Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Questa è la presentazione del primo capitolo
di Bénédiction sotto riportato, e siccome so che finirò per parlare molto vi do
il permesso di saltarla, nel caso voleste.
Ma la presentazione va fatta. Vorrei darvi
un paio di ragguagli per capire meglio la storia.
Qualcuno ha avuto la malaugurata idea di
regalarmi Les fleurs du
mal per Natale, che ispira in maniera diretta la
suddetta ficcy. Infatti il titolo è spudoratamente copiato da una poesia
contenuta in tale raccolta.
La storia è nata come una one-shot, e come
tutte le mie one-shot finisce per arrivare a 38 pagine e 21 capitoli. Non
capisco dove sbaglio…
Mi scuso dell’inconveniente che è quello di
non poterla leggere tutta di seguito come credo sia giusto: infatti i primi
venti capitoli hanno luogo dalle nove di sera del 21 Luglio a mezzogiorno del
dì seguente. È un flusso continuativo…
A parte questo particolare troverete
parecchie citazioni in lingua –specialmente francese-. Molti di voi conoscono
il greco, io purtroppo no, a parte quelle due parole che imparo studiando
filosofia ^///^. Se trovate errori potete avvertirmi gentilmente.
Parlo davvero tanto…
Detto questo, FINE DELL’INTRODUZIONE (Ta-dan
ta-dan).
Bénédiction.
I.
Pluviôse, irrité contre la ville entière,
De son urne à grands flots verse un froid ténébreux
Aux pâles habitants du voisin cimitière
Et la mortalité sur les faubourgs brumeux
Mon chat sur le carreau cherchant d’une litière
Agite sans repos son corps maigre et galeux ;
L’âme d’un vieux poète erre dans la gouttière
Avec la triste voix d’un fantôme frileux.
Le bourdon se lamente, et la boûche enfumée
Accompagne en fausset la pendule enrhumée,
Cependant qu’en un jeu plein de sales parfums,
Héritages fatal d’une vieille hydropique
Le beau valet de cœur et la dame de pique
Causent sinistrement de leurs amours défunts.
C. Baudelaire,
LXXV Spleen.
(Piovoso,
irritato contro l’intera città,
rovescia a
fiotti dall’urna un freddo tenebroso
sui pallidi
abitanti del vicino cimitero
e la mortalità
sui sobborghi avvolti nella nebbia.
Il mio gatto,
cercando un giaciglio sopra il pavimento,
agita senza
posa il corpo scabbioso e magro;
l’anima di un
vecchio poeta vaga dentro la grondaia
con la triste
voce d’un fantasma freddoloso.
La campana si
lamenta e il ceppo affumicato
Accompagna in
falsetto la pendola infreddata ,
mentre in un
mazzo di carte dai lerci profumi,
fatale eredità
di una vecchia idropica,
il bel fante
di cuori e la donna di picche
chiacchierano
sinistri di defunti amori.)
‘Piove.’ Mi disse semplicemente entrando
nell’appartamento che avevamo affittato.
Era terribilmente zuppo d’acqua. Sembrava
avesse fatto un bagno in mare tanto i suoi vestiti erano fradici e i suoi
lunghi capelli mori, sempre perfettamente pettinati, scompigliati e
sgocciolanti.
Mi fece una profonda tristezza.
Lo vedevo tremare. Lui non doveva tremare!
Di cosa stava tremando, poi?Di freddo?
Non avrei mai dovuto lasciarlo tremare in
quel modo.
‘Lo vedo.’ Asserii ammiccando nella sua
direzione.
Anche se, sottolineo con particolare
devozione, mi fece subito l’effetto di uno che non era stato sorpreso dalla
pioggia, ma era stato piuttosto gettato in acqua.
Il fatto è che fui talmente stupido, così
affogato nei miei perversi meccanismi celebrali e ancora totalmente immerso nel
pesante ripasso dell’ultimo minuto che aveva una qualche labile parvenza di
utilità ai miei occhi di studente poco puntiglioso, da non accorgermi, o non
sforzarmi di accorgermi, del suo sguardo ferito, e di tutte quelle piccole
espressioni quasi intangibili, leggere inclinazioni delle perfette curve del
suo volto, delle quali dopo tutti quegli anni avevo imparato a menadito la
fisionomia come fossero cose importanti -in effetti lo erano-, dal loro
significato tutto speciale, velato e catastrofico.
Non ho mai imparato a stare attento alle
piccole cose.
Mi accontentavo, allora più che mai, di
dettagli grossolani che potevano indurmi in qualche modo alla risoluzione
pressappochista del caso, senza pretese elevate o profondamente intrise di
spiritualità, concetti elati o semplicemente un po’ di filosofia spiccia,
insomma, quello di cui la gente ha bisogno per trascendere un po’ alla banale
quotidianità e rozzezza di costumi.
Seguitemi bene: fu proprio questo mio
“pressappochismo” a condurci alla disperata ricerca di quella notte che non ho
la voglia, il coraggio, né la crudeltà di dimenticare.
‘No. Non hai capito. Piove.’ Ripeté con quel
suo tono piatto e molto basso, quello che usa sempre quando è sopraffatto da
correnti gelide nel cuore che nemmeno lui, con tutta la sua buona volontà e la
sua spiccata intelligenza, riesce ad arginare.
Non riusciva nemmeno più a nasconderlo al
sottoscritto. Avevo acquisito una stupefacente conoscenza del significato
mascherato in ogni suo gesto, ogni suo sguardo ed ogni sua parola, e l’avevo
fatto assorbendo tutto ciò per abitudine, soltanto perché lo vedevo
infinitamente riprodotto ogni benedettissimo giorno che trascorrevo in sua
compagnia. Era come se il mio cervello elaborasse automaticamente questi
elementi, ed automaticamente mi fornisse le indicazioni del caso e i
suggerimenti sul come trattare con guanti di velluto la sua anima così fragile
da potersi spezzare ed andare in mille frantumi se solo non avessi avuto
l’accortezza di essere gentile e fargli percepire tutto il mio calore e il mio sostegno
affettuoso.
Avevamo un bisogno quasi fisico.
Mentre rientravo dal bagno con un grande
asciugamano pulito mi accorsi che non pioveva affatto.
Fu una consapevolezza che mi colpì
nettamente e con una sconcertante fitta nello stomaco, come se questo avesse
fatto una capovolta nella mia pancia che sobbalzava.
Perché, se non pioveva, lui era così
bagnato, fino al midollo?
Rientrando in camera aprii la bocca per
chiedere una qualsivoglia spiegazione sensata al fatto che lui fosse entrato
sgocciolando sulla moquette azzurra di casa quando era una bellissima serata di
fine Luglio, le stelle splendevano nel cielo terso, e non c’era nemmeno una
nuvola a minacciar tempesta.
E finalmente, quando lui si avvicinò col suo
passo felpato e sensuale posandomi l’indice della sua mano destra sul labbro
per pregarmi di tacere –è già doloroso abbastanza, sentivo vibrare nell’aria il
suo monito disperato- io vidi il rossore dei suoi occhi gonfi e quanto erano
profondamente intrisi della tristezza indicibile che l’aveva sempre sovrastato.
‘Devi fare un bagno…’ Sussurrai. La sua mano
era sempre accostata alla mia bocca.
‘No, ho davvero bisogno di parlarti.’
‘Su. Ci metti cinque minuti.’ Paradossalmente la mia voce
tremava più della sua. Era spaventosa, a sentirsi, o così mi appariva. Faceva
trapelare quella sottile debolezza che era sempre stata mia propria, ed era
l’incapacità di reagire, di spronarmi, il momento in cui le disgrazie mi
piombavano addosso con tutta la loro invereconda pesantezza di macigni.
Che poi ci fosse lui a darmi l’incipit era
un altro discorso.
Alla fine era tutto riconducibile alla
stessa snervante realtà, al fatto che io senza di lui non andavo da nessuna
parte, e lui senza di me non avrebbe resistito all’irrefrenabile desiderio di
farla finita.
Oh, sì, era un passionale! Affrontava la
vita con una veemenza, con un interesse così vivo e pulsante, inestinguibile
nel bene e nel male.
Quello che faceva, lo faceva mettendoci
l’anima. Ed era chiaro come il sole che non poteva reggere a lungo il momento
in cui le cose gli sfuggivano di mano e l’anima razionale veniva bruscamente
surclassata dalla sua parte desiderante, l’epithymetikòn come ce lo
descrive brillantemente Platone, lasciandolo in completa balia delle proprie
emozioni e dei propri istinti distruttivi.
In fondo è di questo che si parla.
Degli istinti di autolesionismo così
sfacciatamente spiccati in Giulio.
Avete presente quel mito poetico
dell’auriga, sempre di Platone? Per me Platone è il filosofo più poetico, con
le sue idee, che la storia ricordi. Ma non sta a me farvi un excursus sulla
teoria dell’intelligibile. Quello che vi voglio dire è che, tracciando le fila
dell’orientamento animistico del mio caro Giulio, il suo carro allegoricamente
figura dell’anima, tende paurosamente verso il basso mondo dei sensi.
Io non arriverò mai a capire quanto
spropositatamente amplificate lui avverta le cose che lo scalfiscono anche in
maniera superficiale, ma di certo non è il modo umanamente codificato.
Non è un bene.
Non lo è affatto.
E’ la sua sciagura, se me lo concedete,
perché vuol dire che sarà sempre costantemente incatenato alla miriade di
sensazioni prorompenti come un fiume in piena che lo distruggono. Io credo nel
potere delle sensazioni, e vedere Giulio immerso completamente nel suo stato di
trance onirica, di spaventoso abbandono -come se la sua mente abbia costretto
il suo corpo a subire una sincope per il dolore che, avvelenandogli il cuore, è
diventato troppo grande persino per la sua ragione acuta e penetrante- è una
cosa spaventosa e mi ferisce ogni volta come non mai.
Perché, alla fine, è come ammettere che non
mi sono dedicato abbastanza alla sua salvezza interiore.
‘Henka…’ Mi ridestò dalle mie amare
congetture con la voce di chi era contento.
Non mi fidavo della sua proverbiale arte
recitatoria. Mi stava semplicemente imbrogliando, lo sapevo bene, glielo
leggevo negli occhi chiari e stanchi.
Mi rialzai dal letto sul quale mi ero
sdraiato nel tentativo di concentrami su quello stupido libro di filologia
germanica. Non è giusto dover dare degli esami ad Agosto. Oltre che essere
moralmente scorretto è anche straziante per il povero studente che vede
bruciata la sua rosea prospettiva di vacanza per ritrovarsi chino su volumi
enciclopedici di vasta cultura altisonante.
D’accordo, sto esagerando. Io e Giulio, in
effetti, eravamo in vacanza, libri alla mano. Saremmo dovuti tornare il giorno
seguente.
--- Piaciuto il primo capitolo? Beh, da solo
non dice molto. Spero continuerete a seguire la storia per potermi dire che la
trovate interessante (ah ah! Sono molto vanitosa…)
Henka è un diminutivo che sta per Henrik.
Lui è finlandese (ho rubato il nome al tastierista dei Sonata Arctica ^ ^)
Sapete, rileggendo il tutto mi sono accorta
di aver commesso un errore madornale: ho lasciato che fosse Henka a narrare in
prima persona, ma come fa un finlandese a parlare così bene l’italiano (mi
faccio i complimenti da sola)? Boh… forse è un genio. Comunque non potevo
riscrivere tutto da capo. Fate finta di nulla, per favore. (io sono anche
giustificata in caso di errori: mi immedesimo nel Finlandese…)
Vorrei andare in Finlandia.
La verità è che sono molto insicura di
questa storia per un mio piccolo problema tecnico ^///^: non sono un ragazzo…
<-- vergognoso, non trovate? Per questo chiedo ai fanciulli sostegno morale.
Il prossimo capitolo è veramente breve e
insipido, ma mi serve come introduzione, per spiegare qualche dettaglio della
storia. Prometto che ci saranno capitoli più interessanti (spero).
E se a qualcuno interessasse conto di
postare un capitolo ogni sabato, avvertendo preventivamente quando non sarà
possibile. Mi impegnerò con serietà se me ne darete il motivo ^ ^.
L’appartamento che avevamo affittato al mare
per due splendide soleggiate settimane di Luglio si trovava al primo piano di
un alto edificio tipico della riviera ligure. La parte anteriore dava su una di
quelle strette e maleodoranti ma tanto romantiche viuzze per le quali anche
Byron soleva passeggiare immerso nei suoi delicati pensieri di poeta. La parte
posteriore si rivolgeva verso un orto rigoglioso, il quale ci regalava
magnifiche, abbaglianti suggestioni di Eden in quella stagione tanto torrida. E
io ero immensamente grato al giardino, perché era refrigerante.
Forse avevamo davvero trovato il paradiso
terrestre e ce ne stavamo in casa a ripassare filologia germanica.
Pazzi.
Pazzi suicidi.
A questo giardino vi si poteva accedere
soltanto passando direttamente dalla casa. Era contornato da un semplice muro
di ardesia e tra una pietra e l’altra crescevano delle brutte erbacce
rinsecchite o delle pianticelle di campanule e ginestre.
Non era per niente esteso, anzi, occupava a
malapena cinque metri quadrati; eppure era rigoglioso e profumato coi suoi
cespugli di camelie e azalee, zinnie e giacinti, begonie dai più sgargianti
colori, glicini. In un angolo soleggiato si stagliava una bella agave dalle
foglie aculeate e un fico d’india, ai quali non mi avvicinavo mai. La magnolia
dal tronco esile e contorto, che avrei tanto voluto veder fiorita, si manteneva
all’ombra del grande oleandro dai fiori rosa pastello. Dicono che i suoi petali
siano tossici.
E poi, su tutta la composizione, troneggiava
il limone carico di frutti maturi.
La casa aveva una deliziosa colorazione
tipicissima di uno sgargiante rosso mattone. Io adoravo le finestre strette dal
davanzale di porfido chiaro, sulle quali la padrona gentile coltivava dei bei
gerani bianchi in rigogliose cascate.
Certo, non era nulla rispetto alla
buganvillea violetta così florida arrampicata sulla parete retrostante, o
l’edera verde le cui foglie lucide e croccanti sembravano quasi di plastica, o
il gelsomino odoroso, le piante di fichi, agrumi, i cespugli di mirto
lussureggianti.
Ma era pur sempre l’ingresso, no?
Capisco perfettamente che fosse più
spirituale il giardino, anche se devo dire che la peculiarità del carruggio,
che si trasformava in normalità nel contesto in cui era inserito -ma per me,
che sono un vichingo, rimaneva una ambientazione strana- mi affascinava con
quello charme che possiedono tutte le cose esotiche e che ogni abitante
autoctone non riesce proprio a capire del suo paese.
Tuttavia l’entrata è sempre l’entrata. Non
il retro.
Se avessi voluto immergermi in un floreale
universo alternativo mi sarei semplicemente seduto all’ombra, sotto una pianta.
Lui no.
Giulio doveva anche entrare dal retro. E non
dalla porticina sul retro, che come già detto non esisteva. Si divertiva come
un bambino incosciente ad arrampicarsi sul muretto e a scavalcarlo lasciandosi
scivolare sul praticello o su uno dei rami nodosi e robusti del limone,
appoggiando delicatamente i piedi sull’erba.
Quello era uno dei suoi tanti modi per
marcare un’ irrazionale voglia di autonomia e isolamento che certe volte lo
sospingevano fino ai limiti della alienazione totale. Mi chiedeva educatamente
di farmi da parte, lasciarlo stare.
Non lo capivo affatto. Non capivo il suo bisogno costante
di estraniarsi dalla realtà ed immergersi nei suoi personalissimi silenzi
introspettivi, permettendo alla mente di elaborare un flusso di pensieri
incoerenti e sconnessi, spesso deleteri per il fisico.
Era una prospettiva stupida che sfuggiva
alla mia acerba comprensione.
Ad ogni modo non si era ancora completamente
dichiarato. Non è che non capissi per insensibilità. Mi mancavano un sacco di
ragguagli fondamentali per sciogliere l’intricato mistero della sua anima, e
ciò mi faceva rabbia. Avvertivo acuirsi il desiderio bruciante e spasmodico di
potermi rendere utile, di rivelarmi ai suoi occhi come una persona sensibile e
gentile, alla quale affidarsi con una fede cieca.
Potete considerarla una volontà del tutto
egoistica, forse, ma mi sentivo male ogni volta che gli ripetevo col mio
accento secco: ‘Tu hai un problema.’, e lui scrollava le spalle.
Probabilmente mi feriva il fatto che non mi
rendesse partecipe dei suoi intimi turbamenti nonostante sapessi alla
perfezione che quella era, per sperimentazione diretta, una fallimentare
autodifesa nonché il suo modo di porsi nei confronti di tutto il resto del
mondo.
Non mi andava di far banalmente parte di
“tutto il resto del mondo”, mi sembrava un’evidenza insopportabile e negavo la
realtà, che era molto più semplicemente la sua insicurezza, la sua ricerca di
un momento idoneo e perfetto, la sua volontà di avvicinarsi a me e solo a me attraverso
quella serie di attenzioni che mi riservava, cercando disperatamente di
ignorare la sua immensa paura di bruciarsi.
Ovviamente quella sera era passato per
l’orto.
Penso che se la signora che ci affittava con
dolcezza materna il piccolo appartamento l’avesse visto gli avrebbe chiesto di
smetterla, adducendo come scusa il pericolo che i rami di una delle sue
preziose piante si sarebbero potuti spezzare sotto il dolce peso di Giulio. Ma
io so che l’avrebbe fatto per puro istinto di protezione.
Le vecchiette, specialmente quelle con la
crocchia canuta che allevano trentaquattro gatti maculati, sono teneramente
protettive nei confronti dei giovani.
--- Vi avevo preannunciato che sarebbe stato
un capitolo breve ed insipido. Prendetelo come un’introduzione, un’anticamera
al resto del racconto che riprenderà a partire dal prossimo capitolo.
L’intento era
farvi una descrizione dell’ambiente, capisco che non sia così interessante… poi
ho divagato.
^ ^ sono stata ispirata dal mio tè alla
ciliegia (si chiama “ciliegi in fiore”…) ^ ^. Ho trovato un negozietto, a
Milano, che vende tè particolari e sfogliando il catalogo mi sono venute alla
mente queste ambientazioni (collegamenti strani…). Ci sono un sacco di tè
interessanti… pare che il tè sia oggetto di filosofia, in oriente. Se
Aristotele avesse parlato di tè la mia vita avrebbe preso una piega diversa.
Perché vi parlo di questo? Per occupare
spazio? Perché blatero cose insensate con costanza? Sono cautamente felice
(tradotto: prossimamente verifica di tedesco).
Dite che mi sono ripetuta troppo? Ho come
avuto questa impressione. Credo sia tutto un po’ confuso: @_____@.
Invader, rispondo qui, visto che ci sono
(risposte a singhiozzo. V___V sono una casinista). Ovviamente non potevo
permettermi di non rispondere, sarebbe stato decisamente scortese…
Sono veramente felice che TU abbia
apprezzato. Mi spiego? (leggasi: tuuuuuuuuu, con particolare accento sulla u).
Ho avuto una mezza crisi respiratoria quando ho letto entrambi i commenti. Spero
con tutto il cuore di continuare sulla stessa linea (sarebbe troppo…), ti
prego, dimmi dove sbaglio (ammesso che io sbagli. Ah-ah < -- il mio lato
mitomane).
Naturalmente è un invito riferito a tutti.
Devo solo dire che i miei gentilissimi
commentatori mi ha fatto passare la concentrazione per quella maledetta
verifica di tedesco (di per sé già praticamente inesistente). Non mi resta che
pregare. Pregate un po’ per me, per favore.
Qualcuno di voi ha veramente detto una
preghierina per me… il mio prof di tedesco sarà in convalescenza per una
ventina di giorni ^ ^
Povero… gli manderò un salame.
Sono stata salvata in extremis. Grazie a
tutti coloro che hanno pregato per me.
III.
(…) Comme tu me plasirait, ô nuit ! Sans ces étoiles
Dont la lumière parle un language connu !
Car je cherche la vie, et le noir, et le nu!
Mais les ténèbres sont elle-même des toiles
Où vivent, jailissant de mon œil par miliers,
Des êtres
disparu aux regardes familiers.
C. Baudelaire, LXXIX. Obsession.
(Come ti
amerei, o notte, senza queste stelle,
il cui lume
parla una lingua nota!
Poiché io
cerco il vuoto, il buio, il nudo!
Ma le tenebre
stesse sono tele
Dove vivono,
sprizzando a migliaia dai miei occhi,
esseri
scomparsi dagli sguardi famigliari)
Mi spiegò con la voce che non tradiva alcuna
emozione, nemmeno la più banale.
Forse avvertivo un leggero tremito quasi
impercettibile, ma avrei anche potuto ricondurlo al fatto che avesse preso
tanto freddo.
Teneva i suoi begli occhi bassi fissi al
pavimento.
Lo notavo perché mi stavo sforzando, anche
se lui non mi guardava direttamente in faccia perché impegnato a rivestirsi.
Lo vidi indossare i pantaloni neri che gli fasciavano le
gambe da modello. La maglietta leggera di cotone era decorata nella parte
anteriore da un grottesco suonatore di cetra -una cetra contorta come sono gli
strumenti del diavolo- che doveva essere il “Sandman”. Sapete, gli omini della
sabbia. Lanciano un pugnetto di sabbia negli occhi dei bambini per farli
addormentare.
Non ditemi che nessuno v’ha mai raccontato degli omini
della sabbia.
Anche quella era una maglia dei Blind Guardian, e per
inciso portava sul retro la scritta:
“Agony is
the script for my Requiem”
Poi Giulio prese la spazzola e cominciò a
sistemarsi quasi furiosamente i suoi lucidi capelli neri con colpi secchi,
precisi, violenti.
‘E’ stato un caso disperato, Henka. A
volerne discutere sinceramente, oltre che a esser stato imbarazzante, mi è
sembrato assurdo. Così assurdo che vale la pena parlartene. Così assurdo che
vale la pena ripensarci con una certa quasi inavvertibile punta di amarezza in
bocca.’
‘Grazie per la considerazione…’
‘Ho incontrato mio padre.’
‘Ah.’
‘Con la mia matrigna. O quella che vorrebbe
essere la mia matrigna. Mai vista prima di stasera. Mi ha detto che avrei
dovuto tagliare i capelli, capisci? Una donna che pretende di insinuarsi nella
intricata e già di per sé intasata trama della mia misera vita. Così, come se
fosse una cosa dovuta.’ Sembrava sdegnato.
Cominciavo a capire la sottilissima linea
tragicomica che l’aveva condotto alla pioggia.
Perché, se lo conoscevo almeno un po’,
quello era solo un pretesto. Sì.
Giulio era fatto in maniera particolare. Non
che il dolore lo ferisse più di tanto, in sé stesso. Non che le situazioni
dolorose lo avvelenassero.
Quello era solo il punto di partenza che
dava il via ad uno spaventoso, snaturato e crudelissimo flusso di pensieri
allucinatori che lo portavano progressivamente ad erigere un pressoché
insormontabile muro tra lui e la realtà. Le sue emozioni atroci non potevano
che rimbalzare contro il muro e ripiombargli addosso con una pesantezza
umanamente insopportabile.
Chissà qual’era stato il suo delirio, quella
volta.
Mi avvicinai a lui, sedendomi sul suo letto.
Nonostante tutto era una persona piuttosto
ordinata, e la sua parte di camera presentava a discapito della mia opera
devastatrice una certa parvenza di dignità.
La stanza da letto all’interno era
assolutamente moderna, col suo intonaco bianco, i suoi due letti comodi e
morbidi da una piazza e mezza ciascuno, la grande televisione con lettore Dvd e
impianto hi-fi, l’aria condizionata e le suppellettili graziose. La scrivania
era una sola, ma avevamo un comodino a testa e due luminosissime lampade da
comò in stile liberty, come quelle di Tiffany.
Le adoravo.
Dovrò comprare una lampada Tiffany per
dormire tranquillo a casa mia.
Poi c’erano molti libri, e quadri a olio di
richiamo romantico coi loro paesaggi suggestivi e malinconici. C’era una sola
tela in camera, “The snow storm”, che conoscevo molto bene e che mi era rimasta
impressa per la sentita forza e la mirabile resa della furia imperversante
degli elementi che rappresentava.
La parete libera dalla libreria, dalle
testate dei letti, dalla scrivania e dalle finestre era occupata da un armadio
a quattro ante con una bella specchiera, uno di quegli armadi capienti e di
buonissima fattura che avevano in casa le nonne di quelli della mia
generazione.
I miei abiti e quelli di Giulio si trovavano
là dentro –e sul pavimento e in ogni altro angolo della casa, soprattutto
quelli del sottososcritto- tutti mescolati insieme.
Dunque mi sedetti sul suo letto –in realtà
la questione dei letti era ancora tutta da chiarire- gli presi la spazzola
dalle mani e cominciai a pettinarlo dolcemente.
Aveva la malsana abitudine di sfogarsi
fisicamente delle sue frustrazioni, almeno un poco: quello che doveva fare, nei
momenti di precaria lucidità, lo faceva con una rabbia ed un’avventatezza
pericolosa, quasi come se il dolore fisico potesse per un momento coprire
quello dell’anima.
E cosi si spazzolava i capelli che tanto gli
invidiavo con foga brutale. Non potevo permettere che se li rovinasse, era
necessario che facessi qualcosa.
Stette in silenzio mentre i miei colpi leggeri
fendevano la superficie serica della sua chioma scura con tanto amore e
devozione.
Poi mi chiese: ‘C’è la festa di paese oggi,
vero?’
E io gli risposi di sì, e che, se non gli
fosse dispiaciuto, avrei voluto andare a vedere le persone che facevano scivolare
con patos carnevalesca i lumini in mare, fino a che essi non avessero formato
una scia di puntini luminosissimi sulla superficie buia dell’acqua e del cielo,
ed avessi constato coi miei occhi come le anime si possano effettivamente
allontanare dal mondo nella maniera più commovente possibile.
Quand’ebbi finito la mia opera magistrale
lasciai che si accucciasse contro il mio petto in cerca di un calore che aveva
perduto da troppo tempo, e che cominciasse disperatamente parlare.
--- Secondo me è una parte noiosa. Sarà così
per tre o quattro capitoli: poca storia e molte considerazioni. D’altronde
dicasi introspettivo il genere che introspettisce. Geniale, eh? Mi spiace,
perché leggete tre righe per volta e potreste stufarvi della monotonia dei
primi capitoli. Andrebbe letta tutta d’un fiato, questa fic, anche perché non
posso permettermi di eliminare queste parti. Ci sono troppi piccoli particolari
che si ricollegano in fondo. Ma, forse, con tutti questi intervalli finite per
dimenticarli.
I capitoli dal 3 al 6 non mi piacciono per
niente. Non vedo l’ora di superarli. Sono una morte…
Rivedendo il tutto mi sono accorta che qui in Italia non
esiste la favola dell’omino della sabbia. È molto diffusa nei paesi
anglosassoni. Qui, invece, le mamme tormentano i bambini con le storie sui
Ba-bau.
La maglia di Giulio esiste davvero, ce l’ho
su un catalogo. Mi piaceva da morire, ma la cedola da compilare era tutta
scritta in tedesco (T___T capisco nulla…) e le taglie partivano dalla XXXXXL.
Sempre così. Ho ancora la taglia dei bambini v___v.
Ah, il vero nome del quadro citato è (ce la
posso fare a scriverlo tutto… dai Marto…):
“Steam-Boat off a Harbour’s Mouth Making
Signals in Shallow Water, and Going by the Lead. The Author was in this Storm
on the Night the Ariel Left Harwich”
Che fantasia, ‘sto Turner… Non è tra i miei quadri
preferiti, ma ce lo vedevo bene nella stanza. Se lo si guarda attentamente
sembra di trovarsi davvero in una tempesta. Brrr…
Adesso che ho ricevuto delle recensioni positivissime
(per la serie meglio di così non si può) ho paura di calare. Mi dispiacerebbe
tremendamente, anche perché i giudizi vengono da persone autorevoli –che si
sono persino prodigate a pubblicizzarmi T___T. Non vorrei far fare brutte
figure. VI STO FACENDO FARE BRUTTE FIGURE?-. Vi ho risposto nella pagina delle
recensioni, nel caso non aveste notato.
Mi sembra il minimo. Quando diventerò una
persona SERIA e potente vi offrirò un caffè… una cena… un atollo
polinesiano per la vostra luna di miele…
Ringrazio di cuore anche Sara che recensisce
sempre. Grazie davvero, Sara. Spero che tutti i prossimi capitoli ti
soddisfino. Ti prego di resistere fino al settimo.
‘Volevo che tu mi capissi, Henka. È strano.
È tutto tremendamente sbagliato. Il mondo non può scintillare come il paradiso
e bruciarti atrocemente come l’inferno nel medesimo istante. Lo sapevi, Henka?’
Continuava a ripetere il mio nome e io
continuavo a stringerlo a me.
Una folata di vento fresco notturno fece
tremare le fronde degli alberi e scosse le bianche tende di voile della porta
finestra lasciata aperta, riempiendo l’appartamento di gradevoli profumi di
fiori e aromi mediterranei.
‘Sì.’ Gli risposi.
‘E come riesci a sopportarlo?’
Domande di un’ingenuità toccante. A volte
cadeva nel paradossale.
Scrollai le spalle. ‘Io non sono così
attento ai dettagli. Forse non ho semplicemente la voglia di ricercare la causa
della tua sfortuna, così lascio perdere con passività. È nella mia natura, non
posso farci nulla. Prendo le cose per come vengono senza crucciarmi o
combattere la mia personalissima crociata contro Dio o contro l’ordine del
mondo per poterne depurare le sue tragiche ed evidentissime imperfezioni.
Perché è una cosa impossibile anche per te e i tuoi limiti umanamente
prefissati. Non è una novità.
E poi io mi preoccupo quando c’è un vero
problema.’
‘Non ci credo.’
‘No. Tu non capisci dove sbagli
quotidianamente.’
‘Nonostante tu mi metta di fronte
all’evidenza dei miei errori?’
‘In un certo senso, sì.’
‘Sai, ci sono sensazioni che mi
coinvolgono nel profondo, e causano nella loro banalità uno sconvolgimento così
radicale nella mia anima da lasciarmi spiazzato, in balia di me stesso.
Ignorale è come sopprimere quella parte di me.
Stasera, per esempio… vedere mio padre mi ha veramente
turbato.’
‘Perché?’
Scosse la testa. ‘Comunque non è normale.’
‘Non ne sono convinto.’ Non ne voleva
parlare? Cosa mi nascondeva?
Sconfortato com’era non avevo il coraggio di
fare pressione su di lui, mi sembrava crudele.
‘Potrebbe sembralo, se te ne parlo in
maniera così superficiale. Credo che tutti gli uomini che abbiano un po’ di
buonsenso e provino amore verso ciò che li circonda si nutrano delle loro
sensazioni cercando in esse un antidoto alla crudele selvatichezza del mondo in
cui sono costretti ad abitare. Per così dire, in questo senso, guardano il lato
positivo.’
‘Sì.’
‘Quello di cui ti faccio partecipe è un
altro paio di maniche. Se fosse una lezione di filosofia ti direi che è lo
stesso concetto appurato e studiato sotto due punti di vista formali
assolutamente differenti.
Non è che si discostino l’uno dall’altro in
maniera così netta. C’è una leggera sfumatura di significato tra la mia visione
del mondo e quella di ogni altro uomo.’
‘Vorrei ascoltarla.’
‘E’ come se ogni percezione sensoriale
recepita dal mio cervello, l’idea, diciamo, collegata all’oggetto materiale in
sé e per sé, tracciasse nella mia anima un solco più o meno profondo.
Le cose mi feriscono per la loro avvenenza
semplice, per la maniera in cui sembrano raggiungere la perfezione così lungi
dalla mia anima.
È una morte dolce.
Ed in quel momento mi sembra tutto bellissimo.
Tutto. Ogni dettaglio puramente fisico, sensibile, materiale, come lo vuoi
chiamare, ha un suo scopo, una sua rilevanza, ma soprattutto una sua bellezza
intrinseca ed indimenticabile.
È un discorso che non comprende
deliberatamente le persone.
Se vengo ferito dalle persone, ed è
quotidiano, non posso che lasciarmi andare a pensieri di logoramento: c’è il
bene e c’è il male, che non capisco perfettamente. Il male è intossicante.
Vorrei evitarlo perché nessuno si augura le disgrazie. Eppure esso lentamente
avvelena tutte le cose belle e splendide delle quali mi sono innamorato, e
lentamente le consuma.
Ciò mi distrugge. Io non sono crudele al
punto di augurare il male che ho in corpo alle altre persone. Alle cose.
Persino alle cose.’
‘Sei fondamentalmente degno di salvezza,
allora. Non ti dovresti lamentare.’
‘Ma è scomodo. Mi fa rabbia il dover mettere
la mia vita nelle mani di qualcun altro, o qualcosa.’
‘Ah-ah…’ Mi mordicchiai il labbro inferiore.
‘Vuoi cambiare vita? Vuoi cambiare corpo, cervello, mentalità, sensibilità, per
smettere di pensare? Vuoi essere stupidamente Dio? Se smettessi di pensare alle
tue sciagure, ma decidessi per tutti secondo il tuo libero arbitrio, non
avresti questo genere di problemi. Beh, non si può. Avresti dovuto già abituarti
a tutto questo delirio insensato, e a trovare un qualcosa che ti addolcisca la
pillola. Accontentati. Non puoi sceglierti un pensiero felice che ti consoli?’
‘Ma ti sei arrabbiato?’
Forse avevo parlato con un tono seccato. Chinai il capo
imbarazzato, vergognandomi della mia stupidità. ‘No. Mi sembrava un discorso
inutile, e non mi va di aggiustare quello che non è rotto. Ma probabilmente è
così solo per me. Ti fai molti problemi.’ Dissi timidamente.
‘Impressionante…’
Un gatto miagolava sul nostro balcone
privato. Non volevo farlo entrare per accarezzarlo, coccolarlo e godere delle
sue fusa come al solito. Ero gelosissimo e non avevo la minima intenzione di
dividere quell’intimità con nessuno.
Nemmeno con un gatto.
Rimasi in silenzio per qualche istante per
provare almeno a strutturare superficialmente il discorso che volevo arrivare a
toccare con lui. Per lui.
‘Mi è successo di provare a decifrarti
mentre ascoltavo musica di gruppi differenti.
Credo che tu, che sei un passionale, viva la
vita come un musicista che scrive canzoni a partire dalle parole; mentre chi ha
un approccio più freddo e distaccato, ma curato nei minimi dettagli, ed è quasi
più ammirato per l’eccellenza, come un musicista che scrive le note di una
canzone e deve poi riempire pagine bianche con le prime parole che gli vengono
in mente per poter completare l’opera, si ponga verso la realtà con più
distacco.’
‘Io traccerei le emozioni?’
‘Sì, esatto. Tu tracci emozioni, poi dipingi
i contorni. Vuol dire che sei fondamentalmente fantasioso. In senso negativo,
intendo.’
‘E tu, Henka?’
‘Io sono eclettico.’
Silenzio.
‘Non so cosa ti sia successo, stanotte, ma
si è originato tutto dalla vista di tuo padre.’
‘Vuoi sapere perché?’
‘Certo. Ma mi basterebbe capire se è la
verità. Ci vuole un po’ di tatto per consolare le persone, sai?’
‘Che scemo. La virtù sta nel mezzo. Sempre.’
Si batté la fronte alta col palmo della mano.
‘Te ne ricorderai, d’ora in avanti?’
Inclinò la testa per guardarmi negli occhi e
io vidi nei suoi una punta di incerto divertimento. Aveva dei bellissimi occhi
verdi, sottili e sempre rattristati da qualche evenienza spaventosa. Forse
stava proprio in quello il loro incanto.
‘Ti insegno io a stare al mondo!’ Gli urlai.
--- Ragionamenti contorti che mi sono venuti in mente
ascoltando Shamandalie (ma che centra?). Mi stupisco di me stessa *___*.
Questo è uno dei capitoli che mi piace di meno. Tutto
dialogo… Tanto ho capito come andrà a finire: i capitoli che non mi piacciono
vi sembreranno ben fatti, poi arrivano i capitoli belli e mi direte che
preferivate i primi…
Secondo voi è tossico l’inchiostro dei
pennarelli che si usano per scrivere sui cd? Perché mi hanno scritto
“atarassia” sul braccio. Bello nero, che non viene via. Adesso ho una brutta
chiazza rossa che prude da morire. Forse ha fatto reazione col profumo, forse è
un inchiostro velenoso e volevano eliminarmi, forse sono allergica e sto per
avere uno shock anafilattico… In ogni caso credo che morirò.
E poi con tutto questi caldo la mia
cioccolata si scioglie. Tristezza incommensurabile V___V.
à ACHTUNG
ACHTUNG: Qui viene fuori uno dei tanti motivi per cui ho scelto un personaggio
finlandese. I Finlandesi sono gente molto alla buona, che non si preoccupa dei
fronzoli. Ho avuto traumatiche esperienze con alcuni finlandesi. Sono persone
che ti fanno domandare: “come mai io mi faccio certe pare mentali?” Vivono nei
boschi, loro. Al gelo. Mangiano le renne, fanno docce fredde, conducono una
vita sana all’insegna del benessere, cose così…
È perché vedono poco il sole –non ridete, è
scientificamente provato!-
--- Capitolo un po’ insipido. Comunque,
siccome questo week-end sono al mare (nel paesino che vi ho descritto, per
intenderci) è probabile che posti già venerdì. Speriamo ci sia bel tempo.
V.
‘Elle ravale
ainsi l’écume de sa haine,
et, ne comprenant pas les desseins éternels,
elle-même prépare au fond de la Gheenne
les boucher consacré aux crimes maternels.
Pourtant, sous la tutelle invisible d’un Ange,
L’Enfant déshérité s’enivre de soleil,
Et dans tout ce qu’il boit et dans tout ce qu’il mange
Retrouve l’ambroise et le nectar vermeil.‘
‘Il tuo Baudelaire ?’
‘Sì. Sì, adoro Baudelaire. In fondo mi sento
piuttosto affine al suo spirito tagliente e alla sua poesia di inquietante
profetica sventura. Mi ha sempre reso l’idea del “poeta del genere umano”, che con
la sua lirica tormentata meglio testimonia, senza censure, intendo, l’intero
dramma.
Sai come ha cominciato i suoi “Fleurs du
Mal”?’
‘No.’
‘Beh, non lo ricordo a memoria, ma –‘ Si
alzò dal letto sul quale eravamo distesi e afferrò la borsadei libri che usava per andare in
università. Portava sempre con sé una copia dei Fiori del Male.
Era piuttosto logico, a pensarci: in effetti
la natura contorta e maledetta di quella raccolta, dello Spleen di Baudelaire
per intero, era qualcosa che –mi aveva sempre garantito- gli si insinuava
nell’anima e nel corpo, penetrando con dolore e sofferenza come sottili e
gelidi aghi acuminati che buchino la carne.
Ho sempre avuto l’impressione che lui e Baudelaire si
trovassero sulla stessa lunghezza d’onda, e, probabilmente, se fossero vissuti
nella stessa epoca, se lui fosse stato il compagno di camera di Giulio al posto
mio, avrebbero colto una infinita e crudele simmetria di fondo che senza
possibilità di controbilanciamento –in fondo quello era il mio ruolo- li avrebbe
entrambi condotti all’alcol e alla droga, al suicidio, alla dannazione.
Baudelaire non deve aver avuto la fortuna di
essere affiancato da un amico come me.
‘Baudelaire ha una ruvidità che gratta
l’anima del lettore.’ Rise mentre cercava il libro giusto tra la grande
quantità che aveva deciso di trasferire in vacanza. ‘Ecco…’ Me lo lesse in
italiano: ‘Al poeta
impeccabile
Al perfetto
mago delle lettere francesi
Al mio
carissimo e veneratissimo
Maestro e
amico
Théophile
Gautier
Con i
sentimenti
Della più profonda
umiltà
Dedico
Questi fiori
malaticci.’
‘Divertente.’ Aggiunsi sorridendo in
riferimento ai “fiori malaticci”.
Richiuse il libro con delicatezza, come
faceva per tutte le cose che per lui avevano una certa importanza, ma mi
accorsi che non lo ritirò come soleva fare, accarezzandolo quasi.
Lo posò sulla scrivania mentre si versava un
bicchiere d’acqua, poi lo riprese in mano e ritornò sui suoi passi, a sdraiarsi
sul letto nella posizione che teneva quando mi aveva abbandonato.
Lasciai che si accomodasse come più
preferiva, permettendo alle sue mani gentili di insinuarsi tra i miei lunghi,
indisciplinati capelli ricci.
‘Ci sarebbe molto e poco da dire su
Baudelaire.’
‘Come di tutte le cose.’
‘Come del caffè.’
‘Scusa?’
‘Non è che sia una situazione diversa.
Voglio dire: le sensazioni che mi suscita una poesia di Baudelaire e una tazza
di caffè sono ben differenti, di diversa natura e corrente. Una è benigna,
l’altra profondamente dissacrante. Ma entrambe mi riempiono nell’anima. Sai
quanto adoro il caffè.’
‘E che altro c’è?’
‘In che senso, Henka?’
‘Tu non mi dici tutto.’
‘Potremmo portare avanti una politica dei
piccoli passi? Ti prego. Sono esausto.’
Sospirai sonoramente appoggiandomi meglio
contro la tastiera del letto.
Dedussi che non sarebbe mai precipitato
abbastanza nel cupo vortice tempestoso e sempiterno della sua sconfinata
sofferenza, e da un lato lo ammiravo per il suo acume, dall’altro lo compativo
per l’impossibilità materiale di sortire dal circolo vizioso di tristezza nel
quale era totalmente immerso.
L’ironia, se me lo concedete, è che fu lui
stesso ad erigere le mura del suo inferno contro le quali la bufera lo
scaraventa costantemente.
La sua era una posizione sconveniente,
quella di chi sa troppo e capisce troppo, perciò soffre degli sbagli che
identifica attraverso l’occhio indagatore.
Ed è sardonico, tremendamente veritiero,
testato, beffardo, ingiusto, pensare che, dopo secoli di intellettualismo etico
e ricerca della felicità tramite la conoscenza filosofica del mondo, si scopra
che, banalmente, chi meno sa meno è scontento, e che più si va nel profondo,
più vengono a manifestarsi nodi gordiani insolubili nella loro
complessità.
Quindi, per forza di cose, Giulio era
destinato a trascinarsi di malavoglia in una vita di sofferenze e lacerazioni
interiori, come se la sua anima fosse un complesso sistema di ragnatele, fili
sottili e resistentissimi, che filtrando nel sangue circolavano in corpo e
ciclicamente venivano tesi fino a portarlo allo spasimo.
(Così
inghiotte la schiuma del suo odio,
e lei, che non
comprende i disegni eterni,
lei stessa
prepara in fondo alla Geenna,
i roghi
consacrati ai crimini materni.
Pure, sotto la
tutela invisibile d’un Angelo,
s’inebria di
sole quel figlio ripudiato,
e in tutto ciò
che beve e mangia
ritrova
l’ambrosia e il nettare vermiglio.
Bénédiction 17-24, C. Baudelaire.)
--- Eh-ehm. Devo dire un sacco di cose… Ecco svelato il
mistero del titolo della ficcia. Mi piaceva particolarmente ‘Bénédiction’. È la
prima della raccolta. Volevo farvi notare che anche se Baudelaire si riferisce
alla madre, qui Giulio pensa risentito a suo padre per una serie di motivi che
verranno chiariti man mano.
Il caffè si rifaceva ad un capitolo che ho eliminato
perché mi sembrava troppo noioso e perché, a furia di taglia e cuci, finiva per
diventare incoerente col resto della storia. Spero non vi sembri insensato e
non si noti un buco grossolano. Sarebbe imbarazzante. ^ ^
Dovevo parlare almeno un pochino di Baudelaire… un tributo
a Baudelaire…
Vlad, non hai ancora visto la mia super tinta!!! Sono più
scura di prima… CATARIFRANGENTE. Un rosso così rosso che sotto la luce sembra
viola enné. Stupendo…
devi tornare in fretta prima che sbiadisca e diventi rossiccio (o il lillà
dello zaino della Franscia… Immaginati i miei boccoli tutti rosa… brrr…)
Ti sei persa pure Garlando coi dread (sembra più viscido
di quanto sia in realtà, il che è tutto dire, perché è già molto viscido di
suo).
Ma posso fare queste cose? Non sapevo più come contattarti
ß
disperata. Spero tu abbia rimediato un computer in quei paradisi tropicali dove
ti cuoci al sole mentre io compilo pile di Hausaufgaben e Bilde Setze per le
verifiche formative.
Ti fischiano le orecchie? ^ ^ divertiti. Ecco cosa si
prova a non dormire per giorni interi! Ah ah!
Perché non riesco mai una volta a rispondere a tutti
insieme? T___T
1) Ho rimediato una nuova lettrice ^ ^ che bello!
Grazie-grazie-grazie, Galadwen. Spero tu abbia capito tutto. Ho visto anche
l’altro commento, ti do ragione. Sono la coppia più paciarotta del mondo.
2) Inv, mi dispiace molto che tu sia stanco. Ti capisco
profondamente: io soffro di insonnia, per cui sono sempre stanca. Hai la mia
solidarietà… Comunque sono orgogliosa anche dei commenti concisi ^ ^. (Tu
perlomeno commenti)
3) Per Sara e Zero… avevo già risposto nello spazio
recensioni T___T. Avrete notato…
La verità è che non so niente di filosofia moderna (come
mi sento ignorante. Magari ne parliamo tra un paio anni ^ ^’’’)
--- Ora scopriamo una peculiarità di Henka che influenza tutto il suo
pensiero positivo ^ ^
--- Ora scopriamo una
peculiarità di Henka che influenza tutto il suo pensiero positivo ^ ^.
In verità sto postando di
nascosto dall’ufficio di mio padre –non si potrebbe fare, ma siccome vi voglio
bene…
Spero di riuscire ad attaccarmi
a qualche presa telefonica ^ ^
VI.
‘Sai cosa mi piace, molto?’ Lo
interruppi per una volta.
‘Un sacco di
cose.’
‘Una sensazione
che amo è quella di trovarmi in una chiesa vuota e buia, un freddo giorno di
dicembre quando c’è la neve e il riscaldamento è rotto, bisogna stringersi nei
cappotti mentre ci si inginocchia davanti all’altare imponente allegoricamente
indice della grazia e della magnificenza di Dio.
Le chiese sono belle in un modo
tutto suggestivo.
Ho visitato un sacco di chiese
belle: Notre-Dame, Canterbury, Westminster Catherdral, Amiens, e poi in Italia
il Duomo di Milano, il Campo dei Miracoli, la Basilica di San Francesco. E
naturalmente la Basilica di San Pietro.
Seppur separate dalla
differenza degli stili e del gusto decorativo in tutte ho ritrovato un filo
conduttore, un elemento comune, se così si può dire: l’aria. Quando entro in
una chiesa consacrata il clima di rispetto e pudore è talmente elevato,
percepibile, che permea l’aria stessa, quasi come questa fosse etere,
diventasse veramente Spirito Santo respirabile dai nostri mortali polmoni
intossicati dai fumi e dai veleni della società moderna.
Il mio stile preferito è il
gotico, per quella serie di fattori convergenti che si avvicinano più a
un’anima tormentata: le vetrate scure, la luce rarefatta e spirituale, il
silenzio e la dilatazione quasi magica delle navate, l’eleganza austera della
pietra e la verticalizzazione trascendentale degli elementi architettonici,
tutte qualità che ogni chiesa dovrebbe possedere per accentuare la sua aura di
placida spiritualità.
Però c’è una cosa che ho sempre
afferrato, ma mai capito.
La chiesa del mio paese era
piccola, poco adorna, robusta e tozza, in mattoni a vista. Una tipica chiesa
romanica senza nessuna bellezza artistica da ammirare alla luce della gloria di
Dio.
Eppure mi piaceva, il
pomeriggio del ventiquattro dicembre, mi piace ancora perché ci torno tutti gli
anni, andare a confessarmi nel silenzio più totale e rinfrancante, poi sedermi
su una qualsiasi delle panche di legno laccato, ammirare il ciborio e le volte
affrescate con la vita dei santi e scene del giudizio universale, genuflettermi
e far ammenda chiedendo umilmente venia in penitenza.
Mi trasmette un certo senso di
intimità con Dio, ed una visione della religione del tutto amorevole, di un Dio
gentile ed affettuoso, ma sempre e comunque giustamente severo.
E’ una prospettiva
interessante. Credo che le persone che non hanno una gran Fede, o proprio non
ne possiedono, non abbiano mai provato un’esperienza dolce e coinvolgente come
quella.
E’ come se l’aria
fredda ti pulisse la pelle, te la lavasse, poi ti smacchiasse l’anima fino a
rendertela candida e pura –cosa necessaria per la missione evangelica-, e
quando esci al gelo del pomeriggio già profondamente buio dell’inverno ti senti
finalmente liberato da ogni sensazione malvagia o turbativa.’
--- Onde evitare
spiacevoli travisamenti vorrei chiedervi gentilmente di non offendervi, signori
atei. Ho solo descritto una peculiarità del carattere di Henka indispensabile
per la riuscita del suo pensiero positivista. Era necessario per strutturare
bene il personaggio. Henka è molto religioso e certe cose in lui sono
influenzate dalla sua Fede.
Il capitolo
prevedeva un dialogo molto conciso tra Giulio ed Henka, tema: religione.
Ho pensato che
poteva offendere qualcuno e che, comunque, esponevo troppo direttamente mie
idee personali. Non è il luogo, questo, e non me la sento di buttare ai quattro
venti i miei credo. Ci vuole un minimo di discrezione. Quindi il capitolo è
solo a metà.
Tanto oramai sono
un genio del taglia e cuci. Quando ho postato questa storia i primi sette
capitoli erano molto diversi. Sono i più ostici. Non vedevo l’ora di
togliermeli.
È difficilissimo
capire cosa volete. ^ ^ spero di non deludervi.
Personalmente mi
piace molto questo capitolo. Parla solo di chiese…
--- Mi sono proprio dimenticata di farvi gli
auguri. Scusate. Spero abbiate passato una Pasqua più calda della mia.
Stavo camminando (leggasi inerpicandomi per
sentieri sconosciuti sulle montagne della costa ligure) tutta sola… ha
cominciato a piovere. Diluviare. Credo di non aver mai preso tanta acqua in
vita mia. Brrr…
VII.
‘Pensavo che fosse la musica la sensazione
che più di tutte ti suscita sconvolgimenti nell’animo e ti può cambiare
l’umore’
‘Sì, anche. Forse è quella che manifesto con
meno vergogna.’
‘Perché dovresti vergognarti di ciò che
senti?’
‘Perché sono pensieri personalissimi, ed il
motivo per cui sono quasi in imbarazzo a mostrarli agli altri è lo stesso che
fa scattare il riserbo per i segreti più profondi e che più ci sfiorano
nell’anima.’
‘Allora perché ti stai raccontando a me?’
Rise brevemente. ‘Sei come la mia coscienza
coscienziosa, ed ho un disperato bisogno di essere capito, almeno da te. Ci
tengo.’
‘Mm. Le allusioni si sprecano, qui.’
Il silenzio era rotto dal gattino che
miagolava. Era entrato dalla finestra aperta che dalla cucina dava sull’orto
grazioso e ben tenuto della nostra cara, gentile vecchietta.
Giulio si sporse un po’ dal materasso
facendo ciondolare il braccio destro nel vuoto: guardò nella direzione del
gatto e giurai che stesse sorridendo di quel suo solito sorriso dolce così
triste, rivelato dagli occhi. I suoi occhi non sorridevano mai rassicuranti
come le sue labbra.
Il micino tutto nero, quello che avevamo
adottato col nome di Utrecht, come la Pace di Utrecht, e che veniva sempre
ruffianamente a farsi coccolare da noi e si era affezionato alle nostre carezze
più di ogni altro, si stava alacremente leccando la zampina acciambellato sul
divanetto damascato.
Questo mi ricordò in primis che avevo molta
fame, e per secondo che, alla fine, era riuscito a spezzare quell’incantesimo
di profonda intimità e comunione che io e Giulio avevamo faticosamente creato.
Gli chiesi se volesse mangiare qualcosa e
lui rispose che, sì, era una buona idea perché non avevamo ancora cenato.
‘Allora dovresti alzarti da me.’
Si spostò sbuffando e scomparve alla mia
vista infilandosi nel vano della cucina.
Sentii che trafficava con le pentole e le
ante di compensato degli armadietti.
Mi soffermai per un istante ad ammirare la
liscia e candida compattezza del soffitto intonacato e la carta da pareti
azzurra sui muri puliti, vergognandomi e al contempo godendo della situazione
di confessore nella quale mi trovavo. Mi dava una sensazione di eccezionale
eccitazione, mi faceva sentire, una volta tanto, utile.
Ero soddisfatto e al contempo amareggiato
perché quella mia particolare sensazione di appagamento era il frutto di uno
sfogo suo dovuto all’infelicità. Cosa che non avrei mai e poi mai dovuto
augurare a Giulio.
Mi alzai anch’io dal mio morbido giaciglio
profumato di bagnoschiuma quando avvertii lo schiocco del fornello a gas che
veniva acceso.
Cominciai a preparare la tavola per due
mentre Giulio si premurava di domandarmi quale qualità di pasta avrei preferito
mangiare e io gli rispondevo senza pensarci su che mi era assolutamente
indifferente, bastava che si sbrigasse perché erano quasi le dieci e il mio
stomaco cominciava a brontolare.
‘Riprendiamo il nostro discorso, piuttosto!’
‘Ah, sì. Tocca a te apparecchiare, non
aspettarti che ti dia una mano.’ Si sedette sulla sedia richiamando Utrecht ad
accoccolarsi sulle sue gambe lunghe e snelle.
‘Di che si stava parlando?’
‘Musica.’
‘Oh.’
‘Ho una buonissima memoria, vero?’
‘Hai una buonissima memoria a breve
termine.’
Non rimbeccai perché avrebbe comunque
trovato mille ottime ragioni per farmi notare quanto fosse nel giusto.
‘Henka… quando andiamo ai concerti, tu… te
lo ricordi? L’ultimo concerto, il mese scorso?’
Annuii col capo perché avevo la bocca piena
di pane. Non riuscivo più a bloccare le contrazioni dello stomaco, visto che
ormai mi ero ricordato di avere fame.
Finii di posare i bicchieri rovesciati sulle
tovagliette blu in pendant coi portatovaglioli che avevamo trovato nei cassetti
sotto il cucinino e mi diressi al frigorifero emergendone due lucide, fresche
bottiglie di birra che bevute a Luglio, quando fa troppo caldo e la gola è arsa
e ha sempre, sempre sete, sono la sensazione più felice del mondo.
‘Anche questa annoveri fra le tue?’ Gli
domandai stappandole. Gliene porsi una.
Mi sedetti sul tavolo davanti a lui.
Naturalmente si può fare su un tavolo da quattro apparecchiato per due, non che
posassi il mio bel sederino sulla tovaglia pulita.
‘Ovvio. A chi non piace la birra?’
‘Non a noi!’ Risi. Si avvicinò di più con la
sedia quando il gatto gli sfuggì dalle ginocchia.
‘L’ultimo concerto, per riprendere il
discorso in medias res, è stato l’immagine più vivida di quello che vorrei
farti capire: un’ondata inarrestabile di note, e queste note sono qualcosa di
palpabile, di percepibile. Scivolano addosso fino a quando non riescono a
penetrare.
Non ti capita mai, quando ascolti una
canzone molto accuratamente, stando attento ai dettagli, alle sfumature
cromatiche, ai cambiamenti di ritmo più suggestivi, alle melodie più impressive
o ai testi più delicati, di tremare dalla colonna vertebrale? E non ti capita
mai di associare delle canzoni a dei ricordi, come riesci coi profumi o con un
vestito o una parola?
È fisiologico.
Intendo, nonostante facciamo di tutto per
annientarlo, il nostro cervello che è proprio disgraziato, funziona con una
precisione sconcertante nei collegamenti sinapsici. Sì, anche il tuo, Henka.
È una cosa che mi affascina. È quello che
affascina di tutto il nostro discorso: la mia mente e la mia razionalità
galleggiano su un mare di sensazioni in perpetuo inarrestabile movimento.
Come si può pretendere di trovare un
equilibrio stabile?’
‘Non si può? Non si può davvero?’
Aveva staccato l’etichetta dal vetro. Si
scollano sempre quando la bottiglia è umidiccia. Che mi ricordi aveva sempre
avuto il vizio di staccare etichette, anche dalle bottiglie d’acqua, per poi
giochicchiarci fino a ridurle in brandelli lacerati.
‘Se si potesse, non saprei come arrivarci.
Se si fosse potuto non staremmo qui a darci pena.’
‘Tu ti stai dando pena!’
‘L’acqua bolle. Butta gli spaghetti.’
--- Sono un po’ depressa. Nessuno ha
commentato… perché nessuno commenta più? T___T Vi prego di commentare…
su… Vi sto annoiando? Dove siete finiti? ( ß disperazione… mi sento come una
particella di sodio)
Forse il capitolo sei è stato un po’
azzardato. Ma ditemi qualcosa! Sto perdendo audience. Uff…
Cooooooomunque, il micio non si chiama
Utrecht per una mia morbosa passione storiografica… Beh, studiavo giusto della
Lega di Utrecht nei giorni che ho scritto questo capitolo, e mi è venuto in
mente il piccolo tenero pipistrello che avevamo a scuola, un giorno (non
chiedetemi cosa ci facesse un pipistrello a scuola…). Comunque l’avevamo
chiamato Utrecht, è partito tutto da lì. Non potevo mica inserire nella storia
un pipistrello d’appartamento, così ho ripiegato sul gatto.
Sono così eleganti, i gatti… c’è sempre un
gatto nero, in mezzo. ^ ^ piccolo Utrecht –il pipistrello- Chissà se l’hanno
ammazzato…
Mi era venuta in mente una cosa che non vi
ho detto prima perché avevo già occupato troppo spazio: avete presente Valo, il
cantante degli HIM? Quell’uomo bellissimo con due occhi verdi… Mm… -guardacaso
è finlandese- Beh, senza farlo apposta –lo giuro- mi sembra davvero molto
simile alla mia immagine di Giulio. Prendetelo dal video di Join me in death
–quello tutto ghiacciato, non la versione psichedelico-stroboscopica-e allungategli un po’ i capelli di una, due,
tre spanne, come preferite… voilà! Giulio è molto molto bello. Non sono una
grande fan degli Him, ma hanno davvero un cantante stupendo. Se qualcuno di voi
fosse come Valo o conoscesse qualcuno che gli somiglia è pregato gentilmente di
farmelo sapere.
--- Non ho mica capito perché io ho due
capitoli sette e neanche un cinque. Comunque penso siate abbastanza furbi da
andare in ordine cronologico ^ ^. Come li aggiusto?
VII.
‘Questa?’
‘Troppo pesante.’
‘Quest’altra?’
‘Mm. E’ un nero diverso.’
‘Il nero è sempre nero!’
‘No. Non è vero. Io non sono mica un faccio
– buono – tutto come te, Henka.’
‘Già. Perché non ci pensi prima? Perché i
vestiti te li scegli appena prima di uscire, così da arrivare col cospicuo
ritardo di ore e ore?’
‘Anche tu arrivi in ritardo agli
appuntamenti.’
‘Io arrivo in ritardo perché mi addormento,
non perché devo scegliere i
vestiti. Sei peggio di una primadonna!’
‘Eccola!’
Indossò alla svelta la camicia di seta nera,
quella che lo faceva sembrare ancora più bello di quanto fosse, donandogli quel
tocco di eleganza che ho sempre apprezzato in lui; e mi intimò di sbrigarmi a
infilare il cellulare nella tasca dei pantaloni perché avevamo già perso troppo
tempo.
Come se fosse colpa mia.
Scendendo come furie per la scala
incrociammo la signora del secondo piano –c’erano tre appartamenti su tre piani
diversi, nel palazzo- che ci salutò con garbo.
Le urlammo un ‘Buonasera’ dal pianerottolo
sul quale ci eravamo quasi gettati e ci preparammo spiritualmente per una lunga
corsa in salita.
La fretta di Giulio era motivata: stavamo
davvero per perdere l’autobus, ed era l’ultimo della serata, fino a mezzanotte.
Quando arrivammo alla fermata la trovammo
pullulante di una folla che discuteva a gran voce dei fatti propri. Ho sempre
ritenuto odioso il modo in cui le persone hanno conversazioni private in
pubblico, pensando che gli altri possano trovarle in qualche modo interessanti,
piuttosto che inopportune. Forse sarà parte dei miei geni nordici, ma io parlo
sottovoce anche al cellulare per non farmi sentire da chi mi circonda.
Se mai andaste a cenare in un ristorante
dalle mie parti sentireste solo bisbigli. Per gli italiani è una concezione
quasi paradossale, incomprensibile.
Naturalmente il viaggio fu scomodo, in
piedi, aggrappati alle sbarre metalliche scivolosissime, sballottati senza
pietà a destra e a sinistra ad ognuna delle curve a gomito di cui le stradine
della costa ligure sono tristemente ricche.
E faceva caldo. Le bottiglie di birra
scolate pre – durante – dopo la tarda cena cominciavano a fare il loro effetto.
Avevamo bisogno di altra birra.
Giulio era schiacciato tra me ed un’altra
mezza dozzina di persone.
‘Cos’hai da ridere, Henka?’ Mi urlò
nell’orecchio per sovrastare il chiacchiericcio monotono.
‘Ti rovinerai la camicia! Perché ti sei vestito
così?’
Mi guardò con dolcezza e si limitò a
sorridere.
‘Oh! Come sei indisponente! Ti odio quando
fai così!’
E intanto mi scivolava sempre più addosso,
schiacciato dall’inarrestabile mandria di passeggeri.
‘Non ti piaccio?’
‘No, no.’ Non riuscivo più a guardarlo in
faccia, perché si era spostato. Dovevo alzare la voce per farmi sentire e
questo mi metteva a disagio. La verità è che, tra le altre cose, ho sempre
avuto i complessi per il mio accento. ‘Solo non era il caso.’
Immaginai che quel tentativo di districarsi
fosse una puramente teorica alzata di spalle.
‘Noi scendiamo alla prossima?’ Mi chiese.
‘Non lo so.’
Ma vedendo che tutti scendevano “alla
prossima” ci defilammo anche noi.
Quella era una cittadina più grande del
paese dove noi ci godevamo in tranquillità e lontano dalla caotica vita
notturna cittadina nella quale eravamo immersi per tutto l’anno le due
settimane di vacanza dedicate al relax più estremo.
‘Immagino che ci siano i fuochi d’artificio
come in tutte le feste di paese.’
‘Sì. Ma quelli non ci interessano.
Rintaniamoci in un pub fino alle undici.’
E così fu. “Fino alle undici” era un tempo
sufficiente per ubriacarsi con leggerezza d’animo.
Mentre le bottiglie di vetro verde
traslucido si accumulavano sul nostro tavolo io mi sporsi verso Giulio e con
voce troppo alta gli chiesi: ‘Perché abbiamo fatto quel discorso? Tutto… che
senso ha avuto riepilogare un paio di sensazioni che ti suscitano emozioni a
livello inconscio, se poi non mi sveli il motivo portante di tanta patetica
tristezza?’
‘Nessuno. Volevo solo fartene partecipe.’
‘Ti sembrava importante?’
‘Sì.’
‘E non ti senti un po’ meglio dopo tutto
questo sproloquio e tutta questa birra?’
‘No’
‘Perché!’
‘Non ho pensieri rassicuranti. Solo una
visione tragicamente pessimista.’
‘E’ un tableau tipicamente giuliesco.’
‘Non esiste la parola “giuliesco”.’
‘Beh, un giorno avrai un gran numero di
discepoli entusiasti di apprendere dalle tue sagge labbra la “filosofia
giuliesca”. Giuliea. Giulica. Come vuoi. Ma sempre di Giulio. Poi camminerai
intorno ad un cortile, blaterando teorie di insensata devastazione. E tutti
penderanno dalle tue labbra.’
‘Pazzo. E’ ora di andare.’
Pagammo il conto e uscimmo barcollando un
po’.
Sul vialetto Giulio sentì delle voci –io non
ero molto in vena- che si riferivano a noi. ‘E’ lui quello dall’accento
strano!’
‘Ce l’ha con te.’ Mi sussurrò.
Io mi voltai impacciato verso la ragazzina
dalla maglietta scollata.
‘E’ finlandese.’ Sorrise Giulio. Un sorriso
che avrebbe steso qualsiasi donna con un po’ di buonsenso.
Se ne andarono.
‘Maleducate!’ Inveii Giulio, lasciando la
presa del mio braccio. ‘Ochette sgraziate.’
E in quel momento caddi riverso sul
marciapiede.
--- Abbandoniamo Henka spalmato sul cemento.
I soliti finlandesi che trinken und trinken. Magari vodka. Non ho mai visto una
foto del vero Henka (tastierista dei sonata) senza una bottiglia di vodka nei
pressi.
Ok, non è un gran capitolo, ma ‘sti due
dovevano pur arrivare a destinazione!
Oh, che periodo deprimente. Meno male che
qualcuno mi ha commentata…
Ah, Zero. Che bello vedere di nuovo il tuo commento, non
hai idea T___T (siccome ero veramente depressissima, altro che atarassia,
questo mi ha veramente tirata su di morale). Da buona pettegola mi domandavo
dove fossi finito… (dove fossero finiti tutti, in fact). Magari posso ricucire
quel discorso se me lo chiederai un altro paio di volte. Però l’ho già detto,
forse è troppo personale. Non so se me la sento, visto che non siamo nel forum.
Non si può ribattere, qui. Ah ah. Comunque sto andando avanti bene? È che ho
preso un votaccio nel tema e sono entrata in una specie di crisi mistica.
[anche se le motivazioni di suddetta valutazione scarsa erano: 1) stile
contorto (buttiamo via tutta la letteratura fino a Manzoni e oltre, allora,
prof)2) operato consequenziale (se
preferisce due stupidate buttate lì a caso, prof)3) QUESTA è BELLA: troppe rielaborazioni personali nell’ultima
parte (la domanda era: ‘Rielabora personalmente i dati forniti.’, prof). Ci
mancava solo che mi desse dell’analfabeta]
Sensei… mi ero dimenticata di dirti di non
firmarti sensei, altrimenti tutti avrebbero pensato che sei una sensei, invece
sei solo la MIA sensei (o coscienza coscienziosa, blink-blink). E ti prego di
non parlare di Viale e delle sue paresi facciali qui, è già abbastanza
problematico vederlo tutti i giorni. Ho paura, l’avresti anche tu se un uomo
peloso affetto da paresi facciale ti invitasse a cambiarti in classe (con lui
in classe).
Hai mica il mio libretto? Credo di averlo
perso di nuovo. Quante migliaia di libretti ho perso in tre anni di liceo?
Perdo sempre tutto… sono una disgrazia (e non ridere, che sei stata una di
quelle che m’hanno scritto atarassia sul braccio! E non chiamarmi Marto, non ha
senso!!!)
Mi raccomando commentate in tanti che devo
uscire dalla crisi mistica e conquistare il mondo (sennò ciao atollo per coloro
ai quali era stato promesso… ß schifoso e bassissimo ricatto morale che verrà ignorato)
Ah… il prossimo capitolo è uno dei miei
preferiti. Preparatevi spiritualmente a paginate di descrizioni ^ ^. Lo posto
subito… filate a leggere!!!
--- ACHTUNG: la prima parte può sembrare
sconnessa. Ricordatevi che Henka è un po’ alticcio…
IX.
Repentini fulgidi abbagli di cieli in
tempesta dai colori così brillanti, cupi, malinconici, da sembrare essere
usciti da un quadro romantico di Friederich nella sua ora più infausta,
danzavano palpitanti in giravolte di vorticoso delirio innanzi ai miei occhi
offuscati ed appesantiti.
Le nuvole disegnavano contorni aggraziati
che scemavano via via nell’azzurro, nel blu e nel violetto della laguna
malferma del cielo, e come cavalcanti orde di schiumose onde soffici si
riversavano nel loro delicato, gentile e soave balletto per quella distesa ora
placida ora tormentata di stelle cangianti in tutto e per tutto simili ad un
buio e scintillante prato di incantevoli e magici fiori luminosissimi
Appariva come una serie sovrastante ed
ineffabile nella sua leggerezza di immagini irreali e giochi di luci e
rifrazioni, nella mia mente annebbiata, ma talora di una nitiditezza acuta al
punto da ferirmi gli occhi, altrimenti scialbi, scoloriti, annacquati tanto da
farmene dispiacere.
Scivolavano gli uni sugli altri rimestandosi
in una miscela sempre pura di tinte e sfumature cromatiche tenebrose, lugubri e
tristi.
Il mare, che avvertivo vicinissimo
risuonarmi nel suo perpetuo e leggero sciabordio con una calma e una pacatezza
così infelicemente inumane, mi lambiva i sensi come ovattato da una coltre
sottile di seta dolcissima al tatto sopraffino. Leccava la terra con costanza
nel suo gioco acquatico tanto ben calibrato di luci e ombre, di caloroso e
freddo, di forza e saggezza.
Io non vedevo il mare, potevo solo udirne il
rollio delle onde che si infrangevano sulla spiaggia e contro gli scogli aguzzi
e taglienti come la lama di un rasoio.
Ma vedevo il cielo così magistralmente tinteggiato,
e, lo giuro, me lo ricorderò per sempre, le sue leggere sfumature di colore che
spaziavano dal blu più penetrante dell’oceano al rosso Magenta, a tutti i
colori tipici della tempesta –il bleu manganese, il cobalto, l’antracite, il
petrolio o la pervinca- fondersi con grazia e drammaticità oscura in una serie
infinita di piccole sfumature eclatanti, traslucide e smaltate che nessun genio
pittorico, per quanto sensibile ed impeccabile, avrebbe mai potuto lontanamente
imitare e raggiungere in splendore e maestà.
Però i quadri degli impressionisti avevano
un’analogia di fondo con quel paesaggio tanto surrealmente impregnato di
misticismo ed escatologia: penso di non aver ritrovato nemmeno una macchia di
vero nero.
Penetrante ed incisivo.
I granellini ruvidi della sabbia cominciarono ad
insinuarsi sotto la maglietta leggera di cotone e a graffiarmi la pelle tenera
e tanto candida.
Penso di aver riso di fronte all’evidenza
netta dello spettacolo che mi si stava offrendo.
‘E questo?’ Ammiccai indicando la volta d’Atlante. Lui si
che doveva aver toccato con mano il Capolavoro.
‘Henka, alzati. Davvero.’
Non c’era nessuno attorno a noi, e pensai
fosse strano data l’evenienza. Ma Giulio mi spiegò con semplicità e una certa
nota di stanchezza nella voce che mi aveva quasi trascinato seco per uno
stretto sentierino nascosto tra gli scogli ed una rada ed arida vegetazione di
macchia mediterranea fino ad una piccolissima, graziosa caletta che
condividevamo solo noi due e i nostri discorsi di muta comprensione reciproca.
Lui l’aveva scoperta per caso.
Sospirai mentre facevo leva sulle braccia
robuste e mi sollevai dalla sabbia ancora tiepida. Mi guardai intorno e
osservai con più circospezione ed un’ammirazione quasi tangibile la sinfonia
accurata del paesaggio che si snodava progressivamente davanti ai miei occhi
sbalorditi.
Eravamo quasi chiusi tra due pareti di
roccia molto alte dalle quali si dipanava una sottile lingua di scalee scavate
direttamente nella pietra –eccolo, il sentiero per il quale ero stato tanto faticosamente
trascinato-. Dietro di noi si ergeva con imponenza e pomposità orgogliose una
parete a strapiombo alta almeno una ventina di metri, sulla quale cresceva un
boschetto refrigerante di pini marittimi.
La spiaggia, come tutte le spiagge della Liguria,
non era ampia fino alla battigia, piuttosto una lingua sottile, e non correvano
più di quattro metri dal dirupo contro il quale ci eravamo accoccolati al
bagnasciuga.
In lontananza scorgevo tre isole il cui
profilo era illuminato dalle luci della luna e dai puntini indistinti e
tremolanti delle abitazioni. Un faro, sulla più piccola di queste, illuminava
costantemente ad intervalli regolari la costa nella nostra direzione.
Ma il vero spettacolo era il mare, così
fastidiosamente simile in tutto e per tutto al cielo opaco nellesfumature, se non per il moto ondoso
aritmico e quella tragicamente toccante scia luminosa che lo attraversava con
caparbietà.
Allora doveva essere trascorsa la mezzanotte
perché la cerimonia tradizionale era già stata effettuata: ogni anno, alla fine
di Luglio, venivano lasciati scivolare in mare dei semplici lumini bianchi, un
perlaceo distillato di lucentezza, in piccole miniature di imbarcazioni che
dovevano permetterne la traversata.
I lumini viaggiavano fino ad essere sopraffatti
dalle onde in una processione che mi incupiva l’animo.
Giulio mi stava accarezzando i lunghi
riccioli biondi per ripulirli dalla sabbia.
Mi sdraiai di nuovo appoggiandogli la testa
in grembo, mentre lui continuava la sua opera meticolosa, e mi sfuggì un
sospiro di profonda tristezza.
‘Capisci cosa voglio dire? Quest’atmosfera…
nient’altro che un’insieme di percezioni sensoriali, è in grado di
condizionarti, seppur in minima parte, l’animo.’
‘Sì. Sono un po’ triste.’
‘Lo sospettavo Henka.’
‘E tu non lo sei?’
‘Lo sono sempre.’
‘Mm. Dimenticavo quanto sconfinate fossero
la tua autocommiserazione e la tua perenne depressione.’
Fece un verso che significava di tacere
–avevo imparato anche a decifrare la sua lingua fatta di espressioni facciali e
smorfie-.
‘Ma io non voglio essere costantemente
influenzato nella mia personalità!’
‘Eh, ma è così dall’inizio del modo! Sono
situazioni che scattano a livello inconscio.
L’uomo, per forza di cose, percepisce il
mondo che lo circonda, e ne è vincolato. Il giorno che ci dimenticheremmo della
nostra anima, allora saremmo finalmente felici. Ma a quel punto non avrà più
alcuna importanza.’
--- Mi vergognavo a darvi solo quel
capitolettino-ino-ino… e poi mi porto avanti, perché tra un po’ di päivä
(giorno. Il plurale non lo so fare. Chissà quando arriva la grammatica
finlandese che ho ordinato). Dicevo che tra un po’ di giorni (e non mi ricordo
di preciso quando, tanto per cambiare) vado in gita (ah ah). Sto via una
settimana, quindi devo anticipare due chappy prima o dopo. Sennò non finiamo
più… vero che siete contenti? Eh?
Come sono magnanima.
Mah, mi sento depressa. Sensei, un’altra
mail! Sto per morire! T___T non sono abituata a questo schifo… uffa…
Lo sai che… ho rivisto i mitici bigliettini
di mate e credo di aver copiato da te… nel senso… aver copiato proprio la tua
verifica, il che non sarebbe grave se non fosse per il piccolo particolare che
erano due verifiche diverse. Come ho potuto? T___T. Ho anche rotto la busta del
biglietto del compleanno di Winnie… quella con scritto “auguri per i tuoi 4
anni”. La conservavo da un sacco di tempo. Sigh.
A Pasqua sono andata a Tellaro e ho
cominciato a vagare sconsolata per tutti i posti che vi ho descritto (la
maggior parte non sono inventati). Mi ricordavo piuttosto bene. Strano. Io non
ho una buona memoria. Qualcuno dice che non ho una memoria.
Comincio a credere di essere pazza, a furia
di sentirmelo ripetere, ripetere, ripetere…
Scusate i miei piccoli sfoghi… Vorrei assolutamente
recensioni per questo capitolo, perché è uno dei miei preferiti. Vi prego,
mettetevi d’impegno. Sniff… solo due minutini… dai…
--- vorrei gentilmente farvi sapere, nel
caso a qualcuno interessasse, che siamo giunti proprio a metà del racconto ^ ^
X. (capitolo kymmenen)
Non sempre si riesce a penetrare nel
profondo con la stessa sensibilità spiccata e toccante che possiedono i poeti,
fino a districare i recessi impenetrabili e mirabilmente sfaccettati dell’animo
affranto.
È una qualità che troppe volte sfugge, una
humanitas terribilmente difficile raggiungere in quanto stimolata da pensieri e
dottrine troppo sofisticate ed impegnative nei confronti del diritto naturale
dell’uomo.
Ciò mi mortificava. Veramente. Perché per
quanto fossero sconfinatamene vibranti le passioni di Giulio, e per quanto io
mi avvicinassi con cautela ad esse con comprensione, non riuscivo mai ad
arrivare ad afferrarle fino in fondo, ed il muro che si ergeva tra lui ed il
resto del mondo, tra lui e me, sempre lo stesso che già rivelai essersi
costruito da solo, e contro il quale rimbalzavano i suoi dolori ritornandogli
addosso, non veniva mai nemmeno scalfito nella sua massiccia evidenza di
impermeabilità.
E se il muro non
veniva abbattuto Giulio rimaneva isolato nel suo pessimismo. E se Giulio non
poteva essere raggiunto, se io non potevo raggiungerlo, nessuno sarebbe mai
riuscito a consolarlo.
E se nessuno
l’avesse mai consolato la sua tristezza non avrebbe fatto altro che acuirsi.
Il che, intendo
tutto questo ragionamento maldestramente strutturato, mi faceva pensare di
essergli fondamentalmente inutile ed indifferente. I miei tentativi di
redenzione non lo raggiungevano per i motivi più sbagliati. A cosa gli servivo,
nel profondo? Non mi riteneva forse alla stregua di tutte quelle persone che lo
avvicinavano così superficialmente nel corso della giornata per il suo bel
faccino?
Avrei tanto voluto dimostrargli di essere
qualcosa di più, e di volergli bene al punto di essere disposto di entrare in
una sorta di simbiosi empatica che aveva come prerogativa il raggiungimento di
effetti almeno lontanamente terapeutici per i pezzettini sparsi e scheggiati
del suo cuoricino sensibile infranto.
Avrei preferito che mi prendesse così,
almeno.
E, invece, anche quella notte, il luccichio
fievole e distante della sua anima era lontano quanto il faro che ripetutamente
ci abbagliava, quanto quei commoventi lumini che si allontanavano dalla costa
sospinti da onde impietose, e, uno dopo l’altro, ne venivano sopraffatti.
Ah, sì, i lumini.
Giulio mi accarezzava i capelli, continuava
lentamente con la stessa nota di dolcezza che imprimeva nella voce quando
pronunciava il mio nome. E ultimamente lo faceva piuttosto spesso.
‘Henka, Henka!’ Mi chiamava, nel modo strano
e non volutamente sbagliato in cui gli italiani, gli stranieri in generale,
parlano il finlandese. Anche solo un nome.
Lo stesso problema che ho io nei confronti
di questa lingua complessa, comunque.
Giulio ripeteva spesso che il mio accento
secco e piuttosto gutturale, quella maniera ingenua in cui mi esprimevo
talvolta sbagliando a coniugare un congiuntivo, cimentandomi nella pronuncia di
una lingua che avevo dovuto faticosamente imparare dalle basi, gli faceva una
certa tenerezza.
Per conto mio avevo disperatamente cercato
di insegnargli un paio di parole in quella “allucinante accozzaglia di strani
suoni senza senso”, immaginando che per un linguista come lui, uno che si
appassiona nella lettura di spessi tomi riguardanti le rotazioni consonantiche
e vocaliche che dall’ Althochdeutsch modificavano nell’Old English delle prime
popolazioni di schietta germanica a popolare la Britannia, potesse risultare in
qualche misura interessante lo studio di un’ulteriore lingua straniera.
Non si era mai impegnato, non gli
interessava, non voleva ampliare la confusione linguistica che già aveva in
testa; così io mi tenevo il finlandese e lui la sua buffa inflessione
meneghina, vivendo in pace con l’anima nostra, e amen.
Ma questo discorso non ci interessa.
Volevo ritornare ai lumini, all’episodio in
sé e per sé, che è più impressivo della poco precisa fotografia che potrei
dipingervi di un luogo tanto ineffabile.
Certe cose bisogna vederle e toccarle con mano.
‘Henka…’ Lo stava dicendo ancora. ‘…Henka,
non dormire!’
‘Mm?’ Che risposta furba gli diedi!
‘Oh, troppa grazia.’
‘Taci, seccatore!’
‘A che pensavi?’
‘A molte cose insieme. Scomodo, vero?’
Alzò le spalle. ‘Scomodo, sì, e non ce la
faccio.’
‘Non ce la
fai? Ma dai, non ci credo.’
‘No, non ce la faccio più. Henka, mi fa male
la schiena. Ti prego, ti prego, alzati! Ho una protuberanza calcificata e molto
ruvida piantata tra due vertebre.’
‘Scemo. Mi riferivo al flusso di coscienza.’
‘Quello non è scomodo. È odioso, irrazionale
ed irrefrenabile. Questa posizione è scomoda. Possiamo cambiarla?’
Gli concessi di risollevarsi dalla sua
scomoda posizione e lo abbracciai ancora più strettamente di prima, facendo
scorrere le mie mani sulla seta fine e delicata della sua camicia.
Si lasciò avvicinare le labbra e lo baciai.
Davvero. Senza nemmeno sapere cosa mi prendeva, avvertendo solo la forte
scarica d’adrenalina che mi invadeva il corpo, permisi alla sua lingua di
sfiorare la mia.
E mi piaceva.
--- che vergogna ^///^. Lo so che ci ho
impiegato mezza storia per farli dichiarare… ma… non so se vi va bene o no. A
me così piuttosto luuuuuuunga…
Il liso m’ha detto che secondo lei scrivo
troppo complesso. Per me il problema vero è che mi sento troppo
ripetitiva.
Ehi, unico lettore? Your opinion? Mm? No, non tu, sensei… come? Ci sei solo tu? Oh… che bella notizia. Noooo…
mi ero tanto impegnata a sistemare tutto T___T anche quella cosa dei
riferimenti filosofici…
Ma su… A volte si da, a volte si prende.
V___V (sono proprio savia)
Dolce far niente. Che bello, dopo che si
passa l’interrogazione di letteratura inglese su milioni di pagine la vita
sembra più semplice. Sono quattro giorni che non faccio NULLA.
MA E’ ARRIVATA LA GRAMMATICA FINLANDESE
AHAHAHAHAH!!!
Nessuno m’aveva detto che il finlandese ha
15 casi, 6 coniugazioni verbali, persino 8 vocali e più eccezioni che strutture
che seguono le infinite regole grammaticali…
Minä itken (Piango). Credo. Perché non ho
capito molto bene la storia della rotazione consonantica nel tema vocalico
debole/forte dei verbi del primo gruppo.
E qualcuno sa cosa siano i casi abessivo, illativo,
allativo, adesivo…?
Sono contentissima. Immaginavo mi arrivasse
un bel vichingo biondo con gli occhi azzurri che mi diceva “salve, Marto, sono
la tua grammatica Finlandese”. Mi è arrivato solo un libro vero. Pazienza
V___V.
Io devo imparare il Finlandese. Devodevodevodevo! DEVO leggere il Kalevala in
Finlandese, è il mio unico desiderio da quando lessi il LotR (a parte
conquistare il mondo e un’altra decina di migliaia di bazzecole). Ora la parte
difficile non è imparare il Finlandese (ahah. E pensavo che il tedesco fosse
complesso) ma trovare un’edizione finlandese del Kalevala entro i confini della
provincia di Pavia o giù di lì.
OPISKELEN SUOMEA!!! AHAHAHAH!!!
La potrei comprare in Finlandia (proprio
sotto casa…)
Sensei, ti informo che porterò la mia
grammatichina su in gita, se mai trovassi un posto in valigia, visto che tutto
lo spazio non destinato al vestiario è stato occupato da biscotti e un bidone
da dodici chili di Nutella. Roba da contrabbando…
Oh, sì, ve lo dico: io parto ^ ^ (felicità…
fiori e maiali che cantano… ♪ ho degli sbalzi d’umore incredibili ♪ ♪ ♪)
I go in
the schooltrip for a week ^ ^.
Ciao ^ ^
Marto_quasi_in_gita
(sensei, ma perché Marto, poi? Che vuol
dire? Sono anni che me lo chiedo…)
--- COMINCIA UFFICIALMENTE L’EPOPEA DA
PROFUGA DELLA MARTO. A TRINO VERCELLESE, LA ‘ZATTERA GALLEGGIANTE IN
MEZZO ALLE RISAIE’. SE TRA VOI C’è UN TRINESE… O Giù DI Lì… MORANO… ‘STI
PAESELLI PIEMONTESI… VI SONO VICINA SPIRITUALMENTE.
XI.
Insomma, cosa ci rimaneva, alla fine?
Giulio aveva preso miracolosamente a tacere.
E, forse, avrei dovuto preoccuparmene.
Non era afflitto dalla sua esulcerante
melanconia?
Vi giuro che a volte non lo sopportavo. A
volte avrei voluto afferrarlo per le sue spalle esili e scrollarlo con
violenza, gridargli di smettere, che non c’era solo male, e buio, ed una
patetica epitome delle orribili pene dell’inferno.
‘Sai, secondo me tu non sei davvero così
insensibile.’
Sapevo che il suoi sovraumani silenzi e la sua profondissima
quiete non sarebbero durati. O meglio, avrei
dovuto aspettarmelo.
Una nuova sensibilità? Probabilmente il mio
carattere stava leggermente modificandosi per la troppa vicinanza con un
bell’essere della forgia del mio coinquilino.
‘Sto dicendo che devi lentamente riscoprire
quel lato occultato del tuo carattere. Andare a fondo.’
‘Andare a fondo?’
‘Scavare.’
‘Faccio un buco…’
‘Idiota.’
Respirò profondamente. ‘Senti… mi parli un
po’ di casa tua? Non mi hai mai detto nulla.’
‘Della Finlandia?’
‘Sì. Del tuo paese… della tua vita prima di
trasferirti da me…’
‘Io vengo da una zona sotto la Lapponia
molto vicina al confine russo di Murmansk. Hai una vaga idea di dove si trovi
Kemi?’
‘Più o meno.’
‘Ho un ricordo molto vivido della casa di
mia nonna, che era tipicissima, dal tetto basso, in legno, tutta in legno, come
voi nemmeno ve la immaginate, e le pareti esterne pitturate in rosso con
pigmenti che preservano dal freddo atroce e pungente dell’inverno artico. Lì le
case sono tutte separate le une dalle altre dal loro giardinetto di erba verde,
e non è lo stesso verde che avete a qui in Italia.’
‘Che verde è?’
‘E’… più verde. Come faccio a spiegarti
com’è un colore?
Vivevo quasi sulla linea del circolo polare
artico.’
‘Oh. Ma d’inverno fa freddo.’
‘Cadono altissimi, impenetrabili cumuli di
neve bianca. Sono paesaggi che lasciano un gran calore, comunque, sono stupendi
e bellissimi.
A qualche chilometro da casa mia si vede
l’aurora boreale.’
‘Non credo che riuscirei a sopportare delle
temperature del genere.’
‘Perché non ci sei abituato.’
‘Ma che clima c’è, d’estate?’
‘E’ un po’ come la vostra primavera. Fa
abbastanza caldo. La Finlandia è piena di boschi e laghetti dove l’acqua, al
tramonto, si tinge di viola. E intendo che d’estate il sole tramonta tardi,
dove tramonta.
Ho una lunghissima serie di immagini
fotografiche nitidamente stampate nella mia testa, davanti agli occhi. Ogni
tanto le riguardo, e mi sembrano meravigliose e pervase di quella
trascendentale perfezione divina.’
‘Uao. Devono essere davvero posti incantevoli.
Mi piacerebbe che tu un giorno mi portassi con te e me li mostrassi.’
‘Cicero pro domo sua.’
‘Sì. Te ne prego.’
‘Ti giuro che faremo quel viaggio insieme,
se ancora lo vorrai. E ti farò visitare tutta la penisola Scandinava, ci
metteremo un mese almeno. Potremmo andare in moto, e fermarci a dormire nei
campeggi, in tenda. Perché ci sono dei campeggi davvero enormi, immersi nel
verde, in tutte quelle zone.’
‘Mi stai prendendo in giro, Henka?’
‘No! Promesso!’
‘Davvero, promesso?’
‘Promesso!’
Lanciò un sassolino lontano, nell’acqua cupa
e torbida del mare poco mosso della notte.
‘Non preferiresti tornare in Finlandia, se è
davvero così bella e vivibile?’
‘Non così profondamente.’
‘E come mai?’
‘Ho i miei motivi… devo finire l’università…
tu… adesso alzati.’
--- Morte in vacanza atto secondo/Marto: in
realtà sembra un capitolo inutile, ma ha un suo senso fondamentale ^_^. Però a
me sembra noioso…
Morte in vacanza atto primo/Vlad: scrivi
‘senso considerevole’ [fitta di Divina Giustizia colpisce Vlad al fianco]
Marto: i tuoi cinque minuti di gloria…
Vlad: O__O [non capisce]
Marto: commento sul mio lavoro? Mm?
Vlad: belloooooooooooooooooooooooo!!![non me lo sto inventando!!!]
Marto: posso farmi pubblicità?
Vlad: prego.
*** dal testo di Metropolis al jingle del
detersivo tantantantan ***
Filate tutti a leggere l’altra mia
one-shottina che ha un titolo suomi il quale, al momento, mi sfugge… Olenko
valon edes- non mi ricordo come si dice ‘davanti’. Maledetto finlandese con
venti declinazioni T___T.
*** fine reclame pubblicitaria ***
(Vlad il tuo gatto mi sta uccidendo)
Allora, buon 25 aprile a tutti, io lo
trascorrerò da Vladimira (ehi, è già il secondo giorno a casa tua!) a vedere il
Corvo (siccome non l’ho mai visto e mi hanno detto che ricordo molto ‘il
corvo’. Non nel senso che sembro un uomo, eh…).
Lasciate un commentino, se leggete ^_^
E poi ho risposto nella pagina recensioni,
se non aveste notato. Filate a leggere l’altra fic. Siete OBBLIGATI. Schnell! à
Sono le tre del mattino e non
riesco a prendere sonno.
In the end è un capitolo
pesante…^ ^’’’
XII.
Alla fine si fa sempre come
vuole Giulio.
Non che ci metta particolare
impegno persuasivo nel tentare di convincermi della giustezza delle sue idee o
proposte. Basta che mi guardi con aria supplichevole ed io accondiscendo,
perché mi faccio intenerire da quei sottili occhi verdi e da quella boccuccia
di rosa dispiaciuta.
Così, nonostante ce l’avessi
messa tutta a portarlo con me, dopo esserci staccati con remore da quel
paesaggio metafisico per risalire il sentierino serpeggiante scavato nella
roccia, camminammo a rapidi passi fino alla fermata dell’autobus dove lui,
mostrandomi un volto implorante e disperato mi fece notare che erano già
arrivati tre supporti e che comunque la calca rimaneva asfissiante. Finii per
adeguarmi al suo capriccio.
‘Va bene…’ Sospirai con tono di
rimessa rassegnazione, ritornando sui miei passi.
Non mi stava seguendo.
Si voltò verso di me, che già mi
trovavo ad alcuni passi di distanza dalla sua posizione –se ne stava con la
schiena dritta impuntato su quel marciapiede sporco- e mi disse candidamente,
sorridendo: ‘Di lì tagli tutto il pezzo di scalinata, Henka. Accorci la
strada.’
‘No.’ Scossi la testa
riccioluta. ‘Non – se – ne – parla.’
‘Beh.’ Scrollò le spalle
sottili. ‘Io la strada la conosco. Puoi tornare da solo se non ti da fastidio.’
‘Lo stai facendo di nuovo!’
Urlai dall’altra parte della strada, prima di avvicinarmi.
‘Cosa?’
‘Mi ricatti moralmente, come
fanno i bambini piccoli.’
‘Ma se funziona…’ Si rabbuiò un
istante. ‘Anche tu lo stai facendo di nuovo.’
‘Di che stai parlando?’
‘Hai ricominciato a
trotterellare al mio fianco.’
‘Io non trotterello!’
‘Ah… invece sì. Per esempio,
adesso, in questo momento, tu stai trotterellando.’
‘No! Sto ciondolando da una
parte all’altra di questa viuzza strettissima per fare in modo che tu mi guardi
in faccia, ma questo non ha nulla a che vedere col trottolare.’
‘Trotterellare.’
‘Sì. Quello.’
Giulio fece spallucce. ‘Forse
non sai nemmeno di cosa sto parlando.’
‘Invece –‘
Si mise a canticchiare a bassa
voce una canzone che non avevo mai sentito, ma lui mi assicurò che, all’epoca
dei suoi genitori, era famosissima, un vero pezzo da hit parade.
Non è che Giulio fosse
particolarmente stonato, lui aveva una voce che grattava, e molto bassa. Quello
non era certo il suo genere di canzone. Diceva: ‘Magari ti chiamerò trottolino
amoroso dudu e dàdàdààà… il tuo nome sarà il nome di ogni cittààà…’
Sul momento mi fece ridere
molto. Ancora se ci ripenso, se ripenso a tutta quella notte e a come mi sembra
impossibile che potesse essere trascorso un lasso di tempo così breve per un
discorso così ampio che, avrei giurato, avrebbe richiesto una vita mortale per
poter essere degnamente concluso, sorrido tra me e me.
‘Immagino di non poterti
chiamare trottolino amoroso.’
‘No. Anche se non so cosa sia
un trottolino.’
‘E’ una cosa simpatica.’
‘Non ci credo.’
‘Allora sei un uomo di poca
fede.’
Camminando lentamente col suo
portamento aggraziato, le braccia incrociate dietro la schiena ritta mentre si
voltava a destra o a sinistra per guardare il porticciolo, un giardino
particolarmente fiorito di buganvillee ed edera verde che si arrampicava sulla
cancellata di una casa coloniale, uno scorcio caratteristico sul mare che
sarebbe potuto fuoriuscire dalla tela di un pittore puntinista, la luna che era
stranamente rossa, piena e più grande di quanto fossi stato abituato a
riconoscere, procedette fino ad uscire dal centro del paese e dalla piazza su
cui dava la chiesa dalla facciata massiccia a capanna, circondata da aiuole
rinsecchite e grossi vasi di terracotta riempiti solo da terriccio riarso dal
solleone, e si infilò in una viuzza laterale, chiusa da alte costruzioni
intonacate in rosso o giallo, quei lunghi vicoli confusi e sempre in salita che
contraddistinguono la zona e che, a parere di Giulio, avrebbero dovuto essere
ripuliti per poter riconquistare l’alone di fascino che era giusto possedessero
luoghi tanto incantevoli.
Ma c’erano un sacco di cose che
avrebbero dovuto “essere ripulite” per lui.
Giulio non metteva mai le mani
in tasca, per lo stesso motivo per cui camminava dritto come un fuso. Gli
sembrava poco elegante.
Gli avevo più volte ricordato
quanto questa sua ostinazione di dimostrarsi sempre impeccabile –di fronte a
tutti tranne che al sottoscritto- potesse essere percepita dalle persone come
una mancanza di naturalezza.
Naturalmente lui non smetteva
di muoversi lentamente e con una certa grazia di movimenti, come se ogni suo
gesto fosse calcolato per intensità e durata, e i suoi passi dovessero essere
gentili sulla terra cosparsa di teneri petali di fiori.
Io sapevo che lo faceva per un
puro desiderio estetico e perché era stato bacchettato sulle nocche fin da
bambino, e questo, a ben vedere, gli bastava.
Mi guidò per alcune vie buie e
maleodoranti finché non giungemmo ad una scalinata in cotto più ampia, almeno
un metro e mezzo di larghezza. Non potevo distinguere quanto fosse lunga perché
svoltava improvvisamente con una curva a gomito dietro ad un angolo.
Proseguimmo in silenzio contro
il muretto di pietra viva che si alzava di un metro dal suolo e sul quale un
giardino terrazzato era separato dal vuoto da una rete metallica. Alcuni
gradini portavano al cancelletto che vi immetteva. Dall’altra parte la strada
proseguiva, per mia profonda gioia, in piano.
Continuammo nella direzione
della costa –sì, mi sembrava proprio che stessimo tornando indietro- per alcuni
minuti, incontrando un gran numero di giardini fioriti, finché non sbucammo di
nuovo nella scalinata di cotto.
Fino a quel momento avevamo
proseguito nel buio, e finalmente la luce di un lampione lontano ci illuminava
la via tortuosa ed impervia.
Giulio si sedette su un basso
gradino per aspettarmi, e vidi che osservava l’orologio. Scorgendo di sottecchi
il quadrante mi accorsi che mezzanotte era già passata da ventitré minuti.
Volevo sedermi anch’io.
Mi sorprese come una tempesta
nel deserto.
‘Mi sono buttato.’ Disse
semplicemente con quella sua usuale voce calma e ben calibrata.
‘Scusa?’
‘Mi sono buttato.’ Ripeté
annuendo, come se stesso parlando di un argomento conosciutissimo ed io avessi
avuto la possibilità, il dovere, di capire a cosa si stava riferendo.
Improvvisamente alzò lo sguardo
e mi squadrò coi suoi occhietti verdi sempre disperati aggiungendo un sottile:
‘Stasera. Prima di cena.’
‘Ah.’
Mi accovacciai accanto a lui
che subito si adagiò appoggiando la testa sulle mie gambe e distendendosi per
quanto permetteva l’angusto passaggio e i suoi centonovantatre centimetri di
superba altezza.
Aveva staccato un rametto
dall’oleandro che ci sovrastava e ora stava giocando coi petali rosa dei fiori
teneri e le foglie lanceolate.
‘Questi si chiamano “corimbi”.’
Indicò i fiori che erano
disposti tutti allo stesso livello.
‘Corimbo…’ Ripetei addolcendo
la “r”. Se c’era una lettera che facevo fatica a pronunciare era la “r”.
‘E il motivo è molto semplice.
Delirante.’ Mi interruppe dagli infausti pensieri sui miei problemi di
fonetica, precipitando di nuovo nel discorso che fino a quel momento aveva
taciuto. ‘Ero così disperato che avevo bisogno di sentirmi male anche
fisicamente. Allora mi sono gettato vestito nell’acqua gelida.
Dimmi, Henka,
non ti viene mai la straordinaria ed irresistibile voglia di annullarti, di
annientarti?’
--- non
prendetemi per una pazza deviata (a parte per la parte sul trottolino amoroso…
per quella posso darvi ragione), io non mi sono mai buttata in mare!!!
Chiariamo…
perché Vlad quando ha letto ha fatto una faccia tipo: 0___0. Ha pensato che Giulio
avesse voluto suicidarsi. Ma no, voleva solo stare un po’ male fisicamente…
niente suicidio.
3° giorno di
profuga della Marto: diario di bordo.
Vlad: non
abbiamo fatto NULLA!!! Solo cazzeggiato!!!
Ore 2.35:
ricerca su Gooooooooooooooooooooooogle col mio piccy di un’immy dei sonata da
inserire nel mio profilo (andate a vedere com’è bella!!! C’ho messo anni a
trovarne una che si intonasse col layout del sito ^_^ ß maniaca)
Ore 2.57: Vlad
smettila di parlare di devianze psichiche.
Ore 3.02
Svegliate la sensei!!! Dolce Sensei!!! Dovete farmi tutti compagnia nelle mie
lunghe notti insonni…
Ore 3.07:
potremmo andare su e giù in ascensore… ß vlad’s idea.
Sapete,
l’ispirazione per questa storia mi è venuta dal mio ex fisioterapista Marino.
Lui voleva uccidermi per motivi che mi sono sempre rimasti oscuri… una volta
m’ha messo il tens a manetta, mentre mi ero addormentata sul lettino… a momenti
muoio… Marino ti ricordi come stavamo bene insieme, io, tu e la mia schiena
distrutta? E cantavi: ‘Meravillllllllosa… caduta dalle nuvole (ß non è così)…’ e io’Aaaaaaaaah! Bastardo
m’hai tirato un secchio d’acqua in faccia!!!’
Ho malissimo
alla schiena. Non riesco a dormire dal mal di schiena…
--- ^_______^ HO TROVATO 70 EURO IN UN LIBRO!!!! me li ero dimenticati lì tre anni fa...
XIII.
Il en était d’eux
comme du chèvrefeuille
qui s’attachiat au coudrier :
lorsque il s’est enlacé
autour de la branche,
ils peuvent bien vivre ensemble,
mais si on voulait le séparer,
le coudrier mourait bientôt
et le chèvrefeuille mourait égalment.
« Belle amie, il en est ainsi de nous :
ni vous sans moi, ni moi sans vous ! »
Per loro era
Come il
caprifoglio
Che si stringe
al nocciolo:
dopo che si è
avvinghiato
attorno al
ramo,
essi possono
vivere felicemente insieme,
ma se li si
vuole separare,
il nocciolo
morirebbe presto
e così il
caprifoglio.
“ Bella amica,
in questo modo è anche per noi:
ne voi senza
di me, ne io senza di voi! ”
Lai du
Chèvrefeuille.
Turbini infuocati di meditazioni senza senso convogliavano
nella mia anima pensante ubriacandomi di assurdità ed accostamenti immotivati
di parole accuratamente selezionate da meccanismi inconsci semplicemente per il
loro suono mirabile.
Questo è quello che chiamo flusso di pensieri senza nesso
logico. E non so perché ogni tanto ne sono affascinato e soggiogato.
Forse avrei dovuto cominciare a scrivere delle poesie.
Magari un diario.
Aveva una certa perversione quella realtà che mi appariva
così efficacemente distorta.
Non vi saprei spiegare il motivo logico. Non vi saprei
spiegare un motivo e basta.
Avevo cominciato a pensare ai cristalli.
Ricordai che un giorno sfogliavo il mio infallibile
vocabolario monolingua, fedele compagno di nottate di studio all’insegna di
questo sofisticato idioma: IL
GRANDE DIZIONARIO GARZANTI della lingua italiana.
Ero ancora uno studente delle superiori assolutamente
convinto della sua scelta di studiare l’italiano e completamente immerso nella
dolcissima felicità di aver vinto una borsa di studio per frequentare un’Università
italiana.
Avevo dovuto attraversare mezza Finlandia per trovare un
vocabolario monolingua del genere: duemilatrecentodue pagine di suoni melodiosi
e articolati che non aspettavano altro che essere appresi.
Inutile che vi dica quanto ami la lingua italiana, la sua
complessità e le sue costruzioni perifrastiche che, ad impararle da fuori,
fanno veramente venire il mal di testa.
Non vorrei mai andarmene dall’Italia!
Beh, quella notte buia, come possono essere le notti
d’inverno a latitudini elevate, io cercavo guidato dal caso parole che non
conoscevo e le trascrivevo per poterle imparare meglio a mente lucida.
Sono convinto che non molte persone sappiano che cosa sia
l’ epitassia, ovvero
quel fenomeno in cui due cristalli di specie diversa si associano in modo che
la struttura cristallina dell’uno costituisca il supporto per la struttura
cristallina dell’altro.
Così io e Giulio saremmo stati come due cristalli
epitassici –notare come l’aggettivo non sia contemplato nella mia bibbia-, e
questo è per ritornare al precedente discorso che verteva sciaguratamente sul
fatto che ci sorreggevamo a vicenda colmando ognuno i difetti dell’altro.
Mi viene in mente un paragone moto meno scientifico,
datato, annoverato nella gentile letteratura cortese della Francia Medievale,
nel poema di Tristan et Iseut.
Sulle loro tombe, amanti disperati, la leggenda vuole che
fossero cresciuti nottetempo un arboscello di caprifoglio dalla parte di lei,
ed un arbusto di nocciolo dalla parte di lui; ovvero due piante che secondo la
tradizione popolare non possono vivere l’una senza il sostegno dell’altra e
perciò non esistono se non insieme.
E Giulio sarebbe sicuramente stato un aggraziato
caprifoglio rampicante dai profumatissimi fiori bianchi e candidi, e
sofficissimi.
Questa poetica analogia cullava nel profondo del mio
cuore, nei recessi della mia anima, una sorta di arrière-pensée che non avevo
osato ammettere esplicitamente nemmeno all’io razionale di me stesso, ovvero la
tacita soddisfazione che traevo nel considerarmi a ragion veduta il supporto
morale e spirituale di Giulio, della sua vita intesa nei periodi di quiete.
Forse ero solo un grande egoista.
Ma lo amavo da morire.
--- Capitolo piccino piccino ma che a me piace tanto ^_^ perché adoro
la letteratura francese e il mio vocabolario di italiano.
Bleah, sto diventando melensa. Una volta ero tutta suicidi e
degenerazioni e devianze psichiche… dov’è finito il mio sadismo?
Perso? Anche quello? Ho perso anche il sadismo? È possibile perdere
proprio tutto?
V___V sono un disastro.
Guardate, questo chap è regolarmente postato di pomeriggio, così non ci
trovate più commentini idioti scaturiti dalla stanchezza opprimente (però era
proprio bella l’immy, eh? Gli Altaria sono la seconda finnish band dove suona
il mio marito n.21 Jani Liimateinen. Ho dovuto scorrere ventitré pagine di
cronologia alle quattro del mattino per beccarla, perché avevo perso il
collegamento T___T. nessuno mi dice: ‘brava Mirtho?’ ß Come il mirto della Valeria).
Il mio orologio biologico è uscito devastato dall’esperienza Trinese.
Pranzare alle quattro non è cosa da tutti i giorni, soprattutto se ti sei
alzata da tempi relativamente brevi e la prima cosa che hai fatto nella tua
giornata vegetativa è stata leggerti un trattato sulla ‘filosofia del viaggio nel
tempo’ per poter capire almeno vagamente di che cavolo parlasse il film che hai
visto –da inguaribile stordita- giusto poche ore prima… Credo di essere una
delle poche persone che hanno avuto l’onore di arrivare alla comprensione di
Donnie Darko. Ma che bel film! ^_^. Un film che comincia dalla fine non può che
sembrarmi una genialata ß scelto dalla sottoscritta, obviously…
Ieri facevo un check-up delle recensioni… ho perso ben tre recensori
per strada. Molto male malissimo. Mm… pazienza. Crisi mistiche. Mi deprimo un
po’…
Grazie Zero ^_^ senza di te…
Che casino… basta, vado a farmi una doccia fredda (comunque ho notato
che ti piacciono i finali un po’ disfattisti. Ho spezzato il discorso V___V.
non l’ho fatto apposta!)
Fatto questo piccolo sfogo vi lascio a più furbe letture.
Adieu!!!
La Marto vi augura una buona settimanaaaaaaaaaa, io finirò in galera
per tentato triplice omicidio. Venitemi a trovare ^_^…
--- Ehm ehm. Siccome è un capitolo quasi interamente
riscritto, ricucito ecc ecc ecc e soprattutto siccome a mio modesto parere non
è riuscito un granché… ehm… vorrei giusto sapere qualcosina… mi sembra quasi…
forse ho calcato troppo la mano, e se me ne accorgo io… ß stordimento colossale.
E’ anche un po’ più lungo del
solito.
Parliamo di funerali.
XIV.
Que m’importe que tu sois sage?
Sois belle ! et sois triste ! les pleurs
Ajoutent un charme au visage,
Comme le fleuve au paysage ;
L’orage rajeunit les fleures.
Le mattonelle di cotto sulle quali procedevamo camminando
lentamente, immersi in silenzi più infiniti di quanto le nostre capacità ci
permettessero di sopportare, non erano perfettamente livellate né squadrate in
modo da eguagliarsi l’una con l’altra. Separate da delle leggere lingue di cemento
o calce, così rosse e ancora calde per il sole battente che di giorno le
colpisce senza risparmiare nulla negli stretti punti in cui le ombre delle alte
abitazioni non gettano un minimo di respiro e rinfranco, arrancavano
serpeggiando per il basso monte semiarido che lambisce quella punta di costa.
Immaginai che un gomitolo intricato di scalinate come quella lo percorresse per
intero.
Giulio faceva scorrere la mano sui muri delle case dal
ruvido intonaco rosa pesca, arancione e rosso.
Di tanto in tanto una fronda carica di foglie e di frutti,
limoni, arance o susine, si protendeva verso i nostri volti, nell’incavo della
scalea.
Giulio ne staccò un rametto e prese a giocherellarci come
aveva fatto poco prima con l’oleandro.
L’aria, stranamente, non profumava di nulla, se non di
vuoto e vacuo silenzio -così dolce e gentile nello scorrere sulle mie stanche
membra-, le stelle palpitavano, vibranti, come fiammelle di piccole candele
scosse da infiniti soffi di brezza d’ Espero, e la luna maestosa, ingigantita
nei suoi riflessi rubino dalle percezioni della mia anima turbata ci sovrastava
nella sua gigantesca mole rubiconda e ci avvolgeva nel suo calore evanescente
coi sentimenti benigni di una madre.
In quel luogo dimenticato da ogni essere umano, sul quale
Dio aveva magnanimamente deciso di stendere un velo di fine grazia ed
imperturbabile quiescenza, non mi sentivo a mio agio.
Era come se lo avvertissi nella temperatura innaturalmente
fredda. Forse avevo soltanto capito che la tempesta stava per sopraggiungere di
nuovo, e violenta.
Era l’una passata, ormai.
Camminavamo senza una meta.
Credo che Giulio sapesse benissimo dove stavamo andando e
dove voleva andare era esattamente il più lontano possibile da dove avrebbe
dovuto portarmi. Sceglieva tutti gli angusti passaggi scavati tra le murature
per proseguire il cammino. Forse lo faceva perché in quel modo, avanzando uno
dietro l’altro, non potevo guardarlo in faccia.
Poi si fermò.
‘Henka…’ Mi richiamò a sé con la sua voce più sottile.
Quella volta fu atrocemente vicino al pianto, nonostante
ce la mettesse tutta per reprimere le lacrime. Mi accorsi della sua voce
incrinata pericolosamente ed ebbi paura e vergogna.
Lui tirò su col naso e scrollò le spalle, voltandosi verso
di me.
‘Ci sono cose che mi sfuggono…’ Mi disse.
Si sedette su un gradino basso prendendosi la testa tra le
mani delicate. Sentii distintamente i suoi singhiozzi.
Non sapevo cosa fare, cosa dire, come comportarmi.
Non l’avevo mai visto stare così male.
Mi sedetti accanto a lui e lo cinsi con le braccia.
Mi sentii sinceramente sollevato, come se solo ad
offrirgli quel contatto ingenuo potessi arrivare a rincuorarlo più in
profondità che con mille parole pronunciate male.
Le sue braccia si strinsero attorno al mio torace
avvolgendomi con un calore appassionato che mi fece rabbrividire dal piacere,
la mano destra stringeva fortemente un lembo della maglietta, la sinistra si
insinuava tra i miei lunghi e folti capelli ricci. Appoggiò il volto
nell’incavo delle mie spalle.
Potevo sentire il suo respiro irregolare che cercava di
carpire l’aria, e le lacrime che continuavano a scendere copiose dai suoi occhi
smeraldini, le sue labbra umide increspate in una smorfia di disperazione
premere contro la pelle vellutata del mio collo.
‘Non sarebbe dovuta andare così…’ Sussurrò tra i gemiti.
Sensi di colpa.
Atroci, miserevoli, crudeli, feroci, riprovevoli,
esulceranti sensi di colpa.
Ecco cosa lo affliggeva.
La vista di suo padre e della sua compagna, l’amarezza
suscitata nel suo cuore fragile da ricordi tanto deprecabili. E non mi era
nemmeno venuto in mente.
Lo stavano dilaniando, lo laceravano quei maledetti sensi
di colpa.
Li odiavo.
Odiavo tutti, e tutto il mondo, perché l’avevano portato
all’esasperazione. E odiavo anche me per non essere stato abbastanza sensibile
ed attento.
Tutto era squallidamente corrotto e macchiato
dall’imperfezione, e lui, che era l’unica persona che avessi mai conosciuto ad
essere rimasta immune dalla tragedia, stava sfiorendo per l’unica sua colpa di
aver tentato di continuare a combattere.
Era una follia.
Bisognava apporvi la parola fine.
Gli accarezzai i capelli con delicatezza e gentilezza.
Lasciate che vi spieghi alcuni particolari fondamentali
della vita di Giulio ed un episodio che lo segnò in maniera irrimediabile: la
morte della sua vera madre.
Conosco molto bene la faccenda per intero perché ero già
in Italia quando accadde, e vivevamo insieme. Era successo una domenica sera,
ed era stato per suicidio. Lei aveva ingerito più antidepressivi di quanti il
suo organismo avrebbe potuto sopportare.
Posso giurarvi come gli fosse crollato il mondo addosso,
assieme a tutto il suo insopportabile ed opprimente peso, e per dei giorni
smise di essere il mio Giulio per diventare la brutta copia melanconica ed
apatica di Giulio, solo letto e cimitero.
Ho sempre sospettato che il trauma non gli fosse mai
passato.
‘… non l’avevo fatto apposta.’ Non stava cercando di
convincere me, che ci credevo più di quanto lui stesso facesse. Tu non hai idea
di come mi senta responsabile… tutte le volte che cerco di figurarmi mia madre
nel momento del suo massimo splendore e della sua bellezza mi si insinua il
ricordo di lei nel feretro, i lineamenti devastati.
Cosa vuol dire? Sai, in quel momento l’unico mio pensiero,
nella camera ardente piena di fiori colorati che stonavano miseramente col mio
lutto, è stato che per me la Morte avrebbe sempre avuto quel volto sciupato,
quegli stessi occhi infossati, quelle labbra screpolate, quella pelle solcata
da mille rughe… mia madre è il mio simulacro della Morte, perché non l’avevo
mai vista, e non vedrò mai più nulla che le si avvicinerà tanto!
E poi c’erano quelle persone che mi facevano le
condoglianze, e magari non mi avevano mai visto. Ipocriti! Io li odiavo, tutti
quanti. Non avevano rispetto per le singole tragedie umane che si consumavano
sotto i loro occhi, perché non erano in grado di viverle. Non era vero che si
addoloravano e si dispiacevano. Volevo stare solo nel mio dolore e loro mi
assicuravano di condividerlo. Li avrei uccisi tutti uno dopo l’altro e avrei
finalmente potuto celebrare un sobrio funerale solo con la mia profonda
angoscia dilaniante. Avrei preso le loro teste e le avrei fracassate tutte
violentemente, sbattendole una con l’altra, perché mi faceva schifo la loro
compassione, mi disgustavano quei maledetti sorrisi di circostanza, o quello
sguardo prontamente abbassato, la voce debole con cui mi parlavano, come se lei
stesse semplicemente dormendo nella sua comoda bara foderata in seta rossa!
E quei medici che me l’avevano accudita di nascosto?
La medicina è inutile, profondamente. A volte non serve.
Servirebbe Dio. A cosa servono i medici se non possono curare né il corpo né
l’anima dei loro pazienti?
Serve solo Dio, e l’aiuto di Dio, di tutti i suoi angeli
confortatori, ma in momenti come quelli non si crede a niente.
La medicina non serve.’
‘Avresti avuto un’aspettativa di vita molto più bassa,
Giulio. Ci pensi? Tua madre avrebbe perso molto tempo.’
‘Gli ultimi giorni non era cosciente. Il coma mi impediva
di parlarle.
Sai cosa significhi pregare Dio di uccidere una persona
che ami perché non sopporti di vederla spegnersi lentamente e tra atroci
sofferenze giorno dopo giorno, e presentarti davanti a lei, che forse sente
tutto e ti ascolta con patetica rassegnazione perché nemmeno riesce a parlare
mentre tu la conforti? Vedere la sua pelle fresca e tonica incresparsi in mille
rughe e la malattia deformarla, ed ognuna di quelle sue sciagure rappresentare
un dolore patito per una causa persa? È questo che mi ricordo! Il suo corpo
morto che continuava a conservare la sua splendida anima, e l’anima recitare la
sua preghiera silenziosa affinché qualcuno ponesse fine a tutto quel delirio,
affinché la lasciassero morire in pace e le permettessero di guadagnarsi il suo
tranquillo Paradiso indolore!’
‘Hai sperato davvero che morisse?’
‘Cosa mi restava da fare? Meglio morire subito che –‘
Appoggiai la mia guancia contro la sua fronte calda.
‘Immagino sia umano. Naturale. Una sorta di difesa
immunitaria non-specifica. Lo farebbero tutti. In fondo hai pensato a lei, non
a te, che te ne saresti rimasto qui, col rimorso e la patetica nostalgia del
lutto. Ma sono solo frasi fatte. La verità è che vorrei entrare dentro al tuo
bel corpo e strapparti quel tumore che ti divora, anche facendoti male. Lo
vorrei davvero. Ognuna delle metastasi che ti arreca danno.
Ti stai facendo diventare il sangue amaro.’
‘Sono sanissimo. Questa mi è sempre sembrata una beffa.
Anche mio padre è sanissimo eun sacco
di persone che meriterebbero la morte più di lei.’
‘Se aspetti la giustizia, allora hai molta strada da fare.
La Giustizia divina non è per i mortali, unicamente per le anime
dell’oltretomba.’
‘E questo dovrebbe rincuorami?’
Scrollai le spalle. ‘Dovrebbe farti credere che se ti
impegni per raggiungerla hai ancora la possibilità di arrivare ad un punto di
ricongiunzione con tutte le persone che hai mai amato e ti hanno abbandonato
per seguire i progetti del destino.’
‘Parli così perché non hai mai sperimentato di persona una
perdita vera.’
‘No, hai ragione.’
‘Henka mi è venuto freddo…’ In effetti stava
rabbrividendo, così strinsi ancora di più l’abbraccio appoggiando il mio mento
appuntito contro la sua schiena dritta.
Mi sembrava un contatto magnifico, diverso da tutti quelli
che avevamo mai avuto, più sentito e sincero.
Lui si era spostato sedendosi sulle mie gambe e ora mi
stava accarezzando la schiena.
Lo adoravo.
Gli chiesi se voleva andarsene.
‘No. No, rimaniamo qui ancora un po’.’ Mi rispose.
E così lasciai che continuasse a scorrere le sue mani tra
i miei capelli, come se la soddisfazione di un semplice gesto che aveva in sé
qualcosa di puro e perverso insieme lo potesse sollevare o distrarre da tutti i
suoi innumerevoli pensieri catastrofici.
In realtà mi piaceva.
Credo potessero essere trascorse delle ore, seduti su quel
gradino.
‘Non me lo spiego. Secondo te perché io non riesco ad
adattarmi al flusso della corrente, e mi attacco in maniera morbosa a te?‘
‘Non ha importanza. Forse ti ci vorranno cent’anni per
capirlo.‘
Le sue dita mi arricciavano una ciocca di capelli. Doveva
sempre muovere le mani quando era agitato o in imbarazzo, e in quel momento, lo
intuivo, avrebbe tanto desiderato farsi un altro veloce bagno in mare.
--- Mm… che brutta bestia. Ormai il trauma è passato
(credo). Non guardate mai nelle bare, ragazzi, altrimenti finite per ridurvi
come me.Voi lettori siete come delle
palline anti-stress, posso spremervi e sfogarmi V___V. Sorry. Detto così sembra
davvero pessimo…
Zero, se vogliamo dirla tutta la mia crociata per il
vocabolario (umiliato, sottostimato, bistrattato)è qualcosa che mi pervade nel cuoricino. Perché devi sapere che
nella nostra caserma-scuola per quindici e passa classi abbiamo UN solo
vocabolario risalente al primo conflitto mondiale, più o meno. E allora non
dovrei farne un caso politico? Mi batto per i vocabolari. Non ci vuole tutta la tua innata filosofia (che vedo proprio da lontano) per capire che non si può pretendere
di imparare l’italiano senza un vocabolario. E l’italiano è la lingua più bella
del mondo. E poi… Perché il fatto che io studi finlandese sembra a tutti una
cosa stupida, inutile, scellerata (però nessuno aveva ancora detto: “masochista”)?
Ma nel caso andassi in Finlandia dovrò pur sapere il finlandese, no? Altrimenti
come faccio a farmi capire? Il finlandese mi ricorda l’elfico. È una lingua
meravigliosamente musicale che per me vale assolutamente la pena imparare. Mica
sono l’unica pazza, qui ^_^, Invader ha addirittura scritto una poesia in
giapu… io non arrivo a tanto per ora. Non riesco nemmeno a fare la costruzione
possessiva T___T ci vuole l’adessivo, … sigh… i finlandesi non hanno il
verbo avere!!! Aaaaaaaaaargh!!!
Comunque: EINE TRAGODIE… (FAUST, URFAUST der tragödie zweiter teil. No, scherzo, non
prendetemi sul serio)
Ho scoperto che lo scritto d’inglese comincerà
esattamente il giorno e l’ora in cui apriranno i cancelli del Gods of Metal.
dio, che tristezza. Mi sento veramente così trissssssssssste… sniff… se c’è un
bolognese tra voi vada al Gods per me, per favore. Bologna=Gods= due giorni di
full immersion nel puro metal= quest’anno ci saranno pure gli Iron… e invece…
esame della British. Queste coincidenze mi fanno pensare che il destino avverso
e ingrato mi stia simpaticamente prendendo in giro ^___^’’’. Voglio andare al
Gooooooooooooods…
Al prossimo chap postato sempre più puntualmente. ^_^
- 10!!! Non dieci capitoli, eh! Mancano dieci giorni di
scuola. ^_^
I restanti capitoli sono “da quattro in giù, dipende da
quanto sventro la storia”.
XV.
‘Guarda, guarda, a quanto pare abbiamo trovato un
lampione!’ Gridai in mezzo alla strada molto fiero di me stesso.
Era almeno mezz’ora che camminavamo sull’asfalto duro
completamente immersi nel buio, quindi vedere una luce lontana, un barlume
iridescente ed intermittente che ci attirava come le api col miele, era una
specie di benedizione, un sortilegio divino che ci precipitava nella realtà
dalla quale ci eravamo drasticamente distaccati per tutta quella strana serata
fuori dal comune.
La situazione mi faceva sorridere e contemporaneamente
ripensare a quella ridda sconsiderata di episodi malaugurati o felici, vi
lascio a giudicare, con una certa punta di amaro in bocca.
Volevo ascoltarlo di nuovo.
Mi lasciava una sensazione di solletico nello stomaco.
Mi chiedevo come potesse essere che la volontà delle
persone fosse quella di ricercare il distacco, senza minimamente curarsi
dell’impossibilità di non cadere nella tribolazione.
Pensare che sarebbe bastato imparare a sopportare il
dolore!
La mano di Giulio era calda, stringendola riuscivo quasi a
percepire le propagazioni del suo corpo, le sentite vibrazioni della sua anima,
come se avessimo allacciato legami indissolubili che portavano il mio sangue ad
unirsi al suo, e il suo a scorrere copioso nelle vene del mio polso.
In effetti un certo piacere si dipanava dall’unione delle
nostre mani, dalle dita intrecciate.
Avevo sempre desiderato toccargli le mani.
Era stato più facile del previsto, era bastato
semplicemente sfiorarlo e domandarglielo gentilmente. Lui aveva acconsentito
sorridendo.
Mi domando con una certa perplessità perché non ci avessi
mai tentato prima, come se fosse peccato, come se stessi chiedendo qualcosa di
illecito, scandaloso, immorale. Non era mia intenzione andare contro la morale.
Quel contatto intimo e personale rientrava a meraviglia
nei dilatati schemi della mia moralità.
Non è forse la moralità un momento di riflessione
individuale nel quale si decidono un’infinità di limiti preposti?
Ho sempre avuto una certa reticenza a fare quello che gli
altri mi chiedevano.
La mia morale si distacca dalla morale della società,
questo perché le mie esperienze e le mie concezioni sempre impregnate di
teologia ottimista mi hanno arricchito di modelli di vita e desideri che forse
le persone normali, dal punto di vista di una morale sancita da radici ferme e
solide derivate una mentalità cristiana da stato d’assedio, non riescono ad
accettare.
Ma è mai possibile? La moralità non è una bolla di sapone
che scoppia non appena la si sfiora con un dito. Ed è un pensiero assurdo ed
insopportabile il fatto che questa moralità sia stata rettificata per guidare
un popolo di uomini in preda al totale piacere e abbandono lussurioso dei
sensi.
Ognuno dovrebbe possedere un metro di giudizio, e Dio il
suo, supremo e giustissimo. Gli uomini non hanno il dovere di creare una loro
moralità, e non ne hanno le capacità pratiche. Per questo il mondo è tutto
sbagliato. Che siamo fondamentalmente sbagliati non è la novità del giorno.
Se Dio ci ha fornito una sacra Bibbia sulla quale studiare
i precetti per una vita moralmente retta, all’insegna di un sacrosanto percorso
di rinnovamento spirituale volto alla trascendenza e alla redenzione, non vedo
perché gli uomini si arroghino il diritto di ampliarne il contesto.
Tutto ciò che viene quotidianamente propinato agli agnelli
immolati sull’altare di Dio è un’interpretazione catastrofica di libri
benedetti che come universale messaggio lanciano: speranza e amore nel nome di
Dio, tutto quello che vi chiediamo dai seggi alti dell’Empireo.
Che limite ci poniamo, allora?
L’amore è sempre amore. In ogni direzione.
E le persone non hanno né l’autorità, né l’abilità per
stabilire il confine tra morale e immorale, o la punizione per gli immorali,
perché ciò dovrebbe prevedere lo studio di ogni caso particolare e una
riflessione accurata su di esso.
La moralità non deve essere confusa con l’etica, la
decenza e il rispetto volto ad una convivenza civile.
Non sto giustificando il male, capitemi bene.
Eppure il male è intrinseco della natura dell’uomo che
continua a caderci, per cui tutti i ragionevoli
riferimenti di rigida moralità non sono comunque rispettati. Il
castello di carte creato dall’uomo per la sua preservazione crolla miseramente
di fronte al riflesso di sé stesso nello specchio.
E poi, qualsiasi sia il sentimento benigno che lega me e
Giulio, di certo non è immorale. Nessuno che lo vivesse sulla sua pelle
potrebbe definirlo tale.
Così mi arrabbio quando le persone distolgono lo sguardo
al nostro passaggio, e lo faccio a ragion veduta, perché il mondo è pieno di
gente che si adegua alle norme della società borghese senza pensare a realizzare
le proprie aspirazioni. Perché poi sono tragicamente immorali.
Per cui tenevo per mano Giulio senza vederci nulla di
male. Lo abbracciavo appoggiando la testa sulla sua spalla –è lui il più altro
tra i due- e mi facevo guidare tra paesaggi desolati alla luce soave e allo
sguardo materno della luna rossa e tonda, e fertile.
Chissà poi cosa ne pensava lei, che ha visto copie di innamorati per
secoli e secoli, e forse ha imparato qualcosa dall’esperienza che l’uomo non
potrà mai vantare come giustificazione al cospetto di Dio e dei suoi lucenti
arcangeli.
--- O_O mi sono lanciata nel discorsone… e magari ho detto un sacco di
sciocchezze ^///^. Martona e serio sono due termini antitetici.
Ehi è un sacco di tempo che non aggiorno! ^_^ chiedo
perdono, ho avuto da fare parecchio… ma vi è piaciuto il chap? Sì? No? Forse?
Mm…
Io non sopporto il contatto fisico, specialmente non sopporto quando
qualcuno mi sfiora le mani –non è normale…-. E così Giulio e Henka dovevano
prendersi per mano.
Ho passato l’interrogazione di filosofia quindi posso vivere fino ad
ottobre. Sono stati giorni drammatici, erano settimane che studiavo e ieri
quando ho ripreso il libro mi sembrava di non sapere più niente. Mi veniva da
piangere. Giuro che se qualcuno mi parlerà di nominalismo nei prossimi tre mesi
gli farò una fattura potentissima con le bamboline dalla cinturina rossa (Ah,
non potete vedere il mio sguardo invasato!). E brucerò Il nome della rosa. Io
non so… chi fa la maturità… ma come ci riesce? Studiare a giugno? Non riuscirò
a dare la maturità, sarò troppo devastata…
Beh, mi lasciate un commentino, per favore? Qualcuno mi fa le faccine:
*____* che mi piacevano tanto? Tiratemi su di morale. Sono veramente
tristissima. Poi ho letto che Inv se ne va, mi è dispiaciuto molto e tutta la
tristezza repressa è sfociata in un pianto come non mi succedeva da secoli. Ma dei
lacrimoni che se mi vede qualcuno pensa che mi sia morto il fratello. Boh…
T______________________T ß voglio altri kleenex!!!
« Le dieu d’Amour qui, l’arc tendu, s’était appliqué
à me poursuivre et à m’épier, était alors appuyé contre un figuier, et quand il
se fut rendu compte que j’avais ainsi choisi ce bouton, qui me plasait plus que
nul autre, il à pris aussitôt une flèche et il a tiré sur moi de telle façon
qu’à travers de l’œil il m’a planté la flèche toute raide dans le cœur ;
un froid me pénétra alors, dont j’ai ressenti depuis maint frisson sous ma
chaude pelisse.
Quand j’eus été atteint de la sorte, je suis tombé par
terre, à la renverse : le cœur défaille, et je restai longtemps sur place,
évanoui. »
Il dio
d’Amore che, l’arco teso, si era sforzato di seguirmi e di spiarmi, si era
allora posato contro un fico, e rendendosi conto che avevo così scelto quel
bocciolo –la rosa più bella-, che mi piaceva più di qualsiasi altra, prese
subito una freccia e la scagliò su di me in maniera tale che attraverso
l’occhio me la piantò nel cuore bruscamente; mi penetrò allora un freddo del
quale risentii in molti tremiti sotto la mia calda pelliccia.
Dopo
esser stato oltraggiato dalla sorte, caddi a terra, riverso: il cuore venne
meno e restai lungamente sul posto, svenuto.
Guillame de Lorris, le Roman de la Rose
Non c’è, a mio avviso, un luogo che, osservato in
contemplazione estatica come in preghiera modesta, possa veramente rendere
l’idea di fiaba.
Fu un certo Kafka a dire che non esistono fiabe non cruente. Tutte le fiabe provengono dalla
profondità del sangue e dall’angoscia. È con le fiabe che si attira
l’attenzione degli uomini sulla verità.
Non voglio trascinarvi in discorsi sulle atrocità del
pensiero raziocinante dell’uomo. Voglio che per voi la fiaba assuma le
connotazioni dello zucchero filato e quelle piacevoli tinte pastello che hanno
i castelli delle belle principesse nell’immaginario fervido dei bambini
candidamente ingenui.
Ascoltatemi: forse siamo giunti all’epilogo di questa
storia torbida, che non avrebbe dovuto occupare più di quattro pagine del
vostro tempo.
C’è un castello, nella punta più bassa della Germania, e
si chiama Neunschwestein, che viene sempre utilizzato per le pubblicità. Il
castello delle fiabe fatto costruire dal re Ludwig in mezzo ai boschi fitti e
alle aspre montagne della vecchia Baviera ha i torrioni alti dai tetti
cuspidati in tegole di ardesia blu, e le pareti nivee che d’inverno riflettono
in modo speculare la neve caduta copiosa.
Perché poi vi parlo di quel castello?
Il re Ludwig venne deposto dal trono, dovette abdicare,
sì, perché era stato tacciato di pazzia. Eppure, dal baratro profondo della sua
ipotetica infermità mentale aveva permesso la creazione di un capolavoro
architettonico così suggestivo da indurmi a descrivere le maestose pareti
affrescate con scene della ”Cavalcata delle Valchirie” del suo adorato Wagner
in questo tragicamente lungo quodlibet –presuntuoso-.
Io e Giulio eravamo finalmente arrivati a casa, dopo
lunghe peripezie e sconsiderate deviazioni dal percorso originario che avevo
accettato nella speranza di risollevare il suo pessimo umore, visto che dicono
della camminata come di un metodo efficace per scaricare la tensione; e
finalmente ci ritrovavamo sul retro della nostra palazzina, davanti al
muricciolo che sottendeva un piccolo ritaglio di fiaba.
Non so perché mi fosse tornato in mente quel castello
romantico, ma l’immagine era nitida nella mia mente.
- Non permettere al muro che ti sei costruito di
imprigionarti in una solitudine sempiterna che non è in grado di regalarti quel
miraggio di preservazione nel quale credi! -
‘Non permettere al muro di nasconderti dai miei sguardi
amorevoli.’
‘Cosa?’ Giulio si voltò verso di me. Era già cavalcioni
sul muretto. Gli avevo fatto notare come in pochi passi si fosse potuto
raggiungere l’ingresso, e io stavo precisamente svoltando l’angolo verso la
facciata anteriore per attraversare il piccolo patio e raggiungerlo nell’orto,
sotto il limone.
‘Non sparire. Non celarmi la tua anima! Ti voglio vedere
rifulgere! Lascia cadere il muro!’
‘Ci vorranno dieci secondi, Henka, e… non fare i
capricci!’
‘Non hai capito. Non parlo di questo muro fisico.’
‘Ah, no?’
‘No.’
Mi guardò divertito, sospeso su quella costruzione
massiccia di pietra viva.
‘Non c’è nessun muro, Henka.’
‘Oh, invece sì. Io voglio entrare!’
‘Prova a passare dalla porta.’ Sorrise e si lasciò
scivolare nel giardino.
‘Allora è chiusa a chiave!’ Gli urlai.
‘Vuoi la chiave?’ Rispose ridendo.
‘Certo! Stupido!’
Così non ci pensai due volte a scavalcare il muretto,
nonostante non vantassi la sua agilità e la sua esperienza in materia.
‘Bentornato.’
‘Ma se non ci siamo visti che per pochissimi secondi.’
Mi aspettava in piedi davanti alle fronde nodose del
limone le cui foglie verdi erano così brillanti da sembrare finte, o ricoperte
di cera.
‘Guarda…’ Si arrampicò senza difficoltà sul ramo più basso
e ne ridiscese con un balzo qualche secondo dopo stringendo un grosso limone
nella mano destra. Avvertii i suoi piedi posarsi con dolcezza sul terriccio
inumidito dall’irrigazione.
‘Cosa te ne fai?’
‘Ah… lo mangio!’
‘Un limone? È… aspro… brrr…’
‘Non hai mai mangiato un limone?’
‘No. Non mi piacciono.’
‘Dovresti assaggiarli.’
Mi tirò improvvisamente per la maglietta sottile e mi fece
cenno con la testa di salire in casa. Erano quasi le quattro di mattina e il
buio cominciava a scemare lievemente, a rischiararsi con lentezza. Avrei desiderato
che quella notte, la più lunga della mia vita, non terminasse mai.
‘Non ti arrampichi come una scimmia fin sul balcone,
Giulio?’
‘No. La porta è chiusa. Non mi va di aspettare. Non trovi
che abbiamo aspettato abbastanza?’
‘Sì…’ Annuii, facendo ciondolare la testa di lato. Mi
sfiorò il mento appuntito col pollice e mi sfilò le chiavi dalle mani mentre mi
invitava col pensiero a seguirlo attraverso la porta d’ingresso, per le scale.
Quando la serratura di casa scattò, noi entrammo e ci
richiudemmo la porta alle spalle, fu come se al mio cuore calasse un battito.
Credo che la prospettiva di rimanere solo con Giulio, per la prima volta nella
mia vita, mi conturbasse.
Mi infilai nel bagno per fare una doccia fredda, e non perché noi Finlandesi amiamo
particolarmente questo genere di cose che forgiano il corpo e temprano lo
spirito, quanto per frenare i miei bollenti spiriti.
Non servì a niente.
Quando uscii una nuvola di vapore si sprigionò dalla
doccia invadendo il piccolo bagno dalle piastrelle azzurrine e lucide di
ceramica. I vetri e lo specchio erano completamente appannati, come le pareti
scorrevoli del box doccia.
Mi piacevano le docce con pareti scorrevoli, mi divertivo
a disegnare e scrivere su di esse tra un getto d’acqua e l’altro.
Mi asciugai velocemente e mi rivestii. Aprii un poco la
finestra per permettere all’umidità di uscire e lasciarmi respirare. Col
braccio dipanai la coltre di vapore acqueo che si era depositata sullo specchio
e mi osservai con tenerezza accarezzandomi il viso dalla pelle liscia e
diafana. Mi soffermai sulle labbra morbide e piene, rosse, a forma di cuore.
Labbra molto baciabili. Mi erano sempre piaciute le mie labbra.
Forse erano piaciute anche a Giulio.
Cercavo di non pensare, magari fischiettare una canzone,
mentre mi rivestivo e uscivo diretto in cucina. Ma lì mi aspettava solo
Utrecht.
Dove diavolo era finito Giulio? Forse era scappato. Forse
mi aveva guardato negli occhi con più precisione di quanto io avessi mai fatto
con lui.
Accarezzai Utrecht senza prestare troppa attenzione al suo
morbido e lucido pelo nerissimo e corsi nella camera da letto.
Giulio non era veramente addormentato: avevo l’impressione
che tenesse chiusi gli occhi solo per farmi innervosire.
Sul comodino vedevo il piatto dove il limone era stato tagliato
a fettine sottili con la sua proverbiale cura da maniaco, e il coltello ancora
sporco del succo trasparente che tutti usano da bambini per inviare messaggi
criptati agli amici e che qui chiamate comunemente –buffamente- “inchiostro
simpatico”. Il limone è troppo acre per i miei gusti.
Vidi il suo braccio muoversi in direzione del piattino e
portare poi la fetta di limone alla bocca. Ne succhiò la polpa un paio di volte
prima di rivolgersi a me, che l’avevo ridestato maldestramente dalla sua
degustazione.
‘Perché hai mangiato il limone?’
‘Perché mi piacciono i limoni?’
Gli versai un bicchier d’acqua e glielo porsi.
Sinceramente non capivo perché stesse ridendo. Non c’era
nulla di comico in quella situazione tanto ambigua.
Lui finì il suo limone senza curarsi del mio sguardo
indispettito. ‘Che ne sai che magari ti piace!’ Mi diceva come se stessimo
parlando del tempo atmosferico e non di limoni, che potrebbero sembrare
argomento stupido se non fossero inseriti in un contesto per nulla candido come
quello.
‘Ti ho detto di no!’
Com’era scemo. Stava perdendo tempo.
Mi alzai imbronciato dal letto e ricevetti in tutta
risposta una cuscinata in piena faccia.
Gli occhi mi pizzicavano per il nervoso.
--- Mm… limoni *ç*… io rubavo i limoni, da piccola ^_^ (cioè,
anche quest’estate ruberò i limoni, sono tanto aspri e buoni u___u).
Mi piace la prima parte sulle fiabe. Non c’entra davvero nulla, ma mi è
uscita così, e per una volta rimane senza essere bellamente tagliuzzata via.
Che vi dico aujourd’hui? Comincio a soffrire veramente il caldo
asfissiante e l’afa. Questo week-end sono andata al mare. Mi piace il mare,
solo fino a Maggio. Ho passato due giorni a strisciare contro i muri e a
saltare in ogni minimo spazio d’ombra fresca. >__< sto male…
Ah, sì, sì, vi rendo ufficialmente noto che è il quartultimo capitolo.
Finisco prima di andare in vacanza, a costo di lavorare di giorno!!! ß io scrivo di notte per chi si fosse sintonizzato or ora (ma esiste
qualcuno che legge una storia dal capitolo 16? Io lo faccio coi manga, ma lì ti
mettono il riassuntino…).
Buone vacanze a tutti quelli che già partono –o partiranno-. Io me ne
vado al fresco… non ho più voglia di far nulla.
Commentate ^_________^ –Vlad sono in lutto per il tuo computer. Quando
puoi, commenta. Anche se leggerete questa storia tra cinquant’anni commentatela
lo stesso, tanto il mio spirito aleggerà ancora qui in zona…-
Domani esce octavariuuuuum… *me balla la danza della felicità*
Mi afferrò con le braccia cogliendomi di sorpresa, me ne
stavo andando irritato per la sua reticenza.
Mi sentivo profondamente preso in giro e ferito
nell’orgoglio.
‘Stupido…’ Gli dissi prima di voltarmi e lui rise buttando
la testa all’indietro e facendo ondeggiare la sua chioma corvina, lucida e
perfettamente spazzolata. L’avevo rianimato fin troppo con le mie attenzioni.
‘Non c’è niente da ridere. Proprio niente.’
‘Cosa volevi fare, Henka?’
Pronunciò il mio nome come fosse una parola sinuosa,
muovendo sensualmente le sue morbide labbra e facendo schioccare la lingua.
‘Niente.’
‘Niente?’
‘Niente per cui io sia ancora in vena!’
Guardò il pavimento come dispiaciuto. La moquette azzurra
avrebbe davvero meritato l’ennesima passata d’aspirapolvere.
Poi alzò i suoi sconfinati occhi verdi su di me
lanciandomi delle occhiate così ambigue che non riuscii a reprimere un brivido
per la schiena. Davvero. Se voleva agitarmi e confondermi ancora più di quanto
già non fossi –agitato e confuso-, ci stava riuscendo magistralmente.
‘Peccato.’ Disse scrollando le spalle.
‘Come peccato?’
‘Io non ho detto nulla. Hai fatto tutto tu.’
‘Sei indisponente!’
‘E tu troppo impetuoso.’
‘Stai cercando di sedurmi?’
‘Hai cercato di essere sedotto da me!’
Sgranai gli occhi, incredulo. L’aveva detto veramente.
L’aveva pensato veramente.
L’avevo pensato anch’io.
Giulio mi stava ancora fissando a mezzo metro di distanza
con quello sguardo provocante.
‘Sei troppo bello per me. E troppo bello perché io non mi
innamori. Questo è un problema.’
‘Credi che il fatto che io sia bello generi un problema?
Un vero problema? Forse questo è solo il risultato di una tua insicurezza,
Henrik.’
‘No, non è vero. Ma siccome sei piacente, in ogni persona, ogni persona,
nasce spontaneo un desiderio nei tuoi confronti per il semplice fatto che tutte
le tue diverse caratteristiche fisiche e spirituali confluiscono in una
sensazione unica e comprensiva che si chiama bellezza, ed essendo l’amore avido
di bellezza, ed essendo ogni uomo avido della bellezza che non possiede o non sa
vedere dentro di sé, allora è perfettamente naturale desiderare di raggiungere
quella forma di bellezza –cioè tu- in qualunque situazione materiale si
collochi! E questo, sì, è un problema per me, lo capisci? La mia morale si
discosta dal mio diritto naturale, e quello che desidero non è precisamente quello
che ho e devo avere, che posso avere senza provare rimorso per il peccato
compiuto.’
‘No.’
‘No? Io non posso permettermi di desiderare la tua
bellezza!’
‘Perché?’
‘Perché è sbagliato!’
‘Dove è sbagliato? Io sono sbagliato?’
‘Sì. Sei tu. Sono la tua forma e il tuo contenuto che
possiedono qualità illecite. Sei tu, sei tu!’
‘E allora dimmi, cosa dovrei fare se anch’io cercassi di
raggiungere la bellezza? Perché è questo il mio e il tuo scopo, alla fine, non
è vero? Non è vero? È il motivo banalissimo per cui si ama. E io ti amo. Non
capisci, Henka? Ci vediamo l’un l’altro come attraverso uno specchio.’
‘Non ti credo.’
‘E se io in te vedessi un’immagine migliore di me stesso?
Come la prenderesti?’
‘Ti direi che è lo stesso per me.’
‘Allora dove sta il problema?’ Avevo come l’impressione
che ognuna delle parole che pronunciavo lo innervosisse, e, d’altronde, potevo
benissimo vedere gli effetti di quel discorso: lui si era alzato dal letto,
aveva cominciato a camminare avanti e indietro, attorno alla sedia sulla quale
sedevo, stringeva fermamente i pugni, deformava il viso incurvando le
sopracciglia e arricciando il naso in una maschera di rabbia convulsa.
‘E’ contro natura!’ Glielo sbattei in faccia senza ritegno
né pieta.
‘Ma ti accorgi di quello che dici? Tutte le tue idee di
una individualità indispensabile sono miseramente gettate al vento, ora!’ Era come
se quelle poche frasi fossero un veleno che doveva assolutamente estrarsi dal
petto e sputare via per non soffocarsi.
‘Non è vero.’ Mi calmai sedendomi sconsolato sulla
scrivania e sospirando profondamente. ‘E’ solo che mi sento investito da
un’irrefrenabile corrente di eventi e devo ancora capire come gestire questa
nuova e “diversa” competenza. Queste volontà che non conoscevo.’
‘Oh, già, fa pure con comodo. Tanto io non mi sto arrabbiando.
No, no.’
‘Smettila! Smettila, sto cercando di chiarirmi con la mia
coscienza! Sta zitto un minuto!’
‘Forse’ Pronunciò quel forse in un sibilo cattivo, ‘Forse faresti meglio a chiarirti
con me.’
‘Forse - ci stavo provando, prima della tua aggressione. Stavo
arrivando al punto.’
‘Come, c’è ancora qualcosa? Devi aggiungere altre
considerazioni insensate, altri fiumi di parole inutili e ustionanti?’
‘Ma se rimane la parte più importante!’
Si sedette sul bordo del letto e scrollò le spalle.
‘Vedi, la mia reticenza è influenzata da un tema a me
molto caro.’ Addolcii il tono. Parlavo quasi sottovoce, spaventato dalle mille
idee che mi colsero improvvisamente sul cosa avrebbe potuto capire e come l’avrebbe presa. ‘Mi
sento davvero piccolo nei confronti di Dio. Mi chiedo perché non ci abbia dotati
di più autocontrollo se vuole preservarci dal peccato. È incoerente. Per quanto
ne so avrebbe potuto crearci tutti angeli o santi, e nessuno avrebbe mai dovuto
implorare umilmente venia chinato su un rigido inginocchiatoio da flagellazioni
medievali. Mi chiedo perché Dio ci abbia donato un’anima che possa percepire ed
apprezzare sentimenti che sono stati dichiarati - sbagliati.’
‘E il tuo Dio che chiede l’amore come può condannare
l’amore?’
‘Ci ho pensato. Sul serio. Ma io non mi sento abbastanza
puro per disobbedire ai precetti della Fede in cui credo.’
Giulio si avvicinò guardandomi con dolcezza, le labbra
distese in un sorriso, e io mi lasciai sfilare la maglia con accondiscendenza,
senza lamentarmi o oppormi, come sarebbe stato lecito e logico fare.
‘Dimenticati. Smettila
di ipercontrollarti, o finirai per distruggerti con le tue repressioni, finirai
per chiuderti in una gabbia asfissiante, senza più riuscire a trovare le chiavi
dell’uscita. E magari sii egoista nei confronti di Dio. Davvero. In un certo
senso anche lui è egoista e geloso del nostro amore incondizionato per lui.’ Mi
disse quello e mi convinse definitivamente.
Lascialo
fare – lascialo fare – Hän on oikeassa*
Cosa mi viene in mente, ora? Ricordi e pensieri dal ritmo
sincopato. La gestualità, magari. L’espressione di tonalità imprevedibili e
sfumature armoniche di note appassionate.
Non capivo, continuo a non capire, cosa mi avesse condotto
ad un distacco ossessivo dalla mia mente. Forse per percepire il corpo con
maggior affidabilità non mi sarebbe servita.
Eppure vedevo come si può vedere attraverso le vetrate
policrome delle chiese gotiche, e contemporaneamente era tutto appannato,
avvolto ed accarezzato da soffici cuscini di nebbia fitta e perlacea.
Adoravo il suono melodioso di quella musica. Adoravo
scivolare nel mio baratro di perdizione senza bisogno di provare rimorsi verso
Dio. Adoravo esservi trascinato da lui e con lui, Giulio, e basta, e sentirlo
con una completezza bruciante su di me, essere alla sua completa mercede.
Mi ritrovai ad osservare intensamente fuori dalla finestra
quel sottile riverbero di luce scarlatta, un filo iridescente di una purezza
cristallina, distillato dei benigni raggi solari, snodarsi al di sotto delle
nuvole pesanti e dipinte in mille rifrazioni tormentate. Quasi l’aurora. Magari
era quella la mia ora più
silenziosa.
Quella immagine mi ispirava un fuoco lontano, mi sentivo
morire di caldo. Gli dicevo, baciandogli i capelli: ‘Tiedän, minä tarvitan
sinua ja että en voi ellää ilman sinua. Näetko sinä? Oli kamalan kylmä mutta
sinä olet tullut ystävällinen; kuin auringon maanni yllä lämmenen*’
‘Cosa hai detto?’
‘Rakastan
sinua*. Questo lo capisci, no?’
Non mi ascoltava. Lo odiavo.
Mi addormentai pensando di odiarlo davvero cordialmente.
---
[LEZIONE DI
FINLANDESE ^_^]
Le tre frasucce in finnico non hanno nessuna pretesa
di essere grammaticalmente corrette, essendo state elucubrate da me, il cui
finlandese invece che migliorare peggiora. Ma:
1)Non
credo che tra i miei due lettori ci sia qualcuno che parla il finlandese
2)Se
ci fosse magari mi darebbe una mano, che ne ho un disperato bisogno? ^_^
Ma Henka è finlandese, quindi mi sembrava carino farlo
parlare in quella lingua tanto bella. Magari inserirò un’altra frase, prima o
poi –come se ci fosse ancora tanto spazio a disposizione-
* Cooomunqe, la prima vuol dire: “So di aver bisogno di
te e che non posso vivere senza di te. Non vedi? Faceva terribilmente freddo,
ma sei arrivato gentilmente, mi riscaldi come il sole con la sua terra” (cioè,
l’intenzione era quella), la seconda, semplicemente “ti amo”. Di questa son
sicura: Minä rakastan sinua, rakastan sinua, minä rakastan sua… ora sapete dire
‘ti amo’ in suomi. Utile, neh?
[FINE DELLA
LEZIONE DI FINLANDESE]
- 2 alla fine (tanto il più l’avete passato… ora che
siete stati temprati nello spirito potreste affrontare orde di barbari mongoli
con il solo ausilio di un mestolo da cucina. Garantito al limone ^,^). Sono
tornata dal mare apposta per postare. Cosa non faccio per voi. Ieri ero
sdraiata su un’amaca a mangiare gnocco fritto e Nutella (diecimila kcal per
centimetro quadrato), poi è arrivato il mio fratellaccio e mi ha fatto cadere,
cattivo T___T. Domani parto per Firenze. Oh, quest’estate giro come una
trottola. Vabbè, commentate, così quando torno ho qualcosa da leggere O.O ß
occhietti sperluccicosi. Vipregovipregoviprego…
Ehm… devo dedicare assolutamente questo capitolo alla mia
betuccia Vladimira, perché… ho… come dire… scordato che compiva gli anni.
Scena:
Vlad: Grazie per il libro
Me: o.O che libro? Vlad! Straparli!
Vlad: Il tuo regalo
Me –sempre più perplessa-: Eh?
Vlad: Marto… il compleanno
Y___Y
Me: Ooooooooooooooooooh,
già ^///^
Scusa ancora, Vale. L’anno prossimo me lo ricorderò.
Promesso.
TERMINATO IL CONTO ALLA ROVESCIA: QUESTO è IL –1 (=___=)
XVIII.
Immagino che la sveglia potesse essere veramente suonata e
che noi, profondamente addormentati, non l’avessimo sentita trillare col suo
fastidiosissimo rumore. Ma é più comodo scaricare la colpa sulla sveglia,
aggeggio infernale che tanto fomenta il mio odio e la mia avversione profonda
nei confronti della mattina.
Il risveglio alle sette è qualcosa di traumatico,
soprattutto se ti addormenti alle sei e mezza.
Comunque sia, penso che se anche ci fossimo
malauguratamente svegliati, ci saremmo girati dall’altra parte.
Giulio mi abbracciava, stretto a sé, quasi a volermi
proteggere col suo corpo da minacce sconosciute. Ma forse era una mia
impressione. Ero io, in fondo, il suo angelo custode.
‘Spegnila –‘ Biascicai dal mio rifugio caldo e
confortevole.
Lui allungò un braccio nell’aria fredda del mattino e
scostando le coperte lasciò che la luce di mezzogiorno ci investisse, perché
nell’urgenza bruciante di poche ore prima non avevamo pensato a chiudere le
imposte delle finestre. Poco male.
‘E’ il telefono.’ Si tirò a sedere. Mi dispiacque molto
sciogliere quell’abbraccio accogliente.
Giulio parlava con qualcuno che ci aspettava in Stazione
Centrale da minuti e che non ci aveva visti arrivare col treno che avremmo
dovuto prendere.
‘Ma che ore sono?’ Aveva chiesto Giulio. Lo vidi fare una
smorfia di incredulità, cercare a tentoni l’orologio nella confusione che
regnava sovrana sul comodino, alzare un sopracciglio e rimettere tutto “a
posto”.
Chiese educatamente scusa e riattaccò.
‘Abbiamo perso il treno, mi sa.’
‘Fammi indovinare: dovremmo già essere arrivati?’
‘Sì.’
‘Qui si sta meglio. Prenderemo un altro treno. Ci sarà un
altro treno!’
Lui scrollò le spalle. ‘Ci penseremo tra un’oretta, ora
voglio rimanere qui a riposare.’
‘E’ mezzogiorno?’
‘Sì.’
Mezzogiorno. Data teoretica. Il sole raggiungeva lo zenit
in uno dei giorni più caldi dell’anno, l’edera rampicante luccicava sotto i
raggi benigni, il gatto miagolava.
Sarebbe bastato un banale pensiero ricorrente perché tutti
i tasselli del nostro mosaico riacquistassero il loro posto consueto,
ordinario, noi ci rivestissimo e in completo e pacifico accordo facessimo finta
di ignorare vicendevolmente quello che era successo.
‘Bisogna
avere in sé ancora il caos per partorire una stella danzante’Pensai.
Strana meditazione percorribile nel disegno ignoto che
veniva finemente tessuto come il filato di un ragno, ed aveva carattere
trascendentale, mistico nella cura e nella perfezione commuovente dei ricami
adamantini che ne costituivano sia la trama complessa e tesa al limite della
rottura, sia la brodérie accuratissima e sofisticata, precisa come i minuscoli
meccanismi di un orologio, come la tela di un virtuoso pittore rinascimentale.
In un barlume evanescente di coscienza coscienziosa e di
inequivocabile incertezza, come se il piedistallo stabilissimo sul quale mi ero
adagiato da perfetto anacoreta fosse stato ribaltato in una folata di vento
gelido e tagliente, devastante nella sua potenza e velocità, mi accorsi da
lontano di quanto il movimento violento che avevo impresso al mio
personalissimo cosmo, innaturale e del tutto sconosciuto, stava muovendo le
sfere concentriche della mia anima in direzioni che non avrei mai e poi mai
immaginato e che stranamente non facevano attrito. Suonavano deliziosamente e
non sapevo più cosa ne originasse il moto. In fondo, speravo potesse essere perpetuo.
Sì, sfiorai la mia piccola luce interiore con la punta
delle dita, e fu un attimo di contemplazione estatica ma solenne.
Poi decisi che per una volta nella mia vita era il caso
di smettere di pensare e così feci, anche se non potei fare a meno di pregare
affinché l’arazzo tessuto del mio destino, che avevo avuto il coraggio di
esporre alla consunzione, non si disfacesse in un unico tocco diabolico.
--- Capitolo brevino. Ma è il penultimo, e fa da
anticamera alla conclusione ^_^
Oh, beh, sto rivedendo il finale. Non sono brava nei
finali Y___Y datemi sostegno morale. E meno male che pensavo di finire
Bénédiction entro Maggio. Ho avuto parecchi contrattempi. Che giorno è? Il 10
Luglio? Ho ancora, esattamente, un giorno per postare la fine, che sarebbe il
27, la vigilia della mia depature verso lidi lontani – e freddi.
Ieri ho fatto un Sudoku. Ero al bar a fare colazione e
leggevo il giornale. Non ci son riuscita, così sono scesa a comprare lo stesso
giornale del bar, nonostante ne avevo già comprato uno (Marto! Cos’è che adesso
compriamo due quotidiani al giorno! ß My mumSu,
che fa bene, leggere i giornali ß
io) Morale: ho speso così tutto il mio pomeriggio. Era diventata una questione
di principio, una guerra tra me e il Sudoku… quando ho finito mi sono accorta
di averci impiegato la bellezza di tre ore e mi sono sentita stupida come non
mai T___T. Voi in quanto lo fate il Sudoku? Tra l’altro persino i miei genitori
hanno attaccato a correggere il mio misero difetto di pronuncia (al posto di
‘ti’, tipo: ‘ti dico, ti porto’, dico una cosa strana che è una via di mezzo
tra ‘ci’ e ‘tzi’) Ma mi sento veramente mongola, non ne avete idea.
Domani parto per Londra, speriamo di non esplodere in
metropolitana. Fatemi gli auguri. Buone vacanze a chi parte ^_^ io sono più
stressata di prima >:-P
È successo tutto con una rapidità ed una veemenza
sconcertante.
Vi siete accorti che ho cambiato il tempo verbale? Vi sto
dedicando questa complessa e confusa sinfonia di parole e sentimenti, una
commistione che potrebbe rendere lo scritto non scorrevole, ma accidentale,
aspro e incisivo –invidio davvero coloro che hanno questa trasparenza emotiva
dai tratti surreali, io sono molto più narratore asettico di eventi-, e lo sto
facendo in tempo reale.
Questo perché ho la profonda e radicata paura di dimenticare
ciò che è successo due notti fa, tutti i bei discorsi che sono stati affrontati
e dei quali potrò vantarmi per l’eternità, senza remore; e perché bisogna
sempre riflettere sui postumi di una sbornia.
Mi capite?
Non è stata davvero una sbornia –oddio, per me c’è stata
anche quella-. Andate a fondo.
Mi sono quasi perso in un teatrino di ombre cinesi,
nell’allegorico giardino dell’Amore, ed è stato un miraggio dalle
caratteristiche così irrazionali ed oniriche che mi viene spontaneo il paragone
con una solenne ubriacatura.
Scrivere è la maniera più precisa per affondare nelle
profondità inesplorate di quel vasto inconscio che con la sua mole oscura di
Heros e Thantos, vita e morte, occupa i nove decimi della nostra psiche.
Una sorta di fruttuosa psicoanalisi condotta su noi
stessi, insomma.
Questo è l’avviso di un uomo ignorante in psicologia e
profondamente devoto alle lettere.
E anche un gran bugiardo.
La causa principale che mi spinge a metter tutta la
faccenda per iscritto è di poter attestare vita natural durante che quanto ho
detto a Giulio, quanto gli dirò per i prossimi cent’anni, non è il risultato di
una mia politica opportunista, ma la concretizzazione dei pensieri più devoti
mai sgorgati dalla mia anima pressappochista; oltre che una specie di nodo al
fazzoletto che mi dimostri con la brillantezza e l’indiscutibilità di un
teorema di geometria euclidea il perché e il per come io abbia condotto la mia
scelta di unirmi a lui.
Bisognerebbe davvero scrivere la biografia della propria
vita, sempre e in ogni caso, per sé stessi, per capirsi e continuare a farlo
fino alla fine, perché siamo così complessi, mutevoli nella forma e nel
contenuto, che a lungo termine ci scordiamo il significato tutto speciale delle
cose, e le lasciamo decadere e marcire nonostante queste ci possano aver
condotto a toccare gli apici di tutta un’esperienza di umana felicità.
Ed è questa la tragedia: con la dimenticanza, che più si
acuisce con lo scorrere del tempo, si perdono le percezioni delle piccole cose
come i bicchierini di vodka vuoti e scintillanti, il caffè, la morbidezza di
una camicia di seta sulla pelle nuda o l’amore verso il proprio coinquilino
finlandese.
Dunque vi dirò alla spicciola che io e Giulio abbiamo
dovuto aspettare le sette di sera per un treno che da La Spezia ci portasse
diretti fino a Milano, causa la pigrizia di non voler affrontare continui
cambi.
Giulio è tristemente convinto che il sistema ferroviario
italiano non permetta ai passeggeri di nutrire la speranza di prendere in
orario un treno dalla coincidenza immediata. Pessimista.
Ma io ho preso pochi treni, qui.
Così abbiamo fatto a malincuore le valigie ed abbiamo
salutato la signora gentile che ci ha ospitati per due settimane –e un giorno
in più di quel che avevam pagato- la quale ci ha chiesto con cortesia di
decidere se volevamo tenerci Utrecht, visto che il micio si era affezionato a
noi e lei ne aveva altri trentatré.
Abbiamo impacchettato anche Utrecht nella sua gabbietta.
Mi dispiaceva da morire vederlo imprigionato in quella barbara maniera, coi
suoi occhioni gialli ferini che ci ammonivano severi.
Dicono che gli occhi dei gatti siano gli occhi del
diavolo.
Utrecht, ti libereremo presto!
Adesso siamo quasi in diritura d’arrivo. E’ notte
inoltrata.
Sì, lo so che siamo partiti alle sette di sera, e mal che
vada la tratta La Spezia – Milano non dovrebbe impiegare più di tre ore.
Ma noi stiamo andando a Berlino.
Quando siamo arrivati in Stazione Centrale, la notte
immediatamente trascorsa, a Giulio è sopravvenuto come un flash, un attimo di
profetico abbaglio.
Mi ha chiesto: ‘Sei arrivato in Italia col treno?’
E io gli ho risposto che, no, ero venuto in aereo, ma si
poteva benissimo viaggiare da Kemi fino a Goteborg, da Goteborg fino a
Copenaghen, da Copenaghen fino a Berlino, da Berlino fino a Milano, o per altre
mille deviazioni.
‘E in Finlandia i treni sono buoni?’
‘Certo. C’è un ottimo servizio ferroviario.’
Ricordo come ha taciuto, assorto, per qualche istante
prima di domandarmi se potessi rinviare la sessione dell’esame di filologia
germanica di almeno un mese.
Ho guardato anch’io nella direzione del tabellone delle
partenze sul quale posava lo sguardo da un minuto intero, e ho capito dove
voleva arrivare a parare.
Così abbiamo ripulito il primo Bancomat che abbiamo
trovato e abbiamo comprato i biglietti per l’Eurostar.
I sedili di questo treno sono veramente comodi in
confronto all’Interregionale. E non sono particolarmente imbrattati di scritte
oscene, firme artistiche ed anonime dichiarazioni d’amore.
Da sezzo, Giulio dorme placidamente –gli auguro i sogni
più felici del mondo- appoggiato contro di me, e io batto silenziosamente sulla
tastiera da tre ore consecutive questa storia insensata, pensando alla piega
imprevista e dolce che ha preso la mia vita in così poco tempo.
Davvero.
Mi auguro mille di queste ultime notti e tanta di qusta fortuna.
Anche a voi.
Una – Benedizione
LOPPU
(The end)
--- Non è vero che ci ho messo tre ore T____T ci ho messo mesi a
scrivere tutto!!! Ed è stato stressante da non credere!
Io però ve l’avevo detto che non sono brava coi finali, non mi
piacciono e non riesco a trovarne uno che mi soddisfi abbastanza. L’idea di un
finale così aperto era la meno peggio. E poi >:-) io almeno ho finito
ahahahah (ß risata sadica). Non vedevo l’ora. E domani – vado
– in – FINLANDIA. Sono piacevolmente agitata. Questo è un piccolo sogno che si
realizza. Pieni uni (ß piccolo sogno).
Mi farà piacere se commenterete, solo, a meno che non facciate entro la
fine della giornata, non potrò rispondervi e ringraziarvi fino a – Settembre.
Oddio mi vien male. (E’ perché sono una ragazza educata ^_^). Ringrazio
anticipatamente chi commenta. Nel caso ci sia qualcuno che ha letto fino alla
fine. Non avete idea di quanto mi faccia happy.
E pensare che ieri mi son svegliata e vedevo il Tamigi. Oggi la roggia.
Ho anche comprato HP in tempo record e l’ho letto notte e giorno. Che brutta
fine… tanto saprete già tutto, no? Oh, io vi lascio. Devo rifare i bagagli per
l’ennesima volta.
RINGRAZIO DAVVERO TUTTI COLORO CHE ABBIANO MAI COMMENTATO E CHE
COMMENTERANNO MAI. THANKS A LOT, INDEED.