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di Taira Croft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fammi concentrare! ***
Capitolo 2: *** Rosso ciliegia ***
Capitolo 3: *** Irrequieti e irrazionali siamo noi ***



Capitolo 1
*** Fammi concentrare! ***



Fammi concentrare
 
Ero sulla strada già da mezz’ora quando il mio cellulare squillò. In primis non ci feci caso, anche perché ero solita non prendere il telefono mentre guidavo, poi però cedetti e in un rettilineo afferrai l’oggetto in questione, accettando la chiamata prima che gli squilli terminassero.
-Pronto?...- si sentì un suono basso e muto. Infatti risposi inutilmente perché cadde la linea.
D’altro canto non potevo aspettarmi diversamente: si sa che per una ragione oscura a noi comune plebaglia i poligoni sono situati in luoghi lontano dalla città, immersi nella natura impervia e obbligatoriamente senza campo. L’unica era richiamare chi mi cercava una volta tornata a casa.
 
Così continuai a guidare fino a quando non raggiunsi una strettoia con una curva a gomito sulla destra. Quell’imbocco portava ad una strada sterrata e piena di buche con parecchie diramazioni, che portavano nei vari campi coltivati del paese. Se avessi potuto avrei fatto a meno di percorrerla ma era l’unica via per arrivare al poligono. Alla fine raggiunsi il grande spiazzale del parcheggio sulla sinistra, quasi al finire di quella stressante strada. Parcheggiai e mi diressi verso l’ingresso. Era pieno di gente e lì ritrovai un bel po’di amici ma anche di rivali nel mio sport.
 
Per primo incontrai il consigliere, nonché vice presidente della sezione a cui appartenevo. Come al solito era fuori, la sua adorata e sgualcita sciarpa blu al collo, con una sigaretta in mano e con il telefono nell’altra che litigava con i suoi personali creditori. Amava le corse di cavalli quel povero imbecille! E fosse stato solo questo nessuno avrebbe avuto a che dire, ma quel coglione ci aveva provato con tutte le atlete della sezione, compresa me che gli avevo dato un bel due di picche stampato a vita in faccia. Mi ammiccò un sorriso di saluto ed io educatamente gli risposi con un cenno della mano. Buon viso a cattiva sorte, no? Tanto non gliene facevo passare neanche una. Non appena varcai la soglia tre ragazzine sui diciassette anni si catapultarono su di me e quasi riuscirono ad atterrarmi.
-Ania, ci sei anche tu!- mi fecero le feste come se non mi vedessero da anni, quando in realtà malauguratamente mi vedevano ogni santo giorno. Ma quella era solo una maschera che ben celava la vera essenza e la spiegazione del perché quelle galline erano amiche: l’ipocrisia. Erano solite parlare bene e razzolare così male che avevano sempre bisogno di un capro espiatorio, il solito stupido imbecille che si addossava volentieri la colpa in cambio di qualche “piacere”. E guarda caso ne stavo per incontrare proprio quattro. Loro? Quattro scapestrati a cui non importava se gli altri li usano come stracci, tutti con età diversa che oscillavano dai sedici ai ventiquattro anni. Così, mentre le tre galline non mi mollavano, quelli ci raggiunsero per creare un assedio più forte alla mia resistenza e farmi così parlare.
-Beh, il presidente ha insistito così tanto ad inserirmi nelle categorie a fuoco che dovrò allenarmi se voglio scalare la vetta anche in queste discipline, no?- la mia lingua era sempre stata perfida e godevo di ciò, e loro se lo meritavano ampiamente. Erano soliti a snobbarmi per i miei scarsi punteggi, ma da quando non solo li avevo superati nelle loro stesse categorie ma ero finita alle nazionali, il fegato doveva rodere loro come se avessero ingurgitato litri di acido muriatico. Con quelle parole stavo proprio a rivangare il fatto di averli surclassati alla grande e non ribadirono con nulla, anche perché sarebbe stato poco intelligente, potevano solo arrampicarsi sugli specchi. E finalmente mi liberai di loro con così grande facilità da fargli formare un varco dove io passai.
 
Sulla porta incontrai forse le sole due persone che si salvavano lì, nel bel mezzo del degrado sociale, il presidente della sezione e il direttore della sezione a fuoco. A volte mi domandavo perché continuavo a frequentare quel posto, ma poi mi ricordavo cosa significasse per me sparare. No, non era puro impulso di colpire qualcosa per sbriciolarla e di conseguenza la manifestazione del mio tormento interiore, come facevano tutti gli altri. Per quello c’erano i manichini da prendere a calci e pugni. Per me era pura adrenalina che a dispetto di tutto e di tutti rilassava. Sentivo chiaramente il colpo che procedeva spedito lungo la canna e prolungava la sua corsa fino a quando non forava con un unico suono acuto il bersaglio per poi disintegrarsi contro la parete di cemento armato. La concentrazione, il respiro e il controllo dei miei muscoli mi rendevano ogni volta più consapevole di me stessa e delle mie capacità. Per me impugnare un qualcosa che era il mio proiettarsi oltre l’aria e gli ostacoli della vita mi faceva sentire più consapevole di me.
In ogni caso i due si avvicinarono per salutarmi cordialmente e farmi le congratulazioni dell’ultima gara in cui battei il mio record. Quei due erano soliti essere premurosi e attenti con tutti coloro che li circondavano.
-Buongiorno, Presidente. Buongiorno, Direttore.-
-Buongiorno, Ania. Scusa se ti abbiamo addossato di nuovo le aspettative dell’intera sezione ma sai che è difficile trovare fondi e nessuno crede più in questo sport. Le poche persone che continuano a praticarlo non lo prendono sul serio né tantomeno promuovono lo sport. Tu sei la sola speranza per far tornare a galla la baracca!- mi disse il direttore frustrato dalla situazione attuale.
-Farò del mio meglio per portare a casa il bottino delle gare.- di rimando i due uomini mi sorrisero ringraziandomi.
Così mi allontanai da loro e li lasciai discutere sulle strategie economiche per far risollevare quell’istituzione più antica di qualunque altra nella regione che risaliva ai primi anni dell’unificazione d’Italia. Come si poteva lasciar morire così un ente di tale importanza?
 
Mi recai, allora, da quel segretario troppo appiccicoso e approfittatore per i gusti di molti.
-Ciao Sandro. Mi dai una 7.65, per favore? Dovrei allenarmi.- quello alzò lo sguardo e il suo sorriso divenne a trentadue denti.
-Guarda chi si vede, la piccola Ania!- odiavo gli appellativi che mi affibbiava –I tuoi come stanno? Tutto a posto? Ho sentito che tuo fratello è stato preso nell’Esercito. Non tornerà per almeno tre anni, vero? Mi dispiace.- in quel momento due cose si contrapponevano: il pensiero che avrebbe potuto usare altre parole se solo avesse voluto e il pensiero, più allettante in quel momento, di poterlo prendere a pugni in faccia perché aveva usato quelle parole e perché non vedevo ancora davanti a me la 7.65 che avevo chiesto.
Lo guardai incazzata e lui capì che lo ero davvero, così si allontanò in armeria per prendere ciò che avevo chiesto per poi tornare da me. Tutti lo sapevano: lui rischiava il posto lì a causa della sua nulla facenza e del suo carattere troppo egoista ed impiccione. Afferrai l’arma con proiettili annessi e mi incamminai verso la pedana di tiro oltre i vetri anti-proiettili, ma prima di andarmene mi avvisò che c’era un nuovo istruttore di tiro e che io ero stata assegnata alle sue cure; mi chiese anche di essere gentile con lui. Ero rinomata per non essere gentile all’impronta.
 
Figuriamoci se io mi mettevo a fare la mielosa col solito so tutto io, stronzo e anche volgare istruttore. Dovevo ammettere di essere un po’ saccente ma dopo quattro anni che praticavo questo sport mi potevano concedere di sapere la maggior parte delle nozioni sulle armi, anche se la mia specialità era il CO2 e non il fuoco. E così mi rassegnai al pensiero di varcare la porta tra le due zone di linee di tiro e trovare quel pelato bisbetico a cui ero stata assegnata. Ma fu sempre noto a tutti che io non brillavo certo per i pregiudizi verso gli altri, e questo era un mio difetto se tutto ciò che predicevo diveniva vero, quindi fu poi considerato un pregio. Questa volta, però, feci un buco nell’acqua grande quanto le caselle di una portaerei a battaglia navale.
L’uomo di cui poi fui felice di fare la conoscenza non era affatto male, anzi era davvero un bell’uomo. Non troppo alto, palestrato, mani possenti, postura eretta e degli splendidi, chiari e profondi occhi di un verde smeraldo che mi annichilirono per un breve ma intenso istante. Fui piacevolmente scossa dalla sensazione che quella vista mi procurava e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era affondare avidamente le mie dite tra i suoi scuri capelli ribelli e baciarlo così furiosamente da far cedere il divisorio della linea di tiro sotto il nostro peso.
Ma diamine! Dovevo riprendere il controllo su di me. Ero o non ero una dolce ragazza tutta acqua e sapone? La mia farsa doveva proseguire, anche se qualcosa mi diceva che la visione davanti a me non era da meno per quanto riguardava le sensazioni che io potevo procurare.
 
Poggiai la valigetta contenente l’arma sul banco da tiro insieme ai proiettili e alle cuffie, e solo dopo mi avvicinai a stringere la mano dell’uomo. Aveva una stretta decisa ma delicata, traspariva un carattere mite ma fermo nelle proprie decisioni.
-Piacere, Ania.-
-Piacere, Ettore.- la sua voce non seppi definirla con precisione in quel momento, ma una cosa era certa: riusciva inaspettatamente a rilassarmi. –Io sono…-
-L’istruttore!- lo precedetti fingendomi scocciata e per niente interessata a come si porgeva. In realtà, ogni suo piccolo movimento mi incuriosiva, dal gesto delle mani con cui faceva ampi movimenti nello spiegarmi l’uso corretto dell’arma allo spostamento sinuoso dei suo occhi che passavano dalla pistola che teneva in mano al mio corpo, che era letteralmente squadrato da lui.
Subito dopo la spiegazione dettagliata di come posizionarmi, mi fece sistemare nell’ultima linea di tiro, la prima delle quattro linee invisibili da dietro il vetro anti-proiettili, poiché il perimetro del poligono era più lungo di quello degli uffici da dove si osservavano i tiratori. Così mi posizionai faccia al muro con il fianco destro in direzione del bersaglio, posto a venticinque metri di distanza; gambe divaricate parallelamente al banco da tiro e mano sinistra bloccata nella cinta per un giusto mantenimento dell’equilibrio. Mi si mise dietro e mi raddrizzò le spalle nella corretta postura, per poi alzarmi il braccio destro verso l’alto scorrendo la sua mano dalla spalla al polso, fino ad avvolgere la mia mano che stringeva l’impugnatura della pistola per reggerne il peso. Le sue mani erano calde e il suo profumo aveva un odore di muschio misto a sale marino.
 
-Il modo più corretto per ottenere un buon punteggio è l’ascendente.- si riferiva alla modalità di arrivo sul bersaglio, mentre mi bisbigliava con voce flebile nell’orecchio ciò che dovevo fare, quali muscoli dovevo contrarre e quali rilassare. E nel frattempo annullava la distanza tra noi due. Lui era una testa più alto di me ma questo non gli impedì di adagiarsi al mio corpo.
-Lo sai che se fai così non riesco a concentrarmi, vero?- ero chiaramente retorica ma volevo sottolineare che sarebbe stato meglio se si fosse staccato da me. Evidentemente non ne aveva alcuna intenzione perché allacciò il suo braccio intorno alla mia vita stringendomi a sé.
-Fammi concentrare!- chiesi gentilmente ma fu come se non avessi aperto bocca perché lui non mi ascoltò.
-Scommettiamo che fai centro se continuo?- la sua voce era così sensuale che mi abbandonai al gioco da lui iniziato senza replica alcuna. Il tutto si stava facendo eccitante, e per quanto non era mia educazione lasciarmi andare al primo capitato, lui aveva qualcosa che mi spingeva ad andare avanti e così decisi di stuzzicarlo.
-Se ci riesco, cosa ci giochiamo?- chiesi con una voce che risultava da cattiva ragazza e ciò favorì il mio intento. Sentii il suo membro gonfiarsi contro il mio gluteo sinistro e lui abbassò il viso nell’incavo tra il mio collo e la mia spalla sorridendo tra i miei capelli.
-Una cena!- disse trionfante, lasciandomi il braccio che reggeva la pistola nel vuoto e infilandomi una mano sotto la maglietta accarezzandomi il ventre. Sorrisi e rialzai lentamente l’arma e con più concentrazione che potevo la immobilizzai perché mirino e tacca fossero allineati perfettamente alla base del nero, così ché nel movimento del contraccolpo il proiettile sarebbe andato a conficcarsi esattamente nel centro del bersaglio. Ma la mia concentrazione scemò nel momento in cui Ettore cominciò a stuzzicarmi premendo sul ventre i polpastrelli delle dita e a giocare con il naso nei miei capelli. Si fermò poi sull’orecchio e cominciò a mordicchiarlo piacevolmente, provocando in me delle scariche di energia. Quella pressione che stava esercitando sul mio lobo mi mandava in visibilio, il mio braccio cominciò a tremare convulsamente e la presa sull’arma diventò sempre più scivolosa. Fino a quando non scese sul collo dandomi lievi, lenti e agognanti piccoli baci che mi procurarono una sensazione ancora più forte e più eccitante delle precedenti; aggiungendo poi la paura che qualcuno potesse entrare dalla porta e coglierci in flagrante, rendeva il tutto più bollente.
Mi strinse una morsa interna allo stomaco che mi diede la forza necessaria a rinsavire, la presa sulla pistola si stabilì, sembravo una statua, ed i suoi dolci baci mi aiutarono nell’apnea. Così misi a fuoco la visuale del mio occhio destro e cominciai a portarla oltre mirino e tacca, oltre l’aria, dritta sul bersaglio. Mi stabilizzai e in un moto quasi spontaneo premetti il grilletto. La pistola oscillò leggermente verso l’alto di qualche millimetro impercettibile, se non al mio polso, e ritornò in asse.
 
Buttai fuori l’aria e ne presi altra avidamente, poggiai veloce l’arma sul banco, mi girai ed afferrai il ragazzo dal colletto della camicia per poi sbatterlo con violenza contro il muro e prima che potesse replicare sistemai una gamba tra le sue.
Ero divertita nel leggere quell’improvvisa anche se istantanea nota di paura che aleggiava nei suoi occhi verdi, ma ero ancora più eccitata da lui. E così gli stampai un bacio forte e prepotente sulle sue labbra morbide e dolci come il miele. Ma non ci potevamo fermare di certo ora! Lui capovolse la situazione in un moto improvviso, adesso ero io al muro ed il bacio da cui non ci staccammo mai si evolse in qualcosa di ancor più frenetico e pretenzioso per le nostre lingue. Ed era ancora più eccitante sentire il suo ventre che premeva vogliosamente contro il mio. Oh, se tutto lo era!
 
Eppure dovevo farmi valere. Lo spinsi via, lui ci rimase male e sbigottito allo stesso tempo; tentò nuovamente un avvicinamento ma lo bloccai. Allora presi il suo mento tra le mie dita e gli voltai il viso verso il bersaglio.
-Ti devo una cena!- dissi sensuale a bassa voce, girandomi e andandomene via, lasciandolo solo lì a fissare sorridente e divertito il bersaglio e poi me.




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Capitolo 2
*** Rosso ciliegia ***


 

Rosso ciliegia

 

Ero convinta che con quel gesto di rifiuto avesse capito che non me ne fregava un emerito cavolo di lui, tanto meno avevo voglia di cenarci assieme. Beh, ad essere sinceri, ero leggermente curiosa di sapere cosa ci avrei ricavato dalla maledettissima cena che avevo promesso. Solo un po', lo giuro! Ma se si fosse conclusa come avevo sperato forse, e dico forse, sarei stata fortunata a trovare un nuovo punto da cui ricominciare… Eppure mi feci pregare così tanto che io stessa non mi riconoscevo nel mio modo di fare, o meglio, volevo andare alla cena, dopo tutto l'avevo sfidato io, ma la sua voce nelle telefonate mi sembrò appartenere ad una persona totalmente diversa da quella che conobbi quel giorno in poligono. Persino quando mi incontrò "casualmente" in sezione, durante un suo giorno libero dal lavoro, mi sembrò un uomo che non avevo mai visto prima, uno sconosciuto che possedeva una voce così artificiosa da farmi impallidire. Ad essere sinceri non sapevo davvero niente di lui, ma ero abbastanza afferrata nel carpire le persone da sapere che non si trattava dello stesso ragazzo che stranamente mi aveva attratta.

Comunque alla fine mi arresi, per merito o colpa di quello scalmanato del mio amico/amante/capo Lorenzo. Quel pazzoide mi aveva battuta nello scontro corpo a corpo in allenamento, pretendendo che pagassi pegno facendo qualcosa per lui. E quale cadeau migliore, a suo dire, potevo fargli se non liberarlo dal continuo squillo del telefono nella villetta che condividevamo? E chi poteva chiamare così incessantemente se non lui, Ettore?

E così mi ritrovai ad indossare uno dei miei migliori vestiti attillati, sempre per imposizione di Lorenzo. Il raso nero lucido accarezzava il mio corpo delineando il seno, modestamente, prosperoso e i fianchi curvilinei, cadeva poi morbido con movimenti fluidi da sotto i glutei sodi e alti e si apriva in un lungo spacco sulla gamba sinistra. Sollevai leggermente la stoffa traslucida per potermi infilare quelle apparentemente scomode, ma per me estrose e meravigliose, decolleté argentate tacco 15 incrociate sul davanti.

-Wow, sei uno schianto! Fossi io il tuo accompagnatore stasera…- la voce di Lorenzo mi apparve un po' trasognante e maledettamente erotica, ma lo era soprattutto con quello sguardo perso lungo tutto il mio corpo e con quella nonchalance di appoggiarsi allo stipite della porta con una delle sue forti e possenti mani. Effettivamente non mi sarebbe dispiaciuto se quella sera ci fosse stato lui a cena e a vagare le sue mani, esperte del mio corpo, su di me.

-La colpa è tua, mi hai costretto ad uscirci. Io lo stavo ignorando.- lo rimbeccai scocciata ricordandogli le sue azioni.

Era da tanto che i nostri corpi non si avvicinavano, questo perché io mi rifiutavo di ingannarlo ancora, nonostante ci reclamassimo a vicenda in un modo assolutamente morboso e irrazionale. Infatti fremetti quando roteò gli occhi e mi guardò di tralice, cominciando poi ad avvicinarsi. Ero consapevole che non sarei riuscita a sostenere la tensione fra di noi.

-E no, mia cara! La colpa è tua che lo hai stuzzicato al poligono. Ricordi?- mi rinfacciò -E poi se non avessi accettato non l'avrebbe più finita con le chiamate.- Effettivamente il suo continuo chiamare ad ogni ora del giorno era diventato più che snervante, al tal punto che ci fu un momento in cui pensai seriamente di strappare il filo del telefono direttamente dalla parete per non sentire più quel fastidioso suono che allarmava sull’attenti entrambi.

Lentamente Lorenzo, senza accorgermene perché immersa nei pensieri, avvolse con una mano calda e gentile il mio collo fino ad affondare le dita nell'acconciatura semi sciolta, dietro la nuca. Ogni tocco, ogni movimento, era una leggera scossa di calore che si propagava dalla mia pelle ai miei muscoli, alle mie ossa, raggiungendo il luogo dove il mio desiderio si risvegliava, bramoso del suo corpo e di nessun altro.

Mi sentii leggermente strana, ma soprattutto incoerente. Dovevo tanto, troppo, a Lorenzo eppure non riuscivo più ad amarlo come una volta, sebbene continuassimo a sopravvivere di sesso. In realtà non si poteva neanche definire tale, era piuttosto una danza selvaggia e necessaria che dall'interno divorava le nostre carni riducendoci a burattini dei nostri stessi bisogni fisici. Ma a volte, quasi di sfuggita, riuscivo ad intravedere una parvenza di qualcosa di più della sola passione, c'era forse sentimento o affetto. Non lo vedevo di certo nei nostri amplessi, ma nei suoi sguardi, nei suoi gesti, nelle sue azioni e nelle sue gentilezze verso di me. Ed anch’io mi ritrovavo inspiegabilmente a fare la maggior parte delle cose in funzione di lui, come se mi fosse vitale rendere tutto più piacevole per l’uomo che salvò me e mio fratello, che condivideva vita e lavoro con me, che nonostante tutto mi voleva sempre e comunque al suo fianco.

Però, nel tentativo di combinarmi quest'odioso appuntamento, ci vidi solo frustrazione, specchio di disagio e irritazione allo stato puro. Nessuna traccia di quel bagliore di sentimento che ogni tanto riaffiorava. Eppure lo fece.

-Sbrighiamoci allora! Devo strapparmi questo cerotto fastidioso il più presto possibile.-

Mi voltai verso lo specchio per mettermi i punti luce di oro bianco e diamanti, dandogli le spalle, mentre lui si accostò dietro di me incuriosito dai miei movimenti.

-E chissà che non si riveli una meravigliosa e piccante scoperta!- aggiunsi impulsivamente alzando un sopracciglio, senza rendermene conto davvero, tentando di punzecchiarlo un po'.

Forse ci riuscii perché le sue pupille si dilatarono, fisse sul mio riflesso nello specchio. Stranamente però il suo viso mutò in un’espressione gentile e amorevole come quella che un tempo mi rivolgeva quando la differenza di età si sentiva così forte che per lui ero solo una sorellina da proteggere.

-Qualunque cosa accada, spero che mi permetterai ancora di prendermi cura di te.- disse a mezza voce come se tutto ciò gli facesse davvero male dentro.

Era di una malinconia che faceva male. Io e lui, da sempre insieme, come partner, come fratelli, di più, come confratelli.

-Sempre, da sempre, per sempre!- e lo fissai negli occhi, attraverso il suo riflesso.

Mi sfilò la lunga collana d’oro bianco dalle mani per allacciarmela dietro la nuca ed accompagnandola con una mano la fece scorrere fino a raggiungere la metà dell'ampia scollatura del mio vestito.

Brivido gelido e scossa calda, le mie spalle nude coperte dalle sue mani.

Mi fece voltare gentilmente e mi adagiò contro il mobile, allungandosi dietro di me e combaciando con il mio corpo perfettamente per prendere orologio e bracciale ancora sul piano di mogano.

Sangue bollente nelle vene e respiro mozzato in gola.

Lo osservai mentre mi alzava polso sinistro e allacciava il cinturino dell'orologio Wintex, poi me lo liberò delicatamente nel vuoto e fu quasi un'agonia vederlo alzare anche l'altro braccio, sempre afferrando delicatamente la mia mano, e avvolgere l'altro polso con l'ampio e grande bracciale d'oro chiaro intarsiato di venature artigianali. Tuttavia non si fermò affatto, decise di percorrermi il braccio da piccoli, lenti e agognati baci lancinanti. Per me erano come spine di una rovere che si attorcigliava lungo la mia carne, bramose che il mio sangue scorresse, ma al contempo desideravo quel dolore in grado di rigenerarmi dopo un tempo che sembrava infinito.

"Non provo più amore, non più!" tentavo di ripetermelo in continuazione. Ma chi prendevo in giro? Era come se lo rivedevo per la prima volta, era come se me ne innamoravo di nuovo, vedendolo davvero per quello che era: un uomo capace di tenermi a bada e consigliarmi nelle scelte più dolorose, l’unico uomo capace di suscitare vero sentimento in me.

Si avvicinò ancor più se possibile e annullò le distanze fa di noi, mi accarezzò il volto e me lo sollevò leggermente, mentre il suo sguardo fisso nel mio mi chiedeva frustrato e bramoso me, solo me, tutta me. Avvicinò le sue labbra alle mie, tenendo la sua mano calda e ferrea dietro la mia nuca e mi chiese con una voce così calda e sensuale: -Resta con me.-

Sì! Era palese che volessi rimanere. Era la cosa che volevo di più al mondo e in quell’istante mi sciolsi. Senza più difese e senza più contromosse da giocare, sincera sorrisi distogliendo lo sguardo, ma fu inutile cercare una via di fuga da quelle labbra oltremodo rosee e carnose. Lui mi baciò. Senza preavviso, senza preamboli, senza inibizioni, con passione, con fame, con trasporto.

Potei decretare da subito che quello fu uno dei baci più belli che mi diede, poiché mi fu dato con quella voglia di bisogno e di amare che da tanto, troppo tempo, mi venne a mancare.

Lì, non me ne fregava più niente di nessuno, me lo sarei scopato come mai prima di allora, con quella rabbia e con quella passione famelica che non mi appartenevano. Voleva di più, sempre di più, ed il suo bacio ne era la conferma. Caldo, no rovente, bisognoso, no rabbioso, voglioso e sì affamato. Non smetteva di cedere e non dava segni di voler cessare, non avevamo ancora preso fiato e non ne volevamo prendere. Volevamo solo continuare quella samba a noi famigliare e trasformarla in un tango rosso di passione.

Come la lussuria che ci aveva assalito feroce, ancora di più una consapevolezza amara della situazione si era infiltrata nella mia coscienza. Purtroppo il mio cervello prese il sopravvento e la ragione si fece sentire forte.

-Che ne è della tua parola?-

-Eh?- fu l’unico, breve suono che fuoriuscì strozzato dalla gola di lui, subito dopo che me lo scrollai di dosso. I suoi occhi brillavano presi dall’impeto anche se era chiara la sorpresa di quell’attimo.

-Mi hai letteralmente costretta ad uscire con questo ragazzo ed ora non vuoi più? Mi prenderà per bugiarda e vigliacca.-

Mi fissò in cagnesco, duro, arrabbiato e deluso. Nei suoi occhi un impeto a me famigliare che per quanto fosse affascinante mi terrorizzava.

-Mai!- e con una calma straziante ma furiosa raccolse il mio capispalla da una sedia lì vicino, insieme alla mia pochette, e mi aiutò ad indossarlo.

 

Nel giro di mezz'ora arrivammo al luogo dell'appuntamento. Se Lorenzo voleva farmi patire l'inferno con Ettore io mi sarei sentita meno altera grazie al mio autista personale che costrinsi ad accompagnarmi: sempre lui.

-Dovevo proprio accompagnarti?- mi chiese stizzito e scocciato.

-Ma sta zitto! Stasera anche tu hai buona compagnia.- dissi seccata delle sue continue lamentele, scendendo dalla sua Jaguar X-type.

Ci avviammo verso il locale sulla spiaggia con grande nonchalance, facendo finta di non accorgerci degli sguardi invidiosi delle altre persone che ci circondavano. La location era un connubio meraviglioso tra rustico e raffinatezza. Sito direttamente sulla spiaggia, le sue mura erano un alternarsi tra pareti di mattoni a vista ed ampie vetrate e il colore blu indefinito che tende al verde padroneggiava tutta l'area. Di contrasto l'arancio scuro del tramonto misto al grigio delle nuvole vaganti nel cielo incutevano un senso di non appartenenza, di smarrimento, per questo sulla soglia del ristorante mi aggrappai al braccio di Lorenzo come se fosse la mia unica via di salvezza. Qualcosa in me era scattato come un allarme ed avevo seriamente paura che fosse un campanello che presagiva un qualcosa di terrificante.

-Ania, che hai?- mi chiese preoccupato. Dovevo davvero aver esercitato tanta pressione sul suo braccio, nonostante non volessi farlo preoccupare, era solo una paranoia. Mi ricomposi e mi diedi contegno nella speranza di non farlo insospettire.

-Niente. Solo un brivido per la schiena.- cercai di liquidare la cosa in maniera poco credibile e infatti fu vano.

-Per me?- disse ironico, alzando un sopracciglio con fare sensuale, tentando di essere il più spavaldo possibile. Risi e gli diedi una pacca sul braccio che ancora tenevo ben saldo, seppur con minore pressione.

-Non illuderti. E poi stasera i brividi saranno per un altro.- lo schernii.

-Smettila! Così mi fai pentire. Torniamocene a casa!- disse tutto d'un fiato incamminandosi frettolosamente verso la Maserati e quasi trascinandomi con sé.

-No!- urlai -Hai dato la tua parola, ora la mantieni. Non fare il bambino!-

Tentai di tirarlo indietro facendo perno sul contrappeso del mio corpo. Ciò mi mise a disagio sapendo che la gente continuava a fissarci, per l'auto, per il mio Versace, per il suo completo blu scuro di Armani, ed ora per quella pantomima infantile che non volevo mostrare ad occhi sconosciuti.

Si arrese facilmente, mi guardò negli occhi e ci avviammo dentro il locale.

 

Non appena varcammo la soglia un concierge venne ad accoglierci tutto impettito con l'aria felice di chi incontra il Presidente degli USA. Il locale era solito essere luogo d'incontro dei membri dell'Organizzazione, ma era eccessivo sbavare per l'entrata del suo capo e della sua vice. O forse no? In ogni caso avanzammo nel locale guidati dall'uomo in giaccia tight dritta con collo a lancia verso una saletta più esclusiva, nella quale vi erano solo quattro tavoli, apparecchiati con delle pregiate tovaglie in lino bordeaux e disposti ai quattro lati di una croce greca. Noi sorridevamo e ci crogiolavamo nel sapere che qualcuno, non tutti, in quel locale sapeva chi eravamo e di conseguenza ci porgeva delle riverenze rispettose, ma invisibili agli occhi di coloro che ignoravano la nostra esistenza nella società.

Lorenzo ed io entrammo insieme nella piccola saletta appartata, rivolta direttamente sulla riva del mar Adriatico. Lui si fermò al tavolo più vicino alla porta, io invece non facendomi accorgere di essere arrivata insieme a qualcun altro mi diressi verso il tavolo più lontano, dove Ettore inconsapevolmente mi dava le spalle.

Mentre avanzavo sentii bisbigliare Lorenzo che tranquillizzava il concierge del fatto che io non sarei stata in sua compagnia per quella sera e sorrisi al pensiero della probabile espressione da ebete che venne a crearsi sul volto dell’uomo.

Dovevo smetterla di preoccuparmi di ciò che mi circondava e concentrarmi sull'ormai odioso appuntamento che mi aspettava. Cercai così di assumere un'espressione entusiasta e nervosa allo stesso tempo poggiando una mano sulla sua spalla. Ettore si voltò di scatto sorpreso e rividi gli occhi verde plumbeo di un uomo che non riconoscevo affatto e che ogni volta era sempre diverso, cambiava di continuo. Ciò mi infondeva sempre più insicurezza e mi atterriva rendendomi vulnerabile.

Mi sorrise a trentadue denti come un bambino che finalmente otteneva il suo giochino dopo tante insistenze, si alzò e mi baciò il dorso della mano per poi aiutarmi a sedere come comandava il Galateo poggiando la mia giacca sullo schienale della mia sedia.

Tutte queste attenzioni mi facevano venire il voltastomaco: non mi dispiaceva affatto un po' di eleganza, ma il troppo stroppia. Se fosse stato Lorenzo avrebbe saputo lasciarmi fare da sola e baciarmi fugacemente all'angolo della bocca, accendendo in me desiderio. Pensai a lui che mi sorrideva sghembo e soddisfatto delle sue malefatte poco lontano da noi, così mi ritrovai a guardarlo inconsciamente quando Ettore girò intorno al tavolo per raggiungere il suo posto. E mi sbagliavo: non era divertito bensì infastidito, forse più di me.

-Allora... come stai?- la domanda incerta di Ettore mi fece destare dal flusso dei miei pensieri.

-Stressata ma bene. Grazie.- risposi fredda e sintetica, ma sincera, attraversata dall’impeto di fuggire da quella stramaledetta situazione.

-A proposito, mi spiace averti pressato in questi giorni...-

"E meno male che ti rendi conto di essere assillante!" pensai.

-...ma... non ti spaventare. Mi hai rubato il cuore quel giorno e non riesco più a non pensare a te.-

-Tutto d'un fiato. Dritto al punto.- tenendo lo sguardo basso, diedi erroneamente corpo ai miei pensieri, come un giudice senza cuore che sputa la sua sentenza.

Non appena me ne accorsi alzai la testa e imbarazzata chiesi scusa. Non volevo di certo stare con quell'uomo, in lui c'era qualcosa che mi faceva rabbrividire, ma non potevo nemmeno trattarlo male, dopo tutto non mi aveva fatto niente che lo meritasse.

-No, no.- si affrettò a dire lui -Meglio così. Sono fermamente convinto che dire tutto in faccia e subito sia la cosa migliore per instaurare un buon rapporto.-

Mi stava mettendo a disagio e lo fece ancora di più quando mi avvolse la mano, con cui stritolavo nervosa il tovagliolo sul tavolo, con le proprie e mi fissò con quegli occhi gelidi.

Lorenzo aiutami! …per carità.

-Allora?-

-Allora cosa?- chiesi interdetta non seguendo il suo filo logico.

-Allora cosa provi per me?-

Allora nel giro di neanche due minuti quell'uomo riuscì a farmi distogliere lo sguardo dal suo glaciale e radioso. Aveva uno strano effetto su di me e mi rendeva quello che non ero, una fuggitiva, un’evasiva. A me, che prendevo tutto di petto.

Lorenzo aiutami… aiuto!

Vedendo il mio sguardo perso, rafforzò la sua presa sulla mia mano costringendomi a guardarlo.

-Ti metto per caso a disagio?-

Arrossi violentemente, perfettamente in tinta con composizione di ciliegie nella ciotola di ceramica verde chiaro sul tavolo. Grandi, sicuramente succose e morbide, di un rosso così scuro che tendevano al nero della pupilla dei suoi occhi, così profonda e buia.

A disagio? No, per niente! Tanto.

-No, no. Figurati.- liquidai frettolosamente e apaticamente la domanda, ma nella mia voce c’era un chiaro tono di irrequietezza.

Mi liberò finalmente la mano, dandomi un po’ di sollievo, e portò una delle sue su quelle meravigliose ciliegie. Da quando delle ciliegie mi attiravano così tanto? Nel mio giardino avevo sette ciliegi e proprio in quel periodo i loro frutti erano pronti per essere raccolti, mi bastava scendere in giardino e arrampicarmi sui rami. Eppure gli stramaledetti frutti sul tavolo erano così interessanti.

Sollevò la mano e me ne porse una dal gambo. Sarebbe stato controproducente non accettarla, oltre a ciò era il mio frutto preferito, non avrei mai detto di no. La presi e me l’avvicinai alle labbra, sorrisi nel constatare che lo smalto delle mie unghie richiamava proprio la tonalità del rosso ciliegia, me la cacciai in bocca senza pensarci troppo e ne staccai il gambo.

Alzai lo sguardo e incontrai il suo, mutato, cambiato in qualcosa di più simile al primo giorno che lo conobbi. Mi riprese la mano, me la rivolse col palmo in su e vi poggiò altre due ciliegie.

-Finalmente un sorriso. Sono contento.- disse raggiante giocherellando con i due frutti sul mio palmo, tenendomi il polso ben saldo con una mano.

E se per un momento avevo scacciato la preoccupazione ora ritornava più potente di prima. Strinsi i denti, dimenticandomi della ciliegia ancora in bocca e inevitabilmente la morsi liberandone il succo agrodolce, di una bontà superba. Ma il retrogusto leggermente amaro mi ricordò della situazione in cui mi ero cacciata: a cena con un uomo di cui non sapevo nulla.

Risentii lo stesso presagio che ebbi all’entrata.

Aiutami Lorenzo.

D’istinto afferrai la borsa e feci per andarmene, ma mi bloccò con la sua presa ferrea ancora sul mio polso costringendomi a risistemarmi sulla sedia.

-Ti do noia?- imitò un bambino offeso e imbronciato.

-No-no…- mi ritrovai a parlottare per monosillabi, neanch’io sapevo come, mentre mi fiorava l’interno del braccio con le ciliegie.

Dal polso fino alla parte opposta del gomito e ritorno, questo era il percorso sinuoso delle due piccole ciliegie che reggeva con l’altra mano. Ma il ripetersi continuo di quel tragitto straziante mi mandava in corto circuito i nervi. Mollai inavvertitamente la borsa che ricadde inanimata sul tavolo.

Dovetti ammettere che Ettore era un bravo torturatore, perché mi ritrovai a sopprimere piccoli e inudibili gemiti strozzati. Oh, se era piacevole, ma non lo sopportavo, proprio no! La mia pelle si stava infiammando di lussuria con quel tocco leggero ma perenne, eppure non mi ritrovai a pensare a l’uomo che mi stava di fronte…

Dovevo trovare un modo per scappare da quel supplizio, troppo erotico per poterlo sopportare. Dovevo restare concentrata e non cadere nella sua misera e meschina trappola. Dovevo inventarmi qualcosa e alla svelta.

-Ettore- dissi flebilmente con un tocco di sensualità per richiamare la sua attenzione e lui sollevò il volto, senza mai staccare i suoi occhi dal suo strumento di tortura.

-Sì?-

-Perdonami, ma devo urgentemente andare ad incipriarmi il naso.- la mia voce uscì fuori così melensa e raffinata che era disgustosa perfino alle mie orecchie. Non seppi come lui riuscì a guardarmi con quel sorriso inebetito stampato in viso, come se in me avesse visto ancora altri particolari che l’attiravano a tal punto da distrarsi e mollare la presa.

Fu una fortuna perché riuscii a raccogliere la mia borsa e il mio cellulare e a dirigermi furiosa e svelta verso il bagno, fuori la saletta.

La prima cosa che vidi, non appena voltai le spalle al tavolo, fu la figura vaporosa di una bionda riccia ossigenata, seduta al tavolo con Lorenzo. La chioma eccessivamente gonfia le ricadeva sul davanti come fieno scomposto lasciando scoperta la schiena, dove il vestito rosso cremisi mal celava il tatuaggio vivido di un dragone enorme; la pelle era di un colore che ricordava i paesi arabi quanto era scura e ai polsi portava grossi bracciali di perle, visibilmente finte; sull’anulare sinistro un anello di medie dimensioni in acciaio con su inciso un simbolo che non visualizzai bene.

Oltrepassai la sala con grandi falcate, decisa ma elegante, non modificando mai il mio ritmo e lanciando una fugace occhiata d’intesa a Lorenzo.

-Scusami cara, ma ho dimenticato di far dire allo chef che sono allergico alle noci. Torno subito.- quella annuì un po’ sconsolata e Lorenzo mi sorpassò fingendo di non calcolarmi.

 

Raggiunsi velocemente il bagno, sperando che nessuno dei nostri due rendez-vous si fosse accorto di nulla. Da quando il locale aveva cominciato a riscuotere successo tra i membri dell’Organizzazione, il proprietario si era visto costretto a fare alcune essenziali modifiche, tra queste ve n’era una che interessava la disposizione dei bagni. Come far incontrare uomini e donne pur mantenendo bagni separati? La semplice risposta alle nostre esigenze, evitando troppi grattacapi al proprietario, venne proprio da uno dei nostri ingegneri, abile nell’inventare nascondigli e trappole. Si trattava di un unico ingresso che portava ad un ambiente costituito da sei ampi lavabi e quattro bagni, su cui campeggiavano due targhette maschili e due femminili. Era insolito trovare un bagno del genere, ma era comodo, anche perché tirando un calcio bene assestato in un punto preciso sotto il lavandino si azionava un sistema meccanico a pompa idraulica che faceva aprire compartimenti segreti, i quali custodivano armi e gadget.

Lorenzo riuscì a precedermi e di conseguenza lo trovai ad aspettarmi nel bagno, appoggiato al marmo dei lavabi con le braccia conserte e un’espressione dura sul volto, sembrava davvero infastidito se non arrabbiato.

-Ti ho davvero disturbato?- chiesi scioccata pensando che lo avevo infastidito interrompendo la sua cena in discreta compagnia.

Improvvisamente vidi la sua espressione mutare, da seria e preoccupata a sorpresa e confusa.

-No no. Anzi…- Si passò nervoso una mano tra i capelli spostando lo sguardo sulle piastrelle beige.

Solo allora cominciai ad intuire ciò che Lorenzo aveva fatto per controllarmi da vicino.

-Non volevi uscire con quella donna, vero?- dissi schietta. Lui si voltò di nuovo verso le quattro porte dei bagni.

-Ho tanta voglia di uscire con quella tanto quanta ne hai tu con quello.- disse storcendo il labbro in una smorfia di disprezzo.

-Perché?- chiesi avvicinandomi con cautela.

-No, Ania! Perché tu?- sbottò voltandosi di scatto fissandomi torvo negli occhi. Era arrabbiato, lo vedevo. E ringraziavo l’abilità dell’ingegnere che tra i cambiamenti insonorizzò anche le mura del locale.

-Perché mi mette a disagio, non lo sopporto. È qualcosa di odioso ma che mi inchioda allo stesso tempo. No, no, non lo sopporto!- mi ritrovai con lo scuotere ripetutamente la mia testa presa da un senso inspiegabile di angoscia, ma quello che mi fece rimanere più di stucco fu il gesto di Lorenzo.

Mi strinse entrambi i polsi e mi spinse contro al muro, mettendomi una gamba tra le mie e schiacciandomi dolorosamente tra il suo corpo e la parete.

Respiro mozzato e sorpresa, bruciore ardente e desiderio incontrollato.

Smettila, ti prego…

-Ania, io non ti sopporto quando fai così!- digrignò i denti per non urlare -A quel coglione ci penso dopo. Ma ti ho fatto una domanda ben precisa: perché ti comporti così? Rispondimi, Ania!-

La sua voce si alzò di qualche decibel e la sua rabbia inespressa era leggibile nei suoi occhi castano scuro e nella sua forza nello stringermi i polsi sulle piastrelle. Lo capivo e sbagliavo. Ma come potevo dirgli che non provavo più quell’amore intenso, inebriante ed essenziale che pian piano era scemato nel tempo? Come potevo dirgli che la donna che gli doveva tutto preferiva la frivolezza della sua compagnia a letto, piuttosto che trattarlo da uomo amato e onorato con i più semplici gesti quotidiani? Non riuscivo, non più, non ero capace di dedicarmi a qualcuno che amavo. Perché non amavo.

Batté i miei polsi contro la parete e si avvicinò ancor più a me, poi sibilò disperato e stanco al mio orecchio: -Perché?- Il sentimento di frustrazione, penetrandomi nel petto come un animale vorace e affamato della mia sofferenza e dei miei errori, mi faceva male a tal punto che una lacrima mi sfuggì cadendo.

Dagli occhi appannati potei vedere soltanto la figura smorzata di Lorenzo che spaventato indietreggiava. Inconsciamente strappai, con un gesto rapido ma svogliato e senza eleganza, un paio di fogli della carta appesa accanto a me e me li portai sugli occhi, strisciando con la schiena lungo la parete fino a terra. Per alcuni interminabili istanti mi sentii sola e distrutta. Poche volte mi successe, e pensai che potevo finirla anche lì seduta stante. Ma un tocco caldo sulle mie spalle mi fece alzare all’istante e ricompormi.

No, mai! Io non piango.

Non posso permettermelo.

Il tocco divenne un abbraccio forte e protettivo. Solo con lui mi sentivo al sicuro. Avevo paura? Certo che avevo paura, come ogni donna al mondo. Essere un’assassina non m’impediva di essere debole e non m’impediva di essere umana.

-Non piangerai mai più. Perdonami, sono un mostro!-

A quelle parole sobbalzai perché in verità la colpa era soltanto mia. Non sua che si sentiva ancora, dopo tutti quegli anni, responsabile per me.

-Sei pazzo? Io sono un mostro! Non riesco ad amarti come tu meriti e dovrei ergerti tante statue di cristallo quanti giorni mi hai regalo su questa terra, perché pur essendo fragili sono stati meravigliosi.- gli sollevai il capo tra le mie mani -Lorenzo, tu meriti il mondo che io non riesco a darti.-

Non potevo credere a quello che stavo vedendo. Le sue gote erano arrossate e i suoi occhi minacciavano una cascata copiosa di lacrime, le sue labbra erano una linea dura e rigida, il suo abbraccio si stringeva sempre di più intorno ai miei fianchi e il battito del suo cuore era troppo flebile attraverso i vestiti.

Poi si avvicinò al mio viso.

-Ania- dolce, soave e meraviglioso il suono con cui usciva il mio nome dalle sue labbra, morbide e carnose -il problema è che io…-

Non ci pensai, mi bastò quello, lo baciai. Come lui prima aveva fatto con me a casa, con la stessa passione, con lo stesso bisogno.

Ci staccammo dalla parete e lo spinsi lentamente nell’ampio spazio, ma era inutile non riuscivamo a rallentare così lui mi prese dai fianchi e mi issò sul marmo dei lavabi. Mi allargò le gambe ed io potei accoglierlo, stringerlo più forte a me, baciarlo con più foga. Le sue mani su di me non erano più solo un ricordo, vagavano coscienti sulla mia schiena fino poi a fermarsi solo per alcuni istanti appena sopra i miei fianchi, stringendomi per poi staccarsi un secondo e guardarmi negli occhi. Sorrise di gioia ed io con lui. Era delicato il tocco delle sue dita sulle mie guance, avrei voluto che quel momento non finisse mai, era perfetto, senza nessun pensiero oltre a noi due. Mi sfiorò il naso e lo baciai di nuovo, ancora e ancora. E fu semplice perdersi tra quel mare di strette e morsi famelici e poi sguardi e sorrisi pieni di gioia ed ancora baci e baci.

E fu un attimo a distruggere tutto. Un maledetto bip del suo cellulare che avvisava di una missione per noi.

Ci guardammo infastiditi ma rassegnati e ci dirigemmo veloci verso la saletta, incuranti di essere insieme agli occhi del pubblico.

Lui si fiondò a scusarsi con il suo appuntamento e a recuperare la giaccia, io dal mio per la medesima ragione, ma trovai il tavolo vuoto. Solo un bigliettino giaceva nel suo piatto: “Scusami, mi hanno chiamato per un’urgenza sul lavoro. Mi dispiace tanto. Tuo, Ettore”

 

Tralasciai la firma esagerata e ci dirigemmo al luogo prestabilito, dove Lorenzo mi lasciò scendere per poi ripartire e prendere un arsenale più adeguato alla base. Intanto io avrei fatto il punto della situazione e non ero neanche sola: sul cellulare di Lorenzo arrivò un avviso dell’imminente arrivo di un altro agente nelle vicinanze che già si apprestava a prendere posizione.

Il capannone era buio e il mio appostamento dietro a un cassone non era dei migliori. Ma presto fui raggiunta dall’agente dell’avviso di poco prima. Si accovacciò accanto a me non appena vide la mia figura nella penombra e, con una pistola tra le mani, dandomi le spalle cominciò a dirmi: -Bene agente. Il bersaglio si trova a pochi metri da noi. Lei va per prima ed io le copro le spalle.-

Impossibile non riconoscerlo. Inconfondibile la sua voce roca e il suo profilo longilineo ma rigido.

-Ettore?- ero incredula vedendolo accanto a me, acquattato anche lui dietro le casse, che mi ordinava autoritario cosa dovessi fare.

-Tu non puoi conoscere il... - stava per urlare arrabbiato che qualcuno, ovvero la sottoscritta, avesse informazioni su di lui, ma si bloccò spiazzato quando i suoi occhi incrociarono i miei.

E mi apparve di nuovo qualcun altro. Non l’istruttore di poligono, non il perseguitatore quasi calcolatore, né tanto meno l'amante dannatamente sensuale del ristorante, bensì un agente rigido ma attento con qualcosa di indefinito che lo rendeva stranamente familiare, forse perché avrebbe dovuto essere un partner o forse semplicemente perché aveva quell'inconfondibile modo di muoversi d'agente dell'Organizzazione.

Mi maledissi mentalmente della mia stupidaggine, per non essermi accorta di due cose fondamentali: da una parte c'era lui con una chiara personalità sdoppiata o, non si sarebbe spiegato, e dall'altra c'era Lorenzo che aveva architettato tutto. Lui voleva che m'incontrassi con Ettore perché faceva parte dell'Organizzazione e perché gli stava comodo avermi sotto controllo attraverso i suoi sottoposti. Questo mi infervorava di rabbia, immensamente. Ed io avevo capito il suo gioco, non l'avrebbe passata liscia.

-Ania?-

O sapeva fingere ed era un eccellente attore, o più verosimilmente Ettore non pensava di incontrarmi sul campo da battaglia, per lo meno questa fu la mia prima impressione vedendo il suo sguardo confuso.

-Che...? Diamine!- se prima era confuso in un attimo riuscì a riacquistare lucidità della situazione e sbottò.

Sentimmo improvvisamente un fischio che fendeva l'aria con l'aumentare della propria potenza, probabilmente una carrucola mollata male. Sarebbe stato plausibile essendo in un cantiere navale, ma solo un paio di secondi prima dell'impatto capimmo che si trattava di un piccolo missile lanciato proprio nella nostra direzione.

Vidi Ettore sgranare gli occhi non appena ebbe capito cosa stesse succedendo e buttarsi di lato vicino la battigia, trascinando me con lui. Me lo ritrovai così affianco a me, con un ginocchio accidentalmente infilato nel lungo spacco del vestito che ancora indossavo e con il fiato che mi solleticava i capelli sulla fronte.

Alzai lo sguardo e incontrai il suo fisso in un'espressione dura e contrita.

-Gr-grazie...- mi ritrovai a biascicare arrossendo come una bambina e voltando lo sguardo di lato, cosa decisamente inusuale per me.

-Maledizione! Perché mi hai seguito?-

-Io? Figurati se sono tipa del genere.-

-No?! Ho capito benissimo che ti piaccio ma non dovevi seguirmi quando non mi hai trovato nel ristorante.-

Nel giro di neanche pochi secondi pensai per ben due volte che Ettore fosse davvero all'oscuro delle manovre di Lorenzo. Era convinto che fossi una semplice civile e il fatto che mi stesse porgendo una pistola tra le mani per difendermi qualora ne avessi avuto bisogno, dicendomi di scappare, oltre al fatto che il suo sguardo vagava per il cantiere ancora alla ricerca del suo partner per quella missione, mi fece capire che non sapeva davvero niente. Da una parte ero arrabbiata per il gesto di Lorenzo e per l'ottusità di Ettore, dall'altra dovevo far capire a quest'ultimo che non avrebbe mai trovato chi cercava se non restringeva il suo campo visivo a me.

-Idiota che non sei altro!- sbottai. La fredda e calcolatrice Ania se n'era già andata via da un pezzo ormai, in sua presenza, ora ce n’era solo una fuori dalle staffe.

Ettore sgranò gli occhi sconvolto, ma non rifiutò la mia mano nell'aiutarlo ad alzarsi e neanche la sua pistola che gli ritornai.

-Non credevo che fossi un deficiente...- il colore delle sue guance divenne arrossato ma non ribatté -... ma non credevo neanche che fossi un agente dell'Organizzazione.- tagliai corto stringendogli la mano e presentandomi a dovere.

-Ania, agente Silente.-

In un primo momento lo vidi vacillare, in un secondo era chiaramente scioccato, ma poi la sua espressione tornò ad essere quella tipica dell’agente che notai poco prima; la mia preferita di lui.

Anche lui stava per porgermi la mano, ma un proiettile gli stava per fischiare accanto all'orecchio quando lo trassi a me contro il muro del capannone, che fungeva da scudo.

Sentivo il suo bacino conficcato nel mio fianco ed era stranamente una sensazione che non mi dava fastidio. Ormai c'eravamo e non potevamo che affrontare insieme il bersaglio.

-Comunque sono Ettore, agente Duale. Corpo a corpo e armi a corto raggio.- finì anticipando la mia domanda inespressa su quale disciplina fosse afferrato. Gli agenti duali, nella nostra organizzazione, si distinguevano per la capacità di essere afferrati in particolar modo in due categorie, che cambiavano da persona a persona.

Io nel frattempo osservavo il soggetto assegnatoci, il quale veniva verso di noi ubriaco fradicio agitando in una mano un mitra e nell'altra una Revolver. Non potevo crederci che ci avessero assegnato una missione del genere. Non sapevo il rendimento generale di Ettore, ma il mio era il più alto tra i miei colleghi, di solito mi assegnavano missioni tattiche e non l'uccisione di un ubriacone.

-Allora?-

La sua domanda mi destò dai miei pensieri, in effetti non lo stavo ascoltando.

-La tua disciplina.-

-Non mi sembra il momento di conversare, il tizio là fuori ci vuole morti.- dissi acida buttandomi dietro un cassone appena fuori dal capannone. Non era davvero il caso di dilungarsi in frivole chiacchiere, quello che mi premeva di più in quel momento era di concludere la missione, capire cosa farne di Ettore e prendere a sberle quel deficiente di Lorenzo.

Vidi il guizzo negli occhi di Ettore, che mi aveva seguito, quando spostai la stoffa dello spacco per estrarre e caricare la mia vecchia ed affidabile Beretta, una pistola del calibro 7.65.

-Tiratrice scelta, assassina veloce e silenziosa.-

-Peccato, io preferisco torturarli.- disse ironico e con poca convinzione. Se era la sua tattica per mostrarsi migliore e quindi più attraente era fallita miseramente.

Mi scappò un sorriso che malauguratamente lui intercettò, mentre prendevo posizione tra il cassone che ci nascondeva ed uno leggermente più modesto al nostro fianco. Sfortunatamente mi accorsi solo quando cominciai la discendete, per allineare tacca e mirino sul bersaglio, ancora instabile per via dell'alcol, che il mio lungo vestito mi intralciava i movimenti. E ovviamente lui se ne accorse.

-Cosa c'è? Non credi che le urla di un prigioniero siano meglio del suo veloce abbattimento?- percepii l’imbarazzante e fuori luogo tentativo di seduzione, anche quando mi sollevò quel lembo di stoffa che mi rendeva difficoltosi i movimenti.

-No, semplicemente credo che un uomo stramazzato a terra sia meglio di un ciarlone al proprio fianco.- dissi premendo il grilletto e sentendo il rinculo della mia 7.65. Il colpo trafisse dritto la fronte del bersaglio che come avevo predetto cadde steso al suolo, facendo cadere anche mitra e pistola.

Concluso. Soddisfatta.

-Cazzo! Doppio cazzo!- urlò scattando in piedi, come una molla liberata dopo un lungo periodo di tensione.

-Chi c'è ancora da abbattere? È arrivato qualcuno?- chiesi un po' preoccupata dalla sua esclamazione.

Lui si voltò verso di me e mi guardò con occhi di chi venera qualcuno.

-E allora?-

-L’hai davvero abbattuto e a questa distanza incredibile, con una ridicola 7.65. Cazzo!- si agitò come un ragazzino che vedeva vincere la coppa del mondo dalla squadra per cui tifava.

-Eh?-

In quel momento pensai di trovarmi davvero davanti a un raro fenomeno di sdoppiamento della personalità. Da istruttore magnetico e accattivante a maniaco ossessivo, da ragazzo oltremodo sensuale ad agente incallito, da uomo preoccupato a bambino esaltato. In ogni caso sarebbe stato inutile farglielo notare poiché continuava a fissare la distanza tra noi e il soggetto stecchito, circa 110 metri, mentre io mi rialzavo sui mei trampoli. E la cosa risultò inspiegabilmente vana perché Ettore mi atterrò nuovamente a terra, con tale impeto da farmi inquietare.

-Hai visto qualcun altro?- chiesi ingenuamente sbirciando oltre i cassoni, con lui ancora sopra me.

-In effetti ho visto una donna...- disse con un tono così voglioso da farmi voltare verso di lui -... meravigliosamente abile nel mio mondo.-

C'eravamo di nuovo! Mentalmente mi tirai uno schiaffo in fronte. La parte giocosa e bramosa nei miei confronti era tornata di nuovo, ed io ero già stanca di quella situazione imbarazzante.

-Ettore, levati. Dobbiamo nascondere il cadavere.-

Tentai di sollecitarlo ad alzai, ma la cosa mi riuscì impossibile anche quando tentai di spostarlo con l'inutile forza delle mie braccia. In compenso lui mi derubò della mia pistola che ancora tenevo in mano e mi bloccò i polsi sulla nuca con una delle sue. I suoi occhi erano fissi nei miei, splendidi occhi verde smeraldo, leggermente opachi e crudeli all'occorrenza.

-Ok- disse alzando il bacino dal mio -Ma prima mettiamo a posto questa.- e mi mostrò la mia arma.

Infilò le sue gambe tra le mie, allargando lo spacco del mio vestito e tenendo le mie mani ancora ben salde sopra la mia testa. Per raggiungere la stoffa con la pistola dovette abbassarsi ancor più su di me, poggiandosi completamente sul mio sterno, e dovetti ammettere che quella sensazione di compressione non mi dava alcun fastidio, anzi. Però dovevo pur mantenere la mia dignità.

-Non siamo dei ragazzini. Lasciami, Ettore!- cercai di divincolarmi spingendo con le ginocchia.

Poteva anche piacermi la situazione ma stavo comunque tornando ad essere altera.

-Non dirmi che non ti piace questo.-

Sentii il suono della sicura che si innestava, l'avevo dimenticata aperta, poi il freddo metallo che mi lambiva la pelle della gamba scoperta.

-Smettila!-

Per quanto fosse sensuale ed eccitante mi stavo adirando seriamente. Nessuno mi metteva le mani addosso senza che io glielo permettessi, neanche Lorenzo.

Non potevo muovere le braccia così gli assestai una ginocchiata nel fianco, ma ne ricavai solo una smorfia di fastidio da parte sua. Eppure non aveva intenzione di liberarmi.

-E questo.- disse ancora imperterrito spostando l'arma nell'interno dell'altra coscia.

Questo mi scosse un po' e avrei mentito nel dire che non mi piacque, soprattutto quando raggiunse con la bocca della pistola il mio perizoma in pizzo nero; ma a dirla tutta lì ebbi un po' di paura. Il battito del mio cuore rallentò solo quando riscese di nuovo verso la giarrettiera, che usavo per tenere l'arma, e con minuziosa precisione la infilò dentro il tessuto di pizzo écru.

-Ora possiamo andare.- rise beffardo sollevandomi sgraziatamente da terra.

D'impulso gli tirai uno schiaffo diretto sulla sua guancia, che sfortunatamente lui riuscì a intercettare, bloccandomi il braccio dietro la schiena e fermandomi l'altro con la stessa mano; con l'altra mi scostò una ciocca sfuggita al controllo dell'acconciatura e mi sembrò che sorrise lieve e felice, oltre che sollevato. Aveva una presa davvero forte, infatti fu inutile tentare di dimenarmi.

-Forse non ti rendi conto dell’effetto che hai su di me. E ora sapere che facciamo lo stesso lavoro mi eccita da impazzire.-

Magnetico quanto inquietante era il suo sguardo. Caddi preda delle sue labbra soffici e gonfie di desiderio. Era dolce, succoso, non potei negarlo, ma allo stesso tempo mi faceva imbestialire.

Sorrisi a fior di labbra nel pensare che gliel'avrei fatta pagare a breve. E quando si staccò dal suo bacio pretenzioso tentai un nuovo affondo sul viso come diversivo, da quello che in realtà era un colpo dritto nelle parti basse. Evidentemente la serata era contro di me perché lui riuscì ad evitare di nuovo le mie mosse, retrocedendo e afferrandomi di nuovo i polsi, sogghignando e bloccandomi contro un cassone.

-Dimentichi quello che ti ho detto. Una delle mie due categorie è il corpo a corpo.-

Sbuffai dall'esasperazione vedendolo puntare nuovamente sulle mie labbra. Ma ad un tratto urlò di dolore, un suono famigliare alle mie orecchie, e sorrisi felice dell’espressione contrita sul suo volto: una mano gli strattonò i capelli e lo tirò via da me.

Mi rivolse uno sguardo di supplica, ma io incrociai le braccia ridendo beffarda della situazione e appoggiandomi di spalle al cassone. Sapevo benissimo chi l'aveva tirato via da me e che ora lo stava strisciando a terra, urlandogli che una donna non si tocca nemmeno con un fiore se non è la sua volontà.

Ettore sgranò gli occhi, visibilmente arrossito in volto, riconoscendo il suo aggressore: il capo dell'Organizzazione, nonché Lorenzo.

-Stavamo solo...- tentò di giustificarsi Ettore ridicolamente, ancora artigliato dai corti capelli, ma io lo precedetti.

-Ci stavamo solo esercitando in doppio gioco seduttivo.- e in modo più sensuale che potei avanzai verso Lorenzo e gli lambii gli addominali sotto la camicia con le dita, fino ad arrivare al bottone del suoi pantaloni e tirarli a me giocosa. Sia l'uno che l'altro sgranarono gli occhi; anch'io ero capace di farmi desiderare ed entrambi me l'avrebbero pagata per il brutto tiro mancino.

-A...Ania...- farfugliò Lorenzo.

-Taci tu! So cosa avete fatto!- sbottai incazzata, facendogli capire che io sapevo dei loro raggiri.

-Ania... io non...- stavolta era Ettore che tentò di parlarmi, ma io lo sbloccai con un gesto della mano facendogli capire che non doveva azzardarsi a proferire parola.

Nel frattempo raggiunsi a passo felpato il cadavere, che in precedenza Lorenzo aveva spostato nelle nostre vicinanze, e afferrandolo da dietro il collo della giacca lo trascinai, come carne da macello quale era fino all’auto.

Arrivata ormai alla Jaguar X-type grigio notte buttai il cadavere nel bagagliaio aiutata dagli altri due, che mi avevano seguito con occhio curioso e clinico i miei movimenti.

Agirai comunque il gioiellino del capo sotto lo sguardo perenne dei due e mi sedetti al posto del passeggero anteriore, Ettore mi seguì sedendosi dietro e Lorenzo si mise alla guida. Ero sempre più altera. Perché beffarmi così e trattarmi da bambina come se non sapessi badare a me stessa? Ero capace sia di affrontare agguati di ogni genere che trovarmi uno straccio di ragazzo, che poi il ragazzo che volevo complicava ancora di più le cose era un altro paio di maniche. In ogni caso ero determinata a fargliela pagare a quei doppiogiochisti: così mi levai le scarpe sul fondo dell'auto e poggiai le gambe sul cruscotto in radica di noce, strofinandomele l'una contro l'altra, fingendo che mi facessero male, e mi feci scivolare inavvertitamente la stoffa fino a scoprirmi la giarrettiera che teneva la mia fedele Beretta; mi accoccolai poi nel sedile mistificando il mio sonno.

Non ci volle molto per riuscire a vedere l'effetto che ebbi su Ettore dallo specchietto retrovisore: era pallido e i suoi jeans mostravano un lieve rigonfiamento. E sebbene Lorenzo odiasse il fatto che poggiassi i piedi sul cruscotto anche da lui ebbi esito positivo, infatti non mi disse nulla e i suoi movimenti risultarono fin troppo calcolati e rigidi nel dare gas al motore sprigionando quel soave e rombante suono.

Arrivati a casa scesi senza aspettare e andai verso Lorenzo che apriva il cofano dell’auto rivelandone il cadavere. L’interno era tutto imbrattato di sangue. Non vomitai, ero abituata ormai, era la mia fottutissima vita.

-Dovrai ripulirla.- tagliai corto dirigendomi già verso la villetta.

Mi accorsi solo in un secondo momento che Ettore mi fissava interrogativo, come se volesse chiedermi che cavolo ci faceva lui là. Mi stavano dando entrambi sui nervi, ma dovevo pur concedergli una spiegazione.

-Stanotte dormirete entrambi nella dependance. Svegliatevi presto.- fui autoritaria nel parlare, quasi fredda, e loro non ribatterono. Ettore ci provò ma Lorenzo lo bloccò facendogli capire che era meglio non farlo.

Ero più che decisa a trovare un modo per fargliela pagare ed una mezza idea già mi ronzava in testa, dovevo solo trovare il momento giusto per attuare il mio piano.

Rabbia.

Da un albero lungo il mio tragitto staccai un piccolo grappolo di ciliegie.

Frustrazione.

Non volevo fargli male, soprattutto a Lorenzo, ma doveva pur capire che dovevo riuscire a cavarmela da sola. Ormai ero matura ed un giorno sarebbe toccato a me gestire tutto questo. È vero non riuscivo più ad amarlo come volevo, a parte qualche sporadica breccia, ma non per questo mi buttavo addosso a chiunque e gli mancavo di rispetto, anzi tentai in ogni modo di riallacciare il rapporto che c’era tra noi. Eppure il suo gesto di darmi in pasto ad un suo sottoposto per controllarmi e quindi sapere che non finivo per amare realmente qualcun altro mi fece cadere in una voragine d’angoscia.

Sconforto. Delusione.

Mi rigirai le ciliegie tra le dita della mano. Erano anch’esse di un rosso che macabramente nella penombra della notte tendevano ad un nero plumbeo, come le loro pupille, come il sangue versato ogni giorno, come il sentimento che pulsava nelle mie vene e si fermava ad ostruire il mio sterno soffocandomi. L’odiavo, le morsi.

 

Taira Croft

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Capitolo 3
*** Irrequieti e irrazionali siamo noi ***


 

 

Irrequieti e irrazionali siamo noi

 

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Sapevo che dovevo far aggiustare il rubinetto o, in ogni caso, l’avrei dovuto aggiustare io stessa, ma in quel momento volevo solo riposare dopo una giornata del genere.

Tic tac tic tac tic tac

Lorenzo ed io non avevamo davvero niente da fare che appendere almeno un orologio a muro in ogni stanza.

Povera me! Proprio quella sera dovevo stare attenta a quei suoni che mi impedivano di riposare?

Vroooooooooon

E proprio quella notte uno squilibrato doveva passare con la sua belva rampante difronte casa mia? Gliel’avrei sfracellata ben volentieri in testa quella moto da quattro soldi.

Vroooooooooon

Un altro, o lo stesso?

Frush frush

Mi girai sul fianco sinistro nella speranza di addormentarmi.

Tlink

Non potevo crederci.

Tlink tlink

Aveva ricominciato di nuovo.

Tlink

Forse era l’ultimo.

Tic tac tic tac

Quella sera ero troppo ipersensibile e frustrata.

Tlink tlink tlink tlink tlink tlink

No! Per carità …

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Basta!

Sfrush

Mi alzai dal letto e mi diressi a i piedi nudi con passo svelto e pesante verso il bagno. Abbassai la maniglia ed aprii la porta, tirai una manata sull’interruttore alla mia destra e la luce si accese con un lampeggio istantaneo ed elettrico. Quel minuscolo fulmine si disperse nella parure e poi tutto l’ambiente s’illuminò all’istante. Lì sulla sinistra, la goccia minacciava di cadere e produrre nuovo suono. No, rumore irritante. Un colpo secco sul rubinetto d’acciaio sarebbe dovuto bastare per quella sera e così feci. Un gesto secco, deciso e sordo, ma non fu sordo il riverbero di quella goccia che cadde vendicativa nel fondo del lavandino.

Ero così irritata da tutto, da tutti, però il sollievo si fece avanti e sospirai vittoriosa.

Tornai in camera chiudendo tutte le porte dietro di me e con un tonfo secco mi buttai a peso morto sul letto.

Tonfh

Mi posizionai a pancia in giù e lasciai che Morfeo mi trascinasse nei meandri del suo regno. Chiusi quasi del tutto gli occhi e rilassai tutti i muscoli.

Pace. Finalmente pace.

Tic tac tic tac

Quel maledetto orologio in vetro di Murano e quarzo viola! I nervi mi saltarono letteralmente e la lampada sul comodino centrò l’orologio in pieno.

Crash

I vetri schizzarono su tutto il pavimento, l’indomani li avrei raccolti. Finalmente riposo. Calma, pace, sollievo ed aria fresca che filtrava dalla zanzariera del balcone spalancato.

Crah crah crah

-Maledettissime cicale!- urlai spazientita.

Era impossibile dormire, tanto valeva alzarsi.

 

E dopo aver ripulito tutto, ricomposto il letto e riparato in modo egregio il rubinetto, nessuno poteva azzardarsi a privarmi della mia buona tazza di caffè mattutino. Sapevo di dover affrontare una giornata decisamente “no” di conseguenza avevo disperatamente bisogno di una buona dose di energia e sfrontatezza. Quindi mi appoggiai all’isola di marmo della cucina e sorseggiai dalla tazzina il liquido rincuorante, proprio mentre due avvenenti uomini, seppur teste quadre, mi passarono davanti.

Quasi sputai la bevanda ricca di caffeina ritrovandomeli lì davanti, ma mi trattenni sperando che non avessero notato la mia espressione inebetita. Sospirai poi e lanciai sbuffando la tazzina di ceramica nella vaschetta piena d’acqua del lavabo, ricordandomi di essere incavolata con quelle due zucche vuote che stavano facendo dietro front. A dirla tutta erano un po’ buffi: sembravano usciti da una gag televisiva con la loro camminata simultanea all’indietro.

Malauguratamente per me, si accorsero che li fissavo interessata.

Seppur diversi nel carattere e nel modo di fare avevano più o meno la stessa fisionomia: entrambi alti più di me, Ettore leggermente più di Lorenzo; entrambi muscolosi, Ettore forse troppo eccessivo per i miei gusti; entrambi con le spalle larghe; entrambi possedevano il giusto quantitativo di quel qualcosa che mi costringeva a mordermi inconsciamente il labbro e a fare pensieri impuri sui loro splendidi corpi da Bronzi di Riace.

Mi sentivo una quattordicenne che non si sapeva controllare, né in pensieri né in azioni. Era imbarazzante per me che ne avevo quasi 19 di anni e che comunque ne avevo passate di cotte e di crude in amore.

-Non vi avevo confinato nella dependance?- chiesi acida ricordando ai due di averli sbattuti fuori casa.

Erano imbambolati, infatti scossero un po’ la testa prima di inserire la spina del cervello nell’apposita presa per il timore di dire qualcosa che gli sarebbe ritorto contro.

Ripercorrendo i loro sguardi, vidi Lorenzo fissarmi le dita della mano che avevo poggiato sulle labbra e poi scese insolitamente sul mio addome, Ettore invece mi fissava le gambe nude per poi risalire sui miei seni con occhi famelici. D’altro canto non potevo neanche dargli torto: una semplice canotta grigia in pizzo tirata fin sotto i glutei non era la miglior mise con cui presentarsi. Ma non ero neanche tenuta a coprirmi, ero in casa mia e loro l’avevano appena invasa senza il mio permesso.

-Eravamo venuti a prendere le chiavi.- rispose semplicemente atono Lorenzo. Era un po' infastidito, ma non capivo da cosa. In ogni caso sapevo che si riferiva a quel finto mazzo di chiavi che usavamo per nascondere la vera accessibilità alla base segreta, anche ai nostri stessi agenti.

-Scusa ma te lo devo chiedere. Tu giri sempre così in casa? Perché penso che non lo sopporterei.- improvvisamente proruppe Ettore con la sua contraddistinta calma irrazionale, che però mal celava il suo interesse e la sua irritazione al tempo stesso.

Quasi come se fosse stato il mio fidanzato, dimostrò fin da subito di essere di una gelosia alquanto sgradevole. E io volli prendermi una piccola rivincita. Quindi saltai a sedere con eleganza sull'isola di marmo rosso cremisi ed accavallai sinuosamente le gambe tenendo la schiena dritta e facendo risaltare il seno. A volte dimostravo di essere capace di una stronzaggine fuori dal comune e ciò poteva aiutarmi come mettermi nei guai.

-In effetti no- risposi e lui sospirò portandosi platealmente una mano a sorreggersi il petto possente -Di solito sto in intimo, ma oggi fa freddino...- finii con una vocina che voleva mostrarsi invitante e sensuale.

Ettore divenne rosso in volto assumendo un’espressione sbigottita, Lorenzo rise a crepapelle ed io sorrisi soddisfatta.

-Non te la prendere, collega, scoprirai che è quasi impossibile lavorare con lei e al contempo mantenere la lucidità.-  disse Lorenzo, con una naturalezza posseduta solo da chi mi conosceva bene e misurava accuratamente le parole, tirandogli una pacca amichevole sul braccio, prima ancora che Ettore dicesse qualcosa di compromettente per la sua incolumità.

-E allora come dovrei fare?- chiese tra l’amareggiato e l’arreso.

-Semplice! Fai esattamente quello che ti dice e sopravvivrai.-

-Ma tu sei il capo!- disse confuso Ettore.

-Lei lo è in mia assenza e sul campo è l’unica a cui far riferimento. Lei è il mio capo se è necessario.- rispose Lorenzo fissandolo negli occhi a mo' di sfida.

-E se mi dice di buttarmi da un ponte, che faccio?- proruppe gesticolando il riccio preoccupato.

-Prima saluti il capo e poi ti butti.- chiuse secco Lorenzo, altero ma con un tono di voce piatto, indicandomi col capo e riscuotendo una faccia incredula e leggermente preoccupata da parte del nuovo collega.

Io in tutto ciò mi crogiolavo osservano la loro piccola chiacchierata senza senso, almeno per me. Il nostro lavoro era semplice: esegui gli ordini alla lettera o verrai eliminato dalle circostanze. Non c’era neanche da chiedersi cosa fare perché fermo non potevi stare un secondo che un nuovo ordine ti raggiungeva e ti costringeva ad agire. Non avevamo seriamente il tempo necessario a pensare. Fu allora che ebbi seriamente paura di trovarmi a lavorare con un disgraziato, rintronato, inebetito, che non sapeva muoversi, o ancora peggio con un novellino.

-Ora andiamo- disse autoritario Lorenzo, poi più dolce verso di me: -Preparati, c'è bisogno di te-

Annuii semplicemente di rimando.

Mi velocizzai e indossai un paio di fuseaux grigi, un paio di shorts in jeans, una canotta blu, una giacca top crop in denim e delle Superga blu notte, dirigendomi poi verso la nicchia nascosta dietro la villetta. Ad aspettarmi lì c'era ancora Lorenzo.

-Ettore è già dentro?-

-Sì- poi rispose alla mia domanda inespressa -L'ho bendato secondo le procedure. Tranquilla, non ha visto niente-

Attimo di pausa e silenzio involontario

Sapeva che ero arrabbiata e innervosita per lo sghembo della sera prima e mi stuzzicò: -Ora è seduto sotto e chiede insistentemente di te e…- facendo una breve paura -…di noi ai nostri colleghi.-

Sorrisi pensando che era uno stolto e che i nostri colleghi non gli avrebbero risposto, semplicemente perché non volevano sapere e gli conveniva se non volevano andare incontro alle conseguenze, ma rinfacciai comunque la colpa a Lorenzo arrabbiata dal suo comportamento.

-Non dovevi farlo!-

-Cosa?-

Sapeva benissimo cosa intendevo, ma non sapevo se rispose così per farmi arrabbiare o per non arrivare alla guerra. Non lo sopportavo quando si comportava da completo deficiente.

Quindi, senza rispondergli, poggiai la mano sul pannello che mi avrebbe scannerizzato la frattura dell'osso del polso destro e quella della spalla sinistra; Lorenzo fece altrettanto con il suo piede destro e con le costole alla base dei pettorali. Tempo addietro eravamo stati vittime di un banale incidente stradale che fece ribaltare la Jaguar che Lorenzo possedeva prima della X-type ed entrambi ci eravamo procurati delle singolari fratture ossee. Da qui l'idea di autentificazione personale dell'accesso alla base, poiché ogni frattura è sempre diversa da qualunque altra. Poi un congegno analizzava la cornea dei nostri occhi ed un altro che non avessimo dei congegni localizzativi addosso. Per sicurezza tutti i nostri agenti erano analizzati da quest'ultimo prima di entrare. Inserimmo i codici ciclici che cambiavano ogni tre ore e le porte dell'ascensore sotterraneo si aprirono in corrispondenza della finta fessura nell’arcata.

-Non era mia intenzione trattarti come ho fatto ieri. Volevo solo renderti felice.- confessò una volta che le porte dell'ascensore all’interno della roccia si chiusero dietro le nostre spalle. C'era del dispiacere nella sua voce. Ciò mi confermava che diceva il vero.

-Rendermi felice?- chiesi realmente incredula.

In realtà ultimamente riusciva solo a farmi arrabbiare, senza contare i nostri sentimenti già sfumati che tanto ci allontanavano. Avrei voluto tornare indietro e cercare di rattoppare tutto, eppure non era così facile.

-Hai scelto il modo più sbagliato per farlo.- Ero troppo dura. In fondo era colpa mia se tutto era diventato così complicato e senza senso, era colpa mia se non l’amavo più.

-Non voglio più vederti devastata come allora. È troppo per me. E se per essere felice hai bisogno di qualcuno che non sia io… va bene.-

Era naturale che se ne sarebbe accorto anche lui, ma avere pensieri del genere significava essere affetti da pazzia. Non avrei mai scelto un altro al suo posto, non immediatamente almeno e con così tanta freddezza, sarebbe stato difficile persino per me ricominciare. Era giusto che gli dicessi la verità, non potevo più nascondermi.

-Lorenzo, io non ti amo più e tu lo sai.- era come rincarare una dose già fin troppo amara e piena di dolore -Ma non ho bisogno di un Ettore per essere felice. Ho bisogno di ritrovare me stessa e capire cosa provo per te.-

-Che intendi dire?- mi chiese un po' spaesato.

In effetti non sono mai stata un granché con i discorsi, così cercai di riformulare i miei pensieri al meglio che potevo: -Tra noi...-

-Non potrà mai più funzionare- mi precedette irritandomi alquanto. Odiavo quando m’interrompeva, infatti era una delle rare cose che non sopportavo di lui.

-No!- presi un respiro e continuai -Tra noi c'è una fisica che non ho mai avuto con nessuno, figuriamoci la chimica. Solo con te ho quell'intesa così forte. Il problema è che non riesco a capire come tutto sia scemato proprio quando stavamo meglio.-  e mi congratulavo tra me e me per essere stata chiara per una volta negli ultimi tempi, dovevo solo specificare ciò che realmente era -Io penso che...-

Inaspettatamente le porte si aprirono, in una frazione di secondo mi guardai i piedi imbarazzata e inconsciamente, come se una forza maggiore mi spingesse, uscii fuori dall'ascensore, lasciando così Lorenzo interdetto.

-Tu pensi che cosa?- la sua voce mi riecheggiò dietro, ma io continuavo a camminare verso l’interno dell’ambiente color grigio e blu scuro.

Ancora, di nuovo, un'altra volta. Me lo chiese più e più volte nei corridoi prima di arrivare nella zona pullulante di agenti. Allora, infervorata dallo stress e dall’angoscia, mi girai di scatto un po' indispettita e lo puntai arrabbiata.

-Penso che dobbiamo lavorare. Ora!-

Odioso senso di vomito e dolore al petto

Che stupida che ero. Solo capace a combinare guai.

 

Helda, la receptionist che avevamo assunto praticandole pericolosamente la cancellazione della memoria, era lì che ci fissò apparentemente imbambolata non appena fummo nel suo campo visivo.

Mi dispiaceva per lei al pensiero che il suo cervello ormai riusciva a registrare solo e soltanto dati che noi le inculcavamo. In effetti si trattava di un esperimento umano, una cavia da laboratorio, trovata troppo tardi durante una delle mie prime missioni e, dispiaciuti di come il governo avrebbe trattato il suo corpo dopo averla definitivamente uccisa, decidemmo di integrarla nell’Organizzazione in modo utile. All’inizio, pur trovandosi in condizioni pietose, l’unico intoppo era la reminiscenza dei nostri affari segreti, così inconsciamente li spifferava al resto del mondo una volta ritornata alla vita quotidiana fuori dall’Organizzazione, così fummo costretti a “riprogrammarla”, non avendo più filtri che la rendessero in grado di scindere le varie situazioni, rendendola così una specie di memoria vivente che ci ricordava repentinamente ciò di cui avevamo bisogno.

Ogni tanto mi chiedevo se noi fummo più malvagi del governo stesso a toglierle definitivamente ogni azione cognitiva e a renderla una semplice banca dati. Forse avremmo dovuto essere più magnanimi e toglierle la vita lasciandole ancora la sua dignità. Eppure più mi scervellavo sull’argomento e più mi ripetevo che non eravamo Dio e che non potevamo decidere della vita altrui, ma allo stesso tempo ridevo di questo pensiero, di fatto il nostro lavoro era togliere vite scomode.

-Buongiorno capo. Buongiorno agente A.- ci salutò rigida nel corpo come suo solito, sbattendo ripetutamente e costantemente le ciglia bionde, folte e lunghe.

Ingoiai a vuoto, un po’ per rabbia un po’ perché il senso di ingiustizia si faceva largo tra mille altri miei pensieri, e la salutai più gentilmente possibile. Era una specie di robot ormai, nonostante un tempo fu umana esattamente come noi.

Osservare queste cose senza poter cambiare neanche un dettaglio era uno dei pochissimi aspetti che non mi piacevano del mio mestiere; in realtà non lo sopportavo, ma poi pensavo alle conseguenze e mi ricredevo.

-‘Giorno Helda- rispose calmo e distaccato Lorenzo -Ci ricordi i nostri impegni di oggi, per favore?-

Quella, prima di rispondere con “Certo capo!”, inclinò leggermente la testa di lato scattando, segno che stava elaborando la semplice richiesta di Lorenzo. Attendemmo qualche istante poi parlò meccanicamente come un vero automa.

-Nel giorno odierno il capo e la vice hanno in programma i seguenti impegni: ore 07:30 riunione di assembramento squadra e presentazione missioni, ore 08:00 allenamento in palestra O, ore 13:30 partenza missione e ritorno previsto per le 18:30, ore 22:30 Gran Galà organizzato dalla Signora Anna Augusto. Per ulteriori informazioni rivolgere domande specifiche.-

Finì con lo sbattere di nuovo le palpebre più volte, tirando il viso nel tentativo di assumere un sorriso convincente e riposizionando il capo da quel mezzo centimetro che l’aveva spostato. Qualche volta pensando a lei era inevitabile che mi scendesse una lacrima, ma poi ricordavo che era proprio lei ad avermi detto grazie per avergli dato nuova vita. A quale prezzo, però!

Mentre ricordava a Lorenzo i nostri impegni, io mi ero diretta verso la piccola zona ristoro della base ed avevo afferrato giusto in tempo l’ultimo plum-cake alla pesca, il preferito di Helda, dalle grinfie di Giacomo, il quale mi guardò di tralice ma riconoscendomi un istante dopo mi chiese subito scusa. Quando Helda ebbe finito di declamare l’intero programma mi sorrise amabile e grata vedendosi comparire davanti a sé la colazione con un succo all’ananas; io semplicemente le sorrisi di rimando.

-Grazie Helda, ci aggiorniamo dopo.- dissi prendendo sottobraccio Lorenzo e trascinandolo velocemente in sala riunioni.

-Mi spieghi perché con Helda ti comporti così fredda, come se non avessi tempo da sprecare con una come lei?-

Ci rimasi un po’ male alle sue parole. Dopo anni passati insieme avrebbe dovuto essere colui che mi conosceva meglio di chiunque altro, invece sembrava aver dimenticato tutto di me, come se non gli importasse più niente.

Portai un dito sulle labbra e gli feci cenno di far silenzio, osservando senza essere visti la scena nella quale Helda afferrava furtivamente il dolce e lo mangiava aggraziata e con gran gusto. Ciò mi faceva decisamente stare meglio.

-Alle volte dimentichiamo quanto lei sia più umana di noi. Si nota subito che non vuole perdere la poca dignità che le è rimasta e lasciarla in pace nei pochi momenti d’intimità che ha con se stessa è la cosa migliore che possiamo fare per ringraziarla del sacrificio che ha fatto per noi.-

Rimase in silenzio, fissandomi tra il sorpreso e l’ammirevole. E quando faceva così la nostalgia di riavere quello che avevamo perso prendeva il sopravvento, come il nostro rapporto che andava ben oltre l’intesa reciproca e l’affiatamento invidiato dagli stessi Bonnie e Clyde.

-Ania- sussurrò, mentre gli altri agenti ci passavano accanto fingendo di non osservare scrupolosamente le due figure appoggiate dietro la porta della sala riunioni, così vicine da essere ambigue, che eravamo noi -Non credevo che Helda… e poi tu…- continuò un po’ impressionato dalla situazione ma pur sempre convinto -Mi dispiace di tutto, anche per ieri sera. Potrai mai perdonarmi, anche per ciò che non sono più in grado di comprendere?- chiese poi con un tono che non riuscì a mascherare la sua desolazione nel vedermi ormai lontana da lui.

-Vedremo. Intanto concentriamoci su queste teste quadre da dirigere.- dissi indicando tutti gli agenti riuniti, ora per la maggior parte seduti nella grande e asettica sala bianca.

Col passare del tempo i nostri agenti si erano abituati al nostro girovagare tra loro, per carpire dettagli che ci sarebbero potuti essere d’aiuto in varie situazioni. Per comunicare i dettagli delle missioni quotidiane e schemi annessi sfruttavamo la parete scura verso cui le sedie erano posizionate potendo permetterci massima libertà di movimento, difficile in caso di presenza di mobilio ingombrante.

Tutti i nostri agenti si erano accomodati sulle sedie, anche Ettore lo fece ed io mi posizionai dietro le sue spalle per poterlo osservare meglio. Dalla folta chioma riccia e scura notavo a malapena il naso, ma mi erano ben visibili le mani grandi e forti intrecciate sulle gambe divaricate, segno di spavalderia e agio nel trovarsi in un posto simile o, contrariamente a quel che si poteva pensare, tentava semplicemente di dimostrarsi sicuro di sé.

Solo un gruppo di cinque sconosciuti era in piedi, contro la parete opposta alla porta. Indossavano abiti scuri corazzati, come se fossero perennemente pronti alla battaglia in una guerra di trincea, bastava semplicemente che qualcuno gliel’ordinasse. Tutti alti, tutti muscolosi, tutti uomini… tutti con l’aria stupida di chi esegue ordini come automi.

Lorenzo, dopo un mio cenno di consenso, poggiò la mano sulla parete scura in cui riuscivamo tranquillamente a rifletterci, anche quando i dati della missione cominciarono ad apparire sulla superfice come ombre di schemi e diagrammi luminosi, e cominciò a parlare.

-La missione di oggi è strettamente collegata a quella compiuta nella tarda notte di ieri dall’agente A e dal nostro nuovo acquisto, Ettore Mancini, la quale prevedeva la commissione dell’assassinio di Giovanni Berletta. Come voi tutti sapete quest’ultimo è il cognato del capo al vertice dell’Organizzazione di Soleil, l’unica ad essere stata capace della scoperta dell’Organizzazione, cercando anche di sabotarla.-

Mentre Lorenzo parlava, io guardavo verso il basso, sullo schienale dove ero poggiata con le braccia, su Ettore che si volse a guardarmi incantato non appena si menzionò la missione compiuta insieme solo poche ore prima. Aveva l’aria di uno che si era preso una sbandata ossessiva per un oggetto del desiderio che mai gli sarebbe appartenuto. Era un sentimento non corrisposto.

Ridestandomi dalla sua presa magnetica e distogliendo lo sguardo dai suoi occhi crudelmente verde prato, riconobbi l’ubriacone ucciso la notte prima che non era affatto un piccolo bersaglio bensì era un piccolo pezzo di un ben più grande puzzle. Il problema, ora, era far combaciare lentamente ogni pezzo senza che nessuno di essi avanzasse pericolosamente verso il giocatore. Fissavo l’immagine del poco sangue sgorgante dal cadavere riversa sulla parete difronte a me, pensando a come ce la saremmo cavata senza troppi intoppi anche questa volta e scioccamente sperando in un’operazione veloce.

-Uccidendo lui avete allarmato i capi dell’OS, in quanto cognato del vertice.- s’intromise uno dei cinque uomini appoggiati alla parete, non tanto preoccupato quanto appagato di un nostro ipotetico passo falso.

-Ed il nostro compito è quello di sbarazzarcene, giusto?- aggiunse improvvisamente Ettore, la cui presenza si era già eclissata alla mia visuale anche se ero posizionata proprio sopra di lui. Fui in dubbio sul suo intervento poiché non seppi mai se lo fece per essere notato o per smorzare quell’aria agonistica, che già era venuta a crearsi con la battuta ispida di poco prima da parte dei nuovi ospiti.

Tutti cominciarono a guardarli di tralice. Sia Ettore che i cinque non erano visti di buon occhio in assenza di dati sul loro conto, se cominciavano con affermazioni banali che conoscevamo già, oltre ad assumere un tono altezzoso e pretenzioso, non avrebbero fatto poi molta strada. Di fatti un brusio di voci indispettite si alzò nell’aria.

-Dimenticavo: per questa missione il governo ha ritenuto opportuno fornirci una squadra tattica pensando che avessimo bisogno di aiuto.- proruppe Lorenzo, senza alterarsi a causa della loro superbia, indicando col capo gli unici cinque uomini poggiati alla parete, i quali ci osservavano sprezzanti.

Ridicolo

I nostri agenti, abituati ad essere efficienti in tutto sebbene fossero in numero esiguo, li guardarono di sottecchi con un’aria altezzosa, la quale personalmente non mi aggradava ma feci finta di non vedere, e un versaccio all’unisono si fece largo tra il silenzio generale. Guardai in cagnesco nella parete scura, difronte ai miei colleghi e non appena mi videro s’irrigidirono stizziti sulle sedie e tacquero. Sapevano bene che quegli atteggiamenti non erano concessi nell’Organizzazione e se volevano schernire i nuovi arrivati dovevano batterli sul campo di battaglia, non con versacci e occhiatacce. Dovevano dimostrare di essere migliori anche nel comportamento.

In ogni caso, chi si credevano di essere? Mi irritavano. Erano nostri ospiti e lì nessuna giurisdizione era valida se non la nostra. Casa nostra, regole nostre.

-Siete nostri ospiti, comportatevi da tali.- li rimbeccai acida, dopo aver messo in riga i miei agenti.

Vidi i più ardui da tenere a bada tra i nostri agenti molto alteri, pieni di collera riversa negli occhi, ma fortunatamente si ricomposero sapendo che non era il miglior modo per reagire. Ettore in tutto ciò mi guardava stranito e confuso; simile al suo atteggiamento era quello dei cinque tizi irriverenti alla mia destra, in più mal celavano la sorpresa che avevano difronte al potere di una donna in un luogo simile. Mi voltai poi verso Lorenzo, il quale mi fece un cenno del capo e ricominciò a parlare della missione, comprendendo il mio sguardo. Dopo un po’ l’attenzione su di me scemò e si focalizzò su Lorenzo.

Non mi piaceva quella situazione: cinque tizi sconosciuti da tenere a bada e un uomo morboso che, se ne avesse avuto la possibilità, mi avrebbe spogliata lì davanti a tutti. Come uscirne fuori senza che nessuno se ne accorgesse?

Cercavo e ricercavo una soluzione nella mia mente non poi così tanto lucida, tenendo il capo chino con lo sguardo rivolto a terra, tra lo schienale della sedia e le mie Superga, senza ascoltare le direttive del capo. Ad un tratto però il mio nome pronunciato insieme a quello di Ettore mi fece destare dalla trans in cui ero precipitata ed inesorabilmente sopita.

Lorenzo stava formando le squadre per la missione odierna: -I cinque agenti mandati dal governo saranno la squadra tre. Gli agenti Mena, Giagià, Peppe e CK saranno la due. La new entry Ettore, l’agente A e le agenti Silen* saranno la uno. Ogni squadra avrà un obbiettivo a sé stante, ma sarà sotto gli ordini diretti dell’agente A.-

Che diamine stava combinando Lorenzo? Non gli bastava l’appuntamento combinato con Ettore la sera prima e l’avermi umiliata rifilandomi quel figo opprimente? Ora doveva pure aggravare le cose mettendomi in squadra con lui! Eppure pochi minuti prima sembrava aver capito il suo errore e ciò che non andava nel nostro rapporto sentimentale come in quello lavorativo.

Lo guardai in cagnesco e lui capì benissimo che gliel’avrei fatta pagare, anche questa.

-E per rispondere alla domanda precedente della new entry. Non ce ne sbarazzeremo affatto. Abbiamo bisogno che siano tutti vivi.-

Era ufficiale: Lorenzo aveva perso il senno.

Aveva lasciato perplessi tutti i presenti, infatti di solito il comando era di sbarazzarsi di qualunque bersaglio che si frapponesse tra noi e l’ottima riuscita della missione. Ma prima che qualcuno potesse ribattere le sue decisioni spalancai un’anta della porta dell’asettica sala riunioni con un gesto fluido del polso, richiamando tutti all’attenzione.

-La partenza è stabilita per le 13:30, fino ad allora siete liberi. Chi invece vuole può allenarsi con noi nella palestra O.- dissi secca e decisa facendo alzare i lati B dalle sedie per sloggiare dalla sala.

Sulla porta sostavamo solo Lorenzo ed io, aspettando l’uscita di tutti per chiudere lo schermo-parete, quando il gruppo mandato dal governo ci oltrepassò e sentimmo una chiara frase di disprezzo.

Scatto nervoso, occhi pieni di sangue

In una frazione di secondo non ci vidi più, tutta la rabbia repressa scaturita da Ettore, Lorenzo e la strafottenza di quel gruppo si riversò sul malcapitato che pronunciò quell’ispida frase. Lo afferrai dal collo e lo trascinai fuori dalla sala sotto gli occhi di tutti, sembrava un fuscello tra le mie mani tanto che lo sentivo leggero, e lo scagliai contro il tavolo dove ancora qualche brioche sopravvissuta cadde a terra. La sua fronte andò a cozzare proprio contro lo spigolo in vetro, poi lo raggiunsi con uno scatto felino e lo sollevai da terra tirandolo per il colletto della tuta mimetica. Era ancora frastornato dalla botta.

La spavalderia di poco prima era completamente scomparsa, al suo posto era apparsa paura spropositata riflessa nei miei occhi cangianti e atroci. Il resto del gruppo degli sconosciuti era bloccato da chi mi conosceva bene, a tal punto da sapere che venirmi incontro non sarebbe stata una buona idea.

Sapevo quello che ero e non me ne vergognavo, anzi lo sfruttavo a mio vantaggio.

Non seppi come, ma l’uomo riuscì ad afferrarmi le braccia e a tirarmi verso il basso in un disperato tentativo di scambiare le parti e sovrastarmi. Sciocco da parte sua. Voltai le braccia all’infuori, con una semplice mossa girata poi verso l’interno avevo già afferrato il suo costato sinistro e la sua gola dal lato destro. Mi facevano alterare i tipi come lui. Immobilizzai il suo corpo contro la parete più vicina e lo strattonai verso l’alto. Sembrava gracile tra le mie mani. Stringere sempre di più la presa sulla sua carne, sotto gli occhi straniti dei presenti, e le sue urla che si propagavano per tutta l’aria mi inebriavano di un senso di potere misto ad una gracile e fin troppo facile vittoria che a malapena mi appagava.

Vedevo le vene pulsanti del suo collo in cerca d’ossigeno, la testa convulsa riversa all’indietro, la presa flebile ed esasperata delle sue mani sulle mie braccia, i piedi debolmente scalcianti nell’aria e sentivo l’adrenalina che saliva veloce dal basso ventre fino su al cervello insieme all’ossigeno. L’insieme di tutte queste sensazioni era così necessario… soddisfavano in me il disperato sentimento del bisogno, che in realtà era diventata una vera e propria urgenza.

Improvvisamente però cominciai a percepire i calci, gli spintoni e gli affanni dei suoi compagni, che cercavano di liberarsi dai miei colleghi per poterlo aiutare. Sì, dovevo riconoscerlo: il loro spirito di fratellanza era ammirevole.

Mi ripresi, come se fossi ricaduta in un’altra trans, ma diversa da quella precedente, e mi fermai prima di superare il limite oltre cui non mi sarei più arrestata. Respirai a pieni polmoni e lentamente, tentando di non recargli ulteriore dolore, lo depositai a terra, porgendogli poi una bottiglia d’acqua afferrata dal tavolo.

Mi avvicinai a lui e sibilai a denti stretti: -Ringrazia i tuoi compagni che mi hanno fermata, ora non sentiresti l’acqua che scorre nel tuo esofago.-

Voltandomi vidi gli occhi allibiti dei suoi compagni e i miei colleghi che migravano tranquilli verso le loro mansioni, ormai non più preoccupati di dover intervenire. Ettore invece, immobile nella sua posizione, possedeva uno sguardo indecifrabile, stranito e terrificato allo stesso tempo, ma giurai di aver intravisto una scintilla di piacere misto ad approvazione.

I quattro rimasti del governo si avvicinarono ed uno di loro tentò di aggredirmi. Io mi scansai indietro, evitando di far nascere una zuffa inutile, mentre Ettore e Lorenzo afferravano il tizio dalle spalle trattenendolo.

-Chi ti credi di essere?- gridò un altro.

Sorridemmo, Lorenzo ed io.

-Ti maciullerò sotto i mei colpi, stronza bastarda!- un altro ancora.

Scoppiai a ridere nevroticamente, non per ironia o divertimento, ma per frenare la mia voglia di spaccargli le ossa. L’ira cresceva in me. Bastarda? Nessuno, a parte pochi, sapevano la realtà. Chi ero? Chi ero io? Io ero il vero capo. Io ero sopra il governo in quel posto e mi faceva un baffo la giurisdizione di esso. Gli ero così preziosa che aveva mandato cinque dei suoi migliori uomini ad aiutarci. Avrei potuto fare qualunque cosa, anche sbatterli tutti fuori, e il governo non avrebbe fiatato. A pensarci convenni che l’idea non mi dispiacque, ma poi incrociai lo sguardo quasi disperato di Lorenzo contro il mio, beffardo e vendicativo, il quale mi dissuadeva dal farlo. Era riuscito di nuovo a capirmi e solo e soltanto per questo non lo feci. Avrebbero dovuto ringraziarlo.

-Chi sono...- dissi flebile ma con tono fermo, voltandomi verso la mia vittima di poco prima che si teneva a malapena in piedi e poi verso il gruppo -Helda, cancella dal database quest’individuo e rispediscilo a casa.-

Helda obbedì all’istante, infatti vidi i suoi occhi cambiare colore e scrive a mano, con una calligrafia da stampa, il documento che avrebbe rinviato al mittente il mio debole avversario.

A quell’ordine il gruppo dei cinque impallidì e con loro anche Ettore. Cercarono comunque di contrastarmi ma li fermai sul nascere sorridendo: -Oh, il vostro amico è stato fortunatissimo. Preoccupatevi per voi, mia carne da macello!-

Un sorriso sghembo a trentadue denti aleggiava sul mio viso, qualche ciocca mi era caduta davanti ondeggiando cupa e il mio passo era lento e inesorabile. Smarrimento, shock, paura, si leggeva sui loro volti mentre io uscivo da quel luogo per loro nefando.

Sospirai e regolai il respiro accasciandomi contro un albero del giardino, lontano dall’entrata della base. Tirai un pugno alla corteccia e mi morsi un labbro fino a farlo sanguinare all’interno. Mi odiavo per l’alter-ego che avevo sviluppato in quegli anni. Non ero io, ma ero me e mi servivo. Ormai esistevano più me, immagini distorte dell’io che non si faceva quasi più vedere. Se era fortunato, in qualche rara occasione, solo Lorenzo riusciva a vedere qualche frammento di quella che ero un tempo. In ogni caso mi ero arresa a me stessa.

Nascosta alla vista degli altri, tiravo ciuffetti d’erba verde mal capitati direttamente dal terreno avvolgendoli intorno alle dita e inalavo la fresca aria intrisa della tarda primavera alle porte dell’estate. Io, una persona ormai psichicamente andata a farsi benedire, chiusa e taciturna un tempo, aggressiva e inconsciamente irrazionale adesso, cercava di trovare un equilibrio ormai perso da tempo immemore.

Alla fine mi addormentai appoggiata al tronco dell’albero, rannicchiata su me stessa, con le gambe tirate a me. Mi svegliai solo una ventina di minuti dopo, a giudicare dall’ombra, quando qualcuno mi accarezzò i capelli. Aprii gli occhi e inspiegabilmente sperai che fosse Lorenzo.

Era Ettore accovacciato accanto a me con l’elastico in mano ed i miei capelli sciolti tra le dita.

-Ce li avevi tutti arruffati, volevo rifarti la coda ma…- si scusò vedendo il mio sguardo in procinto di accusarlo.

-Grazie- dissi cercando di essere gentile e pacata, riuscendoci e sfilando l’elastico dalle sue dita per ricostituire una coda più presentabile possibile.

Mi sistemai a sedere e invitai lui a fare altrettanto. Si sedette di fronte a me con le gambe incrociate, fissandomi con quei suoi occhi così simili all’erba che tenevo ancora tra le dita.

-Certo che sei strana forte tu!- dichiarò spiazzandomi -All’inizio mi sembravi passionale ma pur sempre dolce, ora sei aggressiva e impetuosa, come se il mondo fosse tuo e te lo vorresti mangiare.-

Sorrisi amaramente, ci aveva azzeccato in pieno. Non dissi nulla, alzai solo gli occhi e li posai sui suoi, incatenandoli.

-Mi piacerebbe sapere di più della donna di cui mi sono innamorato.-

A quelle ultime parole un verso di disapprovazione e incredulità mi sfuggì dalle labbra, appoggiandomi indifferente all’albero.

-Credi davvero che sia amore?- chiesi sprezzante guardando verso l’alto. Lui mi stava già rispondendo ma non lo feci neanche iniziare -Credi davvero che il tuo sia sentimento e non voglia di scoparmi?- mi avvicinai a lui spavalda -Credi davvero che non sia quell’irrefrenabile desiderio di mettermi le mani addosso e vagare famelico sul mio corpo, godendo come un matto di possedermi?- dissi così vicina che i nostri nasi si sfioravano -Credi davvero che io possa accon…-

-Sì, taci!-

Fu l’unica cosa che sentii, prima che lui si avventasse su di me bramando le mie labbra, smanioso della mia lingua, avido della mia pelle. Ero a terra con il suo corpo che premeva pesante su di me, ero preda delle sue mani che lambivano i miei fianchi e tenevano strette le mie mani sopra la mia testa, ero pressata dalla sua smania di voler sempre di più. Ero finita.

Per quanto piacevole potesse essere, non era di mio gradimento. Gli tirai una ginocchiata lì dove non batte il sole, e me lo scrollai di dosso rotolando su di lui.

-Provaci di nuovo e te ne pentirai!- sibilai minacciosa portandomi al suo orecchio. Mio malgrado, non successe ciò che avevo previsto: mi strinse tra le sue braccia e cambiando le parti mi sovrastò di nuovo, premendo il suo corpo robusto contro il mio esile seppur atletico.

Si abbassò verso di me, come poco prima feci io, e mi sussurrò all’orecchio: -Ora che ti ho trovata non mi sfuggirai. Ci vorrà tempo, lo so, ma sarai mia.-

Si alzò ed un sorriso macabro aleggiò sul suo viso beffardo. Rabbrividii poi al contatto delle sue labbra contro le mie. Non mi mossi, anzi mi pietrificai, ero in balia di una paura folle e irrazionale scaturita da qualcosa di ignoto in lui.

Cominciai ad averne terrore ed il mio cuore prese ad accelerare. Non riuscivo più a controllarmi, tanto meno stabilizzarmi. I battiti rallentarono solo quando Ettore si staccò da me e si alzò volatilizzandosi, forse perché voleva lasciarmi un unico assaggio o forse perché si indispettì vedendo che non reagivo.

Mi ripresi dalla catalessi, in cui ero caduta da dieci minuti a quella parte, grazie alle vigorose leccate del mio cagnone, che mi accompagnò in casa e si tranquillizzò solo quando fummo arrivati in veranda.

 

Inspirai non appena mi sedetti sul dondolo della veranda situato al terzo piano. Star si accoccolò contro il muretto difronte la vetrata, vigile che qualcuno non mi disturbasse; ogni tanto lo beccavo a lanciarmi qualche occhiata per assicurarsi del mio stato d’animo. Lui era il primo ad accorgersi se qualcosa nella villa non andava ed il primo ad accorre per avvisarmi, o come nel caso di quel giorno a salvaguardarmi.

Davanti a me, un’immensa distesa di tonalità diverse di verde si stagliavano per chilometri alternati dal marroncino caratteristico delle tegole di qualche tetto o il bianco e il rosa dei fiori che sbocciavano sugli alberi. A destra il ruscello appena fuori la mia proprietà diffondeva la sua tipica foschia, celante una delle zone più belle del paese, e la brezza che arrivava dal mare dietro le mie spalle faceva danzare le foglie verdi e rigorose sui rami.

Abbassai lo sguardo e capii quanto piccoli potevamo essere in un mondo che si stagliava per miglia e anni luce. In sostanza non eravamo niente, solo un granello di polvere portato alla deriva dagli eventi che l’hanno influenzato. Eppure ero convinta che, a volte, poteva essere in grado di scegliere la rotta da seguire.

La situazione era delle più contorte in cui potessi trovarmi. Io, un’assassina da ormai più di cinque anni, quasi fidanzata con il mio migliore amico che mi salvò dalle mie stesse mani crudeli, lo allontanavo da me. Al contempo accettavo senza ritegno le avances di quel tizio sconosciuto, mandato dall’uomo che fino ad allora avevo tentato di amare fino a distruggermi interiormente e che in quel momento rivedevo nello sguardo fisso e indagatore del mio cane.

La vita è strana, ma non imprevedibile, siamo noi ad essere così sciocchi da non comprendere ciò che ci circonda. Lei è un susseguirsi perfetto di cause ed effetti secondo sequenze che appaiono casuali ma che in realtà sono calcolate al millesimo. Spetta a noi decidere a quale sequenza affidarci.

Diedi un colpetto sulla seduta del dondolo puntandomi con i piedi a terra e feci salire Star accanto a me, che coccolone com’era si trastullava tra i miei grattini. E scioccamente, distratta dalle sue zampe che cercavano di afferrare il mio braccio, non mi accorsi della figura che a passo felpato si appoggiò con la schiena dove prima stava Star. Volsi il capo di scatto e lo trovai seduto, o meglio accasciato a terra, devastato come se un tir l’avesse investito, pieno di preoccupazioni di cui sapevamo entrambi essere ardue da scacciare.

-Cosa è successo?- eruppi in tono anonimo lasciando Star sul dondolo e sedendomi accanto a Lorenzo, che istintivamente mosso dall’abitudine intrecciò le sue dita con le mie. Io le ritirai in fretta sentendomi inspiegabilmente imbarazzata.

-Scusa-

Era un sussulto pieno di tristezza, imbarazzo, disagio, era un sussulto pieno di consapevolezza, rabbia e tormento. Era irrequieto e lo sentivo.

-Nulla…- risposi nel tenue imbarazzo che non avrei dovuto avere, ma che fece capolino in quell’infinita gamma di sentimenti che ci attanagliavano tutti insieme.

Non lo guardai, lo sentii prendere un respiro però, poi finalmente parlò: -Non sono venuto a parlare di noi, se quel noi ancora esiste... Non voglio neanche metterci in secondo piano, ma ci sono eventi che mi costringono a farlo.-

Annuii, perché era giusto: avevamo scelto quella strada e dovevamo affrontarne anche le conseguenze.

-C’è una talpa tra le nostre file e non riesco a individuarla.- sbiancai -Lo so che controlliamo scrupolosamente ogni agente, eppure qualcuno c’è. Ho pensato ai nuovi arrivati, ma non potrebbero aver divulgato notizie, non ancora almeno. Inoltre non sanno nulla sul nostro database inesistente. Quindi non so chi possa essere.-

-Non ti saprei dire neanch’io.- nello stupore della scoperta cercai di stare calma e trovare una soluzione -Chiunque sa che cercare di raggirarci non sarebbe una scelta saggia per se stesso. Sono d’accordo con te: non può essere uno dei nostri. Invece i nuovi…-

Mi voltai a scambiare un’occhiata d’intesa con lui.

-Credi che Ettore… Come?-

Fronte corrucciata, occhi ridotti a fessure lasciando a vista solo il nero della pupilla e il castano intenso dell’iride, espressione accigliata, labbra mosse in un sorriso d’intesa. Come resistere a tutto ciò?

Irrazionale la voglia di assaggiarlo ancora e ancora e irrequieto il sentimento contrastante in me

Ma ci riuscii. Mi trattenni.

-Alleniamoci insieme a loro, magari scopriamo qualcosa.- proposi machiavellica.

-Bene.- si mise davanti a me e mi tirò su afferrandomi i polsi -Sfidiamoli!-

Le mie braccia cozzarono contro il suo torace e il mio naso toccò il suo mento. Feci l’errore di alzare lo sguardo e perdermi nelle scure pozzanghere simili a quelle fangose e misteriose che si creano durante la pioggia. Tanto tranquille, quanto imprevedibili per la loro profondità. Così si avvicinò lentamente alle mie labbra, tenendomi per i polsi.

-No.- fui secca voltano di scatto il capo. Lui sbiancò, ma non mollò la presa.

-Non posso…- abbassai lo sguardo colpevole di essere una traditrice ed anche se non lo ero mi sentivo comunque tale -…io… Ettore mi ha baciata, di nuovo.- buttai fuori in un sussulto.

La stretta aumentò quasi a farmi male ed i suoi occhi si riempirono di amarezza e rabbia. Come se gli importasse davvero di me… Non lo capivo più, non sapevo più cosa pensare. Un momento agiva come se volesse sbarazzarsi di me dandomi ad un altro, il momento dopo mi reclamava sua come se fossi la cosa che più bramava.

-Mi dispiace…- biascicai sentendomi a disagio.

-È mia la colpa.- ammise finalmente scioccandomi, ma in un secondo la sua espressione cambiò e divenne glacialmente sorridente -Non dobbiamo sfidarli?-

Io annui di rimando come se fossi una bambola manovrata da un burattinaio crudele.

 

Non andammo in palestra come nostro solito perché Lorenzo voleva liberarsi dei sassolini nelle scarpe che lo attanagliavano, così ci dirigemmo in un punto lontano del bosco che costeggiava il paese. Era adirato con Lorenzo per avermi baciato, con me per averlo tradito, con se stesso per avermi tradito, con il mondo intero per la situazione in cui eravamo; ed anche se nascondeva bene i suoi sentimenti non poteva sfuggire alla mia percezione, lo conoscevo da sempre.

Aspettammo i quattro tizi del governo ed Ettore che arrivarono alle 11:30 circa, tutti spavaldi e sicuri di sé, con un passo tanto altezzoso quanto ridicolo. Io sogghignavo dentro pensando alla loro pena.

-La palestra non era più adatta?- chiese altezzoso Red 3, il terzo tizio estraneo. Mi ero decisa a chiamarli tutti Red con un numero identificativo, non avrebbe avuto senso ricordarsi i veri nomi poiché di lì a poco sarebbero scomparsi in missione. Forse potevo sembrare troppo cinica, fredda e che sottovalutavo le situazioni, ma fino ad allora non mi ero mai sbagliata.

-Forse, ma vi sto sfidando. E umiliarvi davanti ai miei agenti non sarebbe caritatevole.-

Lorenzo finse un sorriso generoso con il solo scopo di farli adirare: questa era una delle tecniche che preferiva per rendere l’avversario cieco. Io preferivo ammaliarli.

Ettore stava in silenzio appoggiato ad un tronco, osservando alienato la scena che gli si presentava davanti. Un po’ vile da parte sua, ma era ancora una persona dai caratteri troppo enigmatici e non riuscivo a cogliere la sua vera essenza. Una cosa era certa: come me, i suoi cambiamenti improvvisi lo rendevano imprevedibile persino al mio sesto senso.

-Tzè. Convinto- sputò acido e superbo Red 2, ridestando la mia attenzione ormai persa nella figura di Ettore.

-Avete paura?- li sfidai, sapendo che stava per arrivare una scontata e arrogante risposta da parte loro.

-Due contro quattro? Siete in svantaggio!- dichiarò Red 1 e non mi aspettavo nulla di diverso.

-Illusi!- dissi di getto senza pensare -Saremo quattro contro uno.- conclusi destando stupore negli avversari.

-Stai scherzando?- chiese serio Red 4.

Mimai un “no” col capo sorridendo mentre Lorenzo si era già posto tra me e loro, impedendomi lo scontro e amareggiandomi di non poter essere io il loro avversario, senza permettermi di replicare.

-Non vale però!- mi lagnai come una bambina incrociando le braccia al petto -Mi togli tutto il divertimento!-

Si voltò con quegli occhi così profondi e dolcemente scuri che perdersi era un piacere, facendomi un occhiolino degno del più grande ammaliatore al mondo. Tacqui, sorrisi e indietreggiai chinando il capo a mo’ di dir sì.

-E per me non c’è divertimento?- proruppe Ettore che fino ad allora se n’era stato in disparte.

Avrebbe fatto meglio a stare zitto e non creare casini inutili irritando Lorenzo, che lo avrebbe massacrato subito dopo aver umiliato quei quattro.

-Ettore, taci e vieni qua!- gli ordinai facendolo zittire, ma molto probabilmente lo prese come un invito allettante perché sembrò quasi saltellare di gioia mentre si avvicinava a  me.

Poi mi voltai verso il mio superiore e facendogli un cenno del capo a rassicurarlo lui si mise in guardia. Allontanai la mia attenzione dal gruppo che aveva già cominciato a combattere per voltarmi verso Ettore e ammonirlo, lui non prese neanche questo per il verso giusto anzi, lo interpretò come se io l’avessi voluto stuzzicare. Scossi la testa rassegnata e disdegnata dicendogli di seguirmi se ci teneva alla sua incolumità. Se Lorenzo avesse deciso di fare sul serio restare a terra non sarebbe stato sicuro.

Scattai indietro e mi aggrappai al ramo più basso dell’ulivo secolare sotto cui sostavamo, flettei le braccia, mi tirai su e risalii restando in piedi sul legno resistente. Ma giudicai la posizione ancora troppo pericolosa, quindi salii ancora di un paio di rami aggrappandomi questa volta con i piedi e roteando intorno al legno per velocizzarne il passaggio tra uno e l’altro.

Qui avevo una buona visuale e al contempo ero parzialmente nascosta dalle foglie dell’albero per non distrarre quelli che stavano sotto, ma abbassando lo sguardo vidi Ettore provare a salire e scivolare sul tronco più e più volte provocando in me una risata continua. Sembrava un carlino goffo che tentava di appropriarsi della propria cena su un tavolo troppo in alto per lui. Ridicolo. Ed io non riuscivo a smettere di sghignazzare.

-Dammi una mano e non ridere delle mie sventure.- mi ammonì irritato e acido, innervosendomi.

-No!-

-Come sarebbe a dire no?- domandò scioccato e adirato.

-No!-

Stranamente si rassegnò e riuscendo a sedersi sul ramo più basso con estrema fatica, dopo quattro tentativi falliti, quasi strisciando sulla corteccia, si concentrò sullo scontro ormai iniziato con un paio di atterramenti dei Red e una ginocchiata ad un terzo da parte di Lorenzo.

Era indubbiamente veloce e agile, forte e preciso, fermo e scaltro nei suoi movimenti; anche la tattica non era niente male: schivava finché non vedeva il suo avversario essere affaticato per assestargli un colpo secco che lo mandava al tappeto. Era uno spettacolo elegante e travolgente, nello stesso momento sottile e fluido, dal quale non riuscivo a distaccare gli occhi.

Troppo lontana per godermi l’azione decisi di scendere di un paio di rami, ancora molto in alto rispetto ad Ettore che se ne stava a gambe incrociate assorto dalle diverse tecniche di combattimento, e mi resi conto di avere una visuale migliore su entrambi in quella posizione.

Distratta dalla figura impassibile e interessata di Ettore, non notai che Lorenzo si trovò con le spalle ad un tronco d’albero circondato dai tre Red intenti a destreggiarsi con coltelli lunghi quanto un avambraccio. Il cuore perse battiti sapendolo alle strette e fu un istante a dividermi dallo stato di fibrillazione e di preoccupazione a quello del sangue freddo e dell’azione.

Mi alzai in piedi e corsi lungo tutto il prolungamento dell’arbusto come solo una vera scimmietta poteva fare, mi aggrappai ad esso e mi calai roteandoci intorno per scendere velocemente sul ramo successivo, dal quale mi diedi una spinta e con un mezzo salto all’indietro mi ritrovai sull’altro albero. Atterrai sul legno silenziosamente, ma ciò non sfuggì all’abilità osservativa di Ettore che mi guardava esterrefatto, evidentemente mi aveva seguito con gli occhi per tutto il percorso. Improvvisamente però, il suo sguardo mutò e mi fece segno di guardare sopra di me, dove era il quarto Red sfuggito prima alla mia vista. Voltandomi verso Lorenzo rividi infatti solo tre uomini che lo braccavano e lui che si tamponava una larga ferita sul costato destro.

Imprecai. Dovevo sbrigarmi e non badare al mio inseguitore, così feci cenno ad Ettore di bloccarlo, ma lui mi sorrise beffardo e mi rispose di no con il capo. Che bastardo! Voleva farmela pagare per poco prima. Dovevo sbrigarmela da sola, come sempre del resto.

Calcolai velocemente la distanza tra me ed Lorenzo, tre alberi a distanziarci in senso circolare, lui era poggiato alla quercia che intravedevo subito dopo, quindi quindici metri e quaranta centimetri netti. Afferrai immediatamente un ramo sopra la mia testa e cominciai ad oscillare, senza soffermarmi a pensare mi lanciai verso l’albero successivo e così via fino al terzo, creando delle spirali statiche nell’aria tra un arbusto e l’altro. Purtroppo l’ultimo ulivo e la quercia distanziavano troppo per rifare il gioco circense fatto fino ad allora, quindi risalii l’altezza dell’albero facendo leva sulle braccia, premendo sulle superfici dei rami vicini tra loro. Arrivata così ad un’altezza considerevole presi slancio e mi catapultai a qualche metro più in giù sulla quercia difronte.

Mi aggrappai con le gambe al ramo più basso e mi calai a testa in giù, sguainando un paio di lame corte che portavo spesso e volentieri con me.

-Abbassate le armi se ci tenete a vedere un altro giorno.- li minacciai fredda toccando le giugulari di un paio di loro con le punte delle lame.

Solo una volta sentito l’odore deciso e travolgente di Lorenzo, la mia circolazione cardiovascolare decise di riprendere il ritmo normale. Mi inebriai del suo profumo, della sua pelle, non appena la mia guancia cozzò delicatamente contro la sua mandibola e lui si portò tutti i miei capelli dietro la spalla su cui avevo poggiato la testa.

-Potevo farcela benissimo da solo.- mi disse tra il grato e l’irritato, con un tono che mi risultò ridicolo per la situazione in cui era. Nel frattempo quei tre ridevano come sciacalli credendo davvero di essere superiori e blaterando battute ridicole.

-Non credevo foste così stupidi- dissi assottigliando gli occhi e premeditando la mossa successiva.

In una frazione di secondo, quasi non me ne accorsi, Lorenzo mi sfilò le lame dalle mani tenendole ben salde. Io dandomi la spinta contro il tronco saltai oltre il gruppo e afferrando il terzo, che non era sotto la mira di Lorenzo, il quale aveva preso il mio posto, lo trascinai dal collo per qualche metro all’indietro.

-Invece voi non siete svegli per niente- mi disse l’uomo digrignando i denti, tentando di liberarsi dalla mia presa. Ma ogni suo gesto fu inutile, persino dimenarsi come uno scalmanato risultò fatale per la posizione in cui era. Infatti più si muoveva più io stringevo la presa sul suo collo.

Ormai l’avrebbero dovuto capire che la velocità era mia amica e che nessuno poteva permettersi di minacciare i membri dell’Organizzazione. E quando l’ira mi pervase fu come vedere qualcun altro muoversi al mio posto ed eseguire con fredda calcolazione tutti movimenti. Misi tre dita su un punto ben preciso della gola e premetti forte sui nervi finché non vidi l’uomo svenuto ed esanime a terra, ma prima che potesse davvero morire soffocato tra i rivoli di sangue e io non potessi più rinsavire dalla mia follia rifeci la procedura sentendo nuovamente l’aria esalare dalla sua gola.

Mi alzai soddisfatta, ma affamata e vuota, non notando colui che mi atterrò subito dopo con un colpo alle spalle: il quarto Red. L’uomo mi fu subito addosso e tendendo il collo indietro vidi Lorenzo intento nel difendersi da due Red rimanenti. Mi ero sbagliata a sottovalutarli così tanto, in realtà erano alquanto fastidiosi, davvero degli ossi duri con una forza fisica sovraumana.

Sentii l’oppressione del suo corpo su di me e d’impulso sfoderai un’altra lama dalla fibbia legata alla caviglia per trafiggerlo nel fianco, ma fu sbalzato via da Ettore prima che potessi raggiungere la carne con il metallo freddo. Gli occhi del Red si sgranarono quando il suo stesso colletto lo soffocò, poiché Ettore lo tirava brutalmente con una mano e con una gamba teneva il suo costato ben fermo a terra.

Gioii nel vederlo pressappoco esanime quando invece poco prima io stavo per soccombergli, ma ricordai a me stessa che ci servivano. Un pugno ben assestato sul capo sarebbe bastato a stenderlo.

-Non ti immaginavo così rude- mi schernì veramente sconcertato il mio soccorritore.

Non ero in vena di spiegargli niente anche perché non avevo alcun dovere verso lui, se non ricambiargli il favore in missione. Così mi girai verso Lorenzo volendo vedere la situazione, ma le mie preoccupazioni erano infondate: se la stava cavando alla grande. Stava per mettere al tappeto Red 2 dopo avere tramortito Red 3. Improvvisamente però due mani si posizionarono sui miei occhi e mi costrinsero ad accucciarmi al petto di chi mi stava trascinando lontano da quella piccola piazzetta circolare d’alberi.

Era impossibile non riconoscere Ettore e la sua meschinità mi irritava alquanto.

-Che fai?- farfugliai soffocata dalla sua mano.

-Anch’io voglio essere sfidato, ma solo da te- confessò trascinandomi ancora per qualche metro, sempre più lontano da Lorenzo.

-Com’è che tutti hanno una strana tendenza a farsi ammazzare da me?- sbottai una volta liberatami dalle sue mani e la cosa risultò a quanto strana. In effetti era dalla sera precedente che mi comportavo in modo strano, quella che agiva timida, impacciata e senza un filo di rigore logico-morale non ero io. Che diamine mi stava accadendo? Purtroppo mi accorsi solo allora che qualcosa in me non andava quando vi era la sua presenza, mi comportavo come una ragazzina alle prime armi e la cosa più ridicola era che neanche quando fui iniziata ad essere un agente mi comportavo in quella maniera. Mi si era fuso il cervello o cosa? Dovevo riprendere possesso di me, del mio corpo e delle mie azioni. Volevo ritornare in me.

-No semplicemente anch’io mi merito una sfida- avanzò malizioso avvicinandosi sempre più.

Sospirai e tesi i muscoli abbassando lo sguardo, per evitare il pericolo di rompergli qualche osso, soffermandomi sul suo brutto muso. Cominciava davvero a innervosirmi.

-Forse non ti è ancora entrato in quel cervello bacato che hai. Io non ho niente a che fare con te e mai ne avrò!- sputai secca e acida, voltandomi e andandomene.

Mio malgrado nessuno mai mi ascoltava e loro malgrado ne pagavano le conseguenze.

Quando tentò di afferrarmi per riportarmi indietro mi sbilanciai così forte da farmelo ricadere addosso, una volta a terra, avendolo tirato per il braccio.

-Com’è? Fai l’opposto di ciò che dici. Ti stuzzica l’avermi addosso?-

Sorrisi all’ebete domanda retorica e da quella posizione gli dimostrai come era possibile uccidere qualcuno di così stolto come lui. In un paio di swing mi ritrovai ad essere su di lui, che era ancora a pancia in giù, e afferrandogli le mani le unii con un ciuffo dell’erba giallastra che si arrampicava sul tronco degli alberi. Nonostante la sua natura questa pianta era molto resistente, di conseguenza si dimostrava utilissima in sostituzione alle corde. Dopo di che lo trascinai fino ad un ulivo e lo appesi con le braccia all’indietro ad un ramo robusto.

-Non ti metto KO solo perché abbiamo una missione oggi pomeriggio e tu ci servi, altrimenti mi sbarazzerei di te all’istante- sputai acida e cattiva.

L’espressione sul suo volto fu forse il momento migliore da dodici ore a quella parte. Era terrorizzato da me. Si leggeva sgomento, paura, sconforto e confusione, tutto insieme e tutto distinto. Crudelmente questo era uno dei migliori pagamenti di noi assassini, ma volete mettere a confronto la faccia di qualcuno che è consapevole di essere difronte al mostro che l’ucciderà dandovi quella sensazione di potere assoluto sul destino di quello con qualsiasi altra cosa? Beh, essere crudele nell’animo è l’essenza che mi permise di sopravvivere in quei maledettissimi anni, ma ero altrettanto sicura che al mio posto nessuno avrebbe avuto il coraggio di fare la scelta giusta. Nessuno.

 

Mezz’ora dopo avevo già preparato tutto per la missione e mi ero catapultata sulla Gip che ci avrebbe portato a destinazione. Ero partita leggera ma comoda: leggings, canotta, gilet e scarponi, tutto rigorosamente blu cobalto, il colore delle nostre tenute. Armi di ogni genere caricate nel cofano, borsone con il giusto indispensabile e via, eravamo già arrivati a destinazione un’ora dopo.

Non appena scesi vidi Lorenzo e gli andai incontro per chiedergli come stava, dopo tutto lo lasciai solo a combattere nella piccola radura.

-Lorenzo- lo richiamai e lui si girò duro in viso. Questo mi fece male come poche cose.

-Come stai?-

-Bene…-

Bugiardo! Non lo sopportavo quando cercava di farsi il grande, sia quando non voleva far preoccupare gli altri che quando aveva quei momenti di superbia intrinseca. Roteai gli occhi verso il basso e prima che potessi dire qualunque cosa lui mi precedette: -Invece come è stata la scappatella con Ettore?-

Geloso? Forse. Cazzone? Indubbiamente sì.

-Mi ha trascinato via lui mentre stavo valutando la situazione, ma sono sicura che te la sei cavata alla grande.- dissi altera, poi mi calmai sorridendo al ricordo -Comunque l’ho appeso ad un albero e sinceramente non so che fine abbia fatto.-

Riuscì a rispondermi solo dopo una manciata di secondi, era scoppiato a ridere a più non posso, evidentemente stava immaginando quel rincitrullito per aria. Chissà come si sarebbe liberato da lì.

-Ecco perché non è ancora arrivato. Vedi che però è in squadra con te.- mi avvisò ricomponendosi rigorosamente e alzando un sopracciglio, voltando poi un po’ il capo teatralmente.

-A proposito. Non è che puoi buttarlo fuori?- chiesi velocemente imitando una bambina che fai gli occhioni dolci. A quello non resisteva mai.

-No!- fu categorico, spiazzandomi ed innervosendomi. Voltandomi per andare via gli regalai uno dei miei più altisonanti “Fanculo” mai dati.

-Ok ok- mi urlò dietro sperando che mi girassi.

Sorrisi, feci una linguaccia a vuoto e mi voltai con in faccia stampata un’espressione impassibile aspettando il resto della mia vincita.

-Dopo la missione avrà l’espulsione immediata dall’Organizzazione-

Sempre meglio di niente. Uno a zero per me. Ettore avrebbe pagato le pene dell’inferno in quella missione.

Visti da lontano sembravamo macchioline cobalto che vagavano per la piazza in cui ci trovavamo. Impazziti per il caldo afoso che faceva, ci muovevamo come mosconi senza meta alla ricerca di una frescura che non c’era.

Appoggiata accanto alla gip mi sentivo morbosamente osservata da Ettore appena arrivato, che decise di attaccar bottone con un “Come vedi questa missione?” e non avendo risposta continuò a mitragliarmi con altre centinaia. Io scocciata osservavo un’altra mezz’ora passare lenta, mentre Lorenzo e gli altri programmavano la missione nei minimi dettagli su una carta geografica del luogo.

-Dovresti ascoltare le mosse che dovrai fare altrimenti la missione salterà per colpa tua- sperai di distrarlo affinché la smettesse di fissarmi, almeno, ma la cosa non funzionò. Ed infatti la sua risposta pronta non tardò ad arrivare.

-Non dovevamo prepararle prima?- mi chiese continuando a fissarmi esasperatamente come se non ne potesse fare a meno e sfidandomi a chi per prima avrebbe ceduto con la battuta più pessima.

-No. Ci hanno consegnato le direttive specifiche solo adesso. Ora vai!- dissi nel mio solito tono acido.

E lui non si smosse di un millimetro, anzi mi rimbeccò: -E tu? Non dovresti memorizzare le mosse da fare?-

Il suo atteggiamento mi faceva davvero alterare. Insomma ero il suo capo e mi trattava quasi da sottoposto. Ma come si permetteva?

-Non mi serve. Ora va’!- dissi nel tono più scontroso che potesse uscirmi, involontariamente ma sentito, e probabilmente il mio viso si irrigidì drasticamente e nervosamente in un’espressione incazzata, vista la sua di espressione stupita con un pizzico di sconforto e forse paura.

Non dovetti ripeterlo perché Ettore sgattaiolò letteralmente via con la coda tra le gambe verso il gruppo che stava revisionando le mosse della missione, eppure non potei fare a meno di osservarlo come rapita dai suoi movimenti mentre si allontanava.

In realtà, non ero solita alterarmi anche se il mio carattere risultava uno dei più scontrosi e duri della cerchia di persone che frequentavamo, ma con Ettore era subito stato chiaro che sarebbe stato diverso, che mi avrebbe fatto perdere le staffe più e più volte, che avrebbe rischiato l’osso del collo di mano mia e con una facilità da far impallidire. Nonostante tutto però c’era quel qualcosa che mi frenava nell’allontanarlo definitivamente. Forse la curiosità del nuovo, forse un istinto primordiale, forse un sentimento flebile e accantonato ma esistente, non lo sapevo per certo, sapevo solo che dovevo essere cauta.

Improvvisamente la temperatura calò. Non l’avvertii io bensì l’agente CK, freddoloso com’era lo schernivamo sempre giocosamente e invece lui se la prendeva davvero, ma era uno dei nostri migliori agenti.

-Tu hai freddo?- mi chiese gentilmente l’agente Mena, avvicinandosi a me con gli agenti Giagià e Peppe a seguito.

Le sorrisi e pensai che era davvero strano il modo in cui mi ricordavo di lei, in quella gonna a ruota turchese troppo grande per la sua giovane età e degli altri impauriti, come lei del resto, ma tutti pieni di speranza che le cose potessero cambiare. Tutto era cominciato con una disavventura e si era trasformata in qualcosa capace di unirci ancora di più come amici.**

Infatti mi prese un colpo scoprendo che erano proprio alcune delle persone con cui condivisi la mia infanzia e la mia adolescenza ad essere entrati a far parte dell’Organizzazione. Conoscendoli avevo seriamente paura che non ce l’avrebbero fatta a superare nemmeno la prima missione, invece mi dimostrarono il contrario restando egregiamente al nostro fianco per più di un anno e mezzo, e fortunatamente resistevano ancora contro ogni mia previsione. Erano abituati a considerarmi il loro leader e io a girovagare furtiva e attenta tra di loro, così quando tentai di ledere la loro volontà con pretese assurde per allontanarli da quella vita pericolosa e infelice loro, anziché mollare, la presero come una sfida contro se stessi per superare i propri limiti. Mi stupirono e alla fine dovetti cedere difronte all’evidenza di persone cresciute insieme a me e come me diventate adulte e responsabili. Avevamo dai diciannove ai ventun anni eppure, per quanto piccoli e inesperti potevamo sembrare agli occhi degli estranei, ne avevamo passate talmente tante e nonostante il nostro discutibile lavoro sapevamo la differenza tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e ci eravamo presi le responsabilità consci delle conseguenze.

-No, tranquilli. Voi?- risposi dopo un paio di secondi.

Ormai ero assorta nei ricordi e l’egente Mena, ovvero Filomena, accortasi di ciò mi cinse in vita stringendomi a sé. La cosa mi faceva alquanto sorridere: lei era molto più minuta e bassa di me, con tutti i tacchi mi arrivava a malapena all’orecchio, e il suo modo di consolarmi mi pareva tanto goffo. Ma possedeva una dolcezza tale che non abbracciarla e stringerla a mia volta era impossibile. Quella ragazza era la dolcezza e l’ingenuità in persona, ma se voleva nel momento del bisogno era capace di sfoderare artigli peggio di una leonessa. E per ironia della sorte, due regine si abbracciavano bisognose l’una dell’altra quando in realtà il popolo chiedeva loro aiuto.

Ci staccammo e subito gli sguardi altezzosi dei Red furono su di noi, Ettore invece ci osservava incuriosito ed Lorenzo stranamente era atono e senza espressione. I Red cominciarono a ridere sfoggiando un lato del tutto bambinesco così Giacomo e Giuseppe (alias Giagià e Peppe), le due più grandi teste calde che conobbi in tutta la mia vita, avanzarono verso di loro con il chiaro intento di ammutolirli. Che non andassero a mio genio non era un segreto, ma ora si stavano inimicando pericolosamente anche gli altri membri dell’Organizzazione.

Sapevo che a breve sarebbero scomparsi alla nostra vista e perciò evitai che i ragazzi gli andassero incontro bloccandoli. I miei compagni d’infanzia erano diventati due bestioni e, al contrario della timidezza adolescenziale di Filomena ormai scomparsa del tutto, il loro impeto impulsivo si faceva sentire di tanto in tanto, scatenando a volte risse senza fine.

-Non vi permettete!- li avvertii lasciando la pressa sui loro addominali.

Giuseppe continuava a guardarli in cagnesco, mentre Giacomo annuì verso di me e disse: -Tanto non li vedremo tornare a casa, si disintegreranno da soli-

Annuii io stavolta e chiamai a raccolta Ettore e le gemelle Leila e Delia per riorganizzare la mia squadra. I vari gruppi si scambiarono un paio di parole e poi partimmo tutti insieme verso la radura, ovvero il punto in cui l’OS aveva piantato la sua base probabilmente per l’avamposto di una sua missione.

Procedemmo subito verso la boscaglia e ci dividemmo nei gruppi già ordinati durante la riunione di quella mattina, ma poiché avevo cacciato via un Red, Lorenzo si vide costretto a prendere il suo posto se voleva garantire la sopravvivenza del gruppo, almeno per buona parte della missione.

Mentre avanzavamo ci acquattammo dietro alberi o fronte per evitare di essere visti dal nemico, fino al raggiungimento del primo appostamento presso una rientranza simile ad un piccolo Gran Canyon, la quale era orientata esattamente sul loro accampamento.

Feci cenno ad Lorenzo perché lui e la sua squadra si muovessero per primi verso la sinistra dell’accampamento nemico, attraversando un altro paio di appostamenti. Come li vidi a metà del loro percorso mandai CK, Giagià, Peppe e Mena nella direzione opposta, facendogli fare un percorso analogo, ma i miei occhi erano sempre puntati sul la squadra dei Red. Avevo seriamente paura che nel bel mezzo dell’azione i cinque si mettessero a litigare animatamente e agendo così avrebbero fatto saltare la copertura o mandato all’aria l’intera missione.

Sostanzialmente si trattava di sterminare tutti gli agenti nemici ed anche se questo poteva sembrare crudele le cose stavano così. Tra l’Organizzazione e l’OS non correva buon sangue, era circa un anno che era guerra aperta.

Lorenzo guidava il gruppo che silenziosamente e rigorosamente lo seguiva, sperando che il peggio non arrivasse, dall’altra parte CK guidava il suo gruppo. Invece le gemelle, Ettore ed io avevamo cominciato ad avanzare verso il centro del luogo sparpagliati e attenti a non destare sospetti. Le nostre tute infatti erano tali da confonderci con gli agenti nemici, differenziavamo solo di qualche dettaglio non visibile a prima vista e di una tonalità più scusa del tessuto rispetto alle loro uniformi.

Arrivati al centro dell’accampamento, facendo finta di scambiarci ordini con i pochi agenti nemici che vagavano per l’accampamento, nella speranza di esserci mimetizzati tra di loro, osservammo la piccola torre di trasmissione dati che sostava nella piazzola. Dovevamo farla saltare in realtà, ma purtroppo nessuno dei nostri agenti era riuscito ad infiltrarsi tra i nemici per farlo. Così eccoci là tutti in cerchio intorno alla torre, nonostante le nostre diverse posizioni, facendo finta di tenerci occupati in mansioni fittizie, con agenti ad est ed ovest dell’accampamento pronti ad attaccare qualora ce ne fosse stato il bisogno.

Ettore stava tranquillamente interloquendo con un agente nemico distraendolo sul lato est; Leila Silen, la riccia mulatta, era sul lato nord che fingeva di affilare i propri coltelli da lancio; Delia Silen, la rossa punk, sul lato ovest rimontava alcune pistole trovate su un banco per infilarle furtivamente nella propria borsa; poi c’ero io difronte la porta della torretta di ferro che non vista da nessuno entravo dentro il piccolo locale.

Tutto era stato programmato minuziosamente e tutto era perfetto se Lorenzo non si fosse dimenticato di dirmi che quel posto era interamente e completamente automatizzato, il che fu un guaio per me. Non sapevo un emerito tubo di tecnologia di base figurarsi di una avanzata così tanto da mandare avanti tutto un intero accampamento nemico, così cominciai ad imprecare a bassa voce per non farmi sentire. Non sapevo dove mettere mano nel vero senso della parola, infatti avvicinatami a quella che riconobbi come la postazione principale, munita di monitor e di tastiera con puntatore mouse, mi sedetti e cominciai ad osservare i vari codici in verde che mi scorrevano davanti verticalmente.

Ero davvero nei guai. Come avrei fatto a raccapezzarmi in quel mare di codici?

Per disperazione mi infilai le mani nei capelli appoggiandomi con i gomiti sulla scrivania, nel movimento di frustrazione però andai a muovere erroneamente il mouse e sentii uno strano tintinnio. Alzando il volto l’immagine del desktop mi lampeggiò in faccia e mi sentii l’essere più stupido del mondo. Si trattava solo di uno screen saver, il più antiquato di tutti tra l’altro. E solo tre icone vi erano sullo schermo, una era quella del pannello di controllo.

-Eureka!- esaltai per un attimo dimenticandomi di essere in missione e subito cliccai l’icona del pannello di controllo per ricopiare tutti i dati su un’apposita pennetta prima di sgattaiolare fuori.

Il cuore mi batteva a mille come se non avessi mai fatto una missione in vita mia, quando in realtà erano ormai passati più di quattro anni da quando ciò era all’ordine del giorno per me.

Andai subito con lo sguardo alla ricerca delle gemelle e di Ettore e li vidi immediatamente; stavano combattendo a denti stretti con cinque agenti nemici che li sovrastavano non solo per numero ma anche per abilità e agilità. Evidentemente il piano era saltato e noi eravamo stati scoperti. Così tramite l’orologio comunicatore chiamai la squadra di CK per supportarci, ma non aspettai il loro arrivo per buttarmi sopra un nemico e sgozzarlo con una delle mie lame.

Delia era qualcosa di portentoso: atterrava gli agenti con la sua estrema agilità, sgusciando tra incroci di lame e coltelli da lancio e intercettazioni di proiettili vaganti, facendo sembrare quelli goffi e pesanti, una volta storditi e decapitati poi dalla sorella. Infatti Leila non era da meno, più sinuosa, lenta forse, ma non appena avvistava l’opportunità con un taglio netto faceva saltare le teste come se fosse la Regina di Cuori in Alice in the Wonderland. Erano un duo così funesto e così affiatato allo stesso tempo che chiunque da fuori se non avesse capito la loro parentela a causa della diversità fisica l’avrebbe intuita dalla perfetta coordinazione dei movimenti. Delia imprigionava atterrando, Leila finiva sgozzando.

Ettore all’inizio sembrava restio a combattere, solo quando vide le due sorelle e me agire duramente d’impulso si prese di coraggio e cominciò da assestare colpi al costato e sugli zigomi degli agenti. Eppure non sembrava voler davvero ferire gli avversari, in realtà si capiva benissimo che qualcosa lo frenava. Prendeva dal collo le sue vittime e con decisione le atterrava stordendole, alcuni però erano davvero tosti così dovette scontrarsi corpo a corpo per avere la meglio su di loro.

Dopo un po’ eravamo già compatti e affiatati, riuscendo anche a trovare un nostro ritmo sincronizzato per sbaragliare tutti. Ma non erano Terminator e i nemici crescevano sempre di più. La squadra di CK non era ancora arrivata ed io mi stavo seriamente preoccupando, ma avevamo urgentemente bisogno d’aiuto, così decisi di chiamare la squadra dei Red.

Schivai un pugno dritto in faccia mentre mi abbassavo e mi portavo sul mio orologio comunicatore: -Red accorrete. C’è bisogno di voi.-

Nessuna risposta arrivò. Nel frattempo un nemico ebbe la genialata di volermi puntare una sorta di sciabola alla gola, già lo stavo schiavando per poi infliggere un colpo al fianco quando Ettore mi venne in soccorso invertendo le parti e impugnando la lama rubata la conficcò nel corpo del nemico, che dolorante stramazzò a terra.

Mi aveva salvato…

-A…Lorenzo corri!- continuai esitante verso l’orologio comunicatore, ma presto il senso di angoscia mi assalì -Corri!- Urlai.

Ancora nessuna risposta.

Angoscia, preoccupazione e irritazione in me

Perché? Perché non c’era lui?

Rabbia

Le immagini scorrevano lente difronte a me, il tempo rallentava tutto intorno e un brivido di terrore sconosciuto mi risalì per la spina dorsale. Dove cavolo erano i supporti? Dove cavolo era Lorenzo? Lui era sempre come me, il mio punto di riferimento, il mio ago della bussola, la mia spalla ed il mio protettore. Dio mio, dov’era?

Sentii un dolore alla gamba destra e mi piegai dal bruciore: un agente doveva avermi colpito con qualcosa di rovente. Ancora una volta vidi Ettore salvarmi, ancora. Ed il senso d’impotenza m’invase.

Osservai poi le gemelle che combattevano come forsennate. Ispirate, o meglio istigate, da una forza di volontà assurda, tenevano testa alla situazione e agli agenti che si moltiplicavano. Ma più agenti crollavano e più altri li sostituivano, sempre più robusti e preparati al combattimento dei primi. Prima o poi anche le gemelle sarebbero crollate.

Acutizzando l’udito sentii delle grida verso est dell’accampamento e mi rilassai sapendo che finalmente la squadra di CK stava avanzando per raggiungerci abbattendo nemici lungo il suo cammino. Non mancava molto ormai, riuscivo a vederli ad una cinquantina di metri da noi, bisognava solo stringere un altro po’ i denti.

Ma evidentemente il nemico non aveva nessuna intenzione di lasciarci neanche una piccola speranza di uscire da quell’infernale bolgia. Trovandoci circondati tentai di rompere quella strana formazione abbattendo il primo anello della catena umana più vicino a me, peccato che si trattasse di un energumeno di due metri con di una stazza sovraumana. Stavolta non sapevo davvero come me la sarei cavata.

Schivai il primo pugno che andò a vuoto, il secondo ed un calcio che lo fece leggermente destabilizzare, notando così che la sua gamba destra non reggeva bene il suo peso eccessivo, e si sbilanciò. Quindi tentai di illuderlo di essere di nuovo il suo bersaglio schivando la sua ripetizione di pugni, facendo finta di essere in difficoltà. Ma il dolore alla mia gamba destra cominciò a farsi sentire, il bruciore si trasformò il dolore lancinante, come se la carne continuasse a dilaniarsi all’interno. Fortunatamente strisciai in tempo con la gamba e indietreggiai costringendo il mio avversario a scagliare un calcio più lontano del suo normale raggio d’azione, facendolo così sbilanciare e cadere a terra. Misi un piede sulla sua spalla per evitare che l’energumeno ribaltasse le parti e fulmineamente gli roteai di netto il collo, così da rompere il collegamento alla spina dorsale e quindi tutti i collegamenti nervosi, decretando il decesso istantaneo.

Semplice e indolore si direbbe, forse.

CK, Mena, Giagià e Peppe arrivarono in quel preciso momento e le azioni divennero molto più fattibili. Insieme ormai da tempo, ci conoscevamo così tanto che non serviva dirsi corsa fare, lo facevamo e basta. Mena estraeva i coltelli e Peppe era lì pronto a coprirle le spalle con i suoi, Giagià mirava il nemico ed io sparavo un colpo dritto in fronte all’altro agente che lo stava per assalire, CK assestava pugni e calci come un forsennato e le gemelle Silen lo affiancavano. Sbaragliavamo i nemici come se fossero dei fuscelli sotto le nostre mani e le loro ossa sembravano ramoscelli calpestati in pieno autunno. Alla fine anche Ettore riuscì ad amalgamarsi al gruppo e a tenere il nostro stesso ritmo; quell’ombra di dubbio che lo frenava era apparentemente sparita.

Sorrisi, respirai e per un momento mi dimenticai di Lorenzo che ancora non si era fatto vedere. Stranamente ero tranquilla e sicura che tutto sarebbe andato come pianificato. Troppo tranquilla che stupidamente non mi accorsi dei colpi che quei macellai dei nemici cercavano d’infliggermi sul costato. Ripresa la lucidità schivai ripetutamente, ma non davano alcun segno di voler demordere. E di nuovo, inspiegabilmente e inaspettatamente, mi sorpresi nel vedere Ettore che mi salvava per l’ennesima volta da quei colpi e abbatteva l’ultimo dei nemici.

Lì ebbi la conferma di due cose ovvie in quel momento ma certe e solide: ero frustrata dal fatto che era Ettore a salvarmi e non Lorenzo, per quanto io potessi essergli grata, e odiavo più di ogni altra cosa essere improvvisamente diventata dipendente da qualcuno e non riuscire a riottenere la mia autonomia.

Un dolore lancinante allo stomaco si fece largo tra il gusto amaro in bocca e la vista che man mano diventava sempre più offuscata, mettendo in secondo piano la ferita aperta sulla gamba.

Ero arrabbiata, frustrata, indispettita, irritata, fragile e confusa sulla mia vita. Avevo bisogno di recuperare dignità ed autonomia per ritornare quella che ero. Volevo di nuovo essere me e non un automa nelle mani di altri che facevo finta di lasciarmi la piena libertà delle mie azioni.

Mi poggiai ad un pilastro e presi coscienza di quel che stava accadendo: i miei uomini, tutti, mi osservavano attenti in attesa di un mio comando. Un dubbio fece breccia e s’insinuò nella mia mente come un serpente che sibila all’istigazione: questa vita, questo potere lo vuoi?

E chi non l’avrebbe voluto? Tutti senza ombra di dubbio avrebbero accettato in fretta e furia, ma in quel momento, ormai confusa dall’eclissi delle mie costanti fisse, decisi di rimandare questa mia angoscia.

-Troviamo gli altri e torniamo alla base.- ordinai con un tono di voce più atono che mai, volendo solo tornare a casa.

La missione era conclusa e agli altri non restava che seguirmi a ruota senza fiatare.

 

Arrivati all’appostamento dei Red, non ci aspettavamo di certo ciò che ci apparve: erano tutti morti, trucidati. Nessun rumore, nessun’azione, nessun avviso. Ora capivo la loro assenza sul campo.

Il sangue prese a scorrermi nelle vene all’impazzata. Anche se ero arrabbiata con Lorenzo ero così preoccupata di perderlo. Il mio sguardo confuso e perso cercava instancabile in quello scenario di rosso, blu e verde. Mi calmai interiormente solo quando lo vidi. Fortunatamente era lì vivo e vegeto, comparso all’istante come se avesse sentito la nostra preoccupazione, che già raccontava l’assalto subito, abbracciandomi e assicurandomi che tutto era a posto. Decidemmo così di tornare a casa.

 

Una morsa in gola e un odore acre, che in realtà non vi era, mi accompagnarono per tutto il tragitto di ritorno. L'odiavo, odiavo la situazione in cui mi aveva cacciato, odiavo la mia vita.

La stanchezza s'infiltrava lentamente della mia mente. Ad ogni passo che facevamo in avanti qualcuno o qualcosa ci spingeva a retrocederne di tre. Ero stanca, troppo, anche solo per pensare a come sarebbe stata la mia vita se non l’avessi accettata con quella fretta di scappare dai pericoli, per me e per le persone a me care. E in realtà ero caduta in un baratro ancora più pericoloso. Stringevo lo sterzo della Gip così forte che la plastica si poteva tranquillamente fondere con la mia pelle e le mie unghie, allontanavo il suono del respiro di Lorenzo accanto a me, così come respingevo il suo odore chiaro nell'aria nonostante il tanfo della morte e della battaglia a coprirci.

Non ce la facevo, non potevo farcela, e la cosa che mi dava più dolore era il fatto di essere stata abbandonata. Pensavo di essermi allontanata io da lui e invece fu lui a lasciarmi sola in balia delle avversità. Al mio fianco c'era stato Ettore, inaspettatamente lui, a compiere quella che era sempre stata abitudine di Lorenzo. Lui mi aveva salvata e nessun'altro lo aveva fatto.

-Mi dispiace-

Come il colpo che rompe la finestra e la frantuma nella quiete più assoluta – la quiete che mi ero creata – Lorenzo ruppe il silenzio pesante e atroce su di noi.

Tirai letteralmente una steccata sul pedale del freno mentre percorrevamo una curva a gomito. Il risultato fu il rischiosissimo quasi ribaltamento della Gip e un ritorno su se stessa, subito dopo l'arresto di botto della vettura e quindi lo slittamento di lato sulla ruota anteriore destra. Ma la parte migliore, anche se il mio ego e il mio sarcasmo avrebbero fatto meglio a restare rinchiusi nei meandri della mia coscienza, fu l’impatto violento della faccia di Lorenzo contro il vetro del parabrezza.

Mi voltai di scatto, arrabbiata e irritata nel profondo, verso quella brutta faccia di cavolo con cui viaggiavo, il quale si stava tastando il naso cercando disperatamente di capire se fosse rotto. Ma con quale cavolo di uscite se ne arrivava?

-Ti dispiace?- domandai sarcasticamente retorica con enorme disappunto e un tono di voce inconfondibilmente altero, talmente tanto che Lorenzo si tese e stette in allerta perché non gli facessi chissà cosa. E faceva bene ad essere preoccupato…

Rabbia incontrollata e morsa divoratrice allo stomaco, formicolio disturbatore e istigatore delle mani

Quanto avrei voluto dargliene di santa ragione in quel momento.

-Hai idea di quel che ho passato?- sputai fuori sempre altera e piena di frustrazione -Il panico, la paura, la tensione? Tu non c'eri! Non sapevo dov'eri e le possibilità tragiche nella mia mente apparivano in continuazione.- non seppi perché ma il tono cominciò a scemare nelle ultime parole.

Non ero per niente tranquilla eppure non riuscivo più a tenere quell'alto rigore nella voce che, a parer d’altri, sempre mi distingueva nei miei momenti di pura rabbia.

-Ti ho sentito e stavamo venendo ma poi i rumori sono cominciati e ci siamo dispersi e...- tentò di giustificarsi, ma vedendomi girare la chiave nel quadro per spegnere definitivamente la Gip capì che era meglio tacere.

-Sai qual è la prassi, non c'è bisogno che te la rammenti. L'hai stilata tu stesso. Ma non c'eri, era pericoloso e tu non sei venuto e non sei corso via da lì...- respirai a fondo la voce mi si stava incrinando -Ho avuto paura per te.- confessai.

Lacrime dentro e fuori

-Perché?- chiese a testa bassa -Tanto non mi ami più. Cosa t'importa di me?-

Tutto

“La convinzione dell'uomo sarà la sua rovina” diceva un antico proverbio e aveva ragione.

-Niente- invece risposi, facendomi paura da sola per quanto sembravo sincera.

Un altro diceva che “L'onestà fa posto al suo contrario difronte alle avversità”.

-Allora siamo d'accordo: ognuno per sé. Saremo insieme solo sul lavoro.- declamò duro e deciso.

Feci appello a tutte le mie forze ed evitando di versare una sola lacrima, ancorata al mio orgoglio, risposi: -Sì-

Rimisi in moto e ripartii, dritta verso la periferia. Guidai senza sosta e fermandomi solo difronte a un enorme e antico maniero di agricoltori e artigiani, correlato da un’immensa distesa di verde coltivata dai contadini, feci scendere Lorenzo a casa sua che mi ringraziò freddo per quello che diventò un ispido passaggio e ripartii ancora per raggiungere la mia villa questa volta. Tutto era stato estremamente breve, a tal punto che mi sembrò un’unica frazione di secondo.

Nel tragitto, presa dalla frenesia e dalla frustrazione, impulsivamente chiamai Giacomo che accettò senza repliche la mia richiesta. Figurarsi, dopo tutto ero il suo capo. Il problema è che poche e semplici parole possono distruggere il mondo a prescindere da chi le pronuncia.

 

Altro ballo organizzato da Anna, altro vestito accuratamente scelto da lei. E sì, perché Anna non poteva accontentarsi di fare l’organizzatrice di eventi megagalattici, doveva anche essere una stilista da paura.

Malgrado il vestito interamente in pizzo rosso sangue che mi lasciava libere spalle e schiena con un profondo spacco sulla gamba sinistra e quelle strabilianti scarpe a spillo con il tacco e la punta tempestati di pietre vitree, il mio cavaliere mi fece sentire a mio agio nonostante lui non avesse avuto questo compito di solito. In effetti Giacomo non mi accompagnava spesso in occasioni del genere, le uniche volte furono in missione sotto copertura, ma mai fu per nostra scelta spontanea.

Il gesto e di conseguenza il tradimento di Lorenzo mi resero debole a tal punto di scegliere un mio amico per essere accompagnata all'ennesimo Gala di Anna, ma l’oppressione di Ettore, il quale mi mangiava con gli occhi anche in quel frangente, mi indusse a scegliere qualcuno che era capace di proteggermi. Proteggermi? Quando mai io avevo bisogno di protezione! Il mio senso logico-etico era andato a farsi benedire ormai.

Ero stanca di tutta quella situazione e dovetti ammettere, soprattutto a me stessa, che mai come prima di allora sentii il bisogno di scappare da tutto e da tutti, creato dall'oppressione della responsabilità che vigeva su di me e dal dubbio di non esserne in grado di sostenerla né tanto memo di meritarla. Quindi l’unica soluzione, in realtà la via di fuga, che riuscivo a vedere era scappare, andarmene e lasciare tutto là.

Un passo. Un semplice, stranissimo, insolito, maledettissimo passo all'indietro che forse mi avrebbe portato alla serenità e alla libertà. Non era assolutamente difficile. Lì, all'entrata di quell'immenso salone del primo piano dell'hotel più prestigioso dei dintorni, posseduto dal mio migliore amico, davanti a tutti coloro che mi videro crescere, almeno una volta, l'unica cosa da fare era alzare la pianta della scarpa appariscente e costosa e indietreggiare, lasciando il braccio gentilmente offerto dal mio partner occasionale.

Mi resi conto che quella non era minimamente la vita che l’adolescente sopita in me desiderava; quella era la sequenza sbagliata di eventi che purtroppo avevo scelto e da cui purtroppo non potevo scappare, almeno non in quel momento.

-Ania!- un urlo stentoreo di gioia si propagò per l’immensa sala, con quella voce cristallina ma insolitamente saggia di Anna.

Ogni speranza di fuggire svaniva nell’aria

-Ania, sei in ritardo colossale!- mi rimbeccò tirandomi via da Giacomo e dal gruppo degli sfacciati curiosi riunitosi intorno a noi.

Potei solo lanciare un cenno di scusa col capo a Giagià e lui uno sguardo che traduceva “Capisco. È Anna, la nostra pazza, euforica, inarrestabile Anna. Vai.”, prima che la mia sequestratrice mi trascinasse da un braccio con la scusa di farmi fare una sorta di tour di ospite in ospite per conoscere più gente possibile. In realtà la festa, come la situazione, era un ottimo pretesto per mettere in mostra le doti di Anna: nel presentarmi le persone non dimenticava mai di far ricadere il discorso sull’organizzazione della festa e sui nostri vestiti, ovviamente creati da lei.

Della mia stessa età, Anna era il mio esatto opposto. Sempre felice, solare, estroversa, poco passionale ma al contempo molto impulsiva. Con i suoi capelli color paglierino e gli occhi azzurri, con la sua altezza e la sua eleganza, rispecchiava il prototipo di donna che attrae qualunque uomo, anche se in verità a lei non era mai interessato aver quel tale potere sull’altro sesso. E se in me aveva visto il rosso passione, riversandolo nella sua creazione che indossavo, per lei il colore l’avevo scelto io. Si era confezionata un dolce ma intrigante tubino verde cacciatore che le scopriva le spalle e le fasciava strette le gambe atletiche, con quella pseudo-coda da sirena in macramè aragonese che lei portava con grande charme. Diversamente da me i gioielli per lei avevano acquistato una regola fondamentale durante la sua adolescenza, “Grandi e vistosi”, infatti ne indossava di veramente appariscenti e articolati come nidi di ragno. Bella e intramontabile lei aveva anche una certa e inconfondibile classe nel muoversi su quei tacchi molto più vertiginosi dei miei, ma semplicissimi in quel colore beige cipria. E se io prediligevo i capelli sciolti, o semi raccolti come quella sera, lei amava alla follia gli chignon scomposti e particolari; quella sera una treccia larga era arrotolata sul suo capo come una corona greca. In fondo non aveva tutti i torti, quella era una sua festa e quello era il suo regno.

-Allora?- mi incitò Anna a spiegarle con quel fare da donna di mondo.

-Allora cosa?- chiesi falsamente ignara di ciò a cui si riferiva. Era chiaro che Ettore era il gossip più succulento del momento, ma io stranamente non sapevo come comportarmi con lui né tanto meno avevo voglia di parlarne o parlarci.

-Come cosa, Ania?-

E in una frazione di secondo, mentre la mia amica stava cercando di strapparmi chissà quale notizia dalle labbra, il mio neo incubo si manifestò dietro di me accompagnato dal capo.

Ettore e Lorenzo erano lì, eretti dietro le mie spalle facendomi sentire una piccola insignificante fallita, entrambi con lo stesso sguardo di chi aveva vinto la scommessa del secolo.

Strinsi i denti facendomi male ma restai calma e aspettai disperatamente che quei sorrisi sghembi scomparissero al più presto, cercando poi una frase che avesse un minimo di senso logico-razionale per non sprofondare ancor più nel ridicolo.

-Ah... Ciao!- reagii davvero sorpresa, soprattutto vedendo Lorenzo che poco prima aveva giurato di volermi stare alla larga. Girandomi poi verso Anna tentai di presentargli Ettore, ma mi ero dimenticata della sua vena impulsiva.

-Tu dovresti essere Ettore, giusto?- chiese improvvisamente retorica puntandolo col dito. Lui le rispose con un cenno del capo e con un sorriso a trentadue denti, Anna invece emise un suono gutturale di sufficienza che fece sbiancare anche Lorenzo: -Dalla fama che ti precede ero convinta tu fossi chissà chi. Ed invece... non sei un granché!- disse squadrandolo dalla testa ai piedi con uno sguardo distaccato e al contempo tesa come se sentisse qualcosa di sbagliato.

Non sapevo come ribaltare la situazione. Annina, o meglio quel lato che pensavamo si fosse eclissato di Anna era tornato alla carica e ci faceva preoccupare. Come cavarsela ora?

-Beh, Anna, non sei l’unica a pensare che Ettore non sia in grado di sostenerci.- ammiccò Lorenzo in mia direzione facendomi ribollire il sangue nelle vene.

-Che? Io non...- tentai di replicare, ma fu tutto inutile vista l’intrusione di Filomena e Giacomo.

-In effetti non sa esattamente come sia stare tra di noi.- avanzò Giagiá, avvalorando la tesi di Lorenzo, mentre io tentavo di smentire.

-Ma oggi se l’è cavata alla grande sul campo di battaglia, nonostante fosse la prima volta.- Mena spezzò finalmente una lancia in suo favore, ma Ettore persisteva nel guardami come se l’avessi tradito.

Qualunque cosa detta in quel momento sarebbe stata modificata dall’abile retorica di Lorenzo che mi sfidava con i suoi occhi tetri. Allora era questo il suo scopo, farmi litigare con gli altri? Con lui era certa la sconfitta, preferii tacere.

Nel frattempo ci raggiunsero anche Giuseppe e il nostro vecchio amico Salvatore, nonché proprietario dell’immenso edificio in cui ci trovavamo, che si avvicinò affiancando Anna.

-Piacere, io sono Salvatore, Sasá per gli amici.- si presentò cordialmente tendendo una mano. Ettore un po' titubante ricambiò.

-Tranquillo non mangio- scherzò Sásá -Ma dovresti stare più attento alle battute di Lorenzo.-

-Non era una battuta!- replicò Lorenzo tentando di riprendere il discorso precedente.

-È vero!- esclamai improvvisamente, sorprendendo tutti -Volevo il rompiscatole fuori dai giochi, ma mi sono ricreduta: è un degno elemento. Resta con noi!- dichiarai facendo valere il mio potere, stanca che a poco a poco fosse screditato.

Ma quella sera sembrava che nessuno volesse mancare perché a noi si unirono anche le gemelle, CK e arrivò persino Nicola con una bionda ossigenata, fasciata pericolosamente in un tubino blu cobalto, il nostro colore, che le arrivava a malapena sotto il sedere ed un paio di stivaletti neri con tacco grosso. Sembrava tutto fuorché una donna con un minimo di classe. Però mi ricordava qualcuno, anche se capii chi solo quando si attaccò al braccio di Lorenzo come un polipo e lo baciò sul collo, suscitando lo sdegno e lo stupore di tutti, ma non il mio.

-Lore, piuttosto che rompere le scatole al nuovo arrivato e ai nostri amici, perché non controlli i pezzi che ti lasci dietro?- gli consigliò Nicola, che sempre impersonò quel pizzico d’istigazione nel nostro gruppo, riferendosi alla bionda ossigenata tra le braccia del capo.

-Scusate, ma quanti cavoli siete?- sbottò all’improvviso Ettore, messo un po’ da parte anche se era visibilmente più tranquillo di prima, che era stato sommerso da sconosciuti.

Scoppiammo a ridere un po’ tutti tranne l’ossigenata. Non eravamo tanti, ma era difficile riunirci tutti insieme, ed anche se in una strana circostanza ci eravamo riusciti. Tutti, uno ad uno, eravamo lì a presentarci e ripresentarci per quelli che in fondo eravamo: una forza della natura, scalmanata e inarrestabile.

Solo una nota stonava, lei, che si presentò come se fosse chissà chi. Una diva, una dea, una venere orrenda nell’animo. Rise sguaiata con una mano fintamente posizionata davanti la bocca spalancata e parlò esattamente come una snob dell’alta società.

-Io sono Carin Asghida, la fidanzata di Lorenzo. Piacere.-

Gli altri cercavano il capo con lo sguardo, sbigottiti per l’assenza della sua smentita, ma io ero calma e tranquilla e osservavo la gallina oscena su quei tacchi da battona che sorrideva come un’ebete. Poi cominciò a squadrarmi con sfida e sufficienza nell'attesa che mi presentassi, aspettandosi una mia pessima figura. Lei sapeva chi io ero.

Ma come ricordare chi ero io? E non solo a lei, ma anche ad Lorenzo. Fortunatamente mi vennero in aiuto le parole che mio fratello mi disse prima di partire, ricordando chi in realtà io ero a me stessa.

“Ti guarderanno dall'alto al basso credendosi migliori di te. Tu alzati in piedi lentamente e sorridi ricordandogli che eri solo seduta.”

Tesi la mano e dissi semplicemente “Ania” aspettando il momento in cui lei me l’avrebbe lasciata, spostandomi poi verso il palco, dove le modelle di lì a poco avrebbero sfilato.

Alzai delicatamente l'orlo del vestito in pizzo e risalii le scale, osservata dalla sala che raggiungevo il microfono sul fondo del palco e pigiando su di esso richiamai all'attenzione il resto dei presenti presi dalle loro conversazioni.

Anna mi avrebbe scusato per averle rubato la scena, ma una regina rivendica sempre il suo posto. Quindi feci cenno ad Anna e Filomena di seguirmi sul palco che arrivarono veloci ma con molta grazia, l’una di un verde speranza invidiabile e l’altra di un blu elettrico gioviale e sbarazzino.

-Buona sera Signore e Signori, vi dò il benvenuto a questa magnifica serata di beneficenza gentilmente offerta dal direttore e proprietario di questo spettacolare Resort, Salvatore Alan Poggio,- dissi indicandolo con un cenno della mano e un primo applauso invase la sala -organizzata da Anna Mejor, nonché grandiosa stilista della sfilata che fra poco vi delizierà,- partì il secondo applauso che fece arrossire Annina -condotta e diretta dalla giovane e dolcissima Filomena Agostino.- un altro corposo applauso, soprattutto per le bellezze delle mie due amiche -Ricordando che tutto è all'insegna dello sviluppo della ricerca medica, i miei amici ed io, Ania Aimeri, vi auguriamo una divertente e lieta serata.-

Sorrisi visibilmente rilassata, sapendo che il fegato di quella Barbie di quinta mano e di Lorenzo si stavano contorcendo, e mi beavo contemplando il guanto di sfida lanciato che decretava l'inizio di una nuova guerra. La mia battaglia, quella della mia vita, era iniziata in quell'istante.

-Che la serata cominci!-

 

Taira Croft

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