muso al piccoletto.
-Finger!- strillai.
-Non c’è tempo!- con un balzo, Altair
toccò saldamente terra ed io, subendo il contraccolpo,
saltai tra le sue braccia.
-Tutto bene?- si preoccupò facendomi scivolare
giù.
La dog sitter dei vicini ci fissò allungo sbigottita e il
suo bassotto cominciò ad abbaiarci contro.
Tremante e infreddolita, mi strinsi a lui. –Sì,
ma…-.
Il ragazzo alzò il mento. –Dobbiamo andarcene,
dove si trova la tua auto?- chiese prendendomi per mano e cominciammo a
correre, ma a mala pena mi reggevo in piedi.
-Poco lontano! Di là!- dissi indicando la strada che dava
sul corso principale del quartiere.
Sotto i miei vestiti sentivo la pioggia graffiarmi la pelle, e ogni
nostro respiro affannato si perdeva nel rombo della tempesta.
-Eccoli!-.
Mi voltai, ma con uno strattone Altair mi tirò nuovamente al
suo fianco. –Continua a correre!- sibilò.
Alex Viego e Martin salirono nell’auto nera parcheggiata nel
vialetto e gli altri scagnozzi ci mirarono addosso coi silenziatori
alle pistole.
Quando la dog sitter azzardò un’occhiata alle
armi, scappò via terrorizzata prendendo in braccio il
bassotto dei vicini.
Prima che potesse accaderci qualcosa, sbucammo fuori dal vicolo di casa
e fui io a guidare Altair fino al parcheggio della mia auto.
Cercai spaventata le chiavi in ogni tasca del cappotto e le trovai
nell’ultima che setacciai.
Nell’istante in cui fui per aprire la portiera, Altair mi
cinse in un abbraccio improvviso allontanandomi dall’auto.
Sobbalzai, osservando attonita come i mille frammenti di vetro si
rovesciavano al suolo, ascoltando il mio cuore accelerare impazzito. Se
l’assassino non avesse preveduto quel colpo, probabilmente mi
sarei ritrovata una pallottola tra le costole.
–Lascia stare la macchina!- digrignò.
Le sue dita s’intrecciarono di nuovo alle mie e mi
tirò con violenza verso il vicolo più vicino.
Una volta celati dalle ombre dei palazzi, la nostra corsa forsennata
non ebbe fine fin quando non fummo certi di averli seminati. Ci eravamo
allontanati da casa di parecchi isolati, ma la nostra fuga proseguiva
per vicoli e strade che non avevano nomi.
Sbucciamo nuovamente sul corso principale, ma durante il tragitto
inciampai più di una volta su pozzanghere e rilievi
dell’asfalto.
-Ti prego… fermiamoci!- gemei debolmente.
-Un luogo pubblico! Ci fermeremo solo dove non potranno spararci!-.
-Lì… andiamo là…- indicai
il mini market all’angolo della strada ed entrammo nel
negozio.
Una volta nel locale, crollai letteralmente al suolo, e Altair si
chinò al mio fianco.
-Giorgia…- mormorò stupito.
-Chiamo un l’ambulanza!- si offrì il cassiere del
mini market, e una ristretta folla di acquirenti si radunò
attorno ai due.
Altair si guardò attorno sperduto, poi lanciò
un’occhiata oltre le vetrine della sala.
L’auto nera di Alex Viego era parcheggiata accanto al
marciapiede di fronte, il finestrino era abbassato e il suo sguardo
truce ed intimidatorio arrivava fin lì.
L’assassino serrò i denti e strinse i pugni.
-Bastardo- sibilò.
Nel frattempo, chiusi gli occhi e in quell’istante i miei
sensi si appannarono del tutto, privandomi di quel poco di veglia che
mi era rimasta; e tutto divenne terribilmente buio.
___________________________________________
Su questo chappo non ho molto da dire. Mi sono divertita a scriverlo,
è vero, ma c’erano tante di quelle frasi spoiler
interessanti che avrei potuto scrivere una sequenza a parte! XD
Ovviamente parto con i ringraziamenti e se mi viene qualcosa in mente
durante il tragitto… vi farò sapere.
Saphira87
goku94
Lilyna_93
Sparrow
LevitheBookman
Paccy
Ecco, qualcosa mi è saltato in testa proprio ora: sono una
stupida. Sapete che in questo chappo avrei voluto descrivere una
tranquilla festicciola? Ebbene, ho cambiato idea quando una mattina mi
sono svegliata e ho deciso di voler accorciare le cose per sostituire
la quotidianità della vita di Giò e Alty
all’azione pura! Alex e la sua truppa si faranno vedere
presto, ancora e ancora, ma ovviamente c’è da
chiedersi cosa faranno i due picciotti senza casa e con solo qualche
soldo. Per di più… non stava per nascere qualcosa
nel chappo precedente? E Lucy Stilman agli arresti domiciliari?
Eheheh… quanti spoiler! XD Dannata boccaccia. Spero che,
nonostante la brevità e la “bruttezza”
del capitolo (il mio modo di scrittura va peggiorando, aiuto) questo vi
sia piaciuto e abbia saputo tenervi col fiato sospeso. Povero Finger,
chi baderà a lui ora che Alex farà appostare
gente attorno a casetta di Giorgia? Ormai siamo entrati nel vivo della
storia, che ruoterà molto attorno a
“fughe” e “sparatorie”. A
proposito, mi spiace di non aver fatto agire il nostro assassino
preferito più di tanto per quanto riguarda scazzottate e
varie, ma… sapete che sono particolarmente stronza a
riguardo! XD No, sul serio, scherzi a parte, ho scritto questo capitolo
con la testa in tutt’altro luogo. E pensare che non si
sarebbe neppure dovuto interrompere qui. Avevo in mente altre cose
interessanti che riguardano parecchi nuovi e
“vecchi” personaggi… insomma, riassunto
della questione: continuate a seguirmi e… a voi la parola!!!
Ciau!
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Capitolo 15 *** Tentativi ***
Tentativi
Mi svegliai di soprassalto, richiamata al mondo
dall’esplosione di un tuono.
Mi sollevai seduta sul letto e mi guardai attorno spaventata.
Era la buia stanza di un pronto soccorso, accanto alla mia branda ce
n’erano altre e i macchinari che contavano i battiti del mio
cuore sembravano impazziti, suonando allarmati.
Nella camera fecero irruzione il dottore della sezione con una cartella
in mano e la sua infermiera. Non lasciai correre ulteriormente le cose,
non ero in me ed iniziai a staccarmi con violenza i tubicini che mi
percorrevano il braccio. Scivolai via dalle coperte e toccai il
pavimento freddo coi piedi scalzi, scattai verso la porta della stanza
e mi gettai nel corridoio.
-Fermatela!- sentii gridare alle mie spalle il medico.
Il pigiama a pallini dell’ospedale mi copriva a malapena fin
sopra le ginocchia, avevo i capelli ancora inumiditi di pioggia, ma in
me circolava una certa quantità assurda di adrenalina, che
in quel momento mi stava riempiendo gli occhi di terrore e paura.
Mi fermai, immobile d’un tratto tra la gente che affollava i
corridoi del pronto soccorso e lo vidi.
Era seduto su una delle seggiole d’attesa, i gomiti poggiati
sulle gambe e le mani a reggersi il viso, sul quale compariva
un’espressione dolente e preoccupata. Si alzò di
colpo quando i suoi occhi incontrarono i miei, ed io mi diressi di
corsa verso di lui.
Lo abbracciai con foga, facendo aderire completamente il mio corpo al
suo, e lui mi strinse con forza a sé. Sentii le sue mani
fredde sfiorarmi la schiena e nell’incavo del suo collo
cominciai a soffocare una manciata di singhiozzi.
-Signorina…- mi sentii chiamare e lentamente mi allontanai
dal tuo antenato.
Dietro di me c’erano il dottore di sala e la sua infermiera
che mi prese sottobraccio e mi esortò al ritorno nella mia
stanza.
Avevo fatto il mio dovere, ovvero rassicurare Altair sul fatto che
fossi viva e viceversa.
Mi fecero una miriade di esami, soprattutto prelievi, ma quella stessa
mattina mi diedero la convalida della mia salute. Assieme ai prelievi
avevano fatto su di me centinaia di iniezioni periodiche ad ogni ora.
Se guardavo il mio braccio sinistro sembravo una bucata di droga.
Lasciai la camera nella quale ero stata ricoverata dopo un sonno
leggerissimo e turbato dalla quantità di farmaci che mi
avevano iniettato. Non volli neppure chiedere che cosa mi fosse
successo, il mio unico desiderio era lasciare quell’ala
dell’ospedale e respirare aria pulita che i miei polmoni
imploravano.
Trovai Altair dove l’avevo lasciato, seduto su una delle
seggiole che erano attaccate alla parete del lungo corridoio. Si
alzò sorridendomi e mi affiancai a lui per far passare una
barella con un ragazzo da una gamba ingessata.
-Come stai?- mi chiese.
-Bene, grazie- mormorai.
Addosso avevamo entrambi gli stessi abiti della scorsa notte, che era
trascorsa nelle eventualità più memorabili.
Supplicai me stessa pur di non scoppiare a piangere ripensando agli
avvenimenti passati e fortunatamente funzionò.
-Hai fame?- gli domanda mentre c’incamminavamo.
-No, e tu?- mi guardò premuroso.
-Un caffè mi farà bene- ridacchiai ed insieme
raggiungemmo la caffetteria dell’ospedale. Sedemmo ad uno dei
tavolini della terrazza esterna e presi a guardarmi attorno.
Splendeva una giornata chiara e luminosa; il cielo era azzurro
macchiato di alcune tozze nuvole gonfie. E pensare che la sera prima
aveva diluviato come Dio solo lo sa! Ma Alex e i suoi non potevano
aspettare che facesse bel tempo? Così ora non avrei sentito
la fronte bollente e il naso tappato.
Da quella sera avevo il costante terrore che Alex e i suoi uomini
sbucassero all’improvviso e mi allontanassero dalla mia unica
protezione, quello che rimaneva della mia vita.
Altair probabilmente notò la mia smorfia terrorizzata e
allungò le labbra in un sorriso divertito. –Non
preoccuparti, qui siamo al sicuro-.
-Scusa- scossi la testa abbassando lo sguardo sul mio cappuccino.
–è solo tutto così… non ho
parole per definirlo- sibilai.
-Ne usciremo, vedrai, ma c’è una cosa
che… forse non è il momento adatto-
divagò lui guardando altrove.
Alzai il viso e lo fulminai con un’occhiata afflitta.
–Che stai blaterando?- chiesi, come se i segreti
dell’Abstergo non mi bastassero. Pretendevo che almeno tra me
e lui non ci fossero ulteriori silenzi, e in un momento come questo non
ci era permesso.
-Altair- lo chiamai e lui si voltò.
-Cosa?-.
Tacqui. Sapeva benissimo a cosa mi riferissi.
L’assassino sospirò. –Non era sonnifero-
sussurrò.
Qualcosa si fermò nel mio petto, qualcosa non batteva
più. Quel qualcosa era il mio cuore che non sopportava
quello sforzo tanto grande di credere a tali parole.
-L’Abstergo ti voleva fuori dai piedi. La sostanza che ti
hanno iniettato gli uomini di Viego avrebbe dovuto farti tacere per
sempre- proferì serio, contenendo a stento la collera, e il
fatto che si stesse preoccupando per me in quel modo mi sciolse come un
ghiacciolo al sole.
Presi una delle salviettine dal tavolino e mi ci soffiai il naso.
–Non poso crederci…- gemei e una lacrima mi
solcò la guancia.
Altair si passò le mani in volto. –Tra un paio di
giorni saranno di nuovo sulle nostre tracce, e per allora avranno
ciò che gli serve, cioè me. Ci deve esserci un
modo per fermarli, potremmo…- s’interruppe
nell’osservare la mia reazione a quel discorso.
-Che cosa c’è?- domandò stupito.
–Cos’è quella faccia?- aggiunse
avvicinando la sedia alla mia.
Con un gesto a rilento allontanai il caffè da me e mi girai
verso di lui, così da guardarlo negli occhi.
Sospirai prendendo fiato. –So bene che se andassi con loro,
avresti la possibilità di tornare nel tuo tempo- dissi
schietta, e parecchio seria.
Il ragazzo che avevo di fronte distolse lo sguardo. –Ma cosa
otterresti tu in cambio? Nulla, e se adesso sono qui è
perché Desmond credeva che insieme avremmo potuto
interrompere la catena- dichiarò fiero, ma la sua sicurezza
durò ben poco.
-Non sei stato tu a dirmi che non c’è modo di
cambiare le cose?- mormorai commossa.
-Sì, hai ragione…- fece distratto.
Gli presi il viso tra le mani chissà con quale coraggio.
–L’unica che si deve rassegnare sono io. Se
è te che vogliono, e se riportarti in laboratorio fosse
l’unico modo per restituirti al tuo tempo, cosa stiamo
aspettando?- gli rinfacciai, scocciata di essere pedinata, controllata
e continuamente sotto torchio per colpa vostra. Magari avrei
ricominciato a respirare se entrambi voi, tu e il tuo antenato, vi
foste allontanati da me. Avrei dimenticato in breve tempo, avrei
implorato quelli dell’Abstergo di darmi una nuova
possibilità, di risparmiarsi la fatica di ammazzarmi
perché me ne sarei stata per i fatti miei! Alla tua
lontananza mi ero abituata, e presto non averi più avuto
bisogno della compagnia di Altair.
Non riuscii a credere di aver pensato della roba simile!
Altair strinse le sue dita attorno alle mie e allontanò il
mio palmo dal suo volto. –Mi è stata affidata una
missione, non posso certo trasgredire gli ordini- sorrise malizioso.
Aggrottai la fronte. -Ti fai dettare ordini da Desmond?! Questa, poi!-
alzai gli occhi al cielo, e l’assassino di fronte a me
scoppiò in una risata.
-So scegliermi gli incarichi più interessanti-
proferì divertito, ma nel suo tono di voce colsi una nota
profetica, un sottinteso.
Mi irrigidii, incrociando le braccia sul tavolo. –Bene,
allora che si fa?- mi schiarii la gola e misi nel caffè due
cucchiaini di zucchero.
Altair mi osservò allungo in silenzio, ma ad un tratto parve
illuminarsi. –Aspetta, tieni- si cacciò una mano
nella tasca dei pantaloni. –Ha suonato diverse volte- disse
poggiando accanto al mio gomito il cellulare.
Inarcai un sopracciglio. –Non oso chiedermi chi possa
essere…- borbottai ignorando l’oggetto e
mescolando lo zucchero al cappuccino col cucchiaio.
Il ragazzo sbuffò. –Ascolta, ho imparato a
sopportare io le sue telefonate, potresti farlo anche tu!-
ironizzò.
-Tu non lo conosci! Nikolas trova buona ogni scusa, ogni momento della
mia giornata per rinfacciarmi quello che per lui è stato il
più grande “errore” della mia vita,
cioè lasciarlo! Vuole solo farmi pesare sulla coscienza quei
pochi ricordi felici che ho di lui! Riassunto della questione:
perché quelli dell’Abstergo non se la prendono con
lui?!- mi sfogai.
Altair rise di nuovo. –Ti ricordo che suo fratello
è l’unica persona che può aiutarci-
proferì gioioso e spinse il cellulare più vicino
a me. –Parlaci-.
-No. Potrebbero intercettare la telefonata. Anzi, non potrebbero;
possono!- digrignai e buttai giù tutto d’un sorso
il caffè.
-Va bene, ci rinuncio!- Altair si alzò scostando
rumorosamente la sedia. –Fa’ come meglio credi,
lascia che mi trovino! Ma non venire a piangere da loro quando avrai
cambiato idea! Ma per allora sarà troppo tardi- eruppe.
Lo tirai per la manica e lo rimisi a sedere. –Ascolta bene
razza di…- mi bloccai nell’istante in cui il
vibratore del mio portatile prese a guizzare.
-Lupus in fabula- ridacchiò l’assassino.
M’imbronciai curvano le spalle. -Stronzo- sibilai.
-Sii il più naturale possibile, d’accordo?- mi
avvertì.
Annuii. –Il nostro destino è in buone mani- dissi
strizzando un occhio.
Guardai sull’interfaccia del cellulare e non rimasi per
niente sorpresa di leggervi sopra il suo nome. Dovevo risolvere la
questione il più in fretta possibile, o me la sarei
trascinata dietro in momenti anche peggiori.
-Pronto- bofonchiai portandomi il telefono all’orecchio.
Guardai verso di Altair che si sollevò dalla sedia.
–Vado a cercare un bagno- mimarono le sue labbra e lo guardai
allontanarsi via dalla terrazza della caffetteria.
Nel frattempo il mio ex non mi diede tregua.
-Eravate lì lì per uscire quando ha cominciato a
spogliarti?- sogghignò Nikolas. –E così
avete fatto sega. Willy c’è rimasto male, ragazza,
non si fa così-.
-Sì, è come dici tu. Ma sai la
novità!…- e in quell’istante mi
bloccai, le parole mi erano morte in gola, soffocate da una forza
maggiore che si chiamava buon senso.
-Certo, certo, come no. Il torto non dovevi farlo a lui, ma a me. Tieni
mio fratello lontano dalla nostra storia- dichiarò severo
lui.
-Nik, sei un bastardo. L’unico che tira in ballo William sei
tu. E comunque ieri ho avuto… dei problemi, mi spiace- mi
passai una mano in volto.
-Di che genere? Vorrei una spiegazione plausibile questa volta- il suo
sarcasmo si era spento come la fiammella di una candela al vento.
-Nik, io…- assentii confusamente, incerta su cosa dire e
come dirlo.
-Sto aspettando- eruppe arrogante.
-Ti richiamo- e attaccai.
Mi alzai dal tavolo, lasciai la mancia e abbandonai la caffetteria.
Io e Altair c’incrociammo sul corridoio del piano e
raggiungemmo assieme la reseption del pronto soccorso.
-Che cosa ti ha detto?- domandò mentre camminavamo
l’uno affianco all’altra.
-Il solito, ma i aspettavo una reazione peggiore- blaterai scocciata.
-Quindi non c’è bisogno che gli spacchi la faccia-.
Lanciai un’occhiataccia al tuo antenato che non
esitò a sorridere. –No, per ora no, ma grazie lo
stesso- scherzai.
Una volta nella Hall dell’ala pronto soccorso, ignorai il
cellulare che squillava nella tasca dei jeans e mi diressi di corsa
verso l’uscita.
-Giorgia, aspetta!- mi chiamò Altair seguendomi interdetto.
Mi strinse il polso facendomi voltare.
-Rammenta che possono sapere dove siamo, e magari sono appostati qui
fuori- indicò con un cenno del capo le porte scorrevoli
della sala.
-Ti prego, lasciami fare. Ho visto abbastanza film d’azione,
fidati- gli sorrisi e la sua presa attorno alle mie ossa si
allentò.
Lasciammo l’edificio e il sole mi colpì in viso
riscaldandomi la pelle; poi vennero anche il caos cittadino e i clacson
delle auto, accompagnati alla puzza di smog per la quale Altair
arricciò nuovamente il naso.
-Ancora non ti sei abituato?- gli domandai allegra traversando la
strada e lui mi restò accollato come fosse la mia ombra.
Mentre si guardava attorno vigile a controllare che non ci fosse nulla
di sospetto nelle vicinanze, estrassi il telefono dalla tasca e andai
sulla sezione rubrica.
Una volta dalla parte opposta della strada mi diressi con passo spedito
fino alla prima cabina telefonica che cadde ai miei occhi.
-Cosa stai facendo?- chiese spaesato mentre inserivo degli spiccioli
nella fessura e componevo il numero di Marty che avevo
sull’interfaccia del cellulare.
-Se chiamassi dal mio portatile- gli spiegai portandomi la cornetta
all’orecchio. –Se chiamassi dal mio portatile
rintraccerebbero la telefonata. Chiederò ad una mia amica se
possiamo stare da lei, e…-.
Tu. Tu. Tu. qualcuno aveva…
-Altair!- strillai voltandomi, e mi accorsi che il suo dito premeva sul
tasto di reset della telefonata. –Perché
l’hai fatto?!- gridai, ma frenai l’impulso di
colpirlo con la cornetta.
-Se possono rintracciare il tuo telefono, indubbiamente tengono sotto
controllo anche le cabine attorno all’ospedale.
L’unico modo per confondergli e spostarci a piedi,
velocemente e nell’anonimato- dichiarò serio e mi
prese per mano, strattonandomi via.
Lo seguii di malavoglia, ancora sorpresa di quel suo fare prepotente e
severo che mi metteva a disagio.
Camminammo allungo e con passo serrato e svelto, confusi tra la gente
che affollava le strade. Mi trovai già stanca dopo pochi
isolati, ed invidiai il lettuccio caldo nel quale sarei potuta rimanere
in ospedale.
Su di noi vegliava un sole primaverile luminoso e un cielo azzurrissimo
e colorato di chiazze bianche e piene. In una giornata del genere avrei
preferito andarmene al parco, prendere il sole sulla spiaggia, fare un
giro con il tettuccio abbassato… ma la mia vita aveva preso
quella piega assurda dalla quale non sarei uscita per parecchio tempo.
E invece che godermi la mia esistenza, quella stava diventando una
primavera da dimenticare per sempre.
Che familiarità assurda mi affiorò alla mente. Di
recente avevano trasmesso alla TV un film di nome the ISLAND. Bello, mi
era piaciuto e qualche anno fa lo vidi al cinema. Ecco, la
familiarità di cui parlavo era proprio quella chiara
immagine che avevo dei due protagonisti della vicenda. Che si tengono
per mano. Scappando da tutto e tutti. Lei si guarda attorno spaventata,
e lui la trascina verso un luogo sicuro…
Per noi non c’era luogo sicuro. L’Abstergo, di
lì a poco, avrebbe controllato il mondo. Ed io, Desmond e
Altair avevamo contribuito a tutto questo.
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Capitolo 16 *** Incontri ***
Incontri
-Ti prego…- implorai. –fermiamoci- lo strattonai
per la manica della felpa, ma Altair non si voltò
continuando a camminare spedito e guardando dritto davanti a
sé, come seguendo una retta immaginaria che solo lui vedeva.
La gente che affollava i marciapiedi pareva un fiume in piena che al
nostro passaggio si divideva, esattamente come aveva fatto
Mosè con le acque d’Egitto. Molti dei passanti non
facevano caso a noi, ma molti altri si giravano a guardarci: proprio
noi che in viso avevamo terrore, sconforto e paura di chi pare aver
visto un fantasma.
-Fermo, ti prego…- ansimai ormai esausta. Era tutta la
mattina che correvamo senza una meta precisa che non fosse mai
guardarsi alle spalle. Il sole andava già delimitarsi oltre
i grattacieli della metropoli che, squarciata dei suoi mille raggi
dorati, stava assumendo quel colorito arancio spettacolare tipico del
tramonto. I negozi chiudevano, le strade si sfollavano,
finché non si fece notte e tutto attorno a noi divennero
solo ombre e silenzio.
Il miagolio acuto di un gatto mi fece sobbalzare, quando passammo
accanto ad un vicolo, addentrandoci poi in esso e sparendo nel nero dei
mattoni.
-Altair, è pericoloso qui…- sussurrai tremante.
–Andiamocene…- ero terrorizzata, credevo di star
vivendo solo un brutto incubo, e forse era effettivamente
così…
L’assassino m’ignorò completamente
addentrandosi ulteriormente tra le ombre dei cassonetti e i vecchi muri
graffitati. Le nostre si confusero alle ombre della strada, i nostri
passi accompagnarono il boato di un tuono che squarciò
improvvisamente il cielo oscuro.
Mi stringeva per mano, intrecciando le sue dita calde alle mie fredde e
intorpidite. Il calore della sua pelle a contatto con la mia era forse
l’unica cosa che davvero mi pareva vera,
consistente… era una realtà che non ero pronta ad
accettare, lo sapevo. Quella situazione nella quale ero precipitata non
mi aggradava, faceva male al mio animo logorandolo di quel poco
coraggio che una come me poteva portare con sé.
Una volta alla fine del vicolo, stavamo per gettarci di corsa sulla
strada, ma davanti a noi comparvero un gruppo di uomini in nero che
riconobbi senza troppe difficoltà.
Altair si arrestò di colpo, fermando anche me e stringendomi
tra le sue braccia come a proteggermi, e senza esitazione mi avvinghiai
a lui guardando con insistenza e paura gli uomini
dell’Abstergo.
Alex Viego, al centro di questi, impugnava un’arma con la
canna puntata esattamente verso di noi. Ghignava malvagio; negli occhi
scuri gli balenava una luce di vigore e fierezza.
-Scappa…- mi sussurrò il tuo antenato
all’orecchio. –Ti prego, fuggi…- la sua
voce era come musica per le mie orecchie. La sua voce che pareva far
luce nel buio di quella notte senza stelle.
Non risposi, mi limitai a rimanere immobile e pregare di svegliarmi
presto prima di…
Udii lo sparo che si mescolò al rombo di un tuono e,
nell’istante in cui una goccia di pioggia mi cadde sulla
guancia, percepii il corpo dell’assassino irrigidirsi vicino
al mio.
Tutto accadde in pochi istanti.
Cominciai a piangere, senza tregua, disperatamente, piombai lentamente
in ginocchio sul suolo bagnato del vicolo accompagnando
l’incarnato del tuo antenato che si era accasciato su di me,
sovrastandomi quasi. Piansi allungo nell’incavo del suo
collo, percependo le sue labbra appena poggiate sul mio. Le braccia gli
scivolarono lungo i fianchi, il suo respiro che mi riscaldava la pelle
si consumò in un ultimo sospiro strozzato dal dolore che la
pallottola nel fianco sinistro gli stava infondendo.
Sfiorai con una mano quel punto, e guardai il rosso del suo sangue
bagnarmi le dita. Strinsi il pugno convulsamente avvinghiandomi a lui
senza interrompere il mio pianto senza speranza di poter cambiare il
corso delle cose.
Alex e i suoi uomini restavano immobili ad ammirarci come fossimo una
scultura futurista in mostra in un museo. Egli fece un passo avanti
avvicinandosi a me, continuando a sorridere in quel modo tanto
soddisfatto di se stesso.
-Noi possiamo salvarlo- disse solo, e il suo era un tono scherzoso che
mi diede subito sui nervi.
Eppure, non trovai la forza di oppormi, di allontanarmi piuttosto dal
tuo antenato che ora aveva bisogno di me. Volevo a tutti i costi
salvare la sua vita, e l’unico modo, lo sapevo, era
consegnarlo all’Abstergo. Di conseguenza, avrebbero potuto
scambiare le vostre coscienze con quei maledetti farmaci ed io, come
avevo desiderato in ospedale quella mattina, seduta al bar con
l’assassino ora morente tra le mie braccia, avrei
ricominciato a vivere.
-Non…- singhiozzai. –Non ci credo- mai una cosa
tanto stupida mi era uscita di bocca. Era stupido pensare che
l’Abstergo avrebbe usufruito del tuo antenato senza tenerlo
vivo, quindi… cosa diavolo mi frullava per la testa, eh???
La gravità della situazione aveva assuefatto i miei sensi,
ero debole dinnanzi alle mie paure, impotente di fronte ai pericoli, e
così stupida davanti alle occasioni che mi restavano per
rimediare ai miei sbagli.
-Prometto- riprese Viego –che nessuno farà del
male né a lui, né al suo ragazzo e né
a lei, signorina- ridacchiò. –Sempre se
è questo ciò che la preoccupa- arrise malizioso.
–Ma non abbiamo altro da aspettare; forza…-.
Cosa aveva tanto da ridere, quel bastardo?!
Non risposi, mi limitai a distogliere lo sguardo e abbracciare Altair
con più vigore di prima. Il mio pianto, i miei gemiti
continuarono senza sosta tanto allungo che persi la cognizione del
tempo.
-Bene- sbottò Viego ricaricando la sua arma con un gesto
veloce, fulmineo. –Se il suo desiderio è quello di
non collaborare con noi…- quella volta la canna della sua
pistola la puntò dritta su di me.
Non feci nulla, non dissi nulla, sol arrestai le mie lacrime per pochi
istanti, stringendo i denti e chiudendo gli occhi.
Mi risvegliai di colpo, ansimante e col respiro per nulla regolare,
anzi… mi mancava l’aria, mi mancava la vista,
perché attorno a me le figure presero forma poco a poco.
Era una stanza piccola, buia, sobria, con il niente per arredamento che
non fossero un armadio e due comodini al lato del letto, nel quale ero
sdraiata e spogliata di parte dei miei vestiti sotto le coperte. Presi
coscienza della forma di una lampada spenta adagiata sul comodino
davanti ai miei occhi. Un mazzo di due chiavi, poggiato vicino ad essa,
e mi parve d’intravedere una porta chiusa incastonata nella
parete di fronte a me sulla quale era inchiodato un minuto attaccapanni
che ospitava una felpa grigia che riconobbi come la tua.
Solo allora avvertii il soffice candore e profumo delle lenzuola pulite
poggiate sulle mie gambe, e mi girai dall’altra parte del
materasso. Scorsi la figura di un uomo avvolto dalla penombra della
stanza che guardava fuori dalla finestra, sul vetro della quale
s’infrangevano le gocce leggere della pioggia. Il vento
spirava su New York trascinando con sé le grosse nuvole
nere; vi era un cielo senza stelle.
Avevo sognato tutto, ed un istante dopo aver solo pensato queste tre
parole, l’uomo affacciato alla finestra si volse a guardarmi.
Sprofondai nel nero dei suoi occhi, affogai nell’incredibile
rancore e tristezza che animava il suo viso teso. Per pochi attimi di
secondi restai immobile, ascoltando il suono della pioggia sul vetro e
quello del mio respiro tranquillo, così felice, invece, che
lui fosse lì con me.
Abbassai lo sguardo poco oltre il confine del materasso, e vidi le mie
scarpe sul pavimento. Sorrisi, allungando quella mia occhiata gioiosa
anche all’assassino.
-Grazie- dissi sinceramente; tanta premura nei miei confronti non me la
sarei mai aspettata, e tutto ciò mi rallegrava
incredibilmente.
Altair accennò un sorriso sulle labbra, socchiudendo gli
occhi e rilassandosi del tutto al suono di quelle parole, ma
tornò svelto a guardare fuori dalla finestra, senza
aggiungere altro per diversi minuti.
Assecondai il suo silenzio, sollevandomi su un gomito e guardandomi
attorno.
Si trattava di una camera d’albergo, ne ero certa
poiché ne avessi viste tante sia nella vita reale che nei
film. Le pareti tappezzate dalla carta da parati colorata, ma che in
quel momento, alla sola luce dei bagliori dei fulmini, pareva di un
grigio spento.
Mi stiracchiai stendendo le braccia, dopodiché presi un gran
respiro e feci per rimettermi a dormire, dato l’ora tarda
segnata dalla vecchia sveglia messa sul secondo comodino.
Ero voltata dalla parte della finestra, fingendo di avere gli occhi
chiusi, ammiravo invece il tuo antenato che, tanto spensierato, a sua
volta ammirava la New York che non aveva avuto modo di gustarsi a pieno.
Effettivamente, il susseguirsi degli eventi non aveva lasciato tregua
ad entrambi, ed ora eravamo braccati lì come bestie in fuga
dal cacciatore.
Immaginai che situazioni simili non fossero nuove per il tuo antenato.
Chissà quante volte era dovuto fuggire dai suoi assalitori,
ma immaginarlo col cappuccio e i pugnali da lancio mi veniva piuttosto
complicato. Era come pensare che tu, Desmond, sapessi fare della
scherma. Insomma… assurdo, irrazionale.
Improvvisamente, Altair si avvicinò ulteriormente alla
finestra aguzzando la vista fuori da essa, interessandosi forse a
qualcosa… o qualcuno. Lo vidi irrigidirsi, ridurre gli occhi
a due fessure, ma niente di plausibile per permettermi di pensare che
si trattasse di Viego e i suoi uomini comparve sul suo volto.
-Che c’è?- chiesi in un sussurro, allungando un
braccio sotto il cuscino e sollevandomi facendo leva su di esso.
Lui non rispose, e questo m’inquietò oltremodo.
Scansai le coperte dal mio corpo e scesi dal letto raggiungendolo alla
finestra. Prima guardai lui che scambiò con me una fugace
occhiata piena di sottintesi, poi spostammo entrambi la nostra tensione
fuori dal vetro.
La strada inumidita dalla pioggia balenò di un nuovo tuono.
Riconobbi il parcheggio dell’hotel e qualche auto ferma in
questo, ma dal lato opposto delle due corsie di carreggiata vi era un
piccolo supermercato col suo rispettivo piazzale privato.
Capii all’istante che la sua curiosità era
calamitata dall’unico essere umano nell’arco di una
trentina di metri. Era una donna che, appena uscita dal supermercato
con una busta alla mano, si stava apprestando a rimontare nella sua
auto. La capigliatura bionda tenuta in uno chignon poco ordinato, il
viso giovane, tondo, e gli occhi di un grigio quasi azzurro. Indossava
un cappottino nero sopra una gonna di media taglia e dei tacchi poco
alti. Sotto al cappottino che la riparava nulla dalla pioggia,
indossava una camicetta bianca.
-Buffo…- risi.
Altair si voltò a guardarmi. –Cosa?- chiese
stupito.
-Non pensavo che uno come te potesse interessarsi alle biondine del
nostro tempo- sorrisi mesta.
Ovviamente avevo frainteso parecchie cose, perché
l’assassino si fece subito serio in viso. –No,
quella donna… io…- mormorò assorto.
–L’ho già vista da qualche
parte…- aggiunse incerto.
Confusa, cercai di guardarla meglio. –Mai vista
prima- ammisi sotto tono.
L’uomo al mio fianco si volse di colpo verso di me; si era
accesa una lampadina nei suoi occhi, e sorrisi chiedendo: -Allora?-.
-Forza, rivestiti. Brigati- mi comandò serio andando alla
porta.
Spesata, restai immobile troppo allungo per i suoi gusti.
-Quella donna!- emise lui sbuffando. –Quella donna la
riconoscerei anche a venti chilometri! Avanti, sbrigati!-
digrignò.
-Dimmi di chi si tratta!- ribattei.
-Non c’è tempo- sbottò lui infilandosi
la felpa.
Afferrai le mie scarpe e me le infilai all’istante.
–Ora sì!- dissi.
Altair mi prese per mano, afferrò le chiavi dal comodino, e
mi trascinò con passo scattante fuori dalla stanza.
-Altair!- gemei strattonandolo.
-Un solo nome- sibilò lui voltandosi, e i nostri visi furono
l’uno poco distante dall’altro.
Ammutolii, in preda al panico.
Abbassi lo sguardo sulle sue labbra che si stirarono in un serio
sorriso. –Lucy Stilman-.
Sobbalzai. –Impossibile, lei è…-.
-Non c’è tempo, vieni- corremmo giù
dalle scale e raggiungemmo la reseption, sfuggendo
all’occhiata del responsabile perché,
effettivamente, eravamo un po’ a corto di soldi e,
fortunatamente, lui non era lì.
Il tuo antenato lasciò le chiavi sul bancone e ci avviamo di
corsa fuori dall’albergo.
La pioggia mi punse in viso, facendomi quasi male. Il freddo del vento
si schiaffò sulla mia pelle mentre avvertivo i vestiti
bagnarsi velocemente.
Altair mi portò con sé ad attraversare la strada,
e la donna dal cappottino nero era ancora nel parcheggio dinnanzi al
super mercato. La portiera dell’auto aperta, chiuse il porta
bagagli e fece per montare al sedile del guidatore.
Altair le corse in contro prima che questa potesse mettere in moto. Mi
accostai al tuo antenato che batté due colpi sul finestrino
dell’auto, mentre io mi guardavo attorno nella speranza che
Alex e i suoi non sbucassero dal nulla proprio quando qualcosa stava
andando per il verso giusto.
Altair ci aveva visto bene, pensai, perché la donna
restò incredula quando riconobbe l’uomo
dall’altra parte del finestrino della sua auto.
Lucy smontò dalla macchina richiudendo la portiera.
–Desmond?- balbettò.
Io e il tuo antenato indietreggiamo di un passo circa.
–Veramente- cominciò lui. –Non proprio-.
Stilman, a quelle parole, dovette appoggiarsi al tettuccio
dell’auto. –Impossibile- mormorò.
-Devi aiutarci- andò dritto al sodo.
Inghiotti il groppo che avevo alla gola e mi strinsi al braccio
dell’assassino. –Salve…- ebbi solo il
coraggio di dire.
La donna si guardò attorno circospetta, poi disse: -Non
possiamo parlare qui- aprì la portiera dei posti dietro
della sua auto. –Salite, presto-.
Altair mi poggiò una mano sul fianco spingendomi verso
l’auto ed entrai all’istante sistemandomi dal lato
opposto.
Quando tutti e tre fummo nella macchina, Lucy mise in moto e
lasciò il parcheggiò di gran fretta.
La guardai attraverso lo specchietto retrovisore. Era nervosa,
preoccupata, e guardava spesso alle spalle dell’auto.
Per parecchi minuti il tragitto proseguì silenzioso.
Altair, seduto al mio fianco, incontrò casualmente il mio
sguardo ma si soffermò a guardarmi.
Sorrisi mestamente, respirando senza un ritmo costante. Desideravo che
quella storia finisse il prima possibile, ma incontrare Lucy in quel
parcheggio… dubitai che fosse opera di Viego, magari una
trappola. Eppure, il tuo antenato non poteva non aver considerato
quell’ipotesi, ed era nonostante ciò
così tranquillo, sorridente…
Allungò una mano e strinse la mai nella sua. Inizialmente,
le mie dita tremanti restarono immobile strette nelle sue, ma non
appena ricacciai tutta quell’insicurezza, ricambiai a pieno
annuendo finalmente più calma.
-Altair- chiamò d’un tratto l’altra
donna.
-Hmm?-.
-E’ inutile dirvi che Viego è sulle vostre tracce,
vero?-.
-Già- disse lui.
-Dove ci stai portando?- domandai.
-Nell’unico posto che l’Abstergo non ha il permesso
di violare-.
-Ovvero?- intervenne Altair.
-Casa mia- rispose Lucy poco tranquilla.
Eccomi!
U.U
Eh, già… finalmente, dopo tanto tempo di
silenzio, eccovi un piccolo aggiornamento di appena sei pagine
stentate, ma credevo interessante interrompere in questo punto!
Ovviamente, spero di avere l’ispirazione necessaria per
postare il prossimo capitolo il prima possibile! Ok, gente, qui
è tutto. Ora vi aspetto in tanti recensire! ^^'
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Capitolo 17 *** Ospiti ***
Ospiti
-Fate
come foste a casa vostra- disse Lucy inserendo la chiave.
–Ovviamente non ne farò parola con nessuno, dovete
stare tranquilli di questo- aggiunse girando la chiave e facendo
scattare la serratura. -Non c’è neppure bisogno
che mi ringraziate, so quanto l’Abstergo stia facendo cazzate
ultimamente- sbottò aprendo la porta. -Non si danno pace con
la ricerca dei Frutti, ed ora che hanno scoperto che molti dei luoghi
dove questi sono situati sono sbagliati, faranno di tutto per tornare a
lavoro con più foga di prima!- poggiò le chiavi
sul mobile dell’ingresso e si apprestò ad
accendere le luci che balenarono in tutto il salone, rischiarando
l’intera casa.
-Prego,
entrate- assentì lei poggiando le buste della spesa a terra,
spogliandosi del suo cappotto e lanciandolo alla svelta sul divano del
salotto. –Vado un attimo in bagno, nel frattempo
accomodatevi- i tacchi della donna risuonarono sul pavimento di legno e
presto scomparve nel corridoio assieme al suono dei suoi passi, ora
attutito dal tappeto che traversava quella zona della casa.
Udii
una porta chiudersi e solo a quel punto decisi di muovere un muscolo,
entrando completamente in salone.
Vi
era un ampio ingresso che dava sul salotto. L’appartamento,
sviluppato su un solo livello e situato, se ricordavo bene, al settimo
piano dell’edificio, era ben arredato di mobili né
troppo antichi né troppo moderni. Lucy Stilman aveva un buon
gusto per l’arredamento, ma in quella casa sembrava non
passare parecchio tempo poiché fosse davvero pulita e
ordinata, come nuova. Alternativa a ciò c’era il
fatto che fosse una di quelle donne maniacali dell’ordine.
Altair
mi afferrò d’un tratto il polso trascinandomi
nuovamente fuori dall’ingresso. –Aspetta- disse.
Lo
osservai in silenzio alcuni istanti, giusto il tempo di assumere
un’espressione confusa. –Che succede, ora?-
domandai.
Il
ragazzo allungò un’occhiata alle mie spalle,
guardandosi attorno. –Non so se è una buona idea.
Dovremo andarcene-.
Sbuffai.
–Non uscirtene coi tuoi brutti presentimenti, adesso!-
sibilai. –Scordatelo che ce ne andiamo! Lucy è
l’unica che può aiutarci, l’hai detto
anche tu, ricordi?!- sbraitai sotto tono, strattonandolo assieme a me
nel centro della stanza.
Lui
fece altrettanto, avvicinandomi ulteriormente contro il suo petto,
guardandomi dall’alto al basso, trafiggendomi coi suoi occhi
neri e infiniti. –Scusa tanto se solo adesso mi rendo conto
che è stato tutto troppo facile…-
mormorò. –Perché non cogli
l’ironia di tutto questo?- mi chiese allegro, e i nostri nasi
quasi si sfioravano.
Socchiusi
gli occhi e aggrottai la fronte. –Ironia? Non capisco di cosa
stai parlando…-.
-Ti
prego- insistette lui chinandosi lentamente, e potei accorgermi del suo
respiro lambirmi le labbra. –Ho sbagliato a portarti qui, ora
dobbiamo filarcela!- fece per voltarsi portandomi con sé, ma
io lo sorpassai alla svelta e richiusi la porta d’ingresso,
così da sbarrargli la strada.
-Ascolta
bene- mi avvicinai a lui facendolo indietreggiare. –Quella
donna ha i contatti necessari all’interno
dell’Abstergo per procurarci quei medicinali! Ti ricorda
niente la parolina “cellulare”?- gli chiesi come
fosse ovvio, e questa volta fu lui la vittima del mio sguardo.
L’uomo
restò però imperturbabile e rigido come solo un
assassino sapeva stare. –Ti comporti come una ragazzina;
piantala di lagnarti e guarda in faccia la realtà- disse.
A
quel punto fu troppo: stava scendendo in dettagli che non mi piacevano.
–Quale realtà? Quella che Desmond potrebbe non
tornare mai più?!- il mio tono di voce salì di
un’ottava al minimo. Rimuginare su certi schiaccianti
argomenti non mi rallegrava certo. Anzi, sentii qualcosa premermi
all’altezza dello stomaco, come un’improvvisa
vampata di tristezza che stava risalendo il mio intestino fino alla
gola. I miei occhi s’inumidirono appena e fui costretta a
voltarmi.
Altair
mi osservò in silenzio mentre cercavo di darmi un poco di
contegno.
-Ho
già fatto i conti con quest’eventualità
molto tempo fa…- singhiozzai. –E’ vero,
hai ragione: Desmond non tornerà mai più! Sono
pronta a ricostruirmi una vita, se questo sarà
necessario… ma ormai siamo entrambi animali braccati, e
questo potrebbe anche diventare, non so… eccitante!- mi
girai di botto. –Ma che diamine! Non me ne andrò
senza combattere!- gli puntai l’indice al petto. –E
non sarai mica tu ad impedirmi di andare ad istinto! Sai dove mi ha
portato il mio istinto? No? Bene, te lo dico subito:
all’apice del successo, lontano dalla mia famiglia che
odiavo, lontano dai debiti, lontano dalla droga, lontano dalla mafia,
lontano dalla galera, dalla guerra! Mi fido del mio istinto
più di quanto non confidi in Dio! E sono sicura che il mio
istinto saprà anche tirarmi fuori da questo Giallo di merda!
Quindi fammi un favore: se non sei dalla mia parte, allora schierati
altrove!- urlai, ma se la mano di Altair non si fosse poggiata sulla
mia bocca, avrei potuto proseguire in quel modo per altri dieci minuti,
senza risparmiargli poi il fatto che di mezzo ci stavano andando certi
sentimentalismi che mi davano sui nervi!
Ovviamente,
non riuscii a non dare un ultimo tocco tragico a quella situazione
già di per sé delirante, da folli.
I
miei occhi si fecero ancor più sofferenti, e una lacrima mi
colò sulla guancia andando a bagnare le dita
dell’assassino che sfioravano le mie labbra. Mi lasciai
cadere su di lui senza preavviso, affondando il viso
nell’incavo del suo collo, accasciandomi tra le sue braccia,
lasciandolo piuttosto interdetto ed, inizialmente, esitante su dove
mettere le mani.
E
fatto ciò: iniziai a piangere.
-Non
ho mai detto di volerti abbandonare, mai…-
mormorò lui al mio orecchio, e potei percepire il suo fiato
caldo infrangersi contro la pelle sensibile di quel punto.
–Mai, non lo farei mai, e lo sai. Sia perché
l’ho promesso a Desmond e sia perché sarebbe
sciocco, da irresponsabile e da veri stronzi, se permetti-
ridacchiò carezzandomi la schiena, risalendo fino ai capelli
sciolti che avevo sulle spalle. Iniziò a giocherellare con
una mia ciocca nel mentre il mio corpo era smosso da singhiozzi
continui e inarrestabili; ormai la soglia del pianto l’avevo
varcata per bene, e mi ci sarebbero volute un paio d’ore
prima di riprendermi del tutto.
-Quello
che sto tentando di dirti è che ho sbagliato a portarti qui,
solo adesso me ne rendo conto…-.
-Smettila
di mentirmi. Tanto l’ho capito che ti sei affezionato troppo
al mio tempo- sorrisi mestamente. –E stai facendo di tutto
per non andartene…-.
Lo
sentii ridere, ma quella sua allegria durò ben poco.
-Giorgia,
quelli dell’Abstergo potrebbero aver contattato Lucy e averle
chiesto di…- non terminò la frase che la donna
ricomparve nel salone.
Parli
del Diavolo, spuntano le corna… pensai.
Lucy
restò immobile al suo posto. -È successo
qualcosa?- domandò stupita di vederci così
intimamente abbracciati.
L’assassino
si allontanò subito da me, però accertandosi con
premura che, in un modo o nell’altro, avessi comunque
terminato di piangere.
-Niente
di grave; piuttosto: devi scusarci, ma…- sapevo cosa avrebbe
detto, ma prima che potesse scusarsi con Lucy di una nostra improvvisa
fuga da casa sua, lo interruppi bruscamente sovrastando le sue parole:
-Ma
siamo piuttosto affamati- tirai su col naso.
Altair
mi fulminò con un’occhiataccia, ed io, abilmente,
non gli diedi spago.
La
donna allungò le labbra in un sorriso allegro.
–Certo, venite. Stavo giusto per preparare la cena, ma poi
sono dovuta uscire di corsa! Precisamente quando mi sono accorta di non
avere nulla da mettere sotto i denti- disse lei dirigendosi nella
saletta accanto.
Fui
la prima a seguirla sino in cucina. –Ah, ecco spiegato cosa
ci facevi in quel supermercato!- sorrisi.
Lucy
si apprestò a mettere dell’acqua in una pentola,
il tutto a bollire sul fuoco. Poi la guardai dirigersi in salotto e
trascinare fino nella stanza dov’ero rimasta le buste della
spesa appena portate in casa. Le poggiò sul bancone accanto
al frigo e cominciò a svuotarle sistemando la roba nelle
varie dispense. Prese un pacco di pasta e la versò per
interno nell’acqua, non appena essa cominciò a
fare bollicine.
Altair
comparve al mio fianco senza scollarmi gli occhi di dosso, come
cercando il mio sguardo pur di riuscire a convincermi che saremmo
dovuti scappare alla svelta.
Eppure,
il mio sesto senso dicevo che c’era da fidarsi.
Lucy
era agli arresti domiciliari, ma le era comunque permesso di girare per
la città andando a fare la spesa senza alcun controllo?
Ecco, a quel punto qualche dubbio mi sorse eccome e, mentre la donna si
dimenava coi preparativi, decisi di farle alcune domande:
-Sei
un’assassina?- mi venne spontanea, e subito la ragazza
assecondò la mia richiesta arrestando ogni suo movimento,
voltandosi lentamente verso di me.
Annuì
seria e tornò a girare la pasta. –E adesso
l’Abstergo lo sa-.
-Perché
non ti hanno uccisa?- domandò questa volta Altair, e mi
stupii del fatto che si fosse interessato al discorso. –Come
hanno fatto con gli altri, intendo. Perché lasciarti in
vita?- insisté.
Di
quell’argomento sapevo poco e niente, ma tu, Desmond, mi
avevi raccontato degli assassini moderni accennando per di
più allo sterminio della tua fattoria, la tenuta di campagna
dove avevi vissuto la tua infanzia assieme a molti tuoi coetanei.
Lucy
sospirò girandosi a guardarci. La sua espressione si fece
pensosa, il suo sguardo molto più serio di quel che
immaginassi. –Non appena riavranno quello che stanno
cercando, verranno a chiamarmi perché ritorni a lavorare con
loro al progetto- disse. –Per questo temo che casa mia possa
essere un luogo poco sicuro per voi- aggiunse.
Con
la coda dell’occhio, vidi l’uomo che avevo affianco
fulminarmi con un’occhiataccia.
Lo
ignorai del tutto: -Ma noi…- cominciai. –Noi
possiamo fidarci di te, vero?-.
Lucy
parve confusa. –In che senso?-.
Esitai,
e ciò rallegrò il ragazzo che avevo accanto.
–Possiamo star certi che è stato un caso
incontrarti, giusto?-.
Lucy
scoppiò in una fragorosa risata. –Credete che sia
un burattino dell’Abstergo?- formulò dandoci le
spalle e scolando la pasta nel lavandino.
-Ecco…-
lo guardai e Altair mi fissò imperturbabile.
–Sì, lo pensavamo…- dissi flebile.
-Ovviamente
non ho mezzi per dimostrarvelo- fece lei rovesciando la pasta in un
contenitore di ceramica bianco; mischiandovi poi del sugo di pomodoro.
–Perciò se vi sentite in pericolo- sorrise
divertita –quella è la porta- indicò
l’ingresso di casa.
Stavo
finendo di apparecchiare la tavola quando il tuo antenato comparve al
mio fianco improvvisamente, guardandosi attorno spaesato.
-Che
c’è ancora?- ridacchiai sistemando i bicchieri.
-Ah!-
alzò gli occhi al cielo lui. –Davvero non capisci?
Anch’io ho un certo istinto…- mi derise.
-Davvero?-
chinai la testa da un lato, andando a mettere le forchette alla
sinistra dei piatti.
Lui
annuì compiaciuto. –Ridi, ridi…-
borbottò. –Ma non venire a piangere da me se
accadrà qualcosa di spiacevole-.
Sbattei
con violenza una forchetta sul tavolo e mi voltai di colpo verso di
lui. –Smettila- dissi.
I
suoi occhi vuoti si fecero strada nei miei, ma non proferì
parola.
-Smettila,
chiaro?- proseguii. –Rilassati, va bene? Non ci
accadrà nulla, vedrai…- tornai ad apparecchiare.
–Ti prego, mi metti ansia- sibilai. –Quindi
smettila, smettila, smettila!- ripetei.
-D’accordo,
ma adesso smettila tu!- ridacchiò lui facendomi voltare.
–Hai ragione, scusa- mormorò chinando lo sguardo.
–Mi comporto da stupido, ma mi è stato insegnato a
dubitare di tutti e fidarmi solo di me stesso e del mio giudizio, non
posso farci nulla- fece rammaricato.
-Accetto
le tue scuse, ma sappi che neppure io ho abbassato la guardia- gli
sorrisi lanciando un’occhiata in cucina, dove Lucy stava
raggruppando le portate per la cena. –E poi- ripresi
guardandolo negli occhi. –Credi davvero che non me ne importo
nulla? Credi davvero che ti metterei in pericolo consegnandoti
così nelle mani nemiche?-.
Altair
aggrottò la fronte, confuso. –Cos…-.
Lo
abbracciai, lasciandolo piuttosto interdetto. –Scordatelo:
l’Abstergo non ti avrà senza passare sul mio
cadavere! E tanto meno, tu non te ne tornerai nel tuo tempo fin quando
Desmond non sarà di nuovo tra noi!- dissi allegra.
-Apprezzo
il coraggio- sottinse accarezzandomi i capelli. –Lo apprezzo
tanto, e so quanto è stato ed è ancora dura per
te. Se ho detto, fatto o solo pensato qualcosa che potesse ferirti, ti
chiedo di perdonarmi-.
Soffocai
una risata. –Come mai sei in vena di scuse, ‘sta
sera?- domandai stanziandomi da lui di qualche passo, allungandomi
verso la cucina.
Il
tuo antenato mi seguì sospirando. –Forse sto
cominciando a rilassarmi…-.
-Bene!-
gioii attirando l’attenzione di Lucy, la quale
filò subito in sala da pranzo portando con sé la
caraffa d’acqua e il cesto del pane.
Afferrai
il ciotolone con la pasta e lo portai in tavola; sedemmo
all’istante e consumammo la cena piuttosto in silenzio.
Giunti agli sgoccioli del buffet, attaccammo con un discorso che
catturò subito la mia curiosità.
Lucy
ci parlò del progetto in tutte le sue forme. Dalle riunioni
sindacali al confronto dei risultati raggiunti coi clienti. Fece dei
nomi che fui pronta a stamparmi bene nella testa affinché,
un giorno, avrei potuto fare loro causa se mai avessi trovato il
coraggio di prendermi un buon avvocato.
Restammo
seduti parecchio allungo, discutendo dei dati raccolti
dall’analisi dei tuoi ricordi, e durante tale conversazione
avvertii nuovamente quella fastidiosa sensazione alla base dello
stomaco.
Maledetta
astinenza, pensai sbuffando senza farmi notare troppo.
Bastava
che Lucy pronunciasse il tuo nome, e già mi sentivo svenire.
Mi mancavi troppo, ora più di pochi giorni prima. Ora che le
faccende stavano prendendo una piega sempre peggiore, mi mancavi, avevo
bisogno di te, avevo bisogno di… qualcuno che mi ricordasse
di te!
Istintivamente
guardai verso di Altair, il quale ascoltava assorto le parole di Lucy,
che parlava a raffica senza fermarsi.
I
miei occhi si soffermarono nei suoi, assorti invece
nell’intendere al meglio ciò che Stilman stava
tentando di spiegare più a me (disattenta) che a lui, che
quasi si prendeva degli appunti.
Giustamente,
stava facendo di tutto per trovare un modo per tornarsene nel suo
tempo, e forse sbagliavo ad avere questa visuale distorta di lui come
uomo del passato che si è affezionato troppo a questo nuovo
tempo. La verità era che eravamo entrambi così
simili, costretti agli stessi dolore, che gli stessi sentimenti ci
allontanavano delle volte l’uno dall’altra.
No.
No.
Ehi,
no! E ancora no!
Non
ero mica nata ieri. Mi accorgevo piuttosto alla svelta quando
cominciavo a provare interesse per qualcuno, e questo era uno di quei
momenti.
Lo
guardavo troppo spesso, lo abbracciavo troppo spesso, parlavamo troppo
vicini troppo spesso! Aaaaah! Stavo impazzendo, scossi la testa,
distogliendomi dall’ammirare la sua figura composta seduta
proprio affianco a me.
Lui,
così simile a te…
Dovetti
darmi un pizzico sul ginocchio per riprendermi da quegli assurdi
pensieri, scacciandoli via con il gas antincendio.
-Giorgia-
mi sentii chiamare, e all’istante mi volsi verso la voce di
donna che in quel momento mi era parsa del tutto estranea.
Lucy
mi osservava sbigottita. –Ti senti bene? Hai una
faccia…- fece preoccupata.
Altair
scostò la sedia. –E’ solo stanca- disse
alzandosi. –Come ci sistemiamo per la notte? Così
l’accompagno in camera prima che crolli sul pavimento-
aggiunse guardandomi.
La
donna soffocò una risata. –Ma dei due-
cominciò allegra –chi si prende cura di chi?-
spostò lo sguardo da me all’uomo e
dall’uomo a me.
Battuta
di poco gusto, pensai sbuffando.
Scattai
in piedi. –No, no!- cominciai a sparecchiare. –Sto
benissimo, nel pieno delle forze!- risi istericamente.
–Potrei restare sveglia ancora delle ore, lo
giuro…- sovrapposi al mio piatto quello di Lucy e del tuo
antenato, portando il tutto in cucina.
-Molto
sinceramente- intervenne lui versando dell’acqua nel suo
bicchiere. –Mi accontento del divano- ridacchiò
bevendo.
Lucy
mi raggiunse in cucina posando sul bancone la ciotola vuota di pasta.
Mi fermò prendendomi il polso prima che potessi cominciare a
lavare i piatti. –Giorgia, lascia. Ci pensa domani la donna
delle pulizie-.
Aggrottai
la fronte allontanandomi dal lavandino. –Hai una donna delle
pulizie?- chiesi.
Stilman
annuì, e Altair comparve al mio fianco.
Entrambi
ci soffermammo a guardare la ragazza che avevamo di fronte, mentre
questa diceva:
-C’è
una camera degli ospiti accanto alla mia- sorrise. –La camera
degli ospiti ha un letto doppio. La mia camera ha un letto doppio
e…- si mosse di qualche passo –e nel salotto
c’è il divano con un posto singolo-
allungò ulteriormente il suo sorriso.
-Scherziamo?-
sobbalzai. –Sono solo le…- mi voltai
più volte cercando un orologio da qualche parte e, quando lo
trovai poggiato su una mensola del salone, vidi che dopotutto si era
fatta una certa ora. –Le undici e… mezza-
balbettai. –Ma!- provai a ribellarmi come facevo da bambina,
ma le mani del tuo antenato si strinsero attorno alle mie spalle e mi
spinsero verso il corridoio, uscendo dalla cucina.
-Passo
più tardi a dare la buona notte?- domandò Lucy
mentre ci allontanavamo.
-Non
ce n’è bisogno, grazie!- rispose Altair, e
già tale risposta m’insospettì non
poco.
Le
luci del salotto non arrivavano fin lì e, per un breve
tratto, io e l’assassino camminammo avvolti dal buio,
dirigendoci alla cieca verso quella che parve effettivamente la camera
ospiti.
Fu
lui ad aprirmi la porta, e fu lui a farmi strada nella stanza,
accendendo la luce appena entrato.
-Vedo
che ti abitui in fretta- sorrisi guardandomi attorno.
-In
che senso?-.
-Ci
vogliono certe capacità a trovare l’interruttore
della luce, per uno venuto dal XII secolo come te- dissi sbadigliando e
avvicinandomi al letto matrimoniale sistemato poco sotto la porta
finestra, che dava su un piccolo terrazzino affacciato sul corso
principale del quartiere.
Il
cielo nero si stagliava infinito sopra i tetti dei palazzi, le vie
asfaltate della città erano insolitamente silenziose e
spopolate.
Mi
avvicinai alla finestra e la aprii con un colpo secco, facendo entrare
nella camera una ventata d’aria fresca che mi
scompigliò appena i capelli.
D’un
tratto, sentii la porta chiudersi e mi voltai, lentamente, avvolta da
un brutto, brutto presentimento.
-Si
è chiusa da sola- ridacchiò Altair nel centro
della stanza. –Il vento, sai…- provò a
dire passandosi una mano sul collo.
Sorrisi,
muovendo un passo nel terrazzino. –E’ inutile che
aspetti che mi addormenti. Non accadrà prima di un paio
d’ore-.
Quando
fui del tutto all’aperto, mi sporsi dal parapetto guardando
di sotto, lasciando che i capelli volteggiassero a quella leggera
brezza notturna intensa e magnifica.
Il
tuo antenato mi raggiunse appoggiandosi alla ringhiera al mio fianco,
girandosi a guardarmi. –Ah, davvero?- mi chiese, e certo non
potei notare il colore ancor più intenso della
tua… cioè della sua pelle alla luce della
città attorno a noi. –E quello sbadiglio di poco
fa?-.
Cercai
di distogliere lo sguardo da lui, ma ciò mi fu
pressoché impossibile. –Smettila di preoccuparti
così tanto per me…- parlottai tornando in stanza.
Mi
sedetti sul letto e andai giù con la schiena, fino a poter
ammirare per bene il soffitto chiaro come fosse a pochi centimetri dal
mio naso.
Improvvisamente,
il viso del tuo antenato entrò nel mio capo visivo, quando
invece avevo sperato che mi lasciasse un attimo in pace! Mi sentivo
dilaniare da quello che stavo provando, dall’intollerabile
dolore che mi ardeva dentro il petto e chiedeva qualcosa che non potevo
dare, che non potevo avere, che non volevo avere.
Altair
mi fissò allungo, in silenzio. –Sei stanca, eh?-.
Sbuffai,
provocandogli un’allegra risata.
Afferrai
il cuscino e gli sbattei sulla faccia senza neppure pensarci due volte.
Di tutta risposta, il tuo antenato si sorbì il trattamento,
ma giusto qualche istante più tardi tentò di
vendicarsi nel modo più assurdo possibile.
Mi
afferrò per i fianchi sollevandomi su una sua spalla,
tenendomi in perfetto equilibrio su di essa. I miei piedi non toccavano
terra, le mie ginocchia premevano contro il suo petto, mentre le mie
braccia scivolavano a penzoloni lungo la sua schiena.
Mi
aveva issata in braccio come un sacco di patate, pensai accorgendomi
della massa di capelli che avevo davanti agli occhi e mi offuscavano la
vista.
-Soffri
il solletico, Giò?- mi chiese ridendo.
Sulle
prime non capii dove volesse arrivare e, ovviamente come solo una
deficiente stupida avrebbe fatto, annuii. –Sì,
perché?-.
Lo
sentii ridere ancora più sfacciatamente. –Quanto
scommettiamo che tra pochi minuti sarai così stanca da non
poterti più reggere in piedi?-.
Inarcai
un sopracciglio. –E’ una minaccia?!- il mio tono di
voce salì di un’ottava al minimo.
Detto
ciò, sentii due dita del tuo antenato sfiorarmi il lembo di
pelle scoperta all’altezza dei fianchi, e lì fu la
mia fine.
Scoppiai
a ridere all’istante, come una forsennata, dimenandomi nel
peggiore dei modi; eppure, allo stesso modo di come mi parve un immenso
fastidio, era piacevole. Mi aveva toccata appena, senza neppure
prolungare troppo il contatto, ed io già gridavo come una
matta. Fu una tortura che durò pochi minuti, giusto il tempo
necessario per allertare Lucy, la quale bussò ad un tratto
alla porta chiusa della stanza.
-Se
posso- intervenne lei entrando nella camera. –Se posso
chiedervi cosa…- arrestò le sue parole non appena
il suo sguardo cadde su di noi.
I
suoi occhi si addolcirono d’improvviso, scontrandosi prima
coi miei, quasi lacrimanti dal ridere, e in seguito con quelli gioiosi
e divertiti dell’assassino.
Ne
approfittai per riprendere fiato e calmare il battito irregolare del
mio cuore, il quale tamburellava con violenza contro la gabbia toracica
provocandomi un leggero dolore.
-Spero
di non aver interrotto nulla!- ridacchiò la donna.
–Comunque, non so voi, ma la mia giornata termina qui.
Altair: ho lasciato coperte e cuscini in salotto, sul divano. Giorgia:
il letto è già fatto e se ti serve qualcosa,
qualsiasi cosa, non esitare a chiedere, capito? La mia è la
stanza accanto-.
Il
tuo antenato mi mise giù sorridendo. –Grazie, a
domani- disse.
-Sì,
a domani…- brontolai io, tentando in vano di darmi alla fuga.
Non
appena Lucy ebbe richiuso la porta, mi strattonai da lui cercando di
darmela a gambe, ma il tuo antenato mi attirò nuovamente a
sé senza il minimo sforzo.
Perché
si stava comportando così? Dove credeva di arrivare
facendomi sbraitare come una bambina, solleticandomi nei punti
più sensibili e sfiorandomi con le sue dita che avvertivo
scottare sulla mia pelle.
-Basta,
ti prego, smettila!- digrignai trattenendo a stento le immense risate
che mi salivano alla gola, sfociando come piccoli singhiozzi.
-Tutto
ciò ha uno scopo ben preciso- lo sentii ridere.
-Non
crollerò mai dal sonno!- ruggii vendicativa, pronta a non
dargliela vinta così facilmente.
I
miei bruschi movimenti lo sbilanciarono in avanti, ed entrambi cademmo
avvinghiati sul materasso del letto. Non appena si accorse di essere
completamente sdraiato sopra di me, il ragazzo si sollevò
facendo leva su un braccio e mi guardò dall’alto,
sorridendo per nulla benevolo. Mi porse una mano che osservai allungo.
-Bastardo-
sibilai voltandomi, poggiando una guancia sul copriletto e riprendendo
fiato.
-Divertente,
non trovi?- perché era così… felice?!
-Hai
vinto!- strillai esasperata. –Sono distrutta, ma ti
supplico…- e lo supplicai per davvero, lanciandogli una di
quelle occhiate che avrebbe impietosito mia suocera. –Basta
solletico-.
L’assassino
fece un gran sospiro e insistette col porgermi la mano.
Poggiando
le mie dita delicatamente sulle sue, avvertii una certa e insolita
scossa passarmi da parte a parte del corpo e, senza neppure che me ne
accorsi, invece di lasciarmi aiutare da lui, lo tirai verso di me,
ribaltando successivamente i nostri corpi; trovandomi improvvisamente a
cavalcioni sul suo basso ventre.
Il
mio cuore rallentò i battiti, fino a diventare quasi
impercettibile persino a me stessa. Alcune ciocche dei miei capelli
scivolarono da dietro le orecchie e andarono a solleticare il viso
dell’uomo che aveva a pochi centimetri dal mio.
Il
gioco si era trasformato in qualcosa di davvero allettante, pensai. Era
lì, alla mia portata, mi dissi mordendomi un labbro. Una
cosa rapida e indolore, aggiunse la parte di me che non sopportava
certi caratteri di una tale astinenza.
Dio
quanto avrei voluto baciarlo.
E lo
feci.
Premetti
flebilmente le mie labbra sulle sue, avvertendo il familiare pizzicorio
della barba giovane, assieme a quell’irresistibile e
leggendaria cicatrice sull’angolo destro delle vostre bocche.
Dopo
neppure pochi secondi, quel bacio immobile si trasformò in
ciò di cui avevo bisogno. Percepii la punta della sua lingua
sfiorarmi i denti, accompagnando con una passione che non mi aspettavo
ogni mio gesto.
Avevo
involontariamente sollevato i bordi della sua maglia, ma, incredibile,
lui aveva fatto lo stesso.
All’inizio
ci rimasi di sasso, irrigidendo ogni parte di me; avevo anche tentato
di allontanarmi da lui, ma Altair, non appena avvertite queste mie
esitazioni, aveva di conseguenza preso le necessarie precauzioni:
afferrandomi per i fianchi e con un movimento svelto mi aveva sollevato
di poco da sé e sospinta assieme a lui verso il centro del
letto.
Mentre
le mie braccia si stringevano attorno al suo collo, mi accorsi del
tocco sempre più presente delle sue mani sul mio corpo; una
delle quali mi afferrò sotto un ginocchio e
l’altra andò a stuzzicare la pelle sensibile della
schiena, carezzandomi sotto la maglietta.
In
tutta sincerità, attendevo fiduciosa che fosse lui a
spogliarmi, cosa che però non fece.
Anzi.
Sospettai
che la sua improvvisa rigidezza fosse dovuta al fatto che…
stavamo per farlo, ma invece mi sbagliavo… c’era
un motivo ben diverso del perché lo sentii bloccarsi
d’un tratto, arrestando persino il suo respiro agitato.
Mi
ero di poco sollevata, staccandomi da lui e interrompendo il nostro
bacio; il tempo necessario per sfilarmi la maglietta, quando avvertii
il suono di una voce vecchia ma nuova che chiamava il mio nome:
-…Giorgia-
mormorasti tu.
Sgranai
gli occhi. -…Desmond?- balbettai.
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Capitolo 18 *** Nel suo corpo, e nella sua mente ***
Nel suo
corpo, e nella sua mente
-Desmond-.
-Che
c’è?-.
Altaïr
mi guardò serio. –Il tempo corre-.
-Sì.
Lo so, lo so. Hai ragione…- sospirai staccandomi dalla
parete invisibile alle mie spalle. Mossi alcuni passi nella sua
direzione, fermandomi al suo fianco. Alzai di poco gli occhi da terra,
puntandoli in quelli neri, severi e fieri del mio antenato, cogliendovi
la stessa tristezza che fioriva nei miei.
-Prenditi
cura di lei…- mormorai.
Altaïr
mi cinse una spalla. –Tu pensa solo a sopravvivere, chiaro?
Non sottovalutare le naturalezze del mio tempo…
lì la vita è più dura di quel che
credi, e non solo per il fatto che non sai usare una spada- mi disse,
ed io lo ascoltai con la dovuta attenzione.
-Pronto?-
chiese ancora l’assassino.
Annuii,
poggiando la mia mano su quella del mio trisavolo, e a quel contatto
una luce accecante ci avvolse entrambi.
Cercai
di pensare ad altro, di distrarmi mentre la foschia che mi avvolgeva si
diradava man a mano che i miei occhi si abituavano al chiarore intenso
del luogo nel quale mi stavo dirigendo, senza però muovere
un solo passo. Restai immobile, al mio posto, come una statua in attesa
di esser conclusa dal suo artefice. Guardai quei numeri che
volteggiavano accanto a me svanire lentamente, sfocandosi sempre
più. Finché il sole non fu accecante a tal punto
da ridurre la mia espressione in un ghigno malsano.
Strinsi
con più convinzione l’elsa della spada al mio
antenato concessa portare, pronto a qualsiasi evenienza, quando anche i
suoni presero un loro tono e una loro sfaccettatura.
Udii
il canto di alcuni uccellini, molto vicini a dove mi trovassi. Sentivo
le loro note acute giungermi penetranti alle orecchie, irradiandomi di
un medesimo senso di immenso fastidio.
Il
cielo azzurro che si apriva sopra la mia testa si estendeva limpido,
infinito oltre la linea dell’orizzonte. Le colline e i prati
verdi e in fiore lo potevano quasi toccare, perché dove il
verde dell’erba si specchiava nell’acqua del lago
vicino, era lì che mi trovavo. Dove persino le montagne
innevate si dipingevano sulla cresta dell’acqua, giocando dei
buffi e limpidi riflessi di luce.
In
piedi sulla costa di quella grande pozza di acqua cristallina, nella
quale vidi specchiarsi la mia immagine riflessa e distorta da alcune
leggere ondine dovute dalla brezza estiva.
Il
cappuccio era abbassato sulle mie spalle, le spalle robuste e marcate
sulle quali gravava il peso della lama corta tenuta nel fodero e cinque
pugnali affilati riposti nei rispettivi astucci. La pezza rossa stretta
al mio ventre sotto la cintura di cuoio risaltava il bianco candido del
resto della mia uniforme. O meglio, avrei dovuto dire della sua uniforme. In
quegli abiti non sembravo più io, perché quello
non era più il mio tempo,
non era più la mia casa,
non era più la mia vita.
Mi
era persino difficile accettare che quello riflesso nel lago fossi io.
Poteva essere frutto della mia immaginazione, poteva essere tutto un
orribile incubo e mi sarei presto svegliato da un momento
all’altro.
Giorgia…
Sospirai
riempiendomi i polmoni di quell’aria pura e sana che
c’era da sognarsela nella mia epoca, e a quel punto mi
guardai attorno sorridendo mestamente. Mi portai una mano sopra la
fronte, a farmi ombra sugli occhi per poter guardare al meglio
attraverso i raggio violenti del sole, il quale picchiava sulla terra
dall’alto del firmamento.
Come
avrei reagito ad un tale tragico cambiamento radicale? Non sarei forse
mai più tornato indietro, e in questa nuova epoca non sapevo
come comportarmi. Ero un totale incosciente, e rimpiansi di non aver
studiato affondo storia alle elementari, dove forse il medioevo era il
periodo antico sul quale ci si soffermava maggiormente nel programma
scolastico.
Come
prima cosa, però, mi chiesi come fossi arrivato in quel
luogo.
Presi
a studiare nei minimi dettagli il circondario, accorgendomi
dell’alta scogliera che circondava tutto il bacino idrico
naturale. Sulla roccia si rampicavano le radici degli alberi di boschi
che crescevano sull’apice del crepaccio. Rampicanti, felci e
arbusti erano la vegetazione che si mescolava alle pietre roventi del
paesaggio.
I
miei comodi stivali sprofondavano su un prato davvero verde, il quale
terminava poco prima della sabbia palustre che gettava nelle acque del
lago. Se aguzzavo la vista, vedevo con chiarezza i pesciolini rossi
sguazzare poco sotto la superficie, balenare di quell’intenso
colore arancio e risaltare assieme ai giocosi riflessi del sole.
Chissà,
forse sarebbe stato piacevole. Era tutto da scoprire, ma avevo il forte
desiderio di tornare da te, Giorgia, per poter vedere il sorriso
immenso affiorare sulle tue labbra cento e passa volte.
Mi
fidavo ciecamente della protezione che ti avrebbe offerto il mio
antenato, ma sapevo bene che l’Abstergo avrebbe presto o
tardi fatto di tutto pur di mettere di nuovo le mani in certe faccende.
E poi, erano ben consci che avreste tentato, voi due, in un modo o
nell’altro, di trovare un modo di portare le cose alla
normalità. E un modo c’era: i farmaci.
Non
avevo idea precisa di che medicinali si trattassero, perché
quelle poche volte che l’Abstergo ne aveva fatto uso su di
me, preferiva addormentarmi prima di una presunta iniezione. E meno
male, sennò sai che dolore…
Non
c’era modo di esprimere a parole il livello della mia
sofferenza, quando sapendoti custodita da un altro uomo, seppur mio
parente, sapevo diventare tanto, tanto geloso. E poi, c’era
quel Nikolas che avevo pregato durante tutta la mia prigionia che non
venisse mai a romperti le scatole, ma ora chi avrebbe badato alle tue
telefonate se a mala pena Altaïr sapeva cosa era un tostapane?
Provai
a non pensare in quale assurda situazione ti avevo appena lasciata.
Ti
immaginai sotto le coperte, al caldo dei nostri corpi consumati dal
nostro amore. Se chiudevo gli occhi, potevo vederti stretta
all’incarnato che presto sarebbe divenuto solo il ridicolo
contenitore dell’anima del mio antenato.
Le
mie labbra si allungarono in mesto sorriso al solo pensiero che presto,
mentre io ero qui e lui lì con te, avrei dovuto presto
affrontare il fatto che un altro paio di mani avrebbero lambito il tuo
corpo, che era appartenuto, giusto pochi minuti prima, a me.
C’erano
questo e tanti altri fattori su cui riflettere, ma non me ne venne dato
il tempo.
Vidi
un cavallo dal manto nero e lucido brucare l’erba
all’ombra della parete rocciosa. Era sellato, le briglie
cadevano accanto agli zoccoli robusti e ben piantati nel terreno. Mi
avvicinai all’animale con passo furtivo, temendo magari di
spaventarlo perché non mi avrebbe (forse) riconosciuto.
Invece,
non appena mi vide, lo stallone corse verso di me e con un trotterello
sostenuto fu subito disponibile, porgendomi maestosamente un suo fianco.
Lo
carezzai sul collo, e solo a quel punto mi accorsi di un dettaglio che
avevo sempre tralasciato, fino ad allora.
La
mia mano poggiata sul suo manto lucido, lo vidi con chiarezza,
assentava di un dito.
Inizialmente
provai rigetto, disgusto a quella vista. Muovevo tutte e quattro le
dita restanti con naturalezza e scioltezza, ma il vuoto tra il mignolo
e il dito medio mi dava una fastidiosa sensazione d’assenza,
come se il dito in questione fosse solo addormentato. Allo stesso
braccio era stretto un guanto dalle placche argentate, bello, regale, e
ben dettagliato di diversi intarsi. Gravava sul mio gomito il
meccanismo della lama che, prima della mia comparsa, mi chiesi quante
vittime avesse mietuto.
Stesi
bene il braccio e strinsi il pugno, sfiorando l’innesco della
lama. Quando udii il ticchettio metallico, il mio cuore perse un colpo.
Il filo tagliente d’acciaio passò esattamente,
come fosse calcolato, nel vuoto tra le mie dita, allungandosi di dieci
centimetri in poche frazioni di secondo.
Il
mio palmo poggiava sull’acciaio lavorato e liscio della
stessa, e avvertii così un brivido di freddo passarmi
attraverso le articolazioni del polso. Pigiai nuovamente
sull’innesco, e la lama si ritrasse nel minor tempo.
Avrei
dovuto farci l’abitudine, mi dissi, perché le cose
sarebbero rimaste in quel modo per parecchio tempo.
Mi
avvicinai al cavallo e infilai un piede nella staffa, afferrando bene
le estremità della sella, pronto ad issarmi su.
Spero
sia come andare in moto…
Quand’era
stata l’ultima che avevo preso lezione di equitazione? Ah,
sì: forse all’asilo.
Saltellai
con una gamba sola un paio di volte e, non appena presi bene lo
slancio, mi tirai sulla groppa dell’animale soffocando un
gemito. Per un attimo, credei di essermi sistemato al contrario, con il
busto rivolto verso il posteriore dell’animale, ma
fortunatamente, non appena questi sollevò la testa portando
all’indietro le orecchie, mi accorsi di essere stato
benvoluto da qualcuno.
Mi
guardai attorno circospetto. Ero certo mancasse qualcosa, ma non sapevo
precisamente dire cosa. Così mi voltai tutt’altra
parte, cercando di osservare anche dietro di me ma, tornando dritto, il
cavallo sgroppò infastidito.
-Buono!-
gemetti chinandomi sulla sella e stringendomi al suo collo, ma nel
gesto di aggrapparmi alla sua criniera, l’animale parve solo
innervosirsi oltremodo.
-Oh,
cazzo! Le redini!- mi ero appena accorto di cosa effettivamente avevo
bisogno per stabilizzarmi, quando –Oh, oh… no,
no… aaaah, non mi piaceee!!! Aaaaaah!!!- scivolai
giù in un batti baleno, andando a cadere con la schiena
nell’erba. Il dolore lancinante mi attanagliò
dalle spalle al fondoschiena. Mi misi a sedere agonizzante, passandomi
le mani sul punto leso e riducendo gli occhi a due fessure.
Bestemmiai
una trentina di volte nell’arco di pochi secondi e, non
appena avvertii il fastidio attenuarsi, tentai di sollevarmi
appoggiandomi alla parete di roccia che, ci mancava poco, non facesse
la sua parte nella caduta. Mi voltai a guardare il cavallo del tuo
antenato che mi scrutava in modo confuso, quasi si stesse interrogando
se fosse davvero un assassino quello che aveva davanti. Sbatteva la
coda a destra e sinistra senza darsi tregua, sbuffando dalle grandi
narici e spostando le orecchie in vari modi.
Non
è affatto come andare in moto! E’ peggio! Molto
peggio che andare in moto!
-Che
ti guardi?!- sbraitai, ma a mo’ riposta il cavallo
abbatté con violenza uno zoccolo al suolo.
Mi
ritrassi all’istante, spaventato di tale reazione.
–Buono, eh?- balbettai.
L’animale
mi si avvicinò con pochi passi, puntando i suoi occhi grandi
e neri nei miei, andando a sfiorare il mio naso col suo muso lungo. Mi
soffiò in faccia, annusandomi subito dopo.
Chissà
se stava chiedendosi se fossi ubriaco. Avrebbe immediatamente fiutato
la puzza d’alcol e sarebbe stato in grado di riportarmi a
Masyaf senza l’uso delle redini.
Dopo
questa piccola analisi, parve solo più confuso.
Indietreggiò, stanziandosi da me fino a potermi guardare in
faccia per bene.
Tentando
un ultimo approccio, alzai una mano avvicinandola alla sua guancia, che
accarezzai con lentezza e tremando come una foglia. Di conseguenza al
mio gesto, il cavallo si risistemò lateralmente porgendomi
di nuovo il suo fianco, incitandomi a ritentare.
Sorrisi
benevolo, posizionandomi con un piede nella staffa e uno a terra. Mi
issai sulla sella con maggior convinzione, strinsi subito le ginocchia
al cuoio lucido e mi chinai poco in avanti afferrando le redini. Una
volta che il nastro di cuoio fu tra le mie dita, me lo avvolsi al polso
per maggior sicurezza.
-Pronto?-
domandai ingoiando il groppo che avevo in gola.
Il
cavallo sbuffò dalle grandi narici e calpestò la
terra sotto i suoi zoccoli.
Lo
intesi come un sì e piantai i talloni nei suoi fianchi.
Seguii
i suoi movimenti mentre dal passo acceleravo fino al trotto, giungendo
poi ad un lento e sostenuto galoppo che ci portarono sino ad un
sentiero scavato tra la roccia del crepaccio. Gesticolare con le redini
non fu un grande problema, perché principalmente il cavallo
sotto di me sapeva bene quale fosse la direzione e sembrava conoscere
ottimamente le varie direzioni da prendere. Il sentiero saliva ripido
la scogliera e giungeva fino ad un altopiano contornato di ulivi.
Giunti
nella radura, tirai le redini al mio petto e fermai così
l’animale, il quale, mentre mi apprestavo a riprendere fiato
e riposare i muscoli delle gambe, si divorò quasi due dita
di erba in cinque metri quadri di prato.
Riprendemmo
il nostro viaggio tuffandoci nel bosco di ulivi, giungendo sino ad una
strada sterrata che portava spianata ai piedi di una collina. Mi
sentivo terribilmente stanco e affaticato, ma fortunatamente mancavano
ancora pochi metri a destinazione.
Di
fatti, la vista lontana e miracolosa della fortezza di Masyaf
all’orizzonte fu una grazia per i miei occhi. Accelerai
l’andatura del cavallo sino ad un galoppo svelto e ritmato, e
così penetrammo nel villaggio contadino risalendo
sveltissimi fino alla cima della collina, dopo aver sbaragliato le
guardie e spaventato la folla che animava quelle strade.
-Uh!
Frena!- ridacchiai divertito strattonando le redini, e il mio cavallo
frenò di colpo sollevando una grossa nube di terra proprio
davanti l’ingresso della fortezza, dove due assassini vestiti
come me furono travolti dalla polvere.
Uno
dei due tossì sonoramente. – Altaïr -
chiamò rigido.
Respirando
affannosamente ma col sorriso sulle labbra, risposi: -Sì?-
il cavallo sotto le mie gambe si agitava forsennato dopo
quell’eccitante corsetta. In quell’istante mi
accorsi della mia voce bestialmente più giovane e differente
da quella che c’era da aspettarsi dal mio antenato,
così mi ricordai che in futuro avrei dovuto fare maggior
attenzione a questo scomodo particolare.
-Il
Maestro vuole vederti- disse l’altro, spolverandosi la veste
con un ghigno indignato sul volto.
Il
primo tra i due si sistemò meglio il cappuccio sulla testa.
–Dove siete stato tutto questo tempo? Sono ore che vi stiamo
cercando!- sbottò irritato.
Ma
mai quanto il secondo uomo presente, che, compiendo un passo avanti,
afferrò con violenza le redini strappandomele di mano.
–Abbiamo dovuto rinunciare ad un nostro importante incarico
per venirvi a cercare! Adesso pretendiamo delle spiegazioni! E molti
come noi si stanno affannando in questo!- digrignò.
I
due potevano avere la stessa età del mio antenato o
più vecchi, ma poco importava: non avevano il diritto di
trattare un loro superiore in quel modo, e se non avessi risposto con
la dovuta coerenza a come avrebbe fatto Altaïr, avrei forse
rovinato la reputazione al miglior assassino di tutti i tempi.
Smontai
da cavallo e con un balzo mi avventai sul ragazzo, cingendogli la gola
con una mano, sbattendolo alla parete dell’ingresso e
minacciandolo con un pugno chiuso all’altezza dei suoi occhi.
–Credi che me ne importi qualcosa?! Ho avuto da
fare…- sibilai pungente.
L’altro
ragazzo mosse un passo addietro, nascondendosi nella penombra della
galleria.
-Non
osare…- mormorò lo sfacciato che stava rischiando
di brutto faccia a faccia col sottoscritto. –Non osare
commettere lo stesso errore di una volta, Altaïr! Non ti
è permesso fare di testa tua, ora!- ridacchiò
cinicamente.
-Al
Mualim è morto…- borbottai assorto, ma allo
stesso tempo sorpreso che certa gente si permettesse di parlarmi
così. –Credo di aver riacquistato tutto il mio
rango, ora!- irrobustii la presa sul suo collo, ma il tizio
proseguì.
-Ti
sbagli!- serrò i denti, cercando di divincolarsi
stringendomi il polso. –Ti sbagli di grosso! Qui dentro sei
ancora nostro nemico!- con la mano libera lo vidi indicarsi il cuore.
–Qui dentro…- ripeté.
-
Altaïr!- mi canzonò l’altro,
più adulto forse. –Smettila di fare il bambino e
va’ dal Maestro, avanti…-.
Ritrasse
il braccio di colpo, lasciando esterrefatto il ragazzo che aveva
rischiato di scaturire la furia di Desmond! Liberai il suo collo dalle
mie dita sbattendolo con violenza un’ultima volta contro la
parete, per poi allontanarmi di due passi verso il più
vecchio tra noi tre.
-Fatemi
una cortesia- dissi spensierato mentre mi avviavo.
Il
giovane si passò una mano sul collo, massaggiandosi i segni
rossi che avevo lasciato su di esso. –Scordatelo, ma sono
comunque curioso di sapere di cosa si tratta…-
blaterò arrogante.
Quello
più anziano si limitò a fissarmi risalire verso
la fortezza.
Mi
voltai di tre quarti fulminandolo con un’occhiata divertita.
–Uno di voi due può riportarmi il cavallo nella
stalla? Credo di essermi dimenticato dove si trovi…-.
Li
lasciai entrambi sospesi su queste mie ultime parole, sparendo poi
avvolto dalla penombra dell’ingresso della roccaforte.
Camminai
tutta la sala, risalendo le scale fino allo studiolo contornato dagli
scaffali e abbellito da quell’immensa e luminosa vetrata, che
lasciava traspirare i raggi del sole, il quale diramava con colori
allegri e sprizzanti sulle varie pergamene distese sulla scrivania.
Dietro
di questa c’era un piccolo sgabello sul quale non sedeva
però nessuno, quando invece mi ero aspettato di trovarvi il
Maestro, chiunque esso sia.
Mi
guardai attorno circospetto, sorprendendomi piuttosto dubbioso su chi
fosse salito alla carica successivamente ad Al Mualim, ammazzato dal
mio antenato che mi chiesi oltremodo cosa stesse facendo, alla mia
Giorgia, proprio in quel momento.
Mi
avvicinai con passi contati alle pergamene e le adocchiai curioso.
Erano mappe, mappe ben dettagliate del circondario della stessa Masyaf.
Mi allontanai dal tavolo sporgendomi a guardare fuori dalla vetrata,
adocchiando un po’ in giro e contando gli arcieri sulle mura.
Attesi forse una dozzina di minuti prima che accadesse qualcosa di
interessante, trascorrendo quel tempo ad osservare il cielo azzurro
infinito e le colombe spostarsi da un tetto all’altro.
-
Altaïr - mi voltai di scatto, ma prima che potessi rendermi
conto da dove provenisse quel suono, la stessa voce melodiosa e calda
aggiunse: -Come mai sei qui? Ti stiamo cercando dappertutto da
ore…-.
Mi
si avvicinò una donna, che in grembo aveva alcuni antichi
testi arabi. Vestiva di una lunga casacca scura sopra una veste bianca,
come la mia, che le arrivava sino alle caviglie. Una fascia rossa le
cingeva i fianchi, e portava i capelli neri, puliti in una treccia ben
acconciata. Sul volto giovane e tipicamente medio-orientale, spiccavano
due occhi del verde più intenso che avessi mai visto.
-Malik
corre come un forsennato a destra e sinistra e tu te ne stai beato a
guardare fuori dalla finestra?- ridacchiò la donna andando a
posare i volumi pesanti sulla scrivania, ignorando del tutto le
pergamene su di essa riposte.
La
guardai meravigliato per alcuni istanti, sorprendendomi
dell’incredibile familiarità e incanto che provavo
solamente ammirandola da lontano.
-E
non pensi a noi?- domandò ella abbassando il tono,
sussurrando queste poche parole nel mentre si avvicinava a me, per poi
cingermi il collo con le sue braccia.
Ingoiai
a fatica. –Noi… io e te?- domandai interdetto.
-Veramente…-
mormorò la donna avvicinandosi a me e poggiando le sue
labbra carnose sul mio collo. –Siamo in tre…-
ridacchiò allegramente.
-Adha…-
dissi flebile, con gli occhi già spalancati dallo stupore.
La
donna poggiò le sue mani calde sul mio petto,
all’altezza del cuore. –Sono felice di sapere che
ricordi il mio nome!- gioì spensierata. –Avanti,
rispondimi: dove sei stato tutto questo tempo? Quando sei scomparso,
l’altra notte, non ho fatto altro che cercarti.
D’altro canto, credo di non aver mai visto Malik
così arrabbiato!- un sorriso sereno comparve sulla sua
bocca, mentre il mio sguardo si faceva sempre più
contraddittorio ai suoi atteggiamenti nei miei confronti.
Ecco la tua donna,
Altaïr! Pensai. Stretta a me mentre tu sei
chissà dove a fotterti la mia! Eppure, ne ero
certo. Il mio antenato non era tipo da prendersele tutte alla prima
occasione. Mi aveva giurato che si sarebbe preso cura di te,
Giògiò, senza però toccarti con un
dito… pensare che quell’assassino avrebbe davvero
potuto infrangere un tale giuramento di sangue, mi tornava stonato.
Sapevo di poter contare su di lui meglio di chiunque altro, per
tanto… potevo stare tranquillo che tra Giorgia e il mio
trisavolo non sarebbe mai successo nulla di quello che, invece, stava
accadendo a me.
Adha
mi baciò, sigillando la mia esitazione sul suo corpo
così come lei, capii all’istante, desiderava
ancora il mio… cioè il suo…
cioè quello di Altaïr! Insomma non me! Ecco.
Mi
sentii oltraggiato, violato, ma allo stesso tempo fiero di conoscere la
mia tris, tris, tris nonna! Ma il solo pensarci mi fece trasalire,
portandomi ad allontanarmi da lei di colpo.
-Scusa-
dissi, cercando di placare il suo animo senza però gravare
sulla nostra, cioè la loro relazione…
Mi
avvicinai nuovamente alle vetrate, tornando a guardare fuori di esse.
Mi portai una mano al viso massaggiandomi la radice del naso.
–Puoi lasciarmi… solo un momento?- domandai con un
filo di voce, e questa volta somigliai davvero al mio antenato! Le mie
corde vocali facevano un buon lavoro quando volevano, però
senza il minimo sforzo.
-Che
cos’hai?- temevo quella richiesta, ed Adha venne subito al
mio fianco, carezzandomi la schiena dolcemente.
–Perché non vuoi dirmi cosa ti è
successo?- mormorò attirandomi nuovamente verso di
sé.
-Piuttosto…-
esultai. –Dimmi tu cos’è successo!-
sbraitai.
Adha
mi osservò interrogativa. –Non te lo ricordi
più?- rise.
-Cosa?-.
Si
avvicinò ulteriormente, facendo combaciare nuovamente i
nostri corpi e afferrando le mie mani e accompagnandole sino al suo
ventre, dove percepii una fonte di calore più presente del
resto. –Non ti ricordi più quando sei entrato
nella mia stanza, l’altra notte, e mi hai spogliata nel
sonno…- sibilò al mio orecchio. - E’
stata quell’unica notte in cui l’abbiamo fatto
davvero, in cui ho sentito il tuo seme di vita posarsi nel mio- la sua
voce calda mi stuzzicava la pelle.
Mi
schiarii la voce. –Ah, davvero…- sghignazzai.
Lei
annuì. –E’ stata la stessa notte in cui
sei scomparso, circa una settimana fa, per poi tornare
all’improvviso e scomparire di nuovo! Dimmi cosa ti sta
succedendo-.
Allontanai
le mie mani da lei per poterle nascondere dietro la schiena.
–Tutto ciò è…- bisbigliai.
-E’
cosa?- gli occhi della donna che avevo davanti si inumidirono.
I
miei, invece, si levarono verso il cielo. –Bellissimo- dissi
affranto, curvando di poco le spalle e perdendo la compostezza di
sempre. –Sono felice, davvero- aggiunsi tornando a guardarla,
e Adha si riempì di lacrime assecondando il mio sguardo.
-Oh,
Altaïr!- esultò slanciandosi in avanti e
abbracciandomi con foga. –Ti amo, ti amo tanto…-.
Le
carezzai la nuca, cingendole la schiena con l’altro braccio.
–Anch’io…- singhiozzai.
–Anch’io ti amo tanto…- piansi, versando
una sola lacrima sulla mia guancia, la quale ricadde sulla spalla della
donna che era stretta al mio petto.
Anch’io
ti amo tanto…
Ti
amo tanto…
…Giorgia.
Fissavo
il soffitto di legno, contando e ricontando le stesse tegole che lo
componevano più e più volte. La stanza ampia
nella quale mi trovavo era la sua, ed io ero sdraiato nel suo letto,
mentre il buio mi faceva preda di immagini che mi correvano davanti
agli occhi. Erano le immagini delle ultime ore.
Che
cosa mi ero dovuto sorbire… era stata una tortura demoniaca,
ma certo il mio fisico non ne risentiva quanto il mio animo. Ero
prigioniero nel tempo del mio antenato e ora sdraiato (nudo) sotto le
coperte del letto della sua amata. La notte e il suo silenzio mi
tartassavano di pensieri sconnessi, volti che si sovrapponevano come
quello di Adha e il tuo, Giorgia. Stavo cominciando a confondere la mia
alla vita del suddetto trisavolo. Stavo cominciando ad odiarmi per aver
acconsentito tutto questo, per non essermene restato nei loro maledetti
laboratori invece di desiderarti ancora e sperare che col tempo si
sarebbe aggiustata ogni cosa.
Il
lenzuolo mi arrivava sino ai fianchi, lasciando che la brezza notturna
lambisse la pelle scura del mio petto nudo, sul quale era poggiata una
sua gracile mano.
Adha
era sdraiata al mio fianco, infagottata sotto le coperte e stretta a
me, intrecciando una sua gamba alla mia, mentre alcuni dei suoi lunghi
capelli mi stuzzicavano il collo. Un mio braccio le cingeva il fianco,
mentre le mie dita restavano immobili adagiate sulla sua pelle.
Quella
notte, come era successo poco tempo prima e aveva avuto il coraggio di
fare il mio antenato, ci eravamo amati. Chissà se si era
accorta della mia mancata partecipazione, della mia mancata passione
nel mentre la mia essenza si univa alla sua, per me totalmente estranea.
D’un
tratto, avvertii un suo flebile movimento, e da lì capii che
era ancora sveglia.
Però
ne desideravo la conferma: -Sei sveglia?-.
-Hmm…-
mugolò lei, sistemandosi meglio addossata al mio corpo.
-Bene…-
sospirai. –Perché volevo chiederti una cosa-.
Adha
aprì prima un occhio soltanto, sollevando un angolo della
bocca. –Dimmi tutto, amore…- mormorò
richiudendo le palpebre, e il suo fiato caldo s’infranse
sulla mia pelle già di per sé bollente.
Mi
presi alcuni istanti di silenzio. –Noti nulla di diverso?-.
-In
che senso?…- sbadigliò.
-Di
diverso in…- presi un gran respiro. –In me- dissi
in fine.
Adha,
assorta nel dormiveglia, rispose: -No, perché me lo chiedi?-.
-Così…-
assentii, spostando la mia attenzione fuori dalle finestre, dove il
cielo stellato luccicava dei suoi mille piccoli soli.
Fu
un istante, e accadde tutto nel giro di pochi secondi:
Avvertii
un brivido lungo la spina dorsale, e poi persi coscienza del calore che
veniva dal corpo di Adha. Il buio della stanza divenne improvvisamente
il bagliore accecante cui ero abituato sorbirmi improvvisamente, mentre
i miei occhi si chiudevano e il mio cuore accelerava i battiti.
D’un
tratto, rinvenni in me, dopo una lunga galleria fatta di tante lampade
al neon puntante contro la mia faccia, e lo stesso calore che avevo
provato steso affianco ad Adha, ora lo provai sopra di me, precisamente
a poca distanza dal mio viso e dalla parte frontale del mio corpo.
Dal
nulla, avvertii la morbidezza di un paio di labbra scontrarsi con le
mie, assieme alla pelle calda e liscia sotto i polpastrelli.
Non
potei fare nulla per diversi secondi, completamente sottomesso a quello
che, capii bene, si trattava di un improvviso nuovo scambio di
coscienza. Presi coscienza lentamente di cosa mi stesse succedendo, e
di chi fossero quelle labbra che stavano diventando prigioniere delle
mie, più affiatate.
La
foschia e la nebbia si dissolsero non appena i miei occhi si
spalancarono per mia volontà, esattamente quando
l’anima del mio antenato ebbe abbandonato del tutto il mio
corpo, permettendomi di entrare senza esitazione al controllo delle mie
carni.
La
vidi: Giorgia si sollevò di poco da me giusto la distanza
necessaria per sfilarsi la maglietta, restando con indosso il suo
reggiseno bianco, pulito che risaltava i suoi piccoli seni sodi.
I
nostri sguardi s’intrecciarono, l’uno travolto
dall’altro.
Non
potendo credere a ciò che stavo effettivamente guardando,
mormorai il suo nome: -…Giorgia-.
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Capitolo 19 *** Dubbi di un'amara verità ***
Dubbi di
un’amara verità
Non
poteva essere successo per caso.
Doveva
esserci stato un innesco, qualcosa che aveva provocato ogni cosa. Come
succede con l’interruttore della luce. Non potevo
semplicemente credere al fatto che fosse un “caso”
che tu fossi nuovamente davanti a me, o meglio dire… sotto
di me.
Le
mie ginocchia ti cingevano i fianchi, e dopo tanto tempo avvertivo
finalmente il tuo
calore a contatto con la mia pelle, traversata dalle tue dita che
stavano immobili sulla mia schiena nuda, quasi all’altezza
dell’allacciatura del reggiseno.
Il
bello era pensare che non eri stato tu a spostarle in quel punto; il
bello era pensare che qualcun
altro le aveva spinte fin lì; il bello era
pensare che presto ti saresti reso conto di cosa era successo davvero
durante la tua assenza, e perché ci trovavamo in quella
situazione l’uno colto in fragrante dall’altra.
I
tuoi occhi carichi di sospetto e incredulità, in questo
momento così simili ai miei che non si staccavano dal tuo
viso per neppure una frazione di secondo. Potevano essere trascorsi
ormai alcuni minuti mentre ci guardavamo entrambi spaventati ma felici.
O quanto meno, io ero felice di riaverti da questa parte della linea
del tempo, ma tu? Poteva essere quella che avevo davanti
un’espressione di gioia quando invece si stava lentamente
trasformando in… in… Non c’erano
comunque parole per descrivere quanto mi sentissi imbarazzata, umiliata
in quel momento. Cominciai a darmi della stupida, e
m’immedesimai alla perfezione in un bambino di seconda
elementare sorpreso a rubare la merenda al suo compagno di classe.
Colta
con le mani nel sacco, riportata violentemente agli aspetti crudi della
realtà, quando invece avevo desiderato per un solo istante
di poter vivere in un sogno, trovando magari nel sesso un po’
di consolazione.
Mi
ero sbagliata. Ma mi ero sbagliata di grosso! Eri tornato, mi avevi
vista, immaginata stretta tra le braccia di un altro ed eri giunto da
me per reclamare la tua vendetta. Era stato forse un presagio, un
sensazione fastidiosa alla base dello stomaco ad avvertirti che
qualcosa stava andando storto di’qua, e di fatti, eccoti!
Vidi
le tue labbra contorcersi in una smorfia per nulla rassicurante, e la
tua fronte si corrugò dallo stupore. -Giò-
dicesti tremante, come stessi frenando un pianto che avrebbe
drammatizzato ulteriormente la situazione; e questo, tu lo sapevi, non
avrebbe giovato a nessuno dei due peggiorando i fatti.
-Desmy-
ti chiamai col tuo nomignolo, alzando una mano dal tuo petto e
carezzandoti una guancia, ma io, a differenza di te, non riuscii a
trattenere quell’unica lacrima di autocommiserazione che mi
traversò svelta il viso.
Mi
abbracciasti, interrompendo il contorto filo di pensieri di entrambi. E
nel mentre una tua mano risaliva svelta alla mia nuca, carezzandomi i
capelli, mi avvinghiai a te nascondendo il naso nell’incavo
del tuo collo, cominciando a singhiozzare in quel modo buffo che sapevo
fare solo io.
Dopo
poco, troppo poco che fummo restati in quella posa, ti allontanasti da
me per guardarti attorno, sollevandoti sulle ginocchia e voltandoti da
parte a parte analizzando il luogo nel quale ti trovavi.
-Dome
siamo?- domandasti in un sussurro smontando dal letto e porgendomi una
mano.
Io,
arrossendo miseramente, accettai la presa salda e calda delle tue dita
lasciandomi aiutare. Una volta in piedi, mi rimisi subito la maglietta,
sotto il tuo sguardo neutro e vuoto che mi metteva ancor più
in soggezione.
-Altaïr
ed io…- inghiottii il groppo che avevo in gola, e lentamente
abbassasti lo sguardo sul pavimento. –Siamo riusciti a
rintracciare Lucy Stilman per puro caso. L’abbiamo incontrata
per la strada mentre scappavamo braccati da quelli
dell’Abstergo. Desmond- ti chiamai disperata, e finalmente ti
degnasti di guardare me piuttosto che la moquette o le tue scarpe.
-Che
c’è?- sibilasti distratto.
-Desmond,
l’Abstergo rivuole il tuo corpo! Vogliono ricominciare da
dove hanno interrotto, gli servi ancora in laboratorio, ed è
solamente questo il motivo per il quale ci danno la caccia- dissi seria
e follemente triste.
Annuisti
poco convinto, avvicinandoti alla terrazza e scansando le tende,
così da avere una visuale completa su tutto il quartiere.
–Qui non verranno a disturbarci- dicesti, e sul mio volto
comparve un che d’interrogativo.
Ti
voltasti con un sorriso beffardo sulle labbra.
–C’è una stazione della polizia,
all’angolo della strada, e al minimo sospetto da parte della
gente locale l’Abstergo ritira i suoi cagnacci!- ridacchiasti
isterico allontanandoti dalle finestre e andando verso la porta della
stanza.
Feci
un saltello nella tua direzione, prendendoti un polso e fermandoti
prima che la tua mano potesse solo sfiorare la maniglia della porto.
–Aspetta- sussurrai.
Ti
girasti lentamente, quasi incerto se darmi ascolto oppure no.
-Lucy
sta dormendo, meglio non disturbarla adesso- dissi esitante.
Aggrottasti
la fronte. -Giò, renditi conto che domani mattina potrei non
essere qui! Devo parlarle, e subito-.
Irrigidii
la presa senza permetterti di muoverti di un solo centimetro.
–Parlarle riguardo a cosa?- i miei erano dubbi infondati,
domande che non necessitavano mica di una risposta scandalosa, ma
immaginai ci fosse dell’altro che mi stavi tenendo nascosto.
-Desmond-
ti chiamai, di nuovo, così da riscontrare una maggiore
partecipazione da parte tua.
Ti
divincolasti dolcemente dalle mie dita, ed io non opposi ulteriore
resistenza. Ti avvicinasti a me e poggiasti le tue mani sulle mie
spalle, mentre il tuo sguardo vagava basso e assorto in
chissà quali pensieri.
-Desmond…-
mormorai. –Desmy, dimmi che sta succedendo… dimmi
se c’è qualcosa che non so, ti prego…
dimmelo- mi avvicinai a te affondando tra le tue braccia, accogliendo
tutto il calore possibile del tuo petto.
Poggiasti
una tua guancia contro i miei capelli, ed io avvertii il tuo respiro
bollente infrangersi sulla pelle sensibile del mio orecchio.
–A tutti capita di sbagliare, piccola… e ora forse
capisco a pieno come ti senti-.
-Perché
mi dici questo?-.
Ti
sentii ridere, ma ciò mi inquietò oltremodo.
-Basta-
dicesti ad un tratto, scostandoti da me e tornando verso la porta.
Questa volta non ti impedii di aprirla e di incamminarti nel corridoio,
sparendo tra le ombre dei mobili e dileguandoti nel buio.
Piuttosto
preferii seguirti sino nel salotto, e poi fino in cucina, dove ti
sorpresi con un bicchiere di vetro già in mano mentre ti
avvicinavi al lavandino. Riempisti il bicchiere d’acqua e ti
osservai in silenzio, mezza avvolta dall’ombra del salone,
mentre lo buttavi giù tutto d’un fiato.
-Che
cosa dirai a Lucy?- domandai flebile restando immobile
sull’ingresso della cucina.
Poggiasti
il bicchiere nel lavandino e restasti alcuni secondi a pensare.
–La verità, ovvero che sono tornato ma non so per
quanto tempo- sbottasti serio incamminandoti.
Non
appena mi fosti accanto, ti fermai poggiandoti una mano sul petto.
–Cosa è successo?- chiesi composta.
Mi
fulminasti con un’occhiataccia. -… quando?-.
-Quando
eri nel passato. Hai ammazzato qualcun altro? È successo
qualcosa, te lo leggo negli occhi- dissi.
-Altrettanto…-
sibilasti e al suono di quell’unica parola tutte le mie
difese, anche quelle più potenti, crollarono come un muro di
mattoni preso a cannonate dai nazisti.
Sapevi.
Sapevi ogni cosa. Avevi capito ogni cosa e, nonostante facessi lo
sforzo di far sembrare le cose come nulla fosse, tu sapevi. Eri conscio
che in un modo o nell’altro, se non fosti intervenuto, sarei
andata a letto col tuo antenato.
Ma
anche io sapevo. Sapevo che era successo qualcosa che aveva cambiato
radicalmente il tuo modo di pensare e agire nei miei confronti. Poteva
essere un nervosismo passeggero dovuto ai fatti che effettivamente non
erano accaduti ma sarebbero potuti accadere. Oppure poteva trattarsi di
una forma di rigetto verso qualcosa o qualcuno che ti aveva
particolarmente infastidito nel passato del tuo antenato.
Ti
guardai allontanarti nel corridoio e bussare alla presunta porta della
stanza di Lucy, che dopo una manciata di secondi comparve
sull’uscio in vestaglia da notte.
Mi
tenni in disparte, sparendo per metà avvolta dalle ombre
delle pareti.
Lucy
mosse un passo avanti, chiudendosi la porta alle spalle ed entrando
completamente nel corridoio. -Altaïr, cosa…-
mormorò la donna guardando prima te e spostando
successivamente gli occhi chiari nei miei.
-Davvero
la differenza non si nota così tanto?- ridacchiasti, ma Lucy ci
impiegò diversi istanti ad accorgersi
dell’improvviso e inaspettato cambio di voce.
Stilman
si portò una mano aperta sul petto, aprendo bocca incredula.
–Desmond!- esultò battendo le palpebre
più volte.
Annuisti
compiaciuto, voltandoti di tre quarti ad osservarmi.
-Come…-
balbettò lei. –Com’è
possibile?- domandò sbigottita.
Mi
strinsi subito nelle spalle, non riuscendo a dare una risposta a quella
richiesta.
-Sono
venuto a chiedere una spiegazione a te, se puoi fornircela- dicesti
seriamente.
Lucy
ci pensò due secondi. –Bhé…-
cominciò incrociando le braccia. –Una spiegazione
c’è, ma non vorrei essere indiscreta- dicendo
ciò, il suo sguardo cadde subito nel mio, ed io mossi alcuni
passi addietro.
-Lucy-
Desmond la fulminasti con una di quelle occhiatacce che avrebbero messo
a tacere persino un cane da guardia.
La
ragazza fece un cenno di dissenso con la mano. –No, dimentica
ciò che ho detto. Piuttosto, siccome la frequenza di scambi
tra te e Altaïr sta ancora subendo mutazioni, è
probabile che questo possa essere un transito meno esposto-.
-Eh?!-
t’irrigidisti.
Lucy
sbuffò. –Immaginate una retta infinita fatta di
tacche numerate-.
Feci
cenno di aver capito, e tu altrettanto.
-Bene-
riprese lei. –Ora pensate di dover sistemare un segnalino
rosso ogni due tacche, ma di dover aggiungere un rapporto moltiplicato
a ciascun quoziente. I segnalini rossi sono la frequenza con la quale
tu e l’assassino vi scambiate di coscienza. E questi scambi
vanno a diradarsi sempre più man a mano che si va avanti nel
tempo! I sintomi del trattamento all’inizio si manifestano
ogni due minuti, ma già una settimana più tardi
questi compaiono una volta ogni tredici, quattordici ore!-.
-Ci
stai dicendo- intervenne Desmond voltandosi a guardarmi. –Ci
stai dicendo che il prossimo scambio avverrà abbastanza
lontano da potermi permettere di passare tredici o quattordici qui? Ma
è assurdo, non capisco…-.
-Lo
so, è difficile come concetto, ma non a caso è
richiesta una laurea specifica per fare il mio lavoro!- alzò
gli occhi al cielo.
-Spiegati
meglio, per favore- mi aggiunsi. –Voglio capire cosa sta
succedendo, oggi una volta per tutte- annunciai schietta.
Lucy
riprese la sua spiegazione: -Desmond, forse a te rimangono pochi minuti
in quest’epoca o forse delle ore, questo dato è
imprecisato, ma quello che possiamo calcolare è quando
avverrà esattamente il prossimo scambio-.
-Come?-
sbottasti serio.
-Rapportando
la frequenza di scambi al numero di giorni trascorsi senza medicinali.
Ma vi avverto-.
Ci
facemmo entrambi più attenti.
La
donna sospirò. –E’ probabile che
Desmond, un giorno, possa effettuare un ultimo scambio
perché il rapporto sarà cresciuto a tal punto da
non permetterne un successivo, poiché…-.
-Va
bene, va bene!- ti passasti una mano in volto. –Ho capito. Ci
sarà un ultimo scambio perché quello successivo
avverrebbe mentre sono nella tomba, giusto?- inarcasti uno sopracciglio.
-Esattamente-
annuì Lucy.
-Adesso
ho capito anch’io- dissi avanzando, affiancandomi a te che mi
stringesti per un fianco.
Mi
guardasti allungo con un’espressione indecifrabile, e nel
frattempo Lucy pareva assorta in alcuni pensieri.
-Riesci
a fare questo calcolo, Lucy?- domandasti tornando ad osservare lei.
La
donna alzò gli occhi da terra. –Sì, ma
dovrete darmi con esattezza le date e le ore di tutti gli scambi
avvenuti fino adesso- mormorò grave.
-Merda!-
sbraitasti stringendo i denti.
Già
nel panico, presi subito posizione. –Ma non sappiamo con
precisione quando…-.
-Va
bene- intervenne lei. –Forse posso risalire ad alcune date
entrando in rete, successivamente nei registri dell’Abstergo
e trovando i file dove sono registrati gli scambi avvenuti in
laboratorio. Possiamo partire da lì e fare un rapporto delle
intere settimane, ma non so se… no, non funzionerebbe-.
-Perché?!-
digrignasti.
-Desmond,
per favore…- ti passai una mano sul petto, tentando invano
di tranquillizzarti.
-Calma,
non rendiamo le cose più complicate. Adesso lasciatemi
lavorare; per domani mattina, se tutto va bene, avremo la data e
l’ora che stiamo cercando. Buona notte- annuì la
donna aprendo la porta e sparendo nella sua stanza.
Io e
te restammo immobili alcuni minuti, il tempo necessario per accogliere
il silenzio di ciascuno nel cuore dell’altro.
-Una
volta che avremo il giorno e l’ora in cui avverrà
il prossimo scambio cosa faremo?- domandai sollevando il mento e
guardandoti dal basso.
La
tua mano stretta su di me cominciò a percorrere la linea del
mio fianco, risalendo svelta fino alla spalla. Sospirasti.
–Non lo so…- queste tue parole furono un sussurro.
Ridacchiai,
e ciò attirò la tua attenzione su di me.
-Che
c’è?-.
-Oh,
io so bene cosa sarebbe ottimale fare o non fare quel
giorno…- mormorai.
Sulle
tue labbra comparve un amaro sorriso. –Andiamo…-
dicesti flebile accompagnandomi sino nella mia camera.
-E
ora?- domandai scansandomi da te di alcuni passi, andando verso le
specchio a due piedi sistemato in un angolo della stanza. -Che
facciamo?- chiesi ammirando la mia figura riflettersi sulla superficie,
cogliendo ora più che mai ogni particolare orrendo del mio
corpo.
D’un
tratto, senza neppure che me ne accorgessi, la tua immagine si
addossò alla mia e percepii il calore del tuo corpo
scontrarsi al mio, mentre le tue braccia mi cingevano in un forte
abbraccio, lasciandomi sprofondare di schiena contro il tuo petto
bollente.
-Io
un’idea ce l’avrei…- mi sibilasti
all’orecchio, con un certo che di malizia nella voce e un
tono accattivante e sensuale che quasi non ti apparteneva.
Poggiai
una mano sulla tua guancia, accarezzando il pizzicorio della barba e
sfiorando con due dita la tua cicatrice. Il mio respiro si fece
spezzato, interrotto nel cogliere l’irrimediabile piacere che
mi procurarono le tue labbra sul mio collo, mentre mi stampavi una scia
piccoli e ardenti bacetti che mi assopivano come una droga.
-Desmond,
ti prego, sono stanca…- mormorai con un filo di voce.
Al
suono di quelle parole mi afferrai per i gomiti facendomi voltare
subito verso di te, con uno scatto che mi risvegliò del
tutto dalla sensazione di annebbiamento che provavo.
-Stanca?-
sorridesti maligno. –Rinunceresti a me perché ti
senti… stanca?- domandasti come se la risposta fosse ovvio
e, nel gesto di abbracciarmi di nuovo, avvertii una tua mano scivolare
dalla mia nuca lungo la mia schiena, fino al bordo della maglietta,
sotto la quale infilasti le dita senza farti troppi problemi.
Rabbrividii
non appena riuscisti a denudarmi di quell’indumento,
lasciando alla mercé del tuo avido sguardo la mia pelle
chiara dei seni compatti nel reggiseno.
Istintivamente
chiusi gli occhi, ma le mie guance, per la prima volta dopo tutte
quelle passate, si colorarono di una tonalità più
rosea sino ad assumere il tipico colorito della dolce verginella
imbarazzata.
-Oddio,
mi fai impazzire quando arrossisci mentre stiamo per farlo!- gioisti
avvicinandomi con violenza contro di te, strattonandomi con
quell’impazienza che davvero non mi aspettavo.
Per
il contraccolpo cadesti sul letto trascinandomi con te, ed in breve ci
ritrovammo nella posa che sapevo più ti infastidiva, ovvero
io sopra e tu sotto.
Improvvisamente
sentii le tue dita stringersi attorno ai miei fianchi nudi, e con una
sola spinta capovolgesti i nostri corpi sovrastandomi di brutto. Prima
che potessi proferire una sola parola, la tua bocca si
avventò sulla mia con quella passione e quel trasporto che
mi lasciarono paralizzata dalla sorpresa. Entrambe le tue mani mi
tennero strette le braccia sopra la testa, e lentamente chiusi gli
occhi nell’oblio nei sensi, gustandomi a pieno il sapore
delle tue labbra sulle mie.
Allacciai
le mie gambe attorno ai tuoi fianchi, sollevando di poco il bacino
così da facilitarti nel gesto di sfilarmi i pantaloni. Di
tutta risposta, trovai il semplice ed essenziale coraggio per privarti
della tua maglietta, domandandomi allo stesso tempo perché
stava succedendo tutto così in fretta.
Forse
non ti eri accorto del fatto che non eravamo in casa nostra, oppure
delle essenziali caratteristiche della situazione, ovvero che prima
della tua comparsa improvvisa avevo rischiato di farmi il tuo
trisavolo. Ciò che più mi lasciò
interdetta, però, fu accorgermi che tutta la rabbia e la
gelosia conscia che avevo letto sul suo volto poco prima, si stavano
condensando nei gesti scattanti e prepotenti che avevi nello spogliarmi.
Stavi
forse tentando di non pensarci? Era quello un tuo modo di compensare la
realtà? Bhé, onestamente non potei far alto che
rallegrarmene, dato che per me andava più che bene! Avremmo
risolto le questioni burocratiche della faccenda a cose fatte. Ora
dovevamo assolutamente pentirci entrambi dei nostri sbagli, coronare
ancora una volta il nostro immenso amore e desiderarci l’un
l’altra come non avevamo mai fatto.
Solo
questo avrebbe potuto cancellare le nostre paure, i nostri timori, ed
io continuavo a ripetermelo mentre le tue carezze diventavano graffi
sulla mia pelle e i tuoi baci si tramutavano in morsi lungo il profilo
del mio mento, sul collo, sulle spalle e, successivamente, sul mio
petto nudo ora alla mercé dei tuoi denti bianchi e perfetti.
Il tuo fiato caldo, affaticato, era come una fiamma ossidrica che
lambiva il tratto di pelle preso di mira e lo corrodeva senza
pietà. I tuoi occhi chiusi che ogni tanto si risvegliavano
balenando di eccitazione nel buio della stanza incrociavano spesso e
volentieri i miei, come a volermi rimproverare di quello che stavamo
facendo, come a chiedermi se mi stessi pentendo di quello che sarebbe
potuto succedere. E il tuo modo violento di penetrarmi, fu solo la
conferma a tutto ciò che avevo fino ad allora solo pensato.
Mi
odiavi.
Odiavi
me e il fatto che avevo trovato vane scuse pur di farmi il tuo
antenato, e con questo eri riuscito nell’intento di farmelo
pesare sulla coscienza.
Per
nessuno dei due fu una volta come le tante. Quella notte era stata
diversa da tutte le precedenti, perché per la prima volta in
assoluto mi avevi dimostrato di saper amare una donna per il semplice
bisogno fisico. Non credevo che un ragazzo come te sarebbe potuto
giungere ad una simile scemenza, o che una come me potesse davvero
escogitare una conclusione simile, ma dovevo pur cogliere da qualche
parte le mie buone ragioni per darmi finalmente della stupida come si
deve, no?
Considerai
allungo quello che era successo una sorta di punizione. Un castigo da
una parte, lo ammetto, molto piacevole, ma dall’altro lato
che stava già dando i suoi frutti: mi sentivo un verme.
Si
era concluso tutto molto velocemente: mi ero trattenuta
l’ultimo gemito di piacere avvertendo le tue membra
allontanarsi dalle mie, e piano piano il tuo corpo si era disteso
affianco al mio senza proferire una sola parola.
Ed
io, invece di cercare ancora, avida, il tuo calore, mi ero stretta
sotto le coperte e rannicchiata sul bordo del letto come un gattino
malmenato.
Potevo
sentire il tuo respiro sfalsato per lo sforzo dietro di me, percependo
un mio fianco poggiato proprio dove il materasso era più
caldo. Sul mio viso si stampò un sorriso mesto e
terribilmente malinconico, e poco ci mancava che scoppiassi a piangere.
Nel
più totale silenzio, non potevamo ancora permetterci il
sonno, almeno fin quando parte dei nostri dubbi non fosse stata
discussa.
Fosti
tu a cominciare, precisamente con le parole: -Non sono uno stupido,
Giorgia-.
M’irrigidii
sotto le coperte, stringendo con più foga le lenzuola
candide tra le dita.
La
tua voce, ora così seria e dal tono grave, mi spaventava.
–Non sono uno stupido, e se pensi che sia il contrario allora
hai tutte le buone ragioni per non dirmi la verità-.
Quale
verità?! D’un tratto temetti di non stare capendo
di cosa stesti parlando, e questo mi portò nel pallone
più totale. Cominciai a tremare impercettibilmente, quasi
stessi singhiozzando ma non volessi darlo a vedere.
-Non
so di cosa parli…- in quel momento era la cosa
più stupida che potessi dire.
-Ah!-
ridesti. –Questa è bella!- percepii il tuo corpo
avvicinarsi al mio fin quando non mi accorsi che eri tornato
completamente addossato a me, spingendomi quasi fuori dal letto. La tua
voce era tanto vicina, il tuo respiro s’infrangeva contro la
pelle sensibile del mio orecchio.
-Abbi
almeno il coraggio di dirmelo in faccia, avanti-.
Soffocai
un singhiozzo, ma dopo pochi e infiniti istanti di silenzio, ti dissi
quello che volevi sentirti dire: -Sì,
sì… va bene- piansi –scusami, ti prego
perdonami!- mi voltai d’un tratto, affondando il viso
nell’incavo del tuo collo, stringendomi a te con le unghie.
–Perdonami, ti prego…-.
Consumai
le mie lacrime sulla tua pelle.
Tutte.
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Capitolo 20 *** Faccia a faccia ***
Faccia
a faccia
***
-Vieni
qui, razza di…-.
Desmond
aprì gli occhi di colpo, trovandosi davanti un rabbioso
Altaïr che lo afferrò per la collottola dei
vestiti, sbattendolo con violenza alla parete invisibile alle sue
spalle. –Idiota, che cosa hai combinato?!- sbraitò
collerico irrobustendo la presa sul giovane.
I
piedi di Desmond, in compenso, non toccavano terra, e poteva giurare di
sentirsi soffocare. –Aspetta… ti prego!- si
lagnò il ragazzo. –Non so di cosa stai
parlando…- aggiunse irrigidendo ogni fibra del suo corpo.
-No,
scordatelo! Non aspetto! E sai benissimo a cosa mi riferisco!- lo
scosse contro il vetro invisibile. –Perché?!
Spiegamelo, avanti! Perché?!-.
-Altaïr,
cazzo! Di cosa stai parlando!?!?- gridò l’altro.
Il
nervoso sul viso dell’assassino si dissolse poco a poco,
mentre l’ombra del cappuccio si allungava sempre
più a coprire il luccicare dei suoi occhi d’oro
nero. –Non ricordo di averti dato il permesso di lasciare in
cinta la mia ragazza- digrignò.
Desmond
restò incredulo a bocca aperta e terribilmente confuso.
–Cosa…-.
-Idiota!-
ribadì l’Antenato. –stupido ragazzino!-
gridò poi scagliandolo a terra con una forza inaudita.
Desmond
scivolò di faccia sul lucido pavimento, fin quando non si
fermò sbattendo la testa contro qualcosa di solido e molto
duro. Non disse nulla, ma gli sfuggì uno spezzato lamento di
dolore.
-Ti
ho solamente detto che non ero mai stato a letto con lei, ma
rivelandoti ciò non ti ho mica chiesto di farmi certi
favori!- ruggì cominciando a camminargli in circolo.
–Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero!
Non riesco a… dannazione, Desmond!- perse letteralmente le
staffe. –Non te l’ha chiesto nessuno, hai preso
l’iniziativa ed io… aaaaah!- gridò
guardando in alto.
-Per
favore, adesso calmati!- balbettò il ragazzo girandosi su un
fianco, schiena a terra. Un dolore straziante gli lambiva il collo e la
schiena per via della botta. –Ascolta, so che può
essere difficile da capire, ma!…-.
-Non
c’è nessun ma, idiota!- Altaïr si
chinò su di lui e lo afferrò di nuovo per la
felpa avvicinandogli il viso al suo. –Se non ti dispiace,
credo di avere il puro diritto di ammazzarti di botte per quello che
hai fatto! Credimi: sarebbe un grosso sbaglio trattenermi proprio
adesso!- rise isterico l’assassino.
-No,
deve esserci un malinteso! Ti prego, ascoltami!- Desmond
alzò un braccio parandosi dietro di esso, mentre la sua mano
era stretta attorno al polso del suo Antenato, nel tentativo di fargli
lasciare la presa sulla sua felpa. –Ti prego!-
ripeté un’ottava più alta. Tenne gli
occhi chiusi e ben stretti, pronto a riceversi la sua fetta di torta!
Altaïr
allentò piano la presa delle dita sulla maglietta del suo
discendente. –Un malinteso, eh?… ma ti prego!- lo
strattonò sollevandolo in piedi e spingendolo
successivamente lontano da sé, come si fa con un vecchio
straccio. –Suvvia, illuminami! Un malinteso, dici! Avanti,
spiega le tue ragioni nella metà del tempo che ci impiego a
spaccarti la faccia, ragazzo!-.
Non
l’aveva mai visto così arrabbiato,
pensò Desmond facendo uno, due passi indietro, traballante
sulle sue stesse gambe. –Grazie…- si
stupì.
-Avanti,
sbrigati!- gli ringhiò contro.
-Va
bene, va bene…- cominciò lui massaggiandosi il
collo. –E’ cominciato tutto quando ci siamo
scambiati, ricordi? Quando mi hai detto che tu e Adha non
l’avevate mai fatto, ricordi?- domandò flebile,
intimorito.
L’assassino
voltò improvvisamente il viso dalla sua parte, fulminandolo
con un’occhiataccia non gelida, ma di più!
–Accorcia, ti rimangono poche ore di vita, stanne
certo…- sibilò l’uomo del passato.
Desmond
ingoiò il groppo che aveva alla gola.
–Sì, ecco, vedi… neppure io ci capisco
più tanto! Quello che sta succedendo è piuttosto
confuso, io…-.
-Qui
non si tratta di te!- fece un salto nella sua direzione, e il ragazzo
indietreggiò di conseguenza. –Ciò che
hai fatto è intollerabile! Un atto del genere nel mio tempo
verrebbe punito con la morte!-.
-Ma
tu sai che io non potevo saperlo! Insomma, tu mi hai detto
che… Ehi! Ma almeno lasciami finire di spiegare! Ci tengo a
dirti qualcosa che forse tu non sai! O meglio… che non
sapevi fino a poco fa…- bofonchiò distratto.
-Desmond!-
lo richiamò.
Il
ragazzo sobbalzò. –Si tratta della tua donna,
diamine! Quando sono tornato da lei nelle tue vesti mi ha detto che
l’avevate già fatto! Che TU eri già
stato con lei prima del nostro scambio! Ho assecondato le sue parole,
credendole, ma non riuscendo comunque a dare una spiegazione logica al
TUO comportamento! Insomma, mi avevi detto che eri vergine, Cristo
Santo!- esplose, e con questo erano in due ad aver perso letteralmente
la calma.
Altaïr
ascoltò in silenzio a capo chino, fissandosi i piedi e
restando immobile, come una statua, e ben eretto.
Desmond
sospirò curvando le spalle. –Ma immagino che
adesso sarai ancora più arrabbiato di prima…-
borbottò.
-Perché
dici questo?- chiese impassibile.
Il
ragazzo sfociò in una buffa smorfia. –Come
perché!? Cazzo, pur sapendo che tua moglie era
già in cinta io ci sono andato a letto lo stesso!-
ridacchiò isterico.
L’espressione
sul viso dell’assassino, se pur celata dall’ombra
del cappuccio, restò invariata per alcuni secondi.
-Io
ti ammazzo…- disse solamente.
-Eh?-
il cuore del ragazzo perse un colpo e, nel giro di pochi istanti,
Desmond sbiancò come un cadavere.
-Hai
sentito bene… io ti ammazzo- ripeté freddo
Altaïr.
-Forse…
eheh…- esitò. –Forse non avrei
dovuto… dirtelo!- affermando ciò, il ragazzo del
futuro girò i tacchi e cominciò una corsa folle
all’insegna dell’infinito di quella sala
d’attesa bianca e azzurrognola.
-Torna
indietro!!!- ruggì l’assassino alle sue spalle,
che con uno scatto dimezzò svelto la distanza che li
separava.
Desmond
vagò a gambe levate tra calcoli, equazioni e radici
quadrate, cercando magari un posto dove nascondersi, oppure un angolo
da svoltare seminando il suo inseguitore, ma si trattava di una distesa
infinita di tempo e spazio, ed entrambi questi due aspetti della
materia si erano interrotti per farli incontrare proprio nel peggiore
dei momenti.
-Dimmi
una cosa prima di morire!- rise l’assassino correndo senza
troppa fatica addietro alla sua preda.
Desmond,
che già ansimava senza fiato, si voltò
più volte accorgendosi che l’incappucciato dietro
di sé stava quasi per raggiungerlo!
–Cioè?-.
-Scegli
l’arma con la quale ti farò a pezzetti!-
sbraitò piegando maggiormente le ginocchia e facendo
più presa sul suolo, così da garantirsi uno
scatto poderoso in avanti.
-AAAAAAAAAAH!-
Desmond implorò le sue gambe di portarlo ad
un’andatura più svelta, che lo tenesse in vita il
tempo necessario perché ogni tassello del puzzle del tempo
tornasse al suo posto. Non gli importava se sarebbe rinvenuto nel 1191
oppure nell’11 settembre del 2001 in uno degli uffici delle
torri gemelle! L’importante era darsela via da lì
e alla svelta perché il suo Antenato era ben determinato a
squartarlo vivo! Manco a dire che stesse scherzando!
Tentò
di concentrarsi, facendo appello ai suoi ultimi sfoghi mentali
purché accadesse qualcosa, qualsiasi cosa che lo
allontanasse da morte certa!
Improvvisamente,
un vago ricordo, un’immagine ben precisa gli
balenò in fronte, come il flash di una macchinetta
fotografica.
Si
fermò di colpo, inchiodando come avesse avuto i freni ai
piedi. Voltandosi azzardò il gesto di sollevare un braccio e
serrare il pungo, affondando poi tutte e quattro le nocche nel centro
perfetto del petto del suo Antenato.
Altaïr
subì il duro colpo preso totalmente alla sprovvista;
indietreggiò con un saltello portandosi entrambe le mani al
punto leso, mentre sul suo viso prendeva forma un’espressione
mista tra dolore e stupore.
-Ah!-
rise Desmond stanziandosi, prendendo le distanze di sicurezza
dall’assassino. –Vogliamo parlare di come te la sei
spassata tu in mia assenza! Avanti! Adesso tocca a te confessarti,
assassino!- lo derise.
L’uomo
del passato restò piegato su se stesso alcuni istanti,
tenendosi un braccio attorno al basso ventre, dove la forza poderosa
del suo nipotino ancora premeva dolorosamente. –Non so di
cosa…-.
-Situazione
familiare, non credi? È triste quando tutti ti si contorce
contro, eh?!- sibilò pungente il ragazzo.
-…
stupido- si sollevò lentamente. –Non so davvero di
cosa tu stia parlando- sbottò serio tornando dritto e
composto.
Desmond
riprese fiato dopo la corsa, avvalendosi di quel tempo per formulare
qualcosa di intelligente da dire. –Dimmi la
verità- tornò rigido. –E’
stata lei a prendere l’iniziativa oppure sei stato tu?!-
digrignò i denti, e sulla fronte gli colò un
fiotto di sudore freddo.
Temeva
che Altaïr, non lasciandosi intimorire dalle sue accuse,
potesse in un modo o nell’altro farlo a pezzi comunque.
-Chi
dei due, avanti!- aggiunse più sicuro.
L’assassino
stette immobile, serioso in volto come non mai. –A che cosa
ti riferisci, esattamente?- domandò.
-Non
fare il finto tonto con me! Ma cosa avete tutti quanti?!-.
-Di
che parli?!-.
-Anche
Giorgia, quando le ho detto di sapere tutto quanto, ha fatto subito la
para culo!-.
-Ah!
Non hai tutti i torti, ragazzo…- rise sotto i baffi.
-Bene,
ma come mai lo pensi anche tu?!-.
-Perché
non trovi una certa familiarità?! Rammenta il modo in cui
stavi strisciando al suolo poco fa, continuando ad urlare:
“Non so di cosa parli, non so di cosa parli!”- gli
fece il verso. –Siamo tutti sulla stessa barca, idiota-
sbottò in fine.
-D’accordo,
lo ammetto! Ma smettila di chiamarmi così!- alzò
gli occhi al cielo.
-Così
come?-.
-Idiota!
Smettila di chiamarmi idiota! O vuoi che trovi un appellativo felice
anche per te?!-.
Altaïr
tacque a quella stupida domanda e decise di rispondere ad una
precedente: -E’ stata lei- disse.
Desmond
sollevò il mento dal petto d’un tratto.
–Come?- chiese conferma.
-Mi
ha baciato, e poco dopo ero sotto le coperte assieme ad
Adha…- mormorò flebile, pensoso.
Il
ragazzo si passò una mano tra i capelli corti.
–Ehi…- lo chiamò, e
l’assassino tornò con lo sguardo nel suo.
–Mi dispiace, va bene?- disse.
-Se
lo sapevi…- sibilò l’uomo del passato.
–Allora perché l’hai fatto? Non hai
pensato che avrei potuto sentirmi così…
così…-.
-Tradito?-
suggerì Desmond.
-No!-.
-Fesso?-.
-No!-.
-Stupido?
Geloso?-.
-No,
niente di tutto questo… ma semplicemente e
immensamente… arrabbiato, e… male, molto male-
sospirò affranto.
-Quindi…-
Desmond gli si avvicinò cauto. –Quindi mi perdoni?
Non sei più… “arrabbiato”?-
domandò mimando il gesto delle virgolette con le dita.
Altaïr,
guardandolo, si lasciò sfuggire un sorriso. –No,
non lo sono…-.
Il
ragazzo tirò un sospiro di sollievo.
-Non
lo sono come lo ero prima! Di più!- ruggì
afferrandolo per la felpa e avvicinandolo a sé
improvvisamente.
-Ehi!
C’era un tacito accordo di pace, ma che diamine…-
si lagnò Desmond.
-Scordatelo,
perché pretendo le tue spiegazioni a riguardo! Su, parla!-
lo minacciò avvicinando il meccanismo della lama nascosta al
suo collo, e il ragazzo ingerì rumorosamente il groppo che
aveva alla gola.
E
ci risiamo… pensò Desmond ricominciando a sudare
freddo.
-Allora?!-
sbottò Altaïr dandogli uno scossone. –Sto
aspettando!- i suoi profondissimi occhi neri lo trafissero senza
pietà, e Desmond già avvertiva il freddo
metallico della lama lacerargli la carne.
-Non
lo so!- eruppe d’un tratto. –E’ stata
lei, che appena ci siamo visti per la prima volta mi si è
gettata al collo! E poi quella stessa sera, dopo l’incontro
con il Maestro… a proposito, bella scelta…-
divagò.
-Va’
al dunque!- lo riprese l’assassino, afferrandolo con entrambe
le mani per la felpa.
-Mi
ha trascinato nella sua stanza, ho tentato di… di
ribellarmi, ma temevo di insorgerle dei dubbi se avessi rifiutato, se
me ne fossi andato! Le donne sono sensibili a certe cose, lo sentono
quando il loro compagno non necessita più di loro! Fidati,
lo so per esperienza!- rise. –Basti pensare a quante volte ci
siamo lasciati e poi abbiamo fatto sesso io e Giorgia lo
stesso giorno! Eheh…-.
-Cosa
ci trovi di divertente?- lo schiaffò a terra di nuovo, e
Desmond atterrò sul gelido e liscio pavimento di schiena.
Una fitta lancinante gli percorse tutta la spina dorsale sino alle
scapole.
Altaïr
lo guardò allungo dall’alto, fin quando non si
decise ad allontanarsi per sbollentare un pochino.
-C’è
una cosa, che non capisco…- blaterò
l’assassino.
Desmond
si mise seduto massaggiandosi il fondo schiena. –Ah, bene;
chissà… sentiamo- si offrì volontario
ad ascoltare.
Il
suo Antenato gli dava le spalle, mirando dritto davanti a sé
e perdendo il suo sguardo nel vuoto della foschia biancastra che gli
galleggiava davanti, dietro e ai lati. –Io…-
cominciò pensoso. –Io non ho ricordi di una notte
passata con lei, ecco- disse.
Desmond
ci pensò su alcuni istanti.
L’assassino
stava per ricominciare il suo discorso.
-Aspetta
un attimo!…- intervenne sollevandosi da terra.
Altaïr
si voltò di tre quarti. –Che
c’è? Hai forse una spiegazione? Perché
io, sinceramente, non ci capisco più nulla…-.
Il
ragazzo gli si affiancò. –Quello che mi stai
dicendo è impossibile. Insomma, pensavo che mi avessi
mentito durante il nostro ultimo scambio, ma invece ti ostini sul fatto
di non averla mai sfiorata con un dito… non ha senso!
Qualcuno dei due sta raccontando balle, perché davvero! Non
ha senso!- sbraitò.
L’assassino
aggrottò la fronte. –Adha… lei ti ha
detto di essere in cinta appena sei andato a Masyaf, giusto?-.
L’altro
annuì.
-Quando
invece io sono sicuro di non…-.
Desmond
annuì di nuovo.
Altaïr
tacque fissando imperscrutabile il suo discendente. –Mi ha
mentito- dichiarò d’un tratto. –Adha,
lei…- cominciò a respirare nervosamente e
Desmond, per evitare ulteriori “complicazioni”, gli
poggiò una mano sulla spalla.
-Ehi,
sta’ tranquillo adesso-.
-Non
posso crederci, lei non lo farebbe mai… perché
raccontarmi che… perché?!- si chiese disperato
l’assassino.
-Altaïr,
guardami!- lo chiamò, e l’uomo si voltò
completamente verso di lui.
Desmond
prese un gran respiro profondo. –Lascia che me ne occupi io.
Ho una certa esperienza di ragazze che mentono ai propri fidanzati,
perciò una volta che sarò lì,
saprò come risolvere la situazione. Ma quello che mi serve
sapere è… cosa vuoi che faccia? Perché
se non sbaglio, sembriamo aver capito tutti e due che qui qualcosa non
quadra…- sorrise mestamente.
L’assassino
annuì distratto. –Sì…
qualcosa non quadra- ripeté.
-Devi
dirmelo, Altaïr. Devi dirmi quello che vuoi io ripeta ad Adha.
Lo farò, parola per parola, te lo prometto-
dichiarò in fine.
-Grazie…-
mormorò.
-Avanti,
comincia-.
-Vedi
di ricordartelo, va bene?- ridacchiò l’uomo del
passato.
Sulle
labbra di Desmond si stampò un allegro sorriso.
-Va
bene- sospirò Altaïr. –Non
c’è nulla in particolare che vorrei dirle, ma
forse la cosa più giusta da fare è capire come e
perché l’ha fatto… perché mi
ha mentito dicendo che in cinta, intendo- disse serio.
-Va
bene, quindi vuoi che indaghi un pochino?-.
-Esattamente…
del resto… ci sarebbe anche l’amara
eventualità che lei possa essere davvero in
cinta…-.
-Già,
ma questo vorrebbe dire che…- Desmond arrestò la
frase con i puntini puntini accorgendosi dell’incredibile
malinconia comparsa sul viso del suo Antenato.
-Eh,
già. Mi sa che stiamo pensando la stessa cosa-
assentì il ragazzo.
-Sono
stato via troppo tempo…- cominciò Altaïr
muovendosi avanti e indietro. –Prima quella missione che ti
sei permesso di accettare per mio conto, e poi lamia fuga improvvisa.
Qualcuno all’interno della fortezza deve aver approfittato
delle sue debolezze e delle mie per attaccare bottone con lei. Qualcuno
deve averla sostenuta, abbracciata e… fatta sentire amata
durante la mia assenza…-.
-Hai
già un idea su chi possa essere?- chiese Desmond alzando un
sopracciglio.
-No.
E scoprirlo è compito tuo- gli puntò
l’indice al petto. –Me lo devi- aggiunse
freddamente.
-S-s-sì!
Stanne certo: non me ne andrò in giro per Masyaf a
ciondolare, contaci!- rise nervoso il ragazzo.
-Bene…-
l’assassino lo fulminò con l’ultima
occhiataccia della giornata. –Ma c’è
un’altra cosa- disse.
-Hmm?-.
-Ora
tocca a me farti le mie scuse- sorrise triste l’assassino
guardandolo dritto negli occhi.
Desmond
incrociò le braccia al petto. -Ah, ma davvero?!- si
beffò. –Non mi dire, e come mai? Anzi, meglio:
“di cosa stai parlando?”- poggiando il peso su una
sola gamba, sollevò il mento altezzosamente.
-Si
tratta di Giorgia. È vero, ribadisco: è stata lei
a baciarmi, ma com’è successo a te…
credo di non essere stato forte abbastanza dal trattenermi. Mi dispiace
Desmond, ma se tu non fossi balzato nel tuo corpo con quel tempismo,
saresti potuto diventare padre molto facilmente!- rise mostrando la
dentatura perfetta.
-Attento
a come parli…- digrignò il ragazzo.
-Siamo
simili, dopotutto- sorrise prendendo il nipote sotto braccio.
-Già,
chissà perché!-.
-Ascolta-
cominciò. –Una volta di là
cercherò di far sì che certi atti non si
ripetano, ma tu, in compenso, dei fare ciò che hai promesso.
Ci stai?-.
-E
me lo chiedi anche? Pf!- si stanziò dal suo Antenato
posizionandoglisi di fronte. –Un gesto usuale che si usa nel
mio tempo vale giusto la candela- disse allegro porgendogli la mano.
Altaïr
acconsentì a stringergliela con vigore, e proprio
nell’istante in cui le loro dita si sfiorarono, una luce
accecante li fece prigionieri del suo barlume intenso e brillante.
Pochi
secondi più tardi, Desmond poté ammirarsi con
indosso le usuali vesti d’alto rango della Confraternita,
mentre l’uomo che aveva davanti portava un jeans alla moda e
una felpa bianca con cappuccio.
-Brrrr!-
fece d’un tratto il ragazzo.
Altaïr
lo guardò spaesato. –Che succede?-.
Desmond
sollevò la mano sinistra e aprì il palmo,
mostrando così il vuoto tra il dito medio ed il mignolo.
–Non mi abituerò mai!- sbottò
sarcastico.
L’assassino
scoppiò in una fragorosa risata, la quale
riecheggiò nell’immenso salone fin quando la sua
figura composta ed eretta non si dissolse avvolta dalla foschia di
cifre e simboli complessi.
***
«Questo
speciale angolino d’autore lo dedico ad un utente in
particolare.
Manu,
o meglio conosciuto come Dark Dream o goku94
sul sito, mi ha fatto notare l’analogia che c’era
nella storia e la mia “svista” alla trama,
perché dovete sapere che si è trattato tutto di
una “svista” alla quale, senza il suo aiuto, non
avrei mai fatto caso. Grazie DD per il tuo sostegno sempre presente
nelle mie piccole follie!»
Il
problema di questo capitolo è stato risolvere la suddetta
“analogia” che vi era nella trama.
Si
tratta infatti, di una mancata attenzione agli ultimi capitoli da parte
mia, nei quali parlo separatamente di un’Adha in cinta,
un’Altair vergine e nessuno scambio per diverse settimane.
Quindi, potete cortesemente spiegarmi come avrei potuto risolvere la
situazione che si era creata in termini differenti da quelli adottati
in questo aggiornamento??? Ovvio che siete senza parole in bocca,
perché non ce ne sono!
E
ancora ringrazio Manu per aver rimediato ad una mia medesima caz***a!
Grascie
fratellon!
Ora i ringraziamenti vanno agli utenti che hanno aggiunto la fic nei
loro preferiti:
comix
goku94
Kasdeya
Lilyna_93
Paccy
renault
Saphira87
Sparrow
Agli utenti che hanno aggiunta la fic nelle storie seguite:
Sux
Fans
cold
ice
goku94
renault
Saphira87
Sparrow
E in fine, agli utenti che hanno recensito con pazienza il capitolo
precedente:
comix
renault
Saphira87
Sparrow
goku94
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