Unmei no hōhō

di OnnanokoKawaii
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il passato ritorna ***
Capitolo 2: *** Superare il passato ***
Capitolo 3: *** abbracciare il passato ***
Capitolo 4: *** Il sapore proibito del passato ***



Capitolo 1
*** Il passato ritorna ***


Ed eccolo lì, Kise Ryouta, ventotto anni compiuti, a correre per il terminal con il rischio di non riuscire a salire sull’aereo di cui avrebbe dovuto essere il copilota. Sembrava quasi una barzelletta. Tutta la sua vita sembrava una lunga rincorsa.
Prima alla ricerca di una passione: a scuola aveva provato a entrare in tantissimi club sportivi, eppure, pur essendo più bravo della media non aveva mai provato la voglia travolgente di migliorare. Almeno fino a quando, alle medie, non aveva per caso visto un ragazzo durante gli allenamenti del club di basket.
Dio che stile di gioco, che naturalezza dei movimenti, che velocità, ma soprattutto a colpirlo fu l’espressione felice che aveva sul volto sudato.
Ecco cosa cercava così disperatamente: qualcosa che gli facesse battere il cuore, qualcosa di così speciale da rendere la fatica una cosa bella.
Così aveva deciso di entrare nel club di basket e un po’ grazie alle sue doti fisiche, un po’ grazie al suo intelletto, riuscì in fretta ad emergere tra le tante riserve e incontrare il suo idolo.
Aomine Daiki.
Cavolo, non era tanto più alto di lui, eppure ogni parte del suo corpo sembrava emanare una sorta di elettricità, come se la forza fulminea che lo animava durante il gioco scorresse sempre sotto la sua pelle trattenuta a stento.
L’accoglienza amichevole e la gentilezza con cui Aomine si dedicò ad insegnargli lo avevano colpito. Nel giro di poco tempo diventarono davvero amici e compagni.
Nonostante la prima squadra della scuola media Teiko fosse fortissima e composta da fenomeni in erba, riuscì a diventare un giocatore titolare e in breve tempo fu eletto a pieno titolo membro della strepitosa Kiseki no Sedai, la squadra il cui nome faceva tremare tutte le avversarie della prefettura e della nazione.
Quel soprannome era stato dato alla formazione titolare della scuola media Teiko, composta da ragazzini del primo anno dotati di così tanto talento da essere assolutamente fuori portata. Invincibili.
La Generazione dei Miracoli.
Coloro che gareggiavano tra loro durante le partite perché le squadre avversarie non potevano minimamente competere.
Era una squadra composta da personalità straripanti e ben presto, quando il talento di ognuno iniziò a maturare, divenne chiaro che non fosse possibile mantenere insieme questo gruppo così fenomenale.
Al termine delle scuole medie la squadra si disgregò ed i suoi membri andarono tutti in scuole superiori diverse.
Qui tutti si persero.
Ma il loro sesto uomo, Kuroko, colui che dell’invisibilità aveva fatto un’arte, grazie ad una squadra tutta nuova nel giro di un anno era riuscito a riallacciare la vecchia amicizia con tutti.
Avevano così trascorso gli anni del liceo a contendersi tra loro l’Inter High e la Winter Cup in partite serrate, vinte e perse sempre all’ultimo secondo e sempre con il sorriso.
Che begli anni erano stati quelli del liceo.
Alla fine della scuola il destino della Generazione dei Miracoli pareva quello di dividersi ma l’amicizia, in qualche modo, aveva vinto anche sulle diverse scelte.
Kuroko, pur essendo bravo nello studio aveva deciso di lavorare coi bambini, Momoi invece si era iscritta all’università ma travolta dall’amore per un suo compagno di corso aveva lasciato gli studi per convolare a nozze; dalle ultime notizie sembrava fosse in attesa del secondo figlio. Midorima, seguendo la propria passione invece delle orme paterne, rifiutò un destino da amministratore delegato per diventare un medico e da poco aveva conseguito la specializzazione in traumi sportivi. Akashi era partito subito dopo il liceo alla volta degli Stati Uniti dove aveva studiato per divenire manager dell’impresa di famiglia. Murasakibara, invece, aveva deciso di seguire il proprio stomaco andando a studiare per diventare pasticcere.
E lui, Aomine, era entrato in polizia.
Tutti avevano scelto cosa fare di sé stessi, tutti avevano qualcosa da inseguire, che fosse un sogno o una passione. Lui no.
Kise aveva deciso di entrare all’accademia di Aeronautica più per noia che per reale interesse, durante un servizio fotografico gli avevano detto che la divisa gli donava particolarmente e così… eccolo lì, sei anni dopo, con la sua bella divisa da pilota a sfrecciare per i lunghi terminal.
Di nuovo in ritardo.
Cavolo, pur avendo passato senza problemi l’esame per l’abilitazione, aveva l’obbligo tassativo di trascorrere almeno cinquanta ore settimanali in volo per sei mesi. Questo significava che il suo ultimo giorno libero era stato il giorno dell’esame stesso quattro mesi prima.
Il che era davvero deprimente.
Aveva lasciato il suo lavoro da modello perchè non aveva avuto il coraggio di trasferirsi all’estero, così, a poco a poco si era allontanato dalle riviste patinate per adolescenti così come si era allontanato dalle competizioni di basket.
“Possibile che non riesco mai ad arrivare in orario? Sono sempre a rincorrere. La vita. Ecco cosa rincorro disperatamente. Le sue spalle. Sia per il basket, che per le scelte dopo la scuola superiore. Ho sempre rincorso le sue spalle… Aomine…”
Scosse la testa correndo ancora più veloce mentre il colletto inamidato dell’uniforme iniziava a strangolarlo.
“No, non cadere di nuovo in quei ragionamenti, non puoi, non devi. È un capitolo mai aperto che deve restare tale.”
La sua ammirazione per Daiki Aomine era iniziata alle scuole medie, per proseguire al liceo e negli anni a seguire. Chi di loro non se ne era andato da Tokyo, bene o male aveva mantenuto i contatti con gli altri. Una partitella al sabato, poi una ogni due settimane quando lui poteva tornare dall’accademia e infine saltuariamente vista l’apertura della pasticceria di Murasakibara. Lui e Aomine erano davvero amici, eppure, durante quella prima partita della Winter Cup, qualcosa si era spezzato. Nel tentativo di vincere Kise aveva rinunciato, dentro di sé, a quell’ammirazione che aveva sempre riservato solo al suo mito, facendo un passo oltre.
Non aveva vinto, ma nonostante ciò il suo rapporto con Daiki era cambiato. Per i primi tempi era quasi stato in imbarazzo a comportarsi da amico, poi gli impegni e la vita avevano fatto sì che ci fossero troppe barriere per far caso anche all’imbarazzo.  
Infine, dopo mesi  senza alcun contatto, una sera, mentre rientrava stanco dall’ennesima prova pratica lo aveva visto al campetto da street basket.
Illuminato dalla luce arancione del tramonto, con la camicia della divisa aperta sul collo Aomine palleggiava, zigzagava, dribblava, saltava e infilava il canestro a ripetizione. Era sempre bellissimo, non aveva perso nulla negli anni. Anzi, aveva ritrovato quel sorriso di pura gioia che gli aveva visto durante l’allenamento tanto tempo prima. Un sorriso in mezzo al sudore, che esprimeva gioia per il dolore alle gambe e il bruciore al petto, un sorriso che rispondeva al tremore delle braccia e allo sfinimento mentale. La pura gioia di giocare libero.
In quel momento il cuore di Kise Ryouta batteva così forte che avrebbero potuto sentirlo anche i passanti se ce ne fossero stati. Era così affascinante.
Avrebbe potuto raggiungerlo, fare qualche tiro con lui, magari due chiacchiere; invece era rimasto semplicemente lì, nella penombra a guardarlo giocare da solo finchè il sole non era tramontato del tutto.
A quel punto sapeva.
Aveva sempre sospettato di avere uno speciale attaccamento nei confronti del suo mito, di colui che gli aveva dato uno scopo negli anni di smarrimento. Ma in quel momento seppe, con assoluta certezza che quel sentimento era ben più profondo dell’ammirazione e ben più pericoloso della semplice amicizia. Era amore. Il suo primo impossibile amore.
 
Da quella fatidica sera c’erano state diverse occasioni per incontrarlo, una partitella organizzata da Kuroko, la festa organizzata per rientro di Kagami dagli Stati Uniti alla fine del campionato NBA di cui era diventato una delle stelle incontrastate, il compleanno di Murasakibara che aveva deciso di festeggiare nella sua pasticceria, eppure lui, con una scusa o con l’altra aveva sempre trovato il modo di declinare gli inviti.
La verità era che moriva dalla voglia di vedere come se la stessero passando gli altri.
Perso nelle sue riflessioni passò il badge sul lettore all’ingresso della zona ufficiali e poi per l’accesso alla pista  dove il suo aereo lo aspettava.
Voleva davvero sapere come se la cavava Midorima nel suo studio privato con quella bella segretaria che non faceva mistero di volerselo accalappiare ignorando il fatto che  il suo capo stesse convivendo felicemente con un neoavvocato, uomo per giunta. Desiderava chiedere a Kuroko se era riuscito a far parlare Sakura-chan, la bimba timida di cui gli aveva parlato, che non aveva mai proferito parola né con i maestri né con i coetanei preferendo restare da sola a guardare gli altri giocare. Aveva perso l’occasione di congratularsi con Kagami per la sua carriera sportiva e di lasciargli i piccoli doni che aveva preparato per Akashi. E Mukkun, lui se non altro poteva vederlo, da lontano, nel tragitto che dal suo appartamento lo portava al terminal. Aveva allungato appositamente il percorso in modo da sbirciarlo al lavoro, nelle prime ore del giorno, oppure a tarda notte. Lui era sempre lì, affaccendato, concentrato a preparare i suoi amati dolci con quel  cipiglio annoiato ma una luce gioiosa nello sguardo.
Gli mancavano tutti. Sospirò nel prendere posto nella cabina di comando salutato da un brontolio del collega. Avviò le procedure di decollo, aspettò il segnale della torre di controllo e decise di spegnere il cervello per concentrarsi sulle manovre.
Erano già in posizione sulla pista quando venne data l’autorizzazione al decollo. Come aveva fatto migliaia di volte prima, azionò la leva per dare inizio alla fase di accelerazione. Il velivolo iniziò a muoversi sempre più veloce mentre i capannoni, gli hangar e il terminal si allontanavano, quando all’improvviso una comunicazione dalla torre di controllo. Volo non autorizzato. Dovevano tornare verso lo spiazzo di sosta per un controllo.
Come da ordini diedero la notizia ai passeggeri e riportarono a velocità ridotta il mezzo lontano dalla pista.
Nel giro di pochi minuti l’aereo fu circondato da auto e uomini della polizia e delle forze speciali. Gli uomini indossavano il casco protettivo d’ordinanza per cui era impossibile vederli in volto.
Ryouta rimase turbato nel rendersi conto che stava cercando Aomine. Scosse la testa  e intimò ai passeggeri, tramite l’interfono, di mantenere la calma e di scusare la compagnia per il disagio arrecato.
Vennero aperti i portelli e una squadra di agenti armati salì a bordo sotto lo sguardo sbalordito dei due piloti. Pistole spianate, cani al guinzaglio. Sembrava in tutto e per tutto una retata antidroga.
Dopo interminabili ispezioni sembrava non ci fosse nulla di anomalo tra i bagagli a mano e nemmeno addosso ai passeggeri ma all’improvviso, un uomo basso e tarchiato, seduto proprio vicino al portello aperto sganciò la cintura e si lanciò verso l’unica via di fuga. Non andò molto lontano.
Kise aveva visto la scena come a rallentatore, affascinato dalla dinamica dei corpi che cozzano l’uno contro l’altro. L’uomo era sceso dalla scaletta ma appena aveva poggiato un piede a terra era stato investito da un corpo massiccio. Il placcaggio dell’agente era stato esemplare e rapidissimo. Aveva investito il fuggitivo con tutto il peso del grande corpo e con una considerevole forza sbilanciandolo per trascinarlo a terra con sé.
Prima che la situazione tornasse alla normalità e al velivolo fosse permesso di  proseguire il programma di volo, per un solo attimo, mentre il portello era già in chiusura,  Kise vide l’ignoto agente levarsi il casco mentre i colleghi si congratulavano dandogli sonore pacche sulle ampie spalle. Aomine.
Perché non era sorpreso? Forse ne aveva riconosciuto la velocità, o magari le movenze.
Scombussolato tornò in cabina di comando per ricominciare le procedure di decollo. 
L’arrivo a Sapporo, sebbene in ritardo di quasi quaranta minuti, fu tranquillo e l’aria frizzante che gli colpì il volto mentre si dirigeva nelle sale riservate agli ufficiali di volo gli scrollarono di dosso l’inquietudine. Proprio quando sembrava che la giornata si stesse raddrizzando gli venne comunicato che quando fosse rientrato al terminal di Tokyo avrebbe dovuto recarsi negli uffici della sicurezza interna per lasciare una deposizione sulla dinamica dei fatti. Grandioso.
Numerose ore di volo dopo, ad un orario improponibile e con un mal di testa atroce finalmente Kise entrò negli uffici della polizia  interna al terminal. Una giovane poliziotta tutta sorrisi e moine, da lui bellamente ignorata, lo accompagnò nella sala d’attesa assicurandogli che  sarebbe stato ascoltato al più presto.
Seduto su una sedia metallica e scomoda, con la divisa sgualcita e una voglia matta di trovarsi nel proprio letto decise di chiudere un momento gli occhi sperando che il dolore martellante alle tempie scemasse con l’oscurità.
Qualcuno lo stava chiamando. Kise aprì gli occhi e in un attimo si rese conto si essersi addormentato nella sala d’attesa. Sbattè le palpebre e davanti si trovò l’ultima persona che avrebbe mai voluto vedere in quel momento.
Alto, fasciato alla perfezione dalla sua divisa blu che ne esaltava le ampie spalle e la ragguardevole statura, Aomine gli sorrideva.
-Devi essere proprio stanco per addormentarti su una sedia scomoda come quella. Vieni, facciamo in fretta così poi puoi andare a casa.-
Seguendo, stavolta realmente, la schiena del vecchio amico, Kise entrò nel grande ufficio. Fu fatto accomodare davanti ad una scrivania e davanti a lui prese posto un ufficiale sulla cinquantina che sfoggiava con navigata noncuranza profonde occhiaie bluastre che rivaleggiavano con le sue. Di Aomine non c’era più traccia, così, ringraziando silenziosamente la sua buona stella  rispose alle domande con professionalità ed efficienza.
Circa un’ora più tardi, quando ormai il sole stava iniziando a rischiarare l’orizzonte, finalmente Ryouta fu lasciato libero. Era uno spreco di tempo cercare di andare a casa, perché contando il tragitto di andata e quello del ritorno gli sarebbero rimaste poco più di tre ore per dormire. Inutili.
Facendo dietrofront si diresse a passo stanco verso la reception, mostrò il tesserino da ufficiale e subito gli venne messa in mano una chiave.
La chiave di una stanza nello squallido motel del personale aeroportuale. Ormai trascorreva più ore in quelle stanzette anonime e puzzolenti che a casa sua.
Più volte aveva pensato di lasciare definitivamente l’appartamento che aveva ereditato dalla nonna materna ma non aveva mai avuto il cuore di farlo veramente. Quella casa era tutto ciò che gli restava del se stesso vissuto prima dell’accademia. Lì conservava ricordi, oggetti e pensieri di quella che sembrava sempre di più la vita di qualcun altro.
Attraversò la strada mentre i primi raggi di sole illuminavano la facciata scrostata e malandata dello stabile che lo avrebbe ospitato durante le sue preziose ore di sonno. Aveva fame, l’ultimo vero pasto che aveva fatto risaliva sicuramente a qualche giorno prima. Non era facile sopravvivere di snack e pasti pronti rimediati nei pub e nei negozietti interni agli aeroporti ma l’idea di camminare fino al Konbini che distava un isolato intero dal terminal era superiore alle sue forze.
Dopo l’ennesima barretta energetica sgranocchiata sotto alla doccia, crollò ancora semivestito sul letto duro. Nel momento di sospensione tra il sonno e veglia gli si presentò alla mente il volto di Aomine, la pelle scura, gli occhi di quel blu impossibile che lo fissavano accesi di ilarità, l’ultimo bottone del colletto aperto che lasciava intravedere la gola… infine crollò in un sonno profondo e senza sogni.
 
Daiki Aomine  smontò dal turno alle sei del mattino, la retata al terminal aeroportuale lo aveva costretto a trascorrere lì tutto il pomeriggio e buona parte della nottata. Massaggiandosi le spalle si avviò verso il parcheggio: non vedeva l’ora di arrivare a casa, levarsi le scarpe e prepararsi una colazione veloce e abbondante. Stava salendo in auto quando, sulle strisce pedonali davanti al terminal, riconobbe la figura alta e appariscente di Kise che ciondolava verso uno squallido prefabbricato.
Lo osservò rallentare tenendosi lo stomaco, dolorante o affamato, non avrebbe saputo dirlo così da lontano, ed infine sparire nell’androne.
Era rimasto a dir poco sorpreso quando lo aveva trovato profondamente addormentato  nella sala d’attesa; nonostante il volto disteso nel rilassamento del sonno lo aveva visto sciupato e dimagrito. Anche quando lo aveva svegliato, le occhiaie che spiccavano sul suo incarnato chiaro erano orribili e  più simili a bruciature che a semplici segni di stanchezza, gli occhi dorati che avevano incontrato il suo sguardo erano appannati e smorti tanto da non sembrare nemmeno i suoi.
Erano mesi che non lo vedeva, alle rare rimpatriate organizzate dai loro amici Kise non era più venuto e adesso aveva un’idea ben precisa del perché: a un primo sguardo, quello scemo lavorava decisamente troppo.
Sapeva che gli orari degli ufficiali erano massacranti e  irregolari, ma come poteva un individuo energico come lo era sempre stato Ryouta ridursi all’ombra di se stesso?  Immettendosi nel traffico del mattino si prese l’appunto mentale di scrivergli un messaggio o di telefonargli il giorno dopo per invitarlo a riposarsi in primis e in seconda battuta a farsi vivo almeno per i compleanni dei suoi amici.
Il pomeriggio, riposato dopo qualche ora di sonno e decisamente carico, Daiki si preparò uno spuntino, indossò una tuta comoda e deciso a sfruttare la prima mezza giornata libera della settimana, iniziò la sua corsa. Ogni volta che ne aveva l’occasione andava a correre per un’ora e poi, se il campetto era libero, si fermava a fare quattro tiri a canestro. Lo aiutava a pensare e a ritrovare se stesso.
Mentre prendeva il suo ritmo la sua mente tornò a Kise, spento e fiacco oltre ogni immaginazione. Era preoccupato per lui. Sapeva che i suoi genitori si erano trasferiti al nord, da qualche parte in Hokkaido, a causa del lavoro del padre e che essendo Ryouta iscritto all’accademia aeronautica lì a Tokyo non aveva potuto seguirli; quindi era anche consapevole che non ci fosse nessuno a prendersi cura di lui. Erano sette anni che si prendeva cura di sé in completa autonomia e in assoluta solitudine. Da quel che aveva visto negli anni passati, finchè era stato uno studente le occasioni di vederlo erano state molte e lo aveva sempre trovato energico e in forma.
Forse, l’orario lavorativo non gli permetteva di prendersi cura di se stesso. Se fosse stato così, per quanto avrebbe potuto andare avanti prima di crollare? Visto lo stato in cui era… non molto.
Ma come avrebbe potuto aiutarlo? Lui stesso aveva orari bestiali e il suo telefono squillava a tutte le ore del giorno e della notte. Che appoggio avrebbe mai potuto offrirgli?
Un altro dubbio gli si affacciò alla mente: Ryouta avrebbe accettato il suo aiuto qualora si fosse deciso a offrirglielo? Detestava doverlo ammettere ma erano anni che lo sentiva sempre più distante. Nonostante avesse continuato a comportarsi normalmente nei suoi confronti, aveva sentito venir meno quel rispetto e quell’ammirazione che solitamente gli trasmetteva. Da quella partita della loro prima partecipazione alla  Winter Cup come avversari. Lo aveva sentito. Nel momento in cui Kise era riuscito a riprodurre i suoi movimenti dando prova del suo enorme talento, Aomine aveva percepito il loro legame affievolirsi. Negli anni successivi non avevano più avuto occasione di affrontarsi faccia a faccia a causa dei sorteggi che costituivano i gironi e questo aveva lasciato quella questione irrisolta.
Non avrebbe voluto che finisse così, ma tra gli impegni alla scuola preparatoria per entrare in polizia e gli impegni dello stesso Ryouta, non avevano trascorso nemmeno un minuto da soli. E poi… a che pro tirare fuori una storia così vecchia e sentimentale?
Che idiota era stato a non chiarire le cose allora, subito dopo la partita, quando quei sentimenti erano ancora freschi. Ma all’epoca era un ragazzino, troppo preso dai suoi stupidi problemi per interessarsi a qualcuno che non fosse se stesso. Che spreco.
Con la testa immersa in queste elucubrazioni Daiki decise di interrompere la sua corsa e scrivere a Kise, nella speranza di ottenere una risposta. Non aveva in mente né cosa dire in caso risposta né come aiutare l’amico, ma starsene con le mani in mano sapendo come stavano le cose non era da lui.
Prese il cellulare e iniziò a digitare: “Ciao Kise, mi ha fatto piacere incontrarti ieri, visto che non facciamo mai due chiacchiere, ti andrebbe di andare a bere un goccio una di queste sere? Fammi sapere quando ti viene meglio, i miei orari sono abbastanza elastici. A presto.”
Rilesse il testo del messaggio, scosse la testa e lo cancellò. Possibile che non fosse in grado di scrivere qualcosa che fosse un po’ meno impersonale? Prese un bel respiro e riprovò.
“Ciao Kise, una di queste sere ti andrebbe di andare a bere qualcosa insieme? Ti ho visto davvero molto stanco. Sono preoccupato e vorrei poterti aiutare. Ci vediamo presto.”
No. Non esisteva proprio che avesse il coraggio di inviare un messaggino così melenso. Chi era? La sua dannata fidanzata? Avrebbe mai ammesso di essere preoccupato per lui? Si… no… forse, ma sicuramente non nel primo sms dopo mesi di silenzio! Perdiana che frana che era!
Decise di sedersi su una delle panchine vuote che costeggiavano i campetti da Street basket e scrivere con calma.
“ciao Kise, spero tu ti sia riposato, mi sei sembrato molto stanco. Se hai tempo una di queste sere potremmo andare a fare due chiacchiere davanti ad un bicchierino. Che ne dici? Non preoccuparti dell’orario, fammi sapere solo quando sei libero. A presto. Daiki.”
MMmmh… andava già meglio ma forse era troppo confidenziale, in fondo non si vedevano da mesi. Riprese a digitare per cambiare alcune cose:
“ciao Kise, spero tu sia riuscito a riposare. Se hai tempo, una sera mi farebbe piacere fare due chiacchiere con te davanti a un bicchierino. Fammi sapere quando sei libero. Daiki.”
Era il meglio che la sua mente bacata fosse riuscita a partorire in quasi un’ora e mezza di riflessioni. Aspetta… un’ora e mezza? Eh sì, il suo orologio segnava le venti e quaranta. Stizzito premette violentemente l’invio e pigiando il telefono nella tasca della felpa riprese a correre verso casa, giusto in tempo per farsi una doccia e andare a fare il turno di notte in centrale.
A mezzanotte passata, in una di quelle serate in cui grazie al cielo non sembravano esserci segnalazioni né intoppi Aomine aveva già controllato il cellulare un centinaio di volte. La batteria si stava scaricando e di Kise nessun segnale.
Poteva essere in volo, quindi era improbabile che rispondesse. Doveva darsi una calmata. Però, non c’era nessun volo nazionale che durasse più di due ore, eppure dall’ora di invio ne erano già trascorse quasi quattro. Si diede mentalmente dello stupido cercando di convincersi che probabilmente tra un volo e l’altro Ryouta non avesse avuto il tempo di controllare il telefono.
Alle due e mezza era al limite della pazzia. Che diavolo stava combinando quel cretino? Poi il sospetto: se nel frattempo avesse cambiato numero telefonico? Dopo altri quaranta minuti il panico: se fosse collassato da qualche parte l’ultima cosa a cui avrebbe pensato sarebbe stato il cellulare con il suo stupido messaggio.
Alle quattro e venti stava per prendere un permesso e andare a cercarlo quando finalmente, l’agonizzante smartphone emise un trillo. Aomine vide che il mittente era proprio Kise e sospirò di sollievo. Fece per aprire il messaggio quando il telefono, ormai scarico, si spense.
 
Kise si svegliò di soprassalto, era passato da poco mezzogiorno, aveva dormito poco meno di cinque ore. Era sempre meglio di niente. Trascinandosi fuori dal letto e dandosi una riassettata sommaria, indossò la divisa sgualcita del giorno prima sperando che nessuno notasse le pieghe sui calzoni  né sull’addome. Non aveva comunque alternative. Le tre divise di cambio che aveva nel bagaglio a mano erano tutte in condizioni peggiori quindi per quel giorno avrebbe dovuto accontentarsi.
Se il programma era giusto alla fine della giornata lavorativa sarebbero iniziate le sue prime ventiquattro ore libere dopo quattro mesi di ritmi impossibili.
Già sognava di affondare nel suo morbido letto di piume, tanto grande da sembrare una piazza d’armi, di bere un caffè a piedi scalzi vicino alla finestra che dava sulla veranda, di fare una lavatrice e finalmente eliminare l’odore di usato dal suo trolley malandato. Questi pensieri gli diedero la forza di muoversi ancora, di riconsegnare le chiavi alla reception dell’aeroporto e di arrivare in orario in sala ufficiali e successivamente in cabina.
Incredibile cosa poteva fare la prospettiva di un giorno libero alle porte.
I suoi sorrisi alle hostess erano più solari e amichevoli, se ne rendeva conto, non gli pesava prendere parte alle chiacchiere nella sala ufficiali, non trovava disgustoso l’odore dell’aria sintetica nella cabina. Gli sembrava di galleggiare.
Dopo l’ennesimo volo da Tokyo a Nagoya, si ritrovò ad attendere in tremendo anticipo l’imbarco per rientrare definitivamente alla base.
Erano quasi le nove ed essendo l’inverno alle porte il sole era già tramontato; tirava una fresca aria che sapeva di pioggia in arrivo e di umido ma nulla gli era mai parso più buono. Anche con la pioggia lui avrebbe potuto godersi lo stare a casa.
In quel momento il suo cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Stupito prese lo smartphone, chiedendosi chi mai avesse deciso di scrivergli. Gli amici avevano smesso di cercarlo appena un mese dopo l’inizio della tirata infernale al lavoro, i suoi genitori erano impegnati ad assistere l’anziana nonna paterna e non avevano certo il tempo di preoccuparsi di lui. E loro.. ah, si. Probabilmente era uno di loro ad avergli scritto. Aprì il messaggio e rimase di sasso.
L’sms era di Aomine che gli chiedeva di uscire una sera.
Sbattè le palpebre, sicuro che la stanchezza gli stesse giocando un brutto scherzo. Fissò ancora il messaggio che ovviamente non era cambiato. L’agitazione salì all’improvviso, tanto che iniziò a girargli la testa. Cosa doveva rispondere? Se avesse declinato, conoscendo Daiki, probabilmente sarebbero sorte domande a cui non voleva rispondere; se non avesse risposto sarebbe stato contattato a turno da tutti loro nel tentativo di capire il perché del suo comportamento. No, era meglio rispondere. Sì, ma come? Cosa poteva dirgli? Che non vedeva l’ora? Che non si aspettava un invito simile e che era sorpreso?
Fece un bel respiro per calmarsi, in fondo era scontato che lui fosse al lavoro, per quel che ne sapeva Aomine era in volo anche in quel momento, quindi poteva aspettare ancora un po’ a rispondere. Chiuse il telefono e si avviò verso la pista per imbarcarsi tormentato dai suoi desideri e dal suo senso di inadeguatezza.
Nell’ora e mezza di volo continuava a frullargli in testa l’invito; non se ne stupiva visto che ad averglielo inviato era la persona di cui era segretamente innamorato, ma un conto era amare da lontano, un conto era averci a che fare da vicino e dover nascondere quei sentimenti per non suscitare disgusto.
Che situazione spinosa. Sovrappensiero espletò i propri doveri e si avviò a piedi verso casa. Quando si chiuse la porta alle spalle inspirando felice il profumo di casa sua erano quasi le due del mattino. Svuotò il trolley malconcio e maleodorante, mise a lavare le divise sgualcite insieme alla biancheria e si perse a tagliare le verdure per cucinarsi un vero pasto.
Sedersi al suo tavolo per mangiare nella sua cucina del cibo vero lo riempì di gioia. Erano cose che le persone normali davano per scontate ma per lui era un evento raro quanto la mattina di Natale per i bambini. La sensazione della saggina sotto i piedi scalzi, la libertà di movimento che sentiva nell’indossare una semplice t-shirt invece della camicia inamidata, i suoni confortanti che provenivano dalla strada, tutto era un tesoro da riscoprire.
Con la pancia piena di cibo e il cuore colmo di gratitudine per avere la fortuna di essere a casa si infilò nel suo soffice letto gigante che gli diede una sensazione molto simile a quella che ricordava dessero gli abbracci. E così, mentre scivolava nel dolce riposo di chi è in pace con il mondo digitò le parole che mai avrebbe pensato di scrivere: “Domani sera per me sarebbe perfetto.”
Dormì bene. Così bene da non sentire lo squillo del telefono e nemmeno i bambini che tornavano da scuola strillando e schiamazzando per strada.
Quando finalmente aprì gli occhi, gli ci volle un momento per rendersi conto di dove si trovasse: casa sua, nel suo letto. Dando un’occhiata alla sveglia non si stupì di aver dormito per quasi dodici ore. Bello riposato si stiracchiò occupando una buona porzione del grande letto taglia speciale che si era regalato per il suo venticinquesimo compleanno, poi si alzò e si diresse nel bagno.
Era arredato in vecchio stile giapponese,  una stanza molto spaziosa, tutta rivestita in bambù, con una vasca grande, pensata più come zona relax che come luogo per le abluzioni essenziali. Per comodità, avendo anche un secondo piccolo bagno dove  aveva fatto installare una doccia perché nei giorni lavorativi il tempo era denaro e non poteva permettersi di poltrire a mollo. Riempì la vasca e vi si immerse fino al mento. Che bella sensazione.
Iniziò a sfregare bene la pelle che iniziava ad arrossarsi per via della temperatura elevata quando gli tornò alla mente il ricordo confuso della risposta che aveva digitato all’invito di Aomine.
Schizzò ritto a sedere spruzzando acqua sul pavimento e sulla parete. Ma che diavolo gli era saltato in mente? Quella sera? Non era troppo presto?! Lui aveva bisogno di prepararsi psicologicamente a restare solo con quella persona, aveva bisogno di studiare un piano d’azione e una strategia di fuga qualora le cose fossero diventate imbarazzanti o difficili.
Rielaborando tutti gli argomenti possibili di conversazione iniziò a lavarsi la schiena con energia.
Quando finalmente terminò di elaborare diverse strategie per tenere la conversazione lontana da argomenti scomodi, aveva la pelle rosso acceso e le mani raggrinzite come le prugne secche.
Schizzò fuori dalla vasca rendendosi conto solo in quel momento di non aver preparato un asciugamano con cui asciugarsi. Maledicendosi per la sbadataggine e rabbrividendo a contatto con l’aria prese un bel respiro e sgocciolando si diresse verso il ripostiglio.
Mentre gustava uno spuntino, o forse quasi una cena visto l’orario, ripassò mentalmente il piccolo schema che si era elaborato. Obbligò il cervello a spegnersi per riuscire a godersi la sua tazza di caffè lì, dove aveva sognato di farlo per giorni: in piedi accanto alla finestra che si affacciava sulla piccola veranda. Che bella che era la sensazione  del tatami sotto i piedi scalzi.
Controllò il cellulare e vide la risposta di Aomine: “ore nove dai campetti”.
Il loro solito ritrovo. Erano passati tanti anni eppure per qualunque occasione il luogo d’incontro era sempre rimasto quello. Il bello era che tutti, pur potendo scegliere di meglio, avevano cercato casa relativamente vicino a quel parco, ai loro amati campetti da street basket.
Impiegò quasi un’ora a stendere e sistemare le divise che ormai erano l’unico capo che indossava regolarmente. Lucidò le scarpe e la cintura d’ordinanza perché per lui l’aspetto era sempre stato fondamentale, non per vantarsi o per spiccare, ma per rendere giustizia ai doni che la vita gli aveva gentilmente offerto: la bellezza in primis.
Sistemò al meglio la sua capigliatura chiara, scelse gli abiti da indossare facendo attenzione a non sceglierli troppo eleganti e nemmeno troppo sportivi. Lavò con cura i denti e faticò non poco a indossare l’anellino d’oro al lobo sinistro. Non poteva tenerlo sul lavoro quindi negli ultimi quattro mesi non aveva avuto motivi per metterlo ed il buco si era stretto. Stringendo i denti un po’ per la fitta di dolore e un po’ per non protestare alla sensazione perdurante di fastidio, infilò la giacca e chiudendosi la porta alle spalle si avviò a passo pesante verso il luogo dell’incontro.
L’agitazione era alle stelle, camminava rigido e il suo cuore batteva all’impazzata. Nonostante la temperatura fosse adeguata ad una sera di fine autunno, sentiva un gran caldo alle guance.
Arrivò con quasi mezz’ora di anticipo. Incredibile.
Era già buio, l’aria era ferma e il parco  immerso nel silenzio. I fari che illuminavano i campetti non arrivavano a far luce sui sentieri quindi un po’ affidandosi alla memoria, un po’ abituandosi all’oscurità si addentrò nel piccolo parco.
Pur non essendo tardi tutte le aree da gioco erano vuote, i palloni allineati ai bordi e l’unico  leggero rumore che persisteva nell’aria era quello del traffico in lontananza.
-Sei in anticipo.-
Avrebbe riconosciuto quella voce roca e profonda tra mille. Con il cuore improvvisamente in gola Kise si voltò.
-Anche tu sei in anticipo. Ciao Aominecchi. –
 
Era arrivato al parco con un’ora di anticipo, aveva sperato che nell’attesa gli si sarebbe affacciata alla mente una buona strategia per avviare con Kise un discorso serio su come stavano le cose tra loro. Voleva farsi rassicurare. Gironzolando nel buio dei piccoli e serpeggianti sentieri di terra battuta si era perso in mille riflessioni alla ricerca di una soluzione da adottare per dirottare la conversazione dove desiderava.
Stava ancora rimestando i pensieri quando intravide una figura imponente  ferma nei pressi del campo. Sfruttando il suo addestramento si mosse furtivo fino a quando non riuscì a riconoscere la bionda capigliatura dell’amico. Fece un bel respiro e decise di avvicinarsi per parlare.
“Aominecchi” quanto era che non sentiva quel buffo appellativo. Almeno tanto quanto non vedeva Kise. Nella penombra non riusciva a scorgerne bene i lineamenti ma almeno ad un primo esame superficiale sembrava un po’ più riposato.
-Vieni, conosco un posticino tranquillo che serve un ottimo sakè.-
Si voltò e senza guardare se Ryouta lo stesse seguendo o meno si avviò verso la strada principale.
Camminarono in silenzio, ognuno perso nelle proprie riflessioni e alla ricerca delle mosse appropriate. Due giovani uomini molto alti, dal fisico atletico e dal portamento sicuro. Se non fosse stato buio probabilmente avrebbero dato nell’occhio accendendo la curiosità del gentil sesso.
Entrarono in un piccolo pub che da fuori si notava poco: aveva una porta scorrevole anonima e nessuna insegna. Il profumo caldo e speziato che regnava all’interno rilassò le spalle di entrambi mentre decidevano, di comune accordo di cercare un tavolo lontano dagli altri avventori.
Ordinarono del Sakè e due pinte di birra. Sorseggiando le bevande intavolarono una tranquilla conversazione, come se ne ascoltano tante nei pub.
Primo argomento, ovviamente furono gli amici, Kise era curioso di sapere come stessero tutti, così Aomine si lanciò in un resoconto dettagliato.
Un’ora  e altri due boccali di birra dopo, Ryouta sapeva che Kuroko aveva iniziato a fare volontariato: con una squadra di colleghi andava per le strade a portare cibi caldi ai senzatetto per aiutarli a combattere il freddo. Che cuore grande aveva. Ma d’altronde lo avevano sempre saputo che lui era una persona speciale.
Venne a sapere che la convivenza tra Midorima e Takao, che sembrava così naturale visto quanto erano sempre andati d’accordo, si stava rivelando pesante per entrambi. Secondo Daiki erano vicini al punto di rottura. Peccato. Ridacchiarono insieme nel ricordare il periodo in cui avevano creduto che stessero insieme. Murasakibara, era sempre il solito bestione affamato, ma non più annoiato. Aomine perse molto tempo nel descrivergli entusiasticamente i dolci che aveva assaggiato alla festa di compleanno del pasticcere facendogli venire l’acquolina in bocca.
Magari un giorno avrebbe potuto fare un salto in pasticceria per fare un saluto a quel musone goloso. Come c’era da aspettarsi, Mukkun era l’unico ad aver mantenuto i contatti con Akashi e a quanto ne sapevano, se la passava bene tra auto costose, donne occidentali con seni grandi come meloni e tanti, tanti, troppi soldi da spendere per decidersi a fare un salto  in terra giapponese.
Kagami… beh, per lui erano tutti un po’ preoccupati. Durante l’ultima partita del campionato si era infortunato. Nonostante l’intervento al ginocchio fosse andato bene e il recupero fosse stato rapido e ottimale sembrava esserci qualcosa che non andava.
Insomma, ventotto anni non erano poi così tanti nel mondo del basket; ok che non era più un novellino di primo pelo, ma c’erano anche giocatori più anziani di lui e il fatto che parlasse di smettere con lo sport agonistico sembrava mandare Aomine su tutte le furie.
Ordinarono del sakè caldo e per un momento Daiki si chiese se fosse davvero saggio mettersi in corpo altro alcol a stomaco vuoto.  Vedendo Kise bere il suo senza batter ciglio, con una rivalità che è vecchia come il mondo, si ripromise di non essere il primo a crollare anche a costo di pentirsene l’indomani. Tracannò d’un fiato il suo bicchiere.
Il liquore caldo gli scese bruciando lungo la gola lasciando una scia infuocata. A quel bicchiere, tra una lamentela per il lavoro e l’altra ne seguirono molti altri finchè non furono entrambi ben più che alticci.
-… Quattro mesi, quattro mesi senza un giorno di ferie, capisci? Ecco perché poi mi addormento nei posti più improbabili!-
Kise sbattè il pugno sul tavolo come solo i veri ubriachi sanno fare per enfatizzare le frasi.
-Non dormo quasi mai a casha e quando ci dormo resta una… una porcilaia perché non ho tempo di sistemare… -
Ormai gesticolava senza controllo ma dal canto suo Aomine non aveva né la forza né l’intenzione di fermarlo.
-… e tuuuu? Come te la passi a fare il polizsciotto? Ti ho visto arreshatare quel tipo. Woooow, shei shtato fantashtico!-
Altri gesti esagerati accompagnarono le frasi sempre più biascicate ma Daiki non riusciva a seguirli con lo sguardo senza farsi venire la nausea. Anche il dover pensare a qualcosa di furbo da rispondere alle sue domande sembrava troppo complicato per il suo cervello in quel momento; per fortuna, non sembrava che Kise si aspettasse davvero una risposta.
Con le palpebre a mezz’asta, semisdraiato sul tavolo si perse qualche secondo ad osservarlo: Le guance arrossate, gli occhi dorati lucidi e luminosi, le lunghe braccia che in quel momento pendevano ai lati del torso ampio e ben definito. La gola pallida spuntava dal colletto aperto della camicia nera e l’orecchino brillava impertinente al lobo sinistro, esattamente come lo ricordava.
Forse per l’ubriachezza, forse perché era davvero il momento giusto sentì la propria voce domandare:
-Senti un po’ Kise, non prendermi per scemo, ma so che qualcosa è cambiato tra noi…-
Lo vide farsi stranamente pallido mentre si raddrizzava sulla sedia ed evitava di guardarlo in faccia. Di certo non era un buon segno, ma visto che ormai aveva iniziato, tanto valeva andare fino in fondo.
-Da quella partita, quella della prima Winter Cup, tu… sei cambiato. Cioè non in male, ma l’ho sentito che non provavi più le stesse cose per me. Nonostante ti comportassi come al solito… qualcosa era cambiato e anche se allora non ho avuto il coraggio di chiedertelo e con gli anni non ho mai avuto occasione di tirare fuori il discorso… vorrei sapere cosa è successo e se davvero è un cambiamento irreversibile.-
Prese fiato rendendosi conto di essere improvvisamente più lucido. Kise fissava il tavolo, forse non si rendeva conto di essere ritto come un fuso anche se la sua rigidità era leggermente sbilenca a destra. Si tormentava le mani grandi ed eleganti senza proferire parola. Poi infine parlò senza strascinare le parole. Sembrava lucidissimo.
-Io…. Ti ho sempre ammirato, anzi, possiamo dire che in un primo momento ti ho davvero ammirato perché davi tutto te stesso per lo sport che amavi. Ho voluto seguirti, emularti e ho iniziato anche io ad amare il basket perché la tua presenza mi sfidava a migliorare sempre di più. Eri il faro che mi spingeva sempre oltre i miei limiti. Stare al passo con te era il mio obiettivo.-
Fece una pausa e bevve un sorso dal suo bicchierino.
-Beh… non proprio stare al passo. Mi accontentavo di stare un po’ più indietro, per poterti ammirare sempre, per seguirti. Durante quella partita… io… volevo davvero vincere. Volevo farlo ad ogni costo per i Senpai che mi avevano accolto in squadra così benevolmente, per coronare tutti gli sforzi che avevano fatto per arrivare fin lì. Volevo batterti anche per dimostrarti che nonostante dicessi di non amare più il basket, eri la persona che in realtà lo adorava di più.-
Un altro sorso, un sospiro e di nuovo:
-Volevo batterti e per farlo, dovevo fare una cosa che non avevo mai preso in considerazione fino a quel momento: smettere di ammirarti. Come potevo ammirarti se il mio obiettivo era batterti ad ogni costo?-
Che risata amara seguì quelle parole.
-Non so come, non so nemmeno spiegare cosa mi abbia fatto scattare l’interruttore, sono riuscito a convincermi che dopo tre anni ad idolatrarti e inseguirti, ero pronto per scavalcarti. Hai smesso di brillare davanti ai miei occhi. Non eri più il faro che mi teneva in campo e che mi ricordava di dover migliorare. Eri solo… tu. È stato in quel momento che sono riuscito a imitare i tuoi movimenti, così come quelli di Midorima, di Mukkun, di Kagami, di Akashi e persino i passaggi di Kuroko. Ho smesso di considerarmi il fanalino di coda della Generazione dei Miracoli. Ecco perché ero strano nei tuoi confronti, non sapevo come comportarmi, o almeno non lo sapevo fino a qualche tempo fa-
Prese un bel respiro e poi trangugiò il sakè direttamente dalla caraffa facendoselo colare sul mento.
Dal canto suo Aomine non sapeva cosa dire. Aveva immaginato che fosse successo qualcosa di simile, ma non credeva di essere stato così importante per Kise a quel tempo. Non pensava né di essere particolarmente adatto alla figura che l’amico gli aveva appena ricamato addosso, né tantomeno di essersi meritato tanta ammirazione e devozione.
Ma allora perché sentiva quel senso di sconfitta al pensiero dello sforzo che aveva fatto Ryouta per smettere di provare quei sentimenti?
Ci teneva così tanto a lui e alla sua amicizia? Così tanto da star male a distanza di anni? Sollevò lo sguardo ma la stanza prese a ondeggiare paurosamente così tornò a concentrarsi sui nodi del legno di cui era fatto il tavolo. Eppure qualcosa non quadrava… non era possibile che una storia che si era trascinata per quasi sette anni all’improvviso smettesse di avere valore. Eppure Kise aveva appena ammesso di aver smesso di preoccuparsi del proprio comportamento. Si riferiva forse al fatto che non vedendosi più la faccenda non era più importante… oppure c’era un altro motivo? Doveva assolutamente farselo spiegare.
Un tonfo sonoro attirò la sua attenzione.
Kise. Era crollato sul pavimento e non accennava ad alzarsi. Anzi, non dava proprio alcun segno di vita. Così non andava. Lì per terra, coi capelli biondi troppo lunghi che gli coprivano il volto sembrava davvero morto.
Con uno sforzo che aveva del sovrumano Aomine si issò in piedi e aggrappandosi al tavolo per non stramazzare al suolo a sua volta, trovò la forza di caricarsi su una spalla l’amico. Era incredibilmente leggero e la sua vita era così sottile… Era davvero dimagrito molto rispetto ai suoi ricordi.
Ringraziando di reggere l’alcol meglio di quello scemo, pagò lo stupito gestore del pub per poi incamminarsi lentamente lungo la strada deserta.
Per quanto fosse dimagrito Kise restava un uomo adulto alto più di un metro e ottanta che adesso gli gravava sulla schiena a peso morto; normalmente non sarebbe stato un problema, era sempre stato molto forte fisicamente, ma in quel momento, con una quantità smodata di alcolici in corpo faticava persino a tenersi in piedi.
Senza nemmeno porsi il problema si incamminò verso l’appartamento dell’amico che era decisamente più vicino del suo.
Dopo quelle che gli parvero ore e soprattutto centinaia di chilometri, salì i gradini fino all’ingresso della villetta, fece qualche acrobazia per rintracciare le chiavi nelle tasche del moribondo, infilò la porta e si ritrovò nella più completa oscurità.
Facendosi forza depose il suo pensate fardello sul pavimento e iniziò a tastare la parete alla ricerca dell’interruttore. All’improvviso la luce si accese e Daiki rimase a bocca aperta: la casa di Ryouta era semplicemente enorme. L’ingresso era probabilmente grande come metà di casa sua e da quel che vedeva c’erano almeno altre sei stanze senza contare il giardino. Cosa diamine ci faceva uno scapolo in una casa così grande? Insomma… non sentiva la solitudine? La casa non gli sembrava troppo grande e vuota a viverci da solo?
Caricandosi di nuovo l’amico su una spalla barcollò alla ricerca della camera da letto. La prima stanza che incontrò fu la cucina, straordinariamente ordinata eppure accogliente con una finestra che immaginava affacciata sul giardino; al secondo tentativo si ritrovò in una stanza da bagno tradizionale, con una vasca da sogno termale in piena regola. Si diede un calcio mentale per non perdersi ad ammirare ogni particolare di quel paradiso che sembrava uscito dal secolo precedente.
Finalmente al terzo tentativo si ritrovò nella camera da letto che era… grande, forse la stanza più grande dell’intera casa, ma sembrava rimpicciolire in rapporto al mastodontico letto che vi troneggiava.
Era  il letto più grande che avesse mai visto. Vi adagiò l’ignaro Kise e si stupì di vedere che il suo corpo non riusciva ad occupare nemmeno un quarto della superficie che aveva a disposizione.
Riflettendo sulle possibili ragioni che avevano spinto Ryouta ad acquistare un simile mammut del mobilio, gli levò le scarpe e lo liberò della giacca e della camicia e fu lì che finalmente lo vide.
Aveva una pelle perfetta: dalla gola ai fianchi il suo addome, da cui spuntavano un po’ troppo le costole, era una distesa candida, soda e liscia su cui spiccavano due piccoli capezzoli rosati ritti in reazione al freddo della nudità.
Arrossendo Aomine si prodigò a coprire quel corpo perfetto con lenzuolo e coperta.
Perché arrossiva? L’ubriachezza gli stava giocando davvero dei brutti scherzi. Doveva forse ricordare a se stesso che quel corpo tanto appetitoso apparteneva ad un uomo?
Scosse la testa e ciondolò fino alla porta ma prima di uscire venne fermato da un grugnito.
-Ah, ti stai riprendendo… sei una frana lo sai?-
Gli rispose il silenzio. Kise si stava mettendo seduto, scoprendo di nuovo il suo petto color panna e i suoi impertinenti corredi rosati.
-Ti conviene restare sdraiato o crollerai di nuovo.-
Una risatina.
-Quanto sei crudeeeele Aominecchi, eh sì, adesho che la sherata è finita l’alcol mi fa credere che tu sia ancora qui, a casa mia  e che mi abbia anche shpogliato. Che crudeltà. Shapevo che non sharebbe stata una buona idea, ma per l’amor del cielo, è stata una caasshata treeeeemeeeendaaaaa. Ora sarà anche peggio-
Aomine non capiva. Tornò sui propri passi e si avvicinò al letto gigante.
-Cosa vuoi dire? È stata una cazzata rispondere alle mie domande? Beh, scusa se mi sono preso a cuore la faccenda, ammetto di essermela presa comoda, ma alla fine quello che conta è che abbiamo chiarito come stavano le cose no?-
Eccola lì, la sbornia cattiva che prendeva il sopravvento su tutto.
La risata isterica che gli rispose lo lasciò interdetto. Ma mai quanto le parole che seguirono.
-Shtupido, anche se shei solo un’allucinazione ti risponderò. Mi fa piacere che tu mi abbia invitato, molto più che piacere a dire il vero. Sai… avevo decisho di lasciare le cose come stavano con te; ci vedevamo troppo poco per tirare fuori questa vecchia storia. Credevo davvero di essermi arreso a perdere il nostro legame. Ma quella sera… è cambiato tutto, sai?-
Aomine era immobile.
-Stavi lì, e giocavi a basket mentre il sole ti tingeva di aranshione… era tutto aranshione, ma tu eri così felice e giocavi così beneeee… il mio cuore batteva forte e non shono riushito a parlarti. Ti ho guardato taaaanto, fino a riempirmi gli occhi.-
La pausa che seguì quelle parole fu terribilmente lunga.
-Io ti voglio troooppo bene…  Non shtavo evitando gli aaaltri, shtavo… shcappando….daaaa… te…-
Detto ciò si accasciò di nuovo, inerme, mentre dalle labbra gli sfuggiva un sospiro che somigliava molto a uno “scusami”.
Il silenzio era assordante. Il cuore gli pulsava nel cervello e probabilmente anche nelle dita dei piedi, si sentiva formicolare le guance e decisamente non era pronto a digerire una bomba del genere. Poteva essere la verità? Oppure l’alcol aveva parlato al posto suo? Eppure sembravano così vere quelle parole… anche se impastate e confuse, il senso era lampante. Stava a lui decidere come interpretare quel che aveva sentito.
Prima di tutto doveva schiarirsi le idee. Le tempie avevano iniziato a martellargli  come anche la radice del naso.
Aveva bisogno di una doccia e sicuramente Kise non se la sarebbe presa se avesse usufruito della sua stanza da bagno. Aveva l’acquolina. Voleva assolutamente provare quella vasca.
Entrò nel santuario delle abluzioni: era ordinato, con i prodotti ben allineati su uno scaffale basso ed il pavimento di piastrelle  lucide.
Iniziò a riempire la vasca trattenendosi a stento dall’infilarvisi prima che fosse piena e rischiare di ammalarsi. Ammirandosi ancora attorno notò un unico oggetto stranamente fuori posto: un grande asciugamano giallo pallido era gettato sul muretto basso che separava la  vasca dal piccolo spazio per il lavaggio personale con gli sgabelli allineati.
Aomine afferrò il telo di spugna  e sentì che era ancora leggermente umido; Ryouta doveva averlo dimenticato dopo essersi fatto il bagno.
Arrossì violentemente.
Sentiva le guance in fiamme e perfino le orecchie erano febbricitanti. Scosse la testa.
Decisamente aveva bisogno di darsi una regolata. Lui era etero, come era possibile che si imbarazzasse a tenere tra le mani l’asciugamano di un altro uomo? Anzi, come era possibile che arrossisse al pensiero del suddetto uomo in quella vasca esageratamente grande per lui da solo con la pelle liscia arrossata dal calore?
No. Non andava bene. La sbornia doveva essere proprio pesante per ridurlo in quello stato e le parole del padrone di casa non lo aiutavano. Cosa doveva fare?
Appoggiò con cura l’asciugamano vicino alla vasca,  che ne frattempo si era riempita quasi del tutto, e si immerse nel suo caldo umido abbraccio. Tra i vari saponi Daiki riconobbe subito la fragranza che aveva usato Kise quella sera. Portandolo in spalla aveva respirato il profumo nei suoi capelli e della sua pelle molto più di quanto avesse mai fatto con chiunque altro. Prima ancora di rendersene conto si era spremuto in mano una quantità esagerata di sapone che sprigionò la sua nuvola ricca, speziata e sensuale.
Si ritrovò avvolto dall’essenza di Ryouta e le sue parole iniziarono a rimbombargli nella scatola cranica. “Stavo scappando da te”… “il mio cuore batteva forte”…. “ti voglio troppo bene”.
Era così confuso.
Cosa avrebbe dovuto fare? Certo, gli voleva molto bene, ma da lì ad innamorarsi ce ne passava. Era stato stupido ad aver voluto a tutti i costi aprire il vaso di Pandora. Ora si sentiva esattamente come lei: colpevole di aver rivelato qualcosa che probabilmente avrebbe dovuto restare un segreto.
Il piccolo impronunciabile segreto di Kise Ryouta che pian piano sarebbe sparito dalla sua vita, in silenzio, come solo chi aveva il cuore grande sapeva fare per il bene di qualcun altro.
E lui? A lui sarebbe andato bene lasciarlo andare? Permettere che se ne andasse senza proferire parola?
Sfregò forte anche i capelli impregnandosi del  suo profumo.
Come avrebbe dovuto reagire? Andarsene? Lasciare la casa fingendo di non aver mai ascoltato quelle parole nella speranza che lo stesso Kise non ricordasse di averle pronunciate?
Se invece fosse restato… avrebbe dovuto trovare il modo di fare chiarezza dentro di sé prima del suo risveglio e poi affrontarlo.
Non voleva pensare a come sarebbe stato se Ryouta non avesse ricordato. Era una cosa troppo importante per dimenticarsene. Non tollerava che quel sentimento finalmente venuto a galla fosse dimenticato. “Non lo permetterò”.
Di scatto si sollevò in piedi sgocciolando tutti intorno a sé. Perché gli stava così a cuore che la faccenda non finisse nel dimenticatoio? Non era forse un bene che restasse nascosta, sconosciuta e ignorata?
A quel pensiero tutto il suo essere si ribellò e si stupì nel rendersi conto che non era a causa dell’alcol, era proprio lui a trovare quel pensiero semplicemente rivoltante.
Questo cosa significava? Che anche lui provava per Kise qualcosa più di una semplice amicizia fraterna?
Che non si sarebbe preoccupato tanto ad aspettare un messaggio come era successo il giorno prima se non si fosse trattato di Ryouta?
Non riusciva a separare i suoi sentimenti reali da quelli che voleva provare per risolvere la situazio… aspetta…
“Che voleva provare????”
Questo significava che lui voleva ricambiare quei sentimenti? Ma… non avrebbe saputo cosa fare. Come fare a stargli accanto in quel modo. Finchè si trattava di amicizia era un campo che conosceva bene, ma con un maschio non aveva idea di come avrebbe dovuto comportarsi per essere qualcosa di più…
Afferrò l’asciugamano giallo, vi si avvolse dentro e si portò i lembi al naso. Sapeva di sapone, sapeva di spezie e sapeva di… Kise. Chiuse gli occhi.
Si rivestì in fretta, riassettò il bagno e si diresse in cucina. Le dimensioni della casa lo mettevano ancora in soggezione ma la curiosità vinse e decise di andare in esplorazione.
Partendo dall’ingresso spazioso aprì la prima porta che si trovava alla sua sinistra: una stanza completamente vuota, qualche vecchia foto di famiglia alle pareti e nient’altro. Deluso provò con la seconda porta sulla destra: un altro bagno, più moderno, con un box doccia di ultima generazione e i sanitari all’occidentale. Interdetto uscì, saltò le porte che sapeva essere della camera da letto e del bagno tradizionale, quella della cucina era aperta, infine restava… l’ultima.
Varcò la soglia e si ritrovò in un salotto ultramoderno, con un grande divano ad angolo di pelle color avorio, un mobile a giorno della stessa tonalità ospitava lo schermo piatto più spettacolare che avesse mai visto.
Vi erano anche due librerie, ingombre di manuali sul volo e di riviste. La moquette color tabacco era soffice sotto ai piedi e il tavolino dalle linee minimali ospitava una serie di telecomandi da far invidia ad un rivenditore. Scuotendo la testa incredulo tornò in cucina. L’orologio a muro segnava le sei del mattino era ancora molto presto, ma prima o poi Kise si sarebbe svegliato e avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma cosa?
Lo squillo di un cellulare lo riportò alla realtà. Non era il suo, doveva essere quello di Ryouta. Seguendo la suoneria rintracciò il piccolo smartphone nella tasca della giacca che aveva levato all’amico. Senza pensare rispose.
Venne investito da una agitatissima voce femminile che imprecava contro Kise e contro i suoi dannati ritardi promettendogli che non gliel’avrebbe fatta passare liscia per averla costretta a sostituirlo sul volo per Sapporo.
-Sono un amico di Kise, non è venuto perché è svenuto a causa della febbre e al momento è privo di conoscenza. Mi sto occupando io di lui ma non sapevo di dover avvisare a quest’ora. Mi scuso. Se fosse possibile potrebbe comunicare a chi di dovere che per i prossimi tre giorni non verrà al lavoro?-
Aveva usato tutta la diplomazia di cui era capace e sperava in un bel colpo di fortuna.
Gli rispose una smielata versione della voce precedente.
-Oh, mi scusi! Non sapevo niente! Per fortuna che Kise ha un amico come lei; con tutte le ore che fa mi stupisce che abbia retto tanto prima di crollare. Gli dica di non preoccuparsi e di rimettersi in sesto, qui ci penserò io. Richiamerò tra tre giorni per sapere come sta. Buona giornata!-
Il segnale di chiusura della chiamata gli diede il via libera per lasciare andare il fiato che aveva trattenuto.
Sperava di aver fatto bene a prendersi una tale libertà. In cucina prese anche il suo telefono e chiamò la centrale avvisando che anche lui stava poco bene e che sarebbe tornato nel giro di qualche giorno. Così aveva tutto il tempo che voleva per pensare al da farsi.
Decise di prepararsi una tazza di tè mentre riordinava i pensieri.
A quanto pareva Ryouta era speciale per lui, lo aveva già appurato; altra certezza era non voleva assolutamente fingere di non aver sentito le sue parole; infine si era riscoperto a voler ricambiare i sentimenti di quello che fino a qualche ora prima aveva considerato solo un amico nei confronti del quale non ricordava di aver mai provato nulla di diverso dall’affetto.
Doveva essere ben sicuro delle proprie scelte perché un qualunque ripensamento avrebbe portato all’immediata cessazione di qualunque rapporto tra lui e Kise. Per non parlare del dolore a cui avrebbe sottoposto il già provato pilota.
Era disposto a rischiare tanto? Era davvero sicuro di provare quel tipo di affetto nei suoi confronti?
Non lo sapeva, ma obbiettivamente, se di obbiettività si poteva parlare nel suo caso, non gli era mai successo, sverso che fosse di provare attrazione per un altro uomo. Aveva avuto qualche ragazza, ma un po’ gli impegni e un po’ la mancanza di motivazione lo avevano tenuto ben lontano dalle relazioni amorose quindi non sapeva bene cosa si dovesse provare. Bevve un sorso di tè ormai freddo e si avvicinò alla finestra da cui poteva vedere il cielo che si tingeva di rosa e rosso.
Poi udì il suono di passi strascicati e irregolari seguiti a intervalli da quelle che sembravano spallate contro le pareti.
 
Ryouta aprì gli occhi. Li richiuse grugnendo dal dolore. La penombra della sua stanza gli sembrava fin troppo luminosa. Aveva il sospetto che nella sua testa si fossero riuniti i sette nani a picconare allegramente, gli pareva di avere una pantofola al posto della lingua e lo stomaco faceva le capriole.
Con un supremo gesto di volontà si mise seduto e rabbrividì. Boccheggiando per contrastare la nausea si rese conto di essere senza maglia e di indossare ancora i jeans. Doveva essere stato proprio storto per non aver nemmeno fatto lo sforzo di cambiarsi. Ricordava le chiacchiere, gli aggiornamenti ed era quasi sicuro di essersi lamentato del lavoro…
Merda! Il lavoro! Lanciò una dolorosissima occhiata alla sveglia e la nausea rischiò di vincere la loro schermaglia silenziosa.
Aveva perso il volo. Incredibile. Non era nemmeno nelle condizioni fisiche per salire a bordo in effetti…
Ma quanto diavolo aveva bevuto? L’agitazione lo aveva spinto a tracannare almeno una dozzina di bicchieri di sakè per non parlare dei boccali di birra. Era terrorizzato dalla possibilità di sentirsi rivolgere domande scomode, come, per altro, gli sembrava fosse successo.
Si concentrò, si ciò che ricordava. Il locale, le chiacchiere, l’euforia dovuta agli alcolici, la domanda di Aomine….
Quindi alla fine erano arrivati proprio lì.
Si concentrò nel ricordare cosa avesse risposto e si stupì di essere stato così stupidamente sincero. Se fosse stato sobrio… avrebbe mentito anche sotto tortura, fino alla morte.
Invece aveva dato la risposta più sincera che potesse dare. I suoi ricordi da lì in poi si facevano strani, confusi. C’erano dei suoni, il freddo sulle guance e qualcosa di duro che premeva contro la bocca del suo stomaco.
Probabilmente era crollato e Aomine caricandoselo in spalla e lo aveva portato fino a casa.
Santo Daiki.
Ricordava la sensazione celestiale del letto sotto di sé e delle mani calde e premurose che lo liberavano della giacca e poi della camicia. Quindi non si era cambiato da solo. Credeva che i flashback fossero terminati, era sicuro che una volta messo a letto, semplicemente, quella persona se ne fosse andata, e invece…
Invece preso dal suo delirio alcolico gli aveva sbattuto in faccia i suoi sentimenti. Gli aveva detto di essere crudele e per di più gli aveva detto in faccia che per tutti quei mesi in cui era sparito stava evitando lui a causa dei suoi sentimenti. Seppellì la faccia tra le mani.
Che stupido, aveva fatto esattamente l’unica cosa che non avrebbe mai voluto fare: spifferare tutto. Aveva perso l’occasione per tacere e mantenere, almeno in minima parte, i rapporti con gli amici di un tempo. Si era bruciato Aomine e bruciando lui, tranne Kuroko, probabilmente gli altri avrebbero presto smesso di cercarlo.
Non riuscì ad arginare lo sconforto e per quelli che parvero minuti interi pensò di soffocare dentro se stesso.
Da qualche parte in casa squillò il suo telefonino.
Si mosse a rallentatore nel tentativo di alzarsi e andare a rispondere; stava per appoggiare i piedi in terra quando una voce fin troppo familiare rispose alla chiamata.
Accantonando lo stupore ascoltò Daiki scusarsi con qualcuno e giustificare la sua assenza con la febbre alta. In effetti si sentiva malissimo: la combo postumi della sbornia, sensi di colpa e rimpianti era micidiale.
Ascoltò immobile un’altra telefonata. Questa volta Aomine stava prendendo ferie per sé dandosi a sua volta malato.
Ma perché era ancora a casa sua? Non era scappato disgustato da lui e dalla sua confessione?
La confusione regnava sovrana nel cervello ovattato di Kise.
Calma, potevano esserci tante spiegazioni: era possibile che essendo stanco e ubriaco quanto lui Aomine avesse scelto di restare il tempo necessario a riprendersi nella speranza di farlo prima di doverlo incontrare al mattino o qualcosa di simile.
Sentiva odore di bagnoschiuma, possibile che gli avesse vomitato addosso mentre lo riportava a casa? Imperdonabile. Oltre al danno la beffa. Non solo gli aveva confessato ogni suo inconfessabile segreto, ma gli aveva pure sporcato i vestiti di vomito.
Stava andando in iperventilazione.
No. Calma. Non era detto che fosse successo proprio quello, poteva semplicemente essere che avendo sudato a portarlo fin lì  avesse deciso di darsi una rinfrescata prima di andarsene per sempre.-
Mmmmm, però… se fosse stato disgustato da lui non avrebbe avuto più senso andarsene e lavarsi a casa propria?
Poi una rivelazione: “Lui ha bevuto quanto me, era ubriaco come me, quindi… magari… non ricorda… e quindi… anche ricordasse…. potrebbe pensare che la confusione dovuta all’alcol gli abbia fatto intendere male le mie parole…”
Rincuorato da quella che sembrava l’ipotesi più probabile, Kise si rallegrò pensando che forse non tutto era perduto.
Certo, sarebbe semplicemente tornato al punto di partenza: un amore a senso unico che lo portava a saltare gli incontri con il suo gruppo di amici per evitare di essere scoperto.
Sospirando di sollievo e di dolore fece forza sulle braccia e si alzò. Era inutile star lì a fare mille ipotesi, meglio levarsi il dente e vedere come stavano le cose.
Se si fosse comportato normalmente  avrebbe dimenticato l’imbarazzante flashback e fatto finta di nulla, in caso contrario… sarebbe finita. In fretta . Probabilmente per sempre.
Barcollò fino alla porta mentre il dolore alle tempie riprendeva a martellare più feroce che mai e la nausea minacciava di trasformarsi in conati incontrollati. Cercò di prendere fiato ma la situazione non cambiò.
Entrò nel grande ingresso con l’obiettivo di arrivare in cucina ma la nausea ebbe la meglio.
Corse sbandando e sbatacchiando contro le pareti fino al piccolo bagno di servizio inginocchiandosi appena in tempo davanti alla tazza.
Qualche minuto, o forse qualche anno dopo, trovò il coraggio di sollevarsi in piedi e sciacquarsi la faccia.
Guardandosi allo specchio stentò a riconoscersi: aveva i capelli attaccati alla testa, la pelle grigiastra e le labbra screpolate. Gli occhi erano gonfi e iniettati di sangue.
Che aspetto orribile. Senza pensarci due volte tolse i jeans spiegazzati e si infilò barcollando nel box doccia.  L’acqua calda lo aiutò a sciogliere i muscoli della schiena e a scacciare la nausea; per tenere a bada il mal di testa avrebbe preso qualche pastiglia più tardi.
Si insaponò per bene e lasciò che l’acqua portasse via la soffice schiuma bianca da lui prima di insaponarsi ancora cercando di lavare via i ricordi di quella nottata da dimenticare, la paura di quel che avrebbe potuto pensare  Aomine, il dolore sordo che sentiva nel petto al pensiero che la sua confessione fosse stata dimenticata nonostante fosse la cosa migliore da augurarsi .
Uscì dalla doccia e intirizzito e si lasciò sfuggire una colorita sequenza di imprecazioni: aveva di nuovo dimenticato l’asciugamano.
Infuriato con se stesso, un po’ marciando un po’ barcollando uscì dal bagno per andare verso il ripostiglio quando…
- Che diavolo ci fai nudo e gocciolante nell’ingresso?-
Il mondo piombò all’inferno.
 
Quel rumore di passi barcollanti si era concluso con una porta sbattuta e dei poco rassicuranti conati di vomito. Aomine non sapeva cosa fare. Era tentato di andare a vedere se Kise avesse bisogno di aiuto, ma come avrebbe reagito vedendolo lì? Magari sarebbe stato solo peggio. Rimase indeciso in piedi in mezzo alla cucina fino a quando non si tranquillizzò sentendo scorrere l’acqua della doccia.
Se non altro stava abbastanza bene da lavarsi. Ascoltò il suono dell’acqua intervallato da scrosci di varia intensità corrispondenti ai movimenti di Ryouta. Immaginò l’acqua che scendeva accarezzando la sua pelle lungo il torace scolpito e lungo la schiena fino alla curva lattea delle natiche…
No! Decisamente doveva darsi una regolata. Non poteva mettersi a fantasticare su una cosa smile…! Rimase di sasso. Era eccitato.
Come poteva ridursi così?  Un conto era aver quasi accettato la possibilità di provare una sorta di sentimento amoroso per un altro uomo, ma vedere il suo corpo reagire in quel modo era un’altra storia. Il suo corpo e il suo cervello non sembravano lavorare di pari passo.
Stringendo i denti e sistemando la patta dei jeans si impose di pensare a cose più importanti e meno imbarazzanti, tipo, cosa dire all’oggetto di quel desiderio selvaggio.
Venne ridestato da una sequela di maledizioni e accidenti che avrebbe fatto impallidire il più volgare dei camionisti. Interdetto si precipitò verso il bagno proprio in tempo per vedere un Kise Ryouta interamente nudo e gocciolante  correre barcollando fino al grande armadio a muro per recuperare un asciugamano. Incredibile: aveva delle splendide gambe, eleganti e slanciate, la curva delle natiche era dolce e candida, ancora meglio che nella sua fantasia; la schiena ampia era un fascio di muscoli guizzanti imperlati di piccole gocce lucenti che colavano dalle punte dei capelli biondi. Aomine si leccò le labbra, poi senza che avesse dato alcun permesso cosciente, la sua bocca ruppe l’incantesimo:
- Che diavolo ci fai nudo e gocciolante nell’ingresso?-
Vide quel corpo così flessuoso e armonioso irrigidirsi prima di essere coperto da un asciugamano rosso lampone. Tralasciando qualsiasi commento personale sulle colorazioni della biancheria da bagno del padrone di casa, Daiki si stampò nel cervello l’aspetto succulento delle natiche  bianche su cui era comparsa la pelle d’oca.
Si obbligò a tornare presente a se stesso. Kise si stringeva addosso l’asciugamano come se fosse un’ancora di salvezza e teneva il volto inclinato verso terra evitando il suo sguardo. Ecco. Ci era riuscito: lo aveva messo in imbarazzo.
Kise, dal canto suo, avrebbe voluto morire. Non solo Aomine era stato testimone della sua ubriachezza e delle sue confessioni egoiste, ma adesso assisteva persino ad una  imbarazzante passerella in desabillè.
Non riusciva proprio a guardarlo in faccia e nemmeno a fare alcun movimento. Gli sembrava di essersi pietrificato lì, nell’ingresso, con addosso quel terribile asciugamano che la madre aveva voluto regalargli il Natale precedente.
-Ma guarda, non devi sentirti in imbarazzo! Questa è casa tua, puoi fare quello che ti pare.-
Il tono fintamente leggero di Daiki lo preoccupò un po’.
-Perché non vai a vestirti prima di prenderti un raffreddore?-
Eccola, l’ancora di salvezza. Senza degnarsi di rispondere o di alzare lo sguardo Ryouta ruotò rapidamente su se stesso per fuggire da quella situazione. Non aveva calcolato che il suo fisico debilitato non riuscisse a tenere il passo con le sue intenzioni e così finì per inciampare nei propri piedi.
Stava cadendo, lo sapeva, eppure era consapevole anche  del fatto che non avrebbe fatto in tempo a muovere un muscolo prima di toccare rovinosamente terra. Chiuse gli occhi in attesa dell’impatto con il pavimento.
Sbattè contro qualcosa di caldo e sodo un attimo prima che due forti braccia lo avvolgessero ridandogli l’equilibrio senza però lasciarlo andare.
-Guarda come sei maldestro. Ora vestiti e vieni a fare colazione, abbiamo tante cose di cui parlare, da sobri stavolta.-
Quelle parole sarebbero state una doccia fredda se non gliele avesse sussurrate all’orecchio mentre il suo fiato caldo gli investiva la pelle tenera.
Stando ben attento a coprirsi con l’asciugamano si avviò lentamente verso la camera lasciandosi alle spalle Daiki.
Chiudendo la porta alle sue spalle scivolò fino al pavimento e infilò la testa tra le ginocchia. Gli girava la testa, sentiva la pelle calda, fin troppo sensibile e, soprattutto, era visibilmente pronto all’azione. Doveva trovare il modo di darsi un contegno perché nello stato in cui era qualsiasi paio di pantaloni avrebbe ricreato un imbarazzante quanto sconveniente effetto “tenda da campeggio”.
Intanto che raccattava una tuta in fondo all’armadio, si concentrò sulle immagini che aveva visto in un documentario sulla peste bubbonica e sul vaiolo. Bene, sembrava funzionare. Terminato l’inventario delle fotografie più rivoltanti, iniziò a scorrere ogni ricordo che avesse del museo delle torture che aveva visitato al liceo.
Arrivato ad un grado di felicità contenibile, indossò i morbidi pantaloni e decise di allacciare la felpa sui fianchi in modo da nascondere qualsiasi traccia di sporgenze sospette.
Doveva prepararsi al peggio perché Aomine  sembrava ricordare benissimo ogni cosa.
Prendendo coraggio tornò nell’ingresso e puntò dritto verso la cucina illuminata dai raggi del sole.
Lo trovò seduto al tavolo, con in mano una tazza fumante di tè; la teiera posata al centro del tavolo. Recuperando una tazza si servì e finì per sedersi di fronte a lui.
-Di cosa volevi parlare?-
Tanto valeva levarsi il dente subito. Non era un amante delle lente discese negli inferi. A quel punto preferiva precipitare in caduta libera.
Gli occhi blu  notte  di Daiki si piantarono nei suoi brillando di una tale risolutezza da spaventarlo.
-Di “cosa” chiedi? Non ricordi nulla di quello che mi hai detto stanotte?-
Il tono era calmo,  serio e le parole erano state pronunciate con tutta calma.
Kise deglutì a vuoto. Sentiva la gola secca  e la lingua legata.
Certo che ricordava, fin troppo bene purtroppo. Ed era evidentemente inutile mentire. Quindi decise di tagliare la testa al toro.
-Sì, ricordo. Speravo che tu invece non ricordassi perché così non saremmo stati obbligati a dirci addio. Sei stato già fin troppo gentile a restare qui dopo ciò he ti ho detto, ma sappi che quello che provo non avrà alcun seguito. E questo è quanto.-
Fece per prendere fiato. L’aveva detto alla fine.
Erano destinati a perdersi.
Non aveva previsto che quelle parole avrebbero bruciato così tanto la sua gola, né che la voglia di smentire tutto gli facesse formicolare le labbra. Ciò che però proprio non si sognava nemmeno fu la reazione di Aomine.
Sbattendo con violenza le mani sul tavolo urlò:
-E ti andrebbe bene? Accetteresti di lasciarmi andare senza  opporre alcuna resistenza nella speranza di smaltire i tuoi sentimenti in qualche modo?! Saresti felice così?-
Gli occhi di zaffiro che scrutavano i suoi erano infiammati di collera e di… dolore? Non capiva.
Si sporse sul tavolo fino a trovarsi a poco più di venti centimetri dal suo naso.
-Hai mai pesato di chiedere la mia opinione riguardo a questa decisione che sembri aver preso nel tuo più egoistico interesse?-
Come mai era così furioso?  Cercò di trovare una spiegazione ma le parole gli sfuggivano sotto quello sguardo penetrante e irato.
-È meglio così.-
Fu tutto quello che riuscì a dire.
-Meglio!?  Meglio per chi?!-
“Meglio per tutti” avrebbe voluto rispondere Kise ma qualcosa lo bloccò.
-Riesci anche solo a immaginare come mi sentirei? –
Eh?! Come si sentirebbe per cosa? A liberarsi di uno scomodo spasimante  che non può fare a meno di amarlo?  Non ci capiva più nulla.
Aomine vide la confusione dipingersi sul volto stanco e provato del biondino. Non resistette più.
Fece rapidamente il giro del tavolo, lo afferrò di malagrazia per il mento e lo baciò con rabbia.
Più che un bacio fu un pugno, i loro denti cozzarono ma senza perdere un attimo Daiki insinuò la lingua tra le labbra socchiuse di Ryouta.
Fu un bacio assolutamente inaspettato e violento, non aveva nulla di romantico eppure trasmetteva in maniera sorprendentemente chiara quale fosse la sua posizione riguardo a tutta la faccenda.
Travolto dall’ardore rabbioso di Aomine, si arrese la bacio lasciando la propria lingua libera di danzare a accarezzare l’intrusa in un gioco vecchio come il mondo.
Dopo quelle che avrebbero potuto essere ere geologiche, Daiki interruppe il bacio ma rimase a pochi centimetri di distanza piantando gli occhi fiammeggianti nei suoi.
-Sono quasi certo di essere innamorato di te, lo capisci?-
La pausa che fece per lasciargli il tempo di assimilare le sue parole fu lunghissima.
-Non voglio che tu sparisca, non voglio perderti, non voglio di nuovo preoccuparmi a distanza come è successo quando non rispondevi al mio stupido messaggio. A questo punto voglio tutto il pacchetto, preferisco starti accanto e prendermi cura di te quando tu non riesci a farlo piuttosto che agitarmi a distanza o ancora peggio non sapere nulla di te.-
No. Non era possibile. Doveva essere ancora addormentato. Non poteva succedere una cosa simile nella sua realtà, non  con Daiki almeno.
Aomine vide il dubbio e la paura fiorire nello sguardo dorato di Ryouta insieme ad una scintilla di speranza. Così parlò.
-Ieri sera ero alticcio e non sapevo cosa pensare riguardo alla tua confessione… mi hai colto alla sprovvista. Mi sono seriamente interrogato a cosa avrei voluto fare.-
Sospirò.
-Sapevo di volerti un gran bene ma le tue parole mi hanno costretto a chiedermi che tipo di affetto mi tenesse legato a te nonostante i mesi di lontananza e silenzio. Io… io volevo che fosse amore, capisci? Lo volevo con tutto me stesso, tanto da trovare rivoltante l’idea di fingere di aver dimenticato. Io… sono davvero convinto che questo sia amore….-
Wow, la consapevolezza era arrivata solo in quel momento. Lo amava davvero.
-Sennò non credo che sarei così “felice” di stare qui, con te, in questo modo e soprattutto non avrei cercato di stamparmi il ricordo del tuo corpo nudo e bagnato nel cervello.-
Si sentiva un maniaco a parlare così.
- La tua pelle chiara… voglio vedere come stai vestito solo delle mie mani e della mia bocca, Kise. E intendo togliermi subito questa curiosità proprio in quel tuo letto schifosamente grande.-
 Senza lasciargli il tempo di comprendere il senso di quelle ardite dichiarazioni, Aomine si caricò in spalla un attonito Ryouta e a grandi passi entrò nella spaziosa camera da letto.
Lo lasciò cadere di malagrazia sul materasso soffice e posizionandosi sopra di lui, attento a non schiacciarlo sotto al suo fisico massiccio, tornò a baciarlo.
Fu un bacio lento, profondo, iniziato con l’intento di prendersi tutto il tempo necessario, ma ben presto entrambi si fecero prendere dalla foga trasformandolo in un torrido scambio di saliva, carezze  e gemiti a fior di labbra.
A Kise girava la testa, era inebriato dalla presenza di Daiki, dal suo calore e dal suo fuoco. Non aveva ancora metabolizzato le sue parole e quel bacio lo distraeva troppo per concentrarsi su qualcosa che non fosse quel corpo muscoloso e ambrato che incombeva sul suo.
In pochi minuti le grandi mani di Aomine l’avevano liberato della maglietta esponendo il suo addome. Con una mano gli prese la nuca e ricominciò a baciarlo lentamente, succhiandogli la lingua mentre con l’altra iniziò a stuzzicargli uno dei piccoli capezzoli rosa procurandogli delle piacevoli scosse elettriche che dal punto in cui sfregavano le sue dita si irradiavano sotto la pelle fino al suo basso ventre.
Ryouta si ascoltò gemere forte, incapace di controllarsi, incapace di fare qualunque cosa non fosse sciogliersi nell’abbraccio famelico dell’uomo che amava e che sembrava volerlo divorare senza pietà.
Dal canto suo Daiki era completamente concentrato ad esplorare l’opera d’arte che era il corpo sotto di lui. Interruppe il bacio solo per il gusto di osservarlo con calma mentre si contorceva per le sue carezze.
Come aveva intravisto la sua pelle era lattea e morbida, tesa sui muscoli dell’addome e del petto. Le braccia lunghe che gli aveva intrappolato sopra la testa erano candide ed eleganti quasi come le gambe, ma a catturare la sua attenzione in quel momento fu il viso di Kise: aveva le guance arrossate, le labbra gonfie e accese dai baci e i suoi occhi… erano semplicemente splendidi.
Se normalmente erano di un bel colore castano dorato, in quel momento erano di oro liquido, così caldi e appassionati che sembravano chiedergli di più, sempre di più… e lui, che il dei lo assistessero, aveva intenzione di dargli tutto.
Spostò nuovamente le sue attenzioni sui piccoli graziosi capezzoli rosa che divennero duri e vibranti sotto alle sue dita, li strizzò, li accarezzò e li leccò fino a quando gli giunse alle orecchie la singhiozzante preghiera di smettere. Già, si era attardato a venerare quei piccoli chicchi adesso rossi e sensibili, ma era il momento di rimediare.
In una lunga e lenta carezza fece scorrere le mani e la lingua fino all’ombelico, saggiando la soda elasticità degli addominali di Ryuota che boccheggiava dimenando i fianchi per inseguire la sua bocca.
-Oh, sei agitato… e dimmi, dove vorresti essere baciato adesso?-
La voce di Aomine oltrepassò la cortina di lussuria che era calata sul mondo di Kise, una voce bassa e roca che in quel momento assomigliava alle fusa di un gatto. Dove? Dove voleva che lo baciasse? Buon Dio, avrebbe potuto anche smembrarlo in quel momento che lo avrebbe trovato piacevole, era ubriaco di lui e della sua passione.
Si concentrò, aprì gli occhi e li fissò nei suoi che brillavano come zaffiri. Dio quanto era sensuale, coi capelli scuri arruffati e quei tratti così affilati da sembrare intagliati con l’accetta su un legno pregiato. Vide balenare un sorriso ferino su quel volto mascolino.
-Fai… f-fai quello che vuoi-
Gli rispose con una risata roca che era la pura espressione dell’erotismo selvaggio a cui aveva sempre legato il suo amato. Quella risata prometteva esattamente quello che lui aveva richiesto. Tutto il suo corpo vibrò di aspettativa.
-Se mi dici così… non posso che accontentarti, non credi?-
Aomine  sfilò i pantaloni della tuta insieme agli slip  lungo quelle gambe chilometriche godendosi e baciando ogni centimetro. Stava diventando dura fare le cose con calma, ma voleva che fosse tutto perfetto e poi… era la prima volta che aveva a che fare con un uomo, non sapeva come arrivare al dunque.
Un conto era sapere, in teoria, come funzionava, in pratica era tutta un’altra cosa.
Si prese un secondo per contemplare Kise, splendidamente nudo ed eccitato. Non avrebbe mai pensato di trovare attraente un altro maschio e meno che mai di fare quello che si accingeva a provare, ma in quel momento sembrava essere tutto così dannatamente giusto che accantonò ogni incertezza.
Lo prese in mano ed in risposta Ryouta inarcò la schiena gemendo forte. Quel suono lo incoraggiò. e così iniziò a muovere le mani sulla sua lunghezza stupendosi della temperatura di quella carne così setosa.
In poco tempo si trovò le mani bagnate dalla testimonianza del piacere crescente che stava procurando a quel corpo peccaminosamente sensuale, così, senza pensare, incassò la testa nelle spalle e abbassandosi tra le sue gambe divaricate, lo prese in bocca.
Quello era decisamente troppo, Kise non si aspettava  certo una simile soluzione e lo stupore lo bloccò per un momento prima che Aomine iniziasse a succhiare e leccare e massaggiare quella parte così sensibile e  lo facesse precipitare nelle spire di quella rincorsa che conosceva troppo bene.
Singhiozzando e gemendo ad ogni affondo di quella calda bocca che scorreva sulla sua virilità, non seppe dove, ma trovò la forza di parlare:
-Ao… Aomin… basta… sto…-
Gemette forte quando con la lingua gli premette proprio lì, nel punto in cui la tensione si stava accumulando.
-p-per venire! Spostati!-
Fece forza sui talloni e riuscì a spostare il bacino fuori dalla portata di Daiki proprio un attimo prima di cedere all’orgasmo.
Con il fiatone ed il volto in fiamme tentò di mettere a fuoco la figura di Aomine che si stava liberando degli indumenti scoprendo, poco alla volta, porzioni bronzee del suo fisico massiccio.
Ogni parte di lui era un puro concentrato di forza: la pelle era tesa per contenere i muscoli ben allenati, le spalle erano larghe e la schiena sembrava infinita. Quando, attraverso le ciglia lo vide sfilarsi i jeans e liberare così la sua eccitazione trattenne il fiato.
Alla vista di un desiderio tanto intenso, anche il suo fisico appena appagato  reagì all’istante.
Potè sentire quella parte di sé crescere, allungarsi e indurirsi fino a quando non gli si adagiò sul ventre in cerca di attenzione.
-Sembra che guardarmi ti piaccia parecchio, eh?-
Se possibile la voce di Daiki si era fatta ancora più bassa e roca. Si ritrovò ad annuire in silenzio.
Aomine si distese su un fianco accanto a lui iniziando a far vagare la punta delle dita sul suo petto sfiorandogli appena la pelle. Poi parlò:
-Io non ho mai fatto nulla di simile, non so come dovrei comportarmi adesso…-
Era imbarazzato dalla propria mancanza di esperienza in materia e Kise non potè fare  a meno di  sollevarsi e abbracciarlo seppellendo il viso  nel suo collo caldo.
-Non preoccuparti, anche per me è la prima volta, ma quando facevo il modello sono stato a contatto con gente che… ne sapeva abbastanza e non ne faceva mistero…-
Prendendo l’iniziativa, si alzò in ginocchio e baciò quelle labbra piegate da un sorriso storto che poteva dire molte più cose di mille parole. Subito la bocca si animò e il bacio accese nuovamente la passione tra loro, come se avessero gettato benzina sul fuoco le mani di entrambi vagavano frettolose per toccare tutto, per accarezzare ogni lembo di pelle.
Ryouta fece scivolare la mani attorno alla calda virilità bronzea che reclamava sollievo e abilmente iniziò a massaggiarla, frizionando col palmo della mano tutta la lunghezza mentre col il pollice stuzzicava la punta rosea da cui iniziò a colare la prova lampante del piacere che gli stava procurando.
Imparò rapidamente a leggere le reazioni del suo corpo, così riuscì a portarlo più volte sull’orlo dell’orgasmo per poi rallentare  senza dargli soddisfazione e infine ricominciare daccapo.
Dopo la sesta volta una grossa mano gli afferrò il polso con decisione.
-Adesso basta caro il mio furbetto. Hai giocato a sufficienza.-
Sorridendo furbescamente Kise gli si mise a cavalcioni iniziando a ondeggiare i fianchi in modo da massaggiare l’inguine teso di Aomine con le natiche.
In risposta al suo gesto, tutto il corpo possente sotto di lui rabbrividì di piacere mentre le grandi mani gli afferravano le anche per accompagnare i suoi movimenti.
Non c’è era più nessun imbarazzo tra loro, nessuna scomoda mancanza di esperienza, ormai si muovevano istintivamente e fu così che Daiki iniziò a giocare con le natiche di Ryouta, prima impastandole e stringendole, poi pizzicandole ed infine facendovi scorrere in mezzo il taglio della mano.
La sensazione era strana, non spiacevole ma decisamente estranea a tutto ciò che conosceva. Rabbrividì quando sentì il dito di Aomine violare il suo corpo.
Involontariamente si irrigidì.
-Stai bene?- La voce preoccupata del partner lo tranquillizzò, così annuì cercando di rilassarsi.
Poi Daiki mosse il dito e nel suo basso ventre esplose il piacere. Non riuscì a trattenere un gemito e con esso il brivido che gli squassò le membra.
Incoraggiato da quel suono il dito si mosse ancora e ancora andando a stuzzicare la parete posteriore della prostata e portando Kise sempre più alla deriva in uno sconosciuto mare di sensazioni celestiali.
Nell’ovatta del piacere Ryouta  sentì un secondo dito farsi strada dentro di lui ma ormai il dolore era diventato parte integrante di quel piacere così straziante e magnifico. Le dita si muovevano a ritmo, sforbiciando ad ogni affondo, stuzzicando, modellando, allargando.
Ormai era al limite, sentiva di essere sull’orlo di un burrone di cui non conosceva la profondità, la tensione aumentava, l’orgasmo montava ma la sensazione di piacere si estendeva anche dentro di lui, nel luogo segreto che quelle dita stavano stuzzicando ritmicamente.
-Aaah, Ao- Aomine… non resisto…-
Le lacrime gli rigavano il volto per lo sforzo di arginare le sensazioni che lo attraversavano.
Tutti i muscoli di Kise erano tesi e tremavano, la bocca era aperta alla ricerca di aria e a ritmo con i movimenti della sua mano emetteva dei gridolini molto simili a miagolii. Poteva davvero essere tanto bella un’esperienza simile? Anche lui ormai era al limite della sopportazione e la sensazione di risucchio che sentiva sulle dita gli ricordava che presto al posto della mano lì a farsi stringere…
-Non posso aspettare, devo entrare, de-devo farlo ora-
In risposta Ryouta inclinò il busto in avanti fino ad appoggiarlo sul suo petto mentre con le mani apriva il passaggio da cui un attimo lui prima aveva sfilato la mano.
Lì sdraiato, con Kise a cavalcioni sul suo inguine pronto a farsi violare da lui, Aomine dimenticò ogni riguardo. Si posizionò e senza alcun preavviso né gentilezza affondò dentro di lui strappandogli un grido di dolore.
Ormai era dentro e l’abbraccio stretto con cui il corpo sopra di lui l’aveva accolto lo portò alla pazzia. Incurante dei gemiti contro il suo sterno e delle lacrime che gli scorrevano sul petto iniziò a muoversi.
La sensazione era indescrivibile, ma la posizione in cui era gli impediva di spingersi a fondo e soprattutto non era libero di dettare il ritmo.
Ryouta nel frattempo si stava riprendendo. Era stato uno schock essere invaso in quel modo prepotente e violento ma presto il dolore sia era mischiato al piacere amplificandolo. Era bellissimo, si stava abituando a quell’invasione e poteva sentire fin dove arrivava e mentre sfregava quel punto preciso che sprigionava ondate di piacere. Lo voleva più a fondo, lo voleva tutto.
Sollevò il busto e ignorando le proteste gementi di Daiki iniziò a dettare il ritmo e anche a intensificare gli affondi del suo bacino.
Ormai i loro gemiti erano mischiati, il sudore imperlava la loro pelle  e il ritmo delle spinte si faceva sempre più incalzante. Le mani di Aomine stringevano con forza i fianchi di Kise mentre spingeva il proprio bacino verso l’alto riconcorrendo quello che prometteva di essere uno degli orgasmi migliori della storia.
Improvvisamente Ryouta si sollevò fino sfilarsi del tutto da sopra per spostarsi e mettersi a quattro zampe, esposto al massimo. Con un unico movimento Daiki si sollevò ed entrò dentro di lui fino in fondo gemendo forte.
Riprese la corsa forsennata verso la cima, verso il precipizio e proprio quando la meta sembrava vicina spostò una mano sull’inguine di Kise e iniziò a massaggiarlo.
Qualche gemito e qualche brivido dopo il corpo sotto di lui si tese nell’esplosione dell’estasi stringendolo più forte mai e proiettandolo verso la completa soddisfazione.
Crollarono entrambi senza fiato, accaldati e languidamente assonnati.
Kise sentiva il cuore di Aomine battere forte come il suo, ogni suo muscolo tremava di piacere e di stanchezza, si sentiva indolenzito e faticava a riprendere fiato schiacciato com’era da quella montagna di muscoli che gli era crollata addosso.
Non aveva né il fiato né la volontà di chiedergli di spostarsi perché il confine tra la realtà e il sogno gli sembrava ancora troppo sottile e quel peso che gli gravava sulla schiena lo teneva ancorato al presente che temeva di aver solo sognato.
Daiki dal canto suo era incredulo, non immaginava che l’amplesso con un uomo potesse essere così…. Così soddisfacente. Sentiva il corpo di Ryouta sotto di lui tremare per il residuo dell’orgasmo e per lo sforzo; ammetteva di esserci andato piuttosto pesante. Anzi, era stato un vero animale, ma era stato bellissimo non doversi preoccupare di far male alla donna di turno, di non essere troppo impetuoso per non spaventare la fanciulla sotto di lui. Era stato semplicemente se stesso ed era stato bellissimo.
Il respiro affannoso di Kise gli ricordò che per quanto fosse un uomo di taglia media e di ragguardevole altezza, il suo corpo massiccio e muscoloso probabilmente lo stava schiacciando.
Era ancora dentro di lui.
Con un sospiro fece forza sugli avanbracci, sollevò il proprio petto e subito vide la cassa toracica sotto di lui espandersi. Osservò la folta capigliatura bionda che nascondeva il viso del suo amante lasciando però scoperta la nuca.
Dolcemente, senza muovere nessun altro muscolo, inclinò il capo e baciò quella pelle tenera e sudata.
-Sei incredibile Kise Ryouta, sei stato il migliore amico che potessi desiderare per lungo tempo e adesso, sei la persona che meglio si combina a me in questo mondo. Smetterai mai di stupirmi e di regalarmi tanta completezza e tanta felicità?-
Era un bene che non potesse vederlo in volto, perché quelle parole commossero il biondino al punto da non riuscire a trattenere qualche lacrima.
Un singolo singhiozzo silenzioso gli scosse le spalle.
In meno di mezzo secondo si ritrovò avviluppato in un caldo abbraccio che sapeva di amore, di Daiki e di sesso. Le grandi mani ambrate del compagno gli lisciavano delicate i capelli e la schiena nel tentativo di calmarlo.
-S…stai bene?-
La voce preoccupata di Aomine fu davvero  un segnale che fece eruttare tutte le sue emozioni. Le lacrime traboccarono di nuovo colandogli sulle guance e gocciolando dal suo mento sulla spalla  a cui era stretto. Le grandi mani bronzee che lo stringevano tentarono di scostarlo, probabilmente per poterlo guardare in faccia me Kise si aggrappò alla sua schiena con tale forza da far desistere ogni tentativo.
Parlò contro la pelle delicata tra  collo e spalla:
-Sto benissimo, solo… lasciami un minuto, non riesco ancora crederci… È passato così tanto tempo… ormai mi ero convinto che… aaaah, che femminuccia che sono a commuovermi in questa maniera.-
Imbarazzato si zittì.
Ora Daiki era più convinto che mai a volerlo vedere in viso. Approfittando della confessione di Ryouta, lo prese da sotto le ascelle e se lo depose di fronte.
Aveva gli occhi sgranati e umidi di pianto, le labbra gonfie e il violaceo segno di un morso sulla gola. Prese fiato per schiarirsi le idee:
-Io ti amo, non scapperò, lo prometto. Se per te va bene, potremmo iniziare a frequentarci come una coppia…-
Arrossì sotto la pelle scura.
Kise era a dir poco stupito. Voleva dire che per loro c’era speranza? Che ci avrebbero provato?
Che poteva permettersi di credere che il mondo, per una singola volta, stesse girando dalla sua parte?
-Se… se vuoi… potresti venire a stare qui, con me. La casa è grande, ho due bagni e soprattutto… visti i nostri orari sarà più facile riuscire a incontrarsi.-
Incredibile. L’aveva proposto davvero. E mentre se ne rendeva conto, si accorse che era per quel motivo che non si era mai deciso a dar via quella casa ma , anzi, si era impegnato ad arredarla modernamente dotandola di ogni confort.
La risposta non tardò.
-Sei sicuro di volermi qui? Insomma, è casa tua, ma a casa mia non c’è spazio ed è più lontana dall’aeroporto…-
In risposta gli giunse sulle ali di una risata scampanellante:
-Sai, credo di averla sempre pensata  come la nostra possibile dimora. Questa casa, intendo, credo di averla arredata con l’intento di poterne godere insieme a te. Sono stato un romantico sognatore. Sembra che io ti ami proprio tanto-.
Lo aveva detto con leggerezza, ma credeva davvero in quelle parole.
In un attimo le labbra di Aomine furono sulle sue.
 
Quattro ore e tre amplessi più tardi i due si coccolavano immersi nell’acqua calda e schiumosa.
-Questa vasca da bagno è un sogno.-
Le dita di Daiki vagavano sfiorando i bordi di legno. Kise, seduto tra le sue gambe sentiva i muscoli del petto contro cui era appoggiato tendersi nei vari movimenti.
L’acqua calda e l’abbraccio sicuro dentro cui si era ritrovato rilassarono il suo corpo trasformando le sue palpebre in lembi di piombo che calavano sul mondo.
Daiki si accorse del preciso momento in cui Ryouta scivolò nel sonno. Lo aveva sfinito.
Si erano amati per ore e ore senza riposare, senza averne mai abbastanza e il suo corpo aveva subito un trattamento tutt’altro che delicato. I lividi bluastri che fiorivano su quei fianchi candidi combaciavano perfettamente con la forma delle sue mani, e tuttavia, nel vederli non potè fare a meno di eccitarsi di nuovo.
Eccolo lì, neo innamorato, neo convivente, neo amante. Tutta la sua vita era stata stravolta, era come se il mondo si fosse fermato e avesse ripreso a girare nel senso contrario. Eppure era in quella vasca enorme, avvolto da un sensuale profumo speziato, con l’uomo che amava addormentato tra le sue braccia dopo che si erano scambiati il massimo del piacere donandosi l’uno all’altro senza riserve, ed era semplicemente… felice.
Non sarebbe stato facile, non avevano scelto una strada semplice da percorrere ma l’idea di non camminare più da solo lo rincuorava e gli faceva credere che insieme, avrebbero potuto farcela. Lui e Ryouta, ne era sicuro, potevano farcela.



Ed eccolo finalmente! Iil primo capitolo finalmente online! Oddio... non so se ho fatto bene a postarlo ma... ormai è fatta XD
 
 

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Capitolo 2
*** Superare il passato ***


Midorima Shintarou e Kazunari Takao convivevano ormai da quasi due anni. Le esigenze e le necessità di entrambi avevano fatto sì che  due anni dopo la fine del liceo decidessero di prendere casa insieme. Durante gli anni universitari la loro routine era regolare e permetteva una normale convivenza.
Avevano i loro compiti, si dividevano, più o meno, le incombenze e le faccende; dividevano equamente l’affitto.
I problemi, se di problemi si poteva parlare erano nati, non tanto quando Midorima aveva finito gli studi e aperto il suo studio medico, ma quando anche Takao, leggermente in ritardo con gli esami, aveva iniziato a fare pratica in uno studio legale.
Non aveva più orari, a volte non rientrava nemmeno a dormire, non faceva la spesa e più volte si erano trovati con il frigo vuoto o con dentro solo mezzo limone.
La situazione era decisamente precipitata quando, facendo di corsa la lavatrice, il sonnacchioso neoavvocato, aveva infilato per sbaglio un calzino rosso insieme al carico delle camicie bianche. Al suo rientro dal lavoro Shintarou si era ritrovato sei camicie rosa.  
Da lì erano iniziate le prime avvisaglie di crisi. I primi litigi e le prime piccole incomprensioni.
Con il passare dei mesi le cose si erano fatte sempre più tese e i due ormai, pur vivendo sotto lo stesso tetto, non si rivolgevano più la parola.
Midorima quella mattina, vedendo che il suo coinquilino non aveva lavato le stoviglie della sua cena, se di cena si poteva parlare alle due del mattino, per ripicca accese il televisore a volume altissimo nella speranza di svegliarlo. Nessun segno di vita giungeva dalla stanza chiusa. In un impeto di rabbia afferrò la maniglia e aprì la porta con forza.
Si bloccò. Lui non c’era. Il letto era disfatto, tre paia di scarpe giacevano gettate disordinatamente sul pavimento insieme a cartelle, foto e fogli pieni di appunti scritti con la sua orribile calligrafia.
Non era rientrato? Poi si bloccò. Sì che era rientrato, aveva cenato e lasciato i piatti lì, in bella vista.
Ma aveva dormito?
Shintarou si interrogava ancora sui ritmi impossibili di Takao. Non era la prima volta che rientrava a notte fonda, ma era decisamente più raro che dopo una nottata di lavoro intenso, dovesse andare al lavoro al mattino presto.
Chissà come se la passava, era almeno una settimana che non lo vedeva in faccia. Sei giorni erano passati dalla loro lite più furiosa e non avevano più avuto occasione di riappacificarsi.
Non era la prima litigata che facevano, ma era decisamente la prima volta che passavano dei giorni senza che nessuno dei due cedesse e chiedesse scusa.
 Shintarou, non aveva intenzione di cedere, sapeva che non era un comportamento da adulto, ma era più forte di lui cercare di affermare la propria supremazia in ogni cosa.
Sin da quando erano ragazzini, al primo anno del liceo, lui aveva sempre contato sulla remissività e sulla gentilezza di Takao; anzi, diciamo che se era approfittato parecchio. Come quando lo aveva sfruttato facendolo pedalare come un dannato per farsi tirare sul quel vecchio carretto.
Sapeva che quel poveretto aveva le gambe in fiamme dopo pochi chilometri visto il suo peso e il peso del pianale del mezzo in legno massiccio, eppure non aveva voluto concedergli riposo.
Per orgoglio, o forse per paura di perdere la possibilità di osservarlo e studiarlo, il suo convivente non aveva sollevato nemmeno una lamentela. Era rimasto in silenzio, a prendersi i suoi improperi, a trasportarlo lungo le strade sotto al sole mentre il sudore gli inzuppava la maglietta.
Midorima lo aveva visto, lo sapeva, eppure non aveva fatto nulla per aiutarlo. Era più forte di lui.
Anche quando erano andati a vivere insieme per contenere le spese, la loro vita universitaria in facoltà diverse aveva fatto sì che le occasioni per affermare la sua supremazia fossero meno, quindi aveva cambiato modalità: lo aveva trasformato nella propria colf.
Non che gli facesse fare ogni cosa, ma i lavori ingrati, come stirare oppure lavare i piatti li lasciava sistematicamente a lui che,  senza mai lamentarsi, aveva svolto ogni incombenza.
Ora che lavorava non aveva il tempo di fare quasi nulla, figurarsi riuscire a star dietro alle pretese di uno come lui, eppure Shintarou continuava a pretendere, ordinare, richiedere senza voler cedere all’evidenza dei fatti: le cose erano cambiate e difficilmente sarebbero tornate come prima.
Sembrava una banalità, dover prendere atto che il proprio schiavetto personale avesse finalmente trovato un’occupazione migliore del compiacerlo ad ogni costo, eppure non riusciva ad accettarlo. Non poteva abituarsi.
In fondo, come poteva cambiare così in fretta dopo quasi dieci anni di routine stabile? No. Non lo accettava ed ecco perché trovava sempre un pretesto per litigare. Che fossero i piatti non lavati, o una camicia non stirata, lo attaccava, lo accusava, lo scherniva.
Sapeva che nonostante tutte le cattiverie, Takao  non avrebbe mai e poi mai ribattuto. Non lo faceva mai. Anche durante la loro discussione, che alla fine si era risolta in lui che urlava di tutto contro il povero malcapitato senza che questi aprisse bocca, era frustrato dalla sua mancanza di reattività.
Si ribellava al suo ruolo perché non aveva tempo per far tutto, e allora perché non aveva il coraggio di mandarlo al diavolo e dirgli di farsele le cose?
Lo aveva già scoperto, pur di fare quel che chiedeva, il suo coinquilino stirava di notte rinunciando alle poche ore di sonno che gli concedevano gli orari del tirocinio nello studio legale.
Midorima non sapeva come giustificare un tale comportamento. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato al punto di rottura, ma non riusciva proprio a comportarsi diversamente.
Lavò rapidamente il piatto e il bicchiere che erano nel lavello, si vestì di tutto punto e prendendo la borsa di pelle che gli avevano regalato gli unici amici che avesse mantenuto dai tempi delle medie, uscì nel freddo della mattina presto.
Prese una boccata d’aria frizzante. Eccolo lì, all’inizio di una nuova settimana di duro lavoro.
Non gli pesava trascorrere il tempo lavorando; era la strada che aveva scelto e quella stessa scelta gli aveva cambiato la vita per sempre congelando i rapporti con la sua famiglia, deteriorandoli, irreparabilmente.
Aveva sempre studiato sodo per orgoglio personale anche se suo padre aveva sempre pensato che lo stesse facendo per dargli soddisfazione; aveva scelto un liceo privato, una scuola d’élite  che era famosa per la sua formazione a tutto campo ma alla fine aveva deciso di deviare dal percorso che la sua famiglia, la potente casata dei Midorima, aveva deciso per lui: non era entrato alla facoltà di ingegneria, aveva scelto medicina.
Il suo sogno all’epoca, era quello di essere utile a tutti coloro che per amore dello sport, o schiacciati dalle pressioni della competizione, arrivavano a farsi del male.
L’idea di dover rinunciare al basket, quando era al liceo, era semplicemente spaventosa e sapeva che lo era per tutti coloro che gareggiavano con la passione e l’amore per lo sport nel cuore.
Voleva poter far qualcosa per loro.
Gli anni alla facoltà di medicina erano stati pesanti, aveva dovuto studiare sodo e soprattutto aveva dovuto mantenersi da solo gli studi perché la sua famiglia aveva voluto prendere le distanze dalla sua scelta nella speranza che cambiasse idea e si ravvedesse. Poveri illusi, lo conoscevano davvero poco.
Lui non faceva le cose a caso, Lui non provava a fare le cose.
Se l’oroscopo era favorevole, lui riusciva. Era semplicemente così che doveva andare.
Aveva lavorato sodo per riuscire a pagarsi la migliore università di Tokyo e i suoi sforzi erano stati ben ripagati. Si era laureato e, grazie ai risparmi di quei cinque lunghi anni, era riuscito ad aprire un piccolo studio ortopedico che offriva consulenza gratuita agli studenti dei club sportivi.
Era così cominciato un periodo frenetico di organizzazione, contatti, strette di mano, consulenze e appuntamenti. Era stato completamente assorbito da quella routine magnificamente completa senza mai pensare a chi, in silenzio, si occupava di tutto il resto anche durante i fine settimana quando lui usciva con le ragazze.
Aveva avuto numerose storielle, tante sconosciute senza alcun particolare da ricordare ma utili allo scopo di sfogare di frustrazioni del corpo. Era ancora geloso della sua mano e stancarla con una cosa volgare come l’autoerotismo non faceva per lui.
Soprattutto se c’era qualcuno pronto a farlo al posto suo. Ne aveva sempre approfittato ma non aveva mai lasciato alcuna speranza sentimentale in quelle ragazze. Prendeva e dava senza mai chiedere o promettere nulla più di qualche incontro.
Entrò nell’ingresso del suo piccolo studio luminoso e venne salutato dal solare sorriso della sua segretaria: Aya Sakamoto.
L’aveva assunta il mese precedente e sapeva con che occhi lo guardava nonostante sapesse che fino a qualche giorno prima aveva un’altra donna per le mani. Lei continuava a guardarlo con un’adorazione che gli sembrava familiare, ma non avrebbe saputo dire perché.
Proprio a causa di questo disagio non aveva ancora tentato di combinare alcun incontro con lei. Non voleva grane né pasticci sentimentali. E lei non sembrava pensarla così.
Guardò l’orologio e facendo due brevi conti immaginò che Takao sarebbe arrivato tardi quella sera e che quindi avrebbe dovuto nuovamente cucinarsi la cena da solo… a meno che non avesse trovato un’alternativa alla diserzione del suo cuoco personale.
Guardò ancora una volta verso la bella ragazza bruna che stava organizzando la sua agenda in modo da ottimizzare i suoi spostamenti  nelle scuole.
 
Kazunari Takao pendeva il collo sulla scrivania. Aveva dormito tre ore quella notte. Era già affiliato a quello studio legale da un po’ ma le cose andavano sempre come se fosse il primo giorno. Nessuno lo portava in tribunale, non aveva mai messo nemmeno piede nello studio dei soci senior, gli lasciavano plichi e plichi di referti da copiare, analizzare ed evidenziare, lo mandavano a comprare i pasti e gli facevano ricopiare montagne di dati su blocchi che nessuno leggeva mai.
Era frustrante aver studiato tanto per trovarsi a fare un lavoro noioso, inutile e senza alcuna prospettiva.
Ma lo pagavano e subito tanto bastava.
Quei soldi gli servivano per pagare la sua parte di affitto e per comprare i completi nuovi che gli servivano per presentarsi al meglio sul posto di lavoro in caso fosse mai arrivato il momento di fare il proprio ingresso in tribunale.
Non che ci sperasse più ovviamente.
Faceva degli orari da schiavo, aveva sempre più male agli occhi a furia di leggere e scartabellare documenti scritti piccoli e fitti ed in più erano settimane che non faceva un pasto tranquillo in compagnia di Shin-chan.
Già… Shin-chan, quella mattina doveva essersi arrabbiato molto trovando i piatti nel lavello. Avrebbe davvero voluto lavarli ma stava crollando dal sonno e quella mattina era così rintronato da essersene dimenticato.
Avevano litigato da giorni eppure nessuno dei due  aveva avuto il coraggio di farsi avanti. Dal canto suo lui voleva solo vivere tranquillo con Midorima finchè fosse stato possibile e se questo presupponeva che il suo coinquilino talvolta gli gridasse contro…. Beh, poteva anche andar bene.
Non aveva mai avuto alcuna voglia di litigare con lui, era sempre rimasto in silenzio sperando che prima o poi quel dannato ragazzone orgoglioso comprendesse l’inutilità della sua prepotenza.
Diamine, se dopo dieci anni di vessazioni non aveva ancora gettato la spugna davanti a quel caratteraccio, doveva proprio essere bacato nel cervello, o quantomeno doveva essersi inconsciamente affezionato.
I numeri e le parole davanti ai suoi occhi iniziarono a ondeggiare sfocati. No. Decisamente non andava bene. Doveva andare a farsi vedere da un medico. Probabilmente stava sforzando troppo la vista e l’avanzare dell’età non aiutava.
Stropicciandosi la faccia guardò fuori dalla finestrella accanto alla sua scrivania.
Eccolo lì, Shintaro Midorima, neo-ortopedico in pausa pranzo che scortava a braccetto la nuova ragazza del momento… ma… un momento…. Quella non era la sua segretaria?
Con uno sforzo sovrumano distolse lo sguardo dalla coppietta che ridacchiava sul marciapiede.
…In effetti era comodo avere un’amante al lavoro, non doveva impegnarsi ad andare a destra e a sinistra per appuntamenti stravaganti. Bastava approfittare del lettino nello studio, dare un giro di chiave alla porta…. NO.
Non erano affari suoi con chi trascorreva le ore libere il suo convivente, o con chi sorridesse e chiacchierasse amabilmente senza mai urlare. No, non era decisamente affar suo e poi lei era davvero carina… No.
Sospirando si alzò, spense il pc e andò a chiedere un permesso. Voleva farsi dare una controllata agli occhi e approfittare del tempo restante per dormire fino al giorno seguente.
In quel momento gli vibrò il telefono.
Uscendo per strada controllò il display e vide che Midorima gli aveva mandato un sms.
“La prossima volta che trovo i tuoi piatti nel lavello te li infilerò nel letto. Non dimenticarlo.”
Sospirò. Prepotente e minaccioso come al solito. Cosa si aspettava? Comprensione?
Naaa, non da Shin-chan, non era da lui essere gentile o comprensivo. Non faceva parte del suo carattere l’empatia e ancor meno lo era la gentilezza.
Beh, forse era proprio quello il motivo per cui gli era amico, il fatto che fosse una persona totalmente incapace nei rapporti interpersonali guidata da quello stupido oroscopo della mattina e dal proprio orgoglio.
Svoltando arrivò alla clinica privata di cui era paziente grazie alla gentile intercessione di sua madre e si diresse verso lo studio oculistico. Venne fatto accomodare  e nel giro di qualche minuto fu fatto entrare dalla dottoressa che lo ascoltò con pazienza e interesse ed infine lo visitò accuratamente.
-Ha ragione, lei ha un affaticamento della retina.-
Grandioso. La giornata andava di bene in meglio.
-Le consiglio di portare un pio di occhiali da riposo quando sta sul lavoro in modo da non peggiorare la situazione e non compromettere gli occhi in modo permanente.-
Alleggerito sia nel portafoglio sia dalle preoccupazioni per la sua vista, Takao si specchiò nel finestrino di un’auto parcheggiata: non gli stavano male quegli occhiali ma li sentiva strani sul naso e pesare appoggiati alle orecchie. Decisamente erano un accessorio scomodo. Come diavolo faceva Midorima a portarli senza pensarci? Era solo questione di abitudine?
Specchiandosi in una vetrina portò la mano al volto e con un gesto che aveva visto fare milioni di volte si aggiustò la montatura sul naso imitando il suo coinquilino. Ridacchiò.
Sentendosi poi un emerito idiota, decise di lasciare in pace gli occhiali e si diresse a casa.
Era ancora molto presto, Shin-chan non sarebbe rientrato prima di qualche ora così decise di approfittare della solitudine per fare un po’ di pulizia.
Nel giro di un’ora ogni ripiano della cucina splendeva e profumava di pulito, il bagno brillava e i pavimenti erano spazzati alla perfezione. Mise su una lavatrice con in panni di colore chiaro e si sedette al tavolo della cucina, appoggiò gli occhiali massaggiandosi l’osso del naso e chiuse gli occhi per riposarsi un minuto
Rendendosi conto che stava scivolando nel sonno, si alzò e andò a sdraiarsi in camera sua, finalmente ordinata come la voleva lui.
Nel giro di un minuto crollò addormentato.
I sogni che lo perseguitavano da qualche mese tornarono.
Vedeva i suoi superiori e i soci anziani dello studio che ridevano di lui, lo additavano e si sganasciavano tenendosi la pancia. Sentiva poi una risata inconfondibile perché rarissima, quella di Midorima ed eccolo lì, anche lui nel suo sogno, quella volta accompagnato dalla sua segretaria,  che rideva e rideva di lui. Si guardava intorno per capire di cosa ridessero e in quel momento i suoi vestiti seriosi si trasformavano in quelli di un pagliaccio, colorati e sgargianti. A quel punto lui correva via, tentando di nascondersi ma il vuoto attorno a lui si trasformava in un labirinto e tutti continuavano a ridere guardandolo dall’alto come se lui fosse grande come un topolino da laboratorio.
Correva, correva e urlava loro di smettere eppure non c’era nessuno che lo ascoltasse e continuavano a coprire le sue preghiere con le risate  e i loro commenti. Vedeva i loro occhi riempirsi di lacrime dal troppo ridere e in quel momento montava in lui una rabbia mai provata, che lo soffocava mettendo a tacere le sue patetiche preghiere.
Quella rabbia e quella frustrazione volevano uscire e voleva sbatterle in faccia ai suoi capi che si approfittavano della loro posizione per deriderlo e sfruttarlo e anche a Shintarou che si approfittava del suo carattere pacato per fare il tiranno. Nel sogno esplodeva inveendo fino a non avere più voce contro quelle facce che all’improvviso non ridevano più.
A quel punto il paesaggio cambiava ed si trovava per strada, con indosso stracci e coperte luride, si sentiva il viso coperto di barba ispida e alzando gli occhi vedeva le persone sfilare davanti a lui nel tran tran giornaliero e nessuno sembrava vederlo. Né i suoi superiori che andavano verso lo studio al mattino, né Midorima che passeggiava ridendo per mano con la segretaria. Nessuno lo notava più e lui li chiamava, gridava il loro nome e il silenzio era assordante mentre sentiva solo se stesso gridare.
-Takao! Ehi! Takao! Svegliati!-
Due mani grandi lo stavano scuotendo forte. Aprì un occhio, poi l’altro e mise a fuoco il volto di Shin-chan che lo guardava preoccupato.
-Shi…. Shin-chan, che succede?- Sfregandosi il volto sentì bagnato. Aveva pianto? Davanti a Midorima?
Sprofondò nell’imbarazzo più totale.
-Stavi gridando e quando sono arrivato qui eri in lacrime. Devi aver fatto un brutto sogno. Va tutto bene ora?-
Ma come? Nessuna presa in giro? Nessuno sfottò? Dove era finita la vena sadica del suo diabolico convivente? Scosse la testa.
-T-t-tutto bene Shin-chan, non preoccuparti, è stato solo un brutto sogno.-
Sfoggiò il miglior sorriso che riuscì a mettere insieme. Lo vide  farsi serio e pensieroso, poi voltarsi e riferire con tono neutro.
-Se stai bene, allora io posso uscire. Aya mi sta aspettando. Buona serata Takao.-
Detto questo uscì.
 
Midorima era rientrato a casa rilassato, quel giorno era andato tutto per il verso giusto  le visite nelle scuole erano andate bene e aveva stipulato dei contratti di collaborazione che gli sarebbero stati comodi. A fine giornata aveva anche deciso di invitare Aya a cena e lei aveva accettato con fin troppo entusiasmo.
Si erano dati appuntamento un’ora dopo l’uscita dal lavoro quindi lui era tornato con calma a casa comprandosi gli okonomiyaki caldi e mangiandoli per strada.
Quando aveva aperto la porta era stato investito da un odore che non sentiva da mesi: l’odore di pulito che rimaneva nell’aria dopo che Takao faceva le grandi pulizie.
Doveva essere rientrato prima di quanto pensasse. Ogni stanza era linda e profumava, la lavatrice aveva finito un lavaggio e così la spense. Ma dove era il suo coinquilino? Entrò in cucina, anche quella stanza brillava  e profumava come il resto della casa. Sul tavolo, abbandonati, c’era un paio di occhiali mai visti prima.
Li osservò bene, ma ancora non riusciva a determinarne la provenienza. Poteva essere che Takao fosse in compagnia? Sarebbe stata la prima volta che si portava qualcuno a casa in sei anni di convivenza.
Aggirandosi furtivo tornò a sbirciare nella scarpiera. Non c’erano scarpe estranee. Ma allora di chi erano?
Un gemito gli giunse alle orecchie dalla camera chiusa. Si avvicinò in silenzio, un po’ imbarazzato.
Poteva essere che quello scemo avesse portato a casa una donna e che adesso si stesse divertendo un po’?
Il mugolio divenne un grido intriso di pianto e disperazione.
In un secondo Shintarou si trovò dentro quella stanzetta così poco familiare e lì vide Takao raggomitolato, con la testa stretta tra le mani e il viso inondato di lacrime che bisbigliava:
“non lasciatemi qui, guardatemi, sono io…! Non lasciatemi solo!”
Quella visione faceva male al cuore. Decise di svegliarlo. Lo scosse gentilmente sperando di non spaventarlo.
In risposta una voce che a stento somigliava a quella a cui era abituato ancora una volte disse: “Non lasciatemi qui!”.
Scosse quelle spalle tremanti ancora una volta, con più forza e finalmente vide i lineamenti del suo volto distendersi e i suoi occhi appannati e ancora bagnati di lacrime posarsi su di lui. Lo vide scrutargli il volto e si accorse dell’imbarazzo che gli serpeggiò nello sguardo.
Temeva davvero che l’averlo visto piangere fosse così tremendo? O aveva paura di qualcos’altro?
-T-t-tutto bene Shin-chan, non preoccuparti, è stato solo un brutto sogno.-
La sua voce tremava ancora eppure aveva una nota orgogliosa che non aveva mai sentito.
Ma come, lui si preoccupava e in risposta quell’ingrato cercava di fare l’eroe? Bene, se così stavano le cose lui aveva più motivo di star lì a guardarlo con quelle spalle gobbe e il viso ancora segnato di pianto.
Mentre lo osservava quello stupido gli fece il sorriso più finto che gli avesse mai visto in volto e questo lo ferì più di quanto volesse ammettere.
-Se stai bene, allora io posso uscire. Aya mi sta aspettando. Buona serata Takao.-
Girò i tacchi, uscì a grandi passi dalla stanza, afferrò il cappotto e uscì stando attento a non sbattere la porta.
Nell’aria frizzante della prima sera di Dicembre si avviò verso il bar doveva aveva dato appuntamento alla sua giovane segretaria che era sembrata quanto mai felice di vederlo in orario extra-lavorativo.
Non riusciva a levarsi dalla testa la faccia del suo coinquilino quando gli diceva che andava tutto bene. Come poteva andare tutto bene se aveva quelle occhiaie e gli occhi gonfi e rossi con ancora le lacrime appese alle ciglia lunghe?
Accelerò con rabbia. La cosa che lo aveva ferito di più era il modo, gentile ma fermo con cui lo aveva allontanato. Gli aveva fatto capire che quelli non erano affari suoi e che stesse male o meno a lui non doveva interessare.
Erano arrivati a quel punto? Non poteva crederci. Davvero il continuo litigare e le vite separate avevano dato il colpo di grazia alla loro amicizia?
Takao era dunque giunto al punto di rottura. Non poteva certo biasimarlo visto il trattamento che gli aveva riservato negli anni… ma allora perché gli dava così fastidio l’idea di sentirsi il responsabile del suo allontanamento?
Arrivato nei pressi del bar decise di chiudere nel dimenticatoio la questione di Takao per concentrarsi sullo studio della prossima preda. Prima di tutto doveva chiarire che qualunque tipo di incontro avesse seguito quello di quella sera, non sarebbe stato sentimentale.
La vide arrivare di corsa, con un vestitino di velluto color borgogna che si intravedeva sotto al cappotto di lana pettinata bianco. Indossava un cappellino graziosamente ricamato che le si appoggiava con morbidezza sulle soffici onde color cioccolato. Era molto carina, doveva ammetterlo.
-Salve Dottore, spero di non averla fatta aspettare troppo..-
No. Non andava bene. Era un appuntamento, non poteva chiamarlo “Dottore”. Glielo disse e le diede il permesso di chiamarlo per nome.
Trascorsero quasi un’ora in un bar a sorseggiare caffè aromatizzato e a parlare. Midorima voleva essere sicuro che lei avesse compreso quale fosse la situazione. Non era ancora convinto che avesse recepito a alla perfezione il messaggio, ma se non altro non aveva preteso nessun obbligo da parte sua.
Fecero anche una lunga passeggiata allontanandosi da centro e addentrandosi nella zona famosa per i divertimenti che offriva. C’erano un multisala, la possibilità di ballare, le sale giochi, i locali e infine, c’erano gli hotel a ore.
Scegliendo il solito albergo Shintarou scortò la sua graziosissima ospite fino alla suite più costosa. Era una camera molto grande, con il materasso a forma di cuore rivestito di seta color caramello cosparso di petali di rosa bianca. Tutti gli arredi della stanza erano sui toni del beige e del marrone regalando un’atmosfera calda e accogliente.
La ragazza se la cavava bene, aveva una certa manualità e di sicuro lui non era il primo uomo con cui si lasciava andare, anzi, vista l’abilità che dimostrava prima usando i palmi e successivamente oralmente… doveva aver fatto molto esercizio.
Ma non tanto quanto lui. Quando arrivò il suo turno di giocare con lei la fece letteralmente ballare sulle punte delle sue dita, la fece fremere contro le sue labbra e solamente dopo qualche ora di divertimento arrivò finalmente al dunque godendo dentro di lei.
Tornò a casa che era notte fonda, non aveva certo soldi da buttare pagando anche le ore notturne in albergo, la casa sapeva sempre di pulito e gli venne l’irrefrenabile bisogno di farsi una doccia per levarsi di dosso l’odore di Aya Sakamoto. Un buon profumo di mele, cannella e sesso, ma lo faceva sentire sporco.
Pur essendo molto tardi si diresse in bagno, si liberò dei vestiti e si infilò nel box doccia godendosi il getto caldo sulla pelle.
Takao gli tornò in mente quasi subito, richiamato dall’odore di pulito della doccia. Era in casa? Non aveva guardato se ci fossero o meno le sue scarpe all’ingresso. C’erano ancora quegli occhiali in cucina? Moriva dalla voglia di trovare un pretesto per parlare con lui, per… spiegargli… Cosa? Che il suo comportamento non era voluto? Certo che era voluto. Che era preoccupato? Non era forse stato lo stesso Takao a tenerlo a distanza?
Scosse la testa. Non sapeva come fare.
Si asciugò in fretta e con l’asciugamano attorno ai fianchi non resistette all’impulso di andare a vedere se quei benedetti occhiali misteriosi fossero ancora lì. No. Non c’erano.
Quindi era davvero venuto qualcuno a casa insieme a Takao e per giunta era poi tornato dopo che lui era uscito per riprendersi gli occhiali.
Non capiva perché ma l’idea del suo coinquilino in quella casa, solo con qualcun altro…. Lo metteva in agitazione. Andò in giro a guardare se fosse stato abbandonato qualche altro suppellettile, o peggio, qualche indumento.
Setacciò tutta la casa fino a che non rimase solo la camera chiusa dove dormiva il suo convivente e in cui non poteva entrare per paura di svegliarlo . Decise di andare a dormire, ma il pensiero di Takao che invitava qualcuno a casa per sfogare le proprie frustrazioni sul lavoro e per parlare dei propri problemi, proprio non gli andava giù. Magari ne approfittava per lamentarsi anche di lui.
Qualcuno ascoltava le sue lamentele e i suoi problemi. Probabilmente quel qualcuno aveva gli occhiali con la montatura nera spessa ed era la persona che aveva il permesso di asciugare le lacrime a quello che era stato il suo migliore amico.
Una persona a cui lui mostrava, senza vergogna, la sua fragilità  e a cui, probabilmente, come ringraziamento aveva regalato un sorriso vero, quello un po’ timido che gli evidenziava la fossetta sulla guancia sinistra.
Quel sorriso che lui non vedeva più da troppo tempo.
Rimase sveglio fino a quando non sentì suonare la sveglia di Takao.
 
La sveglia lo strappò ai sogni agitati in cui era caduto per sfinimento la sera precedente. Dopo che Midorima era uscito la sua mente si era categoricamente opposta all’idea di tornare a dormire, così Takao si era alzato e di malavoglia aveva steso e successivamente stirato il carico della lavatrice che aveva fatto partire quel pomeriggio.
Mentre lavorava sui colletti e curava i polsini della camicia preferita di Shintarou gli tornò alla mente l’espressione seria che gli aveva visto in volto quella sera.
Sembrava… offeso? Ferito?
Non  era riuscito a far combaciare quella sensazione con il solito caratteraccio dell’uomo per cui si era interrogato senza sosta su cosa potesse essere il pensiero che per un attimo gli aveva oscurato lo sguardo di smeraldo.
Non gli era venuta fame, quindi invece di cucinare qualcosa che avrebbe poi lasciato nel piatto aveva preferito stendersi sul divano con un buon libro da leggere.
Imponendosi di inforcare gli occhiali per non forzare la vista e si era accorto immediatamente che le lenti lo aiutavano molto. Si era poi sistemato, sovrappensiero, la montatura sul naso.
La serata era diventata notte ormai e Shin-chan non era ancora tornato così, presupponendo non lo avrebbe  fatto, con tutta calma, era andato a dormire.
Anche quel mattino la fame scarseggiava, non perse tempo a farsi il caffè, sgranocchiò due quadretti di cioccolato e di corsa si fece una doccia calda.
Nel bagno vide i vestiti di Midorima appoggiati al lavello, doveva essere rientrato a notte fonda e per la stanchezza, dopo la doccia li aveva inavvertitamente dimenticati lì. Senza batter ciglio piegò con cura la giacca e i pantaloni mentre la camicia finì nel cesto della roba da lavare.
Si spogliò, si infilò sotto al getto caldo e lì restò fermo, immobile per quelle che gli parvero ore. Lo scroscio dell’acqua copriva ogni suono e il vapore caldo che saliva dal piatto di ceramica lo avvolgeva in impalpabili spire.
Sfregò bene la sua pelle fino ad arrossarla, la sciacquò con cura e infine, a malincuore uscì per asciugarsi. L’aria fresca del bagno gli fece venire la pelle d’oca. Coprendosi con un asciugamano pulito aprì la porta e si diresse in camera.
Era in ritardo e doveva ancora vestirsi. Ingarbugliandosi con calzini e pantaloni  e annodando la cravatta mentre aveva ancora la camicia sbottonata si avviò verso la porta. In tutto il suo contorcersi dietro al vestiario e alle scarpe, non sentì la porta della stanza accanto alla sua aprirsi né vide l’espressione perplessa del suo coinquilino che lo studiava mentre stava in bilico su un piede ancora mezzo svestito con una manica della giacca già infilata.
-Sei senza speranza, lo sai Takao?-
Quel tono annoiato e familiare lo bloccò e quel secondo bastò per farlo rovinare scompostamente a terra.
-S-Shin-chan, buongiorno! Spero di non averti svegliato… sì insomma… di non aver fatto troppo rumore…-
Perché era così teso? Gli sembrava di soffocare.
-Non mi hai svegliato. Mi è suonata la sveglia.-
Era solo un’impressione  oppure anche la voce di Shintarou era strana? Gli sembrava che fosse meno irata, più formale forse.
Si raddrizzò e finì di vestirsi, si tastò le tasche alla ricerca della massa estranea degli occhiali e sentendoli in tasca si voltò salutando.
-Buona giornata, io vado.-
Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle gli giunse il sussurro del suo coinquilino:
-Anche a te.-
Rimase fermo sul pianerottolo pensando di esserselo sognato, poi giunse alla conclusione che probabilmente il sonno e la fretta gli avevano giocato un brutto scherzo.
La giornata era iniziata di corsa e proseguì anche peggio. Il suo responsabile in ufficio lo prese da parte per fargli una bella lavata di capo sull’assenza del giorno prima. A quanto pareva non era ammissibile che un apprendista stesse male e se andasse prima della fine dell’orario lavorativo.
La sua scrivania era ancora più ingombra di carte, documenti e plichi da leggere. Inforcò gli occhiali e con la rassegnazione di chi non ha più alcuna velleità di miglioramento, si mise al lavoro.
A testa china  lesse, timbrò, ricopiò e appuntò pile e pile di dati inutili. Saltò persino la pausa pranzo per riuscire a finire ad un’ora decente, eppure, nonostante i suoi sforzi riuscì a uscire dall’ufficio che era tarda sera.
L’aria fredda gli gelava le mani e la punta del naso, ma Takao non aveva voglia di andare a casa. Era stanco.
Ecco quale era la verità. Stanco di tutto.
Non sopportava più l’odore del detersivo per i pavimenti, non tollerava di vivere nel terrore del giudizio e delle prese in giro di Midorima, non voleva più passare ore e ore a fare il segretario invece di imparare a fare l’avvocato.
Era arrivato al limite.
Ma cosa poteva fare? Cambiare detersivo? Andarsene? Lasciare il lavoro e ammettere di aver gettato la spugna? Non sapeva più cosa fare.
 Si trascinò fino al parco.
A quell’ora era deserto e la luce dei fari che illuminavano i campetti da street basket non arrivava sui sentieri di terra battuta. Si addentrò nel buio vagando a memoria attraverso il silenzio magico di quel luogo ricco di ricordi. Da quando conosceva Shintarou aveva frequentato quel posto quasi quanto la scuola. Era lì che il suo migliore amico si vedeva con i suoi vecchi compagni della scuola media Teiko, era lì che si incontrava la famosa Generazione dei Miracoli per fare qualche partitella in amicizia. Era lì che anche lui aveva iniziato a giocare con loro fino a che non faceva buio.
Quanto era bello a quei tempi.
Senza accorgersene era arrivato all’entrata del campo da basket, i piedi calzati nelle scarpe eleganti urtarono la fila ordinata dei palloni spedendo una delle palle color mattone al centro del campo.
Senza pensare, rispondendo solo all’istinto, scattò in avanti, agguantò il pallone e saltando con una torsione del busto lanciò. Canestro.
Cavolo, dopo solo trenta secondi aveva già il fiatone. Era proprio invecchiato. Palleggiando lentamente si interrogò su quanti degli obiettivi che aveva da ragazzo avesse raggiunto.
Sognava di continuare a giocare e invece, appena iniziati gli studi universitari aveva smesso per mancanza di tempo,  voleva finire gli studi e diventare avvocato ma tutte le sue belle speranze si erano arenate contro un muro invalicabile. I suoi superiori. Voleva andare d’accordo con Shin-chan e rimanere amici per sempre e… ancora una volta le cose andavano al contrario… ormai erano quasi due sconosciuti, si parlavano perfino come due perfetti estranei.
-Ma guarda se lì con la palla non è quel damerino di Kazunari!-
Una voce roca e profonda lo scosse dalle sue malinconiche riflessioni. Voltandosi vide solo un’imponente figura maschile avanzare nell’oscurità del sentiero.
Un attimo dopo Daiki Aomine entrò nel cono di luce del campo.
 
-È tardi, cosa ci fai qui Aomine? Non sei a pattugliare le strade con la tua bella uniforme blu?
Da dove gli usciva quel sarcasmo?
Il sopracciglio affilato del moro si inarcò leggermente .
-Potrei farti la stessa domanda. Cosa ci fai qui a quest’ora in giacca e cravatta con il pallone in mano?-
Emise un sospiro che Takao non potè fare a meno di imitare. Era forse un luogo di riflessione per quelli come loro? L’unico santuario per i ricordi di quando erano spensierati e felici?
-Non so cosa vuoi fare, ma la tua faccia la dice lunga su come stai. Ti sei guardato allo specchio di recente?-
Il tono gentile con cui aveva fatto la domanda strideva con il suo aspetto selvatico e la sua espressione imbronciata.
Abbassò lo sguardo. Sì, si era visto. Aveva già notato le occhiaie e la pelle grigiastra, per non parlare del fatto che i vestiti gli andavano grandi. Doveva aver perso almeno cinque o sei chili negli ultimi sette mesi.
-Cosa vorresti dire? Che non ti piaccio più?-
Cercò inutilmente di fare dell’ironia, di provocare il poliziotto che reagì in modo inaspettato: sorrise.
-Tu credi che questa situazione sia senza via d’uscita, che quello che fai sia tuo dovere  e che nessuno possa farlo al tuo posto. Sbaglio?-
Lo guardò con intenzione, incoraggiandolo a contraddirlo.
No. Non sbagliava. Ma come poteva quell’idiota tutto muscoli e niente cervello capire quelle cose?
-Non sono cose che ti riguardano.-
Daiki sorrise, con quel sorriso sfrontato che mieteva vittime femminili ad ogni angolo.
-Hai ragione, ma lascia che ti racconti una storia, ti va? Sembra che tu non abbia molto di meglio da fare.-
Si lasciò cadere con eleganza felina sul pavimento di cemento. Takao, che effettivamente non aveva alcun impegno impellente decise di stare al gioco. Appoggiando le spalle alla rete si mise comodo per ascoltare quel che l’altro aveva da dire.
-Ho un amico, anzi, un amico un po’ speciale, che fino a qualche settimana fa lavorava come uno schiavo, facendo più ore dell’orologio. Non stava vivendo, non stava mai a casa, non parlava coi suoi amici, nemmeno con me, e alla fine sai cosa ha fatto? È  crollato. La sua mente non reggeva più la separazione tra la sua vita e il resto del mondo.-
Fece una pausa intenzionale.
-Quell’amico ha deciso di cambiare ritmo. Ora dorme a casa, mangia cibo vero ad orari consoni e nei fine settimana trascorre il tempo in panciolle a letto o occupando il tempo a seguire le sue passioni. Ora è riuscito a mettersi in pista, ha ricevuto una promozione e la sua carriera procede nel migliore dei modi.-
Takao era sconcertato. Perché quel deficiente gli stava sbattendo in faccia tutto ciò che lui non aveva? Lui non aveva un orario normale, non mangiava pasti “veri”, dormiva quando capitava, spesso e volentieri in metropolitana, nei fine settimana faceva i lavori di casa arretrati e si occupava del bucato di Midorima. Lui non aveva tempo libero.
Lui non si fermava mai.
Cercando di dominare la collera e lo sconforto domandò:
-Perché mi racconti tutto questo? Non sai cosa sto passando.-
Il moro rise di gusto.
-E pensi che ci voglia un genio per capire che stai arrivando al punto di rottura?-
L’avvocato rimase interdetto. Era davvero così semplice capire?
-Cosa ne vuoi sapere eh?! Non sai cosa vuol dire lavorare come uno schiavo sapendo che non cambierà niente! Non sai cosa significhi inseguire un sogno che si fa sempre più lontano! Tu non sai quanto sia difficile vivere in una casa che sembra ridursi ad un porcile ogni volta che giri gli occhi! Non sai cosa significhi sentirsi gridare dietro ogni santo giorno perché invece di spazzare il pavimento hai dormito due ore!!! TU NON SAI NIENTE!!!-
Aveva iniziato a parlare con calma, quasi bisbigliando ma poi il vortice di sentimenti, frustrazione e dolore che aveva in corpo lo aveva travolto portandolo a urlare come un pazzo in faccia a qualcuno che cercava, a modo suo, di aiutarlo.
Ingobbì le spalle.
-P-peronami. Non so che mi sia preso.-
Una forte risata gli giunse in risposta. Aomine stava letteralmente morendo dalle risate: sobbalzava tenendosi le mani schiacciate sulla pancia scolpita.
Quando finalmente l’eccesso di risa finì e le lacrime furono asciugate, il moro parlò:
-Finalmente! Finalmente ho sentito Kazunari Takao lamentarsi! Credo sia la prima in quasi dieci anni che ti conosco! E ti sei anche lamentato di quello stronzo di Shintarou! Sappi che la mia stima nei tuoi confronti è appena raddoppiata.-
Cosa significava? Certo che si era lamentato, si lamentava di continuo… no… aspetta… quando si era davvero lagnato  di qualcosa negli ultimi tempi? Non lo ricordava.
Daiki parve indovinare i suoi pensieri.
-È la prima volta, fidati. Sappi che adesso sarà più facile parlare e, visto che stasera mi sento un buon samaritano, se ti accontenti di me ti porto a bere qualcosa e ascolterò le tue pene.-
Perché quell’offerta gli sembrava come un salvagente gettato ad un disperato che stava annegando? E soprattutto, perché lui si sentiva esattamente sul punto di annegare?  
 Cosa aveva da perdere? Accettare un invito a bere in fondo non era nulla di eccezionale. E così…
-Va bene Aomine, però offro io.-
La risata che gli giunse in risposta era impastata di parole che somigliavano a un “era ovvio”.
Per la prima volta da tempo immemore, Takao sorrise.
In un bar anonimo e senza insegna i due parlarono molto bevendo birra; erano tenuti stranamente d’occhio dal proprietario ma quando il discorso divenne serio se ne dimenticarono.
Lì, immerso in quel caldo speziato bozzolo di legno grezzo, il neo-avvocato Kazunari parlò. Parlò a lungo con calma e rassegnazione delle frustrazioni sul posto di lavoro, delle prospettive che non aveva e soprattutto delle false speranze che gli davano i soci anziani. Parlò della stanchezza, della voglia matta di mangiare a tavola con qualcuno invece che addentare qualcosa di freddo correndo per strada. Confessò la sua passione per l’ordine e la pulizia, di come curare casa sua lo rilassasse ma ammise anche che il tempo a sua disposizione era troppo poco per potersi dedicare a quell’occupazione per trarne piacere.
Infine, forse un po’ sciolto dalla birra, forse un po’ dalla chiara sensazione che il suo interlocutore non lo stesse giudicando, arrivò a parlare di Shintarou Midorima.
-Gli voglio bene, è il mio migliore amico e tutto… ma… perché deve per forza essere prepotente? Perché deve per forza comportarsi in modo così crudele? Io faccio ogni cosa mi chieda e fino a quando avevo tempo non c’era alcun problema… ma adesso… adesso non ho nemmeno il tempo di mangiare, come posso star dietro ad ogni sua pretesa? Io non posso…-
Non sapeva come concludere la frase.
-Continuare così.-
La voce roca e bassa di Aomine aveva colto nel segno ma il rendersene conto lo fece stare, se possibile, ancora peggio.
Buttò giù d’un fiato tutta la birra che gli restava nel boccale.
-Non sei tu il cattivo Takao, non sei tu a sbagliare. Se c’è una cosa di cui, se proprio vuoi, ti puoi incolpare è l’essere stato troppo paziente, troppo tollerante.-
Un sospiro lungo e stanco gli sfuggì dalle labbra. Aveva proprio bisogno di sentirselo dire. Di non aver sbagliato. Di non aver fatto un pasticcio. Di aver davvero dato ogni cosa e forse anche qualcosa di più.
-E adesso?-
Quella domanda aleggiava nell’aria da quando era esploso al campetto.
Gli occhi di zaffiro in cui puntò lo sguardo sorridevano.
-Adesso apri le ali e vola.-
Probabilmente l’espressione che fece fu eloquente perché il moro ridacchiò.
-Intendo dire che devi prendere in mano le cose. Decidi tu adesso. Non vuoi lavorare lì? Puoi permetterti di lasciare il lavoro e di cercarne uno nuovo? Decidi tu ora. Hai abbastanza risparmi per lasciare quella casa e liberarti della matrigna cattiva? –
Gli scappò da ridere nell’immaginare Shintarou negli abiti della matrigna di Cenerentola.
-Quindi dovrei mollare il lavoro e cambiare appartamento?-
Solamente dirlo gli fece venire le farfalle nello stomaco. Lui poteva davvero andarsene. Non doveva niente a nessuno e adesso che la clinica era avviata sicuramente Midorima non aveva bisogno di qualcuno con cui dividere l’affitto.
Aomine annuiva sorridendo.
-Vai Cenerentola, scappa verso la tua nuova vita.-
Ormai ridacchiava senza controllo e Takao si accorse che alla risata del poliziotto si era unita la sua.
 
Shintarou rientrò tardi a casa, il profumo di pulito alleggiava ancora nell’ambiente che ormai gli era diventato così familiare. Nessuna luce accesa. Probabilmente Takao stava già dormendo e quindi, anche in quell’occasione non si sarebbero scambiati nessun’altra parola.
Ormai si vedevano così di rado che a stento poteva dire di convivere.
Quando si vedevano lo sgridava quindi probabilmente il suo coinquilino ricordava alla perfezione la sua voce mentre lui… quant’era che non faceva una vera conversazione con il suo migliore amico?
Sbuffò. Era stanco, aveva mal di testa e doveva farsi una doccia. Detestava tenersi addosso l’odore delle sue partner. Si diresse verso il bagno e passando davanti alla camera di Takao notò che era vuota: la porta era aperta e all’interno, nel buio, poteva chiaramente vedere il grande letto matrimoniale perfettamente intonso.
Ma dove  diavolo era? Ancora al lavoro? Tornando verso casa avrebbe giurato di aver visto le finestre dello studio legale tutte buie. Che lo avessero portato in tribunale? No… non c’erano udienze a quell’ora.
Magari una cena tra colleghi? Strano, da quel che gli era parso il suo convivente non aveva un buon rapporto con nessuno.
Si spogliò e mentre si infilava nel box doccia sentì la porta dell’appartamento aprirsi. Era rientrato.
Veloce come un fulmine agguantò l’asciugamano, se lo drappeggiò sui fianchi e si sporse dalla porta del bagno in silenzio.
Il suo migliore amico stava parlando al telefono e a intervalli ridacchiava come un ragazzino.
Quell’espressione felice da dove veniva?
-… si, grazie della bevuta, ti telefonerò per dirti come è andata…. Ok…. Buonanotte!... E non chiamarmi Cenerentola!-
Riattaccò.
Un dialogo decisamente strano. Quindi era stato fuori a bere con una persona che conosceva e con cui aveva confidenza… Qualcuno che lo chiamava… Cenerentola e lo faceva ridere.
Gli venne subito in mente la persona degli occhiali.
Doveva essere stata lei a portarlo a bere e a farlo divertire tanto da tirargli fuori quel sorriso così spensierato.
-Ciao Shin-chan!-
Quanto entusiasmo per un saluto. Eppure c’era qualcosa di finto… di artificioso.
-Ciao Takao. Come mai sei rientrato così tardi?-
Perché la sua voce doveva essere così petulante e accusatoria?
-Sono uscito con un amico a bere una birra. Ci siamo messi a parlare e sai come va… ho perso di vista l’orologio! Quattro ore capisci? Ahahahahah! Domani non mi alzerò mai!-
Era fin troppo allegro per essere la stessa persona che quella mattina a stento riusciva a badare a se stessa.
-Buon per te. Buonanotte.-
Girò sui tacchi e si chiuse violentemente la porta del bagno alle spalle. Sotto il getto della doccia si strofinò la pelle con rabbia e il nervosismo non accennava ad andarsene.
Ma… un attimo… perché era così arrabbiato?
Era forse irritato perché qualcun altro aveva fatto per il suo coinquilino quello che avrebbe dovuto fare lui in onore dell’amicizia che li legava? Possibile.
Ma non avrebbe comunque potuto farlo, il tono e i gesti del suo convivente erano stati chiari: lui non aveva più il diritto di preoccuparsi per lui.
Aveva perso l’onore di poter essere la spalla su cui il suo amico potesse piangere e le braccia che potevano abbracciarlo per confortarlo. Lui si era allontanato, lo aveva maltrattato, lo aveva deriso e adesso, quello che si meritava era di essere trattato come un estraneo.
Perché faceva così male? In fondo se l’era voluta lui. Ogni volta che lo trattava male, ad ogni litigata, lui era consapevole di ferirlo eppure infieriva per nutrire quel lato mostruoso di sé che si ostinava a tenere nascosto.
Lui era crudele, sapeva di esserlo, si sentiva bene ad infliggere sofferenza alle persone che reputava talmente importanti  da non poterne fare a meno. Ed ecco che Takao era divenuto la sua vittima.
Kazunari Takao, l’unico vero intimo amico che aveva. Gli altri amici che  aveva non erano così intimi. Sbattendo un pugno contro il muro, per la prima volta nella propria vita Midorima Shintarou si detestò.
Odiò essere come era, si nauseò del suo comportamento e si pentì di non essere in grado di esprimere a parole quei sentimenti che sentiva ribollire nello stomaco.
Non dormì. Quella notte elaborò il metodo meno traumatico per chiudere la faccenda con Aya Sakamoto, carina, decisamente fantasiosa e sessualmente esuberante ma a parte questo la sua personalità era ciò che di più standardizzato potesse esistere. Una noia mortale. Aveva assaggiato la mercanzia, aveva un buon sapore, ma alla lunga diventava stancante.
La giornata lavorativa iniziò con gli incontri nelle scuole, stipulò diversi contratti di collaborazione che gli avrebbero garantito pieno accesso alle squadre dei club sportivi e quindi la possibilità di aiutare chiunque avesse bisogno.
Era bravo ad aiutare quei disgraziati, con loro era gentile, e allora perché con Takao non riusciva ad esserlo mai?
Durante la pausa pranzo decise di lasciare lo studio e camminare. Muoversi lo aveva sempre aiutato a pensare. Doveva riflettere su cosa fare.
L’oroscopo quella mattina era stato catastrofico. A quanto pare il suo segno era uno dei tre peggiori della giornata. Era probabile che avrebbe dovuto affrontare dei grandi cambiamenti e che le sue azioni avrebbero determinato se questi divenissero positivi o estremamente negativi. L’oggetto del giorno era una cipolla e quindi, come sempre, l’ortaggio era nascosto in una tasca del suo camice sotto il lungo cappotto nero.
Camminò a lungo, riflettendo, passò accanto ad una tavola calda che dava sul marciapiede e mentre osservava distratto le coppiette e le famiglie sedute ai tavoli, riconobbe, non senza un certo imbarazzo, Kise Ryouta e Aomine Daiki seduti al tavolo a chiacchierare. Sperando di non essere riconosciuto incassò la testa nella sciarpa e guardandosi le scarpe accelerò il passo.
-Dove credi di andare Midorimacchi?!-
La voce squillante del biondino aveva fatto girare tutti nel raggio di cinquanta metri. Per evitare scenate e imbarazzanti inseguimenti Midorima decise di sacrificarsi per il bene della propria immagine rispettabile.
Il locale profumava di frittelle e gelato, si sedette al tavolo con i due ex compagni di squadra.
-Aomine, Kise, quanto tempo.-
Aveva voglia di essere ovunque tranne lì ma la speranza di cavarsela in fretta lo rese loquace.
Daiki sorridendo sornione rispose:
-Sono proprio fortunato, stavo giusto raccontando a Ryo-chan che  ieri sera sono andato a bere con Takao. Il poveretto è esploso malamente e ho dovuto fare la crocerossina.-
Ryo…-chan? Che storia era mai questa? E Kise? Perché non faceva una piega? Anzi… perché arrossiva?
-Quindi era con te ieri…-
Ebbe una folgorazione.
-Quindi sei tu che lo chiamavi Cenerentola!-
Lo stupore gli impregnava la voce.
Kise iniziò a tossire mentre il frappè alla vaniglia di usciva dal naso. In tutto quel casino e quel frappè era inequivocabile che stesse guardando di traverso il moro.
Aomine iniziò a ridacchiare imbarazzato.
-Ma sì, era solo uno scherzo. Dopo tutte le confidenze che mi ha fatto… beh ho iniziato a prenderlo in giro perché è vessato, maltrattato e schiavizzato da una certa “Matrigna cattiva” proprio come Cenerentola.
Colpito e affondato.
La rabbia di Shintarou nei confronti del poliziotto era ormai arrivata a livelli critici. Per prima cosa, quello stupido aveva usurpato il suo posto e aveva fatto sfogare Takao, in secondo luogo aveva visto un lato del suo coinquilino che nemmeno lui aveva mai visto: la rabbia. Terzo, si era permesso di dargli un nomignolo carino.
-Daiki, credo che tu stia facendo arrabbiare Midorimacchi, lo sai?-
Un Kise ripulito e alquanto pacato appoggiò con gentilezza una mano sulla spalla del mastodontico meticcio.
-Ryota, ti ho spiegato che se lo merita! Questo stronzo ha portato la persona che più di tutte a questo mondo gli vuol bene, solitamente pacata e remissiva, al punto di urlarmi in faccia come una matta in mezzo al parco solo perché gli avevo consigliato di darsi una calmata con il lavoro.-
Aomine era proprio arrabbiato.
-Te lo dico chiaro Shintarou, sei un coglione. Quel ragazzo in dieci anni non ha mai dato alcun segno di cedimento perché il suo affetto nei tuoi confronti era totale e tu? Come lo hai ringraziato? Urlando! Disprezzandolo! Maltrattandolo! È ovvio che quel poveraccio sia uno straccio! Io sono stato solo ad ascoltarlo eppure non la smetteva di ringraziarmi, per averlo portato fuori, per averlo ascoltato, per avergli dato la possibilità di parlare. Dieci anni che vi conoscete e tu non hai mai fatto una cosa simile per qualcuno che si è occupato di te come una moglie? Sei un verme!-
Di nuovo l’intervento salvifico.
-Daiki, calmati, ci stanno guardando tutti. Non puoi pretendere che Midorimacchi cambi di punto in bianco. Dalla sua faccia direi che sapeva già tutto quello che gli hai detto. Ora lascia che risolva lui le cose.-
Poi rivolgendosi al medico ancora sotto shock per l’assalto di Aomine:
-Shintarou, se non vuoi perderlo, io ti consiglio di fare chiarezza nei tuoi sentimenti. Tu lo hai dato per scontato in tutti questi anni ed è la cosa più crudele che potessi fare nei suoi confronti. Prima di parlare con lui, decidi, dentro di te, che tipo di legame vuoi ci sia tra voi, se vuoi che ci sia, ovviamente.-
Si ritrovò ad annuire in silenzio.
I due si alzarono e mentre un ancora incavolato Daiki andava a pagare il conto, Kise gli sussurrò:
-Io amo quel suo temperamento focoso, ma non amo solo questo di lui. Prima di rendermene conto mi sono fatto del male e lui stesso prima di capire che ricambiava il mio amore ha passato un bel travaglio interiore. Ma adesso siamo insieme e ci amiamo. Sarà difficile, ma ci siamo scelti e ogni giorno, continuiamo a sceglierci. È bello tornare a casa e sapere che qualcuno ti aspetta.-
Una grande mano scura afferrò il polso candido e sottile dell’ex modello.
-Andiamo a casa Ryota. Midorima, buona giornata.-
-Ciao Midorimacchi! Fammi sapere come va!-
Ed ecco che trascinato dal gigantesco compagno, Ryouta fu portato via.
Era una sorpresa quella della loro relazione. O forse no. Erano sempre andati molto d’accordo… Riportò i pensieri su questioni più urgenti.
Se era davvero Daiki ad aver portato a bere Takao, di chi erano quei benedettissimi occhiali? C’era qualcun altro?
 
Le valige erano pronte, guardare la sua stanza vuota lo riempiva di dubbi ma sapeva che se fosse rimasto lì avrebbe solo potuto affondare di più. Aomine aveva ragione. Doveva dare una svolta alla sua vita.
Non appena aveva sentito Shintarou uscire per andare al lavoro si era alzato dal letto e aveva iniziato a raccogliere le proprie poche cose. Quella notte non aveva chiuso occhio però era riuscito in buona parte a crearsi un piano d’azione. Verso metà mattina, dopo aver lasciato squillare a vuoto il cellulare una trentina di volte, si degnò di rispondere. Era il suo responsabile allo studio che ovviamente gli stava per fare la paternale ma…
-Io mi licenzio. Addio.-
Dicendo quelle fatidiche parole aveva interrotto sul nascere ogni ramanzina. Aveva attaccato sentendosi mille volte più leggero.
Entro mezzogiorno si trovò nell’ingresso, vestito con la sua vecchia tuta dello Shuutoku che sembrava appartenere ad un fratello più grande tanto gli era abbondante, con a fianco una valigia, uno zaino e la sua vecchia ventiquattrore.
Sei anni di vita trascorsi in quell’appartamento e tutto quello che aveva da portare via erano pochi vestiti, qualche libro e una tazza. Sembrava che non avrebbe lasciato nessun vuoto lì.
Con l’amaro di quest’ultimo pensiero in bocca, lasciò la propria chiave nel piattino di fianco alla porta e uscendo si chiuse la porta alle spalle.
Il suono metallico della serratura che scattava chiude definitivamente un capitolo triste e faticoso della sua vita.
Per prima cosa doveva trovare una sistemazione temporanea, almeno per quella notte. Facendo qualche telefonata riuscì a trovare una stanza d’albergo non troppo lontana dall’aeroporto a un prezzo più che ragionevole. Trascinando il grosso bagaglio a rotelle si incamminò verso un domani più che ma incerto.
Passò davanti alla pasticceria che aveva aperto Murasakibara, un altro membro della Generazioni dei Miracoli e compagno di Midorima, e decise di entrare.
Il profumo che aleggiava all’interno del grazioso negozio era decisamente invitante.
-Taka-chin! Quanto tempo! –
Lo osservò meglio.
-Cosa ci fai con quella valigia enorme? Vai da qualche parte?-
Troppo tardi per tornare indietro e nascondere il bagaglio. Tanto valeva dire a verità.
Guardò il gigante pasticcere che stava al di là del bancone e lo guardava con una strana espressione tra l’annoiato e il curioso.
-Sto andando verso l’hotel “Torre d’oro”, quello vicino all’aeroporto. Io… ho deciso di andarmene.-
L’espressione sbigottita che vide comparire su quel volto sempre inespressivo lo lasciò interdetto.
-Tu, stai dicendo sul serio? Stai lasciando Mido-chin finalmente?-
Eccone un altro.
A quanto pareva tutti pensavano che fosse davvero il momento di dire “basta”.
E lui lo aveva fatto. Aveva davvero detto basta. Se ne era andato.
-Hem… come dire… non era più giusto che stessimo nello stesso appartamento.-
Accendendosi di pura curiosità il gigante chiese:
-E lui? Come l’ha presa?-
Ta-dan! Il tasto dolente.
-Non gliel’ho detto. Me ne sono andato e basta.-
Scoppiò un applauso che sparò una nuvola di farina tutto intorno a loro.
-Grande Taka-chin!
Senza che dovesse chiedere Murasakibara prese una confezione e la riempì con un dolcetto di ogni varietà presente sul grande bancone. Impacchettò il tutto e glielo porse.
-Magia questi, vedrai che starai alla grande senza quel gran egoista, anche se so che gli mancherai.-
Takao non voleva pensare a quello che aveva fatto così decise di cambiare discorso.
-E tu Atsushi? Come va la vita? Come sta quella ragazza così carina e dolce con cui uscivi qualche mese fa?-
Domanda sbagliata. Il pasticcere si adombrò e le spalle imponenti si ingobbirono.
-Kanna mi ha lasciato. Ha detto che a stare con me si fa del male. A quanto pare sono troppo forte e qualunque gesto io facessi… era come se la colpissi…-
Il dolore nelle sua voce era palpabile. Aveva decisamente sbagliato argomento.
-Mi dispiace, non avrei chiesto se avessi saputo…-
Un sorriso triste piegò le labbra sottili del suo interlocutore che scosse la testa.
-Non preoccuparti Taka-chin, va tutto bene. Ora, vai, ho da sfornare il pan di spagna. Buona fortuna!-
Detto questo il gigantesco pasticcere scomparve nel retro del negozio.
Uscendo nell’aria fredda del primo pomeriggio Takao decise di percorrere a piedi anche il restante pezzo di strada fino all’albergo.
Mezz’ora dopo si stava maledicendo in tutte le lingue che conosceva.
Chi gli aveva ordinato di trascinarsi quel bagaglio pesantissimo per strada? Chissà perché, quei tre isolati che lo separavano dall’albergo sembravano essere triplicati. Perché la strada si stava allungando invece di accorciarsi?
-TAKAO!-
Una voce inconfondibile. Chiuse gli occhi per un secondo. Ecco che il suo terrore più grande si stava rivelando concretamente. Shintarou.
Si voltò e lo vide correre sul marciapiede opposto con il camice bianco che ondeggiava. Lo guardò accelerare a testa bassa e gettarsi sconsideratamente in mezzo alla strada per raggiungerlo. Il camion non avrebbe fatto in tempo a frenare. Takao vide tutto come a rallentatore e… fortunatamente riuscì a sventare la tragedia.
Afferrò Midorima per un braccio e lo tirò con forza sul suo lato del marciapiede un attimo prima che il mezzo pesante in uno stridore di freni arrivasse dove poco prima si trovava il medico.
Malamente ammucchiati sul marciapiede, l’uno nelle braccia dell’altro ansimavano ancora per lo spavento.
Stranamente fu proprio l’avvocato a riprendersi per primo.
-Ma che diavolo pensavi di fare? Ti sei bevuto il cervello? Ma ti rendi conto che stavi per ammazzarti? Possibile che non pensi mai alle conseguenze delle tue azioni?!?!? Che questo accada nei confronti degli altri, passi, sei fatto così e nessuna sa meglio di me quanto sei cocciuto e insensibile; ma che tu metta a rischio te stesso è intollerabile! È INACCETTABILE!-
Aveva il fiatone dopo aver gridato tanto, ma non aveva finito.
-Allora?! Non ti rendi conto nemmeno di questo? Perché ti comporti così?-
Non voleva sentire le risposte. Non voleva e basta perché faceva male averlo lì, così vicino, col volto rivolto a terra. Non aveva ancora emesso un suono. Takao chiuse gli occhi. Non aveva più il diritto di fare nulla per lui. Lo aveva deciso uscendo da casa con l’intenzione di non ripensarci.
-Torna a casa Midorima.-
Fece per alzarsi, staccandosi dal grande corpo che aveva trascinato a terra con sé ma due lunghe braccia lo circondarono bloccandolo.
Rimase di sasso.
Shintarou, l’insensibile, il crudele, l’odioso tiranno lo stava abbracciando stretto appoggiando la testa al suo petto.
Il cuore gli fece una capriola e poi un’altra.
-Sh-Shi-Shin-chan…?-
-Non andare.-
Probabilmente non aveva sentito bene. Le parole soffocate dalla giacca su cui l’altro appoggiava il viso erano impastate.
-C-cosa?-
Il corpo a cui era così vicino fu scosso da un tremito.
-Non andartene!-
La voce stavolta era chiara, limpida e forte. Non osava abbassare lo sguardo ma era certo che adesso Midorima stesse guardando verso di lui. No. Non poteva dire quelle cose, non in quel momento. Non quando  aveva finalmente scelto di andarsene.
-Io devo farlo. Così non posso continuare.-
Le braccia attorno a lui lo strinsero più forte.
-Non voglio che tu te ne vada.-
Parole che non pensava di sentir pronunciare mai  da quel testone, adesso venivano ripetute fino alla nausea. Eppure non voleva crederci. In cuor suo era felice ma anche spaventato.
Si era fidato per così tanto tempo, si era davvero prostituito per rimanergli accanto in nome dell’amicizia e dell’affetto. Adesso basta. Non poteva più permettersi di credere. Di sperare.
Non voleva cedere ad un’altra pretesa.
-No. Shin-chan, io non posso ascoltarti, non stavolta. Mi dispiace.-
 
Dopo la sfuriata di Aomine e le parole di Kise, Shintarou non se la sentiva di tornare al lavoro, quindi chiamò Aya e dopo averle chiesto di chiudere lo studio, le fece presente che non era necessario si facesse trovare al lavoro nei giorni successivi.
Era stato crudele a trattarla così, ma in fondo, di lei non gliene era mai fregato nulla. Lo aveva messo in chiaro; per questo, non si scompose quando alle sue parole lei rispose con un semplice “Va bene Dottore”.
Vagò per le strade che gli erano familiari, guardando le persone vivere la loro vita in tranquillità e avrebbe continuato così chissà per quanto se all’improvviso non avesse avvertito una certa urgenza.
Non sapeva dire cosa lo avesse spinto a tornare a casa ma aveva fatto le scale di corsa e aperto la porta come se dentro dovesse cogliere sul fatto un ladro.
Niente.
La casa era silenziosa come al solito, La luce del sole filtrava dalle tende del piccolo salotto e brillava sui dorsi rilegati del libri di legge che  Tak…. No aspetta… dove erano quei libroni che sembravano così noiosi?
Preso da una paura atavica a cui non sapeva dare un nome si precipitò nella stanza del suo convivente. Spalancò la porta e il fiato gli restò imprigionato in corpo.
Era vuota. Gli scaffali di legno erano stati diligentemente svuotati e ripuliti, i cassetti erano aperti per far prendere aria al loro interno così come anche l’armadio dentro cui ormai pendevano solo grucce vuote. Niente più abiti tristemente eleganti. Niente più cravatte dai colori spenti.
La scrivania era pulita, vi era rimasta sopra solamente la vecchia lampada rossa. Uno dei loro primi acquisti. Erano anni che non vedeva il colore del ripiano: da che aveva memoria era sempre stato ingombro di carte e di appunti.
Ma il particolare più triste era vedere quel grande letto matrimoniale tristemente disadorno, senza lenzuola, senza la sua solita coperta aggiuntiva. Quella coperta di pile verde che gli aveva regalato anni prima per Natale.
Sembrava così grande e fredda ora quella stanzetta che aveva sempre reputato troppo piccola e soffocante. Ecco uno dei motivi per cui era diventata la stanza di Takao, che senza batter ciglio aveva lasciato a lui  lo spazio più grande della casa accontentandosi di quel che restava.
Uscì sbattendo la porta, aprì gli sportelli della cucina: sembrava essere tutto a posto. I piatti erano ancora puliti e allineati come se non fosse cambiato niente, ma bastò un’occhiata alla credenza per notare la più grande delle mancanze: vicino alla sua tazza verde preferita, lì, dove una volta c’era stata quella azzurra di Takao, ora c’era un vuoto.
Continuò l’ispezione, forse nella speranza di trovare un pezzetto di lui, forse per riuscire a convincersi che quello che stava scoprendo era tutto uno scherzo.
In bagno, nel bicchiere spuntava solitario un solo spazzolino da denti, il suo. Nella cesta della roba da lavare c’erano solo le sue camicie e la sua biancheria, nel frigo c’era tutto quello che avevano comprato tranne quello schifosissimo yogurt alla fragola che solo il suo coinquilino poteva apprezzare.
Tornò nell’ingresso e vide, nel piattino accanto alla porta, proprio dove aveva gettato il proprio mazzo di chiavi,  la chiave che era stata di qualcuno molto importante per lui.
E che non voleva più saperne di restare lì. Di restare al suo fianco.
Inaccettabile.
Senza curarsi di riprendere la giacca corse fino allo studio legale nella speranza di trovare Takao al lavoro ma quando giunse davanti alla segretaria quella gli riferì che proprio quella mattina Kazunari si era licenziato.
Ma… cosa aveva nella testa quello scemo? Il lavoro gli serviva, doveva fare pratica per dare l’esame di stato. E soprattutto…
Dove diavolo era andato?
Il panico per un attimo minacciò di soffocarlo. Facendo dei lunghi e lenti respiri riuscì ad arginare il baratro nero su cui gli sembrava di essere sospeso. Erano passate circa cinque ore da quando lo aveva visto l’ultima volta. Vacillò. In cinque ore poteva essere anche espatriato e volato chissà dove.
Decise di fare comunque un tentativo. Correndo, senza sapere il perché di tutta quella fretta visto come stavano le cose, si diresse verso l’aeroporto. Le strade erano ingombre, le auto sfrecciavano ma i passanti gli sembravano muoversi a rallentatore.
-Mido-chin!-
Inconfondibile. Quel soprannome era unico e solo una persona lo chiamava così: Murasakibara.
-Atsushi.-
Non sapeva cosa dire. Ma a quanto pareva non ce n’era bisogno. Il gigante in divisa da pasticcere con un baffo di zucchero a velo su una guancia sorridendogli gli indicò il viale alla sua sinistra.
-Hotel “Torre d’oro” quello vicino all’aeroporto. È passato di qui meno di venti minuti fa. E non era proprio in forma.-
Il serioso dottore, per la prima volta nella sua vita, guardando in faccia il vecchio compagno di squadra disse:
-Grazie Atsushi.-
Sospirò, era ancora in città. Non aveva ancora lasciato il Giappone. Riprese  a correre seguito dalla risata scampanellante di Murasakibara.
Percorse un bel tratto di strada guardandosi intorno alla strenua ricerca dell’unica persona di cui gli importasse davvero. C’erano poche persone in quella zona, eppure, osservandole una ad una Midorima non riusciva a individuare quella che stava cercando con disperazione crescente.
Poi, dietro a due donne con il passeggino che camminavano tranquille, finalmente vide spuntare una figura alta che trascinava arrancando un trolley grosso come una persona.
Lo chiamò a gran voce incurante dei passanti che si giravano a guardarlo. Lo osservò irrigidire le spalle prima di voltarsi. I suoi occhi azzurrissimi erano così tristi eppure quel che vi lesse oltre alla tristezza lo spinse ad accelerare il passo per raggiungerlo prima che fosse troppo tardi.
Aveva visto la ferrea intenzione di non cedere e questo, non poteva tollerarlo perché non sapeva se sarebbe sopravvissuto ad un suo rifiuto.
Si era lanciato correndo verso di lui senza pensare ad altro, in quella frazione di secondo nella sua visione periferica era entrato un camion. Nello stesso istante si era sentito trascinare da una forza quasi sovrumana verso il marciapiede, dritto tra le braccia di colui che stava cercando.
Takao lo aveva salvato per un pelo.
Ma il sollievo era durato un secondo perché l’avvocato, appena ripreso il controllo di sé aveva iniziato a sgridarlo urlandogli in faccia come mai aveva fatto prima. A pensarci, lo aveva mai sentito lamentarsi? Aveva mai dovuto ascoltare una sua ramanzina o uno sfottò? No. Mai.
Lo stupore gli impedì di interrompere quella magistrale tirata.
Incassava e incassava ancora ogni accusa, ogni rimostranza senza batter ciglio. Se era quello che serviva per farlo restare, avrebbe incassato ogni giorno.
Poi, come era iniziato, finì. Con la peggior frase che potesse sentirsi rivolgere: “torna a casa”.
No! Non sarebbe tornato a casa se non insieme a lui.
Respirò il suo profumo di pulito e il suo calore approfittando dell’imprevisto contatto e ancora una volta giurò a se stesso che non si sarebbe lasciato allontanare. Mai.
Ripetè le parole che gli bruciavano nel cervello come tizzoni ardenti:
-Non te ne andare! Non voglio che tu te ne vada!-
Strinse le sue braccia intorno a Takao nella speranza che bastasse la forza fisica a trattenerlo lì con lui.
Mille risposte e mille volte lui avrebbe fatto la stessa richiesta. Avrebbe avanzato la stessa pretesa, all’infinito se necessario.
Ma quella partita ai rilanci finì, interrotta dal brusco gesto dell’avvocato che afferrandolo con forza per le spalle lo allontanò da sé con uno strattone.
-Adesso basta Shintarou. Basta pretese, basta ordini, basta prepotenza… basta capricci! Sei un adulto maledizione! Sei un medico! Dovresti sapere cosa significa il termine “accanimento terapeutico”. Basta insistere. Basta davvero… perché io… non mi piegherò mai più alle tue richieste.-
La sua voce era ferma, atona, come se non fosse stato lui a pronunciare quelle parole.
Lo stava davvero perdendo? Era ancora lì, davanti a lui, e allora come poteva essere già così lontano?
Non poteva accettarlo. Ma cosa poteva dire di più? Cosa avrebbe potuto dire ancora per trattenerlo?
Kise gli aveva detto di riflettere su cosa volesse da Takao. Era semplice. Lui voleva tutto. Voleva vedere il suo viso, voleva parlargli, voleva discuterci e voleva far pace. Voleva condividere i ricordi, i pasti, le lacrime e i sorrisi.
Voleva essere sicuro che non lo lasciasse mai e soprattutto voleva che si fidasse di lui e si lasciasse sostenere da lui… voleva amarlo per sempre… ed essere amato da lui… per sempre.
Aspetta un attimo… amarlo?! Voleva davvero che il suo migliore amico lo amasse? E lui? Lo amava?
A pensarci bene, non era poi così impossibile. Aveva avuto una storia con un ragazzo ai tempi del primo anno di medicina. Ovviamente nulla di sentimentale.
Ritsu era un giovane talmente efebico da sembrare ad un primo sguardo una splendida ragazza. Aveva dei lucidissimi capelli neri, i tratti dolci e delle mani così sottili che, andando contro ad ogni pregiudizio pur di averlo, Midorima si era concesso di trascorrere due splendide notti di passione in sua compagnia.
Quindi era innamorato di Takao? Del suo migliore amico? Come doveva dirglielo? E, soprattutto, come avrebbe reagito alla sua confessione?
C’era il rischio che, vista la situazione, fuggisse a gambe levate e non tornasse mai più, ma… se era rimasto al suo fianco per tutti quegli anni nonostante tutto… era improbabile che scappasse senza almeno confrontarsi con lui.
Lo sentì alzarsi e spolverarsi i vestiti. Non aveva più tempo. Doveva decidere se giocarsi quella carta a costo di rischiare oppure lasciarlo andare in silenzio ritirandosi in buon ordine.
Alzò lo sguardo su di lei e tutto quel che riuscì a vedere fu una sagoma indistinta. Merda. Gli occhiali. Tastò intorno a sé alla ricerca della montatura e quando la trovò bastò un attimo per capire: distrutta.
-Credo siano finiti sotto di noi quando ti ho tirato via dalla strada. Te li ripagherò.-
Parole formali, niente a che vedere con i dialoghi a cui era abituato anche se erano molti mesi che non ne avevano uno vero.
Fanculo. Non poteva lasciare che finisse tutto così. Non ora che aveva preso atto dei suoi sentimenti. Non adesso che sapeva quel che voleva.
-Non andare via! Non puoi lasciarmi da solo! Che ne sarebbe dei miei sentimenti? Io ti amo Takao! Ti amo e credo di averti sempre amato!-
Stava… stava piangendo? Perché sentiva le lacrime scorrere calde e inarrestabili sulle guance?
-Fanculo! Non ti lascerò andare hai capito? A costo di picchiarti a sangue non ti farò andare più lontano di così da casa nostra!-
Un singhiozzo gli squassò il petto obbligandolo a tacere e subito due braccia e un corpo caldo furono attorno a lui, ma la cosa più bella fu sentirsi avvolgere dal rassicurante profumo di limone che sapeva essere solo di Takao.
-Shhhh… Non sforzarti, non piangere Shin-chan. Ho capito. Cerchiamo un posto dove parlare con calma. Qui non possiamo.-
Shintarou fu gentilmente aiutato a rimettersi in piedi. Senza occhiali non riusciva nemmeno a distinguere le proprie scarpe nere dal marciapiede scuro.
Andare da qualsiasi parte sarebbe stato difficile. Ma non poteva arrendersi. Era appena riuscito ad ottenere un confronto in cui potersi giocare ogni carta a disposizione per farlo tornare. Non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. A costo di andare a sbattere contro ogni fottuto ostacolo gli si fosse parato davanti.
Sentì le rotelle del trolley muoversi e vide la sagoma del suo migliore amico muovere qualche passo per allontanarsi da lui. Inghiottendo il terrore che provava a non vedere, rifiutandosi di cedere all’istinto di accovacciarsi e non avanzare più, mosse qualche passo incerto e subito inciampò.
Non fece in tempo a formulare un pensiero che già un braccio forte e sicuro si protese a sorreggerlo.
 
 Takao iniziava a perdere la pazienza. Gli era capitato troppo spesso di recente a dire il vero. Sentire Midorima avanzare ancora pretese nonostante se ne fosse già andato lo aveva improvvisamente risucchiato nella fogna da cui era faticosamente strisciato fuori nelle ultime ore.
Fu stranamente liberatorio urlargli contro ancora e ancora, poi, esaurito lo slancio, tacque.
Era lì, in piedi, lo sovrastava e lui non faceva alcun tentativo di alzarsi.
Continuava a fissare per terra in silenzio stringendo forte i pugni. Poi alzò lo sguardo su di lui e la confusione fiorì sul suo volto. Non poteva vederlo senza occhiali.
Aveva sentito la montatura di plastica frantumarsi sotto la sua schiena quando erano caduti a terra.
A giudicare dall’espressione contrariata di Shintarou quando la toccò, anche lui si era reso conto che erano irrecuperabili.
E poi la bomba.
Fregandosene della situazione, dei passanti e del proprio tono isterico Midorima gli sbattè in faccia i suoi sentimenti. Gli disse di amarlo e che se  fosse andato via non avrebbe saputo che farsene di quei sentimenti.
Il mondo doveva aver iniziato a girare al contrario. Shin-chan che parlava di amore? Che diceva così chiamare di amare lui? Un uomo?
Non era finita.
Lacrime grosse e disperate iniziarono a rotolare lungo quel viso che ormai gli era così familiare.
Lo stupore gli fiorì nel petto come un foro di pallottola. Tutto poteva aver visto ma mai si era sognato che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe visto il suo migliore amico piangere per lui e dirgli che l’amava.
Era così felice che avrebbe potuto volare se solo non fosse stato troppo impegnato ad accucciarsi e stringere al petto quella creatura fragile ed estranea che sembrava stesse per andare in frantumi se non l’avesse tenuta insieme con la forza.
Non era il posto adatto per farlo piangere. Non voleva che nessun altro lo vedesse in quello stato.
Lo aiutò ad alzarsi e recuperò le sue cose avviandosi per strada. All’albergo mancano meno di cento metri a piedi e lì nessuno li avrebbe disturbati.
Più che vederlo lo anticipò. Nel momento in cui la forte miopia tentò di affondare Midorima lui era già lì, pronto a sorreggerlo.
-Tieniti al mio braccio, così non cadrai. Andiamo a parlare in posto tranquillo.-
Con un silenzioso cenno d’assenso la grande mano del dottore gli afferrò saldamente  l’avanbraccio e lentamente iniziarono ad avanzare.
Arrivati nell’atrio dell’hotel Takao sbrigò in fretta le pratiche e ottenne la chiave. In ascensore nessuno dei due parlò eppure la tensione saliva man mano che si avvicinavano alla stanza.
Percorsero relativamente rapidi il corridoio di servizio ed entrarono nella stanza numero 26.
I bagagli vennero abbandonati di fianco alla porta che fu chiusa a chiave.
L’avvocato fece accomodare  Shintarou sul bordo del letto singolo che aveva prenotato per sè e andò a sedersi sull’unica sedia della stanza.
Aveva riflettuto durante il tragitto per capire cosa fosse saggio dire e cosa no. Si era interrogato su cosa significasse essere amato da Shin-chan e soprattutto si domandò, cosa ci fosse nel proprio cuore.
Era confuso ma preferì parlare col cuore in mano.
-Sono così stanco Shin-chan. Io… io mi vergogno ad ammetterlo ma non ero stanco solo della situazione al lavoro, ero stanco di sentirmi sempre e comunque in difetto nei tuoi confronti. Mi riprendevi, mi sgridavi, mi minacciavi ed io arrancavo dentro e fuori casa nel tentativo di starti dietro. Stavo sbagliando tutto. Non avevo alcun obbligo nei tuoi confronti. L’affetto che provavo e provo per te non è bastato ad arginare la marea nera che mi è cresciuta dentro. Gli incubi, gli attacchi di panico, la depressione… erano il risultato della mia lotta giornaliera contro la rabbia e contro la frustrazione che ho accumulato in questi ultimi sei anni.-
Sospirò sperando che l’altro non lo interrompesse.
-Non posso continuare così. Non con questa rabbia che mi soffoca e che mi trasforma in un pazzo furioso che aggredisce la gente. Io non sono così e non voglio esserlo.-
Un'altra pausa per mettere a posto gli ultimi tasselli.
-Quando proponesti di convivere per dividere le spese io accettai perché all’epoca ero innamorato di te. Sapevo che, anche se non esclusivamente, avevi gusti fuori dal comune. Quel ragazzo con cui sei uscito qualche volta, quello bello come una modella, era la chiara testimonianza, ai miei occhi, che in qualche modo avrei potuto attrarre il tuo sguardo dopo anni e anni trascorsi a desiderarti da lontano.-
Prese a piene a mani tutto il suo orgoglio.
-Ti ho amato per più di otto anni. Ti ho amato sul serio accettando il tuo caratteraccio e la tua prepotenza ma ad ogni ragazza, ad ogni donna, ad ogni nuova partner mi ritrovavo a pensare che quell’unica volta fosse stata un errore di valutazione. Un esperimento magari. Ho soffocato i miei sentimenti con forza perché non volevo ti accorgessi di nulla. Ora mi rendo conto che anche se non lo avessi fatto con tanta cura non te ne saresti reso conto lo stesso.-
Rise di sé stesso sentendo lo sguardo sfocato di Midorima bruciargli la pelle.
-Ho soffocato tutto perché nel frattempo tu non solo avevi smesso di considerare partner maschili, ma avevi anche iniziato a trattarmi come il tuo cameriere piuttosto che come un amico. Mi ha fatto male Shin-chan, molto male, e la situazione al lavoro non ha fatto che allargare la voragine dentro cui stavo già precipitando. Quel sentimento, non è morto, nonostante tutti i miei sforzi. Io… io credo di amarti ancora.-
Gli occhi di smeraldo di Shintarou si spalancarono per lo shock.
-Tu… tu mi amavi?-
Finalmente la sua voce, anche se ancora venata di pianto. Quella voce lo aveva interessato subito: calda, avvolgente, sensuale eppure così distaccata. L’interesse era diventato curiosità e la curiosità amore. Quell’amore era diventato la sua rovina.
-Sì. Ti ho amato tanto e a lungo. In modo diverso, probabilmente ti amo ancora. Dubito che smetterò mai. Ma questo non cambia la mia decisione di andar via. Non posso tornare a fare la vita di prima. Semplicemente non posso.-
Le spalle dell’uomo davanti a lui si incurvarono. Il silenzio si dilatò crescendo come una bolla, divenendo assordante, soffocante come se lo stessero respirando. Fu il medico a romperlo.
-Sono stato uno stronzo. Io sapevo che comportarmi così con te ti feriva, ti faceva soffrire. Sapevo che ad ogni insulto, ad ogni pretesa, ad ogni sgridata andavo incrinando la tua fiducia in me  e il tuo stesso affetto. Ma non riuscivo a fermarmi perché era l’unico modo che conoscessi per dimostrarti che ero davvero legato a te.-
Incredibile. Stava davvero ammettendo ogni cosa.
-Non volevo vedere. Non volevo pensare a cosa sarebbe successo se avessi tirato troppo la corda con te. Poi ho iniziato a vedere.-
Sospirò stropicciandosi gli occhi con le dita.
-Vedevo che le mie parole avevano smesso di ferirti come all’inizio, che non reagivi perché preferivi farti scivolare i miei insulti addosso che non cercavi più di far conversazione con me. Ho visto che mi allontanavi e mi ha fatto male. Ho voluto vendicarmi e sono stato un idiota.  Quando…-
Gli si ruppe la voce e Takao fu sul punto di andare di nuovo ad abbracciarlo. Strinse forte tra le mani i braccioli della sedia e restò fermo.
-… quando sono rientrato oggi e ho visto la tua camera vuota mi sono sentito morire. Non c’era la tua tazza, non c’erano tutti quei piccoli oggetti che mi facevano ancora sentire legato a te nonostante il silenzio di questi mesi. Nonostante la mia crudeltà gratuita. Io… ho bisogno di te e al pensiero che tu stia per decidere di andartene per sempre da casa nostra… mi sento così triste che le lacrime non si vogliono fermare.-
Lo vide passarsi rabbiosamente una manica sul volto. Le lunghe ciglia erano ancora umide e gli venne voglia di asciugarle a suon di baci per assaporare il sapore della sua tristezza.
-Ti amo. Non è giusto dirtelo così, non è corretto fartelo sapere ora, ma l’ho scoperto anche io solo in questo momento e… se serve a convincerti a restare… sono ben felice di ripeterlo. Sono disposto a farmi gridare contro da te per i prossimi dieci anni se questo mi garantirà che mi starai vicino. Sono pronto a prendermi delle grandi botte di “vaffanculo” se mi capiterà di trattarti in un modo che non ti va a genio… aaaah… che mal di testa.-
La sofferenza era evidente sul suo volto e Takao non avrebbe saputo dire se fosse solo dolore fisico o anche emotivo.
-Aspetta un attimo. Stenditi intanto.-
Senza farselo ripetere l’altro si stese occupando tutto il piccole letto e chiuse gli occhi con un gemito.
 Approfittando di quel momento di tregua il fuggitivo andò in bagno e ripiegato con cura un asciugamano lo intrise d’acqua fresca.
Si avvicinò al letto dove Midorima sembrava essersi addormentato.
Aveva delle ciglia così lunghe, le aveva sempre ammirate, così folte e ricurve come quelle di una ragazza. Accarezzò con lo sguardo quei lineamenti familiari: era sicuro che se avesse saputo disegnare probabilmente avrebbe potuto riprodurli ad occhi chiusi. Conosceva ogni ombreggiatura, ogni piccola asimmetria di quel viso.
Il respiro di Shintarou era lento e regolare, sembrava davvero dormire beato, e Takao non resistette. Non dopo la sua confessione e le sue preghiere. Lui lo amava e glielo aveva detto.
Avvicinò il suo volto a quello del medico addormentato sgombro dalla montatura degli occhiali e posò con dolcezza le labbra sulle sue.
In un attimo due forti braccia lo strinsero e lo trascinarono giù mentre le labbra che fino ad un attimo prima erano ferme e inermi si socchiudevano per lasciargli la libertà di approfondire il bacio.
Qualcosa scattò nella testa dell’avvocato e gettando alle ortiche ogni proposito fece ciò che desiderava fare da tantissimo tempo: si lasciò abbracciare e rispose al bacio come se non ci fossero problemi tra loro, come se non stesse scappando.
Le loro lingue danzavano accarezzandosi e scivolando l’una sull’altra prima lentamente e poi sempre più veloce, più profondamente mentre le mani del medico vagavano sul corpo dell’altro affamate alla ricerca della pelle.
Quando finalmente quelle grandi mani fredde toccarono la calda nudità dei suoi fianchi, Takao tornò alla ragione.
-F-fermati Shin-chan! N-non posso!-
Incurante delle preghiere, sfruttando la massa del proprio corpo massiccio Midorima rotolò trascinandolo con sé in modo da capovolgere le posizioni. Ora il suo peso premeva l’avvocato contro al materasso e per quanti sforzi potesse fare la sua preda non sarebbe riuscita a sfuggirgli.
-Shintarou! Ho detto…-
Le parole gli morirono in gola quando la bocca calda e famelica del suo migliore amico calò sulla sua divorando le sue proteste, soffocando le rimostranze, stuzzicando i suoi desideri.
Puntandogli le mani sul petto largo e sodo fece un tentativo di spostarlo ma in un attimo i suoi polsi furono intrappolati in una morsa e bloccati con forza vicino alla testiera del letto.
No. Non andava bene. Le cose avevano preso la piega sbagliata.
Non riusciva a muoversi sotto quel peso, non poteva spostare le braccia da quella posizione che lo riduceva all’impotenza ed infine, il suo corpo stava reagendo a quell’assalto brutale nel più imbarazzante dei modi.
Le sensazioni che provava erano fantastiche, erano la cosa più giusta che avesse mai sentito, ma la sua testa non sopportava la situazione. Non con tutte quelle cose da chiarire tra loro. Non quando non sapeva se riabbracciare o meno i sentimenti che aveva sepolto tanti anni prima.
Era quasi uno stupro. Non era stato lui a volerlo.
Gli occhi gli si offuscarono e le lacrime iniziarono a scendergli ai lati del volto colandogli nelle orecchie.
Fu il suo gemito a immobilizzare Midorima.
 
Takao stava piangendo. Lo stava baciando mentre le lacrime scorrevano inarrestabili verso il cuscino.
Cosa stava facendo? Non aveva detto che avrebbe rispettato la sua volontà se fosse tornato? E invece come stava andando a finire?
Abbassò il capo fino ad appoggiarlo al suo petto tremante.
Gli lasciò libere le mani maledicendosi per i segni rossi che intravide sui suoi polsi. Li vedeva anche senza gli occhiali.
-P…perdonami. Io… non merito che tu resti con me. Hai ragione…-
Prese un respiro tremante e si alzò in piedi. Barcollando a tentoni si allontanò dal letto fino ad andare a sbattere contro la parete.
-De-devo andare.-
Takao tra le lacrime poteva veder il suo volto cereo, mortificato e ferito.
-N-non riesco a… controllarmi.-
Rimettendosi in equilibrio, protendendo le mani fece qualche passo e riuscì a raggiungere la porta.
L’avvocato sapeva che se lo avesse fatto uscire, sarebbe davvero finita: Shintarou non era uno che tornava sui propri passi. Eppure non riuscì a muoversi mentre l’altro abbassava la maniglia e lentamente usciva bisbigliando un semplice “Addio”.
Poi tutto finì.
Il suono della porta che si chiudeva, il rumore ovattato dei suoi passi incerti nel corridoio che pian piano si faceva più debole fino a sparire.
Era finita. Era libero.
Allora perché le lacrime continuavano a scorrere inarrestabili e il petto gli doleva come se lo avessero pugnalato?
Dio, non si era mai sentito più solo. Anche andandosene, qualche ora prima, aveva sempre sentito dentro di sé, che Midorima sarebbe rimasto sempre un suo amico. Poteva lasciare la casa che aveva  faticosamente curato per anni, poteva rinunciare al lavoro che aveva sperato di ottenere con mille sforzi, ma non riusciva proprio a tollerare il senso di perdita che sentiva in quel momento.
Avrebbe gettato ogni cosa alle ortiche pur di non perdere una singola persona. Anche se lo aveva fatto soffrire. Anche se lo aveva insultato e denigrato. Perché quella persona aveva ingoiato l’orgoglio per cercarlo e chiedergli di tornare. Aveva abbandonato la maschera di indifferenza che era solita portare per mostrargli dei sentimenti che non sapeva nemmeno di aver provato per tanto tempo.
Tutto per amor suo. Per lui. In tanti anni non lo aveva mai visto così sconvolto, così perso. Si guardò i polsi. I segno rossi lasciati dalle forti mani del medico gli formicolavano ancora e, per qualche oscura ragione, nel concentrarsi su quella sensazione il suo corpo si fece caldo e languido.
No. Non poteva eccitarsi per quello. Era impossibile che desiderasse quel trattamento rude e possessivo.
Il suo corpo sembrava pensarla diversamente. Lo voleva. Lo bramava eccome. Rabbrividì.
Ma non lo voleva solo per la fisicità prorompente, non lo voleva solo per la sua lussuria. Voleva vedere e sue espressioni, voleva vederle tutte. Voleva lavare le sue camicie e stirarle alla domenica per poi riporle nei suoi cassetti profumate di pulito e di sole.
Desiderava vederlo dormire tranquillo dopo una lunga giornata di lavoro e sentirlo ridacchiare davanti alla televisione quando pensava che non gli prestasse attenzione.
E allora…? Cosa stava aspettando?
Saltò giù dal letto e si avventò sulla maniglia della porta gettando dalla finestra l’orgoglio, la depressione, le vessazioni e tutto il resto. Alla fine, forse, era un masochista; ma se questo significava essere giusto per Shintarou, allora era ben felice di essere privo di orgoglio, privo di carattere e pacifico. Il suo temperamento sedava alla perfezione il fuoco scoppiettante dell’altro.
Corse giù per le scale e arrivato nell’atrio lo intravide uscire a passo incerto incespicando sui gradini.
Incurante di tutti i motivi per cui avrebbe dovuto lasciarlo andare e tacciando di malagrazia ogni protesta della sua coscienza che lo richiamava a mantenere una certa coerenza si lanciò fuori.
La luce arancione del tramonto lo accecò per un attimo ma strizzando gli occhi non si fermò.
Allungò una mano e gli afferrò un braccio.
Un allibito Midorima lo scrutò in volto sforzandosi di metterlo a fuoco. Non gli lasciò il tempo di parlare.
-Tu! Tu sei il più egoista, egocentrico, tirannico e prepotente scemo che io abbia mai conosciuto! Sono arrivato a detestarti e volerti lasciare, lo capisci?! Tu sei il peggior individuo con cui io abbia mai avuto a che fare e se i miei familiari ti conoscessero meglio mi incatenerebbero in cantina piuttosto che lasciarmi un solo secondo  in più con te, eppure ti amo!-
Prese fiato e più forte disse:
-TI AMO! HAI CAPITO?-
Shintarou lo fissava a bocca aperta, gli occhi accesi di gioia e stupore.
-T-tu… vuoi restare? N-non mi lascerai?-
Che voce incerta, così poco da lui, eppure così giusta, così incredibilmente perfetta in quel frangente.
-Sì! Sì voglio restare, e sì, non ti lascerò.-
Ci pensò su un secondo. Era la decisione giusta ed il peso che aveva sul cuore e che fino a poco tempo prima sembrava non volersene proprio andare, si dissolse.
-Però voglio che smetti di fare il prepotente sempre e comunque. Non lo tollererò più.-
Sperava che le sue parole suonassero convincenti e soprattutto serie.
Gli giunse in risposta un suono sconosciuto. Una risata bassa, contagiosa e spensierata.
Midorima, con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi, rideva di gioia, la stessa che gli stravolgeva i lineamenti severi addolcendoli.
A Takao si inumidirono gli occhi a vederlo così.
Sì, aveva fatto bene a fermarlo. Aveva fatto bene a decidere di non lasciarlo andare.
Si ritrovò lì, sulle scale dell’albergo che voleva usare per scappare a ridere insieme all’uomo che amava. Sì, lo amava nonostante tutto. Lo amava sopra ogni cosa ed era sicuro, per la prima volta in dieci anni, che i suoi sentimenti fossero ricambiati in egual misura.
Risero e risero ancora fino ad avere le guance rigate di lacrime e gli addominali in fiamme per lo sforzo sorreggendosi a vicenda quando le gambe sembravano cedere sotto l’assalto degli eccessi di risa.
Li fissavano tutti. Sia le persone nella hall, sia i passanti eppure loro non vedevano nessuno tranne che loro stessi in quel momento così incredibilmente perfetto.
Quando finalmente ripresero fiato, tornarono in camera a recuperare i bagagli di Takao e pagarono la stanza anche se sarebbe rimasta vuota.
Uscendo nell’aria fredda delle prime ore della sera, chiamarono un taxi e comodamente seduti al caldo tornarono a casa.
Midorima inforcò un paio di occhiali di riserva non appena misero piede nell’appartamento e nel giro di mezz’ora i libri, la tazza e i vestiti tornarono al loro posto. Persino la biancheria sporca fu riposta nel cesto.
Mentre era i fornelli, l’ex fuggitivo, si godette la sensazione familiare del prendersi cura del suo coinquilino. Lo ascoltò ridacchiare piano in risposta alla battuta di un comico in televisione.
Sorrise ripensando alla sua vera risata.
Finalmente l’aveva sentito. L’aveva visto ridere di cuore. Gli sembrava di aver assistito ad un miracolo… e che miracolo. Quel suono ancora gli rimbombava in testa e decise di conservarlo, segretamente, nel cuore per sempre.
 
Sul grande letto nella stanza d’albergo più lussuosa che era riuscito a trovare con così poco preavviso Shintarou Midorima accarezzò pigramente la pelle serica del suo compagno che dormiva beato.
I segni rossi sui suoi polsi e sulle sue caviglie stavano svanendo e un po’ si dispiacque perché quella notte, in quella lunghissima magica notte, aveva usato ogni briciolo di fantasia per far godere Takao come mai aveva fatto in vita sua.
Ripensò al quel corpo magro e pallido esposto al suo sguardo. Le braccia e le gambe divaricate e tremanti bloccate al telaio del letto mentre lui con mani esperte stuzzicava, toccava baciava e mordeva senza sosta.
Non gli aveva dato tregua e non gli aveva concesso alcuno sfogo per ore e ore riducendolo ad un grumo di carne sangue e lussuria.
Lo aveva pregato, inarcando il corpo, di dargli sollievo e lui si era beato di quel potere. Amava sentirlo implorare.
Lo aveva preso in bocca, lo aveva succhiato stringendo le labbra  costringendolo a cavalcare il piacere che gli procurava; quando lo aveva sentito vicino all’apice si era fermato, giusto il tempo di far scemare l’orgasmo per poi ricominciare a succhiarlo, scivolando sulla sua lunghezza fino a prenderlo tutto, fino in gola.
Lo aveva accarezzato ancora con la lingua massaggiando con una mano i pesi gemelli che vibravano rossi e duri tanta era la necessità di dar sfogo alle ondate di piacere. Ma lui aveva programmi ben diversi e voleva giocare ancora un po’ prima di dargli sollievo.
-Shin-chan…! Non posso..! Non… riesco…!-
Aveva strattonato le cinghie che lo tenevano fermo.
-Oh no, caro il mio Takao, io voglio giocare come si deve prima di farti venire….-
Gli aveva sussurrato nell’orecchio accarezzandolo col fiato caldo per poi leccargli la mascella.
-Voglio godere anche io, non ti sembra giusto?-
Gli aveva leccato la gola ed era sceso a gustare il suo petto ampio e sodo, aveva fatto scorrere le punte delle dita sulle costole che spuntavano in rilievo sul suo addome e infine aveva giocato con la lingua attorno all’ombelico della sua vittima.
Lo aveva sentito tremare esausto ancora e ancora a ritmo delle ondate di piacere che la sua lingua gli procurava.
Aveva alzato lo sguardo sul suo viso: gli occhi lucidi e umidi socchiusi, la bocca semiaperta e le guance rosse come mele mature. Era l’immagine più erotica che avesse mai visto. Ed era lì, davanti a lui.
Non aveva resistito oltre. Aveva fatto scivolare un dito tra le sue natiche fino alla porta del suo corpo e con un unico lento movimento l’aveva infilato a fondo.
Takao si era agitato come se lo avesse attraversato una scarica elettrica. Aveva teso i muscoli interni accarezzando e stringendo il suo dito. In risposta lui aveva iniziato a muoverlo, piano, dentro e fuori facendo attenzione a premere il polpastrello proprio il quel punto speciale. Lo aveva sentito tremare, fremere mentre gemeva tentando di controllare il volume della voce. Era stato così adorabile mentre si mordeva le labbra per restare in silenzio.
Aveva infilato un secondo dito e ancora quel corpo bollente glielo aveva risucchiato con forza.
Gli sfuggì un gemito nel ricordare quella sensazione calda. Era arrivato al limite anche lui ormai ma aveva voluto aspettare ancora un po’.
Ancora e ancora, insistendo e stringendo i denti aveva usato le dita per farsi spazio, per stimolarlo e allargarlo portandolo più e più volte sull’orlo del precipizio.
-T-ti prego Shin-chan…! L-lo voglio… ora…!-
Il corpo di Takao era in preda alle convulsioni e quando finalmente aveva spinto dentro di lui la propria eccitazione entrambi erano stati sul punto di venire subito.
Esercitando su se stesso il più rigido autocontrollo e stringendo forte l’inguine del compagno per impedirgli di sfogare l’ondata di piacere, era rimasto fermo per qualche secondo ansimando. Sporgendosi all’indietro gli aveva liberato le caviglie su cui spiccavano due segni rossi come bruciature e si era messo le sue gambe sulle spalle per poter entrare più a fondo.
Poi aveva iniziato a muoversi. Non era stato gentile, non aveva avuto alcun riguardo.
Aveva martellato dentro quel corpo senza preoccuparsi di essere delicato. I muscoli interni lo avevano stretto in una calda morsa che insieme alla frizione lo avevano portato all’apice del piacere proprio nel momento esatto in cui  anche Takao aveva urlato il suo nome.
Era stato incredibile. Non aveva mai goduto così tanto né così a lungo.
I ricordi di quella notte avevano risvegliato il suo corpo.
Incerto aveva lanciato uno sguardo al suo compagno che continuava a riposare beatamente inconsapevole delle sue intenzioni.
Scivolò fuori dal letto e rovistando nella piccola valigia trovò quel che cercava.
Tornando sotto alle coltri calde abbracciò impacciato il corpo dormiente respirandone il profumo di limone e  di sesso. Con una mano lentamente iniziò a stuzzicargli l’inguine e con l’altra cercò uno dei piccoli capezzoli rosa per poterlo accarezzare.
Nel sonno l’uomo gemette piano ma non si svegliò. Il suo corpo, invece, sì.
Shintarou quasi sorrise nel constatare come rapidamente l’altro avesse imparato a riconoscere il suo tocco e a reagire ad esso. Erano trascorse solo poche settimane dalla loro prima notte insieme.
Si sfregò le mani contenendo a stento l’eccitazione e si preparò a giocare con l’ignaro Takao, l’uomo che, ogni giorno, lo trasformava in una persona migliore. 

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Capitolo 3
*** abbracciare il passato ***


L’aereo iniziò a scendere di quota e Kagami Taiga, ormai ex professionista del Basket americano, si allacciò la cintura di sicurezza. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era tornato in Giappone? Mesi. No.
Ormai era quasi un anno.
Ripensando alla rimpatriata con gli amici che conservava dai tempi del liceo pensò tutto sembrava appartenere alla vita di qualcun altro. Una vita fa. Prima che si infortunasse.
Era stato un anno difficile quello, e a concluderlo c’era stato il suo ritiro dallo sport agonistico proprio nel momento di massima forma. Il suo fisico era al top, robusto, resistente, allenato; era la sua testa ad aver fatto il resto.
La paura di infortunarsi ancora, e di non poter più giocare a nessun livello, lo aveva paralizzato.
In campo era sempre determinante e invece, dopo l’intervento, aveva iniziato ad essere prudente, a riflettere sul da farsi.
Questo era stata la sua rovina. Lui era un animale da campo, tutto potenza e istinto; colui che si lanciava su ogni palla e su ogni rimbalzo seguendo automaticamente l’azione. Il tempo che impiegava a pensare lo rallentava, lo rendeva goffo ed ogni scricchiolio del ginocchio lo spaventava tanto da bloccarlo nel bel mezzo delle azioni.
Prima di venir relegato in panchina aveva deciso di lasciare.
In un primo momento aveva pensato di prendersi un periodo di pausa per rimettere in sesto il cervello, ma si era reso conto che quel momento di forma sarebbe passato presto. Alla sua età o eri dentro e giocavi al massimo, oppure eri fuori dai giochi. Per sempre.
Quindi eccolo lì, ex giocatore professionista dell’NBA americana, il massimo campionato mondiale, quello che migliaia di atleti in tutto il mondo sognavano di raggiungere.
Lui lo aveva toccato, lo aveva vissuto e respirato per ben cinque anni. Non poteva lamentarsi.
Eppure il vuoto che si era creato nella sua esistenza non accennava a riempirsi. A Los Angeles, nella sua casa troppo grande, circondato da troppa gente estranea per essere davvero a suo agio, inseguito da greggi di giornalisti senza scrupoli che sembravano cercare lo scoop sul suo ritiro come aria da respirare aveva deciso di tornare a casa sua. In Giappone.
Dalle persone che contavano di più per lui.
Kuroko.
Il pensiero che proprio lui si fosse offerto di andare a prenderlo all’aeroporto e di aiutarlo coi bagagli, lo riempiva di gioia. Era lui, era sempre stato lui a incoraggiarlo, a sorreggerlo, a spingerlo in avanti eppure, nonostante la loro perfetta sintonia non aveva mai avuto il coraggio di confessare i suoi sentimenti.
Ai tempo del liceo,  quando, sfiduciato dal basket giapponese si era di malavoglia iscritto al club del Seirin, aveva davvero pensato che quel ragazzetto pallido, mingherlino e privo di qualsiasi attitudine offensiva, fosse fuori luogo sotto l’alto canestro.
Poi lo aveva visto giocare e da lì aveva iniziato ad interessarsi al suo modo di muoversi, di pensare. Erano divenuti i perni della squadra, si erano allenati talmente tanto insieme da conoscersi meglio di chiunque altro. Kagami sapeva perfino riconoscere il ritmo del suo respiro e le minime variazioni d’espressione che erano la massima manifestazione dei suoi stati d’animo.
Erano perfettamente complementari, lui focoso, impulsivo e fisicamente molto forte mentre Kuroko era pacato, riflessivo e molto esile.
Erano stati le stelle della squadra durante quella prima Winter Cup quando avevano sconfitto a suon di canestri la famosa Kiseki no Sedai, la Generazione dei Miracoli.
Erano state sfide entusiasmanti, ricche di tensione e spirito agonistico. Si erano completati e avevano raggiunto la vetta.  Solamente per quell’anno.
Nelle competizioni successive il loro centro, Kyoshi Teppei non aveva preso parte alle attività del club per via della riabilitazione dopo un intervento chirurgico al ginocchio e questo aveva debilitato la squadra. Non che fossero divenuti scarsi, ma senza quella marcia in più, nonostante tutti gli sforzi avevano sempre perso gli scontri più importanti. Non importava. Erano riusciti ad arrivare in cima nell’anno in cui Kyoshi aveva partecipato e ne erano più che orgogliosi.
Alla fine del liceo Kuroko aveva scelto la scuola di formazione per gli insegnanti smettendo di praticare basket a livello agonistico, mentre lui, un po’ per continuare a coltivare il suo talento esplosivo e un po’ per allontanarsi dall’amico, aveva scelto di andare a giocare a Los Angeles.
Aveva sperato che la lontananza avrebbe sedato quello strano sentimento che provava nei confronti del compagno di squadra. Quell’amore che non voleva provare per paura di rovinare tutto. E, visto il suo carattere, era quasi scontato che se si fosse lasciato andare anche solo un secondo avrebbe combinato un casino.
Venne abbassato il carrello e nel giro di pochi minuti l’aereo atterrò sulla pista con un leggero sobbalzo. Sgranchendosi la schiena e il collo Kagami slacciò la cintura e facendo attenzione a non sbattere la testa si alzò per recuperare il bagaglio a mano.
Mentre scendeva sulla pista e si dirigeva verso l’entrata del terminal qualcuno lo chiamò:
-Kagamicchi!!!-
Inconfondibile come sempre.
Voltandosi con un mezzo sorriso sulle labbra vide un Kise radioso, inguantato nella splendida e scintillante divisa bianca da pilota che tenendo il cappello sottobraccio correva nella sua direzione.
Era sempre stato fisicamente elegante ma la sua falcata atletica e fluida lo colpirono come la prima volta.
Quando gli si fermò accanto potè notare la mancanza dell’orecchino che lo contraddistingueva da quando lo aveva conosciuto. I capelli erano sempre dello stesso biondo dorato e gli occhi che risposero al suo sguardo brillavano di simpatia.
-Kise, quanto tempo. Come stai?-
Non sapeva bene cosa dire in occasioni come quelle e soprattutto non così alla sprovvista.
Il biondino rise e rispose.
-Non potrei stare meglio. Sono ufficialmente un pilota da una settimana, ho finalmente un orario quasi umano e… beh, ho ripreso a giocare a basket.-
Kagami si sentì subito felice per l’ex rivale e ringraziò la buona stella del pilota per avergli riservato un po’ di felicità e pace dopo quegli anni un po’ incerti. Sentì però anche una strana fitta al pensiero che proprio nel momento in cui lui aveva deciso di mollare il suo amato sport, quello avesse ricominciato.
-Sono contento, dove giochi adesso?-
Tanto valeva fare fino in fondo la persona educata e poi era davvero interessato nonostante la strana sensazione che provava.
Kise rispose con una risatina scuotendo il capo.
-Non gioco in una squadra o simili, ho ripreso a giocare con Daiki alla sera. Andiamo ai campetti nel parco e passiamo così qualche ora. Ovviamente mi batte sempre, ma sto pian piano tornando quello di un tempo.-
Kagami rilassò le spalle. Giocava per amore. Giocava perché, nonostante la vita lo avesse portato altrove, il basket restava la sua prima passione.
-Magari qualche sera verrò a farvi compagnia.-
Non sapeva più cosa dire ma non voleva che la conversazione finisse. Kise gli giunse in aiuto.
-Sono venuto qui in macchina con Kurokocchi, mi ha fermato per strada mentre veniva a prenderti e così mi ha dato uno strappo fin qui. Ti sta aspettando agli arrivi.-
Ecco. Invece di prolungare la conversazione, improvvisamente gli venne voglia di correre fino al ritiro bagagli e poi fino all’uscita in modo da rivederlo dopo tanto tempo. Probabilmente gli si leggeva in faccio perché il pilota con una risatina lo incoraggiò ad affrettarsi prima di salutarlo e incamminarsi verso uno degli aerei appena usciti dall’hangar.
Dopo essere riuscito a ritirare tutte le proprie valige senza intoppi, un Kagami carico come un mulo si diresse finalmente verso l’uscita. Varcate le soglie si mise a scrutare tra i gruppetti di persone in attesa dei passeggeri atterrati. Ma dove diavolo era Kuroko? Fece una decina di metri e…
-Kagami.-
La sua voce dietro alle spalle. Il respiro gli si mozzò in gola e il cuore perse un battito.
-wah! Ku-Kuroko! Ma dov’eri?-
Una risatina seguì la sua domanda.
-Qui. Già prima che tu uscissi. Come sempre.-
Era il solito: mingherlino, con i capelli arruffati e in braccio reggeva N2!! Sempre cucciolo!
 
Quella mattina non sarebbe andato al lavoro, era la prima volta che prendeva un permesso e tutti i colleghi all’asilo erano stati sorpresi quando aveva spiegato che aveva bisogno della giornata libera per aiutare un amico che tornava in Giappone dall’America doveva aveva giocato nel massimo campionato di Basket.
Kuroko si era alzato con molto anticipo ma era rimasto seduto sul letto a immaginare come sarebbe stato rivedere Kagami dopo quasi un anno di lontananza e alla fine aveva dovuto prepararsi di corsa. Aveva preso la macchina e mentre guidava verso l’aeroporto aveva visto Kise in divisa correre con matto in direzione del terminal.
Mosso a compassione per lo sbadato biondino si era accostato e lo aveva preso a bordo.
-Sei senza speranza Kise, lo eri ai tempi delle medie e credo tu lo sia rimasto anche negli anni successivi.-
La risata che gli era arrivata come risposta aveva confermato tutto. Si mise a coccolare il cucciolo che su sedile posteriore si agitava felice delle attenzioni.
-Il primo anno al Kaijou il capitano, non so se ti ricordi di lui, si chiamava Kasamatsu, ogni giorno mi aspettava all’ingresso della palestra e mi dava una pedata per ogni minuti di ritardo.-
Un’altra gioiosa risata mentre i ricordi gli sciamavano in testa.
-Erano bei tempi quelli, vero Tetsuya? Potevamo davvero fare quel che volevamo senza alcun pensiero.-
Kuroko ripensò agli allenamenti del club del Seirin, alle partite giocate fino all’ultimo respiro, ai trining camp nelle catapecchie fatiscenti che lo lasciavano dolorante, distrutto ma felice e completamente soddisfatto.
-Erano i tempi migliori.-
Il silenzio che scese nell’abitacolo si fece denso ma non pesante. Si capivano. Lo sapevano. E non c’era altro da aggiungere. Poi Kise lanciò una bomba.
-Aominecchi è venuto a vivere da me.-
Lì per lì  non gli era sembrata una notizia così sconvolgente. Erano sempre stati molto legati al Teikou e anche se si erano persi di vista nel corso degli anni avevano mantenuto entrambi interesse per la vita l’uno dell’altro. Era ovvio che in caso di difficoltà si sarebbero aiutati.
-Sei stato gentile a prenderti in casa un casinaro come lui. Devi avere una gran pazienza. Casa sua l’ultima volta che ci sono stato era un ammasso informe di vestiti, scarpe e divise. C’erano diversi palloni da basket in giro e un mobilio minimo.-
Nella pausa che fece arrivò la vera confessione.
-Non è stato un gran peso. E non è che lo sto aiutando o altro. Vedi… noi ora stiamo insieme…-
Per poco non andò a schiantarsi contro la macchina che lo precedeva.
Si voltò per guardarlo in viso. Credeva di aver capito male. Ma no. Aveva sentito bene.
Lo confermavano le gote arrossate del biondino, il sorrisino birichino e insieme timido che aveva negli occhi che lo scrutavano  in attesa di una reazione.
Già, una reazione. Era davvero così strano? No. Alla fine no.
Certo, Kise non aveva delle tette enormi come quelle che aveva sempre amato Daiki, però doveva ammettere che in quanto a eleganza e a bellezza il pilota era quasi imbattibile.
Sorvolando sulle implicazioni di una storia sentimentale tra uomini giovani e fisicamente prestanti, Kuroko decise di sorridere rassicurante.
-È una sorpresa, ma sono veramente felice per voi.  –
Un attimo di silenzio e poi un lungo fischiò affiorò dalle labbra del pilota. Sembrava essersi tolto un grosso peso.
-Sai Kurokocchi, non è successo da molto e volevo che almeno tu, oltre a Midorimacchi e Takao che sono nella mia stessa situazione, lo sapessi.-
Alt! Un attimo. Midorima… stava…. Con Takao…? Da quando? Sapeva che convivevano da anni ma da lì allo stare insieme ce ne passava…
Probabilmente Kise gli lesse la domanda negli occhi perché rise.
-Loro hanno avuto una presa di consapevolezza ancora più travagliata di quella mia e di Daiki, ma non sta a me raccontarti come sono andate le cose. Però, posso assicurarti che sono inaspettatamente ben assortiti e molto affiatati.-
Rise in risposa ad un pensiero ironico che non esternò per poi aggiungere.
-Credo che adesso stiano progettando un viaggio al sud, o qualcosa di simile per godersi la reciproca compagnia.-
Ok. Per quanto fosse bravo ad adattarsi e a incassare ogni tipo di cambiamento, tutta quella valanga di novità importanti lo lasciò senza parole. Per sua fortuna essendo una persona poco espressiva il suo silenzio era difficile da interpretare.
Dopo qualche minuto però, si accorse che nonostante la stranezza delle notizie, erano cose belle. Se stare insieme in quel modo rendeva felici i suoi amici più di quanto non lo facesse il restare semplicemente amici, allora era davvero contento per loro. Per tutti loro.
-Cavolo, sono sorpreso, ma non posso fare a meno di essere anche molto contento di sapervi tutti soddisfatti e felici.-
Voleva aggiungere qualcos’altro ma il loro viaggio insieme era terminato.
-Siamo arrivati, vado a cercare parcheggio.-
Kise sorridendo aprì la portiera e un attimo prima di chiudersela alle spalle gli disse:
-Non credere che certe situazioni siano così strane, potrebbe capitare anche a te come no.-
Le parole gli morirono in gola. Cosa avrebbe voluto dire a Kise? Cosa doveva dire ancora per esprimere la sua contentezza?
Perse l’attimo e la portiera si chiuse con un lieve tonfo.
Decise di accantonare tutte le riflessioni del caso mentre parcheggiava il più vicino possibile all’entrata del terminal per godersi il momento in cui avrebbe rincontrato Kagami.
 Lo aveva visto uscire dalle porte scorrevoli, era impossibile non  notare quel gigante dalla capigliatura rosso sangue che avanzava a grandi falcate guardandosi attorno minaccioso. Come era normale ad un primo sguardo l’amico non lo vide e quando decise di chiamarlo quello si spaventò.
Esattamente come tutte le altre volte.
Lo vide sorridere, anche lui stava ricordando le innumerevoli volte che avevano vissuto quella stessa identica scena. Poi, ad un tratto, lo vide sgranare gli occhi  mentre fissava il cucciolo di Husky che aveva in braccio.
-C-c-come è possibile? C-c-come f-fa ad essere ancora un d-dannato cucciolo? Numero Due!!-
Dentro di sé Kuroko stava rotolando dal ridere ma sapeva che per Kagami i cani erano come la Kriptonite. Ne era terrorizzato.
Coccolando distrattamente il morbido involtino peloso gli diede l’unica spiegazione che potesse dare.
-Lui non è Numero Due. Lui… è morto di vecchiaia sei mesi fa. –
Fece una pausa per inghiottire il nodo che aveva in gola. Nonostante tutto ancora non riusciva ad accettare del tutto che fosse successo davvero.
-Questo è uno dei cuccioli che ha partorito la sua compagna. La padrona abitava all’ultimo piano del mio palazzo, ma poco dopo la nascita dei tre cucciolotti ha dovuto trasferirsi per lavoro.
Prima di partire, sapendo della morte di Numero Due, è venuta a regalarmi questo piccolo amico. L’ho chiamato Dai Ni, in onore di suo padre.
All’improvviso Kagami  posò una delle  valige a terra e allungò una delle grandi mani. Per un secondo Kuroko pensò che fosse per accarezzare il cagnolino, ma questa invece gli si posò con gentilezza sul capo. Com’era calda e rassicurante.
-Quindi questo piccolo mostriciattolo è figlio del grande demone che qualche anno fa mi ha leccato la faccia mentre dormivo nel giardino di Kise eh? –
Con uno sguardo luccicante di ironia si rivolse al batuffolo scodinzolante.
-I peccati dei padri ricadono sui figli, ricordatelo bestiolina infernale-
Dai Ni abbaiò felice in risposta alla sua affermazione.
Era proprio da lui. Percependo la sua tristezza, nonostante la paura che ne irrigidiva appena i movimenti, aveva trovato il modo di farlo ridere.
Kuroko si riscosse dalle sue riflessioni quando Kagami fece per riprendere la valigia da terra.
-Lascia, la prendo io.-
Ma non aveva fatto i conti con il cucciolo agitato e felice. In un attimo, mentre si abbassava a prendere il bagaglio dell’amico, il cagnolino era saltato giù dalle sue braccia ed era sfrecciato tra la folla.
-Dai Ni!-
Si rivolse a un Kagami sbalordito.
-Aspettami qui, vado a riprenderlo.-
Correndo a destra e a sinistra dietro all’esagitata bestiola Kuroko si trovò poco dopo ansimante e sudato. Era molto peggio che star dietro ai bambini dell’asilo!
-Sembra che tu sia deboluccio come al solito.-
Voltandosi con una risposta arguta proprio sulla punta della lingua, dovette ingoiarla.
Un Kagami più terrorizzato che mai reggeva su una grande mano il piccolo impertinente Dai Ni. Il braccio steso in avanti per tenere la bestiola il più lontano possibile dal resto del corpo.
Subito Kuroko allungò le mani e riprese in braccio il cane che iniziò subito a leccarli la faccia con la rosea linguetta calda.
-È ancora piccolo, si agita in mezzo alla gente e quando è in un posto nuovo. Grazie per averlo recuperato Kagami.-
L’altro grattandosi la testa borbottò qualcosa di simile ad un “se lo perdevamo del tutto era meglio per me. Sono un idiota.”
Ridacchiando Kuroko  fece qualche coccola alla bestiolina agitata.
-Hem… Kagami… dove hai lasciato i bagagli?-
La consapevolezza si fece largo pian piano sul viso dello sportivo trasfigurandone i lineamenti selvaggi e severi in un’espressione a dir poco comica.
-Cazzo!-
Voltandosi ad una velocità incredibile lo spilungone si mise a correre attraverso il terminal per tornare dalle valige abbandonate.
Con calma un Kuroko sudato gli andò dietro.
Quando finalmente riuscirono a caricare tutto in macchina Kagami chiese:
-C’è un Hotel economico da queste parti oltre a quello di fianco all’aeroporto?
Mentre metteva in moto Kuroko si mise a pensare che forse, se era per qualche tempo e non permanentemente, avrebbe anche potuto evitare allo sportivo di spender dei soldi per l’alloggio e invitarlo a stare da lui.
Qualche anno prima, quando era divenuto un insegnante d’asilo a tutti gli effetti, aveva deciso che era il momento di avere i suoi spazi. Aveva comprato un piccolo appartamento ristrutturato da poco nella stessa via dell’asilo. Era una casa graziosa, accogliente e fatta su misura per le sue esigenze. Non sapeva come farci stare anche Kagami a dire il vero. Ma se si accontentava…
-Se… se ti accontenti, invece che stare in albergo, potresti stare da me per un pò. Almeno fino a che non trovi un lavoro che ti piaccia.-
Lo sguardo stralunato con cui l’ex cestista lo guardò era davvero buffo.
-M-mi faresti stare a casa tua? Ma non sarei… un disturbo?-
Riflettendo Kuroko rispose con diplomazia.
-Beh, è piccola e ho una sola stanza quindi dovresti accontentarti del divano letto e per quanto riguarda la tua roba… beh la sistemeremmo nei miei cassetti e nel mio armadio.-
Kagami sorrideva come se gli avesse regalato una torta. Un sorriso di vittoria e insieme di stupore.
-V-va benissimo. Ma sei sicuro?-
Ancora una volta Kuroko se lo chiese e ancora una volta la sua mente rispondeva che sì, andava bene così.
-Certo. Dovrai contribuire alle faccende di casa però e alle spese di affitto.-
L’altro lo guardò come se avesse detto una cosa ovvia.
-Ma certo, mica voglio approfittarmene!-
Sospirone.
-E comunque…. Grazie.-
Con quelle parole gli scaldò il cuore e in tutta risposta anche Dai Ni si mise ad abbaiare entusiasta ricordando all’ingenuo Kagami che non sarebbe stato il solo a dividere l’appartamento con Kuroko.
 
Incredibile. Stava davvero andando a vivere insieme a Kuroko. Era una cosa temporanea, certo, ma alla fine quel che contava era che avesse del tempo da passare con lui, in casa sua. E con il cane. Dovette ricordare a se stesso che quel piccolo demonio sarebbe stato sempre in giro per casa.
La macchina sfrecciava silenziosa per le strade e man mano che si avvicinavano alla casa di Tetsuya, Kagami iniziava a riconoscere i palazzi, le strade, i negozi e infine il parco dove si per anni avevano giocato tutti insieme a basket.
Era rimasto stupito quando aveva saputo che tutti erano rimasti più o meno in zona perché pensava che con il passare del tempo, come lui,  anche gli altri si fossero allontanati dal nido. E invece no.
-Ho incontrato Kise in aeroporto. Sembra che stia bene. Era davvero tanto tempo che non lo vedevo ma l’ho trovato… come dire…. Radioso.-
Alle sue parole Kuroko arrossì violentemente.
Che diavolo significava? Perché quel rossore?
-S-sì? Io l’ho accompagnato verso il terminal. Anche io era un po’ di tempo che non lo vedevo.-
Perché quella voce esitante? Cosa stava cercando di non dire?
-Mi avevi scritto che per quasi un anno non si era più fatto vivo con nessuno, si sa cosa gli fosse successo?-
Cercava di porre domande casuali, in apparenza per portare avanti la conversazione, ma sperava che Kuroko prima o poi si tradisse.
-Eh..? Ah..! sì. A quanto pare era sommerso dal lavoro e non aveva nemmeno il tempo di respirare. Aomine gli ha fatto una bella lavata di capo una volta che lo ha incontrato in aeroporto. Quei due sono sempre andati d’accordo.-
Kagami era confuso. Se era davvero tutto qui… perché Kuroko sembrava così a disagio? Tanto valeva andare direttamente al punto. Ormai lo conosceva abbastanza bene da capire quando cercava di nascondergli qualcosa.
-Tetsuya… cosa stai cercando di nascondermi?-
La presa delle sue mani sul volante si fece più stretta per un attimo. Il muscolo della mascella che poteva vedere si tese anche se la sua espressione rimaneva imperturbabile. Era proprio nervoso.
-Io… non so…-
Quanta paura! Ma che diavolo stava succedendo?
-Sai che mi stai spaventando, vero?-
A quelle parole la pelle di Kuroko da rosso fuoco divenne nuovamente pallida. Sospirò.
-Se te lo dico, devi promettermi di mantenere il più assoluto riserbo. Non sono affari miei e nemmeno tuoi, quindi… non dovresti nemmeno saperlo visto che è una confidenza che Kise ha fatto a me.-
Era molto serio e per la prima volta, durante tutto il tragitto in auto, distolse gli occhi dalla strada per fissarli nei suoi.
Taiga festeggiando in silenzio cercò di mantenere un’espressione neutra e fece un singolo cenno d’assenso senza distogliere lo sguardo.
-Kise… e … Aomine… stanno insieme.-
No. Doveva aver sentito male. Ma non era finita.
-E convivono da quasi un mese.-
Ok. Non poteva aver capito male due volte. Ma… ad Aomine non piacevano le donne prosperose? Anzi… si poteva dire che gli piacessero le vacche da latte; come faceva a piacergli Kise? E a Kise? Non piacevano le ragazzine minute e carine? Cosa aveva Aomine di carino e minuto?
-Kagami..?-
Oh, aveva accolto la notizia nel più totale mutismo arroccandosi nelle sue considerazioni. Doveva dire qualcosa.
-Hem… sono felice per loro. Se stanno bene… sì… insomma…. Va bene, no?-
A quelle parole Kuroko lasciò andare il fiato.
-Non ti facevo di così larghe vedute.-
Il pensiero che gli attraversò il cervello fu semplice: “sapessi quanto sono larghe le mie vedute. Ti stupiresti”. Rimase di sasso. Stava giudicando strana l’accoppiata Aomine e Kise ma… a lui non piaceva in senso romantico Tetsuya? Non era forse uguale?
-Beh, sì. In America non è così strano.-
Una risatina sciolse il nervosismo.
-Allora non ti sorprenderà sapere che Midorima ora sta ufficialmente con Takao.-
Per poco non gli uscì il cervello dal naso.
-Eeeeeeeeeehhhh?!?!?!?!-
Riprese un minimo di contegno e guardò l’ex compagno di squadra con gli occhi sgranati.
-Takao si è lasciato abbindolare da quel musone pieno di boria?-
Ancora una volta il suo interlocutore rise. Lo faceva sempre quando parlava con lui di Midorima Shintarou, il tiratore ufficiale della sua squadra delle medie: La Generazione dei Miracoli.
-Ebbene sì, non so i dettagli, ma è una cosa molto recente a quanto mi ha detto Kise. Sembra che sia stata anche abbastanza complicata all’inizio.-
Lui aveva sempre la risposta pronta per tutto, ma in quell’occasione era proprio senza parole. Takao doveva essersi bruciato il cervello sui libri per scegliere di ricadere nelle grinfie del vecchio amore.
-Buon per loro…. No…. Povero Takao…-
Ci aveva provato a fare il diplomatico ma proprio non faceva per lui.
Quando finalmente ebbero parcheggiato e scaricato la macchina era ormai quasi ora di pranzo.
Entrando nel piccolo appartamento Kagami si stupì di tre cose in particolare.
La prima era che il disordine regnava sovrano. La seconda era la quantità di riviste sportive che spuntavano da ogni dove e, più di tutto a sorprenderlo furono le dimensioni della casa.
Probabilmente in otto passi avrebbe potuto attraversare lo spazio da un estremo all’altro. Incredibile.
-Ehm… carino qui…-
Non sapeva cosa dire. Era la piccola disordinata e spoglia casa di uno scapolo che lavorava a tempo pieno, cosa si aspettava?
Si voltò verso Kuroko e lo trovò indaffarato a versare dei croccantini nella ciotola che un tempo, ne era sicuro, era stata di Numero Due. Questo gli diede una rapida occhiata imbarazzata.
-Scusa per il disordine, l’invito non era premeditato altrimenti avrei messo via un po’ della mia robaccia.-
Detto questo si misero al lavoro per rendere il microscopico ambiente abbastanza ordinato da garantire una precaria convivenza. Fu a lavori ultimati che un esausto Kuroko aprì quella che aveva l’aria della porta di una dispensa e, invece, si rivelò essere la porta che conduceva al giardino. Kagami inghiottì ogni giudizio sulla casa. Era piccola, ma in compenso aveva un giardino grande e molto curato.
Uscendo dietro al padrone di casa potè ammirare il prato ghiacciato, le aiole organizzate e gli alberi potati di fresco. Su una rastrelliera, posta in un angolo, stavano in bella mostra decine e decine di attrezzi da giardinaggio. Sorrise immaginando il suo ospite chino a zappare.
Dai Ni correva felice da una parte all’altra inseguendo la piccola pallina gialla che Tetsuya continuava a lanciare con un sorriso indulgente sul volto arrossato dal freddo.
Piccole nuvole di condensa si formavano davanti al suo viso ad ogni respiro e Taiga, ricordando quanto cagionevole e fragile fosse l’amico, si affrettò a rientrare per recuperargli la giacca.
-Mettiti questa, non puoi ammalarti e lasciare i tuoi bambini no?-
Il sorriso di quegli occhi color del cielo si fece più caldo.
-Già, non posso proprio lasciarli. Soprattutto non adesso che devo aiutare una bambina…-
Il sorriso venne oscurato e per un attimo Kagami si chiese che cosa potesse mai affliggere una bimba al punto da far preoccupare così l’empatico maestro.
 
Era strano avere un’altra persona in giro per casa. Certo, gli faceva piacere ed era convinto di aver fatto la scelta giusta ad invitare Kagami, ma non si poteva non notare quanto piccola e inadatta fosse la sua piccola casa.
Avevano sistemato i mobili del soggiorno in modo da lasciare un minimo di spazio vitale attorno al divano letto su cui avrebbe dormito Taiga e dopo un’ora di lavoro era persino riuscito a liberare due cassetti del comò e un’anta dell’armadio per fargli tirare fuori dalle valige almeno i vestiti.
Era una sistemazione temporanea e non proprio comodissima ma meglio di così non potevano fare.
Quella mattina quando suonò la sveglia fece attenzione a non fare troppo rumore. Il soggiorno era un open-space con la cucina e non volendo svegliare il coinquilino che sembrava dormire ancora profondamente, Kuroko decise di fare colazione una volta per strada.
Era una  tipica mattina di fine novembre fredda, grigia e ventosa ma, chissà per quale motivo Tetsuya era di buon umore. Nell’udire lo stomaco brontolare gli sfuggì una risata che produsse piccole nuvole di vapore.
Ormai insegnava all’asilo da qualche anno e aveva imparato ad amare i bambini; non solo a trovarli simpatici o a distinguerne i capricci e i caratteri… lui li amava tutti. Tutti come se fossero figli suoi.
Entrò nella piccola classe colorata ingombra di seggioline e tavolini, tappezzata di disegni, collage, incomprensibili opere d’arte a tempera e ghirlande di carta pesta.
Era così silenziosa in quel momento.
Sospirò mentre qualche pallido raggio di sole filtrava dalle nuvole e faceva la sua magia illuminando la polvere che sembrava sospesa nel tempo e nello spazio.
Suonò la campanella.
In un secondo i tredici bambini che componevano la seconda classe sciamarono all’interno riempiendo il rassicurante silenzio di urla, risate e schiamazzi. Una sola bambina, come al solito, entrò in silenzio, aggrappata all’ormai consunto coniglietto di peluches. Sakura-chan.
Le prime ore del mattino, quando l’aria era ancora troppo fredda per giocare all’aperto, le attività ricreative si svolgevano in aula. Essendo un po’ più grandicelli, i bambini di cui si occupava Kuroko si dilettavano a disegnare, a cantare e a fare piccoli lavoretti manuali sotto la sua supervisione.
Erano le undici quando il paziente maestro fece l’ennesimo giro di controllo tra i tavoli per vedere cosa avessero disegnato i suoi piccoli alunni.
La consegna del giorno era di disegnare qualcosa che amavano in casa loro.
Ne vide di ogni. Qualcuno aveva rappresentato in modo decisamente pittoresco i propri giocattoli oppure la propria televisione; le femminucce, invece, rappresentarono quasi tutte i genitori o le proprie bambole.  Shinjin, un bimbo sveglio e intraprendente, aveva disegnato il cielo che vedeva dalla sua finestra attraverso il cannocchiale.
Una volta aveva affermato che sarebbe diventato un astronauta e che avrebbe portato la sua sposa sulla luna.
Era questo che Tetsuya amava di loro: l’innocenza, la possibilità e la forza di inseguire i propri sogni al di là di ogni difficoltà. La loro età permetteva di credere al fatto che se una cosa era pensabile, allora era anche fattibile, senza eccezioni.
Poi vide il disegno di Sakura-chan, la bimba solitaria che non parlava mai con nessuno e rimase raggelato.
Storte, tremolanti e appena abbozzate, nel suo disegno, erano inconfondibili decine e decine di bottiglie di diversi colori. Bottiglie come quelle che solo gli alcolici  avevano.
Si avvicinò alla bambina minuta e pallida.
-Sakura, come mai hai disegnato tutte queste bottiglie?-
Lo sguardo della bimba rimase basso, ma la sua voce risuonò più nitida e gioiosa del solito.
-Perché quando sono vuote posso giocarci e fanno un bel rumore anche se puzzano.-
Inorridendo al pensiero di una bambina piccola come lei che gioca con delle bottiglie di vetro si prese l’appunto mentale di parlare con la madre alla prima occasione.
Ma quando? La bimba arrivava sempre da sola all’asilo e se ne andava ugualmente sola. Non ricordava di aver mai parlato con nessun parente nemmeno nei giorni degli incontri genitori-insegnanti.
Come doveva comportarsi?
-Colorale bene, mi raccomando!-
Finalmente arrivò l’ora del pasto e dopo aver controllato che tutti si lavassero accuratamente le mani lasciò loro la libertà di aprire i propri cestini del pranzo e  mangiare. Come ogni giorno Sakura-chan aveva solamente una ciotola di riso in bianco con qualche verdura.
Sapendolo, Kuroko aveva comprato, insieme al suo pranzo confezionato, anche una piccola barretta di cioccolato da regalare di nascosto alla piccola.
Il sorriso che gli rivolse afferrando il goloso dolcetto fece sciogliere del tutto il suo cuore.
Avrebbe voluto fare di più per lei.
Nel pomeriggio, approfittando del sole che era spuntato a scaldare un poco l’aria, gli insegnanti decisero di far giocare i bambini all’aperto.
Mentre questi correvano, scavavano, gridavano e ridevano, Tetsuya decise di consultarsi con un collega sulla situazione della sua alunna più taciturna. Mostrò anche il disegno che aveva appena terminato.
-Mmmmmh, non credo questo sia una prova sufficiente per chiamare i Servizi Sociali, però devo ammettere che è abbastanza inquietante.-
Ryunnosuke si grattò il pizzetto biondo. La faccenda impensieriva anche lui.
-Viene a scuola da sola e torna a casa da sola, ha solo quattro anni maledizione!-
Si stava prendendo la faccenda a cuore ma sapeva che Ryu, nonostante avesse qualche anno più di lui amava quelle personcine adorabili esattamente come lui.
E aveva un cuore grande.
Grande abbastanza da aver organizzato un comitato di quartiere che aiutasse i senzatetto nei mesi invernali. Ovviamente Kuroko si era unito volentieri alla causa.
-Aspettiamo ancora qualche tempo per vedere se le cose cambiano. Potrebbe anche essere solo un periodo un po’ travagliato nella sua famiglia.-
Aveva ragione. In fondo si era trasferita da poco e frequentava l’asilo da sole sei settimane. Era possibile che non appena la famiglia si fosse stabilita e sistemata a dovere anche i problemi che sembravano affliggere la piccola Sakura  si sarebbero risolti.
La giornata lavorativa si trascinò verso la sua conclusione e alle cinque in punto, l’orda urlante e schiamazzante che aveva affollato l’edificio a piano singolo dalle pareti giallo limone si disperse per strada.
Chi veniva recuperato dai nonni, chi dai genitori o dai fratelli più grandi, nel giro di qualche minuto
Per strada non rimase più nessuno.
Senza nemmeno togliersi il grembiule che teneva in classe, dopo aver riordinato l’aula, Tetsuya si infilò la giacca e si avviò verso casa. Le giornate erano mai molto corte e nonostante fosse ancora presto il sole era già tramontato.
Quando giunse nei pressi del suo portone i lampioni erano già accesi e una spessa coltre di nuvole scure aveva ricoperto anche gli ultimi spicchi di cielo.
Entrò in casa sovrappensiero e fu accolto da un buonissimo profumo di bucato.
-Ma che…-
Ah. Giusto. Kagami.
Non fece in tempo a pensarlo che dal cortile rientrò un Taiga  carico di lenzuola asciutte e ben piegate.
-Ciao, andata bene al lavoro? Mi sono permesso di fare il bucato, spero non ti dispiaccia-
Accennando un “no” con la testa Kuroko entrò in casa chiudendosi la porta alle spalle.
-G-grazie… -
Non sapeva che altro dire. Era strano fare conversazione anche una volta rientrato dal lavoro.
Pensando a possibili argomenti di conversazione iniziò a spogliarsi come da sua abitudine. Con i vestiti gettati su un braccio e indosso solamente i boxer si voltò per raggiungere la porta della propria camera.
Il suo sguardo incontrò un paio di occhi sanguigni e brillanti come rubini che lo fissavano intensamente.
-S-sc-scusa! Non sono abituato ad avere gente in giro!-
Corse nel suo rifugio sbattendosi alle spalle la porta. Il cuore gli martellava nel petto e l’aria sembrava essersi trasformata in gelatina tanto gli era difficile respirare.
Cosa aveva Kagami? Non lo aveva forse visto nudo migliaia e migliaia di volte a tempi del liceo?
E cosa era preso a lui? Scappare in quel modo come una verginella sorpresa a spogliarsi da un vecchio marpione.
Eppure sentiva ancora il calore di quello sguardo. Sulla pelle della schiena, indugiava una sensazione simile a quella che lasciavano le carezze.
Scosse la testa per darsi una calmata ma non appena vide l’inequivocabile risposta del suo corpo l’agitazione crebbe trasformandosi in panico.
“Che diavolo mi prende? È vero che sono mesi che non mi prendo cura di questo aspetto… ma fino a ieri sembrava andare tutto bene! Che significa?”
Senza pensarci due volte agguantò un grosso asciugamano nero e si fiondò nel bagno senza guardarsi intorno. Tanto valeva occuparsene subito. Entrò nel box doccia e aprì l’acqua.
 
Era stato un pugno nello stomaco in piena regola. Se fosse stato in altre circostanze, non si sarebbe stupito così tanto, ma vedere Kuroko spogliarsi con lentezza scoprendo, un pezzo per volta, il suo corpo pallido e aggraziato  nel bel mezzo dell’ingresso lo aveva colto impreparato.
La luce chiara del lampadario  aveva illuminato la sua carnagione lattea, la schiena su cui i muscoli si intravedevano appena e quelle gambe snelle e scattanti che troppo somigliavano a quelle di una fanciulla.
Lo aveva spaventato.
In quel secondo che gli era servito per ritrovare la padronanza di se stesso aveva incontrato il suo sguardo e vi aveva visto nascere la consapevolezza. Quindi, alla fine si era fatto scoprire?
Prima di agitarsi e peggiorare le cose voleva appurarlo.
Sentì sbattere la porta del bagno e involontariamente la sua mente si riempì di inopportune immagini di Tetsuya nudo sotto al getto di acqua bollente, immerso in una nuvola di vapore caldo che si passava delicatamente le mani sul corpo.
No!
Serrando la mascella come tante, troppe volte aveva fatto durante gli anni del liceo, si impose di restare calmo. Prese un respiro profondo esercitando un ferreo autocontrollo anche  sul suo corpo. Dove poteva nascondersi se all’improvviso si fosse trovato una inequivocabile sporgenza all’altezza del cavallo?
Strinse i denti e fece un passo verso la portafinestra. Voleva uscire per andare a prendere una boccata d’aria fresca quando udì un verso provenire dall’altro lato della casa.
Poi di nuovo, e ancora.
Soffocati dallo scroscio dell’acqua e dalla porta chiusa ma comunque inequivocabili, gli stavano arrivando alle orecchie i lievi, sospirati gemiti di Kuroko.
-Merda!-
Si mosse fulmineo. In un attimo era fuori, in cortile.
Corse fino al punto più lontano dalla porta cercando di scrollarsi dalla pelle e dal cervello quei suoni così sensuali. Non doveva nemmeno abbassare lo sguardo. Sapeva di essere terribilmente eccitato.
Ma che diavolo era venuto in mente a quello scemo di Tetsuya? Come poteva non sapere di avere le pareti sottili?
Non osava nemmeno sistemarsi più comodamente i pantaloni per paura di peggiorare la situazione. Così decise di allenarsi per sfogare le energie represse.
Saltò, corse in circolo, fece piegamenti e salti di ogni genere. Sudò copiosamente ma il suo corpo non voleva saperne di darsi un contegno.
Jr era lì, più che sveglio e pronto all’azione. Sfregava contro i calzoni mandandogli piccoli brividi su per la spina dorsale. No. Non andava bene.
Fortunatamente quando un arrossato e alquanto tranquillo Kuroko si affacciò a cercarlo era riverso a terra a far flessioni.
-Non ti vedevo dalla finestra. Se vuoi, la doccia è… sì… è libera.-
Annuendo con quello che sperava essere un sorriso rassicurante si lasciò cadere restando prono sull’erba gelata.
-Grazie… finisco questa sessione e vado a farmi la doccia. Ne ho proprio bisogno.-
La serata proseguì tranquilla e silenziosa. Il padrone di casa soleva leggere prima di andare a letto, quindi, accoccolandosi su un angolo del divano si immerse in un libro che aveva sia l’aria che un titolo noiosi: “La cospirazione delle colombe”. Dal canto suo, un po’ meno agitato grazie al siparietto nella doccia, Kagami faceva zapping. 
Le immagini scorrevano sullo schermo e le persone dialogavano senza che lui vi prestasse davvero attenzione. Cavolo. La consapevolezza che a pochi centimetri da lui si trovava l’oggetto del suo desiderio, lo metteva in allarme.
Fece un salto quando il suo telefono squillò.
Un numero sconosciuto brillava sul display. Incuriosito rispose.
-Pronto?-
Una voce fin troppo familiare e indolente gli arrivò in risposta.
-Straniero, ho saputo che hai battuto in ritirata e adesso stai in terra Nipponica. Come te la passi?-
Shintarou Midorima lo aveva chiamato per sfotterlo?
Stava per rispondergli a tono quando l’altro aggiunse.
-Se ti va domani potresti passare nel mio studio a farti dare un’occhiata.-
Quell’offerta giunse così inaspettata e posta in modo sorprendentemente gentile che Taiga non potè far altro che accettare .
Dopo qualche convenevole di rito la chiamata finì.
-Chi era?-
A riscuoterlo fu il tono curioso e leggermente ostile di Kuroko. Lo guardava dritto in faccia, senza il minimo segno di dubbio.
-Era Midormia. Mi ha invitato a fare un salto da lui in studio a farmi controllare il ginocchio. A quanto pare sa anche essere gentile a volte.-
-È ovvio che sappia essere gentile… e… ricordati quel che ti ho detto sulle confidenze di Kise. Tu non dovresti sapere nulla.-
Esasperato dall’insistenza della richiesta con più enfasi di quanto volesse Taiga rispose:
-Certo! Certo! Io non so niente! Lo scimmione nippo-americano deve fare il bravo animaletto e tacere. Lo so!-
Cavolo. Aveva esagerato.
Senza dire una parola Tetsuya si alzò dal divano, mise a posto il libro e andò verso la sua camera chiudendosi piano la porta alle spalle.
Quando la porta si chiuse con un suono leggero Kagami lasciò andare il fiato. “Ma che mi prende? Non devo essere così brusco e maleducato. Ci sta provando. Mi sta ospitando anche…”.
Per un attimo gli balenò in testa Kuroko, lo stesso che ricordava dai tempi del liceo:  la pelle candida, i capelli tanto chiari da sembrare quasi bianchi, la voce bassa e tranquilla, perfino i tratti del suo viso erano… pacati, ma una cosa era assolutamente fuori dal comune: i suoi occhi. Il colore del cielo sembrava sbiadito a confronto, erano così limpidi e pieni di parole non dette, brillanti di ironia e affetto per chiunque incontrasse. Cavolo, erano troppo azzurri quegli occhi.
E lui li amava.
Amava come luccicavano di entusiasmo e come ardevano colmi di rabbia; ricordava quanto erano belli anche attraverso le lacrime e come si arrossassero facilmente. Li rivedeva ancora ridenti e pieni di amore quando si posavano su Nunero Due e sbiaditi, opachi nell’attimo prima di chiudersi al mondo e rifugiarsi nel sonno. Persino suo fratello ne aveva notato l’intensità.
Quel pensiero richiamò alla mente il viso familiare dell’amico con cui aveva condiviso la passione per il basket e con cui aveva giocato innumerevoli partite oltreoceano.
Tornando davanti alla tv prese il cellulare e scrisse un messaggio a colui che considerava in tutto e per tutto un fratello: Tatsuya Himuro.
“Ciao Aneki, sono finalmente tornato in Giappone, al momento vivo a casa di Kuroko, tu come te la passi? Riusciremo a vederci? L’ultima volta che sono venuto dovevi presenziare ad una mostra di tuoi dipinti e non siamo riusciti a incontrarci ma io non mi sono dimenticato che mi devi una birra. A presto. Taiga”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Ciao Taiga! Nemmeno io ho dimenticato la birra che ti devo! E sono felice di annunciarti che esporrò i miei quadri a Tokyo tra dieci giorni! L’apertura della mostra ci sarà il 12 Dicembre e si concluderà con un grande evento il 22. Ti aspetterò! Tatsuya.”
Sorridendo al pensiero di quanto la vita sua e di Himuro fosse cambiata rispetto a tanti anni prima Kagami  preparò il letto e si stese.
Nel silenzio e nella penombra del piccolo salotto che usava temporaneamente come stanza da letto si prese del tempo per osservare l’arredamento minimalista scelto dal padrone di casa. La libreria era l’unico mobile degno di nota, era grande, robusta e sembrava davvero pesante ingombra com’era di volumi di ogni genere, forma e dimensione.
Kuroko aveva sempre amato leggere, subito dopo il basket, per lui venivano i suoi adorati libri. Non era raro vederlo leggere per strada mentre rientrava dagli allenamenti e immancabilmente, essendo sbadato, inciampava o andava a sbattere contro qualche ostacolo inanimato procurandosi ridicoli bernoccoli. Sorrise al ricordo.
Amava le storie, amava i lieto fine e aveva sempre creduto che per tutti ci fosse un finale migliore se solo lo avessero perseguito con decisione e impegno. In pratica, tutta la sua vita era stata un inseguimento del proprio lieto fine. Chissà se si considerava a buon punto.
Non poteva immaginare una persona migliore di lui. Era un figlio attento e presente, uno studente diligente, uno sportivo serio e un amico sui cui poter contare. Contro ogni pronostico era diventato un maestro d’asilo e da quel che aveva intuito dai suoi racconti, doveva essere molto amato dai suoi piccoli studenti e, non contento, faceva volontariato. Cavolo, più ci pensava più una persona come lui diventava unica. Non era semplicemente rara.
I sensi di inferiorità tornarono a galla e, come anni e anni prima, si chiese come avesse fatto a coltivare la segreta speranza di piacere romanticamente ad un angelo come Kuroko. Lui era goffo, rabbioso e tutt’altro che gentile.
Diamine, sembrava il diavolo.  
E per di più il diavolo ora viveva da nullatenente in casa del cittadino modello. Non a scrocco, certo… però, a parte i lavori di casa e poco altro, la sua presenza in quella casa era inutile.
Avrebbe potuto cercarsi un lavoro, i soldi non gli mancavano di certo, ma le giornate erano pur sempre composte da ventiquattr’ore e, a ventotto anni, senza nulla da fare, erano irrimediabilmente infinite.
Poteva cercare un lavoro che non fosse sedentario e per cui fosse predisposto. Certo, il basket era fuori questione. Ormai aveva deciso di lasciare. Lo avrebbe relegato a semplice hobby.
Magari poteva entrare come Aomine in polizia, o diventare un carabiniere…
Con questi pensieri in testa si addormentò.
 
Tetsuya aveva dormito male. Sentiva il collo rigido e la testa ovattata, gli bruciavano gli occhi e la luce del sole peggiorava la situazione. A tentoni si vestì e barcollò fino all’asilo.
Non si era aspettato che Kagami potesse reagire in quel modo. Sì, erano secoli che non stavano a stretto contatto come lo erano in quel momento ma non si erano mai creati alcun problema; anzi, erano sempre andati sorprendentemente d’accordo.
Alla fine non gli aveva chiesto scusa per essere stato assillante e nemmeno per la sua scarsa loquacità.
Continuando a rimuginare Kuroko entrò in classe. Era ancora presto e come al solito si perse a guardare la cacofonia di colori che regnava sovrana. Eppure, per qualche strano motivo, non lo tranquillizzò come succedeva sempre.
Al suono della campanella i soliti bambini entrarono rumorosamente. Tra le urla e le risate il suo umore strano si dissolse.
Essendo bel tempo lui, Ryu e gli altri due insegnanti decisero di portare subito i bambini  in cortile, così le ore del mattino volarono tra un gioco e l’altro.
Quando c’erano quelle giornate così belle e limpide da sembrare finte, anche gli insegnanti si divertivano a stare in giardino, si improvvisavano maghi, giocolieri e inventavano giochi.
In un attimo arrivò mezzogiorno e Kuroko si prodigò a riportare in classe i suoi piccoli studenti, fece attenzione a far lavare le mani ad ogni singolo bambino e solo quando tutti furono puliti e sistemati diede loro il permesso di pranzare.
Come sempre la piccola Sakura, seduta solitaria nel suo angolino, sbocconcellava l’ennesima scodellina di riso bianco e, di nuovo, il maestro le allungò un dolcetto ricevendo in cambio un piccolo sorriso segreto.
Era la prima volta che la vedeva sorridere. La piccolina sembrava sempre una bambola: pallida, con la pelle liscia delle guance tanto candida da riflettere fiocamente la luce, gli occhi di un verde tanto penetrante e pulito da ricordare i germogli primaverili circondati da lunghe e folte ciglia ricurve.
Il sorriso le aveva disteso i lineamenti solitamente corrucciati trasfigurandola.
Non era più una bambola inquietante di fredda porcellana, ma una bambina dal cuore tenero che tentava di difendersi dal mondo.
Finito l’abbuffata Tetsuya distribuì alcuni disegni da colorare e nel silenzio che regnava interrotto solo dal raschiare delle punte dei pennarelli iniziò la lezione pomeridiana. Vista la relativa tranquillità, ad un certo punto Kuroko si sedette alla cattedra e si mise a leggere. Ogni tanto alzava gli occhi per controllare le sue amate  pesti e sempre le trovava lì, intente a colorare le varie forme cercando di rimanere nei margini.
Di punto in bianco  l’inconfondibile suono di un pianto in arrivo.
Nel giro di un secondo il maestro corse vicino a Minami, un ragazzino vivace e dalla lingua tagliente che aveva iniziato a piangere disperato tenendosi una gambetta grassottella.
-Cosa è successo qui?-
Gli doleva il cuore ogni volta che qualcuno di loro piangeva. Le labbra rosee e tremule del bimbo aspiravano l’aria a singhiozzo e le guance rosse erano striate di lacrime.
-S-sakura-chan… mi ha dato un calcioooo…-
Ancora lacrime e lamenti.
Tenendo il piccolo stretto al petto Kuroko alzò lo sguardo in cerca della bambolina solitaria. Non credeva che la bimba fosse manesca, anzi, era certo che non lo fosse, ma allora perché avrebbe dovuto dare un calcio a qualcuno?
Gli mancò un battito quando non vide traccia della bambina.
-Maestro, Sakura-chan è uscita dalla classe senza permesso.-
Shiori, un graziosa biondina tutta sorrisi e dolcezza indicò la porta dell’aula semiaperta.
Nel frattempo, visto che l’interesse del maestro non era più rivolto al suo inconsolabile dolore, Minami aveva ripreso a colorare il suo disegno apparentemente dimentico dell’ atroce pena.
-Ragazzi, io vado a cercare Sakura-chan, voi dovete promettermi di restare qui in classe seduti a colorare. Va bene?-
Detestava lasciarli lì, ma l’idea che la sua bambina più piccola e timida fosse in giro per l’asilo da sola, lo metteva in agitazione.
Uscì correndo dalla classe e percorse in fretta un corridoio.
-Kuroko-san, cosa ci fa qui?-
Che fortuna, uno dei tirocinanti della scuola per insegnanti che finalmente capitava al momento giusto.
-Kyotaro Suzuki-san… giusto?-
L’altro annuì.
-Ho bisogno che tu vada nella mia classe a tener d’occhio i bambini. Una di loro è uscita senza permesso e chissà dove si è cacciata.-
-Subito!-
Senza perdere tempo il ragazzo corse via e quando sentì il rumore della porta aprirsi e chiudersi Tetsuya tirò un sospiro di sollievo. Restava solo da cercare Sakura-chan.
Girò la struttura da cima a fondo, controllò nei bagni, nelle aule speciali, nelle altre classi e persino negli sgabuzzini. Nulla. Sembrava essere sparita nel nulla.
Non poteva aver lasciato l’asilo perché l’unica entrata era sorvegliata dal custode.
Proprio mentre cercava di farsi venire in mente un altro posto in cui cercare la piccola fuggitiva suonò l’allarme antincendio.
Nel giro di un minuto dalle aule uscirono file ordinate di bambini che sciamarono nei corridoi mantenendo un ordine militaresco. Facendo scorrere gli occhi sulla gnomica folla Kuroko fu pervaso dal terrore quando capì che Sakura non era lì.
In fretta  chiamò Ryu e mentre questi scortava i bambini verso l’uscita gli spiegò cosa stava succedendo e di avvisare i vigili in caso fossero arrivati prima che lui fosse uscito. Questi, visibilmente preoccupato gli intimò di sbrigarsi.
Correndo lungo i corridoi ormai vuoti Tetsuya chiamava la bambina gran voce ma non ricevette mai risposta.
Passarono una decina di minuti e l’edificio iniziò a riempirsi di fumo. La preoccupazione si trasformò in urgenza e poi in panico.
-Sakura! Rispondi! Sono il maestro Kuroko! Vieni fuori per favore, è pericoloso!-
La sua voce rimbombava nell’edificio silenzioso.
All’improvviso, quando ormai il senso di soffocamento era diventato insopportabile, sentì dei colpi di tosse.
Rinnovando la determinazione a trovare la bambina nonostante la mente iniziasse ad annebbiarglisi, iniziò a seguire quei versi struggenti e convulsi.
Provenivano dall’ala degli uffici. Non aveva ancora guardato lì perché i bambini non avrebbero nemmeno dovuto sapere come arrivarci.
Man mano che si avvicinava all’archivio il calore dell’aria si faceva più intenso e il fumo più denso che mai. Gli bruciavano gli occhi e avanzando a tentoni raggiunse la stanza dei colloqui. Vuota. Corse alla finestra e la spalancò beandosi dell’aria fresca e pulita che gli riempì i polmoni intossicati.
Tese le orecchie e ancora udì la bambina tossire.
-Sakura! Dove sei?-
Si precipitò nuovamente in corridoio tenendosi la manica della camicia premuta sul naso per respirare meno fumo.
Chiamò e chiamò ancora il suo nome ma non ottenne alcuna risposta. Il silenzio era irreale.
Controllò tutte le stanze, una dopo l’altra e ormai era disperato quando, in una ventata le fiamme arrivarono in corridoio isolandolo dal resto dell’edificio.
Il calore sul viso era insopportabile, gli occhi gli lacrimavano e a stento vedeva qualcosa a causa del fumo nero e denso che invadeva l’ambiente.
Aveva aperto ogni finestra ma non bastava a dissipare la cappa rovente. Vagando alla cieca si ritrovò a pensare che c’era una sola stanza che non aveva controllato. Il magazzino.
Era una stanza senza finestre nel cuore dell’edificio, con una porta piccola e scura. Veniva usata come ripostiglio per i materiali didattici.
Sforzandosi di mantenere la lucidità corse, o meglio barcollò, fino alla porta nera mentre le fiamme, seguendo la corrente d’aria creata dalle finestre aperte, iniziarono a risalire verso di lui ad una velocità spaventosa.
Inghiottendo il panico aprì la porta e si tuffò all’interno sbattendosela alle spalle.
Era buio pesto, il fumo si mescolava all’odore di cancelleria e di chiuso. Cercando di abituare gli occhi all’oscurità, Kuroko fece qualche respiro profondo cercando di riattivare il cervello.
Fu un errore.
Il fumo acre gli invase la gola e per un attimo lo soffocò.
Quando aprì nuovamente gli occhi si accorse di riuscire a intravedere gli alti scaffali che ricoprivano ogni parete e in un angolo, raggomitolata e priva di sensi, la piccola Sakura.
La mente confusa lo fece muovere a rallentatore; si accucciò vicino a lei, la prese tra le braccia e, assicurandosi che respirasse ancora, le legò un fazzoletto sul viso in modo che le coprisse naso e bocca. Poi la strinse a sé e cercò di elaborare un piano per scappare da quell’inferno.
Le fiamme bloccavano la porta, poteva vedere la sagoma rossastra stagliarsi nel buio come un monito infernale.
Non c’erano altri accessi alla stanza e gli era sempre più difficile restare cosciente.
-Tetsuya!-
Una voce forte, inconfondibile. Taiga.
Cosa ci faceva lì? Perché era entrato?
-Kaga…mi…-
Non aveva più forze, la gola riarsa bruciava come se gliel’avessero grattata con la carta vetro.
Ma ne andava della sua vita, e di quella di Sakura. Non seppe dove, ma trovò la forza di gridare:
-Kagami! Siamo qui!-
Mentre collassava debole sul pavimento polveroso non sentiva più il corpo e nemmeno il confortante peso della bambina che teneva tra le braccia. Un unico pensiero gli attraversò la mente: “voglio rivederlo. Voglio che sappia quanto è importante per me…”
Proprio mentre ogni residuo di coscienza lo abbandonava e il buio calava impietoso sul  mondo, la piccola porta si spalancò inondando del chiarore delle fiamme lo spazio buio. La sagoma alta e prestante di Taiga si stagliava sullo sfondo infuocato.
-Kuroko!-
 
Lo aveva sentito uscire, anzi, aveva ascoltato i lievi rumori che aveva fatto vestendosi e i suoi passi felpati mentre passandogli accanto andava alla porta. La cosa che in assoluto lo aveva colpito di più e anche lasciato senza parole era stata la lieve carezza, tanto impalpabile da sembrare il residuo di un sogno, che aveva sentito sulla guancia.
La mano fredda di Tetsuya lo aveva sfiorato con la delicatezza di un petalo e con una tenerezza infinita.
Cosa significava? Che era dispiaciuto per la sera? Che era dispiaciuto di averlo fatto arrabbiare?
Quando la porta di casa fu chiusa e i passi si furono allontanati, Kagami aveva aperto gli occhi e, alla luce del sole che filtrava dalle tende chiese la forza di sperare ancora.
Sperare che tutti quegli anni d’amore non corrisposto potessero in qualche modo coronarsi nel lieto fine che Kuroko pensava esistesse per tutti. Chiese, pregando a cuore aperto, che se qualcosa doveva andare per il verso giusto, quel qualcosa fosse il suo rapporto con Kuroko.
Si perse a sognare ad occhi aperti, immaginando come sarebbe stata la sua vita se Tetsuya avesse corrisposto i suoi sentimenti.
Dormire abbracciati, pelle contro pelle, la sua bollente contro quella fresca e serica dell’amato, accarezzarsi nella doccia senza imbarazzo, lasciando scivolare via la schiuma e sostituendola con tenere carezze.
Poteva quasi sentire la morbidezza delle sue labbra sulle proprie, il dolce sapore della sua bocca liscia… Cambiò intenzionalmente il corso dei suoi pensieri per non sconfinare in un territorio fin troppo scottante.
Diamine, lo voleva. Quante volte aveva fantasticato in quel modo quando era lontano, nel buio solitario delle sue notti? Quante volte aveva cercato di non pensare che a procurargli piacere non era la sua stessa mano ma quella di Kuroko? O la sua bocca?
Quante volte si era arreso all’orgasmo invocando a mezza voce il suo nome?
Si alzò cercando di non lasciarsi sommergere dallo sconforto. Quelle erano solo fantasie. Stupide fantasie frutto della sua incrollabile utopica speranza.
Era proprio il caso di arrendersi all’evidenza.
Nonostante il grande affetto e la profonda amicizia che gli dimostrava Tetsuya, non c’era altro e non ci sarebbe mai stato altro.
Lavatosi il viso Taiga si vestì, riassettò il salotto, spazzò i pavimenti e, continuando a rimuginare, finì per tirare a lucido tutta la casa. Non avendo altro da fare decise di andare da Midorima, la cui gentile offerta ancora lo stupiva.
Una mezz’oretta più tardi con lo stomaco pieno di panini, giunse finalmente a destinazione. Lo studio si trovava al piano terra di un palazzo residenziale, la porta d’ingresso era aperta e decine di sedie vuote ingombravano l’ingresso su cui davano tre porte.
-Midorima..?-
Kagami non sapeva dove andare.
-Ciao straniero!-
Kazunari Takao, sporgendosi dalla porta sulla destra, gli sorrideva. Ma che diavolo ci faceva lì?
-Ciao, mi aspettavo…-
La risata del moretto lo interruppe.
-Aspettavi Shin-chan, vero? Arriva subito, sta rimettendo a posto la spalla lussata di un karateka.-
Nemmeno il tempo di dirlo ed eccolo comparire, seguito da un pallido ragazzone che aveva l’aria di poter svenire da un momento all’altro.
-Eccoti. Vieni, entra.-
Di poche parole come al solito.
La sala visite era spaziosa, con due diversi lettini, un’enorme scrivania nera e alcuni armadietti bianchi come le pareti. Alle spalle della scrivania l’intera parete era una finestra che si affacciava sul cortile interno del palazzo; un’area verde con aiuole curate e un’area dedicata ai bambini.
-Bello qui.-
Cavolo. Gli era sfuggito dalle labbra.
-Grazie. Accomodati qui e sfilati i pantaloni se non ti dispiace. Diamo un occhiata a quel vecchio ginocchio.-
Kagami si slacciò la patta iniziando rapidamente a calarsi i pantaloni quando, proprio di fronte alla finestra, ecco apparire una vecchia signora. Arrossendo per l’imbarazzo il giovane si affrettò a rivestirsi.
-Non può vederti, i vetri fuori sono a specchio.-
La voce di Shintarou era velata  di ironia.
Le mani del medico erano delicate  sulla sua pelle e le sue domande mirate e competenti. Gli esaminò la piccola cicatrice rosea, gli mosse la gamba più e più volte in molti modi differenti e infine annuì.
-Immagino ti abbiano messo nelle mani dei migliori. Il tuo ginocchio è come nuovo, se non fosse per la cicatrice e per ciò che mi hai detto non si direbbe che l’infortunio risalga a poco più di otto mesi fa.-
Taiga ridacchiò ripensando al panico dell’allenatore e del suo manager quando era stato portato via dal campo in barella e al loro scoraggiamento quando il bollettino medico aveva annunciato al mondo la rottura del legamento crociato. In molti lo davano per finito ma un po’ la sua tempra e un po’ la sua straordinaria sopportazione del dolore nelle prime settimane di fisioterapia gli avevano permesso di tornare come nuovo. O quasi.
Se il ginocchio era tornato quello di prima la sua testa non era più la stessa.
-Sì, dai migliori in assoluto.-
L’altro lo osservò per un lungo momento in silenzio.  Gli occhi verdi dietro le lenti erano imperscrutabili e la linea severa delle labbra non lasciava intuire nulla sulla linea dei suoi pensieri.
-Perché il ritiro?-
Una domanda che si era sentito porre fino allo sfinimento eppure, fino a quel momento, gli era sempre stata posta per i motivi sbagliati. Midorima sembrava aver intuito qualcosa.
-Immagino che la parola “panico” in qualche modo non sia sufficiente a spiegarlo. Sì, è vero, ho paura che tornando a giocare sconsideratamente come facevo io possa rischiare altri infortuni, ma più di quello…-
Fece una pausa cercando per la prima volta di spiegare il grumo di emozioni che aveva dentro.
-… se smetto ora di essere un pazzo sconsiderato, il basket potrà sempre far parte della mia vita… invece…. se per caso mi facessi seriamente male… dovrei abbandonarlo per sempre e non solo a livello professionale.-
Ancora un respiro profondo e poi:
-Io amo il basket perché posso giocare con quelli che reputo i miei più cari amici, il resto è un fortunato “di più”; rinunciare alla carriera sportiva non è poi una gran cosa, ho già dato… ma rinunciare alle partite con Kuroko… con te e con gli altri… questo sì che sarebbe tremendo.-
Il silenzio che seguì le sue parole era carico di tutte quelle emozioni che non avevano un nome ma che entrambi sapevano essere dannatamente importanti.
-Capisco. Quindi ora cosa farai?-
Già, bella domanda.
-Suppongo che cercherò un lavoro normale e mi costruirò una vita normale.-
L’altro annuì e proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e la testa di Takao fece capolino.
-Shin-chan, è arrivato il Professor Takeda. Lo faccio accomodare in sala d’aspetto o avete finito?-
Kagami passò lo sguardo dall’uno all’altro. Non sembravano stare insieme, anzi, gli sembravano sempre i soliti.
Probabilmente i suoi pensieri erano facilmente intuibili perché il medico. osservandolo attentamente, disse:
-Abbiamo finito Takao. Aspetta solo un minuto che Taiga si rivesta.-
Fece una pausa e, prima che l’assistente chiudesse la porta…
-Ah, Takao. Ti ho detto mille volte che quando bussi devi aspettare che io ti dia il permesso di entrare. Stasera ti punirò a dovere, in modo che così tu possa ricordarlo per le volte successive.-
Sotto lo sguardo perplesso dell’ex cestista la pelle di Kazunari Takao assunse una sfumatura molto simile a quella delle Mele Fuji: rosso scarlatto.
-Sh-Shin-chan…-
Ok. Decisamente stavano insieme e aveva appena scoperto un lato di Midorima che mai avrebbe immaginato esistesse. Si ricompose in tutta fretta e salutando frettolosamente con la promessa di organizzare una serata da passare insieme fuggì da quello strambo ambulatorio.
Respirando l’aria fresca di inizio Dicembre si incamminò verso casa quando, all’improvviso lo colse una strana urgenza.
Infastidito dalla sensazione sgradevole accelerò il passo senza sapere per quale motivo si sentisse così.
Ancora qualche passo frettoloso poi si mise a correre mentre cercava di chiamare Kuroko. Gli aveva assicurato di avere sempre il telefono a portata di mano e di non preoccuparsi degli orari.
Squillò e squillò a vuoto. Nessuno rispose.
Corse ancora e ancora fino a quando non giunse all’altezza di casa loro. C’era molta gente e in fondo alla strada sciamavano decine di bambini. In cielo una nuvola nera di fumo.
Un pensiero terribile gli attraversò la mente.
Riprese a correre facendosi largo tra la folla e quando giunse a destinazione non potè credere ai propri occhi.
Buona parte della struttura era avvolta dalle fiamme. Subito si mise a cercare con lo sguardo l’unica persona di cui gli importasse più della sua stessa vita. Non vi era ombra ti Tetsuya.
Addocchiò uno dei maestri dell’asilo che verosimilmente avrebbe potuto dirgli dove diavolo si fosse cacciato quello sconsiderato.
-Scusami… sto cercando il maestro Kuroko…-
L’altro, per quanto agitato e sotto shock assunse una espressione che gli fece crollare il mondo addosso.
-Kuroko… non è ancora uscito… stava… stava cercando una bambina… Sono passati già dieci minuti… i pompieri dovrebbero arrivare ma…-
Non voleva sentire altro.
Allontanandosi dalla folla inflò la testa sotto il getto della fontanella posta in un angolo del cortile. L’acqua gelida gli bruciò la pelle. Sfilandosi la giacca e la felpa di nylon si adoperò a bagnare anche tutti i vestiti che aveva indosso.
Così, gocciolante e gelato aggirò l’assembramento di gente e costeggiando l’edificio individuò una finestra aperta, e poi un’altra, e un’altra ancora.
Guardando all’interno vedeva solo fumo e il chiarore sinistro delle fiamme, il crepitio del fuoco era assordate ma per un attimo, al di sopra del rumore sentì la voce di Kuroko che chiamava tossendo il nome di qualcuno.
Ancora prima di pensare a un piano scavalcò il davanzale e si gettò a capofitto in corridoio.
Il calore era insopportabile, i suoi vestiti stavano già iniziando ad asciugare e l’aria densa rendeva difficile respirare.
Percorrendo qualche metro cercò di guardarsi attorno, tutte le stanze avevano le finestre aperte e in cuor suo sperò che fosse stato Tetsuya ad aprirle.
Tese l’orecchio alla ricerca di un indizio, anche il rumore più flebile, che gli dicesse che lui era ancora vivo e che stava bene ma sentiva solamente la voce del fuoco. Imprecando e tossendo continuò a perlustrare ogni stanza, ad aprire ogni porta. Ma il risultato non cambiava mai.
Tutte le volte che abbassava una maniglia la speranza gli fioriva nel petto per poi spegnersi di fronte all’evidenza.
Poi un rumore. Una parta sbattuta, dei colpi di tosse convulsi. Poi il silenzio.
Rinvigorito da quel piccolo segnale Kagami riprese ad avanzare incurante del calore, dimentico delle fiamme che sembravano seguire il suo cammino.
Si trovò davanti un nuovo corridoio, corto, spoglio, invaso dalle fiamme tra cui spiccava un’unica piccola porta nera. Un ultimo colpo di tosse. Poi il silenzio.
No! Non era finita. Lo avrebbe salvato. 
-Kuroko!-
Non aspettava altro che la conferma della sua presenza. Passarono i secondi e gli sembrarono ore, poi…
-Kagami! Siamo qui!
Gettandosi tra le fiamme a testa bassa promise a se stesso che se fosse riuscito a salvarlo gli avrebbe confessato ogni cosa.
La pelle gli ardeva e aveva la sensazione che le fiamme lo stessero divorando ma, in qualche modo, riuscì  a raggiungere e a spalancare la porta.
Lo accolse il buio, squarciato dalla fioca luce infernale delle fiamme dietro di lui e lì, tra gli alti scaffali, accasciato con una bambina tra le braccia inermi, c’era Kuroko.
Fece in tempo e vedere il suo viso distendersi dal sollievo e quegli troppo azzurri occhi brillare di gratitudine un attimo prima di chiudersi.
-Kuroko!-
Precipitandosi all’interno e crollando in ginocchio accanto a lui Kagami lo prese tra le braccia.  Per un attimo lo strinse a sé e tutto il resto scomparve.
Fu un piccolo colpo di tosse a riscuoterlo. Abbassando lo sguardo incontrò due grandi, curiosi occhi verdi. La bambina era impolverata, aveva legato sul viso un fazzoletto che la aiutava a non respirare il fumo acre e lo guardava.
-Sei un amico del maestro Kuroko?-
Che vocina roca e debole! Gli si strinse il cuore a sentirla, così senza pensare allungò una mano e prese tra le dita la sua piccola manina.
-Sì, sono venuto a prendervi e a portarvi via di qui.-
Sakura si guardò attorno e poi, inaspettatamente avvicinò il visino sporco a quello pallido di Tetsuya.
-Il… maestro sta bene? È venuto a cercarmi..-
Kagami ebbe un moto di tenerezza nei confronti di quella donna in miniatura che si preoccupava di aver messo in pericolo il proprio adorato maestro. Con la mano libera scostò i capelli dal viso sudato dell’incosciente oggetto di tutte le loro attenzioni.
Era ora di muoversi, il fumo aveva riempito la stanza e le fiamme stavano divorando la porta ad una velocità disamante. Guardandosi attorno Taiga si rese contro che non c’erano vie d’uscita.
“Pensa, pensa, pensa maledizione!”
E proprio quando stava per arrendersi una delle pareti che rendevano la stanza una trappola per topi crollò.
Approfittando della via d’uscita, e soprattutto dell’apparente distanza delle fiamme, prese di peso Kuroko e la bambina gettandosi fuori da quella stanza maledetta. Da lì forse sarebbero riusciti a uscire.
 
La coscienza tornò per gradi. Sentiva i suoni, le voci ed era sicuro di aver sentito quella di Kagami. Cercò di riemergere da se stesso ma non trovava i propri occhi e nonostante fosse consapevole di respirare, non riusciva a capire come far arrivare le parole alla bocca.
-…roko! Kuroko! Svegliati, siamo fuori, sei al sicuro adesso!-
Oh, di nuovo la voce di Taiga,  ma aveva qualcosa di strano. Era roca, bassa, meno penetrante del solito.
-Maestro Kuroko svegliati! Stiamo bene!-
Se avesse saputo dove fosse la bocca avrebbe tirato un respiro di sollievo. Sakura-chan era al sicuro. Stava bene.
Qualcosa di fresco gli si posò sulla fronte e all’improvviso la consapevolezza del proprio corpo tornò.
Aprì gli occhi e fu accecato dalla luce del giorno. Sopra di lui il cielo era di tutte le sfumature del rosso e del viola. Poi nel suo campo visivo entrarono due visi familiari e decisamente sollevati.
Due forti braccia lo strinsero contro un petto ampio e duro.
-Dio, meno male che sei salvo. Se non fossi riuscito…-
La voce del suo migliore amico si ruppe prima di perdersi nel silenzio. I suoi occhi di rubino brillavano di lacrime trattenute. Quella visione gli trafisse il cuore come un pugnale. Si riscosse solo quando Kagami lo aiutò a tirarsi su.
Si ritrovò seduto sull’erba del cortile, i pompieri stavano tentando di spegnere le fiamme, la folla che assisteva al rogo era incredibilmente silenziosa mentre osservava il fuoco divorare l’edificio che era stato come una seconda casa per così tante generazioni.
Era un momento incredibilmente triste, eppure, Kuroko non riusciva a trattenere la gioia di essere vivo, la consapevolezza di dovere a Taiga molto più di un grazie, molto più di quanto le sole parole potessero esprimere. Spostò lo sguardo su di lui.
Era coperto di cenere, la maglietta era bruciacchiata così come i pantaloni e la pelle arrossata in più punti, ma la cosa che attirò la sua attenzione fu la dolcezza con cui teneva Sakura tra le forti braccia.
La piccola, dimentica della timidezza che era solita sfoggiare, teneva il capo appoggiato contro il suo petto, gli occhi chiusi.
Seguendo il suo sguardo l’altro commentò:
-È stata davvero coraggiosa. Era anche preoccupata per te. Immagino che sia stanchissima.-
Le sue parole appena sussurrate incorniciarono quel quadretto perfetto.
Dopo quelle che sembrarono ore l’incendio fu spento, il buio ormai nascondeva lo scempio che era rimasto dello splendido asilo.
Tutti i bambini furono portati via dalle rispettive famiglie; tutti tranne Sakura. Nessuno era venuto a prenderla nonostante l’ora tarda.
-Come mai nessuno è venuto?-
La voce di Kagami era bassa per non svegliare la bimba che teneva tra le braccia mentre con lo sguardo le accarezzava il visino sporco di cenere.
-Non viene mai nessuno. Torna a casa da sola.-
Allontanandosi dall’edificio Kuroko spiegò all’amico la situazione della piccola, o almeno quello che era riuscito a intuire nel poco tempo che aveva avuto per conoscerla. Alla fine del suo racconto l’altro tremava di rabbia, gli occhi in fiamme.
-Come si più mettere al mondo un figlio e poi lasciarlo vivere in questo modo? Come si fa a non amare una creatura così fragile e graziosa?-
Le braccia strinsero la presa sul corpicino addormentato.
Anche Tetsuya tremava di rabbia al pensiero che i genitori non si fossero presentati nonostante la chiamata telefonica dei suoi colleghi.
Mosso da una determinazione di ferro, nonostante il dolore alla testa, il bruciore alla gola e la sensazione di galleggiare piuttosto che di camminare, aveva cercato l’indirizzo sul registro di classe e adesso, insieme ad un infuriato e altrettanto stanco Kagami, stava riportando la bambina a casa per accertarsi coi propri occhi della situazione.
La casa di Sakura non era lontana, il palazzo rinfrescato da poco era di un verde brillante che quasi feriva gli occhi, l’androne era aperto così i due salirono le scale e, arrivati al quarto piano più provati del previsto, pregarono di trovare qualcuno in casa.
Kuroko suonò il campanello una decina di volte ma sembrava non esserci nessuno. Stava per arrendersi quando, finalmente, la porta si aprì.
Una donna spaventosamente magra occupò la porzione di spazio liberato dalla porta semiaperta.
Aveva gli occhi infossati e opachi, le labbra screpolate e tra le mani stringeva spasmodicamente il collo di una bottiglia.
-Chi shiete?-
La zaffata alcolica che li investì quasi fece rimettere Kuroko sullo zerbino.
-Sono il maestro di sua figlia, c’è stato un incendio e dovrebbe aver ricevuto la chiamata di un mio collega che le richiedeva di venire a prendere la piccola.-
La donna si strinse nelle spalle con un’espressione annoiata.
-E allora? Shakura torna da shola. Grazie a Dio ha imparato finalmente.-
A quel punto la rabbia ebbe il sopravvento.
-Si rende conto che sua figlia ha rischiato di bruciare viva dentro la scuola? Non capisce la gravità della situazione?-
La voce roca rovinava la paternale ma le parole furono comunque chiare abbastanza da superare la nebbia dell’ubriachezza nel cervello della donna. Forse.
-E allora? È una sfortuna che sia tornata a casa. Da quando suo padre se n’è andato lasciandomela non è stata altro che un fastidio. Vuole giocare, vuole mangiare, vuole andare al parco, vuole che la ascolti… sa solo volere e pretendere quella piccola ingrata!-
Una grossa mano gli si posò sulla spalla.
-Kuroko, si sta svegliando. Aspettiamo giù, non voglio che senta quanto sia meschina e nauseante sua madre.-
Detto questo, avviluppando ancora di più il piccolo morbido fagottino, scese le scale sparendo alla vista.
-Lei è sua madre! È ovvio che una bambina di quattro anni voglia giocare e chieda da mangiare quando ha fame! Come può trattare così la bambina che ha partorito?!-
Stava rapidamente perdendo quel refolo di pazienza che gli era rimasto.
-Io non ho mai voluto un figlio! Quello stronzo di mio marito ha insistito così tanto per averlo ma quando lei ha compiuto tre anni se n’è andato lasciandomela senza pensarci due volte! Vorrei che sparisse! Vorrei non averla mai partorita!-
Travolto  e accecato dalla giornata infernale, dalle troppe emozioni e dalla rabbia Tetsuya urlò:
-Non vuole prendersene cura? Allora la lasci a me! Le porterò al più presto i documenti per l’adozione! Si vergogni! Lei non merita una bambina buona come Sakura!-
Detto questo fece dietrofront e a passo di carica tornò al pianterreno dove un attonito Kagami lo aspettava con un’espressione sgomenta sul viso.
-Vuoi adottarla?-
Non era una persona che faceva le cose così, di getto, senza riflettere, eppure sapeva, in cuor suo, che quella era la decisione giusta.
-Sì, la crescerò io. Merita di più di questo schifo ed io… posso darglielo.-
La risolutezza lo sorresse nel lungo tragitto fino a casa e gli diede la forza di spogliare la piccola, metterle una sua maglia, che le era ovviamente enorme, e sistemarla nel proprio letto.
Tornò in cucina e la stanchezza gli piombò addosso di colpo ma doveva ancora ringraziare Kagami per avergli salvato la vita, per averlo salvato ancora.
Lo trovò ancora vestito e sporco di fuliggine, semincosciente sul divano.
-Kagami… io… devo… sì, devo ringraziarti… tu…-
Stava cercando di costruire una frase che contenesse ogni emozione che gli ribolliva nel petto, che lo ringraziasse per ogni istante che gli aveva regalato, perché ogni giorno con lui era stato la sua salvezza, quando l’altro parlò.
-Io ti amo Kuroko. Non volevo dirti nulla per paura di perderti, di sgretolare la nostra amicizia, ma oggi, mentre ti cercavo e credevo di non riuscire a salvarti… io… ho capito… che dovevo dirtelo… prima che fosse… troppo tardi…-
La mente di Tetsuya andò in blackout. Cosa stava dicendo? Era sveglio? Parlava nel sonno?
Lo guardò ancora: aveva gli occhi chiusi, la fronte distesa nel rilassamento del sonno e il respiro pesante.
Aveva sentito bene, giusto? Kagami era innamorato di lui e si era deciso a dirglielo perché aveva avuto paura di vederlo morire prima di poterglielo dire almeno una volta.
E lui? Cosa provava per Taiga? Non era forse stato il suo punto di riferimento? La sua luce? Non era stato un esempio di forza e determinazione? L’unico senza cui non sarebbe riuscito a esistere?
In un flash ricordò il suo ultimo pensiero lucido prima di svenire quel pomeriggio.
Voleva sopravvivere per potergli dire quanto fosse importante lui e quanto fosse felice che avesse deciso di tornare nella sua vita. Voleva chiedergli di restare e promettergli di diventare più loquace e accomodante, voleva dividere con lui le giornate e le feste e ogni motivo per sorridere.
Gli venne in mente lo sguardo infuocato che la prima sera il suo inquilino gli aveva rivolto e con un certo imbarazzo ripensò a come il suo corpo aveva reagito.
Era forse amore quello? Desiderare tutto di qualcuno nel bene e nel male? Una fitta alla testa lo costrinse ad sospendere i ragionamenti complessi.
Crollò sul letto accanto a Sakura addormentandosi ancor prima di toccare il cuscino.
Quando aprì gli occhi impiegò qualche secondo a rendersi conto che ogni suo ricordo era reale. Sentiva la gola ancora riarsa e dolorante, la pelle sensibile dove il calore l’aveva lambita troppo a lungo, sul cuscino accanto al suo spuntava la testina della piccola bimba che aveva deciso di tenere con sé.
E Kagami…
Gli tornò in mente ciò che la sera prima aveva sentito. A mente lucida, pensandoci, probabilmente aveva sempre corrisposto i suoi sentimenti. Senza saperlo, ovviamente, ma era certo che fosse così. Questa consapevolezza lo spinse ad alzarsi e a raggiungerlo in salotto.
Il divano sembrava essersi rimpicciolito. Il lungo e massiccio corpo del cestista occupava ogni centimetro quadrato di superficie, un piede addirittura penzolava nel vuoto e così anche un braccio.
La luce del sole filtrava dalle tende regalando ai suoi magnifici capelli migliaia di riflessi color sangue, la stessa ardente tonalità degli occhi ora chiusi.
In silenzio, continuando a contemplare i lineamenti spigolosi e mascolini di Taiga, Kuroko si avvicinò a lui e gli fece delicata carezza su una guancia.
Sì, era lui. E sì, era amore quello che gli fioriva nel petto mentre lo guardava dormire.
Senza rendersi conto di quel che stava facendo si chinò e appoggiò le labbra sulle sue in  un bacio appena accennato.
La bocca di Kagami si animò contro di lui restituendogli il bacio.
Scattando all’indietro Tetsuya lo guardò sentendo il rossore risalirgli il collo, le guance e le orecchie ma prima che potesse dire qualcosa l’altro disse, guardandolo negli occhi:
-Io ti amo Tetsuya. Ti amo fin dal primo anno del liceo. Non voglio più scappare da questi sentimenti. Non dopo ieri… quando… quando…-
Ancora una volta la sua voce si perse e su quel volto cesellato ad arte si formarono i segni tipici del dolore.
 
Ecco, si stava di nuovo lasciando trasportare dalle emozioni e non riusciva a parlare. Aveva un blocco in gola, era sopraffatto dal terrore che lo attanagliava al pensiero di essere arrivato così vicino a perderlo. Stava ancora cercando di venire a patti con quel turbinio di sentimenti quando:
-Anche io… sono innamorato di te … Kagami…-
Stupito, frastornato e incredulo sollevò lo sguardo sul ragazzo che lo guardava dall’alto in basso con la consapevolezza e l’imbarazzo che brillavano in quegli occhi troppo azzurri.
Una risata gli squassò il petto. Incontrollabile.
-Che scemo che sono stato! Quanto tempo ho aspettato, quanto sono dovuto andare lontano per non espormi e poi… tu hai sempre ricambiato! Aaaah! Sono un vero idiota!-
Fu il turno di Kuroko ridere in quel suo modo così delicato. Quando riuscì a riprendere fiato si abbassò di nuovo su di lui, avvicinandosi con lentezza alle sue labbra mentre lo fissava invitandolo a perdersi in quell’azzurro terso come il cielo d’estate. E lo fece. Si perse.
Fu un bacio timido all’inizio, un tenero sfiorarsi di labbra, ma presto non riuscì più a controllare la propria irruenza e afferrando saldamente Tetsuya per le spalle lo sbilanciò facendoselo cadere addosso.
Soffocò con il proprio bacio l’esclamazione di sorpresa e proprio in quel momento aprì le labbra. Con la lingua accarezzò la sua bocca tremante e questa si aprì senza esitazione permettendogli di assaggiare il suo vero sapore.
Se prima il gusto più forte era quello del fumo e della cenere, Kagami, in quel momento, sentì il vero sapore dell’uomo che amava. Era dolcemente delicato, come un tè lasciato poco in infusione.
Gli diede subito alla testa. Voleva di più.
Anche Kuroko si dimenava contro il suo corpo cercando sempre più vicinanza, ma, proprio quando stavano per cedere al bisogno di avvicinarsi ancora, sentirono la porta della stanza aprirsi piano.
Subito Tetsuya si raddrizzò con il volto illuminato dal rossore della passione .
-B-Buongiorno Sakura-chan.-
Kagami, dal canto suo stava ancora cercando di capire cosa fosse successo. Un attimo stava assaporando la delizia delle delizie  e l’attimo dopo l’oggetto delle sue attenzioni se ne stava ritto come un fuso a sorridere come uno scemo in direzione della piccola.
Aspetta un attimo…! Piccola?!?! Si sollevò dal divano ed effettivamente una Sakura-chan spettinata con indosso una maglia decisamente troppo grande per lei, stava a piedi nudi sulla soglia.
La bimba fece qualche passo avanti, sembrava volesse dire qualcosa.
-Maestro Kuroko… ma.. quindi… ora… sei tu il mio… papà?-
Kagami la osservò mentre alzava lo sguardo per guardare Tetsuya che si stava letteralmente sciogliendo nel sentirsi chiamare “papà”. Ci mise un po’ a ricomporsi e poi...
-Si, Sakura, la tua mamma mi ha dato il permesso di essere il tuo papà. Se vuoi puoi restare qui con me.-
In un secondo la bambina coprì la distanza che la separava da lui che la prese al volo e la sollevò per abbracciarla stretta. Gli angoli degli occhi umidi di commozione.
-ah!-
La piccola adesso lo stava fissando. Kagami dal canto suo cercò di assumere un’espressione tranquilla e rassicurante. Azzardò un mezzo sorriso.
-Oto-chan, anche lui è mio papà?-
Un momento di imbarazzo che sembrò contenere ore di riflessioni. Kagami sentì il cuore fermarsi un attimo e poi ripartire al galoppo mentre fissava quei grandi occhi così verdi da sembrare dipinti e se ne innamorava perdutamente.
Vide Kuroko voltarsi lentamente verso di lui con la bimba sempre in braccio che lo osservava curiosa.
-Sì, Sakura-chan, anche lui sarà il tuo papà.-
Mai. Mai da quando si era infortunato al ginocchio aveva pensato di trovare qualcosa che lo rendesse felice come giocare a basket senza riflettere sulle conseguenze e invece, lì, in quell’appartamento decisamente troppo piccolo c’erano l’uomo che amava da troppi anni per poterli contare  che gli aveva confessato di amarlo a sua volta e la bimba che stava scoprendo di amare in maniera altrettanto assoluta e definitiva.
Non poteva chiedere nulla di più al proprio destino. E nemmeno voleva.
Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno: l’Amore.
 
Una settimana dopo un Kuroko carico degli scatoloni che contenevano i suoi amati libri varcava la soglia del nuovo appartamento seguito da Kagami che teneva in bilico altri pacchi e aveva sulle spalle una raggiante Sakura che gli si aggrappava alle orecchie.
Era successo tutto così in fretta.
Dopo l’incendio avevano finalmente scoperto di amarsi e nel frattempo lui aveva deciso di adottare una bambina di quattro anni, così, un po’ per necessità e un po’ perché poteva tranquillamente permetterselo, Taiga aveva usato buona parte dei suoi guadagni americani per acquistare una villetta da sogno.
La prima giornata come famiglia l’avevano trascorsa tra docce, bagnetto e compere. Sakura aveva bisogno di vestitini e di giocattoli e di tutte quelle cose che una bambina di quattro anni dovrebbe avere.
Alla sera si erano accoccolati tutti e tre sul divano a guardare i cartoni animati e, quando finalmente la piccola principessa si era addormentata sfinita e avevano potuto trasportarla nel lettone, i due si godettero un po’ di intimità.
Scottature e timore di far rumore impedirono loro di lasciarsi andare completamente e apprezzare appieno il tempo insieme e per questo, Kuroko ne era ragionevolmente sicuro, il giorno dopo Kagami era misteriosamente scomparso per ricomparire, qualche ora dopo, con le chiavi della nuova casa.
Distava poco meno di un isolato dall’asilo che stava pian piano tornando quello di un tempo, aveva un giardino enorme con alberi, aiuole e lo spazio per montare un gazebo d’estate, non chè un angolo in cui era stato sistemato un canestro professionale.
La casa era semplicemente splendida: era una costruzione moderna su un solo piano, l’ingresso era un grande open-space con il salotto e le preti bianche sembravano renderlo ancora più grande, c’era una stanza padronale ampia e luminosa con l’accesso ad un altro piccolo giardino privato attrezzato con una piccola piscina; il bagno, tutto sui toni del panna e del tabacco, sembrava uno degli stanzoni delle terme, vi era una vasca che avrebbe potuto tranquillamente contenere sei persone della stazza di Taiga ma era dotato anche di un tecnologico box doccia e dei servizi dalle linee minimali ma eleganti.
I vani che in assoluto erano i più belli, però, erano la stanzetta di Sakura tutta sui toni del lilla e del giallo pallido ingombra di giocattoli e così colorata da mettere allegria a chiunque vi entrasse; e la cucina: luminosa, spaziosa e dotata, invece della semplice penisola dell’appartamento precedente, di un tavolo a cui si sarebbero seduti a far colazione insieme. Tutti e tre.
Con l’aiuto di Aomine e  Kise avevano trasportato quasi tutte le loro cose nel giro di due giorni e finalmente, con quelle ultime scatole, il trasloco poteva dirsi concluso.
Appena chiusa la porta alle loro spalle Kagami fece scendere Sakura che come un fulmine si fiondò in camera sua a giocare mentre loro iniziarono a riempire la nuova robusta libreria che avrebbe ospitato la sua collezione letteraria.
-Abbiamo fatto presto-
Taiga si stava massaggiando le spalle e subito, a Kuroko venne voglia di scostargli le mani per essere lui a dargli sollievo.
Invece, obbedendo al buonsenso, si catapultò in cucina. Avevano invitato i loro amici a vedere la casa nuova e Taiga aveva insistito per preparare la cena. Ovviamente non poteva fare tutto da solo.
Tra uno spadellamento e l’altro i due si scambiarono qualche bacio e qualche carezza alimentando il fuoco che ribolliva sotto la loro pelle da più di una settimana. Finalmente, quella notte, avrebbero potuto godersi l’intimità senza paura di essere sentiti o interrotti dalla bambina. La casa aveva le pareti spesse robuste, in più, quelle della stanza padronale, su richiesta esplicita di Kagami erano insonorizzate.
Mezz’ora dopo suonò il campanello.
Shintarou e Takao furono i primi ad arrivare e mentre il burbero medico girava per la casa commentandone il lusso, il compagno si perse a giocare con la principessa del castello. Quando arrivarono Aomine e Kise le chiacchiere animarono l’aria, i racconti intrecciati nella musica dell’amicizia mentre la vocina acuta e allegra di Sakura scampanellava a destra e a sinistra.
Tutti si innamorarono di lei.
Persino Midorima, che subito aveva preferito rimanere a distanza, grazie all’intervento di Takao, si era trovato seduto su una piccola sedia nella stanzetta lilla a fingere di bere tè da una tazzina rosa.
Ovviamente, Daiki aveva trovato la scena talmente ridicola da volerla immortalare con una fotografia a tradimento. Era quasi ora di cena quando il campanello suonò ancora.
Murasakibara varcò la soglia e, con suo sommo stupore, lo fece senza doversi abbassare. La perplessità gli si leggeva in viso.
-Ho cercato una casa che avesse le misure occidentali. I soffitti e gli stipiti sono più alti.-
Kagami ridacchiava come un ragazzino nel vedere la faccia del gigante.
-Oh!-
Si riscosse il nuovo arrivato.
-Ho portato il dolce.-
Sollevò un enorme pacco di pasticcini che fu accolto da sonori versi di approvazione.
In un primo momento Sakura fu intimorita da quell’uomo grande, grosso e musone ma, dopo cena, quando aveva scoperto che i dolci squisiti di cui si era golosamente rimpinzata erano stati fatti da lui, la bambina aveva deciso che non faceva poi così tanta paura.
Avvicinandosi un po’ timidamente a lui, gli posò una mano su un ginocchio. Lui abbassò lo sguardo su di lei e per la prima volta  potè apprezzarne i tratti delicati e grandi occhioni verdi.
- Zio Atsushi… mi insegnerai a fare i dolcetti al cioccolato un giorno?-
Forse il tono di voce, forse l’innocenza trasparente di quel visino da bambola, o forse solamente la simpatia della richiesta fecero il miracolo: Il muso lungo che Murasakibara era solito sfoggiare si trasfigurò in un sorriso radioso che lasciò i suoi più vecchi amici attoniti e segretamente grati che un sorriso tanto  dolce fosse altrettanto raro. I loro cuori non avrebbero retto altrimenti.
-Ma certo! Quando vorrai venire in pasticceria, ti insegnerò a fare questi dolcetti e anche a decorare i coniglietti. Che ne dici?-
Al sorriso entusiasta della piccola il gigante non riuscì a trattenersi e, dimentico degli astanti che lo osservavano ancora increduli, sollevò una delle sue mani enormi e con la delicatezza di una piuma passò la nocca dell’indice sulla serica guanciotta arrossata dall’entusiasmo.
A fine serata, tra saluti e promesse di rivedersi al più presto, magari a casa di Kise, fu un dramma riuscire a far scendere la bambina dalle alte e massicce spalle del pasticcere.
Kuroko stava cercando di convincerla.
-Sakura, domani Atsushi deve svegliarsi molto presto per fare i pasticcini che ti piacciono tanto, se non lo fai andare a casa non riuscirà a dormire. Dai, da brava, saluta che anche noi dobbiamo prepararci per andare a  fare la nanna-
La gentilezza in quel caso non fece effetto. Fu il turno di Kagami.
-Signorina, adesso basta fare i capricci. Se entro cinque secondi non scendi dalle spalle di Murasakibara ti metteremo in punizione per una settimana. Fallo andare a dormire, su!-
Il gigante intanto restava in piedi, immobile a godersi il contatto con il corpicino caldo di quell’adorabile esserino che aveva vinto la paura e si era avvicinata al suo mastodontico corpo lasciandosi anche coccolare.
Visti i tentativi fallimentari di Kuroko e la scarsa presa delle minacce di Kagami, decise di tentare la sorte.
Sotto gli occhi di tutti si incamminò verso la cameretta della piccola, la fece scendere e le chiese di servirgli un tè. Subito la bambina si mise all’opera per imbandire il piccolo tavolino accanto al quale Atsushi sembrava esageratamente enorme. Finse di bere educatamente il tè e la ringraziò.
-Ora devo andare Sacchin, i veri pasticceri a quest’ora sono già a dormire, lo sai?-
Si alzò, si spolverò i vestiti e chinandosi un attimo le depositò nella manina due caramelle alla fragola strappandole la promessa di fare la brava e di andare a trovarlo.
Il silenzio sgomento che lo accolse quando tornò nell’ingresso lo mise in imbarazzo, così, salutando frettolosamente svanì nell’aria fredda della sera.
Dopo qualche ultimo saluto anche gli altri ospiti lasciarono la grande casa che tornò  silenziosa.
Sparecchiarono, lavarono e riassettarono in silenzio, riprendendo il gioco che avevano iniziato prima di cena, e proprio mentre Kagami stava per cedere ai più bassi istinti la vocina di Sakura attraversò acuta l’intera casa.
-Oto-chan! Oto-san!-
Mollando strofinaccio e spugna i due si precipitarono sulla soglia  della stanzetta e ad accoglierli trovarono la piccola con indosso il suo grazioso pigiamino nuovo, quello con il coniglietto in divisa da basket, che si dondolava sulle punte dei piedi.
-Non volevo fare i capricci… Mi metterete in punizione?-
Il labbro tremolante e gli occhioni sgranati e preoccupati colpirono entrambi dritti al cuore.
-N-no Sakura-chan, non ti metteremo in punizione… p-però… la prossima volta devi obbedire.-
Era difficile mantenere l’aplomb da genitori quando ogni fibra del loro essere voleva solo inginocchiarsi e coccolarla fino a che non si fosse addormentata, ma in qualche modo ce la fecero.
Finalmente la misero a letto, le rimboccarono le coperte e Kagami si dedicò a leggerle una delle fiabe del nuovo libro che avevano scelto quella mattina al supermercato.
Quando i due neogenitori riuscirono a chiudersi in camera erano sì esausti, ma anche carichi dell’aspettativa insoddisfatta per la bellezza di sette lunghi giorni.
Senza alcuna gentilezza Taiga spinse Kuroko sul letto per poi avventarsi su di lui. Quel bacio caldo, anzi bollente, esigente  e generoso prometteva una nottata indimenticabile e soprattutto molto molto stancante.
Tetsuya non aspettava altro, spense il cervello e si arrese al fuoco dell’uomo che amava donandoglisi senza riserve, fidandosi senza esitazione così come aveva sempre fatto. Così come avrebbe fatto sempre, per sempre.

 
 
 

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Capitolo 4
*** Il sapore proibito del passato ***


Atsushi lasciò casa di Kuroko e Kagami con un indescrivibile senso di calore. Quella bambina, Sakura, gli era davvero entrata nel cuore. Non solo aveva vinto la paura delle sue dimensioni e della sua altezza così fuori dal comune, ma si era anche lasciata coccolare e tenere sulle spalle. L’aveva chiamato “Zio Atsushi”, gli aveva sorriso con amore e lo aveva guardato con ammirazione, come se davvero fosse degno della massima stima e poi lo aveva sorpreso con la divertente richiesta di insegnarle a preparare i dolcetti al cioccolato.
E che fosse dannato, lui aveva tutte le intenzioni di insegnarle tutto ciò che voleva.
L’aveva stregato.
Mentre si dirigeva verso casa si crogiolò nella sensazione calda e avvolgente che dava il sapere che qualcuno lo apprezzava sul serio e che voleva trascorrere del tempo in sua compagnia anche se era troppo grosso e goffo per essere definito “normale”.
Sorrise alla notte.
Diamine, quanto era che non sorrideva così tanto?
Rientrò in negozio lasciandosi avvolgere dalla familiare fragranza dei suoi impasti e delle sue  creme. Aveva studiato a lungo e duramente per riuscire ad aprire quel piccolo negozietto che lo impegnava da prima dell’alba a sera inoltrata. Ma amava il suo lavoro.
Amava la sensazione delle dita che affondavano negli impasti soffici, la consistenza setosa della farina e il dolcissimo profumo della vaniglia eppure, la sua passione era il cioccolato in ogni sua forma, varietà e lavorazione.
Il cioccolato fondente era ciò che, in definitiva, lo rendeva irrecuperabilmente schiavo delle bacche di cacao. Dolce e amaro, ricco di sapore e sfumature. Tanti dicevano che fosse come l’amore.
Si lasciò sfuggire un sospiro mentre riponeva a lievitare le brioches per il giorno seguente e saliva al piano superiore, a casa sua.
L’amore non era mai stato facile per lui. Kanna, la sua ultima ragazza era stata dolce e carina finchè non erano diventati più intimi. Il suo fisico enorme aveva anche la sfortuna di essere proporzionato in ogni sua parte e lei aveva patito la sua stazza, la sua forza, la sua irruenza.
La loro storia era durata pochi mesi. Faceva male sapere che se non fosse stato così com’era sarebbe stato amato di più.
Prima di lei c’era stata Rio, una graziosa musicista in erba, minuta e delicata non aveva gradito nemmeno essere abbracciata da lui. Diceva di sentirsi seppellita. Anche lei dopo pochi mesi lo aveva lasciato. Senza tante scuse, senza nemmeno tentare di mascherare che il motivo era il suo fisico esageratamente grande.
Inesorabilmente, mentre espletava tutti i passaggi di rito della preparazione per andare a dormire, Murasakibara Atsushi ripensò alla sua prima esperienza sessuale. L’unica volta in cui non era stato “troppo”.
Peccato aver finto di non ricordarla.
Era al suo secondo anno del liceo e durante l’Inter High la sua squadra era stata eliminata dallo Shuutoku in cui all’epoca giocavano Shintarou e Takao.
I senpai del terzo anno alla fine della partita avevano annunciato il loro ritiro e con loro lo fece anche Himuro Tatsuya, il suo più caro amico a quei tempi.
Nonostante avesse un anno di più Atsushi aveva legato con lui ad un livello molto profondo, si erano trovati e riconosciuti, si conoscevano da subito pur non conoscendosi davvero.
La loro intesa sul campo da basket era totale e la combinazione delle loto tecniche di gioco era quasi inarrestabile, ma non era solo il gioco a unirli.
C’era una sorta di rispetto, di tacito affetto tra loro. Un sentimento inspiegabile e inclassificabile.
Quella sera, durante la festa d’addio erano comparsi degli alcolici e, pur essendo vietati, nessuno di loro si tirò indietro dal provare a fare l’adulto. Avevano bevuto e mangiato fino a tarda sera, rispolverarono aneddoti, ridendo e scherzando fino a quando l’addio non divenne ufficiale.
Lentamente, quasi come un sol uomo i membri del terzo anno si erano alzati e  avevano lasciato barcollando la camera di Atsushi usata come ritrovo perché la più grande.
A causa della sua stazza Murasakibara non aveva mai avuto un compagno di stanza; ogni volta che i custodi vedevano il suo enorme corpo trovavano il modo di liberare una stanza singola per condannarlo alla solitudine.
Quella sera non era rimasto solo. Himuro si era addormentato sul suo letto, un po’ per la stanchezza della partita e un po’ per l’alcol in corpo non sembrava volersi svegliare.
Atsushi lo aveva scosso e lo aveva chiamato fino a che, finalmente, uno di quegli occhi neri non si era aperto mettendolo a fuoco.
Chissà cosa era scattato in quel momento, non sapeva come spiegarlo e se doveva dirla tutta aveva solo ricordi frammentari di quel che era avvenuto dopo; lampi in un mare buio e ovattato. La pelle chiara e liscia di Tatsuya sotto alle sue mani, il suo sapore sulle labbra.
Aveva un ricordo vago dei loro gemiti, del ritmo del loro amore e della forza con cui si erano allacciati l’uno all’altro. Poi il buio.
Con una stretta al cuore ripensò a quando si era svegliato nudo e solo nel proprio letto con i ricordi che gli galleggiavano nel cervello come i resti di un sogno. Il corpo indolenzito e alcuni piccoli inequivocabili segni tra il colo e la spalla.
Di Himuro nessuna traccia.
Lo aveva incontrato nei corridoi quella stessa mattina e nonostante l’ imbarazzo aveva trovato il coraggio di chiedergli come stesse e quando fosse tornato in camera, ma le risposte furono assolutamente normali, sembrava davvero  non ricordare nulla.
Eppure i segni che si era trovato sul corpo e i ricordi così vividi… non potevano essere un sogno… giusto? E poi, perché un liceale con gli ormoni lanciati a mille avrebbe dovuto fare un sogno erotico su un compagno di squadra invece che sulle belle pollastrelle che frequentavano la sua stessa classe?
L’argomento non era mai più uscito e l’anno successivo, un Tatsuya ormai diplomato aveva deciso di intraprendere la carriera artistica. Era volato in America ed era tornato qualche anno dopo per inaugurare la sua prima mostra che, ovviamente, era stata un successo.
In un modo o nell’altro lui e gli altri della vecchia e ormai sfilacciata Generazione dei miracoli avevano mantenuto i contatti e grazie a Kagami e a Kuroko, aveva sempre avuto notizie del suo sempai.
Si era sempre chiesto, in tutti gli anni che avevano trascorso senza vedersi né parlarsi, cosa li avesse spinti ad amarsi così intensamente, così disperatamente e infine, come avesse fatto Himuro a dimenticare tutto.
Con questi pensieri malinconici il pasticcere si mise a letto e quando il suo grande corpo, stanco dalle troppe ore di lavoro, finalmente sprofondò nel soffice abbraccio delle coperte le sue palpebre si chiusero calando sul mondo un sipario scuro e una coltre rassicurante che tagliò fuori i suoi pensieri raminghi.
Non doveva pensare a quella notte. Non doveva ripensare a Tatsuya. Non voleva riaprire una ferita che aveva chiuso dopo anni e anni di interrogativi e sofferenza.
“Mai più” si promise, mai più avrebbe regalato se stesso con altrettanta fiducia. Le uniche volte in cui  aveva sperato di poterlo fare era rimasto così deluso che aveva creduto di affogare nel suo solito silenzio.
Aveva troppe cose da dire e nessuno che avesse interesse ad ascoltarle e nonostante tutto quelle parole premevano per uscire da così tanto tempo che ormai erano diventate solo un sordo pulsare in fondo alla gola.  Parole che nessuno avrebbe mai ascoltato.
Himuro Tatsuya scese dalla propria auto davanti all’hotel in cui avrebbe alloggiato per le successive quattro settimane.
Tokyo non gli piaceva particolarmente, era caotica, grigia e le persone non amavano socializzare come in America, però doveva ammettere che erano stati proprio quei musoni ad aver fatto di lui l’artista famoso che era.
La sua manager, Azuka, camminava al suo fianco blaterando di cifre, date e nomi tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre con le mani scriveva un messaggio sul palmare.
Come facesse a lavorare in quel modo anche mentre camminava per Himuro restava un mistero ma finchè faceva il suo lavoro senza infastidirlo, non si poteva lamentare.
-CHE COSA?!-
Per poco il cuore non gli sfuggì dalla bocca. Si voltò verso la sua manager che aveva iniziato a gesticolare e gridare come una pazza in mezzo al marciapiede. Rossa in viso, con quel caschetto corvino che a lui era sempre sembrato un elmetto e le scarpe col tacco alto che pestavano rabbiosamente il selciato gli sembrò davvero una caricatura di se stessa.
La gente stava iniziando a fermarsi per guardare il ridicolo spettacolo che offriva,  lì, vestita di tutto punto mentre faceva una scenata mostruosa davanti ad un costosissimo hotel.
La decisione fu istantanea.
Tatsuya la prese per un braccio e poco gentilmente la spinse nuovamente dentro l’auto, si precipitò al posto di guida e diede gas lasciandosi alle spalle le quattro ore di riposo che aveva pianificato. Mentre le urla proseguivano sul sedile posteriore lui vagò per la città utilizzando strade secondarie e viuzze residenziali per evitare il traffico intenso.
Solamente dopo una buona mezz’ora finalmente Azuka riattaccò il telefono afflosciandosi sul sedile.
-Dove siamo?-
Guardandosi attorno Himuro si rese conto di essere arrivato nei pressi del campetto dove lui e i suoi più cari amici ai tempi del liceo giocavano insieme a basket. Quanto tempo era passato.
Parcheggiò.
-Siamo in un quartiere che conosco molto bene. Che sta succedendo? Hai dato spettacolo prima. Speriamo che non ci fossero giornalisti nei paraggi… non ci farebbero della buona pubblicità.-
Dallo specchietto retrovisore la vide arrossire.
-L’agenzia che doveva occuparsi del catering per l’inaugurazione e la chiusura della mostra si è tirata indietro.-
Tatsuya sapeva che il catering era importante. Se ad una mostra si mangiava bene, allora l’artista sarebbe stato più apprezzato.
-Hai offerto più soldi?-
Non faceva differenza se avesse dovuto spendere qualche migliaio di yen in più.
La bella donna sul sedile posteriore alzò gli occhi al cielo.
-Certo. Ho provato a raddoppiare la cifra concordata ma hanno rifiutato. Quindi adesso ci troviamo a due giorni dall’inaugurazione senza un’agenzia di catering. Sarà un disastro totale se non corriamo ai ripari. Subito!-
Ecco. L’ennesimo problema. Prima la location, avevano dovuto cambiare tre volte  stabile e quindi riprogettare la disposizione dei suoi quadri per tre volte; poi era venuto il momento dei discorsi di apertura e chiusura che erano stati partoriti, quasi interamente da Azuka mentre lui ingurgitava cioccolatini al liquore; infine la sistemazione a Tokyo era stata fonte di accesi dibattiti tra lui e l’organizzatore della mostra perché questi voleva farlo alloggiare a pochi passi dal salone dove sarebbero stati esposti  i quadri mentre lui voleva trovarsi un posto tranquillo dove smaltire la stanchezza accumulata durante quella maratona lunga quasi un mese.
-Facciamo due passi, mi inventerò qualcosa.-
Stropicciandosi il volto scese dall’auto e aiutò la sua manager a mettersi in piedi su quei tacchi impossibili. Lei lo guardava preoccupata con uno sguardo un po’ stralunato. Era stata dura per tutti, non solo per lui.
Passeggiarono un po’ tra i caseggiati e i negozi di quel quartiere tranquillo, in silenzio, ognuno immerso nelle proprie elucubrazioni quando, per caso, gli occhi di Himuro non furono attratti dal vociare del mercato che si estendeva alla loro sinistra e lì, nel mare di teste, una svettava sulle altre.
Avrebbe riconosciuto quella capigliatura tra mille. Come anche quelle spallle assurdamente ampie.
Atsushi Murasakibara. Subito il suo petto si riempì di una strana nostalgia dolceamara  e la sua mente fu invasa dai ricordi. Allenamenti, partite, le chiacchiere lungo i corridoi della scuola e infine quella notte che pensava di aver rimosso dal suo passato.
Continuando a camminare lo osservò fermarsi davanti al chiosco delle mele candite. Ridacchiò. Era proprio da lui mangiare quella roba anche se mancava poco all’ora di cena. Lo vide pagare ma, prima di afferrare i due frutti rossi e lucenti, si stupì nel vederlo sparire per ricomparire un momento dopo con una bellissima bambina dai lunghi capelli corvini sulle spalle.
Da così lontano non poteva distinguere i tratti della piccola, ma da quel che poteva vedere era davvero una bimba splendida.
La strana coppia procedette verso una zona meno affollata e senza accorgersene Tatsuya deviò dal suo percorso per avvicinarsi.
L’urgenza di vedere in viso la bambina che presumeva essere la figlia del suo vecchio compagno del liceo era pressante anche se non sapeva darsi un motivo.
Ormai si trovava a una ventina di metri dai due che procedevano mangiando il loro frutto scarlatto, quando vide qualcosa di assolutamente straordinario: Atsushi stava sorridendo.
Si fermò di colpo, come se avesse preso uno schiaffo in pieno viso. Lui non sorrideva mai. Lui in due anni non aveva mai nemmeno accennato a sorridere.
Come poteva aver nascosto al mondo quell’espressione così dolcemente innocente e felice? Era incantato e continuava a osservare come il sorriso modellasse quei lineamenti solitamente piatti e talvolta spaventosi in qualcosa di totalmente diverso e completamente estraneo.
Murasakibara era semplicemente adorabile.
Nel momento in cui lo pensò si diede un calcio mentale. Era impossibile mettere nella stessa frase il suo gigantesco conoscente e la parola “adorabile”. Eppure non riusciva a trovare un altro modo per descrivere quell’espressione di gioia incredula che gli fioriva in viso mentre la bimba cercava di fargli mordere la sua mela porgendogliela dall’alto sporcandogli il naso.
I due si stavano avvicinando. Lui non voleva farsi vedere perché aveva l’impressione che se lo avesse visto Atsushi avrebbe perso tutta la gioia che lo animava per tornare il musone di un tempo. Ma era troppo tardi.
Due occhi color ametista, profondi e curiosi si piantarono nei suoi e subito vi lesse riconoscimento, poi gioia ed infine scorse una scintilla che fu troppo rapida per dire di cosa fosse. Forse rimpianto, forse dolore. Troppo breve per procurargli dolore ma nonostante tutto l’eco di quella sensazione non gli piacque per nulla. Si massaggiò distrattamente lo sterno.
Attese che il gigante lo raggiungesse mentre osservandolo fu costretto a notare la presenza di Azuka al suo fianco.
Quando finalmente si trovarono faccia a faccia si stupì ancora una volta di quando potesse essere alto. Diamine, Lui e il suo metro e ottanta gli arrivavano a stento alle spalle.
-Murasakibara, quanto tempo, come va la vita?-
Che voce strana, quasi non si riconosceva.
-Himuro, sì, molto tempo direi. Tutto bene, il negozio va bene e… ah giusto…-
La bambina aveva iniziato ad agitarsi sulle sue spalle.
-… questa bambina è Sakura, la bambina adottata da Kurochin e… da Kagami.-
Oh, Taiga glielo aveva detto. La scrutò meglio e il suo primo esame fu confermato. Era splendida. Sembrava una bambola dagli occhi di giada. Quindi non era sua figlia… aspetta… aveva detto negozio?
Con quanta velocità il suo interesse per la bambina si era trasformato in quasi totale indifferenza una volta scoperto che non era figlia di Atsushi.
-Hem… negozio?-
Sapeva di suonare scortese perché in tutti quegli anni non si era mai fatto sentire ma era curioso.
L’altro non fece una piega.
-Ho aperto una pasticceria. Proprio dietro l’angolo.-
Indicò la strada.
Fece un grosso sforzo per non ridergli in faccia. Non perché trovasse l’idea di lui pasticcere ridicola, ma perché, al contrario, ce lo vedeva eccome.
-Lei è un pasticcere?-
Azuka aveva puntato la preda. I suoi occhi neri fissavano seri Murasakibara come se volesse inchiodarlo sul posto. Ma lui non si faceva intimidire facilmente.
-Sì, possiedo il negozio qui dietro.-
La bambina si agitava sulle spalle senza però interrompere la conversazione.
-Sacchin, un minuto e andiamo. Ce la fai a resistere ancora un attimino?-
La dolcezza con cui le aveva parlato era decisamente strana per lui. La voce di per sé non era né troppo bassa né troppo acuta, ma era impregnata di sincero affetto, come se la stesse accarezzando gentilmente.
La bimba rispose uno scampanellante “sì Zio Atsushi.”
Himuro per poco non si sciolse dalla tenerezza. Anche lei sembrava davvero legata a quel gigante d’uomo.
-Allora, sa fare solo dolci?-
Tatsuya chiuse gli occhi. Sapeva dove voleva andare a parare Azuka e per quanto volesse fermarla dalla sua bocca non uscì un suono.
Murasakibara, dal canto suo era perplesso, la sua espressione non mutò ma  i suoi occhi divennero meno amichevoli.
-Ho fatto il tirocinio in un panificio che faceva anche pasticceria. Me la cavo anche con pane e simili.
Era meglio intervenire.
-Azuka non…-
Lei lo ignorò.
-Glielo chiedo perché abbiamo necessità di qualcuno che prepari il buffet  per la mostra di Himuro Sensei che aprirà dopodomani.-
Atsushi non sembrava impressionato, anzi, era scettico.
-E di cosa avreste bisogno, di preciso?-
Azuka non si smentì. Giocò immediatamente pesante.
-Abbiamo bisogno di spuntini dolci e salati. Per… direi… duemilacinquecento persone all’apertura e… alla chiusura, gli altri giorni direi che basterà cibo per circa duecento persone.-
Tatsuya vide il pasticcere impallidire.
-Azuka, come pensi possa fare tutto questo da solo e mandare avanti un negozio? Ragiona!-
La manager lo guardò come se fosse matto.
-Beh, ovviamente terrà chiuso il negozio. Le offriamo un onorario pari al doppio di quello che guadagnerebbe tenendo aperto il suo negozio. Che ne dice?-
Quello era un colpo basso. Il pittore lo sapeva.
-Azuka, non esagerare, la mostra finisce poco prima di Natale, le pasticcerie devono lavorare a ritmi impossibili.-
La  manager non si fece scoraggiare. Porse al gigante un biglietto da visita.
-Ci pensi e domani mattina mi dia una risposta. Arrivederci.-
Con passo risoluto nonostante i trampoli la donna lo trascinò lontano dal vecchio compagno di squadra e poi verso la macchina.
 
Murasakibara non sapeva cosa dire. Quella bellissima donna gli aveva fatto una proposta allettante ma aveva messo sul piatto diversi problemi e non sapeva se compenso e impegno valessero lo sforzo.
Cucinare dolce e salato per duemila persone. Non aveva mai preparato per così tante persone, non in una sola volta almeno.
-Zio Atsushi? Chi erano quelle persone?-
La vocina di Sacchin lo riportò al presente.
-Uno era un vecchio amico, la signorina… non saprei proprio.-
Poi con il candore della puerilità la bambina osservò.
-Magari è la sua fidanzata. Era bella. Tutta vestita bene…-
Non seppe dire perché ma l’idea che quella donna spaventosamente bella e sofisticata fosse in una qualche relazione sentimentale con Himuro, lo fece adombrare.
Quella sera, dopo aver riportato Sakura a casa dai suoi “nuovi padri”, quel termine lo faceva ancora sorridere, Atsushi tornò in negozio rigirandosi il biglietto da visita tra le dita.
Era così assorto che non si rese subito conto che davanti alla pasticceria era parcheggiata una costosa auto sportiva nera. Solamente quando dovette spostarsi per non andare a sbattervi contro, si rese conto della stranezza.
Alzò lo sguardo e,  seduto sul gradino d’ingresso intento a digitare su un cellulare di ultimissima generazione, c’era Himuro Tatsuya.
Era vestito in modo più casual rispetto a quel pomeriggio: jeans e un piumino viola scuro. I capelli, sempre sistemati in quel taglio indefinito, né lungo né corto ondeggiavano al lieve venticello freddo.
-Atsushi, stavo iniziando a congelare.-
Tipico suo. Nessun saluto, nessun preambolo. Murasakibara prese un respiro profondo.
-Se sei qui per quella proposta non so ancora cosa rispondere. Sono stato con Sakura-chan tutto il pomeriggio e non ho avuto modo di riflettere come si deve-
Meglio essere chiari da subito.
-Nah, non sono qui per quella . Anzi, non pensavo che la prendessi nemmeno in considerazione.-
E allora perché era venuto?
-Cosa ci fai qui allora?-
Aveva freddo, aveva sonno, doveva finire di impostare i lavori da infornare il giorno seguente.
-Ero venuto a far due chiacchiere nell’unico giorno di pace che avrò da qui al… 22 probabilmente.-
Sembrava quasi sconsolato.
Con un sospiro e con un ritrovato senso di civiltà, il pasticcere decise di assecondare la sua voglia di compagnia. In fondo erano stati davvero amici anni addietro. Erano davvero stati molto legati, almeno… fino a quando… Scosse la testa. Doveva pensare ad altro.
-Va bene, entra. Chiacchiereremo mentre finisco di lavorare.-
L’altro a quelle parole sembrò interdetto.
-Ma non è un po’ tardi per lavorare?-
Ridacchiando tra sé e sé aprì la porta vetrata del negozio e si rilassò un poco nel sentire il profumo dolce che ormai sapeva di casa.
-Mmmmmh! Che buon profumo!-
Himuro dietro di lui teneva il capo reclinato all’indietro mentre annusava l’aria ad occhi socchiusi.
Diavolo.
La pelle bianca della sua gola riluceva al chiarore che filtrava dalla strada mentre le sue labbra erano completamente in ombra ammantate di mistero così come il suo sguardo enigmatico.
Ad Atsushi si seccò la gola. No. Non poteva essere. Non dopo così tanto tempo. Non in quel momento.
Si schiarì la gola e per liberare la mente prese l’impasto delle brioches e con gesti meccanici iniziò a dar forma a decine di cornetti che avrebbe coperto e lasciato lievitare fino al mattino.
-Woah! Ma sei velocissimo! E dimmi, lo fai tutte le sere?-
La voce entusiasta del pittore interruppe quel momento di sacra fusione con la cucina. Lo guardava con entusiasmo e ammirazione.
-Ogni sera preparo gli impasti per i dolci lievitati del mattino. Devo anche finire di decorare una torta da consegnare domani.-
La sua normale svogliatezza sembrava scomparire davanti alla possibilità di lavorare coi propri amati dolci.
-Devi amarli proprio tanto per lavorare ogni sera fino a quest’ora.-
Che tono di voce strano. Ma non sapeva dire perché e soprattutto quali pensieri avessero dato origine a quella strana intonazione.
-Mentre lavoro, vuoi mangiare qualcosa?-
Lo sguardo nero dell’altro subito saettò su di lui. Poi con un sorriso che fiorì più radioso che mai rispose.
-Stupiscimi Atsushi. Vediamo se sei davvero bravo come sembra.-
Che fosse una sfida o una battuta, sui suoi dolci non scherzava mai, quindi il gigante prese un piatto dalla credenza e nel giro di qualche minuto aveva servito con una impeccabile presentazione i dolci di cui andava più fiero.
Bignè con creme europee, torte al Tè verde, pasticcini al cioccolato e vaniglia, un budino di riso e altre diverse pastine in stile occidentale. L’altro, stupito da tanta abbondanza iniziò a esaminare ogni dolcetto con attenzione.
-Mi piacerebbe dipingerli, una volta. Sono… molto belli.-
Detto questo con due delle sue lunghe dita delicate prese un tartufo al cioccolato e se lo portò alle labbra.
Per poco il pasticcere non ebbe una sincope. E la situazione peggiorò quando l’altro passò la lingua rosea sulle dita sporche di cacao.
Come mosse da volontà propria le sue mani puntarono all’unica persona che aveva realmente desiderato. Stava davvero per afferrarlo; era seriamente sul punto di mandare tutto all’aria quando riuscì a rinsavire.
Abbassò rapidamente le sue mani troppo grandi per poter essere abbastanza delicate. Quelle zampe avrebbero fatto bene a stare buone lungo i suoi fianchi o dentro i suoi impasti. Non voleva più concedere la sua tenerezza a nessuno che non fosse Sakura-chan.
Tatsuya mangiò con lentezza ogni singolo dolce che aveva scelto per lui emettendo piccoli gemiti molto simili a quelli dei suoi ricordi sfocati.
Non andava bene.
Terminate le mansioni serali offrì al suo ospite una bicchiere di tè verde e ancora un cioccolatino di sua creazione, poi, guardando l’orologio sbadigliò. Grazie al cielo l’altro capì l’antifona e dopo essersi avvicinato un po’ a lui inghiottendo il cioccolato sciolto e vellutato bisbigliò a sé stesso.
-Un sapore proibito…-
Poi alzò gli occhi e guardandolo con una strana espressione si voltò e uscì nell’ara fredda della sera.
Quella frase gli mise i brividi.
L’aveva già sentita, ma all’epoca aveva pensato di averlo sognato.
Quella fatidica sera, anni e anni prima, dalle labbra di Himuro erano uscite le stesse identiche parole un attimo prima che le posasse sulle sue.
Cosa significava? Che ricordava? Voleva fargli finalmente sapere di aver ricomposto il puzzle?
Che cosa aveva voluto dire? E se fosse stata solo un’assurda, crudele coincidenza?
Con questi pensieri si mise a letto e dopo alcune ore trascorse a rimuginare sui come e sui perché delle parole del pittore, iniziò a rimuginare sull‘offerta che la sua manager gli aveva fatto.
Si parlava di un sacco di soldi, ma anche di un impegno assurdamente gravoso che non sapeva se da solo sarebbe riuscito a portare a termine.
Finì per trascorrere la notte soppesando vantaggi e svantaggi dell’accettare o meno l’incarico e quando la sveglia suonò si rese conto di aver sprecato una delle poche notti di riposo che gli sarebbero rimaste  se avesse accettato.
Ma soprattutto non aveva ancora deciso se mettersi in gioco e rimanere in ancora un altro po’ nel mondo di Tatsuya oppure rifiutare e tornare alla sua stabile tranquilla routine fatta di dolci e solitudine.
Si alzò, impastò, infornò e sfornò, glassò, farcì e dispose sul banco continuando a soppesare le due possibilità. Alla fine si rese conto che quella era la prima vera sfida che gli si presentava da quando aveva aperto il negozio. E, pazzia o meno, impresa suicida o di successo, lui aveva davvero voglia di provare.
Prima di dare il via ad una nuova giornata lavorativa prese il telefono e chiamò la “signorina soldato”, come aveva deciso di chiamare la manager di Tatsuya, che gli promise di presentarsi all’orario di chiusura quella sera per definire i dettagli. In fondo mancavano poco meno di quarantotto ore all’inaugurazione.
La giornata andò avanti a rilento, i clienti abituali fecero i loro acquisti e nel mentre lui decise di chiamare la sua vecchia scuola professionale per farsi mandare un tirocinante come aiuto in quei giorni deliranti che sapeva sarebbero arrivati.
La ragazza che arrivò a presentarsi qualche ora dopo, si chiamava  Kyoko Sanada. Aveva da poco compiuto ventidue anni e stava per terminare l’ultimo anno all’accademia di pasticceria. Era brava. Dannatamente brava.
Nel giro di qualche ora, durante il pomeriggio, aveva già preso dimestichezza nel preparare la maggior parte dei dolciumi offerti quotidianamente riproducendoli con maestria e perizia.
Atsushi non poteva essere più soddisfatto.
All’ora di chiusura quando la signorina Azuka arrivò, il pasticcere decise di far presenziare al colloquio anche la giovane tirocinante in modo da farle capire a grandi linee quale sarebbe stata la mole di lavoro e soprattutto per dimostrarle che quella non era una stupida esercitazione ma lavoro vero.
Il colloquio che fecero lasciava poco al caso. Vennero scelte quali specialità sarebbero state presenti costantemente durante le quattro settimane della mostra e quali invece dovessero essere fatte ad hoc per il primo e l’ultimo giorno.  Soprattutto si parlò del giorno di chiusura e questo preoccupò molto Murasakibara.
La manager aveva richiesto una riproduzione in 3D, interamente di cioccolato di una delle nature morte di Himuro che doveva ancora essere scelta. Lui non aveva voce in capitolo a quanto pareva.
 
Il pittore, adagiato a molle nella grade vasca da bagno della sua suite continuava a ripensare al suo vecchio compagno di scuola. Quante immagini gli scorrevano nella mente come se il suo inconscio gli stesse riproponendo un filmato non richiesto del tempo che avevano trascorso insieme.
Ricordava il suono dei suoi passi nel corridoio davanti alla sua classe, quando andava a cercarlo durante la pausa pranzo. Gli venivano in mente i suoi gesti lenti quando si cambiava nello spogliatoio prima degli allenamenti e delle partite, la sua espressione placida e svogliata che talvolta rasentava l’indifferenza più totale.
Quanti discorsi avevano fatto sul tetto della palestra, quel luogo privato che frequentavano solo loro perché erano gli unici a sapere che il lucchetto della porta era rotto. Le serate a guardare le poche stelle che si intravvedevano a causa dell’inquinamento luminoso, le chiacchierate senza un vero argomento e i silenzi carichi di significato.
Per un momento gli si affacciò l’immagine delle sue lacrime. Quando avevano perso ai quarti di finale della loro prima Winter Cup contro il Seirin di Kuroko e Kagami. Erano stati così certi di vincere che erano rimasti del tutto spiazzati dalla tenacia e dalla forza con cui i loro avversari avevano reagito alla schiacciante differenza di abilità. E così avevano perso, per un soffio. Lì, per la prima e ultima volta, aveva visto la purezza dei sentimenti di Atsushi nei confronti del basket.
La sua reazione alla sconfitta, quel dolore che gli  si era dipinto in viso mentre silenziose lacrime colavano lungo il naso dritto per cadere con piccoli tonfi umidi sulla superficie della borsa. Gli sembrava di essere ancora lì ad assistere in diretta a quella scena tanto la ricordava bene.
Così come ricordava la promessa che si erano fatti dopo, quando, ancora con gli occhi color ametista umidi di pianto, il gigante lo aveva guardato e gli aveva promesso che sarebbe diventato più forte. Ma non era bastato e l’anno dopo dovettero rinunciare a vincere insieme perché furono nuovamente sconfitti in semifinale.
L’acqua della vasca iniziava a raffreddarsi e le montagne di schiuma che lo avevano circondato si stavano diradando.
Con un sospiro aprì di nuovo l’acqua calda e reclinò il capo all’indietro. Non riusciva a rilassarsi
Ed ecco che dietro alle palpebre chiuse tornò ad affacciarsi il viso del pasticcere. Questa volta non era un ricordo di anni e anni prima, il suo viso era più virile, la mascella più pronunciata, un accenno di barba gli velava il mento e le guance, gli occhi color ametista erano più dolci, quasi sorridenti.
Quell’uomo adulto era quasi un estraneo eppure nei tratti aveva ancora qualcosa che glielo rendeva così intimamente familiare da  procurargli un senso di vuoto al pensiero che i suoi rari e dolcissimi sorrisi fossero destinati a qualcuno che non era lui.
Immerso nell’acqua che di nuovo si raffreddava con la superficie ormai quasi priva di bolle Himuro si chiese come mai Atsushi popolasse ancora i suoi pensieri come anni e anni prima quando avevano superato il segno e lui aveva deciso di lasciarsi alle spalle ogni cosa convinto di non avere rimpianti.
Allora era stato così certo che la risposta a quel che era successo tra loro fosse l’oblio che, con uno sforzo di volontà incredibile, era riuscito a eliminare dalla sua mente il pensiero di ciò a cui aveva rinunciato perché credeva fosse contro natura. Perché si era sempre immaginato al fianco di una donna carina e carismatica come lo era stata Alex e non voleva concedersi altre possibilità.
Che ingenuo era stato.
Era quasi certo che il senso di soffocamento che lo prendeva da quando aveva rivisto Atsushi il giorno prima fosse proprio quello: il rimpianto che credeva non avrebbe mai provato.
Per la prima volta, mentre rabbrividiva e usciva dalla vasca avvolgendosi nel morbido asciugamano profumato, si chiese come sarebbe stato non fingere, non mentire a se stesso e non mentire a lui.
Sapeva di averlo ferito profondamente, sapeva di averlo allontanato e nonostante tutto, per un momento immaginò cosa sarebbe successo, come sarebbero andate le cose se non fosse fuggito.
Si sarebbero amati ancora e ancora con quella foga che solo i liceali hanno e di cui poi rimane solo un’eco lontana soffocata dalla maturità e dall’esperienza.
Si sarebbero innamorati sul serio?
Sarebbe durata la loro storia così poco convenzionale? Lui avrebbe imparato ad amar…
Si interruppe bruscamente. Con tutta la forza che possedeva chiuse la porta della propria mente in faccia a quei pensieri che non aveva alcun diritto di fare.
Aveva fatto una scelta e non esistevano “se” che cancellassero la cattiveria che aveva fatto ad Atsushi negando ciò che avevano condiviso.
Mentre si vestiva tuttavia dovette fare i conti con le inaspettate e sconvolgenti sensazioni che aveva provato quella sera in pasticceria, mentre lo guardava lavorare.
Aveva osservato le sue grandi mani affondare nell’impasto con decisione per poi creare forme e assemblare piccole opere d’arte con la delicatezza di un respiro.
Erano sempre state grandi quelle mani, erano sempre state goffe e inadatte tranne che per il basket, eppure, nella penombra che offriva l’interno del negozio ormai chiuso, Himuro aveva ricordato il loro tocco delicato sulla pelle. Ma il particolare che gli era rimasto più impresso al di là della delicatezza era il calore che aveva fatto sì che si rilassasse al loro tocco.
Si era fatto offrire dei dolci e li aveva talmente apprezzati da superare il confine della decenza. Aveva fatto di tutto per distogliere il suo sguardo concentrato e amorevole dal lavoro e, pensò con un certo rammarico, ci era riuscito.
La tensione era salita irrigidendo le spalle del pasticcere che  all’improvviso aveva smesso di impastare con armonia. Gli occhi viola che saettavano tra lui e i dolci tra le sue mani, le labbra sottili tirate per mantenere la calma.
Era stato sul punto di fermarsi per paura di farlo arrabbiare o di metterlo a disagio ma quando per un attimo le sue grandi mani infarinate si erano tese verso di lui prima di essere riportate a posto dal suo autocontrollo, Tatsuya non aveva potuto fare a meno di gioire in cuor suo.
C’era la possibilità che tra loro potesse tornare quel feeling, la stessa alchimia che li aveva spinti troppo presto l’uno tra le braccia dell’altro.
L’istinto, o forse la sua sete di vedere come sarebbe finita quella loro storia sospesa nel tempo e nell’aria profumata del negozio, lo aveva spinto a pronunciare una frase particolare. Le stesse poche parole che aveva pronunciato tanto tempo prima nell’attimo prima di baciarlo con amore.
Il pittore si riscosse e si giustificò dicendo che non era stata la curiosità ma anzi, era stata l’alchimia tra il cioccolato vellutato e dolceamaro e la sua solitudine.
Sì, lui non era abituato a star solo a lungo, era famoso per le sue tresche e per le sue storielle brevi con donne bellissime e spesso sposate, ma in quel periodo, con la mostra alle porte non si era sentito di impegnarsi anche con qualche femmina capricciosa.
Le sue ore di riposo dovevano restare solo sue e Azuka assolveva perfettamente il compito di assistente e di accompagnatrice senza contare che la sua energia inesauribile e il suo impegno lo sfinivano anche senza accollarsi un’altra donna. Si sdraiò a letto, era talmente grande e soffice da inghiottirlo. Per la prima volta dopo tanti anni si sentì solo. Ma non voleva una compagnia solo per sfogare i suoi istinti o per fare notizia su qualche rivista per casalinghe annoiate, voleva qualcuno a cui aprire il proprio cuore.
Chiuse gli occhi e vide Atsushi.
Le cose stavano peggiorando in fretta, doveva assolutamente toglierselo dalla testa prima del giorno seguente. Doveva concentrarsi anima e corpo sulla mostra, sul proprio successo e nulla doveva intromettersi a distrarlo. L’immagine non se ne andò, e così, segretamente grato a quello sguardo placido e quasi annoiato, si addormentò.
E così iniziò. Ore ore ad impastare, infornare trasportare quantità spropositate di cibo. Il giorno di apertura non avanzò nulla e il giovane pasticcere era così esausto  che quasi non aveva fatto caso a ciò che lo circondava.
Kyoko lo aiutava in pasticceria e per la prima settimana aveva deciso di portarla con se anche alla mostra. Si trovava bene con lei, era sveglia entusiasta e piena di talento. Il fatto che trascorressero insieme così tante ore ogni giorno aveva fatto nascere tra loro una strana salda amicizia fatta di silenzi e lavoro ma anche di risate e battute. Era accaduto spesso che le loro risa attirassero l’attenzione  degli ospiti.
Erano i momenti più belli, rilassati e divertenti che potessero sperare di trascorrere in quel momento così frenetico, ma già a partire dalla seconda settimana Atsushi aveva preferito non sovraccaricare la povera stagista lasciandole da gestire solo il lavoro in pasticceria e i trasporti.
A seguito di questa manovra il suo carico di lavoro quasi raddoppiò. Le lunghe ore in piedi a servire durante la mostra, le ore al mattino e alla sera per cucinare. Ogni gesto sembrava risucchiargli le energie.
La sua stanchezza era ormai cronica. Andava a dormire distrutto e si risvegliava poche ore dopo esattamente nello stesso stato. Ciondolava per il negozio senza riuscire a schiarire la mente facendo sempre più confusione.
Durante  le ore che trascorreva alla mostra aveva osservato Himuro nella speranza di risolvere l’enigma che erano state le sue parole. Quella frase continuava a frullargli nel cervello e non c’era verso di lasciar perdere. Lo seguiva con lo sguardo mentre vestito di tutto punto accoglieva i visitatori o improvvisava visite guidate per giornalisti e critici.
Spesso lo aveva visto sorridere forzatamente e annuire stringendo i pugni lungo i fianchi snelli.
Non doveva essere facile per lui intrattenere quelle persone. Era sempre stato abbastanza taciturno e riservato, probabilmente aveva trovato nella pittura il modo per godere del silenzio che solo la concentrazione sa donare.
Durante il primo week end lo aveva visto all’opera. Un giornalista aveva chiesto una piccola dimostrazione della sua bravura e così, più che felice di zittire la vena maligna di quella richiesta, Tatsuya si era messo a dipingere lì, nel bel mezzo della grande stanza quadrata sotto lo sguardo affascinato e curioso dei visitatori.
Aveva dipinto lo schizzo di un collier da donna. I tratti leggeri con cui aveva reso la luminosità delle gemme e l’infinità di particolari avevano convinto tutto della sua maestria.
Il pasticcere non era riuscito a distogliere lo sguardo dalle lunghe dita sottili che impugnavano elegantemente il pennello. Come poteva? Ogni persona nella sala era ipnotizzata dalle sue mani, dalla magie che stavano compiendo. Il silenzio era totale, solo il respiro degli ospiti muoveva l’aria altrimenti immobile.
Poi, come era iniziato, quel momento surreale terminò in un lungo, accorato applauso all’artista.
Quella sera dopo la chiusura avevano un meeting per valutare l’andamento della mostra e il livello di gradimento. Ma il gigante lo sapeva: sentiva nelle ossa che stava per arrivare qualcosa di terribilmente complesso da gestire. La spada di Damocle che pendeva su di lui. La scultura di cioccolato.
Alle dieci, l’orario di chiusura della mostra, il pasticcere, così come alcuni  altri collaboratori, si trovò in una piccola sala conferenze al secondo piano dello stabile dove era allestita la mostra.
I musi lunghi segnati da occhiaie e da visibili segni di stanchezza cronica non sollevavano l’atmosfera asettica e pesante, anzi, se possibile la rendevano ancora meno sopportabile.
Fortunatamente a rompere il silenzio immobile arrivarono un Himuro in tenuta casual e la signorina Azuka che come sempre sfoggiava un tailleur firmato che la fasciava come un guanto rivelandone il corpo atletico e tornito con le curve nei punti giusti.
-Buonasera a tutti. Cercherò di essere stringata. Le cose stanno andando anche meglio di come ci auguravamo; so che lo sforzo da parte vostra è stato considerevole e anche se non è una richiesta ragionevole vi chiedo di resistere a questo ritmo fino alla chiusura.-
Un sorriso riempì la pausa che fece per prendere fiato.
-Vi auguro una buona serata e buon riposo. La riunione si chiude qui.-
Sollevato dalla brevità del meeting Atsushi fece per uscire quando il profumo floreale che aveva imparato a riconoscere gli giunse in una zaffata.
-Murasakibara San, posso scambiare due parole con lei?-
Non aveva molta scelta. Annuì stanco.
-So che lo sforzo che le stiamo chiedendo quotidianamente ha del sovrumano ma sia la sua cucina, sia le sue presentazioni durante il servizio sono state molto apprezzate. Ho anche avuto modo di assaggiare alcune delle sue specialità e devo ammettere di esserne stata conquistata… -
Scacciò una ciocca di capelli dalla fonte spaziosa.
-Non sono qui per parlare di questo. Vado dritta al punto così poi posso lasciarla andare.-
Il preambolo non prometteva nulla di buono.
-Vorremmo che per la giornata di chiusura lei presentasse in cioccolato una delle nature morte più famose di Himuro Sensei.-
Senza lasciargli la possibilità di ribattere, la giovane gli mise in mano una delle cartoline che aveva visto girare spesso tra le mani dei visitatori in quei lunghi giorni di servizio.
Non avendo il cuore di guardare di che scultura si trattasse Atsushi annuì lasciando la sala con passo lento e strascicato.
Avrebbe potuto benissimo dormire lì, in piedi, al freddo. Non pensava di poter arrivare ad essere così cronicamente stanco.
-Sembri sul punto di crollare. Pensavo che avresti rifiutato di assecondare il capriccio di Azuka.-
Un Himuro languidamente appoggiato al muro del corridoio lo osservata con il sorriso negli occhi.
Le lunghe gambe snelle fasciate da un paio di jeans sdruciti ad arte, la camicia nera sapientemente aperta per lasciar intravedere la gola dalla pelle candida accarezzata dalla lucente catenella che reggeva l’inseparabile anello.
L’anello che lo legava a Kagami Taiga. 
Già, erano cresciuti insieme, due giapponesi in America, due bambini che avevano imparato ad amare il basket giocando insieme per molti più anni di quanti ne potessero contare.
Aveva sempre invidiato quel legame indissolubile che li legava nonostante lo spazio e il tempo .
-Ho accettato perché fa parte del contratto.-
Che voce piatta gli era uscita.
Tatsuya si sollevò elegantemente  fino a tornare eretto.
-Ti va se ti accompagno a casa? So che sei senza furgoncino ed io ho una gran voglia di uscire di qui.-
La cosa migliore da fare era rifiutare con una qualsiasi scusa, compresa quella reale di dover andare a dare una mano a Kyoko per l’allestimento dell’indomani, ma la sua lucidità era compromessa e la sua forza di volontà era fiaccata dalla morbosa curiosità che nutriva nei confronti di ciò che Himuro ricordava di tanti anni prima.
-Va bene Murochin. Sono proprio stanco in effetti.-
Annuendo con quel suo solito sorriso canzonatorio negli occhi, il pittore lo scortò fino nel parcheggio sotterraneo fino alla sua splendida auto sportiva.
Le linee della carrozzeria erano armoniose e aerodinamiche per migliorare le prestazioni, ogni suppellettile inutile era stata rimossa.
Il suo cuore accelerò quando pensò: “è una macchina progettata per la velocità”.
Il suo entusiasmo si spense un poco quando constatò che il posto per il passeggero, era angusto e a dir poco scomodo.
Himuro diede gas avviando il motore che si attivò con le fusa di un gattone sonnacchioso.
-È proprio una splendida macchina.-
Nel buio  dell’abitacolo le palpebre di Murasakibara si abbassarono pericolosamente. Stava davvero per addormentarsi, così, per rimanere sveglio decise  di fare conversazione.
-Hai già provato a spingerla al massimo?-
Mantenendo lo sguardo fisso sulla strada illuminata ad intervalli dai lampioni il pittore attese un momento prima di parlare.
 
Himuro non sapeva cosa diavolo gli fosse passato per la testa. Si trovava nel ristretto intimo abitacolo della sua macchina che sembrava essersi rimpicciolito ora che  all’interno vi era anche Atsushi e non sapeva cosa dire. Il grande corpo del pasticcere, così come la sua ombra e il suo calore sembravano saturare il piccolo spazio strisciandogli fin sulla pelle.
Il profumo di vaniglia e bacche di cacao era facilmente distinguibile nell’aria.
-Sì, mi è piaciuta da subito questa piccola monella. Ho provato a spingere a tavoletta quando ero in Germania per una mostra. Le loro autostrade sono esenti dai limiti di velocità. Era un’occasione a dir poco ghiotta.-
Accompagnò le sue parole con una risata poco convinta.
Era stato bello testare le capacità della sua splendida macchina nuova in quell’occasione, ma raccontare una cosa così banale a Murasakibara gli sembrava… strano.
Si sentiva… immaturo a parlare di come aveva sperimentato il giocattolo nuovo mentre lui si spaccava la schiena al lavoro per campare. Possibile che fosse intimidito dalla routine del suo vecchio migliore amico?
-Sei taciturno rispetto a qualche tempo fa.-
La voce bassa e piatta di Atsushi interruppe i suoi pensieri.
-M-ma no… è che pensavo…-
A cosa? Cosa poteva dirgli?
-…pensavo a quanto fosse diverso parlare così, con te, ora.-
Dopo tutti quegli anni, dopo quel che aveva fatto, dopo tutto quello che aveva detto e quello che aveva scelto di non dire. C’erano troppe cose incompiute, incomplete tra loro.
Per non parlare dell’irritazione che lo prendeva quando, durante le ore di servizio, vedeva il gigante ridacchiare complice insieme alla sua nuova apprendista.
Li aveva visti così vicini, così affiatati che non aveva potuto tenere a freno la propria irritazione. Troppe volte  gli era venuta la tentazione di andare al tavolo e spegnere quelle risatine a suon di grida e ramanzine. Ma a che pro?
Lui chi era per separarli? Si erano appena conosciuti e poi, doveva ammetterlo, lei era davvero carina: lunghi capelli color fragola, iridi azzurre come il mare dei tropici, qualche lentiggine spruzzata sul grazioso nasino a patata e curve da manuale. Non che avesse controllato bene sotto quell’enorme grembiule che portavano in servizio o sotto gli abiti oversize che la ragazza si ostinava a indossare.
-Molto diverso. Siamo cambiati. E forse siamo anche un po’ cresciuti.
La voce profonda di Atsushi lo tirò fuori dal circolo delle elucubrazioni. Aveva ragione. Erano diversi, cresciuti. Entrambi erano andati avanti. Dal punto in cui lui stesso aveva forzato la separazione delle loro strade, entrambi avevano fatto del loro meglio per crescere.
Ed erano cambiati.
-Già, tu sei davvero cresciuto. Ti resta poco di quel che ricordo del vecchio Atsushi dello Yosen.
Non sapeva se a dirlo fosse lui oppure la parte di lui che voleva ferirlo sbattendogli in faccia una critica mascherata da considerazione. In fondo gli stava dicendo che quel che gli piaceva di lui allora, in quel momento era sparito.
-Immagino di essere diventato adulto. Ad un certo punto o cresci o la vita ti distrugge.
Che parole sagge. Nascondevano qualcosa, vero..? Sembravano mascherare l’eco di un vecchio dolore… Oppure era il suo senso di colpa a fargli leggere rimprovero in quelle parole?
-Hai proprio ragione. O si cresce o la vita ti distrugge.
Per fortuna erano arrivati alla pasticceria. La luce all’interno era ancora accesa e la cosa lo incuriosì.
-Oh, Kyoko non è ancora tornata a casa. Sarà meglio che mi sbrighi a spedirla a dormire prima che mi crolli per esaurimento.
Parole normali, gentili, eppure colpirono Tatsuya dritte al cuore. Forse per via della stanchezza o della tensione, provò l’irrefrenabile impulso di afferrare il grosso braccio di Murasakibara e trattenerlo lì con sé per poi sgommare via.
Non voleva che tornasse da lei. Non voleva sentirli ridere insieme e nemmeno voleva cogliere quegli sguardi che si scambiavano come se fossero soli in un mondo tutto loro; un mondo in cui lui non era ammesso.
Ma che cosa gli prendeva?!  Era forse impazzito?
-Vai, buonanotte.
Fu tutto quello che riuscì dire prima che la portiera fosse chiusa e il suo piede spingesse sull’acceleratore per portarlo via da lì. Lontano da Atsushi e dalla sua esuberante formosa Kyoko.
Magari, vista l’ora, le avrebbe chiesto di restare a dormire e chissà cosa sarebbe potuto succedere.
Avrebbero fatto una bella doccia rilassante, massaggiandosi a vicenda le spalle stanche e tese, avrebbero asciugato i loro corpi con delicatezza e sarebbero andati a sdraiarsi sistemandosi l’una nelle braccia dell’altro.
Il grande corpo del pasticcere avrebbe avvolto in un bozzolo caldo e solido quello tenero e fragile della ragazza proprio come…
Schiacciò a fondo il piede sull’acceleratore e la macchina ruggendo schizzò in avanti. Sfrecciò via dal quartiere tranquillo nel tentativo di scappare dalle immagini sempre più realistiche che il suo cervello aveva deciso di produrre: Atsushi e Kyoko abbracciati, pelle contro pelle, le labbra sottili di lui su quelle carnose e appetitose di lei; i due avvinghiati, con la pelle umida di sudore e le spalle tremanti così come i loro respiri spezzati e soddisfatti; l’abbraccio in cui lui avrebbe stretto teneramente il corpo esausto di lei avvolgendola nel proprio calore prima di cadere addormentati.
Perché si torturava così?
Perché continuava a pensare a loro due?
Non era forse qualcosa a lui totalmente estraneo? Qualcosa in cui non aveva diritto di interferire?
Sapeva di non avere alcun diritto di disapprovare o approvane nulla, ma il dolore sordo che sentiva nel petto sembrava volerlo contraddire ad ogni battito del suo cuore.
Accostò e fermò la macchina.  Rimase al buio, nell’abitacolo in cui aleggiava ancora il profumo di vaniglia che accompagnava Murasakibara e lo respirò a pieni polmoni.
Proprio quando iniziava a calmarsi e a prendere fiato, il suo telefono si mise a squillare.
Cercò il piccolo cellulare nelle tasche dei pantaloni e della felpa, infine lo recuperò da una piccola taschina nella giacca sul sedile posteriore.
Guardò lo schermo chiedendosi chi lo cercasse a quell’ora assurdamente tarda.
Si rabbuiò.
Ecco un altro problema. Ben più urgente dei suoi drammi sentimentali.
Se quello che pensava era giusto… ci sarebbero stati dei guai, e non solo per lui e la sua mostra, ma per tutti coloro che si fossero trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il telefono continuò a suonare insistente ma lui non aveva alcuna intenzione di rispondere.
Si chiese come avesse fatto quella persona ad avere il suo numero. Ma non era poi così stupito.
Se c’era qualcuno in grado di trovare quel genere di informazioni coi mezzi più assurdi, quello era proprio Andrew.
 
Atsushi rientrò in pasticceria con la sgradevole sensazione di essere stato trattato come un pacco postale. Tatsuya era sgommato via non appena aveva chiuso la portiera. Non era solo partito, aveva fischiare le gomme da tanto aveva accelerato.
Infastidito salutò Kyoko, controllò gli impasti, ascoltò i messaggi in segreteria e infine mandò a casa la sua sfinita apprendista decidendo di non portarla più alla mostra con sé ma di lasciarla stabilmente in laboratorio con orari più umani.
Attese con lei sulla porta fino all’arrivo di quello che lei chiamava “passaggio a casa con ramanzina” e che rivelò essere solamente un’amica dai modi alquanto spigliati a cavallo di una lucida Kawasaki verde brillante.
Prima di allacciarsi il casco sulla testa la sua assistente bisbigliò qualcosa che lo lasciò senza parole.
-La mia ragazza odia quando faccio così tardi. Grazie per avermi ridotto l’orario!-
Facendo rombare il motore sparirono nella notte prima che l gigante riuscisse a metabolizzare il senso di quelle parole per poi trovarsi a sorridere alla notte come uno scemo.
Quella, fu l’ultima notte di sonno vero che fece.
Nelle ultime due settimane della mostra, avendo ridotto l’orario a Kyoko, si trovò a fare più ore dell’orologio, a prendere qualche ordinazione extra per Natale e, invece di dormire dovette scontrarsi con numerose e fallimentari prove della riproduzione in cioccolato.
Avevano scelto una natura morta composta dalle componenti più importanti della vita dell’artista, o almeno così era riportato sul retro della cartolina, ma se doveva essere onesto, una parte di quegli oggetti non li comprendeva proprio.
Il pallone da Basket, le cuffie con le note musicali erano oggetti che poteva tranquillamente ricollegare al Murochin che conosceva al liceo, per quanto riguardava la macchina fotografica vintage, poteva supporre che prima di darsi alla pittura l’artista avesse sperimentato un periodo transitorio legato al mondo della fotografia; ma il rossetto? La biancheria spaiata da donna? E quel bossolo?
Le domande gli affollavano la mente mentre per l’ennesima volta il pizzo dell’intimo si rompeva prima che riuscisse ad applicarlo nel posto prestabilito. Quel lavoro stava iniziando a minare il suo incondizionato amore per il cioccolato.
Maledicendo l’universo trascorse un’altra settimana e come lui anche tutto lo staff stava iniziando a dare segni di cedimento.
In uno dei rari momenti di calma durante il servizio nella grande sala di esposizione Atsushi sentì la suoneria, ormai familiare, del cellulare di Himuro. Si sentiva spesso in quei giorni e anche in quell’occasione, come anche nelle precedenti, le spalle del pittore si irrigidirono mentre controllava il display e zittiva la musica senza rispondere.
Ogni volta che accadeva il suo viso si faceva scuro e una ruga di preoccupazione gli solcava la fronte.
Cosa stava succedendo?
Tatsuya era sempre stato un tipo taciturno e riflessivo, raramente qualcosa riusciva a infastidirlo, figurarsi a preoccuparlo, eppure quelle telefonate senza risposta lo stavano turbando molto.
Ed ecco che alle tonnellate di lavoro che svolgeva, il pasticcere aggiunse anche il compito autoimposto di controllare il pittore.
Il giorno della chiusura si avvicinava, Murasakibara ormai era un oltre la stanchezza fisica, si assopiva nei posti più strani e nei momenti meno appropriati, aveva i nervi a fior di pelle perché ancora non riusciva a sistemare i pizzi di cioccolato come avrebbe voluto e per di più Kyoko si era ammalata quindi tutto il lavoro era ricaduto su di lui.
Con gesti nervosi serviva centinaia di stuzzichini e assaggi cercando di mantenere una certa professionalità ma non era raro che le composte invece di morbidi ed eleganti disegni formassero nei piattini pozze poco artistiche o sbavature antiestetiche.
Si odiava per questo, ma non poteva farci niente. Le ore trascorse a lavorare sulla scultura gli stancavano le braccia più del previsto e queste durante il giorno tremavano incontrollatamente compromettendo il suo lavoro.
Gli impasti non erano fragranti come al solito perché la sua capacità di giudizio nel miscelare gli ingredienti era minata dall’intontimento costante.
Non si accorgeva di aver messo troppa farina se non troppo tardi, era capitato che scambiasse lo zucchero a velo con quello per le glassature rovinando il bilanciamento d’aria all’interno del pan di spagna che era venuto spugnoso e asciutto.
Il nervosismo crebbe ancora e ancora man mano che la giornata di chiusura si avvicinava e l’umore di Himuro peggiorava di pari passo con il suo.
Le riunioni serali erano state sospese perché nessuno aveva più le forze per fermarsi dopo l’orario di chiusura della mostra, anzi, era un miracolo che tutti raggiungessero le proprie case senza stramazzare al suolo.
Il penultimo giorno l’umore generale era a dir poco tetro. Tutti sapevano che quello sarebbe stato il respiro prima della tempesta: per la chiusura erano previsti spettacoli e visite speciali per non parlare dell’orchestra che avrebbe accompagnato le visite per tutta la giornata.
Atsushi si presentò presto come ogni mattina e allestì il tavolo del buffet nascondendo la stizza per non essere riuscito a sfornare nemmeno un bignè decente. La scultura di cioccolato era terminata, mancava solo quel dannato pizzetto da applicare sul reggiseno e sullo slip.
Fulminò con lo sguardo l’opera originale che troneggiava su una tela di tre metri per due proprio davanti a lui.
Odiò i dettagli della plastica ruvida del pallone, fu tentato di cancellare a suon di candeggina le ombre delle cuffie e delle eleganti note musicali e la voglia di spararsi in testa con la dannata pistola quasi lo soffocava.
I visitatori scarseggiavano e nel pomeriggio quasi riuscì a riposarsi, sembrava che tutto volesse filare per il meglio quando fece il suo ingresso uno straniero.
Era alto, non quanto lui, ma sicuramente superava abbondantemente il metro e ottanta, i capelli biondissimi erano raccolti in un codino mentre gli occhi azzurri brillavano come gemme sull’incarnato abbronzato.
-Tatsuya!-
Il tempo di volgere lo sguardo verso la star della mostra e già un’espressione di riserbo gli si era dipinta sul viso.
Il gigante riusciva ancora a riconoscere i finti sorrisi di Himuro. E quello non solo era finto, era anche molto, molto teso. Rimase ad osservare la scena, mentre lo straniero, presumibilmente un americano visto l’accento, si avvicinava alla statua di sale che era diventato Tatsuya.
A voce troppo alta per gli standard nipponici il nuovo arrivato iniziò a parlare in un inglese fitto e storpio che era difficile da comprendere battendo rumorosamente una mano sulla spalla del pittore.
Mano che nel giro di qualche secondo, accompagnò i convenevoli di rito, scivolando ad avvolgere il corpo rigido del conoscente.
Murasakibara ebbe il fortissimo impulso di staccargli il braccio.
Per tutto il resto del pomeriggio lo straniero dagli occhi di ghiaccio rimase attaccato al padrone di casa intervenendo nelle conversazioni, stroncando le interviste e allontanando con fermezza i membri dello staff che tentavano di allontanarlo.
Se il comportamento del tipo americano era strano, ancor di più lo era quello di Tatsuya: gli lasciava fare quel che voleva, si lasciava trascinare via nel bel mezzo delle conversazioni e non accennava a tradurre una parola di quel che diceva l’amico.
Amico troppo appiccicoso per quel che riguardava l’idea che se ne era fatto il pasticcere. Le mani di quello che era stato presentato come Andrew erano sempre addosso a Himuro, o su un braccio, o su un fianco, o ad avvolgergli le spalle.
Atsushi credeva di essere stato irritato quella mattina, ma in quel momento era ben oltre l’irritazione. Era furioso.
Non solo stava avanzando pretese su qualcuno che aveva ben poco a che fare con lui, ma si stava decisamente arrabbiando troppo vedendo quel qualcuno accettare gli eventi senza ribellarsi.
Per la furia ridusse il cucchiaio che aveva in mano ad un piccolo pezzetto di metallo ritorto.
 
Peggior tempismo non avrebbe potuto averlo. Andrew era arrivato nel primo pomeriggio. Ancora prima di sentire la sua voce roca e rozza sovrastare il discreto chiacchiericcio della grande sala, ne aveva percepito la presenza.
Una strisciante sensazione di disagio e la voglia di scappare che gli faceva prudere le gambe.
Non poteva mostrarsi aggressivo e maleducato di fronte ai suoi ospiti, doveva lasciare di sé l’immagine che tanto faticosamente aveva costruito: un uomo tranquillo, pacato e imperturbabile che affrontava la vita con la placida adattabilità dell’acqua di un lago.
Così si era lasciato toccare dalle sue mani, si era fatto trascinare a destra e a manca senza protestare, si era scusato con i visitatori che era costretto a lasciare nel bel mezzo delle conversazioni e aveva finto di godere della caotica ed invadente compagnia del chiassoso straniero rifiutando gli assist che lo staff e la stessa Azuka avevano preparato per staccarglielo di dosso.
-E dimmi Himuro, sei felice che io ti abbia raggiunto qui? Ho fatto molti chilometri per trovarti e per poter stare con te.-
L’alito caldo di Andrew gli solleticava la pelle delicata dietro l’orecchio facendogli rizzare i capelli.
Doveva mantenere la calma. Non voleva che succedesse come l’ultima volta. Non poteva rischiare con tutte quelle persone attorno.
-Certo che sono felice Andrew, spero che Tokyo ti piaccia e che la permanenza qui ti permetta di apprezzare lo stile sobrio della nostra cultura.-
Uno strano verso seguì le sue parole.
-Apprezzare la cultura? Permanenza? E tu pensi davvero che me ne freghi qualcosa di Tokyo e del dannato Giappone?  Io sono venuto qui per riprendermi ciò che è mio e basta. La mostra finisce domani no? Bene. Dopodomani a quest’ora saremo su un aereo diretto a Los Angeles, a casa, e tu finalmente potrai dedicarti alla sola arte che ha una qualche importanza: compiacermi e amarmi finchè morte non ci separi.-
Una risata fragorosa seguì quelle parole mentre il panico minacciava di soffocare Tatsuya che istintivamente cercò con lo sguardo il banco del buffett dove un ombroso Murasakibara stava servendo  con gesti nervosi uno degli avventori. In un attimo i suoi occhi d’ametista si fissarono nei suoi scaldandolo fino alle ossa e scacciando il senso di freddo che sentiva.
Erano occhi stanchi, cerchiati di scuro, arrossati e sfiniti ma ribollivano di una rabbia così pura e ribollente che fecero crescere nel cuore del pittore la speranza che non tutto fosse perduto.
Atsushi aveva visto.
Lo guardava come se fosse qualcosa di sua proprietà e sembrava sul punto di volersene riappropriare. E in quel momento non importava se lo volesse con sé come amico o altro, l’importante era che lo volesse con sé e che l’atteggiamento di quello squilibrato di Andrew non gli andasse a genio.
Ma un pensiero terribile spense sul nascere la debole fiammella che aveva sentito.
Andrew aveva già allungato le sue mani su di lui e già qualcun altro aveva cercato di impedirglielo.
Quel qualcuno era poi stato coinvolto in un inspiegabile incidente stradale.
Nonostante le testimonianze del pittore e di alcuni conoscenti le indagini non arrivarono mai al punto di svolta, così il biondo era stato rilasciato con la sola restrizione di non avvicinarsi a lui nel raggio di cento metri.
Ma questo valeva solo negli Stati Uniti. E lì non erano negli USA. Erano in Giappone.
-Aaaah Tatsuya, mi chiedo come questi occhi a mandorla possano apprezzare i tuoi scarabocchi. E pensare che sei pure famoso!-
Fortunatamente nessuno sembrava riuscire a comprendere lo slang di Los Angeles quindi solamente il diretto interessato sentì quella considerazione e decise di ignorarla.
Ma non poteva cavarsela così. Una mano invadente e rude gli strizzò una natica con possessività.
Per poco non si lasciò sfuggire un’esclamazione di oltraggiata stizza ma piantandosi i denti nella lingua riuscì a trattenersi. Solo una signora si voltò a guardarlo incuriosita ma si lasciò distrarre dal suo sorriso e non fece caso a dove  Andrew stesse tenendo la mano.
-Mmmh, mi piace quando fai lo stoico e cechi di mantenere le apparenze. Mi prudono le mani dalla voglia di mettere alla prova la tua resistenza…-
Un brivido gelido scese lungo la schiena di Himuro.
Aveva conosciuto Andrew durante la sua permanenza a Los Angeles. Aveva terminato gli studi e passava da una scuola all’altra facendo da assistente ai professori di disegno. Era una vita tranquilla la sua, dipingeva nel tempo libero e qualche volta riusciva a esporre uno o due quadri alle mostre di altri affermati pittori.
In quel periodo andava a giocare basket con un gruppo di coetanei conosciuti in un pub, lo stesso locale in cui quella sera si scontrò per la prima con il gigante biondo.
Stavano giocando a carte davanti ad un buon brandy quando un tipo grande grosso si era avvicinato cercando di attaccare bottone.
Pensando che fosse innocuo lo avevano accolto a chiacchierare e a giocare con loro fino a quando, durante una normalissima conversazione una mano non aveva afferrato, sotto al tavolo, il ginocchio di Tatsuya per poi risalire lungo la coscia e poi più su. Nonostante si fosse scostato e avesse schiaffeggiato via quella zampa invadente questa era tornata alla carica.
La serata era andata avanti così e quelle che in realtà erano state poche ore, a Himuro erano sembrate ere geologiche.
Fortunatamente era in macchina con alcuni amici quindi, una volta uscito dal locale non si preoccupò più dello sgradevole individuo finchè non erano iniziate le telefonate mute, le lettere d’amore, le scritte sui muri della scuola in cui lavorava.
Aveva mollato il lavoro e si era trasferito, nel frattempo una manager lo aveva contattato per proporgli il suo primo contratto e così aveva iniziato a viaggiare per gli States dimenticando quella brutta storia.
A Philadephia aveva ricevuto la prima di molte chiamate notturne, le chiamate erano poi diventate mail e le mail erano sfociate in veri e propri agguati.
Era all’inizio della sua carriera da artista, non poteva macchiarla con una denuncia per stalking, così aveva scelto la strada più semplice. Aveva lavorato sodo per aprire in anticipo un calendario che comprendeva diverse mostre in Europa e in Asia.
Era scappato. Ancora.
Uno dei suoi assistenti aveva prestato particolare cura a ciò che stava accadendo e nonostante discrezione di Tatsuya aveva compreso la situazione. Si era schierato apertamente denunciando a proprio nome il personaggio che però si era dimostrato sfuggevole come nebbia.
Paul, si era preso a cuore la faccenda e nonostante gli episodi si fossero interrotti si preoccupava sempre di non lasciare mai solo il pittore  e così avevano anche stretto una solida amicizia che rincuorava la solitudine del lavoro itinerante che svolgevano come equipe.
Poche settimane dopo, alla fine di una estenuante giornata di chiusura della sua prima mostra a New York, Paul lo aveva accompagnato in albergo prima di andare a trovare la ragazza che frequentava allora.
I freni erano stati tagliati. La macchina grigia del suo amico era finita dritta nel bel mezzo di un trafficato incrocio nel centro della Grane Mela. Ventidue giorni di agonia in cui l’uomo era rimasto sospeso tra la vita e la morte per poi spirare in una calda mattina primaverile.
Quello stesso giorno Himuro aveva giurato a se stesso di non coinvolgere nessun altro. Persino Taiga non sapeva nulla di quella faccenda e nonostante la domanda che gli aveva letto negli occhi quando non aveva risposto all’ennesima chiamata, aveva preferito tacere.
Mai più una persona a lui cara sarebbe stata coinvolta.
Mai più qualcuno sarebbe morto per lui.
Fu quel pensiero a dargli forza di resistere fino all’orario di chiusura e sempre lo stesso proposito gli impedì di guardare ancora in direzione del buffet. Sapeva che se c’era qualcuno in grado di accorgersi del suo terrore, quel qualcuno era proprio l’enorme pasticcere dall’aria minacciosa.
 
Murasakibara continuò ad osservare con sguardo furente la coppia che conversava animatamente in inglese, lontana dalla folla, ignorando i giornalisti. C’era qualcosa che non andava, ma cosa, non avrebbe saputo dirlo.
Tatsuya sorrideva e ridacchiava alle battute del biondo e sembrava a suo agio con il suo braccio attorno alle spalle. Da lontano non poteva sperare di cogliere abbastanza parole per capire la conversazione e soprattutto non poteva distinguere lo sguardo del pittore.
Quel pomeriggio pochissime persone si erano servite al suo banco, molti gravitavano lì attorno osservando lui e i suoi dolci senza però avvicinarsi.
Dopo l’orario di chiusura, come concordato, salì nella sala conferenze per prendere visione della tabella di marcia del giorno successivo e al momento del commiato una Azuka alquanto seccata  gli sibilò di essere meno spaventoso altrimenti gli ospiti non avrebbero di nuovo avuto il coraggio di avvicinarsi. Ah… ecco perchè nessuno era venuto a servirsi. Li stava spaventando.
Assicurò alla manager che non sarebbe più successo e si avviò lentamente verso le scale.
-Atsushi, ti va un altro passaggio a casa? Avrai parecchie cose da fare ed io sono talmente nervoso per domani che non riuscirei a dormire nemmeno con una botta in testa.-
Tatsuya stava appoggiato al muro come l’ultima volta, ma invece di tenere le braccia incrociate sembrava abbracciarsi nel timore di cadere a pezzi.
Cosa stava succedendo? C’entrava il nuovo arrivato? Si disse che forse se avesse accettato sarebbe riuscito a capire cosa lo turbava.
-Va bene, sono proprio stanco. Azuka san mi ha proprio strigliato alla grande.-
Una tremula risata sfuggì al pittore.
-Lei non ha paura di niente e di nessuno. Nemmeno di te. Oggi a quanto pare hai terrorizzato i miei ospiti al punto da farli digiunare. C’è qualcosa che posso fare per questo umore nero?-
Sì, una cosa ci sarebbe stata ma come poteva chiederglielo? Come poteva dirgli che per fargli passare la carogna doveva stare alla larga dallo straniero? Con che diritto poteva fargli una richiesta simile?
-Naaah, sono solo molto stanco. Domani mi impegnerò per essere adorabile e cordiale. Sarò il beniamino delle vecchiette. Vedrai.-
Gli strappò un’altra risata.
Salirono in macchina e silenziosamente scivolarono nel traffico. Per qualche minuto rimasero entrambi persi nei propri pensieri, ma la curiosità vinse sulla reticenza e il pasticcere diede voce ai suoi pensieri.
-Ho visto che è arrivato un tuo amico oggi. È stato spassoso vedere l’esuberante vitalità americana in mezzo al grigio contegno giapponese. Ha una vitalità niente male il tipetto.-
Himuro si irrigidì sotto al suo sguardo.
-Sì… è davvero vitale, ma sappi che è un casinista anche tra gli americani, quindi… non farti idee sbagliate.-
Era un’impressione o il tono leggero era un po’ forzato?
-Da quanto vi conoscete? Mi sembravate piuttosto  complici oggi.-
Non voleva fare quella domanda ma non era riuscito a fermarsi in tempo. Si maledì mentalmente restando però in fremente attesa di una risposta che tardò ad arrivare.
Il pittore stava riflettendo su qualcosa, probabilmente si conoscevano da così tanto che stava cercando di risalire al suo primo incontro col biondino. Involontariamente strinse i pugni.
Con il protrarsi del silenzio Murasakibara perse completamente la voglia di sapere la risposta. Sapeva già che lo avrebbe ferito. Perché poi? Non aveva deciso di mettere una pietra sopra a tutta quella storia?
Con un sospiro dovette però ammettere con se stesso che per quanto volesse chiudere quella faccenda dolorosa, l’aver rivisto il suo vecchio compagno di squadra e l’aver trascorso con lui tutto quel tempo, aveva riacceso i sentimenti che tanti anni prima aveva scambiato per semplice affetto e amicizia. Ora sapeva che si trattava di amore.
Che bel casino. Si fece mentalmente un applauso per la stupidità che stava dimostrando. Avrebbe dovuto negare; negare fino alla morte quel sentimento anche con se stesso. E invece si trovava nel ristretto e buio abitacolo di una macchina da corsa a pochi centimetri dall’oggetto dei suoi desideri e non poteva far nulla per sfiorarlo.
Quei centimetri sembravano anni luce ai suoi occhi.
-Credo di conoscerlo all’incirca da due anni.-
La voce di Tatsuya lo risvegliò dalle tenebre dei suoi pensieri. Si conoscevano davvero da così poco? Insomma, era stupito. Quindi non era un altro Taiga. Espulse il respiro che non si era accorto di trattenere.
Arrivarono davanti alla pasticceria buia. Kyoko si era beccata una brutta influenza e non poteva ancora alzarsi dal letto, quindi il negozio restava tristemente vuoto e buio fino al suo ritorno a tarda sera. Stava anche iniziando a nevicare ovattando i suoni cittadini fino a renderli impalpabili e irreali come in un sogno.
Himuro osservò pensieroso il locale chiuso.
-Ti spiace se resto un po’? Qui è così tranquillo…-
Sembrava proprio una richiesta d’aiuto. E Lui non aspettava altro. Nonostante il sonno tremendo e la voglia di levarsi dalle orecchie ore e ore di conversazioni scialbe Atsushi fu ben felice di annuire.
Entrarono nel locale  fiocamente illuminato e furono subito avvolti dal profumo di vaniglia.
-Questo profumo è celestiale.-
L’artista aveva gli occhi socchiusi e prendeva grandi respiri come se fosse stato in apnea fino a un momento prima.
-È il profumo di casa.-
Gli strappò un’altra risata mentre lo conduceva su per le scale fino al suo appartamento piccolo e minimalista. Non aveva bisogno di molte cose visto che praticamente viveva in negozio: il salotto era la sua stanza da letto e vi troneggiava un divano letto aperto e sfatto, il corridoio era ingombro di vestiti seminati nel percorso fino al bagno dove a fine giornata strisciava per farsi una doccia e infine, la cucina era… ordinatissima.
Il padrone di casa si scusò più volte per le condizioni rivoltanti della casa e lo condusse dritto nell’unica stanza che sembrava appena stata arredata.
Ogni sportello, ogni superficie, ogni attrezzo splendeva , le sedie erano allineate sotto il tavolo a penisola e dalla finestra si intravedeva la strada.
-Piccolo ma accogliente.-
La voce di Tatsuya lo sorprende, è bassa, rilassata e appena venata di invidia.
-Serve allo scopo. Di certo non è una reggia, ma è vicino a casa…-
Ridacchiano entrambi ritrovando quella complicità che sembrava essersi perduta.
SI sedettero alla penisola davanti ad un bel bicchierone di Birra aromatizzata al miele sgranocchiando biscotti rustici alla cannella.
Chiacchierarono delle loro vite, delle esperienze, degli amori perduti trovati e poi dimenticati. Trascorsero ore cercando di recuperare tutti gli anni che avevano perso. Atsushi aveva l’impressione di non essere il solo a volere un riavvicinamento; quando faceva una pausa subito l’altro rincalzava le domande per non concludere la serata.
Parlarono di tante cose. Di come avevano deciso di intraprendere una strada piuttosto che un’altra, di come fosse stato difficile iniziare, delle distrazioni che avevano minacciato di distoglierli dal loro obiettivo e finirono anche a parlare di donne. Da quel che ne sapeva, il pittore era sempre stato circondato da ragazze e donne bellissime
Andarono avanti a sorseggiare birra e tè per ore, infine, alle prime luci dell’alba crollarono spalmati sul ripiano ingombro di bicchieri e briciole di pasticcini.
Il suono del telefono di Himuro li risvegliò. Erano le otto e mezza passate. Merda. Aveva un’ora e venti per infornare l’ultima carrellata per buffet. Il pittore assonnato e spiegazzato gli aveva chiesto il permesso di fare una doccia e nel mentre Murasakibara si era affaccendato al piano di sotto.
Non seppero spiegarsi come, ma nel giro di un’ora entrambe erano si trovati affaccendati ad incartare dolciumi e a sistemarli nel piccolo bagagliaio dell’auto sportiva dell’artista e sfrecciare come pazzi alla volta dello stabile dove la mostra stava già aprendo facendo attenzione che gli scossoni non distruggessero la riproduzione in cioccolato che Atsushi teneva in bilico sulle gambe.
Una Azuka alquanto arrabbiata strigliò per bene entrambi ma si mise anche in gioco aiutando i due a preparare il bancone e il piedistallo di esposizione della scultura ancora coperta dall’imballaggio igienico e protettivo. Non serviva la cassa termica vista la temperatura rigida tipica di fine Dicembre.
 
Non gliel’aveva fatta vedere. Un po’ ci sperava.
La scultura era arrivata sana e salva alla mostra nonostante avesse guidato piuttosto velocemente  ed era rimasto incantato dalla cura con cui il pasticcere, con le sue grandi mani, maneggiava il grosso pacco.
Quella notte avevano parlato dei grattacapi che l’incarico gli aveva dato, dei problemi che aveva avuto nel lavorare il cioccolato bianco per i pizzi e delle decine di tentativi falliti. Aveva visto sul suo viso la frustrazione mentre parlava ma anche la soddisfazione di essere riuscito a vincere contro un ostacolo che aveva creduto insuperabile.
Era stato bello stare con lui a parlare, nella splendida cucina di quel piccolo nido disordinato. Si era sentito lontano anni luce dal mondo caotico a cui era abituato, aveva sentito sulla pelle la pace della routine che il suo vecchio amico aveva modellato a sua immagine come una crema ricca e nutriente.
Si era sentito più a suo agio lì che nella grande villa che aveva acquistato a Los Angeles e nella quale non amava tornare. Era troppo grande per lui, troppo spaziosa e l’eco dei suoi passi nell’ingresso quando arrivava era sembrava volergli ricordare che era solo anche quando c’era qualcuno con lui.
Mentre venivano aperte le porte si concesse un secondo, un solo secondo per immaginare come sarebbe stato tornare a casa  nel nido di Atsushi con il profumo di vaniglia ad avvolgerlo protettivo contro i mali del mondo e contro persone come Andrew…
Non fece in tempo a vederlo davvero, piuttosto lo intravide.
Una testa bionda in mezzo alla folla di visitatori accorsi numerosi per presenziare agli intrattenimenti speciali organizzati per la chiusura. Una testa bionda che non camminava in direzione della reception per ritirare il programma e depositare il cappotto.
In una manciata di secondi vide l’uomo, con ancora i fiocchi di neve brillanti sulla giacca nera, giungere nei pressi del banco del buffet dove Murasakibara era intento a sistemare i piattini e le posate per il servizio. Per un solo istante i suoi occhi azzurri incontrarono quelli del pittore che rimase congelato un momento di troppo.
Un gruppo di giornalisti venuti per intervistarlo gli coprì la visuale e così, senza ascoltare le loro parole più che vederlo lo sentì. Un unico forte boato. Uno sparo.
In quell’attimo sospeso tra il fragore e le urla di panico Tatsuya sapeva già cos’era successo.
Gli addetti alla sicurezza stavano già accorrendo ma non era necessario.
Sotto lo sguardo di circa quattrocento persone Andrew alzò la pistola e si sparò alla testa.
In tutto era forse passato un minuto.
Il corpo dello straniero era accasciato in mezzo al salone riverso in una pozza di sangue. Non c’era nulla da fare per lui. Ma a Himuro non interessava quel macabro spettacolo mentre correva verso il tavolo ingombro di dolci profumati.
Atsushi era a terra, sembrava addormentato. Un fiore rosso cremisi gli fioriva  nel petto imbrattando il bianco immacolato della divisa da pasticcere.
La sua pelle bianca era cerea, quasi trasparente e il pallore del suo volto sembrava impossibile, il respiro era un rantolo sibilante a cui seguivano rauchi colpi di tosse che gli facevano zampillare il sangue fuori dalle labbra smorte.
Il pittore crollò in ginocchio al suo fianco mentre Azuka, che lo aveva rincorso chiamava con voce scossa il Pronto Soccorso.
-Atsushi… Atsushi… riesci a sentirmi? Sta arrivando l’ambulanza, mi senti?! Non mollare ragazzone…-
Gli stringeva la mano con tutte le sue forze come se bastasse a trattenerlo lì con lui, la sentiva sempre più gelida mentre il suo sangue caldo gli inzuppava i pantaloni del completo elegante.
In lontananza dalle porte aperte si sentì la sirena, ancora qualche minuto e i medici lo avrebbero salvato…
In quel momento Atsushi rantolò e smise di respirare.
Probabilmente le persone attorno a loro non se ne accorsero, per loro era solo uno sfortunato sconosciuto che era stato colpito dal colpo di pistola di uno psicopatico e che ormai era senza speranza.
No. Senza perdere un secondo Tatsuya gli tappò il naso e iniziò a pompare ossigeno nei suoi polmoni fermi.
Se non voleva decidersi a respirare, allora avrebbe respirato per lui.
Il vociare attorno a loro scomparve nel momento in cui le sue labbra vennero in contatto con quelle di Murasakibara. Erano fredde, e il sapore ferroso del sangue sembrava sovrastare ogni altro sapore ma non se ne curò.
Staccò la bocca dalla sua per comprimere il suo enorme petto. Il suo cuore non si sarebbe fermato, non in sua presenza. Ancora una volta gli soffiò aria in petto e gli praticò il massaggio prima che i paramedici lo spingessero da parte.
Una folla silenziosa seguì con lo sguardo la barella lasciare lo stabile seguita, più lentamente dal sacco nero per cadaveri dentro cui giaceva Andrew.
Se non fosse stato già morto Himuro avrebbe voluto ucciderlo con le sue mani.
-Sensei… venga, deve darsi una ripulita…-
La voce, insolitamente gentile di Azuka lo riscosse. In effetti doveva essere spaventoso, sentiva il sangue di Atsushi seccarglisi sulle guance e attorno alle labbra mentre i pantaloni gocciolavano il denso liquido rosso scuro sul pavimento ai suoi piedi.
-Sì…-
Si lasciò guidare attraverso la sala, fendendo il mare di folla che si apriva al loro passaggio come il Mar Rosso con Mosè.
Come in trance si lasciò lavare il viso e quando rimase solo nel bagno del secondo piano invece di spogliarsi si rannicchiò dietro alla porta.
L’adrenalina in circolo gli faceva tremare le mani, sulla lingua aveva ancora il sapore ferroso del sangue che stava scivolando via dal corpo del pasticcere insieme alla sua vita. Lo aveva stretto tra le braccia mentre il suo corpo veniva sempre più freddo e nonostante il suo cuore avesse smesso di battere si era rifiutato di lasciarlo andare.
 No. Non aveva potuto nemmeno pensare che Murasakibara morisse. Era ben diverso. Se lui fosse morto, cosa sarebbe rimasto di lui? Forse i suoi quadri, forse il suo nome su qualche rivista ma sentiva, ne era certo fin nelle ossa, che se Atsushi fosse morto… lui sarebbe andato con lui.
Con questa consapevolezza il suo respiro si calmò e le gambe smisero di tremare. Si lavò e si mise una tuta da ginnastica per poi correre in ospedale.
Se c’era una speranza che vivesse e che riaprisse gli occhi, lui voleva essere lì. Voleva essere tra i primi a potergli parlare.
 
Il sonno che gli gravava addosso era impossibile eppure non avrebbe scambiato quella nottata con Himuro per tutte le ore di sonno del mondo. 
Erano riusciti a far tutto nonostante il ritardo di quella mattina. Grazie al cielo la mano abile e ferma del pittore era stata utile anche per decorare i  suoi pasticcini.
Non ricordava chi dei due fosse crollato per primo, ma la sensazione di vicinanza era stata così confortante che non avrebbe voluto svegliarsi mai più. Era riuscito persino a completare la scultura quella mattina, al primo tentativo, senza sforzo il pizzo era venuto perfetto.
Stava andando tutto bene, all’apertura era entrata un sacco di gente e la felicità che provò nel vedere il successo dell’amico gli scaldò il cuore.
Voleva che fosse tutto perfetto, per questo si era messo a sistemare con cura i dettagli del proprio bancone e quando aveva avvertito una strana sensazione aveva deciso di non pensarci.
Confuso dalla mancanza di sonno aveva ignorato il senso di urgenza che via via cresceva.
Era bastato un secondo.
Aveva alzato gli occhi, si era trovato davanti l’americano. Cavolo, l’aveva rimosso dai propri pensieri durante quella notte. Lo odiava proprio, il solo vederlo gli aveva mandato il sangue al cervello.
A rallentatore lo aveva visto estrarre dalla giacca spruzzata di nevischio fresco una  grossa pistola uguale a quelle dei film western e, troppo presto perché potesse anche solo prendere un respiro, l’uomo aveva fatto fuoco puntando a lui.
Il rumore rimbombò forte nella sala coprendo il chiacchiericcio. Un suono troppo forte per essere compreso subito appieno. Atsushi non sentì dolore. Si stupì, mentre veniva spinto all’indietro dalla forza del colpo ravvicinato di quanto fosse spaventoso il suono rispetto alla sensazione che provocava.
E poi era arrivato.
Rapido il senso di stordimento si era impossessato di lui.
Era crollato a terra come un sacco di farina e non riusciva a comandare al suo corpo di muoversi. Migliaia di puntini gli danzavano davanti agli occhi prima che tutto si oscurasse.
Si sentiva come se una coperta di ghiaccio stesse calando sul suo corpo.
Aveva così freddo…
Nel buio aveva sentito un altro forte boato. Un altro colpo di pistola? Chi era stato colpito?
Mentre la coscienza gli scivolava lontana pregò che Tastuya Himuro fosse salvo e stesse bene.
A sprazzi riemergeva dal mare nero dell’incoscienza e carpiva frammenti di conversazioni coperte dall’anomalo battito del suo cuore.
Era sempre stato così lento? E soprattutto… era sempre stato così debole?
-Atsushi… Atsushi… riesci a sentirmi? Sta arrivando l’ambulanza, mi senti?! Non mollare ragazzone…-
La voce di Murochin gli giunse alle orecchie scavalcando la morte che ormai sentiva serpeggiare su di sé. Era intrisa di disperazione e paura. Non sentiva più nulla, eppure provò dolore al pensiero di essere la causa della tristezza di Tatsuya. Che strani che erano gli esseri umani.
Avrebbe voluto rispondergli, tranquillizzarlo.
Avrebbe voluto dirgli che non sentiva male e che era felice di aver chiacchierato con lui ancora una volta, come facevano ai vecchi tempi, che era più che soddisfatto di averlo avuto di nuovo vicino.
Avrebbe preferito avere il coraggio di confessargli il suo amore ma ormai non riusciva più a trovare la propria bocca per far uscire quelle parole che aveva seppellito per così tanti anni.
Diavolo, era proprio sfortunato.
Il suo tempo stava finendo proprio nel momento in cui le cose stavano prendendo la giusta piega. Era destino che andasse così.
Avrebbe voluto essere coraggioso e dire a tutti di non rattristarsi, che stava bene e non soffriva, ma la verità era che stava morendo di paura in quel mare nero in cui galleggiava la sua coscienza.
Aveva paura di morire. Paura di scomparire senza aver lasciato alcun segno nel mondo.
Non aveva  mai avuto paura del dolore né dell’idea della morte, ma trovarcisi, a morire… quello era un altro paio di maniche.
Voleva ribellarsi, scappare dall’oscurità che stava inghiottendo ogni cosa, desiderava dolorosamente qualcuno che lo abbracciasse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.
Per un attimo gli venne in mente Sakura, la piccola principessa del suo cuore. E si rammaricò ancora di non poterle insegnare a fare i dolcetti e a decorare i coniglietti di cioccolato.
Se avesse ricordato dove si trovavano, probabilmente avrebbe stretto i suoi pugni troppo grandi con la voglia di picchiare  chiunque avesse stabilito che la sua vita doveva finire lì.
Sì, lui stava morendo. Era terrorizzato. Eppure avrebbe davvero voluto prendere a pugni l’americano.
Poi la coscienza gli scivolò tra le dita e il buio calò anche tra i suoi pensieri.
 
Himuro, si sentì in dovere si chiamare Taiga per avvisarlo dell’accaduto. Aveva migliaia di domande da fargli ma l’artista lo bloccò sul nascere dicendogli che non era il momento. 
Quando arrivò in ospedale una gentile infermiera gli disse che in quel momento il pasticcere si trovava in sala operatoria e che l’intervento sarebbe stato lungo e complesso.
Nel giro di un’ora erano tutti lì. Kuroko, Aomine, Kise, Midorima e persino Takao. I genitori di Atsushi erano a fare ricerche speleologiche in Sud America e non erano ancora riusciti a contattarli, per cui gli unici ad essersi aggiunti al gruppetto storico erano alcuni vecchi compagni dello Yosen presenti alla mostra quando era successo il disastro e Kyoko che nonostante la febbre era accorsa accompagnata dalla fidanzata non appena aveva sentito la notizia in televisione.
Il silenzio regnava surreale nel corridoio asettico.
Midorima era andato a cercare l’assistente del primario di cardiologia nella speranza di riuscire ad avere notizie più dettagliate sulle condizioni del paziente, Akashi aveva telefonato dopo aver letto il messaggio di Kuroko e aveva chiesto di essere informato in caso di sviluppi.
Tatsuya sapeva di quali sviluppi stesse parlando. Vita o morte. Dovevano chiamarlo sia in caso di morte sia in caso di guarigione.
Mentre pregava stringendo i pugni in silenzio Taiga arrivò a dare il cambio a Kuroko che doveva andare a tenere la piccola Sakura a casa. Subito l’amico gli si avvicinò e nonostante nello sguardo gli bruciasse il biasimo le uniche cose che disse furono parole di conforto.
La mano che gli appoggiò sulla spalla era così calda e rassicurante.
Le ore trascorse lente mentre a tratti tutti andavano al bagno o al distributore a prendere da bere.
Ovviamente tutti loro conoscevano Atsushi da più tempo di lui e i loro visi preoccupati erano lo specchio dei suoi stessi pensieri.
Midorima era tornato con notizie critiche. A quanto pare il massaggio cardiaco effettuato da Himuro aveva fatto sì che sopravvivesse fino all’arrivo dei paramedici e che grazie all’adrenalina, ad una trasfusione e al defibrillatore avevano rimesso in moto il cuore di Murasakibara.
A impensierire i medici era la lacerazione lasciata dalla pallottola sul ventricolo destro che comprendeva anche una piccola porzione di polmone. Se il corpo non collassava di nuovo a causa della massiccia perdita di sangue, c’erano alcune probabilità che sopravvivesse, ma l’eventualità di un nuovo shock erano alte.
Non sapeva più a che santo votarsi, a che divinità rivolgersi per chiedere la salvezza della persona che più di tutte gli stava a cuore. Un commissario di polizia arrivò nel primo pomeriggio per documentare la sua testimonianza e per riferirgli che nella stanza d’albergo di Andrew c’era una diario che poi avrebbe dovuto leggere e che sul cellulare dell’uomo erano state trovate delle foto che lo ritraevano la sera prima davanti alla pasticceria di Atsushi.
Quindi era questo il motivo per cui rischiava di perdere un altro amico.
Era colpa sua che si era illuso di poter trascorrere del tempo con lui prima di scappare ancora lontano.
Era per causa sua che Murasakibara stava su quel tavolo operatorio tra la vita e la morte?
Il senso di colpa quasi lo soffocò, poi prese una decisone. Avrebbe avuto tutto il tempo per scusarsi e deprimersi una volta che l’operazione si fosse conclusa.
Non poteva sprecare tempo prezioso a  incolparsi, doveva pregare che tutto andasse bene esattamente come faceva Kuroko con gli occhi bassi, come facevano Aomine e Kise che ancora in divisa si confortavano con discrezione, come Midorima che ogni ora chiedeva un aggiornamento al personale ospedaliero che usciva dalla sala operatoria.
Tutti pregavano che si concludesse bene.
Era ormai notte fonda quando l’intervento terminò. Era durato 16 ore.
Quando il primario di cardiologia finalmente uscì dalla sala operatoria era visibilmente stanco.
Subito Midorima e Himuro si avvicinarono per sentire cosa avesse da dire.
-L’intervento è stato lungo e complesso, ma per il momento è vivo. Ci siamo preoccupati quando è andato in arresto cardiaco nel bel mezzo della sutura, ma alla fine siamo riusciti a trattenerlo qui.
Ora sta a lui. I valori al momento sono bassissimi ma speriamo che con qualche trasfusione e un po’ di soluzione fisiologica, si riprenda. L’incertezza è se riuscirà a superare la notte. Scusatemi.-
Con questo se ne andò.
Quindi non era ancora finita. Fermò un’infermiera.
-Possiamo vederlo?-
La donna e anche Midorima lo guardarono come se fosse impazzito.
-È in rianimazione, al momento la pregherei di non andare. Se succedesse qualcosa intralcerebbe il personale medico.-
Come se gli avessero dato uno schiaffo Tatsuya si rintanò in bagno mentre Shintarou spiegava agli altri la situazione.
Quando finalmente decise di tornare in sala d’attesa c’erano solo Midorima, Aomine e Taiga.
Prima che potesse chiedere qualcosa fu Kagami a spiegargli la situazione.
-Abbiamo deciso di fare a turno in base agli orari di lavoro. Ci sarà sempre qualcuno qui con lui. Che ne dici di andare un po’ a casa a dormire?-
Probabilmente gli lesse in faccia quel che pensava di quella proposta perché annuì e lasciò perdere.
Le ore sembravano non trascorrere mai, li avevano spostati nella sala d’attesa del reparto di rianimazione, Tatsuya dal corridoio poteva vedere la stanza di Atsushi.
Era steso a letto sotto una montagna di coperte, la mascherina dell’ossigeno gli copriva quasi tutto il viso pallido, da un lato la sacca del drenaggio si riempiva rapidamente di sangue e liquido mentre dall’altra parte una flebo gli pompava in vena sangue e soluzione fisiologica per contrastare la morte in agguato.
Gli sembrava di essere sospeso. Di galleggiare nel vuoto. Quasi non si accorse di quando Kuroko venne a sostituire Taiga né di Takao che dava il cambio a Midorima. Erano tutti stanchi, con le occhiaie e i visi seri. Non si era guardato allo specchio ma dai loro sguardi poteva solo immaginare in che stato dovesse essere.
La testa girava a vuoto senza riuscire ad afferrare un pensiero coerente, spesso si accorgeva di perdere l’equilibrio perché il sonno stava per avere la meglio, ma nessuno tentò di persuaderlo ad andare via. Non dopo il suo muto scambio con Kagami.
Non dopo che aveva finalmente lasciato intravedere a  qualcuno il perché del suo comportamento.
Probabilmente tutti sapevano. Tutti avevano capito perché bene o male ci erano passati.
Kyoko, che era rimasta fino alla fine dell’intervento, si ripresentò per sapere come stava il suo insegnante. Era sinceramente preoccupata e gli voleva bene.
Quanto l’aveva invidiata e odiata! Solo fino al giorno prima voleva torcerle il collo per essere ciò che lui voleva disperatamente e invece si era scoperto, anche se nella peggiore delle circostanze, che era felicemente accoppiata con una tipa che era ancora più spaventosa e selvatica di Daiki.
Il che era tutto dire.
Probabilmente era più mascolina lei di tutti loro. Se non fosse stato così stanco e apatico probabilmente avrebbe sorriso a quel pensiero assurdo.
La mattinata trascorse tranquilla senza che si manifestassero ulteriori complicazioni e  questo fece sperare che il peggio fosse finalmente passato.
Verso l’ora di pranzo il primario di cardiologia fece una visita accurata al paziente e quando uscì dalla stanza asettica ingombra di macchinari portò buone notizie.
-Il fatto che abbia superato la notte ci fa ben sperare sulla sua ripresa. Se non ci saranno peggioramenti nella pressione sanguigna, nei linfociti T e nell’emoglobina, entro stasera lo trasferiremo in reparto. Non è più sotto anestetico, quindi potrebbe svegliarsi anche se mi sento di dire che sia troppo presto. Se volete, un visitatore per volta può entrare. Avete dieci minuti.-
Queste notizie rincuorarono tutti tranne Himuro. Era sollevato, certo, ma finchè non lo avesse visto aprire gli occhi, non sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso il sapore del suo sangue né a levarsi dalla testa l’immagine della pozza scura lasciata sul pavimento quando i paramedici lo avevano portato via.
Rabbrividì e inaspettatamente fu Takao a farsi avanti e tentare di fargli coraggio e a dirgli che avevano deciso di lasciare a lui tutti i dieci minuti a disposizione per stare con Murasakibara.
Commosso annuì.
Ci vollero quasi venti minuti di preparazione prima di poter entrare. Lo avevano impacchettato in un camice sterile, gli avevano fatto indossare una cuffietta e una mascherina che gli faceva prudere il naso. Ma non gli importava.
Quando mise piede nella stanza si sorprese di quanto fosse calda un attimo prima che l’infermiera gli spiegasse che serviva a contrastare i danni causati dal dissanguamento.  Mentre con discrezione la giovane donna controllava i macchinari Tatsuya si avvicinò al grande letto dove Atsushi riposava.
Il danno al polmone era stato minimo e per questo gli avevano già levato la mascherina.
Circondato dai bip dei macchinari che monitoravano l’incerto battito dell’omone disteso il pittore rimase fermo a guardarlo.
Era pallido, le occhiaie spiccavano sulla pelle traslucida come ustioni. Le labbra screpolate erano spaccate in più punti ma non sanguinavano. Probabilmente aveva troppo poco sangue per perderne ancora da ferite così superficiali.
-Guarda come sei ridotto… perdonami… è… tutta colpa mia… se io… se avessi pensato… tu… oh Cristo…-
Non voleva dire nulla ma le parole avevano iniziato a uscire spontaneamente dalle sue labbra senza che avesse dato loro il permesso. E con esse finalmente sgorgarono anche le lacrime.
A quel punto non gli importava di mantenere il controllo, a quel punto semplicemente vomitò singhiozzando tutto quello che aveva nel cuore. Tutto quello che avrebbe dovuto dirgli anni e anni prima, tutto ciò che sognava di poter fare con lui una volta guarito.
-Atsushi, mi senti vero? Sai che devi guarire? Non ti ho dato il permesso di morire… Devi riprenderti! Hai capito!?-
Riprese fiato, la vista ormai offuscata dai lucciconi che non si fermavano.
-Ti amo! Non puoi andartene adesso che l’ho ammesso e ammetto anche di ricordare quella notte e di averne conservato il ricordo come un tesoro anche se all’epoca non capivo!-
Ancora riprese.
-Ho fatto uno sbaglio. Uno errore madornale ad andar via. A lasciare te, a ignorare quello che eri per me… Ti prego… permettimi di chiederti perdono… permettimi di amarti ancora per un po’. Se non mi vorrai andrà bene lo stesso… ti amerò io abbastanza per tutti e due ma ti prego… riprenditi… Io ti amo lo hai..-
Un piccolo debole colpo di tosse lo interruppe.
 
Murasakibara riprese coscienza di sé lentamente. Iniziò a sentire un dolore pulsante al petto e per un po’ quello fu tutto ciò che sentì, poi arrivarono anche tutte le altre informazioni. Aveva freddo ma sentiva il peso delle coperte sopra il proprio corpo.
Che strano.
Era convinto di essere morto, ma non doveva cessare il dolore una volta morti?
All’improvviso sentì la sete. La bocca riarsa e la lingua impastata si unirono al cumulo di sensazioni che arrivava costantemente al suo cervello.
Le dita dei piedi fredde, le  gambe stese e il mal di schiena per la posizione supina, gli bruciava l’incavo di un braccio ma spostarlo per eliminare il fastidio…  no. Era ancora oltre le sue possibilità.
Poi gli arrivò alle narici l’odore asettico e tipico degli ospedali.
Quindi non era morto?
Pian piano comprese, i tasselli con lentezza andarono a posto. Doveva trovarsi in ospedale. Alla fine erano riusciti a trattenerlo in questo mondo.
Eppure era sicuro di essere morto.
Se avesse potuto sarebbe rabbrividito mentre ricordava la sensazione di scivolamento della coscienza.
Poi lo sentì. Qualcuno che singhiozzava…
Vicino a lui qualcuno stava piangendo e stava chiedendo perdono.
-Atsushi, mi senti vero? Sai che devi guarire? Non ti ho dato il permesso di morire… Devi riprenderti! Hai capito!?-
Era la voce di Murochin quella? Quanto dolore trasudava dalle sue parole, dal suono della sua voce rotta da quello che sembrava un pianto disperato.
Non era morto. Cercò di parlargli ma lo sforzo quasi lo fece precipitare di nuovo nell’incoscienza. Attese ascoltando il suono raschiante di quel respiro spezzato mentre il fiume di parole si faceva sconnesso. Ma il senso era chiarissimo.
-Ti amo! Non puoi andartene adesso che l’ho ammesso e ammetto anche di ricordare quella notte e di averne conservato il ricordo come un tesoro anche se all’epoca non capivo!-
Se avesse ricordato dove fossero i propri occhi probabilmente si sarebbe commosso. A dispetto del suo comportamento distaccato e annoiato… era un tenerone. Ma doveva restare un segreto tra lui e Sakura-chan. Lo avevano promesso.
Quindi Tatsuya ricordava quella notte. Non era stata un sogno. Stava dicendo di amarlo, di volere il suo perdono. Ma dove diavolo era la sua bocca? Prima la sentiva, era asciutta e impastata ma sapeva dove trovarla nel mare buio in cui galleggiava…
-… permettimi di amarti ancora per un po’. Se non mi vorrai andrà bene lo stesso… ti amerò io abbastanza per tutti e due ma ti prego… riprenditi…-
Non era lucido ma un pensiero gli brillò nella mente. Se c’era un motivo per cui era sopravvissuto, quello era per poter rendere felice Himuro Tatsuya e di amarlo incondizionatamente fino alla fine dei suoi giorni.
Doveva rispondergli.
Doveva trovare l’uscita.
Bastava sforzarsi un poco…
Invece della parole che voleva dire riuscì solo a tossire. Prese dolorosamente fiato e quella boccata d’ossigeno gli bruciò nel petto come un tizzone ardente.
Ritrovò il proprio corpo e i suoi occhi, finalmente, con lentezza si aprirono.
Vedeva sfocato ma bastarono pochi secondi per vedere con chiarezza l’espressione sbigottita sul volto bagnato e coperto dalla mascherina  di Himuro.
-Mu… ro…chin…-
E quello riprese a piangere. Gli si avvicinò di un passo e pianse senza ritegno come un bambino. Non gli importava delle lacrime che gocciolandogli dal mento cadevano sul lenzuolo, né del moccio al naso e nemmeno dell’aspetto indecente che aveva. Era lì, per lui, e tanto bastava.
-Muro…chin… sto… bene… calmati…-
L’infermiera era entrata nel suo campo visivo aveva un’espressione sbigottita sul volto e in un momento volò fuori dalla stanza, probabilmente a chiamare un dottore.
-Atsushi… sei… vivo…-
Ancora lacrime che però non offuscavano il sorriso sul volto di Tatsuya. Era un sorriso di pura gioia, di felicità ed era pieno d’amore.
 
La ripresa del pasticcere fu incredibilmente rapida.
Qualche giorno dopo Natale fu dimesso sia grazie alla sua forza fisica sia grazie ad un insistente opera di convincimento da parte di Midorima che garantì di tenerlo sotto osservazione  durante le feste.
Himuro era stato con lui tutto il tempo, era stata dura persino convincerlo a farsi qualche ora di sonno e una doccia. Avevano conversato parecchio durante la degenza.
Erano anche venuti il commissario di polizia e un ufficiale americano per raccogliere le deposizioni e a chiarire i dettagli del caso.
Andrew era uno squilibrato. Aveva tentato di ucciderlo perché aveva trascorso la notte insieme al pittore e poi si era tolto la vita. La salma era già stata trasportata negli States e il caso era stato chiuso in fretta.
Rimettendo piede in casa sua Atsushi si meravigliò. Era in perfetto ordine.
-Ho messo a posto e fatto il bucato. Non devi stancarti.-
Eccolo lì il suo angelo custode. Nuovo di zecca.
A detta dei medici era stato clinicamente morto per quasi tre minuti, durante i quali Tatsuya gli aveva praticato la respirazione artificiale e il massaggio cardiaco permettendo ai paramedici di rianimarlo.
Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza. Il profumo di vaniglia lo avvolse.
Sì, era a casa.
La pasticceria andava a gonfie vele dal momento in cui aveva di deciso di farla riaprire a Kyoko che gli aveva assicurato di potercela fare. E così era stato.
Si sedette nella sua cucina pulita e ordinata e si sentì semplicemente vivo e felice. Sorrise.
 
Mancavano poche ore alla rimpatriata di Capodanno. Erano stati invitati, insieme a tutti gli altri, a festeggiare il nuovo anno a casa di Kuroko e Kagami.
Tatsuya si era stabilmente trasferito nel piccolo appartamento di Murasakibara per  assisterlo e per evitare che riprendesse a lavorare troppo presto ma soprattutto perché non voleva trascorrere un solo secondo senza  di lui.
Ormai era lampante il fatto che si amassero e viste le condizioni delicate del pasticcere avevano trascorso molto tempo a parlare di quella notte al liceo, di quello che avevano provato e che non era cambiato. Avevano dormito vicini nel grande letto di Atsushi e si erano spesso scambiati qualche piccolo e casto bacio a fior di labbra.
Avevano finito da poco di pranzare quando il gigante lo chiamò in salotto.
Era disteso a letto, a torso nudo. Il cerotto medico che spiccava al centro del suo petto copriva la ferita dell’operazione e il foro slabbrato del proiettile.
-Murochin, vieni qui, ho voglia di cioccolato.-
Alzando gli occhi al cielo il moro ridacchiò voltandosi per andare a prendere il prezioso cioccolato ma una grossa mano gli impedì di muoversi.-
-Atsushi! Dovresti essere a let..-
Non fece in tempo a finire la frase che le labbra carnose e calde di Murasakibara coprirono le sue. Non era un bacio gentile, anzi, era famelico, esigente e molto, molto caldo.
-Fermo! Sei convalescente!-
Era riuscito a staccarsi dalle sue labbra mosso dal panico. Temeva che la ferita gli si riaprisse e che cadendo si facesse male. E poi… se Murasakibara davvero fosse caduto… come diavolo avrebbe fatto lui da solo a tirar su il suo mastodontico corpo?
-Tatsuya… sto bene e non voglio fermarmi.-
La voce strascicata  del pasticcere gli giunse all’orecchio tentatrice facendogli venire la pelle d’oca.
-Ma… devi stare tranquillo e riposare…-
Non c’era molta convinzione nelle sue parole: era convinto di quel che diceva ma non era mai stato un santo. Se c’era qualcuno debole al richiamo della carne… quello era lui.
-Fanculo, ma se collassi non ti perdonerò mai.-
Lo sospinse gentilmente verso il loro letto. Il gigante si sedette appoggiando le grandi mani sui suoi fianchi.
-Non collasserò. Non mi sento più così debole… ma… mi sembrava di averti chiesto del cioccolato…-
Con il cervello in tilt il pittore rischiò di perdersi nei due pozzi di ametista che erano gli occhi dell’uomo seduto di fronte a lui.
-S-sì… mi hai fermato tu…-
Le mani risalirono verso la sua schiena e sembravano toccare ogni centimetro di lui e della sua anima.
-Vai, prendine un po’-
Cercando di non mostrare la delusione Himuro si voltò e andò in cucina a prendere quanto richiesto. Quando, finalmente, rientrò in salotto con una ciotola piena di cioccolato fondente finissimo, rimase senza parole.
Atsushi era mollemente accomodato su una montagna di cuscini, il petto nudo tranne che per il grosso cerotto, i pantaloncini erano inequivocabilmente tesi all’inguine. Anzi, erano letteralmente sollevati.
Gli si seccò la bocca.
-N-non pensavo potessi essere così felice per un po’ di cioccolato…-
Gli giunse in risposta una bassa risata vibrante ed erotica.
-Sono felice di vedere te Murochin, il cioccolato è solo un di più.-
Con un dito gli fece cenno di raggiungerlo sul gande letto e, che gli dei avessero pietà di lui, quasi ci si lanciò.
In un momento le grandi mani calde dell’uomo che amava furono su di lui e impazienti gli sfilarono la camicia spiegazzata iniziando a vagare sulla pelle candida. Per poco non perse la presa sulla coppetta con il cioccolato ma il suo più lucido partner gliela levò dalle dita prima che spargesse il prezioso contenuto sulle lenzuola.
Tatsuya cercò le sue labbra nel tentativo di dimenticare finalmente il sapore di sangue a cui era legato il loro bacio più intenso.
E non rimase deluso. La morbidezza delle labbra di Atsushi lo avvolse mentre la sua lingua rovente al sapore di vaniglia invase la sua bocca massaggiando, succhiando, accarezzando ogni superficie disponibile.
In un attimo il ricordo scomparve sostituito dalle fiamme che iniziarono a lambire il suo corpo mentre a gran voce chiedeva soddisfazione.
Ma il gigante aveva altri progetti. Mentre spostava la sua scia umida di baci sulla sua gola mordicchiando la pelle tenera tra collo e spalla, una delle sua mani andò a pescare un pezzetto di cioccolato e lo portò alle labbra di Himuro che senza riflettere le socchiuse attorno al dolce boccone e alle dita del pasticcere leccandole e succhiandole piano.
-Murochin… così metti a dura prova il mio autocontrollo…-
Ridacchiando per il tono di voce cavernoso Tatsuya gli si mise cavalcioni attento a non gravargli sul petto ancora ferito.
-Beh, io rendo sempre pan per focaccia, dovresti saperlo-
Non fece in tempo a dire altro perché Murasakibara gli infilò le mani nei calzoni. Due mani immense e caldissime iniziarono a massaggiare l’intimità del pittore che rispose con entusiasmo alle attenzioni che l’altro gli riservò.
Massaggi e baci erano accompagnati dal sapore dolceamaro del cioccolato che Atsushi continuava a spingergli tra le labbra per poi baciarlo e condividere quel sapore ricco e vellutato con lui.
Per Himuro il mondo si era ridotto a due sole cose: le mani del compagno che lo facevano ardere di desiderio e il sapore del finissimo cioccolato che continuava a impastargli la bocca.
Era forse una magia?
Eppure ad ogni boccone, ad ogni ansito, ad ogni bacio gli sembrava di volare sempre più alto, sempre più verso il calore del sole.
Con gli occhi chiusi si lasciò andare all’incantesimo di Atsushi, al suo calore, alle sue grandi mani che sembravano essere ovunque, alle sue labbra che sfioravano la sua pelle un attimo prima di saccheggiare la sua bocca. Perse il controllo.
Era un fascio di terminazioni nervose che ansimava, tremava, si dimenava e non sapeva se sarebbe riuscito a reggere ancora quel lento massaggio ipnotico che scivolava sulla sua eccitazione pulsante.
-Murochin, questi mi impicciano…-
Da dietro le palpebre chiuse Tatsuya sentì il rumore della stoffa che veniva lacerata un attimo prima di avvertire il tocco delicato dell’aia fresca sulle natiche quando i brandelli dei calzoni e dei boxer caddero sotto l’attacco del suo focoso amante.
Ed ecco di nuovo il calore rovente, le dita che curiose massaggiavano, sfioravano mentre un altro pezzetto di cioccolata gli veniva spinto con delicatezza tra le labbra per poi sciogliersi nella danza delle loro lingue intrecciate.
Un bacio vertiginoso allontanò ancora la realtà. La mano calda di Murasakibara lo stava facendo impazzire con la lentezza dei suoi movimenti calcolati.
Rispose al bacio con foga, come se ne andasse della sua vita, mentre le sue mani involontariamente  si artigliarono alle ampie e robuste spalle del pasticcere.
Gli gemette sulle labbra.
Qualcosa cambiò.
La mano di Atsushi iniziò ad essere più decisa e i movimenti più rapidi. La sua bocca era ovunque ma tornava sempre sulla sua per godere del suo sapore misto a quello della cioccolata che continuava a  fargli scivolare in bocca.
Il mondo si era ristretto e si riduceva al pasticcere e al gusto deciso del cioccolato. Finchè non lo sentì.
Un dito delicatamente stava violando il suo corpo; lo stesso dito, proprio come anni e anni prima gli stava regalando la sensazione più strana che avesse mai provato.
Scacciò i dubbi e l’inquietudine che minacciavano di sommergerlo come era successo allora. Non era più un ragazzino, aveva fatto la sua scelta, aveva trovato la sua risposta e quella risposta si chiamava Murasakibara Atsushi.
-Tutto a posto Murochin? Se vuoi mi fermo qui.-
La voce cavernosa del suo compagno lo riportò al presente. Cosa gli stava facendo? Come poteva farsi venire un qualche dubbio quando si trovava tra le braccia dell’uomo che amava e che per poco… troppo poco, aveva rischiato di perdere?
Prese fiato.
-Tutto bene Atsushi… non… t-ti fermare…-
Una risata roca, erotica gli scivolò sulla pelle eccitandolo, se possibile, ancora di più mentre le labbra tornarono all’attacco sul suo collo esposto.
Stava dimenticando la sensazione strana per concentrarsi sulla scia di baci che gli stava disegnando sul corpo quando… il dito si mosse dentro lui.
Toccò qualcosa.
Il pittore rabbrividì di piacere mentre  un calore non del tutto nuovo gli fioriva nel basso ventre.
Il dito tornò all’attacco con esasperante lentezza e ancora lo infiammò. Ancora e ancora, lentamente Murasakibara assalì e conquistò il suo corpo spingendo, sfiorando, affondando e allargando.
Tasuya subiva cercando di rilassarsi per permettere all’invasore di muoversi liberamente, di proseguire quella tortura così straziante e piacevole.
Ma proprio quando sperò che potesse durare ancora, Atsushi sfilò il dito, gli sfiorò un orecchio con la lingua e sussurrò:
-Devo entrare dentro di te… non…resisto più…-
Himuro spalancò gli occhi, scendendo da sopra il grande corpo e scostando le mani del pasticcere dalla patta fin troppo tesa, si apprestò a liberare il suo inguine che si erse fiero e setoso adagiandoglisi sul ventre piatto.
Per un momento restò senza parole.
Gli balenò in testa qualche domanda tecnica e qualche dubbio sulla fisica ma li scacciò con decisione. Non poteva avere ripensamenti. Non voleva avere altri rimpianti.
La decisone fu impulsiva e, con senno di poi, anche un po’ ingenua. Il pittore prima di obbedire alle richieste dell’amante tracciò una scia di umidi baci fino al suo inguine. Aiutandosi con le mani prese a massaggiarlo e a leccarlo.
All’inizio era intimidito dalle dimensioni dell’eccitazione di Murasakibara ma la reazione che ebbe al suo tocco fu talmente spontanea e violenta da spazzare via ogni incertezza.
Si impegnò su serio, accarezzandolo con la lingua e con le mani lentamente, gustando ogni suo brivido, ogni ansito straziato; per poi accelerare i movimenti in un crescendo che tramutò i sospiri in gemiti e i gemiti in singhiozzate preghiere.
Persero la strada della realtà.
Chi era che conduceva chi? Chi stava orchestrando? Chi si lasciava guidare?
Non lo sapevano più in quella sinfonia di miagolii bassi uniti al suono dolce e sommesso delle labbra di Himuro.
Poi due mani lo presero saldamente per le spalle.
-M-muro…chin… fermati… non…-
Era sempre stata così roca e selvaggia la voce di Atsushi?
Il suo grande corpo tremava incontrollato mentre digrignava i denti e i suoi occhi roventi si fissavano su di lui ancora abbassato sul suo inguine.
-Atsushi…-
Un’ondata di desiderio gli esplose nel corpo e lo convinse a ricominciare a muoversi a labbra strette su di lui massaggiandolo, esortandolo a lasciarsi andare, costringendolo a correre e saltare oltre la cime del piacere.
Bastò poco e con un gemito che era più un ruggito il pasticcere venne tremando.
La soddisfazione di essere stato artefice di tanta soddisfazione fece sembrare a Tatsuya il gesto che aveva appena compiuto più normale di quanto avesse creduto.
-Sei… un birbante… Murochin… e…-
Il gigante faticava a parlare mentre riprendeva fiato a labbra socchiuse. L’arco di cupido umido di sudore. Era così erotico vederlo stancamente rilassato a causa sua… ma ora… l’urgenza di prenderlo dentro di sé divenne impellente.
Dimenticando tutti i suoi dubbi sulle dimensioni e la sua paura del dolore Himuro scivolò sopra al gigantesco corpo del pasticcere e attento a non appoggiarsi al suo petto esageratamente ampio e incerottato, gli si mise a cavalcioni.
In pochi secondi l’altro tornò pronto all’azione.
-Ho fame di te… Tatsuya… ora…-
La risata che si sentì uscire dalle labbra era un miagolio di assenso basso sensuale. Quasi non si riconobbe ma non se ne curò.
Le mani grandi e calde di Atsushi scivolarono su lui, sulle sua spalle, gli stuzzicarono gentilmente i piccoli chiodini rosati sul petto fino a farlo gemere a labbra strette.
Dopo una lunga e lenta discesa sul suo corpo Himuro sentì quelle mani arrivare nuovamente alla fessura tra le sue natiche e qualcosa gli scattò dentro.
Come se ci fosse stata una calamita i suoi fianchi scattarono in alto all’inseguimento del calore che promettevano i palmi delicati e roventi.
Non fu deluso.
Il pasticcere non era meticoloso solamente coi propri dolci e il pittore lo scoprì con gioia in quel momento.  Si dedicò al suo piacere con assoluta abnegazione con un pizzico di sadica soddisfazione nel prolungare all’infinito la tortura e la carezza delle sue dita dentro di lui.
E infine arrivò, quel momento perfetto in cui senza sforzo lo sollevò per i fianchi sopra al suo inguine pronto a regalargli il massimo piacere.
-Farò piano, rilassati Murochin…-
Non si era reso conto di tremare, ma anche sapendolo non capiva se era per timore o per aspettativa.
Poi lo sentì contro di sé, in silenzio sentì la sua lieve pressione e il momento esatto in cui iniziò a calarlo sulla propria lunghezza.
Gli sfuggì in ansito estasico che strappò un sorriso al suo amante concentrato a non fargli male.
-Stai tranquillo Atsushi, non mi… farai male. Rilassati.-
In un impeto di aspettativa, desiderio e tenerezza per quel gigante fin troppo preoccupato di essere manesco, gli scostò le mani da sé e con un movimento deciso si lasciò scivolare su di lui fino in fondo.
Non potè frenare il gemito di dolore misto a piacere che la sensazione di estrema pienezza gli strappò.
Erano immobili, ansanti, Murasakibara aveva i lineamenti così tesi da non sembrare nemmeno se stesso, si stava sforzando di adeguarsi a lui, alle sue reazioni; dal canto suo il pittore stava assaporando, dopo tanti anni, la sensazione di essere una cosa sola con l’uomo che amava e che, si rese conto, aveva sempre amato.
Quel pensiero lo spinse a muoversi, piano, e l’attrito  gli fece esplodere nel ventre un piacere bollente, una fame atavica che chiedeva a gran voce di essere saziata.
Gemette abbassandosi nuovamente fino a cozzare  contro alle grandi ossa del bacino di Atsushi.
Il gigante grugnì costringendolo ad abbassarsi per poterlo baciare.
Fu un bacio travolgente ma gentile, si stava ancora trattenendo e questo pensiero bastò a Himuro per amarlo ancora di più. Iniziò a spostare il bacino più velocemente scivolando su di lui più e più volte ansante e sudato stringendo i denti per resistere al piacere che minacciava di esplodere dentro di lui.
Il pasticcere gemeva e tendeva i muscoli del collo e delle spalle per adeguarsi a lui, per non reagire inconsultamente.
-Ora basta Atsushi, lasciati andare… non mi farai del male…  voglio… sentirti di più… -
Baciò le sue labbra socchiuse e tirate.
-Come quella notte in cui ci amammo senza freni.-
Bastarono quelle parole, o forse il ricordo di ciò che avevano condiviso a fargli mollare i freni; in un momento le sue labbra furono divorate in un bacio torrido, caldo, famelico mentre due gradi mani presero a stuzzicargli l’inguine e le natiche.
E attaccò ad un ritmo senza respiro, senza pause. Un ritmo violento che lo portava sempre più a fondo dentro di lui.
Tatsuya urlava di piacere e dolore eppure fusi insieme in quel momento perfetto non avrebbe rinunciato a quella dolcissima pena per nulla al mondo.
Con una mossa fulminea Murasakibara lo girò  fino a fargli appoggiare  la schiena al proprio enorme petto madido di sudore, il cerotto appeso solo per scommessa alla pelle umida e scivolosa. Gli spalancò le gambe sostenendole con le mani e attaccò ancora. Con più forza, più in profondità.
Sembrava arrivare ad ogni fibra del suo essere e ad ogni spinta alimentava il fuoco che brillava fulgido dentro di lui.
Himuro si perse nella sua forza, nel suo calore e nel suo impetuoso modo di amarlo finchè non pronunciò una frase che era riemersa nella sua memoria.
Proprio come quella volta era al limite, stava per esplodere in mille pezzi, il suo corpo era sfiancato, i suoi muscoli di gelatina non rispondevano bene ai comandi eppure voleva, pretendeva qualcosa di più. E in quel momento ricordò.
-Mordimi… Atsushi.-
L’altro dal canto suo era così euforico di non dover più prestare attenzione che ci mise qualche secondo a registrare  le parole del compagno che stava manovrando mosso dall’impeto.
Alla memoria tornarono le immagini che lo avevano tormentato per anni.
Quella notte al liceo, il loro amplesso selvaggio, i muscoli di Murochin che tremavano proprio come stavano facendo in quel momento mentre gli ansiti erano sempre più spezzati e agonizzanti eppure dolcissimi.
“mordimi”.
Anche allora glielo aveva sussurrato sulle labbra. Anche allora si era sentito crescere  dentro la possessività e la necessità di segnarlo come suo.
Aumentò ancora le spinte spingendosi il più a fondo possibile dentro li lui e infine lo morse. Forte.
Tra collo e spalla la pelle tenera  e madida di sudore gli lasciò sulla lingua un lieve sapore salato ma tutto scomparve quando sentì risucchiare il suo inguine dagli spasmi dell’orgasmo di Tatsuya.
Venne insieme a lui, gridando, gemendo, ansando e stringendoselo contro quasi a volerlo inglobare dentro di sé.
Crollarono sul materasso abbracciati e soddisfatti.
Ogni fibra di Himuro era così sfinita e sfiancata da tremare protestando all’eccessivo sforzo eppure sapeva di avere stampato in viso un enorme e felice sorriso ebete. Si godette in silenzio la sensazione di protezione e calore che dava l’essere avvolto dal mastodontico e caldissimo corpo di Atsushi.
-Ti amo Murochin.-
Ecco, ora poteva dirlo con l’atmosfera giusta.
-Anche io ti amo Atsushi. Non osare farmi un altro scherzetto simile. Sennò ti ammazzo io.-
Il gigante rise e il rombo che produsse gli vibrò fin nel cuore.
Non avevano altro da dire. Ormai erano usciti allo scoperto ed erano più felici che mai.    
 


Ed eccoci alla fine! Si la fine.
Ho immaginato di scrivere un altro capitolo in cui tutti potessero festeggiare il capodanno in compagnia ma... avrebbe perso la sua  utilità.
Ogni storia qui è come una bolla, ha il suo equilibrio e si conclude con una promessa di felicità; scrivere ancora dopo quelle conclusioni avrebbe sminuito quel senso di apertura e di continuità che ho voluto lasciare in ogni epilogo.
Ecco dunque il motivo per cui questa è la fine. Davvero la fine.

Grazie a te che sei arrivato fin qui.
Grazie di cuore.

Marta

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