Blue Mind - L'alba del destino

di MaiaWarren
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Si ricomincia (parte 1) ***
Capitolo 2: *** 1 - Si ricomincia (parte 2) ***
Capitolo 3: *** 1 - Si ricomincia (parte 3) ***
Capitolo 4: *** 1 - Si ricomincia (parte 4) ***
Capitolo 5: *** 1 - Si ricomincia (parte 5) ***



Capitolo 1
*** 1 - Si ricomincia (parte 1) ***


BLUE MIND
L’alba del destino

 
 
1
SI RICOMINCIA.

 
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Era inutile, qualsiasi posizione sperimentassi per stimolare il sonno non aveva alcun effetto. Da circa un’ora andavo avanti in quel modo ormai, e ad un certo punto avevo solo una gran voglia di alzarmi da quel dannato letto e urlare, così mi sarei tolta di dosso almeno un po’ di quell’ansia che mi assaliva al pensiero che domani sarei dovuta tornare a scuola. Sì era questo il motivo per cui tutto ad un tratto avrei preferito sparire nel nulla, senza possibilità alcuna di esser rintracciata, perchè per me significava dire addio alle mie giornate tranquille. Le vacanze estive passavano sempre così in fretta, lasciandomi l’amaro in bocca ogni volta che il ricordo di quegli attimi felici si faceva spazio prepotentemente nella mia testa, per poi farmi rimpiangere ogni singolo istante passato fuori dalle pareti di quell’edificio. Avrei dovuto di nuovo guardarmi le spalle da tutta quella gente, avere di nuovo a che fare con tutto quel risentimento che avevano nei miei confronti. Io non ero diversa da loro, non mi sentivo diversa, eppure trovavano sempre il pretesto per emarginarmi e umiliarmi quasi come fossi stata una fiammella che andava spenta prima che potesse ingrandirsi e recar danno a tutto ciò che le si trovava intorno.  Ero già consapevole che sarebbe andata di nuovo a finire così, non vedevo affatto alcuna ragione per illudersi che quest’anno tutto sarebbe cambiato, perché era ciò che accadeva esattamente ogni anno da quando cominciai a frequentare la scuola in generale. A nulla erano valsi tutti i miei tentativi passati e presenti per farmi accettare, e un essere umano normale avrebbe dovuto gettare la spugna, imponendosi di trovare serenità altrove, lontano da quella vecchia vita che non cessava mai di metterti duramente alla prova. Ma il punto era proprio questo. Io non ero affatto un essere umano normale.

L’unica cosa che riusciva a darmi ancora un po’ di forza per andare avanti e non scappare, oltre a quel che restava del mio orgoglio calpestato e tormentato, era il sapere di avere al mio fianco la mia migliore amica Audrey. Quando trascorrevamo il tempo insieme sembrava che tutti i miei problemi e tutte le mie altre afflizioni sparissero nel nulla, quasi come se non fossero mai esistite o le avessi solo immaginate. Lei infatti era una di quelle poche persone che riusciva sempre a capirmi anche nelle più svariate circostanze, e forse era dovuto al fatto che dopotutto siamo caratterialmente molto simili. L’ho sempre considerata come la sorella che non ho mai avuto, persino con mio fratello non sono mai riuscita ad andare così d’accordo! Insomma, se non l’avessi mai conosciuta, probabilmente mi sarei sentita persa già alle prime difficoltà che avrei dovuto affrontare.

Alla fine fra un pensiero e l’altro quell’interminabile notte riuscii finalmente a trovar sonno. Prima di addormentarmi non avevo nemmeno guardato che ore fossero, malgrado tutto non avevo il coraggio di vedere quanto avessi fatto tardi. La notte trascorse inspiegabilmente tranquilla, nessun rumore, nessuna preoccupazione, ricordo unicamente che mi svegliai nel pieno di un avventuroso sogno su un campo coltivato illuminato da un’accecante anonima luce, ma purtroppo rammentai solo quell’insignificante particolare. Per buona sorte ero riuscita se non altro ad alzarmi in orario, di solito avevo il sonno pesante e non sentivo mai la sveglia, ma chi può dirlo, forse questo era davvero il mio giorno fortunato, lo affermavano anche  i tarocchi che avevo consultato il giorno prima.

Dopo aver fatto una modesta colazione, per prepararmi non ci misi chissà quanto visto che non dovevo perder ulterior tempo anche nel scegliere il vestiario del giorno. Questo perchè la mia era una scuola privata ed era d’obbligo indossare l’uniforme che per noi ragazze consisteva nel classico completo giacca nera, che all’occorrenza poteva essere rimpiazzata da un maglione, sempre nero, camicia bianca, cravatta, e gonna in tinta con la giacca. La differenza fra la nostra divisa e quella dei ragazzi erano solo ed esclusivamente i pantaloni. La ritenevo una grande fortuna poterci vestire tutti allo stesso modo perché non avevo vestiti all’ultima moda, i miei indumenti tipo erano essenzialmente comodi e poco appariscenti. Ma non lo erano per caso. Il fatto non era che io odiassi la moda, certo non è che me ne importasse chissà quanto di non aggiornarmi come le altre al passo coi tempi che correvano, ma il vero motivo fu che tutto era calcolato per un particolare scopo; meno mi avrebbero notato e meglio era. Inoltre al contrario delle mie coetanee, non perdevo neanche molto tempo a truccarmi, giusto nelle occasioni speciali mi dilettavo un po’ a migliorare il mio look con quelle quattro cose che avevo, ma solitamente uscivo quasi struccata. In poche parole ero una di quella che non seguivano la moda, e mi piaceva ancor meno truccarmi, tanto non dovevo far colpo su nessuno, perché nessuno aveva mai fatto colpo su di me.

L’unica cosa a cui davo un po’ più di attenzione erano i capelli, neri come la pece, che portavo talmente lunghi ed erano così lisci che erano in perfetto contrasto col viso, a forma di cuore e dalla pelle candida, incorniciato da un paio d’occhi azzurro cielo dal taglio orientale. Quel che veniva fuori da questo miscuglio era un perfetto Yin e Yang, un po’ come lo era anche la mia personalità. Dopo essermi acconciata alla bell’e e meglio con una semplice coda alta, la pettinatura che più mi appagava e che mi permetteva di non far apparire la mia folta chioma come una specie di coperta, che comunque mi sarebbe stata utile per nascondermi da occhi indiscreti, indossai il parka verde militare mi misi lo zaino in spalla e mi chiusi la porta di casa alle spalle senza far troppo rumore.

Anche mio fratello sarebbe dovuto uscire di li a poco, ma conoscendolo lui si alzava sempre dopo i fuochi ed arrivava abitualmente in ritardo. Frequentavamo la stessa scuola e lo stesso anno, l’ultimo per l’esattezza, ma facevamo parte di case diverse poichè io stavo con l’Aldrin e lui con la Collins. Erano rare le volte in cui ci andavamo insieme, proprio per questa sua brutta abitudine. Mia madre invece non era ancora sveglia, ed era del tutto normale visto che si stava godendo la sua prima giornata di ferie, al contrario mio che invece non sarei più stata libera almeno per un bel po’, e non mi riferivo di certo allo studio. Lei non sapeva che ero vittima di bullismo, sono sempre stata brava a nasconderle quello che passavo durante l’anno scolastico. Questo perchè ero consapevole che dopo la morte di mio padre si era ritrovata sommersa da tante responsabilità che prima condivideva con lui, e la sua precoce mancanza l’aveva fatta soffrire così tanto che era ancora in terapia da una psicologa. Non avrei mai potuto sopportare di poter essere anch’io una delle cause della sua sofferenza. Quella era la mia battaglia e avrei dovuto combatterla da sola.

Quel giorno fu forse uno dei più soleggiati fra tutti i due di settembre di cui avevo memoria, erano da poco passate le otto ma c’era già così tanta luce che non sembrava nemmeno di stare in Inghilterra. Stonebridge Road non solo appariva diversa ma anche meno monocromatica del solito! Nonostante la bella giornata però, erano ancora evidenti i segni dell’acquazzone del giorno prima. La mia macchina, una Chevrolet Spark nera, parcheggiata all’uscita del vialetto di casa e affiancata sul retro da quella di mia madre, una Ford Station Wagon di colore grigio metallizzato, unici ed ultimi “gioielli” di famiglia ereditate entrambe da mio padre dopo la sua morte e sopravvissute alla svendita totale di quasi tutti i nostri beni per permetterci di ricominciare la nostra vita in tre, non era scampata per niente a tutta quell’acqua, ed anzi erano più che evidenti i segni della pioggia sulla vernice nera, e le foglie appiccicate sul parabrezza. Avrei fatto volentieri a cambio con la sua macchina, che stranamente era ancora linda e pinta, ma purtroppo a diciassette anni non mi era permesso, secondo l’ordinamento britannico, di guidare auto di grande cilindrata. Per questa volta sarei dovuta partire con la macchina ridotta in quello stato.

Prima di partire, ed anche durante la guida, avevo sempre l’abitudine di mettere musica house, lo facevo soprattutto per coprire i pensieri che a volte, e forse come frutto della mia fantasia, li percepivo fin troppo rumorosi. E cosa c’era di meglio di musica rumorosa per coprire pensieri rumorosi? Non si può certo dire che era il tipo di musica che si addiceva a una ragazza dall’aspetto fine e delicato come il mio, e tra l’altro nemmeno mi piaceva poi così tanto non essendo assidua frequentatrice di discopub e discoteche, ma non so perché la trovavo orecchiabile in quelle occasioni; e dopo aver rischiato di passare la notte in bianco, proprio a causa dei miei stramaledetti pensieri, direi che quella era esattamente una di quelle occasioni per scacciarli a suon di frastuono.

Dopo aver messo in moto ed essermi immessa nel traffico cercai di arrivare lentamente a destinazione dato che ero in perfetto anticipo, e poi anche se avessi avuto fretta non avrei potuto lo stesso sbrigarmi più di quanto non volessi, visto che si erano già formati parecchi ingorghi. La mia scuola, l’Armstrong High School, era piuttosto lontana da casa mia, si trovava in pieno centro di Londra mentre io abitavo molto più in periferia, nel quartiere Seven Sisters, che si trovava nella zona nord est. Anche tutte le altre scuole che avevo frequentato fino ad allora erano situate sempre a svariati chilometri da casa mia, dunque ero senz’altro abituata a questo estenuante via vai, tant’è che la cosa quasi non mi pesava più così tanto come quand’ero bambina. Ma al di là di questo piccolo inconveniente ero più che soddisfatta di poter frequentare proprio quella scuola, perché era quello che mio padre aveva sempre desiderato per me e per il mio futuro, poiché una volta diplomata, avrei trovato le porte aperte delle migliori università del Regno Unito. Anche lui si era diplomato li, e tuttora veniva ricordato come uno dei migliori alunni che avesse mai messo piede in quella struttura, quindi ero onorata di poter seguire le sue orme, e volevo a tutti i costi che un giorno, ovunque lui si trovasse, sarebbe stato fiero di me.

Arrivata nelle immediate vicinanze, parcheggiai la macchina in una via posta pressappoco in prossimità dell’istituto e da li proseguii a piedi verso l’entrata della scuola. Erano più o meno le otto quando scesi di casa, impiegando all’incirca quindici minuti per arrivare a destinazione, ma mancavano ancora la bellezza di trenta minuti al suono della campanella. Sicuramente molti altri alunni dovevano ancora arrivare, mio fratello pienamente compreso causa i suoi ritardi cronici, quindi avevo deciso di dare un’occhiata da fuori e se la situazione lo permetteva, avrei trascorso l’attesa a modo mio, anziché avere lo “straordinario piacere” di veder arrivare Penny e i suoi discepoli scortati, naturalmente, dai loro autisti che ormai non potevano nemmeno più essere considerati tali, visto come venivano schiavizzati alla grande dai soggetti in questione.

Come sospettavo infatti nel cortile non c’era anima viva, eccetto alcuni ragazzini che a giudicare dalla pallidezza dei loro volti e dalle divise ben sistemate e in ordine, come nessun altro ragazzo più grande avrebbe mai indossato, dovevano essere sicuramente delle matricole del primo anno. Avevo quindi tutto il tempo che volevo per andare allo Starbucks Coffee, dove credevo, anzi ne ero sicura, che avrei incontrato Audrey, perché questo era indubbiamente ciò che faceva parte delle nostre routine giornaliere di tutti i primi giorni di scuola. Avevamo entrambe la superstizione che non si iniziava bene l’anno scolastico se il primo giorno non avremmo avuto la nostra buona dose di muffin e ciambelle. Al diavolo la dieta, tanto nessuna delle due aveva mai preso un solo chilo in diciassette anni di vita, ma questo ce lo tenevamo rigorosamente per noi. A parer mio avevamo già abbastanza iella addosso. Percorsi il breve tratto che mi conduceva al locale ascoltando la musica dal mio cellulare con le cuffiette, rischiando non poche volte di scontrarmi contro l’accozzaglia di impiegati che correvano in lungo e in largo ognuno diretto al proprio ufficio. Giunta alla meta, non appena aprii la porta dell’ingresso, rimasi sorpresa di quanta poca gente ci fosse, di solito la mattina e in particolar modo a quell’ora, ci si poteva ritenere fortunati se capitava di riuscire a prendere l’ordine e trovare anche un posto a sedere senza aver ricevuto gomitate o spallate.

L’unico problema era che fra quei pochi presenti non mi sembrava affatto di scorgere anche la chioma bionda e ribelle della mia amica, nè ai tavoli nè al banco delle ordinazioni. Forse si era svegliata tardi e aveva deciso di andare direttamente a scuola, ma era strano che succedesse proprio a una persona puntuale e diligente come lei. Era più probabile che succedesse a una con la testa fra le nuvole come me.

Ciò nonostante, dato che ormai mi trovavo li, mi avrebbero preso per matta se fossi entrata e uscita come se non sapessi io stessa cosa stessi facendo, tanto valeva prendere la palla al balzo, così infine presi lo stesso il mio ordine che contrariamente alle mie previsioni questa volta consisteva in un semplice cappuccino sul cui bicchiere il mio nome, tanto per cambiare, fu scritto anche sbagliato. Che orrore, mi ritrovai a leggere Maia con la “y”. In altre parole, ero delusa per il fatto che Audrey mi avesse dato così sfacciatamente buca, e quel semplice cappuccino rispecchiava in pieno il mio stato d’animo, aggiornato al passivo. Ero sicura che non lo avesse fatto di proposito, ma mi sentivo terribilmente giù di morale a dover seguire la nostra tradizione da sola. Anche se avesse avuto un contrattempo avrebbe potuto almeno avvertirmi!

Non sapevo più cosa pensare, e proprio quando mi stavo scervellando sulle più svariate e inimmaginabili cause della sua assenza, ecco che i miei occhi si posarono su un ragazzo che aveva appena messo piede nel locale. Era un ragazzo che sembrava avere circa la mia età e che indossava anche la stessa divisa della mia scuola, ma che comunque non mi era mai capitato di vedere da queste parti, e in primis nella mia scuola, doveva trattarsi sicuramente di un forestiero. Rimasi molto colpita, dire che era bellissimo non era niente, era alto e con il fisico palestrato che ben si scorgeva sotto quell’uniforme così coprente che dava ampio spazio all’immaginazione, aveva i capelli lisci di un colore che si avvicinava molto al castano dorato, e li portava tutti spettinati verso destra in un modo che solo a lui poteva star bene! Per non parlare del viso, il naso dritto, le mascelle scolpite, le labbra carnose, gli occhi marroni e intensi, e quello sguardo serio e autoritario, che gli conferiva un aria terribilmente attraente e ben più matura della sua reale età. Le mie fantasie tuttavia si sciuparono in un battibaleno.

A giudicare da come se ne infischiò della fila dirigendosi direttamente al bancone  doveva essere proprio un tipo egocentrico e menefreghista. Rimasi di stucco quando i presenti non fecero neanche nulla per impedirglielo, limitandosi addirittura a spostarsi per farlo passare, ma chi diavolo si credeva di essere per comportarsi così? La faccenda si stava facendo talmente interessante che presi ad osservare attentamente la scena  che mi si poneva dinanzi agli occhi. Quando arrivò davanti al ragazzo delle ordinazioni proferì parola per dire solo «Il solito.», e quello gli obbedì come un cagnolino, senza nemmeno dirgli di rispettare la fila, rispondendogli con un sonoro «Certo signor Connor.» Ci mancava solo un “Si signore!”. Aspetta, Signor Connor? Ora mi era tutto più chiaro. Quello era sicuramente Hank Connor, figlio del miliardario Richard Connor. Avevo sentito molto parlare di lui, e dei suoi modi da ragazzino viziato, soprattutto riguardo al gossip che girava sul suo conto, ma non lo avevo mai visto in faccia prima d’ora, per questo non lo riconobbi. A quanto pare quel ragazzo così dannatamente bello era un pallone gonfiato che si dava tante arie solo perché era un figlio di papà a cui tutto era concesso. Già mi dava sui nervi, e speravo con tutta me stessa di non averci mai a che fare con uno così. 

CONTINUA CON LA SECONDA PARTE DEL PRIMO CAPITOLO.

 

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Capitolo 2
*** 1 - Si ricomincia (parte 2) ***


Avevo finito il mio cappuccino da un pezzo ma facevo finta di continuare a bere proprio per poter osservare la sua prossima mossa. Come se non bastasse, il caso volle che il mio tavolo era collocato in una posizione perfetta per adempiere a questo compito, né troppo lontano né troppo vicino, ed era ulteriormente coperto anche da un comodo divisorio che mi permetteva di non farmi beccare dal soggetto in questione. Era la prima volta che sprecavo tutte quelle energie per esaminare attentamente quello che era effettivamente un estraneo, quindi non potei fare a meno di pormi un interrogativo, cioè che cosa mi spingeva a comportarmi in quel modo. A volte davvero non riuscivo a capirmi nemmeno io, e questo era grave. Raramente se non mai, fino ad allora, mi ero interessata a qualcun altro che non fossi stata io o le poche persone a cui ero affezionata.
Per fortuna uno squillo improvviso dal mio cellulare mi riportò alla mente i miei principali doveri. Risposi. «Si?»
«Sono io.» Era Audrey, finalmente si era fatta viva. Di solito preferiva conversare con i messaggi ma forse con questa chiamata aveva deciso di darmi qualche spiegazione sul perché non si era presentata.
«Ah si, dimmi.» Feci la vaga, volevo che fosse lei la prima a intraprendere quel discorso.
«Ma dove sei?!» Aspetta, ma non avrei dovuto chiederglielo io?
«Che domande, sono allo Starbucks Coffee!»
«Come, sei ancora li? Sbrigati o non farai in tempo ad entrare, rischi di rimanere fuori!»
«Cosa?! Ma che ore sono?!?»
«Mancano cinque minuti al suono della campanella, e sono tutti qui fuori tranne te, muoviti!»
«Arrivo subito!» Riattaccai.

Fantastico, rischiavo di arrivare tardi il primo giorno di scuola, e tutto per colpa di un tizio che nemmeno conoscevo. Per prima cosa mi ero distratta guardando lui e il modo in cui si metteva in mostra, quindi anche se indirettamente, la colpa era sua. Oltretutto il fatto che lui non si fosse preoccupato neanche un po’ dell’orario o di arrivare tardi a scuola mi aveva ingannato, e mi aveva fatto supporre che fosse ancora presto, mentre invece ero nei guai fino all’osso.
Mi catapultai come una forsennata fuori dal locale e corsi lungo lo stesso percorso che avevo imboccato per arrivare li, ma al doppio della velocità che avevo impiegato all’andata. Per poco non ci rimasi secca. Riuscii ad entrare miracolosamente un minuto prima che Mrs Trivett chiuse il portone d’ingresso, con tanto di ramanzina sul fatto che la prossima volta mi avrebbe lasciato fuori, che dovevo impostare la sveglia a un orario decente e blah, blah. Non persi tempo ad ascoltare nemmeno una singola parola di quello che disse, tutti noi d’altronde eravamo abituati al suo caratteraccio, era una di quelle classiche donne che stava affrontando la fase post divorzio dal marito e sovente ne approfittava per scaricare le sue frustrazioni contro il poveraccio di turno. Si può dire che quello era il suo pane quotidiano. Chi aveva un briciolo d’intelligenza la lasciava blaterale, se solo le avessero dato corda avrebbe scatenato la terza e la quarta guerra mondiale.

Allontanatami alla svelta da quella scocciatrice, intrapresi l’ultima delle mie fatiche, perlomeno di quella giornata, per riuscire ad entrare in classe prima che Mr Lloyd pronunciasse il mio cognome durante l’appello. E grazie al cielo ce la feci. A quanto pare essere l’ultima in ordine alfabetico sul registro mi dava qualche vantaggio. Ad ogni modo, inutile dire che quando aprii di scatto la porta senza più fiato nei polmoni, con la coda sciupata, e il viso umido, dal volto di Mr Lloyd trapelò tutt’altro che un atteggiamento di comprensione nei miei confronti. La sua  espressione mi parve talmente severa, resa ancor più intimidatoria dalle sue sopracciglia irsute, che cercai subito un escamotage convincente per non farmi mandare in presidenza. Nel mentre mi accorsi anche che l’adrenalina mi aveva fatto dimenticare di bussare alla porta prima di entrare, quindi se non avessi trovato alla svelta qualcosa di persuasivo, non mi sarei salvata la pelle.
«Mi scusi per il ritardo Mr Lloyd, ma disgraziatamente credo di non aver sentito la sveglia, sono ancora in tempo per entrare?» Dissi riuscendo a cacciar fuori un tono di voce più mortificato possibile. Ignorai le risatine soffocate in sottofondo di Penny Ainsworth e i suoi fedeli tappetini, Lucy Harlow e Kim Jerkins. Normalmente faceva parte di quel gruppetto di imbecilli anche tale Ethan Baker, ma mentre quelle tre ridevano, lui questa volta se ne stette inaspettatamente tranquillo. Per fortuna intervenne Mr Lloyd con una sonora manata sulla cattedra per metterle a tacere, ma dallo sguardo che mi lanciò subito dopo sembrava voler dire tutto, fuorché qualcosa di buono. Prima di proferir parola fece un profondo respiro, com’era sua abitudine quando doveva esprimere un giudizio negativo durante la correzione di un compito scritto e solo adesso capivo la sensazione che si provava. Non avendo mai preso un voto inferiore ad A in nessuna verifica, era innegabilmente una cosa che dovevo ancora sperimentare sulla mia pelle, ma lo avevo sempre sentito raccontare da tutti coloro che avevano ottenuto dei pessimi risultati in uno dei suoi compiti. Finalmente potevo comprendere la loro inquietudine,  in effetti Mr Lloyd con quei suoi modi da intransigente e austero uomo accademico riusciva a metterti in soggezione come pochi altri sapevano fare. Dopo qualche secondo, che a me parvero ore, ruppe il silenzio.
«Signorina Warren, lei sa benissimo che non tollero nessun tipo di infrazione del regolamento scolastico, per di più presentandosi a quest’ora lei ha deliberatamente mancato di rispetto sia a me, sia al buon nome che questa scuola si porta dietro da innumerevoli secoli. In altre circostanze non ci avrei pensato due volte a mandarla immediatamente in presidenza, ma per oggi voglio essere clemente e chiuderò un occhio sulla faccenda, visto che lei è sempre stata un’alunna esemplare e fin’ora non mi ha mai dato modo di dubitare della sua parola. Ma che non si ripeti mai più, io non sono il tipo di persona che tratta di lusso un allievo solo per i voti che ha, apprezzo molto di più la correttezza e il rispetto, piuttosto che un buon rendimento scolastico senza valore. Ora, la prego di prendere posto dove meglio desidera, così mi permette di cominciare la lezione.» Detto ciò, lanciò uno strano sguardo accusatorio nei confronti di Penny, o almeno così mi parve. Forse mi aveva concesso la grazia di poter entrare per non darla vinta a lei, perché sarebbe stata più che felice se mi avrebbero punita o sbattuta fuori dall’aula. Non so quanto questa mia supposizione potesse avere un fondamento, ma dopotutto Mr Lloyd aveva dimostrato molte volte quanto non sopportasse i gradassi.
«La ringrazio signore, prometto di fare in modo che non si ripeta più.» Nel mentre notai che l’unico posto libero che c’era era, naturalmente, quello vicino ad Audrey, che mi fece un cenno quando guardai nella sua direzione. Me lo aspettavo, nessun’altro a parte lei mi sopportava. In un modo o nell’altro tutti erano stati manipolati da Penny, che era praticamente la mente di quella classe, composta da un mare di pecore che seguivano il branco delle “idiote alfa”. Dopo tutto questo tempo io stessa faticavo a capire cosa avessi fatto di tanto sbagliato da meritarmi un simile trattamento.

Dopo aver preso posto vicino alla mia amica, passammo la prima parte della giornata ad ascoltare il discorso di buon augurio che ci rifilavano tutti gli anni i professori. Una noia mortale, ma almeno serviva a rassicurarti quel poco che bastava.

CONTINUA CON LA TERZA PARTE DEL 1° CAPITOLO. 

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Capitolo 3
*** 1 - Si ricomincia (parte 3) ***


Durante la pausa ne approfittai per chiacchierare un po’ con Audrey mentre passeggiavamo nel cortile, in fondo non mi ero ancora tolta la curiosità di sapere dove si fosse cacciata quella mattina.
«Hey, comunque alla fine non mi hai più detto perché non sei venuta allo Starbucks.»
«Scusa, ma me ne ero completamente dimenticata. Se per te va bene possiamo recuperare domani, che ne dici?»
«Okay, recupereremo domani. Però ho l’impressione che la tua dimenticanza non sia l’unica ragione.»
«Ma certo che si, ho messo la sveglia più tardi del previsto proprio perché mi era sfuggito di mente. Lo sai che non rinuncerei mai allo Starbucks.» A tal proposito non potevo certo darle torto, non conoscevo persona al mondo più golosa di lei. Ma c’era anche da dire che di solito quando doveva darmi buca, si degnava almeno di avvisarmi, spesso con largo anticipo, invece questa volta si era dileguata quasi come se mi stesse nascondendo qualcosa. E il mio sesto senso non sbagliava mai.
«Eppure sento che c’è qualcosa che non quadra. Te lo leggo negli occhi che stai nascondendo la verità. Dai dimmelo, lo sai che di me di puoi fidare.»
«Uffa che testona, come devo dirtelo che non c’è nessun altro motivo? Che ci guadagnerei a omettere la verità, sentiamo.»
«Beh lo si potrebbe fare per diversi motivi, per esempio potresti esserti dimenticata i soldi a casa e per paura che mi arrabbiassi hai preferito non dirmi niente.»
«Impossibile, lascio sempre qualche penny nelle tasche dei cappotti. In questo modo anche se dimenticassi il portafoglio avrei in ogni caso qualche spicciolo con me.»
«Va bene ci credo, quindi i soldi appresso ce li avevi sicuramente.» Ma non mi sarei arresa tanto facilmente, le avrei fatto sputare il rospo prima o poi. Più prima, che poi.
«Ecco, allora cerca di non essere diffidente, come al solito.»
«Io non sono affatto diffidente. E’ solo che preferisco prevenire piuttosto che essere ingannata, tutto qua. E comunque non cantar vittoria, non abbiamo ancora finito.»
«Me lo immaginavo. Sono proprio curiosa di vedere cosa tirerai fuori questa volta con la tua fervida immaginazione.»
«Aspetta sarà stata mica colpa del tuo ammiratore del corso di biologia? Intendo quel Greg o come si chiama.»
«Niente affatto! Non sono così disperata da passare del tempo con quello. Anche se lui continua a venirmi dietro e a chiedermi di uscire, io non me lo filo di striscio lo sai bene.»
«Allora hai vinto tu. Non riesce a venirmi in mente nessun’altra idea su cosa tu possa nascondermi. Depongo le armi.»
«Finalmente! Dichiaro ufficialmente chiusa la faccenda.»
«Si lo penso anch’io. Ora che ne dici di cambiar discorso, per esempio è strano che tu non mi abbia detto ancora niente a proposito di Christopher. Eppure sono certa che questa mattina ne avrai approfittato per guardarlo intensamente tutto il tempo, visto che vi trovavate entrambi nello stesso posto, o sbaglio?» Appena lanciai questa bomba, lei di rimando arrossì violentemente, e pensare che non credevo di riuscire a far centro così facilmente. Si era tradita con le sue stesse mani, per così dire.
«Quale faccenda era chiusa?» Mi venne subito da ridere, era così palese quanto le piacesse quel ragazzo. Ora sapevo per certo che c’entrava qualcosa con lui.
«Non voglio metterti in imbarazzo più di quanto tu non lo sia in questo momento, perciò non ti chiederò nulla. Tanto ho capito tutto, sicuramente quando hai incrociato Chris all’uscita della metropolitana che si dirigeva verso scuola non ci hai capito più niente, così hai pensato bene di seguirlo e ti sei dimenticata di tutto il resto. Non fartene una colpa è naturale quando si ha una forte cotta per qualcuno.»
«Sshh non urlarlo ai quattro venti! Non eri tu quella che non voleva mettermi in imbarazzo più di quanto non lo sia?»
«Hai ragione scusami, è che mi sono fatta prendere dall’entusiasmo e ho erroneamente alzato la voce. Se non altro, ora il caso è risolto. E brava la mia amica.»
«Si ma se continuo a starmene in disparte e a guardarlo non combinerò mai niente.» disse distogliendo timidamente lo sguardo. «Non mi noterà mai di questo passo.»
«Questo è vero solo in parte. Il ragazzo dei tuoi sogni frequenta la tua stessa scuola dopotutto, e questo è già un vantaggio. Potrai iniziare a farti notare da lui proprio partendo da qui. Poi basta solo partecipare a qualche festa dove sappiamo in largo anticipo che anche lui sarà presente, e il gioco è fatto.»
«Solo quando si tratta degli altri tu hai il vizio di farla facile!»
E qui non potei fare a meno di acconsentire e ridere della sua affermazione. Quello che aveva appena detto era del tutto vero. Se dovevo dare consigli, o sostere il prossimo, la cosa mi riusciva più che facilmente, ma se dovevo farlo con me stessa facevo prima a gettarmi da un ponte.

Finita la pausa pranzo, io e Audrey ci dividemmo visto che praticavamo sport differenti, io giocavo a calcio e lei a tennis. Per noi che praticavamo il calcio ci fu subito l’incontro nel campo di Vincent Square con Mr Crumpler, il nostro coach,  per le selezioni delle squadre femminili delle nostre rispettive case. Lo scorso anno mi era toccato svolgere il ruolo di difensore della squadra Ashburnham ed era stato un completo disastro. Ricevetti talmente tanti di quegli infortuni che credo di aver trascorso più tempo in infermeria a medicarmi, che in classe ad ascoltare le lezioni. Non che la cosa mi abbia turbato più di tanto, tutto considerato in infermeria eravamo solo io, il letto, un buon libro, e nessun ficcanaso. Per questo motivo non ero del tutto sicura che anche questa volta avrebbero scelto me per ricoprire quel ruolo, ma avevo imparato fin troppo bene quanto la vita a volte potesse essere davvero imprevedibile, per cui non si poteva mai sapere. Se fosse stato per me mi sarei candidata subito per fare l’arbitro, non mi entusiasmava per niente l’idea di litigarmi una palla con i membri delle squadre avversarie. Quello però era un incarico che il coach affidava sempre a Brianna Prince, visto che era del tutto negata a giocare, ma compensava questa mancanza con la sua grande conoscenza delle regole calcistiche.
Nel frattempo mentre le selezioni seguivano il loro corso, quasi tutte erano state assegnate al ruolo che spettava loro, e in molte erano già andate nello spogliatoio a cambiarsi. A me ed altre poche ragazze invece, per colpa dell’indecisione di Mr Crumpler, non era stato assegnato ancora alcun incarico, e io cominciavo seriamente a preoccuparmi di cosa sarebbe potuto toccarmi. Dopo un po’ chiamò me e un’altra ragazza. Non avevo la minima idea di cosa avesse in mente ma se serviva a velocizzare i tempi di quell’estenuante attesa, a me stava più che bene qualsiasi cosa avessi dovuto fare.
«Herrington e Warren potete gentilmente mettervi una accanto all’altra?»
«Okay coach!» Rispondemmo all’unisono. Avrei fatto di tutto se solo avessi potuto sapere in anticipo che cosa stesse per dire.
«Vediamo un po’, Alicia tu quanto sei alta?» Perchè ce lo stava chiedendo? Ormai cominciavo a preoccuparmi come un’assennata.
«Un metro e settantadue.»
«E tu Maia?»
«Un metro e settantasei coach.»
«Si vede che siete entrambe molto alte. Per quanto riguarda te Harrington sarebbe un gran peccato non farti giocare come attaccante, in fin dei conti lo scorso anno è grazie a te se siamo arrivati primi al torneo degli under 18. Mentre Warren preferirei non metterla di nuovo come difensore.» Che bello allora se ne era reso conto anche lui che non faceva per me essere presa a calci dagli avversari. Ma nonostante ciò non eravamo ancora arrivati al succo del discorso. Se lei avrebbe svolto di nuovo il ruolo di attaccante, a me che spettava?


CONTINUA CON QUARTA PARTE DEL 1° CAPITOLO.

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Capitolo 4
*** 1 - Si ricomincia (parte 4) ***


«Grazie coach non la deluderò!» Almeno una di noi due poteva cantar vittoria. A momenti mi venne voglia di correr via e andare a far parte del corso di yoga, così nessuno me ne avrebbe fatto una colpa nel caso avessi sbagliato qualche esercizio, e inoltre gli unici effetti collaterali che ne sarebbero scaturiti diversamente da contusioni e fratture, sarebbero potuti essere una grave forma di settarismo o un innato senso di appagamento perfino nel guardare cose come l’orripilante neo in fronte della mia vicina di casa. Il calcio era la mia passione infondo ed ero pure abbastanza portata, ma essendo uno sport di squadra molto competitivo quando mi capitava di sbagliare le mie compagne se la prendevano anche in malo modo e per me era una cosa che proprio non riuscivo a mandar giu, per questo lo scorso anno mi impegnai a stare in panchina più tempo possibile. Speravo come minimo che mi sarebbe stato assegnato un incarico che mi permettesse di avere meno responsabilità possibili.
«La squadra è quasi al completo, credo manchi solo un portiere. Warren che ne dici di ricoprire tu quel ruolo oggi? Tutto sommato le doti fisiche ce l’hai, essendo la ragazza più alta della squadra. Fai conto che sia una prova, mi piacerebbe vedere  prima come te la cavi e se ne sarai all’altezza considerati pure come il portiere ufficiale della squadra Ashburnham. Ecco la tua divisa, ora corri a cambiarti, gli allenamenti cominceranno a breve.» Speravo che fosse uno scherzo. Avevo impiegato anima e corpo nel desiderare che mi fosse assegnato qualcosa di poco valore, che probabilmente mi avrebbe sottratto il maggior numero di responsabilità e Mr Crumpler pensò bene di rovinare le mie aspettative affidandomi l’incarico con forse il maggior numero di oneri da scontare, nel caso avessimo perso. Perfetto, l’anno iniziava davvero male.

Intanto che mi dirigevo verso lo spogliatoio sentii chiamare il mio nome alle spalle. Girandomi vidi che a pronunciarlo fu una ragazza bassa coi capelli corti di un’insolita tinta biondo platino, caratterizzati da una buffa frangia che mia madre definiva in “stile barboncino”, e con un taglio scalato a dir poco bizzarro. In un primo momento mi chiesi cosa volesse quella perfetta sconosciuta da me, ma realizzai più tardi che si trattava di Brianna. Questo mio tipo di disattenzioni erano forse dovute al fatto che passavo davvero così tanto tempo a starmene sulle mie, a tal punto che non riconoscevo nemmeno i volti delle mie compagne di squadra. Ma a me piaceva pensare che era la diretta conseguenza al suo aver rimpiazzato gli occhiali da vista con le lenti a contatto. «Hey Maia, che ruolo ti è stato assegnato alla fine?»
«Molto probabilmente sarò il portiere, ma tutto dipende da come me la caverò in questa partita.» Le risposi seccata. Chissà perchè suonava come se mi stesse prendendo per i fondelli, per qualche inspiegabile ragione.
«Capisco, mi dispiace per te. Tuttavia, dopo questo match potresti anche subentrare a me come nuova incompetente della squadra. Di conseguenza non so quanto sia giusto essere così ipocritamente amareggiata nei tuoi confronti.» Disse accompagnando il tutto con un insopportabile risata stridula. «Chiaramente sto scherzando eh!» Si sbrigò ad aggiungere subito dopo, continuando a ridere in quel modo irritante. Non solo come giocatrice, ma altresì come bugiarda era pietosa. In un certo senso facevo bene a non rammentare la faccia di persone come lei. Provavo una certa pena nel vedere come si era ridotta pur di riuscire a rialzare un briciolo del suo onore in ambito sportivo.
«Le parole vanno pesate in base alla bocca da cui escono.» Giocava in suo sfavore il fatto che era da tempo immemore che avevo imparato a dar importanza alle meschinità altrui proporzionalmente alla stima che provavo nei confronti di chi le pronunciava. Quando trascorri la tua esistenza in contrasto pressappoco con l’intera società qualcosa devi pur imparare per difenderti, di conseguenza se pensava di scalfirmi con così poco, aveva fatto male i suoi calcoli.
Senza aggiungere altro, girai i tacchi e mi allontanai. Come volevasi dimostrare non perse ulteriore tempo nel trovare una degna risposta, e a giudicare dal rumore dei suoi passi pensò bene di allontanarsi anche lei senza proferir parola. Un nemico simile veniva colpito e affondato con poco.

Non appena aprii la porta e misi piede nello spogliatoio, un silenzio tombale cadde in tutta la stanza e mi ritrovai una decina di paia di occhi a fissarmi, nonostante ognuna di loro continuasse comunque a cambiarsi per indossare il proprio completo da calcio. Cercai di fregarmene, andandomi a piazzare nell’unico angolo isolato della stanza, nella speranza di starmene un po’ in tranquillità. Trovato lo spazio che faceva per me, cominciai a tirar fuori dal borsone tutto l’occorrente, ma nonostante davo loro la schiena continuavo lo stesso a percepire le anomali occhiate che insistevano a lanciarmi, seppur io stessa non ricordavo di aver commesso niente di così estroso recentemente. Se non avessi avuto un carattere fondamentalmente calmo e paziente penso che sarei esplosa di li a pochi secondi, con quella brutta aria che tirava. La cosa che maggiormente mi infastidiva era che avrebbero potuto evitare benissimo di fare tutte quelle “cerimonie”, e magari passare subito al dunque nel caso avessero avuto un problema nei miei confronti. E’ vero che ero pur sempre l’ultima persona sulla faccia della Terra con cui poter scambiare quattro chiacchiere, visto il mio completo disinteresse nel dedicarmi alle relazioni interpersonali, ma non mi sarebbe dispiaciuto affatto poter ricevere lo stesso una degna spiegazione a tal proposito.
Quando stavo per finire di infilarmi gli ultimi capi, ci fu in effetti una di loro che si decise a farsi avanti, e come non era difficile immaginare, altri non poteva essere che la mia acerrima nemica, l’incitatrice di tutto questo astio contro di me: Penny. 

CONTINUA CON LA QUINTA PARTE DEL 1° CAPITOLO.

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Capitolo 5
*** 1 - Si ricomincia (parte 5) ***


«Mi è stato detto che sei stata scelta tu come portiere della nostra squadra, mi farò sicuramente quattro risate in tal caso. Come penserai di cadere questa volta, sul didietro, di lato o di muso? Lucy e Kim sono ansiose di saperlo, perchè quest’oggi hanno deciso di regalarti uno dei migliori book fotografici della tua vita, e saranno ben liete di far aumentare la tua popolarità nella scuola inviandole via sms. Con ciò, abbi almeno la decenza di venire bene nelle fotografie che ti scatteranno. La volta scorsa grazie alla tua incompetenza erano venute fuori così sfocate che ci siam dovute far in quattro per migliorarne la grafica con Photoshop, o avremmo rischiato che qualcuno dubitasse che fossi tu la protagonista di quelle foto.» Detto questo, la prima cosa che mi venne da pensare nei suoi confronti, era a proposito dell’incredibile quantità d’odio che emanava quella ragazza, apparentemente senza un alcun plausibile motivo. Possibile che il suo universo, a prima vista perfetto e che le aveva donato praticamente tutto nella vita, girava dietro a ogni minima cosa che riguardasse me? Era ricca, bella e popolare, per non parlare della scia di ragazzi che si portava dietro. Era del tutto normale chiedersi che interesse potesse mai avere una ragazza del genere nel perder tempo a tormentare una come me.
Onestamente non avevo neanche tutta questa gran voglia di risponderle, come al solito, ma avendo a disposizione per lei una meritevole risposta, non me la sentivo affatto di tacere e acconsentire anche questa volta. Conoscevo benissimo il suo modo di agire, e per questo ero perfettamente consapevole che anche se me ne fossi stata perennemente per i fatti miei, quell’arpia avrebbe continuato in ogni modo a rendermi la vita impossibile. Non le era mai cambiato un accidente se io reagivo o meno. Quindi almeno per questa volta volevo prendermi una piccola rivincita.
«Beh, in questo caso ti ringrazio tanto Penny.»
«Che intendi dire?! Non fare la superiore con me, perchè non ci casco.»
«Ti ringrazio perchè vedo che tu e le tue amiche siete così in pensiero per la mia popolarità tanto da disturbarvi a scattarmi fotografie per inviarle agli altri studenti. Apprezzo molto la vostra gentilezza.»
«Adesso facciamo anche i simpatici, eh. Vuoi farmi credere che ti sei stufata di essere la solita mummia asociale con quella faccia da pianto perpetuo? Ma per favore!»
«Vorrei tanto sapere cosa ti cambia se mi comporto da cosiddetta “mummia asociale” oppure se divento una buffona, per l’appunto come te. Dovrei preoccuparmi io se le persone sono infastidite dalla mia orribile faccia da pianto perpetuo, non sei d’accordo? Vedi di finirla di concentrare tutte le tue attenzioni su di me. Lo dico per il tuo bene, o i tuoi spasimanti potrebbero arrivare a pensare che tu ti sia convertita all’altra sponda mia cara. E ora lasciami indossare la maglietta per favore, abbiamo una partita da giocare o te ne sei dimenticata? Sistemeremo i nostri conti sul campo se vuoi.» Per me il discorso poteva anche chiudersi li, ma me lo sarei dovuto aspettare che da parte sua così non fu. Non feci neanche in tempo a girarmi per prendere la maglia da indossare che sentii subito un dolore atroce sulla schiena. D’istinto mi toccai immediatamente la zona dolorante, che sembrava esser diventata bollente e bruciante. Mi voltai a guardare le mani di Penny per capire con cosa mi avesse colpito, e notai subito l’accendino ancora acceso nella sua mano destra.
«Non ti permetterò mai di parlarmi in questo modo, insulsa perdente. Oggi ti senti tanto spavalda solo perché molto probabilmente le vacanze estive ti hanno fatto dimenticare quanto sia ignobile la tua vita qui a scuola, ma spero che questo ti abbia rinfrescato la memoria, o forse dovrei dire “riscaldato”. Ma non finisce qui, voglio ricordarti anche che se avrai la strabiliante idea di farne parola con qualcuno, farai bene a cercarti un’altra scuola dove diplomarti, perchè qui sappi che nessuno si sognerebbe mai di espellere la figlia del più generoso benefattore. Mentre con una poveraccia come te non ci penserebbero due volte se minacciassi il preside di non far cacciare più un centesimo a mio padre.»
Sembrava sempre che qualsiasi cosa facessi o dicessi, a vincere era comunque lei e i suoi soldi. Per questo preferivo subire e non parlarne con nessuno, perchè temevo che in ogni caso a perderci qualcosa di importante sarei stata solo e unicamente io. Penny, chissà come, conosceva benissimo quali erano i miei punti deboli, e infatti non faceva altro che far leva su quelli, minacciandomi costantemente che avrei rischiato di esser cacciata da scuola a causa sua. Puntava a quello proprio perchè sapeva fin troppo bene che volevo a tutti i costi frequentare quella scuola per tener fede alla promessa fatta a mio padre e non tanto perchè lo desideravo io. Solo perchè ero portata per lo studio non significava necessariamente che mi piacesse studiare, come invece tutti gli altri erano soliti pensare nei miei riguardi.

Poco dopo, lo spogliatoio fu completamente sgombrato. Le altre avevano appena finito di cambiarsi, mancavo solo io che avevo perso tempo a causa del piccolo inconveniente di pochi instanti prima. L’immagine di Penny che usciva dalla porta sventolandomi contro l’accendino con quell’espressione soddisfatta stampata in volto continuava a tormentarmi ronzandomi nella testa, ma tuttavia nessuna lacrima riusciva a scalfire il mio viso, che rimase impassibile nel mentre che ero intenta ad affrontare uno dei miei soliti dialoghi interiori fra me e la mia coscienza. Avrei potuto accettare tutte quelle cattiverie gratuite se solo avessi commesso in precedenza qualcosa per cui l’avrei dovuta pagar cara. Ma nel mio piccolo mi ero pur sempre ritenuta una ragazza fondamentalmente dall’animo buono, un po’ strana un po’ diversa dalla massa, ma pur sempre poco incline nel comportarmi male. Come è risaputo però, buona non è sinonimo di stupida, e come tutti gli adolescenti della mia età anch’io avevo quel fuoco sacro che mi contraddistingueva, in particolar modo nella mia sete di giustizia. Se la rabbia di Penny era causata dal mio cosiddetto genio interiore di cui tanta colpa me ne faceva nonostante non me ne fossi vantata neanche una volta, allora da oggi in poi le avrei dato pan per focaccia. Se dovevo continuare a subire, preferivo farlo per una giusta causa.


CONTINUA CON LA SESTA ED ULTIMA PARTE DEL 1° CAPITOLO.

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